MAANFXVVD4723geografia 1-02-04 2024
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popolazione mondiale.
Urbanizzazione: sviluppo e sistemazione urbanistica sia di centri urbani di nuova progettazione, sia
di città preesistenti caratterizzate da un intenso accrescimento della popolazione.
L’intervento dell’uomo trasforma l’ambiente in modi diversi. Il modo in cui l’uomo ha modificato
l’ambiente varia molto da luogo a luogo. Vi sono infatti luoghi in cui le modificazioni sono appena
visibili e luoghi che invece conservano pochissime tracce dell’ambiente originario, prima
dell’intervento dell’uomo. Per poter vivere, l’uomo è sempre dipeso dalle risorse che l’ambiente gli
ha messo a diposizione. Sin dall’antichità le comunità di individui hanno cominciato a conoscere
sempre meglio la natura e quello che poteva offrire loro e hanno iniziato una grande opera di
intervento e di modificazione dell’ambiente in cui vivevano. Nonostante l’ambiente fisico ha posto
una serie di vincoli all’uomo, un clima molto caldo e arido, o un territorio ripido e roccioso, allo
stesso tempo ha offerto anche una serie di situazioni favorevoli per l’occupazione del territorio e per
l’utilizzazione delle risorse fisiche. Le caratteristiche ambientali rappresentano il dato di partenza
dei gruppi umani, sono poi le successive modificazioni, in ordine all’organizzazione sociale e
produttiva, che consentono lo sviluppo e la qualità degli interventi. Le stesse caratteristiche
ambientali non condizionano necessariamente allo stesso modo le attività umane; due aree simili dal
punto di vista ambientale possono ospitare popolazioni le cui attività sono molto diverse, per
esempio, le terre subpolari del continente americano ospitano gruppi di pescatori come gli
eschimesi, le terre subpolari della regione euroasiatica accolgono gruppi di pastori nomadi, come i
lapponi. Con il termine paesaggio naturale si intendono quei luoghi che si presentano totalmente
privi di interventi umani, oppure con interventi assai limitati. Il paesaggio artificiale o umanizzato, è
invece quello che non esiste in natura, ma che è stato plasmato dall’uomo a seconda delle attività
che vi ha svolto, come i paesaggi delle campagne e quelli delle città. Il paesaggio della campagna
coltivata ad esempio, in realtà è un paesaggio totalmente modificato, per coltivare infatti sono
necessari interventi profondi sull’ambiente naturale. Il paesaggio urbano è la forma più evidente di
paesaggio artificiale: lo spazio delle città è completamente edificato e occupato da case, costruzioni
dalle più varie forme e dimensioni, industrie, strade, ferrovie. Anche la vegetazione che è presente
in città, alberi dei viali o dei parchi, non è naturale, ma è il frutto dell’intervento dell’uomo. I luoghi
in cui la presenza dell’uomo è totalmente assente sono ormai pochissimi e si trovano in aree molto
marginali. Possono essere considerati paesaggi naturali quelli delle zone polari, della foresta
equatoriale o delle aree desertiche. Tuttavia, anche in queste regioni l’uomo, pur non essendo
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ancora riuscito a modificare in modo sostanziale l’ambiente naturale, ha lasciato qualche traccia
della sua permanenza.
