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Bertoni Brenno Pagine Scelte

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Brenno Bertoni

Pagine scelte
edite e inedite

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Pagine scelte edite e inedite


AUTORE: Bertoni, Brenno
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:

CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Pagine scelte edite ed inedite : (1880-


1940) / di Brenno Bertoni. - Lugano ; Bellinzona :
Istituto Editoriale Ticinese, 1941. - XXVII, 465
p. : 1 ritr. ; 24 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 14 settembre 2016

INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa

2
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO: n. d.

DIGITALIZZAZIONE:
Paolo Alberti, [email protected]

REVISIONE:
Paolo Oliva, [email protected]

IMPAGINAZIONE:
Paolo Alberti, [email protected]

PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, [email protected]

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Il "progetto Manuzio" è una iniziativa
dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a
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3
Indice generale

INTRODUZIONE........................................................15
PREFAZIONE..............................................................17
CENNI BIOGRAFICI..................................................27
UN PROFILO DI BRENNO BERTONI......................31
OPERE DI BRENNO BERTONI.................................33
PARTE PRIMA.............................................................41
Ai giovani
(Prolusione)..............................................................41
I.
Sui compiti della gioventù ticinese
nella veniente legislazione....................................41
Progetto di una costituzione cantonale
per il Cantone Ticino............................................56
PARTE SECONDA......................................................86
Vita e coscienza ticinese
Tre letture ai docenti.................................................86
Piano e monte.......................................................86
Bosco e pascolo....................................................97
Educazione civica...............................................111
PARTE TERZA..........................................................125
Patria e cultura........................................................125
I.
Sul valore morale della Svizzera........................125
II.
Le convergenze culturali svizzere......................142

4
III.
Per il ritorno alle tradizioni.................................146
IV.
Saluto ai Confederati
di Sciaffusa, di Glarona e dei Grigioni...............150
V.
Per la difesa dello spirito svizzero......................154
VI.
La Svizzera come idea........................................157
VII.
La questione universitaria ticinese.....................163
PARTE QUARTA.......................................................175
Pedagogia e morale.................................................175
I.
L'indirizzo della scuola.......................................175
II.
Sull'insegnamento delle lingue morte.................178
III.
I lavori manuali...................................................185
IV.
L'insegnamento della storia................................188
V.
Studi storici e storia............................................191
PARTE QUINTA........................................................193
"Testimonia temporum"..........................................193
PARTE SESTA...........................................................211
Commemorazioni...................................................211
I.
Alfredo Pioda......................................................211
5
II.
Stefano Franscini quale uomo di stato................234
III.
Carlo Battaglini..................................................244
IV.
Romeo Manzoni.................................................251
V.
Roccabella..........................................................262
VI.
Un grande giurista morto
e una grande utopia viva.....................................274
VII.
Stefano Gabuzzi..................................................279
VIII.
Due età................................................................283
PARTE SETTIMA......................................................291
Leggende e memorie di Val di Blenio....................291
I.
IL PRIMO ABITATORE....................................291
II.
NON RINNEGARE LA VALLE........................292
III.
LA PROCESSIONE DI S. AMBROGIO...........293
IV.
L'ASINO CHE MAI FECE ASINERIE.............294
V.
L'USCIERE A CASSERIO................................295
VI.
IL «NERVOSO».................................................296
6
VII.
IL DOLOR SOMMO..........................................297
VIII
«AL MARTINA VECC» E LA TRINITÀ..........298
IX.
QUANTI ANNI AVETE?..................................299
X.
LA «MUSCIA»..................................................300
XI.
QUANDO VUOL MORIRE LA «MUSCIA»....301
XII.
LA SCORZA DI FRASSINO.............................302
XIII.
LE TRE COSE PIÙ IGNORANTI.....................304
PARTE OTTAVA........................................................306
Confessioni, episodi e ricordi.................................306
I.
Il primo passo.....................................................306
II.
La fin d'anno e l'anno nuovo
dei nostri vecchi..................................................310
III.
Segantini giovinetto............................................315
IV.
Dalla candela di sego al cinema.........................322
V.
Ricordi................................................................330
VI.
Episodi................................................................337
7
PARTE NONA............................................................346
Macchiette rusticane...............................................346
I.
GENTE DI CAMPAGNA..................................346
II.
QUELLA CHE SA FAR DI TUTTO..................348
III.
QUELLA CHE SPIEGA TUTTO.......................350
PARTE DECIMA.......................................................355
Politica....................................................................355
I.
Filosofia pratica e contorni politici.....................355
II.
Sette o nove?.......................................................363
III.
Per la riforma della Costituzione federale..........368
IV.
Le relazioni italo-svizzere
in un discorso dell'on. Mussolini........................387
V.
Sul nuovo trattato con l'Italia..............................390
VI.
Il Codice penale federale....................................397
VII.
La psicologia dell'esule e il diritto d'asilo...........407
VIII.
L'esperienza della proporzionale........................419
PARTE UNDECIMA..................................................423
Economia................................................................423
8
I.
L'imposizione dello schnaps...............................423
II.
La montagna fonte di ricchezza..........................429
III.
I bisogni del Ticino.............................................432
IV.
Il problema patriziale..........................................436
V.
I problemi del Mendrisiotto................................441
VI.
Per la pastorizia, per l'agricoltura
e per le popolazioni delle valli............................449
VII.
Lo spopolamento e l'emigrazione.......................458
VIII.
Registro fondiario
e raggruppamento dei terreni..............................463
IX.
Le mozioni Baumberger e Bertoni.....................471
X.
Divagazioni.........................................................479
XI.
Lettere paterne ad un emigrante lontano............488
PARTE DODICESIMA..............................................503
Storia.......................................................................503
I.
La leggenda del Tadeolo confermata..................503
II.
9
I Comuni del Medioevo
e in particolare i Comuni rustici.........................507
III.
Il Ducato.............................................................517
IV.
Le Signorie degli Svizzeri..................................524
V.
La Costituzione ticinese del 1830 ......................537
VI.
Prolusione ad un corso di storia ticinese............543
VII.
Blenio e gli Svizzeri...........................................551
VIII.
L'alleanza con la Francia
e il servizio mercenario.......................................569
IX.
La Rivoluzione francese e la Svizzera................575
X.
Il Cantone Ticino e l'Austria
negli anni 1854-55..............................................583
XI.
A proposito di società segrete nel Ticino............621
XII.
Mazzini e Gioberti..............................................627
PARTE TREDICESIMA............................................630
Pensieri...................................................................630
PARTE QUATTORDICESIMA.................................649
Poesia......................................................................649
Vocazione e.........................................................649
10
Vespero...............................................................655
Bolle di sapone...................................................657
Alpenglühen.......................................................659
Miraggio.............................................................661
Alla mia bambina...............................................663
Lago di Neuchàtel...............................................664
Impressioni di viaggio........................................665
Per un album.......................................................666
Per finire
Cenando al "Grand Hôtel„..................................668
PARTE QUINDICESIMA..........................................669
Epistole ai "giovani giovanissimi".........................669

11
Pagine scelte
edite ed inedite
(1880-1940)

di Brenno Bertoni

12
Il piano riguardante la pubblicazione di queste
Pagine scelte è stato sottoporlo al Consiglio
amministrativo della «Fondazione Schiller», il quale, su
relazione del dr. prof. Arminio Janner, ha deciso di
riconoscere, nell'assieme, i meriti letterari e culturali di
Brenno Bertoni assegnando al medesimo, per il 1941,
un premio d'onore.

———

La pubblicazione del presente volume è stata


appoggiata, con sussidi, dalla «Comunità di lavoro Pro
Helvetia» e dalla «Società scrittori svizzeri».

———

Hanno contribuito, al finanziamento della


pubblicazione, prenotando copie, il Dipartimento di
Pubblica Educazione, la Società «Amici dello
Educazione del Popolo» e il Comitato cantonale del
Partito liberale-radicale.

———

13
La pubblicazione di queste Pagine scelte avviene
sotto gli auspici di un Comitato di amici e di estimatori
dell'on. Bertoni, composto come segue: Presidente:
Antonio Galli, già Consigliere di Stato, Lugano;
Membri (ìn ordine alfabetico): Bontà Emilio,
professore, Calgari dr. Guido, direttore; Cattaneo avv.
cons. Francesco; De Filippis avv. prof. Alberto, sindaco
di Lugano; Gallacchi dr. Brenno, procuratore pubblico;
Jäggli dr. Mario, direttore; Janner dr. Arminio,
professore universitario; Madonna Gottardo,
segretario-capo di lingua italiana presso la Cancelleria
federale, e lettore di diritto; Pelloni prof. Ernesto,
direttore; Pini avv. cons. Aleardo; Rava avv. Emilio;
Sganzini dr. Silvio, professore.

———

L'edizione è stata preparata e curata dal presidente del


Gruppo di patronato on. Antonio Galli, il quale, per
alcune materie, ha avuto la collaborazione del dr. prof.
Guido Calgari.

14
INTRODUZIONE

Un gruppo di amici ha preso l'iniziativa di una


pubblicazione volta a ricordare quel poco o tanto che
nella vita politico-culturale ho saputo fare,
raccogliendo i fogli sparsi e ristampandoli in volume.
Dico la verità che l'idea mi ha fatto piacere. Ed ecco
il perchè: nel corso di tanti anni quanti ne corrono dal
principio della nostra Repubblica ticinese, si può dire
con coraggio che il nostro paese visse quasi sempre in
un clima agitato e di sfiducia: un clima di maldicenza
reciproca fra i partiti. Una reazione non può fare a
meno, ora, di essere salutare.
La pubblicazione può forse contribuire a diffondere
qualche buona idea ed a favorire l'attuazione di
qualche giusta e proficua riforma.
Può darsi che essa risulti oziosa, ma, anche in questo
caso, corre a me l'obbligo della riconoscenza per la
fatica alla quale gli amici si sono sottoposti: fatica che
non è lieve nè breve.
È il caso di dire, insieme, agli uomini d'ogni
corrente: curiamo le occasioni propizie dopo tanto
lavoro perduto a curare quelle cattive: cerchiamo,
insieme, di giovare al paese: procuriamo di favorire
sempre più la elevazione morale e civile del popolo:
incoraggiamo gli sforzi volti al bene!

15
Dr. Brenno Bertoni.
Da casa, 19 marzo 1941.

16
PREFAZIONE

Siamo lieti di presentare al pubblico ticinese e


confederato, raccolte in volume, le Pagine Scelte, edite
ed inedite, di Brenno Bertoni, delle quali si è
annunziata la stampa in occasione dell'80° genetliaco
dell'Autore.
Brenno Bertoni era più che degno dell'omaggio che
un gruppo di amici e di estimatori, e alcuni enti
educativi e di cultura, hanno voluto tributargli.
Le Pagine Scelte accolgono lavori preparati tra il
1880 e il 1940. A rigore i compilatori avrebbero potuto
comprendere, nel volume, articoli o studi redatti
durante un più lungo periodo di tempo. La cosa sarebbe
stata agevole poi che il Bertoni fu un precocissimo del
giornalismo (a diciotto anni, ed anche prima, inviava
già note ed articoli ai periodici del Cantone), e poi che
anche dopo gli ottant'anni ha continuato, sia pure a
intervalli, a collaborare a giornali e a riviste.
Una caratteristica della produzione bertoniana è
data dal fatto che l'Autore, durante i sessant'anni e più
di attività letteraria, ha sempre migliorato, di guisa che,
ciò ch'egli ha scritto in età molto avanzata, appare, non
solo per maturità di pensiero e prudenza nei giudizi, ma
anche per finitezza, per pregio di forma, per ricchezza
di elementi culturali, e talvolta anche per originalità di

17
ispirazione e di espressione, superiore a ciò ch'egli ha
pubblicato negli anni frettolosi della gioventù, e in
quelli dell'età matura, molto assorbiti dall'attività
professionale e dalle cure politico-parlamentari.
Il Bertoni si è definito, più volte, un «originale»;
originale nel senso che ha sempre stentato a seguire la
disciplina di partito, ed ha sempre desiderato ragionare
e giudicare da sè, agire secondo il suo personale
convincimento, sottrarsi alle condotte rigidamente
comandate, e, occorrendo, mettersi fuori delle opinioni
largamente diffuse e andare contro corrente.
Il Bertoni, in politica, è stato spesso considerato un
irrequieto, un instabile, un quasi irregolare: giudizio al
quale egli ha opposto che soli i pappagalli girano
sempre intorno al medesimo piuolo, e che l'uomo di
pensiero non deve essere schiavo delle formule e delle
frasi fatte, le quali troppo spesso vengono usate per
nascondere l'assenza di vere opinioni e insieme la
pigrizia intellettuale, ma deve saper leggere nella
storia, nei fatti e nella vita, saper raccogliere
impressioni ed elementi, vagliarli e valutarli, e giungere
poi a conclusioni in base alle quali regolare la propria
condotta nell'ordine morale e i propri atteggiamenti
nell'ordine civico, politico e sociale.
Il Bertoni, la cui vita di pensiero è stata un continuo
assorbire, elaborare e produrre, un continuo indagare e
riflettere, un continuo cercare la via per le ascese ideali
e per le soluzioni pratiche, un continuo trattare le
materie professionali per ragioni di esistenza, ma nel
18
contempo un continuo contatto spirituale coi filosofi e
con i moralisti, con gli economisti e coi giuristi, con gli
statisti e con gli storici, ha avuto diverse «costanti» di
pensiero e d'azione che lo fanno una delle figure più
tipiche e delle personalità più rappresentative e
interessanti del mondo politico e culturale ticinese
dell'ultimo secolo.
Rileviamo, tra le maggiori qualità personali del
Bertoni, lo spirito di indipendenza, la profonda
devozione alla cosa pubblica, la laboriosità e il
disinteresse: e tra le costanti di pensiero e di
orientamento, l'amore per le tradizioni e per la cultura,
l'inclinazione alle idee generali, la «religiosità
naturale», l'attaccamento alle idealità democratiche, il
rispetto per tutte le opinioni lealmente e nobilmente
professate, l'ardente desiderio di elevazione e di
progresso nell'ordine, nella giustizia, nell'equilibrio
delle varie forze e dei vari interessi.
Pochi uomini, come Brenno Bertoni, si sono
prodigati nell'arringo professionale, nella vita pubblica,
nel campo culturale e nell'opera di educazione civica e
politica del popolo, in ispecie degli elementi giovanili.
Avvocato, autore di opere scolastiche, commissario
d'esame, giornalista, conferenziere, magistrato,
professore, uomo politico, studioso di materie
filosofiche e morali, giuridiche, storiche ed economiche,
il Bertoni si è occupato di una infinità di materie e
d'argomenti dimostrando di possedere varia, vasta e
profonda cultura, e attitudini eminenti, da una parte
19
alla volgarizzazione, e dall'altra alle enunciazioni, alle
sintesi di storia e di arte, ai raffronti e alle astrazioni,
ai giudizi espressi in forma di massime e di aforismi.
Anche nelle pagine meno curate del Bertoni –
vogliamo dire in quelle buttate giù alla brava e che non
hanno conosciuto il lavoro di revisione e di politura – il
lettore avverte, facilmente, la esistenza di un pensiero
centrale, essenziale, che come il nòcciolo, e che,
volendo, potrebbe stare a sè: da ciò la chiarezza e il
pregio delle produzioni bertoniane, che, ad es., hanno
fatto dell'Autore uno dei giornalisti ticinesi più efficaci
e più letti dell'ultimo mezzo secolo.
Non tutto ciò che il Bertoni ha scritto può essere,
anche dagli uomini della corrente liberale di cui egli è
stato uno dei maggiori esponenti, approvato o
condiviso.
Il Bertoni, in politica, non ha mai fatto il capo
seguendo il metodo di assicurarsi, con le blandizie, il
consenso delle masse (ricordiamo, in proposito, la
dichiarazione di un uomo politico francese: «puisque je
suis votre chef... je dois vous suivre»); e neanche nel
senso di comandare, usando il sistema degli interventi
energici e del frequente richiamo agli statuti, ai
programmi e al sentimento di disciplina.
In politica il Bertoni non ha mai dimostrato di
possedere le qualità di organizzatore di gruppo o di
presidente di comitato men che meno, poi, egli è stato
uomo di intrigo, promotore di mosse capziose,
adoratore o laudatore di gerarchie.
20
Il Bertoni è stato un capo, sì, ma sui generis: un capo
un po' come lo è il pastore (l'immagine è rurale ma
s'intona, ci sembra, con quelle di alcune pagine
bertoniane che trattano con vivacità e largo impiego di
colore, la materia riguardante l'economia alpestre) il
quale tien d'occhio, sì, il pascolo ed il gregge, ma ama,
spesso, filosofare, e anche, talvolta, soffermarsi, o porsi
su una roccia, come sopra un plinto, allo scopo di
considerare le cose dall'alto e spingere lo sguardo il più
lontano possibile, e, come espressione del sentimento
poetico-estetico, oppure come avvertimento od ordine,
lanciare i suoi richiami.
Nella scelta dei lavori del Bertoni ci siamo attenuti a
una regola generale: omettere tutto ciò che poteva
presentare carattere politico-polemico di gruppo, e
includere, invece, ciò che è frutto di studi o di azione da
un punto di vista superiore alle contese dei partiti, nel
campo letterario e storico, giuridico e civico-
patriottico, con ispeciale riguardo ai lavori più meditati
e a quelli maggiormente notevoli per pregio di forma,
per importanza della materia che in essi è trattata,
oppure perchè costituenti testimonianze e documenti
egregi a chiarire e a spiegare gli stati d'animo di
elementi rappresentativi o di masse, e in genere gli
avvenimenti di un'epoca.
L'amore del Bertoni per i problemi che riguardano
l'economia rurale in genere, e la vita delle popolazioni
montane in ispecie, è sempre stato molto vivo. Non v'è
quasi discorso, articolo di giornale, studio storico o
21
politico del Bertoni nei quali non ricorra un accenno o
un pensiero ai problemi agricoli e forestali, al buon
governo degli alpi, agli interessi della pastorizia, alla
necessità di provvedere ai bisogni della emigrazione e
di alimentare convenientemente, con provvidenze
tecniche, morali ed economiche, la vita campagnuola e
le istituzioni comunali e vicinali.
Il Bertoni si è più volte definito un paesano
aristocratico: e con ciò indubbiamente ha voluto
significare un uomo avente le radici politiche e
culturali, le inclinazioni ed i gusti di certi «particolari»
campagnuoli di vecchio ceppo, nobilitati attraverso il
lavoro indipendente e le magistrature popolari,
attraverso lo studio e la pratica delle materie
economiche e politiche e insieme la quotidiana
meditazione, ai fini della elevazione spirituale, sul
grande libro della natura e della vita.
Quando il Bertoni tesse l'elogio dell'uomo alpino,
abituato a lottare contro le aspre difficoltà frapposte
dalla natura, e abituato a governarsi ed a governare,
oppure del piccolo commerciante valligiano che molto
ha imparato al contatto con le civiltà straniere, oppure
del comacino che ha eretto palazzi e cattedrali e poi è
tornato ad abbellire il villaggio dei maggiori, e con la
partecipazione attiva alle amministrazioni pubbliche ha
contribuito ad elevare il tono della vita patriziale e
comunale, egli tesse l'elogio del miglior ceto dirigente
delle campagne, a cui si onora di appartenere, per il
quale le cose valgono più delle parole, i fatti più della
22
rettorica e delle declamazioni, mirabile per equilibrio,
per sagacia, per facoltà di osservazione, per sicurezza
di valutazioni e di giudizi.
In tale caso l'elogio del Bertoni idealmente va anche
più lontano e si estende ad abbracciare i Ticinesi tutti
che hanno bellezza e chiarezza di tradizioni, i Ticinesi
che maggiormente hanno operato, nei secoli, per dare
consistenza alla economia e contenuto alla vita civile
del nostro popolo, che hanno presieduto, con
intelligenza e disinteresse, all'amministrazione delle
vecchie vicinanze e poi dei comuni, e che hanno
collaborato a formare il Cantone moderno, nel quadro
della famiglia confederale elvetica.
Alcuni altri motivi, che si possono considerare essi
pure costanti di pensiero e di orientamento spirituale,
ricorrono nelle pagine del Bertoni: e sono la condanna
del settarismo, la deplorazione per la soverchia facilità,
che si verifica da noi, di considerare e valutare le cose
del paese col metro e con i metodi raccomandati dalle
propagande estere o in uso all'estero, e la presa di
posizione, netta e decisa, per i valori locali, per il punto
di vista ticinese e svizzero come regola di condotta
politica, e contro certe teorie della forza, della razza e
dell'espansione le quali, se accolte, sconvolgerebbero le
basi della nostra più volte secolare democrazia e quelle
costituzionali e politiche della nostra Confederazione.
È detto, in Victor Hugo, dell'aiuto che i maggiori
porgono ai discendenti, o con l'esempio, o con gli
istradamenti, o col censo, perchè possano affrontare e
23
superare le difficoltà dell'esistenza. Le Pagine scelte del
Bertoni riusciranno indubbiamente care, come ricordi,
ai Ticinesi della generazione matura o che già è entrata
nella vecchiaia, ma molto diranno anche ai giovani e
particolarmente saranno utili ai «giovani giovanissimi»
i quali, nel crollo quasi generale dei valori, e nel
disorientamento (che si possono dire caratteristici della
nostra epoca) hanno bisogno non solo di appoggi
d'ordine materiale, ma anche e forse più di guide
spirituali. Siamo convinti, inoltre, che il Bertoni, con le
sue Pagine, parlerà anche alle generazioni venture alle
quali tramanderà i frutti del suo pensiero e della sua
esperienza, e, con accento suggestivo, instillerà l'amore
per le tradizioni e per la cultura, la devozione alla cosa
pubblica, l'attaccamento alla patria zolla.
Nelle Pagine di Brenno Bertoni è espressa, molte
volte, la condanna del settarisino e della faziosità. Il
medesimo pensiero ricorre anche negli scritti del
Fratello, specie nella prefazione di quest'ultimo alla
Revue scientifique suisse, pubblicata nel 1882, quando
il Dr. Mosè, non ancora venticinquenne, già carico di
famiglia e nella impossibilità, nel Ticino, di
guadagnarsi un tozzo di pane, era sul punto di passare i
mari (egli stava per scegliere tra la partenza per
l'Egitto, ove era chiamato a collaborare, in ricerche
archeologiche, dal Maspero, già celebre per i suoi
studi, o per Missiones, in Argentina, ove, ispirato dagli
insegnamenti di Reclus, di Bakunin e di Kropotkin, gli
sorrideva il disegno di fondare, con un gruppo di
24
concittadini di Blenio e di Riviera, una colonia agricola
comunista).
Molto vivo e riverente dimostra, il Bertoni, nelle
parole e negli scritti, di conservare il ricordo della
Madre, emigrata con Mosè, figura di donna superiore
per doti di mente e per forza d'animo, divenuta
collaboratrice del figlio scienziato non solo nell'opera
di sperimentazione agricola ordinata nell'alto Paranà,
sui margini delle foreste vergini, ma anche in alcune
cure d'insegnamento presso la scuola superiore di
agricoltura di Asuncion del Padre, di cui possiede i testi
delle prediche tenute ad Anzano in Val Malvaglia e a
Corzoneso, quand'era sacerdote in pastorazione, e di
cui, rammemora il fervido contributo dato alla causa
del Risorgimento italiano e la parte di primo ordine
avuta nell'arringo giuridico e politico e nello studio dei
problemi agricoli e ferroviari del Ticino; e infine del
Fratello, il grande Mosè, umanista e naturalista,
sociologo e filosofo, figura di capo tribù (Mosè fu padre
di tredici figli ed ebbe, compresi gli abbiatici,
cinquantaquattro o cinquantacinque discendenti), di
legislatore, quasi di profeta biblico, il cui nonne brilla
tra i più gloriosi della patria elvetica: ricordi, pensieri
e venerazioni, quelli in cui vive o quelle che nutre il
Bertoni, che dànno una idea dell'ambiente spirituale in
cui è cresciuto e del clima interiore in cui trascorre gli
anni della vecchiaia.
Diciamo a Brenno Bertoni, che da alcune settimane è
entrato nell'82° anno d'età, la parola della deferenza e
25
dell'affetto: e insieme esprimiamo il sentimento di
gratitudine per l'opera di pensiero e di educazione da
lui svolta durante la sua lunga e laboriosa esistenza,
sentimento che, ne' riguardi dell'egregio Uomo,
all'infuori di ciò che possono essere i ricordi dei
contrasti politici del passato, è generale nel paese.
Antonio Galli.

26
CENNI BIOGRAFICI

Nato a Lottigna il 7 agosto 1860 da Ambrogio


Bertoni, avvocato e notaio, e da Giuseppina Torriani,
nata a Milano e appartenente a famiglia patrizia di Torre
in val di Blenio.
Fece gli studi secondari a Bellinzona e a Lugano, e
gli studi universitari di leggi a Ginevra.
Presidente, a Ginevra, di un gruppo goliardico
libertario.
Avvocato nel 1883.
Redattore dell'Educatore della Svizzera italiana negli
anni 1887-1888.
Fondatore del quotidiano politico La Riforma nel
1889, redattore del medesimo giornale fino al 1893 e
poi collaboratore ordinario fino al 1898.
Nel 1890 prende l'iniziativa per la revisione della
Costituzione cantonale (9.983 firme). Sopravviene la
Rivoluzione dell'11 settembre. Seguono le Costituenti
del 1891-1892 alle quali non fu candidato.
Implicato nel processo di Zurigo per i fatti dell'11
settembre 1890, e assolto, insieme agli altri imputati,
eccetto il Castioni che venne condannato in contumacia.
Giudice di appello dal 1893 al 1901 e presidente della
Camera criminale dal 1895 al 1901.

27
Deputato al Gran Consiglio nel 1901, e rieletto a più
riprese, ma a periodi intermittenti: tre volte presidente
del Consiglio medesimo. Deputato al Consiglio
Nazionale dal 1914 al 1920 e deputato al Consiglio
degli Stati dal 1920 al 1936.
Membro delle principali commissioni delle Camere
federali, in ispecie di quelle incaricate di riferire sui
disegni più importanti di riforme legislative e
costituzionali.
Incaricato di preparare il progetto di una riforma della
procedura civile, pubblica il testo degli studi preliminari
(Repertorio di giurisprudenza patria), allestisce un
primo disegno di riforma basato sopra la facoltà
indagatoria dei giudici, progetto che non viene
accettato, e poi il codice vigente, basato sulle direttive
fissate dalla Commissione dei periti, adottato nel 1899.
Membro della Commissione dei periti per la
elaborazione del C.C.S.
Membro della Commissione dei periti incaricata di
elaborare il disegno di riforma del C.F.O. (dal titolo
XXIV al titolo XXXIII).
Incaricato dal Dipartimento cantonale della P. E, di
curare la edizione dei libri di lettura e di preparare i testi
di civica per le scuole.
Membro delle Commissioni di vigilanza e d'esame,
nel periodo tra il 1893 e il 1900, per il Liceo e le Scuole
normali.
Dottore honoris causa dell'Università di Zurigo.

28
Professore di diritto all'Università di Berna dal 1921
al 1928. Autore di un progetto di riforma della
Costituzione ticinese, e membro della Costituente del
1921.
Membro, per molti anni, del Consiglio
amministrativo della Fondazione Schiller.
Fondatore e membro della Federazione dei patriziati e
poi dell'Alleanza patriziale ticinese.
Collaboratore, tra il 1878 e il 1884, del Gottardo,
sotto lo pseudonimo di Cleobolo.
Collaboratore con articoli, novelle e poesie,
dell'Educatore, dal 1884 al 1888, sotto gli pseudonimi
di Camillo e Solitario.
Collaboratore della Rivista Patria e Progresso tra il
1887 e il 1889. Collaboratore della Vespa tra il 1884 e il
1888.
Collaboratore del supplemento domenicale della
Riforma, tra il 1889 e il 1893, con articoli e poesie a
firma Camillo.
Collaboratore del Dovere per oltre quarant'anni.
Collaboratore, nel 1898, della Piccola rivista ticinese
fondata e diretta da Francesco Chiesa.
Collaboratore dell'Azione dal 1906 al 1911,
dell'Azione radicale dal 1917 al 1919, della Gazzetta
Ticinese, e, di tanto in tanto, per materie storiche e
letterarie, del Corriere del Ticino.
Collaboratore del Repertorio di Giurisprudenza
patria, del Calendario delle Camere federali, e del
Ticino, organo della «Pro Ticino».
29
Redattore, nel 1892, dell'Helvetia, bollettino
bimestrale della Società degli studenti Helvetia Ticinese,
e collaboratore del medesimo bollettino dal 1893 al
1901.
Collaboratore di giornali e riviste di oltre Gottardo, e
di molti numeri d'occasione pubblicati da Società
goliardiche, da colonie ticinesi, da società politiche e di
tiro, da comitati patriottici, ecc.
Presidente della Commissione incaricata di preparare
l'Antologia: Scrittori della Svizzera italiana, e autore
della introduzione (Scrittori e oratori politici) al secondo
volume della stessa.
Giureconsulto, giornalista, autore di importanti studi
di carattere legislativo, storico, economico e politico.
Promotore e animatore del progresso culturale, civile,
morale, economico del paese.

30
UN PROFILO DI BRENNO BERTONI

(Da «Le confessioni di un visionario» di Alfredo


Pioda, «narrazione socratica del processo di Zurigo per i
fatti dell'11 settembre 1890»):

«...Ecco il direttore del giornale liberale che esce in


Bellinzona: un viso lungo, una fronte alta e stretta, un
naso bizzarro, uno sguardo fine e un risolino un po'
freddo, che, a volte, per altro, diventa schietto e
spensierato, gli dànno l'aria un che del Mefistofele, da
cui trapela l'artista che, come voi sapete, non può mai
essere cattivo.
Acuto maestro in polemica: parole a volte taglienti
come un rasoio, spesso di una ironia efficacissima, e,
quando la mente si eleva a serene contemplazioni e
l'animo è investito dall'impeto lirico, scultoree,
aristocratiche nella prosa e più nel verso.
Egli è una natura ricca, e non sapete sempre con chi
parlate, se col giornalista, col poeta, con l'avvocato o
che so io. Quando però avete imbroccato uno di questi
individui, la conversazione è piacevolissima, copiosa di
osservazioni e di trovate originali.
Deve avere momenti di paturnia singolare, e mi duole
di non essere sua moglie, per non conoscerlo anche da
questo lato, dacchè al rasserenarsi dell'anima si devono

31
rivelare certi gentili sentimenti reconditi, certi slanci
fanciulleschi in quel primo chiarore, come spiccano
meglio i fiori sotto la rugiada del mattino.
Nell'azione, di una nervosa energia, nella reazione,
di una coraggiosa avventatezza, spende nell'una e
nell'altra tutto l'animo suo, e così arriva al termine
emunto di forze; ciò che lo fa procedere a scatti, come
le lucertole.
Chi non lo considera che nel combattimento, dove
naturalmente alcune sue qualità e abitudini non
appariscono che in iscorcio, può facilmente riuscire a
un giudizio inadeguato di lui, lo può giudicare piuttosto
un Siva che un Vishnù. Ma chi lo considera altresì nello
studio positivo e accurato di molte questioni pratiche
da lui impreso e condotto felicemente a fine, non che
nella sua attività letteraria, pur troppo ancora come per
incidenza, vi riconosce l'uomo che potrà prestar buoni
servizi al paese, anche quando un giorno più sereno
sorgerà sui nostri monti».
Alfredo Pioda.

32
OPERE DI BRENNO BERTONI

Alcuni appunti al nuovo Codice civile ticinese (1883).


– Studio pubblicato nel «Repertorio di giurisprudenza
patria», e poi in estratto.
Ancora alcuni appunti al Codice civile ticinese
(1883). – Studio pure apparso nel «Repertorio» e poi in
estratto1.
Sull'insegnamento delle lingue morte (lungo articolo
uscito nella Revue scientifique del 1882, e in seguito
pubblicato in opuscolo).
Sulla riforma dell'insegnamento primario (1888),
conferenza tenuta a Bellinzona (pubblicata in opuscolo).

1 Il Codice del 1883 – così il Bertoni in alcune note


autobibliografiche inedite – «era un adattamento del vecchio C.C.
del 1837, al nuovo C.F.O. entrato in vigore nel 1882 mentre io
stavo facendo la mia pratica d'avvocato, presso mio padre, a
Lottigna. Il Tribunale di Blenio faceva allora cinque o sei
sentenze all'anno; mi concedeva allora il tempo per lo studio
teorico; feci, per il "Repertorio" (1883) una serie di osservazioni
critiche su quell'adattamento che era riuscito alquanto affrettato...
L'opuscolo fu seguito da un'appendice: Ancora alcuni appunti,
ecc. Questa seconda critica era assai più acerba nella forma. Era
appena apparsa nel "Repertorio" quando io mi presentai a fare i
miei esami di Stato per ottenere la patente d'avvocato...».

33
Della pubblica assistenza nel Cantone Ticino,
considerazioni economiche, giuridiche e statistiche in
rapporto alle particolari condizioni del Cantone, seguite
da un progetto di legge (memoria premiata per concorso
dalla Società «Amici della educazione del popolo» e di
Utilità pubblica), pubblicate in volume dagli Eredi C.
Colombi, di Bellinzona, nel 1894.
Fiori alpini, versi, con prefazione di Alfredo Pioda
(Eredi Carlo Colombi, Bellinzona, 1892).
Memoria circa le riforme essenziali della procedura
civile (lettera al dr. Luigi Colombi, Consigliere di Stato,
Direttore del Dipartimento di Giustizia). – Tip. Lit.
Cant., Bellnzona, 1894. Opuscolo di circa 80 pagine di
stampa, con tabelle e dati statistici.
Relazione della Commissione d'inchiesta sulle cause
dei conflitto fra le Autorità forestali e le corporazioni
patriziali. Memoria al Consiglio di Stato. – (Avv.
Brenno Bertoni, relatore, ing. Gustavo Branca Masa,
avv. Silvio Pozzi).
Cenni intorno alla stampa dei giornali nel Canton
Ticino lungo studio preparato in collaborazione con
Luigi Colombi su materiali in parte forniti da Emilio
Motta, redatto da Brenno Bertoni e pubblicato in Die
Schweizer Presse (1897).
Influenze italiane sulla stampa ticinese (pubblicato in
Die Schweizer Presse nel 1933, e poi in opuscolo).

34
Edizione in deposito presso la Carlo Colombi,
Bellinzona.
Strenna poetica ticinese (due volumi con prefazioni
di Brenno Bertoni e copertina di Pietro Chiesa,
pubblicati nel 1897-98), Tip. Eredi Colombi,
Bellinzona.
La questione aduliana nel quadro del nazionalismo
moderno (opuscolo pubblicato nel 1932. – Istituto
editoriale ticinese, Lugano-Bellinzona).
Sulle relazioni italo-svizzere (conferenza tenuta a
Lugano nel 1912, sotto gli auspici della Società svizzera
dei Commercianti; esiste la pubblicazione in opuscolo –
Soc. Arti grafiche Veladini, 1913).
Cenni storici sulla Valle di Blenio (conferenza tenuta
al popolo bleniese – nel 1900 – in occasione del 4°
centenario dell'annessione di Blenio alla Svizzera. –
Bellinzona, Tip. El. Em. Colombi e C., 1901.
Scrittori e oratori politici ticinesi (introduzione al II
volume dell'Antologia: Scrittori della Svizzera italiana).
– Istituto editoriale ticinese – Bellinzona – 1936 (v.
Cenni biografici).
Le istituzioni svizzere nel diritto pubblico e privato
(in 2 vol. – 1903 – Soc. Unione Tipografica Editrice,
Torino). Il primo volume (di 306 pagine) è opera di
Brenno Bertoni; il secondo, di Angiolo Oliviero
Olivetti.

35
Dal Generoso all'Adula, con prefazione di Giuseppe
Motta, saggio di economia alpestre, Bellinzona, Istituto
editoriale Ticinese, 1932.
Il problema economico e morale del villaggio
ticinese (conferenza detta a Breno, nel 1926, in
commemorazione di Oreste Gallacchi).
Commemorazioni di Alfredo Pioda e Carlo Battaglini
(pubblicate in opuscolo), di Rinaldo Simen e di
Demetrio Camuzzi.
Il Cantone Ticino e l'Austria negli anni 1854 e 1855
(prefazione al volume di Eligio Pometta dello stesso
titolo).
La procedura tributaria ticinese (prefazione al
volume dell'avvocato Amilcare Remonda, del medesimo
titolo).
Stefano Franscini, uomo di Stato (conferenza tenuta a
Bellinzona nel 1937, in occasione delle feste centenarie
della Società Demopedeutica).
I compiti della gioventù nella veniente legislazione
(prolusione tenuta all'Università di Berna nel 1921).
Progetto di nuova Costituzione per il Cantone Ticino,
preparato nel 1903 (v. Bertoni e Olivetti, Istituzioni
svizzere), e presentato alla Costituente ticinese del 1921.
La morale del libero pensiero (conferenza tenuta a
Malvaglia nel 1908), Opuscolo.

36
Un poco di questione agraria (lettera pubblica al
prof. O. Rosselli).
Un'apologia sbagliata (lettera all'avv. Angelo
Tarchini, a proposito di un libro su G. Respini).
Un libro rivelatore: Margherita Gerber-Blumer:
Topografia, corografie e iconografie del Ticino.
(Estratto dall'Educatore – Tip. Luganese Sanvito e C. –
1924).
Vita e coscienza ticinese, Tre conferenze tenute ai
docenti nel 1932
La Costituzione del 1930 (studio storico-politico;
incompleto e inedito).
Storia del Cantone Ticino (alcuni capitoli sono
redatti; altri sono abbozzati; di altri ancora esiste solo
qualche nota; il tutto è inedito).

OPERE GIURIDICHE
Progetto di procedura civile del 1899.
Progetto di legge sui raggruppamenti dei terreni del
1900.
Progetto di legge sui Consigli comunali del 1900.
Legge organica-giudiziaria del 1910 (membro della
Commissione con Achille Borella e Giuseppe Motta, e
relatore).

37
Leggi d'applicazione del C.C.S. del 1912 (relatore
della Commissione dei periti composta di Achille
Borella, Giuseppe Motta e Brenno Bertoni).
De l'acte authentique en droit civil suisse (co-rapport
présenté à la Société suisse des Juristes) – 1921.
La protezione dei minorenni nella nuova legislazione
svizzera (conferenza tenuta al Circolo «Pro Cultura» di
Como nel 1908, pubblicata nella «Rivista italiana di
sociologia» di Roma – fascicolo maggio-agosto
dell'anno 1909 – e poi uscita in estratto per cura della
medesima Rivista).
Progetto di legge sulla economia alpestre (1934)
Traduzione, in collaborazione con Curzio Curti e
Stefano Gabuzzi, del Codice civile svizzero.
Traduzione di parecchie importanti leggi federali.

LIBRI SCOLASTICI
Manuale di istruzione civica per le scuole secondarie
(traduzione e adattamento del volume: Manuel
d'instruction civique di Numa Droz) se ne fecero, tra il
1895 e gli ultimi anni, sei o sette edizioni, prima da
Colombi, poi da Salvioni.
Sandrino, libro di lettura per le scuole (adattamento
dei quattro volumi di Giov. B. Cipani, del medesimo
titolo) – 1894-1895, Colombi, Bellinzona, edizione
unica.

38
Lezioncine di civica per le scuole ticinesi, sei o sette
edizioni, per cura prima di Colombi, poi di Salvioni.
Frassineto, lezioni di civica, con illustrazioni di A.
Crivelli, Istituto editoriale ticinese, Bellinzona e
Lugano, 1938.

OPERE INEDITE
Abbozzi e note per una Storia del Cantone Ticino e
per uno studio sulla Costituzione del 1830.

***
Ricordiamo, tra le pubblicazioni giornalistiche del
Bertoni:
gli articoli su Froebel e Pestalozzi, sull'educazione
professionale (orti scolastici, lavori manuali, tirocinio
operaio, ecc.), su Spencer e l'educazione sociologica, su
Il regolamento e il programma delle Scuole primarie,
sull'indirizzo della Scuola normale e del Dip. di P. E. e
sul miglioramento degli onorari ai docenti, pubblicati
nell'Educatore tra il 1885 e il 1888 (questi ultimi
continuati poi nella Riforma e nel Dovere);
gli articoli sull'istruzione civica e patriottica
pubblicati in varia epoca nella stampa del Cantone;
gli articoli sulla questione scolastica (insegnamento
scientifico, insegnamento agricolo, sulla Scuola nuova e
sulla riforma delle scuole cantonali superiori) pubblicati
nella Riforma tra il 1892 e il 1893);

39
gli articoli Per la istituzione di una Scuola federale di
Belle Arti pubblicati nel Dovere del 1887;
il corso di conferenze per i maestri (Piano e monte,
Bosco e pascolo, Educazione civica) tenuto nel 1932,
apparso nel Dovere del medesimo anno, e raccolto in
opuscolo nel 1933;
gli articoli apparsi nel Cantone e negli Annali
universitari svizzeri sulla Questione universitaria
ticinese, in varia epoca, specie dal 1920 innanzi;
i discorsi e gli articoli concernenti i sussidi a scopo di
coltura per il Ticino, tenuti o pubblicati specie negli anni
dal 1927 al 1930 (v. giornali del Cantone e rendiconti
del Dipartimento di P. E.);
le Lettere dal deserto (una decina), riguardanti
l'indirizzo delle scuole del Cantone, pubblicate nel 1900
nel quotidiano liberale Il Dovere. (Al dibattito
parteciparono Romeo Manzoni con le sue Lettere dalla
montagna, Alfredo Pioda con le Lettere dal piano e il
prof. Martino Giorgetti con le Lettere dalla palude);
gli articoli di politica, di economia, di storia e di
materie varie pubblicati nei giornali (specie nella
Riforma dal 1889 al 1898 e nel Dovere), e i discorsi
tenuti alle Camere federali dal 1914 al 1936 (v.
Bollettino stenografico del Consiglio Nazionale e del
Consiglio degli Stati) in buona parte apparsi nel Dovere.

40
PARTE PRIMA

Ai giovani
(Prolusione)

I.
Sui compiti della gioventù ticinese
nella veniente legislazione2

Guarda il calor del sol che si fa vino


Giunto all'umor che dalla vite cola.
Dante. Purg. XXV. 77
I.
Mentre l'Europa dolorante d'espiazione s'appresta alla
revisione d'ogni suo valore morale ricostruendo un
nuovo assetto politico; mentre la Svizzera sente venire,
2 Prolusione del prof. dr. Brenno Bertoni al Corso di «diritto
ticinese» all'Università di Berna, detta l'11 giugno 1921 (Lugano,
Tipografia Luganese Sanvito e Ci. – 1921). Il Bertoni tenne la
cattedra di Berna dal 1921 al 1928.

41
inquieta, una di quelle profonde crisi che la
travagliarono ogni qualvolta fu scosso l'ordine morale
d'Europa; mentre tutto ci avverte della legge connaturata
ad ogni organismo: «O rinnovarsi o perire», non sia
detto che la gioventù ticinese si stia moralmente inerte e
s'apparti dai grandi doveri dell'umanità, come «l'anime
tristi di coloro – che visser senz'infamia e senza lode».
Una Costituente è convocata3.
Come sia nata già lo disse uno spirito solerte. Non
ondata rivoluzionaria, non impeto di passioni, non
fervore d'apostolato la generò. Logicamente essa non
può giustificarsi che da un bisogno radicato nella
profondità del subcosciente di procedere, dopo
novant'anni dalla memorabile riforma del trenta, ad un
bilancio di revisione nel quale i problemi ed i valori
della nostra vita pubblica fossero di nuovo affacciati ed
esaminati nel loro complesso, non a sbrendoli, dall'alto e
non dal basso, fornendo occasione ai partiti storici,
(ch'io amo chiamare partiti naturali), di ritrovare la loro
giusta direttiva, in conformità della loro natural
funzione.
È possibile che la Costituente, come opinano i
pessimisti, non riesca a verun risultato di diritto positivo
e cioè che la sua opera non incontri il suffragio
popolare, o che per ottenerlo sacrifichi se stessa alla
mediocrità.

3 L'Autore allude alla Costituente ticinese del 1921.

42
Ma se anche non ad altro arrivasse che ad un testo
unico ed organico, il quale fornisse al popolo l'idea
esatta della Costituzione e l'esatta nozione
dell'organamento e dei compiti dello Stato, questo già
sarebbe, di fronte all'attuale caotico conglomerato di
testi contradditori, un risultato ed un mezzo di politica
educazione.
D'altronde, se il risultato sarà modesto nelle sue
conseguenze immediate, od anche nullo, la Costituente
avrà avuto un grande valore morale se avrà servito ad
eliminare dalle aspirazioni dei partiti ciò di cui avrà
dimostrato la pratica impossibilità e se servirà a meglio
illuminare la gioventù sopra le sue direttive future. In
questo senso se la Costituente non sarà un punto d'arrivo
sarà un punto di partenza.
Vi sono nella nostra vita pubblica molte eredità del
passato che occorre liquidare, molti equivoci che
occorre dissipare, molte frasi fatte che non hanno più
contenuto.
Una larga ed elevata discussione servirà, se non al
presente, all'avvenire. Ad un popolo non si noverano gli
anni. Noi abbiamo oggi una gioventù promettente.
Meglio istruita di quella dei miei tempi, essa ha assistito
al più tremendo dramma della storia, essa arriva in un
momento di pericolo per le sorti della patria, minacciate
dalla rivoluzione sociale, in un momento d'angoscia per
le sorti stesse della civiltà europea, insidiata da una
rinnovata barbarie dall'oriente e dalla schiavitù
economica d'occidente, e questa gioventù può trovare
43
nella Costituente il terreno della sua azione futura; un
terreno sul quale discenda dalle nuvole dell'astrazione
senza tuttavia infangarsi nella mota di quei pettegolezzi
nei quali fatalmente scivola la vita politica di una
democrazia quando le manchi l'afflato delle grandi idee.
Ed invero, riesca l'opera della Costituente o meno,
rimarranno i compiti legislativi che la nuova
generazione dovrà risolvere. Presi nel loro complesso
questi investono tutta la materia del diritto pubblico,
privato ed amministrativo in quanto non sia compito
della Confederazione: ed anche nel campo federale il
Cantone Ticino ha la sua parola da dire: non solo in
quanto Cantone, ma in quanto elemento etnico e
colturale della Svizzera. Ora questi compiti sono
divenuti in questo dopoguerra più grevi che mai, poichè
mai, dalla rivoluzione francese in poi la Svizzera,
l'Europa, il Mondo si trovarono di fronte a più
formidabili problemi, mai a sì misteriose incognite.
Noi vecchi che abbiamo, bene o male, sostenuto la
nostra parte nell'opera sociale dobbiamo grado grado
rimetterne la cura ai venienti. Occorre allora che la
novella generazione senta tutto il peso della sua
responsabilità e s'investa della grandezza e della
bellezza del suo compito. Non umili tempi attendono
voi, o giovani, ma ore magnifiche, ore tragiche forse!

44
II.
Per accingersi a tanta impresa conviene prendere le
cose dall'alto. Convien risalire ai principii generali, ai
fattori psichici e storici della nostra coscienza politica,
dei nostri partiti politici. Tutti sentono il bisogno della
collaborazione: ma la collaborazione non è possibile
senza reciproca comprensione. Alla generazione cui
appartengo questa comprensione reciproca è mancata
troppo sovente, non tanto per eccesso di passione
quanto per difetto di studio. Ognuno di noi fu discepolo
di una dottrina esclusivista e dogmatica la quale
considerava l'avversario politico come un nemico della
società, la sua dottrina come incompatibile con l'ordine
sociale. Ma questo modo di vedere era falso.
L'opera sociale di una democrazia, la profilassi di una
repubblica esigono che i partiti sieno considerati per
quello che realmente sono secondo l'esperienza di tutti i
paesi e di tutti i tempi, e cioè come fenomeni naturali,
come apparizioni sociali la cui generalità e la cui
persistenza li giustifica come necessari ed inevitabili.
Ora ciò che la natura ha creato come cosa costante non
può non essere conforme alla legge di conservazione nè
alla legge di evoluzione.
La tendenza rappresentata dal nostro avversario
politico è dunque necessaria al pari della nostra.
L'evoluzione, il progresso non si possono compiere
senza il concorso d'entrambe.

45
Come il mondo cosmico si regge per virtù di
equilibrio fra le forze statiche e le dinamiche, fra le
forze centrifughe e le centripete, così nella vita
spirituale dell'individuo umano ogni condotta è il
risultato di una ponderazione, cioè ancora di un
equilibrio, tra il pro ed il contro di ogni azione volitiva.
Non altrimenti avviene e deve avvenire nel corpo
sociale, nell'Assemblea politica. Anche qui esistono
impulsi e prudenze, ardimenti e timori, contrasti fra le
ragioni dell'essere e quelle del divenire, tradizioni
storiche ed aspirazioni verso il rinnovamento. Una
repubblica che non racchiudesse in sè queste vigorie
cozzanti sarebbe come un'automobile che mancasse di
motore o di freno. Nel primo caso rimarrebbe risibile
istrumento, nel secondo caso precipiterebbe alla
catastrofe al primo declivio.
Ponga mente la gioventù a questo «fondamento che
natura pone» ed imparerà a stimare il proprio
avversario, senza cessare di essere suo avversario, ed a
collaborare con esso.
Senza cessare di essere suo avversario, dico, perchè il
funzionamento di questo meccanismo etico esige la più
grande sincerità. Ciascuno scelga la sua funzione
secondo che la natura «dentro gli va significando», ma
se mancasse di sincerità nell'opera sua, nel suo
atteggiamento, se seguisse le vie torte e le traverse,
invece che la via dritta, tradirebbe il proprio dovere. Ciò
che avverrà, sia detto a onore del vero, più

46
frequentemente per leggerezza e dilettantismo che per
voluta malvagità.
III.
La vita politica delle terre ticinesi come stato libero
ed autonomo comincia con l'Atto di Mediazione.
Fin dai primi tempi il Cantone Ticino fu travagliato
da crisi politiche profonde determinate da due fattori: la
tradizione guelfa e conservatrice, l'impulso filosofico e
dinamico.
Le terre ticinesi dovevano le loro secolari franchige,
la loro relativa indipendenza, la loro esperienza
democratica all'opera guelfa, potentemente aiutata dalle
organizzazioni chiesastiche, ma il Cantone come tale
andò debitore della sua libertà politica e della stessa sua
formazione ad un impulso novatore e filosofico, cioè
alla Rivoluzione francese per cui caddero i baliaggi, alla
mediazione del Primo Console che ricostituì l'ordine nel
caos giacobino dell'«Elvetica». Il contrasto fra questi
due fattori è già manifesto e assoluto durante gli anni di
gestazione, dal 1799 al 1802 – e non ha mai cessato per
un giorno solo fino ad oggi. È da esso che si
determinarono le tendenze dei due partiti storici nelle
questioni più fondamentali: i rapporti dell'individuo con
lo Stato, i rapporti dello Stato con la Chiesa, quelli
dell'uno e dell'altro con la scuola. Sarebbe immagine
troppo grossolana il dire che la tradizione guelfa e
democratica ha fornito la materia prima del nuovo Stato

47
e che la dottrina filosofica le diede la forma e la vita.
Certo è che senza la tradizione guelfa il Cantone non
avrebbe potuto salvarsi nel 1810 quando il Bonaparte lo
voleva aggregare al Regno d'Italia, nè senza lo spirito
liberale avrebbe potuto resistere all'opera dissolvente
della Ristaurazione dal 1814 al 1830.
Tosto dopo questo periodo, ma più chiaramente dal
1837, s'accentua il dissidio fra la Chiesa e lo Stato,
culmina nella secolarizzazione dei conventi, nella
statizzazione dell'insegnamento, e nella legge
giuseppinista del 1855 per poi sedarsi nelle Convenzioni
del 1886.
In questi litigi le forze contrastanti sono, «a voler dire
lo vero», perfettamente legittimate in causa. Entrambe
perseguono uno scopo ideale, ossia il bene della
collettività. Non era colpa degli uomini se vedevano le
cose da punti di vista assai lontani. Il contrasto stava
nella natura intima delle cose e la distanza non
l'avevano creata loro.
Nocquero però al naturale svolgimento delle cose due
fattori estranei. Da una parte il clero ticinese non poteva
sottrarsi alla influenza dell'ambiente italiano dove si era
formato, ed in Italia da Napoleone in poi era cominciato
e sempre più si acutizzava l'insanabile conflitto del
potere temporale, che poneva di fronte come nemici
l'idea statale e l'idea religiosa. Nel Ticino per
ripercussione la formazione statale incontrò nel clero
una prevenzione che negli altri cantoni cattolici non
esisteva od in molto minor grado. Dall'altra parte gli
48
zelatori dello Stato furono alla loro volta influenzati
dallo spirito giacobino, e se con la legislazione non si
dipartirono dalla libertà dei culti più di quanto
richiedessero le circostanze, nella loro propaganda
privata, specie negli ultimi tempi, si ispirarono ad idee e
ad esempi affatto inattuabili nel Cantone, od almeno
inopportuni, come già era successo ai tempi della
Repubblica una ed indivisibile.
È da queste influenze eterogenee che le lotte politiche
furono particolarmente inciprignite. Ma dovrebbe
bastare la conoscenza del male per trovarne il rimedio.
Accanto a questi motivi di dissensi altri apparvero
sporadicamente a proposito dell'organizzazione interna
dello Stato: il particolarismo guelfo da una parte,
l'uniformismo giacobino dall'altra. Qui come altrove
successe talvolta che il guelfo combattesse con armi
giacobine, o viceversa, ciò che non cambia alla natura
delle cose; ciò prova soltanto che talvolta gli uomini
non si rendono esatto conto dell'origine delle loro idee.
Se la conoscessero, sarebbero più rispettosi dell'idea
altrui.
IV.
Bisogna ora avvertire che in tutti questi conflitti di
tendenze, è proprio dei popoli forti il saperne accettare
ad un dato punto i risultamenti, cosicchè uno stato di
fatto che in origine è stato imposto da una maggioranza
ad una minoranza è finalmente accettato nel senso che si

49
rinuncia a discutere del passato per provvedere
all'avvenire. Tutta la formazione del diritto pubblico
romano è una serie di transazioni alla fine di una lotta. È
invece carattere sicuro di debolezza e sintomo
d'impotenza quando le fazioni perpetuano all'infinito le
medesime contese e rimettono di continuo in
discussione le controversie già risolte. Attardarsi nelle
ore dell'azione a discutere ciò che si sarebbe dovuto fare
è mostrare inettitudine al fare. Rinfacciarsi all'infinito
gli errori (veri o supposti) del passato sarà prova di
sentimento, ma è prova di mancanza di idee.
Le quali cose considerando la gioventù eviterà di
indugiarsi alle cose morte per porre mano alle vive.
V.
Se ora ci facciamo a considerare le vecchie
controversie con criteri moderni noi troviamo che i
cattolici ticinesi non accampano alcuna rivendicazione
contro lo Stato e lo Stato non pretende più nulla dalla
Chiesa. Il principio della Chiesa di Stato è morto.
L'assetto diocesano esula dalla sovranità cantonale.
Appena rantola ancora nei comuni qualche strascico di
contesa circa le spese di culto. Unico ostacolo serio ad
un accordo definitivo rimane la questione del
catechismo nelle scuole.
Negli altri cantoni essa è una questione praticamente
risolta. Si ammette da una parte essere l'insegnamento
religioso nelle scuole una tradizione troppo antica e

50
radicata perchè si possa divellere con un semplice
sillogismo logico. D'altra parte tale insegnamento è
perlopiù ridotto alla «Storia sacra» come quella ch'è
comune alle due confessioni principali e che interessa
conoscere anche all'incredulo. La Costituzione federale
provvede a che nessuno sia obbligato di sentire questo
insegnamento se non corrisponde alla propria credenza.
Non molto diverse sono le soluzioni accettate in altri
Stati esteri. Ciò che vi è di particolare fra noi, è che
l'insegnamento sia dato non dal maestro, ma dal prete,
misura che si vorrebbe giustificare dalla libertà di
coscienza del maestro stesso.
Sul terreno della pratica però molti dubitano della
efficacia religiosa di questo insegnamento e si chiedono
se non sia di pregiudizio a quello che l'ecclesiastico
potrebbe efficacemente dare in chiesa. Ond'è che se noi
indaghiamo il fondo delle cose noi troviamo che tale ora
di catechismo serve piuttosto di insegna materiale ad
una questione più delicata e profonda. Nell'odierno
conflitto filosofico si comprende come i credenti, che
sono la grande maggioranza, intendano a conservare
all'insegnamento scolastico in genere un carattere
cristiano, perchè temono dell'assalto anti-cristiano del
positivismo materialista (o pseudo scientifico) e
dell'energetismo ultra moderno che è la negazione
assoluta ed antitetica del cristianesimo.
Un tentativo di accordo sarebbe possibile se da una
parte si volesse rinunciare ad una formalità esterna di
assai dubbio valore pratico e dall'altra si riconoscesse,
51
ciò che storicamente e filosoficamente non si può
disconoscere: l'alto valore politico-sociale del
cristianesimo, che è alla fin fine il presupposto logico e
il precursore della democrazia così nel campo politico
che in quello sociale...
Vi è in ciò una questione delicatissima che va
esaminata senza partito preso. Probabilmente essa non
può essere risolta in via di legislazione. In ogni modo
poco gioverebbe la legge ove mancasse la reciproca
buona volontà, ma appunto per questo una discussione
serena sul campo strettamente pedagogico potrebbe
essere feconda di buoni risultati.
VI.
Sgombrate da noi queste dannose some mi sembra
vedere aperto il campo ad un pallio meraviglioso nel
quale le nuove generazioni possano dar sfogo a tutta la
loro vigoria, far gara di nuovi inusitati assalti e
collaborare, anche lottando, a nuovi fini comuni.
Occorrerà innanzitutto convincersi che il Cantone
nostro si trova di fronte alla rovina economica.
La sua industria è nulla, e poco ormai potrà giovargli
una tardiva revisione delle tariffe ferroviarie ora che
l'intiera industria svizzera è pericolante per le mutate
condizioni d'Europa. La sua agricoltura è paralizzata
dallo sminuzzamento della proprietà, giunto al punto da
non aver paragone nel mondo. La sua pastorizia si
dibatte fra le difficoltà dell'esportazione e la quasi

52
insanabile decadenza dei pur vasti e fragranti pascoli
delle alpi. La sua emigrazione stessa sembra condannata
a morte dal nazionalismo straniero, dal corporativismo
rinascente sotto la specie del sindacato e più ancora
dalla inevitabile decadenza dell'arte muraria.
E noi non sapremo far meglio che esaurirci come i
cittadini di Bisanzio, in vecchie disputazioni cento volte
ripetute?
No. Noi dobbiamo por mano al riordinamento
scolastico, sfrondandolo di quei rami che solo la
prosperità trionfante dell'avanguerra aveva potuto
legittimare.
Noi dobbiamo rendere più agile l'ordinamento
giudiziario, non con riforme all'impazzata, ma
prendendo norma dalla nostra e dall'altrui esperienza. Il
disbrigo delle cause deve essere reso più sollecito; la
giustizia amministrativa deve uscire dall'arbitrio; la
giustizia tributaria deve uscire dal caotico!
Il problema dell'assistenza pubblica, che si trascina da
generazione in generazione nel più lamentevole
empirismo, deve finalmente trovare un assetto conforme
all'indole del paese, contemperando la tradizione con
l'aspirazione.
L'organamento amministrativo deve essere riordinato
e ristaurato, uscendo dalla neghittosa praticaccia degli
schiva-fatica e degli schiva-responsabilità, senza
d'altronde abbandonarsi al dilettantismo facilone di chi
crede risolvere i problemi di stato con le frasi fatte, colle
improvvisazioni, con le copiature.
53
Grandissima parte della futura attività dello stato è
richiesta da tutto un nucleo di questioni connesse, dalla
soluzione delle quali dipende tutto il nostro avvenire
economico.
La bonifica dei nostri terreni da prato, la ricostruzione
dei poderi da secoli dissolti nel frazionamento, la
ricostituzione dei vigneti, l'assetto delle nostre selve e
foreste, la sistemazione delle nostre forze idrauliche, il
catasto geometrico di tutti i nostri terreni, la creazione
del registro fondiario, base del credito fondiario, la
redenzione ed utilizzazione delle immense distese
pascolive dei nostri monti, abbandonate, distrutte,
invase da vegetazioni parassitarie, rese quasi deserte,
ecco un compito sufficiente per due generazioni di
lavoratori, consci dei doveri (e non solo dei diritti) che il
cittadino ha verso la patria!
Questi problemi son l'un l'altro collegati e formano un
solo complesso, che si può chiamare la razionale
sistemazione della vita economica del Cantone Ticino.
Avvegnacchè giovi il proclamarlo, il nostro paese non
ha una base economica propria. La nostra agricoltura,
che già nel secolo XVIII, a testimonianza di C. V.
Bonstetten, era in condizioni lamentevoli, non ha mai
spinto la sua ambizione al disopra di un prodotto povero
e quasi accessorio, contando più sull'importazione
granaria che sulla produzione propria. Gli abitanti delle
nostre campagne traggono da secoli la loro attività sui
mercati esteri; le più belle case dei nostri villaggi sono

54
fatte con capitali attinti all'estero e che poi si squagliano,
al ritorno dell'emigrante, in meno di due generazioni.
Il nostro suolo non è ricco, ma abbondante, i pendii
delle nostre montagne potrebbero fornire gran dovizia di
verdeggianti foreste e di pascoli opimi, le acque
spumeggianti del nostri torrenti sono una lusinghiera
promessa di future ricchezze. Tutto ciò sarebbe cagione
delle migliori speranze, dei più arditi disegni, ma la
coscienza manca, ma il pensiero manca di ciò che
dovria essere la rigenerazione del paese.
Mettere in valore le nostre ricchezze latenti, tale
dovria essere il programma politico-sociale delle
generazioni venienti; nel quale programma avrebbe
grandissima parte la scienza della legislazione, la quale,
a testimonianza di Filangeri, non si apprende che da uno
studio severo delle condizioni storiche e delle
condizioni sociali di un paese.
Nè si tema da alcuno che questi compiti d'ordine
materiale manchino di grandezza spirituale. Le forze
dello spirito trovano, al contrario, il loro alimento
ovunque sia opera feconda di progresso umano. Esse si
impaludano fatalmente nel pettegolezzo o nel
misticismo là dove taccia il lavoro; esse si elevano a
misura che ferve l'opera sociale.
Nulla ambizione è più legittima di questa ad ogni
partito, di dar l'impronta dei propri ideali trascendenti al
lavoro sociale della sua epoca. L'azione cattolica e
l'azione filosofica saranno le benvenute ciascuna ad
illuminare della propria luce, a riscaldare del proprio
55
calore l'opera materiale della ricostruzione economica
della patria zolla.
Con immagine magnifica l'Alighieri simboleggia nel
grappolo turgido di futuro vino la fecondazione della
terra ad opera del sole. Anche la nostra umanità ha
come la vite le sue radici nella terra, anch'essa ha
bisogno che la luce dell'ideale la riscaldi e la fecondi.

56
Progetto di una costituzione cantonale
per il Cantone Ticino4

4 Il progetto di Costituzione che qui riproduciamo venne


pubblicato nel vol. I dell'opera: Le Istituzioni svizzere nel
diritto pubblico e privato della Confederazione e dei Cantoni,
di B. Bertoni e A. O. Olivetti, uscita a Torino (Unione
Tipografico-Editrice), con la nota che segue: «Il presente
progetto, che qui viene per la prima volta pubblicato, è opera
dell'avv. Brenno Bertoni, il quale ha presentato al Gran
Consiglio la proposta generica della revisione integrale della
Costituente».
Decisa, nel 1921, dal popolo del Ticino, la convocazione della
Costituente, l'on. Bertoni ripubblicò il progetto (v. opuscolo
uscito per cura della Società Arti Grafiche Veladini e C.,
munendolo della prefazione che segue:
«Nell'imminenza della Costituente trovo opportuno di lasciar
ristampare questo mio progetto di Costituzione, preparato già da
oltre 20 anni e ritoccato secondo l'esperienza degli ultimi tempi.
Il suo scopo non è altro se non quello di dare un'idea esatta di
ciò che deve essere il contenuto di una Costituzione cantonale
moderna e completa. Diverse cose che ora sono regolate solo per
legge trovano nel progetto la loro base costituzionale; diverse
altre di secondaria importanza vengono stralciate dalla
Costituzione e devolute alla legge.
Si può essere di diversa opinione sopra taluna delle soluzioni
da me proposte.
Non sempre esse rispondono alla mia aspirazione finale;

57
TITOLO I
Sovranità e territorio dello Stato.

piuttosto ho creduto di dover fare diverse concessioni


all'opinione comune.
In generale ho avuto di mira la possibilità di un accordo di
tutti i beni intenzionati liquidando, per così dire, certe onerose
eredità del passato, specialmente in materia confessionale e
scolastica.
Sopra alcuni punti prevedo una lotta più intensa.
Nella contesa dei distretti tendo ad una soluzione intermedia:
le opportune semplificazioni amministrative, rispettando però la
storia e la geografia ed evitando in pari tempo i soliti disinganni
dell'accentramento burocratico.
Prendo posizione contro il Circondario unico perchè lo credo
opera di una fantasia politica di dilettanti, senza fondamento nel
passato, senza esempio d'altri paesi; una ideologia romantica
senza contenuto di realtà.
Proporzionalista della prima ora, prendo posizione contro il
governo proporzionale.
Poichè nessun partito dispone più della maggioranza
assoluta, l'artificio della proporzionalità applicata al governo
diventa inutile e dannoso.
Inutile perchè per forza di cose i governi futuri saranno
governi misti.
Dannoso perchè la proporzionalità è incompatibile con la
competenza degli eletti ai dicasteri che dovranno dirigere.
Propongo dunque la nomina del governo a maggioranza
assoluta.

58
Art. 1. – Il Cantone Ticino è una repubblica
democratica facente parte della Confederazione
svizzera.
La sua sovranità non è limitata che dalla Costituzione
federale.
Art. 2. – Il territorio del Cantone è inalienabile. I suoi
Distretti sono: Mendrisio, Lugano, Locarno,
Vallemaggia, Bellinzona, Riviera, Blenio e Leventina.
La giurisdizione territoriale dei distretti e comuni può
essere modificata per legge.
La legge stabilisce le altri divisioni territoriali.
Bellinzona è la capitale del Cantone. Lugano è la sede
del Tribunale cantonale.
TITOLO II.
Esercizio della sovranità.
Art. 3. – La sovranità risiede nell'universalità del
popolo. Essa è esercitata dai cittadini aventi diritto di

Nessuno avendo la maggioranza da solo ed occorrendo la


maggioranza a tutti i candidati, i partiti dovranno intendersi per
un governo misto il quale allora, e solo allora, potrà essere
scelto secondo il criterio della competenza.
Nel complesso ho cercato di dare al testo costituzionale un
valore per così dire educativo. Il cittadino deve trovare nella
legge fondamentale dello Stato non soltanto l'enunciazione di
realtà attuali, ma possibilmente la ragione delle stesse, e la
direttiva per ciò che sarà la realtà del domani. Che ci sia riescito
è altra cosa». B. B.

59
voto, direttamente con le votazioni ed elezioni popolari,
indirettamente mediante la nomina di rappresentanti.
Art. 4. – L'esercizio diretto della sovranità popolare
consiste:
a) nell'elezione dei rappresentanti del Cantone al
Consiglio degli Stati;
b) nel dare il voto del Cantone in quanto sia richiesto
dalla Costituzione federale;
c) nell'esercizio del diritto di iniziativa in materia
legislativa e costituzionale;
d) nell'approvazione dei testi costituzionali elaborati
dalla Costituente o dal Gran Consiglio;
e) nell'esercizio del diritto di referendum;
f) nelle votazioni di carattere comunale, sotto riserva
dell'istituzione di Consigli comunali.
Art. 5. – L'esercizio indiretto della sovranità consiste:
a) nell'elezione del Gran Consiglio e della
Costituente;
b) nell'elezione del Consiglio di Stato (Governo);
c) nelle elezioni giudiziarie non riservate a particolari
autorità;
d) nelle elezioni comunali in genere.
Art. 6. – Le votazioni ed elezioni popolari hanno
luogo per Comune ed a scrutinio secreto. La legge
favorirà nei modi opportuni la partecipazione agli
scrutini e la libertà e secretezza del voto.
Nelle votazioni (esercizio diretto della sovranità)
prevale la maggioranza dei voti.

60
Per la maggioranza si intende la metà più uno del
numero dei cittadini che hanno effettivamente preso
parte alla votazione (maggioranza assoluta).
Art. 7. – Le elezioni di persone avvengono secondo i
casi prescritti dalla presente Costituzione col sistema
proporzionale od a maggioranza.
Quando la Costituzione prescrive la maggioranza, si
intende sempre la maggioranza assoluta pel primo
scrutinio, la maggioranza relativa in caso di
ballottaggio.
L'elezione dei deputati al Consiglio degli Stati è fatta
a maggioranza per Circondario unico, ogni tre anni.
Art. 8. – Hanno diritto di voto a partire dai 20 anni
compiuti e lo esercitano nel Comune di domicilio:
a) i cittadini ticinesi domiciliati nel Cantone;
b) i cittadini confederati in conformità della
Costituzione federale;
c) I cittadini ticinesi residenti all'estero che
volontariamente mantengono il fuoco nel loro Comune
di origine e vi pagano da almeno cinque anni le imposte
esercitano il diritto di voto nel Comune medesimo. La
legge potrà loro facilitare il diritto di voto in altro modo.
Art. 9. – I casi di esclusione dal diritto di voto per
incapacità naturale e per effetto di fallimento o di
pignoramento infruttuoso sono definiti dalla legge.
In materia comunale sono inoltre esclusi coloro che
da due anni e malgrado atti esecutivi sono renitenti al
pagamento delle imposte comunali.

61
TITOLO III.
Diritti e garanzie dei cittadini.
Art. 10. – La Costituzione è la legge suprema dello
Stato. Nessuna legge od Autorità è superiore ad essa.
Art. 11. – Tutti i cittadini sono uguali dinanzi la legge.
Non vi è nel Cantone privilegio di luogo, di nascita, di
persona, di ceto, di fôro, di famiglia.
Art. 12. – La libertà della persona è garantita.
Nessuno può essere arrestato fuori dei casi e dei modi
previsti dalla legge, nè detenuto oltre 24 ore senza
essere interrogato dal magistrato competente.
È dovuta un'indennità a chi, senza sua colpa, sia stato
ingiustamente detenuto.
Non c'è pena senza legge.
Art. 13. – Nessuno può essere sottratto al suo giudice
naturale. Sono riservati i casi di proroga di competenza
secondo le leggi di procedura.
Art. 14. – Il domicilio è inviolabile. Nessun
funzionario od agente della forza pubblica può penetrare
nell'abitazione di un cittadino contro la volontà del
medesimo, o di chi lo rappresenta, nè praticarvi
perquisizione o sequestro se non nel casi e nelle forme
previste dalla legge.
Art. 15. – La libertà di credenza e di coscienza ed il
libero esercizio dei culti sono garantiti nel senso della
Costituzione federale.

62
Art. 16. – I rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica
sono determinati dalle Convenzioni. All'infuori di
queste lo Stato si attiene al principio della separazione e
del diritto comune.
Art. 17. – La libertà di insegnamento è garantita;
tuttavia la legge deve esigere dall'insegnante delle prove
di capacità.
Art. 18. – Il diritto di manifestazione e propaganda
delle opinioni è garantito nei limiti dell'ordine pubblico
e dei buoni costumi.
La libertà di stampa e di riunione è garantita secondo
gli art. 55 e 56 della Costituzione federale.
Art. 19. – È garantito il diritto di petizione. Ogni
petizione al Gran Consiglio deve essere sottoposta
all'esame di una commissione.
Art. 20. – La libertà di domicilio ai cittadini di altri
cantoni è garantita secondo l'art. 45 della Costituzione
federale.
I cittadini ticinesi possono prendere domicilio o
dimora in qualsiasi parte del Cantone, mediante
deposito di un atto di origine o di altro corrispondente
ricapito.
Le persone cadute in modo permanente a carico della
pubblica assistenza possono essere rinviate al Comune
od al Cantone che vi è tenuto.
Art. 21. – La libertà del commercio e dell'industria
sono garantite secondo l'art. 31 della Costituzione
federale.

63
Le restrizioni riservate da detto articolo ai Cantoni
non possono esser fatte che in via di legge.
Art. 22. – L'esercizio della medicina, della chirurgia,
della farmacia, dell'avvocatura, del notariato deve essere
condizionato ad un esame di capacità.
Altre professioni possono essere assoggettate per
legge alla medesima condizione.
Art. 23. – La proprietà è garantita.
Sono riservate le misure circa l'espropriazione o la
limitazione dell'uso per causa di utilità pubblica.
Art. 24. – È garantita la libertà del lavoro, nei limiti
dell'art. 34 della Costituzione federale. Lo Stato
riconosce il principio del riposo settimanale e prende le
necessarie misure, perchè nessuno sia astretto ad eccessi
di fatica nocevoli alla salute.
Art. 25. – La libertà del matrimonio è garantita
secondo l'articolo 54 della Costituzione federale.
TITOLO IV.
Compiti e poteri dello Stato.
Art. 26. – Lo Stato è un ente giuridico. Suo scopo è
l'indipendenza della patria, il giusto equilibrio fra gli
interessi delle regioni e delle classi sociali, la garanzia
dei diritti individuali, il mantenimento dell'ordine e la
tutela di tutti gl'interessi collettivi, particolarmente di
quelli a cui non può provvedere sufficientemente
l'iniziativa privata.

64
Art. 27. – È dovere morale di ogni cittadino di
favorire l'interesse generale dello Stato e del Comune.
L'obbligatorietà del servizio militare è regolata dalla
Costituzione federale.
La legge può rendere obbligatoria l'accettazione di
determinate cariche o la partecipazione a determinate
votazioni.
Art. 28. – Lo Stato promuove e dirige l'istruzione
pubblica primaria, secondaria e professionale.
Le scuole pubbliche devono essere laiche e stare
esclusivamente sotto la direzione del potere civile. Esse
devono poter essere frequentate dagli aderenti di
qualsiasi confessione senza pregiudizio della loro libertà
di credenza e di coscienza.
L'istruzione primaria è gratuita ed obbligatoria.
La legge provvederà a che il materiale scolastico
primario sia fornito gratuitamente o al minor prezzo
possibile.
L'istruzione primaria deve essere sufficiente ai
bisogni pratici della vita.
Art. 29. – Lo Stato prenderà speciali provvedimenti
per l'educazione dell'infanzia abbandonata.
Art. 30. – Lo Stato cura gli interessi della sanità
pubblica. Esso sussidierà gli stabilimenti cantonali a ciò
dedicati ed appoggerà gli sforzi dei Comuni e
dell'iniziativa privata a questo senso.
Lo Stato veglierà alla repressione dell'alcoolismo.
Art. 31. – La capacità di lavoro degli abitanti è
d'interesse pubblico. Perciò lo Stato provvederà
65
all'insegnamento professionale con particolare riguardo
all'agricoltura ed alle arti edilizie. Esso curerà anche gli
interessi economici e morali dei ticinesi emigranti.
Vi sarà un Ufficio del lavoro e dell'emigrazione.
Art. 32. – L'assistenza dei poveri incombe ai Comuni
ed allo Stato. Questo dovrà provvedere prevalentemente
per le forme di assistenza spedaliera (manicomi,
tubercolosari, cura medica urgente e malattie croniche).
I Comuni la cui popolazione non raggiunge i 2000
abitanti di popolazione domiciliata devono essere uniti
in consorzio per ciò che concerne l'assistenza. La
costituzione dei consorzi è lasciata di regola alla libera
contrattazione dei Comuni, sotto la vigilanza dello Stato
il quale potrà imporre delle misure coercitive.
La legge stabilisce le condizioni secondo le quali
l'assistenza incombe al Comune di origine o di
domicilio riservati gli obblighi del Patriziato.
Art. 33 – Lo Stato promuove od appoggia le opere di
comunicazione o viabilità.
Il contributo dello Stato è proporzionato all'interesse
che presentano per la generalità o per una parte
considerevole del paese.
Art. 34. – Lo Stato curerà, in quanto non sia di
esclusiva competenza federale, la polizia delle acque
pubbliche; promuoverà la correzione dei fiumi e dei
torrenti di montagna, appoggerà le opere di
rimboschimento.
La legge provvederà al miglioramento dell'agricoltura
e della pastorizia, favorirà il raggruppamento dei fondi,
66
la formazione dei catasti e le condizioni del credito
fondiario, particolarmente per i fondi agricoli.
Nell'esecuzione delle opere idrauliche e forestali gli
interessi della pastorizia e della praticoltura di montagna
dovranno essere contemporaneamente favoriti.
Art. 35. – Le forze idrauliche e la loro trasmissione
col mezzo dell'elettricità, sono sotto la sorveglianza
dello Stato.
Lo Stato può operarne l'espropriazione od istituirne il
monopolio, salvo le disposizioni della Costituzione
federale.
Art. 36. – Le imposte sono stabilite per l'utilità
pubblica generale.
Nessun esonero può essere stabilito se non
temporaneamente nell'interesse della pubblica prosperità
od a favore di opere pie.
La rendita del lavoro deve essere meno gravata della
rendita della sostanza.
La sostanza stabile deve essere meno gravata che la
mobile. La legge d'imposta deve favorire il credito
fondiario.
Sarà istituito l'inventario obbligatorio per tutte le
successioni.

67
TITOLO V.
Sezione I.
I poteri dello Stato.
Generalità.

Art. 37. – Nessuna carica può essere conferita a vita.


Nessuna autorità può avere dei poteri indeterminati.
I poteri sono separati nelle loro funzioni.
I poteri di un'autorità non possono essere delegati ad
un'altra, se non nei casi previsti dalla legge.
Art. 38. – L'osservanza scrupolosa della Costituzione
e delle leggi è il primo dovere di qualsiasi autorità.
Le autorità sono responsabili del loro operato,
secondo le forme ordinate dalla legge.
I funzionari sono responsabili dei danni causati dai
loro atti illeciti.
Lo Stato e gli enti comunicativi sono responsabili
sussidiariamente per i propri funzionari.
Art. 40.5 – Una medesima persona non può coprire
una funzione amministrativa ed una giudiziaria,
eccezione fatta per le funzioni della giustizia
amministrativa. (Vedi art. 57).
Una medesima persona non può coprire due cariche
amministrative o giudiziarie l'una subordinata all'altra.

5 Risulta mancante l'Art. 39. [Nota per l'edizione elettronica


Manuzio].

68
In ogni caso di incompatibilità l'accettazione di una
seconda carica implica decadenza dalla prima.
Sezione II.
It potere legislativo.

Art. 41. – Il potere legislativo è esercitato dal popolo


mediante l'iniziativa ed il referendum e dal Gran
Consiglio.
Capo I.
Esercizio popolare diretto. (Iniziativa e referendum).

Art. 42. – L'iniziativa popolare è il diritto di proporre


al Gran Consiglio l'accettazione, l'elaborazione, la
modificazione o l'abrogazione di una legge.
La domanda deve essere firmata da almeno 5000
cittadini attivi. Essa deve specificare esattamente lo
scopo della iniziativa.
Se la domanda concerne l'elaborazione di una legge
essa ne potrà contenere il testo completamente
elaborato.
Art. 43. – Se la domanda chiede, in forma di proposta
generica, l'elaborazione di una legge nuova o
l'abrogazione di una vigente, il Gran Consiglio deve
elaborare il progetto nel senso della domanda.
Ha però la facoltà di contrapporvi un suo proprio
progetto, sulla medesima materia, da sottoporsi

69
concorrentemente alla votazione popolare, oppure di
fare, con un proclama al popolo, una raccomandazione
in senso opposto alla domanda.
Art. 44. – Se la domanda presenta un progetto
completamente elaborato, questo dovrà venir sottoposto
tale e quale alla votazione popolare, riservate al Gran
Consiglio, se non vi aderisce, le facoltà di cui
all'articolo precedente.
Art. 45. – Se la domanda chiede l'abrogazione pura e
semplice di una legge vigente, il Gran Consiglio può
fare una raccomandazione in senso opposto alla
domanda e deve promulgare le eventuali disposizioni
transitorie per il caso di abrogazione.
Art. 46. – Nel caso in cui il Gran Consiglio abbia
elaborato un progetto di opposizione a quello di
iniziativa popolare si procederà a due votazioni
popolari. Nella prima si porranno in opposizione i due
progetti, nella seconda si voterà definitivamente sul
progetto che sarà stato preferito.
Art. 47. – Le leggi ed i decreti legislativi emanati
direttamente dal Gran Consiglio, che abbiano un
carattere obbligatorio generale, e non siano di natura
urgente, o che importino una spesa superiore a Fr.
300,000 devono essere sottoposti alla votazione
popolare per l'accettazione od il rifiuto quando ciò sia
domandato da 5000 cittadini aventi diritto di voto entro
un mese dalla loro pubblicazione.
Art. 48. – Nel caso dell'articolo precedente il Gran
Consiglio è autorizzato a richiedere, insieme alla
70
votazione sul complesso di una legge, una simile sopra
singoli punti della stessa.
Art. 49. – Il Gran Consiglio può sottoporre al popolo
in via consultativa ed eventuale, determinate questioni
da risolversi in via costituzionale o legislativa.
Capo II.

Esercizio per rappresentanza. Il Gran Consiglio.

Art. 50. – Il potere legislativo in quanto non sia


direttamente esercitato dal popolo, appartiene ad un
Gran Consiglio eletto in ragione di un deputato per ogni
1500 anime di popolazione domiciliata.
La frazione superiore alla metà è calcolata come un
intiero.
Art. 51. – La nomina dei deputati al Gran Consiglio
ha luogo col sistema del voto proporzionale con facoltà
all'elettore di votare per candidati di diversi gruppi.
Il quoziente elettorale è costituito dalla somma dei
voti ottenuti dai diversi gruppi nel rispettivo circondario
diviso per il numero dei deputati da eleggersi.
Art. 52. – I circondari devono possibilmente
corrispondere a divisioni naturali o storiche. Ogni
distretto forma almeno un circondario.
Art. 53. – Le liste di diversi circondari portanti la
medesima designazione hanno diritto, sommando le

71
frazioni non rappresentate, ad un riparto suppletorio per
tutto il Cartone, come circondario unico.
I gruppi che non hanno ottenuto il quoziente nè in un
circondario, nè cantonalmente, non partecipano al
riparto.
Art. 54. – Le nomine parziali di non più di due
deputati hanno luogo a maggioranza assoluta.
Art. 55. – Il Gran Consiglio è eletto per quattro anni
due settimane dopo la nomina integrale del Consiglio di
Stato.
Art. 56. – Il deputato non rappresenta il proprio
circondario, ma l'universalità dei cittadini.
Art. 57. – Non sono eleggibili al Gran Consiglio i
membri delle autorità amministrative cantonali ed i
relativi impiegati a stipendio fisso.
La legge può stabilire una eccezione per i docenti.
Art. 58. – Il Gran Consiglio può, trattando
determinate questioni, avocare il Tribunale cantonale od
una sua delegazione a prendere parte alle sue
deliberazioni, o a quelle delle sue Commissioni, con
voto consultivo.
Art. 59. – I membri del Gran Consiglio una volta
eletti, hanno l'obbligo di rimanere in carica. La legge
può però designare dei supplenti fra i candidati non
eletti della medesima lista.
Art. 60. – I membri del Gran Consiglio non sono
risponsabili del voto da loro emesso in Gran Consiglio o
nelle relative Commissioni, e non possono essere, per

72
ciò, sottoposti a procedura alcuna, tranne in caso di
reato secondo le leggi penali ordinarie.
Art. 61. – I membri del Gran Consiglio ricevono dalla
Cassa dello Stato una modica indennità per ogni giorno
di seduta.
Art. 62. – Le sedute del Gran Consiglio sono
pubbliche.
Art. 63. – Il Gran Consiglio tiene ogni anno almeno
due sessioni ordinarie.
Si raduna in sessione straordinaria ogniqualvolta
venga convocato:
a) dal Consiglio di Stato;
b) dal Presidente del Gran Consiglio, dietro richiesta
scritta di almeno un terzo dei suoi membri. La richiesta
scritta deve indicare l'oggetto della convocazione.
Art. 64. – Le sessioni del Gran Consiglio non possono
essere chiuse senza l'assenso del Consiglio di Stato, se
non quando il Gran Consiglio abbia deliberato su tutti
gli oggetti proposti.
La lista degli oggetti è stabilita dal Consiglio di Stato
e può essere completata dal presidente del Gran
Consiglio.
Art. 65. – Il Gran Consiglio nomina ogni anno, al
principio della prima sessione ordinaria, il proprio
presidente. Questi non è rieleggibile oltre una
legislatura.
Art. 66. – Il Gran Consiglio verifica i poteri dei suoi
membri.
Art. 67. – Il Gran Consiglio:
73
a) esercita la funzione costituente in quanto non sia
direttamente esercitata dal popolo, o non sia da questo
devoluta ad una speciale Assemblea Costituente;
b) esercita la funzione legislativa, in quanto non sia
direttamente esercitata dal popolo, e quindi adotta,
modifica e rigetta i progetti di legge e decreti legislativi
che gli sono presentati nei modi stabiliti per l'esercizio
del diritto di iniziativa;
c) ratifica i trattati con altri Cantoni o con l'estero (art.
7 e 9 della Costituzione federale).
Gli oggetti contemplati dal presente articolo, devono
essere discussi ed accettati dal Gran Consiglio, in due
letture da farsi in due sessioni.
Trattandosi di casi urgenti basterà l'approvazione in
prima lettura, se ciò sia richiesto dal Consiglio di Stato.
Art. 68. – Il Gran Consiglio esercita inoltre le
seguenti attribuzioni
a) provvede alla sicurezza interna e dispone della
forza armata nei limiti degli art. 13 e 95 della
Costituzione federale, salvo i provvedimenti d'urgenza
del Consiglio di Stato (art. 82 N. 6).
b) vota le imposte, autorizza le spese ed i prestiti a
carico dello Stato, esclusi quelli che devono essere
rimborsati colle entrate dell'esercizio in corso;
c) stabilisce, sulla proposta del Consiglio di Stato, il
bilancio preventivo delle entrate e delle spese dello
Stato;

74
d) esercita l'alta sorveglianza sulla gestione di ogni
singola Autorità dello Stato, e delibera intorno
all'approvazione dell'amministrazione e dei conti;
e) autorizza o ratifica l'alienazione dei beni cantonali;
f) crea gl'impieghi e fissa gli onorari dei pubblici
impiegati, in quanto la legge non ne deferisca la
determinazione al Consiglio di Stato;
g) autorizza o ratifica i trattati per la regìa del sale;
h) fa le nomine che gli sono attribuite dalla
Costituzione e dalle leggi;
i) esercita il diritto di grazia e amnistia;
l) accorda la naturalizzazione cantonale, salvo le
competenze del Consiglio di Stato nei casi in cui la
naturalizzazione fosse ottenuta per diritto;
m) decide i conflitti di competenza fra l'Autorità
giudiziaria e l'amministrativa;
n) decide i ricorsi contro le decisioni del Gran
Consiglio relative ai diritti politici ed al loro esercizio;
o) esercita tutti gli attributi della sovranità che non
sono dalla Costituzione espressamente riservati ad altre
Autorità;
p) esercita in nome del Cantone il diritto di
referendum in materia federale (art. 89 Cost. fed.) e il
diritto di iniziativa per la convocazione delle Camere
federali (art. 86 Cost. fed.).
Art. 69. – Il Gran Consiglio non può deliberare, se
non è presente la maggioranza assoluta dei suoi membri.

75
Art. 70. – Ogni deputato ha il diritto di fare delle
proposte sopra qualsiasi materia di competenza del Gran
Consiglio e di partecipare alla discussione.
Lo stesso diritto appartiene ad ogni membro del
Consiglio di Stato.
Nessuna proposta può essere respinta senza essere
stata demandata all'esame e preavviso di una
commissione. Ogni deputato ha inoltre il diritto di
muovere interpellanze al Consiglio di Stato sopra atti
della sua amministrazione.
Le norme ulteriori sono fissate dal Gran Consiglio
stesso a mezzo del suo regolamento.
Sezione II.
Il potere esecutivo.
Capo I.
Il Consiglio di Stato.

Art. 71. – Il Consiglio di Stato è la suprema autorità


direttiva ed amministrativa del Cantone
Art. 72. – Il Consiglio di Stato si compone di cinque
membri nominati direttamente dal popolo, ogni 4 anni,
in un circondario unico col sistema della maggioranza
assoluta.
Art. 73. – I membri del Consiglio di Stato sono
sempre rieleggibili.

76
Art. 74. – Non più di un membro del Consiglio di
Stato può far parte dell'Assemblea federale. Ove due o
più membri sieno eletti contemporaneamente la sorte
decide quale o quali debbono essere sostituiti nel
Consiglio di Stato.
Art. 75. – Almeno due membri del Consiglio di Stato
devono risiedere al capoluogo o sue immediate
vicinanze. La legge detterà le norme necessarie in
proposito.
Art. 76. – Nessun membro del Consiglio di Stato può
far parte del Gran Consiglio, nè di un Consiglio di
amministrazione di società anonima, nè esercitare una
professione soggetta alla sorveglianza dello Stato.
Art. 77. – Il Consiglio di Stato nomina nel suo seno
un presidente ed un vice presidente che stanno in carica
un anno. Il presidente non è immediatamente
rieleggibile.
Art. 78. – Il Consiglio di Stato elegge ogni 4 anni, un
Segretario di Stato redattore dei progetti di legge, che è
sempre rieleggibile.
Art. 79. – La responsabilità del Consiglio di Stato è
collegiale. La responsabilità civile non si estende ai
consiglieri che hanno fatto inscrivere il loro voto
contrario alle decisioni da cui deriva.
Per la trattazione degli affari, la gestione del
Consiglio di Stato si divide in Dipartimenti.
I capi di ciascun Dipartimento sono incaricati dello
studio preliminare delle questioni, la cui decisione
avviene in comune.
77
La legge può commettere la decisione di cose di
secondaria importanza ai singoli Dipartimenti, ma con
diritto di ricorso al Consiglio di Stato.
Art. 80. – Il Consiglio di Stato:
1. Veglia all'esecuzione delle leggi, dei regolamenti e
dei propri decreti;
2. ha la vigilanza sulle Autorità inferiori per il
mantenimento dell'ordine e per la buona
amministrazione;
3. nomina i propri agenti ed impiegati e ne fissa gli
onorari ed indennità, nei casi prescritti dalla legge;
4. rende conto ogni anno al Gran Consiglio di tutti i
rami della propria amministrazione e gestione; il suo
resoconto è pubblicato a stampa e distribuito ai
Deputati, agli Uffici pubblici ed alle Municipalità;
5. tiene la corrispondenza con la Confederazione, con
gli altri Cantoni e con gli Stati esteri, nelle cose di
competenza cantonale;
6. veglia al mantenimento dell'ordine pubblico; ove
questo sia gravemente turbato dispone della forza
pubblica nei limiti degli articoli 13 e 95 della Cost. fed.
e convoca immediatamente il Gran Consiglio (v. art.
68);
7. assiste in corpo o per delegazione alle discussioni
del Gran Consiglio, vi prende parte con voto consultivo
si ritira quando si vota sulla sua risponsabilità o su
quella di uno dei suoi membri;
8. giudica le questioni amministrative che non sono
dalla legge riservate ad altra Autorità.
78
Capo II.
I Commissari.

Art. 81. – I Commissari di Governo rappresentano il


Consiglio dì Stato nei singoli distretti.
La legge può attribuire ad essi speciali facoltà in
materia di polizia, di amministrazione comunale e di
tutela. Il loro mandato non è incompatibile con
l'esercizio del notariato.
Nei piccoli distretti potranno essere incaricati di altre
funzioni ordinariamente spettanti a speciali Uffici.
TITOLO VI.
Il potere giudiziario.
Art 82. – La giustizia civile e penale viene resa dalle
Autorità giudiziarie.
Una decisione dell'Autorità giudiziaria competente
non può essere mutata nè dall'Autorità amministrativa
nè dalla legislativa.
La legge può, in via eccezionale, attribuire della
competenze giudiziarie in materia di contravvenzioni
alle Autorità amministrative dello Stato e dei Comuni.
Art. 83. – La pubblicità dei dibattimenti è garantita in
principio.
Art. 84. – La legge può stabilire dei requisiti per la
eleggibilità alle cariche giudiziarie.

79
Art. 85. – Vi è per tutto il Cantone un Tribunale
cantonale.
La legge potrà deferire direttamente al Tribunale
cantonale od a sezioni del medesimo la cognizione delle
cause civili appellabili al Tribunale federale.
Art. 86. – Il numero dei membri e dei supplenti del
Tribunale cantonale è stabilito dalla legge.
Il Tribunale cantonale è nominato direttamente dal
popolo in un solo circondario per un periodo di dieci
anni col sistema della maggioranza assoluta.
Il Presidente del Tribunale cantonale ed i presidenti
delle sue sezioni sono designati dal Gran Consiglio ogni
5 anni.
Art. 87. – In ciascun distretto vi è una Pretura.
Il distretto di Lugano forma due Preture.
Il Pretore è nominato dal popolo ogni dieci anni ed è
assistito da un Segretario-assessore nominato dal
Consiglio di Stato ogni 5 anni.
Art. 88. – Vi saranno delle Giustizie di Pace, di
nomina popolare, con attribuzioni civili od
amministrative, di pulizia rurale o di polizia giudiziaria.
La legge ne potrà ridurre il numero attuale.
Art. 89. – Vi saranno uno o più Procuratori pubblici
ed uno o più istruttori giudiziari in materia penale,
nominati dal Gran Consiglio.
Art. 90. – Vi sarà, per tutto il Cantone, un unico
presidente delle Assise penali nominato dal popolo per
dieci anni.

80
Vi saranno degli assessori giurati, nominati dal
popolo in ogni distretto ogni 5 anni col sistema del voto
proporzionale.
Art. 91. – Potrà essere istituita una Corte
amministrativa. La legge ne regolerà l'organizzazione e
la competenza.
Art. 92. – Potranno essere istituiti dei Tribunali di
probiviri per giudicare le questioni derivanti dal
contratto di lavoro.
Potranno essere istituiti dei probiviri agricoli, anche
per le contestazioni relative ai diritti di pascolo e
consimili, alla polizia campestre e forestale, alle
permute, ai raggruppamenti ed ai rapporti di vicinato tra
fondi di poco valore.
TITOLO VII.
I Comuni.
Art. 93. – I Comuni non possono essere aggregati nè
modificati se non per decreto del Gran Consiglio.
Possono tuttavia i Comuni transigere circa la loro
giurisdizione territoriale.
Dei consorzi di Comuni per determinati servizi
possono essere istituiti per convenzione o per decreto
del Consiglio di Stato.
Art. 94. – Il Comune si divide di regola in tre
comunità: il comune municipale, il patriziato, la
parrocchia.

81
Sezione I.
Il Comune municipale.

Art. 95 – Il Comune municipale o politico è composto


del complesso di tutti gli abitanti.
Gli abitanti si dividono in attinenti, cittadini
domiciliati, stranieri.
La legge provvederà a che l'attinenza possa essere
gratuitamente ottenuta dopo 30 anni di domicilio dalle
persone che non si trovano nell'attuale pericolo di
cadere in modo permanente a carico dell'assistenza
pubblica.
Gli stranieri non acquistano l'attinenza se non con la
naturalizzazione.
La naturalizzazione non può essere rifiutata agli
stranieri di buoni costumi domiciliati nel Cantone da 30
anni, o che sono nati nel Cantone e vi hanno ricevuto
una educazione nazionale, semprechè non sembrino in
pericolo di cadere a carico dell'assistenza pubblica.
Art. 96. – Incombono al Comune municipale
l'istruzione primaria, l'assistenza pubblica, il servizio
medico, la polizia, ed in genere tutti i pubblici servizi
comunali, per cui non sia altrimenti disposto.
Art. 97. – Per far fronte alle proprie spese, in quanto
non bastino i proventi di fondi speciali, il Comune
municipale ha l'obbligo di provvedere mediante
percezione di imposta.
Il sistema d'imposizione è stabilito dalla legge.

82
Art. 98. – Quando per la sua pregiudicata posizione
economica un comune si trovi ridotto a non poter
convenientemente adempiere ai pubblici servizi e far
fronte ai propri debiti, lo Stato deve intervenire per i
necessari provvedimenti.
Art. 99. – Gli organi del Comune municipale sono
l'Assemblea dei cittadini e la Municipalità. Le
Municipalità avranno da 3 a 11 membri.
Art. 100. – Nei Comuni di oltre 2000 abitanti potrà
essere istituito un Consiglio comunale al quale saranno
devolute del tutto o in parte le attribuzioni
dell'Assemblea sotto riserva dei diritti di referendum e
di iniziativa popolare.
Il diritto di iniziativa appartiene, alla Municipalità ed
in assemblea ad ogni cittadino.
Art. 101. – Il Sindaco è il presidente della
Municipalità ed il capo del Comune; ad esso possono
essere devolute speciali mansioni di polizia.
Art. 102. – La Municipalità ed i Consigli comunali
sono eletti col sistema del voto proporzionale.
Sezione II.
Il Patriziato.

Art. 103. – Il patriziato è una corporazione di diritto


pubblico, alla quale è riservata l'amministrazione e il
godimento in comune dei beni dell'antica comunità o

83
vicinanza. Tali beni devono essere amministrati e
conservati secondo l'interesse della classe agricola.
I cittadini che da oltre 100 anni sono domiciliati e
possiedono beni stabili di carattere agricolo nel Comune
o nei Comuni componenti il patriziato, hanno il diritto
di acquistarvi gratuitamente i diritti patriziali.
I cittadini che vi sono domiciliati con beni stabili di
carattere agricolo da 30 anni e vi hanno sempre pagato
le imposte hanno il diritto di acquistare il patriziato
pagando una somma proporzionata da destinarsi al
miglioramento del fondo patriziale.
Art. 104. – Acquistando un nuovo patriziato essi
perdono i loro diritti nel patriziato di origine.
Il Patriziato potrà riscattare in denaro i diritti dei
patrizi che da 50 anni sono domiciliati fuori dal Comune
o dai Comuni che lo compongono e non vi mantengono
nessuna economia agricola.
Art. 105. – Nelle assemblee patriziali ogni fuoco ha
un voto.
I fuochi composti da minorenni, sono rappresentati da
curatori speciali aventi la qualità di patrizi. Le donne
hanno diritto di voto.
Art. 106. – I patriziati sono tenuti ad una previdente e
saggia amministrazione dei beni patriziali.
L'art. 98 è loro applicabile.
L'assistenza pubblica dei patrizi potrà essere posta del
tutto od in parte a carico del patriziato, se le condizioni
di questo sono favorevoli.

84
Dove il Comune municipale contratti nell'interesse
dell'agricoltura dei debiti, non si possono fare riparti
patriziali ordinari o straordinari, senza prelevare una
contribuzione per l'ammortamento dei debiti stessi.
(Casi di raggruppamenti, bonifiche e simili).
Sezione III.
La Parrocchia.

Art. 107. – Le parrocchie amministrano i beni


destinati ai culto.
Alle medesime è garantito il diritto di presentazione
dei loro ecclesiastici.
Nelle assemblee parrocchiali le donne hanno diritto di
voto.
Esse possono prelevare un'imposta di culto.
TITOLO VIII.
Riforma della Costituzione.
Art. 108. – La Costituzione cantonale può essere
riformata integralmente o parzialmente.
La riforma ha luogo nei modi e nelle forme stabilite
in materia legislativa (art. 42 e seg.).
Art. 109. – La iniziativa popolare deve essere
appoggiata da 7000 cittadini attivi.
Se essa non è formulata in un testo completamente
elaborato, il Consiglio di Stato deve anzitutto sottoporre
al popolo il quesito od i quesiti concernenti la revisione,

85
con domanda se intende o no rivedere la Costituzione.
Nello stesso tempo sottoporrà al popolo il quesito se
eventualmente vuole che la revisione avvenga a mezzo
del Gran Consiglio o di una Costituente.
Art. 110. – Se il popolo si pronuncia per la revisione e
per la Costituente quest'ultima viene eletta nel modo e
nelle forme previste per il Gran Consiglio e lo
sostituisce nei suoi incombenti a ciò relativi.
Art. 111. – I progetti elaborati dall'iniziativa popolare
come quelli elaborati dal Gran Consiglio o dalla
Costituente vengono sottoposti al popolo per
l'accettazione o per il rifiuto.
TITOLO IX.
Disposizioni transitorie ed abrogative.
Art...........

86
PARTE SECONDA

Vita e coscienza ticinese6


Tre letture ai docenti

Piano e monte

I.
L'UOMO DELLA MONTAGNA
Assai arbitrarie sembrano le varie congetture sopra
l'origine delle popolazioni montanine, specialmente se si

6 L'opuscolo che contiene le «tre letture» (A. Salvioni e C. –


Bellinzona – 1932) reca la seguente dedica: «Alla gioventù
ticinese – a chi lavora e a chi governa – a tutti coloro che
vogliono uscire dalle pastoie rettoriche e consentono di
guardarsi intorno».
Le tre conferenze vennero tenute a Locarno, nel luglio del
1932, al Corso integrativo per i docenti di Scuola maggiore,
organizzato dal Dipartimento di Pubblica Educazione.
Le note a pie' di pagina sono di Brenno Bertoni.

87
tratti di grandi ed elevate catene. Vi fu un «Homo
alpinus» indigeno? Dove? quando? Siamo noi dei
germani latinizzati o sono gli urani dei latini
germanizzati? Chi può dire? Più ragionevole è
l'induzione che i primi popoli, alle epoche lontane delle
trasmigrazioni, poscia delle conquiste, si attenessero alle
terre migliori per fertilità, o per sicurezza dalle
inondazioni, o per facilità di conquista, ma rifuggissero
dalle terre povere delle alpi. Verosimile inoltre che
allorquando si produssero nei nostri paraggi le
successive invasioni protostoriche, galliche, romane,
franche, allemaniche e longobarde, i conquistatori,
occupando le terre opimi, ricacciarono verso le alte valli
le popolazioni sopraffatte. Quivi le popolazioni
sopravvenute per gruppi, a molta distanza di tempo, si
mischiarono, si fusero, finchè alla fine l'ambiente
economico eguale, e l'eguale etica religiosa, diede loro
una decisa unità di spirito. La loro lingua non è
necessariamente quella dei più numerosi nè dei primi od
ultimi venuti, ma quella che prevalse in conseguenza di
fattori determinanti, fra cui massimo il culto religioso.
Nel Vallese per es., pare che la parte alta, che ora
parla tedesco, abbia parlato una lingua romanza fin
verso l'epoca di Carlomagno, mentre il basso Vallese
deve avere nelle vene assai più sangue franco e
borgundo, dunque germanico, che lo stesso alto Vallese,
di probabile stirpe celtica.
Si parla sovente di penetrazione longobarda nelle
nostre valli ticinesi. Ma fra i 600.000 longobardi che
88
secondo il contemporaneo Gregorio di Tours scesero e
rimasero in Italia e si sparsero fino a Benevento
occupando città e castelli, vorrei sapere a quanti fecero
gola le ripe della Verzasca o dell'Onsernone, o sia pure
di Blenio e Leventina. L'identità delle condizioni
ambientali ed economiche condusse piuttosto le
popolazioni montanine ad identiche istituzioni sociali7.
La prima apparizione di organizzazioni umane sui
due versanti delle Alpi è il comune, del quale riparliamo
nella prossima conferenza. Nei Pirenei troviamo i
fueros, dall'una e dall'altra parte, che sono in fondo la
stessa cosa. Ma prima di parlare delle costituzioni

7 Adolfo Günter, nella sua possente opera sulla Società


Montanara («Die Alpenländische Gesellschaft», Jena
1930), arriva, dopo una impervia analisi del problema, a
questa conclusione:
«Se ed in quanto si possa considerare una razza come
«apportatrice» di determinate particolarità e funzioni sociali,
queste sarebbero sempre alterabili dall'accumulazione delle razze.
Una teorica del razzismo dovrebbe essere cercata in questa
direzione, che darebbe anche il giusto valore della protostoria, e
cioè: non tanto la funzione «statica» delle razze, quanto la
funzione «dinamica» della loro mescolanza, avrebbe un valore
decisivo. La nostra ragionata e ferma persuasione è che dal punto
di vista della sociologia applicata non esistono razze pure; che
non può trattarsi che di miscele di razze in diverse proporzioni;
ma che anche a queste può attribuirsi una notevole importanza».
– (Op. cit. p. 182 a 196). Vedi anche Angelo Mosso, «La
fisiologia dell'Uomo sulle Alpi» e «La Democrazia nella
Religione e nella Scienza», capitolo III.

89
politiche e sociali, vediamo di conoscere le qualità
intrinseche dell'uomo, quale la natura lo forgia nelle
montagne, affatto diverso da quello della pianura.
Rude e volitivo il primo, sommesso e manso il
secondo.
Il Visconte di Vogüé, l'autore del «Roman russe», ci
dimostra l'influenza della sterminata pianura stepposa
sul mujik moscovita. Il freddo vento del nord dissecca le
sue terre: che fare contro il vento? La neve le ricopre,
poi si scioglie e sommerge le campagne. Può venire in
mente a quel misero ilota di costituire un consorzio per
indigare il Volga? Quando viene l'inondazione sale sul
tetto della sua capanna, si sdraia sulle stoppie e sta lì
immobile, coricato sul ventre, per economizzare le sue
forze come la marmotta nella sua tana. Tornata la vita
nel villaggio, egli non vedrà mai altro orizzonte che la
steppa monotona e sterminata, non farà mai altri lavori
che quelle tre o quattro coltivazioni, per secoli e secoli
sempre le stesse, sotto la ferula d'un padrone o d'uno
sgherro inesorabile e crudele.
Che fare per uscire dalla sua miseria? «C'è Dio in
Cielo, ma il cielo è così alto! In terra c'è lo Zar, il
piccolo padre, ma è così lontano!...»8.
Quest'uomo è destinato a servire lo Zar, quale
automa, come più tardi servirà Lenin, senza rivolta.
È l'Uomo-mandra.

8 Da una canzone popolare russa.

90
Il conte Sforza nel suo ultimo volume mette in rilievo
quanta ipocrisia si celi sotto il nazionalismo e l'orgoglio
di razza del latifondista austriaco, ungherese o
prussiano. Egli vuole conservare lo slavo allo stato di
mandra delle sue terre, perciò afferma ch'è incapace di
governarsi. Nella pianura è facile al cavaliere tenere
servi i contadini. Un lungo secolare servaggio sarà la
sorte di quelle terre le quali, se anche chiamate a vita
libera non sapranno valersi della libertà e forse la
sprezzeranno.
Meno vasta la pianura lombarda e attorniata di
montagne, interrotta da colline: ed il povero bracciante
«della Bassa» sarà servo sì, ma meno servo che in
Oriente. La sua condanna sarà tuttavia il latifondo,
romano prima, poi longobardo, poi lombardo. Quando
verranno le guerre di indipendenza egli rimarrà quasi
indifferente agli sforzi ed agli entusiasmi delle città,
delle masse borghesi ed operaie.
Considerate ora l'Uomo alpino, che differenza! Anche
egli lotta contro una natura aspra ed avara, ma egli sa
lottare e riesce a vincerla.
La montagna è alta, ma egli la sorpassa: il torrente è
rabbioso, ma egli «rega» un abete per traverso e lo
supera; la valanga gli spazza via la casa, ed egli ne fa
un'altra più al sicuro; l'inondazione gli devasta il piano,
ed egli si attacca al monte. Egli si associa a tutti i suoi
vicini e costituisce un nucleo: affronta il bosco e lo
dissoda: affronta le belve e le uccide. Diventa l'uomo

91
sociale per necessità di cose, diventa uomo politico per
abito.
E come più la natura arride al suo ingegno e lo
stimola! Il paesaggio, l'ambiente, varia ad ogni mille
passi. Ad ogni tratto la terra, le piante gli promettono
altri frutti, gli offrono altre possibilità. Dal piano al
monte il bello si confonde con l'orrido, il danno confina
con l'utile. Molto dipende da lui, dalla sua energia, dalla
sua tenacia. All'epoca romana, poi all'epoca bizantina,
poscia a quella del Barbarossa, l'imperatore è sempre
troppo lontano; il proconsole, poscia il duca, è uomo di
città che non s'interessa della sua vita. È lui che deve
ingegnarsi. Egli crede veramente a Dio, perchè è un Dio
che lo aiuta. Egli si aiuta a far tutti i mestieri: è
agricoltore, è pastore, è boscaiolo, è muratore, è
carpentiere; il suo spirito è in una continua esperienza,
una continua ginnastica. Egli è cacciatore e la sua caccia
è pericolosa. Al bisogno sarà soldato e come soldato
sarà eroico perchè abituato ad affrontare la morte come
condizione della propria vita quotidiana.
La vita della montagna è necessariamente povera. La
prole della montagna è numerosa e forte. Essa tende ad
espandersi; l'emigrazione è di tutte le regioni
montagnose.
Una delle sue forme più costanti è il mestiere delle
armi. L'Alfieri fra le sue Satire ne dedica una acerrima
alla plebe. Plebe è per lui l'uomo oscuro della Suburra,
la massa anonima della metropoli, della capitale, della
città, nata e cresciuta senza dignità e senza ideali di vita:
92
ma egli non vuole che sia plebe il contadino abbiente, il
piccolo proprietario del suo Piemonte, che è poi fratello
carnale del nostro. Quello, egli dice, ha aperta la via
della dignità e della gloria perchè può diventar
guerriero.
Alla fine del settecento essere guerriero era ancora un
onore. Dopo la rivoluzione, dopo Napoleone, l'esercizio
delle armi che prima era una professione, divenne un
dovere civico obbligatorio, con o senza coscrizione; il
soldato sostituì il mercenario (benchè i due nomi si
equivalgano esattamente).
Guglielmo Ferrero nega che ciò sia stato un
progresso, dicendo che l'idea di lanciare tutto un popolo
armato contro un altro popolo è barbarica. Idea che
diede nell'ultima guerra frutti spaventosi. Tant'è, l'epoca
delle corporazioni chiuse non offriva altra forma di
attività alla nostra emigrazione se non la vita militare, e
i nostri soldati furono i primi d'Europa.
Sciolte le corporazioni di mestiere, le popolazioni di
montagna si sparsero per tutto il mondo economico e vi
conquistarono sempre i primi posti. Gli svizzeri vi
ebbero parte eminente e fra gli svizzeri i ticinesi.
L'emigrazione lascia dei vuoti, tosto compensati dalla
immigrazione. Questa immigrazione ci venne sempre da
paesi dove la terra è più ricca ma asservita ai Signori.
Disgraziatamente l'emigrante che torna dopo lunghi anni
passati nelle metropoli di tutti i paesi, riporta in patria
modi ed idee ancora più peregrini di quelli degli stessi
immigranti. Così è che nei tempi moderni, tempi di
93
grandi traffici, la mentalità dei montanari è esposta a
corrompersi e snaturare. Il contadino abbiente comincia
ad aver vergogna del suo stato: finisce con l'invidiare lo
stato della plebe cittadina, perchè è legge della vita che
ad ogni grandezza tien dietro una decadenza.
Fuori della causa pur anzi accennata, lo spirito
montanaro può degenerare per motivi ben caratterizzati.
Uno è il regime politico inadeguato. Quando un popolo
di montagna cade sotto la sovranità di un re o di un
principe troppo lontano, sotto l'influenza di corti
peregrine e menti eterogenee, succede quello che è
successo nei Pirenei, dove la forte e nobile nazione
basca perse persino il nome divenendo suddita di Parigi
e di Madrid. Allora fu governata da magistrati inconsci
di ogni bisogno, di ogni aspirazione, di ogni passione
locale. L'economia di montagna fu sottoposta alle leggi
fatte per la pianura, l'amministrazione «ambientale» fu
sostituita da quella burocratica e veramente «estranea».
Sono recenti le incredibili notizie sul brigantaggio
côrso, ad estirpare il quale fu messa in azione
l'artiglieria di marina bombardando le montagne di
quell'isola famosa. Ma quei montanari, governati prima
da Genova, poi da Parigi, avendo perduto da secoli il
governo di se stessi, erano caduti dall'autonomia nel
brigantaggio, perchè di fronte a una sovranità troppo
straniera lo stesso brigantaggio assume la funzione di
una protesta civile.

94
II.
L'ALBO COMUNALE
Anche l'uomo di mare, osserva il romanziere basco
Pio Baroja, ha il carattere temperato dalle dure
condizioni d'esistenza. Il marinaio inglese ha il mare
tempestoso davanti, e un suolo ingrato e freddo dietro di
sè, anch'egli vede nello sforzo la sua salute,
nell'associazione la sua vittoria sugli elementi. Egli è
pescatore. Ma come è piccola la sua piroga di fronte al
mare infinito! Ed ecco che egli si associa ad altri
pescatori; costruisce una barca capace di dieci rematori
e si arrischia fino ai limiti della sua vista. Si associa
ancora con cento e fa una nave capace di cento uomini.
Con quella partirà già alla guerra di espansione. Coi
secoli porranno mano alla sua opera e cielo e terra: il
fuoco ed i metalli. Costruirà allora il transatlantico e
conquisterà il mondo.
Ma ecco che i più illustri marinai sono i genovesi
scesi dall'Appennino, sono gli scozzesi ed i bretoni,
furono un tempo i greci e i fenici, tutti abitatori di terre
montuose. Nessun più prode marinaro che il montanaro!
L'uomo del monte come l'uomo del mare è portato
all'indipendenza, alla libertà individuale, alla
democrazia, alla vita locale. Le costituzioni della
Svizzera e quelle della Grecia antica hanno di comune il
federalismo. Nell'una come nell'altra terra la vita
comunale si contrappone all'idea d'impero e la

95
corporazione dei lavoratori si contrappone al castello
feudale.
Quando in occidente l'Impero si afferma nel
feudalismo, nelle Alpi si afferma la corporazione
economica: da questa esce la comunità religiosa (la
Parrocchia) e da entrambe la comunità politica (il
Comune). Il bel comune rustico è cantato dal Carducci
con un'ode commovente per la sua grandiosa semplicità.
I nostri testi di storia quasi non ne parlano.
Per i testi francesi il Comune non esiste. I monarchici
lo sopprimono per attribuire ogni progresso alla
monarchia, i giacobini lo ignorano di partito preso
perchè sono centralizzatori o magari perchè la
democrazia deve essere nata con la ghigliottina! Per le
storie italiane il comune è un'apparizione
esclusivamente italica. Solo in Pie
tro Verri ho trovato che il Barbarossa a Costanza, con
quella stessa penna che riconobbe la Lega lombarda
riconobbe la Lega anseatica!
Il comune fu illustre in Ispagna e fu dappertutto dove
era allora la cristianità9.
È lui che fece le cattedrali di Francia come le umili
chiesette dei nostri villaggi.

***
9 Sulla influenza delle sovranità episcopali di Milano e di
Como nella formazione dei Comuni ticinesi, vedi il citato Carlo
Meyer e, più estesamente, il profondo studio di Paolo Schaefer:
«Il Sotto Ceneri nel Medio Evo».

96
Altra causa di decadenza può venire da un'eccessiva
applicazione del più sano dei principi: il particolarismo.
Da noi cominciò già nel 13° secolo la disgregazione del
vecchio comune rustico, del quale non rimane più altra
traccia che il Comun grande dell'Onsernone.
Blenio e la Leventina divisero i loro alpi pressapoco
all'epoca in cui si suddivisero in piccole parrocchie. La
forza del comune scapitò, non meno che il suo valore
morale. Alla fine del quattrocento, al cominciare dei
baliaggi, l'universitas vallis Blenii aveva perduto gran
parte della sua individualità e questo fu un motivo per
cui la funzione balivale trascendesse al di là dei limiti
prestabiliti con l'accettazione del dominio degli
Svizzeri.
Ora abbiamo nel Ticino una dozzina di comuni al
disotto dei cento abitanti e la metà non oltrepassano i
300. Un patriziato (Capolago), sembra essere ridotto a
tre o quattro fuochi.
In principio del secolo scorso vi fu ancora qualche
congresso di distretto. L'averli aboliti fu grandissimo
errore politico. Oggi più che mai il progresso dovrebbe
consistere in un parziale ritorno alle migliori tradizioni
di quella vita locale che è la sola garanzia di un diritto
fondamentale dell'uomo, non menzionata nei capitoli
dell'abate Sieyès, ma dimostrato da E. Spencer nel suo
libro sulla Giustizia: «il diritto dell'uomo al proprio
ambiente».

97
Bosco e pascolo

I.
L'ECONOMIA DELLA MONTAGNA
Il pascolo ed il bosco sono le basi naturali
dell'economia delle Alpi. Nel passato solo il pascolo
ebbe un'importanza di primo ordine. Il bosco era
considerato come un accessorio: talvolta come un
impedimento. In origine non ci dev'essere stato altro
pascolo naturale che quello delle regioni elevate, fra i
1500 m. d'altezza fino ai 2000 e più in su, dove gli
alberi d'alto fusto vengono meno e scompaiono. Al
disotto di questa zona i pascoli devon essere stati
conquistati sopra le foreste, a mezzo degli incendi, dei
tagli e dei dissodamenti, ma questi solo all'epoca del
ferro, poichè prima l'impresa sarebbe stata al disopra
delle forze umane. Nelle vecchie pergamene, nei vecchi
statuti, è sempre parola degli alpi e dei pascoli: i boschi
vi sono appena accennati per il diritto di andarvi a far
legna.
La valorizzazione dei boschi venne assai più tardi,
con lo sviluppo della navigazione marina e
proporzionalmente alla stessa: navigazione mediterranea

98
fino alla fine del medio evo, poi oceanica, veliera
dapprima poi meccanica e mondiale.
Sul Mediterraneo come sui mari nordici e sull'Oceano
le flotte mercantili furono costruite col legname delle
montagne che era condotto lungo i fiumi fino al mare
per il Po, il Reno ed il Danubio. Già alla fine del
quattrocento un poeta di Maccagno, detto appunto il
Macaneo, in un suo carme, Verbani lacus chorografica
descriptio, canta le immani masse di legname,
proveniente dalle nostre valli, che copriva il Lago
Maggiore. Quei disboschimenti dovevano avere per
effetto di allargare i pascoli e così arricchire il paese.
Ma, almeno negli ultimi secoli diedero un risultato
calamitoso. La grande alluvione del 1868, ch'è un
ricordo della mia infanzia, gonfiò siffattamente le acque
del lago Maggiore che tutta la piazza di Locarno ne
andò sommersa. Il battello l'attraversava per approdare
alla Motta. Nel palazzo della Azienda Elettrica è
segnata con una linea e un'iscrizione l'altezza massima
raggiunta dalle acque.
Dopo d'allora le falde delle montagne denudate dai
loro boschi protettori, franarono sempre più. Si
ordinarono dei rimboschimenti, che raramente
riescirono, e si formò in tutta la Svizzera una leggenda
che ci nuoce tuttavia. I ticinesi hanno fatto strage dei
loro boschi: se le loro montagne si sfasciano è colpa
loro; se il paese declina è per causa della loro
inettitudine a coltivarlo poichè il suo suolo è
feracissimo. Quest'ultimo giudizio affermato dal
99
Bonstetten nel suo solito tono declamatorio e la
consueta avventatezza rimane in forza malgrado le
smentite della chimica10. Tali opinioni hanno finito per
essere dei luoghi comuni, degli imparaticci che molti
Ticinesi hanno finito per accettare di buona fede. La
verità è ben diversa!
Nel corso dei secoli tutte le regioni boscose furono
una volta o l'altra disboscate, ma non sempre il bosco si
è riprodotto naturalmente. L'Appennino ligure p. es. è
quasi totalmente calvo come pure le Sierre spagnuole.
Bisogna anzitutto considerare che ogni catena di
montagne ha la forma di un'onda. Un'ondata geologica.
Le Alpi sono fatte come se avesse soffiato il vento
boreale: ricascano a mezzodì con un più ripido pendio.
Il Reno e il Ticino hanno fonti comuni al Gottardo, al
Lucomagno e al S. Bernardino, ma da mezzogiorno, in
pochi chilometri, si è a Biasca che è a 300 m.
d'altitudine. Pari altezza ha Basilea. Pensate un po'
quanti giri fanno le acque della Reuss e dei due Reno
prima di arrivare a Basilea! Le alpi presentano adunque
da mezzogiorno un pendio precipitoso, propizio alle
erosioni ed ai franamenti. Aggiungete che le piogge,
pacate e quasi regolari sul versante nord, sogliono
essere dirotte e torrenziali dalle nostre parti, e che da noi
non è insolito il nubifragio. La forza di erosione ne
risulta almeno decuplata.

10 Le analisi chimiche degli ultimi tempi hanno classificato le


terre ticinesi in globo come le più povere della Svizzera.

