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Aristotele

Filosofia

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Un filosofo della massima importanza

Bibliografia:
Aristotele nasce a Stagira nel 384 a.C. e nel 367 si trasferisce ad Atene a studiare presso
l’Accademia di Platone. Il giovane trascorre vent’anni in questa scuola fino alla morte di
Platone, condividendo con lealtà le posizioni filosofiche del suo maestro. Nel 335 fonda una
propria scuola ad Atene, il Liceo, in cui si dedica all’insegnamento e ha modo di
approfondire le sue ricerche in tutti i campi del sapere. Alla morte di Alessandro Magno,
Atene si solleva contro la macedonia, e Aristotele, accusato ingiustamente di empietà a
causa della sua vicinanza al governo macedone, deve abbandonare di nascosto la città
ritirandosi presso Calcide dove muore nel 322 a.C.

Un filosofo della massima importanza.2


Aristotele si forma alla scuola di Platone. Egli fu il più importante tra gli studenti
dell’Accademia, dove entrò nel 367 a.C. a 17 anni in cui rimase fino all’età di 37. È probabile
che l’interesse del filosofo per le scienze naturali derivi da un’eredità culturale, da cui
dipende anche l’importanza che egli assegna alla biologia, la quale viene a rivestire nel suo
sistema quel ruolo di primo piano che in Platone aveva occupato la matematica. In questa
luce si giustifica anche la grande attenzione che Aristotele riserva all’essere vivente
individuale considerato come un organismo singolo e concreto.

Il mutato clima politico e il nuovo compito della filosofia


Per quale motivo Aristotele non è più interessato all’attività politica, contrariamente a
Platone che appena qualche decennio prima l’aveva posta al vertice delle sue
preoccupazioni? perché questo profondo cambiamento di prospettiva?
La risposta va ricercata sia nel mutato clima culturale politico della città sia nell’ambiente di
origine di Aristotele.per quanto riguarda il primo aspetto, il filosofo vive nell’epoca della crisi
delle città greche, e a partire dalla metà del IV secolo a.C. vengono di fatto sottomesse
all’egemonia della macedonia, divenuta una grande potenza sotto Filippo II. Ormai l’attività
politica tende a essere gestita da un centro di potere lontano, localizzato nella corte del
sovrano e i cittadini non possono più partecipare alla vicenda pubblica.
A ciò si deve aggiungere che Aristotele non era ateniese, ma proveniva dai margini della
Grecia. Ciò significa che non poteva aspirare a far carriera politica ad Atene, in quanto
era considerato uno straniero. Di conseguenza, egli concentra tutta la sua attività nello
studio, venendo a rappresentare un significativo esempio di intellettuale “puro”.

La fondazione del Liceo


Dopo la morte del maestro, Aristotele cominciò a manifestare la propria insofferenza verso
coloro che gli erano succeduti alla guida dell’Accademia, in particolare Speusippo, il
quale aveva accentuato l’orientamento pitagorico dell’ultimo Platone.
Per tali ragioni Aristotele si reca ad Asso,in Asia minore, dove conobbe il giovane naturalista
Teofrasto, suo primo celebre discepolo. Qui, e in seguito nell’isola di Lesbo i due si
dedicarono agli studi di biologia marina.
Tornato ad Atene, sotto la protezione di Alessandro Magno, Aristotele fondò nel 335 a.C.
una nuova scuola, il Liceo, in un edificio che aveva preso in affitto fuori dalla città presso un
bosco consacrato ad Apollo Licio (da cui deriva il nome liceo). Questa istituzione veniva
anche definita “Peripato” a causa dell’usanza dei suoi membri (“peripatetici”) di discutere
passeggiando nei giardini intorno all’edificio. L’organizzazione della nuova scuola disponeva
di materiale didattico decisamente più cospicuo rispetto all’Accademia di Platone. Infatti,
era presente la collezione di manoscritti che Aristotele aveva iniziato a radunare dando
origine a quella che può considerarsi la prima importante biblioteca della Grecia. Il liceo
aristotelico non aveva intenti religiosi o politici. Il fulcro dell’attività della scuola era costituito
dall’insegnamento e dalla ricerca. Nel liceo si dedicava ampio spazio all’indagine
scientifica di carattere settoriale e specialistico, basata sull’osservazione attenta della
natura e sull’analisi dei dati. Non si trascurava neanche la ricerca storica.

L’attività didattica
Presso il Liceo Aristotele sviluppa la sua intensa attività di studio e di ricerca. Secondo
alcune testimonianze, sembra che egli dedicasse le lezioni del mattino a un pubblico
selezionato di allievi con cui affrontava, nella forma che oggi potremmo chiamare di
“seminario”, i difficili temi della logica, della fisica e della filosofia, mentre nel pomeriggio
facesse lezioni di retorica, etica e politica a un pubblico più vasto e meno specializzato.
Le lezioni miravano a insegnare la modalità più corretta per trattare lo specifico argomento in
discussione. Quello che ad Aristotele stava più a cuore era far capire ai suoi allievi che non
esiste un metodo universale valido per ogni settore di ricerca: ogni singola scienza si
caratterizza, oltre che per i suoi contenuti, anche per uno specifico metodo di indagine.
La matematica, una scienza teoretica che ha per oggetto la quantità, usa i numeri e segue
il metodo dimostrativo; le discipline pratiche, invece, come ad esempio l’etica e la politica,
che hanno per oggetto il comportamento umano, devono ispirarsi ad altre regole di
carattere qualitativo, che conducono a verità provvisorie.

Le opere giovanili
Innanzitutto Aristotele fu un intellettuale e un professore: i suoi numerosi scritti nascono e si
diffondono nel contesto dell’attività del Liceo. Nella prima fase della sua ricerca Aristotele
eredita alcuni dialoghi, che dovevano essere scritti secondo lo stile di Platone. Essi sono
andati perduti, tranne qualche frammento. Ricordiamo alcuni dei titoli più significativi di
questi testi:
● Sulla filosofia: dedicava l’intera prima sezione a dimostrare che, fin dai tempi più
antichi, l’obiettivo della filosofia era stato quello di interrogarsi sul perché del mondo
e dell’esistenza delle cose;
● Protrettico: conteneva un invito a dedicarsi alla filosofia, considerata il fine supremo
dell’uomo. Data la scarsità di frammenti pervenutici, non possiamo dire con certezza
se fosse un dialogo;
● Eudemo: dedicato a Eudemo di Cipro, amico di Aristotele, questo dialogo voleva
dimostrare che la vera “patria” dell’uomo non è in “questo” mondo, ma nell’ “altro”,
dove si può contemplare l’essere nella sua pienezza e purezza.

