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(I Grandi) Stephen Jay Gould - Questa Idea Della Vita. La Sfida Di Charles Darwin-Editori Riuniti (1990)

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I Grandi

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Stephen Jay Gould

Questa idea
della vita
La sfida di Charles Darwin

Prefazione di
Elisabetta Visalberghi e Enrico Alleva

Editori Riuniti
I edizione in questa collana: maggio 1990
Titolo originale: Ever since Darwin
©Copyright by Stephen Jay Gould, 1977
Traduzione di Maurizio Paleologo
©Copyright by Editori Riuniti 1984
Via Serchio 9/1 1 - 00198 Roma
Grafica Luciano Vagaggini
CL 63-3367-2
ISBN 88-359-3367-6
Indice

XI Prefazione

Questa idea della vita

3 Prologo

Parte prima Darwiniana


13 l . Il ritardo di Darwin
20 2. Il cambiamento di Darwin in mare, ovvero cinque anni
alla tavola del capitano
27 3. Il dilemma di Darwin: l'odissea dell'evoluzione
32 4. Prematura sepoltura di Darwin

Parte seconda L'evoluzione dell'uomo


43 5. Una questione quantitativa
51 6. Cespugli e scale nell'evoluzione umana
59 7. Il vero padre dell'uomo è il bambino
66 8. Neonati come embrioni
VIII

Parte terza Organismi bizzarri e casi esemplari


di evoluzione

75 9. L'alce irlandese, animale chiamato male, trattato male e


compreso male
86 10. La saggezza organica, ovvero perché un insetto
dovrebbe crescere divorando dall'interno il corpo della
madre
93 1 1. Sui bambu, le cicale e l'economia di Adam Smith
100 12. Il problema della perfezione, ovvero come può un
mollusco applicare un pesce a una delle sue estremità?

Parte quarta Disegni e «punteggiature» nella


storia della vita

109 13. Il pentagono della vita


1 16 14. Un eroe unicellulare dimenticato
124 15. L'esplosione cambriana è una crescita sigmoide?
131 16. L'ecatombe

Parte quinta Teorie sulla Terra

139 17. Il piccolo sporco pianeta del reverendo Thomas


145 18. Uniformità e catastrofe
152 19. L'eresia di Velikovsky
160 20. La convalida della deriva dei continenti

Parte sesta Dimensioni e forma, dalle chiese


ai cervelli, ai pianeti

171 21. Dimensioni e forma


177 22. Misurazione dell'intelligenza umana
IX

183 23. La storia del cervello dei vertebrati


190 24. Dimensioni e superfici dei pianeti

Parte settima La scienza nella società. Uno sguardo storico

199 25. Eroi e stolti nella storia della scienza


205 26. La postura creò l'uomo
212 27. Razzismo e teoria della ricapitolazione
219 28. Il criminale come errore di natura, ovvero la scimmia
antropomorfa dentro alcuni di noi

Parte ottava Scienza e politica della natura umana


I. Razza, sesso e violenza

229 29. Perché non dovremmo parlare di razze umane. Un


punto di vista biologico
235 30. La non scientificità di certe tesi sulla natura umana
242 31. Argomenti razzisti e quoziente d'intelligenza

II. Sociobiologia

251 32 . Potenzialità biologica contro determinismo biologico


262 33. Un animale ingegnoso e buono

271 Epilogo

277 Bibliografia
l
Prefazione

l
Ciò che piu colpisce di Stephen Jay Gould è la sua incredibile ca­
pacità di incuriosirsi e di interessarsi produttivamente a una miriade
di fatti e fenomeni fra i piu disparati con i quali, tuttavia, giunge a di­
segnare quadri interpretativi unitari e coerenti.
Questa sua reattività all'esperienza fresca e diretta la si intuisce
già dalla dedica con cui questa raccolta di saggi ha inizio: <<A mio pa­
dre che, quando avevo cinque anni, mi portò a vedere il tirannosau­
rO>> . Migliaia di bambini visitano ogni anno le collezioni di paleon­
tologia nei musei di storia naturale sparsi per il mondo, e a molti di
loro capita di notare quello strano drago fiabesco dagli enormi denti
aguzzi e dalle zampe anteriori cortissime. Sono però pochi quelli che
ne fanno un oggetto di riflessione, o addirittura una ragione di vita.
Ma nella vita di Gould i <<tirannosauri>> sono stati numerosissimi, mi­
gliaia sono stati i «mostri utili>>, le cause scatenanti della sua attività
di curioso, di studioso e di ricercatore; basti vedere la varietà degli
argomenti proposti in questo libro per rendersene conto.
Chi è Stephen Jay Gould? Docente a Harvard, dove insegna geo­
logia, biologia e storia della scienza, si è occupato soprattutto di pa­
leontologia, dedicandosi alla ricostruzione dei meccanismi e processi
di evoluzione di invertebrati e vertebrati. Assieme a Niles Eldredge e
Richard Lewontin ha formulato alcune delle proposte teoriche piu
rilevanti - e piu discusse - della biologia evoluzionistica contempo-
XII Prefazione

ranea: la teoria degli equilibri puntuati, le reinterpretazioni dinami­


che dei processi di adattamento, le analisi per gerarchie di causazione
e spiegazione dei fenomeni naturali. Tutti temi che questo libro toc­
ca a piu riprese.
Ad una carriera accademica estremamente brillante - Gould è
molto giovane - ha affiancato un'instancabile attività di narratore
di fatti naturali. Per questo suo impegno scientifico-letterario, nel
1981 ha ricevuto l' American Book Award for Science, uno dei mas­
simi riconoscimenti del mondo anglosassone per un libro di caratte­
re scientifico indirizzato al pubblico non specializzato. Ma anche co­
me divulgatore scientifico Gould esce dagli schemi correnti. Troppo
spesso il processo di divulgazione consiste in un malaccorto tentati­
vo di <<traduzione» dei dati scientifici, che vengono rimasticati, sem­
plificati, e riadattati per essere poi offerti in forma <<predigerita» al­
l'utente indifeso dei mass-media culturali. Ma proprio in questo pro­
cesso i risultati scientifici vengono ad assumere quei fastidiosi toni
caricaturali (che dovrebbero renderli piu appetibili per il pubblico
non specializzato) e si trasformano in indiscutibili verità profetiche,
da accettare piuttosto che da discutere. Gould fa qualcosa di molto
diverso: riesce a rendere il lettore complice del ricercatore.
Con la sua prosa ironica e impietosa, ci conduce sui banchi dei la­
boratori e fra gli sterri d'ossa, ripercorrendo le storiche controver­
sie, i pregiudizi e gli errori di chi fa scienza. Nelle sue pagine affiora
la natura genuina di una verità scientifica che si regge per paradigmi
mutevoli, una verità che appare tanto piu seria quanto piu è discuti­
bile e smentibile da ulteriori verifiche. Una nuova verità scientifica
migliore semplicemente perché in grado di spiegare un numero mag­
giore di osservazioni empiriche. Una nuova teoria che si afferma,
quindi, in quanto è in grado di ridurre le eccezioni e che magari uti­
lizza a suo sostegno proprio qualcuno di quei <<fatti strani» che nella
vecchia teoria apparivano come incongruità inspiegabili.
È questo il caso, tanto divertente quanto paradigmatico, della
«convalida>> della teoria della deriva dei continenti, secondo la quale
la Terra dei nostri giorni è tale in quanto enormi zolle continentali
navigano sulla sua superficie. Teoria - ci narra Gould - osteggiata
al suo nascere, dove fatti naturali impossibili a verificarsi lo sono so-
Prefazione XIII

lo in quanto cos1 definiti dall'umano teorizzare, anche se simili pre­


dizioni vengono sistematicamente smentite dalla osservazione di
quanto in natura si verifica; dove fatti naturali facilmente osservabili
diventano virtualmente invisibili, quando si tenti di spiegarli, ad
esempio in base ai calcoli matematici degli immancabili fisici (una
vera piaga nella storia recente e remota delle scienze naturali). Teo­

l
ria che è prima falsa, poi «poco religiosa>>, poi si tramuta in nuova
verità ortodossa, in uno di quei dogmi da manuale che limiterà le
idee di generazioni di studenti.
In questo libro anche Charles Darwin, biologo geniale per eccel­
lenza, diventa un personaggio simpaticamente accessibile. Un giova­
ne naturalista come tanti, che per fortuna e classe sociale scalza non
solo un medico di bordo, ma anche il paradigma creazionista del
mondo (il credere in un mondo animale e vegetale immutabile in
quanto creato da Dio), e ciò per l'umanissima ragione che si trova a
coabitare per anni nella piccola cabina di un nobile, odioso, bigotto
capitano della marina reale britannica. Anche (ma ovviamente non
solo) per questo - ci ricorda lo storico della scienza Gould - Dar­
win trovò l'energia intellettuale per quella rivoluzionaria afferma­
zione secondo la quale Dio, con la diversità osservabile delle forme
animali e vegetali, c'entrava ben poco.
Gould spiega insomma con chiarezza che fatti scientifici <<puri e
semplici>> non esistono: i fatti esistono all'interno di teorie che tenta­
no di spiegare il mondo. Sono solo l'inesperienza degli apprendisti
scienziati e le visioni idilliache (e illusionistiche) della divulgazione
di massa che prospettano una crescita automatica delle conoscenze
scientifiche, che avverrebbe per accumulo meccanico di nuovi dati,
mattoncino dopo mattoncino. La scienza - fa bene rammentarlo -
è un'attività di uomini che talora si autodefiniscono scienziati, e che
fanno in effetti un gran lavoro di accumulo di dati. Ma «la scoperta>>
piu che risposta alla domanda che ha causato la ricerca del dato è
spesso riformulazione della domanda stessa, riesumazione di dati tra­
scurati, i quali, magari insieme a quelli di piu recente acquisizione,
raggiungono lo status c �mcettuale di risposta. Cos1 è stato per molti
dei progressi delle scienze naturali, per alcuni aspetti anche per quel­
la che è stata salutata come la piu grande scoperta della biologia di
XIV Prefazione

questo secolo: il modello a doppia elica di basi complementari degli


acidi nucleici.
Anche la discussione fra due bambine, in un parco pubblico di
New York, sul tema «perché un cane non può essere grande come
un elefante>> suona come una clamorosa smentita di una parte consi­
derevole di scritti scientifici «seri» sui fattori di evoluzione dei verte­
brati. E che dire della banalissima osservazione che molte delle sco­
perte scientifiche piu originali sono frutto proprio dell'attività intel­
lettuale di non addetti ai lavori? Per ricordarcelo, Gould fa rivivere
il fantasma di Charles Lyell, avvocato, eminente geologo <<dilettan­
te>>, e grande amico di Darwin.
Gould riesuma di continuo teorie sconfitte e obsolete, idee anti­
quate e apparentemente fatiscenti, per reinserirle nel contesto delle
idee scientifiche moderne. Nel far ciò introduce utilmente il lettore
a considerare quanto dell'apparente novità dell'«ultima grande sco­
perta» non fosse in realtà già contenuta in teorie del passato. Teorie
mal formulate, o incomplete, oppure espresse in forme poco accatti­
vanti per la comunità scientifica, che con un ultimo ritocco (magari
lieve) risorgono. Teorie che finalmente arrivano a spiegare quei fatti
che nel passato apparivano stridenti eccezioni alla regola. Una scien­
za che, dunque, è succedersi storico di ipotesi e non una paziente
collezione di dati buoni, raccolti da scienziati bravissimi, e di dati
«sbagliati», messi assieme da scienziati piu svogliati o meno compe­
tenti.
Gould dedica un'intera sezione di questa raccolta a un argomento
che gli sta particolarmente a cuore (e oggetto del successivo volume
The mismeasure of man, Norton & Co., New York, 1981): quello
delle «Certezze biologiche>> tanto spesso utilizzate per dimostrare le
differenze fra sessi, fra razze e fra classi sociali; sempre adoperate è
-