100
Aggiungete ancora che dalla nostra parte le valli sono
state popolate e dissodate forse 500 forse 1000 anni
prima che da settentrione, e che ogni dissodamento è in
se stesso un'altra causa di erosione. Allora diventerà
naturalissimo l'aspetto delle nostre montagne del Sopra
e del Sotto Ceneri, povere di terra e di vegetazione, o
coperte di cespugli anzichè di foreste.
Ma quali enormi estensioni improduttive o quasi, ne
risultano e quale arduo compito per la razionalizzazione
delle nostre colture!
La ricostituzione dei nostri boschi rimane, malgrado
queste attenuanti, il grande problema economico del
Ticino e di tutto il versante meridionale delle alpi.
L'Italia vi provvede ora con una energica legislazione
che noi abbiamo in gran parte prevenuto già da
cinquant'anni, ma che essa prosegue con mai vista
energia.
Del malgoverno dei boschi si è data la colpa ai
patriziati. Questi infatti in buona parte continuano a
considerare il pascolo come la sola base della loro
economia. Or cosa sono i patriziati? Secondo le carte
del XII e del XIII secolo, le comunità di Blenio
avrebbero comperato dai Conti di Torre e dai loro eredi
i migliori alpi del Lucomagno. Più precisamente
compratori erano gli uomini e consoli altrimenti indicati
i liberi arodari. (Vedi K. Meyer, Blenio e Leventina).
Questi arodari erano evidentemente gli allodiali, cioè i
proprietari di terre franche libere da servitù feudali.
Assai probabilmente queste compere non erano altro
101
che transazioni con gli usurpatori feudali già in
decadenza dopo le sconfitte della casa di Svevia in
Italia; quasi certamente gli alpi avevano appartenuto ai
comuni già da tempi immemorabili11. Lo stesso e più
chiaramente era accaduto più d'un secolo prima nella
Capriasca proprio nel momento in cui Enrico IV si
umiliava a Canossa12.
Se si paragonano questi dati con quelli della
Mesolcina (vedi il Libro del Dr. Vieli, Storia della
Mesolcina) diventa chiaro che quelle comunità di liberi
allodiali procedevano dalla corporazione dei proprietari,
dei contadini abbienti come abbiamo detto più sopra.
L'allodio, come è noto, si limitava alle poche terre
prative e campive, vicine all'abitato. Gli altri prati erano
privati sì, ma soggetti ad un diritto di reciproca

11 Si consideri la quasi contemporaneità (1200-1213) dei titoli


d'acquisto di Olivone, Leontica, Ponto-Valentino ed Aquila.
(Documenti di Blenio e Leventina del C. Meyer).
12 È proprio nell'anno stesso che la leggendaria «contessa
grassa» degli Aldoni (?) di Milano, fece donazione del feudo di
Tesserete alla chiesa di Santo Stefano Per il riscatto dei suoi figli,
i quali ne avevano ucciso il sacerdote. L'anno dell'uccisione è
rimasto ignoto, ma sarà di un periodo di prosperità ghibellina.
Caduto il Cesare bisognava fare i conti con l'oste. La contessa
madre donò i beni alla parrocchia, ma riservati i diritti di alpe che
spettavano ai comuni. Ciò avveniva alla fine dell'undecimo
secolo, cento anni prima del Giuramento di Torre, centotrenta
prima della compera di Olivone. È dunque lecito credere che i
diritti d'alpe sieno di remota antichità.

102
pascolazione (la trasa), tosto dopo falciato il secondo
fieno (il recidivo o redasiv).
Questo nel piano. La zona era protetta da una cinta
fatta in comune: (la tensa); più in alto i prati magri, cioè
i così detti monti, non erano proprietà piena, ma
concessioni fatte, da parte della vicinanza corporativa,
del diritto di cintare un dato terreno. Il concessionario
falciava un solo fieno e per il resto dell'anno tutto
rientrava nel godimento collettivo o comune.
Era insomma un regime non già comunista, come
erroneamente fu detto, ma corporativo basato sul
principio della comunità del pascolo, principio che non
è germanico, nè romano, ma intrinseco al sistema
pastorizio, così che lo si riscontra non solo nelle Alpi
ma nei Pirenei, nelle Cevenne e nell'Alvernia, e persino
nella lontana Siria dei beduini.
II.
ERRORI DI LEGISLAZIONE
Era un sistema eminentemente propizio ai poveri e
perciò sostenuto dalla Chiesa.
Ora avvenne che la rivoluzione francese e Napoleone
nei paesi che subirono il suo codice civile, fecero la
guerra alle corporazioni d'arti e mestieri quali perniciose
all'industria, e si adoperarono a disfare i latifondi come
quelli che potevano ricondurre al feudalismo. Ciò ha
avuto alcune buone conseguenze nel Ticino, ma altre
perniciosissime.

103
Da una parte furono soppresse le decime e redenti i
livelli che gravavano i nostri coltivi, e fu abolita la trasa
generale che si estendeva per tutto il Luganese fino alle
porte della città; ma il male fu poco minore del bene.
Il diritto consuetudinario locale era conforme ai
bisogni della nostra economia. Vennero i dottori della
legge, come ai tempi di Pilato, e vollero introdurre il
diritto napoleonico ed il diritto di Giustiniano in materia
di servitù, di passi e di acquedotti, di rapporti di
vicinato, di eredità e divisioni; vennero i Giacobini e se
la pigliarono con le proprietà patriziali come se fossero
una forma di latifondo feudale mentre ne erano
l'antitesi; vennero gli economisti manchesteriani e
dichiararono la guerra al principio corporativo. Tutta
questa esperienza fatta per i paesi di grosso latifondo,
trapiantata nelle nostre valli fu un disastro. In val di
Blenio scomparve una rete di acquedotti che irrigavano i
monti e le campagne come ancora avviene nel Valdese;
nel Mendrisiotto furono divisi i boschi patriziali ed
assegnati ai vicini; non già in parti eguali ma in ragione
d'estimo, cioè dando molto ai ricchi, in ragione della
loro ricchezza, e poco ai poveri in ragione della loro
povertà. In Lavizzara molti beni patriziali furono divisi
fra i fuochi patrizi in piena proprietà.
Si ricopiò dall'Inghilterra e dalla Francia la divisione
dei poteri, esagerandola fino all'assurdo di sottrarre alla
giurisdizione dei consoli i casi più banali della vita
rurale ed attribuirli ai tribunali di prima e di seconda
istanza, centuplicandone le spese.
104
In un primo periodo (l'Elvetica) i beni della
corporazione furono assegnati al comune politico,
(come avvenne nei cantoni dell'Altipiano); in un
secondo periodo si sostituì all'antica Vicinanza il
patriziato come corporazione chiusa e gli si assegnò la
proprietà di un immenso dominio pubblico però con
carattere di proprietà quasi privata.
È stato detto, e si ripete come le filastrocche dei
bambini, che i Landfogti spogliarono il paese e lo
lasciarono privo di qualsiasi patrimonio. La verità è che
gli Svizzeri impedirono che un vastissimo territorio,
certo non meno dei due terzi della superficie produttiva,
diventasse latifondo feudale della nobiltà lombarda
(guerra di Giornico): lo conservarono e lo trasmisero
alla Repubblica Elvetica, la quale lo passò alla
Repubblica e Cantone Ticino.
Quel vasto patrimonio di bosco e di pascoli è ora in
piena decadenza. Bene amministrato, dovrebbe bastare a
risolvere una gran parte dei problemi della vita
economica locale fra cui quello dell'assistenza pubblica
come in più di un cantone confederato. Esso potrebbe
fornire il nucleo delle casse rurali di prestito e della
assicurazione del bestiame. Ma così come è ora
organizzato, il patriziato ticinese sembra affetto da
paralisi progressiva13.
13 Una delle cause di questa paralisi è il terrore del litigio.
Quante scriteriate declamazioni sono state fatte sopra la litigiosità
dei patriziati. Sfido io! La loro conterminazione, i loro diritti,
risultano sovente da pergamene medioevali in latino, scritte da

105
La soluzione del problema si prospetta negli ultimi
tempi nel ritorno al sistema corporativo.
Non è solo il fascio italiano che proclama lo stato
corporativo, cioè lo stato centro delle attività
economiche, lo stato che politicamente può dividersi in
province, distretti e comuni, ma che economicamente
deve raggruppare gli uomini secondo la qualità del loro
lavoro. In tutti i paesi d'Europa si manifesta ormai una
evoluzione del movimento socialista nel senso
sindacale. Paul Boncour, l'attuale ministro della guerra
della repubblica francese, ha scritto un grosso volume
sul fédéralisme économique che è nettamente
corporativista. Tale è anche il programma dei socialisti
francesi. Il movimento cristiano-sociale, ch'è la forma
cattolica del socialismo, è nettamente corporativista; e
ciò è naturale poichè la Chiesa non può fare a meno di
favorire un movimento che in gran parte è ritorno al
medioevo.
In ogni caso per noi, non solo nel Ticino, ma in tutta
la Svizzera alpina, la soluzione che si presenta, che è la
notai che talvolta ignoravano lingua e consuetudini del paese, con
termini giuridici dell'epoca feudale oggi di significato incerto. Il
peggio fu che la giurisprudenza del nostro Tribunale d'Appello,
ispirata da criteri austriaci o francesi, dichiarò «cause civili» una
quantità. di contestazioni ch'erano in realtà di diritto pubblico.
Donde cause interminabili e rovinose, giudicate a controsenso,
delle quali potrei indicarne una diecina solo in Val di Blenio.
Oggi per terrore del litigio si rinuncia fra altro ad ogni miglioria
del suolo, come spiego nel mio libro «Dal Generoso all'Adula.»
(1931).

106
sola, la giusta, è il ritorno dalle terre patriziali alla
corporazione degli agricoltori.
Devolverle al comune politico, come fu proposto dai
nostri socialisti è un errore, Il comune politico può
essere amministrato da un Municipio nel quale nessuno
è agricoltore; poi la devoluzione al comune politico fu
un postulato giacobino, in ogni caso «borghese», di un
secolo fa, dunque non può convenire ad una riforma
sociale dei nostri tempi. Meno ancora la comproprietà
patriziale può essere un diritto di nascita. Io ho una
cinquantina di nipoti e nipotini nati nel Paraguay, i quali
per legge sono patrizi di Lottigna. Le tre famiglie che
hanno comperato le mie aziende agricole di Lottigna e
le coltivano, non sono patrizie. Sono ritenute forestiere,
mentre io ricevo, stando a Lugano, di tempo in tempo,
qualche provento in denaro che giustamente andrebbe a
loro.
Tutto ciò è semplicemente assurdo.
Il pascolo e il bosco sono la dote del prato e del
campo. La palina deve essere la dote della vigna. Chi
possiede e lavora l'uno deve godere l'altro. Si torni al
concetto del Medioevo (non al medioevo dei feudi ma a
quello dei comuni) e si ricostituisca la corporazione dei
liberi arodari, dei contadini abbienti, il sindacato dei
coltivatori cui appartenga il frutto dei pascoli e dei
boschi.
La buona amministrazione tornerà per forza
automatica delle cose perchè gli interessi convergenti
sottentrerebbero a quelli contrastanti. Lo Stato dovrà
107
solo provvedere acchè queste corporazioni adempiano
alla loro funzione nell'ordine sociale e non siano in
continua guerra tra di loro, come è fatalmente avvenuto
per oltre un secolo secondo la «saggezza» delle leggi
nuove, a gran profitto degli avvocati. Lo Stato veglierà
anzi alla organizzazione federativa delle corporazioni
locali, forse sulla base dei distretti, o vallata per vallata.
Allora le corporazioni potranno risolvere, secondo le
condizioni del nostro secolo, i rapporti di alpeggiatura
così mirevolmente organizzati in altri cantoni come il
Vallese ed il vicino paese retico14.
In tutte le nostre valli vi sono comuni privi o quasi
privi di alpeggiatura, mentre vi è un'eccessiva quantità
di monti, di ragione privata, monti che nessuno più
lavora perchè non ce n'è più la convenienza, e si vanno
coprendo di cespugli. Espropriare una parte di questi
monti, e farne dei buoni alpi non troppo discosti dai
nuclei d'abitazione, ecco un'impresa già cominciata a
Ludiano (Blenio) e degna di essere continuata altrove,
in ogni caso di essere studiata.
Dappertutto vi sono alpi che bisogna abbandonare
perchè si vanno coprendo di ghiaia (soprattutto nel
Sopraceneri). Abbandonare, dove sia possibile, questi

14 Nel Circolo di Hinterrhein oltre il colle del Bernardino,


composto di cinque comuni, si ignora l'imposta comunale. I
proventi dei boschi e dei pascoli bastano a tutte le spese di
assistenza, delle scuole, ecc. Ma vedere che boschi, che pascoli,
che ordine!

108
alpi e farne dei domini forestali, in quanto la loro quota
di elevazione lo permetta.
Ecco i grandi problemi del domani che si devono
risolvere, a grande beneficio anche delle nostre pianure
e delle nostre città, poichè non sarà mai possibile
garantire il buon esito della correzione del piano di
Magadino, o della Maggia, del Vedeggio o del Cassarate
se nelle alte valli continuano i franamenti e se le ghiaie
convogliate riempiono i canali dei fiumi indigati.
III.
LE CAPRE NELL'ECONOMIA MONTANA
Vi sarà anche da risolvere il grave problema delle
capre.
In una mia conferenza di dieci anni or sono a Basilea
mi ero ingegnato di esporre le cause di decadenza della
nostra economia di montagna, come le ho esposte
poc'anzi, e avevo parlato delle difficoltà tecniche dei
nostri rimboschimenti. Un professore di Università
prese la parola, e mi domandò se la causa degli
insuccessi non fossero piuttosto le capre. «L'economia
caprina, disse, porta come naturale conseguenza lo
scadimento dell'agricoltura e la povertà, come si vede in
tanti paesi: nei Pirenei, in Albania, nell'Epiro, in Corsica
ed in Sardegna».
— Signor mio, gli risposi, Voi parlate come un
viaggiatore che tornando da quei paesi dicesse di avere
constatato che causa della loro povertà sono le pulci. «In

109
tutti i paesi, Voi direste, dove sono pulci ecco che viene
la povertà». Io sono piuttosto d'avviso che è la povertà
che mena le pulci, come è la povertà del suolo che mena
le capre e talvolta la povertà degli abitatori che le
impone anche colà dove potrebbero essere le
bergamine...
Il mio successo fu completo; ma devo confessare che
era alquanto sofistico. Per condizioni naturali, e
addirittura orografiche, la terra ticinese è di coltivazione
estensiva piuttosto che intensiva. Le capre ivi si trovano
al loro posto semplicemente perchè corrono.
Vi sono comuni, e forse vallate, dove sarebbe
opportuno introdurre un tipo di capre meno vagabonde;
le capre bianche dell'altipiano forse nella Capriasca; ma
la capra rupestre e corridora è una necessità per certe
regioni. La soluzione del problema è stata vanamente
cercata nelle misure semplicemente proibitive. La
proibizione costituisce, come ha dimostrato Giovanni
Giolitti in Italia, una espropriazione d'uso che suppone
un compenso a titolo d'indennità.
Dove sia voluto da gravi ragioni di ordine pubblico,
l'espropriazione dell'uso, almeno temporanea, può
essere fatta mediante compenso ai proprietari: tale
compenso dovrebbe essere dato piuttosto che in denari,
in migliorie di altri pascoli e prati alpini, appunto come
si è praticato in Italia.
Ma il vero problema generale delle capre si risolve in
una questione di disciplina. Le capre devono essere
curate, come si pratica nei Grigioni, in condizioni
110
analoghe alle nostre. A facilitare la custodia giova
talvolta assegnare, per le capre, alpi, versanti o convalli
speciali; ma senza una buona custodia diventa
impossibile una buona economia. La pastorizia si
risolve in depredazione. La custodia costa qualche cosa,
ma non troppo. In realtà non è la spesa che impedisce la
buona disciplina: egli è che il popolo ticinese è abituato
egli stesso alla indisciplina. Lo si può osservare ad ogni
istante. È forse una qualità acquistata dal popolo italiano
in genere, contro la quale oggi si reagisce, ma la
disciplina devesi considerare come una qualità
necessaria ai popoli, come il nostro, che vogliono
conservare la propria libertà individuale. Intendo la
disciplina voluta, insegnata ed accettata per spirito di
solidarietà umana, la disciplina che le religioni
insegnano come igiene dell'anima, quella disciplina
insomma che deve diventare un'abitudine più ancora che
un'obbedienza15.
Sgraziatamente lo spirito di disciplina ha un nemico,
il settarismo che è la nostra malattia ereditaria. Ma di
questo dirò più oltre.

15 In più parti del Cantone dei Grigioni ho potuto osservare


come sieno custodite le capre, anche in condizioni analoghe alle
nostre. Lo stesso ho osservato nelle regioni vallesane di
Entremont e Val d'Illiez. Da noi il problema è di scarso interesse.
Una volta ho voluto parlarne in Gran Consiglio che saran forse
trent'anni fa... Ho dovuto smettere perchè tutti si erano messi a
chiacchierare. Oh, se avessi parlato dei quozienti elettorali!

111
Educazione civica

I.
CIVICA E STORIA
Questa lettura vorrebbe essere una buona appendice a
quegli Avvertimenti al maestro che ho posto in nota ai
capitoli del mio Frassineto, libro di educazione civica
per le nostre scuole elementari maggiori, ma anche un
coronamento di ciò che ho voluto svolgere nelle due
letture precedenti. Altrimenti a che servirebbe? Perchè
sarei qui io ad insegnare a voi, maestri, quell'arte
didattica che voi praticate ed io ignoro?
È come uomo politico, nel senso buono, nel senso
aristotelico della parola, che dopo avervi trattenuti di
quella parte della scienza di stato che più direttamente si
riferisce all'ambiente etnografico in cui viviamo, vengo
ora a dirvi com'io intravveda la proiezione di quelle
leggi che l'esperienza mi ha dimostrato, nel campo della
scuola popolare.
La lingua tedesca ha un vocabolo che definisce, più
esattamente che la nostra non possa, quella educazione
che noi chiamiamo, secondo un uso francese, la civica.
Essi chiamano Vaterlandskunde (letteralmente
conoscenza o nozione della patria) ad un complesso che

112
abbraccia la conoscenza del suolo, della storia e delle
istituzioni del paese in quanto serva come formazione
del cittadino, al di là di ogni scopo pratico o
informativo.
È in questo senso che deve essere compresa
l'educazione civica; ond'io stimo necessario che il
maestro sappia e voglia diffondere quella luce che la
sua coscienza civica gli ha acceso nell'anima.
Ciò valga per l'insegnamento della storia in
particolare. Nè dico solo della storia svizzera, ma di
tutta la storia, perchè quando noi consideriamo la storia
di un determinato paese non ci è mai possibile isolarla
completamente dalla storia universale: ed anche
potendolo ci si svia, posciachè universale è l'esperienza
umana.
Storia, ci hanno insegnato, deriva da un vocabolo
greco che significa vedere. Sta bene: ma non tutto ciò
che si può vedere o comprendere nella storia è degno
d'essere memorato, riferito, insegnato. Al più, tutto
potrà interessare l'erudito, ma la scuola deve scegliere,
fra le cose sapute, quelle che servono al suo fine
educativo.
I fatti vengono scelti e coordinati ad un fine.
Avviene perciò che i testi di storia sieno sempre più o
meno informati a determinati criteri i quali possono
essere diversi dall'uno all'altro paese, dall'una all'altra
epoca.
Cito un esempio caratteristico senza uscire
dall'argomento che più c'interessa.
113
Abbiamo parlato, il mio egregio collega Calgari ed io,
del glorioso periodo dei comuni, periodo illustre
particolarmente nelle arti, poichè furono i comuni, in
Francia come da noi, che hanno erette le cattedrali e le
umili chiese dei villaggi: illustre perchè dopo scaduto il
concetto greco-romano della civitas, i comuni si
affermano, sia pure per mero intuito, nel principio
eminentemente cristiano che anche l'autorità di Cesare è
soggetta alla legge di Dio, che l'anima del re è eguale a
quella del servo davanti al Dio padre, donde il corollario
dell'eguaglianza degli uomini davanti alla legge.
Eppure, se noi consultiamo i testi di storia fatti per le
scuole delle grandi nazioni moderne, il comune quasi
non esiste.
Le stesse enciclopedie popolari sembra vogliano
ignorarlo. I testi francesi appena ne parlano perchè se
scritti da autori monarchici il loro compito è di riferire
tutto alla monarchia ciò che la Francia ha fatto in mille
anni: se sono scritti secondo lo spirito giacobino, il loro
compito è quello di dimostrare che la democrazia e la
libertà sono creazioni della rivoluzione francese.
I testi italiani parleranno del comune come di
fenomeno particolarmente italico, come già abbiamo
visto.
Anche qui le tendenze politiche del secolo scorso
hanno lasciato il loro sigillo quasi in ogni testo, talvolta
mettendosi d'accordo per tacere un fatto, importante, sì,
ma che stuona con le tesi preconcette. L'influenza che
quel movimento religioso antifeudale, che va da san
114
Francesco a san Bernardo, ebbe nella formazione dei
comuni, agli uni parve doversi tacere perchè poteva
essere invocata dalla democrazia liberale contro i
governi reazionari; agli altri sembrò pericoloso
ammettere, solo perchè poteva giovare alla Chiesa nelle
sue controversie con lo Stato. Si tacque quindi una delle
più belle pagine della storia del nostro incivilimento.
Fra i testi di storia per la Svizzera romanda, quello
del Maillefer appena accenna ai comuni rustici dicendo
che ne hanno esistito nel paese di Svitto e nel Tirolo!
Prendiamo un altro esempio non meno illustre: quello
della riforma e della controriforma.
I libri di storia scritti per i cattolici si fanno un dovere
di dipingere i riformatori sotto la specie di emissari
dell'inferno: quelli scritti dai riformati ne fanno degli
eroi e dei profeti e dipingeranno coi più foschi colori la
corruttela della Chiesa al secolo di Leone X. La scuola
neutra voluta dalla Costituzione federale, deve poter
essere frequentata da allievi delle due confessioni senza
scandalo per la loro coscienza... allora ci si accordò
tacitamente per ignorare nel testo di storia ciò che vi è
di più grande e di più nobile nel fenomeno storico della
Riforma e della Controriforma, particolarmente nella
nostra Svizzera, e nel ridurlo ad una sterile successione
di battaglie.
Come riconosce l'illustre cattolico Gonzaga de
Reynold, quella epica lotta colturale, rimettendo in
questione l'essenza stessa del cristianesimo, fu causa in
tutta Europa di un rifiorire di studi filosofici e teologici.
115
Gli avversari si incontrarono talvolta sui campi di
battaglia, ma la lunga guerra fu combattuta con le armi
del sapere e della dottrina in cui le due parti raggiunsero
un massimo di sforzo morale.
Non così la chiesa greco-ortodossa la quale, nata a
Bisanzio e ligia alla tradizione bizantina, tutta forme
esterne, rimase immutata e indiscussa, fedele ai suoi riti
esterni e ai governi che la mantenevano, fosse pure
quello turco, ma snervata e fiacca. La rivoluzione
bolscevica l'ha infranta in Russia, senza aureola di
martirio: le nuove sovranità ne fecero, fuori della Russia
sovietica, delle comode chiese di Stato. Solo in
Occidente il cristianesimo ha conservato la sua
eccezionale forza di espansione su tutte le parti del
mondo. Ciò non fu malgrado la Riforma, ma in virtù
della Riforma e della Controriforma.
Negli altri paesi si potrà dire che la riforma ha
prevalso per opera di sovrani che vi avevano un
interesse dinastico... oppure che la controriforma fu una
speculazione della Casa d'Absburgo... (Per tutto si
trovano argomenti in politica)... Ma nella Svizzera fu
mestieri conquistare l'assenso delle masse. Zwingli e
Calvino, ordinando che ciascun cristiano dovesse
leggere i Vangeli ordinarono di fatto la scuola
obbligatoria. Tosto a Svitto i cattolici si sentirono a
disagio perchè i vicini e rivali zurighesi sapevano tutti
leggere. Ed ecco che anche la Svizzera cattolica si coprì
di scuole d'ogni grado, Il popolo svizzero primeggiò per
più secoli per livello d'istruzione!
116
I Baliaggi ticinesi sembrarono agli arcivescovi di
Milano una breccia aperta alla Riforma: ed ecco in tutte
le nostre valli, in tutte le nostre campagne come nei
borghi, sorgere benefici cappellanici per insegnare «a
leggere, scrivere e far di conto». e sovente gli «elementi
della grammatica» (che voleva dire del latino). È stato
accreditato anche dal Franscini, per opportunità politica,
il racconto dell'ignoranza crassa che i Landfogti
portarono e lasciarono nel Ticino. Niente di meno vero.
Con meno di 100 mila abitanti i ticinesi avevano, al
cadere del regime, quattro ginnasi (Lugano, Mendrisio,
Bellinzona e Locarno) e due Seminari con
insegnamento anche per i laici. Nessuna provincia
d'Italia, foss'anche Firenze, ne aveva di più in
proporzione d'anime!16.

16 Merita un cenno speciale la Scuola dei Somaschi in


Lugano, fondata per decreto di popolo. Vi si insegnavano le
matematiche, l'architettura e la filosofia. Prima ancora che la città
di Como avesse un Seminario ecclesiastico si insegnavano a
Lugano la teologia morale e la dogmatica. Gli Statuti di Lugano
sanzionano per gli studenti le immunità accademiche che si
usavano allora nelle città universitarie. È dunque lecito credere
che molti fossero i maggiorenni studenti a Lugano. Vero è che
dopo la Cisalpina e dopo Napoleone l'Istituto e l'ordine cui
apparteneva fossero impoveriti. All'epoca della secolarizzazione
la decadenza era grande, ma, alla fine del secolo 18º la illustre
famiglia dei Beccaria di Milano mandava a studiare a Lugano il
giovinetto Alessandro Manzoni...

117
II.
LO SCOGLIO DEL SETTARISMO
Ma come avviene che la storia sia così sformata?
Avviene naturalmente.
Ogni nuovo regime ha bisogno di giustificare la
propria rivoluzione (quella da cui esce, secondo la teoria
di Giovanni Bovio) e di svalorizzare il regime anteriore.
Mussolini non può non parlar male del regime che
l'ha preceduto. Egli trascende ogni misura quando
inveisce contro quelle dottrine liberali che pur fecero
libera l'Italia, ma la critica retrospettiva è il presupposto
della legittimità del suo regime. Per la stessa ragione i
patrioti vodesi i quali nel 1798 avevano incautamente
provocato l'invasione francese nella Svizzera, coi suo
fatal seguito di ruberie e di prepotenze, avevano bisogno
di denigrare al di là di ogni giustizia storica il dominio
di Berna sul loro territorio. La imitazione e la solidarietà
politica fecero il resto. La critica retrospettiva era facile
anche perchè tutto il secolo diciottesimo era stato
un'epoca di splendore delle corti e delle capitali, a costo
di una esosa oppressione delle classi campagnole, ma la
critica monta volontieri a cavallo della rettorica ed
allora addio misura! Così la giustizia sociale è tutta
questione di misura.
Questi avvertimenti ho creduto dover fare a Voi
maestri, perchè nei nostri tempi la vostra missione
diventa sempre più delicata. Non che l'umanità peggiori,

118
ma perchè i rapporti umani diventano ogni giorno più
complicati e più penetrati di nuovi fattori psicologici
oltre a quelli economici.
La Svizzera ha felicemente superato il periodo delle
lotte confessionali
Da circa mezzo secolo il cosidetto «Kulturkampf» è
assopito. La parte cattolica non cerca più di riaprire i
conventi soppressi nè di fondarne di nuovi, ma ha
diffuso largamente le corporazioni religiose che nulla
più impedisce. Permane il divieto contro i gesuiti ma si
è aperta una fiorente università cattolica. Dall'una e
dall'altra parte si evitano le occasioni di risse
confessionali17.
Sorgono invece nuovi e grandissimi argomenti di
lotte interne. La teoria marxista della lotta di classe,
lotta che di fatto si può rintracciare nella storia più
antica e specialmente in quelle classiche gare che hanno
determinato la formazione del diritto romano, non è in
se stessa una eresia dei tempi moderni, non è
incompatibile con la teoria dello stato costituzionale che
noi pratichiamo nella Svizzera. Invece le esagerazioni

17 La questione dei gesuiti più che religiosa o filosofica fu


essenzialmente politica. Ciò che loro fu fatale è l'avvento della
democrazia e la decadenza della sovranità per diritto divino.
Eccellenti nell'insegnamento, essi opinarono doversi istruire le
classi dirigenti, a bene dominare. In Italia come in Isvizzera, non
compresero le ragioni dell'unità nazionale e l'oppugnarono.
Gioberti che li avversò fieramente era ottimo cattolico. Ma nulla
di politico è eterno.

119
possono ricondurci a quelle convulsioni che hanno
funestato le antiche lotte confessionali. Tutta la storia
svizzera, dal cominciare della Riforma fino all'epoca
contemporanea, è ispirata da un sentimento di
moderazione nelle rivalità e di prevalenza dell'interesse
superiore della patria sui sentimenti particolari, per
quanto rispettabili. Un tale sentimento è la negazione
della faziosità.
La scuola deve e può esercitare una cura preventiva
contro le esagerazioni le quali provengono quasi sempre
da suggestioni straniere. Nelle grandi nazioni i motivi di
conflitto, di odio, di ribellioni, sono quasi sempre assai
più violenti che la natura del nostro suolo non comporti.
Uno svizzero della fine del settecento poteva essere più
giacobino di Robespierre senza sentire il bisogno di
menar la ghigliottina del suo paese18.
Ma il conflitto d'idee e di sentimenti che più agita la
civiltà moderna è quello derivante dal concetto
materialistico della razza in rapporto alla civiltà.
Se dalla concezione cristiana della comune
discendenza degli uomini da una creatura fatta ad
immagine di un Dio padre comune, e comune amore di
tutti gli uomini, si discende al concetto dei costruttore
dell'Europa contemporanea, non si può fare a meno di
chiedersi se la concezione nuova non sia la conseguenza
logica di quel sofistico malinteso che, sotto la specie
18 Esempio tipico il nobile, ricco e sapiente C.V. Bonstetten,
bernese, che fu l'anima del movimento rivoluzionario elvetico
prima del 1797 ed ebbe l'anima straziata dall'invasione francese.

120
dell'evoluzionismo, fa procedere la specie umana, anzi
le specie umane da una o da più specie di scimmie.
Gli uomini sarebbero diversi di razza e di favella
perchè discendono da scimmie di diverse specie. E
poichè è naturale che le diverse tribù di scimmie sieno
fra loro in guerra per la conquista delle banane, è altresì
naturale, e dunque necessario, che gli uomini si
esercitino nella virtù guerriera, finchè il tipo umano più
atto a sopravvivere abbia distrutto tutti gli altri tipi
umani, secondo la male invocata legge della teoria
darvinista. In questo senso la guerra è fonte di energia,
scuola di carattere e maestra di civiltà come ci hanno
insegnato certi marescialli tedeschi ed altri più moderni
che non sono: tedeschi nè marescialli.
Altrettanto naturale è poi che ogni popolo ravvisi in
se stesso i caratteri di quella razza superiore che Virgilio
riscontrava nel suo già decadente popolo latino, «nato a
reggere l'imperio dei Mondi». La favola cristiana degli
uomini eguali nei doveri verso il Dio padre apparirà
come una dannosa aberrazione, atta a snervare le virtù
della stirpe.
Un altro passo della Bibbia dovrà essere sottoposto a
censura. Non è possibile che Dio abbia, sui campi di
Babele punito gli uomini della loro superbia
confondendo le loro favelle. La diversità delle favelle è
anzi il segno indelebile della diversità dei destini umani.
Dio creò la lingua del popolo eletto (e ciascuno si crede
quello) e le lingue dei popoli barbari: le lingue dei
padroni, e quelle dei servi. (Tutti i salmi finiscono in
121
gloria). La lingua del popolo eletto diventa il sacro
tabernacolo della coltura.
Non è vero (dicono) che la coltura occidentale sia il
retaggio accumulato attraverso i secoli di varie civiltà,
egiziaca, ellenica, romana, ebraica, araba, e forse
indiana e cinese. Non è vero che attraverso il
rinascimento ogni popolo d'Europa abbia portato il suo
contributo all'umanesimo, fino alle lontane patrie di
Keplero, di Bacone e di Spinoza. Macchè! i barbari
sono barbari e i maestri della civiltà siamo noi. Questo
noi può essere tradotto in wir, nous, nosotros. Solo
l'anglosassone si astiene di tradurlo a modo suo, pago di
sapere che il padrone dei mari è lui e gli altri possono
chiacchierare a loro talento. L'Ebreo, in disparte, guarda
e sorride pensando ai destini di Adonai. Egli ricorda i
tempi lontani quando gli amaleciti e i filistei
pretendevano dettargli la legge e quando i fenici
osarono dirsi padroni del mondo...
Il maestro svizzero dirà ai suoi allievi, quando
l'occasione si presenti (senza troppo andarle a cercare)
che la nostra igiene nazionale consiste nel tenersi al
disopra di quelle che sono le meschinità dei grandi.
Egli potrà dire che tutte le nostre miserie politiche, le
nostre discordie, le nostre faziosità, delle quali tante
volte ci incolpiamo a vicenda, ci vennero sempre, o
quasi sempre, dall'aver voluto imitare le grandezze,

122
appropriarci la boria, sposare le passioni degli
stranieri19.
E se teme di smarrirsi nel labirinto delle nostre
rivalità partigiane, tenga per certo che c'è il filo
d'Arianna. Chiamare l'attenzione dei ragazzi e delle
ragazze sopra le cose belle, le speranze, le aspirazioni
del loro villaggio, del circolo, della valle.

***
NOTA. – Ci piace riprodurre, come seguito al passo
sopra citato, il seguente brano che togliamo dalla
avvertenza che figura nel numero 1, anno I, maggio

19 In altri miei scritti ho messo in rilievo l'origine e la


evoluzione dei partiti politici ticinesi, cosidetti «storici». Il
principio conservativo e quello progressista od evolutivo
corrispondono al contrasto fra le forze statiche e le dinamiche, il
cui equilibrio regge l'universo: l'uno è la condizione dell'altro.
Alle origini della nostra repubblica le due forze politiche
contrastanti in Europa erano l'Austria, asserta erede del Sacro
romano impero e in ogni caso cittadella della Controriforma, e
d'altra parte la Francia della rivoluzione e del Bonaparte. Per
necessità di cose le forze conservatrici si polarizzano sopra
Vienna, le liberali sopra Parigi. La rettorica, sollecita raccoglitrice
di frasi ad effetto, si appropriò le formule di una Plebe
intellettuale. Noi abbiamo soventemente perduto il nostro centro
di gravità, la nostra tradizione. Molti dei nostri più belli ingegni
furono travolti dalle bufere e sradicati dal suolo nativo.
La voce di richiamo dovrebbe essere: ritrovare noi stessi; il
rispetto di noi stessi.

123
1882, della Rivista scientifica svizzera fondata e diretta
da Mosè Bertoni, fratello di Brenno Bertoni:
«...L'evoluzione – che è nella sua più vasta
concezione una condizione necessaria, non solo alla
umanità ma alla natura tutta – è la risultante di due forze
non meno necessarie: la progressiva e la conservatrice.
Questi due elementi sono del pari indispensabili: in
fondo l'opposizione che tra essi esiste non è che
un'apparenza, la quale risulta dalla differenza delle
rispettive funzioni. Essi tendono allo stesso scopo: tra
essi non v'ha in realtà che una divisione di lavoro.
La forza progressiva e la conservatrice esistono, e con
le identiche necessarie funzioni, nell'umanità come nella
natura tutta: la mancanza di una qualunque di esse
condurrebbe inevitabilmente e rapidamente al caos.
Nella natura noi constatiamo l'apparizione continua di
forze nuove: di queste, molte trovano condizioni
favorevoli, e dànno luogo a nuove razze, a nuove specie,
meglio sviluppate, meglio armate nella lotta per la
esistenza. Ad ogni passo constatiamo gli effetti
dell'adattazione, fenomeno importantissimo mercè il
quale un organismo modifica o trasforma a poco a poco
certi suoi organi o ne forma di nuovi, ciò che gli
permette di svilupparsi meglio nelle condizioni in cui si
trova, o meglio ancora di poter vivere e svilupparsi in
condizioni affatto nuove.
Ma esiste una forza egualmente generale e potente: è
quella che fissa, che relativamente perpetua le forme

124
aventi una ragion d'essere, formando così il punto
d'appoggio dei progressi successivi.
Per noi, il fatto che due grandi forze esistono, basta a
provarne la necessità. Gli inconvenienti non si mostrano
che allorquando i popoli dimenticano questo fatto
fondamentale per gettarsi nei vortici di lotte intestine,
accanite, sistematiche. Non è che tempo di rimediarvi,
giacchè la nazione ha urgente bisogno di tutte le sue
forze.
A quelle menti che sanno elevarsi al di sopra delle
debolezze umane, che sanno conservare e progredire ad
un tempo, a quelle tocca rimediare a tanto male.
Ognuno ha, verso la società, un debito proporzionato
alle proprie forze. Che coloro i quali sono coscienti dei
bisogni della patria, paghino questo debito e s'accingano
all'opera, mostrando e con la parola e con l'esempio,
quale è lo scopo di tutta l'umanità, quale è il punto ove
noi tutti dobbiamo concentrare i nostri sforzi riuniti.
L'opera sarà difficile, ma non sarà ingrata, ed il frutto di
un'attività saviamente diretta non tarderà a mostrarsi.
Per parte nostra noi terminiamo esprimendo
calorosamente un voto, ed è quello di veder presto
sorgere l'aurora di quel giorno in cui, cessata ogni sterile
lotta di partito, il popolo volgerà tutti i suoi sforzi e la
sua attività allo sviluppo del suo benessere morale e
materiale, ritenendoci bastevolmente rimunerati se le
nostre deboli forze avranno potuto contribuire in
qualche piccola parte a un tale successo».

125
PARTE TERZA

Patria e cultura

I.
Sul valore morale della Svizzera20

I.
Cittadini,
La ricorrenza del natale della patria è, nel grigiore di
questi tempi sconcertati e poveri di speranza, come
un'ondata di sentimento trasmessa da qualche misteriosa
centrale, per i fili invisibili del destino.
Il patriottismo infatti è prima di tutto un sentimento,
una religione civile, e come tale trascende dalle nostre
cure quotidiane, dalle nostre preoccupazioni

20 Discorso tenuto dall'on. Bertoni a Chiasso il 1° agosto


1931.

126
momentanee, dai nostri calcoli e dai nostri interessi
contrastanti.
È questa una verità conclamata da tutte le letterature
antiche e moderne. Senonchè ogni sentimento, ogni
amore, è soggetto agli assalti della critica, specialmente
in un'epoca, come la nostra, dove una critica esasperata
mette tutto in discussione, a tal punto, che un grande
pensatore come Tolstoi arriva a chiedersi se sia poi
necessario che l'umanità si perpetui sulla terra o se non
sia meglio lasciarla spegnere e perire.
Quante persone, quanti padri e quante madri, offesi
nei loro più santi affetti, delusi nelle loro più naturali
speranze, non arrivano in certe ore tristi a porsi la stessa
angosciosa domanda: A che la vita?
E allora si comprende anche l'altra domanda: A che la
patria?
A che la patria se nel suo nome è stata combattuta la
più folle, la più mostruosa delle guerre che, a memoria
di secoli e millenni abbiano insanguinato l'umanità?
Domanda altrettanto legittima quanto ogni altra che ci
possa dettare la disperazione: A che la virtù se la
nequizia trionfa? A che la scienza se l'uomo diventa
tanto più passibile di sofferenza quanto più la sensibilità
progredisce? A che il progresso se l'uomo non migliora?
A che la ricchezza se c'inganna? A che l'amore se è
sorgente di tanto odio?
Parole di disperazione, parole sataniche contro le
quali insorge il nostro sentimento umano, il nostro
spirito di vita.
127
Noi abbiamo visto sfilare con noi e davanti a noi le
schiere della divina infanzia e della balda adolescenza,
piene di amore e piene di speranza. Noi vedremo
stasera, domani e sempre, piegarsi su questa fede
incarnata, su questa. speranza operante, la carità delle
pie madri, il benvolere delle maestre e dei maestri, ed
allora, come il sole dissipa le grige nebbie ed indora il
mondo della sua luce, allora il nostro animo illuminato
ci dirà: no l'amore non è menzogna: no l'umanità non è
menzogna: no il progresso non è menzogna: non è
menzogna la patria!
L'amor patrio è idea divina, come è divino l'amor del
prossimo. La patria è la parte più prossima del nostro
prossimo e così questa che vi ho detto essere una
religione civile diventa religione in assoluto, religione
nel senso più universale, più eterno della parola!
II.
Ma dagli stessi assertori del patriottismo, da coloro
forse che in altri paesi si fanno dell'amor patrio un
argomento d'odio contro la patria degli altri, od uno
strumento per le loro mire imperialiste, sorge sovente la
voce insidiosa d'un altro criticismo.
Dicono quelle voci rivolte alla nostra gioventù. Ma
che patria è dunque la Svizzera? Può essere patria la
Svizzera se non è una nazione? A fare una nazione
occorre una certa unità di razza, di lingua e di coltura: e
tu, Svizzera, ne sei la negazione!

128
Il diavolo, insegna la Chiesa, è sottile ragionatore. Il
demonio dell'imperialismo ha molte armi a sua
disposizione. Le più insidiose sono la letteratura e la
storia quali sono insegnate nei libri e nelle scuole. Il
giovine svizzero di lingua tedesca si incontra
fatalmente, nelle sue letture, con qualche autore
germanico che tende a persuaderlo che la razza
germanica è per missione la dominatrice dell'Europa.
Tutta l'umanità civile deriva dal tronco indo-germanico
(ammirate la bella parola!) del quale un ramo si è esteso
all'Asia, l'altro all'Europa. Gli stessi greci antichi erano
germanici, più germanici fra tutti i dori; ma son
germanici d'origine anche i latini, oggi decaduti o
degeneri.
Va senza dirlo che il buon turgoviese che legge di
queste dottissime bubbole è portato a crederle e ad
ammettere il primato della propria stirpe. Oggi la parola
stirpe è di moda e le si attribuiscono tutti i sensi
possibili.
Per il moderno nazionalista francese la Francia
rappresenta la vera latinità. Vero è che gli antichi galli
erano celti, come celtici erano una volta i popoli d'oltre
Reno. Vero anche la Francia si chiama Francia, cioè
paese dei franchi, i quali franchi erano tedeschi: ciò non
impedisce la latinità dei francesi, latinissimi, dicono
loro, anche in confronto agli italiani. Nella quale tesi c'è
una profonda verità che contraddice però a tutta la tesi
razzistica e la annienta. Non è dunque la razza gallica nè
quella franca o normanna che caratterizza la nazione
129
francese, ma la civiltà romana, ma l'educazione latina,
non tanto ai tempi della romanizzazione, forse, quanto
ai tempi della cristianizzazione. È dunque l'elemento
spirituale, non l'elemento razzistico che fa un popolo: la
psicologia, non la biologia dà il carattere incancellabile
ad una nazione; non un corpo ma una anima ispira il
concetto della patria.
Ma ormai il concetto razzistico, il quale durante la
guerra era stato portato fin sugli altari, è in piena
decadenza. Esso non è più professato che dai
socialnazionali di Germania che se ne valgono
principalmente contro i polacchi e gli ebrei. I molti
italiani che se n'erano invaghiti cominciano a capire
d'aver tradotto in versi d'Annunziani la prosa
volgaruccia di Treitschke forse i nostri aduliani saranno
un giorno avvertiti che hanno preso per cristianesimo
l'evangelo dell'Anticristo di Sils-Maria. La Chiesa
cattolica in ogni caso ha preso in Francia come in
Germania una posizione energicamente contraria ad
ogni razzismo, condannandolo come eresia.
III.
Il declinare del razzismo non impedisce che fiorisca il
nazionalismo linguistico e culturale. Per una quantità di
intellettuali, specialmente fra i letterati, la lingua
s'identifica con la cultura, al punto di presumere che
tutta la gente di una stessa lingua pensi o senta
pressapoco alla stessa maniera ed abbia analoghi

130
interessi morali, e sia perciò destinata a vivere sotto una
legge comune e costituire una sola patria, la vera patria.
Beninteso questo idealismo, rafforzato in
sentimentalismo, poscia addirittura in misticismo, ha
una prima e diretta conseguenza pratica: che la gente
d'altra lingua debba presumersi non solo diversa, ma
antitetica e quindi nemica. Lo zurigano è presunto il
natural nemico del ticinese e qualsiasi matrimonio
consacrato fra cristiani di diverse lingue è poco meno di
peccato contro natura.
È la tesi aduliana nel suo patologico misticismo.
Di questa teoria si è fatto grande sfoggio durante la
guerra. Essa non ha impedito che l'Alsazia tedesca fosse
considerata come figlia prediletta della Francia e che si
consideri come un delitto e come una grave minaccia
per la pace d'Europa se l'austriaco, figlio maggiorenne
della Germania, aspira a rientrare nella sua famiglia.
Guai solo a parlarne!
Or sono poche settimane il maresciallo francese
Liautey, aprendo l'esposizione coloniale, rompeva
nettamente con la rettorica linguistica e razzistica
dichiarando che «la France n'est gas une rate, mais une
civilisation». Una civiltà alla quale appartengono
oramai di fatto e di diritto i numidi ed i berberi, i
congolesi ed il malgasci, i tonchinesi e gli annamiti, i
bianchi, i neri ed i gialli costituenti una sola unità.
Perfettamente! Quella unità culturale che si vorrebbe
poi contestare alla Svizzera.

131
Eppure quel signor maresciallo di Francia ha ragione.
C'è ormai nel vasto mondo coloniale una civiltà
francese, su per giù allo stesso titolo per il quale noi
parliamo della civiltà romana ai tempi di Marco
Aurelio.
IV.
Il nazionalismo linguistico è dunque altrettanto
menzognero che quello razzistico. Salta agli occhi del
cittadino il più semplice che c'è più ragione di dissenso
fra un italiano cattolico e credente e un italiano ateo e
bolscevico che non fra due cattolici o due massoni di
diversa schiatta! – Se la teoria linguistica fosse vera, la
Spagna e tredici repubbliche americane dovrebbero
costituire un sola patria.
In realtà c'è questo, che nella moderna e pazza
diatriba tra francesi, tedeschi, italiani, ungheresi e tutti
quanti, i padroni del mondo vanno diventando gli
anglosassoni, senza bisogno di unità politica; domani
potrebbero diventar padroni i tartari a dispetto di tutte le
contrastanti civiltà, e già vi sono avviati. Senza parlare
degli ebrei i quali non avendo più ne una lingua
comune, nè una patria comune, tengono in freno il
mondo con la loro unità spirituale.
V.
La verità è che la patria è costituita
fondamentalmente da un territorio come elemento

132
materiale, da uno stato di coscienza e da una volontà
politica come elemento morale.
Una vittoria militare ed un trattato di pace possono
far sorgere un nuovo stato, anche una dozzina di stati
nuovi, ma non possono improvvisare nè nuove
coscienze nè nuove nazioni nel senso giusto della
parola. La Svizzera, sorta quasi come una necessità
nelle grandi crisi della civiltà europea, non è la
negazione del concetto di patria e di nazione, ma il
capolavoro politico di questo concetto.
È prezzo dell'opera dimostrare la sua origine gloriosa,
la logica costante del suo sviluppo e la ragione del suo
permanere.
La Svizzera è sorta da quella mirabile evoluzione
dell'Europa, fra il 13° e il 15° secolo, che fu la libertà
comunale. Non è vero che il movimento comunale sia
stato un episodio specifico dell'Italia settentrionale
insorta contro la prepotenza sveva. Questa versione, per
quanto sia stata officiale nelle nostre scuole,
impiccolisce e svaluta uno dei più grandi fenomeni
europei. Forse la de
mocrazia corporativa del medioevo è sorta essa stessa
da una analoga evoluzione della Chiesa, cominciata un
secolo prima, diretta a salvare la fede dalle usurpazioni
del grande feudalismo. A quel movimento parteciparono
papi ed arcivescovi italiani e diversi santi, fra cui
Francesco d'Assisi, san Bernardo e Bernardino da Siena,
ma esso non aveva nulla a che fare con un nazionalismo
moderno. In ogni caso la Lega lombarda è
133
assolutamente contemporanea alla prima lega anseatica
ed alle libertà municipali di Ratisbona (Regensburg) sul
Danubio. A non grande distanza seguono (se pur non
precedono) i comuni delle Fiandre e quelli di Spagna. In
Inghilterra un ramo del Parlamento si chiama ancora
Camera dei Comuni. Non è mestieri ch'io mi indugi a
cantare la gloria del comune italico nè del comune in
genere. Vi fu una civiltà comunale di meravigliosa
fecondità nei traffici, nelle industrie, nelle lettere e nelle
arti. È l'epoca della Cattedrale quale si rivela nel
capolavoro di Francesco Chiesa; l'epoca alla quale
risalgono i moderni patrioti spagnuoli per cercare la
Spagna vera ed autentica, anteriore alle dinastie
straniere.
I comuni perirono in tutta Europa, traditi come a
Milano dai loro duci, travolti nella formazione dei
grandi principati. In Svizzera rimasero e vivono tuttora
nella forma del Cantone. Tutte le democrazie svizzere,
dal Conseil général di Ginevra alla Landsgenneinde
dell'Appenzello, dallo stato-città di Basilea ai comuni
rustici di Blenio, di Leventina, della valle d'Uri e delle
Leghe grigie, sono parenti. Se sieno nelle Valli del
Reno, del Rodano, dell'Inn o del Po è cosa secondaria.
L'essenziale è che i comuni hanno potuto difendersi fra
le montagne. Anche le costituzioni svizzere non sono
che oscillazioni di un movimento costante, che va dal
leggendario giuramento del Grütli, dalla Carta del 1291,
fino alla vigente costituzione.

134
Le città e le campagne retiche e svizzere si liberano
della piccola feudalità, tengono testa alla grande, si
staccano dall'Impero, concludono alleanze, si stringono
in un fascio e diventano un nucleo di potenza militare
capace di trattar da pari a pari coi sovrani d'Europa. Agli
storici di scuola giacobina ciò ha potuto sembrare un
anacronismo ed una stuonatura. I rivoluzionari di
Francia, che mai non furono immuni di spirito
imperialista, accusarono la Svizzera di essere un refuge
de l'esprit moyen-âgeux; e dal loro punto di vista ciò si
capisce benissimo. Ciò che non si capisce è che degli
illustri italiani ripetano retrospettivamente la stessa
accusa per conto loro.
Che cosa è il cantone svizzero se non la vittoria del
Comune italiano? In che differiva la Signoria di Berna
sulle sue terre da quella di Firenze e di Venezia sulle
proprie?
Le città e le campagne svizzere erano difese da
milizie proprie: che altro augurava Machiavelli a
Firenze ed alle altre città, per la salute di quell'Italia che
stava cadendo sotto il dominio straniero? Non fu la
milizia cittadina una delle conquiste che la Lega
lombarda strappò all'Impero?
Vero è bene che i ducati italiani, sorti dalla
spogliazione dei comuni ebbero corti fastose ed illustri,
grazie alle quali Leonardo, il divino Leonardo cittadino
di Firenze, potè sviluppare la vastità del suo ingegno al
servizio d'un duca usurpatore di Milano per poi finire al
servizio di un re di Francia. Ma tocca proprio ai
135
patrocinatori dell'Italia il far vergogna agli Svizzeri di
non essere diventati a quel tempo sudditi gli uni dei re
di Francia, soldati gli altri della dinastia di Absburgo?
Oh, cecità dei partiti presi!
VI.
Una delle frasi rettoriche contro la Svizzera è quella
delle truppe mercenarie. Ma c'erano forse altre truppe a
quel tempo? È colpa nostra se le splendide corti,
successe ai comuni, non osavano mettere armi nelle
mani dei loro felici sudditi?
L'organizzazione militare svizzera era allora la più
disciplinata d'Europa. Gli svizzeri prestavano truppe
all'estero, ma mediante regolari trattati di diritto
pubblico, ciò che non era causa di ladroneggio, come
stoltamente fu insegnato, ma garanzia contro il
ladroneggio normalmente praticato dai lanzichenecchi
tedeschi, dagli armagnacchi francesi, dagli spagnuoli e
dagli albanesi. Descrivere, come fa il Cantù, i diecimila
svizzeri del cardinale Schinner che mettono a ruba tutta
quanta la Lombardia, e tutta la popolazione che scappa a
Milano e a Como, e il maresciallo francese che non
osando attaccarli ordina il salva chi può, sarà fare
ingiuria agli svizzeri, ma molto più agli italiani. Scherzi
della rettorica!
Instaurato in Europa il sistema delle milizie nazionali,
la Confederazione svizzera proibì le capitolazioni

136
militari e punì come reato individuale il servizio
straniero.
VII
Nata dal movimento spirituale dei Comuni, la
Svizzera seguì il suo destino in quell'altro grande
movimento spirituale costituito dalla Riforma e dalla
Controriforma. La riforma fu dinastica in Germania ed
in Inghilterra, ma fu popolare a Zurigo ed a Ginevra. La
controriforma fu dispotica in Ispagna, in Francia, negli
stati d'Absburgo e quindi in Italia, ma fu anch'essa
democratica in Isvizzera. Le guerre religiose svizzere
furono ben poca cosa: i Grigioni risolvevano la pace
religiosa cento anni prima che l'Europa a Vestfalia. Altra
gran crisi spirituale di Europa è quella della rivoluzione
francese e dell'Europa napoleonica. L'antico regime
svizzero era decaduto, ma non più che in altra parte del
continente. Il dispotismo, corrompendo il concetto
giuridico dello Stato, aveva determinato tremende crisi
di coscienza. Nel nostro paese la lotta fra il passato e
l'avvenire fu meno sanguinaria che altrove, e meno
arbitraria la pace. Questa non fu imposta da un vincitore
a un vinto con un così detto trattato di pace ma si
risolse, in tre tempi, colle costituzioni del 1798, del
1803 e del 1814. Così fu ancora verso il 1848, epoca di
nuova crisi europea. Il Sonderbund, nato dalla questione
dei gesuiti e da quella dei conventi, fu una guerra civile
durata 25 giorni ed esaurita in una battaglia d'un giorno,

137
ma più con una nuova costituzione, accettata per
plebiscito, che tuttora ci regge.
Uno scrittore nazionalista straniero scriveva poc'anzi
che questa battaglia aveva dato non più di 180 morti e
ne traeva la conseguenza che la Svizzera non deve
essere presa sul serio.
Eppure a noi svizzeri pare di aver dato un buon
esempio. A quella guerra politica di 180 morti seguì una
costituzione politica che sanzionava la libertà religiosa.
Vinceva, è vero, la maggioranza protestante e liberale,
ma non abusò della vittoria, attesta un luminare
dell'azione spirituale cattolica, Gonzague de Reynold: e
questo non abusare della vittoria, col permesso dei
nazionalisti moderni, è una virtù civica degna d'essere
imitata anche dai Grandi.
Scusatemi se insisto sul citato apprezzamento del
nazionalista straniero; esso è l'indice di tutta una
mentalità. Una guerra civile e religiosa di 180 morti: che
miseria culturale! Una buona e vera guerra culturale
dura cinque anni, costa dieci milioni di morti e – tredici
anni dopo l'armistizio – quindici milioni di disoccupati!
VIII.
In tutti questi episodi della sua storia, la Svizzera
sembra adempiere ed adempie ad una sua missione
europea. Se la parola missione può spiacere a qualche
pessimista permetta che si dica funzione poichè anche il

138
corpo sociale, a detta di Schaefle, ha le sue funzioni e
quindi i suoi organi.
Funzione politico-militare della Svizzera è quella di
garantire la neutralità di questa posizione strategica
delle alpi, che domina l'Europa centrale. Dacchè i passi
alpini, dal San Bernardo alla Bernina, furono guardati
dalle Leghe, nessun esercito «barbarico» scese più in
Italia, e questo dovrebbe esserci riconosciuto dagli
Italiani.
Bastò che nel breve interregno di 5 anni, quelli
dell'«Elvetica una e indivisibile» – (vassalla della
Francia), la neutralità svizzera fosse sospesa, perchè
tosto dal San Bernardo, dal Sempione e dal Gottardo
scendessero eserciti stranieri in Italia e salissero dalla
Lombardia gli austro-russi di Suwaroff contro i francesi
accampati sul nostro altipiano.
La nostra neutralità fu ripristinata nel 1814 per
concorde volere dell'Europa. Se le speranze d'Italia
furono allora crudelmente deluse, la neutralità del nostro
territorio giovò in mille modi a tenerle in vita. Anche
militarmente! Sì, perchè meno facile le sarebbe stato il
compito del 1848 e del 1859 se l'Austria fosse stata
dòmina dei passi alpini fino allo Spluga e fino al
Gottardo. E quando l'Italia nel 1915 si decise alla sua
fiera lotta certo non le nocque saper coperte le sue
frontiere fino al Brennero, saper difeso il Gottardo dalle
nostre truppe. Più tosto le avrà nociuto la rea
insinuazione di qualche irresponsabile che l'esercito

139
germanico stesse per scendere su Milano con la nostra
complicità.
I trattati del 1919 confermarono la necessità europea
di un territorio svizzero, ciò che suppone un'anima
svizzera. Sarebbe stato opera stolta supporre un corpo
senz'anima. Lo vollero perchè la Svizzera appariva
come una funzione, una missione, come un'idea morale.
IX.
Ciò comporta per noi delle grandi risponsabilità! Ciò
richiede la collaborazione cosciente di tutte le nostre
classi, di tutte le nostre masse popolari. Dico cosciente
perchè come valore morale la coscienza viene prima di
questa coltura della quale tanto si fa caso.
È stato chiesto dagli scettici quale sia il carattere
differenziale di una nostra coltura svizzera. Rispondono
i fatti meglio dei ragionamenti. La nostra caratteristica
è l'intento all'educazione delle masse. Già quattro secoli
or sono la lotta fra la Riforma e la Controriforma si
svolse sul campo della scuola. In nessuna parte d'Europa
se ne crearono tante: da Basilea a Mendrisio, da Ginevra
a Coira. Non c'è, nè vi può essere una letteratura
svizzera, nel senso convenzionale, mentre si può
concepire una letteratura albanese; ma c'è fra gli scrittori
svizzeri dei caratteri comuni ed un intento comune,
eminentemente pedagogico nel senso più ampio della
parola. I nostri ticinesi anteriori al Cantone Ticino,
specie il Soave, sono educatori, come sono educatori il

140
Pestalozzi, il padre Girard, ed in un senso più largo il
Bodmer, il doyen Bridel ed un certo Rousseau che in
fatto di coltura ha pur insegnato qualche cosa al mondo.
Ed una donna c'è, una madame de Staël della cui
coscienza politica il mondo d'oggi assai più si
gioverebbe che delle infinite conferenze internazionali
di ministri e di finanzieri.
Quella nostra cultura si volse alla formazione della
coscienza politica dei contadini e degli artigiani,
chiamati all'esercizio della sovranità, e fu l'opera di
Geremia Gotthelf, di Pestalozzi, di Enr. Zschokke, di
Stefano Franscini. Nei rami superiori dello scibile fu
l'opera di filosofi e di naturalisti, di sociologi, che non
intesero all'effetto rettorico ed agli strepitosi effetti
letterari, ma alla sincerità, alla ricerca di verità
accessibili a tutti. Maghi della filosofia o mostri della
letteratura come Nietsche e D'Annunzio non ottengono
successi in Isvizzera. La nostra educazione aborre
dall'effetto istrionico. Non fa fremere, non fa sussultare,
ma fa riflettere alle cose della vita senza eccessi di
furore nè d'entusiasmo. Alle Camere federali si può
parlare in tre lingue e generalmente si parla disadorno:
ma chi declama si fa compatire. Questo non sarà un
carattere culturale: vuol dire che è un carattere senza
aggettivo.
Formare la coscienza è prevenire la democrazia
contro le minacce della demagogia.

141
Quella demagogia che può nascere tanto dall'abuso
della libertà quanto dall'uso della tirannide, tanto dalla
idolatria del numero, quanto dal feticismo dell'eroe.
Fu raggiunto il fine? Sarebbe temerario il dirlo, ma
ventott'anni dopo l'ultima nostra guerra civile, quella dei
180 morti, fu possibile alla nuova costituzione affidare
al soldato svizzero, al popolo svizzero il possesso
materiale del suo fucile con le munizioni. Potessero
farlo le grandi nazioni culturali che si guardano in
cagnesco di qua e di là dal Reno al cospetto dell'Europa
trepidante... e rovinata!

***
Cittadini svizzeri! Forti di questa civica educazione
proponiamoci di perfezionarla.
Il filosofo della nuova rivoluzione spagnola, Michele
de Unamuno, ha detto che la vita politica richiede dalle
collettività una morale collettiva. Una nazione, una
classe, un partito devono essere educati all'esame di
coscienza. Nessun governo, nessuna fazione non ha mai
avuto ragione al cento per cento. Saper riconoscere i
propri torti è condizione assoluta del governarsi come
del governare.
Cittadini svizzeri, questo socratico insegnamento noi
lo conosciamo da secoli. Il grande filosofo don Miguel
de Unamuno, visse in Isvizzera ed ebbe nome Nicolao
della Flue.
Raccogliete, o giovani, la nostra eredità politica!

142
Essa non è quella di un tramontato «nucleo di potenza
militare», ma quello di una difficile ma vigorosa
compagine di educazione civile.
L'avvento delle masse può, secondo gli umori, essere
considerato come il tramonto della civiltà o come il
sorgere di una civiltà nuova: (forse i due concetti non
sono antitetici); ma è un fatto sociale di formidabili
conseguenze. Noi, eredi delle antiche democrazie,
precursori delle nuove, abbiamo il dovere del rispetto di
noi medesimi.
Fate, o giovani, che la patria nostra prosperi e viva!

143
II.
Le convergenze culturali svizzere21

Signore e Signori,
È un rito oramai, per noi svizzeri, che dovunque si
compia una manifestazione di vita spirituale sieno
chiamate le tre lingue nazionali ad esprimere, con
l'accento loro proprio, la convergenza dei sentimenti che
a quella manifestazione si riferiscono.
Celebrandosi oggi l'assegnazione di un premio
nazionale di letteratura a Jacopo Schaffner, dopo quello
conferito a Francesco Chiesa, si volle ch'io parlassi per
portare al poeta allemannico il saluto di una gente latina.
La quale cosa io, pure inadeguatamente, mi accingo
di buon animo a fare perchè qualche cosa, oltre la voce
della disciplina, mi pulsa per di dentro che oggi
sembrami occorra significare.
In questo ultimo secolo ha ripreso più che mai la
glorificazione della lingua come fattore di civiltà: e da
questo nobile intento taluno è trasceso alla tesi essere la
lingua, più che forma, sostanza di civiltà, cosicchè non

21 Discorso pronunziato dall'on. Bertoni a Basilea, il 5 ottobre


1930, celebrandosi il conferimento del «gran premio» di
letteratura svizzera al romanziere Jacopo Schaffner.
Vedi Dovere dell'11 ottobre 1930.

144
la nascente civilizzazione di un popolo nuovo forgi la
lingua propria, ma la lingua stessa sia il fattore primo od
unico d'una civiltà nuova.
Io mi guarderò bene dal criticare il valore di questa
tesi, ma qui in questa dotta Basilea, dove insegnò
Andreas Heusler, mi sia lecito richiamare una sua
sentenza: «essere le istituzioni che un popolo
liberamente si è dato, una parte integrante della sua
cultura».
Questa nostra cultura ha da noi caratteri propri e
l'opera dello scrittore che onoriamo ne porta il marchio,
come l'opera di Ramuz, il borgundo: come quella di
Francesco Chiesa, il lombardo.
Egli è, signore e signori, che della nostra costituzione
politica e sociale svizzera si può dire quello che
Cicerone disse della repubblica romana, contestando
l'idealismo puro di Platone: «non essere l'opera nè di un
uomo nè di un giorno, ma l'elaborazione plurisecolare di
un popolo».
Questo popolo ritenne del Medio Evo tutto ciò che
quell'epoca cavalleresca ed ingenua ha avuto di grande,
simbolizzato nella Cattedrale e nel Palazzo: la libertà
comunale. Ogni Cantone svizzero è una projezione
storica del Comune e il «Conseil général» di Ginevra è
fratello germano della «Landsgemeinde»
dell'Appenzello.
Della Riforma e della Controriforma, questo popolo
ha ritenuto la democrazia. Monarchico in Germania e in
Inghilterra, il protestantesimo è democratico a Ginevra
145
come a Zurigo, ed è questo protestantesimo, non quello
dei monarchi, che passò l'Oceano e ritornò in Europa
con l'etica civile di Franklin, cosicchè la rivoluzione
americana e quella francese procedono in gran parte da
Calvino e da Rousseau. Ma anche la Controriforma,
dispotica alle Corti di Madrid, di Vienna e di Parigi, è
democratica in Isvizzera.
Questa nostra Riforma, questa nostra Controriforma,
non hanno guerreggiato con le armi se non nei brevi
episodi di Kappel e di Wilmerga; è sul terreno della
cultura che hanno misurato le loro forze, creando
ginnasi e università: è nel campo dell'educazione
popolare che rivaleggiò più tardi lo zelo del Pestalozzi e
della sua schiera con quello dei padri cattolici, Girard,
Soave e Fontana.
E quando in Europa l'illuminismo conquistò il cuore e
la mente dei sovrani riformatori, la Rivoluzione svizzera
partì dagli intellettuali, dall'alto al basso, per la voce di
Geremia Gotthelf, di Bodmer, del decano Bridel, di C.
V. Bonstaetten; si espresse per la grande scuola dei
pedagogisti diventati uomini politici e degli uomini di
stato diventati pedagogisti, fra i quali si eleva la mite ed
austera figura di Stefano Franscini, ad esempio di quella
poderosa di Enrico Zschokke.
È da questa riforma, è da questa controriforma, è da
questa rivoluzione che procedono le figure letterarie di
Cherbulliez e di Sismondi, del filosofo Amiel come del
filosofo Vinet, ed è dalle stesse che si eleva la figura
radiosa di Goffredo Keller.
146
Educatori di se stessi, formatori di anime e di
caratteri, educatori di cittadini e di popoli nell'ideale
della libertà e della dignità umana, questi uomini sono i
fabbri di una nostra cultura.
A voi, scrittori nuovi di questo XX° secolo, a voi di
continuare la gloriosa tradizione.
Questa nostra cultura è come un albero secolare e
vivente le cui radici si protendono e si approfondano nei
campi vicini e ne traggono vital nutrimento. Ma la linfa
è dell'albero, e l'albero è nostro.
Salute a voi, Jacopo Schaffner, potente figura di
scrittore svizzero, dalle radici germaniche, dai fiori
nostrani.

147
III.
Per il ritorno alle tradizioni22

Egregi e cari giovani,


Giosuè Carducci, fra i poeti della nuova Italia quello
in cui più profondamente vibrò l'anima popolare,
rievoca con mesto orgoglio la memoria dell'antico
comune italico «quando tutto il popolo era cavaliere»,
ed a Balduccio di Buonconte arringante i suoi
concittadini pone in bocca l'apostrofe meravigliosa:
«Voi che re siete in Sardegna
ed in Pisa cittadini»
Così quel sommo sentiva e comprendeva la
repubblica. Non gregge supina ai voleri ed alle blandizie
di un capo, non turba irrequieta abbandonantesi al vento
delle sue passioni, ma dignitosa regalità di uomini liberi.
Felici voi, o giovani, e felice la vostra età se a
quell'altissimo ideale conformerete le opere vostre!
Voi sarete allora assai migliori di noi, che vi
precedemmo di una generazione.

22 Discorso pronunziato dall'on. Bertoni a Zurigo, il 26


febbraio 1916, in occasione della festa annuale degli studenti
ticinesi.

148
Poichè fu gran sventura la nostra di nascere e crescere
quando un dilagamento di volgarità minacciava la
nostra vita civile. Noi abbiamo vissuto giorni in cui ogni
signorilità di modi parve ridicola ostentazione, in cui
sembrò quasi che la democrazia richiedesse una tal
quale umiliazione di ogni cosa elevata, che gli uomini
distinti temessero parerlo troppo davanti una comune
eguaglianza di povertà intellettuale.
Donde ci venne questa epidemia nol so. Certo i nostri
maggiori erano stati più fini e distinti. Sospetto che ci
venisse dalla Francia dove il medesimo fenomeno aveva
preceduto, al cospetto dell'Europa stupefatta.
Nel grande duello fra la tradizione delle crociate e
quella della rivoluzione, che ivi si andava combattendo,
avevamo veduto i cattolici francesi, essi che dietro di sè
avevano la tradizione apologetica di Bossuet e di
Châteaubriand, polemizzare nel gergo furbesco di un
Veuillot, e coloro che si dicevano continuatori dello
spirito di Voltaire, accanirsi nella maniera stilistica di
Rochefort, l'aristocratico marchese parigino, che per
«posa» recava nella stampa politica il turpiloquio della
bettola e la mentalità dell'isterico.
Noi non giungemmo a tal grado di aberrazione, ma
l'esempio ci fu funesto. Tutta la nostra vita ne soffrì;
molte anime gentili si ritrassero dalla vita pubblica non
volendone subire il fastidio; molte persero nell'ambiente
bislacco le più belle loro virtù. Ogni serenità di giudizio
fu conturbata. Noi non vedemmo più, nel contrasto dei
partiti una necessaria manifestazione della meccanica
149
sociale tendente all'equilibrio delle forze statiche e
dinamiche, che altro non è il contrasto tra il principio
rivoluzionario e il conservatore, ma ognuno trattò con
eccitata convinzione il proprio avversario come un
nemico dell'uman genere, senza misura, nè pietà.
Ciò non poteva durare per sempre. Il tempo ha già
recato qualche sollievo; ma voi giovani vi libererete e
libererete il paese da ogni bruttura estranea al genio
della nostra stirpe, alle tradizioni dell'arte nostra. Voi
tornerete, nelle manifestazioni della nostra vita, a quel
senso della linea tranquilla e pura, a quel gusto
armonico delle proporzioni che fu la qualità costante dei
nostri maestri d'arte così nella severità dello stile
lombardo come nella gaia agilità dell'ornato secentesco.
A testimonianza di tutti i vostri docenti, uno spirito
nuovo anima la veniente generazione. All'amore dello
studio, all'amor proprio del successo personale voi
andate associando un tutt'altro gusto negli svaghi e nei
trattenimenti che non fosse quello della nostra gioventù.
Splendida prova ne è il carattere di questa stessa vostra
festa, la distinta qualità dei vostri ospiti e visitatori, la
musica, il canto ed ogni arte di cui vi allietate.
Io ho fede, e «fede è sostanza di cose sperate» – che
questo nuovo orientamento di gusti, questa nuova
educazione di sentimenti non sarà effimera apparizione,
ma lascerà traccia indelebile nella vita civile del nostro
Ticino. Lo credo, perchè mi sembra scorgerne la causa
principale in una felice trasformazione, che già da
diversi anni si è andata disegnando, nell'educazione
150
delle madri. Nel Ticino la donna accenna a voler
superare l'uomo nello studio di tutte quelle discipline:
lettere, arti, pedagogia, che tendono ad elevare il valore
morale dell'umanità. Non è solo la moda che conduce
tanta abbondanza di signore e di signorine ad ogni
trattenimento più intellettivo; è anche un amore sincero
per la civiltà; è anche il sentimento di un nobile
bisogno: quello di poter sorreggere, ora o più tardi, i
propri figli per le ardue vie della scienza. Non mai,
come oggi, si videro le madri seguire e curare
l'educazione dei giovani loro, anche nei gradi secondari
e superiori degli studi.
Un seme tale non può rimanere sterile in un terreno
come il nostro. E se un'êra nuova ne deve nascere, non
sarà che ritorno alle tradizioni dei gloriosi avi nostri, la
cui concezione della vita, affermata nell'arte, fu quella
d'un popolo cortese, generoso e sano.

151
IV.
Saluto ai Confederati
di Sciaffusa, di Glarona e dei Grigioni 23

Ardua cosa parrebbe, o cittadini e magistrati di


Sciaffusa, di Glarona e dei Grigioni, trovare la nota
comune che risponda ai caratteri dei vostri cantoni.
Troppo facile invece corrispondere nelle usate forme
della cordialità ai sentimenti di simpatia che il vostro
oratore così gentilmente ci ha espresso.
La simpatia dei Confederati per i fratelli ticinesi è
traboccata negli anni ansiosi della mobilitazione. I nostri
battaglioni furono accolti nei vostri paesi come ospiti
specialmente cari. I vostri soldati furono accolti dai
nostri cittadini e contadini non come uomini di estranea
favella, ma come gente della loro gente. Essi
precisarono così le loro idee a riguardo della nostra
stirpe, rettificarono forse antichi pregiudizi, appresero il
canto delle nostre canzoni e tornarono alle loro case
sapendo che «i ticinesi son bravi soldà».
Alla mobilitazione militare tenne dietro quella civile:
la mobilitazione degli animi per i provvedimenti che le
mutate condizioni esigevano. Vi furono le
«rivendicazioni ticinesi», come ogni parte del mondo
23 Discorso pronunziato nel mese di luglio del 1929 in
occasione del Tiro federale di Bellinzona.

152
civile ha ormai le proprie. Ora in queste abbiamo
trovato, noi ticinesi, la più larga comprensione in voi,
quale appena poteva aspettarsi da un fine umanista
come il vostro Bolli, o sciaffusani, o dai vostri deputati
glaronesi e grigionesi che quasi tutti comprendono e
parlano la nostra lingua.
Ma tutto questo, pur essendo verità senza frange,
potrebbe essere detto sotto la specie di una semplice
cortesia.
A me importa dire di più: e lo dirò perchè l'ora è
propizia e rarissima l'occasione.
Dissi una volta a Ginevra che tutti i Cantoni svizzeri
hanno un fondo di storia comune, così che il «Conseil
général» di quella città è solo una variante della
Landsgemeinde di Glarona. I cantoni svizzeri invero
non sono altra cosa che i comuni del medio evo i quali
lottarono per la loro libertà, per la dignità dei loro
cittadini contro le piccole e le grandi autocrazie feudali.
La lega svizzera, colle sue leghe grigie è tutto ciò che
resta in Europa della più nobile, della più civile ed
insieme della più cristiana delle ascensioni morali del
medioevo. Perirono le leghe lombarde, perirono le leghe
renane, perirono le leghe anseatiche travolte dalla
formazione dei grandi stati dinastici: le leghe alpine
sopravvissero, prevalsero, evolsero, formarono una lega
sola, sede ed idea della Lega delle nazioni.
Altri ci compianga di essere piccola provincia
periferica di grandi nazioni: noi ci inorgogliamo di

153
essere nucleo di potenza civile. (Dico civile e non
militare).
Sciaffusa che per l'Impero di Augusto fu testa di
ponte al di là del Reno, Glarona e i Grigioni che
nell'Impero furono la Raetia, le valli del Ticino che
nell'Impero furono la Lepontia, assursero nell'ora
magnifica dei Comuni e delle cattedrali alla dignità di
città libere, di vicinie di «liberi arodari» affrancati da
ogni avvilente servitù personale.
Perciò noi ticinesi non ci gloriamo di essere stati
sudditi di Lodovico il Moro, ma di essere stati le quattro
pievi di Lugano, le borghesie di Locarno e di
Bellinzona, le comunità delle valli che lottarono,
sostenute sovente dalla Chiesa di Milano, contro il
grande feudalismo, nel quadro politico che fu caro al
divino Alighieri.
Voi Grigioni la cui storia è degna di una grande
nazione, voi popolo misto di gente etrusca, latina e
allemannica, voi che avete vissuto e superato la guerra
dei trent'anni, la Riforma e la Controriforma, che avete
cozzato con l'Austria, la Francia e la Spagna, che della
Repubblica di San Marco foste fidi amici, sempre
rimanendo voi stessi, colle vostre virtù e coi difetti delle
vostre virtù, voi siete attraverso i secoli l'esempio
luminoso del comune rustico, che piacque a Giosuè
Carducci.
Per questo in casa nostra siete in casa vostra.
Voi, gente di Glarona, razza nobilmente rusticana,
celto-romana d'origine, germanica per educazione, voi
154
siete maestri, oggi più che mai, alla Svizzera, per il
sottile accorgimento con cui avete saputo raggiungere
l'accordo del lavoro industriale col lavoro agricolo,
l'armonia delle nuove forme sociali con la tradizione
borghese. La vostra «Landsgemeinde» ha saputo
risolvere problemi davanti ai quali hanno fallito
parlamenti di illustri nazioni. Avete fatto opere grandi
con umili mezzi, ed in questo auguro al mio paese di
sapervi imitare.
Ancora una parola a voi, gente di Sciaffusa. Voi avete
nella vostra storia moderna il più gentile esempio di
solidarietà confederale. Quando nel 1854, sei anni dopo
il gran Patto che ricostruiva la Svizzera, i ticinesi
improvvidi, sommossi da ingerenze straniere,
rinnegarono Stefano Franscini, loro Consigliere
federale, non rieleggendolo come loro deputato, fu il
popolo di Sciaffusa che lo elesse come deputato proprio
e gli permise di morire Consigliere federale.
Ah, vengano i predicatori di un razzismo convenevole
alla zootecnia piuttosto che al consorzio civile, vengano
a dirci che voi siete di diversa lingua, dunque di
un'anima necessariamente diversa dalla nostra!
Le parole sono parole, e le belle parole valgono
talvolta a dir bruttissime cose, ma i fatti parlano, e da
quel giorno la Svizzera ha contato una bella pagina di
più nella sua storia.
Compatrioti di Giovanni Müller, compatrioti di
Glareano, compatrioti di Giorgio Jenatsch, io vi dò il

155
benvenuto nella nostra terra soleggiata, accogliendo a
grande onore le bandiere vostre.

156
V.
Per la difesa dello spirito svizzero24

Il Consiglio Federale, appoggiato da tutti i partiti


rappresentati nelle Camere, si propone e propone a noi
tutti, cittadini in paese ed all'estero, di vegliare alla
difesa di questo nostro spirito svizzero che per tanti
secoli ci ha uniti e ci ha valso il rispetto di tutti i paesi
del mondo.
L'appello si è mostrato urgente dopo la soppressione
dell'Austria e si aggrava sempre più dacchè altri stati,
altre nazioni vengono invasi, soppressi con la forza o
con la malizia, al punto che tutta l'America ne è
commossa, da Nuova York a Buenos-Aires.
La Svizzera deve vegliare alla propria difesa armata e
su questo non c'è che ad obbedire, ma la difesa per terra,
per mare e per aria non ci dispensa dalla difesa morale,
da quella delle nostre coscienze minacciata dalle
influenze straniere.
Questo già lo sapevano i più oculati fra i nostri
compatrioti. Già da oltre un anno un ticinese, abitante
ed operante in una delle capitali sudamericane mi
scriveva segnalandomi l'imbarazzo in cui viene a

24 Articolo pubblicato nella "Cronaca Ticinese" di Buenos-


Aires, salvo errore nel 1937.

157
trovarsi un ticinese laggiù nel moderno infuriare dei
nazionalismi europei.
«Tu ti dici svizzero e non italiano; perchè allora non
parli svizzero? Cos'è questo imbroglio?»
E lo svizzero si sentiva imbarazzato nel rispondere.
Ora la prima necessità per noi, che corrisponde anche
ad un dovere verso gli americani che ci ospitano, è di
poter rispondere pressapoco in questi termini:
La Svizzera non è uno stato, ma una Confederazione
di 22 Stati ciascun dei quali ha la propria sovranità,
anche in materia religiosa, pressapoco come aveva
voluto creare per il Sud America il grande Simone
Bolivar (quello che diede il nome alla Bolivia).
Bolivar aveva voluto fare una Confederazione, cioè
una «alleanza perpetua» fra le diverse repubbliche
americane del Sud (il Brasile escluso perchè allora era
un impero) ed il primo effetto di quella federazione
sarebbe stato di rendere impossibile ogni guerra fra gli
Stati alleati. Un patto simile avrebbe reso vana ed
impossibile una guerra assurda quale l'ultima fra la
Bolivia e il Paraguay, nella quale due grandi compagnie
petrolifere del Nord si sono disputate il possesso dei
pozzi petroliferi del Chaco (veri o supposti) e i due stati
ne uscirono rovinati finanziariamente dopo aver versato
rivi di sangue fraterno.
Noi svizzeri, parlando con gli americani e con gli
stranieri domiciliati laggiù, dobbiamo anzitutto vantare
la nostra Costituzione libera e pacifica che dura già da
secoli. Noi non abbiamo avuto altre guerre fra di noi
158
fuori di quelle del 1500 per la riforma religiosa (cattolici
e protestanti) e quella del 1848, anche essa più o meno
religiosa, che non diede neppure duecento morti.
Nessun altro stato del mondo, repubblica o monarchia,
può dire altrettanto.
Possiamo anche dire (e non è vanteria ma un dovere)
che nessun stato del mondo ha meno analfabeti in
proporzione di popolazione, e nessuno ha tante scuole,
primarie, secondarie e superiori quante ne abbiamo noi.
Anche la statistica della delinquenza è tutta a nostro
favore; nessuno stato vi figura più onesto, più
galantuomo.
Al giorno d'oggi i nostri vicini più potenti possono
pretendere (come si dice) di comandare in casa nostra,
di farci la lezione, ma noi pretendiamo di non avere
altro bisogno che quello di lasciarci lavorare in santa
pace.
Di fronte a questo vanto, c'è però un conseguente
nostro dovere. Quello di conservare le nostre tradizioni,
le nostre belle e onorate istituzioni.
A questo fine occorre il nostro patriottismo, che è
virtù civica; ciascuno di noi vi può e vi deve partecipare
con la pratica delle virtù private, ciò che in lingua
povera si chiama modestamente il galantomismo.
Che ogni svizzero si proponga di vivere da
galantuomo, che egli consigli ai suoi simili di esserlo
altrettanto, che eziandio li aiuti ad esserlo (ciò che non è
sempre così facile), e questa sarà la migliore difesa dello
spirito svizzero, la più semplice, la più efficace.
159
VI.
La Svizzera come idea25

Vi è un solo 1° agosto nel Calendario.


Questo giorno vogliamo consacrarlo alla meditazione
del valore morale della patria nostra. Gli altri 364
possiamo lasciarli al malumore politico, alle dissensioni
di partito, allo snobismo per le teorie nuove che
pullulano in Europa, come le sette religiose in Giudea
dopo la distruzione del Tempio, come le scuole
alessandrine dopo la conquista romana.
Questo giorno di meditazione è tanto più necessario
dacchè una parte della nostra gioventù, gli spiriti
irrequieti, gli ideologi, i cercatori di nuove correnti
letterarie, gli ipercritici si sono messi a discutere il
contenuto ideale della patria svizzera, reclamando
qualche cosa di meno prosaico della questione granaria,
delle questioni dello schnaps, del burro e delle carni
macellate.
La gioventù ha bisogno di poesia e di novità.
Vorrebbe un nuovo idealismo, un passo più in su del
«referendum» e della nostra vecchia democrazia
elettorale. Questo stato d'animo è legittimo; può essere
indizio di salute morale, se si vuole: ma anche un
tantino pericoloso.
25 Dal "Dovere" del 1. agosto 1928.

160
Gli assetati di idealità nuove si guardino intorno.
Verrà il nuovo orientamento da Mosca o da Nuova
York? Volgerà al comunismo od al trionfo del
capitalismo? Supposto che l'idea della sovranità abbia
bisogno di una revisione, che il concetto dello Stato
debba essere riformato, sarà secondo il modello che
trovò la massima espressione nella Germania di
Guglielmo II, o secondo il nuovo modello parigino che
vuole il ritorno della «France de Louis XIV», o secondo
i modello nuovissimo che ci viene da Roma?
La dittatura come fine della democrazia ha celebri
precedenti in Grecia ed a Roma. Dove ha condotto
quelle antiche repubbliche? Alla gloria od alla
catastrofe? E le dittature nuove, le attuali, sono segno di
una miglior salute del corpo sociale in cui si svolgono, o
di mancanza di vita sana? E dato che la dittatura sia
indispensabile alla nuova Polonia e alla vecchia Spagna,
cosa c'è in quei regimi di traducibile nella nostra vita
svizzera? Quale dittatura politica od economica
applicare a Zurigo, all'Appenzello e a Ginevra?
Non c'è la minima possibilità di affacciare il
problema senza arrivare dritto alla conseguenza che la
Svizzera federativa e democratica è quello che è, o deve
essere disfatta.
Infatti nessuno confessa, e forse nessuno ammette
nella propria coscienza, che la Svizzera sia da disfare
per estirparvi la mala erba della democrazia. Bastò
infatti la minaccia venutaci dall'estero contro la
democrazia, bastò qualche lieve accenno di ingerenza
161
estera nelle cose svizzere, perchè dall'animo dei
socialisti svizzeri scattasse fuori la scintilla patriottica,
che la vernice marxista era riescita a coprire, non a
distruggere.
Tuttavia nel ceto cosiddetto culturale è venuto
maturando, nell'atmosfera di guerra, e nel clima del
dopoguerra, un altro stato d'animo, C'è chi dice: sta bene
una Svizzera democratica e federativa. A condizione
però che rimanga un valore materiale e che non si attenti
di vantare un valore culturale proprio. I trattati fra le
grandi nazioni, le vere nazioni, autorizzano gli svizzeri a
rimanere svizzeri; magari lo comandano nel loro
interesse privato o comune, ma culturalmente lo
svizzero tedesco rimanga tedesco, francese il francese,
italiano l'italiano. La Svizzera è e rimanga un nucleo di
potenza militare a guardia delle Alpi, come
Costantinopoli turca a guardia del Bosforo. Per procura!
La Svizzera non è una nazione, non ha una lingua
propria, dunque non può avere una cultura propria. Ogni
svizzero abbia due patrie: quella naturale e quella di
prestito.
Molti a cui si attribuisce un simile ragionamento
protesterebbero indignati. Ma c'è per aria uno spirito di
dissolvimento europeo. Alla metà del secolo scorso i
grandi uomini politici avevano davanti agli occhi una
patria grande in una grande Europa. Cavour, Gladstone,
Napoleone III, Bismarck appartenevano a questa scuola.
L'idea dell'Unità germanica, come quella dell'Unità

162
italiana non implicavano menomamente un programma
d'impero sopra un'Europa avvilita.
Dopo venne il nazionalismo di tipo balcanico. La
propria elevazione parve doversi dedurre dall'altrui
abbassamento. Il nazionalismo non si contentò d'essere
bellicoso, diventò rissoso. L'ultima guerra fu il frutto
della balcanizzazione della coscienza nazionale degli
europei.
E non furono certo i repubblicani, nè le democrazie
che la scatenarono. Oggi tutti si palleggiano le
responsabilità; ma nè Pietroburgo, nè Belgrado, nè
Vienna, nè Berlino ignoravano quello spirito di
dispotismo che oggi si vorrebbe invocare come rimedio
del malanno democratico. La guerra fu un fatto
dinastico, militarista, plutocratico, come si vuole, ma
certo non fu un fatto democratico. E non fu perduta
dagli Imperi soltanto, ma dall'Europa. Sola vincitrice è
l'America!
Intanto bisogna che gli Europei continuino i loro
litigi, il loro nazionalismo balcanico, rissoso, astioso e
miope. E c'è sempre in Isvizzera chi ne patisce
l'endosmosi.
Questi nazionalismi sono però tutti intessuti di bugie
malgrado la loro veste culturale. Prima di tutto c'è una
cultura europea, le cui grandi sorgenti, l'ellenismo, la
romanità, il giudaismo cristiano, il rinascimento sono
comuni a Praga come a Madrid. Poi c'è il grande
apporto di molti secoli di tutte le vere nazioni culturali
di Europa, fra le quali la Svizzera ha la sua larga parte.
163
Poi la pretesa unità etnica dei grandi Stati è essa
medesima una menzogna convenzionale, scientemente e
storicamente insostenibile.
Resta l'unità linguistica, la quale è così poco
essenziale ad una nazione, che nei nuovi trattati
abbiamo visto creare quattro grandi nazioni: la Polonia,
la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, la Rumenia, che non
hanno unità etnica nè linguistica e che tutte insieme non
hanno la metà tradizione e coscienza politica della
nostra vecchia Svizzera. Altri nuovi piccoli Stati, con
qualche unità linguistica, hanno poi assai meno
esperienza politica di un qualsiasi nostro Cantone.
Felice l'Europa se tutti i nuovi Stati, sorti dal 1878 in
poi, avessero tanto contenuto ideale come la svizzera!
Felice l'Europa se tutte le grandi sue nazioni avessero
una omogeneità di coscienza politica e di tradizione
storica come ha la Svizzera.
Storicamente tutti gli antichi Cantoni svizzeri sono
nati dal Comune medievale; il Conseil général di
Ginevra e le Landsgemeinde dell'Appenzello sono, a chi
le studi, due analoghi fenomeni della vita comunale
antica. La storia conobbe, contemporanee con la Lega
svizzera e con le Leghe grigie, le altre leghe d'Italia e di
Germania. Quelle non hanno potuto resistere alle
discordie intestine od alla conquista delle Despotie. Se
le leghe svizzere hanno resistito e prevalso, è perchè in
loro era più forte l'idea, più spontanea la volontà, più
chiara la coscienza.

164
L'idea svizzera ha resistito alla guerra dei trent'anni,
alla Riforma, alla Controriforma, alle guerre
napoleoniche, alla guerra mondiale, perchè è l'idea
giusta, la vera, quella che oggi tende ad imporsi al
mondo con la Società delle Nazioni. È l'idea (religiosa
ancora prima che politica) dell'eguaglianza delle anime
davanti a Dio, della quale l'eguaglianza dei cittadini
davanti la legge è un'immediata conseguenza. Se questo
concetto è falso, è falso tutto il cristianesimo! Lo Stato
per noi non è al disopra del cittadino, ma è la somma dei
cittadini.
La grande idea morale che ha ispirato la politica
svizzera, è l'educazione civica. Le guerre religiose non
durarono 30 anni in Isvizzera, ma furono brevi episodi.
Riforma e Controriforma si risolsero tosto in una grande
rivalità fra cattolici e protestanti a chi creasse più
scuole, e le migliori; a chi meglio conquistasse le anime.
Quando, a metà del secolo XVIII, albeggiò
l'Illuminismo, i più grandi uomini della Svizzera
scrissero libri per gli operai e per i contadini, per
educarli al consorzio civile. Così il «Socrate del
Villaggio», così «Leonardo e Gertrude», così tutta la
serie dei nostri grandi scrittori fino a Goffredo Keller;
poi dei nostri grandi esteti, come F. C. Meyer, il
Widmann, lo Spitteler...
Ed è frutto di questa educazione politica se ad ogni
soldato svizzero si può affidare la custodia della
carabina d'ordinanza. Signori ammiratori dello straniero,
quale Potenza straniera oserebbe fare altrettanto?
165
Questo nostro ideale ha prodotto una nostra
letteratura, particolarmente nella novella e nel romanzo
di costumi, con caratteri comuni dal Lemano al
Bodamico. Letteratura sincera, pacata, onesta; agli
antipodi dell'esaltazione, del sofisma, della morbosità di
cui sono piene le recenti letterature straniere. Francesco
Chiesa è in questo senso un novelliere perfettamente
svizzero. La sua arte, a mille miglia di quella di
D'Annunzio, è vicinissima a quella di Goffredo Keller e
di Corrado F. Meyer.

166
VII.
La questione universitaria ticinese26

«...La Svizzera italiana è, contrariamente all'opinione


fatta, un paese di tradizioni colturali non indifferenti.
Essa ha delle splendide tradizioni artistiche,
specialmente in architettura, cioè in quell'arte che più
d'ogni altra esige il presidio delle matematiche.
I nostri antichi spregiavano l'architetto «senza
aritmetica e senza geometria» come un praticonaccio.
Maestro d'arte era solo colui che aveva una certa
istruzione generale. Non è vero che quei maestri
attingessero tutto il loro sapere nelle accademie di
Milano e di Torino, e non è vero soprattutto quello che
andava dicendo con impeto polemico il Bonstetten, che
le prefetture italiane versassero nella più squallida
ignoranza, fra una caterva di legulei da strapazzo e di
zotici pretacci.
L'appassionato patrizio novatore bernese polemizzava
secondo il suo punto di vista riformatore ed umanitario,
e ciò è rispettabilissimo. Gli scrittori ticinesi del primo
periodo come Franscini, polemizzavano anch'essi con
nobili sentimenti quando verso il milleottocentoquaranta
dipingevano a tetri colori le scuole del regime antico
onde persuadere il Gran Consiglio ad osare le riforme
26 Dagli "Annali universitari svizzeri" 1920-1921.

167
scolastiche ormai necessarie. Tutto ciò non deve farci
dimenticare che alla fine del XVIII secolo le terre
ticinesi, con non più di 100.000 abitanti possiedevano
un ginnasio a Mendrisio, uno a Lugano, uno a
Bellinzona, uno a Locarno, tenuti da ordini religiosi: vi
erano inoltre dei seminari minori ad Ascona e Pollegio,
in totale sei istituti dove si studiavano rettorica ed
umanità. A Bellinzona si insegnò pure (ad un certo
tempo almeno) filosofia e matematica. A Lugano la
filosofia e la matematica furono insegnate già dal XVII
secolo, e tale doveva essere l'importanza di quegli studi
che gli Statuti di Lugano sanzionavano per gli studenti
l'immunità accademica dell'arresto per debiti. L'istituto
era diretto dai padri somaschi, e doveva aver buona
fama se ci venne, giovinetto, un Alessandro Manzoni,
della più cospicua e doviziosa nobiltà milanese. Aveva
una biblioteca di almeno 8000 volumi, si può dire ricca
per quei tempi.
Non meno diffuso era l'insegnamento primario. La
politica borromea aveva inteso a creare nelle prefetture
italiane un baluardo contro la Riforma. Il Collegio
Elvetico di Milano era un frutto di quella politica: l'altro
era il gran numero di cappellanie scolastiche che sorsero
dal XVI al XVIII secolo nelle Valli. Alla fine del regime
landfogtesco le borgate e le campagne ticinesi avevano
per certo un'istruzione di gran lunga superiore alle loro
consimili in Lombardia.

168
Il Ticino ha anche fornito alle scuole d'Italia insigni
educatori ed una schiera di maestri d'arte alle accademie
di Milano e di Torino.
Era dunque un paese colto e conservò ottime
tradizioni di coltura anche nel corso del XIX secolo.
Il numero di giovani ticinesi che frequentarono le
università italiane fin dal principio del secolo scorso fu
sempre altissimo, anche in confronto ad altre province e
cantoni assai più ricchi.
Con lo sviluppo della Confederazione, specialmente
dopo il 1848, nacque il bisogno nella gioventù ticinese
di istruirsi anche nelle lingue dei confederati. Cominciò
dunque una marcata tendenza verso le università d'oltre
monti, specialmente di Ginevra, e più tardi di Losanna.
Il politecnico di Zurigo con la sua gran fama portò via
di botto tutta la corrente dei tecnici, più tardi l'università
cattolica di Friborgo gli aderenti del partito cattolico.
L'unificazione del diritto fece della facoltà svizzera una
necessità, così che ora quasi nessun ticinese studia leggi
in Italia. Il movimento protezionista della classe medica
svizzera, minacciata dall'invasione germanica ed
austriaca, condusse allo stesso effetto per i giovani
sanitari.
Nulla di più naturale che di questo stato di cose si sia
preoccupata la gioventù ticinese, ed anche la stampa. La
guerra ha dato in ogni paese una grande spinta all'istinto
«razzistico» ed al sentimento nazionalistico-colturale, se
pur la guerra stessa non sia il frutto della coltivazione di
tale istinto e di tale sentimento in un lungo periodo
169
dell'anteguerra. Ora i giovani ticinesi reclamano il
diritto di studiare nella loro lingua. Sarebbe opera stolta
voler contraddire ad una aspirazione tanto naturale e
peggio il volerle attribuire sinistre intenzioni. La
saggezza esige che si esamini il problema in tutti i suoi
elementi teorici e in tutte le sue difficoltà pratiche....»27.

***
...«Siamo dunque d'accordo anzitutto sul punto
fondamentale dell'universalità della cultura e che
l'espressione «cultura italiana» debba intendersi, agli
effetti del nostro discorso, nel senso «della lingua
materna come il mezzo più efficace, come lo strumento
indispensabile per assurgere a vasti orizzonti di
pensamento e di sapere», nella quale opinione io
consento pienamente con voi28. Il fatto eccezionalissimo
27 Segue, negli "Annali", il testo della mozione presentata al
Consiglio degli Stati dagli on. Brenno Bertoni ed Emilio Bossi,
nella tornata del 9 giugno 1920, testo che qui riproduciamo: «Il
Consiglio Federale è invitato a prendere l'iniziativa in favore di
una convenzione universitaria con l'Italia allo scopo di permettere
ai giovani svizzeri di lingua italiana di fare o completare i loro
studi accademici nella loro lingua materna senza pregiudizio della
loro carriera professionale in Isvizzera. – È parimente invitato ad
esaminare se non convenga riformare il regolamento 29
novembre 1912 sugli esami federali d'arti sanitarie nel senso degli
art. 67, 68 e 71 del Regolamento 2 luglio 1880». Firmati Bertoni,
Rossi.
28 Così l'on. Bertoni in una lettera ad Emilio Rava – ora
dottore di leggi e avvocato, già presidente della "Federazione

170
che taluno, ancorchè compiendo i suoi studi liceali ed
accademici in altra lingua, sia poi riuscito a conseguire
per la forza della volontà e dell'ingegno una
individualità superiore (ricordo la mente diamantina di
Plinio Bolla) non ha maggiore conseguenza di ogni altra
eccezione che non infirma la regola ma la conferma.
«A questo riguardo abbondo anzi nel vostro senso.
Per la prima volta, ch'io sappia, voi ponete il dito sulla
piaga più vera e maggiore, quella degli studi secondari
compiuti in tedesco e francese. Perfettamente d'accordo
con voi nel definire tale usanza come una di quelle
violazioni delle leggi di natura che non si possono
compiere senza conseguenza di decadimento e di morte,
mentre mi sembrerebbe alquanto iperbolico il giudizio
se applicato a quei giovani i quali, dotati di
un'intelligenza appena superiore alla media, compissero
gli studi accademici dopo una buona licenza liceale
secondo i nostri ottimi programmi. Abbondo nel vostro
senso perchè sarei felice di una vostra più vigorosa
campagna e contro l'uso che comporta e contro la legge
che tollera cotanta aberrazione.
«Che sul terreno della libertà individuale la vostra
rivendicazione sia più che giustificata non occorre che
lo ripeta tale essendo il terreno della mia mozione. Per
contro mi è gratissimo il poter constatare che il nostro
accordo è perfetto anche sopra un altro terreno «il giusto
equilibrio fra l'una e l'altra frequentazione» allo scopo di

goliardica ticinese" – in data 1. dicembre 1920.

171
poter «far valere di fronte ai Confederati romandi ed
allemannici la civiltà nostra com'essi coltivano ed
affermano la loro, non opponendo ma componendo». Nè
meglio potevano le vostre idee collimare colle mie che
affermando «essere tale collaborazione altamente
patriottica in quanto essa tende ad un maggior
incremento della vita spirituale, politica ed economica
della Confederazione Svizzera».
«Ci incontriamo così col pensiero del nostro
concittadino Konrad Falke, il quale esorta la gioventù
universitaria romanda a completare i suoi studi
universitari in Germania, e la gioventù svizzero-tedesca
a completarli in Parigi od in Roma. Pensiero
giustissimo, imperocchè la Svizzera non avrebbe più
ragion d'essere qualora cessasse di essere un laboratorio
di idee dove si filtra e si traduce l'essenza delle diverse
civiltà cui partecipa. Pensiero fecondo, poichè se la
Svizzera italiana deve poter prestare la cooperazione che
le si chiede non conviene che si isoli nella propria
italianità, ma che s'adoperi ad imparare delle lingue dei
Confederati almeno quanto i Tedeschi si affannano ad
imparare dell'italiano. Sembra paradosso (forse perchè il
paradosso è vero per definizione) ma è innegabile,
anche nella vita commerciale nostrana, che quanto più i
nostri giovani sapranno di tedesco tanto meglio potrà il
Ticino resistere alla infrenabile espansione dei popoli di
Settentrione verso il Mezzogiorno.
«Qui mi si permetta una parola per togliere un nuovo
equivoco. Se ho parlato di scempie suggestioni voi
172
vedete bene che non può riferirsi a quei vostri
sentimenti e a quelle idee in cui ci siamo incontrati,
bensì alla idea che voi dobbiate espatriare quali pitocchi
intellettuali da un paese dal cielo caliginoso. Questo non
potreste ammettere senza far ingiuria, nonchè alla
Svizzera, allo stesso nostro Ticino, il quale, anche nei
suoi tempi più caliginosi, ha sempre avuto tante scuole,
in proporzione dei suoi abitanti, quanto nessun'altra
provincia d'alcun paese del mondo.
«Io ritengo adunque che ci siamo reciprocamente
compresi. Difesa ad ogni costo della nostra lingua, non
solo come materiale glottologico, ma come istrumento
culturale, affermazione della nostra parte nella missione
civile della Confederazione, volontà di concorrervi con
tutte le nostre forze presenti e future.
«Voi potrete compiere questo programma perchè siete
giovani e perchè la vostra generazione ne sente
l'importanza più che la nostra non sentisse.
«Resta il far voti perchè un così nobile compito non
sia mai guastato da quello spirito di fanatismo che il
Lombroso indicava come causa di degenerazione delle
più nobili idee. Voi vi lagnate con ragione di chi
sospetta le vostre intenzioni. Anche il patriottismo può
avere infatti le sue forme degenerative; ma più
facilmente volgono agli eccessi le rivendicazioni nuove,
i nuovi stati di coscienza. Il fanatismo è un vizio della
mente proprio alle persone ed ai popoli in cui la
sensibilità soverchia la critica. Esso conviene a nessuno
meno che all'italiano, la cui mentalità è essenzialmente,
173
forse eccessivamente critica. Manifestazioni di
fanatismo linguistico, che talvolta copriva della sua
bandiera un fanatismo nazionalistico, ne abbiamo avuto
di molte nell'ultimo trentennio, nella Svizzera tedesca.
Vi sarà chi vi dice che i nostri Confederati allemannici
fanno bene ad andare per quella via secondo il
fondamento che natura pone. A quella stregua uno
Zurighese sarebbe tanto migliore svizzero quanto più
imbevuto in germanismo, ma questa è semplicemente la
negazione della Svizzera.
«La nostra via spirituale discende da una parte per la
china dei fiumi, ma risale dall'altra a quelle vette che più
allargano l'orizzonte. Non è un bivio questo, ma una via
sola, la via della linfa fecondatrice che attinge al suolo
le sue energie e le espande nel fiore e nel seme, nella
direzione dell'alto...».

***
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
«...La Svizzera ha già troppe università. Questo è il
punto di partenza29. Sette università, un Politecnico ed
un'Accademia commerciale per un paese di 4 milioni è
una realtà, ma una di quelle realtà che si reggono sulla
tradizione contro ogni ragion logica. Il nostro assetto
universitario si regge per coesione di calce, non per vero

29 Da una lettera dell'on. Bertoni al Dipartimento della


Pubblica Educazione, pubblicata nel "Dovere" del 30 maggio
1931.

174
equilibrio statico. Non c'è che il Politecnico che si regga
gloriosamente e progredisca, perchè federale. Le
vecchie accademie sorte dall'epico conflitto culturale fra
la Riforma e la Controriforma e diventate poscia
università grazie a quegli sforzi prodigiosi di ottimismo
di cui è stata feconda la Svizzera del XIX secolo,
lottano ormai tutte in condizioni disagiate dacchè i
progressi delle scienze positive esigono laboratori e
musei sempre più grandiosi e costosi.
Nel 1848 fu inscritta nella Costituzione federale
l'Università ed anche il Politecnico. L'Università doveva
avere la precedenza, secondo le previsioni. Si manifestò
poi impossibile per la resistenza della vita intellettuale
dei Cantoni già provveduti. Si era parlato di un
decentramento del problema universitario nel senso che
la Confederazione designasse in ogni università
esistente una o più facoltà che formassero insieme
l'Università federale senza pregiudizio delle università
cantonali che rimarrebbero con le loro facoltà minori,
nella misura che piacesse ai Cantoni di mantenere o di
aumentare.
Bisognerà forse tornare a questo concetto. Ormai
diversi cantoni universitari sentono la gravezza del peso,
anche se per decoro non si spiegano a lagnarsene. Una
università federale così intesa non avrebbe proprio nulla
che offenda il principio federalista. Forse oggi i
protestanti si adagerebbero all'idea di una facoltà
cattolica di teologia a Friburgo ed i cattolici non
protesterebbero se Basilea avesse una facoltà federale di
175
teologia protestante. Losanna sarebbe indicatissima per
avere una facoltà federale di giurisprudenza, Ginevra
per gli studi sociali. La scuola d'ingegneria di Losanna
dovrebbe diventare una sezione francese del
Politecnico, ecc, ecc.
In questo rimaneggiamento è chiaro che qualche cosa
dovrebbe pur essere fatto per la Svizzera italiana, senza
che nessuno più pensi a parlar di brutture. Purchè non vi
si mescolino le solite declamazioni: Druso, l'esercito di
Arminio, le orde teutoniche, il sole latino, l'assalto della
Riforma e del Romanticismo contro la romanità, e gli
altri razzi rettorici della scena politica.
Non bisogna neppure escludere un terzo fattore che
può essere quello della Scuola libera. È l'idea ch'ebbe in
vista Romeo Manzoni, è il sistema che ha permesso al
Belgio di avere due università indipendenti dai
cambiamenti politici, una liberale a Bruxelles, una
cattolica a Lovanio. È infine il sistema che è normale
dei paesi anglosassoni e particolarmente di America.
Anticamente era anche il sistema italiano.
Chi ha il diritto di ipotecare l'avvenire?
Io ho letto con sommo interesse tutti gli articoli
contro la Università pubblicati dalla Gazzetta Ticinese.
Brillanti assalti di scherma: capolavori di dialettica! Ma
e poi? Con simili argomenti si potrebbe dimostrare che
lo spopolamento delle nostre campagne è dovuto al
troppo gran numero di scuole elementari, minori e
maggiori, ed al livello troppo elevato degli studi:
all'eccessiva durata dell'obbligo scolastico, tutti fattori
176
che rendono l'alunno disadatto alla dura vita dei campi.
La cosa è del resto perfettamente vera! Aboliremo per
questo le scuole maggiori? Ridurremo l'insegnamento
primario?
Da qualunque parte si osservi, il problema fu male
impostato. Per gradi successivi, o piuttosto a sbalzi, si è
parlato di Università, di scuola svizzera di diritto, di
sezione di scienze sociali del Politecnico, poi ancora di
«Università con una facoltà sola» come se questa
associazione di idee non implicasse una strana
contraddizione di termini. Si è improvvisata la
commissione di cui faccio parte, poi la si è convocata
con pochi giorni di preavviso: fu dato (e quel ch'è più
incomprensibile, fu accettato) l'incarico di presentare in
qualche settimana un progetto ed un preventivo
d'università come se si fosse trattato di una fiera di
beneficenza e così si è arrivati a screditare l'idea e
volgerla in ridicolo.
Perchè lo Stato, erede di Romeo Manzoni, lo Stato
che accettando l'eredità ne ha approvato l'idea, l'ha fatta
propria e ne ha assunto la tutela, non ha neppure posto
la questione preliminare della realizzazione di un suo
precisissimo dovere?
Romeo Manzoni era partito da una vecchia idea di
Martino Pedrazzini, che non era il primo venuto, il
quale già da mezzo secolo aveva postulato dalla
Confederazione un'Accademia svizzera di Belle Arti.
Questa idea non fu certamente estranea al legato di
Vincenzo e Spartaco Vela alla Confederazione stessa. A
177
quel tempo l'idea fu lasciata cadere, fu anzi combattuta
dagli uomini saggi d'allora dicendo che sarebbe stata
una fabbrica di spostati, che ad un'accademia occorreva
un grande ambiente metropolitano come Milano. C'era
in queste eccezioni, un incontestabile principio di verità,
specialmente nelle condizioni d'allora. Ciò non toglie
che l'arte muraria, l'architettura, la decorazione, la
scoltura e la pittura abbiano fatto vivere e gloriosamente
vivere, mille anni di vita ticinese. Ciò non toglie che
intanto siano sorte da ogni parte della Svizzera quelle
scuole di costruzione e d'arte applicata, che a noi
mancano, lautamente sussidiate come scuole
professionali mentre noi lasciavamo decadere
l'istruzione dei nostri artieri....
Ma la ragion d'essere della nostra Accademia di Belle
Arti non è morta. E non è morta l'idea di Romeo
Manzoni di contornarla di quella cultura generale che le
Belle Arti ed in ispecie l'architettura richiedono:
letteratura generale, letteratura nazionale, principii di
filosofia, estetica, storia dell'incivilimento.
Mito anche questo? Il mito dei popoli viventi si
chiama fede. Quando un popolo è morto, quando una
patria è morta, la sua fede diventa mitologica. Ma la
Svizzera non è morta! Ma noi non vogliamo che la
libera arte dei nostri padri debba perire...».

178
PARTE QUARTA

Pedagogia e morale

I.
L'indirizzo della scuola30

....Tutt'altra è la questione quale si è impostata dopo


l'assetto diocesano, concernente l'indirizzo educativo
della scuola, quale perdura tuttavia tra i fautori
dell'insegnamento cristiano e quelli del così detto Stato
laico. Conflitto pieno di difficoltà, già per la
indeterminatezza delle parole. Un insegnamento
cristiano non escluderebbe le altre confessioni cristiane
che non siano la cattolica romana. Laico e laicisti
significano, in senso proprio, «il non esser iniziato a
trattare le cose sacre». Nel dizionario moderno
vorrebbe già dire il contrario di religioso, e scuola laica
30 Dall'Antologia: Scrittori della Svizzera italiana, vol. II,
Scrittori e oratori politici. – Introduzione dettata da Brenno
Bertoni (da pag. 627 a pag. 676).

179
quella in cui fosse vietato l'insegnamento della religione
(v. Panzini, Dizionario moderno). Di uno Stato e
Governo laico è difficile precisare il significato. Il
problema diventa formidabile di fronte all'affermazione
sovietica, la quale non è più una semplice formula
astratta, ma una realtà che si può tradurre in demolizioni
di chiese, incendi di conventi, divieti del culto, ed in
diversi altri fenomeni che non hanno più nulla di
liberale.
Nel corso degli ultimi lustri il dibattito intorno alla
scuola ha dato luogo a splendide manifestazioni della
intelligenza e della cultura. Nella nostra stampa, più
assai che in Parlamento, esso ha avuto degli assertori
come il Motta e il Cattori da una parte, Romeo Manzoni
ed Emilio Bossi dall'altra, ed un giudice di campo (se è
lecita l'espressione) come Alfredo Pioda. Figure elevate,
le une e le altre, che non temono confronto coi loro
contemporanei d'altri paesi.
Degnissimo di esame sarebbe soprattutto il dissenso
fra R. Manzoni ed A. Pioda, perchè questi
rappresentano due diversi concetti della laicità. Una loro
polemica, che si protrasse più anni nella stampa liberale,
è forse unica nel genere. Per i campioni della scuola
cristiana la cui azione è parallela, non c'è di notevole,
oltre al loro valore personale, se non la evoluzione
manifestata dalla concezione politica di Pio IX a quella
di Leone XIII e de' suoi successori: dal Sillabo
all'enciclica Rerum novarum. Per i due paladini della

180
laicità, invece, la diversità è enorme, e più ancora fra il
Pioda e il Bossi, continuatore del Manzoni.
Manzoni e Bossi sono francamente ateisti, ma
neppure in questo concordano fra di loro. Il primo è di
quelli che sono materialisti solo in quanto divinizzano il
mondo creato, alla maniera dei platonici, in un senso
grecamente panteista.
Per il Manzoni, allievo di Ruggero Bonghi, i
colpevoli di blasfemia sono quegli spiritualisti che
materializzano la divinità, sovvertita ad immagine
dell'uomo.
Allievo di Ausonio Franchi, uno dei tanti sacerdoti di
allora che si volsero al positivismo per reazione ma
anche per intima convinzione, Romeo Manzoni vede il
timor dei attraverso la sentenza di Stazio: fecit timor
primus in orbe deos. Egli, come Renan, nega l'autorità
dei Vangeli, ma li conosce a fondo, nega la divinità di
Cristo, ma lo ama. Il Bossi, invece, sente la influenza
sarmatica di Bakunin e de' suoi seguaci. Le sue
negazioni sono iraconde. Per lui Lutero e Papa
Bonifacio sono tutt'uno. A pochi anni di distanza è già
di un'altra epoca.
Alfredo Pioda è forse più antico ed è forse più
moderno dell'uno e dell'altro. La sua filosofia è
apertamente spiritualista. Afferma Dio, l'anima e
l'immortalità. Crede alla possibilità dell'intervento delle
anime dei defunti ad invocazione degli uomini. Nega di
essere irreligioso ed è eretico solo perchè egli crede

181
intravvedere ed invoca una super-religione. Non è un
«libero pensatore», ma un «libero credente».
Tre eretici, ma anche tre documenti umani di
altissimo valore documentario.....

182
II.
Sull'insegnamento delle lingue morte31

31 Dall'articolo: Sull'insegnamento delle lingue morte come


mezzo più proprio a sviluppare le qualità morali dei discenti,
pubblicato nella Revue scientifique suisse del 1882.
Di questo articolo il Bertoni così parla nelle sue note
autobibliografiche: «Come fu? come non fu? Allora la Tipografia
Mariotta di Locarno, oggi scomparsa, aveva impreso a pubblicare
una Revue scientifique suisse, diretta da Mosè Bertoni il quale
già preparava il suo esodo dal Ticino... Di questa pubblicazione
non è rimasta traccia... Io scrissi l'articolo pedagogico sopra citato
perchè ne avevo un buon motivo. Non avevo studiato latino (di
greco allora non si discorreva). Non l'avevo studiato perchè al
Ginnasio mi ero inscritto, a Lugano, nel 1874, nel Corso
industriale, come allora chiamavasi. Deciso mio fratello a
prendere la via dei mari, fu deciso in pari tempo che io tentassi
almeno di diventare avvocato per continuare lo studio paterno... A
buon conto mi tenni al corrente della pedagogia, così incoraggiato
dai due pedagogisti d'allora: Giuseppe Curti e Agostino Mona,
così che più tardi potei assumere, per due anni, la direzione
dell'Educatore della Svizzera italiana....
Ma nel frattempo era sorta in Europa la grande controversia
ch'è accennata nell'opuscolo. Era insorto, in Inghilterra, Erberto
Spencer, contro il dogma della necessità del greco e del latino. La
sua opinione nettamente positivista che le scienze naturali fossero
la migliore introduzione alla scienza in genere mi conquise, e
scrissi l'opuscolo ispirato dalla commedia di Molière: Les
femmes savantes...

183
....L'insegnamento delle scienze nei Licei si impone.
Le Università lo reclamano fortemente. In Francia
ognuno sa che chi s'interessa all'avvenire dell'istruzione
reclama un aumento di ore di zoologia. La chimica
dovrebbe esservi impartita in modo più esteso che non
si faccia oggidì, la geologia non dovrebbe essere
esclusa. Gli studenti che abbandonano il Liceo per le
facoltà di diritto o di lettere dovrebbero essere edotti
anche dei principi fondamentali di economia comparata,
di biologia e di fisiologia (mentre non avrebbero
bisogno della massa enorme di matematica che è loro
imposta). Insomma le scienze fanno ressa alla porta del
Liceo, e vogliono entrarvi di forza. Ma il Liceo è ben
difeso. Entro vi regnano tre sovrani potenti: il greco, il
latino e la matematica, che disputeranno alle scienze
fino all'ultimo palmo del territorio, fino all'ultima pietra
delle fortezze.
Imposte dal bisogno dell'istruzione intellettuale,
consigliate per l'educazione morale, le scienze finiscono
e finiranno per trionfare. Ma a scapito di chi? Questa è
la questione.
Secondo noi sono le lingue morte che
soccomberanno: e questo per la ragione che le lingue
morte e le umanità non sono la stessa cosa. Infatti le
umanità non sono che la storia interna dello sviluppo
della nostra civiltà, come la storia della civiltà ne forma
la parte esterna. A questo punto di vista, molte cose

La tesi, checchè si dica, è ancora di piena attualità...»

184
delle umanità appartengono alla storia generale, e
questo è quanto deve essere insegnato come storia, e
comprende le vicende della vita politica dell'antichità,
vale a dire quel tesoro di sapienza, di saggezza e di
morale che a dir dei classicisti solo può servire di
esempio educativo alla gioventù moderna, minacciata
dal positivismo. Dunque tutto questo si può e si deve
provvedere altrimenti, o per meglio dire in un modo
solo, perchè attualmente avviene che la storia generale
insegnata nei Licei si estende per la maggior parte a
Grecia ed a Roma, con autori moderni, e per gli studi
classici si studia la medesima materia ma con testi
differenti, con Erodoto e con Tacito, ciò che costituisce
il vero bis in idem dei programmi liceali di molti paesi.
Un'altra parte della umanità che resta in vista è la
mitologia, la storia dell'arte e la storia della letteratura,
sia oggettiva che soggettiva. Ebbene la mitologia è ora
passata nel novero delle scienze, e solo come scienza
dev'essere insegnata: ed è una scienza morale. La storia
dell'arte e della letteratura: ecco che cosa resta delle
vere umanità. Ebbene, per giungere al conoscimento di
queste, ripeto che le lingue greca e latina, sono molto,
molto efficaci di certo, ma sempre mezzi. Per far di
queste uno scopo bisogna attribuire loro quel valore
intrinseco che gli stessi difensori del classicismo
riconoscono, ma relegano a un piano più basso. Ma
ancora per vedere se un mezzo sia buono, non basta
osservare se può raggiungere lo scopo; bisogna anche
vedere a qual prezzo lo raggiunge. Ebbene, ci pare che
185
questo mezzo delle lingue morte costi assolutamente
troppo nell'economia degli studi. Il numero delle ore che
prende sul programma è eccessivo: crediamo che si
potrebbe conseguire il medesimo scopo con mezzi più
conformi alle moderne esigenze e più economici.
Questo mezzo deve consistere in uno studio dello
sviluppo dell'umanità preso da un punto di vista più
elevato, e soprattutto non limitato alla civiltà greco-
romana. Una vera educazione umanista dovrebbe
consistere in uno studio comparato delle civiltà e delle
istituzioni sociali di tutti i popoli antichi. Indagar bene
le origini della civiltà, le sue cause secondo le teorie
scientifiche, seguirne il corso presso le varie razze che si
sono incivilite, studiare i differenti caratteri delle civiltà
antiche, e la loro ragione d'essere, rintracciare presso le
civiltà più conosciute la storia del pensiero, analizzando
e sintetizzando; dare un largo sviluppo allo studio
dell'incivilimento greco ed etrusco, servendosi, per
quanto riguarda la filosofia greca, delle opere sintetiche
moderne, ed anche delle traduzioni per le opere di
carattere puramente letterario; studiare la caduta
dell'impero romano, l'impero bizantino, la
trasmigrazione dei popoli, l'evo cristiano e il
rinascimento presso tutte le nazioni, le loro cause e le
persone che vi hanno contribuito; infine analizzare le
migliori opere di ingegno prodotte nell'evo moderno
nelle diverse letterature europee, servendosi il più che
possibile delle opere originali; ecco quanto dovrebbe
costituire, a grandi tratti, lo studio umanista atto a
186
coltivare e svolgere le facoltà morali del discente senza
pregiudicare il resto della sua istruzione. Questo
programma, che si potrebbe largamente conseguire con
la metà delle ore attualmente destinate allo studio delle
lingue morte, sarebbe altamente moralizzatore, ed
inoltre farebbe conoscere anche lo spirito della civiltà
greco-romana, meglio di quanto la conoscano i moderni
liceali e ginnasiali, per il semplice motivo che sarebbe
uno studio diretto e non indiretto.
Certo questo sistema esigerebbe un maggiore
sviluppo dello studio delle lingue viventi, ma non
occorre dire che un tale studio costituirebbe un doppio
intrinseco vantaggio.
Nello studio della letteratura noi vorremmo
predominasse quello del rinascimento su quello delle
antichità. La ragione è appunto perchè le lettere del
rinascimento e del cristianesimo sono molto più morali
di quelle dell'antichità pagana. Dal punto di vista morale
(ed anche letterario) Dante val meglio di Omero; ma
fuori degli Italiani, chi studia Dante nei Licei? E gli
Italiani stessi? Chateaubriand ha stabilito, con
grandissimo criterio, la superiorità delle lettere cristiane
sulle pagane. L'Adamo e l'Eva di Milton, egli dice,
educano meglio di Ulisse e Penelope, Priamo chiedente
il cadavere di Ettore è nulla di fronte a Lusignano
supplicante Zaira, l'Andromaca di Racine è più
commovente di quella d'Omero, Telemaco è poca cosa
di fronte al Guzmann di Voltaire, Zaira è più tenera di

187
Ifigenia, la distruzione di Troia non può essere
paragonata alla distruzione di Gerusalemme!
E ancora se questo non fosse, quanti altri sublimi
prodotti hanno le lettere moderne! Quanti maestri alla
gioventù: Dante, Manzoni, Schiller, Goethe,
Shakespeare, Milton, Racine, Corneille, Molière,
Rousseau, e tanti altri! Ebbene, la nostra gioventù
greco-latinizzata, li ignora, questi maestri!
Questo quanto al merito reale. Non resta più che la
questione della forma, ma già retro abbiamo visto come
questo non sia lo scopo che si propongono i classicisti.
Quanto alla storia, è noto che tutta quella dei popoli
antichi dev'essere rifatta e passata al cribro della critica:
per chi poi ci tenesse a leggere i testi antichi restano le
traduzioni, che per la storia bastano.
Ci resta a dir due parole dell'obbiezione,
apparentemente grave, che la conoscenza del greco e del
latino è necessaria per la terminologia scientifica. Ma le
terminologie possono modificarsi, e il piccolo corredo
di greco e di latino necessario allo studio delle scienze
può acquistarsi empiricamente, tutto consistendo nel
conoscere alcune centinaia di verbi e sostantivi, senza
studiare nè grammatica nè sintassi. Molti studenti di
medicina usciti dalle scuole tecniche fanno così e se ne
trovan bene. In Belgio, dove il greco è facoltativo, la
medicina punto ne soffre, e le sue facoltà sono fra le
migliori. Anche in diritto si sono visti vari studenti
conseguire i diplomi con eccellenti risultati, senza saper
parola di latino: e del resto al giorno d'oggi lo stesso
188
diritto romano si studia meglio sui trattati tedeschi
(Windscheide, Wangeroff, ecc.; che sulla vasta mole del
Corpus juris; salvo, ben inteso, il caso di studi speciali...
Concludiamo: noi crediamo che l'insegnamento delle
scienze pure, quando fosse impartito con un sistema
logico e razionale sarebbe sufficiente a coltivare e
sviluppare, non le sole facoltà intellettuali del discente,
ma anche le sue qualità morali. Che però a lato delle
scienze devono studiarsi anche le umanità, nello scopo
di educazione morale e intellettuale, estendendone però
il campo alle civiltà oltre che la greco-romana, e dando
principale sviluppo all'epoca cristiana. Che per questo
genere di studi può riuscire di utilità il greco e il latino,
ma in un grado minore delle lingue viventi. Che in
conseguenza, di fronte al sopraccarico degli orari, ed
all'urgente bisogno di far più larga parte alle scienze,
ogni riforma, o riduzione, deve farsi a spese delle lingue
morte....