Le opere della maturità


Sono giunte fino a noi le opere composte nella fase della maturità, quando Aristotele
insegnava nel Liceo. Si tratta di saggi destinati a un uso interno della scuola (denominati
“esoterici”). Essi erano rivolti a un pubblico ristretto, che li adoperava come integrazione
della spiegazione diretta del professore. Da ciò deriva un certo grado di difficoltà per il lettore
moderno.
A ciò si deve aggiungere che le opere più lunghe sopravvissute fino a oggi sono il risultato di
un’accurata operazione editoriale, dovuta in particolare ad Andronico di Rodi, un
intellettuale greco. Un caso esemplare di questo lavoro è rappresentato dai 14 libri della
Metafisica, in cui quest’ultimo raccolse gli scritti che trattavano il tema dell’essere e di Dio.
La classificazione degli scritti aristotelici
Vediamo quali sono le più importanti opere di Aristotele:
a) gli scritti di logica, noti con il titolo di Órganon (in greco “strumento”), un’allusione al
fatto che la logica lo strumento di cui si servono tutte le scienze per argomentare le
proprie affermazioni.
b) gli scritti sulla natura, tra cui spicca per importanza la Fisica (in otto libri) che è
l’opera più approfondita e completa
c) gli scritti di psicologia, di cui ricordiamo il libro sull’Anima
d) gli scritti di biologia
e) gli scritti concernenti la filosofia prima, vale a dire la “scienza dell’essere e di Dio”
f) gli scritti di etica e politica
g) gli scritti sull’arte del parlare e dello scrivere, cioè la Retorica e la Poetica.

1.Il progetto filosofico

L’organizzazione orizzontale del sapere


Per Aristotele ogni singola disciplina ha oggetto, metodo e fini specifici, non riducibili a
quelli delle altre. La distinzione tra i vari campi in cui si organizza il sapere - quelli che oggi
chiamiamo “scienze” - non significa che le varie discipline siano separate tra loro. Al
contrario, Aristotele stabilisce una relazione molto stretta tra le varie articolazioni del sapere
e la realtà delle cose. In altri termini, per il filosofo c’è una rigorosa corrispondenza tra la
struttura dell’essere e la sua trascrizione nel linguaggio delle scienze. Ciò significa che le
conoscenze rinviano alle cose; d’altra parte le cose rinviano all’enciclopedia del sapere
che, nella molteplice articolazione dei contenuti e dei principi delle singole scienze, riflette e
sintetizza l’ordine razionale del mondo.
Aristotele aspira dunque a un’interpretazione unitaria e razionale della realtà: anzi egli
dice che questo è il compito proprio della filosofia, la quale deve ricercare nei discorsi
specialistici delle varie discipline il senso unitario del mondo. Ciò che Aristotele non accetta
è la pretesa platonica di sottomettere tutte le scienze alla dialettica, considerata da Platone
la scienza suprema e divina.
In Aristotele le scienze si presentano allineate secondo un’organizzazione lineare e
orizzontale.

L’enciclopedia delle conoscenze


Ora vediamo più da vicino quella che è stata considerata dagli studiosi la più completa
enciclopedia delle conoscenze del mondo antico:
Aristotele suddivide le scienze in tre grandi aree:
a) l’area delle scienze teoretiche o conoscitive (matematica, fisica e filosofia): in
greco theoría significa “visione”, “contemplazione”, “osservazione”, dunque
conoscenza disinteressata, il cui fine è la comprensione di come è fatta la realtà;
b) l’area delle scienze produttive o poietiche (arte): termine derivante dal greco che
allude al “fare”, al “produrre”, quindi all’ambito dell’arte e della tecnica;
c) l’area delle scienze pratiche (l’etica e la politica): indica l’azione morale,
intenzionale e tipicamente umana.
Nell’analizzare queste tre aree metteremo in rilievo sia i contenuti, sia i metodi di
ragionamento che conferiscono validità alle diverse discipline.
Le scienze teoretiche
Le scienze teoretiche comprendono la matematica, la fisica e la filosofia prima. Esse
sono scienze che hanno come oggetto il necessario (“ciò che non può essere diverso da
com’è”), come scopo la conoscenza disinteressata della realtà e come metodo quello
dimostrativo. Vediamo in concreto le loro caratteristiche, considerando innanzitutto la
matematica. Essa ha per oggetto la quantità, sia quella numerica (aritmetica) sia quella
continua a una, due o tre dimensioni (geometria). Dunque la matematica studia gli enti, i
numeri e le figure geometriche che sono immobili.
La fisica studia gli enti naturali, che sono soggetti al movimento e al divenire, indipendenti e
autonomi. Per Aristotele il mondo naturale ha una propria esistenza.
Infine c’è la filosofia che considera l’essere soltanto nelle sue caratteristiche universali.
Dunque, questa ricerca che si occupa dell’ “essere in quanto essere”, viene definita da
Aristotele “filosofia prima”, in quanto il suo oggetto, l’essere appunto, precede ed è la
condizione di ogni altra realtà.
È questa terza scienza teoretica che i successori di Aristotele denomineranno con il termine
“metafisica”, che verrà a coincidere con la “teologia”, cioè lo studio dell’essere supremo.
Aristotele attribuisce a queste scienze un obbiettivo teoretico, cioè conoscitivo e
disinteressato: il loro studio è finalizzato alla pura conoscenza della realtà.

Le scienze produttive e pratiche


Le scienze produttive e quelle pratiche hanno un fine utile: il loro oggetto è il possibile,
ovvero ciò che può essere diverso da com’è, e il loro metodo non è dimostrativo.
Aristotele stabilisce una distinzione tra le scienze produttive e quelle pratiche. Le scienze
produttive tendono a realizzare un prodotto che avrà una vita autonoma rispetto al soggetto
che lo produce e comprendono le tecniche e le “arti belle”. Di queste ultime Aristotele
propone un lungo elenco. Esse si distinguono in:
● arti architettoniche, plastiche e figurative, le quali usano la materia e il colore per
realizzare i loro manufatti;
● Arti che si realizzano mediante la voce, cioè la musica e la poesia;
● Arti che si esplicano attraverso il movimento, cioè la danza;
● Arti che producono i discorsi persuasivi, cioè la retorica.
Ciò che è comune alle arti è il fatto di essere rivolte a oggetti possibili, in quanto sono
libere creazioni dell’uomo.
Le scienze pratiche comprendono l’etica e la politica e servono a guidare e orientare il
comportamento e la condotta degli uomini verso la felicità individuale e collettiva.
Anche queste scienze hanno come oggetto il possibile, in quanto le azioni degli uomini
dipendono dagli istinti o dalla volontà di ciascuno e non sono, dunque, imposte dalla
necessità delle cose.

