Introduzione
Siamo sempre nell’Antipurgatorio, e Dante e Virgilio continuano a salire,
arrivando in un punto in cui però la strada è troppo erta per poter proseguire;
incontrano un gruppo di anime a cui chiedono la via migliore per poter
continuare il loro cammino, quella che risponde è l’anima di Manfredi, figlio di
Federico II di Hohenstaufen, con cui Dante ha un colloquio prima di procedere
nel suo cammino.
Riassunto
Nel canto precedente Dante e Virgilio sono stati ripresi da Catone, custode del
Purgatorio, per essersi fermati ad ascoltare il musico Casella, amico del poeta
fiorentino. Il canto III si apre con la ripresa del cammino dei due protagonisti.
Nei primi versi Virgilio appare pieno di rimorso per il rallentamento: “El mi
parea da sé stesso rimorso: | o dignitosa coscienza e netta, | come t’è picciol
fallo amaro morso!” (vv. 7-9). Rallentando il passo, Dante osserva il monte e,
riabbassando lo sguardo, nota una sola ombra, la sua, e pensa allora che sia
scomparsa la sua guida. Virgilio, dopo aver rassicurato il poeta, spiega che
nell’oltretomba le anime si presentano con l’aspetto dei corpi in vita, ma non
sono materiali e lasciano passare i raggi, tuttavia possono soffirire i tormenti;
così è stato stabilito dalla Grazia divina e “matto è chi spera che nostra ragione
| possa trascorrer la infinita via | che tiene una sustanza in tre persone” (vv.
34-36); in altre parole: è inutile cercare di decifrare l’intento di Dio. Nei versi
successivi (vv. 46-102) Virgilio appare per la prima volta in difficoltà sulla
strada da prendere, poiché egli non è un’anima del Purgatorio, ma dell’Inferno,
e non conosce quindi questi luoghi. I due protagonisti sono costretti a chiedere
la direzione ad alcune anime. Queste rimangono stupite alla vista di un uomo
ancora vivo, notando la sua ombra, ed esitano a rispondere, Virgilio interviene,
rivelando che la presenza di Dante è voluta da Dio.
Tra queste anime emerge il personaggio centrale del canto, Manfredi, figlio
naturale di Federico II. Alla morte del padre nel 1250, aveva assunto la
reggenza della Sicilia e dell’Italia meridionale, fino alla arrivo del fratellastro
Corrado IV dalla Germania. Alla sua morte Manfredi mantenne la reggenza al
posto del figlio dell’imperatore, Corradino, troppo giovane per regnare. Nel
1258 si fece nominare re di Napoli e Sicilia, al posto del legittimo erede il
tutore di Corradino, Papa Innocenzo IV, che scomunicò Manfredi, iniziando una
lotta che si protrasse con i suoi successori. Solo con l’intervento di Carlo
d’Angiò, fratello del re di Francia, Manfredi venne sconfitto nel 1266, nella
battaglia di Benevento, in cui morì. Il suo corpo fu dissepolto e disperso
(secondo la versione ripresa da Dante) dal vescovo di Cosenza. Dante vuole
dimostrare, con la storia di Manfredi, che il volere di Papi e vescovi non
corrisponde sempre a quello divino, e che la bontà di Dio può intervenire e
salvare un’anima pentita, nonostante una scomunica: “Orribil furon li peccati
miei; | ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a
lei” (vv. 121-122). Manfredi, infine, prega Dante di riferire alla figlia Costanza,
che si trova nel Purgatorio, e che, quindi, non è dannato.
Tematiche e personaggi
Manfredi e il Purgatorio
Manfredi (1232-1266), figlio naturale di Federico II e di Bianca Lancia di
Monferrato, ci viene presentato da Dante come l’esempio per eccellenza delle
virtù cavalleresche, quelle che Dante considera ormai perdute nella maggior
parte delle corti italiane e straniere. In questo senso, è assai significativo,
come indicato spesso dalla critica dantesca 1 che la descrizione di Manfredi si
appoggi su un modello letterario assai noto al tempo. Si noti infatti il
parallelismo con la Chanson de Roland (v. 2278: “Bels fut e forz e de grant
vasselage”), la chanson de geste dell’XI secolo che cantava l’eroico sacrificio
delle truppe cristiane e del paladino Orlando nella battaglia di Roncisvalle del
778 e in cui il protagonista è presentato come un guerriero bello, forte,
valoroso, nobile e con il viso insanguinato. Per Manfredi, l’elogio è simile:
biondo era e bello e di gentil aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. 2
L’allusione alla ferita che deturpa il bel viso di Manfredi è già una spia della
posizione che Dante assume in questo canto: il poeta, attraverso la figura del
sovrano svevo, tesse infatti la sua polemica contro gli odi politici (sullo sfondo
c’è l’aspra contesa tra Papato e Impero nel corso del XIII secolo), che spingono
gli uomini alle azioni più moralmente aberranti. Più grave della scomunica di
Manfredi (che anzi, convertendosi in punto di morte può guadagnarsi la
possibilità della beatitudine celeste, anche se dovrà aspettare molti anni
nell’Antipugatorio) è l’uso a fini temporali del potere religioso. Più grave delle
colpe di Manfredi, che il personaggio stesso ammette (v. 121), è allora il
comportamento del vescovo di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli, che pretende di
anteporre le scelte di potere umane all’imperscrutabilità dei disegni divini, o del
papa stesso che, nella contesa contro le forze ghibelline, non si preoccupa del
bene delle anime dei fedeli ma del proprio potere personale.
Per Dante, quindi, Manfredi diventa una figura utilissima sia per ribadire tra le
righe il suo disegno politico (in accordo con la teoria medievale dei “due soli”)
che per riflettere sul destino delle anime dopo la morte. In tal senso la “nascita
del Purgatorio” 3 trova nella Commedia dantesca una delle sue prime e più
grandi rappresentazioni artistiche. Il secondo regno ultramondano “nasce”
infatti tra XII e XIII secolo, come regno “di passaggio” per quelle anime che,
pur avendo scampato l’Inferno, devono ancora purificarsi dai loro peccati
terreni prima di accedere alla beatitudine divina 4 (percorso che corrisponde,
nel poema, alla salita al monte). Le caratteristiche e la dottrina del Purgatorio,
che trova le sue radici in alcuni teologi e Padri della Chiesa come Origene,
Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, vengono poi formalizzate in alcuni Concili
(quello di Lione del 1274 e quello di Firenze del 1438), per poi essere
riaffermato per la Chiesa cattolica dal Concilio di Trento (1545-1563).