quasi superfluo dirlo - per mostrare la superiorità degli individui


maschi, bianchi, ricchi e competitivi.
Nella storia della scienza si verificano continuamente tentativi di
utilizzare la biologia «Come complice», a supporto di visioni ideolo­
giche e politiche gerarchizzanti. Da coloro i quali, misurando le ca­
pacità craniche (in questo caso l'assunto era: crani piu grandi, mag­
giore sviluppo cerebrale, e quindi superiorità intellettuale), accumu-
Prefazione XV

larono una mole considerevole di dati piu o meno <<consciamente


mal misurati>> a sostegno delle superiorità di un sesso sull'altro, di
una razza sull'altra, di una classe sociale sull'altra. Fino ai tentativi
piu elaborati e truffaldini di misurare con maggiore potere risolutivo
i quozienti intellettivi degli individui mediante test: ovviamente, fra
gli americani, quelli di razza bianca superavano i <<negri» di ben 15
punti. E fino allo sgomento provocato da dati recenti, secondo i qua­
li cinesi e giapponesi sono risultati superiori ai bianchi occidentali.
Ma l'importanza dell'intervento di Gould va oltre l'implacabile
contestazione dei metodi e dei risultati sui quali si basavano queste
teorie delle differenze. Risiede innanzitutto nel sottolineare che i ri­
sultati cui un ricercatore perviene sono comunque influenzati dal
contesto sociopolitico in cui egli opera: consapevolmente o meno, la
presunta oggettività dei suoi dati è contaminata dalle sue aspettative,
le quali tenderanno a conformarsi con quelle dominanti nella sua so­
cietà. Quindi accanto agli esempi piu famosi di aperta manipolazio­
ne o addirittura di vera e propria falsificazione dei dati (è emblemati­
co il caso dei dati inventati di sana pianta da sir Cyril Burt sui gemel­
li identici), Gould esamina molti altri fenomeni di contagio ideologi­
co nel mondo della scienza, solo apparentemente asettico. Tra i fe­
nomeni bizzarri, le spiegazioni dell'inferiorità della razza nera, se­
condo alcuni <<peggiore>> in quanto manterrebbe caratteri giovanili
nell'adulto; inferiore secondo altri perché non manterrebbe questi
caratteri. In altre parole, letture opposte dei dati empirici conduco­
no ad una identica conclusione, che a sua volta coincide con l'aspet­
tativa di partenza.
È proprio attraverso questo tipo di critiche che Gould arriva a
trattare un argomento particolarmente scottante per la biologia degli
ultimi anni. Quello del cosiddetto dibattito sociobiologico, sorto in
seguito alle indebite estensioni che un eminente entomologo statuni­
tense - Edward O. Wilson - ha compiuto trasferendo metodi, ter­
minologie e stili interpretativi dal campo dell'analisi della socialità
animale a quello dei rapporti sociali tra esseri umani. Gould si di­
chiara apertamente contrario a queste visioni che vogliono rappre­
sentare una <<natura umana>> strettamente codificata nei nostri geni, e
quindi tale come risultato della selezione naturale.
XVI Prefazione

Le critiche di Gould alla sociobiologia umana vanno molto oltre


quelle contenute in questa prima raccolta di saggi. Insieme a Lewon­
tin, Gould ha elaborato alcune metafore che hanno ridicolizzato
queste visioni caricaturali del darwinismo: visioni che edificano di
proposito un uomo naturalmente aggressivo, territoriale, sciovinista,
amante della guerra genocida; e che attribuiscono alla donna un ruo­
lo rassegnato di massaia, sempre per ineluttabile <<legge di natura>> . Il
concetto che molto produttivamente illustra in questa raccolta è
quello della plurivalente potenzialità della specie umana, in cui il re­
pertorio comportamentale è estremamente flessibile nella sua attua­
zione. Gould pone l'accento sul fatto che la nostra potenzialità bio­
logica è estremamente ricca e suscettibile di svilupparsi nelle piu di­
verse direzioni. L'uomo non è <<per natura>> né necessariamente ag­
gressivo, né particolarmente mite e pacifico, ma può diventare l'una
e l'altra cosa in base alle sue esperienze e alle sue scelte.
L'evoluzionista Gould ci ricorda anche che tutti noi bestemmia­
mo Darwin. Lo bestemmiamo, involontariamente, quando contami­
niamo il suo nome, avvicinandolo al termine evoluzione; quel termi­
ne che Darwin evitò accuratamente di utilizzare per descrivere i fe­
nomeni di trasformazione delle specie viventi le une nelle altre. Ma
nel termine evoluzione, ai tempi di Darwin forse piu che ai nostri, è
implicito un significato di trasformazione progressiva, di processo
migliorativo che avviene secondo i dettami di un disegno prestabili­
to. La teoria della selezione naturale di Darwin vuole invece spiegare
la diversità delle forme viventi, comprendere il perché delle tante
specie animali e vegetali che popolano la Terra. Solo una perversio­
ne brutale del suo pensiero è arrivata a raffigurare un mondo dove la
diversità organica si arrampica su improbabili scale filetiche <<di cre­
scente complessità>>, per produrre questo essere angeliforme e spoc­
chioso, che si autodefinisce sapiens proprio per sottolineare la sua
unicità zoologica. Gould, con i suoi richiami alla ortodossia darwi­
niana (e con i suoi toni vivacemente polemici nei confronti del dog­
matismo neodarwinista contemporaneo) muove all'attacco della no­
stra arroganza cosmica; quella che fa costruire all'umanità cosmolo­
gie antropocentriche, quella stessa presunzione che si oppone alla vi­
sione darwiniana di un mondo che è cosi non perché creato da un
Prefazione XVII

dio ma in quanto la selezione naturale ci ha operato sopra. Quella


r

\
arroganza cosmica dell'uomo che depaupera la Terra ad uso e consu­
mo di una sola specie e che edifica a suo gusto un mondo fatto di
dogmi e classificazioni. Gould critica a piu riprese le incompletezze
e le rigidità delle classificazioni zoologiche, che si interessano troppo
poco di esseri molto diversi da noi, che si sono storicamente rifiutate
di considerare l'uomo il probabile prodotto di un semplice rallenta­
mento nello sviluppo ontogenetico dei primati, che ricostruiscono
sulla base esclusiva di pregiudizi il cammino evolutivo dei nostri an­
tenati preumani.
Nella storia delle scienze paleoantropologiche (vera e propria
olimpiade di pregiudizi metascientifici) è talvolta l'ingrandimento
graduale del nostro cervello a guidare la marcia inarrestabile della di­
versità organica verso questa perfetta forma di dominatore del creato
che non potrebbe che essere la specie umana. Talvolta, sarebbe inve­
ce l'acquisizione della stazione eretta a renderei esseri bipedi e «di­
versi>>, che solo a noi uomini <<libera le mani>>, rendendoci cosi gli es­
seri animali piu operosi e intellettuali.
È l'arroganza tecnologica del sapiens sapiens che ci fa definire pri­
mitive le forme viventi diverse dalla nostra, le odierne culture uma­
ne diverse dal nostro modello di sviluppo, le protoculture degli <<UO­
mini fossili>> che producono quegli arnesi litici che ci appaiono peg­
giori semplicemente perché si allontanano dal modello prettamente
estetico che abbiamo dello strumento di pietra. Ma che dire del fatto
che un pezzo di selce scheggiata in modi grossolani risulta piu utile
di uno strumento apparentemente molto piu raffinato, quando pro­
viamo ad utilizzarlo per fini veracemente paleolitici, quali lo scuoia­
re una zebra? O del fatto che modernissime tecnologie chirurgiche si
sono riorientate su bisturi di pietra? Quanto, insomma, dell'ordine
naturale degli eventi è tale per <<legge di natura>> e non riflesso dei no­
stri ineluttabili pregiudizi culturali?
E quanto del mondo che ci circonda è tale per svolgimento pedis­
sequo di un preordinato disegno strategico (magari evolutivo) e non
mera conseguenza di interazioni algebriche o geometriche di fattori
di crescita? I dinosauri, esseri screditati come stupidi, non avevano
certamente cervelli piccoli, checché ne maligni la cattiva divulgazio-
XVIII Prefazione

ne dei processi evolutivi: avevano cervelli adeguati per le loro di­


mensioni di rettili.
Sono sempre leggi di crescita, sottoprodotti dei processi di ingi­
gantimento delle nostre dimensioni corporee, che spiegano la cresci­
ta proporzionale del nostro volume cerebrale. E sono sempre leggi
semplici di crescita quelle che giustificano le differenti tipologie delle
chiese medioevali: per leggi di dimensione delle forme che sono leggi
della forma delle dimensioni. Sono probabilmente ancora leggi di re­
golazione e interazione che da un identico patrimonio genetico delle
cellule generano un pezzettino di fegato anziché una particola di cer­
vello.
Le riflessioni di Gould - storico altrettanto attento delle scienze
della natura che della natura delle scienze - fanno scempio continuo
della apparente meravigliosità dei fenomeni naturali: fatti ecceziona­
li, che diventano utilmente banali, se visti dietro le lenti semplifica­
triei di un apposito cannocchiale esplicativo. Con questo strumento
Gould demolisce le mirabili gesta di una mosca che corre sul soffit­
to, prestazione per nulla eccezionale per un essere leggerissimo, sul
quale la forza di gravità agisce in modi ben diversi da come agisce sul
nostro corpo. Il pianeta Terra non ha nulla di atipico (oltre a ospi­
tarci), e molto di ciò che si afferma sul suo conto è dovuto alle sue
dimensioni. Il compito degli scienziati progressisti non è quello di
combattere le religioni, magari negando le prove evidenti dei «dilu­
vi>>, ma confrontarsi con le ondate di irrazionalismo che spumeggia­
no nella storia dell'umanità. La fantascienza è talvolta attività poco
fantasiosa, almeno quando immagina insetti giganteschi che volano
senza sforzo verso Los Angeles, scordandosi che i rapporti tra di­
mensioni del corpo e superficie delle ali renderebbero impossibile il
decollo di questi parti mostruosi della creatività umana.
È augurabile che in Italia il <<fenomeno» Gould venga compreso
ed apprezzato per tutto ciò che significa. Per adesso abbiamo assisti­
to a molta trascuratezza o addirittura ai toni maccartisti di chi lo ha
diffamato, accusandolo di ,,falso ideologico» . Ma soprattutto è im­
portante che Gould non venga ridotto a un eccellente divulgatore di
storie naturali, a un elegantissimo narratore di fatti di ossa, conchi-
Prefazione XIX

glie, mostri antidiluviani e cicale che nascono solo ogni diciassette


anm.
Stephen J. Gould è uno dei maggiori studiosi dell'evoluzione, au­
tore e coautore di formulazioni teoriche di estrema originalità, sulle
quali la biologia dell'ultimo decennio si sta tuttora confrontando.
Ed è uno scienziato progressista, che si è battuto a lungo nelle aule
dei tribunali degli Stati Uniti perché le visioni scioccamente ortodos­
se, di interpretazione letterale della Bibbia, non ostacolassero la libe­
ra diffusione del darwinismo. È il biologo che è andato in Sudafrica
a diffamare le false <<basi>> biologiche del razzismo. È lo scrittore im­
pegnato, che con le sue sferzanti metafore ha ridicolizzato alcune
delle implicite nefandezze razziste della sociobiologia umana. E che
desidera solo raccontare tutto ciò ai lettori dei suoi gradevolissimi li­
bri.