La nascita delle città può essere fatta risalire a circa 3500 anni prima di Cristo, quando sorsero le
prime città mesopotamiche. Da allora la crescita delle città è proseguita molto lentamente e in modo
piuttosto discontinuo, fino ai nostri giorni quando la crescita urbana ha conosciuto una netta
accelerazione che ha portato agli attuali fenomeni di sovrappopolamento delle città. La
distribuzione delle città sul territorio risente di parecchi fattori ambientali e climatici, che fin
dall’antichità hanno determinato la scelta dei siti dove sorgevano le città e il grado di sviluppo
urbano di una determinata regione. Le zone lontane dal mare, quelle dalla morfologia più
accidentata come i rilievi montuosi e le depressioni, quelle meno ricche di corsi d’acqua, quelle
troppo fredde o troppo calde, sono le aree dove con minore frequenza gli uomini hanno fondato i
centri urbani. Circa il 70% delle città del mondo si concentra nella fascia climaticamente favorevole
delle regioni temperate o nella regione tropicale monsonica calda e piovosa o nelle zone
pianeggianti, sulle coste, lungo il corso dei fiumi e le sponde dei laghi. Il Mediterraneo e l’Asia
sono le aree di più antica urbanizzazione. Tutta la regione che si sviluppa intorno al mar
Mediterraneo ha vissuto precocemente il fenomeno urbano e ancora oggi presenta una rete urbana
assai fitta e articolata. Altre aree di antica urbanizzazione sono le regioni asiatiche temperate e
monsoniche, dove si sono localizzate alcune delle maggiori civiltà del mondo antico. Si tratta di
città di origine molto diversa: religiosa, coloniale o politica, le quali si sono ingrandite a dismisura
nel corso degli anni, ad esempio Calcutta, Singapore, Hong Kong, per l’afflusso di enormi masse di
popolazione emigrata dalle campagne più povere. Negli altri continenti le città sono per lo più di
origine europea e coloniale, anche se oggi presentano livelli di sviluppo e caratteristiche molto
diverse tra loro. Nell’America Meridionale prima dell’arrivo degli europei non esistevano grandi
centri abitati paragonabili alle città europee; le uniche città importanti erano le capitali dei due più
grandi stati dell’epoca: l’attuale Città del Messico, capitale dell’impero degli Aztechi, e Cuzco, in
Perù, capitale dell’impero degli Inca. Le città attuali sono state fondate tutte dal XVI secolo in poi
dai colonizzatori europei e si collocano per la maggior parte sulle coste dell’Oceano Atlantico,
spesso in corrispondenza della foce dei grandi fiumi. Simile è la situazione dell’Africa
subsahariana, dove le città rappresentavano i punti nevralgici per il commercio e l’esportazione dei
prodotti dell’entroterra. A sud del deserto del Sahara grandi e importanti città esistevano solo sulla
costa orientale, dove erano state fondate dagli arabi; nel resto del continente le popolazioni
vivevano per lo più in villaggi di piccole dimensioni, sparsi sul territorio della savana e della
foresta. Anche in America del nord e in Australia le città hanno origine europea e il loro livello di
sviluppo è estremamente elevato: le città hanno aspetto modernissimo e sono assai diffuse le
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metropoli di grandi o grandissime dimensioni. Questo modello di sviluppo è stato adottato anche
nelle metropoli del Giappone. Qui permangono solo sporadiche tracce delle antiche città
preesistenti, si tratta per lo più di edifici religiosi, collocati fuori dal centro urbano o in aree verdi e
isolate dagli edifici moderni.
La gerarchia urbana.
Le città che compongono un tessuto urbano di uno Stato, di un continente o del mondo intero,
differiscono notevolmente tra loro per dimensioni, funzioni e ruolo economico che svolgono.
Alcune hanno una prevalente funzione mercantile. Sorgono sul mare e hanno porti di grande
traffico e nel tempo sono diventate anche industriali, come Tokyo, Londra, New York; altre hanno
carattere prevalentemente industriale, come Chicago o San Paolo del Brasile; altre ancora si sono
sviluppate dapprima come centri politici e amministrativi, Parigi, Mosca, Pechino, Il Cairo; altre
invece nascono come centri commerciali o amministrativi e poi sono diventate la meta di un
afflusso incontrollato d cittadini in cerca di una vita migliore, si trovano in paesi emergenti o poveri
come Calcutta. Esse possono essere classificate seguendo diversi criteri. Il primo parametro può
essere quello che prende in considerazione la loro funzione prevalente, cioè l’attività che più di altre
ne caratterizza lo sviluppo economico e l’aspetto. In tal modo si possono individuare alcune
tipologie fondamentali come le città industriali, portuali, commerciali, dei trasporti, turistiche, pur
sapendo che nella maggior parte dei casi le città assumono le caratteristiche di centri polifunzionali,
aventi dunque una pluralità di funzioni. Un altro parametro può essere rappresentato dalla
popolazione residente, in base alla quale le città possono essere anche ordinate gerarchicamente.
