Emilio Salgari I Robinson Italiani
Emilio Salgari I Robinson Italiani
I Robinson italiani
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QUESTO E-BOOK:
DIRITTI D'AUTORE: no
COPERTINA: n. d.
2
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 novembre 2019
INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
SOGGETTO:
JUV001010 FICTION PER RAGAZZI / Azione e
Avventura / Storie di Sopravvivenza
CDD:
853.8 NARRATIVA ITALIANA. 1859-1900
DIGITALIZZAZIONE:
Distributed proofreaders, https://www.pgdp.net/
REVISIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
IMPAGINAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
PUBBLICAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
3
Liber Liber
4
Indice generale
Liber Liber...................................................................... 4
Capitolo I......................................................................12
Un dramma in mare..................................................12
Capitolo II.....................................................................21
Sull'albero maestro...................................................21
Capitolo III...................................................................29
L'assalto del Pesce-cane...........................................29
Capitolo IV...................................................................39
Terra!... Terra!...........................................................39
Capitolo V.....................................................................48
I mostri dell'Oceano..................................................48
Capitolo VI...................................................................58
I Robinson italiani....................................................58
Capitolo VII..................................................................66
La Tigre.....................................................................66
Capitolo VIII.................................................................76
La capanna aerea......................................................76
Capitolo IX...................................................................84
Gli alberi del veleno.................................................84
Capitolo X.....................................................................93
Il pane dei Robinson.................................................93
Capitolo XI.................................................................102
Mias pappan e Boa constrictor...............................102
Capitolo XII................................................................111
Le scimmie alla pesca dei granchi..........................111
5
Capitolo XIII...............................................................120
Attraverso i boschi..................................................120
Capitolo XIV..............................................................128
Miele e patate dolci.................................................128
Capitolo XV................................................................136
Un terribile quarto d'ora..........................................136
Capitolo XVI..............................................................144
Una luce misteriosa................................................144
Capitolo XVII.............................................................152
Le tracce d'un'antica colonia...................................152
Capitolo XVIII............................................................162
Il serpente dagli occhiali.........................................162
Capitolo XIX..............................................................170
I babirussa...............................................................170
Capitolo XX................................................................177
Nuove scoperte.......................................................177
Capitolo XXI..............................................................186
Una capsula in mezzo alla foresta..........................186
Capitolo XXII.............................................................193
Il «tia-kau-ting»......................................................193
Capitolo XXIII............................................................205
Le devastazioni dei pirati........................................205
Capitolo XXIV...........................................................214
Assediati nella caverna...........................................214
Capitolo XXV.............................................................224
L'uragano................................................................224
Capitolo XXVI...........................................................232
Il varo della «Roma»..............................................232
Capitolo XXVII..........................................................250
6
Gl'incendiarii della «Liguria».................................250
Capitolo XXVIII.........................................................258
Una triste scoperta..................................................258
Capitolo XXIX...........................................................267
Il maltese.................................................................267
Capitolo XXX.............................................................279
I naufraghi...............................................................279
Capitolo XXXI...........................................................289
Sullo scoglio...........................................................289
Capitolo XXXII..........................................................303
I segnali fra l'isola e lo scoglio...............................303
Capitolo XXXIII.........................................................314
Il naufragio della giunca.........................................314
Capitolo XXXIV.........................................................323
I tagali.....................................................................323
Capitolo XXXV..........................................................331
La famiglia dei Robinson.......................................331
INDICE.......................................................................335
7
Il mias, uscito dai rami, si lasciò scivolare lungo il tronco come
un vero ginnasta, e.... (Pag. 93).
8
Emilio Salgari
I Robinson
Italiani
Avventure
illustrate da G. Gamba
Genova
A. Donath, editore
1897
9
Proprietà Letteraria
565 96. - Firenze, Tip. di Salvadore Landi, dirett. dell'Arte della Stampa.
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Capitolo I
Un dramma in mare
- Al fuoco!...
- Ohe!... Piccolo Tonno!... Sogni o sei sveglio!...
- Al fuoco!...
- Ma tu hai bevuto, furfante!...
- No! Vedo del fumo!
- Con quest'oscurità!... Il ragazzo è diventato pazzo. -
Una voce che aveva l'accento strascicante dei nostri uomi-
ni del mezzodì, echeggiò furiosamente sulla tolda della na-
ve:
- La gran scialuppa fugge!... San Gennaro mandi a picco
quei pesci-cani del malanno!...
- Chi a picco? - tuonò una voce a prua.
- Fuggono!... Eccoli laggiù che arrancano! Il diavolo fac-
cia la festa a quelle canaglie!
- Ed il fuoco è scoppiato a bordo! -
Una salva di urla e domande s'alzò fra le tenebre:
- I miserabili!...
- Hanno incendiato il brigantino!...
- Ma no!...
- Sì!... Esce del fumo dalla dispensa!
- Mille tempeste!
- Capitano! Ufficiale di quarto!
- Ohe! Tutti in coperta!
- S. Marco ci aiuti!
- Alle pompe! Alle pompe!
- E quei furfanti fuggono!... -
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Un uomo semi-nudo, di statura media, ma tarchiato come
un giovane toro, col viso coperto da una folta barba, si slan-
ciò fuori dal boccaporto del quadro di poppa, tuonando:
- Cosa succede qui? -
L'ufficiale di quarto, che aveva lasciato allora il castello
di prua, gli si precipitò incontro, dicendo con voce rotta:
- Capitano.... i ribelli sono fuggiti!
- I due maltesi?
- Sì, capitano.
- Ma quando?
- Or ora.
- Ma per dove? Non erano incatenati?
- È vero, ma pare che abbiano spezzate le catene.
- Sangue di Mercurio!... Portatemi un fucile e date ordine
d'inseguirli od io....
- È impossibile, comandante.
- Chi lo dice? - urlò il capitano.
- Il fuoco è scoppiato a bordo. -
Il capitano, udendo quelle parole, aveva fatto due passi
indietro e la sua energica ed abbronzata fisonomia, si era al-
terata.
- Il fuoco a bordo! - esclamò. - E la polvere che por-
tiamo?... Sei quintali!... Tanto da farci saltare in aria tutti
quanti, ma ben alto!... Seguitemi, signor Balbo e tu, nostro-
mo fa' preparare le pompe e fa' immergere le manichelle. -
Ciò detto si slanciò sul castello di prua seguito dal secon-
do, e gettò un rapido sguardo sul mare.
A cinquecento metri dalla nave, una macchia oscura che
si confondeva coi flutti color dell'inchiostro, s'allontanava
rapidamente verso il sud. Quantunque la distanza fosse già
notevole, si udivano i colpi precipitati di alcuni remi.
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- Miserabili! - disse il capitano, facendo un gesto di furo-
re. - E non un alito di vento che gonfi le nostre vele su que-
sto mare dannato!
- Lasciate che vadano a farsi impiccare altrove, capitano
Martino, - disse il secondo.
- E se la nave fosse perduta?... Ci hanno privati della sola
scialuppa che possedevamo. Il canotto, lo sapete, è stato por-
tato via dalle onde la scorsa settimana.
- Costruiremo una zattera.
- Sì.... - disse il capitano, come parlando fra se stesso. - Se
ci rimarrà il tempo!... Alle pompe!... Alle pompe o siamo
tutti perduti! -
Stava per scendere dal castello, quando una speranza gli
balenò nel cervello.
- Signor Balbo, datemi il porta-voce.
- Cosa volete fare?
- Silenzio.... affrettatevi. -
Il secondo balzò in coperta senza perdere tempo a scende-
re la scaletta, entrò nella camera comune dell'equipaggio, af-
ferrò il porta-voce del nostromo e lo portò al capitano.
La voce robusta dell'uomo di mare echeggiò come una
tromba, coprendo i comandi precipitati del nostromo, le gri-
da dei marinai ed il fracasso delle pompe che già comincia-
vano ad assorbire l'acqua.
- A bordo!... - aveva tuonato il capitano. - A bordo o vi
faccio appiccare ai pennoni del contra-pappafico. -
Una voce lontana, che veniva dal largo e che aveva una
intonazione ironica, rispose:
- Buona fortuna a tutti!
- A bordo e vi perdono tutto!
- No!...
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- V'inseguiremo e vi uccideremo canaglie! -
Nessuna voce rispose a quest'ultima minaccia: la scialup-
pa era scomparsa fra le tenebre.
- Dio vi punirà, - disse il capitano con voce sorda. - Alle
pompe e che Dio protegga noi! -
Il nostromo, in quel frattempo, aveva fatto preparare la
pompa di prua e quella di poppa, aveva fatto immergere in
mare le manichelle e portare sul ponte tutti i mastelli e le
secchie disponibili.
I dodici marinai che componevano l'equipaggio della na-
ve, stavano pronti alle sbarre, ed attendevano trepidanti gli
ordini del capitano.
Del fumo denso, impregnato d'un acuto odore di catrame
e di materie grasse, sfuggiva ad intervalli dalle fessure del
boccaporto maestro. Il fuoco doveva essere scoppiato nella
dispensa che era situata presso la camera comune dell'equi-
paggio e doveva essersi comunicato al carico della stiva.
Il capitano aveva dato ordine di aprire il boccaporto, per
poter constatare la gravità dell'incendio. Il mastro ed alcuni
marinai stavano levando già i passanti di ferro che servono
come da catenacci.
Sotto si udivano dei cupi brontolii, dei ronzii sordi, poi
delle detonazioni come se scoppiassero dei recipienti pieni
di liquidi alcoolici, mentre il catrame delle commessure del-
la tolda cominciava a ribollire in causa del calore interno.
Nessuno fiatava, ma sul viso di tutti quegli uomini si leg-
geva già una profonda angoscia. Quei volti abbronzati dal
sole equatoriale e dai venti del mare erano diventati pallidi e
quelle fronti, ordinariamente serene anche in mezzo alle
tempeste, erano diventate cupe.
L'ultima traversa stava per venire levata, quando il bocca-
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porto s'alzò violentemente, rovesciandosi sulla tolda come
sotto una spinta misteriosa.
Subito una fiamma enorme, una vera colonna di fuoco, ir-
ruppe dalle profondità della stiva e s'allungò verso le vele di
gabbia dell'albero maestro, illuminando sinistramente la not-
te e tingendo le onde di riflessi sanguigni.
Un immenso urlo d'orrore, d'angoscia, di spavento echeg-
giò sulla tolda della disgraziata nave, perdendosi lontano
lontano sul mare.
Tutti si erano gettati indietro per non venire investiti da
quella vampa mostruosa, che si contorceva colle selvagge
contrazioni dei serpenti e perfino gli uomini delle pompe,
avevano abbandonate precipitosamente le traverse.
- Ai vostri posti! - tuonò il capitano.
Il solo nostromo, un vecchio dalla barba bianca ma coi li-
neamenti energici, si mosse per spingere le manichelle
sull'orlo della stiva.
Il capitano impallidì.
Raccolse una scure dimenticata sull'argano e alzandola
minacciosamente, ripetè con un tono di voce da non ammet-
tere repliche:
- Ai vostri posti, o vi faccio sentire come pesa
quest'arma!... -
L'equipaggio sapeva per prova, che il comandante non era
uomo da scherzare. Dopo una breve esitazione tornò alle
pompe, mentre due o tre altri marinai, che non potevano tro-
vare posto alle traverse, s'impadronivano dei mastelli.
La colonna di fuoco, dopo d'aver minacciato d'incendiare
la gran gabbia, si era abbassata, rientrando a poco a poco
nella stiva, ma dal boccaporto spalancato irrompevano, ad
intermittenze, pesanti nuvoloni di fumo denso e nero che
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una calma assoluta manteneva quasi sopra la tolda, e nembi
di scintille le quali s'alzavano lentamente, disperdendosi sui
neri flutti dell'oceano.
Passato il primo istante di terrore, tutti si erano messi ala-
cremente al lavoro, sapendo che se non riuscivano a spegne-
re l'incendio una morte orribile li attendeva, non essendovi
ormai a bordo più nessuna scialuppa.
Le pompe funzionavano rabbiosamente senza posa, ver-
sando torrenti d'acqua nelle profondità ardenti della stiva,
mentre gli uomini dei mastelli s'affannavano a vuotare i loro
recipienti, avanzandosi fra il fumo e le scintille.
Il capitano ed il secondo, ritiratisi a poppa, stavano abbat-
tendo, a gran colpi di scure, una parte della murata di babor-
do. Pareva che avessero intenzione di allestire il materiale
per la costruzione d'una zattera.
Stavano per assalire la murata del cassero, quando un
nuovo personaggio, uscito allora dal quadro, comparve sulla
tolda.
Era un uomo che aveva varcato la trentina di qualche an-
no, di statura bassa, un po' inferiore alla media, con petto as-
sai sviluppato, larghe spalle e membra muscolose senza però
essere grosse.
Il suo viso largo, un po' angoloso, col mento appuntito,
era pallido, leggermente abbronzato dalla salsedine del ven-
to marino; la sua fronte ampia, appena segnata da una ruga
precoce, indicava che quell'uomo era inclinato alla riflessio-
ne; i suoi occhi, sormontati da due sopracciglia folte,
dall'ardita arcata, erano profondi, ma talora scintillavano e
pareva allora che volessero penetrare nel più profondo dei
cuori; le sue labbra strette, ombreggiate da un paio di baffi
rossicci, indicavano che quello sconosciuto doveva possede-
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re una incrollabile energia.
Vedendo quelle nubi di fumo e quelle folate di scintille
che s'innalzavano attraverso l'alberatura del veliero, e quei
riflessi sanguigni che si proiettavano sul viso dei marinai,
corrugò la fronte, ma senza manifestare alcuna impressione
di terrore.
- Un incendio? - diss'egli, volgendosi verso il capitano. -
Se non mi svegliavo, mi lasciavate adunque arrostire tran-
quillamente nella mia cabina?
- Siete voi, signor Emilio? - chiese il comandante spor-
gendosi dal cassero.
- In persona, comandante.
- Venite ad aiutarci, se vi preme la pelle.
- La cosa è grave?
- Gravissima, signore. La stiva è piena di fuoco e....
- Che cosa?
- Corriamo il pericolo di saltare in aria, - disse il capitano
a voce bassa, per non farsi udire dai marinai.
- Dite?...
- Che vi sono sei quintali di polvere sotto il carico di coto-
ne. -
Colui che veniva chiamato il signor Emilio, trasalì, poi
balzando sulla scaletta del cassero con un'agilità sorprenden-
te, da farsi invidiare dal più svelto gabbiere di bordo, rag-
giunse i due comandanti.
- Siamo nelle mani di Dio, adunque, - diss'egli, impu-
gnando una scure.
- Sì, e non so se avremo il tempo per finire la zattera.
- Un tempo sono stato ufficiale di mare come voi, capita-
no e di tali costruzioni me ne intendo. In acqua la boma della
randa e poi picchiamo dentro all'albero maestro. Ci potranno
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servire per un primo punto d'appoggio.
- Ben detto, signor Emilio. -
La boma, staccata alla base, fu gettata in mare tenendola
attaccata ad un gherlino, poi i tre uomini assalirono vigoro-
samente l'albero maestro.
Ormai non si illudevano più sulla salvezza del veliero.
L'incendio, quantunque vigorosamente combattuto dall'equi-
paggio, il quale non cessava un solo istante dal manovrare le
pompe, guadagnava rapidamente e minacciava l'intera albe-
ratura.
La grande fiamma, per un istante domata, tornava a ir-
rompere attraverso il boccaporto, bruciando le vele ed i cor-
dami. Da un istante all'altro poteva avvenire la spaventevole
esplosione.
Il capitano ed il secondo, pur continuando a maneggiare
con furore le scuri, impallidivano a vista d'occhio ed anche il
loro compagno cominciava a perdere la sua ammirabile cal-
ma. Vi erano certi momenti in cui s'arrestavano per tendere
gli orecchi onde meglio raccogliere i sordi brontolii delle
fiamme divoratrici o gli scricchiolii dei corbetti che si fende-
vano o il fragore dei puntali che cadevano a due a due per
volta.
- Presto!... presto!... - ripeteva il capitano.
L'albero, reciso, ad un tratto oscillò con un lungo crepitìo,
poi l'enorme tronco piombò sulla murata di babordo fracas-
sandola e immerse nelle onde illuminate la punta dell'albe-
retto, seco trascinando pennoni, vele e cordami.
Quasi nel medesimo istante una sorda detonazione echeg-
giò nel ventre infiammato del legno. Era scoppiata una parte
della polvere?...
Il capitano gettò un urlo d'angoscia.
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- Tutti in acqua!... La polvere! la polvere! la po.... -
Non finì. Mentre alcuni uomini, più agili degli altri, bal-
zavano sopra le murate, uno spaventevole scoppio rimbom-
bò sul mare.
Una fiamma gigantesca, livida, irruppe dal boccaporto; il
ponte ed i fianchi del veliero si squarciarono con indicibile
violenza e l'intera massa galleggiante fu sollevata sui flutti.
Per alcuni istanti una enorme nuvola ondeggiò sull'ocea-
no, poi una pioggia di rottami incandescenti piombò sulle
onde sibilando, e la carcassa del veliero, sventrata, invasa
dalle acque irrompenti attraverso alle squarciature, scompar-
ve nei profondi baratri del mare di Sulu.
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Capitolo II
Sull'albero maestro
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tuna aveva cominciato ad abbandonarlo.
Una tempesta che lo aveva sorpreso all'entrata dello stret-
to di Malacca, mentre da Rangun si recava a Singapur, aveva
malmenata la sua nave in tale modo, da costringerlo, appena
giunto a destinazione, a metterla in cantiere per delle lunghe
riparazioni.
Quella disgrazia doveva essergli fatale.
Due dei suoi più valenti marinai, stanchi di quel riposo
prolungato, avevano rotto l'arruolamento e si erano imbarca-
ti su altre navi, sicchè, giunto il momento della partenza,
aveva dovuto mettersi in cerca d'altri per completare l'equi-
paggio.
La mala fortuna gli aveva fatto trovare due marinai malte-
si, sbarcati alcune settimane prima da una nave inglese. Per-
chè avevano lasciata la nave che dalle acque del Mediterra-
neo li aveva portati sulle coste della Malacca?... Nessuno lo
sapeva ed il capitano Martino, che preferiva avere a bordo
dei marinai del Mediterraneo e possibilmente degli italiani,
non aveva cercato di scoprirne il motivo, tanto più che la na-
ve inglese aveva lasciato il porto tre settimane prima, in rotta
pei porti del Celeste Impero.
Pochi giorni dopo però, doveva pentirsene di quei nuovi
arruolati. Appena in alto mare, fuori di vista dalle coste della
Malacca, i maltesi avevano cominciato a dare segni d'insu-
bordinazione.
Lavoravano il meno possibile, non compivano mai intera-
mente i quarti di guardia sia notturni che diurni, si ribellava-
no ai comandi del nostromo, poi a quelli del secondo e final-
mente a quelli del capitano.
Dovendo poggiare a Varauni per prendere una ragguarde-
vole provvista di olii canforati, pure destinati agli isolani
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delle Marianne, aveva deciso di sbarazzarsene; ma giunto
nel porto della capitale del regno di Borneo, i due maltesi,
che da qualche giorno pareva che fossero pentiti, con mille
promesse erano riusciti a farsi mantenere a bordo.
Era stato precisamente a Varauni che il capitano Falcone
aveva imbarcato, in qualità di passeggiero, quell'uomo che
abbiamo udito chiamare il signor Emilio, dietro speciali rac-
comandazioni del console olandese.
Quel passeggiero non era un olandese, ma un italiano co-
me tutto l'equipaggio della Liguria. Era un veneziano da pa-
recchi anni stabilitosi nel Borneo, dove aveva fatto una con-
siderevole fortuna trafficando in canfora.
Antico ufficiale di marina, poi esploratore per conto del
governo olandese, quindi negoziante ricchissimo, si era im-
barcato per fare delle esplorazioni per suo conto nelle isole
del grand'Oceano.
Uomo istruitissimo, amabile, energico quanto il capitano,
aveva tenuto buona compagnia a tutti, facendosi amare dai
marinai e dagli ufficiali.
La navigazione era stata ripresa sotto i più lieti auspici,
essendo il mare tranquillissimo ed il vento favorevole.
Già la Liguria aveva perduto di vista le coste del Borneo
e s'inoltrava attraverso il mare di Sulu, compreso fra il vasto
gruppo delle Filippine al nord e all'est, la lunga e sottile isola
Palavan all'ovest e le sponde settentrionali del Borneo, quan-
do una disputa violentissima, che doveva avere più tardi ter-
ribili conseguenze, scoppiò a bordo, per opera dei due turbo-
lenti maltesi.
Essendosi rifiutati di prendere parte alla manovra, mentre
la Liguria correva delle lunghe bordate avendo il vento con-
trario, un bollente palermitano, stanco di vedere quei due
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fannulloni con le mani in tasca, perduta la pazienza, aveva
lasciato andar loro due sonori scapaccioni.
I due maltesi, più bollenti del siciliano, avevano estratti i
coltelli, assassinando un catanese che era accorso in aiuto
del compatriotta.
Il capitano comparso sul ponte, attirato dalle grida dei ris-
santi, aveva atterrato i due furfanti con un buon colpo di ma-
novella sapientemente applicato sui loro dorsi, poi li aveva
fatti incatenare e cacciare nella sentina, per consegnarli più
tardi alle autorità spagnuole di Guam.
Pareva che tutto fosse finito, quando una sera, mentre una
calma assoluta aveva immobilizzata la Liguria in mezzo al
mare di Sulu, i due maltesi che si trovavano forse in posses-
so d'una lima, erano riusciti a evadere imbarcandosi sull'uni-
ca scialuppa che era rimasta a bordo e che secondo l'usanza
delle nostre navi, era stata tenuta ormeggiata alla poppa.
Ma questo non era tutto: i due miserabili, forse per vendi-
carsi del colpo di manovella del capitano, avevano dato fuo-
co alla dispensa e fors'anche al carico di cotoni.
I lettori sanno il resto: la nave, due ore dopo, balzava in
aria per lo scoppio delle polveri e la fumante carcassa s'ina-
bissava sotto le onde tenebrose del mar di Sulu.
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te, poi ricompariva ed allora la si vedeva agitare le braccia
con suprema energia.
Chi era quel fortunato che ancora sopravviveva all'orren-
do disastro, mentre forse tutti gli altri avevano seguito la po-
vera nave attraverso i profondi abissi del mare?...
La luna che allora cominciava a sorgere a fior dell'oriz-
zonte, facendo scintillare getti d'argento fuso, permetteva di
vedere quel superstite della tremenda esplosione.
Era un marinaio giovane ancora, poichè non doveva avere
più di venticinque a vent'otto anni, colla pelle del viso assai
abbronzata, i lineamenti marcati, gli occhi neri e vivaci ed i
capelli e la barba pure nera. Era uno di quei tipi che s'incon-
trano di sovente nella riviera di levante o di ponente della
Liguria, veri tipi di marinai pieni d'audacia e di fuoco.
Quantunque appena sfuggito al tremendo pericolo e solo,
su quel mare che era forse abitato dai feroci pesci-cani, mo-
stri comunissimi nelle acque della China e della Malesia, pa-
reva tranquillo.
Nuotava con sovrumana energia, alzandosi sulle onde per
gettare all'intorno dei rapidi sguardi, e fra una battuta dei
piedi e delle mani, gridava:
- Ohe!... Da questa parte! -
Nessuno però rispondeva alla sua voce, all'infuori dei gor-
goglii delle acque ancora agitate dal gorgo scavato dalla na-
ve. Erano adunque tutti periti, i marinai e gli ufficiali della
Liguria?... Maledizione sui miserabili che avevano provoca-
to l'incendio e l'esplosione!...
Il marinaio avanzava sempre, cercando qualche rottame
della disgraziata nave per avere almeno un punto d'appog-
gio, ma la luna non rischiarava ancora sufficientemente il
mare: bisognava aspettare che si alzasse di più sull'orizzonte.
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Per la ventesima volta aveva lanciata la sua chiamata,
quando gli parve di udire, in distanza, una voce umana.
S'arrestò anelante, trattenendo il respiro, rovesciandosi sul
dorso per mantenersi a galla, senza aver bisogno di muovere
le braccia e le gambe ed ascoltò con profonda ansietà.
No, non si era ingannato!... Dinanzi a lui, ad una distanza
di tre o quattrocento metri, si udivano delle voci.
- Dei compagni!... - esclamò, con viva emozione. - Dun-
que non tutti sono morti fra l'esplosione? -
Con un colpo di tallone s'alzò su un'onda che stava per in-
vestirlo e lanciò un acuto sguardo dinanzi a sè.
Sui flutti argentei illuminati dall'astro notturno, gli parve
di scorgere due forme umane ed una massa nerastra con del-
le antenne tese in alto. Un grido gli irruppe dal petto:
- Ohe!... ohe!... Aiuto, camerati! -
Una voce limpida, acuta, che veniva dal largo, subito gli
rispose:
- Da questa parte!
- Chi siete voi?
- Albani e Piccolo Tonno.
- Il signor Emilio ed il mozzo, - mormorò il marinaio. Poi
alzando la voce:
- Ed il capitano?
- Scomparso.
- Avete trovato un rottame?
- L'albero maestro: affrettatevi.
- Vengo! -
Il marinaio nuotava sempre e con maggior vigore, consu-
mando le sue ultime forze. Ormai, alla luce azzurrina della
luna, distingueva perfettamente i suoi compagni i quali si te-
nevano a cavalcioni dell'albero maestro.
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Già non distava che una gomena, quando credette udire
dietro di sè un tonfo ed un rauco sospiro.
Si volse rapidamente, ma altro non vide che un fiotto di
spuma che s'allargava in forma di cerchio.
- Qualche cadavere tornato a galla? - si chiese, rabbrivi-
dendo.
Un grido che veniva dalla parte del rottame, s'alzò sul ma-
re:
- Attenzione, marinaio!...
- Cosa avete scorto? - chiese il nuotatore, con inquietudi-
ne.
- Avete un pesce-cane alle spalle.
- Gran Dio!...
- Avete un coltello?
- Il mio di manovra.
- Tenetelo pronto: vengo in vostro soccorso! -
S'udì un tonfo, poi balzò in aria uno sprazzo d'acqua scin-
tillante. Il signor Emilio aveva lasciato l'albero e nuotava
verso il marinaio con lena affannosa, per aiutarlo contro
l'assalto dell'affamato squalo.
Il nuotatore, in preda ad una terribile ansietà, sapendo per
prova con quale formidabile nemico aveva da lottare, si era
arrestato, rannicchiando le gambe per tema di sentirsele
mozzare da un istante all'altro.
Aveva però estratto dalla cintola il coltello di manovra,
una specie di navaja spagnuola acuminata, taglientissima e
lunga mezzo piede, arma pericolosa nelle mani d'un uomo
risoluto.
Nessun altro rumore giungeva ai suoi orecchi, però la sua
ansietà cresceva di momento in momento, poichè lo squalo
poteva giungergli sott'acqua e tagliarlo in due con un solo
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colpo di mascelle.
Ad un tratto vide emergere bruscamente, a meno di dieci
passi, una testa enorme, sotto la quale s'apriva una bocca lar-
ga quanto una botte sfondata e irta di parecchie file di denti
triangolari.
- Aiuto!... - urlò il disgraziato.
- Non temete, - rispose una voce. - Siamo in due a com-
batterlo! -
28
Capitolo III
29
mostro non pensasse più a loro. Appariva e scompariva
emettendo dei rauchi sospiri, vibrava qualche colpo di coda
sollevando delle vere ondate, ma si teneva lontano; senza
dubbio aveva trovato ben altre prede senza correre alcun pe-
ricolo.
In pochi minuti i due nuotatori attraversarono la distanza
che li separava dall'albero su cui si teneva il loro compagno,
colui che abbiamo udito chiamare il Piccolo Tonno.
Quest'ultimo superstite, era il mozzo della Liguria. Era un
ragazzetto di quindici o sedici anni, agile come una scimmia,
bene sviluppato, con un viso intelligente e furbesco.
Aveva gli occhi grandi e neri, tagliati a mandorla, il profi-
lo regolarissimo che rammentava quello delle razze greco-
albanesi, una boccuccia da donna con due labbra vermiglie,
le guancie, un po' abbronzate, pienotte ed i capelli neri.
Era stato imbarcato tre anni prima dal defunto capitano
Falcone, il quale lo aveva raccolto morente di fame sulle
spiagge d'Ischia. Non aveva conosciuto nè il padre, nè la
madre, e solo ricordavasi di aver passata la sua gioventù in
compagnia d'un vecchio pescatore, vivendo assieme fino al
giorno in cui quel poveraccio era morto.
Rimasto solo, aveva errato a capriccio sulle sponde o nel-
le campagne delle isole, vivendo di granchi e di frutta che
rubava alla notte, finchè sopraggiunto l'inverno, estenuato,
ridotto a pelle ed ossa, era caduto morente sulla riva, dove
era stato trovato dal capitano, che erasi colà recato per visi-
tare una sua vecchia parente.
Ubaldo detto il Piccolo Tonno - tale era il suo nome, poi-
chè mai ne aveva avuto un'altro, - aiutò i compagni a salire
sul rottame, cercando contemporaneamente che l'albero non
girasse su sè stesso.
30
- Auff!... - esclamò il marinaro, scuotendosi di dosso
l'acqua che gli aveva inzuppato le vesti. - Ancora mezz'ora
ed io correvo il pericolo d'andare a picco come una palla di
cannone.
- E di venire tagliato in due da quel mangiatore d'uomini,
è vero camerata, - disse il mozzo.
- Senza il signor Emilio, non so se a quest'ora avrei anco-
ra attaccate le gambe. Grazie, signore; non dimenticherò
mai....
- Lascia andare, Enrico, - disse Albani, interrompendolo. -
Pensiamo invece a levarci d'impiccio da questa situazione
che è poco allegra.
- Non domando di meglio.
- Hai udito nessun grido.
- Nessuno, signore. Io credo che i nostri disgraziati com-
pagni siano tutti morti.
- Povero capitano e poveri marinai!... Maledizione sui tra-
ditori!
- Dio li punirà, signore. Anche avendo la scialuppa non
andranno lontani, poichè non devono avere con loro che po-
chi viveri.
- Non vi era che una bottiglia vuota nell'imbarcazione, -
disse il Piccolo Tonno, col suo accento strascicante dei meri-
dionali. - Io lo so, avendo pulita la scialuppa ieri mattina.
- Scorgete dei rottami? - chiese il signor Emilio.
- Non vedo che una botte galleggiare laggiù, - disse il ma-
rinaio.
- Fosse almeno piena.
- Mi pare vuota, poichè è più di mezza sopra l'acqua.
31
.... aveva atterrato i due furfanti con un buon colpo di mano-
vella sapientemente applicato.... (Pag. 11).
32
- Pure, dei rottami ve ne devono essere. I pennoni e l'albe-
ro di trinchetto devono galleggiare e vorrei prima vederli.
- Cosa sperate, signore?
- Può esservi qualche naufrago da raccogliere.
- Non lo credo, - disse il marinaio, crollando il capo. -
Avrebbe risposto alle mie ed alle vostre chiamate.
- I rottami possono essere lontani e.... ma, non vi pare che
siamo già molto distanti dal luogo della catastrofe?
- Infatti, signore, mi sembra che noi ci allontaniamo.
- Forse qualche corrente ci trascina.
- Lo credo anch'io.
- Ciò è grave.
- Perchè?...
- Perchè ci allontana dai rottami, mentre avremmo forse
potuto raccogliere del legname bastante per costruirsi una
zattera e anche qualche cassa o qualche barile contenente dei
viveri.
- Proviamo a chiamare, signore, - disse Ubaldo Piccolo
Tonno. - Se qualche nostro compagno si è salvato, cerchere-
mo di raggiungerlo o lui cercherà di raggiungere noi.
- Proviamo, - disse Albani.
Tre tuonanti chiamate echeggiarono:
- Ohe!... Ohe!... Ohe!... -
Tesero gli orecchi ed ascoltarono con viva attenzione, ma
nessuna voce rispose.
Ripeterono le chiamate con maggior vigore, ma invano.
Solamente i gorgoglii dell'acqua ed i soffi rauchi dello squa-
lo, giunsero agli orecchi dei naufraghi.
- Sono tutti periti, - disse il marinaio. - Non siamo vivi
che noi, ma perduti nell'immensità del mare e chissà a quale
spaventevole sorte destinati.
33
- Non disperiamo, - disse il signor Albani. - Se Dio ci ha
conservati in vita, non sarà certo per farci poi morire di fame
e di sete o sotto i denti degli squali.
- Ma come siamo sfuggiti alla catastrofe?
- Perchè ci siamo gettati in mare prima che la nave scop-
piasse.
- Voi, ma io no, signore, - disse Enrico. - Io stavo per var-
care la murata di prua, quando mi sono sentito proiettare in
aria in mezzo ad un nuvolone di fumo e poi piombare in
mezzo alle onde, mentre intorno a me cadevano, sibilando,
rottami d'ogni specie. Come sono tornato a galla ancora vi-
vo? Io non lo so.
- È stato un miracolo che i rottami non ti abbiano ucciso.
- Lo credo, signore. Ed ora, cosa faremo? Riusciremo a
salvarci o siamo serbati ad una lenta e straziante agonia? -
Il signor Albani non rispose: cogli sguardi fissi distratta-
mente sulla luna, che seguiva il suo corso in mezzo ad un
cielo senza nubi, pareva che meditasse profondamente.
Pensava al modo d'uscire da quella situazione che d'ora in
ora diventava più grave o alle ultime parole del marinaio?...
I suoi compagni, pure pensierosi, tristi, tenendosi stretta-
mente a cavalcioni di quell'avanzo della Liguria, gettavano
sguardi inquieti sulla sconfinata superficie del mare, forse
colla speranza di veder apparire, sulla linea argentea
dell'orizzonte, qualche macchia oscura o qualche punto lu-
minoso che indicasse la presenza d'una nave salvatrice.
- Ascoltatemi, - disse ad un tratto l'ex-uomo di mare,
scuotendosi. - Sapete dove precisamente trovavasi la Liguria
nel momento del disastro?... Tu, Enrico, eri di quarto, se non
m'inganno.
- All'est delle isole Sulu, - rispose il marinaio.
34
- Sapresti dirmi la distanza?
- Lo ignoro, signore. Quando il capitano ha fatto il punto,
non ero presente.
- E nemmeno io, - disse Piccolo Tonno.
- Forse siamo a due o trecento miglia da quell'Arcipelago,
- disse il signor Albani, come parlando fra sè stesso.
- Lo credo, - rispose Enrico.
- Una distanza enorme da attraversare, per degli uomini
che sono privi d'un canotto e senza un sorso d'acqua e dei bi-
scotti.
- Senza poi contare che l'Arcipelago di Sulu è abitato dai
più birbaccioni pirati della Malesia, - aggiunse il marinaio.
- Vediamo, - disse il signor Albani. - Dove ci porta questa
corrente, che ci allontana dal luogo del disastro.
- Aspettate, signore, - disse il mozzo. - Ho una piccola
bussola in tasca, regalatami dal capitano. -
Estrasse il prezioso oggetto, lo espose ai raggi della luna e
guardò la lancetta.
- Andiamo verso l'est, - rispose poi.
- Verso l'Arcipelago? - chiese il marinaio.
- Sì, - confermò il signor Emilio.
- Quale velocità credete che abbia questa corrente?
- Forse un miglio e mezzo all'ora.
- Supponendo che l'Arcipelago fosse lontano trecento mi-
glia, impiegheremmo?...
- Duecento ore, ossia otto giorni e otto ore.
- Ventre di pesce-cane!... - esclamò il marinaio. - Tanto da
morire di fame con tutto comodo!...
- Se non di fame, per lo meno di sete, - disse il signor
Emilio. - Col calore che regna su questo mare, non potremo
resistere.
35
- E poi otto giorni senza chiudere occhio! - aggiunse Pic-
colo Tonno. - Temo di non dover più mai rivedere nè Ischia,
nè Napoli.
- Nè io papà Merlotti, il taverniere di via Sottoripa, mio
buon amico, - disse il marinaio. - Addio, Genova!...
- C'è tempo a morire, amici miei, - disse l'ex-uomo di ma-
re. - È vero che questo mare è poco battuto dalle navi, ma
possiamo venire raccolti da qualcuna, oppure venire spinti
verso qualche isola dell'Arcipelago. Ve ne sono parecchie
lontane dal gruppo principale e chissà che qualcuna non ci
sia vicina.
- Per ora non ne vedo, signore.
- Navighiamo da mezz'ora, Enrico. Aspetta domani matti-
na o posdomani.
- Ma non abbiamo nulla da porre sotto i denti, signore.
- In due o tre giorni non si muore.
- Ma il sonno? Resisteremo noi?
- Vi sono delle funi appese all'albero ed anche dei pezzi di
vela. Chi c'impedirà di fabbricare, alla meglio, un'amaca, di
appenderla ai due pennoni o fra la crocetta e un'antenna?...
- È vero, - disse il mozzo.
- Zitto, - disse il marinaio.
- Cos'hai udito? - chiese Albani.
Un tonfo si udì dietro all'albero. I tre naufraghi si volsero
di comune accordo e videro una massa nerastra emergere a
pochi passi di distanza, fissando su di loro due occhi rotondi,
colla pupilla azzurrognola e l'iride verde-oscuro.
Una bocca enorme, semi-circolare, s'aprì emettendo un
rauco brontolìo, mostrando una corona di denti piatti, trian-
golari, frastagliati, che si muovevano come se già gustassero
la preda agognata.
36
- Ancora quel dannato pesce-cane! - esclamò il marinaio,
impallidendo. - Ma che non ci lasci proprio più?
- Attenti alle gambe, - disse Albani.
- Ed alla coda, - aggiunse il mozzo.
Lo squalo, che doveva aver seguito il rottame colla spe-
ranza d'impadronirsi, presto o tardi delle vittime, allungò il
grosso capo appiattito verso l'albero, come se volesse cono-
scere più da vicino le prede e con un poderoso colpo di coda
uscì più di mezzo dall'acqua.
I tre naufraghi, con un moto istintivo, pur tenendosi sem-
pre a cavalcioni dell'albero, si erano gettati indietro, aggrap-
pandosi ai cordami del pennone di gabbia, il quale mantene-
vasi ritto, mentre l'altra metà trovavasi sommersa.
- Su le gambe, - gridò Albani.
- Fulmini!...
- S. Gennaro mandi un accidente a quel mangiatore
d'uomini!...
- Attenzione!... -
Lo squalo stava per ritentare l'assalto e certamente più im-
petuoso del primo, poichè quei mostri, sebbene pesino cin-
que ed anche seicento chilogrammi, sono dotati d'una agilità
straordinaria. Con un colpo della loro possente coda riesco-
no a slanciarsi fuori dall'acqua per parecchi metri, ed una
volta ne fu veduto uno toccare perfino l'estremità del penno-
ne di trinchetto d'una nave negriera, per impadronirsi d'un
cadavere che era stato appositamente colà sospeso. Gli occhi
del mangiatore d'uomini tradivano un'ardente bramosia e la
sua bocca si era aperta smisuratamente, illuminandosi di
quella luce vivida e sinistra che simili mostri proiettano du-
rante la notte. S'immerse un istante come se volesse prende-
re maggiore slancio, poi si scagliò uscendo tutto intero
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dall'acqua, ma invece di colpire i naufraghi che si erano la-
sciati cadere precipitosamente, varcò l'albero e cadde
dall'altra parte, imbrogliandosi fra i bracci del pennone, le
sartie ed i paterazzi.
Quasi nel medesimo istante si udì Piccolo Tonno a urlare.
- Una scure!... Una scure!... -
38
Capitolo IV
Terra!... Terra!...
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prio sopra all'albero il quale affondò sotto quell'enorme pe-
so.
Il marinaio ed il mozzo caddero in acqua, ma l'ex-uomo
di mare si tenne fermo stringendo le gambe con suprema
energia, poi pronto come il lampo, alzò la scure e la lasciò
cadere con forza disperata sullo squalo che gli passava di-
nanzi.
Risuonò un colpo sordo ed uno sprazzo di sangue schizzò
in aria.
Il mostro agitò furiosamente la possente coda spezzando
di colpo il pennone di pappafico che sporgeva dall'acqua e
sparve, formando dietro di sè un risucchio spumeggiante.
- Ucciso? - gridarono il marinaio ed il mozzo, che erano
tornati prontamente a galla.
- Non lo credo, ma suppongo che ne avrà abbastanza per
ora e che non avrà più voglia di ritornare all'attacco, - rispo-
se Albani.
- E la scure?... Perduta forse?...
- No, Enrico; è un'arma troppo preziosa per non conser-
varla.
- Ma come quell'arma si trovava infissa nell'albero?
- Credo che sia quella adoperata dal nostromo. Mi ricordo
che quando l'albero cadde, si era allontanato precipitosamen-
te per non farsi schiacciare dal pennone di gabbia.
- Ma che non sia morto lo squalo!
- Ti dico che non oserà tornare.
- Mi premeva che fosse stato ucciso. Almeno avremmo
avuto della carne in abbondanza.
- Più coriacea d'un mulo vecchio.
- Ma in mancanza di meglio poteva servirci, signor Alba-
ni. Oh!...
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- Cos'hai ancora?...
- S'alza la brezza.
- E soffia da ponente, - disse il mozzo.
- Buono! - esclamò Albani. - Ci spingerà più rapidamente
verso l'Arcipelago delle Sulu.
- Un'idea, signore!
- Parla, Enrico.
- Ecco qui il pezzo del pennone di pappafico rotto dalla
coda dello squalo.
- Ebbene, cosa vuoi concludere?...
- Che non ci mancano nè funi, nè vele. Possiamo approfit-
tare di questa brezza.
- È vero: affrettiamoci, amici. -
Si misero tutti tre al lavoro senza perdere tempo, sapendo
per esperienza che in quei climi caldi le brezze notturne ces-
sano, ordinariamente, col levar del sole.
Ritirarono il pennone spezzato che era stato trattenuto da
una fune e lo rizzarono cacciando una estremità fra le cro-
cette le quali servivano, in certo modo, da morsa.
Assicuratolo con dei pezzi di paterazzi e di sartie, ritiraro-
no dall'acqua la vela di gabbia e servendosi dell'alberetto co-
me d'antenna, la spiegarono meglio che poterono, cercando
di mantenere più larga che era possibile, l'estremità inferio-
re.
La brezza che soffiava regolarmente ed abbastanza fresca,
non tardò a gonfiarla e l'albero cominciò a filare verso l'est,
lasciandosi dietro una leggiera scia gorgogliante.
Non manteneva una linea dritta, come ben si può immagi-
nare e derivava di frequente per mancanza d'un timone o al-
meno d'un remo, ma pure guadagnava sempre e aiutava effi-
cacemente l'azione della corrente.
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I tre naufraghi, che tenevano le scotte allargate, già si ral-
legravano di quella corsa, quando videro riapparire improv-
visamente lo squalo.
- Ancora lui! - esclamò il marinaio, tendendo le pugna. -
Ma che non voglia più lasciarci, quel dannato mangiatore
d'uomini?... Bisognerà sfondargli il cranio per fargli rinun-
ciare questa caccia accanita?
- Ha fame, - disse Albani, - e quando questi mostri hanno
appetito, seguono le prede con una costanza incredibile.
- Eppure gli avete accarezzato rudemente il corpo.
- Bah! Posseggono una vitalità straordinaria e se non si
toccano al cuore o al cervello, non muoiono. Aggiungi poi,
che noi siamo naufraghi e quando quei mostri feroci scorgo-
no un rottame od una zattera non la lasciano più, certi di
avere, presto o tardi, delle prede.
- Spera adunque che una tempesta scagli le sue onde con-
tro di noi e ci strappi da quest'albero.
- Senza dubbio, Enrico.
- Fortunatamente il tempo non accenna a cambiare, alme-
no per ora.
- E se cambierà ci troveremo allora tanto vicini alle Sulu,
da non temerlo altro.
- Ah!... Se quel pesce-cane mostrasse ancora la sua testa
presso l'albero!...
- Lascia che nuoti a suo comodo, Enrico. Ti assicuro che
non c'inquieterà! Occupiamoci invece della nostra vela e
procuriamo di tenerla ben tesa. -
La brezza notturna si manteneva costante, anzi accennava
ad aumentare, quantunque ormai mancassero poche ore allo
spuntare dell'alba.
Il rottame, che manteneva la sua stabilità in causa della
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botte e del pezzo del castello che servivano come di bilan-
ciere, continuava ad avanzare con una velocità di due o tre
nodi, guadagnando via verso levante.
La corrente da canto suo lo aiutava, facilitando la corsa.
Già altre due ore erano passate, quando il Piccolo Tonno,
che si levava di frequente in piedi per abbracciare maggior
orizzonte, sperando sempre di scorgere qualche punto lumi-
noso, che indicasse la presenza di una nave, segnalò alcuni
volatili che filavano verso l'est.
- Che siano uccelli costieri? - chiese Enrico, con una certa
emozione.
- Fa ancora troppo oscuro per poterli distinguere, - rispose
Albani, che li osservava con grande attenzione. - Dal loro
volo pesante non mi sembrano nè procellarie, nè fregate.
- Si tengono sempre lontani dalle coste, questi volatili?
- Ordinariamente sì, perchè s'incontrano perfino a cinque
o seicento miglia dalle isole e dai continenti.
- Allora quelli uccelli che fuggono verso levante saranno
dell'Arcipelago.
- Possono anche essere emigranti, amico mio, e diretti chi
sa mai dove.
- Signore!... - esclamò in quell'istante il mozzo, con voce
rotta.
- Cos'hai? - chiese Albani.
- Là!... là!... Guardate!...
- Dove?...
- Dinanzi a noi!... Alzatevi in piedi!... -
Albani ed il marinaio s'affrettarono a obbedirlo e scorse-
ro, ad una grande distanza, emergere dall'orizzonte una mas-
sa oscura la quale spiccava nettamente sulle acque illumina-
te dalla luna.
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- Un'isola!... - esclamò il marinaio, con voce soffocata.
L'ex-uomo di mare non rispose. Colla fronte aggrottata,
gli sguardi fissi fissi, guardava con profonda attenzione
quella massa nerastra che somigliava vagamente alla cima
d'una montagna.
- Un'isola?... - ripetè il marinaio, con crescente ansietà.
- Sì, - rispose finalmente il veneziano. - No.... non possia-
mo ingannarci.... la terra è là! -
Due grida di gioia irruppero dal petto dei due marinai:
- Evviva!... Evviva!... Grazie a Dio, noi siamo salvi!...
- Sì! - ripetè Albani, che continuava a guardare. - Terra!...
Terra laggiù!...
- Lasciate che vi abbracci, signor Albani!... - gridò il ma-
rinaio, che pareva impazzisse per la gioia.
- Fa' pure ma bada di non cadere, - disse il veneziano, ri-
dendo. - Il pesce-cane ci segue sempre.
- Non lo temo più. -
Il marinaio gli gettò le braccia al collo, poi volgendosi
verso il mozzo:
- Un abbraccio anche a te, mio Piccolo Tonno! - disse.
- Bada!... Mi fai abbandonare la scotta.
- La riprenderemo poi. -
E l'espansivo marinaio strinse al petto anche il mozzo.
Il rottame continuava a filare in direzione dell'isola, spin-
gendolo il vento precisamente da quella parte.
Il picco pareva che di momento in momento s'alzasse
sull'orizzonte. Quale terra sorgeva laggiù?... Era un'isola ap-
partenente all'Arcipelago di Sulu e abitata, oppure una di
quelle scogliere deserte che sono così numerose in quel ma-
re?... Pel momento ai naufraghi poco importava il saperlo; a
loro bastava di poter toccare quella terra per riposarsi e per
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dissetarsi, essendo certi di trovare un po' d'acqua o per lo
meno delle frutta.
Albani, tenendosi ritto presso il pennone di pappafico,
guardava con crescente attenzione il picco che spiccava
sempre più nettamente sull'orizzonte, il quale ormai comin-
ciava a rischiararsi, approssimandosi l'alba. Pareva che cer-
casse d'indovinare a quale terra apparteneva.
- Vedete nulla, signore? - chiese il marinaio, che non pote-
va rimanere zitto.
- Nulla, - rispose il veneziano.
- Nemmeno un punto luminoso?
- No.
- Sembra vasta quell'isola?
- Non mi pare.
- Che sia deserta?
- Te lo dirò quando saremo sbarcati.
- Io la preferirei disabitata, signore, - disse il mozzo.
- Briccone! E come faresti a procurarti dei viveri se non
possediamo un fucile?
- Abbiamo una scure e due coltelli.
- Che Robinson miserabili!... Crosuè aveva almeno delle
armi da fuoco e la dispensa della nave.
- Ne faremo a meno.
- Vorrei vederti alla prova.
- Scorgo le sponde dell'isola, - disse in quell'istante Enri-
co.
Il signor Emilio ed il mozzo, aiutandosi l'un l'altro per
mantenersi in equilibrio, s'alzarono in piedi.
L'isola non distava che cinque o sei miglia ed ora la si
scorgeva perfettamente.
Pareva che non dovesse essere vasta, poichè la sua fronte
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non si estendeva per parecchie miglia verso l'est e verso
l'ovest ed il suo monte s'alzava per tre o quattrocento metri,
formando, presso le vetta, due punte dentellate a mo' di sega.
Dinanzi alle spiagge si vedevano emergere delle masse
oscure, probabilmente delle scogliere corallifere e attorno ad
esse si vedeva l'acqua spumeggiare per un vasto tratto.
- La risacca sarà violenta laggiù - disse il marinaio, - ma
noi approderemo egualmente. Piccolo Tonno, lascia andare
la scotta: cammineremo di più. -
La brezza che era aumentata invece di diminuire, urtava
la vela con una certa violenza, imprimendo al rottame delle
brusche scosse. La tranquilla superficie del mare cominciava
a rompersi e delle larghe ondate si formavano, correndo da
ponente a levante.
Alle 4 del mattino, quando le prime luci dell'alba comin-
ciavano a far impallidire gli astri, i naufraghi giungevano di-
nanzi alle prime scogliere dell'isola.
La risacca si faceva sentire violentemente. Le ondate e le
contro-ondate si urtavano con grande furia, rompendosi e ac-
cavallandosi con lunghi muggiti e coprendosi di spuma.
Il rottame, scosso da tutte le parti, trabalzava disordinata-
mente minacciando di rovesciare in acqua i naufraghi. Già il
pennone e la vela erano caduti in causa di quelle spinte di-
sordinate.
Ad un tratto toccò: si era arenato su d'un basso fondo.
- In acqua!... - gridò il signor Emilio.
Il marinaio mise il coltello nella cintola e abbandonò
l'albero. Aspettò che l'onda, spinta dalla risacca, passasse e si
slanciò verso la spiaggia arrestandosi dinanzi ad una specie
di caverna entro la quale le acque si precipitavano con lun-
ghi muggiti.
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I suoi compagni l'avevano seguito correndo.
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Capitolo V
I mostri dell'Oceano
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mescolare il sangue e rizzare i capelli.
- Signor Emilio!... - urlò con voce strozzata.
- Cosa avete? - chiese il veneziano, che nulla aveva potu-
to vedere, trovandosi ancora indietro.
Il marinaio non potè rispondere. Quel braccio lo stringeva
in modo da soffocarlo e alle reni gli faceva provare un dolo-
re così acuto, come gli si succhiasse il sangue a forza.
Non si era però smarrito d'animo. Facendo uno sforzo di-
sperato trasse il coltello dalla cintola e con un rapido colpo
tagliò netto quel membro dotato di quella forza straordinaria.
Il veneziano correva allora in suo aiuto, tenendo ben stret-
ta in pugno la scure. Con un solo sguardo, vide subito con
quale formidabile avversario avevano da fare.
- Indietro! - urlò.
Il marinaro girò sui talloni lanciandosi verso l'apertura,
ma due altre braccia lo afferrarono cercando di sollevarlo,
mentre altre tre piombavano sul suo compagno.
- Ah!... Canaglia! - urlò Albani, furibondo.
Non badando che alla propria rabbia, si era scagliato a
corpo perduto contro quei due grandi occhi che brillavano
fra l'oscurità, menando colpi disperati, mentre il marinaio
agitava pazzamente il coltello percuotendo a destra ed a sini-
stra.
Ad un tratto si sentirono inondare da una scarica di liqui-
do denso e che tramandava un acuto odore di muschio, men-
tre le braccia che li stringevano cadevano inerti.
Mezzi soffocati ed acciecati guadagnarono a tentoni
l'uscita, presso la quale si teneva il mozzo, urlando come un
ossesso.
- Fulmini di Genova! - esclamò il marinaio, correndo a
tuffarsi nelle onde. - Che m'abbia acciecato?...
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- Ma siete inondati d'inchiostro! - urlò il mozzo. - Ma co-
sa è accaduto adunque?...
- Aspetta un po' che mi lavi!... Mondaccio birbone.... So-
no profumato come un caimano!... -
Il veneziano era pure balzato in acqua e si lavava con
grande vigore, stropicciandosi il viso, i capelli e le vesti.
- Ma cos'è accaduto, dunque? - ripeteva il mozzo, il quale
lanciava sguardi impauriti verso la caverna.
- Auff! - esclamò finalmente il marinaio, riguadagnando
la sponda. - Era inchiostro di prima qualità!...
- Ma avete combattuto contro dei calamai? - chiese il
mozzo, che ormai rideva a crepapelle.
- No, contro uno solo, ma se tu l'avessi veduto, ragazzo
mio, non avresti più una goccia di sangue in corpo. Che
braccia!... E che occhi!... Se mi stringeva un po' di più, mi
faceva uscire gl'intestini dalla bocca, te lo assicuro.
- Un polipo formidabile, adunque?...
- Enorme.
- E l'avete ucciso?
- Lo credo.
- E stava in quella grotta come nella sua casa?
- Precisamente, Piccolo Tonno.
- Ah!... San Gennaro, aiutami!...
- Cosa c'è?...
- Oh! l'orribile mostro!...
- Fulmini!... Ancora lui!... Signor Emilio! -
Albani, che aveva allora terminato di lavarsi, guadagnò
prontamente la riva, ma subito si arrestò.