Elisabetta Visalberghi e Enrico Alleva


Questa idea della vita

A mio padre
che, quando avevo cinque anni,
mi portò a vedere il tirannosauro
Prologo

<<Cent'anni senza Darwin sono abbastanza>>; cosi si espresse il no­


to genetista americano H. ]. Muller nel 1959. La dichiarazione stupi
molti ascoltatori che la considerarono un modo singolarmente scon­
veniente di celebrare il centenario dell'Origine delle specie, ma nessu­
no poteva negare che la sua espressione di frustrazione rispecchiasse
la verità.
Perché è stato cosi difficile capire Darwin? Nel giro di dieci anni,
egli convinse l'intero mondo intellettuale che l'evoluzione era una
realtà, ma finché fu in vita la sua teoria della selezione naturale non
ottenne mai una grande popolarità. Essa si affermò soltanto intorno
agli anni quaranta e ancor oggi, sebbene formi il nocciolo della teo­
ria dell'evoluzione, è molto poco capita e spesso è citata ed usata a
sproposito. La difficoltà non può essere nella complessità della strut­
tura logica, dato che le basi della selezione naturale sono molto sem­
plici, due fatti innegabili ed una conclusione inevitabile:
l. Gli organismi viventi presentano variabilità e queste variazio­
ni, almeno in parte, vengono ereditate dalla prole.
2. Gli organismi producono prole in numero largamente superio­
re a quanto ne possa sopravvivere.
3. In media, la discendenza che sopravviverà e si propagherà sarà
quella le cui variazioni sono orientate piu decisamente in direzioni
4 Questa idea della vita

favorite dall'ambiente. Le variazioni favorevoli si accumuleranno


quindi nelle popolazioni per effetto della selezione naturale.
Queste tre affermazioni ci assicurano che la selezione naturale
esiste, ma di per sé non rendono conto del ruolo fondamentale che
essa aveva secondo Darwin. L'essenza della teoria di Darwin sta nel­
la sua convinzione che la selezione naturale è forza creativa dell'evo­
luzione e non semplice carnefice degli individui inadatti. Essa deve
anche costruire gli adatti; deve costruire l'adattamento per gradi,
preservando, generazione dopo generazione, la parte favorevole di
uno spettro di variazioni casuali. Se la selezione naturale è creativa,
allora le nostre prime due affermazioni sulla variazione vanno arric­
chite con due limitazioni.
Per prima cosa, la variazione deve essere casuale, o almeno non
preferenzialmente orientata verso l'adattamento. Infatti, se la varia­
zione avvenisse preconfezionata nella giusta direzione, la selezione
non avrebbe alcun ruolo creativo, limitandosi ad eliminare gli sfor­
tunati individui che non presentassero le variazioni adeguate. Per
questo il lamarckismo, con la sua insistenza sul fatto che gli animali
rispondono creativamente ai loro bisogni e trasmettono alla discen­
denza i tratti acquisiti, è una teoria non-darwiniana. Alla luce delle
nostre conoscenze del fenomeno della mutazione genetica possiamo
oggi dire che Darwin era nel giusto quando insisteva che la variazio­
ne non è diretta a priori verso un risultato favorevole. L'evoluzione
è un intreccio di caso e necessità: possibilità a livello della variazio­
ne, necessità nel processo di selezione .
.
La seconda limitazione è che le variazioni devono essere di picco­
la entità in rapporto alla portata dei cambiamenti evolutivi che av­
vengono nella comparsa di nuove specie. Questo perché se le nuove
specie si presentassero tutte in un sol colpo, la selezione non dovreb­
be fare altro che rimuovere gli organismi preesistenti per far posto
ad un miglioramento che non è prodotto dalla selezione stessa. An­
che in questo caso, le conoscenze acquisite in genetica vengono a raf­
forzare l'opinione di Darwin che i cambiamenti evolutivi sono costi­
tuiti da successive piccole mutazioni.
Quindi la teoria darwiniana, apparentemente semplice, necessita
di alcune precisazioni e rivela la sua sottile complessità. Ciò nono-
Prologo 5

stante, io credò che gli ostacoli alla sua accettazione non siano di ca­
rattere scientifico, ma risiedano piuttosto nel contenuto filosofico
radicale del messaggio di Darwin: esso è una sfida ad una serie di pre­
giudizi ben radicati nella mentalità occidentale, pregiudizi che non
siamo ancora pronti ad abbandonare. Primo: Darwin sostiene che
l'evoluzione non ha alcun fine. Esiste soltanto la lotta degli individui
per aumentare la presenza dei propri geni nelle generazioni future.
Se il mondo mostra un certo ordine e armonia, questo è solo un ri­
sultato incidentale della ricerca del vantaggio individuale messa in at­
to dai singoli: la concezione economica di Adam Smith trasferita nel
mondo della natura. Secondo: Darwin affermò che l'evoluzione non
ha una direzione; essa non conduce inevitabilmente a forme piu ele­
vate. Gli organismi si adattano meglio ai loro particolari ambienti,
nient'altro. La <<degenerazione>> di un parassita è perfetta come il sal­
to di una gazzella. Terzo: Darwin interpretò la natura in modo coe­
rentemente materialistico. La base di tutto l'esistente è la materia:
mente, spirito e Dio stesso sono soltanto parole che esprimono i mi­
rabili risultati della complessità neuronale. Thomas Hardy, prenden­
do le difese della natura, espresse il suo dolore per aver visto bandito
ogni scopo, ogni direzione, ogni spirito:

When I took forth at dawning, pool,


Field, flock, and lonely tree,
Ali seem to gaze at me
Like chastened children sitting silent in a school;
Upon them stirs in lippings mere
(As if once clear in cali,
But now scarce breathed at ali) -
<<W e wonder, ever wonder, why we find us hereh•''

Certo, dopo Darwin il mondo non è piu lo stesso. Ma non è me­


no interessante, istruttivo o esaltante, poiché, se ci è impossibile tro-

,,
Quando mi trovo innanzi all'alba, ad una sorgente, un campo, un gregge, ed un
albero solitario, tutto sembra fissarmi come dei puri, silenziosi bambini in una
scuola; su di loro un mormorio come nell'agitarsi dello stagno (come un grido che
ora è divenuto appena un bisbiglio)- «Noi chiediamo, noi continuiamo a chiede­
re. Perché siamo qui!>• (n.d.t.).
6 Questa idea della vita

vare uno scopo nella natura, dovremo trovarlo per noi stessi. Dar­
win non era un uomo privo di morale; semplicemente si rifiutò di
appioppare alla natura tutti i profondi pregiudizi del pensiero occi­
dentale. Anzi, io penso che l'autentico spirito darwiniano potrebbe
salvare il nostro mondo in crisi smentendo un tema prediletto del­
l' arroganza occidentale: la convinzione di essere destinati, in quanto
prodotto piu elevato di un processo preordinato, al controllo e al
dominio sulla Terra e sulla sua vita.
In ogni caso, con Darwin dobbiamo fare i conti. E per far ciò
dobbiamo capire le sue idee e quello che esse comportano. Tutti i
saggi di questo libro sono dedicati all'esplorazione di questa conce­
zione della vita («this view of life», come Darwin stesso defini il suo
nuovo mondo evoluzionistico).
Questi saggi, scritti tra il 1974 e il 1977, apparvero in origine nel­
la mia rubrica mensile sul Natura! History Magazine, intitolata «This
view of life>>; spaziano ampiamente dalla storia planetaria e geologica
a quella sociale e politica, ma sono uniti (almeno nelle mie intenzio­
ni) dal filo conduttore della teoria dell'evoluzione nella versione di
Darwin. Essendo io uno specialista, e non un enciclopedico, quello
che so di pianeti e di politica è solo quanto di questi argomenti ri­
guarda l'evoluzione biologica.
Ho ben presente la battuta giornalistica secondo la quale <<i gior­
nali di ieri avvolgono l'immondizia di oggi>>; cosi come non mi di­
mentico delle devastazioni subite dalle nostre foreste per permettere
la pubblicazione di raccolte di saggi ripetitive ed incoerenti, ma mi
piace pensare, come Seuss' Lorax, che parlo in difesa degli alberi. Va­
nità a parte, la sola giustificazione che ho per aver raccolto questi
saggi sta nell'aver osservato che piacciono a molti (e che molti li di­
sapprovano) e che sembrano ruotare tutti attorno ad un unico tema:
la prospettiva darwiniana dell'evoluzione come antidoto alla nostra
arroganza cosmtca.
La prima parte affronta la teoria stessa di Darwin, in particolare
quella filosofia radicale di cui H. J. Muller si lamentava: l'evoluzione
è senza scopo, non progressiva e materialistica. Affronterò questo di­
scorso noioso servendomi di alcuni divertenti enigmi: chi era il natu­
ralista a bordo della Beagle? (non era Darwin). Perché Darwin non
Prologo 7

usò il termine <<evoluzione»? E perché aspettò ventun anni per pub­


blicare la sua teoria?
La seconda parte riguarda l'applicazione del darwinismo all'evo­
luzione umana. Cercherò di porre in rilievo tanto la nostra partico­
larità quanto la nostra somiglianza con altre creature. La nostra uni­
cità deriva dallo svolgersi dei normali processi evolutivi e non da
una qualche predisposizione al raggiungimento di una condizione
piu elevata.
Nella terza parte affronterò alcuni punti complessi della teoria
dell'evoluzione a partire dall'osservazione di alcuni specifici organi­
smi. Questi saggi trattano dei cervi dalle corna giganti, di insetti che
divorano la madre dall'interno, di molluschi che hanno evoluto una
struttura a forma di pesce che serve da richiamo e di bambu che fio­
riscono solo ogni 120 anni; inoltre essi affrontano il problema dell'a­
dattamento, del perfezionamento e dell'apparente insensatezza di
certe strutture.
Nella quarta parte la teoria dell'evoluzione viene estesa all'esplo­
razione degli schemi presenti nella storia della vita. Non ci troviamo
di fronte a una storia di progressi imponenti, ma a un mondo pun­
teggiato da periodi di estinzioni di massa e di improvvisa comparsa
di specie inframmezzati da lunghe fasi di relativa tranquillità. Rivol­
gerò la mia attenzione in particolare ai due momenti piu importanti:
l' «esplosione cambriana» che diede il via alla vita animale piu com­
plessa (circa 600 milioni di anni fa), e l'estinzione del Permiano che,
225 milioni di anni fa, spazzò via la metà delle famiglie di invertebra­
ti marini.
Dalla storia della vita, passerò poi ad esaminare la storia del pia­
neta che l'ha ospitata, cioè della nostra Terra (parte quinta): in essa
parlerò tanto degli antichi eroi (Lyell) quanto dei moderni eretici
(Velikovsky) che hanno affrontato i problemi piu generali: la storia
geologica ha una direzione? i cambiamenti sono lenti e continui o ra­
pidi e cataclismatici? in che misura la storia della vita corrisponde a
quella della Terra? Mostrerò quindi come secondo me è possibile
trovare una soluzione ad alcuni di questi problemi con la <<nuova
geologia>> della tettonica a placche e della deriva dei continenti.
La sesta parte costituisce un tentativo di afferrare molte cose a
8 Questa idea della vita

partire da un'osservazione limitata. Prenderò in considerazione un


singolo, semplice principio: l'influenza delle dimensioni degli ogget­
ti sulla loro forma, e sosterrò che esso è applicabile ad uno spettro di
fenomeni di sviluppo sorprendentemente ampio. Tra questi fenome­
ni prenderò in considerazione l'evoluzione della superficie dei piane­
ti, quella del cervello dei vertebrati e le caratteristiche differenze di
forma tra chiese medioevali grandi e piccole.
La settima parte potrebbe apparire ad alcuni lettori una rottura
del discorso. Finora mi ero mosso meticolosamente dai principi ge­
nerali verso le applicazioni specifiche e ancora piu in particolare ad
esplorare il loro ruolo negli eventi piu importanti della storia della
vita e della Terra. Con questa parte del libro passerò alla storia del
pensiero evoluzionistico, e, in particolare, all'influenza delle idee so­
ciali e politiche sulla presunta «obiettività>> della scienza. In questa
influenza io non vedo altro che un'ulteriore spinta all'arroganza del­
la scienza, che viene ad avere cosi anche un messaggio politico. La
scienza non è un'inesorabile marcia verso la verità, realizzata me­
diante la raccolta di dati obiettivi e la distruzione di vecchie supersti­
zioni; gli scienziati, che sono esseri umani come tutti gli altri, riflet­
tono inconsciamente nelle loro teorie le costrizioni sociali e politi­
che della loro epoca. Come membri privilegiati della società, nella
maggior parte dei casi finiscono per difendere gli ordinamenti sociali
esistenti come biologicamente preordinati. Per esemplificare questo
discorso generale, riferirò di un oscuro dibattito avvenuto nell'em­
briologia del XVIII secolo, della concezione che Engels aveva dell'e­
voluzione umana, della teoria lombrosiana sulla criminalità innata e
di un contorto racconto proveniente dalle catacombe del razzismo
scientifico.
L'ultima parte affronta lo stesso tema, con particolare riguardo,
però, all'attuale discussione circa la <<natura umana>>, nella quale si
realizza la piu importante influenza della maltrattata teoria dell'evo­
luzione sulla politica sociale dei nostri giorni. Nel primo saggio at­
taccherò come pregiudizio politico quel determinismo biologico che
ultimamente ci ha sommerso con i discorsi sull'asserita discendenza
dell'uomo da scimmie antropomorfe assassine, sull'aggressività inna­
ta e la territorialità, sulla passività femminile come legge di natura,
Prologo 9