Esistono infatti centri piccoli, ma importanti, perché comprendono funzioni urbane avanzate, e
centri di dimensioni maggiori, ma economicamente meno rilevanti. Un ulteriore criterio di
classificazione è quello di considerare il livello delle funzioni che le città svolgono e i servizi che
offrono e, in base a questi, valutarne la capacità di attrazione e di organizzazione del territorio
circostante.
Così è possibile definire una gerarchia di centri urbani: alla base sono situati quelli che offrono i
servizi più comuni e più diffusi sul territorio ma, man mano che si sale, i centri diminuiscono di
numero e offrono servizi sempre più rari, fino al vertice, dove si trovano le metropoli, nelle quali
sono sviluppati i settori del terziario superiore e del quaternario, e che esercitano funzioni di
controllo economico-politico ad ampio raggio. In rapporto allo spazio influenzato dall’azione delle
metropoli, le città si distinguono in mondiali, nazionali e regionali. Al di sotto ci sono città che
condizionano aree più ristrette, come il comprensorio o la provincia. L’intero sistema urbano
funziona come un’enorme macchina articolata su livelli diversi, ordinati in modo decrescente. Le
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grandi metropoli mantengono rapporti internazionali, elaborano e decidono politiche economiche,
producono informazioni e modelli culturali che trasmettono ai livelli inferiori della gerarchia. Le
metropoli nazionali assolvono le stesse funzioni nei confronti delle metropoli regionali che, a loro
volta, fungono da cinghia di trasmissione verso i centri minori e da questi ultimi le informazioni
passano alle campagne. Così flussi invisibili, ma potenti, diffondono in modo minuzioso i modelli
economici e culturali del “centro” e ne garantiscono la subordinazione. L’offerta dei servizi è oggi il
criterio più utilizzato per valutare lo status di una città, ovvero a quale livello della gerarchia urbana
si colloca l’importanza della stessa.
Le città europee crescono intorno al centro storico, sono centinaia, con poche metropoli fortemente
accentratrici e un enorme numero di centri urbani intermedi, che occupano in modo uniforme il
territorio dell’intero continente formando una rete urbana molto fitta. Le città europee, la cui origine
risale per la maggior parte al Medioevo, presentano tutte la stessa struttura: un nucleo storico e
monumentale antico, circondato da cinture intermedie e periferiche, che si sono aggiunte nel corso
del tempo e hanno acquisito precise funzioni, centri amministrativi, zone residenziali, aree verdi,
aree industriali. Queste città sono ancora lontane dall’esercitare un’influenza dominante sul
territorio circostante, sull’economia e sui modelli di vita, che continuano a mantenersi
prevalentemente rurali. Le città americane e giapponesi invece presentano una struttura regolare e
razionale. Fuori dall’Europa la straordinaria crescita economica di alcune regioni di più recente
urbanizzazione ha creato diversi modelli di sviluppo urbano. Le città dell’America del nord o
dell’Australia sono di origine recente. Gli edifici sono moderni e funzionali e si collocano in un
tessuto urbano molto razionale, che è stato disegnato secondo precisi piani di crescita. Il centro di
queste città ospita edifici molto alti e veri e propri grattacieli, strutture modernissime, raramente
sono adibiti ad abitazioni, quasi sempre a uffici, ad alberghi, ristoranti, negozi, dotati di ampi
parcheggi sotterranei. Le metropoli americane sono servite da infrastrutture efficienti ed estese:
autostrade a più corsie, chilometri di linee metropolitane sotterranee, fitte reti di superficie, grandi
centri commerciali, grandi istituti scolastici e ospedalieri. All’interno della città non vi è alcuna
struttura industriale e le attività terziarie sono assolutamente prevalenti, soprattutto quelle
finanziarie, assicurative e bancarie. Fuori dalla città si sviluppano ampi sobborghi residenziali, nei
quali la struttura edilizia prevalente è la villetta monofamiliare. Il Giappone presenta un modello
urbano simile a quello americano: le città hanno un aspetto modernissimo. Nell’Asia, in Africa e in
America latina invece le città presentano un tessuto urbano tutt’altro che moderno. L’abitato si
estende a macchia d’olio, con edifici prevalentemente bassi, su un reticolo vario, caotico e
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disordinato. L’edilizia privata è piuttosto povera e spesso degradata e deteriorata. Qui la
stratificazione degli insediamenti non è leggibile tanto in chiave cronologica, come nelle città
europee, quanto in chiave sociale: le diverse zone della città non si differenziano tra loro per il fatto
di essere state costruite in epoche differenti, quanto per essere abitate da una popolazione più o
meno ricca ed essere dotate di edifici e strutture qualitativamente migliori o peggiori.
