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(I Saggi) David J. Skal - The Monster Show. Storia e Cultura Dell'horror-Dalai Editore (1998)

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Traduzione dall’americano

di Manlio Benigni

L’editore si dichiara disposto a ottemperare


ai suoi obblighi per la riproduzione delle immagini
nei confronti degli eventuali aventi diritto.

Copertina di
Jesse Marino# Reyes

Titolo originale:
«The Monster Show»
© 1993 David J. Skal
© 1998 Baldini&Castoldi s.r.l.
Milano
TCD\T OO OAOQ 4 04 O
A Hilary, Malaga e Scott
Indice

Il baraccone di Camelot il
L’America di Tod Browning x19
«Tu diventerai Caligari.» Mostri, millantatori e
modernismo 30
B circo del terrore 51
I mostri e Mister Liveright 64
1931: l’abisso americano 92
Campagnoli infuriati 136
«Tu mi ricordi tuo padre.» Gli orrori della guerra,
parte seconda 180
I drive-in sono i migliori amici dei mostri.
L’horror negli anni Cinquanta 196
Il rintocco del camposanto 228
Mi dispiace, ma è nato vivo 249
Scar Wars 269
Sangue infetto 292
Cannibali reaganiani 313
Mostri di fine millennio 340

Postfazione all’edizione italiana 349

Ringraziamenti , 359

Note 363

Indice analitico 393


Vi mostrerò cosa significhi l’orrore.

Fredric March in 11 dottor Jekyll (1932)


Il baraccone di Camelot

È difficile ridere all’esigenza di bellezza e


amore, per quanto i risultati siano pacchiani,
persino orribili. Ma sospirare è facile. Poche
cose sono più tristi del genuino orrore.

Nathanael West, Il giorno della locusta (1939)

Nell’ottobre del 1961, in un’America generalmente d’umore


ottimista, briosa come le inconfondibili maniche a sbuffo di
Jackie Kennedy, Diane Arbus meditava qualcosa.
Si era imbucata nel New Yorker Theatre di Manhattan
all’angolo fra Broadway e 1’88" Ovest, ad ammirare per la terza
volta in altrettante sere le imponenti immagini di donne che
non avevano alcun bisogno di parrucchiere. In fin dei conti,
le pinheads dalle teste a punta non avevano capelli da accon­
ciare. E pure un cappello a cilindro era un articolo di moda
improponibile con un cranio grande quanto una palla da soft-
ball.
La Arbus diede un tiro di marijuana. La dolce nuvoletta
di fumo appena esalata si librò davanti alle ombre nitide. In
fatto di moda la sapeva lunga; era una fotografa, dopotutto, e
si era fatta un certo nome: il lavoro svolto insieme al marito
Alan compariva regolarmente su «Harper’s Bazaar», «Gla­
mour» e «Vogue». Ma in lei c’era un’altra parte cui non basta­
va il mondo della fotografia commerciale; avvertiva un cre­
scente bisogno di trovare e creare immagini in assoluta antitesi
al glamour. Le pinheads erano grandiose. E oltre a loro c’erano
nani coi testoni, gemelli siamesi, un uomo privo di braccia e
gambe che strisciava per terra come un verme, un «mezzo
ragazzo» che correva sulle mani, uno scheletro umano e molto
altro ancora.1
Il film le fu fatto conoscere da un amico, il gallerista Emile
de Antonio, noto ai più come «De». Talvolta, scherzando, si
definiva «un vampiro di mezz’età»,2 riferendosi probabilmen­

1 1
te all’immagine attentamente calibrata di ragazzaccio e al pro­
prio leggendario alcolismo. «Bere», disse una volta De, «è la
mia primaria fonte di alimentazione.»3 Pure cineasta, stava per
iniziare un documentario tratto dai cinegiornali sulle audizioni
maccartiste. Anni più tardi, a motivo dr'un altro documentario
politico, Millhouse (t. lett.: La prigione) avrebbe sbandierato
con orgoglio l’inclusione nella «lista nera» alla Casa Bianca di
Nixon.
Il lato documentaristico di quel film proiettato al New
Yorker lo interessava, e sapeva che sarebbe piaciuto anche a
Diane Arbus. Freaks (id.) era stato girato dalla Metro-Gold-
wyn-Mayer nel 1931 e distribuito l’anno successivo per benefi­
ciare dell’enorme successo di Dracula (id., 1931) e Franken­
stein (id., 1931, di James Whale), prodotti dalla Universal. Il
regista di Freaks, Tod Browning, aveva diretto oltre a Dracula
diversi altri film di successo su ossessioni morbose, deformità
e mutilazioni. Ciononostante Freaks fu considerato tanto orri­
bile da venir rinnegato dalla MGM e bandito dai censori euro­
pei per quasi trent’anni. Secondo una leggenda, il negativo ori­
ginale era stato lanciato senza troppe cerimonie nella baia di
San Francisco.
La vicenda del film era ambientata in un circo, ed era di
una semplicità fiabesca, oscura e insieme sconvolgente. Una
bellissima trapezista (Olga Baclanova) sposa un nano per de­
naro. Durante il banchetto in pompa magna, viene festeggiata
dai fenomeni del circo e accettata ritualmente come «una di
noi». Ma la sposa alticcia reagisce con repulsione, e non viene
perdonata. I freaks la spiano, pazienti, mentre tenta di uccidere
il marito con piccole dosi di veleno. Una notte, al culmine di una
furiosa tempesta, ecco la vendetta. Nel folto di una foresta deva­
stata dalla pioggia, la assalgono. Nell’impressionante epilogo,
vediamo il risultato della loro rudimentale chirurgia combinato
con un abbigliamento pagliaccesco: un miscuglio inarticolato e
gracchiarne di donna e gallina, un patetico fenomeno confinato
in uno squallido pozzo.
In Diane Arbus, la sua biografia del 1984, Patricia Bo­
sworth dipinge la scoperta di Freaks da parte della fotografa
come una rivelazione. «Era sconvolta perché i freaks del film

12
non ciano mostri di fantasia, bensì reali.» Le anomalie umane
«Tacevano sempre eccitata, sfidata e terrorizzata perché sfida­
vano tante convenzioni. Talvolta pensava che il proprio terrore
fosse legato a qualcosa di radicato nel subconscio. Osservare
lo scheletro umano o la donna barbuta le richiamava un sé
oscuro, innaturale, nascosto».4
La Arbus aveva già scattato qualche foto di gemelli e nani,
ma la scoperta del film di Browning significò una spinta ulte­
riore. Cominciò a frequentare uno degli ultimi freak show ame­
ricani, l’Hubert’s Museum sulla 42". Visti dal vero, i fenomeni
erano ancora più sconvolgenti e affascinanti che nel film. Se­
condo la Bosworth, la reazione della Arbus alla donna canno­
ne, al ragazzo foca, e all’uomo con tre gambe fu un’ansiosa
eccitazione viscerale, accompagnata da sudorazione e palpita­
zioni.5 Inizialmente i freaks erano restii, ma gradualmente fini­
rono per accettare la presenza costante della volitiva donna
dai capelli scuri, e acconsentirono a essere esaminati dalla sua
macchina fotografica. Forse non le era sfuggita un’eco della
famosa battuta di Freaks, e senza dubbio ci provava gusto:
«Noi la accettiamo come una di noi! » La Arbus riprese i pro­
pri soggetti con una Rollei a formato quadrato e una pellicola
in bianco e nero a grana fine, guadagnandosi un convincente
e spietato catalogo di immagini proibite o deliberatamente
ignorate prima di lei dalla fotografìa moderna. I deformi. I
ritardati. Gli ambigui. I moribondi e i morti. Tutto ciò che,/
probito dalle buone maniere, la gente voleva comunque vede­
re. Aveva detto alla sua mentore Lisette Model di voler foto­
grafare «ciò che è male»,6 per lei evidentemente sinonimo di
tabù. E poiché risulta difficile dubitare del male autentico e
distruttivo alla base delle sue fotografie, Diane Arbus si costruì
senz’ombra di dubbio una nicchia di ragazzaccia senza rivali
fino all’avvento negli anni Ottanta del bad boy Robert Mapple­
thorpe. Anche le sue sarebbero state fotografie di formato qua­
drato in bianco e nero, per racchiudere un immaginario proi­
bito nell’artifìcio della classica natura morta. La Arbus evitava
composizioni studiate ma possedeva manierismi riconoscibili
che evocavano i volti morti-vivi dei dagherrotipi e il formali­
smo imbalsamato del museo delle cere.

13
Se avesse letto i necrologi, la Arbus avrebbe saputo della
morte nel 1962 di Tod Browning, da lungo tempo ritiratosi
in California. Ma questo non avrebbe aggiunto nulla alle sue
conoscenze e intuizioni. Aveva compreso l’America di Tod
Browning meglio di chiunque altro. I «mostri» erano dovun­
que; l’intera vita moderna poteva essere considerata come uno
spettacolino pacchiano, guidato da sogni e-paure di alienazio­
ne, mutilazione e morte nelle sue quotidiane declinazioni. Le
famiglie operaie emergevano attraverso l’implacabile obiettivo
della Arbus come esiliati in un baraccone suburbano. Le anzia­
ne distinte della bella società erano strette cugine dei travestiti
di Times Square. Sorpreso al momento giusto, praticamente
chiunque poteva sembrare menomato. L’America appariva co­
me una fiera di fenomeni da circo. Fu una rivelazione, uno
scopo e una dottrina.
L’anno successivo alla scoperta di freaks, la fotografa si
imbattè nel Dracula di Tod Browning, non in un cinema, ma
tatuato sul tronco di un uomo che si faceva chiamare Jack
Dracula.7 La parola DRACULA compariva anche all’interno
del labbro inferiore. Il mostro di Frankenstein occupava lo
spazio proprio sopra l’ombelico, vicino al minaccioso Fanta­
sma dell’Opera e attorniato da una congerie di pipistrelli, ser­
penti, licantropi, diavoli, spiriti malvagi, draghi alati e uccelli
predatori. Complessivamente, Jack aveva più di trecento ta­
tuaggi, il primo dei quali, riferiva la Arbus, era l’immagine di
un perno d’acciaio impiantato nell’incavo del braccio. Sulla
pelle erano incisi a vita i nomi BORIS KARLOFF, BELA LUGO­
SI e LON CHANEY. L’uomo aveva cominciato a tatuarsi all’in-
circa nello stesso periodo in cui i classici horror hollywoodiani
erano stati riproposti in televisione nei tardi anni Cinquanta.
Ormai era diventato un festival dell’orrore semovente, un aral­
do della crescente «mostromania» che stava conquistando
l’immaginario dei bambini d’America, fra i quali si contavano
a decine di migliaia i devoti lettori di riviste con titoli come
«Famous Monsters of Filmland» e «Castle of Frankenstein».
A differenza di Jack Dracula, la maggior parte dei mostrofili
decorava i muri della camera da letto invece della pelle; i loro
esperimenti fìsici non andavano oltre passeggeri effetti di truc­

14
co nel corso di riti di passaggio e iniziazione adolescenziale
alquanto annacquati benché inconfondibili. Ma Jack aveva fat­
to un passo più avanti dei fan da tavolino, usando i mostri
come veicolo di una vera e propria trasformazione fisica. Come
il suo vampiro d’elezione, Jack doveva evitare prolungate espo­
sizioni ai raggi solari; i disegni sensibili alla luce contenevano
una tintura a effetto permanente che poteva rivelarsi velenosa.
Jack Dracula fu un catalizzatore per le energie delle oscure
divinità di cui tratta questo libro: entità mutevoli che si agitano
nell’immaginario contemporaneo come sculture di sogno in
una giostra tenebrosa. A ogni rivoluzione si evolvono, attiran­
do con successo la nostra spasmodica attenzione. Questo caro­
sello, mutante nenia di Calliope, è dominato da quattro icone:
Dracula, il vampiro in vesti di uomo; la complessa creatura
morto-vivente di Frankenstein; il dualismo licantropico del
dottor Jekyll e Mister Hyde; e il freak di un baraccone da
incubo - forse il più disturbante, senza braccia né gambe, con­
torto o mutilato, ora minuscolo ora immenso - che cambia
ogni volta che lo si guarda, una violazione del nostro senso più
radicato della forma umana nei suoi confini naturali. La giostra
gira lenta, ma inesorabile; se uno la fissa abbastanza a lungo,
alla fine un mostro sfuma in un altro.
Il servizio fotografico di Diane Arbus su Jack Dracula ap­
parve nel numero di novembre 1961 di «Harper’s Bazaar», la
stessa pubblicazione che aveva in precedenza ospitato i suoi
servizi di moda. In una valutazione retrospettiva, il critico d’ar­
te Hilton Kramer sottolineò questa esplosione di grottesco ci­
tando il pensiero di Baudelaire secondo il quale, là dove la
moda rappresenta «una sublime deformità della natura», il
campo artistico della Arbus non presentava paradossi. Il mon­
do della moda, scriveva Kramer, «è un mondo di artificio con­
sapevole, di invenzione cosmetica e sartoriale, un mondo... in
cui i criteri di normalità sono sotto costante revisione e abbelli­
mento. [...] Non riesco a pensare a una migliore “scuola” per
lo studio delle deformità umane di questo mondo».8
Inevitabilmente, la Arbus andò a caccia di prede maggiori
di quelle offerte dai baracconi di Times Square. Dan Talbot,
allora alla guida della New Yorker Film Society, si accorse

15
appena della presenza della fotografa nel proprio cinema du­
rante la settimana di proiezione di Freaks. «Era talmente at­
tratta dal grottesco, che non mi sorprendeva»,9 ricordava. Egli
in seguito funse da intermediario quando la Arbus manifestò
l’intenzione di fotografare l’anziana Mae West per la rivista
«Show». «Lo feci con una certa dose di trepidazione», ricor­
dava Talbot. Si era guadagnato la fiducia di una star notoria­
mente ultrariservata con una corrispondenza infittitasi quando
aveva riproposto certi film dell’attrice. Nonostante la fama del­
la Arbus come rispettabile fotografa di moda - le sue immagini
più perturbanti non erano ancora di pubblico dominio -, Tal­
bot provava disagio per le sue finalità. Quando il sevizio uscì,
i suoi peggiori timori trovarono conferma: le crude immagini
della fotografa (in una la star si accoccolava nel letto con una
scimmia le cui feci, apprendeva il lettore dal freddo testo della
Arbus, giacevano tranquillamente sparse sulla moquette bian­
ca del salottino) avevano mutato la ormai in declino regina del
sesso in un fenomeno spettrale. Talbot ricevette una furibonda
cartolina dalla West, i cui avvocati minacciarono l’editore della
rivista. Ma la Arbus continuò a perseguire la sua nuova estetica
del macabro con una passione da zelota.
Nel 1967 sia Diane Arbus sia Freaks erano entrati nel Mu­
seum of Modern Art: per vie diverse, ma non v’è dubbio che
si siano reciprocamente aiutati. Il film di Browning era stato
riscoperto e canonizzato dalle influenti riviste cinematografi­
che europee degli anni Sessanta, il decennio, secondo Susan
Sontag, nel quale «i freaks divennero pubblici, un soggetto
artistico sicuro e approvato».10 Per la Sontag, la Arbus rap­
presentava la «sovversione estetica», un fenomeno peculiare
degli anni Sessanta che promuoveva «la vita come spettacolo
orrorifìco come antidoto alla vita come noia».11
Gli anni Sessanta di Andy Warhol segnaron© l’inizio di
una tendenza verso estremi senza precedenza nelle immagini
dei media. Freaks, con la sua resurrezione, fu un traino fonda­
mentale in questo processo, che comprendeva i film di Warhol
(un’opera che sarebbe culminata in bizzarre versioni di Dracu­
la e Frankenstein), Fellini Satyricon (di Federico Fellini, 1969),
le riviste di mostri, e Diane Arbus. Come riassume la Sontag:

16
L’opera della Arbus è un buon esempio di una tendenza do­
minante nella grande arte dei Paesi capitalisti: sopprimere, o
almeno ridurre, la schizzinosità morale o sensoria. Gran parte
dell’arte moderna è devota all’abbassamento della soglia di
ciò che è terribile... La nostra capacità di digerire il grottesco
crescente nelle immagini (in movimento o immobili) e nella
stampa ha un prezzo ambiguo... Una pseudofamiliarità con
l’orribile rinforza l’alienazione, rendendoci meno capaci di
reagire nella vita reale.12

La posizione della Sontag è spesso citata nelle discussioni


sulle forme estreme di comunicazione, siano queste film hor­
ror, pornografìa, o le fotografìe di Diane Arbus. In queste di­
scussioni passa sotto silenzio un paradosso: mentre certe perso­
ne sono desensibilizzate, altre - gli stessi critici - diventano
acutamente, solipsisticamente sensibilizzate, arbitri definitivi
sulla terra precisamente di ciò che è o non è «orribile». Que­
ste critiche non tengono in conto che nelle immagini mostruo­
se ci può essere più di una degenerazione culturale, o che pos­
sano contenere una ricca, pur se nascosta, cultura originale.
Gli ultimi anni della Arbus furono rattristati da instabilità e
depressione, e certamente forniscono la facile impressione di
una donna prostrata e distrutta dalle immagini che maneggia­
va. Ma la vicenda personale della fotografa non spiega perché
le sue immagini trovassero eco nella cultura, o per quale moti­
vo gran parte dell’immaginario nel XX secolo sia stato devoto
a rimuovere le maschere e le croste della civilizzazione, per
trovare, coltivare e proiettare immagini da incubo dell’io se­
greto.
U 26 luglio 1972 Diane Arbus creò l’immagine estrema.
Dopo avere scarabocchiato nel diario le parole «L’ultima ce­
na», si somministrò un letale banchetto di barbiturici. Non
cerano nani a festeggiarla. Fu trovata diversi giorni dopo,
quando cominciava a decomporsi sul fondo di una vasca pro­
sciugata, come Olga Baclanova nel pozzo, sua estrema destina­
zione. (Si disse - benché non sia mai stato accertato - che
avesse approntato una macchina fotografica per registrare la
propria morte.)15 Verso la fine della sua vita, nel periodo della

17
guerra in Vietnam, Diane Arbus aveva lasciato un segno dure­
vole nel mondo del fotogiornalismo, ormai meno reticente nei
confronti di immagini di franchezza e brutalità senza prece­
denti: bambini colpiti dal napalm, esecuzioni per strada, il
massacro di My Lai.
Molte storie del genere onorifico cominciano con antefatti
mitologici e letterari: gli orrori e i mostri dell’antichità trovano
espressione nella novellistica popolare del XIX secolo presa in
prestito e «migliorata» dai mass media del ’900, che portano
a mostri più grandi e migliori, film più costosi, urla più forti,
spettacolari tecnologie del terrore. In breve, la storia viene pre­
sentata semplicisticamente come un’autoindulgente cronaca
del «progresso».
L’importante non è il progresso. Nella struttura sommersa
delle immagini onorifiche cambia veramente pochissimo, ben­
ché l’uso culturale che ne facciamo cambi forma come Dracu­
la. Più di trent’anni orsono, Leslie Fiedler, in Amore e morte
nel romanzo americano^ identificava certi modelli archetipici
del sogno americano. «La nostra letteratura», ha scritto, «non
è una mera fuga dai dati fìsici del mondo reale... È, in misura
che sconcerta e imbarazza, una narrativa gotica, non realistica
e negativa, sadica e melodrammatica, una letteratura oscura e
grottesca... una letteratura onorifica per ragazzi.»14
Lo studio di Fiedler fu pubblicato nel 1960, al vertice del
Camelot kennediano. Le preoccupazioni che egli allora identi­
ficava come implicite nella narrativa del XIX secolo sono dive­
nute le ossessioni esplicite della cultura popolare odierna. Nel
1960 Diane Arbus cominciava appena a interessarsi ai freaks
(argomento di un altro libro di Fiedler15), e il resto della sua
carriera può essere considerato, in parte, come un’immersione
mozzafiato nei temi e nelle immagini guida delle forme estre­
me di espressione mediatica etichettate ed emarginate come
«horror». Come Tod Browning prima di lei, le ossessioni per­
sonali della Arbus hanno avuto, e continuano ad avere, un
significato pubblico più ampio. Ma pèr poter comprendere
Diane Arbus, prima dobbiamo accettarla. «Come una di noi»:
un cittadino con pieni diritti nell’America di Tod Browning.

18
L’America di 1 od Browning

«È solo il solito vecchio baraccone», disse


Will.
«Sicuro come il diavolo», fece Jim.

Ray Bradbury, Il popolo dell’autunno (1962)

Tod Browning, steso nella sua tomba, mangiava caramelle al


malto. Appena ventunenne, era già morto in diverse occasioni,
anche se di solito restava stecchito solo un giorno per volta.
Ma quella era un’occasione speciale: sarebbe rimasto sottoter­
ra quarantott’ore, per stupire ancora di più i creduloni là
sopra.
Da quando era scappato di casa, cinque anni prima,
Browning aveva svolto nelle fiere ogni genere di lavoro, dal­
l’imbonitore al contorsionista. Il suo attuale ruolo di «Ipnotico
Cadavere Vivente», però, costituiva senza ombra di dubbio il
punto più basso della sua carriera vagabonda.
Aveva recitato questa parte fra le attrazioni principali di
uno «spettacolo fluviale» itinerante, dalle fonti dell’Ohio alla
foce del Mississippi. Tale tipo di baraccone forniva un costante
ricambio di spettacoli di varietà per i parchi di divertimento
lungo le sponde delle grandi vie d’acqua nel cuore dell’Ameri­
ca. E il genere di divertimento che attirava maggiormente le
folle negli anni che aprirono il XX secolo era il sensazionale,
il bizzarro, l’oltremondano, quasi ad anticipare prodigi e terro­
ri di una nuova era. Famiglie di nani itineranti. «Il Selvaggio
del Borneo.» Rimedi manifestamente di fantasia. Cadaveri vi­
venti, riesumati di fronte ai tuoi occhi. Per i venticinque cente­
simi del biglietto d’ingresso si poteva assistere al seppellimento
del signor Tod Browning (inaspettatamente «morto» il giorno
precedente) e ricevere una contromarca per la sua esumazione
e resurrezione la sera seguente. Una prova di un giorno era la
norma; il seppellimento per due era più complicato, pur se

19
uavia /. veai

maggiormente spettacolare: un camuffamento da freak show


di fine settimana pasquale, e una garanzia di successo di massa?
La prima volta era stata la peggiore. «Quando sentii la
terra precipitare sulla bara, cominciai seriamente a tremare»,
raccontò Browning a un giornalista diversi anni dopo. Col
tempo, arrivò quasi ad apprezzare quella reclusione. Le lunghe
ore sottoterra, disse, erano particolarmente favorevoli alla ri­
flessione, ed egli ne ricavò il massimo. Nella considerazione
del suo intervistatore, «quel periodo di pensiero intensivo con­
tribuì enormemente a delineare il destino di Tod e fu l’occasio­
ne per destare la scintilla di genio che riposava dentro di lui».1
A cosa mai si può pensare negli angusti confini di una bara
di legno, a due metri sotto il suolo, sovrastati da una tonnellata
di terra? Browning non era un maestro di respirazione yoga
(la cassa conteneva un sistema di ventilazione nascosto, oltre
a un pannello scorrevole che celava la provvista salvavita di
caramelle al malto), così si può presumere che durante la pro­
va restasse in uno stato di coscienza più o meno inalterato. Ma
nel corso di cinque anni trascorsi sulla strada vi erano stati
indubbiamente grossi cambiamenti nella sua vita. Non era più
Charles Browning, il ragazzo del coro di Louisville la cui voce
angelica aveva ammaliato i fedeli. Adesso era Tod Browning,
una persona senza fissa dimora che si ingegnava a vivere da
solo, spinto dall’eccitazione di facili guadagni. U mondo era
pieno di bifolchi da abbindolare. Era la maggiore risorsa ame­
ricana, questa fame di spettacolo e miracolo, non importa
quanto pacchiani o palesemente falsi. Sempre meglio che lavo­
rare.
Charles Albert Browning era nato a Louisville, nel Kentuc­
ky, il 12 luglio 1880,2 secondogenito di Charles Lester Brown­
ing e Lydia Jane Fitzgerald Browning. Non era l’unico mem­
bro della sua famiglia in sintonia con la febbre per le ossessioni
e i passatempi popolari: in passato suo zio, Pete Browning
«il Gladiatore» (1861-1905), era stato un celebre giocatore di
baseball, leggendario battitore per il quale fu originariamente
progettata la mazza chiamata «Louisville Slugger» (il picchia­
tore di Louisville).3 Pete Browning era un chiacchierato sporti-

20
The Mounter Show

vo, esplosivo c superstizioso che si godeva la celebrità. Era


anche un alcolizzato che celiava: «Non riesco ad addomestica­
re la palla finche non ho addomesticato la bottiglia». La sua
squadra, il Louisville Baseball Club, una volta lo aveva lasciato
a piedi dopo una partita perché troppo ubriaco per trovare il
treno. Nulla si sa dei rapporti di Charles con lo zio, ma le
fortune del nipote si sarebbero colorate di un’analoga mesco­
lanza di spettacolarità e alcolismo. Browning aveva un fratello
maggiore, Avery, che finì col diventare un fortunato mercante
di carbone.
Il ragazzo dimostrò una precoce attitudine alla recitazione,
e durante le vacanze scolastiche cominciò a calcare le scene
dei dilettanti in una baracca, a volte cambiandone anche cin­
que durante la «stagione» estiva. «Un ragazzo vivace», lo
avrebbe in seguito definito un giornalista di Louisville, «bril­
lante come una moneta nuova di zecca e sempre pronto alla
grande occasione.»4 Da ragazzo cantava nel coro della storica
Christ Church Cathedral di Louisville, dove il pubblico poteva
ascoltare la sua notevole voce (ci fu chi si spinse a dichiararlo
un «fenomeno infantile» in senso vittoriano) gratis. Nel suo
cortile, invece, raccoglieva un prezzo d’ingresso, dapprima in
spilli e poi in penny. Dieci centesimi significavano un buon
guadagno. Scrisse, diresse e recitò in produzioni che spaziava­
no dai musical ai melodrammi, e i suoi spettacoli attiravano un
pubblico considerevolmente maggiore delle recite a pagamen­
to dei ragazzini rivali. «Conosceva il proprio pubblico e ne
studiava i desideri», scriveva nel 1928 il «Louisville Herald-
Post ». «Scoprì che se si dà al pubblico un prodotto in cambio
di denaro, il pubblico è tuo, anima, corpo e deretano. E questo
comprende entrambi i sessi di suddetto pubblico, perché en­
trambi i sessi sono portatori di deretano.»5
Browning si iscrisse alla High School tra 1’8* e Chestnut,
senza mai conseguire il diploma. Il richiamo seducente del
grande spettacolo era troppo prepotente per un ragazzo con
un forte desiderio di mettere in piedi qualcosa, e Louisville
abbondava di tentazioni. Era un porto di evidente richiamo
per le imbarcazioni di grosso tonnellaggio, ma anche per i cir­
chi e le compagnie di repertorio che viaggiavano col treno di

21
J.

città in città. Crescere nella zona del Kentucky Derby incorag­


giava inoltre un amore imperituro per un passatempo quale
l’ippica. Il Derby attirava schiere di zingari,6 per i quali il ra­
gazzo provava forte attrazione e affinità. Nonostante gli ammo­
nimenti dei genitori, visitò i loro accampamenti e si guadagnò
il più possibile la loro fiducia: in quanto gente di spettacolo,
gli zingari facevano clan e sprezzavano gli intrusi. La cultura
intorno a loro esisteva solo per essere truffata, imbrogliata,
sfruttata e derisa.
A sedici anni Charles si prese una cotta per una ballerina,
una «regina del baraccone» nella Manhattan Fair & Carnival
Company allora di passaggio a Louisville. L’attrazione sessuale
gli fornì la spinta decisiva a intraprendere ciò che covava da
anni. Nell’estate del 1896, soddisfo un’archetipica fantasia
americana: scappare col circo.
La fuga dalla vita e dalle responsabilità convenzionali è
una delle grandi molle per la trasformazione nell’arte e nella
cultura americane; Browning marchiò la propria trasformazio­
ne cambiandosi il nome in Tod per poi partire per un viaggio
battesimale su e giù per i fiumi Ohio e Mississippi. Quelle
acque dovevano contenere una proporzione insolitamente alta
di sedimenti, perche il ragazzo gravitò in fretta e con gusto
verso gli strati più bassi della vita circense: «latrava» come
contrappunto a un finto «Selvaggio del Borneo». I finti selvag­
gi erano separati solo da un’inezia dal nadir assoluto nelle at­
trazioni da baraccone: il geek. Di frequente un alcolizzato col
cervello fuori uso, il geek staccava a morsi le teste di topi e
galline spesso solo in cambio della sua prossima bottiglia. Il
«Selvaggio» di Browning era in realtà un nero del Mississippi
con un trucco esotico; Browning inoltre abbelliva i propri im­
bonimenti con modificazioni polisillabiche del tipo reso popo­
lare da R.F. «Tody» Hamilton, leggendario addetto stampa
per i circhi Bamum e Bailey negli anni Ottanta e Novanta del
XIX secolo. («Il tetro e torreggiarne Tody!» ricostruiva un
collega di Hamilton, sforzandosi di imitare l’inimitabile. «E la
sua trasmutazione trasmessa e traslata in tonnellate di lingue
da trainanti torride tremende storie in terre traboccanti di tizi
e trasformano triti e tristi trastulli in truismi terribilmente tosti

22
The Monger Show

c trinitari.»1 Sempre secondo Hamilton, «definire un fatto in


termini ordinari significa consentire un dubbio riguardante la
sua veridicità».8) Browning adottò gli elenchi di pomposi ag­
gettivi di Hamilton, e li usò, appropriati o meno che fossero.
Per i bifolchi, un parolone valeva un altro.
Per certi ragazzi, il richiamo del mondo dello spettacolo,
compendiato nel romanzo per bambini eternamente popolare
Toby Tyler, or Ten Weeks with the Circus di James Otis (1881),
è romantico e idealizzato. Ma per ciascun Toby Tyler dagli
occhi sgranati pieni di sogni di splendente successo, esiste pure
un Tod Browning, subito a proprio agio fra le ombre del poz­
zo dei mostri. Il grande scrittore di fantascienza Ray Bradbury,
cresciuto con l’amore per i film creati da Tod Browning e Lon
Chaney negli anni Venti, in seguito avrebbe posto al centro
della propria opera immagini dell’«oscura giostra»: nere ruote
di barconi che si stagliano nette contro cieli opprimenti; entità
prive di nome e di forma esibite in barattoli di formalina; e
l’intuizione dei bambini che i luccicanti divertimenti dell’in­
fanzia a volte arrivano talvolta in piena notte su treni funerei
drappeggiati di nastri neri. Leslie Fiedler, discutendo le cor­
renti sotterranee ugualmente oscure di Huckleberry Tinn e altri
classici americani, osserva che «la nostra letteratura nel suo
insieme a volte pare una camera degli orrori travestita da parco
dei divertimenti, dove paghiamo per giocare col terrore e nella
camera più remota siamo posti di fronte a una serie di specchi
incrociati che ci restituiscono un migliaio di versioni del nostro
volto».9
Le fiere e i circhi hanno previsto incontri ravvicinati con
il macabro sin dagli esordi. Il sergente maggiore Philip Astley
(nato nel 1742), l’inglese inventore della moderna pista da cir­
co presto adottata anche nei baracconi, presentava fenomeni
sia animali sia umani e altre bizzarre attrazioni. Secondo lo
storico circense Peter Verney, « Astley, e gli impresari che lo
seguirono, erano sempre pronti a sfruttare l’ultima attrazione.
La ghigliottina, “secondo l’uso francese”, portò sciami di cu­
riosi nel suo anfiteatro, mentre le teste di cera riportate dalle
trasferte parigine si rivelarono un’attrazione ancora maggio­
re».10 Il P.T. Barnum’s American Museum, fondato a New

23
LOIVIU J. JKOI

York nel 1841, era un luogo di divertimento per tutti i gusti,


incentrato sugli scherzi di natura. Secondo lo storico di freak­
show Robert Bogdan, il gabinetto di stranezze di Barnum
«non era una volgare operazione ai margini dell’America vitto­
riana; era, invece, decisamente alla moda e legittimata».11
L’interesse maggiore per Bamum fu l’American Museum an­
cora più del circo. «L’idea fu più di un successo», scrive Bog­
dan, «fu una forza nazionale.»12 Nani, pinheads, gemelli sia­
mesi, albini, giganti per altezza e stazza diventarono tutti mate­
ria prima del tempo libero americano. La ricerca di attrazioni
bizzarre era quasi senza fondo, ma raggiunse un ragguardevole
nadir con il tentativo da parte del Sells-Floto Circus, negli anni
Settanta del XIX secolo, di assumere Al Packer, il celebre can­
nibale sopravvissuto alla giungla, come attrazione. Packer ri­
tenne giusto declinare la lucrosa offerta: fu la prima pugnalata
all’industria del divertimento animata dagli impresari circensi
Frederick G. Bonfils e Harry H. Tammen (altresì cofondatori
del «Denver Post»).
I «passatempi» popolari hanno un rovescio spesso assai
poco solare, e proprio la parola «ricreazione» possiede qual­
che connotazione di norma trascurata. Qualsiasi processo di
ricreazione o rinascita comporta necessariamente una morte di
qualche genere. Ciò può spiegare la prevalenza di intimazioni
di mortalità all’acqua di rose nei baracconi e nei parchi di
divertimento: esibizioni di fantasmi, corse folli con immersioni
da infarto e collisioni evitate per un soffio, e le onnipresenti
ruote e giostre turbinose di caso, fato e destino, in moto perpe­
tuo. Analogamente, i fenomeni da baraccone ci offrono uno
spaccato in cui riconoscerci, ricreati seguendo bizzarre linee
fisiche o comportamentali. Nulla è fìsso, e tutto è possibile.
La prima fase della carriera di Tod Browning fu un coa­
cervo di possibilità; l’insieme dei suoi numeri da professionista
fa venire il mal di testa, ed è arduo ricordare un’altra persona­
lità le cui attività informassero a tal punto l’intrattenimento
popolare americano a cavallo dei due secoli. Il suo curriculum
era un bizzarro pasticcio. Dopo l’iniziale, misero imbonimento
del presunto Selvaggio in Kentucky, Virginia e West Virginia,
imparò a liberarsi dalle manette, alla Houdini, senza l’aiuto di

24
The Montier Show

chiavi. Trascorse una stagione come pagliaccio con il Ringling


Brothers Circus, seguita da un lavoro come fantino e stalliere
per Virginia Carroll, una rinomata cavallerizza del Sud. Andò
a Chicago per fare l’imbonitore in uno spettacolo itinerante
conosciuto col nome di The Deep Sea Divers (Gli avventurieri
delle profondità marine). Unitosi al già menzionato spettacolo
galleggiante, impersonò il macabro «Cadavere Vivente» per
due anni, finché le autorità di Madison, nell’indiana, non in­
terruppero lo spettacolo per violazione del Sabbath e perpe­
tuazione di frode. Lo spettacolo fu multato per 14,7 dollari:
l’insieme dei proventi dell’intera compagnia.
Browning si rivolse al varietà, dove resuscitò il suo talento
di cantante e aggiunse al proprio repertorio lo slapstick e il
burlesque, numeri in assolo di velocissimi tip tap e un numero
di menestrello dal muso nero in uno spettacolo chiamato The
Whirl of Mirth (Il vortice della gioia). Sosteneva di aver recita­
to a San Francisco il giorno del terremoto del 1906. In qualità
di membro della Willard & King Company, imparò un nume­
ro di contorsionista, gradito alle platee europei, africane e
orientali. Altri accrediti della stampa comprendono referenze
lavorative in qualità di acrobata, trapezista e illusionista. Ben­
ché non sia possibile verificare ciascuna credenziale - è presu­
mibile che Browning sapesse dare ai giornalisti, così come al
pubblico, esattamente ciò che desideravano -, lo spettro della
sua esperienza è ragguardevole sotto qualunque metro di valu­
tazione. E se il suo confuso curriculum ha un senso, è che non
aveva ancora trovato il mezzo migliore per utilizzare il proprio
multiforme talento.
Anche il cinema, come Browning, aveva iniziato la propria
carriera come attrazione da fiera, una curiosità ai margini dello
spettacolo tradizionale. Nel giro di pochi frenetici anni, la tec­
nologia cinematografica era progredita dai nickelodeon alle
pellicole narrative a due rulli. H cinema si evolveva con rapidi­
tà maggiore del vocabolario per definirlo. Maksim Gor’kij, che
scriveva circa nello stesso periodo in cui Tod Browning era
fuggito con il circo, trovava il cinema non tanto uno svago
quanto un incubo tecnologico, un’invenzione che minacciava
di alterare i sensi e di conferire una specie di morte-vivente

25
varia / 3 AM/

allo spettatore, «una vita priva di colore e di suoni... la vita


dei fantasmi».13 Incubo o meno, non era mai stato possibile
in precedenza agli esseri umani creare, riprodurre e condivide­
re un simulacro tanto evocativo della condizione onirica. A
Parigi Georges Méliès acchiappò al volo le possibilità sostan­
zialmente infinite dell’immagine in movimento, e il suo studio
fu soprattutto un laboratorio dell’effetto speciale come raison
d’etre cinematica. In America si incoraggiarono mezzi più di­
retti e viscerali per padroneggiare e sconvolgere un pubblico:
locomotive precipitate a tutta velocità contro lo schermo, per
esempio, o un bandito che sparava con la sua pistola diretta-
mente nell’occhio della cinepresa (questi effetti furono impie­
gati nel 1903 da Edwin S. Porter in The Great Train Robbery
[t. lett.: La grande rapina al treno]). Per quanto deboli possa­
no sembrare ai giorni nostri tali tecniche, un tempo avevano il
potere di far svenire gli spettatori.
Nel 1913, non ancora trentatreenne, Tod Browning fu
presentato a un compaesano del Kentucky emigrato a New
York, David Wark Griffith, che gli offrì una parte in una com­
media a due bobine, Scenting a Terrible Crime (t. lett.: Un
tanfo di crimini terribili), che stava producendo nello studio
Biograph di stanza nel Bronx. Benché si trattasse di un piccolo
ruolo, aveva una discreta rilevanza, sia per la sua carriera in
quel momento sia per il successo futuro: gli toccò la parte del
becchino.
Griffith si portò Browning a I lollywood una volta a capo
della produzione per le compagnie Reliance e Majestic, dove
Tod recitò in commedie di un rullo sputate fuori a ritmo setti­
manale. Nella primavera del 1915 si era già avventurato nella
regia. Nella colonia del cinema le sue fortune parevano garan­
tite, anche se il mondo stava scivolando nella guerra. Ma il lato
solare di Tod Browning era sul punto di tramontare per sem­
pre. Era attaccato alla bottiglia e al rischio; chi cresce secondo
le regole del circo non sviluppa sempre il rispetto per la pro­
prietà, o le leggi. Gli piaceva divertirsi. «Aveva un debole per
le macchine vistose», ricordava il regista Raoul Walsh. «Sup­
pongo che andasse di pari passo con il whiskey.»14 Le auto
divenivano ogni giorno più veloci, a dispetto degli insignifican­

26
The Monster Show

ti nuovi «limiti di velocità» spuntati un po’ dappertutto. Le


patenti di guida erano una novità delTultim’ora.
La rivista cinematografica della Mutual, «Reel Life», nel
1914 tracciò un profilo di Browning insinuando scherzosa­
mente che la sua conoscenza dei trucchi sulle manette avrebbe
potuto rivelarsi utile nel caso la «mania per la velocità» dell’at­
tore lo mettesse nei pasticci.15 L’ironia si rivelò sgradevolmen­
te profetica. Qualche settimana prima del suo trentacinquesi­
mo compleanno si verificò il primo punto cruciale nel rullo
citila vita di Tod Browning. Era il 16 giugno 1915.

Un ' altra tragedia al Vernon

L'INCHIESTA
SULLA CORSA MORTALE

DUE DONNE NELL'AUTOMOBILE


DELL ' ATTORE UCCISO?

Finché gli altri due artisti


feriti non potranno parlare,
sul mistero graverà un'ombra.

«Fino a quando Todd (szc) A. Browning e George A. Seig-


mann non miglioreranno abbastanza per essere interrogati»,
riferiva il «Los Angeles Times» il 17 giugno, «rimarrà in so­
speso l’inchiesta sulla tragica corsa automobilistica che nelle
prime ore del mattino ha portato alla morte di Elmer Booth,
celebre attore cinematografico, e al ferimento tanto grave dei
suoi due compagni, le cui vite appunto sono ancora incerte. »
Il trentaduenne Booth
* era un comico promettente sia sul pal­

* La morte prematura di Booth originò un’eminente carriera hollywoodiana.


D.W. Griffith assunse la sorella minore di Booth, Margaret, come taglianega-
rivi al fine di assicurare un reddito alla famiglia Booth. Margaret Booth finì
col diventare uno dei più rispettati montatori dell’industria cinematografica,
e fu a capo del settore montaggio della MGM dal 1937 al 1968. Nel 1990
ebbe l’onore di ricevere un premio alla carriera dall'American Cinema Edi­
tors. Pare che non abbia mai perdonato Browning per l’incidente. Lo scritto­
re Elias Savada, che cercò di intervistarla sull’argomento negli anni Settanta,

27
coscenico sia al cinema, ed era apparso recentemente nel succes­
so di Broadway Stop Thief. Anche Seigmann era un attore^di
chiara fama che aveva appena raggiunto la notorietà con il ruolo
del mulatto nel film di Griffith The Clansman, in seguito noto
come Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1914).
L’incidente, secondo il «Times», «si inserisce nella lunga
lista di tragedie occorse ai frequentatori del Vernon Country
Club, un locale lungo la strada. La reticenza dei sopravvissuti
a rivelare il numero di passeggeri nell’auto ha prodotto un’in­
chiesta della polizia per determinare se fra l’allegra brigata di
ritorno dai bagordi vi fossero anche due donne». Booth morì
all’istante quando la vettura, guidata da Browning, si scontrò
con un pianale ferroviario carico di rotaie d’acciaio. Il condu­
cente del treno aveva agitato inutilmente una lanterna in segno
di pericolo. L’auto colpì il pianale a tutta velocità, ed Elmer
Booth fu proiettato a testa in avanti contro le rotaie sporgenti.
«I fori sul cranio», riportava il «Times», «erano dritti e rego­
lari come il disegno di una cialda appena sfornata. » Seigmann
riportò la frattura di quattro costole, una profonda lacerazione
alla coscia e ferite interne. Le condizioni di Browning erano
decisamente peggiori; il «San Francisco Chronicle» predisse
seccamente che «sarebbe probabilmente morto».16 Aveva la
gamba destra spezzata, il corpo «atrocemente ferito e ammac­
cato» con lacerazioni al braccio e in viso, oltre alle gravi, non
meglio precisate ferite interne che «[rendevano] dubbia una
ripresa».17
Browning venne trasferito al California Hospital, si presu­
me per morirvi. Si era costruito una carriera a base di azzardi
e truffe alla Houdini, ma il contenitore che ora lo bloccava era
il suo corpo ferito e debilitato. Una parte di lui era già morta;
il buffone estroverso dei due rulli, a differenza del «Cadavere
Vivente», non si sarebbe più fatto vedere.
Nel frattempo in Europa infuriava una grossa guerra, che
distruggeva e ricreava l’ordine umano. Il cinema e il circo na­
turalmente sarebbero sopravvissuti al massacro, ma avrebbero

ricorda la sua glaciale risposta: «Si aspetta che io parli dell’uomo che ha
ucciso mio fratello?» (N.d.A.)

28
The Monster Show

sviluppato nuove psicotiche forme di reazione a un paesaggio


di morte in massa. Anche per Tod Browning cominciava a
delinearsi la visione di un oscuro nuovo spettacolo che lo
avrebbe attirato con la potenza dei circhi viaggianti: un circo
cinematografico di paura e ombre, provenienti dai recessi del
sarcofago dell’io.

29
«Tu diventerai Caligari.»
Mostri, millantatori e modernismo

In tempo di guerra il diavolo


fa più spazio all’inferno.
Vecchio proverbio tedesco

Tod Browning non fu l’unico imbonitore ambulante con un


numero da «Cadavere Vivente» a farsi strada nel cinema. Le
fiere e i circhi furono il laboratorio originale di attrazioni spa­
ventose e terrificanti, dai fenomeni da baraccone alle monta­
gne russe fino al trenino fantasma, e persino ai nickelodeon,
prototipi del cinema stesso. I raggiri galleggianti di Browning
a cavallo dei due secoli a volte si attiravano la tiepida ira delle
autorità locali, ma nel 1921 circolava una truffa di gran lunga
più nociva.
D 15 maggio 1921 qualcosa come duemila persone marcia­
rono sul Miller’s Theatre di Los Angeles in una dimostrazione
che si estese da mezzogiorno fino alle otto e mezzo di sera. Il
cuore della protesta era rappresentato dai membri della posta­
zione hollywoodiana dell’American Legion; diversi tra loro esi­
bivano segni di sfìgurazione permanente del recente servizio
militare. Gli ex soldati mutilati brandivano furiosi cartelli:
«Perché pagare una tassa bellica per vedere film tedeschi?»
La «tassa» era l’impressionante flusso (per svago) di sudati
soldi americani nei forzieri tedeschi; nei cinema americani
spuntava come funghi un numero limitato ma visibilmente in
crescita di film tedeschi e di altri Paesi, spesso con valori pro­
duttivi più elaborati dei prodotti nazionali. E benché il conflit­
to fra i due Paesi fosse terminato, la pace non era ancora stata
formalmente definita. Sussisteva ancora tecnicamente uno sta­
to di guerra.
Oltre ai veterani mutilati, la folla davanti al Miller’s Thea­
tre comprendeva centinaia di marinai della flotta sul Pacifico,
i membri locali della Motion Pictures Directors Association, e

30
The Momfer Show

una ressa di normali c oltraggiati civili. Col trascorrere delle


ore, l’energia della folla guadagnò importanza; quella che in
un primo momento era stata descritta come una «spettacolare
dimostrazione»1 al calar delle tenebre era degenerata in una
«selvaggia rivolta».2 La folla raggiunse proporzioni tali che
vennero chiamati i membri di riserva per supportare la polizia
locale, e la guardia militare della Marina tentò invano di calma­
re i militari in rivolta. Nella migliore tradizione del cinema, gli
scontri furono punteggiati da una mitragliata infinita di uova
marce.
L’oggetto della furia della folla era la prima di II gabinetto
del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari) \ prodotto a
Berlino dùe anni prima e presentato a New York il mese pre­
cedente con notevole consenso critico. Il riscontro viaggiava
comunque in una doppia direzione: la freschezza di Caligari
era inversamente proporzionale alla stagnazione tipica nei film
americani. Il critico newyorkese Kenneth MacGowan lo definì
«la più straordinaria produzione mai vista... la vicenda è di
gran lunga più stimolante ed emozionante di quasi tutti i nostri
prodotti nazionali». Caligari quindi era un «segnale di perico­
lo» per l’industria cinematografica americana, che denunciava
sintomi di inerzia artistica. «I produttori americani devono
scuotersi dal tran-tran della produzione seriale e dal mero
sperpero di denaro, e sforzarsi di prendere in considerazione
le piene possibilità della loro arte.»4
Lo scrittore e critico d’arte Willard Huntington Wright
offriva un’argomentazione analoga. «Ilgabinetto del dottor Ca­
ligari rappresenta la linea inevitabile lungo la quale deve evol­
versi il cinema», dichiarò a «Variety», «e il primo produttore
americano con l’intuito e il coraggio per intraprendere una
direzione analoga... non solo otterrà un successo finanziario,
ma sarà ricordato nella storia dell’industria cinematografica
americana come un grande uomo.» I film, inoltre, «sono giun­
ti a un impasse; ogni produttore onesto con se stesso dovrà
riconoscerlo. E necessario un cambiamento, e l’unico possibile
sta nelle idee del film su Caligari».5
L’impatto e la sorpresa di Caligari risiedevano nella sua
rottura con le convenzioni cinematografiche stabilite. Il film

31
David J. Sitai

era una fantastica storia di mistero, narrata in una maniera


visuale altrettanto fantastica. Le scenografie erano oblique e
distorte, le ombre create con vernice invece che luce. Tutto
era artificiale e stilizzato. Il mondo esterno esisteva per illumi­
nare un paesaggio interiore; svaniva qualsiasi pretesa di «reali­
smo». Una cesura analoga con le convenzioni visuali stabilite
era circolata per decenni sotto la superficie del mondo della
pittura e della scultura, quando il mezzo popolare del film era
appena nato.
È diffìcile sopravvalutare il genere di rivelazione che rap­
presentò Caligari per moltissimi spettatori, i quali avvertirono
di stare assistendo a un balzo evolutivo nel cinema comparabi­
le all’avvento del sonoro, o, decenni più tardi, con l’esperienza
totalizzante di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odys­
sey) di Stanley Kubrick, che nel 1968 ridefìnì in modo analogo
le possibilità cinematografiche dello spazio e della forma per
il largo pubblico. «Lo spazio ha ricevuto voce», scrisse uno
dei primi spettatori di Caligari, George Scheffauer, i cui com­
menti sul periodico newyorkese «The Freeman» furono consi­
derati tanto significativi da essere ripubblicati sul «New York
Times» con mesi di anticipo sulla prima americana del film.
Scheffauer vedeva il mondo cinematografico degli anni Venti
come una landa desolata colma di «bambole smorfiose coi
denti sempre ben in vista e occhi da gufo, cavalieri spiegazzati,
marionette imbellettate». Con Caligari, scriveva, «l’artista si è
insinuato in una cruda fantasmagoria e ha cominciato a
creare».6
Al contrario, i fogli agitatori come il «Los Angeles Exami­
ner», di proprietà di Hearst, che sfoggiava nella sua testata il
motto PRIMA L’AMERICA, avevano poca confidenza con le
conquiste artistiche. (Con uno sguardo retrospettivo è interes­
sante osservare come l’impero hearstiano abbia tentato di sop­
primere non uno, ma due dei film più importanti di ogni tem­
po: Caligari nel 1921 e Quarto potere [Citizen Kane] di Orson
Welles nel 1941.) Lo sciovinismo vendeva meglio di una valu­
tazione critica, e l’«Examiner» e il suo inchiostro davano l’im­
pressione dell’esistenza di una netta e tangibile sfida alla pre­
minenza dell’industria cinematografica americana, propugnan-

32
The Monger Show

do il bando immediato elei Him tedeschi. L. Auerbach, vicepre­


sidente della Export & Import Film Company Ine., chiarì laco­
nicamente la questione: «Forse gli agitatori non sono a cono­
scenza del fatto che il 95 per cento dei film distribuiti in tutto
il mondo sono americani»,7 dichiarò, e aggiunse che per ogni
film straniero distribuito negli Stati Uniti (due soli prima di
Caligari) ne circolavano in Germania venti americani. In quali­
tà di maggior esportatrice di film, l’America sarebbe stata la
nazione a rimetterci di più nel caso di restrizioni alle importa­
zioni che avrebbero comportato una violenta reazione interna­
zionale.
L’impresario cinematografico newyorkese S.L. «Roxy»
Rothafel intuì il tremendo potenziale di Caligari quando gli
venne offerto dal distributore americano Goldwyn, e non ri­
sparmiò alcuno sforzo promozionale e spettacolare. La prima
si tenne il 3 aprile 1921 al Rothafel’s Capitol Theatre tra la 51“
e Broadway. Il cinema era il prototipo del leggendario Roxy,
e offriva alle proprie pellicole una presentazione sontuosa; Ca­
ligari ricevette pieno accompagnamento orchestrale con un ta­
bleau vivant che apriva e chiudeva le proiezioni. Fu dato gran­
de risalto a manifesti artistici dai colori brillanti, eseguiti nel
cosiddetto stile «cubista» dal grafico Lionel Reiss. («Pare che
gridino dalle loro bacheche»,8 commentava «Moving Picture
World».)
Benché per descrivere Caligari si usasse quasi dappertutto
sulla stampa popolare la parola «cubista», lo stile del film ave­
va pochissimo da spartire con il movimento artistico d’avan­
guardia promosso da Georges Braque e Pablo Picasso, e forse
sintetizzato per il largo pubblico dal Nudo che scende una scala
di Marcel Duchamp (1912), una tela descritta mirabilmente da
un critico ostile comek« un’esplosione in una fabbrica di inse­
gne». Il vero cubismo prevedeva una stilizzazione angolare,
ma di norma verteva intorno a prospettive simultanee e so­
vrapposte. Caligari era più ispirato dall’espressionismo, in par­
ticolare teatrale, che forzava la prospettiva visiva convenziona­
le in configurazioni emotivamente connotate. Il cubismo, inve­
ce, era più analitico e scientifico. Caligari tuttavia presentava
angolazioni molteplici, e per gran parte della stampa e del

33
David J.

pubblico era inutile un’analisi ulteriore. Il film aveva «qualco­


sa a che fare con l’arte moderna», e tanto bastava.
A causa del suo immaginario indelebile, non è possibile
confondere un fotogramma del Gabinetto del dottor Caligari
con uno di un altro film. Poiché il film è noto a diverse perso­
ne che però non l’hanno mai visto, ci pare utile esporne la
trama.
Nella città di Holstenwall si svolge una fiera, ed è subito
evidente che non si tratta di una città, né di un film, ordinari.
Se gli attori hanno corpi e volti convenzionali, il mondo in cui
si muovono è composto di ombre soffocanti e angoli di origine
onirica. L’immagine dominante è l’ambiente della fiera, con la
sua folle e scalcinata giostra. In questo mondo arranca una
strana e occhialuta figura, un ipnotizzatore chiamato dottor
Caligari (Werner Krauss), che cerca di ottenere dal segretario
comunale un permesso per esibire alla fiera un sonnambulo.
Il funzionario accorda il permesso, ma solo dopo aver insultato
il ciarlatano. Quella notte stessa, il segretario viene ucciso nella
propria stanza.
La notte seguente due studenti, Francis (Friedrich Feher)
e Alan (Hans Heinz von Twardowski), entrambi innamorati
della stessa ragazza, Jane (Lil Dagover), l’accompagnano alla
fiera. Entrano nella tenda di Caligari e rimangono affascinati
quando l’ipnotizzatore presenta il sonnambulo Cesare (Conrad
Veidt), un uomo dall’aria cadaverica che dorme in piedi in una
cassa di legno. Caligari proclama che Cesare ha dormito per
vent’anni, ma che in stato di veglia sarà in grado di rispondere
alle domande del pubblico riguardo al futuro. Alan sbotta in
una richiesta ansiosa: «Quanto vivrò?» E la secca risposta è:
«Fino all’alba di domani».
Il mattino seguente Francis apprende che il suo amico è
stato pugnalato a morte. Sospetta di Caligari e Cesare, e ottie­
ne l’aiuto del padre di Jane per le indagini. Una notte, mentre
Francis spia Caligari e quello che crede Cesare nella sua cassa,
il vero sonnambulo entra nella stanza di Jane agli ordini dell’il­
lusionista e brandisce un coltello per pugnalarla. Lei si sveglia,
resiste, sviene. Cesare, preso da panico o pietà, non uccide
Jane ma la rapisce e la trasporta nel celebre labirinto scenogra-

34
The Mon\lrr Show

fico, espressionista e zigzagante. La abbandona ai piedi di un


ponte quando una folla guidata dal padre di Jane minaccia di
linciarlo, e muore di consunzione. Francis scopre che Caligari,
in realtà direttore di un manicomio del luogo, è un uomo tanto
ossessionato da un’antica leggenda su un ipnotizzatore e il suo
sonnambulo omicida da non poter fare a meno di interpretare
lui stesso la storia. Messo a confronto con il cadavere di Cesa­
re, Caligari diviene pazzo furioso e gli viene messa la camicia
di forza.
Questa la storia concepita originariamente dagli sceneggia­
tori Carl Mayer e Hans Janowitz come parabola politica sullo
sfrenato autoritarismo seguito al cataclisma bellico. Caligari
simboleggiava lo Stato, mentre Cesare rappresentava le masse
di sonnambuli spedite a uccidere ed essere uccise. La vicenda
inoltre ricopriva per i due uomini più di un significato metafo­
rico. Janowitz era stato perseguitato da uno psichiatra militare,
e costretto a sottoporsi a diversi test mentali contro la propria
volontà; l’esperienza lo aveva segnato. E insieme a Janowitz,
Mayer aveva assistito a uno spettacolo da fiera chiamato «Uo­
mo o macchina», con «un forzuto che riportava miracoli di
potenza in uno stato di stupore apparente. Si comportava co­
me sotto ipnosi. La cosa più strana era che accompagnava i
suoi movimenti con affermazioni che colpivano gli spettatori
incantati come presagi densi di significato».9
I due sceneggiatori acconsentirono a incaricare il pittore
cecoslovacco Alfred Kubin dell’allestimento scenografico. Ku-
bin, un protosurrealista che riusciva senza sforzo a estrarre
il lato angoscioso dagli oggetti quotidiani (fra i suoi dipinti
ricordiamo una tela nello stile di Bosch intitolata Le fauci, dove
un’anonima massa d’umanità marcia verso un’enorme bocca
triturante), fu licenziato dai produttori, che affidarono l’incari­
co al grafico Hermann Warm, e gli commissionarono le scene
definitive. Gli autori possono aver provato delusione per la
perdita di Kubin, ma furono orripilati di fronte al cambiamen­
to imposto dal produttore Erich Pommer e dal regista Robert
Wiene alla loro sceneggiatura originale. L’intera vicenda ora
veniva incorniciata da un prologo e un epilogo, per cui il rac­
conto non risultava altro che il delirio di un folle (in una prece­

35
David /. Mal

dente versione del copione, Francis, ora medico affermato,


raccontava la storia agli amici). Lo stesso Caligari veniva pre­
sentato come una figura tragica, vittima di una malattia menta­
le. In un colpo solo, lo sfondo politico del film veniva cancella­
to, almeno nel pensiero dei suoi autori.10 Come avrebbe in
seguito commentato lo storico del cinema Siegfried Kracauer:
«Un film rivoluzionario, seguendo il logoro schema di dichia­
rare folle un individuo normale ma turbato e di spedirlo in un
manicomio, diventava conformista».11 Inoltre, come sempre,
i produttori temevano di sfidare il gusto convenzionale con
contraccolpi economici. L’uomo della strada avrebbe conside­
rato folli i temi e le immagini di Caligari, e dunque aveva biso­
gno di rassicurazioni sulla correttezza delle proprie opinioni.
Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, ultimato
alla fine del 1919, fu distribuito dalla Decla-Bioscop nel feb­
braio 1920.1 manifesti dichiaravano: «Du musst Caligari Wer-
den» - «Tu diventerai Caligari», un comando e insieme una
profezia. Il pubblico berlinese apprezzò il film - un istantaneo
trionfo commerciale, non solo un succès d’estime^2- - anche se
fraintese le intenzioni espressionistiche dell’opera. Molti riten­
nero che le scene fossero rappresentazioni letterali della visuale
soggettiva di un folle. Le interpretazioni belliche sarebbero se­
guite molto più tardi, nonostante l’evocazione quasi trasparen­
te della guerra come forza divisoria di controllo soprannaturale
nella prima didascalia del film: «Gli spiriti sono ovunque...
Tutt’intomo a noi... Mi hanno allontanato dal focolare dome­
stico, da mia moglie e dai miei figli».
Attentamente promosso dalla Goldwyn in occasione della
sua distribuzione americana l’anno successivo, Caligari montò
un furore pretenzioso, che sfruttava la xenofobia postbellica e
la tradizionale insicurezza degli americani in materia artistica.
Caligari fu una sorta di razzo culturale lanciato dall’Europa
nel vuoto, un guanto di sfida non lanciato, ma proiettato sullo
schermo tremante delle insicurezze americane. E non arrivò da
solo: fu attorniato da tutti quegli enigmatici nuovi compositori
europei che il pubblico si sforzava di assimilare. H ben conge­
gnato accompagnamento orchestrale dal vivo fornito da Roxy
Rothafel fu accolto favorevolmente. «L’allestimento musicale

36
The Monger Show

per la produzione è superbo», scrisse un critico, «perché an­


che in quest’arte è stata accolta la lezione dei moderni. Ricchi,
bizzarri c bellissimi temi da Strauss, Debussy, Schonberg-e
Stravinsky contribuiscono complessivamente a un’atmosfera di
meravigliosa vitalità... A tratti... si avverte l’approdo alla lunga­
mente sognata trilogia wagneriana di musica, azione e colo­
re. »15 Curiosamente, non esiste testimonianza neppure di una
ricostruzione di tale ambizioso accompagnamento musicale;
diverse riproposizioni di Caligari non vanno oltre a un melo­
drammatico accompagnamento di piano o organo nel generico
stile «da film muto». Il riferimento al «colore» del film è una
probabile allusione alla pratica allora diffusa di dipingere le
pellicole. Caligari viene spesso considerato un archetipo di ri­
presa in bianco e nero; tuttavia l’intenzione dell’effetto origina­
le comprendeva i colori verde, marrone e blu acciaio.14
«The National Board of Review Magazine» osservava:

Per la prima volta in America ecco una prova cinematografica


di almeno qualcosa paragonabile al punto di vista del «dadai­
smo», secondo il quale ogni cosa è ugualmente importante:
una sorta di riflessione nel mondo della rappresentazione pla­
stica dei concetti sulla relatività che stanno mettendo in sub­
buglio matematici e astronomi.. Di conseguenza questa pelli­
cola si inserisce nella corrente del pensiero vivo... fa apparire
la salute mentale relativa quanto la follia e costituisce un con­
trappeso considerevole alla tendenza americana alla presun­
zione intellettuale.15

«Variety», pur se scettico, si mostrò incuriosito. «Può cat­


turare il favore popolare», concedeva il giornale, paragonando
il film a un ben congegnato racconto di Poe. «Ma è morboso.
Come di norma le creazioni continentali.»16 «Moving Picture
World», tradendo un pregiudizio culturale, ne lodò tiepida­
mente gli elementi tecnici definendolo al contempo «un’inven­
zione degenerata della Germania», aggiungendo che gli anni
postbellici richiedevano «narrazioni sane e profìcue, non dosi
allopatiche di morboso e grottesco».17 In coda all’articolo, la
pubblicazione offriva «consigli per l’uso», dei quali il più po-

1“7
David J. Skal

labile era: «Giocate sulla novità del film e passate sotto silen­
zio la sua origine tedesca».
I giornali di Hearst, diretti al grosso pubblico più che al­
l’industria, ignorarono completamente il suggerimento, con il
risultato dei disordini al Miller’s Theatre di Los Angeles il 15
maggio. Upton Sinclair usò l’incidente come cornice per il ro­
manzo They Call Me Carpenter (1922). Il narratore, Billy, viene
persuaso a comprendere Caligari («Uno strano, bizzarro feno­
meno dell’arte cinematografica»18), da un critico letterario te­
desco in visita, il dottor Henner, che ha già visto il film diverse
volte. «Non si riesce mai a conoscere abbastanza questi stra­
nieri acculturati», riferisce Billy al lettore. «I loro modi sono
simili al velluto più morbido, così a parlarci ci si sente come
un gatto persiano quando viene accarezzato. Hanno letto tutto
lo scibile umano; parlano con silenziosa sicurezza; e sono così
vecchi, vecchi nei ricordi di dolori razziali stipati nell’ani­
ma.»19 Henner, celiando, gli dice: «Questo film non sarebbe
mai stato possibile in America. Per un unico motivo, che quasi
tutti i personaggi sono magri... Non si trovano attori americani
in queste condizioni. Forse vi preoccupate tanto della vita arti­
stica da assumervi il rischio di soffrire la fame per questo?»20
La folla in subbuglio dissuade il dottore tedesco dall’entra­
re nel cinema, ma Billy riesce a procurarsi un biglietto; preve­
dibilmente impressionato dalla bizzarra pellicola, «mi diressi
verso l’uscita del teatro, e si aprì una porta girevole; sulle mie
orecchie si rovesciò un frastuono che sarebbe potuto provenire
direttamente dall’interno del manicomio del dottor Caligari.
“Ehi, tu. Buu, buu! Vergogna! Lasci il tuo popolo a morire di
fame, e mandi i tuoi soldi al nemico”.

Per tutto il tempo - un’ora o più - trascorso rapito dalle ali


dell’immaginazione, quei poveri sempliciotti avevano ululato
e schiamazzato all’esterno del cinema, tenendone lontani i
passanti, e finendo per caricarsi fino alla furia! Per un istante
pensai di uscire a ragionarci; credevano erroneamente che nel
film ci fossero riferimenti alla guerra, e che fosse antiamerica­
no. Ma mi resi conto che avevano perduto la ragione.21

La teppa attacca Billy, che si rifugia in una chiesa. Segue

38
The Monger Slum'

un bizzarro racconto del Secondo Avvento, che infine si rivela


solo un sogno, proprio come la storia di Caligari.
In realtà, le botte ispira-deliri subite da Billy furono proba­
bilmente le peggiori ferite riportate nei tumulti del Miller’s
Theater. L’«Examiner» riferì: «Una calca fremente di quasi
duemila persone si è mutata in ordinato raduno in un batter
d’occhio quando Roy H. Marshall, diplomatico dell’Holly-
wood Post of the American Legion, salì su una scala e annun­
ciò da parte di Fred Miller, il proprietario, .che il film sarebbe
stato immediatamente ritirato».22 Per dimostrare la propria
buona fede, insieme alla disponibilità a «comprare america­
no», la folla sciamò nel cinema per vedere il film di rimpiazzo.
Piuttosto curiosamente, quella pellicola era The Money Chan­
gers (t. lett.: I cambiavaluta) di Benjamin Hampton, basato sul
romanzo di Upton Sinclair.
La discordia dei critici su Caligari, tuttavia, non si placò,
e non tutti i commentatori furono d’accordo con la posizione
della rivista cinematografica «Shadowland» - generalmente
condivisa -, per la quale Caligari «possiede le emozioni e i
turbamenti dell’arte».23 Due anni dopo, Ezra Pound si lamen­
tava ancora di Caligari. Obiettava che il film avrebbe dovuto
essere «essenzialmente cinematografico, e non un mero trave­
stimento e degradaziqme di un’arte diversa», e considerava il
film come un’ulteriore prova «del progressivo indebolimento
della mentalità popolare». Pound scrisse che Caligari «rubac­
chiava effetti visivi con codarda impertinenza, e poi veniva fuo­
ri con un avviso: “Questo film non è cubismo; rappresenta i
deliri eccetera”. Per essere precisi, deliri che i suoi ideatori
non avrebbero potuto concepire senza l’opera anticipatrice dei
nuovi artisti».24
Non c’è dubbio che Caligari fosse derivativo, ma condivi­
deva con i nuovi movimenti artistici una genuina fonte di ispi­
razione, per essere più precisi la grande guerra appena finita.
Il conflitto ebbe una tremenda influenza sugli artisti espressio­
nisti, dadaisti e del surrealismo emergente nel corso degli anni
Venti. Nel suo Anxious Visions, la storica dell’arte Sidra Stich
lega la preoccupazione surrealista per corpi deformi e sfigurati
all’improvvisa presenza, dopo la guerra, di una percentuale
David J. Skat

tangibile di feriti e mutilati. La tecnologia bellica moderna ave­


va introdotto approcci nuovi e precedentemente inconcepibili
alla distruzione o brutale ridefinizione del corpo umano. I con­
temporanei progressi della medicina moderna resero possibile
la sopravvivenza di soldati per ferite prima fatali. «L’invasione
della morte nel mondo dei vivi e la rappresentazione del corpo
umano così violentemente sfigurato dominano le configurazio­
ni surrealiste», scrive la studiosa. «Con quelle membra man­
canti, dislocate e sproporzionate, le figure surrealiste richiama­
no l’attenzione sul corpo come entità disunita nella quale pre­
valgono assenza e deficienza. » Le immagini surrealiste, osserva
la Stich, alterano pure le distinzioni evoluzionistiche e zoologi­
che. «Queste figure degradate e questa carne disfatta minano
profondamente i confini consueti che separano gli umani dalle
altre specie.»25
Nel 1921 comparve in Germania una nuova spaventosa
icona onorifica che, per la prima volta al cinema, sovrappose
recisamente l’umano e l’animale creando un’immagine di op­
primente terrore. F.W. Mumau presentò in Nosferatu il vampi­
ro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens) un vampiro dal
volto di ratto, il conte Orloc, il cui costume ovattato e le prote­
si al trucco avrebbero in seguito influenzato innumerevoli altri
film con mostri, benché, piuttosto curiosamente, pochissimi
vampiri.
Albin Grau, pittore e architetto tedesco (e, secondo la sto­
rica del cinema Lotte H. Eisner, fervente occultista26), pare
sia stato coinvolto nell’ideazione complessiva di Nosferatu il
vampiro molto più dello stesso Murnau, sebbene nella pellicola
fosse accreditato solo della scenografia. Grau pubblicò un sag­
gio intitolato Vampiri sul periodico tedesco «Biihne und
Film» nello stesso periodo della distribuzione del film; più che
discuterne la lavorazione, vi presentò i propri ricordi - molto
probabilmente romanzati - di un incidente bellico occorso in
Serbia. Grau e altri quattro commilitoni, bisognosi di spidoc­
chiarsi, intraprendono una guerra contro il potenziale bacillo
del tifo, usando le forcine al posto delle armi convenzionali.
Uno del gruppo, rumeno, narra una storia di vampirismo real­
mente accaduta. Suo padre, morto di infarto mentre tagliava

40
Thr Motufer Shotr

alberi nei Balcani, era stato seppellito privo della benedizione


di un prete. In seguito, di notte, la sua tomba fu trovata vuota,
col suo occupante divenuto un «non-morto», un vampiro. Il
narratore esibisce un documento ufficiale ingiallito che attesta
l’incidente e descrive la distruzione del padre-mostro con pa­
letto e incenerimento. «Quella notte», scriveva Grau, «non
chiudemmo occhio! Dalla fine della guerra sono passati anni.
Negli occhi degli uomini non si vede più il terrore della batta­
glia... La sofferenza e il dolore hanno sconvolto il cuore uma­
no, e sospeso il desiderio di comprendere la causa dei mo­
struosi eventi che hanno svuotato il mondo, come un vampiro
su scala cosmica che abbia succhiato il sangue di milioni di
persone. »27
Nosferatu era un adattamento non autorizzato - e forse
non il primo - del romanzo di vampiri Dracula di Bram Stoker
(1897). Un oscuro film intitolato Drakula era stato prodotto in
Ungheria l’anno precedente, con la regia di Karoly Lajthay e
la fotografìa di Lajos Gasser,28 e può benissimo aver ispirato
la Prana-Film, produttrice di Nosferatu, a perseguire un atto
di pirateria. In ogni caso Nosferatu fu un affare ad alto livello,
un ardito film «artistico» che attirò ben presto l’attenzione
della combattiva vedova di Stoker, Florence, la quale trascorse
quasi dieci anni nel tentativo di sopprimerlo e distruggerlo.
*
L’anno precedente, Murnau si era fatto le ossa su temi orrorifi-
ci con un’altra versione non autorizzata, quella di Lo strano
caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Intitolato Der Janu-
skopf (t. lett.: La testa di Giano), questo film perduto vedeva
fra gli interpreti Conrad Veidt e, in una parte di contorno, un
attore ungherese chiamato Bela Lugosi. Benché almeno una
recensione di Der Januskopf suggerisca che il film fosse stato
soppresso dagli eredi di Robert Louis Stevenson, un’indagine
dell’autore negli archivi della British Society of Authors sui
diritti di drammatizzazione per Jekyll non ha riportato alcuna

* Per un resoconto dettagliato dell’ossessiva battaglia di Florence Stoker con­


tro Nosferatu cfr. David J. Skal, Hollywood Gothic: The Tangled Web of
Dracula from Novel to Stage to Screen, New York, W.W. Norton & Compa­
ny 1990. (N.d.A.)

41
David J. Sitai

menzione di una controversia tedesca. Tuttavia la Società degli


Autori sostenne vigorosamente la causa di Florence Stoker
contro Nosferatu.
Come Caligari, anche Nosferatu ricevette una sofisticata
prima a Berlino con musica orchestrale originale di Hans Erd­
mann. Colorato ad arte di sfumature di giallo, azzurro, rosa e
seppia - e per un attimo, prima dell’attacco cruciale del vampi­
ro, di rosso sangue - Nosferatu cercava imperturbabile l’appro­
vazione dell’intellighenzia postbellica, e le sue immagini pesti­
lenziali furono generalmente considerate un riflesso della guer­
ra e del suo straziante lascito. Lotte Eisner commentava nello
Schermo demoniaco la predisposizione tedesca a un espressio­
nismo morboso: «Misticismo e magia, forze oscure a cui i tede­
schi sono sempre stati inclini ad abbandonarsi, erano fioriti di
fronte alla morte sui campi di battaglia. L’ecatombe di giovani
precocemente falciati dalla guerra sembrava nutrire la truce
nostalgia dei sopravvissuti. E i fantasmi che avevano ossessio­
nato il romanticismo tedesco riprendevano vita come le ombre
dell’Ade quando hanno bevuto sangue».29
Altri film significativi del periodo sul tema dei doppi (Dop­
pelganger) e del fantastico comprendevano II Golem (Der Go­
lem) di Paul Wegener, basato sulla creatura simil-Frankenstein
della leggenda ebraica. Wegener girò II Golem due volte, ap­
pena prima e dopo la guerra, nel 1914 e nel 1920. Nel 1924 il
regista di Caligari, Robert Wiene, si riunì con l’attore Conrad
Veidt per Le mani dell’altro (Orlacs Hàndes), in cui le mani di
un assassino vengono trapiantate sulla vittima di un incidente
e continuano a perseguire il vecchio interesse. H memorabile
racconto di Edgar Allan Poe sul doppio, William Wilson, fu
l’ispirazione dello Studente di Praga (Der Student von Prag,
1926). Lo Studente era stato prodotto originariamente nel 1913
con la regia di Stellan Rye; la versione del 1926 fu diretta da
Henryk Galeen, sceneggiatore di Nosferatu.
Benché questi film siano oggi considerati dei classici, sa­
rebbe erroneo ritenere che gli europei degli anni Venti fossero
uniformemente ipnotizzati dalle lusinghe di Nosferatu. In
Francia, André Gide definì il film di Mumau «un film tedesco
piuttosto anonimo, ma di una qualità anonima che costringe a

42
The Mon\lrr Show

riflettere e immaginare qualcosa di meglio». Poi continuava


anticipando profeticamente la direzione in cui i vampiri teatra­
li c cinematografici si sarebbero evoluti con il tempo:

Se dovessi rifarlo io il film, dipingerei Nosferatu... non terribi­


le e fantastico ma al contrario alla stregua di un giovane inof­
fensivo, di bell’aspetto e molto educato. Mi piacerebbe che
ogni motivo d’ansia venisse provocato solo in base a indica­
zioni molto vaghe, all’inizio, e prima nella mente dello spetta­
tore che in quella dell’eroe. Analogamente, non sarebbe mol­
to più spaventoso presentare il protagonista alla donna sotto
un aspetto piuttosto attraente? E un bacio che finirà per tra­
sformarsi in un morso... inoltre potrebbe essere decisamente
sorprendente per il vampiro cedere al fascino femminile, non
importa a che punto... Riesco facilmente a immaginarmelo
come un orribile mostro per tutti, e attraente solo agli occhi
della ragazza, vittima consapevole e affascinata... Dovrebbe
diventare sempre meno orribile fino a diventare la persona
deliziosa - della quale inizialmente aveva solo assunto l’aspet­
to - fatalmente uccisa dal canto del gallo.

Secondo l’opinione di Gide, Nosferatu era «un’occasione


completamente mancata».50 Considerate le intuizioni dello
scrittore francese sulle complesse dinamiche alla Dorian Gray
dell’immagine del vampiro, è un peccato che non abbia elabo­
rato direttamente qualcosa sul tema.
Una sera del 1922, un giovane compositore americano di
stanza a Parigi andò al cinema insieme a un amico aspirante
scrittore. La serata offriva Nosferatu. Il ventiduenne Aaron
Copland stava cercando una struttura narrativa per un balletto
che stava componendo sotto la tutela e l’incoraggiamento della
rinomata maestra Nadia Boulanger. Il suo amico, Harold Clur-
man, ricordava che «nei primi giorni della nostra amicizia, Aa­
ron mi chiese se avessi letto Freud. “No”, risposi, ma sapevo
qualcosa delle sue teorie; nell’ambiente letterario stava giusto
diventando di moda. “Hai mai provato un’autoanalisi?” mi
chiese. “No”, risposi, “sarebbe indiscreto.” Aaron si conosceva
già; io non mi conoscevo per niente. Lui sapeva di essere un
compositore. Io non avevo idea di chi fossi».51
Dtit'ld J. Skill

Clurman stava per scoprire di essere il primo ad adattare


Nosferatu per un altro mezzo artistico. «Quella sera, al ritorno
a casa», ricordava Copland, «decisi che quel bizzarro racconto
sarebbe stato la base per il mio balletto. Harold non aveva mai
scritto un copione, ma era ansioso di provarci. Inizialmente lo
chiamammo Le Nécromancien.»
* 2
Nonostante l’assenza di una compagnia di danza per cui
allestire il lavoro, Copland si tuffò nella creazione di un’opera
elaborata e ambiziosa, un balletto di un atto della durata di
trentacinque minuti. Si trattava di un adattamento piuttosto
libero, con Orloc/Nosferatu trasformato in un mago di nome
Grogh - titolo definitivo del balletto - con il potere di riporta­
re in vita i cadaveri. Ognuno di loro - un adolescente, un
oppiomane e una prostituta - forniva il pretesto per una co­
reografia di danses macabres mentre a uno a uno si levavano
dalle casse-bare. «C’era allora un certo gusto per il bizzarro»,
scriveva Copland, «e se Grogh appare malato ed eccessivo, la
musica era concepita in maniera fantastica più che spettrale.
Inoltre, l’esigenza di effetti truculenti mi fornì una scusa per
l’utilizzazione di ritmi e dissonanze “moderni”.»33 Le tecniche
poliritmiche derivate dal jazz anticipavano i lavori successivi
di Copland, che riarrangiò la sezione introduttiva, Cortege Ma­
cabre, come un’opera a se stante per orchestra, due arpe e
piano. Era fra i sette pezzi scelti per il primo degli American
Composers Concerts, e fu eseguito per la prima volta nel 1925
dalla Eastman Philarmonia a Rochester, riscuotendo un note­
vole successo. Altre porzioni di Grogh furono inserite nella
Dance Symphony di Copland. Il balletto originale non è mai
stato allestito.
Pur se l’ispirazione immediata di Copland può essere ve­
nuta da Nosferatu, la sua descrizione dell’azione del balletto,
in particolare l’illusionista che resuscita i ballerini da casse a
forma di bara, evoca un’immagine centrale del Gabinetto del
dottor Caligari, un film che avrebbe ispirato o influenzato un
numero stupefacente di lavori su pellicola e in altri settori.
Sorprende un po’ che Caligari non abbia mai prodotto un’o­
pera.
I film del terrore erano molto amati dai surrealisti, che ne

44
The Momfrr Show

adoravano l’effetto spiazzante al di là delle possibili intenzioni


surrealiste dei loro autori. A gruppi organizzati seminavano lo
scompiglio durante la proiezione di film come Nosferatu con
litanie urlate simili a quelle del pubblico di The Rocky Horror
Picture Show (id., 1975, di Jim Sharman) diversi decenni più
tardi.34 Naturalmente i surrealisti erano per principio ostili
agli effetti intenzionali dei film espressionisti; la loro ammira­
zione era impassibilmente fuori contesto. E proprio come Cali­
gari aveva cannibalizzato il «cubismo», così una quantità infi­
nita di effetti surrealisti avrebbero trovato spazio, inevitabil­
mente, nell’emergente cinema fantastico e del terrore. L’horror
ha sempre avuto una certa affinità coi moderni movimenti arti­
stici e ha spesso citato i loro manierismi, forse perché, a un
livello elementare, sono ispirati da ansietà culturali analoghe.
Non erano solo le arti visuali ad alimentare la nascente
industria dell’orrore. Il modernismo in letteratura eznel teatro,
in particolare la tendenza al naturalismo, hanno avuto un’in­
fluenza soverchiarne sull’industria orrorifica così come la co­
nosciamo oggi. Il naturalismo, particolarmente nella versione
di Emile Zola, vedeva l’uomo come vittima di forze sociali ed
economiche che l’individuo riusciva a stento a comprendere e
ancor meno a controllare. Il ruolo dell’artista in questo mondo
nuovo, darwiniano, era di clinico o patologo, gelido e riduzio­
nista. H «distacco clinico», naturalmente, è sempre stato una
buona copertura per la morbosità e il sadismo, e gli aspetti più
nauseabondi del naturalismo furono trascinati alla loro espres­
sione più estrema e importante in un locale ingannevolmente
dimesso.
Alla metà degli anni Venti, il Theatre du Grand Guignol
di Parigi aveva conseguito fama intemazionale per il repertorio
di brevi pièce orrorifìche che infliggevano ai personaggi lo
stesso genere di violenza esagerata in precedenza dominio del
piccolo guignol, o spettacolo di marionette. La differenza era
che i «grossi burattini», sanguinavano, e in modo piuttosto
convincente. Il Grand Guignol era stato fondato nel 1897 (un
anno fondamentale per l’horror, con la pubblicazione di Dra­
cula, l’esposizione del dipinto di Philip Bume-Jones II vampiro
e - guarda caso - la coniazione del termine «psicoanalisi»)
David J. Sitai

da parte di Oscar Méténier, commediografo ed ex ufficiale di


polizia. Méténier era stato cofondatore di un locale d’avan­
guardia, il Théàtre-Libre, che aveva prodotto alcune sue ope­
rette sensazionalistiche e sordide. Le brevi scenette presenta­
vano la vita nel suo aspetto più squallido, utilizzando il lin­
guaggio della strada e i personaggi e le situazioni più disgustosi
possibili. (Queste histoires des apaches, naturalmente, trovano
un parallelo in un’altra forma artistica derivata dal sottobosco
parigino, la danza apache.) Poiché il naturalismo era devoto
alla «scientificità», le incursioni di Méténier nelle classi più
basse e criminali erano accessibili al pubblico di borghesi, che
potevano contemplare indirettamente la bassa umanità - e i
propri stessi bassi istinti - da una distanza di gran moda. Il
Grand Guignol intensificava l’impatto emotivo dei propri pro­
grammi per mezzo di una strategia voluta di douche écossaise,
una doccia scozzese che alternava le temperie emotive, per
esempio con repentini avvicendamenti di umorismo e orrore.
Appropriatamente, il teatro si situava in un cul-de-sac, una
posizione senza via d’uscita. Il Grand Guignol era ospitato
nella cappella di un convento preesistente che risaliva al 1786,
quando Montmartre era ancora un quartiere suburbano. In
seguito il convento aveva funzionato da laboratorio per mani­
scalchi e da studio per un pittore accademico, e per la fine del
XIX secolo era attorniato dalle anguste strade di ciottoli, a soli
pochi isolati da place Pigalle, dove passeggiavano e cantavano
le prostitute. Le uniche tracce superstiti delle suore gianseni-
ste, le prime abitanti dell’edificio, erano gli angeli intagliati nei
travetti, e la voce insistente che di tanto in tanto, nei silenzi
fra un grido e l’altro durante gli spettacoli, si potessero ancora
udire le preghiere sussurrate dalle monache.35 L’antica cappel­
la formava un teatro confortevole ed estremamente raccolto36
con un palcoscenico di sei metri per sei.*

* Contrariamente a un resoconto pubblicato di recente, il Grand Guignol non


fu demolito dopo la sua chiusura nel 1964, ma esiste ancora, con la funzione
di scuola di teatro. Nell’ottobre del 1989 all’autore di questo libro fu permes­
sa una visita dell’edificio e fu consentito di calcare il palcoscenico per esami­
nare i dettagli architettonici originali e le cupe figure dipinte che penzolava­
no ancora dall’antico soffitto. (N.d.A.)

46
Thr Mon\/rr Shotr

Mcicnier aveva propositi artistici più seri del suo successo­


re, Max Maurcy, subentrato l’anno seguente, che commercia­
lizzò aggressivamente la formula di Méténier, intensificandone
l’aspetto di orrore fisico. Durante la gestione Maurey, emerse
un commediografo il cui nome assurse quasi a simbolo del
teatro.
André de Lorde, di giorno bibliotecario dai modi educati
alla Bibliothèque de FArsenal, godeva di una reputazione not­
turna di «Principe del Terrore» parigino, grazie a oltre un
centinaio di commedie orrorifichc c sensazionalistichc scritte
fra il 1901 e il 1906. Benché i drammi di de Lorde venissero
rappresentati in numerosi teatri parigini, compresi l’Odeon e
il Sarah Bernhardt, il Grand Guignol divenne la dimora privi­
legiata dei suoi lavori. De Lorde era un consumato architetto
del terrore, che apprezzava gli stravaganti paragoni con Poe
sulla stampa popolare, prefigurando sotto diversi aspetti le
strategie di Alfred Hitchcock. Lavorava spesso con collabora­
tori, in particolare il dottor Alfred Binet, direttore del Labora­
torio psico-fisiologico della Sorbona. (Pare che tra de Lorde e
Binet ci fosse un rapporto terapeutico quanto letterario.) Poi­
ché la loro collaborazione tradisce un continuo, ossessivo ti­
more della follia, viene alla mente il triste atteggiamento origi­
nario nei confronti della malattia mentale, persino nell’ambito
professionale medico. Ma le grottesche scene di pazzia e pas­
sione ambientate in manicomi e cliniche rendevano questi
spettacoli memorabili. Una delle loro pièce più infami, ripresa
regolarmente nella storia del Grand Guignol, fu Crimine al
manicomio (1925), dove una giovane, alla vigilia della dimissio­
ne da un ospedale per malattie mentali, viene assalita da tre
vecchie gargouilles. 11 terzetto decide che dietro i suoi occhi
c’è un uccello che deve essere liberato, così usano un ferro da
calza per aiutarlo a fuggire. In seguito a questa atrocità in stile
Re Lear, anche la più violenta delle pazienti viene mutilata: il
suo viso, premuto contro una luccicante piastra bollente, si
riduce a una melma gorgogliante.
La violenza realistica sulla scena era il marchio di fabbrica
del Grand Guignol, e poche erano le serate in rue Chaptal che
trascorrevano senza pugnalate, garrota o soffocamenti. Il tea-

47
David J. Ska/

tro aveva una formula per il sangue artificiale: veniva appli­


cato caldo e coagulava raffreddandosi. La scarsa illuminazio­
ne contribuiva all’orrore, con il pubblico lasciato a immagi­
nare dettagli ancora più truculenti di quelli effettivamente
mostrati.
Sotto la gestione di Camille Choisy dalla prima guerra
mondiale e poi negli anni Venti, il Grand Guignol ebbe la sua
età dell’oro, attirando spettatori alla moda e persino reali in
visita. Lo storico del teatro Mei Gordon scrive che Choisy - un
impresario minuscolo dai modi dandy - trasse ispirazione di­
rettamente dagli spropositati orrori della grande guerra: «Per
Choisy la tecnologia bellica contribuì ad allargare lo spavento­
so vocabolario di tortura e morte: gas velenoso, ordigni esplo­
sivi, cavi elettrici, strumenti chirurgici e trapani rimpiazzarono
gli obsoleti pugnali, pistole e la primitiva spada».37 L’impresa­
rio inoltre cominciò a ispirarsi al cinema, e uno dei pezzi di
repertorio più popolari del teatro fu un libero adattamento del
Gabinetto del dottor Caligari, rappresentato per la prima volta
nel 1925.
Camillo Antona-Traversi, che scrisse nel 1933 la prima sto­
ria del Grand Guignol, descrisse l’atmosfera teatrale unica di
una serata in rue Chaptal:

Entrando per la prima volta nel piccolo teatro a fondo cieco


di rue Chaptal, lo spettatore è colto da un disagio indefinibile.
Perché questo teatro, una lunga e stretta stanza, è strano: dai
muri penzola materiale oscuro, con rivestimenti austeri, due
porte misteriose, sempre chiuse, dalle due parti del palcosce­
nico, e due angeli inattesi che, dall’alto del soffitto, ci si rivol­
gono coi loro enigmatici sorrisi.
Al suono di tre colpi, si spengono bruscamente tutte le luci;
e in questi brevi attimi prima che si sollevi il sipario non
possiamo fare a meno di tremare.
I nervi sono tesi allo spasimo, prossimi al punto di rottura. Si
aspetta ansiosi il primo brivido, il dardo emotivo diretto al
cervello. In questa atmosfera di improvvisa oscurità, i volti
diventano spettrali macchie bianche, e il silenzio opprimente
viene di tanto in tanto spezzato dal riso nervoso di una donna
che cerca di mascherare il proprio disagio. L’aria è carica di

48
The Mon \ hr Shine

(elisione ehe pesa in maniera soffocante sulle fronti sudate.


Tutte le grida di dolore, le urla di terrore, i rantoli di agonia
tanto spesso ospitati su queste scene paiono uscire diretta­
mente dai muri... Si alza il sipario. Lo spettatore è pronto.58

Nell’ottobre del 1923 la compagnia attraversò l’Atlantico,


ospitata nell’improbabile sede del Frolic Theatre di New
York, una sala dotata di un’amena illuminazione dal tetto. Per
alcune settimane fu rappresentato in francese un repertorio
che consisteva dei loro maggiori successi, fra i quali Un'orribile
esperienza e II laboratorio delle allucinazioni. Il mistico, eviden­
temente, non funzionò a sufficienza, e i critici trovarono l’of­
ferta assai poco allettante. «Non spetta a noi decidere se certe
scene possano appartenere all’arte teatrale», scriveva «The
New York Times», «ma in questa sede si può suggerire che è
passata molta acqua sotto i ponti fra i signori de Lorde e Binet,
ovvero gli autori, c i Greci, che non permettevano alcuna scena
di violenza in palcoscenico e facevano raccontare a fidati mes­
saggeri avvenimenti troppo orribili per la vista.»59 «Variety»
fu particolarmente duro: «De Lorde è il curioso tipo che Pari­
gi definisce “il Principe degli Orrori” e si avvicina al nostro
Poe. Del resto, i francesi ritenevano anche che Carpentier po­
tesse battere Dempsey».40 I soli aspetti dello spettacolo che
il periodico trovava efficaci furono quelli «grossolanamente
sporchi, ottusi, dozzinali, volgari, osceni e sudici», e il suo
unico successo consisteva «nell’aver almeno conservato il puz­
zo di stalla francese e averlo propagato nelle scuderie ameri­
cane».
Che agli americani piacesse o meno, a occidente stava
prendendo piede un’enorme espansione degli orrori, destino
palese del macabro. Le entità oscure che avevano usato l’avan­
guardia europea per trovare un’espressione moderna ben pre­
sto avrebbero attraversato l’Atlantico, in pizze di pellicola in­
vece che bare, in attesa di essere animate in camere oscure per
mezzo dell’applicazione di luce artificiale. I loro segreti stava­
no tutti nelle luci e nelle ombre, nelle proiezioni, nei riflessi e
nei doppi. Gli dèi tenebrosi sapevano che la repubblica fonda-

49
Daniel J. Skal

ta su principi di illuminazione razionale nascondeva una parte


in ombra più che ampia, dove potevano prosperare liberamen­
te i mostri. Sbattuti fuori da antiche cripte e castelli dai moder­
ni scossoni bellici, cominciarono a cercare nuovi posti dove
riposare, arrancando inesorabili verso Hollywood in cerca di
una rinascita.

50
11 circo del terrore

Guardate! Voi volete guardare! Guardate!


Beatevi gli occhi, alimentate la vostra anima
della mia orribile deformità!

Gaston Leroux, Il fantasma dell’opera (1911)

Il «Cadavere Vivente», naturalmente, non sarebbe rimasto


morto.
L’attrazione dello spettacolo fluviale non perì nello scon­
tro spaccaossa seguito alle baldorie del Vernon Road House.
Era un vecchio trucco, il cui segreto sarebbe risultato ben ac­
cetto alle anonime migliaia di combattenti che morivano nelle
trincee e negli ospedali da campo europei. Browning subì le
ferite di guerra in patria, ma la sua produzione creativa sareb­
be andata tematicamente di pari passo con quella di scrittori
e artisti sopravvissuti ai veri combattimenti, le cui opere co­
minciarono a essere apprezzate nei tardi anni Venti.
Il fuoco artistico di Browning si acuì gradualmente. L’an­
no dopo il suo incidente ritornò all’attività cinematografica (gli
accrediti del periodo intermedio sono assai poco credibili), in­
terpretando la piccola parte di un proprietario di auto nell’epi­
sodio «moderno» di Intolerance (id., 1916) di D.W. Griffith^
e nel 1917 diresse il suo primo lungometraggio, Jim Bludso,
un melodramma fluviale basato sul popolare lavoro teatrale
eponimo. La sua enfasi si spostò in modo crescente verso il
melodramma e il giallo; il debole iniziale per il farsesco faceva
ormai parte del passato come il canto corale. Nel giugno del
1917 sposò l’attrice Alice Wilson, sua compagna di lavoro nel
varietà e al cinema.
Il primo successo commerciale di Browning fu The Virgin
of Stamboul (t. lett.: La vergine di Istanbul, 1920), un’avventu­
ra nel deserto dalla produzione sfarzosa con Priscilla Dean,
un'ingenua famosa sia nel melodramma sia nella commedia.

51
David J $kal

The Virgin of Stamboul anticipava l’interesse del pubblico per


località esotiche, che esplose l’anno seguente con Rodolfo Va­
lentino nei panni dello Sceicco (The Sheik, 1920, di George
Melford). Il film consacrò Browning come specialista del brivi­
do e dell’azione, ed egli diresse diverse pellicole con la Dean
per la Universal, fra cui il gangster movie Così parlò Confucio
(Outside the Law, 1921), dove in un doppio ruolo apparivaom
giovane caratterista di nome Lon Chaney. D regista aveva già
diretto Chaney una volta in The Wicked Darling (t. lett.: Il
caro farabutto, 1919).
Carriera e matrimonio furono seriamente minacciati da un
alcolismo crescente che lo privò del lavoro nel 1923 e 1924.
Ricordando i primi tempi a Hollywood e il lavoro insieme a
Browning, il regista Raoul Walsh disse una volta: «Sapevo che
era del Kentucky perché parlava sempre del whiskey che vi si
produce, e Io ricordo sempre con una bottiglia di acqua mira­
colosa al seguito.
«Tuttavia non era mai ubriaco», aggiungeva Walsh, inten­
dendo probabilmente che Browning non perdeva mai il con­
trollo. «Stava alzato quasi tutta la notte a bere e giocare a
carte, poi al mattino arrivava in studio fresco come una rosa.»1
Dopo un po’ la facciata non resse più; perso il contratto con
la Universal, sua moglie si separò da lui per diversi mesi.2 La
giornalista Joan Dickey riferiva cinque anni dopo che «la sto­
ria dei due anni sbagliati e inattivi di Tod Browning lontano
dallo schermo è troppo conosciuta per ripeterne i dettagli. Egli
non è affatto reticente al riguardo, e riconosce che non riusciva
a ottenere lavoro perché troppo occupato a cercare di bersi
“tutto il pessimo liquore esistente al mondo”».3 La moglie di
Browning si rappacificò con lui durante la disintossicazione, e
fu fondamentale per la negoziazione del contratto con Irving
Thalberg alla MGM che segnò il suo rientro. Il film era 1 tre
(The Unholy Three, 1925), basato su un thriller di successo di
Clarence Aaron «Tod» Robbins. Un crimine veniva perpetra­
to da tre artisti da circo: un ventriloquo (Chaney), un nano
(Harry Earles) e un forzuto (Victor McLaglen); con il ventrilo­
quo che si traveste da vecchia, e il nano da bambino. Fu un
successo strabiliante. «The New York Times» lo definì uno

52
Ike Momtrr Show

dei dicci migliori film del 1925, assieme a successi del calibro
di Ben Ilur (ùL, di Fred Niblo).4 Il critico del «New York
Times» Mordaunt Hall lo definì «un risultato sorprendente­
mente originale, degno di figurare accanto alle migliori produ­
zioni».5
Con I tre Tod Browning elaborò due elementi decisivi che
avrebbero caratterizzato il resto della sua carriera. Il primo era
lo spettacolino da circo, l’ambiente in cui era cresciuto, ma di
un tipo che non aveva mai sperimentato precedentemente in
un film. Il secondo era proprio Lon Chaney, ormai divenuto
«l’Uomo dai Mille Volti» celebre in tutto il mondo, un attore
così proteifórme da riuscire a rendere in maniera appropriata
le oscure visioni di limitazione e deformazione fisiche proprie
di Browning.
I genitori di Chaney erano sordomuti, qbindi Lpn fu. co­
stretto fin da piccolo a esercitarsi nella pantomima. Dopo anni
nel varietà come comico, ballerino, produttore, si stabilì a Hol­
lywood appena prima della guerra. Il suo talepto per il contor­
sionismo fu evidenziato per la prima volta in The Miracle Man
(t. lett.: L’uomo miracoloso, 1919, di George Loane Tucker),
dove interpretava «The Frog» (la Rana), un fìnto sciancato.
L’anno successivo perfezionò la formula di base dei melo­
drammi futuri imperniati su mutilazione e vendetta con The
Penalty (t. lett.: La pena, di Wallace Worsley). Era la storia di
un bambino a cui per sbaglio vengono amputate le gambe e
che finisce per diventare un vendicativo re del mondo sotterra­
neo. Nei panni di Blizzard, il capo criminale, Chaney architetta
una macabra vendetta sulla figlia del medico che l’ha mutilato:
progetta di amputare le gambe del suo fidanzato per poi inne­
starle sui propri monconi. L’attore portava una dolorosa bar­
datura che gli consentiva di camminare sulle ginocchia con
l’aiuto di due corte stampelle. Insistette contro il parere dei
medici a indossare l’armatura torturatrice tanto da inibirgli pe­
ricolosamente la circolazione, e si dice che più di una volta sia
collassato sul set.6
The Penalty consacrò finalmente Chaney a stella di prima
grandezza; la sua fama era enormemente accresciuta dallo
spettacolo dei suoi strumenti di martirio. Le sue prove fìsiche

53
David J. tifali

venivano senza dubbio parzialmente esagerate per incuriosire


la stampa, ma sarebbe errato ritenere che Chaney non si sotto­
ponesse spontaneamente a un perverso disagio nella ricerca
dell’arte.
Benché il tema fosse velato, The Penalty suggeriva pure la
rabbia impotente di veterani di guerra mutilati riassimilati nel­
la società in numero senza precedenti. In A Blind Bargain' (t.
lett.: Affare alla cieca, 1922) Chaney propose una variazione
alla formula della mutilazione trasformandosi in un gobbo
scimmiesco, assistente di uno scieziato folle, anch’esso da lui
interpretato. Il trucco per le due più celebri interpretazioni di
Chaney, Il gobbo di Notre-Dame (The Hunchback ofNotre-Da-
me, 1923, di Wallace Worsley) e II fantasma dell’Opera (The
Phantom of the Opera, 1925, di Rupert Julian), recava più di
un’analogia coi volti dei mutilati di guerra che infestavano Eu­
ropa e America: lineamenti distrutti, nasi mancanti e bocche
piene di denti spezzati. Per II gobbo l’attore indossò una ma­
schera di gomma di oltre venti chili, un’altra prova di soppor­
tazione masochistica.
Nei panni di Quasimodo, la fìnta deformità di Chaney era
presumibilmente congenita; come Erik, il fantasma dell’Opera,
la causa del suo volto sfigurato non veniva mai chiarita, e il
fantasma di Parigi avrebbe potuto benissimo trovar posto nel-
l’Union des Gueules Cassées, la fratellanza francese di volti
devastati (o, per stare più alla lettera, «grugni spezzati»), un
gruppo di oltre cinquemila veterani sfigurati, alcuni dei quali
guidavano tradizionalmente le parate dell’Armistizio.7
Il gobbo di Notre-Dame e II fantasma dell’Opera, due fra i
più sofisticati spettacoli della metà degli anni Venti (ed en­
trambi prodotti alla Universa! da Cari Laemmle Sr.), sovrap­
ponevano entrambi storie di deformità fisiche a ricostruzioni
ossessivamente dettagliate di monumenti europei, come la cat­
tedrale di Notre-Dame e l’Opéra di Parigi. (Come scrisse «Li­
fe»: «Se solo Cari Laemmle avesse speso i suoi ampi mezzi
nelle zone devastate della stessa Francia invece che nella Cali­
fornia meridionale, della grande guerra non sarebbe rimasta
più traccia».8) In Europa, gli spettacoli di mutilazione e rico­
struzione venivano affrontati meno metaforicamente: il dottor

54
The Motnter Show

Jacques W. Maliniak, chirurgo plastico dell’esercito, ricordava


nel 1934 che « Val-de-Grasse, il celebre ospedale militare pari­
gino, possiede una collezione straordinariamente vasta di ma­
schere modellate sui feriti in guerra. Anche l’Ospedale della
Charité di Berlino ha un museo simile. A Londra ce n’è una
collezione in cera, che illustra le diverse fasi di ricostruzione...
Migliaia di persone vengono in visita, durante le vacanze, per
osservare con soggezione e orrore la riproduzione autentica
delle sofferenze e mutilazioni belliche».9
Nel Fantasma dell’opera la guerra non veniva citata espli­
citamente, ma poiché non si spiegava in alcun modo il pauroso
aspetto del protagonista, il viso scheletrico di Chaney poteva
rivolgersi alle forze più istintive della cultura, sbrigliate dalla
razionalità. Gli adattamenti successivi, e meno efficaci, del ro­
manzo di Gaston Leroux avrebbero fornito una spiegazione
per la deformità del fantasma - di solito acido gettato in fac­
cia -, ma lo spettro di Chaney era orribile in una maniera pri­
maria, innata; la stessa nascita era una mostruosità. Chaney
usava un’applicazione di filo arrotolato per appiattire e far
rientrare il naso (i fili guida erano nascosti da gesso). «Soffriva
sul serio», disse l’operatore Charles Van Enger, ricordando
la contrazione del naso che a volte faceva «maledettamente
sanguinare»10 Chaney. La celebre sequenza in cui l’attrice Ma­
ry Philbin strappa la maschera dal volto di Erik mentre questi
suona l’organo nei sotterranei è un invito nei confronti del
pubblico che inclina pericolosamente verso uno stupro visuale.
La gonfia testa calva di Erik e il portamento cadaverico gli
conferivano l’aspetto di un pene male in arnese incapace di
sedurre e repellente per la persona amata. (Il Nosferatu di
Murnau aveva la stessa qualità «fallambolica»,11 esaminata nei
dettagli dal critico francese Roger Dadoun.)
In ogni caso nella leggenda intorno all’attore v’era più che
ansia morbosa per la mutilazione. In un’America ancora deci­
samente asservita a Horatio Alger, con aspirazioni accresciute
dal boom speculativo degli anni Venti, Chaney era una conse­
guenza inevitabile. Lo storico cinematografico David Thomson
riassume così il fascino del divo: « Non esiste un attore cinema­
tografico che illustri a tal punto la fascinazione del pubblico

55
David J Skal

per l’idea, la promessa e la minaccia di metamorfosi... L’appa­


renza inafferrabile di Chaney scaturiva dalla brama di identifi­
cazione del pubblico».12 Il suo spirito proteiforme permeava
a tal punto la coscienza americana che un detto popolare del­
l’epoca, riferito a ragni, lucertole, o simili esseri striscianti, av­
vertiva: «Non calpestatelo, potrebbe essere Lon Chaney.».
Un’altra leggenda diffusa voleva che l’attore amasse usare il
proprio aspetto naturale come ulteriore mascheramento per
mescolarsi inosservato fra il pubblico. Spalla a spalla con lui, e
magari non accorgersene; l’idea di Lon Chaney era dovunque.
Oltre a provocare identificazione e appagamento dei desi­
deri, Chaney legava la cultura popolare ai contemporanei svi­
luppi nell’arte e nelle scienze. Privo di consistenza o natura
stabili, egli rappresentava l’uomo qualunque frammentato e re­
lativistico creato dalla guerra, dall’esistenzialismo e dalla medi­
cina moderna. Gli esperimenti plastici di Chaney sul proprio
corpo adombravano i tentativi contemporanei dei pittori cubi­
sti, dadaisti e degli emergenti surrealisti di modellare la forma
umana in configurazioni sempre più ardite. In un certo senso,
era il prototipo dell’immagine che abbiamo della star holly­
woodiana contemporanea - fu il primo attore nella colonia
cinematografica a esibire in pubblico occhiali da sole, e il pri­
mo a coltivare una personalità inaccessibile. «Non esiste un
Lon Chaney », lui o il suo agente amavano dire. «Io sono il
personaggio che creo. È tutto. »13 E se a una star come questa
era consentito mancare d’identità, quale sollievo e riconosci­
mento per l’anonima massa di ammiratori, molti dei quali già
sospettavano di non essere nessuno. Uno sguardo alle vecchie
pagine delle fanzine che pubblicavano foto di studio sull’Uo-
mo dai Mille Volti è rivelatore; in copertina si scopriva l’ulti­
missimo travestimento punitivo di Chaney e l’agonia cristologi­
ca che sopportava al posto degli altri; e una volta terminata la
lettura sull’ultima diavoleria dell’attore per simulare la gobba,
in retrocopertina si potevano esaminare con cura innumerevoli
pubblicità di prodotti per rafforzare la spina dorsale, o dotarsi
di un viso «bello tondo» al posto degli «sgradevoli vuoti». In
particolare, ci si attendeva dalle donne che divenissero sempre
più maghe del trucco per soddisfare i minacciosi rigori sessuali

56
The Mom/rr Show

del XX secolo. Senza dubbio Lon ( Chancy fece la propria parte


per rendere un segmento del pubblico acutamente consapevo­
le degli «sgradevoli vuoti» in precedenza ignorati.
AI tre Browning e Chaney fecero seguire nel 1926 11 corvo
(The Blackbird) e 11 capitano di Singapore (The Road to Manda­
lay), con Chaney ancora una volta mutilato e orrendamente
sfigurato. «Quando ci prepariamo a discutere una nuova sto­
ria», disse Browning in un’intervista del 1928, « Chaney entra
con calma nel mio ufficio e chiede: “Allora, capo, cosa ci
aspetta?” E io rispondo: “Questa volta si amputa una gamba,
o un braccio, o un naso”, una cosa qualsiasi.»14
Le loro reciproche ossessioni raggiunsero l’acme nel 1927
con Lo sconosciuto (The Unknown), uno spudorato melodram­
ma circense e freudiano che sarebbe rimasto come un marchio
di riconoscimento per entrambi. Una recensione del «New
York Herald Tribune» evidenziò il tenore delle fissazioni di
Browning:

Il caso del signor Browning sta rapidamente sfiorando il pato­


logico. Dopo una serie di piccoli horror che presentavano
creazioni rispettabili nel loro genere come nani assassini, ladri
mutilati e rettili velenosi, tutti sinistri e mortali in una cupa
atmosfera di oscurità e fato sacrilego, il regista ci ammannisce
ora un melodramma agevolmente ricavabile da una sceneggia­
tura scritta dai signori Leopold e Loeb.15

Lo sconosciuto era una specie di versione da «tronco supe­


riore» di The Penalty, con Chaney nei panni di Alonzo «thè
Armless » (Senzabraccia), un uomo che si maschera da feno­
meno da baraccone per evitare la prigione, un falso freak che
si lega le braccia dopodiché mangia, fuma e persino lancia
coltelli coi piedi. E innamorato di Estrellita (Joan Crawford),
bellissima artista da circo con una peculiare forma di fobia
sessuale: la repulsione all’idea di essere abbracciata da un uo­
mo. Ironia della sorte, Alonzo è costretto a mantenere il pro­
prio amore a distanza: non solo lei scoprirebbe le sue «ripu­
gnanti» appendici, ma potrebbe anche riconoscere il doppio
pollice della sua mano destra, la cui impronta inconfondibile

57
David I. Sial

è rimasta sulla gola del padre di Estrcllita quando Alonzo, in


libertà, lo ha ucciso a causa della sua crudeltà nei confronti
della figlia. L’involuta vicenda (che tuttavia funziona tuttora
sorprendentemente bene come fiaba a forti tinte) raggiunge un
oscuro crescendo quando il protagonista ricatta un dottore fi­
no a farsi amputare le braccia. Ritorna per Estrellita, solo per
scoprire che ha superato la fobia grazie alle pazienti cure del­
l’uomo forzuto. Alonzo sabota il numero di quest’ultimo e rie­
sce quasi a vendicarsi facendo strappare le braccia all’artista
da cavalli imbizzarriti, ma il suo piano fallisce quando viene
intrappolato dai cavalli in un fatale attimo di rimorso.
Joan Crawford non nominò mai Browning sulla stampa,
ma in un’intervista retrospettiva definì ih lavoro con Chaney
«traumatico e insieme delizioso».16 Benché le sue impressioni
su Browning fossero meno distinte - in una lettera inedita ri­
cordava il regista come «tranquillo», «sensibile» e «cordia­
le», 17 ma non aggiungeva particolari -, la diva trovava l’attore
«la persona più sensibile ed eccitante che avessi mai conosciu­
to, un uomo trasfigurato nel proprio ruolo. Fra una ripresa e
l’altra si poteva incontrare un uomo serio, dai modi gentili,
con allegri occhi neri che raramente ridevano, ma se accadeva
era irresistibile».18 Quando Chaney recitava, ricordava ancora
la Crawford, «era come se stesse operando una divinità tanto
profonda era la sua concentrazione. Fu allora che compresi
per la prima volta la differenza fra lo stare di fronte a una
cinepresa e recitare».
L’attrice descriveva le dolorose lentezze a cui si sottopone­
va l’attore per conseguire quegli effetti: «H signor Chaney
avrebbe potuto liberarsi le braccia tra una scena e l’altra. Non
lo faceva. Le tenne legate per cinque ore, un giorno, soppor­
tando tanto indolenzimento e tanta tortura che quando fu il
momento di girare riuscì a trasmettere non solo realismo ma
anche una sofferenza interiore da risultare sconvolgente... e
affascinante».”

* Il biografo di Joan Crawford, Alexander Walker, osservò che anche la futura


celebrità dell’attrice sarebbe stata «consacrata da un analogo genere di Cal­
vario autoinflitto. Lavorare su un set con la Crawford di rado non si accom-

58
Thr Monitor Show

Il cinema non era l’unico luogo dove il pubblico soffriva


per le allegorie di mutilazione nei tardi anni Venti. Nel 1926
Ernest Hemingway aveva pubblicato il romanzo II sole sorge
(incora, e aveva messo in subbuglio il mondo letterario con la
lormentata storia di Jake Barnes e della sua ferita di guerra
castratrice. I critici accettarono la spiegazione da parte dello
scrittore della sua primaria fonte di ispirazione: durante la con­
valescenza milanese dalle proprie ferite di guerra, ebbe l’occa­
sione di visitare una divisione di genitourologia in un altro
ospedale. Come riferisce il suo biografo Kenneth S. Lynn, «lì
aveva avuto modo di parlare con diversi soldati che avevano
subito ferite ai genitali, e come risultato della frequentazione
di questa piaga egli immaginò quella di Jake Barnes... [Ma]
ciò che manca in questa storia peraltro plausibile era una spie­
gazione convincente del perché Hemingway fosse tanto coin­
volto dai feriti di quel particolare reparto».20
La narrativa di Hemingway è, naturalmente, ricca di sfide
all’umanità, certo più letterali di altre. In un racconto molto
breve e sinistro, Dio vi conservi allegri, miei signori, Heming­
way narra di un sedicenne, impazzito per il desiderio sessuale
e il senso di colpa religioso, che si presenta a un pronto soccor­
so, il giorno di Natale, e prega i medici in servizio di castrarlo.
Poiché questi si rifiutano, ritorna a casa e si recide il pene con
un rasoio affilato. («Il giorno di Natale, per di più»,21 borbot­
ta uno dei medici mentre racconta la storia.)
Non è certo se Hemingway fosse perseguitato o meno da
paure o fantasie consce di perdita della virilità; in ogni caso
questo tema ricorre indiscutibilmente nella sua opera. Lavo­
rando contemporaneamente in un’altra forma espressiva, con
Chaney o senza, Browning trasformava il simbolismo castrato­
rio in un’industria a domicilio. L’immagine di esseri umani
paralizzati, mutilati, o comunque «amputati» sotto il bacino
ricorre spesso nei suoi film; è un leitmotif praticamente della
sua intera opera. Il corvo, The Show (t. lett.: Lo spettacolo,

pagnava al dolore. Persino la sua insistenza a mantenere una temperatura di


zero gradi era un modo di “concentrare la mente della gente sul lavoro”».
(N.d.A.)

59
fltotffd J. Skal

1927), Lo sconosciuto (dove le «gambe» diventavano «brac­


cia»), La serpe di Zanzibar (West of Zanzibar, 1928), e, succes­
sivamente, Freaks e Miracles for Sale (t. lett.: Miracoli in vendi­
ta, 1939) presentavano tutti immagini di mutilazioni sotto la
vita letterali o figurate. Una variazione sul tema consiste nell’u­
so ricorrente di tintinnanti «gioielli» rubati, come elemento
dell’intreccio in alcuni film, o, come in The Show, un’interà
storia imperniata sul tentativo di decapitazione del protagoni­
sta Cock (interpretato da John Gilbert), ambientata in un ba­
raccone da fiera pieno di uomini-torso, teste separate dal cor­
po e affini. In The Mystic (t. lett.: Il mistico, 1925) c’era una
sequenza impressionante in cui un lanciatore di coltelli trancia
l’estremità di un panino con salsiccia che un personaggio si è
appena infilato in bocca.
Nel suo saggio II perturbante, pubblicato alla fine della
prima guerra mondiale, Sigmund Freud discusse per primo il
rapporto fra il complesso di castrazione e i racconti di fantasie
macabre. Nella visione freudiana il doppio (base di tutte le
immagini di morte) è un meccanismo difensivo; l’inconscio,
sentendo un pericolo mortale per l’io, occhio, membra o geni­
tale, crea un sostituto immaginario per la parte minacciata. (Il
motivo del doppio pollice in Lo sconosciuto è una dimostrazio­
ne così quintessenziale della tesi freudiana che ci si chiede se
lo stesso Browning sia stato influenzato direttamente dalla let­
tura del Perturbante). «Arti smembrati, una testa mozzata, una
mano tagliata all’altezza del polso... tutte queste cose hanno in
sé qualcosa di perturbante», scriveva Freud, aggiungendo che
«questo genere di perturbante origina dalla prossimità al com­
plesso di castrazione.»22 Nella stessa discussione, Freud af­
frontava involontariamente le associazioni più profonde del
motivo ricorrente browninghiano del «Cadavere Vivente»:
«Per certe persone l’idea di venire sepolti vivi è la cosa più
perturbante che esista. E tuttavia la psicanalisi ci ha insegnato
che questa fantasia terrorizzante è solo una trasformazione di
un’altra fantasia che originariamente non possiede nulla di ter­
rificante... voglio dire la fantasia di un’esistenza intrauterina».
Vi è la tentazione di cercare una «ferita bruciante» nella
vita di Browning per spiegare la straordinaria attenzione di

60
The Mon\frr Show

tinta la sua carriera per le immagini di castrazione. I documen­


ti ufficiali concernenti la portata delle sue ferite nell’incidente
autóìnobilistico del 1915 non contengono dettagli sufficienti
ad accertare se avesse sofferto o meno un trauma pelvico. A
un certo punto, comunque, subì una ferita di una certa gravità
alla bocca, e si dice che abbia portato una dentiera superiore
e inferiore a un’età relativamente giovane. Prima di essere mes­
so al bando per alcolismo, si dicè che abbia risposto alla richie­
sta del direttore di un albergo di San Francisco di festeggiare
un po' meno rumorosamente allungandogli i propri denti finti
e dicendogli di «andare a mordersi da solo! » * 25 Non è ancora
chiaro se avesse o meno perso i denti nell’incidente del 1915;
ma pare che in tarda età abbia confidato ad amici di essere
stato «scalciato da un cavallo»24 nei suoi giorni trascorsi al
circo e alle corse.
Qualunque ne sia la causa, ferite o sfìguramenti odonto­
facciali possono avere profondi effetti psicologici. Frances
Cooke Macgregor, un’autorità riconosciuta nella ricostruzione
dei traumi facciali, osserva che «l’area interna ed esterna alla
bocca è caricata emotivamente e strettamente connessa con
l’immagine di sé. Come strumento di eloquio, nutrizione e ba­
ci, e insieme come specchio di emozioni, possiede inoltre im­
plicazioni sociali e psicologiche uniche e un significato simbo­
lico».25 Browning e Chaney crearono un’immagine di bocca
umana particolarmente straziante nel Fantasma del castello
(London After Midnight, 1927), dove Chaney interpretava un
finto vampiro che esibiva una dentatura da pescecane. La boc­
ca-rasoio primitiva, sovrapposta a un volto umano, è una netta
evocazione di un concetto freudiano: la vagina dentata divora­
trice e castrante. Il fantasma del castello segnava la prima incur­
sione di Browning nel mondo del vampirismo, un regno scon­
finato di camuffamenti sessuali e oralità che avrebbe continua­
to ad affascinarlo.
L’universo browninghiano di ansie castratorie e ripetuta
frustrazione sessuale parrebbe in contrasto con il pubblico del­
l’era del jazz, incitato di continuo a spassarsela e scopare. Fre-

* Gioco di parole tra bit (un po’), e bite (morso). (N.d.T.)