sulle differenze di Q.I. tra le razze, ecc. ecc. Sosterrò che nessuna
di queste tesi è suffragata da prove e che esse rappresentano solo la
piu recente reincarnazione di una deplorevole operazione ideologi­
ca ricorrente nella storia occidentale: l'attribuzione di un'inferiorità
biologica agli oppressi o, come ha detto Condorcet, l'uso della bio­
logia «Come complice>>. Il secondo saggio dirà dei piaceri e dei di­
spiaceri che mi provoca lo studio di Sociobiologia apparso recente­
mente e la sua promessa di una nuova visione darwiniana della na­
tura umana. Sosterrò che molte affermazioni specifiche della socio­
biologia sono speculazioni prive di fondamento, come spesso acca­
de nei discorsi deterministici, ma mi troverò pienamente d'accordo
con la spiegazione darwiniana dell'altruismo, dal momento che vie­
ne a sostegno della mia tesi secondo la quale l'ereditarietà ci ha for­
nito flessibilità e non una rigida struttura sociale imposta dalla sele­
zione naturale.
Rispetto alla loro versione originale, apparsa nella rubrica del Na·
tura! History Magazine, questi saggi hanno subito solo lievi modifi­
che: alcuni errori sono stati corretti, alcune limitatezze di vedute eli­
minate, le informazioni aggiornate. Ho cercato di evitare la ripetiti­
vità, spauracchio delle raccolte di saggi, curando però che i miei tagli
editoriali non minacciassero la coerenza dei singoli pezzi. Ho evitato
comunque di usare due volte la stessa citazione. Rivolgo infine un af­
fettuoso ringraziamento al capo redattore Alan Ternes e ai suoi col­
laboratori Florence Edelstein e Gordon Beckhorn, che mi hanno
aiutato con una serie di lettere <<Cattive» e hanno mostrato molta pa­
zienza e discrezione usando la piu leggera delle mani editoriali.
Nessuno ha espresso bene come Sigmund Freud le irreversibili
conseguenze della teoria dell'evoluzione sulla vita e sul pensiero del­
l'uomo quando scrisse:

Nel corso degli anni l'umanità ha dovuto sopportare da parte della scien­
za due grandi attacchi al suo amor proprio. Il primo colpo lo subi quan­
do si rese conto che la nostra Terra non era il centro dell'universo, ma
solo un punto in un sistema di grandezza difficilmente concepibile ... Il
secondo fu quando la ricerca biologica strappò all'uomo il privilegio di
essere stato oggetto della creazione, e lo relegò a discendente del mondo
animale.
lO Questa idea della vita

Secondo me la coscienza di questa nostra condizione è anche la


nostra piu grande speranza, ci aiuterà a sopravvivere sul nostro fragi­
le pianeta. Possa <<this view of life>> fiorire durante il suo secondo se­
colo e aiutarci a comprendere i limiti e le lezioni della conoscenza
scientifica, poiché noi, come i campi e gli alberi di Hardy, continue­
remo a chiederci perché ci troviamo qui.
Parte prima
Darwiniana
1
Il ritardo di Darwin

Le pause lunghe e misteriose nell'attività dei personaggi famosi


sono tra i fatti sui quali si specula di piu. Rossini coronò una brillan­
te carriera operistica con il Guglielmo Tell e poi cessò quasi di com­
porre per i successivi trentacinque anni. Dorothy Sayers abbandonò
Lord Peter Wimsey al culmine della sua popolarità per dedicarsi a
Dio. Charles Darwin elaborò una prima versione della teoria dell'e­
voluzione nel 1838 e la pubblicò ventun anni piu tardi solo perché
A.R. Wallace era sul punto di precederlo.
I cinque anni trascorsi a contatto con la natura a bordo della Bea·
gle distrussero in Darwin la fede nella fissità delle specie. Nel luglio
del 1837, poco dopo il viaggio, egli cominciò il suo primo quaderno
sulla «trasmutazione>>. Già convinto dell'esistenza dell'evoluzione,
Darwin era alla ricerca di una teoria in grado di spiegarne il meccani­
smo. Dopo una lunga speculazione ed alcune ipotesi infruttuose, ar­
rivò alla sua intuizione centrale leggendo per diletto un'opera che
apparentemente non aveva niente a che vedere con l'argomento. Piu
tardi Darwin scrisse nella sua autobiografia: «Nell'ottobre del 1838 ...
mi capitò di leggere per divertimento il saggio di Malthus sulla po­
polazione e poiché, date le mie lunghe osservazioni sulle abitudini
degli animali e delle piante, ero ben preparato a valutare ogni forma
di lotta per l'esistenza, improvvisamente mi venne in mente che, in
queste condizioni, le variazioni favorevoli tendevano ad essere con-
14 Questa idea della vita

servate e quelle sfavorevoli ad essere distrutte. Il risultato di tutto ciò


sarebbe stato la formazione di nuove specie>>.
Darwin aveva valutato a lungo l'importanza della selezione artifi­
ciale praticata dagli allevatori di animali. Ma non era stato in grado
di identificare l'agente della selezione naturale fino a che la visione
malthusiana della lotta e del sovraffollamento non venne a catalizza­
re i suoi pensieri. Se tutte le creature producevano una progenie ben
piu numerosa di quella che poteva sopravvivere, allora doveva essere
la selezione naturale a dirigere l'evoluzione semplicemente perché i
sopravvissuti, in media, sono piu adatti alle condizioni di vita preva­
lenti.
Darwin sapeva a cosa era arrivato. Non possiamo pensare che il
suo ritardo fosse dovuto ad una sottovalutazione delle dimensioni
della sua impresa. Nel 1842 e ancora nel 1844 scrisse i primi abbozzi
della sua teoria e delle sue implicazioni. Lasciò anche precise istru­
zioni alla moglie perché, nel caso fosse morto prima di aver pubbli­
cato il suo lavoro piu importante, venissero pubblicati soltanto quei
due manoscritti.
Perché allora aspettò piu di vent'anni per pubblicare la sua teo­
ria? Certo da allora c'è stata una tale accelerazione dei ritmi di vita
{della quale hanno fatto le spese l'arte della conversazione e il gioco
del baseball) che c'è il rischio di scambiare per una fetta di eternità
quello che in passato era solo un periodo normale. Ma l'arco della
vita umana è un metro di riferimento costante; venti anni restano la
metà di una normale carriera, un bel pezzo di vita anche per i misu­
rati criteri vittoriani.
Le comuni biografie non sono assolutamente delle buone fonti di
informazioni circa i grandi pensatori; tendono a dipingerli come
semplici macchine razionali che inseguono con costanza le loro in­
tuizioni, sotto la spinta di un meccanismo interno che deve rispetta­
re soltanto i dati oggettivi. Cosi, secondo la versione comunemente
accettata, Darwin aspettò vent'anni semplicemente perché non ave­
va completato il suo lavoro. Era soddisfatto della teoria, ma la teoria
da sola non basta. Sarebbe stato perciò deciso a non pubblicarla fino
a che non avesse ammassato un'enorme quantità di dati che la conva­
lidassero, e per farlo ci volle del tempo.
Il ritardo di Darwin 15

Ma basta considerare le attività di Darwin durante quel venten­


nio per rendersi conto dell'inadeguatezza di questa interpretazione.
In particolare, egli dedicò otto interi anni alla stesura di quattro
grossi volumi sulla tassonomia e la storia naturale dei cirripedi. I tra­
dizionalisti non sono in grado di dare spiegazioni convincenti di
questo fatto, limitandosi a dire che Darwin aveva sentito l'esigenza
di capire a fondo le specie prima di proclamare le modalità del loro
cambiamento; certamente l'unico modo per farlo era impegnarsi
personalmente nella classificazione di un difficile gruppo di organi­
smi ma non per otto anni, e non mentre se ne stava seduto sul con­
cetto piu rivoluzionario della storia della biologia. Nella sua auto­
biografia possiamo leggere come Darwin giustifichi questi quattro
volumi. «Oltre a scoprire diverse specie nuove ed interessanti, ho
chiarito le omologie delle varie parti ... e ho dimostrato l'esistenza in
alcuni generi di piccoli maschi complementari e parassiti degli erma­
froditi ... Ciò nonostante, dubito che valesse la pena di dedicare tanto
tempo a questo lavoro.>>
Un problema cosi complesso come quello del ritardo di Darwin
non può essere risolto facilmente, ma di una cosa sono sicuro: l'effet­
to negativo della paura ha giocato un ruolo almeno pari a quello po­
sitivo della necessità di una ulteriore documentazione. Ma di che co­
sa aveva paura Darwin?
Quando arrivò alla sua intuizione malthusiana, Darwin aveva
ventinove anni. Non aveva una posizione professionale, ma il suo
intelligente lavoro a bordo della Beagle aveva suscitato l'ammira­
zione dei suoi colleghi. Cosi si guardò bene dal compromettere
una promettente carriera annunciando un'eresia che non poteva
provare.
Ma in che cosa consisteva la sua eresia? Nel credere all'evoluzio­
ne, è l'ovvia risposta. Eppure la soluzione non può essere solo questa
perché, contrariamente a quanto si crede, l'evoluzione era un'eresia
molto comune durante la prima metà del XIX secolo. Di essa si di­
scuteva ampiamente ed apertamente ed anche se la maggioranza dei
naturalisti vi si opponeva, la gran parte di essi era comunque dispo­
sta a prenderla in considerazione.
La risposta si può trovare in due dei primi straordinari taccuini di
16 Questa idea della vita

Darwin (per il testo e il commento, vedi H. E. Gruber e P. H. Bar­


rett, Darwin on man). Questi taccuini, detti M e N, Darwin li scrisse
nel 1838 e nel 1839, contemporaneamente a quelli sulla trasmutazio­
ne che formarono la base per gli abbozzi della teoria che scrisse nel
1842 e nel 1844. Contengono le sue riflessioni di filosofia, estetica,
psicologia e antropologia. Rileggendoli nel 1856, Darwin li defini
«pieni di metafisica sulla morale>>. In essi si trovano diverse afferma­
zioni dalle quali si capisce che egli credeva in qualcosa di ben piu ere­
tico dell'evoluzione stessa, ma aveva paura di manifestare questo suo
pensiero: il materialismo, il postulato per il quale la materia è l'es­
senza di tutto ciò che esiste e tutti i fenomeni mentali e spirituali so­
no suoi prodotti secondari. Niente è piu sconvolgente, per le piu
profonde tradizioni del pensiero occidentale, dell'affermazione che
la mente, per quanto complessa e potente, è un semplice prodotto
del cervello. Consideriamo, per esempio, la concezione che aveva
della mente John Milton: qualcosa di separato dal corpo e ad esso su­
periore che vi abita per un certo tempo (Il Penseroso, 1633):

O, nel mezzo della notte,


la mia lampada risplenda
dalla cima d'alta torre
solitaria, dove io possa
con Ermete Trismegisto
spesso far piu lunga veglia
che la stella boreale,
o dall'eccelsa sua sfera,
far discendere Platone,
che il suo spirito riveli
quali mondi o regioni
sian dell'anima immortale
sede, poi che la dimora
della carne abbia lasciata
in quest'angolo terreno.*