189
III.
I lavori manuali32

32 Dalla conferenza: Sulla riforma dell'insegnamento


primario tenuta a Bellinzona nel 1888.
Ecco, in sunto, le riforme che il Bertoni propugnava nella detta
conferenza:
«Doversi in primo luogo adattare la scuola alla realtà ed ai
bisogni pratici della vita, e coltivarvi a tal fine i lavori manuali,
tanto più che l'economia ticinese trae largo profitto
dall'emigrazione della sua mano d'opera. Cito (v. le già ricordate
note bibliografiche) una frase: «Ho visto in una scuola una povera
maestra insegnare l'abici a 75 scolari senza tabelle scolastiche;
non ho visto quasi mai un pallottoliere, mai un alfabetiere mobile,
mai una tabella con figure, mai un museo oggettivo per lezioni di
cose. Quante scuole, nelle nostre campagne, possiedono almeno i
quadri murali per l'insegnamento oggettivo? Forse quattro a forse
cinque in tutto il Cantone...
Dall'insegnamento passavo ai maestri, male pagati... Chiedevo,
tra altro, che ai maestri fosse aperta una via: prima la scuola
elementare, poi la maggiore, poi eventualmente l'ispettorato...
Sostenevo essere necessario che gli ispettori venissero cercati
nell'insegnamento, uno per cento scuole al più e che ai medesimi
venisse affidato l'incarico di tenere i corsi di ripetizione per i
docenti.... Protestavo da ultimo contro l'insegnamento della
civica, il quale, secondo l'unico testo vigente, definiva, per es., la
libertà di coscienza quale «indipendenza da Dio e dal Dovere»
libertà «di non avere coscienza e di fare tutto ciò che può volere
una volontà brutale senza rendere conto del fatto...»

190
In tutti i paesi di Europa e d'America si vanno
introducendo nelle scuole i lavori manuali. Sono questi
un ritrovato della riflessiva e pratica Scandinavia, e da
questa si propagarono alla Olanda, alla Germania, alla
Svizzera, alla Francia, ed ora anche all'Italia.
Possono, i lavori manuali, cominciare dall'asilo, e ben
prima di imparare le lettere dell'alfabeto il fanciullo può
e deve imparare a tagliar con la forbice la carta per farne
delle figure geometriche. Nel grado di insegnamento
primario, e prima dei dodici anni può e deve il ragazzo
imparare a comporre lavori in cartonaggio, con le figure
piane componendo dei solidi geometrici, e passando alla
pratica applicazione costruire scatole, intessere cestelli e
fare analoghi e svariati lavori. In un altro periodo di età
può e deve il giovanetto imparare a servirsi degli
attrezzi del falegname (esercizio per sua natura
gratissimo), e cominciando dal costruire un regolo in
poco tempo trovasi abituato ad eseguire lavori di
sorprendente finezza e precisione. A questo si possono
aggiungere i lavori al tornio, come se ne ha tendenza in
Germania, e quelli in filo di ferro come si ama fare in
Francia.
Scopo di questi lavori manuali non è già, come
potrebbe a tutta prima parere, di fare dei professionisti.
La conferenza, nel corso della quale il Bertoni criticò
aspramente la scuola normale, l'ispettorato, l'indirizzo del
pubblico insegnamento dell'epoca, ecc., venne tenuta «con
l'intervento di diversi conservatori di tendenza giobertiana», e
suscitò, nel Cantone, un vivo dibattito.

191
No, non è una scuola d'arti e mestieri, questa: è
semplicemente un'educazione dell'occhio, della mano,
ed anche dello spirito, mediante la quale si sviluppano le
attitudini, si affeziona il fanciullo al lavoro, e lo si rende
atto a piegarsi senza fatica ad opere materiali, ad
apprendere rapidamente un mestiere od un'arte...
...Mi sia permesso di raccomandare questa riforma ai
miei concittadini. Il Cantone Ticino vive soprattutto di
emigrazione, ed i suoi figli dispersi nelle varie parti del
mondo ancora da giovinetti, sono ben lontani dall'avere
la scelta del genere di lavoro. Dobbiamo dunque
renderli atti a far di tutto. Tanto più in vista che queste
riforme si vanno già facendo in tutta l'Europa. Ora che
avverrà se noi omettiamo di farle?...

192
IV.
L'insegnamento della storia33

....Nelle nostre scuole primarie lo studio della storia


svizzera è sciupato dal profondo errore di cominciarla
troppo presto con mezzi didattici inadatti all'età dei
bambini; nelle scuole secondarie l'insegnamento della
storia svizzera è quasi nullo come quantità, radicalmente
sbagliato come qualità e inefficace quello della civica, e
non quale dovrebbe essere per dei cittadini che saranno
armati del referendum e dell'iniziativa.
Nelle nostre scuole secondarie invero, la storia
generale è insegnata a fondo, molto più che nelle scuole
dei Cantoni confederati, ma vi manca appunto ciò che
più importerebbe di conoscere: l'azione politica della
Svizzera e delle idee svizzere sulle costituzioni e sugli
avvenimenti degli altri popoli.
Un allievo-maestro delle nostre normali è presunto
sapere quale fosse la posizione dei due avversari nella
battaglia di Naefels, perchè il Rosier ha cura di
rilevarlo. Per la plasmazione dello spirito repubblicano
ciò conta veramente molto meno che la battaglia di

33 Dalla conferenza su Le relazioni svizzero-Italiane e la


questione nazionale nel Ticino tenuta il 17 dicembre 1912 a
Lugano sotto gli auspici della Società svizzera dei
commercianti.

193
Maratona. Ciò che invece non si sa, è l'enorme influenza
che hanno avuto sui destini dell'Europa moderna la
riforma di Zurigo, di Berna e di Ginevra, la neutralità
della Svizzera durante la guerra dei trent'anni, la
costituzione democratica di Ginevra sulle dottrine
calviniste, sugli Ugonotti e sulla rivoluzione francese.
Ciò che si ignora è la parte avuta dagli svizzeri tedeschi
nel risorgimento filosofico e letterario germanico del
XVIII secolo. Ciò che è quasi dimenticato è l'influenza
avuta dalle riforme costituzionali dei Cantoni svizzeri
dal 1830 al 1847 sopra la fermentazione europea del
1848. E forse in ciò non siamo soli. Anche negli altri
Cantoni, a giudicare dai testi, la storia nazionale è
ridotta a una sequela di fatti eroici che non interessano
più la civiltà contemporanea, e vi si dà più importanza
ai leggendari fendenti di Wala di Glarona che al
contributo di Bluntschli sulla formazione del diritto
pubblico tedesco.
Ora io trovo giustissimo che nelle scuole superiori
ticinesi si studi la storia del risorgimento italiano e più
ancora la storia dell'italiana letteratura, ma a condizione
che ciò non avvenga in modo da lasciare supporre che al
confronto la storia svizzera non sia altro che la storia di
un branco di mandriani maneschi e che la Svizzera
rappresenti una specie di Beozia dell'Europa centrale.
Non voglio dire che non si sia fatto molto per
provvedere a questi bisogni. Si sono fatti anzi dei grandi
sforzi; ma bisogna convenirne, con successo infelice.

194
Venti anni or sono si inaugurò l'insegnamento della
civica dall'asilo infantile fino al liceo, si volle
provvedere a libri di testo fatti apposta per le scuole
ticinesi, ma con preparazione affatto inidonea; più tardi
si tradussero testi di geografia, di storia svizzera e di
storia generale fatti per le scuole svizzere romande,
senza accorgersi che il contenuto non poteva essere il
medesimo. I libri fatti per scolari di 12 a 14 anni, come
il Rosier, furono messi in mano a bambini di 8-9 e se ne
sciupò completamente l'effetto. Al tutto mancò una
mente direttiva e si dispersero al solito enormi sforzi
individuali per arrivare ad una generale confusione. Nè
se ne uscirà collo sforzo minimo di un cambiamento di
testi o di programmi.
Ciò che occorre è un generale risveglio dello spirito
culturale del Cantone Ticino, illuminato da una chiara
idea patriottica; dico chiara, per dire che non deve
trattarsi di una semplice forma di nazionalismo
presuntuoso, ma di una visione esatta e cosciente di ciò
che sia il valore etico-sociale della Svizzera, delle sue
istituzioni e del suo patrimonio culturale. È solo alla
luce di questa fiaccola che i docenti di storia e lettere
vedranno cosa c'è da fare perchè il loro insegnamento
delle cose italiane e universali si completi e si ravvivi
con l'insegnamento delle cose patrie...

195
V.
Studi storici e storia34

....Dovere solenne di patriottismo è il promuovere e


sostenere gli studi storici. Su questo siamo in parte sulla
buona via mercè l'eroico nostro E. Motta. Dico in parte
ed eroico perchè il pubblico dal canto suo è ben lontano
dal corrispondere a tutti i suoi sforzi, e questo sia detto
per vergogna nostra. Ma ciò non basta: il più imperioso
dovere, per chi ama la Patria, è lo studiare e
popolarizzare quel poco di storia veramente nazionale
che abbiamo, cioè quella dal 1797 ai nostri giorni, ed
introdurla nella scuola... È dallo studio di questo
periodo che deve scaturire il patriottismo delle future
generazioni, troppo scarso nella presente. Esso non
manca di attraenza e di gloria. La sola lotta del Ticino
coll'Austria e certi nomi e fatti che ormai non
appartengono più alla politica, ma alla storia, hanno
potenza di far battere dei cuori.
34 Il brano è tolto da un lungo studio di Brenno Bertoni,
pubblicato nell'Almanacco del popolo ticinese del 1885, dal
titolo: «Sopra alcuni caratteri sociali del Cantone Ticino».
Intorno al detto studio l'Autore, in alcune sue note inedite, così si
esprime: «...concepito e schizzato già da studente, circa
nell'anno 1881, o già prima. Vi si manifesta la tendenza
all'astrazione, alle idee generali, alla ricerca delle cause
prime...»

196
Il peggio è che questa parte di storia è quasi bandita
dalle nostre scuole, ignorata dal popolo in modo
incredibile, e negletta. Il poco che ne fu scritto, è letto
da pochi ottimati, il popola ignora tutto. Non sufficiente
gratitudine ha il paese per esempio verso il signor
Baroffio che tanto ha fatto in questo campo. Se debbo
suggerire un'idea pratica è questa: che dei suoi scritti sia
fatto un compendio ad uso delle scuole. Sarebbe pure a
desiderarsi che a cura di uomini di senno si
compilassero delle buone biografie di ticinesi illustri.
Ne abbiamo di Franscini, ma non di Luvini, di Pioda, di
D'Alberti, dei Ciani, e di altri molti. Insomma qui i
rimedi sono facilmente indicati dalla natura del male, ed
io chiuderò su questo punto con un altro laboremus, e
col ricordare il motto di Lodovico il Bavaro «ohne
Vaterlandgeschichte keine Vaterlandliebe». Senza storia
patria nullo amor di patria.

197
PARTE QUINTA

"Testimonia temporum"35

I
L'editore Grassi ha forse fatto una mediocre
speculazione, cinque anni or sono, chiedendo al signor
Motta una raccolta dei suoi discorsi, poscia
pubblicandola in un ricco volume di quasi cinquecento
pagine. Come speculazione editoriale questa non poteva
fruttare che dopo la morte dell'uomo di Stato, tanto più
che la Svizzera è piccola e solo la quinta parte delle
pagine (su per giù) sono nella lingua prevalente nel
paese.
Ora cinque anni sono passati ed ecco un secondo
volume di oltre duecento pagine coi discorsi dell'ultimo
lustro della vita mondiale, alla quale appartiene ormai il

35 Recensione dei volumi: Testimonia temporum di


Giuseppe Motta. – Istituto Editoriale Ticinese, Lugano-
Bellinzona – 1931 e 1936. – Il terzo volume dei discorsi e degli
scritti del Motta è uscito nel 1941.
Dal Dovere del 30 dicembre 1936.

198
nostro Presidente, senza pregiudizio della sua vita
affettiva per la nostra terra.
— Appunto: cos'ha fatto il signor Matta per il
Cantone Ticino in tutto questo periodo dal 1911 in poi?
Questa domanda mi veniva rivolta pochi giorni or
sono da una giovine uscita di fresco dalle nostre scuole
superiori.
Rimasi perplesso. È infatti vero che l'opera fattiva di
Motta non è di quelle che dànno nell'occhio in tutte le
sfere. Egli non ha iniziato alcuna rete stradale, non una
nuova costituzione, non una rivoluzione nè una
controrivoluzione, non la correzione del Ticino o della
Maggia. Se mai, l'opera di Motta ha dato nell'occhio a
tutto il mondo quando a Ginevra, contro l'avviso della
grande maggioranza degli Stati, è insorto contro la
ammissione dell'Unione Sovietica nella Società delle
Nazioni. Se mai ha fatto opera di salvataggio per tutta la
Svizzera quando egli, assertore valoroso della Lega
ginevrina, ha proclamato che la Svizzera non doveva
partecipare alle sanzioni economiche contro l'Italia.
Quel giorno Giuseppe Motta ha salvato il nostro
Cantone da una catastrofe senza che il nostro bravo
popolo se ne avvedesse e senza che ne tenesse conto.
L'opera di Giuseppe Motta, per il Ticino e per la
Svizzera, fu anzitutto e soprattutto un'opera di
pacificazione degli animi eccitati da un lungo periodo di
influenze straniere. Già prima di essere assunto alla
deputazione federale egli è novatore in questo senso.
Eletto nel dicembre del 1911, la sua prima promessa
199
all'Assemblea federale è quella del proemio della
Costituzione: la sua prima parola agli Airolesi è un
saluto riverente alle vecchie assemblee comunali e
patriziali, che furono la sua prima scuola di democrazia,
ed ai propri concittadini di ogni partito che gli apersero
la via. È a questi umili e fieri compaesani che apre
l'anima e afferma il suo programma di concordia
cittadina. Sono i confederati di lingua tedesca che hanno
fatto posto a un ticinese. È un lieto auspicio! E
commenta: «Ho sempre desiderato che certi problemi
fossero collocati sopra i partiti ed ho sempre creduto che
solo quei partiti sieno degni di vivere i quali sanno
fondere i loro interessi con quelli del popolo. Siate
concordi, ho sempre ammonito, siate uniti, non lasciate
nel fango delle fazioni nemiche e intolleranti la sacra
bandiera della Patria!
Dopo aver detto queste parole a tutto il popolo del
Ticino, Egli prende commiato dal suo partito politico a
Bellinzona (25 gennaio 1912). Sentiamolo:
«Gli uomini, che oggi si scambiano pensieri ed affetti
fraterni non sono qui convenuti per esaltare una parte
sopra le altre o per formare propositi di lotte meno che
degne, ma per rallegrarsi di un fausto evento che
testimonia insieme il patriottismo di tutti i ticinesi e del
lungo cammino che la coscienza civile del nostro
popolo ha percorso verso l'idea del mutuo rispetto e
verso una comprensione sempre più chiara dei comuni
doveri».

200
Legga o rilegga la nostra gioventù dell'oggi le parole
che egli dirigeva ai suoi colleghi sui doveri della vita
pubblica nell'opposizione o nella direzione qualora il
partito tornasse al potere, nel senso e nel desiderio della
giustizia politica; «Il partito conservatore si chiama così
perchè attinge le sue virtù riformatrici all'immenso
serbatoio delle energie tradizionali... ma guai ai partiti
che si rassegnano ad essere sempre alla retroguardia»...
«I tempi camminano; i bisogni morali e materiali del
popolo crescono; le funzioni dello Stato si allargano; lo
Stato assorbe sempre più parecchie competenze che
prima venivano lasciate ai privati: esso diventa l'organo
massimo della cultura nazionale».
Due anni dopo, lo stesso Motta parla a Ginevra ai
protestanti. Ginevra è appena uscita dalle lotte
confessionali dell'epoca di Carteret e del card.
Mermillod... essa vuol essere il faro romando della
latinità, vuol essere la depositaria del pensiero di
Voltaire e di quello di Rousseau. L'Airolese le parlerà
del concetto della Pax romana che è «la pace nella
legalità».
Pochi mesi dopo scoppia la guerra. La grande guerra
che mette di contro, almeno nell'apparenza, gli Stati
imperialisti e quelli democratici, le nazioni latine o
latinizzate e quelle germaniche e barbariche... La
Svizzera è messa a durissima prova. Fra i belligeranti c'è
una grande e raffinata nazione che non ha esercito di
terra, ma che da oltre due secoli domina il continente
con la tattica del divide et impera. L'idolatria della forza
201
e della razza, praticata sul continente, le facilitano il
compito. La Svizzera subirà fatalmente il contraccolpo
dell'eccitazione all'odio di razza. Affare del Belgio!
Affare dei colonnelli! Diffidenze reciproche!
L'uomo di Airolo parla il 15 luglio del 1915 a Morat,
nell'anniversario di quella memorabile battaglia. Evoca
la parola sconfinatamente generosa di Adriano di
Bubenberg e fa appello alle virtù civiche essenziali a
salvaguardia delle nostre istituzioni. La democrazia e il
federalismo possono essere accidentali per altri paesi:
per noi sono natura. E poco dopo, commemorando il
patto di Brunnen (1° agosto 1915), esattamente un anno
dopo l'apertura delle ostilità, rivela ai germanofili come
ai francofili che l'attitudine dei Waldstätten di fronte al
Sacro Romano Impero era esattamente quella di Dante a
Firenze alla stessa epoca. Ne deduce la necessità di
stringersi intorno all'esercito. Nuovo appello alla
concordia, sotto gli auspici del beato Nicolao!
Gli stessi sentimenti insegnerà tre mesi dopo al
Morgarten, in lingua tedesca, poichè l'alpigiano del
Gottardo realizza questo fenomeno che i romandi
dicono ch'egli parli meglio il francese del tedesco,
mentre i tedeschi opinano che parli il tedesco ancora
meglio del francese.
Ma fino a questo punto Motta era direttore delle
Finanze. La direzione del Dipartimento politico, cogli
affari esteri, lo attendeva: sarà solo da quel momento
che il Montanaro parlerà all'Europa, interprete

202
autorevole della lingua e della tradizione di quel Dante
Alighieri le cui sentenze gli sgorgano così naturalmente.
II36
Giuseppe Motta è temperamento ed anima di
educatore di masse. Quando, finita la guerra, i
belligeranti si accinsero alla ardua impresa della pace
(ardua appunto perchè i temperamenti militari, che dalla
guerra emergono, difficilmente possono emergere anche
come geni civili), non riescirono felicemente nel loro
intento. La storia conosce un solo Giulio Cesare, mentre
gli Alessandri ed i Bonaparte conseguirono vittorie
miracolose ma ebbero scarsa fortuna dalle vittorie
conseguite.
Il trattato di Versaglia, e gli altri che vi fanno capo,
non furono conseguiti se non dopo mesi e mesi di fiere
lotte e di aspre gelosie fra vincitori. Il proposito
confessato, anzi, ostentato, di punire i popoli per i delitti
dei loro governi, era in sè medesimo fallace: le sanzioni
previste a carico delle supposte «razze delinquenti»
erano di impossibile esecuzione. Tutto il continente ne
soffrì e, come di ragione, anche la Svizzera, anche il
Ticino.
Fu una pace che turbava e turba ancora i rapporti
economici fra le nazioni, ed in questo senso è vera la
sentenza secondo la quale alla guerra guerreggiata seguì

36 Recensione dei volumi: Testimonia temporum di


Giuseppe Motta. Dal Dovere del 4 gennaio 1937.

203
una guerra economica di fronte alla quale la nostra
neutralità non ci poteva proteggere.
Che in questo disordine l'autorità del Consiglio
Federale fosse messa a dura prova è cosa che si può
vedere oggi più che mai, in quest'anno fatale. Al capo
del Dipartimento politico, al rappresentante del Ticino
nel Direttorio federale, toccava particolarmente l'opera
di pacificazione degli animi turbati in diversi modi, ma
particolarmente a causa di deplorevoli ingerenze estere.
Ma doveva tenersi assai riservato.
Solo il 1° agosto 1921, sette anni dopo l'apertura delle
ostilità, Motta ha l'occasione propizia di parlarne al
popolo a Lugano, nel Natale della Patria. Vuole
anzitutto rianimare, ripristinare il sentimento dell'umile
piccola patria, rimasta estranea a tante glorie. Rievoca il
Grütli e la grande seduzione della Cisalpina, rievoca la
nostra povera Repubblica di sterpi e sassi sollecitata a
far parte di una grande Nazione vittoriosa.
Accortamente fa questo richiamo: «La Svizzera
moderna si inizia cogli albori del secolo XIX. Non fu
notato abbastanza che la elevazione del Ticino a
Cantone confederato e sovrano è tra le vicende più
importanti e feconde della storia svizzera... Essa conferì
alla Confederazione un significato che divenne per gradi
più universale e più umano». Bisogna poscia rinverdire
le speranze ed indicare nuove vie. La Commissione
della Costituente è riunita ad Airolo. «Augura che
quella Costituente non si sciolga senza aver dato al
Ticino un patto di rinnovamento e di unione
204
patriottica». Ma purtroppo la sua speranza doveva
andare delusa!
Esattamente due anni appresso sono adunati a Lugano
gli Studenti svizzeri: «A loro dice essere una superiorità
del nostro stato che le sue istituzioni non si fondino su
valori unicamente etnici o linguistici, ma anzitutto su
valori morali e politici...».
Quando nel 1798 i Luganesi domandarono la libertà
svizzera, essi prevennero un fato. E sta bene. Ma
fratellanza, democrazia e libertà non bastano se riferite
alla sola politica interna...
«Esse non assumono il loro significato veramente
universale ed umano che divenendo i segni da cui
prende figura la nostra personalità nel Consorzio degli
Stati.».
Era il futuro presidente della Società delle Nazioni
che esprimeva una tal voce!
Ed ancora nel discorso di Truns (22 giugno 1924), nel
quinto centenario del Patto delle Leghe grigie,
apostrofando in italiano i grigionesi di lingua ladina e
rievocando il Patto di Torre del 1181, ne celebra
l'esempio «in faccia all'Europa che non ha ancora
trovato la pace». A Friborgo il 5 luglio 1931, parlando
ai fratelli romandi ed evocando l'insegnamento di
Nicolao della Flüe (al quale si deve l'entrata di Friborgo
nella Confederazione) esclama, citando le parole del
Santo: «Astenetevi dalle querele interne e non
mischiatevi ai conflitti degli stranieri».

205
Quanta attualità in quelle parole! Ma, ripeto, chi parla
è ormai l'uomo delle Nazioni!
Come svizzero e come cattolico è altresì l'uomo di
un'altra epoca. L'ombra sdegnosa di Pio IX è placata: i
suoi successori cercano l'accordo con gli Stati. Motta ne
è l'apostolo per la Svizzera; ciò appare nel 1920 nel
discorso di Chiasso ai ginnasti ticinesi affermando la
legittimità del Progresso con la testimonianza
dell'Alighieri:
Il secol si rinnova:
Torna giustizia e il primo tempo umano
E progenie discende dal ciel nuova.
Un atto di fede, come vedete, cui segue
immediatamente un altro, parlando alla Società Elvetica
di Scienze naturali. La citazione dantesca a proposito
della scienza, nell'opera della guerra e in quella della
pace, è degna di un poeta e di un filosofo insieme.
Terzo atto di fede il discorso di Berna ai ticinesi per
la Mostra d'arte (p. 85). Una conferenza del Padre
Semeria tenuta a Berna su Dante Alighieri gli porge
l'occasione a professare la sua devozione per il divino
poeta (p. 103). Il Motta, la cui iniziazione
all'umanesimo è in gran parte francese, si è dato ad un
vero culto del massimo poeta e del prosatore Alessandro
Manzoni.
Viene il 1924. Sei anni sono decorsi dall'armistizio:
l'illusione della grande pace, della sicurezza generale si

206
dissolve: ricomincia d'altronde la ingenua campagna
socialista contro la difesa nazionale, (ancora quella
dell'epoca nichilista di Bakunin e di Malatesta a base di
ideologie trascendentali). Motta interviene col discorso
di Lugano ai ginnasti ticinesi. D'altra parte il pericolo
opposto si rivela nei prodromi dell'adulismo, e Motta
interviene col discorso di Faido (pag. 102) tracciando il
vero programma delle relazioni fra la Svizzera e l'Italia
(fosse stato ascoltato!).
Subito dopo segue quello sulle relazioni fra la
Svizzera e la Germania (pag. 116).
Numerosi, in Testimonia temporum, gli interventi di
Motta ai congressi ed alle feste di ginnastica. Ancora nel
1890 i cattolici erano assenti dalle associazioni ginniche
ticinesi. Grave errore! Motta esorta la Fides a non
disertare le feste liberali: leggere il suo discorso di
Bellinzona dell'11 agosto 1931.
«O Giovani (egli insegna), la vostra Patria,
miracolosamente bella, non è grande per numero nè per
territorio. Essa è grande solo per alcune idee che ha
fatto rifulgere al cospetto delle genti: il reggimento di
popolo, la fratellanza delle stirpi, la giustizia sociale.
La storia narra di colossi smisurati che si sciolsero
come meteore non lasciando traccia di sè. Essa
racconta invece di piccoli Stati che scrissero pagine
immortali nel libro della civiltà.»
Altra nota che riappare in molte delle esortazioni
dell'oratore al popolo ticinese è quella contraria alla
faziosità. La nostra storia civile, dalla Repubblica
207
Elvetica in poi è assolutamente troppo carica di episodi
disdicevoli. Motta non li rievoca (la semplice
elencazione degli interventi e dei Commissari federali
sarebbe impressionante), ma non perde occasione per
raccomandare ai suoi concittadini la moderazione, sia
pur corretta da una rigorosa disciplina di partito.
Ora, prima di passare all'azione di Giuseppe Motta
nella politica internazionale, ci sia lecito richiamare qui
il suo intervento contro l'Adulismo come fenomeno
particolarmente ticinese. Nella solennità del Tiro
federale a Bellinzona (luglio 1929), egli espone con
lirico accento le ragioni del nostro attaccamento
all'Italia, ma ne dà anche la misura. «Tutrice necessaria
della nostra cultura è la Confederazione; tutrice
esclusiva perchè ogni altra tutela involgerebbe una
ingerenza incompatibile con la sovranità del nostro
Stato.»... Pochi giorni dopo l'Adula veniva soppressa:
pochi mesi dopo il suo atteggiamento veniva definito
nel Codice come delitto!
Lo stesso atteggiamento nei rapporti con le altre
Nazioni. Motta, che è apertamente giobertiano (non
gesuita) nei rapporti con l'Italia, si ricollega a Ippolito
Taine nel considerare le origini della Francia
contemporanea. Per Taine, come per lo svizzero Vinet
(teologo protestante!) la democrazia non ha le sue radici
nella rivoluzione ma nel cristianesimo. Radici
immortali!
Eguale linguaggio terrà alla Germania dopo
cominciata la reazione tedesca contro il disarmo. Nel
208
suo discorso di Davos per l'inaugurazione di quel corso
universitario richiamerà l'amicizia del maresciallo
Moltke (quello del 1870) con lo svizzero Bluntschli
professore di diritto ad Heidelberga ed oserà porre il
Patto Kellog per il disarmo nella luce del pensiero
tedesco di mezzo secolo prima.
Nè altrimenti parlerà alla Polonia ed ai giovani paesi
slavi nel discorso in morte di Sienckiewicz del 20
ottobre 1924, poscia più tardi agli Stati Uniti,
auspicando la loro entrata nella Società delle Nazioni.
Quante e quante rievocazioni potrei ancora dedurre
dal primo volume di Testimonia temporum, in ispecie
per quanto concerne l'opera di Giuseppe Motta nella
Società delle Nazioni!
Ma io non sono chiamato a scrivere un commentario.
Se la direzione del Dovere me lo consentirà, preferirei
farne oggetto di un terzo articolo che avrebbe per base il
secondo volume, quello or ora pubblicato sul
quinquiennio 1932-1936.
III37
Raccomando quest'ultimo articolo, sul promesso
soggetto, alla particolare attenzione dei giovani e non
più giovani goliardi ai quali, a quanto posso desumere
dalla loro ultima manifestazione annuale, non sarà del
tutto inutile.

37 Recensione dei volumi: Testimonia temporum di


Giuseppe Motta. Dal Dovere dell'8 gennaio 1937.

209
Il secondo volume delle testimonianze, è munito di
una prefazione. Qui prevarrà la lingua francese per la
parte che vi ha la politica estera con la Società delle
Nazioni.
Le inquietudini che affioravano nel primo volume
sulla realtà della pace, qui si precisano nell'affermazione
che l'assestamento era un'illusione. «Quest'ultimo
quinquennio è rimasto irto di crescenti difficoltà... Le
cure e le ansie dell'attività di governo sono vieppiù
tormentose».
La svalutazione della nostra moneta ne è la miglior
prova.
Rivolgendosi a tutti i partiti aggiunge, senza ira ma
con profonda tristezza: «Sonvi ancora persone che,
cedendo a frasi vuote di senso, accusano il Consiglio
federale, ogni qualvolta esso mostri una mano ferma e
sicura, di tendenze fasciste. Il fascismo è un grande
fenomeno politico dell'êra nostra: esso è nato in parte
come reazione contro gli abusi del parlamentarismo e
contro i danni della licenza: ma parlare di fascismo per
applicarlo alla Svizzera è cosa irragionevole... Svizzera
e reggimento popolare sono due termini di cui uno
chiama storicamente e necessariamente l'altro
Si apre poscia la serie dei discorsi, con quello di
Airolo, per il 50° dell'apertura del Gottardo. Parallelo
nella sostanza a quello di Cattori, ne è l'antitesi nella
forma. Il primo abbraccia con una certa enfasi tutta
l'Europa, «dal Lilibeo all'ultima Tule». Il secondo vede
nella grande galleria il tratto d'unione «fra i mari d'Italia
210
e la Valle del Reno» ed invoca da Dio che «voglia
restituire tra breve al mondo ed in ispecie all'Europa la
fiducia ed il benessere». (Ciò che può solo essere
conseguito con la fratellanza e la pace fra le Nazioni).
Nello stesso ordine di idee Motta andrà a dire ai
confederati di lingua tedesca mentre celebrano la
ricorrenza dell'entrata di Lucerna nella Confederazione,
che quell'episodio storico, e meglio la fondazione della
Confederazione stessa, «è il monumento vivente di
quella superba epoca dell'umanità che fu il moto per le
libertà comunali dell'occidente cristiano». Analoghi
sentimenti esprime nella giornata ticinese al tiro
federale di Friborgo. Non esiste nel mondo, egli dice, un
altro popolo in cui lo Stato osi affidare al soldato la sua
arma, fuori di servizio, ciò che dà la misura
dell'adesione del popolo alle sue istituzioni.
Il primo agosto 1935 parla alla Radio denunciando
l'«Adula» e i suoi contatti moralmente delittuosi e le
illecite ingerenze di alcuni giornali italiani. «Le
relazioni d'amicizia fra l'Italia e noi, che sono ottime,
devono essere preservate dagli intrighi degli
irresponsabili, degli inconsapevoli, e dei
malintenzionati. È supremo interesse anche dell'Italia
che cessi per sempre ogni discussione intorno al Ticino
svizzero» (pagina 33).
Anche prima, e precisamente nel giugno 1932, il
nostro Oratore aveva parlato a Losanna, (e questa volta
in francese) per l'apertura di quella famosa Conferenza
internazionale che era convocata per porre un fine alla
211
questione delle riparazioni ed a quella dei debiti di
guerra, mentre a Ginevra un'altra conferenza doveva
deliberare sugli armamenti e decidere il disarmo. I due
oggetti erano interdipendenti: l'uno e l'altro
richiedevano uno sforzo di buona volontà senza di che
l'Europa si sarebbe sempre più affondata nel brago dei
debiti, della crisi e della disoccupazione: «vous tenez
dans vos mains, Messieurs, le sort de la paix et, par là,
celui de la civilisation». Così ammoniva lo Svizzero!
Se a nulla valse, che sugo c'è per i nostri partiti,
fronti, gruppi e sottogruppi di pigliarsela col Consiglio
federale come risponsevole del disagio, o per causa
dello spionaggio, oppure di prendersela col Consiglio di
Stato?
Dov'è il senso comune in chi rimprovera a Motta il
suo filofascismo, o la sua debolezza di fronte alle
dittature, od a favore della Santa Sede, come fecero con
armonica discordanza più d'un nostro giornalista, od il
militarista protestante Sonderegger, od il socialista Kägi
od il signor Grimm in Consiglio Nazionale, e più
recentemente il signor Tobler qui a Lugano?
«I tempi che viviamo hanno preso colore di dramma
e spesso di tragedia», insiste il nostro oratore parlando
ai Ticinesi per la protezione dell'ordine pubblico (pagina
64); «i rapporti fra capitale e mano d'opera devono
essere riformati; occorre un nuovo ordinamento
professionale; occorre che da questo nuovo ordinamento
non venga escluso quanto è rimasto dell'antico ordine
corporativo; ma le riforme devono potere essere
212
realizzate nelle forme tradizionali della democrazia:
donde la necessità dell'ordine pubblico».
Questa nota, che le vere riforme sociali sono il
risultato di lente e coscienti preparazioni (e che le
rivoluzioni non possono far altro che realizzare e
sanzionare le riforme già maturate nell'evoluzione), era
stata dimostrata da un certo Fustel de Coulange che non
era nè fascista nè clericale, ma un meraviglioso
interprete della storia.
L'accusa di clericalismo al signor Motta fa buon
riscontro con quella di filofascismo. Parlando esso ai
Ticinesi dopo la loro accettazione della legge sull'ordine
pubblico, dice com'egli abbia assistito ad una
Landsgenmeinde dell'Appenzello e come questa gli
abbia richiamato il Comune rustico di Giosuè
Carducci... Parlando ai cattolici ticinesi nel
cinquantesimo della nostra Diocesi, poscia ai cattolici
svizzeri a Friborgo (pag. 103) non è qualche enciclica
del Papa che egli invoca a stimolare il loro zelo, ma cita
le parole del consigliere federale Welti, radicale
protestante, e quella di Stanley Baldwin, protestante e
liberale, primo ministro della liberale e protestante
Inghilterra!
Egli è che il Motta, consigliere federale ha sempre
accomunato i protestanti ai cattolici nella difesa del
Cristianesimo, come «radice immortale della libertà».
Ciò può spiacere a certi fra Galdini della democrazia,
ma ciò è sovranamente svizzero e moderno.

213
O forse taluno vorrebbe rimproverare a Motta oltre al
suo preteso fascismo una sua più vasta simpatia per i
regimi a spirito dittatoriale?
Oltre che tutta l'opera di Motta vi si oppone,
invocherò la sua risposta alla interpellanza Thalmann e
Schneider sul rapimento dell'ebreo tedesco Bertoldo
Jakob (pag. 126 e 134) dove il Consiglio federale
s'impegna formalmente alla repressione dello
spionaggio, come poi fece. Nè si dimentichi il brano del
rapporto di Gestione del Consiglio federale (ivi pag.
137) dove sono appaiati i rapporti con la Germania e
quelli con l'Italia.
La guerra d'Etiopia e le susseguenti sanzioni
sollevarono qui nel Ticino le più dissonanti critiche
secondo il colore dei partiti. Le testimonianze si trovano
a pagina 140, 145 e 162 del volume. Una prima è la
risposta ad una interpellanza del consigliere agli Stati
signor Coulon, (liberale protestante), nel senso che «la
Società delle Nazioni ha avuto torto di aggradire nel suo
seno una nazione le cui condizioni politiche e sociali
non sono quelle degli altri paesi...».
Il Consiglio federale propose di soprassedere... Fu la
Francia che insistette vigorosamente per
quell'ammissione. (E qui nel Ticino tutti abbiamo
creduto fosse stata l'Italia, tanta è la penetrazione delle
influenze straniere!)...
L'articolo 16 del patto delle nazioni è molto male
redatto in quanto lascia credere che noi saremmo tenuti

214
alle sanzioni economiche in pieno... Il Ticino e le valli
grigionesi ne avrebbero troppo danno...
Segue il racconto della discussione avvenuta con
l'Inghilterra e l'accenno al clearing convenuto fra la
Svizzera e l'Italia in conseguenza del quale la
partecipazione nostra alle sanzioni rimase limitata.
La seconda testimonianza è il discorso del signor
Motta al Consiglio Nazionale a conferma del discorso
precedente ma con molto maggior estensione di istoriato
ed argomento. In essa risponde anche a certe critiche del
consigliere nazionale Tobler che ebbero un seguito
ultimamente qui a Lugano. Tobler accusava Motta
d'eccessivo idealismo e gli raccomandava, in nome del
Fronte nazionale, una maggiore aderenza alla realtà.
Vorrei avere maggiore spazio per qui riferire l'eloquente
replica dell'Uomo di Stato svizzero (pagina 162). Mai,
neppure ai tempi di Numa Droz, si udì sotto la cupola
una parola federale così elevata!
Qui faccio punto con una testimonianza finale a
riguardo dei Sovieti.
È noto che la delegazione svizzera a Ginevra s'oppose
alla ammissione della Russia nella Società delle Nazioni
(pag. 163, e pag. 786 degli Scrittori Ticinesi).
Alle Camere federali Motta ebbe a rispondere ad una
interpellanza tendente al riconoscimento del Governo
sovietico da parte della Svizzera. La magistrale risposta
all'invito (pag. 163) si appoggia a questo aforisma:
essere il governo sovietico inseparabile dalla terza

215
internazionale la quale ha per iscopo l'intervento attivo
nella politica degli altri Stati.
Di tutta l'ultima sezione del volume, che comprende
dodici discorsi tenuti alla Società delle Nazioni,
menziono solo (rationae materiae) la dichiarazione
finale riguardante il conflitto italo-etiopico (pagina 218)
ed il breve discorso giuridico sopra la necessità di levare
le sanzioni contro l'Italia.
Ci sarebbe molto altro da dire... Le ingerenze estere
hanno inondato il Ticino di lazzi inopportuni sulla
Istituzione ginevrina: i Ticinesi che pensano sanno quale
conto ne debbano fare!

216
PARTE SESTA

Commemorazioni

I.
Alfredo Pioda38

Grato m'è il compito di commemorare qui a Lugano,


sotto gli auspici della Scuola di Coltura italiana, in
questo torbido momento storico, il nostro grande
concittadino locarnese che ai suoi tempi mi onorò della
sua amicizia.
Tanto più grato perchè reputo doveroso ed opportuno
rivalutare il suo alto insegnamento che si addice più che
mai alle condizioni dell'oggi. Egli fu, nel nostro paese,

38 Conferenza tenuta a Lugano, Bellinzona, Biasca, Locarno e


Chiasso, nel 1936, sotto gli auspici della Scuola ticinese di
cultura italiana.
Nella copia dell'opuscolo ove è stampata la conferenza, e che
ci sta sotto occhio, Brenno Bertoni ha scritto, a matita: Mio
capolavoro e mio testamento.

217
la Svizzera Italiana, la figura più cospicua della sua
generazione. Nessuno lo superò per coltura generale,
nessuno lo eguagliò per il giusto equilibrio della mente,
tutti egli vinse per nobiltà d'animo, per gentilezza di
costumi.
Era nato nel 1848: anno augurale e fatidico per la
nostra patria e per le mutazioni politiche dell'Italia e
d'Europa: suo padre era di quella famiglia dei Pioda che
già aveva reso illustri servizi alla patria ed altri ne
preparava. La famiglia era un ornamento di quella
borghesia locarnese, borghesia blasonata, la quale, come
il Patriziato di Berna e delle città svizzere, era una
nobiltà nuova germinata dai Comuni.
Famiglia aristocratica adunque: titolo che potè essere
odioso in altri climi, ma che per la gente colta conserva
il suo valore morale, attesochè la democrazia, secondo
una definizione di Giacorno Ciani, non consiste
nell'abbassare i maggiorenti, ma nell'elevare gli umili.
La sua madre (poichè ancora infante egli perdè il
padre) curò la sua educazione: i suoi zii la diressero:
egli fece con signorilità gli studi umanistici in Italia,
quelli giuridici in Germania, quelli filosofici, filologici
ed economici dappertutto. Raffinato prosatore e
verseggiatore in italiano, egli usava la sua favella con
perfetto accento toscano, ma dominava il francese, il
tedesco e l'inglese con sapiente eleganza.
Filosofo egli lo era per temperamento, filosofo per
vocazione; sebbene la filosofia non dovesse portargli
fortuna.
218
Prima di lui si era svolto un lungo periodo storico nel
quale tutta la vita pubblica era permeata di filosofia: i
giansenisti e gli enciclopedisti in Francia, gli illuministi
in Germania avevano inspirato tanto i sovrani
riformatori quanto le sollevazioni dei popoli. Hume in
Inghilterra, Rousseau in Francia, Kant ed Hegel in
Germania erano filosofi prima che politici... In Italia il
primo fermento politico che non fosse d'importazione
straniera era venuto con Mazzini, il rivoluzionario
mistico per cui la democrazia era l'ultimo anello della
Rivelazione divina, svoltasi nei secoli a traverso i
profeti... Mazzini era però morto, assassinato dal
nihilismo sarmatico di Bakunin dilagante in Romagna.
In Germania la parola era data da Carlo Marx, in
Francia da Blanqui, per i quali la filosofia era tutt'al più
un perditempo borghese.
Inoltre, il mondo europeo era allora tormentato da
una gran bufera. Esso rimbombava da un lato per le
folgori del Pontefice Pio IX contro l'empietà secolare.
Era l'epoca del Sillabo, atto che conchiudeva
unilateralmente la dura lotta svoltasi in Italia fra la
«rivoluzione tricolore» e la tradizione legittimista. Pochi
anni dopo doveva cominciare in Vaticano una reazione
nel senso dell'intesa con lo Stato, reazione che è sfociata
or sono tre anni nel patto del Laterano; ma questo lo
potevano sapere pochissimi iniziati, di cui il primo fu il
Padre Curci gesuita, quello stesso che già era stato il
fiero avversario di Gioberti. D'altra parte il laicato era
sotto l'impressione violenta della caduta del potere
219
temporale con Roma capitale d'Italia. Momento poco
propizio per la filosofia contemplativa! Momento in cui
uno che si atteggiasse a filosofo, doveva naturalmente
essere catalogato con Arnaldo da Brescia e con
Giordano Bruno intesi secondo i loro interpreti del XIX
secolo, ciò ch'era il caso di Roberto Ardigò, il prete
apostata cremonese.
Di fronte al Sillabo era sorta una cattedra del Libero
pensiero non sempre amica della libertà.
Ottant'anni prima, infatti, i giacobini avevano eretto
altari alla Dea Ragione, ma quella dea era sempre una
divinità che suggeriva un culto, del quale non si voleva
più nulla sapere. Adesso era in auge la legittima
discendenza dell'uomo dalla scimmia.
San Giovanni evangelista aveva detto: «In principio
era il Verbo, e il Verbo era appo Dio, e il Verbo era
Dio». L'apostolo aveva parlato secondo Socrate e
Platone, ma i nuovi profeti intervennero dicendo: che
importa sapere cosa fosse in principio? L'essenziale è di
sapere che fra il creatore e la creatura sta la bestia: la
scimmia della quale abbiamo ereditato gli istinti. Le
conseguenze non ci devono spaventare.
Questo insegnamento esaltava giovani e vecchi. Ho
sentito io con le mie orecchie Carlo Vogt dalla sua
cattedra ginevrina insegnare: Mieux vaut être un singe
perfectionné qu'un Adam dégénéré. E così insegnava
tutto un manipolo di profeti, in Germania, in Francia, ed
in Italia: Büchner, Hollbach, Moleschott, Maur, Schiff,
Carlo Vogt, Haeckel.
220
Tutti quei maestri si appellavano all'autorità di
Darwin, il grande assertore dell'evoluzione, teoria che
era già stata intuita dal naturalista francese Lamarke
sotto il nome di trasformismo della specie.
Ora è bene sapere che Darwin non fu mai darvinista
nei senso dei suoi seguaci. Darwin ha asserito la
mutabilità delle specie organiche secondo le necessità
dell'adattamento alle circostanze, ossia dell'ambiente.
Come corollario deduceva: «la lotta per la vita è la
sopravvivenza del più forte», ciò ch'era l'implicita
legittimazione della prepotenza professata un po' più
tardi da Nietzsche e da Sorel. In questo quadro Darwin
aveva accennato alla analogia dei caratteri morfologici
dei quadrumani superiori con quelli dell'uomo
primitivo, ma non era andato oltre. Il principe degli
evoluzionisti, Herbert Spencer nei Primi Principi
insegna anzi che le cause prime dell'essere non
appartengono e non possono appartenere al campo della
vera scienza positiva perchè esse sono dell'esclusivo
dominio dell'intuizione interna.
Certi concetti fondamentali verso i quali anela
perpetuamente l'uman genere, come l'eternità del tempo
e l'infinità dello spazio sfuggono per loro natura alla
comprensione dell'uomo. Quando noi diciamo che la
distanza dalle stelle fisse è di tanti e tanti anni di luce, la
nostra mente non capisce o non comprende quel

221
concetto, bensì la nostra lingua copre una lacuna della
nostra concezione con un ponte di parole39.
Noi abbiamo la sete, l'intuizione del logos, del verbo
che in principio era appo Dio, ma scientificamente non
ci possiamo dissetare. La cerchia delle nostre
conoscenze sperimentali si allarga sempre più: ma a
misura che si allarga la superficie interna del circolo,
che è la nozione, si allarga anche la linea esterna della
circonferenza mettendoci in contatto con un ignoto
inesorabilmente sempre maggiore.
Così diceva il Principe dei darwinisti. Tant'è. Noi
eravamo tutti darwiniani convinti nel senso empirico del
materialismo. Io come gli altri, che avevo appena
vent'anni, ma che non lo era già più a trenta.
Ed ecco descritto il clima storico in cui si affacciò
alla vita Alfredo Pioda, filosofo spiritualista, teosofo ed
eziandio buddista.
Quanto al clima geografico era quello di Locarno e
dintorni, per la vita pubblica, al quale egli poteva
fortunatamente aggiungere, per la sua vita spirituale,
qualche cosa come Firenze e Roma, dove egli aveva
parentele ed amicizie illustri.

39 Proprio di questi giorni si annuncia dall'osservatorio di


Harward, in America, la scoperta, dietro la via Lattea di 50.000
stelle nuove, cinquantamila mondi dunque, lontane novemila
miliardi di chilometri da noi. Calcolando la velocità della luce i
raggi percepiti dall'astronomo scopritore sono partiti di là
all'epoca degli ittiosauri. (La nota figura nell'opuscolo del
Bertoni).

222
Ma egli era ticinese, si sentiva profondamente
svizzero e vincolato alle tradizioni di famiglia: gli
sembrava che qui e non altrove dovesse svolgere l'opera
sua.
Tornato dai suoi studi, prese adunque dimora stabile a
Locarno. Quivi era già corsa la voce che egli fosse un
dotto stravagante, poco portato alla vita pratica, e tutto
intento alla vita spirituale pur non essendo un uomo
religioso, anzi il contrario. Si parlava di un suo progetto
di fondare al Monte Verità presso Ascona, che era una
sua proprietà, una specie di convento laico come quello
che ora funziona a Dornach, dedicato alla meditazione
ed agli studi spiritici dei quali era fautore come si
conosce da un suo volume, Memorabilia, sul quale
ritorneremo, in cui sono illustrati gli studi, le esperienze
e le ipotesi che si andavano facendo in Inghilterra ed
altrove, sopra i fatti ipnotici e i fenomeni spiritici. Ciò
gli creava d'attorno un'atmosfera di diffidenza.
Per certi cattolici di vecchia scuola, genere Fra
Galdino, egli doveva esser un frammassone, ciò che
voleva dire uno che adora Satanasso e gli dedica riti e
liturgie terrificanti. Vi erano però anche dei Fra Galdino
del libero pensiero per i quali egli doveva essere
semplicemente uomo tocco nel cervello.
Sul merito della questione dello spiritualismo, in
attesa che altri ne possa trattare al beneficio delle ultime
indagini positive, mi limiterò a riferire la definizione di
Larousse autore di tendenza notoriamente monista.
Spiritismo: «doctrine occulte qui a pour objet de
223
déterminer les conditions d'existence de l'esprit, avant,
pendant, et après son incarnation. La thèse
fondamentale du spiritisme est qu'une communication
existe entre les vivants et les esprits... Le spiritualisme a
eu ses charlatans et il a servi dans les mains d'habiles
opérateurs, à l'exploitation de la crédulité umaine. Il a
eu encore ses faux médiums, ses faux voyants, ses faux
prophètes... mais, les phénomènes du spiritisme sont
aujourd' hui, malgré tous ces obstacles, l'objet
d'investigations scientifiques».
Alfredo Pioda, che era dotato di una certa conoscenza
delle discipline fisiche, ci teneva molto a ricercare ciò
che vi fosse di accettabile o di probabile in queste
novità.
C'era allora a Locarno un circolo di amici formatosi
intorno a Rinaldo Simen, presidente della Società di
Ginnastica e redattore del Tempo, poscia del Dovere di
oggi, ed alla sua signora, una parigina di nascita assai
elevata.
Alfredo Pioda ne faceva parte ed era il beniamino di
tutti ed alla sua volta illuminava tutti. E quando più tardi
Rinaldo Simen venne chiamato al reggimento della
Repubblica, si disse di Alfredo Pioda che fosse la sua
Ninfa Egeria.
Mitologia a parte, il Pioda esercitò sempre su Rinaldo
Simen una salutare influenza senza della quale il suo
governo sarebbe stato spazzato via in poco tempo. Il
Pioda era un moderato. Quando, dopo tre lustri di
regime del partito conservatore, l'astro di Gioachino
224
Respini parve volgere al tramonto, Alfredo in un suo
manifesto si affacciò come conciliatore fra i partiti,
preconizzando «la fine dell'esclusivismo settario,
massime nelle elezioni giudiziarie, e la emancipazione
delle scuole dal fanatismo religioso, ma non dal
cristianesimo». Quest'ultima riserva a favore del
cristianesimo era un mònito per l'avvenire come tosto
vedremo.
Venuto al potere il partito liberale con le elezioni del
1893, gli zelatori volevano si prendesse tosto la rivincita
della votazione referendaria del 1886, la quale aveva
sanzionato a scarsa maggioranza la legge ladra
(espressione polemica disgraziata, posta a significare la
legge sui rapporti fra la Chiesa e lo Stato).
Simen e Pioda erano bensì per una riforma, ma con
criteri moderni e pressapoco quelli della separazione
preconizzata in Italia da Marco Minghetti già nel 1877.
Gli estremisti invece cercarono di imporre, mediante
una iniziativa popolare, il ritorno alla legge del 1855 che
era nettamente giuseppinista, cioè assolutista, e
sanzionava la dipendenza della Chiesa dallo Stato, ciò
che è appunto il sistema dei paesi protestanti, ma anche
quello delle tirannie.
Il comizio popolare fu un disastro che paralizzò il
Governo liberale per tutta la sua durata. Le rivalità fra le
direttive di Alfredo Pioda e quelle di Romeo Manzoni
imperversarono d'allora in poi a proposito dei
programmi scolastici, della direzione della Scuola
Normale, dell'insegnamento della filosofia, di quello del
225
catechismo nelle scuole pubbliche, e della libertà
dell'insegnamento privato.
Per inaugurare degnamente le ostilità un novellino
professore di filosofia al patrio Liceo, parlando coi suoi
allievi si era ripromesso di dare quattro schiaffi al
Signore Iddio del cielo! Altri voleva l'abolizione del
catechismo nelle scuole pubbliche e il controllo dello
Stato sulle scuole private affinchè non vi si insegnasse
«la superstizione» contro le verità scientifiche
riconosciute.
Il Governo di Simen incaricò Alfredo Pioda di fargli
un rapporto e delle proposte concrete su tutte queste
diavolerie. Questi si era intanto affermato in modo
degno di lui quale direttore del Ginnasio di Locarno, e
quale esaminatore del Liceo e delle Scuole normali. La
sua relazione è del 7 aprile 1893 e si trova nel volume di
Fausto Pedrotta ("Alfredo Pioda nella vita e nelle opere
", editore Salvioni, a pag. 143)
Egli imposta anzitutto la questione del catechismo nel
quadro della Costituzione federale. Questa, nel suo art.
27 (oggi formalmente accettato anche dalla Destra
cattolica svizzera) pone l'istruzione religiosa fra gli
attributi della patria potestà, limitata dal principio
generale che la scuola debba poter essere frequentata da
allievi di qualsiasi credenza senza offesa alla loro
coscienza religiosa. La scuola conoscerà dunque
l'insegnamento religioso, ma in modo che non sia
argomento di rissa fra la Chiesa e lo Stato, rissa la quale
non può riuscire ad altro che al pregiudizio dell'una
226
come dell'altro, a danno dello scopo comune ch'essi
devono proporsi.
Sentiamo con che alto stile tratta quel filosofo un
argomento che nella nostra stampa quotidiana fu tante
volte bistrattato con la solita volgarità, e, perlopiù, ad
imitazione di qualche fazione politica straniera.
***
«De solo pane non vivit homo», pare sia l'assioma
che domina il concetto della missione dello Stato
rispetto alla coltura del nostro paese, dacchè il relativo
dipartimento ha da noi non già il titolo di Pubblica
Istruzione, come in Italia, ma di Pubblica Educazione,
come proponeva l'Azeglio ne' suoi Ricordi. La scuola
non deve solo impartire nozioni atte a procacciare il
sostentamento della vita in tutte le vie di attività aperte
al cittadino, ma deve altresì coltivarne l'anima,
svolgerne i germi di moralità e di idealità ingeniti ed
ereditari.
...Ognun sa come l'insegnamento religioso nelle
scuole pubbliche racchiuda uno dei più alti problemi
della scienza di Stato, una delle più gravi difficoltà degli
Stati cattolici, dove la Chiesa, depositaria dell'antica
coltura, fattrice di civiltà nel Medio Evo, creatrice dello
Stato moderno, non sa abbandonare la tutela nè
persuadersi a lasciar vivere lo Stato di vita propria.
Donde il conflitto per le competenze dell'una e
dell'altro.

227
Accanto a questo, un secondo conflitto andò via via
sorgendo ed inasprendosi, quello fra le opinioni
scientifiche o filosofiche ed alcune dottrine del
cristianesimo, alcuni dogmi della Chiesa cattolica.
Lo Stato in contrasto con la Chiesa per le rispettive
competenze, naturalmente si pose dalla parte di quelle
opinioni avverse alle dottrine ed ai dogmi di lei, e così i
due conflitti si fusero in uno ed ebbimo per parecchi
anni due cattedre contrarie, da cui si esercitavano due
apostolati contrari, l'uno nel tempio, l'altro nella scuola,
con quale vantaggio dell'educazione popolare e della
quiete delle coscienze ognuno lo vede... Ma ora che il
Pontefice s'avvicina allo Stato moderno, ora che la
scienza non va più combattendo ma risolvendo i
problemi religiosi, ora che la coltura già divisa in due da
un abisso, va facendosi una, a me pare che gli
inconvenienti possano scemare, gli ostacoli venir
superati qualora le forze direttive del paese concorrano
tutte...
***
Passando dall'istruzione religiosa all'insegnamento
filosofico, Alfredo è a tutto suo agio. Affermata la
essenziale mutabilità della filosofia come sintesi di tutta
la scienza, affermato che ogni sistema filosofico è
materia opinabile ma che risponde sempre ad
un'aspirazione di cui la mente umana sarà sempre
assetata: conclude che l'insegnamento della filosofia
non debba più avvenire con metodo dogmatico, ossia

228
cercando di imporre questa o quella sintesi, bensì con
metodo storico che, risalendo le mutazioni del pensiero
e dei sentimenti, lasci ampio margine all'intuizione
naturale delle singole menti.
Tale altissimo pensamento riappare otto anni dopo, in
un discorso tenuto dal nostro filosofo il 3 luglio 1901
agli esami finali della Scuola normale femminile di
Locarno. Richiamiamo che questi anni Egli li ha
consacrati alla pratica della pedagogia. Questo discorso
è pure riprodotto nel volume del Pedrotta. A carte 154
leggiamo:
«La tradizione religiosa e le opinioni metafisiche
dipingono e preconizzano i destini umani dando forme
concrete all'avvenire dell'universo, epperò dell'uomo.
Ora queste forme sono opinioni. E infatti quando una
religione positiva od un sistema filosofico parlano
dell'origine o della fine del mondo, oppure della
salvezza o della perdizione umana al di là, esse
incontrano la sintesi di una data coltura, sintesi mutabile
a norma dei fattori di questa coltura, epperò asseriscono
verità essenzialmente relative. Gli è vero che tali verità
praticamente dirigono la vita, ma la scuola moderna non
vuole lanciarle, come le tavole della legge, sul capo
della scolaresca. Essa, rispettando l'intreccio spontaneo
delle facoltà dell'alunno, l'avvia a questa sintesi con la
ragione confortata dall'esperienza, e col sentimento
informato ai concetti dell'etica.
Essa non detta una religione od una metafisica, non
combatte le tradizioni avite, ma ne segue la spontanea,
229
lenta, sicura trasformazione, ed in questo senso è detta
scuola neutra».
Tale un concetto della neutralità della scuola può
oggimai essere accettato da qualsiasi cattolico; ma non
sempre è accettato da certi zelatori per i quali la laicità
deve essere intolleranza verso la chiesa o magari scuola
di ateismo.40
***
Sarebbe fuori del quadro che mi sono proposto per
questa conferenza, se io presumessi di volervi ora
parlare di Alfredo Pioda maestro di teosofia così come
l'ampiezza e la sublimità dell'argomento
richiederebbero. Nel volume del Pedrotta voi potete
trovare ben sessanta pagine in ottavo se ne aveste il
talento.

40 Registra infatti, il Panzini, nel suo Dizionario moderno (5.


edizione).
Laico: da Laos = popolo: dunque popolare secolare, il
contrario di ecclesiastico.
[...] significherebbe scuola elementare in cui fosse vietato
l'insegnamento religioso: Scuola secondaria cui fosse dato il
carattere laico, cioè areligioso come oggi si dice. La parola
"areligioso" significa letteralmente senza religione, ma siccome
per la Chiesa cattolica non ci può essere salvezza fuori della
religione, e nell'uso popolare si dice "senza religione" nel senso di
scostumato, ne consegue quasi automaticamente, per reazione,
che la parola «areligiosa» prenda il senso di "antireligiosa". (La
nota figura nell'opuscolo del Bertoni).

230
Delle dottrine ivi trattate parecchie sono forse sfiorite
a quest'ora: altre invece si sono viemmeglio affermate.
Le nuove scoperte nel campo della radioattività, le
mirabili invenzioni di Marconi, la trasmissione senza
filo di onde elettriche che solcano tutta quanta
l'atmosfera dall'uno all'altro continente, la radiofonia
entrata in ogni villaggio e quasi in ogni famiglia, la
radiovisione che si attende d'ora in ora, quante e quante
scoperte al di là di quella materia materiata che ancora
ai tempi della mia giovinezza pareva segnasse i limiti
del conoscibile!
Ben lo prevedeva Alfredo Pioda con queste parole:
«Da quando il povero Mesmer, in veste di visionario,
andava predicando il verbo nuovo del magnetismo
animale, perseguitato dai sapienti del tempo, come ha
germinato e fruttificato la sua scoperta! Da lui a Charcot
quale cammino compiuto!»
Il Pioda si tiene sicuro dei nuovo massimo fenomeno
preconizzato, con cui il pensiero passi da un cervello
all'altro cervello, come la onda herziana da un
apparecchio all'altro, del telegrafo senza filo».
A questi nuovi orizzonti vien ora ad aggiungersi
quello della radioestesia, nel senso di percezione delle
onde che irradiano dai corpi organici ed inorganici, già
noti nella ricerca delle sorgenti a mezzo dei radiomanti.
Problemi formidabili che sembrano lasciare
indifferenti molti ostinati conservatori che, in veste di
novatori rivoluzionari, si attardano ancora a discutere i
problemi dello spirito coi dati di cui disponeva la
231
scienza ai tempi di Augusto Comte, fondatore e gran
sacerdote del positivismo.
***
Nell'anno 1903 fu tenuto a Locarno un Congresso
della Società Svizzera di Scienze naturali. Alfredo Pioda
fu delegato dal Governo a fare gli onori di casa.
Era quanto invitarlo a nozze!
Dopo aver commemorato alcuni naturalisti ticinesi,
quali Luigi Lavizzari, Alberto Franzoni, il Padre
Agostino Daldini, l'abate Giuseppe Stabile e Lucio
Mari, egli pronuncia una calorosa apologia delle
Scienze naturali, ma si affretta ad avvertire che esse non
esauriscono la serie delle discipline dello spirito.
«Il metodo scientifico per la scientifica certezza non
deve escludere la ricerca della legge etica in se stessa la
quale spiega i suoi rami nell'intimo dell'uomo e nel
consorzio umano, scendendo giù dai rami al tronco ed
alle radici».
Studiarla questa legge etica, coi metodi sperimentali,
rendere evidente ed efficace il precetto, è però lo scopo
finale d'ogni ricerca, scopo che si affetta di dimenticare.
Aveva parlato a Parigi il Brunetière, denunciando il
fallimento della scienza nel campo dell'etica sociale.
Il nostro filosofo incalza:
«Vascello fantasma, la scienza moderna passa
luminosa e veloce, rapita dalla fiumana dell'esperienza,
ma non sa donde venga e dove vada». A poppa di questo
vascello il nostro poeta immagina la figura della

232
psicologia che narra le scaturigini della fiumana stessa e
vaticina alla sua foce. Alle sponde di questo mare la
filosofia, l'antica madre del sapere, invoca il ritorno dei
figli, fatta più augusta e più saggia dal loro lungo
abbandono.
Essa attende l'instauratio magna di Francesco Bacone
senza della quale non sarà mai perfetto il globus
intellettuale.
Splendide immagini che dimostrano quanto Alfredo
Pioda oltrechè filosofo fosse poeta!
***
Molti di coloro che stimavano A. Pioda e sarebbero
stati disposti a seguirlo, erano messi in forse e
dubitavano di lui a causa del suo buddismo. Pensavano:
a che servirebbe emanciparsi dall'autorità del
catechismo cattolico se fosse per seguire un'altra
superstizione? Non siamo noi liberi pensatori? Se sì,
non possiamo impicciarci di altri dogmi, tanto meno se
antiquati.
È strano il significato che molti danno a questa
espressione di Libero Pensiero, quasi identificandola
con ateismo, materialismo e con quel positivismo di
Aug. Comte che, fra parentesi, non è una dottrina, ma
semplicemente un metodo. Secondo il Panzini libertà di
pensiero è: «il diritto che ha l'uomo di non subire
violenze o pena da chi volesse imporgli una qualsiasi
dottrina religiosa». Se tale è il giusto significato nessuno
era più libero pensatore di A. P., anzi! egli era qualche

233
cosa di più che libero pensatore, essendo libero
credente.
A tutto dire, l'essenza del libero pensiero del Pioda,
che è pure la mia, (se è lecito) è che la scienza non deve
nè può negare un postulato solo perchè non lo si possa
dimostrare in laboratorio. Noi ci crediamo liberi di
pensare che l'intuizione abbia preceduto e preceda
naturalmente l'assaggio galileiano, e che
(scientificamente ragionando) se tutta l'umanità, in tutti i
tempi, in tutti i Continenti, ha intuito che vi debba
essere nella creazione una causa prima, una volontà
cosciente, ed una causa ultima, non è lecito trinciare che
tutto questo non conta nulla. Se questa intuizione c'è,
universale e permanente, ciò è pure un «fenomeno
d'ordine sociologico» in se stesso, del quale devesi
tener conto almeno fino a prova del contrario. Se no, è
una madama scienza che cade essa medesima in una
negazione arbitraria.
Qui non sarà di troppo una breve precisione sopra la
natura del buddismo.
Così come il cristianesimo fu una riforma del
giudaismo e la Riforma fu una revisione del
cattolicismo paganizzante quale appariva all'epoca di
Lutero, il buddismo è una riforma spirituale della
religione antichissima di Brahma, che si estendeva a
tutto l'Oriente. Il Bramanismo praticava sacrifici
sanguinosi; esso materializzava la fede in pratiche
rituali esterne e formali. Del Dio Brahma e della sua
trimurti, ossia trinità, aveva fatto una divinità
234
antropomorfa, profanata da umane passioni. Il
riformatore Budda aveva cominciato con l'abolire i
sacrifici, abolire le divisioni degli uomini in caste, poi
aveva proclamato che tutta la creazione è animata, che
non vi è materia senza spirito, che l'uomo è in sè
medesimo animato da una scintilla divina e non vi può
essere nè felicità umana nè umano progresso se non nel
perfezionamento del proprio animo, nella pratica di tutte
le virtù da parte di ciascun mortale. Una superreligione
infine che assorbe nel monoteismo il panteismo e lo
stoicismo degli antichi greci e romani. Il buddismo è
oggi la religione dell'operoso Giappone!
***
Vi ho forse annoiati con le citazioni e gli imprestiti
dagli scritti del nostro Maestro, ma non più di quanto mi
sembrasse necessario per proiettare adeguatamente
l'opera sua più essenziale.
Ora permettetemi un accenno alle sue opere minori
dove il filosofo si mette in veste da camera, ed appare
tutto un altro pur non cessando di essere sempre lui.
In Caleidoscopio, pubblicato a spizzico sopra una
minuscola rivistina letteraria che io avevo fondato a
Bellinzona, egli narra in tono minore molti aspetti della
vita locale, particolarmente del mercato di Locarno.
Ivi l'acutezza dell'osservazione va di pari passo con la
bonarietà dei giudizi e con l'intento educativo. Perchè
quel titolo strano per una cosa così comune?

235
Vedi, mi diceva lui, vedi? Secondo l'etimo il
Caleidoscopio sarebbe un apparecchio per vedere le
cose sotto il loro aspetto migliore. Ti par poco? C'è tanta
gente intesa al pessimismo!
Mostrare anche le cose banali, anche le antipatiche,
sotto un aspetto migliore è già un collaborare
all'armonia sociale. Poi il Caleidoscopio dà l'immagine
della mutabilità, Tutto muta a questo mondo a seconda
del punto di visita dal quale osservi. Un minimo urto
cambia l'equilibrio dell'apparecchio ed ecco che tu vedi
le cose stesse sotto un aspetto diverso. Il mio
caleidoscopio sarà una scuola di tolleranza in questo
mondaccio che ne ha tanto bisogno.
Povero Alfredo, se tu dal tuo Nirvana fossi costretto a
vedere come e quanto quel mondaccio d'allora sia
migliorato!
Le Confessioni di un visionario le scrisse dopo quella
mezza rivoluzione dell'11 settembre 1890 che suscitò la
«tempesta d'onte che non fu più mai»: tempesta che non
è ancora cessata e che lasciò lunghi strascichi anche nei
rapporti fra la Confederazione e il Cantone. Dico mezza
rivoluzione non per spregio, ma perchè fu prevista e
voluta come tale, sapendosi che l'intervento di un
Commissariato federale l'avrebbe troncata a metà.
Secondo l'avvertimento di Spinoza egli non si attacca
a giudicare delle colpe e dei perchè. Si limita a
raccontare il come le cose sieno accadute, e come
sentissero (per lo più in buona fede) coloro che vi
presero parte.
236
Come ornamento artistico: i ritratti dei personaggi,
che sono bassorilievi degni di un quattrocentista
fiorentino. Nella nuova Antologia degli scrittori ticinesi
il lettore troverà i brani descrittivi delle Assisi di Zurigo.
***
Una volta volli sapere da lui cosa pensasse dell'opera
e dello esempio di Leone Tolstoi.
Il russo Tolstoi, mi rispose (pressapoco), è un budda
anche lui che vorrebbe moralizzare il cristianesimo del
clero greco-russo. Qui in occidente la Chiesa cattolica
scomunica ancora i riformati, e i protestanti dicono tutto
il male possibile dei cattolici: si detestano a vicenda ed
hanno torto. La Riforma, col suo naturale complemento
della Controriforma, ha costretto la cristianità
d'occidente a rinnovarsi spiritualmente: si rinnovò
divisa, ma più forte. In occidente invece la Chiesa russa
procede ancora da Bisanzio, educata e mantenuta dagli
Czar nella più miserevole inerzia intellettuale. Per
reazione il nichilismo insorge contro lo Czar, contro
Cristo e contro Dio. Il conte Tolstoi vorrebbe...
Vorrebbe redimerlo dai dogmi? chiesi io.
No, scusa: i dogmi non sono quello che più conta.
Milioni di cattolici conoscono molto imperfettamente i
loro dogmi: confonderanno per esempio la Verginità di
Maria con l'Immacolata concezione. La vera forza delle
religioni sta nei riti; il paganesimo antico non sapeva
che fossero i dogmi, ma aveva liturgie avvincenti. La
forza della Chiesa cattolica consiste appunto nell'avere

237
saputo legare l'etica dei suoi precetti con la estetica
delle sue cerimonie.
I riti sono preziosi in quanto abbiano un contenuto
prezioso.
***
E il destino del socialismo, gli chiesi ancora, in cosa
consisterà?
Il socialismo è una forza infrangibile come
sentimento e come tale va rispettato. Le formule e
formulette di attuazione socialista invece, non sono altro
che induzioni momentanee, tanto più soggette alle
mutazioni ed ai disinganni in quanto mancano di ogni
esperienza.
Tutto questo ho imparato alla scuola di Alfredo
Pioda. Ed altro disse ma non l'ho a mente, «perocchè
l'occhio m'avea tutto tratto per l'alta torre alla cima
rovente». Il secolo era già pervenuto alla città di Dite su
la cui torre maledetta le furie infernali di sangue tinte
annunciavano la veniente guerra delle razze e la
negazione d'ogni civiltà.
***
L'ora incalza: è più che mai tempo di chiudere questo
discorso con una nota sul carattere fisico e morale del
nostro grande compatriota.
Alfredo Pioda era per eccellenza il tipo della bontà.
Bontà che si leggeva nel suo viso, che si percepiva nel
suo sguardo, che si sentiva nell'accento della sua voce,

238
che stillava dalle sue parole. Nelle conversazioni da
salotto, come nelle pubbliche concioni, sapeva
contraddire e contrastare senza mai una parola offensiva
e nemmeno pungente. Così obbligava i suoi avversari ad
essere cortesi e rispettosi con lui.
Non è questo un vero miracolo nella vita ticinese?
nella vita pubblica soprattutto nella quale, per antica
tradizione, ogni cortesia è tacciata di debolezza?
Alfredo Pioda era anche polemista all'occorrenza, e
quale formidabile polemista! ma seguiva l'esempio di
Ernesto Renan il quale, con arte raffinata si vantava che
nelle polemiche egli si sentiva sempre un poco
dell'opinione del suo contradditore. Non dice anche lo
Spencer che anche in una, falsa opinione c'è quasi
sempre almeno un granello di verità? Voler sempre
avere ragione al cento per cento, non è vera dialettica.
Ma soprattutto, ripetiamo pure, Alfredo Pioda
abborriva dalle volgarità. Ricordo in particolare come
nell'anticamera del Gran Consiglio fosse seccato della
smania di turpiloquio di qualche ex chierico che parlava
sboccato per dar prova di essere veramente emancipato
da ogni influenza del seminario. I suoi lazzi erano
accolti da grasse risa, le quali indignavano l'austero
montanaro Oreste Gallacchi, e turbavano l'animo del
filosofo nostro aristocratico. A sua intenzione io
pubblicai nel mio giornale, "La Riforma" un articolo in
cui condannavo il turpiloquio e la tolleranza del
turpiloquio da parte delle persone educate, per dar prova
della loro indipendenza di spirito. Il mio articolo fu
239
accolto coi soliti lazzi e ci fu il talentone che tirò in
ballo anche la democrazia.
Democrazia? mi disse Alfredo. Sì, quella della plebe
di Gerusalemme che, davanti al Pretorio, acclamava a
Ponzio Pilato chiedendo... la liberazione di Barabba!
Comunque, Alfredo Pioda non fu mai volgare, mai un
momento della sua vita. Amava il prossimo: e poichè
l'amava, ne sapeva compatire i difetti.
Egli visse in tempi burrascosi. I tempi nostri sono
assai burrascosi ancora. Il contrasto delle opinioni è
oggi maggiore in estensione come in profondità. Se egli
insegnò alla sua generazione a servire la patria e ad
onorare le proprie idealità senza odiare e senza spregiare
i propri fratelli, noi faremo il nostro dovere o
concittadini, onorando la sua memoria

240
II.
Stefano Franscini quale uomo di stato41

Amici demopedeuti!

Io debbo ringraziare il vostro comitato per avermi


chiamato a commemorare la grande figura del Franscini,
fondatore della nostra società, in questo bizzarro
momento storico in cui un certo gruppo si adopera ad
offuscarlo sotto pretesto di glorificare un'altra figura più
recente.
L'elogio di Stefano Franscini è compito della storia.
Io mi limiterò, secondo le esigenze del tempo e del
luogo, a dire di talune delle sue virtù di uomo di
governo, forte e rettilineo. Di lui si può dire ciò che
Carducci disse di Lutero:
Ei di fortezza i lombi suoi prescinse
E di serenità l'alto pensiero

41 Discorso tenuto a Bellinzona, nell'aula del Gran Consiglio,


nel novembre del 1937 in occasione del centesimo anniversario di
fondazione della Società Demopedeutica, nel centesimo
anniversario di organizzazione dei Corsi di metodica e nel
centesimo anniversario di pubblicazione della "Svizzera italiana"
di Stefano Franscini.

241
La sua vita fu tutta una battaglia. Dalla sua
preparazione quale umile maestro di grammatica, alla
sua Statistica della Svizzera (la prima dopo il modesto
tentativo di Picot); dalla fondazione del primo istituto di
educazione femminile e laica in Lugano, alla
Costituzione del 1830 dove il suo nome s'incontra con
quello dell'abate d'Alberti, in una irradiazione di idealità
che a giusto titolo fu chiamato il primo amore del
popolo ticinese.
Proseguì Franscini l'opera sua da queste riforme alle
epiche realizzazioni del 1839 e del 1838; dalla carica di
segretario di Stato, che coprì con tanta distinzione, a
quella di consigliere federale, il primo di lingua italiana;
dalla sua nascita di umile contadino alla sua morte
avveratasi mentre era all'apice della Repubblica.
Franscini fu un rettilineo, ho detto. Non fu mai un
fanatico: mai un esaltato.
Il fanatismo, conformemente alle sue abitudini, volle
vedere in lui l'eretico, il nemico della fede. No: egli
seguì la linea di Vincenzo Gioberti, il cattolico autore
del Gesuita moderno. I contemporanei di questo
maestro fecero di lui un ateo: ma oggigiorno anche i
cattolici cominciano a rendergli quella giustizia che già
resero ad Alessandro Manzoni ed a Rosmini, sospettati
come lui. Stefano Franscini come Vincenzo d'Alberti si
rallega anche alla tradizione dell'abate Parini. A questi
nomi s'inchina oggi riverente la storia così come allora
si ribellò alla piccineria di quei bigotti che si fanno un

242
Dio a loro immagine al quale attribuiscono tutte le loro
deficienze e le loro passioni.
Così come quella scuola giobertiana credeva ad un
Ente supremo, esso attribuiva un valore superiore alla
patria.
Non una patria d'occasione, quale avevano cercato i
destreggiatori dopo la Restaurazione, ma la patria
svizzera alla quale attribuiva una missione superiore.
Missione gravida di doveri per tutti i cittadini.
Doveri di elevazione morale anzitutto e di difesa della
sua integrità.
Sarebbe stato buon soldato il Franscini se il destino
l'avesse volto a questo ufficio. Fu, come uomo di lettere
e di studi, uno zelante difensore dell'integrità morale
della Svizzera di fronte alle ingerenze straniere.
La sua adolescenza e la sua gioventù erano state
piene, traboccanti, dei ricordi della grande bufera
rivoluzionaria francese, cui seguì l'epopea napoleonica,
poscia la Ristaurazione. A Vienna il Sacro romano
impero era stato ricostruito sotto il segno della
Controriforma e del Gesuitismo. Ciò aveva due
conseguenze di importanza mondiale, umanistica nel
vero senso della parola. Per l'Europa era la condanna
della democrazia nel senso che l'impero esistesse per la
grazia e la volontà di Dio. Non i popoli dovevano essere
educati a governarsi da sè, ma i sovrani e le classi
dirigenti dovevano essere ammaestrati al comandare.
L'istruzione popolare doveva considerarsi come un
pericolo o perlomeno come cosa inutile perchè il
243
progresso materiale non può rendere gli uomini più
felici.
Questa mentalità è quella che dominò ancora in
Ispagna fino alla fine dell'Ottocento, e che, con gli
eccessi della sua naturale reazione, spiega la guerra
civile che oggi ancora devasta quella generosa nazione.
Per l'Italia quella mentalità significava il divieto
eterno di quella unità che era stata il sogno del divino
Alighieri.
Franscini doveva essere e fu un amico ed assertore
dell'Unità italiana, e questo suo ideale, quasi religioso,
non contrastava menomamente col concetto della
Confederazione Svizzera (come avviene presso i bigotti
dell'italianità), ma lo integrava.
Una leggenda, più o meno accreditata, riferisce di un
conflitto d'ordine politico che si sarebbe prodotto tra
Franscini e d'Alberti a proposito della progettata
revisione costituzionale del 1842.
La cosa sta così. Che dopo la rivoluzione liberale del
1839, (Luvini alla testa) e la controrivoluzione
conservatrice del 1841 fosse diventata opportunissima
una revisione costituzionale, non fosse altro che per
sanzionare il nuovo ordine di cose con un plebiscito, è
evidente. Che vi avesse una parte determinante il
Franscini non sembra e non pare. Nel nuovo governo e
nel nuovo indirizzo il bodiese non poteva aspirare ad
una parte di primo ordine in concorrenza con i giuristi
Luvini, Battaglini e Galli. A questi aspettava in primo
luogo la realizzazione. Fra i motivi di riformare
244
primeggiavano, la definizione della libertà di stampa,
particolarmente per la riserva delle consuete discipline a
garanzia della religione, dei buoni costumi, della
integrità federale e delle buone relazioni con le potenze
amiche.
Il fatale 1848 non era ancora in vista, ma si
presentiva. Altro desiderio era la riforma giudiziaria,
con le semplificazioni desiderabili. A queste erano di
ostacolo la Riviera, troppo piccola come distretto,
troppo grande come circolo.
Vi fu un primo progetto governativo nel quale il
Franscini ebbe parte certamente, ma non la principale.
Fra l'uno e l'altro erasi tentata la consultazione popolare
dei circoli secondo l'uso di alcuni Cantoni.
È in quell'occasione che l'ottuagenario d'Alberti dettò
i suoi voti del circolo di Olivone che a torto vennero
considerati come un ripicco. Da quel breve documento
traspare in primo luogo la naturale diffidenza dei
distretti montani verso le città ed il rispettabilissimo
zelo degli olivonesi per la difesa dei diritti patriziali:
quegli stessi che quarant'anni dopo volle difendere il
Respini.
Il progetto Galli, Luvini e Battaglini cadde infatti in
votazione popolare. Io non ho nulla da aggiungere nè da
togliere a quanto dissi altrove: avere sinistramente
influito la campagna antireligiosa intrapresa nella
stampa liberale, senza vera necessità, dal rifugiato
Bianchi Giovini.

245
Risultato? Siamo, ancora nel 1937, a quel fenomenale
pasticcio costituzionale risultante dal testo del 1830,
ottimo per i suoi tempi, poi guastato da infiniti ritocchi
alcuni dei quali senza costrutto.
Le sue lotte nel 1848, nel 1853 fino alla sua morte a
favore dell'indipendenza italiana, sono attestate quasi
giornalmente dal suo epistolario, e non sono d'altronde
contestate poiché gli stessi suoi detrattori d'oggi gliene
faranno un rimprovero. Ma Franscini intravvedeva, anzi
dal suo alto seggio del Consiglio federale potè
chiaramente vedere l'altro lato della questione; l'altro
pericolo.
Se il governo austriaco era un insidioso nemico della
nostra repubblica: se quel governo, secondo la regola di
Metternich si serviva dell'arcidiocesi di Milano
(presieduta da un principe austriaco) per influire sulle
cose di casa nostra, l'altro pericolo poteva consistere, e
già consisteva, nella eccessiva ingerenza dei profughi
italiani, e delle loro intenzioni.
Molto è stato detto sul Ticino e l'Austria nel 1848.
Non senza biasimo dell'autorità federale, i cui
sentimenti a riguardo dei confederati ticinesi furono
tacciati di amore senza stima. Tali critiche vennero da
insufficiente conoscenza delle cose. La Svizzera corse i
più grandi pericoli per l'indipendenza degli stati attigui e
persino della Polonia, sempre ponendo a grave pericolo
l'indipendenza propria!

246
Altra qualità esimia di Stefano Franscini, che oggi più
che mai conviene di richiamare, è quella
dell'organizzatore e conseguentemente del moderato.
Un esaltato può essere nello stesso tempo un
matematico. Uno statista dev'essere un coordinatore
d'interessi: uno specializzato nei raffronti economici
diventa (se già non lo è per natura) un uomo d'ordine e
di moderazione.
Tale è il Franscini segretario di Stato, il Franscini
della «Statistica della Svizzera», il Franscini consigliere
di Stato, il Franscini della «Svizzera Italiana», il
Franscini preconizzatore dell'Accademia della Svizzera
Italiana, del Politecnico e dell'Università federale.
Nel blocco del 1853, nel pronunciamento del 1855,
nei conflitti diocesani, nella secolarizzazione
dell'insegnamento secondario, nell'incameramento dei
beni conventuali, nelle cure per la organizzazione dei
nuovi ginnasi e del Liceo, sempre e dappertutto appare
l'opera dell'amministratore oculato e vigilante, opera che
culmina nell'opuscolo anonimo delle Semplici verità ai
ticinesi sulle finanze.
Questo opuscolo preparò la fatale introduzione
dell'imposta cantonale che fu poi realizzata da Giov.
Battista Pioda.
Sembra incredibile che questo paese di povere risorse
abbia potuto reggere, dalla caduta dell'Elvetica fino al
1855, senza imposte di sorta, mentre già questo
problema era risolto in tutti gli stati d'Europa!

247
Oh quanti improperi in un'epoca ancora recente,
quante ironie sopra l'angelo tutelare invocato da Gian
Battista Pioda! Quanta leggerezza e quanta malafede in
coloro che negarono sempre il rapporto di causa ad
effetto tra la secolarizzazione dei conventi (cominciata
già dai Landamani) e la completa assenza di ogni
regolare imposta di Stato!
Ho parlato di malafede.
Perchè un partito d'ordine e cattolico possa negare la
legittimità dell'imposta, bisogna che neghi allo Stato la
legittimità di quelle mansioni delle quali esso intende
riservare il monopolio alla Chiesa. Ciò ha potuto essere
fino alla fine del settecento. Ma dacchè lo Stato imprese
la costruzione delle strade, (ciò che per il Ticino si
impose fin dai primi giorni della Repubblica), dacchè
alle strade vennero ad aggiungersi i canali, le ferrovie,
l'arginatura dei fiumi, la resistenza alle imposte era
diventata sempre più illegittima, tanto più se della prima
rete stradale si vuol fare un merito ai Landamani. Tale
errore diventava tanto più grave in quanto le imposte già
c'erano, mascherate sotto la forma di prestiti forzosi a
carico dei comuni.
Il libro del Franscini costituisce la storia dei ripieghi
finanziari dal primo periodo di cinquant'anni, ed una
lezione di lealtà finanziaria, che a torto, molto a torto, fu
messa in silenzio e quasi generalmente ignorata fino ai
giorni nostri.
Eppure ripugna spiegare con la mala fede tutto un
periodo di storia!
248
Ripugna oggi più che mai, mentre in questa sala ci
troviamo riuniti, uomini di diversa fede politica, per
celebrare una nostra gloria comune!
Confessiamo dunque un nostro comune peccato, o
compatrioti ticinesi, incolpandoci di fanatismo. Il
fanatismo politico appartiene (purtroppo) alla nostra
tradizione ed ai vizi della nostra educazione. Ancora
una volta invece l'autorità dello storico spagnuolo
Michele de Unamuno. La confessione dei nostri peccati
non è soltanto un dovere dei singoli: nella vita sociale
dev'essere anche un dovere delle collettività: nazioni,
città, classi e partiti.
Solo il fanatismo, eccitato da interferenze straniere,
può spiegare il fatto, altrimenti mostruoso, della
coalizione prodottasi nel 1853 contro Stefano Franscini,
per abbatterlo dalla sua carica. Coalizione degli amici
del governo austriaco con coloro che incolpavano
Franscini di aver cagionato il blocco per le sue
debolezze verso l'Austria. Cemento di questa coalizione
era il disagio popolare per le dure conseguenze del
blocco stesso! Fenomeno non insolito alla coalizione
dei contrari è la comune violenza del linguaggio. Le
lettere di Franscini che voi leggerete con le chiose del
benemerito raccoglitore, sono traboccanti di dolore per
quel fanatismo che scandalizzava i nostri confederati.
Talmente li scandalizzò che quando corse la notizia che
il nostro Consigliere federale era stato rinnegato e quasi
revocato dalla sua carica dai suoi concittadini, subito un
altro cantone, quello di Sciaffusa, lo rielesse per conto
249
proprio Consigliere nazionale affinchè i poteri di
consigliere federale svizzero non gli fossero tolti.
Ma non fu la prima nè l'ultima volta che noi abbiamo
dato scandalo. Perchè sottacerlo in un momento così
solenne? I nostri continui ricorsi a Berna, per contese
elettorali d'ogni specie, per più di trent'anni, hanno
molto nociuto al nostro buon nome.
Orbene è lo spirito della nostra società quello che in
ogni tempo ci ha riscattato. È l'opera fransciniana di
solidarietà confederata: la fondazione delle sezioni
ticinesi di Utilità pubblica, di Scienze naturali, di
Risparmio!
Tale sia quindi il nostro voto, o Demopedeuti!
Continuare nella nobile tradizione del Maestro! Far
rivivere il suo biasimo per i fanatismi, per le faziosità.
Far rivivere il suo amore per quella democrazia che è
basata sulla nobiltà delle tradizioni: dei nostri propositi!
Dixi.

250
III.
Carlo Battaglini42

Carlo Battaglini, figura degna di Plutarco, fu di così


multiforme attività e di sì vario ingegno, fu così diverso
dagli uomini fra cui visse e così efficace nel
trasformarli, che a ritrarlo occorrerà l'opera del libro. E
il libro sarà quand'uno di voi, giovani che mi ascoltate,
riprenda l'opera interrotta di Angelo Baroffio.
***
Volgevano sull'Europa giorni affannosi. Il congresso
di Vienna aveva riasservito le nazioni a quanto vi poteva
essere di più odioso nelle tradizioni del passato, pur
senza poter risuscitare ciò che la vecchia vita aveva
avuto di nobile e di bello.
La barbarie russa, l'egoismo inglese, la imperial-regia
ragion di stato avevano formato una coalizione di tiranni
e di tirannelli, ogni cui intento era rivolto a soffocare le
aspirazioni dei popoli, ed i popoli s'apprestavano a

42 Dal discorso tenuto dall'on. Bertoni a Lugano il 6 gennaio


1921, in occasione della cerimonia di inaugurazione del
monumento a Carlo Battaglini.
Le note a pie' di pagina sono di Brenno Bertoni e figurano
nell'opuscolo: Commemorazione di Carlo Battaglini ecc.
(Lugano, Tipografia Luganese Sanvito e C., 1921).

251
coalizzarsi in una vasta cospirazione per la libertà, che
si chiamò appunto liberalismo.
Questo liberalismo significava da un lato la libertà
individuale nel dominio religioso come nel dominio
economico, quale i padri della rivoluzione francese
l'avevano definita; dall'altro significava supremazia
della legge civile sulle tendenze particolariste delle
chiese e delle classi sociali, l'ordine nella libertà,
formula oggi adottata dagli stessi conservatori.
Nell'interno dello Stato tutte le tendenze concorrono,
lottano liberamente pel loro predominio: neutro e
giuridico, lo Stato garantisce l'equilibrio degli interessi
morali e materiali della collettività.
E poichè queste idee erano crimen laesae, il metodo
del liberalismo poteva essere uno solo, la rivoluzione.
Sì, la rivoluzione anche in Isvizzera, anche nel Ticino
dove i patti odiosi del 1814 imposti dalle baionette
croate e dalla cavalleria cosacca, non consentivano nè
libertà individuale, nè eguaglianza politica.
Il popolo ticinese in ispecie, ancora adolescente,
aveva fremuto di sdegno sotto l'oltraggio
dell'occupazione napoleonica del 10, si era inalberato
come indomito puledro alla costituzione oligarchica del
'14, aveva compiuto nel '30 le divine sue nozze con la
libertà costituzionale, ma era ancora aggirato dall'insidia
reazionaria di cui la politica austriaca, idra nefasta,
avvelenava la vita civile e religiosa del nostro popolo.

252
***
In queste circostanze entra Carlo Battaglini
nell'arrengo politico. Vi entra preceduto da un preludio
fascinatore. Quel giovane campagnuolo dalle giuste
membra, dalle spalle quadrate, dalla fronte pensosa,
dall'occhio fulgido, dalla chioma leonina, dalla parola
lenta e solenne in cui cozzano faticosamente gravi
pensieri e ne guizzano scintille e lampi di entusiasmi e
di sdegni e di luce, quel giovane è già baciato dalla
gloria. È un predestinato43.
Diacono, a Milano, candidato agli ordini maggiori, la
imperial regia polizia ha subodorato in lui un addetto
alla Giovane Italia. Egli ha spiegato il catechismo nelle
chiese di Milano e il suo insegnamento sente odor di
carboneria44. Attraverso i campi egli ha riguadagnato la
terra dei suoi avi – libero e svizzero – ed è andato a
studiar leggi a Ginevra. Lo accompagna il demone della
politica. Allievo di Pellegrino Rossi45 dapprima, poi di
Victor Cherbulliez46 ne apprende i principi filosofici e il

43 La sua orazione funebre, detta dal pergamo di S. Antonio in


Lugano per il vescovo Luvini, era stata una rivelazione ed un
trionfo.
44 Allora si soleva far la lezione di catechismo anche agli
adulti.
45 Autore, nel 1832, di un progetto di Costituzione federale
liberaleggiante. Da Ginevra il Rossi passò a Parigi dove fu fatto
"pari di Francia", e da Parigi a Roma, quale ministro del Governo
liberale di Pio IX, nel 1847, dove fu pugnalato.
46 Autore della Démocratie en Suisse e del trattato delle

253
metodo storico della democrazia, ma in pari tempo
prende parte alla spedizione di Savoia47, sotto gli auspici
di Mazzini, armato di quella carabina che doveva
diventare un culto per lui e della quale la leggenda
riferiva un altro bizzarro episodio48. E Mazzini che già
lo conosce e lo tratta familiarmente, gli scrive da Soletta
dove sta tramando all'ombra del nostro Munzinger49
quella vasta cospirazione internazionale che fu la
Giovine Europa50.

Garanties constitutionnelles che diedero fondamento alle


aspirazioni dell'epoca.
47 Organizzata da Mazzini nel 1834. Doveva consistere in due
spedizioni, da Lione e da Ginevra. A quest'ultima partecipava
personalmente Mazzini, ed era condotta dal generale Ramorino.
Doveva scendere in Piemonte e proclamarvi la Repubblica,
liberando gli innumerevoli carcerati politici. Vi prese parte anche
Antonio Gabrini.
48 Corse voce che a persuadere suo padre, il quale voleva far
di lui un sacerdote, appendesse a un albero la sua tonaca,
impagliata e incappellata dal tricorno, e vi sparasse dentro a
bersaglio.
49 Capo del Governo solettese, radicale ardente, membro del
primo Consiglio Federale, protettore ed ammiratore del grande
Ligure.
50 Mazzini aveva fondato, nel 1832, a Marsiglia, la " Giovine
Italia", il cui programma si differenziava dalla vecchia Carboneria
in quanto questa era federativa ed egli era unitarista; si staccava
dal giacobinismo in quanto questo era accentratore e burocratico
(qualità che furono tosto fatte proprie dai Governi reazionari) ed
egli voleva delle larghe autonomie municipali, tipo svizzero; si
staccava dal socialismo di Babeuff in quanto riconosceva la

254
Scrive Mazzini toccare a lui il compito di organizzare
nella studentesca di Ginevra e di Losanna la Giovine
Svizzera. Essere la rigenerazione svizzera una
condizione essenziale alla libertà dei popoli perchè solo
la Svizzera è al disopra delle influenze dinastiche e delle
gelosie nazionaliste51.
Parliamo di grandi eventi mondiali. Come potremmo
arrestarci ai minuti particolari delle prime imprese di
Battaglini nel Cantone Ticino?
Ci pensi il giovine che ne scriverà la vita. Io accenno
ai processi verbali nel Gran Consiglio nel 1837 mentre
si discute il Codice Civile. Di colpo conquisterà la stima
di tutti, anche dei più mediocri oratori, facendoli parlare
come un areopago d'Atene.
Accenno alla fondazione della Società dei
Carabinieri, sezione della Società svizzera dello stesso
nome, che per molti lustri sarà la sola organizzazione

proprietà individuale come base dell'ordinamento economico;


aveva di comune con la massoneria le teorie umanitarie,
l'aborrimento delle conquiste, il principio di eguaglianza di tutti i
popoli e di tutte le razze...
51 La lettera è del dicembre, e come si vede presuppone una
anteriore conoscenza, probabilmente da Milano. «Siete a Ginevra
– siete fra studenti – bisogna dunque giovare alla causa: gli
studenti sono dappertutto il corpo sacro della libertà, del
progresso...; germi cacciati sul terreno della gioventù fruttano di
certo. La gioventù delle scuole è uno dei più potenti elementi
della Giovine Europa...» Seguono alcune considerazioni
sull'indirizzo politico, alcune delle quali in relazione con le
riforme che in quel tempo erano in dibattito in Isvizzera.

255
politica del nostro Cantone e di cui egli sarà l'anima.
Questa società acquisterà armi di gran pregio che
serviranno un giorno alla rivoluzione lombarda52.
Accenno alla fondazione del giornale «Il
Repubblicano», i cui intenti vanno assai oltre la
frontiera, del quale sarà principale collaboratore53.
Accenno alla Tipografia Ruggia, questo grande
focolare di cultura dai Ticinesi indegnamente
dimenticato54.
Accenno alle amicizie memorabili cogli uomini
d'allora, Giacomo Luvini, Stefano Franscini, Giov. Batt.
Pioda, Pietro Peri e soprattutto i Fratelli Ciani; quei
memorandi fratelli Ciani i cui nomi vennero quasi
cancellati dalle edilizie cittadine, come se fosse
52 Vi furono, fra altro, delle splendide carabine acquistate nel
Belgio, con l'appoggio finanziario dei fratelli Ciani. Quando i
nostri si batterono con gli Austriaci sul lago di Como si accorsero
tosto che le loro carabine colpivano, mentre cadevano nel lago,
davanti le loro barche, le palle morte dei nemici.
53 Era sorto nel 1835 da una trasformazione dell'Osservatore
del Ceresio redatto da Pietro Peri. Vi collaborarono dapprima
Peri e Battaglini. Col 1836 assume un deciso contegno di
opposizione che preludia alla rivoluzione prossima. Dal 1840 vi
prende attiva
parte Ambrogio Bertoni.
54 La Tipografia Elvetica di Capolago ha un monumento, una
letteratura ed... una leggenda. Non minore certo, per importanza
politica, fu la tipografia Ruggia. anch'essa sostenuta dai Ciani.
Stampò molte opere classiche italiane e quelle di molti
economisti, in specie tutte le opere di Melchiorre Gioia. Non si sa
manco più dove fosse la sua sede... Strane ingiustizie della fama!

256
possibile cancellare la storia o come se, potendosi, vi
fosse storia più degna e più onorata della loro55.
Ma non tacerò la rivoluzione del 1839, della quale
Battaglini fu magna parte e in cui riprese la sua fida
carabina che doveva poi riprendere nel '41 e nel '43
verso la contro-rivoluzione ticinese e nel 1847 come
volontario contro il Sonderbund...
O fortunato tu, giovane, che quella storia
imprenderai!
Sentirai dentro di te elevarsi l'animo e fiorire i tuoi
pensieri in quelle elevazioni, in quelle fioriture che sono
gli sbalzi dell'umanità faticante sulla via dell'eterno
progresso. Ed avrai la confortevole sensazione di un
lavoro utile al presente ed al futuro!...

55 Vedi: Onoranze funebri a Filippo Ciani e Onoranze


funebri a Giacomo Ciani (Libreria Patria. dep. di B. Bertoni).
Vedi anche: Teste e figure, medaglioni pubblicati da Romeo
Manzoni nel giornale L'Azione degli anni 1906 e 1907.

257
IV.
Romeo Manzoni56

I.
Ricordi ed affetti di Brenno Bertoni che gli fu amico e
vicino fino all'ora della morte.

Che buona idea avete avuto, voi fratelli ticinesi sparsi


nelle lontane Americhe, di commemorare nella vostra
Strenna annuale quel dottor Romeo Manzoni nostro
compatriota, che ai tempi della vostra gioventù, forse
già prima che voi nasceste, ha fatto tanto parlare di sè,
suscitando tanti entusiasmi, provocando tante
esecrazioni – segno d'immensa invidia – e di pietà
profonda!
Gli errori di giudizio sulla sua persona furono comuni
ai suoi nemici ed anche ai suoi partitanti, perchè era un
uomo difficile da riassumere, un uomo mirevolmente
complesso, luminoso, inquieto, che a volerlo fotografare
bisognava l'obiettivo delle istantanee moderne,
cinematografiche, e perciò i ritratti che possediamo di
lui, in tela ed in marmo, valgono ben poca cosa.

56 Articolo pubblicato nella "Cronaca Ticinese"di Buenos-


Aires, anno 1936.

258
Ecco come lo descrive Alfredo Pioda, che gli fu
contemporaneo (avevano un anno di diversità e lo ebbe
condiscepolo alla cattedra di Carlo Cattaneo). Le
descrizione è tolta dalle Confessioni di un visionario
mentre lo tiene sott'occhio alle Assisi di Zurigo e la
Corte d'Assisi federale sta giudicando gli imputati
dell'11 settembre 1890 (Vedi in Scrittori della Svizzera
Italiana, vol. II pag. 768)
«Il filosofo di Maroggia piega la testa un po' da un
lato "quasi cedro troppo grave al picciuol che lo
sostiene"».
Il suo cranio spelacchiato e nitido come uno
specchio... al solo guardarlo mi fa per consenso nascere
un formicolio fitto fitto di idee nel mio cranio, pure
spelacchiato. Vedo nell'ampia cavità, così mirabilmente
formata, un grosso cervello, da cui partono infiniti rami
di nervi, che finiscono in una pioggia di sottilissimi fili:
in certi giardini signorili v'hanno pure pianticelle che si
nutrono d'aria, colle barbe spenzolanti da cestelli
accesi alle volte delle serre. Così mi figuro quel
cervello. I nervi, coi loro fili, non scendono punto sino a
terra, alla realtà, ma sono campati in aria, nelle idee: e
quivi succhiano impressioni d'ogni maniera, che
salgono in fiumane al cervello, il quale poi genera
fiumane di mirabilissime teorie, rivestite di splendidi
colori, teorie che sono miele per gli amici, assenzio per
i nemici.
Non è così?

259
La sua parola è sempre vera, perchè espressione
fedele del sentimento; ma abbraccia del vero così gran
parte, che i più non ne sanno misurare il giusto valore,
e non ne derivano altro che l'ardore della battaglia.
O belligero pensatore di Maroggia, la tua eloquenza
passa sulle turbe come una fiamma, le accende e le
consuma. Sacerdote del pensiero, stai raccolto nel
tempo di Pallade dove prepari le madri venture, e
scendi sulle vie con la fiaccola agitatrice solo nei
momenti supremi, quando il turbine purificatore passa
sul nostro paese...».

Ma questo ritratto del filosofo è preso, come


dicevamo, mentre siede in un consesso. Così come io lo
conobbi, è invece nel quadro splendido della sua
Maroggia, del suo Istituto di educazione femminile, suo
cenacolo dove frequentavano tanti amici ed ammiratori.
È vero che io l'avevo già incontrato varie volte in
occasione di pubblici convegni, particolarmente quelli
della Società degli Amici dell'Educazione, ma fu solo
laggiù che lo avvicinai materialmente e spiritualmente:
ai piedi del Monte Generoso. Permettetemi l'immodestia
di far rivivere alcune quartine di un mio carme di
quando egli pubblicò la sua Storia Naturale dell'Uomo:
Oh, Generoso, monte ove fortuna
tanto riso di dolce italo cielo
di conche glauche e d'alti monti aduna
di verde manto e d'iperboreo gelo!...

260
Ma caro al mesto cuor del tuo poeta
tu più sei lido ove Maroggia ha cura
tu più dolce m'arridi onda quïeta
che l'ombra verde del S. Giorgio oscura.
T'amo, mite Maroggia. Amo il torrente
spumeggiante tra gli olmi e la scogliera
l'ampie ruote a girar solennemente
de le industri officine onde vai fiera.
Amo i pendii boscosi, u' le selvagge
macchie dàn l'ombra al pamporcin secreta,
voi dall'onda lambite amene spiagge,
scogli che l'or delle ginestre allieta.
Questa citazione ci porta nel cuore dell'argomento.
Quasi tutta l'opera filosofica (e indirettamente anche
politica) di Romeo Manzoni si svolse intorno alla
grande controversia de' suoi tempi: l'affermazione della
scuola positivista di fronte alla tradizione spiritualista
quale era intesa dal mondo cattolico specialmente dei
paesi latini all'epoca pressapoco di Pio IX.
Nella politica propriamente detta la lotta si era svolta
e già quasi era conchiusa, fra il principio di Sovranità
per diritto divino e quello nazionalista. In Italia
particolarmente l'idea della unità nazionale, sorta
all'epoca napoleonica si era urtata alla tradizione di
Carlo Quinto e della Controriforma. Lo Stato era contro
la Chiesa perchè la Chiesa impediva lo svolgimento
dello Stato. La lotta finì con l'Unità d'Italia, con Roma

261
capitale e con la conseguente caduta del Potere
temporale. Cavour aveva avuto causa vinta di fronte a
Pio IX ed ai suoi cancellieri spagnuoli. Ma appunto in
conseguenza di ciò, e per associazione di idee, era nata
la grande controversia sull'autorità della Chiesa, anzi,
della Scrittura nelle materie scientifiche e filosofiche. Il
positivismo contro la tradizione dei Santi Padri
(pressapoco!) La tesi liberale, romantica, pre-positivista,
aveva avuto eccellenti sostenitori anche nel campo
cattolico, ma i cattolici di questo genere, come il
Gioberti ed Alessandro Manzoni, erano tenuti in
suspicione di eresia; logicamente la contesa arrivò al
positivismo vero e proprio cui appartenne il nostro
Romeo e lo mise fin dalle sue prime armi in aperta
polemica con la stampa cattolica nella quale
primeggiava per coltura e per elevatezza d'ingegno il
teologo Luigi Imperatori.
Questa digressione va alquanto nelle nuvole, dirà
taluno o taluna, ma eccomi al serrare dell'argomento. Il
Ticino, che non pretende fare ad alcuno la lezione, ma
che nei conflitti culturali non è punto una Beozia, il
Ticino ebbe in queste dispute una parte emerita,
raccontata con salda competenza e parola chiara dal
professor Carlo Sganzini (dell'Università di Berna) nel
suo studio sui Moralisti e Pedagogisti ticinesi, anche
quello nel II Vol. degli Scrittori della Svizzera Italiana,
particolarmente nei capitoli Romantici e Progressisti
(pag. 1131) e Il positivismo (pag. 1134).

262
Dalle sue parole raccolgo questo giudizio che
conferma pienamente quello da me accennato altrove e
che qui viene messo in piena luce:
«Romeo Manzoni è nel suo fondo più homo
religiosus che filosofo». È un cosiddetto materialista che
vuole spiritualizzare la materia, alla maniera dei
platonici e che infuria contro quegli spiritualisti che
finiscono col materializzare lo spirito. La critica che lo
Sganzini fa del nostro Romeo (a pag. 1144) è
rigorosamente scientifica.
La lotta fra il positivismo e la tradizione non sarà
forse mai finita. Per tranquillità del lettore diremo qui
che alla morte di Romeo Manzoni (1912) era già entrata
in una nuova fase. Con Leone XIII il Vaticano assunse
un'orientazione scientifica che prima non aveva. L'arma
principale dei positivisti era questa, che l'autorità della
Bibbia è incompatibile con la scienza: la creazione non
è durata sette giorni ma forse settemila secoli... Mosè ha
inventato una leggenda! Rispose il Vaticano che la
mitologia mosaica non fa parte integrante della
Rivelazione, bensì è rivelazione l'insegnamento morale
in essa contenuto. Così hanno ritenuto Sant'Agostino e
San Tomaso, padri della Chiesa! Mosè non si è
incaricato di fare ai pastori ebrei erranti nel deserto un
corso di geologia nè di paleontologia: ha insegnato loro
la verità eterna, l'ordine morale, servendosi delle loro
tradizioni, così come essi la potevano comprendere.
Insigni apologisti francesi hanno tosto intrapreso su
queste basi una nuova difesa del cristianesimo sul
263
terreno stesso dell'evoluzione scientifica. Gli ultimi
positivisti citati dal Manzoni nel Problema biologico e
psicologico (1906) sono già di un grado superiore a
quelli della generazione precedente, ma poscia
sopravvenne nel mondo filosofico L'Evolution créatrice
di Bergson (verso il 1907) a ricostruire l'idea
spiritualista. Negli ultimi anni il nostro Romeo aveva
studiato Bergson. Di un suo avvicinamento a quel nuovo
stato d'animo fa testimonianza l'elogio funebre che ne
fece Francesco Chiesa, reperibile nel volume degli
Esuli, come introduzione.
II.
Ma ormai veniamo alla descrizione fisica dell'Istituto;
lo stesso che oggi alberga (vedi destino!) il Collegio di
Don Bosco.
Un lungo fabbricato, fatto apposta per uno scopo
consimile, fiancheggia col suo lato minore la strada
cantonale e fronteggia un vasto terreno; prato, orto,
vigna, con diverse grandi serre di piante nostrane ed
esotiche: limoni, aranci, e lo strano albero del caffè. Lì
vicino la bocca della Mara che vien giù da Arogno e dà
il nome al paese. Da qui si tragitta oltre lago alla riva ed
alle cantine di Pojana, appiedi del San Giorgio dove il
nostro amico ha una ben fornita cantina. Al momento di
partire si stendono le reti alla bocca del rivolo, si
gettano alcuni sassi ed ecco che le reti si riempiono di
guizzanti pesci pronti per la friggitura. La boscaglia

264
dietro i grotti è folta folta, piena di ginestre e di
pamporcini. Uno scenario idilliaco bello e fatto!
Il lungo fabbricato dà a tergo su certi cortili ed
angiporti primitivi. Dentro è tutta una fuga di sale, di
salotti, di scuole. Sopra, agli altri piani, i refettori, i
lavatoi, e finalmente i dormitoi. Ogni signorina ha la sua
finestra. Le allieve non sono molte, una trentina in tutto,
provenienti da tutti i paesi, specialmente dalle colonie
ticinesi all'estero. La scuola ha titolo di internazionale:
vi sono allieve che han fatto le prime scuole in tutte le
lingue: perciò le maestre sono relativamente numerose.
Anche per ragion di materia, poichè a Maroggia si
insegna anche la musica, molta musica, e il ballo.
Questa del ballo è una cosa che dà scandalo. Negli
altri collegi di ragazze c'è l'ordine di chiudere le finestre
appena si sente un ballabile! C'è anche i bagni, cosa
contraria ad ogni consuetudine di quei tempi quando a
parlare di un odierno bagno-spiaggia si sarebbe
sollevata l'indignazione di tutto un popolo. In quel
tempo alla Camera spagnola un deputato poteva vantarsi
che lui, cinquantenne, non si era bagnato mai in vita
sua!
Le lingue viventi erano naturalmente curate: francese,
tedesco, inglese; ma la gloria dell'istituto erano le
lezioni di letteratura, tenute dal Maestro. Una letteratura
tutta diversa da quella dei soliti programmi nei quali
ogni lingua è confinata, trincerata, in un campo chiuso.
La letteratura italiana assorbiva in sè medesima la storia

265
della coltura, e con essa un largo riflesso dell'ellenismo
e della latinità.
Io fui più d'una volta esaminatore, cioè invitato come
tale agli esami. Oh la gioia spirituale di quegli esami
così diversi da quelli burocratizzati del tempo presente,
veri tormenti delle anime giovinette, freddi, aritmetici,
compassati, nojosi! In quegli esami, tenuti in forma di
accademia, presenti i genitori, presente il pubblico, con
un non so che di solennità festiva, non mancava
l'intermezzo danzante, nè quello musicale. Ricordo le
ragazze in costume rappresentare un atto della Lucrezia
Borgia, in ispecie il coro
Ella è donna che infame si rese
Che orrore sarà di ogni etade:
Ricordo i graziosi minuetti in costume, ch'erano
anche lezioni di buon contegno in società!
E quelle signorine ascoltavano il loro Maestro e lo
adoravano, come veneravano la Direttrice, la buona,
l'angelica signora Rosa Manzoni, che amministrava e
presiedeva al buon ordine.
Fra esse ricordo due nomi, due caratteri tipici affatto
nostrani. La signorina Groppi, campagnuola, diventata
poi maestra, diventata la scrittrice Carloni-Groppi di
Rovio che tanta parte ebbe nella preparazione dei libri
di lettura per le nostre scuole e nella creazione della
letteratura infantile, coi suoi Semi di bene. Ricordo la
signorina Lauretta Perucchi, diventata poi la scrittrice
Rensi-Perucchi, che ebbe parte nella lotta di letteratura

266
positivista dell'illustre suo marito... Altre ancora dovrei
ricordare distintesi nelle scuole, nella buona società.
III.
Accanto a quel Romeo Manzoni conobbi il ferace
autore del libro Da Lugano e Pompei con Ruggero
Bonghi, del quale dà un giudizio ed un saggio più che
lusinghiero il nostro scrittore Giuseppe Zoppi nella
succitata opera sugli Scrittori Ticinesi, Vol. I pag. 85,
riproducendone due splendidi brani (pag. 251 e seg.).
Conobbi lo scrittore popolare e divulgatore scientifico,
nella Storia naturale dell'uomo, dove si attenta di
spiegare darvinisticamente il positivismo al mondo
operaio, e nel Prete. Il Prete fu tradotto in ispagnuolo e
pubblicato a Buenos Aires sotto il titolo El fraite che
ebbe buona accoglienza in un determinato pubblico di
laggiù.
Di natura più aristocratica (diciamo così) sono La
Mente di Giordano Bruno, poscia il Problema biologico
e psicologico dedicati ai filosofi pari suoi.
D'altra natura ancora il volume postumo sugli Esuli
italiani, pubblicato a cura di Arcangelo Ghisleri ed altro
il suo Vincenzo Vela, grosso tomo riccamente illustrato,
in lingua francese, coi tipi di Ulrico Hoepli.
In tutta questa prodigiosa attività letteraria Romeo
Manzoni dimostrò un errore costante, dovuto
probabilmente a certe scontrosità dei suo carattere. Non
ha mai avuto un editore tale da farlo conoscere e

267
riconoscere in Italia. Gli dissi un giorno: bada a questo
paradosso, che è l'editore che fa il libro: lo scrittore gli
fornisce solo la materia prima. Ebbe per il suo Vela il
primo editore d'Italia: non so perchè si guastò con lui e
quasi lo vilipese.
Ne risultò un volume splendido come stampa, ma
rovinato nella cucitura. Un libro che va a fogli se non
sia subito rilegato. Tutti gli altri suoi volumi sono come
stampati per carità, da editori ignoti e quasi clandestini.
Rimasero perciò esclusi dal commercio librario in Italia:
passarono senza che la critica professionale se ne
accorgesse.
Forse egli ignorò l'arte di curvar la schiena. Forse
l'amore del patrio Ticino lo indusse a concentrare qui
tutta la sua opera di propaganda. Certo è che nel suo
periodo di massima attività, dal 1880 in poi, parecchi
raggiunsero in Italia una fama notevole e quasi la
celebrità, che non erano tali da giungergli all'ombelico.
Egli cercava il popolo, più che i lettori delle Riviste,
ed in ciò aveva un punto di contatto con Alfredo Pioda.
Veggansi nella citata opera degli Scrittori Ticinesi, Vol.
I. pag. 724 e 727 il discorso dell'uno e l'elegia dell'altro
in morte di Aug. Mordasini.. Che poteva importare, il
povero Augusto, alla Coltura italiana dell'ottocento? Ma
i due vedevano il mondo dal loro modesto loco natio.
Avevano poi torto?

268
***
Ho adempito il mio compito, fratelli lontani, il meglio
che ho potuto. Sarò contento se la mia parola avrà
servito a riavvicinare anche solo due anime ticinesi, nel
rispetto e nell'amore che noi dobbiamo ai nostri
maggiori.

269
V.
Roccabella57

I.
Da pochi mesi ero tornato dall'Università quando il
mio fratello Mosè Bertoni, naturalista appassionato, mi
condusse a Minusio a visitare il suo amico Rinaldo
Simen la cui villa era tutto un giardino botanico.
Fui presentato. Lui mi apparve quale lo descriverà
molti anni dopo Alfredo Pioda. L'atleta, il ginnasta, il
lottatore imponente. La sua signora, oggi troppo
dimenticata, la dama del gran mondo, straniera,
parigina, dal parlare aristocratico nella forma:
democratico nel concetto.
La Roccabella è, come sapete, quasi uno scoglio che
domina il lago nella sua parte superiore, là dove nei
tempi preistorici approdò la civiltà mediterranea alla
ricerca dei valichi alpini. Dinanzi, assai vicina, la
Verbanella dove poc'anzi aveva vissuto e poetato
Angelo Brofferio, il simpatico Béranger del liberalismo
piemontese e cisalpino. Su dietro alla Roccabella la
Baronata, proprietà di Carlo Cafiero e del nobile russo
57 Discorso pronunziato dall'on. Bertoni a Minusio il 26
settembre 1937. – (V. Dovere del 27 settembre del medesimo
anno).

270
Bakunine, dei quali avevo sentito a parlare con tanto
entusiasmo a Ginevra, nei circoli socialisti e comunisti,
internazionali. Quella specie di castello era diventato il
rifugio di tutti i principali profughi d'Europa, miseri
naufraghi delle rivoluzioni di Parigi, di Polonia, della
Russia e della Spagna, con piena la testa e pieno il cuore
di utopie contrastanti, così quale ce lo descrive lo
scrittore vivente, Riccardo Bacchelli, nel suo strano
volume: «Il Diavolo a Pontelungo».
Dove trovare in Europa, in uno stretto cerchio di
qualche chilometro di raggio, un cotale Olimpo di
bellezza, di poesia, di memoria e di speranze?
Fu in questo magico ambiente che maturò la
personalità politica di colui che doveva essere il duce
vittorioso, poscia, per una generazione, il maestro del
liberalismo ticinese.
Modeste le sue origini. Figlio di Rocco Simen, già
capitano delle milizie sopracenerine, egli appena aveva
fatto la quinta tecnica a Locarno. Dopo uno studio
commerciale a Zugo era entrato, lo attendeva quasi per
destino, nella locale Società di Ginnastica, dove egli si
affermò tosto, non soltanto per le doti fisiche, ma quale
organizzatore ed oratore. Nella lotta aveva conseguito
una terza corona federale, ma le sue qualità di mente
avevano fatto di lui il capo dei ginnasti di tutto il nostro
Cantone quando ancora i capoccia della reazione, non
escluso Respini, si tenevano lontani dalle sezioni
federali di ginnastica come da un'opera del demonio.