Ài
Daniil J. Skal

derick Lewis Allan ricordava così il periodo in Only Yesterday :


«Il requisito fondamentale per la sanità mentale era avere una
vita sessuale disinibita. Se si voleva stare bene in salute ed
essere felici, bisognava obbedire alla libido. Tale era il vangelo
freudiano innestato sulla mentalità americana... Ai preti che
predicavano la virtù dell’autocontrollo i critici schietti replica­
vano che ciò era fuori moda e pericoloso».26
In ogni caso una parte dell’America - una grossa parte, a
giudicare dai biglietti venduti al botteghino - voleva sentire
cosa ne pensava Browning. Né lui né il pubblico di Chaney
erano annoverabili fra gli snob di Manhattan o la cricca cine­
matografica. I due uomini, in realtà, erano dei solitari che rara­
mente socializzavano con l’ambiente hollywoodiano. Il richia­
mo di Chaney e Browning era rivolto alle masse lavoratrici,
anche se lo stipendio di quest’ultimo alla Metro-Goldwyn-
Mayer non era certo «proletario»; alla fine degli anni Venti si
dice che ammontasse a 150.000 dollari,27 il doppio di quanto
guadagnava il presidente degli Stati Uniti. Si trattava probabil­
mente di una stima gonfiata - un promemoria interno di un
altro studio sugli stipendi dei registi nel 1926 fissava il com­
penso annuale di Browning a 78.000 dollari28 -, ma anche la
cifra più bassa lo vede prossimo alla cima nella scala dei registi
a contratto. Il paragone del cineasta con una figura politica
non è comunque fuori luogo, perché il cinema costituiva una
sorta di retorica populista, con Tod Browning che si rivolgeva
alle paure più viscerali dell’America, senza tuttavia lenirle.
Sia Lon Chaney sia Tod Browning restano degli enigmi: il
regista sarebbe morto privo di eredi e in solitudine; la famiglia
sopravvissuta all’attore non ha mai collaborato con un biogra­
fo. Curt Siodmak, lo sceneggiatore-regista che lavorò in diver­
se occasioni con il figlio di Chaney, Creighton (noto professio­
nalmente come Lon Jr.), ricordava il padre come «un sadico,
dal modo in cui aveva trattato Lon da bambino e da ragaz­
zo».29 Nella ricostruzione di Siodmak, Lon Jr. emergeva dal
dominio paterno come «una persona torturata». L’Uomo dai
Mille Volti forse aveva buoni motivi per mantenere privato il
suo vero volto. Anche l’ossessione di Browning nel dipingere
malcelati traumi genitali è un enigma impenetrabile. Per i freu­

62
The Mon\ter Show

diani stretti, il timore castrarono è sufficiente a far girare il


mondo; raramente è richiesta una castrazione effettiva. Brown­
ing rivela una psicologia puramente personale, o solo la dispo­
nibilità ad accedere a un terrore primario di pubblico do­
minio?
E in una certa misura fatale che questi due uomini morbo­
si, entrambi trascinati dai rispettivi demoni interiori a proietta­
re indelebili immagini di autoframmentazione, si siano in qual­
che modo completati a vicenda. E, come qualche scomponibile
mostruosità da fiera, era qualcosa che il pubblico voleva vede­
re, o in cui riconoscersi. Proprio come il burlesque stava diven­
tando sempre più salace, Tod Browning e Lon Chaney pareva­
no intenzionati a scoprirsi e insieme nascondersi con un nuovo
tipo di spogliarello, che non si fermava alla pelle, né all’osso,
né, infine, al cervello.
O, come Diane Arbus avrebbe spiegato l’«identità» a una
classe di studenti trent’anni dopo, è quello che rimane quando
si elimina tutto il resto.50

63
I mostri e Mister Liveright

Dramma - ciò che la letteratura fa di notte.

George Jean Nathan (1931)

Simili a un sinistro sistema divistico binario, fissate nel crepu­


scolo dei nostri orizzonti culturali, le immagini gemelle di Dra­
cula e del mostro di Frankenstein offrono ai tempi moderni
una mitologia dinamica e demoniaca. Ciascuna figura racchiu­
de l’altra per contrasto: Dracula è soave, sinistro, soprannatu­
rale e maestoso, uno spettro aristocratico che scivola attraverso
una serratura sotto forma di nebbia, trasformandosi da uomo
in pipistrello e in lupo e viceversa, mai con un capello fuori
posto. All’opposto, la creatura di Frankenstein è irredimibil­
mente infima, un proletario sgraziato. Come una parodia del
metodo scientifico, si muove lento, a tentativi, un passo pesan­
te alla volta. Dracula svolazza senza sforzo, mutando forma
come vuole; l’agire del vampiro è continuato. Il mostro di
Frankenstein mostra letteralmente tutte le proprie cuciture.
Considerati insieme, i due mostri formano una configurazione
devastante: la parte destra del cervello, quella istintiva, e la
sinistra, quella logica, ombra e sostanza, superstizione e scienza;
la più bizzarra delle coppie bizzarre. Praticamente non esiste un
ambito della cultura moderna in cui non abbiano fatto sentire
la propria presenza: nella letteratura e in teatro, al cinema e in
televisione; nel commercio e nella pubblicità; nella metafora so­
ciale, scientifica e psicologica. In soldoni, sono dovunque. Pochi
esseri frutto della fantasia possiedono un fattore di riconosci­
mento più elevato; competono con Babbo Natale e Topolino co­
me costruzioni mentali di massa. Gli usi che se ne fanno sono
infiniti. Nella forma cereale di Count Chocula e Frankenberry,
vengono somministrati ai bambini come «panico quotidiano».
*

* Gioco di parole tra daily bread (pane quotidiano) e daily dread (paura quoti­
diana). (N.d.T.)

64
The Monitor Show

Le storie di Dracula e Frankenstein ebbero la loro origine


letteraria nello stesso ambito: la famigerata festa tenutasi nel
1816 a Villa Diodati vicino Ginevra. Fra i partecipanti, Percy
Bysshe Shelley con la seconda moglie Mary; George Gordon,
Lord Byron; e l’amico e medico di Byron, il dottor John Poli-
dori. Fu suggerito che tutti si cimentassero nella composizione
di una storia di fantasmi. Byron finì per presentare un fram­
mento di romanzo su un romantico revenant che Polidori ela­
borò nella forma di romanzo popolare, Il vampiro (1819), dif­
fusamente considerato opera di Byron. Mary Shelley, dopo
aver ascoltato il marito e Byron discutere teorie speculative
sulla base elettrica della vita e la rianimazione galvanica dei
cadaveri, ebbe una potente, fulminante visione che «si levava
nella mia mente con una vivacità molto al di là degli usuali
limiti delle fantasticherie. Io vidi - con gli occhi chiusi ma con
un’acuta immagine mentale - io vidi il pallido studente di arti
proibite inginocchiato di fronte alla cosa che aveva messo in­
sieme. Vidi la forma orribile di un uomo disteso, e poi grazie
all’opera di un qualche potente strumento, lo vidi dar segni
di vita e agitarsi con un penoso moto semi-vitale».1 La sua
immaginazione culminò in Frankenstein o II Prometeo moder­
no, pubblicato per la prima volta in tre volumi nel 1818.
Cadaveri rianimati erano anche il soggetto del Dracula di
Bram Stoker (1897), la storia di un principe guerriero transil­
vano morto-vivente che si trasferisce dal suo castello nei Car­
pazi alla Londra moderna in cerca di sangue fresco. Stoker, la
cui vocazione primaria era quella di amministratore del famoso
attore-impresario Henry Irving, scriveva nel tempo libero ton­
nellate di romanzetti. Uno degli enigmi centrali su Dracula è
la molla che innalzò il libro tanto al di sopra del resto della
sua opera. Certi commentatori hanno suggerito una febbrile
quanto freudiana fonte di ispirazione che confinava con la pos­
sessione; un’eventualità più terra terra è che il manoscritto sia
stato rielaborato da qualcun altro. H.P. Lovecraft, celebrato
poeta delle fantasie americane più oscure, suggeriva nel 1932
uno scenario analogo: «Conosco una vecchia signora», scrive­
va, «che avrebbe dovuto revisionare Dracula all’inizio degli an­
ni Novanta: vide il manoscritto originale, un pasticcio senza

65
Ddt>l<! J Skill

capo né coda, secondo lei. Alla fine qualcun altro (Stoker rite­
neva troppo elevato il prezzo da lei richiesto) lo ridusse nella
forma oggi nota».2 Gli storici di Dracula Raymond McNally e
Radu Florescu hanno avanzato l’ipotesi che a rabberciare il
libro sia stato il popolare scrittore vittoriano Hall Caine,3 ami­
co stretto di Stoker, a cui Dracula è dedicato (sotto il sopran­
nome infantile «Hommy-Beg»). Poiché Stoker non ha lasciato
alcuna testimonianza scritta sull’origine di Dracula, il problema
è lontano dalla risoluzione.
Nonostante la sua longeva popolarità, Dracula è curiosa­
mente incompleto nella sua evocazione del conte, il che po­
trebbe spiegare perché coloro che l’hanno adottato sulla scena
e al cinema abbiano instancabilmente abbellito la storia, e poi
abbellito l’imbellettato. Stoker ruppe radicalmente con la se­
ducente immagine byroniana di vampirismo già resa popolare
sulla scena e in porcheriole di cassetta come Varney the Vampi-
re di James Malcolm Rymer (1847); Dracula perde poco tempo
in convenevoli socializzanti ed è fisicamente repellente, un vec­
chio cadaverico che ringiovanisce bevendo sangue ma non ri­
sulta mai attraente. L’immagine di Dracula del XX secolo è
un ibrido peculiare, che combina il conte di Stoker con tratti
caratteriali presi a prestito dai minacciosi antieroi dei romanzi
gotici, da Don Giovanni, Cime tempestose e altro.
Dove Frankenstein è letterario e filosofico, Dracula è un
divertimento ingenuo che impegna le emozioni invece dell’in­
telletto. Le trame, comunque, contengono tante affinità quasi
quanto le divergenze: entrambe le storie si imperniano su for­
me romanzesche di autoreplicazione (Frankenstein crea il pro­
prio doppio assemblando tessuti da cimiteri e mattatoi; Dracu­
la riproduce la propria stirpe attraverso una mistica trasfusione
di sangue). Ciascuno drammatizza un incontro primario con
una forma umana supina che è, paradossalmente, viva e morta:
Victor Frankenstein fissa con orrore il risultato finale della
propria opera, che in qualche modo si attendeva meravigliosa;
e l’avvocato immobiliare Jonathan Harker è sconvolto alla sco­
perta del suo anfitrione conte Dracula non morto in una cassa
di terra. I due libri sono sogni a occhi aperti ammonitori su
tentativi falliti di vincere la morte: lo scienziato con un esperi-

66
The Mon\ter Sfatte

mento razionale, il vampiro con una maledizione irrazionale.


Ciascuno dei due romanzi è divenuto una fonte potenzialmen­
te illimitata di ricerche critiche e culturali, e nessuno dei due
è mai andato fuori catalogo.
Sia II vampiro, il prototipo di Dracula, sia Frankenstein
hanno ispirato diversi adattamenti teatrali negli anni Venti del
XIX secolo, in Inghilterra e nel continente europeo. Talvolta
l’immagine dell’uomo artificiale e del vampiro umanoide si
confondevano: la stessa Mary Shelley a un certo punto del
romanzo definiva il mostro «vampiro»; una farsa del 1887,
Frankenstein; or, the Vampire's Victim, confondeva nella men­
te del pubblico i due mostri. Dopo la pubblicazione del ro­
manzo di Stoker, la parola « Dracula » divenne virtualmente
sinonimo di «vampiro», e le creazioni di Stoker e Shelley furo­
no associate come le due facce della stessa moneta, vertici
complementari di passatempi da brivido, come pane e burro,
gin and tonic, tuoni e fulmini.
Spesso i mostri abbisognano di aiutanti mortali - subnor­
mali, assistenti, agenti - per raggiungere i propri obiettivi nel
mondo. Il vampiro e l’uomo rappezzato attesero più di cento
anni dopo la loro ideazione letteraria prima di incontrare la
stravagante personalità che avrebbe loro assicurato una doppia
nicchia nell’immaginario del XX secolo.

L’anno era il 1930, e Horace Liveright si trovava ancora


una volta sul lastrico.
Il quarantaquattrenne editore-produttore era veramente
un uomo che si era fatto, e disfatto, da solo; da inizi stentati
come agente di borsa e commerciante di carta igienica, Horace
Brisbin Liveright era asceso negli anni Venti come una delle
forze più influenti nella storia dell’editoria americana, con
un’energia da uomo di spettacolo che debordava nel teatro
vero e proprio. Oltre ad aver fondato la Modera Library, e in
seguito pubblicato autori come Theodore Dreiser, Sherwood
Anderson, Ernest Hemingway e Eugene O’Neill, Liveright fe­
ce considerevole scalpore come produttore a Broadway di
drammi accattivanti, anche se non sempre redditizi, come Una
tragedia americana (un successo), il primo Amleto in abiti mo­

67
Drit'ltl J Sfati

derni (un tangibile fiasco) e il più celebre c lucroso di tutti,


l’adattamento teatrale del Dracula di Bram Stoker (1927) che
a New York e in provincia aveva guadagnato più di due milio­
ni di dollari.
Nel 1930, il denaro di Dracula era sparito, risucchiato al­
l’alba del crollo borsistico. In quella stagione non vi furono
successi. Quel che bruciava di più era il crescente interesse
da parte di Hollywood per Dracula, del quale Liveright aveva
stupidamente trascurato ogni diritto cinematografico. Era sta­
to uno dei suoi progetti preferiti, e aveva fatto di tutto per
ottenerne i diritti teatrali per l’America da Florence Stoker, la
combattiva e avida vedova dell’autore. Benché non ne avesse
ancora prodotto uno, Liveright sapeva che i thriller e i gialli
potevano rivelarsi successi sicuri a teatro. Fra gli attizzapaura
che avevano attirato grandi folle negli ultimi anni figuravano
The Bai di Mary Roberts Rinehart e Avery Hopwood, debutta­
to nel 1920 e con 878 repliche nella sola New York; The Mon­
ster (1922) di Crane Wilbur, con tanto di casa infestata, uno
scienziato pazzo e una carrozzella elettrica, futuro veicolo cine­
matografico per Lon Chaney; e forse il melodramma più popo­
lare in circolazione, The Cat and the Canary (1922), un altro
rizzacapelli genere «vecchia casa infestata» che avrebbe godu­
to di straordinaria longevità in tournée e in repertorio, per
finire con tre adattamenti cinematografici.
Questi lavori contenevano tutti espedienti «horror» ma,
in accordo con le convenzioni teatrali degli anni Venti, si
preoccupavano sempre di spiegare i brividi come opera di
qualche agente umano, spesso criminale. Dracula manteneva
quegli espedienti, rifiutandosi però di giustificare razionalmen­
te il terrore. Horace Liveright afferrò immediatamente il po­
tenziale richiamo sul pubblico di un’immersione completa nel­
l’irrazionale e nel sensazionale.
Considerata la difficoltà nelle trattative con Florence Sto­
ker, sarebbe stato più ragionevole abbandonare il progetto fin
dall’inizio, ma Liveright era certo di poter ricavare dal sordido
melodramma vampiresco un successo commerciale. La signora
Stoker aveva già concesso i diritti teatrali a Hamilton Deane,
un attore-impresario di giro, che ottenne con un adattamento

68
The Montfer Show

mal scritto ma tuttavia altamente teatrale il successo a sorpresa


della stagione londinese del 1927. Nonostante recensioni rag­
gelanti, le folle non riuscivano a tenersene alla larga. Persino
George Bernard Shaw intraprese un pellegrinaggio al José Le­
*
vy’s Litde Theatre di Adelphi per larsua razione di brividi
(benché in seguito, richiesto di un parere, dicesse solo:l«Sono
maledettamente felice di non averlo scritto io»5).
La vedova Stoker stava diventando paranoica per il cre­
scente interesse mondiale nei confronti di Dracula\ in partico­
lare pareva considerare Liveright come un’insipida variante
americana di Nosferatu, il Dracula tedesco non autorizzato
contro cui si era battuta per anni. La sua reazione non era
isolata; un ex impiegato di Liveright, Maurice Hanline, avreb­
be successivamente pubblicato uno scottante roman à clef,
Years of Indiscretion, in cui un sensibile giovane scrittore fini­
sce sotto la schiavitù dell’editore mecenate Jason Pertinax:
«Quest’uomo non mi piace, pensò Mark, non è umano... E
un Dracula affascinante, riderà della mia poesia, anche se la
pubblicherebbe se pensasse di ricavarci denaro a sufficienza...
penso che me lo farò piacere, odio quel bastardo... Riesco ad
arrivare alla porta senza vomitare?»6 (Per essere onesti, biso­
gna qui notare che lo stesso Hanline fu paragonato da almeno
un suo conoscente a «un arbitro di una corsa di serpenti».7)
Al fine di assicurarsi il controllo di Dracula, Liveright ave­
va assunto John L. Balderston, drammaturgo e giornalista
americano di stanza a Londra, perché facesse gli occhi dolci
alla signora Stoker. Balderston era il più inglese possibile per
un americano, e, in qualità di corrispondente della prima guer­
ra mondiale, aveva vissuto a Cheyne Walk, Chelsea, non di­

* D Little Theatre, sede delle prime per il sensazionalismo anni Venti, forse
non avrebbe mai conseguito questa reputazione se nel settembre 1917 l’edifì­
cio non fosse stato devastato da una bomba tedesca di cinquanta chili.4 La
precedente sala da biliardo, usata come circolo privato per soldati, fu ristrut­
turata e riaperta nel 1920 da José Levy come Grand Guignol inglese sotto la
direzione artistica di Sibyl Thorndike, che introdusse la pratica di sistemare
un’infermiera nell’atrio. Un espediente successivamente preso a prestito da
Hamilton Deane e Horace Liveright per le loro produzioni di Dracula.
(N.d.A.)

69
David / Sitai

stante da una precedente abitazione di Stoker. Nel 1915, venti-


seienne, aveva lasciato la redazione di New York per il fronte
europeo. Disse a «The Editor and Publisher» che voleva an­
dare nella zona di guerra perché riteneva che ci fossero «trop­
pi corrispondenti e giornalisti nel settore ma non abbastanza
cronisti». Balderston promise di seguire la guerra «allo stesso
modo in cui avrebbe affrontato un fatto di cronaca nera in
patria, e che non avrebbe portato un orologio da polso, né
trasmesso minuziose descrizioni di ciò che mangiava a colazio­
ne, o sgridato i generali cercando di vincere la guerra da solo».
Il futuro corrispondente impiegò la propria determinazione a
inviare quelle storie speciali «che resteranno calde anche invia­
te per posta, proprio come un thermos».8
La risolutezza in tempo di guerra si sarebbe rivelata un
buon allenamento per trattare con Florence Stoker. In più,
non guastava che Balderston fosse bello, colto, e possedesse
molto più tatto e pazienza di Liveright. Il produttore voleva
che Balderston riscrivesse Dracula da capo - i dialoghi di Ha­
milton Deane erano assai poco incoraggianti -, ma su questo
era importante non insistere. Florence Stoker era già abbastan­
za probante per non criticarne preventivamente facoltà di giu­
dizio e gusto. Un tempo leggendaria bellezza vittoriana, fra gli
ammiratori contava Wilde, Bume-Jones, Rossetti e du Mau-
rier. «Avreste dovuto vederla», diceva l’attore Bernard Jukes,
roriginale Renfield, il folle mangiatore di insetti di Dracula. E
ricordava «la cuffietta di pizzo, la camicetta attillata, l’alto col­
letto inamidato, gli sbuffi delle maniche alle spalle».9 Formi­
dabile in età avanzata come la Lady Bracknell di Wilde, richie­
deva una certa cautela negli approcci.
La diplomazia di Balderston la spuntò, e Dracula finì per
rivelarsi un affare lucroso per tutti. Ma riportare in vita il mae­
stoso vampiro fu complicato. Non esisteva un prototipo ma­
schile per una creatura simile; solo la figura della «vamp» alla
Theda Bara poteva awicinarglisi. Il ruolo fu offerto a Ray­
mond Huntley, un esile attore ventiduenne che lo aveva recita­
to in Inghilterra con una parrucca da mezz’età, ma che rifiutò
la misera offerta di Liveright: 150 dollari la settimana. Poi un
altro produttore che aveva tentato invano di portare Dracula

70
The Mom ter Shote

sulla scena consigliò a Liveright di prendere in considerazione


l’attore scelto per la produzione mai realizzata. «Diavolo», pa­
re che abbia detto, «ho persino sentito dire che viene dalla
Transilvania».10
Il nome dell’attore era Béla Ferenc Dezsó Blasko; nato nel
1882 a Lugos, in Ungheria, era arrivato in^ America nel 1921
come rifugiato politico, recitando sotto il nome di Bela Lugosi.
Interprete versatile e di chiara fama al Teatro di Stato unghere­
se di Budapest, a New York veniva scelto principalmente per.
ruoli esotici: arabi, banditi, fachiri, apache. Il suo inglese era
terribile, in buona sostanza inesistente; imparava le parti ame­
ricane foneticamente nei toni da baritono pomposo e scandito,
che ne avrebbero fatto una delle voci più riconoscibili, imitate
e parodiate nella storia del teatro.
Fu quasi certamente l’ottusità di Lugosi nei confronti della
recidiva barriera linguistica a invischiarlo nel 1924 in un com­
plesso pasticcio legale. Era riuscito a ottenere l’incarico di regi­
sta per la commedia The Right to Dream (t. lett.: Il diritto di
sognare), titolo che descriveva con esattezza la fede cieca di
Lugosi nella propria capacità di allestire un lavoro in inglese.
Licenziato senza preavviso, citò il produttore, Hubert Henry
Davis, per inottemperanza del contratto, e lo portò in tribuna­
le. Davis spiegò che Lugosi si era dimostrato «assolutamente
inadatto»11 come regista e lo aveva tradito professionalmente
nei suoi rapporti con terzi. La corte diede ragione al produtto­
re, e a Lugosi, che non poteva o voleva pagare una sanzione
di 69,56 dollari, furono pignorati gli averi del suo appartamen­
to sulla 55“ Ovest, successivamente messi all’asta per pagare le
spese processuali.12
La cocciutaggine di Lugosi sarebbe stata un tratto messo
in risalto dai suoi colleghi per tutta la sua carriera. Questa
caratteristica probabilmente contribuì anche alla sua intensità
di interprete: recitò in una lingua che non conosceva grazie
a una forza di volontà titanica. Chiunque altro al suo posto
probabilmente si sarebbe limitato a prendere lezioni di inglese.
Il consenso dei critici per il Dracula di Lugosi, nella produ­
zione di Liveright in prima a Broadway nell’ottobre 1927, non
fu unanime. Si trattava, dopotutto, di un tipo di personaggio

71
Dai'id I Skal

nuovo e particolare sulla scena americana, e non esisteva un


precedente in base al quale valutarlo. Il conte aveva attraversa­
to l’Atlantico con alcuni cambiamenti nell’aspetto e nel guar­
daroba: a cominciare da Lugosi, i Dracula teatrali di Liveright
avrebbero avuto il volto dipinto di verde. Il mantello, foderato
in cremisi per il pubblico londinese, prevedeva satin porpora
a New York, come a evitare connotazioni vacanziere. Il «New
York Post» osservava: «Il signor Lugosi interpreta Dracula
con lugubri addobbi che evocano... un impresario di pompe
funebri appassionato d’opera ma triste».15 Alexander Wooll-
coott avvertiva su «The World» che Lugosi parlava in «quel-
l’improbabile accento che il pubblico teatrale americano ha
imparato ad associare con direttori d’orchestra adorabilmente
noiosi».14 E Percy Hammond dell’«Herald Tribune» riferiva
che «i tormenti della prima americana avrebbero potuto risul­
tare più inquietanti se il demone fosse stato illustrato in manie­
ra meno inamidata... Quello che ci è stato presentato dal si­
gnor Lugosi era un babau rigido più simile a un manichino di
cera nella vetrina di un negozio che a un soave orco intento a
confezionare misfatti notturni».15
Riserve del genere non scoraggiarono il pubblico, e Dracu­
la fu un successo. Si trattava di una tipica macchina per brividi
dell’età del jazz a cui il pubblico non poteva resistere, una
specie di equivalente teatrale del Ciclone di Coney Island, altra
invenzione del 1927 che attirava folle da record. La rivista «Ti­
me» osservava una certa dissonanza fra l’età vittoriana che
aveva prodotto la storia e i ruggenti anni Venti che ora la cele­
bravano. «Il mondo, o almeno quella sua particella costituita
dal pubblico dei teatri di Manhattan, ha fatto molta strada in
venticinque anni. Ora le fanciulle possono assistere a macabre
storie d’orrore e ritirarsi fra un atto e l’altro a fumare una
sigaretta e parlare tranquillamente dei propri vizietti. »16
Il dramma resistette trentatré settimane al Fulton Theatre
(il futuro Helen Hayes), a cui seguirono due distinte compa­
gnie di giro l’anno successivo. Come parte del baraccone orro-
rifìco di Horace Liveright, Bela Lugosi si distinse come simbo­
lo di morte dominante in America. «Era l’abbraccio Iella mor­
te ciò a cui anelavano nel subconscio», disse Lugosi dei propri

72
The MonUrr Show

fan. «La morte, ramante infine trionfante.»17 La conversazio­


ne intelligente di quell’epoca spregiudicata era sempre più spe­
ziata di freudismo precotto. Poiché Horace Liveright, nelle ve­
sti di editore, aveva divulgato in America Introduzione alla psi­
coanalisi, pareva quantomai tempestivo che il caposaldo freu­
diano divenisse l’occasione di un monumentale incontro tra re
e regina americani di eros e thanatos. Senza Horace Liveright,
autoproclamatosi direttore circense dell’inconscio americano,
ciò non sarebbe mai avvenuto.
Il comico Jack Oakie ricordava l’eccitazione con cui Clara
Bow si precipitò fuori dalla propria casa di Los Angeles in un
giorno d’estate del 1928 e annunciò agli ospiti sparsi intorno
alla piscina che sarebbero tutti immediatamente volati al Bill-
more Theatre per vedere Dracula. Evidentemente era riuscita a
ottenere biglietti dell’ultimo minuto per lo spettacolo esaurito.
«Era tanto eccitata che non si curò di vestirsi», scriveva Oakie
nelle sue memorie del 1980. «Semplicemente si buttò sul co­
stume da bagno una lunga pellicia di visone e salimmo tutti
sulla sua limousine Packard nera con chaffeur.» La Bow era
bene informata su Lugosi, ricordava Oakie. «Voglio conoscere
quell’ùomo», disse. «Lo sapete che ignora l’inglese?» Era affa­
scinata dall’idea che quella persona potesse interpretare otto
spettacoli alla settimana in una lingua che non comprendeva.
Per tutto lo spettacolo «l’incendio di Brooklyn» si agitò
seminuda sotto la pelliccia. «Ammirammo Bela Lugosi nel suo
trucco mostruoso», scrisse Oakie, «mentre per tutta la serata
si sbocconcellava colli di ragazze. Alla fine andammo in came­
rino.» Il comico ricordava che Lugosi non parlava assoluta-
mente inglese, «ma nessuna barriera linguistica poteva celare
la sua emozione nell’incontrare Clara Bow».18 L’ungherese
spiegò (in quale modo Oakie non lo dice) che aveva memoriz­
zato le proprie battute in base a quelle degli altri, ma se un
altro attore per caso gli dava una battuta sbagliata lui sarebbe
stato perduto per il resto della serata. Bela, come la Bow, aveva
evidentemente un modo tutto suo di fare le cose. Lei lo invitò
immediatamente a casa.
La relazione di Lugosi con la diva continuò per almeno
un anno. Pare che l’attore avesse commissionato un ritratto di

73
Datati / S/tal

lei nuda (da un artista che aveva già ritratto lui vestito); la tela
pendeva nel soggiorno di Lugosi anche due matrimoni dopo.
Si sa poco dei dettagli del loro rapporto, ma all’epoca la scrit­
trice Adela Rogers St. John fece certe osservazioni che potreb­
bero avere qualche rilevanza. «Quando gli uomini si innamo­
rano di Clara Bow, pare che vadano un po’ fuori di testa. Per
esempio scrivono sui film cose che certo nessuno sano di men­
te scriverebbe.»19
La Bow aveva una parte più oscura di quella che suggeriva
la sua eccitante personalità. Per il pubblico lei incarnava la
disnibita ribelle amante della vita (un’icona resa popolare per
la prima volta dalla pubblicazione nel 1922 da parte di Horace
Liveright di flaming Youth di Fabian Warner). Ma, come Ma­
rilyn Monroe, di cui avrebbe prefigurato la tragedia hollywoo­
diana, la Bow aveva avuto un’infanzia difficile che il suo bio­
grafo David Stenn descrisse come «Brooklyn Gothic». Com­
mentando la sua capacità di piangere a comando per la cinepre­
sa, l’attrice disse una volta: «Mi bastava pensare a casa».20 La
madre della Bow era stata soggetta a «incantesimi». «Credo che
ti ucciderò», sbottava alla giovane Clara. «Questo è un mondo
terribile. Sarebbe meglio per te essere morta.»21 Una notte la
ragazza fu svegliata nel sonno profondo dalla madre, che brandi­
va un coltello da macellaio con cui voleva recidere per sempre le
aspirazioni della figlia al mondo dello spettacolo. Fortunata­
mente, la donna sveni prima di mettere in atto il suo proposito.22
Il fascino di Clara Bow sul pubblico aveva una dimensione
ambivalente: una disinibita era simile a una vamp, e una vamp
era a solo un passo da una vera e propria vampira. La diva
ricevette enorme pubblicità nel 1926 quando un ammiratore
ossessivo dal nome appropriato di Robert Savage affermò che
l’attrice gli aveva baciato e morso le labbra «fino a farle san­
guinare».23 Viste respinte le proprie avance, Savage si avvolse
in un lenzuolo su un divano e si tagliò in superficie i polsi in
modo da far sgocciolare il sangue sulla fotografia dell’attrice.
La Bow indisse una conferenza stampa e inferse un colpo sen­
sazionale alla rivale Theda Bara. Come si permetteva Savage
di insultarla con una tale dimostrazione di effeminatezza? Un
vero uomo, aggiunse, avrebbe usato una pistola.

74 _
Thr Mouxfrr Shou*

La storia di Lugosi con la Bow non gli impedì di unirsi


nello stesso tempo a una ricca vedova di San Francisco, Beatri­
ce Weeks, in un matrimonio che durò in tutto tre giorni. Il
«Daily Mirror» di New York riferiva i particolari in un artico­
lo del novembre 1929 nei toni di un consumato imbonitore da
fiera: «Clara Bow, la sirena dello schermo dai capelli rosso
fiammante, ha infine trovato il vero amore. Un amore che,
simile a un fantasma, è sorto dalle ceneri della passione di
un’altra donna.
«Gente, fate la conoscenza del suo fidanzato, e futuro ma­
rito; il conte [jzc] Bela Lugosi, attore ungherese, il vampiro
che ha impersonato il protagonista nel truculento dramma
Dracula ». 24
I lettori accorsi in edicola appresero che la signora Weeks,
vedova del celebre architetto californiano Charles Peters
Weeks, aveva avviato le pratiche di divorzio a Reno, citando
Clara Bow come l’altra donna nella vita di suo marito. Lugosi,
aveva detto alla stampa nella sua lussuosa suite al Riverside
Hotel di Reno, era diventato violento la seconda notte di noz­
ze: «Mi ha preso a schiaffi perché avevo mangiato un pezzo
di agnello che aveva nascosto in frigorifero».
Le scintille si erano sprigionate subito dopo le nozze, ave­
va detto ai giornalisti che prendevano appunti, quando l’uomo
che era stato Dracula le aveva chiesto il libretto degli assegni
insieme alla chiave della cassetta di sicurezza. «Mi ha detto
che lui era il re; che in Ungheria una moglie e tutto quanto
possedeva venivano messi a disposizione del marito; che, in
realtà, lei era solo una serva. » Da erede arcigna di una fortuna
di due milioni e mezzo di dollari si era opposta alla prospetti­
va. La moglie sosteneva di aver abbandonato l’appartamento
comune di San Francisco mentre l’attore era assente a inter­
pretare Dracula in un importante teatro della costa occidenta­
le. Il punto di rottura era giunto quando Lugosi aveva deciso
di riarredare la propria camera, informandola successivamente
che se non avesse provveduto a una sistemazione poteva dor­
mire per terra.
Ma il peggio - a giudicare dall’enfasi bizzarra e dettagliata
posta sulla materia - erano «i modi terribili di Lugosi a tavola.

75
David I. Skal

Rompeva una mela in due e se ne ficcava un pezzo in bocca,


incapace di parlare o deglutire, fino a quando non l’aveva ma­
sticata fino in fondo». E non era tutto. «Usava sempre le dita
al posto della forchetta ed era abituato a comportamenti che
semplicemente mi davano sui nervi.» Per quanto riguardava
Clara Bow, le augurava «tutta la fortuna del mondo». Aggiun­
geva comunque: «Non riesco a vedere alcuna felicità per lei se
sposa mio marito, almeno che lui non migliori i propri modi».
Lugosi presentava la storia da una prospettiva diversa.
Non sapeva che la donna che aveva sposato avesse nella vita
un affetto più profondo: la bottiglia di gin. L’impossibile ma­
trimonio esalò il respiro nei penultimi giorni del decennio rug­
gente, e l’immagine della donna di mondo un tempo raffinata,
ora alcolizzata, arresasi all’immagine di Dracula, costituiva un
culmine e un commento adeguati agli anni selvaggi appena
trascorsi. Clara Bow avrebbe presto seguito sua madre nell’e­
saurimento e nella follia.
E poi, nell’ottobre 1929, ecco il crollo.
Horace Liveright, che aveva imperniato la propria identità
personale e professionale sulle tremende energie della festa
sfrenata che era stata New York negli anni Venti, aveva sem­
pre avuto talento per seguire l’istinto ed atterrare in piedi. Se­
condo Louis Kronenberger, «anche se non possedeva né la
sensibilità di un artista né la cultura e il discernimento di un
critico, aveva perspicacia e fiuto per quello che si gonfiava e
si agitava nel mondo al quale aspirava».25 Un’altra sua dipen­
dente, Edith Stern, ricordava che i suoi guizzi d’intuito, quan­
do scoccavano, potevano «sembrare quasi visibili, come un
lampo».26
Quel che Horace Liveright sentiva gonfiarsi e balenare era
Frankenstein.
E perché no? Il tema della ricerca prometeica era di una
certa tempestiva rilevanza alla fine dei Ruggenti Venti, per la
cultura e per lo stesso Liveright, che provava gusto a coltivare
un’immagine pubblica di demoniaca - se non divina - traco­
tanza. Forse ciò di cui aveva bisogno Broadway in quel mo­
mento era un buon vecchio morality play... o qualcosa del ge­
nere. Lasciamo che il pubblico bacchetti il dottore blasfemo,

76
The Momtrr Show

mentre delira per la sua sinistra bellezza. Liveright conosceva


il proprio mestiere. Inoltre amava presentarsi come un roman­
tico ribelle letterario, o padrino di qualcosa del genere, come
era riflesso in uno schizzo caricaturale autorizzato (e pubblica­
to a sue spese):

HBL, Editore - Figuratevelo come un prodotto di quel fer­


mento americano: di quell’età già distante e romantica in cui
il nostro Paese, tagliato momentaneamente dai suoi agganci
europei, cominciò a friggere e cuocere nel proprio brodo;
quando teatri, libri e riviste di poesia si affacciarono come
una feccia in fermento alla superfìcie della vira e un numero
infinito di giovani, appollaiati nelle soffitte del Greenwich
Village, trovarono voce per gridare: «Ave, Nietzsche. Ave,
Ibsen; ave, Dostoevskij. Eccoci qua! »27

Se non era proprio Shelley, almeno i preoccupanti sintomi


di tracotanza erano inconfondibili.
Liveright nutriva un interesse di lunga data per temi fanta­
stici e sensazionali in bilico sulla soglia della decenza e che
spesso conducevano i censori ad attacchi di apoplessia. Uno
dei grandi successi dell’industria nel 1923 fu Black Oxen di
Gertrude Atherton, che riuniva i temi di Dorian Gray e Fran­
kenstein nella storia della contessa Zattiany, la quale inganna
la morte e trova l’eterna giovinezza con un trattamento «scien­
tifico» a raggi X delle ovaie.
* Le vendite del libro furono equi­
parate quell’anno solo da Complete Etiquette di Emily Post.
(Una versione cinematografica diretta da Frank Lloyd nel 1923
segnò il debutto di Clara Bow, in una parte di ragazza spregiu­
dicata.)
Liveright assunse evidentemente un atteggiamento diverti­
to e ironico nei confronti di gran parte di ciò che presentava in

* La stessa Atherton si era sottoposta a una dubbia forma di terapia a raggi


X, e. soddisfatta dei risultati, pare fosse divenuta una fautrice militante della
scienza non ufficiale nell’età del jazz. «Viviamo in un’era di meraviglie scien­
tifiche», dichiarò, «e chi non ne approfitta è stupido e si merita il peggio
che la maligna Natura possa infliggergli.» Per ulteriori dettagli, cfr. il suo
Adventures of a Novelist (New York, Liveright Ine. 1932, p. 562). (N.d.A.)

77
Dtii’ftl I Shil

pubblico, sulla stampa e sulla scena. Disse una volta a Eugene


O’Neill che Dracula era una «commediola disgustosa»,28 sot­
tolineando contemporaneamente con orgoglio che faceva più
soldi in tour a Newark di quanto stesse guadagnando l’ultimo
dramma di O’Neill a Broadway.
Da snob di Manhattan la sensibilità di Liveright era, in
certa misura, quella di un cinico, ma era un’inezia paragonata
alla dichiarata misantropia di un’altra figura letteraria degli an­
ni Venti, anch’essa coi piedi ben piantati nell’horror. H.P. Lo­
vecraft, allora emergente come il principe di riviste dark pulp
tipo « Weird Tales», trovava «difficile concepire qualcosa di
più ributtante di certe strade del lower East Side... Gli esseri
organici - italo-semitico-mongoloidi - che popolano quella fo­
gna spaventosa non potevano con alcuno sforzo d’immagina­
zione essere chiamati umani. Erano adombramenti mostruosi
e nebulosi del pitecantropoide e dell’amebico; vagamente mo­
dellati su qualche puzzolente fanghiglia vischiosa della feccia
della terra, scivolavano e sgocciolavano nelle strade luride o
dentro e fuori da finestre e ingressi in maniera analoga solo
a un’invasione di vermi». Per Lovecraft, gli anni Venti non
ruggivano; colavano, ulceravano e urlavano. Ci vuole un bello
sforzo per immaginare Liveright e Lovecraft bere una cosa
insieme in uno dei bar preferiti del primo, sforzandosi di tro­
vare un terreno comune tra i loro mostri. Tuttavia i due fecero
molto nello stesso periodo per promuovere in America la cau­
sa delle divinità oscure.
Dall’altra parte dell’Atlantico, Hamilton Deane tampinava
Liveright e John L. Balderston da quasi due anni a proposito
di un adattamento teatrale di Frankenstein - a opera di una
certa Miss Peggy Webling - con cui andava in tournée alter­
nandolo a Dracula. Nel novembre 1928, Deane scrisse a Bal­
derston: «Una delle più grandi delusioni nella mia recente car­
riera è di non essere riuscito a interessarti abbastanza per revi­
sionare Frankenstein. L’ho fatto recentemente di persona e il
successo ottenuto con la nuova versione è sotto ogni aspetto
equivalente a quello di Dracula prima della produzione londi­
nese. Sia la stampa sia il pubblico dicono che “vampirizza Dra­
cula”». Il botteghino, scriveva Deane, era «eloquente» e «ab-

78
The Mfouter Show

biamo svenimenti come ai vecchi tempi». Poiché Deane era


noto per aver sistemato svenitori professionisti in platea per
Dracula, è probabile che Balderston non ne fosse impressiona­
to, e inviò quell’appunto al proprio agente Harold Freedman
osservando che «due teatri londinesi sono disponibili per il
dramma, ma Deane tiene tutto in sospeso finché non mi vede.
E materia incredibilmente cruda, ma credo che Dracula sia
stata probabilmente la cosa più cruda a calcare le scene e ri­
scuotere successo».29
Peggy Webling, autrice della produzione di Hamilton
Deane Frankenstein: An Adventure in the Macabre, aveva scrit­
to un lavoro veramente ampolloso, confuso e predicatorio. Ma
sotto la problematica superficie del suo copione c’erano alcune
intuizioni originali e rivelatrici, non derivate da drammatizza­
zioni precedenti. Fu la prima drammaturga, per esempio, a
intuire le possibilità drammatiche del doppio nascosto in Fran­
kenstein (anche se poteva benissimo essere stata influenzata
dall’adattamento cinematografico prodotto da Thomas Edison
nel 1910 con la regia di J. Searle e l’interpretazione di Charles
Ogle, in cui veniva usato questo stratagemma e che era stato
distribuito a Londra). La Webling chiamò intenzionalmente
Frankenstein il mostro (conservando il nome di Henry per il
suo creatore e completando la configurazione). Era come se la
Webling intuisse l’«errore» delle future generazioni che
avrebbero insistito a confondere i nomi del mostro e del suo
creatore. Benché fisicamente mostruosa, la creatura della
Webling indossava un costume identico a quello di Henty
Frankenstein, e quasi tutti i personaggi del dramma avevano
in qualche misura un doppio. La scissione nel personaggio di
Henry crea confusione emotiva alla sua fidanzata Emily, che
dice all’amato: «Lui fa parte di te e di me, e siamo tutti un
unico essere».30
Benché considerasse «analfabeta» la versione della Web­
ling, Balderston nel marzo 1929 sottoscrisse un contratto con
la scrittrice per adattare Frankenstein e accrescere le proprie
possibilità commerciali a Londra e New York. Che Balderston
pagasse solo venti sterline per i diritti di adattamento potrebbe
essere un indice del suo interesse, o della sua assenza; in ogni

79
David I Ska/

caso, acconsentì a completare un copione per settembre di


quell’anno. Pare comunque che avesse riposto il progetto in
un cassetto e se ne fosse completamente scordato. Peggy no.
Chi era con esattezza Peggy Webling? E quali influssi la
condussero a mettere in cantiere una catena di adattamenti di
Frankenstein culminati qualche anno dopo in una tra le più
indelebili icone culturali mai prodotte da Hollywood?
Nel suo libro di memorie del 1924, Peggy: The Story of
One Score Years and Ten, la Webling dipinge un ritratto par­
lante di una piacevole adolescenza vittoriana passata sui libri
e a recitare. Nata il giorno di Capodanno (non rivela l’anno,
informando il lettore che fatti del genere sono assolutamente
irrilevanti), Peggy, e le sorelle Rosalind e Lucy, si rivelarono
già in giovane età tanto adatte al teatro amatoriale e ai recital
di poesia da essere presto richieste per tutta Londra, precoci
personcine tespiche da esibire in tutti i migliori salotti. Le so­
relle Webling attirarono l’attenzione degli strati elevati delle
arti e lettere vittoriane. Peggy fu «conquistata e turbata»31 da
Ellen Terry, che se ne infatuò, e che lei amava osservare da
lontano mentre passeggiava nei giardini di Kensington. John
Ruskin, altro ammiratore, regalò a Rosalind un’edizione com­
pleta di Byron rilegata in marocchino blu. Peggy leggeva furti­
vamente Don Giovanni quando ne aveva il tempo.
Presto il terzetto cominciò a essere richiesto. «Qualcuno
aveva riferito a Lewis Carroll, al tempo del nostro primo suc­
cesso, delle bambine che recitavano i suoi inimitabili versi.»32
Fu combinato un incontro, ma l’arcigno C.L. Dodgson si rive­
lò al suo arrivo un’amara delusione. Il creatore di alcuni degli
esseri più fantastici della letteratura inglese, ricordava la Web­
ling, era in realtà un lugubre matematico e «mi fece sentire
veramente miserabile scrivendo alcuni diffìcili rompicapi su un
pezzo di carta e intimandomi di risolverli». Peggy non aveva
alcun interesse in enigmi e cifre, che «mi davano letteralmente
il mal di testa». Ma il loro ospite non cedeva, né offriva alcun
aiuto. Continuò a proporre nuovi rompicapi e osservare le
bambine finché loro e la madre furono completamente sfinite.
«Mi chiedo», scriveva Peggy, «se le bambine gli erano davvero
tanto devote come sostenevano i loro genitori. »

80
TJ)r Monster Shoir

In seguito, declinò l’occasione di conoscere Edward Lear,


altro ammiratore. «Come l’autore del “Cappellaio Matto” mi
aveva “divertito” con terribili rompicapi, forse l’inventore di
“Dong Naso Luminoso” poteva suggerirci di “giocare” a com­
pitare o contare.»33
Pare che Peggy e le sue sorelle abbiano condiviso una sen­
sibilità ironica, leggermente perversa fin dalla più tenera età.
(«Sono lieta di ammettere che abbiamo sempre dileggiato i
libri perbenino... Lucy, a sei anni, una volta sconvolse un tè
annunciando che lei “odiava la morale”.»34) Nondimeno, la
moralità, o la sua apparenza, era la moda del tempo, e veniva
spesso impartita ai giovani per mezzo di libretti e poesiole.
Una poesia da loro odiata in modo particolare era accompa­
gnata da un disegno di un «orribile ragazzino» in cima alla
pagina; in fondo, un gentiluomo prestante scendeva un pendio
ripido con una fragile vecchietta: «Madre, guida i miei passet­
ti / Gentile finché puoi. / Guidami sulla collina della vita /
Finché non diventerò un uomo. / Madre, quando diventerò
un uomo, / Buono, e forte e coraggioso, / Guiderò mia madre
giù per la collina / Con dolcezza all’eterno riposo».
Peggy e le sue sorelline scrissero presto la loro versione:
«Madre, guida i miei passetti / Aspri finché puoi, / Mandami
a calci sulla collina della vita / Finché non sposerò un uomo. /
Madre, quando sposerò un uomo / Forte, e ricco, e coraggio­
so, / Farò trottare mia madre giù per la collina / Con destrezza
all’eterno riposo».35
Le Webling attraversarono l’Atlantico con le loro recite,
girando da adolescenti il Canada con qualche successo. Ma al
loro ritorno a Londra scoprirono di non essere più di moda.
Peggy rivolse le proprie energie alla scrittura c inviò racconti,
poesie e articoli a dozzine di periodici, spesso con il risultato
di vederseli pubblicati. Il suo primo libro, The Blue Jay, venne
pubblicato nel 1906, seguito da oltre una dozzina di romanzi
e raccolte. Negli anni Venti scrisse occasionalmente per il tea­
tro e, fatta la conoscenza di Hamilton Deane, già a Dublino e
reduce da un grosso successo in provincia con Dracula, si sentì
in dovere di accettare quando le chiese se le sarebbe piaciuto
adattare Frankenstein come testo di repertorio.

81
David J. Sitai

E così, nel dicembre 1927, accadde che gli oscuri gemelli


di Villa Diodati - il vampiro byroniano e il mostro di Franken­
stein - furono restituiti alla terra in una dinamica fusione in
mezzo ai frusti espedienti del repertorio itinerante di Hamilton
Deane. Si trattò di una natività umile ma importante: per la
prima volta l’interdipendenza delle immagini di Dracula e
Frankenstein fu formalizzata e sfruttata con successo. Fu l’ini­
zio di una formula che avrebbe catturato ininterrottamente
l’immaginario pubblico per il resto del XX secolo.
In una fase giovanile della sua carriera spesa in teatro, il
noto storico cinematografico Ivan Buder trascorse diversi anni
in vari ruoli con l’Hamilton Deane Company, e alla fine del
1990 rammentava gli inizi di Frankenstein. «Ricordo bene le
prime prove, che si tenevano in giro, nella cittadina gallese di
Porthcawl, nel separé di un pub freddissimo: eravamo tutti
intabarrati. Deane fece la sua prima “entrata” in cappotto e
bombetta - e fin dal principio ci incantò.»36 In quanto matri­
cola della compagnia, Butler cominciò «sul copione» - vale a
dire facendo il suggeritore. In seguito, quando il dramma esor­
dì a Londra, si assunse la piccola parte di Victor Moritz, ideata
da Desmond Greene.
Butler ricordava vividamente l’insolito trucco di Deane,
«una strana combinazione di azzurro, verde e rosso - con
spesse labbra rosse». Il singolare volto era coronato da una
spaventosa parrucca arruffata, e Deane gli inserì negli stivali
dei rialzi per esagerare i suoi uno e ottantacinque di altezza.
Lo stratagemma di Deane forse fu ispirato in parte dai reso­
conti della celebre interpretazione teatrale del mostro da parte
di Potter Cooke in Presumption; or the Fate of Frankenstein
(1823). Le recensioni d’epoca descrivevano il volto verde e
giallo di Cooke, l’occhio acquoso e smorto, gli arruffatissimi e
fitti riccioli neri, la sfumatura blu di braccia e gambe, l’incar­
nato avvizzito, le rigide labbra nere, l’orribile ghigno spet­
trale. 37
Le stampe con T.P. Cooke nei panni del mostro rivelano
che il suo costume era un indumento neoclassico, simile a una
toga;38 un secolo dopo, i personaggi di Peggy Webling porta­
vano costumi in stile alto Regency, per cui l’aspetto del mostro

82
The Monger Shou*

rispecchiava quello del suo maestro. La Webling apportò di­


verse revisioni al proprio copione tra la prima del dicembre
1927 e il debutto nel West End (febbraio 1930). In particolare,
la distruzione del mostro fu completamente rielaborata. Nella
prima versione, la creatura si autodistrugge lanciandosi giù da
un precipizio in scena. Ma il tuffo appariva piatto. «Era piut­
tosto insipido», ricordava Ivan Butler, «soprattutto per il salto
di Deane, decisamente incerto! » Il copione revisionato era più
in linea con la tradizione di tuoni e sangue del Little Theatre di
José Levy, che dopotutto aveva presentato sia l’English Grand
Guignol di Sybil Thorndike sia il Dracula di Hamilton Deane.
«La versione definitiva», ricordava Butler, «era proprio
una storia sanguinolenta, con il mostro che pareva strappare
la gola al proprio creatore prima di essere distrutto da un ful­
mine. Il vecchio Deane ci sguazzava.» L’attore nascondeva
nella mano strangolatrice una spugna inzuppata di cocciniglia,
un colorante rosso. «Macchia spaventosamente», rammentava
Butler. «Non ho idea del perché la usassero.» Il cataclismico
«fulmine» era praticamente una sfida nel piccolo teatro. Bu­
tler descriveva il meccanismo dell’inevitabile: «In proscenio,
su nei soppalchi, una specie di pedana o branda di tela lunga
e stretta sporgeva nel senso della larghezza del palcoscenico: i
due lunghi pali erano assicurati (per trenta centimetri per par­
te) ad assi o ringhiere. Il corpo della pedana era riempito di
ciottoli e sassolini, sabbia e pezzetti di spazzatura leggera e.
credo, Terra di Fuller.
«Dopo una battuta, un palo veniva liberato (spenzolava
invisibile in alto, sopra l’arco del proscenio), sganciando il ma­
teriale sul palco - con la compagnia che nel frattempo si era
spostata leggermente verso il fondo per evitare di essere colpi­
ta». Lo spettacolo si rivelò molto gradito al pubblico, ricorda­
va Buder. «Accompagnato da urla e pianti, fulmini, rulli di
tamburo e lampi di luce, era proprio impressionante. »
Benché Butler conoscesse la drammaturga Webling solo
nei termini di «Buongiorno e buonasera» per quando veniva
a trovare Deane, lui la ricordava come «una gentile piccola
signora dai capelli grigi che pareva l’ultima persona a poter
scrivere un tale adattamento».59 Anni dopo, fu sorpreso di

21
I Si^il

imbattersi in uno dei suoi libri per bambini in un negozio di


seconda mano; soggetto: le vite dei santi.
Come Dracula, la produzione di Deane di Frankenstein
non fu accolta con calore dai critici londinesi. «The Times»
fu tipico nella sua valutazione: «La signorina Webling, tra­
sportando nel linguaggio teatrale l’opera unica, originale e im­
peritura di Mary Shelley, è riuscita incontestabilmente a porta­
re in vita il mostro; ma il dramma in cui espone questa belva
impazzita è frivolo quanto una gabbia per uccelli». Fu criticato
soprattutto uno dei «miglioramenti» al copione originale, il
fulmine deus ex machina che distrugge il mostro: «La morte
di Frankenstein non risolve nulla, e il fulmine pare tagliare un
nodo che sarebbe stato interessante conservare intatto.
«Il mostro del signor Hamilton Deane », concludeva la re­
censione non firmata, «è quasi tutto ciò che vale la pena di
guardare: non c’è altro. E uno studio molto bello sul macabro.
Restano i piacevoli, fiammeggianti lampi del Frankenstein del
signor Hallatt. Nessun altro ha un’opportunità, né ci si aspetta
che riesca ad averne una».40
Ivan Butler ricorda che Deane fornì un’interpretazione
sensibile e ricca di sfumature, «magnifica sotto ogni profilo»,
recitando le battute del mostro in «un curioso accento di sua
invenzione. C’era una scena in cui la creatura liberava una
colomba da una gabbia, dicendole “fly away” (vola via). Ricor­
do ancora la maniera insolita in cui Deane pronunciò la parola:
ufloy”». Secondo Butler, « Deane interpretava il mostro con
molta partecipazione. Riusciva veramente a far venire le lacri­
me agli occhi, e a parte i momenti finali del dramma c’era
poco dell’orrore comunemente inteso».
Per quell’epoca, naturalmente, l’opzione di Balderston sul­
la commedia era scaduta, e lui comprese lo sbaglio. Non si
sarebbe mai sognato una produzione nel West End della ver­
sione Webling da parte di Deane. L’11 febbraio 1930 scriveva
a Horace Liveright: «A una lettera dettata stamattina ho acclu­
so i resoconti di Frankenstein apparsi oggi sulla stampa. Ecco
invece quelli serali, tutti in delirio. Ne vale la pena, perché tu
non hai mai visto un testo o degli attori simili». Balderston,
comunque, era ormai pronto ad accantonare il disgusto per

84
rhe Montfrr Show

l’allestimento e a fate il necessario per venderne i diritti a Live-


right. Deane, disse Baldcrston al produttore, aveva già un’of­
ferta americana, e «l’affare Dracula rende quasi certo che ve
ne saranno altre e forse di gente importante. La signorina
Webling è assolutamente ignorante e inesperta... Ecco perché
dobbiamo agitarle qualche banconota sotto il naso e liquidarla
in fretta».41
Ma prima di tutto Balderston doveva concludere qualche
negoziazione per conto proprio. Peggy Webling in un primo
momento si era stizzita per non essere riuscita a dar luce a
una nuova stesura di Frankenstein, ma l’apparente successo
del Little Theatre aveva accresciuto la sua autostima. «Ritiene
di aver scritto qualcosa di grandioso, e che io finirò per rovi­
narlo», scrisse Balderston al proprio agente. Ma era palese­
mente in grado di affascinare la signora, abbastanza per rigua­
dagnare nel giro di una settimana il controllo dei diritti ameri­
cani. Con qualche trepidazione Liveright cablò un’offerta per
il dramma, senza averlo visto e senza un copione esibibile -
un anticipo di mille dollari in cambio di una porzione di diritti
a scalare. Balderston fece del suo meglio per placare le ansie
di Liveright, inviandogli foto di Deane durante lo spettacolo e
altri ritagli stampa («Nota in particolare il risalto conferito a
Deane dal “Punch”, e le due righe in “The Nation & Athe­
naeum”... due fogli intellettuali che mi sarei aspettato ignoras­
sero del tutto il dramma»). Balderston spingeva Liveright a
stipulare anche un contratto con Deane, perché «questo spet­
tacolo è cucito su misura per lui. Sarà molto migliore... di Dra­
cula quando riuscirò a metterci le mani sopra perché ha uno
sviluppo psicologico e una stupefacente, a tratti persino gran­
diosa interpretazione di Deane, mentre non manca alcun colpo
o brivido presente in Dracula. Ma qui, a differenza di Dracula,
occorre una stella».
Balderston incoraggiò Liveright a prendere anche Henry
Hallatt perché ricreasse il ruolo di Henry Frankenstein: «E un
manzo giovane, buono, onesto, bello, vecchio stile, con una
voce ricca e sepolcrale, e ti troveresti nei guai a dover scegliere
qualcuno del genere a New York, specialmente perché il
dramma richiede che il mostro presenti una somiglianza fisica

85
David ì. Sitai

col suo artefice... Questo attore assomiglia sul serio a Dcanc,


e benché sia un omone di solo tre quarti della stazza dell’altro,
bisogna tener conto che Deane è grosso come Camera» (l’allo-
ra campione in carica dei pesi massimi).
Oltre a quelli principali, nella versione di Balderston c’era­
no altri sei personaggi: «Il padre e l’amico di Henry Franken­
stein, tipi da poco e banali, una sorellina ingenua del suddetto
Henry, una cameriera, un prete, che per tutto il dramma disap­
prova quel che accade, un'ottima parte per qualcuno convin­
cente come Van Sloan in Dracula * e infine la fidanzata di
Henry, che finisce stuprata e uccisa. Questa signora dovrebbe
avere forza e fegato da vendere e una gran voce. Per lei servirà
una buona attrice di secondo piano, e il resto del cast è sicuro
e a buon mercato».42
Quando Liveright programmò un viaggio a Londra alla
fine di marzo per vedere il suo nuovo giocattolo preferito, era
già stata annunciata la chiusura di Frankenstein al Little Thea­
tre. Nonostante tutte le buone recensioni per Deane, il lavoro
non riuscì a competere con l’importanza di Dracula. Tuttavia
Liveright vide il dramma il 21 marzo 1930, e ne fu entusiasta.
«A Horace piace enormemente Deane, e lo vuole a New
York», osservava Balderston. «Sfortunatamente conosci Ho­
race, e mentre Deane mi mangiava in mano, ritenendomi un
grande drammaturgo... Horace, prolifico di idee sciocche, gli
ha parlato come se stesse riscrivendo da solo il lavoro. » Deane
era un attore/impresario inglese aduso a controllare tutti gli
aspetti di un allestimento, e Balderston sapeva che potevano
subentrare problemi. E poiché guidava una compagnia itine­
rante molto redditizia, aveva scarsissimi incentivi ad abbando­
nare le proprie attività in Inghilterra solo per compiacere le
discutibili trovate di Horace Liveright. «Se solo Horace mo­
strasse tatto con lui l’intera faccenda potrebbe già essere felice­
mente conclusa, ma Horace parla come un Napoleone del tea­
tro e Deane lo ha capito subito.»43 (Un’indicazione dell’affìni-

* Edward Van Sloan (1881-1964), l’attore americano per primo nel ruolo del
cacciatore di vampiri Abraham Van Helsing nell’allestimento di Dracula di
Horace Liveright. (N.d.A.)

86
The Montier Show

tà di Liveright per le «idee sciocche» era una clausola aggiunta


al contratto per Frankenstein del 26 febbraio con Balderston
e la Webling, che gli garantiva, insieme ai diritti teatrali e cine­
matografici, l’opzione aggiuntiva di presentare Frankenstein
come commedia musicale.)
Qualunque rapporto esistesse tra Horace Liveright e Ha­
milton Deane deteriorò rapidamente. Il 9 aprile Balderston
scrisse al proprio agente a New York: «Horace ha compro­
messo totalmente la situazione con Deane, che tanto lo ha in
cordiale antipatia da non voler firmare benché gli sia stato
offerto l’equivalente di mille dollari alla settimana se lo spetta­
colo ha qualche riscontro». Liveright rispose facendo firmare
il celebre attore shakespeariano Lyn Harding, già scelto per
interpretare il mostro in una seconda produzione londinese
che non si concretizzò mai.
Balderston era anche disturbato dall’avere guastato la sua
stretta relazione lavorativa con l’attore-impresario. «Horace si
intromise e cominciò a dare istruzioni su come riscrivere il
dramma. Lo ripassò tre o quattro volte e ogni volta era lui a
dare ordini. Era troppo per Deane. Io rimasi tranquillo e man­
tenni il sangue freddo, mentre Horace è il tipo di persona
con cui un litigio personale significa probabilmente la fine.»
Liveright, secondo Balderston, «non aveva alcun senso dei va­
lori teatrali». Al commediografo fu offerto un attimo di respiro
quando Liveright lasciò Londra per un viaggio d’affari a Berli­
no. «Sfortunatamente», scriveva Balderston, «sarà presto di
ritorno.»
Balderston era ragionevolmente certo di potersi permette­
re di mantenere la calma, poiché, quali fossero le obiezioni di
Liveright, il contratto prevedeva che lui adattasse Frankenstein
«seguendo le proprie idee», e l’associazione dei drammaturghi
l’avrebbe sostenuto in qualunque disputa con il tempestoso
produttore.
Come per Dracula, Balderston intraprese una riscrittura
complessiva del copione londinese,44 conservando l’intelaiatu­
ra della Webling mentre rimpolpava la propria creazione con
dialoghi vivaci e articolati e una chiara preoccupazione teologi­
ca. Quasi in nessuna pagina mancavano discussioni sulla rela­

87
David J. Skal

zione corretta tra uomo e divinità: oltre sessanta usi diretti


della parola «Dio», e quasi altrettanti riferimenti religiosi. (E
doveroso rilevare il sostanziale ribaltamento dell’originale della
Shelley: il prometeismo romantico era per sua stessa natura
antitetico al cristianesimo.) Hollywood, prevedibilmente, si
mantenne all’inizio lontana dalla teologia, ma conservò altri
tocchi balderstoniani: l’apparato elettrico sfrigolante, per
esempio (il commediografo capì che un elisir vitale in qualche
modo mancava di presenza scenica.) Inoltre drammatizzò per
la prima volta la parziale creazione della compagna del mostro.
Il copione di Balderston abbellì e ampliò diversi eventi
appena sfiorati dalla Webling. Uno, l’annegamento accidentale
di Katrina, la sorella di Henry Frankenstein, viene trasformato
in un momento certamente memore dell’affogamento in Una
tragedia americana, il più grosso successo teatrale di Liveright
prima di Dracula.
Balderston spedì a Liveright una stesura dei primi due atti
della commedia a metà dell’estate del 1930, e ricevette in ri­
sposta un secco cablogramma il 17 luglio:

Profondamente deluso copione Frankenstein non credo possa


essere prodotto con successo se non riscrivi completamente se­
condo nostre idee o accetti collaboratore stop in caso contrario
hai intenzione di subentrare nel dramma e contratto Harding
stop vado a Hollywood il 23 e devo fare progetti in fretta.

Ormai Balderston non ne poteva più di Horace Liveright,


in arretrato sulle royalties di Dracula e i cui altri interessi negli
affari passavano per molto incerti. Le voci erano giuste: Live­
right era sostanzialmente rovinato, voleva liquidare la propria
partecipazione - e liberarsi della presidenza - alla Boni & Li­
veright. Stava per assumere una posizione come produttore
associato alla Paramount Publix Corporation a Hollywood,
«su base tanto libera e fantastica che mi sarebbe impossibile
dirti quali saranno le mie attività. Tutto quel che posso dire è
che mi hanno fortissimamente voluto e mi pagano tantissimo...
Naturalmente la gente dirà che Liveright si è dato al cinema.
In certa misura è vero».45 Il suo interesse reale in Frankenstein

88
The Momter Shoiv

forse era l’opzione sul film, per la quale - a differenza di Dra­


cula - manteneva ora un solido diritto del 50 per cento nel
caso riuscisse a montarne una versione teatrale. Disse al gior­
nalista che stava già «tirando sul prezzo» con la gente del
cinema. A proposito del dramma, Balderston scrisse al proprio
agente: «Sono tanto certo che ne farà un pasticcio che non
m’importa quali condizioni otterrai».46 Finì per accettare un
collaboratore: Louis Cline, il direttore della Horace Liveright
Theatrical Productions. Cline, già agente stampa e uomo-fa
tutto teatrale, in gran parte orchestratore del baccano intorno
a Dracula (in seguito affermò di aver contribuito materialmen­
te al copione), sottolineò un po’ del rabberciamento sensazio-
nalistico operato su Frankenstein'.

Il Mostro strappa la gonna di Amelia, un affare lungo, e la


lascia nuda quanto consentito dai censori. Poi si accinge a
saltarle addosso e stuprarla. Prima che la scena scivoli troppo
nell’esplicito, il Mostro viene interrotto da un rumore fuori
dalla finestra o dalla porta. Guarda fuori scena, o si dirige
verso la porta o la finestra, e a questo punto Amelia scappa
e corre fuori scena... Segue un tramestio (fuori scena). Quindi
il Mostro le corre dietro c sentiamo i suoi stivali (fuori scena)
arrampicarsi sulle scale. Poi la porta sbattuta da Amelia. Il
mostro ci picchia sopra. Questa cede con un frastuono di
vetri infranti (tutto ciò fuori scena), infine si sente un grido
selvaggio.47

Sulla base di un materiale tanto sensazionale, Cline si sentì


certo di poter raccogliere abbastanza denaro per produrre
Frankenstein a Broadway prima che i diritti ritornassero agli
autori il 1° febbraio 1931.
Liveright fu ufficialmente assunto dalla Paramount Publix,
e ci si chiede cosa pensassero i suoi dirigenti del tempo da lui
speso alla Universal, dove era in corso la produzione cinemato­
grafica di Dracula-, finì persino col comparire in una foto pub­
blicitaria sulla scala a chiocciola dell’Abbazia di Carfax. Ma­
rion, la moglie di Balderston, gli inviò un cablogramma all’ini­
zio di dicembre, riversando una luce sorprendente sulle mac­
chinazioni di Liveright: «Horace chiede estensione opzione

89
David J. Ska!

credendo Universal sosterrà produzione acquisterà film diretto


personalmente da lui».
Liveright intendeva veramente «entrare nel cinema».
Quale veicolo migliore di Frankenstein per realizzare la pro­
pria folle ambizione? Carl Laemmle Jr., il nuovo ventunenne
responsabile della produzione alla Universal, aveva annunciato
progetti per iniziare ad allestire commedie sulle scene di New
York e poi trarne film; questo programma avrebbe eliminato
costose trattative per i diritti cinematografici per proprietà tea­
trali riconosciute. Comunque, poiché Liveright non aveva al­
cun tipo di esperienza nella produzione di film, è improbabile
che la Universal lo prendesse sul serio, a parte l’opzione che
momentaneamente conservava su Frankenstein. Lo studio pro­
babilmente lo considerava una seccatura e un idiota; caricato
dall’acquisto per 40.000 dollari di Dracula da parte della Uni­
versal (un affare cui avrebbe potuto partecipare, se non avesse
stupidamente trascurato i diritti cinematografici), Liveright
minacciò una noiosa disputa legale,48 col pretesto che il film
avrebbe danneggiato i suoi diritti teatrali. Si accordò per una
liquidazione di 4500 dollari, che insisteva venissero pagati dal­
la vedova di Stoker, da Deane e Balderston, ma pagata infine
dalla Universal per levarselo dai piedi. Quando risalì la scala
di Dracula era, in un certo senso, un fantasma equivalente al
fittizio inquilino del castello di gesso.
Fu ben presto evidente che Horace Liveright non si trova­
va nella posizione di portare in vita un Frankenstein a Broad­
way, men che meno a Hollywood; la scintilla, il fiuto, l’alchi­
mia da distillatore di contrabbando che riuscivano tanto facili
negli anni Venti si erano praticamente estinti. Poco dopo la
liquidazione di Dracula, la signora Stoker e gli sceneggiatori
agirono contro di lui per il mancato pagamento delle percen­
tuali dovute, e reclamarono la proprietà. Liveright, senza i cui
sforzi Dracula e Frankenstein probabilmente non avrebbero
mai raggiunto il loro successo nel XX secolo, non fu più in
grado di risvegliare l’antico fuoco. La sua permanenza nella
colonia cinematografica fu disastrosa, e ritornò a New York
nel periodo dell’uscita di Frankenstein al cinema senza un sol­
do in tasca. Fece un mostruso incontro in un breve, tormenta-

90
t he Momter Show

to matrimonio con un'attrice disturbata, Elise Bartlett: un’u­


nione segnata dalla violenza fin dall’inizio. Al banchetto nuzia­
le, un emissario del precedente marito della sposa, Joseph
Schildkraut (che in seguito l’avrebbe risposata), gli fece san­
guinare il naso. «Si diceva che la loro vita matrimoniale fosse
piena di litigi»,49 ricordava Louis Kronenberg, rammentando
una grossa escoriazione apparsa sulla mano di Horace qualche
settimana dopo il matrimonio. Si vociferò anche di una spara­
toria. 50 Liveright annunciò progetti impossibili per nuovi pro­
getti teatrali con oscuri temi matrimoniali: uno era Hotel Ali­
mony, un altro una commedia musicale su Lucrezia Borgia.
Non si approdò a nulla. E il genio prometeico dell’editoria fu
scagliato sulla roccia di Manhattan, col fegato divorato quoti­
dianamente non da un avvoltoio, ma dai morsi del gin di con­
trabbando. Un articolo su «Variety» suggerì una volta che Li­
veright avrebbe costituito un soggetto ideale per un’opera anni
Venti;51 in questo caso ci si può immaginare una variazione
da età del jazz su Don Giovanni, con Dracula e Frankenstein
come demoni tentatori che scortano all’inferno il carismatico
libertino.
Sarebbe sopravvissuto solo qualche anno, dimenticato dal
pubblico e abbandonato dai demoni gemelli ai quali per un
po’ aveva agganciato le proprie evanescenti sorti. Ma i mostri,
scoprì Horace Liveright, erano come donne volubili, sempre
sul punto di rivoltarsi contro i padroni. Risorti dalle lapidi
e dalle bare, rinvigoriti dalle energie dell’età del jazz, erano
abbastanza forti da farcela con le proprie gambe, in un’Ameri­
ca amorfa e trasfigurata.
Era il momento tanto atteso dagli dèi. Nel nuovo mondo
del sovvertimento sociale e dell’eclissi economica, il loro tene­
broso dominio poteva estendersi all’infinito.

91
1931: l’abisso americano

E poi il mattino mi sentii tanto debole. Come


se ogni mia forza vitale fosse stata prosciu­
gata.
Helen Chandler, Dracula (1931)

Simile a una versione hollywoodiana del dottor Abraham Van


Helsing, Cari Laemmle Sr. si oppose adamantino a Dracula.
Ma a differenza del cacciatore di vampiri di fantasia, si rivelò
non all’altezza del conte assetato di sangue, la cui ombra aveva
aleggiato fuori dalle porte di Universal City per un certo tem­
po, sempre in attesa. Ai vampiri, secondo la leggenda, serve
un invito per poter entrare in una casa. Dopodiché possono
andare e venire come preferiscono.
Laemmle rinviò l’invito il più possibile. Si oppose come
potè allo spettacolo morboso. Non riusciva a capire perché un
lavoro come Dracula riscuotesse tanto successo un po’ dapper­
tutto, o quale bizzarra gratificazione ne ricavasse il pubblico.
Persino i film da lui prodotti con Lon Chaney nei suoi più
terrificanti travestimenti erano, in definitiva, storie umane.
Questo Dracula dopotutto era un infernale demone succhia­
sangue! Il figlio di Laemmle, Carl Jr., che aveva ereditato le
redini dello studio, insisteva che al botteghino la cosa sarebbe
stata un successo sicuro. Il pubblico era forse impazzito?
Anche se non proprio impazzito, l’umore del pubblico era
cambiato, e in maniera radicale. Il crollo nella fabbrica della
realtà noto educatamente come l’anno del Signore 1931 appar­
ve a molti americani come la fine di ogni possibilità terrena.
La caduta libera dell’economia iniziata nell’ottobre 1929 stava
per toccare il fondo. Nel giro di un anno la popolazione disoc­
cupata mondiale avrebbe raggiunto una cifra stimata in trenta
milioni di persone. Una canzone popolare dell’epoca, Life Is
Just a Bowl of Cherries (La vita è un piatto di ciliegie), contene­

92
The Monger Show

va più di un pizzico di amarezza. (x»mc notava Gilbert Seldes


in The Years of the Locusta «la frase... divenne di uso comune
perché esprimeva una sensazione comune. Il fondo era preci­
pitato giù negli scarichi in cui l’America aveva versato speranze
e fedi; la grande cornucopia si era svuotata e tutto ciò che
restava delle sue inimmaginabili ricchezze era un piatto di ci­
liegie».1
Oltre all’amarezza, la paura. Le rovine dell’età del jazz era­
no il nuovo paesaggio proibito. A milioni attendevano un ca­
pro espiatorio o una liberazione. Un nuovo e controverso ge­
nere di divertimento - il film di gangster - serviva da valvola
di sfogo per la rabbia e il cinismo del pubblico; gli spettatori
prendevano parte indirettamente ad avventure fuori dalla leg­
ge e dalla norma della buona educazione che ora parevano
del tutto irrilevanti. L’interesse popolare nei gangster non era
un'identificazione totalmente immaginaria: il proibizionismo,
dppotutto, aveva letteralmente trasformato in criminali milioni
di cittadini altrimenti ossequiosi.
Ma l’invenzione più durevole e feconda del 1931 sarebbe
stata il film dell’orrore moderno. I film sui mostri spalancaro­
no la possibilità del fuorilegge psichico: per Hollywood un mo­
stro era un gangster dell’Es e dell’inconscio. Le congiunture
cataclismiche nella storia di solito sviluppano una forte imma­
ginazione nella mente collettiva, e gli anni che seguirono il
crollo economico del 1929 non fecero eccezione; Salvador Dall
era asceso a una posizione di predominio fra i pittori surreali­
sti, e la sua tela del 1931 Li persistenza della memoria definì il
movimento agli occhi del grosso pubblico. I suoi orologi di­
sfatti servirono come una sorta di surrealismo populista, ridefi­
nendo il corpo umano e i suoi processi, sfumando i confini tra
Homo sapiens e altre specie, rispondendo inquieti ai nuovi e
quasi incomprensibili sviluppi nella scienza e alle ansiose sfide
che questi ponevano alle strutture familiari della società, della
religione, della psicologia e della percezione.
Nel gennaio 1931 le vaghe paure che avevano minacciato
l’economia l’anno precedente divennero reali:2 il Comitato
d’emergenza per il sollievo dalla disoccupazione del presidente
Hoover confermò le cifre: la Depressione c’era sul serio, e peg-

93
David J. Sitai

giorava di giorno in giorno. Pochi mesi dopo la Banca naziona­


le austriaca fallì, innescando il collasso economico europeo. In
Germania, la crisi conseguente avrebbe contribuito in misura
significativa all’incubo in embrione del nazionalsocialismo.
I film offrivano una fuga istintiva e terapeutica. Come os­
servava Gilbert Seldes, «i ricchi potevano ancora andare nelle
isole dei mari del Sud; gli intellettuali andavano in Messico; i
poveri al cinema».5 La durezza di massa condivisa nella De­
pressione galvanizzò i film come forma dominante di espres­
sione culturale.
Per un periodo di dodici mesi che coincise con le ore più
oscure della Grande Depressione, furono distribuiti o ultimati
per il pubblico consumo quattro archetipi dell’orrore holly­
woodiano. Il peggiore anno del secolo per 1’America si sarebbe
rivelato l’annata migliore per i mostri.

Se la Universal non era preparata a comprare Dracula, la


Metro-Goldwyn-Mayer sì, e il pensiero di uno studio concor­
rente che se ne prendesse i diritti finì per oscurare gli scrupoli
di Cari Laemmle sul soggetto. Finalmente diede il via libera al
progetto con un’unica clausola: che Dracula fosse interpretato
da Lon Chaney, una superstar il cui richiamo al botteghino
avrebbe garantito il successo del film, morboso o no che fosse.
La stupefacente capacità di Chaney di effettuare trasfor­
mazioni fìsiche non si estendeva comunque alla sua salute. Era
stato disturbato per qualche tempo da un’indisposizione alla
gola che lo rendeva incerto di fronte al sonoro. Alcuni anni
dopo, in un’analisi retrospettiva dei suoi film, «The New York
Times» riferiva che « Chaney voleva recitare Dracula» fin dai
primi anni Venti, «e aveva più volte discusso la parte con Tod
Browning... Chaney aveva una sceneggiatura completa e un
trucco segreto preparato con largo anticipo, ma Browning op­
tò infine per il sonoro». L’attore e il regista furono in disaccor­
do, secondo il «New York Times»: «Certi Teutoni hanno stu­
fato col Weltschmerz postbellico».4 Potrebbe trattarsi di un
riferimento al regista dei misteri ospite della Universal, Paul
Leni, che aveva realizzato II gabinetto delle figure di cera (Das
Wachsfigurcnkabinett, 1924) in Germania e II castello degli

94
Thr Mom/rr Show

ape!lri (The Cat and the Canary, 1927) in America. Leni lavora­
va a stretto contatto con il produttore associato della Universal
Paul Kohner; un altro europeo con un impeccabile occhio per
i valori produttivi. Il Dracula di Kohner e Leni avrebbe conser­
vato un forte legame con la tradizione di Caligari nella persona
del suo divo. «Mio marito voleva Conrad Veidt per Dracula»,
ricordava nel 1991 Lupita Tovar Kohner, «ma accadde qual­
cosa e l’attore ritornò in Germania».5 Accaddero due cose:
Paul Leni morì improvvisamente, e Veidt, insicuro del proprio
inglese, non volle rischiare un film sonoro.
Chaney infine realizzò un talkie, il rifacimento di 1 tre (The
Unholy Three, 1930, di Jack Conway), ma i suoi problemi alla
gola riapparvero. Nella primavera del 1930, quando dirigenti
e agenti su entrambe le coste d’America cercavano di convin­
cerlo a mettere piede nella cassa di Dracula, egli venne proba­
bilmente a sapere che la bara era qualcosa più di una metafora.
Nef giugno 1930 gli venne diagnosticato un cancro alla gola e
ai polmoni; due mesi dopo era sul letto di morte. Il centralino
della MGM fu inondato di offerte di fan che volevano donare
il sangue all’impossibile Dracula. Vi furono diverse trasfusioni,
e infine la caduta delle barriere tra l’attore e il suo pubblico.
Ma il 26 arrivò l’ultima emorragia che non potè essereRampo­
nata. E benché Chaney non avesse mai svolto il servizio milita­
re, la sua bara venne drappeggiata con una bandiera americana
come pei i caduti in guerra.
Pochi giorni dopo la morte di Chaney, «Variety» fece un
resoconto devastante di Uomini della notte (Outside the Law),
diretto da Browning per la Universal con Edward G. Robinson
nel ruolo che doveva essere di Chaney. «Non esistono scusan­
ti», esordiva brusco il recensore, definendo il film «uno tra i
peggiori esempi di imbonimento dall’avvento del sonoro. Nes­
sun tentativo di continuità. Il tutto arranca scalmanato, con
una sceneggiatura improvvisata, e gli interpreti disorientati co­
me il regista.»6 In aggiunta agli insulti, il nome di Browning
non compariva da nessuna parte nella recensione dell’influente
organo dell’industria cinematografica.
Tali recensioni non lasciavano presagire nulla di buono
per Dracula, benché il film fosse già in programma, e si doves­

95
David J Skàl

se comunque realizzare. Il colonnello Jason S. Joy (r<unmini-


stratore dal meraviglioso nome dell’appena istituito - pur se a
malapena operante - Production Code, il Codice di produzio­
ne dell’ufficio Hays) ricevette personalmente copie del roman­
zo di Stoker e del dramma di Deane/Balderston. Il produttore
associato della Universal E.M. Asher voleva individuare gli
«spigoli censori»7 della storia, che la casa produttrice presen­
tava come un «racconto di orrore e mistero, con un tema d’a­
more di alleggerimento».8 A parte l’entusiasmo di Cari Laem­
mle Jr., l’apparente erede della Universa! che si invischiò in
Dracula nonostante le obiezioni paterne, non c’era molto soste­
gno al progetto. La maggior parte dei responsi dei lettori sul
dramma e sul romanzo era stata fortemente negativa, e quasi
tutti si preoccupavano della censura. La storia conteneva «tut­
to quel che avrebbe fatto rivoltare qualunque essere umano
normale o cercarvi un’ingiuria appropriata», secondo un rap­
porto del settore storie.9 Tuttavia il colonnello Joy non parve
trovare nulla in Dracula eccetto un nuovo passatempo. Dal
momento che a Hollywood i film sul soprannaturale non esi­
stevano ancora, non avevano mai creato problemi. E nel Codi­
ce non c’era nulla sui vampiri.
Bela Lugosi, nonostante il magnetismo dispiegato in scena,
non aveva lasciato tracce a Hollywood ed era l’ultima persona
desiderata dalla Universal per il ruolo eponimo. L’elenco degli
attori provinati o presi in considerazione per la parte compren­
deva Chaney, Ian Keith, Paul Muni, William Courtenay, Che­
ster Morris e Arthur Edmund Carewe. Browning, da parte sua,
apprezzava l’idea di ingaggiare come Dracula un attore com­
pletamente sconosciuto e mantenerne l’anonimato. «Preferirei
un europeo sconosciuto, e non fornirne il nome», disse il regi­
sta. 10 Lo studio assunse Lugosi all’ultimo momento, quando
questi aveva rinunciato a ottenere la parte: era stato quasi con­
temporaneamente scelto per un ruolo di primo piano in Luxu­
ry, una produzione Fox con Clare Luce.11 H film prevedeva
una trama macchinosa imperniata sul dramma umano della
creazione di un ricco abito da sera femminile. Fortunatamente
per Lugosi il film non si fece, ed egli riuscì a sostituire l’abito

96
rhe Minuter Shine

da sera con il mantello che era nato per indossare, e che avreb­
be indossato fino alla morte.
Lugosi non era l’unico outsider a recitare in Dracula. Il
ruolo di Jonathan Harker (trasformato dopo quattro stesure
della sceneggiatura dall’eroe del dramma a un inoffensivo os­
servatore) andò al trentenne David Manners, un attore a con­
tratto prestato dalla First National. Lew Ayres, stella di All’o­
vest niente di nuovo {All Quiet on the Western Front, 1930, di
Lewis Milestone), rifiutò il ruolo. Voleva recitare la parte di
Renfield, il servo di Dracula divoratore d’insetti, ma non era
precisamente l’immagine che di lui aveva l’ufficio stampa.
L’agente di Manners lo condusse alla Universa! per cono­
scere Tod Browning, che lo voleva per la parte di Harker. Pare
che vi fossero tremende difficoltà nella scelta degli attori; le
riprese erano già iniziate e diversi ruoli erano ancora vacanti.
«Non sostenni un provino, né lessi la mia parte»,12 ricorda
Manners. Per Dracula Manners fu pagato duemila dollari la
settimana, quattro volte il compenso del protagonista Bela Lu­
gosi.
In un’intervista del 1991, alla vigilia del suo novantunesi-
mo compleanno, David Manners ricordava Lugosi come insop­
portabilmente vacuo e presuntuoso, in piedi di fronte a uno
specchio a grandezza naturale sul set, letteralmente quasi ipno­
tizzato dal proprio riflesso. Diversamente dal vampiro di fanta­
sia, ecco un Dracula che non si stancava mai della propria
immagine allo specchio. «Io sono Dracula », intonava, pavo­
neggiandosi alla prova sonora. A chi gli chiedeva se avesse mai
provato la sensazione che il distacco di Lugosi potesse essere
dovuto all’incerta padronanza dell’inglese, Manners replicava:
«Proprio non saprei. Non mi si è mai avvicinato tanto perché
me ne accorgessi». (L’attore avrebbe lavorato con Lugosi in
due altri film, Bacio mortale [Death Kiss, 1933, di Edward L.
Marini, e The Black Cat [id., 1934, di Edgar G. Ulmer], tro­
vando la condotta di Lugosi, pur senza mantello, parimenti
bizzarra.)
Nicholas Webster, in seguito regista cinematografico, tele­
visivo e di documentari, era il figlio diciassettenne della segre­
taria di produzione di Dracula, Aileen Webster, nota familiar­

97
David J. Skal

mente ai colleghi come « Webby». Nick aveva lavorato come


comparsa nell’ultimo successo Universal, un adattamento trion­
fale di Erich Maria Remarque di All’ovest niente di nuovo. Nel
1991 ricordava ancora vividamente come Cari Laemmle Sr.,
ansioso di realismo, fosse ritornato da un viaggio in Germania
con duecento paia di stivali militari, per poi scoprire che cen-
tonovanta erano entrambe formate da piedi sinistri. Studente
a Hollywood High, Nick andava a trovare la madre allo studio
dopo la scuola, e, con il permesso di Tod Browning, preparava
i compiti su una bara nella cripta di Dracula. Rammentava
vividamente gli enormi set orlati di ragnatele. «Mi spaventava­
no a morte», ha detto.
Bela Lugosi, ricorda Webster, chiese a sua madre un’assi­
stenza fuori scena nell’apprendimento delle sue battute. Web­
by, incerta sulle intenzioni di Lugosi, si fece accompagnare dal
figlio. Arrivati al luogo dell’appuntamento, la casa di Lugosi
in North Hudson Street con vista su Hollywood, Webby bussò
e un portale si aprì scivolando. «Ricordo come apparvero que­
gli occhi», continua Webster. «Prima si fissarono su mia ma­
dre. Poi si focalizzarono su di me, ed ebbi la distinta impres­
sione che fosse molto disturbato dalla mia presenza. » Mentre
la madre di Nick insegnava a Dracula le sue battute, il ragazzo
non potè fare a meno di pensare che «quell’uomo fosse in
qualche misura un po’ pazzo, come se pensasse di essere vera­
mente Dracula. »
Tod Browning, nella ricostruzione di Webster, era una
presenza «intensa», con baffi arruffati e un’onnipresente sciar­
pa penzolante. Una volta Browning chiese a Nick cosa voleva
diventare da grande. «Un regista come lei, signor Browning»,
rispose il ragazzo. «Be’», ribattè deciso il cineasta, «devi inco­
minciare dal fondo.» («Ripensandoci adesso, era un consiglio
terribile», aggiunge Webster.)13
Le riprese di Dracula, secondo David Manners, furono
«estremamente disorganizzate». I fautori della politica degli
autori rabbrividiranno all’affermazione dell’attore per cui Tod
Browning, figura dimessa «dietro le quinte», non ebbe nulla
a che fare con la regia delle proprie scene. Karl Freund, uffi­
cialmente direttore della fotografia, in realtà diresse quasi tutto

98
The Montier Shine

il film, c tutta la parte con Manners. Il che significa la sequenza


nella sala da concerti (con alcuni dei dialoghi più eletti di Lu­
gosi), alcuni episodi in salotto (compresa la famosa scena degli
specchi infranti), e la caccia e distruzione di Dracula nelle celle
dell’Abbazia di Carfax. Poiché nessuno degli altri protagonisti
è vivo, non è possibile accertare quant’altro del film sia stato
diretto o meno da Browning. I ricordi di Manners corrobora­
no l’osservazione accidentale di «Hollywood Filmograph» per
cui «non possiamo credere che lo stesso uomo fosse responsa­
bile della prima e seconda parte del film».14 «Filmograph»
era stato un grande sostenitore del film in preproduzione, ed
evidentemente seguì attentamente la dialettica di Dracula.
A complicare ulteriormente le cose, secondo Manners,
Freund, che parlava tedesco, diresse la sua dose di Dracula
con l’aiuto di un interprete, una presenza rigidamente formale
che «portava guanti bianchi sul set». Date le difficoltà di co­
municazione, non stupisce che Dracula abbia la qualità bizzar­
ra di un sogno al rallentatore.
La politica dello studio fu complicata dalla realizzazione
simultanea di una versione del film in spagnolo, girata di notte
sugli stessi set. Alla sua guida c’era nientemeno che Paul Koh-
ner, il giovane produttore i cui ambiziosi progetti per la versio­
ne inglese erano stati depistati dalla morte di Paul Leni e dal­
l’ascesa di Cari Laemmle Jr. Mentre Browning tergiversava,
Kohner allestiva instancabilmente l’altra versione con cast,
troupe e regia totalmente diversi, completati a una frazione del
costo e tempo dell’altra. Kohner usò inoltre il film per celebra­
re e spettacolarizzare la futura moglie, la splendida ingenua
messicana Lupita Tovar, protagonista femminile. Kohner ave­
va perfezionato la propria tecnica - sia con la Tovar sia con la
produzione straniera - in una versione spagnola dalle atmosfe­
re simili a The Cat Creeps (t. lett.: Il gatto strisciante, 1930, di
Rupert Julian, un remake sonoro del Castello degli spettri di
Leni), con il titolo di La Voluntad del Muerto. La fotografia di
George Robinson era molto ambiziosa per i tempi e prevedeva
un’infinita, sontuosa sfilata di ombre preparate ad arte. H regi­
sta di Kohner, George Melford, non parlava inglese e utilizzò
un interprete. Se i ricordi di David Manners su Karl Freund

99
Dariti ì Stai

corrispondono al vero, le due versioni di Dracula della Univer­


sa! furono create essenzialmente superando le barriere lingui­
stiche.
Nel 1991 Lupita Tovar Kohner accennava alla curiosa pos­
sibilità di un coinvolgimento marginale di F.W. Murnau, regi­
sta di Nosferatu, nel Dracula spagnolo.15 La versione spagnola
contiene numerosi riferimenti visuali e prestiti da Nosferatu-, la
donna ricordava che il futuro marito era in buoni rapporti con
Murnau, allora operante a Hollywood, e di averli spesso visti
parlare insieme nelle uscite domenicali. Considerata la passio­
ne di Paul Kohner per il cinema europeo, è quasi inconcepibile
che non abbia colto l’opportunità di confrontare gli appunti
con Murnau sulle rispettive versioni di Dracula. Murnau morì
in un incidente automobilistico poco dopo la distribuzione del
film.
Durante le riprese della versione inglese, David Manners
divenne amico del corrispettivo americano della Tovar, Helen
Chandler. L’attrice aveva appena sposato lo sceneggiatore Cy­
ril Hume, futuro autore di 11 pianeta proibito {Forbidden Pla­
net, 1956, di Fred M. Wilcox). «Se non l’avesse sposata lui, di
sicuro l’avrei fatto io», ricordava Manners sessant’anni dopo.
La Chandler condivideva il suo disprezzo per la produzione, e
lontano dal set scherzavano spesso sulle assurdità del copione.
Dietro le risate, si profilava intorno alla malinconica ingenua
uno scenario oscuro. Di giorno cadeva vittima delle ipnotiche
proposte del conte Dracula; di notte, suo marito intrepretava
un altro malvagio ruolo, secondo l’amico. Cyril Hume, a suo
parere, era un Pigmalione alcolico nell’era del proibizionismo.
Il matrimonio non durò, ma per la Chandler la dipendenza
chimica rimase essenziale nell’accordo di divorzio. La sua vita
a partire dai primi anni Trenta fu una spirale discendente di
alcolismo, pillole, e manicomi. Oltre a diverse altre cose, Dra­
cula è una storia su un modo di bere particolarmente distrutti­
vo e compulsivo; nei decenni successivi, le vicende di vampiri
si sarebbero colorate sempre più di metafore di dipendenza. "

* Rispecchiate alla lettera nel titolo c nelle vicende del recente film di Abel
Ferrara The Addiction (id., 1995). (N.d.T.)

100
The Mim\ter Shine

Lei letto. non certo unico, dell'alcolismo di Tod Browning


non è noto, ma il film fu certamente danneggiato da distrazio­
ne e difficoltà caratteriali; per non parlare delle pressioni del
budget. Una delle sequenze piti drammatiche, il viaggio orrori-
fico dalla Transilvania all’Inghilterra, nel corso del quale Dra­
cula caccia e uccide l’equipaggio, fu quasi del tutto rabberciata
con spezzoni scartati di grandi velieri zuppi di pioggia (molto
probabilmente scippati dal melodramma marittimo Universal
del 1925 The Storm Breaker [t. lett.: L’ondata di tempesta]).
Alla fine, la Universal non fu per nulla soddisfatta della versio­
ne browninghiana di Dracula, e ordinò di ragliare e rimontare
il film. Wiliam S. Hart Jr., figlio della famosa stella del western
e a lungo amico di Browning, ricordava in un’intervista del
1972 che i cambiamenti comprendevano l’aggiunta di diversi
- e ora celebri - primi piani del penetrante sguardo di Lugo-
sif16 Secondo Hart, Browning intendeva mantenere il vampiro
una presenza ombrosa, sostanzialmente invisibile. A giudicare
dai resoconti contraddittori sulla durata effettiva di Dracula,
dal film furono eliminati forse più di dieci minuti. Certi tagli
sono particolarmente rozzi, come i due che finiscono per alte­
rare la continuità: l’attacco di Rendfield contro l’infermiera e
il destino della prima vittima del vampiro, Lucy, sono sempli­
cemente lasciati irrisolti. Nella seconda bobina ecco un taglio
improvviso e stridente quando le mogli di Dracula scivolano
lungo le pietre verso l’inconsapevole vittima. La ripresa è già
abbastanza lenta senza il taglio; l’intenzione del regista dev’es­
sere stata di far spostare le donne al passo di un ghiacciaio.
Quando Dracula fu finalmente programmato in televisione alla
fine degli anni Cinquanta, Browning ancora si lamentava delle
mutilazioni imposte.
Una prova dell’insoddisfazione dello studio nei confronti
di Browning, già dai tempi della preproduzione, fu la didasca­
lia apparsa in almeno una serie di prime foto pubblicitarie
distribuite dalla Universal prima dell’inizio delle riprese, che
identificavano Dracula come «una superproduzione Edwin
Carewe». Carewe (nessuna parentela con Arthur Edmund Ca-
rewe, l’attore candidato al ruolo eponimo) aveva appena rea­
lizzato per la Universal due successi, Ramona e Resurrection

101
David Sitai

(t. lett.: Resurrezione, 1931), e per lo studio sostituire Brown­


ing in caso di problemi nella realizzazione sarebbe stata una
scelta naturale. Ma Carewe era anche uno dei registi più costo­
si in circolazione, con guadagni di almeno 200.000 dollari per
film su base percentuale. La Universal progettava veramente
di scaricare Browning da Dracula, per poi ripensarci solo alla
luce dei costi? La verità non si saprà mai.
La Motion Pictures Producers and Distributors Associa­
tion ricevette numerose lamentele su Dracula. «Non riesco a
riconoscere nulla di moralmente valido in questo film», diceva
una nota non firmata. «L’autore deve avere una mente distorta
e non riesco a capire le motivazioni di questo prodotto. Non
mi opporrò mai abbastanza contro la proiezione di questo film
ai bambini.» Un’altra denunciava il film come «disordinato e
spaventoso, anormale, disumano e inutile. In questi tempi di
vita sotto pressione, nervi , tesi ed eccitazione perenne, è un
peccato distribuire film con un impatto emotivo tanto forte».
C’era inoltre chi vedeva in Dracula un pericolo sociale imme­
diato: «Questo film dovrebbe essere osteggiato da qualunque
organizzazione di anteprime. I suoi particolari follemente orri­
bili mostrati a milioni di bambini impressionabili e ad adulti
già sfiniti dall’umana miseria, produrranno una quantità di
danni incalcolabile». Marjorie Ross Davis, portavoce ufficiale
del Pta, riferì alla Mppda che conosceva il tema del film: «Ne
ho visto i primi quindici minuti e mi è sembrato di non poter­
ne più... Dovrebbe essere ritirato dalle proiezioni pubbliche,
poiché i bambini, i deboli di mente e tutte le classi assistono
indiscriminatamente ai film».17
Dracula fu rifiutato dai censori di Singapore, Malesia e Co­
lumbia Britannica, dove le autorità avevano richiesto tagli este­
si, compresa l’eliminazione delle donne vampiro al castello di
Dracula, il monologo di Renfìeld sulle mosche, i ragni e il san­
gue dei topi, e persino la lettura a voce alta di un articolo
di quotidiano sull’eliminazione fuori campo del bambino.18
Restando in America, i censori del Massachusetts insistettero
per tagliare dalle proiezioni domenicali due brevi sequenze:
una che mostrava una porzione di scheletro in una cassa e

102
Thr Mom ter Show

un’altra con una-specic di scarafaggio che emergeva da una


bara in miniatura.
Una delle critiche più ostinate a Dracula è imperniata sugli
ininterrotti silenzi che paiono legare il film con la Hollywood
del muto in cui aveva prosperato Browning insieme a Chaney.
Forse il regista fermò intenzionalmente l’orologio. In un’inter­
vista del 1931, al termine del suo contratto con la Universal,
osservava, un po’ sulla difensiva: «L’aggiunta del sonoro può
accrescere la suspense, ma ritengo che suono e dialogo dovreb­
bero essere usati con risparmio, forse il 25 per cento suono e
il 75 silenzio. Ciò significa che i dettagli e i tocchi che poneva­
mo nei nostri film muti, in seguito abbandonati - la velocità,
la pantomima, la sottigliezza di quei tempi -, si devono rein­
staurare ancora una volta sullo schermo».19 (A dire il vero
Dracula non è poi tanto muto come sembra - nel 1991 un
restauro della sua colonna sonora ha rivelato suoni sopranna­
turali, effetti ambientali di vento nelle sequenze in Transilva-
>nia, un tocco atmosferico seppellito nell’accumulo di rumore
<di fondo di sei decadi.)
Diversi commentatori hanno considerato Dracula atipico
nel corpus browninghiano, tuttavia certi elementi lo collocano
saldamente tra i temi stabiliti dal canone dell’autore. Dracula,
dopotutto, è il ciarlatano e truffatore definitivo. E un seduttore
«castrato» che non può penetrare nel modo consueto; tutta
l’energia sessuale è collocata nella sua bocca. Invece di causare
una stimolazione, gli incontri ripetuti finiscono per prosciuga­
re e abbattere le sue amanti, che a malapena riescono a ricor­
dare le sue visite. Non consumata nei termini usuali, pure la
loro passione presto diviene non-morta.
Carl Laemmle Jr. era visibilmente a disagio con alcune di­
vagazioni omoerotiche della sceneggiatura (« Dracula dovreb­
be solo andare in cerca di donne e non di uomini! »20 scrisse
nella propria copia della stesura definitiva) e in generale la
componente erotica fu attenuata. Il dramma, per esempio,
conteneva indicazioni di un lungo e appassionato bacio fra
Dracula e la sua vittima, che portava poi al morso; nel film,
Lugosi si limita a baciare con decisione la mano di Helen
Chandler.

103
David ] Sitai

Certi articoli sul film indicavano un legame tra Dracula e


altre ossessioni di Browning. Un’intervista con Lugosi al ri­
guardo su «Motion Picture Classic» suona come se la vera
persona intervistata fosse Browning. Dopo il titolo, The Temi-
nine Love of Horror, l’autrice osserva per prima cosa che l’aura
dell’attore suggerisce un «miasma lussurioso» per «l’atmosfe­
ra diffusa di ossario e baraccone». Le donne d’America, dice
Lugosi (Browning?) sono «insoddisfatte, fameliche, a caccia di
sensazioni, anche di sensazioni di morte [...] Vanno nei circhi
e poggiano sguardi insoddisfatti, indifferenti, su pagliacci e tra­
pezisti», preferendo invece «il luogo delle Persone Strane, i
freaks, e ci restano, trafitte, a bocca spalancata». Esiste, natu­
ralmente, «una profonda ragione biologica. Prima che una
donna poni in sé un bambino, attraversa fasi successive di
orrore, per paura che il frutto del suo corpo sia un’entità mo­
struosa». (Il signor Renfìeld, zoofago, nella sua somiglianza
con un geek da baraccone, fornisce un’altra corrispondenza fra
il Dracula di Browning e il pozzo dei fenomeni.) E persino le
mutilazioni di guerra comparivano su «Motion Picture Clas­
sic» nella discussione sul richiamo di Dracula-. «Durante la
guerra», diceva Lugosi, «le donne combattevano, compivano
manovre, brigavano e intrigavano per finire nelle trincee in
prima linea. Nei loro cuori, nella mente conscia, credevano di
anelare a quel posto per assolvere a doveri di lealtà e pietà...
ma mescolata a questa nobile motivazione c’era la spinta in­
confessabile a vedere uomini mutilati e sanguinanti o in ago­
nia... il bisogno di badare ai sofferenti, che è parte del loro
destino».21
Nel pressbook originale per Dracula, Browning forniva la
propria opinione diretta sul gusto popolare. «Il 90 per cento
delle persone ha una mente malata... Non sono certo che la
media non debba salire. O. Henry una volta ha notato che si
radunerebbero più persone a osservare un cavallo morto per
strada che ad ammirare il passaggio della più bella carrozza,
e questa osservazione quotidiana si avvicina molto alla realtà
effettiva. » Browning poi commentava il fascino particolare de­
gli incidenti automobilistici, probabilmente l’unica occasione
nella sua carriera in cui venisse citato sull’argomento nella car-

104
The Momfrr Show

ta stampata, affermando che «dal luogo degli incidenti auto­


mobilistici vengono allontanati più spettatori svenuti che pro­
tagonisti feriti».
Nonostante l’apparente disponibilità di Browning a pub­
blicizzare Dracula, la Universal non fece quasi alcuna pubblici­
tà o promozione al film per la prima sulla costa occidentale.
L’unica apparizione pubblica di Lugosi pare sia stata per la
prima della versione spagnola, quando salì sul palco del Cali­
fornia Theatre per congratularsi con gli attori. Non desta sor­
presa il fatto che non via sia menzione sulla stampa di una
presenza di Browning all’evento.
Dracula finì per essere riconosciuto come un film america­
no chiave, benché non per ragioni convenzionali. Nella tradi­
zione registica europea, l’irrazionale e il macabro avevano fatto
parte del cinema sin dagli esordi. Pur con tutte le sue manche­
volezze artistiche, il film liberò l’impulso che sonnecchiava in
America, ristabilendo una connessione essenziale tra cinema e
inconscio, e trasformò silenziosamente il nostro immaginario,
per sempre.

Una delle immagini più efficaci e squassanti di All’ovest


niente di nuovo, il più grosso successo della Universa! nel 1930,
erano due mani staccate dal corpo, aggrappate a uno steccato
di filo spinato, poiché il resto del loro proprietario era appena
saltato in aria di fronte agli occhi dello spettatore. La Universal
presentò un analogo paio di mani smembrate l’anno successi­
vo, e le attaccò a Boris Karloff in quello che sarebbe divenuto
il più famoso film dell’orrore di tutti i tempi.
Nel 1910 Thomas Edison aveva prodotto un Frankenstein
di un rullo, diretto da J. Searle Dowley; un altro adattamento
molto libero intitolato Life Without Soul (t. lett.: Vita senz’ani­
ma, di Joseph W. Smiley) apparve nel 1915. La storia fu consi­
derata dalla First National nel 1928 come un veicolo di effetti
speciali per Willis O’Brien, che aveva animato i dinosauri in 11
mondo perduto e avrebbe raggiunto l’apice della fama come
capo tecnico in King Kong (id., 1933, di Merian C. Cooper
ed Ernest B. Schoedsack). Il Frankenstein di O’Brien avrebbe
prodotto un mostro miniaturizzato in stop-motion,22 consen­

ins
Dui >hI I Skal

tendo quindi tratti sovrumani impossibili da raggiungere per


un attore o una controfigura. Il film non andò mai oltre i pro­
getti iniziali.
Tre anni dopo. Cari Laemmle Jr., forte del successo di
Dracula al botteghino, portava avanti i suoi progetti di realizza­
re su pellicola il Frankenstein di Mary Shelley. La Universal
aveva acquistato i diritti per l’adattamento di John L. Balder­
ston e Peggy Webling 1’8 aprile 1931, appena sette settimane
dopo l’uscita di Dracula. L’agente di Balderston, Harold
Freedman, non era riuscito a ottenere niente di simile ai
40.000 dollari che aveva concluso per Dracula-, la Universal
versava in pessime condizioni finanziarie. Astutamente, Freed­
man suggerì un compromesso: Balderston e la Webling avreb­
bero accettato una somma inferiore - 20.000 dollari, per la
precisione - in cambio dell’uno per cento dell’incasso lordo
della pellicola ricavata da Frankenstein. Comprando in antici­
po i diritti teatrali, la Universal avrebbe potuto produrre Fran­
kenstein senza competizione né ritardi. E avendo speso parec­
chi soldi per il diritto a una solida e provocatoria drammatizza­
zione di un classico della letteratura, lo studio di conseguenza
seguì una tradizionale procedura hollywoodiana: buttarono via
il tutto.
La prima scelta annunciata per la creazione di Franken­
stein fu il regista francese Robert Florey, che concepì una sce­
neggiatura in cui il mostro emergeva come un semplice bruto,
svuotato persino degli accenni di pathos conferitigli da Balder­
ston e dalla Webling. Nelle intenzioni di Florey c’era un film
stilizzato ed espressionista alla maniera di Caligari, per cui girò
un paio di bobine sui set rimasti da Dracula, come dimostra­
zione di stile. Il mostro riluttante era Bela Lugosi, pesantemen­
te truccato e inceronato, probabilmente con un’enorme par­
rucca o protesi cranica nello stile del Golem. Esistono diversi
resoconti di questo provino per il trucco andato perduto, e
quasi tutti si contraddicono. La parrucca, comunque, è un det­
taglio convincente, poiché in quasi ciascun disegno, descrizio­
ne o fotografia di scena per adattamenti teatrali e cinematogra­
fici di Frankenstein dal 1823 fino al 1930 è presente il mostro
con una quantità di capelli fluenti, sparati o arruffati.23 Lugosi

1HA
Thr Monster Show

recalcitrava a interpretare una parte muta, e Florey fu rimpiaz­


zato da James Whale, un regista teatrale inglese segnalatosi a
Hollywood in tre film di guerra: Gli angeli dell’inferno {Hell's
Angels, 1930) di Howard Hughes, in cui Whale diresse senza
essere accreditato le sequenze coi dialoghi quando Hughes,
sorpreso dal passaggio al sonoro, fu costretto a rigirare il film;
Journey’s End (t. lett.: La fine del viaggio, 1930), basato sul
successo teatrale londinese di Robert C. Sherriff (già diretto
sulle scene da Whale); e Waterloo Bridge (t. lett.: Il ponte di
Waterloo, 1931), il suo primo film per la Universal, anch’esso
basato su un dramma (di Robert Emmet Sherwood), l’incontro
a Londra fra un soldato ferito e una ballerina (che finirà per
prostituirsi) alla fine della guerra. Il film fece una tale impres­
sione su Cari Laemmle Jr. che questi offrì a Whale il diritto di
scelta su qualsiasi progetto di cui lo studio detenesse i diritti.
Fra una trentina di lavori, Whale scelse Frankenstein, ma solo
perché nient’altro riusciva a interessarlo. Almeno, fu il suo ra­
gionamento, non era un altro film di guerra.24
Frankenstein, tuttavia, avrebbe avuto un debito nei con­
fronti del tempo passato da Whale nelle trincee cinematografi­
che (così come in quelle reali; i suoi primi tentativi sulla scena
si ebbero in un campo di prigionia vicino ad Hannover nell’ul­
timo anno di guerra).25 Dopo che la Universa! ebbe preso in
considerazione Leslie Howard per il ruolo eponimo, Whale
scelse Colin Clive, un attore dall’aria maledetta e nervosa che
aveva interpretato il tormentato capitano Stanhope nelle ver­
sioni teatrali e cinematografiche di Journey’s End: l’intensità
nevrotica di Clive era una caratteristica perfetta anche per
Henry Frankenstein, un uomo sempre al limite. E Mae Clark,
la prostituta di Waterloo Bridge, sarebbe stata la sua fidanzata
Elizabeth. Per trovare il mostro ci volle un po’ di più. La nuo­
va concezione della creatura richiedeva un attore di un certo
eclettismo e una certa sensibilità. La sceneggiatura definitiva,
opera di Garrett Fort e Francis Ford Faragoh, usò la versione
di Florey come intelaiatura, ma vi sparse dappertutto una pro­
fonda nota di pathos.
«Non cammina come un robot», si dava la briga di spiega­
re la sceneggiatura. Il suo primo verso sullo schermo doveva

107
Dittai J. Skill

essere «straziante, pietoso... come quello di un animale sper­


duto».26
«Avevo trascorso dieci anni a Hollywood senza suscitare
la minima reazione», ricordò Karloff diversi anni dopo. «Poi
un bel giorno me ne stavo seduto a pranzo alla mensa della
Universal con un’aria piuttosto depressa, credo, quando un
uomo mi mandò un biglietto dove mi chiedeva se mi andava
di fare un provino per la parte di un mostro. »27
Il collega di Whale, David Lewis, gli aveva suggerito di
dare un’occhiata a Karloff, che aveva appena impersonato in
maniera convincente un gangster in The Criminal Code. Kar­
loff, il cui vero nome era William Henry Pratt, a volte guidava
un camion per un deposito di legname in attesa di una nuova
parte. Non si faceva illusioni sul fatto che l’industria cinemato­
grafica potesse garantirgli da vivere, e non si aspettava minima­
mente che il suo nome sarebbe divenuto un marchio di fabbri­
ca per l’orrore. Whale riteneva che il suo volto avesse delle
possibilità interessanti; da pittore dilettante, il regista eseguì
uno schizzo dell’attore, esagerando in via sperimentale le spor­
genze delle ossa nella sua testa. Mostrò le proprie idee a Jack
P. Pierce, capo del reparto trucco alla Universa! fin dal 1926.
Pierce era stato responsabile dello spaventoso ghigno di Con­
rad Veidt in The Man Who Laughs (t. lett.: L’uomo che ride,
1929, di Paul Leni), basato sul romanzo di Victor Hugo, e
aveva creato il trucco di Lugosi per il provino cinematografico
di Florey per Frankenstein.
Pierce era considerato da quanti lavoravano con lui un
genio, pur se egoista; non riconobbe mai pubblicamente il ruo­
lo di Whale nell’ideazione del trucco per Frankenstein. Forse
la concessione più stretta al riconoscimento di un debito fu
in un suo commento del 1939 al «New York Times»: «Non
dipendevo solo dalla mia immaginazione».28 Disse che aveva
trascorso tre mesi di ricerche preliminari in campi come l’ana­
tomia, la chirurgia, la criminologia e l’elettrodinamica. La crea­
zione definitiva di Frankenstein, concludeva, era un risultato
più o meno logico di questi sforzi.
A uno sguardo retrospettivo, appare chiaro che Pierce e
Whale trassero ulteriore ispirazione non tanto da idee perso-

108
Thr Mo/titrr Show

nuli quanto dall’estetica stilizzata da età delle macchine che,


nei 1931, era diventata una forza dominante nelle arti applica­
te. Ispirato ecletticamente da cubismo, espressionismo e dalle
teorie architettoniche del Bauhaus, questo stile zigzagante si
fece ben presto una strada spigolosa e angolare nel mondo
della pubblicità, della decorazione, e del design industriale. Il
movimento aveva avuto inizio a Parigi nel 1925, all’Exposition
Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, e
questa denominazione originò i due nomi più comunemente
usati per descrivere il movimento: Art Déco e Art Moderne.
I designer americani ne affinarono ulteriormente l’estetica, e
«Fortune» anni dopo ricordava che le vetrine dei negozi sulla
5* Strada si riempirono ben presto dei «grotteschi manichini,
attrezzi cubisti, disegni strampalati»29 che avrebbero definito
lo stile.
«Grottesco manichino» ben definisce il mostro di Franke-
stein, amalgama di corpi convenzionali fatti a pezzi e riassem­
blati seguendo i nuovi principi logico-angolari ed elettromec­
canici. La testa squadrata - un motivo comune nella grafica
pubblicitaria del periodo - evoca potentemente il tormento di
un’antica coscienza costretta a occupare un paradigma nuovo,
un cervello tondeggiante legato malamente in un cranio a con­
figurazione meccanica. La sceneggiatura così descriveva la sua
struttura: «La sommità del capo presenta una curiosa sporgen­
za piatta simile al coperchio di una scatola. I capelli sono mol­
to corti e piuttosto prevedibilmente disposti sopra la sporgen­
za per nascondere il difetto di giuntura dove è stato inserito il
cervello».30 Il mostro è un incubo da grafico modernista: le
cuciture sono esibite, le viti e le giunture sporgono. La forma
segue la funzione, ma appena appena.
Oltre a Whale e Pierce, diversi altri disegnatori della Uni­
versa! e persino del reparto promozionale contribuirono alle
idee visuali per il mostro in cantiere. Due elementi spiccavano:
la fronte sporgente, che suggeriva una regressione nella scala
evolutiva, e la concezione paradossalmente futuristica di un
uomo completamente meccanico secondo la linea indicata da
«Televox»,31 un automa congegnato dai laboratori Westin­
ghouse alla fine degli anni Venti. L’ideazione più «meccani­
Daijfd Ì. Skat

ca», opera dell’illustratore di poster Universal Karoly Grosz,


introdusse per la prima volta la nozione di un bullone d’acciaio
che trapassava il collo, un particolare che avrebbe simbolizzato
da solo la totalità del mito di Frankenstein. Come ha osservato
la storica dell’arte Sidra Stich, questo tipo di stilizzazione, già
nell’opera di Max Ernst, «dislocava, sopprimeva, e ridefiniva
gli umani per conformarli al mondo delle macchine»,52 una
tendenza che seguiva la prima guerra al mondo completamente
industrializzata. Infine, il mostro di Pierce-Karloff è ovviamen­
te debitore al netto profilo postebellico di Conrad Veidt nel
Gabinetto del dottor Caligari (Whale aveva studiato il film per
preparare Frankenstein), e risale ancora più indietro al prototi­
po da baraccone dell’«Uomo o Macchina» che aveva origina­
riamente ispirato gli sceneggiatori di Caligari negli anni di
guerra.
Il mostro di Karloff, naturalmente, mina i principi dell’e­
stetica delle macchine mentre ne trae ispirazione; benché la
creatura sia eminentemente moderna, non è assolutamente dé-
co\ qualcosa in più, a dire il vero, come un malconcio cappuc­
cio decorativo per un’economia allo sfascio. Come un mo­
struoso doccione sul grattacielo Chrysler (ultimato nel 1930),
il mostro di Frankenstein è tuttavia una ulteriore, inevitabile
stimma dell’estetica meccanica: un minaccioso e indimentica­
bile pezzo di architettura popolare.
«Eravamo tutti affascinati dall’evoluzione del volto e della
testa di Karloff », ricordava l’attrice Mae Clarke, che aveva un
posto sul set. «Il cerone bianco sulla faccia veniva sfumato in
grigio cadaverico. Poi un’improvvisa ispirazione per dare al
volto una tinta verde. Ci incuteva timore ed ecco che riconsi­
deravamo l’intera idea.»33 (Si dice che fu lo stesso Karloff ad
aver suggerito le palpebre pesantemente biaccate, che aggiun­
gevano una dimensione di pathos e incomprensione.)
Quando il trucco fu pronto per un provino su pellicola
-in banco e nero - Karloff non aveva idea di quanto fosse
efficace il prodotto finito. Avrebbe ispirato orrore... o ilarità?
«Ci stavo proprio pensando, mentre provavo la camminata,
quando svoltai nel corridoio e mi ritrovai faccia a faccia con un
attrezzista. Era il primo a vedere il mostro: lo osservai per

110
The Mom ter Show

studiarne la reazione, che fu immediata. Diventò bianco, de­


glutì, e sparì dalla vista lungo il corridoio. Non l’ho più visto.
Poveruomo, avrei tanto voluto ringraziarlo: fu lo spettatore
che per primo mi fece sentire un mostro.»34
La storia, nella sua versione filmata, attingeva liberamente
a fonti diverse: il romanzo di Mary Shelley, i film 11 Golem e
Caligari, e precedenti adattamenti drammatici di Frankenstein.
L’assistente di Frankenstein, Fritz (interpretato da Dwight
Frye, il Renfield di Dracula, descritto mirabilmente dallo scrit­
tore Stefan Kanfer come «un attore ipertiroideo con un sus­
surro scenico delle dimensioni di Pasadena»35), era stato por­
tato sulle scene londinesi per la prima volta nel 1823. Il perso­
naggio era stato ripreso da Horace Liveright e Louis Cline
nella loro riscrittura inedita del copione di Balderston, poi
venduta alla Universal. Il contributo di Liveright al moderno
genere horror, di conseguenza, comprendeva non solo la re-
surrezione/sfruttamento delle sue due icone maggiori, ma an­
che la diffusione del motivo del «gobbo da laboratorio».
I titoli di testa di Frankenstein si sovrappongono a un vol­
to indistinto e demoniaco rivolto allo spettatore attraverso un
campo di occhi ruotanti, forse ispirati da disegni analoghi a
quelli usati sui dischi stroboscopici, i giocattoli girevoli vitto­
riani che anticiparono l’immagine in movimento. L’effetto im­
merge lo spettatore in un’esperienza di tipo primordiale, insie­
me infantile e terrorizzante. La sequenza di apertura in un ci­
mitero conteneva una sorta di shock viscerale per il pubblico
del 1931: il suono della terra che si infrangeva sul coperchio
di una bara. Il microfono era stato sistemato proprio all’inter­
no della cassa, il modo migliore per amplificare i riverberi.
Ricordava David Lewis: «Quel film è stato imitato tante di
quelle volte che al giorno d’oggi queste scene non turbano più
la gente. Ma nel 1931, era roba tremendamente pesante». A
un’anteprima a Santa Monica, alcuni spettatori espressero il
proprio giudizio coi piedi. «Più si andava avanti», diceva Le­
wis, «e più la gente si alzava, usciva, ritornava, usciva di nuo­
vo: una reazione allarmante.»36
Messo insieme a partire da resti di tombe, esecuzioni e
scuole di anatomia, il mostro viene alla vita in un orgasmo di

Ili
David J Ska!
Jr

macchinari scricchiolanti da età tecnologica. Nel 1818, Mary


Shelley aveva fatto un fugace riferimento a «un potente mac­
chinario»; nel 1931 quell’immagine onirica faceva presa sulla
realtà contemporanea. I luccicanti generatori ad arco incande­
scente di "Frankenstein, creati dall’ingegnere elettrico Kenneth
Strickfaden, costituivano un fantasioso commento ad alto po­
tenziale sull’era delle macchine. «Lo stile dipendeva dal tipo
di rottami che avevo a disposizione», ricordò cinquant’anni
più tardi, benché il suo interesse per l’elettricità, i suoi utilizzi
e metafore, non fosse per nulla derisorio. «L’elettricità è vita»,
dichiarò Strickfaden all’intervistatore George E. Turner. «Sia­
mo solo un insieme di scintille con proporzioni variabili di
aria.»57 I suoi sentimenti riflettevano le tendenze nettamente
riduzionistiche e orientate alla meccanica di gran parte della
cultura postbellica. A milioni di ignoti era stata insinuata l’im­
pressione che la vita - e la morte - moderna non fossero altro
che un’anonima catena di montaggio verso il massacro.
Il film di Whale dipingeva un mostro saldamente aggrap­
pato a questa confusione, una figura patetica ferrata, come nel­
la realtà, sullo spinoso confine tra umanità e congegno mecca­
nico. La precisa collocazione temporale è vaga: pare il presen­
te; le donne, per esempio, indossano abiti alla moda del 1931,
ma benché il film «riguardi» la scienza, tutte le diavolerie tec­
nologiche e industriali - automobili, radio, telefoni - sono to­
talmente assenti, quasi che la loro energia sia stata integral­
mente trasportata nelle apparecchiature del laboratorio di
Frankenstein. H film è ambientato in un villaggio tedesco, tut­
tora popolato (come durante la guerra) di personaggi che par­
lano con accenti inglesi e americani. Poiché le sequenze del
vilaggio furono girate negli stessi esterni usati per All’ovest
niente di nuovo, senza dubbio diversi spettatori provarono una
certa dose di déjà vu, paragonassero o meno Frankenstein con
l’acclamato film bellico.
Una delle più celebri sequenze di Frankenstein non fu vi­
sta nella sua integrità per quasi cinquant’anni. Il mostro incon­
tra una bambina sulla sponda di un lago. Senza paura, lei lo
porta a giocare coi fiori, lanciandoli sull’acqua per vederli gal­
leggiare con grazia. Il mostro, rapito dall’estasi, lancia sulla

112
The Montier Show

scia dei fiori anche la bambina, che a differenza delle marghe­


rite annega e muore. La scena finì per essere radicalmente ta­
gliata. Anni dopo, Karloff sosteneva che la sequenza non fun­
zionava: James Whale aveva insistito perché lui lanciasse la
bambina con un movimento brutale dall’alto invece di deporla
dolcemente sull’acqua. L’attore, che aveva problemi alla schie­
na, non riuscì a gettare la bambina molto lontano, e la pastic­
ciata azione che ne seguì appariva buffonesca. Fortunatamen­
te, la semplice idea della morte della bambina era tanto scon­
volgente (pare che Cari Laemmle Sr. abbia fulminato la segre­
taria con un: «Nessuna bimba affogherà mai in un mio
film!»58) che la scena venne quasi integralmente soppressa,
finendo con,-il mostro che tentava di afferrare la piccola (e
lasciava ironicamente ad alcuni spettatori l’impressione di aver
perso lo spettacolo di un’inaudita molestia).
Diversi fraintendimenti hanno preso piede sulla portata
della censura a Frankenstein negli Stati Uniti. Diversi impor­
tanti tagli - l’annegamento della bambina, la battuta di Colin
Clive «Ora so come si deve sentire Dio» ecc. - furono richiesti
dalla Mppda solo dopo la proposta di ridistribuzione del film
nel 1937.1 sei Stati con commissioni di censura, naturalmente,
avendo la facoltà di tagliuzzare a loro piacimento, la sfruttaro­
no in pieno - in particolare, pessimo fu il trattamento inflitto
dal Kansas. Ma nella California dai censori illuminati pare che
il film sia stato proiettato integro -: la battuta su Dio di Clive,
per esempio, era citata in una recensione a San Francisco. E
la scena di annegamento sembrava essere ancora al suo posto
quando la Universal sottopose il film alla Mppda per una ripu­
litura nella riedizione; i censori dell’industria avanzarono obie­
zione formale il 9 giugno 1937. (La sequenza, che si trova in
gran parte intatta al British Film Institute, fu restaurata infine
per la versione in laserdisc di Frankenstein distribuita dalla
MCA negli anni Ottanta, ma manca tuttora dei primi piani
della bambina che annega, particolari tagliati per volontà dei
censori inglesi.)
Frankenstein sollevò un vespaio di polemiche tra i censori
del Québec,59 cattolici che sollevarono obiezioni religiose al
tema della tracotanza nei confronti della divinità. T.B. Fithian

113
David /. Skal

della Universal combinò una proiezione per due preti cattolici


di Los Angeles, e la loro opinione fu che Frankenstein non
offendeva in alcun modo le dottrine cattoliche. Ma approvaro­
no il suggerimento da parte di Fithian per cui il modo migliore
di vincere la censura canadese poteva essere «con l’aiuto di
una didascalia adeguata o di un preavviso che indicasse la na­
tura onirica del film. Forse potremmo iniziare a partire dal
libro, con le voci fuoricampo di Shelley e Byron e della signora
Shelley che discutono di un racconto fantastico e poi una dis­
solvenza sul film. Ci piacerebbe fare qualcosa del genere». Es­
senzialmente, la Universal proponeva di fare la stessa cosa fatta
dai tedeschi con II gabinetto del dottor Caligari dieci anni pri­
ma. Ma la diplomazia finì per prevalere e i canadesi approva­
rono Frankenstein in pratica nella sua forma originale. In ogni
caso a tutte le copie del film fu appiccicato un breve prologo
parlato di Edward Van Sloan, l’attore che aveva interpretato
il mentore di Henry Frankenstein, il dottor Waldman. (La
Universal aveva usato Val Sloan in un’analoga circostanza per
l’epilogo di Dracula.) Diversi scrittori a contratto della Univer­
sal, compreso l’esordiente John Huston, collaborarono al pro­
logo:

Il signor Cari Laemmle ritiene che sarebbe forse ineducato


presentare il film che segue senza una parola di amichevole
avvertimento. Stiamo per svelarvi la storia di Frankenstein,
un uomo di scienza, che cercò di creare un uomo partendo
dalla propria immagine, oltrepassando Dio. E uno fra i più
strani racconti mai narrati. Affronta i due grandi misteri della
creazione: la Vita e la Morte. Ritengo che possa elettrizzarvi.
Che possa sconvolgervi. O persino disgustarvi. Così, se qual­
cuno tra di voi ritiene innocuo sottoporre i propri nervi a una
tale tensione, questa è la vostra opportunità di... be’, vi abbia­
mo avvertito!