2. La metafisica

Il distacco da Platone
Cominciamo l’analisi del pensiero aristotelico partendo dalla metafisica, in quanto è la
scienza fondamentale perché si occupa delle caratteristiche universali dell’essere. Platone
riteneva che le idee fossero superiori alle cose e al mondo sensibile, infatti le cose, essendo
mutevoli e imperfette, erano considerate fonte di errore ed inganno. Mentre le idee,
immutabili e perfette, rappresentavano il vero essere di cui si poteva ottenere una
conoscenza assoluta e universale.
Aristotele ribalta la posizione platonica: se Platone ha avuto il merito di individuare la
causa formale delle cose, cioè la loro “essenza necessaria”, il suo errore è stato quello
di porre tali principi al di fuori degli oggetti, rendendone incomprensibile il rapporto con la
realtà. Secondo Aristotele appare insufficiente il tentativo platonico di sanare la frattura
tra mondo e idee, introducendo le dottrine dell’imitazione, della partecipazione e della
presenza. Per lui, il legame tra l’idea e la cosa è interno alla realtà concreta e le idee
rappresentano la struttura essenziale immanente alle cose stesse, la loro ragion d’essere.
Il punto di partenza della ricerca aristotelica sull’essere è dunque quell’universo che il
platonismo aveva condannato, costituito da oggetti che possiamo percepire attraverso i
sensi e a cui attribuiamo un nome e un significato: “questo gatto”, “questo cane”.
“Cose esistenti” che possiamo conoscere in se stesse, chiedendoci:
● Che cosa sono?
● Di che materia sono fatte?
● Quale causa le ha generate?
● A che scopo o fine tendono?
Da una prospettiva metafisica “idealista”, che dalle idee andava alle cose, si passa a una
prospettiva metafisica "realista", che dalle cose va alle idee. Non c’è conoscenza degli
oggetti esterni se non a partire dai sensi. Infatti la mente sarebbe vuota se i sensi non le
fornissero la prima immagine delle cose.
Questa impostazione pone ad Aristotele un problema nuovo: è possibile dare
un’interpretazione scientifica - vale a dire stabile, immutabile e necessaria - di cose
che per loro natura sono variabili, mutevoli e soggette al cambiamento?
Per risolvere il problema giunse a formulare quelli che sono considerati cardini della sua
metafisica (la sostanza, la materia, la forma, l’atto e la potenza), concetti che sono divenuti
parole chiave anche del nostro stesso modo di ragionare.

La domanda fondamentale intorno all’essere dell’ “ente”


La metafisica ha come oggetto l’essere in quanto essere (e dunque “ontologia”), e la
domanda fondamentale è "che cos’è l’essere dell’ente?”.
L’essere per Aristotele non ha un unico significato, ma si può dire in molti modi e presenta
una molteplicità di aspetti. Egli attribuisce all’ente su cui ci stiamo interrogando 10 predicati
diversi o categorie. Queste ultime sono i 10 modi in cui, per Aristotele, è possibile “dire”
“predicare” l’essere delle cose, ma sono anche i modi fondamentali di darsi dell’essere,
le classi delle sue qualità più generali. Di un ente si può pertanto dire che presenta le
seguenti determinazioni:
1) La sostanza (un uomo, un cavallo)
2) La qualità (bianco, buono)
3) La quantità (è alto 2 m)
4) La relazione (è maggiore o minore di un altro)
5) Il luogo (in terra, in mare)
6) Il tempo ( ieri, oggi)
7) L’agire (brucia, taglia)
8) Il patire (è bruciato, è tagliato)
9) Lo Stato (calzato, amaro)
10) La situazione ( coricato, seduto).
Per Aristotele, però,solo la prima delle categorie rappresenta “l’essere dell’ente” vero e
proprio; le altre costituiscono i suoi vari modi di essere.
Ma allora, se l’essere dell’ente è la sostanza, la domanda centrale sarà: “che cos’è la
sostanza?”.

Che cos’è la sostanza


La risposta di Aristotele è che la sostanza è innanzitutto l’individuo concreto, il “questo qui”.
In particolare, nelle Categorie Aristotele definisce gli eventi di questo tipo “sostanze prime”,
in quanto esistono in modo autonomo e fungono sempre soltanto da soggetti. Esse
possono essere considerate sotto una duplice prospettiva: ontologica e logica. Dal punto di
vista ontologico, le sostanze sono i soggetti reali cui ineriscono le varie proprietà; dal
punto di vista logico, le sostanze sono i soggetti logici, i quali “reggono” i vari predicati.
Dalle sostanze prime, il filosofo distingue le sostanze seconde: si tratta di quei concetti
universali - le specie (ad esempio “uomo”) e i generi (ad esempio “animale”) - che Platone
considerava autonomi, mentre per Aristotele non possono esistere indipendentemente
dagli individui concreti (le sostanze prime). Secondo Aristotele, l’essere non coincide con
il mondo delle idee, ma è un insieme di sostanze o enti “individuali”. Ognuna di tali sostanze
individuali è concepita come sinolo, cioè unione indissolubile, di forma e materia. La
forma rappresenta la natura intima di una cosa, la sua essenza o struttura immanente e
necessaria, ció che fa in modo che una cosa sia quella che è. La materia è l’elemento
materiale che viene plasmato dalla forma, il materiale indeterminato che solo grazie alla
forma assume una configurazione particolare.
Ora con Aristotele l’idea viene a costituire la natura necessaria delle cose, il loro principio
interiore. La sostanza è dunque “individuo concreto”, ma anche e soprattutto “forma”, natura
essenziale in virtù della quale una cosa è proprio quella cosa e non un’altra.
È in questo senso che la sostanza è la categoria fondamentale e primaria degli enti: il
suo essere si distingue da quello di tutti gli altri enti designati dalle categorie, i quali non
sono che “accidenti”, nel senso che allude a “ciò che accade”.

Potenza e atto
È proprio grazie all’introduzione dei concetti di “forma” e di “materia” che Aristotele riesce a
elaborare una soluzione al problema del “divenire”.
Secondo lui il cambiamento è una trasformazione interna all’essere, il passaggio da un
tipo di essere a un altro. In particolare, si tratta del passaggio dall’essere in “potenza” della
materia a quello in “atto” della forma. Ad esempio quando una ghianda diventa una quercia
si verifica un cambiamento e nel processo si distinguono due aspetti: quello che resta
costante, cioè la sua “essenza” di pianta, e qualcosa che muta, cioè la “materia”, il seme:
quest’ultimo può trasformarsi in quanto ha in sé stesso la potenzialità di assumere la “forma”
della quercia, e quindi divenire albero.
Dall’esempio riportato si deduce che la materia è quell'elemento indeterminato che ha la
potenzialità di assumere determinazioni successive, rendendo così possibile il
cambiamento. La forma è, invece, l’elemento attuale, permanente e riconoscibile delle
cose.

3. La fisica e la psicologia

I concetti fondamentali
Per Aristotele lo studio del mondo fisico è parte delle scienze teoretiche, che rappresentano
il vertice a cui può giungere la conoscenza degli uomini.
Bisogna osservare che gran parte dei contenuti della fisica di Aristotele devono ritenersi
datati e del tutto inutilizzabili oggi.
La fisica di Aristotele, va studiata, dunque, come un importante documento dello stato
della ricerca dell’epoca e soprattutto perché ha rappresentato un punto di riferimento
fondamentale per il pensiero scientifico e filosofico. Essa è essenzialmente finalistica e
nega ogni valore alla matematica applicata alla natura. Nei paragrafi seguenti analizzeremo i
temi fondamentali trattati nelle due importantissime opere della Fisica della Metafisica: la
dottrina delle quattro cause, i diversi tipi di movimento presenti nell’universo,
l’immagine del cosmo e la concezione di Dio.