I taccuini dimostrano che Darwin si interessava di filosofia ed era


consapevole delle implicazioni filosofiche della sua teoria. Sapeva

'' Traduzione di Carlo Izzo, da Ode alla Natività, Firenze, Sansoni Editore, 1974
(n.d.t.).
Il ritardo di Darwin 17

che la prima caratteristica che la distingueva dalle altre dottrine evo­


luzionistiche era il suo materialismo senza compromessi. Gli altri
evoluzionisti parlavano di forze vitali, di storia con una direzione, di
lotta del mondo organico, e dell'essenziale irriducibilità della mente,
una panoplia di concetti che il cristianesimo tradizionale poteva ac­
cettare come compromesso, perché compatibili con un Dio cristiano
che agiva con l'evoluzione anziché con la creazione. Darwin, invece,
parlava solo di variazioni casuali e di selezione naturale.
Nei quaderni, Darwin applicò con decisione la sua teoria materia­
listica dell'evoluzione a tutti i fenomeni vitali, compresa quella che
ne costituiva, per sua definizione, «la cittadella stessa»: la mente
umana. E se la mente non è niente di piu del cervello, può essere Dio
qualcosa di piu di un'illusione inventata da una illusione? In uno dei
suoi taccuini sulla trasmutazione egli scrisse: <<Oh materialista,
amante del divino effetto dell'organizzazione!... Perché il fatto che il
pensiero è una secrezione del cervello dovrebbe essere piu meravi­
glioso del fatto che la gravità sia una proprietà della materia? Ciò av­
viene solo per la nostra arroganza, per la nostra ammirazione per
noi stessi>>.
Questa concezione era tanto eretica che Darwin stesso evitò di ri­
portarla nell'Origine delle specie ( 1859), dove si limitò a dire enigma­
ticamente: «luce .sarà fatta sull'origine dell'uomo e sulla sua storia>>.
Diede sfogo alle sue convinzioni solo quando non poté piu nascon­
derle, in L 'origine dell'uomo (1871) e nell'Espressione delle emozioni
(1872). A.R. Wallace, coscopritore della selezione naturale, non
avrebbe mai potuto applicarla alla mente umana, che considerava
l'unico contributo divino alla storia della vita. Eppure, in un famoso
epigramma del suo taccuino M, Darwin aveva rotto con duemila an­
ni di filosofia e di religione: «Platone disse nel Fedone che le nostre
idee immaginarie non ci derivano dall'esperienza ma sorgono dalla
preesistenza dell'anima, dove per preesistenza si deve leggere scim­
mie>>.
Nel suo commento ai taccuini M ed N, Gruber definisce il mate­
rialismo come «piu immorale, a quel tempo, dell'evoluzione stessa>>.
Egli documenta la persecuzione del pensiero materialista durante la
fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, e conclude cosi: «Pratica-
18 Questa idea della vita

mente in ogni branca del sapere furono usati metodi repressivi: certe
conferenze furono proibite, certe pubblicazioni ostacolate, certe do­
cenze negate, mentre sulla stampa apparivano calunnie e feroci in­
vettive. Studenti e scienziati impararono la lezione e le pressioni
esercitate su di loro ebbero effetto. Chi aveva idee anticonformiste
in qualche caso ritrattava, pubblicava coprendosi sotto l'anonimato,
presentava le sue idee in forma addolcita, o rimandava di molti anni
le pubblicazioni>>.
Darwin si era trovato di fronte ad un esempio di questa situazio­
ne quando era studente all'Università di Edimburgo nel 1827. Il suo
amico W.A. Browne lesse alla Plinian Society un saggio ispirato a
una visione materialistica della vita e della mente. Dopo un lungo di­
battito, tutti i riferimenti al lavoro di Browne, compresa la segnala­
zione della sua intenzione di presentarlo (fatta nel corso della riunio­
ne precedente), furono cancellati dai verbali. Darwin imparò la le­
zione, dato che scrisse nel suo taccuino M: «Per evitare affermazioni
simili io credo che, materialisticamente, si possa soltanto dire che le
emozioni, gli istinti, le diverse capacità che sono ereditarie, lo sono
perché il cervello del bambino somiglia a quello dei genitori>>.
I piu accesi materialisti del XIX secolo, Marx ed Engels, capirono
subito a cosa fosse arrivato Darwin e utilizzarono il contenuto radi­
cale della sua opera. Nel 1860, Marx scrisse ad Engels a proposito
dell Origine di Darwin: <<Per quanto svolto grossolanamente all'in­
'

glese, ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del


nostro modo di vedere>>.
È falso che Marx si fosse offerto, come si vorrebbe far credere in­
troducendo una nota di colore, di dedicare il secondo volume del
Capitale a Darwin (e che questi abbia rifiutato), ma i due si scriveva­
no e Marx aveva un'alta considerazione di Darwin. (Ho visto la co­
pia del Capitale che Darwin aveva nella sua libreria a Down House.
C'è una dedica di Marx che si definisce sincero ammiratore di Dar­
win; le pagine del libro sono ancora da tagliare, Darwin non amava
molto il tedesco.)
Darwin era, in realtà, un rivoluzionario moderato. Non solo ri­
tardò per tutto questo tempo la pubblicazione del suo lavoro, ma
evitò anche con attenzione qualsiasi affermazione pubblica riguardo
Il ritardo di Darwin 19

alle implicazioni filosofiche della sua teoria. Scrisse nel 1880: <<Mi
sembra (non so se a torto o a ragione) che raramente gli attacchi di­
retti contro il cristianesimo e la religione abbiano qualche effetto sul
pubblico, e che sia preferibile promuovere la libertà di pensiero con
quella graduale illuminazione dell'umana conoscenza che deriva dal
progresso della scienza. Perciò ho sempre evitato di scrivere sulla re­
ligione e mi sono limitato al campo scientifico>>.
Ciò nonostante il contenuto del suo lavoro è cosi dirompente per
il tradizionale pensiero occidentale che noi non l'abbiamo ancora
compreso completamente. La campagna condotta contro Darwin da
Arthur Koestler, per esempio, si basava sulla riluttanza ad accettare
il materialismo di Darwin e su un nuovo ardente desiderio di asse­
gnare una qualche speciale proprietà alla materia vivente (vedi Ilfan·
tasma dentro la macchina o Il caso del rospo ostetrico). Confesso di
non riuscire a capire una posizione simile. Credo che il sapere e
l'ammirazione per la natura siano ugualmente importanti. Dovrem­
mo forse apprezzare meno la bellezza della natura perché dietro la
sua armonia non c'è alcun disegno? Forse che il potenziale della
mente deve cessare di ispirarci rispetto e timore perché nei nostri
crani si trovano diversi miliardi di neuroni?
2
Il cambiamento di Darwin
in mare, ovvero cinque anni alla
tavola del capitano

Groucho Marx divertiva sempre il pubblico chiedendogli delle


cose sfacciatamente ovvie come, per esempio, <<chi è sepolto nella
tomba di Grant?>>. Ma la risposta a questo genere di domande non è
sempre scontata come si crede. Se ben ricordo, la risposta alla do­
manda: <<Chi fu l'autore della dottrina di Monroe?>> è John Quincy
Adams. La gran parte dei biologi, se gli chiedete <<chi era il naturali­
sta a bordo della Beagle?», vi risponderà: <<Charles Darwin». E com­
metterebbe un errore. Lasciate che mi spieghi. Darwin era sulla Bea­
gle e si occupava di storia naturale. Ma fu portato a bordo per un al­
tro motivo, e in origine il ruolo ufficiale di naturalista era del medi­
co di bordo, Robert Mc Kormick. La cosa è da considerare una sco­
perta di una certa importanza, e merita ben piu di una nota a piè di
pagina nella storia ufficiale. Ne forni le prove l'antropologo J. W.
Gruber in Who was the <<Beagle>> naturalist? (Chi era il naturalista del­
la <<Beagle»?), un articolo scritto nel 1969 per il British Joumal far the
History of Science. Nel 1975 lo storico della scienza H.L. Burstyn
tentò di rispondere all'ovvio corollario: se Darwin non era il natura­
lista della Beagle, perché si trovava a bordo?
Manca qualsiasi documento che ci consenta di identificare in Mc
Kormick il naturalista ufficiale, ma le circostanze sono tali da non
permettere dubbi in proposito. La marina britannica aveva a quei
tempi una consolidata tradizwne di medici-naturalisti, e Mc Kor-
Darwin in mare 21

mick si era espressamente preparato ad assumere questo ruolo. Era


un naturalista di buon, se non di ottimo livello, e si era già distinto
nel suo compito durante altri viaggi, tra i quali la spedizione antarti­
ca di Ross (1839-43) per localizzare la posizione del polo magnetico
australe. In piu, Gruber ha trovato una lettera scritta dal naturalista
di Edimburgo Robert Jameson che comincia con «My dear Sin>, pie­
na di consigli al naturalista della Beagle per la raccolta e la conserva­
zione dei campioni. Stando alla versione tradizionale, il destinatario
non poteva essere altri che Darwin. Fortunatamente sul foglio origi­
nale compare il nome del destinatario: Mc Kormick.
Per por fine alla suspense, diremo che Darwin si imbarcò sulla
Beagle come compagno del capitano Fitzroy. Ma per quale motivo
un capitano britannico avrebbe voluto prendersi come compagno
per un viaggio di cinque anni una persona conosciuta solo il mese
prima? La decisione di Fitzroy si spiega pensando a due caratteristi­
che dei viaggi in nave negli anni trenta del secolo scorso. Prima di
tutto, i viaggi duravano molti anni, con lunghi intervalli di tempo
tra un porto e l'altro e contatti postali molto limitati con gli amici e
la famiglia. Secondo (per quanto questo possa sembrare strano alla
mentalità piu illuminata del nostro secolo), la tradizione navale bri­
tannica imponeva che un capitano non avesse praticamente alcun
rapporto sociale con i suoi sottoposti. Di solito pranzava da solo e
incontrava i suoi ufficiali soprattutto per discutere degli affari della
nave e conversare nel modo piu corretto e formale. Ora Fitzroy,
quando si accingeva ad imbarcarsi con Darwin, aveva solo 26 anni.
Sapeva cosa poteva costare ai capitani la lunga mancanza di contatti
umani. Il precedente comandante della Beagle aveva avuto l'esauri­
mento nervoso e si era sparato durante l'inverno dell'emisfero meri­
dionale del 1828, al suo terzo anno di lontananza da casa. Per di piu,
come dice Darwin stesso in una lettera alla sorella, Fitzroy era
preoccupato per la sua «predisposizione ereditaria>> allo squilibrio
mentale. Il suo illustre zio, visconte di Castelreagh (protagonista del­
la repressione contro la ribellione irlandese del 1798 e ministro degli
esteri ai tempi della sconfitta di Napoleone) si era tagliato la gola nel
1822. In effetti, Fitzroy soffri poi di esaurimento e rinunciò tempo-
22 Questa idea della vita