Questa premessa non contribuì granché ad ammorbidire i


censori, e il film fu bandito a Belfast, nell’Australia del Sud,
in Cecoslovacchia, e, per un certo periodo, in Svezia. In Ame­
rica, uno degli Stati maggiormente persecutori fu il Massachu­
setts, che richiedeva tagli tanto numerosi da rendere il film

114
The Mon\t<r Show

praticamente incomprcnsibile. Fra le richieste più risibili: «Eli­


minare la scena in cui il corpo steso su una lapide torna in
vita». In Texas un distribuitore intuì il valore pubblicitario
della controversia e richiamò il pubblico di Dallas minaccian­
do pubblicamente di cancellare il contratto con la Universal se
non gli si consentiva di proiettare il film intatto.
Frankenstein , naturalmente, si prestava a nuovi e oltrag­
giosi stratagemmi pubblicitari. Oltre alle tecniche introdotte
da Dracula - infermiera a disposizione, un «tonico per i nervi»
gratuito, e simili -, l’elaborata pubblicità preventiva compren­
deva, in una sala, uno sparo di pistola dietro le quinte per
scuotere il pubblico dalle sedie proprio nel momento in cui
iniziava sullo schermo il trailer del film. Robert Sparks, propie-
tario dell’Arcadia Theatre di Tempie, nel Texas, mise un an­
nuncio per una donna che acconsentisse a sedersi da sola nella
sala buia per un’anteprima del film in cambio di una ricom­
pensa in denaro. «Risposero ottantacinque donne per questo
privilegio», riferiva «Motion Picture Herald», e il premio an­
dò infine all’anima indifesa che offrì di devolvere la somma in
beneficenza. A Omaha la folla scatenata di una proiezione di
mezzanotte infranse la vetrata in vetro metallizzato di una sala,
suscitando ulteriore interesse pubblicitario.
«La perversione ormai pretende un posto d’onore fra gli
interessi emotivi riconosciuti dell’umanità», scriveva «Motion
Picture Herald» nella sua trattazione di Frankenstein. Il film
era giunto, «a sentire gli psicologi, nel momento psicologico
più adatto. Dicono gli esperti che la gente apprezza di più il
tragico quando lo spirito è depresso, e gli economisti spiegano
che ben più che i loro spiriti si trovano alle strette».40
Evidentemente, Frankenstein era proprio quello che pre­
scriveva il medico.

Lo stretto rapporto tra fiabe infantili e letteratura orrorifì-


ca non è mai stato dimostrato meglio quanto nella carriera
di Robert Louis Stevenson, le cui due più celebri opere sono
un’avventura di pirati, L’isola del tesoro, e una cupa novella
gotica di ispirazione scientifica, Lo strano caso del dottor Jekyll
e del signor Hyde (1886), ispirata alla storia vera (XVIII secolo)

115
Datati f Steal

di un Deacon Brodie da Edimburgo, di giorno rispettabile cit­


tadino e di notte spietato criminale. La versione liberamente
adattata da Stevenson avrebbe introdotto la seconda grande
coppia di doppi emersa nel XIX secolo dalle isole britanniche,
dopo Frankenstein e il suo mostro, anticipando Dorian Gray
e il suo ritratto. (Anche Dracula di Bram Stoker avrebbe rac­
chiuso aspetti del doppio, benché con sdoppiamenti e separa­
zioni più sottili.)
Il racconto di Stevenson fu quasi subito scelto per il teatro.
Thomas Russell Sullivan adattò Lo strano caso per l’attore Ri­
chard Mansfield, che provò il doppio ruolo per la prima volta
a Boston nel maggio 1887 (rimase in repertorio fino alla sua
morte nel 1907). La prima versione cinematografica di Lo stra­
no caso del dottor Jekyll e del signor Hyde fu prodotta in Ame­
rica dalla Selig nel 1908, la seconda dalla Kalem nello stesso
anno, con la regia di Sidney Olcott; una terza in Danimarca
nel 1909 (Den Skaebnesvangre Opfindelse, di August Blom),
una quarta, The Duality of Man (t. lett.: La dualità dell’uomo)
nel 1910 (produzione Wrench); una quinta da Laemmle nel
1912 (regia di Lucius Henderson); tre nel 1913: una inglese
(produzione Kinemacolor), una americana (interpretata e di­
retta da King Baggott) e una tedesca (Der Andere [t. lett.: L’al­
tro], di Max Mack) ispirata indirettamente a Stevenson; nel
1914 apparve un’ulteriore versione della Starlight. Nel 1920
furono realizzate quattro diverse versioni: la prima con John
Barrymore, prodotta dalla Famous Players-Lasky (regia di
John S. Robertson); la seconda dalla Pioneer (regia di Louis
B. Mayer), con Sheldon Lewis; la terza era una commedia pro­
dotta dalla Arrow; e la quarta (Der Januskopff girata quasi
contemporaneamente in Germania da F.W. Murnau, vedeva
nel ruolo principale Conrad Veidt e Bela Lugosi nei panni del
suo maggiordomo. Per celare la propria fonte, l’adattamento
non autorizzato dell’originale stevensoniano allargò ulterior­
mente le proprie identità, assumendo in Austria l’aspetto di
Dottor Warren e Mr. O’Connor. In totale, vi furono quattordici
adattamenti muti del capolavoro stevensoniano.
E interessante che sia America sia Germania, negli anni
immediatamente successivi alla guerra, trovassero Lo strano ca­

ne
The Montier Show

so un affidabile soggetto commerciale. La storia della discesa


di un uomo - e, attraverso I’identificazione del pubblico, di
una nazione - nella violenza bestiale aveva un chiaro legame
metaforico con la deflagrazione appena avvenuta. Il film di
Murnau non compare in alcuna collezione o archivio noti e
probabilmente si è perso per sempre. Il film con Barrymore
(da una sceneggiatura di Clara S. Beranger) formalizzò le con­
venzioni drammatiche che ne avrebbero influenzato gli adatta­
menti futuri. Diverse di queste convenzioni non c’entravano
nulla con Stevenson, dovevano qualcosa a Oscar Wilde, piut­
tosto. Quattro anni dopo la pubblicazione della novella di Ste­
venson, Wilde scrisse il suo capolavoro, Il ritratto di Dorian
Gray. Il personaggio wildiano presentava una modalità di
sdoppiamento della personalità più sofisticata; il decadimento
fisico procede fuori campo (visivo) in un ritratto su nell’attico
che diventava progressivamente spaventoso. L’aspetto esterio­
re di Dorian Gray - un giovane dalla bellezza intatta - gli
permette di compiere il male senza ostacoli. Wilde non svela
mai la natura precisa delle trasgressioni di Dorian, ma esse
sono profondamente sociopatiche. Il giovane seduce, per poi
abbandonare crudelmente, un’attrice di nome Sibyl Vane, e
questo la condurrà presto al suicidio. Per il film con Barrymo­
re, la sceneggiatrice Beranger prese a prestito, consciamente o
meno, l’intreccio secondario di Wilde e, con scarse modifiche,
lo appiccicò senza soluzione di continuità alla storia originale
di Stevenson. Nei panni di Mister Hyde, pure Henry Jekyll
trovò una donna di teatro da sfruttare e poi sopprimere... e la
presenza di una ballerina di varietà divenne una componente
indelebile dell’equazione Jekyll/Hyde.
* Come nel caso del
Dracula di Bram Stoker, gli adattatori teatrali e cinematografici
videro - appropriatamente - che l’elemento di seduzione pale­

* Il dare e avere negli adattamenti di Lo strano caso del dottor Jekyll e del
signor Hyde e II ritratto di Dorian Gray era appena iniziato. Quando Dorian
Gray venne filmato da Hollywood negli anni Quaranta, il personaggio di
Sibyl Vane fu degradato socioeconomicamente da attrice shakespeariana ad
artista popolare di varietà, come per allineare maggiormente la storia alle
convenzioni stabilite dagli adattamenti cinematografici di Lo strano caso.
(N.d.A.)

117
DavuTJ Skill

se e fatale, assente nell’originale, era necessario a realizzarne


pienamente il potenziale visionario e commerciale. Natural­
mente avevano ragione.
Barrymore girava II dottor Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. Hyde)
di giorno a New York, mentre la sera era Riccardo III, un’ac­
coppiata spossante per il fìsico. Tallulah Bankhead ricordava
che Barrymore inizialmente le aveva offerto la parte di prota­
gonista femminile. Anche la Bankhead stava diventando cele­
bre sulla scena teatrale newyorkese, e ne fu lusingata, ma aveva
anche qualche dubbio sulle reali intenzioni dell’attore. Andò
nel suo camerino al Plymouth Theatre dove, fedele alla tradi­
zione Jekyll/Hyde, Barrymore cominciò a emettere «piccoli
versi animaleschi». L’attrice li interpretò come un indicazione
del «suo desiderio di infrangere il settimo comandamento». Il
Grande Profilo le prese le mani «e cominciò a trascinarmi a
un divano approntato alla bisogna. Con quanta dignità mi fu
possibile simulare in circostanze tanto delicate, rifiutai».41
Gran parte del divertimento nelle versioni teatrali di Lo
strano caso consisteva nel vedere quanto lontano poteva andare
un attore nella trasformazione senza ricorrere al trucco (pare
che Richard Mansfield utilizzasse solo contorsioni facciali e
luci). E probabile che Barrymore avesse visto Mansfield all’o­
pera; l’attore era un amico intimo di suo padre Maurice. Per
la propria trasformazione, Barrymore usò una sconvolgente
maschera con denti sporgenti e testa appuntita, ma si sforzò
di applicare il trucco senza fermare la cinepresa, facendo un
uso intelligente dei ripiegamenti e delle numerosissime convul­
sioni. L’attore allungò le dita con protesi di gomma che posso­
no benissimo aver influenzato il trucco di Max Schreck in No-
sferatu l’anno successivo (Barrymore era un divo internaziona­
le, e il film ricevette un’ampia distribuzione europea). Le mo­
struose dita, che parevano lunghe almeno quanto cinque falan­
gi, avevano comunque delle controindicazioni pratiche; nel
corso di una convulsione particolarmente violenta, si può nota­
re che un dito si stacca e vola per tutto lo schermo. Forse il
momento più grandioso del film è quando Hyde si toglie il
cappello a punta, svelando che si conforma anche troppo pre­
cisamente alla forma della testa sottostante.

118
The Mon\fer Show

Barrymore portò a termine il film (non apprezzato quanto


la sua interpretazione), ma i rigori combinati di interpretare
simultaneamente il gobbo Riccardo III e il parimenti contorto
Mister Edward Hyde ebbero per lui come conseguenza un
esaurimento nervoso e una permanenza forzata e imprevista in
una clinica di White Plains.42
Un decennio più tardi, nell’attesa di Dracula e in una corsa
contro il tempo con la produzione quasi simultanea di Fran­
kenstein, la Paramount affidò un complesso rifacimento del
film al regista teatrale Rouben Mamoulian. In un primo tempo
la Paramount voleva che Mamoulian utilizzasse il caratterista
Irving Pichel nel nmln-di Jekyll, ma il regista rifiutò. «Insistetti
che fosse un giovane, [perché] la ribellione e la trasformazione
risultano più interessanti come risultato del fermento di aspira­
zioni giovanili»,45 ricordava Mamoulian nel 1971. Scelse Fre-
"3ric March, che molti nell’industria ritenevano un peso legge­
ro. Avrebbe presto dimostrato il contrario.
La scelta di March è notevole proprio perché quintessen-
zialmente americano. Un tratto ricorrente negli horror degli
anni Trenta è l’iniezione di personaggi e attori Usa in situazio­
ni da incubo «europee». Come ha osservato Frank McCon­
nell, «L’“inglese” di Dracula è palesemente del New England,
persino negli accenti della maggior parte degli interpreti prin­
cipali».44
Il dottor Jekyll fu filmato dalla Paramount mentre la Uni­
versal stava confezionando Frankenstein, e pose analoga enfasi
sul tour de force per il trucco del mostro. Una delle prove per
Mister Hyde era cugina stretta di quella per il vampiro di Lon
Chaney in 11 fantasma del castello, compresi un ciuffo di capelli
sotto un alto cappello e orribili denti sporgenti. Mamoulian
avanzava pretese per la concezione neanderthaliana che fu usa­
ta alla fine. Come un altro trucco classico - quello di Max
Schreck in Nosferatu - le fattezze di Hyde diventano sempre
più spaventose col procedere del film.
Le scene di trasformazione, ingegnosamente filmate, si ba­
savano sulla manipolazione di filtri colorati che sarebbero ri­
sultati indistinguibili sulla pellicola in bianco e nero. I primi
segnali dei tratti distorti di Hyde - linee di rughe, narici allar-

119
DaviiTf. Skal

gate - furono dipinti direttamente sul volto di March con truc­


co rosso. Fotografato attraverso un filtro rosso compensativo,
l’espediente risultava invisibile alla cinepresa. Quando il filtro
cambiava gradualmente da rosso ad azzurro, i dettagli mo­
struosi parevano erompere dal viso dell’attore. L’espediente
era stato concepito originariamente dall’operatore Karl Struss
per Ben Hur, dove, usato al contrario, creava la «guarigione»
miracolosa dei lebbrosi.
Gli effetti speciali odierni in leggerissima schiuma di latti­
ce erano ignoti nel 1931, e le protesi facciali di March dovette­
ro essere faticosamente ricavate da materiali talvolta poco
adattabili. L’attrice Rose Hobart, che interpretava la fidanzata
di Jekyll, ricordava che i test del trucco risultavano «troppo
da maschera», e immobilizzavano il volto dell’attore. «Così si
limitarono a mettere gomma liquida sul suo volto: ecco il truc­
co. E quando la levarono, la faccia venne via col trucco! Fu
fortunato a non restare sfigurato per sempre.»45
Oltre al dialogo letterario e a una produzione insolitamen­
te lussuosa, Il dottor Jekyll di Mamoulian aggiunse all’horror
un elemento sessuale esplicito senza precedenti. <La ballerina
usa e getta della versione con Barrymore divenne un personag­
gio importante, una prostituta di nome Ivy (Miriam Hopkins)
che tenta il dottore buono, ignara di stare al contempo invitan­
do Mister Hyde a presentarsi ed entrare in azione. Come que­
ste suggestive sequenze riuscirono a schivare il colonnello Joy
e compagnia non è ancora del tutto chiaro; nel corso della
preproduzione, la Mppda aveva fatto obiezioni solo a qualche
dialogo (un uomo che chiamava Ivy «lurida baldracca»46) e
una scena con Hyde che annegava un gattino nel fiume. Esisto­
no foto di scena di Mamoulian che riprende la perversa se­
quenza dall’originale di Stevenson in cui Hyde picchia un
bambino per strada. La Paramount, forse nel tentativo di evi­
tare una débàcle per violenza su minori in stile Frankenstein,
tagliò la scena prima che finisse nelle mani dei censori.
Quando la Mppda ebbe l’opportunità di visionare la ver­
sione definitiva di 11 dottor Jekyll, il Frankenstein della Univer­
sal aveva appena esordito con un successo sbalorditivo, con­
vincendo l’industria a riconoscere che Dracula non era stato

120
The Monger Show

un bluff, c che i «film dell’orrore» (il termine, sotto diversi


aspetti un’invenzione del 1931, non era ancora di pubblicò
dominio) formavano una nuova categoria importante e remu­
nerativa. Jason Joy comunicò il proprio responso a B.P. Schul-
berg (Paramount) il 1° dicembre 1931. «Poiché è il caso di
un classico della letteratura tanto conosciuto, il pubblico e i
recensori potrebbero soprassedere sugli orrori risultanti dal
trucco realistico di Hyde», osservava Joy, «benché riconoscia­
mo francamente la nostra impossibilità di prevedere la reazio­
ne a questo o ad altri film dell’orrore. Certamente è nostra
speranza che l’eccellenza della produzione annulli ogni ap­
prensione sull’eccessivo azzardo del tema.»47
La prima si tenne a New York a Capodanno del 1931.
«Variety» lo trovò degno di lode, ma eccessivamente lungo, e
lamentò che il suo «elaborato abbellimento della semplicità
originale indebolisca la produzione per compiacere la mas­
sa».48 Il film nelle proiezioni successive sarebbe stato tagliato
di diciassette minuti, probabilmente non a beneficio del pub­
blico ma degli esercenti, che potevano di conseguenza spreme­
re una proiezione supplementare al giorno. Curiosamente,
«Variety» ospitò una recensione schizoide; un articolo di spal­
la intitolato Visto dalle donne reinterpretava alcune fra le pec­
che del film come aspetti positivi. «H classico scioccante perde
gran parte del puro orrore e della conseguente sgradevolezza
per le donne, acquistando in logicità per motivazioni psicoana­
litiche e un richiamo sessuale coraggiosamente esibito. L’ulti­
ma versione è risultata per le ragazze stuzzicante invece che
repellente.»
L’interpretazione di March elevò il film una spanna più in
alto quando fu proclamato miglior attore dell’anno alla ceri­
monia degli Oscar del 1932. In altri Paesi, il consenso non fù
tanto condiviso; Il dottor Jekyll fu respinto senza remissione
dalla censura di Finlandia, Olanda, Rhodesia e Cecoslovac­
chia.49
Con Dracula, Frankenstein e II dottor Jekyll, i paesaggi psi­
chici del castello, della cripta e del laboratorio furono tracciati
in maniera definitiva. Restava da esplorare un unico locale, la
tenda da circo primaria dalla quale tutti gli scienziati pazzi e i

121
Dtii’hl J. Ska!

cadaveri viventi avevano fatto il loro ingresso nel cinema. E


c’era solo un uomo qualificato ad alzare il sipario.

«Mio Dio, mio Dio, è una bambola spezzata!»50


Forse John Eckhardt non capì le prime parole pronunciate
su di lui in questo mondo, ma le levatrice di Baltimora che lo
fece nascere stava sforzandosi di esprimere in qualche modo
ciò a cui stava assistendo la sera del 27 agosto 1911. Il primo
di due gemelli, Robert Eckhardt, era entrato nel mondo nor­
male. Il secondo, John, emerse da sua madre con la parte del
corpo al di sotto della gabbia toracica mancante. E soprav­
visse.
Johnny era completo internamente quel tanto che bastava
per continuare a vivere in maniera parzialmente normale. Im­
possibilitato a esplorare il mondo come gli altri bambini, si
imbarcò nel proprio universo di fantasia. Amava le domeniche
in cui sua madre lo portava lungo i binari della ferrovia. «Tra­
scorrevo l’intero pomeriggio steso laggiù a rimirare treni», ri­
cordava Johnny, «e più di qualsiasi cosa al mondo volevo di­
ventare un macchinista, lassù nella locomotiva, e andare da
qualche parte.»51 A undici anni, lui e il fratello salirono sul
carrozzone del circo dopo che un prestigiatore offrì loro di
entrare nello spettacolo. Il loro breve rapporto di lavoro si
rivelò di sfruttamento e finì, ma non il desiderio del ragazzo
di scappare con la carovana. Molti ragazzi avevano fantasie del
genere, ma nessun mezzo per realizzarle. Bob e Johnny Eck
avevano tutto ciò che serviva. Talvolta il meno diventava un
più.
Il lavoro nelle fiere e nei circhi di strada fu interrotto dal-
l’irrompere della Depressione. Il loro primo impresario, dalla
dubbia onestà, riuscì a ritornare nei loro favori e li ingaggiò
per la grande esposizione canadese del 1931, dove Johnny fu
contattato da sedicenti talent scout per il signor Browning del­
lo studio Metro-Goldwyn-Mayer. Johnny non sapeva chi fosse
questo signor Browning, ma si sottopose a un provino dove
ebbe modo di dimostrare la sua abilità nello stare in equilibrio
sulle robuste braccia. Nel provino compariva un altro prodi­
gio, un Rattus Norvegicus di oltre venti chili.

122
The Momtcr Show

1 ragazzi viaggiarono alla volta di Hollywood su un treno


di prima classe. L’impresario non disse loro di aver già conclù­
so un contratto cinematografico: pensavano di andare a lavora­
re in un circo. Inoltre non furono informati che avrebbero
ricevuto solo il dieci per cento dei mille dollari alla settimana
che la MGM era disposta a pagare per la loro presenza. Infine
furono presentati all’uomo genere «mago di Oz» che li aveva
invocati nel palazzo del sogno. Sul luogo delle riprese era stato
eretto un tendone da circo perfettamente credibile, che aspet­
tava solo loro.
«Benvenuti nella famiglia, benvenuti», disse Tod Brown­
ing, solenne. Eck ricordava che «da quella volta in poi non mi
chiamò mai Johnny Eck, ma solo “Mister Johnny”». (Se i due
conoscessero un altro comune significato in slang dell’espres­
sione «Mister Johnny» [Sor Cesso], non è dato di sapere.) In
un’intervista del 1980, Eck ricordava che il regista gli diceva:
«Voglio che tu mi stia più vicino possibile, e per tutto il tem­
po... Ogni volta che c’è una sedia o un posto libero, tu devi
sederti al mio fianco mentre giriamo».
E girarono sul serio. La produzione di Freaks di Tod
Browning fu accelerata per approfittare della messe orrorifica
Universal nel 1931, ma la storia era in lavorazione molto prima
che lo studio rivale pensasse a Dracula. Nel 1929, la MGM
aveva acquistato i diritti del racconto Spurs (t. lett.: Speroni)
di Tod Robbins, apparso nel 1923 sul «Munsey’s Magazine».
Lo studio pagò 8000 dollari52 all’autore per il bizzarro raccon­
tino di un nano da circo francese, Jacques Courbe, che eredita
una fortuna e subito propone il matrimonio a Jeanne boarie,
una statuaria cavallerizza di cui da tempo è innamorato. Il nu­
mero di Jacques nel circo è un riflesso clownesco di quello di
lei; anche lui cavalca, ma un cane lupo di nome St. Eustache.
Jeanne Marie in realtà è innamorata del suo compagno di esi­
bizioni Simon Lafleur, ma essendo priva di dote sa che lui non
la sposerà mai. Convinta che i nani siano destinati a una morte
precoce, accetta l’offerta di Jacques e i due si sposano. II loro
banchetto nuziale, in un tendone da circo, degenera in seguito
al bere in una vera rissa tra fenomeni. Jeanne Marie costringe
lo sposo a saltarle in groppa come una scimmia, vantandosi di

123
Davidi: MW

poterlo’portare «da un capo all'altro della Francia». Jacques


non glielo perdonerà mai. Un anno dopo riappare al circo e
Simon non la riconosce; è sfinita e invecchiata. A quanto pare,
il nano l’ha presa alla lettera; ha misurato l’esatta distanza «da
un capo all’altro della Francia», e ogni giorno, che splenda il
sole o piova, la costringe a trasportarlo sulla schiena lungo le
strade di campagna come punizione, spronandola nel vero sen­
so della parola. Lei implora Simon di aiutarla a sfuggire al
tormento, ma sono interrotti da Jacques e dal suo cane lupo
che caricano a testa bassa l’ex amante di Jeanne. Il nano ferisce
mortalmente Simon con la sua spadina, e Jeanne si rassegna a
continuare il proprio castigo. «Davvero sorprendente», riflette
Jacques, «con quanta rapidità si possa cavare il diavolo fuori
da una donna... con gli speroni! »
Fornire a Tod Browning una storia di Tod Robbins non
era privo di senso; Robbins, dopotutto, aveva scritto il roman­
zo che era stato alla base di uno dei più grandi incassi di
Browning e Chaney, I tre. Clarence A. «Tod» Robbins, origi­
nario di Brooklyn, fu uno scrittore di gialli e thriller enorme­
mente popolare negli anni Venti. (Con sei matrimoni alle spal­
le, Robbins sarebbe stato descritto dal «New York Times»
come «una figura di casa nel Greenwich Village e a Montpar­
nasse».53 Tennista, inesausto francofilo che realizzò una fortu­
na immaginando il peggio nella natura umana, si stabilì nella
riviera francese. Il suo rifiuto di abbandonare la Francia du­
rante l’occupazione lo fece finire in un campo di concentra­
mento tedesco.54 Morì nel 1949.)
Spurs come racconto aveva delle lacune; non era nulla più
di una storiella macabra, e i personaggi erano tutti detestabili.
Ma c’erano gli «elementi Browning» al gran completo, com­
presa una buona parte per il minuscolo attore Harry Earles,
che aveva interpretato in maniera mirabile un sicario nano tra­
vestito da bambino in I tre, ed era entusiasta di girare un film
con il regista. La Metro annunciò nel novembre 1929 che il
nuovo progetto del regista sarebbe stato «un film sul circo»,55
benché la produzione ovviamente non cantasse subito vittoria.
Solo dopo che Browning ebbe ripagato la Universal con
Dracula, Irving Thalberg diede il via libera a Freaks. Browning

124
The Monger Show

promise allo studio 1‘horror definitivo, e a Thalberg questa


suonò come una grande idea. La Universal aveva già in cantie­
re Frankenstein-, questa storia dei mostri sicuramente sarebbe
stata la prossima grossa moda. Lo sceneggiatore Willis Gold-
beck sottopose un copione al produttore. Dopo averlo letto,
si racconta che Thalberg si sia messo la testa fra le mani. «Ho
chiesto qualcosa di orripilante», borbottò, «e l’ho otte­
nuto.»56
Un buon uomo d’affari va al di là del gusto personale, se
necessario. Se il pubblico chiedeva di urlare - e pagava per il
disturbo - la Metro-Goldwyn-Mayer era onorata di dare una
mano.
Quattro scrittori oltre a Browning - che quasi sempre svol­
geva un ruolo attivo, pur se non accreditato, nelle sceneggiatu­
re dei propri film - lavorarono sul copione di Freaks-, Gold-
beck si vide accreditare il lavoro insieme a Leon Gordon, e
diversi dialoghi furono aggiunti da Edgar Allan Woolf e Al
Boasberg. Woolf avrebbe in seguito contribuito alla sceneggia­
tura per II mago di Oz {The Wizard of Oz, 1939, di Victor
Fleming), dove alcuni membri del cast di Freaks sarebbero
stati riciclati come Munchkins.
La storia presentata per l’approvazione definitiva conser­
vava solo una vaga somiglianza con il racconto originario; men­
tre fu mantenuto il tema della vendetta, la trapezista (ora chia­
mata Cleopatra) era diventata un’aspirante omicida, dedita al­
l’avvelenamento del minuscolo consorte, Hans. La storia si di­
pana fra tre coppie, ciascuna in contrasto, rispecchiamento o
parallelismo con le altre. Cleopatra è innamorata di Hercules,
il forzuto e malvagio del circo. Hans ufficialmente è fidanzato
con un’altra nana, Frieda, ma incapace di resistere al fascino
della «più bella grande donna che abbia mai visto». Il pagliac­
cio Phroso è preso da Venus, ammaestratrice di foche. Vi sono
altre coppie, meno convenzionali ma altrettanto evidenti: un
paio di gemelle siamesi costituisce un duo problematico che si
dibatte in storie d’amore; e in Josephine-Joseph, metà uomo-
metà donna, il gemellaggio si compie in un unico corpo. L’in­
treccio si complica, e i ballerini cambiano compagni con ac­
coppiamenti sessuali bizzarri e frustranti. Il pagliaccio è un

125
Dittiti J. Sfati

buonuòmo, ma scarsamente dotato («Avresti dovuto cono­


scermi prima dell’operazione», dice alla sua ragazza). E chiaro
che il nano non potrà mai soddisfare Cleopatra, si è già visto
cosa le piace: si chiama Hercules. I progetti di matrimonio
delle siamesi sono una barzelletta. Nel microcosmo in forma
di circo di Tod Browning, spuntano barriere fìsiche a ogni
curva per un sesso normale. Il culmine viene raggiunto in un
bizzarro pranzo di nozze per Cleo e Hans in cui la sposa ubria­
ca respinge i freaks che l’hanno «accettata» fra di loro e li
rimette tutti in riga al posto che spetta a ciascuno. «Luridi,
disgustosi freaks che non siete altro», grida, innaffiandoli di
vino. Da questo punto in poi, non si scherza più. I freaks sco­
prono i suoi piani e imbastiscono a loro volta un complotto.
Se la «grande donna» non vuole accettarli, allora la soluzione
è semplice: Cleopatra non sarà più grande. Quando la sua car­
rozza si schianta nel fango di un rovescio torrenziale, le danno
la caccia, urlanti, attraverso una poltiglia primordiale. Lei si
ripara sotto un albero. Nella scena filmata originariamente,
scoppia un fulmine, e un albero abbattuto spezza le gambe
della donna. Illuminati dai lampi del tuono, i freaks sciamano
su di lei, completando l’opera. Nell’epilogo ambientato alcuni
anni dopo, vediamo che fa ormai parte delle attrazioni, col
naso rotto, orba, e priva di gambe e parola. Può solo emettere
i versi di un’oca, e si esibisce in un costume da gallina. Hercu­
les le è accanto come fenomeno, e canta con voce da soprano.
La sceneggiatura di scena (a giudicare da una sinossi parti­
colareggiata risalente all’epoca della lavorazione del film) con­
teneva infinite intuizioni affascinanti e morbose andate in se­
guito perse durante le riprese. L’effetto del pranzo di nozze
doveva essere accresciuto da dialoghi affilati e crudeli: perché
mai Hans dovrebbe essere geloso se sua moglie bacia un altro
durante il banchetto nuziale? C’è in lei più di quanto lui possa
mai usare! Per aumentare la sensazione di nausea durante la
famosa sequenza accompagnata dai versi «gooble, gooble», la
sceneggiatura prevedeva che alcuni dei freaks sbavassero nella
coppa dell’amore che veniva passata per la tavola.
L’immagine da incubo della prima notte di nozze imper-

126
Thr Mom Ir r Show

niata intorno alla grottesca esibizione della deformità fisica fu


l’apice della carriera di Tod Browning.
Mirna Loy, come molti altri, fu genuinamente disgustata
dal copione. Aveva esordito al cinema nel 1927, ma già si sfor­
zava di sfuggire ai cliché di femme fatale che le erano stati
appiccicati addosso, e così fu entusiasta quando la Metro le
offrì un contratto. «Inizialmente non sapevo che Irving Thal-
berg mi avesse portato con sé alla MGM. Ma finì che persino
lui mi vedeva in un ruolo piuttosto bizzarro: la crudele trapezi­
sta al centro di Freaks, che sposa un nano per i suoi soldi, poi
lo avvelena. Dio Onnipotente! Persino Thalberg! Quell’imma­
gine pareva impossibile da cancellare.»57
La Loy non fu l’unica diva cercata da Thalberg e Brown­
ing per Freaks\ la prima scelta per il ruolo di Venus era Jean
Harlow, e la parte dell’uomo forzuto era destinata a Victor
McLaglen. In qualche modo, tutti loro svicolarono dall’impe­
gno assunto. Browning si rivolse a Olga Baclanova, una vamp
del muto in declino, già membro dei Teatro dell’Arte di Mo­
sca. Rispondeva proprio in pieno all’originale concezione di
Tod Robbins del personaggio: «Un’alta bionda tipo amazzone,
con occhi azzurri sgranati da bimba senza traccia del suo ani­
mo da contadina avida, labbra e guance rosso carminio, grandi
denti bianchi che lampeggiavano in continui sorrisi».58 La Ba­
clanova aveva originato il ruolo della Garbo in Grand Hotel a
Broadway, con la regia di Vicki Baum, ma era più conosciuta
per i suoi ritratti cinematografici di «vamp, cattive, mangiauo­
mini, il tipo di donna perennemente con le mani sui fian­
chi»,59 secondo la memorabile descrizione dello storico del
cinema John Kobal, autore nel 1964 forse dell’unica intervista
retrospettiva all’attrice. «Non c’era nulla che non andasse nel
russo di Olga, né nel suo inglese», osservava Kobal. «Sempli­
cemente cozzavano insieme a testa bassa e il rumore della loro
collisione era un tintinnio di gioielli; gioielleria pesante.»60
Olga Baclanova non era una tipica diva hollywoodiana, e
svelò la sua stupefatta posizione riguardo alla colonia cinema­
tografica a un giornalista californiano poco dopo l’uscita di
Freaks. «Hollywood è una città che soffre», affermò. «Laggiù
soffrono tutti. Questo soffre perché è disoccupato, quello per­

127
David J. Ska!

ché lavora troppo! Un altro è infelice perché un certo film non


ha ricevuto attenzione da parte dei giornali. Quanta sofferen­
za! La Russia, persino durante la rivoluzione non ha patito
nulla a confronto.»61
Browning aveva senza dubbio visto la Badanova al fianco
di Conrad Veidt in The Man Who Laughs, melodramma-muti ­
lazione della Universal, e la contattò personalmente. «Lo ado­
rai», disse. «Mi fece: “Foglio fare un film con te, Olga Bada-
nova”.» All’attrice il copione piacque, e il regista la accompa­
gnò a conoscere il resto del cast, pregandola di non svenire.
«Perché dovrei farlo?» ribattè lei. La presentò innanzitutto a
Harry Earles, l’adorabile nano che parlava tedesco come la
Badanova. I due familiarizzarono dal primo istante. «Poi mi
mostra una ragazza simile a un orangutan; poi un uomo con
una testa ma privo di gambe, senza niente, solo una testa e un
corpo come un uovo... me li presentava un po’ alla volta e io
non riuscivo a guardarli, volevo svenire. E piangere.»62
L’ufficio casting era stato sommerso di curriculum e foto­
grafie di centinaia di fenomeni da baraccone. Alcuni, autocrea-
tisi freaks, come gli uomini tatuati, non furono presi in consi­
derazione; altri, come Johnny Eck, con deformità spettacolar­
mente fotogeniche, furono chiamati immediatamente. Il cast
comprendeva infine le famose gemelle siamesi Daisy e Violet
Hilton, che avevano ricevuto una paurosa pubblicità per i loro
tentativi frustrati di ottenere licenze matrimoniali (una bufala)
e la causa intentata (veramente) per liberarsi dalle grinfie di
un manager-guardiano che le trattava come schiave; Prince
Randian era un uomo privo di braccia e di gambe, il tipo di
fenomeno chiamato «cesto per la biancheria» o «verme uma­
no». Riusciva ad arrotolarsi e accendere sigarette usando le
labbra. Furono impiegate cinque pinheads: Zip e Pip, Jennie
Lynn ed Elvira Snow, e il cdebre Schlitze, un fenomeno di
successo, particolarmente bonaccione, in qualche modo più
intelligente della maggior parte delle vittime di microcefalia, e
per di più un travestito. Presentato come donna, Schlitze era
in realtà un uomo, che portava un vestito a forma di sacco per
semplificare le pratiche igieniche. (Secondo la scrittrice Faith
Service, Schlitze era particolarmente attaccato all’attore bam­

128
The Minuter Shutr

bino Jackie Cooper, «con gran terrore di quest’ultimo».65)


Fra il «piccolo popolo» e’erano Daisy Earles (la sorella di
Harry) e Angelo Rossitto, in seguito presenza fìssa nei thriller
Monogram a basso costo degli anni Quaranta.
Olga Baclanova a poco a poco divenne meno schizzinosa.
«All’inizio fu difficilissimo. Perché non riuscivo a guardarli in
faccia... mi feriva in quanto essere umano. Quant’ero fortuna­
ta, io. Ma dopo un po’ cominciai ad abituarmici. » A tutti ec­
cetto una, «che pareva una scimmia, a volte impazziva... la
ficcavano in uno sgabuzzino e chiudevano la porta».64 Un rap­
porto sulle riprese comprende il riferimento a una pinhead
«incatenata al suo guardiano».65
Freaks fu girato in circa nove settimane, da metà ottobre
alla fine di dicembre 1931. Lo sceneggiatore e scrittore Budd
Schulberg ebbe l’opportunità di osservare Browning, che so­
spettava di palese sadismo, al lavoro. «C’era una certa gioia
maligna nel modo in cui Tod Browning conduceva le riprese
che ce lo faceva considerare un conte Dracula alla decima po­
tenza... Gli piaceva troppo.»66 La lavorazione di Freaks diven­
ne materia di leggenda. Una vera e propria leggenda che finì
per impantanarsi nel suo bacino di carenaggio fu Francis Scott
Fitzgerald. Il giorno dopo un umiliante episodio a una festa in
casa di Norma Shearer e Irving Thalberg che divenne la base
del racconto Folle Domenica, lo scrittore andò a pranzo alla
mensa aziendale della MGM in compagnia dello sceneggiatore
Dwight Taylor. Fitzgerald, già al lavoro su un copione per
Thalberg, aveva un disperato bisogno di denaro per coprire
le spese di mantenimento della moglie Zelda in una clinica
psichiatrica. Alla festa del produttore, si era reso ridicolo can­
tando a lungo una canzone da ubriachi, con gli invitati raggela­
ti in silenzio. Capì che probabilmente sarebbe stato liquidato:
lo studio era a conoscenza del suo alcolismo e lo aveva assunto
con riserva. Infatti sarebbe stato licenziato nel giro di una setti­
mana.
Arrivati alla mensa, Taylor e Fitzgerald trovarono la sala
piena di freaks, «il che deve aver peggiorato sensibilmente lo
stato mentale già sconvolto di Scott», ricordava Taylor. «Non
avevamo fatto in tempo a sederci che le sorelle Hilton, due

129
David /. Skal

gemelle siamesi unite per il bacino, entrarono e presero posto


su una sola sedia allo stesso tavolo. Una di loro aprì il menu
e, senza neppure degnare l’altra di un’occhiata, chiese: “Lei
cosa prende?” Scott divenne verde pisello e, portandosi una
mano alla bocca, si precipitò verso l’enorme uscita.»67
Per prevenire ulteriore nausea, un gruppo di dirigenti del­
la MGM cercò di fermare il film. Correva voce che il presiden­
te Louis B. Mayer fosse furioso con Thalberg per l’approvazio­
ne di una simile mostruosità.68 Il produttore Harry Rapf orga­
nizzò una delegazione per marciare sull’ufficio di Thalberg nel
tentativo di sopprimere Freaks, ma il regista Jack Conway mise
il veto a una protesta formale. «Poiché Irving è nel giusto così
spesso, si è conquistato il diritto di sbagliare»,69 fu la sua spie­
gazione. Il produttore continuò ad appoggiare Browning e il
film. «Se si rivelerà un errore, me ne assumerò la colpa»,70
disse. Per arrivare a un compromesso, quasi tutti i freaks (con
l’eccezione di Daisy e Harry Earles, e delle sorelle Hilton) fu­
rono confinati dalla mensa71 in tavoli separati ma equivalenti
nelle immediate vicinanze del set.
Il montatore Basil Wrangell si pentì il giorno stesso del
suo incarico. «Era già tremendo doverli vedere di giorno sul
set o quando si passava vicino alla loro mensa, ma quando si
era obbligati a vederli in moviola per diciotto ore al giorno, si
finiva per sbattere la testa contro i muri.»72
Col passare degli anni Freaks sarebbe stato celebrato come
«sensibile» e «compassionevole», ma le citazioni attribuite a
Browning nei comunicati stampa erano puro opportunismo,
con la loro enfasi sulle caratteristiche aliene degli interpreti, e
nessun accenno alla loro umanità. I freaks vivevano separati
dalla società, persino dagli altri artisti da circo, sosteneva
Browning, e «conoscerne costumi, tradizione e lingua è estre­
mamente difficile. Quando lavoravo al circo, anni fa, mi sforzai
per mesi di guadagnarmi la loro confidenza, e pure allora im­
parai ben poco».73 Nel corso dei secoli, i freaks avevano svi­
luppato «un gergo incomprensibile tutto loro»,74 parte del
quale, si disse, sarebbe comparso nel film. I nani in particolare
erano esotici, a sentire lui, che cominciò a pencolare in una
zona di confine tra la geografia e la medicina con la fantasiosa

DO
The Mounter Shot/'

affermazione che la maggior parte di loro «provengono dai


monti Carpazi in Austria, dove il clima o altri fattori paiono
influire sulle loro ghiandole endocrine in modo da arrestarne
lo sviluppo... In Austria ve ne sono villaggi interi, dove fanno
lavori di ogni tipo».75 C’erano anche altre frottole - «I freaks
erano l’aristocrazia scelta del mondo circense»76 - e accenni
di grottesco antisemitismo: Betty Green, la Donna Cicogna,
era descritta come «una ragazza ebrea di Springfield, nel Mas­
sachusetts», che assomigliava «a un incrocio tra una gru e un
bassotto tedesco depilato».77 Si narrava che possedesse cinque
palazzi a Chicago, e fosse un’accanita cinefila e cacciatrice di
autografi che collezionava dediche di tutti i più grossi divi, la
gran parte dei quali - ovviamente - aveva ammirato il suo
numero. Solo una celebrità hollywoodiana non aveva compiu­
to il pellegrinaggio al tendone del circo della Green, ed «è
stato soprattutto per ottenere l’autografo di Ronald Colman
che ha firmato un contratto cinematografico».78
«Time» pensò bene di sfruttare perversamente il finale del
film scattando una foto del regista insieme alla Badanova nella
sua drammatica tenuta piumata. «Fulminea e sicura è la ven­
detta dei freaks», scrisse la rivista nel suo stile antiquato, «le
loro facce si sciolgono in maschere mentre si agitano nel sotto­
bosco.» Ma «Time» esprimeva delusione perché «non si rac­
conta come abbiano fatto della Badanova l’idiota priva di
gambe e sconnessa che si vede nel finale».79 In un articolo a
parte nello stesso numero, «Time» si riferiva con noncuranza
ai vari artisti da fiera, compresi nani, donne-cannone, giganti,
Ubangi e Uomini dd Bosco, come ad «animali subumani».80
Su «The Motion Picture Herald» comparve il 23 gennaio
1932 una delle prime recensioni positive dd film. «Che la pro­
duzione sia audace e innovativa per concezione ed esecuzione
è superfluo dirlo», ammetteva il giornale di settore, ma espri­
meva serie riserve sul «gusto che l’ha concepito». Ancora più
importante era «l’effetto morale che avrà sull’industria...
[FrazAr] è palesemente indirizzato al gran dio Botteghino e
potrebbe benissimo raggiungere il suo scopo». Ma l’«Herald»
sperava che Freaks avrebbe disgustato un numero sufficiente

B1
David J. Skal

di spettatori da costringere Hollywood a «contrastare questa


marea crescente di melodrammi francamente rivoltanti».
Sulla costa occidentale, Louella Parsons saltò sul carrozzo­
ne Browning. «In quanto a puro sensazionalismo, Freaks supe­
ra qualunque film mai prodotto... Sono arrivata al Criterion
Theatre proveniente dall’allegria della sfarzosa cena della si­
gnora Gardner Sullivan e mi sono sentita come se se mi fossi
improvvisamente addormentata e stessi avendo un bizzarro in­
cubo», scrisse la Parsons, aggiungendo che «è un film tanto
diverso dagli altri che il pubblico si precipiterà a vederlo».81
Freaks dovette passare due volte alla censura dello Stato
di New York, e ottenne il via libera solo dopo trenta minuti
di tagli. «Variety» attese la prima newyorkese di luglio per
recensirlo. «Programmato dalla Metro per diventare un film
sensazionale nella nuova stagione, Freaks non è riuscito a inse­
rirsi nella categoria dei successi assicurati ed è stato distribuito
in diverse parti del Paese con risultati stupefacentemente di­
scontinui. In certi posti ha spazzato via la concorrenza. In altri
si è rivelato un desolante fallimento.» Il giornale rilevava di­
verse anomalie, a parte i freaks. Il circo mostrato nel film era un
affarino con una sola fila di posti, «ma presentava il triplo dei
fenomeni di prima classe mai itineranti col carrozzone Ringling
in una sola stagione». «Variety» si domandava inoltre perché i
camerini fossero più grandi del tendone centrale, «una pecca
che probabilmente sarà notata solo dagli addetti al settore». Per
quanto riguarda le interpretazioni, il recensore descriveva Daisy
Earles come «un donnino-bambolina che legge le sue battute
con estrema cura, ma raramente riesce a recitare».82
Il «New Yorker» definì il film «una piccola gemma»,
benché perversa. «Non vi è nulla di sano in Freaks... La sua
morbosità sta al di là del semplice e sano sesso», opinava il
critico, ma non riusciva a immaginare atti sovversivi eventual­
mente provocati dal film, e di conseguenza a giustificare l’odio
dei censori. «Quasi nessuno deve essere messo in guardia dal
mescolarsi con la vita privata dei freaks. Considerate le diffi­
coltà con persone di caratteristiche normali - e qualcuna sub­
normale, a mio personale giudizio - non avevo bisogno di
Freaks per ricordarmi dei pericoli di un tale svago.»83

132
The Monster Show

Gli stessi freaks ebbero sensazioni contrastanti riguardo al


film. Solo due, Johnny Eck e Angelo Rossitto, mantennero un
qualche legame con il regista negli anni che seguirono. La don­
na barbuta Olga Roderick (il cui vero nome era Jane Barnell)
riferì a un intervistatore del «New Yorker» che considerava il
film «un insulto ai freaks di tutto il mondo»84 e rimpianse di
esservi comparsa. Una volta terminate le riprese, giurò di non
lavorare mai più a Hollywood. Nessun riferimento al film ap­
pare in comunicati stampa o interviste delle sorelle Hilton nel
1932 (viaggiavano spesso con il varietà), né nelle loro memorie.
(Altri artisti non vissero tanto a lungo per mantenere annosi
risentimenti. Prince Randian, Tuomo senza gambe e braccia,
tenne un ultimo spettacolo al Sam Wagner Museum sulla 14’
il 19 dicembre 1934. Ebbe un collasso e morì quasi subito. H
necrologio di Randian85 rivelò che aveva sessantatré anni, era
nato nella Guyana inglese ed era vissuto a Paterson nel New
Jersey, con la moglie, quattro figlie femmine e un maschio.)
La disastrosa reazione a Freaks segnò la fine del potere
hollywoodiano di Tod Browning. Avrebbe lavorato ancora per
Óftó anni, ma mai più con il rispetto e Tautonomia che gli
avevano consentito di realizzare film personali, bizzarri e os­
sessivi all’interno dello studio system. Era stato fortunato; tutti
i suoi film precedenti, persino quelli scialbi come Dracula, ave­
vano incassato moltissimo. Ma Freaks aveva infranto l’unica
regola inviolabile di Hollywood: era stato un disastro finanzia­
rio che non aveva recuperato i costi. A posteriori, viene da
chiedersi se Freaks avrebbe potuto essere più riuscito commer­
cialmente e artisticamente se fosse rimasto il film muto origina­
rio. L’incapacità palese dei freaks a leggere i dialoghi sarebbe
stata così rimediata, e l’accresciuta stilizzazione dei silenzi, con
la formalità delle didascalie e il continuo accompagnamento
musicale avrebbero potuto contribuire enormememente ad
ammorbidire la reazione dello spettatore. La sequenza del ban­
chetto nuziale, girata «muta» - cioè con il sonoro aggiunto
quasi integralmente in un secondo momento - emerse come la
migliore del film.
Parte del disagio del pubblico verso Freaks derivava forse
dallo spettacolo di esseri umani alle prese non solo con handi-

133
David J. Skal

cap fisici, ma anche con la patetica incapacità di «sfondare»


al cinema. La pubblicità per il film sosteneva che diversi freaks
erano appassionati di film. Il pubblico affezionato degli anni
Trenta era abituato a tali paragoni quanto lo sarebbe stato per
Il giorno della locusta di Nathanael West. La goffa lettura delle
battute da parte dei freaks contribuiva solo a spezzare l’illusio­
ne narrativa, e di conseguenza l’intero contratto implicito tra
il pubblico e Hollywood. E oltre la superficie del melodram­
ma, il triangolo Cleopatra-Hans-Hercules poteva apparire una
configurazione edipica quasi insopportabile per molti spettato­
ri, con Hans nel ruolo universale dell’uomo-bambino nevroti­
co e frustrato.
Jean Harlow, già fra le candidate a interpretare Freaks, fu
bizzarramente rischiaffata nel suo vortice tematico nel 1932
quando il marito, il produttore Paul Bem, fu trovato morto in
seguito a un colpo d’arma da fuoco nella loro casa, apparente­
mente suicida. Secondo Samuel Marx, all’epoca montatore alla
MGM, in realtà Bem fu ucciso da una donna schizofrenica con
cui aveva convissuto prima di sposare Jean Harlow. Louis B.
Mayer e i suoi assistenti avrebbero quindi escogitato una storia
scandalistica che, pur sordida, rafforzava l’immagine pubblica
della formidabile voracità sessuale dell’attrice.86 Echeggiava
inoltre distintamente il conflitto centrale di Freaks, e l’opera
di Browning in generale. Paul Bern, secondo tale versione, era
un omettino incapace di soddisfare una tale femmina, e si era
ucciso per l’umiliazione sessuale. La storia divenne una leggen­
da a Hollywood. Quando Irving Shulman pubblicò Harlow:
An Intimate Biography, un successo nel 1964, l’impotenza di
Bem si attribuiva a una malformazione: Bern, secondo l’agente
della Harlow, Arthur Landau, aveva «il sacchetto [nc] e il
pene di un infante».87 (Come diceva Cleopatra ad Hans: «Che
cosa sei, un uomo o un bambino? ») Lo scrittore Harold Rob­
bins utilizzò la storia in una forma sensazionalistica ancora più
brutale in L’uomo che non sapeva amare (1961). La controfigu­
ra di Bem era Claude Estes, un omosessuale latente che, fallito
il test sessuale con l’attrice Rina Marlowe, si castra nel bagno.
«Se non era destinato a essere un uomo», spiegava Robbins
ai lettori, evocando lo spirito di Josephine-Joseph, «almeno

134
The M<w\trr Shnir

poteva trasformarsi in donna.»88 Louis B. Mayer forse non


aveva una grande considerazione di Freaks, ma mostrava con­
sapevolezza dell’utilità dei temi di insufficienza genitale.
Freaks fu sottoposto a ibernazione forzata per lungo tem­
po, ma finì per avere sull’immaginario un impatto pari alle
altre creazioni analoghe del 1931. Rovistando in mezzo a que­
sto carnevale di paura e mutilazione lungo dodici mesi e senza
precedenti, le divinità oscure assemblarono tutti i pezzi di cui
avevano bisogno per i loro ininterrotti esperimenti. I quattro
archetipi si ricombinavano agevolmente; erano tutti fioriti nel­
la coscienza di massa in reazione al trauma della Grande De­
pressione. Contenevano metafore evidenti anche se involonta­
rie di conflitti economici e di classe. Dracula, capitalista san­
guinario, emigra dalla Transilvania dopo averne prosciugato i
contadini. Il borghese dottor Jekyll sfrutta e sopprime una
donna delle classi subalterne. I freaks vivono in una competi­
zione sociale letteralmente sbilanciata: «grandi persone» con­
tro il «piccolo popolo». E il mostro di Frankenstein è un triste
simbolo per un esercito di lavoratori abbietti e abbandonati,
confinati agli abiti da lavoro e alle scarpe sporche d’asfalto.
L’umore del 1931 era spartano e infecondo. Era un perio­
do di sterilità desertica e di castrazione economica. Non sor­
prende che i mostri di quell’anno fossero incentrati tutti intor­
no a fantasie di forme «alternative» di riproduzione. Dracula
sfuggiva il sesso convenzionale preferendo i colli. Frankenstein
assemblava pezzi di morti piuttosto che affrontare la prima
notte di nozze. Il dottor Jekyll trovava un sistema per sdop­
piarsi come un’ameba psicosomatica. E i freaks rafforzavano
"tsncorrente sotterranea di rifiuto del sesso, dimostrando gli
eventuali risultati orrorifìci di una copulazione «normale».
Il confronto delle masse nel 1931 con maschere terrificanti,
e l’incontro melodrammatico e visionario coi paradigmi ripro­
duttivi, avevano molti tratti in comune con un classico rituale di
iniziazione. La Depressione fu in definitiva per milioni di perso­
ne un rito di passaggio a un regno di terrore sconosciuto.
Dopo una fioritura lunga un anno, i mostri erano in li­
bertà.
Campagnoli infuriati

Molte cose accadono nell’oscurità oltre a


Babbo Natale.

Herbert Hoover (1935)

Alla fine del 1931 l’horror si stava propagando come un’indici­


bile infezione collettiva su tutti gli schermi cinematografici
d’America, e i censori, come sempre, erano piuttosto preoccu­
pati. Loro cura primaria era ovviamente il sesso, piuttosto age­
vole da controllare, almeno sullo schermo. I rituali di esorci­
smo erano ormai rigidamente codificati. Cerano determinati
termini, elementi nei costumi, scollature, la prossimità di un
letto: segnali di pericolo pienamente riconoscibili. Ma le rami­
ficazioni di questa cosa chiamata horror non erano ben defini­
te. Il Production Code (il Codice di produzione di Will Hays)
tanto ossessivamente particolareggiato era stato approntato nel
1930, prima che Dracula si fosse trovato svolazzando una via
di fuga da Universal City. Quel documento non diceva nulla
di mostri soprannaturali, doppi, o persone assemblate da pezzi
di altre, anche se l’orrore possedeva una vaga e malsana con­
nessione con la libido, persino se era inimmaginabile a che
genere di imbroglio si alludesse. Questo «horror» era materia
subdola e viscida.

Il 1931 si era rivelato un anno particolarmente difficile per


il colonnello Jason S. Joy, applicatore del Codice a Hollywood.
Joy aveva introdotto un’aura di attivismo militare nel proprio
ufficio; come il suo superiore Will Hays era chiamato «Gene­
rale», Joy era un «Colonnello», e talvolta posava per delle foto
con quelli che si potrebbero definire stivali da cavalleria.1 A
partire dalla fine degli anni Venti Joy aveva rappresentato la
suscettibilità, i rancori e i pregiudizi di centinaia di gruppi
organizzati e congregazioni sociali, e usò tutta la propria capa­

ne
The Monger Shotr

cita diplomatica per mantenere l’industria indenne dalle ma­


glie della censura locale. Fu coinvolto nei piani di lavorazione
di diversi film, e a dire il vero aveva fatto passare Dracula senza
obiezioni. Un anno più tardi cominciava a innervosirsi. Il 5
dicembre 1931 mise a parte del proprio disagio Will Hays:
«Forse sarebbe consigliabile verificare una prima stima della
reazione popolare a Dracula e Frankenstein della Universal; Il
dottor Jekyll della Paramount... tutti film in distribuzione o
quasi. La Paramount ha in cantiere un altro film “raccapric­
ciante”, e la Metro-Goldwyn-Mayer Freaks che è a metà pro­
duzione. Siamo all’inizio di un ciclo che dovrà essere calmiera­
to o soppresso? Sono ansioso di ricevere un suo parere».2
L’arrivo del nuovo anno non fece nulla per alleviare la
sua umorale fissazione per i film dell’orrore. Sesso e violenza
avevano già ricevuto duri colpi dai censori dentro e fuori l’in­
dustria. I primi anni della Depressione furono accompagnati
da un ritorno puritano di censure di ogni genere; la disputa di
tre anni in un tribunale americano sull’U/riye di Joyce, per
esempio, imperversò proprio in quel periodo. Il censore holly­
woodiano Jack Vizzard descriveva il risorgere del puritanesimo
nella propria autobiografia See Ho Evil: «Con il crollo in Bor­
sa, la festa era finita. Tra le rovine impolverate di confetti e
carta da telescrivente, si fece largo uno spropositato senso di
colpa... In un’atmosfera di sobrietà, la parte casta della nazione
si ribellò contro quei simboli di rilassatezza e cominciò a pu­
nirli».3
In particolare due erano le tipologie che si facevano senti-
re: le associazioni femminili e le organizzazioni religiose, che
l’Ufficio Hays corteggiava assiduamente, se non altro per farne
sbollire i furori. Il Codice fu uno strumento di autoregolamen­
tazione dell’industria; al fine di scansare le minacce di un’azio­
ne legislativa federale, bisognava compiacere, se non placare, i
campagnoli arrabbiati che premevano fuori dagli studi. Sfortu­
natamente, i mostri davano loro un altro motivo di reclamo.
L’Ufficio Hays era riuscito ad addomesticare almeno parzial­
mente l’esibizione di sesso nei film. «Se si potesse fare qualco­
sa di altrettanto efficace a proposito dei cosiddetti film dell’or­
rore saremmo molto più soddisfatti», scriveva Joy ad Hays ai

137
Datili ì Skal

primi di gennaio del 1932. «Il fatto che la scorta di simili storie
sia forzatamente limitata finirà per portare a orrori sempre
maggiori, finché questa ondata, infrangendosi, traboccherà»,
affermava Joy, notando la programmazione crescente di film
paurosi da parte della Universal. Gli altri studi, scriveva Joy,
«sono decisamente incuriositi dal fatto che Frankenstein resi­
ste per un mese con grossi incassi in cinema sull’orlo della
chiusura». Questa inattesa nuova fonte di entrate necessarie
come l’aria aveva effettivamente irrigidito gli studi contro i
reclami. La Mppda non aveva l’autorità per bloccare veramen­
te la produzione o distribuzione di un film, poiché i suoi giudi­
zi erano soggetti a una revisione da una giuria composta dagli
stessi produttori, che sicuramente avrebbero appoggiato i pro­
pri beniamini. «Parlarne esplicitamente qui non avrà un gran
effetto», riconosceva Joy, esprimendo la speranza che si costi­
tuisse un risentimento da parte del pubblico più ampio. «Co­
me potrebbe essere altrimenti, quando i bambini vanno a ve­
dere questi film e hanno i brividi, seguiti da incubi? Per quan­
to mi riguarda, non porterei mai i miei figli a vedere Franken­
stein , Jekyll, e simili... L’ultimo film di questo genere è II dottor
Miracolo [Murders in the Rue Morgue, 1932, di Robert Florey].
Gli manca l’impatto di Frankenstein, ma l’idea di un gorilla
che aggredisce la ragazza è di per sé disturbante.»4

Quando la diciassettenne Arlene Kazanjian arrivò a Holly­


wood, l’ultima cosa che si aspettava era di essere uccisa nella
Rue Morgue. Era in vacanza con la madre, in visita all’amica
Constance Cummings, agli esordi nel cinema. Nel migliore sti­
le hollywoodiano, fu notata in un ristorante da un dirigente
della Universal in cerca di facce nuove.5 Ma fu tanto eccitata
dall’offerta della parte di una passante parigina, e dall’oppor­
tunità di lavorare fianco a fianco con Bela Lugosi, il divo di
fama mondiale di Dracula, che non si fermò a considerare la
possibile reazione della famiglia a un debutto sullo schermo
tanto sordido. Era un’opportunità di sfondare nel cinema, il
sogno di ogni ragazza. Visti i risultati, Il dottor Miracolo si
sarebbe rivelato una strada senza uscita per la giovane Arlene,
almeno per il momento. Anni dopo, Arlene Francis sarebbe

138
The Monxter Shote

diventala la donna più pagata della televisione, senza dover


ringraziare Edgar Allan Poe.6
«Me l’avevano detto che si trattava di una piccola parte, e
c’era dell’altro: avrei dovuto nuotare. Non ero neppure in gra­
do di stare a galla, ma tenni la bocca chiusa»,7 ricordava l’at­
trice in un’intervista del 1991. U copione prevedeva che venis­
se chiusa in una carrozza con uno scimmione libidinoso, ferita,
crocifissa e sbattuta a faccia in giù in una fogna parigina. Il
tutto senza controfigura.
Riuscì subito a disporre di una piscina di amici, allenando­
si a galleggiare «finché non ero cianotica e intirizzita».8 Tra­
scorse due giorni sul set, il primo dei quali a consumarsi i
polmoni urlando mentre due marinai ubriachi si scannavano
in un litigio sulla riva della Senna. Nella scena integrale (ini­
zialmente posta all’inizio del film), Bela Lugosi, esibendo delle
sopracciglia spropositatamente pelose, un mantello e un cap­
pello floscio, emerge dalla nebbia per offrire un dubbio aiuto
alla «donna in pericolo». «Chi è lei?» singhiozzava la giovane.
«La sua mano è gelida, mi fa rabbrividire!» Tale è la portata
delle sue battute, ma il pubblico odierno non ha difficoltà a
riconoscerne la voce divenuta familiare da centinaia di trasmis­
sioni di What’s My Line?
Arlene cercò di comportarsi amichevolmente con Lugosi,
che aveva visto, terrorizzata, in Dracula, ma le fu impossibile
anche scambiare due parole con il divo solitario e ombroso.
Forse Lugosi non era felice del ruolo in II dottor Miracolo-, la
Universal in un primo momento prevedeva di scritturarlo nei
panni del dottor Frankenstein, poi lo aveva degradato al ruolo
del mostro, e infine, in seguito alle sue proteste («Sono un
attore, non uno spaventapasseri! »), lo estromise compieta-
mente dal film insieme al regista Robert Florey. La pellicola
era un notevole passo indietro rispetto a Frankenstein in termi­
ni di budget. Ma resta un affascinante contraltare al film di
Whale, poiché Florey riuscì a immettervi gran parte della sce­
nografìa espressionista e della fluidità visuale originariamente
intese per Frankenstein. Il dottor Miracolo avrebbe finito per
segnalarsi come il più puro omaggio allo stile Caligari mai pro­
dotto da Hollywood.

139
Ddtfitl J Skill

II film non conservava quasi nulla di Poe (l’inizio di una


lunga tradizione hollywoodiana negli adattamenti dello scritto­
re), e invece prese a prestito l’intreccio principale dal Gabinet­
to del dottor Caligari. Lugosi era il dottor Miracolo, un ciarla­
tano itinerante che arriva a Parigi non con un sonnambulo in
una cassa, ma con un gorilla intelligente di nome Erik alla
catena. Il carrozzone maschera la sua vera attività, il tentativo
di mescolare il sangue di una donna con quello di un primate,
provando quindi un legame evolutivo. (Il film è sotto diversi
punti di vista un bizzarro manufatto dell’era degli Scope.) Erik
penetra nella stanza da letto di Camille L’Espanaye, simile a
una versione scimmiesca del Cesare di Con rad Veidt, e la tra­
scina per i tetti espressionisticamente distorti di Parigi prima
di uccidere il proprio padrone e incontrare il proprio destino.
L’operatore di Florey per questo piccolo film d’atmosfera fu
Karl Freund, finalmente in grado di esibire il proprio debole
per la composizione espressionistica e l’uso mobile della cine­
presa largamente trascurato in Dracula. John Huston fu uno
degli sceneggiatori chiamati a emendare il copione. Come ri­
cordava nell’autobiografìa An Open Book, «mi sforzai di intro­
durre della prosa in stile Poe nei dialoghi, ma il regista la riten­
ne innaturale, così lui e il suo assistente riscrissero le scene sul
set. Come risultato, il film fu una bizzarra mescolanza di prosa
letteraria del XIX secolo e colloquialismi moderni».9
Dopo aver assistito all’ultimo incubo targato Universal, Ja­
son Joy mise Carl Laemmle Jr. sull’avviso che il suo entusiasmo
per l’horror forse gli stava prendendo un po’ la mano. «E
nostra sensazione che le grida della donna di strada esaminata
dal dottor Miracolo sono esagerate, non solo dal punto di vista
di un’eventuale reazione da parte del pubblico, ma anche di
obiezioni da parte della censura... Dovreste considerare la pos­
sibilità di realizzare un sonoro diverso per la scena, riducendo
le continue uria a gemiti più bassi e magari a un grido modifi­
cato. »10

* L’attrice Sidney Fox, scelta al posto della novellina hollywoodiana Bette


Davis, della quale Cari Lacinmle Jr. ripeteva che non «bucava» lo schermo.
(N.d.A.)

140
l'he Monger Show

LTJfiicio censura di New York fu chirurgicamente preciso


nel suo giudizio: «Secondo rullo - Eliminare tutte le diverse
vedute (5) della ragazza legata e stretta a lacci incrociati... tutte
le inquadrature di lei che si contorce in agonia... tutte le inqua­
drature del dottor Miracolo incombente sopra di lei, quando
le stringe il braccio mentre la tortura.
«Eliminare tutti i rumori prodotti dalla ragazza, le alte
grida e i gemiti di agonia e paura, e il dialogo che li accompa­
gna... Stai tranquilla. Prova dolore, mademoiselle? Durerà solo
un pochino ancora... Sapremo se diverrai sposa alla scienza... Il
tuo sangue è marcio - nero come i tuoi peccati! Tu mi hai ingan­
nato - La tua bellezza era una menzogna. »n
Benché i censori di New York riuscirono a eliminare dal
film quasi interamente il ruolo di Arlene Francis, non potero­
no impedire ai dirigenti del New York City’s Mayfair Theatre
di decorare l’ingresso con elaborati ingrandimenti a grandezza
naturale dei tagli del film, compreso uno dalla scena incrimina­
ta. * Mostrava Arlene crocifìssa e in sottoveste strappata, Lugo­
si inginocchiato ai suoi piedi, perso nel dolore di lei come in
un’estasi religiosa. Il cartellone rapiva l’occhio, come fu dili­
gentemente notato dai giornali di settore e dal padre dell’attri­
ce, il rispettabile fotografo-ritrattista newyorkese Aram Kazan­
jian. Il manifesto non poteva soddisfare in alcun modo la sua
sensibilità visiva. Le spedì un telegramma: «Ti ho vista mezza
nuda a Broadway stop anche i nostri amici ti hanno vista stop
torna a casa prima possibile».12
Arlene chiamò il padre e cercò di ragionarci, ma senza
frutto. Insistette ancora perché lei chiamasse il Mayfair Thea­
tre e ordinasse di togliere dalla facciata il piccante manifesto.
«Ma non posso costringerli a farlo! » tentò di spiegare lei.

* Quando lì dottor Miracolo fu ridistribuito dalla Universa! quattro anni dopo,


la controversia su questa sequenza non si era ancora placata. Il 2 ottobre
1936 Joseph Breen informò la Universa! che se desiderava veramente distri­
buire il film si sarebbe dovuto eliminare l’intera sequenza con la prostituta,
cosi come «qualunque inquadratura delle ragazze [da fiera] che ballano e
dei due uomini che osservano il ballo... con il dialogo che le accompagna
come segue: Primo avventore: “Mordono, quelle?" Secondo avventore: “Cer­
tamente... ma per questo bisogna pagare un extra’’.» (N.d.A.)

1A i
David / Sfati

«Oh, certo che puoi», rispose Aram Kazanjian.


Profondamente imbarazzata, come può esserlo solo una
figlia da un genitore, telefonò al Mayfair Theatre. Le risero in
faccia.
Arlene Francis non era dunque destinata a ingrossare la
schiera di Fay Wray e altre «regine dell’urlo» della Hollywood
anni Trenta, benché ricordasse con affetto la parte e il film
come «esaltanti».13 I veri brividi arrivarono alla fine delle ri­
prese, quando altri produttori, ansiosi di discutere il suo futu­
ro sul grande schermo, cominciarono ad agitare bisturi più
affilati di quelli del dottor Miracolo. Le offrivano ricchezze,
forse, ma solo se avesse acconsentito a rinunciare a una parte
del suo naso. La rinoplastica infuriava a Hollywood, che ora
premiava il fascino robotico e standardizzato alla Busby Berke­
ley. Dorothy Tree, per esempio, era un’attrice di Broadway
assai stimata alla fine degli anni Venti, ma il profilo aquilino
la relegava a particine: per esempio arrancare munita di suda­
rio nel ruolo di una delle spose vampire di Dracula. Infine,
dopo aver lasciato nei sotterranei di Dracula il suo naso origi­
nale, cominciò a ottenere qualche parte con battute e contratti.
I produttori e i direttori di casting erano entusiasti di prescri­
vere e sorvegliare la risistemazione chirurgica del corpo femmi­
nile, un’ossessione che cominciava a essere bizzarramente
echeggiata, o forse bizzarramente magnificata, nei film dell’or­
rore e nella letteratura popolare. In realtà, l’ossessiva, essenzia­
le connessione tra chirurgia plastica, automutilazione e orrore
era appena iniziata.
Arlene Francis, comunque, ebbe il buonsenso di ricono­
scere che non c’era nulla da correggere nel suo aspetto fisico
e la fortuna di avere un padre che la buttò fuori da Hollywood
prima che il suo naso finisse incastrato nella fabbrica di stam­
pini hollywoodiana. Ma la strana affinità tra il divano del pro­
duttore e la tavola del vivisettore, una volta stabilita, si sarebbe
rivelata permanente. Mentre gli scienziati folli perpetravano i
loro bizzarri esperimenti cinematografici su ragazze innocenti,
anche i produttori e i loro scagnozzi della chirurgia avrebbero
cercato di fabbricare personali «spose della scienza».

142
The Monster Shote

Nell’occasione delle prime nella capitale di II dottor Mira­


colo e Freaks nel febbraio 1932, il «Washington Post» si
preoccupò apertamente per la stringente atmosfera di morbo­
sità nel Paese. «Quegli individui nevrotici che trovano piace­
vole inseguire le ambulanze e sorvegliare incendi si ritrovano,
in questo momento, beneficiari di un’era cinematografica dedi­
cata in gran parte a loro e ai loro discutibili gusti in fatto di
passatempi», scriveva il critico cinematografico Nelson B. Bell.
E azzardava che «le inquietanti e sorprendenti preferenze ma­
nifestate da parte del pubblico» fossero probabilmente legate
direttamente allo stato dell’economia. «Diversi sono disoccu­
pati, molti hanno un’occupazione solo per aver accettato una
drastica decurtazione di stipendio, altri vivono in uno stato
di costante minaccia del disastro che potrebbe a ogni minuto
schiacciarli. E una condizione mentale che crea una vasta re­
cettività per disgrazie più forti di quelle che si stanno passan­
do... La fine dei film dell’orrore», concludeva profeticamente
Bell, «non è ancora vicina.»14
A Karl Freund venne di fatto fornita l’opportunità di rifare
Dracula quando diresse un film concepito per Boris Karloff
nei panni di Cagliostro, riscritto su misura per l’attore e ritito­
lato prima Imhotep e poi La mummia (The Mummy, 1932). E
un buon esempio del tipo di conservatorismo creativo perse­
guito dal sistema degli studi; quasi ogni elemento dell’intrec­
cio, così come gli attori principali (per non parlare di certi
arredi ed elementi della scenografia), furono riciclati da Dracu­
la nella storia di un antico egiziano che tornava dal mondo dei
morti per reclamare l’anima di una ragazza inglese e trasfor­
marla in una mummia vivente come lui. Il fidanzato più con­
temporaneo è il solito David Manners, che unisce le forze a
quelle di Edward Van Sloan, altro discepolo di Dracula nella
parte di un egittologo alla Van Helsing. Zita Johann, un’attrice
di Broadway che aveva resistito al richiamo del cinema, fu con­
vinta dall’allora marito John Houseman a recitare nella Mum­
mia per il denaro che le veniva offerto.
In La mummia come in altri horror degli anni Trenta era
evidente una robusta dose di sonnambulismo; quella che in
origine era stata una metafora tedesca per la coscrizione milita­

143
Duriti I Sitai

re nel Gabinetto del dottor Caligari riilettcva ora un'ansia ame­


ricana più diffusa. Lo spettacolo vertiginoso di morti viventi
in film come White Zombie (t. lett.: Zombi bianco, 1932, di
Victor Halperin) era sotto diversi aspetti una visione da incubo
delle file per il pane. «Tempi insoliti richiedono film insoliti»,
affermava una pubblicità per White Zombie^ un film d’atmo­
sfera girato in fretta e furia, utilizzando qualche set da Dracula
e riciclando Lugosi nel ruolo similvampiresco di un medico­
stregone di Haiti chiamato Murder Legendre. Karloff poteva
averlo già eclissato per compensi e carisma hollywoodiani, ma
Bela Lugosi sarebbe rimasto per sempre Dracula, il primo mo­
stro, la paura prima della paura, il precursore oscuro della
Depressione ora alla giugulare di tutti. Ormai milioni di perso­
ne sapevano di non avere più il totale controllo delle proprie
vite; i fili dell’economia erano tirati da terrificanti forze non
identificabili. Se questa forza doveva avere un volto, con ogni
probabilità sarebbe stato quello dell’ipnotico padrone degli
zombi Bela Lugosi. Gli zombi avrebbero fatto comodo all’eco­
nomia dell’epoca perché, come commentava la critica di San
Francisco Katherine Hill, «non si curano degli straordinari».
E come a rafforzare la nozione degli zombi qui-e-ora, osserva­
va che la direzione del cinema aveva sistemato comparse trave­
stite da morti viventi all’ingresso come tante palme nei vasi.
«Con mio profondo orrore», ricordava la Hill, «scoprii una
signora zombi nella toilette. Avete mai provato a fare una tele­
fonata con un cadavere ambulante dietro di voi? E davvero
intollerabile. »15
Un’analoga riduzionistica visione della condizione umana
fu azzardata dalla Paramount in Island of Lost Souls (t. lett.:
L’isola delle anime perdute, 1932, di Erle C. Kenton), ambi­
zioso adattamento del romanzo di H.G. Wells L'isola del dot-
tor Moreau. Charles Laughton interpretava il folle vivisezioni­
sta che accelera il processo evolutivo nel suo laboratorio nella
giungla per creare una razza di mostruosità semiumane. Qui
c’è anche una pregnante metafora sociale: agli animali è stata
fatta la promessa di progresso ed elevazione sociale. Hanno
agito diligentemente secondo le «leggi» incantatone del pa­
drone. E tuttavia è stato tutto un brutto imbroglio; la loro

144
The MonUrr Shtw

elevazione è al contempo-una degradazione, e ne seguirà una


sanguinosa rivolta. La Paramount favorì un senso di identifica
*
zione popolare con il mostruoso attraverso una pubblicità
estremamente dispendiosa alla ricerca dell’interprete di Lota,
la «donna pantera», trovata finalmente in una segretaria di
Chicago, Kathleen Burke.
Charles Laughton, nel ruolo del dottor Moreau, era già
stato celebrato nel 1928 per il ritratto teatrale di un altro folle
vivisezionista nel granguignolesco A Man with Red Hair al Lit­
tle Theatre di Londra. Fu in quel lavoro che imparò a far
schioccare una frusta, requisito fondamentale in Island of Lost
Souls. Il grande attore detestava la parte,16 anche se resta una
delle sue più memorabili, un effeminato mostro-gentiluomo in
abito tropicale bianco. Gli esterni furono girati all’isola Catali­
na, raggiunta con una nave attraverso mari particolarmente
agitati. Elsa Lanchester, moglie di Laughton, ricordava che ol­
tre agli attori e alla troupe, i passeggeri erano «un puma, una
scimmietta, due leonesse, una tigre e quaranta cani. Il mare
era in burrasca e quasi tutti gli animali stavano male».17 H
normale lezzo della cattività, accoppiato a quello del loro vo­
mito, fece diventare verde la compagnia umana. Sul set, il sol­
lievo era relativo. Laughton ricordava che «ogni fenomeno e
mostro aveva più peli del precedente. C’erano peli dappertut­
to. Me li sognavo di notte. Mi pareva persino di trovarli nel
cibo».18 Bela Lugosi, (il capo dei mutanti) noto come il Dici­
tore della Legge, senza dubbio aveva peli persino nel cervello.
In seguito a un provino al trucco che aveva solo aggiunto
un’accentuazione lupesca ai suoi lineamenti, si decise di can­
cellare del tutto il volto di Lugosi con del pelo. Non si ha
notizia di proteste da parte dell’attore, il cui ego era probabil­
mente ammansito dalla débàcle di Frankenstein.
Da parte sua, Laughton «non si godè mai più una visita
allo zoo»,19 ricordava Elsa Lanchester diversi anni dopo. Is­
land of Lost Souls fu proibito in Inghilterra per venticinque
anni, sulla base del fatto che il suo tema era una sfida alle
leggi della natura. «Naturale che è contronatura», ribattè la
Lanchester. «Come Topolino, del resto.»20
Il film fu bandito anche in Lettonia, Paesi Bassi, India,

145
Diletti J. Skill

Sudafrica, Germania, Tasmania, Olanda, Nuova Zelanda c


Singapore.21 Fu ridistribuito nel 1941, ma solo dopo ulteriori
tagli ordinati dalla Mppda; quando il bando inglese fu ritirato
nel 1958, la censura insistette per accorciare tre scene.
In seguito ai crescenti e concertati sforzi di associazioni e
gruppi religiosi, i censori dentro e fuori l’industria diventavano
sempre più insistenti nelle loro richieste. Jason S. Joy lasciò
l’Ufficio Hays nel settembre del 1932; le attività della Mppda
si sarebbero presto riorganizzate sotto la guida di Joseph
Breen, che assunse una visione più restrittiva di ciò che era
permesso sotto il Codice.
Fra il 1932 e il 1933, i censori newyorkesi imposero tagli
a Freaks, Il dottor Miracolo, La maschera di cera {Mystery of the
Wax Museum, 1933, di Michael Curtiz) The Monster Walks (t.
left.: Il mostro cammina, 1932, di Frank Strayer), King Kong,
La maschera di Fu Manchu {The Mask of Fu Manchu, 1932, di
Charles Brabin) e Murders in the Zoo (t. left.: Omicidi allo zoo,
1933, di A. Edward Sutherland).22 Un libello pubblicato nel
1933 dal National Council on Freedom from Censorship rivelò
al pubblico per la prima volta il genere di idee e immagini che
pubblici ufficiali non autorizzati giudicavano in segretezza da
camerino. Quasi il 36 per cento di tutti i film distribuiti nello
Stato di New York finivano sotto la mannaia del censore,25
ma la categoria degli horror subiva un livello di interferenze
più elevato. Oltre alle scene che mostravano sesso e violenza, i
tipici tagli comprendevano qualsiasi spiegazione della «tecnica
criminale».24 Le etichette sulle bottiglie dei veleni, per esem­
pio, potevano suggerire un uso criminale e non dovevano esse­
re mostrate, ed espressioni come «sbarazzati delle prove» era­
no di norma cancellate. In Freaks, le autorità di New York
pretesero di sopprimere il primo piano di Olga Badanova che
versava veleno in una bottiglia di champagne per non incitare
delitti di natura analoga nella vita reale. Prese piede uno strano
tipo di visione «a tunnel»: l’accensione di candelotti di dina­
mite era tabù, benché si potesse liberamente mostrare un can­
delotto che bruciava dopo l’accensione. In La maschera di cera
i censori newyorkesi tagliarono l’inquadratura di un personag­
gio che accendeva un pezzo di carta con un sigaro allo scopo

146
The Mounter Show

di incendiare il museo p<^’ ottenere il denaro dell’assicurazio­


ne, come se il pubblico avesse bisogno di essere protetto dalla
conoscenza dei diversi sistemi in cui si poteva produrre una
fiamma.
Il National Council on Freedom from Censorship, che
comprendeva luminari del calibro di H.L. Mencken, Lewis
Mumford, George Jean Nathan, Maxwell Perkins, Eugene
O’Neill e Sherwood Anderson, insorse contro il paternalismo
ultrareazionario rappresentato dai censori. «L’Ufficio di New
York cerca di giustificare la propria funzione come parte del
sistema educativo», scriveva Hatcher Hughes, segretario del­
l’associazione. «Ma la sua reale posizione tende a standard
etici ed estetici per l’intero pubblico al livello intellettuale di
scolaretti dell’asilo.» I censori e gli studi opposero resistenza
alle richieste di un esame delle loro pratiche e dei loro metodi.
«Le compagnie cinematografiche, senza dubbio stremate dai
contatti avuti in passato con le tante associazioni che brandiva­
no un’ascia, ci hanno considerato con sospetto e hanno rispo­
sto senza impegno. Abbiamo raccolto l’impressione che da
qualunque apertura a tali informazioni potrebbero derivare
rappresaglie sotto forma di tagli ancora più severi», scriveva
Hughes. I censori, infine, cedettero dopo una concertata pres­
sione legislativa. «Se i censori riflettono accuratamente i livelli
attuali di moralità e decenza», sosteneva Hughes, «non hanno
niente da perdere da una pubblica ispezione del loro la­
voro. »25
Uno dei censori più attivi e, nell’opinione di Hollywood,
più sgradevoli era B.O. Skinner
,
* responsabile dell’educazione
per il settore censura cinematografica dell’Ohio, che si lamentò
direttamente con la Warner Brothers per La maschera di cera.
«Noi approviamo, come sapete, questo film con alcune sop­
pressioni. E mia intenzione, comunque, esprimere una prote­
sta formale. Il film contiene diversi elementi che riteniamo di­
scutibili, come l’appiccare fuoco al museo per ottenere i soldi
dell’assicurazione, nominare un veleno e spiegare come farlo
assumere per provocare morte, l’utilizzo di droga e inoltre il

* Un nomen omen appropriato: significa scuoiatore, conciatore. (N.d.T.)

147
Diii>hI J. Sitai

tono orrorifico generale. Ritengo che sarebbe molto meglio


per tutti», concludeva Skinner, «se cessasse la produzione di
questo genere di film.»26
Raccontando di uno scultore sfigurato che immerge le vit­
time femminili nella cera, gli shock di La maschera di cera era­
no resi ancora più vividi dall’uso del Technicolor bicromatico
(il prototipo dei processi coloristici moderni, usato pure per
intensificare la sequenza del ballo in maschera nel Fantasma
deir Opera con Lon Chaney). I purificatori di professione era­
no apparentemente tanto preoccupati dagli scontati elementi
di orrore fìsico che non si accorsero del quasi trasparente tema
necrofìliaco della storia. I censori britannici trovarono il trucco
ustionato di Lionel Atwill «il più nauseante e di gran lunga
peggiore nel suo genere»27 mai esaminato. La didascalia intro­
duttiva - LONDRA 1921 - fu eliminata su pressioni inglesi. No­
nostante tutte le difficoltà censorie oltremare, La maschera di
cera risultò uno dei maggiori incassi per la Warner all’estero,
secondo solo a Quarantaduesima strada {Forty-second Street,
1933, di Lloyd Bacon) con le coreografìe di Busby Berkeley.
Nel 1933, i temi orrorifici erano divenuti tanto comuni
che era giunto il momento di una garbata presa per i fondel­
li su «The Saturday Evening Post». The Spine Chillers (I
brividosi) di Norman R. Jaffray riassumeva con nitore la
nuova mania:

Che paura i film del presente'


Di respiro a tutti mancan le scorte
l’obitorio è l’unico ambiente
Per brividi che spaventano a morte.
Tremiamo alla creatura del barone,
Mentre la cera deforma una ragazza,
Non vi è più un solo mostrone
Che al cinema ormai non impazza.

Oscure magioni, mostri e mummie eminenti


Isole strane di terrore e sofferenza
Leggiadri cattivi dalle pance prominenti
Con cervello antropoide alla lenza
Neri pipistrelli all’attacco di dormienti

148
I'he Monster Shute

Jekyll c 1 lyilc in nuove versioni


( Jie parlano e gridario, strepitanti
Finché tu non sei giù bocconi.

Preparando quest’orgia di terrore


Che ti lascia nel timor di un abbaglio,
Il cinema certo compie un errore:
Ridurre in brandelli il bersaglio.
Assuefatto al demone dell’orrore,
Il sangue si nega pur all’asma,
E prima o poi il film di terrore
Scomparirà come un fantasma.28

Un’altra notevole icona mostruosa, pur se molto diversa


per antecedenti ed evocazioni dalle creature di scuola Caligari,
fu King Kong (1933), un film reclamizzato come tanto «gros­
so» da richiedere una doppia prima nei due maggiori cinema
del mondo, il Radio City Music Hall e il Roxy. King Kong
risaliva non all’espressionismo, ma agli esperimenti prebellici
del mago francese del cinema Georges Méliès, che introdusse
praticamente tutti gli elementi fondamentali del moderno truc­
co fotografico sul crepuscolo della Belle Epoque. Willis
O’Brien, il suo capo tecnico, aveva affinato la tecnica di anima­
zione stop-motion già quando nel 1914 aveva portato in vita
per la prima volta un brontosauro in The Dinosaur and the
Missing Link (t. lett.: Il dinosauro e l’anello mancante). I due
diretti antecedenti di King Kong erano II mondo perduto di
O’Brien, con tanto di cattura e trasporto di un animale preisto­
rico a Londra, dove impazzisce; e un frammento di un film
incompiuto, Creation (t. lett.: Creazione) messo in cantiere dal­
la RKO fra il 1930 e il 1931. La sceneggiatura di Creation pre­
vedeva un naufragio di umani su un’isola misteriosa dove in­
contravano proprio il tipo di tirannosauri e pterodattili in lotta
poi immortalati in King Kong. Creation fu accantonato per la
sensazione del produttore Merian C. Cooper che fosse tecnica-
mente prodigioso ma in fondo inconsistente.29 Fu lui a fissarsi
sull’idea di usare un gorilla gigantesco per salvare il concetto
base; qualche anno prima aveva avuto la visione di un gorilla
gigante che lottava contro aerei da caccia in precario equilibrio

149
DtiiHil J. Sk<d

sull’edificio più alto del mondo.30 (Nella prima guerra mon­


diale Cooper era stato ferito, riportando nelle Argonne gravi
ustioni.31 In seguito, in collaborazione con un altro veterano
di guerra, Ernest B. Schoedsack, sarebbe diventato un famoso
produttore di film ambientati nella giungla.) A differenza di
goffi elefanti o dinosauri, un gorilla poteva avvicinarsi alle
emozioni umane, e da ciò Cooper intuì il potenziale richiamo
di massa del film. Pare che dicesse: «Farò piangere le donne
per la sua sorte prima ancora della fine».32
Il risultato è entrato nella storia della cultura di massa.
Coprodotto e codiretto da Cooper e Schoedsack, King Kong
resta uno dei film più famosi in assoluto. Negli ultimi decenni
diversi critici si sono soffermati sulla sua presunta dialettica
sessuale; in tutta l’arte occidentale vi sono poche immagini di
dominazione maschile più estreme e indimenticabili del gorilla
gigante che stringe Fay Wray come un premio sulla cima del
delirante e déco-fallico Empire State Building appena costrui­
to. Ma vi erano altre ragioni meno vistose del suo richiamo
sul pubblico. Per i disgraziati vi era una certa Schadenfreude
culturale che accompagnava lo spettacolo della più grande cit­
tà americana ridotta in rovina. E, a un livello più profondo di
prescienza soprannaturale, c’era l’ansia derisoria in un articolo
di spalla apparso sul «New Yorker» appena dopo il debutto
del film: «L’altro ieri notte un anziano gentiluomo ebreo si
trovava fra il pubblico che assisteva al film King Kong in cui
un gorilla gigante dà di matto a New York, abbattendo edifici
e rovinando un treno sulla sopraelevata. «Tsch, tsch, tsch»,
ha bofonchiato, alzando le spalle.33

Sui film dell’orrore degli anni Venti e Trenta incombeva


l’ombra della Grande Guerra, illustrata con inconsueto nitore
in The Black Cat (1934), cupa mescolanza di demonismo Art
Déco e contorto erotismo che segnò il primo duetto di Karloff
(la Universal lo definiva ormai «Garbo» o « Nazimova») e Be­
la Lugosi. La Universal aveva tentato infruttuosamente di rica­
vare sceneggiature dai racconti II gatto nero e La caduta della
casa degli Usher, ma, come fu scoperto con II dottor Miracolo,
Poe era onnipresente nelle atmosfere ma scarseggiava nel tipo

150
The MoHxtrr Show

di intrecci richiesti da Hollywood. Nondimeno, il suo nome


era considerato una potenziale miniera d’oro commerciale.
Edgar Ulmer pareva predestinato a dirigere un classico
dell’horror. Aveva lavorato come regista per Max Reinhardt,
la cui estetica teatrale ebbe una profonda influenza sul cinema
espressionista tedesco, ed era stato apprendista sul set del Go­
lem nel 1920. Arrivato in America, collaborò alle scenografie
del Fantasma dell’opera e di altre produzioni Universal nel
periodo in cui Paul Leni e Paul Kohner si baloccavano con
l’idea di Dracula. Poi cominciò a lavorare sulle sceneggiature,
trovandosi infine nella posizione di proporre un soggetto con­
vincente per un film tutto suo.
Nella sua esaustiva documentazione sulla lavorazione di
The Black Cai, lo storico del cinema Paul Mandell cita Shirley
Ulmer, la vedova del regista, per affermare che il film rappre­
sentò per Ulmer non solo un lavoro su commissione, ma il
culmine di un’ossessione personale. «C’era nel suo carattere
una parte oscura quasi incredibile», disse Shirley. «Mi ci volle
un anno o due per scavare sotto e scoprirne il “perché”. Non
si poteva usare la parola “pazzo” in sua presenza; l’avrebbe
pietrificato. Come Kafka, lavorava sempre nell’ombra.»34
The Black Cat sfoggiava ombre a tonnellate. La storia di
Ulmer vedeva Karloff nel ruolo di Hjalmar Poelzig, un archi­
tetto magistrale che abita in una luccicante fortezza Bauhaus
costruita sul luogo di una titanica e sanguinosa battaglia. A
Lugosi toccò la parte di Vitus Werdegast (letteralmente, «La
vita si fa ospite»), uno psichiatra ailurofobo, tradito e lasciato
come morto da Poelzig durante la guerra. «Per quindici anni
sono marcito nell’oscurità», dice agli sposini in luna di miele
testimoni involontari all’incontro tra i due. Quindici anni, per
il pubblico del 1934, è quasi il tempo trascorso dalla fine della
guerra, e precisamente il tempo passato da Caligari. Un punto
centrale di The Black Cat è che la prima guerra mondiale per
qualche motivo non è stata risolta. Ne consegue un intreccio
da vertigini. H fabbricante di mostri, a quanto pare, ha ucciso
la moglie di Werdegast (e la fa vedere in piedi in una bara di
vetro), ne ha sposato la figlia (anch’essa uccisa da lui), e con­
duce rituali alla Aleister Crowley con seguaci incappucciati in

151
David J. Skal

un tabernacolo alla Caligari. Entrambi gli uomini bramano l’a­


nima della sposina, e giocano una partita a scacchi per il diritto
di possederla. Alla fine Werdegast scuoia vivo Poelzig e fa
saltare in aria la casa.
Posto di fronte a questo singolare copione, Joseph Breen
della Mppda s’incontrò con Ulmer, col produttore E.M. Asher
e lo sceneggiatore Peter Ruric per sollevare obiezioni alla tru-
culenza della scena di scorticamento. «Ci auguriamo che vi
proponiate di suggerire ciò puramente tramite ombre o profili,
ma... questa particolare fase della vostra produzione dovrà es­
sere trattata con grande cura, affinché non risulti troppo trucu­
lenta o rivoltante. » La sceneggiatura di Ruric conteneva appa­
rentemente anche alcune indicazioni sull’omosessualità di per­
sonaggi minori, in seguito cancellate, e Breen suggerì inoltre
che «potrebbe essere intelligente cambiare [un] riferimento
denigratorio ai cecoslovacchi come a un popolo che divora
giovani»?5
Ulmer girò il film in diciannove giorni con meno di 96.000
dollari. David Manners, reclutato ancora una volta per i suoi
compitini da protagonista, trovò The Black Cai meno discuti­
bile degli altri horror Universal per cui era passato. Ulmer, nel
suo ricordo, a differenza di Tod Browning, trascorreva molto
tempo con il cast, a discutere le sue intenzioni di fondo e gli
effetti che desiderava. L’attore ricorda anche le numerose ri­
scritture sul set, tanto che agli attori venivano consegnati stral­
ci di dialogo su foglietti di carta. («Ma questo non era insoli­
to», aggiungeva Manners. «Tutti gli studi lavoravano in quel
modo. »)56
Parte della riscrittura fu necessaria ad ammorbidire il per­
sonaggio di Lugosi, originariamente diabolico e lascivo come
quello di Karloff. La portentosa ailurofobia di Werdegast si
rivelò poco più di un trucchetto per giustificare il titolo in
stile Poe. Quanto all’atteggiamento di Lugosi sul set, David
Manners lo trovò scostante come al solito. Shirley Ulmer ricor­
dava il suo racconto di un sordido aneddoto bellico: aveva
fatto il boia nell’esercito ungherese. «Parlava persino con no­
stalgia del brivido che si provava, e di quanto in seguito si
fosse sentito in colpa!»57 La signora Ulmer non riusciva a ca­

152
The Monitor Shote

pire sc stesse scherzando o meno. Lugosi, in realtà, era stato


capitano di fanteria, e fu ferito tre volte prima di combinare
una causa di insanita mentale e farsi congedare.58 Secondo
l’attrice Anna Bakacs, alla quale l’attore aveva rivolto una pro­
posta di matrimonio alla fine degli anni Venti, Lugosi sostene­
va di essere scampato alla morte sul campo di battaglia nascon­
dendosi in una fossa comune sotto una pila di cadaveri.59
A quello che Ulmer non era riuscito a far accettare alla
censura cercava di compensare l’ufficio pubblicità: immagini
che sarebbero state immediatamente amputate dal contesto del
film spesso si facevano strada in fotografie pubblicitarie prive
di didascalia. Una stampa particolarmente memorabile di The
Black Cat presentava David Manners mentre stuzzicava la co-
protagonista Jacqueline Wells con una statuetta felina che si
allungava sconfinando in qualcosa di demoniaco.
The Black Cat è stato definito il primo horror psicologico
americano. Implacabile nella sua morbosità esasperata (un’in­
comparabile battuta di Karloff recita: «Persino il telefono è
morto») e quasi senza fondo nei ridondanti riferimenti a guer­
ra, religione, cinema, teatro, architettura, psichiatria e musica
classica, The Black Cat fu il primo e unico film diretto da Ed­
gar Ulmer per una major (nonostante avesse ottenuto il mag­
gior incasso della Universal per il 1934). I demoni che avevano
ispirato il regista a dirigerlo forse avevano pure contribuito a
minare la sua carriera, che sarebbe sprofondata, come quella
di Bela Lugosi, tra i fondali di filmetti indipendenti. Ma qui
Ulmer creò un genere di film metaorrorifico, e il suo effetto
si compendiava nella famosa ripresa soggettiva dove lo stesso
pubblico «diventa» Karloff mentre si aggira come una belva
nei sotterranei della casa maledetta, un tempo quartier genera­
le di un grande accampamento militare. «Siamo forse noi me­
no vittime di guerra di coloro i cui corpi furono fatti a pezzi?»
chiede a Lugosi, anch’egli invisibile. «Non siamo entrambi
morti viventi?»

La Universal non fu l’unica sede dell’horror hollywoodia­


no negli anni Trenta, benché certamente dominasse il settore.
Questi film di serie B si rivelarono il prodotto più proficuo

153
David J. Sitai

dello studio; visti i bilanci in rosso (il 1931 fu l’unico anno


ufficialmente in attivo di tutto il decennio, e in buona parte
grazie a Dracula}, si continuò a ripescare e riaggiornare le vec­
chie formule. Alla Mgm, Karl Freund diresse un omaggio all’e­
spressionismo tedesco, Amore folle (Mad Love, 1935), un rifa­
cimento di Le mani dell’altro, il tour de force di Conrad Veidt,
da una sceneggiatura di Guy Endore, P.J. Wolfson e John L.
Balderston. In questa versione, Colin Clive (il dottor Franken­
stein in persona) è un pianista e concertista francese che subi­
sce una mutilazione quasi bellica, la perdita di entrambe le
mani in un incidente ferroviario. Sua moglie è la stella di una
compagnia genere Grand Guignol, Le Theatre des Horreurs.
I mondi del sublime artistico e dell’orrore teatrale vengono
dunque presentati come realtà parallele. L’autocommiseratorio
ma brillante dottor Gogol - un Peter Lorre calvo e dagli occhi
strabuzzati al suo primo film americano, e probabilmente nel
suo ruolo più terrificante - trapianta al pianista le mani di
un assassino, rinforzando ulteriormente un’immagine di alta
sublimazione artistica in lotta con la propria sinistra ombra.
Gogol è morbosamente ossessionato dalla moglie di Orlac -
ha un palchetto tutto suo a teatro e pare sull’orlo dell’orgasmo
quando la donna viene sottoposta a torture simulate. Cerca di
far impazzire Orlac impersonando l’omicida ghigliottinato (e
«resuscitato») le cui mani ora sono del pianista. Parlando a
sussurri, col collo rigidamente bustato, ed esibendo un paio di
luccicanti «mani artificiali», Lorre/Gogol diviene un’ulteriore
incarnazione della frammentaria personalità modernista, fatta
a pezzi e ricostruita follemente da una scienza malata e dalla
strapotente logica onirica del cinema.
Quando la Universa! si decise a produrre quello che pro­
gettava di intitolare The Return of Frankenstein, l’interferenza
della censura stava toccando un nuovo culmine in seguito a
una mobilitazione senza precedenti di gruppi tradizionalisti,
oltre che all’emergenza di monolitiche associazioni legate alla
Chiesa come la Catholic Legion of Decency. I dirigenti degli
studi furono eliminati come giurie di ultimo appello: la Mppda
conferiva autorità alla Production Code Administration, che a
sua volta aveva facoltà di bloccare la distribuzione di un film.

154
‘{'hr Momtrr Shotc

Da parte sua, il Codice aveva denti aguzzi. Per quanto riguarda


i censori dei singoli Stati, anche se solo sei erano costituiti
formalmente, il loro effetto era amplificato dai più ampi
«scambi» fra Stati diversi attraverso i quali gli studi distribui­
vano i propri film. Se uno Stato in un’area di scambio richiede­
va tagli, diveniva logisticamente conveniente per lo studio
espurgare tutte le copie del film proiettato in quella regione.40
Considerati i mal di testa provocati in America e all’estero
dal Frankenstein originale, il nuovo paradigma censorio richie­
deva una grossa dose di diplomazia da parte degli studi e dei
singoli registi, insieme a una pronunciata disponibilità a sop­
portare l’imbecillità. James Whale, nei quattro anni trascorsi
da Frankenstein, era diventato un regista più sicuro e assai più
personale. Oggi il film ci appare austero e privo di umorismo
in confronto allo spirito sardonico che Whale cominciò a di­
spiegare per esempio in The Old Dark House (t. lett.: La vec­
chia casa oscura, 1932) e L'uomo invisibile (The Invisible Man,
1933); per il seguito di Frankenstein aveva previsto fin dall’ini­
zio di realizzare una commedia nera. La storia (infine intitolata
La moglie di Frankenstein (The Bride of Frankenstein, 1935)
fu, almeno per la cronaca, uno sforzo congiunto del dramma­
turgo di successo a Broadway William Hurlbut e John L. Bal­
derston. L’adattamento teatrale da parte di quest’ultimo di
Frankenstein, del quale la Universal aveva acquistato i diritti
nel 1931, prevedeva il tentativo di creazione di un mostro fem­
minile (ricavato dal romanzo originale), ma questo elemento
non era stato sfruttato.
Benché La moglie di Frankenstein sia oggi considerato un
capolavoro del genere, la sua lavorazione fu estremamente tra­
vagliata. Una prima versione del trattamento di L.G. Blechman
sfruttava fantasticamente le radici del genere horror nella stra­
vaganza da baraccone, e prevedeva che Henry ed Elizabeth
Frankenstein cambiassero cognome in Heinrich c fuggissero
con un circo itinerante spacciandosi per burattinai. Il mostro,
che non è morto, si unisce a loro e chiede una compagna.
Una carrozza del circo agganciata a un cavo dell’alta tensione
diventa un laboratorio fai-da-te. La sposa così fabbricata ha
vita breve, e il mostro muore lottando contro un leone. Lo

155
Ddlltd J. Skdl

scrittore Philip MacDonald trasferiva fazione alla contempo­


raneità, e faceva cercare di vendere a Henry Frankenstein una
macchina dal raggio letale alla Società delle Nazioni. La mac­
china bellica riportava in vita il mostro morto, per poi distrug­
gerlo.
John L. Balderston, da cui ci sarebbe aspettati di più, fornì
un copione cupo, lento e serioso, completamente privo dell’u­
morismo sottile e idiosincratico per il quale il film sarebbe
stato infine celebre. Balderston assemblava il mostro da parti
femminili smembrate sottratte in un incidente ferroviario, arti
muliebri amputati in un obitorio e, colmo della bizzarria, testa
e spalle di una gigantessa da circo idrocefala suicidatasi in un
attacco di disperazione sessuale.
James Whale buttò via tutto del copione di Balderston,
fatta eccezione per il prologo con Mary Shelley, suo marito e
Lord Byron, radicalmente accorciato. William Hurlbut soste­
neva che la storia fu ripresa quasi del tutto da zero, a parte
qualche scena basata su un trattamento precedente di Tom
Reed. La nuova sceneggiatura fu cucita su misura per Whale,
che voleva trattare il film come uno sberleffo41 e aveva già in
mente diversi pittoreschi caratteristi in ruoli chiave. Concepiva
il film come fumettistica parabola sessuale (trovava l’idea del
mostro femminile, per esempio, «molto divertente»42), aperta
alla possibilità di una satira trasgressiva.
Il ruolo mutevole delle donne in un mondo guidato dallo
scientismo maschile è un sottotesto lampante del romanzo di
Mary Shelley, come attestano diffusamente dozzine di analisi
femministe di Frankenstein in anni recenti. James Whale si
immerse istintivamente nel fondale femminista del romanzo
per il suo seguito, decenni prima di qualsiasi indagine da parte
delle donne.
Frankenstein è un romanzo visionario che drammatizza,
fra l’altro, l’ansia di una scrittrice femminista per l’ambizione
scientifica maschile di abbandonare la femminilità e trovare
un nuovo metodo di riproduzione che non preveda questo
principio. Come sottolinea Anne K. Mellor in Mary Shelley:
Her Life, Her Fiction, Her Monsters, «Victor Frankenstein è
impegnato a ogni livello in uno stupro della natura, una pene­

156
The Monster Shoie

trazione c usurpazione violente dei “posti segreti” della femmi­


na, dell'utero. Terrorizzato dalla sessualità femminile e dal po­
tere di riproduzione umana da essa consentito, sia lui sia la
società patriarcale che rappresenta usano la tecnologia scienti­
fica... per manipolare, controllare e reprimere le donne».43
L’impulso è quindi autoerotico («Con le mie stesse mani!»
come amano dire tutti i dottor Frankenstein, sfregandosele
sempre per la gioia - o per il senso di colpa?) e/o omoerotico,
vita creata con l’aiuto di assistenti maschili (spesso nani impau­
riti che si vedono intrufolare la testa attraverso portali e botole,
distillare preziose misture e così via). E il mostro di Karloff,
con la sua altezza e rigidità imponenti, è un’ovvia inversione-
erezione dell’assistente su scala ridotta.
James Whale, che a Hollywood viveva apertamente la sua
omosessualità (cosa non facile nel 1935 e non facile oggi), era
con ogni probabilità ben introdotto nei giochi degli eteroses­
suali; i suoi film sono farciti della sensibilità ironica nota come
camp. Per questo riuscì, con l’aiuto degli sceneggiatori, a crea­
re una nuova e duratura icona di scienziato folle che avrebbe
abbracciato la bellicosità sessuale già appartenente alla formu­
la di Frankenstein fin dall’inizio. Ritagliato su misura per l’illu­
stre attore teatrale inglese Ernest Thesiger, il ruolo del dottor
Septimus Pretorius illuminava brillantemente non solo gli ele­
menti faustiani della storia, ma pure le sue ambiguità sessuali:
Pretorius, mentore di Frankenstein ai tempi della scuola, era
qui un Mefìstofele gay. Bisbetico ed effeminato, con un lungo
naso da volpe che lo faceva assomigliare a una controfigura
maschile dell’attrice Martita Hunt, Thesiger impersonò un
omosessuale invecchiato e perverso. Nella vita reale, l’attore
rimase sposato per cinquant’anni alla stessa donna, e per di
più deludeva gli stereotipi con la sua esperienza di guerra. In
una giornata invernale, ricordava Thesiger nelle proprie me­
morie, il suo battaglione era nascosto in un granaio francese
mez2^> in rovina. Nel bel mezzo della colazione, mentre divide­
va i resti della cioccolata natalizia con un commilitone, una
bomba esplose sul tetto della struttura. «C’è una scena in L’Ai-
glon», scriveva l’attore, «in cui si sentono gridare i fantasmi di
Wagram: “La mia gamba!” “Il mio braccio!” “La mia testa!” e

157
David J. Skal

fu questa la scena che ritrovai quando ripresi i sensi. Tutt’in-


torno a me i miei amici si lamentavano straziati e dicevano a
tutti quali ferite avevano ricevuto”.» Thesiger comprese di es­
sere ancora vivo, ma non era sicuro di potersi muovere.