271
Per questa guisa le società di ginnastica diventavano
automaticamente la milizia attiva del partito liberale.
Rinaldo si trovò a esserne il Duce.
Il suo matrimonio con Caroline de Guv des Touches,
vedova di un generale russo morto a Locarno, lo decise
a lasciar l'impiego ed a farsi capopartito.
...Or eccovi il suo ritratto secondo Alfredo Pioda
nelle Confessioni d'un visionario (v. anche «Scrittori
della Svizzera Italiana» Vol. II. pag. 766), descrivendo
le Assisi federali di Zurigo del luglio 1891.
«Il primo a sinistra, dietro gli avvocati, è il Presidente
del Governo provvisorio: potente in tutta la persona, con
un torace che Dio guardi riceverne un urto: una fronte
quadrata, che rivela una saldezza straordinaria di
propositi: un naso lungo e dilatantesi alla base, appunto
come chi stia largo in gambe a reggersi più sicuro, che
rivela una diligenza grande di osservazione: due occhi
bruni, piccolini, un po' acuti, da miope: nell'atto di
riflettere o di leggere, quegli occhi stanno lì, immobili:
nell'atto di osservare e di ascoltare girano in tondo, con
una rapidità singolare: si direbbe che il cervello da cui
dipendono, li avventi in qua ed in là ad abbracciar tutto
l'oggetto osservato, a succhiar direttamente dal viso, dai
gesti dell'interlocutore quello ch'egli vuol dire,
precorrendo le sue parole: è un cervello che s'indugia
proprio solo quando è necessario per i gradini delle
premesse e poi giù nel bel mezzo della conclusione.»
«La vita pratica gli è pungolo severo, ed egli
crederebbe venir meno al suo dovere se si perdesse per
272
inutili rigiri, se non mirasse sempre, nelle piccole come
nelle grandi cose, dritto allo scopo. Tal'è quella natura
d'acciaio tempratasi lentamente in vent'anni di contrasto
politico: egli ne è per così dire la storia vivente e la
conosce non solo, ma la sente in ogni particolare. Come
poi nel contrasto politico egli ebbe sempre la parte del
tribuno, così visse sempre in mezzo al popolo, ne
assunse ogni intimo sentimento, ogni intimo desiderio e
ne penetra il cuore colla parola forte e dolce ad un
tempo. Egli trova la via per cui far scendere nelle
moltitudini le proprie idee, perchè sa vestirle di forme
rispondenti al concetto delle moltitudini. E lì è il punto
veramente arduo: predicar belle teorie, non è difficile:
basta sfogliazzare qualche libro: riescirebbe, ipotetici
lettori, persino il Visionario, col gusto, per altro, di non
esser capito: ma rendere intelligibili e possibili quelle
teorie, trovar nelle menti e negli animi la commessura
per farvele penetrare, farne fattrici di storia, ben pochi
ne sono atti: ci vuole un tal corredo di attitudini e di
qualità, che di rado si riscontrano in un sol uomo.
Attitudini intellettuali svolte con un esercizio
incessante, qualità morali mantenute nitide colla
rettitudine degli intenti, alti così da vestir gli splendori
di una fede.»
Alle Assisi di Zurigo dove tanta ira di parte era
concentrata, la deposizione di Rinaldo Simen fu una
sorpresa per tutti. I più si aspettavano uno sfoggio di
rettorica. Il Journal de Genève (proprio quello!) si era
compiaciuto che i dibattimenti avvenissero in tedesco,
273
con traduzione, per smorzare i fuochi rettorici. La
deposizione fu di puro stile protocollario, riassumendo,
a misura dell'interrogatorio, tutto il periodo politico
precedente. Ad un dato punto il Procuratore pubblico
incalza per sapere le singole partecipazioni dei membri
del Governo provvisorio.
— Sarei dunque obbligato, chiede Simen, a farmi
delatore dei miei colleghi?
— No, interviene il Presidente, ma le vostre reticenze
sarebbero necessariamente interpretate contro di voi.
— In tal caso, dichiara Simen, preferisco rispondere
io per tutti!
— Ecco l'uomo!
Quando poi il capo del Governo provvisorio entrò per
comizio di popolo nel piccolo Senato svizzero, erede
delle austere tradizioni dell'antica Dieta, tutti si
compiacquero della serietà e moderazione del
rivoluzionario.
I suoi primi atti, entrato in governo a capo del
Dipartimento della Educazione, avrebbero dovuto essere
per purgare le scuole del fanatismo settario (non oserei
dire religioso): e qui cominciò ad incontrare qualche
biasimo nel suo proprio campo. Qualcuno voleva che
mettesse immediatamente alla porta il teologo
Imperatori, direttore della Normale maschile. Questi vi
era entrato da pochissimo tempo in sostituzione di una
serie di facinorosi e di incapaci denunciati dalla stampa
liberale. Aveva dato buona prova. Simen dichiarò che lo
avrebbe sì sostituito con un laico, ma solo quando
274
avesse avuto il candidato idoneo. Sospinto a proibire il
catechismo nelle scuole vi si rifiutò. Riformò d'urgenza
l'insegnamento primario abolendo gli ispettori di
carattere politico elettorale e sostituendoli con
l'ispettorato di carriera e si intese con Alfredo il
dottissimo, per la riforma dell'insegnamento secondario,
così come ho narrato nella mia conferenza su Alfredo
Pioda...
In questa sua attività Rinaldo Simen si mostrò più che
mai uomo di governo perchè ebbe a resistere più ai suoi
amici politici che ai suoi avversari, più alle
raccomandazioni che alle minacce.
Il malcontento arrivò ad un punto che un giorno
Romeo Manzoni, celebrandosi il trasporto delle ceneri
di Franscini da Berna a Bodio, osò definire il regime di
Simen come il Governo della paura. Simen negò la sua
firma ed il suo appoggio anche all'iniziativa promossa
da Leone de Stoppani e Demetrio Camuzzi per
l'abolizione della Legge sulla libertà della Chiesa (così
detta legge ladra), e per il ritorno puro e semplice alla
legge del 1855 che sanzionava la Chiesa di Stato.
Iniziativa che poi cadde disastrosamente in sede di
comizio.
Cos'era avvenuto?
Forse che Manzoni e Simen, i due principali
promotori della Rivoluzione, avessero preso ad odiarsi?
Niente affatto, poichè Simen insisteva offrendo il suo
seggio a Romeo Manzoni, perchè in governo ci entrasse
lui; perchè egli si caricasse della responsabilità.
275
Egli è che la Roccabella e la Baronata sono assai
vicine, ma un abisso le separava. L'abisso che sta fra le
illusioni e la realtà.
Cosa di più nobile e santo che l'illusione di Bakunin?
Il comunismo, anche il socialismo ebbero pagine
d'oro nei loro primi sogni di redenzione umana. In Italia,
per non dilungarci, ricordiamo Carlo Cafiero, nato
milionario, morto povero, che amò il prossimo più di se
stesso. Negli ultimi tempi entrarono Edmondo De
Amicis, negli ultimissimi un Bissolati, un Lombroso, un
Ferrero ed altri. Che colpa ne avevano i fondatori se le
loro illusioni non si realizzarono, se non potevano
realizzarsi? Quelle loro illusioni noi non dobbiamo
disprezzarle e tanto meno ci lice vilipendere coloro che
ancora ne sono vittime... a condizione che sieno sinceri.
Le illusioni passate devono esserci scuola ad evitare
delle illusioni nuove, mi avverte Francesco Chiesa.
II.
Quel nido d'utopie, ch'era prima la Baronata, era
ormai disperso, ma le utopie, seguendo un loro destino
forse provvidenziale, avevano mutato forma, pur
rimanendo in tutta la sostanza. Il concetto metafisico
dell'anarchia rampollava dal suo ceppo eterno.
L'uomo è onesto e buono per natura. È la società che
lo rende ingiusto e malvagio coi suoi egoismi. Quando
tutti i privilegi saranno aboliti, cominciando dalla
proprietà privata, quando sarà abbattuto il trono

276
simbolico del Re del Cielo, l'umanità redenta non avrà
più bisogno di leggi nè di catene: praticherà il bene per
istinto, così come l'ape succhia il miele dai fiori e lo
raccoglie nei suoi favi.
Nel nome di Maya la mitologia indiana simboleggia
in una deità unica la forza creativa e l'illusione suprema.
Quanta rivelazione! E poi dicono che le religioni sono
cose stupide!...
No, indimenticabile Romeo, no ingenuo Milesbo, non
è il concetto della divinità quello che intontisce gli
uomini ed annega la Ragione, ma l'essersi fatto un Dio
d'oro e d'argento. No, eroico amico Conte Sforza, non
son soltanto i dittatori che potranno uccidere la
democrazia, ma più l'incanagliamento delle stesse forze
democratiche!
L'errore del sentimento, l'errore della ragione, non
uccidono. Per legge di natura secondo i filosofi, per
volere della provvidenza secondo i teologi, l'errore di
giudizio è insito nella creatura umana. Pio Baroja, il
filosofo novelliere basco, profeta dell'attuale babelico
disordine di Spagna, ha messo d'accordo il racconto
della Genesi colla filosofia di Em. Kant.
La conoscenza del bene e del male non vale ad
abolire il dolore umano, ma l'aggrava. Però, aggiungo
io, l'ubriacatura di Noè ha compromesso la salvazione
dal diluvio.
Oh, quante ubriacature nella storia del mondo e
particolarmente in quello politico! Lasciamo tutto quello
che si può imparare dai libri! Stiamo ai tempi nostri!
277
La guerra, la grande guerra fu il risultato di una
precedente ubriacatura nazionalista. È dimostrato, ma la
sua durata, ma il suo esito furono anche il risultato di
un'ubriacatura contraria.
Il militarismo è una truffa: la guerra è impossibile,
giurava Jean Faurès ancora il giorno in cui fu trucidato.
La guerra è impossibile, giuravano ad una voce a
Lugano, ancora nel 1910 Romeo Manzoni, Antonio
Fusoni, Virgilio Lampugnani e Milesbo!
Le ragioni che ne adducevano erano logiche, precise,
verosimili. Ma essi erano ebbri degli alcaloidi pacifisti.
Nè bisogna condannarli perchè ancora dopo la guerra,
dopo la inutile strage di 20 milioni d'esseri umani,
vennero nei parlamenti i deputati di prima della guerra,
come prima della strage, a declamare sulla inutilità degli
armamenti, vennero le ragazze socialiste nei comizi ad
invocare la grande memoria di Tolstoi per convincere
della inutilità della difesa, anzi del dovere morale di non
resistere alla violenza.
La guerra doveva essere una gaja passeggiata militare
per il pazzesco Guglielmone. In Italia la stampa affacciò
tosto l'idea che dovesse durare tre mesi e non più.
Napoleone Colajanni dopo due mesi scrisse sul "Secolo"
che poteva benissimo durare sei mesi. La guerra durò
quattro anni e mezzo, ma non fu mai finita e continua
tuttora. Ma la grande illusione non è cessata ancora ed
ancora è dubbio se il proletariato svizzero potrà
accettare il bilancio militare.
Nè erano meno ubriacati i belligeranti.
278
Gli stessi giornali che tre mesi prima giuravano che la
Germania avrebbe necessariamente perduto la guerra
perchè non aveva più un soldo, nè di denaro nè di
credito, sbraitarono tosto che la Germania doveva
pagare: non cinquanta miliardi, non cento, non
cinquecento, ma mille miliardi, in contanti, attesochè si
en Atlemagne les caisses de l'Etat sont vides les caves
des privés regorgent d'or. E la folla plaudiva ebbra di
entusiasmo.
Di peggio avveniva in Italia ove già prima
dell'armistizio eran giunte le notizie della rivoluzione
russa. Ma di ciò non voglio più parlare.
La fredda Albione non perde la testa, ma la fa perdere
agli altri soffiando nel fuoco dei nazionalismi.
La Germania umiliata nel suo orgoglio, ancora
furente per la sofferta fame, si rinchiude dapprima nella
repubblica senza repubblicani e prepara una troppo
facile rivincita.
Per tutta la guerra gli alleati hanno urlato che il
popolo tedesco era barbaro, selvaggio, sanguinario,
inaccessibile ad ogni coltura. Non ci fu mai arte tedesca,
nè filosofia. Goethe ed Emannuele Kant non furono
altro che goffi imitatori... Uno scoprì che la civiltà di
Creta e di Micene fu distrutta, or son tremila anni dai
Dori et que les Doriens étaient des "boches"!
Di ripicco il "boche" ristampa tutto il vecchio frasario
di Fichte. Non ci fu mai nel mondo altra coltura che la
germanica. I tedeschi sono il popolo eletto da Dio e c'è
un Dio solo, quello dei Wichinghi.
279
La croce dei cristiani mediterranei è stroppiata. I
mediterranei sono dei bastardi degeneri, corrotti, servili,
Heil Hitler!
E in questo uragano di bestemmie la civiltà
d'Occidente declina, l'Oriente riabilitato solleva la testa
giallognola dagli occhi obliqui.
La Società delle Nazioni, questo bel castello rimasto
in aria perchè vi si sottrasse quella America che l'aveva
ideata e proposta, si sfascia in una "frana" di ideologie
contradditorie fra le quali lo Svizzero si affatica a
conservare il sentimento costruttivo, appoggiandolo ai
frammenti delle realtà storiche.
Quello svizzero è un nostro compatriota! Non
indugiamoci a giudicare chi, di fianco all'opera sua,
disperde le proprie riserve d'idealità, pensando alle
vittime della faziosità spagnuola, o magari ai fati di una
dinastia africana! È consuetudine che nei giorni di
disinganno, o nei ribollimenti del mondo straniero,
qualche idealista si disperda. Sono fenomeni superficiali
e passeggeri. Intanto però ogni zolla del patrio Ticino
freme di una corrente nuova di spirito nazionale.
L'appello alla tradizione è generale. Fra pochi giorni la
"Demopedeutica" farà rivivere la memoria e la
tradizione di Stefano Franscini, mezzo secolo della
nostra storia.
Oh tregua, tregua, amici di Minusio! Tregua alle
aberrazioni o ticinesi! Ricordiamo i nostri maestri di tre
generazioni, quella di d'Alberti, quella di Franscini,
quella di Rinaldo Simen!
280
Essi non perdevano mai la testa! Essi non
scimmiottarono mai le idolatrie straniere, essi non
rinnegarono mai le patrie tradizioni per i fanatismi
esotici.
Soprattutto essi non si lasciarono mai ubriacare dalle
parole, dalle frasi, dalle declamazioni.
Anima serena di Rinaldo Simen, soccorrici della tua
memoria! C'illumina, o Roccabella!

281
VI.
Un grande giurista morto
e una grande utopia viva58

È morto pochi giorni or sono ad Ascona uno dei più


illustri giuristi svizzeri, Fritz Fleiner, che non può senza
ingratitudine essere dimenticato in alcuna parte della
Svizzera, e tanto meno qui nel Ticino, terra che tanto
amava e dove da diversi anni passava le sue vacanze,
prediligendo Brissago, poscia Ascona dove si era
procacciato un «Villino» che fu il suo nido postremo.
Fritz Fleiner morì in titolo di Professore emerito
dell'Università di Zurigo cominciando dal 1915; ma già
prima era diventato all'estero una celebrità. Ad
Heidelberga dove prima insegnava, era diventato (cosa
ben rara data la sua qualità di allogeno) presidente della
Corte di diritto amministrativo del Granducato di
Baden, ed aveva pubblicato quelle Istituzioni del diritto
amministrativo tedesco che fecero testo per tutta la
Germania e per gli stranieri.
Portato dal suo temperamento all'universalità
(anziché al nazionalismo) della dottrina, aveva molto
viaggiato a fine di studio e di orientazione; la Francia,
l'Italia, gli Stati nordici. Lo attesta l'elenco delle sue

58 Dal Dovere dei 4 novembre 1937.

282
opere, come le riforme del Concilio tridentino in
materia matrimoniale (opera lodatissima da un
Cardinale vivente), un volume sul divorzio di
Napoleone, un altro sulle evoluzioni del diritto
ecclesiastico cattolico nel 19° secolo, altro sulle
mutazioni del diritto civile ad opera delle riforme di
diritto pubblico, altro sui concetti giuridici dei francesi,
altro ancora sulle evoluzioni del diritto pubblico.
Vastissima la sua sfera d'azione, ma più alta ancora
che vasta. Mai la dottrina del Fleiner discende a raso
suolo: sempre si attiene ai problemi ardui e (pare
impossibile) tenendo sempre le quote più elevate mai
non si perdè nelle nuvole.
La guerra lo ricondusse nella Svizzera in un momento
nel quale la patria aveva gran bisogno di lui. Nel clima
storico della grande conflagrazione fra l'Europa
imperiale e l'Europa democratica egli si annunciava con
due opere maestre: Stato democratico e Stato
burocratico, e La Politica come scienza positiva.
Il consigliere federale Müller ("der rote Müller"
l'ultimo della vecchia tradizione radicale) gli affidò
l'incarico di progettare un Tribunale amministrativo, o
diciamo meglio La giurisdizione amministrativa che
riempisse il vuoto tra il diritto privato (il nuovo CCS) e
il diritto pubblico di vecchio stile. Improba impresa alla
quale doveva accoppiarsi la corte disciplinare per gli
impiegati ed altri subalterni della Confederazione,
sempre più numerosi e sempre bisognosi così di freno
come di protezione.
283
Freno certamente, perchè il contagio francese, non
meno di quello tedesco faceva serpeggiare il
malcontento con le solite "rivendicazioni"; protezione
perchè un altro contagio, quello dei regimi autoritari,
voleva che la disciplina fosse imposta ma che il
funzionamento fosse adeguatamente protetto contro
l'arbitrio dei superiori.
La questione maggiore era però quella di principio, se
la legge istituente la giurisdizione amministrativa
dovesse contenere una clausola generale contro tutti gli
abusi d'ordine amministrativo e particolarmente del
Consiglio federale. Qualche cosa del genere del Ricorso
al Tribunale federale per diniego di giustizia o sul
genere del ricorso francese al Conseil d'Etat noto sotto il
nome di appel contre l'abus. La maggior parte dei
Consiglieri federali erano ostili, o perlomeno titubanti,
di fronte a questa tutela giuridica sulle loro funzioni
amministrative e volevano limitare la facoltà di ricorso
ai casi determinati e specificati dalla legge.
Fritz Fleiner temeva più l'arbitrio dei funzionari che
quello dei Giudici. Accettava il principio della clausola
generale, ma voleva un vero tribunale amministrativo,
superiore, non troppo numeroso ma indipendente, con
sede propria (si prevedeva Basilea) composto di giudici
che fossero bensì dei giuristi di grido, ma anche persone
rotte all'esperienza amministrativa, come ex consiglieri
federali, ex consiglieri di Stato, abituate a considerare il
lato pratico delle cose.

284
Altri propendevano per una sezione del Tribunale
federale, che sarebbe stato convenientemente
aumentato.
Guardatevene bene, diceva il Fleiner. Il giudice
ordinario, il giudice civile, è portato a vedere più il lato
dottrinale del caso in esame che la portata pratica della
decisione. Il giudizio amministrativo deve essere
specialmente rivolto alle conseguenze pratiche, le quali
possono variare all'infinito...
Io facevo parte della «Experten Kommission», come
già per il Codice Civile, e propendevo per il sistema e la
dottrina di Fleiner...
Girò la ruota del destino. Entrarono due nuovi
consiglieri federali sempre più avversi alla clausola
generale. Girò anche la testa di Madama Europa nel
turbine economico della guerra e della malapace. Uno
dei nuovi consiglieri federali si manifestò giorno per
giorno sempre più propenso all'economia comandata.
Fritz Fleiner era di troppo. Il suo mandato fu trasferito a
due Giudici federali che facessero della giurisdizione
amministrativa e disciplinare una sezione nuova del
tribunale federale, col confacente aumento dei giudici.
L'«Experten Kommission» continuò a funzionare, ma il
sottoscritto non tenne più note. Aveva perduto la fede.
Finito il progetto definitivo e venuto davanti le Camere
io fui, credo, il solo che fece iscrivere a verbale il suo
voto contrario al nuovo ordine di cose.
La quasi unanimità del parlamento incoraggiò
l'economia comandata fino alla misura recentissima di
285
contingentare la polenta ai contadini ticinesi perchè le
vacche del Mittelland erano troppo grasse e di invitare il
Ticino a ridurre il numero dei suoi maiali (nelle nostre
valli ne hanno in media uno per fuoco) perchè il tale dei
tali nel cantone di Berna da solo ne aveva trecento!
Così giudicava il funzionario, onestissima e
coltissima persona, solito a vedere il mondo a traverso
le lenti dei suoi occhiali. Siamo o non siamo eguali
davanti alla legge?
E così giudicano e giudicheranno altri cento o
quattrocento personaggi qualificati per la carica,
sostenuti da tutto il loro seguito. E così sarà sempre
peggio a misura che saranno le singole categorie a
dettare le «linee direttive».
Il povero Fritz Fleiner, che voleva difendere il
Volkstaat (lo stato popolare) contro il Beamtenstaat (lo
stato burocratico) è morto a tempo per non vedere forse
la turba dei funzionari seguita, applaudita dalle masse
dei salariati, pronte a seguirli, a sostenerli con le
iniziative popolari. Quindici, trenta, cento iniziative,
organizzate all'osteria, ciò che rima ineccepibilmente
con democrazia!
Hai fatto bene a partire per il gran viaggio, povero
Fleiner! Tu eri la minoranza. Una sconfessata minoranza
di democratici d'Accademia! Di accademici che la
democrazia svizzera l'avevano distillata, sublimata
attraverso le storte e gli alambicchi dei secoli, a traverso
i dottori dell'umanità.

286
VII.
Stefano Gabuzzi59

...L'uomo di cui deploriamo la perdita è una delle più


maschie e tipiche figure della sua generazione. Una
generazione entra nella vita pubblica al momento della
sua capacità civile e politica e del conseguimento della
propria dignità militare. In quanto l'individuo abbia
seguito la via degli studi già la maturità degli studi stessi
gli apre l'animo all'universalità dei sentimenti e delle
passioni. Or quali cose vide e conobbe l'animo del
giovine patrizio bellinzonese in quel giro di tempo fra le
classi ginnasiali a Bellinzona e le sue prime
affermazioni nella vita pubblica!
L'Italia conseguiva, dopo sei secoli di aspirazioni
intellettuali, la sua unità politica; la storica finzione
giuridica del Sacro Romano Impero si era sfatata a
Sadowa; si costituiva a Versaglia il secondo Impero
germanico sotto il primato della Prussia protestante;
cadeva dopo dodici secoli il potere temporale dei Papi;
rinasceva la Repubblica francese sotto le insegne di
Gambetta: si scatenava in Germania la bismarchiana
lotta dei culti con le sue ripercussioni in Svizzera; si
decideva e si compiva la ferrovia del Gottardo, che era
la Via delle Genti...
59 Dall'«Educatore» del marzo 1936.

287
Quale generazione vide mai altrettanto da
Carlomagno, o dalle Crociate in poi?
In un clima storico come quello, la mente d'un
giovine studioso si apre necessariamente e si tempera ai
concetti universali, ai sentimenti superiori, avulsa alla
volgarità, alle banalità, alle piccinerie. Stefano Gabuzzi
ne portò l'impronta per tutta la vita. Anche da vecchio,
quando il pessimismo del secolo aveva forse affievolito
il suo senso dell'universale umanistico, anche quando
un'ossidazione pessimistica aveva cominciato a rodere
la sua tempra robusta, egli conservò quella impalcatura
che s'era costrutta in gioventù. Impalcatura fatta di
classicismo, sempre rinascente nel suo amore per le
lettere, di tre distinti idiomi, rinforzate di cultura
giuridica attinta alle Università germaniche ed ai
germanici indagatori: idealità liberali francofile condite
di agnosticismo religioso.
Quando otteneva la sua licenza liceale ad Einsiedeln,
il Cantone Ticino usciva appena dalla sua grave lotta
interna per la Capitale stabile, che aveva segnato una
tregua fra le lotte di partito. Quando si addottorava ad
Heidelberga la Svizzera si agitava per la Riforma
federale.
Le prime manifestazioni politiche di Gabuzzi furono
appunto per quella Riforma, ed era sotto gli auspici di
Giovanni Jauch e sotto la scuola del Canonico
Ghiringhelli il quale molto presagiva di lui.
Compiuta felicemente la riforma, costituito il
Tribunale federale, cominciata l'opera di unificazione
288
del diritto (capacità civile, Stato civile, Codice delle
Obbligazioni, procedura esecutiva), egli si diede anima
e corpo allo sviluppo razionale delle istituzioni nuove.
Riprese la pubblicazione del Repertorio di
Giurisprudenza Patria, del quale rimase direttore fino
alla morte, e sono quarantasette volumi.
Quando gli fu concesso di entrare nei Consigli della
Repubblica, prima come semplice deputato al Gran
Consiglio, poscia assai tardi, come consigliere di Stato e
agli Stati, ne accettò tutte le responsabilità. Fu l'autore
del Codice di procedura penale (cantonale) che ancora
ci regge e prese parte come esperto ai primi progetti di
Codice penale federale. Richiesto, a suo tempo, del duro
sacrificio di assumere il portafoglio delle finanze nel
Governo ticinese, vi sì sobbarcò ed abbondò di zelo e di
coraggio, pur creandosi molte avversioni.
Due memorabili episodi attraversarono la sua carriera
politica.
La rivoluzione del settembre 1890 non lo ebbe fra i
suoi fattori, nè fautori. Egli aveva validamente
appoggiato (con Plinio Bolla suo allievo e suo carissimo
amico) l'iniziativa per la riforma parziale, di quello
stesso anno e, quasi presago di quanto doveva avvenire,
aveva per il primo lanciato l'idea del voto proporzionale
con uno studio sul Repertorio; ma rimasto estraneo al
moto d'armi molto giovò nelle trattative che lo
seguirono col Consiglio federale e col Commissario
federale Künzli e più nella preparazione del processo
come fido consigliere dell'avvocato Luigi Forrer.
289
Ma la grande scossa che reagì sul suo temperamento
e sulla sua preparazione fu la grande guerra del
Quattordici. Egli era sempre stato alquanto germanofilo
(nel senso più largo della parola), era sempre stato un
po' militarista, almeno in contrasto con l'antimilitarismo
sovversivo di quell'epoca. Non nascondeva certe sue
simpatie per il principio d'autorità, in contrasto con certe
tendenze demagogiche. Il modo brutale tenuto dallo
Stato Maggiore tedesco lo rivoltò. La propaganda
tedesca ebbe per effetto di fare di lui un fautore
entusiasta dell'intervento italiano.
Credo che a ciò contribuisse l'amicizia e la parentela
dei Farinelli. La sua signora era una Farinelli di
eccezionale coltura. Le lettere italiane, francesi e
tedesche le erano familiari. Nelle stesse condizioni si
trovavano i suoi cognati, l'avvocato Principio e il
professore Arturo, diventato ora Accademico d'Italia.
Stefano Gabuzzi, che nelle cose d'Italia del periodo
giolittiano aveva seguito più o meno le tendenze di
sinistra, si allarmò, con molti altri, per i nuovi pericoli
che si andavano manifestando e simpatizzò per un
maggior avvicinamento culturale fra la nostra
Repubblica e la Nazione amica. Se altri ha interpretato
diversamente certi particolari della sua attività, sono
certo che si sono ingannati. Uomo ispido e rude, il
defunto; ma leale, corretto e forte!

290
VIII.
Due età60

Per gli uomini che ora sono di età media, gli


ottuagenari appartengono ad un'epoca lontana: per i
giovani di adesso appartengono ormai ai tempi remoti,
quando a spaccar la pietra non s'aveva congegno più
complicato dello stampo da mina col suo mazzuolo. Un
uomo teneva e l'altro picchiava, e si andava avanti dieci
centimetri all'ora.
Quando nacque Antonio Soldini, il popolo contava
ancora: tante ore da qui a Chiasso; tanti giorni da qui a
Torino. E, intendeva, a piedi.
Ma che freschezza nella mente, nel carattere, nella
vita di quella generazione! Che brio, che slancio! Si
arruolavano con Garibaldi come a una partita di caccia.
Credevano a tutti gli ideali, si scaldavano di tutti gli
entusiasmi, così ardentemente che ne sono ancora caldi
adesso. Osservate Antonio Soldini quando sorride:
ascoltatelo quando parla! Par di sentire le note fatidiche:
«Si scopron le tombe – si levano i morti...». Parole a cui
essi credevano fermamente...

60 Introduzione di Brenno Bertoni al volumetto: Antonio


Soldini in arte e in politica (Lugano, Tipografia, Luganese,
1932) pubblicato in occasione dell'80.mo compleanno dello
scultore e patriotta Antonio Soldini.

291
— Simpatici; ma mancavano di senso pratico.
— Eh, già!
— Simpaticissimi; ma mancavano del necessario
controllo sui loro sentimenti...
— Eh, già!
— Dei sentimentali, mentre la nostra generazione
calcola e ragiona...
— Sì, e poi? Non vi pare che la nostra generazione,
con tutt'i suoi ragionamenti, con tutte le sue scoperte,
manchi appunto un pochino di sentimento e scarseggi di
uomini sentimentali?
Io lo credo. Lo credo e ricordo l'amico Antonio, lo
scultore, il patriota, il bell'uomo, a Zurigo, ai tempi del
processone61, quando tutti i Confederati si
appassionavano di noi, ci ascoltavano, ci leggevano,
magari ci compativano, ma ci volevano bene...
Nella vetrina d'un negozio il busto del Guglielmo Tell
di Soldini (un Guglielmo Tell di tipo e di sangue
ticinese), e sulla strada passava aitante, sorridente, dritta
la figura dell'artista.
Der echte Tessiner, si sentiva dire.
Proprio così! Il Ticinese puro sangue.

61 Si intende: del processo di Zurigo contro i settembristi


ticinesi, che si svolse dal 29 giugno al 14 luglio 1891, e si
concluse con l'assoluzione del Soldini e di diciannove coimputati
(tra i quali Rinaldo Simen, Romeo Manzoni, Curzio Curti,
Brenno Bertoni, Germano Bruni, Demetrio Camuzzi e Pietro
Ronchetti) e con la condanna, in contumacia, di Angelo Castioni.

292
***
...Aperta a tutte le idee, la mente di Oreste
Gallacchi62 considerò le nuove correnti che irruppero
verso la fine del secolo scorso, e più recentemente,
senza esserne smossa, ma senza prevenzione.
Fu dapprima l'ondata che chiamerò sarmatica, non
solo perchè ci venne dalla Russia ma perchè nettamente
barbarica. Bakunin portò in Occidente il concetto
nihilista che ebbe presa particolarmente in Italia, e
investì violentemente Mazzini, ancora vivente, e l'opera
sua. Trovò seguaci e fanatici nelle Romagne, e in tutta la
Penisola ebbe una influenza innegabile sulle masse
liberali. Queste erano anticlericali nel modo che già
dissi molte volte: ogni clericalismo ha l'anticlericalismo
che esso determina. Il sentimento patriottico e nazionale
era ostacolato in modo addirittura oltraggioso dal clero
italiano: ora, poichè non occorre essere filosofo per
sentire la patria e la nazione, una buona parte dei liberali
ardeva di sdegno contro il clero, senza poi avere una
idea molto chiara di ciò che fosse il liberalismo.
Mazzini obbligava a pensare. La sua filosofia si
sforzava di essere alla portata di tutti, dato che le masse
possano filosofare. Il concetto fondamentale del
binomio: Dio e Popolo, la divinità che si rivela

62 Dal discorso pronunziato dall'on. Bertoni, a Breno, nel


maggio del 1926, in commemorazione di Oreste Gallacchi,
pubblicato in opuscolo col titolo Il problema economico e
morale del villaggio ticinese (Tip. Luganese Sanvito e C., 1932).

293
all'umanità non per l'opera improvvisa d'un profeta, ma
per una rivelazione continua, ininterrotta, per mezzo di
tutti coloro che la cercano, questa rivelazione universale
che si risolve nella legge evolutiva dei progresso
umano, era un concetto largo e costruttivo nel quale lo
Stato e le Chiese apparivano, nel loro alto valore
funzionale, come atti di perpetua creazione cosciente; di
una immanente volontà suprema.

***
Venne il Barbaro e insegnò: Dio e lo Stato sono due
invenzioni della Tirannia per sfruttare l'umanità. Due
imposture delle classi dirigenti. Non c'è autorità
legittima. Ogni legge umana, ogni istituzione civile,
ogni sanzione penale, ogni magistratura giudicante deve
essere distrutta. Vi era in fondo di questa teoria un po' di
quel candido ottimismo di Rousseau per il quale l'uomo
è naturalmente buono, e solo le istituzioni lo rendono
malvagio: col togliere le oppressioni gli uomini
diventerebbero così giusti, che non avrebbero più
bisogno di alcun governo. Presso i popoli sentimentali
queste fantasie dovevano avere una grande forza
seducente. In Italia, ad es., infransero l'opera educativa
cominciata da Mazzini, distolsero le classi proletarie
dall'idea liberale e repubblicana, provocarono sommosse
e congiure senza costrutto.
Prima del Sarmata, in Germania, ma dopo di lui in
Italia, si diffuse, col nome di socialismo scientifico, il

294
verbo di Marx. Agnostico del problema religioso, ma
basato sopra un materialismo rigorosamente meccanico,
il Marxismo non volle vedere nella storia del mondo
altro fattore che l'economico. Vi era una grande
ricchezza d'avvenire in questa scuola nuova. Era la
profezia dell'uguaglianza economica fra gli uomini, o,
quantomeno, di una minore disuguaglianza. Vi era in
essa un grande elemento di debolezza: la negazione di
ogni e qualsiasi forza morale come determinante delle
azioni umane.
Le due dottrine, la tedesca e la russa, sono
perfettamente contradditorie: la prima suppone e vuole
lo Stato onnipotente, lo Stato dittatore: la seconda nega
ogni Autorità. Si incontrano però, e si accordano,
almeno provvisoriamente, circa un mezzo: la dittatura
del proletariato, formula logicamente assurda e
praticamente tirannica. Entrambe sono inconciliabili con
il liberalismo. Entrambe considerano il liberalismo
come sistema da distruggere. Ma le masse anonime non
sono fatte per filosofare. Le masse anticlericali videro in
Bakunin e in Marx due anticlericali, dunque due alleati.
Fatale conseguenza dell'essere, l'anticlericalismo, una
formula puramente negativa, inidonea, da sola, sia a
distruggere che a costruire.
Da questo stato di cose nacque quel fatale
confusionismo che condusse il liberalismo italiano alle
sue recenti catastrofi, e lo minaccia seriamente in
Francia, in Ispagna e altrove. In Inghilterra il
liberalismo si è conservato relativamente puro, più
295
intento alle affermazioni che alle negazioni, ed ivi anche
lo si vide, pur di questi giorni, trionfare.
Oreste Gallacchi, anima realista e montanina, poco
accessibile, quindi, alle seduzioni intellettuali del
sofisma ed ai lenocini della rettorica, non si lasciò
deviare di un dito dalla sua dritta linea. Del socialismo
comprese ed apprezzò il contenuto sentimentale, la
tendenza ad un più alto grado di dignità nella vita: e
respinse tutto ciò che è svalutazione dei fattori morali
antichi e riconosciuti. Della lotta di classe vide subito la
sterilità in un paese come il nostro in cui le classi sono
così poco marcate e nel quale è praticamente
impossibile sceverare l'operaio dal contadino,
l'industriale dall'agrario.
Nella questione religiosa egli, con l'istinto sano del
montanaro, vide anzitutto la realtà. E la realtà è che la
Religione esiste, e che la Chiesa esiste come un
fenomeno naturale. Quale ne è la causa? La credenza ad
uno o a più dogmi? Macchè! Quanti cattolici hanno una
idea chiara della transsubstanziazione? I più ne sanno
appena ripetere la parola. Credono senza definire
l'oggetto della loro fede. La forza della Chiesa sta tutta
nella sua utilità pratica. Essa è una scuola morale ed una
scuola di bellezza. Il popolo non ne ha una migliore e si
attacca a quella perchè ne sente la necessità. Come il
corpo ha bisogno di determinati minimi di azoto e di
fosforo, l'anima ha bisogno di un minimo di sensazioni
etiche ed estetiche. Il rito, la liturgia, le sacre immagini,
gli altari illuminati, le processioni, le dànno un po'
296
dell'uno e un po' dell'altro; ma ciò che più conta, ciò che
è decisivo, è che la Chiesa, con le sue esigenze, è, o
vorrebbe essere, una continua scuola, un continuo
esercizio del dominio delle passioni e degli istinti. Ora
l'uomo, nella sua fragilità, ha bisogno di sentirsi protetto
contro sè medesimo. Il Diavolo e l'Inferno saranno
benissimo due invenzioni dei preti, ma egli medesimo
sente il diavolo dentro di sè, sperimenta l'inferno nella
sua vita interiore. I meno disposti alla fede accettano la
religione per sè e per le loro famiglie perchè desiderano
un argine contro la raffica delle passioni, «la bufera
infernal che mai non resta». Ecco il fondo di realtà in
tutta la metafisica della religione e dell' irreligione...
...Gallacchi opporrà lo spirito allo spirito. Così
intendendo il problema, egli non si attardò mai alle
pregiudiziali metafisiche, se Dio esiste o non esista,
come possa esistere e se sia possibile all'uomo finito di
capire l'infinito. Non si scandalizzò delle teorie più
ardite, non si guastò nè con Romeo Manzoni nè con
Milesbo. Ben vedeva che nelle contese fra deisti e ateisti
ciò che vi era di più chiaro è che i filosofi materialisti
finiscono col divinizzare la materia mentre i bigotti
dello spiritualismo finiscono col materializzare il loro
Dio...
...Ad una sola tendenza moderna si professò
nettamente avverso: quella professata da Nietsche (o ad
esso attribuita), che l'uomo superiore, il superuomo, sia
al di sopra delle leggi ordinarie della morale. No; l'uomo
è di tanto superiore quanto più sa sottoporsi alla regola
297
morale necessaria per tutti. Un popolo tanto più vale,
quanto più sa dominare le passioni e gli istinti
individuali per assoggettarsi ad uno sforzo comune, ad
un comune interesse. Tanto più rifuggiva dai corollari
politici e morali di quella dottrina; l'energetismo
individuale e nazionale, il diritto di ciascuno di
espandere tutta la propria energia senza riguardo per
quelli che son più deboli di lui...

298
PARTE SETTIMA

Leggende e memorie di Val di Blenio63

I.
IL PRIMO ABITATORE.

Quando il primo abitatore, seguito dalla sua famiglia,


venne a porsi in Blenio (da dove o da qual parte venisse
la storia non dice), incontrò da bel principio un
impedimento. Era un grande albero ('ra pianta regada)
a traverso la sponda dove doveva passare. Un giorno e
una notte lavorò a rimuoverlo, poi fu oltre.
Ma poi si fermò e disse alla sua donna: ecco che
adesso tutti possono passare, e noi abbiamo lavorato a
far la pappa agli altri...
E lavorarono tre giorni e tre notti a regare un'altra64,
pianta perchè è da pazzi, o da nar65 lavorare inutilmente
63 Inedite.
64 Regare una pianta significa abbatterla.
65 Nel Franscini (Svizzera italiana, vol. I) si legge: «Tra noi il

299
per gli altri.

***
COMMENTO. – Dante incontra le tre fiere, fra cui
la lonza che significa l'invidia, e tanto gli impedivano il
cammino ch'egli fu per tornare più volte volto. Ma le
fiere sono dentro nell'anima...

II.
NON RINNEGARE LA VALLE.

Quando i Bleniesi si rivoltarono contro il Duca di


Milano, e uccisero Taddeolo suo feudatario, il Duca, per
punire la loro grande superbia, comandò che ogni
Bleniese che entrasse in città fosse pesato per un maiale
e pagasse la gabella. (D'allora in poi quelli di Borgo
diedero ai Bleniesi il nomignolo di porcei).
Grande era l'umiliazione degli uomini della valle per
quell'affronto, ma dovevano rassegnarsi. Dove si poteva
andare a lavorare, d'inverno, se non colà dove erano le
reliquie di S. Ambrogio loro protettore?
Un Bleniese stabilitosi da gran tempo a Milano66 vi
cretino o idiota chiamasi nar, forse dal tedesco Narr, stolto,
stolido, demente».
66 Vedi: Ferdinando Fontana – Antologia Meneghina
(Colombi e C., Bellinzona – 1899, un vol., e Libreria editrice
milanese, Milano, 1915, due vol.).

300
era diventato gran signore. Questi entrando una volta in
città vide i gabellotti che schernendo pesavano certa
gente che alla parlata riconobbe per Bleniesi. Passò oltre
liberamente, ma quando fu cinquanta passi dentro la
porta, disse a se stesso: non sia mai detto ch'io rinneghi
la mia Valle. Tornò indietro e disse fieramente: pesate
anche me: sono di Blenio...

III.
LA PROCESSIONE DI S. AMBROGIO.

Mi raccontavano i miei maggiori che ab antico i


Bleniesi, ch'erano ambrosiani e devotissimi al Capitolo
del Duomo, già loro signore, avevano il privilegio di
portare a processione le reliquie di S. Ambrogio.
Essi avevano in Milano più corporazioni, fra le quali
quella dei brentatori e mercanti di vino al minuto, che
perciò in dialetto milanese si chiamano bregnon (anche
brügnon).
Fu questa corporazione allegra di sua natura, che
diede al poeta e pittore Lomazzo, nel Seicento, l'idea
della Accademia dra val de Bregn, poetante nell'aspro
dialetto, per mettere in caricatura le Accademie
classiche di quel tempo. Vedi i Rabisch (arabeschi) dra
val de Bregn, stampati due volte nel XVII secolo e
ristampati dal Fontana nell'Antologia Meneghina67.
67 Vedi anche: Gino Giulini – Arcobaleno di vita gioconda,

301
Gli storici moderni hanno scoperto e provato
solidamente che furono i vallerani di Blenio che hanno
ritardato a Serravalle per più giorni i rinforzi che il
Barbarossa aveva chiesto d'Allemagna contro Milano.
Intanto i Milanesi vinsero a Legnano e questa sarebbe la
ragione sufficiente dei grandi favori che il Capitolo di
Milano e la Credenza di S. Ambrogio usarono ai
Bleniesi. Solo nel Quattrocento i Duchi tentarono di
togliere a Blenio i suoi privilegi, ed essi li difesero per
un secolo, e per non diventare vassalli del Duca vollero
essere svizzeri.

IV.
L'ASINO CHE MAI FECE ASINERIE.

Salivo lentamente l'erta strada che dalle Ronge di


Malvaglia conduce in Valle, quando, verso la Cappella,
incontrai il * * * che scendeva dall'alpe col suo asino
caricato. Salutatici dopo parecchi anni di lontananza,
parlammo del tempo che faceva, e che aveva fatto. Il
Brenno aveva rotto un argine e si era sparso per la
piana. Colpa dello sbagliato indigamento, essendosi
opposti, i Malvagliesi, a un miglior progetto ufficiale:
quello della linea rossa.

circoli e ritrovi milanesi dalle origini ai nostri giorni (Milano,


Libreria Bocca, 1934).

302
— Come avete potuto, voi di Malvaglia – chiesi –
fare una simile asineria?
— Signor consigliere – rispose fieramente il mio
interlocutore – sono ormai trent'anni che tengo l'asino e
posso garantire che di asinerie non ne ha mai fatto. Siete
voi, che le fate, e più avete studi e più le fate grosse..., o
le fate fare agli altri, signor consigliere...

V.
L'USCIERE A CASSERIO

Per tre mesi, d'inverno, a C. non arriva il sole. Ora


avvenne che in un vecchio Codice ticinese si inserisse
un articolo del Regolamento austriaco per la Lombardia
secondo il quale non si potevano fare atti esecutivi
prima del levare nè dopo il tramonto del sole.
Andò un usciere a C. per fare un pignoramento. Era la
fine di novembre. Chiese l'assistenza di un municipale,
ma prima che lo trovassero passarono alcune ore e fu
mezzogiorno. Disse il municipale che mangiava un
boccone e poi sarebbe venuto. L'usciere avrebbe
mangiato un boccone anche lui, ma a C, non c'erano
osterie. Lasciò detto che andava a desinare a
Comprovasco e sarebbe tornato alle due. A
Comprovasco trovò per caso un tale di C., che gli si
accompagnò, mangiò un boccone anche lui, gli pagò da
bere e gli propose una partita a tresette. L'usciere non

303
voleva, ma poi si accontentò. Quando la partita fu vinta
erano già passate le due. Partì in fretta per C. dove
arrivò verso le tre. Non c'era più il Municipale ed
occorse un'ora, a ritrovarlo. Quegli fece allora
gentilmente l'obbiezione ch'era tramontato il sole e non
si poteva pignorare. Bisognò rimandare il pignoramento
e occorsero otto giorni.
Quando l'usciere fu tornato (di pessimo umore) gli fu
detto che aspettasse la levata del sole. Aspettò tanto che
suonò mezzogiorno.
— Ma quando si leva il sole?
— Ai tredici di marzo per sicuro, fu la risposta. Il
creditore aspetta ancora adesso.

VI.
IL «NERVOSO».

La Ghita è tornata da Milano, dove è stata tre anni a


servire. Partita in una cassa è tornata in un baule, dicono
i suoi vicini di Malvaglia, a significare che poco ha
imparato nel mondo, Dal suo servire ha un cattivo
ricordo e chiede all'anda Luzia68:

68 Anda (v. Franscini, op. cit.) ha significato di zia (àmeda


de' milanesi e amita de' Latini): e fant, fanta, rispettivamente
quello di ragazzo e ragazza.
Nel Franscini si trovano anche le informazioni seguenti: «In
alcune terre della Riviera, sulla destra del Ticino, odesi matt per

304
— Anda! ma che cos'è poi questo nervoso che
patiscono le padrone?
— Fanta, risponde la zia; ma non lo sai? Il nervoso è
la cattiveria dei ricchi!

***
E dicono che Freud ha scoperto la psicanalisi!...

VII.
IL DOLOR SOMMO.

All'esame della scuola di Grumo sono presenti tutti i


notabili del villaggio (che ha 57 abitanti) e dei dintorni.
Il catechista, verso la fine, interroga sulla religione. A
una bambina di undici anni domanda:
— Che cosa è il Dolor sommo?
La bambina tace, guardandosi intorno, stralunata.
— Che cosa è dunque il Dolor sommo?...
La bambina abbassa il capo mortificata.

ragazzo, mattogn per ragazzaccio, mattel per ragazzetto, matta


per ragazza. E quasi dirimpetto, sulla sinistra, a Biasca, un pol è
un ragazzo, e una pola è una ragazza. In alcuni luoghi di
Leventina si dice un canaia e una canaia per un fanciullo e una
fanciulla: i fanc, i creatü, per i bamboli, e anche, in genere, i
figliuoli. In generale, tos, tous, tosa, tousa, si usano,
lombardamente, per ragazzo e ragazza...»
A Isone i ragazzi si chiamano ballött.

305
— Il Dolor sommo... – interviene il vecchio
Barbarossa fabbricante di rastrelli – ma è quando non se
ne ha, nè si sa dove andarne a prendere...

***
No, non è Carlo Marx che ha inventato
l'interpretazione economica dei sentimenti...

VIII
«AL MARTINA VECC» E LA TRINITÀ

Il vecchio Martina ha passato gli ottanta. Da giovane


fu soldato per breve tempo sotto Napoleone I: e fu
quella la sola volta, o quasi, che passò la buzza di
Biasca. È stato sindaco per molti anni, è sagrestano e
priore, sa leggere alquanto, è furbo come il fistolo,
prudente come il serpente. Per aver agio a rispondere ha
inventato di fare il sordo, e simula pazientemente da
almeno vent'anni.
Avendo un nipote pensò di farlo studiare e lo mandò
avanti fino al Liceo di Lugano. Il curato sta in gran
sospetto perchè a Lugano c'è un professore che insegna
l'ateismo (l'ha letto sul giornale). Quando il giovine
torna, il curato l'adocchia in chiesa, e poi lo raggiunge
sul sagrato dove gli uomini accendono la pipa mentre le
donne vanno a mettere il riso.

306
— E allora, Dionigi, quel vostro professore di
filosofia?...
— Ebbene?...
— Ebbene, vi insegna l'ateismo, vero?
— Macchè, macchè ateismo! Lei deve comprendere
che a chi studia matematiche non si può mica dire che 3
= 1 e 1 = 3. Ne consegue che il nostro Dio...
— Ma vedi, appunto, il mistero della Santissima
Trinità...
Il vecchio Barba, benchè sordo come un'olla, ha
capito per aria. Tira il nipote per la falda e gli dice in un
orecchio:
— Ignorante, bestia. Cosa importa a te che sia uno o
siano tre?... Non tocca a noi a mantenerli!...

***
Giuro che il Martina vecc non aveva letto Spinoza...

IX.
QUANTI ANNI AVETE?

La Maria Antonia è vecchia «come un sasso piccolo»,


ma nessuno sa al certo quanti anni abbia.
Un giorno le capitò di essere chiamata come
testimonio in un processo criminale.

307
C'è una certa messa in scena. Sono le Assisi
cantonali, presiedute da un magistrato solenne, che per
caso è egli stesso un figlio «dra Valada».
La Maria Antonia declina le sue generalità come se ci
fosse avvezza, ma venuta al punto degli anni ha perduto
la memoria, è diventata dura d'orecchio.
Il Presidente la vuol persuadere:
— Ma buona donna, bisogna farsi una ragione. Qui
siete come in Chiesa e dovete rispondere sotto
giuramento. Dite, quanti anni avete?
— Oh, io non li ho mai contati!
— Come, non li avete contati! Vorreste farmi
credere...?
— Ma no, sciur Brennin (il presidente della Corte era
Brenno Bertoni, bleniese): perchè dovrei contarli? Non
me li rubano mica, gli anni?

***
La Corte fu persuasa che nessuno... avrebbe rubato
gli anni alla Maria Antonia, e i dibattimenti
continuarono.

308
X.
LA «MUSCIA»

La «Muscia» è ottuagenaria, viaggia per i novanta, è


curva per diffidenza più che per acciacchi, viene due
volte per settimana all'Osteria della Baracca, e vi beve
una zaina d'acquavite ch'è quanto dire un bicchiere da
tavola: non parla mai se non viene interrogata, e
risponde con una voce d'uomo cavernosa, a frasi brevi e
secche. Essa è l'ultima superstite di una famiglia di
«ufficiali della Valle». Vi furono Muscio avvocati, notai,
giudici, sacerdoti e munifici testatori. Lo sa ed è fiera,
pur nella sua decadenza, unica abitatrice della casa dei
maggiori, aspra e mordente come una regina
discoronata...
Entra nell'osteria l'avvocato «de Castro», uomo fine e
sagace, grande indagatore d'anime. Con tutti i riguardi e
le deferenze le fa qualche domanda, cui risponde quasi
di buona grazia...
— E si può sapere quanti sono gli anni?
— Cominci lei a dire i suoi!...
— Io? cinquantatrè – fa l'avvocato.
— Toh, cinquantatrè! – Vun da men der mè asen...

***
L'intervista non è continuata.

309
XI.
QUANDO VUOL MORIRE LA «MUSCIA».

Grumo è un comunello senza parrocchia. La gente va


a Messa a Torre. Una volta l'anno viene a dire la Messa
nella chiesuola di S. Pietro Martire il curato di Lottigna.
Questo curato è una gran buona pasta d'uomo.
Sant'Ermolao quanto al corpo, San Francesco
nell'animo. Elegante dicitore e predicatore, distratto
come un poeta, punto circospetto. Pensa sempre bene, e
gli capita di dir male per imprudenza. È stato assente
dalla parrocchia per ben quattro anni. Tornatovi ha
dovuto rivedere Grumo e fu alquanto sorpreso di
rivedere anche la «Muscia», nonagenaria ormai, seduta
sulla «lobbia» «ad ascoltare il sole».
— Ohilà, buona donna, non siete ancor morta?
— No, sciur curaa, risponde quella, con la frase
cantata dei montanari di una volta: no, io conto di
morire solo quando morirà lei...
— Ma perchè proprio quando morirò io?...
— Perchè il Diavolo, se porta lei, non può portare
me, e io gli scappo...

***
Il buon pretino rimase come fulminato.

310
XII.
LA SCORZA DI FRASSINO.

Il dr. Ausonio, giovine fiorentino, è, suo malgrado, di


val di Blenio. Suo padre, che tien bottega presso il
Palazzo Vecchio, l'ha fatto studiar medicina, ma prima
che vada in condotta, vuole che visiti i parenti tra il
Simano e il Molare, perchè così vuole l'uso degli avi.
Dunque il dr. Ausonio è in visita all'Emilia, a Dongio,
la moglie del fabbro-ferraio. L'Emilia sa appena fare il
suo nome, ma un po' di mondo l'ha visto anche lei:
Milano per qualche mese, Londra per qualche anno. È
disinvolta, forte come un drago, la lingua ha sciolta, e al
bisogno può aiutare il marito all'incudine, facendo
danzare il maglio come una piuma...
Il discorso cade sulla medicina, i medici e le malattie.
L'ultima di queste, in ordine cronologico, è l'isterismo.
L'Emilia pretende che la miglior cura si faccia con la
scorza di fràssino...
— Dalla scorza di un fràssino mediterraneo, dice il
dr. Ausonio, si estrae la mannite. Ciò che dici mi
interessa assai, scientificamente. Oggi la dottrina tende
a rivalutare certi semplicismi che la clinica aveva
confinato tra le superstizioni. Come si amministra
questa scorza? Per decotto o con qualche pomata?
L'Emilia si è volta al focolare, ha preso un legno da
un mucchio, e poi scuotendolo in modo molta
espressivo:

311
— Può servire anche il còrilo o il corniolo:
l'essenziale è che lo si dia per massaggio:
preferibilmente sulla schiena...

XIII.
LE TRE COSE PIÙ IGNORANTI

Il piccolo Zanmaria, orfano, scalzo e stracciato, è il


primo della scuola. L'hanno constatato gli esaminatori
sorpresi della prontezza delle sue risposte, dell'acume
delle sue parole come del suo sguardo. Siamo poco
dopo il 1841: la scuola primaria è stata resa obbligatoria
anche ai pezzenti. Il vecchio cappellano che insegna a
Dangio ne è seccatissimo perchè il numero degli scolari
gli s'è raddoppiato.
— Quando tutti sapranno leggere – egli dice – chi
lavorerà poi la terra? (aveva poi tutti i torti, il vecchio
cappellano?).
Il maggior fastidio era quello di assegnare il premio.
Darlo a quella scimmia, quando il figlio del Sindaco si
avviava al Seminario e dovevasi favorire la sua
vocazione?
Ma gli esaminatori – un laico e un secolare pieni
ancora dei principi del 1830 – furono inesorabili: il
premio si dovrebbe dare al piccolo monello, allo
straccione scalzo, all'impertinente Endes (che così era di

312
soprannome). Uscendo dalla scuola, furtivamente,
l'Endes fece la linguaccia al sacerdote.
Il cappellano meditò la sua rivincita. Venne il tempo
della dottrinetta, che si impartiva allora ai piccoli e ai
grandi. Dopo ch'ebbe interrogati questi e quello, che
rispose con insolita preparazione, voltosi all'Endes
disse:
— Quanto a te basterà che tu mi sappia dire le
persone della Santissima Trinità...
— Io sì che le so – disse già in piedi il monello (e le
nominò col massimo sussiego), ma lei, signor
cappellano, mi saprebbe dire quali sono le tre cose più
ignoranti che sono sulla Madre terra?
Alla sfrontata domanda il reverendo rimase
sconcertato. Rispondere, o non rispondere, o lasciar
correre un ceffone era tutto pericoloso. Aveva dei
nemici, e non tutti increduli. Cercò di cavarsela alla
meglio.
— Dille tu, se le sai.
— Ecco, fece l'Endes. Sono l'asino che porta il grano
e mangia la paglia (pausa...), il frullone che tiene in
conto la crusca e butta via la farina (altra pausa...)... e
quel prete che manda gli altri in Paradiso e lui va
all'Inferno!...
La lunga bacchetta cappellanica cadde a vuoto sul
banco, chè l'Endes se l'era cavata con un balzo da
scoiattolo.
La cosa fece scandalo. L'Endes visse povero in canna
e morì di fame in una stalla appartata, a mezza
313
montagna. Mancò di tutto fuor che di arguzia e di buon
umore.

***
Se fosse nato in un Parigi!...

314
PARTE OTTAVA

Confessioni, episodi e ricordi

I.
Il primo passo69

Come scelsi la mia carriera d'avvocato? – continua


poi –. Nel modo più inaspettato. La mia prima
giovinezza fu lieta. Nella luminosa casa paterna in Val
di Blenio, piena di libri e di quadri, non sospettavo
neppure di dover fare l'avvocato. Famiglia colta la mia;
agiata. Ero il ragazzo meglio vestito del villaggio. Ogni
tanto arrivavano conoscenti e parenti da Milano e, in
quei giorni, dotte conversazioni nel corso delle quali
ognuno aveva la sua da dire, si intavolavano e si
prolungavano per ore. Da quella abitudine trassi, credo,
il gusto della conversazione varia e brillante, il piacere
al conversare di lettere, di arte, di politica... E a quelle
69 Da una intervista concessa dall'on. Bertoni al dr. prof. Pio
Ortelli, inviato della Radio, il 1° ottobre 1938.

315
discussioni io mi andavo preparando sui libri della
biblioteca di mio padre.
Con tutto ciò io ero destinato a governare i poderi di
mio padre, ad essere cioè agricoltore. La professione di
avvocato, tradizionale in famiglia, sarebbe stata assunta
da mio fratello maggiore il quale infatti studiava il
latino. Ma quando egli fu all'Università, una fatale
antipatia sorse in lui per il diritto romano. Si appassionò
invece per le scienze naturali e un bel giorno dichiarò
che non voleva saperne di fare l'avvocato.
Fu un cataclisma in casa! Tutti sembravano aver
perduta la testa per l'inaudita novità che ci piombava tra
capo e collo. E fu deciso alla bell'e meglio, sui due
piedi, che l'avvocato lo avrei fatto io.
Allora per essere avvocato non si richiedeva una
laurea; bastava aver seguito per due anni un corso di
giurisprudenza. Tuttavia io debbo alla biblioteca di mio
padre, e all'amore per la lettura, se più tardi, senza aver
studiato il latino, non mi trovai impacciato di fronte ai
miei colleghi d'università che non avevano fatto altro.
Allo studio mi buttai con grande foga. Completai la
mia cultura letteraria e rettorica. Strana cosa, riuscii alla
fine di tre anni di università, specialmente nella materia
che aveva costretto mio fratello a cambiar professione:
in diritto romano! Passai tutti gli esami con lode. E
cominciò allora la vera vita di lavoro.
Dove feci i miei primi passi? A Lottigna nella natia
valle. In condizioni disperate per un avvocato che
comincia, e al quale occorre una buona pratica.
316
S'imagini Blenio di allora e di adesso: cinque o sei cause
all'anno; e a questa bisogna attendevano sette o otto
avvocati e notai. Costoro, benchè fossero la più brava
gente della terra, avevan poco latino da insegnarmi. Le
cito il caso di uno d'essi che da buon praticone, così
scrisse in una pratica, riferendosi a un campo contenente
un ciliegio e due noci: «una pezza con dentro un ceresio
e due piante nocive».
Lavorai. Per impratichirmi nelle procedure mi diedi
con ardore a far lo spoglio di tutti i volumi del
Repertorio e ad annotare le sentenze in margine ai testi.
In quegli anni poi entrava in vigore il Codice delle
obbligazioni; il Canton Ticino provvide affrettatamente
a far la legge di coordinamento col vecchio Codice
civile: Stefano Gabuzzi, nuovo redattore del Repertorio,
mi concedè di pubblicare una critica su quel lavoro.
Quegli sforzi, le prove date, persuasero i responsabili ad
affidarmi la redazione del giornaletto bellinzonese «La
Riforma», con la quale mi potei affermare come uomo
politico. Il politicante lo possono far tutti, anche gli
ignoranti.
Questi miei primi passi: lavoro, lavoro: evitare
l'inerzia, non lasciarsi indurre dalla scarsezza di spinte
nel proprio ambiente ad addormentarsi, a rinunciare.
Ogni lavoro anche se non produce immediato compenso
arma per l'avvenire. Ricordo questo minuscolo
particolare; che avendo il popolo svizzero, nel 1898,
votato l'unificazione del diritto civile, mi diedi a

317
studiare il tedesco di cui quasi nulla sapevo, e in sei
mesi mi misi in grado di poter tradurre i testi di legge....

318
II.
La fin d'anno e l'anno nuovo
dei nostri vecchi70

Ciò che mi propongo di raccontare questa sera si


riferisce alle nostre terre valligiane, come io le ho
conosciute ai tempi della mia giovinezza, poichè nei
nostri così detti centri, che vogliono farsi passare per
città, i cambiamenti sono pochi e le costumanze non
possono variare molto da quelle che ancora esistono a
Milano ed a Como.
Del resto i miei ascoltatori non hanno molto da
aspettarsi. Il Santo Natale, la Circoncisione, l'Epifania,
sono cerimonie e solennità cristiane che poco variano in
tutta la Cristianità e che ben poco potranno mutare per i
posteri. Ciò che interessa in un Radio-programma è la
vita del passato, in quanto interessa i nostri sentimenti.
Ordunque quando io ero piccino ed a scuola imparavo
l'abbaco e la grammatichetta, dal Natale a Pasquetta era
tutta una festa sola. Pasquetta chiamavasi allora
l'Epifania. Era per i credenti l'anniversario della
Redenzione ed era per gli astrologi e per i dottori il
solstizio d'inverno, il voltare del sole, il cambiamento
dell'anno astronomico.

70 Lettura fatta alla Radio (Studio di Lugano) nel 1931.

319
La gran festa attesa e preparata con la mazza e con
l'assaggio del vino nuovo, era sussidiata dagli arrivi che
ci venivano da Milano. Il panettone di Natale per la
gente agiata; la micca bianca per i poverelli.
Nelle case come la mia che (non faccio per dire) era
la prima del villaggio, arrivavano con la posta ogni
specie e forme di pacchi da Milano, da Lugano e da
Bellinzona, non solo col classico panettone, ma colla
cioccolata, col torrone di Cremona, con le belle arance
che si chiamavano portogalli. (I mandarini non si
sapeva che fossero, le banane neppure e tantomeno le
sigarette, giacché una donna che fumasse avrebbe dato
scandalo). Si riceveva insieme lo zafferano d'Aquila, e
quello doveva essere per tutto l'anno, perchè in Valle
non si poteva avere se non dall'unica farmacia. Solo più
tardi divenne d'uso comune, ma era quasi sempre
adulterato.
Fra la povera gente, quei pochi o molti che in
dicembre venivano a casa, portavano sotto il braccio un
reale di pan bianco, magari tre settimane prima delle
feste e lo lasciavano seccare. Per essere precisi il pane
bianco si comperava a reali, ossia a chili; un reale era
divisibile in due bagge. La baggia in quattro micche, la
micca in due soldi o micchini.
Reale era il nome d'una moneta spagnuola caduta in
disuso: soldo quella di una moneta pressapoco da 5
centesimi, così che il prezzo d'un chilo di pan bianco
veniva sui 40 centesimi che per quel tempo erano tanto.
Verso il 1870, forse a causa della guerra, era cresciuto a
320
50 centesimi a chilo, ciò che costituiva un lusso di
fronte al pane ordinario ch'era quello di segale fatto in
casa e cotto nel forno comunale o sociale, al prezzo
fissato da un bando pubblico, donde le locuzioni
francesi di four banal e di moulin banal dalle quali ci
son rimaste le parole banale e banalità.
Al pranzo di Natale il piatto di rigore era la polenta
con la crema gonfiata, che ora si dice panna montata,
cui si aggiungeva secondo il censo qualche buona
pietanza, dal pollo bollito, (tacchino, cappone, oca o
pollanca) e qualche selvaggina arrostita, dal fagiano al
passerotto, senza parlare delle mortadelle fresche. Alla
sera, indispensabili le castagne bruciate colla
formaggella cotta sulla bragia con la forchetta lunga.
Tutto il resto era cosa di chiesa. L'albero di Natale
non c'era, ma è falso che l'abbiano portato d'invasione i
tedeschi. Il presepio era altrettanto sconosciuto. Se
qualcuno ha trapiantato l'albero fra noi, fu certamente
un emigrante reduce dall'Inghilterra!
Tutto si esauriva dunque con la divozione, ch'era
molta, e la pacciatoria che non era poca.
Da Santo Stefano ai Re Magi è breve il tratto. Per
immettervi una festa di primo d'anno non c'era posto. Il
primo d'anno è del resto una cerimonia protestante. Il
rito cattolico santifica la Circoncisione senza particolare
solennità.
Solo ai ragazzi era riservata la buona mano di primo
d'anno. Tutta la banda si riuniva per fare allegramente il
giro delle case, muniti di un sacchetto significativo, per
321
l'augurio del Buon anno. Particolare attenzione meritava
la casa del padrino e della madrina al grido di
Bonaman, güdazz e di Bonaman güdazza, ripetuto in
coro.
Ed era una pioggia di noci, di mele e di piseu (le
pere) cui si associavano confetti e caramelle!
A Lottigna, ed in altri pochi villaggi, vigeva un altro
consimile torneamento: quello della Buonamano degli
uomini che si faceva alla Pasquetta, o (come dicemmo)
per l'Epifania.
Nulla della leggenda dei tre re, Melchiorre, Gaspare e
Baldassare,
Venuti dall'Oriente
Per liberar la gente,
ma la processione di tutti gli uomini adulti, di casa in
casa, dov'essi reciprocamente invitavano ed erano
invitati ad un buono ed allegro pasto, generosamente
servito ed inaffiato.
Cerimonia che non aveva nulla di sacro, ma
profondamente umana e morale, perchè doveva servire,
al cospetto di tutti, a dimenticare e perdonare gli odi ed i
rancori.
Dirò da ultimo di una bella costumanza che vigeva in
molte e forse in tutte le parti del cantone, alla fine di
gennaio, l'ultimo giorno della Merla.
Il Panzini, primo fra i vocabulisti italiani, raccoglie la
locuzione lombarda de i trii dì de la merla, alla fine di

322
gennaio. L'ultimo di questi giorni tutta la infanzia del
villaggio, munita di campanacci, di corni e di ciò che
servisse a far rumore si riuniva come a Carnevale e
faceva il giro del villaggio suonando e schiamazzando
per cacciar via il Genarione, il cui regno era finito.
Attestazioni simili ho dalla Leventina, da Val di
Muggio, dal Locarnese... Quest'uso aveva qualche
colleganza con le Rogazioni, del 3 maggio, giorno
dell'Invenzione della croce: una processione in
campagna per invocare la buona raccolta, adornare le
croci e sostare alle cappelle.
— E che importa a noi di questi ridicoli pregiudizi?
chiederà il solito pedantucolo presuntuoso.
— E che importa a me la sua opinione, la sua
meraviglia, il suo biasimo? Nulla; proprio niente del
tutto
Il carattere storico e sociale ad un tempo, di tutte
queste usanze era quello di manifestare una certa
solidarietà di classe, avvicinando il povero col ricco,
così come avviene in chiesa.

323
III.
Segantini giovinetto71

Era nel settantotto, se non erro, quando per occasione


di certi studi ch'ero presunto fare presso mio cugino il
chimico72 passai un'intera estate a Milano. Dovevo
prepararmi a studiare l'arte farmaceutica, e per vero
nella farmacia con grande laboratorio chimico annesso a
quella Scuola di Veterinaria, perchè i docenti che fino
allora avevo avuto in diverse scuole, all'unanimità meno
uno, avevano dichiarato al babbo che io avevo
intellettualmente una grande affinità colle bestie.
Ma anche quell'uno che faceva minoranza aveva
avuto torto; io, invece della chimica, studiavo la
topografia; quella dei quartieri di Milano, che non è
meno complicata delle formule dei nitrofenolmetani.
Visitavo i musei, dove mi rifiutavo di guardare le
cose che attiravano i curiosi in folla, visitavo le
biblioteche, dove domandavo volumi strani, e le
pinacoteche, dove stavo a guardare i quadri, per delle
ore intiere senza capirne un ette. Visitavo anche le
birrerie, solo, come un'anima persa, e vi leggevo nei

71 Dalla «Piccola Rivista Ticinese» del 1. novembre 1899 e


dall'«Educatore» del dicembre 1922.
72 Si tratta di Giacomo Bertoni, divenuto poi professore alla
Università di Pavia e all'Accademia navale di Livorno.

324
giornali di preferenza gli articoli più astrusi, per
persuadermi che se li capivo, non ero poi quel gran
perdigiorno per cui i miei maestri mi avevano speso.
Soprattutto visitavo la retrobottega di un droghiere.
Quello là era un droghiere diverso dagli altri, un
droghiere sbagliato, l'antitesi del tipo leggendario di
filisteo quale lo hanno fatto i commediografi. Un
droghiere, anzi due droghieri, (poiché erano due fratelli)
intellettuali, colti, dall'animo artistico e generoso.
Erano anch'essi miei parenti, ed io ero sempre da
loro, specialmente quand'ero al verde, perchè mi
ricevevano bene, ci stavo a pancaccia metà della
giornata e mi ci trovavo in buona compagnia.
Buona davvero. Vi ci arrivavano, quasi tutte le sere,
un giovine medico, il dr. Majno, il suo fratello,
praticante avvocato, che adesso è una celebrità, il
giovine avvocato Bronzini, il Dalbesio, con cui divenni
amico, e vari altri, commessi di commercio e di studio
la cui mente faceva come il bastone di S. Giuseppe:
fioriva malgrado l'avessero divelta per farne un palo
nella vigna del padrone.
Naturalmente vi si chiacchierava, de omnibus rebus,
vi si discuteva, vi si faceva un'accademia sbalorditiva, la
cui sola e rispettata legge era il paradosso.
Dev'essere stato, anzi, in quell'ambiente che io
cominciai a sperare sul serio di non essere un imbecille,
appunto perchè le cose tanto meglio le comprendevo
quanto più erano paradossali.

325
Ma soprattutto ci veniva e mi interessava un giovine
selvaggio, un tirolese, mi avevano detto, il cui passato
era una leggenda strana, il cui presente era un enigma,
ed il cui avvenire, a detta del sig. Giulio, era quello di
un Michelangiolo. Era un bellissimo efebo, dalle
membra forti e gentili insieme, dai lunghi capelli neri,
dalla faccia bruna bruna, entro la quale nuotavano due
grandi occhi neri neri, pieni di sogni e di visioni lontane.
Il mistero della sua vita mi attraeva. Egli si ricordava
vagamente del villaggio in cui era nato, lassù ad Arco
nel Trentino, e da dove era partito ancora infante, ma
non parlava volontieri di sè, nè dei suoi. Tutt'altro. Quel
po' che sapevo, lo sapevo dal signor Giulio, e se questi
vi faceva allusione in sua presenza, vedevasi ch'egli ne
aveva dolore. L'unica cosa che consentiva a confermare,
con un cenno del capo, era una sua fuga, verso i sette
anni, via da Milano, a traverso le campagne. Una buona
famiglia di contadini l'aveva raccolto, sfamato, e fatto
porcaro. Come, perchè fosse ritornato a Milano, non lo
sapeva.
Ciò che sapevo è ch'egli a Milano aveva passato altri
giorni di dolore, di cui non voleva parlare: che un
giorno era capitato col cuore pieno di affanno nella
bottega del sig. Giulio, il quale lo conosceva già da
bambino, prima del suo esodo; che questi l'aveva
raccolto, protetto, consolato; che gli aveva trovato
lavoro da una specie di pittore decoratore, poi lo aveva
quasi costretto a frequentare le scuole pubbliche di
disegno in Brera, dove faceva strabiliare i maestri.
326
Del resto, anche il sig. Giulio era discreto, era quasi
geloso del «suo» Giovanni, nel quale aveva una fede
incrollabile, entusiasta.
Ben presto io e Giovanni fummo amici. Eravamo
insieme tutto il tempo che egli non era a scuola od al
lavoro, e non lavorava sempre. Come facesse a vivere,
io nè lo sapevo nè lo indagavo. Questi refrattari hanno
delle risorse ignote; mangiano, dormono, non si sa come
nè quando, come nei «Bevitori d'acqua». Noi
peregrinavamo su e giù per Milano, chiacchieravamo
nel retrobottega, andavamo a vedere i quadri. Nelle
birrerie non veniva volontieri. Certo non gli piaceva il
non poter fare, come dicesi, la sua parte. Egli era del
resto un primitivo in tutta l'estensione della parola,
aveva dei pudori, aveva dei rispetti che ne facevano un
montanino pretto, incolume.
La sguaiataggine dell'ambiente da cui usciva non lo
aveva tocco, ed era forse senza saperlo ch'egli tendeva a
un'altra vita, a un altro mondo, con selvaggia energia,
fatta di privazioni, di fede e di serenità.
Com'egli fosse primitivo, quasi selvaggio, benchè
selvaggio di genio, lo dica questo tratto, che appena sarà
creduto. Segantini sapeva leggere; dove ne avesse
imparato gli elementi non lo sapeva dire neppur lui, ma
certo il suo migliore esercizio letterario erano state le
insegne di negozio che aveva dipinto; non sapeva
scrivere, ma sapeva schizzare, d'un tratto di matita, ciò
che doveva essere il suo nome. Soltanto del suo nome
era incerto. Egli diceva Segatini, altri gli aveva detto
327
Segantini, e non sapeva a che tenersene. Io perorai
caldamente la causa dell'enne, basandomi sulla filologia
in generale, sull'etimologia in particolare e più di tutto
sulla geografia industriale, che attribuisce ai tirolesi il
primato nell'arte del segantino.
Queste ragioni appoggiate dal buon Giulio,
sembravano convincerlo, ma gli pareva sempre che
Segatini suonasse meglio, e andava mormorando:
Sabbatini... Sabbantini!... provando l'effetto dell'enne
sul nome di quel grande. Con tutto ciò egli era
appassionato del leggere. Veniva nel retrobottega, si
siedeva, e per delle ore leggeva, a spizzico, quel che gli
capitava tra le mani, come per esercizio. Un giorno
arrivò con un Plutarco. Non capiva tutto, diceva egli, ma
andava avanti lo stesso.
E mi par ancora di vederlo, seduto su di uno sgabello,
col Plutarco in una mano, la testa appoggiata all'altra, il
cubito sul ginocchio, ed i capelli lunghi e neri che gli
nascondevano la faccia. Il volume era scompagnato:
credo il secondo, e due giorni dopo aveva già il terzo.
Era il primo vero libro che leggesse.
Ma alla sua ingenuità andava congiunta una serena
coscienza del suo valore, una nobile dignità. Non diceva
mai checchessia di volgare, era severo nel giudicare,
parco nel lodare.
Tra gli antichi ammirava più di tutti Leonardo; tra i
viventi aveva una grande simpatia pel Cremona.
Quell'anno vi fu un'Esposizione a Brera, nella quale
espose il nostro Luigi Rossi che arrischiò per un voto il
328
premio Principe Umberto, e mi ricordo come il
Segantini fosse per il Rossi. Mi faceva ammirare altri
quadri; mi spiegava Mosè Bianchi ed il Gignoux. Ma in
tutti questi apprezzamenti c'era come un tacito atto di
fede, la convinzione che egli pure sarebbe diventato da
tanto.
Erano intanto già evidenti in lui le qualità nelle quali
apparve nella pienezza della sua gloria. Una grande
fantasia, la visione di cose transumane, ma soprattutto il
sentimento della natura, dico della natura primitiva,
quale gli apparve bambino, lassù nei suoi monti, il cui
maldistinto ricordo tornavagli nei grandi occhi sognanti
quando nella retrobottega pareva contemplasse orizzonti
infiniti e lontani.
E credo che egli m'amasse soprattutto perchè io gli
parlavo delle montagne. Lui se ne ricordava appena, e
laggiù nella vasta pianura padana non ne aveva più
vedute. Io ne arrivavo allora allora, fresco dell'alito dei
ghiacciai, di cui gli raccontavo cose mirande, ed egli mi
ascoltava allora come un maestro, con desiderio, come
se gli parlassi di cose sante. Il ghiacciaio non lo
conosceva, non lo aveva visto mai, ma si sforzava di
comprenderlo. Un giorno, dalla piattaforma del Duomo
guardavamo le Alpi, ed egli volle che gli parlassi ancora
a lungo dei ghiacciai.

Presto il babbo si convinse che io non era nato per


fare il farmacista, e mi richiamò a Lottigna. D'allora in
poi, non vidi più il Segantini, se non per un minuto, a

329
Milano, «en coup de foudre». Ci abbracciammo e ci
baciammo. Egli era già entrato a piene vele nel mare
della gloria, io allora ero nel periodo più triste della mia
vita...
Quest'anno mi ero ripromesso di andarlo a trovare, in
Engadina, di sorprenderlo lassù tra i ghiacciai, dei quali
gli avevo parlato con tanto amore e di cui egli era
diventato il Maestro. Inopinati eventi mi costrinsero a
rimettere la partita all'anno venturo!
La mia storia è finita per gli adulti. Per i bambini no.
Essi mi domanderanno ancora:
— E il droghiere
— Il droghiere, ahimè, ha pagato il fio della sua
intellettualità.
Ed è giusto! Che c'entrano i droghieri col pensiero
umano Che c'entrano colle fioriture dell'arte? Il loro
mestiere è di vender pepe e cannella e di rubare sul
peso.
Il retrobottega non c'è più.

330
IV.
Dalla candela di sego al cinema73

Anzi tutto, ipotetici auditori, poniamoci in regola col


galateo della lingua, come desidera Francesco Chiesa e
pronunciamo Cìnema, parola sdrucciola e non cinèma.
L'idea di tenere un discorso sopra la vertiginosa
evoluzione della luce artificiale nell'epoca
contemporanea mi è venuta da tutt'altra cosa che dalle
candele, ma, come suole avvenire, per pura associazione
di idee.
Io ho una casa moderna, fabbricata trent'anni or sono:
dunque già vecchia, perchè nel ritmo 20° secolo una
casa per essere nuova deve risalire a 4 o 5 anni al più.
Ora si operano in dieci anni altrettanti progressi tecnici
quanto in un secolo o forse un millennio alle epoche dei
nostri antichi progenitori.
Ordunque nella mia casa moderna e quasi nuova, c'è,
invece del vecchio focolare domestico (uno degli
elementi fondamentali della poesia, dal medio evo in
poi) una cucina economica a legna ed una cucina a gaz.
La cucina elettrica non c'è ancora e per questo è una
cosa ancienne façon.

73 Lettura tenuta dall'on. Bertoni alla Radio (Studio di


Lugano) nel 1938.

331
Nulla di straordinario in tutto ciò: eppure un giorno,
ci venne a stare una domestica da Zurigo, la quale, con
mio grande stupore, mi confessò di non sapere
accendere il fuoco.
Vi prego di credermi, lontane ascoltatrici di val di
Blenio o dell'alto Malcantone, che vi parrà forse
impossibile! Essa non aveva mai veduto accendere il
fuoco con la legna.
La sua esperienza arrivava fino allo stropicciare il
fiammifero, e ad accostarlo al becco del gaz, aperto con
l'altra mano, ma non oltre. Essa infatti veniva da una
città moderna e meccanicizzata.
Mi son proposto fin d'allora di raccontare ai miei
posteri, come si abitasse, si vestisse, si mangiasse e si
dormisse ai tempi di Carlo Magno, tempi dei quali mi
ricordo assai bene, perchè erano gli stessi, più o meno,
di quando la mia mamma faceva in casa il pane di
segale, in cucina nella vecchia madia per essere poi
cotto nel forno che era in cantina o nel vicino rustico
come si usava nelle case civili.
Se ne può dubitare, ma è lecito credere che da questi
confronti le generazioni nuove possano apprendere
qualche cosa delle cosiddette vie del mondo.
Ed eccomi al discorso sulle candele. Dai tempi biblici
a quelli di Grecia e di Roma, un lume, una lucerna, una
candela, una fiaccola, una lanterna, erano rimasti la
stessa cosa: per Diogene come per l'autore
dell'Apocalisse, e tali erano ancora per le case e le
cascine dei nostri villaggi ai tempi della mia infanzia. I
332
montanari vi avevano aggiunto delle fiaccole, Tiarn in
dialetto biaschese, fatte con un ramo d'abete cosparso di
ragia da portare in giro se faceva vento. Il popolino di
Lugano, avendo già la passione delle gibigianne, vi
aveva aggiunto le torce a vento per compagnare la
banda. Nelle case rustiche od anche nelle civili non
mancavano mai il focolare a legna coi suoi treppiedi e le
sue catene da appendervi i paiuoli, nè la pigna altrimenti
stufa che è di buon italiano.
Sulla stufa di sasso s'appollaiavano le donne,
d'inverno, per lavorare, scaldandosi, intorno ad un
lumino ad olio: solo per girare la casa o per andare a
dormire accendevasi la candela. V'era per ciò il
candeliere e lo smoccolatoio.
Ma come facevasi la candela? Se ne usano ancora
nelle chiese per i sacri riti, ma quelle sono di cera,
quindi assai care. Pei bisogni domestici serviva il sego,
sego vaccino e caprino. Quello di pecora era malfamato
per la sua mollezza, quello di camoscio era prezioso per
la sua durata. Il sego si tesoreggiava da San Martino a
Sant'Ambrogio, al tempo delle mazze, che in italiano
non hanno nome perchè a Firenze non si usano o perchè
la solennità dei dizionari non consente che vi si mettano
le voci delle usanze contadinesche. Così nei dizionari
spagnoli (quelli correnti), si riscontra il matador, che è
una gloria nazionale, ma non la matada de cerdos (di
maiali) perchè è cosa villanissima.
Il sego lo si faceva fondere a fuoco lento e si versava
negli stampi. Lo stampo era un recipiente di latta, in
333
forma appunto di una candela, dentro il quale si tendeva
il lucignolo, di cotone attorcigliato. Più stampi venivano
allineati in serie, col capo in giù, chiudendo la punta
della candela con una specie di spina. Il sego, versato
dall'alto, riempiva lo stampo fin che fosse raffreddato,
poscia lo si tirava fuori di forza, e le candele erano
pronte per tutto l'anno.
Da Milano ci venivano delle candele raffinate dette
cerogen che poi presero il nome industriale di steariche.
Per anni ed anni io aiutai la mia mamma a fare le
candele: e ci prendevo gusto, specialmente quando per
raffreddarle si ponevano gli stampi nella neve e le
candele ne uscivano più facilmente. Un bel giorno il
babbo, tornando dalla sessione del Gran Consiglio portò
a casa la grande sorpresa di due lucerne a petrolio.
Fu un avvenimento! Fu un corruomo! Dai paesi vicini
venivano a vedere questa novità che però non piaceva.
Se le donne non le avevano mai viste, c'erano gli uomini
i quali, seguendo le correnti migratorie, eran stati in
città: a Milano, a Lione, a Parigi. Questi sapevano che le
lucerne a petrolio puzzavano: allora assai più di adesso!
Sapevano che il petrolio facilmente prendeva fuoco, e se
tutta la latta s'infuocava era l'incendio! Figurarsi quale
spavento il petrolio incuteva alle donne di Dangio, nelle
loro case di legno, chè quasi tutte erano tali!
Due o tre anni dopo, mentre ero a letto sentii un
insolito e lungo strepito, come se una carretta corresse
sul pavimento. Era la macchina da cucire. Questa volta

334
accorse tutta la vallata (ecco perchè ci chiamiamo
vallerani e non valligiani).
Venivano e la mamma aveva un gran da fare a
mostrarne il funzionamento (erano macchine a pedale)
ed a spiegarne la combinazione dei due fili a catenella,
come le cuciture dei calzolai.
Anche stavolta l'entusiasmo era scarso.
Fortunatamente, perchè i campagnoli non devono
entusiasmarsi facilmente. La loro natura lo esclude e vi
sono fior di ragioni scientifiche per giustificarli.
A 14 anni avendo io superato la scuola maggiore di
Acquarossa venni a Lugano a qui mi apparve in
pubblico ed in privato la famosa luce del gaz.
Mi era già nota in letteratura, sapevo dal Fusinato, il
quale allora era il poeta in voga, la strofa dello Studente
di Padova:
«Qualcuno che patisce d'oftalmia
e che quindi la luce gli fa male,
se andando a casa incontra per la via
l'antipatica luce d'un fanale,
per non avere quel chiaror negli occhi
con quattro sassi te lo manda in tocchi».
Ma noi a Lugano «sassi ai fanali» non ne tiravam più.
Quattro o cinque anni dopo mi trovava a Ginevra. Tutta
l'Europa parlava di Raoul Pictet e delle sue scoperte.
Dall'America, dall'Inghilterra era già arrivata la eco
della grande novità. Avevano inventato la luce elettrica!

335
La prima esperienza di luce elettrica sul continente fu
fatta appunto a Ginevra ad opera di quello stesso Pictet
che poscia si rese celebre con le basse temperature e con
l'aria liquefatta. A Ginevra abbondava più che altrove la
forza elettrica, fornita dallo sbarramento del Rodano ad
uso della fornitura d'acqua potabile. Furono messe
dodici lampade ad arco, in dodici globi, lungo la
Corraterie, fino alla «Place Neuve» davanti il teatro ed a
fianco dell'Università. (Che meraviglia!) Il Gas
impallidiva in senso proprio e figurato!
Da Lione, se non anche da Parigi e Marsiglia,
vennero parecchi treni speciali di curiosi. Tutta la
stampa ne parlava.
Due o tre anni dopo, mentre ero a Lottigna in una
modesta casa di Basalga, in compagnia di Camillo
Antognoli mio cugino, arrivò da Bruxelles un numero
dell'«Indépendence Belge», segnato in rosso, dove si
diceva che le tout Bruxelles accorreva all'Hotel
dell'Espérance, tenuto dai miei cugini, per vedere una
prima esperienza di illuminazione elettrica applicata ad
un Restaurant.
Alcuni anni dopo il Cantone Ticino celebrava la
prima esperienza di luce elettrica a Biasca, per la quale
occasione io composi un'ode che fu musicata e cantata
da quella brava gente alla cui testa brillava il dr. Alfredo
Emma.
La corsa vertiginosa dei progressi tecnici era
cominciata: gli Svizzeri alla testa! Ma eccoci al Cinema.

336
Ero già magistrato della Repubblica a Lugano quando
fu dato, credo al Ristorante Walter, un primo spettacolo
cinematografico.
Ricordo di esso una via di Ginevra colla sua intensa
circolazione meridiana, ed un tavolino da caffè dove un
gruppo di clienti giocava a carte con una tale rapidità
che sembravan matti.
Berna in piena guerra vari anni dipoi! Tutti i viveri
sono razionati. La città fornisce gratuitamente o quasi il
pane ed il latte ai poverelli...
I cinema funzionavano già come adesso: sempre
pieni.
Un'inchiesta ufficiale riesce a stabilire che i poveri
sussidiati, in gran parte, sono arrabbiati frequentatori dei
cinema!
Natura umana! È umano anche questo, che chi
dispera dell'avvenire spenda senza contare quel poco
che riceve.
Ed ora? Al cinema che ha invaso il mondo è tenuto
dietro il cinema sonoro. Si vedono e sentono a Lugano
le opere filmate al teatro di Milano o di Roma o di
Vienna. Ciò che da giovani ci sarìa parso miracolo lo
vediamo, ancora validi, qual banale spettacolo! E fin
quando? A quando la televisione'
Non è passato un anno che i malcantonesi in
Argentina hanno potuto udire il suono delle campane di
Novaggio. Quand'è che noi potremo vedere a tu per tu i
nostri figliuoli, i nostri nipotini, che sono oltre i monti
ed oltre i mari?
337
Nulla è impossibile tosto che si tratti di progressi
fisici. Sì, ma e i progressi morali?
Non facciamoci illusioni per quelli! Il progresso
morale esiste anch'esso, come ci spiegò Lauretta Rensi
Perucchi poc'anzi alla «Letteraria». Non è neppur
concepibile che oggi la Corte imperiale di un nuovo
Nerone assista ad uno spettacolo di schiavi e di cristiani
divorati dalle belve. Questo è vero, ma i progressi
morali sono lenti. Oh, come lenti! Si direbbe che
oggigiorno il progresso fisico abbia per unità di tempo
la giornata di 24 ore, mentre il progresso morale abbia
per unità di tempo una generazione, contandone tre in
un secolo.

338
V.
Ricordi

LE ZIE DI LOTTIGNA74.
Il mugnaio Pagani aveva sposato una lottignese.
Certo una di quelle che venivano colla gerla dell'orzo o
della segale. Questa lottignese apparteneva ad una
numerosa e famosa famiglia di magistrati. La casa dei
Bertoni era la più grande di Lottigna, Casa di
Landscriba, cioè di Secretari della Valle e luogotenenti
dei Landfogti.
L'ultimo di essi aveva firmato il processo verbale
constatante che il Landfogto era fuggito, ed altro
verbale per constatare la ripresa della giustizia con la
nuova autorità.
Il nome di questo personaggio che fu assiso fra due
secoli e due civiltà, merita di essere ricordato, ma
questo magistrato non ebbe figli maschi, bensì sette
figliuole.
Gli annali del paese dicono che di queste solo tre si
maritarono. Una era la madre del Pagani, un'altra si
sposò ad Aquila con un Morosi ed altra a Ludiano con
un Ferrari. Il casone, grande il doppio della maggiore

74 Lettura tenuta alla Radio (Studio di Lugano) nel 1937.

339
altra casa del villaggio, continuò poscia come un
convento di ottime suore, sempre aperto, come esigeva
l'uso domestico, a dar consiglio ed aiuto alla gente
quando occorreva. Ne voglio ricordare una.
L'«ANDA GHITA»
La Margherita Bertoni. tenne cattedra di decoro e di
buon giudizio a tutta una generazione di Lottigna. Dai
suoi maggiori aveva imparato l'arte di ragionar bene. La
frequentazione della chiesa (poichè era devota
senz'essere bigotta) l'aveva tenuta in esercizio.
Nessun paese al mondo vive senza discordie, e ce
n'erano anche a Lottigna. Fra la casa dei Ludovic e la
casa degli Andrea, fra la Ca' di Iacum, e la Ca' di
Franzin, e la Ca' degli Antognola, e la Ca' dei Martin e
la Ca' delle Apollonie (questa nomenclatura patriarcale e
matriarcale è di antica e nobile italianità) qualche attrito
c'era sempre e la mediazione dei Bertonn non poteva
marcare. C'era soprattutto la Ghita che parlava.
Ricordo l'altro mio condiscepolo il Martin ch'era
emigrato a Brusselle e n'era tornato afflitto di una donna
di città che non sapeva adattarsi, ed erano continue
beghe. Bisognava sentire la Ghita a dire le ragioni
dell'una e dell'altra parte, con quello squisito senso della
misura che consiste sempre nel trovare che di ragioni ne
hanno tutti un poco e che senza un po' di torto non c'è
nessuno se non è un santo.

340
Ed anche ricordo la Ghita sull'alpe. Una meraviglia!
La sera si diceva il Rosario. La Barbora, impetuosa ed
ordinaria, cominciava la corona, interrotta da rabbiosi
apostrofi ai nipoti a proposito delle vacche e dei porci,
ma poi c'era la Ghita a catechizzare noi ragazzacci per
insegnarci a star serii, a rispettarci, a non inveire, a stare
a posto.
Quanto, quanto giudizio, in quelle parole!

I BLENIESI A MILANO (in principio dell'ottocento)


Quando nacque Giuseppe Pagani le case di Blenio
erano ancora quasi tutte «guadagnate» in «Lombardia»
nel senso già osservato dagli scrittori confederati del
settecento che tutte le case di qualche pregio nei nostri
villaggi erano state costrutte coi guadagni fatti all'estero.
A Torre c'erano già delle belle case, spaziose e
sbiancate ed erano tutte dei Pagani cui vennero ad
aggiungersi i Torriani. Ci sono anzi delle ragioni per
credere che il ceppo stesso dei Pagani fosse venuto da
laggiù.
Tutta Blenio, fino al Blocco austriaco del 1853,
emigrava a Milano con qualche diramazione nel Veneto.
Solo i Prugiaschesi avevano trovato uno sbocco al porto
di Genova. Le case di Olivone, dette allora palazzi,
avevano quasi tutte le origini da Milano, salvo i Poglia

341
che avevano trovato la loro fortuna a Bordeaux ai tempi
di Napoleone
Fu a seguito del Blocco che i nostri valligiani si
precipitarono in Francia: Parigi, Lione, Marsiglia, e più
tardi presero la via di Londra dove trovarono...
l'America!

LE CUCINE DI LONDRA
Oh, i trionfi della emigrazione a Londra! Oh, i
milioni dei Gatti e dei Monico! Oh, i grandi restaurants
sul modello di duelli francesi! Tutti i miei
contemporanei hanno potuto sperare il milione! E c'era
di che! Le trattorie francesi erano servite dai camerieri
francesi, già esigenti e viziati, e dai camerieri italiani (i
laghini) tutti analfabeti. Dei camerieri bleniesi tutti
erano stati a scuola. Uno, proprio di Torre, aveva fatto
nientemeno che il liceo e diventò padrone di un
Restaurant che riuniva tutti gli artisti di Londra. Quella
poca ortografia francese che sapeva lo sguattero di
Blenio, il cameriere italiano l'ignorava e non riesciva a
capire perchè mai una parola inglese si scrivesse ad un
modo tutto diverso della sua pronuncia.
Aggiungete la buona condotta ed ecco la morale della
favola!

342
Sulle cucine di Londra scrisse un poema un mio
compagno di ginnasio, oggi dimenticato, ma quanto al
disotto dal vero!
Il Peppo Pagani ed altri miei condiscepoli le
mostrarono a me stesso quelle infernali fucine! Le
giornate dall'alba al tramonto con una temperatura di 40
gradi; le notti accavallati su per i tetti con le compagnie
più pericolose!
Ma Giuseppe Pagani si salvò.
Ma chi può dire quanti e quanti suoi compagni e
compatriotti salvò la sua parola, il suo esempio

L'ILLUSIONE DEL PROGRESSO!


Fu un progresso? Oggi è lecito fare il bilancio e
concludere che si stava meglio prima.
La vecchia emigrazione era limitata a pochi mestieri,
umili ma sani. I più erano marronai, ma anche molti
facchini. Del tempo della celebre peste di San Carlo si
ha memoria di molti monatti. Alcuni nomi di famiglia
lasciano supporre che i Don Rodrighi non sdegnassero i
Bleniesi fra i loro bravi. Sembra addirittura che i
bleniesi fossero ammessi di pieno diritto nelle
corporazioni di mestiere, forse in margine alle
capitolazioni militari. La tradizione è anzi che i portatori
bleniesi avessero il privilegio di portare a processione le
reliquie di St. Ambrogio.

343
L'emigrazione a Milano era puramente stagionale e
cioè d'inverno. Col ritorno delle rondini tornavano
anche i marronai e nei paesi partecipavano a tutti i
lavori di campagna fino a San Martino. La campagna
era perciò florida.
Altra musica quella del lavoro come sguatteri e
camerieri in Francia! Il guadagno era molto, durante
tutto l'anno, ma il primo guadagno era la tubercolosi... e
il resto.
È spaventoso il numero di tisici che c'era nei villaggi
di Blenio ai tempi dell'emigrazione del Pepp Pagan! Fra
i paesi che più ne furono devastati cito Corzoneso,
Aquila e precisamente i comunelli di Lottigna, Grumo e
Torre!
Per fortuna il Pepp è ed era un virtuoso.

IL MULINO DELLA BARACCA


Quando Peppo Pagani veniva alla scuola maggiore,
passava tutti i giorni davanti un mulino assai modesto,
che era quello di suo padre. La roggia veniva via pel
piano di Torre e lì si volgeva precipitosa sopra Grumo.
Era Alla Baracca, perchè da poco tempo era stata
costruita, lungo la cantonale, un'osteria che così si
chiamava.
II molino era aperto tutto il giorno per tutti i giorni
dell'anno, sempre frequentato dalle donne del paese che

344
vi portavano il grano con la brenta o che l'andavano a
prendere, macinato, per portare a casa la farina. La
signora Pagani (come si direbbe oggi) non si vedeva
mai perchè rimaneva sola tutto il giorno ad accudire alla
casa ed alla campagna.
L'economia di quei tempi era così. I mulini meccanici
con tanti e tanti cilindri non si sapeva cosa fossero. Una
roggia, un salto, un rodasano, una macina, un frullone e
bott li. I trasporti, che negli altri paesi avvenivano a
schiena di mulo, erano affidati alle donne, nè mai
avveniva che una di loro si lagnasse.
Tali erano gli ascendenti del mio compagno, a
prescindere da quelli, assai lontani, che nel 1402
avevano discacciato i Pepoli ed avevano marciato,
secondo la tradizione, infino al lago (questa tradizione
l'ho raccolta da un altro Pagani che era fra i notevoli del
paese).

345
VI.
Episodi75

I. Premessa: Ho vissuto come pochi altri ticinesi


almeno sessant'anni di vicissitudini del mio paese.
II. Ho fama di essere in politica e religione un
originale, nel senso che non sono una copia. Mi reco
cioè a dovere di dire ed agire come penso e non già
come conviene dire per interesse o per rispetto umano.

***
I. Episodio (scolastico): il maestro ci spiega
l'eguaglianza degli angoli opposti al vertice, ecc. Per i
miei compagni quello è un precetto di più da tenere a
mente: per me è uno scompiglio di tutti i dogmicini che
già avevo appreso nell'ambiente esterno. Ordunque mi
dissi; un franco liberale può essere eguale ad un
pianista, ciò che allora voleva dire un membro della
società piana, un nemico di quegli ideali che mi erano
stati insegnati come sacri!

***
II. Un episodio giudiziario: Il dottore di Insbruch.

75 Pagine inedite.

346
Quando frequentavo la scuola maggiore
dell'Acquarossa erano ancora freschi i ricordi del tempo
dei landfogti. Ricordi buoni, checchè si dica... A quei
tempi tutti potevano fare l'avvocato; bastava avere la
fiducia dei clienti, e la tolla.
Seppi dalla voce pubblica che un paesano qualsiasi di
Malvaglia si era fatta una buona clientela, in società con
un avvocatone di Bellinzona, imparando a meraviglia
gli Statuti e invocandoli a buon proposito.
Una volta, che si piativa davanti ai sindacatori, un
secondo avvocato di Bellinzona disse:
— Ma lei che vien qui a sentenziare, mi saprebbe dire
dov'è che ha studiato legge?
— Ho studiato (fu la risposta) sott'a un sprüg, che in
volgare vallerano significa sotto una roccia.
Risero plaudendo i Malvagliesi lì presenti, e quel
ridere parve una testimonianza.
— Ah! Lo volevo ben dire io! Innspruk (Innsbruck) è
un'eccellente università, asserì il primo avvocato (il
socio), e non tutti gli avvocati bellinzonesi possono
vantare altrettanto!
Così che il Console di Moncrego da villano che era fu
ritenuto dottor di leggi.
Apprendendo questa storiella io ne conclusi un certo
scetticismo sul valore dei titoli accademici e quello
scetticismo mi rimase anche dopo che io stesso fui
proclamato doctor honoris causa che si può leggere
anche humoris causa.

347
III. Altro episodio giudiziario.
Oggi tutto il mondo giuridico italiano è in moto per la
riforma del processo civile secondo il progetto del
guardasigilli Solmi.
Si tratta di introdurre il sistema indagatorio per il
quale nei tribunali debbono comandare i giudici e non
gli avvocati. È il sistema che una volta era romano e
come tale rimase nei paesi anglosassoni a traverso i
secoli, e nel 18° e 19° secolo diventò tedesco, di contro
al sistema da noi vigente, che non è punto latino ma
francese dei tempo più tirannico di Luigi XIV.
Si tratti d'udire un testimonio. Esso è interrogato dal
giudice direttamente e da lui solo. L'avvocato che vuol
domandare qualche cosa prega il giudice di interrogare
il teste su questa o quella circostanza. Si vada invece
davanti qualche nostro pretore. Chi interroga è
l'avvocato. Il teste risponde come può, ma è l'avvocato
che detta la deposizione a protocollo.
Or ecco l'episodio:
Si disputava una volta a Belilnzona un caso di
distrazione di beni a pregiudizio dei creditori. Un
cavallo colla sua vettura era stato venduto ad un povero
diavolo di vetturale, che poteva essere (come si diceva
allora) il presidente della Leggera, detto il Ragnin.
Ecco come andò l'Interrogatorio dopo che il teste
principale ebbe spiegato chi fosse il debitore e chi il
creditore e come la vettura fosse stata ritirata dal
Ragnin.
— E della solvibilità del Ragnin cosa pensate?
348
— Il Ragnin?!
Il teste scoppia in una clamorosa risata canzonatoria.
Il presidente, che non ascoltava, dà una scampanellata
furiosa
— Qui non siamo in piazza! Teste tal dei tali, dite
cosa potete dire della solvenza del Ragnin!
Il teste, spaventato, risponde balbettando:
— Io? non posso dire niente, io!
La risposta venne così dettata a protocollo
dall'avvocatone della controparte:
— Interrogato analogamente il teste risponde che
sulla solvenza del Ragnin non c'è niente da dire.
Ciò equivaleva a dire che era solvibilissimo.
Questo episodio era e rimane significativo, eloquente!

IV. Episodio. Una risata in Gran Consiglio.


Si discutevano allora, come adesso e come sempre, i
provvedimenti finanziari. L'amico Oreste Gallacchi, il
precursore degli agrari, voleva che si venisse in aiuto
delle campagne ed a questo fine si crescessero le
imposte sul lusso.
Niente in contrario, ma dov'è il lusso? Egli lo
intravvedeva nei cani di lusso, nelle carrozze di lusso,
(l'automobile non c'era) e specialmente nelle biciclette
che già formicolavano molestando i pedoni.
Prese la parola l'on. Bertoni ed era per dire che
liberarsi delle biciclette non era facile come a dirlo.
Quell'aumento di velocità nella circolazione aveva un
valore sociale...

349
— Vedrà, mio buon collega, che fra qualche decennio
si vedranno degli operai andare a bicicletta sul lavoro e
magari qualche donna a bicicletta con il gerlo in ispalla!
Fu uno scoppio di ilarità fragorosa!
Il Gran Consiglio, che abbonda di maligni, credeva
che io volessi beffarmi della rusticità del deputato di
Breno e rise sonoramente.
E adesso?...

V. Episodio. Una risata di elettori.


Di grandi elettori dovrei dire, poichè sulla piazza di
Faido era radunato un comizio.
C'era tutto lo stato maggiore del mio partito con tutta
una esuberante gioventù. Buon umore e buon successo!
La solita lista di discorsi; i soliti applausi.
A un tratto un veterano, che forse era membro del
governo, fa osservare ai suoi compagni di gioia che per
un bel banchetto a regola d'arte occorreva un brindisi
alla donna.
Detto, fatto!... Io sono incaricato del brindisi
cavalleresco.
Attenzione eccezionale! Gli applausi colgono al volo
certe parole innocentissime, come la laude della carità
femminile. Comprendo che devo elevare il tono (o
credo di comprendere) ed estendo la mia laude alla
suora di carità.
Fu uno scroscio di risa, come se avessi detto una
minchioneria...

350
I miei seguaci, i miei plaudenti avevano creduto ch'io
volessi fare non so quale ironica allusione.
Che un applauso possa mortificare, lo disse a suo
tempo Francesco Domenico Guerrazzi in pieno
parlamento fiorentino, chiedendo ai fedeli che
l'attorniavano: – «Che sciocchezza ho detto?»

VI. Episodio. Il giurisconsulto Calandrino.


Siamo in una sala di tribunale. Si discute una causa di
poco conto. Di fronte ad un avvocatuzzo da dozzina
siede un principe del foro; uno che avrebbe onorato
anche il foro di Torino o d'altra metropoli.
L'avvocato cavalocchi, (come si direbbe in Toscana)
ha sollevato un incidente rabulesco, comicamente sicuro
di far effetto; l'avvocato principe gli risponde
prendendolo in giro.
— Il mio avversario – dice – ha tirato fuori questa sua
scoperta con la soddisfazione di Calandrino quando
veniva su per Firenze gridando di aver scoperto la
pietra filosofale giù per lo Mugnone. (Risa).
Il rabulesco avvocato resta confuso, perchè neppure
conosce le novelle del Boccaccio, ma non vuole che
altri se n'avveda e con una faccia tosta da fare invidia
replica in questo tono:
— Cosa crede, il mio illustre collega, di venirci a
imporre coi suoi antichi giureconsulti? L'ho letto anch'io
il Calandrino, e non dice nulla di ciò ch'egli vuole farci
dire. Calandrino non parla a vanvera (testualmente).

351
Nella sala di udienza si udirono ridere due praticanti.
Il presidente rimase serio serio perchè non capiva nulla.
Egli se ne intendeva, sì, di giurisconsulti, ma perchè
aveva sentito dire di un vecchio Gobbi di Locarno, al
tempo dei Landamani, che era assai più che avvocato:
era giraconsulti!

VII. Episodio. Episodi del tempo di guerra.


Mai, forse, nella storia dell'umanità, furono più
grandi e manifeste le manovre delle due parti
belligeranti per tirar l'acqua al proprio mulino. Già
prima che l'Italia entrasse in guerra la gran maggioranza
dei Ticinesi era con gli alleati, un po' per colleganza di
interessi per la Francia, dove la nostra emigrazione si
era diretta già da quasi un secolo, ed un po' per
influenza dell'Inghilterra dove i Bleniesi si erano
radicati da forse due generazioni.
Ora ecco come il comunello di Dongio, di 500
abitanti, fu salassato di centomila franchi.
Ero in viaggio da Dongio a Bellinzona. Trovo in
treno l'amico Costante che mi dice:
— Sai, vado alla banca per piazzare 75.000 franchi,
prezzo del negozio che ho venduto a Londra.
— È una bella somma, rispondo. Bellinzona è ora
travagliata dal fallimento di due o tre banche, se non ti
spiace comperare case, o crediti ipotecari, rischi di
raddoppiare il tuo capitale.
— Fossi un minchione, dice lui. Chi mi salverebbe
dall'imposta?

352
— Ci siamo! Allora va per la tua strada
Giorni appresso l'incontro e mi dice:
— Rendita russa ho comperato! I Russi sono già sui
Carpazi e quando vincono avrò raddoppiato la mia
rendita. Altro che le ipoteche di Bellinzona!
— Ma lo sai cosa siano, e dove siano i Carpazi?
— Questo no, ma mi hanno proprio assicurato...
— Già; i commessi della Banca che toccano le
provvigioni per conto inglese!
Anche un mio prossimo parente alcuni giorni dopo
volle fare qualche cosa per gli alleati e... comperò
30.000 franchi di rendita russa la quale finì come tutta
l'altra.

VIII Episodio: L'apparecchio giudiziario.


Nel Tribunale d'appello siedono sette giudici. Alle
visite in luogo (sopraluoghi) di regola prendono parte
solo due o tre colleghi, ma poi capita che questi sono
imbarazzati a rendere conto con esattezza di ciò che
hanno visto. Una volta a Muralto noi delegati dovevamo
spiegare ai colleghi il funzionamento di un passaggio
munito di due rampe di scale; non ci riusciva.
In quel tempo il Dipartimento delle costruzioni pose
in vendita un bell'apparecchio fotografico. Io, che avevo
cominciato come dilettante a fotografare i miei bambini
e quelli del vicinato, proposi e ottenni che si comperasse
l'apparecchio, ma subito che l'ebbi sperimentato fu uno
scandalo. Gli avvocati andavano su tutte le furie. È
lecito ai giudici di immischiarsi nell'istruzione delle

353
cause? Gli Inglesi dicono che non solo lo possono, ma
lo devono: i Francesi dicono che non solo ciò è vietato
ma è un delitto! Io mi servii ampiamente della
fotografia finchè rimasi in funzione, ma uscito che ne
fui l'apparecchio è scomparso.

354
PARTE NONA

Macchiette rusticane76

I.
GENTE DI CAMPAGNA

La campagna è poco nota alla gente di città, benchè


ce ne siano molti che pretendono di conoscerla.
Già! alla dama di salotto ed alla commessa di bottega
la gente di campagna interessa poco. Le contadine sono
vestite goffamente, parlano rozzamente, danno del voi a
chi devono dare del lei, non sono gente da ricevere in
casa; dopo congedate bisogna aprire le finestre.
Per i signori la cosa è un po' diversa. Ce n'è che si
interessano alla campagna poichè hanno dei masserizi e
bisogna tener d'occhio quei birboni di massari. Ce n'è di
appassionati per la caccia, o più modestamente per
«cattar funghi», e questi sono persuasi di conoscere la
campagna a fondo. Ce n'è poi che si accaniscono alla
76 Pagine inedite.

355
caccia dei voti e questi imparano a far bella ciera ai
villani.
Tutti questi, signore e signori, si accordano
generalmente nell'opinione che il campagnuolo sia
indietro, oh, molto indietro in confronto al cittadino.
Indietro non solo per la sua istruzione scolastica e per
quelle buone creanze che si riconoscono nel modo di
vestire, di salutare e di stare a tavola, ma indietro nelle
facoltà più nobili, che sono l'osservare, il paragonare e il
giudicare.
Ma la verità è ben diversa. Il campagnuolo, il rustico,
osserva talvolta con occhi da lince, sa pesare il pro e il
contro, sa distinguere, e giudica con una profondità
singolare. Nel campagnuolo, anche se non è stato a
scuola, potete trovare tutti i caratteri che si osservano
nei parlamenti, nei fôri, nelle accademie. Il tipo del
chiacchierone politico, che sa di tutto, sentenzia su tutto,
compone programmi e parla, parla all'infinito in un
comizio, in una Camera di deputati, senza dire nulla di
nuovo e concludere nulla di pratico, voi lo potete
trovare nel villaggio, in abito femminile, intorno il
lavatoio e rimarrete sorpreso della perfetta somiglianza
di spirito fra l'oratore diplomato e la lavandaia
analfabeta.
Così degli altri caratteri. L'uomo corto d'ingegno ma
che sa tacere e far cantare gli altri, voi potete incontrarlo
in un Ministero, in un Consiglio di stato, sugli scanni
della giustizia, ma lo troverete anche fra i pastori
dell'alpe, fra i legnaiuoli, fra i carbonai.
356
Cominceremo i paragoni parlando di due menti corte,
al disotto d'ogni mediocrità, come sono nel villaggio e
come possono riapparire più in alto.

II.
QUELLA CHE SA FAR DI TUTTO

Nel mio villaggio non vi sono cretini. È vero che è un


piccolo villaggio, ma nessun cretino vivo e nessun
ricordo d'uno che sia morto, è una gran bella cosa. Gli
idioti sono un pericolo per un comune. Non solo per i
danni che possono cagionare, come un incendio, ma
perchè cadono spesso a carico dell'assistenza pubblica.
Non c'è un cretino, ma c'è la Marina che è la persona
meno intelligente, la più ignorante, la più dura da
cuocere. Si chiama Marina perchè è d'origine genovese.
La Marina è deficiente in tutte le facoltà, ma forse per
questo è convinta di saperla alla lunga, come tutti gli
altri, e forse di più. Il suo intercalare è sempre: «oh, l' so
bé! oh mi ho bé provou! (ho ben provato) oh mi sun
minga stacia a scoera, ma g'ho r'esperienza». Si parli di
qualunque cosa, lei sa tutto: lei capisce tutto. In realtà
non capisce niente. Se le si dà una commissione da
sbrigare, una risposta da riferire, lei fa tutto alla
rovescia. Se le commettete un lavoro e non le state
addosso a sorvegliarla, lei lo sbaglia. Ma poi, quando la
rimproverate e le dite: bisogna fare così, lei non

357
s'offende, non contraddice, ma conferma e dà ragione.
L'è quel che disi mi, – l'è bé come fagh mi, e farà sempre
lo stesso sbaglio ripetendo l'è bé che fagh, l'è bé che
digh. Sempre di buona fede, sempre servizievole, chi se
ne fidi. Lei sa tutte le malattie, e sa come curarle perchè
lei di tutto è esperta. La gente sa che conto farne.
Nessuno l'ha mai chiamata per infermiera. Poichè le
manca il bernoccolo della metafisica, le si riservano i
lavori materiali dove non ci sia da pensare. La si fa
lavare, portare il gerlo, sarchiare le patate.
Ora, voi non lo crederete, ma la Marina di Lottigna
l'ho incontrata in tutti gli uffici, civili e militari, quando
era già morta da un pezzo. L'ho vista fare il segretario, il
contabile, il perito, magari il giudice. L'ho incontrata in
tutti gli uffici pubblici e privati, nell'amministrazione
delle Banche, delle ferrovie, delle aziende pubbliche.
L'ho incontrata nelle piccole botteghe e più nei grandi
magazzeni. Lei, cioè lui, sa tutto: lui ha l'esperienza, lui
sa che si fa così e così, perchè si è sempre fatto così. A
fargli un'obbiezione non la capisce. È persuaso che siete
voi che sbagliate e che non capite, e molto
cortesemente, pazientemente, vi ripeterà: «io so quello
che faccio, io so quello che dico: io vi dico che si fa così
e così!».
Una volta mia mamma mise la Marina nell'orto a
strappare l'erba. Una bella e grande aiuola un po' fuori
mano, seminata a spinaci correnti. Un legume che la
Marina non aveva mai visto. L'aiuola era sfacciatamente
invasa da certe erbacce che i villici bleniesi chiamano i
358
farinelli. La Marina lasciò tutti i farinelli e strappò tutti
gli spinaci con esemplare diligenza. Ebbene,
persuadetevi, lo stesso può capitare anche negli uffici,
con questa differenza che la Marina non si era obbligati
a chiamarla, mentre i suoi congeneri, entrati che sieno in
un'amministrazione, nessuno più riesce a mandarli via.
Gli sbagli della Marina erano presto riparati. Quelli dei
suoi fratelli sogliono essere calamitosi,

III.
QUELLA CHE SPIEGA TUTTO.

La Marianna de' Conigli è nota in paese, e a 7


chilometri all'ingiro, come quella che non tace mai.
Dalla mattina alla sera la sua lingua va come il mulino a
vento. Essa è il contrario della Marina perchè ha il
bernoccolo della metafisica. Di ogni cosa che succede
essa conosce le ragioni dirette e indirette, naturali e
soprasensibili. Quello che succede di bene l'attribuisce
ai Santi, quello che succede di male, alle streghe. Se
quest'anno la vigna è andata bene, non è per la stagione
e meno ancora per il lavoro che le hanno fatto. Macchè:
gli uomini di Lottigna sono tutti fannulloni.
La Marianna si attiene al comandamento di non
nominare Dio invano, ma snocciola una litania di santi
che si sono occupati della vigna e lascia capire che il
merito è anche suo perchè essa i Santi li ha invocati a

359
tempo debito. Certo se ne è occupata più lei che il
signor curato, il quale trascura visibilmente l'ufficio suo,
è sempre in giro e non fa che leggere i giornali.
Ma le buone vendemmie sono rare, e di cose che
vanno bene ce n'è pochine. Ce n'è troppe invece che
vanno male e per questo la Marianna parla molto meno
per benedire i santi che per maledire le streghe.
Oh quelle streghe! Tutti i santi giorni la Marianna
sente le streghe squittire nelle boscaglie che attorniano il
villaggio. (Gli altri hanno forse sentito squittire la
civetta, ma lei sa di sicuro che erano le streghe).
Sabato hanno fatto il barlotto in Temanina, lunedì era
nel Deserto, ieri fu dalle parti di Tezzecchino, dove le
hanno messo a soqquadro tutto un campo di fagiuoli. Sì,
sì, tutti i fagioli le hanno rovinato
— Sarà forse stato il vento...
— Già, e il vento chi lo fa venire? E la tempesta? E la
brina? Sono sempre loro le streghe che fanno i malefici.
– E via come un mulino a vento a denunciare le
malefatte delle streghe e degli stregoni. E parla e parla
al breve pubblico del villaggio minuscolo. Parla delle
disgrazie avvenute in questa o in quella casa, delle liti
della famiglia di Bartolomeo, della moglie di Martino
che non riceve più lettere dal marito, della eredità di
Venezia che ha toccato ai Genelli, della bottega di
Milano che va in malora agli Antonioli. Parla della
causa del Comune, che si perderà, parla della scuola del
villaggio che è stata chiusa per mancanza di allievi e se
non c'è più matrimoni a Lottigna è per la stupidità degli
360
uomini. Essa spiega tutto, essa conosce di tutto il
perchè. Essa ha il dono della parola, conferitole da non
so quale dimonio, in quale diabolica cerimonia. Quando
si ha quel dono, non è necessario pensare a quello che si
dice. Si apre la bocca e la si lascia andare
automaticamente. Il meccanismo va da sè, finchè
rimanga fiato in corpo.
Orbene, la Marianna è morta da un pezzo. Io ho
lasciato il mio povero villaggio di 130 abitanti, sono
andato in città: ho frequentato le feste ed i banchetti, mi
hanno mandato in Consiglio comunale, e poi in Gran
Consiglio, poi più su e più su ancora... ed ho sempre
sentito la voce della Marianna, la stessa Marianna che
spiega tutto, cui il bernoccolo della loquela fornisce gli
argomenti a dieci a dieci, a cento a cento. La Marianna
sempre certa delle sue convinzioni, dei suoi principi e
della perversità delle sue streghe e della divinità dei suoi
santi.
Naturalmente la qualità delle streghe varia secondo
l'ambiente e secondo i tempi. Non sono più le streghe
volgarucce che mandano a male i fagiuoli; sono streghe
di un mondo civile, di una cultura illuminata. A seconda
delle Marianne, le quali sono molto diverse, ed a
seconda delle epoche, le streghe si sono convertite in
gesuiti, in frammassoni, in borghesi, in giacobini, in
sanfedisti, in bolscevichi, in fuorusciti od in fascisti. Le
streghe sono gli ebrei o i romani e i romanizzati, o i
teutonici.

361
Ogni Marianna ha le sue fissazioni e ognuna è certa,
oggi, domani e sempre di avere ragione, sempre
ragione, tutte le ragioni al cento per cento più la
provvigione.
Le Marianne politiche hanno anche i loro santi,
canonizzati da non si sa quale congregazione. C'è quella
che santifica Mazzini senza averne mai letta una riga,
quella che santifica Alessandro Manzoni per ciò che non
si è mai sognato di dire. Una santifica Robespierre,
l'altra Maria Antonietta; una Napoleone e l'altra
Metternik. Una Garibaldi e l'altra Radetzki, una
Gambetta e l'altra Carlo Marx.
Il nome del santo non conta nulla. L'essenziale è
santificare e maledire; vie di mezzo non ce ne sono. Se
c'è una votazione per aria, chi è per il sì è sacrato al
cielo e chi è per il no va all'inferno (o viceversa). Se c'è
una guerra sul continente ecco che spuntano le ali ai
francesi, tutti angeli, e spuntano le corna ai tedeschi,
tutti diavoli: o viceversa. Viene l'ora della pace? Ecco le
Marianne tutte al loro posto, sempre certe della loro
infallibilità. Esse invadono i Congressi, invadono le
Conferenze, a Versaglia, a Spa, a Genova, a Locarno, a
Stresa ed a Londra. Tutte le Marianne contro una
Marianna sola: una sola contro tutte.
E non concludono mai nulla.

***

362
Quella povera Marianna di Lottigna fu del resto una
onesta donna: sopportò con coraggio la sua povertà che
era squallida, il suo lavoro che era estenuante e se non
fece del bene, certo non fece del male con nessuno.
Diceva un mondo di castronerie, ma agiva umanamente.
Lo stesso mi pare delle altre Marianne. A sentirle
parlare meritano il manicomio, ma la maggior parte
agisce quasi onestamente. Tutte meritano molta
indulgenza.

363
PARTE DECIMA

Politica

I.
Filosofia pratica e contorni politici77

La filosofia non è, e non può essere, un soggetto


abituale di conferenze radiofoniche: la politica meno
ancora. Se mai, debbono rimanere in quei limiti che la
Costituzione federale assegna per i soggetti religiosi
nelle scuole pubbliche. Queste cioè devono poter essere
frequentate dagli aderenti di tutte le confessioni «senza
che ne risulti offesa in alcun modo la loro libertà di
coscienza e di opinione» (art. 27).
Ciò sarebbe forse impossibile se si volesse entrare nel
campo della filosofia teorica, cosiddetta speculativa; ma
la distinzione fatta da Emanuele Kant, il principe dei
filosofi moderni, ci insegna la strada.
77 Dal periodico "Ticino", organo della «Pro Ticino», del 15
dicembre 1936 (conferenza letta alla Radio, studio di Lugano).

364
Egli ha scritto la «critica della ragion pura» sulla
quale un consenso universale non sarebbe mai possibile,
ma fortunatamente ha fatto anche la «critica della
ragion pratica» sulla quale qualche buon accordo è
sempre presumibile.
Il secolo scorso filosofava assai più che l'attuale;
forse perchè allora non c'erano gli sports moderni per
attirare tanta parte degli entusiasmi della gioventù. Si
discuteva, anzi, si disputava accanitamente in ogni
luogo e in ogni tempo, magari alla birreria alle ore
avanzate fra platonici e aristotelici, sulla materia creata
od increata, oppure fra darvinisti e spinoziani intorno
all'essenza della divinità, alla esistenza dell'anima ed
alla sua immortalità, allo spiritismo ed alla spiritualità e,
beninteso non ci si intendeva mai.
La metafisica, cioè lo studio di quelle concezioni
astratte che non possono essere dimostrate
sperimentalmente, venne a poco a poco espulsa dalla
filosofia rimanendo oggetto della teologia. Solo verso la
fine del secolo vi fu una certa riabilitazione della
metafisica: lo stesso nostro Romeo Manzoni finì la sua
carriera positivista conciliandosi con la metafisica sotto
gli auspici di Bergson.
I materialisti avevano sostenuto che la vita organica
procede tutta dalla evoluzione del protoplasma: gli
spiritualisti sostenevano fermamente che procedesse
solo dalla creazione divina. Bergson propose l'évolution
créatrice. Conciliazione facile e piana finchè i
contendenti sono due o pochi intellettuali: conciliazione
365
impossibile se i contendenti sono masse di persone più o
meno incolte, che credono di capire i sistemi per i quali
si accalorano, si combattono, si insultano.
Due persone che la pensano diversamente possono
sempre arrivare a un accordo pratico. Esempio classico:
il giovane e la ragazza che si sposano sorpassando ai
loro contrasti d'opinione: è cosa di tutti i giorni! Altro
esempio: il medico e la suora. Abbiamo avuto qui a
Lugano il caso del chirurgo Vittorino Vella, libero
pensatore per la pelle, che fu assunto come primario alla
Clinica di Moncucco ed ebbe come infermiere le suore
cattoliche. Stavano freschi i pazienti se dovevano
aspettare che il medico e le suore si mettessero
d'accordo sugli articoli di fede! Per fortuna non ne
parlarono: ciascuno fece il proprio dovere e i pazienti
furono operati e salvati a migliaia!
La pietà, la carità, non sono concetti trascendentali.
Sono sentimenti naturali che si manifestano nella ragion
pratica: nella pratica filosofia. I preconcetti, i partiti
presi non possono che nuocere. Negli Stati Uniti
d'America succede normalmente che in un Comitato di
beneficenza figurino insieme un vescovo cattolico, un
clargiman metodista e un venerabile frammassone:
questo è spirito pratico. Nello stesso paese potrà darsi
che il bianco rifiuti di sedere al medesimo tavolino col
negro, che il banchiere non voglia figurare sulla lista
elettorale coll'operaio o col villano. Ma tutto questo è
squilibrio nervoso.

366
La guerra, la grande guerra, è venuta ad aggiungere a
questa piccola infermità le grandi psicosi collettive a
base di nazionalismo e di razzismo. La lotta di classe ha
vieppiù inasprito le lotte politiche di partito, ma ha
ragione Paul Valery nel suo libricino sopra «Le Monde
actuel». Quando in aria c'è la guerra con le sue
incertezze, con le sue minacce, con le sue paure, tutte le
menti si smarriscono. Ci si chiede prima di tutto: quali
sono i gruppi umani che debbono farsi la guerra?
Saranno le nazioni? ma quali nazioni? O saranno le
razze? ma quali razze? O piuttosto le classi? E si
scoprono le classi, le razze e le nazioni così: come a suo
tempo si scopersero le nebulose.
La guerra ha per effetto di decidere l'avvenire delle
generazioni e dei secoli, nel minor tempo possibile,
senza esaminare e senza riflettere. Che importa se per
decidere bisogna aver fior di cognizioni che nessuno
può vantarsi di possedere? Il fatto sta che si segue
un'opinione qualsiasi anche se dettata dal caso!
La grande guerra è passata. Essa è finita come
nessuno prevedeva. Sono fallite tutte le previsioni dei
guerrieri professionali, tutte quelle dei finanzieri e
quelle dei diplomatici. Ebbene, in vista della nuova
guerra della quale non si sa chi saranno i belligeranti, nè
quali i nostri alleati nè i nostri nemici, nè se comincerà
sulle coste della Spagna o su quelle del Manciukuo,
ognuno deve prepararsi ad obbedire alla parola d'ordine
di un dittatore od anche di un comitato del quale non si
sa, di chi sia composto, nè donde venga, nè dove vada.
367
L'effetto della prossima guerra sarà probabilmente il
tramonto del primato dell'Europa su tutto il globo
terracqueo. La decisione dipenderà tuttavia dalle folle
anonime sotto gli auspici della Dea Incompetenza,
succeduta a Marte ed a Minerva,
La sorte di un Impero potrà dipendere dal disgraziato
temperamento d'un uomo solo. Sempre, per quanto
dipende da noi, converrà ricordare che con
l'intolleranza nulla si può giudicare, col fanatismo non
si può governare, col partito preso nulla di buono si può
concludere. La filosofia pratica ci impone di stare al
senso pratico, in tutte le questioni e, se è lecito, anche
nelle questioni politiche, interne ed esterne, federali e
cantonali.
Noi Ticinesi, come ho spiegato in certi miei scritti,
siamo troppo propensi a seguire le suggestioni straniere:
noi siamo degli artisti, dei romantici e talvolta anche dei
letterati, od almeno dei dilettanti di letteratura. Per
questo ci lasciamo facilmente sedurre dalla tentazione e
facciamo volontieri della rettorica morbosa. Il
classicismo ci legò l'immagine di Giove tonante che
brandisce i suoi fulmini e parla frasi reboanti e con la
sua voce fa traballare l'Olimpo. Il barocco dei nostri
grandi secentisti ci suggestiona: anche in epoca assai
vicina ci suggerì tutto un diavoleto di invasioni
barbariche, di insidie, di tiranni, di oppressioni, di
difesa, di rivoluzioni tramate, tentate, fallite... ed in ogni
caso male imaginate.