Le quattro cause all’origine di tutti i fenomeni


Aristotele spiega il divenire mediante le nozioni di “atto” e “potenza”: ogni sostanza
possiede delle qualità potenziali che, attraverso un processo di trasformazione, possono
realizzarsi e raggiungere la forma in atto. Ad esempio diciamo che il gas è infiammabile
perché sappiamo che ha la potenzialità di bruciare, a condizione che accendiamo una
fiamma.
Dagli esempi si evince che ogni trasformazione, ossia ogni passaggio dalla “potenza” all’
“atto”, richiede delle particolari condizioni e determinate cause: il gas non brucia se non in
presenza di una fiamma. Quindi Aristotele giunge elaborare una sottile spiegazione dei
fenomeni, riconoscendo all’origine di ognuno di essi quattro tipi di cause:
1) una causa materiale: la materia di cui una cosa è fatta
2) una causa formale: la forma, l’essenza, ciò che fa sí che una cosa sia proprio quella
e non un’altra
3) una causa efficiente: la forza che genera un mutamento, sia agendo dall’esterno,
come nel caso di una spinta a un corpo, sia agendo dall’interno come nel caso di una
decisione o azione
4) una causa finale: lo scopo in vista del quale avviene il processo (ad esempio il
guadagno se la sedia viene venduta).
Nei processi naturali la causa formale, la causa efficiente e quella finale si presentano
unificate e dunque le cause si riducono a due: il fiore è nello stesso tempo la forma, la causa
efficiente e il fine della trasformazione; invece nei processi artificiali essere solo disgiunte.
Aristotele ritiene che la natura non agisca mai senza uno scopo e che tutti i processi fisici
rispondano a una legge di carattere finalistico: il sasso cadrà sempre a terra.

L’universo teleologico di Aristotele


Aristotele ha una visione dell’universo ottimistico che, in termini tecnici possiamo definire
teleologica (telos che in greco vuol dire “fine”), In quanto crede in un ordine finalistico
necessario che governa il mondo in ogni sua parte, per quanto piccola e insignificante. A
differenza di Platone, Aristotele infatti ritiene che il fine sia inscritto nella natura stessa
delle cose, come un impulso spontaneo che le spinge a realizzare la loro essenza nel
migliore dei modi possibili. Ciò che non rispetta un tale ordine costituisce un’eccezione della
natura e si presenta come un fenomeno mostruoso.

La teoria del movimento


Per Aristotele esistono quattro tipi differenti di movimento:
a) il movimento sostanziale, che consiste nella generazione nella corruzione: Socrate
nasce (generazione), Socrate muore (corruzione);
b) il movimento qualitativo, (qualità), rappresentato dal mutamento o dall’alterazione
(impallidire);
c) il movimento quantitativo, consistente nell’aumento nella diminuzione (il bambino
crescendo diventa alto);
d) il movimento locale o traslazione (spostamento) da un luogo all’altro.
Quest’ultimo è il movimento fondamentale ed è a sua volta distinto in tre forme:
1) il movimento circolare intorno al centro del mondo;
2) il movimento dall’alto verso il cento;
3) il movimento dal centro verso l’alto.
È in base alla natura del loro movimento che Aristotele classifica le varie sostanze fisiche: il
fuoco e l’aria, che si muovono dal centro del mondo verso l’alto; l’acqua e la terra, che si
muovono dall’alto verso il centro del mondo.
La differente dislocazione degli elementi dipende dal loro peso: l’elemento più pesante è la
terra, che sta al centro del mondo; intorno si pongono le sfere degli altri tre elementi più
leggeri, nell’ordine l’acqua, l’aria e il fuoco, che rappresenta l’ultima sfera del mondo
sublunare (cioè “sta sotto” il cielo della luna); oltre la sfera del fuoco vi è la prima sfera
celeste, il cielo della luna, e quindi le successive, fino al cielo delle stelle fisse che
rappresenta il limite estremo dell’universo. Se un elemento viene allontanato dal suo luogo
naturale, esso tende a ritornare nella condizione di partenza.

Un cosmo ordinato e compatto


Quella che Aristotele fornisce nella sua Fisica è una descrizione fantastica del mondo, ma
di fondamentale importanza per l’influenza che ha esercitato sulla cultura occidentale fino
alla rivoluzione scientifica.
Il cosmo aristotelico è compatto e ordinato: non presenta spazi vuoti, è finito e compiuto,
ha un centro, un alto e un basso come tutte le cose dell’universo e pertanto anche un
confine e un limite rappresentato dal cielo delle stelle fisse. Come quasi tutte le altre
descrizioni antiche, anche l’universo aristotelico ha al proprio centro la terra, che è sferica
e immobile, circondata dall’atmosfera sublunare oltre la quale si estende la parte più
importante dell’universo, che è rappresentata dalle sfere divine dei corpi celesti eterni e
incorruttibili. L’universo aristotelico conserva il dualismo della dottrina platonica tra mondo
celeste e mondo terrestre, fondandolo proprio sulla teoria del movimento: il mondo celeste
è composto di etere, una sostanza ingenerata che si muove solo con un movimento
circolare senza inizio e senza fine, e dunque perfetto; il mondo terrestre è composto dai
quattro elementi fondamentali.
Dunque nel suo insieme la vita dell’universo è eterna.

Dio
Dio è la sostanza immutabile ed eterna che, secondo Aristotele, causa il movimento
dell’universo. Il filosofo parla di tale entità divina sia nell’ultimo libro della Metafisica sia nella
Fisica, affermando che non si tratta né di una “persona”, né di un “ente assoluto” o “buono”.
Che cos’è dunque il Dio di Aristotele? È il principio supremo dell’universo, il culmine
logico a cui fa capo la macchina cosmica elaborata dal filosofo e la spiegazione ultima del
movimento e del cambiamento. Ma perché Aristotele ha sentito l’esigenza di introdurre
tale principio?
Ecco le argomentazioni del filosofo: le sfere celesti sono caratterizzate da un movimento
perfettamente circolare, senza inizio e senza fine. Sulla base dei concetti della metafisica,
sappiamo che ogni passaggio dalla potenza all’atto presuppone l’esistenza di una forza in
atto che ne rappresenta la causa. Dio, dunque, è quella sostanza prima, eterna, non
soggetta al cambiamento o al mutamento che può imprimere il primo movimento
all’universo: è insomma il “motore immobile”.
Ecco le caratteristiche che Aristotele gli attribuisce. Innanzitutto, Dio deve essere mente
pura non mescolato a materia. La materia, infatti è potenza, cioè la possibilità di divenire.
Ma Dio non può essere un ente potenziale. Se Dio fosse potenza, occorrerebbe ammettere
un altro principio in atto sopra di lui.
Dio dunque esiste, anzi deve esistere, perché nel mondo ci sia il movimento. E deve essere
necessariamente “atto puro”, “motore immobile”, “mente pura”, che non ha altra
attività se non il pensiero di se stesso, perché se pensasse qualcosa di esterno sarebbe
incompleto e imperfetto.