Poi gli occhi mi ricaddero sulle mani. Erano coperte di san­


gue e ridotte alla consistenza di un budino. Le dita spenzola­
vano nelle fogge più bizzarre, e capii che alcune si erano spez­
zate. Tentai di rialzarmi in piedi, chiedendomi intanto se il
mio compagno di colazione fosse risucito a fuggire prima del
peggio. Non riuscivo a vederlo, ma si era lasciato dietro gli
scarponi, e conscio che per un soldato dopo il fucile vengono
loro, decisi di portarglieli. Ma come? Non potevo usare le
mani. Forse, pensai, potrei sollevarli coi denti. Sempre piutto­
sto incerto sulle gambe, indietreggiai con cautela e fu allora
che vidi che in ciascuno scarpone restava ancora qualche cen­
timetro di gamba. Ecco tutto ciò che rimaneva della persona
con cui avevo diviso la cioccolata solo pochi istanti prima.44

Immagini di questo tipo facevano parte dell’esperienza co­


mune a innumerevoli e anonimi giovani europei e americani.
Molti non riuscirono a tornare per farsi coinvolgere nell’indu­
stria dell’orrore. Ma molti altri sì. Le scene di Frankenstein
continuarono a rimanere un terreno di incubazione culturale
per immagini di uomini fatti a pezzi e per l’ossessione fantasti­
ca - da shock per le bombe - di rimetterli di nuovo insieme.
La vigilanza crescente dell’amministrazione del Codice po­
teva ormai comportare una complicata lotta coi censori anche
sulle minime sfumature di un copione, e la sceneggiatura pre­
sentata da Whale per La moglie di Frankenstein fu un assoluto
sfacelo. Come ad anticipare le consuete obiezioni, il film co­
minciava con un prologo dove appariva Mary Shelley (Elsa
Lanchester; tutte le parti principali erano scritte con un attore
in mente) che ricordava al marito e all’ospite Lord Byron che
con Frankenstein era stata sua intenzione proporre una «lezio­
ne morale». Dissolvenza sul momento culminante del primo
film, dove apprendiamo che il mostro di Frankenstein (Kar­
loff) non è morto nel mulino in fiamme, ma è sopravvissuto al
rogo in una cisterna sotterranea. Sfigurato e d’aspetto ancora

158
The Monster Show

più orribile, ritorna a terrorizzare le campagne, di volta in vol­


ta banalizzando o subendo brutalità dagli indigeni ottusamen­
te sgradevoli. Fatta amicizia con un eremita cieco e imparato a
parlare (un idillio rovinato, naturalmente, dall’intrusione degli
irascibili campagnoli), il mostro s’incontra in un cimitero con
l’intrigante dottor Pretorius, che gli promette una compagna e
lo usa per ricattare Henry Frankenstein (Colin Clive) e coin­
volgerlo nelle blasfeme nozze. Anche Pretorius ha creato la
vita - esseri giocattolo in miniatura conservati in barattoli (un
re, un demone, una sirena) - e vuole mescolare le proprie tec­
niche con quelle del vecchio discepolo. Elizabeth, moglie di
Henry (Valerie Hobson, più tardi la signora John Profumo)
viene rapita dalla creatura, uccisa, e il suo cuore trapiantato in
quello del mostro femmina. Quando la sposa viene alla vita,
rifiuta i progetti fatti su di lei, il che scatena nel laboratorio
una cataclismica esplosione che riduce ad atomi tutti i pre­
senti.
Whale camminava sul ghiaccio sottile dell’ufficio Hays,
ma parve gradire la sfida. «Quando Joe Breen scriveva a un
produttore che un film... non poteva sperare di ricevere un
sigillo d’approvazione, era come se sbattesse ben chiusa la por­
ta di una segreta»,45 ha scritto Gerald Gardner nel suo The
Censorship Papers. Breen, che prima di questo incarico era sta­
to un giornalista di ispirazione cattolica, notò subito il tono
irriverente della vicenda. «In tutto il copione», scrisse, «vi
sono diversi riferimenti a Frankenstein che paragonano lui a
Dio e la sua creazione del mostro a quella delTUomo da parte
di Dio. Queste allusioni dovranno essere assolutamente sop­
presse.»46 Diversi mesi più tardi, quando gli fu sottoposta una
versione ritoccata del copione, Breen richiese comunque nu­
merosi cambiamenti, diversi dei quali per allusioni c immagini
religiose. Whale si rivelò un corrispondente affascinante, an­
che se l’Ufficio Breen cercava di tarpargli le ali. Sempre cortese
e ansioso di non essere percepito come «piantagrane», si spin­
se fino a ricordare a Breen sue precedenti obiezioni che forse
gli erano sfuggite.

159
Danti I Skal

IO dicembre 1954

Caro signor Breen,


di seguito i cambiamenti proposti, concernenti la sua let­
tera del 5 dicembre, e anche la sua lettera del 7 dicembre.
Poiché, comunque, la precedente lettera è già abbastanza
complessa, ritengo che sia meglio accludere quella da me
scritta subito dopo la riunione, giacché nella sua del 5 dicem­
bre vi sono alcune osservazioni riguardanti divinità, visceri,
immortalità e sirene che lei non ha riproposto, e sono real­
mente ansioso che il copione incontri la sua approvazione
sotto ogni dettaglio prima di iniziare le riprese.
Con i migliori saluti, sinceramente suo,
James Whale.47

Whale era intenzionato a ridere ultimo, e ci sarebbe riusci­


to coi controfiocchi. Sotto l’apparenza di una «moralizzazio­
ne» del film, l’onnipresente immaginario cruciforme avrebbe
suggerito asserzioni più «blasfeme» di qualunque taglio impo­
sto da Breen, per esempio il paragone diretto del mostro di
Frankenstein con Cristo. Il regista fece diversi aggiustamenti e
compromessi (a Elizabeth fu concesso di sopravvivere, fuggen­
do col marito nel finale) ma, con la sua capacità diplomatica,
riuscì a ottenere l’approvazione del Codice mentre manteneva
intatto il materiale più sovversivo. Breen non capì mai l’equa­
zione mostro/Cristo (neppure nella versione definitiva del film,
dove Karloff è legato a un palo e levato alto di fronte a una
folla impazzita), e analogamente ignorato fu il problema della
sessualità del dottor Pretorius (persino quando irrompe nella
stanza matrimoniale di Henry Frankenstein scacciandone arro­
gantemente la consorte e tentandolo con un sistema alternativo
di creazione della vita).
* Come un personaggio di Poe in La

* In una novcllizzazione elaboratamente edulcorata della sceneggiatura da par­


te di Michael Egremont - in realtà lo scrittore Michael Harrison - pubblicata
in Inghilterra nel 1936, Pretorius è più candido riguardo alle proprie motiva­
zioni in laboratorio. «Vieni», dice a Henry, «“andate c moltiplicatevi". Ob­
bediamo al precetto biblico: tu, naturalmente, puoi scegliere i sistemi natura­
li; ma per quanto mi riguarda, temo di non poter percorrere altra strada se
non quella scientifica.» (N.d.A.)

160
The Moaxtrr Show

lettera rubala, Whale pareva consapevole che certe cose resta­


no meglio nascoste in piena vista. L’unico passo falso fu un
vistoso abito scollato indossato da Elsa Lanchester mentre bla­
terava la sua «lezione morale». Qualunque lezione ivi implica­
ta sfuggì a Joseph Breen, che informò la Universal che «le
inquadrature all’inizio del film, in cui vengono esibiti e accen­
tuati i seni del personaggio della signora Shelley, costituiscono
una violazione del codice».48
Lo studio acconsentì a eliminare i primi piani. Fortunata­
mente, la seconda apparizione della Lanchester nei panni della
Sposa non comportò altri tagli; era coperta da capo a piedi di
bende, e più avanti da una sorta di sudario matrimoniale. Il
reparto pubblicità preparò immagini della Lanchester e degli
altri membri inglesi del cast che sorseggiavano tè in abiti di
scena, ma, come ricordò più tardi l’attrice, era tutta una par­
venza. «Bevetti meno liquidi possibile. Sarebbe stato troppo
dover andare al bagno - con tutte quelle bende - e dovermici
far accompagnare dalla costumista. »49
Elsa Lanchester ricordava subdolamente la persona del
truccatore Jack Pierce, che aveva elaborato col regista Whale
l’idea del mostro femminile. Da celebrato artefice del trucco
di Karloff, Pierce si «elevò ancora più in alto nel suo paradiso
personale quando stava per nascere la Sposa. Aveva il proprio
sancta sanctorum, e quando ci si entrava (non ci si andava den­
tro; si entrava), era lui a dire buongiorno per primo. Se parlavo
io per prima, lui mi fissava e mostrava i denti superiori. Si
vestiva in tenuta completa da chirurgo prima di un’operazione.
Alle cinque del mattino questo me lo rendeva estremamente
sgradevole».50 Pierce prendeva il suo lavoro di ideatore supre­
mo di maschere culturali con seriosità mortale, scriveva l’attri­
ce, «garantendosi a piene mani odio e intolleranza».
Quando La moglie di Frankenstein fu distribuito nel mag­
gio 1935 non era certo l’intolleranza a difettare ai vari censori.
Dal tono dei suoi commenti, Breen aveva garantito l’approva­
zione a denti stretti. Si era «gravemente preoccupato»51 del
primo taglio nel film, e anche dopo ulteriori esclusioni effet­
tuate dietro sua richiesta prevedeva «considerevoli difficoltà...
ovunque la pellicola venisse proiettata».52 Aveva ragione; i

161
David / Skat

santi fai-da-te delle province cercavano seriamente di spassar­


sela con il corpo della Moglie. Paul Krieger, direttore della
filiale di scambio Universal a Cincinnati, scrisse a Sydney Sin-
german della casa madre il 7 maggio 1935: «In accordo col
mio telegramma, accludo una serie di soppressioni ordinate
dall’ufficio censura dell’Ohio... Le ritengo decisamente drasti­
che ed estremamente perniciose per il successo del film».53
Lo zar della censura nell’Ohio, il dottor B.O. Skinner, era stato
sollecitato a esprimere un verdetto sul film, e aveva risposto,
irritato, con un elenco insolitamente fitto di richieste di tagli.
La Universal si rivolse a Breen: avrebbe potuto far intercedere
direttamente Will Hays? Breen acconsentì, non senza mostrare
esasperazione. Scrisse ad Hays 1’8 maggio: «Quale responsabi­
lità abbiamo noi,- se ne abbiamo una, di difendere un film di
fronte agli uffici della censura, quando lo studio rifiuta delibe­
ratamente di accettare il nostro consiglio in materia e decide
di rischiare la mutilazione?»54 Hays evidentemente decise di
prendere le parti dell’industria, e rimise al suo posto Skinner;
l’Ohio optò per l’eliminazione di un’unica scena e di due spez­
zoni di dialogo.
La moglie di Frankenstein fu bandito da Trinidad, Palesti­
na e Ungheria. «Le soppressioni dei censori svedesi», scrisse
Gerald Gardner, «erano tanto numerose che il film pareva
destinato a venire distribuito come cortometraggio.»55 E ii
Giappone avanzò una delle obiezioni più memorabili: la scena
in cui il dottor Pretorius usa delle pinzette per catturare il suo
fuggiasco Enrico Vili in miniatura e lo ripone in un barattolo.
Motivazione dei giapponesi: «In questo modo si rende ridicolo
un re».56
La MGM evitò la censura ufficiale operando tagli unilate­
rali a The Vampires of Prague (I vampiri di Praga), distribuito
nel 1935 come Mark of the Vampire. Il film essenzialmente era
un rifacimento di II fantasma del castello, diretto dall’uomo al
timone dell’originale, Tod Browning. Il «vampiro» (natural­
mente finto, e parte di un’inchiesta poliziesca) conseguiva ap­
parentemente la non-morte in seguito a una relazione ince­
stuosa con la figlia, che lo portava a un omicidio-suicidio.
Browning e lo sceneggiatore Guy Endore presero parzialmente

162
Thr Mor/xfcr \'hotr

ispirazione, con ogni probabilità, dal pionieristico saggio psi­


coanalitico di Ernest Jones Sull’incubo (1931), che collegava
esplicitamente fantasie di vampirismo col senso di colpa da
incesto, e inoltre riportava anche la leggenda del Mora, o vam­
piro, boemo. (Questo studio conferisce credito alla teoria per
cui i riferimenti freudiani dei melodrammi browninghiani pos­
sano essere stati intenzionali, e non rozze rivelazioni di conflitti
personali.) L’ultimo succhiasangue del regista era il conte Mo­
ra (Bela Lugosi), che esibiva sulla tempia destra un foro di
pallottola da tentato suicidio. La ferita sanguinolenta non ave­
va alcun senso nella versione definitiva del film, poiché ogni
riferimento all’incesto fu espunto dallo studio prima che 1’Uffì-
cio Breen potesse anche solo prendere la mira. L’unico sugge­
rimento di Breen a Louis B. Mayer: « Non ci dovrà essere alcu­
na allusione al tentativo del Barone di non lasciare impronte
digitali».57 Del resto, nonostante la pesante atmosfera gotica,
I vampiri di Praga era privo di strilli.
Il film fu inoltre sotto diversi aspetti un rifacimento del
Dracula della Universal, c Browning si diede la briga di ricrea­
re, o sottolineare, per lo studio rivale momenti del film del
quale era stato ufficialmente regista. C’era un casting parallelo
di Bela Lugosi come conte Mora, Elizabeth Allan - che ricor­
dava Helen Chandler - nei panni dell’eroina, e persino del
caratterista Michael Visaroff come locandiere, un ruolo quasi
identico a quello interpretato in Dracula. Lionel Barrymore eb­
be gran risalto per il suo dottor Zelen, un clone di Van Helsing
(Barrymore era stato un’opzione probabile per il Dracula pro­
gettato da Browning per la Metro prima che l’Universal vin­
cesse l’asta). Praticamente quasi tutto in I vampiri di Praga
sembra un commento a Dracula, fino all’assenza di colonna
sonora e alla bizzarra, intenzionale duplicazione di uno degli
effetti più deboli di Dracula: un improbabile ragno di gomma
lanciato sul muro con un filo. Forse Browning voleva ficcare
il naso nella Universa! in cerca di un brutto quarto d’ora? Dal
momento che il regista non rilasciò mai un’intervista retrospet­
tiva sulla propria carriera, non lo sapremo mai. (Per decenni è
circolata la storia non confermata della minaccia da parte della

163
David J. Sitai

Universal di un’azione legale nei confronti della Metro per


un’infrazione alla legge sul copyright.)
La vera stella di I vampiri di Praga è l’operatore James
Wong Howe, le cui composizioni e illuminazioni d’atmosfera
crearono alcune sequenze che definiscono a tutti gli effetti lo
stile «Hollywood Gothic» anni Trenta. Howe definì Browning
«proprio un bel personaggio... uno della vecchia scuola che
non sapeva un granché della cinepresa. Faceva recitare gli atto­
ri “verso” la macchina da presa invece di girarla intorno, così
il film era estremamente statico, e usava il montaggio per supe­
rare questo limite».58 Howe girò dei provini con Rita Hay­
worth nei panni di Luna, figlia del conte Mora, ma la parte
andò alla giovane protetta di Lugosi, Carroll Borland. Secondo
quest’ultima, le responsabilità di Howe vennero ridotte a pro­
duzione avanzata dietro l’insistenza dell’attrice Elizabeth Al­
lan, preoccupata che i grandiosi effetti ottenuti con i vampiri
potessero oscurare il suo fascino.59
Mentre la censura ufficiale trovò poco da ridire su I vampi­
ri di Praga, altri eserciti tramavano qualcosa. Il 28 luglio 1935
sul «New York Times» apparve la seguente lettera di un me­
dico di Manhattan:

Al redattore capo
Si fa un gran parlare di film osceni e volgari. Diversi di
questi sono decisamente nocivi. Ma anche a mettere insieme
una dozzina dei peggiori film non si eguaglierebbe il danno
infetto da pellicole come I vampiri di Praga.
Non mi riferisco alla totale insensatezza del film. Né al suo
effetto di rafforzare le superstizioni più deleterie. Mi riferisco
alle conseguenze terribili che ha sui sistemi mentale e nervoso
non solo di uomini, donne e bambini instabili, ma anche di
persone normali.
Non parlo in astratto; baso la mia opinione sui fatti. Mi è
stato riferito di diverse persone che, una volta visto quell’orri-
bile film, hanno sofferto di collassi nervosi, attacchi d’inson­
nia, e quelli che sono riusciti ad addormentarsi sono stati
torturati dagli incubi più orribili.

164
The Momlrr Show

Secondo la mia opinione, produrre c presentare film del gene­


re è un crimine.
William J. Robinson, Dottore in medicina.

Qualche anno prima, Island of Lost Souls aveva offeso la


sensibilità dei fondamentalisti con le sue immagini che mesco­
lavano uomini e animali, così non sorprese che, quando la Uni­
versa! Pictures decise di filmare una storia di licantropi, si riz­
zasse qualche orecchio. Dopo un esame del copione di 11 segre­
to del Tibet {Werewolf of London, 1935, di Stuart Walker),
Joseph Brcen avvisò ufficialmente lo studio. «Siamo certi che
non sarà vostra intenzione mostrare particolari realistici della
trasformazione da uomo in lupo, e che non sarà sfruttata la
repulsività di dettagli fisici orripilanti. »60
Naturalmente tale richiesta era ridicola: l’attrazione princi­
pale del primo film al mondo sui licantropi sarebbe stata pro­
prio vedere un uomo trasformarsi in un animale, e più orripi­
lanti erano i dettagli fisici, meglio era. In seguito Robert Harris
della Universa! difese elementi del copione del film di fronte
alla Mppda, buttandosi nell’ipocrisia particolarmente involuta
dettata dalla diplomazia censoria; in questo genere di discorso,
uno scrittore o dirigente dello studio contorceva la lingua e la
logica al punto di convincere la Mppda a credere che ciò che
riteneva di aver letto in una sceneggiatura non esistesse assolu­
tamente. Per esempio, Il segreto del Tibet non conteneva tra­
sformazioni ferine - Dio ce ne scampi! Nelle parole di Harris,
«le nostre mutazioni si limitano a fare dei normali attori perso­
ne con tendenze all’irsutismo», un processo che ovviamente
comportava «un appuntici di orecchie e nasi e un allunga­
mento delle dita, non dissimili da quanto mostrato nel film II
dottor Jekyll». Riguardo all’incontro della raffinata bestia con
una donna di strada dalla gonna corta, «la ragazza, che appar­
tiene alle classi inferiori, indossa una gonna non troppo lunga,
probabilmente ristrettasi quando l’ha lavata da sola, in quanto
priva dei soldi necessari per mandarla in una regolare tin­
toria».61
I Paesi Bassi decisero di bandire II segreto del Tibet a moti­
vo del suo complessivo «effetto degradante».62

165
D/it'ftl J SM

Per i censori dell’orrore, il trucco del mostro evidentemen­


te prevaleva sui problemi di scollature. Un appunto del 16
marzo 1935 indica che la Mppda prese l’insolita iniziativa di
sottoporre ad approvazione il trucco sfigurante di Boris Kar­
loff in The Raven (t. lett.: Il corvo, 1935, di Lew Landers).63
Il film segnava il secondo duetto di Karloff e Lugosi sotto l’ala
di un titolo di Poe; questa volta Lugosi era il demente chirurgo
plastico dottor Vollin, ossessionato dall’opera dello scrittore.
Vollin esegue un intervento su un evaso, Bateman (Karloff),
che chiede di cambiargli i connotati, senza curarsi della mutila­
zione finale. Vollin pensa che più brutto apparirà Bateman,
più sarà malvagio. Al medico la malvagità sarà di grande aiuto,
come scopriamo nella successiva ora di giocoso sadismo a col­
pi di sfiguramenti, ossessioni sessuali e una camera degli orrori
nei sotterranei completa di letale mannaia pendente rubacchia­
ta a il pozzo e il pendolo.
Il «Times» di Londra pareva avere in testa precisamente
film come The Raven e Amore folle quando ospitò un lungo
editoriale sugli intenti dell’orrore su grande schermo. Gli elisa­
bettiani, concedeva il «Times», sapevano come riempire il loro
teatro di orrore, ma persino gli intrecci più folli venivano nobi­
litati dalla poesia. E dov’era, chiedeva il «Times», la poesia a
Hollywood? E perché la scienza e la medicina venivano per­
vertite?

Molto raramente l’intento [di un medico cinematografico] è


di salvare una vita o praticare una cura... Lo scopo preferito
di un’operazione sullo schermo è o lo sfiguramento o la crea­
zione di un mostro... forse l’aspetto più terrificante di questa
pseudoscienza sadica è la sua apparenza immacolata... Più
oscuro è il cuore del chirurgo, più è probabile che risulti
fastidioso nei suoi metodi professionali... Fantasmi e demoni
che un tempo si nascondevano negli angoli oscuri per spaven­
tare l’incauto impallidiscono come ombre innocue di fronte
alla cupa figura del demoniaco chirurgo che brandisce il bi­
sturi.64

Il «Times» non capiva (come la maggior parte del mondo)


che la medicina si stava demonizzando seguendo vie assai simi­

166
I'he Mttmfer Shote

li a quelle illustrate nei film dell’orrore, proprio nel Paese che


per primo aveva presentato fantasmi e demoni sullo schermo.
Nelle scuole di medicina operava allora proprio il dottor Josef
Mengele, intento coi suoi compagni di studi a preparare le
purghe mediche che avrebbero inesorabilmente portato all’O-
locausto.
Il 23 agosto 1935, l’Associated Press finì per esibire un
titolo già temuto dagli studi: FILM DELL’ORRORE TABÙ IN IN­
GHILTERRA - L’ULTIMO THE RAVEN. Edward Shortt, presiden­
te del British Board of Film Censors, aveva già avvertito l’indu­
stria che quei film erano «disgraziati e indesiderabili» e dove­
vano essere tenuti sotto controllo. The Raven creò un vespaio
di polemiche sulla stampa inglese, con un eminente critico a
definire la pellicola «probabilmente il film più sgradevole che
io abbia mai visto per il suo sfruttamento della crudeltà per
puro sadismo».
L’Inghilterra decise di non prendere in considerazione
film dell’orrore americani, insieme a un altro orrore, molto più
prossimo.
Nonostante il veto, la Universal ritenne il mercato interno
sufficientemente forte per assorbire un seguito all’originario
horror sonoro. Nel settembre 1933, due anni e mezzo dopo la
distribuzione di Dracula da parte della Universal, Florence
Stoker aveva venduto un’opzione cinematografica sul racconto
tardo del marito Dracula’s Guest al produttore David O. Selz­
nick. Dracula’s Guest era in effetti un episodio tagliato dal ro­
manzo maggiore a causa della lunghezza del libro, un fram­
mento d’atmosfera che narrava il fulmineo incontro di Jona­
than Harker con una vampira sulla strada per il castello di
Dracula. Non presentava assolutamente questa creatura come
la figlia di Dracula o una sua parente, ma Selznick parve intui­
re il valore commerciale di una succhiasangue con il nome di
Dracula, se non per il proprio studio, la Metro-Goldwyn-
Mayer, almeno per la Universal, che deteneva i diritti cinema­
tografici in esclusiva sul romanzo originale.
Le motivazioni di Selznick furono probabilmente piutto­
sto ciniche; erano state richieste diverse opinioni legali riguar­
do l’opportunità da parte della Metro di usare la parola «Dra-

167
David I Skal

cula» in qualunque maniera, e nessuna era positiva. AH'inizio


del 1933 imperversò una bufera di lettere e telegrammi nottur­
ni ultraconfidenziali tra Selznick, Louis B. Mayer e avvocati
newyorkesi, e i legali concordavano: la Universal poteva benis­
simo intraprendere un’azione contro la Metro, diffidando lo
studio da qualsiasi uso della parola iniziarne per «D». La base
legale di tale azione era tutto sommato vaga; la Universal aveva
comprato i diritti cinematografici di una e un’unica opera di
Bram Stoker, e Dracula's Guest non rientrava nell’accordo. Ma
le aree indefinite sono proprio i luoghi dove possono verificar­
si i generi di litigio più lunghi e sgradevoli. I legali ammoniro­
no la Metro a evitare la parola che iniziava per «D» persino
nella corrispondenza; fu scelta Tarantula come parola in codi­
ce. E si temeva che persino Tarantula potesse suonare troppo
come Dracula per l’assoluta certezza legale. Tuttavia, fu stipu­
lato un accordo con Florence Stoker offrendole un anticipo di
500 dollari sul prezzo d’acquisto di 5000 dollari per i diritti
cinematografici su Dracula's Guest. Il contratto conteneva una
clausola fondamentale che approvava il titolo alternativo Dra­
cula's Daughter (t. lett.: La figlia di Dracula, 1936, di Lambert
Hillyer), e un altro riguardante la facoltà da parte di Selznick'
di rivendere i diritti. A posteriori, viene da chiedersi se era
questo il problema fondamentale. Selznick aveva correttamen­
te anticipato l’unica base logica per un seguito cinematografico
al Dracula della Universal, e ora si era piazzato come costoso
ostacolo a un’eventuale produzione da parte della Universal.
Questa interpretazione acquista ancor maggior credito in se­
guito all’assunzione da parte di Selznick di John L. Balderston
per scrivere un trattamento della sceneggiatura che poteva es­
sere prodotto solo dalla Universal, poiché non utilizzava in al­
cun modo Dracula's Guest e traeva ispirazione, ambienti, e di­
versi personaggi direttamente dal film di cui deteneva i diritti
la Universal.
«In ciascuno dei tre film dell’orrore ai quali ho collaborato
come sceneggiatore e scrittore originale, Dracula, Frankenstein
e La mummia, l’ultimo terzo crollava miseramente»,65 scriveva
Balderston all’inizio del 1933. In Dracula’s Daughter, per una
volta, era intenzionato a invertire il processo, aumentando i

168
Thr Mounter Show

brividi col procedere del film, come un ottovolante in cui i


tuffi diventano sempre più ripidi per assenza di gravità.
Poiché nel Dracula originale Bela Lugosi era stato comple­
tamente distrutto da un paletto di legno, Balderston prese in
considerazione altri aspetti più malleabili del film in cerca di
ispirazione. Scelse le vampire che Lugosi lasciava strisciare tra
le rocce del suo maniero transilvano, e immaginò per loro una
nuova sistemazione. Mentre Lugosi le teneva in riga con statici
movimenti delle mani simili a un balletto, la figlia di Dracula
avrebbe impiegato un altro sistema, più diretto. Facendo
schioccare una frusta contro le rocce, sottomette le malvage
matrigne come una domatrice, e, in una scena ricalcata dal
romanzo di Stoker, offre loro per sfamarle un neonato urlante
in un sacco. Ma quel cibo infantile non è abbastanza. «Voglia­
mo amore oltre a bere... dacci quell’amore che ti tieni per te,
uomini, uomini giovani.»66 La figlia di Dracula risponde che
è lei la loro padrona mentre il Maestro è in Inghilterra per
affari; loro sono solo le sue amanti. Prenderanno quello che
lei dà loro e ne saranno riconoscenti.
Scene di questo tipo erano materiale piuttosto scottante
nel 1933, persino per una fase preparatoria, ma Balderston si
dimostrò candido riguardo alle proprie motivazioni. «L’uso di
una vampira invece di un vampiro ci dà la possibilità di gio­
strare con SESSO e CRUDELTÀ in piena legittimità», scriveva.
«In Dracula si sono dovute sopprimere quasi integralmente
queste componenti... Approfittiamone rendendo la figlia di
Dracula amante delle sue vittime... La seduzione di giovani
uomini sarà tollerata, mentre siamo stati costretti a eliminare
la seduzione di ragazze nell’originale come immediatamente
censurabile. »
La giustificazione da parte di Balderston degli elementi
sensazionalistici nell’intreccio guadagnava importanza, suo­
nando come una crociata. «Perché Cecil de Mille dovrebbe
avere il monopolio di grandi guadagni al botteghino delle tor­
ture e crudeltà in film sull’antica Roma[?]»67 Aggiungeva di
voler evidenziare la passione dispiegata dalla figlia di Dracula
nelle torture infette alle vittime-amanti, e che gli uomini, pur
sotto il suo giogo, ci si divertivano parecchio. «I censori lo

169
Duriti / .VW

tollereranno, a condizione di suggerirlo appena... Questo ci dà


un valore al botteghino in precedenza sconosciuto.»68 La fi­
glia di Dracula, a differenza del padre, poteva trovare nuovi
sistemi per ottenere sangue, obiettava Balderston, che capiva
che i morsi sul collo erano solo un tipo di eufemismo molto
caricato. Propose scene in cui i «disgustosi servi sordomuti»
della vampira riempivano il suo boudoir con fruste, cinghie e
catene di forza industriale. Non si mostrava nulla esplicitamen­
te; sarebbe stato il pubblico a decidere.
U trattamento di Balderston evidenziava la struttura fon­
damentale dell’intreccio nel romanzo stokeriano tanto sconcia­
ta dalla Universal nel 1931. La conseguente proposta prevede­
va che il dottor Van Helsing ritornasse in Transilvania per
distruggere le spose del vampiro, che sorvegliano la tomba di
una quarta vampira, la figlia di Dracula, la quale segue Van
Helsing e i suoi amici di ritorno a Londra dove assume l’iden­
tità di «Contessa Szekeley» e vittimizza un giovane e bello
aristocratico, Lord Edward «Ned» Wadhurst. L’immacolata
fidanzata di Ned, Helen Swaythling, si unisce a Van Helsing
per un’eccitante caccia in Transilvania, dove la figlia di Dracu­
la viene infine distrutta.
Il trattamento commissionato da Selznick a Balderston
violava sotto ogni profilo un termine del suo accordo con Flo­
rence Stoker, e precisamente che il nuovo film non avrebbe
utilizzato personaggi o vicende da altre opere di Stoker oltre
a Dracula’s Guest. All’inizio del 1934 Selznick stava semplice-
mente giocando a Metro contro Universal, da una parte insi­
stendo che la Metro facesse valere il primo rifiuto sulla pro­
prietà, pur sapendo che non potevano far altro che rifiutare.
Il contratto con cui Selznick rivendeva i diritti alla Universal
fu concluso nel settembre 1934.
La Universal inviò «in via non ufficiale» un nuovo tratta­
mento di Dracula’s Daughter di R.C. Sherriff all’Uffìcio Breen
il 5 settembre 1935.1 rappresentanti di quest’ultimo si incon­
trarono con Carl Laemmle Jr. la settimana successiva. Il 13
settembre, Breen stese un memorandum: «Questa storia, sot­
topostaci “in via ufficiosa” da Laemmle Jr., contiene materiale
indicibilmente oltraggioso, che rende il film assolutamente pri-

170
The Mony/er Shine

vo di speranze per l’approvazione da parte del Codice».69


Laemmle acconsentì a far riscrivere integralmente il copione a
Sherriff, con riguardo al materiale «pericoloso». Particolar­
mente pericolosa, apparentemente, era la riapparizione dello
stesso Dracula, probabilmente in sequenze flashback (al mo­
mento della stesura di questo libro non è affiorata copia di
questa sceneggiatura).
Il 21 ottobre, Harry H. Zehner della Universal inviò a
Breen la seconda stesura di Sherriff per Dracula's Daughter.
Due giorni dopo ricevette in risposta un commento di sei pagi­
na a interlinea uno. La storia, lamentava Breen, conteneva an­
cora «materiale pericoloso dal punto di vista della politica cen­
soria». L’obiezione principale era che «resta tuttora nel copio­
ne un debole per una combinazione di sesso e orrore». Segui­
va una serie dettagliata di suggerimenti particolarmente stolidi:
«Nella prima parte del copione, dove le truppe di Dracula
rastrellano la campagna e portano al castello un gruppo di
ragazze con una spruzzatina di uomini, è meglio indicare ine­
quivocabilmente che lo scopo del rapimento delle donne è di
fornire compagne di ballo per gli ospiti del conte riuniti al
banchetto». Oppure: «Vi chiediamo di eliminare l’inquadra­
tura di Dracula nella sua camera “mentre stringe tra le braccia
la figura abbandonata di una ragazza”; questo per evitare una
connotazione sessuale precisa. Magari la scena potrebbe mo­
strare la ragazza che balla». In un’altra sequenza, la Universal
fu avvertita che alle vittime femminili di Dracula non sarebbe
stato consentito allungarsi su divani, ma avrebbero dovuto es­
sere morse mentre sedevano composte su solide sedie. Occor­
reva emendare pure tocchi d’atmosfera minori: «Vi preghiamo
di eliminare i numerosi topi di cui si fa cenno all’inizio della
pagina. L’esibizione prolungata di ratti sullo schermo è gene­
ralmente da considerarsi pessimo teatro».70
Divenne evidente che era proprio Dracula il problema: co­
sa rimaneva del vampiro oltre al sesso e all’orrore? Lo studio
cominciò a ripensare a come sbarazzarsi del personaggio con­
servando nel titolo il valore pubblicitario del nome. Il 14 gen­
naio 1936, il produttore associato alla Universal E.M. Asher
informò Breen che la sceneggiatura di Sherriff era stata intera­


David /. Skal

mente scartata c che avrebbero ricominciato tutto da zero.


Breen replicò: «Saremo lieti di lavorare insieme a voi al copio­
ne quando sarà pronto; ma siamo costretti a mettervi in guar­
dia, perché di questi tempi la realizzazione di un film dell’orro­
re è un’iniziativa decisamente azzardata da un punto di vista
della politica censoria in generale».71
Dracula’s Daughter doveva essere originariamente diretto
da James Whale, con Bela Lugosi e Jane Wyatt. Dopo diversi
rinvìi e ripensamenti, il film fu infine messo in cantiere in fretta
e furia con una sceneggiatura incompleta per anticipare un
clausola limitativa a tempo inserita nell’opzione di David O.
Selznick. Garrett Fort, che aveva lavorato al film originale, for­
nì la sceneggiatura finale, completamente diversa dai lavori di
R.C. Sherriff e John L. Balderston. Il personaggio di Dracula
fu completamente eliminato, a eccezione di un manichino cre­
mato all’inizio del film. La pellicola si incentrava invece pro­
prio sulla figlia di Dracula, la contessa Maria Zaleska (Gloria
Holden), che, dopo aver seguito il padre a Londra, cerca la
consulenza professionale di uno psichiatra (Otto Kruger). Per
la prima volta il vampirismo veniva presentato sullo schermo
tanto come una pulsione psicologica quanto come una maledi­
zione soprannaturale. C’erano anche forti allusioni al lesbismo;
una delle vittime (Nan Gray) è una ragazza di strada invitata
a posare nello studio di Chelsea della contessa per un dipinto.
La sceneggiatura di Fort prevedeva originariamente che posas­
se nuda, con il conseguente attacco a portare un inconfondibi­
le sapore di stupro lesbico. L’Ufficio Breen disse no, e l’attrice
si tenne i vestiti addosso. Tuttavia la scena è spesso citata come
classica sequenza «lesbica», benché di impronta marcatamen­
te negativa. Gli aspetti omosessuali della psicologia vampiresca
(impliciti fin dall’importante racconto di J. Sheridan Le Fanu
Carmilla, del 1871) avrebbero continuato a guadagnare impor­
tanza nei decenni a seguire. Curiosamente, Dracula’s Daughter
fu un’ispirazione diretta per la scrittrice Anne Rice,72 le cui
fantasie vampiresche omoerotiche avrebbero trovato un enor­
me pubblico di massa negli anni Ottanta e Novanta.
Tod Browning, la cui carriera era in declino dopo il disa­
stro di Freaks, trovò difficoltà ancora maggiori a lanciare pro­

172
The Mt»t\ter Show

getti alla MGM. Il massimo del rischio che la compagnia era


disposta ad assumersi fu I vampiri di Praga, rifacimento di due
precedenti film di successo. Il regista trascorse molto tempo al
campo di baseball e alle corse all’inizio degli anni Trenta, e il
veterano della sceneggiatura hollywoodiana Budd Schulberg
- autore di The Disenchanted (t. lett.: I disincantati) e What
Makes Sammy Run? (t. lett.: Cos’è che fa correre Sammy?) -
ricordava un altro passatempo di Browning. «Allora erano in
voga le maratone di ballo e qualche volta andavamo al Santa
Monica Pier a osservare giovani zombi disoccupati trascinarsi
per la pista in una danse macabre al rallentatore», scriveva
Schulberg nella propria autobiografia del 1981 Moving Pictu­
res. «Ancora più sconvolgenti delle vittime sulla pista di ballo
erano gli habitué e numerosi sadici nei posti in prima fila tutte
le notti, a sostenere i propri beniamini che continuavano a
svenire e a volte a vomitare per la stanchezza. Uno fra i più
assidui era Tod Browning, che non mancava mai a una serata,
con negli occhi lo stesso luccichio di quando dirigeva
Freaks.»™ Si è detto che il regista tentò invano di ottenere
l’appoggio dello studio per una versione cinematografica del
romanzo torvamente esistenzialista di Horace McCoy Non si
uccidono così anche i cavalli? (1935); la storia sensazionalista
di una maratona di danza avrebbe potuto benissimo diventare
un classico browninghiano, benché sia difficile immaginare
uno studio che produce la storia nella sua stesura originale.
(Charles Chaplin era un altro regista eccitato dalle possibilità
della storia che però non fece mai decollare il progetto.)74
Browning progettò un film sul voodoo intitolato The
Witch ofTimbuctoo (t. lett.: La strega di Timbuctù), che però
venne severamente alterato dalle preoccupazioni per la censu­
ra estera. «The Hollywod Reporter» riferiva il 10 dicembre
1935 che «ancora una volta un governo straniero si è intro­
messo a censurare un copione hollywoodiano per ragioni poli­
tiche». L’Inghilterra aveva richiesto l’eliminazione di tutti i
personaggi neri per paura che le scene di stregoneria «solle­
vassero problemi» tra i neri sotto la dominazione coloniale
britannica. Il film fu infine rabberciato come La bambola del
diavolo {The Devii Doli, 1936), bizzarra storia di un evaso dal­

173
Dtl fid I Shit

l’isola del Diavolo che utilizza esseri umani in miniatura per


portare avanti un piano vendicativo. Il film riciclava diversi
temi familiari a Browning - il criminale che si traveste da vec­
chia signora (da I tre), l’ossessiva, accecante sete di vendetta -,
ma era chiaro che i suoi giorni di autore in grado di controllare
i propri progetti erano finiti. Tuttavia rimase un enigma elusi­
vo alla maggior parte delle persone che lavoravano con lui.
Maureen O’Sullivan, che appariva in La bambola del diavolo e
visse per qualche tempo accanto a Browning nella colonia di
Malibu, ricordava di non averlo mai visto sulla spiaggia.75 Ed­
gar Ulmer lo definì «reticente e introverso. Di notte, dopo il
lavoro, Browning saliva sulla sua macchina e spariva».76
Quel che non sparì per tutti gli anni Trenta fu l’enfasi sui
film come capro espiatorio sociale.
Il 16 novembre 1938 Katherine K. Vandervoort, responsa­
bile della frequenza per le scuole pubbliche di White Plains a
New York, lasciò l’ufficio alle 17.15 circa e si vide di fronte
sulla Main Street un bambino «che fissava sconvolto le facce
dei passanti» e che la pregò di indicargli la direzione di casa.
«Capii che era isterico», scrisse la Vandervoort, e insistette
per accompagnarlo di persona. «Dopo essere saliti sulla mac­
china per percorrere il chilometro e mezzo che ci separava
dalla sua abitazione, continuò a borbottare frasi praticamente
incomprensibili. Fino ad allora avevo ritenuto che si trattasse
di un bambino fuggito di casa spaventato di trovarsi da solo
al buio. Alla fine, comunque, cominciai ad ascoltare ciò che
diceva, soprattutto una cosa che continuava a ripetere senza
sosta: “Lo so che l’ammazzava! Lo so che lo faceva!”»
«Ammazzare chi?» chiese la Vandervoort, sinceramente
preoccupata. Alla fine riuscì a cavargli di bocca che «Frank
qualcosa» stava per far fuori una bella ragazzina.
Fu allora che comprese l’accaduto: il ragazzino doveva
aver assistito allo spettacolo pomeridiano al cinema Keith.
Aveva già osservato «con stupore» il cartellone, e lo aveva
impresso nella memoria:

174
The Monster Show

VI SFIDIAMO A VEDERE INSIEME


DRACULA CON BELA LUGOSI
FRANKENSTEIN CON BORIS KARLOFF

H bambino, nove anni, secondo la Vandervoort era stato


«immischiato» ad assistere alla proiezione da un bambino più
grande della zona. H giorno seguente, accompagnata dal «si­
gnor Duff, investigatore incaricato al mio ufficio», la funziona-
rìa fece visita al cinema, dov’era ancora in programma il dop­
pio spettacolo blasfemo.
«Appena finita la scuola, i bambini arrivavano in branco.
Sfilavano tutte le età, dai bimbi dal passo malcerto che riusci­
vano a stento ad arrampicarsi sulle scale per la balconata men­
tre noi guardavamo in basso dalla platea.»
Annusando un serpente che aveva urgente bisogno di esse­
re reso inoffensivo, «tralasciai ogni occupazione e passai diver­
so tempo andando avanti e indietro per le classi della nostra
scuola elementare». Con suo sconforto, se non sorpresa, una
grossa percentuale dei bambini aveva assistito a Dracula e
Frankenstein. «Certi avevano ancora gli occhi sgranati dall’ec­
citazione e volevano raccontare tutta la storia nei dettagli. Altri
apparivano più ansiosi di ignorarla e una bambina bionda se­
duta di fronte a un ragazzo più grosso mi disse: “Deve piantar­
la: non ha fatto che parlarne tutto il giorno”.»77
Forse la cosa più orripilante per la sensibilità in loco paren­
tis della Vandervoort fu il racconto di un bambino che aveva
visto da solo lo spettacolo pomeridiano, ed era tornato la sera
coi genitori perché non avevano nessuno a cui lasciarlo.
White Plains non era un fenomeno isolato, quell’autunno;
in seguito all’accoppiata di sfrenato successo di Dracula e Fran­
kenstein, i gemelli oscuri della Villa Diodati erano dovunque
per l’iniziativa di un disperato distributore di Los Angeles in
cerca di una nuova attrazione. H doppio spettacolo infranse
ogni record e cominciò a far discutere gli esercenti. «I profitti
delle città chiave indicano che le riprese degli horror stanno
spazzando tutto», riferiva «Variety» il 19 ottobre. A Cincinna­
ti, il demoniaco duo batté il record di una sala, che durava da
sei anni; a Indianapolis, la medesima combinazione raddoppia­

175
Davit/ J Ska/

va il normale incasso del cinema. A Manhattan, il Rialto pro


grammava Dracula e Frankenstein tutto il giorno, riempiendo
completamente la sala dieci volte al giorno. «Altre riedizioni,
fatta eccezione per i vecchi Valentino», osservava «Variety»,
«a New York sono state un fiasco.» L’organo dell’industria
osservava che i due film avevano registrato incassi modesti
quando erano stati proiettati singolarmente a Philadelphia po­
chi mesi prima, ma non indagò sulla natura precisa dell’alchi­
mia raggiunta quando le bestie venivano presentate insieme.
Altrove, anche le riedizioni in coppia di King Kong e The
Ghoul (t. lett.: Il demone, 1933, di T. Hayes Hunter) con Boris
Karloff riscuotevano incassi prodigiosi.
Il successo della riedizione in coppia di Dracula e Franken­
stein diede alla Universal lo stimolo a resuscitare la serie. La
resistenza all’estero era ancora forte, comunque. J. Brooke
Wilkinson, segretario dell’ufficio censura inglese, scrisse a Jo­
seph Breen nel novembre 1938 in merito all’intenzione da par­
te della Universal di produrre un secondo seguito di Franken­
stein. «In passato abbiamo avuto tali problemi con film... clas­
sificati “dell’orrore” che l’industria è arrivata alla conclusione
che sono più un fastidio che altro... Ci sono state fatte pressio­
ni per eliminare il più possibile questo genere.»78 Nel 1933,
raccontava Wilkinson, i censori britannici avevano approvato
cinque film dell’orrore, nel 1934 cinque, due nel 1936 e uno
solo nel 1937.
Per tornare in America, sul «New York Times», e non
solo, era già affiorato un certo rigetto riguardo l’enorme quan­
tità di horror vomitato da Hollywood prima dell’embargo in­
glese. Il 1935 era stato un anno particolarmente sanguinoso,
vista l’uscita di La moglie di Frankenstein, Il segreto del Tibet,
The Raven, I vampiri di Praga, La nave di Satana {Dante’s Infer­
no, di Harry Lachman), Amore folle, e altre spiacevolezze as­
sortite. B critico del «Times» André Sennwald rilevò con mo­
derato allarmismo questa tendenza in un fondo domenicale
intitolato Gory, Gory Hallelujah. * L’enfasi crescente posta sul

• Gioco di parole con il noto ritornello «Glory Glory Hallelujah» del canto
popolare John Brown, dove gory sta per «sanguinoso». (N.d.T.)

176
Thr Momfrr Sfuitc

dolore e la morbosità, scriveva Sennwald, era «lungi dall’esse­


re un fenomeno casuale e insignificante» e poteva «essere so­
stanzialmente correlata con le condizioni mentali della nazio­
ne. Lo schermo fornisce un’acuta esperienza emotiva e, ciò che
è più importante, piace a vaste moltitudini persino quando
vengono sconvolte o disgustate». Sennwald ricordava i «folli
e confusi giorni che precedettero la nostra entrata nella guerra
mondiale, [quando] il cinema placava la sete di sangue degli
americani rimasti a casa proprio con i medesimi stimolanti in­
diretti. Hollywood, sempre pronta a riflettere o stuzzicare un
appetito di massa, pare rifare daccapo la stessa mossa».78
Le nubi di tempesta si stavano davvero radunando di nuo­
vo sul fronte occidentale. In Europa, il grande cineasta france­
se Abel Gancc, più noto per il suo monumentale Napoléon
{id., 1927) produsse nel 1937 un film antibellico che rende
retrospettivamente esplicito il legame tra il primo grande ciclo
di film dell’orrore e la Grande Guerra. Questo film si intitola­
va J’accuse (t. lett.: Io accuso) e raccontava la storia di un vete­
rano di guerra diventato inventore che crea un tipo di «vetro
d’acciaio» infrangibile, sicuro così di rendere obsoleti i conflit­
ti. Quando i suoi superiori decidono di volgere l’invenzione a
uso militare, richiama i caduti in guerra dalle loro tombe per
marciare contro i vivi. Per l’intollerabile sequenza finale - una
dichiarazione di morale completamente irrazionale, ma co­
munque devastante -, Gance reclutò veri membri dell’Union
des Gueules Cassées, e creò un montaggio da incubo di tutti i
volti sfigurati che avevano perseguitato i cinema di tutto il
mondo negli ultimi quindici anni sotto forma di «passatempo
onorifico». Queste persone restavano anonime, ma potevano
agevolmente costituire i modelli viventi delle maschere indos­
sate da Lon Chaney, Boris Karloff, Lionel Atwill e compagnia.
Come consapevole presa di posizione antibellica, J’accuse è di
classe superiore; come rivelazione inconsapevole del principale
sottotesto onorifico negli anni Venti e Trenta, mozza il fiato.
Proprio nel momento in cui il ciclo onorifico completava
il cerchio, riscoprendo il genere che Tod Browning aveva con­
tribuito a far nascere in America, lo stesso Browning non pote­
va attendersi alcun rilancio della propria carriera. Samuel

177
Dat>i<J J. Sitai

Marx, dirigente MGM al reparto storie che si era tenacemente


opposto alla realizzazione di Freaks in base al gusto personale,
ebbe l’opportunità di osservare l’arco completo della carriera
del regista. «Conoscevo bene Tod Browning dai miei primi
tempi alla Universal... fino agli ultimi tristi giorni quando la
MGM lo licenziò. Alla fine ero in pena per lui.»80 Il suo ultimo
film, Miracles for Sale (t. lett.: Miracoli in vendita, 1939), si
segnalava come tenera ricapitolazione della sua carriera fino a
quel momento; era una storia di truffatori e fìnto spiritualismo
priva dell’urticante cinismo che aveva segnato i film preceden­
ti. L’ironica sequenza iniziale pareva persino congedare il mal­
vagio motivo della mutilazione sotto il bacino: un personaggio
di varietà viene «segato in due» da un mitragliatore. In seguito
Browning lavorò come sceneggiatore alla MGM. Nel 1942 si
ritirò per sempre a Malibu.
Il ciclo di ventiquattro anni cominciato in Germania con
Il gabinetto del dottor Caligari finì, opportunamente, con un
film americano ambientato in Germania pesantemente influen­
zato dall’atmosfera e dalla scenografia del prototipo classico.
Il figlio di Frankenstein (Son of Frankenstein, 1939, di Rowland
V. Lee) viene talvolta considerato pane di un nuovo ciclo, ma
lo stile produttivo, l’atmosfera e il tema guardano indietro e
non avanti. Il film, forse una delle opere americane più ambi­
ziose prima di Quarto potere (1941), è visivamente stupefacen­
te. Sarebbe stata l’ultima volta di Boris Karloff nella parte del
mostro; non aveva rimpianti a lasciarsi alle spalle quel ruolo
(anche se in un certo senso lo portò sempre con sé) e sospetta­
va giustamente che il mostro sarebbe stato sempre più relegato
al ruolo di comparsa o buffone. La creatura che originariamen­
te era stata una netta sagoma scura divenne, con gli anni e
l’appesantimento di Karloff, statica e monolitica, un bestione
minaccioso. «Look» rimarcò le ombre della guerra incomben­
te: «I produttori cinematografici attribuiscono l’attuale sete di
terrore da parte del pubblico ai timori di guerra nell’instabile
Europa. Sempre pronti a prendere la palla al balzo, fanno a
gara a produrre film del brivido su scala molto più rutilante e
fantastica che in precedenza.
«Raggi mortali, astronavi, flussi disintegratori e altri biz-

178
The Mon tfer Show

zarri strumenti letali vengono costruiti in ogni negozio di co­


stumi teatrali», osservava ancora «Look». «“Incubi alla porta­
ta di tutti” è lo slogan di Hollywood per un 1939 più orri­
bile.»81
Basil Rathbone interpretava il figlio eponimo, Wolf von
Frankenstein, in sostituzione del previsto Peter Lorre. Bela
Lugosi, sotto contratto originariamente per interpretare un
ispettore di polizia, si ritrovò il ruolo di una vita letteralmente
improvvisato sul set: il demente pastore del mostro, Igor, col
collo spezzato e i denti sporgenti. Cancellata qualunque allu­
sione a Dracula, probabilmente per l’unica volta a Hollywood,
ecco il Lugosi attore versatile qual era. Sfortunatamente, Hol­
lywood vi prestò scarsa attenzione, non concedendo mai a Lu­
gosi un’altra occasione.
Ma forse la figura più affascinante di II figlio di Franken­
stein era il personaggio dell’ispettore Krogh (Lionel Atwill),
con un braccio solo storpiato da bambino dal mostro infuriato
(«Nonzsi scorda facilmente, Herr Baron, un braccio completa-
menté sradicato»). Immerso in una scenografia pesantemente
espressionistica, quasi un puro distillato dei disegni di luci e
ombre di Caligari, Krogh parla della propria frustrazione da
ragazzo per essersi perso la guerra a causa della mutilazione.
Nel climax della sceneggiatura originale, poi non filmato,
Krogh guida un’azione militare di artiglieria pesante che salva
la situazione.
Il personaggio, naturalmente, non si «perse» mai la guer­
ra. Visse ancora e ancora, da soldato sonnambulo, mostro da
ospedale da campo, cacciasangue, licantropo, demone; una
creatura deforme dopo l’altra, ombre a caccia di ombre attra­
verso uno spaventoso campo di battaglia primario senza inizio,
fine, o fuga.
Fatta eccezione, naturalmente, per un nuovo tipo di guer­
ra, e mostri tutti da immaginare.

179
«Tu mi ricordi tuo padre.»
Gli orrori della guerra, parte seconda

Com’era buio dentro la pancia del lupo!

Cappuccetto Rosso

Probabilmente il vecchio ebreo del Radio City Music Hall non


si sarebbe sorpreso di scoprire che uno dei film preferiti di
Adolf Hitler era King Kong.1 II Fiihrer non ne aveva mai abba­
stanza. Dopo la prima proiezione alla Cancelleria (quando pos­
sibile, amava vedersi un film ogni sera), parlò per giorni del
mostro di celluloide. Insieme a Biancaneve e i sette nani (Snow
White and the Seven Dwarfs, 1937, di David Hand e Walt
Disney), un altro tra i suoi preferiti, King Kong occupava un
posto d’onore nel suo pantheon cinematografico privato.
Una figura come Adolf Hitler probabilmente non può mai
venire compresa appieno, ma la politica e la cultura popolare
sono sempre state strette cugine, ciascuna con un dito sul pol­
so del Zeitgeist. Una delle ossessioni hitleriane costanti ha
un’interessante corrispondenza con una forma di iconografìa
mostruosa introdotta proprio nei primi anni della seconda
guerra mondiale. Secondo lo psicobiografo Robert G.L.
Waite,

Hitler era affascinato dai lupi. Da ragazzo amava molto il


proprio nome, poiché osservava che derivava dall’antico tede­
sco Athalwolf - un composto di Athal (nobile) e Wolfa (lu­
po). Ed egli cercò di rimanere «nobile lupo». All’inizio della
carriera politica scelse come pseudonimo Herr Wolf (Signor
Lupo). I suoi cani preferiti erano alsaziani - in tedesco Wolfs-
hunde (cane lupo). Uno dei cuccioli di Biondi [il suo cane],
nato verso la fine della guerra, lo chiamò Wolf, e non permet­
teva a nessun altro di toccarlo o nutrirlo. Chiamò il proprio
quartier generale in Francia Wolfsschlucht (Tana del lupo). In
Ucraina il suo quartier generale era il Werwolf (Licantropo).2

Waite cita diversi altri esempi della mania hitleriana di

IRÒ
The Monvter Shotr

trasformare persone e oggetti in lupi, compresi il far cambiare


alla sorella il nome in «Frau Wolf», chiamare la fabbrica
Volkswagen Wolfsburg (Borgo dei lupi), spacciarsi per «il di­
rettore d’orchestra Wolf» al telefono con Winifred Wagner, e
l’attaccamento ostinato alla canzone disneyana Chi ha paura
del lupo cattivo? che fischiettava in continuazione.
Il lupo è un simbolo antico, con radici profonde nel milita­
rismo e nei campi di battaglia, con significati particolari nella
mitologia scandinava e teutonica. Gli antichi guerrieri chiamati
berserkers si dice che indossassero le pelli dei lupi e di altri
animali per accrescere la ferocia. Gollerdàmmerung, il crepu­
scolo degli dèi, era raffigurato come un lupo che divora il sole.
A guardia delle porte del Valhalla c’era un lupo. Nella tradi­
zione romana, il lupo era animale sacro a Marte, il dio della
guerra.
Il lupo è stato anche un simbolo perenne di altri tipi di
aggressione e spoliazione oltre la guerra. Secondo Barry Hol-
stun Lopez, nel suo notevole studio Of Wolves and Men, «la
mente medievale, più di qualunque altra nella storia, era osses­
sionata da immagini lupesche... I contadini chiamavano la ca­
restia “il lupo”. Gli avidi feudatari erano “lupi”. Qualunque
cosa minacciasse la precaria vita di un contadino era “il
lupo”».3
Questa specie gode da sempre - senza motivo - di una
stampa particolarmente cattiva. I classici tratti «lupeschi» di
voracità e sanguinarietà sono caratteristiche precipuamente
umane, inesistenti nel regno animale. I lupi in salute e in liber­
tà non attaccano gli uomini, né uccidono per piacere. Secondo
Lopez, tale fama negativa è «quasi interamente una proiezione
dell’angoscia umana»,4 poiché il lupo «non è un animale che
conosciamo da sempre, quanto uno che abbiamo molto imma­
ginato».5
Immagini/immaginazioni di animali antropomorfi e di uo­
mini animalizzati sono motivi antichi; le leggende sui licantropi
traggono forza da entrambe le tradizioni. Storicamente, il li-
cantropo è gemellato con le credenze sui vampiri; il Dracula
di Bram Stoker, per esempio, oltre che succhiasangue era indi­
scutibilmente un uomo lupo. Il tema del licantropo fu in gran

181
Duriti I Sfati

parte soppresso dagli adattamenti teatrali di Dracula. soprat­


tutto per le difficoltà a presentare in maniera convincente una
totale trasformazione fìsica sulla scena. Il vampiro e il licantro-
po divennero separati nella mente del pubblico; Hollywood, a
cominciare da II segreto del Tibet {"Werewolf of London, 1935),
cominciò a legare il licantropo alla formula di Jekyll e Hyde.
Nel 1940, l’immaginario lupesco stava per divorarsi la stra­
da nella coscienza popolare. La Universal Pictures, per esem­
pio, voleva realizzare un film intitolato The Wolf Man, benché
non avesse idea di che cosa avrebbe trattato (il titolo premeva
fin dal 1933, quando Robert Florey lo suggerì come adattissi­
mo a Boris Karloff). Lo sceneggiatore Curt Siodmak ricordava,
senza falsa modestia, come gli venne data - o si diede da solo
- piena libertà nella creazione dell’ultimissima icona onorifica.
«Calibrai la consegna della sceneggiatura in modo che avvenisse
il più tardi possibile», scriveva Siodmak. «Così la dirigenza non
ebbe il tempo di ingaggiare un altro scrittore che mandasse a
puttane il mio lavoro. Inoltre, alla Universa! facevano i furbi e
non gli piaceva spendere soldi per riscritture. Ecco il segreto per
ottenere un “classico”. La sceneggiatura originale dello scrittore
arrivava allo schermo inadulterata da “migliorie”.»6
L’uomo lupo {The Wolf Man, di George Waggner) distri­
buito nel 1941, era l’ulteriore incubo hollywoodiano di
un’«Europa» geograficamente indeterminata che adombrava
angosciosamente elementi di America, Inghilterra e del conti­
nente, proprio come aveva fatto alla lettera la Grande Guerra,
mentre il nuovo conflitto stava per far ricominciare tutto dacca­
po. L’Europa dei film horror americani era un pastiche quasi sur­
reale di accenti, architettura e costumi, l’impressione caotica di
un soldato/turista in una vorticosa escursione programmata.
Lon Chaney Jr., nel ruolo del licantropo Lawrence Talbot
(che a dire il vero con l’elaborato trucco di Jack Pierce assomi­
gliava più a un cinghiale selvatico che a un lupo), era una
presenza americana bizzarramente fuori luogo. Lo sceneggia­
tore Siodmak aveva concepito originariamente l’uomo lupo co­
me un tecnico americano in viaggio in Galles per installare un
osservatorio telescopico al castello di Talbot. Dietro l’insisten­
za dello studio, Siodmak cambiò il personaggio in un Talbot

1R2
The Monttrr Show

in carne e ossa, razionalizzando il suo accento americano come


risultato di un’educazione negli Stati Uniti.7 Ancora più stra­
vagante fu l’ambientazione del film in un’Inghilterra anni Qua­
ranta modernissima dove nessuno aveva mai sentito parlare di
guerra, ma sapevano tutto sui licantropi. Limitazioni e credibi­
lità furono ignorati pure dall’attrice russa Maria Ouspenskaya
nel ruolo di Maleva, un’anziana zingara che attraversava il pae­
saggio gallese con il suo carro coperto. Nel film, la Ouspen­
skaya pronunciava alcune delle più famose battute di qualun­
que horror americano, un memorabile saggio di poesia pop:

Persino un uomo che è puro di cuore


E recita la preghiera serale
Può diventare un lupo se la luparia è in fiore
E splende la luna autunnale.

Autunno o meno, la guerra hitleriana fu un fiorire di lupa­


ria, almeno nel regno della cultura popolare.
Le bestiali realtà belliche giunsero come uno shock per
innumerevoli soldati, ma un’ampia ricognizione delle condi­
zioni inumane del campo di battaglia fu sistematicamente sop­
pressa. Nel suo Tempo di guerra, Paul Fussell descrive la meto­
dica ripulitura delle immagini avvenuta per tutta la durata del
conflitto. In tutte le raccolte fotografiche popolari pubblicate
dopo la guerra, scrive, «non importa quanto gravemente ferite,
le truppe alleate non si vedono mai soffrire ciò che, nella guer­
ra del Vietnam, fu definito amputazione traumatica; ognuno
ha le proprie membra, mani e piedi e dita integri, per non
parlare delle espressioni di coraggio ed esultanza».8 La realtà
di diverse battaglie vedeva esseri umani fatti a pezzi senza
troppi complimenti. Dopo uno scambio di bombe, interi terre­
ni potevano essere ricoperti di carne umana in putrefazione e
arti spaiati. Nella storia del mondo non vi era mai stato uno
spettacolo tanto macabro e diffuso. La vicinanza dei morti, o
la prospettiva di diventare a breve termine un cadavere, poteva
portare alla follia, e spesso così accadeva. «La fame e la sete
tra i prigionieri dei giapponesi, così come tra i piloti abbattuti
alla deriva su un gommone, facevano impazzire molti», scrive

183
Dawd J. Slffil

Fussell, «e oltre a bere la propria urina, cercavano di alleviare


la sete azzannando i commilitoni alla giugulare e bevendone il
sangue.»9 (Vi è una cupa ironia nella considerazione che Dra­
cula fosse il tascabile di maggior gradimento fra quelli distri­
buiti gratuitamente alle forze armate americane nella seconda
guerra mondiale, e, come faceva notare il biografo stokeriano
Harry Ludlam, nel nome «Operazione Dracula » assegnato a
una spedizione alleata a Burma.10)
Nei cinegiornali di questo non v’era traccia; solo nell’eufe­
mismo melodrammatico dei film su Frankenstein il pubblico
poteva interrogarsi sui corpi frammentati, le cui parti potevano
in ogni momento spezzarsi per poi essere ricucite. Con i loro
cervelli e membra scomponibili, i mostri creati dagli uomini
erano i perfetti soldati-giocattolo per paure belliche semicon­
sce. Il terrore di Frankenstein {The Ghost of Frankenstein,
1942, di Erle C. Kenton) scompigliò i record d’incasso per il
genere,11 nonostante le cattive recensioni, con sorpresa della
Universal come dei distributori. L’immagine bruta del mostro,
capace di abbattere ogni ostacolo, forse fornì un’ancora di sal­
vezza al pubblico depresso del tempo di guerra.
Le immagini trasposte di uomini-animali, spesso dai tratti
lupeschi così apprezzati dai nazisti, erano sfaccettature impres­
sionanti dei film horror negli anni di guerra. (L’immaginario
«inanimai» non era ristretto ai film dell’orrore; persino il Pi­
nocchio disneyano del 1940 mostrava ragazzi indisciplinati che
si trasformavano in scimmie in una sequenza terrorizzante
quanto un’idea del dottor Moreau.) Lo stesso uomo lupo ven­
ne resuscitato per altri tre film nel corso della guerra, battendo
sia Dracula sia Frankenstein per tempo di esposizione sullo
schermo.
Il primo seguito, Frankenstein contro l’uomo lupo (Fran­
kenstein Meets the Wolf Man, 1943, di Roy William Neill) sol­
levò immediati, pur se scherzosi, paralleli bellici da parte dei
recensori. «The Hollywood Reporter» osservava: «Roosevelt
incontra Churchill a Casablanca, gli Yankee affrontano i Gialli
a Guadalcanal, e tuttavia questi eventi svaniranno nell’insigni-
ficanza per le apparentemente inesauribili legioni di fan del-
l’horror quando udiranno di Frankenstein contro l’uomo lupo.

184
Thr Momtrr Shot/'

Dacci sotto, fratello! »12 11 film è ambientato in una terra ger­


manica di pura fantasia, la Visaria, perseguitata dai mostri,
cioè il resuscitato Lawrence Talbot e la sua raggrinzita contro­
parte gitana (Maria Ouspenskaya), che vi arrivano non si sa
come dal Galles a bordo di un carro trainato da cavalli. I di­
stributori furono incoraggiati dall’ufficio stampa del film a en­
fatizzare gli aspetti «meccanici» e «animaleschi» sui loro car­
telloni, componendo le lettere nei nomi dei mostri rispettiva­
mente in metallo e pelliccia. «Metallo e pelliccia» era un com­
mento adeguato, pur se involontario, alle contraddizioni della
moderna tecnologia bellica: lo spirito dell’antico guerriero nor­
dico forgiato con la sofisticata sublimazione industriale. La pri­
ma del film a Times Square fu promossa da un enorme cartel­
lone con un’inquadratura dei demoni in lotta;13 alla base com­
pariva un’esortazione esplicita: COMPRATE TITOLI E MARCHE
DI GUERRA.
La ricerca da parte di Talbot di sedare la propria parte
lupesca in quattro film è, bizzarramente, un’inconscia parabola
dello sforzo bellico. La crociata dell’uomo lupo per la pace
eterna e i suoi tentativi frustrati di controllare le irrazionali e
violente forze dell’Europa continuarono nei film di Erle C.
Kenton per la Universal: House of Frankenstein (t. lett.: La
casa di Frankenstein, 1944) e La casa degli orrori - Al di là del
mistero (House of Dracula, 1945). I due film, in cui apparivano
Dracula (John Carradine, che per la prima volta interpretava
il personaggio come l’aveva immaginato Bram Stoker), il mo­
stro di Frankenstein (Glenn Strange), e l’Uomo Lupo (Chaney
Jr.), rappresentarono gli ultimi sussulti per i classici mostri da
studio, almeno in un contesto strettamente orrorifico (le icone
si sarebbero riunite un’ultima volta nella farsa del 1948, Il cer­
vello di Frankenstein [Abbott and Costello Meet Frankenstein,
di Charles Barton]). La saga dell’uomo lupo fu il mito mo­
struoso più importante e duraturo del periodo bellico, spun­
tando nel primo anno del coinvolgimento diretto dell’America,
per tramontare appena in tempo per Hiroshima.
«I film dell’orrore hanno reso tantissimo alla Universal»,
riferiva «Variety» nell’estate del 1944. «Per la fine dell’anno i
brividi e la tensione avranno versato non meno di dieci milioni

185
David J Skal

di dollari in profitti nelle casse della compagnia nei tredici anni


trascorsi da quando Frankenstein sollevò la sua paurosa testa
per la prima volta.» L’organo dell’industria osservava che il
mercato per i mostri «era in gran parte ristretto al continente
americano, poiché l’Inghilterra nello stesso periodo ha bandito
tutti i film dell’orrore con l’esplicita motivazione che gli spa­
venti non sono adatti al pubblico cinematografico che soffre
già tanti orrori bellici». Ma «Variety» opinava che il lucroso
mercato «con ogni probabilità sarà ristabilito immediatamente
dopo la cessazione della guerra in Europa».14
L'uomo lupo generò epigoni, soprattutto The Undying
Monster (t. lett.: H mostro non morto, 1942, di John Brahm)
della Twentieth Century Fox e Cry of the Werewolf (t. lett.: 11
grido del licantropo, 1944, di Henry Levin) distribuito dalla
Columbia. Altre forme deevolutive si rivelarono popolari: Bela
Lugosi apparve nei thriller «parenti poveri» della Monogram
The Ape Man (t. lett.: Lo scimmione, 1943, di William Beaudi-
ne) e Return of the Ape Man (t. lett.: Il ritorno dello scimmio­
ne, 1944, di Philip Rosen).
Uno tra i più memorabili film di mostri degli anni Quaran­
ta, con una considerazione critica in costante ascesa, fu II bacio
della pantera {Cat People, 1942), un prodotto RKO a basso
costo che imitava le formule orrorifiche Universal (un successo
invidiabile). Come L’uomo lupo, Cat People era in origine un
titolo provvisorio, suggerito dal vicepresidente incaricato alla
produzione della RKO, Charles Koerner. Val Lewton, un tren­
tasettenne con precedenti di correttore di sceneggiature per
David O. Selznick senza un debole particolare per il genere
orrorifìco, fu scelto da Koemer come produttore. Alla regia
c’era Jacques Tourneur. Lewton - come il Vitus Werdegast di
Lugosi - era un ailurofobo, che tuttavia sfruttò l’occasione per
inaugurare un ciclo artisticamente e finanziariamente redditi­
zio di terrificanti film psicologici d’atmosfera, basati su ombre
e sottrazione invece che su rozzi effetti speciali al trucco.
Il bacio della pantera era stato originariamente concepito
come una storia bellica contemporanea.15 Nel primo tratta­
mento di Lewton, una divisione di panzer nazisti invade un
villaggio balcanico. Gli abitanti non oppongono resistenza im­
The Mthi tier Sfatte

mediata. Non ne hanno bisogno: di notte riescono a trasformarsi


in giganteschi felini e fanno strage degli oppressori. Lewton im­
maginava una ragazza del villaggio che finiva a New York, tra-
scinadosi dietro la maledizione del popolo delle pantere.
I nazisti furono eliminati, ma il personaggio della ragazza
pantera rimase il perno della sceneggiatura definitiva, scritta
da DeWitt Bodeen. Irina Dubrovna (l’attrice francese dal volto
infantile Simone Simon), disegnatrice di moda newyorkese,
sposa un ingegnere navale, Oliver Reed (Kent Smith), ma non
riesce a consumare l’unione a causa della paura che il sesso la
trasformi in una belva feroce. Confessa le proprie ossessioni a
uno psichiatra, il dottor Louis Judd (Tom Conway), che trova
in lei una sfida sia umana sia professionale. Quando il marito
frustrato comincia a rivolgersi a un’altra donna, Alice Moore
(Jane Randolph), ecco montare la gelosia di Irina. Lo psichia­
tra la incoraggia ad abbandonarsi alle sensazioni che la terro­
rizzano, preferibilmente in sua compagnia. Lei rifiuta. Nella
sequenza più celebre del film, Alice è intrappolata in una buia
piscina d’albergo mentre una ringhiarne belva invisibile vaga
in cerca di preda. Tornata la luce, non è visibile alcun felino:
solo Irina. Quando Judd penetra nel suo appartamento, con
un forte desiderio sessuale, lei reagisce trasformandosi in un
mostro e riducendolo a brandelli. Ferita lei stessa, riesce ad
arrivare alla gabbia delle pantere nello zoo di Central Park, un
luogo che l’ha sempre affascinata. Apre la gabbia, e i felini
*
liberati la travolgono a morte.
Benché II bacio della pantera venisse sommariamente liqui­
dato dal «New York Times» come una noia totale (un giudi­
zio che oggi appare quasi incomprensibile, considerata la sua
regia magistrale, tanto ammirata e imitata), il film fu un grosso
successo, incassando quattro milioni di dollari a fronte di un
investimento di 118.948 dollari - un guadagno stupefacente di
quasi il 3500 per cento.16

* Le sequenze allo zoo di 11 bado della pantera ricordano da vicino, e forse ne


sono state ispirate, le scene del Dracula di Bram Stoker dove il conte mostra
un’analoga affinità con un lupo in gabbia allo zoo di Londra. Anche il tema
ricorrente del film - l’equazione tra risveglio sessuale di una donna repressa
c orrore predatorio - deve molto a Stoker. (N.d.A.)

187
David I Skal

I pedanti censori non diedero grandi guai a // bacio della


pantera, forse per il tono complessivamente sfumato. L’Ufficio
Breen obiettò solo ai dettagli di una scena al ristorante: «A
questo punto bisognerebbe minimizzare l’alcol, e suggeriamo
di mostrare Oliver mentre beve birra invece che bicchieroni di
scotch... Sarebbe forse consigliabile mostrarli seduti a tavola,
piuttosto che al bar, magari mentre consumano anche dei tra­
mezzini». 17 Le pantere che si accanivano su resti umani, appa­
rentemente, non causavano soverchio allarme, finché consu­
mavano i loro pasti nell’oscurità.
Lewton si spinse ancora più a fondo nelle penembre psi­
cologiche, producendo diverse altre pellicole dell’orrore alla
RKO tra cui L’uomo leopardo (The Leopard Man, 1943) e Ho
camminato con uno zombi (I Walked with a Zombie, 1943, di
Jacques Tourneur), Il giardino delle streghe (The Curse of the
Cat People, 1944, di Robert Wise e Gunther von Fritsch) e La
iena (noto anche come L’uomo di mezzanotte [The Body Snat­
cher, 1945, di Robert Wise]) con Boris Karloff nel suo ruolo
migliore, un resurrezionista nella migliore tradizione Burke &
Hare.
La tecnica lewtoniana - lasciare che il pubblico si creasse
mentalmente i dettagli orrorifici - fu ampiamente elaborata
negli anni prima e dopo la guerra in un altro medium. Un
programma radiofonico di quindici minuti, inaugurato nel
1934 in una stazione di Chicago da Wyllis Cooper, fu ripreso
dallo scrittore-produttore Arch Oboler che diede forma all’i­
dea nella leggendaria serie radiofonica Lights Out sulla stazio­
ne NBC. Oboler scriveva anche storie tradizionali, ma è ricor­
dato di più per Lights Out, il più terrificante dei gialli radiofo­
nici, spesso sconfinante nell’horror puro con storie di gigante­
schi cuori di gallina che divoravano il mondo, persone spellate
o sepolte vive. Diverse sconvolgenti immagini mentali veniva­
no create con i mezzi più semplici. Pancetta sfrigolante acco­
stata al microfono suonava come una scarica elettrica. Le ossa
rotte venivano simulate con una chiave inglese che spezzava
costolette di maiale. Il viscido rumore di pasta stracotta poteva
suggerire il cannibalismo.18 L’innovativo uso degli effetti so­
nori da parte di Oboler per creare terrore e suspense era impa-

188
The Montier Show

rcggiabilc - c ciò non sorprendeva, dal momento che lui stesso


aveva inventato diverse tra queste tecniche, e furono esibiti al
massimo dell’intensità emotiva quando Oboler drammatizzò il
romanzo antibellico di Dalton Trumbo E Johnny prese il fucile
(1939). La storia di un reduce della prima guerra mondiale
privo di braccia, gambe e volto superava persino Lon Chaney
e Tod Browning nei dettagli fisici orrorifici e fu considerata
«infilmabile» per diversi anni. (Un adattamento cinematogra­
fico fu prodotto finalmente dallo stesso Trumbo nel 1971.) La
radio, comunque, era in grado di eludere obiezioni censorie
insormontabili nella Hollywood intorno al 1940.
Lights Out fu programmato dalla NBC nella stagione 1938-
39, e ripreso nel 1942-43. In quest’ultima occasione la guerra
era in pieno corso, e le sceneggiature di Oboler (per questa
così come per altre serie drammatiche), assunsero un tono pro­
pagandistico, 19 espresso con le ben affilate tecniche del melo­
dramma horror. Il pubblico veniva incoraggiato, con istruzioni
ossessive, quasi ipnotiche, a immaginare un’America conqui­
stata dai tedeschi, o soldati giapponesi che incombevano mi­
nacciosi proprio dietro l’angolo. I brividi, superfluo aggiunger­
lo, erano garantiti.

Fino a Pearl Harbor, in America vi erano due posizioni


distinte nei confronti dell’entrata in guerra. L’umore antibelli­
co e isolazionistico fu compendiato nella vignetta vincitrice del
Premio Pulitzer nel 1937, opera di C.D. Batchelor. Una prosti­
tuta accoglie un giovanotto imberbe su una scala, dicendogli:
«Non farti pregare. Ti farò un trattamento speciale. Tu mi
ricordi tuo padre». Il ragazzo non sembra curarsi che in cima
al suo prosperoso busto troneggi un teschio. Vista oggi, la ta­
vola assomiglia in maniera impressionante a una copertina doc
di « Weird Tales». John L. Balderston, autore in prima perso­
na di diversi racconti dell’insolito, già responsabile in gran mi­
sura dei successi teatrali e cinematografici di Dracula e Fran­
kenstein, si era allora essenzialmente ritirato dal mondo dei
mostri, tornando al suo primo interesse professionale, la politi­
ca dell’impegno militare. Considerata la sua educazione e
istruzione quacchera, la precoce carriera di Balderston come

189
Dava! J. Sitai

corrispondente di guerra è tanto curiosa quanto è sorprenden­


te il suo fervido sostegno all’entrata dell’America nella seconda
guerra mondiale. Tuttavia era appassionatamente convinto che
l’America non potesse rimanere neutrale nel conflitto europeo,
e prestò il proprio nome a diverse organizzazioni, petizioni, e
campagne per rompere lo stallo isolazionista.
Circolava un certo senso di fatalità circa l’inevitabile di­
chiarazione di guerra, anche se Pearl Harbor giunse come un
vero e proprio shock. Fritz Leiber, il celebre scrittore horror
e fantasy allora solo all’inizio della carriera, ricordava come la
diffusa angoscia di guerra influenzò la composizione del suo
primo romanzo, Conjure Wife, ora considerato un classico nel
suo genere: «Ero circondato da questa sensazione di terrore...
minaccia e terrore».20
Nell’ultimo anno di guerra, sia la metafora vampiro/cam-
po di battaglia che aveva ispirato Nosferatu sia il motivo autori-
tario/mesmerico di Caligari si potevano riconoscere in un film
intitolato - in maniera decisamente azzeccata per il nuovo con­
flitto - The Return of the Vampire (t. lett.: D ritorno del vampi­
ro, di Lew Manders e Kurt Neumann). Distribuito dalla Co­
lumbia Pictures nel 1943, avrebbe segnato l’ultima apparizione
di Bela Lugosi come vampiro hollywoodiano in un film non
farsesco. The Return of the Vampire è uno di quegli affascinan­
ti film spazzatura che, basandosi su cliché precotti e diretto
a un vasto pubblico, finisce per veicolare involontariamente
sottotesti storici. E la storia di Armand Tesla (Lugosi), un vam­
piro che impazza per Londra durante la prima guerra mondia­
le. Appena in tempo per l’armistizio, si becca una lancia in
mezzo al cuore e viene seppellito in una tomba segreta.
Anni dopo, durante la guerra-lampo, la tomba del vampiro
viene colpita in pieno da una bomba tedesca. Alcuni sminatori
ritengono che la lancia sia l’innesco di una bomba e la estrag­
gono, liberando il vampiro che continuerà a bere per tutto il
periodo della guerra. Tesla reclama l’anima di una precedente
vittima, Andreas Obry (Matt Willis), che diventa un licantropo
al servizio dei non-morti. Tesla assume l’identità di uno scien­
ziato fuggito da un campo di concentramento e si dedica alla
vendetta, attaccandosi alla mammella della famiglia che un

190
I'hc Momtrr Show

tempo l’aveva ucciso. Un’altra bomba tedesca pone appropria­


tamente fine ai suoi piani per il dominio del mondo. I recenso­
ri lo presero sul serio. «In un posto come l’Inghilterra», scrisse
un critico newyorkese, « dove secondo certo cinema gli antichi
cimiteri sono praticamente disseminati di cadaveri vampire-
schi... è un’inezia che al culmine del periodo dei bombarda-
menti uno di questi personaggi impalati resti incastrato dalla
metropolitana».21
Lugosi portò Dracula in teatro durante la guerra e, come
molte altre star hollywoodiane, fece diverse apparizioni solle-
va-morale in occasione di pranzi tenuti nelle postazioni difensi­
ve sulla costa occidentale. Il suo biografo Robert Cremer cita
Buddy Hyde, un ufficiale dei servizi speciali che organizzava
le tournée: «A Eddie Cantor erano necessari venti minuti solo
per riscaldare l’ambiente. Quando Bela saliva sul palco, gli uo­
mini applaudivano tanto a lungo che riusciva a malapena a
presentarsi. Esercitava un richiamo pacato; nessuna parodia di
Dracula o roba del genere, ma il pubblico lo adorava. Avrei
potuto portare divi hollywoodiani di grande fascino, ma nessu­
no avrebbe potuto eguagliarlo. Fu suo il benvenuto più caloro­
so per ciascun aderente al programma morale».22 Nei primi
anni Quaranta Lugosi interpretò più cattivi del tempo di guer­
ra che demoni soprannaturali; una delle sue apparizioni più
sfolgoranti avvenne in Black Dragons (t. lett.: I draghi neri,
1942, di William Nigh), nei panni di un chirurgo plastico che
altera i connotati di agenti giapponesi tanto da consentir loro
di impersonare un gruppo di industriali americani.
Boris Karloff, mentre appariva a Broadway in Arsenico e
vecchi merletti, prestava anche servizio come guardia della
contraerea in una stanza sotterranea del Beekman Hotel fra la
63“ e Park Avenue. Il suo turno, ricordava la lettrice del «New
York Times» Nancy Farrell in una lettera al direttore dopo la
morte dell’attore nel 1969, cominciava guarda caso a mezza­
notte. «Nella postazione di allarme aereo Karloff teneva pru­
dentemente abbottonato il cappotto di buon tweed inglese.
Portava occhiali a giorno. Era magro e non particolarmente
alto. Insisteva perché noi due di guardia ci affrettassimo verso
casa e ci assicurava che era lieto di cominciare presto il turno. »

191
Dat’itl I Slral

La Farrell £u impressionata dalla sua distanza dal torreggiarne


mostro di Frankenstein che tanto l’aveva terrorizzata da ragaz­
zina. «Riuscivo solo a pensare alla tranquilla affidabilità di un
gentiluomo responsabile delle vite di migliaia di suoi vicini. Mi
dava l’impressione che avrebbe preferito svolgere quel servizio
a Londra e che si imponesse la stessa disciplina che avrebbe
osservato durante un’incursione. »23
Negli ultimi giorni di guerra, Londra fu presa d’assalto
ancora una volta, non dai nazisti, ma dalle tele orrorifiche di
un pittore autodidatta, allora quasi sconosciuto nei circoli arti­
stici. Il trentacinquenne Francis Bacon non aveva prestato ser­
vizio nell’esercito del Regno Unito (era stato riformato a causa
di un’asma cronica), ma era dai tempi di Guernica di Picasso
(1937) che un artista non riusciva a catturare l’incubo primario
della guerra in maniera tanto devastante. L’artista spagnolo
aveva distorto la figura umana, ma Bacon oltrepassava l’umano
e puntava dritto al mostruoso. Il critico d’arte John Russell ha
così descritto l’impatto di studi per figure alla base di una
crocifissione alla Lefevre Gallery nell’aprile 1945:

Alla destra della porta vi erano immagini così irrimediabil­


mente orribili che la mente si sbarrava alla loro vista. La loro
anatomia era mezzo umana, mezzo animale, ed erano confina­
te in uno spazio dal soffitto basso, privo di finestre e dalle
proporzioni distorte. Potevano mordere, perlustrare e suc­
chiare, e avevano lunghissimi colli anguilloidi, ma le loro fun­
zioni erano per altri aspetti misteriose... Comune a tutte le
figure era una voracità assoluta, una ghiottoneria meccanica
e sregolata, una furiosa, indifferenziata capacità di odio. Cia­
scuna era come confinata, in attesa solo di un’occasione di
trascinare l’osservatore al proprio livello.24

I mostri della galleria baconiana erano contorti più di qua­


lunque altra cosa mai presentata in pubblico (eccezion fatta
forse per John Merrick, l’Uomo Elefante orribilmente sfigura­
to che aveva catturato l’attenzione della società vittoriana). Per
l’epoca, incubi tanto stravaganti oltrepassavano la capacità tec­
nica e la tolleranza emotiva dei media a larga diffusione. Ma
sarebbe venuto il loro tempo. Nella primavera del 1945, il

192
The Munilcr Sbotv

inondo era ancora ignaro della bomba atomica, e a stento ave­


va cominciato a figurarsi la realtà di Auschwitz.

I medici nazisti alla guida dei campi di concentramento


personificavano diversi conflitti psicologici drammatizzati nei
primi film dell’orrore tedeschi e nel genere americano da que­
sti ispirato. Lo psichiatra Robert Jay Lifton, che molto ha scrit­
to sul tema dell’adattamento a condizioni di vita estreme, defi­
nisce il processo di «sdoppiamento» per cui nella stessa perso­
na possono trovare dimora un guaritore e un assassino, con il
dottore «buono» che crea un dottore «cattivo» autonomo per
portare avanti il lavoro sporco della fabbrica della morte: «La
seconda identità funziona pienamente come un io vero e pro­
prio; per questa ragione è tanto adattabile e pericolosa. Con­
sente a una persona relativamente normale di commettere il
male. Possiede una dimensione vita/morte, in cui il perpetrato-
re supera la propria paura della morte con il coinvolgimento
nell’uccisione di altri».25
In I medici nazisti, lo studioso esplora questo processo di
letale rispecchiamento:

I medici presi come categoria possono essere più suscettibili


allo sdoppiamento di altri... Ciò di norma si verifica nell’in­
contro con il cadavere da dissezionare, molto spesso già il
primo giorno di scuola medica... Poiché certi studi hanno
suggerito che una motivazione psicologica per entrare nella
professione medica può essere il superamento di una spropo­
sitata paura di morte, è possibile che questa paura li spinga
nella direzione di uno sdoppiamento quando incontrano un
ambiente di morte. I clinici attirati nel movimento nazista in
generale, e nelle SS o nella medicina dei campi di concentra­
mento in particolare, erano forse quelli più a rischio di sdop­
piamento medico.26

Lifton confronta la situazione dei medici nazisti con il pat­


to faustiano illustrato nel film tedesco sul doppio Lo studente
di Praga [Der Student von Prag, 1913, di Stellan Rye). In quella
storia, un’immagine allo specchio riceve vita autonoma, e di­
viene un assassino. «Sdoppiamento clinico» è una buona de­

193
Ddt'/tl J Skill

scrizione pure della dinamica sotterranea a Jekyll c I lydc, dove


un guaritore cela un doppio/distruttore. La malvagia fascina­
zione del dottor Josef Mengele per i gemelli ha una chiara
risonanza con lo sdoppiamento e le seconde identità; curiosa­
mente, Lifton non esplora questa metafora nei dettagli della
personalità di Mengele.
Indulgendo al sadismo mascherato da scienza disinteressa­
ta, le inutili e atroci «ricerche» condotte dai medici nazisti
uguagliavano non a caso le tipiche attività dei folli scienziati
cinematografici degli anni Trenta e Quaranta. Nei film, scien­
ziati impazziti inventavano strumenti di distruzione di massa,
o conducevano crudeli esperimenti, spesso per creare razze di
esseri nuovi, mutati, o superiori (i film di Frankenstein, Il dot­
tor Miracolo, Island of Lost Souls ecc.). Questi folli erano spes­
so ossessionati da qualche sogno di dominio sul mondo (il
Roxor di Lugosi in Chandu the Magician [t. lett.: Chandu il
mago, 1932, di William Cameron Menzies e Marcel Varnel]),
fìssati con la purezza di qualche teoria (Il dottor Jekyll} o esa­
gerati standard estetici (La maschera di cera). La narrativa
pulp, i film e i serial degli anni Quaranta senza dubbio attinge­
vano alla conoscenza contemporanea, pur se parziale, degli
scopi di fondo del Terzo Reich in materia di scienza, eugeneti­
ca e cultura, ma la presenza di una scienza ormai sdoppiata
nei primi film degli anni Trenta suggerisce una più vasta ambi­
valenza moderna verso le conseguenze dello scientismo iperra-
zionale. In America questi temi furono volgarizzati come pas­
satempo orrorifico. In Europa furono invocati per richiamare
demoni reali.

Èva Berkson, attrice di origine inglese che aveva gestito il


Grand Guignol a Parigi fin dal 1937, fuggì a Londra nel 1940
quando i nazisti si stavano avvicinando.27 Camille Choisy, di­
rettore del teatro nei tardi anni Venti, ritornò ai suoi crimini
scenici, e trovò nelle truppe di occupazione nazista un nuovo
pubblico redditizio. Secondo lo storico del Grand Guignol
Mei Gordon, «gran parte del repertorio era rivolto ai vecchi
spettacoli di Choisy, e il teatro divenne molto popolare fra
le truppe nemiche. Gli spettacoli piacquero in particolare a

194
The Mofitfer Show

1 Icnnann (Idling; ma per la Gestapo e Pelite delle SS, il Grand


( àiignol - con la sua violenza gratuita e i suoi lascivi intermezzi
pornografici - era solo l’ultimo esempio di Untartele Kunst (“ar­
te degenerata”) ».28 Gordon osserva che i censori nazisti si sfor­
zarono inutilmente di chiudere l’edifìcio; ci si chiede cosa li ab­
bia trattenuti. Forse era difficile sfidare ciò che soddisfava i gusti
personali di Goring. Mentre viveva al Ritz, pare che il corpulen­
to gerarca avesse chiesto alla stilista Coco Chanel di disegnargli
abiti da donna, il massimo per il relax di un condottiero.
L’immagine delle truppe d’assalto naziste che si affollava­
no in un vicolo cieco di Montmartre per sghignazzare su pièce
orrorifiche che eguagliavano ciecamente i mostruosi esperi­
menti medici allora ricercati dai dottori tedeschi è perversa­
mente surreale. Ancora più brutti erano i reali crimini alla
Grand Guignol di un medico collaborazionista, Marcel Petiot,
die offriva salvacondotti agli ebrei. Una volta ricevuto il paga­
mento, li cremava nella sua cantina di Parigi.
Anche Camille Choisy fu definito collaborazionista, il che
può aver contribuito a mantenere aperto il teatro nonostante
la disapprovazione ufficiale. Solo la sua morte, per cause natu­
rali, impedì un processo dopo la guerra. Èva Berkson tornò
dopo la liberazione, e riassunse il controllo del teatro per altri
sei anni. Ma trovò il suo pubblico cambiato. «In realtà», disse
a «Time» nel 1947, «sono quasi giunta alla conclusione che
l’unico modo per terrorizzare il pubblico francese dopo la
guerra è fare a pezzi una donna - ovviamente viva - sulla scena
e gettar loro i pezzi.»29
Con l’arrivo delle truppe americane, in un quotidiano pa­
rigino apparve un titolo vistoso: «Sangue e budella» al Grand
Guignol. Non era una nuova farsa (come certi spettatori erro­
neamente pensarono), ma un servizio su una celebrità in vista
a rue Chaptal. H vecchio «Blood and Guts» in persona, il
generale George Patton, aveva sostituito Hermann Gòring co­
me ospite d’onore.
L’Europa era stata liberata. E nonostante le apprensioni
di Èva Berkson, lo spirito del Grand Guignol non era affatto
morto. La sua vita in realtà era appena iniziata, anche se non
sarebbe mai più apparso così pittoresco.

195
I drive-in sono i migliori amici dei mostri.
L’horror negli anni Cinquanta

Bene, bene. Vedo che avete ancora fame di


orrori; be’, tranquilli. Il vostro appetito sarà
saziato. A dire il vero, una volta finito questo
putrido giornaletto l’appetito ve lo potete
scordare. Quindi non statevene lì impalati,
entrate, forza.

Introduzione del Custode della Cripta, maestro


di cerimonie fumettistiche, in The Vault of Hor­
ror. (1952)

La nuova prosperità americana dei primi anni Cinquanta fu


conquistata in cima alla più grossa pila di ossa umane della
storia. La seconda guerra mondiale aveva preteso le vite di più
di quaranta milioni fra soldati e civili e introdotto due forme
radicalmente nuove di morte meccanizzata - la bomba atomica
e il campo di sterminio - che sfidarono seriamente la capacità
della mente umana di assorbire, o almeno fronteggiare, il nudo
volto dell’orrore di metà secolo. E appena cinque anni dopo
la caduta di Germania e Giappone, l’America si trovava di
nuovo in guerra - ora definita un’«azione di polizia» -, in Co­
rea, dove aleggiava lo spettro della bomba a idrogeno, cupa
necrotecnologia scomodamente condivisa con i sovietici. Se
l’America nel 1950 profumava di vernice di nuove automobili,
era ancora permeata dal lezzo della morte in massa, e dalla
minaccia che il peggio era di là da venire.
Molti americani trovarono più agevole non affrontare di­
rettamente l’angoscia dell’invasione e dell’annichilimento; ne
individuarono un’espressione indiretta nel maccartismo, nella
mania per gli Ufo, e, forse più facilmente, nel medium popola­
re di sanguinosi e sensazionalistici fumetti di cui dalla fine del­
la guerra era aumentata costantemente la circolazione. Erano
la principale forma di passatempo tra i coscritti; in Corea non
c’è dubbio che l’horror (insieme ai fumetti di guerra) abbia

196
The Monter Shou1

fornito a molli soldati una valvola di sfogo in stile M.A.S.ll.


(/</., 1970-, di Robert Altman): umorismo mordace e cinismo
socialmente terapeutico. Le cifre di diffusione dei fumetti all’i­
nizio degli anni Cinquanta fanno tuttora impressione: nel 1950
ogni mese venivano stampati e distribuiti 50 milioni di albi a
fumetti,1 letti prevalentemente da adulti (il 54 per cento, se­
condo uno studio effettuato a Dayton nell’Ohio) e per il 40 per
cento degli americani dagli otto anni in su. Nel 1953, horror e
giallo orrorifìco costituivano un quarto della produzione totale
di fumetti.2 Gli americani leggevano di più i fumetti piuttosto
che il «Reader’s Digest» o «The Saturday Evening Post».
Benché le loro radici risiedessero nelle consolidate tradi­
zioni della letteratura pulp, con un’ispirazione ulteriore nel
melodramma radiofonico e nelle convenzioni del film noir, i
fumetti horror erano fondamentalmente diversi da qualunque
cosa mai pubblicata in America. I più influenti e imitati (ma
non i più numerosi) erano i titoli pubblicati dall’Entertaining
Comic Group. La linea editoriale E.C. comprendeva «Tales
from the Crypt» (1950-55), «The Vault of Horror» (1950-
1954) e «The Haunt of Fear» (1950-54).
Il cataclisma della peste medievale aveva fatto diventare la
Danza macabra un motivo culturale dominante; l’immaginario
dei fumetti horror nell’America postbellica presentava un’este­
tica popolare singolarmente analoga. Come le incisioni di Hans
Holbein il Giovane, questa nuova danse macabre traeva profit­
to da un’arte grafica facilmente riproducibile per diffondere
immagini di corpi putrescenti, ritornati dalla morte per trasci­
narvi i vivi. Benché la tipologia di storie macabre fosse varia,
raramente un albo a fumetti horror non conteneva almeno
un’avventura che seguisse questa classica formula. La satira
sociale, una componente forte dell’antica Danza macabra, era
fondamentale anche nel fumetto horror. La morte, sotto forma
di cadavere in movimento, veniva ripresentata fino alla nausea
come una forza soppesante e livellatrice, che si faceva beffe
della vanità umana e dell’avidità materiale. «E strano fino a
che punto si spingesse quella roba», ricordava Russ Heath,
artista Marvel e D.C. «All’inizio non me ne ero accorto, per­
ché diventò più bizzarra progressivamente, e infine ecco tutta

197
Duriti / Ska/

questa carne marcia che spenzolava dalle costole. »J Le storie


presentavano inevitabilmente un elemento di vendetta indivi­
duale (una deviazione dalla classica Totentanz), incoraggiando
così il lettore a identificarsi, e in modo trionfante, con la Morte
come personaggio simpatetico. Mentre Holbein e altri come
lui illustravano la Danza macabra come una specie di polonaise
funebre, la «danza» dei fumetti horror stava nella loro formula
narrativa rituale. Se il rigido moralismo delle storie tipo non
fu riconosciuto dai loro (parimenti occhiuti) critici fu forse
perché quelle storie scorrazzavano sfrenatamente tra morali­
smo, sadismo, e nichilismo tout court, talvolta confondendo il
tutto. Nella concezione americana dei fumetti horror, la mora­
lità era uno stato di grazia conseguibile solo da morti viventi e
folli assassini. Il mondo lo correggeva solo un fetido cadavere
strisciato fuori dalla tomba per vendicarsi sui vivi, o, secondo
la lucida follìa fumettistica, uno stizzito coniuge suburbano
che trovava requie postbellica cucinando alla brace il o la con­
sorte sulla griglia in giardino. Per gli sventurati vivi e sani la
società era un film noir che scorreva in un nastro senza fine.
L’istituzione del matrimonio esisteva solo come apprendistato
all’omicidio. Nessuna buona azione sarebbe rimasta impunita.
La visione del mondo implacabilmente cupa della Enter­
taining Comics era amplificata dagli energici stili espressivi di
artisti come Jack Davis, Johnny Craig, e, forse il più brillante,
lo «Spettrale» Graham Ingels, la cui formazione accademica
accrebbe enormemente l’impatto delle storie in tutte e tre le
serie onorifiche E.C., specialmente in «The Haunt of Fear».
Ingels, più tardi descritto da un collega «come un John Ken­
nedy squattrinato», si specializzò in ghigni simili alle infernali
caricature di Daumier; persino nelle sequenze di raccordo rela­
tivamente tranquille, i suoi personaggi segaligni parevano in
preda ad attacchi epilettici, nausee e shock. Caratteristici erano
i rivoli di bava che sgocciolavano come ragnatele penzolanti
dalle bocche spalancate dei personaggi; corpi arcuati e contorti
riempivano ogni quadro nelle pose più scomode immaginabili.
Non c’era tregua in una storia di Ingels; persino l’inchiostratu-
ra ai bordi si irradiava in conformazioni a onda reminiscenti
dell’ Urlo di Munch.

198
Thr Mon\tcr Slu>it<

Una delle storie più memorabili di Ingcls su «The Haunt


of Fear» fu Wish You Were Here (Vorrei che fossi qui), ag­
giornamento perverso del racconto Le zampe di scimmia di
W.W. Jacobs, dove i tentativi di una moglie per aiutare i decli­
nanti affari del marito tramite una statuetta di giada dei deside­
ri avevano esiti terrificanti. Il suo primo desiderio - denaro -
ha come conseguenza la morte del marito in un incidente stra­
dale e un grosso premio assicurativo. Ricordandosi l’errore
della madre (che riesce a riavere il figlio morto, ma sotto forma
di frollato cadavere semovente), la moglie esprime il desiderio
che il marito le venga restituito com’era immediatamente pri­
ma dell’incidente. Di nuovo i suoi calcoli si dimostrano errati:
risulta che era morto di infarto un attimo prima dell’impatto,
così si ritrova nuovamente tra le mani un cadavere. Infine, usa
l’ultimo desiderio semplicemente per richiederlo vivo. Il mari­
to si sveglia, urlando dal dolore - si era dimenticata che era
già stato imbalsamato, e le vene gli bruciano di formaldeide.
Gli scarica un fucile contro il corpo preda di convulsioni. Non
serve a nulla. Lei lo voleva vivo, e vivo deve restare. «Fa’ qual­
cosa!» grida lui. Lei va in cucina e prende il coltello più
grande...

E persino quando Jason non potè più emettere un suono...


quando il frenetico tagliare di Enid lo aveva ridotto a un
milione di frammenti sminuzzati, ognuno di loro si muoveva
e si torceva e si agitava di vita. Il signor Shiner al suo ritorno
la trovò ancora lì che tagliava... tagliava... tagliava... gli uomini
col camice bianco arrivati per portare via Enid... NON SI
ACCORSERO NEANCHE PER UN MOMENTO DELLE MI­
NUSCOLE, PULSANTI PARTICELLE TAGLIUZZATE...4

L’illustrazione che accompagnava il testo della folle Enid


china sulla cesta ricolma di fresca purea coniugale rappresenta
a seconda dei punti di vista lo zenit o il nadir dell’estetica
orrorifica viscerale E.C. La distruzione del corpo umano è così
completa, tanto ferocemente esagerata da risultare affine più
al danno inflitto da artiglieria o fuoco di mortaio che da qua­
lunque utensile da cucina. Queste immagini in flashback, come

199
Dtiriti J .V/w/

lo stesso marito di Enid, parevano senza scampo. Il matrimo­


nio e il focolare domestico potevano irrompere nel campo di
battaglia del massacro a ogni istante. La storia epitomizza an­
che la sensibilità alla Totentanz sottesa alla maggior parte dei
fumetti horror: l’aspirazione materiale è una follia impossibile
e maledetta, un rovesciamento della propaganda postbellica.
Nonostante la trionfale esibizione di sangue e budella, i
fumetti horror puzzavano di moralismo lontano un chilometro,
nella migliore tradizione di Jonathan Edwards, o degli affre-
scatori medievali che avevano ispirato Holbein. Ma diversi cri­
tici dalla mentalità ristretta non coglievano assolutamente tali
ovvie sfumature.
Il nemico principale dei fumetti dell’orrore era il dottor
Fredric Wertham, uno psichiatra di Gramercy Park incidental­
mente emigrato in America circa nello stesso periodo del Gabi­
netto del dottor Caligari, all’inizio degli anni Venti. Alto un
metro e novanta, con penetranti occhi azzurri, era veramente
una presenza svettante, intimidatrice, simile a Nosferatu... al­
meno dal punto di vista dell’industria del fumetto. A partire
dai tardi anni Quaranta, aveva pubblicato articoli ferocemente
critici dei fumetti, che considerava la causa diretta di un incre­
mento di delinquenza giovanile. La sua attenzione era mono­
maniacale, e stringente nella sua semplicità. La delinquenza
giovanile non era un prodotto della disgregazione postbellica
dei modelli familiari, o della distribuzione ineguale dei beni
nel dopoguerra, o di qualsiasi altro fattore reale: erano i fumet­
ti a provocare il danno, incitando direttamente alla violenza
criminale, alla perversione sessuale e persino alla miopia.
La prova esibita da Wertham per le proprie affermazioni
era puramente aneddotica, in linea con la conoscenza dei co­
munisti al governo da parte del senatore Joseph McCarthy.
Wertham sfidò i giornali professionali a farne un caso sulla
stampa popolare - le riviste femminili amplificarono il suo al­
larme - e la sua crociata culminò in un libro di successo, Seduc­
tion of the Innocent, publicato dalla Rinehart nel 1954, che
fece breccia nel bisogno radicato di lettori, disperatamente in
cerca di un esorcismo, di credere che la società si era mutata
in una sfrenata camera degli orrori. «I giochi dei bambini per

200
Thr Mointer Show

strada sono ora di una violenza in precedenza sconosciuta»,


scriveva Wertham. «I piccoli, dalle cui tasche spesso spuntano
albi a fumetti, giocano al massacro, impiccagione, linciaggio,
tortura.»5 Wertham biasimava soprattutto l'orrore, ma disap­
provava quasi nella stessa misura gli altri generi fumettistici.
(«Qual è il significato sociale di questi superuomini, superdon­
ne, superamanti, superragazzi, superragazze, superpaperi, su-
pertopi, supermaghi, superpetardi? Come ha fatto Nietzsche a
entrare all'asilo?»6) Accusava Batman e Wonder Woman di
fornire ai pargoli modelli di condotta «omosessuale». I pre­
sunti bambini che cita a esempio non parlano affatto come tali
(in risposta a una domanda sui suoi progetti da grande, un
innocente cinguettò: «Voglio fare il maniaco sessuale!»); ma
poiché si trovavano evidentemente sotto il dominio pigmalio-
nico degli editori di fumetti, la bizzarria dei loro contorti di­
scorsi con il medico poteva forse passare inosservata.
Wertham includeva nel suo libro alcune delle immagini
più sensazionali che aveva potuto scovare (e francamente
avrebbe potuto trovarne di peggiori). Un'illustrazione in parti­
colare divenne un classico, ed egli la esibì con tutte le sue
maiuscole di fronte a un’udienza di una sottocommissione del
Senato sull'industria dei fumetti nell'aprile 1954:

Così ora voi demoni sapete! Ora sapete perché si gioca a palla
al chiaro di luna di mezzanotte in un parco giochi deserto in
centro città. Guardate ATTENTAMENTE. OSSERVATE que­
sta STRANA PARTITA DI BASEBALL! Osservate le lunghe
scie di polposi intestini che delimitano le linee base. Osserva­
te i polmoni e il fegato che segnano le basi... il cuore come
casa base... guardate il battitore che arriva e agita le gambe,
le braccia, poi le lancia tutte meno una e resta fermo in attesa
che il pitcher land la testa.7

William Gaines, editore del gruppo E.C. (e in seguito della


rivista «Mad»), provocò uno scossone nella stampa quando
confutò le tesi di Wertham il 22 aprile. H senatore democratico
del Tennessee Estes Kefauver gli sventolò sotto il naso una
copertina di «Crime SuspenStories» («Racconti di Tensione
David J. Skal

Epilettica nella Tradizione E.C.!») sulla quale compariva un


uomo con un’ascia insanguinata, che sollevava la testa tagliata
di una donna.
«Lei lo ritiene di buon gusto?» domandò Herbert W.
Beaser, consigliere associato del sottocomitato.
«Sì», rispose Gaines, «per la copertina di un albo a fu­
metti. In una copertina di cattivo gusto, per esempio, forse la
testa sarebbe sollevata un po’ di più in modo da far vedere il
collo grondante sangue. »
Gaines diede prova di autocontrollo, e presentò diverse
prove ben argomentate sull’intelligenza naturale dei bambini e
sulla delinquenza come conseguenza dell’ambiente reale, non
della fantasia. Aggiunse: «Spiegare il brivido inoffensivo di
una storia horror al dottor Wertham sarebbe difficile quanto
illustrare la sublimità dell’amore a una vecchia zitella frigida».
In un editoriale intitolato Uomini di gusto, «The Hartford
Courant » osservava: «È probabile che il signor Gaines abbia
deluso parte del suo pubblico. Si è presentato privo della com­
pagnia di un battaglione di vampiri o licantropi, con un nume­
ro di dita nella norma, e un’unica testa. Benché tragga quasi
un milione di dollari da questi loschi affari, il signor Gaines è
un uomo da compatire quanto da censurare. Poiché non vede
nulla di sbagliato nello scempio letterario che contribuisce a
creare e distribuire ai più piccoli, bisogna considerarlo bizzar­
ro quanto alcune delle creature che infestano le pagine dei
suoi comics [fumetti] sardonicamente definiti “entertaining”
[divertenti]».8 Frederic M. Thrasher (letteralmente: Fustigato­
re), un professore alla New York University che scriveva su
«The Journal of Educational Sociology», articolò la controf­
fensiva. «Benché Wertham abbia sostenuto in diversi scritti
che lui e i suoi associati hanno studiato migliaia di bambini,
normali o deviati, ricchi e poveri, dotati e mediocri, non pre­
senta un resoconto statistico delle sue indagini. Non compie
alcuno sforzo per provare che i suoi casi esemplari siano in
alcun modo tipici di tutti i delinquenti che leggono fumetti, o
che i delinquenti che non leggono fumetti non commettano
crimini analoghi.»9 Il richiamo di Seduction of the Innocent,
naturalmente, non si esercitava sui medici, ma sul lettore me-

202
Thr Mofiiter Show

clic» ansioso di sentire voci «esperte» in un decennio ricco di


confusione c in rapida evoluzione.
«The New Republic», altra voce di dissenso, confutava le
argomentazioni di Wertham come «una maglia a punti confu­
si».10 «I suoi materiali d’intervista sono presentati con un ap­
parato critico risibile: in certi luoghi paiono testimoniare lo
sgradevole spettacolo di bambini che rispondono al loro inter­
vistatore ciò che immaginano lui voglia sentirsi dire.

La posizione del dottor Wertham compendia, in maniera lar­


gamente ingiustificabile, la sua conoscenza complessiva della
struttura e cultura sociali. Potrebbe essere questa la ragione
per cui egli dimostra un interesse tanto scarso per... temi cul­
turali più vasti... Può la connessione tra amore e violenza nella
letteratura popolare e nei fumetti essere una prova indiretta
di un cambiamento esteso? Mettete che la nostra cultura stia
spostandosi verso un controllo maggiore da parte delle donne
sulle condizioni della loro sessualità. Potrebbe la confusione
fantastica di amore e violenza essere un parziale risultato del­
l'incertezza degli uomini sul cambiamento?

«The New Republic» concludeva che Seduction of the In­


nocent «ruota sostanzialmente intorno alla determinazione del
suo autore... a impressionare i propri lettori non con una tesi
professionale, ma con il proprio status professionale.»11
Le esagerazioni fumettistiche nella visione del mondo di
Wertham non sfuggirono all’osservazione di Robert Warshow,
un opinionista di «Commentary» il cui figlio undicenne era un
avido lettore di fumetti E.C. «L’immagine fornita dal dottor
Wertham sulla società e la natura umane è tale che un lettore
di fumetti... potrebbe non trovarla del tutto estranea», scriveva
Warshow, definendo Seduction of the Innocent «una sorta di
fumetto giallo per adulti». Le somiglianze erano molteplici,
compresa «la medesima semplicistica concezione di motivi, lo
stesso senso di disgrazia incombente, la medesima enfasi melo­
drammatica sulla patologia, la stessa relazione diretta e imme­
diata di causa ed effetto». Warshow, che disapprovava i gusti
del figlio in materia di letture, concludeva tuttavia che i fumet­
ti horror non gli causavano alcun danno, e che sarebbe stato

203
Diii’id / Sfati

inutile esercitare pressioni su di lui, o vietargli gli albi, poiché


«senza dubbio al loro posto sarebbe apparso qualcosa di un
livello altrettanto basso. I bambini hanno bisogno di un “pec­
caminoso” mondo tutto loro in cui potersi ritirare dalle pretese
del mondo adulto... In definitiva, sorge il sospetto che [Wer­
tham] gradirebbe vedere la nostra cultura interamente igieniz-
zata. Per conto mio, non mi piacerebbe vivere circondato dal
genere di cultura totalmente approvato dal dottor Wertham»,
concludeva l’opinionista.12
A dispetto di poche e ben mirate obiezioni sulla questione
Wertham, la stampa popolare andò a nozze con Seduction of
the Innocent, e lo studioso divenne il beniamino dei circoli
femminili, ansiosi di abbandonarsi alle sue prescrizioni. In un
certo senso, la casalinga degli anni Cinquanta emergeva come
una sonnambolica «sposa della scienza» estratta dal dottor
Wertham dalla sua cella frigorifera per fare le pulizie in un
mondo implacabilmente igienico. (L’ambiente Caligari-con-
forcine fu raffigurato vividamente in The 5.000 Fingers of Dr.
T [t. lett.: Le 5000 dita del dottor T, di Roy Rowland], la
prima e unica incursione del dottor Seuss nella Hollywood del
1953. Allora un colossale fiasco, ma oggi un’opera di culto, il
film presenta un «maestro di pianoforte» megalomane inter­
pretato da Hans Conried, in precedenza specializzato in parti
da nazista, che usa una madre ipnotizzata tipo Donna Reed
per realizzare la propria fantasia di totale controllo sociale.) La
«scienza» disonesta e intollerante di Fredric Wertham aveva
inoltre parecchio in comune con i tentativi sempre più sofisti­
cati e cinici di Madison Avenue per controllare il comporta­
mento, le ansie e i modelli consumistici delle donne americane.
E le entrate crescenti nel periodo postbellico incoraggiavano
la psichiatria a effettuare frequenti scorribande in territori
esterni alla medicina strettamente intesa. La categoria ancora
senza nome delle droghe in seguito note come tranquillanti era
già allo studio, e avrebbe ben presto consentito la medicazione
psichiatrica di un’intera classe di scontenti postbellici, molti
dei quali per motivi economici e sociali. Come in certi film
espressionistici tedeschi, una fetta significativa della società era

204
Thr Mornfrr Show

matura, ansiosa di essere trattata come in manicomio, e agli


esperti non pareva vero di assecondare questo impulso.
Nell’autunno del 1954 si annunciava un giro di vite sull’in­
dustria dei fumetti, con un codice restrittivo imposto dall’ap-
pcna nata Comics Magazine Association of America.13 Non si
era potuto dimostrare alcun legame di qualsivoglia genere tra
i fumetti e la delinquenza, ma la diffusa pessima pubblicità
originata dalla caccia alle streghe di Wertham aveva fatto cor­
rere ai ripari l’industria. Oltre al sesso e alla violenza, «sono
vietate scene che trattano, anche indirettamente, morti viventi,
tortura, vampiri e vampirismo, demoni, cannibalismo e lican­
tropia». Persino le parole «orrore» e «terrore» erano tabù nei
titoli.
Ma l’horror aveva radici profonde nella cultura, e le crepe
nel terreno erano innumerevoli.