368
Tregua sia alla rettorica! Così ci avverte la filosofia
pratica. Basta con le esagerazioni. Noi non siamo un
popolo che geme sotto i tiranni, ma siamo un popolo
che ha troppo emigrato per il motivo principale di avere
ricevuto un'istruzione ed un'educazione troppo
urbanizzata: noi siamo un popolo che ha troppo vissuto
all'estero (moralmente e materialmente).
Noi siamo un popolo di campagnoli troppo numerosi
fra le nostre anguste valli montane, che dopo avere
conquistato tutti i mercati di lavoro ne fu scacciato dalla
mala-guerra e dalla mala-pace ed ora deve rivalutare le
sue naturali risorse: clima, aria, suolo, pascoli, boschi e
paesaggio, che sono la nostra vera ricchezza. A compire
questa impresa «l'arte giova e il senno ha parte», sarà
propizio l'aiuto del cielo, ma a nulla serviranno le
declamazioni di vecchio stile, a nulla le esaltazioni degli
animi. Gioverà il culto delle nostre belle tradizioni di
libertà e di democrazia, nelle forme e nella sostanza
quali le istituirono i nostri avi, non quali possono
convenire alle plebi metropolitane ed industriali delle
grandi Nazioni.
Non il Tago, non la Senna, non la Sprea, non il Volga,
ma le modeste acque del Ticino!
La filosofia pratica non vieta, anzi consiglia il culto
della giustizia sociale. In essa concordano le voci della
terra e del cielo e noi le dobbiamo ascoltare.
Ascoltiamole pure. Ascoltiamole per agire con esatta
cognizione delle cose ex informata conscientia. Al quale
effetto è necessario ricordarsi sempre che la giustizia
369
vera è un concetto astratto, che non si può nè
materializzare, nè misurare col metro, nè colla bilancia
(malgrado la nota imagine.).
Io ho fatto otto anni il giudice, i più fecondi della mia
vita, dei quali cinque anni di presidenza della Corte
criminale, e quasi non ricordo un caso solo in cui tutte le
ragioni o tutti i torti fossero da una parte sola. Sono
stato per più di vent'anni deputato alle Camere Federali,
tre volte presidente del Gran Consiglio ed ho fatto parte
di una baraonda di Commissioni. La mia esperienza
della ragione e del torto nella vita pubblica e nella
privata, è dunque quale a pochissime persone è dato di
raggiungere.
Orbene posso assicurare, chi mi voglia credere, che
quasi sempre, o almeno di regola, le questioni che si
hanno a decidere esigono una matura considerazione di
tutti gli interessi, di tutte le opinioni e di tutti i
sentimenti, anche di quelli che a prima vista appaiono
strampalati, o superstiziosi o temerari.
Purtroppo affiora anche la malafede, ma è più presto
riconoscibile in chi abbia l'abito di negare ogni buona
fede altrui, rarissima in chi dubita di se stesso e dei suoi.
Riassumo dunque:
Nella vita pubblica una sola filosofia è possibile: è la
filosofia pratica, la quale insegna a mettere da parte ogni
esaltazione, ed ogni fanatismo. Il filosofo spagnuolo de
Unamuno ha forse espresso meglio di ogni altro un
problema umano scrivendo che l'esame di coscienza
non è soltanto un dovere dell'uomo singolo, ma deve,
370
(in giusta formazione della società) diventare
un'abitudine di tutti i corpi deliberanti, di tutte le
collettività, dalla Società delle Nazioni fino all'ultimo
comitatino distrettuale!

371
II.
Sette o nove?78

Signor presidente e signori colleghi,


Quando questa mozione che ci occupa79 potrà
arrivare, ed arriverà certamente, davanti al popolo, tutto
il Ticino la voterà unanimemente. Non un partito, non
una frazione, non un villaggio voterà contro. Egli è che
il popolo della Svizzera italiana sente da lungo tempo il
bisogno di essere rappresentato nel Governo federale e
conta sopra una riforma che glie lo assicuri anche in
avvenire.
Non è questa una pretesa illegittima come molte altre
che pur furono sanzionate dall'uso di tanti anni. Se i
grandi Cantoni di Berna, Zurigo e Vaud hanno
ininterrottamente avuto un Consigliere federale dal 1848
in poi, ciò avviene per riguardi rispettabili, ma insomma
senza alcun diritto e senza un motivo di importanza
fondamentale. Diversa è la cosa pel Ticino.
Il Ticino non è solo il 18° cantone, esso è la Svizzera
italiana. Esso non deve essere considerato solo
78 Discorso pronunziato al Consiglio nazionale nella seduta
del 12 dicembre 1916.
79 Si tratta della mozione Micheli (Ginevra) per l'aumento del
numero dei Consiglieri federali.
V. Dovere del 14 dicembre 1916.

372
quantitativamente ma anche qualitativamente, e come
tale esso è il terzo elemento di cui si compone la
Confederazione intiera, la quale non è perfetta se non
nella sua trinità. Eppure il Ticino è stato escluso per 50
anni dal Consiglio federale e se da ultimo fu eletto il
cittadino Giuseppe Motta egli non lo fu come ticinese
ma come cattolico. La sua qualità di ticinese non fece
che ritardare la sua elezione, che avrebbe dovuto
succedere prima.
Ora se il Ticino per mezzo secolo si adagiò a questa
situazione, difficilmente vi si adagerebbe in avvenire;
imperocchè esso è oggi arrivato alla maturità dei suoi
destini ed alla perfetta coscienza non dico dei suoi
diritti, ma dei suoi doveri. Il Ticino vuole aperta la via a
compiere la sua missione nella operosità della patria
comune.
Signori, la importanza della presenza dell'elemento
italiano nel Consiglio federale era stata intravveduta dai
fondatori della Confederazione del 1848; la generazione
di Giona Furrer ha voluto Stefano Franscini consigliere
federale perchè quello era, come il nostro, un periodo di
grandi maturazioni. Il movimento nazionalista
cominciava a disegnarsi in Europa, con le sue giuste
rivendicazioni, ma anche coi suoi minacciosi
antagonismi, con gli odi di razza, con la rivalità della
lingua, e mentre tutta l'Europa si accingeva alla
revisione della sua carta geografica dividendo gli
uomini in nazioni, la Svizzera imprendeva l'ardua opera
di riunire sotto un solo governo – tre diverse nazionalità.
373
Un fine così elevato era solo possibile per mezzo
della libertà, la libertà che in tutte le sue forme
garantiva il nuovo patto federale. Era possibile con un
solo metodo, la collaborazione delle tre stirpi; la quale
collaborazione alla sua volta aveva un presupposto
necessario, quello dell'eguaglianza morale fra le stirpi
stesse.
La generazione di Giona Furrer è morta. A Franscini
morto seguì nel 1857 G. B. Pioda fino al 1863 quando
fu mandato ministro a Firenze presso il risorto regno
d'Italia, ma d'allora in poi fu pel Ticino la decadenza, la
esclusione semi-secolare.
Ma ecco di nuovo che i tempi sono pieni di incognite.
Dal gigantesco conflitto che travaglia l'Europa sta per
sorgere un'èra, come dopo la grande rivoluzione della
fine del 18° e del principio del 19° secolo. E di nuovo la
Svizzera si trova in mezzo all'Europa sconvolta e
travagliata, in pericolo per il suo avvenire, peritosa per
le sue istituzioni.
Le responsabilità che gravano e stanno per pesare sul
Consiglio federale si fanno ogni giorno più grandi. Il
paese sente il bisogno di eliminare ciò che lo divide, di
rinforzare ciò che lo unisce. Uno dei mezzi più efficaci è
la estensione del Consiglio federale, che permetta un più
giusto riparto di tali responsabilità
È un momento in cui bisogna mettere da parte le gare
di partito, le considerazioni di secondo ordine. Chi ci
assicura solo della sopravvivenza dei partiti attuali? Essi
sono nati da avvenimenti storici, da allineamenti politici
374
ormai lontani che stanno forse per essere suffulti da
avvenimenti nuovi: il crogiuolo del tempo forse già
fonde il bronzo di nuove compagini, di nuovi metodi
politici. E allora?
Allora un solo grande principio risorge, novella
fenice, dalle ceneri del passato. È la grande idea della
patria. A calendagosto 1914 l'Europa si destò al suono
delle campane a stormo: ogni governo lanciò il grido
della patria in pericolo, e quella generazione in cui
pareva ormai illanguidito il culto della patria, fece
miracoli d'eroismo e di resistenza. L'idea di patria
risorse quale è nei canti l'Israello come nei canti
d'Omero, dell'epopea barbarica come nella storia di
Roma. È in questo risorgimento della grande idea che
noi dobbiamo attingere la forza per compiere la
necessaria riforma interna.
Signori, io non dubito che voi accetterete la mozione
come principio, ma so che fra noi va serpeggiando un
dubbio fatale. Si teme una decisione precoce, una
soluzione precipitata. Si vuol guadagnar tempo per
prudenza. La prudenza è sempre stata la virtù degli
Svizzeri; ma io temo l'indecisione ammantata di
prudenza.
La nostra storia offre parecchi casi in cui questa
indecisione, diciamo questo eccesso di prudenza ci fu
fatale. Pensate alla dieta di Baden del 1798, quando solo
una decisione pronta ed energica avrebbe potuto
guadagnare il cuore dei Baliaggi ed armare la Svizzera
contro l'invasione straniera. Pensate alla dieta di Soletta
375
nel 1814 quando si lasciarono entrare gli alleati prima di
prendere una risoluzione. Pensate alla perdita della
Valtellina! Per contro il Vorort di Zurigo salvava nel
1814 la Svizzera quando in tre giorni fece accettare dai
13 cantoni antichi e dai cantoni nuovi il nuovo
ordinamento federale e mise Metternich in presenza del
fatto compiuto.
Oggi il dilungo può essere fatale. Voi volete rimettere
la soluzione del problema a dopo la guerra. V'ingannate.
La crisi esterna è anche una crisi interna ed è durante
questa crisi, prima della prova suprema, che dovete
ricondurre il paese all'unanime fiducia nel Governo
federale!

376
III.
Per la riforma della Costituzione federale80

Signor presidente e signori colleghi,


Da gran tempo io volgevo nella mente la necessità di
una revisione del patto costituzionale, che segnasse una
nuova instauratio ab imis fundamentis della nostra
vecchia repubblica. Tale pensiero stava nel fondo
dell'anima di tutti i Ticinesi. Ma il Ticino è poca cosa
nel vortice degli interessi cozzanti; ed io non vidi mai il
momento propizio perchè anche la voce dei piccoli
potesse imporsi all'attenzione dei maggiori. Quando
però, in quest'alba di vita nuova che appare all'orizzonte
della vecchia Europa, io sentii la voce autorevole del
vecchio lottatore sangallese81 sorgere con la sua
proposta di riforma in senso nettamente unificatore, mi
dissi: «Ogni viltà convien che qui sia morta!» – stimai
venuto il momento, ora o mai, di affermare il pensiero
della Svizzera italiana, in questo dibattito, e presentai la
mia mozione del 15 dicembre, cui, per inesperienza
parlamentare diedi il titolo di emendamento alla
mozione Scherrer-Füllemann. Questo errore di
80 Discorso pronunziato dall'on. Bertoni al Consiglio
nazionale nella seduta del 13 febbraio 1918.
81 Si tratta di Scherrer-Füllemann, già esponente del gruppo
democratico sociale delle Camere Federali.

377
procedura mi obbliga ora a rileggerla, perchè rimanga
negli atti del Parlamento. Eccone il tenore:
1. Le Conseil fédéral est invité à entreprendre au plus
tôt un projet de revision intégrale de la constitution
fédérale. Cette revision aura pour objet:
a) de relever toujours plus l'idée démocratique,
notamment par l'introduction de l'initiative
populaire en matière législative et par une plus
haute conception du contrôle parlementaire;
b) de garantir un équilibre plus rationnel et plus stable
entre les compétences des cantons et celles de la
Confédération, tout en tenant compte des droits
naturels découlant de la diversité de race et de
moeurs de nos populations;
c) d'apaiser les anciens conflits d'ordre confessionnel
sur le terrain d'une loyale pratique de la liberté de
conscience et de culte;
d) d'alléger le texte de toute disposition de détail et de
nature législative;
e) d'accomplir toutes les réformes sociales indiquées
par le progrès moral et intellectuel de l'époque
contemporaine, sur la base de la solidarité des
classes;
f) d'assurer les moyens nécessaires à la réalisation de
ces réformes.
2. Ce projet doit étre présenté en temps utile pour être
débattu et approuvé par l'Assemblée fédérale pendant la
prochaine législature du Conseil national.

378
Nel frattempo, nell'intervallo dalla sessione passata
dell'ultimo dicembre all'attuale, s'è manifestato un
movimento nel seno del partito cattolico, nel seno dei
cantoni romandi, tendente ad un'accettazione della sfida
lanciata in questa sala dall'oratore sangallese;
accettazione della sfida sul terreno della revisione
costituzionale in un senso diametralmente opposto,
volutamente federativo. Questo doppio movimento:
cattolico e romando, fu esposto nella mozione Fazy, alla
quale noi Ticinesi abbiamo aderito non senza riserve; a
me compete dover oggi motivare le ragioni di questa
adesione e di queste riserve.
La prima ragione è relativa al carattere della riforma
proposta: sarà riforma totale? o riforma parziale? e non
è questione di nome, questione di parole? È curioso
osservare come l'on. Scherrer-Füllemann chiami la sua
riforma totale, pur assegnandole un campo assai
ristretto, e parziale chiamino la loro i romandi,
destinandole un campo assai più vasto. L'on. collega –
Forrer ha lasciato al Consiglio federale di stabilire se la
revisione debba esser totale o parziale; ed in ciò posso
essere d'accordo; solo mi domando se sarà possibile,
con tutta la buona volontà di mantenere il movimento
nel campo di una riforma parziale. Si pensi alle tre
iniziative popolari che giacciono in sofferenza; vi si
aggiungano le diverse proposte di revisione per
iniziativa parlamentare. Altre, molte altre sorgeranno
dalla discussione, che ne allargheranno il campo sempre

379
più. Ma io intendo elevare il dibattito ad una questione
d'ordine storico.
La Svizzera non fece mai di moto proprio una
revisione costituzionale, ma sempre operò secondo gli
avvenimenti esterni. Se l'on. Forrer crede che per dar
mano alla revisione totale occorra attender tempi
tranquilli, si illude! In tempi tranquilli la revisione totale
non si fece mai! I nostri periodi di costituzione federale
a che cosa corrispondono, se non alle diverse epoche dei
rivolgimenti d'Europa?
La Costituzione elvetica è il frutto della rivoluzione
francese e corrisponde di forma al Direttorio. L'Atto di
mediazione risultò dal consolidamento della rivoluzione
francese col Consolato e con l'Impero. La Ristaurazione
ci dettò il patto del 1814. Il periodo costituzionale 1830-
35 nei cantoni liberali corrisponde alle giornate di
luglio, ed è coordinato al movimento della Giovine
Europa, movimento diretto dal forte animo di Giuseppe
Mazzini. Il primo progetto di stato federativo discusso
in queste Camere nel 1832 è l'avvenimento culminante
di quel movimento rigeneratore giovine-europeo. La
Costituzione del 1848 è necessariamente connessa agli
avvenimenti straordinari che scossero l'Europa in
quell'anno memorabile. La Costituzione federale del
1874 fu iniziata nei '71, nell'anno in cui compievasi
l'unità della Germania, quasi a formare un «pendant»
all'unità d'Italia, poc'anzi conseguita.
E se risalgo al 1291, se penso alla prima lega de'
Cantoni primitivi che fu origine all'attuale
380
Confederazione, trovo che essa stessa fu conseguenza
della Lega lombarda, il più grande episodio del
movimento per la libertà comunale in tutta l'Europa. Dai
comuni che, sopraffatti negli altri stati, trionfarono nella
Svizzera, comincia l'evoluzione storica della nostra
costituzione politica. Vanamente pretendesi dunque di
arrestare la revisione nella forma particolare che più ci
interessa.
L'on deputato Forrer alluse alla ventura
Weltverfassung, alla costituzione universale. Ebbene, da
questa nuova Weltordnung sarà precisamente
determinata la nostra costituzione futura. Soltanto,
vorremo noi aspettare l'opera altrui per subirla, o
ameremo piuttosto esserne noi promotori, antesignani e
precursori? Rispetto le opinioni espresse; ma è mio
pensiero che noi perdiamo l'occasione per essere noi
qualche cosa, secondo il pensiero già espresso in questa
sala dall'allora presidente della Confederazione, on.
Calonder. Al cospetto dell'Europa dobbiamo affermare
non solo con le parole, ma coi fatti, che la Svizzera fu
primo esempio, primo nocciolo dell'unione de' popoli.
Io credo sia nostra missione storica il prevenire gli
eventi, che sia necessario di dare noi il buon esempio.
Signori! Ora permettetemi una critica franca allo
spirito della mozione presentata dall'on. Scherrer-
Füllemann. Prima d'ogni altra cosa, faccio omaggio al
vecchio lottatore democratico; ammiro la di lui fede
inconcussa ne' principi democratici; ammiro il suo
spirito giovanile che lo guidò incolume nell'acerbe lotte
381
da esso sostenute. Non posso però consentire nella
direzione delle sue idee: insorgo contro di esse, poichè
io credo che esse non conducano alla felicità patria, ma
bensì alla di lei ultima rovina!
L'on. Scherrer-Füllemann propone l'allargamento de'
diritti popolari, sebbene non ne dica il come. Io credo
che il popolo abbia già fin troppi diritti politici; credo,
già troppo si senta tormentato da eccessive votazioni;
nulla più manca se non l'attuazione de' desideri del
signor Bühlmann, il quale vorrebbe far marciare i
cittadini alle urne, in colonne marziali! Su questo campo
altro non consentirei, se non l'iniziativa popolare in
materia legislativa. Questa riforma, preconizzata
poc'anzi dall'on. signor consigliere federale Forrer,
prima di lasciar il suo ufficio, non dovrebbe neppure
essere discussa. A parte questo, la nazione svizzera non
ha bisogno d'un allargamento de' diritti popolari, ma
piuttosto di un risanamento delle funzioni parlamentari.
Signori! il nostro Parlamento è la negazione del
controllo parlamentare! Cos'è il nostro regolamento?
come si svolgono i rapporti tra il Parlamento ed il
Consiglio federale? qual'è la mentalità delle autorità
parlamentari ed esecutive? Per spiegarlo bisogna risalire
al 1814, quando si lottava per le costituzioni cantonali.
In tutti i cantoni nuovi, ma più particolarmente nel
Cantone Ticino, il popolo voleva mantenuto il principio
rappresentativo delle costituzioni del 1803. La
Ristaurazione europea, la Santa Alleanza, ci imposero
costituzioni reazionarie, nelle quali ogni Gran Consiglio
382
dovette accontentarsi di una forma di controllo
meramente negativa, rimanendo ogni iniziativa riservata
ai landamani ed ai rispettivi governi.
Il nostro funzionamento parlamentare corrisponde
ancora alle istituzioni del 1814, dalle quali fu ispirato; e
può paragonarsi ad un fucile a pietra focaia de' nostri
nonni del 1814. Il vero bisogno è dunque quello di
estendere i1 principio della responsabilità parlamentare.
Malaugurata fu quella legge che per alleggerire la
responsabilità ed il lavoro del Consiglio federale ha
caricato e sovraccaricato di poteri i capi-divisione, i
molteplici Abteilungschefs, non responsabili del loro
operato davanti alla sala! Fu respinta come eretica l'idea
della responsabilità dei capi-uffici davanti ai
Parlamento, ed era la sola giusta. Chiunque esercita un
potere, renda conto al Parlamento delle sue azioni! Io mi
felicito ora del precedente creato dal Consiglio federale
mediante l'instaurazione dell'ufficio dell'alimentazione
nazionale, il cui capo82 è responsabile davanti al
Parlamento. L'esperienza di questi giorni prova che la
sua responsabilità è effettiva e coopera egregiamente
davanti al pubblico, illuminandolo e calmandolo sulle
questioni più eccitanti.
Noi dobbiamo introdurre il sistema degli ordini del
giorno. La recente discussione sull'abolizione dei pieni
poteri, ne ha fornito la miglior prova. Essa suscitava in
82 Si trattava del dr. J. Käppeli, direttore della Divisione
federale dell'Agricoltnra, ora capo dei Servizi dell'Economia di
guerra.

383
me l'idea, che si volesse cercare la quadratura del
circolo. Mancando il mezzo adeguato dell'ordine del
giorno, il nostro collega Peter si vide costretto a
formulare come paragrafo di legge ciò che altro non
doveva essere se non uno stato d'animo. Questo stato
d'animo era quello di una fiducia condizionata nelle
persone del Consiglio federale; ma in pari tempo di una
viva inquietudine a riguardo degli innumerevoli uffici,
vecchi e nuovi, che da loro dipendono e dei quali essi
sono responsabili, senza che neppure ne abbiano letto le
decisioni. Come è possibile formulare questi sentimenti
in articoli di legge? Ond'io ripeto, che non sono i diritti
del popolo che hanno bisogno di riforma, bensì i nostri.
E se poi, a render più efficace questa riforma, il
Consiglio federale decretasse di demolire questa nostra
sfarzosa baracca, foss'anco con una spesa di qualche
milione, e di ricostruirla in modo che corrisponda alla
bisogna parlamentare, io, certo, ne sarei ben soddisfatto.
La seconda ragione della mozione centralista
concerne le riforme sociali. Da quanto s'intende, sembra
che esse devano ridursi all'assicurazione contro la
vecchiaia e l'invalidità. Qui pure i Ticinesi devono fare
delle riserve. I Ticinesi si trovano nella condizione
eccezionale di dover dubitare dell'utilità, di esser certi
della dannosità di un ordinamento centrale, di carattere
unitario. Noi Ticinesi siamo un popolo di emigratori, ed
al par di noi lo sono i nostri vicini, i Grigionesi. I nostri
vecchi che avranno bisogno dell'assistenza, saranno
cittadini reduci dall'estero, che all'estero avranno speso
384
tutta la loro attività, che a casse estere avranno pagato il
loro tributo d'assicurazione; i nostri invalidi saranno
reduci da un lavoro prestato in terra straniera: ecco
perchè noi rivendichiamo per noi il diritto di regolare
come ci converrà questa materia, salvo la
riorganizzazione della protezione operaia in via
internazionale.
Dopo lo sciopero generale e gli avvenimenti che gli
fecero seguito, devo meravigliarmi di assistere in questa
sala ad una curiosa podistica maratona! Tutti i capi-
partiti, i leaders delle diverse correnti politiche, dopo
un'inerzia di 30 anni, dopo aver colposamente
dimenticato le sole assicurazioni veramente necessarie,
ch'erano appunto l'invalidità e la vecchiaia, se ne
vedono divenuti ad un tratto zelanti partigiani; si odono
proclamarne l'urgenza; si affrettano a proporre centinaia
di milioni per la loro attuazione. Io vidi il
grand'industriale Sulzer votar con Platten, e ne fui
sommamente sorpreso; ma è un fatto che nella storia di
simili fenomeni se ne vedono! Senonchè i signori
colleghi socialisti mi permetteranno di rivolger loro una
domanda. Non sospettano essi gravemente che questo
dono sia un cavallo di Troia? Non mi appartiene dar loro
dei consigli; ma essi farebbero bene a rimaner fedeli alla
loro vecchia tradizione, la giusta, reclamando le riforme
sociali sul terreno internazionale. Fu vanto di questo
Parlamento d'aver già 30 anni fa iniziato l'azione
internazionale per la regolamentazione della protezione
del lavoro. Rivolgo il mio riverente saluto al vegliardo
385
colonnello Frey, già presidente di questa Camera, che
presentò nel 1880 la sua preziosa mozione. Rammento
gli onorevoli Decurtins e Favori, che poco dopo
ripresero l'iniziativa; e così pure rispettoso m'inchino
alla memoria del defunto consigliere federale Deucher,
che a dispetto della sua canizie con fervore giovanile
lottò per il conseguimento dell'idea. E l'idea sarebbe
entrata in corpo, o signori; ma fu ostacolata, voi sapete
da chi? Tutte le nazioni europee avevano fatto adesione
alla conferenza allora indetta a Berna per la protezione
operaia; tutte, meno la Germania! Il giorno stesso in cui
il Consiglio federale metteva alla posta le convocazioni,
(curiosa coincidenza!) appariva nel Reichsanzeiger un
motu proprio di Guglielmo il Vanitoso, convocante allo
stesso scopo a Berlino le nazioni che condividevano con
la Germania la «Herrschaft des Weltinarktes». L'idea
non piacque alla Francia, non garbò all'Inghilterra, che
forse dietro il velo della «Signoria dei mercati
mondiali» intravvidero la Weltherrschaft ohne Weiteres
e fece fiasco; ma intanto, l'opera svizzera fu infranta.
Dopo lo sciopero generale, piuttosto che lasciar
dilagare quella che chiamerò surenchère dei partiti in
materia di previdenza sociale, il Consiglio federale
avrebbe fatto meglio a riprendere l'antica sua attitudine
ed a rivendicare sotto ottimi auspici la sua iniziativa per
regolamentare internazionalmente le questioni
concernenti il lavoro.
Constato dunque a mio malgrado che tutti gli altri
oratori hanno opinato il rinvio delle riforme politiche
386
costituzionali; e che mi trovo solo dell'opinione opposta,
doversi risolvere prontamente tutte quelle riforme che
sono d'ordine interno e che da noi soli dipendono,
piuttosto che quelle d'ordine sociale, inquantochè la
soluzione di queste dipende dallo svolgimento dei
rapporti internazionali che si stanno preparando a Parigi,
dei quali non noi siamo i padroni, ma il mondo è
padrone.
La terza ragione che ci spinge contro la mozione
Scherrer Füllemann, sta nelle sue conseguenze d'ordine
finanziario. Essa ci porta un intero programma di
imposte dirette, di imposizioni sull'eredità, di monopoli.
Quando per la seconda volta i miei amici politici mi
offersero nell'ottobre 1914 la candidatura al Consiglio
nazionale, telegrafai al mio comitato la condizione di
poter oppormi a qualunque imposta federale diretta.
Insorgo oggi più che mai contro il programma di
imposizioni dirette dell'on. Scherrer-Füllemann, perchè
rappresenta la fine dei Cantoni. A coloro che di buona
fede contestano questa conseguenza, rispondo
invocando la testimonianza del più chiaroveggente fra
gli storici moderni, Pasquale Villari il quale
riassumendo la lotta multisecolare fra il Sacro Romano
Impero e i Principati, conclude che se fosse riescito ad
un Imperatore di imporre un tributo imperiale, l'idea
ghibellina dell'Impero avrebbe tosto trionfato ed
avrebbe dominato il mondo. Non voglio ripeter le idee
già altrove espresse, da me e da egregi colleghi, contro
nuovi monopoli. Personalmente io mi dichiaro
387
partigiano del monopolio del tabacco, perchè più facile
d'esecuzione, perchè meno in contraddizione all'idea
democratica. Anche Leroy-Beaulieu, il più eloquente
difensore delle libertà economiche, fa un'eccezione per
l'imposta sui tabacchi. Ma il popolo sa per esperienza
che ogni monopolio produce un aggravamento della
burocrazia, e da ciò è nata una invincibile repugnanza
contro il concetto generico del monopolio. Anche la
classe agricola della Svizzera tedesca è di questo
sentire. Non cercherò per colpa di chi; solo dirò che non
può essere estranea a questo stato d'animo la troppa
ricchezza di cui per tant'anni godette l'amministrazione
federale, la volgare prodigalità che ne è conseguita e gli
effetti di ciò che lo Zola chiamò: «l'argent pourrisseur!».
Noi Ticinesi non vogliamo opporci ai necessari
cespiti di entrata; ma vorremmo che ogni cespite fosse
regolato economicamente, su base analoga a quella del
monopolio degli alcool; sulla base di una fruttifera
ripartizione ai Cantoni di ogni eccedenza degli introiti
federali, pronti a rinunciare al deleterio sistema delle
sovvenzioni federali, che avvilisce la vita cantonale, che
complica le amministrazioni e conduce alla fatale
dissipazione del denaro. Nell'onorevole Scherrer-
Füllemann, come pure nei suoi colleghi della Svizzera
orientale, sono dominanti talune considerazioni che
comprendo benissimo, mettendomi al loro punto di
vista. Per loro il Cantone può avere del sopravvissuto,
perchè non vi si sente più l'entità del Comune nel senso
medio-evale, e non ha quindi più una grande importanza
388
nell'epoca attuale. Essi possono chiamare
«Kantönligeist» quello che per noi è sentimento
irreduttibile!
Richiamo quanto espresse già l'on. consigliere
federale Motta, allor che espose come nella Svizzera
italiana siano negli ultimi decenni andate scemando le
rivalità fra i partiti politici: quelle rivalità che hanno le
loro origini nelle lotte fra Guelfi e Ghibellini e che ci
divisero per più d'un secolo. Ma scomparendo le
rivalità, sorse nella gioventù moderna un senso nuovo
della nostra missione nel seno della Svizzera, della
nostra coltura e tradizione, della nostra italianità. Questo
sentimento domina oggi altissimo; ed a chi non ci vuol
comprendere, io rivolgo un appello alla ragione. Dico
che se vi fosse nella Svizzera un solo Cantone di lingua
tedesca, esso non avrebbe diversa attitudine della nostra
nel richiamar rispetto alla sua coltura e
conseguentemente della sua autonomia; e col nostro
cantone e con noi, esso pure si sentirebbe fattore
indispensabile dell'unità nazionale! Considerate le
nostre condizioni, approverete i nostri sentimenti!
Signori! Ho speso molte parole a confutazione delle
tesi dell'on. Scherrer-Füllemann; e furon forse troppe.
Permettetemi ora ch'io alcune ne aggiunga in appoggio
della mozione Musy. Mi limiterò a toccare il punto della
pacificazione confessionale, dal punto di vista liberale.
L'on. Musy ha parlato da cattolico; io, che non sono
ascritto a veruna confessione, io, che mi professo
fautore della libertà di coscienza, esprimerò la mia
389
opinione dal punto di vista civile e liberale. L'on. Forrer
disse di veder l'origine degli articoli confessionali nel
Kulturkampf. No, no; il Kulturkampf è un piccolo
episodio d'una «querelle de famille» nata in Germania,
all'epoca di Bismarck; l'origine ne va cercata molto più
lontano! Sono essi una conseguenza del grande conflitto
che si svolse sulla nostra terra per la Riforma e la
Controriforma. Questo acerbo conflitto fu causa, finora,
che la gioventù delle nostre scuole non potesse ricevere
un'educazione civica comune. Nella discordia che n'è
risultata soffiarono le influenze straniere: gli interessi
della Spagna in Italia, quelli della Francia in Germania,
quelli dell'Austria in Lombardia, sfruttarono le nostre
divisioni a loro profitto ed eccitarono gli uni contro gli
altri. Ma la civiltà cammina! Il mondo non s'arresta!
Presso i pensatori seri ed onesti l'idea si è fatta strada
della conciliazione nella libertà! Questa conciliazione è
possibile, perchè la Riforma e la Controriforma sono
pagine gloriose della storia svizzera e la nuova scuola
deve circondarle di una mutua stima. Il cattolico che
frequenta le scuole non deve più sentirsi offesa la
coscienza nell'apologia della Riforma, nè il protestante
deve ignorare l'indirizzo speciale che la Controriforma
ha preso presso i suoi confederati! Tanto la Riforma
quanto la Controriforma sono splendide pagine della
storia del popolo svizzero; storia che si svolse in modo
diverso da tutti i paesi del mondo. Fu Calvino che
proclamò il principio della democrazia religiosa di
contro al principio monarchico della chiesa di Lutero;
390
ed è da Calvino e da Zwingli che ha le sue lontane
origini la rivoluzione francese ed americana. Ciò è
ormai cosa ammessa; ma meno noto è lo spirito
democratico che rimase nella chiesa cattolica presso i
vecchi Cantoni svizzeri, i quali si fecero rappresentare
al Concilio di Trento non da un cardinale, non da un
vescovo, non da un abate, ma da un laico, dal cavaliere
Lüssy! Sul terreno democratico la chiesa cattolica e la
chiesa protestante devono poter incontrarsi nella scuola
senza reciproche diffidenze. Quel grande periodo storico
le cui lotte, le cui rivalità si svolgono intorno ad un alto
fine morale, hanno per armi il libro e la scuola e sono
condotte con spirito laicale e repubblicano, proprio
mentre l'Europa cadeva sotto il dominio dell'assolutismo
e della ragion di stato, vale forse più di ogni altro. Il loro
valore educativo è incontestabile, poichè uno spirito
nuovo ne permette l'uso. I cattolici svizzeri ci tendono la
mano accettando il principio della libertà, di coscienza e
di culto: e ciò facendo essi dànno un esempio
memorabile anche alle altre nazioni. Certo, ciò esige da
parte loro maggior coraggio, che da parte nostra il
rinunciare agli articoli eccezionali sui gesuiti e sui
conventi. Articoli dei quali sarebbe inutile esagerare il
valore difensivo; imperocchè gli ordini religiosi si
modificano e si trasformano continuamente secondo le
condizioni del secolo. Quelli diventati inutili
scompaiono o vivono di scarsa vita vegetativa; ma altri
ne sorgono secondo i bisogni nuovi. Ed ora gli ordini
propriamente detti hanno dato luogo alle congregazioni,
391
che dànno i nuovi eserciti alla chiesa militante, entrano
dappertutto, manifestano un'attività sorprendente e
rendono del tutto illusoria la soppressione dei conventi e
dei gesuiti. La congregazione delle Teodosiane in
ispecie, fondazione e vanto dei cattolici svizzeri, si
estende sempre più; ne credo possa venire in mente ad
alcuno di proporne l'espulsione, la quale ripugnerebbe ai
principi del nostro diritto pubblico e privato. Qualunque
cosa si volesse fare per combatterle o sopprimerle, le
congregazioni risorgerebbero per fede cattolica sotto
forme impreviste. Vero è che le lotte fra lo Stato e la
Chiesa non potranno mai cessare completamente.
Sedate oggi, risorgeranno per altre ragioni che sono
insite alla loro concorrenza nel campo spirituale; ma il
terreno giuridico che le contenga deve essere quello
della libertà e della separazione. Anche nel Ticino i
cattolici s'avviano verso la separazione della Chiesa
dallo Stato, la cui effettuazione è da noi più facile che in
altri paesi. I cattolici non fanno altrove troppo conto
della separazione, perchè, com'essi dicono, non
vogliono sia fatta coi grimaldelli; ma queste
preoccupazioni non ci toccano. Noi possiamo arrivare
alla separazione sulla base del codice civile e del
settimo comandamento; ed è per questa via che essa può
e deve arrivare ad una pacificazione delle coscienze.
Passo ora al punto de' problemi sociali. Io dico che
questi problemi non vanno risolti dal punto di vista
esclusivo delle regioni industriali come si è cercato
finora, ma bensì nel loro complesso. È un errore
392
profondo quello di metterci continuamente sott'occhio le
scene della vita cittadina, dove è agglomerata una
popolazione operaia ed industriale, dimenticando la vita
della campagna, più povera, particolarmente quella della
montagna! Io scorgo in questa sala l'on. de Montenach,
e ne profitto per rendere omaggio allo splendido suo
libro «Le Village», nel quale ha difeso la causa del
villaggio contro le cause di decadenza che lo
minacciano!
Colleghi del partito socialista! io vi scongiuro che
apriate gli occhi! Voi credete di potervi disinteressare
della campagna. Voi considerate il piccolo proprietario
del villaggio come un ostacolo, se non come un nemico;
eppure se continuerete ad accumular vantaggi alla città,
se continuerete a colmar di favori gli operai industriali,
voi provocherete sempre più l'emigrazione dalla
campagna verso la città, di uomini e donne che
accorrono ad offrire lavoro dove credono di star meglio,
producendo cosi una sopra-offerta di mano d'opera, un
avvilimento del lavoro, una frequenza di disoccupazione
tali da annullare l'effetto di tutte le vostre conquiste!
Non è alla classe operaia sola che lo Stato deve pensare,
non per essa sola deve provvedere; ma bensì al
fondamentale equilibrio della popolazione cittadina e
campagnuola, industriale e agricola.
Signori! Voi vi sentite colpiti dallo spettacolo di
profonde miserie da voi viste in città, nelle abitazioni di
operai senza lavoro; ma più triste spettacolo è quello del
villaggio morto, della casa morta! spettacolo troppo
393
comune alle apriche valli del mio Ticino e del vicino
Grigioni e in tutte le regioni dove la natura è povera!
V'assicuro che dura cosa è per colui che torna al paese
dove ha vissuto i giorni della sua gioventù e cerca le
case degli amici, dei compagni di scuola, il trovarle
chiuse, disabitate, deserte, coi tetti sfondati! Ma nulla
eguaglia la tristezza del villaggio morto. Unica, ancor
incolume superstite la chiesa; scomparso l'ultimo
abitante, andato alla città, andato in America, andato
incontro a tutte le illusioni della fallace chimera: non
più piccolo proprietario pacifico, contento; ma
proletario, bracciante, esposto a tutti i rischi della
disoccupazione! A Voi parlo, onorevole consigliere
federale Calonder che rappresentate qui non già un
semplice potere esecutivo, ma come la costituzione
insegna, un potere direttivo: nel Vostro canton Grigioni
sono le stesse scene, le stesse tristezze! anche là case
cadenti, villaggi deserti; ed è in voi personalmente che
mi confido.
Senonchè le grandi riforme non panno esser compiute
dalla nostra legislatura moribonda. Una Assemblea
costituente non è prevista dalla Costituzione; ma vi può
provvedere una speciale legislatura eletta sulla
«piattaforma» della riforma costituzionale. Ed allora
entrino gli elementi nuovi e giovani in questo venerando
consesso! Se io volgo attorno lo sguardo, purtroppo io
scorgo che qua dentro v'è troppa arteriosclerosi. Mi son
preso il divertimento di stabilire una media dell'età dei
diversi deputati; con sgomento ho constatato che l'età
394
media dei deputati di lingua tedesca oltrepassa gli anni
cinquantacinque, compresivi i socialisti, fra i quali i
giovani abbondano! Apriamo dunque le porte a nuovi
elementi, tanto più che le idee politiche non son più
agitate nei soli parlamenti, ma fuori di essi; chi più
influì sulla formazione delle idee negli ultimi tempi di
guerra, furono uomini fuori di questa assemblea. Si
costituisca la nuova deputazione, con tutti i fattori della
nuova coscienza pubblica; e sotto l'egida della
proporzionale si raccolgano in questa sala tutte le
energie del popolo svizzero!
Chiudo plaudendo al pensiero dell'on. Forrer, che
questo ciclo di lavori sia ispirato a quel principio che fu
degli avi, che sarà de' figli: la fiducia nella democrazia!
Fu la democrazia che vinse le più grandi battaglie della
storia; troni millennari crollarono, e repubbliche furono
proclamate sulle loro rovine; come mai si potrebbe
essere ancora titubanti nella fede democratica? Diciamo
francamente che questa fede in molti era scossa! Sentii
dieci anni or sono parecchi illustri colleghi scossi nella
fede democratica, perchè la Germania e l'Austria
avevano adottato riforme sociali sorpassanti assai le
istituzioni analoghe della Svizzera; e dubitavano esser
ciò una prova dell'inferiorità delle organizzazioni
democratiche in confronto alla volontà creatrice di un
intelligente imperio. Ma questo stato di coscienza, io
spero che sarà scomparso per sempre. Gli avvenimenti
delle ultime ore avranno aperto gli occhi ai ciechi,
perchè anche i ciechi devono oggi vedere che le opere
395
sociali compiute senza la cooperazione dei popoli
condussero non già al trionfo, ma bensì alla perdita dei
popoli cui furono quasi imposte!
È in una rinnovata coscienza democratica – e non
altrimenti – che la Svizzera troverà la forza di superare
la crisi attuale!

396
IV.
Le relazioni italo-svizzere
in un discorso dell'on. Mussolini 83

«Sarebbe un errore – così l'on. Bertoni in una


intervista concessa, nel giugno 1928, alla Stampa Media
di Berna – di considerare le dichiarazioni di Mussolini a
riguardo della Svizzera come una forma banale di
politesse internazionale. Ciò che egli ha detto
corrisponde effettivamente a ciò che in Italia si è sempre
pensato nelle alte sfere, specialmente nei circoli militari,
anche quando per convenienze momentanee di politica
interna si diceva o si lasciava dire il contrario.
Per le masse italiane la catena delle Alpi forma la
difesa ed il confine naturale dell'Italia, e questa idea è
sempre espressa dai poeti italiani risalendo fino al
Petrarca (XIV secolo). Ma una catena non è una difesa
sufficiente se non si possiede anche l'altro versante delle
montagne.
Per l'Italia, non essendo possibile possedere il
versante settentrionale, è necessario almeno che questo
sia reso neutrale. Perciò Napoleone I quando acquistò il
breve Regno dell'Italia settentrionale pensò tosto a
riorganizzare la Svizzera con l'Atto di Mediazione, poi

83 Dal Dovere del 14 giugno 1928.

397
fece almeno due tentativi diplomatici per aggregare alla
Svizzera il Tirolo. Con questo mezzo voleva estendere
la neutralizzazione delle Alpi fino alle province venete.
Lo stesso Giulio Cesare si vantava di avere fondato
l'Helvetia per impedire che i Germani passassero il
Reno.
La stessa idea ebbe costantemente Mazzini nel cui
programma stava l'ingrandimento territoriale della
Svizzera aggregandovi non solo il Tirolo, ma anche la
Savoia. Nello stesso tempo egli spingeva la Svizzera
alla revisione costituzionale sia nel 1832 che nel 1848.
La «Jeune Suisse» era per lui una condizione di
esistenza della «Giovane Italia».
Infatti nè la guerra per l'Indipendenza italiana del
1848 nè quelle del 1859 e del 1866 sarebbero state
possibili se l'Austria, o eventuali suoi alleati, avessero
avuto il passo libero per lo Spluga, il San Bernardino, il
Lucomagno ed il Gottardo.
Al giorno d'oggi la situazione non è cambiata, anzi si
è aggravata per l'Italia. Tutte le sue grandi industrie, o
quasi, si trovano a nord del Po, ai piedi delle Alpi, da
Torino fino a Mestre Tutte le forze idrauliche che
attivano queste industrie scendono dalle Alpi. Gli
aeroplani hanno reso la difesa delle Alpi ancora più
difficile. Mussolini perciò spinge l'Italia a una potente
difesa aerea (tiene egli personalmente il Ministero
dell'Aeronautica), ma nello stesso tempo desidera
logicamente l'amicizia della Svizzera, non solo, ma
anche di una Svizzera politicamente sana. Non voglio
398
garantire che ciò sia veramente nelle sue simpatie
personali, ma è nel suo interesse.
Del resto già prima del regime fascista, ma dopo la
guerra, ho avuto occasione di parlare, durante le mie
ferie in Italia, con diverse persone eminenti, fra cui due
generali, e tutti mi hanno confermato più o meno le
stesse opinioni sui rapporti fra la Svizzera e l'Italia. Un
generale in ritiro mi disse testualmente che se l'Europa
intiera fosse contro l'integrità della Svizzera l'Italia
avrebbe dovuto difenderla».

399
V.
Sul nuovo trattato con l'Italia84

L'atto politico che siamo oggi chiamati a compiere è


già stato compiuto dall'altro ramo del nostro Parlamento
(il Consiglio nazionale) con la procedura sommaria
degli atti di trafila.
È però opportuno che il nostro Consiglio, il quale per
sua natura è meglio indicato a vagliare questo genere di
cose, vi dedichi la massima attenzione e compia il rito
che la Costituzione gli affida con l'adeguata solennità
d'esame.
Bisogna anzitutto considerare la parte
importantissima che hanno le convenzioni internazionali
per il diritto pubblico svizzero. Storicamente esse hanno
preceduto la stessa Costituzione federale in tutto quanto
concerne le relazioni con l'estero. Logicamente queste
relazioni dettano le premesse della nostra stessa vita
interiore; ciò che si è veduto ad ogni rivolgimento
europeo, quali furono la guerra dei trent'anni, la
rivoluzione francese e napoleonica, poscia la grande
guerra mondiale.
Oggi ancora, nella generale crisi economica dei
continenti, la difesa di quel nostro grande patrimonio
84 Relazione presentata dall'on. Bertoni al Consiglio degli
Stati, nel dicembre del 1932.

400
morale, economico ed industriale che la Svizzera aveva
saputo accumulare con oltre un secolo di nobili sforzi,
dipende nella massima parte dai nostri rapporti con
l'estero, dalla tregua delle armi non solo, ma anche dalla
tregua economica, dall'equilibrio morale delle Nazioni
confinanti.
Ancora di questi giorni le più autorevoli voci sorte a
scongiurare un nuovo conflitto generale hanno
affermato che la premessa principale della pace è
l'equilibrio dell'Europa centrale. Ora, di questa Europa
centrale la Svizzera è una parte costitutiva e la politica
svizzera necessariamente legata a quella delle Nazioni
che ad essa confinano.
Fra queste nazioni l'Italia; semplice espressione
geografica 75 anni or sono, grande potenza al giorno
d'oggi, dalla cui fortuna sul Mediterraneo e nei Paesi
balcanici e danubiani può dipendere l'avvenire della
civiltà.
È appunto la maturazione di questa «terza Italia»,
come suona la locuzione accettata, che nello scorso
secolo ha avuto la parte preponderante nelle cure
politiche dei nostri maggiori. Il vicereame d'Italia,
l'occupazione del territorio ticinese, il Regno lombardo-
veneto e le sue pretese territoriali, le guerre fra l'Austria
ed il Regno di Sardegna, l'attività politica dei rifugiati,
furono una ricorrente minaccia alla pace interna ed
esterna della Svizzera.
L'unità d'Italia, poscia conseguita dal 1859 al 1921, fu
per il nostro paese una progressiva garanzia di quello
401
stato giuridico e di quella neutralità che i trattati di
Vienna e di Versaglia hanno riconosciuto e confermato.
Questa la verità storicamente fondamentale.
Se nel decorso di questi eventi qualche voce, qualche
accento ha potuto stuonare a rare intermittenze, non è
cosa che ci debba impedire la visione delle linee
maestre. In tutti i tempi, oggi più che mai, da paese a
paese succedono fenomeni di endosmosi ed esosmosi
dovuti all'attività privata, all'entusiasmo degli zelatori,
all'incomprensione degli incompetenti. Queste influenze
ed affluenze possono talvolta diventare pericolose (e
l'Europa d'oggi lo sa) ma per questo appunto sono
diventati più preziosi e più efficaci questi singolari
trattati che consacrano e sigillano i rapporti di lealtà da
Stato a Stato. Sul valore di questi trattati si aveva il
diritto, ed oseremmo dire il dovere, di essere scettici
quando ancora erano di stile le riserve anteriori alla S. d.
N., riserve a riguardo dei casi che compromettessero
l'onore od il prestigio di ciascuna delle nazioni
contraenti, od i loro interessi vitali. Fu appunto
nell'atmosfera della Società delle Nazioni, svanita coi
primi entusiasmi l'illusione di una idillica pace perpetua,
che maturò l'idea di consolidare l'organismo
internazionale con dei patti speciali da nazione a
nazione dove fossero eliminate quelle troppo elastiche
riserve e dove l'impegno di sottoporre ogni conflitto ad
una procedura di conciliazione e d'arbitrato assumesse,
per la stessa sua chiarezza impegnativa, un carattere più
efficace.
402
Ora il nostro trattato con l'Italia, del 1924, è, come
avverte il messaggio del 30 ottobre, «una pietra miliare
nella storia dell'arbitrato internazionale e una grande
data nella storia delle relazioni italo-svizzere».
Questo trattato, che era stato concluso per dieci anni,
con la clausola della tacita prorogazione d'anni cinque in
anni cinque, dev'essere ora rinnovato per altri dieci anni;
e questo avviene non già a nostra umile richiesta, ma
per iniziativa del Governo italiano, iniziativa che volle
precorrere i nostri desideri.
In un clima storico come l'attuale, in cui tutta
l'Europa è piena di manifestazioni di nervosità e di
sfiducia, è comprensibile che qua e là possa sorgere
qualche accento di pessimismo a chiedere dove stiano le
garanzie. È nostro dovere di politica interna il
rispondere subito che per noi la garanzia della lealtà
presente e futura della politica italiana, è la stessa storia
d'Italia, è l'interesse della nazione italiana non già
effimero ma permanente.
Da Giulio Cesare a Napoleone re d'Italia, da Cavour a
Mazzini i lungimiranti della politica peninsulare videro
la necessità storica che la cerchia delle Alpi fosse
rinforzata dalla maggiore possibile neutralità delle
regioni alpine. Un tale concetto non è superato, ma
confermato in un'epoca come la nostra dove il concetto
spirituale della nazione sembra voler degenerare in un
razzismo mistico e materialistico a un tempo il quale
dovrebbe concludere all'unità statale di ottanta milioni
di germanici e di oltre cento milioni di slavi. Lo spirito
403
della coltura italiana, dalla romanità del potere civile
alla cattolicità della Chiesa, ripugna alla classificazione
delle umane genti nella serie delle razze umane.
Che l'Italia nella rinnovazione del trattato non abbia
inteso compiere un semplice atto di formale cortesia, ma
un'affermazione di sistema è provato dal discorso che
subito dopo tenne a Milano (7 ottobre 1934) il Capo
dello Stato dicendo: «I nostri rapporti con la Svizzera
sono ottimi e tali rimarranno non solo nei prossimi dieci
anni ma per un periodo che si può prevedere di gran
lunga maggiore». Queste parole sono dette in nome di
una nazione che non vuole «estraniarsi dal corso della
storia europea».
A quelle parole seguiva un periodo che ha potuto
suscitare qualche inquietudine in talune coscienze male
illuminate:
«Noi desideriamo soltanto che sia conservata e
potenziata la italianità del Ticino e ciò non soltanto
nell'interesse nostro, ma soprattutto nell'interesse e per
l'avvenire della Repubblica Svizzera». Orbene, queste
parole noi dobbiamo interpretarle come una garanzia
per noi, la migliore delle garanzie, perchè esse
esprimono chiaramente che a riguardo del Ticino l'Italia
non chiede altro se non quello che noi abbiamo sempre
voluto, ed ancora di più. È l'Italia che afferma nel modo
più categorico che la Svizzera deve rimanere nella sua
integrale unità, così com'è e non come altri potrebbe
agognare.

404
Se la difesa dell'italianità del Ticino ha dato luogo a
dissensi e malintesi ciò sarà avvenuto da parte di private
persone od organizzazioni: lo zelo degli officiosi è
talvolta molesto in questo ordine di cose (e l'Europa
d'oggi lo sa) ma per questo appunto è una garanzia per
noi che la causa sia assunta da chi solo la può
conoscere.
Il che vuol dire che tocca anche alla Svizzera
allemannica il contribuire al comune intento.

Il Consiglio degli Stati ratificava all'unanimità la


Convenzione: la ratifica del Consiglio Nazionale aveva
preceduto.

***
Nel "Dovere" del 3 gennaio 1935 l'on. Bertoni faceva
seguire, al testo della sua relazione, la nota che qui
riproduciamo:
«Quanto ho letto in veste ufficiale non modifica
alcunchè l'atteggiamento che io ho sempre preso nei
rapporti con l'Italia. Potrei anzi citare il testo preciso di
un ordine del giorno di chiarificazione che alcuni anni
or sono io proponevo al Comitato del mio partito, come
direttiva alla stampa a prevenire i probabili abusi che
nella nostra politica interna si sarebbe potuto fare
magari ad istigazione di persone straniere, del nome
augusto dell'Italia e dei suoi derivati. Intendevo in
ispecie prevenire lo zelo dei faciloni e degli insipienti.

405
L'interessamento officioso del Governo italiano al
mantenimento dell'italianità del Ticino è la conseguenza
logica dell'importanza grande che lo stesso tema è
andato prendendo in questi ultimi anni, nelle discussioni
politiche ticinesi. A torto od a ragione sono stati messi
in causa i principi sanzionati dal Trattato di Versaglia a
protezione delle minoranze. Non occorreva altro per
legittimare la dichiarazione di Mussolini nel noto
discorso di Milano.
Tanto meglio! Giova in queste cose sapere con chi si
tratta e con chi si parla. Il signor Motta, nella sua
dichiarazione largamente diffusa in tutta la grande
stampa italiana, ha dato a Mussolini tutte le
assicurazioni che poteva desiderare. Il colloquio potrà
continuare.
Ciò non impedirà, nè si intende impedire che vi siano
di quelli che vogliono saperla più lunga di Mussolini e
di Motta messi insieme. La nostra costituzione
garantisce loro questo sacrosanto diritto.

406
VI.
Il Codice penale federale85

L'argomento dell'odierno dibattito è di tanta


importanza per la Svizzera, e per il Cantone che ho
l'onore di qui rappresentare, che dare il mio voto senza
dirne le ragioni mi parrebbe mancamento ad un dovere
civico86. Ciò tanto più dopo la discussione che ha dato
luogo al voto del Consiglio nazionale e la parte che vi
hanno preso, nell'uno e nell'altro senso, i deputati
ticinesi a quella Camera.
Questo mio voto sarà per intanto favorevole alla presa
in considerazione del progetto di codice penale, senza
prendere alcun impegno per la votazione definitiva la
quale avverrà solo sul testo che sarà per uscire dalle
deliberazioni delle due Camere; ed in ciò sono lieto di
attestare l'accordo con l'altro deputato del mio Cantone.
I motivi comuni che ci inducono a questo voto
preliminare non sono guari diversi da quelli che qui ha
espresso con l'autorità del suo nome e l'eloquenza della
sua parola il collega vallesano signor Evequoz.
Interprete della parte latina del suo Cantone, egli ha

85 Dichiarazione fatta dall'on. Bertoni al Consiglio degli Stati


in occasione del dibattito sull'entrata in materia relativa al
disegno di nuovo Codice penale svizzero.
86 Vedi Dovere del 28 marzo 1931.

407
detto tutto quanto si poteva dire sul lato politico di una
legge che, come il codice penale, tocca a tutte le
passioni e a tutte le debolezze, a tutti i vizi e a tutte le
virtù; ed in ciò siamo con lui consenzienti. Egli ha detto
altresì che il nostro voto d'oggi non è vincolato da
quello dato dal popolo or sono quasi sette lustri, che
quel voto non ha ipotecato l'avvenire, che ogni
generazione può avere un altro carattere ed un'altra
convinzione, ed in ciò pure consentiamo, non meno che
nella sua finale conclusione che se il principio della
unificazione fosse destinato a fallire nell'ultima prova,
non per questo il nostro lavoro diventerebbe inutile
poichè, caduto il concetto dell'unificazione, rimarrebbe
acquisita la prova della relativa facilità della
concordanza. Ogni cantone dovrebbe dar mano, per
necessità di cose ad una codificazione per conto proprio,
servendosi degli studi già fatti e dell'ampio materiale
raccolto.
Come cattolico egli ha potuto constatare quanto
ormai risulta dai verbali dell'altra Camera e dai nostri
lavori commissionali, che le divergenze determinate
dalla diversa fede religiosa sono poche e non
insormontabili, minori in ogni caso di quanto si potesse
temere prima dei lavori in comune, cosicchè anche i
codici cantonali che ne dovessero risultare
condurrebbero ad una certa unità di fatto ed alla
concordanza sopra i principi più essenziali, ciò che
anche noi osiamo sperare.

408
Qui potrebbe fermarsi il mio dire se nella mia qualità
di membro della commissione non mi sentissi spinto,
come dicevo poc'anzi, a rispondere alle critiche che
furono mosse ad un mio collega ticinese nell'altro ramo
del Parlamento, riprese poscia nella pubblica stampa,
critiche rivolte all'idea stessa di un'unità spirituale della
legislazione svizzera.
Fu detto da alcuni che la legislazione penale è così
intimamente collegata ai sentimenti ed ai caratteri etici
di una stirpe, o di una civiltà, da non potersi unificare
senza sacrificio dell'animo e della stessa dignità di una
minoranza etnica di fronte ad una etnica maggioranza.
A questa concezione unilaterale delle antitesi umane
io potrei contrapporre l'esempio storico della legge
penale di Carlo V che fu estesa a tutti i paesi della
controriforma, e più ancora l'esempio della legislazione
civile penale e processuale di Napoleone la quale,
imposta con le armi a mezza Europa, vi rimase dopo che
le armi fallirono, ebbe grandissima ripercussione in
Germania ed è ancora, in gran parte, la base della
legislazione italiana. Nè sarebbe ironia il richiamare
come il diritto romano, abrogato in Francia ed in Italia,
rimase in vigore solo in Germania, come diritto
completivo, fino al principio di questo secolo.
Ma più mi preme incalzare l'eresia razzistica sul
campo del diritto penale richiamando che il giure
punitivo tende da assai più di un secolo a diventare una
disciplina razionale, superando la voce dei sentimenti
regionali. La nostra italianità non dovrebbe impedirci di
409
vedere che questo movimento è cominciato appunto in
Italia per merito di quel Beccaria, di quel Filangeri e di
quel Romagnosi che pur essendo superati come da
alcuni italianissimi si pretende, sono ancora qualche
cosa nella storia del pensiero umano.
Il razionalismo del diritto penale conquistò tutta
l'Europa in breve volgere di tempo. Ma perchè il grande
Carrara ad ogni capitolo cita la dottrina olandese e
quella germanica se non fosse per la stretta connessione
che il diritto penale ha (assai più che coi sentimenti di
razza), con la filosofia, non fosse che per la questione
fondamentale della responsabilità, la quale, forse
insolubile in assoluto, ha diviso i teologi della cristianità
e i filosofi della rinascenza, non già per le loro origini
greche, o latine o africane, o iberiche, galliche o
germaniche, ma secondo poche ed eterne divergenze le
quali non dipendono dal clima, nè dalla stirpe, nè, direi
quasi, dal tempo, bensì da quell'eterno carducciano
«...respiro che dalla terra al ciel sale e discende»
e che trascende da tutte le contingenze di tempo e di
luogo.
E quando la filosofia speculativa cessò il suo imperio
sulla scienza sperimentale, è ancora in Italia che nacque
la scuola positiva del diritto penale. E chi la raccolse?
Mentre essa era volontariamente esclusa dalla
elaborazione del codice Zanardelli, mentre appena si
concesse una libera-docenza al Maino a Pavia, ben
trenta cattedre germaniche l'insegnarono. Non era il

410
nostro prof. Stoos, l'autore del nostro primo
avanprogetto, un fervente assertore di quella teoria la
quale ancor oggi, a giudizio dei nostri colleghi latini
Savoy e Evequoz, compenetra troppo il progetto
attuale?
Conviene dunque ammettere che le differenze da
popolo a popolo, se sono insuperabili in uno stadio
inferiore della civiltà, si correggono da sole alla luce
dell'incivilimento; il quale non è conterminato dai monti
nè dai mari, ma dalle scoperte e dall'umana esperienza.
L'incivilimento consente, è vero, una diversa concezione
del bene e del male, ma questa diversità è molto
maggiore fra partiti e partiti, fra scuole ed altre scuole
filosofiche, che non da provincia a provincia, come testè
avvertiva il nostro collega Schöpfer.
Certo si può sostenere, senza uscire dall'argomento,
che ogni popolo ha certe sue speciali tendenze, certe
forme proprie di delinquenza. Ma è questo un motivo
perchè sia la delinquenza che determina la legge, o non
piuttosto la legge è fatta per reprimere la delinquenza
dovunque si manifesti? A me vuol sembrare che la
società moderna offre piuttosto lo spettacolo
preoccupante della internazionalizzazione della
delinquenza, in tutte le sue forme: delinquenza contro lo
Stato, contro la famiglia, contro la proprietà ed il buon
costume: delinquenza la cui repressione richiede
piuttosto degli accordi internazionali che delle misure
contradditorie fra provincia e provincia di un medesimo
Stato.
411
Sarà vero che un'idea latina possa essere male
interpretata da un cervello tedesco. C'è chi lo dice con
indiscutibile autorità. Ma è questo un motivo per
rinunciare per sempre allo sforzo per la reciproca
comprensione? Consideriamo allora il mito della torre
di Babele per un'istigazione divina alla inimicizia degli
uomini affinchè la guerra di Caino e di Abele non si
estingua mai!
Stranissima cosa! Fra gli assertori del razzismo
contemporaneo vi sono diversi cattolici e protestanti,
magari dei sacerdoti che impartiscono la comunione ai
fedeli. Il misticismo linguistico, per servirmi della bella
espressione di Réné Gillouin, abbonda tra i credenti,
Ora io posso benissimo spiegarmi queste teorie fra i
darvinisti. Quando io seguiva a Ginevra le lezioni di
Carlo Vogt sull'origine delle specie si discutevano
ancora a Berlino le condizioni della pace fra la Russia e
la Turchia e fu allora che un camerata di spirito, credo si
chiamasse Emilio Young, mi disse con una punta di
ironia: «Jamais les hommes ne parviendront à
s'entendre puisqu'ils déscendent de singes de différentes
espèces».
Ma che l'intesa sulle cose spirituali possa essere
negata da assertori del Nuovo testamento, da uomini che
credono alla discesa dello Spirito santo sugli apostoli
affinchè predicassero il Verbo a tutte le genti (e da quel
momento parlarono tutte le lingue, il greco, il latino e il
barbaro, come suona il canto liturgico) è cosa che
eccede ogni mia facoltà di discernimento.
412
***
Ultima obbiezione è quella del principio politico del
federalismo. Si sente dire che la centralizzazione ha già
raggiunto l'estremo limite tollerabile e si leggono
formole sempliciste come questa: «È giunto il tempo di
rispondere con un no secco a qualsiasi nuova legge
federale». Questo stato d'animo è forse comprensibile,
ma non c'è al mondo nulla di più sterile che la teoria del
no secco in serie dozzinale. La legge dell'evoluzione la
esclude a priori. Un albero che non mette più rami fra
poco non metterà più foglie e sarà morto! Stiamo
facendo una legge sugli automobili; si vorrà con un no
secco che la Svizzera abbia 25 legislazioni sopra una
simile materia? Sarebbe un modo serio di comprendere
il federalismo?
Nello stesso ordine di idee c'è chi si compiace a
screditare il Parlamento e le stesse funzioni parlamentari
come cose ridicole e goffe. Chi scrive in quel modo
potrà credersi onestamente conservatore, potrà illudersi
di lavorare per l'equilibrio civile ed anche un pochino
per la reazione: ma nessuno lo applaudirà più
sinceramente che l'anarchico lieto di sentire da un
arciborghese la condanna di tutto il regime della
borghesia.
Io sono federalista convinto perchè il Cantone
svizzero, evoluzione dell'antico comune urbano e del
comune rustico, fonte ed onore del Rinascimento
italiano, è la sola forma di governo che convenga alla

413
struttura orografica del nostro paese, la sola che
risponda ad una antichissima tradizione, mentre le
grandi nazioni linguistiche prese ad una ad una, ebbre di
dissolvimento, sembrano rinnegare tutte quante le
tradizioni loro. Lo sono oggi più che mai perchè in
diversi casi, per errore o per necessità, si è abusato
dell'accentramento. Ma appunto per il buon equilibrio
fra le forze centrifughe e le forze centripete della
nazione, desidero ed invoco che in tema di federalismo
si metta fine alle formule verbali e si faccia ormai
questione di cose più che di parole.
È inutile pascersi di illusioni. Nel grande pubblico i
partiti storici già da qualche decennio si regolano sopra
formole le quali hanno corrisposto ad idee e sentimenti
che sono sorpassati; il partito socialista incespica ad
ogni passo in qualche suo dogma d'importazione
straniera; quanto agli intellettuali della borghesia (les
clercs di Lucien Benda) quelli che si piccano di fare la
lezione dall'alto e di fare il processo alla democrazia,
essi ostentano per isnobismo di ispirarsi alla poesia dei
royalistes francesi ed alla prosa degli imperialisti
prussiani.
È tempo di ritemprarsi nelle onde fresche della nostra
tradizione, di rituffarsi nei lavacri dei nostri fiumi
montani. Noi non abbiamo bisogno che i ticinesi siano
più italiani, ne i romandi più francesi di quel che sono,
così come non abbiamo bisogno che i nostri confederati
allemanni si facciano dell'università germanica un
feticcio. La protezione delle minoranze, secondo i
414
principi del trattato di Versaglia è a nostro riguardo uno
sproposito. Il diritto alla lingua materna è stato sempre
rigorosamente praticato anche nei secoli addietro
quando eravamo divisi in sudditi e sovrani.
La questione che oggi deve preoccuparci è tutt'altra.
Ciò che importa è che la nostra secolare democrazia
paesana non venga inquinata ad imitazione delle pseudo
democrazie dei grandi Stati dove è la capitale, la
metropoli, che domina la provincia, dove l'irrequietezza
e mutabilità delle masse, tanto borghesi che operaie fa
vivere lo Stato in una perpetua nervosità, in una
continua minaccia di crisi nevrasteniche.
Il nostro pericolo non è l'imbastardimento della
lingua (abbiamo scuole a dovizia per salvarci!), ma
l'imbastardimento dei costumi in quanto l'uomo del
villaggio si vergogni d'essere campagnolo, ed il
contadino voglia vivere alla maniera dei signori della
città.
Politicamente, la degenerazione della nostra
democrazia è un pericolo in quanto il nostro diritto
pubblico cessi di essere basato sul cittadino per basarsi
sul funzionario.
Sotto questo riguardo, che è l'essenziale, noi abbiamo
visto, chi sa quante volte, il trionfo della burocrazia
sulla semplicità delle nostre istituzioni, senza che i
federalisti se la pigliassero a cuore e magari col loro
voto. Tutti riconoscono che le diverse centralizzazioni
hanno condotto alla creazione di un nugolo di impiegati,
alla creazione di una classe che un giorno potrà credersi
415
padrona dello Stato; ma poi i cantoni hanno fatto lo
stesso in casa loro, con la cooperazione dei federalisti
poco meno che dei socialisti. Perfino la scuola popolare
viene sempre più burocratizzata. Questo sì che è un
pericolo!
Se il federalismo vuole vivere deve uscire dalle sue
formule, immiserite dai luoghi comuni (dai clichés,
diceva stamane il collega Béguin), dalle formule
negative specialmente, le quali finiscono sempre con
un'abdicazione. Dal 1814 in poi tutte le centralizzazioni
hanno proceduto da qualche legittimo motivo, ma ci si è
abituati tacitamente all'idea che l'accentramento, una
volta fatto, non possa più tornare indietro, se anche è
diventato inutile, se anche è diventato dannoso. Il caso
in cui i federalisti declamatori abbiano domandato la
restituzione di una sola competenza, per piccola che
fosse, non si è mai avverato. Invece è frequente che si
invochi il federalismo anche là dove non giova.
Mi riassumo: L'unificazione del diritto penale non è
una necessità politica, nè un dovere morale, ma non
sarebbe nè una calamità, nè un danno. A norma delle
circostanze può essere cosa buona e desiderabile.
Necessario invece è lo studio del progetto, la sua
discussione fino all'ultimo paragrafo come se dovesse
entrare in vigore affinchè ne risulti la somma delle idee
che si ritengono acquisite e delle divergenze che ancora
sono di fronte.
Tali questioni non devono essere esaminate con
preconcetti linguistici o di razza, ma come problemi
416
scientifici, tenuto largo conto dei sentimenti i quali non
sempre si sottomettono alla ragione.
Discusso il progetto fino alla fine dei lavori
parlamentari, sarà il caso di vedere se non convenga
abbandonare il concetto dell'unificazione per cercare,
sul campo della sovranità cantonale, una maggior
possibile concordanza a seconda dei risultati acquisiti.
In quest'ordine di idee voterò l'entrata in materia,
persuaso di fare cosa utile alla dottrina penale, alla
Svizzera e al Ticino.

417
VII.
La psicologia dell'esule e il diritto d'asilo 87

Il rifugiato politico è generalmente un uomo


irrequieto, dinamico, combattivo. Altrimenti starebbe
pacifico a casa sua. Solo per eccezione capita l'esule
ch'è pacifico borghese, ragionevole, prudente. Non è
escluso qualche rarissimo caso di profugo mollusco
addirittura che, diventato vittima degli intrighi
polizieschi, è preso in sospicione e perseguitato.
Poichè in questo caso non va dimenticato che il
profugo viene a trovarsi fra due polizie, per fatalità di
cose: la polizia straniera coi suoi agenti provocatori ed
informatori e quella del luogo d'asilo coi suoi agenti
indagatori. Gli agenti sono uomini come gli altri, i quali
senza ricorrere a supposizioni più malevoli, sono portati
a credersi necessari, a valorizzare i loro servizi, a
sopravalutarli, a interpretare sinistramente tutto ciò che
notano, a vedere dappertutto il male, magari a prendere
un coniglio per un leone.

87 Dal Dovere,, del 2 e del 3 novembre 1933.


Da «Influenze italiane nella stampa ticinese», studio dell'on.
Dr. Brenno Bertoni apparso nel volume del giubileo della
«Stampa svizzera – 1883-19330». (Ristampa particolare, in
deposito presso la Libreria A. Arnold, Lugano).
Le note a pie' di pagina sono di Brenno Bertoni.

418
L'esule queste cose le sente per intuizione, e se anche
è predisposto alla fiducia diffida, se è d'animo franco ha
timore, e se ha paura... Oh! se ha paura c'è caso che
faccia eroicamente l'impavido e si comprometta, magari
in modo ridicolo, dannoso a sè, alla causa che difende
ed al paese che lo ospita.
Sono nella natura delle cose anche le sofferenze cui
l'esule è soggetto, soprattutto quando ha famiglia,
quando è povero ed è abituato ai comodi della vita. Per
questo l'esule è portato ad appellarsi alla sentenza del
vecchio Seneca; res est sacra miser: per questo il gusto
di dare addosso all'esule, se fosse concepibile, sarebbe
empietà.
Ma talvolta l'esule esagera un poco, anche se è un
grande uomo, un genio, un filosofo, un poeta. Sono anzi
i letterati che per temperamento sono più portati
all'esagerazione. Ugo Foscolo per esempio.
Ugo Foscolo è un grande carattere: sdegnoso, altero,
aristocratico. Ha avuto una gran pena ad adattarsi a
Buonaparte cui somigliava; rifiuta altezzosamente le
profferte che gli fa il governo austriaco; prende la via
dell'esilio ma c'è poca probabilità che si trovi a suo
comodo fra gli Svizzeri. – A Lugano no, in ogni modo,
perchè egli ha delle buone ragioni per non incontrarsi
con Giacomo Ciani. C'è di mezzo un personaggio che
nei Cento anni del Rovani porta un nome di guerra, una
grande dama.... un po' pedina.
Preferirà stare a Roveredo Mesolcina, poi a Zurigo,
ma anche Zurigo è piccolo per lui, è borghesuccio ed è
419
philister. Il governo zurighese non può garantirgli la
tranquillità di fronte alle esigenze del governo austriaco
(siamo nel 1823, nove anni dopo la Restaurazione; a
Parigi regna Luigi XVIII). Invano Gaspare Orelli che lo
ospita e il grande Usteri si adoperano a spiegargli che la
Svizzera, uscita per miracolo dal Congresso di Vienna,
non può garantirgli quella sicurezza di cui godrebbe
nella potente Inghilterra; invano gli si mostra la tesi
dell'Austria, appoggiata dalla Francia, che la neutralità
della Svizzera, com'è garantita dal trattato, esclude il
diritto d'asilo ai rifugiati politici. Lo sdegnoso cantore
di Aiace parte sbattendo gli usci. «V'è pur della gran
putredine politica in questa moralissima Svizzera».
Romeo Manzoni, filosofo idealista, lo scusa dicendo
che infatti «questo aggregato di popoli diversi,
mancando della omogeneità del genio, del costume e
della tradizione, manca necessariamente della vocazione
storica ed è indifferente alla sorte degli altri popoli».
— Chiedo scusa, Maestro, ma allora perchè il più
fiero fra i poeti d'Italia, paese a cui non manca nè il
genio, nè la tradizione, scappa da casa sua e pretende
d'essere albergato in casa nostra?
Dopo il 1821, ci dice lo stesso Romeo Manzoni,
Ginevra era diventata agli occhi della Santa Alleanza,
un covo di serpi, e cioè era piena di rivoluzionari
sfuggiti agli artigli della giustizia austriaca. Il governo
di Milano fa fuoco e fiamme e ne reclama la consegna
(parecchi sono già colpiti da sentenza) o almeno
l'espulsione. L'espulsione è anche la dispersione perchè
420
la Francia è in pieno regime reazionario. Ma il governo
ginevrino, appo il quale sono potentissimi lo storico
Sismondi, italiano d'origine, e il profugo Pellegrino
Rossi, diventato ginevrino di marca, protegge gli esuli
fino al punto che il procuratore della Repubblica, Duval,
si incarica di procurare passaporti a coloro che non ne
hanno, per farli passare in Inghilterra dove siano al
sicuro88.
Questa storia dei passaporti procurati si spiega fino a
un certo punto nella Roma protestante, in quel periodo
storico in cui, morta appena Mme di Stael, e piena
ancora la città dei suoi satelliti come il Bonstetten, essa
è diventata anche il rifugio e la cittadella dei
repubblicani francesi, superstiti della grande
rivoluzione. Ma è indiscutibile che potesse provocare
qualche cosa di più che un incidente diplomatico. Forse
pensava a questa enormità l'avvenente e battagliera
principessa Belgioioso, nata Trivulzio, quando si
augurava d'avere nelle mani l'abate d'Alberti, capo del
Governo ticinese nel 1832, quasi per strozzarlo!
Siamo a Lugano, dopo i moti del 1830 e del 31, falliti
in Italia. La Regina del Ceresio è diventata nido di serpi
alla sua volta. Rimandiamo all'ampia trattazione che ne
fa Romeo Manzoni di questo episodio della nostra
storia. L'ardita Principessa impegna da Lugano una
formidabile campagna antiaustriaca. Anche di lei come
88 Il fatto è attestato dal Manzoni negli Esuli italiani (pag.
40), e da Atto Vannucci, in Martiri della Libertà italiana, ivi
citato.

421
dei fratelli Ciani, l'Austria non solo, ma anche il
Piemonte, reclama la consegna o almeno l'espulsione. I
Ciani riescono a provare il loro patriziato leonticese ed
ecco che la Belgioioso scopre di essere svizzera in
qualche modo. Essa è nata Trivulzio ed è noto che il
celebre condottiero Gian Giacomo Trivulzio (suo
antenato) era stato fatto patrizio di Uri; meno noto che il
marchese Giacomo Teodoro Trivulzio (suo padre), nel
1796, profugo anch'esso, era stato fatto cittadino di
Lugano. Questo bastò perchè il generoso governo
liberale le rilasciasse, benchè legittima moglie del
principe Belgioioso, un attestato di cittadinanza grazie
al quale essa parla fieramente della «nostra repubblica».
Chi oserebbe oggi insorgere con argomentazioni
giuridiche contro quell'atto dei nostri Consiglieri di
Stato?
Ma ecco cosa era successo:
Verso la fine del 1830 il governo austriaco, d'accordo
con quello di Torino, aveva mandato al governo ticinese
una fiera nota diplomatica nella quale, dopo aver
denunciati «certi conciliaboli che si tenevano nel
cantone e particolarmente a Lugano (e proprio negli
appartamenti della Belgioioso) allo scopo di invadere e
sollevare le province finitime austro-sarde», intimava la
estradizione dei sudditi lombardo-veneti che si erano
resi complici di alto tradimento, e l'allontanamento dal
Cantone degli altri individui pericolosi alla tranquillità
delle dette province. La nota era accompagnata da una
lunga lista di profughi e da immediata minaccia di
422
sanzioni, e cioè che il governo di S. M. I. R.
adoprerebbe tutti i mezzi sanzionati dal diritto delle
genti per costringere questo lodevole governo ad
adempiere i trattati vigenti. «Verrebbero quindi
immediatamente a cessare le comunicazioni col
Governo e cogli Stati del Cantone Ticino, ed inoltre
adoperate tutte quelle altre misure giudicate necessarie
onde preservare i sudditi di S. M. da qualsiasi contatto
con quelli di un cantone le autorità del quale
dimostrerebbero col loro contegno affatto ostile di non
voler più conservare relazioni amichevoli con gli stati di
Sua Maestà imperiale, reale e apostolica»89.
Era la chiusura della frontiera, il blocco economico,
l'espulsione di un qualche ventimila ticinesi dall'Alta
Italia ed al caso l'occupazione militare... E non era
semplice vanteria poichè la minaccia fu poi recata ad
effetto, almeno parzialmente, nel 1853.

***
Il governo ticinese ha dovuto chinare il capo.
Tremendo è lo sdegno della Belgioioso, la quale scrive
da Marsiglia al suo caro amico: «Vedete, vedete ora a
che abbia giovato l'infame timidezza – del vostro

89 L'allusione ai trattati vigenti si riferisce alla clausola di


neutralità della Svizzera contenuta nel Trattato di Vienna. Giova
richiamare la tesi delle Potenze che la neutralità escludesse il
diritto di asilo dei rifugiati politici. La Svizzera contestava quella
interpretazione, ma giudice della controversia era la spada!

423
Consiglio di Stato? – Oh! d'Alberti vorrei vederlo
trattato come si merita!»... «ora, mio caro Luvini, è
giunto il momento di lavarsi della macchia di servilità di
cui vi hanno imbrattato i vostri consiglieri... Mostrate,
mostrate adunque maggior fermezza, cessate di piegarvi
all'Austria...».
E siamo sempre lì. L'Austria è il potente impero che
abbiamo al confine: il suo dominio in Italia è meno che
mai contestato dalla Francia o dall'Inghilterra. Con un
tratto di penna essa può schiacciare il nostro staterello di
centomila abitanti ed affamarne il popolo. Ma la
rettorica vedrà macchiato ed imbrattato il nostro
governo e lo denuncerà al disprezzo del mondo e della
storia se non accetta la guerra a difesa dei profughi...
Oh, il coraggio dei retori!
Il nostro governo, lungimirante e magnanimo, ha
fatto quanto poteva e più di quello che poteva. Esso nel
seguito ha albergato Mazzini e tutta una schiera di
cospiratori, fino al 1848 e dopo il quarantotto.
Viene un momento che anche Mazzini diventa un
pericolo. Tutti i biografi di Mazzini, tutti i suoi
apologisti concedono che della sua tattica rivoluzionaria
faceva parte integrante la cospirazione degli attentati,
delle insurrezioni, delle piccole rivolte quasi sempre
sterili, del «compromettere molta gente»; ma quando
mezza Europa esige l'allontanamento di Mazzini da
Lugano e quando il Consiglio federale sarà obbligato a
concederlo, il filosofo trascenderà in invettive ed
improperi che poco hanno a che fare con la filosofia. Gli
424
sembrerà che addirittura la Confederazione debba
sentirsi onorata di sacrificarsi per lui.
È vero che alla riforma costituzionale svizzera del
1848 aveva cooperato anche lui, e vi aveva una certa
benemerenza: ciò sia detto come attenuante90.
Se dall'epoca mazziniana ci trasportiamo alla fine del
secolo c'incontriamo con un'altra ondata di esuli,
recataci dai moti sediziosi di Romagna, di Toscana e di
90 Intenzionalmente tralasciamo la piccola ondata di profughi
che negli anni 1873-1874 accompagnò o seguì Michele Bakunin
a Locarno, per la scarsa ripercussione che ebbe nella vita ticinese.
Ebbe per centro la Baronata, un'arida villa sullo scoglio fra
Minusio e Tenero, contigua alla storica Roccabella.
Italiano di marca ci fu solo Carlo Cafiero, ricco pugliese,
passato dal misticismo del Seminario a quello del nihilismo
moscovita.
Degno di nota che quegli anarchici, come più tardi il principe
Kropotkin a Locarno, non molestarono minimamente i nostri
governi invocando il diritto di asilo. Erano mirabilmente logici,
quei puri! Non riconoscendo la legittimità di alcun governo si
rifiutavano di domandare protezione ad alcuno di essi.
Bakunin fu poscia a Lugano nel 1874, e si accontentò di essere
il più ascoltato pancacciere del Caffè Terreni in Piazza Riforma
(ora Caffè Olimpia). Si ascoltava parlare quell'incomparabile
sofista come si ascolta il flauto dell'incantatore di serpenti e lo si
osserva con meravigliata curiosità. Discepoli ticinesi ne ebbe uno
solo (Carlo Salvioni) destinato ad alti fastigi de l'autre côté de la
barrière. Ma uno che lo deve aver "bevuto" ascoltandolo e
riportandone qualche influenza, non politica ma letteraria, fu
senza dubbio l'avvocato Giovanni Airoldi che, scrisse poscia Il
Signor Repubblica e il periodico mezzo letterario e mezzo
burlesco che intitolò appunto Il Pancacciere.

425
Milano del 1898. Si trattava ora di socialisti ribelli ai
legittimi governi della nazione italiana, non circondati
quindi da quel prestigio e da quella simpatia che
incontrarono i ribelli ai governi stranieri.
Tuttavia il popolo ticinese, quasi senza distinzione di
partito, fu ospitale non solo, ma benevolo, ai nuovi
venuti, anche di fronte alle autorità federali ch'erano
inquiete. Diversi di questi profughi ebbero cariche ed
impieghi. Giuseppe Rensi fu persino Cancelliere di
Stato, assai prima che diventasse in Italia professore
ordinario di filosofia, all'Università di Genova. Altri
furono ammessi all'esercizio di professioni liberali:
professori, medici ed avvocati. Brava gente la più parte,
che potè rientrare tranquillamente in Italia per benevole
amnistia malgrado i molti secoli di galera cui li avevano
condannati i tribunali militari.
Fu appunto in quell'epoca che cominciò a delinearsi
la formazione di un partito socialista ticinese che prima
non aveva mai preso radice. In complesso si può
affermare che la dottrina socialista, nel Ticino, è tutta
d'importazione straniera, e particolarmente italiana, con
qualche apporto dall'università tedesca. Più ancora che
la dottrina, fu italiana la tattica. I rifugiati italiani
appartenevano a due gruppi di diversa indole e natura,
come appunto in Italia. C'erano i riformisti, alla Turati,
che da qualche decennio vivevano in rapporti di buon
vicinato coi radicali italiani e coi repubblicani. Cabrini,
Rensi. Caldara (a prescindere da diversi altri che sono
rimasti tra noi e s'incorporarono nella nostra vita), erano
426
di questi; ma con loro erano Paolo Orano e soprattutto
Angelo O. Olivetti aderenti al moto oltranzista e
rivoluzionario, i quali si trovavano in concorrenza
elettorale cogli altri. Nel Ticino c'era già allora circa un
terzo di popolazione italiana, passiva alla nostra vita
politica, che i profughi cercarono tosto di mobilizzare
ed inquadrare. I riformisti e possibilisti erano in realtà
maggioranza, ma gli altri erano pugnaci e rumorosi.
Fondarono una loro rivista, Pagine libere, di ben 1000
pagine all'anno, diretta dall'estero da Arturo Labriola, e
qui da Olivetti. Si chiamavano sindacalisti, non si vede
bene il perchè, ed avevano una loro tattica elettorale ben
determinata, che poi rimase nel nostro retaggio.
Anarcoidi e comunisti in sostanza, si staccavano
violentemente dagli anarchici in quanto costoro
predicavano l'astensione dalle lotte elettorali mentre essi
ambivano una elezione. Grandi assertori della
rivoluzione sociale, proclamavano la tattica dello
sciopero violento, e dello sciopero generale, come
preparazione alla guerra di classe; marxisti per la pelle,
ammettevano che la dottrina marxista doveva essere
intesa in senso evolutivo e non dommatico: ma
soprattutto volevano la rottura di ogni rapporto coi
borghesi di sinistra, coi radicali, coi democratici e coi
massoni.
Imbevuti di dottrina tedesca, da Marx a Stirner,
simpatizzavano per i socialisti francesi particolarmente
con Blanqui e coi combattenti dalla «Commune». Nei
rapporti coi problemi religiosi erano soprattutto nihilisti,
427
scuola Bakunin. Anticlericali, anticristiani, nemici
personali di Dio.
In Italia incontrarono vive critiche da parte dei
maggiorenti del partito, e scarse simpatie
nell'inquadramento elettorale proletario, alieno per
istinto da tutti gli intellettuali. Cercarono di formare
comitati elettorali propri e portare candidature
dissidenti, ma non riescirono all'intento. Nelle elezioni
generali (1909) fecero fiasco o non trovarono neppure
collegi dove poter lottare.
La rivista Pagine libere cessò. Venuta la guerra,
diversi fra i suoi seguaci si dichiararono interventisti, e
dopo la guerra passarono al corporativismo sotto le
insegne del nuovo sindacalismo (Orano, Olivetti,
Panunzio, ed altri), favoriti in ciò dalle circostanze che
già da principio avevano professato un loro
nazionalismo culturale, ostile alla Riforma religiosa, al
romanticismo ed allo spirito troppo disciplinato della
cultura germanica. Molti dei loro postulati divennero
sostanza della dottrina fascista, tanto più che il fascismo
si proclamava ed era movimento rivoluzionario alla sua
maniera.
Non è necessario di accennare nomi e circostanze, ma
l'estremismo sindacalista d'allora si sente ancora adesso
nel tono della stampa socialista ticinese, a malgrado dei
discordanti atteggiamenti elettorali del partito.
Vero contrapposto delle Pagine libere fu la rivista
Coenobium, diretta da quell'Enrico Bignami del quale
abbiamo già fatto cenno a proposito delle origini del
428
socialismo italiano. Concepita con larghi criteri
filosofici questa pubblicazione fu anzitutto pacifista e
spiritualista. Favorì il movimento modernista nel clero
cattolico, la scuola di Harnack nelle chiese protestanti,
le tendenze neo-buddiste come indirizzo della filosofia
contemporanea, di contro al positivismo materialista, sia
tedesco che francese.
Bignami morì nel 1921 dopo aver profetizzato la
mala guerra e la mala pace...: con lui si spense il
Coenobium, ma non una grande idea ed una nobile
passione.
Il Coenobium ebbe però poca diffusione e scarsa
influenza nel Ticino: le sue mete erano più vaste e più
lontane. Solo Alfredo Pioda, il mite e dottissimo liberale
locarnese, nutrito di studi filosofici italiani secondo le
più illustri tradizioni dell'umanesimo, contemperati da
una larga conoscenza dei tedeschi e degli inglesi, dalle
tradizioni asiatiche e dalle novità americane, potrebbe
essere ascritto alla Scuola del Coenobium.

429
VIII.
L'esperienza della proporzionale91

...La proporzionalità non ci viene dal principio


democratico. Il suo precursore fu invero Victor
Considérant, il quale era un utopista della scuola di
Fourier, ma non raccolse mai il minimo plauso da parte
dei democratici francesi; chi ripescò questa idea già
dimenticata e ne fece un postulato della politica
svizzera, fu il partito liberale conservatore di Ginevra e
particolarmente Ernest Naville, seguito dai liberali-
conservatori di Basilea, di contro all'assioma della
democrazia ch'era il regime della maggioranza.
L'assioma era «la sovranità è esercitata dal popolo, ma
non potendosi conseguire nè supporre una unanimità
popolare si seguirà la presunzione legale che la volontà
del popolo sia quella della sua maggioranza».
Finzione giuridica necessaria come ogni altra che pro
veritate habatur, o in buon volgare, che si deve accettare
come verità anche se la verità non possa umanamente
essere provata. Dogmi civili dunque!
Ma la critica, sorse chiedendo: da che parte sarà il
vero nel caso di una maggioranza costituita della metà
più uno? In un collegio di tre persone, come la
91 Da un articolo di B. Bertoni pubblicato nel "Dovere" del 9
maggio 1936.

430
Municipalità di Lottigna, la metà più uno non fa dubbio:
è di due contro uno; ma sopra un milione di votanti una
maggioranza di cento od anche di mille voti può essere
un risultato casuale come se un elettore abbia perduto la
corsa perchè gli saltò un tirante nel mettere gli stivali.
Dunque la finzione giuridica della metà più uno può
tradursi in una effettiva tirannia.
Ragionamento logico impeccabile come tanti altri.
Victor Considérant preconizzò quindi il voto
proporzionale, poi, mezzo secolo dopo, Ernesto Naville
lo propose come soluzione del conflitto ginevrino fra i
liberaux ed i radicaux, quando non erano di fronte che
due partiti. (C'erano anche i cattolici, ma non
contavano). E tosto i liberaux lo predicarono in tutta la
Svizzera come la salvazione. Qui avvertiamo subito che
la proporzionale fu causa della morte di quel glorioso
partito che la promosse ed invece fu la fortuna del
partito socialista: ma questo è un anticipo su quello che
successe dopo.
All'epoca dell'11 settembre, la proporzionale apparve
al Consiglio federale come l'unico modo di risolvere un
conflitto, altrimenti insanabile. Già in più votazioni era
apparso come la differenza fra la maggioranza e la
minoranza fosse ridotta a poca cosa; forse a meno di
quel tanto di voti che dipendono naturalmente dalla
detenzione del potere.
La rivoluzione, da tempo preconizzata nei comizi, più
per metafora che altro, apparve nella formula di Romeo
Manzoni il modo di «uscire dalla legalità per rientrare
431
nel diritto». Essa fu decisa nei comitati come un mezzo
di provocare l'intervento federale sotto la cui egida si
potesse fare una votazione libera dalle pressioni interne.
L'iniziativa popolare promossa da un piccolo gruppo
a mezzo del giornale La Riforma da me diretto, ne fornì
il pretesto in quanto il governo di Respini commise
l'errore di tattica di procrastinare la convocazione dei
comizi.
Compiuta la rivoluzione col fatale imprevisto della
morte di Luigi Rossi (da nessuno voluta e da tutti
deprecata) il Consiglio federale convocò una consulta
dei maggiorenti meno compromessi nella faccenda,
nella quale primeggiava la figura di Agostino Soldati,
conservatore dissidente. La formula prevalente fu quella
di Welti e di Ruchonnet, consiglieri federali: «il faut que
les tessinois apprennent à gouverner ensemble».
Al Commissario federale Künzli fu data l'istruzione
di sondare il terreno per un tentativo di assaggio della
proporzionale. Era il primo che si facesse al mondo. (Il
Belgio seguì pochi anni dopo). Nei circoli radicali che
avevano presieduto alla rivoluzione, la proporzionale
non appagava: non di meno io mi assunsi la
responsabilità di sostenerla nella Riforma.
Künzli, così autorizzato da Berna, convocò i comizi
sottoponendo loro l'iniziativa per la revisione parziale,
aggiungendovi la domanda se la revisione dovesse
avvenire a mezzo del Gran Consiglio o di una
Costituente. L'esito fu affermativo così per la revisione
che per la procedura, a piccolissima maggioranza, la
432
quale sarebbe certo stata grandissima senza la luttuosa
circostanza suaccennata.
Fu convocato il popolo una seconda volta per la
nomina di una Costituente. Il Gran Consiglio ne aveva
preparato i circondari, ma il partito radicale prese la
risoluzione di astenersene e lasciò il campo libero ai
conservatori delle due tendenze i quali, sia detto a onor
del vero, tennero la parola e votarono con la maggiore
celerità la riforma del 9 febbraio istituente il voto
proporzionale per la nomina del Gran Consiglio, della
Costituente e delle Municipalità...

433
PARTE UNDECIMA

Economia

I.
L'imposizione dello schnaps92

Abbiamo finito da poco tempo di discutere la


questione delle case di giuoco. Eccoci ora impegnati
nella questione delle bevande distillate. Presto saremo
alla... virtuosa iniziativa contro le decorazioni straniere
Nell'uno e nell'altro caso è manifesta l'intenzione morale
degli iniziatori.
In nome e per amore della virtù una prima iniziativa
popolare aveva ottenuto il divieto dei petits jeux; in
nome della libertà una seconda iniziativa li volle
ripristinare e disciplinare; la battaglia fra i liberisti e i
proibizionisti fu aspra e lasciò un cattivo strascico di
92 Discorso pronunziato dall'on. Bertoni nel 1929 al Consiglio
degli Stati in occasione del dibattito riguardante la riforma del
regime dell'alcool.

434
recriminazioni e di scetticismo. Domani si tratterà del
peccato di superbia e di vietare ai cittadini di fregiarsi di
onorificenze straniere, così contrarie a quella virtù
cristiana della modestia che si addice a una repubblica
di montanari. Oggi il proibizionismo tende ad estendersi
al consumo delle bevande alcooliche, ciò che è l'ultimo
scopo degli inizianti, e per ora solo a quello delle bibite
distillate. E poichè gli inizianti non avrebbero
probabilità alcuna di ottenere una proibizione generale
su tutto il territorio elvetico, essi hanno dato alla loro
idea un'espressione meno imperativa lasciando ai
cantoni ed ai comuni la facoltà di proibirle nei limiti
della loro giurisdizione.
Lascio ad altri la cura di dimostrare le conseguenze
funeste di questo così detto «diritto di opzione» dal
punto di vista della pace interna. Sarebbe quanto
scatenare nei cantoni e nei comuni una interminabile
serie di dispute fra i partigiani della virtù obbligatoria e i
praticanti della virtù facoltativa. Ogni parziale vittoria
dei virtuisti sarebbe frustrata dalla sconfitta sul territorio
vicino. E poichè le questioni ideologiche sono sempre
più difficili da risolvere di quelle pratiche, e dànno
luogo a tanto maggiore fanatismo quanto più
inconciliabili sono le tesi astratte, quel poco o tanto di
bene che gli inizianti sperano di raggiungere sarebbe
pagato a prezzo di insanabili discordie e di infinite
agitazioni.
Forse il solo Cantone che rimarrebbe immune da
questa rogna sarebbe il mio Ticino dove la questione
435
dello «Schnaps» non esiste e dove non si troverebbe
forse l'uno su cento dei cittadini per una legge che
proibisse il bicchierino a Locarno e lasciasse libertà di
sbornia a Muralto.
Per temperamento personale io tendo ad elevare la
questione d'oggi, come quella di ieri, come quella di
domani in un'atmosfera serena e ad allargarne
l'orizzonte fino ai confini della coscienza umana. Io
vorrei affrontare il problema generale della virtù privata
come oggetto della pubblica legislazione.
Ciò mi permetterà di essere giusto verso coloro che
per il momento devo considerare come avversari. Più
ancora che giusto voglio essere cavalleresco a loro
riguardo, riconoscendo che sono tutti, senza eccezione
alcuna, animati da intenzioni altamente rispettabili. Ciò
che essi vogliono è il bene della repubblica. Essi
considerano le bevande distillate come un pericolo per
l'umanità presente e sono convinti che la legge abbia in
sè tanta virtù e tanta potenza da poter sradicare il vizio
dell'alcoolismo, così come ogni altro vizio quali
potrebbero essere la lussuria, l'ambizione delle
decorazioni, e gli altri peccati capitali e veniali.
Se non hanno tutte queste generose illusioni, sono
perlomeno persuasi che lo Stato deve tentare la battaglia
per il trionfo della virtù anche essendo malsicuro di
vincerla. In fondo all'anima però essi rifuggono dal
considerare le immediate conseguenze di una sconfitta.
La vittoria arride alla loro speranza, se non per subito,
per un avvenire più o meno lontano, perchè essi sono
436
dei mistici ed è proprio di ogni misticismo antico,
presente e futuro il credere al miracolo.
Questo stato d'animo mi richiama quello della
repubblica di Firenze all'epoca del Savonarola e del
Machiavelli.
Narra Giuseppe Prezzolini nella biografia di
quest'ultimo, come tutto il popolo di Firenze, commosso
dell'impetuosa eloquenza del frate, andasse intorno
pensando ai propri peccati e purtroppo anche ai peccati
degli altri. La cosa finì malamente, com'è noto. Della
predicazione virtuosa nulla è rimasto tranne
l'insegnamento che noi possiamo raccogliere, che in
fatto di peccati la migliore pietà è di pensare ai propri.
Il gusto delle iniziative virtuiste contro i peccati altrui
si va da qualche tempo diffondendo in Isvizzera e
corrisponde nello spirito all'entusiasmo mistico del
grande predicatore fiorentino che un papa fece bruciare.
Io appartengo ad un'altra forma mentis. Io credo poco
al miracolo in genere e niente del tutto al miracolismo
statale. Io non credo che si possa per legge guarire il
popolo da alcun vizio nè imporgli alcuna virtù. La virtù
non è in fondo che uno stato d'animo e non vi è di
realmente tangibile che la sua antitesi, il vizio, in quanto
si manifesta con atti esterni; ma ciò dipende in tutto e
per tutto dalla coscienza individuale. Lo Stato può
servire la virtù esattamente nella stessa misura in cui
può agire sulla coscienza dei singoli. Esso può
reprimere il vizio in quanto si manifesti con atti punibili,
esso può eliminare delle occasioni dell'atto vizioso, ma
437
non può nè sostituirsi alla natura (o se così piace, alla
divinità), nè abrogare la legge fondamentale del libero
arbitrio e della responsabilità individua.
Io ammetto un'azione benefica delle leggi sui costumi
in quanto le leggi possano illuminare l'opinione
pubblica e costituire lo stato d'animo favorevole a quelle
astensioni dal vizio che costituiscono la virtù. Per contro
nessuna virtù può essere l'effetto diretto di una legge.
S'io fossi un filosofo potrei forse esprimere questa tesi
con argomenti dottrinali. Semplice uomo politico
cercherò di spiegarmi con ragioni alla portata d'ogni
cittadino.
Sono io forse un uomo virtuoso perchè non giuoco?
Niente affatto. Io non ho mai rischiato un franco sul
tappeto verde perchè il calcolo delle probabilità mi ha
insegnato che il pubblico deve perdere contro il banco,
per necessità matematica. Se lo Stato riescisse a far
sapere a tutti i giuocatori che prolungando il giuoco
perderanno inesorabilmente più di quanto possano
guadagnare con un colpo di fortuna, lo Stato avrebbe
fatto contro il giuoco d'azzardo assai più che con le
leggi proibitive.
Forse c'è un'altra ragione per cui non giuoco. Quel
gruppo di dame e cavalieri equivoci che vedo affollarsi
intorno al tappeto verde, quei tipi scimmieschi che
pendono dalle labbra del croupier ascoltando come
l'oracolo delfico le mistiche parole: «Faites vos jeux, les
jeux sont faits, rien ne va plus», ripetute all'infinito
come un rosario dell'idiozia, tutto ciò mi ha l'aria così
438
grottesca che preferisco vedere una gabbia di scimmie al
momento della distribuzione delle banane. Macachi per
macachi questi mi sembrano più interessanti.
Ma anche questo disgusto non è una prova della mia
virtù. È solo la prova di una mia educazione
aristocraticamente paesana, educazione che lo Stato
potrebbe forse favorire senza bisogno di riformare la
costituzione.
Per la stessa ragione non mi reputo virtuoso se,
potendo bevere parecchio, bevo assai poco. Se la
bevanda è mediocre non la bevo perchè la disprezzo; se
è molto buona la bevo con parsimonia perchè ne ho
grande rispetto e perchè costa cara. La mia educazione
di paesano aristocratico non mi permette di trattare con
eccessiva confidenza una bottiglia che costa cinque
franchi. Mi parrebbe quasi di non poterle dare del tu e di
doverla trattare col lei.
Forse lo Stato potrebbe favorire la temperatura
provvedendo, come intende fare il signor Musy, a che le
bibite siano più buone e più care.
Il vincitore della battaglia del grano uscirà vittorioso
dalla battaglia dello «Schnaps» perchè egli conosce
assai bene le complicate molle della natura umana e sa
agire secondo la regola di filosofia pratica che io oserei
così formulare:
«L'uomo virtuoso non è quello che si dice o si crede
esente da ogni vizio, bensì quello che, conoscendo le
ragioni dei vizi, tutti li sa dominare».

439
II.
La montagna fonte di ricchezza93

Chiarissimi signori,
Io considero l'Istituto idraulico del nostro Politecnico
come l'ultimo trionfo di quella scienza idraulica svizzera
che deve portare al massimo grado l'utilizzazione
razionale del nostro suolo montano, e con ciò convertire
in isplendida ricchezza ciò che per i nostri progenitori fu
cagione di povertà.
È il carbone bianco che trionfa del carbone nero: è
l'economia nazionale che trionfa dell'importazione: è la
magica bellezza del ghiacciaio e del torrente alpino che
trionfa della anestetica ricchezza delle pianure
carbonifere.
Questa vittoria della scienza ci fa pensare con
orgoglio ai grandi poeti della montagna, Alberto de
Haller ed Orazio de Saussure, i due grandi scienziati che
prima ne scrissero la bellezza, ed a Giovanni Segantini,
che consideriamo come nostro, il quale ne tradusse col
pennello la incomparabile maestà.
La ricchezza dei bacini minerari e carboniferi scatenò
per più secoli la guerra per il loro possesso: le loro
93 Discorso pronunziato dall'on. Bertoni a Zurigo il 16 maggio
1930, in occasione dell'apertura della Stazione di esperimenti
idraulici annessa alla Scuola politecnica federale.

440
popolazioni ne ebbero più danni che vantaggi. Sia
lontano dalla Svizzera quell'istorico fatto, ma non
dimentichi il nostro popolo che la nuova ricchezza ci
potrà essere invidiata. Il popolo delle Alpi, che nei
secoli addietro seppe unirsi per difendere la neutralità
dei transiti alpini, sia memore delle virtù civili degli avi
e sappia tenersi unito per difendere il tesoro di scienza e
di bellezza che la natura ed il lavoro gli hanno dato.
E voi, Autorità direttive della Confederazione, voi
Consiglio federale, voi Consiglio scolastico, voi
direttori delle diverse facoltà dell'alta nostra Scuola
politecnica, vogliate accogliere un mio voto solenne. Il
voto che da sedici anni oramai esprimo ostinatamente
nei Consigli della Repubblica.
Spetta a voi il provvedere a che le varie sezioni del
nostro insegnamento, le varie direzioni
dell'amministrazione pubblica federale e cantonale, si
accordino per una razionale economia delle nostre
montagne.
Spetta a voi il tener lontano il pericolo che gli opposti
interessi economici facciano della montagna svizzera un
campo di competizioni civili ed interne. Una discorde
economia può condurre di fronte i criteri dell'idraulica e
quelli della scienza forestale: l'una e l'altra possono
contrapporsi agli interessi ed ai criteri dell'industria
alberghiera: tutti questi interessi e questi criteri possono
trovarsi violentemente opposti a quelli dell'agricoltura.
La stessa agricoltura può avere interessi contrari nella
pianura ed alla montagna.
441
Spetta alla saggezza dei vostri provvedimenti, spetta
alla larghezza delle vostre vedute, il saper coordinare
umanamente quelle cose che la natura creò diverse.
In ispecie addito ancora una volta alla vostra
attenzione i criteri che già vent'anni or sono furono
proclamati nel Parlamento italiano. Se volete che riesca
l'utilizzazione totalitaria delle forze idrauliche svizzere
dovete volere la totalitaria realizzazione delle nostre
possibilità forestali: ma se volete tutto questo non
dovete contrapporre tale magnifico programma ai
piccoli interessi della praticoltura montana e della
pastorizia.
Voi dovete far sì che il montanaro da vostro
oppositore diventi vostro alleato. A questo fine c'è un
mezzo solo, ma sicuro: bisogna che ad ogni sacrificio
che si domanda al contadino, corrisponda un compenso,
non in denaro, ma in migliorie dei suoi pascoli superstiti
e prati alpini, il tutto con un progetto unico e con un
unico criterio che interessi l'uomo alla utilità della cosa.
La montagna non deve essere conquistata contro il
montanaro, bensì col montanaro, volontario milite della
scienza.
Il Politecnico deve fornire dei tecnici dell'idraulica,
delle foreste e dell'agricoltura preparati a questo criterio.
Allora, ma solo allora, la Svizzera potrà risolvere
armonicamente il problema della montagna e il nuovo
Istituto che noi oggi inauguriamo darà tutti i suoi frutti.

442
III.
I bisogni del Ticino94

...Il Cantone Ticino si trova nella condizione di essere


sospettato un po' da tutte le parti e di avere intorno una
gran ressa di medici che gli vengono ad offrire la salute.
Il corpo ticinese, dal punto di vista patriottico, è
sanissimo e non ha che a temere l'opera dei propri
medici dei quali alcuni vengono a dirgli: «O popolo
ticinese, devi chiudere le porte alla influenza culturale
italiana, rinunciare ad imparare l'italiano, altrimenti non
sei buono svizzero».
Altri invece gli dicono: «Se vuoi essere ancora te
stesso, se non vuoi negare la tua stirpe, devi rinunciare
ad imparare il tedesco, devi chiuderti in una santa
ignoranza della coltura tedesca, altrimenti
comprometteresti la tua italianità».
Sono precisamente tutti questi stormi di pettegoli, di
medicastri che abbiam d'intorno e che pretendono voler
porre rimedio ai nostri mali, che dobbiamo ridurre al
silenzio, unicamente voltando loro le spalle. Noi
abbiamo un dovere solo, noi abbiamo un bisogno solo

94 Dalla conferenza di Brenno Bertoni su Le relazioni


svizzero-italiane e la questione nazionale nel Ticino, tenuta a
Lugano il 17 dicembre 1912 sotto gli auspici della "Società
svizzera dei commercianti".

443
che è quello di raccoglierci in noi e di voler essere noi.
Abbiamo il diritto di dire ai nostri concittadini
confederati che «reclamiamo la più grande fiducia che
sarebbe accordata in simili circostanze ad altri
concittadini, e che noi per difenderci dalle supposte
influenze straniere non abbiamo alcun bisogno di
curatore, che noi bastiamo a noi medesimi e che il
nostro lealismo non può essere in alcun modo
sospettato e discusso».
Noi abbiamo bisogno soltanto di poter curare le
nostre industrie, i nostri commerci, di poter compiere la
grande opera patriottica di frenare il flusso della nostra
emigrazione, se vogliamo diminuire l'influsso di
un'eccessiva immigrazione. Nel Cantone Ticino
l'immigrazione nell'ultimo mezzo secolo è immensa,
sono quasi 50.000 sopra 150.000 gli stranieri che hanno
trovato lavoro ed occupazione e domicilio nel Cantone;
inquantochè agli stranieri portati dalle statistiche
dobbiamo aggiungere le molte altre migliaia di stranieri
che in questi ultimi 30 o 40 anni sono stati naturalizzati.
E intanto migliaia di ticinesi vanno a portare la loro
gioventù, la loro energia, la loro forza nelle Americhe,
nella Francia, nell'Inghilterra, in Italia In questo
scambio di forze attive del Ticino, che sono emigrate
perchè le condizioni del mercato ticinese erano inferiori
alle loro esigenze e che sono state sostituite da elementi
del di fuori, abbiamo perduto milioni e milioni,
economicamente, non solo, ma anche il più bel sangue,

444
il più bel vigore della nostra schiatta, della nostra stirpe
e della nostra razza locale.
Ora quello di cui abbiamo bisogno per fronteggiare la
penetrazione di una eccessiva immigrazione straniera è
soltanto di trovare occupazione al ticinese nel Cantone
Ticino. Trovare nel Cantone il lavoro che il ticinese
cerca altrove dev'essere il compito di ogni beninteso
sforzo patriottico; abbassamento delle tariffe ferroviarie,
aiuto alla formazione delle industrie ticinesi, ma più
ancora la ricostituzione dell'agricoltura ticinese la quale
non può essere altrimenti ricostituita se non colla
ricostituzione del podere; il podere che forma la classe
dei contadini, la classe dei contadini che forma la classe
dei patrioti, che dà i soldati alla patria, attaccati
veramente e con tutte le radici della loro anima alla cosa
pubblica. Ma il podere, che è l'istrumento di lavoro, nel
Cantone Ticino più non esiste. Nella parte meridionale è
diventato il masserizio, posseduto da un proprietario che
nulla conosce di agraria, che non può o non vuole
anticipare il capitale per la trasformazione che richiede
il progresso moderno; e nelle altre parti dove la terra è
rimasta al contadino, essa si è tanto sminuzzata, che
alcuna cultura scientifica e razionale non è più possibile.
Ora ci lascino in pace i suggeritori di cataplasmi per
guarire le piaghe del Ticino; venga chi sappia aiutare,
venga il legislatore, lo statista, l'autorità cantonale o
federale, cogli aiuti che potranno essere insegnati dalla
tecnica e dalla scienza, a ricostituire la classe agraria
ticinese, a ricostituire l'industria, e il Cantone Ticino
445
assurgerà forse anche al disopra de' suoi Fratelli
confederati, e questo popolo ticinese potrà dire
finalmente di essere, nel triplice complesso culturale
della Svizzera, il degno rappresentante di quella grande
civiltà e cultura italica che è chiamata ad essere pari in
diritto come pari nei doveri alle altre sorelle che l'hanno
preceduta nella Confederazione Svizzera.

446
IV.
Il problema patriziale95

La difesa del patrimonio e della funzione


comunitativa delle antiche vicinanze, si appalesa più che
mai opportuna, insieme con la riforma di tutto
l'organismo antico e venerabile al quale per deplorevole
leggerezza è stato affibbiato il nome ingannevole di
patriziato.
Patrizio e patriziato in lingua italiana non hanno mai
significato altro che di nobile e nobiltà. Anzi, secondo il
Fanfani «cittadino di antica e famosa nobiltà». Si era
patrizi a Venezia, città illustre per terra e per mare, non
certo a Lodi od Abbiategrasso! Prima che mai vi furono
patrizi a Roma e di essi racconta Montesquieu, come le
loro prerogative nuocessero alla tranquillità della
Repubblica e come a lungo andare cadessero in
subordine ai plebei. Cicerone non fu certo patrizio
romano, nè lo fu San Paolo, bensì lo fu Catilina che
aspirò alla dittatura: tuttavia sembra che il titolo non
fosse ufficiale e che solo Costantino imperatore gli
avesse dato virtù di legge, ponendolo immediatamente
dopo Cesare! Solo i patricìes furono ammessi nei
consigli dell'Impero. Fra i barbari il primo che ottenne
95 Da una lettera di B. Bertoni pubblicata nel "Dovere", del 16
dicembre 1937.

447
dagli imperatori d'Oriente il titolo di patrizio fu
Clodoveo: il secondo fu Carlomagno! I Re franchi lo
diedero poi ai duci borgognoni governatori delle loro
province! L'illustre repubblica di Venezia ebbe, come
ovunque nel medioevo, la sua nobiltà, ma fra i nobili si
chiamarono patrizi solo gli ottimi, appartenenti
all'ordine senatorio.
Di un patriziato nobiliare milanese non trovo traccia
nella storia di Milano di Pietro Verri, nè d'un patriziato
comasco nel Cantù.
Per qual misteriosa via divenne adunque patrizio il
lottignese Ambrosio Bertoni, detto l'Ambrosone, che
visse i tempi della Repubblica Elvetica, della
Mediazione e della Ristaurazione? Egli ed i suoi
maggiori non coprirono certamente cariche più alte di
quella di cuoco del vicerè a Milano!
Sallo Iddio! ma certo non altrimenti che le famiglie
danarose dei nostri capoluoghi e del Mendrisiotto che
(così come i Quadri) avevano fatto buoni affari durante
quei periodi guerreschi, ed ai quali il titolo francioso di
cittadini era venuto in uggia ed arrideva invece il titolo
di patrizi non foss'altro che di Casima o di Iseo,
Quel tale che aveva offerto mille franchi per esser
patrizio di Bosco-Gurin (oltrechè attinente) sapeva ciò
che faceva. La qualità di patrizio svizzero gli spianava
certamente la via ad un blasone, ad uno stemma
nobiliare, ottenuto per esempio a Napoli.
Ed ecco perchè io sono patrizio al pari di Clodoveo e
di Carlomagno!
448
Proprio vero quei filosofema che mi insegnò un
vecchio montanaro in Val Malvaglia, durante una delle
mie cento peregrinazioni, che gli asini non hanno mai
commesso asinerie, dacchè mondo è mondo, mentre
tante ne commettono i signori Consiglieri (com'ero io).
Ordunque, prima del tempo del mio nonno o
bisnonno, i miei maggiori erano vicini e non patrizi.
L'assemblea degli «huomini et consoli» di Lottigna si
chiamava vicinanza. La Valle di Blenio si riuniva ancora
a parlamento, così come lo vide l'Abate D'Alberti
giovinetto, il quale era ancora, su per giù, l'assemblea
dei liberi arodari, come la descrive Carlo Meyer nel suo
barbarico volume Blenio und Leventina zur Zeit des
Barbarossa. (Domando scusa all'illustre autore per
l'aggettivo inopinato; barbarico vuol dire fratello nell'era
nuova dell'Asse Roma-Berlino!).
Al principio del XIII secolo adunque, epoca della
grande fioritura dei comuni, non solo in Italia, ma in
tutto l'Occidente cristiano, si erano costituiti nelle nostre
terre le Corporazioni dei Liberi Allodiali (arodari nel
testo) cioè dei proprietari di terre libere, affrancate dalle
servitù feudali. Erano per l'Italia (non tutta!) i comuni
rustici; per noi le vicinanze. La terra non suddivisa fra i
contadini apparteneva alla comunità, ossia alla
corporazione. (Placatevi, antifascisti! Mussolini non
c'entrava!). La comunità era padrona dei pascoli e dei
boschi, gli attuali fondi patriziali.
Era la corporazione saggia, provvidenziale,
appropriata alla economia rusticana. Ripeto che non
449
c'entrava nè il fascio, nè il fascismo, nè la Cina, nè il
Giappone! È quella corporazione, quella federazione,
quella Alleanza che vorrei vedere ricostituita, ridando il
pascolo a chi ha il prato, la palma a chi ha la vigna.
Riesciremo? La procedura sarebbe facile. Convocare
tutti i patriziati ad un'assemblea che sciolga la vecchia
federazione e costituisca quella nuova. Ma non basta. È
la mentalità dei patrizi che bisogna riformare! Finchè
dura la mentalità egoistica e litigiosa del secolo scorso,
non si riescirà che a far rinascere quella formidabile
dilapidazione di patrimonio cui diedero luogo nel secolo
scorso le divisioni di beni passibili di miglior coltura, i
tagli di boschi e la divisione dei denari in proporzione
d'estimo e l'imperversare delle cause per ragioni di
pastorizia, cause che ingrassarono quattro generazioni di
avvocati senza neppure risolvere il tema giuridico più
generale e più particolare: che cosa sia un alpe: in cosa
consista il diritto d'alpe in sè medesimo.
E chi sia patrizio e chi non lo sia.
Abbiamo due casi classici di comuni dove i non
patrizi sono in maggioranza sui patrizi, ma hanno gli
stessi godimenti (tasse riservate). Abbiamo più casi di
patriziati dove quasi tutti i fuochi sono estinti, o dove
fra poco la proprietà comune sarà diventata una
proprietà individuale.
Il risultato è la decadenza irrimediabile del fondo! Il
risultato è che i non patrizi lavorano alla distruzione
dell'ente nel quale si sentono estranei, e rifiutano di
difenderlo contro le usurpazioni. Dai miei ricordi i
450
patriziati si sono lasciati rubare i diritti d'acqua come
forze motrici. Peggio ancora, si sono lasciati imporre
come fuochi patrizi i naturalizzati (figli di vedove
riammesse alla cittadinanza). Tutto ciò perchè i patrizi
senza patriziato lavorarono contro l'interesse comune.
I patrizi sono abituati da oltre un secolo a lasciarsi
accanire tra di loro, a diventare nemici gli uni degli altri.
Bisogna bruciare la legge patriziale! È stupido e
ruinoso che una famiglia ticinese sia considerata come
forestiera nel paese dove abita e dove ha i suoi fondi da
due o tre secoli, e continui ad essere patrizia del luogo
di origine, per secoli e secoli, dopo che non vi ha più
nessun interesse da difendere.
Se i patrizi non comprendono la necessità di farla
finita con le cause fra di loro, e se non comprendono la
necessità di togliere la guerra casalinga fra patrizi e non
patrizi, vorrà dire che debbono rassegnarsi alla sorte. I
loro beni allo Stato od al Comune, ed a loro l'onore di
chiamarsi patrizi, nel senso di nobili senza nobiltà.
Propongo di cominciare con un misura semplice e
vecchia. Napoleone nel 1807, quando era Mediatore
della Svizzera, ordinò che d'un colpo solo, in tutti i
comuni, fossero fatti patrizi tutti quei fuochi che da un
secolo avevano casa e pagavano imposte. Criterio
chiaro, che non faceva torto a nessuno e niente affatto
litigioso!

451
V.
I problemi del Mendrisiotto96

...Il Meyer, nella sua classica opera, Blenio e


Leventina dal Barbarossa a Enrico VII, ha dimostrato
che il fattore principale della storia di quei passi alpini è
la formazione dei comuni rustici sotto la protezione
dell'arcivescovo di Milano: lo Schæfer dimostra la parte
vitalissima ch'ebbe nella formazione del Sottoceneri nel
Medioevo il Comune rustico del Luganese e del
Mendrisiotto, sotto gli auspici della Diocesi di Como.
Le lotte fra le varie famiglie feudali, poscia fra i Conti
ed i Duchi, hanno insanguinato e straziato il
Mendrisiotto, senza poter distruggere quel poco di
patrimonio economico, che avevano costituito le
vecchie comunità (ora malamente dette Patriziati) e
quel molto tesoro di dignità civile ch'esse avevano
conquistato, a traverso le risse secolari dei feudi.
Il magnifico Borgo di Mendrisio, centro di una
campagna fertile e adorna coi due versanti prealpini del
Generoso e del San Giorgio, si è sviluppato
economicamente e civilmente grazie ai buoni ed
ammirevoli rapporti coi comuni foresi. Se a Lugano le
rivalità e le risse fra Como e Milano hanno scatenato
96 Da una conferenza tenuta dall'on. Brenno Bertoni a
Mendrisio il 24 novembre 1932.

452
delle vere campagne militari, e frequenti devastazioni e
saccheggi fra la campagna e la città, non si ha notizia,
che io sappia, di profondi dissensi e di distruzioni nel
Mendrisiotto.
Le vecchie famiglie mendrisiensi vivevano degli
affitti che pagavano i loro massari nella campagna, e i
campagnuoli campavano dei loro prodotti che
vendevano in città. I rapporti reciproci erano umani e
ragionevoli, come attestano le antiche consuetudini ed i
contratti, antiquati oggi, ma appropriati alle condizioni
d'allora.
Forse perciò i Mendrisiotti avevano fama di gente
pacifica, gentile, educata.
Si diceva, quando io ero giovine, che i signorotti di
questa regione avessero sentimenti piuttosto feudali, e
che le elezioni di qui fossero caratterizzate dalla
dipendenza dei massari dai loro padroni. Vi era un poco
di vero ed, in ogni caso, molto di umano in queste
accuse, ma se si pensa che subito oltre la nostra
frontiera era il latifondo lombardo, col suo proletariato
agricolo, colla sua ricchezza mobile di pochi e colla sua
miseria stabile della moltitudine, quell'accusa sociale
sfuma in polemica elettorale. In realtà i Mendrisiotti
campagnuoli, con le loro scuole elementari e coi loro
fitti ed appendici da pagare, vivevano di una vita senza
paragone più elevata di quella del bracciante della
Lomellina.
***

453
Far rivivere quella vita con adeguato grado di
evoluzione, può essere ancora oggi consigliabile, anche
nella confusione di idee e di cosiddette rivendicazioni
dell'êra presente.
L'era attuale è caratterizzata soprattutto dalla
internazionalità della vita scientifica ed economica e dal
contrastante nazionalismo politico.
Internazionalismo e nazionalismo, sono le etichette di
due cose che sembrano escludersi a vicenda, mentre
forse l'una non è che il presupposto dell'altra. Un
filosofo positivista potrebbe dire che «ogni processo
d'integrazione presuppone un processo di
differenziazione», che l'armonia del tutto non è
conseguibile senza la giusta costruzione delle sue parti.
La rettorica potrebbe trovare immagini belle o brutte,
goffe o poetiche com'è il suo ufficio, e la discussione
potrebbe essere protratta a perdifiato...
Praticamente, nel clima storico di questo funestissimo
dopoguerra, di questa pace che è la negazione di ogni
pace politica e la pratica di ogni guerra commerciale,
fino al fallimento di tutti, praticamente, dico, le cose
stanno press'a poco così:
I mali, quali noi li sentiamo, ci vengono per colpe non
nostre, ossia per colpe di potenze e di tendenze straniere
che noi non possiamo impedire con gli atti della nostra
volontà, ma che noi possiamo attenuare almeno in una
certa misura, con la nostra buona volontà e con un poco
di buon senso.