Le megalopoli.
Nelle città più ricche la continua e veloce espansione sul territorio delle città più grandi ha prodotto
nuove forme urbane che non hanno riscontri in terra europea. Sulla costa orientale atlantica degli
Stati Uniti in uno spazio lungo circa 600 km e largo 200, delimitato a ovest dalla catena montuosa
dei monti Appalachi, numerose grandi città si sono talmente ingrandite da arrivare a congiungersi
l’una con l’altra e a formare un’unica grande conurbazione. Gli abitanti si succedono senza
soluzione di continuità, perché tra i centri più grandi si sono inserite numerose altre città di media
dimensione, ad esempio la regione completamente urbanizzata, compresa tra Boston e Washington
ospita quasi cinquanta milioni di abitanti e gli americani la chiamano Boswash, dalle lettere iniziali
dei nomi delle due città in cui ha inizio e fine la più vasta conurbazione lineare del pianeta. Analoga
a questa è la grande conurbazione che si trova nella principale isola dell’arcipelago giapponese,
Honshu, qui si raggruppano numerosi centri di dimensioni molto rilevanti: la capitale Tokyo,
Osaka, Yokohama e Nagoya, Kyoto e Kobe. In tutto vivono in quest’area più di 50 milioni di
persone. Le megalopoli sono regioni in cui le città occupano l’intero territorio. Per queste nuove e
vaste aree urbane, il termine metropoli, adatto a definire un’area urbanizzata che ruota attorno a un
nucleo formato da una città di grandi dimensioni, e il termine conurbazione, che indica la fusione di
due o più città, non sono più sufficienti. È stato perciò elaborato il termine megalopoli, che
definisce una grande regione completamente urbanizzata costituita dall’insieme di più metropoli
che, espandendosi, sono arrivate a toccarsi e a confondere i rispettivi confini: ciascuna città
mantiene la propria importanza e la propria individualità e, contemporaneamente, ha costanti e
frequenti rapporti di relazione con le vicine città. Si tratta di vere e proprie regioni-città, la struttura
urbana è molto regolare e razionale, con vie perpendicolari e parallele tra loro, servizi moderni ed
efficienti, gran numero di grattacieli nei centri amministrativi. Nelle megalopoli spesso il problema
della mancanza di spazio si è esasperato e in alcuni casi è così grave che si sono dovuti sfruttare
spazi particolari, come nel caso del porto di Yokohama, dove le industrie sono state edificate su
piattaforme artificiali in mare. Tra i molti centri che compongono una megalopoli, uno funge da
“città-guida”, New York e Tokyo per esempio: queste sono i punti di riferimento amministrativo,
politico, culturale ed economico dell’intera megalopoli, tanto da costituire dei veri poli di
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riferimento mondiali, come per l’attività finanziarie che si svolgono nelle Borse, valori di Tokyo e
di New York condizionano quotidianamente l’andamento delle finanze di tutto il mondo. Ma nelle
megalopoli, sono grandi anche i problemi. Infatti far funzionare un sistema urbano di dimensioni
enormi come quello di una megalopoli non è semplice; perché tutto funzioni a dovere è necessario
un capillare coordinamento tra le amministrazioni dei diversi centri che compongono la regione
urbana, in modo che i servizi forniti alla popolazione non subiscano intoppi o non siano inadeguati.