Mentre i sarcastici maestri di cerimonie dell’orrore erano


diventati una specie in via d’estinzione sulla stampa, il nuovo
medium televisivo non ricadeva sotto la giurisdizione del Co­
mics Code Authority, ed era inevitabile che il formato albo
trovasse un equivalente catodico. Nella primavera del 1954
(l’anno del declino dei fumetti horror e di Joe McCarthy, e
l’anno in cui Bill Haley portò le parole «rock» e «roll» all’at­
tenzione delle masse), le antenne di Los Angeles iniziarono a
drizzarsi nella direzione di uno strano nuovo segnale prove­
niente dal trasmettitore della locale affiliata ABC. La parola si
propagò in fretta. Devi proprio vederlo. E così fu.
La trasmissione iniziava alle undici di sera, quasi un anti­
doto nottambulo alla noia prevalente nella programmazione in
prima serata; Milton Berle, I Love Lucy, e December Bride ave­
vano già colonizzato i tinelli dell’America postbellica, e George
Gobel era di là da venire. Molto tempo dopo, la commediogra-
fa Wendy Wasserstein avrebbe coniato la frase perfetta a epi-
tomizzare il costume di un’era: un periodo, molto semplice-
mente, in cui Dinah Shore era padrona della terra.
Ma questo era diverso. Nessuna canzoncina allegra come
sigla. Al suo posto, un tonante frastuono di musica d’organo
- « Uranus » da 1 pianeti di Holst - e poi, nella pallida luce

205
David I .VM

azzurrina dell’enorme schermo d’epoca Magnavox in legno


chiaro, si materializzava un corridoio pieno di foschia. In mez­
zo a quel miasma di ghiaccio secco emergeva lentamente la
stupefacente figura di un essere vespoide. Poteva trattarsi... di
una donna? Dall’impossibile bacino sporgeva il seno prospero­
so come in un fumetto di una dea del sesso, a stento trattenuto
dalla profonda scollatura assassina di un vestito da sera ade­
rentissimo in rayon nero sbrindellato. La figura sgusciava oltre
un candelabro poggiato sul pavimento e fissava lo sguardo
dentro la telecamera come un cobra in cerca di preda. Otto
centimetri di unghie parevano sgocciolare invece che spuntare
dalle estremità delle sue dita. Le sopracciglia erano arcuate e
minacciose come boomerang dall’oltretomba. Avvicinandosi
alla telecamera, sollevava verso i capelli serpentini le dita arti­
gliate.
Poi urlava: un penetrante, angosciato lamento da banshee.
Mentre l’eco svaniva, si ricomponeva, e parlava in toni sepol­
crali, un amalgama fumoso di Marlene Dietrich e Tallulah
Bankhead. «Buonasera», diceva. «Io sono... Vampira».
A Maila Nurmi, una trentunenne già guardarobiera, spo­
gliarellista, disegnatrice di cravatte e comparsa a Broadway, la
possibilità di presentare vecchi film alla KABC-Tv parve l’occa­
sione di una vita. La splendida nipote di origini finlandesi del
famoso atleta olimpionico Paarvo Nurmi era versatile nelle sue
aspirazioni, tra le quali figuravano sia la torta cheesecake sia
l’evangelismo. Ispirata dai fumetti di Charlie Addams apparsi
sul «New Yorker», la Nurmi aveva riscosso successo a un re­
cente concorso in costume a Los Angeles, il «Bai Caribe»,
vincendo il primo premio con un costume da vampiro vittoria­
no messo assieme con uno scampolo da tre dollari e 67 centesi­
mi da lei stessa tagliato e cucito con un paio di forbici da
manicure. La Nurmi, e il marito sceneggiatore Dean Riesner,
avevano sperato di attirare l’attenzione dello stesso Charles
Addams, che avrebbe potuto cogliere le possibilità televisive
dei suoi mordaci disegni sul «New Yorker».
Al contrario fece un’impressione indelebile su Hunt
Stromberg Jr., figlio del dirigente dell’MGM, lui stesso produt­
tore televisivo appena promosso a direttore dei programmi alla

?0A
Thr M<>n\trr Shou*

KABC. Stava cercando una maniera di costruire un pubblico


per la collocazione a tarda notte di una serie di film altrimenti
improponibili. I film teletrasmessi erano un’acquisizione relati­
vamente recente, e gli studi delle major, presi dalla competizio­
ne con l’appena nato medium, non avevano ancora concesso i
loro classici per la teletrasmissione. Stromberg si trovava a la­
vorare con miserabili stracci indipendenti come Devil Bal’s
Daughter (t. lett.: La figlia del demone pipistrello, 1946, di
Frank Wisbar). Doveva esserci un modo di presentare quella
spazzatura.
Ed ecco il «Bai Caribe», e la donna in abito attillato che
aveva vinto il premio. Stromberg non riusciva a levarsela di
testa. Il problema era che non aveva idea di chi fosse. Ci volle­
ro mesi prima che uno dei giudici della gara in costume, il
disegnatore Rudi Gernreich - reso poi celebre dal topless - la
identificasse: «Certo che la conosco! E Maila Nurmi, la prima
donna della California meridionale a portare scarpe senza rin­
forzi».
La Nurmi si presentò alla KABC. Stromberg le raccontò
ciò che aveva in mente, ma insisteva sull’esigenza di non esage­
rare con Charles Addams. Sarebbe riuscita a presentare un
genere diverso di vampiro? Lei ci rimuginò sopra per qualche
giorno. La creatura del «Bai Caribe» era stata assolutamente
anodina, con il richiamo sessuale di una tavola da stiro; in
breve, molto affine a ciò che Charles Addams aveva reso popo­
lare sul «New Yorker». Ma forse lei poteva rovesciare comple­
tamente la situazione. Come recitava la celebre frase dello sce­
neggiatore Philip-Dimitri Galàs qualche decennio dopo, era
tutta una questione di «fatalità, oscurità... e rapidità».
La Nurmi non sapeva granché di film sui vampiri. Il suo
incontro più ravvicinato con Dracula era stata una collisione
mancata per un pelo con Bela Lugosi sui pattini per Holly­
wood Boulevard (l’attore non aveva mai imparato a guidare,
e aveva dovuto ricorrere ai pattini per poter andare dal suo
edicolante e negozio di sigari preferiti). La Nurmi si ispirò
invece alla Dragon Lady di Terry and the Pirates di Milton
Caniff, a fotografìe di Theda Bara («Che incutevano soggezio­
ne») e alla regina cattiva di Biancaneve di Walt Disney, uscito

707
David / Sitai

quando la Nurmi era quattordicenne. Per il trucco c il costume


si rivolse a una rivista di bondage e masochismo, «Bizarre»,
piena di donne crudeli e in corsetto. Le unghie alla Nosferatu
furono un’idea sua. «C’era una plastica dura per recipienti, e
io l’ammorbidii con acqua bollente modellandola sulle mie di­
ta. La raffreddai in un portacubetti di ghiaccio, fissandola poi
con colla da aeroplani.» Per strizzarsi ancora di più la vita, la
Nurmi mescolò polvere di papaya (ingrediente fondamentale
per ammorbidire la carne) con crema fredda e se la sfregò in
vita, costringendosi poi in un tubino di gomma. «La mia vita
semplicemente si sciolse», ricordava, «digeriva la mia
carne. »14
Il risultato fu un’ispirata opera di fusione culturale. Morte
e sensualità avevano sempre avuto una profonda affinità, ma
non si erano mai mescolati con tanta accuratezza in un’icona
popolare. Il corpo di Vampira era una spianata di contraddi­
zioni culturali: insieme prosperoso e gracile, ben nutrito ma
scheletrico, evocava paradossalmente un consumismo insazia­
bile. Era particolarmente adatto alla televisione a bassa risolu­
zione: non importa quanto si armeggiasse con il pulsante del
contrasto: i nitidi contorni e ombre che la delineavano non si
attenuavano. Le sopracciglia erano parabole aerodinamiche a
propulsione sonica, arcate gotiche in orbita. Prendendo ener­
gia dal nesso eminentemente anni Cinquanta di linee automo­
bilistiche e forma femminile, Vampira era un carro funebre
risucchiato... con fanali. Le proiezioni mammellari sulle mac­
chine americane erano state introdotte nel 1953; la giustappo­
sizione con l’aggressiva struttura dentata a graticcio già in voga
produceva un aggiornamento tecnologico di immagini vampi-
resche di femminilità rapace. Il décolleté azzardato di Vampira
evocava senza posa il vampirismo come una sorta di allatta­
mento deforme... e il pubblico, così pareva, era pronto a suc­
chiare.
Il debutto di Vampira nel marzo 1954 fu rapidamente se­
guito da pubblicità su scala nazionale. A giugno, «Life» pre­
sentò uno speciale fotografico di quattro pagine, e le dimensio­
ni fisiche esagerate della Nurmi (96-43-96) sollevarono un ve­
spaio sulla rubrica della posta di «Newsweek». «Diffido qua-

208
The Monster Show

ItmqiK- donna normale, pienamente sviluppata, trentunenne,


ad affermare che la sua vita misura 43 centimetri», scriveva
Marguerite Bonham di Norfolk, in Virginia. «La ritengo
un’impossibilità fisica.»15 Ci fu chi insinuò che la Nurmi si
fosse fatta asportare chirurgicamente alcune costole, aggiun­
gendo un tocco alla Frankenstein a una mistica altrimenti dra-
culiana. In realtà, era minuscola.
Una tipica scaletta di Vampira poteva prevedere la dea
sexy che faceva un bagno di bolle in un calderone ribollente,
o rivelare la ricetta per il Cocktail Vampira: una parte di for­
maldeide e due di sangue di avvoltoio, servire sopra ghiaccio
secco e guarnire con un occhio congelato. E se la sua stirac­
chiata miscela di umorismo-in-vena-giugulare può sembrare
oggi un po’ trita, allora era diversa da qualunque cosa avesse
visto il pubblico. Gli ascolti salivano. «Molti losangelini, per
quanto avezzi alle eccentricità, guardano i film horror solo per
vedere “Vampire” [rie]»,16 scriveva «Newsweek». L’eccellen­
te dosaggio dei tempi comici della Nurmi e il suo spirito pun­
gente erano altri punti a suo favore. Una volta, nel corso di
una sua apparizione a un concorso di bellezza, fìnse di confon­
dere lo sponsor, la birra Bheingold, con l’accessorio di un fu­
nerale wagneriano.
In ogni angolo della vita e della leggenda hollywoodiana
si potevano trovare fan di Vampira. Mae West amava sedersi a
guardare il programma, e in seguito le inviò offerte di polpette
svedesi tramite un maggiordomo.17 (Forse la West aveva di­
menticato che un tempo aveva imposto il licenziamento della
Nurmi come comparsa dallo spettacolo di Broadway Caterina
Was Great; l’ancheggiamento della ragazza, a quanto pare, sur­
classava il suo.)
Da pioniera del postmoderno, Vampira mescolava rigide
distinzioni indossando il proprio costume sia sullo schermo sia
fuori (almeno a scopi pubblicitari). Nemmeno Bela Lugosi,
confuso com’era dal ruolo di Dracula, girava per Hollywood
in una Packard convertibile presa a noleggio gridando in dire­
zione del semaforo dietro un parasole nero. Vampira sì. Oltre
alle tonnellate di pubblicità, la sua stravagante celebrità la por­
tò in ristoranti costosi (dove non poteva addentare un solo

209
David ]. Ska/

boccone, altrimenti il suo vitino la stritolava, facendola vomita­


re) e la vide ospite fìssa nei jazz club e locali latini di L.A. Uno
dei ritrovi preferiti era Googie’s, all’angolo fra Sunset Boule­
vard e Crescent Heights, proprio accanto all’emporio
Schwab’s. Googie’s rappresentava l’inizio di una nuova e disi­
nibita direzione nell’architettura commerciale: sgargiante, spi­
goloso, una sfida alla gravità, sbalzato follemente come la stes­
sa Vampira. Se Vampira era Dracula spiegato al popolo, allora
anche questo locale era un rigurgito populistico delle vecchie
stanche formule in qualcosa di nuovo e vivente.
Una sera la Nurmi ciondolava da Googie’s in compagnia
di un ammiratore camp di nome Jack Simmons e di un aspiran­
te attore, Jonathan Haze, in seguito protagonista del classico
cormaniano a basso costo La piccola bottega degli orrori (The
Little Shop of Horrors, 1960). La Nurmi sbirciò dalla finestra
e vide qualcuno che desiderava conoscere. Era un giovane at­
tore che aveva fatto qualche film e, che, benché non ancora
una star, era sicuramente sulla strada giusta. Aveva ventiquat­
tro anni e si chiamava James Dean.
«Ecco l’unica persona che voglio conoscere a Holly­
wood!»18 disse la Nurmi a Simmons. Il suo desiderio fu per
lui un ordine. E così avvenne che James Dean, quasi un arruf­
fato studentello con gli occhiali, che non portava sullo scher­
mo, fu spinto dentro Googie’s per un’intervista con la vampira.
Lui ricambiò l’invito nel suo monocale fatiscente sopra un
garage e le lesse una bizzarra storia di un ragazzo dominato
dalla madre che finisce per impiccarsi.19 Dal soffitto dell’ap­
partamento pendeva un nodo scorsoio. «Mi raccontò pure di
un’opera che voleva produrre», ricordava la Nurmi, «una ro­
ba stile kabuki con candelabri e impiccagioni. E io gli chiesi:
“Perché hai questa ossessione dell’impiccagione?” Lui rispose:
“E così che morirò, con il collo rotto”.»20
Senza dubbio James Dean aveva una tendenza al morboso.
Secondo diversi suoi biografi il suicidio della madre fu un’in­
fluenza nefasta. Per Warren Newton Beath, autore di The
Death ofJames Dean, le attività del tempo libero del giovanotto
comprendevano la registrazione di «deliri oscuramente visio­
nari riguardo a come ci si deve sentire seppelliti in un’umida

210
The Monster Show

tomba».21 Alle superiori, si era preparato un elaborato trucco


da mostro di Frankenstein per una rivista musicale intitolata
Goon with the Wind* 22 Lo spettacolo riscosse un enorme
successo e fornì alla classe i fondi per un viaggio a Washington
D.C. L’interpretazione del mostro rimase con lui; anni dopo
ricordava ancora la strana sensazione di potere che provava
nelle vesti del cadavere rianimato. Come Frankenstein e Dra­
cula nelle loro incarnazioni su grande schermo, anche James
Dean era un prodotto dell’anno 1931. Sullo schermo, ritraeva
proprio il tipo di piantaguai adolescenti ritenuti da Fredric
Wertham un prodotto dei fumetti horror.
La Nurmi è fermamente convinta che James Dean fosse
un essere soprannaturale, un angelo-maestro «inviato qui per
servire come da rosario per adolescenti con problemi verso le
figure autoritarie».25 In realtà, l’attore sarebbe diventato l’e­
terna icona del disagio giovanile postbellico che tanto infastidi­
va il dottor Wertham e i suoi zelanti zerbinotti.
«Lo incontravo ogni sera a mezzanotte», ricordava la Nur­
mi. «H sabato avevo ancora addosso il trucco, ma mi toglievo
sempre la parrucca. Andavamo in giro insieme. Per quanto
possa suonare strano, non parlavamo mai di Vampira; a dire
il vero, non parlavamo mai di horror. Una sera Jimmy venne
alla registrazione; era una serata particolarmente buona. Io re­
citavo delle brevi imitazioni alla Carol Burnett, e quella sera
Vampira faceva una severa bibliotecaria che doveva punire
qualcuno con le spalle alla telecamera. Quelli della troupe vi­
dero Jimmy con il suo ciuffo ribelle - non avevano idea di chi
fosse - e dissero: «Ehi, dai, mandiamo questo». E scivolarono
su questa giacca di tweed, girandogli sopra la spalla mentre io
gli battevo sulle nocche.»24
Jack Simmons faceva l’autista per quello che divenne noto
come The Midnight Show. Naturalmente guidava un carro fu­
nebre Cadillac adattato, sfrecciando agevolmente tra Googie’s,
Tiny Naylor’s, Barney’s Beanery e altri locali alla moda. I pet­
tegolezzi li bollarono rapidamente come «Vampira e i due

* Gioco di parole con il più celebre Via col vento (Gone with the Wind, 1939,
di Victor Fleming); goon significa goffo. (N.d.T.)

211
David f Sfati

Frankenstein». Benché il rapporto fra Vampira e il Ribelle


Senza Motivo fosse ampiamente classificato come storia d’a­
more, non era così. Parlando di quell’anno di incontri a mezza­
notte con Jimmy e Jack, la Nurmi in seguito avrebbe descritto
l’amicizia come «un ménage à trois senza sesso». Jack era ma­
nifestamente gay; Jimmy (almeno secondo le testimonianze più
recenti) era bisessuale, e la Nurmi aveva un marito geloso.
All’inizio del loro rapporto, era Vampira la star, e riceveva
tonnellate di posta dai fan, ma ben presto fu Jimmy a far la
parte del leone. Vampira era un fenomeno col fiato corto, al­
meno alla KABC. Nella versione-Nurmi della storia, il suo ri­
fiuto di cedere tutti i diritti sul personaggio (offriva il 49 per
cento e non di più) innescò un boicottaggio nei suoi confronti.
Il programma cessò le trasmissioni nel novembre 1954, appena
otto mesi dopo il debutto. Jimmy cominciò a sospettare che la
declinante stella della televisione tentasse di approfittare del
loro rapporto. Rilasciò una caustica intervista a Edda Hopper,
che aveva alimentato le voci di una storia d’amore, dicendole:
«Non è mio costume prendere appuntamenti con i fumetti»;
Vampira era solo «un soggetto di studio».25 La Nurmi era
arrabbiata e ferita.
In seguito al fallimento del programma di Vampira, Malia
ritornò a New York, dove negli anni Quaranta aveva trovato
lavoro in teatro. Forse laggiù c’era ancora un po’ di magia,
diversamente da Los Angeles, dove per la disperazione si era
ridotta a fare le pulizie negli appartamenti degli amici per 99
centesimi l’ora.
New York finì per accoglierla a braccia spalancate. Spa­
lancate come in un film dell’orrore.
La notte del 20 giugno 1955, la donna rispose a dei battiti
alla porta del suo appartamento al 136 della 46“ West, per
ritrovarsi davanti un uomo che entrò con la forza.26 «Sono
venuto per ucciderti», le rivelò Ellis Barber, il ventunenne in­
truso. In seguito si scoprì che uno dei suoi nomi di battaglia
era «Vamp». La afferrò, cominciò a prenderla a pugni e a
strangolarla mentre la spogliava. «Quanto credi di vivere an­
cora?» le chiese. «Fino a novantatré anni», replicò pronta lei.
Ma Vamp assicurò Vampira che non avrebbe più rivisto la

212
Thr Momtrr Shote

luce del giorno. L’incubo durò più di due orc. Per tre volte si
liberò di lui, rifugiandosi nell’ingresso, a un soffio dalla strada.
Ma per tre volte Barber la mise fuori combattimento, lottò
con lei sul pavimento, rotolando una volta fino al pianerottolo.
Riuscì sempre a riprenderla tra le braccia e sospingerla nell’ap­
partamento, ripetendole la promessa di ucciderla entro l’alba.
Solo al quarto tentativo Maila riuscì a liberarsi. Era l’una di
notte. Fuggì attraverso la presa d’aria condizionata, con indos­
so solo un paio di corde allentate. Il corpo era pieno di graffi
e lividi, e il collo recava l’impronta rossa di dita strangolanti.
Un uomo di un negozio vicino la coprì e fu chiamata la polizia.
L’aggressore, tanto stupido da rifarsi vivo, fu catturato.
I giornali trattarono il fatto come una barzelletta. Se la
Nurmi «avesse indossato il costume spettrale che usa nel suo
numero in teatro e in televisione», scrisse un rotocalco, l’ag­
gressore «forse non avrebbe mai osato metter piede nel suo
appartamento ».27
Di nuovo in California. Liberace le chiese di apparire nel
suo spettacolo al Riviera di Las Vegas; la sua prima scelta, Bela
Lugosi, era troppo vecchio e malato per la parte. «Era una
cavalcata musicale attraverso le epoche», ricordava l’attrice.
«Vampira appariva ogni volta a mo’ di presentatrice. Cantavo
qualche strofetta in modo funebre e assente. » Ancora in cerca
di qualche pubblicità ricavata dal personaggio di Vampira, po­
sò per alcune foto da pinup dentro e fuori da una tomba a
Forest Lawn. «Mi calarono proprio in una fossa pronta per
un funerale», ricordava la Nurmi. Quando comparve un’in­
consolabile famiglia, i piccoli figli del morto non vollero assi­
stere al rito: avevano avvistato nelle vicinanze la «vampira» e
pretendevano l’autografo. («Rimasi sconvolta», ammise l’attri­
ce.) Inviò a James Dean, impegnato in esterni, una foto che la
mostrava seduta proprio sull’orlo della tomba. Corredò la foto
con una battuta pungente: «Qui me la sto spassando - quanto
mi manchi».28
Dean non ricevette la foto, confiscata da qualcuno del suo
seguito e descrittagli come «minatoria». Chiamò l’attrice e la
affrontò. Lei gli disse che si trattava di uno scherzo che sareb­
be stato rovinato se glielo avesse descritto prima che lui lo

2B
Danti /. Skal

vedesse. Non sapeva che fattore aveva appena posato per lina
foto in una ditta di pompe funebri, in una bara aperta, sorri­
dente, esibendo il segno della vittoria.
James Dean non vide mai la foto della Nurmi. Il suo collo
si spezzò in un incidente automobilistico a folle velocità il 30
settembre 1955 a Salinas, in California. Le riviste scandalisti-
che si tuffarono sul legame Vampira-Dean, confezionando arti­
coli scandalistici con titoli come La Madonna Nera di James
Dean. La foto nella tomba fu esibita in lungo e in largo, con
la scritta cambiata in «Tesoro, ti aspetto! » La Nurmi fu ritrat­
ta come una vera strega che aveva gettato il malocchio sul gio­
vane attore e forse persino provocato la sua morte. Il film più
famoso di Dean, Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause,
1956, di Nicholas Ray), fu distribuito postumo, e gran parte
della sua fama assunse l’aspetto di un culto morboso.
Per molti anni, disse la Nurmi in un’intervista del 1975,
«non riuscii ad attrarre nessuno che volesse vivere. I necrofili
mi inviavano poesie erotiche e lasciavano animali decapitati
sotto il portico».29 Un ammiratore particolarmente morboso
la pregò di resuscitare un’ultima volta Vampira per accompa­
gnarlo a una festa di Halloween.
«Lasciami in pace! » gli gridò lei. «Tutta la mia vita è stata
una festa di Halloween! »
Declinare questa offerta si rivelò una saggia decisione. A
mezzanotte di Ognissanti pare che l’uomo distrusse la propria
Porsche, una copia perfetta dell’ultima vettura di James Dean,
contro il muro di una fabbrica di lapidi. Sia l’ammiratore sia
chi l’accompagnava morirono all’istante. O così si racconta.30
Maila Nurmi credeva di aver inventato lei Vampira, ma il
personaggio aveva assunto una vita propria, facendosi beffe
della padrona. Dappertutto in America, nei tardi anni Cin­
quanta, bizzarri personaggi comparivano in televisione per
presentare vecchi film dell’orrore e fare un sacco di soldi.
Dean Riesner, oggi suo ex marito, ha riconosciuto di aver
«gettato un milione di dollari giù per il cesso»31 non trattando
e promuovendo adeguatamente il personaggio. Vampira sareb­
be stata resuscitata brevemente qualche anno dopo in un ruolo
muto nel bizzarro cult Plan Nine from Outer Space (id., 1959),

214
The Mtnix ter Show

direno da Edward I). Wood Jr., comunemente riconosciuto


come uno dei peggiori registi di ogni epoca. Poiché non riman­
gono sue trasmissioni originali, Plan Nine resta l’unica registra­
zione cinematografica di Vampira in pieno fulgore. La Nurmi,
i cui incontri con ammiratori malati l’avevano resa reelusiva,
non vide il film per decenni. Una volta un amico tentò di con­
vincere il padrone di un cinema di Los Angeles a tenerla all’in­
gresso per una performance da tutto esaurito. «Ti presento
Vampira», disse l’amico. «Non ha ancora visto il film.» Il pro­
prietario non batté ciglio. «Vampira è morta», rispose. La
Nurmi non replicò, e ritornò a casa.

La portata del pubblico interesse per i fantasmi vecchio


stile, come si evince dalla repentina ascesa di Vampira al suc­
cesso, eccitò il declinante attore Bela Lugosi, che non aveva
più girato un vero film da studio da II cervello di Frankenstein
(1948). Hollywood in quel periodo realizzava film horror e
di fantascienza a colori, quando non in 3-D, soprattutto per
allontanare il pubblico dal televisore con la promessa di qual­
cosa impossibile da provare sul piatto schermo casalingo in
bianco e nero. Il mostro della Laguna Nera (Creature from the
Black Lagoon, 1954, di Jack Arnold) e La maschera di cera
(House of Wax, 1953, di Andre de Toth) furono due strabuz-
zaocchi di enorme successo; l’attore era apparso in costume
alla prima di quest’ultimo film, e fu tanto impressionato dal­
l’effetto stereoscopico da incoraggiare una campagna postale
indirizzata alla Universal-International con la quale i suoi am­
miratori imploravano di ridistribuire Dracula a colori e in 3-D.
Lugosi pensava che l’impressione di pipistrelli svolazzanti so­
pra le teste del pubblico sarebbe stata un effetto grandioso.
Forse aveva ragione, ma lo studio non abboccò.
Il pubblico postbellico era ancora interessato ai mostri, ma
il leggiadro Mefisto dal mantello nero non era più un’immagi­
ne terrificante per il moderno frequentatore di cinema. La mi­
naccia draculina di una flebile invasione venosa era molto sti­
racchiata in confronto alle spaventose violazioni dei limiti cui
il mondo aveva assistito da così poco. Un mantello avvolgente
non era più un’immagine paurosa. Ma la nube lasciata da un

215
Dai'id J. Sle<il

fungo sì. La minaccia di una distruzione di massa era più forte


che mai nella mente degli americani.
Negli anni Cinquanta i mostri si presentavano essenzial­
mente sotto due forme: giganteschi mutanti dal passo pesante,
risultato lampante di esperimenti atomici; e invasori alieni, tal­
vòlta anch’essi un po’ cresciuteli, ma sostanzialmente dediti a
qualche genere di lavaggio del cervello o controllo ideologico.
I mostri degli anni Cinquanta personificavano la Bomba e al
contempo la Guerra Fredda.
Godzilla (Gojira, 1954, di Inoshiro Honda) è il film chiave
della variante mutazione-metafora. Prodotto, e non senza mo­
tivo, in Giappone (l’unica società ad aver veramente subito un
attacco nucleare), Godzilla innestava il trauma atomico sulla
formula alla King Kong, lanciando una delle maggiori dimo­
strazioni rituali di metafora naive mai conosciuta al mondo.
I giganteschi mostri radioattivi erano la cartina di tornasole
dell’ansia atomica postbellica, e una delle formule hollywoo­
diane più imitate e di maggior successo. La premessa fonda­
mentale era, naturalmente, stupida: poiché i semi delle mar­
gherite colpiti da radiazioni potevano produrre germogli vele­
nosi, allora gli esperimenti atomici, come la fattura di una zin­
gara tecnologica, potevano trasformare qualsiasi cosa ingigan­
tendola. E quasi superfluo aggiungere che l’unica cosa che la
Bomba poteva distoreere e amplificare era il terrore culturale.
La paura era solo una parte del disegno, comunque; come tut­
te le divinità, l’energia atomica era insieme benefica e punitiva.
Era convinzione diffusa che gli impianti a energia nucleare
avrebbero finito per rendere l’energia elettrica così a buon
mercato che non vi sarebbe più stato alcun motivo di conteg­
giarla. Innescata dal pacifico atomo, era a portata di mano una
nuova era di tempo libero e abbondanza senza precedenti.
L’immaginario ad alta definizione «atomica» era ovunque: ne­
gli oggetti domestici, nella grafica pubblicitaria, persino nel­
l’architettura. Uno dei mandala culturali più ossessivi degli an­
ni Cinquanta era l’emblema grafico profondamente evocativo
di due o tre tracciati orbitali interconnessi, con gli elettroni
che sibilavano come pianeti. Gli elettroni, ovviamente, non si
comportano come corpi planetari, ma è significativo che l’ato-

216
The Mon\ter Shou>

mo fosse ciononostante come un microcosmo, il diagramma di


una nuova visione del mondo. Il simbolo assolveva una funzio­
ne primaria, quasi cruciforme, rappresentando ogni fede, spe­
ranza, paura e soggezione generate dall’ambigua era postbelli­
ca. O si trattava dopotutto solo di un periodo di transizione
verso una nuova guerra?
Il pubblico si rivolse a riviste e alla pubblicità di prodotti
di consumo per la parte solare della moneta atomica; ai mostri
per quella negativa. Persino un elenco incompleto di film sui
mostri giganti degli anni Cinquanta è significativo: Il Carne
from Beneath the Sea (t. lett.: Veniva da sotto il mare, 1955, di
Robert Gordon) mostrava un polipo gigante intento a divorare
San Francisco. Insetti e aracnidi sovradimensionati apparivano
in Attacco alla terra {Them!, 1954, di Gordon Douglas), Taran­
tola {Tarantula, 1955, di Jack Arnold), The Deadly Mantis (t.
lett.: La mantide letale, 1957, di Nathan Juran), The Beginning
of the End (t. lett.: L’inizio della fine, 1957) e. Earth vs. the
Spider (t. lett.: La Terra contro il ragno, 1958) di Bert I. Gor­
don. Enormi orrori volanti facevano bella mostra in Rodan
(1957, di Inoshiro Honda) e II mostro dei cieli {The Giant
Claw, 1957, di Fred F. Sears). Il pubblico si espandeva a misu­
ra della propria angoscia in The Amazing Colossal Man (t. lett.:
Lo stupefacente uomo colossale, 1957) e nel suo sequel War
of the Colossal Beast (t. lett.: La guerra della bestia colossale
1958) di Bert I. Gordon, come nell’ora del godibile delirio
Attack of the Fifty-Foot Woman (t. lett.: L’attacco della donna
alta 15 metri, 1958, di Nathan Juran). Bestie gigantesche assor­
tite si potevano ammirare in The Attack of the Crab Monsters
(t. lett.: L’attacco dei granchi mostruosi, 1957, di Roger Cor-
man), Il risveglio del dinosauro {The Beast from 20.000 Fa­
thoms, 1953, di Eugène Lourié) e in Radiazione BX distruzione
uomo {The Incredible Shrinking Man, 1957, di Jack Arnold),
che ribaltava la formula con il medesimo risultato finale: a cau­
sa delle radiazioni, semplici animali diventavano gigantesche,
mortali minacce al povero, ridimensionato uomo qualunque.
Strettamente correlata a quella per la Bomba era la Paura
Rossa, e la diversità ideologica diventava spesso extraterrestre.
I mostri che controllavano la mente sostituirono i comunisti in

217
David ì. Sitai

diversi film. Tra tutti, il migliore è L’invasione degli ultracorpi


(Invasion of the Body Snatchers, 1956) di Don Siegei, probabil­
mente perché la metafora sociale è ambigua. La storia di un’in­
vasione tramite baccelli vegetali che creano anodini replicanti
umani in una cittadina californiana ha una nitida risonanza
da Guerra Fredda, ma Siegei vi insinua consapevolmente la
tendenza al cieco conformismo sociale, quello che Eric Fromm
definiva «la fuga dalla libertà», un tratto generale delle società
industrializzate. Il nemico sono loro, e noi.
Al tempo della distribuzione di L’invasione degli ultracorpi
le metafore politiche del film non innescarono praticamente
alcun commento. Il «New York Times» si rifiutò persino di
recensirlo. Ma la visione di una cospirazione onnicomprensiva,
percepita soltanto da eroi inascoltati e perseguitati, sarebbe
infine divenuta un assunto culturale al di là dei confini cinema­
tografici, come è ora evidenziato da trent’anni di teorie sull’as­
sassinio. Il film di Oliver Stone JFK (id., 1991) affrontò a tutto
tondo questo tema, rinviando ai cinema oscuri dove grandiose
cospirazioni e conquiste fiorirono per prime come elemento
quotidiano dell’horror anni Cinquanta. Il pensiero paranoico
può essere illogico, ma conferisce forma e significato a un
mondo addestrato nella paranoia. I film fantaorrorifici degli
anni Cinquanta spesso fingevano di terrorizzare gli spettatori
mentre elargivano loro un messaggio perversamente confor­
tante: il mondo è comprensibile, anche se solo come complotto
o copertura di mostri. Ma state sicuri che comprenderete il
grande disegno, anche se nel processo diverrete un baccello.
I guardiani della morale del periodo - i leccapiedi igienofi-
li del dottor Wertham - erano più turbati dai paranoici mostri
sovversivi. Gli invasori spaziali (Invaders from Mars, 1953), di­
retto da William Cameron Menzies, è un film che riesce tutto­
ra a incrinare il sonno di qualche figlio del boom. Nonostante
alcuni effetti speciali particolarmente risibili (come una clamo­
rosa cerniera che corre sulla schiena di un mostro), il film rie­
sce a trasmettere l’incubo di un ragazzo che sospetta il mondo
postbellico di una fragilità maggiore delle apparenze. Un disco
volante atterra in un pozzo sabbioso vicino alla sua casa e sca­
va gallerie sotto la città; gli invasori alieni risucchiano le vittime

218
The Momtrr Show

nella iena e impiantano aggeggi di controllo nel collo dei suoi


genitori e della polizia, che vaga glaciale a caccia di altri schiavi
per i marziani.
(ìli spettatori della Pta non si mostrarono compiaciuti di
C/7z invasori spaziali. Uno di loro scriveva: «Qui, in forma di
fantascienza, si agita un’orgia di odio, paura e futilità senza
alcuna possibilità di rifugio, alcun elemento costruttivo. Il
bambino con cui si chiede di identificarci è privato di ogni
sicurezza da padre e madre, dall’autorità costituita, e dagli
adulti precipitati nella violenza gratuita... Per un po’, in questa
proiezione di informi paure nel nostro mondo di annichilimen­
to ideologico e ideologia sfrenata, ci viene lasciata la speranza
di una risposta, ma il terrore e la minaccia non fanno che accu­
mularsi e crescere». Un altro critico è lapidario: Gli invasori
spaziali non era «precisamente un film per famiglie».52
I temi del controllo mentale nei film horror c di fanta­
scienza forse riflettevano l’interesse e la repulsione del pubbli­
co per l’ampiamente reclamizzato lavaggio del cervello sui sol­
dati americani nei campi di prigionia coreani all’inizio degli
anni Cinquanta. L’idea che un patriota americano («Persino
un uomo che è puro di cuore...») potesse essere trasformato e
controllato da burattinai stranieri/alieni era un aggiornamento
della metafora soldato-sonnambulo del Gabinetto del dottor
Caligari. E qualunque orrore sia implicato nella resa della per­
sonalità, la promessa di trasformazione/truccatura integrali è
anche una fantasia di grande richiamo.
Altra sfaccettatura di estremo interesse nei film di mostri
degli anni Cinquanta sono le immagini di occhi e - soprattut­
to - cervelli sporgenti. Insieme, danno un’immagine di immen­
so e intollerabile sovraccarico visivo-mentale, una descrizione
che potrebbe avere più legami con il livello senza precedenti di
bombardamento mediatico (soprattutto televisivo) degli anni
Cinquanta che con qualunque possibile fisiologia extraterre­
stre. Mai in precedenza al pubblico era stato chiesto di vedere
tanto, o assorbire tanti messaggi o quantità di informazioni.
La preoccupazione popolare per i dischi volanti poteva essere
letteralmente sopravvalutata, ma visioni luminose attraversava­
no realmente il cielo e invadevano le abitazioni sotto forma

219
David ] Sitai

di ineludibili segnali televisivi. Cervelli amplificati e ingrossati


venivano esibiti in film come Cittadino dello spazio (This Island
Earth, 1955, di Joseph M. Newman), Donovan’s Brain (t. lett.:
Il cervello di Donovan, 1953, di Felix Feist), e The Brain from
the Planet Arous (t. lett.: Il cervello dal pianeta Arous, 1958,
di Nathan Juran). In Piend Without a Pace (t. lett.: Demone
senza volto, 1958, di Arthur Crabtree), il cervello umano viene
completamente esternato come entità serpentoide che striscia
con una spina dorsale in grado persino di strangolare le pro­
prie vittime. Invasion of the Saucer Man (t. lett.: L’invasione
degli uomini disco, 1957, di Edward L. Cahn) ostentava la più
esagerata delle ipertrofie oculocerebrali: alieni (interpretati da
nani) con teste a forma di gargantuesche lampadine e occhi da
insetto dalle dimensioni di una palla da baseball. Come le pri­
me mostruosità cinematografiche riflettevano un orrore di
frammentazione fisica, queste nuove creature anticipavano non
una lacerazione violenta del corpo, ma il suo indebolimento e
atrofia. Il futuro prevedeva il guardare immagini e l’accumula­
re informazioni; gli occhi e il cervello erano le sole parti utili
rimaste della forma umana. Le riviste di fantascienza degli anni
Cinquanta prediligevano elaborate, oscene copertine con illu­
strazioni di infiniti massacri di mostri dagli occhi di insetto
(noti ai lori ammiratori come «B.E.M.», [bug-eyed monsters])-,
l’ansia oculare e la spersonalizzazione erano riflessi analoghi in
film come The Beast with a Million Eyes (t. lett.: La bestia con
un milione di occhi, 1955, di David Kramarsky), The Crawling
Eye (t. lett.: L’occhio strisciante, 1958, di Quentin Lawrence)
e The Cyclops (t. lett.: Il ciclope, 1957, di Bert I. Gordon).
I nuovi mostri in pista spiazzarono a tutti gli effetti i vec­
chi; una generazione che non aveva vissuto gli anni Trenta non
poteva rispondere a icone orrorifìche generate in seguito al
decennio di traumi economici e sociali che le aveva precedute.
In nessun luogo la discrepanza negli stili horror è tanto eviden­
te quanto nei mesti ultimi anni di Bela Lugosi, imprigionato
in una cripta professionale. Diversamente da Boris Karloff, che
si era diviso proficuamente tra teatro, televisione e radio, Lu­
gosi non aveva indirizzato particolarmente bene la propria car­
riera. Una storia forse apocrifa ma comunque rivelatrice narra

220
{ hr Show

<li un Lugosi disperato che riceve una lucrosa offerta per uno
spettacolo a Las Vegas, ma solo se insieme a lui apparirà Boris
Karloff.55 Si dice che Lugosi abbia implorato il divo di unirsi
a lui, e che Karloff abbia rifiutato. Attorno alla metà degli anni
Cinquanta il conte era nettamente l’anello debole nella catena
Frankenstein-Dracula. L’horror del periodo era inesorabil­
mente ossessionato dalla tecnologia e dalla parte destra del
cervello; solo di rado si esplorava un tema soprannaturale.
Come esemplare di uno stile sorpassato, Lugosi fu a lungo
scartato dalle major, lavorando, quando ci riusciva, nei film a
basso costo più micragnosi. Uno dei suoi ultimi film - l’estre­
mo ruolo parlato - fu Bride of the Monster (id., 1955) di Ed­
ward Wood, in cui si architettò un intreccio per miscelare il
vecchio personaggio di Lugosi con un trucchetto da mostro
atomico à la page. Il film non riuscì a resuscitarne la carriera
per motivi estranei ai suoi dubbi meriti. Durante la lavorazio­
ne, l’attore Paul Marco dovette accompagnare Lugosi a casa
durante una pausa. Fu proprio Bela il motivo della pausa: do­
veva prendere la sua «medicina». Nel suo appartamento, do­
minato da un imponente dipinto a olio dell’attore all’apice del­
la carriera negli anni Trenta, Lugosi disse a Marco in tono di
scusa: «Ciò che vedrai non sarà di tuo gradimento, Paul: non è
molto piacevole, ma ho bisogno di prendere la mia medicina».

Proprio di fronte a me c’era uno sgabuzzino abitabile. Bela


aprì le tende e vidi che assomigliava a uno stanzino... Prese
un grembiule, lo indossò con estrema delicatezza e lo legò
lento. Poi si arrotolò le maniche e si lavò le mani, prese dal
cassetto un asciugamani pulito e se le asciugò. Quindi aprì la
borsa sterilizzatrice e ne estrasse la siringa ipodermica e la
«medicina». Fu tutto così drammatico, come trovarmi im­
merso nella foschia, nella nebbia. Tutto quello straziante ceri­
moniale...54

Sulla scena e sullo schermo, Bela Lugosi aveva officiato


infiniti rituali di penetrazione nel sangue; ora penetrava le sue
stesse vene in un dramma privato di resa a una forza esterna.
Ai nostri giorni una lotta con la dipendenza chimica è quasi

->->1
David J. Skal

di rigore per una star che desideri mantenere il contatto col


pubblico; una dose perversa di dipendenza, disintossicazione
e ricaduta significa tonnellate di attenzione da parte della
stampa. Forse Lugosi era in anticipo sui tempi. Combattè e
vinse nel 1955 la propria personale battaglia contro la droga,
ma per un demone, dopo un esorcismo, è diffìcile attirare un
grande interesse. Non si realizzò mai un suo ritorno. La quarta
moglie, Lilian, lo aveva lasciato nel 1954; dopo la disintossica­
zione si sposò una quinta volta. L’estrema sposa di Dracula
era un’impiegata dello studio addetta al montaggio, Hope Li-
ninger, che aveva scritto all’attore lettere di ammirazione fin
dagli anni Trenta. Ma Lugosi era solo il guscio di ciò che era
stato un tempo, e per la giovane sposa il matrimonio si rivelò
molto lontano da un sogno divenuto realtà. Quell’anno fu am­
piamente segnato da gelosia e litigi, che finirono con la morte
di Lugosi all’età di settantadue anni il 16 agosto 1956. Andò
nella tomba avvolto nel mantello di Dracula, uno stupefacente
pezzo di bravura ancora da eguagliare nella sua mesta audacia.
Hope Lugosi rilasciò un’intervista particolarmente veleno­
sa al «National Enquirer» l’anno dopo la morte del marito,
vantandosi di essere lei ad aver spaventato Dracula, criticando
i suoi leggendari manierismi autodrammatizzanti («Recitava
sempre»), e affermando che intendeva usare i suoi ritratti a
olio a grandezza naturale come bersagli per freccette. Non ri­
sparmiava critiche ai suoi ammiratori («Solo ragazzi, nessuna
ragazza. Portano il trucco e gironzolano per i salotti fune­
rari»35).
I fanatici di Lugosi avrebbero dovuto attendere alcuni an­
ni prima che i classici horror fossero distribuiti in televisione,
in una ripresa di interesse per i mostri della tradizione. Nel
frattempo, l’horror avrebbe evitato la cripta, esibendo più
branchie caudate che ali di pipistrello.
Benché i giovani avessero sempre composto una larga fetta
del pubblico di film di mostri, gli anni Cinquanta videro gli
adolescenti diventare un vero e proprio segmento del mercato.
Nel 1958, la percentuale fra i dodici e venticinque anni era
balzata dal 62 al 72 per cento degli spettatori.36 Film come I
Was a Teenage Werewolf (t. lett.: Sono stato un teenager man-

222
The Mfmiter Shou*

miro, 1957, di George Fowler Jr.) c La strage di Frankenstein


(I Was a Teenage Frankenstein, 1958, di Herbert L. Strock)
erano esercitazioni di puro marketing demografico; il produt­
tore, Herman Cohen, escogitò i titoli e preparò la campagna
promozionale prima ancora che fosse pronta la sceneggiatura.
Teenage Werewolf prese la formula di Gioventù bruciata e la
trasformò in soprannaturale; Tony, un adolescente-con-pro-
blemi (interpretato da Michael London al suo esordio cinema­
tografico), va in cura da uno psichiatra con lo scopo manifesto
di controllare la propria aggressività. In accordo con le miglio­
ri teorie del dottor Fredric Wertham, lo strizzacervelli di Tony
sa che fra l’adolescente e l’animale esiste un confine sottile
e sospinge il ragazzo oltre il limite con ipnosi e medicine. Il
produttore Cohen difendeva ignobilmente la storia dal punto
di vista psichiatrico, citando un’affermazione di un medico ca­
liforniano per il quale i film horror erano «per gli adolescenti
d’America una terapia psichiatrica autosomministrata».37 I
mostri adolescenziali di Cohen erano resi tali da adulti malva­
gi, e la difesa della sanità mentale da parte del produttore con­
teneva un malcelato rabbuffo a genitori e figure d’autorità: se
avessero fatto il loro dovere, le compagnie cinematografiche
non sarebbero state costrette a fornire assistenza ai ragazzi.
I film di Cohen, fra i quali Blood of Dracula (t. lett.: Sangue
di Dracula, 1958, di Herbert L. Strock) e Horrors of the Black
Museum (t. lett.: Gli orrori del museo oscuro, 1959, di Arthur
Crabtree), erano distribuiti in America dall’American Interna­
tional Pictures, uno studio specializzato in film di genere a
basso costo e alti profitti. La AIP inoltre lanciò la carriera hol­
lywoodiana di Roger Corman, il leggendario «Re dei Film di
serie B», che produsse opere redditizie con mezzi quasi folle-
mente angusti. A Bucket of Blood (t. lett.: Un secchio di san­
gue, 1959) e La piccola bottega degli orrori (1960), entrambi
parodie horror, spinsero ai limiti le sue risorse: ciascuno dei
due fu prodotto con meno di 50.000 dollari, rispettivamente
in cinque e due giorni.
Il più bizzarro fra gli scioccanti showman a emergere in
questo periodo fu senz’ombra di dubbio William Castle, che
modellò le proprie aspirazioni di carriera su P.T. Bamum e il

223
Ddl’ltl ]. Skdl

dottor Caligari, innalzando il sensazionalismo da fenomeni da


baraccone al livello dell’autoparodia e oltre. Il suo vero nome
era William Schloss ed era di New York. Da ragazzo Castle si
era bagnato i pantaloni nel corso del secondo atto di The Mon­
ster di Crane Wilbury a Broadway.38 Ma qualche anno dopo
era pronto per un altro tentativo. «Nel 1927, quando avevo
tredici anni, comprai un posto in balconata con un dollaro e
dieci centesimi sottratti al borsellino di mia sorella, ansioso di
vedere il dramma Dracula con Bela Lugosi », scriveva il regista
nelle proprie memorie. Ipnotizzato, ci ritornò quasi ogni sera
per due settimane. «Mi sedevo in balconata e ascoltavo le gri­
da del pubblico terrorizzato. Ben presto non guardai più la
pièce; mi divertivo molto di più a osservare gli spettatori.»39
La sua acuta percezione della capacità di coinvolgimento
del pubblico fu ricompensata. Mentre svolgeva un lavoretto
estivo a Stony Creek nel Connecticut, nel 1938, finse ignobil­
mente un atto vandalico «nazista» contro il teatro per pubbli­
cizzare un membro della compagnia, un’attrice tedesca che
aveva rifiutato l’invito di Hitler a un festival artistico di Mona­
co.40 Il misfatto ricevette attenzione nazionale e gli valse un’of­
ferta da parte della Columbia Pictures. Lavorò oscuramente
ma con continuità per diversi anni, e mostrò un’abilità partico­
lare nel dirigere gialli a basso costo. Macabro (Macabre, 1958)
fu il punto di svolta della sua carriera. Il film in sé non era un
granché: un morboso thriller contro il tempo su un uomo che
cerca di salvare la figlia, che crede sepolta viva. Per rendere il
film più appetibile, il regista aveva convinto i Lloyd’s di Lon­
dra ad assicurare ogni persona per mille dollari in caso di mor­
te per spavento durante la visione del film.41 Benché Castle
considerasse il trucco esclusivamente pubblicitario, l’austera
compagnia di assicurazioni fu assai più cauta, insistendo per
l’esclusione di certe persone già mal predisposte, e di eventuali
suicidi a metà proiezione.
«Variety» riferì che la distribuzione complessiva delle
«polizze di assicurazione» sorpassava la cifra di dieci milio­
ni.42 Macabro fu un successo, in seguito al quale i film di Ca­
stle non fecero più «prime», ma «grida primarie». Seguì La
casa dei fantasmi (House on Haunted Hill, 1958), accompagna­

224
rhe Mtwtfrr Shotr

lo da mi linceo per coinvolgere il pubblico, «Emergo», che


consisteva in uno scheletro luccicante che sventolava sopra gli
spettatori durante un blackout sullo schermo: il vero imbro­
glio, anche se non intenzionale, in La casa dei fantasmi è l’af­
fluenza postbellica. Un microcosmo americano di abbienti e
non abbienti si riunisce in una casa moderno-antica, con un
ricco eccentrico (Vincent Price) a esercitare un’influenza mali­
gna sulle vite dei suoi ospiti. A ognuno è stato offerto un pre­
mio di 10.000 dollari se riesce a superare vivo la notte. A ognu­
no viene fornita una pistola carica come incentivo. Oli ospiti
dovranno guadagnarsi il denaro sottoponendosi ad apparizioni
grottesche, una testa insanguinata in una cesta notturna, una
botte piena di acido ecc. Nessuna bassezza è sufficiente: nel­
l’America del boom anni Cinquanta si può tollerare qualunque
cosa pur di ottenere una ricompensa.
Vincent Price, già attore versatile con occasionali incursio­
ni nell’horror, impose qui il proprio tocco al genere. Era in
grado di infondere un’eleganza aristocratica anche nelle trame
più sciape, un’abilità perfettamente adatta alla produzione suc­
cessiva di Castle, Il mostro di sangue (The Tingler, 1959).
Quando la moglie del suo personaggio insiste che un certo
matrimonio avverrà solo passando sopra il suo cadavere, Price,
versandosi da bere, la prende alla lettera. «Poco ortodosso»,
dice, «ma non impossibile.» Il mostro di sangue era costruito
intorno a un altro sensazionale Casde-trucco, questa volta
chiamato «Percepto». Il « Tingler » del titolo originale è una
creatura centipede che si crede si formi intorno alla spina dor­
sale in momenti di terrore paralizzante; solo un grido può al­
lontanarlo. Un intreccio altamente involuto comprendente una
sordomuta (che non può gridare) consente di asportare dal suo
cadavere un Tingler, liberandolo sul pubblico. Nel momento
critico, lo stesso film pare flettere le proprie giunture e spez­
zarsi, con l’ombra del Tingler proiettata sullo schermo come se
strisciasse tutt’intomo al proiettore. La voce di Vincent Price
istruisce il pubblico di gridare per salvarsi la vita, e nel black­
out susseguente «Percepto» prende il sopravvento.
«Percepto» consisteva di vibratori elettrici attaccati sotto
le sedie del cinema per «solleticare» (tinglé) gli ignari spettato-

225
David I Sitai

ri. Secondo lo sceneggiatore Robb White, «non avevamo in­


tenzione di comprare migliaia di vibratori senza sapere se
avrebbero realmente funzionato, così ci guardammo un po’ in
giro finché non trovammo un cinema nella Valley che proietta­
va Storia di una monaca (The Nun's Story, 1959, di Fred Zinne-
mann)». La programmazione del film doveva concludersi do­
menica, con la prima di II mostro di sangue prevista per il
giorno seguente. «Assumemmo parecchia gente per passare la
giornata ad attaccare vibratori alle sedie. Ma quella sera, pro­
prio durante i momenti più tragici di Storia di una monaca,
qualcuno sfiorò l’interruttore generale e le poltroncine comin­
ciarono a vibrare onda dopo onda. Fu un pandemonio asso­
luto!»45
Gli espedienti di Castle rientravano nella più vasta tenden­
za hollywoodiana degli anni Cinquanta verso sistemi di presen­
tazione più spettacolari che potessero competere con la televi­
sione. Rientravano nel fenomeno il Cinemascope, il 3-D, il Ci­
nerama, il suono stereofonico, e persino la Smell-o-Vision,
procedimento odorifero di corto respiro. Scheletri volanti, pol­
trone vibranti, e polizze assicurative fasulle ebbero l’effetto
collaterale di mutare l’impersonale ingresso al cinema in un
rituale di partecipazione teatrale, un’esca comprensibile in un
decennio segnato da isolamento suburbano e alienazione indi­
viduale. Per Castle il trucco definitivo sarebbe stata un’immer­
sione sensoria totale: «Il pubblico assaggerà la nebbia vagante
attraverso un cimitero. Annuserà la tomba smossa di fresco.
Sentirà il tocco di dita spettrali».44 I trucchi orrorifici forniro­
no agli spettatori una sensazione necessaria di contatto, coin­
volgimento, e identificazione. Anche se la sensazione dominan­
te erano i brividi, almeno era reale.

Una caratteristica impressionante dell’horror anni Cin­


quanta è la sua ambivalenza nei confronti del benessere e del­
l’esile fondamento di sicurezza materiale e identità sociale.
Film dopo film, la gente si ritrova con la personalità rubata,
intrappolata all’interno o rapita urlante da esili abitazioni, age­
volmente distrutte da mostri o altre forze. Il progresso militare
è rassicurante, ma al contempo minaccia distruzione totale in

226
The MoHvtrr Show

ogni momento. Tutto è un continuo, disorientante, sconvol­


gente mutamento improvviso, con un surplus informativo dagli
occhi moscoidi. Il mondo dell’horror commerciale dipingeva
uno sconvolgente ritratto in filigrana dell’America dopo la
guerra, esplorando paure semiconscie tanto crude e primitive
che è sorprendente venissero comunque affrontate.
Il riconoscimento, in ogni caso, avviene in retrospettiva.
All’epoca, era la parte solare del grido a ricevere l’attenzione
maggiore. Nel 1959, «Playboy» informava i propri lettori del-
l’importanza crescente dell’horror come forza economica pro­
pulsiva: per quasi cinque anni i film di mostri erano stati la
forza più rovente nell’industria del divertimento: 52 film hor­
ror - uno alla settimana - erano stati prodotti nel 1957, più di
75 nel 1958, un centinaio erano previsti per la stagione 1959.

Se quest’ultima cifra verrà rispettata, e non c’è motivo di pen­


sare il contrario, l’horror costituirà più di un terzo della pro­
duzione cinematografica americana. Offrirà impiego a tremila
uomini e donne. Userà quasi 72.000 metri di pellicola, rag­
giungerà un centinaio di milioni di consumatori (contando le
repliche), ammonterà a 150 ore di intrattenimento complessi­
vo, costerà dieci milioni di dollari, e, se non crolla il mondo,
ne frutterà cento. H che significa, almeno statisticamente, che
in America l’horror è oggi un oggetto d’uso comune, come i
cereali per la colazione o il sapone. In termini finanziari, si
tratta di un giro d’affari maggiore del mercato complessivo
del libro tascabile. In realtà, se un unico interesse controllasse
tutta la commercializzazione, quell’interesse sarebbe un’azio­
ne sicura.45

«Ringraziamo Dio per i film dell’orrore», disse il proprie­


tario di un grande drive-in a San Fernando, in California. «So­
no stati la nostra salvezza. Prima di questo slancio pensavamo
di chiudere due sere a settimana; ora, con tutta quella roba di
mostri, il posto comincia a riempirsi alle tre del pomeriggio. I
bambini ne vanno pazzi. Le ragazze gridano aggrappandosi ai
ragazzi, e a volte bisogna proprio tener d’occhio le auto...»46
Il rintocco del camposanto

Decoratevi la cameretta da soli!


Fate una sorpresa alla mamma!
Createvi la vostra stanza degli orrori
personale!
Pubblicità dell’Aurora Plastics per i modellini di
mostri cinematografici.

L’orrore e l’umorismo sono stati gomito a gomito almeno dai


tempi del dramma elisabettiano e giacobino. Le più fosche tra­
gedie shakespeariane erano alleggerite da uno spirito macabro
e vi sono scarsi esempi di commedia nera più pungente di La
tragedia del vendicatore di Cyril Tourneur (1607). Prodotto po­
co dopo la riapertura dei teatri londinesi, rimasti chiusi a causa
della peste, il dramma presentava un personaggio cinico, Vin­
dice, che si porta in giro il teschio della fidanzata elegantemen­
te truccato da orrida esca sessuale per intrappolare l’assassino.
Con le sue atmosfere mutevoli, La tragedia del vendicatore di­
mostra che il confine tra farsa e tragedia è quell’attimo fuggen­
te in cui lo slapstick finisce in tragedia, o viceversa - la diffe­
renza fra petit e grand Guignol. Gli inquietanti «a parte» e
l’implacabile morbosità di Vindice definirono l’umorismo ma­
cabro almeno tre secoli e mezzo prima che il Guardiano della
Cripta cominciasse i suoi deliranti commenti sulle storie di
vendetta dei fumetti E.C.
Nel 1958, risata orrorifica e commedia nauseante si anda­
vano diffondendo dappertutto. «Nell’umorismo americano di
quel periodo la parola magica era “malato” », ricordava
Albert Goldman in Ladies and Gentlemen, Lenny Bruce!!
«Barzellette malate e fumetti malati, cantanti malati... come
le storielle e gli hula hoop che cominciano con i ragazzini, i
subadolescenti, e poi si diffondono come il morbillo.»1 La
sensibilità perversa è intimamente correlata con quella mo­
struosa, e diverse barzellette nere «classiche» hanno una certa

228
I'hr Mtwifrr Shnte

risonanza con motivi onorifici hollywoodiani. Una delle più


celebri storielle nere di ogni tempo - «Johnny può uscire a
giocare a baseball?» «Ma lo sapete anche voi che Johnny non
ha né gambe né braccia. » «Perfetto: lo vogliamo come piatto
base!» - è quasi Tod Browning allo stato puro, con una sardo­
nica spruzzatina di fumetti E.C. come guarnizione.
Come altrove Goldman spiegava il fenomeno, «quando
l’umorismo nero esplose nei primi anni Cinquanta fu una ca­
tarsi per la rabbia, paura e ribellione giunte a ebollizione du­
rante l’era McCarthy. Non solo una moda, il nuovo umorismo
rivelò la grande profondità e ampiezza dell’esigenza di farsi
sentire e purgare l’anima dalle emozioni pericolose».2 Nell’a­
nalisi dello scrittore, lo stile nero non era tanto intenzionale
crudeltà quanto una protesta contro il divario sempre crescen­
te tra dolorose realtà sociali e le inoffensive evasioni della cul­
tura di massa.
Il comico Lenny Bruce lasciò un segno indelebile sulla mo-
stromania quando iniziò a iniettare una trasfusione di Lugosi/
Dracula nei propri spettacoli. In un celebre numero, «Beauti­
ful Transilvania», forse Bruce contribuì all’evoluzione cultura­
le dell’immagine di Dracula quasi tanto quanto lo stesso Bela
Lugosi:

DRACULA (a Bela Jr.): «Va bene, adesso taci e b-b-beviti il


tuo bicchiere di sangue. Poi dai a Mamma il morso della
buonanotte. Mi hai sentito? Piantala di darci fastidio! Vai
nella camera accanto e mangiati la tua lavagna e i tuoi gessetti.
E fa’ un po’ di es-s-sercizi sul collo di tua sorella».
SIGNORA DRACULA (imitando una moglie ebrea): «Ma be­
ne! Proprio un pel modo di parlare al ragazzino! Non ti pare?
Fa’ un po’ di esercizi sul collo di tua sorella! E tutto quello
a cui riesci a pensare, degenerato! Aghh! Non posso più guar­
darti in faccia! Puah! Lo sai cosa significa quanto donna non
riesce più a guardare uomo in faccia? Il nostro rapporto è
definitivamente finito, Bela. Il fuoco si è spento. Con quella
tua aria da bellimbusto e la vaselina tra i capelli, che sporca
federe...»
DRACULA: «Continua. Continua pure da sola, mostriciatto­
David J. Skal

lo! Ora, mi senti? Ora amiamo nella stanza accanto, e non


foglio essere disturbato».
SIGNORA DRACULA: «Certo, stai per farti di nuovo! Ti fu­
merai qualche porcheria, magari un’altra di quelle schifose
zigarette, e ti mancerai tutto tubetto! »
DRACULA (una larva di vecchio ebreo)’. «Non voglio farmi:
solo un paio di pillole... Perché non lasci me in pace? »
SIGNORA DRACULA: «Certo, stupido pappone, tu - puah!
(a Bela Jr.) Piace a te quello che fa papà per vivere? Succhia
il collo della gente. Mmh mmh! Piace a te?»5

In un colpo solo, Lenny Bruce ribaltò per sempre il classi­


co vampiro in frac. (Un enorme pupazzo di Dracula faceva
parte della scenografia della commedia di Julian Barry, Lenny,
prodotta a Broadway nel 1971.) Altri comici ebrei cominciaro­
no a fare imitazioni di Lugosi o numeri del genere, con il risul­
tato finale di produrre una versione di Dracula vocalmente più
simile a James Mason che all’originale, eppure subito «ricono­
sciuta» come Bela Lugosi.
La visione del mondo iconoclastica dei comici «neri»
coincideva con quella degli scrittori beat; Jack Kerouac, per
esempio, era un inveterato ammiratore di Dracula, e aveva
creato un omaggio ai mordicollo stile Lugosi nel suo romanzo
del 1959 Dr. Sax. Il conte Condu («Vestito impeccabilmente,
appena levato dalla bara da sera, la cassa di raso del Destino
con i suoi graffiti spengleriani metamorfosati sul coperchio»4)
è uno dei tanti esseri fantastici che popolano la vita immagina­
ria di Lowell nel Massachusetts, città d’origine di Kerouac
dov’era ambientato il romanzo. Dan Talbot, a capo della New
Yorker Film Society, conosceva l’interesse dello scrittore per i
non-morti, e nel 1960 invitò Kerouac a preparare delle note di
commento a una proiezione di Nosferatu. Il problema era che
«Jack allora beveva così tanto che era inutile anche tentare
di proiettargli lo spettacolo serale».5 Dopo qualche tentativo
frustrante, Talbot infine allestì uno spettacolo di mattina. Pro­
prio come aveva polverizzato Nosferatu, la luce del sole allon­
tanava il demone della sete di Kerouac, ma solo momentanea­
mente.

230
The Momter Show

Una sera ilei 1958, una donna descritta da «The Saturday


Iwening Post» come «una delle più eminenti ereditiere di Phi­
ladelphia» declinò un invito a bridge. Il motivo? Coincideva
con l’appuntamento settimanale con Shock Theater, una scor­
pacciata di cinquantadue film horror Universal d’annata appe­
na venduti a stazioni televisive in tutto il Paese. L’anfitriona,
comunque, aveva anticipato l’obiezione della sua invitata. «Ma
mia cara», aveva detto, «puoi venire benissimo. Naturalmente
quando comincia il programma smetteremo subito di gio­
care.»6
Il programma si rivelò qualcosa più di un vecchio film. La
trasmissione di Philadelphia era presentata da un personaggio
dall’aria cadaverica con un cappotto da becchino d’occasione,
guance scavate, una risata vuota, occhi cerchiati di nero, e lab­
bra che parevano cucite insieme come in una testa d’annegato.
Si chiamava «Roland», con l’accento sulla seconda sillaba, per
favore.
Nella realtà, Roland era John Zacherle, un trentottenne
appassionato di teatro amatoriale che non aveva mai visto alcu­
no dei classici film horror prima di essere invitato a presentar­
li.7 Se avesse dovuto scegliere, avrebbe preferito passare il
tempo a curare rose (aveva vinto diversi premi), ma ora, a
quanto pareva, Zacherle lo avrebbe trascorso crescendo mar­
gherite.
Quattro anni prima, Vampira era stata una pioniera della
bella arte di presentare film horror in televisione, ma era rima­
sta un fenomeno limitato a Los Angeles senza filiazioni dirette.
Shock Theater fornì nuova linfa per banalità sul macabro.
«Mostri di cerimonie» cominciarono a spuntare indipendente­
mente l’uno dall’altro in dozzine di stazioni locali in tutta l’A­
merica.
Era stato battezzato «Roland» nel corso di una serie di
western giornalieri intitolata Action in the Afternoon, prodotta
a Philadelphia. Zacherle era stato scelto per interpretare un
becchino viaggiatore sulle piste del vecchio West, profittatore
delle frequenti sanguinose sparatorie. Ed White, produttore
alla WCAU-Tv, si ricordò il personaggio, contattando Zacherle
all’acquisto del pacchetto Shock e scrivendo la maggior parte

231
David ì Shil

dei soprannaturali monologhi di Roland. Il personaggio emer­


geva come una sorta di necrofìlo burlone, tra i cui compari
figuravano la moglie vampira My Dear (rappresentata da un
paletto di legno sporgente da una bara di minuscole dimensio­
ni), e Gasport, un’entità non-morta in un sacco di iuta. Anche
se Zacherle pareva masticare le battute con ispirazione demo­
niaca, lavorava senza particolari modelli per il proprio ruolo;
a differenza di Lenny Bruce, non aveva avuto quasi alcuna
familiarità con le classiche icone onorifiche.
Shock Theater fu l’avvenimento inaugurale della Monster
Culture, un caotico fenomeno legato ai film horror, iniziato
nei tardi anni Cinquanta e continuato fino alla metà dei Ses­
santa. Nella Monster Culture, i rituali di contorno al film erano
importanti quanto i film stessi. Il rituale prevedeva una rico­
gnizione di gruppo sugli avi dei mostri che presentavano; un’e­
splosione di fanzine che venivano lette, rilette e scambiate tra
gli appassionati; e persino la creazione di modellini con effigie
in plastica. La cosa più importante era che i mostri si materia­
lizzavano in tinello per la prima volta: non più mera luce rifles­
sa nei cinema, ma ora fonte di illuminazione, un falò di splen­
dente luce elettronica intorno al quale una generazione poteva
tramare, tremare e condividere.
A Philadelphia, Roland ottenne un successo superiore a
qualsiasi previsione. La stazione invitava i fan a partecipare a
un incontro per conoscere «The Cool Ghoul » (Il fantasma alla
moda); previsti nell’ordine di qualche centinaio, se ne presentò
un’orda di 13.000. John Zacherle si trasferì alla WOR-Tv,
un’affiliata newyorkese della CBS, abbandonando il nome Ro­
land in favore di una leggera modificazione del proprio: Za-
cherley. Un fan ricordava nel 1978 sulla rivista «New York»
la Zacherleymania: «Mio Dio, facevo parte del suo fan club»,
ricordava lo scrittore Peter Occhiogrosso. «Avevo un tavolo
per esperimenti in cantina. E alambicchi e storte, tutto. Ogni
ragazzino disegnava aghi ipodermici e cappi sui quaderni di
scuola. Le suore sequestrarono la mia ricetta per la zuppa di
ragno! Era contraria alla religione cattolica. E ogni domenica
il monsignore si alzava dal pulpito e si scagliava contro il male
di Shock Theater. Noi ce ne fregavamo.»8

232
The Shine

Zachcrley tu anche l'occasione per uno dei primi connubi


tra musica pop e macabro. Anni luce prima di Alice Cooper,
John divenne un'istituzione di Halloween per la trasmissione
American Bandstand. Il suo ultimo singolo, Dinner with Drac,
entrò nel marzo 1958 fra i primi dieci.9 (In quel periodo vi fu
una certa moda per il bizzarro e inclassificabili registrazioni
pop; fra gli altri esempi: Flying Purple People Eater e Witch
Doctor.) Dinner with Drac era fondamentalmente costituito da
una serie di macabri limericks recitati con accompagnamento
di chitarra jazz. Dick Clark, presentatore di American Band­
stand, ricordava le primitive tecniche dello studio di registra­
zione. «Se volevano eco, dovevano aspettare che il palazzo si
svuotasse, poi sistemavano una serie di casse nel salone e le
assicuravano al john con un microfono».10
Zacherley ebbe la più elevata visibilità nazionale di qua­
lunque presentatore horror, ma non era solo. La WABC-Tv di
New York aveva un horror host senza volto noto solo come
«The Voice». Fort Worth ospitava Gorgon, New Orleans
Morgus. A San Francisco si adorava Terrence, a Chicago Mar­
vin. A Baltimora, l’etere si illuminò con dottor Lucifer. Ghou-
lardi conquistò Cleveland.
I presentatori horror erano sciamani, cantastorie, figure
estreme, anarchici, decostruzionisti prima del tempo. In un’in­
tervista del 1991, John Zacherle ricordava la prima occasione
in cui fece veramente parte di un film, invece di accontentarsi
semplicemente di presentarlo. «Era The Black Cat, con Boris
Karloff e Bela Lugosi. C’era una scena con un gruppo di ado­
ratori del diavolo che assistevano a un rito. Decidemmo di
sovrapporvi una mia inquadratura insieme al gruppo, mentre
facevo smorfie alla telecamera. »111 fan lo adorarono. Per tutta
l’America, i presentatori horror cominciarono a interrompere
e alternare le vecchie pellicole a commenti irriverenti e oltrag­
giosi inserti filmici. I film strizzavano l’occhio allo spettatore,
e viceversa. I ragazzini si fabbricavano mostri in casa.

Alla fine degli anni Quaranta, mentre si affacciava la con­


sapevolezza dell’era nucleare, Forrest J. Ackerman, probabil­
mente il maggiore collezionista e fan di pubblicazioni di fama-

ni i
David I Skal

scienza, fantasy e horror in tutta America, ricevette una telefo­


nata dalla Los Angeles Public Library, bisognosa di assistenza
per l’archivio. La tecnologia futuristica, le guerre spaziali, le
storie di fantasmi e i romanzi gotici per qualche ragione aveva­
no occupato la stessa affollatissima nicchia, una sezione chia­
mata per anni dalla biblioteca semplicemente «Improbabilia».
«Avevano sistemato Dracula proprio accanto a un ponderoso
tomo sull’allunaggio», ricordava Ackerman. «Ritenevano le
navi spaziali evanescenti quanto i vampiri. »12 Forrest suggerì
di considerare tutto ciò che era rivolto al passato - sortilegi,
maghi, stregoneria, licantropi ecc. - come territorio del fanta­
stico, con un sottogenere orrorifico, e tutto ciò che era rivolto
al futuro - viaggi spaziali, extraterrestri e affini - come fanta­
scienza. Benché Ackerman distinguesse i generi, li collezionava
tutti da onnivoro. Da ragazzo cresciuto in California, aveva
tenuto una corrispondenza con Cari Laemmle Sr., il quale lo
aveva rifornito di tutti i manifesti, opuscoli stampa e foto di
scena dei classici horror e fantasy targati Universal.
Ackerman aveva anche lavorato come agente, e alla fine
degli anni Cinquanta era in affari con James Warren, un edito­
re ventiseienne della costa orientale. Warren (in realtà Hymie
Taubman di Philadelphia Sud15), come diversi giovani della
sua generazione, era stato folgorato da Hugh Hefner e dall’im­
pero in espansione di «Playboy». Fondò quindi una propria
rivista per soli uomini, «After Hours», che pubblicava foto
piccanti in bianco e nero contornate da articoli di fantascienza
degli scrittori clienti di Ackerman e foto umoristiche fomite
dallo stesso Forrest, attinte a una vasta collezione di foto di
scena. Ispirato da un numero speciale di una rivista francese
dedicato esclusivamente ai mostri, e incoraggiato dal volume
di posta favorevole ricevuta da «After Hours» per il numero
sui mostri («Ecco Scream-o-Scope! »), decisero di preparare
un numero speciale in un primo tempo chiamato «Wondera-
ma». Warren ebbe un ripensamento a proposito del titolo, e
lo chiamò «Fantastic Monsters of Filmland». Il distributore
del progetto insistette per un’ultima modifica. Warren chiamò
Ackerman e gli disse: «Diventerai direttore di una rivista chia­
mata “Famous Monsters of Filmland”». Ackerman ricorda la

234
The Monxlrr Show

risposi;! che diede: «Significa che ci dovrò mettere il mio nome


sopra?»
Warren disse ad Ackerman che sarebbe andato in volo a
Los Angeles per discutere l’affare. «A dire il vero», rievocava
Forrest, «in seguito scoprii che era così al verde da prendere
un pullman per Las Vegas e volare poi fino a Los Angeles
sull’aereo da New York.» Gloria Steinem, che lavorò per un
breve periodo come impiegata nell’ufficio di Warren, lo ricor­
dava come «un grande mistificatore. Difatti lo prendevamo in
giro: somigliava a un personaggio alla Sammy Glick, con enor­
mi braccialetti. Non so se sia vero, ma fa parte della leggenda
di James Warren che d’estate guidasse con i finestrini alzati
per far credere agli altri di avere l’aria condizionata».14
Tale era la sua abilità da commesso viaggiatore che la pub­
blicità non serviva. La sola a farla era la stessa casa editrice.
Sotto forma della ditta di vendite per corrispondenza Captain
Company, la Warren Publications smerciava di tutto, dalle ma­
schere in gomma dei mostri ai cortometraggi in otto millimetri,
alle alte uniformi dell’esercito, fino a scimmiette in carne e
ossa. H primo numero di «Famous Monsters», del quale furo­
no tirate 150.000 copie, sfoggiava una copertina alla Hefher:
Warren in persona con una maschera verde da Frankenstein,
coi chiodi del collo drappeggiati in un ascot dapper. Appog­
giata al suo fianco, una prosperosa bionda con un vestito fa­
sciarne.
Nonostante un furioso uragano sulla costa orientale il gior­
no dell’uscita, il 27 febbraio 1958, la rivista fu un successo
immediato, esaurendo il 90 per cento delle copie e innescando
dozzine di lettere di fan ogni giorno.
«All’apice di “Famous Monsters
* ricevevo 500 lettere al
mese», ricordava Ackerman. «La mia adorata mamma, cam­
pata fino a novantatré anni, le apriva e divideva quelle prive
di senso dalle richieste motivate.» Nella posta si distinse un
racconto di ima pagina intitolato The Killers, inviato da un
lettore quattordicenne del Maine di nome Steve King. «In
quel periodo sostanzialmente scippava idee per le storie da
vecchie copie dei fumetti E.C. e si sforzava di convincersi che
fossero originali.»

235
David J. Skal

Stephen King, nato nel 1947 a Maine, nel Portland, scoprì


la narrativa dell’insolito come una specie di sinistro regalo da
parte del padre che lo aveva abbandonato.15 Donald King -
nato Spansky, ma che aveva usato lo psudonimo di Pollack
prima di cambiare legalmente nome - assomigliava parecchio
al padre assente di Lo zoo di vetro di Tennessee Williams (un
commesso viaggiatore della Electrolux «innamorato delle lun­
ghe distanze»). Un giorno del 1949, Donald disse alla famiglia
che usciva a comprare un pacchetto di sigarette. Non fece più
ritorno. D primo legame tangibile del giovane King con il pa­
dre si manifestò quando scoprì in soffitta una pila di tascabili.
Donald King, a quanto pare, era appassionato di narrativa
pulp, in particolare horror e fantascienza. Insieme ai libri c’e­
rano anche suoi manoscritti mai pubblicati, accompagnati dal­
le lettere di rifiuto da parte di riviste per soli uomini. Verso i
dodici anni Stephen cominciò a sottoporre i propri racconti a
infami riviste di fantascienza, così come a «Famous Mon­
sters». Avrebbe dovuto attendere i vent’anni per vendere il
suo primo racconto. Il motivo del «padre perduto»16 non a
caso sarebbe ricorso spesso nella sua opera.
Un altro Steve, questa volta di Scottsdale in Arizona, trovò
una grossa fonte di ispirazione nella rivista. La madre di Steven
Spielberg, Leah Adler, ricordava il giovane lettore di «Famous
Monsters» in un’intervista del 1986. «Da ragazzo non mi sem­
brava un genio. Non capivo cosa diavolo fosse.» Il giovane
Steven, secondo la madre, non era un coccolone. «In realtà
faceva paura. Quando si svegliava da un pisolino, provavo un
brivido.» Non un granché come studente («Una volta la sua
maestra mi disse che era speciale, e io mi domandai come fa­
cesse a indovinarlo»), Spielberg traeva una precoce forza dalla
Monster Culture, e creò in casa numerosi effetti spettacolari.
Sua madre lo ricorda fuori dalla finestra delle sorelle in piena
notte mentre ululava: «Sono la luna. Sono la luna». «Hanno
ancora paura della luna», aveva aggiunto. «E una volta tagliò
la testa di una delle bambole di [sua sorella] Nancy e gliela
presentò sopra un letto di lattuga.»17
Forse l’impresa più spettacolare rievocata dalla madre del
regista potrebbe essere meglio intitolata «I gabinetti della si-

236
The Monster Show

gnora Spielberg». Al fine di creare l’illusione di un orribile


liquido sgocciolante dagli armadietti di mamma per un film in
superotto, la convinse a cuocere a pressione trenta barattoli di
ciliegie finché questi esplosero per tutta la stanza.
Nel 1987, lo stesso regista ricordava che «Famous Mon­
sters» «mi spinse da ragazzo a precipitarmi sulla cinepresa a
otto millimetri di mio padre, le mie sorelle minori in fila, e
diciassette rotoli di carta igienica azzurro pastello inumidita
che mi servivano per rivestirle da mummie, poi filmarle finché
la poltiglia si asciugò sfaldandosi sul tappeto di lana di mam­
ma. Attribuisco a Forry l’ispirazione necessaria, e gli do anche
la colpa del castigo ricevuto per aver rovinato metà della casa
in cui ero cresciuto».18
Joe Dante, un regista che avrebbe contribuito significativa­
mente al genere con L'ululato {The Howling, 1981) e Gremlins
{id., 1984), quest’ultimo un enorme successo prodotto da
Spielberg, è stato un’altra scoperta di «Famous Monsters».
«Tutti ricordiamo dove ci trovavamo quando sono successe
cose di una certa importanza: quando è stato ucciso Kennedy,
lo sbarco sulla luna, roba del genere. Be’, io ricordo il giorno,
anche se non la data, in cui scoprii la prima copia di “Famous
Monsters”. Fu in un supermercato Safeway a Parsipanny, nel
New Jersey. Ed ecco che nell’espositore brillava questo nume­
ro unico della rivista stampata su una specie di carta rotocalco.
Ed era tutta sui mostri.»
Dante all’epoca aveva undici anni: «Vivevo in una sorta
di vuoto. Io e i miei amici andavamo a vedere questi film e ci
piacevano, ma ci ritenevamo ima piccola società chiusa. Non
c’era nessuno interessato a roba del genere, o almeno la pensa­
vamo così.
«Ma ecco all’improvviso questa rivista che confermava la
presenza di altre persone simili a noi. Era scritta in uno stile
indirizzato ai ragazzini di undici e dodici anni, ma in un modo
che tradiva una sorta di serio studio della storia del cinema.
Parlava di film a noi che non li conoscevamo, e li faceva appa­
rire molto eccitanti e misteriosi. Ricordo di essere andato alla
biblioteca scolastica e di averla svuotata di tutti i libri sull’ar­
gomento cercando una citazione qualsiasi di Frankenstein o

237
David /. Skal

Dracula, ma non ce n’era alcuna: quei film non erano conside­


rati un oggetto degno di studi. Come sono cambiati i tempi».
Dante comprò «probabilmente otto o nove copie» di «Fa­
mous Monsters» nel corso dei mesi successivi, tutte regolar­
mente confiscate da insegnanti ed educatori. «Mi ricordo che
un educatore lo strappò a metà in quanto “spazzatura”. Ricor­
do che un bibliotecario scolastico lo confiscò, anche lui perché
lo riteneva “spazzatura”.» L’esperienza di Dante non fu certo
isolata; considerata la massa di aneddoti sui numeri di «Fa­
mous Monsters» fatti a pezzi da rappresentanti dell’autorità
- quasi una scena primaria per una generazione - si può solo
concludere che insegnanti e genitori gonfiarono artificialmente
le vendite all’edicola, garantendo involontariamente il successo
della rivista.
Come quasi tutti i ragazzi che leggevano «Famous Mon­
sters», Joe Dante smaniava per il riconoscimento del proprio
nome pubblicato. La sede più praticata era la rubrica di lettere
della rivista, chiamata «Fang Mail» (Posta Zannuta). «Scrissi
invano lettere di ogni argomento per un paio d’anni: film che
avevo visto, film che non avevo visto, film inventati, quello che
pensavano veramente i mostri, qualunque cosa. E nessuna fu
pubblicata. » Tentò persino di fare colpo con dosi massicce di
ampollosità. «Decisi di scrivere sui cinquanta migliori film che
avevo visto, e non fu pubblicata. Così decisi di scrivere sui
cinquanta peggiori film dell’orrore che avevo visto, e la spedii.
Poi un giorno ricevetti con la posta questa busta enorme, e
dentro c’era «Famous Monsters», solo che la mia lettera, com­
pletamente riscritta con termini a me totalmente sconosciuti,
ora era un grosso articolo. Non erano solo i cinquanta miei
peggiori film dell’orrore, ma i cinquanta peggiori film horror
mai realizzati. Alcuni fra questi, naturalmente, non li avevo
visti, li avevo messi giù perché non riuscivo a trovarne cin­
quanta.
«Fu sorprendente. Non riuscivo a crederci. Era la cosa
più importante che mi fosse mai successa. Esistevo. Esistevo
tanto che Forrest J. Ackerman aveva puntato l’indice su di me
da Hollywood e aveva detto: “Tu meriti di avere il tuo nome
e il tuo scritto in questa rivista”.»

238
The MiuKter Shott*

«Mi guadagnili l’a lien zinne di menti malleabili quando,


suppongo, avevano bisogno di una specie di figura paterna»,
ricordava Ackerman. «Ed eccomi lì, un adulto che non storce­
va la bocca ai loro interessi, e i loro genitori potevano essere
certi che non li avrei incoraggiati a bere o a drogarsi.»19
Ackerman era, e rimane, un maestro dell’umorismo nero,
c fin dagli inizi «Famous Monsters» fu tappezzata di giochi di
parole e doppi sensi. Una freak donna era una «gobba, Noto­
ria Dama». Una rubrica di lettere era intitolata «Readers Die-
Jest» (Scherzi sulla morte dei lettori). C’erano persino giochi
sui giochi di parole. L*
«Ackermostro» (che viveva nell’«Ac-
kercasa» di « Horrorwood, Karloffornia») si era attribuito di­
versi nomi scherzosi, fra i quali spiccava «Dr. Ackula». Ciò
provocava un secondo livello di giochi di parole, una forma di
comunicazione incomprensibile ai non iniziati. Per esempio,
l’editoriale del direttore era intitolato «Inside Darkest Acku­
la». La dizione idiosincratica e a doppio senso convinse un
grosso numero di aspiranti scrittori giovani che il linguaggio
poteva essere divertente", una lezione trasmessa troppo di rado
nel corso dell’educazione americana tipo. I significati secondi
e nascosti conferivano a un incontro con «Famous Monsters»
il senso di appartenenza a una società segreta, con accesso a
ogni genere di sapere esoterico ed esaltante.
Un salto di qualità nella consapevolezza dei mostri si veri­
ficò nell’autunno del 1962, quando l’Aurora Plastics di Hemp­
stead, nel Long Island, presentò una nuova linea di modellini-
giocattolo in plastica indirizzati ai giovani hobbisti. Lontanissi­
mi dalle copie di cacciabombardieri e navi che dominavano il
mercato modellistico, erano invece simulacri in plastica rigida
dell’uomo lupo, del mostro di Frankenstein e di Dracula, con
le loro immagini fomite di licenza ufficiale della Universal Pic­
tures. Erano alti più di venti centimetri, anche se la pubblicità
ne millantava addirittura venticinque. Pochi furono i reclami.
Se i mostri non riuscivano a essere più grandi della vita, allora
chi poteva esserlo? Simili a luccicanti folletti, si ritrovarono
ben presto a far da angeli custodi sui letti di migliaia e migliaia
di figli del boom economico. DECORATEVI LA CAMERETTA!
FATE UNA SORPRESA ALLA MAMMA! strombazzava una co-

239
David J. Sitai

foratissima pubblicità a piena pagina disegnata come un poster


circense su « Boy’s Life», la pubblicazione ufficiale dei boy-
scout. Nel romanzo di Stephen King Le notti di Salem (1975),
il giovane protagonista Mark Petrie assembla nella sua came­
retta proprio quei modellini, mentre fuori dei veri vampiri de­
cimano la città. L’enfasi mistico-religiosa non viene dissimula­
ta: «Mark incollò il braccio sinistro del mostro di Frankenstein
all’articolazione della spalla. Quello che luccicava nell’oscurità
era un modellino speciale Aurora, proprio come il Gesù di
plastica che aveva ricevuto in premio al catechismo domenicale
per aver imparato a memoria il Salmo 119».20
I mostri hanno fatto tradizionalmente parte dei rituali di
iniziazione adolescenziale, e la fascinazione su larga scala per
loro nei primi anni Sessanta è palesemente una variazione degli
antichi riti puberali con maschere orrorifìche e altri ammenni­
coli orripilanti. In un saggio del 1975, Monsters Movies and
Rites of Initiation, il critico Walter Evans sottolineava certe
similitudini:

Diversi elementi consolidati nei riti di iniziazione delle società


premodeme sono presenti anche nella formula dei film di
mostri. La fascinazione per un passato remoto; l’importanza
della superstizione o della religione arcaica; l’attenzione alle
entità mistiche che svolgono una funzione iniziatica e quella
complementare per giovani innocenti e privi di esperienza
che vengono trasformati al contatto con questi èsseri; le morti
e resurrezioni simboliche; l’uso del tuono, dell’oscurità e di
altri motivi all’interno di elaborati scenari concepiti per creare
terrore; l’enfasi sulla trasmissione rituale di un sapere arcaico
da parte degli avi sapienti; sono questi solo alcuni fra i più
importanti dei numerosi elementi formulari che indicano la
funzione cruciale dei mostri cinematografici nel processo vita­
le di iniziazione richiesto e preteso dagli adolescenti america­
ni di oggi in misura non inferiore a quella dei loro fratelli e
sorelle delle società premodeme.21

Le angosce adolescenziali facilmente identificabili si anni­


davano malcelate sotto la superfìcie della pubblicità su « Boy’s
Life». Come osservava Evans in un saggio precedente, Mon-

240
The Mounter Shute

Motrici: A Sexual Theory, le icone onorifiche hollywoo­


diane possiedono affinità distinte «con due figure centrali del­
la sessualità adolescente, la masturbazione e il mestruo. Da
tempo immemorabile il sapere sotterraneo ha asserito che la
masturbazione porta alla demenza o a disturbi mentali: la tra­
sformazione mostruosa viene generalmente associata con la
follia; gli scienziati sono in genere degli autoreclusi i cui esperi­
menti privati sul corpo umano li hanno fatti impazzire».22 La
diffusa, anche se immotivata, credenza che la masturbazione
indebolisca la spina dorsale può ben giustificare «l’esercito di
gobbi dementi che popolano i film dell’orrore».
La maggior parte dei ragazzi in età puberale ai quali erano
indirizzati i modellini di mostri conducevano senza dubbio
esperimenti di fisica con un singolo braccio, e, mentre l’annua­
rio ufficiale degli scout aggrottava la fronte sulla masturbazio­
ne, la pubblicità di « Boy’s Life» esibiva un titillamento subli­
minale: Dracula, nella sua tipica posa mesmerica, agita le mani
in aria; il mostro di Frankenstein è colto in atteggiamento ter­
rorizzato, da «giù le mani», e per le palme villose dell’uomo
lupo non c’è bisogno di commento. Rivelazioni portentose sui
«segreti della vita», perturbanti trasformazioni fisiche, visite/
emissioni notturne, e «maledizioni» sotto l’influsso della luna
facevano tutte parte del richiamo della Monster Culture sui
giovani americani che annaspavano sull’abisso della pubertà.
(Il monster boomer Stephen King avrebbe catturato energica­
mente l’immaginario pubblico nel 1974 con il suo romanzo
Carrie, favola gotica su un’iniziazione mestruale andata a ro­
toli.)
C’era, comunque, un altro abisso che minacciava l’infanzia
nell’ottobre del 1962, e al confronto faceva apparire i mostri
cinematografici una congrega di burloni. La campagna pubbli­
citaria dell’Aurora Plastics e la comparsa dei suoi prodotti nei
negozi in tutta America coincisero esattamente con l’ombra
apocalittica della crisi missilistica cubana.
L’evento, durato tredici giorni, fu in sé un rito di passaggio
traumatico per milioni di bambini, adolescenti, e giovani adul­
ti. Nel loro libro No Reason to Talk About It, David S. Green­
wald e Steven J. Zeitlin osservavano che i genitori dell’epoca

241
Dtiwd I Shil

probabilmente intensificarono le angosce dei loro tigli non di­


scutendo la realtà della minaccia nucleare.23 L’annichilimento
atomico si unì al sesso tra i segreti sporchi del mondo adulto.
D’altra parte, i genitori che condividevano con i figli il loro
terrore non erano granché d’aiuto. L’autore ricorda la madre
di un bambino che, servendo il pane tostato, disse bruscamen­
te ai suoi figli: «Buona giornata. Per noi potrebbe essere l’ul­
tima».
L’educatore Robert K. Musil rievocava su un numero del
1982 di «The Bulletin of the Atomic Scientists» l’atmosfera di
terrore, gli «allarmi per correre al riparo accompagnati da una
precoce forma di disillusione, o persino disprezzo, per l’autori­
tà. Sotto diversi aspetti gli stili e le esplosioni degli anni Sessan­
ta nacquero in questi corridoi di scuola superiore oscuri e sot­
terranei, dove giungemmo alla conclusione che i nostri vecchi
erano totalmente inaffidabili, forse persino folli».24
Se, come diversi commentatori sostengono, importanti riti
di iniziazione mostravano già qualche crepa nell’America post­
bellica, la crisi missilistica cubana suggerì che il mondo degli
adulti poteva benissimo andare un passo più in là, fino all’anti-
iniziazione definitiva: l’estinzione del pianeta. L’atmosfera era
inquietante, persino mitica; neppure Saturno in persona aveva
mai minacciato di divorare tanti figli.
I mostri - come chi scrive può testimoniare - fornirono
un elemento rassicurante. Erano figure di resurrezione trascen­
dentale, esseri che non potevano morire. Quelli tradizionali
erano perversamente cristologici (la posa più caratteristica di
Dracula, con il mantello aperto, richiama palesemente la Cro­
ce), e offrivano un’immagine di sopravvivenza, per quanto di­
storta o grottesca. Quelli più recenti facevano di più che so­
pravvivere alla Bomba; come Godzilla (e tutti i suoi cloni ed
epigoni), di solito se ne alimentavano.

Bobby Pickett crebbe a Somerville, nel Massachusetts, do­


ve il padre Charles dirigeva una catena di cinematografi. Da
bambino gli era consentito premere il pulsante che avvertiva il
proiezionista di iniziare lo spettacolo. In un’intervista del 1991
ricordava di aver visto Dracula e Frankenstein in un cinema

242
Thr Mon \ter Show

di suo padre, quando furono ridistribuiti alla fine degli anni


Quaranta. Non potè piti farne a meno.
«(ìli altri si portavano nel portafogli la fotografia delle
fidanzate», ricordava Pickett. «Io i ritratti di Boris Karloff e
Bela Lugosi.»25
Dopo un periodo nei corpi segnaletici in Corea, Pickett
lece ritorno in America e cominciò a dilettarsi di teatro. In
occasione di un concorso per dilettanti in un club americano-
irlandese a Everett, nel Massachusetts, si preparò scolandosi
qualche vodka in bagno, poi se ne andò con i venticinque dol­
lari del primo premio per la sua interpretazione della canzone
pop Little Darlin’\ la parte del monologo era resa con un’imita­
zione sottilmente soprannaturale della voce di Boris Karloff.
Pickett emigrò in California con alcuni concittadini musi­
cisti suoi amici, ma cercò anche di sfondare come attore.
Quando il suo agente morì, appena due settimane dopo averlo
messo sotto contratto, Pickett contattò l’amico compositore
Leonard Capizzi per produrre una canzone inedita basata sulla
voce di Karloff. Scrissero la canzone in un paio d’ore e ne
fecero un nastro dimostrativo su un vecchio registratore Wol-
Icnsak. Il primo titolo proposto da Bobby fu Monster Twist.26
Lenny voleva intitolarla Monster Mashed Potato (Purè di mo­
stro), in omaggio a un’altra recente moda danzereccia intro­
dotta da James Brown. Quando suonarono il demo al produt­
tore Gary Paxton, questi suggerì un ulteriore abbellimento al
titolo: Mean Monster Mashed Potato (Purè di mostro malva­
gio). Fortunatamente si finì per decidere che meno lungo era
meglio.
Monster Mash di Bobby «Boris» Pickett and the Crypt-
Kickers fu prodotta da Paxton in uno studio di registrazione
hollywoodiano appena lasciato libero da «un certo Herb Al­
pert». Bobby ricordava che la canzone era stata realizzata in
una sola registrazione con un unico pickup. Soffiando in un
bicchiere d’acqua attraverso una cannuccia vennero creati ef­
fetti «calderone». Delle catene comprate da un ferramenta,
fissate a una tavola di compensato, evocavano effettivamente
un mostro in ceppi.
II disco venne implacabilmente rifiutato da quattro eti-

243
David J. Sitai

chette major; Paxton ne aveva stampate privatamente un mi­


gliaio di copie, che consegnava personalmente alle stazioni ra­
diofoniche su e giù per la costa californiana.
Monster Mash lasciò di stucco tutti nel feroce ambiente
discografico, spuntando dal nulla grazie ai passaparola fino in
cima alle classifiche. La London Records, che inizialmente lo
aveva rifiutato, offrì un contratto, e uscì un album targato Gar-
*
pax, che nell’ottobre del 1962 mantenne per due settimane la
prima posizione nella classifica di «Billboard». Durante la crisi
nucleare con Cuba, la canzone preferita dagli americani cele­
brava uno scienziato pazzo che officiava una danza di morte.
Pickett provò il brivido di una vita quando Boris Karloff
in persona eseguì la canzone nel popolare spettacolo televisivo
Shindig. L’energia del mostro seguiva Pickett; quando inter­
pretò una parte drammatica in un episodio di Dottor Kildare,
la stella dello spettacolo, Richard Chamberlain, ciondolò per
il set facendo la voce di Karloff per giornate intere. E uno fra
i più interessanti lasciapassare culturali di Monster Mash pro­
verà dalla Casa Bianca. Avendo ricevuto una copia del disco,
la segretaria di Jacqueline Kennedy compilò una nota di rin­
graziamento a Pickett; pare che Caroline fosse particolarmente
affezionata ai mostri.
Tredici mesi più tardi, Jackie rifiutò di cambiarsi l’abito
inzuppato di sangue a Dallas: «Che vedano l’orrore», disse.
Benché non vi fosse da parte sua l’intenzione di un significato
più vasto dell’awenuta tragedia, l’attrazione dell’America per
il perverso e il grottesco continuò a crescere. Era una società
«malata», continuavano a pontificare i sapientoni. In seguito
all’assassinio di Kennedy e alla crisi cubana, cominciò a deli­
nearsi l’immagine introiettata di una famiglia/società netta­
mente disfunzionale, una vera e propria nazione di cadaveri.
Due delle maggiori stazioni televisive decisero praticamen­
te nello stesso istante che l’America era pronta per una serie in
prima serata in cui la famiglia postnucleare avrebbe finalmente
affrontato la maschera di morte nello specchio ridendone. Il

• Per la precisione, vi furono due album Monster Mash, uno di Bobby Pickett
su etichetta Garpax, e uno di John Zacherle su Carneo. (N.d.A.)

244
Thr Monster Show

15 febbraio 1964, la pagina dei programmi del «New York


Times» annunciò ai propri lettori la grande notizia: I mostri
sotto solo gente comune. Joseph Connelly e Bob Mosher, i pro­
duttori di Leave It to Beaver, svelarono i loro progetti per The
Munsters sulla CBS. La serie avrebbe presentato una famiglia
americana al cento per cento i cui membri erano ignari di esse­
re dei mostri. «Si accorgono di essere osservati», spiegava
< ’.onnelly, «ma pensano che accada perché sono troppo gras­
si.» La serie per la ABC si intitolava La famiglia Addams: una
versione in carne e ossa dei fumetti di Charles Addams, popo­
larissimo appuntamento fìsso sul «New Yorker» fin dall’appa­
rizione nei giorni tenebrosi della guerra alla fine degli anni
Trenta.
I programmi non si rispecchiavano esattamente; erano più
le versioni negativa e positiva dello stesso delirio. Casa Mun­
sters consisteva di «veri» mostri (con il trucco che riprendeva
i classici horror Universal), che si comportavano però come in
una tipica sit-com familiare. Fred Gwynne interpretava Her­
man Munster, una controfigura del mostro di Frankenstein di
Karloff. Sua moglie Lily era una vampira, interpretata dall’ex
sirena dello schermo Yvonne DeCarlo. Il suocero di Herman,
Nonno Munster (il nome di famiglia, naturalmente, non ha
alcun senso per un parente acquisito, morto o non morto che
sia), era un Dracula sopra le righe ritratto da Al Lewis in stile
«alcolizzato», completando l’operazione iniziata da Lenny
Bruce. Il clan Addams, per contrasto, era composto di veri
esseri umani morbosamente eccentrici. (Che conservavano, co­
munque, una mano surrealmente smembrata chiamata «Cosa»
come una sorta di animale domestico o servitù.) Protagonisti
erano John Astin e Carolyn Jones nei panni di Gomez e Morti-
eia, nomi trovati da Charles Addams in persona.
Il livello complessivo della ricezione critica nei confronti
dei due programmi non fu elevato. «Variety» lamentava che
la magia dei fumetti di Charles Addams «risiede in ciò che
viene lasciato intendere (consentendo così al lettore di com­
porre il macabro impatto dopo aver digerito le battute degli
Addams)». Al contrario, «la versione televisiva sbatte letteral­
mente in faccia al pubblico la propria fonte. E come se non

245
David J. Sbai

fossero completamente sicuri che lo spettatore capisca, così


tutto viene continuamente e sistematicamente ripetuto e osten­
tato».27 Anche il «Daily News» di New York era scettico. «Il
pubblico televisivo è pronto per la Famiglia Addams? Non ci
pare proprio. La serie della ABC... offre agli spettatori la fami­
glia più bizzarra di questo lato dell’allucinazione. L’insieme fa
apparire The Beverly Hillbillies assolutamente a modo.»28
Pure The Munsters fu stroncata, ma entrambe le serie sui
mostri per famiglia raggiunsero ascolti più che apprezzabili,
rinnovando il contratto per una seconda stagione. Ai focolari
americani a quanto pare piaceva riconoscere seppur oscura­
mente la propria immagine sullo schermo televisivo. I bambini
riconobbero l’immagine di famiglie estremamente disfunziona­
li presidiate da genitori dalle minacce risibili. Morticia Addams
e Lily Munster combinavano sessualità, casalinghità e mortali­
tà. Le forzature su sesso e morte, specialmente fra gli Addams,
venivano presentate con una franchezza inconcepibile al di
fuori della psicanalisi. Nonostante l’umorismo convenzionale,
entrambe le famiglie originavano dalla morte o da ossessioni
di morte. I Munsters erano letteralmente cadaveri viventi; Her­
man era un automa rabberciato imparentato con una famiglia
di vampiri. Il pallore cadaverico di Morticia Addams veniva
ostentato in continuazione come afrodisiaco per l’ardente e
necrofìlo marito Gomez.
Per qualche bizzara ragione, la censura televisiva permise
ai mostri di spuntarla con allusioni sessuali che sarebbero state
tagliate senza tanti complimenti in qualunque altro contesto.
« Gomez e Morticia erano la prima coppia sposata televisiva
dotata di un’effettiva vita sessuale», ricordava John Astin.
«Fui io a proporre che la loro storia d’amore fosse esibita in
grande stile, che l’occhiata più inoffensiva o una parolina chia­
ve mandassero in solluchero Gomez».29 Nonostante tutto
questo ansimare, lo storico Stephen Cox ha osservato che era
la coppia onorifica rivale, Herman e Lily, a venire di fatto
mostrata a Ietto insieme,30 un tabù televisivo in precedenza
inespugnabile. Persino le abitudini a letto del piccolo Eddie
Munster si tingevano di orrore. «Va’ a dormire, e non dimenti­
carti di chiudere la palpebra! » gli ricordava Herman. (Ripen-

246
Tl'f Mt >h \trr Shttit’

sandoci, rammollimento da crisi missilistica «Buona giornata,


bambini. Potrebbe essere l’ultima» sarebbe stata una battuta
perfetta per Morticia Addams.)
Le serie durarono entrambe due anni, e furono entrambe
annunciate e cancellate a distanza di qualche settimana. Le
trame erano spesso simili;31 in ogni serie, per esempio, vi era­
no episodi in cui si credeva che i bambini si fossero trasformati
in scimpanzé, in cui le famiglie costruivano robot, e intrecci
paralleli che vertevano su astronauti, beatnik, e amnesia.
Una delle maggiori produttrici di giocattoli, la Remco In­
dustries, mise sul mercato figurine adesive con i personaggi
della Famiglia Addams e di The Munsters, scoprendo di non
aver bisogno di molta pubblicità: bastavano i programmi. Il
«New York Times» riportò le cifre di una ricerca di mercato
della Remco nella tarda estate del 1964, anticipando che The
Munsters avrebbero avuto una tiratura di 982 milioni di esem­
plari nel loro primo anno, mentre per la Famiglia Addams si
prevedeva di superare la soglia del miliardo.32
La Remco sosteneva che i prodotti collegati ai mostri ave­
vano quadruplicato il volume degli affari l’anno precedente,
mentre la linea di modellini scientifici languiva. Altre fabbri­
che di giocattoli non erano tanto inclini al truculento. La Mat­
tel, uno dei giganti nel settore, mostrò scetticismo, predicendo
un superamento della moda. «I bambini vogliono giocattoli
con un preciso valore e duraturi», disse un portavoce della
Mattel. Francamente non ci capiva un granché.
«Look» ospitò un servizio da copertina sul fenomeno dei
mostri, riferendo garrulamente che «Giocolandia ’64 sembra
un mattatoio con tutte le sue spaventose delizie. Ci sono mo­
dellini di mostri e giochi coi mostri, bambole mostro e tutta
una serie di figurine, anelli, set da colorare seguendo i numeri,
costumi e maschere con mostri. Un mostro di Frankenstein
azionato a pile grugnisce, si dimena, poi gli cadono i pantaloni
e arrossisce in mutande a strisce. Le bambine confezionano
vestiti stracciati per una bambola in cartone con le membra
pelose della moglie di Frankenstein, e schiere di brettoni in
plastica sbirciano dagli scaffali. C’è un mostro per ogni bambi­
no, e i commercianti di giocattoli prevedono che la partita

7.17
David I. Sitai

mostruosa renderà quest’anno una viscida ventina di milioni


di dollari».35
Nell’ombra della mostromania si annidava un’altra figura
tenebrosa, la cui fascinazione per le immagine mostruose e al
limite non aveva ancora raggiunto la notorietà alla quale era
infine destinata. L’editore James Warren, comunque, aveva fa­
miliarità con il suo lavoro fotografico e decise di assumerla per
ritrarre un gruppo di lettori del giornale. Le fotografie risul­
tanti, che non furono mai pubblicate ma descritte in un nume­
ro di «Rolling Stone» del 1974, furono intitolate Bronx, New
York, 1964: Un incontro con «Famous Monsters». La fotografa
raggruppò cinque ragazzi di fronte a una casa diroccata. I loro
volti erano celati da orribili maschere. Quando la mano nervo­
sa o inconsapevole di uno dei ragazzi sfiorò l’inguine, la foto­
grafa scattò.
Diane Arbus, madre protettrice dei dannati, aveva trovato
l’immagine che cercava.34

248
Mi dispiace, ina è nato vivo

Hear, Nature, hear! Dear Goddess, hear!


Suspend thy purpose, if thou didst intend
To make this creature fruitful!
Into her womb convey sterility!
Dry up in her organs of increase,
And from her derogate body never spring
A baby to honour her! If she must teem,
Create her child of spleen, that it may live
And be a thwart disnatur’d torment...
William Shakespeare, King Lear (1605)

l utti i mostri sono espressioni o simboli di un processo di


nascita diverso, per quanto contorto o bizzarro. Per decenni,
prima che i veri scienziati cominciassero a baloccarsi con la
riproduzione sessuale a livello molecolare, gli scienziati folli
hanno progettato disegni analoghi nei film di mostri. Nella
sceneggiatura di La sposa di Frankenstein (1935), il dottor Sep­
timus Pretorius rimprovera il suo un tempo protetto per l’ine­
leganza dei suoi metodi taglia e cuci: «Ascoltami, Henry Fran­
kenstein - mentre tu scavavi nelle tombe, assemblando tessuti
morti, io, caro ragazzo, sono andato per le mie ricerche alla
sorgente della vita... Ho cresciuto le mie creature... come fa la
natura. Ho seguito il processo della Vita, non quelli della mor­
te».1 Pretorius propone di unire le loro tecniche, dopo aver
brindato a «un nuovo mondo di dèi e mostri».
E a dire il vero, il gingillarsi con il seme umano avrebbe

* «Ascolta, Natura, ascolta! Ascolta, amata dea! / Sospendi il tuo proposito


se mai intendevi / rendere questa creatura feconda! / Versa la sterilità nel
suo ventre, / dissecca in lei gli organi della generazione, / e dal suo corpo
degradato mai non venga / un bimbo a onorarla! Se deve generare, / fa’ che
suo figlio sia fatto di bile, si che viva / solo per esserle tormento crudele e
snaturato! » (William Shakespeare, Re Lear, trad. it. di Agostino Lombardo,
Milano, Garzanti 1991).

74Q
Dat>ì<l I Sitai

finito per ispirare una delle stagioni «mostruose» più redditi­


zie di sempre. L’U maggio I960, dopo quattro anni di test,
la Food and Drugs Administration approvò una pillola per il
controllo di gravidanza. La Enovid, prodotta dalla G.D. Searle
& Company di Chicago, sarebbe diventata una delle medicine
più prescritte e diffuse nella storia.
Il controllo chimico sulle nascite cambiò la sessualità in
maniere drammatiche e sottili, e fu fondamentale per la «rivo­
luzione sessuale» degli anni Sessanta e Settanta. Da una parte
le donne potevano ora «controllare» le proprie vite sessuali, o
almeno separare il sesso dalla riproduzione. Meno discusso fu
l’elemento di sottile coercizione sessuale posto dalla pillola;
con la disponibilità di una contraccezione per via chimica a
basso costo, facile, e (presumibilmente) sicura, le donne aveva­
no anche meno ragioni che mai in precedenza di rifiutare ses­
so. La scelta fondamentale offerta dalla pillola non era se avere
o meno bambini, ma piuttosto, quanti rapporti sessuali. La
sessualità femminile venne di conseguenza radicalmente ridefi­
nita lungo le linee del maschio hefneriano.
I principali scienziati coinvolti nell’invenzione dei contrac­
cettivi per via orale erano tutti uomini, decisi a «migliorare»
la fisiologia femminile. A parere di certi osservatori, la pillola
- folle esperimento di massa - fu introdotta frettolosamente
sul mercato senza controlli di sicurezza adeguati.2 Nel 1968,
alcuni scienziati inglesi affermarono di aver trovato un legame
tra la pillola e una pericolosa, persino fatale coagulazione del
sangue. All’inizio degli anni Settanta nelle versioni europee
della pillola i livelli ormonali furono abbassati, ma la ricetta
originale non fu bandita in America fino al 1988. Nella sua
cronaca sul movimento delle donne Moving the Mountain, la
storica Flora Davis osserva che alcuni scienziati americani dub­
biosi sulla sicurezza della pillola persero del tutto i finanzia­
menti.
Alla fine della decade la grande fiera americana del sesso
girava a pieno ritmo, grazie soprattutto alla contraccezione chi­
mica. Come negli anni Venti, l’astinenza era evidentemente
fuori moda; i pericoli della castità furono puntualmente illu­
strati nel film orrorifico-sessuale Repulsion (id., 1965) di Ro-

250
The Momter Shue

man Polanski, con una campagna pubblicitaria che prometteva


ili svelare il «mondo da incubo dei sogni di una vergine».
I In controcanto culturale adeguato fu il film di fantascienza II
villaggio dei dannati {Village of the Damned, 1960, di Wolf
Riila), in cui il sesso, quasi come nella vita reale, non ha più
nulla a che fare con la riproduzione. Donne inglesi vengono
ingravidate da una forza proveniente dallo spazio, e mesi dopo
generano bambini biondi con gli occhi azzurri dotati di mo-
siruosi poteri di controllo psichico. La realizzazione del film
costò solo 300.000 dollari e ne fece guadagnare cinque milioni
nelle sale,3 segno di una risonanza tra la sua stravagante storia
c un tema già nella mente del pubblico; per essere più precisi,
la sensazione strisciante che le funzioni riproduttive di una
donna potessero essere depredate da una futuristica scienza
maschile.
A due anni dall’introduzione della pillola, l’immagine be­
nigna di una riproduzione chimicamente mediata ricevette un
duro colpo. Un altro farmaco «sicuro», questa volta prescritto
a donne incinte in 46 Paesi, ebbe conseguenze orribili. Il tali-
domide, un blando tranquillante prescritto come cura per le
nausee mattutine, provocò alcune tra le più gravi malformazio­
ni che la moderna medicina avesse mai visto. Presa durante i
primi tre mesi di gravidanza, poteva compromettere la forma­
zione degli arti nei primi stadi del feto, provocando la nascita
di bambini privi di braccia o di gambe, o con escrescenze ra­
chitiche, simili a pinne, su spalle o fianchi. Molto diffusi erano
danni cerebrali e gravi deformità facciali. In Suffer the Chil­
dren, gli inviati del «Sunday Times» di Londra descrissero
uno dei peggiori casi di talidomide verificatisi in Inghilterra:
«Aveva un braccio deformato e più corto del normale e una
mano priva di pollice. L’altra aveva un dito in più. Nel palato
c’era una cavità profonda. Un lato del volto era paralizzato.
Un orecchio mancava del tutto, l’altro era seriamente deforme.
Per i primi diciotto mesi della sua vita vomitò cibo per tutta
la stanza con la forza di un proiettile. Divenne presto evidente
che, oltre ai danni cerebrali, era sordo e muto».4
Questa tragedia da incubo sconvolse il mondo. Mai prima
tanti esseri umani erano stati esposti alle immagini di fattezze

7S1
Dat'ùl / Shil

tanto crudelmente distorte. Nell’agosto 1962, il ministero della


Sanità della Germania occidentale calcolò 10.000 nascite con
malformazioni, e solo la metà di sopravvissuti. Diversi drammi
legali tennero il pubblico con il fiato sospeso: in Belgio una
madre venne assolta - con uno spettacolare applauso del pub­
blico - dopo aver ucciso il suo bambino privo di braccia con
barbiturici mescolati a latte e miele; in America il pubblico
televisivo e i lettori di giornali parteciparono indirettamente
alla richiesta da parte della signora Sherri Finkbine dell’auto­
rizzazione a un aborto legale. Lo spettacolo delle nascite mo­
struose negli anni Sessanta finì per porre la questione dell’a­
borto tra i problemi legislativi più scottanti.
Il talidomide ridestò la profonda e radicata fascinazione
dell’America per i freaks. Il posto dei vecchi baracconi venne
preso dai giornali scandalistici, che esibivano in copertina i
NUOVI MOSTRI DEL TALIDOMIDE con un’aura di porno­
grafia, a causa della cancellazione con quadratini neri dei geni­
tali, come i copricapezzoli in uno spettacolo di spogliarello.
Considerato il nauseante umore carnevalesco, era inevitabile
che Freaks, il film di Tod Browning tanto a lungo rimosso,
avrebbe ritrovato pur a tentoni un posto alla luce del sole.
La distribuzione del film era stata ceduta dalla MGM a
uno specialista dell'exploitation, Dwain Esper, che proiettava
il film come una curiosità in sé, spesso con titoli alternativi
come Nature's Mistakes (Scherzi di natura) e Forbidden Love
(Amore proibito). Le reazioni del pubblico erano imprevidibi-
li. Il cineasta exploitation David F. Friedman ricordava una
disastrosa proiezione del film sotto il titolo Forbidden Love in
un drive-in della Carolina del Nord nella primavera del 1947.
La pellicola si sbobinò durante un torrenziale temporale e alla
fine il pubblico, proprio come i freaks, era in procinto di ribel­
larsi. Friedman li ricordava «strombazzare col clacson, proiet­
tare i fari sullo schermo, urlare e gridare fuori dal finestrino
abbassato e strappare gli altoparlanti dalla loro sede. Benché
avessero visto un film ora considerato come uno dei grandi
horror cinematografici... non avevano visto scene piccanti».5
Il pubblico il cui voyeurismo non era stato soddisfatto da

252
The Mtmtfer Shoie

Freaks venne presto placalo dalla proiezione improvvisata di


un film sui nudisti.
Tod Browning non concesse mai un’intervista retrospetti­
va sulla propria carriera, persino dopo che film come Dracula
trovarono nuova popolarità in televisione nei tardi anni Cin­
quanta. Se pure avesse voluto parlare, non avrebbe potuto. Un
cancro alla gola aveva comportato un’operazione alla lingua (e
inline una laringectomia); la voce angelica che aveva ammalia­
lo i fedeli di Louisville era paralizzata per sempre. Al funerale
del fratello Avery nella città natia (1959), l’ex regista, apparen-
icmente non desideroso di esibire il risultato della sua affezio­
ne, si ritirò in una stanza privata delle pompe funebri e rifiutò
di lasciarsi vedere dagli altri membri della famiglia. I parenti a
lutto pare fossero rabbiosi e costernati. In un certo senso Tod
Browning era ritornato mutilato e muto al suo silenzioso mon­
do cinematografico di violazione fisica, colpito dalla stessa ma­
lattia che aveva ucciso Lon Chaney trentadue anni prima. Morì
in solitudine nel bagno di alcuni amici che lo ospitavano, la
mattina del 6 ottobre 1962.6
Non si sa se Browning abbia appreso, o fosse persino in
grado di apprezzare, la riedizione e l’accoglienza di Freaks al
Festival del Cinema di Venezia del 1962, ma lo slancio verso la
canonizzazione, una volta iniziato, non avrebbe più incontrato
ostacoli. Freaks colse probabilmente la sua maggiore popolari­
tà all’apice della guerra del Vietnam, come un cult di mezza­
notte della controcultura che aveva reclamato la parola del ti­
tolo come simbolo di identità. «Variety» riferì che a Pitts­
burgh «la gente di strada che si chiama freak in teoria dà nuo­
vo impulso al vecchio film di Tod Browning per la Metro».7
A Los Angeles una riproposizione del classico al Los Feliz
Theatre stabilì un nuovo record non festivo per il cinema.
I veri «fenomeni» non erano tanto entusiasti. Montague
Addison, un nano tatuato, nel 1971 espresse le proprie rimo­
stranze a «Films in Review». «I freaks sono gente, individui.
Il film questo non lo capisce e li presenta come un’accolita
omogenizzata di semi-imbecilli. I freaks sono consapevoli della
propria individualità e non sopportano di essere sistemati in
una nicchia da cuori infranti.» Addison aveva evitato il film
Davit! J. Ska!

di Browning per anni su consiglio dei suoi amici. «Quando


finalmente mi decisi a vederlo, le mie peggiori paure si concre­
tizzarono. Anche se fìnge simpatia e comprensione per una
minoranza indifesa, Freaks in realtà ci sfrutta e degrada in ma­
niera insieme fasulla e offensiva.» Addison paragonava lo
sfruttamento dei freaks da circo da parte di Browning alla ste-
reotipizzazione dei neri. «Ma noi non siamo tanti da poter fare
la differenza in caso di organizzazione di una protesta.»8
L’ascesa della teoria cinematografica dell’autore, con le
sue idee spesso spiazzanti sulla portata delle intenzioni e del
controllo del regista, favorì giudizi revisionisti positivi. La ri­
scoperta e riabilitazione di Freaks divenne quasi una cause célè-
bre nelle riviste di critica che esordirono all’inizio degli anni
Sessanta. Un tempo considerato grossolano e privo di gusto, il
film era ora «compassionevole» e «sensibile». In un certo sen­
so, il suo apprezzamento divenne un mezzo politicamente cor­
retto per indulgere a una curiosità morbosa nei confronti di
deformità tipo talidomide, pur sentendosi ancora onesti e pro­
gressisti.
Alla metà degli anni Sessanta le immagini disturbanti cor­
relate alla riproduzione formavano un’enorme pila nello sga­
buzzino dei sogni americani. Oltre al talidomide e a Freaks, le
precedenti icone orrorifìche (tutte aggressivamente risorte e
sfruttate all’inizio della decade) riguardavano in un modo o
nell’altro forme fantastiche di replicazione umana. Era pratica-
mente inevitabile che un nuovo mito mostruoso si sviluppasse
in risposta a tale accumulo psichico.
Senza neppure accorgersene, gli americani supplicavano
già divinità oscure, offrendo preghiere per Rosemary’s Baby.
Il thriller neogotico di Ira Levin era stato pubblicato dalla
Random House nella primavera del 1967; diventò uno dei libri
più letti e chiacchierati dell’anno. Con la sua prosa di rapida
e commestibile lettura, Rosemary’s Baby era un nuovo genere
di bestseller, già virtualmente una sceneggiatura in forma di
libro, per leggere la quale bastava quasi il tempo necessario a
vedere il film. Roman Polanski, regista della omonima versione
cinematografica (id., 1968) trasse la sceneggiatura e i dialoghi
dal romanzo quasi alla lettera; ne sarebbe risultato, scena per

254
The Monster Sfarne

scena, uno degli adattamenti più letterali di un libro nella sto­


ria del cinema.
Rosemary's Baby racconta la storia di Guy e Rosemary
Woodhouse, giovane coppia sposata di Manhattan che si tra­
sferisce in un palazzo gotico (il Bramford, modellato sul Dako­
ta). Guy è un attore che riceve una grossa spinta quando il suo
rivale per un ruolo diventa misteriosamente cieco. Nel frattem­
po Rosemary è tutta concentrata sulla gravidanza. La coppia
fa amicizia con gli anziani vicini, Roman e Minnie Castavet.
La ragazza fa uno strano sogno in cui viene stuprata demonia­
camente. Partorisce, ma con dolore e difficoltà. Comincia a
sospettare un complotto che coinvolge i Castavet, il marito, e
praticamente tutti i conoscenti. I sospetti si rivelano esatti:
Guy ha concluso un sinistro patto per migliorare la propria
carriera, sacrificando la moglie ad adoratori del diavolo che
l’hanno letteralmente costretta a portare nel grembo il figlio di
Satana. Ma invece di distruggere l’entità, in Rosemary preval­
gono gli istinti materni e finisce per accettare il mostro dagli
occhi dorati come figlio, con cornetti, coda, e quant’altro.
Ira Levin raccontò a «Publishers Weekly» che non riusci­
va a ricordare esattamente quando avesse avuto l’idea, ma la
storia aveva le sue radici all’inizio degli anni Sessanta. «Riten­
go che nessuna donna incinta dovrebbe leggerlo»,9 disse. In
un’altra occasione affermò di aver trovato l’inizio alla fine.10
«Cominciai con una donna incinta di qualcosa che non quadra
e alla fine mi venne in mente la stregoneria. Era l’unica cosa a
cui riuscivo a pensare per spiegare la gravidanza escludendo i
*
marziani.» La Random House si era trastullata con l’idea di
usare un monito come questo per la pubblicità, ma aveva ab­
bandonato l’idea perché un po’ troppo macchinosa.11
Che la strategia di Levin fosse consapevole o meno, l’in­
treccio di Rosemary's Baby era un brillante distillato metafori­
co dell’ambivalenza e ansietà diffuse per il sesso e la riprodu-

4 II bimbo di Rosemary non fu il solo feto bizzarro a ipnotizzare il pubblico


cinematografico nell’estate del 1968. Anche l’enigmatico bambino stellare di
2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick alimentò la crescente attrazione
del pubblico per embrioni inquietanti. (N.d.A.)