Dalla caverna marina, usciva in quel momento il mostro
che li aveva poco prima assaliti, tentando di tornare in mare.
Quel calamaro gigante faceva paura. Era di dimensioni
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enormi, poichè poteva pesare mille chilogrammi, biancastro
ma quasi gelatinoso, con delle braccia lunghe sei metri, for-
nite d'un grande numero di ventose destinate a succhiare il
sangue delle vittime, con un becco grandissimo, di sostanza
cornea, che somigliava, nella forma, a quello dei pappagalli
e con due occhi grandi, piatti, dai glauchi colori.
S'avanzava penosamente, essendogli state recise tre brac-
cia e cercava di approfittare delle onde che la risacca sca-
gliava contro la caverna.
- Fuggite! - gridò il signor Emilio.
Sul fianco destro della caverna si prolungava una fila di
scoglietti, gli uni collegati agli altri da banchi di sabbie che
la bassa marea aveva lasciati scoperti, e che si univano ai
piedi dell'altra sponda.
I naufraghi senza più esitare si slanciarono verso quegli
scogli, cercando di giungere presso la riva e si arrestarono
dinanzi ad una rupe gigantesca che s'inalzava per due o tre-
cento piedi.
Il calamaro gigante, fortunatamente, pareva che non pen-
sasse a dare a loro una seconda battaglia, ma a raggiungere il
mare. Attese che una nuova onda giungesse presso la caver-
na e quando la vide ritirarsi, si lasciò trascinare via.
Per qualche istante furono vedute le sue braccia agitarsi
fra la spuma, poi l'intera massa scomparve sotto le acque.
- Buon viaggio! - gridò il marinaio, respirando liberamen-
te. - Fulmini!... Come era brutto!... Non ne ho mai visto uno
simile!...
- I cefalopodi sono piuttosto rari, - disse Albani.
- Si chiamano cefalopodi, quei mostri?...
- Sì, Enrico.
- Sono pericolosi?...
51
- Posseggono tale forza nelle loro braccia, da stritolare un
uomo robustissimo. Aggiungi poi, che le loro ventose dove
si applicano succhiano il sangue, e se tu non fosti stato vesti-
to, le avresti provate.
- Ma il furfante morrà, così mutilato.
- Non crederlo, amico mio. I cefalopodi hanno la vita dura
e per ucciderli bisogna colpirli al cuore o meglio nei cuori,
poichè ne hanno tre.
- Ma ha perduto tre braccia, signore.
- Col tempo le rifarà.
- Cosa dite?... Torneranno a crescergli le braccia?...
- Sì, fra sette anni. Ma lasciamo andare il cefalopodo e
cerchiamo di scalare questa costa. Vedo degli alberi lassù e
promettono delle frutta, se non m'inganno.
- Siamo marinai signore e spero che ci riusciremo. -
Il sole spuntava allora, illuminando il mare e l'isola. Al-
zando gli occhi verso l'alta sponda, i naufraghi ormai distin-
guevano perfettamente degli alberi di mole enorme, coperti
di folte e grandi foglie, in mezzo alle quali apparivano delle
grosse frutta spinose, di forma un po' allungata.
- Se non m'inganno sono durion, - disse il signor Emilio. -
Sarà un po' difficile far cadere quelle frutta, ma chissà che a
terra ve ne siano. -
52
Il signor Albani spaccò un frutto, adoperando la scure per non
ferirsi le mani.... (Pag. 37).
53
Si misero a osservare la rupe, ma alla base era così liscia,
da non permettere la salita nemmeno ad un gatto o ad una
scimmia. Quattro metri più sopra però vi erano numerosi
crepacci e delle radici e degli sterpi, i quali potevano offrire
una scalata.
- Corpo d'un tre alberi sventrato! - esclamava il marinaio,
che si rompeva inutilmente le unghie contro quella parete li-
scia e dura. - Che non si possa giungere lassù?
- Colla pazienza ci riusciremo, - disse il signor Emilio. -
Dov'è il rottame?
- Si è arenato presso la caverna, - rispose il mozzo.
- Va' a tagliare un paterazzo dell'albero. -
Il mozzo si recò presso la caverna e poco dopo ritornava
tirando la lunga e grossa gomena incatramata.
- Formiamo ora una scala umana, - disse il veneziano. -
Tu, Enrico, appoggiati alla rupe, io salgo sulle tue spalle e
Piccolo Tonno sulle mie, portando con lui il paterazzo.
- Sarai poi capace di salire? - chiese il marinaio al mozzo.
- Mi basta cacciare un piede ed una mano in una di quelle
fessure, - rispose Piccolo Tonno.
- Avanti allora! -
Il marinaio s'appoggiò alla rupe inarcando il robusto dor-
so, il signor Emilio gli salì sulle spalle con un solo salto, poi
il mozzo, che si era legata la fune attorno ai fianchi, s'arram-
picò con un'agilità da scoiattolo, aggrappandosi ad una radi-
ce e puntando i piedi nudi entro un crepaccio.
- Ci sei? - chiese il marinaio.
- Salgo, - rispose il ragazzo.
Il signor Emilio balzò a terra e guardò in aria. Piccolo
Tonno s'arrampicava sul fianco della rupe con rapidità sor-
prendente e con sicurezza, tenendosi stretto agli sterpi o alle
54
radici ed approfittando delle più lievi sporgenze e delle più
piccole fessure.
In pochi istanti raggiunse felicemente la vetta della gran-
de rupe, la quale si addossava alla spiaggia.
- Cosa vedi? - chiese il marinaio, impaziente.
- Tanti alberi e delle canne immense.
- Vi sono delle capanne? - chiese il signor Emilio.
- Non ne vedo.
- Lega la fune, poi gettala.
- Signor Albani!...
- Cosa c'è ancora?...
- Vedo delle scimmie.
- Non valgono il giupin1 ma allo spiedo basteranno pei
nostri stomachi affamati, - disse il marinaio. - Giù la fune,
ragazzo mio!... -
Il mozzo legò un capo del paterazzo attorno la punta d'una
roccia e gettò l'altro, il quale cadde in acqua.
- A voi, signore, - disse Enrico.
Albani afferrò la fune e si mise a salire con una lestezza,
che dimostrava come quell'uomo fosse famigliarizzato cogli
esercizi ginnastici, e raggiunse il mozzo il quale ammirava
estatico alcuni uccelli dalle penne splendidissime, che vol-
teggiavano attorno agli alberi.
Quella parte dell'isola, le cui sponde erano così elevate,
pareva che fosse assai accidentata e che formasse le ultime
pendici della montagna già scorta, la quale s'alzava a meno
di un miglio dal mare.
Quel terreno saliva e scendeva in forma d'ondulazioni as-
sai accentuate, ed era coperto da folte boscaglie, le quali poi
s'arrampicavano sui fianchi del monte.
1
Zuppa genovese.
55
Si vedevano alberi d'ogni specie incrociare i loro rami,
tanto crescevano uniti, gli uni altissimi e grossi assai, altri
esili e più bassi e altri ancora nodosi e contorti, tutti coperti
da piante arrampicanti che formavano dei pittoreschi festoni.
Molti uccelli di diverse specie volavano quà e là fuggen-
do in mezzo agli alberi più folti, mentre sulle sponde volteg-
giavano bande di rondini salangane e parecchi volatili ac-
quatici.
Nessuna traccia d'abitanti si scorgeva su quella costa: non
canotti, non capanne, non un fuoco o del fumo che indicas-
sero la presenza di qualche abitante. Si vedevano invece nu-
merose scimmie, di quelle chiamate nasi lunghi (Nasalis
larvatus) dalla fisonomia comica, col naso lungo, grosso, a
punta rigonfia e rossa come quella dei discepoli di Bacco e
che erano occupate a saccheggiare le frutta degli alberi.
- Nessun abitante, signore? - chiese il marinaio, raggiun-
gendo Albani.
- No, finora, - rispose questi.
- E da mettere sotto i denti, nulla?... Ho un appetito formi-
dabile e vi assicuro che darei un anno di vita per una zuppie-
ra di quel giupin, che papà Merlotti sapeva fare così delizio-
so.
- Ed io due per un piatto di maccheroni col pomodoro, -
disse il mozzo.
- Per ora vi accontenterete delle frutte di questi durion, -
rispose Albani, sorridendo.
- Sono buone, almeno? - chiese il marinaio.
- Le migliori e le più nutrienti di tutte, ma....
- C'è un ma?...
- Non so se saprete vincere l'odore ingrato che esalano.
- Toh!... Sono le frutta più squisite e hanno un profumo
56
che non tutti possono affrontare!... Che specie di frutta sono
adunque?
- Deliziose, ti ho detto.
- Puzzassero anche di catrame, io le manderò giù - disse il
mozzo. - Ho lo stomaco vuoto e reclama la colazione molto
imperiosamente.
- Seguitemi, - disse Albani. - Ecco delle frutta ben mature
che sono già cadute. -
57
Capitolo VI
I Robinson italiani
58
Il signor Albani spaccò un frutto, adoperando la scure, per
non ferirsi le mani con quelle punte pericolose, ed estrasse la
polpa che conteneva, facendo uscire dei grossi semi avvilup-
pati in una pellicola.
- Inghiottisci questa polpa, - disse, offrendola al marinaio.
- Se l'odore ingrato ti dà noia, turati il naso. -
Il marinaio, quantunque avesse i suoi dubbi sulla squisi-
tezza di quelle frutta, ne mise un pezzo in bocca e, contro
ogni previsione, la inghiottì avidamente.
- Ma è deliziosa! - esclamò. - Migliore della crema più
delicata e più profumata delle frutta più pregiate dei nostri
paesi. Mangia, mio Piccolo Tonno, mangia!... I gelati della
tua Napoli la perdono nel confronto. -
Il mozzo, incoraggiato da quelle parole, si turò il naso e
mandò giù.
- Chi direbbe che queste frutta così puzzolenti sono così
buone! - esclamò. - Ancora, signor Emilio, ancora! -
Le frutta abbondavano e, possedendo la scure, i naufraghi
non si trovavano imbarazzati ad aprirle. Abituatisi presto a
quell'odore ingrato, fecero una vera scorpacciata di quella
polpa tenera e così delicata.
- Ma i semi non si mangiano? - chiese il marinaio.
- Sì, - rispose Albani. - Si arrostiscono come le nostre ca-
stagne e ne hanno anche il sapore.
- Signor Albani, facciamo una raccolta di queste frutta.
- Si guastano presto, Enrico, non ne vale quindi la pena, e
poi questo cibo è sostanzioso fino ad un certo punto. Biso-
gnerà trovare qualche cosa di più solido.
- Della carne? Credete che vi siano degli animali in
quest'isola?
- E perchè no? Troveremo dei babirussa, dei tapiri forse,
59
delle scimmie e fors'anche degli animali pericolosi, delle ti-
gri per esempio.
- Delle tigri!... Diavolo!... E noi non abbiamo che una
scure e due coltelli! Non so cosa accadrebbe di noi se uno di
quegli animali ci assalisse!... Udiamo, signore, cosa avete in-
tenzione di fare? Mi pare che la nostra situazione non sia
molto brillante.
- Sedetevi ed ascoltatemi, amici miei, - disse Albani. - Io
non so in quale isola noi abbiamo approdato, ma credo che
sia una di quelle che formano l'Arcipelago di Sulù e che sia
disabitata.
Forse m'ingannerò, ma temo che noi siamo destinati a fa-
re la vita dei Robinson e ad intraprendere una vera lotta per
poterci trarre d'impiccio.
Questo mare poco noto, poco frequentato dalle navi, es-
sendo noi lontani dalle linee che ordinariamente tengono i
velieri, che dalle isole della Sonda si recano alle Filippine,
non ci offrirà tanto presto l'occasione di venire raccolti, e
chissà per quanto tempo saremo costretti a rimanere qui.
Fortunatamente se quest'isola sembra deserta è ricca di
piante, e la flora malese può procurare, per chi sappia appro-
fittarne, mille cose sufficienti ai bisogni della vita.
Non scoraggiatevi quindi: si tratta di lavorare e se Dio ci
protegge, spero di potervi far passare tranquillamente, senza
timori e senza sofferenze, tutto il tempo che saremo costretti
a fermarci su quest'isola.
Siamo i più poveri di tutti i Robinson, poichè gli altri, co-
minciando da Selkirk, il capo-scuola, l'eroe di Daniel de
Foë, possedevano almeno delle armi da fuoco, mille cose
utilissime che traevano dalle loro navi naufragate, ma colla
fermezza e colla volontà noi nulla avremo da invidiare agli
60
altri.
Intanto, amici miei, pensiamo a fabbricare un ricovero
che è il più urgente di tutto. Col tempo poi fabbricheremo
delle armi mortali quanto i fucili....
- Delle armi!... - esclamarono i due marinai stupiti. - Ma
dove le troverete?...
- A suo tempo lo saprete, - rispose Albani. - Poi cerchere-
mo il pane....
- Anche il pane!...
- Sì, amici, e vi assicuro che il forno che costruiremo avrà
molto da lavorare.
- Fulmini!
- Terremoto del Vesuvio!
- Poi verrà il resto. Avremo del vino, dell'olio, le candele,
le stoviglie, ecc. Conosco la flora malese e so quante cose
indispensabili alla vita può produrre. La natura penserà a
darci tutto.
- Ma voi siete un grand'uomo, signore! - esclamò il mari-
naio.
- Niente affatto, - rispose Albani, sorridendo. - Ho viag-
giato assai, specialmente nella Malesia, e metterò a profitto
tutto ciò che ho imparato nelle mie escursioni. Al lavoro,
amici!... Prima di questa sera, bisogna avere un ricovero.
- Ma non abbiamo ancora bevuto, signore, - disse il mari-
naio, - ed io sarei ben felice di poter ingollare un sorso
d'acqua.
- Ecco una pianta che ci darà dell'acqua buonissima, - ri-
spose il veneziano. - La natura comincia il suo ufficio di
provveditrice dei Robinson. -
Egli si era avvicinato ad una specie di liana ramosissima
che s'arrampicava attorno ad un durion, formando dei gra-
61
ziosi festoni, e aveva impugnato il coltello che aveva preso
al mozzo.
- Preparatevi ad accostare le labbra, - disse.
Con un colpo secco la troncò e dai due capi si videro tosto
sgorgare due zimpilli d'acqua limpidissima.
- Non sarà velenosa, signore? - chiese il marinaio, esitan-
do.
- No, uomo diffidente: bevi con tuo comodo che ce n'è per
tutti. -
Enrico ed il mozzo applicarono le labbra ai due pezzi del-
la liana e bevettero avidamente, poi lasciarono il posto al si-
gnor Albani che si era rifiutato di accettarlo prima.
- È vera acqua, signore, - disse il marinaio. - Ma che spe-
cie di pianta è questa, che fa l'ufficio delle fontane?
- Si chiama aier dagli abitanti delle Molucche e d'Amboi-
na, ma è poco conosciuta dai naturalisti europei. Solamente
Rumfio e il nostro Rienzi, il valoroso esploratore di queste
regioni, ne hanno fatto cenno. È però comunissima e gl'iso-
lani ne fanno molto uso quando l'acqua diventa scarsa nei
serbatoi e nei torrenti.
So che anche le frutta di questa liana contengono molto
umore acqueo.
- Che piante strane! - esclamò Piccolo Tonno.
- Ne troveremo delle altre che ci daranno dell'acqua. Se-
guitemi, amici.
- Dove ci conducete?...
- A trovare i materiali per la nostra capanna. Vedo laggiù
una piantagione di bambù e quelle canne robustissime e faci-
li a trasportarsi, ci serviranno a meraviglia.
- Ed i rottami, non possono servirci? -
Il veneziano parve colpito da quella domanda.
62
- È vero, - disse. - Vi sono i cordami, le vele e anche le
aste di ferro dei pennoni che ci possono giovare per molti
usi. È meglio che riportiamo tuttociò a terra, prima che la
marea respinga il rottame al largo. Questa notte potremo ac-
contentarci d'una tenda. -
Tornarono verso la spiaggia cercando un passaggio che
permettesse a loro di scendere verso il mare e lo trovarono a
duecento passi dalla grande rupe. Colà la sponda s'abbassava
dolcemente formando una piccola cala, entro la quale avreb-
be potuto trovare un comodo rifugio un piccolo bastimento,
essendo difesa da una doppia linea di scogliere.
Denudatesi le gambe, trovandosi i banchi sabbiosi, che
costeggiavano la sponda, sommersi, in causa dell'alta marea,
si diressero verso la caverna marina, dinanzi alla quale tro-
varono ancora arenato il rottame.
Si misero tosto all'opera per ricavare tuttociò che poteva
essere a loro necessario. Il legname era inutile, essendovene
ad esuberanza nell'isola e preferendo adoperare i bambù i
quali si prestano meglio di tutti nelle costruzioni delle ca-
panne; ma s'impadronirono delle funi, dei paterazzi e delle
sartie che potevano essere molto utili, quindi levarono tutte
le ferramenta dei pennoni e specialmente le sbarre che ser-
vono d'appoggio ai gabbieri e poi le vele che erano tre, quel-
la di gabbia, di pappafico e di contra-pappafico.
- Serviranno a fare delle amache e dei vestiti, - disse il ve-
neziano. - La tela è ancora in buono stato.
- Ma ci mancano gli aghi, signore, - disse il mozzo.
- Troveremo il modo di fabbricarne.
- Di acciaio?...
- Non ho questa pretesa, ma certe ossa di pesci ci servi-
ranno a meraviglia.
63
- Lo dite sul serio? - chiese Enrico.
- Certo, incredulo marinaio. Gli abitanti nordici, gli
Esquimesi per esempio, credi che abbiano degli aghi d'accia-
io?... No, si servono di ossa di pesci e noi li imiteremo.
- Ed il filo?...
- Lo avremo dalle vele, quantunque sia certo di trovare
qui degli alberi che potrebbero procurarcelo. L'arenga sac-
charifera produce una sostanza cotonacea che i malesi ado-
perano come esca e che si potrebbe filare.
- Ma voi, signor Emilio, siete un uomo miracoloso. Sapre-
ste procurarvi tutto anche in un'isola deserta.
- Sì, purchè abbia degli alberi, - rispose il veneziano, ri-
dendo. - Orsù, torniamo alla sponda. -
Si caricarono d'una parte degli oggetti ricavati dal rottame
e riguadagnarono il gruppo di durion, presso cui contavano
di accamparsi finchè non trovavano un posto migliore.
Dopo essersi un po' riposati, scesero nuovamente la spon-
da e riportarono il resto.
Erano allora le quattro pomeridiane, a giudicarlo
dall'altezza del sole. Essendo troppo stanchi per cominciare
nuovi lavori, colla vela di gabbia che era molto grande e con
pochi rami d'albero improvvisarono una comoda tenda,
quindi fecero un'ampia raccolta di legne secche onde mante-
nere il fuoco acceso durante la notte, temendo qualche visita
pericolosa da parte degli abitanti a quattro gambe della fore-
sta. Fortunatamente avevano la possibilità di accendere quel-
le legne, avendo il marinaio ritrovate in una delle sue tasche
l'acciarino, la pietra focaia e l'esca, che conservava in una
scatola metallica assieme alla pipa, diventata, ohimè, inutile
ormai, mancando il tabacco.
Il pranzo fu molto magro quella sera, ma si accontentaro-
64
no. La minuta era semplice, ma fortunatamente abbondante:
granchiolini di mare arrostiti sui carboni, delle ostriche, del-
le frutta di durion e una sorsata d'acqua data da un'altra liana
che avevano scoperta a breve distanza dalla piantagione di
bambù.
- A chi il primo quarto di guardia? - chiese Albani. - Non
sarebbe prudente addormentarci tutti, non sapendo quali ani-
mali si nascondono nei boschi o quali uomini abitino
quest'isola.
- Lo farò io, - disse il marinaio.
- Bada di non lasciar spegnere il fuoco.
- Non abbiate timore.
- E se scorgi qualche cosa di sospetto, chiamaci senza in-
dugio.
- Dormite tranquilli. -
Il signor Emilio ed il mozzo scivolarono sotto la tenda,
mentre il marinaio si sdraiava presso il fuoco colla scure a
portata della mano.
65
Capitolo VII
La Tigre
66
stri coltelli potrebbero impedirgli di divorarci!... Avessimo
almeno delle lancie!... To'!... E perchè no? La cosa mi sem-
bra possibile! -
I suoi sguardi erano caduti sulla legna raccolta che dove-
va alimentare il fuoco, in mezzo alla quale aveva scorto due
giovani bambù lunghi due o tre metri, canne leggiere bensì,
ma d'una resistenza a tutta prova e che gl'indiani ed i giava-
nesi adoperano per fabbricare le aste delle loro picche.
- Ecco quanto mi occorre per avere una buona arma supe-
riore alla scure, - disse.
Afferrò una di quelle canne, la spogliò delle foglie, estras-
se da una tasca una funicella ed in pochi istanti legò solida-
mente il suo coltello all'estremità di quell'asta.
Aveva appena terminato, quando vide uscire da una folta
macchia un'ombra, la quale s'avanzava verso il fuoco con
grande lentezza, mostrando due occhi che avevano dei ba-
gliori verdastri. S'alzava, si abbassava fino a toccare col ven-
tre la terra, poi s'arrestava come se fosse indecisa o fiutasse
l'aria, poi si stirava come un gatto e agitava la sua lunga e
sottile coda.
Pareva però che non avesse molta fretta ad avvicinarsi al
campo, tenuta forse in rispetto dal fuoco, il quale proiettava
sulle piante vicine dei riflessi sanguigni.
- Una tigre od un grosso gatto selvatico? - si chiese il ma-
rinaio, le cui inquietudini aumentavano. - Diavolo! La cosa
diventa seria e mi pare che valga la pena di tirare le gambe
ai compagni. -
Scivolò rapidamente sotto la tenda e scosse vigorosamen-
te Albani ed il mozzo, dicendo:
- Presto, uscite!... Un grave pericolo ci minaccia.
- Chi?... Cosa succede? - chiese l'ex-uomo di mare, stro-
67
picciandosi vigorosamente gli occhi.
- Credo che si tratti d'una tigre, signore.
- D'una tigre?... Usciamo! -
Quando si trovarono all'aperto, videro l'animale tranquil-
lamente accovacciato a trenta passi dal fuoco.
Non era più possibile ingannarsi, trovandosi in piena luce:
era una vera tigre; ma di razza malese, più tozza, più bassa
di zampe e meno elegante di quelle reali del Bengala.
Quelle dell'Arcipelago della Sonda hanno il pelo più lun-
go e più spesso, le basette meno sviluppate, i ciuffi di pelo
del ventre e delle coscie sono invece meno abbondanti.
Sono feroci al pari delle altre, ma fanno più paura, poichè
hanno uno sguardo così falso, così minaccioso che fa male a
vederlo, e ordinariamente tengono la lingua penzolante e la
coda bassa.
La fiera, nello scorgere quei due uomini e quel ragazzo,
aveva alzata la testa emettendo un sordo brontolio che nulla
di buono pronosticava, ma non si era alzata. Solamente la
sua coda, che spazzava il terreno con moti convulsi, tradiva
od una certa inquietudine od un imminente scoppio di colle-
ra.
- È un vicino pericoloso, - disse il signor Albani, il quale
però non sembrava molto spaventato.
- San Gennaro ci protegga, - mormorò il mozzo, battendo
i denti.
- Cosa dobbiamo fare? - chiese il marinaio, che era diven-
tato assai pallido.
- Restiamo tranquilli, - rispose il veneziano. - Non oserà
avvicinarsi al fuoco.
- Non ci assalirà?...
- Non lo credo, ma non muovetevi, perchè questi animali
68
sono coraggiosi e se credono di essere minacciati, non esita-
no a scagliarsi.
- E non possediamo nemmeno un fucile a pietra!... Nem-
meno una pistolaccia qualunque!... Signor Albani, bisogna
trovare il modo di fabbricarci delle armi innanzi a tutto o le
tigri ci mangeranno.
- Dopo la capanna verranno le armi e vi prometto che sa-
ranno più formidabili dei fucili.
- Ma dove le troverete!...
- A suo tempo lo saprete e....
- Zitto signore, - disse il mozzo, interrompendolo.
Dalla parte della piantagione di bambù si erano udite le
foglie ad agitarsi, come se un grosso animale cercasse di
aprirsi il passo. La tigre aveva voltata la testa verso quelle
canne giganti, poi si era alzata agitando rapidamente la coda.
- Che un'altra tigre si avvicini? - chiese il marinaio.
- O qualche preda? - disse il veneziano. - Sarebbe la ben
venuta.
- Per la tigre?
- E anche per noi, poichè ci leverebbe d'attorno questo in-
comodo vicino. -
Le grandi canne continuavano intanto ad agitarsi e le fo-
glie a sussurrare, e la tigre diventava più attenta.
Ad un tratto una grossa ombra comparve sull'orlo della
piantagione e dopo una breve esitazione si diresse verso il
fuoco, come se fosse attratta da una irresistibile curiosità.
L'oscurità era troppo profonda perchè si potesse ben di-
stinguerla, ma le sue forme rassomigliavano a quelle d'un ta-
piro o di un babirussa, animali molto comuni nelle isole
dell'Arcipelago Chino-Malese.
Quell'animale era già giunto a cento o centoventi passi,
69
quando il marinaio disse: - Guardate la tigre! -
Il felino era strisciato rapidamente e senza far rumore,
dietro ad una fila di cespugli e s'avanzava verso la preda,
con passo silenzioso, schiacciandosi, per così dire, contro
terra.
D'improvviso si arrestò, si raccolse su sè stesso, poi
s'innalzò descrivendo una lunga parabola e piombò, con pre-
cisione matematica, sul dorso dell'animale.
S'udì un grugnito acuto seguito dal grido gutturale e stri-
dente della belva, poi si videro i due avversarii dibattersi al-
cuni istanti, quindi cadere l'uno sull'altro.
- Morti entrambi? - chiesero il marinaio ed il mozzo, che
avevano seguito con viva ansietà le fasi di quella lotta.
- No, - rispose Albani. - La tigre sta dissanguando la pre-
da.
- Canaglia! - esclamò il marinaio. - Ah!... se avessi un fu-
cile!...
- Eccola che si rialza, - disse il mozzo.
Infatti il formidabile felino, abbeveratosi col sangue caldo
della vittima, erasi rialzato. Girò due o tre volte attorno alla
preda, poi l'addentò per la nuca e malgrado fosse assai più
grossa di lui, se la trascinò in mezzo alla piantagione per di-
vorarsela con suo comodo.
- Buona digestione, - disse il mozzo.
- E domani avremo della carne fresca, - aggiunse Albani.
- Che ne lasci per noi?... - chiese il marinaio.
- Quando si sarà sfamata se ne andrà, senz'altro occuparsi
degli avanzi. Sono certo di trovare domani, nella piantagio-
ne, buona parte di quel disgraziato animale. Andate a riposa-
re ora, amici miei: comincio il mio quarto.
- Non tornerà la tigre?...
70
- Non lo credo, d'altronde in caso di pericolo vi chiamerò.
-
I due marinai si ritirarono sotto la tenda ed il veneziano si
sedette presso il fuoco, dopo d'aver gettato sui tizzoni
dell'altra legna.
Il resto della notte passò senz'altri allarmi, però il signor
Albani ed il mozzo udirono, in mezzo alle foreste, urla di ti-
gri, grugniti e sibili i quali indicavano a sufficienza, come
quell'isola fosse ricca di selvaggina d'ogni specie e anche di
animali pericolosi.
Urgeva quindi fabbricarsi tosto una solida capanna, per
non correre il pericolo di venire assaliti o di passare le notti
in continui allarmi.
- Andiamo, amici, al lavoro - disse il veneziano, quando
spuntò il sole. - Prima di sera bisogna avere un ricovero.
- Non dimentichiamo però la carne lasciata dalla tigre, si-
gnore - disse il marinaio. - Se continuiamo a mangiare frutta,
fra due settimane non potremo più reggerci in piedi.
- Con un po' di pazienza ci procureremo tutto, Enrico.
Pensa che siamo sprovvisti d'ogni cosa, che siamo i più mi-
seri di tutti i Robinson e che dovremo cominciare dalle cose
di prima necessità. Fra un mese spero di non udirti più a la-
mentare.
- È lungo un mese, signore. Sapete che comincio a soffri-
re per la mancanza del pane?...
- Fra poco il pane abbonderà.
- Lo dite sul serio?...
- Sì, ma prima dovremo costruire il forno e per ora prefe-
risco avere una capanna.
- Diamine! Anche il forno! Avremo da lavorare molto,
prima di possedere tuttociò che è necessario alla nostra esi-
71
stenza.
- In marcia! -
Lasciarono la tenda, armati della lancia e della scure e si
diressero verso la piantagione di bambù, la quale si estende-
va per un lungo tratto, costeggiando una specie di pantano
che conservava ancora delle traccie di umidità.
Quella piantagione era formata da parecchie varietà di
bambù. V'erano i tuldo che sono dei più grandi della specie,
che in soli trenta giorni acquistano un'altezza da quindici a
diciotto metri ed una grossezza di trenta centimetri; i balcua
chiamati dagl'indigeni balcas-bans, pure altissimi ma sottili;
i blume chiamati anche hauer-tgiutgiuk, armati di spine ri-
curve e coperti di foglie assai strette; i bambù selvaggi chia-
mati teba-teba, storti e pure spinosi, ed infine dei bambù gi-
ganti, i più alti e più grossi di tutti, poichè toccano sovente
perfino trenta metri d'altezza con una circonferenza di un
metro e mezzo a due, ma che sono però i meno solidi.
- Qui abbiamo quanto ci occorre - disse il veneziano. -
Voi non vi potete immaginare quante cose utilissime si pos-
sono ricavare da queste piante.
- Da queste canne! - esclamò il marinaio, con tono incre-
dulo. - Tutt'al più serviranno a fare delle case.
- T'inganni, Enrico; anzi ti dirò che ben poche piante sono
preziose e più utili di queste.
- Sarei curioso di sapere a cosa ci potrebbero servire.
- Cominciamo dai germogli, se vuoi: ti piacciono gli aspa-
ragi?
- Gli asparagi!... Ma cosa c'entrano quei deliziosi....
- Ah!... ti piacciano assai!... - lo interruppe il signor Alba-
ni. - Allora ti dirò che le giovani gemme di queste
canne, cucinate in acqua e condite, somigliano ai nostri
72
asparagi.
- Scherzate!...
- No, quando avremo una pentola e dell'olio, te li farò as-
saggiare.
- Dell'olio! - esclamarono il marinaio ed il mozzo stupiti.
- Ma sperate di trovare degli olivi qui?...
- No, poichè qui non crescono, ma lo troverò anche senza
quelle piante.
- Uomo miracoloso!... - esclamò Enrico.
- Da questi bambù, specialmente da quello comune, si
può estrarre lo zucchero o meglio una materia zuccherina
che gl'indiani chiamano tabascir.
- Terremoto di Genova!
- Zitto, marinaio. I semi del bambù comune vengono
mangiati come riso da molte popolazioni dell'Indo-Cina.
- Anche il riso!...
73
Costruzione della capanna aerea. (Pag. 50).
74
- Non è tutto. Colle foglie e coi fusti schiacciati, poi stem-
perati in acqua e uniti con un poco di cotone si ottiene una
buona carta molto usata dai Chinesi. Coi fusti poi, tagliati a
metà, si fanno condotti d'acqua per l'irrigazione dei campi,
oppure si adoperano come tegole, o si fanno capanne solide
e leggere, o aste per le lance, o scale, o palizzate mentre
quelli spinati servono per fare dei recinti così formidabili da
arrestare qualsiasi assalto. Colle foglie poi si possono fabbri-
care dei panieri, delle stuoie, dei tralicci, ecc.
Volete infine dei recipienti?... Basta tagliare un bambù so-
pra e sotto i due nodi ed ecco un barilotto dove l'acqua si
conserverà benissimo. Volete anche una barca?... Tagliate un
bambù gigante, turate le due estremità, oppure serbate i due
nodi a prua ed a poppa ed ecco un'ottima scialuppa. Cosa
volete ottenere di più da una pianta?
- Ma queste canne sono meravigliose, signore!... - escla-
mò il marinaio. - Come è utile sapere tante cose!... Io non
avrei ricavato nemmeno un bastone da queste canne, mentre
invece sono così preziose!... Basterebbero questi bambù per
procurarci ciò che ci necessita.
- No, Enrico, non bastano, e nella foresta troveremo altre
piante più preziose che ci procureranno quello che non pos-
sono darci queste. Basta: al lavoro, amici. -
75
Capitolo VIII
La capanna aerea
76
levava, poi estrasse una materia grigiastra, lievemente gras-
sa.
- Argilla, - disse, con una certa soddisfazione. - Non mi
ero ingannato; ho trovato le mie pentole. -
Continuò a scavare ricavando dell'altra argilla, ne fece
una grossa palla che avvolse nella propria giacca, poi conti-
nuò a inoltrarsi nella piantagione, seguendo una specie di
sentiero cosparso di bambù spezzati o piegati, che doveva
essere stato aperto dal felino. Dopo dieci minuti giungeva in
una piccola radura in mezzo alla quale scorse, distesa a terra,
una grossa carcassa semi-spolpata e sanguinante.
- Adagio, - mormorò, impugnando la lancia. - La tigre
può trovarsi vicina. -
Fiutò più volte l'aria per sentire se c'era odore di selvatico,
odore che tradisce la presenza di quei grossi e feroci felini,
poi s'avanzò cautamente, guardando dinanzi, a destra ed a si-
nistra.
La preda abbattuta dalla tigre era un babirassa, animale
grosso come un cervo, la cui carne è eccellente avendo il gu-
sto di quella del cinghiale. Attorno alle ossa vi era ancora
tanta polpa da nutrire dieci uomini affamati.
Tagliò un bel pezzo che pesava parecchi chilogrammi, poi
abbandonò rapidamente quel luogo pericoloso, temendo di
venire sorpreso dal felino, il quale forse sonnecchiava nei
dintorni.
Quando uscì dalla piantagione, il marinaio ed il mozzo
stavano trasportando gli ultimi bambù.
- Avete trovata la colazione, signore? - chiese Enrico.
- Sì, amico, e anche delle pentole.
- Delle pentole!... Eh! via, scherzate?
- Non dico di averle trovate già fatte e pronte per metterle
77
sul fuoco, ma porto con me dell'argilla per fabbricarle.
- Ma voi siete la provvidenza in persona, signore! Mio
Piccolo Tonno, ti farò assaggiare il giupin!... Terremoto di
Genova! Ti leccherai le dita!...
- Ed i maccheroni, signor Emilio?... Ah!... Cosa darei per
averne un piatto!... Altro che giupin!
- Ehi, furfante! Non disprezzare il giupin! - esclamò il
marinaio.
- Non vale i maccheroni, - ribattè il mozzo. - Vorrei pre-
parartene un piatto a mio modo e scommetterei che mange-
resti anche il piatto, marinaio.
- Roba da napoletani!...
- Lave del Vesuvio! Disprezzare i maccheroni! Tu perdi la
testa, marinaio!
- Il giupin, ti dico!...
- I maccheroni!...
- Avete finito? - chiese il signor Emilio, che rideva, ve-
dendoli arrabbiarsi pei loro piatti favoriti. - Litigate pei mac-
cheroni e per la zuppa alla marinara, mentre non possiamo
avere nè l'uno nè l'altra, anzi non abbiamo nemmeno i reci-
pienti dove cucinarle. Calmatevi, ragazzi miei, e pensiamo
invece a fabbricarci il ricovero, innanzi a tutto.
- Credo che abbiate ragione, signor Albani, - disse il mari-
naio. - Parliamo di cose che sono ancora molto lontane o che
forse non potremo mai avere.
- Col tempo, chissà!...
- Sperate di farmi mangiare la zuppa?...
- Ed anche i maccheroni, forse.
- Ah! signore! - esclamò il mozzo, cogli sguardi ardenti.
- Basta, andiamo alla spiaggia.. -
Il marinaio ed il mozzo si caricarono degli ultimi bambù e
78
si diressero verso la costa, mentre il signor Albani si dirigeva
verso un folto macchione dai cui alberi pendevano delle nu-
merose corde vegetali, che pareva avessero delle lunghezze
straordinarie.
- Ecco le funi per i nostri bambù, - mormorò. - Abbiamo
tutto sottomano. -
Quelle specie di liane erano rotang (calamus), fibre assai
resistenti, che appartengono alla famiglia delle palme, assai
comuni in tutto l'Arcipelago Indo-Malese. Sono arrampicanti
grossi pochi centimetri, ma sono i più lunghi di tutti, poichè
raggiungono perfino i trecento metri.
Resistono lungamente anche in acqua ed i Malesi, i Bur-
ghisi ed anche i Giavanesi, se ne servono per formare
l'attrezzatura dei loro piccoli velieri.
Ne tagliò parecchi, poi raggiunse i compagni per comin-
ciare subito la costruzione, volendo prima di sera mettersi al
coperto contro un ritorno offensivo della tigre o di altre sue
compagne.
Avendo a sua disposizione dei bambù assai lunghi e resi-
stenti, il veneziano decise di abbandonare la solita forma
delle capanne per costruirne invece una aerea, adottando il
sistema dei Dayachi, veri maestri in tali costruzioni, arditis-
sime sì, ma ben più sicure delle altre, contro gli attacchi di
qualunque avversario.
Per poter lavorare più rapidamente e con maggior como-
do, costruì dapprima una lunga scala giovandosi di quattro
bambù lunghissimi e di altri più brevi e più sottili pei piuoli,
poi tracciò sul terreno un rettangolo perfetto che doveva ser-
vire di base all'intera capanna.
- A noi due, Enrico, - disse poscia. - E tu, Piccolo Tonno,
va' a raccogliere intanto i rotang che ho tagliati. -
79
Scelse trenta bambù della specie gigante, li fece tagliare
onde avessero tutti l'eguale lunghezza, quindi li dispose lun-
go le linee del rettangolo, mentre il marinaio, sull'alto della
scala l'incrociava a metà, legandoli solidamente coi rotang
recati dal mozzo.
A operazione finita, tutti quei bambù rassomigliavano a
tanti X, le cui basi erano state infisse nel suolo, mentre le
punte estreme dovevano servire a ricevere le traverse di so-
stegno destinate al piano della capanna. Si rifocillarono con
un pezzo di babirassa arrostito dal mozzo, poi si rimisero al
lavoro con febbrile attività, sulla cima dei bambù.
Alle quattro tutte le punte erano già riunite fra di loro con
numerose traverse. Allora cominciarono a riempire i vuoti
adoperando i bambù più grossi, formando il pavimento della
capanna aerea che rinforzavano con continue legature.
La notte li sorprese, mentre stavano collocando a posto gli
ultimi bambù.
- Basta, - disse il signor Albani, che era madido di sudore.
- In questa prima giornata abbiamo fatto fin troppo e non bi-
sogna stremare le nostre forze. Per questa notte ci acconten-
teremo di dormire a cielo scoperto.
- È una costruzione ammirabile, signore, - disse il marina-
io che era orgoglioso del lavoro fatto.
- Solida, leggiera e sicura.
- Non saliranno le tigri?
- Siamo a dodici metri dal suolo e non credo che con un
salto possano giungere fino a noi.
- Ma.... ed il camino? Non s'incendierà la nostra capanna,
cucinando quassù?
- Possiamo costruirlo con dei sassi, ma preferisco fabbri-
carlo nel recinto, Enrico.
80
- Ah!... Inalzeremo anche una cinta?
- Sì, per i nostri animali.
- Per quali animali? - chiese il marinaio, stupito.
- Per quelli che prenderemo, e costruiremo anche una uc-
celliera.
- Che possiamo prendere degli animali, sia pure, ma degli
uccelli!... Volete fabbricare anche delle reti?...
- Delle reti no, ma ottenere del vischio sì. Ho scorto un al-
bero che ce lo darà.
- Lampi di Giove!... Io comincio a credere che su
quest'isola deserta ingrasserò!... Quanti Robinson c'invidie-
rebbero! E dire che noi siamo sbarcati con una semplice scu-
re e con due coltelli!... Signor Albani, se voi realizzerete tut-
te le vostre promesse, io non lascierò più quest'isola, nem-
meno se venissero dieci navi a levarmi.
- Fra un mese, spero che non ci mancherà nulla. -
La cena fu magra quella sera, non avendo avuto tempo
per procurarsi nemmeno delle frutta, ma s'accontentarono
egualmente. Dopo quattro chiacchiere rizzarono la tenda in
cima al pavimento della capanna e s'addormentarono profon-
damente.
Il loro sonno non fu interrotto da alcun avvenimento. For-
se la tigre era ritornata, ma non osò assalire quell'abitazione
che doveva avere, almeno di notte, un aspetto formidabile.
All'indomani, appena sorto il sole, si rimettevano al lavo-
ro con nuova lena. Non essendo però il mozzo necessario,
avendo ormai issati sulla piattaforma tutti i bambù occorren-
ti, lo mandarono sulla spiaggia a far raccolta di ostriche e di
granchi e possibilmente di uova d'uccelli, avendo scorto nu-
merosi nidi di volatili scoglieri.
Durante il mattino, Albani ed il marinaio rizzarono i so-
81
stegni delle pareti e le traverse del tetto, il quale doveva es-
sere a due pioventi, e prepararono anche un certo numero di
tegole, spaccando a metà dei bambù di media grossezza.
Il mozzo intanto non aveva perduto tempo ed aveva fatta
un'ampia provvista di crostacei, di ostriche e anche di uova
di uccelli marini trovate fra le rupi della costa. Aveva però
portato anche varie specie di aranci chiamati dai malesi già-
ruk ed alcuni di quelli, grossi come la testa di un ragazzino,
prodotti dal citrus docunanus e che in quelle regioni sono
conosciuti sotto il nome di buâ kadarigsa.
Il lavoro proseguì con alacrità anche nel pomeriggio. Il
veneziano ed il marinaio coprirono il tetto colle tegole di
bambù, sovrapponendovi delle larghe e lunghe foglie di ba-
nani, recate dal Piccolo Tonno, quindi alzarono le pareti in-
trecciando giovani canne e foglie, ma che si riservavano più
tardi di rinforzare con bambù più resistenti per potere, nel
caso, far fronte anche ad un attacco violento, sia da parte de-
gli animali come degli uomini.
Rimaneva da costruire la cinta, ma non essendo pel mo-
mento necessaria, decisero di innalzarla in tempi migliori e
d'occuparsi pel momento delle armi, poichè avevano notato
delle tracce numerose di grossi animali nei dintorni della ca-
panna. Essendo però troppo stanchi per intraprendere una
marcia nell'interno dell'isola, avendo il signor Albani dichia-
rato che per avere delle armi potenti gli occorreva innanzi a
tutto trovare un albero, ma che non aveva ancora scorto nei
dintorni, il terzo giorno lo impiegarono nel fabbricare delle
stoviglie. L'argilla non era stata dimenticata. Il previdente
veneziano l'aveva tenuta all'ombra di alcuni cespugli, in un
luogo umido.
Andò a prendere la grossa palla, la bagnò per bene e si
82
mise a fabbricare dapprima una specie di pentola, un po' in-
forme è vero ma sufficiente pei loro bisogni, poi due pentoli-
ni e finalmente tre tondi.
Espose quei suoi capilavori al sole onde si seccassero a
perfezione, per non correre il pericolo di vederli scoppiare
esponendoli subito al fuoco, poi la mattina del quinto giorno
li pose a cucinare a lenta fiamma.
Tre ore dopo i naufraghi della Liguria possedevano la lo-
ro pentola, i loro tegami, i loro piatti e perfino delle forchette
e dei cucchiai di legno, fabbricati dal marinaio col legno du-
ro d'un nipa, una specie di palma che cresceva presso la co-
sta.
Quel giorno assaggiarono il primo brodo, avendo avuto le
fortuna di uccidere, con una sassata fortunata, una cacatua
nera che si era impigliata in mezzo ad un folto cespuglio spi-
noso.
I Robinson cominciavano già ad essere contenti.
83
Capitolo IX
84
Tutti questi bellissimi volatili volteggiavano senza mani-
festare alcun timore, appressandosi talvolta ai naufraghi co-
me se nulla avessero da paventare da parte di quegli uomini,
il che indicava come non ne avessero prima mai veduti.
Oltrepassata la piantagione dei bambù, Albani guidò i
compagni in mezzo ad una fitta foresta, i cui tronchi erano
così uniti, da rendere spesso il passaggio assai difficile.
I rami e le foglie di tutte quelle piante s'intrecciavano in
una confusione indescrivibile, impedendo alla luce di giun-
gere fino a terra, mentre migliaia e migliaia di rotang s'attor-
tigliavano attorno ai fusti o s'allungavano fra i cespugli o
pendevano in forma di festoni o formavano delle vere reti,
contro le cui maglie la scure talvolta si trovava impotente.
La flora indo-malese, così ricca, così svariata, pareva che
si fosse concentrata in quella foresta, che sembrava si esten-
desse su quasi tutta l'isola. Si vedevano là delle piante che
avrebbero potuto fornire, ai poveri naufraghi della Liguria,
mille cose utilissime, ma il signor Albani pareva che pel mo-
mento non si occupasse di loro e non si arrestava dinanzi ad
alcuna, nè rispondeva alle domande dei compagni, i quali,
pur avendo poca conoscenza di quegli alberi, avevano sco-
perti dei manghi e dei cocchi carichi di frutta deliziose.
Ad un tratto però, il veneziano si lasciò sfuggire un grido:
- Finalmente! -
Erano giunti sul margine d'una piccola radura in mezzo
alla quale si rizzava isolato un grande albero, alto più di
trenta metri, col tronco dritto, snello, senza nodi fino a tre
quarti d'altezza e coperto da un fogliame folto di colore
verde-cupo.
Per un raggio di trenta e più metri, il terreno era spoglio
d'ogni vegetale, e anche le piante che crescevano al di là di
85
quelle zone apparivano malaticcie e colle foglie semi-ingial-
lite, come si trovassero a disagio presso quel solitario.
- Non levatevi il berretto, - disse Albani.
- Per quale motivo, signore? - chiese il marinaio.
- Perchè le emanazioni di quest'albero non mancherebbe-
ro di procurarvi delle emicranie acute.
- Che specie d'albero è quello?
- Uno dei più velenosi che esistano: è il bohon-upas.
- Viriamo di bordo, signore.
- Al contrario, Enrico. È la pianta che cercavo per fabbri-
care le nostre armi.
- Volete adoperare il veleno di quell'albero?
- Sì, e ti assicuro che è potente.
- Io ho udito parlare ancora di questi upas a Giava, signo-
re, ed anche a Sumatra.
- Ti credo.
- Volete avvelenare delle freccie col succo di quella pian-
ta?...
- Sì, Enrico.
- Ma come faremo a estrarlo?
- Come fanno i selvaggi del Borneo: ora lo vedrai. -
Il veneziano aveva recato con sè un pentolino ed una can-
na di bambù tagliata per metà e aguzzata ad una estremità.
Afferrò la scure e fece ai piedi dell'albero una profonda inci-
sione, cacciandovi dentro il cannello. Vi mise sotto il pento-
lino, poi si ritrasse sollecitamente sotto il bosco, invitando i
compagni a seguirlo.
- Non è prudente respirare le esalazioni di quel succo ve-
lenoso, - disse. - Si corre il pericolo di perdere i denti e di
contrarre dei dolori difficili a guarirsi. Attendiamo qui che il
recipiente si riempia.
86
- Ma così potente è il veleno di quell'albero? - chiese il
marinaio.
- Tanto potente, che come vedi, nessuna pianta può cre-
scere sotto l'ombra di quel solitario e che gli uccelli che si
posano inavvertentemente sui suoi rami, cadono fulminati.
Se tu ti sdraiassi sotto quell'ombra, non tarderebbero a co-
glierti dei dolori e se tu non avessi un berretto, potresti per-
dere i tuoi capelli.
- E voi userete quel veleno?...
- So come si deve adoperarlo, avendo veduto parecchie
volte i Kajan del Borneo a raccoglierlo e poi manipolarlo.
- Un uomo colpito da una freccia intinta nel succo
dell'upas, muore?...
- Sì, in capo a dieci o quindici minuti. Sembra che il prin-
cipio venefico dell'upas, secondo le ultime ricerche fatte dai
naturalisti, consista in un alcaloide vegetale ed in un acido
che non fu ancora determinato.
L'uomo colpito da una freccia avvelenata prova subito un
tremito convulso, una debolezza estrema, poi un'ansietà pe-
nosa, difficoltà di respirazione, quindi vomiti, convulsioni
tetaniche e spira fra dolori atroci.
- E non vi sono rimedi contro tale veleno?...
- È difficile la guarigione, però alcuni feriti sono soprav-
vissuti, essendo stati curati con grande quantità di bibite al-
cooliche. Anche l'ammoniaca si dice che abbia dato buoni ri-
sultati.
- Ma basta bagnare le freccie nel succo, perchè diventino
micidiali?...
- No, bisogna prima lasciarlo condensarsi al sole, poi me-
scolarlo con altri succhi. Se avessimo del tabacco sciolto in
un po' d'acqua basterebbe, ma non possedendone, troverò di
87
meglio.
- Un'altra pianta velenosa?...
- No, del succo di gambir. Ho veduto già parecchie di
quelle piante e so dove trovarle.
- Il succo dell'upas solo non basterebbe?...
- Sì, ma perde facilmente le sue qualità venefiche, mentre
mescolato al gambir si conserva per un anno. Andiamo a ve-
dere se il pentolino è pieno. -
Il recipiente era già quasi colmo d'un succo lattiginoso, il
quale continuava a scendere abbondantemente dall'incisione
fatta. Il veneziano lo rimescolò con un bastoncino, poi affidò
il pentolino al mozzo, dicendogli:
- Non temere nulla; il succo appena scolato non ha alcuna
efficacia e anche se delle goccie ti lordassero le mani, nulla
ti accadrebbe. -
Si rimisero in cammino per tornare alla capanna, ma il si-
gnor Albani continuava a guardare gli alberi, come se cer-
casse qualche altro vegetale. Avevano già percorso mezzo
chilometro, quando indicò ai compagni una pianta sarmento-
sa coperta d'una corteccia rosso-cupa, con piccoli rami cilin-
drici e foglie ovali terminanti in una punta acuta e liscia
d'ambo le parti, ma verso il picciuolo armate di spine unci-
nate.
- Ecco un gambir! - esclamò. - Raccogliamo queste fo-
glie. - Stava per alzare le mani, quando si volse bruscamen-
te.
- To'!... To'!... - esclamò. - Ecco un arbusto che raddoppie-
rà la potenza del veleno dell'upas.
- Un'altra pianta velenosa? - chiese il marinaio.
- Sì, Enrico, e forse più terribile, poichè si dice che il suc-
co introdotto nella circolazione del sangue ha un effetto più
88
rapido producendo il tetano e quindi la morte. Tu raccogli le
foglie del gambir, mentre io mescolo al succo dell'upas alcu-
ne goccie di questo cetting (strichnos tientè). -
Fece un'incisione nell'arbusto che si era attortigliato attor-
no ad una palma sontar e lasciò che l'umore lattiginoso si
mescolasse con quello dell'upas, mentre i marinai facevano
un'ampia provvista di foglie di gambir.
Quand'ebbero terminato lasciarono la foresta, non senza
aver prima fatta raccolta di frutta di durion e di grossi aran-
ci.
Ritornati alla capanna e rifocillatisi alla meglio con ostri-
che, crostacei e frutta, il signor Albani si mise al lavoro per
preparare le armi.
Espose al sole il veleno perchè si condensasse, mise a
bollire nella pentola le foglie di gambir dalle quali si estrae,
dopo sessanta ore di cottura, quella sostanza bruno-scura, di
consistenza elastica, conosciuta in commercio col nome ap-
punto di gambir e che viene impiegato per fissare i colori,
specialmente sulle stoffe di seta, ma che i bornesi ed i malesi
adoperano invece per far meglio aderire i succhi velenosi al-
le loro armi ed alle loro freccie.
Ciò fatto fece accendere un grande fuoco e mise ad arro-
ventare due delle sbarre di ferro dei pennoni, scelte fra le più
regolari e le meno grosse.
- Ma cosa fate? - chiedeva insistentemente il marinaio, il
quale seguiva con viva curiosità quelle diverse operazioni,
ma senza capire gran cosa.
- Aspetta un po', - rispondeva il bravo veneziano.
Aveva tagliato da una pianta dei rami che avevano un dia-
metro di tre centimetri, una lunghezza di un metro e mezzo,
rigorosamente diritti, e li aveva spogliati accuratamente dal-
89
le foglie.
Attese che l'asta del pennone fosse ben infuocata, poi co-
minciò a forare uno di quei bastoni, invitando il marinaio a
imitarlo con un altro ramo.
Rinnovando parecchie volte l'operazione, dopo due ore i
due bastoni erano interamente traforati.
- Il più è fatto, - disse il veneziano. - Ora fabbrichiamo le
frecce.
- Una parola, signore, - disse il marinaio. - Ma dove sono
gli archi?... Questi bastoni traforati non si piegano.
- Niente archi. -
Il marinaio ed il mozzo lo guardarono con stupore.
- Gli archi sono difficili da maneggiare e poi occorre un
legno adatto che queste piante non possono darci. Io ho pre-
ferito costruire delle sumpitan come usano quasi tutti i popo-
li della Malesia.
- Cosa sono queste sumpitan?
- Delle cerbottane. Sono armi di grande precisione e si
maneggiano con grande facilità.
- Ma voi siete un uomo straordinario, signor Albani! -
esclamò Enrico. - E sperate colle vostre cerbottane di ucci-
dere gli animali feroci?...
- Certo, amico mio.
- Ma gli animali colpiti dalle frecce avvelenate, si posso-
no mangiare?...
- No, ma adopereremo delle frecce non avvelenate. Basta:
continuiamo il nostro lavoro. -
Il signor Albani aveva raccolto delle canne sottili di gio-
vani bambù e le aveva tagliate, dando a ciascuna una lun-
ghezza di venti centimetri. Adattò all'estremità di ognuno
uno spino assai acuto fornitogli dai bambù selvaggi e
90
all'altra una specie di tappo di midolla vegetale, in forma di
cono, del calibro della canna delle cerbottane.