Ad esempio far fronte agli enormi consumi di luce, allo smaltimento dei rifiuti. Inoltre le
megalopoli devono affrontare una crescente disgregazione sociale, che ne sta compromettendo gli
equilibri. Frequenti sono infatti i quartieri emarginati, cosiddetti “ghetti”, in cui si raccolgono le
minoranze etniche, i poveri e i diseredati e dove si sviluppano delinquenza, traffico di droga,
violenze razziali, omicidi.
Le metropoli.
Nei paesi meno sviluppati sono numerose le metropoli, che hanno iniziato un processo vertiginoso
di crescita, che le ha portate ad accogliere un numero elevato di abitanti. Si tratta di sistemi urbani
molto diversi dalle megalopoli, perché derivano da un’espansione abnorme di un’unica città e non
dalla fusione e dall’integrazione di più centri urbani. La crescita delle metropoli del sud del mondo
è legata al costante afflusso di nuova popolazione delle campagne, dove la pur lenta introduzione di
tecniche agricole progressivamente modifica i processi produttivi, liberando manodopera. Il
processo è simile a quello vissuto dalle campagne europee durante la rivoluzione industriale, ma in
maniera molto maggiore. Le metropoli diventano la meta agognata di milioni di contadini che
sperano di potervi trovare lavoro, un reddito, il riscatto della miseria. Ma queste città stentano a
decollare economicamente, concentrano poche attività produttive e offrono pochi posti di lavoro:
sono metropoli molto estese nello spazio e molto popolate, ma con attività economiche, funzioni e
servizi molto scarsi. Milioni di persone vivono in condizioni disumane, spesso non trovano lavoro o
una casa, la maggior parte si accampa ai margini delle città, in condizioni terribili. Le costruzioni
sono fragili, fatte con ogni materiale ritenuto utile, lamiere, pezzi di plastica, pali di legno, cartoni,
invadono le aree limitrofe alla città lasciate libere dalle precedenti utilizzazioni, zone un tempo
agricole, abbandonate al degrado. In queste periferie dove manca tutto le condizioni di vita sono
subumane. La miseria è tale da impedire ogni tipo di contatto con la città. I nomi che indicano
queste periferie della miseria nelle città del sud del mondo sono tanti: i più diffusi sono bidonville,
utilizzato in origine per alcune città africane, favelas che designava i quartieri di baracche e capanne
delle città brasiliane. In simili condizioni vivono anche milioni di messicani a Città del Messico, o
in India, dove i precari ricoveri descritti precedentemente possono essere addirittura un lusso. A
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Calcutta almeno un milione di persone vive sui marciapiedi o sotto un albero, esse non possiedono
nemmeno una casa di cartone, vivono tra i rifiuti. Nelle metropoli dei paesi sottosviluppati il centro
ha caratteristiche un po’ più simili a quelle delle città dei paesi più sviluppati: edifici moderni in
vetro, cemento, acciaio, ospitano grandi alberghi, destinati agli uomini d’acciaio e ai turisti, o le
sedi delle rappresentanze diplomatiche estere, consolati e ambasciate, e le abitazioni eleganti dei
benestanti. Lo stridente contrasto tra la ricchezza che si concentra in queste aree ristrette e la
miseria che dilaga tutto intorno è sconvolgente.
Come si è già detto la distribuzione degli abitanti sul pianeta è molto disomogenea.
Geograficamente le terre emerse sono più estese nell’emisfero boreale che in quello australe e ciò
ha influito sul popolamento umano: l’88% degli abitanti della Terra vive a nord dell’equatore e solo
il 12% nell’emisfero sud, così che la popolazione è concentrata in massima parte in alcune aree
piuttosto limitate e circoscritte del globo. I gruppi umani più numerosi si sono addensati, sin
dall’antichità, laddove le condizioni ambientali e climatiche erano più favorevoli: hanno scelto i
luoghi pianeggianti o moderatamente collinari, evitando le più impervie montagne o le zone
paludose e malsane; hanno preferito luoghi dove le temperature non erano eccessivamente elevate o
eccessivamente basse, dove le precipitazioni non erano troppo abbondanti o troppo scarse, dove le
risorse del territorio consentivano l’approvvigionamento alimentare. Per questi motivi la fascia
temperata dell’emisfero settentrionale è l’area terrestre di maggior popolamento, mentre quelle a
cavallo dell’equatore, quelle tropicali, desertiche e le calotte polari sono meno densamente abitate.