255
David / Sfati

zione, concetti superati nella sgargiante rutilantcria dei favolosi


anni Sessanta. A un livello terra terra, sia Rosemary sia la lettri­
ce condividono atroci dubbi sulle manipolazioni chimico-oc­
culte dei propri sistemi riproduttivi. Rosemary beve il puzzo­
lente cocktail di radici di tannis fornitole dalla vicina, mentre
la lettrice (probabilmente) manda giù il magico zuccherino
delle pillole per il controllo della gravidanza. Nessuna delle
due possiede una comprensione approfondita degli effetti del­
le due sostanze sul proprio corpo e sulla propria vita; si affida­
no speranzose a un’autorità patriarcale. Rosemary Woodhouse
viene ripetutamente spinta a credere di compiere scelte ripro­
duttive attentamente calibrate, mentre le decisioni le prendono
altri per lei. Non importa quante garanzie vengano offerte, né
quali incantesimi e pozioni usi o ingerisca, non sarà mai vera­
mente al sicuro. Una delle tante indelebili immagini nella ver­
sione cinematografica di Rosemary’s Baby è una Mia Farrow
incinta ma dall’aspetto devastato che si agita contro un sema­
foro nel traffico del centro, una metafora convincente della
procreazione sotto assedio sociotecnologico.
Nel giugno 1968, il National Catholic Office for Motion
Pictures, un tempo 'Legion of Decency, schiaffeggiò Rosema­
ry’s Baby con la valutazione di «Condannato».12 Andare a ve­
dere il film era considerato un atto ufficiale di peccato veniale
per i cattolici, una macchia sull’anima che poteva essere rimos­
sa solo da un prete in confessionale. Ma i tempi erano tanto
cambiati dai giorni dell’ufficio Breen che questo organismo
probabilmente fece più pubblicità che ostruzionismo al film.
Già le nudità sarebbero bastate a condannare il film. «Assai
più grave, comunque», affermò un rappresentante dell’ufficio,
«è l’uso perverso di convinzioni cristiane fondamentali, in spe­
cial modo attinenti la nascita del Cristo, e la derisione di perso­
ne e pratiche religiose. L’estrema eccellenza tecnica del film
contribuisce a intensificare la sua natura diffamatoria. » Il pro­
duttore William Castle riferì di aver ricevuto all’uscita del film
lettere anonime assai disturbanti,15 fra cui questa: «Rosemary’s
Baby è sozzura e TU di conseguenza morirai. Amante di Sata­
na, Perpetratore di Male, tu hai venduto la tua anima. Muori.
Muori. Muori». In quel periodo Casde ebbe qualche problema

256
The Montier Shote

di salute, c non potè fare a meno di interrogarsi sulle maledi­


zioni.
Dopo la nascita del bambino di Rosemary, praticamente
tutte le nascite nei media più popolari furono mostruose o
demoniache; la gravidanza normale fu praticamente bandita.
Non si trattava di uno sviluppo assolutamente nuovo; il germe
di questa tendenza può essere osservato già almeno nella fanta­
sticheria di Mary Shelley su una procreazione asessuata, e per­
sino in Bram Stoker: le donne vampiro al castello di Dracula
che divorano un bambino chiuso in un sacco aprono, almeno
tematicamente, la strada a una nuova forma di riproduzione
ematica e senza prole. Nell’era post-pillola, la «normale» na­
scita cessò di esistere, almeno nella nostra vita onirica colletti­
va. La riproduzione si rifugiò nel regno della fantascienza goti­
ca. Le donne venivano ingravidate da demoni o computer, con
cui si trastullavano ingegneri genetici. La gravidanza divenne
un atto di guerra, un’invasione violenta da parte del nemico.
Queste terrificanti immagini raramente facevano parte del di­
battito sulla tecnologia riproduttiva e sul diritto all’aborto, ma
fornirono un caparbio sottotesto meritevole di esame.
All’improvviso, negli anni Sessanta, il grembo divenne il
nuovo cimitero da cui gli esperti di horror ricavavano le mate­
rie prime per nuovi mostri da assemblare. Come il dottor Pre­
torius ammoniva il suo protetto di un tempo in La sposa di
Frankenstein, «abbandona il macello e segui la guida della na­
tura».
Diversi libri e film che non evocano direttamente l’imma­
ginario riproduttivo riuscirono tuttavia a mettere a disagio il
lettore-spettatore rispetto alla prospettiva di una prole. Il ro­
manzo di William Peter Blatty L'esorcista {The Exorcist), pub­
blicato nel 1971 e realizzato come film da William Friedkin
nel 1973, è, spogliato del tema di possessione demoniaca, un
racconto-monito su una madre assillata che crede di non farce­
la più, ma che, con l’aiuto della dottrina cattolica, a cui prima
era rimasta indifferente, riesce a sopportare qualsiasi cosa. A
differenza di Rosemary's Baby, L’esorcista sfuggì alla condanna
dei cattolici.
Il film divenne un rituale altamente pubblicizzato di esor­

257
Davit! / Sitai

cismo non del demonio, quanto dei sentimenti contusi di colpa


e di responsabilità da parte degli adulti dell’era Vietnam,
quando - almeno da una certa prospettiva conservatrice -
bambini sboccati assumevano droghe che cambiavano la per­
sonalità, si comportavano in maniera violenta, e in generale
rendevano sgradevole la vita ai loro vecchi. Pauline Kael, che
detestava L'esorcista, usò la recensione sul «New Yorker» per
sollevare un’altra questione relativa al distacco generazionale.
Dopo aver osservato che il regista William Friedkin si vantava
di aver esaminato cinquecento ragazzine prima di scegliere
Linda Blair, la Kael si domandava di «quelle tra le 499 madri
delle ragazze respinte [che] dovevano aver letto il romanzo; si
presume anche che sapessero per che cosa le loro figlie soste­
nevano il provino. Quando guardano L'esorcista e vedono Lin­
da Blair urinare sul tappeto buono e gridare e infliggersi cólpi
con il crocifisso, sono invidiose? Pensano forse: “Al suo posto
poteva esserci la mia piccola Susie, famosa per sempre”?»14
(Linda Blair, all’epoca delle riprese tredicenne, raccontò in se­
guito a un intervistatore di non aver subito alcun danno dal
ruolo. «Non pensavo all’argomento del film... facevamo dei
test per verificare la crema di piselli e io dovevo vomitare sul
primo assistente alla regia che indossava impermeabile e oc­
chiali di protezione. Dal mio punto di vista fu proprio uno
spasso.»15)
L'esorcista si rivelò una delle maggiori spinte per il genere
horror dai giorni di Dracula e Frankenstein, in particolare per
la stimolazione dell’appetito del pubblico con elaborati effetti
di trucco. I grembi femminili furono colonizzati da mostruosi
feti in film come Humanoids from the Deep (t. lett.: Umanoidi
dal profondo, 1980, di Barbara Peeters); talvolta i feti erano
solo omuncoli simbolici: demoniache marionette o bambole
animate. Nell’episodio «Amelia» del film televisivo Trilogia
del terrore [Trilogy of Terror, 1975, di Dan Curtis), prima fac­
ciamo la conoscenza del personaggio eponimo (Karen Black),
e la vediamo entrare nel suo appartamento con una cassa che
somiglia decisamente alla bara di un bambino. Captiamo una
nervosa conversazione telefonica con sua madre, dalla cui
asfissiante energia sta vanamente tentando di prendere le di-

258
The Mnmtrr Show

stanze. 11 contenuto nella cassa si rivela non un neonato morto,


ma una bambola feticcio Zuni delle dimensioni di un bambino
che acquista vita e le assale in diverse occasioni. Dopo uno
scontro particolarmente orrorifico, Amelia commette un erro­
re fatale e lancia la cosa nel proprio forno, dove esplodono le
sue energie malvage divorandole l’anima.
Le decantazioni dell’umorismo nero negli anni Cinquanta
condividevano un’energia simbiotica con la Monster Culture,
e negli anni Sessanta e Settanta un altro eminente ciclo di umo­
rismo nero fornì uno scomodo contrappunto alla marea mon­
tante di immagini di orrore ginecologico in libri e film. La
barzelletta sui bambini morti, insieme all’emergente lotta per
il diritto all’aborto, furono una dubbia ma diffusa istituzione
tra gli adolescenti americani nei decenni intorno e dopo la
rivoluzione sessuale, la pillola, c le declinanti strutture fami­
liari.
Sarebbe semplicistico dedurre che le facezie sui bambini
morti riguardino l’aborto in senso letterale. Il «bimbo morto»
in discussione è spesso un doppio del raccontatore di storielle;
gli adolescenti sono, in un certo senso, «morti» all’infanzia.
Con l’età adulta, saranno analogamente morti all’adolescenza.
Viene da chiedersi quindi se il diffuso rituale nella sottocatego­
ria degli slasher movies, sia, in definitiva, non la punizione pu­
ritana di adolescenti sessualmente attivi - interpretazione or­
mai standardizzata - ma piuttosto un rito di iniziazione devian-
te: la testimonianza e la ripresa dell’omicidio infantile da parte
del sesso prematuro influenzato dai media.
Le storielle sui bambini morti sono di frequente ambienta­
te in cucina, e coinvolgono congegni/orifizi distruttivi - forni,
pastamatic, pattumiere. In una forma piuttosto ripulita, queste
immagini sarebbero infine state riciclate dall’esperto di orrore
cresciuto nell’era del baby-boom Joe Dante per la famosa scena
della cucina in Gremlins {id., 1984), dove terrori in miniatura
sono ridotti a poltiglia da un frullatore casalingo, un forno a
microonde ecc. Lo studioso di folklore Alan Dundes, autore
di un volume sul fenomeno dell’umorismo nero, osserva che
«nessun frammento di folklore continua a essere trasmesso a
meno che non significhi qualcosa», ma aggiunge che, nel caso

259
Daintl J Ska!

delle storielle, «è di solito essenziale che il senso della storia


non sia cristallino. Se le persone fossero consapevoli di ciò che
comunicano... le storielle cesserebbero di essere efficaci come
sfoghi socialmente sanzionati per l’espressione di idee e motivi
tabù».16 Fra i motivi tabù vi sono la paura dei genitori, il
senso di colpa nei confronti dell’aborto e l’astio per i bambini
unito al desiderio di prolungare l’infanzia.
Alla fine degli anni Settanta, questi temi proibiti erano di­
ventati la materia visibile di un film horror dopo l’altro. Baby
Killer (It’s Alive!, 1974, di Larry Cohen) mostrava un mutante
dotato di artigli che non aveva bisogno di essere schiaffeggiato
alla nascita; prende l’iniziativa da solo e massacra l’intero grup­
po della sala parto. All’epoca del seguito, It Lives Again (t.
lett.: Vive ancora, 1978, di Larry Cohen), il parto era diventato
quasi un’operazione paramilitare, con squadre SWAT e armi
da fuoco a sorvegliare ogni contrazione. I genitori sono confusi
per tutta la durata del film: devono tenersi il bambino o sop­
primerlo? I consigli ufficiali paiono inaffidabili. Un personag­
gio, il padre del mostro di Baby Killer, vuole che la creatura
sopravviva; quando interrompe un aborto legale con la minac­
cia di un’arma da fuoco, insiste che sta solo «proteggendo il
diritto di questa donna ad avere un bambino». «Molta gente
chiama il proprio bambino “coso”», dice a un certo punto il
nuovo padre, tentando di farsene una ragione. (Un secondo
seguito, Baby Killer III [It's Alive III: Island of the Alive], fu
partorito nel 1988.)
Un altro «coso» venne presentato in Eraserhead - La men­
te che cancella (Eraserhead), con cui il cineasta David Lynch
lanciò la propria carriera nel 1976. Di una qualità genuinamen­
te da incubo, Eraserhead dipinge la riproduzione umana come
una desolata esibizione di mostri, un’occupazione adatta solo
ai dannati. L’immagine centrale del film è un neonato mo­
struoso dall’aspetto di vitello o agnello avvolto in fasce strettis­
sime e manipolato in qualche modo dall’interno come un bu­
rattino (Lynch si rifiuta di discutere qualunque dettaglio tecni­
co). I genitori, deviami e incompetenti, si preoccupano dell’es­
sere, ma sono incapaci di collaborate. L’essere si ammala (la
carne di scena forse marcisce davvero in certe sequenze) e vo-

260
The Mouxtrr Show

mira sangue in maniera esplosiva, fino a diventare una monta­


gna di immondizia purulenta. «Non sono ancora certi che si
tratti di un bambino», dice la madre all’inizio. In Eraserhead
appare anche una sequenza surrealistica con una bambola-
donna ghignante su un palcoscenico di music-hall. Sempre sul
punto di iniziare a cantare, viene ripetutamente interrotta da
organismi allungati e simili a spermatozoi che colano dall’alto
sul palcoscenico a forma di scacchiera. Sorride in continuazio­
ne, alla ricerca disperata dell’approvazione da parte di un pub­
blico invisibile, e schiaccia gli organismi con passi di danza
affettati, mentre il fluido bianco continua a zampillare sul pal­
coscenico.
Questo sogno perverso, diretto al circuito d’essai di mez­
zanotte, aveva tuttavia molto in comune con le crescenti osses­
sioni fetali e ginecologiche dei film dell’orrore commerciali. (Il
lavoro di Lynch su Eraserhead l’avrebbe condotto a dirigere
The Elephant Man [id., 1980], un successo commerciale dalle
ossessioni analoghe, un’altra storia di un mostruso incidente
alla nascita.) Il pubblico rispondeva come mai prima a immagi­
ni di incubi legati alla riproduzione.
Nel 1979, David Cronenberg, un cineasta canadese che
stava emergendo come un maestro della metafora fatta carne,
realizzò Brood. La covata malefica {The Brood), un film dell’or­
rore ambizioso e sorprendentemente intelligente, che potrebbe
essere considerato una stele di Rosetta delle moderne ansie
riproduttive. Benché il regista abbia in seguito svolto brillanti
elaborazioni di temi analoghi - soprattutto in Inseparabili
(Dead Ringers, 1988) - Brood rimane uno dei suoi sforzi più
personali ed efficaci; Cronenberg ha descritto il film in diverse
interviste come parzialmente ispirato dal proprio divorzio e
dalla battaglia per la custodia dei figli, ancora in corso al tem­
po delle riprese. Il dottor Hai Raglan (Oliver Reed) è un cari­
smatico psicoterapeuta celebre per la sua teoria della «psico-
plasmica», un processo nel quale la rabbia repressa del pazien­
te può esternarsi fisicamente. In alcuni pazienti il risultato so­
no lesioni simili a stimmate, in altri il cancro. In una, Nola

261
David j Sitai

Carveth (Samantha Eggar), l’« espressione della rabbia»' si


manifesta in una «covata» omicida di omuncoli simili a bam­
bini che esteriorizzano i suoi impulsi inconsci. Nola, come una
viziatissima regina delle termiti nella clinica ultimo grido di
Raglan, porta alla gravidanza i mostri fuori dal proprio corpo,
in enormi sacche simili a bubboni. Le prime vittime sono sua
madre e suo padre; la covata è composta in un certo senso
di feti che abortiscono genitori. Il loro ciclo vitale è limitato;
traggono energia da un nutrimento contenuto in una gobba
da cammello. Sono privi di ombelico, e non hanno bisogno di
genitali. Un anatomopatologo, nel corso di un esame su una
creatura morta, osserva: «Questa cosa non è mai veramente
nata. Almeno non al modo in cui nascono gli esseri umani».
«Gesù! » sbotta il marito di Nola, in una specie di epifania. La
nascita vergine, resa letterale, non è adatta ai deboli di cuore.
L’attenzione quasi hitchockiana di Cronenberg per i detta­
gli accresce tutti i suoi film, e Brood non fa eccezione. Quando
la covata uccide per gelosia una maestra di scuola che ha fatto
amicizia con il marito di Nola, il volto insanguinato della don­
na viene coperto con un disegno degli scolari, che in sé è un’e­
vocazione innocente di un rito di fertilità, con la didascalia
NOI PIANTIAMO SEMI DI ZUCCHE (zucche di Halloween, a
quanto pare). L’utero esteriorizzato di Nola era un elaborato
effetto speciale disegnato dall’artista Dennis Pike, modellato
su un pezzo di pallone aerostatico riempito di un feto di gom­
ma, sangue di studio, e spaghetti. Le inquadrature della donna
che apre a morsi la membrana furono un colpo troppo duro
per i notoriamente delicati censori canadesi, i quali pretesero
tagli. «Avevo girato un lungo amorevole primo piano della
Eggar che leccava un feto, assolutamente fantastico», ricorda­
va Cronenberg. Ma dopo i brutali colpi d’accetta della censu­
ra, «parecchia gente pensò che lei stesse mangiando il bambi­
no! Questo è molto peggiore di quanto suggerivo io... [L’im­
magine è] non sessuale, non violenta, solo... sdolcinata e di-

* The Shape of Rage è anche il titolo del bestseller in cui Raglan espone la
propria teoria, c la cui copertina mostra una bocca che si fa pugno. (N.d.T.)

262
The Monx/er Show

sturbante. Una cagna che lecca i suoi cuccioli. Perché ta­


gliarla?»17
Che il regista considerasse Nola una cagna era chiaro da
qualsiasi punto di vista. Il critico canadese Robin Wood sostie­
ne che Cronenberg sia un reazionario dal punto di vista sessua­
le, e interpreta Brood come una fantasia maschile esorcizzante
l’ascesa del femminismo radicale; di conseguenza, il messaggio
implicito è che «l’iniziativa e la rabbia femminile devono resta­
re represse, la loro liberazione sarebbe catastrofica».18 A Lon­
dra, l’«Observer» si domandava il significato di «una folle
casalinga, l’esternazione della cui aggressività produceva nani
assassini... Brood ci dice qualcosa di terribile sullo stato della
famiglia di oggi e sulle paure [dei] maschi nordamericani».19
Ma l’immagine principe dell’orrore riproduttivo era di là
da venire. L’illustrazione per il poster di Alien (id., 1979) era
illusoriamente semplice ed evocativa: un uovo crepato in un
vuoto oscuro, e la semplice frase NELLO SPAZIO, NESSUNO
PUÒ SENTIRTI URLARE. Non era chiaro se lo spazio fosse
esterno o interno.
Diretto da Ridley Scott, Alien è un film abilmente manipo­
latone (Scott era stato in precedenza un regista molto apprez­
zato nella forma mediatica più manipolatrice di tutte: la pub­
blicità televisiva), che crea un brivido orrorifico senza prece­
denti sovrapponendo angosce tecnologiche e riproduttive. Una
navicella spaziale da rifornimento nello spazio profondo, il No­
stromo, è un flebile grembo per labili neonati tecnologici. Il
loro sogno di un ambiente controllato giunge a una brusca
fine quando esplorano un’astronave abbandonata che più che
un meccanismo è un organismo morto-vivente. Basata sui di­
sturbanti disegni del surrealista svizzero H.R. Giger, la nave
aliena è composta di portali a forma di vagina e di caverne
uterine. (L’opera snervante di Giger, dove tutto pare sesso e
morte meccanizzati, sviluppò un largo seguito di culto dopo
Alien, per cui vinse un Oscar.) Negli anfratti più segreti, l’e­
quipaggio del Nostromo scopre la camera di incubazione del­
l’astronave, e uno dei suoi membri, Kane (John Hurt), viene
attaccato da tentacoli a forma di raggio di razza di mare, che
inseriscono qualcosa giù per la gola della loro vittima. Fatto

263
David I. Steal

ritorno all’astronave, Kane pare riprendersi, per poi ritrovarsi


un alieno a rapida crescita che gli esplode dal petto, inondan­
do di sangue l’equipaggio.
L’ambiente impersonale, artificiale e del tutto controllato
del Nostromo diventa quindi un terreno di coltura per il goti­
co-organico. La sterilità dell’ambiente è quasi una bandiera
rossa di segnalazione per le forze irrazionali e distruttive che
vi si annidano minacciose. L’alieno ha tratti meccanici, impres­
sionanti nella loro giustapposizione con fattezze sessuoschele-
triche, insettoidi. La scena della deflagrazione del petto, la se­
quenza di cui più si parla a proposito del film, divenne la su­
prema evocazione negli anni Settanta della riproduzione come
parassitismo innaturale. Dimostrare il proprio fegato superan­
do l’impatto della scena finì per diventare un rito di passaggio
immensamente popolare; era dai tempi dell’omicidio nella
doccia in Psycho (1960) che una scena scioccante non aveva
generato tanta pubblicità col passaparola. Il film si procurò
una buona dose di successo di ritorno, con persone che sfida­
vano se stesse a «padroneggiare» la scena o portavano amici
per assistere alle loro reazioni. Il trauma violento della nascita/
morte di Kane non viene mai superato; l’alieno matura, si trat­
ta sempre del feto-come-uomo-nero, un incubo in costante svi­
luppo e mutazione. La crescente ma colpevole ostilità della
cultura nei confronti della nascita produce un mostruoso pa­
rassita fetale ostile alla stessa cultura. Alien era una convalida
di qualcosa che già si sospettava: la riproduzione era un altro
nome per la morte, un insulto devastante al corpo e all’autono­
mia personale; sesso e tecnologia si erano riuniti in maniera
bizzarra e malvagia. Il sollievo arrivava solo quando la bestia
veniva abortita dal corpo dell’astronave-madre per trovarsi ri­
succhiata dal vuoto spaziale. All’epoca del terzo episodio,
Alien
,
* (id., 1992, di David Fincher), i temi furono rappresen­
tati in maniera ancora più decisa. Ripley (Sigourney Weaver),
la combattiva superstite dei primi due film, è ora un fumetto
femminista asessuato, che si difende da un microcosmico mon­
do-prigione di maschi psicopatici e dal mostro alieno che porta
inconsapevolmente in sé. La spettacolare autoimmo’azione di
Ripley aveva la qualità involontaria di una protesta politica

264
The Monger Sbt>u>

da ultima trincea per la Suprema Corte che minava il diritto


all’aborto appena prima della distribuzione del film.
Il film Profezìa {Prophecy, 1979) di John Frankenheimer
mostrava Talia Shire nei panni di una donna la cui ansia ri­
guardo alla gravidanza (il marito ambientalista, che ritiene il
mondo un luogo non più adatto alla riproduzione, viene a sa­
pere di aver inconsapevolmente ingerito un composto di mer­
curio che può alterare i geni) si esterna selvaggiamente sotto
forma di un orso mutante e divoratore di uomini nei boschi
del Maine. Come Alien, Profezia utilizzava nella grafica pubbli­
citaria un’immagine che richiamava un uovo, all’esterno del
quale un’entità dotata di zanne fissava il potenziale spettatore.
A differenza di Alien, il film di Frankenheimer non riuscì a
trovare un largo seguito, probabilmente perché perdeva più
tempo a predicare che a schiacciare bottoni. La demonizzazio­
ne di immagini fetali non si presta in sé a un’interpretazione
meramente ideologica. I bimbi mostri non sono precisamente
pro-vita o pro-scelta, ma, proprio come Tumorismo nero, vei­
colano aspetti taciuti da entrambe le parti. Gli avvocati aborti­
sti discutono raramente le emozioni negative che circondano
la gestazione o la gravidanza; il problema viene presentato co­
me una scelta propria del consumatore, la selezione di uno
stile di vita che accresce il prestigio. Le immagini della cultura
popolare suggeriscono che il problema è un po’ più contorto;
perché mai il pubblico affolla ripetutamente storie ansiogene
di esseri fetali che uccidono o devono essere uccisi? Quelli
per il diritto alla vita, nella loro disponibilità a rafforzare la
gestazione come un tipo di punizione ideologica (e nella lam­
pante mancanza di interesse per il benessere del bambino do­
po la nascita), rivelano una personale e nascosta ostilità verso
i bambini, che sembrano non essere altro che armi politiche
usa e getta. Da una prospettiva estremamente puritana, i bam­
bini sono lo scotto da pagare per il sesso, un flagello non molto
distante dal «castigo» dell’Aids. Da una prospettiva liberal, i
bambini sono un peso socioeconomico che può trascinare in
basso. Entrambe le parti considerano in maniera ostile i non­
nati, e una buona immagine orrorifica può comunicare più

265
David J. Sitai

sulla moderna ambivalenza riproduttiva di una dozzina di ver­


bosi dibattiti sul diritto all’aborto.
Bambini mostruosi, orrorifici prebimbi, e bambini violen­
tati (cioè abortiti) divennero comodi luoghi comuni negli anni
Settanta e Ottanta. I romanzi gotici sugli abusi su minori di
V.C. Andrews, a iniziare da Fiori nell'attico (1979) e la sua
famiglia leziosamente chiamata «Dollanganger», divennero
enormi successi. La presenza di bambini sulla copertina dei
tascabili horror è un cliché del genere; ora minacciati, ora mi­
nacciosi, non importa: ciò che conta è l’implacabile senso di
minaccia imperniato sull’immagine infantile. Alla fine degli an­
ni Ottanta, la nozione di un «bambino interiore» ferito era
diventata un caposaldo della psicologia popolare; contempora­
neamente, bambini interiori che procuravano ferite si esterna­
vano ovunque, in film come Grano rosso sangue (Children of
the Corny 1984, di Fritz Kiersch) e, piuttosto curiosamente, La
bambola assassina (Child's Play, 1988, di Tom Holland), dove
un giocattolo omicida di nome Chucky sapeva come catturarti.
La bambola assassina generò due seguiti ravvicinati (1990 e
1991, rispettivamente di John Lafia e Jack Bender), il secondo
dei quali causò quasi uno scandalo a New York nel 1991,
quando si apprese che una scuola elementare di Brooklyn usa­
va violenti spezzoni video di Chucky per tenere tranquille le
classi. Un’insegnante giustificò la scelta spiegando che i cartoni
animati di cani e gatti non servivano più allo scopo. «Hanno
superato lo stadio della tenerezza», spiegò al «New York
Post». È probabile che alcuni degli stessi bambini abbiano
passato del tempo a scambiarsi una serie di figurine chiamate
«Garbage Pail Kids», una mania intensa ma di breve durata
negli anni Ottanta per immagini di bambocci mostruosi in si­
tuazioni repellenti. L’idea che i bambini americani provassero
un senso di identificazione con i degradati ed effìmeri Garbage
Pail Kids - il riferimento all’immondizia (garbage) veicola una
connotazione forte di aborto/infanticidio - è degna di conside­
razione, insieme alla precedente mania degli anni Ottanta per
le bambole Cabbage (cavolo) Patch, un fenomeno che basava
il proprio richiamo su una fantasia di riproduzione asessuata.
Come Frankenstein, che tentava anch’egli di sovvertire il tradi-

266
The Monster Shtw

zinnale paradigma riproduttivo, i genitori americani (più dei


loro figli) furono ossessionati dalla bambola Cabbage Patch e
dalle sue irrisolte metafore prossime all’horror.
Rispecchiando il lacerante dibattito sull’aborto negli anni
Ottanta e Novanta, la narrativa orrorifica cominciò a impiega­
re un immaginario fetale che andava molto oltre qualunque
tecnica di shock visuale impiegata dalla fazione del diritto alla
vita. Nel racconto Foet (1991) di F. Paul Wilson, il lettore
entra in una Manhattan di un futuro prossimo popolata di
importanti personalità per le quali le borsette fatte di pelle di
feto sono l’ultimo grido in fatto di status symbol.

«Avete qualche pezzo senza tutte quelle cuciture? Qualcosa


dall’aspetto più liscio?»
«Purtroppo no. Mi spiego, lei deve capire che siamo costretti
proprio dalla natura del materiale con cui lavoriamo a utiliz­
zare pezzi piccoli.» Fece un ampio gesto. «Osservi, inoltre,
che non ci sono guanti. Nessuno dei fabbricanti vuole essere
accusato di fare preferenze.»
Rolf sorrise. Denise riuscì solo a fissarlo.
Si schiarì la voce. «L’ho capita.»20

Il fardello di tante immagini orrorifiche significa una guer­


ra non dichiarata fra vivi e mai nati. Nella questione può entra­
re più di una metafora; l’inconscio probabilmente non fa di­
stinzioni fra invasioni geografiche e violazioni fisiche. IL TUO
CORPO È UN CAMPO DI BATTAGLIA, uno slogan femmini­
sta largamente popolarizzato in un poster postmoderno di Bar­
bara Kruger, è l’essenza dichiarata di innumerevoli poster ci­
nematografici e copertine di libri horror.
L’immaginario embrionico, negli anni Ottanta e Novanta,
era saldamente pari al morto-vivente come metodo di sugge­
stione orrorifica. La generazione, a quanto pareva, era repel­
lente come il disfacimento fisico. Per la mente moderna a iden­
tificazione tecnologica, non era più la morte a terrorizzare, ma

* In originale making kid gloves, letteralmente «fabbricare guanti da (o a base


di) bambino», ma anche «trattare coi guanti bianchi». (N.d.T.)

267
David J. Ska!

l’intero spettro dei fenomeni biologici. I mai nati si erano me­


scolati ai non-morti, e i contadini si riunivano in un sogno di
terrore per offrire i propri figli in sacche da abbandonare alle
pendici del castello di Dracula.

268
Scar Wars
*

Modellarsi i lineamenti con mastice nasale o


cera cadaverica è una delle più eccitanti e
importanti tecniche di trucco perché consen­
te realmente di cambiare la forma del viso. U
mastice nasale è un materiale per modellare
appiccicoso e color carne, venduto in forma
di piccoli stick o lattine. La cera cadaverica
è una pasta più morbida color carne, venduta
in lattine. Benché sia stata concepita per re­
staurare facce da parte dei becchini, viene
anche usata da artisti del trucco.
Dick Smith, Do-ìt-Yourself
Monster Make-up Handbook (1965)

Tom Savini non voleva andare in Vietnam. Voleva fare film


invece, e un suo amico di Pittsburgh di nome George Romero
stava per girare il lungometraggio d’esordio, un film a basso
costo intitolato La notte dei morti viventi (Night of the Living
Dead, 1968). Savini era cresciuto imbottendosi di film horror,
e amava creare effetti speciali. U suo idolo era Lon Chaney.
«Mi ero già iscritto alla leva, nel programma “Hold”, per
evitare il Vietnam», raccontava. «Lì si poteva scegliere l’adde­
stramento, e io avevo optato per la scuola di fotografia di
Forth Monmouth. L’esercito mi aveva richiamato prima che
George iniziasse le riprese della Notte, e appena ultimata la
scuola mi spedirono diritto in Vietnam come fotografo di
guerra. Ecco perché non ho partecipato a La notte dei morti
viventi. »1
In Vietnam non trovò l’horror, ma un mucchio di orrori.
«Ho visto fiumi di sangue laggiù», ricordava Savini in un’in-

Gioco di parole con Guerre stellari (Star Wars); scar significa «cicatrice».
(N.d.T.)

269
Danti J Shi I

tervista del 1982. «E il mio lavoro era fotografarli. Continuai


a esercitarmi nel trucco lavorando sui soldati, tanto per ride­
re.»2 Savini si era portato dall’addestramento una scatola per
il trucco. «Feci impazzire il mio sergente istruttore per il collo­
dio rigido, una plastica liquida che si seccava e rapprendeva
sulla pelle, formando cicatrici. Voleva provarlo in faccia per
spaventare il branco successivo di reclute.»3
Nella zona di guerra il collodio non era necessario. Gli
effetti scioccanti abbondavano: «Stavo camminando e per po­
co non inciampai in un braccio umano, con un’estremità strap­
pata e mozzata, il pugno serrato che stringeva il terreno».4 E
visitò ospedali, vedendo amici con «certe parti intime dei loro
corpi completamente fatte a pezzi... Forse la mia mente li con­
siderava effetti speciali per proteggermi.
«Era buffo. In condizioni estreme la mente umana si
preoccupa solo di se stessa. Si richiude completamente. Realiz­
zai il tutto molto dopo. Come tutti i reduci dal Vietnam, quan­
do tornai a casa mi ritrovai fottuto. Il mio matrimonio andò
immediatamente giù per il cesso».5
Savini vide nelle fantasie orrorifiche un diversivo. «A un
certo punto, mi ricordo che interpretavo la parte del folle Ren-
fìeld in un’edizione teatrale di Dracula, e continuavo pure fuori
dal palco... L’attore che faceva l’infermiere del manicomio mi
vide tra le quinte e gridò: “Che ci fai fuori dalla tua cella?”
Credo che capisse cosa stessi passando. Il Vietnam cambiò la
mia vita; mi fece desiderare di fuggire per sempre dalla
realtà.»6
Il primo incarico cinematografico venne con uno spin-off
canadese della serie «The Monkey’s Paw», (La zampa di scim­
mia) intitolato L'assedio dei morti viventi {Deathdream, 1972,
di Bob Clark), in cui un veterano del Vietnam, Andy (Richard
Backus) ritorna «vivo» alla porta di casa ma come zombi-vam­
piro in inesorabile decomposizione. Il film (noto anche come
Dead of Night e The Veteran) mostra i segni del basso costo,
ed è difficile capire se il parallelo fra il vampiro morente e la
stessa guerra del Vietnam, entrambi succhiasangue senza via
d’uscita, fosse una presa di posizione consapevole. Il film rie­
cheggia e inverte bizzarramente lo sfrenato melodramma sul

270
The Momtrr Show

ritorno a casa Slicks and Bones (t. lett.: Stecchetti e ossa, 1972,
di David Rabe), in cui un soldato torna dal Vietnam privo
della vista e «vede» per la prima volta la sostanziale mostruo­
sità della propria famiglia.
George Romero chiese a Savini di partecipare alla sua nuo­
va produzione, Wampyr {Martin, 1978), altra storia di vampiri
contemporanea che comportava palettate nel cuore ed effetti
sanguinolenti. Un lavoro più importante per Romero fu Zombi
{Dawn of the Dead, 1979), complesso seguito di La notte dei
morti viventi. L’originale, una claustrofobica storia di assedio
ripresa in un bianco e nero da cinema vérité, si fondava sull’at­
mosfera e sulle ombre, con qualche strizzatina d’occhio a inte­
riora da macelleria. Il seguito, come con il maiale, non avrebbe
buttato via nulla. La notte dei morti viventi fu l’ultimo torcibu­
della americano prodotto prima delle sollevazioni contro la
guerra nel Vietnam del 1968 e, in un certo senso, segnò la fine
di un’era. Il suo seguito post Vietnam fu un film radicalmente
diverso per sensibilità e realizzazione, più complesso, sardoni­
co e cinico. Zombi, una satira sociale al vetriolo, riempiva un
centro commerciale di zombi antropofagi: un’immagine inde­
lebile del consumismo impazzito. Gli effetti speciali erano
grottescamente sopra le righe: una testa saltava in aria con un
colpo di fucile, un morto-vivente mordeva in primo piano la
spalla della moglie, un altro cadavere ambulante subiva una
specie di taglio di capelli a zero da una vorticosa lama di elicot­
tero. Il film venne distribuito senza passare la censura preven­
tiva dell’Mpaa. Savini riferì in un’intervista che «gran parte
del mio lavoro per Zombie consisteva in una serie di ritratti di
quanto avevo visto dal vivo in Vietnam. Forse è stato un modo
di venirci a patti».7 Gli horror degli anni Settanta e Ottanta
cominciarono a esibire sintomi notevolmente simili a quelli
sofferti dalle vittime di una sindrome da stress postraumatica:
reazioni sconvolte, paranoia, innumerevoli sequenze di caccia
genere guerriglia e, come traumatici salti nel tempo, immagini
ripetute all’infinito di assalti da incubo al corpo umano, in
particolar modo la sua distruzione improvvisa ed esplosiva.
In confronto alle visioni di George Romero e Tom Savini,
le escursioni precedenti nell’horror violento erano state assolu-

271
Dai’iil I Sitai

tamente innocue. Psycho (1960) di Alfred Hitchcock è general­


mente considerato l’inizio della violenza esplicita sui media,
benché la sua scena più celebre, l’omicidio sotto la doccia del­
l’attrice Janet Leigh, fosse il prodotto di virtuosismi al montag­
gio e una spruzzatina di cioccolata liquida. A Hitchcock piace­
va raccontare che per la sequenza era stato allestito un com­
plesso manichino in gomma di una donna nuda, completa di
vene, che però non spruzzava abbastanza sangue quando veni­
va pugnalata. Ma nessun altro della produzione riusciva a ri­
cordare il pupazzo.
Il progettista grafico Saul Bass, assunto da Hitchcock co­
me consulente visuale per lo storyboard e l’allestimento della
sequenza, concepì inizialmente una scena freddamente stilizza­
ta e del tutto priva di sangue. Suggerì di terminarla con un
unico rivolo di sangue da sotto il viso della donna verso la
cinepresa che si allontanava dal morto occhio spalancato della
vittima. Bass ricordava: «Costruimmo un pavimento con pia­
strelle speciali, increspate, in modo da creare un’impercettibile
depressione attraverso la quale poter dirigere la scia di sangue
e altro. Non funzionò».8 Hitchcock optò invece per cioccolato
liquido giù per lo scarico.
Benché Psycho sia stato un film dalla straordinaria influen­
za, l’esplicita truculenza su celluloide deve probabilmente più
all’opera in Eastmancolor zuppo di sangue della Hammer
Films inglese, cominciata con un netto colpo di falce rosso
sulla retina del pubblico in La maschera di Frankenstein (The
Curse of Frankenstein, 1957) e Dracula il vampiro (Horror of
Dracula, 1958), per la regia di Terence Fisher e l’interpretazio­
ne di Chistopher Lee, che nella parte di entrambi i mostri ave­
va lanciato la propria carriera e forgiato un altro legame di
comunanza tra le icone gemelle. Il primo momento grangui­
gnolesco in un film americano di studio fu fornito dal regista
Robert Aldrich in Piano... piano, dolce Carlotta (Hush... Hush,
Sweet Charlotte, 1964), che si apriva con un primo piano della
mano di Bruce Dern amputata da una mannaia. Dietro seguiva
la sua testa, azione indicata piuttosto poeticamente da uno
spruzzo di cioccolata (anche Piano... piano, dolce Carlotta era
in bianco e nero come Psycho) su un amorino scolpito, testi­

272
77>r Momtrr Show

mone appropriato di un omicidio passionale. La pubblicità di


Strait-Jacket (t. lett.: Camicia di forza, 1963) di William Castle
prometteva al pubblico un film che DIPINGE VIVIDAMENTE
OMICIDI ALL’ACCETTA (anche se le decapitazioni erano cla­
morosamente false: le teste cadevano come se fossero state te­
nute su con nastro adesivo). Questi film, e molti altri del gene­
re, ospitavano solitamente un «ritorno» (leggi resurrezione)
sullo schermo di veterane attrici di Hollywood (leggi Bette Da­
vis o Joan Crawford). Simili a versioni cinematografiche di
Erzsébet Bàthory (la sanguinaria contessa ungherese che cre­
deva che il sangue di vittime di omicidi potesse restituirle la
giovinezza), le regine del nuovo horror di Hollywood sperava­
no di ringiovanire le proprie carriere con analoghi bagni di
sangue.
Alla luce di tali ondate di truculenza ufficiale, e con la fine
di diversi uffici di censura che tradizionalmente l’avevano fatta
passare dura all’horror, si fece strada il primo vero «film splat­
ter» nei drive-in e nei circuiti exploitation. Blood Feast (t. lett.:
Banchetto di sangue, 1963) fu il frutto del produttore David
F. Friedman e del regista Herschell Gordon Lewis. Che la
simulazione continua di omicidi e mutilazioni nel film (il tenta­
tivo perverso di un folle caterer di ricreare un «genuino» ban­
chetto cannibalesco egiziano) sia più o meno realistica si può
discutere, ma nessuno potrà accusare i due cineasti di aver
lesinato secchielli ricolmi di sbobba rosso brillante.
Effetti cosmetici elaborati e stupefacenti erano stati noti al
cinema fin dai giorni di Lon Chaney, ma raggiunsero un ulte­
riore livello di realismo grazie al perfezionamento di un mate­
riale che sarebbe quasi diventato la sostanza alchemica di fine
secolo. L’uso di tale sostanza, la schiuma di lattice, non solo
espanse le capacità tecniche dell’artista di effetti speciali, ma il
conseguente pubblico spettacolo di corpi umani modellabili
all’infinito rifletteva in parallelo la crescita esponenziale della
chirurgia cosmetica come attività culturale e ossessione duran­
te lo stesso periodo.
La schiuma di lattice, nella sua conformazione definitiva,
è un materiale solido e spugnoso di densità variabile, e può
essere utilizzato per fabbricare calchi, maschere e protesi spa-

273
David J. Ska!

ziando da quelli tanto resistenti da tollerare la violenta solleci­


tazione di un cascatore, fino ad applicazioni facciali sottili co­
me pelle in grado di registrare le più impercettibili espressioni
dell’attore che c’è sotto. I processi necessari sembrano improv­
visati, quasi casalinghi (e infatti furono perfezionati nel corso
degli anni da rabberciatoti entusiasti che lavoravano instanca­
bili in cucine e garage, scambiandosi tranquillamente osserva­
zioni); miscelatori di cibo casalinghi vengono usati per frullare
il lattice in polvere, gli agenti schiumosi e lenitivi e l’acqua
in una spuma simile a pastella. Questa schiuma liquida, con
l’aggiunta di un agente gelifìcatore e colorante, viene versata
in calchi ricavati da persone reali o modellati su sculture di
fantasia, e poi vulcanizzata in un normale forno da cucina.
Un passo falso in uno stadio qualunque della lavorazione può
provocare lo straziante equivalente di un soufflé afflosciato.
La schiuma di lattice e le tecnologie a essa collegate hanno
reso possibili fantastiche distorsioni del corpo umano di una
plasticità quasi paragonabile a quella raggiunta in precedenza
solo da pittori e scultori. Diversi film fantascientifici e dell’or­
rore cominciarono negli anni Settanta e Ottanta a mostrare
segnali di affinità immaginaria alle prime visioni di Francis Ba­
con e Salvador Dall. H remake di La «cosa» da un altro mondo
{The Thing from Another World, 1951, di Christian Nyby) da
parte di John Carpenter {La cosa [The Thing, 1982]), con gli
effetti speciali di Rob Bottin, sottopose il corpo alle contorsio­
ni e agli stiramenti più surrealisti mai visti fuori da una galleria
d’arte. Almeno una delle stravaganze di Bottin assomiglia da
vicino a un pannello del seminale trittico di Francis Bacon Tre
studi per figure alla base di una crocifissione. In un certo senso,
l’intera storia del XX secolo di forme umane sempre più astrat­
te nelle belle arti è stata compendiata nel mezzo popolare dei
film dell’orrore, fantascientifici e fantasy. Dopo l’ispirata in­
cursione nel mondo lovecraftiano con Re-animator {Re-Anima-
tor, 1985, di Stuart Gordon, ispirato al racconto Herbert West,
rianimatore), Gordon e Brian Yuzna radicalizzarono ancora di
più il loro approccio con Terrore dall’ignoto {From Beyond,
1986), anch’esso ispirato a H.P. Lovecraft, con immagini di
gente ridotta a urlanti masse zannute di protoplasma, memori

274
Thr Mon\(er Show

di un incubo baconiano su tela. L’esplorazione del rapporto


fra orrore cinematografico e surrealismo è consapevole e calco­
lata; insieme al talentuoso consulente per gli effetti speciali
Screaming Mad George, Yuzna ha preso a prestito direttamen­
te l’immaginario di Salvador Dall per la sua satira orrorifìca
Society - The Horror (Society, 1989), dove ricche amebe umane
inglobano letteralmente le classi lavoratrici.
Negli anni Ottanta gli effetti speciali nei media popolari
erano l’incontro più ravvicinato con il miracoloso che potesse
combinare una cultura secolare; l’appetito diffuso per l’illusio­
ne di una trasformazione tradiva un appetito profondo e senza
precedenti per immagini di trascendenza e trasfigurazione. (I
mostri si rivelavano come al solito pratici sostituti del Cristo.)
Non tutti gli effetti mostravano carne informe; parte del lavoro
più ambizioso comportava dettagliate e magistrali trasforma-
zioni/incroci di specie. Quando Lon Chaney Jr. si sottoponeva
alle sue metamorfosi licantropiche belliche, la tecnologia di
ripresa era piuttosto rigida: salti e dissolvenze in stop-motion
mentre venivano dolorosamente applicati strati di peli di yak.
Quarant’anni dopo, due film prodotti quasi simultaneamente,
L'ululato (1980) e Un lupo mannaro americano a Londra (An
American Werewolf in London, 1981), esibirono la nuova for­
ma della licantropia, ora più meccanica che ottica. L’ululato,
diretto dal ragazzo prodigio dell’horror Joe Dante, presentava
un uomo-lupo modernissimo: la carne (pelle in lattice con val­
vole gonfiabili, opera di Rob Bottin) poteva tendersi e flettersi
a piacimento, il naso ruggiva sporgendo come un treno merci,
e i talloni emergevano dalle dita come coltelli a serramanico
motorizzati. La grande scena di trasformazione di L’ululato
(aggiunta al film a mo’ di costoso ripensamento) si rivelò un
potente richiamo per il passaparola. Il regista gradì la scena,
ma in seguito comprese che non aveva senso: la spettacolare
metamorfosi richiedeva tanto tempo che la vittima avrebbe
avuto ampie possibilità di svignarsela.9 Distratti dallo spreco
di trucchi, comunque, gli spettatori non si lamentarono. Il film
era stracolmo di affettuosi riferimenti ai film del genere, com­
presa un’apparizione-cammeo di Forrest J. Ackerman, venera­

275
Diwiil I Skill

bile direttore di «Famous Monsters of Filmland»; e John Say­


les elaborò una sceneggiatura particolarmente acuta.
Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, con
gli effetti speciali di Rick Baker, superò il precedente con la
prima illustrazione di ogni epoca della trasformazione di un
licantropo nudo. Dalla pelle umana spuntavano singoli peli di
lupo in microscopici primi piani, mentre la struttura scheletri­
ca dell’attore David Naughton si allungava e animalizzava sot­
to la carne esposta e vulnerabile.
Un lupo mannaro americano a Londra fu visto e apprezzato
da Michael Jackson, il cantante il cui primo successo solista
era stato il motivo del film dell’orrore Ben (id., 1972, di Phil
Karlson), un intrigante racconto di ratti assassini controllati
psichicamente. Jackson decise di chiedere a John Landis e
Rick Baker di creare il video musicale per la canzone eponima
del suo album Thriller, un successo del 1982. A dir la verità,
l’album fu più che un successo, un megafenomeno spazzatutto
destinato a diventare l’album più venduto di tutti i tempi: mez­
zo milione di copie alla settimana al vertice della popolarità.
La CBS finì per smerciarne 38,5 milioni di copie in tutto il
mondo; restò al primo posto nelle classifiche di «Billboard»
per 37 settimane e sette dei suoi pezzi entrarono nelle top
ten.10 La canzone Thriller comprendeva una sezione recitata
da Vincent Price che ricordava le effimere canzoncine proto-
rap di John Zacherle e Bobby «Boris» Pickett; lo spirito di
The Monster Mash e Dinner with Drac aveva raggiunto una
stupefacente apoteosi commerciale.
Il video di quattordici minuti Thriller, prodotto a un costo
oscillante fra 800.000 e un milione di dollari, si apre con una
scena di Jackson nei panni di un adolescente anni Cinquanta
a un appuntamento, dove confessa timidamente alla ragazza di
essere «diverso» e «non come gli altri». La battuta suscita
una risatina omofobica nel pubblico, seguita da un grido della
ragazza quando lui dimostra esattamente quel che vuol dire,
mutandosi in una ringhiarne creatura felina dagli occhi gialli.
Prima che possa ucciderla, la scena si rivela un fìlm-nel-film,
con Jackson e la sua ragazza che si osservano tranquillamente
passare sullo schermo di un cinema. Tornando a casa, passano

276
The Mt»n\tcr Show

per un cimitero che erutta qualunque revenant in decomposi­


zione da J’accuse a George Romero, e Jackson si trasforma di
nuovo, questa volta in un Franken-zombi ballerino. Con la sua
carnosa esibizione di spaventosi ballerini, Thriller fu una danse
macabre quasi letterale per i frenetici anni Ottanta, una svendi­
ta plurima di Hans Holbein il Giovane da parte dell’industria
dello spettacolo. (Il video fu pesantemente finanziato da MTV
e dalla rete via cavo Showtime.11)
Rick Baker ricordava un Jackson sorprendentemente poco
familiare col genere orrorifico: l’estrema stravaganza del pro­
getto suggeriva un hommage sentito da parte di un genuino
ammiratore. Ma quando Baker e Landis appresero che l’enter-
tainer non aveva mai visto La sposa di Frankenstein, comincia­
rono «a tirar fuori tutti i titoli di quei film e risultò che ne
aveva visti pochissimi», aggiungeva Baker.12 Le sue conoscen­
ze del genere si limitavano a Un lupo mannaro americano a
Londra, Notre-Dame (The Hunchback of Notre-Dame, 1939, di
William Dieterle) con Charles Laughton (uno dei suoi preferi­
ti) e The Elephant Man (1980).
Mancò poco che il mondo si perdesse Thriller, già ultima­
to. Secondo il biografo di Jackson J. Randi Taraborelli, il can­
tante, Testimone di Geova praticante, si turbò quando gli an­
ziani della Chiesa obiettarono al demoniaco video.1? Preso dal
panico, domandò che l’opera non ancora distribuita venisse
distrutta. Pare che il suo manager, John Branca, abbia raccon­
tato a Michael una storia su Bela Lugosi - mai sentito nomina­
re dal divo - in cui dipingeva l’attore come un uomo profonda­
mente religioso che tuttavia poteva interpretare Dracula senza
per questo compromettere la propria anima. Benché non esista
una documentazione biografica sulla particolare religiosità di
Lugosi (piuttosto prove evidenti di problemi personali e pro­
fessionali provocati dalla sua immagine vampiresca), lo strata­
gemma di Branca funzionò. Jackson permise la distribuzione
del video, purché accompagnato dalla seguente didascalia: «In
base a forti convinzioni personali, è mia intenzione sottolineare
che questo film non promuove in alcun modo una fede nell’oc­
culto». (Taraborelli riferisce anche la presunta reazione del

577
David J Skal

regista John Landis alla crisi di nervi: «Gesù Cristo. Questo


ragazzo non è poi così in forma, non vi pare?»)
Evidentemente Michael Jackson trovava che nella propria
forma esteriore qualcosa non funzionasse; aveva già iniziato
un’ossessiva odissea con la chirurgia plastica, e la prima consa­
pevolezza da parte del pubblico della sua reale riconfigurazio­
ne facciale si sovrappose alle metamorfosi con mostri di fanta­
sia di Thriller.
La corrispondenza piuttosto ovvia - forse troppo, nascosta
com’era in piena vista - non suscitò particolari commenti, ben­
ché si facesse un gran parlare dell’opera di chirurgia a cui si
era sottoposto il cantante. La chirurgia plastica e l’iconografìa
mostruosa che spinsero Michael Jackson alla sua maggiore fa­
ma avevano le loro origini nella prima guerra mondiale; la chi­
rurgia come risposta medica agli orrori del campo di battaglia,
i mostri come le metafore cinematografiche belliche di Caligari
e Nosferatu.
«People», verso la fine del 1983, fu la prima rivista a ri­
portare che Jackson si era sottoposto a una plastica nasale; la
storia e le fotografie del prima e dopo fecero da tam tam e
crearono attesa per il video di Thriller, che debutto su MTV
nel gennaio 1984. La fascinazione per il trucco mostruoso an­
dava di pari passo con quella per l’alterazione chirurgica, per
Jackson come per il suo pubblico, a quanto pareva. All’appari­
zione del suo album successivo, Bad (1987), la chirurgia da
sola sarebbe stata sufficiente. Il cantante ora aveva un aspetto
scheletrico da modello (diversi osservatori pensarono che stes­
se tentando di trasformarsi fisicamente in Diana Ross, sua
mentore e idolo), e si era rimpicciolito ancor più il naso. «Ave­
va aggiunto una piccola e bizzarra fossetta al mento e le
sue labbra si erano assottigliate», riferiva per la cronaca il
«New York Times», «desensualizzando i lineamenti e sfu­
mando il proprio patrimonio razziale.»14 La pelle aveva un
pallore che poteva solo essere il risultato di una pesante truc­
catura o, come sostenevano in molti, di un peeling facciale
concepito per minimizzare la pigmentazione naturale. Diversi
lo trovarono mostruoso, benché quasi tutti lo ritenessero inte­
ressante.

278
The Momfrr Show

Forse non era sorprendente che il divo di Thriller fosse


intento a trasformarsi il volto in una specie di teschio ambulan­
te. Da certi punti di vista, la pelle bianco-osso, il naso quasi
scomparso e i capelli increspati lo apparentavano al Fantasma
dell’Opera di Lon Chaney. Il paragone è pertinente, perché
sottolinea la funzione culturale parallela di Jackson e Chaney:
l’incamazione di una massiccia trasformazione funziona da
metafora per un pubblico fondamentalmente insicuro e timo­
roso sulle reali prospettive di cambiamento in una società teo­
ricamente mobile e priva di classi. Un vasto golfo socioecono­
mico separa la superstar e il pubblico, all’epoca di Chaney co­
me in quella di Jackson, e tradisce la fantasia. Non sorprende
che i divari fra aspettative e realtà siano gonfiati enormemente
dall’horror; il cantante ha coscientemente usato l’enorme ric­
chezza per attirare una spettrale attenzione da parte dei media.
Con una trovata pubblicitaria, nel 1987 offrì un milione di
dollari al London Hospital Medicai College per i resti schele­
trici di John Merrick, il vittoriano grottescamente deforme la
cui vita costituì la base di The Elephant Man. Il numero di
dicembre 1987 di «Playboy» rispose con la notizia scherzosa
che i discendenti di John Merrick avevano fatto un’offerta de­
cisamente più rpodesta per i resti del naso del cantante.
Michael Jackson è spesso paragonato a Peter Pan, ma Pe­
ter Pan viene raramente riconosciuto come la variante di Dra­
cula che in realtà è: un essere di fantasia tardovittoriana che
vola nelle camerette dei ragazzi con una discutibile offerta di
vita perenne. (Quest’idea fu rielaborata dal regista Joel Schu­
macher nella sua commedia orrorifica Ragazzi perduti [The
Lost Boys, 1987], dove una gang di giovani alienati evita di
crescere diventando vampiri.) La fantasia vola ancora. Il rin­
giovanimento e l’eterna giovinezza sono le illusioni portanti
dell’industria chirurgico-estetica, alla quale l’immagine di Mi­
chael Jackson è per sempre sposata. «Standard and Poor’s In­
dustry Surveys» riferiva nel 1988 che l’industria di alterazione
chirurgica volontaria era un affare da 300 milioni di dollari,
con un incremento annuo del 10 per cento. La crescita esplosi­
va dell’industria cosmetica pareggiava la plasticità senza prece­
denti del corpo umano dipinta negli effetti speciali cinemato­
David I .VA///

grafici degli anni Settanta e Ottanta. Le convenzioni della fan­


tascienza contemporanea avevano avuto un impatto altrettanto
devastante sul modo in cui la gente considerava il funziona­
mento della propria mente. Un tempo i computer erano stru­
menti del cervello, che copiavano efficacemente certe sue fun­
zioni; oggi, un enorme numero di persone altrimenti intelligen­
ti crede che il cervello «non è altro» che un computer, e la
coscienza «null’altro» che un effetto collaterale di un discreto
livello di complessità meccanica. In breve, una metafora viene
accettata come un fatto compiuto. Se ricaviamo l’ispirazione
per l’immagine che abbiamo di noi stessi dalle immagini di
fantasia della cultura popolare, non sorprende che l’aspetto
somatico sia influente quanto le sue controparti meccanici­
stiche.
Visioni di uomini che giocano alla divinità con corpi di
donna imperversavano nella cultura popolare americana negli
horror anni Trenta come II dottor Miracolo e, al massimo della
spettacolarizzazione, in La sposa di Frankenstein di James
Whale (1935). Creare donne o rifarle, e ostacolare o modifica­
re gli usuali metodi di riproduzione è un impulso fantastico
che risale almeno al mito di Pigmalione; il critico femminista
Constance Penley collega questa tendenza all’idea di Marcel
Duchamp della «macchina celibe», che descrive come «un
sistema chiuso e autosuffìciente... I suoi temi comuni com­
prendono un movimento senza ostacoli, talvolta perpetuo...
elettrificazione, voyeurismo ed erotismo masturbatorio, il so­
gno della riproduzione meccanica di arte, e nascita o rianima­
zione artificiale».15 Il linguaggio onirico del cinema consentì,
per la prima volta nella storia dell’uomo, una stratificata elabo­
razione di massa di questi sogni a occhi aperti, divenuti domi­
nio praticamente incontrastato di scienziati folli. Emerse un’i­
conografia cruciale: il dottore impazzito, ossessionato da teorie
e/o standard estetici impossibili e irraggiungibili, incombe sul­
la donna che ha legato al tavolo operatorio. «E ora, mia ca­
ra...» è il consueto esordio della sua litania. Chiunque superi i
dodici anni è in grado di elaborare un copione credibile: la
accoppierà con una scimmia, sostituirà il suo sangue, ne tra­
pianterà la testa, la ridurrà a una bambola, la trasformerà in
Thr Monxfrr Show

una statua di cera ccc. È praticamente impossibile catalogare


la frequenza con cui la nostra cultura ha contemplato questa
immagine, in un misto di repulsione e attrazione, con quest’ul-
tima a trionfare, considerato il perenne richiamo del motivo.
È una visione che, oltrepassata la pura costruzione fantastica,
diviene accessibile nel corso della vita quotidiana.
Secondo Naomi Wolf, autrice di The Beauty Myth, noi
tolleriamo da parte dei chirurghi estetici comportamenti che
non sarebbero stati permessi a Josef Mengele. Le tecniche di
chirurgia estetica, scrive, «paiono essere diventate esperimenti
medici irresponsabili, con donne disperate come cavie: innan­
zitutto pugnalate nella liposuzione, con l’asportazione di vasi
funzionanti insieme a imponenti masse di tessuto vivente, inte­
re reti neuronali, dendriti e gangli. Gli sperimentatori hanno
continuato imperterriti. In Francia sono morte nove donne».16
La Wolf critica la mancanza di consenso informato, l’elemento
di coercizione psicologica, e, soprattutto, la falsa definizione
di corpi in salute come difettosi, alla ricerca di profitti clinici:
«Considerando le loro azioni in modo strettamente letterale, e
non retorico, appare chiaro che i moderni chirurghi estetici
violano quotidianamente la convenzione medica di Norim­
berga».17
Psicoterapia e chirurgia estetica alterano i confini di corpi
e menti meritevoli di «cura» e «correzione». Troppo spesso,
l’importante pare sia alimentare la dipendenza del paziente.
Quasi sempre, lo scopo è fargli accettare - o conformarlo a -
convenzioni e fantasie socialmente accettate. La fantasia di li­
berazione chirurgica dall’ansia sociale è piuttosto potente. Il
rapporto fra paziente (di norma) femminile e chirurgo estetico
(di norma) maschile viene spesso perversamente eroticizzato
lungo direttive da film dell’orrore. Le esagerazioni erano evi­
denti in un programma televisivo via cavo a cui ha assistito
l’autore, un «le aziende informano» settimanale prodotto co­
me autopromozione da un chirurgo estetico. Due giovanissime
donne nervose discutono l’infelice stato dei loro corpi con il
medico, che annuisce paterno, rafforzandone le paure. Lo
spettatore non vede nulla di repulsivo o sproporzionato nei
loro volti, ma le donne si sentono evidentemente devianti e

7X1
Dtiritl J Skal

sfortunate. Il dottore spiega come può iniettare nelle loro lab­


bra una sostanza per farle apparire più sensuali. Si discute la
loro paura di «essere tagliate», e il medico spiega che per il
momento probabilmente non hanno bisogno di alcun «ta­
glio», solo di un piccolo ritocco col collagene, il che lenisce i
timori per il presente mentre le rende ancora più incerte del
futuro. Il rituale è seducente e manipolarono; lo spettatore
sospetta che il collagene sia solo del petting spinto, con l’inter­
vento come inevitabile approdo.
Ai consumatori più avventurosi è rivolta una videocassetta
di un’operazione per accrescere il seno, volta a desensibilizzare
i più schizzinosi. Sorprendentemente, si vede poco sangue. Il
capezzolo viene tagliato intorno alla circonferenza per permet­
tere l’inserzione della sacca di gel al silicone. Nessuna obiezio­
ne su quel che esattamente accade alla risposta erotica di un
capezzolo le cui terminazioni nervose sono state amputate di
netto davanti agli occhi della videocamera. (Benché non sia
questa la tecnica preferita - il taglio viene di solito praticato
nella piega sotto il seno - è interessante il fatto che a scopo
promozionale vengano scelte le immagini della mutilazione di
un capezzolo.) Come nella prostituzione, il piacere sessuale
della donna non conta. Le spose della scienza sono lì per com­
piacere lo scienziato e stendersi sul tavolo. I loro corpi, in tutta
evidenza, non lo soddisferanno mai; li tagliuzzerà in continua­
zione, come in uno slasher movie in miniatura, al rallentatore e
con l’approvazione sociale. L’effetto è ridotto di alcune spanne
rispetto a quello di un film splatter, ma le immagini rituali
essenziali restano le stesse: il balenio di un seno, seguito da
un lucchichio di coltello. Nel linguaggio tipico della chirurgia
estetica, si ritiene che i corpi femminili abbisognino di «corre­
zione» (una trasparente parola in codice per «punizione»).
Ovviamente, lo scopo principale e l’esito finale dello spettaco­
lo, sia esso una pubblicità televisiva per la chirurgia plastica o
una fiera di devianza browninghiana, è «farsi tagliare».
Forse la versione più estrema di vivisezione socialmente
sanzionata si verifica nel campo della chirurgia transessuale. Si
considerano transessuali le persone letteralmente intrappolate
da un accidente alla nascita nel corpo del sesso opposto. Solo

282
The Minuter Shine

raramente vi è vero ermafroditismo, o la prova genetica di una


diagnosi simile; ma la radicata ansia per il genere è reale, e
viene affrontata con un coltello. Come nei film dell’orrore, una
metafora si fa letterale. Nel caso degli uomini, i testicoli vengo­
no recisi e scartati, i peni vengono svuotati e rovesciati per
diventare «vagine» con un tipo di sensibilità interiore man­
cante alle vere vagine. Gli psichiatri hanno ripetuto per gene­
razioni alle donne che avrebbero dovuto avere «orgasmi vagi­
nali»; così, tramite l’intervento transessuale, i medici hanno
potuto creare le proprie fantasie su carne.
In The Transexual Empire, Janice G. Raymond oppone
una tesi bruciante a questa pratica da una posizione femmini­
sta. «Nel suo tentativo di scacciare dalle donne il potere ine­
rente alla biologia femminile, il transessualismo non è solo una
procedura medica isolata o aberrante», scrive la Raymond. «Si
può affiancare a una serie di altre tecnologie maschili interven-
tiste come la clonazione, la fertilizzazione attraverso test sulle
tube e la selezione sessuale. » Per la saggista, il transessualismo
non solo origina un «lei-maschio», ma, ciò che è più impor­
tante, un «lui-madre», un Frankenstein restituito alla terra. Il
film di immenso culto The Rocky Horror Picture Show di Jim
Sharman, una ricapitolazione camp di personaggi e cliché hor­
ror, fu altrettanto importante per il travestitismo istrionico:
lo scienziato folle del film, Frank N. Furter (Tim Curry) è
un «travestito transessuale della Transilvania», proprio il
fulcro della mescolanza dei generi, con le suture in bella
evidenza.
I film horror degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta contri­
buirono parecchio a popolarizzare il concetto di doppi sessua­
li: Psycho resta tuttora uno dei film in bianco e nero più visti di
tutti i tempi. Sarebbe illuminante capire la portata di immagini
orrorifìcamente persuasive di uomini e donne all’interno di un
unico corpo nel condizionare e legittimare la stessa procedura
transessuale.
La chirurgia estetica non è l’unica sede contemporanea
dell’ansia corporea correlata all’orrore. Come comprovato dal
vasto numero di riviste, libri e programmi informativi sul sog­
getto, il pubblico interesse per tatuaggi, scarificazione, pierc-

283
David / Sitai

ing e analoghe attività volte all’alterazione del corpo è più forte


che mai. V. Vale e Andrea Juno. curatori della raccolta Modem
Primitives, scrivono che contro uno sfondo di «sensazione
quasi universale di impotenza a “cambiare il mondo”, gli indi­
vidui cambiano ciò su cui esercitano il potere: i propri corpi.
Quella zona di confine tra fìsico e psichico viene messa alla
prova di qualunque intuizione e libertà reclamabile».18 Una
forma meno decorativa di abbellimento (se la parola è quella
giusta) corporeo è stata ampiamente, ma non esclusivamente,
osservata nel comportamento automutilante di detenuti e isti­
tuzionalizzati. Secondo due esperti in materia, Robert Robert­
son Ross e Hugh Bryan McKay:

Rassicurerebbe molti di noi sapere che l’automutilazione rap­


presenta esclusivamente la bizzarra reazione di un esiguo nu­
mero di individui deviati attentamente allontanati dall’occhio
del pubblico... [ma] non è così. L’automutilazione non si ri­
trova esclusivamente in istituti di correzione, né è ristretta a
individui fortemente disturbati. Proprio come non esiste par­
te del corpo umano che non abbia subito mutilazioni, non
esiste ambiente dove non si sia verificata automutilazione.19

I comportamenti qui descritti svariano da cruenti autota­


tuaggi a graffi, incisioni, morsi, bruciature o amputazioni vere
e proprie, e atti analoghi contro l’identità come il digiuno e
l’avvelenamento. Talvolta l’importante, come nel caso di certi
schizofrenici, è semplicemente l’indurre una sensazione in un
corpo che si sente «tagliato fuori». In altri casi più tipici, come
quelli a cui si assiste nei riformatori femminili, vi è una netta
dinamica sociale all’opera, completa di manipolazione-provo ­
cazione dell’autorità e masochismo voyeuristico. Un segno per­
manente sulla carne, per quanto sfìguratore, è tuttavia un’eti­
chetta, un’identità, e un inoppugnabile marchio di riferimento
sociale.
Un altro specialista, Armando R. Favazza, ha esaminato
approfonditamente la base storica, letterale e antropologica
dell’automutilazione. In Bodies Under Siege egli riscontra la
prevalenza di immagini di mutilazione nei miti cosmogenici, il

284
The Mimi ter Shmr

che «dimostra le origini di un ordine sociale da arti di esseri


primari smembrati».20 Gli antecedenti mitici, naturalmente,
si osservano facilmente nei film horror del genere fantastico­
demoniaco. Anche la mutilazione possiede caratteristiche fun­
zioni iniziatorie, e al fine della corrente discussione è di qual­
che rilievo il fatto che uno dei primi utilizzi mutilatori su gran­
de schermo in un film americano sia stata Fimmagine dell’atto­
re Richard Harris appeso per i pettorali perforati in Un uomo
chiamato cavallo (A Man Called Horse, 1970, di Elliot Silver­
stein). Quell’indimenticabile ricostruzione torcibudella di una
cerimonia di iniziazione Sioux innalzò significativamente il li­
vello di tolleranza per l’orrore fisico hollywoodiano in tutta la
sua rutilanza, spianando la strada per successive pietre miliari
come L'esorcista.
Qualunque patologia collettiva possa essere coinvolta nel­
l’odierno diffuso immaginario di mutilazioni e mutazioni, gli
individui che si guadagnano da vivere con spettacoli analoghi
sono, in base alle mie ripetute osservazioni, un gruppo amiche­
vole, allegro ed equilibrato. Greg Nicotero, un giovane protégé
di Tom Savini assistente in II giorno degli zombi (Day of the
Dead, 1985) - i cui tratti furono usati per una delle teste taglia­
te e ghignanti del film - abbandonò ottimi studi per lavorare
nel film romeriano sugli zombi, e non ritornò più indietro.21
Dopo aver collaborato in film come La casa 2 (The Evil Dead
II, 1987, di Sam Raimi), Nicotero si mise in affari con Howard
Berger e Robert Kurtzman, giovani di formazione e gusti simi­
li, e nel 1988 fondò il Knb Efx Group. Con base a Chatsworth,
in California, un’ora a nord di Los Angeles, lo studio è uno fra
le svariate dozzine nell’area losangelina a soddisfare l’appetito
instancabile dell’industria del divertimento per realistici cada­
veri, ferite, parti del corpo scomponibili e ovviamente mostri.
Nella sala d’aspetto del loro studio, un sedile di auto gio­
cattolo è spinto con noncuranza contro un muro a cui sono
appesi gli impressionanti cadaveri da dissezione creati dal
gruppo per il film Gross Anatomy (t. lett.: Anatomia all’ingros-
so, 1989, di Thom Eberhardt). La maggior parte del laborato­
rio vede in corso diversi progetti, quasi tutti su corpi in putre­
fazione e ferite traumatiche alla testa. In una zona di lavorazio-

285
Dat v</ /. Skal

ne, un volume di patologia illustrata è sistemato per consulta­


zione immediata su uno scaffale per libri di cucina. A prima
vista, sembra una sorta di surreale squadra uscita da M.A.S.H.,
per la quale l’importante è fare i danni peggiori possibili, non
ricucirli. Appoggiato su uno scaffale c’è il torso della sposa, a
malapena rabberciato, di Re-animator 2 {Bride of Re-Animator,
1991), il commento definitivo e sardonico di Brian Yuzna sul­
l’esigenza maschile di ricostruire le donne. Una bizzarra disso­
nanza di odori pervade la stanza: preparati chimici industriali
addolciti con polvere di talco (usata per una spolveratina sulle
protesi ultimate). Ovunque prevale un’aria di cameratismo, di
missione comune - nessuno, certamente, obietterà che a que­
sta gente faccia difetto la capacità di spaventare.
Nicotero, come praticamente tutti gli esperti di effetti spe­
ciali, fu conquistato dai mostri fin da bambino, e ricordava di
aver sfidato se stesso a ritornare più volte ai film paurosi, an­
che se gli procuravano incubi. «Marinai la scuola per vedere
L'ululato», ricordava. Un’altra rivelazione fu la scena di morsi­
catura della spalla in Zombi-. «Non ho mai visto il popcorn
volare tanto in alto».
Un tempo provincia di free-lance individuali come Dick
Smith, gli effetti speciali vengono ora creati nell’area losangeli-
na da quaranta compagnie sempre più in competizione reci­
proca. Secondo Nicotero, lo stanziamento per gli effetti specia­
li di un film fantasy-orrorifico può andare da 60-100.000 dolla­
ri per una pellicola indipendente fino a oltre 10 milioni di
dollari (quasi metà del costo totale di produzione) per un gros­
so sforzo da studio come Gremlins 2 - La nuova stirpe {Grem­
lins 2 - The New Batch, 1990, di Joe Dante), costituito pratica-
mente di infiniti trucchi coi pupazzi di Rick Baker. A causa
della pletora di film splatter dei tardi anni Ottanta con scarso
successo al botteghino, i produttori si ritirarono per un po’ dal
genere, e le compagnie come la Knb cominciarono a mettere
a disposizione le propria capacità per film meno rutilanti. La
bottega di Nicotero creò una serie di bufali sorprendentemen­
te realistici per Balla coi lupi {Dances with Wolves, 1990, di
Kevin Costner) e un irriconoscibile manichino sosia dell’attrice
Kathy Bates e le gambe spezzate di James Caan in Misery non

286
The Momtcr Show

deve morire (Misery, 1990, di Rob Reiner). «I produttori dei


due film ci hanno detto che non volevano mai che si vedesse
il nostro lavoro sullo schermo. Era importante che nulla sem­
brasse un “effetto”.» L’affilata tecnologia onorifica, in altre
parole, ha iniziato a insinuare invisibilmente il camp nei grandi
studi.
Forrest J. Ackerman, eterna incarnazione protettiva dell’a­
dorazione dei mostri, evitò scrupolosamente manifestazioni in­
sane su «Famous Monsters of Filmland», ed era inevitabile
che la sua rivista non sopravvivesse agevolmente allo splatter
sesso-e-violenza degli anni Ottanta. «Famous Mónsters» tirò
gli ultimi nella primavera del 1983, dopo un periodo di totale
noncuranza da parte del suo editore, James Warren, che si
ritirò in un’inspiegabile reclusione.
I fan di Forty avevano sbocconcellato di buon grado l’u­
morismo educato di «Famous Monsters», ma ora volevano la
carne. Diversi tra loro - come Greg Nicotero e i suoi soci -
erano interessati specialmente agli aspetti tecnici degli effetti
speciali, un interesse alimentato direttamente da Ackerman
con i suoi regolari e reverenti omaggi a Lon Chancy, e, forse
con ancora maggiore influenza, con la pubblicazione di un nu­
mero unico monografico di «Famous Monsters» nel 1965.
Venduto a 60 centesimi in tutte le edicole del Paese, il Do-It-
Yourself Monster Make-Up Handbook (Manuale fai-da-te per
un trucco da mostro) era stato scritto dall’allora più importan­
te professionista, Dick Smith, che avrebbe in seguito messo in
pratica quasi ogni sua conoscenza in L’esorcista (il manichino
che doppiava la testa rotante dell’attrice Linda Blair è attual­
mente preziosa proprietà dello Smithsonian Institute, un con­
trappunto culturalmente demoniaco allo Spirit of St. Louis).
Do-It-Yourself è quasi uniformemente citato dagli artisti
più importanti di effetti speciali come stimolo o influenza sulle
loro carriere, ed è ancora uno spasso da leggere, se non altro
per vedere quanto lontano si è spinta l’industria negli anni
successivi. A differenza delle tecniche moderne, basate pesan­
temente sulla riproduzione del corpo e della testa, questo ma­
nuale predica il vangelo vecchia maniera praticato da veterani
hollywoodiani come Jack Pierce. Capitoli intitolati «Creare

287
Danni/ SkaI

bizzarri tessuti dermatologici» c «Nasi al mastice e cera cada­


verica», mostravano a giovani entusiasti come costruire fatico­
samente fantastiche mascherate strato su strato della propria
pelle. Alcune erano decisamente raccapriccianti, ma sempre
all’interno dei rigidi confini della formula complessiva di «Fa­
mous Monsters».
Inevitabilmente, alla fine degli anni Settanta emerse un
nuovo tipo di rivista horror in risposta alla nuova atmosfera di
disordine su scala industriale e ai lettori ansiosi di imparare
come è stato realizzato qualunque effetto. «Fangoria», lanciata
nel 1979, provocò polemiche fin dal primo numero; era dai
tempi di «Mad» che una pubblicazione rivolta ai ragazzi non
sollevava tante alzate di sopracciglia fra i genitori. A differenza
di «Famous Monsters», «Fangoria» era stampata a colori
sgargianti, per riprodurre al meglio nei suoi paginoni centrali
e pieghevoli carneficine amorevolmente fotografate, come una
parodia necrofila di «Playboy». («Non è precisamente il tipo
di rivista che la gente ama sfoggiare in metropolitana»,22 ha
detto il regista Joe Dante.) Come «Playboy», «Fangoria» ha
bilanciato le sue immagini strabuzzaocchi con articoli e intervi­
ste particolareggiati e spesso altamente tecnici con attori, regi­
sti, e, ciò che è più importante, artisti del trucco.
Per i non iniziati alle tessiture e sfumature della Monster
Culture è impossibile affrontarne le immagini. Dopo diverse
proteste, la rivista fu bandita dagli scaffali di una catena di
empori canadesi. In Inghilterra, «Fangoria» provocò un incu­
bo a Downing Street per il Primo ministro Margaret Thatcher,
che lo definì «assolutamente rivoltante»23 e spinse un mem­
bro del Parlamento a decidere se la rivista ricadesse sotto l’Ob-
scene Publications Act del 1959. Non era questo il caso. L’epi­
sodio richiamava un momento analogo degli anni Cinquanta,
quando Winston Churchill ordinò un mucchio di fumetti hor­
ror all’indirizzo del Primo ministro per informarsi sulle batta­
glie censorie che allora infuriavano.24 (In seguito confessò di
non aver avuto il tempo di leggerli.)
Anthony Timpone, direttore di «Fangoria», è acutamente
consapevole dei problemi con la censura, e ha scritto diversi
editoriali contro l’accanimento ostile della Motion Picture As-

288
The Mom ter Show

sociation of America, guardiana capricciosa della problematica


zuppa alfabetica che passa per «sistema di classificazione» per
allertare i genitori contro il sesso e la violenza in film e video.25
La Mpaa è l’ultima incarnazione di quella Mppda che tanti
grattacapi creò ai creatori di La sposa di Frankenstein e Dracu­
la's Daughter negli anni Trenta, e, nel suo cuore ipocrita, non
è cambiato nulla. Politicamente incapace di vincere le innume­
revoli schermaglie contro i grossi studi che le forniscono i fi­
nanziamenti, ma sempre con l’esigenza di apparire responsabi­
le nei confronti del pubblico, la Mpaa infligge il proprio metro
arbitrario e indecifrabile a film indipendenti e a basso costo,
dove trova rifugio la maggior parte dell’horror.
Lo scrittore/produttore Ken Sanders scrisse per «Fango­
ria» un articolo devastante sui giochi al gatto col topo della
Mpaa per aver conferito l’importantissima classificazione Re­
*
stricted al suo film Blood Salvage (t. lett.: Sangue recuperato,
1990, di Tucker Johnston). (Un film privo di classificazione o
con una «X» poteva incorrere in una distribuzione zoppicante
e in problemi per la pubblicità.) Nel racconto di Sanders, un
giudizio disattento si era basato sul proiezionista per stimare la
potenziale reazione dell’America media al film. Si erano poi
utilizzate le risposte orali dell’uomo per richiedere tagli a certa
violenza non sanguinolenta, che Sanders riuscì a rintuzzare
con successo. Intanto, in un costoso prodotto da studio come
La mosca 2 (The Fly II, 1989, di Chris Walas), un gratuito
primo piano della testa di un personaggio spappolata da un
ascensore non comprometteva in alcun modo il suo imprima­
tur «R». Fece pure osservare alla Mpaa che un film d’azione
come Arma letale 2 (Lethal Weapon 2, 1989, di Richard Don­
ner) conteneva dieci volte la violenza cinematografica di Blood
Salvage. I guardiani della moralità non demordevano. «Il suo
film è diverso», dissero. Sanders era d’accordo. «D mio era un
film horror a bilancio modesto e produzione indipendente.
Non un’enorme produzione di studio con grossi divi e tonnel­

* Nel sistema di classificazione censoria americana, per i film Restricted (R) si


richiede Faccompagnamento di un genitore o di un adulto vigile per ragazzi
sotto i diciassette anni. (N.d.T.)

289
David /. Skal

late di pubblicità preventiva. Ecco quello che l’ha candidato a


una rapida esecuzione. »26
Oltre ad aggiornare i lettori sulle dinamiche, le personalità
e i progressi tecnici nell’horror, «Fangoria» sostiene una fìtta
serie di celebrazioni tribali. Nel gennaio 1991, il Penta Hotel
di Manhattan ospitava il «Weekend of Horrors» di «Fango­
ria», ultima installazione di una continua convention orrorifica
di stanza a New York, Los Angeles e in tutto il Paese. Predo­
mina un’atmosfera splatter-punk. I convenuti sono: operai,
giovani, bianchi. Oltre a godersi le apparizioni di superstar
dell’horror come Robert Englund (l’interprete di Freddy
Krueger nella serie di Nightmare) e lo scrittore-regista Clive
Barker (un affascinante ex di Liverpool i cui racconti di con­
trollata, glaciale crudeltà hanno stabilito nuovi limiti nel gene­
re sui temi di dolore e dominazione), Ì fan possono girare per
una grossa galleria piena di memorabilia mostruosi. Le fami­
glie osservano benevole mogli, mariti e figli sottoporsi a ciò
che si può solo descrivere come un Salone dei dannati Geor­
gette Klinger, un temporaneo abbruttimento come distintivo
sociale. Le tavole più notevoli sono quelle composte di parti
corporee in lattice in gomma: braccia, gambe, teste, torsi com­
pletamente amputati, esposti in vendita come un vero e pro­
prio sashimi umano. Poi fermacarte con bulbi oculari cavati
fuori, tagliati con lame di rasoio e tenuti fermi con spilli dritti.
C’è dell’altro, ma ci fermiamo qui.
Per quanto possa apparire bizzarro, questi manufatti casa­
linghi sono oggetti di venerazione genuina, e non per appren­
disti serial killer. Stanno per qualcosa di completamente diver­
so: una promessa di personale trasformazione, identificazione
e ricompensa materiale. Secondo Timpone, una vasta percen­
tuale di lettori è attratta dalla rivista per una ragione in partico­
lare: evadere da qualunque cosa stiano facendo nelle loro vite
ed entrare nel mondo degli effetti speciali. L’Art Institute di
Pittsburgh, dove Tom Savini è un membro di facoltà, offre un
diploma di associato in tecnologia degli effetti mediatici, e ha
una seria cattedra letteraria pronta in mezzo ai suoi più confusi
vicini per quelli intenzionati a percorrere una carriera seria. In
culture precedenti, i rituali di mutilazione simbolizzavano un

290
The Monster SluHf

rito di passaggio. E ancora così. Sc si fanno le cose per bene,


ecco promozioni, denaro, prestigio. Il potere di sconvolgere è
un potere, dopotutto. La maestria nell’arte plastica tecnica-
mente complessa è maestria, persino se i risultati di quell’arte
raggiungono in qualche modo l’equivalente di una pittura san­
guinolenta su velluto. Un grido di riconoscimento nella sua
forma primaria e più pura; nel mondo degli effetti splatter, il
segnale più sincero di adulazione.
Lo spettacolo è una delle ultime merci americane pratica­
bili per l’esportazione e tra le più visibili, un fatto che non si
è perso tra i giovani senza prospettive nell’industria economica
che li ha prodotti. La stravaganza può non giocare a loro favo­
re. Questa obiezione è evidenziata brutalmente in Nightmare
3-1 guerrieri del sogno (A Nightmare on Elm Street 3: Dream
Warriors, 1987, di Chuck Russell). Una ragazza con aspirazioni
al mondo dello spettacolo si trova di fronte Freddy Krueger,
che erutta dallo schermo televisivo per sbattercela contro.
«Ecco la tua grande occasione in tv. Benvenuta in prima sera­
ta, troia!» ghigna follemente, e le sbatte la testa attraverso il
tubo catodico. O per metterla in un altro modo: Io sono Fred­
dy Krueger. E tu no.
L’horror, comunque, tiene viva la speranza. I Savini man­
cati vogliono farci un tuffo, e si propongono di farlo nella
maniera più letterale possibile. Qualunque rabbia operaia si
annidi qui, si accontenta, per il momento, di nutrirsi di budella
di fantasia. Il «Weekend of Horrors» è simile a un casinò
popolare e surrealista dove le slot machine producono bulbi
oculari e arti, e il jackpot, quando esce, ti riempie le scarpe di
interiora.
E un momento perfetto. Gli Ottanta a go-go sono diventati
gore-gore. Si parla di un’altra guerra, questa volta in Medio
Oriente. L’economia ristagna nella crisi. E per quanto lontano
può spaziare la vista, l’unica cosa «sgocciolante» è questo san­
gue sempre più verosimile.

291
Sangue infetto

Il tuo sangue è marcio! Nero come i tuoi


peccati!
Bela Lugosi in 11 dottor Miracolo (1932)

«Per lungo tempo la Morte Rossa aveva spopolato la contrada.


Mai s’era vista una pestilenza tanto orribile, tanto fatale! H
male si attaccava al sangue; e si manifestava in tutto il rosso
orrore del sangue.»
* Il macabro racconto di Edgar Allan Poe
La maschera della Morie Rossa, pubblicato per la prima volta
nella sua forma rivista e corretta su «The Broadway Journal»
nel luglio 1845, comportò una gestazione culturale di un seco­
lo e mezzo prima che il suo pieno significato venisse rivelato
all’America, non sui testi scolastici delle superiori, dove a lun­
go era stato relegato come inoffensivo racconto di fantasmi,
ma come scottante piaga applicabile all’era dell’Aids. Alla me­
tà degli anni Ottanta tutta l’America viveva in un modo o nel­
l’altro nell’incubo di Poe. La maschera della Morte Rossa è fon­
damentalmente una storia di rimozione di fronte alla catastro­
fe, il resoconto di un godimento barocco e da quarantena alle­
stito, in stile Decameron, da un emblematico principe Prospero
il cui regno è stato dimezzato da una peste sanguinaria. Decide
di ritirarsi con un migliaio di gaudenti. «Quando i cortigiani
furono là dentro, col fuoco e dei buoni martelli saldarono ogni
serratura, intendendo così di assicurarsi contro i possibili im­
pulsi disperati di chi stava fuori, e di chiudere ogni via d’uscita
alle frenesie di chi stava dentro. L’abbazia fu largamente muni­
ta di provviste. Con simili precauzioni i cortigiani potevano
sfidare il contagio. Se la vedesse con esso chi stava fuori. Intan­
to, sarebbe stata follia affliggersi o solo darsene pensiero. »

* Questa c la citazione seguente sono tratte da Edgar Allan Poe, La maschera


della Morte Rossa, in Opere scelte, trad, di Elio Vittorini, Milano, Mondadori
1971. (N.d.T.)

292
The Monger Show

La risposta sociale e politica all’epidemia di origine emati­


ca nota come Sindrome da Immunodeficienza Acquisita aveva
molto in comune con la strategia autodifensiva di rifiuto del
principe. Prospero negava la Morte Rossa, e la Morte Rossa si
materializzava beffarda in una foggia spaventosamente teatrale.
L’America benestante degli anni Ottanta negava la realtà del
virus, sbattendo la porta in faccia alle vittime della peste, men­
tre nei suoi sogni collettivi spuntavano dappertutto immagini
mostruose. Il paesaggio della cultura popolare era inondato di
temi sanguinari come mai in precedenza; film splatter e serial
killer succhiasangue divennero appuntamenti fìssi dei media e
immagini e metafore di avvelenamento ematico (nelle paure
sui prodotti, nell’ossessione per i livelli del colesterolo, nella
paranoia contro gli additivi chimici, e persino nelle fantasie di
purificazione del sangue di skinhead e neonazisti).
Non sorprende che i vampiri siano stati una presenza co­
stante al banchetto, se non gli ospiti d’onore.

«Quando ero una bambina», cominciò la vampira, «la te­


levisione era una vera novità. Credo che fossimo le prime per­
sone nel nostro isolato a possedere un apparecchio.»
Si addice a un vampiro moderno vivere ai bordi della tele­
visione e dell’industria cinematografica, in una tranquilla via
residenziale di North Hollywood. Sontuosa donna dalle guan­
ce rosse come una mela, fasciata da un abito di velluto che le
arriva ai piedi, Megan
* la vampira è un’attrice part-time che
fa di tanto in tanto delle comparsale in sit-com televisive, di
solito nel ruolo di casalinga o invecchiata nei panni di angelica
nonna. Sono in molti ad aver ricevuto ignari nel proprio tinello
la visita fugace di una vampira. Ai vampiri piace così.
Megan presenta al visitatore il suo compagno di tanti anni,
Douglas, e il suo donatore, Christopher. Salta fuori che Dou­
glas non è interessato a donare alla causa dei vampri, nono­
stante Megan «abbia insistito per anni».

* I nomi e alcuni particolari tali da consentire un’identificazione sono stati


cambiati. Comunque, tutte le persone menzionate sono reali e sotto nessun
aspetto frutto di fantasia o alterazione. (N.d.A.)

293
Dtivnl J. Skal

La vampira è nata durante la seconda guerra mondiale nel­


la California meridionale. Suo padre era nato a Londra nel
1897, l’anno della pubblicazione di Dracula da parte di Bram
Stoker, un fatto che Megan ritiene decisamente significativo.
Naturalizzato americano, «mio padre tentò di sbarazzarsi della
britannicità, ma non riuscì mai a scrollarsela di dosso», ag­
giunge lei. «Ma le sue idee sull’educazione di una bambina
provengono dritte dritte dall’Inghilterra edoardiana. La regola
aurea in casa nostra era “No” ».
Quando Megan era ancora piccola, sua madre la terroriz­
zava con leggende popolari e storie di fantasmi dell’Europa
orientale. «Mia nonna era di origini polacche, e mia madre
imparò da lei un sacco di racconti bizzarri che mi trasmise a
sua volta. E i più bei ricordi che ho di lei sono di quando
ascoltavo i suoi racconti di streghe. Non mi facevano paura.
Mi estasiavano. »
Ma cera un genere di storie categoricamente proibito.
«Le storie di vampiri mettevano i brividi a mia madre», ricor­
da Megan. E la natura proibita dell’argomento, naturalmente,
lo rendeva ancora più affascinante agli occhi della piccola.
Non ricorda esattamente quando vide per la prima volta Bela
Lugosi in Dracula, ma è sicura che il film le fosse già piena­
mente familiare prima dei dieci anni. La Universa! lo aveva
ridistribuito in pompa magna nel 1947, quando la bambina
aveva cinque anni.
Diversamente da Dracula, che non beveva mai vino, en­
trambi i suoi genitori erano accaniti ubriaconi. Il padre pic­
chiava moglie e figlia, «ma noi reagivamo», ricorda la donna.
«Naturalmente non potevo mai far venire amici a casa. Così
mi creai un mondo tutto mio in cui vivere. Leggevo tantissimo.
Mia madre mi aveva insegnato a leggere e scrivere prima del­
l’asilo.»
Lasciata sola un giorno in cui i genitori bevevano in cuci­
na, Megan cominciò a rovistare nel baule di papà. Non sapeva
esattamente cosa si aspettava di trovarci dentro, ma fu esterre­
fatta alla scoperta di un paio di albi a fumetti, entrambi di
«natura decisamente macabra». Erano precisamente il tipo di

294
The Momtrr Show

pubblicazioni contro cui si era scagliato tanto Frederic Wer­


tham.
Lette oggi, le interviste di Wertham ai «fumettodipenden­
ti» sono assai poco convincenti. Un vero peccato che non aves­
se mai intervistato Megan, che fu «assolutamente elettrizzata»
dalla segreta scorta orrorifica patema. Mentre i suoi genitori
erano immersi nel loro stato d’incoscienza, lei si ritirò furtiva
nella sua stanzetta e lesse gli albi da cima a fondo. «In uno
c’era la storia di una vampira di nome Lila. Mi fece una pro­
fonda impressione. Mi identificai enormemente nel personag­
gio. Era così bella.»
L’estasi della ragazzina per «The Vault of Horror» fu di
breve durata. Sua madre la sorprese a studiare attentamente le
imprese da non-morta di Lila e la punì severamente. «Mi disse
che era roba assolutamente inadatta alla lettura di una bambi­
na. Non avrei dovuto farlo mai più.» I fumetti umoristici sugli
animali andavano bene, ma persino Batman si avvicinava trop­
po a un altro tipo di uomo-pipistrello per tranquillizzare la
madre. «Era decisa a trasformarmi in una bambina felice e
sana. » Ma, come in diverse famiglie disfunzionali, Megan rice­
veva segnali contraddittori. Nonostante il veto familiare sui fu­
metti horror, sua madre continuò a raccontarle storie di fanta­
smi da brividi lungo la schiena ancora in età adulta.
Megan conservò la propria vita «vampiresca» su un piano
fantastico in cui poteva entrare quando voleva, a dispetto del­
l’approvazione dei genitori. «Cominciai a giocare alla vampira.
Erano giochi segretissimi che rivelavo a pochissima gente. Solo
a certi ragazzini abbastanza creativi e fantasiosi o semplice-
mente “strani” tanto da essere ricettivi.» Le vampire di Megan
non erano mai creature distruttive. «Andavano sempre dietro
ai cattivi; bellissime donne che si prendevano cura dei malvagi
del mondo. Recitavo le storie con i ragazzi del vicinato. Anda­
vamo in giro con mantelli e cose del genere.» Una volta, la
madre di Megan le scattò una fotografia con un vestito volumi­
noso, ignara che la figlia preadolescente intendesse sfoggiare
non una camicia da notte, ma un sudario.
Ben presto incominciò a scriversi da sola storie in forma di
serial che leggeva ad amici fidati come segreti deliziosamente

295
D(lt>td I. Skill

condivisi. Riempiva quaderni con il genere di vicende vampire


*
sche che non riusciva mai a trovare nei libri di testo, storie in
cui i vampiri trionfavano ed erano chiaramente esseri superio­
ri. Il sabato notte guardava i film horror presentati da Maila
«Vampira» Nurmi. «La idealizzavo totalmente», dice Megan.
«Riesco ancora a ricordarmi la sigla: “Fletcher Jones Chevrolet
presenta... Vampira!” Per me lei era come una dea.»
La sua ossessione per Vampira la ficcò nei guai sia a scuola
sia a casa. «I miei genitori mi avevano seppellito in una scuola
cattolica femminile, ignari di quanto stimolante io trovassi
l’immaginario cattolico relativo al sangue.» Fin da piccolissi­
ma, Megan aveva ricevuto messaggi contraddittori riguardo al­
la religione e al sangue^ all’amore e al dolore. «Era buono, era
cattivo, fa’ così, non fare cosà... Mia madre era stata educata
cattolicamente secondo la tradizione polacca, e il timor di Dio
le era stato inculcato a viva forza da mia nonna.» In chiesa, ai
bambini veniva insegnato che il vino bevuto dal prete era san­
gue, non solo simbolico, ma reale. Le suore, in ogni caso, non
riuscivano a intuire l’importanza del vampirismo in un’educa­
zione cattolica.
«Andavo a scuola con lo smalto nero sulle unghie. Gli
altri ragazzi mi consideravano pazza e per questo mi tormenta­
vano.» Persino le ragazze della cerchia più intima di Megan
non condividevano la sua fissazione per la vistosa Vampira.
«Era un’identità segreta a tempo pieno, finché non fui becca­
ta. » Una delle sue amiche strisciò dalle suore, spifferando tutti
i particolari della vita fantastica di Megan. «Le suore mi sotto­
posero a interrogatorio e mandarono a chiamare i miei genito­
ri, che a loro volta decisero di svolgere indagini personali su
Vampira. Una notte si sedettero a guardare il programma, in
silenzio. Dopodiché mi fu intimato di non rivederlo mai più.
Scovarono le mie preziose storie e me le fecero strappare una
a una. Se mai avessi menzionato l’argomento, mi dissero, mi
avrebbero portato da un dottore che mi avrebbe strizzato ben
bene la testa. »
In pratica, l’embargo sui non-morti avrebbe avuto vita
breve per l’alcolismo dei suoi genitori. «Aspettavo fino a
quando non erano fuori uso, il sabato notte, un evento imman­

296
The Mo/iiter Shoir

cabile. Erano così stravolti che non riuscivano assolutamente


a distinguere quel che passava in televisione.» Poi, come uno
spettro invisibile in casa loro, Megan si alzava dal letto e supe­
rava le figure semincoscenti dei suoi genitori per unirsi a Vam­
pira. Le perverse contraddizioni del personaggio - bella-brut­
ta, sensuale-fatale - echeggiavano i conflitti irrisolvibili della
sua vita familiare. «In un certo senso, Vampira era una specie
di beatnik », un’immagine rassicurante e antiautoritaria.
Vampira si rivelò un fenomeno di breve durata, un’oscura
cometa visibile in cielo per meno di un anno. La sua scompar­
sa dallo schermo fu uno dei due eventi traumatici per Megan
nel 1954. Un giorno, sua madre uscì di casa e fu investita da
una macchina che la storpiò a vita. L’incidente rovinò finanzia­
riamente la famiglia. Costretta nel ruolo di infermiera in verde
età, la ragazza cominciò a sublimare le proprie fantasie oscure.
Era sempre una scheggia impazzita c un’emarginata a scuola,
ma ora leggeva le sorelle Brònte invece di «Tales from the
Crypt», sostituendo un gentile goticismo all’esplosività da fu­
metto del Guardiano della Cripta e di Vampira. Visse in casa
fino ai venticinque anni assistendo la madre, le cui lesioni si
rivelarono mentali e fisiche insieme. La donna invecchiata
sprofondò nella depressione, continuò a bere parecchio e igno­
rò i consigli del medico per una fisioterapia. «Si stava lenta­
mente suicidando», ricorda Megan.
Con notevole sforzo emotivo, la giovane rinunciò alla pro­
pria parte oscura, trovò un lavoro che le fruttava cinquanta
dollari alla settimana e si trasferì in un appartamento tutto per
sé. «Cominciai a spassarmela», ricorda. «Per un po’ diventai
hippy, fumai erba, presi dell’acido, mi feci. Imparai parecchio
sulla vita, e sui diversi livelli di coscienza. L’acido era una cosa
spirituale, era ritualistico, religioso. » Per un certo periodo Me­
gan divenne uno dei tanti guru psichedelici di Los Angeles,
una madreterra hippy che nutriva gli altri come lei non era
mai stata nutrita.
Nel 1971, sua madre morì all’improvviso di attacco cardia­
co. E poco dopo, le sue esperienze psichedeliche cominciarono
ad assumere un immaginario terrorizzante, correlato ai vampi­
ri. «Credevo che fosse finita. Ma mi risvegliai, più forte che

297
David / Skal

mai. Era qualcosa di talmente contrario al mio abituale ruolo


di madreterra che andai completamente fuori di testa.» Le
visioni erano «intensamente religiose, estatiche, e terrorizzanti.
Mi vidi nei panni di una vampira, con una pulsione irresistibile
a bere sangue da un amante. Uomo o donna, non contava».
Megan brancolò negli anni Settanta in uno stato di trance.
Sapeva che la sua ossessione vampiresca non era una fantasia
capricciosa riaffiorante .dall’infanzia, ma qualcosa che faceva
parte della sua natura profonda, in cerca di confronto e assimi­
lazione. Ma l’unico sollievo possibile era in film dell’orrore
autoctoni come Count Yorga, Vampire (t. lett.: Il conte Yorga,
vampiro, 1970, di Bob Kelljan) e Amore al primo morso (Love
at First Bite, 1979, di Stan Dragoti), così come negli eleganti
incubi di importazione della Hammer. Allo stesso tempo assi­
stette il padre nella sua malattia terminale, annullandosi nel
gelido erotismo di Christopher Lee.
La musica rock, che aveva coinvolto Megan fin dai suoi
primi giorni psichedelici, cominciò negli anni Settanta a far
proprio l’armamentario orrorifico del cinema con Black Sab­
bath, Alice Cooper, Kiss e altri. Alla fine del decennio, fuso
con la nascente sensibilità del punk, emerse un nuovo pertur­
bante ibrido, un nuovo tipo di rock scioccante noto generica­
mente come Gothic. A Hollywood cominciarono a spuntare
locali con nomi come Theatre of Blood, The Veil, e Helter
Skelter. Un giorno Megan percorreva Hollywood Boulevard
quando vide un manifesto appiccicato su un muro: SOLO PER
STANOTTE - CASTRATION SQUAD.
Era stata sempre follemente attratta dai leggendari castrati
del mondo dell’opera, un interesse che aveva quasi eclissato la
sua ossessione per i vampiri, e il nome del gruppo le trafisse il
cuore. Benché all’epoca lei non ne fosse del tutto consapevole,
il castrato e il vampiro condividevano una psicologia sotterra­
nea, una dislocazione orale del sesso genitale, rovesciato e tra­
sformato in Romanticismo del XIX secolo. Megan cominciò a
uscire con gruppi come Castration Squad, The Sleepless, 45
Grave e Christian Death.
Fu allora che ricevette una telefonata da Anne Rice.
Non si conoscevano, ma avevano un’amicizia comune che

298
The Mon i ter Show

raccomandò alla scrittrice di contattarla per le ricerche per il


suo nuovo romanzo sui castrati, Un grido fino al cielo. Da quel
che dice Megan, parlarono per ore, nel modo possibile solo
a due persone che condividono un interesse appassionato e
specialistico per un soggetto arcano. Megan registrò alla ro­
manziera delle cassette dalla propria collezione di rarità fine
secolo sulle ultime voci di castrati mai registrate, e ricevette un
ringraziamento sul libro. La Rice le suggerì che forse le sareb­
be piaciuto il suo primo romanzo, che trattava un tema analo­
go. Il libro era intitolato Intervista col vampiro.
«Uscii e acquistai il tascabile», ricorda Megan. «E non mi
riusciva di smettere di leggerlo.» Storia densa e decadente di
vampiri nella New Orleans del XIX secolo che aveva già richia­
mato un seguito di culto, il libro conteneva un personaggio
diffìcile da dimenticare, con una risonanza speciale per lei: una
ragazzina trasformata in vampira e intrappolata per l’eternità
nel corpo non morto di una bimba. Megan usciva dalla propria
stanza solo per mangiare. «Non riuscivo mai ad averne abba­
stanza, fu una rivelazione. Per non dire altro, ecco una scrittri­
ce moderna che creava una storia meravigliosa e non distrug­
geva i suoi vampiri alla fine. Era come se la letteratura vampi-
resca fosse finalmente uscita dalle caverne preistoriche ed en­
trata nella civiltà.»
Intervista col vampiro spinse la vita di Megan in una sorta
di massa critica. D’improvviso i vampiri erano ovunque. E un
giorno «un piccoletto dall’aria spettrale e pallida e in perfetta
tenuta da impresario delle pompe funebri» entrò nell’ufficio
del quotidiano losangelino dove Megan lavorava come super­
visore. Era un musicista con affettazioni inglesi e si faceva chia­
mare Jonathan Cape. Il suo gruppo erano gli Schreck’s Bad
Boys, dal nome dell’attore del film tedesco Nosferatu. «Mi in­
namorai immediatamente e follemente di lui. Mi raccontò tut­
to del suo io più profondo, delle cose segrete che faceva e lo
eccitavano. » Il sangue, le fece capire, era tra quelle.
Megan si innamorò anche di una delle cantanti di Jona­
than, che usava il nome di Desiree Le Fanu. «Era così esotica,
alta e magra. Magrissima. Mi si presentò come se io fossi stata
la sorella perduta da tanto tempo, fissandomi con quegli strani

299
David J. Skal

occhi. Mi invitò a una lettura di sue poesie. E dopo che vi


ebbi assistito una sera mi chiamò, alla Anne Rice, e parlammo
soltanto, ma per cinque ore e mezzo. Fu una maratona telefo­
nica che cambiò totalmente la mia vita. Mi parlò della sua
poesia e degli amici nell’underground, di droga e della sua vita
onirica. E infine mi disse: “Ti dispiace se ti faccio una doman­
da molto personale?” “No”, risposi io. “Ne sei proprio sicu­
ra?” insistè. Risposi affermativamente.
«“Dimmi, Megan, nessuno ti ha mai chiesto... il tuo
sangue?”»
Fu come il crollo di una diga. Desiree rivelò la propria
storia personale di vampirismo, di come avesse bevuto ritual­
mente sangue fin dall’età di dodici o tredici anni. Megan provò
l’ondata di desiderio più forte della sua vita. Pensare che que­
sta splendida creatura, non una fantasia, non un film, volesse
condividere la sua essenza più profonda!
Il consumo vero e proprio si rivelò più difficile. Nonostan­
te la sete conclamata, Desiree tormentò la donna rinviando
l’evento cruciale. E poi, in una sorta di scena primaria, Megan
apprese che i suoi amati Jonathan e Desiree avevano iniziato a
bersi il sangue a vicenda, girando per le colline di Hollywood
nel retro di una macchina, lacerandosi vicendevolmente le gole
e leccando il flusso. (In seguito Megan avrebbe sentito di feti­
cisti del sangue che alzavano la posta, e potevano saziarsi solo
facendo zampillare sangue, autovampiri che sapevano come
perforarsi senza rischio la vena giugulare, suggendo lo zampil­
lo nelle proprie bocche.)
Gli amoreggiamenti di Jonathan e Desiree si rivelarono un
crudele gioco al massacro: restavano gli adulti inavvicinabili e
non-morti, con lei nei panni dell’eterna bambina. L’uomo si
alienò ulteriormente Megan, e quasi tutti gli altri, con il pro­
prio coinvolgimento con skinhead, satanisti e neonazi. «Nes­
suno voleva più avere a che fare con lui», ricordava Megan.
Totalmente disincantata, si ritirò dall’orbita degli Schreck’s
Bad Boys.
Alla fine trovò un donatore solidale in Christopher, un
giovane accattivante dai capelli scuri, profilo aquilino e una
eccezionale conoscenza della musica punk, heavy-metal e go-

300
The MofHfrr Xhoir

(Ilic. Christopher è colui che passa, nei circoli di vampiri, per


donatore «passivo»; lui e Megan sono compagni d’anima, non
amanti in senso fisico. Le sue stesse fantasie erotiche si incen­
trano sulla classica immagine della Vampira-dominatrice: Dia-
manda Galàs, la cantante intensa e priva di compromessi che
ha attuato una decisa connessione teatrale tra goticismo, politi­
ca e Aids con la sua Plague Mass, è la sua icona femminile più
idealizzata. Christopher, che è sieronegativo, dona a Megan
circa cento purissimi centimetri cubici di sangue alla settima­
na, aspirati con un siringa per il privato e autoerotico piacere
della donna. La consapevolezza dell’Aids è elevata nella comu­
nità dei vampiri, il cui rito centrale è lo scambio di fluidi cor­
porali, benché la sindrome non sia direttamente trasmissibile
attraverso l’ingestione orale di sangue.
Diverse persone hanno problemi a considerare questo ge­
nere di attività altrimenti che bestiale. Secondo il giovane,
«sebbene il movimento gotico possa apparire circonfuso di
violenza, è in realtà sensibile, altruista ed educativo. I Gothic
sono pieni di vita, e tanto onesti da affrontare apertamente
immagini di morte».
Vi sono diversi «tipi»_sulla scena gotica, sosteneva Chri­
stopher, «ma il posto centrale lo occupa il vampiro, ipostasi
definitiva dell’emarginato, un ribelle solitario in lotta contro il
sistema». Tanto Megan quanto lui considerano la connessione
comunemente stabilita tra vampiri e satanismo equivoca e ste­
reotipata. «Il vampirismo è una concezione precristiana», dice
Megan, e non ha nulla a che fare con religoni moderne o loro
perversioni sataniche. Come gli adepti della stregoneria druidi-
ca, sentono che il movimento vampiresco/gotico è stato ingiu­
stamente malignato.
Ma quante persone sono coinvolte esattamente in questo
fenomeno? Megan e Christopher conoscono personalmente
una mezza dozzina di bevitori di sangue dichiarati; stime delle
dimensioni di una comunità di succhiasangue «attiva» a Hol­
lywood parlano solitamente di centinaia. I praticanti nascosti
sembrano assai di più: abbastanza numerosi, a dire il vero,
da far inaugurare nel 1990 una linea verde vampiresca per gli
anonimi adepti.
David J Wal

E chi diventa vampiro? Il caso di Megan rientra nella nor­


ma? Secondo Notine Dresser, la studiosa di folklore california­
na che infranse il tabù sull’argomento nel 1989 con il suo libro
American Vampires, sono state provate forti correlazioni tra
violenze subite nella prima infanzia e successive manifestazioni
di fantasie vampiresche. Bere sangue è una fortissima metafora
di un caldo contatto umano. La Dresser cita la ricerca unica
nel suo genere della dottoressa Jeanne Youngson, che ha rac­
colto la corrispondenza di feticisti del sangue per tredici anni
(l’interesse della Youngson è eminentemente ecumenico; in
qualità di presidentessa del Count Dracula Fan Club, officia
per entusiasti di tutte le razze, dai cinefili agli assetati senza
speranza). Le storie che narrano sono una processione di «vio­
lenza, trascuratezza, abbandono, solitudine o molestie».
C’è un altro modo di considerare la faccenda. Simile ai
vampiri del mito, Megan è semplicemente una sopravvissuta
che ha assemblato dalle macerie di un’infanzia tumultuosa un
potente senso dell’identità, che molti potrebbero trovare per­
versa. Ma la loro reazione potrebbe anche alludere a un rico­
noscimento, perché tutti noi condividiamo il mondo più vasto
di Megan. C’è chi ha ripetuto per anni che la nostra è una
generazione già cresciuta da non-morta di fronte alla televisio­
ne, traendo vita e alimento surrettizi da scene di violenza e
sangue, vere o immaginarie che siano. Non abbiamo bisogno
di aver vissuto i traumi peculiari di Megan per diventare «non­
morti». Con o senza famiglia, la vita moderna in sé può essere
supremamente disfunzionale e violenta, distorcendo totalmen­
te una generazione in gran parte anonima di ragazze e ragazzi
perduti. Ed è a loro, in definitiva, che dev’essere prestata at­
tenzione.
Due recenti romanzi orrorifici tascabili hanno lanciato una
luce oscura sul mondo di Megan, così come sul nostro. Pubbli­
cati da editori diversi, esibiscono copertine sorprendentemente
simili. Da lontano si potrebbero prendere per classiche imma­
gini di una Madonna col bambino, ma da un esame ravvicinato
risulta evidente che i neonati non sono tanto interessati al seno
della madre quanto alla sua gola. GB occhi mandano un ba­
gliore sinistro, e all’angolo delle labbra infantili c’è qualcos’al-

302
Thr Monxtfr Slum'

tro... affilato, luccicante c bianco. Amore e odio, sangue e nu­


trimento, oscenamente sovrapposti. Sono immagini genuina­
mente mostruose, tantopiù perché illustrano ambivalenti le ra­
dici del vampiro nei legami e nelle interdipendenze vitali fon­
damentali. A questo livello, da cui tutti proveniamo, nessuno
può considerarsi al sicuro.
Figli della notte?
Che splendida musica, la nostra.