raneamente al suo comando durante il viaggio della Beagle, mentre


Darwin era bloccato dalla malattia a Valparaiso.
Dato che i rapporti con il personale della nave erano cosi limitati,
Fitzroy poteva averne soltanto prendendo un passeggero <<in piu>> di
sua iniziativa. Ma l'ammiraglio disapprovava la presenza di passegge­
ri, comprese le mogli dei capitani; sarebbe stato impossibile portare
con sé un gentiluomo con il solo fine dichiarato di procurarsi della
compagnia. Fitzroy aveva già preso a bordo altri passeggeri in piu
(tra gli altri un disegnatore ed un costruttore di strumenti), ma nes­
suno di questi poteva servire come compagno perché non appartene­
vano alla classe sociale giusta. Fitzroy era un aristocratico, e riteneva
di discendere direttamente da re Carlo Il; avrebbe potuto dividere la
tavola solo con un gentiluomo, e Darwin lo era senz'altro.
Ma come poteva Fitzroy convincere un gentiluomo ad accompa­
gnarlo in un viaggio che sarebbe durato cinque anni? L'unica possi­
bilità era quella di fornire l'opportunità di una qualche attività che
costui non avrebbe potuto svolgere in altri luoghi. E quale poteva es­
sere questa attività se non la storia naturale? Questo anche se la Bea­
gle aveva già un naturalista ufficiale. Fitzroy sparse quindi la voce tra
i suoi amici aristocratici che era alla ricerca di un gentiluomo natura­
lista. Si trattava, dice Burstyn, di <<un'elegante bugia atta a giustifica­
re la sua presenza come ospite e di un'attività abbastanza attraente
da convincere un gentiluomo ad imbarcarsi per un lungo viaggio>>. Il
garante di Darwin, J.S. Henslow, capi perfettamente. Scrisse a Dar­
win: <<Il capitano F. vuole (secondo me) un uomo che sia piu un
compagno che un semplice collezionista». Darwin e Fitzroy si in­
contrarono, si trovarono d'accordo, e stipularono il patto. Darwin
si imbarcò come compagno di Fitzroy, prima di tutto per dividere
con lui la tavola all'ora del pasto per tutti i pranzi di bordo di quei
cinque lunghi anni. Fitzroy, in piu, era un giovane ambizioso: desi­
derava diventare famoso perfezionando il livello dei viaggi d'esplora­
zione. (<<L'obiettivo della spedizione - scrisse Darwin - era quello
di completare la planimetria della Patagonia e della Terra del Fuoco,
di ispezionare le coste del Cile, del Peru e qualche isola del Pacifico,
e di compiere una serie di rilevazioni cronometriche attorno al mon­
do».) Per raggiungere il suo scopo Fitzroy usò la sua ricchezza e il
Darwin in mare 23

suo prestigio, potenziando l'equipaggio ufficiale con tecnici e mecca­


nici ingaggiati a sue spese. Un naturalista «in piu>> ben si addiceva al­
l'idea di Fitzroy di accrescere il carattere scientifico del viaggio della
Beagle.
Il destino del povero Mc Kormick era segnato. All'inizio lui e
Darwin collaborarono, ma le loro strade erano destinate a dividersi:
Darwin aveva tutti i vantaggi possibili. Era ascoltato dal capitano,
aveva un domestico, nei porti aveva il denaro per scendere a terra ed
assumere dei raccoglitori locali, mentre Mc Kormick era costretto a
bordo dai suoi compiti ufficiali. Il lavoro privato di Darwin comin­
ciò a superare le collezioni ufficiali di Mc Kormick il quale, disgusta­
to, decise di tornarsene a casa. Nell'aprile del 1832, a Rio de Janeiro,
egli fu «dimesso per invalidità» e spedito a casa a bordo della Tyne.
Darwin capi l'eufemismo e scrisse a sua sorella che Mc Kormick <<es­
sendo invalido, cioè sgradito al capitano ... Non è una gran perdita».
A Darwin non piaceva il modo di fare scienza di Mc Kormick.
Nel maggio del 1832 scrisse ad Henslow: <<Era un filosofo piuttosto
all'antica; a St. Jago fece per suo proprio conto delle osservazioni ge­
nerali durante i primi quindici giorni e raccolse dati particolari in
quelli successivi». In realtà, sembra che Mc Kormick non piacesse a
Darwin sotto nessun aspetto. <<Il mio amico dottore è un somaro,
ma noi tiriamo avanti molto amichevolmente; adesso ha un grosso
problema, se far dipingere la sua cabina in grigio rosato o in bianco:
da lui non ho sentito molti altri discorsi oltre a questO.>>
Se non altro, questa storia può consentire una riflessione sull'im­
portanza delle classi sociali nella storia della scienza. Si può capire
quanto diversa sarebbe oggi la biologia se Darwin fosse stato figlio di
un artigiano anziché di un medico molto ricco. La ricchezza perso­
nale diede a Darwin la possibilità di dedicarsi alla ricerca senza osta­
coli. Probabilmente, dato che i suoi vari malanni gli permettevano
spesso solo due o tre ore di lavoro al giorno, se fosse stato costretto a
guadagnarsi da vivere sarebbe stato completamente tagliato fuori
dalla ricerca. Adesso sappiamo che la posizione sociale di Darwin
giocò un ruolo determinante anche in una svolta decisiva della sua
carriera. A Fitzroy il)teressava di piu la buona educazione del suo
compagno di tavola che non la sua competenza in storia naturale.
24 Questa idea della vita

E se le conversazioni mai riportate che si svolsero a pranzo tra


Darwin e Fitzroy fossero state in realtà ben piu importanti di quan­
to si possa immaginare? Gli scienziati tendono sempre a pensare che
l'unica sorgente di intuizioni creative siano le prove empiriche. Que­
sto è il motivo per cui il ruolo primario, nella trasformazione della
visione del mondo di Darwin, è sempre stato assegnato a tartarughe
e fringuelli, dato che Darwin al momento dell'imbarco sulla Beagle
si stava preparando con ingenua devozione al sacerdozio, ma già me­
no di un anno dopo il suo ritorno cominciava a scrivere il suo primo
taccuino sulla trasmutazione delle specie. Secondo me Fitzroy stesso
potrebbe aver rappresentato un catalizzatore anche piu importante
in questo processo.
Il rapporto tra Darwin e Fitzroy fu sempre, a dir poco, teso. La
cosa non degenerò solo per il rispetto dovuto alle regole di cordialità
dei gentiluomini e per l'abitudine previttoriana al controllo delle
emozioni. Fitzroy era un ufficiale molto severo ed un conservatore
convinto. Darwin era un liberale altrettanto impegnato ed evitava
scrupolosamente qualsiasi discussione con Fitzroy sul Reform Bill
all'esame del parlamento. Ma finirono per entrare in aperto contra­
sto sulla questione della schiavitu. Una sera Fitzroy disse a Darwin
che aveva delle testimonianze che provavano la bontà della schiavi­
tu. Uno dei piu grossi proprietari di schiavi del Brasile aveva riunito
i suoi uomini e gli aveva chiesto se desideravano essere liberi. Alla
unanimità, avevano risposto di no. Quando Darwin ebbe la temera­
rietà di chiedergli che valore potesse avere una risposta data in pre­
senza del padrone, Fitzroy esplose e lo informò che chiunque dubi­
tasse delle sue parole non era degno di mangiare con lui. Darwin
usd e si uni agli altri, ma qualche giorno piu tardi Fitzroy tornò sul­
le sue decisioni e gli presentò formalmente le sue scuse.
Sappiamo che Darwin andò in bestia di fronte alle dure posizioni
di Fitzroy. Ma non poteva esprimere il suo dissenso perché era suo
ospite e, in un certo senso, suo subordinato, dato che a quell'epoca
un capitano in mare era un'autorità assoluta ed indiscutibile. Per cin­
que lunghi anni, uno degli uomini piu brillanti della storia si con­
trollò. Piu tardi, Darwin ricordò nella sua autobiografia che <<la diffi­
coltà di mantenere buoni rapporti con il capitano di una nave da
Darwin in mare 25

guerra è tanto maggiore in quanto rispondergli come si farebbe con


chiunque altro significa quasi ammutinarsi; a ciò si aggiunge il timo­
re reverenziale con cui è considerato da tutti a bordo, o almeno lo
era a quel tempo».
Ma la politica del partito conservatore non era l'unica passione
ideologica di Fitzroy. L'altra era la religione. Qualche volta dubitava
che la Bibbia andasse presa alla lettera, ma tendeva a considerare Mo­
sè uno storico e un geologo molto preciso e passò anche diverso tem­
po a cercare di calcolare le dimensioni dell'arca di Noè. L'idea fissa
di Fitzroy, almeno nell'ultimo periodo della sua vita, era quella della
«tesi deducibile dal disegno>>, cioè la convinzione che la perfezione
delle strutture organiche fosse la prova della benevolenza divina (an­
zi dell'esistenza stessa di Dio). Darwin, d'altra parte, accettava l'idea
di un disegno superiore, ma proponeva una spiegazione naturale che
difficilmente avrebbe potuto essere piu incompatibile con le convin­
zioni di Fitzroy. Egli sviluppò una teoria evoluzionistica basata su
variazioni casuali e sulla selezione naturale imposta dall'ambiente
esterno: una versione rigidamente materialistica (e fondamentalmen­
te ateistica) dell'evoluzione (si veda il saggio 1). Molte altre teorie
evoluzionistiche del XIX secolo erano ben piu congeniali al tipo di
cristianesimo di Fitzroy. Le autorità religiose, per esempio, avevano
molti meno problemi con le teorie, largamente diffuse, sulle tenden­
ze innate alla perfezione che con la visione di assoluto meccanicismo
di Darwin.
Si può sostenere che la dogmatica insistenza di Fitzroy sulla «tesi
deducibile dal disegno>> contribui alla maturazione della concezione
filosofica darwiniana. Per quanto ne sappiamo, Darwin a bordo del­
la Beagle era un buon cristiano. I dubbi e le ripulse vennero in segui­
to; quando era a metà del viaggio, scrisse ad un amico: «spesso mi
immagino quello che sarà di me; seguendo i miei desideri diventerei
di certo un prete di campagna>>. Arrivò persino a scrivere, assieme a
Fitzroy, un appello in sostegno del lavoro dei missionari nel Pacifi­
co, intitolato La situazione morale di Tahiti. Ma il germe del dubbio
deve essere nato già a bordo della Beagle, nelle tranquille ore di con­
templazione. Pensate alla situazione in cui si trovava Darwin: man­
giare ogni giorno per cinque anni con un capitano autoritario al qua-
26 Questa idea della vita

le non poteva rispondere, il cui pensiero politico e la cui condotta


andavano contro le sue convinzioni e che, fondamentalmente, non
gli andava a genio. Chi può sapere quali silenziosi meccanismi abbia­
no agito nel cervello di Darwin durante i cinque anni in cui soppor­
tò quelle insistenti arringhe? Perciò Fitzroy può aver avuto un ruolo
ben piu importante dei fringuelli, per lo meno nell'ispirare il tono
materialistico e ateistico della filosofia e della teoria dell'evoluzione
di Darwin.
Lo stesso Fitzroy, quando piu avanti con gli anni perse il lume
della ragione, se ne fece una colpa. Cominciò a considerarsi il re­
sponsabile involontario dell'eresia di Darwin (in realtà, secondo me,
ciò potrebbe essere molto piu vero di quanto non immaginasse Fitz­
roy). Sviluppò un cocente desiderio di espiare la sua colpa e di riaf­
fermare la supremazia della Bibbia. Al famoso convegno della Bri­
tish Association del 1 860 (in cui Huxley fece fare una magra figura al
vescovo Wilberforce), lo squilibrato Fitzroy avanzò camminando
maestosamente, tenendo una Bibbia sopra la testa e gridando: «Il li­
bro, il libro!>>. Cinque anni piu tardi si tagliò la gola.
3
Il dilemma di Darwin: l' odissea
dell'evoluzione