L’oggetto del desiderio


Ora ci poniamo un’altra domanda: come agisce Dio per causare il movimento?
Dio agisce come causa finale. Secondo Aristotele, Dio può causare il movimento in un solo
modo degno della sua attualità: rappresentando il fine, l’oggetto di amore e di desiderio
delle sfere celesti e, in particolare, del primo cielo. Dio è il polo di attrazione
dell’universo; il primo cielo, cioè la sfera delle stelle fisse, desidera la sua perfezione e la
imita muovendosi con un moto perfetto. Il desiderio della perfezione è la molla che mette
in moto l’universo, attirando gli enti verso Dio.

L’anima come forma del corpo


Aristotele considera la trattazione dell’anima come un capitolo della fisica. Egli, infatti,
intende l’anima come il principio della vita immanente nelle cose animate, strettamente
legato al corpo di cui rappresenta la causa formale, efficiente e finale. Il corpo, per
Aristotele, è soltanto materia e potenza, che in virtù dell’anima si traduce in vita “in atto”; per
questo motivo l’anima è unita al corpo in una comunione inscindibile, tanto che non si può
ammettere una vita dell’anima dopo la morte.
Aristotele riconosce tre diverse funzioni dell’anima:
a) la funzione vegetativa, che è propria di tutti gli esseri viventi a partire dalle piante;
b) La funzione sensitiva, che è propria degli animali e dell’uomo, che sono capaci di
provare sensazioni e di desiderare;
c) La funzione intellettiva, propria esclusivamente degli uomini, grazie alla quale
possono pensare, ragionare e dirigere anche le altre forme di vita.
Queste tre funzioni vitali si dispongono secondo un ordine gerarchico che va dal meno
perfetto al più perfetto. È nel pensiero che si raggiunge il sommo grado di perfezione, e in
particolare nella “sapienza”. Pertanto la sapienza è da considerarsi il fine a cui deve tendere
la vita dell’uomo.

La teoria della conoscenza


Per Aristotele tutta la conoscenza nasce dai sensi: l’intelletto non potrebbe apprendere
nulla se i sensi non gli offrissero la materia da elaborare. Dunque, la mente dell’uomo è
attiva. La mente, cioè, attualizza e dá forma alle confuse sembianze che la facoltà
immaginativa le presenta.
Vediamo più dettagliatamente come Aristotele affronta questa importante tematica. secondo
il filosofo, il processo conoscitivo si svolge attraverso tre stadi molto uniti:
a) al primo stadio si colloca la conoscenza sensibile, che deriva dei cinque sensi, i
quali ci permettono di provare le varie sensazioni. Vi è poi il senso comune, da cui
dipende la coscienza di tali sensazioni e la possibilità di collegare i dati differenti
provenienti da esse;
b) al secondo stadio si colloca l’immaginazione, che produce le immagini o
riproduzioni mentali delle sensazioni ottenute attraverso i sensi. Si tratta di
immagini autonome rispetto alle cose sensibili. Strettamente legata a questa
facoltà è la memoria, che consente di conservare i ricordi delle sensazioni;
c) all’ultimo stadio, quello più elevato e propriamente umano, si pone la conoscenza
intellettiva. Tale facoltà agisce sulle immagini, astraendo da essa è la forma
intelligibile, ovvero il concetto universale.
L’intelletto a un primo livello è solo “passivo”, cioè ha soltanto la “possibilità” di cogliere
l’universale, ma necessita di una realtà in atto che gli permetta di realizzarsi. Esso è come
un foglio bianco su cui non abbiamo ancora scritto nulla, che può accogliere qualsiasi
tipo di messaggio. Per questo Aristotele riconosce l’esistenza di un “intelletto attivo”, che
contiene già tutte le forme e concetti in atto e che, agendo sull’intelletto passivo gli
consente di attualizzare la propria potenzialità conoscitiva. L’intelletto attivo è immortale
ed eterno, a differenza dell’intelletto passivo che si corrompe e muore.

4. L’etica e la politica

L’attualità della riflessione etica di Aristotele


L’etica è una scienza pratica, che si occupa del comportamento dei singoli; il suo oggetto
fondamentale è rappresentato dalla ricerca e dalla determinazione del significato della
felicità. Quest’ultima è il fine supremo, il bene sommo, perché non subordinato ad altri fini
ma desiderabile per se stesso. L’etica si può considerare la sezione più attuale della
filosofia di Aristotele. Anche in questo campo possiamo stabilire delle differenze rispetto
alla posizione platonica. Come noto, Platone tendeva a far dipendere la condotta morale
delle persone da alcuni principi supremi, considerati come assolutamente preliminari e
incondizionatamente veri.
Più in particolare, per Platone il comportamento moralmente buono discendeva
dall’imitazione dell’idea di Bene.
La prospettiva etica di Aristotele non si basa su principi astratti, ma muove
dall’osservazione delle situazioni reali, degli usi e dei costumi dei popoli. Quindi non si
ricorre a un punto di vista assoluto, ma si cerca un equilibrio tra differenti esperienze e
diverse prospettive.
Quella aristotelica è una prospettiva che si può considerare attuale in relazione alla nostra
società multietnica e multiculturale, in quanto, si sforza di trovare un compromesso
intorno alla questione dei valori, considerando il rapporto tra gli individui in modo relativo
e dinamico. Non è estranea al mutato clima politico in cui Aristotele si trova vivere.
Dunque, per Aristotele, l’etica non è una scienza dimostrativa e infallibile come la
matematica, bensì si occupa dei modi di vivere e di agire degli uomini, che presentano i
due seguenti tratti inconfondibili:
a) sono diversi gli uni dagli altri a seconda del tempo e del luogo in cui si esplicano;
b) dipendono dalla libera volontà delle persone.
La differenza dell’etica rispetto alle scienze teoretiche (fisica, matematica e metafisica)
deriva dunque sia dal suo riferirsi a condizioni storiche e geografiche diversificate sia
dal fatto che deve tener conto, nelle sue valutazioni, della libertà umana, perché senza
la libertà non c’è agire morale.
La ricerca del <<giusto mezzo>>
Il modello a cui Aristotele si ispira non è più quello chiuso e ristretto di una casta
sacerdotale o del ceto aristocratico, ma quello moderato tipico della classe media, che
gode di buone condizioni economiche e che è decisa a mettere il più possibile a frutto le
risorse sociali umane di cui dispone. Dunque l’etica aristotelica potrebbe rappresentare,
secondo uno storico, Emile Bréhier, una morale propria del possidente di terre, mediamente
ricco è interessato a un’amministrazione efficiente della casa e della cosa pubblica.
L’orizzonte entro cui questa visione etica si colloca è ancora la pólis. Ora, infatti,
l’aristocrazia cerca uno stile di vita più concreto e moderato.
Ora, se sul piano sociale il modello è la classe media, sul piano filosofico la virtù appropriata
è il <<giusto mezzo>>, cioè l’equilibrio tra i due estremi del difetto è dell’eccesso: la
virtù, osserva Aristotele, sta nel mezzo. Ma come si stabilisce il giusto mezzo? Aristotele sa
bene che nel comportamento morale non si possono dare regole assolute e dunque non
può esserci una misurazione rigorosa del giusto mezzo valida per tutti.