Prese le sue armi ed i suoi dardi ed invitò gli amici a se-
guirlo. Presso un macchione di palme una banda di kakatoe
nere, splendidi uccelli grossi come un gufo, col capo sor-
montato da un ciuffo di piume, stava appollaiata fra i rami,
cicalando a piena gola.
Il veneziano introdusse una freccia nella cerbottana, acco-
stò questa alle labbra e dopo d'aver mirato con grande atten-
zione, soffiò con forza.
Il leggiero dardo s'innalzò rapidamente e andò a colpire
una delle più grosse kakatoe. L'uccello, ferito sotto la gola,
con una precisione così straordinaria che indicava come il
cacciatore fosse già assai esperto nel maneggio di
quell'arma, interruppe bruscamente i suoi cicalecci e cadde a
terra starnazzando disperatamente le ali.
Il mozzo fu lesto a raccoglierlo e scappò verso la capanna
gridando:
- Vado a metterlo allo spiedo.
- Che colpo maestro!... - esclamò il marinaio, la cui sor-
presa non aveva più limiti. - Ma voi avete adoperato ancora
queste canne?
- Sì, a Pontianak, - rispose il veneziano, sorridendo.
- E credete che riuscirò anch'io a colpire gli uccelli?...
- La cosa non è poi tanto difficile. Fra tre settimane, eser-
citandoti tutti i giorni, potrai diventare un abile cacciatore.
- Ora che possediamo le armi, che cosa ci procurerete, si-
gnor Albani?...
- Il pane.
- Il pane!... E ne troverete?...
- Ho già veduto stamane delle piante che contengono la
91
farina e domani andremo a tagliarle. Poi, se non sopravven-
gono degli incidenti, penseremo al resto. Andiamo a cenare,
Enrico: abbiamo bisogno di un arrosto, dopo tanti molluschi
e tante frutta. -
92
Capitolo X
93
Due giorni dopo il forno funzionava a meraviglia ed i biscotti
si accumulavano.... (Pag. 68).
94
Disgraziatamente pareva che in quell'isola mancasse la
specie più pregiata, poichè il signor Albani non riusciva a
scorgere nè i metroscilon sagus nè i metroscilon rumphii che
sono gli alberi sagu più produttivi ed anche i più comuni.
Guardava tutti gli alberi con attenzione, si cacciava in
mezzo ai macchioni più folti, ritornava sui propri passi, ma
invano. Saliva anche sui poggi e s'arrampicava sugli alberi
più alti sperando di scorgere le foglie gigantesche di quelle
preziose piante, ma nulla.
- Amici miei, - diss'egli, scoraggiato. - Temo di dover
mancare alla mia promessa.
- Non trovate le vostre piante? - chiese il marinaio.
- Credevo di aver scorto dei sagu, ma invece mi sono in-
gannato.
- Ma cosa sono questi sagu?...
- Degli alberi che nel loro interno contengono una specie
di farina eccellente ed in grande quantità. Sono le piante più
preziose, poichè da una sola si può ricavare tanto pane da
nutrire un uomo per un anno intero.
- Terremoti di Genova!
- È come te la racconto, amico. Una pianta che chiede ot-
to o dieci giorni di lavoro per trasformare la farina che con-
tiene in pane, che produce trecento chilogrammi di fecola
assai nutritiva, ossia milleottocento pani, e quattro o cinque
di questi bastano pel nutrimento giornaliero d'un uomo.
Si è calcolato ciò che costerebbe il lavoro d'estrazione
della fecola e della fabbricazione del pane e si è constatato
che con tredici lire si può avere del buon biscotto per tutto
l'anno.
- Ma dove crescono quelle piante prodigiose?...
- In tutta la Malesia.
95
- Se si potesse acclimatizzarle anche in Italia, più nessuno
soffrirebbe la fame. Con cinque alberi ogni famiglia ne
avrebbe abbastanza.
- È vero, Enrico, ma nessuno invece ha mai tentata la col-
tivazione di sagu nei nostri climi, mentre invece potrebbero
forse svilupparsi benissimo nella nostra Sicilia.
- Ed è eccellente il pane di sagu?...
- Buonissimo, anzi si comincia a diffondere anche in Eu-
ropa. Ora adoperano la farina granulata nelle minestre, ma
verrà un giorno che vedremo anche il pane in commercio.
- E noi che ci troviamo qui, nei paesi dove quegli alberi
crescono, non potremo averlo?... Mi dispiace, signor Albani.
Sentivo il bisogno di aver un po' di pane.
- Del pane ne avrete, ma sarà di qualità inferiore.
- Non importa, signore, - dissero il marinaio ed il mozzo.
- Seguitemi: ho veduto parecchie arenghe saccarifere che
ci forniranno della farina e qualche cosa d'altro non meno
importante. -
Ritornò sui proprii passi, fece attraversare ai compagni
parecchie macchie d'alberi grandissimi e s'arrestò dinanzi ad
un gruppo di piante d'aspetto maestoso, che rassomigliavano
alle palme, col tronco grosso e liscio e colle foglie piumate
che sostenevano dei grappoli di frutta rotonde.
- Ecco degli alberi preziosissimi, - disse il veneziano. -
Sono forse i più utili di quanti crescono nell'Arcipelago della
Sonda.
- Io non vedo che delle frutta, signore, - disse il marinaio.
- E forse con quelle che si fa il pane?...
- No, quantunque anche quelle frutta siano mangiabili,
privandole però prima accuratamente della corteccia, essen-
do velenosa.
96
Ascoltatemi e vi dirò quante cose noi possiamo ricavare
da queste piante: nel tronco contengono della fecola nutriti-
va che le popolazioni povere delle isole mangiano sia sotto
forma di pane, sia in minestra. Non è così delicata come
quella dei sagu, ma non è nemmeno cattiva ed i nostri corpi
si abitueranno facilmente.
- Buono! - esclamò il marinaio. - Faremo la zuppa.
- Ed i maccheroni, - disse il mozzo.
- Facendo delle incisioni sui tronchi, - continuò Albani, -
si ottiene un succo molto dolce, chiaro, limpido, il quale,
mediante l'evaporazione, si può trasformare in siroppo.
- Faremo le ciambelle! - esclamò Piccolo Tonno. - Come
mi piacciono, signor Emilio!
- E delle caramelle come quelle che si mangiano in Pie-
monte, - disse il marinaio.
- Lasciando fermentare quel succo, che i malesi chiamano
toddi, otterremo un liquore inebriante, molto pregiato e che
chiamano tuwah. Somiglia all'arak.
- Mi piace molto l'arak, signore! - disse Enrico. - Terre-
moto di Genova!... Che alberi miracolosi!
- Non ho ancora finito, - disse il veneziano. - Dalle foglie
possiamo ricavare il gomuti, una specie di crine che si può
filare e che serve per fabbricare delle funi molto resistenti, e
colle foglie si possono intrecciare delle belle stuoie. Cosa
volete chiedere di più ad una pianta?...
- Ma se tutte queste piante potessero crescere in Italia,
non vi sarebbe più miseria da noi! - esclamò il marinaio. -
Ma queste terre sono paradisi terrestri!...
- Che noi sfrutteremo, marinaio, - disse Albani. - Mano
alla scure e abbattiamo uno di questi alberi.
- E lo zucchero?... - chiese il mozzo.
97
- Per ora cerchiamo di procurarci il pane; un altro giorno
avremo lo zucchero o anche il tuwak. -
Il marinaio afferrò la scure e intaccò l'albero più grosso,
vibrando colpi formidabili. La corteccia era dura ma il geno-
vese aveva i muscoli solidi e dopo un quarto d'ora la pianta
rovinava al suolo con grande fracasso.
Il signor Albani mostrò ai suoi compagni una massa bian-
castra, farinosa, racchiusa nella corteccia dell'albero.
- Ecco il nostro frumento per fare il pane, - disse. - A me
ora la scure: bisogna tagliare la pianta in varii pezzi per
estrarre la fecola. -
Si mise a maneggiare l'arma con grande vigore, tagliando
l'albero in pezzi lunghi un metro. Il marinaio di quando in
quando lo surrogava nell'aspro lavoro.
Quand'ebbero ottenuto sette cilindri di lunghezza quasi
eguale, il veneziano, che pareva fosse instancabile, tagliò un
grosso ramo che doveva servire come di pestello, e si mise a
percuotere con grande forza la fecola racchiusa in quei tron-
chi, facendola uscire.
Il mozzo, che aveva trovate varie foglie di banani selvati-
ci di grandi dimensioni, la raccoglieva con molta cura. Quel-
la sostanza farinosa però non era ancora adoperabile, poichè
si trovava mescolata a fibre vegetali che dovevano essere
eliminate.
Quando il sole tramontò, possedevano già oltre cento chi-
logrammi di fecola. La impacchettarono nelle foglie e ritor-
narono alla capanna carichi come muli, ma contentissimi di
possedere quella preziosa provvista che prometteva del pane
sostanzioso, se non delizioso, come quello che si ottiene col-
la farina di frumento.
L'indomani s'affrettarono a fabbricarsi una specie di cri-
98
vello con fibre di rotang e sbarazzarono la fecola dalle fibre
vegetali. Impazienti di assaggiare quel pane, fecero delle tor-
te mescolando un po' d'acqua marina, mancando di sale, ed a
mezzodì poterono finalmente gustare la loro farina.
Fu un successo completo. Il marinaio ed il mozzo divora-
rono parecchie focaccie dichiarandole eccellenti. Quella fe-
cola non era gustosa come la farina, ma ricordava un po'
quella della patata e possedeva soprattutto delle qualità assai
nutrienti.
Fu decisa la costruzione d'un forno, per fare dei biscotti
che potessero conservarsi. Il signor Albani non si trovò im-
barazzato.
I gusci delle ostriche e di altre conchiglie, cucinati in un
grande fuoco gli fornirono della calce ottima, il lido gli fornì
la sabbia, e le rupi i sassi occorrenti. Due giorni dopo il for-
no funzionava a meraviglia ed i biscotti si accumulavano ra-
pidamente in una piccola capanna costruita sotto quella ae-
rea e che era stata destinata come magazzino.
Ma se il pane abbondava, scarseggiava la carne. Di frutta
e di crostacei ne avevano divorati fin troppi ed il bisogno di
avere della selvaggina s'imponeva, come pure soffrivano la
mancanza del sale, non avendone trovato in alcuna parte.
Fortunatamente il mare era a due passi e poteva darne in
grande quantità, delle tonnellate se lo avessero voluto. Ba-
stava scavare delle buche, riempirle d'acqua marina e lascia-
re che il sole s'incaricasse dell'evaporazione.
La costruzione di quei bacini non si fece però attendere.
Cercarono un terreno roccioso, lo scavarono pazientemente
rovinando i loro coltelli e servendosi di recipienti di bambù,
vi versarono dentro l'acqua del mare. Quattro giorni dopo
anche la questione del sale era risolta. Ne possedevano già
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alcuni chilogrammi e molti altri stavano per ricavarne, es-
sendo la temperatura così calda da far evaporare rapidamen-
te il liquido salmastro dei bacini.
- Ora che possediamo le armi, il pane ed il sale, le cose
più necessarie per l'esistenza, - disse il veneziano, - ci occu-
peremo a procurarci degli animali. Mi sembra che quest'isola
abbondi di selvaggina e non ci sarà difficile tendere degli ag-
guati in mezzo alla foresta.
- Ma come prepareremo le trappole? - chiese il marinaio.
- Scavando delle buche profonde due o tre metri e copren-
dole con un leggiero traliccio di bambù.
- Ma voi non avete pensato ad una cosa, signore.
- E a quale?
- Che non possediamo nè una zappa, nè un badile.
- Diamine, è vero, Enrico.
- Se dovessimo adoperare i nostri poveri coltelli e le ma-
ni, ci vorrebbero quindici giorni per scavare una tale buca.
- Hai ragione.
- Bisogna proprio creare tutto in quest'isola.
- Siamo, o meglio eravamo i più poveri Robinson.
- E, senza trappole, non si potrebbe uccidere egualmente
gli animali?
- Sì, colle frecce, ma i capi grossi non cadrebbero di certo
con delle frecce così deboli, e poi, non bisogna distruggerli
tutti, poichè l'isola può essere piccola e potremmo correre il
pericolo di trovarci, un brutto giorno, senza carne.
- Diavolo! - esclamò il marinaio, che si grattava furiosa-
mente la testa.
- Io vorrei radunare parecchi animali, Enrico, e lasciarli
moltiplicarsi, uccidendone solamente quando ci occorrereb-
bero.
100
- Ma senza zappa.... to'!... E perchè no?... Possiamo lavo-
rarle.
- Che cosa?
- Le sbarre di ferro dei nostri pennoni, signore.
- È vero, Enrico.
- Ma ci manca un martello.
- Lo abbiamo: il dorso della scure può bastarci.
- Ma potremo fabbricarci i badili?...
- Li faremo di legno durissimo. Gli alberi che hanno delle
fibre tenaci non mancano.
- Ma noi siamo uomini miracolosi, signore!...
- La necessità aguzza il nostro ingegno, - disse Albani. -
Oggi riposiamo, ma domani fabbricheremo le nostre zappe e
forse posdomani possederemo degli animali vivi.
- E quando degli uccelli?...
- Quando avrò fabbricato del vischio. Colla pazienza e
colla perseveranza, avremo tutto. -
101
Capitolo XI
102
cos'era quella costruzione sospesa fra cielo e terra. Balzava
da un bambù all'altro, eseguiva de' volteggi meravigliosi e
pareva che manifestasse la sua soddisfazione con certi gru-
gniti e con certi soffi potenti, che producevano delle appren-
sioni nell'animo del mozzo.
- Lave del Vesuvio! - esclamava questi. - Ma che voce ha
quell'uomo?... Si direbbe che ha in gola una canna d'organo
od un contrabbasso! -
S'alzò per andare a svegliare i compagni, ma uno scrollo
più violento degli altri, lo fece stramazzare sulla piattaforma.
- Corpo d'un pappafico! - esclamò. - Crolla la capanna.
Quasi nell'istesso istante si udì il marinaio a gridare.
- In piedi! Il terremoto! -
Si slanciò sulla piccola piattaforma seguito dal signor Al-
bani, il quale non credendo affatto al terremoto, s'era invece
armato d'una cerbottana e di alcune frecce tinte nel succo
dell'upas.
- Cosa succede, Piccolo Tonno? - chiese Enrico, scorgen-
do il mozzo. - È il terremoto?...
- Sì, ma un terremoto a quattro gambe che fa una ginnasti-
ca indiavolata, - rispose il mozzo.
- Cosa vuoi dire? - chiese Albani.
- Che vi è abbasso un certo uomo che si diverte a scrollare
la nostra capanna.
- Un uomo!... - esclamarono il marinaio ed il veneziano.
- Potete vederlo: è sotto di noi. -
S'appressarono entrambi all'orlo della piattaforma, ma su-
bito retrocessero vivamente. Il misterioso personaggio,
udendo senza dubbio quelle voci, si era arrampicato fino alla
piattaforma, sporgendo innanzi la testa. Altro che uomo!...
Quella testa, se rassomigliava a quelle umane, era ben brut-
103
ta!... Era una testaccia enorme coperta di folti peli rossicci,
colla faccia larga, gli zigomi assai sporgenti, coperta da ru-
ghe profonde e con una bocca così larga che gli andava da
un orecchio all'altro, armata d'una doppia fila di denti bian-
chissimi e acuti come quelli delle tigri.
L'espressione di quel volto era così feroce, da agghiaccia-
re il sangue.
- Tuoni di Genova! - esclamò il marinaio - che uomo è
questo!...
- Indietro! - gridò Albani, con voce alterata. - Il mias pap-
pan è peggiore delle tigri. -
Il marinaio ed il mozzo quantunque ignorassero cosa fos-
se un mias pappan, furono lesti a girare sui talloni.
Il mostro guardò i tre naufraghi con due occhi che manda-
vano sinistri bagliori, fece udire un rauco brontolìo, poi
scomparve, ma impresse ai bambù un tale urto che parve che
l'intera capanna si disarticolasse.
- Fulmini! - urlò il marinaio, precipitandosi verso la scure.
- Un altro urto come questo e ci romperemo le gambe! -
gridò il mozzo. -
Il signor Albani, che pareva in preda ad una viva agitazio-
ne, aveva cacciata rapidamente una freccia nella cerbottana e
si era steso presso l'orlo della piattaforma. Sembrava che
aspettasse che il mostro formidabile apparisse, per lanciargli
la freccia mortale.
Il mias però pareva che non avesse fretta di lasciare i
bambù di sostegno e lo si udiva a brontolare ed a soffiare
proprio sotto la piattaforma. Pareva che fosse occupato a fa-
re qualche cosa, forse a slegare i sostegni, poichè la capanna
continuava a subire delle scosse fortissime.
- Signore! - esclamò il marinaio, volgendosi verso Albani,
104
il quale cercava di puntare la cerbottana. - Se queste scosse
continuano, la nostra capanna farà un tremendo capitombo-
lo.
- Lo so, ma non riesco a scorgere quel dannato orang-
outan - rispose il veneziano.
- Si tratta d'una scimmia, adunque?
- Sì, ma delle più formidabili e che può tenere testa a die-
ci uomini armati di fucile.
- Fulmini!...
- Zitto! -
In mezzo ai cespugli che crescevano presso il recinto, si
era udito un grido, una specie di grido lamentevole che ave-
va qualche cosa d'umano.
- Chi è che si lamenta? - chiese il marinaio, stupito.
- Pare che succeda qualche cosa fra i cespugli, - disse Al-
bani.
- Il mostro! - esclamò Piccolo Tonno. - Eccolo là, guarda-
telo! -
Infatti l'orang-outan, con un balzo immenso si era lancia-
to sui bambù esterni, e discendeva con rapidità fulminea.
Quello scimmione faceva paura. Era alto quanto un uomo
di media statura; il suo petto ampio, tozzo, muscoloso, ec-
cessivamente grosso era coperto d'un lungo pelame rossic-
cio; le sue spalle larghe, potenti, con un'ossatura enorme, di-
mostravano che quell'essere doveva possedere una vigorìa
straordinaria, incalcolabile; le sue braccia lunghe un metro e
più, nodose come tronchi d'albero, irte di muscoli, termina-
vano in certe manaccie armate d'unghie robuste e legger-
mente arcuate e le sue gambe massiccie, enormi, finivano in-
vece con piedi di dimensioni esagerate, pure armati d'unghie
ricurve.
105
Questi scimmioni che i malesi ed i dayachi chiamano
mias pappan o miass kassà, vivono nascosti nelle più fitte
foreste del Borneo e delle isole vicine, tenendosi per lo più
sugli alberi.
Dotati d'un vigore tremendo e d'una agilità meravigliosa,
salgono con rapidità fulminea sugli alberi più alti, per prov-
vedersi di frutta, e sono capaci di attraversare una foresta in-
tera senza mai scendere a terra.
Non si trovano però a disagio a terra e corrono facilmen-
te, non mantenendosi diritti però, poichè si servono delle
mani e dei piedi. Il loro galoppo è però uno dei più strava-
ganti e ridicoli muovendo simultaneamente il braccio e la
gamba destra e viceversa, sicchè pare che corrano obliqua-
mente.
Conscii della loro forza, affrontano coraggiosamente le
più formidabili fiere delle foreste: non temono nè gli uomini,
nè i coccodrilli, nè i serpenti, nè le tigri e quando sono assa-
liti sono d'una ferocia spaventevole.
Lasciati tranquilli però, non assalgono nessuno e se in-
contrano degli uomini si limitano a guardarli con curiosità,
poi proseguono tranquillamente la loro via.
Il mias che era salito sui bambù della capanna, attratto
senza dubbio da una irresistibile curiosità, doveva avere dei
gravi motivi per scendere così precipitosamente e così la
pensava il veneziano, poichè invece di inviargli la freccia
mortale, aveva rialzata la cerbottana, curioso di sapere cosa
stava per accadere.
Giunto a terra, il mias pappan attraversò con un solo bal-
zo il recinto e si precipitò verso i cespugli emettendo una
specie di latrato furioso.
Ad un tratto un oggetto lungo lungo e grosso gli piombò
106
addosso e lo avvolse da capo a piedi.
- Un boa!... - esclamò il veneziano.
- Un serpente? - chiesero il marinaio ed il mozzo.
- Sì, amici: è un avversario degno del mias. -
Il veneziano non s'ingannava. I boa constrictor sono av-
versari capaci di tener testa alle tigri e anche agli orang-
outan, poichè posseggono tale forza, da stritolare fra le loro
spire perfino un bue.
Sono i più lunghi ed i più grossi di tutti, poichè sovente
arrivano ai nove e perfino ai dieci metri e hanno una circon-
ferenza che eguaglia le coscie d'un uomo. Non sono però ve-
lenosi, ma sono forse più pericolosi degli altri, poichè quan-
do riescono ad afferrare una preda non la lasciano più. Si ac-
contentano però anche di prede piccole, di topi, di rane, di
lucertole, di scimmie, ma, se riescono, non lasciano sfuggire
nè le tigri, nè i babirussa, nè i tapiri, nè i mias quantunque
soccombano di frequente nella lotta con questi ultimi.
L'orang-outan, sentendosi imprigionare di colpo dal boa e
vedendo sopra di sè la testa del rettile i cui occhi dardeggia-
vano su di lui sguardi d'ardente cupidigia, aveva lanciato un
grido rauco, furioso.
Essendogli rimasto un braccio libero, afferrò il rettile sot-
to la testa e lo torse come fosse una pagliuzza, ma le spire
non si sciolsero, anzi strinsero con maggior vigore, facendo
scricchiolare la potente ossatura dell'uomo dei boschi.
Quella stretta doveva essere stata tremenda, poichè si vide
lo scimmione dilatare spaventosamente la bocca come se
l'aria fosse per mancargli, ed i suoi occhi, che mandavano si-
nistri bagliori, quasi uscire dalle orbite.
La sua robusta mano afferrò la testa del rettile e la schiac-
ciò come fosse una nocciuola, poi coi piedi armati di quelle
107
unghie robuste che con un solo colpo sventrano un uomo, si
mise a lacerargli la coda, facendola a brani.
Il serpente sibilava di rabbia, perdeva sangue dalle due
estremità, ma ancora non si decideva ad abbandonare
l'avversario, e pareva che approfittasse dell'ultime convul-
sioni dell'agonia per raddoppiare la stretta irresistibile.
Ad un tratto si sentì come uno scricchiolìo d'ossa infrante,
e rettile e mias caddero entrambi a terra, ancora strettamente
avvinti.
- Morti? - chiesero il marinaio ed il mozzo, che avevano
seguito, con viva ansietà, le fasi di quella tremenda lotta.
- Mi pare di udire ancora la respirazione del mias, - rispo-
se il veneziano. - Sarà cosa prudente lanciargli una freccia,
prima di scendere. -
Alzò la cerbottana e soffiò dentro con forza. Il dardo si-
lenzioso partì rapido e andò a conficcarsi nel petto dell'uomo
dei boschi.
Si udì un sordo grugnito, ma poco dopo la respirazione
della scimmia gigante cessava.
- Ora possiamo discendere, - disse Albani.
- No, signore! - esclamò il mozzo.
- Perchè?... Sono morti entrambi.
- Guardate, là, presso i cespugli. -
Il veneziano ed il marinaio guardarono nella direzione in-
dicata e videro uscire dai cespugli una scimmia che aveva
già una statura superiore ad un metro e di complessione ro-
busta. S'avanzava titubando verso il gruppo formato dal
mias e dal boa, emettendo dei gemiti che avevano qualche
cosa d'umano.
- È il figlio dell'orang-outan - disse Albani.
- Era adunque una femmina, - disse il marinaio. - Povero
108
piccino!... Potrà vivere solo?
- È già sviluppato, - rispose Albani.
- Lo lascieremo andare?...
- Penso che potrebbe esserci utile, Enrico.
- Quello scimmiotto!...
- Faremo di lui un valente e robusto servitore.
- Ma quando diverrà grande ci accopperà, signore.
- I dayachi ne adottano sovente e mai hanno avuto da la-
gnarsi. In schiavitù pare che perdano i loro istinti feroci.
Quel mias, col suo vigore straordinario, ci potrà rendere dei
grandi servigi.
- Allora andiamo a prenderlo.
- Io avrò cura di lui, signore, - disse il Piccolo Tonno. -
Mi piacciono assai le scimmie. -
Si lasciarono scivolare dai bambù che servivano a loro
come di scala e s'avvicinarono al giovane mias, il quale con-
tinuava a girare attorno alla estinta madre emettendo acuti
gemiti.
Il marinaio l'afferrò per le braccia e cercò di trascinarlo
nel recinto, ma ricevette una spinta così poderosa, che cadde
colle gambe in aria.
- Terremoto! Che vigore! - esclamò.
- Prendiamolo colle buone, - disse Albani.
Si mise ad accarezzarlo e gli offrì delle frutta. Il piccolo
mias, dapprima si mostrava diffidente, ma finì coll'accettare
e divorare con ingordigia la deliziosa polpa dei durion.
A poco a poco, offrendogli sempre nuove frutta, fu attira-
to nel recinto ed il marinaio lo legò con una robusta gomena
senza ricevere altre spinte.
- Si abituerà presto, - disse Albani. - Fra due settimane ci
seguirà come un cagnolino e fra un mese avremo un ottimo
109
servitore ed un abile provveditore di frutta. Lasciamolo ora
tranquillo e riprendiamo il nostro sonno. -
110
Capitolo XII
111
coppie di buceros rhinoceros, chiamati comunemente tucani
o calaos-rinoceronti, grossi e stravaganti uccelli dalle penne
nere sopra, e bianche sotto, coda lunga trenta e più centime-
tri e becco enorme, lungo quanto l'intero corpo del volatile,
di colore giallo-rossiccio e sormontato da una protuberanza
ossea in forma d'una grossa virgola.
Avevano pure preso degli arghi giganti, uccelli superbi,
più grandi dei pavoni, che pare portino un vero mantello di
piume nere a striature biancastre ed a macchie rosso-brune, e
che hanno delle code lunghe oltre mezzo metro, terminanti
in due penne leggermente curve, ed alcune coppie di colom-
be magnifiche, chiamate così poichè sono le più belle e le
più graziose di tutte. Sono grosse come i piccioni di Spagna,
ma hanno le penne del petto d'una tinta azzurra con riflessi
ramigni e quelle del dorso verdi-cupe con riflessi d'oro.
Questi uccelli si erano presto abituati e non fuggivano più
quando vedevano avvicinarsi il mozzo, il quale recava a loro
grande numero di semi e anche dei vermi di terra e delle bri-
ciole di pane.
Un mattino però, anche il recinto cominciò a popolarsi. Il
marinaio aveva osservato che delle scimmie si recavano di
frequente verso la spiaggia, poco prima dello spuntare
dell'alba, ma non era mai riuscito ad avvicinarle, nè a sapere
cosa andassero a fare in riva al mare.
Spinto dalla curiosità, decise di mettersi in agguato presso
alcune scogliere, in compagnia del mozzo. Messisi d'accor-
do, un mattino s'alzarono prima ancora che gli astri comin-
ciassero a impallidire, lasciando che il signor Albani dormis-
se saporitamente nella sua amaca.
Scesero la sponda in vicinanza della piccola baia e si na-
scosero dietro ad alcune scogliere, per attendere l'arrivo dei
112
quadrumani.
- Vediamo cosa vengono a fare, - disse il marinaio al moz-
zo.
- Che vengano a prendere un bagno? - chiese Piccolo
Tonno.
- Io non ho mai veduto una scimmia in acqua e credo anzi
che la temano come i gatti.
- Allora verranno a fare la cura dell'acqua marina. Tu sai
che è un ottimo purgante.
- Sì, burlone.
- O che abbiano qualche canotto e che si rechino a diporto
sul mare?
- No, andranno a pescare, - disse il marinaio, ridendo.
- Non mi stupirei, Enrico. Hanno la manìa d'imitare ciò
che fanno gli uomini.
- Taci! Eccole!
- Di già?
- Sta per spuntare l'alba. -
Le scimmie infatti giungevano. Erano dieci o dodici, alte
dai quaranta ai cinquanta centimetri, col pelame oscuro e
rassomigliavano ai semnopitechi.
S'avanzavano in fila indiana, con una gravità ridicola, ed
in silenzio. Scesero la sponda, si schierarono sugli scogli e si
misero ad esaminare l'acqua con grande attenzione.
I due marinai, in preda alla più viva curiosità, non perde-
vano di vista alcun movimento.
Ad un tratto le videro volgere il dorso al mare e immerge-
re in acqua le loro lunghe code pelose, facendole leggier-
mente ondeggiare.
- Te lo dicevo io che venivano a prendere un bagno, -
mormorò Piccolo Tonno.
113
- Alle loro code! - esclamò Enrico, crollando il capo. - Io
credo che abbiano un altro scopo. Oh!... Questa è strana!...
Hai mai veduto delle scimmie a pescare? -
Un quadrumane, dopo d'aver fatto una brutta smorfia co-
me se avesse provato un acuto dolore, aveva ritirato pronta-
mente la coda, imprimendole un rapido movimento innanzi
ed indietro. Qualche cosa che si era attaccato a quell'appen-
dice balzò in aria, e cadde contro una vicina roccia con sor-
do rumore.
- Corna di cervo! - esclamò il marinaio, stupito. - Pescano
i granchi!... -
Era proprio vero: quella banda di scimmie pescava i gran-
chi di mare, usando d'un sistema curiosissimo, ma anche do-
loroso.
Trovandosi quei crostacei entro i crepacci subacquei delle
rocce, i furbi quadrumani andavano a stuzzicarli colle code e
quando li sentivano a stringere, con una mossa fulminea gli
strappavano dal loro elemento e con moto rotatorio gli sca-
gliavano contro i sassi della riva, rompendo i loro gusci.
Ciò fatto traevano colle adunche dita la carne saporita,
che divoravano con grande avidità.
- Non ho mai veduto nulla di simile, - diceva il marinaio,
sempre più stupito.
- To'!... Se noi le imitassimo! - esclamò il mozzo.
- E quale coda immergeresti?
- Le mani.
- Per farcele rovinare?... Credi tu che quelle scimmie non
provino dolore? Guarda che brutte smorfie che fanno, quan-
do si sentono tenagliare la coda. Ma.... to'!... Pare che la pe-
sca vada male! -
114
Le scimmie alla pesca dei granchi. (Pag. 77).
115
Due scimmie che avevano immersa la loro coda, urlavano
disperatamente, ma senza essere più capaci di ritirare la loro
appendice. Invano puntavano colle mani e coi piedi e face-
vano sforzi furiosi: i granchi pareva che non volessero la-
sciare l'acqua e uscire dai buchi.
Le loro compagne stavano per precipitarsi in loro soccor-
so, quando il marinaio balzò fuori dal nascondiglio, gridan-
do:
- Addosso, Piccolo Tonno! -
La banda fuggi rapidamente, ma le due prigioniere, non
ostante i loro strappi, rimasero sulla spiaggia.
I due marinai furono lesti ad afferrarle e con due vigorose
strappate liberarono le code, traendo a galla due granchi
grossi come un cappello, i quali non lasciarono la preda se
non dopo che furono uccisi.
- Venite con noi, carine, - disse Enrico. - Vi condurremo a
tenere compagnia al mias. -
Presero per le braccia le due prigioniere e malgrado le lo-
ro proteste ed i loro morsi, le trassero nel recinto.
- Altri servi? - chiese il veneziano, che stava scendendo
dalla capanna. - A quanto pare volete farvi servire per bene.
- No, signore, - disse il marinaio, ridendo. - Conduciamo
due pescatori che ci procureranno dei deliziosi granchi. Ave-
te mai veduto delle scimmie a pescare?...
- I granchi?...
- Sì.
- Ne ho vedute parecchie, specialmente a Giava.
- To'!... Ed io credevo di raccontarvi una novità strabilian-
te.
- È una novità molto vecchia per me, Enrico, - disse Alba-
ni. - Sciancatello! -
116
Colui che si chiamava con quel nome, era il mias. L'aveva
così appellato Piccolo Tonno, perchè lo scimmione era un
po' sciancato, forse in causa di qualche capitombolo dalla ci-
ma di qualche altissimo albero.
Il giovane mias, che ormai si era affezionato ai suoi pa-
droni, quantunque fosse sempre di umore triste, malinconi-
co, come tutti quelli della sua specie, e che ormai passeggia-
va liberamente pel recinto senza mai allontanarsi, udendo la
voce del veneziano abbandonò il casotto che gli era stato co-
struito e andò a guardare con curiosità le nuove venute.
Queste però vedendoselo dinanzi, dapprima manifestaro-
no una viva apprensione, poi sentendosi libere cercarono
d'arrampicarsi su pel recinto per salvarsi nei vicini boschi,
ma Sciancatello, da bravo guardiano, fu lesto ad afferrarle
per la coda ed a tirarle giù, annunciando la sua imminente
collera con dei sordi grugniti; poi, per far loro capire che gli
dovevano obbedienza, somministrò a ciascuna un calcio così
magistrale, da farle piroettare due volte in aria.
- Bravo Sciancatello!... - gridarono i due marinai, schiat-
tando dalle risa.
- Con tale maestro diventeranno docili ben presto, - disse
il veneziano.
- Lo credete, signore? - chiese il marinaio.
- Ne sono certo e conto molto sulla loro docilità, per intra-
prendere la progettata spedizione sulla cima di quel monte.
- Per lasciarle qui in compagnia dello Sciancatello?
- Al contrario, Enrico; intendo di condurle con noi e di af-
fidare a loro una parte del nostro bagaglio. -
I due marinai scoppiarono in una omerica risata.
- Te lo dico sul serio, - disse Albani. - Le nostre scimmie
ci seguiranno come portatori.
117
- Allora insegnerò loro a fare cucina, signore, - disse il
mozzo.
- Per mangiare più peli di coda che zuppa! - esclamò il
marinaio. - No, non voglio simili aiutanti. Piuttosto insegne-
rò loro a raccogliere legna secca pel fuoco.
- Ed a recarsi alla fontana a prendere acqua.
- Sia pure, Piccolo Tonno. Ah, che bei servi!... Signor Al-
bani, vi assicuro che non speravo di poter avere anche dei
servi oltre il pane e tante cose utili da voi procurateci, quan-
do sono sbarcato su quest'isola.
- Ti accontenti facilmente.
- Vi pare che io possa lagnarmi?...
- No, ma io intendo procurarti di più. Quando avremo vi-
sitati i boschi, spero di ritornare con molte cose che ancora
ci mancano. Voglio che qui regni l'abbondanza e che più nul-
la manchi a noi, che siamo abituati alla vita civile.
- Ma cosa volete ricavare ancora dalle piante?...
- Molte cose ancora.
- Mi mettete in curiosità. Quando faremo questa escursio-
ne?...
- Fra un paio di giorni. Mi preme di conoscere quest'isola
che non sappiamo ancora se sia vasta o piccola, abitata o di-
sabitata. Quest'oggi cominceremo a fare i nostri preparativi.
- Ma nulla ci manca, signore. Abbiamo pane, possiamo
portare con noi alcuni uccelli, l'acqua è a nostra disposizio-
ne, e possediamo perfino dei liquori. Cosa volete di più?
- Avere una tenda.
- Abbiamo ancora delle vele.
- È vero, ma ci occorrono delle bisaccie per porvi le no-
stre provviste.
- Le vele ce le daranno.
118
- Ma come cucirete la tela?
- Diavolo!... È sempre la solita istoria: manchiamo di tut-
to. Ma dove troveremo noi gli aghi?... Non possiamo già
fabbricarli.
- E allora bisogna cercarli.
- Ma dove?...
- Ce li procureranno i pesci colle loro spine. I popoli nor-
dici, gli Esquimesi, i Samoiedi, i Ciuki ecc., come t'ho già
detto, cuciono le loro vesti servendosi appunto di spine di
pesci e noi faremo altrettanto.
- Ma bisogna pescarli questi pesci e non possediamo ami.
- Fortunatamente ce li daranno le piante.
- E quali? - chiese il marinaio stupito.
- Ancora i bambù. Quelli chiamati hauer-tgiutgiuk o di
Blume, hanno le spine ricurve le quali possono servire di
ami.
- Andiamo a cercarle, signore, e poi andremo a pescare.
Sono impaziente di mettermi in viaggio per conoscere un po'
la terra che ci ospita.
- Andiamo, Enrico; sono anch'io curioso di conoscere il
dominio dei Robinson Italiani. -
119
Capitolo XIII
Attraverso i boschi
120
la luce. In mezzo alle foglie degli alberi e dei cespugli in-
gemmati dalla rugiada notturna, svolazzavano a gruppi i più
belli uccelli, le cui penne variopinte, a riflessi d'oro e
d'argento o di rame, scintillavano vagamente sotto i primi
sprazzi luminosi dell'astro diurno, sorgente sull'orizzonte.
I graziosi epimachus arruffavano le loro penne vellutate e
brillanti, come se fossero cosparse di pagliuzze d'oro, e le lo-
ro lunghe code sottili; i bellissimi chimachus, volatili grossi
come un piccione, col corpo anteriore nerissimo con striatu-
re d'oro e il posteriore candido, e la coda formata di barbe
lunghissime ed arricciate, si spennacchiavano reciprocamen-
te coi loro becchi sottilissimi ma assai lunghi; i charmasyna,
specie di pappagalli, colle piume rosse e gialle a striature ne-
re, cominciavano i loro cicalecci scordati ed importuni, men-
tre le splendide parozie dorate, scintillanti di mille colori,
immobili sulle più alte cime degli alberi, si ubbriacavano di
sole, lasciando ondeggiare graziosamente le cinque barbe
piantate sulle loro teste e terminanti in una specie di fiocco,
ai soffi della brezza marina.
Miriadi d'insetti svolazzavano poi in tutte le direzioni:
farfalle sfolgoranti, di dimensioni straordinarie, s'incrociava-
no sopra i fiori o attorno ai vasi vegetali dei calamus rimasti
ancora aperti; farfalline rosse, gialle, azzurre ed anche batta-
glioni di lucertoline volanti, chiamate dai Malesi draco, biz-
zarri animaletti lunghi venti centimetri, colla coda compres-
sa, colle zampine unite da una membrana che serve come di
ali e che permette a loro di spiccare delle volate di venti e
perfino di trenta metri.
I naufraghi, oltrepassata la piantagione di bambù che si
estendeva su un lungo tratto di costa, s'internarono sotto i
boschi, piegando un po' verso levante, sembrando a loro che
121
da quel lato la montagna fosse meno aspra e anche meno bo-
scosa.
Si videro però ben presto costretti a rallentare la marcia,
poichè quella parte della grande boscaglia era assai fitta e
impediva di procedere direttamente.
Migliaia e migliaia d'alberi intrecciavano i loro rami fron-
dosi o le loro foglie piumate, impedendo ai raggi del sole di
penetrare fino a terra. La ricchissima e svariata flora malese,
aveva là tutti i suoi campioni.
Si vedevano bellissimi alberi della canfora, coi tronchi
così grossi che cinque uomini non sarebbero riusciti ad ab-
bracciarli, e che esalavano un acuto profumo; degli splendidi
sunda-matune o alberi tristi, così chiamati perchè i fiori di
tali alberi, che esalano un profumo squisito, non si aprono
che di notte; dei pergolati di pepe, piante sarmentose che si
avviticchiano attorno agli alberi, che hanno le foglie somi-
glianti a quelle dei nostri fagiuoli e i cui granelli aromatici
disposti a grappolini dapprima verdi, poi rossi e quindi bruni
quando sono giunti a perfetta maturanza; grandi upas, chia-
mati anche bohon-upas, snelli, alti oltre trenta metri e coper-
ti di larghe foglie che formavano dei superbi ombrelli; noci
moscate, piante somiglianti ai nostri allori, alte dai sei ai set-
te metri, già cariche di noci mature che esalavano acuti pro-
fumi; garofani coi rami già irti di quei mazzolini aromatici
che vengono poi posti in commercio, quando sono ben sec-
cati, col nome di chiodi di garofano; quindi, confusamente
mescolati, stretti e avviluppati da lunghissimi rotang che
formavano delle vere reti, si vedevano a centinaia alberi che
producono il belzoino, ragia odorifera che scola incidendo il
tronco di quella specie di abeti; alberi della cannella, alberi
cotoniferi che producono una specie di bambagia serica, tec-
122
che colossali dal legno incorruttibile; alberi del ferro coi cui
rami si fanno delle mazze pesantissime che non si possono
scheggiare tanto sono resistenti le fibre di quel legno, ed una
infinità d'alberi gommiferi preziosissimi.
Non mancavano però gli alberi da frutta. Di tratto in trat-
to, in mezzo a quel caos di vegetali, i naufraghi scoprivano
dei mangostani carichi di quelle frutta deliziose che dànno
una polpa bianca, delicata, divisa in chicchi e che messa in
bocca si fonde come un gelato; o dei manghi chiamati dai
Malesi buâ-mamplan ma di qualità inferiore, essendo per lo
più impregnati d'un forte odore di resina; o dei pombo, gros-
sissimi e succolenti aranci, o dei nefelium che producono
delle frutta racchiudenti una polpa bianca, semi-trasparente,
succosa, dolce ma un po' acidula.
I naufraghi non si lasciavano sfuggire quelle occasioni per
fare ampia raccolta delle frutta migliori. Di ciò s'incaricava
lo Sciancatello il quale si prestava colla miglior grazia del
mondo, inerpicandosi sulle cime più alte delle piante per co-
gliere le più grosse e le più mature.
Verso le dieci del mattino, dopo d'aver percorso almeno
sei chilometri, distanza ragguardevole se si pensa ai lunghi
giri che erano costretti a fare per trovare dei passaggi ed ai
numerosi ostacoli, si trovarono dinanzi ad una foresta di al-
beri forniti di foglie gigantesche, d'aspetto maestoso. Nello
scorgerli, il signor Albani non potè frenare un grido di con-
tentezza.
- Una foresta di banani! - esclamò. - Ci regaleremo una
scorpacciata di frutta deliziose, amici miei, e che potranno
variare la nostra provvista di pane.
- I banani? - chiese il marinaio.
- Sì, Enrico.
123
- Io non li ho mangiati che come frutta.
- Ed io ti dico che possono anche surrogare il pane e che
servono a fare dei piatti squisiti. Quando sono maturi, cioè
quando l'amido è completamente scomparso tramutandosi in
materia zuccherina, non servono che come frutta, ma quando
le buccie sono ancora verdi, messi ad arrostire sotto la cene-
re, possono surrogare il pane essendo ricchi di fecola.
Allora le frutta si possono anche tagliarle, seccarle al sole
e conservarle per molto tempo.
Se poi sono più giovani, si possono mangiarle in salsa,
oppure quando sono vicine alla maturità, si possono fare del-
le fritture squisite. Andiamo a fare raccolta, amici. -
Quel bosco era meraviglioso, essendo formato da migliaia
di piante. Fra i vegetali erbacei, nessuno rivaleggia coi bana-
ni per ricchezza di foglie e per maestà.
Queste piante, nei climi caldi acquistano proporzioni gi-
gantesche, e non di rado le foglie raggiungono un'altezza di
quattro o cinque metri ed una larghezza di uno e anche più.
Molte di quelle piante già reggevano a stento dei grappoli
enormi, carichi di frutta allungate, un po' curve, racchiudenti
una polpa tenera e profumata. Ve n'erano di varie specie, ma
il signor Albani diede il sacco a quelle chiamate pisang-mas,
che dànno frutta più piccole, d'un bel colore giallo d'oro e
che sono le migliori.
Accesero il fuoco all'ombra d'una pianta che aveva delle
foglie mostruose e fecero una appetitosa colazione con bana-
ni maturi o con banani verdi cucinati sotto la cenere. Le
scimmie e Sciancatello non furono dimenticati e fecero una
vera scorpacciata di quelle frutta.
Mancava l'acqua, quantunque quel terreno fosse umidic-
cio, ma il signor Albani non tardò a scoprire, sul margine
124
della foresta poco prima attraversata, dei nepentes.
Queste piante sono le più bizzarre che immaginare si pos-
sa. Appartengono alla specie degli arrampicanti e le loro fo-
glie sono arrotondate in forma di vasi, forniti d'una specie di
coperchio che si abbassa alla notte e si alza di giorno.
Durante la notte le piante assorbono l'umidità del suolo e
la raccolgono in quei vasi, i quali ne contengono di frequen-
te perfino mezzo litro. Non è però un'acqua limpida e fresca
come generalmente si crede, servendo quei recipienti di tom-
ba a numerosissimi insetti, ma basta per dissetare, essendo
del resto buonissima.
Dopo un riposo di qualche ora, il drappelle si rimetteva in
marcia salendo i primi contrafforti della montagna, ma attra-
verso a foreste sempre fitte e assai intricate.
Avevano già percorso un chilometro, quando lo Scianca-
tello si arrestò bruscamente, emettendo dei sordi brontolii e
dando segni d'una certa agitazione.
- Ehi, Sciancatello, cosa succede? - chiese il marinaio. -
Hai sentito qualche tigre? -
Il mias pareva che ascoltasse con profonda attenzione, co-
me se cercasse di raccogliere qualche rumore non ben distin-
to. Guardava le cime degli alberi, poi osservava i cespugli ed
il suo volto manifestava ora stizza ed ora contentezza.
- Che sia impazzito? - chiese Piccolo Tonno.
- O che abbia una colica? - chiese invece il marinaio. - Ha
divorato troppi banani di certo.
- No, - disse Albani. - Ha sentito qualche cosa.
- Ma io non vedo nulla, nè odo nulla.
- Pretenderesti di aver l'udito acuto come quel figlio dei
boschi, Enrico? -
Ad un tratto l'orang dilatò fino agli orecchi la sua immen-
125
sa bocca e gli uscì uno scoppio di risa fragoroso.
- Ehi, Sciancatello! - gridò il marinaio. - Che i banani
t'abbiano fatto l'effetto d'una solenne bevuta? Se ti sei ub-
briacato, ti faremo una doccia, figliuol mio. -
L'orang non l'ascoltava più. Con un gesto imperioso ave-
va fatto cenno alle due scimmie di seguirlo e si era diretto
verso un albero altissimo, coperto d'un fogliame folto assai e
si era messo ad osservarlo continuando a manifestare la sua
gioia con scoppi di risa.
- Che lassù ci siano delle frutta ricercate dalle scimmie? -
chiese il marinaio.
- Io non vedo che foglie, - rispose il mozzo. - Ma.... non
udite questo ronzìo?...
- Sì, - disse il veneziano. - Oh!... Ora comprendo!... Non
vedete lassù quel nuvolo d'insetti?...
- Sì, sì! - confermarono i due marinai.
- Sono api selvatiche ed il nostro orang si prepara a sac-
cheggiare l'alveare per mangiarsi il miele.
- Il goloso! - esclamò il marinaio. - Ma non gli permetterò
di mangiarselo tutto. Diavolo!... Voglio fare delle ciambelle
io!...
- Zitto, - disse il veneziano.
- Cosa avete udito?
- Un grugnito.
- Dove?...
- Lassù, fra le foglie.
- Che lo Sciancatello trovi un competitore?
- Lo credo, Enrico, poichè mi pare quelle api siano molto
spaventate.
- Forse un altro mias?...
- Non lo so.
126
- Brutto incontro, signor Albani.
- Abbiamo le freccie mortali.
- Sciancatello sale, - disse il mozzo. -
Infatti l'orang, dopo una breve esitazione, aveva comin-
ciata l'ascensione, ma procedeva con una certa diffidenza e
portava con sè il randello.
Di tratto in tratto si arrestava per ascoltare, alzava il viso
come se cercasse di discernere qualche animale che pareva
si nascondesse fra il fogliame, poi scuoteva la testa e ripren-
deva l'ascensione.
Giunto ai primi rami si rizzò, abbracciò il tronco
dell'albero e radunando le sue forze si mise a scrollarlo con
furore, emettendo dei sordi abbaiamenti ma che sembravano
colpi di tosse: era il suo modo per manifestare la sua collera.
In alto si udirono dei grugniti, poi si vide una massa nera
scendere lungo il tronco.
- Una bestia! - urlò il mozzo.
Lo Sciancatello, vedendosi a tiro quell'animale, gli ap-
pioppò una legnata così tremenda, da strappargli un vero ur-
lo, poi con un calcio cercò di precipitarlo giù, ma l'altro, che
stringeva forte il tronco, teneva duro.
Lo si vide però poco dopo lasciarsi scivolare luogo l'albe-
ro con grande rapidità, quindi piombare a terra in causa
d'un'ultima e più furiosa scossa dell'orang.
127
Capitolo XIV
128
- Terremoto! Orsi! - esclamò il marinaio, balzando indie-
tro.
- Hai paura?
- Se sono orsi, ho motivo di spaventarmi.
- Sono inoffensivi, Enrico. Quelli del Borneo e di tutte le
isole Malesi, non sono feroci come gli altri. Come vedi, sono
più piccoli di tutte le altre specie e quantunque abbiano denti
e artigli, non se ne servono quasi mai e sfuggono l'uomo.
Questa doppia cattura ci sarà di molto vantaggio, poichè al-
leveremo degli orsacchiotti che ci procureranno, di tratto in
tratto, degli arrosti succolenti.
- Ed il miele? - chiese il mozzo. - Quel briccone di Scian-
catello ce lo divorerà tutto.
- Ah!... furfante! - urlò il marinaio. - Mangia le mie ciam-
belle. Ehi, Sciancatello!... Scendi o ti romperò il mio randel-
lo sul groppone, brutto ingordo! -
L'orang pareva fosse diventato sordo. Lo si udiva a rom-
pere i rami e scuotere le foglie, mentre le api fuggivano a
sciami, ronzando. Il ghiottone stava senza dubbio saccheg-
giando l'alveare.
Il marinaio, furioso, temendo di non poter assaggiare il
miele, nè di fare le sue ciambelle, cercava di scuotere l'albe-
ro per costringere l'orang a scendere, ma invano.
Il veneziano ed il mozzo invece ridevano a crepapelle.
- Basta, goloso! - continuava a urlare il marinaio. - Scendi
o ti mando a raggiungere tua madre con una freccia che ti fa-
rà crepare. Scendi, ladrone ingordo! -
Il mias continuava a rimanere sordo a quella tempesta
d'invettive e di minaccie ed il marinaio s'arrabbiava mag-
giormente, credendolo occupato a rimpinzarsi di miele.
- Addio, ciambelle, - diceva il mozzo, sempre ridendo. -
129
Questa volta è lo Sciancatello che si mangia il dolce.
- Terremoto di Genova! - tuonò il marinaio. - Gli darò tale
lezione da fargli vomitare tutto il miele!... Gli fracasserò le
ossa!...
- Eccolo che scende, - disse Albani. - Pare che abbia ter-
minato la colazione. -
Infatti lo Sciancatello scendeva attraverso i rami e le fo-
glie, ma senza fretta. Pareva che fosse imbarazzato a portare
qualche cosa, perchè con una mano sosteneva un volumino-
so pacco.
- Cosa rimorchia quel gaglioffo? - chiese il marinaio.
- Ci porterà la cera colla quale faremo delle buone cande-
le, - disse il Piccolo Tonno.
- Gliela farò mangiare dietro al miele!... Non m'importa
un fico della cera!... Scendi, canaglia, che t'accarezzerò le
spalle!... -
Lo Sciancatello scendeva, ma sempre con gran precauzio-
ne e tenendo stretto il pacco.
- Il furbo! - esclamò il mozzo. - E poi dicono che le scim-
mie sono meno intelligenti degli uomini!...
- Perchè? - chiese Enrico.
- Non vedi che ha messo i favi dell'alveare nella tenda che
portava a bandoliera?...
- Ehi!... To'!... Una goccia!... Fulmini!... È miele! -
Il marinaio, che stava sotto l'albero, aveva ricevuto una
grossa goccia sul viso e si era accorto che era miele. La sua
fronte si rasserenò.
- Che lo Sciancatello sia più onesto di quello che crede-
vo? - mormorò.
Il mias, uscito dai rami, si lasciò scivolare lungo il tronco
come un vero ginnasta e giunto a terra aprì la tenda che tra-
130
sudava miele da tutte le parti.
Era piena di favi, ma non già spremuti del succo delizio-
so, bensì ancora pieni. Il marinaio fece quattro salti attorno
all'albero, poi aprì le braccia e si strinse al petto il peloso
scimmione, esclamando:
- Dammi un abbraccio, figliuol mio!... Tu sei il più onesto
di tutte le scimmie e di tutti gli orang-outan della terra! -
Lo Sciancatello si meritava quell'elogio, poichè invece di
aver saccheggiato l'alveare per proprio conto, portava i favi
intatti ai suoi padroni.
Il marinaio non perdette tempo. Si rimboccò le maniche,
si fece dare la pentola e si mise a spremere la cera, facendo
uscire larghi goccioloni di miele profumato.
S'accorse ben presto che quel recipiente non bastava a
contenere tutto il succo, ma il signor Albani s'affrettò a tro-
vare altri recipienti formando dei coni impenetrabili colle
larghe foglie d'un arecche.
Quando l'operazione fu terminata, calcolarono la loro
provvista a dodici chilogrammi, detraendo qualche chilo-
grammo regalato all'onesto Sciancatello ed alle due scim-
mie.
- Quante ciambelle! - esclamò il marinaio. - Capperi!.. Ne
mangeremo a sazietà.
- Ma non hai pensato ad una cosa, Enrico, - disse Albani.
- Come faremo ad attraversare i boschi con questi reci-
pienti?... La montagna è ancora alta, amico mio.
- Fulmini!... Ma io non lascierò qui il mio miele, signore.
Gli orsi o le scimmie me lo mangerebbero.
- Lo credo, e poi non possiamo condurre con noi gli orsi.
- Lasciatemi qui e salite voi la montagna.
- Non avrai paura delle tigri?
131
- Ho la cerbottana e le freccie sono avvelenate.
- Ti lascieremo anche lo Sciancatello; è un buon compa-
gno che sa maneggiare solidamente il suo randello.
- Quando sarete di ritorno?...
- Temo che saremo costretti ad accamparci sulla cima del-
la montagna. Domani all'alba faremo ritorno.
- Sarete capaci di trovarmi?... Potete smarrirvi in questi
boschi.