Migliaia di scienziati hanno dedicato tutta la loro vita all'esame


del concetto di evoluzione. In questo saggio presenterò qualcosa che,
a confronto, è tanto limitato da far sorridere: una storia della parola
evoluzione. Spiegherò come si giunse a definire «evoluzione>> il cam­
biamento della materia organica. Questa storia è complessa e affasci­
nante come indagine etimologica, un vero esercizio di antiquariato.
Ma in questo caso la posta è piu alta, perché l'uso che si è fatto nel
passato di questa parola ha contribuito a far si che tra i profani si dif­
fondesse un equivoco su quello che gli scienziati intendevano per
evoluzione.
Comincerò con un paradosso: Darwin, Lamarck e Haeckel (i piu
grandi evoluzionisti del XIX secolo, rispettivamente di Inghilterra,
Francia e Germania) non usarono la parola evoluzione nelle edizioni
originali delle loro grandi opere. Darwin parlò di <<discendenza con
modificazioni>>, Lamarck di «trasformismo>>. Haeckel preferi «teoria
della trasmutazione>> o «teoria della discendenza>>. Ma perché non
usarono il termine <<evoluzione>> e come avvenne che la storia del
cambiamento organico acquistò il suo nome attuale?
Darwin evitò di parlare di evoluzione nel descrivere la sua teoria
per due motivi. Prima di tutto, ai suoi giorni, evoluzione aveva già
un significato tecnico in biologia. Portava questo nome, infatti, una
28 Questa idea della vita

teoria embriologica incompatibile con la visione dello sviluppo or­


ganico di Darwin.
Nel 1744, il biologo tedesco Albrecht von Haller aveva coniato il
termine «evoluzione>> per la teoria secondo la quale gli embrioni cre­
scevano a partire da omuncoli preformati racchiusi nell'uovo o nello
sperma (inoltre, per quanto possa oggi sembrare fantastico, tutte le
generazioni future dovevano essere state create già nelle ovaie di Eva
o nei testicoli di Adamo, chiuse l'una dentro l'altra come tante bam­
boline russe: un omuncolo in ogni uovo di Eva, un omuncolo piu
piccolo in ogni uovo dell'omuncolo e cosi via). A questa teoria del­
l'evoluzione (o preformismo) si opposero gli epigenisti, secondo i
quali la complessità della forma adulta sorgeva da un uovo origina­
riamente privo di forma (per una piu completa descrizione di questo
dibattito vedi il saggio 25). Haller scelse il suo termine con attenzio­
ne, perché il latino evolvere significa <<svolgere>>, <<Srotolare>>; infatti,
il minuscolo omuncolo si dispiegava a partire dalla situazione di ri­
piegamento iniziale e durante il suo sviluppo embrionale aumentava
semplicemente di dimensioni.
Malgrado tutto, l'evoluzione embriologica di Haller sembrava
costituire un ostacolo per la <<discendenza con modificazioni>> di
Darwin. Se l'intera storia della razza umana era preconfezionata nel­
le ovaie di Eva, come poteva la selezione naturale (o una qualsiasi al­
tra forza equivalente) alterare il corso preordinato del nostro sog­
giorno sulla Terra?
Il nostro mistero non fa che approfondirsi. Com'è possibile che il
termine di Haller abbia assunto un significato quasi opposto? Ciò
poté avvenire perché con il 1859 la teoria di Haller cominciò la sua
agonia: con la sua morte, il termine usato da Haller divenne disponi­
bile per altri fini.
Ma <<evoluzione>> come definizione della <<discendenza con modi­
ficazioni>> di Darwin non fu presa a prestito da un precedente signifi­
cato tecnico; essa fu, piuttosto, espropriata al linguaggio parlato.
Evoluzione, ai giorni di Darwin, era divenuta una parola inglese co­
mune con un significato del tutto diverso da quello, tecnico, assegna­
togli da Haller. L 'Oxford English Dictionary ne fa risalire le origini
ad un poema di H. More del 1647: Evolution ofoutwardJorms spread
Il dilemma di Darwin 29

in the world's vast spright (Evoluzione di forme esteriori nel vasto


spirito del mondo). Ma questo «svolgersi, dispiegarsi>>, aveva un si­
gnificato molto diverso da quello di Haller. Esso implicava <<la com­
parsa, in ordinata successione, di una lunga serie di eventi>>, e, cosa
piu importante, conteneva un «Concetto di sviluppo progressivo>>:
una ordinata espansione dal semplice al complesso. L 'Oxford Dictio·
nary continua: «Il processo di sviluppo da uno stato rudimentale ad
uno maturo o completo>>. Dunque l'evoluzione, nella lingua parlata,
era strettamente legata al concetto di progresso.
È con questo significato che Darwin usò il verbo evolvere, che
compare proprio come ultima parola del suo libro: «C'è qualcosa di
splendido in questa concezione della vita, con le sue diverse forze,
inizialmente impresse in una o poche forme; e nel fatto che, mentre
questo pianeta ha continuato a girare secondo l'immutabile legge
della gravità, da un cosi semplice inizio, innumerevoli forme, bellis­
sime e meravigliose, si sono evolute e si stanno evolvendo>>.
In questo passaggio Darwin scelse di usare il termine evoluzione
perché intendeva porre in risalto la differenza tra il movimento del­
lo sviluppo organico e la fissità delle leggi fisiche come la gravitazio­
ne. Ma ha usato questa parola davvero raramente, perché respingeva
esplicitamente l'equazione comune tra quello che noi chiamiamo
evoluzione ed una qualsiasi nozione di progresso.
In un famoso epigramma, Darwin raccomandò a se stesso di non
definire mai «Superiore>> o «inferiore>> la struttura di un organismo;
infatti, se l'ameba è adattata bene quanto noi al suo ambiente, chi
può dire che noi siamo creature superiori? Cosi Darwin evitò di de­
finire evoluzione la sua «discendenza con modificazione>>, sia perché
il significato tecnico della parola era in contrasto con le sue conce­
zioni, sia perché non accettava l'idea di progresso inevitabilmente
insita nel suo significato corrente.
Evoluzione entrò nella lingua inglese come sinonimo di «discen­
denza con modificazione>> attraverso la propaganda di Herbert Spen­
cer, quell'infaticabile saccente dell'epoca vittoriana. L'evoluzione,
per Spencer, è la legge che governa tutto lo sviluppo. E quale altro
principio, se non quello di progresso, poteva reggere i processi di
sviluppo dell'universo per un presuntuoso vittoriano? Cosi, nei suoi
30 Questa idea della vita

First principles del 1862, Spencer definf la legge universale: «L'evolu­


zione è un'integrazione della materia e una concomitante dispersio­
ne di movimento nel corso della quale la materia passa da un'indefi­
nita, incoerente omogeneità ad una definita e coerente eterogeneità>>.
Due altri aspetti del lavoro di Spencer contribuirono a far acqui­
stare al termine evoluzione il suo attuale significato: primo, nello
scrivere il suo popolarissimo Principles of biology (1864-67) Spencer
usò continuamente «evoluzione>> per designare il cambiamento orga­
nico; secondo, egli non considerava il progresso come una proprietà
intrinseca della materia, ma come un risultato della <<cooperazione>>
tra forze interne ed esterne (ambientali). Questa concezione si adat­
tava perfettamente alla maggioranza dei concetti di evoluzione orga­
nica del XIX secolo, poiché per gli scienziati dell'epoca vittoriana
cambiamento organico e progresso organico erano semplicemente la
stessa cosa. Cosi, quando molti scienziati sentirono il bisogno di un
termine piu sintetico del darwiniano <<discendenza con modificazio­
ne>>, <<evoluzione>> era già pronto per l'uso. La loro appropriazione
del termine generico di Spencer non era in contrasto con la sua defi­
nizione, perché la maggior parte degli evoluzionisti consideravano il
cambiamento organico come un processo orientato verso una cre­
scente complessità (e in questo senso le cose, da allora, non sono
cambiate).
Per ironia della sorte, comunque, il padre della teoria dell'evolu­
zione rimase praticamente l'unico ad insistere che il cambiamento
organico conduce solo ad un crescente adattamento degli organismi
all'ambiente e non ad un astratto ideale di progresso caratterizzato
dalla complessità strutturale o da una crescente eterogeneità: mai di­
re superiore o inferiore. Se avessimo badato all'ammonimento di
Darwin, ci saremmo risparmiata molta della confusione e dell'in­
comprensione che esiste oggi tra scienziati e profani. Infatti, mentre
tra gli scienziati il punto di vista di Darwin ha trionfato da molto
tempo e l'idea che evoluzione e progresso dovessero essere necessa­
riamente collegati è stata abbandonata come una delle peggiori pre­
tese antropocentriche, molti profani credono che evoluzione e pro­
gresso siano la stessa cosa e pensano all'evoluzione umana non come
ad un semplice cambiamento, ma come ad un aumento di intelligen-
Il dilemma di Darwin 31

za, altezza o d i qualche altro parametro che realizzi un presunto mi­


glioramento.
In quello che può essere considerato il documento antievoluzio­
nistico piu diffuso dei tempi moderni, il pamphlet dei Testimoni di
Geova Did man get here by evolution or by creation? (L'uomo arrivò
qui per evoluzione o per creazione?) si proclama che: <<Evoluzione,
in poche parole, significa che la vita progredi da organismi unicellu­
lari al suo stato piu elevato, l'essere umano, per mezzo di una serie
di cambiamenti biologici realizzatisi nel corso di milioni di anni ...
Un semplice cambiamento all'interno di un tipo base di essere vi­
vente non deve essere considerato come evoluzione».
Questa erronea equazione tra evoluzione e progresso continua ad
avere conseguenze dannose. Storicamente, essa è all'origine degli
abusi del darwinismo sociale (condannati da Darwin stesso). Questa
teoria, che non ha piu alcun credito, classificava i gruppi umani e le
culture secondo il loro presunto livello evolutivo, con in testa i bian­
chi europei (cosa della quale non c'è da sorprendersi) e in fondo i po­
poli abitanti delle colonie. Ancora oggi essa continua ad essere una
componente essenziale della nostra arroganza e della nostra convin­
zione che sia giusto dominare le altre specie, piu di un milione, che
vivono sul nostro pianeta, anziché vivere assieme a loro in amicizia.
Ormai quello che è stato scritto non si può piu cancellare, ovvia­
mente; tuttavia sono alquanto dispiaciuto che gli scienziati abbiano
contribuito ad un simile equivoco scegliendo di chiamare con un ter­
mine corrente che significa progresso la meno armoniosa ma piu
precisa «discendenza con modificazione>> di Darwin.
4
Prematura sepoltura di Darwin

In una delle numerose versioni cinematografiche del Canto di Na­


tale di Dickens, Ebenezer Scrooge incontra un distinto gentiluomo
seduto su un pianerottolo, mentre sale le scale per andare a far visita
al compagno moribondo, Jacob Marley. <<Siete il dottore?>>, chiede
Scrooge. <<No, - risponde l'uomo, - sono il becchino; nel nostro la­
voro c'è molta concorrenza.>> Nel feroce mondo degli scienziati tutti
devono schierarsi immediatamente, e pochi eventi fanno piu notizia
dell'annuncio della morte di qualche teoria molto seguita. Quella
della selezione naturale di Darwin è stata perennemente candidata
alla sepoltura. La piu recente orazione funebre l'ha tenuta To m Be­
thell in un pezzo intitolato L'errore di Darwin (Harper's, febbraio
1976): <<La teoria di Darwin, io credo, è al limite del collasso ... La se­
lezione naturale è stata tranquillamente abbandonata, anche dai suoi
piu ardenti sostenitori, alcuni anni fa>>. La cosa mi risulta nuova, e
io, pur definendomi con una certa fierezza darwiniano, non sono tra
i piu accaniti difensori della selezione naturale. Mi viene in mente la
famosa risposta di Mark Twain ad un prematuro necrologio: <<Le no­
tizie della mia morte sono molto esagerate>>.
La tesi di Bethell appare curiosa alla gran parte degli scienziati al­
le prime armi; mentre siamo preparati a vedere cadere una teoria sot­
to l'impatto di nuovi dati, non ci si aspetta che una grande e autore­
vole teoria possa crollare per un errore logico nella sua formulazio-
Prematura sepoltura di Darwin 33