Il fine dell’etica: la felicità


Il fine dell’etica è la felicità, la quale coincide con quella condizione di benessere che
l’uomo sperimenta quando sta bene con se stesso, con gli altri e con il proprio
ambiente. Per capire meglio in cosa consista questa condizione, dobbiamo considerare
che, per Aristotele, si danno tre forme di vita possibili, a seconda del fine che gli uomini
perseguono scegliendo di assecondare una delle parti della propria anima: la prima ha come
fine unicamente il piacere del corpo e si può qualificare come “vita edonistica”; la seconda
ha come fine il prestigio connesso con le cariche pubbliche e si chiama “vita politica”; la
terza ha come fine la conoscenza della verità e si definisce “vita teoretica”.
Tutte queste forme si conciliano nella vita dell’uomo sapiente e virtuoso. Per Aristotele,
infatti, la virtù rappresenta la disposizione abituale ad agire secondo ragione. Vi sono due
tipi di virtù: le virtù dianoetiche (“intelletto”) e le virtù etiche (“costume, comportamento”):
le prime consistono nell’esercizio stesso della ragione e si distinguono in arte, saggezza,
intelligenza, scienza e sapienza; le seconde consistono nella disposizione a vivere
secondo ragione, cioè a dominare, con la razionalità, gli impulsi sensibili. Esse sono, ad
esempio, la moderazione, la magnanimità, la giustizia, la temperanza.
Le virtù dianoetiche culminano dunque nella sapienza, che costituisce un ideale di vita
riservato a pochi in quanto è propria dei saggi e dei filosofi che si dedicano alla
conoscenza disinteressata delle cose più alte e universali, vivendo una vita serena e felice
perché esente da preoccupazioni esterne. A un grado inferiore sia invece la saggezza, che
è orientata alla vita pratica e coincide con la capacità di adattarsi alle circostanze trovando
sia il giusto mezzo sia gli strumenti per ottenere un fine giudicato buono. Essa è accessibile
a tutti e rappresenta la via per raggiungere la serenità e l’equilibrio. In conclusione, e proprio
nell’equilibrio che possiamo individuare il carattere fondamentale dell’etica aristotelica.
Secondo Aristotele un uomo è felice soltanto se riesce a conciliare tutti gli aspetti che
riguardano la sua umanità e pertanto la sua è un’etica integrale, che non vuole sacrificare
una parte a vantaggio dell’altra e che rifugge da ogni parzialità. Un ideale di questo tipo
può essere raggiunto da tutti coloro che sanno essere saggi nelle più svariate
circostanze della vita. La felicità vera consiste in una vita piena, a cui non manchi nulla.

L’amicizia
Aristotele dedica ampio spazio alla trattazione di un tema molto sentito nell’antichità, si tratta
dell’amicizia, la philía, che viene considerata come una virtù o qualcosa di strettamente
congiunto alla virtù. Che cos’è l’amicizia? Per rispondere alla domanda il filosofo distingue
vari aspetti dell’argomento. L'amicizia è di tre tipi: può fondarsi sull’utile, sul piacevole o sul
bene. Coloro che si amano in virtù dell’utile o del piacevole non si amano per se stessi,
ma in vista di un qualche vantaggio reciproco. La perfetta amicizia è quella che si fonda
sulla virtù e sul bene, in cui si ama l’amico in quanto persona, in modo disinteressato; si
tratta di un’amicizia poco frequente, che si consolida nel tempo attraverso una comunanza di
vita e di intenti. Per Aristotele non si possono avere molti amici, perché la vera amicizia
presuppone un uguale status sociale e morale e una intesa reciproca, condizioni che non
sono facili da raggiungere.

La famiglia come fondamento della vita politica


Passando a trattare ora l’aspetto sociale dell’uomo, siamo condotti nella sfera politica.
Dobbiamo riconoscere che la proposta politica di Aristotele è fondata sulla concezione
dell’uomo come “animale politico”, cioè sulla considerazione che l’uomo, senza la
società non ha la possibilità di realizzare la propria essenza. Il compito primario della
politica è quello di assicurare le migliori condizioni di benessere per i cittadini. Tra etica e
politica c’è dunque continuità: la vita associata deve rispettare le finalità insite nella natura
umana e deve perseguire la giustizia, che è la più importante delle virtù etiche. Essa
consiste nella ricerca dell’equilibrio in relazione a se stessi e agli altri e coincide con il
rispetto delle giuste leggi dello Stato e la corretta distribuzione degli onori e delle
risorse secondo i meriti di ciascuno.
Ora vediamo come Aristotele descrive la costituzione dello Stato. Alla base dello Stato c’è la
famiglia, una complessa struttura a carattere sociale che agli aspetti affettivi e privati
raggiunge una dimensione economica e pubblica: la famiglia è un’unità produttiva non solo
sotto il profilo della generazione dei figli, ma anche rispetto alla gestione della casa e delle
attività agricole; quindi ci riferiamo alla famiglia del proprietario terriero.
Aristotele analizza con grande attenzione i rapporti di questa importante cellula della società,
ad esempio le relazioni tra il marito, la moglie e i figli. La moglie è una persona libera, ma
è sottomessa all’autorità del marito in quanto non gode pienamente dei diritti giuridici;
secondo Aristotele la donna anche psicologicamente non è idonea a svolgere i compiti di
direzione e di comando. L’autorità del padre sui figli maschi dura invece fino a che questi
non raggiungano l’età adulta, divenendo a loro volta i capi di un’altra famiglia.
Per quanto riguarda l’analisi della schiavitù, secondo Aristotele, lo schiavo è un essere molto
vicino alle bestie, in quanto del tutto privo di diritti e dedito soltanto al lavoro e
all’obbedienza; egli viene definito <<strumento animato>>.

Le condizioni essenziali del buon governo


Le famiglie rappresentano gli elementi costitutivi della società: esse si riuniscono in villaggi i
quali, unendosi a loro volta, danno origine alla pólis, la città-Stato.
Aristotele non crede che ci sia una forma ideale e perfetta di governo, valida per tutti gli
uomini, ma ritiene che si può arrivare a quelle condizioni generali che devono sussistere
perché un qualsiasi organismo di governo si realizzi nel modo migliore. Per lui vi sono
tre tipi fondamentali di costituzione:
1) la monarchia o governo di uno solo;
2) l’ aristocrazia o governo dei migliori;
3) la politéia o governo della moltitudine in vista del vantaggio di tutto.
Questi modelli di governo possono corrompersi se hanno interessi particolari. Le tre forme
degenerate che ne derivano sono la tirannide (monarchia indirizzata a fare interesse di una
sola persona), l’oligarchia (vantaggio di una sola classe sociale) e la democrazia
(interesse di una sola parte della popolazione, quella dei poveri).
Aristotele identifica nella politéia la forma più desiderabile di governo. Essa consiste in una
costituzione “mista”, che combina insieme le caratteristiche migliori della democrazia e
dell’oligarchia: è il governo di una moltitudine che gode di una certa agiatezza economica.
A ben vedere, si tratta di una costituzione basata ancora una volta sul ceto medio dei
proprietari terrieri. Aristotele non descrive uno stato ideale, ma ricerca delle condizioni che
rendano ottimali le forme di governo esistenti. La prima di esse è che la costituzione si
proponga il benessere materiale e spirituale.