454
I rimedi che ci vengono prescritti, e che leggiamo nei
libri e sui giornali, ci vengono anch'essi dall'estero, e
sono consigliati in circostanze del tutto diverse dalle
nostre. Poichè questi rimedi sono tali in senso figurato,
accettiamone pure il traslato. In termine farmaceutico un
rimedio è tale in virtù di una data sua composizione: ma
se anche la composizione è giusta, agisce solo se bene
preparato, e giova solo se è somministrato a tempo
debito. Tanto più che i rimedi politici e sociali potranno
essere più o meno indovinati per un dato tempo, o per
un dato paese, e non convenire a tal altro, e,
somministrati a contrattempo, od in dose sbagliata,
potranno ammazzare l'ammalato invece di guarirlo.
Ora serriamo l'argomento un poco più presso.
Ciò che è male per la Svizzera, potrebbe ancora
essere un bene per la Russia. Ciò che è rimedio per la
Russia, potrebbe avere effetti tossici applicato al Canton
Ticino. Ma ecco affacciarsi una quantità di medici, i
quali, forse in piena buona fede, forse meno, dànno per
sicura la loro diagnosi per tutti i mali politici o sociali
dell'universo mondo ed hanno pronto la loro ricetta che
non falla. Onesti medici non ammettono mai di poter
sbagliare: essi si mostrano sempre certi,
dogmaticamente certi della diagnosi, della prognosi e
della cura, garantiscono la infallibilità della guarigione a
chi li ascolta, e guai a contraddirli.
È vero che questi medici sono molti, e tra loro non
vanno mai d'accordo: è vero che uno prescrive la dieta
dove l'altro ordina la supernutrizione: che uno
455
pronostica la guarigione dove l'altro la morte: ma presi
in complesso si somigliano tutti in quanto sono tutti
sicuri di quello che insegnano e di quello che predicano
a quella gran malata che è l'umanità. L'umanità presa
addirittura nel suo complesso. Ma ciò è ancora una
figura rettorica, poichè all'umanità persona fisica,
nessuno ha mai toccato il polso. Se non dell'umanità in
blocco, assumono la cura delle singole sue parti: delle
differenti nazioni, ad esempio. E uno fa la diagnosi della
Germania (altra astrazione!), un altro la fa della Russia,
un altro dell'Italia, e ciascuno dice come debbano essere
curate; beninteso sempre con le figure rettoriche, i tropi
ed i traslati e soprattutto l'iperbole.
Questi curanderos (poichè la facoltà di medicina per
gli organismi collettivi non esiste), si contraddicono tra
di loro e si maledicono a vicenda, e per guarire la loro
ammalata prescrivono loro, a piacimento, la pace o la
guerra, il disarmo o le corazzate, il commercio libero o
il protezionismo, l'inflazione o la deflazione. E tutti si
diranno infallibili, non dimenticate!
E poi intervengono quelli per i quali l'umanità non
deve dividersi in nazioni nè in Stati territoriali, mediante
confini, ma in classi sociali, per esempio in capitalisti e
proletari, in produttori e consumatori, in contadini ed
industriali, come se non fosse la regola in ogni casa di
Mendrisio e direi quasi in ogni famiglia, che la gente,
presa singolarmente, ha un piede nell'una e uno nell'altra
classe; e come se fosse insolito che uno il quale non
possiede nulla stia meglio d'un altro che ha la sostanza,
456
ma anche i debiti; come se fosse impossibile che uno
che è produttore di grano sia invece compratore di latte,
ed uno che fabbrica le scarpe comperi invece i cappelli.
Come vorreste, egregi concittadini, che in questo
diluviare di iperboli, di traslati, di sineddoche e di
metonimie, presi per tante realtà sostanziali, e in questo
tumultuare di profeti e di profezie, di fattucchiere e di
oroscopi, uno possa trovare la strada buona?
***
No. Bisogna tornare al buon senso ed alle parole
semplici e piane, e allora ci si intenderà. E bisogna che
gli uomini di partito si persuadano che i loro programmi
non sono nè dogmi, nè catechismi, ma oneste
aspirazioni (almeno si devono presumere tali), sulle
quali è lecito discorrere senza essere trattati da ignoranti
o da reazionari, da imbecilli o da visionari, da sfruttatori
e da vampiri, o da vil plebe o canaglia delinquente.
Bisogna che gli uomini che sentono la dignità della loro
nazione si riducano a riconoscere che una nazione non
può essere ricca e prosperosa, colta e civile, se non alla
condizione di convivere con altre nazioni prosperose,
colte e civili. Bisogna ancora che l'industriale, o il
commerciante, o l'impiegato si adatti a sopportare, e se
possibile anche ad amare il campagnuolo, il contadino;
anche quello dagli zoccoli il quale non domanda meglio
che di portar scarpe, anche quello che cambia una
camicia ogni quindici giorni, ma non aspira ad altro che
ad assicurare ai suoi figli le due camicie per settimana.

457
***
...Per il Distretto di Mendrisio, regione
eminentemente terriera, il problema sociale è forse più
facile che in altre parti del Cantone. Un po' di industria
l'ha, un po' di commercio l'ha, un po' di terra buona se
non ottima, l'ha di certo: non meno certamente ha una
classe borghese non troppo superba, non troppo
aristocratica, non troppo stupida.
A far rifiorire il Mendrisiotto basterebbe un poco di
buona reciproca comprensione. I proprietari dovrebbero
collaborare sempre più coi loro massari. Per aumentare
il prodotto della terra bisogna trasformare e migliorare
le colture, ciò che non si ottiene senza qualche maggior
investimento di capitale, ma anche di lavoro, ciò che
non si fa senza un po' di sforzo dei contadini. A piantar
la vigna, per esempio, occorrono capitale e lavoro
insieme, il cui reddito non può essere immediato, ma
comincerà solo fra cinque anni. Nè il massaro da solo,
nè il contadino vi possono arrivare. Una volta il padrone
poteva dire al massaro ranget: adesso non lo può più;
una volta poteva raccomandare ai suoi figli di non usare
troppa confidenza coi villani, per tenerli in rispetto:
adesso questa regola è disastrosa. Una volta era
possibile legare i massari con contratti leonini: adesso
bisogna essere ragionevoli, secondo i criteri dell'epoca
presente. Una volta si poteva far senza del credito
agrario, adesso non più. Adesso tocca proprio ai
padroni, essi che sono anche un poco capitalisti, ad

458
intendersi con le banche, per organizzare il credito.
Tocca a loro anche l'entrare nei sindacati contadineschi
per organizzare le cooperative di compera, di vendita e
di consumo.

459
VI.
Per la pastorizia, per l'agricoltura
e per le popolazioni delle valli97

Nella mia mozione relativa al raggruppamento dei


fondi ed al catasto delle proprietà nelle regioni elevate
ho avuto l'occasione di raccomandare alla sollecitudine
del Governo federale la popolazione delle alte Valli
montane, le cui condizioni economiche diventano
sempre più inquietanti.
L'altro ieri, parlando quale relatore della Gestione del
Dipartimento Politico ritornavo per altra via
sull'argomento, dicendo come la troppo intensa
emigrazione delle popolazioni montane palesi uno stato
di malessere pieno di pericoli per l'avvenire.
Il Consiglio federale ha dichiarato nell'una e nell'altra
occasione, per la bocca dei consiglieri Muller e
Hoffmann, che avrebbe tenuto calcolo dei miei voti e li
avrebbe studiati con benevole cura.
La gestione del Dipartimento degli Interni, ramo
forestale, mi porge ora l'occasione di completare
l'esposizione delle mie idee su ciò che la
Confederazione può e deve fare per le popolazioni di
montagna. Avrei potuto farlo anche a proposito del
97 Discorso pronunciato dall'on. Bertoni al Consiglio
nazionale nella tornata del 20 giugno 1915.

460
Ramo Agricoltura, ma come vedremo la materia è
strettamente connessa.
L'idea fondamentale è questa: che i problemi della
polizia forestale, della polizia delle acque e della
bonifica dei pascoli e prati alpini, i quali dipendono
attualmente dalla attività di due dipartimenti e di tre
divisioni, dovrebbero essere riuniti sotto una sola
direzione, studiati con criteri univoci, regolati da una
sola legge, finanziati da un solo bilancio. E mi spiego:
I nostri ordinamenti forestali federali sono sorti
sull'esempio di precedenti ordinamenti cantonali sorti
nelle regioni dove il problema forestale era di una
soluzione relativamente facile, ond'è che hanno subito
teso alla specializzazione del servizio forestale. Ancora
in un'epoca recente la direzione forestale centrale
raccomandava al Cantone Ticino di non caricare agli
ispettori forestali altre mansioni che non fossero
strettamente forestali, in altri termini, di non occuparli
in faccende di carattere agricolo e pastorizio.
D'altra parte gli ordinamenti relativi alla correzione
delle acque hanno avuto di mira principalmente la
correzione dei grandi bacini nelle regioni inferiori, come
le acque del Giura, le pianure del Reno, del Rodano e
del Ticino, ecc., mentre la correzione dei torrenti di
montagna veniva trattata come un accessorio, in quanto
era necessaria per le regioni inferiori.
Allo stesso modo le grandi opere di bonifica del suolo
furono compiute nelle regioni più ricche, nei paesi di
possibile coltivazione intensiva e di speculazione
461
capitalistica. La correzione dei prati montani e dei
pascoli, quantunque sia stata curata in Isvizzera più che
negli altri paesi, è stata finora molto al disotto del
bisogno, cosicché la popolazione delle regioni elevate
non ha fatto che diminuire e diminuisce sempre più.
Ora queste tre specializzazioni, le quali
corrispondono egregiamente alle condizioni del piano,
contraddicono alle condizioni del monte. In montagna
non si possono separare i servizi forestali, idraulici e
pastorizi senza danno per i loro fini. Riunendoli invece
si troverà modo di conseguire un molto maggior
risultato e forse con minore spesa.
***
È a questa mancanza di consenso fra la azione
forestale e l'azione pastorizia che io attribuisco la
scarsità dei successi finora ottenuti nel Cantone Ticino
(e non nel solo Ticino) in materia forestale. Da
trent'anni lo Stato e la Confederazione fanno sacrifizi
ingenti per la ricostruzione dei boschi, e il risultato
ottenuto è magro e misero come ognuno può vedere.
Le Autorità forestali si lagnano in generale della
scarsità dei successi, che attribuiscono per lo più alla
cattiva volontà delle amministrazioni comunali e
patriziali, al poco amore della popolazione per le cose
forestali, ecc.
Fondamentalmente la diagnosi è giusta nel senso che
il problema forestale non è tanto un problema tecnico
quanto un problema politico e psicologico. Non solo nel

462
Cantone Ticino, non solo nel Giura la ricostruzione
forestale incontra l'indifferenza e talvolta la resistenza
della popolazione. In tutti i paesi disboscati, in tutte le
regioni mediterranee il problema si pone nei medesimi
termini che sono questi:
Le popolazioni montane non sentono o sentono poco
l'immediato bisogno di nuovi boschi. Questi infatti sono
voluti dallo Stato nell'interesse delle generazioni future.
Ma questi interessi indiretti urtano con gli interessi
diretti e attuali delle popolazioni che vivono della
pastorizia. I rimboschimenti esigono sempre una
limitazione del pascolo, almeno temporanea, e i
montanari non trovano giusto di sopportare senza
compensi questi sacrifici nell'interesse di altre
popolazioni più ricche o delle generazioni avvenire. Da
questo conflitto d'interessi nasce generalmente, almeno
negli inizi, la resistenza passiva delle popolazioni
montane all'attività dello Stato pro sylvis. Questa
resistenza è tanto più grave di conseguenze, quanto
meno è densa la popolazione delle regioni di cui si
tratta. Dove la popolazione non arriva a 10 abitanti per
chilometro quadrato, come nella Valle Maggia, lo Stato
dovrebbe avere un esercito di ispettori e guardie per far
rispettare le discipline forestali, a meno che trovi il
modo di amicarsi la popolazione, di cointeressare le
amministrazioni locali, facendone delle alleate fedeli e
sicure.

463
Questa seconda alternativa è la sola possibile ed è
anche relativamente facile. Basta coordinare le opere
forestali con altrettante opere per la pastorizia.
È ciò che l'Italia ha fatto con saggi provvedimenti che
mi permetto sottoporre alla vostra benevole attenzione.
L'Italia aveva tentato risolvere il problema forestale
mediante una legge che dettava norme eguali pel piano
e pel monte, mediante il così detto vincolo forestale. In
virtù di quel vincolo tutte le regioni alpine suscettibili di
rimboschimento dovevano essere rimboscate e nessuna
parte dei boschi esistenti doveva essere ridotta. Sono i
principi stessi della nostra legge, ma rimasero lettera
morta, pressapoco come nel Ticino, appunto per la
medesima causa: l'antagonismo degli interessi della
pascolazione, che sono immediati ed urgenti, con quelli
della selvicoltura che sono indiretti e futuri.
Perciò con la legge 2 giugno 1910 lo Stato convertiva
l'amministrazione forestale in amministrazione delle
acque e foreste e vi incorporava cioè il regine
economico delle acque, dei pascoli e dei prati naturali
delle montagne. Questa legge tendeva soprattutto a due
scopi: conciliare il pascolo col bosco, facendo seguire
contemporaneamente le opere di miglioramento dell'uno
e dell'altro, ed espropriare ai Comuni ed ai privati, per
farne un demanio di Stato, tutti i terreni montani che
potessero servire per il bosco ma non per il pascolo. In
altri casi lo Stato assume la gestione dei boschi e terreni
non utilizzati dal Comune, per essere restituiti ai
Comuni dopo ridotti a miglior coltura. Tutti i terreni
464
rimboscati vengono esentati da ogni imposta, per anni
15 se cedui, per anni 40 se d'alto fusto.
Mentre le nostre leggi (parlo del Ticino) impongono
delle tasse di utilizzazione sui boschi, lo Stato italiano
offre gratuitamente l'opera dei suoi funzionari anche ai
privati per l'assistenza e la consulenza nella loro attività
economica e specialmente per la creazione di piccole
industrie forestali.
I terreni su cui è sospeso il pascolo beneficiano di una
temporanea riduzione delle imposte. Non basta! Per
favorire la creazione di piccole industrie alpine lo Stato
concede gratuitamente l'uso delle forze d'acqua fino a
15 cavalli.
Con altra legge del 1912 (21 marzo) l'Italia stabiliva
il principio della correzione di tutti i corsi d'acqua nei
bacini montani coordinata con le opere di
rimboschimento e di bonifica dei pascoli. A questo fine,
essendo necessario sospendere la pascolazione nei
terreni rimboscati, concede una indennità annua ai
proprietari ed ai comuni per la sospensione di questi
diritti.
Come voi vedete, l'intento principale di questi
provvedimenti è quello di interessare le popolazioni di
montagna alle opere di cui si tratta e di conquistare la
loro simpatia, usando loro la debita giustizia.
Permettetemi di dire che io trovo la politica forestale
seguita dall'Italia molto più avveduta di quella che noi
seguiamo.

465
Ma l'Italia sta preparando qualche cosa di meglio
mediante un disegno di legge al quale hanno collaborato
illustri uomini politici, in primo luogo Giolitti, Marcora,
Luzzatti, Nitti, Cermenati, ripresentato l'ultima volta
alla Camera nel maggio 1914.
In Italia, come nel Canton Ticino, e come penso
anche nei Grigioni, esistono vaste estensioni di terreno
coperte di inutili cespugli, di vegetazioni parassitarie,
che non sono nè pascoli nè boschi: esistono pure dei
terreni da pascolo così deteriorati da costituire un
pericolo per il regime delle acque. Il progetto intende
mettere questi terreni in riserva. «La riserva importa la
sospensione del godimento del terreno, sotto qualsiasi
forma per un periodo non maggiore di dieci anni,
durante i quali lo Stato eseguisce a proprie spese gli
opportuni lavori di rinsaldamento e inerbamento che
non mutino la destinazione del terreno». Se quindi il
terreno era prima un pascolo, rimarrà un pascolo, dopo
però essere stato rinsaldato e inerbato a tutte spese
dello Stato: e quasi ciò non bastasse, «i proprietari
ricevono in indennità una somma annuale, tenuto
calcolo del reddito all'epoca dell'inizio dei lavori di
rinsaldamento».
Vogliamo ora sentire come l'illustre uomo di Stato
Giovanni Giolitti giustifica queste due proposte. Egli
dice che non basta imporre sacrifici ai montanari, sotto
pretesto che questi sacrifici sono necessari alla sicurezza
dei paesi sottostanti: bisogna piuttosto conciliare
l'interesse generale dello Stato con gli interessi
466
immediati dell'agricoltura montana e della pastorizia.
«Si è persuasi della grande utilità dei pascoli alpini e
della necessità quindi di proteggerli e di favorirli con
provvida legislazione, non già di sacrificarli e di
sopprimerli per dare il passo ad altri interessi sieno
pure quelli del più bel bosco». A coloro che con la solita
prevenzione, accusano di ignoranza i montanari perchè
non accettano incondizionatamente i rimboschimenti,
egli risponde «Vero è che da molti si accetta quasi come
un assioma il detto che la resistenza degli abitanti della
montagna ai rimboschimenti derivi da ignoranza dei
veri loro interessi, cosicché si debba quasi riguardare
come un beneficio per i medesimi il costringerli loro
malgrado a tale mutazione di colture. Questo argomento
però non risponde alla realtà delle cose, poichè i
montanari che ricusano di imboschire le loro terre non
sono spinti da ignoranza, ma dall'impossibilità in cui si
trovano di seguire una via diversa». Da ultimo
l'onorevole Giolitti si rivolge a coloro che pretendono
che i montanari debbano rinunciare al pascolo senza
indennità, e dice che questo si impone ai terreni elevati
come vera servitù a favore dei terreni sottostanti, e
siccome i terreni elevati sono generalmente poveri e
piccoli, ne risulta che si impone ai poveri un sacrificio a
favore dei ricchi.
Signor Consigliere federale. Io non mi stancherò mai
dal ripeterlo. Dobbiamo fare qualche cosa di più per le
alte vallate. La statistica prova che la loro popolazione
diminuisce rapidamente. Ciò avviene in tutta la
467
Svizzera, ma soprattutto nel Ticino. Non è questa la
prova che noi non abbiamo fatto tutto il nostro dovere
verso queste popolazioni? Io le raccomando quindi di
studiare come si possano conciliare gli interessi forestali
con quelli della pastorizia e delle industrie montanare.
***
Al discorso del sig. Bertoni rispose, nella seduta
pomeridiana, l'on. Calonder, Consigliere federale.
Calonder dice che il postulato dell'on. Bertoni è
inspirato da un alto pensiero patriottico, quello di venire
in aiuto alle popolazioni di montagna ed arrestare lo
spopolamento delle vallate alpestri, procurando loro
migliori condizioni economiche. Il signor Bertoni vuole
lo sviluppo dell'economia forestale, ma lo vuole (e
questo è il fondamento delle sue proposte) senza
pregiudizio degli altri interessi economici, anzi in
connessione con gli interessi agricoli, pastorizi e
industriali di quelle regioni. L'esempio delle ultime
misure prese in Italia è molto interessante. Noi non
siamo la perfezione e volontieri vediamo se abbiamo
qualche cosa da apprendere dagli altri Stati.
Senza entrare nel merito delle idee pratiche
prospettate dall'on. Bertoni egli promette di esaminarle e
studiarle con la massima simpatia.
Bertoni ringrazia per le cortesi dichiarazioni del sig.
Calonder, fiducioso che, comunque egli consideri il

468
problema, arriverà a una soluzione soddisfacente per il
Cantone Ticino, com'anche per il suo Grigione98.

98 Dal "Dovere" del 21 giugno 1915.

469
VII.
Lo spopolamento e l'emigrazione99

Il successo morale della mozione Baumberger è


dovuto, principalmente, ad uno speciale stato d'animo.
Lo sportivo che ebbe occasione di conoscere davvicino
la vita del contadino della montagna; i romanzieri ed i
novellisti, quale Ramuz, che commossero i lettori coi
loro racconti drammatici, tragici talvolta, di questa vita
alpina, rappresentata dalla stupida rettorica nell'aureola
dell'idillio virgiliano dell'egloga di Trissotin; la statistica
inesorabile che segnalò lo spopolamento delle regioni
elevate; infine la crisi demografica, concorsero a far
comprendere al mondo che occorre veramente
dell'eroismo per resistere alle privazioni ed adempiere ai
doveri imposti dalla natura agli abitanti delle montagne.
Ma uno speciale stato d'animo non significa sempre
comprensione delle reali condizioni di fatto, e molti
errori si infiltrarono, di conseguenza, nei dibattiti che ne
derivarono. In un primo tempo si ritenne che il
fenomeno dell'emigrazione dei montanari verso la
pianura e verso la città, fosse un fatto nuovo provocato
dalla moderna civilizzazione. Ma non è così. Il fatto si
mantiene costante attraverso tutte le epoche e sotto tutti
99 Discorso pronunciato dall'on. B. Bertoni al Consiglio degli
Stati nel marzo 1932. (Dal "Dovere" del 18 marzo 1932).

470
i climi, tanto ai Pirenei che al Caucaso, nell'Appennino
come nelle Sierre spagnuole. La montagna, per la sua
natura e per la sua funzione, costituisce il serbatoio della
razza umana, di questa razza che si logora nelle città e
che il soverchio lavoro cerebrale conduce alla
decadenza.
Conosco delle valli, sul versante meridionale delle
Alpi, dove nessuna popolazione si stabilì per propria
volontà, dei villaggi che poterono essere popolati solo
da fuggiaschi sospinti, inseguiti, costretti ad
abbandonare le loro terre da qualche invasione dei
conquistatori, alle epoche di trasmigrazione di popoli, o
più tardi, nel Medio Evo, in seguito a qualche rivolta, a
qualche espulsione politica o a qualche persecuzione
religiosa.
Si ha quindi diritto di compiacersi del progresso dei
costumi e delle istituzioni se, ai giorni nostri, la
popolazione non teme di scendere alla pianura a
condurvi una vita umanamente tollerabile. Non
esageriamo dunque, non disperdiamo i mezzi a nostra
disposizione nel voler realizzare un ideale astratto,
mentre che la realtà ci chiama.
È in questo stato d'animo che voto con entusiasmo
l'entrata in materia, senza tuttavia rinunciare al diritto di
critica.
Una critica è possibile, tanto sull'inchiesta che sul
rapporto del Consiglio federale, critica che tratta
specialmente di una lacuna. Appare chiaro, qualunque
cosa si dica o si faccia, che vi saranno sempre dei
471
giovani montanari costretti ad emigrare. Si potrà
deplorare la loro decisione, ma non è questa una ragione
per disinteressarsi della loro sorte e della possibilità, o
meglio ancora, della probabilità del loro ritorno in
patria.
È luogo comune, ormai generalizzatosi, che il figlio
del paesano è attirato dalla città. Ma da quale città? In
che ramo di attività?
Se gli si trovasse occupazione in una città del suo o di
un altro Cantone, non si imbarcherebbe certo per
l'Africa. Se deve andare all'estero, non è però per noi
indifferente che si rechi in America, da dove
difficilmente si ritorna, o in una città della Francia,
dell'Italia dalla quale si può ritornare in ventiquattro ore
e perfino in due ore. Già al tempo del regime delle
corporazioni chiuse, che lasciava al nostro «Bursche»
bernese la unica risorsa di arruolarsi come soldato,
questi faceva poi ritorno al paese e riprendeva radici nel
suolo natale.
Nel 19.esimo secolo, sotto il regime della libertà di
lavoro e di scambio, l'emigrante si dedicò ai piccoli
mestieri e ad ogni genere di commercio.
Quest'emigrazione si risolse in un beneficio per le nostre
valli dato che il ritorno era abituale. Quei paesani
facevano ritorno al loro paese dopo di aver forse
raggranellato all'estero una piccola sostanza che serviva
a finanziare il credito agricolo, anche di un'intera
regione.

472
Il male sopravvenne quando incominciò
l'emigrazione senza ritorno e specialmente l'emigrazione
in America.
Tutti sono d'accordo su questo punto, ma nulla si
tentò acciocchè l'emigrazione svizzera seguisse una
direzione più vantaggiosa per l'economia nazionale.
Nulla! Durante il periodo del libero scambio questo non
intervento era forse giustificato dalla teoria del non
intervento dello Stato in materia economica. Ma adesso?
Non ci si rende conto che nello Stato economico sorto
con la nuova Europa, questo «nulla» costituisce un vero
errore? Noi abbiamo l'aria di credere ancora oggi, nelle
condizioni di lavoro del mondo del dopo guerra, che le
corporazioni dell'antico regime siano sciolte, mentre in
realtà il nuovo regime si avvia sempre di più verso il
sindacalismo o verso lo Stato corporativo della nuova
Italia.
Le nazioni chiudono le loro porte alla mano d'opera
straniera, l'America contingenta l'immigrazione,
l'Inghilterra, la Francia, l'Italia chiudono le loro frontiere
alla nostra mano d'opera e noi facciamo altrettanto con
uno zelo che alle volte può apparire esagerato.
In simili condizioni non basta elargire al giovane
montanaro il consiglio, in se stesso eccellente, di
rimanere a casa sua. Si deve trovare, nella
Confederazione stessa, uno sbocco alla sua esuberante
attività per evitare che egli, disperato, non emigri in
America o non si arruoli nella Legione straniera. E se,
ciononostante, egli andrà al di là dell'Oceano, è forse
473
ancora opportuno disinteressarsi della sua sorte (salvo a
fargli pagare la tassa militare) mentre che la Germania,
ad esempio, protegge ed organizza sistematicamente la
sua emigrazione al Brasile e nei più piccoli Stati
dell'America latina?
Noi abbiamo, costituzionalmente, un Ufficio
dell'emigrazione, non solo, ma anche un Ufficio del
lavoro. Mi permetto osservare che è un errore
dimenticarlo proprio mentre pretendiamo di risolvere i
problemi etnici ed economici della montagna svizzera.
Cari colleghi, rinuncio a formulare una proposta in
merito a questa lacuna, ma ciò non toglie che essa esista
ed io mi faccio un dovere di insistentemente richiamarla
all'attenzione del Consiglio federale; non soltanto di
segnalarla alla benevolenza del Dipartimento
dell'economia pubblica, ma anche al Dipartimento
politico dal quale dipende l'Ufficio dell'emigrazione.

474
VIII.
Registro fondiario
e raggruppamento dei terreni100

Ha la parola per lo sviluppo della mozione l'on.


Bertoni101.
«Poichè non parlo individualmente – disse egli – ma
a nome di un gruppo di mozionanti, permettetemi di
esprimermi in francese.
Il testo della mozione è il seguente: «Il Consiglio
federale è invitato a studiare le misure da prendersi,
nell'interesse del catasto e del Registro fondiario, per
aiutare i Cantoni nell'opera di raggruppamento dei
terreni».
Esso è specialmente invitato ad esaminare se non si
possa portare in aumento del sussidio per i
raggruppamenti la differenza fra il costo della
misurazione officiale dopo il raggruppamento e quello
della stessa operazione prima o senza il
raggruppamento.
Esso si basa sugli articoli 702, 802, 833 e 852 del
Codice civile svizzero relativi al frazionamento dei
terreni e al raggruppamento delle parcelle. Questo mi
100 Discorso pronunciato al Consiglio nazionale dall'on.
Bertoni nella seduta dell'8 aprile 1915.
101 Dal "Dovere".

475
dispensa da una lunga esposizione dottrinale, costellata
di dati statistici sulla natura e la gravità del male di cui
si tratta. È una questione sulla quale tutti sono
d'accordo, almeno per quanto riguarda il principio. Vi è
una parte considerevole del nostro suolo nazionale,
soprattutto nelle regioni alte del Ticino, dei Grigioni,
Vallese, Giura bernese, vodese e neocastellese, così
come in certe località dell'Oberland bernese dove la
proprietà fondiaria è rovinata da un frazionamento
eccessivo, aggravatosi di generazione in generazione in
conseguenza della ripartizione dell'eredità.
Lo scopo della nostra mozione è triplice:
1. favorire, col raggruppamento delle parcelle, la
produttività del suolo;
2. facilitare i lavori di misurazione catastale in
previsione dell'introduzione del Registro fondiario;
3. rendere il Registro fondiario maggiormente pratico
dal punto di vista della piccola proprietà.
Ad 1.
Dal punto di vista del reddito del suolo, la nostra
mozione s'avvicina a quelle dei colleghi Balmer e Moser
che abbiamo discusso. È necessario aumentare il reddito
agricolo: noi abbiamo un eccesso di produzione di latte,
ma soffriamo di una deficienza di cereali e patate:
bisogna trasformare le colture, intensificare la
coltivazione dei terreni: ma ogni trasformazione di
cultura suppone una proprietà abbastanza estesa ed

476
uniforme perchè l'anticipazione del capitale e del lavoro
necessario sia rimunerativa.
Il frazionamento rende impossibile la cultura
intensiva e razionale: esclude il lavoro meccanico, rende
la costruzione delle siepi impossibile o troppo costosa,
impedisce l'utilizzazione delle materie fertilizzanti,
condanna il contadino ad una routine immutabile:
occasiona una perdita di tempo e di mano d'opera
enorme: in conclusione da una parte aumenta le spese e
dall'altra diminuisce il reddito. In più, ogni
frazionamento aumenta i termini, i rapporti coi vicini, le
servitù legali; rincara le mutazioni di proprietà per
alienazione o per divisione e crea la incertezza dei diritti
reali. Conseguenza finale: il deprezzamento del suolo,
l'abbandono della terra e lo spopolamento rapido delle
regioni colpite da questo flagello. In ogni regione dove
fortemente esiste il frazionamento l'emigrazione è
enorme e se questa è parzialmente compensata da
un'immigrazione straniera, questo produce d'altra parte
l'imbastardimento della popolazione indigena.
Si cercò di combattere questo stato di cose
sussidiando il rimaneggio delle parcelle dal punto di
vista del miglioramento dei terreni. Questo espediente è
insufficiente: è ben lontano dal risolvere la questione
fondamentale. È vero che ogni rimaneggio è
accompagnato da lavori di sterramento, così costruzioni
di strade, drenaggi, livellamenti, ecc. che giustificano la
sovvenzione dal punto di vista del miglioramento del

477
suolo, ma questi lavori non son altro che eccidentali: è
così l'accessorio che si sovrappone al principale.
Bisogna trovare una soluzione più radicale; bisogna
considerare il rimaneggio in sè stesso come un
postulato fondamentale dell'agricoltura nazionale. La
difficoltà non è d'ordine tecnico, ma dirò quasi d'ordine
psicologico. Tutti i contadini comprendono l'utilità del
rimaneggio; e se non si decidono a compierlo non è
causa i lavori ch'esso comporta o che può occasionare,
ma bensì causa la forza di tradizione, la sfiducia, il
misoneismo, la paura di provocare dei fastidi coi
creditori ipotecari, ecc. Siate certi che se s'imponesse il
principio del rimaneggio, i lavori di miglioramento
verrebbero fatti spontaneamente anche se non venissero
sovvenzionati.
Bisogna che la Confederazione studi un nuovo
programma, consistente a spingere i proprietari al
rimaneggio per se stesso, considerato come una
condizione essenziale al reddito dei terreni.
Ad 2.
L'occasione si presenta a proposito della misurazione
dei terreni per l'introduzione del Registro fondiario. Mai
più ve ne sarà una simile. I proprietari pagheranno le
spese di questa operazione fino dove queste non saranno
sopportate dalla Confederazione. Ora, il rimaneggio
delle parcelle è il miglior mezzo per diminuire
sensibilmente queste spese. A sua volta la

478
Confederazione vi è assai interessata perchè avrà a suo
carico la maggior parte delle spese. Può darsi che mi
sbagli, ma a mio parere in questo campo la
Confederazione otterrebbe un'economia di parecchi
milioni. Infatti più il terreno è frazionato, più i limiti
sono numerosi e irregolari, più il rilievo geometrico
diventa difficile e complicato. Contrariamente più sarà
ridotto il numero delle parcelle, più le strade saranno
rettilinee, i limiti coordinati e le linee ottagonali, più le
spese saranno diminuite.
Il rimaneggio deve dunque precedere la misurazione.
Osservo a questo proposito, che per il rimaneggio, un
rilievo più o meno sommario può bastare. Per i terreni
di poco valore una misurazione qualunque è sufficiente;
in ogni modo il rilievo alla tavoletta può bastare a tutte
le esigenze.
Noi abbiamo pensato che, poichè la Confederazione
realizzerebbe un'economia coll'applicazione di questo
modo di procedere, sarebbe giusto di impiegarne una
parte almeno a beneficio diretto delle opere di
rimaneggio.
Ad 3
Questa idea è giustificata anch'essa dal punto di vista
della praticità del Registro fondiario. Noi abbiamo fatto
un Codice Civile che rappresenta, teoricamente, l'idea
della regolamentazione dei diritti reali: solo ci
domandiamo come esso potrà funzionare nelle regioni,

479
dove il terreno è povero ed eccessivamente frazionato.
Occorre per la misurazione un rilievo trigonometrico e
per ogni parcella un foglio nel Registro. Se si dovessero
applicare alla lettera queste prescrizioni bisognerebbe
spendere per alcuni terreni una somma superiore al
valore del terreno stesso, per risultare a un registro
inutilizzabile causa le sue sproporzioni enormi. Ho
calcolato che nel Cantone Ticino si dovrebbero costruire
degli edifici speciali per conservarvi i volumi
innumerevoli del gran libro.
Le spese d'iscrizione per i cambiamenti di proprietari
e per le ipoteche renderebbero impossibile ogni
operazione: anche la procedura di sequestro e
realizzazione dei beni diventerebbe inutile se si dovesse
ripetere l'iscrizione delle centinaia di volte, vale a dire
per ogni pezzetto di terreno che costituisce l'avere di un
contadino.
Si cercò di ridurre questi inconvenienti
coll'espediente dei fogli collettivi. Questi
permetterebbero di ridurre le spese d'iscrizione a prezzo
di una quantità di svantaggi che qui è inutile enumerare,
ma non diminuirebbero per niente le spese di
misurazione catastale. Si può aggiungere d'altra parte
che se i fogli collettivi divenissero la regola, lo scopo
del Registro fondiario mancherebbe a sua volta.
Dunque, anche da questo punto di vista il rimaneggio
delle parcelle s'impone come necessità nazionale.
***

480
Poichè ho la parola, permettetemi, signor Presidente e
colleghi, d'attirare la attenzione del Consiglio federale
su di una questione connessa a quella che ho esposto.
Si dice che le prescrizioni del regolamento federale
sulla misurazione dei terreni, eccellenti per le città e in
generale per i terreni di qualche valore, sono inadeguate
al valore del suolo nelle campagne lontane e soprattutto
in montagna. Si dice che le spese di misurazione, come
sono previste, costeranno da 8 a 10 centesimi il m.q. Io
penso che vi sia in ciò qualche esagerazione sapendo
che vi sono in Isvizzera delle regioni intiere dove il
valore del terreno è calcolato da 1 centesimo fino a 20
centesimi il m.q. e dove 1 fr. per m.q. rappresenta già un
prezzo eccezionale e d'affezione. Tuttavia è opportuno
d'informarsi esattamente su questo oggetto e
tranquillizzare se è d'uopo le regioni interessate.
Signor presidente, signori colleghi. Dobbiamo
pensare oggi più che mai agli interessi vitali delle alte
vallate, delle popolazioni montanare, questi grandi
serbatoi di energie umane che si spopolano e si
spengono dopo avere, durante dei secoli, nutrito della
loro linfa vigorosa le nostre città e le nostre industrie.
Le opere del progresso hanno talmente favorito la
città e la pianura che la loro popolazione è raddoppiata.
La montagna contribuì a pagare per tutti, ma si fece per
essa solamente quello che esigeva l'interesse della
pianura, dei rimboschimenti e delle ferrovie per turisti.
Preghiamo, on. colleghi, il Consiglio federale a che
s'interessi delle nostre popolazioni montane perchè sono
481
desse che conservarono più pura e più forte la tradizione
comune della patria, lo spirito dell'indipendenza e
l'amore della terra. Questa terra in cui una razza robusta
si radica, è impoverita e sprezzata in conseguenza degli
errori legislativi dei nostri padri. Si credette di fare il
benessere di queste popolazioni dando loro delle leggi
che non eran fatte per esse, si sono spinte le stesse alla
divisione dei loro beni e le si sono immiserite a nome di
un preteso progresso legislativo; noi abbiamo il dovere
di ricostituire la loro proprietà che è anche il loro
istrumento di lavoro.
Per questo noi raccomandiamo la nostra mozione alla
benevolenza del Consiglio federale102.
102 Facciamo seguire, in sunto, la risposta data dal cons. fed.
Müller all'on. Bertoni ed ai confirmatari della mozione:
Müller, consigliere federale e capo del Dipartimento federale
di Giustizia e Polizia, dichiara che il Consiglio federale accoglie
con benevolenza la mozione, della quale riconosce la grande
importanza. Sgraziatamente non può pronunciarsi sopra le
questioni speciali trattate dal signor Bertoni, perchè il segretario
dell'Ufficio del Registro fondiario che era incaricato dell'esame
approfondito della mozione è stato chiamato in servizio militare.
D'altra parte la questione dovrà essere studiata in collaborazione
col Dipartimento dell'Agricoltura. Egli sarebbe lieto se si
confermasse che lo scopo dei mozionanti è compatibile con la
economia del bilancio: teme però esattamente il contrario, cioè
che si avrà una maggiore spesa. In ogni modo qualche cosa
bisogna fare per le località interessate. Quanto alla questione
accessoria trattata dal signor Bertoni, egli è pure disposto a
studiare come si possano ridurre le spese previste per il Catasto
nelle regioni elevate e proporzionarle meglio al valore reale del

482
IX.
Le mozioni Baumberger e Bertoni103

Onorevoli signori presidente e colleghi,


Malgrado tutto l'interesse che si manifesta da qualche
tempo per le popolazioni montanare, pochi si fanno
ancora una idea esatta dei problemi da risolvere...
Non vorrei, da parte mia, che se ne facesse una
questione sentimentale, ispirata da un'idea di carità o di
beneficenza, alla quale occorra sacrificare un po' di
danaro. Montanaro di razza, non accetterei una
protezione delle popolazioni delle alte valli alla guisa
della protezione della flora alpina o della protezione
degli animali.
No, le montagne svizzere non sono una regione
qualunque, alla quale noi si debbano alcuni riguardi di
carità cristiana o di filantropia borghese. In tutta verità
vi dichiaro che la mozione Baumberger, nonchè la mia,
concernono più della metà del suolo della patria. In tutta
verità vi dichiaro che le Alpi ed il Giura sono l'ossatura

terreno.
103 Discorso pronunziato, in francese, dall'on Bertoni al
Consiglio degli Stati, nella tornata del 6 ottobre 1926. Il discorso
venne pubblicato nel "Dovere" dell'8 ottobre del medesimo anno.
La traduzione è opera della Redazione del quotidiano
bellinzonese.

483
della nostra unità sociale non meno della nostra unità
geografica. In tutta verità vi dichiaro che questi grandi
massicci, tagliati da valli profonde, sono la sostanza
essenziale della Svizzera, che essi sono non soltanto la
culla della nostra libertà, ma la riserva della nostra razza
valorosa e forte, la fonte della nostra ricchezza futura, il
cuore della nostra economia nazionale.
Quando, fa più di un secolo, l'industrializzazione
della Svizzera incominciò; quando l'altipiano venne
coprendosi di fabbriche e la sua popolazione, la sua
ricchezza, la sua vita presero un prodigioso sviluppo,
era naturale che la montagna passasse al secondo piano.
Queste industrie si alimentavano di carbone, comperato
all'estero, lavoravano per la esportazione, non potevano
svilupparsi, salve eccezioni, che là dove la popolazione
offriva una densità sufficiente. Se la industria potè
prender piede in qualche alta valle essa vi determinò la
fondazione di città nuove, come Le Locle, pressochè
estranee alla vita agricola, completamente estranee alla
mentalità ed agli interessi della montagna. Le nostre
valli, non fornendo nè materia prima, nè forza motrice
alle nostre industrie, passavano all'ultimo piano
nell'economia nazionale. È naturale che in un'epoca di
produzione industriale e di traffico, la famiglia che si
nutre de' propri prodotti, il «Selbstversorger», non conti.
Non ci si occupa d'essa, perchè non costa niente allo
Stato, non domanda niente, non fa chiasso, non
minaccia, e soprattutto perchè essa ignora il ricatto
elettorale.
484
Ma viene un giorno in cui ci si accorge che la
produzione industriale ha saturato i mercati, che la
disoccupazione diventa cronica, che non si deve più
contare su un'esportazione illimitata. Ci si accorge allora
che bisogna ritornare alla terra.
Viene anche un giorno in cui le condizioni della
nostra industria esigono la emancipazione della forza
motrice. Il carbone è troppo caro e ci rende tributari
dall'estero. Coll'aiuto della scienza, ci si volge verso le
forze idrauliche. Ora le forze idrauliche è quanto dire la
montagna.
Ed ecco che la situazione si inverte. La montagna non
è più la quantité négligeable, non è più la zona
improduttiva, non è più l'ostacolo al progresso. Come
nel Medio Evo essa fu la fonte della libertà politica, essa
va diventando la sorgente della libertà economica.
Importatrice di carbone nero la Svizzera diventa
esportatrice di carbone bianco. Le zone improduttive, i
ghiacciai, i nevai, le rocce, le vaste distese coperte di
vegetazione parassitaria, tutto ciò acquista valore.
Valore attuale e promessa di un valore futuro ancora più
grande.
Le generazioni precedenti avevano considerato il
torrente selvaggio come il nemico della pianura. Ecco
che ne diventa l'alleato.
L'espansione magnifica delle industrie e delle città,
l'urbanesimo industriale, hanno esercitato in ogni tempo
ed in tutti i paesi un'attrazione potente sulle popolazioni
della campagna e soprattutto su quelle della montagna.
485
Attraverso parecchie generazioni hanno versato alle
città l'eccedenza dei loro abitanti, poi hanno
incominciato a vuotarsi della loro popolazione normale.
Viene il momento in cui si avverte che occorre fermare
questo spopolamento, perchè esso minaccia le
condizioni del reclutamento delle industrie al piano.
Succede così che ciò che era antitesi diventa armonia,
ciò che era contrarietà diventa unità. Bisogna che il
popolo svizzero, a cominciare da coloro che lo
rappresentano e da coloro che lo governano, comprenda
che i problemi della montagna sono anche quelli della
pianura, che la città non può vivere senza la montagna,
alla stessa guisa che il villaggio non potrebbe prosperare
senza la città che gli compri i prodotti.
La nostra legislazione è ancora ispirata ai vecchi
rapporti economici. Così, la legislazione forestale è
completamente isolata ed ignora i rapporti della foresta
coll'agricoltura. (Dico che è la legislazione che ignora,
lungi dall'imputarne i funzionari). La legislazione sulla
polizia delle acque tocca a malapena ai problemi
forestali e meno ancora agli interessi economici delle
popolazioni. La legislazione sulle forze idrauliche non
tiene conto alcuno degli interessi dell'agricoltura Essa
autorizza, a vantaggio delle città, forse a profitto della
esportazione, la creazione di laghi artificiali (bacini di
accumulazione) dove le praterie ed i pascoli nutrono
tutta una popolazione che si condanna così a sparire.

486
E, cosa più grave, la divisione delle competenze
cantonali e federali, imbroglia all'infinito queste
complicazioni materiali.
Ciò che è più grave ancora è che la utilizzazione delle
forze motrici, il miglioramento del suolo ed il
rimboschimento delle regioni elevate dipendono
pressochè esclusivamente dall'iniziativa privata, la quale
non entra in funzione se non quando v'ha un interesse
immediato da soddisfare. Avvien così che enormi spazi
che potrebbero essere utilizzati come pascoli sono
lasciati nell'abbandono, perchè i proprietari ne sono
abbastanza provvisti per i loro bisogni. Avvien così che
i comuni dotati di legname sufficiente al loro consumo,
non si interessano affatto al rimboschimento di enormi
estensioni denudate. Abbiamo valli in cui, per una felice
cooperazione della Confederazione, dei cantoni e dei
comuni, si potrebbe creare tutta una ricchezza futura,
capace di far vivere i villaggi e di far prosperare le città.
Non se ne fa nulla, perchè l'iniziativa privata non può
bastarvi. Trattasi, generalmente, di spese e di lavori il
cui rendimento non potrà verificarsi che tra una
generazione o due. Questo rendimento sarà indiretto,
andando a profitto più della collettività futura che non
del proprietario attuale.
Ecco ciò che bisogna considerare per comprendere il
problema della montagna. Il liberalismo economico più
ortodosso deve convenire che una Banca non potrà mai
finanziare imprese a rendimento tanto lontano.
L'iniziativa privata non potrebbe bastare a
487
trasformazioni economiche di fronte alle quali
l'individuo si sente impotente. Si tratta, infatti, di tutta
una rivoluzione demografica che si prospetta.
Basta guardare il ritmo della popolazione di non
importa quale Stato europeo. Man mano che l'industria
ed il commercio si sviluppano, la popolazione si
concentra nelle metropoli. La popolazione delle
campagne vi si precipita ed i villaggi si vuotano.
Questa situazione è piena di pericoli e di grosse
minacce, ma c'è, fortunatamente, una legge di
compensazione. La facilità dei trasporti moderni ha
operato questo miracolo, che fin d'ora la fiumana di
uomini che s'era rovesciata sulla città accenna ad un
movimento in senso contrario. Giunta che sia l'estate,
ecco che le popolazioni delle città riversandosi sulla
campagna o risalendo gli scoscesi pendii delle
montagne, vi cercano la vita, vi trovano la salute.
Studi apparsi di questi giorni sulla stampa parigina
provano che l'atmosfera delle grandi città diventa
sempre più irrespirabile. Indipendentemente dalle
condizioni atmosferiche, le esigenze della vita moderna
mettono ad una tale prova il sistema nervoso degli
abitanti che la villeggiatura, già articolo di lusso,
diventa sempre più una necessità. È la montagna ch'è
soprattutto preferita, perchè una settimana in montagna
opera sull'organismo maggiori benefici che un mese in
pianura. Vediamo infatti gli sforzi degli igienisti
rivolgersi sempre più verso la cura dei fanciulli in
montagna, vediamo ogni sorta di organizzazioni, di
488
colonie di vacanze, di esploratori, ecc., dirigersi verso la
montagna come verso la vera fonte di giovamento,
vediamo il turismo democratizzarsi, le organizzazioni
operaie costruire capanne fin sui ghiacciai, i piccoli
impiegati sindacarsi per alcuni giorni di Kurhaus alle
sommità delle Alpi. Questo ritmo tra la metropoli e le
alpi non è una moda: è una evoluzione. Non ha cessato
un istante di svilupparsi dalla fine del secolo XVIII; le
condizioni dell'avvenire, quali le possiamo, quali le
dobbiamo prevedere, non faranno che intensificarla.
Ragion per cui bisogna sperare, bisogna credere che
le nostre alte valli hanno, malgrado tutto, un avvenire, e
che esse conosceranno una rinascita. L'aria ed il sole,
ecco le divine materie prime, delle quali una falsa civiltà
ci aveva impoveriti e che la civiltà vera sta per renderci.
Ciò che occorre alla Svizzera è la valorizzazione delle
sue materie prime, le basi naturali delle industrie
indistruttibili del suo avvenire. Le sue ricchezze
naturali, quelle che non dipendono nè dal libero-
scambio, nè dal protezionismo, sono: il suo clima, in
primo luogo, la purezza della sua aria e la divina
chiarezza del suo sole; sono: le foreste che hanno
coronato nei secoli lontani il fronte maestoso delle sue
montagne e che è doveroso di ricostituire; sono: i suoi
torrenti ed i suoi fiumi, la cui forza e la cui freschezza
costituiranno nell'avvenire un tesoro invidiato dalle
regioni minerarie delle grandi nazioni.
Ma, al di sopra di queste cose materiali, c'è ancora
l'uomo. Questo modesto e fiero alpino, più vicino degli
489
altri al cielo, più pronto ai sacrifici, più disciplinato
nelle sue passioni, più tenace al lavoro. È lui che deve
essere riabilitato, è a lui che dobbiamo garantire la sua
parte, la sua giusta parte di benefici nell'opera di civiltà
e di progresso.
Vi esorto, colleghi, a dare il vostro appoggio alle due
mozioni: a quella Baumberger ed alla mia.

490
X.
Divagazioni104

I
Il miglior modo per lasciar riposare la testa è di
mettere in moto le gambe.
Questa sentenza mancherà di precisione scientifica,
ma è giusta e comprensibile per tutte le persone che
hanno una testa attiva ed un paio attivabile di gambe.
In ogni modo, io la seguo e non me ne trovo male:
anzi!
Essendo dunque l'estremità superiore della mia
persona satura di letture e di meditazioni sul
risanamento dell'Europa, del mondo e delle circostanti
province, ho preso risolutamente la ferrovia e mi sono
recato al colmo del Generoso...
Come si respira bene a 1700 metri! Se poi, oltre
all'aria buona vi ci trovi il sole d'Italia, un eccellente
cuoco ed una buona cantina, sei esattamente 1700 metri
più vicino al Paradiso di chi si bagna alla poetica riva
del mare.

104 Dal volume di Brenno Bertoni: Dal Generoso all'Adula,


con prefazione di Giuseppe Motta. – Bellinzona, Istituto
Editoriale Ticinese, 1932.

491
All'Albergo Svizzero, lassù, puoi trovare anche i
giornali, ma non sei obbligato di leggerli. È invece
raccomandabile di lasciare gli occhiali a casa se sei
presbite. Basta avere gli occhi aperti. Di là si comincia a
vedere il mondo dall'alto ed a trattare le nazioni dall'alto
in basso, ciò che ha certi pericoli, ma anche certi
vantaggi suggestivi. L'albergo è a cavallo del confine,
che separa le due Nazioni, quella piccola e quella
grande. Voglio dire che l'edificio è sul territorio
svizzero: lungo il confine una strada privata: di là dal
confine è l'Italia fascista. Sul territorio italiano è la
terrazza coi tavolini e i parasoli rossi dell'albergo, sui
quali e sotto i quali, ad ora indicata, stanno le guardie
italiane e le fatali camice nere. Sul piazzale lì a fianco
sta la pietra granitica che separa le due sovranità, ma
non impedisce qualche scambio di cortesie fra le
guardie dell'Italia fascista e quelle della Svizzera
demoradicalmassonica. Sfido io! Quando la sapienza
delle Delegazioni internazionali, dopo settant'anni di
studi e trattative, arriva a piantare un termine
giurisdizionale giusto in mezzo a una piazza pubblica, la
sapienza di noi poveri minchioni consiste a tenerne
conto il meno possibile. Ed ecco la ragione per cui le
cameriere dell'albergo (una bionda, una bruna ed una
mora, che rappresentano la Svizzera una e trina) vanno e
vengono senza passaporto e senza tessera dalla Svizzera
all'Italia, mescendo rinfreschi alle camice nere, che,
fedeli alla loro consegna, non muovono un passo oltre la
linea mediana del sentiero.
492
Vien su a piedi dalla parte italiana una comitiva di
studenti e studentesse, gente lieta e mattacchiona, ma
composta. Anch'essa osserva scrupolosamente la linea
di confine, ch'è al margine della strada, ma ecco un
giovinotto bruno bruno, dal pelo calabro, che dal suo
tavolino italiano abbozza con gli occhi un flirt con
un'arcibiondissima del prossimo tavolino elvetico. –
Tacchen! – sussurra il mio vicino, ambrosiano.
Quanti insegnamenti in questa strana situazione di
cose!... È, in iscorcio, tutta la politica europea di questo
fatale dopoguerra. Barriere politiche alte come
montagne, ma dall'una all'altra parte si può ammiccare
un flirt.
Dio benedica i flirt!
Anche al sommo della vetta c'è una pietra limitare.
Anche lassù la guardia svizzera e la guardia italiana
parlano amichevolmente voltando le spalle alle loro
terre e guardando giù verso i paesi bassi. «Come è bello
vedere le cose dall'alto!» esclama Francesco Chiesa,
fanciullo, in una bella mattinata di marzo.
Ah si! Ne abbiamo molto bisogno di guardare le cose
un po' dall'alto!
Il Generoso è il gigante delle Prealpi. Poco più in su,
verso il nord, un po' più in là, a destra e a sinistra, sono
montagne più alte, ma son già alpi vere, coi loro dirupi
aspri e ferrigni.
Il Generoso, anche dalla parte del lago dove volge a
picco, è ancora di quelle montagne bene educate, verdi
fino in cima, che sono come l'orlo della pianura.
493
Villaggi ameni, con un non so che di signorilità, si
susseguono di pianoro in pianoro, dal basso all'alto, poi
si convertono in monti maggesi, poscia in «alpi». Alpi
per modo di dire, in quanto proprietà patriziali: ma la
cima del Generoso è tutta un prato, fino all'Albergo
Svizzero, sul quale si vive urbanamente come a Lugano.
— Queste montagne qui – mi diceva un amico nato
fra le cime asprigne del Basodino e del Campo Tencia –
mi fanno l'effetto di quelle montagne di «latte-miele»
che i confettieri erigono con la panna ed impolverano
con la cannella.
— Sì? Eppure, guarda, i fenomeni orografici (non so
se la parola sia al suo posto: forse no), e quelli
economici già si accennano qui come sulle montagne
alte.
Guarda. Anche qui la zolla erbosa comincia a
spellarsi ed a franare. Sono innumerevoli piccoli sdrusci
nel terreno che preparano degli sdrusci più grandi,
sempre più grandi, finchè un giorno venga un bel
nubifragio, la grande alluvione, il grande
scoscendimento che va addosso a Chiasso.
— Macchè! – diranno i chiassesi. – Noi cosa
c'entriamo?
— C'entrate come Locarno nelle furie della Ramogna,
come Lugano in quelle del Cassone e, chi sa, come
Bellinzona nel 1512 nella scoscesa del monte Carnone
di Biasca. Bellinzona con la Carnonia mons non
c'entrava proprio per nulla, ma ne andò quasi distrutta e

494
ci vollero trecento anni prima che rifacesse il suo ponte
per Locarno.
Conclusione?
Niente! Ma io son persuaso che di questi sdrusci in
Val di Muggio ce ne sieno parecchi e che un risveglio
simile a quello di tre anni or sono a Olivone, Campo e
Faido è sempre possibile. Tuttavia è così difficile
decidersi a fare qualche casuccia come un consorzio
preventivo, che il meglio è non pensarci.
Un'altra cosa che assimila l'economia delle prealpi a
quella dell'alta montagna è la questione delle capre.
Com'è istruttivo vedere l'esito delle piantagioni di
resinose fatte lassù a protezione della ferrovia! Che
consolazione vedere che ciò che non hanno distrutto le
capre distruggono i padroni con la mala cura, lasciando
che le piante già belle e cresciute si divorino a vicenda
secondo la legge darviniana, mentre il più facile
diradamento le farebbe giganteggiare in pochi anni!
Conclusione!
Ma niente di niente! Perchè concludere se la
conclusione può costar fatica?
E a proposito di capre! Quand'è che a uno verrà in
mente che si possono acclimare delle capre meno
devastatrici, meno vagabonde, meno voraci delle
nostrane? Per es. le bianche senza corna. Forse per le
montagne del Mendrisiotto andrebbero bene.
— Toccherebbe alla scuola d'agricoltura, penseranno
i forestali.

495
— Toccherebbe ai forestali, penseranno gli
agricoltori.
— Dunque, dicevo io, perchè pigliarsela?
II.
Che tirata di collo da Dangio al primo rifugio!
La distanza a linea d'aria è appena di 3.300 metri: una
passeggiata di tre quarti d'ora comodamente. Il dislivello
è di 1300 metri, ciò che si calcola in ragione di quattro
ore buone. E che strada, l'ultima tratta di Termine! Vi
passa la mandra (la mueria in buon italiano di Blenio)
per caricar l'alpe di Bresciana: ma è roba da non
credere. La mueria è, carduccianamente, la mugghiante
greggia in opposizione alla belante. Nel romancio
d'Engadina si dice muaglia. Vien su dai monti di Val
Soja, o Val Soglia, secondo le diverse grafie. Un nome
gemello, forse, di Soglio e magari di Segl (Sils!), se
pure non viene da suolo, come la soglia della casa. La
ricerca etimologica qui non è fuori di posto, perchè una
vecchia tradizione diceva che il nome della valle veniva
dal suo aspetto primitivo, quando il terreno vi era cosa
söli (pulito, liscio) che non si trovava una pietruzza da
trarre dietro a una vacca.
Ora quasi tutta la valle è una pietraia. Da destra a da
sinistra (di chi scende) è tutto uno scoscendimento che
si accanisce con la malvagia costanza dei sassi contro la
brava gente che ha dissodato e coltivato una provincia
del loro agognato impero.

496
Sulla sponda sinistra (la destra di chi sale)
l'escursionista a tutta prima non vede tutto il male. Il
terrazzo che regge il Pian Premesti (primo estivo)
scende fino in fondo della valle tutto vestito di un bosco
ch'è una bellezza. Più su le stalle di Muntcurou sono
ancora a piè di un bel bosco nero.
Un poco più alto le drose (alnus viridis) hanno
abilmente rivestito il largo scoscendimento dell'antica
abetaja che l'alluvione famosa del 1868 aveva tratto
seco. Provvide drose! Nella loro boscaglia sono
cominciati a vegetare spontanei gli abeti: le capre non
riescono a decapitarli (sebbene formicolino) perchè il
drosone difende molto meglio delle reti metalliche,
senza spese e senza sussidio federale nè cantonale.
Ancora più in su, dalla stessa parte, vengono i Cogni
di drose e d'erba, con pochi larici che salgono fin verso i
2000 metri, poi rocce e rocce fino alla Bocchetta di
Piotta. Sono rocce che si sfasciano in lastre scivolanti.
Le lavine che scappano giù da quelle erti pareti portano
nel torrente una grandinata periodica di piode.
Ma tutto ciò è nulla in confronto alle macerie che
caccia giù l'altra sponda della valle, quella che guarda a
mezzogiorno. Subito sopra il paese al primo monte che
s'incontra, quello di Gufera, ci si trova sopra il cono di
dejezione del «Ri d'val Com», una larga pietraia che si
arricchisce d'anno in anno. Da quanto tempo? Quando
avevo dieci anni esisteva già, e mia madre che praticava
il pian Premesti, trent'anni prima, l'aveva sempre visto
franoso. La frana periodica si accumula in fondo alla
497
valle finchè una alluvione arriva, caccia avanti il
materiale e lo convoglia giù per la gola sottostante fino
al Brenno il quale s'incarica poi di distribuirlo con
prodiga abbondanza ai disgraziati consorzi di Dongio, di
Semione e di Malvaglia.
Andare a dire a quelle amministrazioni consortili che
bisogna fare un Consorzio solo dalla Buzza di Biasca
fino alla Greina ed al Lucomagno!
Il peggio è che mentre da alcuni anni la Val Com
sembra prendersi qualche vacanza, un altro franamento,
ancora più sinistro, è cominciato sopra il maggese di
Soja. Quello non viene da una valle, ma da una roccia
viva che si sfascia da cima a fondo. Ha mandato avanti
come staffette alcuni di quei sassi che il dialetto di
Blenio classifica in tre categorie di grossezza, ul balon,
ul cöden e ra céta. Due cette hanno preso di mira due
stalle di Soja, delle migliori, e le hanno schiacciate
come si rompe una nocciola con un martello troppo
grosso. E qui, buon Dio, che rimedio si può fare? Che
consorzio, che assicurazione?
Il monte di Soja conta una dozzina di stalle che
raccolgono il fieno secco sì, ma irrorato da eroico
sudore. Quella povera gente l'ha raccolto, l'ha «messo
dentro» dubbiosa di non trovar più a primavera nè fieno
nè stalla. Ed ha lavorato lo stesso, con l'anima in pena. E
sarà forse così fino a che in Val Soja rimanga una stalla.
Intanto hanno cessato l'antico lavoro di raggruppamento
delle pietre. Guardando giù dall'alto si vedono assai

498
bene le tracce dei mucchi e degli allineamenti che si
facevano per spietrare i prati dai residui delle lavine.
Speriamo che nessun agente fiscale vada ad
aumentare la perequazione in Val Soja. Ma se si facesse
la santa legge di annullarla tutta quanta, da Gufera fino
ai Raa? (Airà, dice la carta: come dice Piotta dov'è
Termine, come dice Cima Dovalé, per dire «in cima
d'vall», come dice Mancurata alla sola parte del mondo
dove non ci sarà mai la più modesta delle manicure. In
tanta tristezza di cose bisognava bene che qualcuno
portasse la nota allegra!)
D'Airaa fino al primo rifugio d'Adula si crepa ma ci si
arriva. Cinquecentoquaranta metri di dislivello sopra un
chilometro di misura piana!
Ma quando vi si arriva...

499
XI.
Lettere paterne ad un emigrante lontano105

I.
Ecco 25 anni dalla tua partenza per il Paraguay, alla
vigilia della guerra; avevi appena fatto il tuo corso di
sottoufficiale del genio lassù nelle nostre vallate alpine.
Un corso faticoso che faceva mormorare i soldati a
causa dell'inutile strapazzo. Ricordi?
Tutti si lamentavano: «Perchè quelle gioppinate?
Perchè quelle marce estenuanti col grosso carico in
ispalla? La guerra? Chi parla di guerra? Baje di
militaristi! Speculazioni di fornitori! Cuccagna di
colonnelli! Di guerre non se ne faranno più; lo dicono
tutti quelli che hanno un po' di sale in zucca!»
Partendo mi hai lasciato qui nel cassetto il tuo libretto
militare. Le tue note del tiro a segno, delle quali eri così
fiero!
Ricordi?
Com'era lontano quel paese dove andavi, laggiù nelle
missioni dei Gesuiti del diciottesimo secolo, fra i
leggendari Guarany, il popolo più longevo del mondo ed

105 Letture fatte alla "Radio" (studio di Lugano) nel 1938.

500
anche il più sobrio, come narrava il geografo Eliseo
Reclus, di fama mondiale.
Andavi a far l'agricoltore! A praticare l'arte millenaria
dei tuoi avi, che avevi studiato a Zurigo, a Berna e ad
Yverdon. Eri pieno d'audacia e di speranze. Ricordi?
La partenza in treno dalla stazione di Lugano, via
Francia; l'imbarco a Cherbourg con il transatlantico,
l'arrivo a Pernambuco, a Buenos Ayres, all'Assuncion,
poscia alla Colonia Guillermo Tell, in faccia alla cascata
dell'Iguassù, la più potente forza idraulica del mondo.
Quelli erano tempi! L'Europa era in pace, salvo i
soliti macelli di Macedonia! In pace erano i cinque
continenti, in pace gli oceani! E quanta audacia di
progetti! La Transiberiana era decisa. Decisa la ferrovia
a traverso il deserto del Sahara; già finanziate le due
gigantesche linee sud-americane, una delle quali
avrebbe lungheggiato le Ande, dalla Patagonia al
Venezuela; l'altra avrebbe traversato il continente
dall'Atlantico al Pacifico!
L'anno appresso, era la guerra mondiale!
La guerra universale che lasciava dietro di sè le più
memorabili guerre dell'antichità, dei Caldei e dei
Babilonesi, dei Greci e dei Romani, dei Mori e delle
Crociate!
Al suo scoppiare, si era predetto che sarebbe durata al
massimo tre mesi. L'Imperatore di Germania aveva
parlato addirittura di una passeggiata militare fino a
Parigi. Più tardi, la stampa più pessimista ammise che
avrebbe potuto magari durare sei mesi. La forza di
501
resistenza del Belgio e della Francia aggrediti superò
ogni previsione, ma la vera causa del prolungarsi della
guerra furono i continui interventi di nuovi stati
belligeranti. Intervennero l'Inghilterra, che non era
cercata, la Turchia, la Grecia, la Bulgaria, la Rumenia, il
Brasile cui nessuno pensava, il Portogallo che non
c'entrava, il Giappone e da ultimo gli Stati Uniti.
Ogni intervento portava seco una complicazione, così
da rendere sempre più difficile la pace.
Si arrivò a questo spaventoso risultato: che una pace
vera diventò impossibile.
Il peggio fu che le grandi potenze chiamarono in
Europa le truppe di colore dei loro imperi coloniali.
Indiani dell'Imalaia, negri a bizzeffe, gialli, e altri; dai
poveri malgasci timidi e primitivi, agli arabi del
Marocco, pugnaci e pretensioni.
Fu una nuova invasione dei barbari, ma questi barbari
imparavano l'uso delle mitagliatrici ed i nostri usi
strategici.
Spaventosa imprudenza per chi li armava!
La guerra era nominalmente fra due gruppi europei.
L'Intesa e gli Imperi Centrali; «fra la civiltà e la
barbarie», dicevano i francesi – «No, fra la
degenerazione e la virtù militare», dicevano i tedeschi. –
Ma con l'Intesa civilizzata c'erano i 150 milioni di russi,
semi barbarici ed asiatici nell'immensa maggioranza; e
c'erano gli inglesi. La Gran Bretagna non aveva, nè mai
aveva avuto, un esercito nazionale nel senso moderno. Il

502
suo esercito di terra era composto di mercenari come nel
18° secolo.
Teoricamente democratico, il popolo inglese non
voleva saperne della coscrizione, del servizio
obbligatorio. La Intelligenza inglese, fin dai tempi di
Napoleone, era sempre riescita a far guerreggiare gli
altri a suo profitto. Ora, nella grande guerra, la
coscrizione diventava necessaria. Per convincere gli
elettori c'era un mezzo solo; commuoverli, indignarli
contro la barbarie tedesca. Grande impresa comune alla
stampa, alla scuola, alla chiesa... I miei allievi ed i miei
elettori di venti anni or sono credevano come vangelo
che per salvare il mondo dalla barbarie tedesca
bisognasse sterminare quel popolo od almeno ridurlo
all'impotenza, spogliarlo, togliergli qualsiasi possibilità
di rifarsi, proibirgli per sempre di trafficare e persino di
lavorare, insomma ridurlo alla disperazione.
Taluni di quei fanatizzati smaniano adesso per l'Asse
Berlino-Roma... ma a Versaglia, quando i vincitori
«alleati ed associati» dettarono la pace colla ricetta della
dittatura, lo stato mentale era quello. Purtroppo!
E ne venne fuori una pace che era una edizione
peggiorata della guerra. Nella guerra, infatti, si riuscì a
sostenere la volontà combattiva dei militi promettendo
che sarebbe stata l'ultima. A guerra finita, tutti si dolsero
di essere stati ingannati; più degli altri i proletari d'ambe
le parti.

503
Tutta l'economia del mondo ne risultò funestata. Crisi
spaventosa, crisi generale, che non finisce mai. Crisi che
ci impoverisce tutti, che tutti ci rovina, ancor oggi!
Tu hai visto, o figliolo, la guerra del Chaco; tu l'hai
sofferta, i tuoi cugini l'hanno combattuta – e quella
guerra – tu lo sai – era la guerra del petrolio fra due
compagnie americane. Una grande ricchezza è stata
sciupata; il tuo lavoro di vent'anni è stato rapinato, ma
tutti noi, popoli civili d'America come d'Europa, siamo
vittime di una sola e stessa crisi che rovina noi e i nostri
figli.
Voi avete sofferto, nel Paraguay, una nuova
rivoluzione. Il governo è stato scacciato, credo il terzo
in due anni. L'avvenire dei tuoi figli è incerto, tutto è
oscuro!
Ebbene, quella stessa incertezza, quella stessa crisi, è
quella che oggi più che mai tormenta gli Stati d'Europa,
tormenta la Svizzera, tormenta il Ticino.
Se tu fossi qui a leggere i nostri giornali, avresti tutti i
giorni un'indigestione di improperi, di accuse, di
cavillazioni dei partiti, gli uni contro gli altri. Tutte le
nazioni, tutte le classi, tutti i partiti, si accusano a
vicenda di tradimento, di viltà, di incapacità ed
invocano ciascuno la rovina dell'altro. E sono certo che
più o meno ciò succede tra i partiti di laggiù.
Ebbene, io ti dico, figliuol mio, che tutti hanno
ragione, ma nessuno ha torto. Non è il tuo vicino quello
che delira. Non è il tuo avversario politico, non è la
Bolivia, non è il Brasile, non è il fascista nè
504
l'antifascista. È la nostra civiltà che è pervertita. La
nostra civiltà che bisogna salvare...
Ora su questa via, voi americani del mezzogiorno,
siete molto meglio avviati di noi.
Siete più vicini alla salvezza, perchè siete più poveri,
più primitivi: lo siete, perchè avete meno ambizioni,
meno ricchezze, meno pregiudizi nella testa e (certo)
meno aggravi sulla coscienza!
Noi europei ci siamo troppo odiati. Quanto ci succede
è la nostra penitenza. Sì, perchè il Paradiso e l'Inferno
sono per i singoli peccatori. Solo a qualche empio
predicatore sarà venuto in mente di mettere un popolo
all'inferno od a qualche avvocato parlamentare di
condannarlo ai ferri a vita.
II.106
Carissimo,
La mia prima lettera ha incontrato qualche simpatia
nel pubblico di qui dove sono molti che hanno laggiù in
America i loro cari: figliuoli, fratelli, cugini, nipoti.
Alcuni hanno voluto sapere, e chiedono chi sia la
persona fisica del destinatario, ma non li posso
contentare. Infatti tu non sei una determinata persona
fisica; tu sei una persona astratta, diciamo una
moltitudine. Parlando a te, parlo agli emigranti di tutto
un continente; e devo parlare paternamente perchè la
106 Pubblicata nel numero del 1° agosto 1938 della "Cronaca
Ticinese" di Buenos-Aires.

505
mia età e il mio passato fanno di me quello che si dice
in senso figurato un padre della Patria. Quello che tu
ascolti non è solo per te; ma per dieci, per cento, per
mille; se non mi credi, fa niente! Ma se mi credi, farai il
tuo dovere facendo un po' di propaganda nel senso che
io andrò predicando.
Intanto diciamo pure questo; che tu sei in America,
anzi nel Sudamerica, là dove è la maggior parte dei
nostri e dove sono meglio organizzati, meglio affiatati.
Mantengo del resto e sottolineo ciò che dicevo nella
prima lettera, che il Sudamerica è quella parte del
mondo che offre maggiori garanzie di pace per
l'avvenire.
Di quella pace che è turbata dal Giappone fino alla
Spagna, dall'Oriente all'Occidente, da qualsiasi parte si
faccia il giro e che si tratta ora di ricostruire a prezzo
della civiltà.
Sì, io ho fiducia nell'America latina, contrariamente
all'opinione dei miei coetanei i quali per una lunga fila
di anni hanno sentito predicare tutta una sequela di
pulpiti, ma particolarmente quelli protestanti, inglesi e
tedeschi, e quelli giacobini di Francia, d'Italia o dove
che sia. L'America, comparsa sulla scena col nome di
Nuovo Mondo, è stata civilizzata dagli anglossassoni e
dagli spagnoli; protestanti quelli, che ebbero il primato.
Sulle tracce di Washington, di Lincoln e di Franklin,
essi hanno creato rapidamente una splendida civiltà; gli
spagnoli non hanno saputo creare che delle repubbliche
disordinate, povere, anemiche.
506
Noi svizzeri eravamo alquanto lusingati da questi
discorsi: perchè i protestanti che hanno creato la
repubblica degli Stati Uniti erano un po' nostri parenti;
presbiteriani e non-conformisti inglesi, affini ai
calvinisti di Ginevra ed agli zuingliani assai più che ai
luterani di Lamagna. Ma poi furono proprio due svizzeri
i primi a simpatizzare per gli americani del sud.
Il primo fu il naturalista neocastellano Luigi Agassiz,
che avendo esplorato la geologia del Nordamerica
intraprese un viaggio al Brasile nel quale fece delle
interessanti scoperte sulle popolazioni indigene del Rio
delle Amazzoni: il secondo fu il ticinese Mosè Bertoni,
lo scienziato, il colonizzatore, naturalista e glottologo,
fondatore della colonia Guillermo Tell, segnata nello
Stieles Hrand-Atlas, e della Colonia di studi agronomici
di Puerto Bertoni di fronte alla foce dell'Yguassù.
L'essere il naturalista, seguace entusiasta della scuola
darvinista e l'essere socialista anarcoide non distolse il
Bertoni dalle indagini sulle Missioni cattoliche del
Paraguay che due secoli prima avevano dominato il
paese: i missionari avevano notato e scritto come una
preziosità che le preghiere ed il catechismo si lasciavano
facilmente tradurre nelle lingue degli indigeni (il
guarany), mentre sono intraducibili nelle parlate dei
negri e dei malesi.
Segno evidente (così gli parve) di una precedente
civilizzazione dove le idee astratte, trascendentali,
trovavano la loro astrazione!

507
Preso da questa idea fissa, il Bertoni si diede a
studiare a fondo i vari dialetti guarayani, dalle Antille
fino alla Patagonia, così da poterne ricostruire la
grammatica fondamentale e da farsi assertore di una
Civitisacion Guarany sulla quale lasciò scritto diversi
poderosi volumi.
Non gli mancarono gli ammiratori ed i seguaci che ad
un certo punto gli decretarono onorificenze d'ogni
maniera. Il titolo di dottore gli fu tra altro imposto da un
presidente della Repubblica Argentina, con questa
singolare affermazione che essendo egli un dotto di
eccezionale dottrina, egli fosse assai più che dottore
come tanti altri!
Ma in un'epoca più recente apparve il grande
assertore della civiltà sudamericana, nella persona di un
americano di razza pura, il messicano Vasconcellos, che
fu ministro della Pubblica istruzione del suo paese ed
anche candidato (di minoranza) alla presidenza di quella
repubblica.
Vasconcellos saltò il fosso con l'asserzione della razza
cosmica. Di fronte al fanatismo razzista pro e contro gli
ariani ed i semiti, i mongoli ed i bianchi, i germani e i
latini, egli proclamò che al di sopra di tutte le altre
razze, primeggia la razza cosmica, la razza per
eccellenza, che è quella che popola l'America
meridionale.
Il concetto fondamentale dell'opera è questo: che tutto
il continente sudamericano, con una estensione
coltivabile assai più del doppio dell'Europa, è la parte
508
più omogenea del mondo. Una sola razza, tutti bianchi;
una sola religione, due sole lingue, lo spagnuolo ed il
portoghese, quasi due dialetti di una lingua sola, una
facoltà di assimilazione unica al mondo e nella storia.
Gli indios assimilati; assimilati i pochi negri della
schiavitù; la popolazione di origine europea è
proveniente da tutti i paesi di Europa; spagnuoli,
italiani, inglesi, tedeschi, slavi, e fra loro mai una lite,
mai una contesa. Gli anglosassoni del Nordamerica
hanno distrutto i pellirosse, hanno fatto degli schiavi
africani una casta inferiore, dei paria; gli americani del
sud li hanno tutti affratellati.
Ciò dipende dalle origini cosmiche. L'America infatti
fu popolata dagli atlantidi dell'Africa e forse dai
mongoli dell'Asia occidentale (che altro non erano gli
Incas) e raccolse poi il fior fiore dell'emigrazione
europea, sia pure con un po' di cascami. Razza cosmica
adunque, fatta apposta per creare la grande unità dei
popoli civili, l'unità secondo il concetto cristiano e
filosofico insieme.
Quanta utopia, odo esclamare! Sì, utopia: ma non più
della civitas domini di Agostino, della unità umana dei
precursori del socialismo!
Utopia che è una forza, che è una potenza!
Grazie a queste utopie, le repubbliche sudamericane,
una dozzina, liberatesi or fa un secolo dallo stato di
semplice colonie, quasi non ebbero guerre fra loro.
Nessuna di quelle guerre d'Europa che hanno sconvolto
il mondo. Appena qualche guerricciuola, come l'ultima
509
del Chaco, quasi inevitabile, chè i confini tra gli Stati
contendenti erano segnati sulla carta geografica con
mille chilometri di linee rette.
Questa è, in realtà, la promessa del continente
sudamericano al quale sono rivolte le mie speranze
anche per l'avvenire dell'Europa: la speranza dei nostri
cuori.
III.107
Carissimo,
La tua ultima lettera mi induce a richiamarmi due
vecchi proverbi nostrani, apparentemente contradditori.
L'uno dice: tutto il mondo è paese, e vorrebbe far
credere che su per giù la discendenza di Adamo ha
dappertutto gli stessi vizi, le stesse debolezze. Dice
l'altro: paese che vai, usanza che trovi, e vorrebbe
avvertire che non bisogna lagnarsi delle differenze d'usi
e di costumi e meglio vale avere pazienza.
Apparentemente contradditori, ho detto, perchè l'un
proverbio completa l'altro.
Le notizie d'America dello scorso inverno e della
primavera, facevano inorridire per i danni della
sequedat... la siccità che ha funestato tutto il continente
americano e particolarmente l'Argentina. Il bestiame
bovino morto di sete e di fame (mi hai detto) raggiunse
proporzioni spaventose.

107 Letta alla Radio di Lugano il 30 aprile 1938.

510
Orbene, noi qui non possiamo fare le cose così in
grande, in quello stile Kolossal che piace tanto ai
tedeschi, ma se tu fossi a casa non avresti che ad aprire
la finestra della tua camera, in questo aprile così
soleggiato, per vedere, di contro, le zolle del nostro
vicino rosseggiare fino in cima della collina, bruciata
dal sole. Non avresti che a guardare laggiù verso
mezzogiorno per vedere arso il San Salvatore, arso più
in giù il San Giorgio e il Generoso. Di faccia, vedresti la
Sighignola coperta di erba secca, e venendo in su,
rosseggiare la cima d'Intelvi e tutto il monte Boglia.
Volgendo al nord, ti apparirebbe la Gazzirola, poi il
monte Baro, la cima del Bigorio ed il lontano Camoghè,
tutti d'un grigio mattone che tradisce una siccità
calamitosa.
Orbene, tutto il Cantone Ticino è così. Lassù nella
Capriasca tutti i comuni hanno dovuto razionare l'acqua.
Peggio in Val Colla, dove il prato ed il pascolo sono così
scarsi! Nè stanno meglio le vallate del Sopraceneri e le
vicine valli italiane.
Un nostro vicino ha percorso stamane il piano del
Vedeggio a cavallo... Colla siccità era venuta la brina.
Tutte le noci erano cascate dalle loro piante!... E così
puoi contare di tutta la frutta dei dintorni! I germogli
della vigna anneriscono e piegano sotto la brina. Nella
Svizzera interna è già perduta tutta la raccolta delle
albicocche e delle ciliege, rovinata la produzione del
sidro. Disastro sopra disastro!

511
I contadini, spaventati per la imminente carestia di
fieno, si affrettano a vendere il loro bestiame, ma
l'offerta è tale che già i prezzi sono precipitati della metà
dall'ultimo San Martino.
Potremo almeno comperare il fieno in Lombardia?
Forse neppure ad avere denari di scorta, perchè la
Lombardia dovrà pensare alle valli sue. Laggiù il grano,
in ispecie il frumento, ripiega appassito sui campi; i
contadini lo affossano, a sovescio, per piantare melgone
o patate nella speranza che non sia troppo tardi.
Ti dico che tutto il nostro settore mediterraneo è
minacciato da una carestia come quelle dei secoli
andati, quando si navigava a vela e non c'erano le
ferrovie! Le stesse risaie sono in pericolo.
Queste calamità sono però una lezione tremenda per i
soliti vociferatori che cacciano la politica anche nella
minestra. Fra tre mesi, fra due, quando la carestia sarà in
pieno, ogni partito, ogni giornale, in Isvizzera, in
Francia e altrove, imprecheranno alla imprevidenza
governativa. Il governo ticinese avrà la sua beneficiata,
il Consiglio Federale la sua parte e così via. Fatalità!
La tendenza del Consiglio Federale e delle due
Camere, già dal tempo della guerra, quando la carestia
dipendeva da ben altre cause, era nel senso che
bisognasse aumentare in Isvizzera la produzione
granaria, al piano come al monte, che bisognasse
utilizzare tutte le fontane, correggere tutti i rivi,
sussidiare tutte le irrigazioni. Era giusta sì o no quella

512
tendenza? Quanti dei nostri villaggi si salvano adesso
per gli acquedotti sussidiati?
Ma quante critiche, quante invettive quante proteste!
C'era chi sobillava gli operai delle città, perchè le
autorità non pensavano che ai contadini loro fedeli
elettori. C'era chi imprecava contro il Consiglio
federale, perchè nei sussidi favoriva più i cantoni
tedeschi che i francesi; c'era chi vociava che il sistema
dei sussidi era tutto un'immensa trama di macchinazioni
contro l'italianità della nostra stirpe!... Miserie umane!...
Sì, proprio umane, non già nostre particolari. Tutto il
mondo è paese. È sempre stato più o meno così e ne
fanno testimonianza le Sacre scritture. I Profeti come gli
Evangelisti.
Tuttavia qualche cosa di nostrano e di contemporaneo
c'è di sicuro in quella loquacità che lamentiamo! In
quale paese del mondo c'è tanti giornali, tante
discussioni come nel nostro? L'occasione fa l'uomo
ladro, dice il proverbio: ma fa anche il mormoratore, il
brontolone, il mettimale, il menagramo. E come!
Mettiamoci a sedere (per ipotesi) sopra un pancone
fuorivia d'un crotto. Ai tavolini d'intorno stanno dei
crocchi disparati di fautori dei cinque partiti e dei tre o
quattro fronti di questo o quel colore. Discorrono dei
meriti e demeriti del Governo. Il discorso cade subito
sulla siccità del 1938; cosa il governo ha fatto, e cosa
non ha fatto o cosa doveva fare. Nessuno oserà dire che
la siccità sia venuta per decreto governativo, ma tutti
diranno che dovevasi prevedere. Uno dirà che l'aveva
513
ben preveduto il suo giornale, o il suo capoccia e tutti
diranno ciò che si sarebbe dovuto fare per alleviarne i
danni; soltanto che uno dirà Roma e l'altro Toma e
insieme troveranno un pretesto per accusarsi
reciprocamente e per litigare.
Litigheranno come gli Ateniesi al tempo di Filippo il
Macedone, come i Romani ai tempi di Catilina, come i
Fiorentini al tempo della Secessione. E si tratteranno di
idioti e di farabutti, di imbecilli e di gesuiti, di inetti e
ladri nel medesimo tempo...
Dite la verità, voi emigranti in tutti i paesi del mondo:
è vero o non è vero che qualche cosa di simile succede
od è successo anche laggiù?
Ma forse laggiù se la pigliano per i propri fastidi e noi
qui ce la pigliamo per i fastidi altrui!
Quante volte le ragioni dei dissensi ticinesi dovettero
cercarsi a Vienna od a Parigi, a Londra od a Berlino?
E allora?
Allora, figlio mio, abbi indulgenza nel giudicare gli
errori politici dei governi stranieri e scrivi ai tuoi amici
in patria di aver prudenza nel giudicare e di astenersi
dall'usare le parole grosse, le frasi gonfie.
Consigliali a sopportare con calma la siccità poichè
l'inveire, il bestemmiare non serve a niente.

514
PARTE DODICESIMA

Storia

I.
La leggenda del Tadeolo confermata108

Nei miei Cenni storici sulla Valle di Blenio,


pubblicati nel 1901, io mi ponevo due questioni: la
prima, se la leggenda fosse vera: la seconda, in quale
anno potesse essere avvenuta la uccisione del tiranno.
Circa la prima avvertivo non essere confermata la
uccisione di Tadeo de Pepoli in una insurrezione
bleniese da alcun documento pubblicato fino allora, ma
mi pronunciavo per l'affermativa con le seguenti parole:
«Ma se bisogna essere cauti nell'ammettere le
tradizioni bisogna pure guardarsi da una ben nota
smania di respingerle ad ogni prima apparenza di scritti
in contrario. Gli atti diplomatici non sono sempre più
veridici della leggenda».
108 Dal "Dovere" del 3 gennaio 1925.

515
Circa la seconda osservavo che l'avvenimento non
poteva essere posteriore alla battaglia di Arbedo (1422)
ed all'assedio di Bellinzona, dal quale forse dipendeva.
Nuove scoperte documentarie del valente ed
infaticabile Dr. Carlo Meyer, professore di storia
all'Università di Zurigo, vengono a risolvere
definitivamente entrambi i problemi.
La tradizione è rigorosamente vera e la rivolta
avvenne precisamente nell'anno 1402 (questa data era
già stata accertata da Eligio Pometta).
Nella recente pubblicazione: Die Pepoli-Sage im
Bleniotal (nello Hist. Neujahrblatt Uri 1923), egli ci
rende noto che nell'Archivio di Stato di Milano è
constatata l'esistenza di una pergamena così attergata:
«Testis de castro valles Belegni, quod vocatur Saravale
et fuit dirupatum per mortem domini Tadei de Pepulis
de anno MCCCCII».
Fra gli atti dell'ex archivio di Blenio, ora deposti
presso l'archivio di Stato a Bellinzona, si trova un
secondo documento datato dell'anno appresso la
battaglia di Arbedo e precisamente una petizione di
causa dei Signori del Capitolo del Duomo e della
famiglia Pepoli secondo il quale i bleniesi si sollevarono
«non erubescentes cervices errigere contra personam
domini Tadei, licet ipsem interimendo».
Ben lontani dal vergognarsi di avere eretto le superbe
cervici contro la persona del tiranno e dell'arresto tolto
di mezzo, i bleniesi si intesero con gli urani per la loro
prima calata in val di Blenio, avvenuta due anni dopo
516
nel 1425, contemporaneamente alla calata in val
d'Ossola da parte degli svittesi. A seguito di questo
avvenimento il duca di Milano Filippo Visconti, poi la
Repubblica di St. Ambrogio e poi gli Sforza
addivengono faticosamente all'accordo con Blenio del
1457 secondo il quale la Valle si redimeva dai diritti
feudali versando 9000 fiorini, dei quali 2000 alla
Fabbrica del Duomo e 7000 al Bentivoglio (successore
in diritto dei de Pepoli per causa di donazione).
Questa nuova conferma delle tradizioni vallerane
dopo oltre cinque secoli dagli avvenimenti viene a
corroborare la verità storica delle leggende del Grütli, di
Guglielmo Tell e di tanti altri fatti simili che la così
detta critica storica credeva di aver seppellite per
sempre. La gente montanina ha la tradizione tenace.
Gli avvenimenti che essa ricorda hanno avuto una
influenza sopra i loro diritti di pascolo e d'alpe, diritti
gelosissimi e di natura costante. Il Meyer riferisce a
questo proposito una comunicazione del Dr. Blotti circa
un diritto di pascolo su la Bolla di Lagazio concesso dal
De Pepoli a quei di Semione nel 1393 e contestato da
Malvaglia nel 1572 «di poi che detti Signori sono stati
discazati ed estirpati fuori» (bellissima l'immagine!).
Altra leggenda del genere raccolsi io in gioventù
quando si piativa la rettifica dei confini fra Ludiano e
Semione: la cima della montagna spettava a Semione e
si diceva che il balivo avesse così giudicato per
vendicarsi di quelli di Ludiano che gli avevano tosata la
sposa prima di consegnargliela per il suo noto diritto:
517
tosatura per tosatura egli aveva tosato loro la montagna.
Favola? forse. Ma è imminente la pubblicazione di
documenti che confermeranno in modo assoluto la
verità della tradizione capriaschese sull'origine degli
alpi della Capriasca dall'episodio leggendario dei figli
della Contessa che uccisero il sacerdote di S.to Stefano
(anno 1078). La contessa donò tutti i suoi diritti sopra
gli alpi in espiazione del sacrilegio, e questo non è più
leggenda, ma storia documentata quasi novecent'anni
dopo.
Ed anche per i Waldstaetten, così io credo, la libertà
dei loro alpi deve aver avuto un valore perlomeno
eguale a quello del transito per i varchi alpini. E questa
connessione dei fatti politici con interessi economici
perpetui dà alle tradizioni un valore immensamente
superiore a quello delle tradizioni di natura
semplicemente politica o religiosa.

518
II.
I Comuni del Medioevo
e in particolare i Comuni rustici109

Il nostro storico Angelo Baroffio, volendo dare un


titolo espressivo a quel volume che racconta gli
avvenimenti anteriori alla nostra unità politica, lo
intitolò: «dei paesi e delle terre costituenti il Cantone
Ticino». Questo titolo esprime felicemente il doppio
concetto che una vera storia del Cantone Ticino non
comincia prima degli avvenimenti che precorsero alla
rivoluzione elvetica alla fine del XVIII° secolo, ma che
una certa unità di tipo fra le istituzioni politiche delle
diverse parti o distretti, che si sono in esso verificate, ha
pur esistito sotto le precedenti dominazioni.
Tutte le parti costitutive della nostra piccola
repubblica attuale, procedono infatti dai comuni
medioevali, formatisi dopo il mille per una lenta
evoluzione nel quadro della Chiesa d'occidente e del
Santo impero, che a quell'epoca e precedentemente,
risalendo fino a Carlo Magno, avevano plasmato la vita
e le istituzioni di tutta la Cristianità occidentale.
Ma il concetto della Chiesa come unità di governo
spirituale e del «Sacro romano impero» come freno ai
109 Pagine inedite. Lavoro preparato tra il 1930 e il 1932. Le
note al capitolo sono tutte di Brenno Bertoni.

519
governi civili, caro al divino Alighieri, non potè mai,
per infinite ragioni, raggiungere il suo coronamento.
Al gran disegno di Carlo Magno di ricostituire
l'Impero romano con la forza politica e militare dei
popoli nuovi, fu ostacolo insormontabile il feudalismo,
piccolo e grande110.
Gli imperatori, teoricamente elettivi, non erano essi
medesimi che dei grandi feudatari, chiamati alla dignità
imperiale dagli elettori, grandi feudatari alla loro volta.
Prima degli interessi dell'impero, dovevano difendere i
propri contro le rivalità dei vicini. La vastità del
territorio imperiale, la infinita varietà dei suoi climi, dei
suoi costumi, delle sue lingue, dei suoi traffici,
impedivano quella unità vera che la chiesa riusciva
invece a conseguire nel suo campo spirituale. Le guerre
interne erano tanto il risultato delle ambizioni dei
principi quanto della naturale antitesi degli interessi
materiali dei singoli stati e staterelli. Tutti i popoli, tutti
i principi, tutti i castelli riconoscevano l'impero come
una istituzione quasi divina, ma ben pochi lo potevano
obbedire, anche volendolo.
Il generale impoverimento, la scomparsa del capitale
nummario accumulato dalle generazioni antiche, davano
un valore preponderante, anzi esclusivo, al patrimonio
110 Sulle ragioni formative del feudalismo facciamo nostre la
tesi di Fustel de Coulange. Esso non nacque nè per ragione di
conquista nè per volere di legislatori. Fu una formazione
spontanea e necessaria fra la decadenza degli imperi d'oriente e
d'occidente e la lenta avanzata dei barbari.

520
terriero, alla terra arativa, al pascolo ed ai boschi. Era la
terra buona quella che, insieme con le borgate e le città,
aveva più tentato l'appetito dei conquistatori. Questi,
annidati nelle loro rocche, le avevano accaparrate:
l'agricoltore era diventato servo della gleba.
Ma in questa Europa caotica. era sorto quasi per
generazione spontanea il comune cittadino, costituito
dalle corporazioni degli artieri e dei commercianti.
Nelle valli remote, là dove le terre magre avevano fatto
meno gola agli invasori111, erano sorti i comuni rustici,
forse già da tradizioni romane e preromane, i quali
cercavano di togliere o ritogliere di mano ai piccoli
feudatari i pascoli ed i boschi che per la loro stessa
natura meglio si prestano all'economia in comune112.
111 Sulla scarsa penetrazione longobarda vedi E. Pometta, op.
cit. pag. 9. Il sac. Monti invece, in Giuramento dl Torre pagina
82, propende per una penetrazione assai maggiore. Noi pensiamo
che solo il Mendrisiotto e Locarno sieno stati longobardizzati.
112 È però un errore assai diffuso che la nascita dei comuni sia
un fatto esclusivo della storia d'Italia. Contemporaneamente con
la lega lombarda l'imperatore Barbarossa riconosceva a Costanza
una lega anseatica. La Camera inglese dei deputati porta ancora
adesso il nome di Camera dei comuni e risale al XIV secolo.
Nelle Fiandre, nella Spagna ed in Francia i Comuni ebbero
grande parte nella formazione economica e sociale del tardo
medioevo. Nei Pirenei gli antichi fueros permangono tuttodì una
rivendicazione contro l'accentramento politico ed amministrativo
della Spagna e della Francia. I fueros persistettero in Ispagna fino
al 1833. Il loro nome è da forum, nome latino di una istituzione
che ovvero è romana od è connaturale alla vita sociale di tutte le
montagne. Pare che i beduini della Siria abbiano degli usi

521
Contemporaneo al movimento popolare dei comuni
(oggi diremmo democratico ed anche democratico-
sociale), si era andato disegnando già nell'epoca
francescana un movimento spirituale nella Chiesa in
senso anti-feudale. La collazione dei grandi benefici
ecclesiastici e dei priorati di conventi ai grandi della
terra, per diritto quasi patrimoniale, era sembrata ed era
una simonia.
Donde una salutare reazione che non mancò di essere
favorevole al movimento democratico dei comuni i
quali, in campagna come nelle città, ma più nelle
campagne montane, ossia nelle vallate, ebbero dapprima
un carattere economico e corporativo e si costituirono
come associazioni di liberi allodiali (arodari) e come
proprietari dei pascoli e delle foreste113. Sovente il
diritto feudale spettava a qualche fondazione
ecclesiastica e si stimavano fortunati i popoli che si
trovassero in tali condizioni, come le Tre Valli, la Pieve

analoghi a quelli dei nostri patriziati.


113 Se lo spazio e la natura di quest'opera lo permettessero,
vorrei qui indugiarmi sopra un tesi più ardita che si va
manifestando in diverse parti ortodosse e men che ortodosse. Il
comune medioevale con le sue elezioni popolari, con le sue
giurisdizioni sarebbe nato addirittura dalla parrocchia. La
democrazia sarebbe figlia primogenita della Chiesa che nei primi
secoli si costituì a reggimento popolare. Certo è che la Chiesa
favorì in più luoghi i comuni. È di Châteaubriand la sentenza:
«L'église avait tout à craindre des grands et rien des
communes».

522
Capriasca e Campione, poichè la Chiesa soleva favorire
l'emancipazione dei servi114.
I varchi alpini ebbero d'altra parte un'importanza
decisiva nella formazione economica, amministrativa e
quindi politica delle nostre valli. Già dal X° secolo si
hanno notizie di strade militari fatte riattare dagli
imperatori di Germania, come transito militare verso
l'Italia, sulla traccia delle antiche strade romane. La
manutenzione delle strade lombarde è espressamente
menzionata nella pace di Costanza fra il Barbarossa e la
Lega. Queste strade avevano un'importanza
commerciale, ma non potevano essere costrutte nè
mantenute come vi provvedono gli stati moderni: nulla
potevasi fare e nulla conservare senza l'aiuto delle
popolazioni.
Volta a volta gli imperatori, i duchi, i conti ebbero
dunque interesse a conquistare il favore dei comuni
contro gli stessi signorotti locali per averne aiuto nel
114 Il diritto feudale, ch'era barbarico malgrado traesse le sue
origini già dall'epoca bizantina, considerava la giurisdizione come
un attributo della proprietà terriera e l'uomo che lavorava la terra
come un accessorio della proprietà la quale veniva ceduta «coi
buoi e coi villani». Ciò era inconciliabile col diritto romano e più
ancora coi principi fondamentali del Cristianesimo nei rapporti
fra l'uomo singolo e l'autorità.
Ogni autorità procede da Dio, insegnano San Paolo e
Sant'Agostino, ma ogni uomo è figlio di Dio e l'anima dello
schiavo di fronte al Padre è eguale a quella di Cesare. C'era in
questa affermazione di principio il germe della futura
rivendicazione, dover essere gli uomini eguali davanti la legge.

523
trasporto dei loro eserciti od altrimenti. Le quali
popolazioni ne traevano poi anche un largo vantaggio
economico, tutti i trasporti avvenendo a dorso d'uomini
o d'animali. E l'arricchimento era allora più che adesso
una possibilità di vita locale o come modernamente si
direbbe «di emancipazione».
Da ultimo nelle lotte fra la Chiesa e l'Impero il
possesso dei valichi alpini era appetito dalle due parti.
Gli arcivescovi di Milano che allora erano una potenza
ebbero interesse non solo a favorire i comuni delle valli
meridionali, ma anche quelli del versante boreale delle
alpi115.
In queste condizioni nacquero e si svolsero le
comunità cisalpine delle quali abbiamo più lontane
115 La preistoria, risalendo all'Italia prima della dominazione
romana, ha stabilito come il transito attraverso i valichi alpini si
praticasse in epoche ancora più remote. Vedi E. Pometta, Moti di
libertà, ecc. pag. 6 a 7. Lo stesso autore menziona a pag. 11 un
trattato del XIII° secolo fra le repubbliche di Milano e di Como e
quelli di Blenio e Leventina allo stesso oggetto. Soprattutto poi
sulla impartanza politico-militare dei valichi vedi in ispecie i
Moti di Libertà pag. 50.
Il Pometta dimostra nel succitato opuscolo, pag. 11 e 12, ed in
tutte le sue opere il parallelismo d'interessi che avevano fra loro
le vallate settentrionali e le meridionali, da Como a Basilea. Esso
ravvisa nei passaggi alpini le ragioni fondamentali della lega
svizzera come delle leghe retiche. Si tratta di un fattore costante
di solidarietà politiche che si mantiene dalle epoche preistoriche
fino alla costruzione delle ferrovie.
Concorda C. Meyer, citato da E. Pometta in Moti di Libertà,
pag. 38.

524
notizie: quella di Blenio, di Leventina, della
Mesolcina...
Quella di Leventina specialmente con l'apertura della
strada del Gottardo nel XIII secolo, destinata poi ad
essere nei secoli l'asse delle comunicazioni, delle
influenze e delle ingerenze italo-svizzere.
***
La vita economica di quel periodo ha dovuto essere
essenzialmente agricolo-pastorizia, basata sull'auto-
sostentamento. La terra allodiale, cioè di piena proprietà
privata ha dovuto essere poca. Pascoli e boschi erano
proprietà comune, come di massima ancora oggi, ma i
boschi non potevano avere valore alcuno perchè troppo
lontani dal mare: anzi essi erano di ostacolo alla
ricchezza. Dai documenti più antichi risulta che tutte
quelle attuali proprietà che ora sono i monti maggesi
provengono da graziose concessioni fatte dalle
vicinanze ai loro vicini ricchi o benemeriti, col diritto di
cintarle fermo stante il diritto di pascolo generale prima
e dopo l'unica fienagione. Ciò non impedì un
considerevole incremento della popolazione perchè
allora la frugalità ha dovuto raggiungere un punto che
riterremmo miracoloso date le abitudini d'oggi.
Ci conformiamo del resto alle tesi dei Meyer, del
Pometta e del Bontà che la servitù della gleba deve
essere stata limitata e quasi nulla. Sarebbe partito preso
il voler negare l'azione della Chiesa, almeno dopo il
1000, per la sua abolizione. Ebbero certamente servi ed

525
huomini de masnada (costretti a fornir soldati) le poche
castellanze che furono tutte effimere come sappiamo,
così come vi furono presumibilmente degli schiavi
all'epoca romana.
Abbondiamo in ogni caso nella tesi da altri già
enunciata che le signorie feudali furono di breve durata.
Tutte le compere di alpi sul principio del dugento che il
Meyer ci ha rivelato hanno di lontano un miglio l'odore
di riscatti. Gli alpi erano delle vicinanze ab
immemorabile, i feudali le avevano usurpate dopo
Roncaglia, i comuni li hanno ricomperati a buon prezzo
quando i feudali furono quasi costretti a cederli. Così in
Blenio, così nella Capriasca.
***
Molto fu scritto, con spirito polemico, su queste
nostre comunità antiche. Da una parte gli studiosi del
germanesimo le vollero assimilare alla Thalmarken ed
alla Dorfmarken allemanniche e magari farle procedere
da esse. Dall'altra se ne vuol fare un'istituzione
caratteristica dell'italianità delle nostre origini. L'ultima
parola non è detta, ma sarà probabilmente nel senso che
le istituzioni dei paesi di montagna si spiegano con le
condizioni locali e permanenti della vita montanara.
L'influenza allemannica non si vede in che modo nè
quando possa mai essersi esercitata. Delle istituzioni
franche, sappiamo pressochè nulla, (è lo stesso Andreas
Heusler che l'attesta) se non questo, che parecchie

526
consuetudini nostrane a riguardo di pascoli, la trasa per
es., trovano il loro riscontro nei Vosgi e nelle Cevenne.
D'altra parte troviamo che il Comune rustico è
nettamente italiano e il Carducci lo canta con un'ode che
dovrebbe essere letta e commentata in tutte le nostre
scuole maggiori.
Ciò non risolve però il fondo della questione.
A noi sembra che i popoli montani dovessero, per
necessità di cose, avere istituzioni autoctone di diritto
pubblico e privato radicalmente diverse e talvolta
opposte a quelle della pianura ed analoghe invece sui
diversi versanti della stessa catena di monti. Nè il
carattere degli uomini di montagna nè i loro interessi si
confacevano con quelli delle grandi unità economiche
che la pianura sola può determinare.
È così che i Baschi dei Pirenei, divisi da secoli
politicamente, e spogliati delle loro autonomie,
conservano tradizioni comuni nè cessano di rivendicare
i loro fueros (statuti e giurisdizioni locali) come avvenne
ancora in questo anno 1930 al congresso basco di
Vergara in Guipuzcoa. La più violenta antitesi è quella
della proprietà terriera, la quale tende inevitabilmente al
latifondo nelle grandi pianure ubertose e quindi alla
formazione di classi e quasi di caste antitetiche, mentre
nelle vallate alpine tende alla eliminazione della lotta di
classe.
Vedremo nel seguito di questo libro affermarsi in ogni
epoca, come fattore costante della nostra storia politica,
l'antitesi delle due tendenze: affinità di lingua e di
527
gerarchia ecclesiastica verso il piano: affinità di
sentimenti politici e sociali verso il monte. Giusta è
invece la tesi pomettiana, basata anche sull'autorità del
Meyer che nelle Alpi il movimento comunale in senso
politico è liberale: le vallate meridionali ebbero la
precedenza e la superiorità colturale su quelle
settentrionali.
Un'ultima avvertenza per quanto concerne il Medio
evo. Avvenne di esso ciò che suole avvenire di tutti i
sistemi politici e sociali ed anche di quelli artistici e
letterari. Ogni nuova scuola si adopera a svalorizzare la
precedente. Così l'umanesimo affettò un eccessivo
disprezzo per il periodo precedente, onde meglio
affermare il valore dell'antichità; i teorici dello Stato
moderno, a cominciare da Machiavelli, esagerarono gli
inconvenienti del decentramento comunale; i giacobini e
i loro seguaci fecero dell'aggettivo «moyenâgeux» quasi
un sinonimo di barbarie; i nazionalisti moderni
acconciano il Medio evo in tutte le salse secondo il loro
gusto. Una salutare reazione si va però affermando
contro questi giudizi.
Nessun periodo storico è in tutto biasimevole nè in
tutto lodevole. Anche le cose del passato che ci paiono
più strane ebbero pur qualche ragione d'essere: le cose
più inique ebbero perlopiù qualche temperamento, che
ignoriamo, oppure furono di breve durata.
La storia ricorda più facilmente le mostruosità, ma
queste non possono mai essere la regola. Invece la storia

528
dimentica i fatti pacifici e normali, per cui fu detto che
«les peuples heureux n'ont pas d'histoire».

529
III.
Il Ducato116

I Comuni, formatisi precedentemente, rafforzatisi


diventando parrocchie, amministratori di un demanio
pubblico talvolta cospicuo, rimasero, anche a traverso le
epoche successive, le cellule della vita pubblica e
praticamente lo sono ancora.
Occorre qui avvertire che gli attuali circoli e distretti
corrispondono su per giù al primitivo «comune grande»
che comprendeva tutte le terre di una vallata, ed alle
fagie che del comune grande erano talvolta la
suddivisione. Nell'Onsernone il Patriziato generale
corrisponde ancora al comune primitivo. Nella Melezza
riscontriamo patrizialmente le tracce d'altro comun
grande: così nel Gambarogno e forse altrove. Verso il
principio del duecento cominciarono i comuni grandi a
suddividere il possesso, poscia la proprietà dei loro
pascoli fra comuni piccoli mano mano che si erigevano
a parrocchie. Nel Sottoceneri la corrispondenza fra gli
antichi comuni e gli attuali è meno chiara, tuttavia
riconoscibile117.

116 Pagine inedite. Lavoro preparato tra il 1930 e il 1932. Le


note figurano nel manoscritto dell'on. Bertoni.
117 Vi è una tendenza germanistica a riferire il nostro comun
grande alla Thalmark e il Comune piccolo alla Dorfmark

530
Prima di appartenere intieramente al ducato di
Milano, le nostre terre erano state aspramente disputate
fra le famiglie feudali che tenevano Milano, Como,
Seprio e Locarno cioè i Torriani, i Visconti, i Rusca, i
Sanseverino, i de Sax, gli Orelli, gli Sforza, ed altri.
Esse furono travolte nelle guerre di supremazia fra
Milano e Como e furono spaventosamente devastate.
Vuolsi che in un secolo la Città di Lugano abbia
cambiato 14 volte la signoria. Di regola Locarno e
Bellinzona con le valli superiori sono con Milano, il
Sottoceneri con Como.
Di tutte queste cose non resta che un'oscura e infausta
memoria, malgrado le dotte monografie che ne
trattarono.
Quando finalmente Como e le diverse signorie
feudali della Lombardia caddero in potere dei Visconti
duchi di Milano, anche le terre ticinesi diventarono
totalmente ducali.
Questa dominazione fu rotta la prima volta col
passaggio della Leventina in potere di Uri, (anno 1403),
poi con la caduta di Bellinzona, Blenio e Riviera in
potere dei tre cantoni montani (1500).

allemannica. Non mi sembra che sia provato un qualsiasi rapporto


di dipendenza, mentre è possibile che le istituzioni nostre e
d'oltralpe abbiano una fonte comune, romana, o forse più antica.
Del resto queste forme di accentramento e decentramento
sembrano essere connaturate alla pastorizia ed all'economia
naturale delle regioni montane.

531
Nel 1512 finisce la dominazione ducale118.
Di questo periodo eziandio poco rimane nelle
istituzioni attuali che già non fosse prima, in germe od
in potenza. Fu detto che esso sia stato un regime
paterno. Pura frase rettorica! Fu piuttosto un periodo di
assetto e di consolidamento, per quanto interrotto dalle
due battaglie di Arbedo e di Giornico. Le piccole
giurisdizioni furono alquanto ridotte di numero,
scomparendo alcune castellanze del Luganese e del
Locarnese. Gli usi locali furono consolidati in statuti ad
immagine di quelli delle città lombarde. Le arti edilizie
vi ebbero memorabile incremento per il fatto stesso
della crescente fortuna della metropoli lombarda e dalle
due dinastie dei Visconti e degli Sforza. La lunga pace
susseguita alle continue procelle dei secoli precedenti
favorì la prosperità economica del paese.
Una notevole rete stradale fu costruita e regolata
mediante consorzi di manutenzione. Le strade regine
sembrano risalire a quell'epoca e forse è dall'ultimo
degli Sforza il nome ancora vivo di Strada francesca.
Tuttavia il dominio lombardo non mise profonde
radici, particolarmente nelle vallate, ciò che si deve
ascrivere particolarmente ad interessi economici
contrastanti.

118 Vedansi, in proposito: Cesare Cantù, Storia della Diocesi


di Como; Angelo Baroffio, Dei paesi e delle terre, ecc.; Sac. A.
Monti, Il Ticino intorno al 1000; Eligio Pometta, La Guerra di
Giornico; Emilio Bontà, La Leventina nel Quattrocento.

532
A quei tempi l'unità degli Stati dipendeva in primo
luogo dalle dinastie, poi dal gioco degli interessi. I
sentimenti di affinità etniche e colturali quasi erano
inavvertiti. La comunità di lingua e di stirpe non aveva
mai impedito il ferore della faide di comune nè l'ostinata
inimicizia delle città vicine. Esisteva maggior antipatia
fra le città e il contado, fra la pianura e la montagna, che
non oggi fra l'unghero e lo slavo. Per contro l'analogia
di certi interessi economici soleva rendere solidali gli
abitanti dei due versanti di una catena, ancorchè di
diversa lingua come si vide anche nei Pirenei. Le
moderne carrettiere e le ferrovie permettono oggi anche
ai villaggi di montagna di rifornirsi di tutto dalle
soggiacenti pianure, città e porti marittimi: allora erano
ancora intensi i traffici dall'una all'altra valle a traverso
le giogaie.
Le forme dell'economia terriera che andavano
prendendo piede nelle vallate alpine del resto del
Ducato minacciavano seriamente gli interessi comunali.
In Italia i pascoli alpini hanno acceduto ai latifondi di
privata proprietà.
Ai contadini rimasero solo i cosiddetti usi che sono
una specie di servitù a favore di una certa popolazione.
Questo non poteva essere ammesso dai nostri vallerani.
Continuo argomento di risse le fiere ed i dazi. Già ab
antico una fiera era un privilegio concesso dal principe
ad una città o borgata. Per il bestiame proveniente da
oltre Gottardo, e per quello che vi si univa strada

533
facendo lungo le nostre valli, le fiere principali erano
quelle di Varese, di Pavia e di Milano.
I nostri esportatori avrebbero voluto qualche cosa di
simile ai moderni draw-back per le mandrie invendute,
ma non era come a dirlo.
Non minor causa di dissensi erano le giurisdizioni. Il
Ducato andava assorbendo i feudi. La giurisdizione vi
era esercitata secondo i titoli feudali, cioè senza alcuna
vera regola di diritto pubblico. Il dramma di Serravalle
in Blenio (1402) concernente l'esercizio del jus primae
noctis, ne è la pagina più marcata. A poco a poco le
giurisdizioni si normalizzarono in una certa disciplina
locale, ma con concetti diametralmente opposti a quelli
dell'epoca comunale. Nel mille e duecento i placiti si
radunavano in Val di Blenio, composti dagli scabini
della valle quali testimoni della consuetudine locale,
presieduti da giudice mandato dai conti, (gli Ordinari
del Duomo di Milano). Era una giustizia demotica, se
non democratica. Con la consolidazione del Ducato, la
giustizia evolve ad una organizzazione statale e jeratica,
ma come sempre avviene, a scapito dei montanari e
delle usanze montane. L'ultima istanza è alla capitale,
composta di giudici cittadini, dottorati in ambo i diritti,
ma incapacissimi di comprendere una causa di diritti
reali secondo le costumanze e i bisogni di una regione
alpina119.
119 Tipico il caso tra Leontica ed Olivone. La vicinanza
olivonese aveva anticamente venduto a Leontica l'alpe di Stabio
nuovo, in Val Bovarina, cioè il diritto di caricarlo con cento

534
Nei vari conflitti dei leventinesi e dei bleniesi col
duca, (anche nella Lavizzara?) la nota che torna più
frequentemente è la volontà, dei vallerani di avere
giudici propri e che rispettassero le antiche
consuetudini. E ciò non era un fenomeno locale, nei
Pirenei successe qualche cosa di simile con la
formazione dei grandi stati di Francia e di Spagna. I
baschi rimpiangono ancora oggi i loro fueros (fori). La
centralizzazione può condurre ad una «forma più
evoluta di istituzioni», ma ad una condizione, che quello
stato lasci sussistere quel tanto di economia regionale
che permetta di provvedere con legge e regolamenti a
quelle necessità di polizia forestale e rurale che allora
erano inglobate nel diritto di proprietà.
La promessa dei signori svizzeri fu appunto quella di
ricondurre le valli ticinesi verso le forme comunali e
comunitative rispondenti ai bisogni della popolazione –

mucche.
Col tempo nacque contesa se si dovessero intendere cento
vacche da latte senza gli sterli, o compresi gli sterli. I giudici di
Blenio avevano deciso secondo la consuetudine locale, senza gli
sterli. Appello alla Camera ducale e piati a Milano con avvocati e
con giudici che naturalmente nulla capivano della controversia.
La camera ducale domanda il parere di un signorotto di
Bellinzona. Il parere e la sentenza furono, dopo chissà che spese,
che fosse concesso a quei di Leontica di caricare l'alpe con tante
bestie che corrispondessero ad unam calderam! Scherzo di
cattiva lega che ai giudici parve forse un riflesso della sapienza di
Salomone. Che dico parve? A un uomo di città può parere ancora
adesso.

535
nè avrebbero potuto trovarne una più seducente, nè di
più credibile perchè essi erano pure, per la più parte,
cantoni di montagna.

———

Il manoscritto del Bertoni su Il Ducato contiene le


seguenti note dettate da Emilio Bontà:
«...Il prototipo «marca» dev'essere un po' una
fissazione tedesca. Il Meyer vi dette credito adottando il
termine, penso, in mancanza di una designazione
sicura. Ma se una forma rizomatica (per dirla coi
linguisti) esiste, non può trattarsi che del pagus
romano, e più tardi del «contado rurale» ridotto ai
minimi termini mediante spezzettamenti successivi.
— Il dominio comasco cessa già nel 1335, infranto
dai Visconti. Quell'anno dunque le terre ticinesi
passarono buona parte ai Visconti (Sotto Ceneri); nel
1340-41 il resto (Bellinzona e Locarno). Le Tre Valli si
possono considerare viscontee verso la metà del
Trecento.
— La strada francesca non è in relazione con
Francesco Sforza. La si diceva così già nei secoli
antecedenti.
— Il jus primae noctis dei Pepoli non mi sembra
provato neppure come pretesa. Se ne son dette tante su

536
questo particolare! Ma storicamente non risultano che
cose vaghe.
— La «lunga pace» quattrocentesca non mi pare sia
esistita. Il Luganese specialmente fu tormentatissimo,
col dominio dei guelfi Sanseverino. E anche le Valli
superiori si trovarono tra il martello e l'incudine
(Arbedo, Giornico, ecc.)...»

537
IV.
Le Signorie degli Svizzeri120

Molto fu scritto su questo periodo la cui letteratura è


ormai abbondante. Citiamo in primo luogo la «Svizzera
Italiana» del Franscini, gli studi di Eligio Pometta e
particolarmente la sua opera principale «Come il Ticino
venne in potere degli Svizzeri» e la dotta monografia di
Luigi Aureglia Evolution du droit public dans le Canton
du Tessin (Paris Giard et Brière, 1916) e tutti i maggiori
storici della Confederazione Svizzera, in prima il Weiss,
autore del volume «Die Tessinischen Landvogteien».
Sono inoltre da consultarsi come fonti l'Helvetisches
Lexicon del Leu (1756) e molti altri lavori di minore
importanza.
I minuti particolari di questa parte della nostra storia
non riguardano il fine di questo libro. Importa invece
rilevarne alcuni caratteri in relazione coi problemi
attuali della nostra vita politica.
La prima constatazione che può ormai dirsi acquisita
è che nessuna delle terre ticinesi passò al regime
svizzero come terra di conquista. Qui ci varrà, oltre

120 Pagine inedite. Lavoro preparato tra il 1930 e il 1932. Il


manoscritto del Bertoni reca note, redatte da Emilio Bontà, che
nel corso del capitolo verranno contrassegnate con due asterischi
(**).

538
l'autorità del Pometta, la testimonianza dell'Aureglia,
per essere egli straniero e perchè la sua opera, passata al
crogiuolo di tre illustri professori della Università di
Parigi, ottenne da questa la distinzione di un premio
speciale.
La Leventina, le valli di Blenio e della Riviera, la
città di Bellinzona, non si risolsero a cambiare di
signorie senza lunghe pratiche ed esitazioni, nè lo fecero
senza mercanteggiare il loro consenso. Ottennero perciò
condizioni migliori di quelle delle quattro prefetture di
Lugano, Mendrisio, Locarno e Valle Maggia venute
dopo, ma una prova dello spirito che le informò tutte è
che posero generalmente la condizione che si
distruggessero le preesistenti fortezze ducali e aiutarono
a demolirle. Altro prezioso documento della loro
dedizione contrattuale è che quasi in tutti i casi le
popolazioni furono invitate a riformare i loro statuti
prima di sottoporli alla sanzione dei nuovi sovrani. Ma
soprattutto vale la reciprocità dei giuramenti previsti
dagli statuti. Il popolo giura comizialmente fedeltà ed
obbedienza ai cantoni sovrani: il balivo giura di
procurare il vantaggio e l'onore della valle, di evitare il
danno, di punire lo scandalo, di essere il giudice di tutti,
del povero come del ricco, di non lasciarsi sedurre da
doni o ricompense, nè da amicizie o parentele, ma di
procedere secondo ragione e giudicare secondo
giustizia. (Statuto di Blenio)
Si può essere scettici sul valore di questi giuramenti,
ma non bisogna esserlo di partito preso.
539
Avrebbero osato i Lombardi chiedere simili
giuramenti alle signorie spagnuole e li avrebbero queste
accettati?
Ritorniamo più sotto sulla questione dei doni e
ricompense, cioè sulla corruttibilità della giustizia.
Intanto giovi osservare, sulla scorta dell'Aureglia, come
il potere legislativo fosse rimasto di fatto alle
popolazioni. I cantoni sovrani accordavano la loro
sanzione ai provvedimenti votati dai sudditi e non
facevano mai leggi obbligatorie per essi. Se questa
sanzione era talvolta negata, ne vedremo tosto il motivo.
Il potere esecutivo era rimasto quasi intieramente alle
comunità protette, salvo il comando militare ch'era
attributo del fogto. (Per le 4 prefetture era il balivo di
Lugano che aveva qualità di comandante; quello di
Locarno era capo dello Stato Maggiore. In Blenio e
credo in Leventina, prima dell'infausta sollevazione del
1755, era la valle che nominava anche il Capitano121).
Del resto il baliaggio come tale aveva poco da
amministrare: amministrativo per eccellenza era invece
il potere esercitato dalle vicinanze comunali. La
manutenzione delle strade era onere contrattualmente
diviso fra i comuni.
Il potere giudiziario costituiva la più importante
attribuzione del balivo. Esso variava molto da un
baliaggio all'altro, ma sembra che in nessun baliaggio la

121 **Non risulta che la Leventina avesse, neppure prima del


1755, un Capitano generale proprio.

540
sua giurisdizione fosse esclusiva, nè per il civile nè per
il penale. I Giudici eletti dal popolo prendevano parte al
giudizio, dove con voto consultivo, dove con voto
deliberativo.
È noto che i magistrati che compravano l'ufficio se ne
rifacevano sui litiganti. Erano questi che pagavano les
épices (eufemismo per dire la mancia) ai magistrati, e
s'intende che il vincitore dovesse essere più generoso.
Questo nella nobile e ricca Francia del secolo d'oro.
Nei cantoni confederati si può presumere che vi fosse
maggior dignità durante tutto il cinquecento. Colla metà
del seicento cominciò la degenerazione dei costumi
politici che precipitarono nel settecento122 e 123.
122 Voltaire, dopo avere comperato l'ufficio di bailli di
Ferney, pubblica un opuscolo in cui taccia di scandaloso e di
simoniaco questo mercato. Gli risponde Montesquieu, l'autore
dell'«Esprit des Lois», che ciò sia di diritto naturale.
Beaumarchais fa rispondere da un giudice a cui rimproverano di
aver comperato la sua carica: «è vero: il re doveva regalarmela!».
123 **La pratica non era generale. Si può dire che solo i
piccoli Cantoni democratici vendessero la carica di balivo (Uri,
Svitto, Unterwalden, Zugo e Glarona).
La vendita degli uffici è nella storia un fatto assai più generale
di quanto si pensi. Oltre il classico esempio della Francia, la
quale concedeva, dietro compenso, anche le più alte e delicate
cariche (come quella di giudice nei «parlamenti»), dev'essere
ricordato che:
— Nel 1251 il Comune di Milano decise di vendere gli uffici;
— La reazione di Gregorio VII (XI secolo) contro la simonia
ebbe luogo soprattutto perchè l'Imperatore, e tutti i sovrani,
concedevano dietro compenso i vescovadi e gli arcivescovadi;

541
Fu quello il secolo della ragion di stato la quale ebbe
verso la fine la bella reazione dei sovrani riformatori.
Ma la corruttela ch'era cominciata in alto, faceva strazio
nelle classi inferiori. Le democrazia svizzera non
esisteva più che di nome, e il cinismo aveva preso il
posto dell'antica fierezza la quale soleva compensare un
certo grado di rozzezza con un maggior grado di
austerità. Nel settecento la giustizia era mal formata
anche presso i cantoni sovrani e non si ha che a leggere
la letteratura di allora, da Geremia Gotthelf a Pestalozzi
per convincersene.
Ma questa corruttela (alquanto esagerata dai giacobini
e dai riformatori post-rivoluzionari) non era in realtà il
peggiore dei mali. Anche con una magistratura
onestissima la giustizia può essere un cattivo scherzo
per chi non ha denaro da spendere. (Non è necessario
risalire nei secoli per dimostrarlo!)
Il peggio era che quelle stesse misure che in principio
del cinquecento erano state prese a garanzia
dell'autonomia locale, si volsero con l'andare del tempo

— I duchi di Milano vendevano normalmente l'ufficio di podestà


nella campagna; e sapeva di straordinario la concessione gratis
o in dono (questo favore l'ebbe, per es., il marito di quella
Marliani che per istromento fu impegnata, consenziente il
marito stesso, ad aver solo commercio carnale col duca
Galeazzo Maria Sforza);
— Anche sugli uffici ecclesiastici gli economi ducali percepivano
una provvigione. Il far dello scandalo su questo punto
testimonia di una mentalità più da donnetta che da storico.

542
a suo danno. La formula nihil innovetur era sembrata la
migliore delle garanzie dopo i turbini di mutazioni
avveratisi a capriccio durante il periodo preducale e con
disegno accentratore durante il ducato. Ma nella vita
organica tutto si rinnova. L'immobilità delle istituzioni
può essere feconda per un certo periodo, ma poi diventa
sinonimo di morte. Il principio «nihil immutetur in
ecclesia» non è estensibile alla vita civile
Nei giudizi di banca, giudicavano solo i giudici locali
(sembra si trattasse delle cause di piccolo valore).
Questa materia però non è sufficientemente chiarita,
scarseggiando i documenti124.
La procedura civile era semplice e sbrigativa: sotto
certi riguardi preferibile alle attuali. Quella penale era la
solita di tutti i paesi a quell'epoca, basata sul principio
inquisitorio. Le pene erano massimamente corporali e
pecuniarie. Sarebbe stato impossibile a così piccoli stati
(poichè i baliaggi erano in sostanza degli stati sotto
protettorato), provvedere a sistemi penitenziari, non
dico di tipo moderno, ma quali potevano avere solo i
grandi principati: e si sa che razza di sistemi fossero.
Notevole invece che i ticinesi beneficiavano fin
d'allora della franchigia inglese dell'habeas corpus.
Nessuno poteva essere arrestato senza ordine del
giudice. (Aureglia)

124 **È certo per la Leventina (ve n'era uno per l'Alta, uno per
la Media e uno per la Bassa valle – cioè uno in ciascuna faccia).