- Conosco il mezzo per dirigermi. Addio, Enrico.
- Buon viaggio, signore. Vi preparerò delle ciambelle in-
tanto e sentirete come saranno deliziose!... Me ne intendo,
io! -
Si salutarono un'ultima volta ed il veneziano ed il mozzo
si rimisero in cammino lasciando al marinaio anche le due
scimmie poichè, non essendovi più il randello dell'orang,
potevano approfittare per fuggire.
Il signor Albani, pur camminando rapidamente, aveva la
precauzione di fare, di quando in quando, delle incisioni sui
tronchi degli alberi, ma sempre su quelli che si trovavano al-
la sua destra. In tal modo non correva più il pericolo di non
ritrovare, nel ritorno, la via percorsa.
Il terreno cominciava a salire, ma era sempre coperto da
folti cespugli, da grandi macchie d'alberi che avevano delle
foglie smisurate e interrotto di tratto in tratto da enormi mas-
si di natura vulcanica e da fenditure profonde che dovevano
servire di letto ai torrenti, durante la stagione piovosa.
Su quei pendii abbondavano le piante gommifere, per lo
più isonandra gutta i cui tronchi, incisi, danno una materia
attaccaticcia simile al caucciù.
Il signor Albani però, che guardava attentamente tutti i
vegetali, scoprì alcuni alberi molto preziosi per loro, poichè
132
potevano surrogare il pane fatto col midollo delle arenghe
saccharifere.
Erano dei buâ kaluwi, così chiamati dai Malesi, ma che i
botanici conoscono col nome di artocarpus incisa, alberi che
producono delle frutta grosse, prive di semi, contenenti una
polpa giallastra che ha il sapore di certe specie di zucche.
Più sopra ne scoprì altre appartenenti alla stessa specie,
ma assai più produttive. Erano i buâ naglesa o artocarpus
integrifolia meglio conosciuti col nome di alberi del pane,
piante grandissime che producono le frutta più grosse di tutti
i vegetali, rotonde, coperte di scaglie puntive e così pesanti,
che due uomini non sempre riescono a portare un solo frutto.
- Se ne piomba una sul cranio, lo schiaccia come una noc-
ciuola, - disse il mozzo. - Non ho mai vedute frutte così
grosse, signor Emilio.
- Ci faranno sudare a portarle alla capanna, Piccolo Ton-
no, - rispose il veneziano.
- Contate di venire a raccoglierle?
- Certo.
- Sono adunque eccellenti?
- Hanno il sapore dei fondi del carciofo e quella polpa,
cucinata sui carboni, può supplire il pane.
- Ma non si conserverà.
- I polinesiani la conservano, pigiandola entro buche sca-
vate nel terreno, ma prende un sapore acidulo non però sgra-
devole a chi riesce ad abituarsi.
- Ma ci vorrebbero dei facchini, per portare fino alla
spiaggia tutte quelle frutta.
- Se non avremo dei facchini, avremo degli animali ed un
carretto, spero.
- Un carretto?...
133
- E perchè no?...
- Ma chi lo tirerà?... Le scimmie forse?...
- Chi?... Ho notato parecchie orme di babirussa e se riesco
a prenderne due, vedrai che ti farò andare in carro, mio Pic-
colo Tonno.
- Ma voi volete procurarci mille comodi, signore.
- È la mia idea. Orsù, continuiamo la marcia o giungere-
mo tardi sulla vetta. La montagna è ancora alta assai. -
Ripresero l'ascensione attraverso a quelle selve che diven-
tavano sempre più difficili e più intricate, recidendo gli smi-
surati rotangs che formavano talvolta delle reti impenetrabili
e fugando grandi bande di volatili e specialmente di podar-
gus, bruttissimi falchi colla testa grossa, il becco corto e lar-
go come una bocca, la testa coperta di pochi ciuffi di peli e
le penne del corpo bigie a screziature nere.
Anche qualche aquila audace, uccellacci grossi come tac-
chini, armate di robusti artigli, colle larghe ali nere ed il dor-
so rossastro variegato di nero, volava via emettendo acute
grida.
A mezza costa s'imbatterono in numerosi drappelli di
scimmie, occupati a saccheggiare gli alberi fruttiferi. Ve
n'erano di varie specie, ma erano talmente selvatiche, che
fuggivano rapidamente appena scorgevano i due naufraghi,
celandosi nei più fitti nascondigli della foresta.
Si scorgevano bande di ducs, scimmie colla coda lunga, la
faccia piatta, i piedi neri e le orecchie invece color carne vi-
va; delle lawados dalla faccia priva di pelo, color rosso fino
a metà, colla testa coperta da una specie di parrucca fatta di
peli grigiastri e molto folti; delle scimmie dal naso lungo e
grosso e parecchie altre che il veneziano non poteva ben di-
stinguere perchè fuggivano troppo rapidamente.
134
Alle quattro, mentre stavano per riposarsi all'ombra d'un
arecche, il signor Albani additò al compagno una pianta po-
co alta, munita di larghe foglie d'un bel verde, dicendo con
voce allegra:
- Ecco una scoperta preziosa. Finalmente avremo una
piantagione!...
- È una pianta di tabacco, forse? - chiese il mozzo. - Qua-
le fortuna per Enrico, che non sogna che pipe e sigari!...
- Non è tabacco, ma qualche cosa di meglio: scava! -
Piccolo Tonno estrasse il coltello e si mise a scavare la
terra attorno alla pianta, con infinite precauzioni. Poco dopo
metteva allo scoperto un tubero assai grosso, pesante un
buon chilogrammo e che rassomigliava ad un pomo di terra.
- Cos'è questo? - chiese egli, sorpreso.
- Un ubis, - rispose Albani.
- Non vi comprendo.
- Una patata dolce.
- Lave del Vesuvio!... Una patata!...
- E delle migliori, ragazzo mio.
- La metteremo a cucinare sotto la cenere.
- Niente affatto, goloso. La conserveremo, dissoderemo
un pezzo di terra e fra tre o quattro mesi faremo la nostra
raccolta.
- Sperate di trovarne altre?...
- Ne sono certo, Piccolo Tonno. Avanti, e giriamo intorno
gli sguardi. -
Il mozzo si mise nella borsa il prezioso tubero e ripresero
le mosse guardando a destra ed a manca.
Tre ore dopo giungevano sulla vetta della montagna, cari-
chi di altri sette ubis che avevano scoperto sotto la boscaglia.
135
Capitolo XV
136
troviamo?
- Su di un'isola, come lo avevo supposto, ma su quale, io
lo ignoro, - rispose Albani.
- Ma dove credete che quest'isola sia situata?
- Nel mar di Sulu, di questo son certo.
- Sono molte le terre sparse in questo mare?
- Sono oltre cento, ma molte non sono forse ancora state
tutte visitate. Sono divise in quattro gruppi distinti: Cagayan
Holo, Bassilan, Holo e Tawi-Tawi.
- E sono tutte abitate?....
- In gran parte e per lo più da pirati intrepidi che scorrono
il mare fino sulle coste delle Filippine. Non vi è che un'isola
i cui abitanti sono di costumi miti, che è stata scoperta da un
nostro compatriotta e che porta appunto il suo nome.
- Da un italiano?
- Sì, Piccolo Tonno; da Rienzi, un intrepido esploratore
che visitò quasi tutte le isole di Sulu.
Quell'isola è situata a 6° 26' di lat. nord e 119° 33' di long.
est del meridiano di Parigi e fa parte del gruppo di Bassilan.
Quando il nostro compatriota la scoprì e sbarcò, un capo
dell'isola, certo Maulant, gli andò incontro e saputo chi era,
volle, secondo il costume del paese, scambiare il nome gri-
dando: Io mi chiamo datou Rienzi e si battè il petto, poi bat-
tendo quello del viaggiatore disse: Tu sei il datou (capo)
Moulant. Quindi gli offrì il suo kriss e Rienzi gli regalò le
sue pistole.
Da quell'epoca l'isola fu chiamata Rienzi e porta ancora il
nome del nostro compatriotta.
- Fa piacere, signor Albani, nel sapere che i nostri compa-
trioti hanno fatto anche qui delle scoperte.
- Ti credo, Piccolo Tonno, ma.... guarda!... I miei occhi
137
s'ingannano od è proprio del fumo che s'alza laggiù?...
- Dove, signor Emilio?...
- Verso quella punta lontana, al sud, dietro a quei boschi. -
Il mozzo aggrottò la fronte e aguzzò gli sguardi nella dire-
zione indicata. Le tenebre cominciavano a calare sull'isola,
pure scorse come un leggero pennacchio grigiastro.
- Del fumo! - esclamò il mozzo, stupito. - Ma allora
quest'isola è abitata!...
- O è nebbia? - disse il signor Albani, che era diventato
pensieroso.
- Ecco quello che bisognerebbe sapere, signore.
- Vi sono almeno quindici miglia di foreste da percorrere,
Piccolo Tonno. Stento a credere che quest'isola sia abitata.
- E perchè?...
- Avremmo incontrato qualcuno, mentre non abbiamo ve-
duto che delle scimmie.
- Possono essere dei pescatori qui sbarcati.
- O dei pirati, vuoi dire.
- Brutta compagnia, signore.
- Se sono dei pirati non tarderanno a imbarcarsi. Ardo ora
dal desiderio di possedere un canotto per fare il giro dell'iso-
la.
- Lo costruiremo?...
- Sì, Piccolo Tonno, ma quando avremo trovata qualche
pietra per affilare la nostra povera scure che è ormai rovina-
ta. Orsù, accampiamoci e domani mattina andremo a trovare
Enrico.
- Non correrà pericolo, il marinaio, solo in mezzo alla fo-
resta?
- Ha lo Sciancatello e quel mias è ormai tanto robusto da
mettere in fuga anche le tigri col suo randello e poi Enrico
138
ha la sua cerbottana. Prepariamoci un ricovero, ragazzo mio.
-
Abbandonarono la vetta che era assolutamente nuda e
rientrarono nella foresta costruendosi un ricovero con alcuni
bastoni, che poi ricoprirono con una mezza dozzina di foglie
d'arecche, lunghe tre metri e larghe uno.
Rosicchiarono un biscotto, accesero il fuoco per tenere
lontane le fiere, poi Albani si coricò sotto quella tettoia im-
provvisata, mentre il mozzo montava il primo quarto di
guardia, tenendosi accanto la cerbottana nella quale aveva
prima introdotta una freccia avvelenata. Tutto era tranquillo
sulla cima della montagna: non si udiva che il lieve sussurrìo
delle fronde agitate dal venticello notturno.
Nè le scimmie, nè i falchi, nè le aquile si udivano, però il
mozzo non osava chiudere gli occhi, quantunque il sonno gli
pesasse sulle palpebre. Per vincerlo si alzava di sovente e fa-
ceva il giro della tettoia, scrutando con grande attenzione la
tenebrosa foresta che scompariva giù pei fianchi della mon-
tagna.
Di quando in quando poi si spingeva verso il margine del-
la boscaglia e tendeva gli orecchi, sperando di udire, nei pia-
ni inferiori, echeggiare la voce lontana del marinaio, ma sen-
za risultato. Senza dubbio il genovese dormiva tranquilla-
mente sotto la vigilanza dello Sciancatello, sognando forni
pieni di ciambelle.
Il sonno però lo assaliva con maggior frequenza e per
quanti sforzi facesse, le palpebre già fin troppo grevi, gli si
abbassavano.
Si era seduto a pochi passi dal fuoco, contro il tronco d'un
albero semi-divorato dal tarlo e che gli aveva offerto una
specie di seggiola, fischiando fra i denti una barcarola. Lot-
139
tava ancora contro il sonno, ma erano gli ultimi sforzi.
Finalmente non seppe più resistere e involontariamente
chiuse gli occhi, sognando la sua lontana isola natìa.
Quanto dormì?... Non potè mai saperlo, ma una brutta
sorpresa lo aspettava al suo risvegliarsi. Là, a quindici passi
un animale grosso, col pelame giallastro rigato di nero, colla
testa somigliante a quella dei gatti ma molto più grossa, sta-
va sdraiato al suolo, guardandolo con due occhi dai riflessi
verdastri, ma che tradivano un'ardente bramosìa.
Il povero mozzo, nel vedersi dinanzi quell'animale, che
pareva pronto a scagliarsi su di lui e mettere alla prova i tre-
mendi artigli, impallidì orribilmente e s'irrigidì contro l'albe-
ro, mormorando con un filo di voce:
- Sono morto! -
Aveva riconosciuto in quella formidabile avversaria una
tigre.
Gettò all'intorno uno sguardo smarrito: il signor Albani
russava tranquillo e fidente sotto la piccola tettoia ed il fuo-
co stava per ispegnersi, lanciando gli ultimi sprazzi di luce
come un lumicino moribondo.
Si guardò ai piedi sperando di aver vicina la cerbottana,
ma il fusto cilindrico gli era caduto dalle ginocchia, era roto-
lato pel pendio ed era andato ad arrestarsi a' piedi d'un son-
tar, a circa dieci metri di distanza.
Il disgraziato ragazzo si sentì rizzare i capelli e gli parve
di sentire sulle membra i denti terribili della fiera.
- Sono morto, - ripetè, rabbrividendo fino in fondo all'ani-
ma.
E poteva ben considerarsi spacciato, poichè al primo mo-
vimento che avesse osato fare per riprendere la cerbottana o
al primo grido che avesse lanciato per svegliare il veneziano,
140
la tigre non avrebbe indugiato ad assalirlo.
Girò lentamente la testa e guardò la fiera. Stava accovac-
ciata al medesimo posto, ma pareva che non avesse fretta di
assalire. Si stirava come un gatto che ha fatto una buona dor-
mita, ondeggiava mollemente la coda, si lisciava il pelo del
petto e dei fianchi con graziosa civetteria e sembrava non fa-
cesse alcun caso della futura vittima.
Ad un tratto però parve che concentrasse la sua attenzione
sulla cerbottana che stava ai piedi del borasso, la cui estre-
mità era munita del coltello del mozzo. Quella lama, che un
raggio di luna faceva scintillare come uno specchio da due
soldi, aveva certamente destata la sua curiosità.
Si diresse verso l'albero con passo silenzioso, ma con una
certa diffidenza, volgendo di quando in quando la testa verso
il ragazzo che manteneva una immobilità assoluta, poi allun-
gò una zampa e la trasse a sè. Vedendo quella canna rotolare
e la luce della lama apparire e scomparire, parve che ci pro-
vasse gusto, poichè dimenticando la vittima si mise a giuo-
cherellare, emettendo dei profondi rom-rom di contentezza.
A vederla si avrebbe scambiata per un grosso gatto alle-
gro, anzichè per una tigre sanguinaria.
Piccolo Tonno, più sorpreso che mai, cominciava a respi-
rare ed a sperare. Se quella fiera era di così buon umore, vi
era speranza di salvare la pelle. Non osava però ancora a
muoversi, poichè la maledetta tigre, pur giocando, volgeva
di tratto in tratto la testa verso di lui, come volesse assicurar-
si che non abbandonava il posto.
- Che voglia solamente spaventarmi? - pensava il ragazzo.
- Oh! Se potessi scivolare sotto la tettoia e svegliare il signor
Albani! -
Ma non trovava mezzo per avvertire il compagno del tre-
141
mendo pericolo che correvano. Coricato su di un fianco, con
un braccio sotto il capo, il veneziano continuava a dormire
saporitamente, nè accennava a svegliarsi.
Ad un tratto un'idea attraversò il cervello del ragazzo.
- Dio mi aiuti, - mormorò.
Tenendo gli sguardi sempre fissi sulla fiera, si curvò len-
tamente, con infinite precauzioni, verso terra. Il cuore gli
batteva forte forte, un tremito nervoso gli scuoteva le mem-
bra e grossi goccioloni di sudore freddo gli bagnavano la
fronte, ma continuava ad abbassarsi, mentre la sua mano fru-
gava il terreno.
Trasalì sentendo sotto le dita un oggetto duro, ma ritirò il
braccio lentamente, sempre guardando la tigre che continua-
va a giuocherellare colla cerbottana.
- Un sasso, - mormorò, respirando. - Non sbagliamo il
colpo.
Attese il momento in cui la tigre volgevagli il dorso e ra-
pido come il lampo scagliò il sasso sotto la tettoia. Il signor
Albani sentendosi cadere sul viso quell'oggetto, si alzò bru-
scamente guardandosi attorno. Comprese tutto a prima
vista?... È probabile, perchè senza pronunciare parola, senza
fare un gesto al mozzo, raccolse silenziosamente la sua cer-
bottana e tenendosi coricato come fosse ancora addormenta-
to, accostò l'arma formidabile alle labbra.
Un'istante dopo s'udì un leggiero sibilo e la tigre interrup-
pe bruscamente i suoi giuochi, guardandosi attorno. Vedendo
quel leggiero cannello sospeso al suo collo, lo spezzò con un
colpo di zampa e si rimise a giuocare come fosse stata punta
da un semplice moscerino.
Ad un tratto però la si vide spiccare un salto immenso,
emettendo un rauco ruggito, poi ricadere su di un fianco,
142
quindi dibattersi in preda a tremende convulsioni.
Piccolo Tonno si precipitò verso la tettoia, gridando:
- Ah!... Signor Emilio!
Il veneziano era già balzato fuori. Aprì le braccia e se lo
strinse al cuore, esclamando:
- Grazie, mio valoroso ragazzo! -
In quell'istante la tigre, fulminata dal potente veleno
dell'upas e del cetting, cessava di vivere.
143
Capitolo XVI
144
- O meglio mi aiuterai a scuoiare la tigre. Ricaveremo una
splendida coperta. -
Gettarono sul fuoco semi-spento dei rami secchi, trascina-
rono colà la tigre e levato il coltello dalla cerbottana, il si-
gnor Albani si mise al lavoro aiutato dal piccolo mozzo.
- Che animalaccio! - esclamava Piccolo Tonno, che non si
stancava di ammirarlo. - Che collo e che muscoli!... Simili
fiere non devono trovarsi imbarazzate a trascinare nei loro
covi le grosse selvaggine.
- Si sono vedute talvolta delle tigri, superare delle cinte
portando in bocca dei grossi capi di bestiame. Da ciò puoi
immaginarti quale forza posseggono tali carnivori.
- È vero, signore, che le tigri assalgono indistintamente
tutti gli animali, perfino i leoni e gli elefanti?...
- Sono frottole, ragazzo mio, spacciate da cacciatori che
non hanno mai abbandonato le loro case. Le tigri sono più
astute di quello che si crede e non si misurano con degli ani-
mali che possono disputare a loro la vittoria. Se la prendono
colle antilopi, colle scimmie, coi tapiri, coi babirussa perchè
sanno che non possono difendersi, o cogli animali domestici,
ma sfuggono gli altri. Non osano nemmeno assalire i bufali,
poichè sanno per esperienza che quei grossi ruminanti pos-
seggono delle corna acute e che non indietreggiano.
- Pure assalgono gli uomini.
- Sì, ma quando sono vecchie.
- Oh!... Questa è strana!... - esclamò il mozzo.
- Te lo dissi già, le tigri sono molto furbe. Sapendo che gli
uomini posseggono delle armi, finchè sono giovani e agili e
hanno lo slancio necessario per piombare sugli animali della
foresta, lasciano in pace gli uomini. Talvolta però, spinte
dalla fame, fanno delle vittime umane, ma preferiscono gli
145
uomini di colore e possibilmente le donne ed i fanciulli, co-
noscendo già la potenza delle armi da fuoco degli uomini
bianchi. Quando cominciano a diventar vecchie lasciano le
foreste, e vanno a nascondersi in vicinanza dei villaggi e
specialmente nei pressi delle fonti, ove sanno che si reche-
ranno le donne a prendere acqua, e cominciano le stragi.
Pare però che la carne umana sia un cattivo nutrimento
per le tigri, poichè diventano brutte, rognose e perdono il pe-
lo. Si direbbe che diventano lebbrose come gli antropofagi
della Polinesia.
- E non si possono ammaestrare le tigri?...
- Sì e molti rajah indiani ne tengono libere nei loro palaz-
zi, ma sono sempre pericolose.
- Si potrebbero abituare a non mangiare mai carne?
- Hanno provato anche ciò, ma privandole della carne di-
ventavano brutte e spelate come quelle che mangiano vitti-
me umane.
- Non saremo certamente noi che cercheremo di addome-
sticare le tigri....
- Taci!... - esclamò il signor Albani, interrompendolo bru-
scamente.
- Cosa avete udito? - chiese il mozzo, dopo alcuni istanti
di silenzio.
- Una lontana detonazione.
- È impossibile, signore!... Se quest'isola è deserta....
- Non lo sappiamo ancora, anzi quel fumo scorto ieri sera
indicherebbe il contrario. Vieni, ragazzo mio. -
Gettò a terra la pelle sanguinante della tigre che aveva al-
lora staccata e salì sulla rupe che formava la vetta della mon-
tagna.
Giunto sulla cima guardò verso al sud e gli parve di scor-
146
gere, nel medesimo punto ove poche ore prima aveva veduto
alzarsi la colonna di fumo, un debole chiarore che pareva
proiettato da un fuoco acceso sotto i boschi.
- Della luce! - esclamò. - Ma allora laggiù accampano de-
gli uomini!
- Ma chi siano? Degli abitanti o dei naufraghi? - chiese
Piccolo Tonno. -
Il signor Albani non rispose: continuava a guardare quel
chiarore che talvolta diventava più vivo, spiccando distinta-
mente fra le tenebre e che ora pareva accennasse a spegnersi.
Verso le due del mattino quella luce si estinse bruscamen-
te, nè più ricomparve. Il signor Albani attese fino all'alba
sperando di udire qualche altra detonazione, ma invano.
- Forse saranno stati dei pirati, - mormorò egli. - Non cre-
do che quest'isola sia abitata.
- Scendiamo, signore? - chiese il mozzo.
- Sì, Piccolo Tonno. -
Si caricarono della pelle della tigre e delle patate dolci
che avevano raccolte nella foresta e si misero a scendere le
balze della montagna, regolando la loro direzione sulle inci-
sioni che avevano fatte sugli alberi.
Tre ore dopo udivano la voce del marinaio, che saliva dal
fondo d'una valletta boscosa.
- Ohe!... marinaio! - gridò il mozzo.
- Presente, - urlò Enrico con voce tuonante.
- Nulla di nuovo?
- Sto abbeverando i miei orsi. -
Il signor Albani e Piccolo Tonno affrettarono il passo e
poco dopo giungevano ad una capanna di frasche, dinanzi
alla quale il marinaio e lo Sciancatello stavano trascinando
gli orsi che parevano ricalcitranti.
147
- Buon giorno, signor Albani, - disse Enrico. - Avete pas-
sata una buona notte sulla montagna?...
- Sì, uccidendo una tigre che voleva mangiare Piccolo
Tonno, - disse il veneziano.
- Corna di Belzebù!...
- Non inquietarti, l'abbiamo uccisa, Enrico. E tu, hai dor-
mito bene?...
- Come un ghiro, signore. Sciancatello è una sentinella
valorosa che non lascia avvicinare nessuno e anche le due
scimmie sono davvero bravine. Dunque, dove siamo noi?
- Su di un'isola.
- Deserta?
- Ecco quello che ignoriamo. Hai udito e veduto nulla?
- Veduto no, ma due ore or sono stato svegliato da un cer-
to fragore, che mi parve un lontano colpo di fucile.
- L'ho udito anch'io.
- Allora non siamo soli su quest'isola.
- Chi può dirlo? Lo sapremo quando saremo in grado
d'intraprendere una vera esplorazione attorno a questa terra.
- E quando potremo tentarla?...
- Fra alcune settimane, ossia quando avremo un canotto.
Ritorniamo, amici: ho fretta di giungere alla capanna. -
Il marinaio afferrò le funi dei due orsi, lo Sciancatello
prese la pentola del miele, Albani si caricò della tenda e del-
la cera e si misero in cammino preceduti dal mozzo che por-
tava la pelle della tigre e dalle due scimmie.
Volendo però visitare un'altra parte di quella grande fore-
sta, sperando di trovare nuovi alberi utilissimi, avevano pre-
sa un'altra direzione, deviando un po' verso l'est, certi di rag-
giungere egualmente la loro capanna aerea.
Gli alberi però non variavano. Incontravano sempre mac-
148
chioni di arecche, di sontar, di durion, di pombo, di piante
gommifere, strette le une alle altre da smisurati rotang e da
radici colossali, che s'innalzavano da tutte le parti come ser-
penti immani.
Fecero però una scoperta curiosissima, d'un gruppo di fio-
ri di proporzioni gigantesche. Erano delle aroidee, piante
che emettono una sola foglia la quale s'innalza, compreso il
gambo che somiglia ad una vera colonna, per ben quindici
metri.
Dal centro di quel gambo che aveva un diametro di un
metro, usciva un fiore così grande, da imbarazzare un gigan-
te se avesse voluto metterselo all'occhiello della giacca, poi-
chè era alto due metri con un diametro di uno e mezzo.
Cosa strana però: quei fiori, invece di avere un profumo
delizioso, esalavano un odore appestante, come di pesce cor-
rotto.
Anche qualche pianta utile venne scoperta, ma essendo
ormai tutti carichi, dovettero pel momento rinunciare a sac-
cheggiarla. Erano dei mangostani, alberi somiglianti ai nostri
ciliegi, chiamati dai popoli della Malesia re delle frutta, poi-
chè dànno infatti le frutta migliori che immaginare si possa.
Sembrano melogranate, ma la polpa candida che conten-
gono riunisce gli aromi più squisiti e si fonde in bocca come
un gelato.
Verso le quattro del pomeriggio, i naufraghi si trovarono
sulla costa orientale, la quale si elevava assai sul mare, dife-
sa da rupi colossali che s'innalzavano per parecchie dozzine
di metri, coperte da piante arrampicanti e da sterpi.
La foresta terminava addosso a quelle rupi, ma non era
più fitta come prima. Anzi si vedevano qua e là delle piccole
radure, invase bensì da erbe grasse, ma prive di alberi anno-
149
si.
Il signor Albani, che da qualche minuto girava gli occhi
con una certa attenzione, si era fermato esaminando il terre-
no delle radure. Rimuoveva le piante, le divideva coi piedi e
pareva che cercasse con ostinazione qualche cosa d'impor-
tante.
- Sperate di trovare delle altre patate dolci? - gli chiese
Enrico, che si era pure fermato per riposarsi un po'.
- Cerco una o meglio delle tracce, - rispose il veneziano.
- Le tracce di qualche nuovo animale?...
- No, d'una antica coltivazione.
- Oh!... d'una coltivazione!... - esclamarono il marinaio ed
il mozzo.
- Sì, amici, e sono certo di non ingannarmi. Questo terre-
no è stato lavorato e sgombrato dagli alberi che un tempo lo
coprivano. Guardate: ecco qui le tracce d'un solco e qui, sot-
to queste erbe, gli avanzi d'un albero tagliato e d'un altro
mezzo sradicato.
- Fulmini!... - esclamò Enrico. - Che quest'isola sia pro-
prio abitata?...
- O per lo meno un tempo lo fu, - disse Albani.
- Ma da chi?...
- Forse da qualche colonia d'isolani delle Sulu.
- Ma molto tempo fa?...
- Da molti anni di certo.
- Ma si dovrebbero vedere le tracce di qualche capanna,
se non gli avanzi.
- Potrebbe esistere nei dintorni.
- Cerchiamola, signore. -
Il veneziano non rispose. Teneva gli sguardi fissi su di un
gruppo di piante che cresceva in mezzo ad una di quelle ra-
150
dure.
- Cosa guardate, signore? - chiese il marinaio, stupito di
non ricevere risposta.
- Dimmi, Enrico, - disse Albani, con una certa emozione,
- gradiresti una tazza di caffè?...
- Terremoto di Genova!... Avreste forse trovato....
- Del caffè?... Sì, Enrico, l'ho trovato. Seguitemi, amici.
Fra pochi giorni noi assaggeremo la deliziosa bevanda. -
151
Capitolo XVII
152
- Dagli uomini che hanno dissodate e coltivate queste ra-
dure.
- Ma venuti da dove? - insistette il marinaio.
- Chissà, forse da Mindanao o da Palavan o dalle Filippi-
ne. Dopo la comparsa degli uomini bianchi, in quasi tutte le
isole della Sonda e dell'arcipelago del Mar Cinese meridio-
nale, si coltiva in minore o maggior copia il granello profu-
mato.
- Che siano stati poi divorati dalle fiere, i coltivatori?...
- Possono aver abbandonata l'isola o essere invece stati
sterminati o ridotti in schiavitù dai pirati delle Sulu.
- Sarei curioso di trovare le loro tracce, signor Emilio. Al-
meno sarei certo se quest'isola è ancora abitata o deserta.
- Forse perlustrando le coste lo sapremo, Enrico. Volete
che raccogliamo il nostro caffè?... Vedo un grande numero di
bacche giunte a perfetta maturanza, e che altro non chiedono
che di essere esposte al sole per seccare.
- Ma fra due ore sarà notte.
- Nessuno ci proibisce di accamparci qui.
- È vero, signore; raccogliamo il nostro moka. -
Legarono i due orsi ad un albero e aiutati da Sciancatello
si misero a raccogliere le frutta, accumulandole entro la tela
della tenda. Il mozzo intanto tagliava dei rami e delle foglie,
improvvisando un ricovero per difendersi dall'umidità della
notte.
Alle sette di sera la raccolta era terminata. A colpo
d'occhio potevano ricavare dieci o dodici chilogrammi di
chicchi.
- Ecco una gita fortunata!... - esclamava il bravo marina-
io, che pareva entusiasmato. - Cospettaccio!... che lusso!...
Perfino il caffè, e lo zucchero non ci manca!... Se potessimo
153
trovare anche del tabacco io sarei l'uomo più felice della ter-
ra.
- Sarà difficile trovarne, non usandolo i popoli di queste
regioni, ma cercherò qualche cosa che possa surrogarlo, En-
rico, - disse il signor Albani. - Portiamo il nostro moka sotto
la tettoia e stritoliamo un po' di biscotti bagnati nel miele.
- To'!... Anche voi lo chiamate moka come noi marinai, -
disse Enrico, caricandosi della tenda piena di caffè.
- È il suo vero nome, poichè le prime piante furono sco-
perte precisamente sulla costa araba ove sorge la città di Mo-
ka.
- È stato qualche scienziato a scoprirle?
- Niente affatto; un povero pastore di capre, Enrico. Anzi
lo hanno scoperto le capre.
- Oh!... Questa è curiosa!...
- Tu dunque non conosci la storia del caffè?...
- No, signore.
- Ti dirò adunque che la scoperta dell'aromatico granello,
diventato ora un articolo di prima necessità a mezza popola-
zione del nostro globo, risale a molti secoli.
Narrano gli Arabi, che un povero pastore di capre, dispe-
rato per non aver potuto sposare una sua cugina, per dimen-
ticare il suo dolore, sonnecchiava tutto il giorno.
Una volta, svegliatosi prima del tempo, con sua grande
sorpresa vide tutte le sue capre saltellare come se fossero
impazzite. Si alzò per conoscere la causa di quella pazza al-
legria e vide alcune di esse occupate a mangiare delle bac-
che sferiche e scarlatte, quindi mettersi a saltellare e prende-
re parte alla danza generale.
154
- Ah!... Salvatelo, signor Albani!... - esclamò il mozzo, scop-
piandoin singhiozzi. (Pag. 122).
155
Volle a sua volta assaggiarle e poco dopo sentì svanire la
sonnolenza e sparire le sue malinconie.
Il giorno appresso cercò altre di quelle bacche e continuò
così per molti giorni, diventando sempre più allegro.
Passato per di là un pellegrino, sorpreso di vedere capre e
pastore a saltellare in compagnia, volle conoscere il motivo
di quell'allegria e appagata la sua curiosità, fece un'ampia
raccolta di quel caffè e lo portò nel suo romitaggio. Egli ne
faceva uso prima delle preghiere, poichè il buon maometta-
no aveva l'abitudine di addormentarsi recitandole, mentre
quelle bacche lo tenevano sveglio.
Fu il primo a torrefarle, poichè avendo pochi denti, gli
riusciva difficile a spezzare i granelli. Ridottele poscia in
polvere, provò a mescolare la profumata bacca all'acqua cal-
da e ottenne il primo caffè.
Fatta conoscere la scoperta agli altri monaci, questi ne
adottarono l'uso, il quale si estese poi anche in Europa per
mezzo di pellegrini mussulmani.
- Ma fu adottato molto tardi in Europa?... - chiese Enrico.
- Verso il 1600, ma dapprima corse il pericolo di venire
respinto ancora in Arabia.
- Forse che non piaceva allora?...
- Tutt'altro, ma essendo prima stato introdotto in Turchia,
gli ulema o preti mussulmani cercarono di proibirlo, ritenen-
dolo una bevanda eccitante, ma il sultano Solimano ebbe il
buon senso di dare a loro torto e permise che si aprissero in
Costantinopoli le cinquanta prime botteghe di caffè. Verso il
1650 si estese poi l'uso anche in Italia, Francia ed altri Stati.
- Si pagava caro allora?...
- Moltissimo: circa centoventi lire alla libbra.
- Avrei preferito comperare un barile di vino, - disse Enri-
156
co, ridendo. - E in queste isole della Sonda, è molto tempo
che lo si coltiva?...
- Dal 1690, anno nel quale gli Olandesi lo piantarono nel-
la loro splendida isola di Giava, diventata ora così celebre
per le sue ricche piantagioni di caffè.
- Signor Albani, - disse il marinaio, arrestandosi dinanzi
alla tettoia costruita dal mozzo. - Che ci siano delle altre
piante preziose in questi dintorni?... Gli antichi coloni po-
trebbero averne trasportate e coltivate delle altre.
- È possibile, Enrico. Domani faremo una passeggiata in
queste vicinanze. -
Essendo molto stanchi per quella lunga marcia, s'affretta-
rono a divorare alcuni biscotti intinti nel miele profumato
delle api selvatiche, regalandone alcuni a Sciancatello, alle
due scimmie ed agli orsi, poi si coricarono su di un soffice e
fresco strato di foglie senza prendersi la cura di montare la
guardia, sapendo che il mias non avrebbe lasciato avvicinar-
si alcuno.
Ai primi albori, dopo una parca colazione, il signor Alba-
ni ed Enrico si mettevano in cammino per esplorare quella
parte della foresta, mentre il mozzo rimaneva a guardia dei
due orsi in compagnia dello Sciancatello e delle scimmie. Di
passo in passo che si avanzavano lungo il margine della fo-
resta, incontravano tracce sempre evidenti di coltivazione. Si
vedevano dei solchi, ma appena tracciati, distrutti probabil-
mente dalle piogge o dalla invasione dei vegetali; dei tronchi
atterrati ma ormai infraciditi ed ora ricettacolo di migliaia
d'insetti; poi delle buche profonde, forse delle antiche trap-
pole per gli animali della foresta, e anche molti grossi rami
nettamente tagliati e accatastati con un certo ordine, come se
fossero stati messi a seccare.
157
Forse su quei tratti sgombri, un tempo molte piante utilis-
sime erano cresciute, ma i rotangs e le male erbe le avevano
senza dubbio soffocate dopo l'abbandono dei coloni, cre-
scendovi accanto o distendendovisi sopra.
Il signor Albani osservava tutto attentamente sperando di
scoprire altre piante, ma invano. Ad un tratto però, in mezzo
ad un caos di alte graminacee, di piante arrampicanti e di ra-
dici enormi, il suo sguardo acuto scoprì dei ciuffi di foglie
scannellate, armate di piccole spine nerastre, verdi sopra e
bianchiccie di sotto, sostenenti nel mezzo delle frutta ovali,
lunghe quindici o sedici pollici e con un diametro di dieci,
d'un bel colore giallo dorato.
- Degli ananassi! - esclamò, inoltrandosi e scostando le
radici e le erbe.
- Deliziosi! - esclamò il marinaio, che altre volte ne aveva
assaggiati. - Mi piacciono assai, signor Albani. Che siano
nati da loro?...
- Sì, ma importati dai misteriosi coloni che dissodarono
queste terre. Saranno diventati selvatici, ma trapiantandoli in
altri terreni e curandoli, torneranno a diventare squisiti. -
Raccolse una di quelle belle frutta che esalavano un odore
squisito e l'assaggiò. La polpa, che si fondeva in bocca, era
assai gustosa, ma così aspra da far sanguinare le gengive co-
me quella degli ananassi bianchi dell'India.
- Coltivate nel nostro campicello, diventeranno migliori, -
disse il veneziano. - Quando sarà giunto il momento di pian-
tarle, verremo qui a prenderle. -
Raccolsero le frutta mature, e proseguirono l'esplorazione
piegando verso la spiaggia, la quale era sempre coronata da
rupi altissime, sulle quali nidificavano centinaia di rondini
marine.
158
Stavano per intraprendere la scalata d'una di quelle rocce
per dare uno sguardo al mare ed alla costa, quando al mari-
naio parve di vedere una piccola apertura tenebrosa, semico-
perta da un ammasso di piante arrampicanti che si erano ab-
barbicate tenacemente ai crepacci.
- Una caverna? - si chiese egli, arrestandosi.
- Sarebbe una bella scoperta, - disse Albani.
- E perchè, signore?...
- Potrebbe servirci da magazzino ed in caso di pericolo
anche di rifugio.
- Infatti non siamo lontani dalla nostra capanna aerea.
Non vi sono che mille duecento o milletrecento metri. Ho
veduto or ora il tetto della nostra dimora.
- Non credevo che fosse così vicina. Andiamo a esamina-
re la caverna.
- Ci vorrà un lume, signore.
- Ecco là un albero gommifero che ci procurerà una buona
torcia, - disse il veneziano, indicando una isonandra gutta.
Il marinaio andò a tagliare alcuni rami, ne accese uno, poi
spostò la cortina di piante arrampicanti e s'inoltrò in
quell'apertura che pareva si allungasse assai entro la grande
rupe.
Un odore strano, come di sterco, colpì l'olfatto dei due
naufraghi, ma sporgendo innanzi la torcia per la tema di ca-
dere in qualche crepaccio, tirarono innanzi bensì con una
certa diffidenza.
Dinanzi a loro s'apriva un corridoio stretto, alto un metro
e mezzo, il quale scendeva dolcemente, descrivendo una
curva lievemente accentuata. Era però assai asciutto e non si
vedevano nè stalagmiti, nè stalattiti, l'assenza dei quali indi-
cava come non regnasse là dentro l'umidità.
159
Percorsi dieci passi, si trovarono improvvisamente dinan-
zi ad una grotta circolare, colla vôlta assai alta ed il suolo
sparso d'una sabbia finissima e bianchissima e anche questa
perfettamente asciutta.
Stavano per continuare l'esplorazione, avendo scorto
all'estremità un antro che pareva formasse un secondo corri-
doio, quando videro irrompere di là un nuvolo di quegli
enormi pipistrelli che i Malesi chiamano kulang ed i natura-
listi pteropus eduli.
Ebbero appena il tempo di gettarsi da una parte e di ab-
bassare la torcia. Quei brutti volatili attraversarono la grotta
sbattendo vivamente le loro enormi ali membranose, provo-
cando una rapida corrente d'aria, e fuggirono pel corridoio
che conduceva all'esterno.
- Al diavolo quei ributtanti pipistrelli!... - esclamò il mari-
naio. - Che ve ne siano degli altri?...
- Non lo credo, - rispose Albani. - Andiamo innanzi, Enri-
co. -
Il marinaio ed il suo compagno entrarono nel secondo
corridoio, che era basso e stretto come il primo, ma che
scendeva più rapido, e si trovarono in una seconda caverna
pure circolare ma più ampia della prima, poichè misurava
una circonferenza di almeno quaranta metri.
Quella caverna doveva trovarsi quasi a livello del mare,
poichè si udivano là dentro dei fragori prolungati, prodotti
senza dubbio dalle ondate che si rompevano ai piedi della
rupe.
- Vi è un foro lassù, - disse il marinaio, indicando una
apertura irregolare, grande come una moneta da cinque lire,
per la quale penetrava un po' di luce. - Andiamo a vedere se
si scorge il mare. -
160
Si era avvicinato alla parete per salire su alcuni massi ac-
catastati sotto quel pertugio, quando Albani lo vide arrestarsi
bruscamente, poi indietreggiare vivamente, esclamando:
- Terremoti e tuoni!... Un cadavere!... -
161
Capitolo XVIII
162
seccato.
- Che questo povero diavolo, sia stato ucciso?...
- Non vedo alcuna ferita sul suo corpo, Enrico.
- Avete ancora l'idea di utilizzare questa tomba?...
- Questa tomba, come tu la chiami, sarà una magnifica
cantina per conservare i nostri viveri. Seppelliremo la mum-
mia, se ti dà fastidio, e poi trasporteremo le nostre ricchezze.
- Quel morto mi fa un certo senso, signor Albani!
- Bah!... Usciamo e andiamo a trovare Piccolo Tonno. -
Fecero il giro della caverna per vedere se vi erano altre
mummie, raccolsero il kriss, arma preziosa per loro che non
possedevano che una scure e due coltelli ormai rovinati, ed
entrarono nella seconda. Stavano per uscire dal corridoio,
quando il marinaio s'arrestò di colpo, emettendo un urlo di
dolore.
- Enrico!... - esclamò il veneziano, balzando innanzi col
kriss in pugno.
- Qui.... aiuto!... Mi morde!... - urlò il genovese, con voce
rauca.
Il signor Albani abbassò gli sguardi e impallidì spavento-
samente. Un serpente, lanciatosi fuori dalle piante arrampi-
canti che ostruivano l'ingresso della caverna, aveva confic-
cati i suoi denti velenosi nel polpaccio della gamba sinistra
del disgraziato marinaio.
Quel rettile traditore era grosso come una bottiglia nera,
lungo poco più di due metri, col corpo coperto di squame
bruno-giallastre, scintillanti come scagliette d'oro e con due
cerchi biancastri situati dietro alla testa e che raffiguravano
perfettamente un paio di occhiali.
Il veneziano, senza badare al tremendo pericolo a cui si
esponeva, si era precipitato innanzi. Aveva riconosciuto in
163
quel rettile, il terribile serpente dagli occhiali, il cui morso
ben di rado perdona.
Il mostro, vedendo quel nuovo nemico, aveva lasciato il
marinaio e si era rizzato sulle sue anella dilatando enorme-
mente la sua gola, potendo, a volontà, aprire le sue due pri-
me costole.
Pronto come il lampo Albani tese il braccio e con un solo
colpo lo decapitò, poi balzando sopra il corpo che si contor-
ceva rabbiosamente, ricevette fra le braccia il marinaio. Sen-
za perdere un istante lo adagiò su di un cumulo di foglie sec-
che, gli rimboccò i calzoni mettendo a nudo il polpaccio, la-
cerò un fazzoletto, l'unico che possedeva, e legò strettamente
la gamba. Ciò fatto, senza pensare che poteva avvelenarsi,
applicò le labbra alla ferita, nel luogo ove scorgevansi due
leggieri puntini sanguinosi e aspirò fortemente, sputando a
più riprese.
Il marinaio, semi-svenuto, pareva che non vedesse nulla.
Pallido come un cadavere, coi lineamenti alterati, gli occhi
vitrei, la fronte coperta di sudore che doveva essere freddo,
respirava affannosamente, con grande stento.
Il signor Albani non era meno pallido del marinaio, nè
meno alterato. Anche la sua fronte era bagnata d'un sudore
freddo, ma operava senza perdere un istante. Egli non igno-
rava le terribili proprietà del veleno del serpente dagli oc-
chiali chiamato anche cobra-capello; sapeva che iniettato in
certa quantità, produce la morte in meno di un quarto d'ora.
Egli tentava tutte le risorse suggeritegli dall'esperienza,
ma aveva ben poca fiducia di riuscire a salvare il disgraziato
compagno. Solo un miracolo poteva strapparlo alla morte.
Succhiata la ferita, mezzo eroico ma pericolosissimo, poi-
chè poteva bastare una ferita impercettibile alle labbra o alle
164
gengive per avvelenare il generoso uomo, impugnato il col-
tello aveva fatto sul polpaccio morsicato una profonda inci-
sione in forma di croce.
Colle dita allargò il taglio facendo, con un'energica pres-
sione, schizzare fuori il sangue, poi raccolta la torcia che era
ancora accesa e la cui punta era ormai un carbone ardente,
l'applicò sull'incisione.
Il marinaio, sentendosi bruciare la viva carne, trabalzò co-
me fosse stato toccato da una scarica elettrica di grande po-
tenza, urlando con voce rotta:
- Cosa.... fate.... signore!...
- Calmati, Enrico, cerco di salvarti, - rispose Albani con
voce commossa.
- Mi.... calcinate.... le carni.... signore....
- È necessario, amico mio. -
Il marinaio si dibatteva, ma il veneziano lo teneva come
inchiodato colla sua destra, mentre colla sinistra continuava
a bruciare le carni.
- Terremoto.... basta! - urlò il marinaio.
- Sì, basta, - rispose l'Albani, ritirando la torcia.
- Soffro.... mi pare che il cuore mi si geli.... Signor Alba-
ni.... è finita.... Ed eravamo.... così felici!... L'avete
almeno.... ucciso?...
- Sì, - rispose il veneziano, tergendosi rapidamente due la-
grime che gli rotolavano per le gote.
- Signore.... ho la testa che mi.... gira.... Mi pare che.... il
cervello bruci.... E Piccolo Tonno?... Voglio.... vederlo.... vo-
glio.... -
Non potè finire. Le forze improvvisamente lo abbandona-
rono e ricadde indietro cogli occhi stravolti, coi lineamenti
alterati. Solamente il suo corpo, di quando in quando, prova-
165
va dei sussulti e dalle labbra gli usciva un sibilo precipitato.
Il signor Albani lo guardava con due occhi smarriti come
se temesse, da un istante all'altro, di vedere il disgraziato
compagno morirgli dinanzi.
Un grido lo strappò da quella muta disperazione. Piccolo
Tonno era improvvisamente comparso sul margine della fo-
resta.
- Gran Dio!... - esclamò il mozzo. - Cosa è accaduto, si-
gnor Albani?... Enrico!...
- Taci, - gli disse il veneziano.
- Ditemi cosa è accaduto, signore.
- E stato morso da un serpente.
- E muore?...
- Non disperiamo, ragazzo mio, - disse Albani, frenando
le lagrime.
- Ah!... Salvatelo, signor Albani!... - esclamò il mozzo,
scoppiando in singhiozzi. - Voi che sapete tante cose, potete
strapparlo alla morte.
- Ho fatto tutto ciò che potevo.
- Avete qualche speranza?...
- Forse.
- Ma ditemi....
- Taci, Piccolo Tonno. Va a cercarmi dell'acqua.
- Ho la mia fiasca piena. Prendete, signore. -
Albani prese la fiasca che il ragazzo gli porgeva e lavò il
sangue che continuava a sgorgare dalla ferita, poi vedendo
che il polpaccio del marinaio si era notevolmente gonfiato,
slegò il fazzoletto e lo annodò più sopra per evitare la perdi-
ta del membro offeso.
Enrico pareva sempre svenuto. Però a poco a poco il suo
pallore acquistava una tinta meno sbiadita e la sua respira-
166
zione, dapprima affannosa, accennava a diventare più tran-
quilla, più regolare.
Albani gli tastò il polso e s'accorse che non era più agita-
to. Una viva commozione gli si dipinse sul viso.
- Piccolo Tonno, - disse al mozzo, che continuava a sin-
ghiozzare. - Sta per compiersi un miracolo che pochi minuti
or sono non speravo.
- Riuscirete a salvare Enrico?...
- Comincio a sperarlo.
- Non era adunque velenoso quel serpente?...
- Anzi dei più velenosi, poichè i cobra-capello o serpenti
dagli occhiali uccidono l'uomo più robusto in un quarto
d'ora e quasi mai si possono salvare le persone morsicate.
- Ma siete certo che non morrà?...
- Il quarto d'ora è già trascorso ed Enrico è ancora vivo,
anzi pare che migliori. Guardalo: ora dorme. -
Infatti il marinaio era caduto in un profondo letargo, ma i
colori gli erano tornati sul viso e la sua respirazione diventa-
va sempre più regolare. Come era sfuggito alla morte?...
Quale miracolo si era compiuto?... Albani, è vero, aveva
operato rapidamente tentando tutti i mezzi conosciuti, ma
non sempre efficaci, specialmente contro i morsi di quei ter-
ribili serpenti del tropico, che secernono un veleno dieci vol-
te più potente di quello delle nostre vipere.
Forse i calzoni di tela grossa del marinaio avevano assor-
bito gran parte del mortale liquido, nel momento che i denti
del rettile li attraversavano o forse il rettile aveva esaurita
poco prima la sua riserva.
- Va' a vedere sotto quelle piante arrampicanti, - disse Al-
bani al mozzo. - Voglio trovare la causa di questa guarigione
miracolosa. Il cobra è uscito di là, nel momento che Enrico
167
passava.
- Cosa sperate che io trovi? - chiese il mozzo, sorpreso. -
Qualche rimedio forse?
- No, ma forse la certezza che Enrico non morrà. -
Piccolo Tonno s'armò d'un grosso ramo d'albero e si cac-
ciò fra le piante, che scendevano lungo le pareti della grande
rupe come una fitta cortina. Poco dopo ritornava, trascinan-
do per la coda uno di quei grossi scoiattoli volanti chiamati
pteromys.
- Signor Albani, - disse, - ho trovato questo animale che
potrà servirci da pranzo. Mi pare che sia stato ucciso di re-
cente.
- Da' qui, ragazzo mio, - rispose il veneziano, raggiante.
Afferrò il pteromys e s'accorse che era ancora leggiermente
tiepido, segno evidente che era stato ucciso da forse
mezz'ora.
Esaminatolo, vide subito su di un fianco due profondi fo-
ri, regolarissimi, dai quali uscivano ancora poche goccie di
sangue.
- Ecco chi ha salvato Enrico!... - esclamò con gioia.
- Come!... Questo scoiattolo ha salvato il nostro compa-
gno? - chiese Piccolo Tonno, sempre più stupito.
- Sì, ragazzo mio. Il cobra, pochi istanti prima che noi
uscissimo dalla caverna, aveva sorpreso questo animale sca-
ricando su di lui tutta la sua provvista di veleno, sicchè
quando ha morso Enrico era divenuto se non del tutto inof-
fensivo, poco pericoloso. Rallegriamoci, Piccolo Tonno: En-
rico guarirà e forse molto presto. Le mie cure pronte hanno
bastato per strapparlo alla morte.
- Infatti Enrico ora dorme tranquillo, signore.
- E lo lasceremo dormire. Metteremo qui il nostro campo
168
per ora.
- Volete che mi rechi alla capanna?
- Sì, Piccolo Tonno. Andrai a prendere un pezzo di vela
per riparare Enrico dal sole, delle provvigioni e torcerai il
collo ad un paio di tucani per preparare del brodo al nostro
ammalato.
- E condurrò gli orsi nel recinto. -
Il ragazzo partì correndo verso il luogo ove aveva lasciato
le scimmie e gli orsi ed il signor Albani si sedette accanto al
marinaio, attendendo ansiosamente che si svegliasse.
Ormai era certo della guarigione di lui, poichè solamente
una parte infinitamente piccola di veleno doveva essergli
stata iniettata. Il genovese aveva riacquistato il colore primi-
tivo, un bel bruno leggermente dorato, aveva il polso regola-
re, la respirazione libera, naturale, ed erano scomparsi i bri-
vidi ed anche il freddo sudore che inondavagli la fronte.
Quel riposo, che si prolungava, doveva produrgli un note-
vole miglioramento e rimetterlo in forze.
Un'ora dopo Piccolo Tonno era di ritorno accompagnato
da Sciancatello e dalle due scimmie cariche di provviste.
Aveva condotti i due orsi nel recinto, aveva fatta una visita
alla capanna aerea che aveva ritrovata nel medesimo stato in
cui l'avevano lasciata ed al magazzino dei viveri ed aveva
torto il collo ai due più grossi tucani.
Fu rizzata la tenda per proteggere il marinaio dal sole, poi
accesero il fuoco e misero a bollire il volatile più grasso per
preparare una buona zuppa al povero ammalato.
Ciò fatto, sedutisi all'ombra, attesero pazientemente che il
compagno si svegliasse.
169
Capitolo XIX
I babirussa
170
sta tazza di brodo e poi torna a chiudere gli occhi. Il riposo ti
farà molto bene.
- Lo credo anch'io, signore. Mi sento invadere da una
nuova sonnolenza irresistibile. -
Vuotò la tazza di brodo, poi ingollò alcuni sorsi di tuwak,
quindi tornò a coricarsi. Pochi minuti dopo s'addormentava
ma non era un assopimento, era un vero sonno.
Durante l'intera giornata il signor Albani ed il mozzo, ve-
gliarono accanto al ferito in compagnia di Sciancatello il
quale, vedendo il suo amico coricato, di tratto in tratto rom-
peva in gemiti lamentevoli.
Verso il tramonto, il marinaio, che si sentiva meno debole
ed in appetito, mangiò una coscia di tucano e stritolò un bi-
scotto, innaffiando la cena con una nuova e più abbondante
sorsata di tuwak.
I suoi compagni erano contentissimi di quella rapida e ve-
ramente prodigiosa guarigione. Lo stesso marinaio, che al
mattino si credeva già spacciato, era meravigliato.
- Quasi si potrebbe credere che i serpenti dagli occhiali
non sono così velenosi come raccontano i viaggiatori, -
diss'egli. - Dovevo morire in un quarto d'ora ed invece sono
più vivo di prima.
- Puoi ringraziare quel povero scoiattolo, che ha ricevuto
prima di te la provvista di veleno del rettile, - disse Albani. -
Senza quel fortunato caso, saresti morto.
- Malgrado le vostre cure?...
- Sono mezzi che riescono contro i morsi delle vipere, ma
assai di rado contro quelli dei cobra-capello o dei serpenti
del minuto o dei sonagli.
- Ma dove hanno il loro magazzino di veleno, quei danna-
ti rettili?... Nei denti forse?...
171
- In una glandola situata nella mascella superiore. Basta
una leggiera pressione perchè il liquido mortale esca e scen-
da attraverso i denti per mezzo di due appositi canaletti.