Rispetto alle regioni montuose sono state privilegiate le aree pianeggianti, dov’è più facile
insediarsi e spostarsi; rispetto alle zone interne, continentali, più frequenti sono gli insediamenti
lungo il corso dei fiumi, il bacino dei laghi o le coste marine più favorevoli alle comunicazioni e
agli scambi. Tuttavia l’uomo è stato in grado di creare, grazie anche al progresso, condizioni di vita
accettabili anche nelle zone artiche, dove riescono a sopravvivere piccole comunità. Le quattro aree
di maggiore popolamento della Terra rispondono alle esigenze di abitabilità finora descritte. Due si
trovano in Asia: la prima è l’area centro-sud orientale asiatica, che comprende il Giappone, la Cina,
la penisola indocinese e gli arcipelaghi indonesiano e filippino. La seconda è la regione indiana,
delimitata a nord dalla catena dell’Himalaya. La terza area di grande popolamento è costituita dal
continente europeo e l’ultima è quella che si trova nella fascia orientale del territorio
nordamericano. Nel resto del pianeta la densità del popolamento, con le debite eccezioni, risulta
decisamente inferiore. L’America latina per esempio è poco popolata nel suo complesso, anche se
fanno eccezione la fascia caraibica e quella costiera del sud-est brasiliano. Il continente africano e
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l’Oceania presentano condizioni ambientali meno propizie agli insediamenti e fanno registrare
densità medie più basse; fanno eccezione le coste africane del Mediterraneo e del Golfo di Guinea e
l’Australia sudorientale. Anche le vicende storiche ed economiche hanno profondamente
influenzato il popolamento della Terra e la distribuzione degli abitanti sulla superficie. Il
colonialismo ha favorito l’insediamento costiero sia nel continente americano sia in quello africano;
le guerre hanno spesso provocato l’esodo di intere popolazioni da una regione all’altra; la povertà,
le carestie, la fame hanno dato il loro contributo allo spostamento di intere masse di individui dalle
campagne alle città, oppure dai paesi più poveri a quelli più ricchi.
La popolazione mondiale ha cominciato ad aumentare in misura elevata negli ultimi secoli, fino ad
allora le epidemie, le frequenti carestie, le guerre, hanno impedito una crescita rapida e consistente.
In un solo secolo la popolazione del pianeta è raddoppiata raggiungendo i due miliardi di individui
nel 1930; in un tempo ancora più breve, neanche cinquant’anni, è nuovamente raddoppiata,
arrivando ai quattro miliardi del 1975 e in poco più di un decennio, dal 1975 al 1990, ha raggiunto i
cinque miliardi. Il fenomeno della crescita della popolazione si verifica quando il numero dei nati è
sensibilmente superiore al numero dei morti. Fino al 1800 il numero delle nascite e quello delle
morti più o meno si eguagliavano. A causa delle frequenti malattie, infatti, pochi neonati riuscivano
a superare il primo anno di vita e poche persone raggiungevano un’età avanzata; in questo modo la
popolazione si manteneva su livelli costanti o, se cresceva, cresceva di poco e lentamente. Negli
ultimi secoli, l’introduzione di nuove tecniche in agricoltura ha provocato un aumento delle
produzioni alimentari, il progresso medico e scientifico ha consentito la prevenzione e la cura di
molte malattie, lo sviluppo economico e sociale avvenuto in seguito all’industrializzazione ha
creato condizioni di vita migliori: immediato è stato il riflesso sulla mortalità che ha iniziato a
diminuire rapidamente e poiché la natalità rimaneva elevata, la popolazione ha cominciato a
crescere a ritmi sostenuti. L’incremento della popolazione non è avvenuto però
contemporaneamente in tutto il mondo. In Europa esso è coinciso con la rivoluzione industriale,
mentre nei paesi poveri del Terzo Mondo la diminuzione della mortalità ha cominciato a
manifestarsi in seguito soprattutto all’introduzione dei vaccini. Oggi paesi sviluppati e paesi
sottosviluppati conoscono ritmi di crescita profondamente differenziati. Nei paesi sviluppati è in
atto una progressiva diminuzione delle nascite provocata dalle trasformazioni avvenute in seno a