543
Fin qui dunque il potere democratico aveva una
costituzione popolare e peccava più per eccesso che per
difetto di democrazia. Il grande inconveniente
consisteva nelle istanze d'appello civile (le sentenze
penali erano inappellabili).
L'appello avveniva agli ambasciatori o sindacatori
che una volta all'anno varcavano le alpi per quest'ufficio
e per altre incombenze amministrative. Ciò aveva gravi
inconvenienti per le quattro prefetture dipendenti da 12
cantoni. Troppi giudici e pratica impossibilità che tutti
fossero cogniti dell'italiano benchè questa lingua fosse
allora assai diffusa nei cantoni confederati a causa del
servizio militare presso le corti italiane. Se e fino a qual
punto si fosse diffusa la pratica di discutere le cause in
tedesco, è un punto che rimane da chiarire125.
Più disastrosa l'istituzione della terza istanza alle corti
dei cantoni sovrani. Benchè sia stata limitata nel 1678
non si capisce come una simile aberrazione possa essere
stata proposta ed accettata. Di fatto sembra che non la si
praticasse.
Arriviamo ora alla vessata questione della
corruttibilità della giustizia. A questo riguardo
osserviamo anzitutto che la pratica dei cantoni di
vendere la carica di balivo, ripugnante in se stessa, era
conforme alle istituzioni di quei tempi. Il re di Francia,
125 **È forse da rilevare il fatto che i Cantoni, pur valendosi
dei lumi degli ecclesiastici nei processi di stregoneria, non vollero
funzionasse da noi il Tribunale della inquisizione religiosa
(eppure c'era a Como!).

544
fino alla Rivoluzione, ha sempre venduto le cariche di
bailli e ciò era ritenuto per giusto e normale.
Avvenne che i baliaggi, troppo piccoli per adempiere
alle funzioni dello stato quale si andavano designando in
Europa, si trovarono incatenati nei limiti troppo stretti
delle loro autonomie. La prima conseguenza tangibile fu
quella di non poter provvedere allo sviluppo delle reti
stradali secondo i nuovi bisogni.
Pochi anni dopo il passaggio di Locarno agli svizzeri
si ruppe il ponte della Torretta a Bellinzona in
conseguenza della frana di Biasca. Se Bellinzona e
Locarno fossero stati baliaggi di un solo stato come
tutto il paese di Vaud era signoreggiato dal sagace
regime di Berna, il ponte sarebbe stato rifatto. Occorse
invece la costituzione di tutti i baliaggi in uno stato solo
perchè ciò avvenisse. La viabilità, interrotta dopo i
provvedimenti di Francesco Sforza, subì un arresto di
tre secoli. Costituitosi lo Stato della Repubblica e
Cantone Ticino, bastò una generazione per fare le arterie
stradali da Chiasso al Gottardo con le diramazioni su
Locarno e Ponte Tresa.
Questo richiamo storico è necessario perchè ai tempi
nostri si presentano questioni analoghe nei rapporti fra i
Cantoni e la Confederazione. Troppo empirica è la
formula: «basta con gli accentramenti: fin qui e non un
passo più oltre». Non si dà un fermo al secolo per
decreto di popolo nè per volontà di principe.
Più saggio, più conforme alle leggi della vita e della
storia sarebbe un federalismo che dicesse: se ai bisogni
545
nuovi determinati da evoluzioni mondiali occorrono
nuovi sacrifici della nostra autonomia essi possono e
devono essere compensati dalla restituzione di
autonomie che abbiamo sacrificato quando il sacrificio
pareva necessario ed ora non lo è più.
La politica del nihil innovetur fu aggravata da diversi
fattori abbastanza noti: il non appartenere tutto il Ticino
alla stessa signoria. Il dominio di un popolo sopra l'altro
popolo fu un concetto delle Repubbliche italiane. La
Sardegna appartenne a Pisa. Con l'apostrofe di
Balduccio di Buonconte ai pisani «voi che re siete in
Sardegna ed in Pisa cittadini» il Carducci esprime da
par suo un prodigio della storia. Ma dodici cantoni che
esercitano per turno questa sovranità volgevano il
prodigio a sortilegio. Se poi si considera che di questi
sovrani sette erano cattolici e cinque protestanti, che
intanto ardeva in Isvizzera l'epico conflitto della
Riforma e della Controriforma, che le diocesi di Milano
e di Como, ai quali i baliaggi ticinesi erano soggetti per
lo spirituale, temevano nei balivi protestanti «una
breccia aperta alla Riforma» si comprenderà facilmente
come le diete dei cantoni sovrani, per poco che vi fosse
stato opposizione a qualche mutamento domandato dai
baliaggi, risolvessero «che si stesse all'antico praticato».
Per servirmi di un pensiero di Gonzaga de Reynold, il
persistere di una pace di tre secoli sotto questo regime
attesta non già la barbarie, non già la tirannia dei
dominatori, ma un loro altissimo senso politico.

546
***
La vita economica sotto il regime degli svizzeri non
fu certo peggiore di quella delle altre vallate subalpine
soggette alla serenissima Repubblica di Venezia, alla
Spagna ed ai Principi del Piemonte.
L'emigrazione delle nostre maestranze sembra essere
stata favorita, di contro alle corporazioni chiuse degli
stati stranieri, dal fatto stesso che questi avevano
bisogno dei reggimenti svizzeri i quali fornivano le loro
truppe di prima scelta. I ticinesi ebbero infatti gran parte
nella costruzione delle opere d'arte militare di
quell'epoca.
Altra ragione necessaria per comprendere gli
avvenimenti politici posteriori è quella delle frequenti
alleanze stipulate dai Cantoni cattolici con la Santa sede
a fini militari già da quando Sisto IV tentò conquistare il
ducato di Ferrara per il suo nipote Riario; continuarono
le alleanze con Innocenzo VIII, Giulio II e Leone X. Gli
Svizzeri fornivano al Pontefice reggimenti di soldati e
ne avevano in cambio un diritto civile-ecclesiastico
singolare che precedette di secoli le teorie moderne a
favore della sovranità statale. Che ciò avesse qualche
parentela con la cosidetta libertà della chiesa gallicana,
non oseremmo affermarlo. Vigeva in ogni caso, dal lato
della Chiesa, una certa formola diplomatica che giova
richiamare: «doversi lasciare agli Svizzeri i loro usi ed
abusi». Fra questi usi ed abusi era la decisa avversione
dei confederati, già nella così detta Carta dei preti, alla

547
giurisdizione ecclesiastica fuorché in materia
matrimoniale e di usura ed una certa pretesa di
sorveglianza sopra l'amministrazione dei conventi ed
altre opere pie, venuta senza dubbio da ciò, che gli enti
pubblici avevano fortemente contribuito alla loro
fondazione. Ciò che si manifestò anche nei baliaggi
ticinesi.
***
...Non si può lasciare inosservata, per quest'epoca, la
parte che vi ebbero le autorità ecclesiastiche, in
conseguenza del Concilio tridentino e ad opera
particolarmente di San Carlo Borromeo. La Svizzera,
trattata come grande potenza, fu onorata di una
Nunziatura particolare, mentre appena due ne aveva la
Germania, da Vienna a Colonia.
La scuola protestante indica fra altri scopi della
nunziatura quello di affievolire la dipendenza dei
vescovi svizzeri dagli arcivescovadi stranieri, ciò che
sarebbe stato a vantaggio del principio nazionale.
Comunque la nunziatura ebbe in Isvizzera non poca
ingerenza già per il fatto di poter servire da legame
spirituale fra i cantoni cattolici, tenuto calcolo delle non
poche cause che il diritto canonico attribuiva al foro
ecclesiastico.
Carlo Borromeo, quale arcivescovo di Milano si
preoccupò del pericolo che i baliaggi ticinesi in potere
degli svizzeri diventassero una breccia nelle alpi aperta
al protestantesimo. Volle quindi diventare il protettore

548
dei cantoni cattolici contro i loro potenti confederati di
Zurigo, Berna e Basilea. Visitò personalmente quei
cantoni, fu a Lucerna (1570), a Svitto, ad Einsiedeln, a
Zugo, e Glarona. Visitò anche Disentis, poichè la
signoria di Coira sulla Mesolcina e la Valtellina
rappresentava una minaccia anche maggiore. Fondò a
Milano un Collegio elvetico, che potesse competere con
le facoltà di teologia protestanti nella formazione del
clero svizzero.
È attribuita ad opera sua la fondazione della
Nunziatura sopra menzionata e la introduzione
dell'ordine dei Gesuiti.
Come azione religiosa queste imprese stanno nel
quadro della Controriforma, inaugurata dal Concilio di
Trento e corrispondono alla fondazione di un Collegium
germanicum. La riforma conseguiva una forza
indiscutibile dal fatto che esigendo dai fedeli la lettura
della Bibbia in volgare, implicitamente istituiva
l'obbligatorietà della scuola popolare. Occorreva dunque
provvedere ad una scuola popolare anche nei Cantoni
cattolici. Ad essa il Borromeo dedicò almeno in parte i
beni del soppresso ordine degli Umiliati. In quasi ogni
parrocchia del Ticino furono istituite delle modeste
scuole cappellaniche. Alla caduta dei Baliaggi il Ticino
contava, due seminari inferiori (Pollegio e Ascona) e
quattro Ginnasi a Mendrisio, Lugano, Locarno e
Bellinzona. Non è probabile che alcuna provincia della
Penisola avesse altrettanto in proporzione.

549
Questa premessa storica è necessaria a rettamente
comprendere e giudicare diversi avvenimenti del XIX
secolo. Fra altro questo, che a torto od a ragione, i
novatori pretendessero che la Nunziatura ed i Gesuiti
fossero due elementi di dominazione straniera in
Isvizzera, specialmente dacchè l'Austria, diventata
padrona del Lombardo Veneto e arbitra dell'Italia, aveva
serbato dalle leggi di Giuseppe II un certa
manomissione dello Stato sulla Chiesa.
Da Carlo Borromeo ha il nome anche la lega stipulata
nel 1586 fra i sette cantoni cattolici di Lucerna, Uri,
Svitto, Unterwalden, Zug, Friborgo e Soletta, (il santo
era già morto da due anni), detta anche Bolla d'oro. I
Cantoni protestanti, che da parte loro patteggiavano con
Enrico IV di Francia, ne fecero tosto un titolo d'accusa
contro i cattolici. La lega fu più volte rinnovata e
conservò il suo carattere fino al Sonderbund (1847).
Ciò che nel 16° secolo era conforme al diritto
pubblico d'allora potè nel 19°, per il mutato spirito
d'Europa, apparire incompatibile126.
126 Il manoscritto del Bertoni reca le seguenti note dettate
dall'ora defunto sac. Antonio Monti:
I) Credo che non seminario ma collegio si chiamasse l'istituto
di Ascona; non so, se in qualche tempo si appellasse anche
Seminario. Vegga Lei! Non so se gli studenti vestissero l'abito
clericale; forse alcuni; pare invece che a Pollegio fosse in uso
l'abito talare e quindi fosse vero seminario.
II) I Cantoni indussero in ultimo i Padri Somaschi a tenere una
cattedra di Teologia. Il Cons. di Stato F. Lepori (sessione di
maggio del 1841) disse: «Già in Lugano fino al 1800 esistette una

550
V.
La Costituzione ticinese del 1830127 128

Udite giù sotterra ciò che dicono i morti.


Carducci (Certosa di Bologna).

Ricorrendo il centenario della Costituzione cantonale


del 1830 il governo del paese ha creduto conveniente di
richiamare quella data e quell'evento alla raccolta
attenzione dell'adolescenza e dei cittadini mediante un
libro che di quella costituzione dicesse il significato,
tutto il significato, nel quadro delle sue precedenze e
delle sue conseguenze.
Dissero invero i nostri avi ed i nostri padri che la
Costituzione del 1830 era stata il «primo amore del
popolo ticinese». E fu veramente così. Delle precedenti
costituzioni, quella unitaria della Repubblica Elvetica
una ed indivisibile (1798) era stata quasi un dettato del
Direttorio rivoluzionario di Parigi. L'Atto di mediazione
scuola di Teologia dogmatica e morale frequentata da gran
numero di chierici».
Vedi l'opuscolo di Gius. Curti che conferma e precisa.
127 Pagine inedite. Capitolo preparato nel 1930.
128 Prologo ad un lavoro di vasta mole che avrebbe dovuto
comprendere la trattazione completa della materia costituzionale
riguardante il periodo dall'Elvetica al 1830 ed oltre, e che è
rimasto allo stato di abbozzo.

551
(1803) era stato il frutto di una intelligente intesa fra
Napoleone Buonaparte e i fiduciari delle varie correnti
politiche svizzere, cosicché la costituzione cantonale di
quell'anno fu accettata, non votata nè discussa dal
popolo nostro. La Costituzione del 1814 era stata la
conseguenza di un rivolgimento europeo al quale i
ticinesi avevano assistito senza parteciparvi: essa fu
accettata dopo diversi torbidi, imposta da volontà e da
interessi stranieri.
La Costituzione del 1830 invece fu l'opera spontanea
e voluta dalla grande maggioranza dei nostri padri,
accolta con giubilo dalla popolazione. Opera tanto più
importante chè non significava la vittoria di un partito,
nel senso odierno della parola, ma d'una tendenza.
I partiti cosiddetti storici non la precedettero ma
piuttosto nacquero dalla sua applicazione e dalla sua
interpretazione. Certo vi ebbero parte le correnti di
pensiero che allora si andavano affermando in tutta la
Svizzera, in tutta l'Europa, ma non oltre quanto la natura
delle cose concedeva e consigliava.
Perciò se anche le sue disposizioni siano oggi quasi
tutte variate nella forma e nella sostanza, essa conserva
la sua fisionomia così come l'albero secolare le cui
cellule tutte sono cambiate ma rimane nondimeno
quell'albero.
Le riforme costituzionali posteriori si sono svolte
tutte come riforme parziali seguendo la diversa indole
dei tempi. Fare la storia anche di queste vuol dire
compiere il racconto delle mutazioni costituzionali dello
552
Stato e quindi delle sue vicissitudini essenziali. E ciò
risponde ad una necessità del presente e dell'avvenire.
Non è bene che un popolo conosca la storia delle sue
politiche mutazioni attraverso le sole informazioni della
stampa politica contemporanea. Esse sono
necessariamente unilaterali e quindi tendenziose.
Uomini ed eventi di indiscutibile valore morale si
svalorizzano nel racconto dei contemporanei perchè
esagerati nel biasimo come nella lode.
Le violenze di queste polemiche hanno nociuto al
prestigio del nostro Cantone nella lega confederata ed al
buon ricordo che della patria sogliono conservare i
cittadini emigrati. Perchè questo malanno scompaia,
bisogna poter guardare il nostro passato col necessario
arretramento. Solo allora la storia è formativa e,
spogliata dalle sue scorie, rivela l'intima sostanza delle
cose, ciò che vi è in esse di duraturo, ciò che
nell'umanità vi può essere d'eterno.
Nelle azioni degli uomini come nelle rivoluzioni dei
popoli, i motivi di agire non sono mai così semplici che
non si possa attribuire a qualche rea passione anche le
scintille dell'anima più nobile ed immortale. Avviene
poi che nelle loro polemiche i partiti, come le nazioni, si
attribuiscano rettoricamente vizi, trame, finzioni e
nequizie che a nessun corpo collettivo si possono
realmente attribuire, se non forse per brevissimo tempo.
Si creano così delle responsabilità collettive
puramente verbali e immaginarie le quali, alimentando
le passioni, tolgono ogni capacità di giudizio.
553
C'è di peggio. Gli scrittori di cose storiche sogliono
cadere alla loro volta nei più strani errori giudicando i
fatti di un'epoca con le passioni e le prevenzioni
d'un'altra, i fatti di una regione singola coi criteri
dominanti nelle nazioni maggiori.
Se lo storico non ha quel tanto di senso critico
necessario per mettere le cose del medioevo o dei secoli
successivi nel quadro e nella luce della loro epoca, di
sceverare quello che è particolare da quanto è generale,
rischia di capovolgere i valori, di giudicare a torto, di
diseducare.
Bisogna quindi che il narratore possieda quel tanto di
ottimismo da persuadere sè medesimo anzitutto, che i
fenomeni storici duraturi ed universali furono così
perchè v'erano delle ragioni per cui così fossero.
Occorre che si convinca che le guerre fra i popoli,
non sono mai guerre di angeli bianchi contro i diavoli
neri, ma guerre di uomini pieni di difetti anche se capaci
di cose magnanime ed eroiche: che le fazioni politiche
non sono mai fra servitori di Dio e figli di Satanasso, ma
fra gente che è persuasa, il più delle volte, di fare il bene
pubblico, pur pensando un poco al vantaggio proprio:
che le dottrine politiche ed i sistemi che possono
convenire alle grandi nazioni possono disconvenire alle
piccole.
Solo a questa condizione la storia potrà essere
educativa perchè solo a questa condizione può almeno
tentare di essere imparziale e quindi giusta secondo la

554
sentenza di Spinoza: non flere, non indignare sed
intelligere.
Raddrizzata che sia, la nostra storia politica, storia di
un secolo solo, ma d'un secolo grande per le sue
costruzioni non meno che per le sue mutazioni, è invero
degna di essere conosciuta. Storia ricca di esperienza in
ogni caso. Storia capace di temperare dei cittadini
consci dei loro diritti e dei loro doveri. Storia di un
popolo minuscolo che non teme di paragonare le sue
istituzioni con quelle di repubbliche e monarchie assai
maggiori.
***
Ma la nostra storia costituzionale non sarebbe
rettamente comprensibile se non la si collegasse alla
conoscenza delle vicende politiche e costituzionali che
la precedettero ed alla storia delle democrazie svizzere
che percorsero lo stesso cammino, così come già fece
Luigi Aureglia nel suo dotto volume Evolution du droit
public du Canton du Tessin (Parigi 1916). La sentenza
che Cicerone pone a fondamento del suo libro «La
nostra repubblica non fu l'opera di un giorno nè d'un
uomo» (de Rep. Lib. II cap. 21) è vera anche per noi.
Anche ai nostri tempi, e forse più oggi che allora, vale
l'appunto ch'egli muove al divino Platone di aver voluto
tirar fuori la sua repubblica ideale dalla propria fantasia
allorchè le norme della vita civile non altrimenti si
possono dedurre che da una logica illustrazione della
storia del proprio stato. Vero è, riconosce Cicerone, che

555
anche gli eventi storici sono in gran parte il portato del
caso e tale può sembrare tutta la storia a chi si perde nei
particolari; ma a chi ne sappia afferrare l'intima
connessione appariranno le ragioni costanti di ogni
costituzione politica. (Ib. cap. II).
***
Il diritto pubblico svizzero è d'altronde, come bene
osserva Andrea Heusler, una parte integrante anche
della nostra cultura nazionale. Si può sostenere,
letterariamente parlando, che il patrimonio morale di
una nazione consista principalmente in una sua
particolare letteratura. Roma ebbe tuttavia una sua storia
grandiosa nel mondo antico prima ancora che la sua
letteratura nascesse e quando appena era adolescente. Il
diritto pubblico di un paese, quando è liberamente
sviluppato, fa parte della sua cultura nazionale in quanto
è un fattore della vita nazionale, in quanto è un prodotto
dello spirito popolare nel passato, nel presente e nelle
sue aspirazioni.

556
VI.
Prolusione ad un corso di storia ticinese129

I.
«Dov'è il Cantone Ticino?» scrivevami da Roma un
amico il quale fuggendo per la piana lombarda aveva
veduto dileguarsi e confondersi nella catena delle Alpi
le montagne ticinesi, non rimanendo altra cosa a
settentrione che la gran cerchia che chiude l'Italia.
Eppure questo minuscolo settore delle Alpi ha una
storia, non solo, ma una storia ricchissima di eventi e di
ammaestramenti.
L'importanza storica di un paese non si misura dalla
sua mole. Cos'è la storia dell'immensa Russia in
confronto a quella della piccola Grecia? Bensì la storia
d'un paese è in massima parte determinata dalla sua
posizione geografica ed è appunto l'essere una breccia
aperta nella muraglia delle Alpi che dà alla valle del
Ticino una importanza eccezionale nella storia d'Europa
in corrispondenza com'è con una delle principali vallate
d'Europa, ch'è quella del Reno. Via delle genti chiamò
Carlo Cattaneo, con felice sintesi, quella che conduce

129 Dal Corriere del Ticino, numero del 31 ottobre 1918.

557
dalla Lombardia alle Fiandre e noi siamo al punto
critico di questa via.
Già le tracce dell'epoca preistorica mostrano le
antiche popolazioni mediterranee infiltrate a traverso le
Alpi verso tramontana: liguri ed etruschi trassero per
Bellinzona verso le regioni lacustri dell'Altipiano
svizzero e vi lasciarono numerose tracce del loro
passato. L'archeologia ticinese è una parte
importantissima dell'archeologia svizzera.
Roma mosse per le Alpi verso la Germania e da qui
passò una delle principali vie per cui un primo albore di
civiltà penetrò le regioni del nord.
Nel medio-evo videro le nostre valli passare gli
eserciti della Germania che prendeva la sua rivincita
sulla romanità, scendendo con orgoglio non disgiunto da
rispetto alle incoronazioni di Roma. È sui nostri laghi
che si combattono le prime battaglie della guerra del
papato e dell'impero. Tutti i grandi eserciti della
successiva storia d'Italia e di Germania hanno la più
larga ripercussione in Isvizzera, e già prima che le terre
ticinesi diventino svizzere i loro destini segnano le sorti
di tutte le vallate che dalla Svizzera conducono in Italia.
La riforma religiosa e la contro riforma si disputano la
breccia che da Basilea mette a Milano. Gli ultimi grandi
episodi, quelli delle guerre del periodo napoleonico,
coinvolgono la nostra storia con quella del mondo.
Vero è che nell'attuale guerra d'Europa la Svizzera
rimane immune, ed inviolata è la via delle Alpi; ma ciò
avvenne per l'eccellenza delle istituzioni svizzere, frutto
558
di una secolare esperienza delle vicende d'Europa,
istituzioni nelle quali i ticinesi nostri padri hanno avuto
grandissima collaborazione.
La nostra storia è in una parola inseparabilmente
collegata con quella di tutta l'Europa centrale e trae da
quella la sua importanza. Nel che non è dissimile dalla
storia svizzera in generale, la quale, malgrado l'andazzo
che corre nelle scuole, non si può disgiungere dalla
storia della civiltà d'Europa e delle rivendicazioni
europee, senza totalmente sfigurarla e diminuirla.
II.
Ma anche considerata nel suo intrinseco la nostra
storia è nobile e bella. Essa si ammanta di tutto lo
splendore della storia delle Corporazioni e delle Arti nel
medio-evo. Essa scaturisce con montanina freschezza
dalle origini del Comune libero.
Il Comune rustico italiano da secoli è spento e vive
invece di inesausto vigore nelle nostre valli; il Comune
libero del Medio Evo, sorto di contro al feudalismo che
tramontava ed al principato che sorgeva, in nessuna
parte del mondo ha sopravvissuto tranne che in
Isvizzera nella forma dei Cantoni federati. La
dominazione svizzera nelle prefetture ticinesi, con tutti i
suoi difetti, ha avuto il prezioso vantaggio di conservare
gelosamente intatte le autonomie e le forme
democratiche del Comune medioevale, e questa antica
democrazia si è incastrata sul nostro suolo con la nuova

559
democrazia portata dalla Rivoluzione francese, con la
quale si è fusa in un bronzo imperituro.
Dopo la rivoluzione cominciò la nostra attiva
partecipazione alla vita politica svizzera. In questa
nuova vita i nostri padri ticinesi hanno portato
l'impronta del genio della loro stirpe, tutto chiarezza e
semplicità. Già nel 1810 il Cantone Ticino, che ha sette
anni di esperienza politica, dimostra di fronte al Gran
Córso, al potente reggitore della politica svizzera, al
sommo reggitore degli ordinamenti d'Europa un
ardimento ed una coscienza che gli fanno onore. Nel
1814 quando la reazione imperversa sull'Europa sotto
gli auspici di Metternich, un solo Cantone nella
Svizzera osa elevare una parola di fiera protesta ed è il
Ticino. Nel 1830 prima che le giornate del luglio
vedessero il tramonto della Ristaurazione, il piccolo
Cantone Ticino l'ha rovesciata con una rivoluzione
pacifica e questo piccolo e ignorato staterello è il primo
d'Europa ad infrangere le catene di cui il Congresso di
Vienna credeva aver avvinto la democrazia.
Seguono paralleli il movimento per la Rigenerazione
della Svizzera, che mette capo alla costituzione del 1848
e quello per il Risorgimento d'Italia che mette capo alla
sua politica unità. Il giovane Cantone Ticino prende
parte all'una ed all'altra con pari interessamento. Esso sa
essere un fattore dell'unità italiana senza giammai
mancare alle leggi dell'onore verso la Svizzera e al
decoro verso sè medesimo. Altrove le influenze estere
sono secondate dall'oro: qui non sono determinate che
560
da un ardente amore della Giustizia e della Libertà.
Sopra entrambe le vie il governo ticinese incontra la
potenza austriaca. L'Austria si oppone alle
rivendicazioni della giovine Svizzera come a quelle
della giovine Italia, ma incontra nel popolo ticinese un
inaspettato fautore di tutte le libertà. L'Austria minaccia:
il Ticino la guarda imperterrito in viso: l'Austria ha delle
armi potenti, l'espulsione e l'affamamento: il popolo
ticinese si lascia espellere ed affamare ma non cede, ma
invoca il ricordo del cappello di Gessler.
E notate signori che l'Austria aveva dalla sua
l'apparenza della questione religiosa. Ma il popolo
ticinese rimaneva religioso senza abdicare alla sua
fierezza civile.
***
Se poi scendiamo ad esaminare le questioni che
divisero i ticinesi nella loro vita politica, noi troviamo
che a malgrado della vivacità delle loro lotte, a
malgrado della persistente violenza delle antiche ire
guelfe e ghibelline, a malgrado di tutte le superficiali
apparenze e di diversi deplorevoli traviamenti, la vita
politica ticinese del primo secolo ha in sè qualche cosa
di simpatico e di leale.
I nostri padri e noi abbiamo molto conteso, ma
raramente per cause futili, mai per cause ignobili.
Le lotte di parte furono quelle che dovevano essere.
La lotta eterna dell'individuo contro lo stato
dapprima. Il ticinese è, per eredità storica di governi

561
deboli e per adattamento naturale alla vita montana,
eminentemente particolarista e individualista. L'autorità
dello Stato vi si afferma lentamente. Ma questo suo
«liberalismo» può essere considerato meno un vizio che
una virtù.
Il suo individualismo è, del resto, contemperato da
una robusta vita comunale che va fino alla proprietà
collettiva di un grande patrimonio...
Grandissima parte ebbero nella vita ticinese moderna
i rapporti fra la Chiesa e lo Stato. E poichè il nostro
paese aveva conservato, a traverso i secoli, molte delle
antiche forme di reggimento ecclesiastico, queste lotte
assunsero da noi un carattere di particolare lotta per la
democrazia religiosa. E poichè la giurisdizione civile
venne separandosi da quella ecclesiastica, ed i cattolici
ticinesi rimasero soggetti a vescovi stranieri, questa lotta
per la democrazia assunse carattere anche di lotta per le
libertà politiche; le quali cose tutte concorrono a rendere
la nostra storia interessantissima.
La scuola è il fondamento di ogni democrazia. Ora, la
lotta per la scuola, allora appena incominciata, assunse
carattere politico fin dai tempi della controriforma,
perdurando vivissima oggidì, ricca di episodi e di
esperienze non indegni di un più grande Stato.
La rappresentanza popolare, rimasta in altre
democrazie, ed eziandio in repubblica, una mera forma,
od un effimero esercizio di teorica sovranità, diede
luogo, dagli inizi del nostro Stato, alle più caratteristiche
manifestazioni di vita nelle lotte costituzionali del 1814,
562
del 1830, 1853-55, 1865, 1870, 1876, 1881 e nella
memorabile riforma del 1892, in cui il Ticino, primo
Stato in Europei, faceva esperimento del voto
proporzionale.
In tutte queste manifestazioni di vita i caratteri degli
uomini rappresentativi meravigliosamente svariati e per
lo più simpatici: Vincenzo D'Alberti, Giov. Batt. Maggi,
il Quadri, il Franscini, il Luvini, il Somazzi, Carlo
Battaglini e Giov. Jauch, Bernardino Lurati e Gioachimo
Respini, Alfredo Pioda, Rinaldo Simen e Romeo
Manzoni, una pleiade di uomini esuberanti di vita e
tipicamente ticinesi...
La storia è, dicono, maestra della vita.
Nei tempi procellosi e, come speriamo, fertilissimi di
avvenire, che traversiamo, la Svizzera, rimasta
incolume, ed esempio di armonia fra i popoli, senza
dubbio va incontro a compiti nuovi, tutti però conformi
alla sua origine ed alle sue tradizioni. A ben adempiere i
quali compiti le è necessario un profondo esame di
coscienza. L'esame di coscienza per una nazione è un
ripiegamento sulla storia del suo passato, sulle cause
della sua prosperità o della sua decadenza. Questo
esame, se noi lo facciamo, ci porta a questa conclusione:
che la Svizzera fu sempre grande al cospetto del giusto,
quando fu fedele ai principi dond'era sorta. e quando
pose il sentimento dell'onore al di sopra dell'interesse
materiale. Ci porta a quest'altra conclusione, che la
Svizzera è una via delle nazioni, è una porta aperta a
tutte le idee generose, è un campo aperto a tutte le
563
esperienze. In questa sua natura sta tutta la sua ragione
d'essere e tutto il suo pericolo. Il nostro compito è
straordinariamente difficile, perchè dobbiamo aprir
l'uscio a tutte le idee e chiuderlo a tutte le ingerenze.
Solo la esatta ed amorosa ricerca della nostra storia ci
può sorreggere in quest'opera. Accingiamoci a questa
ricerca con animo sereno e lieto, poichè la nostra storia
è degna ed è bella.

564
VII.
Blenio e gli Svizzeri130

...È grandissimo, per quanto comune errore, il


considerare l'unione delle valli ticinesi alla Svizzera una
semplice mutazione di signoria senza immediato
vantaggio per la popolazione. L'ignoranza corrente sulle
condizioni politiche e sociali sotto l'uno o l'altro regime
è sgraziatamente in ciò suffragata dalla poco imparziale
testimonianza del Franscini e di tutti coloro che l'hanno
copiato senza darsi pensiero di risalire alle sorgenti... È
vizio comune a tutti gli storici della scuola giacobina
quello di giudicare le istituzioni dei secoli precedenti,
magari del medio-evo, coi criteri del diritto pubblico
moderno e coi sentimenti della rivoluzione francese...
Noi paragoniamo le istituzioni patrie del tempo dei
Landfogti con quelle dateci da Napoleone e dalle
successive costituzioni e sorpresi del contrasto gridiamo
che il regime degli Svizzeri era pura tirannia, senza
accorgerci che il solo paragone possibile è quello con le

130 Da "Cenni storici sulla valle di Blenio", conferenza tenuta


dall'on. Bertoni nel settembre del 1900 in occasione dei IV
centenario dell'annessione di Blenio alla Svizzera. (v. B. Bertoni,
"Cenni storici" ecc., Bellinzona, Stab. Tip. El. Em. Colombi &
C., Bellinzona, 1901). Le note a piè di pagina sono opera del
Bertoni.

565
istituzioni di altri paesi, ma della stessa epoca. Ma se
noi istituiamo un confronto tra il regime che ebbero i
nostri avi nel XVI e nel XVII secolo con quello che
ebbero gli altri paesi d'Italia e del Ducato, noi troviamo
senz'altro che la conquista degli Svizzeri fu per loro una
benedizione, così come suonò la fine di un Iliade di
mali. Se noi lo paragoniamo con quello che ebbero in
pari tempo gli altri Svizzeri, noi troviamo che i nostri
maggiori erano a noverarsi tra i più liberi e felici.
***
Brevi parole a dimostrazione di questi due assunti.
La valle di Blenio, per essere posta in luogo così
remoto da Milano, ebbe meno che le altre a soffrire
delle infinite e crudeli tirannidi che passarono sopra le
altre terre più esposte, ma quale penna può descrivere i
patimenti, le devastazioni del Sottoceneri, di Locarno e
Bellinzona, durante le furiose lotte feudali che
condussero alla definitiva costituzione del Ducato?131. E
sotto il regime dei Visconti e degli Sforza, quale
speranza avrebbero potuto avere Blenio, Leventina,
Riviera e Bellinzona di ottenere un qualsiasi
affrancamento, se non fosse stato il pericolo degli
Svizzeri che sovrastava ai Duchi e li intimoriva? Pur
lasciamo i secoli anteriori e veniamo al sedicesimo.
Qual paese fu più straziato in quel tempo che la misera
Italia? Qual parte d'Italia più che la Lombardia? Solo a
131 In soli 26 anni (1458-1484) la città di Lugano cambia più
o meno violentemente dieci volte di signoria! (Franscini).

566
chi ignori i primi rudimenti della storia d'Europa, od a
chi l'abbia letta senza neppure accorgersi che la signoria
dal Ducato fu la preda su cui si avventarono, dopo tutti i
signorotti lombardi, tutti gli avvoltoi di Francia,
d'Austria, di Roma, di Spagna e di Venezia portandovi il
campo delle loro feroci guerre; solo chi non rifletta che
cosa sia una pace di tre secoli, quale nessun popolo
d'Europa osò sperarne, ma che il dominio svizzero
assicurò ai Ticinesi – solo a costoro, dico, può sembrare
indifferente che i nostri paesi sieno stati presi ed
occupati. Non fossero discesi gli svizzeri nei castelli di
Bellinzona vi sarebbero venuti nell'egual giro di tempo:
1° i francesi, 2° di nuovo gli Sforza, 3° di ricapo i
francesi, 4° dopo i francesi gli spagnuoli, 5° dopo gli
spagnuoli gli austriaci, 6° ancora una volta i francesi
con Napoleone, 7° di nuovo gli austriaci, 8° di nuovo i
francesi, 9° la Repubblica cisalpina, poi il regno d'Italia,
10° daccapo gli austriaci fino al 1859 (salto via il '48), e
11° da ultimo la casa di Savoia. E mi pare abbastanza!
Venuti gli Svizzeri, la prima cosa che i luganesi ed i
locarnesi ottennero, fu che fossero smantellati i castelli,
strumenti di ogni tirannia. Rimasti i Duchi sarebbe
risorto, se non a cura dei Francesi, certo a cura degli
Spagnuoli anche il castello di Serevalle, o qualche altro
peggiore132.

132 Quando fu smantellato il castello di Serravalle? I blocchi


di muratura che si trovano proiettati a qualche distanza indicano
si sia fatto saltare colle mine, probabilmente dopo il 1500.

567
Ed eccomi alla seconda tesi. I nostri maggiori
poterono riputarsi nel novero degli Svizzeri tra i meglio
trattati. Ciò sorprenderà certamente gli incolti, soliti a
bere grosso le puerilità e gli spropositi che sotto il nome
di Storia svizzera corrono per tante scuole. Per essi è
Vangelo che i Ticinesi fossero servi e i Bernesi sovrani;
essi disegnano magari la lega degli otto o dei dodici
cantoni coi confini che ottennero nel 1814 (!): essi
s'immaginano che Berna era un cantone sovrano, col
suo bravo Giura; che i bernesi dell'Emmenthal e del
Simmenthal, i friborghesi della Gruyera, i lucernesi
dell'Entlebuch, gli zurigani della Töss fossero nostri
signori e padroni e noi gli umilissimi loro sudditi.
Quando si albergano spropositi simili nella mente, anzi
si insegnano nelle scuole, ben si può credere che i
popoli dei baliaggi ticinesi fossero da compiangere. La
verità è però che di cantoni sovrani non c'erano che i
Waldstätten, con Zugo e con Glarona133, mentre degli
altri non ne era sovrana se non la nobiltà ed in parte la
borghesia cittadina (a Berna erano 72 famiglie alla fine
del secolo XVIII) e che tutti gli altri Svizzeri erano
soggetti al pari di noi e la maggior parte assai più di
noi. Sarebbero stati ben lieti i contadini dei cantoni
sovrani, che vanamente versarono il loro sangue ad
Herzogenbuchsee, se avessero potuto ottenere delle
costituzioni liberali come quelle di cui godevano Blenio,
Riviera e la Leventina!

133 E dopo il 1513 Appenzello.

568
Or ecco come era la costituzione politica di Blenio
durante il dominio dei tre cantoni.
I tre cantoni sovrani, cioè Uri, Svitto ed il Sottoselva,
eleggevano a turno il Landvogt, come prima il Duca
eleggeva il podestà. Erano invece di nomina del
parlamento, o sia Landsgemeinde della valle, il
luogotenente del Landvogt, il capitano, l'alfiere, il
caneparo (tesoriere), e persino l'interprete. Il magnifico
consiglio era pure nominato dal Parlamento: non così i
tre giurati che venivano eletti dagli Ambasciatori. Le
risoluzioni di carattere legislativo, le domande di nuovi
privilegi e simili venivano portate in parlamento il
quale, se adottavale, mandava ambasciatori ai tre
cantoni per ottenerne la sanzione. Talvolta analoghe
risoluzioni sono prese, anzichè dal parlamento, dalle
singole vicinanze, a pluralità di comuni, dimodochè il
comune grande, ossia la valle, assume il carattere di una
Confederazione delle 17 vicinanze, le quali
corrispondevano agli attuali comuni, meno Ghirone, nel
cui luogo figurava Buttino, mentre gli altri Ghironesi
partecipavano alla vicinanza di Aquila, e meno
Prugiasco che spettava alla Leventina134.
La giustizia, sul conto della quale tante cose inesatte
ci furono raccontate, era in minima parte esercitata dal
Landvogt. Le cause così dette di maleficio, quelle cioè
che importavano sentenza di morte, bando o galera
134 Sarebbe prezzo dell'opera il trovare da quando Prugiasco
cominciò ad essere leventinese: se dalle origini cioè o per
avventura dalla prima conquista del 1478.

569
(sic!) erano conosciute dal Landfogt coi tre giurati, i
quali erano della valle. In caso di parità di voti decideva
quello del Vogt. Le altre cause civili e criminali erano
conosciute dal Landvogt e dal Magnifico Consiglio o
parte di esso. Nessuno poteva essere arrestato senza il
permesso dei tre giurati: solo in caso di pericolo di fuga
poteva ordinare l'arresto il Landvogt, ma solo fino al
giudizio di accusa il quale spettava ai tre giurati ed
all'intero Consiglio. L'arresto personale per debiti era
vietato. L'istruttoria delle cause civili facevasi talora
davanti il Landvogt, i giurati e parte dal magnifico
Consiglio, tal'altra col Consiglio intiero, che era
composto di 9 membri, e la relativa procedura era
essenzialmente orale, benchè protocollata. Ognuna delle
parti replicava e controreplicava a piacimento, finchè la
causa non fosse sviscerata: sovente cause importanti
erano decise il giorno stesso della prima comparsa. Le
sentenze erano appellabili agli Ambasciatori, i quali
ogni anno venivano, uno per cantone ad esercitare il
Sindacato. Anche qui la procedura era di un'estrema
semplicità. Il vero inconveniente dell'amministrazione
della giustizia consisteva in ciò che le sentenze degli
Ambasciatori erano alla lor volta appellabili ai Senati
dei rispettivi tre Cantoni, per molti anni
successivamente a tutti tre, poi il primo cantone dava la
sentenza a causa conosciuta e gli altri si accontentavano
di aggiungervi una specie di exequatur. Erano queste
appellazioni che recavano delle spese eccessive alle
parti. Il loro numero era anche limitato.
570
Si vede da ciò che se la corruttela esisteva, e se
sentenze si davano per denaro, ciò doveva essere in
primo luogo per il fatto dei giudici del paese. Certo nei
secoli di questa sudditanza, gli Svizzeri ebbero fama di
gente corruttibile, specialmente se si consultano gli
scrittori italiani, ma non bisogna dimenticare che
quando i medesimi autori parlano dei principi d'Italia e
del loro governo, altro non noverano che corruzione,
tradimenti, pugnale e veleno, così da farci parer buoni al
confronto anche i rozzi reggitori d'Urania. Altra accusa
che vien fatta ai Cantoni sovrani è che essi vendessero
le cariche giudiziarie. Il fatto è possibile, ma notisi che
altrettanto avveniva in pieno secolo decimottavo in
piena Francia, la prima nazione che si organizzasse alla
moderna, ciò che era di diritto comune in tutta Europa.
Qui se avveniva, (ed avvenne di certo poichè si presero
dei provvedimenti), era limitato dalla legge, essendo
statuito «che nessuna persona della valle di Blenio
debba dare nè promettere... per riescire tregiurato se non
10 scudi agli Ambasciatori ed uno scudo ai servitori
come già è conosciuto». Supposto che questo ordine
poco valesse, com'è probabile, almeno nella forma era
fissato un principio di eguaglianza avanti la legge.
Molta maggior autonomia aveva la valle, come le
altre prefetture, in materia di amministrazione. Le
singole vicinanze godevano di una libertà eccessiva e
sterminata. Le finanze della valle, o Comune, erano
gerite dagli officiali, il Landvogt, col suo luogotenente

571
ed il caneparo, i tre giurati135, il magnifico Consiglio ed i
consoli delle 17 vicinanze, tutti riuniti. (Sembra che
Aquila ed Olivone mandassero ciascuno due consoli).
Essi ricevevano i conti dal caneparo, le cui entrate
consistevano in tre soli cespiti, una rendita fissa per il
Dazio (di Leventina), ed il maleficio, il criminale e la
taglia comunale.
Questi conti non erano di grande importanza ed erano
lungi da una sufficiente precisione.
La quota della rendita del dazio, variava da periodo a
periodo, rimanendo fissa per vari anni, il che dinota che
il dazio fosse appaltato. Il criminale ed il maleficio
rendevano più o meno secondo i delitti e la solvibilità
dei delinquenti. Del loro reddito un terzo spettava alla
comunità, un terzo al Landvogt e l'ultimo ai tre cantoni
sovrani. Al resto del fabbisogno veniva provveduto
colla taglia generale, la quale veniva ripartita secondo
gli estimi, e stava nella ragione inversa del criminale.
Ecco a cagion d'esempio le entrate di tre anni, prese a
caso.
1929 1765 1766
Avanzo dell'esercizio precedente l. 1509 l. — l. 135.06
Dazio » 140 » 100.16 » 100.16
Criminale e Maleficio. » 1306 » 162,8 » 40.—

135 I tre Giurati tenevano le chiavi della cassa di ferro in cui si


custodivano i documenti della Comunità. Il Landvogt non li
poteva consultare che in caso di bisogno ed alla continua
presenza dei tre Giurati. Valesse solo questa prescrizione come
simbolo, era il simbolo di una considerevole autonomia.

572
Taglia — » 1816.17 » 2076.—
l. 2945 l. 2080.1 l. 2353.2

Le spese fisse sono anzitutto costituite dal censo


pagato alla fabbrica del Duomo, fino ad una certa epoca,
poi dagli interessi di alcuni debiti, fatti forse per
redimere il censo. Seguono le competenze del
Landvogt, sempre esposte in un modo così oscuro e
sommario da non ci si raccapezzare. L'onorario doveva
essere una bazzecola, ma figura sempre commisto con
altre partite, così che non lo potei verificare. Un anno
espone L. 464 per cibarie e L. 122 per fatica dell' Ill ma
Signora; un altr'anno L. 1064 come a suo libro.
Frequenti sono poi le spese, assai considerevoli, per
mandare il Landvogt e qualche altro officiale oltr'alpi a
patrocinare un diritto, perciò troviamo in un anno questa
laconica partita: «speso nelli cantoni 1.618». Sovente si
mandavano regali, specialmente di selvaggina, al M°
Potentissimo Landamano, ed un anno figura la spesa di
1.588 per regalo di una tazza di argento e di una
sottocoppa all'Ill.mo Signore.
Verso il 1760 appare una nuova spesa per il dottore, e
nel 1768 un dr. Molo di Bellinzona assume una vera
condotta medica per 8 anni a ragione di Scudi 50
terzuoli e di 5 soldi per visita. Sopra questa
amministrazione c'era quasi nessun controllo. Secondo
diversi Abschiede gli Ambasciatori dovevano
invigilarla, ma in realtà poco o nulla recano i protocolli
che accenni ad una loro seria immissione. Trovo solo

573
nel 1765 che gli ambasciatori pubblicano una grida «a
ciascuno che abbia a dichiarare qualche doglianza circa
li conti».
C'era un altro organo nel Consiglio segreto o di
Provvisione, composto di due delegati per ogni faccia136,
ed un terzo delegato per il pane. Il Consiglio segreto
aveva mano nelle tratte di grano, per le quali esistevano
speciali convenzioni tra i Confederati per i loro baliaggi
ed i padroni della Lombardia, e facevano ogni anno la
mèta o tariffa del pane, del vino, del burro e delle altre
vivande.
I nostri autori in genere additano come un segno
manifesto dell'ignoranza e dell'arbitrio di quel regime le
proibizioni di vendere farine o grano fuori del baliaggio
senza il permesso del Fogto. Siamo sempre alla solita,
di giudicare le istituzioni di un secolo secondo le
condizioni di un altro! Ora colle nostre ferrovie, colla
navigazione, colle colonie, colla libertà generale di
commercio e colla fitta rete di strade la mèta del pane e
la proibizione di esportar grano non abbisognano più, e
non ricorrono più le carestie. Per le condizioni d'allora
erano cose semplicemente necessarie!
Un fatto dei più notevoli e caratteristici, emergente
dai documenti di ben tre secoli, era la continua lotta per
le indebite intromissioni degli Ambasciatori nelle cause
soggette alla prima istanza e non ancora appellate. Una
quantità di decisioni dimostra che sempre si dava

136 Le 3 "facce" corrispondevano agli attuali 3 circoli.

574
ragione ai ricorrenti, sconfessando gli abusi, ma che
questi nondimeno si riproducevano. Ciò fa pensare da
una parte che non fossero troppe sincere le autorità
superiori e non curassero di far eseguire i loro decreti,
dall'altra che la gente del paese, la quale in questi
conflitti spendeva assai in delegazioni e sollecitazioni,
considerava il proprio tribunale ed i propri giudici
tutt'altro che come semplici strumenti del Landvogt.
Altra acerba critica fu mossa dagli scrittori al regime
dei baliaggi, e questa con miglior ragione. Durante quel
periodo nessuno vi fu che si occupasse dello sviluppo
delle istituzioni pubbliche nè del progresso materiale del
paese.
Quando il Cantone Ticino cominciò nel 1803 la sua
vita di Stato confederato, in tutto il suo territorio non
esisteva altra strada carrozzabile che il lieve tratto da
Mendrisio a Capolago. Qui in Blenio le singole
vicinanze mantenevano la strada francesca, dal confine
grigione fino a Biasca, ciascuna il proprio tronco,
secondo un'antica convenzione, ma non si trova
menzione di alcuna opera intrapresa dalla Comunità.
Quanto a scuole non è neppure il caso di discorrerne: le
sole che esistevano erano dovute all'iniziativa delle
autorità ecclesiastiche. Lo spirito pubblico si può dire
non esistesse. I cittadini non avevano neppur l'idea che
si potesse reclamare un ordine di cose diverso
dall'esistente. I Bleniesi si erano ribellati fieramente al
dominio feudale nel XII e nel XV° secolo, ma non si
ribellarono mai ai Confederati, nè rimase memoria che
575
si sieno mai lagnati di gravi abusi 137: i loro reclami ai
Cantoni sovrani non riguardano nessun atto di tirannia o
spogliazione, ma solo cose di secondaria importanza, e
l'esito era pressapoco sempre lo stesso: si dava loro
ragione colla formola: si dovesse rimanere all'antico
praticato. I cittadini avevano garantita la pace, fin
troppa pace, sicchè diventarono poi quasi inetti alla
disciplina delle armi ed alla difesa del patrio suolo
quando vennero i giorni procellosi; avevano una
giustizia relativamente buona; avevano assicurati i loro
antichi privilegi; altro non domandavano allo Stato. Le
carestie assai frequenti, la mancanza di vie di
comunicazione, l'ignoranza del popolo, se anche erano
sentite come mali, erano riputate cose estranee alla
pubblica amministrazione.
Ma tale era il concetto dei tempi, specialmente in
Isvizzera.
Tutta la Svizzera versava in condizioni identiche.
L'idea del progresso, l'idea del bene pubblico, nate solo
nel secolo scorso e snaturate in questo, non esistevano
allora se non sotto la forma di questo semplice concetto:
la maggior possibile libertà ed autonomia
amministrativa, concetto eminentemente conservatore
nel senso tecnico della parola. Quando i feudi ticinesi
137 Si ribellò una volta la Leventina, ma così a torto che il
leventinese Franscini dice non poter non arrossire al solo
pensarvi. La repressione della rivolta fu senza alcun bisogno
feroce (2 giugno 1755). Alla decapitazione degli istigatori, sulla
piazza di Faido, fu presente l'intero contingente bleniese in armi.

576
divennero baliaggi, in tutta Europa rantolava il
feudalismo e si costituivano i regni e principati, per
bisogno di unità e di accentramento. La Svizzera tentò
di fare lo stesso movimento, ma le fu impossibile: la
Dieta federale non riescì mai, nemmeno nel XVIII
secolo quando il bisogno diventava imperioso a
riformare la costituzione, a dare alla Lega la forza di
poter reggere almeno i principali interessi collettivi. I
Cantoni nel loro interno non riescivano nè a spogliare la
nobiltà dei privilegi che aveva usurpato, nè ad
emancipare le campagne, nè a vincere la reticenza
immane delle autonomie comunali. Ancora nell'epoca
attuale in tutta la Svizzera si sente il bisogno di
diminuire il numero stragrande di giurisdizioni locali, e
nessun cantone vi riesce. L'unificazione del diritto e
l'unità dei pesi e delle misure furono per i Cantoni uno
sforzo immane nel loro interno di fronte agli statuti ed
alle misure locali, e non sono ancora un'opera compiuta
da parte della Confederazione verso i Cantoni138.
L'immenso decentramento amministrativo fu quello che
salvò la Svizzera all'epoca delle usurpazioni feudali e
delle conquiste regie, ma fu pure, nei secoli di pace, il
più grande ostacolo al suo sviluppo interno.

138 Solo nel 1837, cioè 34 anni dopo la sua costituzione, riescì
al Ticino di abolire gli antichi statuti distrettuali e di darsi un
codice civile. La costituzione del 1830 promise un sistema unico
di pesi e misure, ma la legge rimase lettera morta, finchè venne il
sistema federale dopo il 1848.

577
I baliaggi ticinesi appartenevano: Leventina ad Uri,
Blenio, Riviera e Bellinzona ad Uri, Svitto ed
all'Untervaldo s/S.; gli altri ai dodici Cantoni: erano essi
medesimi divisi in giurisdizioni con statuti, pesi, misure,
fra di loro in opposizione. In tali condizioni il progresso
era impossibile, ma era anche impossibile mutare le
condizioni. Una riforma del regime dei baliaggi non era
cosa fattibile: dipendevano da troppi padroni, gelosi gli
uni dagli altri139. Arrogi che la nobiltà troppi privilegi
aveva usurpato nelle città sovrane e che nei Cantoni di
campagna troppi erano i ricchi avidi di dominio, perchè
lo spirito democratico si potesse mantenere. Nel XVII e
nel XVIII secolo esso venne meno in quasi tutta la
Svizzera e la nuova aristocrazia formava un altro
inciampo ad ogni provvedimento per il benessere del
popolo, anzi questo nuovo spirito si manifestò
ferocemente contro i contadini d'oltr'Alpi quando questi
osarono reclamare qualche libertà.
***
Le idee avanzatissime del XVII secolo, le riforme che
andavano dappertutto effettuandosi nei vicini regni e
che solo rimanevano impossibili tra gli Svizzeri, fecero
sorgere un generale malcontento ed una generale
sfiducia nelle istituzioni. L'antico patto di alleanza non
poteva più corrispondere ai bisogni dei tempi. Nessuna
139 Uno dei più grandi compiti delle Diete del XVI secolo fu
il regolamento del regime dei baliaggi sottoposti a cantoni di
diversa confessione religiosa.

578
riforma era mai riescita nella Dieta. Mancava un organo
centrale che rappresentasse gli interessi generali al
disopra di quelli dei singoli cantoni in opposizione fra di
loro. Mancava un'autorità che rappresentasse anche il
popolo soggetto e lo proteggesse contro gli abusi o le
negligenze dei suoi reggitori. Ma così ostinata era
l'opposizione dei Cantoni primitivi ad ogni novità, così
gretta l'ostinazione delle aristocrazie cittadine, che un
nuovo ordine non poteva procedere che da un generale
disordine. E questo venne.
***
La rivoluzione francese accese nell'entrare del 1798
la rivoluzione in varie parti della Svizzera, e la
rivoluzione chiamò l'intervento e l'invasione della
Francia. Gli avvenimenti relativi, festeggiati pochi anni
or sono, hanno appena bisogno di essere richiamati. I
landvogti lasciarono i baliaggi; Basilea dapprima, poi
altri Cantoni, a seguito delle rivoluzioni democratiche,
ne proclamarono l'indipendenza: fu costituita sotto la
tutela delle armi francesi una Repubblica Elvetica una
ed indivisibile, con un solo governo centrale; la valle di
Blenio venne ascritta al Cantone di Bellinzona, e per
cinque anni, che furono cinque anni di continuo
disordine, la Repubblica unitaria si resse, finchè, vicina
a peggiori guai, ebbe da Napoleone I° l'Atto di
Mediazione, che ridiede alla Svizzera la forma
federativa, ma con un organo cantonale permanente.

579
L'Atto di mediazione era composto delle costituzioni
dei XIX cantoni e di quella federale. Il Cantone Ticino
vi era formato dai confini attuali, e coll'attuale divisione
dei distretti corrispondenti, salve poche correzioni, agli
antichi baliaggi. Nel 1814, caduto Napoleone, la
Svizzera ebbe dalle potenze alleate un'altra costituzione:
scomparve il potere centrale permanente e si ritornò al
sistema della Dieta antica, riconoscendo però i nuovi
Cantoni a parità di diritto. Nel 1830, caduta la Santa
Alleanza, il Cantone si diede di nuovo una costituzione,
e questa fu la prima che fosse di sua libera scelta. Essa è
ancora nominalmente in vigore: in realtà il diritto
pubblico ticinese è ora composto da un informe
ammasso di disposizioni staccate di successive riforme
e riformette.
Tra il regime dei baliaggi e la costituzione della
Repubblica Elvetica, Blenio rimane per due o tre mesi
autonoma e si dà una costituzione propria, in nome della
Libertà e dell'Eguaglianza.
È dunque assolutamente contrario ad ogni verità
storica il dare il 1803 come data della nostra entrata tra
gli Svizzeri. Le nostre valli sono svizzere dal 1500 nè
più nè meno che la gran maggioranza degli altri Svizzeri
d'allora. L'eguaglianza di diritto tra gli Svizzeri data dal
1798. Il 1803 è invece la data della costituzione politica
del Cantone Ticino in uno Stato140.
140 A chi avesse vaghezza di contestare anche questa data non
riescirebbe impossibile il farlo appoggiandosi alla poco nota
Costituzione del 1802.

580
***
La dominazione svizzera ci diede la pace; la libertà ci
diede il progresso. La breve storia del Cantone Ticino
come Stato, è una storia di lotte non sempre incruente
per il predominio di partito, ed in queste si è certamente
ecceduto, ma nel breve volgere di un secolo il Cantone
Ticino ha compiuto una tale opera di progresso quale
nessuno avrebbe osato sperare. A forza di politiche
competizioni noi ci siamo fatalmente abituati a parlare
male del nostro paese, ma se lo si giudica
spassionatamente questo Cantone nostro è degno del
nostro amore e del nostro orgoglio. Si consideri che
all'inizio della sua vita politica esso non era nulla: non
aveva per così dire nè un corpo nè un'anima. Non un
corpo perchè gli mancava completamente l'unità, gli
mancava una città atta a fornire una capitale, un centro
della coltura, dei funzionari colti ed indipendenti; non
un'anima perchè gli mancava qualsiasi spirito pubblico,
qualsiasi memoria storica comune, e direi quasi
qualsiasi comune interesse. Non aveva nè strade nè
scuole pubbliche, non aveva tradizioni, non coltura e
soprattutto nessuna ricchezza nè agricola, nè
commerciale, nè industriale. In queste condizioni uno
Stato ticinese avrebbe potuto sembrare un assurdo, un
capriccio di despota. Eppure, sotto l'egida delle
istituzioni di libertà, la democrazia, la cui scuola si era
mantenuta nella vita delle nostre antiche vicinanze, si
svolse fino all'attuale Stato, fino alla riforma del 1892,

581
raggiungendo forse il massimo della sua possibile
espansione. E nel frattempo compì opere degne del
nostro secolo glorioso. Il Ticino possiede ora una tale
rete stradale da renderne invidiosa qualsiasi nazione al
confronto, è percorso dalla principale linea ferroviaria
d'Europa, ha condotto a buon punto l'opera della
correzione dei propri fiumi, ha cominciato quella di
consolidazione delle sue montagne, ha quasi estirpato la
piaga dell'analfabetismo, si è, se non arricchito, tolto
dalla miseria, e se come speriamo ha superato anche
l'epoca delle convulsioni politiche violente, esso è
vicino assai ad aver compito, nel breve giro di cent'anni,
tutto quel progresso che altri Cantoni, più ricchi e
meglio costituiti hanno messo più secoli a conseguire.
In quest'opera magnifica la nostra generazione è stata la
più attiva e valente. Noi lasceremo ai nostri figli la
memoria di padri che hanno concordemente amata la
patria, malgrado i civili dissensi, e per essa non hanno
badato a sacrifici. Volgeranno i secoli della storia della
nostra valle, ma le tracce delle opere compite nel nostro
tempo non spariranno mai. I nostri pronipoti ci
ricorderanno, e quando, fra cent'anni celebreranno
ancora la data storica cui oggi propiniamo, essi ci
richiameranno con orgoglio ad esempio dei figli loro.

582
VIII.
L'alleanza con la Francia
e il servizio mercenario141

...Le cause che più contribuirono al rassodarsi della


potenza aristocratica ed a far decadere l'antica
Confederazione devono ricercarsi in parte nelle alleanze
con l'estero, con la Francia in prima linea, e nella pratica
delle milizie mercenarie.
I trattati di alleanza con la Francia furono una parte
integrante del diritto pubblico svizzero, poichè i vincoli
divennero tanto stretti che la Svizzera fu quasi ridotta a
vassalla della potente monarchia vicina.
In parte, questa intima alleanza con la Francia fu una
conseguenza necessaria della conquista della
indipendenza rispetto all'Impero. Per il nuovo stato di
cose, non solo i confederati avevano perduto un
appoggio, per quanto teorico, contro il quale avevan
bisogno di trovare un nuovo presidio. La corte di Parigi
aveva, del resto, con abile politica, attirato a sè le
simpatie degli Svizzeri, e con lusinghiere offerte di ogni
genere e con favorevoli clausole commerciali,
141 Da Le istituzioni svizzere nel diritto pubblico e privato
della Confederazione e dei Cantoni, di Brenno Bertoni e
Angelo Oliviero Olivetti, vol. I. (Torino, unione Tipografica
Editrice, 1903, due vol.).

583
disegnando servirsi dei fieri montanari per fiaccare la
potenza del ducato di Borgogna. Si può asserire con
verosimiglianza che il dissidio scoppiato terribile fra gli
Svizzeri e Carlo il Temerario, che finì con la dirotta di
quest'ultimo, fosse preparato sapientemente dalla
diplomazia francese. Se gli Svizzeri ne crebbero di
prestigio e si arricchirono di un immenso bottino, la
Francia ritrovò la sua unità per questo avvenimento ed il
Re si liberò per sempre di un terribile rivale. La
gratitudine del monarca francese fu tradotta in proposte
vantaggiose che i confederati accettarono. Nel 1484 si
conchiudeva fra i due Stati un'alleanza, nella quale per
la prima volta troviamo la clausola caratteristica dei
trattati posteriormente conchiusi dalla Confederazione
con l'estero, cioè la stipulazione di pensioni da
corrispondersi ai Cantoni per compenso dei contingenti
di truppe che essi obbligavansi a conferire allo straniero
contraente. Una volta iniziata, la pratica indecorosa
divenne generale e frequente. Tutti i potentati ed i
principi andarono a gara a richiedere milizie svizzere
alle città ed ai Cantoni, tanto era cresciuto per le ultime
lotte il nome militare dei confederati. Per tal modo
nacquero, nel seno di ogni Stato svizzero, partiti
extranazionali, e la corruzione dilagò per ogni dove:
ormai non solo i Cantoni, ma i singoli capi di ogni
partito accettavano pensioni e doni dalla Francia, da
Venezia, da Milano, dalla Spagna. Così ebbe origine
quel servizio mercenario che tanto nocque alla dignità
ed alla fama della Nazione, contro il quale elevaronsi le
584
invettive dei pensatori di tutti i tempi, dal Guicciardini
al Machiavelli, al Porzio, a Victor Hugo. Se certo è
deplorevole che gli uomini liberi vendessero la loro
spada al miglior offerente, sfruttando la rinomanza
acquistata nelle lotte per la libertà e la indipendenza
della terra natìa, bisogna però non incorrere in
esagerazioni che derivano dal giudicare il fatto con
criteri anacronistici, e fa d'uopo eziandio riconoscere
alcune giustificazioni.
La Svizzera, paese povero, disadatto all'agricoltura,
irto di montagne e ricoperto di foreste, si trovò a non
poter mantenere i suoi figli, che, di seme vigoroso,
crebbero tosto di numero oltre la potenza produttiva
della patria. Oggi ancora, dopo che un mirabile sforzo
capitalistico ha creato sul suolo elvetico industrie
fiorenti, la Svizzera è paese di grande emigrazione.
Questa è attualmente operaia o tecnica; nei tempi più
antichi doveva essere militare: le forme delle industrie
primitive e poco sviluppate, la esclusività delle
corporazioni, facevano sì che da una parte la offerta
della mano d'opera, dall'altra la ricerca di essa, si
dirigessero unicamente a quel genere di occupazione
nella quale per lo appunto gli Svizzeri erano
rinomatissimi, la militare cioè, che allora non
comprendeva che mercenari e compagnie assoldate.
Se gli Svizzeri fossero stati sudditi del re o
dell'imperatore, sarebbe stato attribuito loro ad onore,
militare sotto le bandiere del sovrano; liberi cittadini di
un paese povero trovavansi nell'alternativa di soffrire la
585
miseria e condurre la vita di stenti dei loro padri, oppure
di accettare le offerte allettatrici dei potenti; non ebbero
la virtù di appigliarsi al primo partito ed abbracciarono
il meno degno, con la scusa del bisogno per un lato, e
per l'altro della ristrettezza nelle idee del tempo, per le
quali lo stesso concetto di libertà era solo civile, non
umano.
Ed a conferma di questo, è da osservare che i primi
Cantoni ad accettare il servizio mercenario, furono
precisamente quelli montani, ossia gli Stati che avevano
iniziato la lotta nazionale e che reggevansi con le forme
della democrazia pura; solo più tardi le città si misero
per questa via, salvo Zurigo dai fiorenti traffici e dalle
opime campagne, che non permise sul suo territorio
l'indecoroso mercato delle leve mercenarie. Il male però
che poteron per avventura fare gli Svizzeri altrui,
guerreggiando all'estero, non può certo essere
ragguagliato a quello ch'essi fecero a sè medesimi. La
corruzione dei costumi, lo spirito cortigianesco, l'amore
del denaro e dei godimenti, le abitudini del lusso, il
dispregio della prisca semplicità rusticale dei loro avi
trassero essi ed appresero alle corti dorate di Parigi, di
Milano e delle altre capitali. Ne derivò lo scadere d'ogni
sentimento solidale fra le città e le campagne, il venir
meno d'ogni senso patriottico, la decadenza morale della
nazione dalla fierezza virtuosa antica.
E nel campo del diritto pubblico dobbiamo datare
l'arresto di ogni sviluppo delle istituzioni federali,
appunto dal secolo XVI, che assistè allo incremento
586
della rea pratica.... La Svizzera si trovò meno unita e per
di più sprovveduta di un ideale politico e di un civismo
superiore, proprio quando grandi lotte: politiche,
religiose e sociali, agitarono tutti i popoli; e giunse a
tanto che la Rivoluzione francese la colse imprevidente
e divisa, e fu gran ventura se nel rimaneggiamento della
carta d'Europa, portato dalla Restaurazione, potè
sottrarsi ad uno smembramento ed alla perdita della sua
individualità nazionale; non sì però che dalla dura prova
non sortissero le più amare umiliazioni.
Per tornare all'amicizia francese, diremo che ancor
essa subì delle oscillazioni, anzi talora si mutò in furiosa
inimicizia come quando gli Svizzeri aderirono alla Lega
Santa indetta da papa Giulio II e si schierarono con lui e
col duca di Milano. Ma fu rottura di breve durata: già
nel 1516 ristabilivasi l'accordo con la pace perpetua, e
nel 1521 conchiusero gli Svizzeri con la Francia
un'alleanza perpetua (la così detta Vereinigung),
rinnovata poi sempre, fin con la Repubblica nel 1798 e
con l'Impero nel 1803, e rimasta in vigore fino alla
Restaurazione.
I Cantoni, mercè le capitolazioni, si obbligavano di
fornire al Re contingenti determinati di soldati: il
corrispettivo da parte della Francia, oltre alle pensioni,
variò, nel riguardo politico, a più riprese, e finì con
l'assumer figura di un vero protettorato. Il Re era fatto
mediatore in ogni dissenso che fosse scoppiato fra i
Cantoni, e questi dovevano lasciar libero passo alle sue
milizie: un patto segreto fra il Re ed i Cantoni cattolici
587
stabiliva ch'egli avrebbe favorito il ripristino della vera
fede nei Cantoni riformati. Gli Svizzeri domiciliati in
Francia godevano di diritti pari ai sudditi francesi, e da
ciò si vede come la emigrazione militare prestasse la
ragion di giuridica sicurezza a quella civile. Oltre
all'alleanza con la Francia, gli Svizzeri ne conchiusero
altre svariatissime, ma nessuna sì durevole e come
immanente. Furono spesso in stretta relazione coi papi,
a cominciare da quando Sisto IV tentò conquistare il
ducato di Ferrara pel suo nipote Riario; continuò
l'alleanza con Innocenzo VIII, Giulio II, Leone X. Gli
Svizzeri fornivano, come al solito, ai pontefici,
reggimenti di soldati, e ne avevan fra gli altri privilegi,
in cambio, un diritto civile ecclesiastico assai liberale,
secondo la formula di un principio diplomatico
costantemente seguito: «Bisogna lasciare gli Svizzeri
nei loro usi ed abusi».
Perchè, quelle democrazie, per quanto cattoliche,
avevan sempre addimostrata la intenzione ferma di non
voler riconoscere giurisdizione ecclesiastica alcuna,
fuorché in materia matrimoniale e di usura, di non
ammettere facilmente il sistema delle immunità
ecclesiastiche, soprattutto di voler in ogni caso
esercitare una stretta sorveglianza sulla amministrazione
dei conventi e delle altre pie fondazioni.
Dalla Riforma in poi, questi trattati coi Cantoni
cattolici furono meno larghi e di natura quasi
esclusivamente pecuniaria. L'ultimo avanzo del sistema
delle milizie mercenarie fu rappresentato dalla guardia
588
pontificia svizzera che perdurò, composta quasi
esclusivamente di svizzeri, dal 1505, anno in etti fu
fondata, fino al 1870, quando venne comminata la
perdita della cittadinanza svizzera a chi ne facesse
parte...

589
IX.
La Rivoluzione francese e la Svizzera142

...Il breve periodo del quale dobbiamo far parola, vide


gli avvenimenti svolgersi con vertiginosa rapidità ed in
un complicatissimo intreccio; fu testimone di
rivoluzioni e di controrivoluzioni numerose in breve
volger di tempo, della occupazione di eserciti stranieri
vari sul territorio della Confederazione. A tutta prima si
ha l'impressione che, dopo la bufera, tornate le cose nel
pristino assetto, troppo brevi siano stati e troppo labili i
mutamenti, perchè da essi possa esser derivato qualche
effetto profondo e decisivo sulla moderna vita politica
svizzera. Invece, il periodo del quale discorriamo ha
un'importanza storica ed ideale grandissima, perchè in
esso e nel crogiuolo della rivoluzione andarono
costituendosi i componenti l'anima moderna; da esso
prendono origine le grandi correnti della opinione
pubblica, prendon figura i partiti e s'impostano i grandi
problemi della costituzione politica attuale; è da questo
periodo che comincian le lotte fra centralisti e
federalisti, reazionari e radicali, autoritari e democratici.

142 Da Le istituzioni svizzere nel diritto pubblico e privato


della Confederazione e dei Cantoni, di Brenno Bertoni e
Angelo Oliviero Olivetti, vol. I. (Torino, Unione Tipografica
Editrice, 1903, due vol.).

590
Il prevalere dell'aristocrazia, sempre più chiusa e
ristretta, il servizio militare all'estero, e le altre cause
accennate nel precedente capitolo, avevano con lo
scadere della idea di patria, apportato il
disinteressamento delle popolazioni dalla pubblica cosa.
Alcuni tentativi di resistenza al movimento travolgente
sortirono esito infelice; la difesa dei pochi diritti
assicurati con carte e privilegi alle popolazioni
campagnole, se portata innanzi alla Dieta, rimase
inefficace, se affermata con l'armi, fu brutalmente
repressa.
Nel 1653 aveva osato scendere, mano armata, in
campo una lega dei baliaggi soggetti alle città di Berna,
Lucerna, Soletta, e Basilea, ma era stata vinta: nei secoli
successivi qua e là, in Cantoni diversi, simili tentativi
subirono uguale sorte. Più frequenti furono le ribellioni
nel secolo XVIII, ma tutte debellate con crudele
persecuzione dei vinti. Pierre Fatio e Lemaitre a
Ginevra (1707), Davel a Losanna, Henzi a Berna
(1749), Chenaux a Friburgo scontarono con la vita il
loro patriottismo; i duci dei contadini sollevati della
Leventina e di Porrentruy erano stati decapitati. La
reazione aveva sempre trionfato, e la Dieta, composta di
elementi aristocratici, non s'era mai d'altro preoccupata
che di «ridurre i sudditi all'ubbidienza». In sì fatta
prostrazione degli animi, non è difficile comprendere
quali speranze più tardi si rivolgessero alla Francia,
l'alleata secolare, divenuta focolaio di rivoluzione, ed
ancora si comprenderà come la rivoluzione stessa in
591
tanto germinar di torti e d'ingiustizie, lievitar di rancori
e di ricordi, dovesse investire la Svizzera come una
fiammata.
La riforma religiosa aveva dato vita, oltre
all'università di Basilea, alle accademie di Ginevra e
Losanna; questi istituti eran diventati altrettanti centri
della coltura protestante, e ne uscivan contini dotti e
severi, con l'animo disposto ad un rinnovamento
nazionale: così un'aristocrazia intellettuale, antesignana
di democratiche istituzioni, cresceva e vigoreggiava
accanto alla dominante aristocrazia del blasone e del
denaro.
All'accesso delle idee nuove, della Enciclopedia
dapprima, della Rivoluzione di poi, la Svizzera romanda
era come una porta aperta, La fraternità intellettuale con
gli uomini che operarono la grande trasformazione vi
era intima ed intensa. Rousseau era «le citoyen de
Genève»: Voltaire trascorse a Ferney, a due passi da
Ginevra, gli anni più operosi della vita, ed a Losanna
convenivano abitualmente Voltaire, Gibbon, Benjamin
Constant, M. Carrière, M.me Necker de Staël, ed altri
illustri; pure nella Svizzera francese si stampavano libri
ch'eran introdotti in Francia di nascosto. Fra la gente del
paese, si levavano a notorietà per sapienza e carattere e
facevan scuola, uomini insigni come De Saussure,
Tschiffeli, Giov. Müller, Alberto Haller.
Le stesse relazioni politiche, tanto strette, con la
Francia, facilitarono la propaganda della nuova cultura
francese. Quando la rivoluzione trionfante proclamò il
592
suo carattere internazionale ed umano, chiamando alla
libertà tutti i popoli, ed offrendo soccorso a tutti i ribelli,
quando Bonaparte penetrato in Italia vi aveva infranto le
vecchie dominazioni e proclamato repubbliche
indipendenti, fu un sol fremito di speranza che scosse
quanti erano in Svizzera asserviti al lontano od al vicino
padrone. Scoppiaron tosto qua e là, piccole rivoluzioni,
varie di esito, uguali di carattere e d'origine. A Staefa, in
quel di Zurigo, la sollevazione fu oppressa (1795), ma
nella terra dell'abate di San Gallo riuscì a migliori
risultamenti. Questi piccoli moti interni però furon
travolti e scomparvero nella imponenza degli
avvenimenti di carattere internazionale che succedettero
tosto. Bonaparte e il Direttorio avevan già messo gli
occhi sulla Svizzera, posizione strategica di primo
ordine, onde potevano ferir da tergo la Germania,
colpire nel cuore l'Austria e dominare l'Alta Italia. Così
avevan presto formato il disegno di liberare la Svizzera
dalla «tirannia» che la opprimeva, ma insieme di
occuparla. Un sollevamento di Porrentruy fornì la
desiderata occasione alla Francia per occupare ed
annettersi parte delle terre del Vescovo di Basilea
(1797). Il trionfo del partito democratico a Ginevra, e le
sanguinose giornate che ne seguirono, offersero il
pretesto per ridurre quella città in signoria francese.
***
Intanto, da Parigi, un club degli Svizzeri lavora a tutto
uomo a preparare l'invasione francese, promuove la

593
sollevazione dei baliaggi con scritti incendiari: alla testa
di questo nucleo di patrioti sta quel F. C. Laharpe, già
precettore dello czar Alessandro di Russia, che doveva
diventare in breve dittatore della svizzera. Pietro Ochs
di Basilea, membro di quel Consiglio e giovane
dottissimo, concerta con Bonaparte una Costituzione
elvetica, sul modello di quella del Direttorio; un
progetto in questo senso, tirato nelle tre lingue
nazionali, vien diffuso in ogni parte della Svizzera.
I frutti di questa agitazione non tardano a maturare.
La Dieta, radunatasi infrattanto, è come paralizzata;
organismo invecchiato ed esangue, si trova come
smarrita fra lo incalzar degli avvenimenti, e dopo
miserevole vaniloquio si scioglie senza nulla aver fatto,
proprio quando più grave ed impellente si mostrava il
bisogno di fermezza, di energia, di virili propositi.
Ecco a Basilea scoppiare una insurrezione di
contadini, e proclamare la uguaglianza di diritto e la
libertà dei baliaggi. Fu la scintilla che provocò il vasto
incendio. A Lucerna la cittadinanza liberale insorge, si
impadronisce del governo e libera, loro malgrado, i
contadini infeudati al clero (gennaio 1798).
Avvenimenti simili hanno a teatro Soletta, Sciaffusa (6
febbraio 1798) e Zurigo, dietro pressioni ed
incoraggiamento del rappresentante francese. Persino i
Baliaggi italiani, al ricever lettere accordanti la libertà,
si ridestano dal lungo letargo, e proclamano dei governi
provvisori. Il paese di Vaud si leva in armi contro la
città feudataria di Berna, e proclama la Repubblica del
594
Lemano (gennaio 1798). Berna e Friborgo sono costrette
a scendere a patti coi contadini; ma il nuovo governo
vodese non riesce ad assicurarsi fortemente nel paese;
tosto scoppia una controrivoluzione provocata dai
fautori dell'antico regime: indi il pretesto dell'intervento
francese.
Nemmeno in simile frangente la vecchia
Confederazione seppe riscuotere l'antica virtù. Le armi
straniere avevan violato il territorio bernese ed i
confederati lasciaron Berna nelle peste, a districarsi da
sola, contro un nemico onnipotente; tutto l'aiuto della
Confederazione si ridusse allo invio di pochi contingenti
di truppe. Ma la vecchia Repubblica aristocratica di
Berna seppe provvedere da sè al suo onore, e cadere con
gloria dignitosa.
Da sola ebbe l'audacia di resistere alla invasione
francese, con una lotta della quale bisogna riconoscere
la splendida grandezza, pur dissentendo dallo spirito che
l'aveva inspirata. Le tragiche giornate di Neueneck, di
Grauholz e di Fraubrunnen videro prodigi di valore dei
soldati bernesi, ma alla virtù non rispose la vittoria, ed il
5 marzo i Francesi entravano in Berna, segnando, con la
conquista della città predominante, la fine della vecchia
Svizzera, scomparsa nel turbine rivoluzionario che
rinnovò l'Europa dalle fondamenta. Con la presa di
Berna la rivoluzione penetrava per quelle mura, che,
dalla loro fondazione, suona un verbale di chiusura
degli atti della fiera Repubblica, non erano mai state
salite da piede nemico.
595
***
Poichè i Francesi ebbero fatto man bassa del tesoro e
dell'arsenale, asportando un bottino di ben 41 milioni di
franchi, convocarono in Aarau una assemblea
nazionale, che adottò senza discussione come
costituzione elvetica, il progetto Ochs (28 marzo 1798).
A questa strana Costituente avevano però partecipato
solo 11 Cantoni sopra 22 e 110 rappresentanti su 264.
La nuova costituzione non era altro che una
pedissequa imitazione di quella francese; l'Elvezia vi era
chiamata una e indivisibile, e la si partiva in prefetture e
sottoprefetture. Il governo era costituito da un Senato,
una Camera di Deputati ed un Direttorio, assistito da un
ministero. Questo ordinamento durò solo cinque anni e
la costituzione unitaria fu subito oggetto di tentativi
molteplici di rimaneggiamenti e riforme.
Questo lavorìo critico ebbe la più grande influenza
sul diritto pubblico posteriore, e però più oltre
parleremo con maggiore larghezza della Costituzione
del 1798, per ora volgendo il discorso agli eventi
militari che formano il sostrato delle mutazioni
successive.
Il nuovo Direttorio elvetico ebbe tosto chiara
coscienza di due fatti concordanti ad unico risultato: da
un lato i Francesi non avevano nessuna intenzione di
sgomberare il territorio svizzero; dall'altro lato era
impossibile far accettare ai Cantoni montani il nuovo
regime senza l'appoggio delle armi francesi. Senonchè,

596
questi amici pericolosi, si comportavano da veri
padroni, e, valendosi del diritto di guerra, della legge del
più forte, dettavan al governo svizzero ordini a diritto e
rovescio, ne annullavano i decreti, soverchiando in mille
guise. Le soldatesche sfrenate mettevano a sacco il
paese, imponevano taglie, commettevano nefandità
d'ogni specie, e più corrotti e rapaci e venali si
mostravano i capi.
In mezzo a tali contingenze, Bonaparte impose il
rinnovamento dell'antica alleanza, con la novità ch'essa
acquistava il carattere di difensiva ed offensiva,
riservato alla Francia l'uso delle vie militari svizzere ed
in specie di quella del Sempione che dovevasi
costruire143. In forza di quest'alleanza, la Svizzera dovè
fornire a Napoleone 18.000 uomini.
I Cantoni montani di Uri, Svitto, Untervaldo, Zugo,
Appenzello, e dei Grigioni, quest'ultimo per la prima
volta compreso nel territorio svizzero, da alleato che era
avanti, rifiutarono di riconoscere il «libretto infernale»,
come veniva chiamata la compilazione di Pietro Ochs.
Ma anche questi paesi democratici e patriarcali furon
costretti a cedere sotto l'impeto della invasione francese:
alcuni resisterono e furon fiaccati; particolarmente
eroica fu la resistenza del Nidwald (basso Untervaldo) e
di Svitto, esasperati per l'inconsulta ed impolitica
risoluzione della Dieta giacobina, di costringerli al
143 Questo lavoro, di mirabile ardimento, fu in fatto compiuto
nel 1805, aere Italico, come leggesi in una roccia della famosa
galleria di Gondo. (v. Bertoni e Olivetti, Istituzioni svizzere).

597
giuramento civico. Orribile fu la repressione, con
macello nefando di donne e di fanciulli, tra la fiamma
degli incendi ed inverecondi saccheggi. Rimasero soli
sulla breccia i Grigionesi, fortemente soccorsi
dall'Austria.

598
X.
Il Cantone Ticino e l'Austria
negli anni 1854-55

(Prefazione a un libro di E. Pometta144).


Alla gioventù ticinese.
Ho accettato di scrivere questa prefazione per amor
vostro, o giovani.
Voi siete chiamati a vivere un'epoca di trasformazione
e di ricostruzione. La Guerra delle Nazioni ha scosso
una compagine politica secolare ed un assetto sociale
che pareva incrollabile. La nostra Svizzera è chiamata,
nella sua piccolezza territoriale, a dire la parola cui
l'autorizza una grande esperienza democratica. Il nostro
Ticino ha la possibilità ed il dovere di dire la sua parola
nelle cose svizzere. La vostra generazione, fiorita in un
periodo tragico, snaturerà i suoi frutti forse in un
periodo di ravvicinamento di molte forze contrastanti
che il passato aveva diviso. Vedrete forse una pace
confessionale sconosciuta al secolo XIX, una intesa fra
le Nazioni che lo spirito dell'epoca aveva fanatizzate e
rese feroci le une contro le altre. Avrete invece a
144 Eligio Pometta. – Il Cantone Ticino e l'Austria negli
anni 1854-1855 – Lugano, Tipografia Luganese Sanvito & C.
1927. – Le note a piè di pagina sono di Brenno Bertoni.

599
risolvere compiti nuovi, ancora più ponderosi.
Nell'opera che vi aspetta occorre che vi formiate una
migliore coscienza del passato per avere un miglior
intuito dell'avvenire.
La vostra sorte sarà, come per le altre generazioni,
gravida di dolori e di disinganni, ma è degna d'essere
affrontata con quella fermezza e con quel proposito che
sogliono inspirare le opere grandi.
Alla formazione della vostra coscienza politica
occorre una miglior conoscenza della storia del vostro
paese che è bella ed è nobile. Voi non la conoscete se
non a traverso le molteplici deformazioni delle
polemiche di partito. Gli avvenimenti di cui s'intesse
hanno sempre due versioni: versioni discordi in quanto
la passione di parte ne colora e ne altera i contorni
anche senza volerlo e senza saperlo; versioni
concordanti in quanto lasciano nell'animo di chi le
ascolta un senso di sgomento e di sfiducia nella capacità
politica della propria stirpe.
***
Eligio Pometta, l'infaticabile ricercatore della nostra
documentazione storica, ha fornito, con le pagine di
questo volumetto, un poderoso contributo di fatti e di
prove che permette la revisione dei giudizi sommari dei
quali la stampa di partito ci aveva nutriti. Questo
giudizio di revisione è doveroso perchè la storia
dell'agitato periodo dal 1851 al 1855 ne esce nobilitata
ed aggrandita. Lo stesso lavoro egli ha compiuto per il

600
periodo della rivoluzione elvetica e della mediazione,
per quello del 1814 e per il 1848. Il risultato è il
medesimo. I fatti che noi conoscevamo
frammentariamente, le interpretazioni che noi
accettavamo passionalmente, o passionalmente
respingevamo, escono illuminati dalle relazioni degli
agenti stranieri che nelle epoche corrispondenti
lavoravano, a profitto delle loro Potenze, a piegare la
politica ticinese dalla loro parte.
Il Ticino è sempre stato, dalla fine dei baliaggi in poi,
e forse prima, pieno di spie e di agenti provocatori. La
Svizzera fu sempre, già prima che fosse costituita come
tale, già alla fine del Medio evo, un campo di ingerenze
internazionali, perchè così vuole, così comporta la sua
situazione strategica militare (già avvertita da Giulio
Cesare) e forse più ancora per la sua situazione culturale
di mediatrice fra diverse credenze, diverse lingue e
diverse nazionalità rivali. Ancora nell'ultima guerra del
1914-1918, i belligeranti fecero armi d'ogni metallo per
accaparrarsi le simpatie della stampa svizzera, il
consenso del popolo svizzero, avendo l'opinione
svizzera un grande peso sull'opinione pubblica
mondiale.
Ciò potrebbe esserci cagione di grande inquietudine e
di sospetti. Basta che ci sia cagione di prudenza. Ma più
dev'esserci cagione di fierezza, perchè dimostra quanto
e quale sia stato l'errore di molti ticinesi che non
compresero da bel principio la importanza dello Stato

601
del quale erano chiamati a far parte e che loro pareva
vile solo perchè era piccolo.
Nè di minor fierezza dev'essere cagione l'essere
svizzeri, se il mondo considera la Svizzera come una
forza morale, a malgrado di coloro che in pieno XX°
secolo persistono a volerla considerare come un casuale
nucleo di potenza militare – vuoto di civiltà e di
significato culturale.
***
Vista nelle sue grandi linee fondamentali, la storia
politica del Ticino, dalle origini in poi, è conseguente,
nobile e sana.
Da noi il feudalismo aveva trovato una resistenza nel
Comune nostro il quale, malgrado le contradditorie
opinioni dominanti, risaliva forse al municipium
romano. Il comune resistette anche all'Impero ed al
Ducato, sostenuto in ciò dalla Chiesa per motivi di
politica guelfa, ciò ch'è particolarmente visibile nelle
Tre Valli e nella Capriasca.
I duchi di Milano governarono sì, ma tenendo conto,
per amore o per forza, della libertà e della proprietà
delle Vicinanze145. Quando poi l'autorità ducale cercò
imporsi maggiormente, i comuni volsero la loro

145 Comune, comunità od università dicevasi allora la vallata:


Vicinanze erano chiamate i comuni attuali. Sopravvivono il
Comune Grande di Onsernone ed altri pochi. Il distretto attuale di
Lugano era diviso in quattro pievi.

602
attenzione agli Svizzeri che dall'altra parte cercavano di
guadagnarli garantendo loro le autonomie.
Il regime dei baliaggi fu ben diverso dalle descrizioni
che ne fecero i giacobini per bisogno di causa, fra altro
per scusarsi d'aver provocato l'invasione francese. Non
fu un regime di tirannia, ma piuttosto di anarchia,
avendo i confederati garantita delle autonomie
esagerate, un particolarismo possibile e desiderabile nel
quattrocento, diventato eccessivo nel seicento e
calamitoso nel settecento146.
L'amministrazione della giustizia vi era francamente
cattiva, ma non peggiore che in tutta l'Europa. Le
funzioni di giudice si comperavano, è vero: ma non era
altrimenti nell'illustre Francia di Luigi XIV e di Luigi
XVI. Voltaire criticò per il primo la vendita della
funzione di balivo: Montesquieu la difese, (proprio lui
l'autore dell'Esprit des Lois!). Quale fosse la giustizia in
Lombardia nel seicento, è noto per il racconto dei
Promessi Sposi! La giustizia penale era cosa che a noi
mette orrore. Pene corporali e pene pecuniarie
soprattutto, le quali ultime formavano la dote del
Balivo. Ma è assurdo supporre che staterelli di 4000 a
30.000 abitanti potessero avere nel XVIII° secolo un
sistema carcerario moderno!

146 Vedi il nuovo documento del 1686, pubblicato da Fausto


Pedrotta in Archivio Storico sulla Comunità di Val Verzasca.
Esso dà la misura della autonomia di cui godevano i governi
locali.

603
La giustizia civile, quale risulta dai superstiti
protocolli delle fogtie, era resa dai giudici del paese più
che dal balivo. La procedura ne era facile e piana. Essa
non lasciò cattivi ricordi.
La vera disgrazia dei baliaggi fu di avere accettato la
giurisdizione di appello alle Corti dei Cantoni sovrani147.
È in questo errore di costituzione che il Bonstetten
ravvisava la maggior necessità delle riforme.
Gli otto baliaggi formavano otto staterelli senza
rapporti fra di loro, quindi senza strade. I Cantoni così
detti sovrani non avevano tanta sovranità da poter
imporre la ricostruzione del ponte della Torretta e della
strada fra Locarno e Bellinzona!
Questo passato di eccessivo particolarismo fu quello
che più rese difficile i primi passi al governo autonomo
ticinese. Il popolo si era abituato a non essere governato
affatto, e qualche cosa di questa tendenza gli è sempre
rimasta.
Al tempo della Rivoluzione francese la Svizzera era
già in piena evoluzione di idee. La Riforma religiosa vi
aveva preparato la via all'Illuminismo. Senonchè
quell'Illuminismo ch'era monarchico ed aristocratico in
Austria, in Italia e in Germania, era stato tradotto in

147 Così nelle Quattro Prefetture comuni erano supposte 12


appellazioni che poi vennero ridotte a tre in caso di sentenze
concordi! Di queste 12 sovranità 7 erano cattoliche e 5
protestanti; cagione di reciproca diffidenza. Ad ogni ricorso
contro qualche progressista novità la Dieta decideva che si stesse
all'antico praticato!

604
senso democratico, anzi, democratico-sociale da
Pestalozzi e dai suoi compagni. La rivoluzione vi si
annunciava dall'alto al basso, nel senso che era
l'aristocrazia finanziaria e culturale che voleva la
redenzione delle masse con l'istruzione, col lavoro
industriale, con la libertà politica.
Le idee avrebbero fatto il loro cammino anche senza i
francesi – ma molto più lentamente. Le conquiste del
Bonaparte in Italia, la Cisalpina, precipitarono gli
eventi. La invasione francese in Isvizzera diventò
inevitabile, fomentata com'era da rivoluzionari svizzeri.
Nacque la questione se le terre ticinesi dovessero essere
aggregate all'Elvetica o alla Cisalpina, due repubbliche
di tipo francese e d'influenza francese. I documenti
raccolti dal Pometta dimostrano che la cosa fu discussa
a Parigi prima che in casa nostra. Per un momento fu
anzi questione di una Repubblica Rodanica che
raccogliesse tutta la parte francese ed italiana della
Svizzera, con tutto l'Oberland Bernese, onde fornir
soldati alla Cisalpina.
Nel Ticino le famiglie aristocratiche si sarebbero
meglio accontentate della Cisalpina, cioè di uno Stato
lombardo che alla lunga sarebbe tornato alle sue
tradizioni di nobiltà latifondiaria. Ciò era naturale.
Altrettanto naturale che i campagnuoli tenessero per la
Svizzera dove la vera nobiltà era la prima a insorgere
contro i privilegi nobiliari.
Non appare che il Clero abbia avuto molta parte nelle
tendenze politiche di questo primo periodo. Il suo
605
caloroso intervento a favore della politica austriaca si
manifesterà più tardi, come vedremo.
Per intanto i famosi Patrioti amici della Cisalpina
sono tutt'altro che liberali e rivoluzionari. Sono
fondamentalmente conservatori e lo saranno ancora nel
1810 quando favoriranno le manovre del Prina per
l'unione del Ticino al Regno d'Italia e più tardi nel 1814
quando si daranno all'Austria, anima e corpo.
Giudicando gli avvenimenti d'allora coi criteri del
diritto pubblico moderno si è tentati di gridare al
tradimento! Bisogna però giudicare le cose passate coi
criteri del passato. Oggi possiamo dire soltanto che essi
non avevano nulla compreso e probabilmente nulla
sentito di ciò che in Isvizzera maturava: poco di ciò che
maturava in Europa.
La reazione del 1799 ha lo stesso carattere. L'Austria
riprende fiato e prestigio. Bonaparte è in Egitto.
L'Elvetica anzichè portare i frutti di libertà che se ne
aspettavano Ochs e Laharpe aveva portato un
indescrivibile disordine di cose e di idee. La famosa
costituzione era diventata una beffa, specialmente per i
campagnuoli. Un giacobinismo gallico, furibondo e
irragionevole quale lo accusava Vittorio Alfieri, aveva
intiepidito i liberali svizzeri e spaventato i conservatori.
In ogni caso i francesi avevano passato ogni limite
nella repressione dell'azione cattolica. La Chiesa
spogliata di tutti i suoi beni, il Papa privato del suo
Stato, l'urbe di Roma diventata Département du Tibre
della Repubblica francese, determinarono nel clero
606
cattolico di tutto il mondo uno stato d'animo che
bisogna sapersi spiegare indipendentemente
dall'esperienza moderna. Nè doveva questo stato
d'animo acquetarsi più tardi quando l'Imperatore volle
riconciliarsi con la Chiesa, dopo aver tratto due papi
prigionieri a Parigi.
Ormai si delineava per la cattolicità questa inaudita
minaccia, di un papato spoglio del suo potere temporale,
di una Roma capitale d'Italia, di un governo italiano che
potesse tener prigioniero il sommo pontefice dell'Orbe
cattolico. Questa preoccupazione fondamentale spiega
(benchè non giustifichi) l'atteggiamento preso dal clero
contro le nuove idee, contro lo stato laicale, contro il
liberalismo, contro il costituzionalismo. Esso ravvisava
nel liberalismo politico (e non del tutto a torto) una
proiezione della Riforma. Ciò spiega perchè nel suo
sbigottimento non vedesse in esso che l'Eresia, nella
democrazia politica nient'altro che il trionfo del
protestantismo.
Questo sbigottimento doveva essere in Italia
maggiore che altrove, appunto perchè la questione
romana era essenzialmente una questione italiana. Negli
altri paesi un'intesa fra un governo demo-liberale ed il
clero rimaneva possibile: in Italia il conflitto si
presentava sempre più insolubile dacchè si affermava
l'idea nazionale di una Italia una, con Roma capitale.
Lo sapeva l'Austria e se ne avvantaggiava. E dicendo
l'Austria, qui dico la fortunosa dinastia degli Absburgo.

607
Questa era stata, più o meno, la salvatrice della
Chiesa ai tempi della Riforma. E le aveva mandato già
da un pezzo il conto del salvataggio. Non è il caso di
dilungarci qui sopra questo soggetto, ma all'epoca
rivoluzionaria e napoleonica l'Austria mandava il conto
già prima di fare il lavoro. Voleva un conveniente
anticipo e delle garanzie. La Chiesa non aveva il
coraggio di rifiutare e dava tutto148.
La chiave del dissidio politico ticinese è tutta in
questo stato di cose. I ticinesi, come membri della
famiglia culturale italiana, non potevano rimanere
estranei al sentimento nazionale italiano, che gettava le
sue prime radici. Come cattolici erano attirati dalla parte
dell'Austria, la gran nemica d'ogni politica libertà. Non
c'è mai dramma umano nel conflitto fra il Bene e il
Male. La loro lotta non è interessante: la lode e il
biasimo sono alla portata d'ognuno. Il dramma comincia
quando si trovano in conflitto due sentimenti
rispettabili, due passioni sincere, due idee nobili. Ed è il
dramma di tutta la nostra storia.
La prima scena avviene sulla piazza di Lugano con
gli orrori del 1799. Viste a distanza, le ragioni della

148 Sul modo della protezione, sui suoi moventi e sui suoi
mezzi, vedi Sacco di Roma, Carlo V il tedesco impone alla
cattolica Spagna latina un suo cattolicismo dinastico, cupo e
feroce. Esàutora il clero spagnolo rimasto nazionale e guelfo
sostituendolo con gli ordini monastici capitanati da provinciali
stranieri. Scompare il clerigo e compare il fraite. Vedi Blasco
Ibanez, La Catedral e Perez Galdos, Gloria.

608
ragione e del torto sono chiare. Ma viste da chi ci si
trovava in mezzo, in quel terremoto che allora scuoteva
l'Europa? Il torto maggiore non è di chi commise gli
eccessi; è di coloro che l'indomani, un anno dopo,
cent'anni dopo vogliano giustificarli o nasconderli.
E così fu degli avvenimenti del 1814 e dei successivi.
La rivoluzione francese, malgrado i suoi errori e i
suoi orrori, aveva creato un novo ordo ch'era venuto
consolidandosi negli ordinamenti napoleonici e per noi
con l'Atto di Mediazione, col nuovo stato della Svizzera
italiana. Il nuovo Stato non era in condizioni normali di
esistenza. Non una città propria capace di bastare ai
bisogni della campagna; non un'economia propria, non
una tradizione uniforme, non una propria nobiltà
gentilizia (che a quei tempi sarebbe pur stata qualche
cosa se fosse stata autentica); non una ferma fiducia nel
proprio avvenire.
Eppure visse; perchè doveva vivere! Doveva vivere
perchè aveva una missione da compiere.
E visse la Svizzera nuova, malgrado il tentativo di
strangolamento nel 1814. Visse e vide la Rigenerazione,
la Costituzione cantonale ticinese del 1830 e quella
federale del 1848, che segna la vittoria, definitiva del
liberalismo svizzero, della democrazia svizzera.
***
Anche in questo periodo le situazioni sono chiare.
L'Europa nuova è acquisita ad una idea nuova, sana,
feconda. L'idea nuova è il principio democratico

609
rappresentativo. Il potere non risiede in un sovrano dei
gratia, ossia per diritto divino, ma nella Nazione che lo
delega ad un sovrano o ad un governo repubblicano. Lo
stato è legittimo in quanto è un atto della volontà
umana, dell'umana coscienza. Ai difensori della
monarchia dei gratia, i quali si appoggiano sopra la
sentenza di San Paolo, ogni autorità procedere da Dio, i
novatori rispondono con lo stesso San Paolo, collo
stesso principio del Cristianesimo: se gli uomini sono
eguali davanti il Dio Padre, se lo schiavo si danna al
paro di Cesare e se Cesare si danna al paro di un servo,
a maggior ragione i cittadini debbono essere eguali
davanti la legge.
— Questo è protestantesimo bello e buono! –
esclamavano i sacerdoti d'allora (e non senza apparenza
di ragione). Ma il diavolo, che si burla volontieri dei
sacerdoti, fece sì che alla fine di quel periodo politico,
cioè al cominciare della grande guerra, nessun stato
protestante in Europa fosse repubblicano ed uno solo in
America, mentre era sorto un nugolo di repubbliche
cattoliche, fra le quali la più incredula, la sola
ufficialmente atea, fosse proprio la Francia, la fille aînée
de l'Eglise!
Errare humanum est! La Chiesa si proclama
infallibile in materia di fede ma non ha mai pensato a
dirsi infallibile in politica. Oggi è tramontata, con la
monarchia di diritto divino, anche la dinastia degli
Absburgo, mentre l'Unità d'Italia è un fatto compiuto ed
accettato. Il conto corrente fra la Chiesa e gli Absburgo
610
si è chiuso con un deficit formidabile della fallita
dinastia. La Chiesa cattolica non può far altro che
prendere atto della situazione. Non per nulla il Papa Pio
XI, uno dei più dotti umanisti del secolo, ha condannato
coll'Action Française quella politica dei falsi cattolici
che della Chiesa vorrebbero farsi sgabello alle loro mire
politiche.
San Pietro arde e sfavilla per isdegno, ancora una
volta, contro chi vorrìa farne figura di sigillo.
Perchè no? Roma è da 56 anni capitale d'Italia. La
Chiesa non ne è morta, come forse si attendevano alcuni
giacobini, ma neppure è asservita come temevano i
buoni cattolici d'una volta.
Io sono largo di indulgenza ai cattolici ticinesi che nel
1814, nel '39 e nel '53 credettero più all'Austria che
all'Italia, più a Radetzky che alla Svizzera ed al Ticino.
Erano per la più parte in buona fede e non avevano
capito nè la nuova Europa, nè la nuova Svizzera. In
politica, si sa, l'esperienza è lunga. Essi avevano anche
l'attenuante di essere troppo lontani e troppo isolati dal
resto della Svizzera per comprenderla facilmente.
Ciò che invoco invece dai cattolici moderni è che si
soffermino a considerare le cose del passato come i loro
antenati stessi le avrebbero considerate, se avessero
avuto la mente sgombra dalle influenze straniere.
Forse che Alberto Franzoni sarebbe rimasto con
l'Austria se avesse saputo ciò che Radetzky tramava?
***

611
Nel 1853 il Ticino avrebbe potuto celebrare il
giubileo del suo primo mezzo secolo di esistenza
politica. Lo poteva fare di tutto cuore. Cinquant'anni di
attività esemplare in tutti i domini della vita pubblica.
Gli elementi della sua popolazione, così diversi di
indole e di bisogni, si erano già fusi; i contatti erano
presi; la coscienza politica era sorta inaspettatamente
robusta già dal 1810 al 1812 quando si trattò
dell'annessione al Regno d'Italia e nel 1814 quando la
volontà straniera tentava imporre un reggimento
aristocratico. La Costituzione del 1830 era stata «il
primo amore del popolo ticinese», il primo atto di vera
concordia dei cittadini. Superate oramai le crisi del '39 e
del '41, risolto, almeno in principio, il grande problema
della istruzione primaria obbligatoria; la rete stradale
ormai robustamente costituita nelle sue linee principali;
l'agricoltura rinascente con la abolizione delle antiche
gravezze feudali, dei diritti di trasa o pascolo generale149
e delle decime, con la redimibilità dei livelli. Le sole
questioni interne gravi erano quelle delle finanze, dei
conventi e della istruzione secondaria.
Le finanze si erano trascinate fra incredibili
difficoltà150. Non c'era imposta cantonale. Il primo atto
di sovranità del Gran Consiglio nel 1803 era stato
149 Alla fine del XVIII secolo arrivava ancora fino alle porte
di Lugano, così che nessun prato poteva essere cintato!
150 Leggere l'opuscolo (anonimo) di Stefano Franscini:
Semplici verità ai Ticinesi sulle finanze, stampato l'anno 1855,
reperibile alla Libreria Patria.

612
l'abolizione di quelle fondate dall'Elvetica. Bisognava
provvedere a tutto col provento delle imposte indirette,
col lotto, coi diritti di bollo. Ciò non bastando si era
provveduto ai prestiti forzosi a carico dei ricchi e dei
comuni e con l'incamerazione dei conventi. È falso che
questa sia cominciata solo col periodo liberale. Vi
avevano ricorso l'Elvetica prima, poi allegramente il
regime quadriano. Ma nel 1848 era diventata una fatale
necessità.
Gli ordini religiosi avevano provveduto durante i
secoli precedenti a molti dei bisogni spirituali e
materiali cui ora provvede lo Stato. Vi furono degli
abusi. La città di Locarno, che nel 1798 aveva tredici
conventi, ne aveva certamente di troppo. Così era in
tutta l'Europa cattolica e dovunque gli economisti si
lagnavano che quelle medesime istituzioni che la pietà
dei fedeli aveva creato per i bisogni del popolo, erano
diventate cagione di impoverimento. Le accuse di
oziosità, di parassitismo e peggio a carico dei conventi
risuonarono in tutto l'orbe cattolico, e non erano del
tutto infondate.
Si andava diffondendo il concetto che l'assistenza
dovesse diventare un dovere dello Stato e che la carità
fornita dai conventi fosse più di danno che di utile; ma
sovratutto si era generalizzata l'idea che toccasse allo
Stato il grande compito dell'istruzione. La Chiesa,
naturalmente, reagiva, e fu per tutta l'Europa un
succedersi di assalti e di difese; anche nella
cattolicissima Spagna; con particolare intensità nel
613
vicino Piemonte. L'Austria stessa non faceva
complimenti: manometteva ben peggio che i beni della
Santa Chiesa! Le imponeva i vescovi e gli arcivescovi
ed insediava sfacciatamente sulla Cattedra di S.
Ambrogio il principe di Gaisruck. Ma gli Absburgo,
come vedemmo, avevano imparato a farsi pagare in
anticipazione i servizi resi alla Santa Sede!
La questione dei conventi poteva mettere il fuoco
nella pacifica casa dei ticinesi e fu l'Austria che
l'appiccò, per un suo ingiusto interesse politico.
La casa d'Austria aveva ricuperato dal 1814 il
possesso della Lombardia, esteso all'antica Repubblica
di San Marco. Quando i tedeschi tornarono a Milano
erano stati accolti quasi con un sospiro di sollievo, tanta
era stata altezzosa la protezione francese, tanto onesto
era stato il dominio austriaco nel settecento, dopo gli
spagnuoli. Ma l'Austria nuova era quella di Metternich.
Per costui gli italiani erano da trattarsi a parità di merito
come tutti gli slavi sudditi della monarchia: col bastone,
mezzo rapido, economico e persuasivo. C'era bensì una
nobiltà lombarda che si doveva trattare coi riguardi
dovuti al blasone. Egli la conobbe come la descrisse il
Giorno del Parini. A tenerla ligia dovevano bastare
tenori, soprani e ballerine...
Lo spirito di Metternich era improvvido. Già il 1821
lo doveva avvertire che in Italia era nata l'idea della
Redenzione, ossia l'idea nazionale; ma egli non la
poteva capire, e con lui migliaia di consiglieri aulici,
che avevano mano nelle cose d'Italia. Non era la corona
614
d'Austria l'erede del sacro impero, per giunta anche
romano? E che pretendevano i giovani, che volevano i
letterati con le loro evocazioni classiche, col Petrarca e
coi Guicciardini? Essi non erano che l'eco della
rivoluzione di Parigi, del protestantesimo e dell'ateismo,
che sono tutt'uno.
E poi, dove andava a finire l'Impero se ammetteva il
principio nazionale, coi suoi ungheresi, coi suoi boemi,
coi suoi croati, sloveni, slavoni e slovacchi?
Dunque il primum vivere per l'Austria era dare
addosso all'idea nazionale italiana. E poichè l'Austria
era diventata il sostegno della Chiesa, le fu facile
persuadere il clero che l'idea nazionale italiana era una
canagliata, e che Roma capitale d'Italia sarebbe stata la
seconda schiavitù di Babilonia.
Queste aberrazioni dominarono tutta la politica
italiana dell'Ottocento. E poichè il nostro clero era
educato in Italia, soggetto a Vescovi italiani che alla loro
volta erano assoggettati al governo di Vienna, la politica
ticinese diventò una parte essenziale di quella della
Penisola. Col Quarantotto si era arrivati alla guerra
guerreggiata, cui diversi ticinesi presero parte: nel
cinquantatrè vi fu un nuovo tentativo mazziniano di
insurrezione a Milano: l'Austria incolpava la Svizzera e
il Governo ticinese di esserne responsabili. La questione
dei Conventi le diede il pretesto del Blocco, per una
dozzina di fraticelli ch'erano lombardi, dunque sudditi
austriaci.

615
Ne nacque la grande crisi della nostra piccola
Repubblica. La febbre che spinse al parossismo la lotta
delle passioni, finì, per quanto ne concerne, col
Pronunciamento del 1855 (per l'Austria e per l'Italia finì
poi nel 1859). Gli animi, eccitati per molti decenni,
gridarono da ciascuna parte al tradimento della patria. Il
Blocco fu addebitato ai liberali come un giusto castigo
dell'Austria irritata per l'attività dei rifugiati politici
italiani, il Pronunciamento fu glorificato come un atto
eroico o aborrito come un delitto. Sorte comune a tutti
gli eventi storici che risolvono un impaccio. Visti
coll'arretramento di oltre settant'anni, quei fatti
acquistano un carattere drammatico, elevatamente
umano, appaiono non argomento di vergogna ma
d'orgoglio, al popolo ticinese.
***
Quella grave questione dei rifugiati politici italiani,
che diede argomento ad una mia polemica con la Libera
Stampa, organo socialista, ed occasione di pubblicarne i
documenti che seguono, non era che un lato di una vasta
questione, quella del diritto d'asilo in Isvizzera, il quale
alla sua volta si collegava a quello della neutralità
svizzera riconosciuta e garantita dal Trattato di Vienna.
La neutralità svizzera non è un fatto della volontà
unilaterale. Essa ebbe a Vienna un carattere contrattuale
che fu confermato nella recente pace di Versaglia. – Un
certo quale partito preso di ignorare questa circostanza
fu causa di gravi errori di uomini politici ticinesi, sia nel

616
partito conservatore cattolico, sia nei ranghi dell'estrema
sinistra.
Ogni neutralità convenzionale importa l'obbligo della
propria difesa e quindi della capacità di difesa militare.
Dai primi anni della nostra repubblica, l'obbligo di
fornire un contingente militare alla Confederazione
parve a molti essere gravoso ed inutile. Gravoso lo era
per la già cennata mancanza d'un'imposta cantonale,
inutile pareva a un popolo che per vari secoli non aveva
mai combattuto ed ignorava non solo la gloria ma
persino la fierezza delle armi.
Comunque, la neutralità del territorio comportava
come suo corollario il diritto d'asilo verso gli stranieri.
Di questo principio la Svizzera aveva fatto largo uso al
tempo delle guerre religiose e della guerra dei trent'anni.
Ne aveva fatto uso in confronto alla rivoluzione
francese.
Lugano aveva avuto tutta una colonia di émigrés. La
Cisalpina e il Vice-Regno avevano fatto fuoco e fiamme
perchè i soldati austriaci fatti prigionieri riuscivano ad
evadere, traversare il Ticino ed i Grigioni ed a
ricongiungersi ai loro eserciti.
Dopo il quarantotto e fino al cinquantanove fu una
vera invasione. Lo stesso avveniva agli altri confini. Il
quarantotto spaventò tutte le Monarchie, che si diedero
alla reazione, specialmente quelle cattoliche. La seconda
repubblica francese era caduta e Napoleone III aveva
con la reazione inaugurato il suo regno. Da ogni paese i
patrioti perseguitati si rifugiavano in territorio svizzero.
617
Per questo motivo, il governo federale si trova in
conflitto nel 1852 con l'Austria, col Granducato di
Baden, con la Prussia, col Würtenberg, con la Sassonia,
con la Francia e con la Russia!... (V. Rapporto di
Gestione del Consiglio Federale e Democrazia anno
1852, pag. 1487).
I rifugiati, Mazzini alla testa, pretendono interpretare
il diritto di asilo come una servitù passiva del territorio
svizzero (!); le Potenze pretendono che la garanzia da
loro data alla neutralità, dia loro il diritto di esigere dai
governi svizzeri l'espulsione di quei rifugiati che
mettono in pericolo la pace europea.
La Svizzera interpretava, come oggi, il diritto di asilo
quale un suo proprio diritto soggettivo della cui misura
è giudice esclusiva. Se l'Austria era minacciosa nelle
sue proteste, la Francia non lo era meno. L'Univers,
organo cattolico francese, richiamava il precedente
dell'Atto di Mediazione e reclamava l'intervento francese
in Isvizzera per annullare la Costituzione del 1848.
Egual tesi sosteneva il Journal des Débats, organo
governativo.
L'eguale minaccia facevano Francia ed Austria (per
un momento alleate) contro il Piemonte ed il Belgio, che
formicolavano di rifugiati ancora più che la Svizzera.
Solo l'Inghilterra sosteneva, come di solito, i piccoli
Stati. (V. Democrazia, anno 1852, pag. 242, 251, 256).
***
E qui torniamo un passo indietro!

618
La Costituzione federale del 1848 era stata il frutto di
una lunga elaborazione interna, nella quale avevano
influito più correnti: la corrente illuminista della fine del
settecento, facente capo alla Società Elvetica; la
corrente giacobina, di carattere nettamente francese; la
corrente reazionaria, capitanata dall'ordine dei Gesuiti
all'interno, e ispirata all'estero dalla Monarchia
austriaca151.
Quando la Francia nelle sue solite oscillazioni
sobbalzava alla reazione, passava dalla parte
dell'Austria senza cessare di esserle nemica, e l'una e
l'altra diventavano solidali nell'avversare quella politica
svizzera che tendeva alla parità religiosa.
Esse, appoggiato il «Sonderbund», senza
l'opposizione dell'Inghilterra, avrebbero impedito la
Costituzione federale del 1848, se non avessero avuto
nello stesso anno in casa propria la rivoluzione. Ma,
prima e durante la crisi, la loro tesi era desunta dalla
neutralità svizzera, ed era questa: non avere la Svizzera
il diritto di avere una politica estera propria, nè un
esercito federale; dovere essa invece mantenersi nello
stato quale l'avevano costituita e garantita le potenze nel
1814-15 con la libertà assoluta dei Cantoni di avere una

151 L'ordine dei gesuiti era siffattamente infatuato per Casa


d'Austria che ancora dopo il 1880 la Civiltà Cattolica non
rifiniva di versare sarcasmii sull'Italia una e sui suoi fondatori.
Tipo rappresentativo del gesuita austrolatra, italofobo e peraltro
sincero e buono il Padre Bresciani, nei suoi fantastici romanzi.

619
politica estera propria e di fare capitolazioni militari
coll'estero.
Accettare questa tesi sarebbe stato per la Svizzera
accettare un protettorato delle Potenze sui propri affari
interni. La Svizzera doveva a se medesima di avere una
politica estera sua propria ed un proprio esercito
federale, precisamente per impedire che nella politica
internazionale potessero trovarsi Cantoni contro
Cantoni, e nelle guerre altrui svizzeri contro svizzeri.
Era questo stesso concetto che esprimeva Mazzini, già
nel 1835, scrivendo a Carlo Battaglini studente a
Ginevra! Era il concetto, oggigiorno, più indiscutibile di
ogni politica statale.
Chi è quel conservatore cattolico svizzero che
vorrebbe oggi tornare alle capitolazioni militari, che
vorrebbe oggi invocare l'intervento delle Potenze nelle
nostre cose interne? Non uno; poichè oggi è maturo quel
concetto della sovranità statale che allora era solo in
formazione. Non uno, perchè la parità confessionale,
lungi dall'aver indebolita l'azione cattolica in Isvizzera,
l'ha favorita!
L'Università cattolica che Lucerna non ha osato nel
1817 esiste e funziona oggi brillantemente a Friborgo!
Ma, ripeto, gli uomini d'allora devono essere spiegati
colle idee di allora. I capiparte del 1847 erano stati
educati in media trent'anni prima, cioè verso il 1814, nel
periodo intenso della Restaurazione, quando fiorivano
concetti politici che oggi sono morti. Morti, notisi bene,
più che mai negli Stati cattolici d'Europa e d'America.
620
Angelo Somazzi, contro il quale è tuonata (anche da
parte mia) l'accusa di tradimento, era un ticinese nato in
Dalmazia, educato dai Gesuiti italiani. Negli Stati
balcanici e danubiani, l'Austria rappresentava allora la
civiltà europea contro la barbarie turca. Che egli
vedesse nella nuova Svizzera un'assurdità politica, non è
impossibile da spiegare; ch'egli vedesse nell'Austria la
protettrice naturale dei ticinesi, non ha nulla di
mostruoso. Mostruoso sarebbe sposare oggi le sue tesi,
ed è mostruoso che degli uomini i quali si dicono
svizzeri, liberali, ed amici dell'Italia, imprechino oggi a
quella Costituzione federale senza di cui nè la guerra del
'59, nè quella del '66 non sarebbero state possibili
poichè, trionfando il Sonderbund, i reggimenti della
Lega cattolica sarebbero discesi, per il Sempione e per il
Gottardo, verso Milano, e il Ticino cattolico avrebbe
mandato i suoi soldati a Magenta e Solferino, ma dalla
parte dei Croati152.
***
La gioventù ticinese leggerà e mediterà con suo
profitto i documenti raccolti da Eligio Pometta e li potrà
confrontare con gli atti ufficiali d'allora: Processi verbali
del Gran Consiglio, Contoresi e Bilanci, e coi giornali
dell'epoca, particolarmente la Democrazia, di parte
152 Vedi progetto di Costituzione federale preparato dal
Sonderbund con l'appoggio francese ed austriaco in Democrazia
anno 1854, pag. 201, ed anche Democrazia 1852, pag. 659.
Confr. Burckhardt, Commentario della C. F., articoli 8, 9.

621
liberale, edita a Bellinzona, l'Indipendente, di parte
conservatrice, il Popolo, dal cui nome venne l'epiteto di
Popolino alla frazione d'estrema sinistra alleatasi ai
conservatori (per disgrazia dell'una e degli altri) e la
Bilancia edita a Milano dall'ingegnere Angelo Somazzi,
rifugiato ticinese in terra austriaca153.
In ispecie meritano studio gli atti relativi alla
secolarizzazione delle scuole ecclesiastiche, cioè quelle
dei Serviti a Mendrisio, dei Somaschi a Lugano, dei
Benedettini a Bellinzona, dei Francescani a Locarno,
nonchè del Collegio d'Ascona e di quello di Pollegio
aventi l'uno e l'altro carattere di Seminari ecclesiastici,
romano il primo, ambrosiano il secondo.
Gli studi più recenti hanno dimostrato che, di queste
istituzioni scolastiche, le principali avevano avuto una
origine civile. Erano stati i Consigli di Lugano e di
Bellinzona a chiamare i Gesuiti (che non vennero), poi i
Somaschi e i Benedettini di Einsiedeln, offrendo loro i
necessari mezzi iniziali; parimente erano state le
Comunità di Blenio e Leventina a costituire la dote del
Seminario di Pollegio. Per quest'ultimo soprattutto la
questione giuridica era abbastanza seria: si trattava di
sapere a chi appartenesse, secondo il giure pubblico e
privato. Come al solito, ciascuna parte affermò la
propria tesi come dogmaticamente indiscutibile, ma il
caso era perlomeno dubbio154.
153 Vedasi in La Presse Suisse (Libreria Patria) la mia
monografia sulla Stampa ticinese.
154 Lo stesso clero delle Tre Valli dimostrava, fondandosi sui

622
Secolarizzato il Seminario e fattone un Ginnasio,
l'Arcivescovo ambrosiano non riconobbe quella che gli
pareva una usurpazione, ciò che era naturale; ma, come
di solito, il governo austriaco fece propria la questione e
inciprignì la ferita. Dopo breve tratto, parve che la
questione fosse fra il Ticino e il governo austriaco,
cosicchè il clero nostrano si trovò dalla parte del
Governo estero. Donde l'ira funesta!
Caratteristica era stata la questione dei cadetti. Gli
allievi dei Ginnasi e delle Scuole Maggiori venivano
iniziati agli esercizi militari, cosa ormai indispensabile
per la formazione dei quadri della milizia cantonale.
Allora si scatenò nella opposizione l'antimilitarismo
clericale, durato fino a Martino Pedrazzini che abolì i
cadetti155. L'arcivescovo pose la questione di massima,
non potersi istruire negli esercizi militareschi i futuri
sacerdoti (in realtà non un quarto dei seminaristi
riceveva gli ordini!) e finalmente chiuse il Seminario. Il
governo liberale lo riaprì nel 1852 con docenti ticinesi,
civili ed ecclesiastici.
L'arcivescovo si inalberò, proibendo l'accesso degli
allievi di Pollegio ai Seminari maggiori diocesani. La

decreti del Concilio di Trento, che il Collegio era proprietà delle


Tre Valli. Se questo era vero, è probabile l'opinione giuridica che
il Cantone ne fosse il successore in diritto.
155 Vent'anni dopo era in piena effervescenza l'antimilitarismo
radicale-socialistoide. In entrambe queste fasi, la ispirazione
veniva dall'estero. Il reggimento ticinese finì per avere ufficiali di
lingua tedesca!

623
Gazzetta Ufficiale di Milano ne fece una questione di
Stato, ciò che irritava il sentimento di molti cattolici
ticinesi i quali, fra altre ragioni, non avevano
dimenticato come l'Austria stessa avesse poc'anzi, nel
1843, soppresso e incamerato il famoso Collegio
Elvetico di fondazione borromea. Dal che si vede
ancora una volta che la Chiesa ha sovente più da temere
dai governi che le offrono protezione che da quelli che
apertamente le chiedono certe rinunce. (V. Democrazia,
1852, pag. 13, 37, 73 et passim).
Il governo austriaco interviene con una nota
diplomatica a Berna e minaccia di non più ammettere i
ticinesi neppure nei Licei di Stato!
Un congresso delle Tre Valli decise di iniziare una
causa civile contro lo Stato per la rivendicazione dei
beni del Seminario. Il governo, con suo decreto, proibì
ai tribunali ticinesi di occuparsi di questa causa. Su
questo decreto si fece un gran baccano in nome della
separazione dei poteri. Esso era però il ricalco di un
decreto analogo del Conseil d'Etat francese reso in
nome di luigi Filippo, protettore dei cattolici svizzeri.
Già negli anni antecedenti e fin dal 1830, il Rettorato
del Seminario di Pollegio era apparso come un organo
di ingerenza politica austriaca. (Vedasi in proposito:
Cinque anni di sacerdozio di Ambrogio Bertoni, presso
Libreria Patria).
***

624
Altro motivo di legittimo conflitto fra l'Austria e il
Ticino, e più generalmente fra il principio secolare e
quello chiesastico era apparso dalla situazione fatta ai
sacerdoti consiglieri. Ai primordi della repubblica il loro
numero era considerevole, nè si avrebbe potuto farne a
meno. Ma la questione dei Conventi rivelò il pericolo.
Diversi preti consiglieri avevano votato la soppressione
di certi conventi. I vescovi di Como e di Milano
proposero la questione di massima che i sacerdoti
fossero legati anche in Gran Consiglio alla disciplina
diocesana ch'era straniera.
Non posso che accennare questo vasto argomento,
come un episodio di quello vastissimo della questione
diocesana svizzera e ticinese che ho trattato nel mio
volume Le Istituzioni Svizzere, Un. tip. Ed. Torino (parte
di diritto pubblico), e lo faccio per invitare la gioventù
ticinese a riflettere anche solo un istante alla enormità di
certe tesi che le si vengono sussurrando nelle orecchie,
essere stato un delitto contro la italianità culturale del
Cantone Ticino il distacco dalle sue diocesi naturali
italiane156.
Chiedo alla gioventù conservatrice se possa
approvare che il voto di un deputato ticinese possa
essere censurato da un vescovo soggetto egli stesso a
giurisdizione politica straniera, come avveniva allora e
come potrebbe ancora verificarsi in futuro. Chiedo alla

156 Confronta Burckhardt, Commentario, art. 9, pag. 121,


122.