- E si muore sempre?...
- Sempre proprio no, poichè dipende dalla maggiore o mi-
nor quantità di veleno iniettato nella ferita. Una piccola dose
può cagionare solo una breve malattia, o dei gravi disturbi
che possono, dopo un dato tempo, produrre la morte. Certi
altri serpenti, pure velenosi, producono sovente delle malat-
tie assai strane, ma senza uccidere. Sono gonfiezze dolorose,
che si riproducono tutti gli anni nell'epoca istessa in cui se-
guì il morso, eruzioni di vesciche che durano parecchi mesi
e che continuano a ripetersi ogni anno, causando alle vittime
dolori di capo, debolezze e oppressioni di cuore.
- E quando si riceve tutta la scarica di veleno, si muore
presto?...
- Ecco: il minute-snake o serpente del minuto, che è uno
dei più piccoli, essendo lungo appena venti centimetri, ucci-
de ordinariamente in novantasei secondi; il cobra-capello,
come ti dissi, in un quarto d'ora; i serpenti a sonagli pure in
quindici minuti ma talvolta in due soli; il serpente di Giava
in cinque minuti, ma alcuni uomini vissero pure dieci e per-
fino sedici giorni; la vipera europea può uccidere un bambi-
no in un'ora ma un adulto vive anche alcune settimane.
- È vero, signore, che il veleno si può bere impune-
mente?...
- Qualche volta sì, specialmente quando lo stomaco non
ha compiuta la digestione, ma è sempre pericolosissimo,
poichè se si mescola al sangue per mezzo di qualche piccola
escoriazione, l'uomo è perduto.
E poi, non tutti i veleni si possono inghiottire. Ve ne sono
172
alcuni, che sono così potenti, che basta bagnarsi un dito per
venire presi da leggieri sintomi di avvelenamento. Special-
mente quello dei rettili tropicali, può venire assorbito dai po-
ri della pelle. Ma basta coi serpenti, amico mio; torna a cori-
carti e domani, se ti potrai reggere, faremo ritorno alla nostra
capanna aerea.
- Zoppicando, ma ci verrò, signor Albani. Mi pare che sia
trascorso un mese dalla nostra partenza.
- A domani dunque. -
Piccolo Tonno aveva acceso il fuoco per tenere lontane le
fiere, avendo scorte sui margini di quella foresta delle orme
che potevano essere state fatte dalle tigri, e si era seduto fuo-
ri della tenda assieme al mias, per fare il suo primo quarto.
Il signor Albani si coricò presso al marinaio che comin-
ciava già a russare, quantunque avesse dormito quasi tutta la
giornata.
Durante la notte vi fu un allarme, nell'ultimo quarto di
guardia, essendo state scorte delle grosse ombre vagare pres-
so il margine del bosco, ma senza conseguenze, poichè bastò
la presenza del mias per fugarle.
Quando Enrico si svegliò, pareva ormai perfettamente
guarito. Solamente la gamba era un po' gonfia e la piaga pro-
dotta dalla bruciatura gli produceva dei dolori acuti.
Nondimeno volle partire, desiderando ardentemente di ri-
vedere la capanna e sopratutto il fornello per preparare le fa-
mose ciambelle.
Lo Sciancatello ed il mozzo si caricarono della tenda, del-
le armi e dei viveri, ed Enrico, appoggiatosi al braccio del
veneziano, diede coraggiosamente il segnale della partenza.
Zoppicava assai e di tratto in tratto impallidiva per gli spasi-
mi che soffriva, pure non emetteva alcun gemito.
173
Arrestandosi ogni due o trecento passi per concedere al
ferito un po' di riposo, verso le nove giungevano a cinque-
cento passi dalla capanna aerea, attorno alla quale svolazza-
vano, gridando e cinguettando, bande di pappagalli colle
penne variopinte e stormi di rondini marine.
Si erano arrestati per concedere ad Enrico un ultimo ripo-
so, quando scorsero le loro due scimmie scendere a precipi-
zio i pali di sostegno della capanna e arrestarsi presso una
buca, che era stata scavata sul margine della piantagione di
bambù per prendere la grossa selvaggina.
I due quadrumani parevano in preda ad una viva agitazio-
ne; gridavano, saltellavano attorno alla buca e alzavano e di-
menavano le loro lunghe e pelose braccia.
- Cosa succede laggiù? - chiese il mozzo. - Che le nostre
scimmie vogliano fare un capitombolo nelle trappole?
- O che qualche loro compagna sia caduta entro?
- Non si troverebbe imbarazzata a uscire, - rispose il ve-
neziano.
- Ma urlano proprio sui margini di una delle buche che
abbiamo scavate per la grossa selvaggina, signor Albani, -
disse il mozzo.
- Sarà caduto qualche animale. Affrettiamoci, amici, e
preparate le cerbottane, poichè potrebbe essere qualche tigre.
-
Allungarono il passo sorreggendo il marinaio ed in pochi
minuti giunsero sull'orlo della buca. Come il veneziano ave-
va preveduto, lo strato di leggiere canne che copriva la trap-
pola aveva ceduto sotto il peso d'un grosso animale, il quale
ora si trovava prigioniero in fondo all'escavazione.
Era grande come un cervo ma somigliava, per le forme,
ad un maiale, quantunque avesse le gambe molto più alte e
174
più sottili. Aveva però il collo egualmente grosso, il grugno
sporgente ma armato di due denti ricurvi e solidi, che parten-
do dalla mascella superiore salivano fino agli occhi. Il suo
pelo era invece cinereo-rossiccio, corto e lanoso.
- Cos'è? - chiesero il marinaio ed il mozzo.
- Un babirussa - rispose Albani, - un animale che appar-
tiene all'ordine dei pachidermi moltungulati ma che forma
un genere particolare della famiglia dei porci.
- È buona la sua carne? - chiese il marinaio.
- Somiglia a quella del porco.
- Guardate, signore! - esclamò in quell'istante il mozzo. -
Vi sono anche due piccini.
- Buono! - disse il veneziano. - Ecco che il nostro recinto
comincia a popolarsi: due orsi, tre scimmie, tre babirussa ed
una uccelliera discretamente fornita!... In tre settimane ab-
biamo ottenuto più di quanto potevamo sperare ed il vitto è
ormai assicurato. Alla capanna, Piccolo Tonno; festeggiere-
mo il lieto avvenimento e la guarigione del nostro bravo En-
rico con un banchetto.
- Ed io vi offrirò delle ciambelle, - disse il marinaio. -
Sciancatello!... Spero che avrai risparmiato il mio miele.... -
175
.......il ragazzo si permise il lusso d'una trottata, in compagnia
delle due scimmie e dello Sciancatello.... (Pag. 138).
176
Capitolo XX
Nuove scoperte
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Le sue escursioni non erano improduttive, poichè tutte le
sere ritornava alla capanna o con delle pianticelle, che si af-
frettava a piantare nel terreno dissodato, o con delle nuove
frutta.
Aveva già scoperte altre patate dolci, certe specie di cipol-
le squisite, dei tuberi che somigliavano alle rape ed aveva
portate parecchie frutta d'artocarpo e di più specie: delle buâ
mangha (artocarpus integrifolia) che sono di dimensioni
enormi pesando perfino sessanta chilogrammi; delle buâ
champandak, varietà più piccola, ma più dolce e più delica-
ta, e dei tambul (artocarpus incisa o albero del pane).
Il bravo veneziano aveva fatto servire quella polpa gialla-
stra cucinata nel forno, in pentola e sui carboni e l'aveva per-
fino adoperata, con molto successo, nella preparazione di
certi pasticci, ma una parte l'aveva messa in serbo seppellen-
dola entro buche scavate in terra, dopo d'averla avvolta entro
foglie di banani.
Così conservata, quella polpa diventava leggiermente aci-
da dopo un certo tempo, ma non disaggradevole e serviva a
variare il solito pane.
Non era però ancora contento il brav'uomo. Mentre i suoi
compagni, terminato il dissodamento del campicello si occu-
pavano a scavare una profonda buca presso la sponda, vo-
lendo arricchirsi anche d'un vivaio di pesci, continuava a
percorrere con accanimento le foreste per cercare degli albe-
ri che riteneva indispensabili.
Un giorno finalmente, i due marinai lo videro tornare al
campo raggiante di gioia. Recava una specie di palla grossa
come la testa d'un fanciullo, coperta da filamenti duri e ros-
sicci.
- Cosa ci recate, signore? - chiese il marinaio.
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- Ciò che cercavo con tanto accanimento, - rispose il ve-
neziano. - Ero certo di trovarla su quest'isola.
- Mi pare che sia una noce di cocco, se non m'inganno.
- Sì, è una noce di cocco, Enrico. Ho scoperto una cin-
quantina di piante.
- Ma.... signore, - disse il marinaio con aria imbarazzata. -
Non so davvero il perchè vi siete tanto affannato a cercare le
noci di cocco. Contengono della deliziosa acqua zuccherata
e una polpa che si mangia volentieri, ma nella foresta ci so-
no delle frutta migliori.
- T'inganni, Enrico. Dimmi, marinaio, non ti piacerebbe
aver a tavola un bicchiere di buon vino bianco?...
- Certo, signore, e mi sorprende che mi domandiate se sa-
rei contento. È un bel pezzo che non bevo un po' di succo di
quel grand'uomo di Noè.
- E un piatto di cipolle condite coll'olio?...
- Terremoti di Genova!... Un piatto di cipolle all'olio!...
Rinuncierei alle ciambelle!...
- E un buon bicchiere di latte!...
- Lampi!...
- E un liquore che somiglia all'acquavite?
- Tuoni!...
- E una bella rete per pescare? O delle soffici stuoie per
dormire?
- Corna di cervo!...
- Ebbene, amico mio, queste noci di cocco possono darci
tuttociò. -
Il marinaio guardò il signor Albani con due occhi che pa-
reva gli volessero uscire dalle orbite.
- Scherzate? - chiese.
- No, Enrico: le piante delle noci di cocco sono preziose
179
quanto i bambù e forse più ancora. Se hai sete, prendi una
noce ancora acerba e troverai dentro dell'acqua fresca e zuc-
cherata. Vuoi dell'olio?... Non hai che da spremere la polpa
d'una noce matura, ma non bisogna lasciarlo diventare ranci-
do, poichè allora acquista un gusto sgradevole pei palati de-
gli europei, mentre è un pregio di più per quello dei Malesi.
Se vuoi del latte basta mescolare la polpa all'acqua. Se vuoi
del vino bianco, si espone il liquido al sole, si lascia fermen-
tare ed ecco fatto. Se poi vuoi dell'acquavite, non hai altro
che filtrare il latte attraverso un panno e lasciarlo fermentare
per un certo numero di giorni.
- Ma le reti?
- Le giovani fronde posseggono dei filamenti sottili ma
resistenti, che si possono adoperare come filo. Gran numero
di popoli se ne servono per fabbricare delle bellissime reti,
mentre coi filamenti che avvolgono le frutta tessono delle
stuoie, fanno delle corde e anche della tela un po' grossolana
bensì, ma resistente.
- Allora il nostro vivaio è assicurato, signor Albani, - disse
il marinaio, che pareva volesse scoppiare dalla contentezza.
- Delle reti!... Ma io so intrecciarle e prenderò tanti pesci da
riempire cento buche!... Ehi!... Piccolo Tonno!... Manda un
evviva o io faccio quattro salti mortali e mi rompo il collo. -
Ad un tratto s'interruppe bruscamente, si grattò la testa
più volte con aria imbarazzata, poi avvicinandosi al signor
Albani, disse:
- Ascoltatemi, signore.... Voi che sapete trovare mille cose
utili per noi, non potreste cercare se in quest'isola cresce
qualche pianta di tabacco?... Per Bacco!... È un mese che
non tiro una boccata di fumo, nè che metto sotto i denti una
misera cicca.
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- Tu mi domandi una cosa veramente impossibile, - disse
il veneziano. - Su queste isole il tabacco non cresce allo sta-
to selvaggio, ma si può trovare da surrogare la cicca.
- Con che cosa, signore? - chiese il marinaio, guardandolo
con occhi ardenti.
- Sai cosa masticano i Malesi?...
- Il siri.
- Hai mai provato a masticarlo?...
- Mai, signore.
- Eppure non è cattivo e quantunque annerisca i denti è
molto meno velenoso del tabacco. Tutti i popoli della Male-
sia, dell'Indo-Cina e anche dell'India meridionale lo usano.
Vuoi provarlo?...
- Ma sapete prepararlo?... Ah!... Se potessi averne, vorrei
provare.
- Allora seguimi. Dedicheremo questa mezza giornata a
preparare il siri. -
Il veneziano condusse il marinaio, il quale era ormai per-
fettamente guarito, nella foresta e si arrestò sotto una bella
palma colle foglie disposte a ventaglio, dal cui centro pende-
vano dei grappoli di noci di colore oscuro.
- Cos'è questa pianta? - chiese il marinaio.
- Una palma pinang e quelle noci sono le areca adoperate
nella composizione del siri. -
Abbracciò la palma e la scosse vigorosamente, facendo
cadere una pioggia di noci già ben mature.
Stava raccogliendole, quando girando gli sguardi scorse
un arbusto arrampicante avviticchiato ad una giovane pianta
gommifera.
- To'! - esclamò. - Senza tante ricerche abbiamo già sotto-
mano le foglie aromatiche del betel.
181
- Dove sono? - chiese il marinaio.
- Va a raccogliere alcune foglie di quella pianta arrampi-
cante. Ora non ci occorre che un po' di succo amaro e astrin-
gente del gambir. Se ben ricordo, devo aver veduto delle
piante presso quella macchia di alberi e....
- Che cosa?... -
Il veneziano non rispose: colla testa alzata guardava con
vivo interesse alcune piante di alto fusto e d'aspetto maesto-
so, che prima non aveva vedute.
- Ebbene, signore? - chiese il marinaio, sorpreso di non ri-
cevere risposta.
- Enrico, abbiamo fatto un'altra scoperta straordinaria, -
disse Albani. - Ora non ci mancheranno più nemmeno le
candele.
- Le candele!...
- Sì, Enrico. La stagione delle pioggie non è lontana e mi
crucciavo, pensando che saremmo stati costretti a passare
delle serate piuttosto lunghe senza un po' di luce.
- Ma dove vedete queste candele?... Avete scoperto un al-
tro alveare?...
- Meglio ancora: degli alberi che producono la cera.
- Corna di rinoceronte!... Anche degli alberi che dànno le
candele!... Ma adunque anche in un'isola deserta si possono
procurarsi tutti gli agi della vita, quando si è sapienti come
voi?
- Guarda quegli alberi. -
Il marinaio guardò nella direzione indicata e scorse un
gruppo di piante colossali, alte più di quaranta metri, con un
diametro di un metro e venti o trenta centimetri, coperte d'un
ammasso di foglie verdi-cupe, in mezzo alle quali si scorge-
vano delle frutta che somigliavano alle prugne.
182
- Che giganti!... - esclamò il marinaio. - Come si chiama-
no?...
- Nell'Indo-Cina vengono chiamati cay-cay.
- Ma dov'è la cera?...
- Rinchiusa nelle frutta.
- Oh!... Questa è strana.
- Quando le frutta sono mature, e lo sono ora, si raccolgo-
no e si mettono al sole fino a che la polpa si distrugga natu-
ralmente e non rimanga che il nocciuolo.
Allora si spezzano e si raccolgono le mandorle le quali
sono quelle che contengono la cera.
- Una cera simile a quella delle api?...
- Più grassa, poichè sembra burro indurito. Le mandorle
dapprima si mettono in un mortaio di legno o di pietra, poi si
schiacciano per bene finchè sono ridotte in pasta, quindi
questo si scalda e si spreme facendo uscire la cera.
- E se ne ricava molta, da una mandorla?...
- In media ce ne vogliono cinquecento per averne un chi-
logramma.
- E brucia bene?...
- Benissimo, non fa odore e la sua fiamma è assai viva.
- Si mette anche in commercio quella cera?...
- Sì, Enrico. Si formano dei pani del peso di due o tre chi-
logrammi e si vendono a buon prezzo. La cera che si ottiene
dapprima è giallastra, ma al contatto dell'aria a poco a poco
si schiarisce e le candele che si fabbricano sono di bell'aspet-
to come le altre.
- Ma sapete, signor Albani, che è una cosa assai meravi-
gliosa?... Io non avevo mai saputo che ci fossero degli alberi
che potessero surrogare le api.
- Ve ne sono altri, specialmente nell'America del Sud, ma
183
in quelle piante la cera si trova sotto le foglie in forma di
sottili laminelle.
- Bisogna venire a raccogliere queste mandorle, signore?
- Sì, Enrico e dobbiamo andare a raccogliere anche le no-
ci di cocco prima che maturino troppo.
- Ma come faremo a portare tante cose alla capanna?... Ci
vorrebbero quindici giorni.
- Lo so e bisognerà costruire un ruotabile.
- Una carriuola?...
- Qualche cosa di meglio e di maggior capacità. Il babi-
russa comincia ad addomesticarsi e lo faremo servire da asi-
no.
- Bell'idea, signor Albani. Ma.... e il nostro siri? Occorre
altro per prepararlo?
- Mi dimenticavo l'uncaria. Andiamo a vedere laggiù in
quel macchione. -
Si diressero verso il margine della boscaglia e dopo d'aver
visitate accuratamente parecchie macchie, scoprirono final-
mente la pianta desiderata.
Era un frutice sarmentoso coperto d'una corteccia bruno-
rossastra, con rami cilindrici e foglie lanceolate munite di
spine ricurve.
Il veneziano fece un'incisione e raccolse, in un pentolino
di terra, il succo che scolava.
- Il siri sarà pronto per questa sera, - disse poi. - Basta ri-
durre in polvere le noci d'areca, mescolarle col succo
dell'uncaria gambir concentrata e avvolgere la pasta in un
pezzetto di foglia aromatica di betel. I Malesi, per rendere il
siri più piccante, vi mescolano un pizzico di calce viva che
ottengono abbruciando delle conchiglie, ma senza è preferi-
bile.
184
Ecco le tue cicche, marinaio: spero che ti abituerai e che
sarai contento. -
185
Capitolo XXI
186
Provarono a tagliare il tronco d'un albero ma il ferro della
scure rimbalzava sulle fibre legnose, non avendo ormai più
il filo.
Stavano per rinunciare, disperando ormai di riuscire,
quando un giorno il mozzo, che si era spinto molto lontano
lungo le sponde del mare per raccogliere gli uccelli che si la-
sciavano prendere sui rami coperti di vischio, fece una sco-
perta importante.
Su una costa aveva trovato delle vere pietre arenarie, di
dimensioni non piccole. Ritornò precipitosamente alla ca-
panna a portare la lieta notizia.
Si poteva ormai dire che anche la questione delle ruote
era risolta. Il veneziano lasciò che il marinaio si occupasse
del ruotabile e intraprese la costruzione d'una macchina da
arrotino.
Confricando le pietre le une contro le altre e bagnandole,
riuscì ad arrotondarne una. La montò su di una cassetta, co-
struì una manovella e finalmente riuscì ad arrotare la sua
scure ed anche i coltelli dei marinai.
Quelle armi, maneggiate pazientemente, furono sufficienti
per tagliare due pezzi d'un tronco d'albero ben rotondo, d'un
diametro considerevole. S'intende che quelle ruote erano
piene come quelle che vengono adoperate dai boers del Ca-
po di Buona Speranza, ma in fatto di solidità potevano dare
dei punti alle altre.
Il 1^o ottobre i naufraghi, dopo d'aver fatta una bardatura
di tela da vele doppiata, attaccarono il babirussa sotto il car-
retto. L'animale, quantunque ormai avesse perduta la sua sel-
vatichezza, mercè le continue e assidue cure di Piccolo Ton-
no, dapprima si mostrò ricalcitrante, ma dopo parecchie pro-
ve finì coll'abituarsi ed il ragazzo si permise il lusso d'una
187
trottata fino alla piantagione di bambù in compagnia delle
due scimmie e dello Sciancatello il quale, con una gravità
comica, impugnava fieramente una frusta regalatagli da En-
rico.
La mattina dopo, essendosi il tempo rimesso al bello, i
Robinson abbandonavano la loro casa per recarsi nelle fore-
ste a raccogliere le noci di cocco e le mandorle dei cay-cay.
Lo Sciancatello li accompagnava, essendo incaricato di
salire sugli alberi; le due scimmie invece, che ormai non
pensavano più a riacquistare la libertà, erano state lasciate a
guardia dei recinti.
Il babirussa procedeva bene; si era abituato facilmente al-
la bardatura e guidato dal mozzo, tirava senza sforzo appa-
rente quel primitivo carrettone, quantunque dovesse essere
non poco pesante.
Raggiunto il margine del bosco arrestarono l'animale, non
potendo il veicolo entrare fra quegli alberi e lo Sciancatello,
il marinaio ed il signor Albani si misero a raccogliere le
mandorle dei cay-cay e le noci di cocco le cui piante non
erano molto lontane.
Quelle frutta messe in sacchi di tela, venivano poi portate
al margine del bosco e caricate sul veicolo.
Durante una di quelle gite, il marinaio fece una scoperta
assai strana, che li preoccupò assai. Mentre si era curvato a
terra per raccogliere il coltello che gli era caduto, i suoi
sguardi erano stati attirati da un piccolo oggetto che scintil-
lava fra alcune foglie disseccate.
Dapprima lo credette un pezzo di vetro o una scaglietta di
mica, ma indovinate quale fu la sua sorpresa, nel riconoscere
invece una capsula di fucile non ancora sparata!...
- Signor Emilio! - esclamò, con un'emozione che è facile
188
immaginare. - Guardate!...
- Una capsula! - esclamò il veneziano, aggrottando la
fronte. - Chi può averla perduta? -
La prese e si mise ad esaminarla girandola e rigirandola
fra le dita e cercando, ma invano, qualche segno, qualche
marca che potesse indicargli la provenienza o la fabbrica.
- Cosa dite, signore? - chiese il marinaio.
- Dico, - rispose Albani con voce grave, - che qualcuno si
è spinto fin qui.
- Ma chi?...
- Udiamo: sei certo di non averne avuta una nelle tue ta-
sche?...
- Certissimo, signore.
- E Piccolo Tonno?...
- Nemmeno, poichè il solo capitano aveva la chiave
dell'armeria di bordo.
- Allora su quest'isola sono sbarcati degli uomini e sono
venuti a ronzare sul margine del bosco.
- Ma chissà quanto tempo fa.
- No, Enrico, qualche giorno fa, poichè questa capsula è
ancora lucente come se fosse appena levata dalla scatola. Se
fosse stata smarrita da una settimana, l'umidità delle notti
l'avrebbe ben presto ossidata.
- È vero, signore. Ma chi credete che siano gli uomini che
l'hanno perduta?... Dei naufraghi forse?...
- Se fossero persone oneste sarebbero venuti a trovarci,
poichè dal margine di questa foresta si distingue benissimo
la nostra casa. Devono essere degli uomini che hanno inte-
resse a tenersi nascosti.
- Ma chi? Dei pirati delle Sulu, forse?...
- Chi può dirlo? Quel fumo che io ho scorto dall'alto della
189
montagna e quella luce, indicavano il loro accampamento,
ora sono certo di non ingannarmi.
- Ma cosa vorranno quegli uomini?... Assalirci per sac-
cheggiarci, forse?...
- Può darsi.
- Mi mettete delle inquietudini. Bisogna prendere una de-
cisione, signore: non possiamo vivere sotto la minaccia di
venire da un istante all'altro assaliti.
- Lo so e la decisione l'ho presa.
- E quale sarebbe?
- Costruirci un canotto e perlustrare tutte le coste. Se que-
gli uomini sono accampati verso il sud, scopriremo la loro
capanna o la loro scialuppa.
- E abbandoneremo a loro la casa aerea ed i nostri raccol-
ti?...
- Qualcuno di noi rimarrà a guardia, Enrico, e cercheremo
intanto di fortificare la nostra piccola possessione. Spero, del
resto, che quegli sconosciuti nulla intraprenderanno contro
di noi durante la stagione delle piogge.
Non occupiamoci di loro per ora e pensiamo a riempire i
nostri magazzini. -
Ripresero la raccolta delle noci e delle mandorle e quando
il carretto fu ben carico, fecero ritorno alla loro abitazione.
Alla notte però, per prudenza, stabilirono i quarti di guar-
dia. Non sapendo ancora chi erano quegli uomini sbarcati
nell'isola, nè conoscendo le loro intenzioni, la più elementa-
re prudenza li consigliava a vegliare.
Nessuna persona però, fu veduta ronzare nei dintorni dei
recinti, nè quella notte, nè in quelle seguenti. Senza dubbio
quegli sconosciuti non avevano più osato inoltrarsi in quella
parte dell'isola e chissà, forse al pari dei naufraghi si teneva-
190
no lontani, temendo qualche brutta sorpresa.
Intanto il veneziano ed i suoi compagni continuavano a
riempire i loro magazzini.
Tutti i giorni si recavano nella foresta e ritornavano col
carretto carico di noci di cocco, di frutta d'artocarpo, di man-
dorle di cay-cay, di banani che poi mettevano in conserva
nello sciroppo estratto dalle arenghe saccharifere e anche di
nuova farina per rinnovare la loro provvista di pane.
Il veneziano aveva scoperte altre piante che ne davano di
quella migliore e più abbondante. Aveva trovato, ai piedi
della montagna, quei sagù che prima aveva cercato con tanta
ostinazione ma con esito negativo.
Quegli alberi, che crescono dovunque nelle isole Indo-
Malesi, anche allo stato selvaggio, non avendo bisogno di
coltura, sono alti dai tre ai quattro metri, grossi uno e porta-
no un ciuffo di grandi foglie.
Dopo sette anni si possono tagliare e allora dànno ognuno
circa centocinquanta chilogrammi d'una fecola biancastra,
simile alla farina che produce il frumento.
Quella fecola è racchiusa nel tronco, fra gl'interstizii di
una densa rete di fibre. Tagliato l'albero in varii pezzi, con
una mazza si fa uscire la polpa, la si passa allo staccio con
un po' d'acqua e s'impasta formando dei pani.
Leggiermente torrefatta, può servire come minestra ed è
eccellente.
Anche il succo che esce dal tronco inciso e che scola ab-
bondantemente è buono, poichè offre una bevanda zuccheri-
na, gratissima e salubre, ma ha l'inconveniente di fermentare
rapidamente.
I Robinson fecero ampie provviste di quella fecola e una
parte la abbrustolirono per prepararsi delle buone minestre.
191
Il forno, in quei giorni, sotto la vigilanza del mozzo trasfor-
mato in panettiere, non stette un istante in riposo.
Quando i magazzini furono pieni, anche il veneziano ed il
marinaio si misero al lavoro fabbricando candele colla cera
delle mandorle, e trasformando l'acqua zuccherata e la polpa
tenera dei cocchi in vino bianco ed in acquavite, che poi rac-
chiudevano entro recipienti d'argilla cotta, perchè si conser-
vassero a lungo.
Anche dell'olio ricavarono e poterono finalmente permet-
tersi il lusso di mangiare qualche piatto di cipolline, essendo
già nate nel campicello. Quell'olio però non durava più di
due o tre giorni, poichè diventava rancido, prendendo un sa-
pore così disgustoso, che i loro palati non riuscivano a tolle-
rare.
Trovarono però il modo di surrogarlo con altro molto mi-
gliore e che poteva conservarsi lungamente. Essendo com-
parse sulla spiaggia delle grosse testuggini marine, colà ra-
dunatesi per deporre le uova, un mattino riuscirono a sor-
prenderne parecchie su di un banco, mentre stavano scavan-
do le buche che dovevano servire di nido.
Le più grosse furono tosto uccise ed il grasso, fuso al fuo-
co, diede un olio limpidissimo, profumato, più squisito del
burro ed in grande quantità. Le altre invece furono gettate
nei vivai, dopo però averli accuratamente coperti con gratic-
ciate di bambù per impedire ai rettili di fuggire. Ormai pote-
vano attendere senza apprensioni la stagione delle piogge,
essendo abbondantemente provvisti di tuttociò che era ne-
cessario alla loro esistenza.
192
Capitolo XXII
Il «tia-kau-ting»
193
Procedendo con precauzione, per tema di trovare qualche
altro cobra-capello, spostarono la cortina vegetale e s'inol-
trarono nel corridoio con una candela accesa. Giunti nella
prima caverna, il mozzo che li precedeva, s'arrestò brusca-
mente esclamando:
- Mille bombarde!... Degli scorpioni!... Alziamo i tacchi!
- Al diavolo le bestie velenose!... - urlò il marinaio, giran-
do velocemente sui talloni. -
Il signor Albani aveva fatto qualche passo indietro, te-
mendo di trovarsi dinanzi a dei veri scorpioni velenosi, ma
abbassata la candela che portava, vide invece un centinaio di
animaletti neri, assai più piccoli degli scorpioni ma che pure
si raddrizzavano agitando minacciosamente le loro zampette
anteriori.
- Ehi!... Marinaio!... Piccolo Tonno! - gridò.
- Fuggite, signore, - risposero Enrico ed il mozzo, che si
trovavano già fuori.
- Ma no, amici miei, non sono scorpioni e non vi è alcun
pericolo. -
I due marinai, sapendo per prova che il signor Albani non
s'ingannava mai, rientrarono, ma con una certa prudenza.
- Non sono adunque scorpioni? - chiese Enrico, arrestan-
dosi all'estremità della galleria.
- No, amico mio. Sono insetti inoffensivi, somiglianti agli
stafilini delle nostre campagne.
- Ma ho veduto che si alzavano assumendo le forme pau-
rose degli scorpioni.
- È il loro modo per spaventare.
- Ma che siano proprio così furbi gl'insetti, signore? -
chiese il marinaio, stupito.
- Tutti hanno le loro furberie per difendersi.
194
- Io non l'avrei mai creduto.
- Mancando per lo più di armi difensive, ricorrono sempre
a mille astuzie e talvolta assai curiosissime. Vi è per esempio
un ragno, il migolodonte che è comune anche da noi, il quale
per sfuggire i nemici più forti di lui, si scava una celletta
chiudendola con una specie di turacciolo. Nascosto dietro a
quella porticina spia le prede e le assale quando è certo di
vincerle, ma se si trova dinanzi ad un insetto più robusto di
lui, corre a rintanarsi e si aggrappa al turaccioletto perchè
non venga levato.
- Oh!... È strana!...
195
Il pirata, colpito in mezzo al dorso dal sottile cannello, cadde
all'indietro.... (Pag. 153).
196
- Ma altri sono più furbi, - continuò l'istruito veneziano,
mentre il mozzo, formata una scopa con delle larghe foglie,
cacciava fuori gl'insetti. - Vi sono delle semplici larve che
per proteggere il loro debole corpo, si rivestono d'una coraz-
za formata di fili tenuissimi che sottraggono al loro corpo e
che poi coprono di granelli di terra. Altre invece, si avvolto-
lano nel fango il quale disseccandosi basta a proteggerle.
- Ma voi mi narrate delle cose da sbalordire!... - esclamò
il marinaio. - Io non avrei mai creduto che quei piccoli esseri
fossero così astuti!...
- Figurati che vi sono dei coleotteri che appena si accor-
gono di essere osservati, contraggono le gambe, si lasciano
cadere su di un fianco e fingono di essere morti. Altri invece
cercano d'ingannare cambiando forma. L'altro giorno io ho
osservato una bella farfalla di colore oscuro, che si era posa-
ta in mezzo ad un cespuglio. Desiderando di prenderla, la
cercai a lungo e finalmente la scoprii, ma per sfuggirmi ave-
va ripiegato le ali così bene che sembrava una vera foglia
secca.
- La volpona!...
- Signore, - disse in quell'istante il mozzo, - la caverna è
pulita.
- Non ancora, - disse il marinaio. - Vi è un morto da sep-
pellire.
- Lave del Vesuvio!... Un morto! - esclamò Piccolo Ton-
no, girando intorno due occhi stralunati.
- Una specie di mummia egiziana che dorme forse da
vent'anni. Non essere schizzinoso, ragazzo mio, e andiamo a
seppellirlo. -
Entrati nella seconda caverna, portarono via la mummia
seppellendola ai piedi d'un albero, poi si misero a scaricare
197
la carretta facendo rotolare i recipienti nel magazzino.
- Staranno al fresco, - disse Enrico.
- È una bella grotta, - disse il mozzo. - Non vale quella
azzurra del mio golfo, ma è comoda e l'abiterei volentieri se
ci si vedesse.
- Allargheremo quel piccolo buco e apriremo una finestra,
mio Piccolo Tonno. Un po' d'aria conserverà meglio i nostri
viveri. -
Avendo portato con loro la scure, demolirono un pezzo di
parete senza molta fatica, essendo la rupe di tufo assai friabi-
le e aprirono una finestra tanto larga da permettere di spor-
gere il capo.
Quell'apertura si trovava a circa venti piedi da una sco-
gliera che si estendeva dinanzi alla rupe e le onde, rompen-
dosi contro quegli ostacoli, talvolta la spruzzavano di spu-
ma.
Di là si dominava un bel tratto di costa e di mare, e si po-
tevano scorgere perfino i vivai, formando l'isola, in quel luo-
go occupato dalla caverna, una specie di angolo assai acuto.
Una nave che avesse cercato di approdare in vicinanza
della capanna aerea, sarebbe stata facilmente scorta.
Guardando verso l'est, Albani vide una lunga fila di fran-
genti che finiva ai piedi d'un isolotto lontano venti o venti-
cinque miglia e che pareva piuttosto vasto.
Durante la giornata, i Robinson fecero parecchi viaggi
trasportando nella caverna gran parte delle loro provviste.
Alla sera chiusero l'entrata della galleria con dei massi gros-
sissimi, per impedire agli animali della foresta di penetrare
nei magazzini e fecero ritorno alla capanna aerea.
Le tenebre erano già calate da un'ora, quando vi giunsero.
Cenarono in fretta, essendo assai stanchi, poi si coricarono,
198
ma il mozzo, prima d'imitarli andò sulla piattaforma a ritira-
re, come faceva sempre, le pertiche che servivano da scale.
Stava per rientrare nella capanna, quando volgendo gli
sguardi sul mare, verso il nord-est, vide scintillare un punto
luminoso, il quale spiccava nettamente sulla superficie cupa
dell'acqua.
- Un fanale?... - mormorò, con stupore.
Comprendendo quanta importanza poteva avere quella
scoperta, si precipitò nella capanna gridando:
- Accorrete, signor Albani!... Ho veduto il fanale d'una na-
ve! -
Il veneziano ed il marinaio balzarono in piedi e uscirono
sulla piattaforma, chiedendo ansiosamente:
- Dov'è?...
- Guardate laggiù, verso il nord-est, - rispose il mozzo.
- Terremoto di Genova!... - esclamò il marinaio. - È pro-
prio un fanale!...
- Sì, - confermò il signor Albani, che pareva commosso.
- Che una nave s'avvicini alla nostra isola?...
- Lo credo, Enrico.
- Una nave europea forse?...
- No, poichè avrebbe due fanali, uno rosso ed uno verde,
mentre quello è bianco e mi sembra che proietti molta più
luce di quelli usati dalle nostre navi.
- Bisogna fare dei segnali, signore; accendere dei fuochi
sulla spiaggia.
- No, - disse Albani, dopo alcuni istanti di silenzio.
- Vi comprendo, - disse Enrico. - Voi temete che noi
c'imbarchiamo e che abbandoniamo quest'isola. Ebbene, si-
gnore, v'ingannate: io non partirò da questa terra sulla quale
mi trovo tanto felice da non desiderarne nessun'altra.
199
- E nemmeno io, signore, - aggiunse Piccolo Tonno.
- Non è questo il motivo, amici miei, - rispose Albani. - È
la prudenza che mi consiglia di non attirare per ora l'atten-
zione di quei naviganti.
- Ma cosa temete?... - chiesero i due marinai.
- Che quella nave sia montata da persone, che starebbero
bene appiccate ai pennoni di contra-pappafico. Non dimenti-
chiamo che noi ci troviamo in una regione che è corseggiata
dai più sanguinari pirati dell'Arcipelago Chino-Malese, da
quelli delle Sulu.
- Credete proprio che sia equipaggiata da quei ladroni?
- Potrebbe anche essere una onesta giunca Chinese in rot-
ta per le Molucche, usando quelle navi portare un solo fana-
le, una lanterna monumentale sospesa all'albero di trinchet-
to; ma potremmo anche ingannarci. Se però lo volete, amici
miei, accendete pure i fuochi.
- Ah! no, signore! - esclamarono Enrico e Piccolo Tonno.
- Allora aspetteremo l'alba. Sul mare regna una calma per-
fetta e quella nave non andrà lontana.
- Ditemi, signor Albani, - disse il marinaio. - Credete che i
pirati delle Sulu conoscano l'esistenza di quest'isola?...
- È probabile, Enrico, frequentando essi questo mare.
- Che possano sbarcare qui?...
- Non saprei veramente cosa potrebbe attirarli.
- Forse per cercare dell'acqua o per procurarsi del legna-
me?
- Si può ammetterlo.
- In tale caso bisognerebbe lasciare la capanna e salvarci
nelle foreste.
- O nella caverna, - disse Piccolo Tonno.
- Di certo, - rispose il veneziano. - Se quegli uomini ci
200
sorprendono, ammesso che siano pirati, non esiterebbero a
farci prigionieri e poi a trarci in schiavitù.
- Ma non ci faremo agguantare, signore. Abbiamo le frec-
ce avvelenate e ci difenderemo. Per mio conto, questa notte
non dormirò.
- Basterà che vegli uno per turno.
- Allora a me il primo quarto, - disse il mozzo.
- Bada di tenere ben aperti gli occhi veh! - disse Enrico. -
Al primo indizio di pericolo, svegliami con un buon calcio,
se vuoi.
- Non temere, marinaio. Non perderò di vista il fanale. -
Il veneziano ed il genovese, sapendo che potevano dormi-
re sicuri finchè il mozzo vegliava, approfittarono per andarsi
a coricare. Una guardia in tre era affatto inutile e poi cadeva-
no per la stanchezza.
Piccolo Tonno, sedutosi all'estremità della piattaforma,
accanto allo Sciancatello, non chiuse gli occhi un solo minu-
to. Per essere più certo di essere sveglio e per allontanare il
sonno, di quando in quando si pizzicava le braccia con molto
vigore.
Il fanale di quella nave rimaneva intanto sempre immobi-
le, a circa sei miglia dall'isola. Continuando a regnare sul
mare una calma assoluta, quel veliero si trovava nella im-
possibilità di superare l'isola o di accostarsi.
Il marinaio surrogò il mozzo poco prima della mezzanot-
te, poi questi fu surrogato dal veneziano verso le tre del mat-
tino. I due primi però, divorati dall'impazienza, non tardaro-
no a tenergli compagnia, essendo l'alba vicina.
Osservando bene il fanale, s'accorsero che si era sensibil-
mente avvicinato all'isola. Forse l'alta marea o qualche cor-
rente avevano trascinata la nave.
201
Verso le quattro, il sole, dopo un'aurora di pochi minuti
spuntò sull'orizzonte, rischiarando bruscamente il mare e la
nave, la quale ormai non distava che tre o quattro miglia.
Un solo sguardo bastò al veneziano per sapere con quale
naviglio aveva da fare. Non era una vera nave, ma una di
quelle barche velocissime, con due alberi sostenenti vele di
grandi dimensioni, collo scafo assai basso, chiamate tia-kau-
ting, usate dai pirati e dai contrabbandieri del mar chinese
meridionale e del mare di Sulu.
- Lo avevo sospettato, - mormorò, aggrottando la fronte.
- Un legno corsaro? - chiese il marinaio, che aveva pure
riconosciuto in quella barca un tia-kau-ting.
- Questa non è una regione per esercitare il contrabbando,
- disse Albani. - Amici miei, scendiamo e cerchiamo di porre
in salvo le nostre ricchezze. Quei furfanti, scorgendo la no-
stra capanna, non mancheranno di fare una visita a questa
costa. -
In meno che lo si dica furono a terra. Non erano rimaste
molte provviste sotto la tettoia e anche perdendole poco dan-
no ne avrebbero risentito, avendo riempita quasi la caverna
della mummia, ma premeva a loro porre in salvo gli animali
ed i volatili del recinto che si erano procurati con tante fati-
che.
Attaccarono la carretta al babirussa, vi gettarono dentro i
loro pochi arnesi, le stoviglie, i pochi pezzi di tela che anco-
ra possedevano e quante provviste vi potevano stare, poi le-
garono i volatili che erano ormai una ventina e fuggirono
verso la caverna seguiti dalle due scimmie che conducevano
i due piccoli babirussa e dallo Sciancatello che trascinava i
due orsi.
Un quarto d'ora dopo giungevano nei loro vasti magazzini
202
sotterranei. Albani ed il marinaio incaricarono il mozzo di
mettere ogni cosa a posto, poi armati delle cerbottane e di
due fasci di frecce avvelenate, fecero ritorno alla costa set-
tentrionale, per sorvegliare le mosse di quel tia-kau-ting so-
spetto.
Quando giunsero sul margine della piantagione di bambù,
il legno, spinto da una leggiera brezza che soffiava dal nor-
dest, navigava lentamente verso l'isola, colla prora volta ver-
so il luogo ove sorgeva la capanna aerea. Ormai non vi era
alcun dubbio: l'equipaggio stava per approdare.
- Mille terremoti! - esclamò il marinaio, aggrottando la
fronte. - Quelle canaglie hanno scorto la nostra capanna e
vengono di certo a distruggerla.
- Noi non sappiamo ancora quali siano le loro intenzioni,
Enrico, - disse Albani. - Forse vengono a cercare dell'acqua
od a raccogliere del legname per riparare qualche guasto.
- Scorgete quel gruppo di persone a prora?
- Sì, lo vedo.
- Non vi sembrano uomini di colore?
- E per di più dei sulani o dei bughisi, poichè non iscorgo
i larghi cappelli di rotang che usano i marinai chinesi.
- Allora sono pirati.
- Aspettiamo, per giudicarli, Enrico.
- Guardate, signore!...
- Cosa vedi ancora?...
- Due grosse spingarde sul castello e due piccoli cannoni
sul cassero. -
Albani aggrottò la fronte.
- Brutto segno, - mormorò. - Un tia-kau-ting armato, non
può essere montato che dai pirati. -
Il piccolo veliero intanto continuava ad avanzarsi, dritto
203
la piccola cala fiancheggiante la caverna marina, correndo
bordate. A prora si vedevano parecchi uomini semi-nudi,
dalla tinta oscura, armati di certi moschettoni che dovevano
essere di fabbricazione antica, a miccia od a pietra.
A poppa se ne vedevano altri raggruppati dietro ai due
piccoli pezzi d'artiglieria, come se non attendessero che un
comando per farli tuonare contro la capanna aerea. Giunto a
trecento metri dalla spiaggia, il tia-kau-ting si mise in panna.
Una scialuppa venne calata in acqua, dieci uomini armati di
moschetti vi presero posto ed arrancarono verso la piccola
cala, procedendo però con precauzione, come se temessero
qualche insidia o qualche scarica improvvisa.
Quegli individui erano tutti di statura alta, bene confor-
mati, di carnagione rossastra, col viso un po' piatto, ma colle
ossa delle gote assai sporgenti, il naso diritto e cogli occhi
nerissimi come i loro capelli, ma un po' obliqui.
Le loro vesti consistevano in una semplice camicia che
scendeva fino alle ginocchia ed in una larga cintura soste-
nente certi sciaboloni colla punta a doccia, somiglianti ai pa-
rangs dei bornesi.
In pochi minuti la scialuppa approdò ed otto uomini sbar-
carono, dirigendosi silenziosamente verso la capanna aerea.
Il marinaio ed il signor Albani, nascosti fra i folti bambù,
non li perdevano d'occhio. Entrambi però parevano in preda
ad una viva commozione, temendo di veder distruggere la
loro casa alla quale ormai si erano tanto affezionati.
- Se me la guastano, guai a loro, - disse Enrico, cacciando
risolutamente una freccia avvelenata nella cerbottana.
204
Capitolo XXIII
205
ia, quindi a calpestare le pianticelle del piccolo campo, poi,
non soddisfatti, cominciarono a tagliare i bambù di sostegno
per far capitombolare anche la capanna aerea.
I due naufraghi, fremendo di collera, assistevano impo-
tenti a quella barbara devastazione, alla distruzione del loro
campicello coltivato con tante cure e alla demolizione della
loro casa che avevano fabbricata con tante fatiche.
Il marinaio soprattutto, pareva che da un istante all'altro
dovesse scoppiare.
- Canaglie! - esclamò. - Distruggere in tal modo le nostre
risorse future e la nostra dimora, che ora doveva proteggerci
dalla stagione delle piogge!... Ladroni!... Se avessi una buo-
na carabina, vedreste come vi tratterei.
- Lasciali fare, Enrico, - rispondeva Albani. - Accontentia-
moci di salvare la pelle.
- Ma io non posso assistere a tanta devastazione, signore!
Bisogna che uccida qualcuno!
- Per farci inseguire e prendere?... No, Enrico, lasciamoli
fare. La pazienza e la buona volontà non ci mancano e ripa-
reremo facilmente i guasti. -
In quell'istante la capanna aerea, privata dei bambù di so-
stegno, capitombolava a terra con grande fracasso, disartico-
landosi, mentre i pirati, contenti come fanciulloni, ridevano
e schiamazzavano per quella prodezza.
Era troppo pel marinaio, che aveva il sangue bollente. Di-
menticando ogni prudenza, prima che il signor Albani avesse
potuto trattenerlo, si era scagliato fuori dalla piantagione,
guadagnando un macchione che si estendeva fino a trenta
passi dalla capanna.
Puntare la cerbottana, soffiarvi dentro, lanciare una frec-
cia mortale e abbattere un uomo che si trovava a buona por-
206
tata, fu l'affare d'un lampo.
Il pirata, colpito in mezzo al dorso dal sottile cannello,
cadde all'indietro emettendo un urlo di dolore. I suoi compa-
gni si volsero bruscamente e vedendo il marinaio che fuggi-
va attraverso il macchione, ora apparendo ed ora scomparen-
do in mezzo agli alberi, scaricarono i loro moschettoni, ma
ormai era troppo tardi. Enrico si era gettato in mezzo ai
bambù e quella scarica non ottenne altro effetto che quello di
produrre molto baccano e un nuvolone di fumo.
Il signor Albani si era lanciato dietro al compagno che
fuggiva colla velocità d'un cervo. Aveva veduto i pirati cor-
rere sulle loro tracce e premendogli di tenere a loro celato il
luogo che serviva di rifugio, aveva stimato essere miglior
partito di guadagnare le fitte foreste dell'interno.
In dieci minuti i due fuggiaschi attraversarono la pianta-
gione ed essendo pratici dei luoghi, si nascosero in mezzo ad
un bosco così intricato, da rendere vano l'inseguimento.
- Saliamo quell'albero, - disse il veneziano, indicandone
uno che era coperto da un fogliame densissimo e per di più
cinto e ricinto da una vera rete di calamus.
Aiutandosi l'un l'altro giunsero sul tronco, accomodandosi
fra le biforcazioni dei rami.
- Imprudente, - disse Albani al genovese, quando potè ti-
rare il fiato. - Se tardavi un istante a nasconderti nella pian-
tagione, ti facevi crivellare da quella scarica.
- È vero, sono stato molto imprudente, signore, - rispose il
marinaio, - ma non ho potuto frenarmi vedendo quelle di-
struzioni.
- Ed ora scorazzeranno l'isola per vendicare il loro com-
pagno.
- Lo credete?...
207
- Certo, Enrico. Forse spereranno di trovare altre capanne
da saccheggiare o qualche villaggio e di fare degli schiavi.
- Ma non sarà facile a loro, scoprire la nostra caverna.
- Se scorgono le nostre tracce la troveranno. Seguendo i
solchi lasciati dalle ruote del nostro carretto, non s'inganne-
ranno.
- Terremoti!... che sorprendano Piccolo Tonno?...
- Taci!... -
Una forte detonazione era echeggiata verso il mare, segui-
ta poco dopo da un'altra.
- Cosa succede?... - chiese il marinaio. - Che i furfanti sia-
no stati assaliti da qualche incrociatore spagnuolo?...
- Sparano le spingarde contro la piantagione di bambù,
sperando di scovarci, - rispose Albani. - Sono certo di non
ingannarmi.
- Fortunatamente siamo lontani e bene imboscati.
- Ma temo che Piccolo Tonno, udendo questi spari, ci cre-
da in pericolo e si metta in cerca di noi.
- Volete che cerchiamo di guadagnare la caverna?... Non
deve essere molto lontana.
- Non sappiamo ancora da qual lato i pirati ci cercano, e
lasciando questo nascondiglio potremmo trovarci improvvi-
samente dinanzi a loro. Se avessimo anche noi dei fucili, si
potrebbe tentare la ritirata, ma colle nostre cerbottane sareb-
be una imprudenza che potrebbe costarci la vita. Queste ar-
mi sono preziose nelle imboscate e nelle sorprese, ma poco
valgono nella difesa.
Facciamo appello alla nostra pazienza e aspettiamo la not-
te per ritirarci verso la costa orientale.
- Ma Piccolo Tonno?...
- Speriamo che non commetta l'imprudenza di lasciare il
208
ricovero. Gli avevo detto di non muoversi fino al nostro ri-
torno e per nessun motivo.
- Tacete, signore, mi pare di udire delle voci laggiù. -
Tesero gli orecchi rattenendo il respiro e udirono infatti
delle persone che parlavano a voce alta, presso il margine
della boscaglia.
I pirati dovevano aver attraversata la piantagione dopo
d'averla frugata in tutti i sensi e si disponevano a perlustrare
le foreste, ma non doveva essere cosa facile essendo immen-
se ed avendo l'isola una superficie ragguardevole.
Forse stavano dirigendosi verso la montagna, credendo
lassù di scoprire le capanne o i villaggi che supponevano
eretti su quelle spiagge.
Le voci a poco a poco si allontanarono verso l'ovest ed il
silenzio ritornò nella foresta. Anche dalla parte del mare,
non si udivano più a tuonare le spingarde della piccola nave.
Il signor Albani ed il marinaio, quantunque desiderassero
ardentemente di lasciare quel nascondiglio e di ripiegarsi
verso la caverna, non osarono muoversi, per paura che qual-
che pirata si trovasse imboscato a breve distanza da loro.
Trascorse un'ora, poi un'altra, ma le voci non si udirono
più; solamente i pappagalli ed i tucani-rinoceronti continua-
vano a cicalare sulle più alte cime degli alberi.
- Tentiamo la sorte, signore, - disse Enrico. - Piccolo Ton-
no sarà molto inquieto non vedendoci a ritornare, e poi stri-
tolerei volentieri un biscotto.
- Sali prima sui rami superiori e guarda se scorgi qualcu-
no. L'albero è alto assai e forse potrai vedere ciò che succede
anche sulla spiaggia. -
Il marinaio non si fece ripetere l'ordine. Aggrappandosi ai
rami ed ai calamus, raggiunse le cime più elevate e di là girò
209
gli sguardi.
Essendo quell'albero uno de' più alti della foresta, potè
senza fatica scorgere un grande tratto della costa settentrio-
nale.
Il tia-kau-ting era ancorato nella piccola cala, ma sotto le
rupi. Un albero era stato abbassato e sulla spiaggia, degli uo-
mini erano occupati ad atterrare una pianta dal fusto diritto.
- Ora comprendo perchè quei birbanti hanno approdato, -
mormorò il marinaio. - Avevano il trinchetto da cambiare. -
Abbassò gli sguardi verso la piantagione di bambù; ma
vide che le alte canne erano immobili, segno evidente che
nessun uomo stava attraversandola. Guardò verso la monta-
gna e gli parve di vedere dei corpi apparire e scomparire fra
i cespugli ed i macchioni.
Soddisfatto delle sue osservazioni stava per ridiscendere,
quando vide sul margine del bosco, a circa trecento passi
dalla loro macchia, un uomo che stava sdraiato a terra, ma
che pareva si avanzasse strisciando come i serpenti.
- Corna di cervo!... - esclamò.
Si lasciò scivolare lungo il tronco e raggiunse il signor Al-
bani che lo aspettava ansiosamente.
- Se ne sono andati? - chiese questo.
- Il grosso della truppa marcia verso la montagna, ma noi
stiamo per venire sorpresi, signore, - rispose il marinaio. -
Uno di quei furfanti ha scoperto le nostre tracce e si avvici-
na.
- Uno solo?...
- Non ne ho veduti altri. Affrettiamoci a fuggire prima che
giunga.
- No, Enrico, - rispose il veneziano. - Se ci scorge darà
l'allarme e attirerà l'attenzione de' suoi compagni rimasti sul-
210
la nave.
- Cosa volete fare, adunque?... Non è lontano che trecento
passi.
- Lasciarlo passare oltre.
- E se ha scoperte le nostre tracce?...
- Peggio per lui, poichè lo uccideremo, - disse Albani, con
voce risoluta. - Non bisogna che scoprano la nostra caverna
o saremo perduti.
- Udite?...
- Sì, un ramo si è spezzato. Lascia fare a me, Enrico. -
Il veneziano si era messo a cavalcioni d'un solido ramo ed
aveva impugnata la cerbottana.
Il pirata si avvicinava, strisciando attraverso alla bosca-
glia. Si udivano le foglie secche stridere ed i rami spezzarsi
e si vedevano le cime dei cespugli ondeggiare lievemente.
Certamente quell'uomo doveva aver scoperte le loro trac-
ce rimaste impresse sul suolo umido della foresta, e le segui-
va senza deviare. Fra qualche minuto doveva giungere pres-
so l'albero.
Il signor Albani ed Enrico, nascosti fra il fogliame, tratte-
nevano il respiro, ma aguzzavano gli occhi per scoprire il
nemico. Entrambi tenevano le cerbottane vicine alla bocca.
Ad un tratto, una testa apparve fra due cespugli. Si alzò
lentamente guardando con grande attenzione i rami degli al-
beri vicini, poi strisciò innanzi e l'intero corpo apparve allo
scoperto. Il pirata teneva fra i denti un largo coltello e nella
destra un lungo fucile a pietra.