Alla metà degli anni Ottanta, non vi erano mai stati così
tanti lettori di storie sui vampiri, e per la prima volta vi si
identificavano in senso positivo. Al Dark Carnivai, uno dei più
grandi empori librari di Berkeley, in California, la letteratura
vampiresca divenne tanto ingombrante da meritarsi uno scaf­
fale tutto suo, con oltre un centinaio di titoli stampati. (Accan­
to ai vampiri ecco i serial killer, e un’altra curiosa categoria
chiamata «Umorismo forense», cioè libri di testo illustrati di
patologia e affini. Il proprietario Jack Rems sosteneva che le
giovani coppie spesso frugano a fondo questi scaffali, «perché
dà loro un motivo per attaccare discorso sulle funzioni corpo­
rali».1)
La scrittrice Anne Rice è stata la regina indiscussa dei vam­
piri letterari negli anni Ottanta: i due seguiti di Intervista col
vampiro (1976) - The Vampire Lestat (1985) e La regina dei
dannati (1988) - furono successi immediati. Altri titoli di largo
richiamo sono Hotel Transilvania (1978) di Chelsea Quinn.
Yarbro, e il suo seguito, A Flame in Fyunlium (1988), sul
vampiro Ragoczy, il Conte di Saint-Germain; Vampire Junction
(1984) di S.P. Somtow, ambientato nel mondo del rock gotico;
e l’audace Uve Girls (1987) di Ray Garton, dove vampire-
battone della 42’ succhiano sangue e sperma dalle loro vittime
maschili nel corso di pubbliche esibizioni di sesso orale.
Le fantasie vampiresche non si limitavano alla narrativa.
In un decennio morbosamente preoccupato di fluidi corporali
e malattie trasmesse per via sessuale, le metafore sui flussi di
sangue apparvero regolarmente nell’oratoria di Ronald Reagan
e dei suoi consiglieri economici. Il gran parlare di tagli, colpi
d’accetta ed emorragie di bilancio fu ininterrotto, dal confron-

303
Da riti I Shi I

to televisivo di Reagan con Jimmy Carter lino alTattuazionc da


parte della nuova amministrazione dei programmi per l’econo­
mia. La politica liberal, dal punto di vista reaganiano, indeboli­
va il corpo politico o addirittura lo avvelenava. In una nuova
era di austerità puritana, le spese sociali furono improvvisa­
mente considerate tossiche. Nel suo Reagan’s America, lo stori­
co-psicologo Lloyd deMause enumera i vari tipi di inquina­
mento, avvelenamento e contagio che catturavano l’immagina­
rio pubblico, culminanti nel circo mediatico che circondava
l’Aids: isteria da herpes, avvelenamento da Tylenol, diossina,
rifiuti tossici ecc. sarebbero stati presto seguiti dallo stillicidio
del gas radon, dagli additivi alimentari carcinogeni e dalle ra­
diazioni dei disastri nucleari a Three Miles Island e Chernobyl.
La chiamata reaganiana a una purificazione di massa provocò
una risposta significativa in un pubblico pronto a credere che
gran parte del sangue della nazione fosse marcio, e nero come
i suoi peccati. Seguendo l’esempio di Bela Lugosi in 11 dottor
Miracolo, scoppiò la mania per gli esami del sangue (per l’Aids,
le droghe, il colesterolo assassino). Come scrive deMause,
«ogni volta che in una nazione è trascorso un lungo periodo
dall’ultima purificazione sacrificale, ecco che si sceglie un lead­
er in grado di offrire paranoiche fantasie di avvelenamento».2
DeMause stabilisce anche un provocatorio rapporto sociopsi­
cologico tra il capro espiatorio sacrificale degli anni di Reagan
e i riti cannibalici degli aztechi: proprio come gli aztechi si
riunivano per assistere allo spettacolo di un cuore strappato
da una vittima viva, gli americani nel 1982 si concentrarono
sull’allegoria miracolosa di un uomo privo di cuore, Barney
Clark, tenuto in vita da una «magica» pompa meccanica.5
Come Tod Browning, il regista di Dracula e Freaks, anche
Ronald Reagan pare avere una profonda affinità, personale e
professionale, per l’immaginario di castrazione. Il suo più cele­
bre film, Delitti senza castigo (King’s Row, 1942, di Sam
Wood), avrebbe potuto costituire, nelle mani di un program­
matore cinematografico avveduto, un’ideale tripla proiezione,
incastonato tra Freaks e Lo sconosciuto di Browning. In Delitti
senza castigo Reagan è la giovane vittima di un dottore sadico
che, in seguito a un incidente, gli amputa senza ragione le

304
I'hr Momtrr S/um<

gambe come punizione per aver desiderato sua figlia. Il grido


angosciato di Reagan alla scoperta della propria mutilazione
- «Where’s the rest of me?» (Che fine hanno fatto le mie gam­
be?) - è diventata una battuta classica, usata anche per il titolo
della sua autobiografia. La sua pulsione a introiettare ossessi­
vamente la pellicola portò la sua prima moglie, Jane Wyman,
a confessare a Gregory Peck che il vero motivo del suo divor­
zio dal futuro presidente era che «non potevo più sopportare
di vedere anche solo un’altra volta quel maledetto film».4
Nel frattempo lo spettro dell’Aids incombeva sopra le ma­
cerie della rivoluzione sessuale come l’immagine pestilenziale
di Nosferatu aveva un tempo offuscato una Germania decima­
ta. L’Aids, secondo il fanatologo Robert Kastenbaum, «ha la
capacità di parlare direttamente a fantasie potenti che solita­
mente restano sotto una repressione e un controllo rigidi».5
L’epidemia dell’Aids ha la capacità di richiamare paure incon­
sce collegate ai vampiri. «L’immagine del vampiro», scrive Ka­
stenbaum, «forse ai giorni nostri ha assunto la forma anche
troppo tangibile di una blasfema catastrofe, legata al sesso e
alla sottrazione di sangue.»6
Nei Paesi industrializzati, il rapporto iniziale tra Aids e gay
venne equiparato sul piano della fantasia popolare alla combi­
nazione dell’immagine dell’omosessuale con quella del vampi­
ro. Gli omofobi sostenevano da tempo che i gay fossero malva­
gi predatori con la facoltà draculesca di corrompere e trasfor­
mare i sessualmente eterovirtuosi. «Sono costretti a fare adepti
perché non possono riprodurre la loro specie», era un ritor­
nello diffuso nella destra. La declinante cantante pop Anita
Bryant, quando tentò di rilanciare la propria carriera con una
campagna antiomosessuale in Florida, andò oltre la metafora
affermando che «l’omosessuale maschio mangia lo sperma di
un altro uomo; lo sperma è sangue in forma concentrata. L’o­
mosessuale divora la vita».7
Il pessimo stereotipo aveva del resto un rovescio affasci­
nante. Una libreria gay, la Unicom Books di West Hollywood,
ha confidato all’autore di questo libro che tutti i titoli di mag­
gior successo in un certo periodo del 1991 erano libri su vam­
piri, con Anne Rice in cima alla lista. Nei romanzi della serie

305
Dat>i<l J. Skal

Vampire Chronicles, la Rice infonde il mito seducente ed evo­


cativo del transgender tra i morti viventi, alla ricerca deliberata
di un impatto sui gay. «Proprio come i santi che tanto aveva
ammirato in gioventù», scrive Katherine Ramsland nella sua
biografìa autorizzata della Rice, Prism of the Hight, «i gay ma­
schi esibivano un’audacia che l’eccitava, insieme al coraggio
di fronte al pregiudizio.»8 La Rice e suo marito finirono per
trasferirsi nel quartiere Castro a San Francisco, una tra le più
celebri enclaves gay al mondo. Il primo libro, Intervista col
vampiro, era stato composto prima dello scoppio dell’Aids, ma
ha comunque le sue radici in una reale malattia ematica: la
figlia della scrittrice, Michele, morì nel 1972 all’età di sei anni
di leucemia. Il personaggio di Claudia in Intervista col vampiro,
una vampira bambina che non invecchia mai e tra le invenzioni
più memorabili della Rice, emerse (secondo la romanziera e la
sua biografa) da uno sforzo in gran parte inconscio di superare
il dolore.
Anche se sarebbe semplicistico ritenere che i lettori gay si
rivolgano ai romanzi di Anne Rice come a una forma consape­
vole di elaborazione del lutto, il suo solidale ritratto di una
sessualità alternativa e soprannaturale che sopravvive a un
mondo votato alla morte veicola un complesso messaggio di
guarigione per una comunità che ha sofferto, e continua a su­
bire un numero di perdite umane senza precedenti al di fuori
del tempo di guerra o delle pestilenze medievali.
Il vampiro assolve a una funzione di copertura, rappresen­
tando simbolicamente una morte-piaga temuta anche se al con­
tempo la trascende. All’inizio degli anni Sessanta, i bambini si
rivolsero istintivamente alle figure di resurrezione di Dracula
e Frankenstein come amuleti protettivi durante i cupi e pauro­
si giorni della Guerra Fredda. Nell’era dell’Aids, il mito del
vampiro offre una strategia analoga agli adulti (gay ed etero)
per affrontare la diffusa e ineludibile realtà della morte in età
precoce: una forma necessaria di «scambio» psicologico. U
vampiro fornisce alla società secolare un abbraccio/esorcismo
quasi religioso del demone Morte, una funzione decifrabile
persino nel facile umorismo di una pubblicità televisiva dei
tardi anni Ottanta con un Dracula giocattolo che risorge dalla

306
The Mt tu \ ter Shute

cripta grazie alle pile a secco; il vampirismo, in altri termini,


era paragonato letteralmente alla potenza, alla resurrezione e
all’energia benefica, in una mescolanza di Halloween e Pasqua.
Joyce Carol Oates, commentando Dracula dalla prospettiva
della propria educazione cattolica, meditava sulla funzione re­
ligiosa cerimoniale del vampiro: «La figura del conte Dracula
interpretata con tanta maestria da Bela Lugosi è pretesca; il
suo abito da sera formale, l’alto colletto inamidato, l’oscuro
mantello lungo fino alle anche suggeriscono l’aspetto di un
prete cattolico, così come i suoi movimenti coreografati alla
perfezione, la precisione con cui scandisce le parole, enuncia
le sillabe, come se l’inglese fosse una lingua a lui estranea».9
La Chiesa cattolica non perseguita più le streghe e i vampi­
ri, ma nell’era dell’Aids si oppone tenacemente al progresso
dei diritti civili per gli omosessuali. All’inizio degli anni No­
vanta, il conflitto tra le gerarchie ecclesiastiche e i gay militanti
a proposito dei problemi sollevati dall’Aids era divenuto sem­
pre più fragoroso e lacerante. A una lettura rigidamente politi­
ca del contrasto sfuggono i complessi significati mitici nascosti
in questi conflitti rituali. U mangiare carne e bere sangue, sim­
boli della massa cattolica, hanno le stesse antiche radici delle
leggende sui vampiri; quando alcuni attivisti gay (mostri «di­
voratori di vita» secondo la destra religiosa più estrema) di­
sturbarono l’ufficio della comunione nella cattedrale di San
Patrizio nel 1991, i temi sanguinari primitivi e inarticolati
oscurarono le questioni poste pubblicamente sulla bilancia. Il
tentativo abortito, nel 1990, da parte di un gruppo di fonda­
mentalisti religiosi di San Franscisco di marciare contro la «de­
moniaca» celebrazione di Halloween nel quartiere di Castro
fu un’altra dimostrazione del potere dell’orrore religioso-misti­
co di influenzare irrazionalmente le attività umane.
Un numero sorprendentemente elevato di fan vampireschi
(gay ed etero) si rivelano cattolici o ex cattolici - almeno se­
condo l’esperienza vasta pur se priva di fondamenti scientifici
di questo autore. In La regina dei dannati, Anne Rice impregnò
consapevolmente il suo vampiro bisessuale dei tratti di un sal­
vatore pagano/cristiano: «Il sangue scorreva in rivoli sottili
lungo il suo pallido volto, come se venisse da una corona di

307
Dat'til Ì Steal

spine»,10 scrive a proposito di un estatico concerto rock tenu­


to dal vampiro Lestat. Qualche pagina dopo il «come se»
scompare: «Lestat era Cristo sulla croce della cattedrale... Il
vampiro Lestat era Dio».11
Proprio come la generazione più giovane di attivisti gay
aveva reclamato l’epiteto di queer (checca) come una medaglia
durante le campagne contro l’Aids, analogamente si abbraccia­
va, riabilitava e disarmava l’identificazione negativa col vampi­
ro. La commedia di Charles Busch Vampire Lesbians of Sodom
fu uno dei successi off-Broadway più rimarchevoli negli anni
Ottanta, con una tenitura di diversi anni al Greenwich Village.
Vampiri esplicitamente gay o lesbiche apparvero nella narrati­
va spicciola di autori come Jewelle Gomez, il cui The Gilda
Stories (1991) racconta le avventure del personaggio del titolo
dalla Louisiana di metà Ottocento fino al Duemila, e di Jeffrey
N. McMahan, il cui assai più disimpegnato Vampires Anony­
mous (1991) dipinge vampiri gay in un mondo moderno dove
l’Aids non viene mai citato (una strategia narrativa che rie­
cheggia l’assenza del conflitto dai film sull’uomo lupo del tem­
po di guerra). Alla fine degli anni Ottanta, il legame tra vampi­
rismo e Aids era rintracciabile senza troppe difficoltà in sedi
diverse come il teatro di avanguardia o la pubblicità televisva.
Il sobillatore teatrale newyorkese Ping Chong allestì upa ver­
sione perturbante e «yuppie» di Nosferatu nel 1985, in cui gli
insulsi inquilini di un loft high-tech di Manhattan cadono pre­
da di una versione low-tech di Max Schreck. Questo Nosferatu
«proviene dagli anni di Reagan », secondo un’affermazione del
suo autore al «New York Times» in occasione della ripresa
del lavoro nel 1991; inoltre, «il vampiro che affrontiamo nasce
dalla nostra stessa indifferenza e rifiuto»12 nei confronti del­
l’Aids e di altri problemi sociali. Il Saturday Night Live della
NBC presentò un numero in cui James Woods interpretava un
Dracula ossessionato dall’Aids che passa gran parte della notte
a esaminare il sangue della sua futura vittima tanto che il sole
sorge e lo distrugge prima che possa succhiarlo.
Nel giornalismo tradizionale, le storie Sull’Aids assunsero
la conformazione di una stereotipata sceneggiatura cinemato­
grafica d’orrore. Si scopre una malattia del sangue devastante,

308
The Minuter Shtur

ogni vittima è in grado di trasmettere il contagio. La medicina


tradizionale c impotente. Figure altamente autoritarie dichiara­
no che l’epidemia può essere controllata solo se si osservano
comportamenti sessuali regolari; il mostro è legato alla promi­
scuità e a comportamenti sessuali non convenzionali. Allo
spezzatino si aggiunge un po’ di pepe con l’accusa della tossi­
codipendenza come fattore di incremento del rischio. Anche
le droghe, incentrate su desideri incontrollabili e trasformazio­
ni nella personalità, sono considerate un’altra «peste» del tar­
do XX secolo. I drogati sono diffusamente immaginati come
tenebrose creature inietta-vene, paria, emarginati, predatori
urbani notturni. Le correnti sotterranee irrazionali e vampire-
sche di panico da peste e tabù ematico scatenano una risposta
«scientifica» reazionaria che risveglia fantasie maschili di on­
nipotenza di scuola Frankenstein: si sostiene che la soluzione
richiede solo il controllo dei processi primari della vita. I ricer­
catori guida esibiscono un eccesso di tracotanza. Si considera
un virus còme causa della crisi (i virus sono di moda nell’odier­
na ricerca medica, e se si crede alla pubblicità che se ne fa,
rispondono di quasi ogni affezione, proprio come «l’energia
galvanica» era la chiave per la vita stessa ai giorni di Mary
Shelley). I ricercatori Sull’Aids portano avanti il loro lavoro
con un riserbo paranoico, conducendo esperimenti di ingegne­
ria genetica con cloni virali. (I cloni - organismi creati per
duplicazione genetica - sono, sotto un certo aspetto, l’ultimis­
sima incarnazione high-tech del doppio, forza onnipresente in
storie di vampiri ed esseri artificiali.)
Evidentemente, l’attività «scientifica» intorno all’Aids, co­
sì come la sua copertura sui media, mostra sintomi di ispirazio­
ne inconsapevole nell’apparato fantastico del melodramma
mostruoso per risolvere una crisi effettiva. Susan Sontag, in
L’Aids e le sue metafore, compie una critica dettagliata dell’uso
comune di una metafora militare in rapporto all’Aids, il che
«non solo fornisce una giustificazione convincente al ruolo au­
toritario ma suggerisce implicitamente la necessità della re­
pressione violenta col sostegno statale... l’effetto dell’immagi­
nario militare sulla concezione della malattia e della salute non
è privo di conseguenze. Disloca, mistifica e contribuisce poten­

309
Ddt'hl I Skill

temente al fraintendimento e alla stigmatizzazione della malat­


tia».15 Le metafore onorifiche implicite fanno quasi la stessa
cosa.
A quindici anni dall’inizio dell’emergenza Aids, il mecca­
nismo preciso con cui il virus originario si prevedeva che ster­
minasse il sistema immunitario umano rimane misterioso, e
certi cinici svegli si sono chiesti se gli enormi e immediati pro­
fitti provenienti da esami diagnostici autorizzati e medicine an­
tivirali schivassero la ricerca di base.14 L’immagine schematica
e monotona delle armate virali che si pappano allegramente le
cellule dell’helper T come in un videogame da sala giochi si è
infine dimostrata falsa. I pazienti più malati non hanno mo­
strato livelli particolarmente alti del virus, e pur se a malapena
riportati dalla stampa ufficiale, opinioni di eloquente dissenso
son state pubblicate sulle principali riviste mediche.15 Alla me­
tà del 1991, persino Lue Montagnier, il «coscopritore» france­
se dell’Hiv, espresse pubblicamente il dubbio: il retrovirus era
sufficiente a provocare la sindrome? Cominciarono a circolare
rumori ufficiali su «cofattori necessari». Iniziarono a sentirsi
rapporti su casi di immunodeficienza priva di Hiv. Ma il virus,
demonizzato dalla scienza e intriso di metafore mostruose,
continuò a incantare gli studiosi mentre la ricerca, per certi
osservatori, iniziò a somigliare alla guerra infinita, celibe ed
autoalimentata, di 1984 di Orwell. Dati che parrebbero con­
traddire o modificare l’ipotesi sull’Hiv furono invece assunti
come prova della complessità e forza del virus. Kary Mullis,
biochimico e membro del recentemente formato Group for
the Scientific Reappraisal of the Hiv-Aids Hypothesis, ha rife­
rito alla rivista «Spin» che «il mistero intorno a quel maledet­
to virus è stato fabbricato dai due miliardi di dollari che ci si
spende ogni anno. Prendete qualunque altro virus, spendeteci
sopra due miliardi di dollari, e potete fabbricarci altri grandi
misteri».16 Hollywood non è l’unico posto dove la scienza del
bizzarro può essere enormemente proficua. Come ha commen­
tato la saggista Barbara Ehrenreich: «Dal punto di vista del­
l’industria farmaceutica, il problema dell’Aids è già stato risol­
to. Dopotutto, esiste già un farmaco [l’Azt] che può essere
venduto all’incredibile prezzo di 8000 'dollari per dose annua,

310
The Monxtrr Show

c possiede il valore aggiunto di non compromettere il mercato


Funzionando sul serio».17 La medicina, in altre parole, può
essere predatoria come la malattia.
Altra malattia significativa del tardo XX secolo è l’anores­
sia nervosa, anch’essa dotata di paralleli metaforici con il vam­
pirismo. Nella devastante sindrome anoressica, come nelle sto­
rie di vampiri, la vittima (quasi sempre femminile) spesso finge
di compiacere i propri salvatori e accetta equivalenti psicotera­
peutici dell’aglio e della luparia mentre segretamente collabora
proprio con la malatia. Simile a un vampiro, l’anoressica ago­
nizzante raggiunge infine un potere di controllo e svuotamento
su quelli vicini a lei. La sindrome riecheggia fortemente il de­
bole vittoriano per l’eroticizzazionc di donne devastate dalla
consunzione, un motivo tipico dei classici racconti di vampiri.
Questa malattia inoltre illumina la moderna danza di morte
sottesa alla parata di immagini scheletriche femminili nei me­
dia contemporanei, che sovrappongono vanità e mortalità in
modo perturbante quanto un affresco medievale. Nell’univer­
so pesantemente simbolico della fame/trasformazione del cor­
po femminile, l’ago da liposuzione penetrante e famelico è un
fallo vampiresco ad alta tecnologia che aspira e rimodella don­
ne nella tradizione di Dracula e Frankenstein.
Gli oscuri gemelli, nella loro lunga e mutua danza attraver­
so la cultura occidentale, raramente hanno goduto del potere
che detengono al giorno d’oggi. Dracula e Frankenstein» divi­
nità discese periodicamente nel kitsch inoffensivo, ma solo per
risorgere più forti di prima, sono importanti miti moderni^
Ciascuna icona completa l’altra; raramente viaggiano isolate.!
Incarnano nientemeno che la guerra secolare tra scienza e su !
perstizione, Apollo e Dioniso a una matinée del sabato. Nell’e­
ra dell’Aids hanno speso un’incredibile quantità di tempo am­
mirandosi a vicenda, in parte forse perché si riproducono en­
trambi come l’Aids: uno attraverso la trasfusione e l’altro con
un trapianto. I gemelli oscuri sono una presenza palpabile
quando la tecnologia delle comunicazioni più avanzata nella
storia porta nelle case, quasi tutte le notti, le combinazioni più
psichicamente primitive di sangue, sesso e pestilenza, un nuo­
vo genere di guerra da salotto, un Vietnam psicosessuale.

311
Dovid J. Skal

È uno tra i paesaggi più zuppi di sangue cui la mente


abbia assistito. Come al banchetto di Prospero, non c’è posto
dove nascondersi. I vampiri che grattano alle finestre della cul­
tura popolare rappresentano i nostri morti recenti e irrequieti.
E se non impariamo ad ascoltarli, continueranno a raspare.

312
Cannibali reaganiani

Sopra a tutto ci tengo a vedere un Paese in cui


chiunque può diventare ricco in ogni momento.
Ronald Reagan
(Presidente americano 1980-1988)

Gli americani non usano mai la parola campa­


gnolo.
Alexis de Tocqueville, La democrazìa
in America (1835)

Le libertà di una democrazia hanno una minacciosa contropar­


te di rado affrontata direttamente. Aspettative di opportunità
senza limiti e mobilità verso l’alto, accettazione e inclusione
in una società presumibilmente senza classi, il potenziale per
un’improvvisa trasformazione economica e il nirvana del con­
sumismo infinito, sono tutte componenti familiari del sogno a
stelle e strisce. Benché ci siano scarse prove che per gli ameri­
cani sia più agevole trascendere le caste in cui sono nati, il
sogno, come un interminabile gioco a premi televisivo, ha la
pelle dura.
Un luogo dove al sogno è consentito perire con frastuono
mortale e convulsivo è lo spettacolo orrorifico. L’incubo ame­
ricano, riflesso al cinema e nella narrativa, si impernia su estra-
niamento, esclusione, mobilità verso il basso, un mondo di vin­
centi e perdenti dove si lotta all’ultimo sangue. I caposaldi
familiari e sociali si ribaltano completamente: la famiglia è una
storiella macabra, la casa offrirà probabilmente più assedio che
rifugio.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, anche gli scopi e i
progetti della «grande società» sono stati messi sotto assedio,
mentre rovesci politici e demografici hanno compromesso e
distorto i principi economici basilari. Una generazione allevata
nell’abbondanza senza precedenti degli anni postbellici covava

313
Diligiti J Ska/

per le proprie famiglie l’aspettativa di un futuro ancora più


agiato. Ma il sogno cominciò a vacillare, all’inizio lentamente,
in modi tutto sommato razionalizzabili. Le famiglie con dop­
pio stipendio divennero man mano più comuni, e infine la
norma. Il movimento femminile incoraggiò le mogli e le vedo­
ve a sentirsi «potenti» perché lavoravano fuori casa; come se
avessero scelta. Per una grossa fetta della generazione postbel­
lica, il futuro si prospettava spaventosamente diverso dal pas­
sato. L’idea era tanto disturbante che era meglio non pensarci
direttamente. Come al solito, lo spettacolo onorifico sarebbe
stato lieto di prendersi il disturbo per conto terzi, in stile Do­
rian Gray.
Sebbene Ronald Reagan sia stato celebrato come il Grande
Comunicatore della penultima decade del secolo, questo titolo
appartiene probabilmente allo scrittore Stephen King, che, al­
meno secondo i numeri, è emerso come il cantastorie di mag­
gior successo nella storia dell’uomo. Di giorno, il presidente
raccontava alla nazione le storie di prospettive sociali che que­
sta voleva sentire. Di notte, King narrava storie molto diverse
che la gente non voleva ascoltare direttamente, ma che avrebbe
divorato se presentate nelle immagini velate di vampiri, lican-
tropi, cani rabbiosi, automobili demoniache, mostruosi emar­
ginati con capacità psichiche vendicatrici, e gettonatissimo, il
morto ambulante in putrefazione.
Lo scrittore e regista horror Clive Barker, citando una sti­
ma di novanta milioni di copie di tiratura per i libri di King,
ha commentato: «Pare che in ogni casa americana ci siano due
libri: uno è la Bibbia e l’altro probabilmente è Stephen
King».1 Questo marchio di famiglia emergente ha coinciso ne­
gli anni Settanta c Ottanta con mutamenti economici su larga
scala. Non sorprende che i contemporanei rovesci umani ab­
biano costituito un terreno fertile per immagini di angoscia.
Secondo Landon Y. Jones in Great Expectations: America and
the Baby Boom Generation, «il più vasto e meglio educato
gruppo di uomini e donne nella storia americana cominciava
a credere di essere entrato in qualche tipo di spirale a sviluppo
negativo; più passava il tempo, peggiore pareva la situazione.

314
Thr Manx trr Show

Invece di ritrovarsi in una società adulta, rimaneva incastrata


nella massa».2
Stephen King esplose nella coscienza pubblica col suo pri­
mo romanzo, Carrie (1974). Il personaggio eponimo, Carrie
White, è sotto diversi aspetti il definitivo prodotto dell’emargi­
nazione consumistica: una goffa studentessa delle superiori nel
New England che arranca sotto il dominio della madre fanati­
ca religiosa e patisce ulteriore violenza da parte dei crudeli
compagni di classe in cerca di capro espiatorio. Carrie possie­
de però un talento nascosto per la telecinesi - la capacità psi­
chica di spostare oggetti a distanza - benché questo bizzarro
dono non sia sotto il suo controllo cosciente. Quando la ragaz­
za prova il primo mestruo nello spogliatoio delle scuola, ha
una crisi isterica: la sua educazione puritana non l’ha preparata
all’evento ed è convinta di sanguinare a morte. Le altre ragazze
impietosamente le tirano dietro tamponi. Margaret White, pre­
sa da fervore fondamentalista, non offre conforto alla figlia; il
menarca, per lei, non è nulla di meno che il principio di una
guerra apocalittica tra lo spirito e la carne. Con qualche mode­
rata dimostrazione di telecinesi, la ragazza inizia a ribellarsi
alla madre, e accetta disobbedendolc un invito al ballo di pri­
mavera della scuola. Non sa che il ballo è l’occasione per i
suoi compagni di classe di uno scherzo crudele e sconvolgente:
pochi istanti dopo essere stata eletta reginetta, le rovesciano
addosso una puzzolente doccia di sangue di maiale. Il trauma
innesca a tutta forza i suoi poteri psichici; simile a un primitivo
demone della vendetta, intrappola i convenuti nella palestra
della scuola e li incenerisce in uno sgargiante Crepuscolo degli
dèi che finisce per distruggere mezza città. Sua madre, convin­
ta che sia una strega, la pugnala al suo ritorno a casa. Prima
di morire, Carrie ferma telecineticamente il cuore della madre.
Una delle superstiti amiche della ragazza riesce a scampare
all’olocausto, ma nell’ultimo paragrafo del libro è abbandonata
urlante nel mezzo di un campo, presa dall’orrore per l’improv­
viso scorrere del flusso mestruale.
In un’intervista del 1981, King discuteva la vera Carrie che
aveva ispirato il romanzo:

315
Datoti /. Skal

...una ragazza molto particolare che veniva da una famiglia


molto particolare. Sua madre non era una fanatica religiosa
come la madre di Carrie; era suonata per il gioco, una mania­
ca delle lotterie abbonata a riviste per persone che partecipa­
vano a concorsi. E vinceva pure degli oggetti, strani oggetti.
Vinse una fornitura per un anno di penne Bebop. Ma la cosa
più grossa che vinse fu il vecchio Maxwell di Jack Benny. Lo
tennero all’aperto di fronte al giardino per anni, con le erbac­
ce che ci crescevano intorno. Non sapevano cosa farsene.3

La ragazza infine si sposò. «Ebbe tre figli, poi un’estate


s’impiccò»,4 ricordava King. Il fanatismo religioso della madre
di Carrie, in altre parole, originava in un’ossessione americana
più secolare: la fantasia di arricchimento salvifico e mutante,
di un miglioramento per magia.
Il fascino del romanzo derivava dall’iperbolica evocazione
di rituali di iniziazione adolescenziale in un decennio in cui i
riti di passaggio socio-economici in America cominciavano a
vacillare. Non si apprezzerà mai abbastanza la portata dell’im­
maginario iniziatico per il genere onorifico in generale e per
l’opera di Stephen King in particolare: i licantropi irsuti, i visi
in decomposizione e gli impulsi incontrollabili della tradizione
onorifica hanno ovvi paralleli con la biologia e la psicologia
della pubertà.
Nelle sue offerte rituali di incontri quasi iniziatici, la fanta­
sia onorifica riempie evidentemente un vuoto antropologico,
specialmente tra i giovani maschi. Il genere ebbe la sua crescita
più esplosiva negli anni Ottanta, la stessa decade che vide un
interesse diffuso per l’idea di ritualità disfunzionale; il poeta
Robert Bly iniziò un’impresa casereccia di seminari a numero
chiuso incentrati sull’iniziazione maschile esposta nel suo Per
diventare uomini (1990). Il suo pubblico tendeva a essere della
classe medio-ricca, ma i problemi striscianti della gioventù ur­
bana dei ghetti venivano ascritti dai commentatori sociali an­
che all’assenza di significativi modelli di ruolo e rituali di pas­
saggio. Con l’eccezione di isolati film exploitation come Blacu-

316
Thr Montier Shoir

*la (id., 1972, di William Crain), 1’horror non cercava una mi­
noranza particolare nel pubblico; piuttosto, il suo seguito mag­
giore contava spettatori e lettori tra colletti blu (operai) e tra i
«nuovi colletti». Il vuoto rituale in questo gruppo si potrebbe
estendere oltre problemi specificamente adolescenziali fino a
un senso più ampio di esclusione da iniziazioni socio-economi­
che come università, laurea e accesso a professioni altamente
remunerate.
La stessa leggenda di Cenerentola è un rito iniziatico di
trasformazione. In Carrie, King riciclò diversi elementi chiave
della favola: la figura della madre malvagia, le sorellastre tortu­
ratrici (qui, i compagni di classe), il ballo trasfigurativo, e un
intervento soprannaturale (la telecinesi, una matrigna caritate­
vole). Si dimentica spesso che Cenerentola, almeno nella ver­
sione dei fratelli Grimm, era una favola piuttosto cruda: al fine
di entrare nella scarpetta di cristallo, le sorellastre dai grossi
piedi si amputavano dita e talloni - una trovata degna di Tod
Browning - nella speranza che il principe non avrebbe notato
il diluvio di sangue nella scarpa. Cenerentola si gode una deli­
ziosa vendetta indiretta: alla fine della storia le sorelle malvage
vengono aggredite non dall’eroina, ma da uccelli impazziti che
cavano loro gli occhi.
Carrie era esplicito specialmente nell’illustrazione dei cru­
deli riti esclusivi della scuola superiore, probabilmente un mi­
crocosmo della società americana, che al tempo della pubblica­
zione del romanzo aveva appena subito una severa recessione
economica vanifìcatrice dei sogni di una inclusione «senza
classi». Alla metà degli anni Settanta la classe medio-bassa co­
minciò a perdere visibilmente terreno. La notte dei morti vi­
venti di George Romero era ormai una presenza fissa nel cir­
cuito cinematografico di mezzanotte e un’allegoria primaria
degli abbienti e non abbienti (i «viventi» e i «morti») che
lottavano per il controllo e l’occupazione di una casa emble­
matica. Lo stesso Stephen King rendeva palpabile l’ansia ge­
nuina che si rifletteva nella versione cinematografica di Amity-

* Come suggerisce il titolo, si tratta di una versione (attualizzata) di Dracula


con un cast di soli attori neri. (N.d.T.)

317
Davìtl J. Sfai

ville Horror {id., 1979, di Stuart Rosenberg), dove la prima


casa di una famiglia, acquistata con sacrifici, viene sconvolta
da un disastro «soprannaturale» dopo l’altro. «Le finestre an­
davano in mille pezzi, dai muri colava una sostanza vischiosa
nera, le scale della cantina si incurvavano», scriveva King, «e
mi ritrovai a chiedermi non se [la famiglia] ne sarebbe uscita
viva, ma se avevano un’assicurazione adeguata.» Una donna
seduta dietro di lui al cinema diceva: «Pensi ai conti...»5 La
rete di sicurezza dei decenni precedenti vacillava rapidamente
per larga parte della popolazione. Uno stipendio singolo non
bastava più alla famiglia media, e, come riflesso nello spettaco­
lo onorifico, la vita americana assomigliava sempre più a una
vera e propria corsa di topi con Nosferatu alla guida.
Carrie è l’ululato feroce di un’emarginata, un grido di ri­
sentimento di classe ed estraniazione sociale che si trovò un
pubblico tutto suo nel momento in cui una discreta porzione
di spettatori cominciava a sospettare magari inconsciamente il
crollo della propria rete di protezione. Paradossalmente, fu
l’incubo di caduta libera e ostracismo sociali a promuovere i
libri di Stephen King. Come dopo un rito iniziatico di succes­
so, la vita di King e quella del mondo editoriale non sarebbero
più rimaste uguali.
L’infanzia dello scrittore, almeno da quanto emerge nelle
interviste, non presentò melodrammi clamorosi ma fu piena di
conflitti emotivi, con la classica sensazione di «marginalità».
«Mi sentivo spesso infelice e diverso, distante dai bambini del­
la mia età»,6 raccontava a «Playboy» nel 1983. Sovrappeso e
scoordinato, King fu cresciuto sulla soglia della povertà da una
madre indomita dopo l’abbandono della famiglia da parte del
marito quando il piccolo aveva due anni. I King si stabilirono
in Maine nel 1958, l’anno in cui, incidentalmente, «Playboy»
aveva informato i lettori che l’horror era diventato, per la pri­
ma volta, l’equivalente di una merce garantita. Come diversi
figli del boom, King era affascinato da immagini terrorizzanti
nella cultura popolare: i fumetti E.C., «Famous Monsters of
Filmland» e la marea di horror hollywoodiani fine anni Cin­
quanta furono influenze importanti. Dopo l’università, lavorò
come insegnante di inglese alle superiori per 6400 dollari al-

318
Thr Monxtrr Show

l’anno; per arrotondare, vendeva racconti a riviste per soli uo­


mini come «Dude» e « Cavalier».
La stesura di Carrie nei primi anni Settanta segnò una svol­
ta per King. Nella sua introduzione restrospettiva a un’edizio­
ne speciale del romanzo nel 1991, la moglie di King, Tabitha,
anch’essa scrittrice, rievoca il tema «Cenerentola» del suo ma­
trimonio: «Nell’inverno 1972-73, vivevamo in una roulotte a
Hermon, nel Maine. Steve scriveva nella stanza-sgabuzzino
prevista per la lavanderia. All’epoca non possedevamo né lava­
trice né asciugatrice. La stanzetta bastava appena per una scri­
vania, una sedia, un bidone e uno scrittore».7
Harlan Ellison, celebre sceneggiatore, scrittore di racconti
e saggista il cui stile narrativo «leggimi subito» ha avuto un
enorme impatto sugli scrittori di fantascienza, fantastico e hor­
ror a partire dagli anni Sessanta (ed è tuttora evidente e palpa­
bile nell’opera di King), fu un testimone di prima mano del
rumore editoriale cresciuto intorno a Carrie dopo l’acquisto da
parte della Doubleday dei diritti per l’edizione rilegata (2500
dollari del 1973). «Le fotocopie del manoscritto sparivano; ve­
nivano distribuite per tutta la casa editrice; i redattori le passa­
vano alle segretarie, che se le portavano a casa e le davano ai
propri amici», scriveva Ellison dieci anni dopo. «Quella prima
scena picchiava duro.»8 Neppure la New American Library
scherzava, però, e offrì 400.000 dollari per i diritti del tasca­
bile.
L’ascesa di King nella cultura popolare coincise, e fu in­
dubbiamente favorita, con l’aumento di centralizzazione nella
promozione e distribuzione libraria a partire dagli anni Settan­
ta. Mentre le grandi catene di negozi spazzavano via gli indi­
pendenti, furono stampate le prime tirature di romanzi a co­
pertina rigida, cosa logisticamente impossibile nei decenni pre­
cedenti. («La democrazia», scriveva Alexis de Tocqueville,
«non solo infonde un gusto per le lettere tra le classi industria­
li, ma introduce uno spirito industriale nella letteratura.»9)
Carrie ebbe nel 1974 una prima tiratura di 30.000 copie; Le
notti di Salem, l’anno successivo, fu stampato in 20.000 copie.
Alla fine degli anni Settanta, comunque, spronato dal sistema
delle catene di negozi in espansione esponenziale, il pubblico

319
Dtifitl J Stai

di King esplose. Dopo Shining (1977), i tre libri successivi di


King, L’ombra dello scorpione (1978), La zona morta (1979) c
L’incendiaria (1980), ebbero una tiratura iniziale rispettiva­
mente di 70.000, 80.000 e 100.000 copie. Il suo primo libro
per la Viking, Christine (1983), raggiunse le 250.000 e, a co­
minciare con It nel 1986, praticamente tutti i suoi romanzi
hanno avuto una prima tiratura rilegata di un milione di copie
o più.10
Come nel caso di altre superstar, King mantiene una gros­
sa dose di controllo sulla confezione e promozione del proprio
nome. Quando i nudi numeri incombono in maniera così stra­
ripante come nel suo caso, una parte di questo controllo può
avere buffe conseguenze. Secondo fonti vicine al soggetto, lo
scrittore pose il veto al prezzo di 22.95 dollari proposto dalla
Viking per il suo romanzo La metà oscura (1989), convinto che
i suoi ammiratori meritassero un premio. Chiese che venisse
ridotto a 21.95. L’editore sobbalzò. La tiratura iniziale era di
un milione di copie. Per il capriccio di Stephen King, era stato
appena spazzato via un milione di dollari in guadagni per edi­
tore e librai. In questa decisione c’era, con ogni probabilità,
più che facile demagogia. In un articolo per «Publishers Wee­
kly» il romanziere ricordava che, dopo l’edizione in tascabile
di Carrie, «d’un tratto mi potevo permettere di comprare i
rilegati», un lusso in precedenza. Non dover attendere il tasca­
bile, intendeva King, era una tappa fondamentale per un rico­
noscimento culturale. «Spiavo nelle vetrine delle librerie con
la curiosità infruttuosa di, mettiamo, un operaio edile che fìssa
le collane da Tiffany.»11
Oltre alla questione prezzi, King evita di alienarsi i lettori
esibendo il pur minimo accenno di stile «letterario». La sua
prosa ha spesso i ritmi e la cadenza del parlato: un’informalità
quasi totale di dizione. (In un’intervista per «Fangoria», King
commentava che «un mucchio» della sua posta - anche se
non la maggior parte - consisteva in «quel tipo di frasi quasi
scarabocchiate con fatica a penna, da parte di persone che
evidentemente non leggono né scrivono un granché... Detto in
questo modo sembra che io abbia invece un testone, ma dico­
no proprio: [voce di meraviglia] “Riesco a leggere questo libro.

320
Thr Mon iter Show

Io conosco 1c parole in questo libro!”»12) Supremo populista,


nelle foto pubblicitarie lo scrittore di norma compare vestito
casualmente in jeans e scarpe da ginnastica, incapace di conte­
nere la pancia, pronto a tracannarsi una birra. Sappiamo che
è incredibilmente ricco, tuttavia sappiamo anche che è uno di
noi. Come Michael Jackson, Lon Chaney, The Beverly Hillbil­
lies e il lotto, Stephen King è un classico mito americano di
trasformazione, che mantiene vive le fantasie culturali di meta­
morfosi personale, insieme alla loro parte oscura a corollario
del risentimento da emarginato. King finisce per assomigliare
alla propria creatura, Carrie l’esclusa che abbatte il tempio del­
le superiori con una furiosa esibizione di energia mentale; non
è forse una coincidenza che King abbia impiegato i propri
bizzarri talenti per piegare l’industria editoriale alle proprie
convinzioni. La sua carriera trova un parallelo gustoso nel rac­
conto di Jerome Bixby It’s a Good Life (1953), su un bambino
con onnipotenti poteri mentali che ricostruisce il mondo come
un fumetto dell’orrore. La storia è stata la base per un famoso
episodio di Twilight Zone dei primi anni Sessanta, amorevol­
mente ricreato dal regista Joe Dante come segmento di Ai con­
fini della realtà (The Twilight Zone: The Movie, 1983, film a
episodi di John Landis, Steven Spielberg, Joe Dante e George
Miller).
Scrivendo su «The Atlantic» una dozzina d’anni dopo la
pubblicazione di Carrie, Lloyd Rose individuava un altro im­
portante elemento di richiamo in King:

I suoi personaggi vivono nel peggior universo morale possibi­


le: si viene puniti quando si commette uno sbaglio c si soffre
quando si è innocenti. E il mondo di un bambino con genitori
folli; qualunque cosa si faccia, si viene picchiati, senza sapere
mai il perché. La confusione e la rabbia al centro di questa
visione del mondo possiedono un potere primario che non
ha nulla a che fare con i trucchetti d’intreccio e i mostri di
King, e ciò che bolle là sotto conferisce loro un calore distur­
bante. 13

La fissazione dell’industria dell’orrore sulla violenza e l’o-

^71
Dat>i<l f. Skal

micidio di bambini e temi analoghi pareggiava negli anni Ot­


tanta un’isteria montante in tribunale e nei media a proposito
di molestie sessuali e incesto. Nessuna persona sana può nega­
re la deplorevole e tragica realtà delle violenze su bambini, ma
la realtà offriva una scia di fantasie malate che spesso offusca­
vano problemi legittimi. Il più lungo e costoso procedimento
penale nella storia americana - il caso dell’asilo McMartin a
Los Angeles - sollevò pesanti accuse col pretesto di piccanti
film horror. Si concluse con un proscioglimento. C’era un’im­
pressionante somiglianza con diversi altri casi di molestie per­
seguiti per tutto il Paese tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio
dei Novanta: quasi tutti coinvolgevano proprietari o impiegati
di asili a tempo pieno, vale a dire controfigure o surrogati di
genitori. Questo aspetto di «duplicazione» può essersi rivelato
fondamentale per l’atmosfera isterica di proiezione, ricerca di
capri espiatori e caccia alle streghe che permeava i casi. Gli
impiegati negli asili, in un certo senso, divennero doppi. I pro­
cessi coinvolgevano generalmente ansiosi genitori figli del
boom che, con l’appoggio decisivo di terapeuti, tiravano fuori
dai propri figli storie a forti tinte di fantastici crimini sessuali
commessi da presunti adoratori di Satana che uccidevano
bambini e mutilavano animali, molestavano le loro vittime in
tunnel segreti e palloni aerostatici, allestivano orge passate
inosservate a un tiro di sputo dalle autorità ecc. In un caso
documentato dalla televisione pubblica, alcuni bambini so­
stennero di essere stati cucinati vivi in forni a microonde, alla
Gremlins o come nelle storielle sui bambini morti.
Viene da chiedersi quanto di queste diffuse fantasie di vio­
lenza intergenerazionale riguardi risentimento deviato dei figli
dei baby boomers, per non parlare dei loro genitori. Per tutto
il decennio i media discussero fino alla nausea le pressioni e
difficoltà di allevare bambini negli anni Ottanta: senso di colpa
per l’affidamento agli asili a tempo pieno, l’inevitabile mancan­
za di tempo «di qualità» in una famiglia con due carriere e la
tendenza a vedere i bambini come un titolo di classe media
piuttosto che una responsabilità finanziaria. (Quest’ultimo
problema veniva generalmente inquadrato nei confronti delle
ragazze madri con assistenza sociale, per mantenere il proble-

322
Thr Momfrr Show

ma a distanza di sicurezza benché, per inciso, la classe media


potesse a stento permettersi i bambini che sfornava. Quanti
genitori di qualunque fascia di reddito avrebbero ottenuto
un’ipoteca per crescere bambini nel caso fosse richiesta una
verifica finanziaria?) Dall’altro lato della medaglia, la comoda
esistenza della precedente generazione di classe media a sti­
pendio unico pareva ora deridere le aspirazioni dei figli econo­
micamente inguaiati.
La dolorosa sensazione di blocco sia edipico sia economi­
co non poteva essere affrontata direttamente, dunque era ne­
cessario scovare il bambino tradito, picchiato, persino «assas­
sinato» da qualche altra parte. In aggiunta alle cacce alle stre­
ghe per violenze su minori, c’erano i romanzi di V.C. Andrews
e, soprattutto, l’icona Freddy Krueger della serie Nightmare.
Assassino di bambini in vita, Freddy finiva linciato da un’acco-
lita di genitori, ma sopravviveva come uomo nero nelle fantasie
oniriche della comunità, una vera ossessione collettiva.
I libri di Stephen King traboccano di immagini di bambini
sacrificali. Pet Sematary (1983) trovò vasta eco con la storia di
un padre disperatamente in colpa che resuscita il figlio morto
con una variante della Zampa di scimmia. Pet Sematary era un
ulteriore esempio di crollo «gotico» nel legame tra genitori e
figli. Ma King conservò il più ambizioso e disturbante immagi­
nario di un’infanzia sotto assedio per l’ineguale epica orrorifica
di It (1986).
It giostra perfettamente le generazioni, alternando gli anni
Cinquanta e Ottanta nel raccontare la storia di figli del boom
cresciuti che fanno ritorno alla città della loro infanzia pregna
di orrore per completare un rito di passaggio. Nella città di
Derry, nel Maine, reincontrano e distruggono una forma di
male primitivo, proteiforme, assassino di bambini che, più
spesso che no, assume l’aspetto di un pagliaccio stile Bozo di
nome Pennywise (Risparmiatore), nome che evoca direttamen­
te l’idea di un orrore materialistico ed economico. King fa al­
cuni paragoni diretti tra Pennywise e icone riconosciute come
Ronald McDonald, Topolino e Paperino. Pennywise richiama
inoltre l’immagine di John Wayne Gacy, famigerato assassino
di bambini che operava talvolta travestito da pagliaccio. Il let-

201
Dti i ’i<l J Shi I

tore capisce quando il clown sta per uccidere, perché comincia


a parlare di volare. «Volerai laggiù», ripete in continuazione,
come in uno spot pubblicitario. L’idea di volare connota inol­
tre elevazione o levitazione, libertà, assenza di restrizioni, una
trascendenza che sfida la gravità: l’ansiosa e probabilmente ir­
raggiungibile fantasia dei baby-boomer.
Il primo shock del libro arriva con un tombino, da dove
Pennywise lusinga un bambino di sei anni con promesse di
zucchero filato, noccioline mandorlate, un vero e proprio circo
sotterraneo. La scena è allestita come un preludio a un abuso
sessuale soprannaturale: «Non devo accettare roba dagli sco­
nosciuti», dice il ragazzino al pagliaccio, saggiamente, quando
questi gli offre un palloncino. Ma, come nella maggior parte
della narrativa kinghiana, la minaccia sessuale innesca una vio­
lenza granguignolesca: quando il bambino arriva a portata di
mano, Pennywise coglie l’occasione per staccargli il braccio.
Come nella vita di Tod Browning, arrendersi al circo significa
incontrare un baraccone di mutilazione orrorifìca. È probabil­
mente significativo che King abbia usato altrove la metafora
circense per descrivere l’esperienza baby-boomer: «Eravamo
terreno fertile per i semi del terrore, noi bambini di guerra»,
osservava nel suo saggio sull’horror Danse Macabre (1982);
«siamo stati allevati in uno strano miscuglio circense di para­
noia, patriottismo e tracotanza nazionale».14 In It, King resu­
scita e celebra l’oscuro motivo carnevalesco illustrato per la
prima volta nel Gabinetto del dottor Caligari e tenuto in vita
da Tod Browning e Lon Chaney. L’osservazione di Chaney
spesso citata - «Un pagliaccio al chiaro di luna non fa per
nulla ridere» -, informò la narrativa di Ray Bradbury e la criti­
ca di Leslie Fiedler. L’horror, negli anni Ottanta, divenne uno
standard dorato nell’editoria, e l’idea di Fiedler che l’anima
americana si potesse ritrovare nella letteratura orrorifìca per
ragazzi fu finalmente compiuta.
Il critico di «The Christian Science Monitor» scrisse che
«It è per la truculenza ciò che il catalogo Sears Roebuck è per
gli acquisti».15 «Newsweek» identificò il motore sepolto del
romanzo: «L’apparente desiderio di Stephen King di essere
un grosso peso letterario trascina a terra il suo già elefantiaco

*04
The Monxter Show

nuovo romanzo... Le sezioni eccitanti e coinvolgenti di It non


sono gli scontri e sconvolgimenti meccanici... ma le semplici
scene in cui King rievoca l’infanzia degli anni Cinquanta».16
La principale funzione culturale di King potrebbe essere
il riscatto delle vite e dell’esperienza - specialmente vite ed
esperienza infantili - di una vasta fetta della popolazione i cui
ricordi più vividi e formativi si incentravano su rituali mediolo­
gici omogeneizzati come i fumetti E.C., «Ai confini della real­
tà», «Shock Theater» e «Il mostro della laguna nera». I libri
di Stephen King riflettono le vite dei suoi lettori, in particolare
i momenti mediologici «intimi», e il risultato è una fonte di
piacere e autoriconoscimento. Qualunque sia il loro valore let­
terario, i suoi romanzi possono coinvolgere appassionatamente
e in modo viscerale i lettori più di gran parte della narrativa.
I lettori di King bofonchiano, deglutiscono, provano nodi allo
stomaco e brividi lungo la spina dorsale. Storicamente, è sem­
pre esistita una dose di invidia da parte delle classi educate nei
confronti dei subalterni, incentrata sullo strisciante sospetto
che le classi più basse siano gente dalle esperienze dirette e
vivide irraggiungibili attraverso il velo intellettuale. Narrativa
come quella di King è sensuale, pulsante, immediata. Non ha
praticamente nulla a che fare con gli scopi e obiettivi della
letteratura correntemente in circolazione, e costituisce una ca­
tegoria tutta particolare.
Non sorprende che i critici facciano il bello e cattivo tem­
po quando devono scrivere di Stephen King. Nell’estate del
1982, «Time» ospitò un profilo dello scrittore a tutta pagina,
con l’acido titolo Maestro della prosa post letteraria. King com­
mentò: «L’articolo mi depresse per settimane. Ma, capite, fu
il tono a deprimermi. Non era particolarmente cattivo, ma
quasi triste. C’era questo tizio che diceva... i Visigoti scorrazza­
no tra le rovine e i sassi di Roma, pisciando sulla Curia e sui
gradini del Senato. E in realtà parlava di gente non particolar­
mente brillante, che legge questi libri, e io pensai: “Mio Dio...
mi chiedo se capisca quanto tutto ciò suoni elitario” ».17
Osservava inoltre che i giornali alternativi e della contro­
cultura avevano scritto recensioni positive del suo lavoro agli
esordi, ma all’inizio degli anni Ottanta si era instaurata una

325
Danti /. Sitai

reazione violenta. Walter Kendrick, recensendo Danse Maca­


bre sul «Village Voice», scrisse: «Se tertete in considerazione
lo spirito, l’intelligenza o l’intuizione, persino se siete disposti
ad accontentarvi della più piccola traccia di buona scrittura,
tutti i libri di King sono trascurabili... E diffìcile dire cosa sia
peggio: l’assoluta vacuità delle idee o la sciocca flatulenza in
cui sono espresse».18 La feroce recensione era accompagnata
da un’illustrazione altrettanto feroce del caricaturista Philip
Burke; disegnava l’autore come un maiale occhialuto e irsuto,
che divorava denaro da una macchina da scrivere a forma di
trogolo. Kendrick, in ogni caso, era più che disponibile ad
ammettere che King era un genio in ciò che sceglieva di fare,
e che i suoi libri potevano dare dipendenza. Dopo aver passato
quattro ore «catturato» da Le streghe di Salem, Kendrick con­
fessava:

Il mattino dopo odiavo me stesso. Mi sentivo gonfio e sporco,


come se mi fossi appena trangugiato un gallone di Cool-
Whip. La prosa di King ha molto in comune con quelle gelati­
ne sintetiche che non possono mai irrancidire perché non
sono mai state fresche; è un diluvio informe di cliché, unifor­
memente privo di gusto e assolutamente inoffensivo, e non
chiede mai al lettore di provare o pensare qualcosa che non
sia assolutamente familiare. E benché i suoi libri siano sempre
oscenamente troppo lunghi, in qualche modo pure questo è
rassicurante, perché si può volare attraverso intere pagine in
un secondo, sicuri che una sbirciatina generale sia sufficiente;
le parole non contano.

Poiché l’opera di King è tanto basata sulle immagini, era


inevitabile che venisse adattata per il cinema. Sorprendente­
mente, solo il sofisticato adattamento di Carrie da parte di
Brian De Palma {Carrie - Lo sguardo di Satana, 1976) con Sissy
Spacek si è rivelato un successo critico e commerciale. De Pal­
ma si è preso diverse libertà con la storia, e ha migliorato la
confezione apportandovi alcuni stilemi hitchcockiani: la scena
della doccia, il battesimo del sangue al ballo (ripreso con un
ralenti da agonia) e una morte completamente nuova per la

326
Thr Mon\trr Show

madre di Carrie, ora tclccincticamente crocifissa con utensili


da cucina.
Altri adattamenti da King si rivelarono carenti dello slan­
cio ispirato di Carne'. Le notti di Salem (’Salem’s Lot, 1979, di
Tobe Hooper), Shining (The Shining, 1980, di Stanley Ku­
brick), Christine, la macchina infernale (Christine, 1983, di
John Carpenter), Cujo (id., 1983, di Lewis Teague), La zona
morta (The Dead Zone, 1983, di David Cronenberg), Fenomeni
paranormali incontrollabili (Firestarter, 1984, di Mark L. Le­
ster), Cimitero vivente (Pet Sematary, 1989, di Mary Lambert),
e il film televisivo It. Alcuni racconti di King hanno pure for­
mato la base per lungometraggi o film a episodi, come Creep­
show (id., 1982, di George Romero), L’occhio del gatto (Cat’s
Eye, 1985, di Lewis Teague), Grano rosso sangue e il fuori
genere Stand by Me - Ricordo di un’estate (Stand by Me, 1986,
di Rob Reiner). Shining, diretto da Stanley Kubrick, fu una
grossa delusione sia per gli ammiratori dello scrittore sia per
quelli del regista. Curiosamente, nessuna delle opere ispirate a
King ha mai raggiunto un successo commerciale equivalente a
quello dei suoi libri. L’aura iettatrice attaccata agli adattamenti
di King avrebbe potuto funzionare da monito quando negli
anni Ottanta l’idea di produrre un musical di Broadway si
gonfiò come uno dei palloncini pieni di sangue di Penny-
wise.
Considerata la nevrotica e marcata tendenza del teatro
commerciale ad adattare e riciclare materiali, l’idea di un Car­
ne versione musical deve essere apparsa vincente. Stephen
King, dopotutto, era il narratore più redditizio di ogni tempo.
La produzione prevedeva la prestigiosa Royal Shakespeare
Company, che aveva coprodotto il successo tenace di I misera­
bili. U produttore tedesco di Cats, Friedrich Kurz, raccoglieva
denaro. Una leggendaria cantante di Broadway, Barbara Cook,
sarebbe ritornata sulla scena nei panni della madre di Carrie.
Lawrence Cohen, autore della sceneggiatura per De Palma, fu
messo sotto contratto per scrivere il libretto. La musica e i testi
erano opera di Michael Gore e Dean Pitchford, che avevano
collaborato a Fame-, Pitchford inoltre era stato l’autore dei dia­
loghi per il film di successo Footloose (id., 1984, di Herbert

327
David J. Ska!

Ross). La partitura, eseguita in audizioni di prova senza un


allestimento ufficiale, era minacciosamente efficace e combina­
va ballate melodiche, canzoni pop, e musica da ballo ad alto
potenziale (il maestro di danza aveva curato le coreografie di
Fame). L’horror poteva diventare l’affare più bollente di
Broadway, come aveva ampiamente dimostrato la versione di
Il fantasma dell'Opera a opera di Andrew Lloyd Webber. In
parte storia di Cenerentola e in parte spettacolo sanguinolento,
il musical Carrie avrebbe inoltre rappresentato un distillato
pop delle ossessioni principali del decennio: la trasformazione
socio-economica e il terrore dei fluidi corporali.
Le difficoltà cominciarono forse con il coinvolgimento del­
la Royal Shakespeare Company. In un certo senso, la vera
«matrigna» di Carrie era il Primo ministro inglese Margaret
Thatcher, i cui draconiani tagli dei sussidi artistici governativi
costrinsero la RSC alla ricerca di progetti commerciali collate­
rali. La stampa inglese fu malevola fin dall’inizio. Il «New Sta­
tesman» definì la razionalizzazione da parte della RSC del pro­
prio impegno «cinicamente pia: guardate cosa mi fate fare.
“ Carrie è il risultato della nuova politica governativa di autofi­
nanziamento”, ha affermato un portavoce senza peli sulla
lingua».19
Terry Hands, direttore artistico della RSC, sapeva fin dal­
l’inizio che il contratto di produzione garantiva alla compagnia
un profitto esente da rischi; nel caso Carrie facesse fiasco a
Broadway, la RSC non ci avrebbe rimesso nulla. La produzione
aveva trovato una partecipazione limitata in Germania, Sri
Lanka, Liechtenstein e Australia.20 Anche la CBS era tra i fi­
nanziatori. Lo stanziamento era di quasi otto milioni di dollari.
Come la madre maniaca delle lotterie che aveva ispirato a King
il romanzo, anche i finanziatori devono essere stati ipnotizzati
dalla prospettiva di sbancare l’enorme casinò dei musical di
Broadway.
Carrie rimase in scena per tre settimane al teatro della RSC
a Stratford-upon-Avon, un’esperienza che spinse Barbara
Cook a ritirarsi dalla produzione (la sua decisione fu forse in­
fluenzata da un pezzo di scenografia che per poco non la deca­
pitava). Come ricordava Cook, «pensai: non c’è una sola male­

328
The Monx/rr Shou*

detta possibilità che questi ce la facciano a spuntarla».21 In un


primo momento l’attrice confidava nel regista Terry Hands:
«Quell’uomo è responsabile della Royal Shakespeare Compa­
ny; se una scena non funziona, lo capirà, mi dicevo. Be’, non
fu così».
Nicholas de Jongh sul «Guardian» forse colse meglio di
tutti i significati nascosti in Carrie:

Carrie è un racconto morale incentrato su un regista teatrale


di mezz’età di nome Terry Hands che pareva avere tutto:
fascino, talento da vendere, e la Royal Shakespeare Company.
Un giorno fatale, da un luogo remoto venne un alieno offren­
do alla sua compagnia denaro e uno spettacolo a Broadway...
Furono spesi milioni, ma poco prima del debutto, intorno al
teatro furono avvistati avvoltoi, attirati lì dal rumore di quella
succulenta orgia drammatica, un musical appena nato.22

Le critiche preventive non furono benevole - a dir poco -


ma le anticipazioni a New York furono comunque entusiasti-
che. Il DeWynter Group di Londra, che aveva concepito tutti
i più importanti musical inglesi, creò per lo spettacolo un logo
potente e minimalista. Pochi semplici tratti suggerivano un vi­
so da ragazza con un’unica «lacrima» rossa che cadeva nel
vuoto. L’immagine apparve su manifesti per tutta New York
con un semplice messaggio: CARRIE. NON C’È MAI STATO
UN MUSICAL COME IL SUO.
Nessuno si sognò di smentirli. Ma pochi erano preparati
allo stupefacente pastrocchio delle anteprime al Virginia Thea­
tre nel maggio 1988. Barbara Cook era stata sostituita da Betty
Buckley, la professoressa di ginnastica nella versione cinemato­
grafica e interprete di Memory, la più famosa canzone del mo­
numentale musical Cats. La Buckley interpretò la parte di Mar­
garet White come un’austera dominatrice. Nel ruolo principale
c’era Linzi Hateley, un’affascinante esordiente inglese con un
grande vibrato alla Judy Garland. Il libretto musicale era stato
quasi completamente sforbiciato, rendendo incomprensibile al
pubblico che non aveva letto il romanzo o visto il film la moti­
vazione delle capacità telecinetiche. Gli attori nelle parti di

329
Datiti! I. Sita!

studenti delle superiori apparivano, in media, almeno dicci an­


ni più anziani dei loro ruoli; le ragazze erano vestite come
viziose prostitute, e i ragazzi in un’occasione come feticisti in
abiti di pelle. La scena dello spogliatoio prevedeva installazioni
per docce idraulicamente complicate con ghiaccio che faceva
capolino sul vetro; tuttavia le ragazze si «lavavano» indossan­
do reggiseno e mutandine. Il dionisiaco numero da macellazio­
ne del maiale che apriva il secondo atto («Out for Blood») fu
senza discussione uno dei momenti più memorabili di camp
sofisticato. Numerosi effetti speciali impossibili da padroneg­
giare furono semplicemente abbandonati, comprese le dimo­
strazioni dei poteri di Carrie, che contribuivano solo a confon­
dere le cose. Quando si dimostrò impossibile versare sangue
su Linzi Hateley senza compromettere il microfono sul suo
corpo, l’intero cruciale bagno di sangue del ballo fu sacrificato
sull’altare degli espedienti; all’esecuzione a cui assisti l’autore,
un attore cosparse delicatamente le guance della ragazza con
qualche manata di sbobba rossastra, ficcandole senza troppi
complimenti il secchio vuoto in testa. Erano stati spesi otto
milioni di dollari, e nessuno era stato in grado di cavare le
castagne dal fuoco nel momento cruciale. Nell’immagine finale
della produzione di Broadway, Carrie incontra sua madre su
una scala bianca contro il bianco del cielo e viene pugnalata a
morte; una trovata che forse avrebbe potuto escogitare Florenz
Ziegfeld se un pazzo gli avesse chiesto di allestire una versione
da Grand Guignol delle sue Pollies.
Il critico di « Newsday » Linda Winer definì lo spettacolo
«stupendamente, favolosamente terribile, concepito da un
inetto, volgare, irrazionale pressapochismo, il raro genere di
produzione che si estende oltre l’orribile fino al disgusto».23
Considerate le tendenze autodistruttive della produzione, l’a­
cerbo John Simon poteva permettersi di essere meno caustico
del solito nella sua recensione su «New York» intitolata San­
gue e niente fegato. «Un musical basato su un film squallido
tratto da un thriller modesto non dev’essere necessariamente
orribile», scrisse Simon. «Magari si sperava in qualcosa di
spettacolarmente bizzarro, che procedesse in maniera demen­
te. Ecco invece un miscuglio instabile che alla prova del palco­

330
The Monster Show

scenico crolla.»24 Jack Kroll di «Newsweek» definì il duetto


del primo atto in cui la signora White «impreca e schiaffeggia
ripetutamente la povera figlia, per poi infliggerle uno strappo
a elle, una delle scene più ripugnanti di tutta la storia dei musi­
cal di Broadway».25 Il critico del «New Yorker» Mimi Kra­
mer lamentava che la coreografia di Debbie Alien «non s’im­
pernia su gioia o sforzo o aspirazioni, ma su Tette e Culi, una
sorta di aerobica sessualizzata: pornoballetto».26
Nel suo Not Since Carrie: 40 Years of Broadway Musical
Flops, Ken Mandelbaum osservava la perversa eccitazione cau­
sata dallo spettacolo la sera della prima: «All’uscita del pubbli­
co, alcuni appaiono eletrizzati, altri sconvolti; la frase ricorren­
te è “da non credersi”. Per gli habitué del teatro, questa è stata
una notte diversa da ogni altra, il genere di spettacolo atteso
da una vita. Non stanno più nella pelle per ritornare a casa e
chiamare gli amici, e le linee telefoniche, specialmente sulla
West Side, continueranno a fumare per ore e ore».27 Per mol­
ti, Carrie era un equivalente in carne e ossa di Springtime for
Hitler, il fantasioso «peggior musical di tutti i tempi» creato
da Mel Brooks per la sua commedia Per favore non toccate le
vecchiette (The Producers, 1968). Per i produttori di Carrie,
Stephen King era indubitabilmente una banca che non preve­
deva il fallimento; per gli osservatori del delirio speculativo
newyorkese dei tardi Ottanta Carrie era qualcos’altro: L’infer­
no delle vanità.

Quanto a Stephen King, lui non ha fallito, nonostante i


recensori lo invitino di rado all’annuale ballo dei critici. La
«New York Times Book Review» ha definito Cose preziose
(1991) «il tipo di libro che può piacere solo agli amanti di
lunga pezza del genere, persone che con ogni probabilità pos­
siedono un mucchio di magliette nere nel loro cassettone e
hanno sognato di portare un cappello da baseball con la visiera
all’indietro, se non l’hanno addirittura fatto». Il recensore pa­
ragonava il romanzo all’ultraviolento ma di rango più elevato
American Psycho di Bret Easton Ellis (1991). Il discusso libro
era stato cancellato alla fine del 1990 da Simon & Schuster
quando un puzzo (o meglio lezzo) si era levato intorno alla sua

331
J Skill

imminente pubblicazione. Bocciato come nauseante e misogi­


no dai redattori che avevano letto il manoscritto, il volume
divenne una patata bollente per Simon & Schuster e la sua
associata Paramount Communications dopo che le scene di
omicidi più violente erano sgocciolate fino alla stampa. La Pa­
ramount, che non annunciava alcuna intenzione di tagliare la
produzione e la promozione della sua serie di slasher movies,
Venerdì 13 insisteva che non era stata esercitata nessuna censu­
ra intenzionale sulla sua sussidiaria editoriale. American Psycho
fu rilevato in un battibaleno da Alfred A. Knopf per la sua
collana di tascabili Vintage Contemporary. L’attenzione della
stampa per la vicenda consentì alla casa editrice di far uscre il
libro senza doverlo spingere.
Il libro di Ellis, concludeva il «Times», «contiene la stessa
quantità di insensata violenza sadomasochistica» presente nel­
l’opera di Stephen King, ma i folli del mondo di King «lascia­
no le tracce delle loro mani sporche di sangue su tipi di Sears,
non di Saks».28 Le tensioni di classe e denaro che permeano
l’horror moderno sono ben illustrate nella vicenda editoriale
di American Psycho. Il romanzo di Ellis, in cui un ventiseienne
finanziere altezzoso, Patrick Bateman, fa anche di tanto in tan­
to il serial killer, si legge come una parodia di Stephen King
nella sua incessante litania di etichette e oggetti costosi. Nella
scena probabilmente più infame, Bateman si appresta a intro­
durre un topo vivo nella vagina della sua ultima vittima mentre
al videoregistratore scorre una cassetta di un precedente omi­
cidio. Nella cassetta, ci dice Bateman, «indosso un abito Jo­
seph Abboud, una cravatta Paul Stuart, scarpe di J. Crew, una
vestaglia italiana e sono inginocchiato sul pavimento accanto
al cadavere, a mangiare il cervello della ragazza, ingozzandomi
e spargendo Grey Poupon sopra mucchi di rosea carne succo­
sa».29 In altri passi del libro, Bateman amputa a morsi capez­
zoli e recide dita fino all’osso.
Il cannibalismo come motivo culturale della classe agiata
non era propriamente nuovo; era stato introdotto nel 1979 dal
musical di Stephen Sondheim Sweeney Todd: The Demon Bar­
ber of Fleet Street. Lo spettacolo forniva un’ouverture culturale
all’era darwiniana «cane-mangia-cane» di Ronald Reagan, e

332
rhe Monger Show

accompagnò nitri gli anni Ottanta, con adattamenti televisivi


ed entrature nei repertori di diverse compagnie di operetta.
Fu ripreso con successo da Broadway nel 1990, in un decennio
all’insegna dei dentoni. Un cannibale persino più popolare di
Sweeney Todd fu il famelico psichiatra dottor Hannibal Lec­
ter, inventato dallo scrittore Thomas Harris in II delitto della
terza luna (1981) e ripreso nel Silenzio degli innocenti (1989).
Il film di Peter Greenaway II cuoco, il ladro, sua moglie e l’a­
mante {The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover, 1989)
disgustò il pubblico e diversi critici con le sue esplicite metafo­
re di cannibalismo, mentre Eating Raoul (t. lett.: Mangiando
Raoul, 1982, di Paul Bartei) era una variazione umoristica sul
tema. All’epoca di American Psycho, i cannibali succhiavano
ossa in ogni angolo dei quotidiani; in prima pagina i fogli scan­
dalistici strombazzavano i crimini di Daniel Rakowitz, che nel
1989 uccise e cucinò il proprio compagno di stanza nell’East
Village, per poi distribuire parti del suo corpo in una zuppa
destinata ai senza casa di Thompkins Square Park. Nella diffu­
sissima striscia a fumetti «Calvin e Hobbes » di Bill Watterson,
un bambino, senza alcun motivo, discute con la madre in cuci­
na. «Ehi mamma», chiede, «se noi fossimo cannibali, quali
parti delle persone mangeremmo?» La madre è stupefatta, ma
il bambino non molla: «Capisci, dove si troverebbero le bistec­
che? Le gambe sarebbero cosce di pollo? I bambini sarebbero
vitello?»30 Lasciando da parte l’occasionale mangiauomini
nella vita reale, l’ossessione di massa per il cannibalismo aveva
poco a che fare con un incipiente, diffuso desiderio di cibarsi
di prosciutti umani. E antica norma tra gli indovini non inter­
pretare mai letteralmente la carta di Morte; è analogamente
saggio non prendere i simboli sgargianti della cultura popolare
per come appaiono. Come nel caso dei film «cannibali», che
possono essere proficuamente letti come allegorie dell’uccisio­
ne dell’infanzia da parte dei media, l’immagine del cannibale
suggerisce anche altre interpretazioni. Il cannibalismo, dopo­
tutto, rappresenta il genere più primitivo possibile di assimila­
zione e inclusione; in un’era in cui ci si ripete di continuo
che i contratti sociali fondamentali sono in pericolo, perché

333
David J. Skill

meravigliarsi che il cannibale e il vampiro si affermino come


immagini disfunzionali della reciprocità umana?
Pochi erano disposti a cercare significati più reconditi in
American Psycho, il che era scandaloso. Era decisamente ovvio
che, più o meno riuscito che fosse, il romanzo era concepito
come un feroce commento sugli eccessi sociali deumanizzanti
della decade appena trascorsa. Norman Mailer, non estraneo
a temi di aggressione violenta, affermò sulle pagine di «Vanity
Fair»:

American Psycho sostiene che gli anni Ottanta siano stati spi­
ritualmente disgustosi, e la presentazione che ne fa l’autore è
la cristallizzazione di tale orrore. Quando una classe intera­
mente nuova prospera attraverso la capacità di ricavare dena­
ro dalla manipolazione di denaro, e diventa contemporanea­
mente ossessionata dalla superfìcie delle cose - vale a dire
comodità, lusso, cibo e apparenza - allora, dice Ellis, siamo
davvero entrati nel periodo della manipolazione assoluta degli
uomini da parte degli uomini: il correlativo oggettivo della
manipolazione totale è l’omicidio a sangue freddo. L’omicidio
è ora l’equivalente di una segheria dove gli esseri umani pos­
sono essere trattati con la stessa mancanza di rispetto degli
alberi.31

Diversi critici, comunque, decisero di ignorare la foresta


in pericolo; Alfred Kazin confessava che American Psycho
«conferma qualcosa che a lungo ho temuto di scoprire. E per­
fettamente possibile possedere una certa dose di talento lette­
rario e tuttavia essere completamente idioti». A proposito del­
la cospicua mattanza, Kazin ammetteva che «Bret Easton Ellis
non conosce la differenza tra un romanzo e il catalogo Ham-
macher Schlemmer», e «ha la mano tanto pesante che per
strada appaiono manifesti per I miserabili come contrappunto
“ironico”. Si raggiunge una certa saturazione modaiola quando
Patrick ringhia ai suoi amici perché hanno la registrazione ori­
ginale inglese dello spettacolo, non quella americana»}2
La sezione di Los Angeles della National Organization for
Women decise, con cupo spirito letterale, che American Psy­
cho non era un commento sociale, ma piuttosto un manuale

334
The MotHlrr Shotr

«pratico» per la tortura e lo smembramento delle donne. L’o­


biezione ricordava una sorta di Fredric Wertham in abiti fem­
minili. Si minacciò un boicottaggio del catalogo di Knopf da
parte delle appartenenti alla Now, mai divenuto effettivo. Le
intenzioni satiriche di Ellis in American Psycho sono evidenti,
forse persino troppo. («La lavanderia cinese alla quale di solito
affido i miei indumenti insanguinati mi ha restituito ieri una
giacca di Soprani, due camicie Brook Brothers e una cravatta
Agnes B. dalle quali non erano completamente sparite le tracce
di sangue umano. Ho un appuntamento per l’ora di pranzo -
tra quaranta minuti - ma prima decido di passare in tintoria a
reclamare.»55) Il catalogo Simon & Schuster descriveva il libro
come una «commedia nera».54 Ma American Psycho è tanto
lungo ed esagerato che il potenziale apprezzamento delle in­
tenzioni o controllo da parte dell’autore era accecato dagli
spruzzi di sangue. Come concetto puro, deve essere parso bril­
lante (viene da chiedersi cosa ne avrebbe ricavato un maestro
dello stile surreale come J.G. Ballard), ma questa era anche
l’idea di un musical basato su Carrie.
Bret Easton Ellis possiede un notevole talento narrativo e
un orecchio speciale per i dialoghi. Una sequenza non racca­
pricciante in cui Bateman e una donna con manie depressive
passano miserabilmente il tempo facendo «sesso sicuro» nel­
l’era dell’Aids è tanto esilarante quanto orribile, e probabil­
mente è la scena meglio scritta del libro. Qui Ellis inventa
brillantemente un mondo di terrore per i fluidi corporei senza
versarne una sola goccia. Il resto, sfortunatamente, confonde i
lettori altrimenti disposti a difenderlo. Il manoscritto del pri­
mo libro di Ellis, Meno di zero (1984), pare sia stato ridotto
della metà con l’aiuto del suo professore di scrittura creativa,
Joe McGinnis. American Psycho invece non deve aver ricevuto
la stessa attenzione. Il manoscritto andava avanti... e avanti...
e avanti. Si dice che l’agente di Ellis, Amanda Urban, avesse ot­
tenuto un anticipo di 300.000 dollari sulla base di un riassuntine
di mezza pagina. Il contratto fu stipulato, in modo azzardato,
appena prima che il secondo romanzo di Ellis, Le regole dell’at­
trazione, venisse pubblicato e facesse fiasco nel 1987.55
Potrebbe essere concepibile un contratto per un libro co-

335
David /. Meal

me American Psycho in un mondo senza Stephen King, Clive


Barker e gli splatter-punk? È dubbio. Gli accordi senza prece­
denti per i romanzi horror di King - nel 1993 pare per quasi
quaranta milioni di dollari - possono benissimo aver convinto
alcuni dirigenti di case editrici che la narrativa orrorifica spinta
avesse lo stesso tipo di valore speculativo di un appartamento
a New York. Non era forse un caso che 300.000 dollari alla
fine degli anni Ottanta fosse più o meno il prezzo per un vero
e proprio tugurio di Manahattan.
Sia Stephen King sia Bret Easton Ellis descrivono mondi
di orrore consumistico. King opera così in senso letterale e
narrativo. L’uso di nomi commerciali di marche e di altri riferi­
menti ai media è uno dei suoi tic narrativi più riconoscibili; lui
stesso è una firma. Anche se la sua invocazione ossessiva di
marchi registrati può ben essere pigrizia nella scrittura, illustra
l’importanza di pubblicità e televisione come forme primarie
di collante sociale alla fine del XX secolo, l’ultimo genere di
esperienza condivisa da milioni, poiché il centro commerciale
e il cavo televisivo hanno sostituito forme più tradizionali di
aggregazione e contatto umani. King sospende i propri lettori
sopra gli abissi più oscuri, lasciandoli aggrappati alle ancore
dei media per sicurezza e comodità: Coca-Cola, lo spettacolo
Today, Dristan, Rolaids, Kaopectate, Preparazione H, Midol,
«Time», H & R Block, Sony, Kodak, Family Feud, Datsun,
Ford, le sigarette Camel, British Airways e Sesame Street sono
solo esempi a caso del vezzo kinghiano di far cadere nomi,
com’è evidente in It, che contiene anche quasi tre pagine di
permessi e riconoscimenti per i testi di canzoni popolari citate
nel testo. E quando la lista delle spesa è ormai piena, l’ansia
quasi placata dalla familiarità e dal consumo, che Stephen
King inevitabilmente introduce l’ultimissimo shock o mostro.
American Psycho, d’altra parte, usa le etichette e le firme
per sopraffare e rendere indifferenti. Ellis, o il suo editore,
hanno aggiunto un’avvertenza a mo’ di esergo: «Questa è
un’opera di fantasia. Tutti i personaggi, eventi, e dialoghi, fatta
eccezione per riferimenti incidentali a figure pubbliche, pro­
dotti o esercizi, sono immaginari, e non intendono riferirsi ad
alcuna persona vivente né diffamare i marchi o i servizi di

336
The Monger Shme

alcun<compagnia». 1 prodotti sono tutti di lusso: Giorgio Ar­


mani, Christian Dior, Bergdorfs; anche se nella pagina di
apertura Ellis descrive un ristorante McDonald’s con il muro
scritto di graffito rosso: PAURA. Benché spesso pasticci sui
propri effetti, Ellis talvolta rende sconvolgente ed efficace la
transizione dal banale consumismo all’altrettanto banale vio­
lenza.
Non vi è nulla in American Psycho in termini di violenza
esplicita e degradante che non fosse già apparso in diversi libri
degli anni Ottanta. Lo splatter-punk si era ormai consolidato
come una succursale dell’editoria horror, abbracciando con di­
sinvoltura una schiera di scrittori dal successo di Clive Barker
a esordienti in tascabile ansiosi di cavalcare l’onda. Descrizioni
esasperate di omicidi seriali si insinuarono anche nel campo
dei gialli, soprattutto nei romanzi noir psicosessuali di James
Ellroy - Dalia nera (1987), Il grande nulla (1988) - che spesso
raggiunsero il mega-Guignol nelle loro illustrazioni di sviscera­
menti realistici.
Nessuno di questi figurò nel circo mediatico montato in­
torno ad American Psycho per un’unica ragione. Simon &
Schuster e Knopf non erano editori di genere. Per le sensibilità
offese, era concepibile che classi lavoratrici grufolassero intor­
no a libri come Slob (1987) di Rex Miller, perché queste classi
non contavano. American Psycho era un Now aprite quella porta
patinato e placcato oro, il tipo più puro di collisione culturale.
Benché l’incidente nel suo complesso venisse discusso all’infì-
nito in termini di gusto, misoginia e correttezza politica, pre­
dominava un sottotesto di snobismo di classe. La spaventosa
progenie di Stephen King poteva passarla liscia, o sotto silen­
zio, finché si manteneva nei quartieri generali contadini di
Brooklyn o del New Jersey, ma fateli braccare il sangue su per
le scale del castello di Manhattan, e scoppierà un inferno.

Tanto Bret Easton Ellis quanto Stephen King dipingono,


da prospettive antitetiche, lo spettacolo mostruoso di un con­
sumatore consumato. Il mondo ellisiano di etichette firmate
grondanti sangue nobilita vistosamente i voraci zombi da iper­
mercato di Zombi-, continuano negli acquisti fino a cadere,
Dut'iil J. Sitai

mangiarti il cervello, poi riprendere a far compere. Entrambi


gli scrittori sono ossessivamente preoccupati da rituali di ini­
ziazione e identificazione di classe. I libri di King, facilmente
disponibili sugli espositori del supermercato, forgiano un lega­
me tra spese, appartenenze, e l’orrore definitivo di non saper
fare altrimenti.
Nell’America di Stephen King, non c’è nulla che non pos­
sa essere assimilato con profitto e aggressivamente sfruttato,
quando persino un mattatoio può essere ristrutturato in una
tenuta stile Disneyland. Le sensibilità apparentemente diver­
genti di King cd Ellis si incontrano idealmente a Orlando, in
Florida, dove è stata installata una «sonorizzazione Psycho»
come attrazione per famiglie, consentendo agli americani in
libera uscita l’opportunità di partecipare indirettamente al fa­
moso omicidio sotto la doccia. Bisogna tenere a mente che
quella scena prevedeva un mostruso doppio mascherato e una
cerimonia di rinascita violentemente interrotta. Marion Crane
(Janet Leigh), che ha rubato impulsivamente 40.000 dollari per
poi fuggire, decide di restituire il denaro e ritornare alla socie­
tà. La doccia è il simbolo transizionale della sua purificazione,
del suo reinserimento nel contratto sociale. Il suo omicidio,
come il tradimento di Carrie al ballo, divennero un’immagine
potente del crollo dei contratti sociali e delle relazioni umane
fondamentali: Marion Crane, come noi, pretende promozione
e sicurezza. Commette un errore, ma segue le regole e cerca
il perdono-accettazione, solo per ritrovare la trasformazione
purificatoria mutata in sanguinolento sacrifìcio. Non c’è un
Dio, così pare; almeno non un Dio giusto. La sconvolgente
scena divenne una delle immagini più importanti nella storia
del cinema e con buone ragioni: minava ogni aspettativa e for­
mula, proprio come gli stessi anni Sessanta facevano a quasi
ogni livello sociale, politico e artistico. Psycho è una pietra mi­
liare dell’horror moderno, poiché articola il timore di persone
ordinarie che si sentono intrappolate e immobilizzate in un
mondo altrimenti pieno di rapidi cambiamenti. Il ritmo di tra­
sformazione economica e tecnologica finì per accelerare negli
anni seguenti; Psycho si rifiutava ostinatamente di dileguarsi. H
film era passato e ripassato attraverso i frullatori della cultura

338
The Momtcr Show

popolare, imitato, pieno di seguiti, parodiato, analizzato,


smontato... c infine finito in Florida come inoffensiva attrazio­
ne turistica. Se la vostra famiglia fa fatica ad assimilarsi ai ridi­
mensionati anni Novanta, portate i bambini a Orlando, dove
possono letteralmente infliggere una coltellata al momento
onirico più destabilizzante dei tempi moderni.
Con un procedimento analogo, Stephen King disarma mo­
stri e addomestica orrori. Si potrebbe dire che non si limita a
minare la cultura popolare; sotto diversi aspetti è cultura po­
polare. Come i livelli di ansia per la crisi missilistica cubana
furono eclissati dall’angoscia quotidiana, le immagini mostruo­
se di King sono diventate punti di riferimento rassicuranti per
milioni di persone; proprio come Monster Mash aveva fornito
una necessaria zona-cuscinetto tra il rifugio antiatomico e la
tomba. Con la fine della Guerra Fredda, le bombe-minaccia
sono più economiche di quelle atomiche, ma il nodo allo sto­
maco resta; la danza di morte è ora una danza di scorte (limita­
te), l’horror meno una questione di rigor mortis di altre forme
di paralisi. Il romanzo di King II gioco di Gerald illustra la lotta
con l’immobilità individuale nel modo più letterale possibile:
una donna che gioca a bondage col marito in una remota stan­
za resta ammanettata al letto quando lui improvvisamente
muore. L’horror, nell’America alla fine del XX secolo condi­
zionata dal deficit, è la realizzazione dell’impotenza a cambiare
le circostanze: meglio accontentarsi di ciò che si possiede già.

339
Mostri di fine millennio

A un nuovo mondo di dèi e mostri!


Ernest Thesiger in La moglie
di Frankenstein (1935)

L’America era morta di nuovo. L’ostinata linea piatta negli


indicatori economici alla fine del 1991 aveva convinto la mag­
gioranza degli abitanti che la salute fiscale della nazione era
seriamente compromessa. Certi economisti ritenevano la «re­
cessione» in atto (un eufemismo ufficiale coniato negli anni
Trenta per limitare l’uso dilagante della parola «depressione»)
una malattia a lungo termine sorprendentemente simile alla
catastrofica stagnazione decennale seguita al crollo della Borsa
nel 1929. A dir la verità, 1991 e 1931 condividevano analogie
impressionanti, specialmente nel regno della cultura popolare.
Per coniare una freddura in stile «Famous Monsters», se il
1931 era stato un Abisso americano, allora il suo seguito, il
1991, poteva essere definito a tutti gli effetti il Figlio dell’A-
bisso.
Nel 1991, il mondo dello spettacolo e quello delle comuni­
cazioni traboccavano di immagini morbose e terrorizzanti. La
morte popolava i titoli dei film, come in Dead Again (L'altro
delitto, 1991, di Kenneth Branagh), o in Dying Young (Scelta
d’amore - La storia di Hilary e Victor, 1991, di Joel Schuma­
*
cher). E, se la gente non si gettava più dalle finestre di Wall
Street, nella classifica di vendita era entrato un libro di istru­
zioni per un suicidio indolore.
Dracula e Frankenstein della Universal, in occasione del
loro sessantesimo anniversario, vennero restaurati per delle
proiezioni in tutto il Paese, come parte di una campagna pro-

* Letteralmente, i titoli dei due film suonano come «Due volte morto» e «Mo
rire giovani». (N.d.T.)

340
rhe Mon\/rr Shoir

moziQnak da cinque milioni c mezzo di dollari della birra Mil­


*
ler e di altri sponsor. I demoni che per milioni di americani
avevano dato un volto alla Depressione nel 1931 potevano ora
essere visti e uditi quasi nella loro condizione originale, e in
un analogo periodo di scompiglio. Se i vecchi mostri non for­
nivano più una catarsi, erano almeno un ricordo di quanto
duraturi possano essere gli effetti collaterali di una crisi sociale.
Il 1991 produsse mostri di fantasia con funzioni analoghe
alle creature di Dracula, Frankenstein, Il dottor Jekyll e Freaks.
Il serial killer cannibale dottor Hannibal Lecter (Anthony
Hopkins) nel film tratto da II silenzio degli innocenti di Tho­
mas Harris era un amalgama forte dei mostri della tradizione, e
catturò contagiosamente l’immaginario del pubblico. Hannibal
Lecter fu probabilmente la personalità (fittizia o meno) più
pubblicizzata e riconoscibile in America nel febbraio 1991; i
media passarono con grande entusiasmo dalla promozione di
Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991, di
Jonathan Demme) ai servizi su Jeffrey Dahmer, il cannibale/
assassino di Milwaukee, qualche mese dopo: l’evidente appeti­
to del pubblico per la carne umana fece sfumare le differenze
tra notizie e spettacolo. Un inviato della rete radiofonica ABC
per il processo Dahmer si chiamava Tony Perkins, come in un
omaggio a Psycho.
Come Dracula, Hannibal Lecter ha uno spiccato gusto per
il sangue umano; come Frankenstein, è uno scienziato brillante
ma folle; ha due personalità, come Jekyll e Hyde, una civilizza­
ta e l’altra selvaggia; e, come qualche superfenomeno da barac­
cone, viene trasportato ed esibito in diverse gabbie similzoo.
Lo stesso Silenzio degli innocenti forniva uno svago di tipo
fieristico, dove tutte le tradizionali componenti dello spettaco­
lo di mostri si riassemblavano come pezzi di uno specchio in­
franto. E questa volta i mostri ci assomigliavano.
Nel marzo del 1992 II silenzio degli innocenti fece man
bassa in tutte le principali categorie degli Oscar: miglior film,
regista, attrice (Jodie Foster), attore e adattamento cinemato­
grafico. Il protagonista, Anthony Hopkins, trattato quasi alla
stregua di un ospite d’onore per tutta la serata, in un flusso
inesauribile di battute sull’antropofagia lanciate al suo indiriz­

zi
David / Skal

zo, ricevette una tonante standing ovation alla cerimonia di


accettazione del premio per il ruolo cannibalesco. Ai fiocchi
rossi portati sui risvolti dell’abito da quasi tutti i presenti - un
simbolo di solidarietà con i malati di Aids - si sovrappose
bizzarramente un umorismo sanguinolento e irrefrenabile.
Un anno prima, all’uscita del film, una pubblicità che pre­
sentava la copertina di «Newsweek» del 25 marzo 1991 riem­
pita dagli occhi sgranati di Hannibal Lecter fu stampata pro­
prio a fianco di un articolo del «New York Times» sul cre­
scente pessimismo dei consumatori americani. Citando uno
studio appena uscito per la Grey Advertising, il giornale riferi­
va di una sensazione di vulnerabilità da parte dei consumatori
«a causa di problemi sui quali non hanno praticamente alcun
controllo», fra i quali la guerra del Golfo, l’Aids, l’inquina­
mento e l’aumento incessante di senzatetto. «D 75 per cento
degli intervistati si chiedevano se speranze e sogni per il futuro
si sarebbero mai avverati.»1
La guerra del Golfo ebbe diverse eco nel mondo dell’hor-
ror su carta stampata. Proprio come i fumetti E.C. erano stati
letti dai soldati in servizio in Corea, «Fangoria» accompagnò
diversi ragazzi americani al fronte, se le lettere ricevute dalla
rivista (compresa una su carta intestata «Operazione Tempesta
del Deserto») sono di qualche indicazione. «Essere dislocati
qui ha finito per favorire il ghiribizzo di guardare gli ultimi
film horror/splatter», scriveva un soldato scelto. «Fangoria»,
secondo lui, era «il miglior tipo di supporto che voi possiate
dare alle truppe di qui».2 Dopo la fine della guerra, un servi­
zio fotografico di agenzia - soppresso - su un soldato iracheno
carbonizzato nel portello di un carro armato fu riprodotto su
un manifesto di protesta contro l’intervento americano. U suo
macabro effetto fu forse smorzato dal fatto che si confondeva
con i tanti manifesti pubblicitari dei trucchi creati da Tom
Savini. Questo genere di immagini erano ormai un luogo co­
mune, persino banali. Il «New York Times» si mostrò distur­
bato dalla serie televisiva via cavo Racconti dalla cripta (Tales
from the Crypt) per motivi collegati alla guerra. Il critico televi­
sivo John J. O’Connor manifestò disagio vedendo che il pupaz­
zo scheletrico che presentava il programma, il Guardiano della

342
I hr Mc>n\frr Sbon*

Cripta, assomigliava un po’ troppo alla foto di un bambino


iracheno affamato. «L’orrore non si limita ai fumetti», scrive­
va O’Connor. «Gli incubi primari sono radicati nella realtà, e
l’accavallarsi di immagini può creare disorientamento.»3
Ovunque si sprigionava l’eterna fascinazione del pubblico
per i freaks. I talk-show televisivi avevano rimpiazzato durante
il giorno la tradizionale tenda del baraccone; i fenomeni, fìsici
o psicosessuali che fossero, diventavano attrazioni premiate
per programmi come Oprah, Geraldo e Donahue. (La stessa
Oprah Winfrey, con le sue altamente reclamizzate fluttuazioni
di peso, riusciva a incarnare contemporaneamente lo spirito
della donna cannone e dello scheletro umano.) Emerse almeno
un baraccone da fiera itinerante, suscitando sorpresa e disgu­
sto generale per un artista che si perforava il naso con chiodi
da ferrovia, un altro che si lacerava lo stomaco e beveva la
propria bile, e un altro ancora che si appendeva pesanti oggetti
a capezzoli, lingua e pene perforati.4 Considerate le radici fie­
ristiche dell’horror, non sorprende più di tanto che una delle
icone mostruose più popolari fra gli anni Ottanta e Novanta
sia « Pinhead » di Clive Barker, dalla serie di film Hellraiser (il
nome del personaggio evoca simultaneamente due immagini
da baraccone: il microcefalo classico e il freak fai-da-te che si
automutila piantandosi chiodi nella testa per attirare la folla).
Due immagini orrorifìche familiari si sovrapposero pesan­
temente nell’estate del 1991 con l’uscita di 'Terminator 2 - Il
giorno del giudizio {Terminator 2: Judgment Day) di James Ca­
meron, che, al costo ampiamente reclamizzato di 100 milioni
di dollari, costituiva il sogno rituale collettivo più costoso di
ogni tempo. Arnold Schwarzenegger riprese il proprio ruolo
di androide killer di Terminator {The Terminator, 1984, sem­
pre di Cameron), che lo aveva reso il ricettacolo culturale più
importante dell’energia di Frankenstein. Il «Terminator» di
Schwarzenegger era un rullo compressore meccanico nella tra­
dizionale scuola dell’uomo artificiale; il seguito lo contrappo­
neva a un nuovo tipo di mostro, un’entità plastica in costante
mutazione (Robert Patrick), che evocava i poteri proteiformi
di Dracula. H valzer fra parte destra e sinistra del cervello dei
Gemelli Oscuri aveva trovato un livello di espressione di una
Dtind I Skal

vividezza senza precedenti, e, come sempre, mantenne il pub­


blico mondiale in uno stato di stupefazione.
L’assenza di vita e il cannibalismo, due tormentoni dell’an­
no, furono di nuovo in bella mostra prima del giorno del Rin­
graziamento, quando una versione cinematografica della Fami­
glia Addams (The Addams Family, di Barry Sonnenfeld) diven­
ne l’opzione preferita dal pubblico. Nei primi tre giorni di
distribuzione incassò 25 milioni di dollari, un record per un
fine settimana non festivo.5 Ecco una casa dove tutto era mor­
to o fuori posto. I bambini ricevono animali vivi in buste mar­
roni per il pranzo scolastico; la nonna tiene una copia della
Gray’s Anatomy vicino al libro di ricette. I genitori sono necro-
fili. Le dislocazioni in senso macabro evidentemente colpirono
un nervo sensibile del pubblico americano nel peggior anno
dai tempi della Grande Depressione. Brandon Tartikoff, presi­
dente della Paramount Pictures, fornì la propria reazione istin­
tiva. «Per la parte adulta del pubblico si tratta di nostalgia
camp. I bambini, che non conoscono i fumetti del “New Yor­
ker” o la serie televisiva, vedono una famiglia molto bizzarra e
spettrale, l’origine della famiglia disfunzionale. Sono tempi
strani, c questa è strana gente.»6
Non è solo la gente a essere bizzarra. Anche i nostri dèi
de facto, gli esseri con cui ci accoppiamo di fronte agli altari
videocasalinghi, e ai quali facciamo offerte nelle mutisale, sono
insoliti: immagini funebri come mai viste. «I film horror sono
rituali di venerazione pagana», scrive Camille Paglia. «Qui
l’uomo occidentale si confronta con ciò che il cristianesimo
non è mai stato in grado di seppellire o liquidare... Il film
horror usa come materia prima il marcio, parte del segreto
desiderio di verità dionisiache del cattolicesimo occidentale. »7
Per quanto siano sfuggenti, i mostri riescono anche a rinvigori­
re i valori cattolici. Leonard Wolf, che ha scritto spesso e in
maniera convincente su temi orrorifìci, osservava durante uno
dei cicli di mostri degli anni Settanta:

Il cinema dell’orrore fornisce al suo pubblico in prevalenza


laico l’ultima - forse l’unica - opportunità di sperimentare il
mistero e il miracolo... Le grandi frenesie di caos, creazione,

^44
The M<w\trr Shtur

disobbedienza, disastro, solitudine e male, rese vaghe o blan­


de negli offici ben pasciuti della Chiesa c della Sinagoga negli
anni Settanta, vengono restituite alle terrificanti proporzioni
originarie nella luce sfumata dei cinema. I sacerdoti del cine­
ma horror recitano ancora incantesimi importanti.8

Una buona parte di questo libro ha illustrato l’ombra lun­


ga della guerra riflessa e trasformata nei rituali di ansia di mas­
sa che chiamiamo film di mostri. Le guerre non tendono a
risolversi culturalmente se non anni dopo l’effettivo cessate il
fuoco. Lo stesso si può dire di depressioni economiche, epide­
mie mortali, cacce alle streghe politiche: i traumi possono aleg­
giare per decenni. La prima guerra mondiale trovò un’espres­
sione simbolica duratura nell’industria orrorifìca, una tendenza
mai veramente risolta, e fu sostituita solo dai simboli provocati
dalla seconda guerra mondiale. Gli anni Novanta dell’America
sono ancora sotto il sortilegio del Vietnam anni Settanta; resta,
è la convinzione in molti ambienti, che questa guerra non si
è mai veramente risolta, né nel mondo, né nelle menti degli
americani.
I mostri-spettri della guerra del Vietnam fornirono una
risata nervosa nella commedia orrorifìca Chi è sepolto in quella
casa? {House, 1985, di Steve Miner), in cui uno scrittore alla
Stephen King viene braccato da una vittima della guerra in
decomposizione, completo di elmetto; ma si è dovuto aspettare
il notevole Allucinazione perversa {Jacob’s Ladder, 1990, di
Adrian Lyne) perché l’horror e il Vietnam si mescolassero in
maniera intelligente e visionaria. Jacob (Tim Robbins) ritorna
dal Vietnam ignaro di essere già morto. La New York in cui
vive si popola sempre più di demoni, ricolma di mostruosità
quasi subliminali, finché Jacob non giunge all’accettazione fi­
nale del proprio destino. Nella sua postfazione alla sceneggia­
tura pubblicata, l’autore Bruce Joel Rubin snocciola le sorgenti
dell’ispirazione per le visioni metafisiche e disturbanti, com­
prese le deformità da talidomide e i dipinti di Francis Bacon.9
Umanizzando consapevolmente i cliché cinematografici sui
mostri, Allucinazione perversa evita spiazzamenti e repressioni
comuni al genere, consentendo al pubblico una genuina, so­
Ddl'iJ Ì Skill

spesa catarsi, un contrasto marcato con il catharsis interruptus


della maggioranza dei film orrorifici. Francis Ford Coppola,
che iniziò la carriera registica con l’horror Terrore alla tredice­
sima ora (Dementia 13, 1963), ritornò in grande stile alle pro­
prie radici con Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula,
1992), dove illustrava per la prima volta le origini del vampiro
come folle signore della guerra: un riconoscimento dell’origine
dell’horror come conflitto umano primario. Poiché il genere
attrae sempre più talenti del cinema commerciale - la tendenza
sembra inevitabile - ci si potrebbe aspettare di vedere sempre
di più dissiparsi dalla superficie spettrale dello specchio le tra­
dizionali ragnatele, svelando con una chiarezza senza prece­
denti la nostra posizione rispetto alle più intime e profonde
paure.

Le circostanze che circondarono nel 1931 la creazione del­


le icone mostruose hollywoodiane più durature sono adesso al
limite estremo della memoria umana, e questo potrebbe essere
uno degli ultimi libri a dare una voce personale e aneddotica
alla loro genesi. Le interviste si sono rivelate difficili; attori,
produttori e registi ancora viventi spesso erano riluttanti a par­
lare. Johnny Eck, il «mezzo ragazzo» di Breaks, diventò un
recluso nella sua casa nel centro di Baltimora dopo essere stato
selvaggiamente picchiato da intrusi al’inizio degli Ottanta; si
dice che uno dei ladri lo abbia immobilizzato sedendocisi so­
pra come su un cuscino mentre il suo complice saccheggiava
la casa. «Se ho voglia di vedere dei freaks, mi basta guardare
fuori dalla finestra», disse Eck a Forrest J. Ackerman, già di­
rettore di «Famous Monsters». Morì all’inizio del 1991.
Angelo Rossitto, l’esuberante nano che passò la coppa del­
l’amore a Olga Baclanova durante la festa nuziale di Breaks,
incontrò l’autore nella casa di riposo hollywoodiana dove tra­
scorse i suoi ultimi giorni. A un primo sguardo pareva una
figura altamente teatrale nella stanza dipinta a colori brillanti
- una classica immagine alla Diane Arbus, appoggiato a un
bastone da passeggio e con occhiali da sole esageratamente
grandi. A uno sguardo più accurato l’aura hollywoodiana
scomparve; Angelo Rossitto era invalido e cieco. Evidentemen-
rhr MoH\/rr Show

tc depresso, decise di non parlare della sua carriera, tantomeno


di Tod Browning e Freaks. «Non desidero alcuna pubblicità»,
disse. «Con un aspetto come il mio, mi basta camminare per
la strada. » Pochi mesi dopo, le riviste specializzate conteneva­
no la notizia della sua morte.
Risalendo la costa, l’autore trovò risposte più favorevoli e
alcune intuizioni decisive. «Sembra davvero tutto un incante­
simo», disse David Manners, alla vigilia del suo novantunesi-
mo compleanno. L’ex attore sembrava di almeno vent’anni più
giovane, come se avesse invertito il tempo o, nel caso peggiore,
l’avesse tenuto ben stretto. Nella sua accogliente camera in un
pensionato californiano sulla costa, offrì al visitatore un vaso
pieno di Hershey’s Kisses. Attraverso la finestra non fluivano
demoni da distruggere, ma la luce del sole. Non vi poteva più
essere un tramonto cancellato dall’espressionismo claustrofo-
bico di The Black Cat, film in cui aveva recitato quasi ses­
santanni prima. La conversazione si rivolse alla guerra, ai col­
lassi economici, al crollo dello stato sociale, all’Aids, e infine
di nuovo ai film dell’orrore. «Ricevo ancora lettere di persone
da ogni parte del mondo. Si rivolgono a me come se fossi
davvero un personaggio di Dracula o La mummia e non un
attore di nome David Manners. » A una domanda sui suoi ri­
cordi della prima guerra mondiale in rapporto all’argomento
di questo libro, confessò di aver tentato di arruolarsi, ma di
essere stato scartato. «Sembravo sempre più giovane della mia
età», diceva. «Ero in fila con tutti quegli uomini nudi, e un
sottufficiale mi si avvicinò dicendomi: “Torna a casa, figliolo,
noi non prendiamo marmocchi”. Tornato a casa, mi gettai sul
letto e piansi di tutto cuore.» Da attore hollywoodiano con
guadagni da 100.000 dollari all’anno nei primi anni Trenta, si
accorse appena della Depressione. Nella seconda guerra mon­
diale fu di nuovo scartato dall’esercito, questa volta a causa
dei piedi piatti.
Scampati gli orrori bellici e il timore di un cataclisma eco­
nomico, è forse compensibile che David Manners non abbia
mai sviluppato un gusto o un interesse per i classici dell’orrore
in cui aveva recitato. Rise all’idea che i film di mostri «signifi­
cassero» qualcosa, e si sporse in avanti per impartire un bricio­
David J. Skal

lo d’informazione in più con la tranquilla autorità di un «figlio


del secolo» che le aveva viste tutte. Non proprio tutte, a dire
il vero.
«Senta un po’ questa», confessò all’improvviso, «non so­
no mai andato a vedere Dracula. »
L’ospite fu colto alla sprovvista. «Proprio mail»
«Mai! Per tutta la lavorazione mi resi conto che era una
schifezza, così non mi presi assolutamente la briga di vederlo.»
L’ospite abbozzò una replica, ma Manners sollevò una ma­
no autorevole. «Lo so cosa sta per dirmi, e la risposta è no!
Prima che lei me lo chieda - la prego! - non si offra di spedir­
mi una videocassetta. »
Rise di nuovo, offrendomi un’altra fetta di dolce. E questa
volta, pure l’ospite si mise a ridere.10
Postfazione all’edizione italiana
*

La prima edizione di The Monster Show risale al 1993, e da


allora i mostri non hanno smesso di affascinare il pubblico,
occupando nell’immaginario collettivo più spazio che in qual­
siasi altra epoca. Come i budget di Hollywood si sono gonfiati
a livelli record, così i mostri cinematografici si sono ingigantiti,
approfittando della quantità di nuove tecnologie disponibili
per portarli in vita.
Il talento quasi soprannaturale di Dracula e Frankenstein
nel risollevare le sorti declinanti dell’industria dello spettacolo
venne ampiamente dimostrato dai due film prodotti da Francis
Ford Coppola, Dracula di Bram Stoker (1992) e Frankenstein
di Mary Shelley {Mary Shelley’s Frankenstein, 1994), quest’ulti­
mo diretto da Kenneth Branagh. Coppola in pratica rilanciò la
propria carriera grazie al Dracula e, come in passato avevano
fatto Hamilton Deane, Horace Liveright, l’Universal e la Ham­
mer, imparò che i Gemelli Tenebrosi potevano essere alleati
economicamente prodigiosi.
Reduce da una serie di costosi flop, Coppola non chiedeva
di meglio che ripristinare la propria credibilità nel cinema
commerciale hollywoodiano producendo un film di successo
per un grande studio, senza ritardi né sforature nel budget.
Dracula fu di fatto un film redditizio anche se, a onta del titolo
e della pubblicità, capovolse la lettura tradizionale del roman­
zo di Stoker, presentando una «classica storia d’amore» al po­
sto dell’incubo originario. Lo sceneggiatore James V. Hart so­
stituì l’insaziabile mostro di Stoker con un revenant malato
d’amore alla ricerca della reincarnazione della sua bella del
XIV secolo, giustificando così il titolo di lavorazione della sce­
neggiatura, che suonava: Dracula: la storia mai raccontata. Di
ctìftó mai raccontata da Bram Stoker. Questa chiave romantica

349
David ì Skal

era già stata usata in La Mummia (1932), riesumata in un serial


televisivo horror, Dark Shadows, alla fine degli anni Sessanta,
e ripresa dallo sceneggiatore Richard Matheson per un telefilm
del 1973, anch’esso intitolato Bram Stoker's Dracula, interpre­
tato da Jack Palance.
La Columbia Pictures fece fuoco e fiamme per lanciare il
film di Coppola, mettendo in moto la macchina di merchan­
dising più capillare prima di Jurassic Park. Quasi nessuno, in­
vece, prestò seriamente attenzione al contenuto; negli Usa, solo
«Newsweek» parlò di bluff, mettendo a confronto passaggi
del romanzo e della sceneggiatura per rivelare il cambio radi­
cale di tono.
Dracula di Bram Stoker deluse i fan del libro, che sperava­
no in un adattamento finalmente fedele. Il cast, per usare un
eufemismo, era insolito. A Gary Oldman, attore altrove eccel­
lente, mancava le physique du role-, Winona Ryder e Keanu
Reeves, come giovani innamorati, avevano ben poco di inglese;
e si potrebbe continuare. Il risultato più convincente venne
raggiunto sul piano visivo: i costumi da opera lirica di Eiko
Ishioka sono davvero sorprendenti; ma si tratta di un film,
appunto.
Una cosa comunque il film di Coppola l’ha dimostrata:
l’incredibile capacità di trasformazione delle icone dei mostri,
una caratteristica essenziale per la loro evoluzione e sopravvi­
venza. Coppola ha dato nuova linfa al mito mescolandovi ele­
menti di un’altra popolare fiaba gotica: quella della Bella e la
Bestia (che è alla base anche del Pantasma dell'opera e della
sua clamorosa reincarnazione nel musical di maggior successo
di tutti i tempi). La «tenebrosa giostra» che ho descritto nel­
l’introduzione continua a girare con sopra i nostri mostri pre­
feriti e dando loro le nuove forme di cui hanno bisogno per
affrontare il XXI secolo.
Mary Shelley's Frankenstein fu un adattamento meno am­
bizioso, e quindi più riuscito: anche se Robert De Niro, che
rivestì il mostro col suo carisma e l’inconfondibile stile di reci­
tazione, purtroppo introdusse una nota anacronistica. La scena
in cui il mostro strappa il cuore palpitante dal petto della fi­

350
The Monster Shote

danzata (1 lelcna Bonham Carter) di Frankenstein apre nuove


strade all’horror romantico.
Quando nel 1994 venne portato sullo schermo il romanzo
(datato 1977) di Anne Rice Interview with the Vampire, i retro­
scena avrebbero potuto ispirare un’opera buffa, o almeno un
ghiotto resoconto che è un peccato non sia stato scritto. I dirit­
ti cinematografici erano stati opzionali diversi anni prima, e
nomi come John Travolta, Jon Voight e persino Cher erano
stati associati alle varie fasi del progetto, che prevedeva ora un
film, ora una miniserie tv o addirittura un musical per Broad­
way. Quando il produttore David Geffen annunciò che il film
sarebbe stato diretto da Neil Jordan (il regista di La moglie del
soldato [The Crying Game, 1992] e In compagnia dei lupi [The
Company of Wolves, 1984], la Rice e i suoi fan tirarono un
sospiro di sollievo... finché Geffen fece sapere che nei panni
di Lestat si sarebbe calato un attore abituato a ben altri ruoli,
Tom Cruise.
La Rice, indignata, convocò i mass media per denunciare
anticipatamente produttore e attore, rei di rovinarle il libro. I
cinici hanno notato che mesi e mesi di polemiche non hanno
fatto altro che creare un’enorme pubblicità attorno al film e
alla sua autrice. Dopo un po’ lo sdegno della Rice smise di
fare notizia, ma la scrittrice tornò alla ribalta quando annunciò
di avere visto una videocassetta del film finito e di essersi inna­
morata di Tom Cruise e di tutti gli altri. La prima di Intervista
col vampiro avvenne nel novembre 1994, e il successo fu istan­
taneo; quanto alla felicità dell’adattamento, è un altro paio di
maniche.
Il lato positivo è che è un incubo sontuoso, pieno di se­
quenze a effetto e pugni nello stomaco, sicuramente uno dei
film di vampiri visivamente più complessi mai girati, e un ne­
cessario antidoto al frou-frou di Coppola. Peccato che i raffi­
nati giochi d’ombre del direttore della fotografia Philippe
Rousselot non siano stati apprezzati a dovere nella maggior
parte delle sale americane, dove è quasi universale l’odiosa
pratica di regolare il proiettore a tre quarti della luminosità
standard per risparmiare sulla bolletta. Lo scenografo Dante

351
Uill'hl I Mal

Ferretti realizzò alcune visioni stupefacenti, come il Theatre


des Vampires parigino con le sue catacombe fitte di avelli.
Tuttavia ai protagonisti Tom Cruise e Brad Pitt, per quan­
to fisicamente all’altezza delle loro parti, mancava la voce im­
postata e la recitazione stilizzata indispensabili per un film in
costume; tanto più grave, visto che Pitt è anche il narratore.
(A metà proiezione mi resi conto quanto il film sarebbe miglio­
rato una volta doppiato in francese.) La dodicenne Kirsten
Dunst, nella parte dalla vampira Claudia, azzeccò invece il to­
no da bambola macabra in un ruolo che molti temevano
sarebbe andato a un’attrice più adulta, per evitare allusioni
pedofile.
Molti fan della Rice erano preoccupati che sarebbe stata
lasciata da parte l’implicita allegoria omosessuale del libro, per
non offendere il grosso pubblico o per i pregiudizi di Tom
Cruise. Ma alla fine Cruise non ebbe paura di rivolgere sguardi
di desiderio al bellone Pitt attraverso cortine vaporose, e di
consumare il loro legame di sangue con una specie di orgasmo
vampiresco. Solo spettatori con le fette di salame sugli occhi
non avrebbero potuto capire che cosa implicassero tutte le sto­
rie sul patto di sangue tra maschi e i contatti orali.
Nel 1997 il centenario del Dracula di Bram Stoker è stato
celebrato in Europa e negli Usa con ogni genere di conferenze,
libri e mostre. Il Museum of Modem Art ha presentato un’e­
saustiva rassegna di Dracula al cinema. Al Rosenbach Museum
and Library di Philadelphia sono stati esposti per la prima
volta gli autografi e le note di lavorazione di Stoker. A Los
Angeles centinaia di professori, fan dell’horror e feticisti del
sangue si sono riuniti in un convegno intitolato « Dracula ’97 ».
Nina Auerbach, una delle maggiori studiose del vampiro tran­
silvano, si è espressa con toni ammonitori:

Oggi non celebriamo solo feste di compleanno per Dracula,


ma gli abbiamo dedicato più siti Internet che a qualunque
altro mostro. H vampiro appartiene non solo all’America, ma
al XX secolo, una delle epoche più retrograde e tragiche a
memoria d’uomo. Questa creatura senza vita non è vittoria­
na... appartiene a noi, poiché conosce solo dominio e sangue.

352
The Mon xter Show

Noh c c dubbio che vivrà in eterno, come ha promesso; ma


mentre celebriamo il suo anniversario, nel declinare del XX
secolo, dovremmo fermarci per brindare, per quanto vana­
mente, alla sua morte.1

La longevità di Dracula è stata celebrata anche dalla sua


comparsa su francobolli inglesi e statunitensi. Quello america­
no (con Bela Lugosi nel film del 1931) faceva parte di una
serie di cinque, che comprendeva Boris Karloff nei panni del
mostro di Frankenstein e della Mummia, Lon Chaney Sr. come
Fantasma delTOpera e Lon Chaney Jr. come Uomo lupo. I
francobolli furono il risultato di un’intensa campagna degli
eredi degli attori, che inondarono il ministero delle Poste di
petizioni e di firme; alla fine anche il governo riconobbe che i
mostri facevano parte della cultura.
Un altro sintomo dell’interesse del pubblico per i mostri e
l’horror è stato la straordinaria, crescente popolarità di Hallo­
ween come festa americana: una specie di versione laica e desa­
cralizzata del Giorno dei morti messicano. Attualmente negli
Stati Uniti l’industria multimiliardaria dei gadget per Hallo­
ween occupa gli interi mesi di settembre e ottobre. Di recente,
in località diverse come Brooklyn e la San Fernando Valley
in California, è nata una nuova tradizione popolare, dove si
decorano le facciate delle case con complesse figure animate
ed effetti luminosi da luna-park. Forse è un modo per esorciz­
zare le ansie di morte sotterranee nell’era del cieco consumi­
smo. Il regista Tim Burton ha catturato le energie bizzarre e
tra loro collegate delle due principali feste americane nel film
d’animazione Tim Burton's Nightmare Before Christmas (id.,
1993), diretto da Henry Selick.
«Immagino che abbiano la stessa funzione delle favole e
delle leggende», mi ha detto Burton di recente. «Il concetto
di fiaba ha perso il suo significato nella società moderna. La
gente pensa che sia roba da bambini, anche se di fatto è simbo­
lo e metafora con cui venire a capo delle cose astratte fuori
dal nostro controllo. Come la vita e la morte. L’horror ci aiuta
a fare i conti con loro.»2
Come ho cercato di dimostrare nel mio libro, tali interro-

353
uavw j.

gativi sulla vita e la morte spesso afiondano le radici nelle guer­


re e negli sconvolgimenti che ne seguono. Caligari, Nosfcratu,
il mostro di Frankenstein, l’Uomo lupo, gli insetti giganti ra­
dioattivi degli anni Cinquanta possono dirsi figli, in un modo
o nell’altro, del trauma della guerra. Non è sorprendente che,
mentre la Guerra Fredda si spegneva, siano sorti nuovi tipi di
«guerre» e, con loro, nuovi tipi di mostri. Come ha commen­
tato di recente Betty Friedman, esponente del femminismo
americano storico, agli inizi AéWaffaire Clinton-Lewinsky,
«per un po’ di tempo ho pensato che il sesso avrebbe sostitui­
to la Guerra Fredda».3
Il significato dei mostri varia a seconda delle epoche, ma
quelli americani di fine millennio sono profondamente radicati
nell’immaginario collettivo ed evocano insistentemente la ses­
sualità, specie se non ortodossa. Harry M. Benshoff, autore del
provocatorio saggio Monsters in the Closet, scrive che alcuni
gruppi di fondamentalisti cristiani si sono spinti al punto di
sostituire i mostri con gli omosessuali in affollate celebrazioni
di Halloween. «Nel tentativo di usare lo spavento per indiriz­
zare i teenager all’ortodossia eterosessuale, il tradizionale tour
delle case infestate è stato riscritto in chiave di propaganda
anti-gay. Invece di mostrare vampiri e licantropi, le “case male­
dette” usano effetti mostruosi per rappresentare gli orrori del­
l’omosessualità e dell’Aids.»4
Clive Barker, scrittore e regista horror e gay dichiarato, ha
notato che gli omosessuali sono ancora trattati «come mostri,
perenni emarginati, coloro che esistono ai margini della rispet­
tabilità. Allo stesso tempo siamo curiosamente attraenti perché
rappresentiamo il tabù, il proibito, quello che loro non posso­
no fare. Spesso si tratta di cose socialmente inaccettabili, estre­
mamente sessuali, come mordere l’orecchio a qualcuno; o mol­
to affascinanti, come vincere la morte e trasformare il proprio
corpo».5 Per Barker la mentalità conservatrice mette la capaci­
tà metamorfica dei vampiri e dei mostri sullo stesso piano della
semplice audacia di gay e lesbiche nello sfidare i ruoli sociali
prestabiliti.
Il fatto che nell’estate 1998 Godzilla non ce l’abbia fatta a
diventare il blockbuster che i suoi produttori speravano, può

354
Thr Mon\trr Show

essere la dimostrazione di una regola: per essere davvero popo­


lare, un mostro deve avere qualche immediato richiamo ses­
suale o sociale. Probabilmente è stata una follia creare un
«nuovo» Godzilla: dopo oltre quattro decenni, il lucertolone
giapponese è diventato un’amata icona culturale. Allo stesso
modo sarebbe un’impresa sciagurata cercare di creare un
«nuovo» Topolino. Mentre i sociologi degli anni Cinquanta
lessero nel film originale una metafora della proliferazione del
nucleare, alcuni spettatori del nuovo Godzilla vi hanno trovato
un simbolo su misura per le multinazionali impazzite, dotate
di un appetito per le acquisizioni su scala planetaria. Lewis H.
Lapham, editor di «Harper’s», ha colto il segno quando ha
scritto:

Certo, la Guerra Fredda è finita; e certo, la deregulation del­


l’economia globale ha riversato sula massa dei consumatori
un mucchio di bonus; ma il nuovo ordine economico mondia­
le ha anche generato una covata di mostri che si alzano come
Godzilla da un mare di debiti. E come fa una compagnia
a restare in corsa, e soprattutto ad affrontare quella che i
pubblicitari chiamano una «presenza globale», se non tra­
sformandosi in uno di quei mostri giganti, meccanici e onni­
vori, che sferragliano in uno dei film della serie Guerre stel­
lari? 6

Negli Usa Godzilla ha ottenuto recensioni sfavorevoli e gli


incassi sono precipitati dopo la prima settimana di program­
mazione. Il pubblico ha sentito nostalgia per la familiare lucer-
tolona sputafuoco. Quella nuova non aveva personalità, e il
film era quasi senza trama. Steve Biodrowski, editor di «Cine-
fantastique», si era augurato che l’attacco di Godzilla a New
York diventasse la nemesi di quella cultura che aveva creato
la bomba atomica e, indirettamente, il mostro stesso. Ma così
non è stato. Per citare le sue parole:

Il fatto di avere scansato il tema del nucleare è imperdonabile.


Tanto ci piacerebbe considerare la proliferazione degli arma­
menti come una reliquia del passato, e tanto continua a mi­
nacciarci (vedi i test antagonisti tra India e Pakistan durante

355
David J. Weal

la settimana della prima del film). Godzilla ’98 era una buona
occasione per parlarne. Quali che siano le carenze estetiche
del film, è la vigliaccheria il suo peggior difetto.7

Alla fine del 1998, l’industria dei mostri continua a tende­


re al rialzo. Uno dei programmi televisivi di maggior successo
negli Usa è Buffy the Vampire Slayer (Buffy I’ammazzavampiri),
con un campionario sempre nuovo di mostri immortali e pro­
teiformi. La Twentieth Century-Fox ha annunciato la produ­
zione di un musical d’animazione dedicato a Dracula; la Uni­
versal ha replicato svelando il progetto per un Frankenstein
realizzato completamente con la computer grafica. I classici
originali della Universal sono stati distribuiti in concomitanza
con un documentario, Universal Horror, prodotto dall’illustre
storico del cinema Kevin Brownlow. Migliaia di spettatori han­
no riempito l’Universal Amphitheater per una proiezione spe­
ciale della versione del Fantasma dell’Opera con Lon Chaney,
meticolosamente restaurata da Brownlow, accompagnata da
un’orchestra di sessanta musicisti.
Forse il film sui mostri più significativo del decennio non
è stato un horror tradizionale, ma la pacata ricostruzione degli
ultimi giorni di vita di uno dei pionieri più importanti di que­
sto genere. Il regista di Frankenstein, James Whale, è stato
fatto risorgere, per così dire, nel film Gods and Monsters
(1998) scritto e diretto da Bill Condon, che immagina gli even­
ti che portarono al suicidio di Whale nel 1957. Basato sul ro­
manzo Father of Frankenstein (1994) di Christopher Bram, il
film è interpretato da uno Ian McKellen in stato di grazia.
Gods and Monsters si può considerare una pietra miliare, in
quanto è il primo film non di genere a stabilire una connessio­
ne esplicita tra gli orrori della guerra e l’industria dell’horror.
Condon giustappone senza forzature i campi di battaglia della
prima guerra mondiale con i paesaggi disseccati dei film di
Frankenstein, esplorando inoltre l’omosessualità di Whale co­
me una metafora dei mostri e degli emarginati che popolano i
suoi film. Per farla breve, un film piccolo e intimista come
Gods and Monsters ci dice sull’origine delle icone horror più
di quanto avrebbero potuto fare una decina di tronfi remake

356
Thr Momtrr Shtnr

di Godzilla. Dopo una delle scene più drammatiche del film,


in cui uno smarrito James Whale ritrova Boris Karloff ed Elsa
Lanchester, e immagini della Moglie di Frankenstein si mesco­
lano con i suoi ricordi delle autentiche atrocità della guerra,
Whale decide di non rispondere più a domande sugli horror
di Hollywood. «Gli unici mostri», dice toccandosi la fronte
stancamente, «sono qui.»