5. L’arte e la retorica

La funzione catartica dell’arte tragica


Dei diversi generi di poesia, Aristotele studia la tragedia. Dopo averne tracciato una rapida
storia, egli definisce la tragedia come imitazione diretta (cioè nelle forme del dramma e
senza la mediazione di un narratore) di un’azione seria e in sé compiuta. Lo scopo della
tragedia è quello di suscitare nello spettatore <<pietà e paura>>, per determinare nel suo
animo la purificazione dalle passioni.
Con riguardo alla tragedia, Aristotele allude dunque, pur senza approfondire l’argomento, a
una funzione psicologica o morale dell’arte, che si aggiunge a quella conoscitiva e consiste
nella capacità di agire sullo spettatore, liberandolo, purificandolo dalle sue passioni evocate
dalla rappresentazione.

La persuasione e la retorica
Anche la retorica per Aristotele è un’arte. Essa comprende sia l’attività del dicitore (retore)
sia l’insegnamento delle nozioni di carattere generale sulle quali essa si fonda. La retorica si
caratterizza dunque, da un lato, come arte di produrre discorsi capaci di persuadere della
bontà di una tesi o dell’opportunità di una determinata azione; dall’altro, come conoscenza di
ciò che è persuasivo.
Nello scritto sulla Retorica, Aristotele individua tre fondamentali fattori della persuasione:
l’attendibilità dell’oratore, che deve con opportuni discorsi produrre una favorevole
impressione verso il pubblico; la capacità di generare emozioni; la capacità di produrre
argomenti razionali a favore della tesi sostenuta.

I due tipi di argomentazione fondamentali


Aristotele riserva un luogo privilegiato all’argomentazione, individuandone due tipi:
l’entimema e l’esempio. L’entimema, o sillogismo retorico, consiste in un sillogismo dalla
struttura semplificata, adeguata alla comprensione di ascoltatori di scarsa cultura, incapaci
di stare dietro a troppe lunghe catene di ragioni: se l’ascoltatore non segue il filo
dell’argomentazione, si verifica una caduta nella persuasione. La semplificazione si ottiene
omettendo, tra le premesse del sillogismo, quella ritenuta più nota e scontata. L’esempio
consiste in una forma semplificata di procedimento induttivo, che dall’analisi di un solo caso
particolare, ben noto agli ascoltatori, deriva conclusioni relative ad altri casi.

6. La logica

L’arte di ragionare
La logica occupa un posto di primo piano nella filosofia di Aristotele, tanto che risulta attuale
e interessante ancora oggi. Dobbiamo subito precisare che il vocabolo “logica” non è di
Aristotele, ma risale agli stoici. Aristotele usa il termine “analitica” (dal greco che significa
“divido”, “sciolgo”), che allude all’arte di scomporre il ragionamento nei suoi elementi
costitutivi semplici, per valutarne la correttezza. La logica studia le regole e i principi che
rendono corretta l’inferenza, ossia il passaggio da premesse conosciute affidabili a una
conclusione nuova e valida.

Le opere logiche
Le opere logiche di Aristotele non ci sono pervenute come una raccolta ordinata di trattati. Il
termine Órganon, con cui si indica la raccolta e che significa “strumento”, fu adottato in un
secondo tempo, probabilmente nel VI secolo d.C.; pur non essendo di Aristotele, esso
rispecchia la concezione aristotelica della logica come una materia preparatoria per lo
studio delle scienze e della filosofia. Tale disciplina è lo strumento che regola l’arte di
ragionare e, in quanto tale, costituisce la base su cui le scienze costruiscono i propri
discorsi. Con un’espressione sintetica possiamo dire che la logica è lo studio della
struttura del pensiero razionale.
L’Órganon aristotelico si presenta cosí suddiviso:
● Un’introduzione, che funge da prefazione generale ai vari trattati;
● Le categorie, in cui troviamo la celebre classificazione delle 10 categorie, cioè dei
10 modi in cui è possibile predicare l’essere delle cose;
● Sull’interpretazione, che si occupa delle proposizioni;
● Gli Analitici primi, un testo in due libri, in cui si espone la teoria generale del
sillogismo;
● Gli analitici secondi, in cui si trattano i sillogismi dimostrativi, ossia fondati su
premesse necessarie;
● I topici, un testo in otto libri, dedicato all’argomentazione dialettica, ossia ai sillogismi
basati su premesse non necessarie;
● Gli elenchi sofistici, che chiudono l’Órganon e contengono le confutazioni degli
argomenti ingannevoli.
L’ordine di successione di questi trattati non coincide con quello di composizione da parte di
Aristotele. Egli presenta dapprima i concetti, poi le proposizioni e poi la parte sui
ragionamenti sui sillogismi.

Il realismo della logica


A differenza della logica moderna e contemporanea, quella aristotelica è lo strumento che si
propone di cogliere la “verità” delle cose e ha come suo oggetto lo studio dei
ragionamenti scientifici. C’è dunque un rapporto di necessità che lega le forme del
pensiero e le forme dell’essere, i principi della logica e i principi del reale. La logica
aristotelica, dunque, non è una disciplina “formale”, cioè orientata alla “forma” del
ragionamento, proprio perché ha sempre presente il “significato” dei termini e dei concetti,
delle proposizioni dei ragionamenti.
Tra la logica e la metafisica c’è uno stretto legame è un’interdipendenza: la verità che
cogliamo è la realtà stessa delle cose tradotta in parole, concetti e ragionamenti.