queste società, quali il passaggio da economie agricole a economie industriali e terziarie, il processo
di emancipazione delle donne, la maggiore spesa per il mantenimento e l’istruzione dei figli. In
questi casi la popolazione o aumenta di poco o rimane stabile, dando luogo al fenomeno della
“crescita zero”. Nei paesi poveri invece, le economie agricole e l’elevata mortalità infantile, che
induce le famiglie a procreare un elevato numero di figli nella speranza che qualcuno sopravviva,
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mantengono la natalità su livelli molto alti, nettamente al di sopra della mortalità, ormai fortemente
ridotta: ne deriva un incremento della popolazione talmente rilevante da giustificare l’espressione
“esplosione demografica”. La crescita è meno accentuata in alcune realtà, come quella cinese, dove
sono state attuate misure per diminuire il numero delle nascite, mentre è fortissima soprattutto nei
paesi africani, dove si registrano tassi di incremento annuo particolarmente elevati. Anche per
quanto riguarda l’età della popolazione, paesi ricchi e paesi poveri presentano una composizione
assai diversa. Nei paesi più sviluppati sia per condizioni alimentari che per organizzazione sanitaria
si assiste ad un progressivo invecchiamento della popolazione. La riduzione delle nascite e il
costante allungamento della durata media della vita fanno sì che la popolazione sia composta da un
numero sempre maggiore di anziani e da un numero sempre minore di giovani. In queste società
aumentano le spese mediche e quelle per il pagamento delle pensioni. Al contrario, nei paesi
sottosviluppati, dove la natalità è elevatissima e la durata media della vita è ancora breve, la
popolazione è costituita in larghissima parte da giovani e pochi anziani. In queste realtà diversi sono
i problemi che gli stati dovrebbero risolvere: fornire a ragazzi e bambini un’istruzione adeguata,
garantire una casa a tutte le famiglie e assicurare un lavoro ai giovani che ne sono alla ricerca.
I fenomeni migratori.
Nel passato il divario tra popolazione e risorse ha spinto quote più o meno rilevanti di popolazione
ha spinto quote più o meno rilevanti di popolazione ad abbandonare i luoghi di residenza, alla
ricerca di cibo, di nuove terre da coltivare, di pascoli per il bestiame. Povertà e bisogno, dunque,
sono sempre stai la causa predominante dei fenomeni migratori, ma altri motivi possono
aggiungersi o sovrapporsi a essi; guerre, guerre civili, persecuzioni politiche o religiose, conflitti
etnici, discriminazioni razziali hanno creato in passato e continuano a creare tuttora, una figura
particolare di emigrante, quella del profugo o del rifugiato politico. Nel corso della storia si sono
verificate anche migrazioni forzate, l’esempio più significativo è la tratta dei neri prelevati dalle
coste africane e ridotti in schiavitù nelle piantagioni del Nuovo Mondo. Numerose e importanti
sono state le migrazioni del passato, gli asiatici nel corso dell’ultima glaciazione attraversarono lo
stretto di Bering e popolarono il continente Americano, gli arabi che dopo la morte di Maometto
dilagarono in tutta l’Africa settentrionale, ai russi che popolarono l’immenso territorio siberiano.
Uno dei flussi migratori più imponenti della storia, per durata e per numero, è quello che riguarda
gli europei del XVI secolo verso le Americhe. Milioni di europei appartenenti a quasi tutti i paesi
del continente, trovarono una nuova patria, soprattutto negli Stati Uniti. Oggi invece, una poderosa
corrente migratoria, fluisce dai paesi poveri del Sud verso quelli più ricchi del Nord. Le correnti
migratorie contemporanee tendono a confluire verso le aree geograficamente più vicine:
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dall’America latina agli Stati Uniti, dall’Africa settentrionale all’Europa, dall’India, dal Pakistan,
dallo Sri Lanka all’Arabia Saudita; frequente è anche la migrazione verso l’antica potenza coloniale
della quale si conosce la lingua, come etiopi e somali che giungono in Italia, o senegalesi in Francia,
o ancora indiani in Inghilterra.