I due Robinson, vedendosi in procinto di venire scoperti,
non esitarono più. Le due freccie tinte nel veleno mortale
dell'upas partirono con un sibilo appena percettibile, colpen-
do l'uomo alla gola e alla spalla sinistra.
211
Sentendosi ferire, il pirata si strappò furiosamente i due
leggieri cannelli e balzò in piedi armando precipitosamente
il fucile, ma le forze improvvisamente lo tradirono e cadde
al suolo in preda a spaventevoli convulsioni.
- Fuggiamo, - disse Albani. -
Si lasciarono cadere al suolo e senza occuparsi del loro
nemico, la cui morte ormai era certa, fuggirono precipitosa-
mente verso l'est. Percorsi però cinquecento metri, rallenta-
rono la corsa, temendo che nelle vicinanze vi fossero altri pi-
rati.
- Ecco due canaglie di meno, - disse il marinaio. - Rincre-
sce uccidere delle persone quasi a tradimento, ma si tratta di
salvare la pelle e non si deve guardare le cose tanto pel sotti-
le. Speriamo che per qualche po' ci lascino tranquilli e ci
permettano di giungere al nostro rifugio.
- Badiamo a non smarrirci in mezzo a questi boschi, - dis-
se Albani. - Il sole è là: sta bene.
- Credete che abbiano scoperto i solchi del carretto?...
- Speriamo che non si siano spinti fino alla costa orienta-
le.
- Ho veduto che degli uomini salivano la montagna, ma
possono visitare le coste.
- Allora sorprenderanno i misteriosi individui che hanno
perduta quella capsula.
- Ma quelli possiedono dei fucili e potranno facilmente
respingerli, signore. Ah! Se si potesse sapere chi sono e uni-
re le nostre forze per cacciare questi scorridori del mare!
- Bisognerebbe attraversare tutta l'isola e perderemmo
tanto tempo. E poi, non credo che i pirati si fermino molto
qui.
- Ho veduto dei marinai della nave abbattere un albero e
212
abbassare il loro trinchetto.
- Ora si comprende perchè hanno approdato. Senza dub-
bio qualche tempesta ha guastato il loro albero.
- Così deve essere, signor Albani.
- Allora fra due o tre giorni riprenderanno il mare e sare-
mo liberi. Alto, marinaio!
- Cosa avete veduto?
- Qualcuno si è nascosto fra quella macchia.
- Terremoti di Genova!... Un altro pirata?
- No, mi parve un animale.
- Una tigre, forse?
- Non lo so, marinaio. Armiamo le cerbottane e aspettia-
mo che si mostri. -
213
CAPITOLO XXIV
214
zando innanzi.
- Nella pelle della tigre uccisa sulla montagna, - rispose il
mozzo, correndo a loro incontro. - Ah! signor Albani, quante
ansie in queste quattro ore! Temevo che vi avessero uccisi,
udendo tutti quegli spari.
- Per poco, - disse Enrico.
- Si è mostrato alcun pirata presso la caverna? - chiese Al-
bani.
- Nessuno, signore.
- E Sciancatello?
- L'ho lasciato a guardia degli animali.
- Ma per quale motivo avevi indossato la pelle della tigre?
- Per spaventare i pirati, nel caso che li avessi incontrati.
- Il furbo! - esclamò Enrico.
- Sei un bravo ragazzo, - disse Albani. - Orsù, non perdia-
mo tempo e fuggiamo. È lontana la caverna?
- Dieci minuti, - rispose il mozzo.
- Andiamo, amici. -
Il mozzo si caricò della pelle della tigre e tutti e tre si mi-
sero in cammino, cercando di tenersi in mezzo alle macchie
più fitte.
Dopo pochi minuti giungevano senz'altri incontri alla ca-
verna. Spostarono la cortina vegetale, levarono i macigni
che ostruivano la stretta entrata e passarono nel magazzino
dove si trovavano Sciancatello, le due scimmie, i babirussa e
gli uccelli.
Il mozzo durante l'assenza dei suoi compagni, non aveva
perduto inutilmente il suo tempo. Aveva disposto ogni cosa
in ordine, messi in libertà i volatili dopo d'aver tesa una pic-
cola rete di fibre di cocco dinanzi alla finestra per impedire
che volassero fuori, preparati tre giacigli di grandi e fresche
215
foglie e riempiti d'acqua tutti i recipienti disponibili, avendo
trovato uno stagno poco discosto.
- Bravo ragazzo, - disse Albani. - Ora qui possiamo soste-
nere un lungo assedio senza inquietarci.
- Credete che verranno ad assediarci? - chiese il marinaio.
- Se scoprono i solchi del nostro carretto, verranno qui di
certo.
- Non si potrebbero far sparire?
216
- In ritirata! - comandò Albani, vedendo altri nemici affollar-
si.... (Pag. 171).
217
- Ci vorrebbe molto tempo e ci esporremmo al pericolo di
venire sorpresi. Se vogliono assediarci, vengano pure; ci di-
fenderemo colle cerbottane.
- Ma possono forzare la galleria.
- Vi sono molti macigni qui e la barricheremo per bene,
Enrico. Uno di noi monterà la guardia al di fuori, dietro la
cortina vegetale e al primo indizio di pericolo verrà tosto ad
avvertirci e chiuderemo la galleria.
- Vado io, - disse Piccolo Tonno. - Sciancatello mi terrà
compagnia.
- Noi poi ti surrogheremo, - disse il marinaio.
Il mozzo s'armò della sua cerbottana, invitò Sciancatello a
seguirlo e andò a nascondersi in mezzo alle piante arrampi-
canti, mentre i suoi compagni, che non avevano mangiato
dalla sera innanzi, si preparavano la colazione.
L'intera giornata trascorse tranquilla. Si udì qualche colpo
di moschetto rombare sulla montagna e qualche altro verso
la costa settentrionale, ma nessun pirata si mostrò nelle vici-
nanze della caverna.
Probabilmente, supponevano che gli abitanti della capan-
na aerea si fossero rifugiati fra le fitte foreste del grande co-
no dominante l'isola.
Prima che il sole tramontasse, Albani ed il marinaio scala-
rono la rupe gigantesca, per vedere se il tia-kau-ting si trova-
va ancora nella piccola cala.
Lo videro ancorato allo stesso posto che occupava al mat-
tino e ancora privo del suo albero di trinchetto.
- Temo che occorra del tempo, prima di ripararlo, - disse
Albani.
- Forse avrà degli altri guasti, - rispose Enrico.
- Se rimangono qui parecchi giorni, scopriranno di certo
218
le nostre tracce.
- E fors'anche i nostri vivai, signore. Mi rincrescerebbe
trovarli poi senza un pesce e senza una testuggine.
- Colla pazienza ripareremo a tutto, Enrico. L'energia e la
buona volontà non ci mancano.
- È vero, ma aver lavorato per quelle canaglie è dura e
non so rassegnarmi. E poi, sapendo ormai che l'isola è abita-
ta, potrebbero di quando in quando ritornare.
- Non credo che i pochi viveri trovati gli inducano a intra-
prendere un secondo viaggio. Perderebbero il loro tempo
inutilmente e poi, dalla cima della montagna, si persuaderan-
no che l'isola è deserta. -
Essendo calata la notte ridiscesero, ma il marinaio si arre-
stò al di fuori, nascosto fra i vegetali. Temendo sempre di
venire sorpresi, avevano deciso di vegliare anche alla notte,
per essere pronti a barricare la galleria.
Nulla accadde durante il primo quarto di guardia del ma-
rinaio. Alla mezzanotte il mozzo lo surrogò in compagnia di
Sciancatello, il quale si prestava volentieri a quel servizio,
quasi avesse compreso che i suoi padroni correvano un gra-
ve pericolo.
Il mozzo vegliava da due ore, rannicchiato in mezzo alle
piante che lo coprivano del tutto, colla cerbottana in mano,
quando lo Sciancatello, che sonnecchiava accanto a lui, si al-
zò bruscamente emettendo un sordo brontolìo.
- Oh!... oh!... - esclamò il ragazzo. - C'è qualche cosa di
nuovo! -
Si alzò e scostando prudentemente le piante, guardò verso
il margine della foresta, ma non vide alcuno. Però, essendo il
cielo coperto da nuvoloni, non era cosa facile distinguere
una persona a due o trecento passi, con quell'oscurità.
219
- Che abbia fiutata qualche tigre? - mormorò il mozzo. -
Ecco un nemico che non è migliore degli altri. -
Il mias continuava a brontolare ed a muovere gli orecchi
come se cercasse di raccogliere meglio dei lontani rumori. A
volte si curvava verso terra, poi aspirava fortemente l'aria
pel naso.
- Qualche cosa succede nella tenebrosa foresta, - disse il
mozzo, che era diventato inquieto. - Andiamo ad avvertire i
compagni. -
Scivolò lestamente nella galleria e tirò le gambe al vene-
ziano ed a Enrico dicendo:
- Presto, in piedi.
- I pirati? - chiese il marinaio, rizzandosi colla cerbottana
in mano.
- Io non lo so, ma Sciancatello dà segni d'inquietudine.
- Usciamo, - disse Albani, - gli uomini dei boschi sentono
i nemici a grandi distanze. -
In un baleno si trovarono tutti e tre all'aperto. Sciancatello
ascoltava sempre e brontolava, colla testa volta verso la
spiaggia settentrionale.
- Il pericolo viene di là, - disse Albani.
- Ma io non vedo nulla, - rispose Enrico.
- Pretenderesti di avere gli occhi del mias?...
- Che i pirati abbiano scoperte le tracce del carretto?
- Lo temo, poichè Sciancatello guarda da quella parte.
- Mille terremoti!...
- Cos'hai?...
- Ho veduto un uccello alzarsi fra quella macchia d'alberi.
- Sarà stato un pipistrello gigante, - disse Piccolo Tonno.
- No, dal volo mi parve invece un tucano.
- Allora i nemici vengono di là, - disse Albani.
220
- Zitto!...
- Ho udito dei rami a muoversi. -
In quell'istante il mias emise un brontolìo sonoro e fece
atto di slanciarsi innanzi, ma il mozzo fu pronto a trattener-
lo.
- Conducilo nella caverna, - disse Albani. - Potrebbe tra-
dirci. -
Poi mentre Piccolo Tonno s'affrettava a obbedire, si diste-
se al suolo per non venire scorto, tenendo la cerbottana pres-
so le labbra. Il marinaio lo imitò.
Pareva che i nemici si avanzassero seguendo le tracce del
carretto, che dovevano aver rimarcato anche presso la capan-
na aerea. Si udivano di tratto in tratto i cespugli a stormire e
lo scricchiolìo delle foglie secche, ma non si potevano anco-
ra distinguere in causa dell'oscurità che pareva diventasse
sempre più fitta, continuando ad accumularsi in cielo nuvo-
loni nerissimi.
- Guardate, - disse ad un tratto il marinaio.
- Vedo, - rispose Albani.
- Seguono le tracce.
- Sì, Enrico.
- E sono parecchi.
- Appena ci accorgiamo che muovono verso di noi, mira il
più vicino ed io mirerò il secondo. Saranno due di meno. -
A cento passi si vedevano dei corpi neri avanzarsi fra le
erbe e le foglie, strisciando con precauzione.
Erano dieci o dodici e tutti armati di fucili, a quanto pare-
va.
- Mira giusto, - mormorò Albani, accostando la cerbottana
alle labbra. Vengono diritti alla caverna.
- Ho scelto il mio uomo. -
221
Le due frecce partirono con un sibilo lamentevole. I due
pirati che strisciavano in prima fila s'alzarono di scatto,
emettendo due urla di dolore, mentre i suoi compagni scari-
cavano a casaccio le loro armi, non potendo scorgere gli as-
salitori.
- Nella caverna! - esclamò Albani.
Protetti dalla cortina vegetale scivolarono rapidamente nel
corridoio e accumularono rapidamente le pietre, otturando
l'ingresso.
- Presto, formiamo una barricata, - continuò Albani. -
Piccolo Tonno, che aveva accesa una candela, accorreva
in loro aiuto con Sciancatello. Si misero a rotolare i massi
che abbondavano nella prima caverna e li accumularono nel
corridoio.
Intanto al di fuori si udivano i pirati a vociferare come os-
sessi ed echeggiavano gli spari. Non avendo potuto vedere
da quale parte erano state lanciate le freccie, non avevano
ancora scoperto l'ingresso della galleria, ma non dovevano
tardare a giungervi dinanzi, se seguivano le tracce del ruota-
bile.
I tre Robinson e lo Sciancatello continuavano a rotolare
macigni, volendo murare tutta la galleria per impedire agli
assedianti di avanzarsi, o almeno rendere molto difficile la
loro entrata.
Già mezzo corridoio era stato ostruito, quando udirono le
voci echeggiare all'altra estremità.
- Ci hanno scoperti, - disse Enrico.
- Ma non entreranno, - rispose Albani. - Abbiamo più di
duecento frecce ed i nostri proiettili, lo sappiamo per prova,
valgono meglio delle loro palle.
- Ci assedieranno.
222
- Cosa importa a noi?... Abbiamo dei viveri per otto o die-
ci mesi.
- Ma scarseggiamo d'acqua, signore, - disse Piccolo Ton-
no. Non ne avremo che per dieci o quindici giorni.
- Ci basterà, amici. Questo assedio non durerà molto. Pre-
parate le armi e teniamoci pronti a respingere l'assalto.
223
CAPITOLO XXV
L'uragano
224
- Aspetteranno che sorga il sole, - disse Albani. - Forse
spereranno di trovare qualche altra entrata.
- Perderanno il tempo inutilmente, - disse il marinaio.
- Ma v'è la finestra, - osservò il mozzo.
- È tanto piccola che un uomo non vi può passare, - rispo-
se Albani. - E poi è alta più di quindici piedi e la roccia è ta-
gliata a picco. -
In quell'istante uno sparo rimbombò destando tutti gli
echi delle caverne, facendo balzare bruscamente in piedi gli
animali e strepitare gli uccelli. Un pirata, trovato un buco
aperto fra i macigni, aveva introdotto la canna del fucile, ma
senz'altro effetto che quello di produrre un baccano indiavo-
lato, poichè la palla doveva essersi schiacciata contro gli al-
tri massi.
- Sprecano la loro polvere, - disse Enrico, ridendo.
- E perdono il loro tempo, - aggiunse Piccolo Tonno. - Mi
rincresce solamente pei nostri animali che si spaventeranno
assai, udendo questa musica che per loro è nuova. -
Gli spari si succedevano con grande frequenza, formando
un baccano assordante, ma senza miglior successo, poichè
tutte le palle s'arrestavano in mezzo a quell'ostacolo che ave-
va uno spessore di quattro metri.
Solamente un po' di fumo entrava nella caverna attraverso
alle fessure, dileguandosi nella seconda e quindi uscendo
dalla piccola finestra.
Ben presto però i pirati dovettero convincersi dell'inutilità
delle loro fucilate, poichè poco dopo cessarono. Si udivano
però invece picchiare furiosamente contro la solida barrica-
ta, come se cercassero di aprire dei fori per introdurre le loro
armi e aprire un fuoco più efficace.
Essendo però la galleria ad imbuto, i sassi tenevano duro
225
e riusciva difficile il tirarli fuori. Sarebbe stato necessario un
ariete per demolire quell'ammasso enorme o per lo meno un
pezzo d'artiglieria.
L'alba era già spuntata, senza che i pirati fossero riusciti a
forzare il passo. Già i Robinson si rallegravano di quel pri-
mo successo, quando al di fuori scoppiarono urla di gioia.
- Terremoti e lampi!... - esclamò il marinaio, diventato
bruscamente inquieto. - Cosa sta per succedere?
- Che abbiano scoperta un'altra apertura? - chiese il moz-
zo, girando gli sguardi intorno.
- Saranno giunti altri uomini, forse quelli che ieri perlu-
stravano la montagna, - disse Albani. - Bah!... Dieci o trenta
è tutt'uno. Se poi.... -
Una formidabile detonazione che fece tremare il suolo
della caverna, gli troncò la parola.
- Una mina! - esclamò il mozzo.
- No, è una spingarda, - rispose il marinaio. - Io conosco
quelle armi.
- Non sarà certo con delle palle da una libbra che sfonde-
ranno l'ostacolo, - disse Albani, che conservava una calma
ammirabile. - A vostro comodo, signori schiumatori del ma-
re, e tu, intanto, mio Piccolo Tonno, va a prepararci qualche
cosa da porre sotto i denti. -
I pirati dopo quel primo colpo si erano arrestati, forse per
constatare gli effetti di quella prima scarica, ma ben presto
ripresero il fuoco.
Il marinaio ed il signor Albani udivano le palle fracassare
i macigni, ma la massa che ingombrava la galleria era tale,
che ci avrebbero voluto cento libbre di polvere per aprire
una breccia.
Tuttavia al decimo colpo una palla, essendo scivolata at-
226
traverso a qualche fessura, entrò nella caverna e andò a con-
ficcarsi sulla parete opposta.
- Oh!... oh!... - esclamò il marinaio. - La cosa diventa se-
ria, signor Albani.
- C'è del tempo, - rispose il veneziano.
- Ma se continuano questa musica, finiranno coll'aprire un
foro.
- E noi risponderemo colle frecce.
- Ma se riescono a entrare!...
- Avranno il tempo?...
- Cosa volete dire?...
- Ascolta, - disse il veneziano. -
In lontananza si era udito come un sordo rullìo.
- Il tuono?... - chiese Enrico.
- Un uragano che si avanza e che viene in nostro aiuto, -
rispose Albani. - È un'ora che il tuono brontola e che odo le
onde sfasciarsi con crescente impeto contro la base della ru-
pe.
- Voi dunque contavate su questo alleato?...
- Sì, Enrico. Fra poco il vento comincierà a soffiare, il
mare a diventare burrascoso e non avendo l'isola delle baie
riparate, i pirati saranno costretti a riprendere il largo o il lo-
ro tia-kau-ting si frantumerà contro la costa. Ecco perchè io
ero tranquillo e fidente dell'inutilità degli sforzi degli asse-
dianti. Odi?...
- Sì, il tuono rumoreggia ancora. -
Intanto i pirati continuavano a sparare contro la galleria
con crescente furia. Dovevano essersi accorti del pericolo
che poteva correre il loro tia-kau-ting e raddoppiavano i loro
sforzi per demolire quell'ostacolo che opponeva una resi-
stenza incredibile.
227
Di tratto in tratto sospendevano il fuoco e percuotevano
l'ammasso con dei grossi rami o con dei tronchi d'albero e
quegli urti cagionavano maggiori danni delle palle, poichè
sconquassavano i macigni semi-infranti.
I tre Robinson che cominciavano ad inquietarsi, tardando
l'uragano a scoppiare, si erano collocati dietro i due angoli
della caverna, per non farsi fracassare dai grossi proiettili
della spingarda e spiavano il momento opportuno per lancia-
re sugli assalitori le loro frecce mortali. Anche Sciancatello
si era unito a loro, tenendo in mano un grosso bastone, arma
formidabile nelle sue robuste mani.
Al di fuori il tuono brontolava sempre e si udivano le on-
de a infrangersi con crescente furore contro la base della ru-
pe, ma il vento non si era ancora scatenato. Solamente delle
raffiche si rovesciavano, a lunghi intervalli, sull'isola.
Ad un tratto i macigni, frantumati e sconnessi dalle palle,
cedettero sotto un ultimo e più vigoroso urto, operato forse
con un tronco d'albero di gran mole, spinto a tutta forza da-
gli assalitori che dovevano essere numerosi.
Una breccia s'aprì presso la vôlta della galleria, proiettan-
do nella oscura caverna un getto di luce. Alcuni fucili furono
introdotti e fecero una scarica, scrostando la parete opposta.
Il marinaio e Albani, pronti come il lampo, appena videro
ritirarsi le armi, puntarono le cerbottane, lanciando attraver-
so a quella breccia due frecce.
Un urlo acuto li avvertì, che i loro proiettili non erano an-
dati perduti.
- Ecco uno che non ci seccherà più, - disse il marinaio,
lieto di quel primo successo. - Avanti a chi tocca! -
I pirati, sorpresi da quella resistenza e resi guardinghi da
quelle frecce che sapevano ormai essere avvelenate, avevano
228
sgombrato rapidamente l'entrata della galleria.
- Occupiamo il posto, - disse Enrico.
- No, - rispose Albani. - Non commettiamo imprudenze.
- Ma si sono ritirati, signore. La luce entra liberamente at-
traverso la breccia.
- Possono spiarci. -
Un urto formidabile scosse la massa di macigni, facen-
cendone cadere altri. Albani, Enrico ed il mozzo risposero
con tre frecce.
Un altro grido echeggiò al di fuori, seguito da un clamore
spaventevole e dallo scoppio di parecchi fucili. Quasi nel
medesimo istante una luce livida si proiettò dentro la secon-
da caverna accompagnata da una scarica elettrica così frago-
rosa, che parve che l'intera rupe dovesse crollare sul capo
degli assediati.
- L'uragano!... - esclamò Albani, con voce lieta. - Final-
mente saremo liberati da quei furfanti! Tenete duro, amici
miei e non economizzate le frecce. -
I due marinai non facevano davvero economia. Tenendosi
nascosti dietro gli angoli della galleria, continuavano a sca-
gliare i loro dardi avvelenati attraverso alla breccia.
I pirati, non potendo avvicinarsi senza venire colpiti, si
sfogavano scaricando attraverso la galleria i loro moschetto-
ni, ma senza recare danni.
Furiosi però di essere tenuti in scacco da quei pochi difen-
sori, ripresero la loro catapulta e scagliandola impetuosa-
mente innanzi, riuscirono ad allargare il foro, facendo diroc-
care la barricata.
Un uomo, il più audace, si cacciò nella galleria e irruppe
nell'interno prima che i Robinson avessero potuto scorgerlo,
essendo l'oscurità diventata profonda in causa delle folte nu-
229
bi che si addensavano rapidamente in cielo, ma Sciancatello
gli appioppò una legnata così potente, da farlo fuggire urlan-
do di dolore.
- In ritirata! - comandò Albani, vedendo altri nemici affol-
larsi confusamente sotto la galleria.
I tre Robinson e Sciancatello si slanciarono nella seconda
caverna, accumulando nella seconda galleria sassi, colli di
viveri, recipienti d'acqua e dietro la carretta.
L'uragano allora scoppiava con rabbia estrema. I lampi si
succedevano ai lampi, i tuoni scrosciavano con estrema in-
tensità, toccando tutta la gamma in meno di un minuto, e sul
mare si udiva il vento a fischiare ed a ruggire, mentre le on-
de schizzavano la spuma perfino dentro la piccola finestra
della caverna.
I pirati avevano fatta irruzione dentro la galleria emetten-
do urla di vittoria, ma si erano subito arrestati dinanzi alla
seconda, la quale pareva che dovesse presentare una resi-
stenza non minore.
Le loro grida di vittoria si cambiarono ben presto in urla
di rabbia, di delusione. Pure, decisi a vendicare i loro com-
pagni, l'avevano assalita percuotendola col tronco d'un albe-
ro, quando in lontananza si udì a tuonare un colpo di canno-
ne, seguito poco dopo da un secondo sparo.
L'assalto cessò bruscamente. Si udirono ancora delle gri-
da, ma che parevano diventassero rapidamente più fioche.
- Se ne sono andati, - disse Albani, che ascoltava rattenen-
do il respiro.
- Sì, - disse Enrico. - Quegli spari erano segnali di perico-
lo.
- Amici miei, ringraziate quest'uragano.
- Alla finestra, signore, gridò Piccolo Tonno. - Potremo
230
vedere la nave a uscire dalla piccola rada. -
Il veneziano si diresse verso la finestra e guardò fuori. Il
mare aveva preso un aspetto pauroso. Immense ondate,
d'una tinta verde cupa, correvano all'impazzata verso le
spiagge dell'isola, frangendovisi contro con indescrivibile
violenza, mentre un vento impetuoso sconvolgeva le nere
masse di vapori e le folgori descrivevano i loro pericolosi
angoli.
Si vedevano le alte piante che rizzavansi sulla cima delle
rupi, torcersi come fuscelli di paglia sotto le sferzate
dall'uragano, mentre le foglie ed i rami volteggiavano in tutti
i sensi.
- È un vero ciclone, - disse il marinaio. - Non vorrei esse-
re sul tia-kau-ting.
- Non abbandonerà la cala di certo, - rispose Piccolo Ton-
no.
- E allora le onde lo frangeranno contro le scogliere, - dis-
se Albani. - La cala non ha alcun riparo e saranno costretti a
prendere il largo.
- Speriamo che si affoghino tutti, - disse Enrico. - Ecco
che doppia quel capo!... Guardate, signor Albani! -
Il veneziano volse gli sguardi verso il nord e vide infatti il
tia-kau-ting fuggire verso l'est, con le sole vele basse terza-
ruolate. Balzava disperatamente sulle onde, ora apparendo
sulle creste spumanti ed ora scomparendo nei baratri mobili.
- Che il mare v'ingoi tutti!... - gridò il marinaio. - Ecco il
mio augurio! -
Pochi minuti dopo la piccola nave scompariva sul fosco
orizzonte, mentre la bufera si scatenava con estrema violen-
za.
231
Capitolo XXVI
232
del vento e dalle folgori e molti altri erano privi di foglie e di
rami. Il suolo poi era sparso di frutta d'ogni specie, di cespu-
gli divelti e di ammassi di piante arrampicanti, specialmente
di nepentes e di calamus.
Quando giunsero sulla spiaggia, presso la piccola cala, un
grande sconforto li invase, scorgendo le distruzioni barbare
fatte dai pirati. La grande capanna era stata completamente
fracassata, sventrata ed i pezzi delle pertiche di sostegno
avevano servito alla cucina di quei feroci scorridori del ma-
re; le palizzate del recinto erano state divelte e giacevano
all'ingiro ridotte in pezzi; il campicello era stato pure deva-
stato e calpestato, ma fortunatamente essendo le pianticelle
appena spuntate, non erano state strappate.
- Miserabili! - esclamò il marinaio, che pareva dovesse
scoppiare. - Quale devastazione!... Bel gusto rovinare la no-
stra capanna e le nostre cinte!
- Non scoraggiamoci, amici, - disse Albani. - L'energia
non ci manca ed in una settimana potremo riparare a tutto.
- Rifabbricheremo un'altra capanna?
- E più ampia della prima, Enrico. La piantagione di bam-
bù è pronta a darci quanto legname ci sarà necessario. An-
diamo a vedere se hanno risparmiato i nostri vivai. -
Ebbero la consolazione di trovarli intatti. Essendo nasco-
sti dietro a delle rupi piuttosto elevate, erano sfuggiti ai de-
vastatori, i quali non si erano certo occupati di perlustrare le
coste.
Contenti di quella scoperta, visitarono la piccola cala spe-
rando che i pirati, nella loro partenza precipitosa, avessero
abbandonato sulla spiaggia qualche oggetto che poteva esse-
re utilissimo, ma non trovarono che l'albero del trinchetto
del tia-kau-ting e per di più affatto privo di qualsiasi corda-
233
me.
Esaminatolo, s'accorsero che a metà altezza era stato pro-
fondamente intaccato da un proiettile che doveva essere sta-
to di calibro considerevole.
- Con questo guasto non avrebbero potuto continuare il
loro viaggio, - disse Albani. - Hanno approdato qui per ri-
cambiarlo, prevedendo non lontana l'epoca delle grandi
piogge le quali provocano sovente degli uragani formidabili.
- È vero, - confermò Enrico.
- Credete che il tia-kau-ting si sia salvato dall'uragano? -
chiese Piccolo Tonno.
- Uhm!... Ho i miei dubbi, - rispose Albani. - Non sarei
sorpreso se un giorno, le correnti o le onde, trascinassero qui
i suoi rottami. Orsù, amici miei, riprendiamo i nostri arnesi e
torniamo a fare i falegnami. Le grandi piogge non sono lon-
tane e avremo appena il tempo necessario per rifabbricare la
capanna.
- Abbiamo la caverna, signore, - disse Piccolo Tonno.
- Ma preferisco la capanna, - disse Enrico. - Là dentro mi
pareva di essere in prigione. Al lavoro! -
I tre Robinson non perdettero il loro tempo. La piantagio-
ne di bambù non era lontana che pochi passi e fornì loro il
legname occorrente per rifabbricarsi la loro capanna aerea e
le cinte per gli animali.
Per una settimana intera lavorarono con lena febbrile,
dall'alba al tramonto, non prendendo che dei brevi riposi. La
stagione delle piogge incalzava, e ogni giorno, verso sera, il
cielo si copriva di nubi le quali poi si scioglievano in abbon-
danti acquazzoni.
La capanna ricostruita nel medesimo posto ove prima sor-
geva, era più vasta, più comoda e più solida, avendo raddop-
234
piato i pali di sostegno ed allargato il tetto in modo che ripa-
rasse tutta la terrazza anteriore.
Dieci giorni dopo anche la cinta destinata agli animali era
terminata. Anche questa era più vasta e riparata da una tetto-
ia per difendere i quadrupedi, i quadrumani ed i volatili dalle
piogge.
Finalmente ripararono anche il campicello che il mozzo,
in quel frattempo, aveva zappato, circondandolo d'una paliz-
zata per difenderlo dai guasti che potevano produrre gli ani-
mali selvaggi. Terminati tutti quei lavori, si recarono alla ca-
verna per ricondurre gli animali. Le povere bestie, quantun-
que il mozzo avesse provveduto a loro, tutti i giorni, foglie
fresche e acqua in abbondanza, pareva che avessero sofferto
da quella specie di prigionia entro quella caverna poco arieg-
giata e poco illuminata e si mostrarono molto soddisfatte ri-
tornando al recinto.
Il 25 ottobre il marinaio e Albani, approfittando del bel
tempo, fecero una rapida esplorazione nei boschi della costa
orientale. Già da parecchi giorni li tormentava un desiderio
intenso: quello di scoprire il cadavere del pirata che per poco
non li aveva sorpresi, mentre si erano nascosti sull'albero.
Speravano che fosse sfuggito alle ricerche dei suoi compa-
gni e di ritrovare il suo fucile e le sue munizioni.
Avendo attraversato quella parte della foresta correndo,
non era facile ritrovare l'albero su cui si erano nascosti, ma
dopo lunghe e pazienti indagini riuscirono finalmente a sco-
prire il cadavere, ma non rimaneva che uno scheletro mala-
mente scarnato dalle tigri. Il fucile e le munizioni erano
scomparse, portate via certamente dagli altri pirati, però in
un cespuglio vicino trovarono una corta ma pesante sciabola
d'acciaio che poteva essere a loro di molta utilità.
235
- Ci gioverà nella costruzione della scialuppa, - disse Al-
bani.
- Siete ancora deciso a fabbricarla? - chiese il marinaio.
- Sì, poichè ho sempre il vivo desiderio di visitare le coste
meridionali dell'isola.
- Volete trovare gli uomini che hanno perduta la capsula e
che hanno acceso quel fuoco, da voi scorto dall'alto della
montagna?
- Sì, Enrico.
- Purchè i pirati non li abbiano uccisi.
236
La mattina del 16 novembre la Roma prese il largo....
(Pag. 186).
237
- Non possono essersi spinti fino alle coste meridionali
dell'isola. Non sarebbero accorsi così presto ad assediarci
nella caverna. Ritorniamo, amico mio; il tempo ricomincia a
rannuvolarsi e fra breve avremo dell'altra pioggia. Ormai la
buona stagione è terminata. -
Il veneziano non s'ingannava. L'indomani le piogge dirot-
te cominciarono con grande violenza e quasi senza interru-
zione.
Dall'alba al tramonto e anche gran parte della notte, ac-
quazzoni violentissimi si succedevano accompagnati da lam-
pi abbaglianti e da scrosci così formidabili, che pareva che
l'isola intera dovesse subissarsi.
Venti furiosi soffiavano di frequente, sconvolgendo il ma-
re, il quale rompevasi disordinatamente sulle spiagge e cau-
sando dei bruschi abbassamenti di temperatura, specialmente
alla notte.
Torrenti e stagni si formavano in tutte le parti dell'isola
correndo verso il mare, ma quell'umidità, anzichè danneg-
giare le boscaglie, ne favoriva lo sviluppo. Anche il campi-
cello si avvantaggiava molto, poichè le patate dolci, le cipol-
le ed i grossi tuberi crescevano a vista d'occhio.
I nostri Robinson non potevano però abbandonare la ca-
panna aerea, ma non rimanevano inoperosi e trovavano il
modo d'occupare il loro tempo.
Avevano costruito un fornello d'argilla che avevano collo-
cato nell'interno della loro casa e seduti dinanzi al fuoco, ac-
comodavano le loro vesti già molto sdrucite in quelle fre-
quenti corse in mezzo ai boschi o si cucivano delle nuove
giacche colle vele che ancora possedevano, o il signor Alba-
ni dava lezione di scrittura ai due marinai, i quali facevano
progressi straordinarii, quantunque dapprima si fossero mo-
238
strati molto restii, non avendo mai stretto fra le dita una pen-
na.
Sembrerà molto strano che si fossero provvisti perfino di
carta, d'inchiostro e di penne, pure il signor Albani non si era
mostrato molto imbarazzato a trovare tutto ciò in quell'isola
deserta.
La foresta, ancora la foresta, gli aveva somministrato tut-
to.
Per ottenere la carta era ricorso ai gluga (Broussonetica
papyrifera) chiamati dai giavanesi e dai malesi daluwang,
perchè ne ricavano la carta conosciuta con tale nome.
Per ottenerla, il signor Albani aveva scelto alcune piante
adulte, ne aveva staccata la corteccia e l'aveva lasciata mace-
rare, dopo d'averla tagliata in pezzetti quadrati. Dopo alcuni
giorni l'aveva levata, quindi battuta con una specie di spatola
di legno, riunendola in fogli più o meno grandi, i quali asciu-
gandosi avevano poi preso la voluta consistenza.
Avrebbe dovuto immergerla in una soluzione di acqua di
riso per renderla più levigata, ma non avendone, si era ac-
contentato di bagnarla in una colla assai diluita di fecola di
sagù, ottenendo eguale successo.
Con questo processo molto semplice, usato da secoli da
tutti i popoli della Malesia, aveva ottenuto un centinaio di
fogli di carta abbastanza buona, sulla quale si esercitavano i
due marinai.
Le penne le aveva ricavata dall'arenga saccharifera. Que-
sta pianta preziosa, oltre dare, come già dicemmo, il toddi, o
liquore zuccherino, il tuwah o liquore inebriante, le fibre di
gomuti per fare delle funi solidissime che non marciscono
anche tenute in acqua lunghissimo tempo ed una specie di
cotone che viene adoperato come esca e che può anche esse-
239
re filato, somministra ai malesi ed ai giavanesi anche le pen-
ne da scrivere. Per ottenerle si scelgono le fibre più grosse
che stanno fra le foglie e che servono per la fabbricazione
del gomuti e vengono adoperate per scrivere, ma più come
pennello che come penna.
Non potendo trovare di meglio, non avendo trovato nè
oche, nè anitre, i due marinai dovettero adattarsi e non si tro-
varono scontenti poichè i loro sgorbi riuscivano egualmente.
Più difficile fu procurarsi l'inchiostro, ma dopo lunghe ri-
cerche anche quell'ultima difficoltà fu vinta con successo in-
sperato, e fu ancora la foresta che lo somministrò.
In una delle sue escursioni, il signor Albani aveva veduto
parecchi alberi conosciuti sotto il nome eucalyptus microco-
rys o di alberi-sevo, così chiamati perchè dopo tagliati con-
servano una certa untuosità.
Dapprima non vi aveva fatto alcun caso, quantunque non
ignorasse che da quelle piante si estrae un olio essenziale
molto adoperato e ricercato dai verniciatori, ma essendosi
poi rammentato che dalle scheggie di quei tronchi, tenute
immerse un certo tempo, si ricavava del buon inchiostro,
aveva voluto fare la prova.
Tagliati alcuni pezzetti li aveva messi in una pentola piena
d'acqua, mettendovi entro un pezzo di ferro e dopo tre giorni
aveva ottenuto un inchiostro nerissimo e di buona qualità,
che scorreva facilmente sulla carta di gluga.
Come si vede i naufraghi, mercè la loro instancabile atti-
vità, potevano attendere tranquilli il termine della stagione
delle piogge, senza annoiarsi e senza inquietudini.
Quindici giorni dopo però la furia delle piogge era cessa-
ta. Pioveva ancora e con grande violenza, ma ad intervalli e
per lo più al mattino e verso sera, in causa dei venti del sud
240
che accumulavano, in quelle ore, grandi masse di vapori so-
pra l'isola.
I Robinson decisero di approfittare di quei momenti di so-
sta per realizzare il loro grande progetto, ossia di costruirsi
una scialuppa. Non avevano ancora scordata la capsula tro-
vata nel bosco, nè la colonna di fumo che avevano scorto
dall'alto della montagna e ardevano dal desiderio di conosce-
re i misteriosi individui che abitavano le sponde meridionali
dell'isola.
Un canotto era necessario, non osando attraversare tutte le
foreste che li dividevano da quelle lontane spiagge, prima
perchè ormai sapevano come fossero popolate da numerose
tigri, poi perchè in caso di pericolo difficilmente avrebbero
potuto ritornare sollecitamente alla loro capanna per difen-
dere le loro ricchezze radunate con tante fatiche, e portare
soccorso a colui che avrebbe dovuto rimanere a guardia del-
la possessione.
Con una scialuppa a vela, il ritorno invece sarebbe stato
più facile e più pronto.
La grande difficoltà stava però nel modo di costruirla. Gli
alberi non mancavano di certo, ma erano gli attrezzi che
scarseggiavano, non possedendo che la scure, la sciabola del
pirata ed alcuni punteruoli per forare, ottenuti colle sbarre di
ferro dei pennoni. Se avessero dovuto scavare un tronco con
quelle sole armi, avrebbero dovuto impiegare dei mesi e poi,
avrebbe resistita la scure, che era già stata mezza consumata,
avendola arrotata almeno venti volte?...
- Se adoperassimo il fuoco? - disse il marinaio. - Io so che
gl'isolani del Grand'Oceano non adoperano altro mezzo, si-
gnore.
- Ecco un'idea che mi era sfuggita, - disse il veneziano. -
241
Col fuoco possiamo riuscire, ma è la pianta che bisognerà
trovare.
- So dove si trova un durion di dimensioni gigantesche,
signor Albani, - disse il mozzo.
- Purchè non sia molto lontano dalla spiaggia.
- A pochi passi; dalla piattaforma possiamo scorgerlo.
- Andiamo a vedere. -
Uscirono dalla capanna ed il mozzo indicò ai compagni
un albero enorme che si rizzava presso una piccola cala, si-
tuata dietro la caverna marina che aveva servito a loro di pri-
mo rifugio la notte che erano approdati.
Quel durion era alto più di quaranta metri ed aveva un
diametro di due e mezzo. Atterrandolo in modo da farlo ca-
dere verso la sponda, il varo della scialuppa poteva diventare
facile.
- Approfittiamo di questo po' di tempo, - disse il venezia-
no. - Domani mattina il tronco può essere a terra.
Presero la scure e si diressero verso quella piccola insena-
tura, la cui sponda scendeva dolcemente verso il mare, come
un piccolo cantiere.
Il durion s'alzava proprio sul ciglione della ripa e taglian-
dolo o bruciandolo alla base, doveva necessariamente incli-
narsi verso l'acqua.
- Ci risparmierà delle lunghe fatiche, - disse il veneziano,
dopo d'aver esaminato il terreno. - Fare scendere in acqua la
scialuppa, sarà cosa facile. Animo, amici, tagliamo alcuni
giovani alberi che poi ci serviranno per far scorrere il tronco
del durion, quando sarà giunto il momento del varo. -
Poco lontani dalla spiaggia crescevano alcuni gruppi di
mangostani, alberi che hanno il tronco liscio e perfettamente
rotondo.
242
Ne abbatterono quattro e collocarono i tronchi sulla spiag-
gia, ad una distanza di quattro metri l'un dall'altro, poi assali-
rono la base dell'albero gigante con grande lena.
Era un lavoro aspro e lunghissimo, ma non possedendo
una sega, non avevano la scelta dei mezzi. Se fosse stato
secco, avrebbero potuto accendere un fuoco intorno alla base
del colosso, ma quella corteccia era troppo umida per incen-
diarsi.
Tutto il giorno lavorarono di scure, scambiandosi di
mezz'ora in mezz'ora, ma le tenebre calarono senza che fos-
sero riusciti a tagliare la metà del durion.
Avendo però levata tutta intorno la scorza, radunarono un
grande numero di rami secchi e li accesero, sperando di car-
bonizzare una parte delle fibre interne, semplificando il la-
voro dell'indomani.
Le loro speranze non andarono deluse, poichè all'alba tro-
varono il piede del colosso in gran parte carbonizzato. Con
pochi colpi di scure potevano ormai abbatterlo.
Premendo a loro di farlo cadere dalla parte del mare e
precisamente sui tronchi dei mangostani, mandarono lo
Sciancatello sul colosso a legare dei rotang, poi mentre il
mozzo vibrava gli ultimi colpi di scure, il veneziano ed il
marinaio si collocarono sulle due sponde della piccola cala,
operando delle vigorose strappate con quelle solidissime fi-
bre vegetali. Anche il mias li aiutava, mettendo in opera il
suo vigore straordinario.
Alle dieci del mattino l'albero gigante, dopo una breve
oscillazione, cadeva con grande fracasso, precipitando sui
tronchi dei mangostani. I suoi immensi rami s'immersero
nelle acque della cala, sollevando una vera ondata.
- Hurrà!... hurrà!... - urlarono i due marinai, gioconda-
243
mente.
- Il più è fatto ormai, - disse il signor Albani, che non era
meno lieto dei compagni. - Fra quindici giorni avremo final-
mente anche la scialuppa. -
Essendo il tronco lungo quaranta metri, decisero di abbru-
ciarlo in gran parte, bastando dieci metri per la costruzione
della loro scialuppa.
Il mozzo fu incaricato di quel lavoro, operazione facile
non dovendo far altro che raccogliere legna e badare che il
fuoco non si spegnesse. Il marinaio ed il veneziano s'occupa-
rono della costruzione del galleggiante.
Continuando però la stagione delle piogge, furono prima
costretti a innalzare una tettoia per lavorare al coperto. Furo-
no ancora i bambù che fornirono a loro il legname necessa-
rio e di facile lavorazione.
Tre giorni dopo, il veneziano ed i suoi compagni si mette-
vano al lavoro.
Mentre il mozzo manteneva un fuoco infernale attorno al
tronco, carbonizzando lentamente la parte che non era neces-
saria, il veneziano ed il marinaio maneggiavano la scure e la
pesante sciabola del pirata, per spianare la parte superiore
del colosso.
Ottenuto lo spianamento, ricorsero anche loro al fuoco,
accumulando grandi quantità di carboni accesi, i quali, a po-
co a poco, distruggevano le fibre interne del durion che poi
venivano accuratamente livellate.
Dodici giorni furono necessarii per scavare l'albero, altri
tre per tagliare la prua e altrettanti per la poppa.
Il 28 ottobre collocavano le panchine e l'albero, il 29 il ti-
mone veniva messo a posto, ed il 30, alle dieci del mattino,
la scialuppa veniva varata nella piccola baia, fra gli hurrà dei
244
due marinai.
Quell'imbarcazione misurava nove metri e poteva stazzare
sei tonnellate. Era un po' pesante, ma galleggiava benissimo
e sotto vela doveva filare molto bene.
- Diamole un nome, signore, - disse il marinaio, prima di
alzare la vela.
- Le daremo un nome che ricordi la nostra patria lontana,
- disse il veneziano.
Si levò il cappello di fibre di rotang e con voce commossa
gridò:
- Viva la nostra Roma!...
- Viva la Roma!... Hurrà!... hurrà!... hurrà!... - urlarono i
marinai, scoprendosi il capo.
- Su la vela, - disse Albani. - Alla barra, Piccolo Tonno. -
Il pennone fu issato sull'alberetto, portando in alto la vela,
la quale si gonfiò sotto la brezza del nord-est. Il marinaio le-
gò la scotta, ed il mozzo mise la barra all'orza.
La Roma virò di bordo sul posto, rasentò la spiaggia a tri-
bordo, superò la piccola scogliera che si staccava dalla ca-
verna marina e si slanciò sulle onde, inclinata graziosamente
a babordo.
Filava come un uccello marino, balzando leggermente sui
flutti e spezzando le onde spumeggianti. Pareva che avesse
perduta la sua pesantezza e che non trovasse alcuna difficol-
tà nelle brusche virate di bordo, che il marinaio ed il mozzo
le facevano fare.
Dopo d'aver bordeggiato un po' al largo, i Robinson pie-
garono verso l'est volendo visitare quella parte della spiaggia
che si univa alla loro caverna e che non avevano ancora po-
tuto osservare in causa delle alte rupi, tagliate quasi a picco,
che la difendevano.
245
Essendo il vento favorevolissimo anche pel ritorno, sof-
fiando da levante, misero la prora verso il sud-est, tenendosi
a breve distanza dalla costa.
Numerose scogliere difendevano l'isola da quel lato, alte
assai, sventrate, minate dall'eterna azione dei flutti. Si vede-
vano sovente delle caverne marine assai spaziose, entro le
quali si precipitavano, con fragore assordante, le onde e do-
ve di quando in quando si vedevano uscire dei tentacoli ar-
mati di ventose.
Pareva che in quelle nere cavità abbondassero dei grossi
polipi, dei cefalopodi, non però così grandi come quello che
aveva assalito i naufraghi la notte che erano approdati su
quell'isola.
Anche i pesci abbondavano e si vedevano a nuotare in
grande numero, attraverso le acque trasparenti e tranquille
dei piccoli seni.
Il veneziano che osservava attentamente, vedendo il moz-
zo immergere rapidamente un braccio armato di coltello per
colpire una specie di raja col corpo assai appiattito e arroton-
dato in forma di disco, colle natatoie pettorali assai ampie e
la coda piatta, che passava presso la poppa, con un grido lo
arrestò.
- Imprudente!... -
Il mozzo lo guardò con sorpresa.
- Era un bel pesce che avrebbe potuto servirci da cena, si-
gnore, - disse.
- Ma che ti avrebbe intorpidito, - rispose Albani. - Le sca-
riche elettriche di quei pesci sono tutt'altro che piacevoli.
- Ma cos'era adunque?...
- Una torpedine.
- Alla larga, - - disse Enrico. - Conosco quei pesci diaboli-
246
ci.
- Io non ne ho mai veduti, - disse il mozzo.
- Ti dirò allora che posseggono una vera batteria elettrica;
è vero, signor Albani?
- Sì, Enrico, una batteria che intorpidisce le membra e che
fa strappare delle urla di dolore a chi riceve la scarica.
- Ma io non avevo già intenzione di prendere quel pesce
colle mani, ma di colpirlo col coltello.
- Avresti ricevuto egualmente la scossa, ragazzo mio.
Quei pesci possiedono tale potenza fulminante, da comuni-
carla perfino alle corde delle reti tenute in mano dai pescato-
ri.
Ho veduto una volta dei pescatori a cadere, per aver mes-
so i piedi su delle sabbie, sotto le quali si erano nascoste le
torpedini.
- Ma che posseggano una vera batteria elettrica nel loro
corpo? - chiese il marinaio.
- Qualche cosa di simile, Enrico. Il loro apparecchio è for-
mato da tanti piccoli dischi di una sostanza speciale, semi-
trasparente, disposti in pile verticali e racchiusi in vani so-
vrapposti, le cui divisioni membranose ricevono una grande
quantità di vasi e di fili nervosi che vanno a terminare alla
superficie dei dischi.
- Così armati, quei pesci non si lascieranno certo mangia-
re dai loro nemici.
- No, poichè possono fulminarli anche ad una certa di-
stanza, ma dopo la prima scarica perdono gran parte della lo-
ro potenza difensiva e....
- Che cosa?...
- Guardate laggiù, presso quella scogliera, - disse Albani,
che si era improvvisamente alzato. - Non scorgete qualche
247
cosa, che le onde trastullano?
- Sì, - dissero i due marinai. - Si direbbe un rottame.
- Governa laggiù, Piccolo Tonno, - disse il veneziano. -
La scialuppa si scostò dalla spiaggia dirigendosi verso
una massa nerastra, che cozzava contro una fila di scoglietti
a fior d'acqua.
Pochi minuti dopo la raggiungeva. Era un rottame, un
pezzo di poppa d'una piccola nave, dipinta di nero, sul cui
fasciame esterno si scorgevano delle lettere biancastre, ma
che ormai l'acqua salata aveva corrose e rese indecifrabili.
- Mille terremoti! - esclamò il marinaio. - O io m'inganno
assai o questa è la poppa del tia-kau-ting dei pirati.
- Lo credo anch'io, - disse Albani. - Mi ricordo di aver
scorto sulla sua poppa delle lettere e dei fregi bianchi.
- Dio ha punito quelle canaglie, signore. Il mare ha in-
ghiottito tutti.
- Lo avevo previsto. Era impossibile che con una nave co-
sì piccola potessero affrontare quel formidabile uragano. Ora
almeno potremo intraprendere il nostro viaggio attorno
all'isola, senza temere un improvviso loro ritorno. -
Essendo il sole prossimo al tramonto e temendo che il
vento cambiasse direzione, virarono di bordo e un'ora dopo
ritornavano alla piccola cala.
- Siete contenti, amici? - chiese il veneziano, sbarcando.
- Così contento, signore, che io non lascierò più quest'iso-
la, - disse il marinaio.
- E nemmeno io, - disse Piccolo Tonno. - Rimarrò qui per
sempre, dovessero venire dieci navi a prendermi. Cosa man-
ca a noi?... Siamo sbarcati senza un tozzo di pane, ed ora
siamo più felici di un re. Cosa potremmo desiderare di
più?...
248
- È vero, signore; e tutto ciò lo dobbiamo alla vostra atti-
vità e alla vostra scienza, - aggiunse Enrico.
- Grazie, signor Albani: a voi dobbiamo la vita.
- Abbracciatemi, amici, - disse il veneziano, commosso.
Sono felice di avervi fatti contenti. -
249
Capitolo XXVII
250
zurro profondo, ed il sole splendeva in tutto il suo fulgore,
salendo rapidamente sull'orizzonte.
Il mare tranquillissimo, s'increspava appena appena sotto
i soffi regolari del venticello dell'est. Solamente presso le
spiagge si rompevano le onde della risacca, balzando e rim-
balzando e sfasciandosi in una pioggia di pagliuzze d'oro.
La scialuppa filava rapidamente, colla vela ben gonfia, te-
nendosi a quattrocento metri dalle spiagge, lasciandosi a
poppa una scia biancheggiante e perfetta.
Il marinaio si era messo presso la scotta e masticava bea-
tamente il suo siri, ed il signor Albani si era seduto accanto
alla barra del timone.
Le coste dell'isola fuggivano rapidamente, ma i due Ro-
binson potevano osservarle con loro comodo, mantenendo
sempre la scialuppa a breve distanza. Il signor Albani, che si
era munito di carta e di penna, tracciava le punte, le piccole
baie, le scogliere, dando a tutte un nome.
Così aveva notate le baie Aida Maria e Principessa Elena,
i capi Savoia e Piemonte, la punta Ischia, e le scogliere Ve-
nezia, Rialto e Pellestrina.
Le coste si mantenevano però sempre assai alte e dirupa-
te, rendendo difficili gli approdi. Sulle cime i boschi si suc-
cedevano ai boschi con poche interruzioni, prodotte per lo
più da spaccature profonde causate, a quanto pareva, da anti-
chi torrenti.
Si vedevano macchioni di alberi del garofano, di arecche,
di tamarindi, di cocchi bellissimi, di goiani, di mangostani,
di cedri selvatici; enormi alberi della canfora le cui esalazio-
ni giungevano perfino alla scialuppa, di durion altissimi e di
bambù smisurati.
Grande numero di uccelli volteggiavano sulle sponde, sul-
251
le scogliere e sopra quei macchioni si vedevano bande di
pappagalli d'ogni colore, di loris rossi ma colla gola nera, di
cacatoe nere e bianche, di terenguloni col dorso color di
smeraldo, la coda azzurra ed il ventre giallo dorato; di rondi-
ni salangane, leggiadri uccelli di mare color turchino metal-
lico sopra e nero lucentissimo sotto; di splendidi fagiani, di
epimachi reali neri, turchini, verdi e rossi, e di alcioni i quali
volteggiavano superbamente sopra la superficie del mare.
Verso il mezzodì, nel momento che stavano rosicchiando
alcuni biscotti, i due Robinson scorsero, in fondo ad una ba-
ia dalle sponde tagliate a picco, degli alberi così enormi, da
strappare a entrambi delle esclamazioni di sorpresa.
Erano alti più di cento metri e così grossi che otto uomini
non sarebbero stati capaci di abbracciarli. Rassomigliavano
alle querci giganti della California, ma portavano dei fiori
rossi, molto larghi, i quali tramandavano un profumo così
acuto che si espandeva per parecchie centinaia di metri sul
mare.
- Cosa sono? - chiese il marinaio.
- Non lo saprei, - disse Albani, - ma somigliano a certi al-
beri scoperti ultimamente nell'isola di Formosa.
- Quei colossi devono avere un bel numero di anni.
- Certo, Enrico.
- Ditemi, signore, vivono molto gli alberi?
- Delle migliaia d'anni, taluni.
- Delle migliaia d'anni!... Volete burlarvi di me, signore?...
- Niente affatto. Si sa che gli ontani, per esempio, vivono
in media 360 anni, l'edera 450, gl'ippocastani 600, gli ulivi
700, i cedri 850, e le quercie perfino 1500.
- Fulmini!... Millecinquecento anni!...
- Oh ma vi sono delle piante che hanno l'esistenza ben più
252
lunga. Gli annali botanici ricordano dei tigli di 2000 anni,
dei castagni e dei platani di 1200 anni e anche dei rosai cele-
bri che varcarono i dieci secoli. Gli alberi che hanno mag-
gior durata sarebbero invece i baobab, alberi enormi che cre-
scono in Africa e se ne sono veduti alcuni, ai quali i botanici
non hanno esitato a dare sessanta secoli di vita.
- Seimila anni!...