* (Traduzione di Alberto Pezzetta)

357
Ringraziamenti

È decisamente azzeccato che il compito di fare le ricerche e


scrivere un libro intitolato The Monster Show sia in sé un inca­
rico mostruoso, impossibile da portare a termine senza l’aiuto
e l’incoraggiamento di numerose istituzioni e individui. Vorrei
ringraziare in special modo la mia editor alla Norton, Hilary
Hinzmann, i cui perspicaci commenti e consigli mi hanno aiu­
tato ad allargare gli orizzonti del libro ben oltre le intenzioni
originarie. La mia agente, Malaga Baldi, ha appoggiato instan­
cabilmente il progetto fin dall’inizio, e lo storico e restauratore
cinematografico Scott MacQueen è stato una risorsa quasi ine­
sauribile per le mie domande infinite e spesso estremamente
oscure.
Fra le collezioni di ricerca consultate spiccano le diverse
sezioni della New York Public Library, in special modo la
Billy Rose Theatre Collection del Lincoln Center; la Margaret
Herrick Library dell’Academy of Motion Pictures Arts and
Sciences; la Library of Congress; 1’Harvard Theatre Collection;
la Free Library della Philadelphia Theatre Collection; il Thea­
tre Museum; il Circus World Museum; 1’Oakland Public Li­
brary; la San Francisco Public Library; la British Library Divi­
sion of Manuscripts; e il British Film Institute.
La ricostruzione dei tentativi di Horace Liveright per pro­
durre Frankenstein come lavoro teatrale e cinematografico non
sarebbe stata portata a termine senza la cooperazione degli
eredi di John L. Balderston e Hamilton Deane in apertura
delle trattative per la mia ricerca. Un ringraziamento speciale
va a John Balderston e Ann e John Burton, così come ai loro
agenti, Robert Freedman a New York e Laurence Fitch a Lon­
dra. Ivan Butler, ultimo membro superstite della compagnia
di Hamilton Deane, ha fornito ricostruzioni incomparabili per

359
Dat'iil I Skill

lettera, telefono, e infine in una deliziosa intervista a casa sua


fuori Londra. Bernard Davies e Robert James Leake della Dra­
cula Society mi hanno cortesemente aperto le porte della loro
collezione di fotografie e documenti. Bret Wood ed Elias Sava-
da si sono rivelati generosissimi condividendo con me la docu­
mentazione preparatoria alla loro biografìa di Tod Browning.
Come già fece per il mio libro precedente, Hollywood Gothic,
Ronald V. Borst ha spalancato la sua incomparabile collezione
di materiali visivi e stampati. Lo storico del cinema è stato
ugualmente cortese aiutandomi a individuare dati importanti
nella sua vasta collezione di copioni e rarità d’epoca. Con la
sua enciclopedica conoscenza di film del fantastico, lo scrittore
Tom Weaver ha trovato rapide risposte a diverse richieste
criptiche.
Ringraziamenti sono inoltre dovuti alle seguenti persone
per i loro diversi contributi, gentilezze, corrispondenza, sugge­
rimenti e interviste: Forrest J. Ackerman, Buddy Barnett, An­
ne-Marie Bates, Pat Wilks Battle, Barbara Belford, Richard
Bojarski, Patricia Bosworth, Edward Bryant, Jonathan Sinclair
Carey, Roz Celeiro, Samuel R. Crowl, Bob Damrocher, Joe
Dante, Mark Dery, Norine Dresser, Arlene Francis, John Gal­
lagher, George Greenfield, Ian Grey, Roger Hurlburt, Maria
Jochsberger, Lupita Tovar Kohner, David Manners, Samuel
Marx, Raymond McNally, Maila Nurmi, Paul Parla, Paul Pen-
ser, Richard Peterson, David Pickman, David Pierce, Heriber­
to Quinones, Jack Rems, Garydon Rhodes, Laura Ross, Angelo
Rossitto, Jay Sheckley, Sam Sherman, Stephen Speliotis, Abner
Stein, Daniel Talbot, Peter Thorpe, Anthony Timpone, Geor­
ge Turner, Ross Wetzeston, Octavia Wiseman, Scott Wolfman,
Jeanne Youngson e John Zacherle.
Le fonti fotografiche compaiono accanto alle illustrazioni;
le foto prive di fonte provengono dalla collezione dell’autore.
Ron e Howard Mandelbaum della Photofest hanno fornito
aiuto consistente nel rintracciare immagini di ardua reperibili­
tà, e l’operatore Donal F. Holway è stato instancabile nell’assi­
stenza e nei consigli da camera oscura. Il lavoro al laboratorio
commerciale è stato affrontato con accurata attenzione dalla
Galowitz Photographies, Inc. Arthur J. Walsh ha resuscitato

360
The Minuter Show

alcune immagini fragili e danneggiate che un restauratore me­


no capace avrebbe dichiarato irrecuperabili.
Un penultimo grazie è dovuto a Lisa Pliscou per il suo
sicuro e attento copyediting del manoscritto, con un ultimo e
grato riconoscimento a David Stanford della Penguin Usa e a
Sandra Wake della Plexus (inglese) per i loro sforzi per porta­
re The Monster Show al nuovo e vasto pubblico dei tascabili.

561
Note

U baraccone di Camelot

1. Patricia Bosworth, Diane Arbus, New York, Alfred A. Knopf


1984, p.162 (trad. it. Diane Arbus: una biografia, Milano, Serra e
Riva 1987).
2. Renee Tajima, Emile de Antonio, 1919-1989, «The Village Voi­
ce», 2 gennaio 1990.
3. Mitch Tuchman, Emile de Antonio: «All Filmakers Are Confi­
dence Men», «The Village Voice», 17 maggio 1976.
4. Patricia Bosworth, op. cit.
5. Ibid., p. 167.
6. Hilton Kramer, From Fashion to Freaks, «The New York Times
Magazine», 5 novembre 1972, p. 65.
7. Diane Arbus, didascalia per la foto di Jack Dracula, in «Harper’s
Bazaar», novembre 1961; testo ristampato nel volume retrospet­
tivo Diane Arbus: Magazine Work, Millerton (New York), Aper­
ture 1984, pp. 14-16.
8. Hilton Kramer, op. cit., p. 68.
9. Daniel Talbot, intervista dell’Autore, New York, novembre
1990.
10. Susan Sontag, On Photography, New York, Farrar, Straus & Gi­
roux 1977, p. 43 (trad. it. Sulla fotografia. Realtà e immagine
nella nostra società, Torino, Einaudi 1992).
11. Ibid., p. 44.
12. Ibid., pp. 40-41.
13. Patricia Bosworth, op. cit., p. 320.
14. Leslie A. Fiedler, Love and Death in the American Novel, edizio­
ne riveduta, New York, Stein and Day 1966, p. 29 (trad. it.
Amore e morte nel romanzo americano, a cura di C. Izzo, Milano,
Longanesi 1983).
15. Id., Freaks: Myths and Images of the Secret Self, New York, Si­
mon & Schuster 1978 (trad. it. Freaks, Milano, Garzanti 1981).

363
Note

L’America di Tod Browning

1. Tod Browning’s Varied Career, «Louisville Herald-Post», 27 feb­


braio 1921.
2. L’anno preciso della nascita di Tod Browning è fonte di confu­
sione. I materiali pubblicitari di studio solitamente indicano l’an­
no 1882, benché Browning ponesse il 1880 nella compilazione
di un certificato di nascita sostitutivo a Louisville (non esisteva
un originale). D 1880 pare credibile, ma secondo William S. Hart
Jr., amico di vecchia data del regista e parziale erede della sua
fortuna, Browning in realtà nacque nel 1874. «La data alternati­
va era pura opera dei p.r. per farlo apparire più giovane», pare
che abbia detto Hart, e lo ribadiva in almeno due diverse intervi­
ste, una con Alan Buster (trascritta alla Margaret Herrick Library
dell’Academy of Motion Pictures and Sciences di Beverly Hills
in California) e una con Elias Savada (trascrizione inedita).
3. Voce biografica di Duane A. Smith in Biographical Dictionary of
American Sports, a cura di David L. Porter, New York, Westport
(Connecticut)/Londra, Greenwood Press 1987, pp. 56-57.
4. «Louisville Herald-Post», art. cit.
5. Famous Mystery Pictures Are Work of Native Louisvillian, «Loui­
sville Herald-Post», 18 luglio 1928.
6. Richard Clemensen, Master of the Macabre, «Louisville Magazi­
ne», giugno 1977, p. 22.
7. Dexter W. Fellows e Andrew A. Freeman, This Way to the Big
Show: The Life of Dexter Fellows, New York, Viking 1936.
8. Irving Wallace, The Fabulous Showman: The Life and Times of
P.T. Barnum, New York, Knopf 1959, p. 289.
9. Leslie A. Fiedler, Love and Death in the American Novel, edizio­
ne riveduta, New York, Stein and Day 1966, p. 27 (trad. it.
Amore e morte nel romanzo americano, a cura di C. Izzo, Milano,
Longanesi 1983).
10. Peter Vemey, Here Comes the Circus, New York e Londra, Pad­
dington Press Ltd. 1978, p. 225.
11. Robert Bogdan, Freak Show: Presenting Human Oddities for
Amusements and Profit, Chicago e Londra, University of Chicago
Press 1988, p. 32.
12. Ibid., p. 35.
13. Per i commenti di Maksim Gor’kij del 1896 sul Cinématographe
Lumière, cfr. «New Theatre», marzo 1937, p. 11.
14. Alanna Nash, The Man Who Unearthed Count Dracula - Loui­

364
The Monstrr Shout

sville Runaway Tod Browning, «The Courier-Journal», Louisvil­


le, Kentucky, 2 aprile 1978.
15. The Personal Side of the Pictures, «Reel Life», 25 agosto 1914.
16. Film Stars in Auto Wreck; One Killed, Two Hurt, «San Francisco
Chronicle», 17 giugno 1915.
17. Investigating Ride to Death, «Los Angeles Times», 17 giugno
1915.

«Tu diventerai Caligari.» Mostri, millantatori e modernismo

1. Theater Stops German Film, «Los Angeles Examiner», 8 maggio


1921, p. 1.
2. Riot Over German Feature Picture; «Cabinet of Caligari» Egged
on Coast, «Variety», 13 maggio 1921.
3. Diverse fonti accreditano il titolo tedesco come Das Kabinett des
Dr. Caligari, benché la parola sia scritta Cabinet sia nei titoli di
testa sia nella pubblicità originale e sui manifesti. «Kabinett» è
la corretta grafìa tedesca, ma i produttori, per qualche oscura
ragione, usarono deliberatamente la forma franco-inglese della
parola.
4. Kenneth MacGowan, « "Dr. Caligari", Cubist Film, Brings up Pro­
blem of German Competition, ritaglio non identificato da un gior­
nale di New York, 12 marzo 1921.
5. Noted Art Critic Praises Recent Modernist Film, «Variety», 15
aprile 1921.
6. Cubism on the Screen, «The New York Times», 28 novembre
1920.
7. Movement Started to Bar German-Made Productions, «Exhibitors
Herald», 7 maggio 1921.
8. Selling the Picture to the Public: Cubist Art Posters for Goldwyn’s
"Dr. Caligari”, «Moving Picture World», 28 maggio 1921,
p. 399.
9. Per una dettagliata ricostruzione dei contributi di Mayer e Jano-
witz a Caligari, e la lavorazione del film, cfr. Siegfried Kracauer,
From Caligari to Hitler: A Psychological History of the German
Film, Princeton, Princeton University Press 1947, pp. 61-76
(trad. it. Cinema tedesco. Dal «Gabinetto del dottor Caligari» a
Hitler, Milano, Mondadori 1977).
10. S.S. Prawer, Caligari’s Children: The Film As Tale of Terror, Ox-
ford/New York/Toronto/Melbourne, Oxford University Press,

365
Note

pp. 168-169, cita un dattiloscritto della sceneggiatura di Caligari


dall’eredità dell’attore Werner Krauss che contiene le inquadra­
ture alternative. Prawer suggerisce che tale materiale smentisce
l’idea che Caligari fosse inteso dagli autori come parabola antiau­
toritaria. Considerata la versione della sceneggiatura definitiva,
citata da Siegfried Kracauer in Cinema tedesco, ha più senso che
entrambe le alterazioni siano bastardizzazioni ordinate dal pro­
duttore e le ultime sequenze al manicomio siano un compro­
messo.
11. Ibid., p. 67.
12. Per i particolari sul successo iniziale di Caligari in Germania, cfr.
Kristin Thompson, «Dr. Caligari at the Folies-Bergère», in The
Cabinet of Dr. Caligari: Texts, Contexts, Histories, a cura di Mike
Budd, New Brunswick e Londra, Rutgers University Press 1990,
p. 138.
13. Articolo non identificato, in un album di ritagli del 1921 per
la prima americana del Gabinetto del dottor Caligari, Billy Rose
Theatre Collection, New York Public Library at Lincoln Center.
14. Lotte H. Eisner, L’Ecran démoniaque. Les influences de Max
Reinhardt et de l’expressionisme, Le Terrain Vague, 1981 (trad,
it. Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’e­
spressionismo, Roma, Editori Riuniti 1983).
15. From Quasimodo to Scarlett O’Hara: A National Board of Review
Anthology 1920-1940, a cura di Stanley Hochman, New York,
Frederick Ungar Publishing Co. 1982, p. 13.
16. «Variety», 8 aprile 1921.
17. Edward Weitzel, «Cabinet ofDr. Caligari»: German Made Film
Is Novel Experiment in the "Weird That Will Create Great Diversi­
ty of Opinion, «Moving Picture World», 16 aprile 1921, p. 755.
18. Upton Sinclair, They Call Me Carpenter, Chicago, The Paine
Book Co. 1922, p. 2.
19. Ibid., p. 1.
20. Ibid., p. 2.
21. Ibid., p. 8.
22. Theater Stops German Film, «Los Angeles Examiner», 8 maggio
1921, p. 1.
23. Albert Lewin, recensione di Caligari, «Shadowland», 23 ottobre
1923, p. 46.
24. Ezra Pound, Paris Letter, «The Dial», febbraio 1923, p. 274.
25. Sidra Stich, Anxious Visions: Surrealist Art, Berkeley e New
York, University Art Museum e Belleville Press 1990, p. 30.

366
The Monster Show

26. Lotte 11. Eisner. Murnau, Berkeley e Los Angeles, University of


California Press 1973, p. 109.
27. Albin Grau, Vampires, «Biihne und Film», 21 (1921), ristampato
in M. Bouvier e J.-L. Leutrat, Nosferatu, Parigi, Cahiers du ciné-
ma/Gallimard 1981, traduzione francese di Jean-Charles Margot-
ton, pp. 17-20.
28. International Directory of Cinematographers, Set and Costume De­
signers in Film: Volume 9 (Hungary), a cura di Alfred Krautz,
Monaco, New York, Londra e Parigi, K. G. Saur 1989, p. 50.
29. Lotte H. Eisner, L'écran démoniaque, p. 9 [21].
30. André Gide, Diario 1928-1929, 27 febbraio 1928, Milano, Bom­
piani 1954.
31. Harold Clurman, All People Are Famous (Instead of an Autobio­
graphy), New York e Londra, Harcourt Brace Jovanovich 1974,
p. 28.
32. Aaron Copland e Vivian Perlis, Copland: 1900 through 1942,
New York, St. Martin’s/Marek 1984, p. 84.
33. Ibid.
34. Steve Warren, Surreal It Hurts: Pacific Film Archive Series Resto­
res the Social Context of Surrealism, «The East Bay Guardian»,
San Francisco, ottobre 1990.
35. Mel Gordon, Grand Guignol: Theatre of Fear and Terror, New
York, Amok Press 1988, p. 16.
36. Stabilire l’esatta capienza del Grand Guignol è problematico.
Mel Gordon, nel suo libro, cita 285 posti a sedere, e fa riferimen­
to ad altri dati di 230,265,272 e 280. Francois Riviere a Gabriel­
le Wittkop, in Grand Guignol, Parigi, Henry Vcyer 1979, ripro­
duce una pianta del teatro con soli 175 posti numerati, cinque
palchi da quattro posti ciascuno, e otto palchi coperti. Una ca­
pienza di trentadue posti per i palchi porta il totale a 217 posti.
Da una visita all’auditorium (che ora utilizza informali gradinate
rivestite di moquette), e forte di una discreta esperienza profes­
sionale in piccoli teatri, l’autore ritiene la cifra minore come la
più probabile.
37. Mei Gordon, Grand Guignol, cit., p. 24.
38. Camillo Ancona-Traversi, «Histoire du Grand Guignol », in Le
Theatre, Parigi, Christian Bourgois 1969, 2, pp. 76-77.
39. Grand Guignolers Thrill, «The New York Times», 23 ottobre
1923.
40. «Variety», 18 ottobre 1923.

367
Note

H circo del terrore

1. Alanna Nash, The Man Who Unearthed Count Dracula - Loui­


sville Runaway Tod Browning, «The Courier-Journal» (Louisvil­
le, Kentucky), 3 aprile 1978.
2. Elias Savada, Tod Browning: An Annotated Filmography, «Pho­
ton», 23, 1973, p. 41.
3. Joan Dickey, A Maker of Mystery, «Motion Picture Classic»,
aprile 1928, p. 80.
4. Mordaunt Hall, Ten Best Films of 1925, «The New York Ti­
mes», 10 gennaio 1926, p. 5.
5. Id., The Screen, «The New York Times», 4 agosto 1925, p. 14.
6. Adela Rogers St. John, Lon Chaney, «Liberty», 23 maggio 1931
(quarta di cinque puntate).
7. Cfr. Alberic Cahuet, Le Chateau des faces massacrés, «L’illustra-
tion», voi. 169, 2, 11 giugno 1927, p. 626, e la discussione in
Sidra Stich, Anxious Visions: Surrealist Art, Berkeley e New
York, University Art Museum and Abbeville Press 1990, pp.
26-27.
8. Robert E. Sherwood, «Life», 3 settembre 1925, p. 24.
9. Jacques W. Maliniak, Sculpture in the Living: Rebuilding the Face
and Form by Plastic Surgery, New York, Romaine Pierson 1934,
p. 30.
10. Intervista di Kevin Brownlow, citata da Scott MacQueen, in The
Phantom of the Opera - Part II, «American Cinematographer»,
ottobre 1989, p. 35.
11. Roger Dadoun, «Fetishism in the Horror Film», in Fantasy and
the Cinema, a cura di James Donald, Londra, British Film Insti­
tute 1989, p. 55.
12. David Thomson, «Lon Chaney», in A Biographical Dictionary of
Film, edizione riveduta e ampliata, Londra, New York e Toron­
to, Andre Deutsch, Alfred A. Knopf e Random House 1994,
p. 120.
13. Lon Chaney, My Own Story, «Movie», settembre 1925.
14. Joan Dickey, A Maker of Mystery, art. cit.
15. Recensione di Lo sconosciuto, «New York Herald Tribune», ri­
taglio (1927) senza indicazione di data.
16. Roy Newquist, Conversations with Joan Crawford, Seacaucus,
The Citadel Press 1980, p. 69.
17. Joan Crawford, lettera a Elias Savada, 11 marzo 1972. Per gentile
concessione di Elias Savada.

368
The Monster Show

18. Joan Crawford con Jean Kcsncr Ardmore, A Portrait of Joan


Crawford, New York, Doubleday 1962, p. 30.
19. Alexander Walker, Joan Crawford: The Ultimate Star, Londra,
Weidenfield and Nicholson 1983, pp. 32 e 34.
20. Kenneth S. Lynn, Hemingway, New York, Fawcett Columbine
1987, p. 86.
21. Ernest Hemingway, «God Rest Ye Merry, Gentlemen», in The
Short Stories of Ernest Hemingway, New York, Charles Scrib­
ner’s Sons 1925, p. 396 (trad. it. «Dio vi conservi allegri, miei
signori», in Racconti, Milano, Mondadori 1990).
22. Sigmund Freud, «The “Uncanny”» [«Das Unheimlich», 1919],
in Complete Psychological Works, vol. XVII, Londra, The Ho­
garth Press 1955, p. 244 (trad. it. «Il perturbante», in Caso di
omosessualità in una donna. Il perturbante. Un bambino viene
battuto e scritti 1919/1920, Roma, Newton & Compton 1988).
23. Fred Pasley, What a Life! Directing Ereaks Is a Man's Job in the
«Talkies», «The Evening Bulletin» (Philadelphia), 11 febbraio
1932, p. 16.
24. Lo scrittore Elias Savada, autore a Los Angeles nei primi anni
Settanta di diverse interviste a collaboratori e conoscenti di
Browning, ha confidato questo particolare tratto da una sua ri­
cerca inedita.
25. Frances Cooke Macgregor, Transformation and Identity: The Fa­
ce and Plastic Surgery, New York, Quadrangle/The New York
Times Book Company 1974, p. 79.
26. Frederick Lewis Allan, Only Yesterday: An Informal History of
the Nineteen-Twenties, New York e Evanston, Harper & Row
1957, p. 99.
27. Famous Mystery Pictures Are Work of Hafive Louisvilian, ritaglio
del luglio 1928, Tennessee Artists Scrapbook, Louisville Public
Library.
28. Paul Kohner a Carl Laemmle Sr., 8 novembre 1926; ripreso in
Richard Koszarski, An Evening’s Entertainment: The Age of the
Silent Feature Picture, 1915-1928, New York, Charles Scribner’s
Sons 1990, pp. 212-213.
29. Curt Siodmak, lettera all’autore, 18 febbraio 1991.
30. Citato nel videodocumentario Masters of Photography: Diane Ar­
bus, Greenwich, Camera Three Productions, 1989.

369
Noie

I mostri e Mister Liveright

1. Mary Shelley, introduzione a Frankenstein, New York, New


American Library 1978, pp. X XI (trad. it. «Frankenstein», in I
grandi romanzi gotici, Roma, Newton & Compton 1993).
2. H.P. Lovecraft, lettera a Robert Barlow, 10 dicembre 1932, Lo­
vecraft Collection, John Hay Library, Brown University. Citato
in The Essential Dracula, a cura di Raymond McNally e Radu
Florescu, New York, Mayflower Books 1979, p. 24.
3. Ibidem, p. 25.
4. Una foto con didascalia del danno apparve su «Illustrated Lon­
don News», 26 settembre 1925.
5. «Dracula» One Success Novel, «Los Angeles Times», 15 luglio
1915.
6. Maurice Hanline, Years of Indiscretion, New York, The Macau­
lay Company 1934, p. 13. Il riassunto è tanto divertente da meri­
tare una menzione: «Jason Pertinax, protagonista del romanzo,
tiranneggia letterariamente e teatralmente New York nei giorni
che precedono la depressione proprio come Lorenzo il Magnifi­
co dominava Firenze. Con la sua singolare personalità egli è arbi­
tro e patrono delle sette arti e di infiniti piaceri; e l’autore esegue
un fantastico ritratto del folle gioco di Jason di spietata ambizio­
ne e insaziabile ricerca delle cose più pazzesche e allegre della
vita».
7. Louis Kronenberger, Gambler in Publishing: Horace Liveright,
«The Atlantic», gennaio 1965, p. 95.
8. Going to the War Zone, «The Editor and Publisher», 30 gennaio
1915.
9. «Dracula» One Success Novel, art. cit.
10. Robert Cremer, Lugosi: The Man behind the Cape, Chicago,
Henry Regnery Company 1976, p. 101.
11. Tesi della difesa per Lugosi vs. Hubert Henry Davis, Tribunale
municipale di New York, Collegio di Manhattan, Terzo distretto,
8 maggio 1924.
12. Notificazione di sequestro dei beni di proprietà di Bela Lugosi,
Ufficio giudiziario di New York, 1° ottobre 1924.
13. John Anderson, recensione di Dracula, «New York Post», 6 ot­
tobre 1927.
14. Alexander Woollcott, recensione di Dracula, «The World», 6
ottobre 1927.

370
Thr Momtrr Show

15. Percy I lammond, recensione di Dracula, «New York Herald Tri­


bune», 6 ottobre 1927.
16. Recensione di Dracula, «Time», 17 ottobre 1927.
17. Gladys Hall, The Feminine Love of Horror, «Motion Picture
Classics», gennaio 1931.
18. Jack Oakie, Jack Oakie’s Double Takes, San Francisco, Strawber­
ry Hill Press 1980, pp. 86-87.
19. Adela Rogers St. John, Clara Bow: The Playgirl of Hollywood,
«Liberty», estate 1975 (ristampa dell’articolo del 1929).
20. David Stenn, Clara Bow: Runnin’ Wild, New York, Penguin
Books, 1990 p. 21.
21. Ibid., p. 15.
22. Ibid., p. 22.
23. Ibid., pp. 65-68.
24. Arthur Mefford, Film Stars Secret Love Is Revealed, «Daily Mir­
ror» (New York), 5 novembre 1929.
25. Louis Kronenberger, Gambler in Publishing, art. cit., p. 103.
26. Edith W. Stem, A Man Who Was Unafraid, «The Saturday Re­
view», 28 giugno 1941, p. 10.
27. Search Light (pseudonimo), Time Exposures, New York, Boni &
Liveright 1926, p. 113.
28. Gilmer, Horace Liveright: Publisher of the Twenties, New York,
David Lewis 1970, p. 180.
29. John L. Balderston, lettera ad Harold Freedman, novembre
1928.
30. Steven Earl Forty, Hideous Progenies: Dramatizations of Fran­
kenstein from the nineteenth Century to the Present, Philadel­
phia, University of Pennsylvania Press 1990, p. 96.
31. Peggy Webling, Peggy: The Story of One Score Years and Ten,
Londra, Hutchinson & Company 1924, p. 19.
32. Ibid., p. 92.
33. Ibid., pp. 36-37.
34. Ibid., pp. 93-94.
35. Ibid.
36. Ivan Butler, lettera all’autore, 1990.
37. Elizabeth Nitchie, Mary Shelley, New Brunswick (New Jersey),
Rutgers University Press 1953, p. 224.
38. Per un’incomparabile documentazione testuale e visuale delle
prime produzioni teatrali di Frankenstein, cfr. Steven Earl Forty,
Hideous Progenies, at.
39. Ibid.

371
Note

40. «The Times» (Londra), 11 febbraio 1930.


41. John L. Balderston a Horace Liveright, 11 febbraio 1930.
42. Balderston a Liveright, 24 febbraio 1930.
43. Balderston all’agente Harold Freedman, Brandt and Brandt Dra­
matic Department, 24 marzo 1930.
44. La versione di Balderston del dramma è pubblicata integralmen­
te in Steven Earl Forty, Hideous Progenies, cit.
45. Lettera di Liveright a Otto Theis, 7 luglio 1930.
46. Balderston a Freedman, 17 luglio 1930.
47. Louis Cline ad Harold Freedman, 24 ottobre 1930.
48. Per un resoconto più approfondito delle trattative vis-à-vis con
Liveright, cfr. «A Deal for the Devii: or, Hollywood Bites», in
David J. Skal, Hollywood Gothic: The Tangled Web of Dracula
from Novel to Stage to Screen, New York, W.W. Norton & Com­
pany 1990, pp. 93-109.
49. Louis Kronenberger, Gambler in Publishing, cit., p. 104.
50. Lester Cohen, Horace Liveright, «Variety», 10 gennaio 1962.
51. Ibid.

1931: Pabisso americano

1. Gilbert Seldes, The Years of the Locust, Boston, Little, Brown


and Company 1933, p. 33.
2. Queste e altre citazioni di eventi sono tratte da The Twentieth
Century: An Almanac, a cura di Robert H. Ferrell e John S.
Bowman, New York, World Almanac Publications 1984.
3. Gilbert Seldes, The Years of the Locust, cit.
4. Vampires, Monsters, Horrors!, «The New York Times», 1° mar­
zo 1936.
5. Da una conversazione dell’autore con Lupita Tovar Kohner, Los
Angeles, ottobre 1991.
6. Recensione di Uomini della notte, «Variety», 3 settembre 1930.
7. Corrispondenza tra E.M. Asher e Jason S. Joy, 26 giugno 1930.
Fascicolo d’archivio della Mppda su Dracula, Margaret Herrick
Library, Special Collections, Academy of Motion Picture Arts
and Sciences, Beverly Hills.
8. Sinossi del copione di Dracula, 1° ottobre 1930, archivio della
Mppda.
9. Scheda di lettura di Steve Miranda per Dracula, 15 giugno 1927;
in Magicimage Pilmbooks Presents Dracula, a cura di Philip J.

372
The Monster Show

Riley, Atlantic City e Hollywood, Magicimage Filmbooks 1990,


p. 30.
10. Ritaglio senza titolo, «Los Angeles Examiner», 2 luglio 1930.
11. Riportato in «The Morning Telegraph» (New York), ritaglio
senza data, agosto 1930.
12. David Manners, intervista dell’autore, Santa Barbara, marzo
1991.
13. Nicholas Webster, intervista telefonica con l’autore, settembre
1991.
14. Recensione di Dracula, «Hollywood Filmograph», 4 aprile 1931.
15. Lupita Tovar Kohner, cit.
16. William S. Hart Jr., intervista di Elias Savada, 8 aprile 1972.
Trascrizione inedita da nastro, per gentile concessione di Elias
Savada.
17. Estratti da reclami su Dracula, archivio della Mppda.
18. Jason S. Joy a Cari Laemmle Jr., 7 aprile 1931.
19. Marguerite Tazelaar, Director of Chaney Prefers Lighter Side of
Murder, «New York Herald Tribune», ritaglio senza data, pri­
mavera 1931.
20. Annotazione autografa di Carl Laemmle Jr. nella sceneggiatura
di scena di Dracula. Cfr. Magicimage Filmbooks Presents Dracula,
cit., p. 56.
21. Gladys Hall, The Feminine Love of Horror, «Motion Picture
Classic», gennaio 1931.
22. Don Shay, Willis O'Brien: Creator of the Impossible, «Focus on
Film», autunno 1973.
23. Per un resoconto completo e illustrato dell’evoluzione del mo­
stro sulla scena, cfr. Steven Earl Forty, Hideous Progenies: Dra­
matizations of Frankenstein from the Nineteenth Century to the
Present, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1990.
24. Cfr. James Curtis, James Whale, Metuchen (Newjersey)/Londra,
The Scarecrow Press 1982, p. 75.
25. Ibid., p. 3.
26. Garrett Fort e Francis Ford Faragoh, copione per Frankenstein,
Abescon (New Jersey), Magicimage Filmbooks 1989, p. 36.
27. Margaret McManus, Karloff Says, ritaglio di quotidiano ignoto,
10 marzo 1962.
28. Jack P. Pierce, citato in Oh You Beautiful Monster, «The New
York Times», 29 gennaio 1939.
29. Citato in Jeffrey L. Meikle, Twentieth Century Limited: Industrial
Note

design in America 1925-1939, Philadelphia, Temple University


Press 1979, p. 25.
30. Garrett Fort e Francis Ford Faragoh, copione per Franken­
stein, cit.
31. Illustrato sulla copertina di «Vu», 21 marzo 1928.
32. Sidra Stich, Anxious Visions: Surrealist Art, Berkeley e New
York, University Art Museum and Abbeville Press, 1990, p. 51.
33. Art Ronnie, Frankenstein Remembered, «Southland Sunday»,
(Long Beach, California), 5 dicembre 1971.
34. Boris Karloff, N.Y. Close-Up (rubrica), «New York Herald Tri­
bune», ritaglio senza data, 1950.
35. Stefan Kanfer, Frankenstein at Sixty, «Connoisseur», gennaio
1991, p. 42.
36. James Curtis, James Whale, cit., p. 86.
37. George E. Turner, «Frankenstein, the Monster Classic», in The
Cinema ofAdventure, Romance and Terror, Hollywood, The ASC
Press 1989, p. 92.
38. Ibid.
39. T.B. Fithian a Jason S. Joy, 22 aprile 1932. Fascicolo d’archivio
della Mppda su Frankenstein.
40. Recensione di Frankenstein, «Motion Picture Herald», 6 feb­
braio 1932.
41. Tallulah Bankhead, Tallulah: My Autobiography, New York,
Harper & Brothers 1952, p. 80.
42. John Kobler, Damned in Paradise, New York, Atheneum 1977,
p. 156.
43. Bill Thomas, Mamoulian on His Dr. Jekyll and Mr. Hyde, «Cine-
fantastique», estate 1971, p. 36.
44. Frank McConnell, «Rough Beasts Slouching», in Focus on the
Horror Film, a cura di Roy Huss e T.J. Ross, Englewood Cliffs,
Prentice Hall 1972, p. 26.
45. Trascrizione di un’intervista inedita di Tom Weaver e Michael
Brunas a Rose Hobart.
46. Lettera di John V. Wilson a B.P. Schulberg, 10 agosto 1931.
Incartamento della Mppda su II dottor Jekyll.
41. Jason S. Joy a B.P. Schulberg, 1° dicembre 1931. Incartamento
della Mppda su II dottor Jekyll.
48. Recensione di 11 dottor Jekyll, «Variety», 5 gennaio 1932.
49. Archivio della Mppda.
50. Johnny Eck, introduzione autografa per una biografìa inedita,
riprodotta in «Pandemonium», 3,1989, p. 156. Il resoconto del­
The Morixfrr Show

le prime fasi della sua vita e carriera è ricavato da questo materia­


le e da una trascrizione di accompagnamento a un’intervista rila­
sciata nel 1980 a Mark Feldman.
51. Matt Seiden, What a Half-Man in Highlandtown Dreams of
«The Sun» (Baltimora), 20 luglio 1979.
52. Eli Savada, The Making ofFsedas, «Photon», 23 (1973), p. 25.
53. Weds Sixth Wife Again: «Tod» Robbins, American Author, Re­
marries British Woman, «The New York Times», 6 maggio 1934.
54. Necrologio di Clarence A. Robbins, «The New York Times»,
13 maggio 1949.
55. Mystery Film Director, «The New York Times», 24 novembre
1929.
56. Bob Thomas, Thalberg: Life and Legend, Garden City, Double­
day & Company 1969, pp. 187-1888.
57. James Kotsilibas-Davis e Mima Loy, Myrna Loy: Being and Be­
coming, New York, Alfred A. Knopf 1987, p. 71.
58. Tod Robbins, Spurs, «Munsey’s Magazine», febbraio 1923.
59. John Kobal, People Will Talk, New York, Alfred A. Knopf 1985,
p. 45.
60. Ibid.
61. Katherine Hill, Hollywood Performers Suffer, Stars Asserts, «San
Francisco Chronicle», 21 agosto 1932.
62. John Kobal, People Will Talk, cit., pp. 51-52.
63. Faith Service, The Amazing Life Stories of the Freaks!, «Motion
Picture», aprile 1932, p. 100.
64. John Kobal, People Will Talk, cit., p. 53.
65. Samuel Marx, Mayer and Thalberg: The Make-Believe Saints,
New York, Random House 1975, p. 180.
66. Budd Schulberg, Moving Pictures: Memories of a Hollywood
Prince, New York, Stein and Day 1981, p. 314.
67. Dwight Taylor, Joy Ride, New York, G.P. Putnam’s Sons 1969,
pp. 247-248.
68. Eli Savada, The Making of Freaks, art. cit., p. 24.
69. Samuel Marx, A Gaudy Spree, New York e Toronto, Franklin
Watts 1987, p. 132.
70. Id., Mayer and Thalberg, cit.
71. Eli Savada, The Making ofYte&s, art. cit.
72. Ivi
73. Circus Oddities Are a Race Apart, «The Morning Telegraph Talk­
ing Picture Magazine» (supplemento pubblicitario a «The
Morning Telegraph», New York), 3 gennaio 1932.
Noie

74. Ivi
75. Ivi
76. Freak Tent Celebrities Are Rich Aristocrats of Circus, «The Morn­
ing Telegraph Talking Picture Magazine», cit.
77. Ivi
78. Ivi
79. «Time», 18 aprile 1932, p. 17.
80. Ivi, p. 18.
81. Louella O. Parsons, Freaks Picture Grotesque and Sensational,
«Los Angeles Examiner», 13 febbraio 1932.
82. «Variety», 12 luglio 1932.
83. The Current Cinema, «The New Yorker», 16 luglio 1932.
84. Joseph Mitchell, «Lady Olga», in McSorley’s "Wonderful Saloon,
New York, Duell, Sloan and Pearce 1943, p. 95.
85. The Pinal Curtain, «Billboard», 29 dicembre 1934.
86. Per i particolari di questa mistificazione, cfr. Samuel Marx e
Joyce Vanderveen, Deadly Illusions: Jean Harlow and the Murder
of Paul Bern, New York, Random House 1990, in particolare il
capitolo quattro, «The Creative Team», pp. 36-51.
87. Irving Shulman, Harlow: An Intimate Biography, New York, Ber­
nard Geis Associates 1964.
88. Harold Robbins, The Carpetbaggers, New York, Pocket Books
1962 (ristampa), p. 322.

Campagnoli infuriati

1. Jack Vizzard, See No Evil: Life Inside a Hollywood Censor, New


York, Simon and Schuster 1970, p. 39.
2. Jason S. Joy a Will H. Hays, 5 dicembre 1931, archivi della
Mppda, Special Collections, Academy of Motion Pictures Arts
and Sciences Library, Beverly Hills.
3. Jack Vizzard, See No Evil, cit., pp. 38-39.
4. Joy ad Hays, 11 gennaio 1932, archivi della Mppda.
5. Biografìa di Arlene Francis in una locandina per The Doughgirls,
New York, 30 dicembre 1942.
6. Lee Belser, Arlene Francis Returns to Films After an Absence of
28 Years, «Los Angeles Mirror», 5 luglio 1961.
7. Arlene Francis, intervista dell’autore, New York, 16 aprile 1991.
8. Arlene Francis con Florence Rome, Arlene Francis: A Memoir,
New York, Simon and Schuster 1978, pp. 19-20.
The Monster Show

9. John Huston, An Open Book, New York, Alfred A. Knopf 1980,


p. 58.
10. Joy a Laemmle, 8 gennaio 1932, archivi della Mppda.
11. What Shocked the Censors: A Complete Record of Cuts in Motion
Picture Films Ordered by the New York State Censors from Janua­
ry, 1932 to March, 1933, New York, The National Council on
Freedom from Censorship, 1933.
12. That Elegant Critter, «The American Weekly», 2 gennaio 1955.
13. Victor Sebastian, The Indestructible Arlene Francis, «Family
Weekly», 20 novembre 1960.
14. Nelson B. Bell, Thoughts on Horror Era, «The Washington
Post», 21 febbraio 1932.
15. Katherine Hill, Zombies Give Thrills on United Screen, «San
Francisco Chronicle», 29 novembre 1932.
16. Charles Higham, Charles Laughton: An Intimate Biography, Gar­
den City, Doubleday 1976, p. 39.
17. Elsa Lanchester, Charles Laughton and I, New York, Harcourt,
Brace and Company 1938, p. 106.
18. Kurt Singer, The Laughton Story, Philadelphia e Toronto, The
John C. Winston Company 1954, p. 103.
19. Elsa Lanchester, Charles Laughton and I, cit.
20. Ibid.
21. Incartamento della Mppda su Island of Lost Souls.
22. What Shocked the Censors, cit.
23. Ibid., p. 5.
24. Ibid., p. 13.
25. Ibid., p. 2.
26. Lettera di B.O. Skinner ad A.S. Howson, Warner Brothers Pictu­
res, 9 febbraio 1933, archivi della Mppda.
27. Incartamento della Mppda su La maschera di cera, 15 aprile
1933.
28. Norman R. Jaffray, The Spine Chillers, «The Saturday Evening
Post», 29 aprile 1933, p. 61.
29. Orville Goldner e George E. Turner, The Making o/King Kong,
New York, Ballantine Books 1976, p. 56.
30. Ibid., p. 37.
31. Ibid., p. 24.
32. Ibid.
33. Articolo di spalla in «The New Yorker», 29 aprile 1933.
34. Paul Mandell, «Enigma of the Black Cat», in The Cinema of
Note

Adventure, Romance and Terror, a cura di George E. Turner,


Hollywood, The Asc Press 1989, pp. 181-195.
35. Breen a Zehner, 26 febbraio 1934. Fascicolo d’archivio della
Mppda su The Black Cat.
36. Intervista dell’autore, aprile 1991, Santa Barbara.
37. Paul Mandell, «Enigma of the Black Cat», art. cit., p. 194.
38. Robert Cremer, Lugosi: The Man Behind the Cape, Chicago,
Henry Regnery Company 1976, pp. 56-57.
39. Questionario pubblicitario senza data per Beautiful Film Stories
di Anna Bakacs, New York, Vantage Press 1979 (circa).
40. Ira Carmen, Movies, Censorship and the Law, Ann Arbor, Uni­
versity of Michigan Press 1967, p. 129.
41. James Curtis, James Whale, Metuchen e Londra, Scarecrow Press
1982, p. 116.
42. Ibid., p. 115.
43. Anne K. Mellor, Mary Shelley: Her Life, Her Fiction, Her Mon­
sters, New York e Londra, Routledge 1989, p. 122.
44. Ernest Thesiger, Practically True, Londra, William Heinemann,
Ltd. 1927, pp. 118-119.
45. Gerald Gardner, The Censorship Papers: Movie Censorship Let­
ters from the Hays Office, 1934-1968, New York, Dodd, Mead
& Company 1987, p. XIX.
46. Joseph Breen alia Universal Pictures, 23 luglio 1934, fascicolo
della Mppda su La moglie di Frankenstein.
47. Lettera di James Whale a Joseph Breen, 10 dicembre 1934. Fa­
scicolo della Mppda su La moglie di Frankenstein.
48. Joseph Breen alia Universal Pictures, 23 marzo 1935, fascicolo
della Mppda su La moglie di Frankenstein.
49. Elsa Lanchester, Elsa Lanchester, Elsa Lanchester Herself, New
York, St. Martin Press 1983, p. 135.
50. Ibid.
51. Breen alia Universal, 23 marzo 1935.
52. Ibid., 15 aprile 1935.
53. Paul Krieger a Sydney Singerman, 7 maggio 1935, incartamento
della Mppda.
54. Joseph Breen a Will Hays, 8 maggio 1935, fascicolo della Mppda
su La sposa di Frankenstein.
55. Gerald Gardner, The Censorship Papers, cit., p. 71.
56. Fascicolo della Mppda su La sposa di Frankenstein.
57. Joseph Breen a Louis B. Mayer, 28 dicembre 1934, fascicolo
della Mppda su I vampiri di Praga.

1-70
The Mounter Show

58. James Wong Howe, intervistato in Charles Higham, Hollywood


Cameraman, Bloomington e Londra, Indiana University Press
1970, p. 87.
59. Carroll Borland, intervista dell’autore, Los Angeles, aprile 1989.
60. Joseph Breen ad Harry Zehner, 15 gennaio 1935, fascicolo della
Mppda su 11 segreto del Tibet.
61. Robert Harris a Joseph Breen, 30 gennaio 1935.
62. Fascicolo della Mppda su 11 segreto del Tibet.
63. Fascicolo della Mppda su The Raven, 16 marzo 1935.
64. Horror on the Screen: The Demon Surgeon, «The Times» (Lon­
dra), 4 agosto 1936.
65. John L. Balderston, nota introduttiva al trattamento di Dracula’s
Daughter, Hollywood, Ad Schulberg & Charles Kenneth Feld­
man 1934.
66. Ibid.
67. Ibid.
68. Ibid.
69. Fascicolo della Mppda su Dracula’s Daughter.
70. Joseph Breen a Harry H. Zehner, 23 ottobre 1935.
71. Ibid., 15 gennaio 1936.
72. Katherine Ramsland, Prism of the Hight: A Biography of Anne
Rice, New York, Dutton 1991, pp. 40-41.
73. Budd Schulberg, Moving Pictures: Memories of a Hollywood
Prince, New York, Stein and Day 1981, p. 314.
74. Menzionato da Sydney Pollack, regista definitivo del film nel
1969, nella sua prefazione alla sceneggiatura di Robert E. Thom­
pson per Non si uccidono così anche i cavalli?, New York, Avon
Books 1969, p. 133.
75. Lettera di Maureen O’Sullivan al biografo di Browning, Bret
Wood, citata da Wood a una conferenza/proiezionc di La bam­
bola del diavolo, Hoboken, New Jersey, maggio 1991.
76. Edgar G. Ulmer, 1965 (circa), citato in Elias Savada, Tod Brown­
ing: Child of the Night, Cinemateca Portuguese 1984, p. 124.
77. Katherine K. Vandervoort a Carl E. Milliken, Community Servi­
ce Department, Mppda, novembre 1938 (fascicolo della Mppda
su Dracula).
78. J. Brooke Wilkinson a Joseph Breen, 4 novembre 1938. Fascicolo
della Mppda su 11 figlio di Frankenstein.
79. André Sennwald, Gory, Gory Hallelujah, «The New York Ti­
mes», 12 gennaio 1936.
80. Samuel Marx, lettera all’autore, 15 dicembre 1990.

379
Note

81. The Son of Frankenstein Starts a New Horror Cycle, «Look», 28


febbraio 1939, p. 39.

«Tu mi ricordi tuo padre.» Gli orrori della guerra, parte seconda

1. Robert G.L. Waite, The Psychopatic God: Adolf Hitler, New


York, Basic Books 1977, p. 9.
2. Ibid., p. 26.
3. Barry Holstun Lopez, Of Wolves and Men, New York, Charles
Scribner’s Sons 1978, p. 206.
4. Ibid., p. 242.
5. Ibid., p. 204.
6. Curtis Siodmak, «Birth of the Wolfman», in famous Monsters
Chronicles, a cura di Dennis Daniels, FantaCo Enterprises 1991,
p. 145.
7. Ibid.
8. Paul Fussell, Wartime: Understanding and Behavior in the Second
World War, New York/Oxford, Oxford University Press 1989,
pp. 269-270 (trad. it. Tempo di guerra. Psicologia, emozioni e
cultura nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori 1991).
9. Ibid., p. 273.
10. Harry Ludlam, A Biography of Bram Stoker, Creator of Dracula,
Londra, New English Library 1977, ristampa in tascabile dell’e­
dizione 1962, A Biography of Dracula: The Life Story of Bram
Stoker, p. 169.
11. Cfr. gli incassi lordi e la pubblicità su «Variety», 1° aprile 1942.
12. Recensione di Frankenstein contro l'uomo lupo, «The Hollywood
Reporter», 19 febbraio 1943.
13. La foto è in Magicimage Filmbooks Presents Frankenstein Meets
the Wolf Man, a cura di Philip J. Riley, Universal Filmscripts
Series, vol. 5, Atlantic City e Hollywood, Magicimage Filmbooks
1990, p. 24.
14. Chillers Warm U Till with $ 10,000,000 Net, «Variety», 24 luglio
1944.
15. Per una cronaca particolareggiata della lavorazione, cfr. «The
Exquisite Evil of Cat People», in The Cinema of Adventure, Ro­
mance and Terror, a cura di George Turner, Hollywood, The
Asc Press 1989, pp. 233-243.
16. Ibid., p. 242.
17. Joseph Breen a William Gordon, RKO Pictures, 13 luglio 1942,

ton
The Momlrr Show

fascicolo della Mppda su II bacio della pantera, Special Collec­


tions, Margaret Herrick Library, Academy of Motion Picture
Arts and Sciences, Beverly Hills.
18. John Dunnig, Tune in Yesterday: The Ultimate Encyclopedia of
Old-Time Radio 1925-1976, Englewood Cliffs, Prentice-Hall
1976, p. 362.
19. J. Fred MacDonald, Don't Touch That Dial! Radio Programming
in American Life 1920-1960, Chicago, Nelson Hall 1979, pp.
67-68.
20. Fritz Leiber, citato in John Bryan, Conjure Man, nel supplemento
letterario a «The San Francisco Bay Guardian», aprile 1991,
p. 4.
21. John T. McManus, The Blitz Unearths a Vampire, «P.M. New
York», 30 gennaio 1944.
22. Robert Cremer, Lugosi: The Man Behind the Cape, Chicago,
Henry Regnery Company 1976, p. 199.
23. Movie Mailbag: On Boris Karloff, «The New York Times», 9
marzo 1969.
24. John Russell, Francis Bacon, New York, Thames and Hudson
1985, p. 10.
25. Robert Jay Lifton, «Understanding the Traumatized Self», in
Human Adaptations to Extreme Stress: From the Holocaust to
Vietnam, a cura di John P. Wilson, Zev Harel e Boaz Kahana,
New York e Londra, Plenum Press 1988, p. 29.
26. Id., The Nazi Doctors: Medical Killing and the Psychology of Ge­
nocide, New York, Basic Books 1986, pp. 426-427 (trad. it. I
medici nazisti, Milano, Rizzoli 1988).
27. Mel Gordon, The Grand Guignol: Theatre of Fear and Terror,
New York, Amok Press 1988, pp. 30-31.
28. Ibid.
29. Murders in the Rue Chaptal, «Time», 10 marzo 1947, pp. 44-46.

I drive-in sono i migliori amici dei mostri. L’horror negli anni Cin­
quanta

1. Cifre citate in Mike Benton, The Comic Book in America: An


Illustrated History, Dallas, Taylor Publishing Company 1989, p.
48.
2. Peter Kihss, No Arm in Horror, «The New York Times», 22
aprile 1954.
Note

3. Russ Heath, citato in Mike Benton, op. at., p. 52.


4. Wish You Were Here, «The Haunt of Fear», 22, New York,
E.C. Publications, 1953, p. 8.
5. Fredric Wertham, Seduction of the Innocent, New York, Rinehart
1954, p. 380.
6. Ibid., p. 15.
7. Commento a un’illustrazione originale riprodotta in Fredric
Wertham, op. cit.
8. Men of Taste (editoriale), «The Hartford Courant», 23 aprile
1954.
9. Frederic M. Thrasher, The Comics and Delinquency: Cause or
Scapegoat, «The Journal of Educational Sociology», dicembre
1959, pp. 195-205.
10. Reuel Denney, The Dark Fantastic, «Die New Republic», 3 mag­
gio 1954, pp. 18-19.
11. Ibid.
12. Robert Warshow, Paul, the Horror Comics, and Dr. Wertham,
«Commentary», giugno 1954, pp. 596-604.
13. No More Werewolves, «Newsweek», 8 novembre 1954.
14. Maila Nurmi, intervista dell’autore, Hollywood, 11 aprile 1991.
15. Physical Impossibility?, «Newsweek», 14 giugno 1954, p. 6.
16. Vampire, «Newsweek», 24 maggio 1954, p. 84.
17. Intervista dell’autore a Maila Nurmi, cit.
18. Warren Newton Beath, The Death of James Dean, New York,
Grove Press 1986, p. 21.
19. Benché Maila Nurmi ricordasse la storia come opera di Ray
Bradbury in una rivista o tascabile pulp, l’interessato non ricorda
di averla mai scritta.
20. Intervista dell’autore a Maila Nurmi, cit.
21. Warren Newton Beath, The Death of James Dean, cit., p. 23.
22. David Dalton, James Dean: The Mutant King, New York, St.
Martin Press 1983, p. 42.
23. Intervista dell’autore a Maila Nurmi, cit.
24. Ibid.
25. David Dalton, James Dean, cit., p. 190.
26. «Vampira» Meets «The Vamp», «New York Mirror», 21 giugno
1955.
27. Ibid.
28. Intervista dell’autore a Maila Nurmi, cit.
29. John Calendo, Vampira and the Ghost of James Dean, «Inter­
view», ottobre 1975, p. 23.

382
Thr Monitor Show

30. Ihid.
31. Maila Nurmi, The One - The Only - Vampira, «Fangoria», otto­
bre 1983, p. 27.
32. Trascrizione dei responsi Pta su Gli invasori spaziali, Billy Rose
Theatre Collection, New York Public Library for the Performing
Arts at Lincoln Center.
33. Gregory Mank, Karloff and Lugosi: The Story of a Haunting Col­
laboration, West Jefferson, McFarland & Company 1988, p. 252.
34. Paul Marco, intervista in Tom Weaver, Interviews with B and
Science Fiction and Horror Movie Makers, Jefferson e Londra,
McFarland & Company 1990, p. 285.
35. Hope Lugosi, intervista in «The National Enquirer», 17 novem­
bre 1957.
36. Quotes Psychiatrist: «Horror» Aids Kids Shed Their Primitive
Fears, «Variety», 4 giugno 1958.
37. Ibid.
38. William Castle, Step Kight Up... I’m Gonna Scare the Pants Off
America, New York, G. P. Putnam’s Sons 1976, p. 10.
39. Ihid.
40. John Kobler, Master of Movie Horror, «The Saturday Evening
Post», 19 marzo 1960, p. 100.
41. Blood Runs High But Idea Low, «Variety», 23 luglio 1958.
42. Ihid.
43. Tom Weaver, An Outspoken Conversation with Robb White,
«Filmfax», 18, p. 94.
44. John Kobler, Master of Movie Horror, cit.
45. Hollis Alpert e Charles Beaumont, The Horror of It All, «Play­
boy», marzo 1959, p. 74.
46. Ibid., p. 86.

D rintocco del camposanto

1. Albert Goldman (da un servizio di Lawrence Schiller), Ladies


and Gentlemen, Lenny Bruce!!, New York, Random House 1974,
pp. 214-215.
2. Albert Goldman, Freakshow: The Rocksoulbluesjazzsickjewblac-
khumorsexpoppsych Gig and Other Scenes from the Counter Cul­
ture, New York, Atheneum 1971, p. 223.
3. The Essential Lenny Bruce, a cura di John Cohen, Londra, Open
Gate Books 1973, pp. 107-108.

383
Note

4. Jack Kerouac, Dr. Sax, New York, Grove Weidenfield 1987, ri­
stampa dell’edizione 1959, p. 106 (trad. it. Il dottor Sax, Milano,
Mondadori 1995).
5. Daniel Talbot, intervista dell’autore, New York, novembre 1990.
6. Roul Tunley, Tv's Midnight Madness, «The Saturday Evening
Post», 16 agosto 1958.
7. Intervista dell’autore, New York, 27 novembre 1991.
8. Cynthia Heimel, Interview with an Ex-Vampire, «New York»,
24 aprile 1978, pp. 56-58.
9. Dick Clark e Richard Robinson, Rock, Roll & Remember, New
York, Popular Library 1978, pp. 196-200.
10. Ibid.
11. Intervista dell’autore a John Zacherle, cit.
12. Intervista dell’autore a Forrest J. Ackerman, Los Angeles, aprile
1991.
13. Bill Warren, Keep Watching the Skies’, Jefferson, McFarland &
Company 1988, p. 321.
14. April Smith, Citizen Pain: The Publisher Who Built a Vampire
Empire, «Rolling Stone», 25 aprile 1974.
15. Stephen King, intervista in «Playboy», ristampata in Bare Bones:
Conversations on Terror with Stephen King, a cura di Tim Under­
wood e Chuck Miller, New York, McGraw-Hill 1988, pp. 35-36.
16. Per un approfondimento, cfr. Joseph Reino, Stephen King: The
First Decade, Boston, Twayne Publishers 1988.
17. Fred A. Bernstein, The Jewish Mothers Hall of Fame, Garden
City, Doubleday & Company 1986, p. 2.
18. Steven Spielberg, introduzione al catalogo Science-Fiction, Fanta­
sy, Horror: the World of Forrest J. Ackerman at Auction, New
York, Gurney’s 12-13 dicembre 1987.
19. Intervista dell’autore, Burbank, California, aprile 1991.
20. Stephen King, ’Salem's Lot, New York, Signet Books/New Ame­
rican Library 1976, p. 137 (trad. it. Le notti di Salem, Milano,
Bompiani 1979).
21. Walter Evans, Monster Movies and Rites of Initiation, «Journal
of Popular Film», vol. IV, 2 (1975), p. 137.
22. Id., Monster Movies: A Sexual Theory, «Journal of Popular
Film», gennaio 1973, p. 356.
23. David S. Greenwald e Steven J. Zeitlin, No Reason to Talk About
It: Families Confront the Nuclear Taboo, New York, W.W. Nor­
ton & Company 1987.

A Rd
The Mounter Shou*

24. Robert K. Musil, Growing Up Nuclear, «The Bulletin of the Ato­


mic Scientists», vol. 38, 1 (gennaio 1982), p. 19.
25. Intervista dell’autore a Bobby Pickett, Boston, marzo 1991.
26. Fred Bronson, The Billboard Book of Number One Hits, edizione
aggiornata, New York, Billboard Publications 1988, p. 118.
27. Recensione di The Addams Family, «Variety», 23 settembre
1964.
28. Recensione di The Addams Family, «Daily News» (New York),
19 settembre 1964.
29. John Astin, prefazione a Stephen Cox, The Addams Chronicles,
New York, Harper Perennial 1991, p. XII.
30. Ibid., p. 150.
31. Ibid., p. 151.
32. Philip Shabecoff, Advertising: Monster Market Creeping Up,
«The New York Times», 30 agosto 1964.
33. The Return of the Monsters, «Look», 8 settembre 1964, p. 47.
34. April Smith, op. cit.

Mi dispiace, ma è nato vivo

1. Sceneggiatura di William Hurlburt e John L. Balderston, in The


Bride of Frankenstein, a cura di Philip J. Riley, Universal Film­
scripts Series, Abescon, Magicimage Filmbooks 1989.
2. Per una discussione sulla contraccezione da una posizione fem­
minista, cfr. Flora Davis, Moving the Mountain: The Women's
Movement in America Since 1969, New York, Simon and Schu­
ster 1991, pp. 236-237.
3. Jay Robert Nash e Stanley Ralph Ross, The Motion Picture Guide,
voi. VII, Chicago, Cinebooks 1987, p. 3687.
4. Gli inviati di The Sunday Times (Londra), Suffer the Children:
The Story of Thalidomide, New York, The Viking Press 1979,
p. 112.
5. David F. Friedman, A Youth in Babylon: Confessions of a Trash
Film King, Buffalo, Prometheus Books 1990, p. 63.
6. Tutta la mia gratitudine va a Elias Savada e Bret Wood per aver­
mi consentito di accedere al loro materiale inedito sugli ultimi
giorni di Tod Browning.
7. 1932 «Freaks» Draws Street Pole, ’72, «Variety», 19 luglio 1972.
8. Montague Addison, lettera a «Films in Review», giugno-luglio
1971.

385
Ntitr

9. Profilo-intervista di Ira Levin, «Publishers Weekly», 22 maggio


1967, p. 19.
10. Marthe MacGregor, This Week in Books, «New York Post», 30
settembre 1967.
11. Profilo-intervista di Ira Levin, art. cit.
12. «Rosemary’s Baby» Given a «C» Rating by Catholic Office, «The
New York Times», 21 giugno 1968.
13. William Castle, Step Right Up... I'm Gonna Scare the Pants Off
America, New York, G.P. Putnam’s Sons 1976, p. 28.
14. Pauline Kael, Reeling, Boston e Toronto, Atlantic Monthly
Press/Little, Brown and Company 1976, p. 251.
15. Greta Blackbum, The Star: Linda Blair, «Fangoria», gennaio
1987, pp. 20-21.
16. Alan Dundes, Cracking Jokes: Studies of Sick Humor Cycles and
Stereotypes, Berkeley, Ten Speed Press 1987, p. VII.
17. David Cronenberg, a proposito di Brood, la covata malefica-, «Ci-
nefantastique», vol. 10, 4 (primavera 1981).
18. Robin Wood, «Cronenberg: A Dissenting View», in The Shape
of Rage: The Pilms of David Cronenberg, Toronto/New York,
General Publishing Co. Limited/New York Zoetrope 1983,
p. 131.
19. Philip French, recensione di Brood, la covata malefica-, «Obser­
ver» (Londra), 9 marzo 1980.
20. F. Paul Wilson, Poet, in Borderlands 2, a cura di Thomas F.
Monteleone, New York, Avon Books 1991, p. 11.

Scar Wars

1. Bob Martin, Tom Savini: A Man of Many Parts, «Fangoria», 6,


p. 50.
2. James Verniero, An Interview with Tom Savini, «The Aquarian»,
24 novembre-1° dicembre 1982.
3. Tom Savini, Grande Illusions, New York, Harmony Books 1983,
p. 11.
4. Ibid., p. 12.
5. Ibid.
6. Ibid.
7. Bob Martin, Tom Savini, cit.
8. Saul Bass, intervista di Tony Crawley in «Hammer’s House of
Horror», marzo 1978, p. 37.

386
The Monster Show

Intervista drll’aiKorc a Joe Dante, Burbank, marzo 1991.


HI. J. Randy Taraborclli, Michael Jackson: The Magic and the Mad­
ness, New York, Birch Lane Press 1991, p. 322.
11. Ibid., p. 325.
12. R.H. Martin, Zombies A-Go-Go (di spalla a Rick Baker: The
Wonder Years, Part One), «Fangoria», marzo 1984, p. 44.
15. J. Randy Taraborelli, Michael Jackson, cit., pp. 327-328.
14. Stephen Holden, The Dark Side of Peter Pan, «The New York
Times», 13 settembre 1987.
15. Constance Penley, «Feminism, Film Theory and the Bachelor
Machines», in The Future of an Illusion: Film, Feminism, and
Psychoanalysis, Minneapolis, University of Minnesota Press 1989,
p. 57.
16. Naomi Wolf, The Beauty Myth: How Images of Beauty Are Used
Against Women, New York, William Morrow and Company
1991, pp. 236-237.
17. Ibid., p. 236.
18. Modern Primitives, a cura di V. Vale e Andrea Juno, San Franci­
sco, Re/Search Publications 1989, p. 4.
19. Robert Robertson Ross e Hugh Bryan McKay, Self Mutilation,
Lexington e Toronto, Lexington Books, 1979.
20. Armando R. Favazza, Bodies Under Siege, Baltimora, Johns Hop­
kins University Press 1987, p. 1.
21. Intervista dell’autore, Chatsworth, 14 marzo 1991.
22. Intervista dell’autore a Joe Dante, cit.
23. Anthony Timpone, Elegy: A Nightmare on 10 Downing Street,
«Fangoria», marzo 1988, p. 6.
24. Churchill Plans Read Horror Comics to See Wether They Should
Be Banned, «The New York Times», 12 novembre 1954.
25. Intervista dell’autore ad Anthony Timpone, New York, novem­
bre 1991.
26. Ken Sanders, Mpaa War Story, «Fangoria», agosto 1990, pp.
52-55.

Sangue infetto

1. Intervista dell’autore a Jack Rems, Berkeley, ottobre 1991.


2. Lloyd deMause, Reagan's America, New York, Creative Roots
1984, p. 119.
3. Ibid., p. 118.

387
Noie

4. Ibid., p. 41.
5. Robert Kastenbaum, «“Safe Death” in the Postmodern World»,
in A Safer Death: Multidisciplinary Aspects of Terminal Care, a
cura di Anne e Stan Gilmore, New York e Londra, Plenum Press
1988, p. 12.
6. Robert e Beatrice Kastenbaum, Encyclopedia of Death, Phoenix,
Oryx Press 1989, p. 284.
7. Anita Bryant, citata in Time, 13 giugno 1977, p. 20.
8. Katherine Ramsland, Prism of the Night: A Biography of Anne
Rice, New York, Dutton 1991, p. 115.
9. Joyce Carol Oates, «Dracula», in The Movie That Changed My
Life, a cura di David Rosenberg, New York, Viking 1991, p. 63.
10. Anne Rice, The Queen of the Damned, New York, Ballantine
Books ristampa 1989 (trad. it. La regina dei dannati. Una vampi-
resca avventura di orrore urbano, Milano, Longanesi 1990.)
11. Ibid., p. 230.
12. Jack Anderson, Of the Vampire Within, «The New York Ti­
mes», 8 dicembre 1991.
13. Susan Sontag, Illness As Metaphor and Aids and Its Metaphors,
New York, Anchor Books 1990, p. 182 (trad. it. L’Aids e le sue
metafore, Torino, Einaudi 1990).
14. Cfr. Bruce Nussbaum, Good Intentions: Hotv Big Business and
the Medical Establishment Are Corrupting the Eight Against Aids,
New York, Atlantic Monthly Press 1990.
15. Il primo libro di larga diffusione a sfidare l’ipotesi Hiv è stato
Jay Adams, Aids: The Hiv Myth, New York, St. Martin Press
1989.
16. Celia Farber, Fatal Distraction, «Spin», giugno 1992, p. 84.
17. Barbara Ehrenreich, «Phallic Science», in The Worst Years of
Our Lives, New York, Pantheon 1990, pp. 258-259.

Cannibali reaganiani

1. Clive Barker, «On Censorship», in Clive Barker’s Shadows in


Eden, a cura di Stephen Jones, Lancaster, Underwood-Miller
1991, p. 402.
2. Landon Y. Jones, Great Expectations: America and the Baby
Boom Generation, New York, Ballantine Books, 1981, p. 189.
3. Charles L. Grant, Stephen King: «I Like to Go for the Jugular,
«Rod Serling’s Twilight Zone», aprile 1981, p. 18.

388
The Mounter Show

•I. Ibid.
5. Stephen King, Danse Macabre, New York, Berkley Books 1982,
p. 144 (trad. it. Danse Macabre, Roma, Theoria 1992).
6. Id., «The “Playboy” Interview» (1983), in The Stephen King
Companion, a cura di George Beham, Kansas City e New York,
Andrews a McMeel 1989, p. 27.
7. Tabitha King, introduzione a Carrie: The Stephen King Collec­
tor's Edition, New York, Plume 1991, p. IX.
8. Harlan Ellison, «Harlan Ellison’s Watching: In Which We Di­
scover Why the Parents Don’t Look Like Their Children», in
The Stephen King Companion, cit.
9. Alexis de Tocqueville, Democracy in America, New York, Alfred
A. Knopf 1945, vol. 2, p. 64 (trad. it. La democrazia in America,
a cura di G. Candeloro, Milano, Rizzoli 1992).
10. Le cifre sono tratte dall’articolo di spalla a Bill Goldstein, King
of Horror, «Publishers Weekly», 24 gennaio 1991, p. 7.
11. Stephen King, My Say, «Publishers Weekly», 15 novembre 1985.
12. David Sherman, The Stephen King Interview, «Fangoria», 35
(1984), p. 40.
13. Lloyd Rose, The Triumph of the Herds, «The Atlantic», settem­
bre 1986, p. 103.
14. Stephen King, Danse Macabre, cit., p. 23.
15. Ron Bumett, recensione di It, «The Christian Science Monitor»,
19 settembre 1986.
16. David Gates, recensione di It, «Newsweek», 1° settembre 1986.
17. David Sherman, The Stephen King Interview, cit.
18. Walter Kendrick, Stephen King Gets Eminent, «The Village Voi­
ce», 29 aprile 1981.
19. Victoria Raidin, «New Statesman», 3 marzo 1988.
20. Elenco di finanziatori per Carrie, in «Show Business», 24 agosto
1988.
21. Ken Mandelbaum, Hot Since Carrie: 40 Years of Broadway Musi­
cal Elops, New York, St. Martin’s Press 1991, p. 351.
22. Nicholas de Jongh, «The Guardian», 20 febbraio 1988.
23. Linda Winer, «Carrie»: Staging a Horror on Broadway, «New­
sday», 13 maggio 1988.
24. John Simon, Blood and Ho Guts, «New York», 23 maggio 1988,
p. 60.
25. Jack Kroll, Shakespeare to Stephen King: The Sins of «Carrie»,
«Newsweek», 23 maggio 1988, pp. 74-76.

389
Note

26. Mimi Kramer, Bloody Awful, «The New Yorker», 23 maggio


1988, p. 85.
27. Ken Mandelbaum, Not Since Carrie, cit., p. 9.
28. Joe Queenan, And Us Without Our Spoons, «The New York
Times Book Review», 29 settembre 1991, p. 13.
29. Bret Easton Ellis, American Psycho, New York, Vintage Books
1991, p. 328 (trad. it. American Psycho, Milano, Bompiani 1991).
30. Bill Watterson, «Calvin e Hobbes», ritaglio di striscia senza da­
ta, Universal Press Syndicate, 1990.
31. Norman Mailer, Children of the Pied Piper, «Vanity Fair», marzo
1991, p. 159.
32. Alfred Kazin, American Psycho: Horror Show of Monotony, Hea­
vy-Handedness, «The New York Observer», 1° aprile 1991.
33. Bret Easton Ellis, American Psycho, cit., p. 81.
34. Phoebe Hoban, «Psycho» Drama, «New York», 17 dicembre
1990, p. 35.
35. Ibid.

Mostri di fine millennio

1. Kim Foltz, Consumer Pessimism Rises, A Report by Grey Indica­


tes, «The New York Times», 25 marzo 1991.
2. Lettera di un soldato a «Fangoria», 30 marzo 1991. Archivi Star-
log Communications, New York.
3. John J. O’Connor, Tales from the Crypt Raises Ratings for Hbo,
«The New York Times», 26 giugno 1991.
4. Ann Japenga, Over the Edge?, «Los Angeles Times», 1° settem­
bre 1992. Cfr. pure Gina Arnold, Lollapalooza: The Greatest
McTour on Earth, «La Weekly», 4-10 settembre 1992.
5. Bernard Weinraub, Addamses Startle at Box Office, Too, «The
New York Times», 25 novembre 1991.
6. Ibid.
7. Camille Paglia, Sexual Personae: Art and Decadence from Nefertiti
to Emily Dickinson, New York, Vintage Books 1991, p. 268
(trad. it. Sexual Personae. Arte e decadenza da Nefertiti a Emily
Dickinson, Torino, Einaudi 1993).
8. Leonard Wolf, In Horror Movies, Some Things Are Sacred, «The
New York Times», 4 aprile 1976.
9. Bruce Joel Rubin, Jacob's Ladder, New York, Applause Theatre
Book Publishers 1990, pp. 191-194.

390
Thr Monitor Show

IO. Intervista dell’autore a David Manners, Santa Barbara, aprile


1991.

Postfazione all’edizione italiana

1. Nina Auerbach, Dracula Keeps Rising from the Grave, intervento


a «Dracula ’97: A Centenary Celebration», Los Angeles, agosto
1997. Ristampato in Dracula: The Shade and the Shadow, a cura
di Elizabeth Miller, Desert Island Book, 1998, pp. 26-27.
2. Intervista dell’autore, luglio 1998.
3. Betty Friedan, citata da Samuel Fulwood HI, Women’s Advocates
Offer Clinton Support, «Los Angeles Times», 26 settembre 1998,
p. A-19.
4. Harry M. Benshoff, Monsters in the Closet: Homosexuality and
the Horror Film, Manchester e New York, Manchester University
Press 1997.
5. Clive Barker, intervista dell’autore, giugno 1997.
6. Lewis H. Lapham, Elephant Act, «Harper’s», agosto 1998, p. 8.
7. Steve Biodrowski, Nuclear Denial: Emmerich and Devlin Ignore
Real Historical Horrors, «Cinefantastique», 30, 7-8, ottobre
1998, p. 114.
Indice analitico

Ackerman, Forrest J. 233, 234, The Ape Man, 186


235, 238, 275, 287,346 Arbus, Diane 11, 12, 13, 14, 15,
Addams, Charles 206, 245 16, 17, 18, 63, 248, 346
The Addiction, 100 Arlene Francis, 139, 141, 142
Ai confini della realtà (The Twi­ Arma letale 2 (Lethal Weapon 2),
light Zone: The Movie), 321, 289
325 Arnold, Jack 215, 217
L'Aids e le sue metafore, 309 Arrow, 116
L’Aiglon, 157 Arsenico e vecchi merletti, 191
Aldrich, Robert 272 L’assedio dei morti viventi (Death-
Alien, 263, 264, 265 dream), 270
*
Alien *),
(Alien 264 Astin, John 245
Allan, Elizabeth 163, 164 Atherton, Gertrude 77
Allen, Debbie 331 Attacco alla terra (Them!), 217
All'ovest niente di nuovo (All The Attack of the Crab Monsters,
Quiet on the Western Front), 217
97, 105, 112 Attack of the Fifty-Foot Woman
Allucinazione perversa (Jacob's (L’attacco della donna alta 15
Ladder), 345 metri), 2Y1
Altman, Robert 197 Atwill, Lionel 148, 177, 179
The Amazing Colossal Man, 217 Auerbach/Nina 352
American Bandstand, 233 Ayres, Lew 97
American Psycho, 331, 332, 333,
334, 335, 336,337 Baby Killer (It’s Alive!), 260
American Vampires, 302 Baby Killer III (Island of the Ali­
Amityville Horror, 317 ve), 260
Amleto, 68 Il bacio della pantera (Cat People),
Amore al primo morso (Love at 186, 187
First Bite), 298 Bacio Mortale (Death Kiss), 97
Amore folle (Mad Love), 154, Backus, Richard 270
166, 176 Baclanova, Olga 12,17,127, 128,
Der Andere, 116 129, 131, 146, 346
Andrews, V.C. 266, 323 Bacon, Francis 192, 274, 345
Gli angeli dell’inferno (Hell's An­ Bacon, Lloyd, 148
gels), 107 Bad, 278
Indice analitico

Baggott, King 116 White and the Seven Dwarfs),


Bakacs, Anna 153 180, 207
Baker, Rick 276,277, 286 Binet, Alfred 47, 49
Balderston, John L. 69, 70, 78, Biodrowski, Steve 355
79, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, Bixby, Jerome 321
96, 106, 111, 154, 155, 156, The Black Cat, 97, 150, 151, 152,
168, 169, 170, 172, 189 153, 233, 347
Balla coi lupi (Dances with Wol­ Black Dragons, 191
ves), 286 Black, Karen 258
Ballard, J.G. 335 Black Oxen, 77
La bambola assassina (Child’s Blacula, 316
Play), 266 Blair, Linda 258, 287
La bambola del diavolo (The De­ Blatty, William Peter 257
vil Doll), 173, 174 Blechman, L.G. 155
Bankhead, Tallulah, 118 A Blind Bargain, 54
Bara, Theda 70, 74, 207 Blom, August 116
Barker, Clive 290, 314, 336, 337, Blood Feast, 273
343, 354 Blood of Dracula, 223
Barnell, Jane 133 Blood Salvage, 289
Barry, Julian 230 Bly, Robert 316
Barrymore, John 116, 117, 118, Boasberg, Al 125
119, 120 Bodies Under Siege, 284
Barrymore, Lionel 163 Bonham Carter, Helena 351
Bartel, Paul 333 Booth, Elmer 27,28
Bartlett, Elise 91 Booth, Margaret 27
Barton, Charles 185 Borland, Carroll 164
Bass, Saul 272 Bottin, Rob 274, 275
The Bat, 68 Bow, Clara 73, 74, 75, 76, 77
Bates, Kathy 286 Brabin, Charles 146
Bathory, Erzsébet 273 Bradbury, Ray 23, 324
Baum, Vicki 127 Brahm, John 186
The Beast with a Million Eyes, The Brain from the Planet Arous,
220 220
Beaudine, William 186 Bram, Christopher 356
The Beauty Myth, 281 Branagh, Kenneth 340, 349
The Beginning of the End, 217 Bride of the Monster, 221
Ben, 276 Brood, la covata malefica (The
Ben Hur, 53, 120 Brood), 261, 262, 263
Bender, Jack 266 Brooks, Mel 331
Benshoff, Harry M. 354 Browning, Charles Albert 20
Beranger, Clara S. 117 Browning, Tod 12,13,14,16,18,
Berkeley, Busby 142, 148 19, 20, 22, 23, 24, 25, 26, 27,
Berkson, Eva 194, 195 28, 29, 30, 51, 52, 53, 57, 58,
Bern, Paul 134 59, 60, 61, 62, 63, 94, 95, 96,
Biancaneve e i sette nani (Snow 97, 98, 99, 101, 102, 103, 104,

XQzl
The Mon iter Shotr

105, 122, 125. 124. 125, 126. La casa dei fantasmi (House on
127, 128, 129. BO. B2, 135. Haunted Hill), 224, 225
134, 152, 162, 163, 164, 172, La casa 2 (The Evil Dead II), 285
173, 174, 177, 178, 189, 229, Il castello degli spettri (The Cat
252, 253, 254, 304, 317, 324, and the Canary), 94, 99
347 Castle, William 223, 224, 225,
Brownlow, Kevin 356 226, 256, 273
Bruce, Lenny 229, 230, 232, 245 The Cat and the Canary, 68
Bryant, Anita 305 The Cat Creeps, 99
A Bucket of Blood, 223 Cenerentola, 317
Buckley, Betty 329 Il cervello di Frankenstein (Abbott
Buffy the Vampire Slayer, 356 and Costello Meet Franken­
«B.E.M.», [bug-eyed monsters], stein), 185, 215
220 Chamberlain, Richard 244
Burke, Kathleen 145 Chandler, Helen 100, 103, 163
Burke, Philip 326 Chandu the Magician, 194
Burnett, Carol 211 Chaney, Lon 14, 23, 52, 53, 54,
Burton, Tim 353 55, 56, 57, 58, 59, 61, 62, 63,
Busch, Charles 308 68, 92, 94, 95, 96, 103, 119,
Butler, Ivan 82, 83, 84 124, 148, 177, 189, 253, 269,
273, 279, 287, 324,353,356
Caan, James 286 Chaney Jr., Lon 62, 182, 185,
La caduta della casa degli Usher, 275,353
150 Chaplin, Charles 173
Cagliostro, 143 Cher, 351
Cahn, Edward L. 220 Chi è sepolto in quella casa?
Caine, Hall 66 (House), 345
Cameron, James 343 Choisy, Camille 48, 194
Cameron Menzies, William 194, Chong, Ping 308
218 Christine, la macchina infernale
Caniff, Milton 207 (Christine), 320, 327
Il capitano di Singapore (The Road Cimitero vivente (Pet Sematary),
to Mandalay), 57 323,327
Carewe, Arthur Edmund 96, 101 Cinefantastique, 355
Carewe, Edwin 101 Cittadino dello spazio (This Island
Carmilla, 172 Earth), 220
Carpenter, John 274, 327 The Clansman, 28
Carradine, John 185 Clark, Bob 270
Carrie - Lo sguardo di Satana Clarke, Mae 107, 110
(Carrie), 241, 315, 316, 317, Cline, Louis 89, 111
318, 319, 320, 321, 326, 327, Clive, Colin 107, 113, 159
328, 329, 331, 335 Cohen, Herman 223
Carter, Jimmy 304 Cohen, Larry 260
La casa degli orrori - Al di là del Cohen, Lawrence 327
mistero (House of Dracula), 185 Colman, Ronald 131
Indice analitico

Columbia Pictures, 350 The Cyclops, 220


Condon, Bill 356
Conjure Wife, 190 Dagover, Lil 34
Conned, Hans 204 Daisy, 128, 130
Conway, Jack 95, 130 Dall, Salvador 274, 275
Conway, Tom 187 Dalia nera, 337
Cook, Barbara 327, 328, 329 Danse Macabre, 324, 326
Cooke, Potter 82 Dante, Joe 237, 238, 259, 275,
Cooke, T.P. 82 286, 288, 321
Cooper, Jackie 129 Dark Shadows, 350
Cooper, Merian C. 105, 150 Daumier, Honore de, 198
Coppola, Francis Ford, 350, 351 Davis, Bette 140, 273
Corman, Roger 217, 223 Davis, Jack 198
Il corvo (The Blackbird}, 57 De Jongh, Nicholas 329
Il corvo (The Show), 59 De Lorde, André 47, 49
La cosa (The Thing), 274 De Niro, Robert 350
La «cosa» da un altro mondo De Palma, Brian 326, 327
(The Thing from Another De Toth, Andre 215
World), 274 Dead Again (L'altro delitto), 340
Cose preziose, 331 Dead of Night, 270
Cost parlò Confucio (Outside the
The Deadly Mantis, 217
Law), 52 Dean, James 210, 211, 213, 214
Costner, Kevin 286 Dean, Priscilla 51
Count Yorga, Vampire, 298 Deane, Hamilton 69, 70, 78, 79,
Courtenay, William 96 81, 82, 83 , 84, 85, 86, 87, 90,
Crabtree, Arthur 220, 223
96, 349
Craig, Johnny 198 The Death of James Dean, 210
Crain, William 317
DeCarlo, Yvonne 245
Crawford, Joan 57, 58, 273
Delitti senza castigo (King's
The Crawling Eye, 220
Row), 304
Creation, 149
Il delitto della terza luna, 333
Creepshow, 327
DeMause, Lloyd 304
Creighton, Chaney, 62
The Criminal Code, 108 Demme, Jonathan 341
Cronenberg, David 261, 262, Dern, Bruce 272
Devil Bal's Daughter, 207
263, 327
Cruise, Tom 351, 352 DeWitt Bodeen, 187
Cry of the Werewolf, 186 Dieterle, William 277
Cujo, 327 Dinner with Drac, 233, 276
Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’a­ The Dinosaur and the Missing
mante (The Cook, the Thief, Link, 149
His Wife and Her Lover), 333 The Disenchanted, 173
Curry, Tim 283 Disney, Walt 180
Curtis, Dan 258 Do-It-Yourself Monster Make-Up
Curtiz, Michael 146 Handbook, 287

396
The MonUrr Show t

Donner, Richard 289 Dwight Frye, 111


Donovan's Brain, 220 Dying Young (Scelta d’amore - La
Il dollar Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. storia di Hilary e Victor), 340
Hyde), 118, 119, 120, 121, 137,
165, 194, 341 E Johnny prese il fucile, 189
Dottor Kildare, 244 Earles, Daisy 129, 132
// dottor Miracolo (Murders in the Earles, Harry 52, 124, 128, 130
Rue Morgue), 138, 139, 141, Earth vs. the Spider, 217
143, 146, 150, 194, 280, 304 Eating Raoul, 333
Il dottor Sax, 230 Eberhardt, Thom 285
Dottor Warren e Mr. O’Connor, Eck, Johnny 123, 128, 133, 346
116 Eckhardt, John 122
Douglas, Gordon 217 Eckhardt, Robert 122
Dowley, J. Searle 105 Eggar, Samantha 262
Dracula, 12, 16, 45 , 65, 66, 67, Ehrenreich, Barbara 310
68, 69, 70, 72, 73, 75, 78, 79, The Elephant Man, 261, 277, 279
81, 83 , 84, 85 , 86, 87, 88, 89, Ellis, Bret Easton 331, 332, 334,
90, 92, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 335, 336, 337, 338
100, 101, 102, 103, 104, 105, Ellison, Harlan 319
106, 111, 114, 115, 116, 117, Ellroy, James 337
119, 120, 121, 123, 124, 133, Endore, Guy 154
136, 137, 138, 139, 140, 142, Englund, Robert 290
143, 144, 151, 154, 163, 167, Eraserhead - La mente che cancel­
168, 169, 175, 176, 182, 184, la (Eraserhead}, 260, 261
187, 189, 191, 215, 224, 234, Erdmann, Hans 42
238, 242, 253, 258, 270, 294, L'esorcista (The Exorcist), 257,
304, 307, 340, 341, 347, 348,
258, 285, 287
349, 352, 353,356 Estes, Claude 134
Dracula di Bram Stoker (Bram Sto­
ker’s Dracula), 346, 349
Dracula il vampiro (Horror of Dra­ La famiglia Addams (The Addams
cula), 272 Family), 245, 247, 344
Dracula: la storia mai raccontata, «Famous Monsters of Filmland»,
349 235, 236, 237, 238, 239, 276,
Dracula ’97, 352 287,288,318, 340, 346
Dracula's Daughter, 168, 170, «Fangoria», 288, 289, 290, 320,
171, 172, 289 342
Dracula’s Guest, 167, 168, 170 Il fantasma del castello (London
Dragoti, Stan 298 After Midnight), 61, 119, 162
Drakula, 41 Il fantasma dell'Opera (The Phan­
Dresser, Norine 302 tom of the Opera), 54, 55, 148,
The Duality of Man, 116 151, 328, 350, 356
Duchamp, Marcel 280 Faragoh, Francis Ford 107
2001: Odissea nello spazio (2001: Farrow, Mia 256
A Space Odyssey), 32, 255 Father of Frankenstein, 356

397
Indiee

Favazza, Armando R. 284 Frankenstein contro l’uomo lupo


Feher, Friedrich 34 (Frankenstein Meets the Wolf
Feist, Felix 220 Man), 184
Fellini Satyricon, 16 Frankenstein di Mary Shelley
The Feminine Love of Horror, (Mary Shelley’s Frankenstein),
104 349, 350
Fenomeni paranormali incontrol­ Frankenstein o, Il Prometeo mo­
labili (Firestarter), 327 derno, 65
Ferrara, Abel 100 Frankenstein; or, the Vampire’s
Ferretti, Dante 351 Victim, 67
Fiedler, Leslie 18, 23, 324 Freaks, 12, 13, 14, 16, 60, 123,
Fiend Without a Face, 220 124, 125, 127, 129, 130, 131,
IZ figlio di Frankenstein (Son of 132, 133, 134, 135, 137, 143,
Frankenstein), 178, 179 146, 172, 173, 178, 252, 253,
Fincher, David 264 254, 304, 341, 346, 347
Fiori nell’attico, 266 Freud, Sigmund 60
Fisher, Terence 272 Freund, Karl 99, 143, 154
Fitzgerald, Francis Scott 129 Friedkin, William 257, 258
The 5.000 Fingers of Dr. T, 204 Friedman, Betty 354
Dunst, Kirsten 352 Friedman, David F. 273
A Flame in Byzantium, 303 Fussell, Paul 183, 184
Fleming, Victor 125, 211
Florey, Robert 106, 107, 108, Il gabinetto del dottor Caligari
138, 139, 140, 182 (Das Cabinet des Dr. Caligari),
Foet, 267 31, 32, 33, 34, 36, 37, 38, 39,
Folle Domenica, 129 42, 44, 45, 48, 95, 106, 110,
Footloose, 327 111, 114, 139, 140, 144, 149,
Fort, Garrett 107, 172 151, 178, 179, 190, 200, 219,
Foster, Jodie 341 278, 324, 354
Fowler Jr., George 223 Il gabinetto delle figure di cera
Fox, Sidney 140 (Das Wachsfigurenkabinett), 94
Francis, Arlene (Arlene Kazan- Gacy, John Wayne 323
jan), 138, 141 Galas, Diamanda 301
Frankenheimer, John 265 Galas, Philip-Dimitri 207
Frankenstein, 12, 16, 66, 67, 76, Galeen, Henryk 42
78, 79, 80, 81, 82, 84, 85, 86, Gance, Abel 177
87, 88, 89, 90, 105, 106, 107, Garbo, Greta, 127
108, 110, 111, 112, 113, 114, Garton, Ray 303
115, 119, 120, 121, 125, 137, Gasser, Lajos 41
138, 139, 145, 155, 156, 158, Il gatto nero, 150
168, 175, 176, 186, 189, 194, Geffen, David 351
237, 242, 258, 340, 341, 349, Gemreich, Rudi 207
353, 354, 356, 359 The Ghoul, 176
Frankenstein: An Adventure in Il giardino delle streghe (The Cur­
the Macabre, 79 se of the Cat People), 188
Thr Monitor Show $

Giger, II.R. 263 I lallatt, Henty' 85


Gilbert, John 60 Halperin, Victor 144
The Gilda Stories, 308 Hammer, 349
II gioco di Gerald, 339 Hampton, Benjamin 39
Il giorno degli zombi (Day of the Hand, David 180
Dead), 285 Hands, Terry 328, 329
Il giorno della locusta, 134 Harding, Lyn 87
Gioventù bruciata (Rebel Without Harlow, Jean 127, 134
a Cause), 214, 223 Harlow: An Intimate Biography,
Il gobbo di Notre-Dame (The 134
Hunchback of Notre Dame), 54 Harris, Richard 285
Gods and Monsters, 356 Harris, Thomas 333, 341
Godzilla (Gojira), 216, 354, 355, Hart, James V. 349
357 Hateley, Linzi 329, 330
Godzilla ’98, 356 Hayworth, Rita 164
Goldbeck, Willis 125 Haze, Jonathan 210
Il Golem (Der Golem), 42, 106, Hellraiser (serie di film), 343
111, 151 Hemingway, Ernest 59
Gomez, Jewelle 308 Henderson, Lucius 116
Gordon, Bert I. 217, 220 Hilton, sorelle 129, 130, 133
Gordon, George 65 Hilton, Violet 128
Gordon, Leon 125 Hitchcock, Alfred 47, 272
Gordon, Robert 217 Ho camminato con uno zombi (I
Gordon, Stuart 274 Walked with a Zombie), 188
Gore, Michael 327 Hobart, Rose 120
Grand Hotel, 127 Holbein il Giovane, Hans 197
Il grande nulla, 337 Holden, Gloria 172
Grano rosso sangue (Children of Holland, Tom 266
the Corn), 266, 327 Honda, Inoshiro 216, 217
Grau, Albin 40, 41 Hooper, Tobe 327
Gray, Nan 172 Hopkins, Anthony 341
The Great Train Robbery, 26 Hopkins, Miriam 120
Green, Betty 131 Hopwood, Avery 68
Greenaway, Peter 333 Horrors of the Black Museum, 223
Gremlins (Gremlins), 237, 259, Hotel Transilvania, 303
322 House of Frankenstein, 185
Gremlins 2 - La nuova stirpe Howard, Leslie 107
(Gremlins 2 - The New Howe, James Wong, 164
Batch), 286 Huckleberry Finn, 23
Un grido fino al cielo, 299 Hughes, Howard 107
Griffith, David Wark 26, 27, 28, Hugo, Victor 108
51 Humanoids from the Deep, 258
Gross Anatomy, 285 Hume, Cyril 100
Guerre stellari (Star Wars), 269 Hunt, Martita 157
Gwynne, Fred 245 Hunter, T. Hayes 176
Indice analitico

Huntley, Raymond 70 Johann, Zita 143


Hurlbut, William 155 Johnston, Tucker 289
Hurt, John 263 Jones, Carolyn 245
Huston, John 114, 140 Jones, Ernest 163
Jones, Landon Y. 314
La iena (noto anche come L’uomo Jordan, Neil 351
di mezzanotte [The Body Snat­ Journey’s End, 107
cher}}, L88 Joy, Jason 140
Imhotep, 143 Jukes, Bernard 70
In compagnia dei lupi (The Com­ Juno, Andrea 284
pany of Wolves), 351 Juran, Nathan 217, 220
L’incendiaria, 320 Jurassic Park, 350
Ingels, Graham 198, 199
Inseparabili (Dead Ringers), 261
Karloff, Boris 14, 105, 108, 110,
Intervista col vampiro (Interview
with the Vampire), 299, 303, 113, 143, 144, 150, 151, 152,
153, 157, 158, 160, 161, 166,
306, 351
Intolerance, 51 175, 176, 177, 178, 182, 188,
Invasion of the Saucer Man, 220 191, 220, 221, 233, 243, 244,
L’invasione degli ultracorpi (Inva­ 245, 353, 357
sion of the Body Snatchers), 218 Karlson, Phil 276
Gli invasori spaziali (Invaders Kastenbaum, Robert 305
from Mars), 218, 219 Kazin, Alfred 334
Irving, Henry 65, 130 Keith, Ian 96
Ishioka, Eiko 350 Kelljan, Bob 298
Island of Lost Souls, 144, 145, Kendrick, Walter 326
165, 194 Kenton, Erle C. 144, 184, 185
L’isola del dottor Moreau, 144 Kerouac, Jack 230
L’isola del tesoro, 115 Kiersch, Fritz, 266
It, 320, 323, 324, 325, 327, 336 King Kong, 105, 146, 149, 150,
It Came from Beneath the Sea, 176, 180, 216
217 King, Stephen, 236, 240, 241,
It Lives Again, 260 314, 315, 316, 317, 318, 319,
It’s a Good Life, 321 320, 321, 323, 324, 325, 326,
I Was a Teenage Werewolf, 222 327, 328, 331, 332, 336, 337,
338, 339, 345
J’accuse, 177, 277 Kohner, Paul 99, 100, 151
Jackson, Michael 276, 277, 278, Kramarsky, David 220
279 Kramer, Mimi 331
Janowitz, Hans 35 Krauss, Werner 34
Janowitz, Mayer, 35 Kroll, Jack 331
Der Januskopf, 41, 116 Kruger, Otto 172
JFK, 218 Kubin, Alfred 35
Jim Bludso, 51 Kubrick, Stanley 32, 255, 327

400
The Minuter Show

I .adunali, 11 any 176 Loy, Mirna 127


Laemmle, Carl 92, 94, 98, 106, Lugosi, Bela 14, 41, 71, 72, 73,
107, 113, 114 75, 96, 97 , 98, 99, 101, 103,
Laemmle Jr., Carl, 92, 96, 99, 104, 106, 108, 116, 138, 139,
103, 140, 170 141, 144, 145, 150, 151, 152,
Lafia, John 266 153, 163, 164, 166, 169, 172,
Lajthay, Karoly 41 175, 179, 186, 190, 191, 194,
Lambert, Mary 327 207 , 209, 213 , 215, 220, 221,
Lanchester, Elsa 161, 357 222, 224, 229, 230, 233, 243,
Landers, Lew 166 277, 294, 304, 307,353
Landis, John 276, 277, 278, 321 Lugosi, Hope 222
Lapham, Lewis H. 355 Un lupo mannaro americano a
Laughton, Charles 144, 145, 277 Londra (An American Were­
Lawrence, Quentin 220 wolf in London}, 275, 276, 211
Lee, Christopher 272, 298 Luxury, 96
Lee, Rowland V. 178 Lynch, David 260, 261
Le Fanu, Sheridan J. 172 Lyne, Adrian 345
Leiber, Fritz 190 Lynn, Jennie 128
Leigh, Janet 272
Leni, Paul 94, 95. 99, 108, 151 Macabro (Macabre), 224
Lenny, 230 MacDonald, Philip 156
Leroux, Gaston 55
Mack, Max 116
Lester, Mark L. 327
Il mago di Oz (The Wizard of
La lettera rubata, 160
Oz), 125
Levin, Henry 186
Mailer, Norman 334
Levin, Ira 254, 255
Malcolm Rymer, James 66
Lewis, Al 245
Mamoulian, Rouben 119, 120
Lewis, David 108, 111
Lewis, Herschell Gordon 273 The Man Who Laughs, 108, 128
Lewis, Sheldon 116 Mandelbaum, Ken 331
Lewton, Vai 186, 187, 188 Manders, Lew 190
Life Without Soul, 105 Le mani dell’altro (Orlacs Hàn-
Lights Out, 188, 189 des), 42, 154
Lininger, Hope 222 Manners, David 97, 98, 99, 100,
Live Girls, 303 152, 153, 347, 348
Liveright, Horace Brisbin 67, 68, Mansfield, Richard 116, 118
69, 70, 71, 72, 73, 74, 76, 77, A Man with Red Hair, 145
78, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, Mapplethorpe, Robert 13
91, 111, 349, 359 March, Fredric 119, 120, 121
Lloyd, Frank 77 Marco, Paul 221
Lloyd Webber, Andrew 328 Marin, Edward L. 97
Lord Byron, 65, 114, 156, 158 Mark of the Vampire, 162
Lorre, Peter 154, 179 Marlowe, Rina 134
Lourié, Eugène 217 La maschera della Morte Rossa,
Lovecraft, H.P. 78, 274 292

.4 Al
Indice analitico

La maschera di cera (House of Monster Culture, 232


Wax), 215 Monster Mash, 243, 244,276,339
La maschera di cera (Mystery of The Monster Show, 349
the Wax Museum), 146, 147, The Monster Walks, 146
148, 194 The Monster, 68, 224
La maschera di Frankenstein (The Monsters in the Closet, 354
Curse of Frankenstein), 272 Montagnier, Luc 310
La maschera di Fu Manchu (The Morris, Chester 96
Mask of Fu Manchu), 146 La mosca 2 (The Fly ID, 289
M.A.S.H., 197,286 Il mostro dei deli (The Giant
Mason, James 230 Claw), 217
Matheson, Richard 350 Il mostro della Laguna Nera
Maurey, Max 47 (Creature from the Black La­
Mayer, Carl 35 goon), 215, 325
Mayer, Louis B. 116 Il mostro di sangue (The Tingler),
McCoy, Horace 173 225, 226
McKellen, Ian 356 La mummia (The Mummy), 143,
McLaglen, Victor 52, 127 168, 347, 350, 353
McMahan, Jeffrey N. 308 Munch, Edvard 198
Melford, George 52, 99 Muni, Paul 96
Méliès, Georges 26, 149 The Munsters, 245, 246, 247
Meno di zero, 335 Murders in the Zoo, 146
Merrick, John 279 Mumau, F.W. 40, 41, 55, 100,
La metà oscura, 320 116, 117
Méténier, Oscar 46, 47 The Mystic, 60
The Midnight Show, 211
Milestone, Lewis 97 Napoléon, 177
1984, 310 Naughton, David 276
Miller, George 321 La nave di Satana (Dante’s Infer­
Miller, Rex 337 no), Y16
Miner, Steve 345 Neill, Roy William 184
The Miracle Man, 53 Neumann, Kurt 190
Miracles for Sale, 60, 178 Newman, Joseph M. 220
Misery non deve morire (Misery), Newton Beath, Warren 210
286 Niblo, Fred 53
Modern Primitives, 284 Nicotero, Greg 285, 286, 287
La moglie del soldato (The Crying Nigh, William 191
Game), 351 Nightmare (serie), 290, 323
La moglie di Frankenstein (The Nightmare 3-1 guerrieri del so­
Bride of Frankenstein), 155, gno (A Nightmare on Elm
161, 162,176, 357 Street 3: Dream Warriors), 291
Il mondo perduto, 149 Non aprite quella porta (The Te­
The Money Changers, 39 xas Chainsaw Massacre), 337
The Monkey’s Paw, 270 Non si uccidono così anche i caval­
Monroe, Marilyn 74 li?, 173

an?
The Monster Show «

Nosferatu il vampiro (Nosferatu: Piano... piano, dolce Carlotta


Eine Symphonic des Grauens), (Hush... Hush, Sweet Charlot­
40,41,42,43,44, 45,100, 118, te), 272
119, 190, 230, 278, 299, 308, La piccola bottega degli orrori
354 (The Little Shop of Horrors),
Not Since Carrie: 40 Years of 210, 223
Broadway Musical Elops, 331 Pichel, Irving 119
Notre-Dame (The Hunchback of Pickett, Bobby «Boris» 242,243,
Notre-Dame), 277 244, 276
La notte dei morti viventi (Night Pierce, Jack P. 108, 109, 110,
of the Living Dead), 269, 271, 161, 287
317 Pike, Dennis 262
Le notti di Salem (’Salem’s Lot), Pitchford, Dean 327
240,319, 327 Pitt, Brad 352
Nurmi, Maila 206, 207, 208, 209, Plan Nine from Outer Space, 214
210, 211, 212, 213, 214, 215 Poe, Edgar Allan 42, 139, 140,
Nyby, Christian 274 150, 152, 160, 166, 292
Polanski, Roman 250, 254
Oakie, Jack 73 Polidori, John 65
Oates, Joyce Carol 307 Porter, Edwin S. 26
Oboler, Arch 188, 189 Post, Emily 77
O’Brien, Willis 105, 149 Il pozzo e il pendolo, 166
L'occhio del gatto (Cat's Eye), 327 Pratt, William Henry 108
Ogle, Charles 79 Presumption; or the Fate of Fran­
Olcott, Sidney 116 kenstein, 82
The Old Dark House, 155 Price, Vincent 225, 276
Oldman, Gary 350 Prism of the Night, 306
L'ombra dello scorpione, 320 Profezia (Prophecy), 265
Orwell, George 310 Psycho, 264, 272, 283, 338, 341
Oscuri Gemelli, 349
O’Sullivan, Maureen 174 Quarantaduesima strada (Forty-se­
Ouspenskaya, Maria 183, 185 cond Street), 148
Quarto potere (Citizen Kane), 32,
Palance, Jack 350 178
Patrick, Robert 343
Peeters, Barbara 258 Rabe, David 271
Peggy, 80, 81 Racconti dalla cripta (Tales from
The Penalty, 53, 54, 57 the Crypt), 342
Per favore non toccate le vecchiet­ Radiazione BX distruzione uomo
te (The Producers), 331 (The Incredible Shrinking
Il perturbante, 60 Man), 217
Philbin, Mary 55 Ragazzi perduti (The Lost Boys),
Il pianeta proibito (Forbidden Pla­ 279
net), 100 Raimi, Sam 285

403
Indit e analitico

Rakowitz, Daniel 333 Robertson, John S. 116


Ramona, 101 Robinson, Edward G. 95
Ramsland, Katherine 306 Robinson, George 99
Randian, Prince 128, 133 The Rocky Horror Picture Show,
Randolph, Jane 187 45, 283
Rathbone, Basil 179 Rodan, 217
The Raven, 166, 167, 176 Roderick, Olga 133
Ray, Nicholas 214 Romero, George 269, 271, 277,
Reagan, Ronald 303 , 304, 305, 317, 327
308, 314, 332 Rose, Lloyd 321
Reagan's America, 304 Rosemary's Baby, 254, 255, 256,
Re-animator (Re-Animator), 274 257
Re-animator 2 (Bride of Re-Ani­ Rosen, Philip 186
mator), 286 Rosenberg, Stuart 318
Reed, Oliver 261 Ross, Herbert 327
Reed, Tom 156 Rossitto, Angelo 129, 133, 346
Reeves, Keanu 350 Rothafel, Roxy 36
La regina dei dannati, 303, 307 Rousselot, Philippe 351
Le regole dell’attrazione, 335 Rowland, Roy 204
Reiner, Rob 287, 327 Rubin, Bruce Joel 345
Reinhardt, Max 151 Rupert Julian, 54, 99
Reiss, Lionel 33 Ruric, Peter 152
Remarque, Erich Maria 98 Russell, Chuck 291
Repulsion, 250 Ryder, Winona 350
Resurrection, 101 Rye, Stellan 42
The Return of Frankenstein, 154
Riccardo 111, 118 Sanders, Ken 289
Rice, Anne 172, 298, 299, 300, Savini, Tom 269, 270, 271, 285,
303,305, 306, 307,351,352 290, 342
Riesner, Dean 206 Sayles, John 276
Rilla, Wolf 251 Sceicco (The Sheik), 52
Rinehart, Mary Roberts 68 Scenting a Terrible Crime, 26
Il risveglio del dinosauro (The Schloss, William 224
Beast from 20.000 Fathoms), Schoedsack, Ernest B. 105, 150
217 Schreck, Max 118, 119, 308
Il ritorno dello scimmione (Return Schulberg, Budd 129, 173
of the Ape Man), 186 Schumacher, Joel 279, 340
Il ritorno del vampiro (The Return Schwarzenegger, Arnold 343
of the Vampire), 190 Lo sconosciuto (The Unknown),
Il ritratto di Dorian Gray, 117 57, 60, 304
Robbins, Clarence Aaron «Tod» Scott, Ridley 263
52, 124 Searle, J. 79
Robbins, Harold 134 Sears, Fred F. 217
Robbins, Tim 345 Il segreto del Tibet (Werewolf of
Robbins, Tod 123, 124, 127 London), 165, 176, 182

404
Thr Monster Shou*

Sciginann, George A. 27, 28 Im sposa di Frankenstein, 249,


Selick, Henry 353 257, 277, 280, 289
La serpe di Zanzibar (West of Zan­ Spurs, 123, 124
zibar), 60 Stand by Me - Ricordo di un’esta­
Sharman, Jim 283 te (Stand by Me), 327
Shaw, George Bernard 69 Stevenson, Robert Louis 41, 115,
Shearer, Norma 129 116, 117, 120
Shelley, Mary 65, 67, 84, 106, Stoker, Bram 41, 65, 66, 67, 68,
111, 112, 156, 158, 257, 309 70,96, 116, 117, 168,181, 185,
Shelley, Percy Bysshe 65, 77 , 88, 187, 257, 294, 349, 352
114 Stone, Oliver 218
Sherriff, Robert C. 107, 170, Storia di una monaca (The Hun’s
171, 172 Story), 226
Sherwood, Robert Emmet 107 La strage di Frankenstein (I Was
Shining (The Shining), 320, 327 a Teenage Frankenstein), 223
Shire, Talia 265 Strange, Glenn 185
Shock Theater, 231, 232, 325 Lo strano caso del dottor Jekyll e
The Shotv, 60 del signor Hyde, 41, 115, 116,
Shulman, Irving 134 117, 118
Siegel, Don 218 Strayer, Frank 146
Il silenzio degli innocenti (The Si­ Le streghe di Salem, 326
lence of the Lambs), 333, 341 Strickfaden, Kenneth 112
Silverstein, Elliot 285 Strock, Herbert L. 223
Simmons, Jack 210, 211 Struss, Karl 120
Simon, John 330 Studente di Praga (Der Student
Simon, Simone 187 von Prag), 42, 193
Sinclair, Upton 38, 39 Sullivan, Thomas Russell 116
Siodmak, Curt 62, 182
Sutherland, A. Edward 146
Den Skaebnesvangre Opfindelse, Sweeney Todd: The Demon Bar­
ber of Fleet Street, 332
116
Sloan, Edward Van 86 Tarantola (Tarantula), 217
Smiley, Joseph W. 105 Taylor, Dwight 129
Smith, Dick 287 Teague, Lewis 327
Smith, Kent, 191 Terminator (The Terminator),
Snow, Elvira 128 343
Society - The Horror (Society), Terminator 2-11 giorno del giudi­
275 zio (Terminator 2: Judgment
Il sole sorge ancora, 59 Day), 343
Somtow, S.P. 303 Terrore alla tredicesima ora (De­
Sondheim, Stephen 332 mentia 13), 346
Sonnenfeld, Barry 344 Terrore dall’ignoto (From
Sontag, Susan 309 Beyond}, 274
Spacek, Sissy 326 Il terrore di Frankenstein (The
Spielberg, Steven 236, 321 Ghost of Frankenstein), 184

405
Indice analitico

Terry and the Pirates, 207 Vampire Junction, 303


Thalberg, Irving 124, 127, 129, Vampire Lesbians of Sodom, 308
130 The Vampire Lestat, 303
Theatre des Vampires, 352 Vampires Anonymous, 308
Thesiger, Ernest 157, 158 I vampiri di Praga {The Vampires
Thorndike, Sibyl 69 of Prague), 162, 163, 164, 173,
Thriller, 276, 277, 278, 279 176
Tim Burton's Nightmare Before Il vampiro, 65, 67
Christmas, 353 Van Sloan, Edward 114, 143
Timpone, Anthony 288 Vamel, Marcel 194
Tourneur, Cyril 228 Varney the Vampire, 66
Tourneur, Jacques 186, 188 The Vault of Horror, 295
Tovar Kohner, Lupita 99, 100 Veidt, Conrad 34,41,42,95,108,
Una tragedia americana, 67 110, 116,128, 140, 154
La tragedia del vendicatore, 228 The Veteran, 270
Travolta, John 351 Via col vento {Gone with the
1 tre {The Unholy Three), 52, 53, Wind), 211
57, 95, 124, 174 Il villaggio dei dannati {Village of
Tree, Dorothy 142 the Damned), 251
Trilogia del terrore {Trilogy of The Virgin of Stamboul, 51, 52
Terror), 258 Visaroff, Michael 163
Trumbo, Dalton 189 Voight, Jon 351
Tucker, George Loane 53 La Voluntad del Muerto, 99
Twilight Zone, 321 Von Fritsch, Gunther 188
Von Twardowski, Hans Heinz 34
Ulmer, Edgar G. 97, 151, 153
L’ululato {The Howling), 237,
Waggner, George 182
275, 286
The Undying Monster, 186 Walas, Chris 289
Universal Horror, 349, 356 Walker, Stuart 165
Uomini della notte {Outside the Walsh, Raoul 52
Law), 95 Wampyr {Martin), 271
L’uomo che non sapeva amare, War of the Colossal Beast, 217
134 Warhol, Andy 16
Un uomo chiamato cavallo 04 Warm, Hermann 35
Man Called Horse), 285 Warren, James 234,235,248,287
L’uomo invisibile {The Invisible Wasserstein, Wendy 205
Man), 155 Weaver, Sigourney 264
L’uomo leopardo {The Leopard Webling, Peggy 78, 79, 80, 81,
Man), 188 83, 84, 85, 87, 88, 106
L’uomo lupo {The Wolf Man), Webster, Aileen 97
182, 186, 354 Webster, Nicholas 97
Wegener, Paul 42
Vale, V. 284 Welles, Orson 32
Valentino, Rodolfo 52 Wells, H.G. 144

406
The Monster Show

Wells, Jacqueline 153 Wolf, Naomi 281


Wertham, Fredric 335 Wolfson, PJ. 154
West, Mac 16, 209 Wong Howe, James 164
West, Nathanael 134 Wood, Edward 221
Whale. James 12, 107, 108, 109, Wood Jr., Edward D. 215
110, 112, 113, 139, 155, 156, Wood, Sam 304
157, 158, 159, 160, 161, 172, Woods, James 308
280, 356, 357 Woolf, Edgar Allan 125
What Makes Sammy Run?, 173 Worsley, Wallace 53, 54
White, Robb 226 Wray, Fay 142
White Zombie, 144 Wright, Willard Huntington 31
The Wicked Darling, 72 Wyatt, Jane 172
Wiene, Robert 35, 36, 42
Wilbur, Crane 68 Yarbro, Chelsea Quinn 303
Wilbury, Crane 224 Youngson, Jeanne 302
Wilcox, Fred M. 100 Yuzna, Brian 274, 286
Wilde, Oscar 117
Willis, Matt 190 Zacherle, John 231, 232, 23,3,
Wilson, Alice 51 244,276
Wilson, F. Paul 267 La zampa di scimmia, 270, 323
Winer, Linda 330 Zinnemann, Fred 226
Winfrey, Oprah 343 Zip, 128
Wisbar, Frank 207 Zombi (Dawn of the Dead), 271,
Wise, Robert 188 286, 337
The Witch ofTimbuctoo, 173 La zona morta (The Dead Zone),
The Wolf Man, 182 320, 327

407

Common questions

Basati sull'IA

'Freaks' utilized real-life individuals with deformities as part of its narrative. Upon its release, the film faced significant backlash due to its bold portrayal of physical anomalies, which shifted sensationalist public perceptions of disabilities. Initially, its presentation was seen as exploitative, but over time, 'Freaks' was reinterpreted as a more compassionate display that challenged societal taboos and inspired empathy, bringing visibility to a marginalized group. The film's eventual reception, particularly in the countercultural movements of the 1960s, contributed to evolving portrayals. Publications began framing the film in a compassionate light, advocating for greater understanding and deconstructing stigmas around disabilities—a move away from voyeuristic sensationalism towards a more inclusive cultural dialogue .

Films of the 1950s, like 'Invasion of the Body Snatchers,' distinctly channeled Cold War paranoia through narratives centered on covert invasions and conformity. These films depicted aliens and monsters as stand-ins for the perceived threat of communism, mirroring societal fears influenced by geopolitical tensions. The narrative decisions to employ aliens as metaphors for ideological threats facilitated a psychological exploration of trust, authority, and individuality—themes ingrained in the American consciousness. By embedding these themes within sensational fiction, films both critiqued and comforted audiences, reinforcing a structured worldview amidst uncertainty. This reflects the role cinema played in digesting and commenting on broader existential fears of the era .

Balderston's adaptation of 'Frankenstein' incorporated an evolved thematic layer of theological discourse, prominently differentiating from Shelley's original work. The adaptation retained the foundational framework while supplementing it with dialogues dense in theological concerns and over sixty direct mentions of 'God,' juxtaposing theological themes more robustly. This approach mirrors a theological antithesis to the original Romantic Promethean ideologies which were inherently at odds with Christian doctrines. This thematic enrichment showcased Balderston's intention to invoke discussions about the man-divinity relationship, although Hollywood's adaptation diverting from explicit theological emphasis kept Balderston's dramatic flair through elements like the sizzling electrical apparatus .

Horace Liveright's financial strategies were primarily driven by his ambitions to pivot into cinema. However, he mishandled the rights to key productions, namely 'Frankenstein' and 'Dracula.' For 'Dracula', Liveright did not secure film adaptation rights and thus was blindsided when the Universal paid $40,000 for these rights. In the case of 'Frankenstein', despite holding the option, the lack of experience Liveright had in film production made him implausible to be taken seriously by Universal. His financial mismanagement, coupled with threats of legal disputes over supposed damages to his theatrical rights by film adaptations, culminated in a settlement of $4,500 paid by Universal to close the issue. These decisions strained his credibility, and fast-tracked his financial downfall, as his options became steadily devalued and unpromising .

Horace Liveright's turbulent interactions and conflicting personality often strained relationships within the industry, evidenced by his domineering style and financial negligence. Disputes with scriptwriters like Balderston over creative control on productions such as 'Frankenstein' reflect personal animosities that alienated collaborators. His insistence on imposing his ideas amidst financial setbacks illustrated a lack of emotional intelligence and adaptability. This persistent misalignment with partners culminated in a self-destructive trail leading to damaged professional rapports and credibility. Liveright's inability to maintain collaborative coherence contrasts his potential ambitions, leading him to further isolation and diminishing influence within the entertainment realm .

Horace Liveright's professional decline was significantly influenced by a series of missteps related to rights management and financial dealings. His failure to secure rights for theatrical adaptations, like for 'Dracula', left him outpaced and financially burdened by subsequent adaptations. Liveright's inability to transition effectively into cinema left him with squandered opportunities and legal conflicts that strained his resources. The settlement for supposed damage to theatrical rights by the film adaptation cost $4,500, and his subsequent inability to generate successful projects further underscored his declining fortunes. Such mismanagement ultimately impaired his legacy and financial stability as he was beset by insurmountable arrears and credibility issues .

Universal's strategy of remaking classic horrors like 'Frankenstein' relied on a contractual preemption to manage rights ahead of release, avoiding previous adaptation mishaps experienced by predecessors such as Horace Liveright. Universal secured strategic control over adaptation processes, prioritizing adaptation retention and creative direction which prevented inkling to increased legal troubles or projection uncertainties. Despite negative perceptions of earlier adaptations, Universal's approach with calculated reinventions ensured source material loyalty while navigating artistic renewal, thereby restoring consumer trust and interest in genre-based offerings. This facilitated smoother reconciliation processes with source discrepancies and public reception, nurturing longer brand affiliations with horror classics .

'Invasion of the Body Snatchers' (1956) encapsulates the Cold War era's pervasive anxiety about conformity and infiltration. Directed by Don Siegel, the film mirrored societal fears of communist expansion where mind-controlling monsters represented the omnipresent threat perceived by the Western world against Soviet ideologies. Its narrative—a covert invasion by alien pods facilitating a community-wide transformation—reflects a dual metaphor: an allegory for both Cold War paranoia and a critique of social conformity described by Erich Fromm as a 'flight from freedom.' These themes were subtle and multilayered enough that contemporary political metaphors did not face notable critique, yet they portrayed a societal unease that resonates with longstanding cultural and political discourses on collective identity and individual autonomy .

The financial arrangement for 'Frankenstein' involved Balderston and Webling accepting a fee of $20,000, with an agreement to receive one percent of the film’s gross earnings. This arrangement meant that though the upfront payment was less than what was projected or achieved by 'Dracula,' the ongoing percentage of the gross opened doors for a stable and potentially lucrative payout contingent on the film's success. This strategy reflected a savvy financial choice given Universal's precarious condition, allowing them to capitalize on future success, despite initial financial compromises. Such a model suggested a lean approach towards maximizing long-term financial benefits in speculative and volatile markets .

Director Robert Florey initially faced artistic challenges with the 'Frankenstein' project, including conceptualizing the monster as a simplistic brute devoid of pathos, derived from the stylized and expressionist influences similar to 'Caligari.' He even began shooting test reels using sets from 'Dracula.' The challenge was compounded by Bela Lugosi's reluctance to play a mute role, and thus, Florey's vision faced further complications. Ultimately, the resolution involved replacing Florey with James Whale, a director with a theatrical background who might resolve the artistic disputes and bring a fresh perspective to the project .

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