Queste migrazioni nel corso della storia hanno modificato l’originaria composizione etnica e
culturale di molte aree e paesi. L’intera popolazione del continente Americano per esempio, se si
esclude la ristretta minoranza che discende dagli abitanti originari delle Americhe, pellirosse e
indios, è formata da discendenti degli immigrati che vi sono giunti successivamente. La
popolazione degli Stati Uniti è molto composita; la maggioranza bianca è costituita dai discendenti
degli inglesi e di tutti gli europei giunti dopo di loro: irlandesi, polacchi, slavi, italiani, ebrei; una
forte minoranza è costituita dai neri che discendono dagli antichi schiavi, a cui si aggiungono
ispanici, messicani e portoricani, e i cinesi, frutto delle migrazioni più recenti. Anche la popolazione
dell’America latina riflette i flussi migratori che ne sono all’origine: un terzo è bianco di origine
ispanico-portoghese, un terzo discende dagli schiavi neri e un terzo dagli originari indios. In tutta
quest’area sono sempre state frequenti le unioni tra individui appartenenti a gruppi diversi e per
questo motivo mulatti e meticci costituiscono una fetta consistente della popolazione. In seguito alle
migrazioni non si modificano solo la composizione etnica e la cultura delle aree interessate, mutano
anche il rapporto numerico tra i due sessi e le classi di età. Poiché a emigrare sono solitamente i
giovani maschi, la popolazione dei paesi di partenza vede aumentare la percentuale delle donne e
degli anziani, quella dei paesi di arrivo registra una percentuale maggiore di uomini e
“ringiovanisce”. Aspetti importanti della vita dell’uomo possono arricchirsi attraverso il contatto tra
popolazioni che hanno mentalità, abitudini, tradizioni diverse. Tuttavia non sempre i rapporti tra
culture diverse sono improntati ai principi di tolleranza, del rispetto, della comprensione.
Soprattutto nei periodi di crisi economica gli abitanti dei paesi che ospitano immigrati, timorosi che
la presenza degli stranieri minacci le proprie conquiste e il proprio benessere, reagiscono a volte con
atteggiamenti discriminatori e razzisti.
I gruppi etnico-linguistici.
La tradizionale suddivisione della popolazione mondiale in grandi categorie basate sui fenotipi, cioè
sui caratteri somatici esteriori, è ormai superata. Questa divisione non è sufficiente infatti a spiegare
le profonde diversità che dividono i diversi popoli. Ogni comunità umana ha sviluppato una propria
cultura, fatta di tradizioni linguistiche, modi di vita comuni, culti religiosi, abitudini sociali, che la
distinguono dalle altre. Oggi ha più senso parlare di etnie, cioè gruppi umani accomunati da
caratteristiche culturali. Tra i fattori che caratterizzano un’etnia, i principali sono la lingua parlata e
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la religione professata. Il mosaico delle lingue parlate è molto variegato e complesso. I
raggruppamenti linguistici più importanti sono cinque. Si tratta delle lingue indoeuropee che
comprendono quasi tutte le lingue europee: neolatine, germaniche, slave, quelle iraniche e alcune
indiane; fra di esse le lingue più parlate sono l’inglese, lo spagnolo e il francese. La famiglia delle
lingue sino-tibetane, che comprendono il cinese e altre lingue minori. Nel gruppo delle lingue uralo-
altaiche rientrano l’ungherese, il finlandese, il turco e vi si ricollega anche il giapponese. La lingua
principale del gruppo afroasiatico è l’arabo, a cui si aggiungono altre lingue africane e l’ebraico.
Bibliografia
https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/U/urbanizzazione.shtml?refresh_ce
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