- Sì, Enrico.
- E gli animali che campano di più, quali sarebbero?
- Le tartarughe giganti dell'Imalaya.
- Credevo che fossero gli elefanti.
- No, poichè quelle tartarughe possono campare cinque o
seicento anni.
- Che bella esistenza!...
- Forse non tanto bella, poichè quelle testuggini, rinchiuse
nelle loro rocce, passano degli anni interi in una specie di
torpore. Bada alla vela, Enrico: vi sono delle scogliere su-
bacquee dinanzi a noi e dobbiamo evitarle con cura. -
Infatti dinanzi alla scialuppa si vedevano emergere, attra-
verso l'acqua profonda ma trasparente, delle punte grigiastre
le quali avevano delle ramificazioni strane. Alcuni di quegli
scoglietti erano rotondi ma altri, che si trovavano ad una
profondità maggiore, rassomigliavano a tronchi sostenenti
dei rami, i quali si allungavano assai in varie direzioni.
- Sono scogli coralliferi, - disse Albani, che li osservava
con viva curiosità. - Sono in lavorazione e fra pochi anni e
forse prima, tutti quei rami giungeranno a fior d'acqua.
- Ma sono coralli vivi? - chiese il marinaio, stupito.
- Vivi, Enrico: guarda all'estremità di quei rami: cosa ve-
di?...
- Ma.... non saprei; come dei fiorellini.
253
- Sono gruppi di polipi corallini.
- Ma come fanno quei molluschi, che mi dissero essere
gelatinosi e piccolissimi, a costruire questi scogli che sem-
brano di granito?
- È una cosa facilissima a spiegarsi. Un giorno qualunque,
alla profondità di quaranta o cinquanta metri, si fissa un po-
lipo corallino. Si nutre, cresce, mette dei rami come una
pianta e produce delle uova le quali si fissano, dopo un certo
tempo, a breve distanza. Nascono altri polipi, crescono e co-
minciano anche loro a ramificare.
La piccola colonia a poco a poco ingrandisce, s'intreccia e
forma dapprima un banco rudimentale che gl'indigeni chia-
mano ordinariamente focaccie di corallo.
Su quel banco spuntano migliaia di altre gemme, migliaia
di altri rami che poi si solidificano e s'innalzano, s'allargano
e continuano a intrecciarsi finchè giungono a fior d'acqua.
Solamente allora le costruzioni cessano, poichè i polipi ri-
fuggono dalla luce del sole, ma se non s'innalzano più, conti-
nuano però ad allargarsi.
Le onde spezzano sovente quei coralli, ma quei guasti so-
no tosto riparati, anzi i detriti corallini servono a rinforzare,
a cementare sempre più ed a rialzare il banco. Ecco adunque
lo scoglio costruito, scoglio che col tempo, continuando il
lavoro dei polipi, può diventare un'isola.
- Il corallo che serve di base alle isole costruite dai polipi,
è eguale a quello che noi peschiamo sulle coste della Sicilia,
della Sardegna e dell'Algeria?
- No, Enrico, il corallo nobile che ha quella bella tinta ro-
sea o rossa non si trova che nel nostro Mediterraneo. I nostri
polipai sono di specie un po' diversa e le piante sono rivesti-
te da una specie di membrana con fiori da cui escono i poli-
254
petti.
- Ma da cosa derivano quelle belle tinte rosse?...
- Una volta si credeva che la tinta provenisse dall'ossido
di ferro, ma ora si sa invece che la si deve ad una particolari-
tà di polipi.
- E la nostra isola, credete che sia stata costruita dai polipi
coralliferi?
- No, Enrico.... ma.... guarda lassù!...
- Dove? - chiese il marinaio.
- Su quella rupe. -
Il marinaio guardò nella direzione indicata e non senza
una viva sorpresa, scorse una pertica altissima, sulla quale
ondeggiava uno straccio bianco.
- Un segnale?... - chiese egli.
- Così sembra, - rispose il veneziano, cacciando la ribolla
del timone all'orza.
- Ma collocato lassù da chi?...
- Forse dagli individui che hanno perduto quella capsula.
- Ma allora devono essere marinai; dei selvaggi non
avrebbero innalzato quel segnale di soccorso.
- Lo credo anch'io, Enrico.
- Che ci sia qualche carta, ai piedi di quell'albero?...
- È precisamente per accertarmi di ciò, che dirigo la scia-
luppa verso quella rupe.
- Forse sapremo chi sono quegli uomini, signore, - disse il
marinaio.
- Speriamolo. -
Virarono di bordo e diressero la scialuppa verso la spon-
da. In quel punto la costa si ripiegava formando una profon-
da insenatura, chiusa all'estremità da una grande rupe che si
innalzava per ottanta o novanta metri.
255
Tutto il ciglione dell'alta spiaggia era coperto d'alberi, so-
pra i quali si vedevano svolazzare grandi stormi di anhinga,
uccelli che hanno il collo così lungo che valsero a loro il no-
me di uccelli serpenti, sormontato da una testa piccola, affi-
lata, cilindrica, con un becco acuto e diritto.
Questi volatili sono valenti nuotatori, avendo i piedi pal-
mati, ma a terra si trascinano penosamente. Diffidenti assai,
non meritano un colpo di fucile, poichè la loro carne è dete-
stabile come quella dei cormorani.
Arenata la scialuppa su di un piccolo banco di sabbia, il
signor Albani ed il marinaio si misero a scalare la rupe, ag-
grappandosi ai rotang che pendevano dall'alto e puntando i
piedi nelle fessure.
In dieci minuti si trovarono sulla cima, dinanzi a quella
specie d'albero sormontato dallo straccio. Un cumulo di sassi
s'innalzava presso la base e pareva che nascondesse qualche
cosa.
- Vi è qualche documento lì sotto, - disse il veneziano. -
Con una scossa fece crollare quel cumulo ed ai loro occhi
apparve una bottiglia, sulla quale stava scritto in lettere do-
rate:
«MARSALA-PALERMO»
256
vide nell'interno un pezzo di carta.
Spezzò il vetro, s'impadronì del documento, lo spiegò e
lesse queste righe, tracciate con una matita:
257
Capitolo XXVIII
258
tare e non conosciamo questi paraggi, che possono nascon-
dere delle scogliere pericolose alla nostra scialuppa.
- Ci terremo lontani dalle sponde, signore.
- Non abbiamo nessuna fretta e possiamo accamparci su
questa rupe.
- La fretta l'ho io, signor Albani. Li sorprenderemo nel
sonno, i due miserabili, e li uccideremo.
- Non dobbiamo erigerci a giustizieri, noi, Enrico.
- Vorreste lasciarli vivere ancora?...
- La sventura li avrà domati.
- Hanno fatto saltare la nave, signore.
- Forse c'inganniamo. Chissà, l'incendio può averlo pro-
dotto il caso.
- Ah!... no, non perdonerò mai a loro!...
- Perdono io.
- Voi!...
259
- Giù un sorso, - continuò il marinaio, porgendogli una fia-
schetta.... (Pag. 200).
260
- Sì, Enrico. Io non permetterò che i Robinson italiani,
macchino la loro isola con un delitto. No, amico mio, siamo
generosi e cerchiamo invece di unire i nostri sforzi a quelli
di loro pel bene di tutti.
- Ma.... signor Albani....
- Se sono colpevoli, penserà Dio a punirli.
- E sia, - disse il marinaio, - ma prima udranno se la mia
voce tuonerà contro le loro infamie.
- Va' a legare il canotto, mentre io improvviserò un rico-
vero.
- Siete deciso ad accamparvi su questa rupe?
- Non è prudenza avventurarci su queste sponde che noi
non conosciamo e che possono nascondere delle scogliere
subacquee pericolose. All'alba spiegheremo le vele ed a
mezzodì toccheremo di certo le coste meridionali dell'isola. -
Il marinaio, che pareva avesse spenti i suoi propositi di
vendetta, scese la rupe e andò a legare la scialuppa onde im-
pedire al flusso di portarla al largo, mentre il signor Albani,
tagliate alcune foglie di arecche e alcuni rami, improvvisava
un riparo.
Cenato con una kakatoa nera arrostita al mattino e con po-
chi biscotti, si misero accanto le cerbottane e s'addormenta-
rono, certi di non venire disturbati su quell'alta rupe che era
quasi tagliata a picco.
La notte fu tranquilla. Furono svegliati parecchie volte
dalle grida rauche delle tigri, ma nessuno di quei pericolosi
animali osò scalare la grande rupe.
All'alba i due Robinson si rimettevano in viaggio, con una
fresca brezza che soffiava dal nord al nord-ovest.
Il tempo si manteneva splendido ed il mare tranquillo e
solamente presso le sponde, la risacca lo sconvolgeva forte-
261
mente, in causa forse della grande profondità dell'acqua e
della ripidità delle coste.
L'isola cominciava ormai a ripiegare verso il sud-est, ma
senza baie e senza sporgenze. La grande montagna che do-
minava quel lembo di terra perduta nel mare di Sulu, era già
molto lontana.
Fra breve la scialuppa doveva girare l'estrema punta meri-
dionale, la quale si allungava in forma d'una penisola piutto-
sto stretta e molto bassa, poichè quando le foreste mostrava-
no delle aperture, il marinaio, tenendosi ritto sul banco, riu-
sciva a scorgere il mare delle coste orientali.
Verso le dieci, il signor Albani additava una lunga sco-
gliera, e sulla spiaggia un'altra pertica sulla cui cima si agita-
va uno straccio.
- Devono avere laggiù la loro capanna, - disse il venezia-
no. - Quella punta è la più meridionale dell'isola.
- Ah! sono laggiù, - disse il marinaio, aggrottando la fron-
te. - Canaglie!... Sono curioso di vedere quale cera assume-
ranno vedendo le loro vittime.
- L'isolamento e la lotta per l'esistenza li avranno domati,
Enrico.
- Non lascierò la mia cerbottana però, e al primo atto of-
fensivo, vi giuro, signor Albani, che invierò due frecce avve-
lenate a quei traditori. -
La scialuppa fu diretta verso quel segnale, il quale sorge-
va a fianco d'un fitto macchione di alberi altissimi. I due
naufraghi aguzzavano gli sguardi sperando di veder apparire
sulla spiaggia i due traditori, ma invano.
Solamente degli anhinga stavano appollaiati sulle scoglie-
re, come uccelli che nulla hanno da temere.
- Che se ne siano andati? - disse il marinaio. - Se quei vo-
262
latili, che sono ordinariamente così diffidenti, rimangono là,
vuol dire che non ci sono abitanti su quella costa.
- Lo sapremo presto, - rispose il veneziano, che pareva un
po' contrariato.
In pochi minuti la scialuppa superò la distanza e si arenò
entro un piccolo seno riparato da una scogliera corallifera
La legarono ad una punta rocciosa, s'armarono delle cer-
bottane, non sapendo quale accoglienza avrebbero potuto ri-
cevere e sbarcarono. Le prime cose che caddero sotto i loro
sguardi, furono i rottami d'una scialuppa: un pezzo di poppa,
un pezzo di chiglia e un pezzo di fasciame su cui stava anco-
ra dipinto, in lettere rosse: Liguria-Genova.
- Sono adunque naufragati? - si chiese il veneziano.
- Così deve essere, - rispose il marinaio. - Le onde hanno
infranto la loro scialuppa contro queste scogliere. Dio li ha
puniti.
- Ma dove sarà la loro capanna?...
- Forse dietro quella macchia. -
Salirono la sponda e s'internarono nella macchia, proce-
dendo con precauzione e senza far rumore. Fatti pochi passi,
si trovarono dinanzi ad una casupola col tetto semi-sfondato,
costruita con rami d'albero e cinta da una piccola palizzata di
bambù.
All'intorno si vedevano delle penne di uccelli, dei tizzoni
semi-spenti, dei pezzi di bottiglie e degli stracci. Un odore
acre, insopportabile, usciva da quella piccola costruzione.
- Vi è qualche cosa che imputridisce là dentro, - disse il
marinaio, arrestandosi.
- È odore di carne corrotta, - disse il veneziano, impalli-
dendo. - Che i due naufraghi siano morti?...
- O che si siano uccisi?... È odore di morto.
263
- Andiamo innanzi, Enrico.
- Proviamo a chiamarli prima. Ohe!.. Marino!.. Harry!.. -
Nessuno rispose alla chiamata. Invece uscirono parecchi
strani animaletti somiglianti ai ricci, ma più grandi, col cor-
po irto di aculei, ma col muso lungo e sottile, con una bocca
piccolissima munita di certe lamine cornee e le zampe arma-
te di artigli.
- Cosa sono? - chiese il marinaio, balzando indietro.
- Echidnei, - rispose il veneziano. - Sono i più strani ani-
mali che esistano, e si ignora ancora il loro modo di generare
essendo conformati più come gli uccelli, che come gli ani-
mali.
- Sono pericolosi?...
- No, poichè non possono nemmeno mordere. Andiamo
avanti, Enrico. -
Malgrado l'orribile fetore che usciva, i due Robinson en-
trarono nella catapecchia, ma subito si arrestarono, soffocan-
do un grido d'orrore.
Colà, disteso su di un mucchio di foglie secche, stava un
uomo coi lineamenti spaventosamente alterati, magro come
un fakiro indiano, col petto ossuto semi-nudo, le mani con-
tratte convulsivamente, e già in piena putrefazione.
Intorno a lui vi erano un fucile, una scatola che doveva
aver contenuto della polvere, gli avanzi di un pesce e alcuni
stracci.
Un solo sguardo, bastò ai due Robinson per riconoscere
quell'uomo.
- Harry!... - esclamarono.
- Morto, - disse il marinaio. - Forse assassinato dal suo
compagno.
- No, - disse Albani. - Non vedo alcuna ferita su di lui.
264
- Ucciso da qualche male, forse? -
Il veneziano, invece di rispondere, si curvò sugli avanzi di
quel pesce.
- La giustizia di Dio lo ha punito, - mormorò. -
Raccolse il fucile, osservò la scatola per vedere se conte-
neva ancora della polvere, ma la rigettò via essendosi accor-
to che era vuota, poi uscì rapidamente seguito dal marinaio.
- Cerchiamo Marino, - disse. - Se ha mangiato quel pesce,
non deve essere andato molto lontano.
- Quel pesce?... Ma cosa è accaduto, signore? - chiese En-
rico.
- Quel disgraziato Harry è morto avvelenato.
- In quale modo?...
- Ha mangiato un tetrodone.
- Non vi comprendo.
- È un pesce velenosissimo. Forse quei due naufraghi, che
devono aver sofferto delle lunghe privazioni dopo d'aver
esaurite le loro munizioni, a giudicarlo dalla magrezza spa-
ventosa di Harry, hanno pescato dei tetrodoni e si sono avve-
lenati.
- Ma sono pericolosi quei pesci?...
- Sì, Enrico. In questi mari, come pure in quelli
dell'Australia e nell'Oceano Pacifico, vi sono alcuni pesci
che non si possono mangiare senza pericolo. Quiros e Cook,
i due grandi navigatori, per poco non morirono avendo man-
giato certi pesci somiglianti agli spari e gl'isolani di queste
regioni sanno che i tetrodoni sono velenosissimi.
- Ma Marino?...
- O è fuggito vedendo morire il suo compagno, od è cadu-
to nella foresta.
- Lasciamo che le tigri se lo mangino e ritorniamo alla no-
265
stra capanna. Sono inquieto per Piccolo Tonno.
- No, Enrico, dobbiamo prima assicurarci della sorte di
Marino.
- Ma forse le tigri avranno divorato il suo cadavere.
- Sarà rimasto il fucile.
- Credete che questi furfanti abbiano esaurite le munizio-
ni?
- Ne sono certo. Devono essere fuggiti con poche cariche.
- E si saranno trovati presto alle prese colla fame, mentre
noi, sbarcati senz'armi, senza nulla, nuotiamo nell'abbondan-
za per merito tutto vostro, poichè senza di voi, io e Piccolo
Tonno ci saremmo ben presto trovati nelle istesse condizioni
dei due maltesi. Pure in quest'isola abbondano gli alberi frut-
tiferi, e per due marinai non doveva essere difficile procurar-
si dei mangostani, dei durion, delle noci di cocco, ecc.
- E credi tu che le frutte possano bastare, Enrico?... Per al-
cuni giorni sì, ma poi le forze se ne vanno se non si mangia-
no delle materie fecolose o della carne. Chissà quali scor-
pacciate di frutta avranno fatte quei due disgraziati per in-
gannare la fame insaziabile che li rodeva, ma hai veduto in
quale stato abbiamo trovato Harry e.... To'!... Cos'è questo? -
Si era curvato lestamente e si era impadronito d'una scato-
letta che si trovava semi-nascosta fra le foglie secche.
- Una scatola da capsule vuota, - disse. - Questa è prova
che le loro munizioni sono state esaurite.
- Zitto, signore.
- Cos'hai?...
- Guardate!...
- Dove?...
- Lassù, su quell'altura!... È lui!... -
266
Capitolo XXIX
Il maltese
267
sommità del colle. Doveva però essere esausto di forze, poi-
chè traballava ad ogni passo e sembrava che dovesse cadere
per non più rialzarsi.
I due Robinson si erano messi a inseguirlo, scalando rapi-
damente le rupi e intimandogli di fermarsi, ma senza buon
esito. Una paura invincibile doveva aver invaso il maltese, il
quale ormai doveva aver riconosciuto i suoi inseguitori.
Ad un tratto però, dopo d'aver superata una rupe, le forze
bruscamente lo abbandonarono e cadde in mezzo ad un ce-
spuglio, senz'essere più capace di risollevarsi.
Albani ed il marinaio in pochi salti lo raggiunsero.
- Disgraziato, dove volevi fuggire? - gli chiese il primo.
Il maltese aprì due occhi semi-spenti e disse con voce rau-
ca:
- I vendicatori!... Tanto meglio: sarà finita.
- No, i vendicatori, - disse Albani. - Non spetta a noi ven-
dicare le vittime della Liguria da voi incendiata. -
Nell'udire quelle parole, un lampo aveva illuminato gli
sguardi del maltese.
- Incendiata!... - esclamò. - Da chi incendiata?...
Poi fissando uno sguardo bestiale sulle loro tasche che ap-
parivano gonfie, mormorò con voce semi-spenta:
- Muoio di fame! -
Il marinaio si sentì toccare il cuore da quella domanda.
Prese una manata di biscotti e glieli porse, dicendogli con
una certa emozione, che invano cercava di nascondere:
- Prendi, camerata. -
Il maltese si gettò su quei biscotti coll'avidità d'un lupo a
digiuno da tre settimane, stritolandoli voracemente.
- Giù un sorso, - continuò il marinaio, porgendogli una
fiaschetta di bambù piena di succo fermentato dell'arenga
268
saccarifera. - Ti farà bene, camerata. -
Il naufrago ingollò il contenuto, poi restituì la fiaschetta
dicendo:
- Grazie, Enrico: ecco come voi pagate le canaglie della
mia specie!
- Lascia andare: noi abbiamo dimenticato tutto, è vero, si-
gnor Albani?...
- Sì, - rispose il veneziano.
Il maltese li guardò a lungo, mentre i suoi occhi incavati
si riempivano a poco a poco di lagrime.
- Ma è vero che la Liguria è stata incendiata? - chiese
egli, con un singhiozzo.
- Sì, - rispose Albani con voce grave. - Voi avete commes-
sa un'infamia che ha costato la vita a quasi tutto l'equipag-
gio.
- Ma no, signore! - esclamò il maltese. - Harry mi aveva
giurato d'aver dato fuoco a pochi stracci imbevuti di petrolio
per spaventare l'equipaggio e impedirgli di darci la caccia.
- Ed invece aveva dato fuoco alla dispensa per scatenare
un incendio tremendo e far saltare la nave.
- Allora quell'infame ha mentito!... Signor Albani, Enrico,
vi giuro sulla memoria di mia madre che io non ho acceso
quel fuoco e che Harry mi aveva ingannato. Ma.... e così.... è
saltata la Liguria?...
- Con tutto l'equipaggio.
- Allora appiccatemi: voi ne avete il diritto.
- No, la terra dei Robinson italiani non si macchierà d'un
delitto: ti portiamo il perdono. -
Il maltese si era precipitato alle loro ginocchia, piangen-
do. Il marinaio ed il veneziano lo rialzarono dicendo:
- Non se ne parli più; tutto è dimenticato.
269
- Grazie, signori: io sarò, d'ora innanzi, il vostro schiavo.
- No, schiavo, ma nostro amico. Seguici alla scialuppa.
- No per di là, - disse il maltese con terrore, vedendo il
veneziano scendere in direzione della capanna. - Là vi è
Harry.
- Lo abbiamo veduto. Dimmi: è molto tempo che è mor-
to?
- Sette giorni, signore.
- In quale modo?
- Mangiando un pesce.
- Lo avevo sospettato.
- Io mi ero recato nella foresta per cercare delle frutta,
non avendo ormai più nulla da porre sotto i denti, e Harry si
era recato alla spiaggia per cercare delle ostriche. Quando ri-
tornai, lo vidi rotolarsi per terra in preda a dolori atroci.
Credetti dapprima che fosse stato morsicato da un serpen-
te velenoso, ma alla mia domanda m'indicò gli avanzi d'un
pesce che aveva arrostito a poi mangiato.
Cercai di calmare i suoi dolori, facendo bollire in una sca-
tola di latta delle erbe che credevo medicinali, ma tre ore do-
po il disgraziato aveva cessato di vivere.
Allora mi prese una paura invincibile e fuggii su questa
collina. Erano sette giorni che io erravo fra queste macchie
come una belva feroce, sfinito dalla fame, senza aver più il
coraggio di scendere alla capanna.
Abbiamo sofferto, sapete, signore: voi vedete in quale sta-
to miserando io sono ridotto. Sono pelle ed ossa. -
- Ma non vi eravate diretti verso le coste del Borneo?
- È vero, signore, ma non possedendo alcuna bussola e te-
mendo di smarrirci sempre più, ritornammo al nord sperando
di raggiungere l'Arcipelago di Sulu, finchè una notte naufra-
270
gammo su queste coste.
La scialuppa si era sfasciata contro le scogliere ed a gran-
de fatica potemmo toccare terra con un fucile, trenta cariche
e alcune bottiglie di Marsala.
Finchè avemmo polvere e palle potemmo vivere alla me-
glio abbattendo degli uccelli, ma quando terminammo le
munizioni ci trovammo ben presto alle prese colla fame. Le
frutta della foresta non erano sufficienti a mantenerci in for-
ze e soffrimmo dei digiuni tremendi che ci ridussero a sche-
letri viventi.
- Una domanda.
- Parlate, signore.
- Sapevi che noi eravamo qui?...
- Sì, - rispose il maltese. - Avevamo intrapreso un viaggio
nell'interno dell'isola sperando di trovare degli indigeni, ed
un giorno vi scorgemmo mentre stavate coltivando un cam-
picello.
- E perchè non siete venuti a chiedere ospitalità?
- Per paura di venire presi e appiccati, come ne avreste
avuto il diritto. Ma.... avevamo anche veduto il Piccolo Ton-
no; è rimasto nella scialuppa forse?...
- No, alla capanna.
- Una capanna, un campicello, una scialuppa, un recinto
con degli animali, delle scimmie!... Ah!... Quanto v'invidia-
vamo, signor Albani!... Voi in mezzo all'abbondanza e noi
morenti di fame. Oh!... l'abbiamo espiato il nostro delitto,
credetelo.
- Non avrai più nulla da invidiarci, Marino. D'ora innanzi
farai parte della nostra famiglia e tutti lavoreremo pel benes-
sere della nostra piccola colonia. Alla scialuppa, Enrico: più
nulla abbiamo da fare qui. -
271
Scesero la collina e aprendosi un passaggio attraverso alla
foresta, giunsero sulla spiaggia che percorsero fino alla pic-
cola baia, presso la quale stava legata la scialuppa.
Volsero un ultimo sguardo alla catapecchia sotto la quale
il maltese Harry dormiva l'eterno sonno, spiegarono la vela e
presero frettolosamente il largo girando la penisola, volendo
visitare le coste orientali della loro possessione.
Quella penisola fu chiamata di Harry, a ricordo del disgra-
ziato maltese.
Il mare non era più tranquillo come prima, essendo cre-
sciuta la brezza. Larghe ondate venivano dall'est e correvano
a infrangersi, con grande fragore, sulle scogliere dell'isola,
rimbalzando e spumeggiando.
Anche il cielo, che al mattino era limpidissimo, andava
coprendosi di nuvole le quali salivano dal sud-sud-est, mi-
nacciando d'invadere tutta la vôlta celeste e di rovesciare
sull'isola un furioso acquazzone.
I Robinson però, vedendo che la scialuppa, malgrado la
sua pesante costruzione si manteneva benissimo, balzando
agilmente sulle onde, continuavano a tenersi al largo, avendo
fretta di giungere alla loro abitazione.
Il signor Albani tuttavia non si ristava dal rilevare le
spiagge dell'isola, assegnando nomi alle piccole insenature,
ai capi, alle penisolette e alle scogliere.
Verso le quattro del pomeriggio, lo stato del mare peggio-
rò tanto da far nascere delle inquietudini. Delle ondate altis-
sime continuavano a salire dall'est, minacciando di subissare
la scialuppa, e raffiche impetuose gonfiavano la vela il cui
albero si curvava in modo da temere che dovesse spezzarsi.
- Sono ondate di fondo, - disse il veneziano. - Qualche
violenta tempesta deve essere scoppiata verso l'est.
272
- Pure stamane il cielo era limpido ed il mare tranquillo, -
disse Enrico. - Noi non abbiamo udito alcun tuono.
- Le ondate di fondo, che sono prodotte dalla lunga conti-
nuazione d'una violentissima bufera, percorrono delle distan-
ze incredibili, Enrico. Forse la tempesta che ha mosso questi
cavalloni è scoppiata a parecchie centinaia di miglia dalla
nostra isola, forse nei paraggi delle isole Sanghir, cioè nel
mare delle Celebes o più oltre, alle Molucche od a Minda-
nao.
- E voi credete che queste onde possano percorrere tali di-
stanze senza perdere la loro forza?...
- Sì, Enrico. Nell'Oceano Pacifico si sono osservate delle
ondate di fondo che venivano da più di mille miglia.
- Ditemi, signor Albani, è vero che in certe tempeste si so-
no osservate delle onde alte qualche centinaio di metri?... Se
devo dire il vero, io non ne ho mai vedute.
- Sono frottole spacciate dai marinai. È bensì vero che per
coloro che sono a bordo delle navi, specialmente piccole,
sembra che le montagne d'acqua abbiano delle altezze inve-
rosimili, ma si è constatato che in media quelle altezze si ri-
ducono a pochi metri.
- Oh! questo poi....
- È verissimo, Enrico. Delle osservazioni accuratissime
fatte nell'Oceano Atlantico durante delle furiose tempeste,
hanno limitato quelle altezze a soli sei metri, però se ne sono
vedute di quelle che toccavano i nove e anche i tredici.
- È sempre una bella altezza.
- Presso il Capo Horn invece ne furono vedute di quelle
che toccavano i quindici metri ed il navigatore Dumont
d'Urville affermò di averne vedute talune che superavano i
trentatrè metri.
273
- Quali urti poderosi devono produrre quelle masse!
- Tremendi senza dubbio, per le navi che devono soppor-
tarle. Bada alla scotta: sta per giungere una raffica impetuo-
sa, Enrico. -
Il vento cresceva di violenza rapidamente col calare delle
tenebre, soffiando dall'ovest, ossia da terra e le onde raddop-
piavano la rabbia scagliandosi con maggior furia contro la
scialuppa.
I Robinson erano allora giunti in un luogo pericolosissi-
mo, essendo irto di banchi e di scoglietti a fior d'acqua, diffi-
cilissimi ad evitarsi.
Non essendo prudente tenersi in mare coll'uragano che
cresceva a vista d'occhio, e con quella scialuppa che era così
pesante e sprovvista di chiglia, decisero di poggiare verso la
costa.
Disgraziatamente i banchi e le scogliere crescevano di nu-
mero sulla loro sinistra, e per colmo di sventura il vento era
contrario e tendeva a ricacciarli al largo.
- Mille terremoti! - esclamò il genovese, che cominciava a
diventare inquieto. - Temo che sia una cosa assai difficile
l'approdare, signor Albani. Bisogna virare al largo o noi per-
deremo la scialuppa.
- Non scorgi alcun passaggio fra le scogliere?
- È impossibile vederlo, con quest'oscurità che ci piomba
addosso e con questa spuma che rimbalza dovunque. Corria-
mo il pericolo di urtare.
- E al largo le onde ingrossano, - disse Marino.
- Tentiamo la sorte, amici.
- Vi dico che è impossibile, signore, - ripetè Enrico. - Qui
non si passa.
- Allora viriamo al largo. -
274
Volsero la poppa all'isola e s'allontanarono verso l'est per
girare quei banchi e quelle scogliere, ma pareva che si esten-
dessero assai, poichè a due miglia di distanza si vedevano le
onde a rimbalzare a prodigiosa altezza, come se trovassero
degli ostacoli continui.
Il mare intanto non cessava dall'ingrossare spaventosa-
mente ed il vento ululava sinistramente fra l'attrezzatura del-
la piccola scialuppa. La notte era calata con grande rapidità e
quelle tenebre, che solo di tratto in tratto venivano rotte da
qualche lampo, rendevano maggiormente critica la situazio-
ne dei Robinson, poichè non potevano quasi più scorgere i
frangenti che si moltiplicavano dinanzi a loro.
Enrico, a prora, sbarrava gli occhi e segnalava al venezia-
no i luoghi ove le onde si rompevano, ma non sempre riusci-
va a scorgere le scogliere o presentire la vicinanza dei ban-
chi subacquei. Già due volte la scialuppa aveva toccato uno
di quei numerosi ostacoli, correndo il pericolo di rovesciarsi
o di spaccarsi.
Marino, colla scotta in mano, si teneva pronto a stringere
il vento od a lasciar andare la vela, mentre Albani manovra-
va il lungo remo che serviva di timone.
Si erano già allontanati dall'isola cinque o sei miglia, ma
quella fila di scogli continuava a pararsi dinanzi a loro senza
permettere il passaggio. La scialuppa fortunatamente resiste-
va alla furia del vento e del mare, ma danzava disperatamen-
te, precipitando negli avvallamenti dei marosi con delle
scosse inquietanti e di quando in quando imbarcava acqua.
Ad un tratto, al chiarore d'un lampo, Enrico scorse verso
l'est una massa oscura che sembrava uno scoglio di grandi
dimensioni od un isolotto.
- Fulmini e terremoti! - esclamò.
275
- Cos'hai? - chiese Albani.
- Temo, signore, che dovremo spingerci assai lontani se
vorremo girare questa dannata catena di frangenti. Mi sem-
bra che si spinga fino a quell'isolotto che ho scorto all'est.
- Lontano assai?...
- Parecchie miglia di certo. -
Albani, non ostante il suo coraggio straordinario, provò
una vera inquietudine.
- Se tentassimo di ritornare? - disse.
- Avremo le onde a prora, signore, - risposero Enrico e
Marino.
- È vero, e la scialuppa correrebbe il pericolo di subissarsi
di colpo, ma non oso spingermi tanto lontano dall'isola, ami-
ci.
- La scialuppa resiste, signore, - disse il genovese. - Se
possiamo girare queste scogliere, troveremo al di là un mare
più tranquillo, servendoci tutti questi ostacoli d'argine.
- Ma le onde aumentano e minacciano di spezzarmi il re-
mo, ed il vento soffia sempre più impetuoso dall'ovest.
- Dannato uragano! - esclamò Enrico. - Orsù, bisogna an-
dare innanzi, signore. Il pericolo è dinanzi come dietro a noi.
- Prendi un'altra mano di terzaruoli, Marino, - disse Alba-
ni. - Avanti, e che Dio ci protegga! -
La scialuppa, spinta da quel ventaccio furioso che aumen-
tava sempre, filava come una freccia. Malgrado la sua pe-
santezza, saliva arditamente le onde librandosi sulle creste
spumeggianti come un'alcione, poi precipitava negli avvalla-
menti, quindi risaliva ancora, ma imbarcava sempre acqua.
Enrico aveva dovuto abbandonare il suo posto d'osserva-
zione a prora, e col suo cappellaccio di fibre di rotang,
s'affannava a vuotarla per renderla più leggiera.
276
Le scogliere intanto continuavano sul tribordo. Al chiaro-
re dei lampi si vedevano emergere le loro punte nere e aguz-
ze, e attorno ad esse il mare si rompeva con mille muggiti
paurosi, lanciando a grande altezza delle colonne di spuma.
Lo scoglio segnalato dal marinaio, lo si scorgeva ormai
distintamente alla luce livida dei lampi. Pareva l'estremità
d'un monte sottomarino, coi fianchi dirupati, la base corrosa
in mille modi dall'eterna azione delle onde. Attorno a quel
picco solitario, si vedevano le onde sfasciarsi con rabbia
estrema e la spuma lo circondava da ogni parte come se
presso di esso si estendessero altri scoglietti.
- Attenzione, signor Albani! - gridò d'improvviso Enrico,
che aveva ripreso il suo posto a prora. - Dei frangenti a ba-
bordo!... -
Il veneziano, che si era alzato per essere più pronto ad
agire, cacciò il remo all'orza, mentre Marino lasciava scorre-
re la scotta della vela.
La scialuppa era allora giunta di fronte allo scoglio e si
preparava a girarlo.
- Vedi nulla dinanzi a noi? - chiese Albani.
- Mi pare che il mare sia sgombro dinanzi allo scoglio.
- Possiamo virare?
- Lo credo, signore.
- Vira! - gridò Albani.
Aveva appena lanciato quel comando, che un'onda gigan-
tesca, prendendo la scialuppa di traverso, la scagliò fuori di
rotta, verso la fronte orientale dello scoglio.
Avvenne un cozzo violento seguito da tre grida di spaven-
to.
La Roma, rovesciata dall'impeto delle onde, si capovolse,
poi scomparve in mezzo alla spuma, mentre l'uragano rad-
277
doppiava di violenza.
278
Capitolo XXX
I naufraghi
279
quanta passi.
- Tenete duro, signore, - tuonò il genovese. - Veniamo in
vostro soccorso.
- È inutile, - rispose il veneziano. - Ci sono!... -
Un'onda l'aveva preso e lo spingeva verso lo scoglio. Fu
veduto un istante librarsi sulla cresta del cavallone, in vici-
nanza dei frangenti, poi echeggiò un grido di dolore.
- Fulmini! - tuonò il genovese, impallidendo. - Marino!...
- Eccomi, camerata, - rispose il maltese che scendeva a
precipizio la scogliera, per correre in soccorso del povero
veneziano.
- Lo vedi?...
- No, - disse Marino con voce strozzata. - Non lo vedo
più! -
Enrico si era lasciato scivolare giù dalla china.
Gettò un rapido sguardo sui frangenti approfittando d'un
lampo, ma non vide più il signor Albani.
280
I naufraghi. (Pag. 208).
281
Una terribile commozione scompose i lineamenti del bra-
vo marinaio, mentre un grido di disperazione gli erompeva
dal petto.
- Perduto?... Ucciso forse?... - esclamò con voce rotta. -
Marino.... Bisogna cercarlo! -
I due marinai, senza badare al pericolo, avevano raggiunta
la base dello scoglio e si erano messi a correre lungo i fran-
genti, lottando disperatamente contro i marosi che minaccia-
vano di travolgerli e di trascinarli al largo.
Parevano impazziti pel dolore. Si cacciavano fra i banchi
e le rocce che circondavano la rupe, chiamando ad alta voce
il loro disgraziato compagno; cadevano sotto l'assalto bruta-
le, irresistibile, delle acque, ma si risollevavano e senza ba-
dare alle contusioni, alle punte aguzze che rovinavano i loro
piedi, continuavano le loro ricerche correndo or qua or là e
raddoppiando le chiamate.
Ohimè! Nessuna voce umana rispondeva: solamente i fi-
schi del vento ed i muggiti del mare in tempesta si udivano
attorno allo scoglio solitario.
Dopo un'ora di sforzi sovrumani, pesti, sanguinolenti, af-
franti, scoraggiati, si videro costretti a rinunciare a quella
lotta che poteva tornare a loro fatale. Marino dovette trasci-
nare Enrico sulla spiaggia, poichè il bravo marinaio stava
per lasciarsi portar via dalle onde, non volendo troncare le
ricerche, quantunque non fosse più in grado di reggersi in
piedi.
- Vieni, camerata, - disse il maltese, spingendolo sotto una
rupe che poteva ripararli dal vento e dalla pioggia che co-
minciava a cadere a torrenti.
- Bisogna cercarlo ancora, Marino, - singhiozzò il marina-
io. - No, non può essere morto.
282
- Lo cercheremo più tardi. Tu non hai più forze, ed io non
posso tenermi in piedi.
- Credi che sia morto?...
- Non disperiamo, Enrico. Le onde possono averlo spinto
lontano da qui, sulla sponda di levante o meridionale.
- Ma non ha risposto alle nostre chiamate.
- Questi muggiti non gli avranno permesso di udirci.
- Povero signor Albani! Andiamo a cercarlo, Marino.
- Ma con questa oscurità è impossibile.
- Andiamo, ti dico.
- Ma le onde ti trascineranno.
- Ci terremo sulla spiaggia. Vivo o morto, bisogna che lo
trovi. -
Il marinaio, che pareva fuori di sè, si era rialzato facendo
appello a tutta la sua energia, e seguìto dal maltese si era
messo a percorrere la spiaggia, mescolando le sue chiamate
alle urla della bufera.
Di tratto in tratto si arrestavano, credendo di udire fra i fi-
schi del vento, la voce del loro disgraziato compagno, poi ri-
prendevano le ricerche spingendosi fino alla linea dei fran-
genti.
Pioveva a dirotto e l'oscurità era così profonda da non po-
ter discernere un oggetto qualsiasi a sei passi di distanza, pu-
re i due marinai non s'arrestavano. Curvi per resistere ai soffi
tremendi del ventaccio, inzuppati d'acqua, scalzi, avendo
perduto i loro stivali già assai malandati, frugavano i crepac-
ci aperti fra le scogliere, entro i quali ingolfavansi le onde
con cupi muggiti, le spaccature, le cavità, salendo e discen-
dendo, aiutandosi l'un l'altro.
Raddoppiavano le chiamate per dominare i fragori della
tempesta, ma senza mai ottenere una risposta. Esausti, s'arre-
283
starono una seconda volta entro una cavità situata sulla
sponda settentrionale dello scoglio.
- È morto, - singhiozzò Enrico. - Il mare lo ha inghiottito.
-
Il maltese non rispose: anche lui aveva ormai perduto
ogni speranza.
- Cosa faremo noi senza quell'uomo che era la nostra
provvidenza? - continuò il marinaio, con crescente dispera-
zione. - Che importa a me ormai di quest'isola senza di lui?...
E tutto per salvare voi, incendiarii!
- Enrico! - disse Marino, con dolore.
- Sì, per salvare voi, - ripetè il genovese con voce rauca. -
Senza di voi, non avremmo intrapreso questo viaggio fatale.
- È vero, - mormorò il maltese. - Hai ragione d'incolpar-
mi, ma io troverò il signor Albani o il mare m'inghiottirà.
- Ti dico che è morto.
- Troverò almeno il suo cadavere. -
Si era alzato e stava per scendere lo scoglio, quando fra
gli urli della bufera gli parve di udire una voce umana. Tornò
rapidamente indietro gridando:
- Hai udito, Enrico?... -
Il marinaio, assorto nel suo dolore, parve che non lo aves-
se inteso.
- Ma non hai udito? - ripetè il maltese, scuotendolo.
- Che cosa? - chiese il marinaio, alzando il capo.
- Una voce umana.
- Dove?
- Laggiù, - disse il maltese indicando la punta estrema
dello scoglio.
- Lui, forse?...
- Taci! -
284
Fra i muggiti delle onde si era udito un grido. Pareva che
un uomo invocasse aiuto.
Enrico era balzato in piedi.
- Sì! - esclamò. - Ho udito, Marino.
- Il signor Albani?
- Non lo so, ma accorriamo. -
Si erano lanciati tutti e due innanzi, lasciandosi scivolare
per le chine col pericolo di fiaccarsi il collo o di rompersi le
gambe sulle scogliere sottostanti.
La voce si udiva sempre, ma ad intervalli e sembrava che
fosse proprio quella del signor Albani. Pareva che provenis-
se dalla punta estrema dello scoglio, ma essendo quella parte
assai dirupata ed interrotta da spaccature, da rocce che dove-
vano essere cadute dall'alto e da frane, i due marinai, che
non avevano alcun lume, non potevano procedere spedita-
mente per non cadere nell'abisso aperto dinanzi a loro.
Dopo dieci minuti però, giungevano alla punta estrema, la
quale in causa forse della sua forma, era maggiormente diru-
pata e guastata dalle onde che dovevano batterla senza posa.
Sostarono un istante tendendo gli orecchi e udirono distinta-
mente una voce fioca che invocava aiuto, ma pareva che sa-
lisse fra le onde.
- Mille milioni di fulmini! - gridò Enrico. - Che il signor
Albani sia ancora in acqua?... E non un lume per poterlo
scorgere!
- Ma è impossibile che nuoti ancora, - disse il maltese. -
Sono già due ore che la scialuppa si è rovesciata, e nessun
nuotatore potrebbe resistere tanto tempo con queste ondate.
- Ma viene dal mare, ti dico!... Odi?... -
Non era possibile ingannarsi: la voce echeggiava alla base
dello scoglio, ma, cosa strana, questa volta sembrava che
285
uscisse di sotto terra, piuttosto che fra le onde:
- Signor Albani! - gridò Enrico. Siete voi?...
- Sì, - rispose la voce, un istante dopo.
- Nuotate ancora?
- No.... sto per affogare....
- In nome di Dio, ditemi ove siete! -
Questa volta non ottenne alcuna risposta.
- Scendiamo, Marino, - disse Enrico. - Forse sarà aggrap-
pato ai frangenti. -
Scesero la ripa e s'inoltrarono lottando contro le onde che
li assalivano da tutte le parti. Tenendosi per mano, per essere
pronti ad aiutarsi scambievolmente, giunsero poco dopo di-
nanzi ad un'apertura nera, che sembrava s'internasse sotto la
sponda.
- Una caverna marina! - esclamò il maltese.
- Entriamo, - rispose Enrico con voce risoluta.
- E non affogheremo lì dentro?... Le onde la invadono.
- Non importa: avanti! -
Attesero che le onde spinte innanzi dal vento si rompesse-
ro, poi si cacciarono arditamente entro quella oscura galle-
ria, dove l'acqua muggiva e rimuggiva infrangendosi contro
le pareti.
- Signor Albani! - gridò Enrico. - Siete qui?
- Aiuto, Enrico, - articolò una voce fioca.
Il marinaio, sospinto da una nuova onda che si rovesciava
entro la caverna con mille fragori, si lasciò trascinare innan-
zi e andò a cadere contro un corpo che non aveva la consi-
stenza della roccia, e che pareva si tenesse coricato in fondo
all'antro marino.
Rammentandosi, in quel momento, dell'orribile cefalopo-
do che lo aveva assalito nella caverna dell'isola, balzò in pie-
286
di per fuggire, ma un gemito lo trattenne.
- Ma siete voi, signor Albani? - gridò.
- Aiutami, Enrico, - disse il veneziano. - Le onde mi affo-
gano.
- Mille terremoti!... Voi, signore! Siete ferito forse? - chie-
se precipitandosi verso il disgraziato compagno.
- Sì, Enrico.... portami via di qui. -
Il marinaio si curvò cercandolo a tastoni, e trovatolo, lo
afferrò fra le robuste braccia, serrandoselo contro il petto.
Marino veniva in suo aiuto.
Attesero che l'onda si ritirasse, poi abbandonarono preci-
pitosamente la caverna, correndo lungo la spiaggia per non
venire trascinati fra i frangenti.
Giunti sotto la sporgenza della rupe che poco prima ave-
vano scoperta, si arrestarono, coricando il signor Albani nel
luogo meno esposto alla pioggia e al vento.
- Grazie, amici, - balbettò egli con voce fioca.
- Ditemi, signore, dove siete ferito? - chiese il marinaio
reggendogli il capo.
- Sono tutto contuso e ammaccato, ma spero che non sia
cosa grave. Mi pare di avere le costole spezzate, tanto vio-
lento è stato il colpo ricevuto dall'onda che mi ha scagliato
contro i frangenti.
- Gran Dio!
- Rassicurati, Enrico, non sono rotte, - disse Albani, sfor-
zandosi a sorridere. - E la scialuppa?
- Perduta, signore; ma lasciamo che il mare se la porti e
occupiamoci di voi. Cosa dobbiamo fare?
- Vorresti chiamare un medico, forse?...
- Scherzate! Ammirabile uomo!
- Lasciami riposare qui e per ora non chiedo di più.
287
- Ma voi soffrite!
- Bah!... Tutto passerà, Enrico. Domani mattina vedremo
se si è guastata qualche molla della mia macchina, ma spero
che tutto sia intatto. Sono scombussolato e ben pesto, ecco
tutto.
- Ma era molto tempo che vi trovavate nella caverna?
- Un paio d'ore di certo, se non di più.
- Vi hanno spinto le onde?
- Non lo saprei. Quando fui gettato sui frangenti, ricevetti
tale urto da smarrire i sensi o poco meno. Cosa sia poi acca-
duto, io non lo so; quando ritornai in me mi trovai in fondo
alla caverna che le onde invadevano, minacciando di affo-
garmi. Facendo uno sforzo disperato mi trascinai fino
all'estremità dell'antro, e là svenni una seconda volta.
- Non avete udito le nostre grida, signore? - chiese Mari-
no.
- Era impossibile udirle, poichè le onde che invadevano la
caverna producevano dei fragori assordanti.
- Vi avevo creduto morto, signore, - disse Enrico. - Quale
disgrazia per noi, se voi foste mancato!
- Avreste ormai potuto fare anche senza di me.
- No, signore. Senza di voi la nostra isola non avrebbe
avuta più alcuna attrattiva.
- Bravo giovane, - mormorò il signor Albani, commosso. -
Quanta affezione in questi uomini di mare! –
288
Capitolo XXXI
Sullo scoglio
289
re un passaggio fra i frangenti?... Ciò è grave, amici miei.
Aiutatemi ad alzarmi.
- No, signore, rimanete coricato; siete ancora assai debo-
le.
- Mi sento meglio, Enrico.
- Ma voi siete ferito, signore. Vedo delle goccie di sangue
sui vostri calzoni.
- Ho una contusione sopra il ginocchio destro, ma è nulla,
amico mio. Credevo di aver riportato delle ferite ben gravi. -
Appoggiandosi alle braccia del genovese e di Marino, si
alzò e guardò verso l'est.
Ad una distanza di venticinque e forse di trenta miglia, si
scorgeva l'alta montagna dell'isola, spiccare nettamente sul
fondo luminoso del cielo, ma le coste non erano visibili. Una
fila di frangenti, staccandosi dallo scoglio, si stendevano in
quella direzione, ma quegli scoglietti, tutti di origine coralli-
fera, non erano uniti, anzi pareva che ad una certa distanza,
mancassero totalmente. Forse più oltre esistevano quei ban-
chi che avevano impedito alla scialuppa di passare, ma es-
sendo il mare ancora assai agitato, non si potevano scorgere.
- La cosa è grave, - ripetè il signor Albani, che era diven-
tato pensieroso. - Come attraverseremo noi queste venticin-
que o trenta miglia, ora che abbiamo perduta la scialuppa?...
Che siamo destinati a rimanere prigionieri su
quest'isolotto?...
- Voi riuscirete a trarvi d'impiccio, signore, - disse Enrico.
- Voi sapete tanto che potrete trarre utilità da tutto.
- Ma quest'isolotto mi sembra un arido scoglio privo di
tutto, Enrico.
- Non lo abbiamo ancora visitato, signore.
- Aiutatemi a salire quella rupe. Di lassù potremo meglio
290
vedere se la linea dei frangenti si estende fino alla nostra iso-
la e accertarci delle risorse che potrebbe offrire questo sco-
glio. -
I due marinai passarono le loro braccia sotto le ascelle del
veneziano e sorreggendolo lo condussero sulla cima dell'iso-
lotto, il quale alzavasi una cinquantina di metri sul livello
del mare.
Di lassù potevano dominare tutto il mare all'intorno, di-
stinguere, un po' confusamente però, le alte sponde della lo-
ro isola e riconoscere con un solo sguardo il loro nuovo rifu-
gio.
Il signor Albani non si era ingannato. Quell'isolotto, che
sorgeva all'estremità di quella lunga fila di frangenti e di
banchi, non poteva offrire a loro alcuna risorsa, nè fornire in
modo alcuno, i mezzi per far ritorno alla loro capanna.
Pareva che fosse l'estremità d'un antico vulcano, solleva-
tosi in causa di qualche cataclisma sottomarino, poichè i
suoi fianchi erano coperti di vecchie lave, di lapilli e di in-
crostazioni marine. Si vedevano soprattutto, anche verso la
cima, numerosi gusci di conchiglie e pezzi di quel corallo,
così comune in quei mari, dove i piccoli infusorii costruisco-
no quelle meravigliose scogliere che poi finiscono col diven-
tare delle vere isole.
Quello scoglio aveva però delle dimensioni ragguardevo-
li, poichè poteva avere una circonferenza di oltre mille me-
tri. Non era tuttavia tutto dirupato: mentre le sue coste meri-
dionali scendevano quasi a picco, quelle settentrionali e oc-
cidentali calavano dolcemente e alla base si spianavano for-
mando una vera spiaggia sabbiosa.
Nessun albero cresceva fra quelle rocce; solamente pochi
magri cespugli e delle piante sarmentose si vedevano cresce-
291
re in fondo ai burroncelli, alimentate dalle piogge che dove-
vano raccogliersi in quelle bassure.
Gli animali dovevano mancare, ma non così gli uccelli,
poichè su certe rupi tagliate a picco sul mare, si udivano di
quando in quando dei cicalecci allegri.
Probabilmente dovevano essere rondini marine della spe-
cie delle salangane, volatili assai comuni in tutte le isole di
quegli arcipelaghi e sopratutto in quelle deserte o poco abita-
te, non amando di essere disturbate.
- E così, signore? - chiese Enrico al veneziano, il quale
continuava a osservare l'isolotto. - Credete che si possa ri-
guadagnare la nostra isola?
- Temo, amico mio, che questa avventura inaspettata ci
faccia passare dei brutti momenti, - rispose Albani. - Dimmi:
credi tu che la scialuppa si sia fracassata contro i frangenti?
- No, signore, poichè si è capovolta prima di toccare la
sponda di questo dannato scoglio.
- Se non si è spezzata, galleggerà adunque ancora.
- Lo credo, essendo tutta d'un pezzo e assai pesante.
- Speriamo che le onde l'abbiano spinta sui frangenti e
arenata su qualche banco. Senza di quella noi non potremo
lasciare quest'isolotto.
- Ma le onde possono averla spinta assai lontana, signore,
- osservò Marino. - Il vento soffiava dall'ovest e l'avrà trasci-
nata all'est.
- È vero, - disse Albani, scuotendo il capo.
- Ma vi sono i frangenti, - disse Enrico. - Possiamo, nuo-
tando, passare dall'uno all'altro e avvicinarci all'isola.
- Ma vi sono delle interruzioni considerevoli nella linea, -
rispose Albani. - E poi tu sai che in queste acque i pescicani
e le torpedini sono numerose e non possediamo ora alcuna
292
arma per difenderci.
- Saremo adunque costretti a perire di fame su questo de-
serto scoglio?...
- Non disperiamo così presto, Enrico. Quando il mare si
sarà calmato, vedremo se i frangenti ed i banchi ci permette-
ranno di avvicinarci all'isola e poi, chissà, un grande fuoco si
potrebbe forse scorgere dalla piattaforma della nostra capan-
na.
- Avete ancora l'acciarino e l'esca?
- Sì, Enrico, è sempre rinchiuso nella sua scatoletta im-
permeabile.
- E credete che Piccolo Tonno possa scorgere un fuoco ac-
ceso su questo scoglio?
- Forse, poichè io credo che questo vulcanello non sia
molto lontano dalla costa settentrionale. Intanto, amici miei,
cerchiamo un ricovero e se è possibile qualche cosa da porre
sotto i denti. Le conchiglie non devono mancare su quella
spiaggia sabbiosa. -
Lasciarono la cima e girando attorno alla base di quel co-
no vulcanico, riuscirono a scoprire una profonda cavità suf-
ficiente a ripararli dai raggi del sole che erano cocentissimi,
essendosi ormai il cielo sgombrato in gran parte dai vapori
che lo coprivano.
Il signor Albani e Marino si spogliarono delle loro vesti
per metterle ad asciugare, ma Enrico continuò a esplorare
l'isolotto colla speranza di trovare arenata la scialuppa o di
scoprire, in fondo a qualche burroncello, degli alberi che po-
tessero fornire una zattera.
Le sue ricerche furono però vane, poichè non vi erano che
cespugli e anche questi erano poco numerosi e non in grado
di fornire un galleggiante qualunque. Visitando però la
293
spiaggia sabbiosa, fece un'ampia raccolta di datteri di mare,
di conchiglie di varie specie e trovò anche alcune di quelle
deliziose ostriche chiamate di Singapore, pesanti qualche
chilogramma. Vide anche numerose tracce di testuggini, ma
non riuscì a scoprirne alcuna, quantunque fosse certo che ve
ne fossero nascoste in mezzo alle scogliere.
Si provò a sollevare qua e là le sabbie, non ignorando che
quei rettili hanno l'abitudine di seppellire le loro uova, ma
senza frutto, essendo abilissime nel far sparire le più piccole
tracce.
Ritornando trovò anche un serbatoio d'acqua di capacità
considerevole, racchiuso fra due rocce profondamente inca-
vate. Quella scoperta lo rallegrò assai, poichè non vi era al-
meno il pericolo di morire di sete, nel caso che la loro pri-
gionia si prolungasse.