La logica dei concetti


I concetti sono le unità minime dei ragionamenti dotate di significato ed esprimono la
natura o “essenza” delle cose. Essi sono gli oggetti dei nostri discorsi, cioè rappresentano
quegli elementi che vengono uniti o disgiunti nelle varie proposizioni. Questo aspetto dei
concetti viene denominato da Aristotele “estensione”, perché indica l’insieme degli oggetti
a cui si “estende” il concetto, cioè tutti i casi in cui è corretto adoperare quel particolare
termine. L’intensione o comprensione dei concetti coincide con il loro significato, ossia
con quelle caratteristiche che identificano un concetto e lo differenziano dagli altri. I concetti
possono essere considerati da un doppio punto di vista: come “contenitori” e come
“contenuti”: ogni concetto contiene in sé concetti particolari ed è contenuto a sua volta
da un concetto più universale, il che equivale a dire che da un lato può essere considerato
un “genere”, cioè una classe generale in cui si collocano determinate “specie”, dall’altro può
essere considerato una specie di un genere superiore.
Sulla base di queste considerazioni possiamo dunque affermare che, per Aristotele, gli
elementi che permettono di elaborare una definizione dei concetti sono i seguenti:
a) il genere prossimo, cioè il genere in cui il concetto può essere classificato sulla
base delle sue caratteristiche essenziali e intuitive;
b) La differenza specifica, ossia la “differenza” del concetto rispetto agli altri
concetti dello stesso genere.
La specie comprende un maggior numero di caratteristiche rispetto al genere e dunque ha
una maggiore intensione; essa però si riferisce a un numero inferiore di soggetti e dunque
ha una minore estensione. Al contrario, il genere è riferibile a un maggior numero di
soggetti, ma possiede un numero limitato di caratteristiche, pertanto ha maggiore
estensione ma intensione limitata.
Ai due estremi della scala dei concetti si trovano da un lato la sostanza prima (la “specie
infima” che non ha sotto di sé altra specie), cioè l’individuo, il quale ha massima intensione
e minima estensione, dall’altro le categorie (i “generi sommi”), modi generali in cui si
predica l’essere delle cose, che hanno il massimo di estensione e il minimo di intensione.

La logica delle proposizioni


Noi conosciamo e ragioniamo in virtù di un processo logico che si basa sulla composizione
di più concetti in proposizioni e di queste ultime in una catena complessa di discorsi.
Analizziamo, dunque, la struttura di una proposizione. Si chiama “soggetto” il termine cui si
riferisce è una proprietà, mentre si definisce “predicato” la qualità che gli viene attribuita:
ad esempio, nella proposizione “Socrate è giusto” il primo termine rappresenta il soggetto il
secondo ciò che di esso viene praticato. Il soggetto corrisponde alla sostanza, mentre il
predicato corrisponde alle categorie che ne rappresentano i vari modi di essere “accidentali”.
Non tutte le proposizioni sono affermative, vi possono essere anche proposizioni negative;
ad esempio come nei seguenti casi: “quest’uomo non è giusto”, si nega l’attribuzione di
una determinata qualità al soggetto. Entrambe queste tipologie di proposizioni sono
dichiarative, perché enunciano qualcosa della realtà, e in questo senso sono frasi che
mettono in gioco il problema della verità. Si può parlare di verità o falsità solo in
riferimento alle proposizioni.

Cominciamo a pensare, a giudicare la realtà, quando connettiamo un soggetto ad un


predicato, quando uniamo concetti tra loro e costruiamo, quindi, delle proposizioni
dichiarative o apofantiche.

Facciamo un esempio: il concetto di “gatto”, in sé, non presuppone alcun pensiero, non è né
vero né falso; al contrario, affermare: “il gatto è sul tavolo”, rientra in un’affermazione che
può essere considerata vera o falsa.
Aristotele classifica le proposizioni dichiarative in base alla:
- Qualità: possono essere affermative o negative,
- Quantità: possono essere universali o particolari.

Per chiarire il nostro discorso e mostrare quali connessioni Aristotele rintraccia tra le
proposizioni, i logici medievali hanno costruito un “quadrato degli opposti” (Figura 1), dove:
- A corrisponde alle proposizioni universali affermative (“tutti i gatti sono neri”).
- I corrisponde alle proposizioni particolari affermative (“qualche gatto è nero”).
- E corrisponde alle proposizioni universali negative (“nessun gatto è nero”).
- O corrisponde alle proposizioni particolari negative (“qualche gatto non è nero”).

Secondo tale schema (Figura 1):


1. Due proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere, mentre possono essere
entrambe false.
2. Nelle proposizioni contraddittorie se una delle due è vera, l’altra dovrà essere falsa o
viceversa.
3. Le proposizioni sub-contrarie possono essere entrambe vere ma non entrambe false.
4. Nelle proposizioni subalterne dalla verità o falsità dell’una dipende la verità o la falsità
dell’altra.

La logica del ragionamento


Connettere concetti e creare proposizioni, però, non significa ancora ragionare nel senso
vero del termine. Questo accade quando “poste talune cose (le premesse) segue
necessariamente qualcos’altro (la conclusione) per il semplice fatto che quelle sono state
poste”. Ragionare significa, dunque, connettere tra loro le proposizioni in modo che le une
fungano da cause per le altre. Connettere a caso proposizioni tra loro non rientra, a parere
di Aristotele, nel ragionamento.

I logici medievali avevano dato due nomi diversi ai ragionamenti messi in atto:

Induttivi: si parte dal particolare per arrivare a conclusioni universali.


Deduttivi: si parte dal generale per giungere a conclusioni particolari.
Secondo Aristotele, solo i ragionamenti deduttivi sono necessari (cioè veri necessariamente)
e il ragionamento per eccellenza è il sillogismo. Il sillogismo è la forma più importante di
ragionamento deduttivo e possiamo definirlo come un’argomentazione contenente due
premesse e una conclusione. Quest’ultimo è formato da tre proposizioni, di cui due sono le
premesse e una la conclusione. Ricorriamo al celebre esempio aristotelico di sillogismo:

● Premessa: Ogni animale è mortale


● Premessa: Ogni uomo è animale
● Conclusione: Ogni uomo è mortale

Come è possibile che il sillogismo, cioè la sua conclusione, sia valida? Ciò è possibile grazie
alla presenza, all’interno delle due premesse, del termine medio (nel nostro caso “animale”)
che fa da cerniera tra gli altri due termini (è contenuto in quello maggiore – “mortale” - e
contiene quello minore “uomo”). Ma un sillogismo potrebbe essere valido ma, allo stesso
tempo, non vero. Com’è possibile? Se la mia premessa di partenza, ad esempio, fosse:
“Ogni uomo è immortale”, potrei ricavarne un sillogismo valido ma con conclusioni false
(“ogni uomo è immortale”).

Secondo Aristotele, sono sillogismi scientifici solamente quelli che partono da premesse
vere. Per il filosofo, dunque, alla base delle scienze (e di ogni deduzione) ci sono dei principi
generali (o assiomi) e delle definizioni indimostrabili ma evidenti, che è possibile cogliere
solo attraverso un atto di intuizione del nostro intelletto.

In ultimo, esistono dei sillogismi dialettici, che si fondano sempre su dei ragionamenti, ma su
delle premesse sono probabili, accettate dai più, ma non necessariamente vere. Rientrano
nel novero delle discussioni e sono fondati sul procedimento dialettico e non su quello
scientifico (o dimostrativo).

La dialettica
Aristotele considera la dialettica una scienza della discussione della confutazione. Le
premesse del sillogismo dialettico infatti, non sono né vere né necessarie, ma opinabili.
Come abbiamo visto, tali premesse vengono assunte come principi autoevidenti, principi
primi indeducibili, colti attraverso l’intuizione delle essenze da parte dell’intelletto. La
dialettica arriva a costituire, insieme all’intelletto, la base su cui è fondato il ragionamento
scientifico.

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