625
gioventù liberale come si possa conciliare la
separazione della Chiesa dallo Stato territoriale, con la
sua dipendenza dallo Stato straniero!
L'assetto diocesano attuale corrisponde ai postulati
dei liberali ticinesi e svizzeri della Rigenerazione157.
Esso è l'opera di un governo federale liberale che
poneva fine al Kulturkampf. Quale demonio malvagio
agita dunque i petti dei ticinesi, che una questione
politica non possa mai dirsi definitivamente risolta?
Quale bisogno c'è, che eternamente si ritorni a discutere
ciò che avrebbe dovuto essere in luogo di pensare a ciò
che rimane da farsi?
***
Altro aspetto prese la questione diocesana a proposito
dei beni delle parrocchie. L'antica controversia se le
parrocchie ticinesi fossero da considerarsi come
juspatronati di collazione comunale (che è la tesi
ecclesiastica) o se i beni affetti al culto fossero
puramente e semplicemente comunali, non ha più
l'importanza che le si è dato in altre circostanze.
Il culto può difficilmente essere considerato come un
atto dell'amministrazione politica. Più razionale è la
soluzione presentata dal diritto civile svizzero, quale è
codificata nel Codice nuovo. Il Comune politico può
157 Vedi in Democrazia (anno 1853) la relazione sulla
sottoscrizione ticinese per la separazione diocesana, con un
Vicario diocesano ticinese aggiunto ad una Diocesi svizzera (pag.
1263).

626
invero essere considerato come l'amministratore, ossia
l'organo, di una fondazione giuridica imperfetta, cioè
senza organi propri, a scopo di culto. Questa soluzione
avrebbe potuto essere affacciata allora e non differisce
gran che da quella sanzionata poi nel 1886 col
passaggio dei beni ope legis dal Comune politico alla
Comunità parrocchiale.
Ciò che avvelenò la questione e condusse alla legge
civile-ecclesiastica del 1855, fu sempre il malanno della
ingerenza estera, in ispecie austriaca. Nel 1852 si era
tastato già il terreno, da Berna, per la conclusione di un
concordato con la Santa Sede per la sistemazione
diocesana. Il disegno fu abbandonato non per colpa
della Confederazione.
Già nei Capitoli di Baden (Bertoni e Olivetti, Le
Istituzioni Svizzere, vol. I.°) i liberali svizzeri avevano
posto il principio della giurisdizione episcopale svizzera
con un primate nazionale. Il principio era stato
facilmente ammesso per i Cantoni primitivi passati dalla
diocesi di Costanza a quella di Coira. Emanata la legge
federale del 22 luglio 1859 che sanzionava il principio,
Roma si era facilmente intesa con Berna circa le
parrocchie del Giura bernese e quelle delle valli italiane
dei Grigioni. Se l'accordo non fu possibile per il Ticino,
fu solo perchè l'Austria non voleva. Ancora una volta
l'ingerenza estera, nefasta sempre a chi la chiede e a chi
l'accetta, sotto qualsiasi pretesto!
Donde la tentazione dei liberali ticinesi di sottoporre
al Placet governativo le Pastorali dei vescovi diocesani
627
le quali invadevano il campo della legislazione
cantonale ed eccitavano il clero alla resistenza contro le
leggi. (Democrazia, 1852, pag. 641).
La legge del 1855 era fatta su modello austriaco
dell'epoca giuseppiniana, tenendo conto dei Capitoli di
Baden. Consulente del governo ticinese era stato il
dottor Hungerbühler di San Gallo, specialista della
materia. Essa si ispirava alle idee allora dominanti nei
paesi liberali sui rapporti fra la Chiesa e lo Stato
conformemente (e non contrariamente) al principio della
religione di Stato, sanzionato dalla nostra Costituzione.
Era del resto una legge di combattimento158 cui sarebbe
stato preferibile un Concordato.
***
In quell'anno, 1852, partivano adunque i padri Serviti
da Mendrisio (Democrazia, pag. 755) ed i padri
Somaschi da Lugano (id. 691) nonchè i Benedettini da
Bellinzona (id. passim). La loro partenza non fece nè
caldo nè freddo: il pubblico non se la pigliò a cuore. Del
loro insegnamento si può dire che non meritasse nè i

158 Fu solo più tardi che nel campo liberale maturò l'idea della
Separazione. La legge cant. del 1886 in certo senso è appunto
separatista. Fu un grave errore dello Stoppani e dei suoi amici
l'averla combattuta sul terreno della Legge del 1855. Vide meglio
Achille Borella che fin d'allora preconizzò la separazione nel
senso moderno. In queste cose è appunto disastrosa, dall'una e
dall'altra parte politica, la mancanza di metodo e di dottrina, il dir
di no solo perchè gli altri dicono di sì.

628
panegirici nè i vituperi della stampa del tempo. Il loro
prestigio era già molto in ribasso; a Lugano forse per
l'impoverimento dell'Ordine e del Collegio, già
verificatosi ai tempi della Rivoluzione; a Bellinzona
perchè i Benedettini, con molti loro meriti, avevano
avuto il difetto di essere ostinatamente tedeschi.
È necessario in ogni modo notare come quegli
insegnanti, tranne il grande Padre Soave, non abbiano
lasciato alcuna traccia di letteratura svizzera italiana.
Neppure han lasciato traccia di un qualsiasi loro
interessamento al paese, con una eccezione sola e
tardiva, quella del Padre Ghiringhelli (da non
confondersi con l'Abate omonimo).
Dell'epoca dei baliaggi, noi possediamo una
considerevole letteratura informativa di scrittori svizzeri
(Vedasi il mio articolo dell'Educatore, 1925: Un libro
rivelatore, recensione della vasta monografia della Dr.
Margherita Gerber).
Questi insegnanti, quasi tutti stranieri e tutti soggetti
ad una estranea obbedienza, si erano tenuti come
stranieri all'anima ticinese. Furono stranieri, è
verissimo, anche moltissimi fra gli insegnanti laici che li
sostituirono nei nuovi ginnasi cantonali. Ma quanta
ondata di spirito patriottico vi portarono essi, da Carlo
Cattaneo in giù! Anche la Scuola Normale maschile fu
fornita da Martino Pedrazzini, dopo il 1877, di direttori
italiani, e si rinnovarono le critiche. Mi sia permesso
notare a questo riguardo che non è l'atto di origine
quello che fa lo straniero o il cittadino in una docenza.
629
Contano i fattori morali. Chi non capisce, chi non sente
la Svizzera, rimane un cattivo educatore per le nostre
scuole, anche se patrizio di vecchia stirpe.
***
Le difficoltà più gravi coll'Austria vennero dalla
espulsione di pochi Cappuccini dei conventi soppressi,
di nazionalità lombarda. Essa fornì al governo austriaco
l'arma diplomatica agognata per l'imposizione del
Blocco.
I documenti pomettiani si riferiscono in gran parte a
questa faccenda. Dalla stampa ticinese del tempo, e
particolarmente dalle ammissioni della Bilancia, risulta
chiaramente che i Cappuccini servivano di pretesto. Il
vero intento austriaco era quello di costringere il popolo
ticinese, mediante la pressione del Blocco, a cambiare di
regime politico. L'Austria lo voleva, in odio ai rifugiati.
I documenti lo comprovano.
A tanti anni di distanza, possiam bene riconoscere che
per l'Austria in Lombardia ciò era questione di vita o di
morte. La difesa della propria vita è un diritto naturale.
Non saria però questa una ragione perchè un partito
conservatore d'oggi si facesse solidale di tutte le azioni,
di tutti i metodi ed i mezzi di un partito conservatore di
settant'anni or sono.
Io ho tentato di dimostrare alla gioventù ticinese la
meccanica dei partiti, nella mia Prolusione di Berna, nel
1921. Non parve che la Costituente, cui era destinata, ne
abbia tenuto gran conto, ma la mia ragione mi sembra

630
incrollabile. Nei partiti storici, conservatore o
progressista, si manifesta la legge fondamentale della
forza dinastica e della statica, dell'attrazione centripeta e
della rivoluzione centrifuga. Un paese senza partito
progressista, o senza partito conservatore, dicevo, è
come un'automobile cui mancassero il motore od i freni.
La funzione frenatrice non sta a impedire il
progresso, ma a moderarlo. È questa la ragione per cui
altri già osservò l'apparente contraddizione del partito
conservatore francese che nel 1830 sostiene le idee che
aveva combattuto nel '14, nel '48 le idee che aveva
combattuto nel '30, e così di seguito. Nessunissima
contraddizione neppure nel fatto che i progressisti della
Svizzera attuale hanno idee e metodi diversi da quelli
del Kulturkampf.
L'evoluzione ha semplicemente compiuto l'opera sua.
Ecco tutto.
La funzione conservatrice o moderatrice ha un senso
attuale, null'altro che attuale. Non si può agire per la
conservazione di ciò che è stato e che non è più!
Ciò che del passato può e deve vivere è la memoria.
La commemorazione è un concetto profondamente
religioso. Di tutte le religioni!
Quella generazione politica che operò dal 1848 al
1855, nel Ticino come nella Confederazione, in
Isvizzera come in Europa, fu una generazione nobile ed
energica, fu grande anche nei difetti, nelle sue illusioni,
nelle sue passioni.
Ed è decoroso che la si onori!
631
Il Pronunciamento fu uno di quei reati politici che
cessano d'essere tali e diventano costitutivi di un diritto
nuovo, quando riescono.
Vi sono momenti in cui le funzioni morali di uno
Stato non bastano più a conservarne la vita. Allora la
natura suscita le febbri e le crisi.
Esso ha spazzato via una ingerenza straniera nella
nostra vita politica, che tendeva all'asservimento della
repubblica. In questo senso è stato un bene o, se volete,
un male necessario. Felice quel Paese in cui non fossero
successe rivoluzioni interne, altro che per la
salvaguardia della propria libertà e dignità!
Basta la Indipendenza italiana verificatasi quattro
anni dopo, per giustificare l'opera e i suoi autori.
Sull'omicidio e processo Degiorgi non voglio
soffermarmi. Gli accusati furono assolti e politicamente
l'assoluzione fu saggia. Gli atti del processo, conservati
da mio padre che funzionava da avvocato fiscale
(pubblico ministero), furono da me deposti alla Libreria
Patria. Formano un importante materiale storico.
***
Gli anni fortunosi dal 1852 al '56 furono grandi anche
per altri fatti che non sono di natura politica.
Fu nel 1815 che il Cantone potè finalmente creare
un'Imposta cantonale. L'angelo custode delle finanze,
come lo chiamò G. B. Pioda. La cattiveria e l'imbecillità
settaria irrisero ancora per venti o trent'anni a
quell'epiteto. Ma se il Ticino avesse avuto una sana

632
finanza fin dal 1803, esso avrebbe avuto maggior
credito pubblico, avrebbe evitato di consumare tutto
quanto il patrimonio dei conventi soppressi, e potuto
dedicarlo ad opere di bene pubblico, come fece
l'Argovia, o sarebbe stato meno tentato di incamerarlo.
L'opposizione mossa per mezzo secolo all'imposta è
frutto di quella mentalità deplorevole per la quale, dopo
il citato opuscolo del Franscini, noi non abbiamo mai
più avuto nè una storia delle nostre finanze, ne una
guida, nè un metodo. Quella mentalità compenetra
tuttavia ogni discussione in materia di finanze,
specialmente nei grandi periodi elettorali. Si direbbe che
chi parla o scrive consideri il pubblico come una
mandra bovina alla quale si può dar da bere qualsiasi
beverone159.
Quel giovane che, pigliando le mosse dall'opera del
Franscini, ora introvabile, rifacesse e completasse la
storia delle nostre finanze con proposito oggettivo e
costruttivo, renderebbe un immenso servizio al paese.
***
L'agricoltura ticinese vide in quel periodo lo sforzo
del popolo e del governo per la bonifica delle terre
patriziali suscettibili di coltivazione a prato ed a campo.
Era la conseguenza del Blocco granario austriaco! Vide
il principio degli sforzi per il raggruppamento, con la
159 Devo fare una lodevole eccezione per l'opuscolo del sig.
Antonio Galli: Bilancio e Collaborazione (1925). È un opuscolo
polemico anch'esso, ma almeno rispetta la mente del lettore.

633
legge sulla permuta obbligatoria (Democrazia, 1852,
pag. 210, 321, 469, 473, 477, 489, 717, 795). È da
quell'epoca feconda che datano i primi studi sulla
Bonifica del Piano del Ticino con un Memoriale alla
Società di Utilità Pubblica, di Antonio Chicherio.
(Democrazia, 1852, pag. 687, 690, 696).
L'anno seguente, 1853, il governo presenta un
messaggio ed un progetto. Chicherio fa un secondo
Memoriale (Democrazia, 1853, pag. 1229 a 1235; 1400
a 1416, 1571, 1581, 1791, 1602, 1656, 1680). Una
seduta straordinaria del Gran Consiglio è consacrata a
questo oggetto. (Democrazia, 1819, 1823).
Si trattò anche di una banca agricola (ivi, 906, 909).
L'arginatura dei fiumi è argomento di un primo
messaggio del Consiglio di Stato (Democrazia, 1853,
pag. 1557), punto di partenza di tutta la grandiosa opera
successiva.
Il problema ferroviario sorse improvvisamente fra le
preoccupazioni politiche. Già allora si imponeva una
linea svizzera di accesso dall'Italia alla Germania,
d'interesse europeo. Non essendo ancora conseguita
l'unità italiana nè quella germanica, erano il Piemonte
(con Genova) e la Baviera (col Bodanico) i principali
Stati interessati, donde i progetti per il Lucomagno e per
la Spluga. Il Gottardo, che prevalse naturalmente dopo
le due grandi unificazioni nazionali, aveva già i suoi
fautori.
Da bel principio cominciarono le ingerenze estere,
prudenti e coperte da parte dell'Inghilterra, sfacciate da
634
parte dell'Austria, la quale osò far proporre nel Gran
Consiglio ticinese la pregiudiziale dell'accordo politico
con essa (Democrazia, 1853, pagina 1819).
Nel corso del 1858 erasi già costituita la società per la
ferrovia dal Verbano al Bodanico attraverso il
Lucomagno. Il Gran Consiglio aveva dato la
concessione e il Consiglio federale l'approvazione. La
guerra d'Oriente e l'annuncio dell'alleanza franco-sarda
in vista della guerra ne impedì il finanziamento a lavori
già cominciati160.
Già d'allora la questione ferroviaria mise di fronte il
Sopra ed il Sottoceneri, per via del tracciato: ma più
importa rilevare, ad istruzione dei giovani, come sempre
nei momenti importanti della nostra storia l'ingerenza
straniera sia la nemica della nostra pace interna. Si può
ammettere come esperienza acquisita che il valore
morale dei nostri uomini politici, d'ogni partito, è in
ragione diretta della loro capacità di resistenza alle
seduzioni ed alle pressioni del di fuori.
***
È un fatto di tutti i tempi e di tutti i paesi.
Le idee possono essere generali: le applicazioni no.
Lo abbiamo visto anche recentemente in Italia. Il
giacobinismo gallico, il pedantismo tedesco, il
misticismo moscovita, vi hanno recato ciascuno un
160 Ho deposto alla Libreria Patria un voluminoso incarto
sopra le questioni ferroviarie ticinesi anteriori all'avvenuta
costruzione del Gottardo.

635
contributo di applicazioni e di programmi eterogenei, di
rivendicazioni ingerite ma non digerite. Il risultato ne fu
così disastroso come tutti sanno. E non siamo alla fine
dell'esperimento!
Le applicazioni devono essere elaborate secondo
l'ambiente. Ne risulta fra gli altri benefici che gli animi
si incontrino e si intendano assai più che rimanendo
sulle generali. È stato detto che la metafisica ha
cosparso il mondo di vittime, mentre nessuno è mai
stato ammazzato a proposito d'una divergenza
geometrica. Così è. Un chirurgo ateo e una suora
cattolica si intendono sempre sul modo di aggiustare
una gamba rotta!
Ma se bisognasse prima intendersi sulla pregiudiziale
del Dio Ignoto...
***
Ora mi sia concesso, concludendo, di formulare un
voto.
La documentazione diplomatica scoperta dal Dr.
Eligio Pometta è dispersa in una infinita quantità di
effemeridi e solo in parte è raccolta in opuscoli che
facilmente scompariranno. Il Ticino deve a se stesso di
curarne la ristampa in un solido e completo volume. Si
trovano denari per cose di meno grave importanza.
Si deve questa riconoscenza anche alla persona del
signor Pometta.
Questa alacre famiglia dei Pometta, così varia e così
devota al suolo della piccola patria, ha dato nel Dottor

636
Eligio una incarnazione dello spirito della nostra gente.
Per la doppia linea paterna e materna (i Pometta e i
Capponi) egli discende dai più attivi e sinceri capi della
parte conservatrice e della parte liberale nella belligera
Vallemaggia. Egli era nato fatto per rintracciare a
traverso un improbo lavoro le ragioni intime, le radici
più lontane dei fatti della nostra storia. Così operando,
egli si è isolato politicamente.
Non ignoro che molti hanno deplorato e deplorano
questo suo allontanamento dal primo campo di azione.
In realtà egli non si è allontanato dagli uni nè avvicinato
agli altri; egli si è elevato al disopra delle vecchie
fazioni. Il mio ultimo voto è che sia compreso e seguito.

637
XI.
A proposito di società segrete nel Ticino

Una lettera di Brenno Bertoni a Rinaldo Caddeo161.

161 La lettera dell'on. Bertoni, che riproduciamo, costituisce


una risposta alla seguente lettera, scritta dallo storico milanese
Rinaldo Caddeo, al medesimo on. Bertoni, in data 21 agosto
1936:
Illustre consigliere,
Ho gustato molto la Sua lettera, così densa di idee e così
sprizzante di spirito polemico. Per quanto il periodo anteriore
all' '89 sia fuori del mio campo di studi, pure mi interesserebbe
leggere l'opuscolo al quale Ella si riferisce.
Incomincio a dubitare che i tre clubs luganesi potessero essere
delle logge. Se così fosse stato, non si potrebbe dedurre altro se
non che fossero filiazioni lombarde o francesi. Ma ogni notizia in
proposito manca, e perciò nulla di preciso si può dire. Uscirà
presto presso Mondadori il I° volume delle memorie inedite del
conte Gorani: chi sa che non vi si possa trovare qualche
indicazione in merito, dati i provati rapporti che egli ebbe con
l'abate Vanelli. Le sono grato della gentile offerta di
comunicarmi in lettura, le opere del Boos e i fascicoli
dell'Alpina, che Le restituirò al Più presto.
Il Ciani appartenne alla Carboneria ed alla Giovine Italia, ma
non mi risulta che abbia appartenuto ad altre società segrete. Mi
consta invece che egli nel 1838 costituì un'associazione locale
che aveva per iscopo di difendere la Riforma e di fomentare moti
insurrezionali in Lombardia e Piemonte, e che era in relazione

638
Lugano, 23 aprile 1936.
Pregiatissimo signor Caddeo,
Spedisco oggi stesso alla Bibl. Cant. il Manuale della
Massoneria del Boos. Essa è avvertita di tenerlo a sua
disposizione. Le compiego in più la scheda di

coi Partiti democratici della Francia e del Belgio.


All'associazione di Lugano appartenevano, oltre ai fratelli Ciani,
Luvini, che ne era presidente, Stoppani, che ne era cassiere,
Martinoni (o Martignoni), Galli, G. B. Pioda il giovane,
Pellanda. Queste due associazioni comunicavano a mezzo di
Matti e Soldini di Chiasso con un'altra associazione di Como i
cui membri più influenti erano Giovio, Ciceri, Bianchi e Sacchi.
A Bruxelles vi era pure un'associazione di Ticinesi che teneva le
sue riunioni nel Café des Trois Suisses in Place de la Monnaie, e
che aveva per presidente onorario il Luvini e per segretario pure
onorario il Ciani. È importante rilevare che questo caffè svizzero
del 1840 era ancora in vita o Bruxelles nel 1858, era di proprietà
di un tale Bighenti ed aveva per cameriere un Giuseppe Giorgi,
ticinese, fratello del padrone di un altro Caffè svizzero di Londra,
Via Tichborn, e che nei due caffè si tramò in parte il complotto
per l'assassinio di Napoleone III, come si può vedere nel mio
volume: «L'attentato di Orsini». Se si potesse penetrare nella vita
segreta del Ciani si avrebbe la spiegazione di molti fatti ticinesi e
italiani che ancora sono poco noti o non si comprendono, ma
purtroppo le sue carte si possono considerare distrutte o disperse,
comprese quelle del Gabrini (figlio naturale e non nipote di
Giacomo) che ho cercato invano per mare e per terra. Un altro
figlio del Ciani, Giovanni, nato a Milano da un'Angela Grandini
e domiciliato a Lugano, partecipò alla rivoluzione belga del
1830 e prestò servizio in quell'esercito con altri ticinesi: Vincenzo
Barella, Benedetto Burgi, Giuseppe Ghiringhelli di Bellinzona, di

639
sottoscrizione all'opera «Les sociétés sécrètes et la
Démocratie suisse» che credo già stampata. È di tutta
attualità. Costa solo fr. 2. L'opuscolo le sarà mandato dal
mio editore sig. Arnold a Lugano. Io credo ch'Ella
debba prescindere dalla ipotesi di una o più Logge
ticinesi nel periodo indicato. Le notizie che Lei mi dà
circa i Ciani me lo confermano. Mio padre, Ambrogio
Bertoni, cospiratore denunciato le dieci volte dallo
spionaggio austriaco, era intimo di casa Ciani. I due
testamenti di Giacomo e Filippo furono nei suoi rogiti.
Mio padre, un altro Roberto Ardigò che lasciò il clero
nel 1839 a seguito di una epica sua lotta col Cardinale
Arcivescovo de Gaysruk fu aiutato dai Ciani a compiere
i suoi studi di giurisprudenza facendone il Mentore di
Antonio Gabrini ch'era allora a Parigi studente in
medicina. Quando verso il '56 mio padre ebbe una crisi
di nervi per stanchezza fu ospitato per tre mesi nella
villa e nel Parco Ciani. Filippo Ciani, che legò allo Stato
un notevole capitale per la costruzione del Penitenziario,
lo incaricò di un suo studio sopra il sistema cellulare,
Vittorio, Luigi Gobelli pure di Bellinzona, Vittorio Lurati di Giov.
di Lugano, Pier Alessandro Minazio di Chiasso, Antonio
Taglioretti di Agostino, di Lugano, medico.
Ma io Le parlo di cose di poco interesse, e Le chiedo scusa del
tempo che Le faccio perdere.
La ringrazio delle pubblicazioni, che attendo con desiderio, e
La prego di disporre di me per qualunque cosa potesse
occorrerLe in Milano.
Cordiali saluti dal Suo dev.mo
Rinaldo Caddeo.

640
del quale il manoscritto fu rinvenuto da Romeo
Manzoni presso il signor Gabrini.
Quest'ultimo era infatti un figlio di Gian., e non un
nipote. Lo si fece nondimeno passare per un Gabrini
grazie ad una sostituzione d'infante ed anche di
puerpera! Giacomo tenne a Battesimo il mio maggior
fratello Dr. Mosè, il naturalista, e Filippo fu mio padrino
di Battesimo. (Allo stato civile sono registrato Filippo
Brenno Camillo: Brenno perchè è «il fiumicel del mio
paese, quel che m'ha fatto diventar poeta»: Camillo per
compensare il nome gallico con un eroe romano). Si
figuri adesso se poteva essere restata occulta a mio
padre una massoneria luganese alla quale fossero
affiliati i Ciani! Me lo avrebbe detto almeno quando io
stesso diventai massone!...
Alla Giovine Italia appartenne invece mio padre che
per questo delitto fu espulso dal Seminario di Santa
Marta a Milano; così egli mi raccontò
L'associazione di cui Ella mi parla, fondata a Lugano
nel 1838 potrebbe essere quella dei Carabinieri ticinesi,
divisa appunto per sezioni162. Mio padre era presidente
(dopo il 1841) dei «Carabinieri del Brenno» (val
Blenio). Questa società distribuì delle armi di

162 La Società ticinese dei Carabinieri venne fondata non nel


1838, ma nel 1832.
Oltre ad Ambrogio Bertoni appartennero alla "Giovine Italia"
Carlo Battaglini, il col. Luvini e forse il gen. Arcioni.
In epoca anteriore vi furono dei Ticinesi che appartennero
all'organizzazione dei Carbonari.

641
primissima qualità fabbricate nel Belgio (dove i Ciani
avevano altre relazioni che quelle d'un cafetée) ed erano
certamente destinate alla rivoluzione italiana. Potrei
mostrarle una di queste carabine. Anche il Generale
Arcioni fu «Carabiniere del Brenno» nel 1848, nel quale
anno le carabine belghe ebbero un successo
considerevole. Mio padre era fra i ticinesi che presero
Como previo assedio della Caserma essendo il popolo
già insorto. Mi raccontò che in un certo inseguimento,
avvenuto sul lago, ebbero partita vinta perchè le palle
del barcone austriaco cadevano morte davanti al loro
legno, mentre le loro pallottole colpivano ancora a
morte i nemici. Ma anche del generale Arcioni, che era
intimo di casa nostra... non ho mai saputo nè sospettato
ch'abbia avuto parte coi trepuntini.
I documenti della famiglia Ciani di cui Ella mi parla
furono certamente esaminati da Romeo Manzoni: veda
il relativo Medaglione da esso pubblicato, non nel
volume degli Esuli, ma sopra un giornale d'allora 163.
Franc. Chiesa se ne deve ricordare. Prima di morire il
Manzoni consegnò questo materiale (ed altro), ad
Arcangelo Ghisleri che doveva comporre con quelle
carte un secondo volume degli Esuli, ma Ghisleri stesso
mi disse poi che non poteva riescire perchè il materiale
era troppo amorfo. Il Ghisleri può averlo passato ad un
«Museo repubblicano» per il quale era già stato
163 Si tratta del quotidiano "L'Azione", organo dell'Estrema
sinistra liberale, diretto da Emilio Bossi (v. raccolta dell'anno
1907).

642
comperato un terreno a Lugano, a due passi da casa mia,
e che poi deve essere stato costituito a Como prima
della rivoluzione fascista164.
Vede, signor Caddeo, che di queste cose sono un po'
meglio informato che gli antropoidi ai quali era stata
affidata la difesa della italianità ticinese!...
Con perfetta stima
B. Bertoni.

164 Il Ghisleri depositò il materiale consegnatogli dal


Manzoni, presso il «Museo degli Esuli» istituito pochi anni dopo
a Como. Ora il materiale medesimo si trova presso il Museo del
Risorgimento di Milano.

643
XII.
Mazzini e Gioberti165

Due mistici. Lo spirito italiano è assai più mistico che


gli stranieri non credano, se anche ci siano dei segni in
contrario. Il francese medio ha «plus d'esprit que de
sentiment»: del medio italiano può dirsi il contrario: si
può dire anzi che quando vuol fare dello spirito cade
facilmente nel volgare, mentre preso dal lato del
sentimento si fa perfetto cavaliere. Mazzini è il mistico
della libertà e sotto questo riguardo è assai meno
artistico di Rousseau, ma assai più robusto. Egli crede
fermamente in Dio; non è solo un panteista; non è solo
un Dio rettorico quello che l'ispira. Egli ammette la
rivelazione: una rivelazione concepita come solo un
filosofo può concepirla. La verità non si rivela una sola
volta a un solo profeta, ma all'umanità, gradualmente, in
perpetuo; vi sono dei profeti. (ed egli sente di esserne
uno, sebbene non lo dica), ma la rivelazione si
manifesta in tutte le coscienze umane. Egli venera
La gloria di Colui che tutto muove,
Per l'universo penetra e risplende
In una parte più e meno altrove
165 Dallo studio: Influenze italiane nella stampa ticinese
pubblicato in Die Schwelzer Presse, volume del 1933, e in
opuscolo a parte (editore A. Arnold, Lugano).

644
e in ciò si collega al divino Alighieri. Crede all'umanità,
alla sua elevazione, alla sua dignità e ai suoi alti destini,
e per questo crede alla libertà; per questo chiama gli
uomini alla repubblica nel mistico binomio Dio e
Popolo. In questo anche Mazzini è un moderato. Solo
circa il modo di conseguire la libertà si manifesta in lui
il rivoluzionario: egli accetta e predica la rivoluzione, ed
anche la violenza privata. Spinge la gioventù
all'olocausto, ed anche in questo riappare il mistico: il
sangue dei martiri feconda la zolla della patria! Poichè
egli, nel suo umanitarismo, nella sua concezione
europea della politica, è profondamente patriotta e
appassionatamente italiano. Il culto della nazione in lui
non è antitetico, ma tende alla sintesi. Ogni parte deve
essere perfezionata perchè sia possibile l'armonia del
tutto.
Gioberti è il suo contrario, ma anche in questa
contrarietà appare l'eterna verità dell'uguaglianza degli
angoli opposti al vertice. Gioberti è cristiano, cattolico,
incrollabile nella fede. Gioberti è italiano, nazionalista
fino al misticismo. Egli crede ad una storica e naturale
superiorità degli italiani sugli altri popoli. Quanto alla
realizzazione egli spera, desidera, vuole che i Sovrani
d'Italia s'intendano sotto gli auspici, il consiglio e l'egida
del Sommo pontefice, redimano l'Italia dallo straniero, e
ne procurino l'unità nel senso dell'unità spirituale.
Entrambi questi maestri ebbero grande consenso in
Italia. Nel Ticino solo il Mazzini vi abitò lungamente
facendovi molte relazioni: il Gioberti quasi non vi ebbe
645
seguaci. Certo incontrò più plauso dai liberali che dai
cattolici...
...Sono da noverarsi tra i neoguelfi che ebbero grande
eco letteraria nel Ticino, ma scarsa influenza politica,
Alessandro Manzoni e la sua scuola, Niccolò
Tommaseo, e Cesare Cantù con la sua Storia della
Diocesi di Como...».

646
PARTE TREDICESIMA

Pensieri166
L'uomo è un animale prudente che si guarda
soprattutto dai pericoli passati. Quando sopra una linea
succede uno scontro ferroviario egli la evita ed affolla
piuttosto una linea concorrente. La ragione gli direbbe
di passare appunto là dove è successo un disastro,
perchè ivi è più sicuro che dovunque altrove, ma l'istinto
lo conduce ad agire secondo le circostanze del passato
come se sempre sussistessero.
In politica ciò è cosa di ogni giorno.
Il pubblico ed i partiti agiscono secondo certe
prevenzioni sovente inconciliabili con le condizioni
dell'oggi e del domani. Saper prevedere è attributo di
pochi ed isolati osservatori.
***
Dice l'antica saggezza: «Chi va piano va sano e va
lontano». Al dì d'oggi bisognerebbe dire: «Chi va piano
va sano e perde il treno».

166 Pagine inedite.

647
Dice l'antica saggezza: «Tutte le strade conducono a
Roma». La saggezza odierna avverte: «Sì, se sai
deciderti per una strada ed in quella perseverare».
***
«La parola è d'argento e il silenzio è d'oro». Vero
sempre! C'è molti saggi che per amor dell'oro
tesoreggiano l'argento della loro parola, e quando è l'ora
di gridar alto la verità si tacciono. È una forma di
avarizia anche questa, ed una delle peggiori. Ma è
decorosa, così che l'avaro di questa specie gode di
grande prestigio.
***
Quando il Signore ebbe creato gli animali li chiamò
per distribuir loro la coda. Quanto te ne occorre? chiese
alla volpe – e quella: Cinque braccia a dir poco. E se
n'ebbe un braccio.
— Quanto ? – domandò alla lepre.
— Di una spanna mi contento! – E ne ebbe due dita.
— E tu ? – volle chiedere al ranocchio.
Ma il ranocchio, innamorato e pieno il capo di ideali,
se n'era ito a spasso con la sua bella e dovette farne
senza.
Da quel giorno le cose sono andate sempre allo stesso
modo.
***

648
Io vorrei che il Libero Pensiero mi lasciasse libero di
pensare ed anche di credere ciò che mi sembra credibile.
Cresciuto fuori di ogni Chiesa, educato al dispregio di
ogni dogma ed al culto della filosofia sperimentale, mi
secca che altri pretenda impormi dei nuovi dogmi
pseudo-scientifici, dedotti da qualche decennio di
osservazioni affrettate. Ammaestrato da Herbert
Spencer a considerare i limiti della scienza, rifiuto di
accettare come definitive le spiegazioni meccaniche che
mi si vogliono imporre sull'origine del mondo, le
spiegazioni chimiche dell'origine della vita. Domando
che mi si lasci meditare in pace lo spettacolo del cielo
stellato. Domando che mi si lasci meditare in pace fra le
tombe dei cimiteri. Non è troppo domandarlo in nome
del Libero Pensiero.
***
Nulla di più profondo che la sentenza di Amleto,
essere tante cose sulla terra e nei cieli che la nostra
filosofia ignora. Che sapevasi or sono 150 anni
dell'elettricità? Che sapevamo 50 anni or sono delle
ondulazioni, della materia radiante? Che sappiamo di
positivo sulla telepatia, sulla trasmissione del pensiero?
Ora quando vedo uno scienziato sbucare dal suo
laboratorio con un matraccio in mano e dire: io ho
trovato che tutto quanto l'umanità ha tenuto per certo a
traverso i secoli è stoltezza, subito mi domando quando
verrà un altro scienziato che qualifichi lui per uno stolto.

649
***
Un vecchio scienziato libero pensatore mi scrive:
quando uno studioso dice: io non sento alcun bisogno di
una credenza è come se dicesse alla turba: «io ho
mangiato bene, dunque voi non avete fame».
Sì, le turbe hanno fame di nutrimento etico ed
estetico, e lo cercano in chiesa dove è offerto
gratuitamente. Per consigliarle di astenersene bisogna
poterne offrire uno migliore. Tanto varrebbe consigliarli
di non mangiare patate e polenta perchè nutriscono
meglio le bistecche.
***
Il fenomeno religioso è costante nel tempo, generale
nello spazio, se anche la forma del culto e le astruserie
dei dogmi sieno diverse e mutevoli. Scientemente ciò
vuol dire che il sentimento religioso è in sè medesimo
naturale e che una religione non può essere sostituita
che da un'altra più evoluta. Il concetto asiatico di una
religione dei dotti, che ebbe qualche seguace fra gli
enciclopedisti, merita di essere nominato ed è in ogni
caso più scientifico di quello di sostituire una credenza
con una negazione. Un valore puramente negativo non
può, comunque, prendere il posto di uno positivo.
***
Una politica che non tenga calcolo del sentimento
religioso, sia pure di una minoranza, non è riescita ad

650
alcun despota, si chiamasse Diocleziano, Giuliano,
Carlo Quinto, Filippo II, Napoleone o Bismarck.
Per figurarsi che si possa ignorarlo in una
democrazia, bisogna essere superlativamente dotati di
quella singolare facoltà degli uomini di non vedere
quello che vedere non vogliono.
***
Il determinismo puro e semplice, si confessi esso
materialista o si trucchi in qualsiasi veste, conduce
logicamente al socialismo rivoluzionario, non al
liberalismo. Preferendo quel principio filosofico, il
radicalismo ha formato molti allievi, senza dubbio, ma
pronti a voltargli le spalle, e se si vuole, a fare un passo
più in là, appena vi trovino il tornaconto.
Se la propaganda liberale vuole differenziarsi da
quella socialista non ha che una cosa da fare pel
momento: parlare meno di diritti e più di doveri. Ma per
una più solida costruzione dei doveri bisognerà tornare
ad una filosofia più umana.
***
L'essenza del conflitto fra la scuola confessionale e la
scuola liberale non sta nella miserrima questione se in
iscuola si debba, sì o no, insegnare il catechismo. Sta
tutto nel poter conciliare due elementi che cozzano nella
nostra civiltà: la tradizione greco-romana (umanesimo)
e la tradizione cristiano-cattolica.

651
Se un accordo non è possibile, non c'è scampo, la
scuola sarà confessionale per i credenti e sarà
antireligiosa per gli altri.
È possibile qualche accordo? No, se ci poniamo sul
terreno della ragion pura, dell'astrazione. Sì, se ci
poniamo su quello della realtà storica, della ragion
pratica, della politica di governo.
***
Dal punto di vista della ragion pratica ha ragione Pio
Baroja. Teologi, socialisti, anarchici, comunisti, salutisti
e massoni hanno un bel costruire teorie etiche. In fatto,
le norme comuni del vivere sociale rimangono le stesse
per tutti e chi se ne diparte se ne pente.
Direi che l'evoluzione morale è così lenta che appena
ogni secolo vi porta qualche elemento nuovo e che ogni
tentativo di sovvertirlo ci deve essere sospetto.
Basi dell'etica moderna sono il cristianesimo, la
riforma, la controriforma, la rivoluzione francese, il
socialismo. La risultanza di questa forza s'impone ai
preti come ai massoni.
***
Regionalismo, campanilismo, particolarismo. Epiteti
giacobini in odio al principio naturale della concordanza
degli uomini con l'ambiente loro. Che è l'unitarismo
giacobino se non la sostituzione di un concetto «logico»
ed una realtà vivente?

652
La realtà è la differenziazione ambientale. Può ben
darsi che per un processo evolutivo qualsiasi, le
diversità ambientali scompaiano o si attenuino, ma
questo avviene solo per gradi e non sempre.
Particolarmente nell'agricoltura, e nei rapporti
dell'uomo con la terra, l'ambiente modifica tutto e
domina tutto. Voler prescrivere norme uniformi è
ignoranza e presunzione. (Vedi in H. Spencer, La
Giustizia, il diritto dell'uomo al proprio ambiente).
***
La logica non è mai un mezzo idoneo a raggiungere
da sola la verità. Può servire come l'immaginazione, ma
in minor grado di questa a dirigere le ricerche
sperimentali, ma non le può mai sostituire.
Il vero valore della logica sta nella sua grande
efficacia dimostrativa di una verità altrimenti
raggiunta. Fra due persone che conoscono la stessa cosa
ha una grande superiorità quella che la sappia
ordinatamente esporre, Hanno ragione quei trattatelli
scolastici che insegnano i procedimenti logici alla
maniera aristotelica come parte integrante della
rettorica.
***
Altrettanto è sicuro il miglior ragionamento logico in
quanto lo sieno le sue premesse. Ne consegue che le
scienze sperimentali potendo accertare le premesse
hanno poco bisogno della dialettica, mentre le discipline

653
morali e politiche per le quali ogni premessa è soggetta
a qualche riserva, se non è arbitraria del tutto, fanno un
uso abbondante della dialettica, ma in tal modo che
ognuno ragiona a modo suo per arrivare a conclusioni
diverse. Ciò si osserva particolarmente in politica.
Fortunatamente le cose hanno una loro logica
particolare la quale si burla della nostra e delle nostre.
Ma ci accorgiamo del concatenamento logico degli
avvenimenti quando sono ormai compiuti.
***
Non mi sembra sieno state sufficientemente avvertite
certe affinità fra la pedagogia e la politica. La prima si
fonda più sulla psicologia individuale: la seconda sulla
psicologia collettiva; ma vi sono analogie stupende fra
l'anima dei fanciulli e quella delle masse. L'uomo
politico, nel senso superiore della parola, non è che un
educatore di popoli.
Persino nei procedimenti didattici c'è somiglianza fra
l'una e l'altra cosa. Il metodo intuitivo, buono pel
docente, lo è del paro per il giornalista o il deputato. Il
metodo dogmatico, o catechetico, serve di schiva fatica
a ognun d'essi.
***
Erra profondamente chi crede che la potenza della
Chiesa cattolica, e d'ogni altra religione, consista nel
prestigio dei suoi dogmi. La maggior parte dei credenti

654
e praticanti si occupa assai poco dei dogmi e li conosce
poco e male.
La forza delle religioni sta tutta nella loro esperienza
dell'animo umano. La stessa elaborazione dei differenti
dogmi, lunga e laboriosa, sembra essere determinata da
cure particolari, secondo le condizioni dei tempi, per
tenere raccolte le anime dei credenti e volgerle ad un
fine. È disumano cercarne sempre un fine disonesto,
antisociale: per lo più l'intenzione era giustificabile,
sovente buona e generosa, anche se chi agiva era un
vescovo, un pontefice, un concilio.
***
È facile comprendere perchè gli uomini si ostinino
tanto nei loro pregiudizi e preconcetti.

Poichè le cose stanno in un eterno divenire, e la


conoscenza delle stesse è relativa, e soggetta a infinite
rettifiche, l'uomo deve o rinunziare a pensare o
attaccarsi a quelle date nozioni che con fatica ha potuto
trarre insieme. Difendere le sue idee ricevute come
difende il suo capitale, per non doverlo rifare o starne
senza.
Ma c'è la grande categoria di coloro che sono
interessati a che i preconcetti dei loro amici non
cambino, perchè avrebbero danno del cambiamento, e
c'è molti ancora che hanno bisogno che non cambino i
preconcetti dei loro avversari, per non dover modificare,
direi, il loro piano strategico.

655
Perciò la maggior parte delle contese umane si basa
sul falso.
***
Non basta che la civiltà apporti agli uomini delle
ricchezze, degli agi, dei godimenti materiali e spirituali.
Essa dovrebbe poter dar loro, insieme con il maggior
godimento della vita, una maggior tolleranza dei propri
mali, un maggior amore pei suoi simili.
È quello che la nostra civiltà occidentale non sa fare.
Al contrario essa opera in senso opposto. Per un
appetito che soddisfa ne suscita due. Educa alla
insofferenza, all'esosità, al nervosismo.
Per lenire e sopprimere il dolore fisico ha ben trovato
dei mezzi miracolosi di anestesia: ma pel dolore morale,
cosa? Il morfinismo, forse?
***
Hanno scoperto, nella Rhodesia, un nuovo cranio, o
scheletro d'uomo primitivo, che dovrebbe risalire a 100
mila anni fa. Già ricomincia, un po' più circospetta di
prima, la grande polemica sull'origine scimiana
dell'umanità. Ebbene, supponiamo che questa venga
perfettamente dimostrata. Che per ciò? St. Agostino, S.
Tomaso avevano già revocato in dubbio se tutto ciò che
la Bibbiaa racconta sulla creazione sia da prendersi alla
lettera. Leone XIII e Pio X hanno già risposto che no.
Solo la verità morale che le scritture contengono è
rivelazione: il resto è trama del racconto. D'altra parte

656
Mazzini ci insegna che la rivelazione di Dio è continua.
Egli si manifesta ai popoli secondo il loro grado di
sviluppo. Allora questa rivelazione può ben essere
cominciata dal pitecoide ed essere ancora aperta ed
identificarsi con lo Spirito Santo...
***
Santa Bottega fu definita la Chiesa cattolica, e ne ha
tutte le apparenze. Va bene. Ma e coloro che vivono
dello sfruttamento della nuova fede socialista
insegnando dogmi a cui essi non credono, o credonvi
fino a nuovo ordine? Ma e tutta la tribù dei giornalisti,
dei deputati e simili, che sfruttano un partito e sono
secondo la convenienza nazionalisti, internazionalisti,
protezionisti, liberisti o radicali, tutti cotestoro, dico,
che fanno di diverso dei preti bottegai?
***
Fu ieri di notte. Due automobili lanciate a grande
velocità s'incontrarono. Si erano scorte entrambe a
molta distanza: cercarono di evitarsi, ma per la falsa
manovra d'una d'esse, andarono proprio ad investirsi sul
margine di una piazza larghissima. Come fu?
Ambedue gli autisti dichiarano essere stati abbagliati
dalla luce eccessiva dei fanali dell'altro.
Già... la luce eccessiva che abbaglia e l'investimento.
Credo non succeda solo alle automobili.
***

657
Era Romeo Manzoni all'estremo delle sue sofferenze
fisiche e morali. Sentiva la morte venire mentre la vita
intellettuale ardeva in lui nella massima intensità. Un
giorno mi disse, dopo aver aspirato molto ossigeno
dall'apparecchio: Vedi, io filosofo e stoico dovrei metter
fine a questa mia tragedia e saprei bene come fare!
Perchè non obbedisco al dettame della mia mente? Devo
confessarlo: malgrado noi, c'è in noi un fondo di
cristianesimo.
La cristianità ci contorna e ci tiene. L'abbiamo
succhiata nel latte, l'abbiamo aspirata nelle lettere,
nell'arte, nella vita quotidiana. La nostra vittoria sarà
quella dei nostri pronipoti: intanto la serviamo, a nostro
malgrado.
***
Virgilio Rossel, se non erro, dice in uno dei suoi
scritti parlando a nome degli scrittori d'ogni grado,
uomini pubblici ed educatori. «Nous avons tous charge
d'êmes». Non si poteva dir meglio. Tutti coloro che sono
letti ed ascoltati da altri che ci fanno caso, sono tutti in
cura d'anime. I giornalisti più di tutti dovrebbero sentire
l'immensa responsabilità che pesa su di loro, per la loro
opera effimera. Ma che dire di coloro che avendo un
grande ingegno artistico o letterario possono con un
libro, con un capitolo, con una frase, avvelenare l'anima
di una generazione?
«Se il tuo occhio dà scandalo al tuo prossimo
strappalo!».

658
***
Il concetto di religione nel senso etimologico della
parola, è legame fra gli uomini. È la prima elementare
affermazione di principio sociale del consorzio civile.
Ecco ciò che dell'idea religiosa deve essere conservato.
L'epoca presente non parla agli uomini che di diritti;
dopo l'affermazione dei diritti individuali venne quella
dei diritti nazionali, poi dei diritti di classe. Di doveri
chi parla? Di subordinazione del singolo al bene di tutti
chi ragiona? Appena se si riconosca il dovere del
servizio militare e quello anche più popolare del pagare
le imposte. Forte cemento per una società!
Quanta sapienza pratica nell'esercizio della spontanea
rinuncia ad un desiderio, come omaggio ad un ordine
superiore, transumano! Peccato che sia clericale!... o
meglio che così si possa chiamare.
***
La ragione dell'incapacità in cui si trovarono i
socialisti durante la guerra, e dopo la guerra, di
realizzare alcun serio risultato, malgrado le migliori
congiunture, consiste tutta in ciò, ch'essi da mezzo
secolo non avevano fatto altro che negare ogni dovere,
esautorando ogni valore morale. Crebbero così una
generazione di egoisti, di declamatori, di odiatori,
incapaci di grandi sacrifici e di nobili sentimenti.

659
Hanno tanto convinto le masse che c'è una sola
questione, quella del ventre, che quando si trattò di farsi
fare un buco nel ventre hanno voltato le terga a pochi
fascisti.
***
Forse il secreto del facile successo del fascismo
consiste tutto nell'aver esso saputo riaffermare con
estrema energia i valori morali, mettendo in prima linea
la patria. È credibile che l'organismo sociale ne sentisse
ormai un bisogno imperioso, cosi che del fascismo ha
accettato tutto in blocco senza discutere, senza
distinguere.
Una nazione che aveva avuto mezzo milione di morti
doveva pur essere disposta a credere che non fossero
proprio morti da minchioni, senza scopo o per uno
scopo ignobile!...
***
È umano che i poveri rimproverino ai ricchi la loro
superbia; umano che i mediocri d'ingegno s'adontino
della preponderanza dell'ingegno altrui. È odioso che i
ricchi rinfaccino ai poveri la loro miseria. Ma perchè
dunque dovrebbe essere concesso ai ricchi d'ingegno di
spregiare i mediocri per la loro mediocrità?
La bontà e la rettitudine in chi è povero di beni
d'intelletto, o d'istruzione, dovrebbe essere argomento di
ammirazione per i filosofi.
Conosco una specie particolare di ignoranti.

660
Quelli che in luogo di una parola sono sempre pronti
a trovarne due o tre, oltre a una dozzina di tropi e di
traslati, per dire la stessa cosa, ma che della cosa stessa
ignorano l'essenza e la qualità.
***
Ho letto negli ultimi tempi diversi scritti filosofici
francesi intenti a dimostrare che la creazione,
l'evoluzione, la vita organica, ecc., non hanno e non
possono avere nessuna coscienza di sè, nessuna finalità.
Il semplice concetto di finalità mette in furore gli
pseudo positivisti, così che ingiuriano Socrate, Platone e
perfino Bacone, trattandoli di pazzi e d'idioti.
Sarebbe interessante di sapere se fra i pitocchi non ci
fu mai contesa per sapere se il cranio dell'uomo contiene
soltanto materia od anche un'anima, e se quella materia
sia cosciente di sè, o sia del tutto incosciente.

SULLA DEMOCRAZIA
Il sistema democratico sembra inseparabile dal
pericolo delle fazioni. Ciò è risaputo. Ma sembra essere
confermato dagli ultimi eventi che la fazione diventa
potente e travolgente solo quando lo Stato è in
discredito e i cittadini hanno maggior fiducia nella
fazione che nel Governo. Così è ora in Italia (fascismo),
così fu in Isvizzera al tempo dei Corpi franchi. È a
questa condizione che a un partito riesce utilmente una

661
rivoluzione. La rivoluzione è riescita solo quando la
fazione trionfante ha ricostituito la fiducia nello Stato.

IL MIO STILE
Mi rimproverate l'asprezza delle mie polemiche, la
durezza di certi miei giudizi, di molte mie parole.
Mi rimproverate certe mie tendenze alle vedute
d'assieme, ai confronti, ai contrasti, all'analisi dei
particolari sfocianti in temerarie generalizzazioni!...
Mi rinfacciate una certa smania di guardare in alto,
che prendete per una tendenza al misticismo...
Tanto varrebbe rimproverare al Simano di essere alto,
erto, aspro, duro, tagliente...
Tanto varrebbe rimproverare di essere largo, verde e
ridente a quell'arco di terra verde popolato di villaggi
antichi che va dal monte Erra alle cime di Gorda e
digrada dolcemente al fiume del quale per romanticismo
mi fu dato il nome.
Tanto varrebbe rimproverare al cielo di Blenio
d'essere luminoso ed alla mia valle d'essere dedicata al
Sole.
Io sono come sono. Da Corzoneso ad Aquila i nomi
del mio paese hanno assonanze classiche. La pietra
simanita è primitiva, è di una classe che nessun
tagliapietra ha mai potuto levigare.

PARADOXA
I.

662
Il ne faut pas trop nous chagriner à cause de nos
enfants. Riches ou pauvres, doctes ou indoctes, il n'en
seront ni plus sages ni plus heureux... Et si l'humanité
entière était parvenue au bout de son essort, si la
décadence doit commencer, voilà, ce sera comme quand
le blé est mûr; sa paille se sèche, et cela est bien. (24
juillet 1915, après une année de guerre).
II
La somma del dolore umano è irriducibile. Il così
detto progresso, diciamo meglio, la scienza e
l'educazione, possono lenire le cause di sofferenza,
attenuarle e fors'anche sopprimerle, ma quasi
automaticamente ne sorgono altre al posto di quelle,
come le malattie nuove in luogo delle antiche, e la
sensibilità si acuisce a misura che si attutiscono gli
stimoli dolorosi. Tutto conduce anzi a credere che col
raffinarsi della vita la sofferenza sia sempre maggiore,
come maggiore dev'essere nell'uomo civile che nella
spugna, nell'invertebrato che nell'albero.
III
Le accuse collettive offendono tutti e non correggono
alcuno. Ciò si può osservare ogni giorno nelle famiglie,
nei negozi privati, nei rapporti internazionali.
La imputazione di barbarie fatta collettivamente alla
Germania, anzi, a tutti i tedeschi, ha veramente
scattivato i tedeschi. Ciò è nell'ordine naturale.

663
Lo stesso si potrà dire delle imputazioni collettive che
i tedeschi muovono ad altrui.
IV
Le coeur a des raisons que la raison ne comprend
pas, disse Pascal. E pazienza se finisse lì. Ma come
volete che la Ragione possa ammettere ciò che non
comprende? Essa si argomenta allora di trovare cretine
ed idiote le ragioni del cuore, di metterle in ridicolo, di
attribuirle a impostura, a menzogna, a vigliaccheria.
Le quali cose considerando potete ritenere che una
persona intelligente e senza cuore finirà sempre per
stimare più le canaglie che i buoni ed avere la bontà
stessa in gran dispetto.
V
Le donne sono come le frutta.
Le più belle non sono mai le migliori.
VI
Quando la volpe dice di aver perduto i denti, è certo
che briga il posto di custode del pollaio.
I fatti più patenti nella storia dimostrano l'assoluta
infondatezza del nazionalismo culturale per tutto quanto
concerne le idee etiche dell'umanità coalizzata. Le fonti
della nostra morale, anche a non risalire oltre il
Decalogo, sono comuni a tutti i popoli d'oriente e
d'occidente, artici ed antartici. In realtà il Decalogo
sembra essere alla sua volta una sintesi dei concetti etici

664
di religioni e filosofie anteriori, ciò che (lungi
dall'infirmarla) conferma e aggrava la sua autorità.
Se ora si considera che la Bibbia, e Socrate e Platone,
e Aristotile con Pitagora e Archimede, e i padri della
Chiesa, e i Riformatori e gli Umanisti hanno professato
sentimenti comuni, espressi in tutte le lingue
dell'universo; se si pensa che anche l'estetica, anche
l'arte, anche la letteratura si sono espresse nel medesimo
latino fino quasi al principio del secolo scorso; se non si
dimentica che la stessa rivoluzione religiosa, detta la
Riforma, e la stessa Rivoluzione francese, così recente,
hanno inspirato pressapoco le medesime istituzioni
politiche all'Europa, agli Stati Uniti, all'Argentina,
all'Australia ed all'Africa meridionale; se queste verità
elementari non si rinnegano per partito preso, diventa
irragionevole il parlare di opposizione fra la coltura dei
piemontesi, dei francesi, dei renani e degli inglesi.

29 dic. 1928.

665
PARTE QUATTORDICESIMA

Poesia

Vocazione167 e168
167 Dal volumetto di versi: "Fiori alpini".
168 Fiori alpini, versi giovanili, pubblicati nel 1892
dall'editore Carlo Colombi di Bellinzona, con una notevole
prefazione di Alfredo Pioda.
Ecco in qual modo il Bertoni ne parla nella sua auto-
bibliografia, inedita e incompleta:
«....La serie di quei versi risaliva alle prime illusioni
dell'adolescenza...
Il carme: Vocazione è dedicato a Giovanni Anastasi, compagno
di scuola dell'autore.
...Nell'ode barbara di Vespero e nella pietosa elegia Nel
cimitero di Bellinzona, il di dei morti del 1889, in opposizione
alle analisi del sentimento religioso che allora erano non solo di
moda, ma quasi di precetto, riconducevo i riti e la loro origine
alla
«sacra del cadavere venerazion perenne»
cioè al culto dei morti».
Il volume di versi: Fiori alpini era stato preceduto da una
rivistina del medesimo titolo pubblicata come appendice letteraria

666
(all'amico G. A.)
Allor che vinta sulle sudate carte
Piego la fronte e assalemi in tra i pensier de l'arte
Lo sgomento del naufrago perso sul vasto mare
E parmi il mio pugnare – vano conato, allor

del quotidiano politico: La Riforma.


Ricordiamo che sotto il titolo: Strenna poetica ticinese il
Bertoni pubblicò, nel 1897-1898, due volumi di versi di autori
ticinesi.
Dalla prefazione al primo volume della Strenna, dettata dal
Bertoni, togliamo i passi che seguono:
«Perchè nessuno aveva raccolto, finora, l'idea di pubblicare
una Strenna poetica ticinese?
Per due buone ragioni. La prima è che il nostro paese viveva
da tanti anni sotto l'incubo della politica. L'acerbità della lotta era
tale che ci tenevamo separati in due campi eternamente avversi,
sempre sospettosi, sempre ringhiosi, sempre con l'arma al pugno.
Come poteva allignare schietto senso di poesia? Come potevano
gli uomini avvicinarsi, ed intraprendere una comune impresa che
richiede serenità grande di anima e di orizzonte?
Dicono che i generali delle guerricciuole dell'America del Sud,
quando s'avvicina il nemico comandino al loro drappello: Cara
feroz! Noi, quando qualcuno dei nostri faceva una birbonata
artistica (e n'ho fatto parecchie anch'io) per solidarietà di partito
gridavamo: bravo!, ma se correva voce che ci fosse qualche cosa
di buono dall'altra parte, lo spirito settario c'imponeva subito di
far la ciera brusca. Cara feroz!
Queste condizioni sono cessate? Cessate affatto, no, ma sono
diminuite di molto (non per virtù nostra, ma per virtù delle cose).
Si comincia ad avvicinarci, a conoscerci, ad apprezzarci, anche
attraverso quella tal siepe. Avvicinati che siamo, arriviamo

667
Vola il mio spirto e adagiasi nelle memorie prime
Quando Lugano accolsemi fanciullo, ed alle opime
Sponde la 've sorridono le fate incantatrici
E il lago e le pendici – veston d'eterni fior.

talvolta a poter parlare filosoficamente della patria nostra, delle


sue miserie, delle piccinerie della vita politica, e persino a ridere
dei nostri rispettivi errori. C'est le commencement de la sagesse!
L'altra buona ragione e che non si sarebbe facilmente trovato
l'editore.
Pour faire un livre, ami lecteur,
Il faut avantout un auteur,
cantava il vecchio e simpatico Marc-Monnier, ma
L'editeur, fût-il Hachette
S'il veut dîner à la fourchette
Doit avoir un acheteur.
E bisognava trovare tutti i compratori di qua dalla siepe: di là
sarebbe stato difficile contarne un centinaio.
I miei editori ebbero il coraggio di dirmi di sì, ed io li ammiro.
Li ammiro ancor più che i versi della Strenna.
[Il primo volume della Strenna uscì, coi tipi dello Stabilimento d'arti
grafiche Carlo Colombi di Bellinzona, nel 1897: il secondo, sempre coi tipi del
Colombi, nel 1898. La preparazione dei due volumi venne curata da Brenno
Bertoni.
La Strenna pubblicò versi di Alfredo Pioda, Rina Viglezio-Vanoni,
Francesco Chiesa, Giov. B. Buzzi, Eligio, Daniele e Giuseppe Pometta,
Cesare Mola, Giovanni Anastasi, Gino da Porta (prof. Luigi Bazzi), Angelo
Nessi, Brenno e Luigi Bertoni, Carlo Bianchetti, Lucio Mari, Angiolo
Cabrini, Serafino Biondi, Mons. Angelo Abbondio, Guglielmo
Camponovo, Martino Giorgetti e canonico Pietro Vegezzi, poeti allora
viventi, e riesumò versi dell'abate Riva (Rosmano Lapiteio), vissuto verso la

668
E te rivedo o placido antico, te che il cuore
Apristi al condiscepolo ch'iva cercando amore
Solo fra tanti estranei, qual pellegrin la via,
E la tua madre pia – e il tuo gradito ostel.

Quelli eran giorni! Unanimi, un reggimento intiero


D'alunni savi e discoli, con ardimento fiero
Noi uscivamo impavidi incontro all'avvenire
Colle più ingenue mire – nel vergin cervel.

E sognavam dovizie, onor, potenza, affetti;


Primo pensier la patria; l'arte, la scienza, retti
Della virtude i tramiti, e là lontan lontano
Sull'orizzonte umano – una vision d'amor.

Il reggimento impubere ha fatto strada. Quanti


Baciato han già la polvere gridando: Avanti, avanti!

fine del secolo XVIII, di Angelo Somazzi, Sebastiano Beroldingen, Plinio


Bolla, Bartolomeo Varenna e Paolo Pellanda.]
Il pubblico dirà se hanno avuto buon naso!
Che cosa dirà il colto pubblico vedendo comparire a braccetto
i due vecchi avversari politici Somazzi e Beroldingen? Vedendo
affratellati nel medesimo volume Carlo Bianchetti e Gino da
Porta, i fratelli Pometta e Francesco Chiesa?
Da questo contegno del pubblico dipenderanno le sorti presenti
e future della Strenna. Gli editori hanno sperato, ed io con loro
che il pubblico saprà apprezzare l'alto valore del principio: In
arte libertas, ed appoggerà la pubblicazione della Strenna,
comperandola, non fosse altro che per il futuro bene che se ne
può presagire...».

669
Quanti feriti, ahi miseri! quanti vigliacchi han volto!
Quanti gli allori han colto – del bellico sudor!

Non io fra quelli. Un impeto sentii nell'arso petto


Fin dai prim'anni, un fremito per entro l'intelletto
Condurmi alle battaglie, ma per diverso calle;
Sdegnai la bassa valle, – e volsi al monte i piè.

Dure cotenne e gelidi venti han le bianche cime.


Ignora il vulgo stolido la voluttà sublime
Dell'alte solitudini e dei muti perigli;
Di volpi e di conigli – là pascolo non è.

Ed anelando ai vertici bianchi, agli azzurri cieli


Travaglio il fianco giovane ne l'aspra pugna. I steli
Dispaion delle primule, mentre l'armeria appare,
Vede l'immenso mare, – ma non la cima ancor.

E disperando vincere la temeraria impresa


Ristò talor, m'accascio, la vista in giù protesa
E rivedo le floride aiuole ed i vigneti
Ed i simposii lieti – e il trionfante amor.

Oh! voi felici, giovani, con me alla pugna usciti!


Le vostre tempie il lauro cinge; pei vostri liti
Una canzon di gioia risuona, il nappo intorno
Vi rasserena il giorno, – che nell'amor s'aprì.

670
Ahi! ma per questo lauro colto da facil pianta,
Voi rinnegaste, o giovani, quell'ambizione santa...
Primo pensier la patria, l'arte, la scienza, il vero...
E il labbro lusinghiero – voti a l'errore offrì!

Più non son stanco. Impavido, torno a pugnar col


monte
I ghiacci han dure cotiche, ma han sereno il fronte!
Sotto il piè audace suonano percosse le morene,
Ne le rïarse vene, – mi freme alto un desir.

Lassù non sono placide aiuole e mirti e fiori,


Lassù a fiaccare gli animi non sono i molli amori,
Lassù voglio configgere questo vessillo mio
In fra la terra e Dio, – «e stanco ivi perir».

671
Vespero

(ode barbara)
Tintinnan con dolci rintocchi de l'avide muche
Le campanelle da la nota argentea.
Con strani solfeggi di voce le brune villane
Chiaman le muche nelle stalle tepide.
Il sole di giugno su l'alta montagna declina
Pallido inerte fra i vaganti cumuli;
Di fresco caduta la neve sui monti disegna
Dei vegetanti l'alto estremo limite.
Il rezzo le nevi han portato. Di fuor colle forche
Mal secco il fien, dei prati a mucchi adunano:
Risuonan da lunge percosse da l'aspro martello
Le molli tempre delle falci lucide,
Ed ecco la vita agitarsi per tutta la valle
Feconda a questa umana schiatta e fervere.
Io nel verde adagiato de' muschi com'agile biscia
A l'ombra dei castani alti e dei frassini
Sto bocconi col bianco libretto davanti e fo versi
Che vo tracciando lento sulle pagine.

672
Olezzanti d'attorno sui muschi le spighe pendenti
E bianche d'un'ignota graminacea;
Leni rombar più oltre i boschetti di corili nani
E d'olmi e sorbi e d'olezzanti frutici.
E domando argomento di carmi alla bella natura,
Fiorente Musa il paesaggio invoco.
Queta l'aura. Varcato già il sole a le spalle del monte,
Ed ecco i nimbi in ciel velare i cumuli.
Come dolce la sera! I fringuelli ed i tordi invisibili
In coro piangon la morente luce!...
Ed io chiedo pur sempre pensieri a la bella natura,
La Musa invoco da la verde chioma.
Pieno è il bosco di versi che attendon la man del poeta
Per inchiodarli sulla carta pallida;
Ahimè, vate io non son! Misteriosi gli alati pensieri
La ridda fanno ed in cadenza cantano
A me intorno: ma sordo l'orecchio pur non li comprende:
Le Grazie a me non son propizie. Io medito.

Settembre 1887.

(Da: "Fiori alpini").

673
Bolle di sapone

Nella soffitta povera, irraggiata


Dal sol di maggio, galleggiante fuori
Da un rosso mar di tegole, acciecata
Da un balenïo di luce e di colori
Siede la bella filatrice stanca.
Al filatoio abbandonò la rocca;
Come mughetto la sua guancia è bianca,
È d'oro il crin, garofano la bocca.
Ha impallidito. Un brivido le corse
Le fibre delicate; ecco un sospiro
Incosciente dall'imo animo sorse;
Seguono gli occhi qualche arcan desiro;
Un desiderio strano, inavvertito...
E fissa il guardo verso il ciel lontano
E le sembra aleggiar nell'infinito,
Sente un soffio alitar di transumano.
Bianche greggi le nuvole passanti
Velan l'azzurro dell'eternità.
Passan le nubi effimere, cangianti:
L'eterno azzurro senza fine sta.

674
Sotto la finestrella, ad un balcone
Un ragazzino nel bicchier intinge
Una cannuccia, e in bolle di sapone
Paziente, un fiato e un'anima costringe.
Ad ogni bolla che il ragazzo esprime
Di fratellini lieto applaude un riso
E l'anima infantil brilla, sublime
Come un riflesso del Divin sorriso.
Passa la folla nella via fangosa,
Passa incessante, ansiosa, affaccendata;
Grida il ragazzo che una prodigiosa
Bolla, leggera, all'aura ha licenziata.
Sale la bolla in un ondeggiamento
D'amore e di pudor cercando il Sole
E a la vergin gentil, nel rapimento,
Appar la vaga iridescente mole...
Appare e al bacio dell'amante scoppia:
Corre a la bella entr'ogni vena un gel;
Il ragazzino il suo lavor raddoppia;
La filatrice più non guarda il ciel.

Aprile 1891.

(Da: "Fiori alpini").

675
Alpenglühen

(Luce zodiacale)
Redimito dalle gelide
Nebbie assorga all'orizzonte
Radïante e mite il Sol;
Torni ai paschi opimi il gregge
Il pastore alla sua fonte
Ed al bosco il rusignuol;
Tornin l'albe onde incoronasi
Alta in mezzo a un mar di cime
De' ghiacciai la maestà
E il camoscio ai greppi aërei
A sfoggiar, re del sublime,
La sua gaia agilità.
Il meriggio ancor d'effluvii
Rieda un alito alle erbette
Odorose ad insidiar,
E a ruggir tremendo il turbine
Mentre guizzan le saette
Le montagne a flagellar.

676
Ma se ansioso torna l'esule
Al tripudio de suoi monti,
Altro chiede il cuore anel.
Egli vuol la luce gemmea
Via diffusa dai tramonti
Per gli spazi ampi del ciel.
Egli vuole il Sole che adagiasi
Fra le porpore e le rose
Quando stanco muore il dì
E il mortal che tanto affannasi
Il pensier volge alle cose
Che non muoiono così.
Vuole il Sol che ai campi eterei
Manda un raggio ed un saluto
Manda un lungo bacio ancor...
E quei baci al mondo svelano
Il mister dell'Assoluto
Il divino Eterno Amor.

(Da: "Fiori alpini").

677
Miraggio

Deh! non diserta il fervido


Cuor che t'accolse nella verde età,
Deh! non sfuggirmi o splendida
Vision suprema d'idëalità.
Non senza causa l'arabo
Silente, anelo pel deserto pian
Vede di palme un'óasi
E d'ombre fresche un vagheggiar lontan
Non è lusinga. Al termine
De l'orizzonte, de l'Atlante ai piè
La carovana giungere
Spettan le donne con sicura fè;
Spettan ridenti i parvoli,
Le mense, l'are ed i promessi amor...
L'óasi è questa. O reduce,
Dolce lusinga resse il tuo vigor.
Su l'arse arene giacquero
Taluni. È fato. Forse anch'io cadrò.
Ma finchè all'uman genere
Un'óasi rida, la benedirò.

678
Deh! non deserta il fervido
Cuor che t'accolse nella verde età.
Deh! non sfuggirmi o splendida
Vision d'amore e d'idealità.

Gennaio 1892.

(Da: "Fiori alpini").

679
Alla mia bambina

No, poeta non son perchè nel verso


Martellinando una sottile idea
Ne traggo un suono armonïoso e terso
Che molce i sensi e l'anima ricrea.

No, questo affaticar lungo e diverso


La nostr'alma non è che sente e crea;
È un penoso evocar l'eco disperso
In noi, di morta erudizion febea.

Ma poëta sei tu, cara bambina,


Che ai poggi, al cielo, alla campagna stendi
Chiamante e lieta l'infantil manina.

Sorridi amica ad ogni cosa bella


E par che grata a te che la comprendi
Ti risponda dal ciel la rondinella.

Maggio 1892.

(Da: "Fiori alpini").

680
Lago di Neuchàtel

Largo si stende a l'orizzonte (e pare


Che un vel di nebbia lo ricopra) il lago;
Col grigio cielo si confonde e un mare
sembra. Riflette l'ammorzata imago
D'incerte sponde e come cose arcane
Lumeggian l'alpi tra i vapor, lontane.
Grigio cielo del Giura ove ti vidi
Già pria d'ora? Fu un sogno? Od è un ricordo
Di vissuta vision che ai dolci lidi
Paterni un velo impose ed un accordo
Cercò fra il ciel troppo sereno e il triste
Fato? Brume giuresi unque vi ho viste!...

Marzo 1902.
(inedita)

681
Impressioni di viaggio

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dai colli di Turingia irti di abeti
Mi salutan passante i bei castelli.
«Sarien degni di Lei» penso. Dai lieti
Campi della Bavaria agili e snelli
Da l'ombra de' foltissimi querceti
Balzanmi incontro i campanili. In quelli
Ignoti luoghi, pago d'un'aiuola
Vorrei vivere teco e per te sola.

27 aprile 1907
(inedita)

682
Per un album

Quand'eri piccina piccina


Veniva alla tua bianca casetta
Lo zio già vecchio già vecchio
(Così ti pareva), o bambina.
Sedeva vicino a mammetta,
Prendevati sopra i ginocchi
E tu ch'eri mesta e soletta
Ridevi col pianto negli occhi.
Ridevi d'un dolce sorriso,
Tacevi, tacevi e guardavi
Con gli occhi soavi soavi,
Que' baffi già bianchi in quel viso.
Mammetta diceva: È da meno
Già prima d'avere vissuto;
Già quando l'avevo nel seno
Patì del mio sogno perduto;
Soffrì del materno soffrire,
Succhiò col mio latte ogni pena;
Mai vide la gioia serena
Sul labbro materno fiorire!...

683
Fanciulla, quel tempo è lontano;
Adesso t'arride la vita.
Ma sai? la mia vita è finita.
Che farci? Ciò è giusto ed umano!
Sul volto solcato del vecchio
Svanisce qual fiato da specchio
Il riso del tempo vissuto,
La luce d'un sogno perduto.

Berna 1930.
(inedita)

684
Per finire

Cenando al "Grand Hôtel„

Dieci avventori: quattro camerieri.


Gli avventori si chiaman forestieri:
I camerieri paion sacerdoti:
I forestieri paiono i devoti.
Stanno in comune celebrando un rito
Lugubre, lento, contro l'appetito
La morte, un morbo od un altro malanno.
Un'atmosfera di temuto danno
Un silenzio d'angoscia par che domini
Come un fato su dame e gentiluomini.
Io sogno le mondelle e il vino amico
Sotto la cappa del camino antico!

Leponzio Simanita
(Inedita.)
(Uno degli pseudonimi di Brenno Bertoni).

685
PARTE QUINDICESIMA

Epistole ai "giovani giovanissimi" 169

I.
Sono lieto di cominciare la serie di queste epistole, da
gran tempo pensate e meditate, sotto gli auspici del
poeta Francesco Chiesa, rettore del Liceo, il quale pochi
giorni or sono dirigeva un ammonimento alla sua
scolaresca per l'apertura dell'anno scolastico.
Ammonimento nuovo e salutare che è un segno dei
tempi. «Ci fu un periodo una diecina di anni fa, che
rendeva l'immagine di un rasserenamento stabile e
profondo del cielo sopra la terra. Si pensava: ora la
guerra è ben finita: ora la forza del sole ha dissipato gli
ultimi nuvoloni della gran tempesta ed il mondo ha
rimarginato le sue ferite»... «poi rapidamente la visione
svanì. Il cielo si è rifatto oscuro; e la poca luce che filtra
dalle nubi ci lascia scorgere una terra null'affatto simile
ad un panorama dell'età dell'oro, e vie interrotte

169 Articoli usciti nel quotidiano di Bellinzona: «Il Dovere»,


dal 15 ottobre 1935 al gennaio 1936.

686
d'antichi e nuovi ostacoli, e barriere più che mai alte fra
genti e genti, e meno sicuro per tutti il domani, e più
difficile per tutti l'oggi».
Una diecina di anni fa il pessimista ero io, che già
dalle prime notizie sulla pace di Versaglia presagivo un
sinistro avvenire per l'Europa balcanizzata, presa fra la
minaccia russa e la protezione anche più pericolosa
dell'esotismo americano. Ma forse avevo torto io,
praticamente, anche se gli avvenimenti dovessero poscia
darmi ragione. Praticamente era forse meglio reggere
nella gioventù l'ottimismo, perchè l'ottimismo è
speranza e la speranza è l'ultima dea, ma pur sempre
dea.
Forse quegli che allora si manifestava ottimista, nella
sua qualità di poeta dissimulava la sua interna
inquietudine pensando, con Virgilio, che l'aspetto delle
cose può cambiare dall'uno all'altro istante e che il
tempo può sempre ricondurre le cose al meglio. Ciò non
impedisce che oggi, in tutto il mondo, sorgano accenti di
protesta della gioventù d'allora la quale si accorge
d'essere stata ingannata. Ciò non impedisce che oggi i
giovanissimi, i «meno di trent'anni» cerchino di imporre
ai meno giovani un diverso concetto della vita e
pubblica e privata.
La gioventù che aprì gli occhi della mente allo
scoppiare della guerra, o durante gli anni tumultuosi
della pace fino alla bonaccia di Locarno, può ben dire di
essere stata onninamente ingannata. Ingannata sulle
cause della guerra dall'una e dall'altra fronte. Ingannata
687
sugli scopi della guerra, ingannata sugli obbiettivi della
pace e sulle sue possibilità, ingannata persino sul valore
morale della vittoria.
L'inganno universale fu uno solo. Bisognava fare la
guerra perchè fosse l'ultima guerra; bisognava resistere
disperatamente, bisognava vincere a tutti i costi perchè
fosse l'ultima guerra. L'inganno particolare all'Intesa fu
che la pace era il trionfo della civiltà sulla barbarie,
della democrazia sul despotismo, del diritto sulla
iniquità, della generosità sulla mala fede. L'inganno
particolare ai Centrali fu ch'essi non furono vinti ma
traditi.
Durante la guerra era non solo necessario ma
doveroso nutricare lo spirito di resistenza. Se non
doveroso era largamente umano. Dopo l'armistizio
invece, l'eccitazione degli animi con gli alcaloidi
spirituali diventava delittuosa. Si comprende l'acquavite
prodigata a inebriare i soldati che dovevano lanciarsi
fuori dalle trincee; non si può perdonare l'ubriacatura
delle folle a mezzo delle eroine e degli stupefacenti
letterari.
Narra Saverio Nitti come in Inghilterra cadessero le
elezioni fra l'armistizio e la firma dei trattati. Al primo
ministro occorreva una grande maggioranza. Egli
promise al popolo inglese le più fantastiche
soddisfazioni (fare impiccare il Kaiser nella torre di
Londra) e le più fantastiche delle indennità (far pagare
dai tedeschi una larga pensione per i caduti, per tutti i
feriti, per tutti i combattenti, le loro vedove e i loro
688
figli). Applausi strepitosi! Votazioni plebiscitarie! Ma ci
credeva, lui?
In fatto di riparazioni i Francesi non potevano essere
posposti agli Inglesi; i Belgi neppure. Ne uscirono tali
pretese di riparazioni le cui cifre sorpassavano la
ricchezza imponibile, ricchezza mobile e immobile di
tutta la Germania dell'anteguerra ed anche tutta la
ricchezza imponibile della Francia e del Belgio messe
insieme. Ad aiutare la Germania a pagare queste somme
favolose le si tolsero tutte le colonie, tutto il naviglio e
la più gran parte del materiale ferroviario; le si chiusero
tutti gli sbocchi di esportazione verso i paesi slavi.
Rimase aperta ai tedeschi una sola via di scampo: la
Rivincita! Tutto ciò che c'era da pigliare se lo pigliò la
Gran Bretagna: alla Francia si lasciò la gloria: all'Italia
neppure quella!
La pace doveva essere un perenne monumento di
Giustizia.
Tale il preambolo del patto della S. d. N., ma con
cento sottintesi.
Bisognava anzitutto punire la Russia che aveva
tradito. Oggi si sa che fra i combattenti russi (Europei
ed Asiatici) non il cinque per cento sapeva perchè si
combattesse, nè contro chi nè con chi. Nondimeno
bisognava punire il popolo russo per tutte le generazioni
presenti, future e futuribili!
Bisognava anzitutto togliergli tutti gli accessi al mare.
Ucrania e Georgia dovevano sbarrargli il Mar Nero,
Lituania, Lettonia, Curlandia e Finlandia ecc. dovevano
689
bloccargli il mar Baltico. Solo porto aperto quello del
Pacifico, Wladiwostok, in bocca al lupo giapponese.
Oltre cento milioni di Russi posti fra i ghiacci, il
bolscevismo, la schiavitù e la morte ! Cose da
manicomio o da mercanti di petrolio ! Quei mercanti di
petrolio che d'allora in poi si contesero l'impero del
mondo compresa l'Abissinia, la Bolivia e il Paraguay.
Per punire la Germania si regalarono quattro milioni
di tedeschi alla Polonia oltre a cinque milioni di Ucraini
così che ne risultò una Polonia enorme come territorio,
paralitica come volontà. Per premiare la Serbia la si
ingrandì e la si gonfiò come la rana di Esopo.
In questo bailamme la gioventù ingenua ed entusiasta
fu ridotta a credere che la Società delle Nazioni avrebbe
garantito la pace perpetua nonchè universale; la classe
operaia si convinse della accertata inutilità delle spese
militari, col cui importo era ormai facile creare, sui due
piedi, le assicurazioni integrali contro le malattie, i
sinistri, la vecchiaia, la disoccupazione e la morte.
Ora si tratta di svegliare il mondo da questo incanto,
da questa visione come disse il Poeta.
II.
Anche nel tumulto di queste giornate elettorali,
cariche di invettive e di eccitamenti, «come la rena
quando il turbo spira»; anche nell'ansia di queste
settimane di guerra guerreggiata ma non dichiarata, di
queste sanzioni internazionali dichiarate ma non

690
effettuate; anche in questo incrudimento di odi vecchi e
nuovi e in questo dilagare di frasi fatte, logore come i
talleri di Maria Teresa, ma pur sempre buoni finchè ci
siano dei mercati che li accettano; può essere opportuno,
o giovani, ripigliar fiato pensando a ciò ch'è avvenuto
prima o può capitare poi, sognando ciò che voi potrete
fare.
Ciò ch'è avvenuto, l'ho detto e lo ripeto, è
l'avvelenamento degli spiriti e delle coscienze mediante
l'uso clinico e l'abuso mercantesco dei cento alcaloidi
spirituali che forse la scienza ha inventato ma che solo
la politica ha messo in commercio.
Stupefacenti ed eroine atti ad addormentare l'umano
dolore, ma che tosto si volgono all'ubriacatura della
coscienza e poscia, per reazione, alla eccitabilità dei
sensi offesi ed alle erotomanie. Quelle erotomanie
letterarie soprattutto che volgono l'amore in mania, fino
alla cecità dell'amor patrio, fino alla sovversione
dell'amor del prossimo in una sociale criminalità.
Ebbene sarà vostro compito, o giovani, di reagire
contro queste forme di follia collettiva, oppure voi
assisterete alla rivincita del mondo asiatico, alla rivolta
del mondo africano, all'apologia della barbarie ed al
profetato tramonto di quella civiltà umanistica
occidentale che, dalle crociate in poi, ha raccolto i
frammenti di tutte le anteriori civiltà mediterranee,
l'ebraica, l'ellenica, la latina e la cristiana; li ha
coordinati, li ha rifusi, li ha arricchiti dell'apporto
iberico-moresco, della mirabile sintesi compiutasi sul
691
dolce suolo di Francia con la fusione spirituale della
gente celtica, latina, bretone, franca, borgunda e
normanna; ha irrobustito questa civiltà nuova coi
conferimenti plurisecolari della severa Inghilterra, della
volitiva Germania, della stirpe ungarica e della boema e
con tutti questi elementi ha costituito quell'Europa che
dall'Alighieri fino ai riformatori, ai gesuiti, agli
illuministi, agli enciclopedisti, ai mazziniani, ha onorato
un Dio solo, ed ha filosofato in una sola lingua, il latino,
quale voce della religione e della cultura.
Uno scrittore italiano del tempo della guerra ha
paragonato un tale individuo al leggendario diluvio
biblico. Un umorista tedesco, pure del tempo della
guerra, ha raffigurato un deserto: nel mezzo del deserto
una palma: appiedi della palma due uomini, gli ultimi,
accanto alle loro spade con le quali si sono
reciprocamente trafitti: sulla palma due scimmie, tristi e
pensose, che dicono: e adesso si tratta di ricominciare!
Effetto degli alcaloidi anche questa fantasia?
Sarà! Ma a voi giovani tocca la magnifica impresa
della guerra di distruzione contro gli alcaloidi della
mente!
III.
Mi ero proposto, o giovani, di lasciar fuori da questa
mia serie gli argomenti di tutta fresca attualità, gli
episodi che chiamano l'attenzione dall'oggi al domani,
per attenermi a ciò che ha carattere costante; ma mi

692
accorgo che la vita ha le sue esigenze e che viviamo
appunto un periodo di ritmo precipitato. Sì, gli
avvenimenti precipitano, e noi possiamo metter da parte
il metodo accademico per seguire quello socratico. La
lezione di cose mentre le cose incalzano.
Oggi è la guerra d'Africa che incalza. Guerra
singolare, cominciata senza dichiarazione e che in poche
settimane ha già occupato buona parte del territorio
supposto nemico senza incontrare grandi resistenze.
Invasione accolta e quasi salutata come liberazione se è
lecito credere ai comunicati ufficiali, ma che fu non di
meno dichiarata aggressiva da un'autorità alquanto
discreditata ma pur sempre legittima comechè
convenzionalmente accettata.
L'avvenimento è scoppiato come fulmine a ciel
sereno fra le nazioni che non se l'aspettavano e che
ancora sembrano dubitarne. Fatto nuovo nella storia del
mondo, del quale nè G. B. Vico nè Montesquieu non
avrebbero creduto alla possibilità futura.
Per un momento la guerra parve lì lì per scoppiare fra
l'Italia e l'Inghilterra, ciò che ha potuto impressionare gli
amici dell'Italia. Che dico impressionare? Era cosa da
spaventare il mondo intiero. Oggi, dopo poche
settimane, lo spavento sembra scemato, senza che
alcuno possa essere rassicurato per due motivi; primo;
perchè in Inghilterra sono in corso le elezioni ed i capi
politici possono essere indotti (come accadde altre
volte) a prendere impegni pazzeschi; secondo perchè il
Regno Unito d'Inghilterra è anche metropoli di un
693
Impero britannico, il quale si estende alle cinque parti
del mondo, ed il suo corpo elettorale, dall'uomo della
strada fino all'accademico, può aver preso alla lettera
quella metafora altisonante che è l'universalità
dell'impero romano.
Anche in Italia la commozione fu grande, perchè il
governo si trovò a dover mobilitare non solo l'esercito
ma la coscienza nazionale che, ad onor del vero, reagì
come se l'Italia alla sua volta si sentisse aggredita
dall'Inghilterra e da tutte le nazioni chiamate ad
applicare le sanzioni. Febbre a 40 gradi di una nazione
preparata già da un decennio a vivere pericolosamente!
Di questa reazione italiana fa parte (dal nostro punto di
vista) anche la reazione inversa di fuorusciti venuta a
complicare la questione aggravandola dell'esplosivo
rettorico del tradimento...
In questo quadro scenico si svolge a Berna ed a
Ginevra l'azione diplomatica di Giuseppe Motta,
criticata con eccessiva precipitazione da chi non è in
condizioni da poter giudicarne nè la difficoltà nè le
conseguenze. La critica è tosto smorzata dal crescente
successo ottenuto dalla Svizzera a Ginevra contro due
correnti avverse e cozzanti.
Il signor Motta conosce gli ambienti ed i metodi della
Società delle Nazioni, la quale non è una Chiesa di
Santi, nè quella bolgia infernale che vorrebbe far
credere la propaganda radiofonica italiana. L'Abissinia,
ad opera dell'Italia stessa, od anche a suo malgrado, è
membro della Lega, e la Lega per poco che valga è
694
meglio che niente, soprattutto per i piccoli Stati come il
nostro. Motta non ignora i difetti dell'istituzione.
Secondo le sue stesse parole, i di lei principi «non sono
la predica della montagna» ma proprio in questi
frangenti possono essere una Provvidenza.
Intanto si è guadagnato tempo. Intanto la Provvidenza
ha assistito ad un'avanzata degli Italiani che nessuno
avrebbe supposto fortunata. Intanto le sottomissioni di
molti ras (principi dell'Impero nei sistema feudale) è
venuta ad infirmare la finzione giuridica della unità
dell'Impero ed a fornire la prova provata della sua
politica inconsistenza; intanto sono già occupati vasti
territori che in una futura pace, che avvenisse per
intervento di terzi, ben difficilmente potranno essere
negati all'Italia.
E intanto si afflosciano anche le sanzioni come risulta
dalle ultime comunicazioni (fino all'11 novembre) per
accordo della stessa Commissione dirigente!
Intanto si svolgono le elezioni inglesi e già sorgono
nella stessa Inghilterra autorevoli voci a raccomandare
una maggior comprensione della causa italiana in
Africa.
Riferisco dal Journal de Genève di martedì 12 corr.
sotto la rubrica A proposito del 17° anniversario
dell'armistizio, quanto segue:
«Evocando lunedì mattina il ricordo dell'armistizio e
delle sue attinenze con le cose attuali il «Times» scrive:
«Questo giorno di pace deve rendere più intenso il
compianto che l'Italia abbia preferito la via della guerra.
695
Se una maggioranza del suo popolo è pel momento
incapace di pensare in altro modo che quello che il suo
dittatore le insegna, ciò non può togliere che in Roma e
fuori di Roma una élite della popolazione possa
considerare la posizione attuale con grave inquietudine.
Si sa che la Gran Bretagna, con gli altri membri della
S. d. N., è disposta a riconoscere le giuste
rivendicazioni dell'Italia e che queste rivendicazioni
avrebbero potuto essere soddisfatte senza ricorrere alla
violenza... Giova sperare che degli Italiani
chiaroveggenti usino la loro influenza sul loro capo. La
risposta potrebbe essere più rapida che loro non
pensano...».
Dalle quali parole è lecito dedurre che l'opinione
britannica non contesta in principio il diritto dell'Italia
ad espandersi. Così non parla un vero nemico!
Intanto d'altra parte la stampa italiana è diventata
benevola verso la Svizzera e verso la sua politica
ginevrina.
IV.
O giovanissimi! Voi cui la passione e la pratica dei
diporti atletici (sports) ha insegnato la virtù della
temperanza, quali ubriacature avrebbero funestato la
vostra adolescenza quando negli anni ancor vicini
infieriva la guerra degli angeli e dei demoni!
Non quella cantata da Milton nel Paradiso Perduto,
ma quella che nessun poeta canterà mai perchè mancò

696
d'ogni bellezza, la guerra del quattordici al diciotto,
combattuta con le mitragliatrici, coi tanks, coi velivoli e
colle sacrosante bugie a getto continuo
Tutto fu bugia in quella guerra ! Bugie sulle sue
origini, bugie sulle sue cause e sulle responsabilità di
chi vi ebbe parte. Ma poichè l'anima umana ha pure,
come il corpo, le sue cellule fagociti che la difendono
contro le infezioni, si fece largo ricorso agli alcaloidi
velenosi che distruggono ogni forza di resistenza con
un'ebbrezza simile a quella della cocaina.
Nelle allucinazioni di quelle ebbrezze gli uomini
apparvero sotto le forme traslative di angeli bianchi e di
diavoli neri. Da Berlino, dove da anni, e da generazioni,
l'avvelenamento era preparato, apparvero diavoli i
francesi, gli inglesi, gli italiani ed alla fine più che altri
gli americani. La folla e le scuole ne furono eccitate fino
al delirio. A Parigi, a Londra ed a Roma erano diavoli
neri, colla coda e le corna, i tedeschi, i bulgari, i turchi.
Un professore francese, dopo aver dimostrato la
inguaribile stupidità dei tedeschi, le cui invenzioni nel
campo scientifico e le cui elucubrazioni filosofiche non
furono mai altro che plagi, evocava il ricordo lontano
della civiltà ellenico-micenico-cretese di quattromila
anni or sono, civiltà distrutta dai dorii: «et bien»,
concludeva: «qu'est ce que c'était que les doriens?
C'étaient des boches!».
La Francia e l'Italia erano le sorelle latine. Neppure
era noverata fra le sorelle la Spagna, che ignobilmente si

697
teneva neutra; per contro era sorella adottiva la nobile
Inghilterra, madre della democrazia!
Quanti anni sono passati da quei delirii? Adesso son
barbari gli inglesi e fra poco vedremo come lo siano
poco meno i francesi (se seguono la voce dell'alverniese
Laval!) Barbara tutta l'Europa! Ed avrà ragione quello
scrittore italiano dal nome croato che scrisse il volume
L'Italia contro l'Europa.
La demenza dell'occidente aveva già accennato i suoi
caratteri specifici fin dalla metà dell'ottocento, col
razzismo etnografico. La Germania, dopo aver pensato e
scritto in latino per quattro secoli si accorse di essere
ariana (bisognerebbe dire àrica per evitare
un'omonimia), ed essere àrica ogni civiltà d'occidente,
portata in Europa dai «nobili aria padri» dei quali i
tedeschi sono i nobili discendenti, i soli non imbastarditi
dal sangue semita, etrusco o fenicio...
D'anno in anno il delirio etnico si accese. Si tornò per
via scientifica alla eresia di Manès, a quel manicheismo
che sostenne la doppia natura dell'anima umana,
dipendente dai due principi del bene e del male (come
nella religione persiana da Ormuz ed Ahrimane). Oggi
un giovane germanico, rispettivamente un giovane
latino crede se stesso, crede la sua nazione, ispirata dal
Signore ed ogni altra dal diavolo, e quel dolce Signore
gli comanda d'ammazzare i nemici della sua stirpe.
Il dualismo manicheo ebbe un fiero nemico in
Sant'Antonio da Milano che ricondusse il suo vasto
dominio alla unità religiosa di fronte all'ariano
698
Teodorico da Verona, re dei goti. Oggi ci si può
domandare se non è ancora dalla chiesa romana che si
può aspettare una energica affermazione della
cattolicità che vuol dire l'universalità spirituale. Quando
si vede a quale insania arriva il razzismo tedesco col suo
cristianesimo tedesco, non si può reprimere un moto di
simpatia per i valorosi che lo respingono come un
blasfema!
Angeli o demoni, ordunque, i latini e i germani, con
la similitudine degli angoli opposti al vertice. Cosa
saranno dunque gli slavi? Il loro nome viene dagli
schiavi fatti prigionieri dall'impero romano, ma la loro
stirpe come sarà definita? Stando solo alla Russia
europea le carte ci avvicinano i russi propriamente detti,
i finlandesi e i lapponi, etnicamente parenti dei turchi,
gli ucraini (che pretendono essere una razza a sè), ed i
georgiani caucasici. Le carte antiche accusano gli sciti, i
sarmati, gli àvari e gli unni.
L'unità politica li unisce o li divide maggiormente?
Parrebbe che debba unirli; ma allora la cultura o
piuttosto le culture avrebbero per effetto di inimicarli,
ciò che non riesce ad onore della cultura stessa. La santa
ignoranza sarebbe la salute invocabile per la santa
Russia.
Forse per effetto di queste incertezze, nella guerra
passata i russi furono angeli bianchi fino a che fu rotto il
loro fronte, e poi diventarono subitamente diavoli neri.
Almeno a Lugano i giornali hanno insegnato così!

699
Degli anglosassoni è difficile identificare la stirpe.
Per i romani erano bretoni, caledoni ed angli; nel
Medioevo vi si superposero i normanni, poi i sassoni:
tutto ciò nei tempi storici! Ma poi tutti gli inglesi ancora
al giorno d'oggi invocano la storia per dire che la
Hibernia (Irlanda) appartiene ad un'altra razza inferiore
e sostengono da secoli che gli irlandesi sono «incapaci
di governarsi da sè».
Un anno prima della guerra (1913) Lord Millner
(recensito da Pasquale Villari), scriveva un libro: La
Nazione e la Guerra dov'era dimostrata la necessità
sociale dell'impero britannico perchè nel mondo c'erano
da trecento a quattrocento milioni di genti «incapaci di
governarsi».
Qualche decennio prima un altro inglese (fattosi
tedesco per la circostanza), un Chamberleen, dimostrò
ai suoi cugini di Prussia che tutti i grandi italiani erano
di stirpe tedesca. Dante ha dovuto essere tedesco perchè
tale suona il suo cognome (Allinghier o qualcosa di
simile). Leonhard è un nome tedeschissimo anche se chi
lo porta è nato a Vinci. A. Manzoni era evidentemente
un longobardo e lo stesso Sant'Ambrogio era nato ad
Aquisgrana com'egli stesso riconosce.
Ridicolaggini? Sì, se ciò dipendesse dal buon senso.
No, se ciò appartiene alla Scuola dell'odio di razza, così
caro a coloro che si scandalizzano per l'odio di classe
professato dai marxisti!...
Ridicolaggini? Sì, se non ci fosse sempre chi crede a
queste cose. Uno studente rumeno mi spiegava una
700
volta che non Roma ha dato il suo nome alla Rumenia,
ma viceversa furono i rumeni a fondar Roma. Enea era
seguito da soldati dacii i quali diedero il nome di Roma,
col significato di fortezza alla città che costrussero per
ordine del loro duce. Così il Trilussa si trova essere
dacio o forse gepido perchè transteverino!
Infinito è il talento degli artisti, dei filologi, degli
storiografi nel trovare simili erudizioni che poi i poeti
stilizzano ad uso di quella virtù civica che è l'odio
nazionale.
Oh! Paolo di Tarso, come avevi ragione di insegnare
agli apostoli viaggianti che «Dio ha tratto da un sol
uomo tutto il genere umano perchè popolasse tutta la
terra ed ha determinato per ogni nazione i limiti della
sua durata e del suo dominio!».
Com'eri moderno scrivendo ai corinzi: «Il fatto è che
ci son molte membra ma c'è un unico corpo... e se un
membro soffre tutte le membra soffrono per lui». Ave,
apostolo delle genti!
V.
La tempesta di recriminazioni sorte
sull'atteggiamento aggressivo preso dall'Italia verso
l'Impero (?) etiopico e su quello assunto dall'Inghilterra
e (a seguito di essa) dalla Società delle Nazioni, ha
avuto la sua ripercussione qui nel Ticino dove ciascuna
tendenza politica l'ha più o meno acconciata ai suoi
precedenti ed alle sue contese locali.

701
Ciò è abbastanza consuetudinario perchè sia tollerato.
Solo si può deplorare che queste tendenze locali si
innestino su quelle del di fuori. Che gli avvenimenti
della Penisola abbiano un immediata contraccolpo sulle
cose di casa nostra è sempre avvenuto e posso riferirmi
al mio opuscolo sulle Influenze italiane, dove già
avverto che di riflesso quelle italiane portavano in casa
nostra le reazioni austriache e quelle francesi. Oggi vi si
aggiungono quelle del movimento socialista che è
internazionale. Ciò è più che sufficiente per farci
perdere il senso della misura e quello dell'orientamento.
In ogni modo per tale via si scivola alle polemichette e
si arriva ad immiserire le questioni più nobili.
Facciamo uno sforzo per elevarci al di sopra della
cronaca quotidiana.
La guerra d'Abissinia, come già quella di Tripoli, non
sarà un'epopea in sè medesima, ma una scena della più
grande tragedia umana: quella del Mediterraneo, culla di
tutte le civiltà europee.
Oh buoni scolari di quinta ginnasio che già siete
iniziati ai poeti omerici ed avete imparato i nomi di tre
re: Ulisse, Agamennone e Menelao alleati ed associati
per la guerra contro Priamo re di Troja per i begli occhi
di Elena e le comodità di Paride il bellimbusto! È tempo
che i vostri professori vi facciano vedere quanto Ilio
fosse prossimo all'Ellesponto ed alla Propontide, che
son poi i Dardanelli al Mar Nero. Troja era una città
forte che chiudeva l'entrata del mar d'oriente dove più
secoli prima Giasone si era recato coi suoi argonauti a
702
cercare nella Colchide il toson d'oro. Tutto ciò è storia
mediterranea. L'Europa in formazione che cerca ad
oriente una grande e ricca colonia, appo la quale
l'Abissinia d'oggi è un povero deserto.
Il professore che vi spiegherà l'Eneide potrà poi dirvi
in Liceo, che caduta Troja il principe Enea, coi resti del
suo esercito andò a rifugiarsi a Cartagine, (probabile
colonia trojana, secondo Unamuno), e di là organizzò la
fatale spedizione alle foci del Tevere, il maggior
confluente del Mar Tirreno. Da qui il fondamento di
Roma che poi alla sua volta conquista Cartagine e fonda
quell'Impero romano che sarà centro del mondo antico e
il punto d'approdo di tutte le civiltà asiatiche e della
civiltà egizia che insieme riunite formeranno una civiltà
mediterranea con elementi egizii, ellenici, ebraici,
assirobabilonesi, persiani, fenici, latini, etruschi, liguri,
celti ed iberici.
In questo oceano di afflussi storici scenderà
coll'andare dei secoli la notte di una nuova barbarie, il
diluvio universale della trasmigrazione dei popoli; ma
sarà ancora sull'Adriatico che nascerà il regno di San
Marco, sarà per questo mare che procederà il gran
miracolo delle crociate, sarà lungo le sponde
meridionali del mare internum che procederà, la
fiumana dell'islamismo, da oriente ad occidente finchè
s'infrangerà contro la fiumana gallo-franca lungo il mare
iberico. Quale meraviglia! Non è esagerazione il dire
che il Mediterraneo chiude i quattro quinti della storia
del pensiero umano. Mediterranea la Bibbia,
703
mediterranea la religione cristiana, mediterraneo il
Corano!
Ma secoli e secoli trascorrono. Viene un'epoca in cui
l'Europa conquista gli altri continenti. Il primato del
mare passa all'Oceano Atlantico ed ora è insidiato dal
Pacifico. Il Mediterraneo declina, ma non tramonta.
L'umanità si precipita verso lidi assai lontani alla ricerca
dell'oro, delle perle e dei diamanti, ma sarà ancora il
Mediterraneo che conserva e diffonde il tesoro
dell'umanesimo filosofico e letterario, il quale val bene
tutti gli scrigni del mondo! Un'alba sorge or sono cento
anni. La libertà greca rinasce, rinasce la libertà italiana e
ciò avverrà sotto gli auspici della Britannia.
L'Inghilterra che ha intrapreso la lotta contro la
Turchia le porterà il primo colpo mortale a Navarino e
fomenterà le insurrezioni italiane. (Non si dimentichi!)
Più tardi l'Inghilterra occuperà l'Egitto onde assicurarsi
la via delle Indie e prima offrirà all'Italia la comunità
della conquista. (L'Italia di Cairoli declinò l'invito, ma
l'Egitto valeva bene la Somalia e il Tigray; non si
dimentichi!).
Ora, per una serie di vicende non imputabili a nessun
governo attuale ambe le chiavi dei Mediterraneo sono
tenute dall'Inghilterra: Gibilterra e Suez! Ma l'unità
d'Italia è compiuta e la sua via trionfale è passata per
Solferino: (non si dimentichi neppur questo!)
Or quale importanza può avere in questo poema la
più eloquente filippica contro le sanzioni famose? Gli
inglesi manterranno i loro giudizi sul fascismo come
704
prima, se pur non li aggraveranno. Precisamente
l'inverso dell'effetto che fanno in Italia le condanne
inglesi, poichè gli angoli opposti al vertice sono eguali
fra loro. Le sanzioni probabilmente faranno fiasco
perchè quali sono concepite dal famoso art. 16, esse
presuppongono la normalità dei rapporti commerciali
fra gli Stati della Lega, mentre già sono tutti diventati
anormali, automaticamente con quel regime di clearing
e di contingentamenti che ha invaso tutti gli Stati; ma a
che servirebbe far credere agli italiani che qui nel Ticino
vi sia tutta una congiura di antipatia verso l'Italia A che
servirebbe rinfacciare al proprio vicino di casa di non
essere abbastanza entusiasta per questo o quell'ideale?
Abbassare il livello morale di una divergenza è quanto
volgerla a volgare litigio!
In alto i cuori, come diceva il nonno! L'Italia deve
avere le sue colonie, come le deve riavere la Germania.
Non basta! L'Italia non può rimanere in mezzo al
Mediterraneo, in una posizione quasi servile di fronte
alla Gran Bretagna che vi tiene, oltre Suez e Gibilterra,
le fortezze di Malta e gli approdi di Cipro; nè di fronte
alla Francia.
In quale modo? Non tocca a noi il dettarlo. La via
prima indicata da Mussolini fu quella della revisione dei
trattati, via abborrita dalla Francia e dall'Inghilterra, ma
che è la sola buona, e passa per Ginevra! Inutile
esclamare che Mussolini non è l'Italia. Su questo punto
delle revisioni necessarie concordano tra loro Saverio

705
Nitti, Gugl. Ferrero e sostanzialmente anche Prezzolini
e Carlo Sforza. Via di pace e non di guerra!
VI.
I giornali svizzeri traboccano di polemiche pro e
contro i provvedimenti economici e finanziari che il
Governo federale ha preso o chiede di poter prendere
per guarire il paese dalla crisi. I periodici ticinesi
tengono il record (in italiano dicasi il primato) per
l'abbondanza e per la sicurezza dei consigli e dei
biasimi. Tutti i partiti si precipitano in questa gara di
saggezza e di velocità.
Bisognava fare così e così, mentre il Consiglio
federale ha fatto tutto l'opposto. Date ascolto a noi che
abbiamo il rimedio pronto e infallibile col quale, nel
giro di pochi mesi, saremo tutti felici. I cattolici gridano
a noi, i moderati gridano a noi, i frontisti a noi, i fascisti
a noi, perfino i socialcomunisti ripetono il fiero motto
del Duce! Ognuno vuol che si vada dalla sua parte, ma
ognuno vuol andare da un'altra parte, in tutte le direzioni
della rosa dei venti.
La meccanica insegna che le forze parallele si
sommano, e che le forze opposte si elidono a vicenda.
Delle forze convergenti o divergenti la meccanica fa
degli infiniti parallelogrammi che rompono la testa a
voi, studentelli, ora come ai tempi passati, con la sola
differenza, che una volta le linee convergenti erano due
ed ora sono mille.

706
Intanto il Consiglio federale non saprà cosa fare, le
Commissioni non sanno più cosa dire; il risultato è che
tutti gridano ed imprecano contro il governo. C'è ancora
qualche ingenuo come me, vecchio solitario, e qualche
ingenuo della vostra età che pensa essere ognuno più o
meno nella ragione, o più o meno nel torto, ma c'è una
maggioranza di teste chiare che vi assicurano che tutti
sono in mala fede. Tutti, meno uno, ossia ciascuno di
loro. I maestri di romanità arriveranno fra breve a
presumere la mala fede di tutti, a marcio dispetto del
diritto romano il quale presume la buona fede fino a
prova del contrario.
Vediamo, figliuoli, di raccapezzarci!
In primo luogo, che colpa ha la Svizzera se l'Europa
ha il delirio dell'autarchia? La Svizzera è un paese che
ha conquistato una invidiata altezza nella industria, a
cominciare dal cotonificio (già da due secoli) per
arrivare ai più perfezionati cronometri come ai maggiori
impianti elettrici: successo ch'era dovuto alla
indiscutibile superiorità delle sue scuole, dalla primaria
alla professionale fino alla politecnica. L'emigrante
svizzero ha conquistato in tutto il mondo un prestigio
invidiabile e invidiato, grazie alle nostre scuole
popolari. Tutto ciò andava a pennello finchè in Europa e
in America dominava il principio delle libertà
economiche. L'americano comperava l'orologio svizzero
perchè era il migliore, e basta! Bismarck un sessant'anni
fa aveva detto in parlamento che il vino doveva
diventare la bevanda nazionale dei tedeschi: la birra
707
quella degli italiani. Napoleone III aprendo
l'Esposizione di Parigi nel 1867 aveva potuto dire che la
Francia era un paese d'industria del lusso e di
agricoltura di lusso. Aveva dunque bisogno d'un'Europa
ricca come sua cliente.
Col nazionalismo, coll'imperialismo economico, con
la gran guerra che fu una guerra economica, una guerra
di predominio imperialista (e non altrimenti) ogni stato,
ogni impero, compreso l'Impero repubblicano dei
yankee, fu condotto, non tanto da una sua volontà
cosciente quanto da una inesorabile logica delle cose, al
regime economico del protezionismo dapprima, poi
all'autarchia, neologismo del dopoguerra che vorrebbe
significare che ogni stato debba ingegnarsi di bastare a
se stesso, vivere delle sue risorse, a valorizzare le quali
la prima regola deve essere quella di rovinare il vicino.
L'autarchia ha ispirato la funesta pace di Versaglia.
L'Inghilterra ha voluto rovinare la Germania sul mare; la
triade industriale Francia, Belgio e Inghilterra ha voluto
rovinarla industrialmente; il binomio coloniale
Inghilterra e Francia ha voluto rovinarla colonialmente;
l'alta finanza, anonima e perciò irresponsabile e
invulnerabile, ha stimato di sua convenienza di
proletarizzare la Germania e la Russia insieme.
Che colpa ne ha la Svizzera se l'Europa è caduta in un
regime economico di banditismo, se essa non può più
vendere, se non potendo più vendere non può più
produrre, se le sue finanze sono decadute, se le sue

708
banche sono minorate, se i suoi operai sono
disoccupati?
E che vale darne la colpa a Schulthess più che a
Musy, od a Musy più che a Schulthess ? Chi li ha veduti
davvicino al lavoro sa che l'uno è un avvedutissimo
finanziere e l'altro un fortissimo economista. Hanno
sbagliato? O è l'Europa che sbaglia? L'Europa che è
sulla cattiva via, l'Europa che rischia di diventare una
colonia degli Stati Uniti, o un feudo degli asiatici
dell'Estremo oriente?
I nostri governanti, i nostri capi, non meritano nè
l'odio nè il disprezzo dei supponenti, anche se questi
sieno di buona fede come tutti gli incoscienti. Essi
hanno fatto quello che hanno potuto. Decipimus specie
recti.
Io non credo che un Grimm eletto al posto di uno
Stucki avrebbe fatto molto meglio nè peggio di questi.
Ma soprattutto è iniquo accusare di malafede i nostri
guidatori. Piuttosto saranno in mala fede coloro che
assicurano di avere in tasca la ricetta, il metodo, il
piano, per uscire dalla crisi al passo di corsa.
Dalla crisi si sarà usciti quando la Germania e l'Italia
potranno ancora liberamente scambiare i loro prodotti,
poichè gli uni sono complementari agli altri per legge di
natura, e quando noi potremo liberamente commerciare
con l'una e con l'altra.

709
VII.
Quando io vi scrivevo, o giovani, la penultima di
queste lettere, la IV, tutta l'Europa fremeva di speranze.
Ogni amico della pace si rallegrava per l'opera
pacificatrice del ministro inglese Hoare e di quello
francese Laval. Le loro proposte avrebbero raccolto se
non l'adesione almeno la presa in esame dei due
belligeranti. La Commissione della famosa Lega
ginevrina avrebbe fatto il resto.
Chi avrebbe avuto il coraggio di mandare a picco
tante speranze, di affrontare i pericoli di una nuova
conflagrazione europea o forse mondiale? Si voleva
essere ottimisti. Dopo pochi giorni le speranze, ecco,
sono cadute. Siamo nel più tetro pessimismo.
Le ultime notizie sono: (ultime fino a domani; quando
queste righe esciranno stampate, le notizie potranno
essere molto peggiori), il Giappone si appresta ad
occupare qualche altra provincia della Cina: la Russia
sovietica apparecchia una spedizione verso la Cina; gli
Stati Uniti mobilitano la flotta per impedire che il
Giappone diventi di colpo il padrone dell'Oceano
Pacifico (quanta ironia nel nome!). Gli amici dell'Italia
chiedono ancora una volta: ma cosa fa dunque questa
Società delle Nazioni? Perchè non interviene con le sue
sanzioni nel Grande Oceano come è intervenuta nel
breve Mediterraneo?
Quanta ingenuità in queste domande!

710
La Società non interviene perchè, con la miglior
buona volontà, non può far nulla!
Non interviene perchè gli Stati Uniti hanno rifiutato
di omologare la pace proposta dal loro Presidente.
Assente la Repubblica americana, il Giappone se ne è
potuto andare indisturbato. Adesso che son passati i due
anni dalle sue dimissioni, è fuori di portata delle
sanzioni; non è più legato da quel patto che solo aveva
accettato nella previsione che gli Americani lo
accettassero.
Quando la Svizzera ha aderito al patto i suoi capi
tenevano per certo che gli Stati Uniti si sarebbero fatti
pregare ma non avrebbero osato rinnegare l'opera di
Wilson.
Perchè invece la rinnegarono? Quelli che lo volessero
sapere possono provare a leggere il volume di
Guglielmo Ferrero: La Tragedia della Pace (1923). Lo
stesso grande scrittore dirà loro che i così detti esperti, i
quali durante le trattative di pace assistevano i
diplomatici delle Potenze, non erano che i mandatari dei
grandi trust dell'acciaio, del carbone e del petrolio... Io
non posso dir nulla di mio. Posso solo testimoniare che
prima della guerra i fautori della tesi britannica
stampavano qui nel Ticino (in Pagine Libere) che la
Germania industriale era virtualmente fallita per l'abuso
che aveva fatto del credito. Ricordo benissimo che fin
dal principio della guerra dissero che la Germania
avrebbe certamente perduto perchè non aveva nè danaro
nè credito. Ricordo che si diceva e si credeva come
711
Vangelo che, arrestato sulla Marna il primo attacco
tedesco, l'impresa era fallita per mancanza di numerario.
Ricordo che quando la Germania pubblicò e strombettò
il successo del suo primo prestito di guerra la nostra
stampa gridò al bluff; che quando vantò il successo del
secondo prestito non si gridò più al bluff ma addirittura
alla truffa.
La Germania era bloccata ed affamata, non aveva più
di che mangiare, ogni derrata era sostituita con un
ersatz (e questo era verissimo) e che avrebbe
necessariamente vinto chi avrebbe avuto l'ultimo
miliardo. Ricordo che firmato l'armistizio le trattative di
pace fra i vincitori, ad esclusione dei vinti, durarono un
secolo perchè le nazioni vincitrici si disputavano la pelle
dell'orso tedesco, poi si rimpaciarono su queste basi:
togliere alla Germania tutte le colonie, chiuderle tutti gli
sbocchi commerciali nel prossimo Oriente, renderla
insolvibile e domandarle un numero infinito di miliardi
così che non potendoli mai pagare rimanesse
assoggettata in perpetuo.
La Germania proletarizzata apparve come il fine della
guerra. Tanto che nella nuova. repubblica di Weimar
nessun partito borghese accettò di condividere il potere.
La repubblica socialista non spaventò per nulla gli
alleati: anzi! quando la Germania cominciò con
l'inflazione a manifestare la propria insolvenza la
stampa ebbe per consegna di dire che «se in Germania
le casse dello Stato son vuote les caisses privées
regorgent d'or». Al pubblico si fece credere che
712
l'inflazione era solo una frode per non pagare le
riparazioni, ma che i tedeschi non vi avrebbero perduto
un solo centesimo. Io sentii declamare queste assurdità
da un giornalista greco in un caffè di Lugano e la cosa
era conforme ad una parola d'ordine diffusa ad Atene
come a Montevideo, come a Bordeaux, come a Londra!
Gli Americani, che erano intervenuti nella guerra per
assicurarsi del ricupero dei loro crediti di forniture,
capirono il latino e si ritirarono lasciando l'Europa
nell'imbarazzo.
Ritirandosi l'America la Società delle Nazioni
rimaneva impotente fuori d'Europa.
L'aggiunta che vi si fece dei molti Stati e staterelli
dell'America meridionale e centrale e di quelli
dell'Africa come la Liberia furono un modo di darla a
bere, un modo soprattutto di consolidare gli Stati
satelliti che la Francia e l'Inghilterra si erano assicurati
sul Danubio, sul Baltico e nei Balcani, fabbricati in serie
come le salsicce.
In questi mercanteggiamenti vi fu uno stato
manifestamente derubato, spogliato e proletarizzato, e
fu l'Ungheria. Quell'Ungheria che per quattro secoli
aveva tenuto indietro i Turchi. Vi fu uno stato arricchito
indebitamente di territori e territori: la Rumenia; ma la
Rumenia aveva il Petrolio. Scrivo colla P majuscola,
intenzionalmente.
Quando i paesi spogliati cominciarono a invocare la
revisione dei trattati l'Italia, cioè Mussolini, non esitò ad
appoggiare la Revisione.
713
Ma è forse troppo tardi.
Le più precise informazioni che ci vengono
dall'Estremo Oriente suonano nel senso che i
Giapponesi considerano l'Europa come una massa
fallimentare.
Forse aspettano il momento per rilevare l'attivo e il
passivo?
VIII.
Ho parlato nella mia precedente epistola del libro del
Ferrero: La Tragedia della Pace. Questo titolo deve
essere meditato.
Tragedia vera c'è solo quando due sentimenti
rispettabili vengono a conflitto: quando c'è la fatalità,
come nell'Edipo di Eschilo, come nello Amleto di
Sheakspeare. Amleto, compiendo la strage non suscita
l'orrore ma la commozione del pubblico. Bruto che
uccide Cesare non è una canaglia che ammazza un
galantuomo. Cesare è un semidio dell'antichità, egli
incarna un destino: Bruto è mosso non da invidia, non
da livore, nè d'altra men che nobile passione, ma
dall'amore della Repubblica. Bruto incarna la gloria
della Roma che finisce, Cesare quella di un impero che
comincia.
L'ultima guerra fu originata dal fattaccio di Serajevo.
Altro fattaccio l'assassinio di Jean Jaurès a Parigi, ad
opera di un pazzo ma quasi certamente a suggestione di
un diplomatico straniero. La follia che avvelena la

714
dinastia di Russia è un brutto episodio clinico: il viaggio
di Poincaré a Pietroburgo è un antipatico intrigo;
l'aggressione del Belgio è un fatto teppistico, primo
episodio di una serie d'atti teppistici, voluti dallo stato
maggiore tedesco, brutalmente perpetrati nei territori
invasi. Ma dietro questi fattacci c'è la tragedia, c'è il
fato, in quanto i governi dei grandi stati dispotici si
trovano in quel momento nelle mani di tiranni (uso la
parola nel suo significato dottrinale) tocchi nel cervello.
Pazza tutta la famiglia imperiale di Russia e pazza da
manicomio. Pazzo criminale il Sultano rosso, dalle mani
grondanti di sangue. Affetto da megalomania
l'imperatore di Germania. Affetto di degenerazione
senile il portatore della Corona d'Absburgo dopo che
inesplicabili eventi tragici hanno ucciso precocemente i
due arciduchi a favore dei quali avrebbe potuto e voluto
abdicare. La corona di Serbia sulla testa
successivamente di tre sovrani mentecatti, primo tra i
quali quel Re Milan che era arrivato fino ad impegnare
scettro e corona ai suoi creditori di Parigi, ad insaputa
dei suoi ministri.
Ed ecco la tragedia! Ecco il nucleo tragico, il
complex come dice la psicologia moderna, che mette il
mondo a ferro e fuoco mentre i governi democratici dei
paesi latini giocano da venti anni l'altalena democratica
facendo una crisi di gabinetto ad ogni volgere di
stagione.
La guerra è la guerra! Questa banalissima sentenza
stata invocata dai belligeranti per giustificare tutti gli
715
orrori, non è ancora tragedia in se stessa, ma eccoci al
secondo elemento tragico: proprio dei nostri tempi di
raffinata civiltà. I progressi della tecnica hanno
meccanizzato la guerra e l'hanno resa sempre più
bestiale a misura che si diffondeva la civiltà stessa.
Noi leggiamo ancora oggi i canti di Omero sulla
guerra di Troja: essi entusiasmarono greci e romani, gli
uomini del Rinascimento e gli adolescenti dell'età
nostra. Tutta la letteratura eroica dell'occidente europeo
è intessuta di carmi sulle guerre di Carlomagno e sulle
Crociate.
Tutte le maestre delle scuole moderne (intendo
moderne di trenta anni or sono) attestavano l'entusiasmo
delle ragazze per l'eroe Napoleone... Tutti i contadini
analfabeti del Regno d'Italia, ancora cinquant'anni fa,
celebravano i colpi di spada e di lancia di Guerino detto
il Meschino... Ma quale poeta presente o futuro canterà
mai i gas asfissianti apparsi la prima volta nella guerra
boera, nè l'affondamento delle navi di viaggiatori
operato per mezzo dei sottomarini? Chi avrà il coraggio
d'invocare le divine Muse per cantare l'avvelenamento
dei pozzi, i bacteri per diffondere le epidemie?
Più tragico ancora è quell'avvelenamento degli spiriti.
del quale vi ho già parlato, o giovani. La trahison des
clercs di Luciano Benda rimane la tesi più significativa
del grande francese contemporaneo. La prima epoca del
Rinascimento, quella in cui vissero gli scolastici parigini
contemporanei di Abelardo e gli eruditi fiorentini dei
tempi di Dante, aveva chiamato chierici tutti gli
716
intellettuali, tutti quelli che ora noi diremmo il ceto
degli uomini colti, e costoro vivevano secondo quel
pensiero che Voltaire rivolgeva al suo amico inglese:
«Voi siete inglese ed io sono nato in Francia, ma tutti
coloro che coltivano le arti sono concittadini».
Concittadini della città degli studi: la civitas intesa
nel senso di Agostino che fu il primo filosofo della
cristianità. Città dentro la quale la città forte, irta di
torri, non è che la necessaria difesa contro la barbarie.
Oggi questa città colta è minacciata di dissolvimento
come quelle metropoli delle culture antiche sulle quali
Volnay meditò le sue Ruine, al risvolto dei due ultimi
secoli. In questo, egregi giovani, io consento appieno
con quanto scriveva sul «Guardista», uno di questi
giorni, una penna che non teme le verità dolorose.
Siamo ad un declino della coltura!
La coltura che si spezza, che si frammenta in colture
singole, inimicate, anelanti ciascuna alla prevalenza
sulle altre, prevalenza da ottenersi con le forze
distruttive. Forze distruttive che sono fornite dalle
scienze tecniche, al canto dei poeti dell'odio.
Odio di classe: odio di razza, odio di partito! Empia
religione dell'odio, insegnata come un culto nelle
scuole, nella stampa, nei comizi: con le sue liturgie di
nuovo conio delle quali la croce dalle braccia spezzate è
la più goffa ma non la sola.
Alla guerra tragica era logico seguisse una tragica
pace. Vi furono chiamati coloro stessi che erano stati
chiamati per la violenza del loro carattere a finire la
717
guerra, come Giorgio Clemenceau. Questo è un dramma
quasi ricorrente: gli uomini più indicati a far la guerra
sono per ciò i meno indicati per la pace. Il Bonaparte
ottenne sempre paci instabili; precarie! Solo Giulio
Cesare fece eccezione. Clemenceau era soprannominato
il Tigre, George Lloyd è sempre stato uomo violento ed
aggressivo. Erano i due antesignani della pace, mentre
una fila di Stati nuovi dovevano tutto chiedere da loro:
libertà, territori e soldi.
Per questi Stati l'atto di nascita era contemporaneo a
quello di carenza di beni. L'Italia era rappresentata da
due nobilissime figure di gentiluomini, ma esautorati
perchè in casa loro covava la rivoluzione. Questi i
personaggi, insieme con l'americano che era il
mandatario dei creditori. Situazione da tragedia dunque,
aggravata dallo scoppiare della rivoluzione a Mosca. Il
solo accordo possibile all'infuori di quello di
proletarizzare la Germania e la Russia, fu quello di
escludere i vinti dalle trattative.
Un secolo prima c'era stato a Vienna un celebre
congresso della pace, dove il vinto, la Francia,
rappresentata dal vinto ministro Talleyrand, trattava a tu
per tu con Metternich... Quante frasi rettoriche abbiamo
letto e sentito noi giovani contro quella pace che pur
durò oltre vent'anni, fino al 1848!
Quale vantaggio abbia avuto l'Italia dalla pace di
Versaglia è subito detto. Fu esclusa dal riparto delle
colonie, e questo è il meno perchè le colonie sono meno
necessarie di quanto si crede.
718
La Germania ne fece senza per tutto il periodo
bismarkiano che fu quello della sua massima prosperità!
L'Italia si trovò aver perso nella Germania proletarizzata
il migliore e il più sicuro dei suoi clienti. Si trovò essere
arricchita dell'odio dei tedeschi che prima della guerra
erano i suoi alleati; credette aver conseguito una
fruttuosa vittoria sopra l'Austria e l'Ungheria e si
accorse di aver vinto a profitto di tutti fuorchè di se
stessa. Il premio di aver salvato l'esercito serbo fu quello
di trovarsi inimicata in perpetuo con la Serbia, suo
naturale sbocco di espansione industriale, commerciale
e culturale. Frutto della sua occupazione di Fiume
risultò essere la rovina del porto di Trieste. Serbia,
Jugoslavia, Montenegro, Polonia, Cecoslovacchia
divennero una lega di stati vassalli della Francia; una
intesa costituita a contrastare all'Italia il predominio
dell'Adriatico!
Tragedia vera questa, perchè l'Italia deve in gran parte
questi danni ai suoi letterati, ai suoi Marinetti, ai suoi
Principi di Montevenoso e ai suoi secoli di tradizione
rettorica.

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