Durante la giornata il mare continuò a mantenersi agitatis-
simo, impedendo ai naufraghi di poter accertarsi fin dove si
estendeva la linea dei frangenti e dove si ergevano i banchi
che avevano impedito il passaggio alla scialuppa. Solamente
verso sera le onde cominciarono ad abbassarsi, ed a percuo-
tere con meno violenza la base dello scoglio.
Quando le tenebre calarono, i naufraghi riguadagnarono
la vetta portando con loro delle piante arrampicanti secche e
dei rami strappati ai cespugli, per tentare dei segnali.
Appena giunti sulla cima guardarono verso l'isola, la cui
alta montagna si disegnava confusamente sull'orizzonte stel-
lato, cercando di scoprire qualche punto luminoso che indi-
casse la direzione della capanna aerea.
- Guardate, signor Albani, - disse ad un tratto il maltese,
che teneva gli sguardi fissi verso il nord-ovest.
Il veneziano ed Enrico guardarono nella direzione indica-
294
ta e sul margine estremo della loro isola, quasi a fior
d'acqua, scorsero un lumicino che non poteva confondersi
colla luce d'una stella.
- È Piccolo Tonno che si prepara la cena dinanzi alla ca-
panna, - disse Enrico. - Se quel bravo ragazzo sapesse che
noi lo spiamo ansiosamente e che invochiamo il suo aiuto!
Ah! Come sarei contento di dividere il suo pasto!
- Sì, - disse Albani. - Quel fuoco è stato acceso dal ragaz-
zo. Non mi ero ingannato sulla posizione di questo scoglio.
Deve essere quello che noi abbiamo scorto dalla finestra del-
la nostra caverna.
- Dunque noi ci troviamo di fronte ai nostri magazzini?
- Se non proprio di fronte, un po' più al sud, ma a venti-
cinque o trenta miglia di distanza.
- Credete che Piccolo Tonno possa scorgere il nostro fuo-
co?
- Certo, Enrico.
- E che accorra in nostro aiuto?
- Ecco quello che non possiamo sapere. Può temere che il
fuoco sia stato acceso da dei pirati e invece di farci dei se-
gnali, fuggire.
- Diavolo, - mormorò Enrico, grattandosi furiosamente la
testa. - Ma non vedendoci ritornare, dovrebbe immaginarsi
che una disgrazia ci è toccata.
- Ma dovranno trascorrere prima parecchi giorni, non
avendogli fissata l'epoca del nostro ritorno. Però, vedendo
tutte le sere questo fuoco, finirà forse col persuadersi che si
cerca di attirare la sua attenzione. Orsù, accendiamo gli ster-
pi. -
Radunarono sulla più alta cima del cono le legne portate e
le accesero. Una grande fiammata si alzò subito, lanciando
295
in aria nembi di scintille che il venticello notturno spingeva
sul mare come tante minuscole stelle.
L'antico vulcano pareva che si fosse risvegliato dal suo
sonno secolare. I suoi fianchi, illuminati da quel falò che il
vento ravvivava, pareva che si fossero coperti di lave arden-
ti, mentre il mare tutto all'intorno, si tingeva di riflessi san-
guigni.
Quel vivo chiarore, che spiccava nettamente sul fondo
oscuro del cielo e sui flutti, non doveva passare inosservato
al mozzo, malgrado la notevole distanza che separava lo
scoglio dalle sponde settentrionali dell'isola.
Il falò per un quarto d'ora scintillò fra le tenebre, poi non
più alimentato si abbassò lentamente, finchè si spense del
tutto.
I naufraghi, ritti sulla più alta punta, guardavano sempre
verso il nord-est, sperando di vedere il punto luminoso a in-
grandirsi, ma invece tutto d'un tratto scomparve.
- Piccolo Tonno non ci ha compresi, - disse Enrico. - For-
se si sarà invece spaventato.
- È probabile, - rispose Albani, - ma finirà col persuadersi
che questo fuoco è un segnale.
- Ripetiamolo, signore.
- È inutile, Enrico. Piccolo Tonno deve aver scorta questa
luce e poi dobbiamo economizzare le piante che sono così
scarse su quest'isolotto. Anche mantenendo il fuoco acceso
tutta la notte, non riusciremmo a persuadere il mozzo che è
un segnale di pericolo.
Ripetendolo per parecchie sere e non vedendoci ritornare,
forse s'immaginerà che siamo noi che chiediamo aiuto.
Scendiamo, amici, e andiamo a dormire. -
Essendo inutile vegliare, non avendo da temere assalti da
296
parte di nessuno ed essendo assai stanchi, non avendo dor-
mito la notte precedente, s'affrettarono a ritornare al loro ri-
covero ed a chiudere gli occhi.
Il loro sonno non fu turbato da alcun incidente e poterono
riposare tranquillamente fino allo spuntare del giorno, mal-
grado i muggiti delle onde, le quali si sfasciavano sempre
contro lo scoglio con grande violenza.
L'indomani però, il mare era ritornato calmo. Solamente
delle larghe ondulazioni lo percorrevano, rompendosi contro
i frangenti.
Inghiottirono alcune dozzine d'ostriche che il maltese era
andato a raccogliere sulla spiaggia sabbiosa, poi risalirono
sulla vetta del vulcano per vedere se sulla loro isola si scor-
geva qualche segnale, ma invano. Nessuna colonna di fumo
s'alzava sulle spiagge, nè sulla cima della montagna.
Senza dubbio Piccolo Tonno, non sospettando chi erano
gli autori di quel segnale, aveva stimato cosa prudente il non
rispondere. Probabilmente aveva creduto che fossero dei pi-
rati o dei pescatori delle Sulu o del Borneo, individui che
stavano meglio lontani anzichè cercare di attirarli sull'isola.
Rivolsero allora la loro attenzione sui frangenti, per vede-
re se era possibile di tentare il passaggio, ma in causa delle
larghe ondulazioni che di tratto in tratto si rovesciavano sul-
le scogliere, non fu possibile scorgere i banchi che dovevano
prolungarsi in direzione dell'isola. Bisognava aspettare che il
mare tornasse perfettamente calmo.
- Per oggi nulla possiamo tentare, - disse Albani. - Questa
sera ripeteremo i segnali e se non avremo alcuna risposta,
domani, se il mare sarà tranquillo, ci avventureremo sui
frangenti. -
Un po' scoraggiati da quelle delusioni, ridiscesero e si di-
297
ressero verso la spiaggia per fare raccolta di ostriche, non
avendo altro cibo disponibile.
Mentre i due marinai, immersi fino alle ginocchia, fruga-
vano le scogliere vicine raccogliendo gli appetitosi mollu-
schi e cacciando i granchiolini, il signor Albani, quantunque
zoppicasse ancora, esplorava l'isolotto sperando di scoprire
qualche testuggine o per lo meno qualche buca ripiena
d'uova di quei rettili.
Ma le sue ricerche riuscirono infruttuose. Si scorgevano
bensì sulle sabbie delle tracce recenti, ma non una testuggine
emergeva sulla riva.
Risalì le rocce visitando i burroncelli, sperando di trovare
almeno qualche pianta utile, ma non riuscì a vedere che dei
cespugli semi-intristiti, delle piante arrampicanti quasi dis-
seccate e degli sterpi. Abbondavano invece le lave, le pomi-
ci, specialmente in una valletta che risaliva verso la cima del
cono.
Avendo trovato un vero torrente di lava raffreddata, ma
che non sembrava tanto vecchia, servendosi d'una grossa
pietra spezzò le diverse croste e s'accorse, che a una certa
profondità, quella lava conservava ancora un certo calore.
- Cosa fate, signore, - chiese Enrico, che aveva terminata
la sua raccolta. - Sperate di trovare qualche tesoro sotto
quelle pietre?
- No, guardavo se fra queste lave vi erano delle sostanze
minerali che potessero giovarci.
- Dell'oro forse?
- No, ma del ferro.
- E ne avete trovato?
- No, Enrico, ma ho fatto una scoperta curiosa.
- E quale, signore?
298
- Ho trovato delle lave che conservano ancora un certo ca-
lore.
- Delle lave eruttate da questo vulcanello?
- Sì, Enrico.
- E ancora calde! - esclamò il marinaio, con stupore. - Ma
allora non è un vulcano spento.
- Se il cratere più non esiste, dev'essere spento.
- Ma noi non lo abbiamo mai veduto eruttare, signore.
- Può essere spento da venti, da cinquanta fors'anche da
cento anni.
- Ma se dite che le lave sono ancora calde!... Dovrebbe
averle eruttate pochi giorni fa e noi non abbiamo veduta al-
cuna fiamma in questa direzione.
- Ti dirò, amico mio, che le lave, coprendosi quasi subito
d'una crosta e avendo una irradiazione debolissima, conser-
vano il loro calore per molti anni, anzi secondo taluni scien-
ziati degni di fede, perfino per un secolo.
- Mille terremoti!... Se queste cose me le narrasse un al-
tro, parola da marinaio, che non vi crederei.
- Aggiungerò che l'irradiazione delle lave è così minima,
che si sono veduti dei vulcani vomitare massi di ghiaccio e
lave insieme.
- Dei massi di ghiaccio uscire da un vulcano fiammeg-
giante?
299
Grazie, señor, del vostro aiuto. Senza di voi, noi saremmo stati
trascinati.... (Pag. 242).
300
- Sì, Enrico. In Islanda questo strano caso si è verificato
sovente.
- Ditemi, signore, che sia molto antico questo vulcanello?
- Non lo credo, essendo le conchiglie che abbiamo vedute
ammucchiate nei suoi burroni, ancora in ottimo stato.
- Ma io sarei curioso di sapere come fanno queste isole a
sorgere dal mare. Che si sprofondino, si può ammetterlo, ma
che si innalzino, mi sembra inesplicabile.
- S'innalzano in seguito ad una spinta formidabile che vie-
ne causata dalle masse di vapori racchiuse nella crosta terre-
stre. Come tu forse saprai, nell'interno del nostro globo, non
sono spenti i fuochi. L'acqua che filtra attraverso i pori della
crosta, trovandosi un dì o l'altro a contatto con quei fuochi,
si evaporizza.
- Vi comprendo, signor Albani. Il vapore, non trovando
sfogo, urta e spezza la crosta.
- Sì, Enrico, ma l'urta con forza irresistibile, rovesciando
le gallerie sotterranee, producendo guasti immensi special-
mente in alto e sollevando qua e là la crosta terrestre.
Un cataclisma simile, formidabile di certo, è avvenuto in
un'epoca più o meno lontana sul fondo di questo mare e la
spinta deve essere stata tale, da sollevare considerevolmente
la crosta e da portare questo cono fuori dalle acque.
Le isole così formate non sono rare. Quasi tutte le Azzor-
re sono di origine vulcanica e anche non molti anni or sono,
nel 1812 se non erro, una ne sorse improvvisamente presso
le coste della nostra Sicilia, ma che i flutti più tardi distrus-
sero.
- Quei sollevamenti producono dei terremoti?
- Sono anzi dovuti ai terremoti.
- Ma come si sarà poi spento questo vulcano?
301
- Forse per la brusca invasione delle acque del mare.
- Deve essere scoppiato come una bomba.
- Di certo, Enrico. Forse era molto più alto, ma scoppian-
do si sarà mozzato, riempiendo poi il cratere di rottami.
- Vi sono stati altri vulcani che sono scoppiati, signor Al-
bani?
- Parecchi, ma non sempre in causa dell'irrompere delle
acque e non sempre si sono poi spenti. Anche il nostro Etna
è scoppiato formando la così detta Val del Bove, e così pure
il nostro Vesuvio nel 79 subissando Ercolano, Pompei e Sta-
bia sotto la pioggia di cenere e di lapilli. Quando nell'Ameri-
ca centrale scoppiò il Coseguina, coperse le campagne circo-
stanti d'uno strato di cenere alto cinque metri per una super-
ficie di quarantanove chilometri, e la detonazione fu udita a
millecinquecentosessanta chilometri di distanza.
- Fulmini!... Che rombo!...
- Quando invece nel 1698 scoppiò il Timboro nell'isola di
Sumbava, causò la caduta di una tale massa di rottami eguali
a tre volte la mole del Monte Bianco, si estese su una super-
ficie eguale a quella dell'Italia e di mezza Francia, mentre le
pomici galleggiavano sul mare con uno spessore d'un metro.
- Lampi e terremoti! Ringraziamo questo vulcanello che
ha avuto il buon senso di scoppiare cinquanta o cent'anni fa.
Da simili mostri è meglio tenersi lontani, signore. -
302
Capitolo XXXII
303
Coi rami e colle alghe secche formarono tre cumuli
distanti parecchi passi l'uno dall'altro e li accesero, sof-
fiandovi sopra per alimentarli meglio.
Quando si rialzarono, videro che il punto luminoso
che si scorgeva sulla estrema punta dell'isola, erasi in-
grandito considerevolmente. Poco dopo altri due punti
comparvero, ad una certa distanza dal primo.
Un grido di gioia irruppe dalle labbra del maltese e di
Enrico.
Ormai non vi era più dubbio: Piccolo Tonno corri-
spondeva ai loro segnali.
- Io sono certo che quel bravo ragazzo si è immagina-
to che siamo noi ad accendere questi fuochi, - disse En-
rico.
- Lo credo anch'io, - disse Albani.
- Allora domani verrà in nostro soccorso.
- Ma in qual modo, se il canotto non esiste più? -
chiese Marino.
- Costruirà una zattera, - rispose Albani. - Il ragazzo è
intelligente e non indietreggierà dinanzi ad alcuna diffi-
coltà.
- Bisogna continuare i segnali, - disse Enrico. - An-
diamo a raccogliere dell'altra legna, Marino. -
I due marinai scesero nei burroncelli in cerca di altri
cespugli, mentre Albani rimaneva in vedetta sulla cima
del cono.
Era già trascorso un quarto d'ora, quando vide un
quarto punto luminoso apparire quasi di fronte allo sco-
glio, ma assai basso, quasi a fior d'acqua. Ben presto pe-
304
rò quel punto si dilatò, ingigantì, e una colonna di fumo,
a riflessi rossastri, si alzò verso l'isola, sormontata da fa-
sci di scintille. Pareva che laggiù ardesse un lembo della
grande foresta.
- Piccolo Tonno ci avvisa che ormai sa che noi ci tro-
viamo qui, - disse Albani ai due marinai, che salivano il
cono carichi di rami e di piante arrampicanti. - Non ci
possiamo ingannare.
- Ma come abbia fatto a saperlo così presto? - chiese
Enrico. - Che qualcuno dei nostri oggetti sia stato spinto
verso le sponde dell'isola?...
- Forse, - rispose Albani. - Qualche remo, o le cerbot-
tane, o l'albero che si sarà staccato dalla scialuppa.
- To'! Un altro gruppo d'alberi che brucia un po' più al
sud. Il piccino minaccia di distruggere tutte le nostre fo-
reste.
- Non sarà così imprudente, Enrico. Alimentate i falò
che stanno per spegnersi. -
Nuovi rami furono gettati sui tizzoni ardenti, ravvi-
vando le fiamme. Il cono era ormai interamente illumi-
nato e doveva essere visibile ad una grande distanza.
Anche sull'isola però i fuochi proiettavano una viva lu-
ce, spiccando nettamente sul fondo oscuro del cielo.
Per due ore i naufraghi ed il mozzo continuarono a
scambiarsi segnali, poi da una parte e dall'altra i falò si
spensero. Ma nè Albani, nè Enrico, nè il maltese pensa-
rono a dormire, nè ad abbandonare la vetta del cono,
sperando di vedere apparire sulle spiagge dell'isola qual-
che altro fuoco.
305
Aspettavano ansiosamente l'alba, certi di vedere il
mozzo navigare verso di loro con qualche zattera, ma
pareva che quella notte fosse eterna e che le tenebre non
volessero andarsene.
Anzi il tempo minacciava di mandare a male le loro
speranze, poichè il cielo tornava a coprirsi di pesanti nu-
voloni come se volesse far scoppiare un nuovo uragano,
mentre la brezza aumentava soffiando, di quando in
quando, con una certa violenza.
Se il mare tornava a montare, Piccolo Tonno non
avrebbe certo potuto accorrere tanto presto a liberarli da
quella prigionia, che ormai tutti trovavano insopportabi-
le.
Verso le tre del mattino, il tuono cominciò a brontola-
re fra le nubi, mentre alcuni lampi solcavano il cielo
verso l'est. Il mare già cominciava a muggire contro le
spiagge dell'isolotto e sui frangenti.
- Mille milioni di folgori! - esclamò Enrico, furioso. -
Che non ci lascino più, questi dannati uragani!
- Forse sarà l'ultimo della stagione, - disse Albani.
- L'ultimo o il penultimo, verrà a impedirci la parten-
za.
- Pur troppo, Enrico.
- Ah! Se Piccolo Tonno si affrettasse!
- Non oserà avventurarsi fra i frangenti ed i banchi
prima che sorga l'alba. Armiamoci di pazienza e aspet-
tiamo. -
Si accoccolarono dietro ad una rupe per mettersi al ri-
paro dal vento, che soffiava con grande violenza su
306
quella vetta isolata e attesero l'alba, tenendo gli sguardi
fissi sull'isola.
Intanto l'uragano s'avanzava con estrema rapidità, ma
questa volta veniva da oriente. Ormai tutte le stelle era-
no scomparse sotto fitte masse di vapori che il vento
spingeva innanzi a sè, ed il mare s'alzava muggendo sor-
damente ai piedi dello scoglio. Se continuava, Piccolo
Tonno non avrebbe certo osato affrontare da solo, su una
zattera, quelle onde.
Alle quattro un po' di luce cominciò ad apparire verso
oriente, tingendo le onde di riflessi color dell'acciaio.
Albani, il genovese e Marino si erano alzati in preda
ad una viva ansietà, fissando i loro sguardi verso l'isola.
Parve a loro di distinguere, quasi subito, una macchia
grigiastra che filava lungo i frangenti.
- È una vela! - esclamò il maltese. - Sono certo di non
ingannarmi.
- Che quel bravo piccino si sia già messo in mare? -
disse Enrico. - Ah! Come lo abbraccierei volentieri quel
coraggioso ragazzo!
- Sì, è una vela, confermò Albani, dopo un'attenta os-
servazione. - Ha di certo costruita una zattera e issato un
albero.
- No, una zattera, - disse il maltese, che si era arram-
picato sulla punta più alta del cono. - Vedo una macchia
nera di forma allungata sotto quella vela.
- Tu hai le traveggole, camerata.
- No, marinaio, - rispose Marino. - Io ti dico che Pic-
colo Tonno corre in nostro aiuto con una scialuppa.
307
- Con una scialuppa! - esclamarono Albani ed Enrico.
- Sì!... Sì!... Ora la distinguo bene.
- Ma dove vuoi che abbia trovata una scialuppa? -
chiese Enrico.
- Che sia la nostra? - si chiese il veneziano.
- È impossibile, signore!
- E perchè impossibile? Qualche corrente può averla
trascinata verso la nostra isola e Piccolo Tonno può
averla trovata arenata.
- Infatti, signore, se il ragazzo non l'avesse trovata,
non credo che avrebbe risposto così presto ai nostri se-
gnali. Piccolo Tonno è prudente, e invece di accendere
quei fuochi avrebbe spento anche quello del fornello per
tema di attirare la nostra attenzione, avendo tutti i moti-
vi per crederci dei pirati.
- Sì, è la nostra scialuppa, - gridò Marino. - Ora la ri-
conosco perfettamente. -
Ormai non era più possibile ingannarsi. Anche Albani
ed Enrico potevano distinguerla, essendo già giunta
presso i primi frangenti ed essendosi il sole mostrato fra
uno squarcio delle nubi.
Piccolo Tonno la guidava con mano sicura, tenendosi
lontano dai frangenti, per tema che le onde lo spingesse-
ro addosso a quei pericolosi ostacoli.
Vedendo addensarsi l'uragano, s'affrettava, tenendo
una linea rigorosamente diritta per risparmiare via.
I marosi lo assalivano con grande impeto, ma egli non
si spaventava per questo e lo si poteva vedere con una
mano su di un lungo remo che gli serviva da timone e
308
coll'altra alla scotta della vela.
Il signor Albani, Enrico ed il maltese, fuori di loro per
la gioia, profondamente commossi, avevano lasciata la
vetta del vulcanello e si erano radunati presso i primi
frangenti.
- Bravo mio Piccolo Tonno! - urlava il genovese. - Sei
un vero marinaio! -
Alle sette del mattino la scialuppa, dopo d'aver supe-
rato un banco, s'arenava sulla sponda sabbiosa, e il bra-
vo ragazzo, che piangeva e rideva ad un tempo, si preci-
pitava fra le braccia del signor Albani prima, poi di En-
rico e finalmente di Marino.
- Ah! - esclama egli. - Vi avevo pianto credendovi tut-
ti annegati. Un abbraccio ancora, signor Albani, un altro
mio buon Enrico.
- Ma quando hai trovata la scialuppa? - gli chiese Al-
bani.
- Ieri sera, poco prima del tramonto.
- Ma dove?
- Si era arenata presso i vivai delle testuggini. Potete
immaginarvi quale fu la mia disperazione nel trovarla
rovesciata, e quale fu la mia gioia quando scorsi i tre
fuochi accesi su questo scoglio. Non dubitai più che fo-
ste voi e mi affrettai a rispondere.
- Avevi veduto il fuoco acceso due sere or sono?
- Sì, signore, e mi ero assai spaventato temendo che
dei pirati stessero per approdare alla nostra isola. Quan-
to sono felice, signore! Vi credevo perduti ed invece tro-
vo un compagno di più.
309
- Anche tu mi perdoni? - chiese Marino.
- Se ti hanno perdonato il signor Albani ed Enrico,
vorresti che non ti perdonassi io?... Orsù, abbracciami:
sei dei nostri, un Robinson italiano anche tu, ma.... e il
tuo compagno? Eravate fuggiti in due.
- Ti narreremo tutto più tardi, Piccolo Tonno, - disse
Albani. - Affrettiamoci a lasciare questo scoglio o corre-
remo il pericolo di naufragare un'altra volta. -
Un ritardo poteva infatti riuscire a loro fatale, poichè
le onde continuavano ad alzarsi ed il vento a crescere,
mentre larghi goccioloni cominciavano a crepitare sulla
superficie del mare.
Abbandonarono senza rimpianti quel vulcanello, dove
avevano corso il pericolo di fare la fine dei naufraghi
della Medusa senza quelle ostriche provvidenziali, e
presero il largo mettendo la prua verso la costa orientale
dell'isola.
Albani si era rimesso al timone, Enrico a prora per
meglio vedere i frangenti, e piccolo Tonno ed il maltese
alla vela.
L'oscurità cresceva di momento in momento. Il sole
era già scomparso dietro ai densi nuvoloni e quantunque
fossero appena le dieci del mattino, pareva che comin-
ciasse ad annottare.
Fortunatamente il vento era favorevolissimo e la scia-
luppa, ricevendo le onde a poppa, non correva, almeno
pel momento, pericolo alcuno. Filava come una rondine
marina, lasciandosi portare da quelle masse liquide e
spumeggianti, tenendosi a due o trecento passi dalla li-
310
nea dei frangenti.
- Presto, presto, - diceva il signor Albani, che vedeva
l'uragano ingrossare a vista d'occhio, e che di quando in
quando veniva inondato dall'acqua. - Lasciate andare
tutta la vela. -
Già le coste dell'isola erano perfettamente visibili,
quando il marinaio, volgendosi verso l'est per misurare
la distanza percorsa, vide sul fosco orizzonte due punti
biancastri che parevano corressero dal sud al nord.
- Due uccellacci o due vele? - si chiese egli. - Guarda
laggiù, Marino, tu che hai gli occhi più acuti di me. -
Il maltese si volse, fissando i suoi sguardi che poteva-
no sfidare i migliori cannocchiali, sui due punti indicati.
- Sono due grandi vele, - disse poi.
- Un altro tia-kau-ting forse? Non ci mancherebbe
che un nuovo attacco dei pirati, ora.
- Guarda bene, Marino, - disse Albani.
- Mi sembra, dalla forma delle vele, che quella nave
sia piuttosto una giunca, - rispose il maltese.
- Ti pare che si avvicini all'isola?
- Sì, tenta di appoggiare verso queste coste.
- Che siano pirati, signore? - chiese Enrico.
- Le giunche ordinariamente sono montate da marinai
chinesi. Se fossimo nel golfo del Tonchino, si potrebbe-
ro avere dei dubbi, ma le giunche che navigano in questi
mari esercitano un onesto traffico.
- Che l'uragano ci mandi altri compagni? Sulla nostra
isola non vi sono porti che possano servire di rifugio.
- Forse quella nave spererà di trovarne. Se quei mari-
311
nai troveranno modo di sbarcare, non avranno da la-
gnarsi di noi. Badiamo alla nostra scialuppa intanto: il
mare ingrossa e minaccia di farci passare un brutto
quarto d'ora. -
Non distavano allora che due miglia dall'isola, ma le
onde, trovandosi strette fra la costa che era assai dirupa-
ta e la linea dei frangenti, ritornavano al largo tumultuo-
samente, provocando delle contro-ondate pericolosissi-
me.
Il signor Albani si era alzato in piedi per meglio vede-
re dove si nascondevano gli scoglietti, segnalati isolata-
mente da uno spumeggiare incessante e da colonne
d'acqua rimbalzanti.
La scialuppa, affogata sotto gli assalti di quelle masse
liquide, pareva che ad ogni istante dovesse scomparire,
ma si rialzava sempre.
A mezzodì girò un'alta scogliera che si estendeva di-
nanzi alla costa e si cacciò in una specie di canale for-
mato da rupi tagliate a picco, in una specie di fiord pro-
fondo, che era riparato dal vento e dalle onde.
- Finalmente! - esclamò Enrico.
Ammainarono la vela e legarono la scialuppa ad un
enorme macigno mentre cadeva una pioggia diluviale.
- Cerchiamo un ricovero, - disse Albani, salendo la
costa. - Non possiamo, con questo tempaccio e così
stanchi, recarci fino alla capanna.
- Ma i nostri magazzini non devono essere lontani, -
disse Enrico.
- Due miglia, - rispose Piccolo Tonno.
312
- Sotto questo diluvio sono troppe.
- Ci devono essere delle caverne, - disse Albani. -
Tutte queste rocce sono più o meno traforate.
- Cerchiamone una, signore. Io cado dal sonno e non
mi reggo più, - disse Marino.
Stavano per volgere le spalle al mare e cacciarsi fra le
alte rupi della costa, quando il maltese chiese:
- E la giunca?
- Si vede ancora? - chiese Albani, fermandosi.
Il maltese guardò verso l'est, ma più nulla si vedeva
sull'orizzonte. Certamente la pioggia impediva di scor-
gerla o l'equipaggio aveva abbandonato l'idea di poggia-
re verso l'isola e aveva ripresa la rotta verso il nord.
- È scomparsa, - disse Marino.
- Meglio per loro, - rispose Enrico. - Si sarebbero fra-
cassati su queste scogliere. Andiamo: è un vero diluvio
questo e non abbiamo l'arca di quel bravo uomo che si
chiamava Noè. -
313
Capitolo XXXIII
314
così formidabili da far tremare l'isola intera.
I quattro Robinson, quantunque fossero molto stanchi,
non erano capaci di dormire con tutto quel fracasso. Di tratto
in tratto uscivano per dare uno sguardo alla loro scialuppa,
temendo che anche dentro il canale irrompessero le onde e la
sfracellassero contro la spiaggia.
Di frequente volgevano anche gli sguardi in direzione del-
lo scoglio solitario, credendo di veder apparire improvvisa-
mente la giunca scorta al mattino, ma quella nave non si ve-
deva più.
Verso sera, continuando a imperversare l'uragano, si cac-
ciarono in fondo alla piccola caverna e accomodatisi alla
meglio, cercarono di gustare un po' di sonno. I tuoni erano
diventati più radi, ma il vento soffiava sempre con estrema
violenza, contorcendo gli alberi delle vicine foreste.
- Speriamo domani di ritornare alla nostra caverna, - disse
Enrico. - Mi pare che sia trascorso un secolo e rivedrò con
piacere Sciancatello. -
I suoi compagni non risposero. Russavano già come ghiri.
Il loro sonno però non fu lungo, poichè non erano trascor-
se due ore, quando gli orecchi acuti del maltese furono col-
piti da una detonazione che pareva provenisse dalla parte del
mare. Non era lo scroscio d'un fulmine, nè lo sfasciarsi d'una
montagna d'acqua contro le scogliere, ma un cupo rombo
che rassomigliava allo sparo d'un piccolo pezzo d'artiglieria
o per lo meno d'una grossa spingarda.
Sorpreso ed un po' inquieto s'alzò, lanciando sul mare
burrascoso un lungo sguardo, ma non scorse che tenebre, fra
le quali appena si distinguevano le creste spumanti delle on-
de.
- Che mi sia ingannato o che abbia sognato? - mormorò.
315
Ascoltò alcuni minuti, ma non udendo ripetersi quella de-
tonazione, tornò a coricarsi. Stava per richiudere gli occhi,
quando udì un secondo sparo.
Non si era ingannato: un cannone od una grossa spingarda
aveva tuonato al largo.
- Signor Albani! - esclamò, scuotendolo vigorosamente. -
In piedi, Enrico, su, Piccolo Tonno. -
Il veneziano ed i suoi compagni furono lesti ad alzarsi.
- Cosa succede? - chiese Albani.
- Si sparano delle cannonate sul mare, signore, - disse il
marinaio.
- Delle cannonate!...
- Udite!... -
Un terzo sparo era echeggiato al largo, ripercuotendosi fra
le rupi dell'isola.
- La giunca, forse? - si chiese Albani.
Abbandonarono precipitosamente la piccola grotta e si
slanciarono verso la spiaggia senza curarsi dell'acquazzone
che li inzuppava.
Essendo i lampi diventati radi, l'oscurità era così profonda
da non permettere di scorgere ciò che succedeva sul mare.
Però in mezzo ai fischi del vento ed ai muggiti delle onde, si
udivano al largo echeggiare delle grida umane.
- Qualche nave minaccia di naufragare, - disse Albani. -
L'uragano deve spingerla verso quest'isola.
- Ma non si vede, - risposero i tre marinai.
- Bisogna accendere un fuoco, per far comprendere a quei
disgraziati che qui possono trovare dei soccorsi.
- Con questa pioggia!...
- Cercate di abbattere qualche pianta resinosa o gommife-
ra. Ho scorto alcuni giunta-wan presso la grotta e bruceran-
316
no come paglie imbevute di resina. Avete qualche arme?
- Sì, - disse Piccolo Tonno. - Ho il mio coltello.
- Andate a tagliarli. -
In quell'istante sul tenebroso orizzonte si vide a balenare
una fiamma e poco dopo s'udì echeggiare un colpo di canno-
ne.
- Presto! - gridò Albani. - È una nave!... -
I tre marinai si slanciarono verso la grotta, tagliarono al-
cune bracciate di quelle grosse piante arrampicanti sature di
gomma e le trasportarono sulla spiaggia ammucchiandole
sotto la sporgenza d'una roccia.
Il signor Albani aveva già accesi alcuni fiocchi di cotone ed un
pezzo di candela datagli dal mozzo. In pochi istanti i giunta-wan
presero fuoco quantunque fossero bagnati ed una grande fiamma-
ta s'alzò, illuminando le scogliere e le onde che venivano ad in-
frangersi contro la costa.
In quel momento il cielo, come se fosse geloso di quella
luce, s'illuminò: un lampo immenso fendette le nubi come
una immane scimitarra, facendo scintillare il mare fino agli
estremi confini dell'orizzonte.
- La giunca! - avevano gridato i tre marinai.
Non si erano ingannati. Alla livida luce di quel lampo
avevano scorto, a circa un miglio dalla spiaggia, una di quel-
le navi di forme pesanti e barocche, colla prua alta e quasi
quadra, che i chinesi chiamano giunche. Certamente doveva
essere quella segnalata al mattino.
Era stata veduta per pochi istanti, ma i tre marinai sapeva-
no ormai che quella nave si trovava in condizioni disperate,
poichè non avevano scorto alcun albero, nè alcuna vela.
Senza dubbio l'alberatura era stata abbattuta dalla furia
dell'uragano e quella carcassa, impotente a dirigersi, veniva
317
trascinata, spinta, scaraventata verso le scogliere dell'isola.
Di quando in quando il cannone tuonava sul ponte della
povera nave e s'alzavano grida acute, grida disperate invo-
canti soccorso.
- Enrico, - disse il veneziano, che non poteva tenersi fer-
mo. - Credi che si possa affrontare le onde colla nostra scia-
luppa?...
- No, signore; sarebbe un'imprudenza che ci costerebbe la
vita senza poter recare alcun aiuto ai naufraghi.
- Ma noi non possiamo rimanere qui inoperosi, mentre
quei disgraziati corrono il pericolo di venire subissati.
- Le onde li spingono verso di noi, signore, - disse il mal-
tese. - Quando la giunca si sfascierà, saremo pronti a soccor-
rere i naufraghi.
- Taci!... Ho udito uno scroscio! -
Un urlo immenso s'alzò sul mare, seguito da un ultimo
sparo e da uno scroscio terribile.
- A terra! - gridò il signor Albani, agitando un tizzone ac-
ceso e avvicinandosi alle scogliere.
Un altro lampo illuminò la notte.
La giunca ormai aveva investita la scogliera e si era rove-
sciata sul tribordo, sventrandosi contro le punte aguzze dei
coralli. Al baleno di quel lampo i Robinson avevano scorto
parecchie persone correre disordinatamente sul ponte incli-
nato della nave, in mezzo alle onde che montavano a bordo
schiumeggiando e muggendo.
Il signor Albani, i due marinai ed il mozzo, muniti di tiz-
zoni fiammeggianti erano balzati nella scialuppa la quale,
trovandosi entro quella specie di canale riparato dalle sco-
gliere, poteva prendere il largo senza correre il pericolo di
venire subissata.
318
Puntando i remi sui bassifondi, in pochi istanti attraversa-
rono il canale e si trovarono dietro alle rocce, ma proprio in
quel momento si udì uno schianto più formidabile di prima e
alla luce dei tizzoni i Robinson videro la povera nave aprirsi
a metà, quindi sfasciarsi da prua a poppa sotto l'impeto irre-
sistibile ed incalzante delle ondate.
- Fulmini! - esclamò Enrico, impallidendo.
- Sono stati inghiottiti! - urlarono il maltese ed il mozzo.
- No, disse Albani. - Odo delle grida! -
Infatti fra i muggiti dei marosi si udivano a echeggiare
delle grida. Pareva che alcuni uomini fossero riusciti ad ag-
grapparsi alla scogliera.
- Coraggio! - gridò il veneziano. - Veniamo in vostro aiu-
to. -
S'aggrappò alle sporgenze della scogliera e si issò seguito
da Enrico, mentre il maltese e Piccolo Tonno tenevano ferma
la scialuppa.
Le onde balzavano sopra le rupi e le attraversavano scen-
dendo dall'opposta parte come cateratte furiose, ma i due
Robinson continuavano a salire perlustrando i crepacci e ri-
muovendo i rottami della nave.
Ad un tratto incespicarono contro degli ostacoli che stava-
no ammucchiati entro un crepaccio.
- Terremoti! - urlò il marinaio, rimettendosi prontamente
in equilibrio.
Delle voci lamentevoli risposero a quella esclamazione.
- Vi sono dei naufraghi qui, - disse Albani.
Alcune forme umane s'alzarono dinanzi a lui, emettendo
dei gemiti.
- Coraggio, giovanotti, - disse il marinaio. - Vi è una scia-
luppa pronta a trasportarvi. Su, mille fulmini!... Saldi in
319
gambe e attenti alle onde.
- Caballeros, - disse una voce.
- To'!... degli spagnuoli! - esclamò il veneziano. - Seguite-
ci!...
- Dei poveri tagali, signore, - disse la voce di prima.
- Tagali o spagnuoli seguiteci, ma badate alle onde. Vi so-
no altri superstiti?...
- Mancano i chinesi.
- Enrico, incàricati dei chinesi se ne troverai ancora di vi-
vi. Io mi occupo di questi poveri naufraghi. Affrettatevi o le
onde vi porteranno via. -
Cinque persone si erano alzate e tenendosi per mano
lo avevano seguito, scendendo con precauzione la sco-
gliera. Il maltese e Piccolo Tonno li attendevano tenen-
do ancora accesi due grossi rami di giunta-wan.
Il veneziano ed i naufraghi salirono nell'imbarcazione.
Solamente allora i Robinson s'accorsero che quei miseri
strappati alle onde non erano tutti uomini: vi erano tre ragaz-
ze, un giovanotto ed un vecchio.
- Conducili alla sponda, - disse Albani al maltese. - Io va-
do a visitare la scogliera. -
Spinse la scialuppa al largo e raggiunse il marinaio, il
quale frugava tutti i crepacci gridando a piena gola.
- Hai trovato nessun altro? - gli chiese.
- Pare che le onde abbiano portato via i chinesi, - rispose
il marinaio. - Non odo alcuna voce.
- E la giunca?...
- Il mare ha spazzato via tutti i rottami. -
Percorsero tutta la scogliera tenendosi strettamente per
mano per meglio resistere alla furia dei marosi, visitarono
320
tutti i crepacci, tutte le spaccature, ma non trovarono alcun
altro naufrago.
- Il mare li ha inghiottiti, - disse il marinaio. - È inutile
prolungare le nostre ricerche con questi colpi d'acqua che
minacciano di trascinarci via.
- Disgraziati! - mormorò Albani. - Orsù, ritorniamo. -
Il maltese ed il mozzo, sbarcati i naufraghi presso la ca-
verna, avevano riattraversato il canale e li aspettavano sotto
la scogliera. S'affrettarono a raggiungerli e si fecero condur-
re sulla spiaggia.
- Pensiamo ai naufraghi, ora, - disse il veneziano. - Tu,
Marino, va a tagliare una nuova bracciata di giunta-wan per
asciugarci un po'. -
321
Quattro anni dopo, cioè nel 1845, quando la squadra inglese
approdò in quell'isola.... (Pag. 250).
322
Capitolo XXXIV
I tagali
323
versi da quelli dei tagali e anche la carnagione che era più
terrea, quasi grigiastra. Erano però entrambi vestiti di tela,
ma colla camicia svolazzante fuori dai calzoni, secondo l'uso
del loro paese.
Il vecchio, vedendo avvicinarsi il signor Albani, s'alzò, di-
cendogli:
- Grazie, señor, del vostro aiuto. Senza di voi, noi sarem-
mo stati trascinati via dalle onde.
- Altre persone avrebbero fatto altrettanto, - rispose
Albani, modestamente. - Ehi, Piccolo Tonno, abbiamo
ancora un po' di tuwah?... Un sorso farà bene a questa
povera gente.
- Sì, signore, - rispose il ragazzo.
Ritornò nella scialuppa e poco dopo saliva portando un
recipiente di bambù pieno di quella forte bevanda ed una
provvista di biscotti.
Le ragazze ed i due uomini, dopo nuovi ringraziamenti
bevettero alcuni sorsi e mangiarono alcuni biscotti.
Il vecchio intanto narrava la sua istoria. Le ragazze erano
sue figlie, il giovanotto era il fidanzato della più giovane e si
erano imbarcati su di una giunca chinese in rotta per le Mo-
lucche, onde visitare una possessione che il futuro genero
possedeva a Ternate, essendo molucchese.
Presso le Sanghier un violento uragano aveva assalita la
giunca la quale era stata respinta verso l'ovest, malgrado gli
sforzi disperati dell'equipaggio composto di quindici uomini.
Appena avvenuto l'urto, malgrado i consigli del capitano
chinese, si erano gettati in acqua e le onde li avevano respin-
ti sopra la scogliera. Poco dopo, la nave, sventrata dalle pun-
te corallifere, scompariva con tutti coloro che la montavano.
324
- Abitavate a Manilla? - chiese Albani al vecchio.
- No, alle isole Calamine, - rispose il tagalo. - Ero capo
d'un villaggio.
- Avete udito dal capitano chinese, il nome di quest'isola?
- No, signore. Credo che il capitano ne ignorasse l'esisten-
za.
- Dunque voi non sapete quale terra sia questa.
- Suppongo che sia una delle Sulù, poichè dalle Sanghir
siamo stati trascinati sempre verso il nord-ovest.
- Lo credo anch'io, - disse il molucchese.
- Siete anche voi naufraghi? - chiese il vecchio.
- Sì, ma non inquietatevi per questo. Possediamo una ca-
sa, degli animali, dei viveri e un campo e non soffrirete la fa-
me.
- Non possedete alcuna nave per abbandonare quest'isola?
- Una sola scialuppa, quella che avete veduto, la quale
non può affrontare una lunga navigazione. Noi siamo come
prigionieri su quest'isola, ma non ci lamentiamo, poichè col
lavoro e colla perseveranza, ci siamo procurati tuttociò che è
necessario all'esistenza umana.
- Ma noi?... - chiese il vecchio.
- Se vorrete, farete parte della nostra famiglia, della fami-
glia dei Robinson italiani, ma ad una condizione: che ci dob-
biate obbedienza e che al pari di noi, lavoriate pel benessere
di tutti.
- Signore, - disse il vecchio capo, con voce commossa. -
A voi dobbiamo lo nostra esistenza, quindi disponete intera-
mente di me, delle mie figlie e del mio futuro genero: noi, se
lo vorrete, saremo vostri servi o come vostri schiavi.
- No, nè servi nè schiavi sulla terra dei Robinson italiani,
- disse il veneziano. - Voi sarete nostri compagni, anzi fratel-
325
li, poichè come noi siete naufraghi e qui distinzioni non vo-
glio che esistano. È vero, Enrico?... È vero, Piccolo Tonno e
Marino?
- Sì, signore, siamo tutti eguali qui, - disse il genovese, -
ma tutti noi riconosceremo in voi il capo, il governatore
dell'isola.
- Ben detto! - esclamò il maltese.
- No, amici, - disse Albani.
- Sì, signore, - disse il marinaio. - Voi ci avete guidati, voi
ci avete salvati dalla fame e dalle tribolazioni, voi, colla vo-
stra sapienza e colla vostra abilità, ci avete data un'esistenza
felice, è quindi giusto che noi tutti vi riconosciamo per no-
stro capo.
- Allora cercherò di mostrarmi degno della fiducia che ri-
ponete in me. Siamo tutti vigorosi, siamo tutti pronti a lavo-
rare e cercheremo di trasformare quest'isola, pochi mesi fa
deserta e selvaggia, in una colonia fiorente, degna della pa-
tria italiana.
- Viva il signor Albani! - urlarono il maltese, Enrico e Pic-
colo Tonno. - Viva il nostro capitano!... -
Intanto cominciava a spuntare l'alba e l'uragano andava
calmandosi rapidamente. Il cielo si sgombrava, il vento, do-
po d'aver urlato su tutti i toni, aveva ceduto e le onde si spia-
navano.
I Robinson decisero di esplorare un'ultima volta la sco-
gliera per vedere se vi era qualche altro naufrago, o se pote-
vano raccogliere qualche avanzo del carico della giunca che
potesse tornare a loro utile, poi di partire per raggiungere la
capanna aerea, avendo ormai quasi esaurito le provviste.
Albani ed i due marinai attraversarono il braccio di mare
e si recarono sulla scogliera, ma la loro gita fu inutile, poi-
326
chè nulla rinvennero. Le onde avevano spazzato via i rottami
della nave, e nessun naufrago fu trovato.
Essendo in quel frattempo spuntato il sole ed essendosi il
mare calmato, deliberarono di partire senza perdere tempo.
Non potendo però la scialuppa portarli tutti in causa della
sua eccessiva immersione, il maltese, che aveva ormai una
certa conoscenza dell'isola, fu incaricato di guidare i naufra-
ghi verso le coste settentrionali, mentre Albani, Enrico e Pic-
colo Tonno s'incaricavano di ricondurre l'imbarcazione.
Questi diedero la cerbottana del mozzo, onde potessero
difendersi in caso d'un attacco da parte delle tigri, poi spie-
garono la vela prendendo rapidamente il largo.
Poco dopo anche il maltese ed i naufraghi della giunca si
mettevano in cammino, seguendo la costa.
La Roma, spinta da un vento assai fresco che le permette-
va di raggiungere una velocità di cinque nodi, si tenne a due
miglia dalle spiagge per evitare le profonde insenature che
l'isola descriveva e per evitare le scogliere che si stendevano
in tutte le direzioni.
Se quella velocità non scemava, ai loro calcoli, potevano
giungere nella piccola baia della costa settentrionale poco
dopo il mezzodì.
- Come sono contento di rivedere la nostra capanna, - dis-
se Enrico, che manovrava la vela in modo da farle raccoglie-
re più vento che poteva. - Sarà inquieto quel bravo Scianca-
tello, non avendoci veduti a ritornare.
- Se non glielo avessi impedito, mi avrebbe seguito, - dis-
se il mozzo.
- Quale sorpresa pei tagali, quando vedranno i nostri ani-
mali, la nostra bella casa, il nostro campo ed i nostri magaz-
zini. Sono brave persone, i tagali, signor Albani?
327
- Sono i più industriosi ed i più robusti di tutte le razze
dell'isole della Sonda. Sono compagni preziosi che ci saran-
no di molto giovamento.
- Bisognerà costruire delle altre capanne, signore.
- Si costruiranno.
- E raddoppiare, anzi triplicare le nostre provviste.
- Le triplicheremo e dissoderemo un bel tratto di terreno.
- Signore, - disse il marinaio, esitando. - Non vi sembrano
belle le figlie del capo?...
- Sono graziose davvero, Enrico.
- Mi frulla in capo un'idea.
- E quale?...
- Terremoto!... - esclamò il genovese, che da qualche
istante si grattava furiosamente il capo.
- Di' su, amico.
- Sapete, signor Albani, che non mi rincrescerebbe....
che....
- Parla, - disse il veneziano, che lo guardava sorridendo.
- Ormai ci sono.... orsù.... meglio che ve lo dica.... lampi e
fulmini!... Se il capo mi dasse una figlia per sposa?...
- Ah!... furfante!... Tu pensi già a piantare famiglia!..,
- C'è la maggiore che mi piace, signor Albani. Terre-
moto!... È una bella ragazza e mi sembra che deve essere an-
che molto buona.
- Si domanda.
- Ma il capo?...
- Credo che si terrà molto onorato d'imparentarsi con un
uomo di razza bianca.
- Fulmini!... Che bella colonia!... E so che a Marino pia-
ceva l'altra, sapete?... Il volpone la guardava con certi occhi
da triglia!...
328
- Buono! - esclamò il veneziano, ridendo. - Ecco una co-
lonia che non perirebbe più mai. Ne parlerò al capo.
- Voi?...
- E perchè no?... Fra un mese celebreremo tre matrimoni:
il tuo, quello di Marino e quello del molucchese.
- Signore!... - esclamò in quell'istante il mozzo, che stava
ritto a prora.
- Cos'hai?...
- La capanna!... Eccola lassù che sporge dietro quel grup-
po d'alberi!... Urràh!... -
Il veneziano guardò verso la costa la quale piegava bru-
scamente verso l'ovest. Dietro ad un macchione di piccoli
durion, si vedeva sorgere il tetto della capanna aerea.
Una viva emozione si dipinse sul viso di Enrico e del ve-
neziano.
- Urràh!... urràh! - urlò il marinaio, con quanta voce aveva
in gola.
Poco dopo videro Sciancatello correre sulla cima delle
rocce seguito dalle due scimmie. L'affezionato orang-outan
spiccava salti di gioia e dondolava comicamente la testa e le
braccia.
La Roma, oltrepassata una scogliera, entrava nella piccola
cala attigua ai vivai. I tre Robinson l'arenarono, tirandola in
secco sulla sabbia.
Enrico, che era in preda ad una viva emozione, si prese
Sciancatello fra le braccia e per poco non depose due baci su
quelle gote pelose.
- Andiamo a vedere se l'uragano ha causato dei guasti, -
disse Albani. - Sono inquieto pei nostri animali. -
Il ventaccio, malgrado la sua violenza, non aveva atterrate
nè le tettoie, nè le cinte. Nemmeno la casa aerea, quantunque
329
fosse così esposta, aveva sofferto.
- Affrettiamoci a preparare il pranzo pei nostri nuovi ami-
ci, - disse Albani. - Fra un paio d'ore saranno qui.
- Corro al vivaio a prendere una testuggine e dei pesci, -
disse Enrico.
- Ed io vado a spillare del toddy e del vino bianco, - disse
Piccolo Tonno.
- Io invece andrò a torcere il collo a un paio di tucani, -
concluse Albani. - Prepareremo ai nostri compagni un vero
pranzo e mostreremo a loro come delle persone laboriose
possono trovare mille risorse anche su quest'isola deserta. -
330
Capitolo XXXV
331
In quindici giorni altre tre belle capanne sorsero su quella
sponda, formando un villaggio piccolo sì ma graziosissimo,
poi sorsero nuovi recinti, altre uccelliere, altri vivai.
Un mese dopo il campicello aveva una estensione dieci
volte maggiore. Avevano abbruciata una parte della foresta,
una parte della piantagione di bambù e dissodato la terra,
cingendola poi con una grande palizzata per difenderla dalle
escursioni degli animali selvaggi.
Banani, durion, mangostani, noci di cocco, sagu, palme
d'ogni sorta e arenghe saccarifere erano state piantate. Per di
più i tagali avevano triplicata la produzione delle patate dol-
ci avendone trovate altre sui fianchi della montagna, e ave-
vano seminate altre piante utilissime pure trovate nei boschi:
ignami, che sono grossi come tuberi che raggiungono un pe-
so di quaranta libbre, somiglianti alle nostre patate; dei pic-
coli poponi colla polpa candidissima, ma molto succolenti, e
uva marina che ha il sapore dell'acetosella.
Dalla foresta poi avevano ricavato grandi quantità di fari-
na di sagu che poi avevano convertito in biscotti ed in gallet-
te, riempiendo i nuovi magazzini appositamente costruiti e
assicurandosi gli alimenti per lungo tempo.
Anche le altre piante non erano state dimenticate, sopra-
tutto quelle preziose arenghe saccarifere, dai cui succhi ave-
vano estratto zuccheri, sciroppi, liquori, nè le noci di cocco
dalle quali avevano ricavato una provvista considerevole di
vino bianco, gustoso, che si conservava benissimo in una
profonda cantina, scavata sotto una rupe, in prossimità della
costa.
Un giorno, il signor Albani, vedendo che le loro vesti, in
causa di quelle continue escursioni nelle foreste se ne anda-
vano pezzo a pezzo, ebbe l'idea di trarre anche della tela da
332
quei preziosi alberi.
Furono ancora quelle miracolose arenghe saccharifere,
che gli procurarono la materia prima, ossia una specie di co-
tone di cui i popoli della Sonda si servono per adoperarlo co-
me esca.
Ne fece raccogliere una quantità considerevole, lo mesco-
lò colle fibre più sottili degli alberi di cocco e lo fece filare
dalle tre tagale.
Avuto il filo, aiutato dai marinai, dopo lunghe e pazienti
prove potè costruire una specie di telaio ottenendo della tela
grossa e ruvida bensì, ma discreta e sopratutto robustissima.
La prima pezza fu regalata alla fidanzata del bravo geno-
vese, la seconda a quella di Marino e la terza a quella del
molucchese. Ormai la dote c'era e non mancava che il matri-
monio.
Due mesi dopo, ultimati quei diversi ed importanti lavori,
i due marinai ed il molucchese, con grande gioia del vecchio
capo, impalmavano le tre brave ragazze secondo il rito taga-
lo, rito molto spiccio e molto semplice, che richiede una taz-
za e un po' di liquore di toddy che gli sposi devono bere in
compagnia.
Le tre coppie felici andarono ad abitare in tre belle capan-
ne costruite appositamente dietro alla casa aerea, all'ombra
d'un macchione di splendidi durion.
L'esistenza della colonia era ormai assicura-
ta .... .................................................. .................................................
Quattro anni dopo, cioè nel 1845, quando la squadra in-
glese dell'estremo Oriente, comandata dal contrammiraglio
Campbel approdò in quell'isola dopo una visita fatta al sulta-
no delle Solù, trovò la colonia più fiorente che mai e già cre-
sciuta di numero.
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Gran parte dell'isola era stata dissodata ed i coloni nuota-
vano nell'abbondanza. Vasti magazzini si ergevano sulle co-
ste settentrionali, i campi erano ricchi di tutte le produzioni
più importanti dell'arcipelago della Sonda, i recinti pullula-
vano di scimmie, di babirussa, di orsi neri e di tapiri già ad-
domesticati.
Fu solamente in quell'occasione che i coloni, aumentati di
quattro ragazzini e di tre ragazzine, appresero che la loro
isola era la più meridionale dell'arcipelago delle Solù e che
distava sole ottanta miglia da Tawi-Tawi.
Quei coloni erano così felici, che rifiutarono di abbando-
nare la loro terra. Si limitarono ad accettare parecchi oggetti
indispensabili, sopratutto armi da fuoco e munizioni per ster-
minare le ultime tigri che ancora infestavano le boscaglie
della montagna, degli attrezzi rurali e delle sementi contro
scambio di viveri freschi.
Accettarono anche una baleniera, offerta a loro dal con-
trammiraglio, perchè potessero mettersi in relazione con
Tawi-Tawi.
Oggi quest'isola, colonizzata dai naufraghi della Liguria
si chiama Samary, tale essendo il suo nome prima
dell'approdo dei Robinson italiani. È una delle più prospero-
se dell'arcipelago, ed è abitata da una razza di meticci di-
scendenti dai marinai italiani, dal molucchese e dalle tre fi-
glie del capo delle Calamine.
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INDICE2
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I numeri di pagina si riferiscono all'edizione cartacea di riferimento. [Nota
per l'edizione elettronica Manuzio]
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Cap. XXIV Assediati nella caverna Pag. 159
» XXV L'uragano 166
» XXVI Il varo della «Roma» 172
» XXVII Gl'incendiarii della «Liguria» 186
» XXVIII. Una triste scoperta 192
» XXIX Il maltese 199
» XXX I naufraghi 208
» XXXI Sullo scoglio 216
» XXXII I segnali fra l'isola e lo scoglio 227
» XXXIII. Il naufragio della giunca 235
» XXXIV. I tagali. 241
» XXXV La famiglia dei Robinson 248
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