ne. Il fatto è che quasi tutti quelli che lavorano nelle scienze speri­
mentali sono un po' ottusi e tendono ad ignorare la filosofia, consi­
derandola un vuoto esercizio. D'altra parte è vero che qualsiasi per­
sona intelligente può ragionare correttamente servendosi solo del­
l'intuizione. Risulta perciò strano che Bethell, nel sigillare la bara
della selezione naturale, non introduca alcun nuovo dato, ma si limi­
ti a parlare di un errore nel ragionamento di Darwin: <<Darwin fece
un errore sufficientemente serio da minare la sua teoria. E solo re­
centemente questo errore è stato riconosciuto come tale... Ad un
certo punto del suo argomentare, Darwin si è sbagliatO>>.
Ora, anche se mi propongo di confutare Bethell, non posso fare a
meno di deplorare la riluttanza degli scienziati ad esaminare seria­
mente la struttura logica delle teorie. Molto di quello che passa per
teoria dell'evoluzione è altrettanto privo di senso delle affermazioni
di Bethell. Molte grandi teorie sono tenute assieme da serie di discu­
tibili metafore ed analogie. Nel nostro caso, certo Bethell ha messo
in luce la spazzatura che circonda la teoria dell'evoluzione. Ma tra di
noi c'è una differenza fondamentale: mentre per Bethell la teoria di
Darwin è marcia fino all'osso, secondo me al centro di essa si trova
una perla di grande valore.
Il concetto centrale della teoria darwiniana è la selezione natura­
le: i piu adatti sopravvivono e diffondono i loro caratteri favorevoli
in tutta la popolazione. Spencer defini la selezione naturale <<soprav­
vivenza dei piu adatti>>, ma che cosa significa veramente questa
espressione in gergo? Chi sono i piu <<adatti>>? E come si definisce
questa idoneità? Spesso leggiamo che essere adatti non significa altro
che <<successo riproduttivo differenziale>>: la produzione di piu figli
che sopravvivono rispetto agli altri membri della popolazione in
competizione. Ecco! urla Bethell, cosi come hanno fatto molti altri
prima di lui, questa formulazione definisce l'idoneità in termini di
sopravvivenza. La frase cruciale della selezione naturale non signifi­
ca altro che <<la sopravvivenza di quelli che sopravvivonO>>: una vuo­
ta tautologia (una tautologia è una frase - come <<mio padre è un uo­
mo>> - il cui predicato (<<Un uomo>>) non contiene alcuna informa­
zione in piu rispetto a quelle già insite nel soggetto (<<mio padre>>). Le
tautologie vanno bene come definizioni, ma non come affermazioni
34 Questa idea della vita

scientifiche verifica bili, perché non c'è nulla da verificare in un' affer­
mazione vera per definizione).
Ma come è possibile che Darwin abbia commesso un errore cosi
doppiamente grossolano? Nemmeno i suoi critici piu severi l'hanno
mai accusato di crassa stupidità. Sicuramente Darwin deve aver cer­
cato di definire l'idoneità in modo diverso, trovando un criterio che
permetta di stabilire questo essere adatti indipendentemente dalla
mera sopravvivenza. E infatti è cosi, ma Bethell sostiene, a ragione,
che per stabilire questo criterio indipendente egli si è servito dell'a­
nalogia, un mezzo scivoloso e pericoloso. La gran parte delle prime
quaranta pagine dell' Origine delle specie, un libro rivoluzionario che
tutti si aspetterebbero cominciasse con problemi cosmologici e con­
siderazioni generali, sono invece dedicate ai piccioni. Negli alleva­
menti di piccioni, osserva Darwin, avviene una «selezione artificiale>>
dei caratteri che vengono favoriti in base alla volontà dell'allevatore.
In questo caso agisce sicuramente un criterio indipendente: l'alleva­
tore competente sa quel che vuole. I piu adatti non sono tali perché
sopravvivono. Piuttosto, essi sono in grado di sopravvivere perché
posseggono i caratteri desiderati.
Se questa analogia tra selezione naturale ed artificiale fosse valida,
dice Bethell, dovrebbe essere possibile identificare in anticipo i piu
adatti, cosi come fa l'allevatore di piccioni, e non stabilire che sono
tali solo sulla base della loro successiva sopravvivenza. Ma la natura
non è un allevatore di animali, nessun fine preordinato regola la sto­
ria della vita. Mentre in natura ogni carattere posseduto da chi so­
pravvive deve essere considerato come «piu evoluto», nella selezione
artificiale i caratteri «superiori» sono definiti prima ancora che l'alle­
vamento abbia inizio. Gli evoluzionisti successivi, secondo Bethell,
si resero conto che l'analogia di Darwin era insostenibile, e ridefini­
rono l'idoneità come semplice sopravvivenza. Ma non si resero con­
to che, cosi facendo, avevano minato alle fondamenta la struttura lo­
gica del postulato centrale di Darwin. La natura non fornisce alcun
criterio indipendente di idoneità; quindi, la selezione naturale è tau­
tologica.
Alla sua asserzione centrale Bethell aggiunge poi due importanti
corollari. Primo, se idoneità significa solo sopravvivenza, allora non
Prematura sepoltura di Darwin 35

si capisce come la selezione naturale possa essere una forza <<creati­


va>>, come insistono i darwinisti. La selezione naturale può dirci sol­
tanto come «un certo tipo di animale divenne piu numeroso>>; non
può spiegare «come un tipo di animale cambiò gradualmente in un
altro». Secondo, Darwin ed altri eminenti vittoriani erano cosi sicuri
che la stupida natura potesse essere paragonata alla consapevole sele­
zione operata dagli allevatori perché il clima culturale del trionfante
capitalismo industriale portava a definire ogni cambiamento come
intrinsecamente progressivo. La mera sopravvivenza in natura non
poteva che avere un valore positivo: «Comincia ad emergere che ciò
che Darwin scopri non fu niente altro che la propensione vittoriana
a credere nel progresso».
Io credo che Darwin avesse ragione e che Bethell e i suoi colleghi
abbiano torto: secondo me è possibile riconoscere in natura dei cri­
teri di idoneità indipendenti dalla sopravvivenza ed essi sono stati
usati coerentemente dagli evoluzionisti. Ma !asciatemi prima ammet­
tere che la critica di Bethell è giusta per molta della letteratura tecni­
ca di teoria dell'evoluzione, specialmente per le astratte elaborazioni
matematiche che considerano l'evoluzione solo come un'alterazione
numerica, senza cambiamento nella qualità. Questi studi stimano l'i­
doneità solo in termini di sopravvivenza differenziale. Che altro si
potrebbe fare con modelli astratti che determinano i successi relativi
di ipotetici geni A e B in popolazioni che esistono solo nella memo­
ria di un calcolatore? La natura, comunque, non è limitata dai calcoli
dei genetisti teorici; in natura la <<Superiorità» di A su B si «esprime­
rà» come sopravvivenza differenziale, ma non è «definita» da essa, o,
quanto meno, è preferibile non definirla cosi, se vogliamo evitare il
trionfo di Bethell e collaboratori e la disfatta di Darwin.
La mia difesa di Darwin non è né sorprendente, né nuova, né
profonda. Io mi limito a sostenere che l'analogia fatta da Darwin tra
la selezione naturale e l'allevamento animale era giustificata. Nella
selezione artificiale un desiderio dell'allevatore rappresenta un «cam­
biamento d'ambiente» per una popolazione. In questo nuovo am­
biente certi caratteri sono superiori a priori (essi sopravvivono e si
diffondono grazie alla scelta del nostro allevatore, ma questo è un
«risultato» della loro idoneità, non una sua definizione). In natura,
36 Questa idea della vita

l'evoluzione darwiniana è anch'essa una risposta ad ambienti che


cambiano. Ora, il punto chiave: certi caratteri morfologici, fisiologi­
ci e comportamentali risulterebbero superiori a priori come se fosse­
ro stati disegnati per la vita nei nuovi ambienti. Questi caratteri con­
feriscono idoneità grazie alla loro buona progettazione dal punto di
vista ingegneristico, non per il fatto empirico che sopravvivono e si
diffondono. Prima venne piu freddo, e poi il lanoso mammut evolse
il suo peloso mantello.
Ma perché gli evoluzionisti si agitano tanto su questo punto? Va
bene, Darwin aveva ragione: in ambienti mutati, un disegno superio­
re è un criterio di idoneità indipendente. E allora? Chi mai potrebbe
proporre che siano gli organismi mal progettati a trionfare? ln realtà,
l'hanno sostenuto in molti. Ai tempi di Darwin molte teorie evolu­
zionistiche rivali asserivano che il piu adatto (cioè il meglio progetta­
to) doveva perire. Una di queste teorie, quella, molto comune, dei
cicli di vita razziale, fu sostenuta dal grande paleontologo americano
Alpheus Hyatt, che ricopri lo stesso incarico che ricopro io oggi.
Hyatt affermava che le linee evolutive, cosi come gli individui, han­
no dei cicli comprendenti gioventu, maturità, età senile e morte
(estinzione). Il declino e l'estinzione sarebbero programmati nella
storia delle specie; quando la maturità lascia posto alla vecchiaia, gli
individui migliori muoiono e vengono sostituiti dalle creature stor­
pie e deformi della senilità filetica. Un'altra teoria antidarwiniana,
quella dell' ortogenesi, sostiene che certe tendenze una volta avviate
non possono essere fermate, anche se portano all'estinzione a causa
della diffusione dei tipi inferiori. Molti evoluzionisti del XIX secolo
(forse la maggioranza) ritenevano che l'alce irlandese si fosse estinto
a causa dell'inarrestabile tendenza evolutiva all'aumento delle di­
mensioni delle corna (si veda il saggio 9); il risultato era che questi
animali morivano impigliati negli alberi o bloccati nel fango. Allo
stesso modo, la scomparsa delle tigri dai denti a sciabola fu spesso at­
tribuita al fatto che i canini di questi felini sarebbero cresciuti tal­
mente tanto da impedirgli di aprire le mascelle a sufficienza per po­
terle usare.
Quindi non è vero che ogni carattere posseduto dai sopravvissuti
vada considerato piu adatto, come invece sostiene Bethell. <<Soprav-
Prematura sepoltura di Darwin 37

vivono i piu adatti>> non è una tautologia. E non è neanche vero che
si tratti dell'unico modo di leggere i dati dell'evoluzione. È provabi­
le. Ci sono state teorie rivali che son cadute sotto il peso di prove
contrarie e di mutati atteggiamenti circa la natura della vita. Ancora
oggi, ci sono teorie in grado quantomeno di limitare il suo campo
d'azione.
Se ho ragione, che senso ha dire, come fa Bethell, che <<Darwin,
secondo me, sta per essere messo da parte, ma, forse per rispetto a
.questo venerabile vecchio gentiluomo, che riposa comodamente nel­
l'abbazia di Westminster vicino a Isaac Newton, lo si sta facendo nel
modo piu gentile e meno clamoroso possibile>>? Temo di dover met­
tere in dubbio la buona fede di Bethell su questo punto. Egli cita
quei provocatori di H. Waddington e H. J. Muller come se fossero
delle figure altamente rappresentative. Non menziona mai i piu emi­
nenti selezionisti della nostra generazione: per esempio E. O. Wil-
. son e D. Janzen. Inoltre, cita i creatori del neodarwinismo (Dobz­
hansky, Simpson, Mayr e J. Huxley) solo per ridicolizzare le loro
metafore sulla <<creatività della selezione naturale>>. (Con ciò non in­
tendo dire che il darwinismo debba essere preso per buono perché è
ancora popolare. Sono abbastanza smaliziato per sapere che il con­
senso acritico è sicuro segno di guai imminenti. Volevo soltanto far
notare che, indipendentemente dal fatto che questo sia un bene o un
male, il darwinismo è vivo e vegeto, a dispetto del necrologio di Be­
thell.)
Ma qual è il senso delle metafore dei neodarwinisti? Perché
Dobzhansky paragonò la selezione naturale ad un compositore,
Simpson la paragonò ad un poeta, Mayr ad uno scultore e Julian
Huxley a Shakespeare? Non mi interessa sostenere la scelta delle me­
tafore, ma mi sembra giusto difendere l'intento di rendere l'essenza
del darwinismo: la creatività della selezione naturale. La selezione
naturale ha un posto in tutte le teorie antidarwiniane a me note, ma
è relegata ad un ruolo negativo, come boia, carnefice degli inadatti
(mentre gli adatti si formano secondo meccanismi non darwiniani,
come l'eredità dei caratteri acquisiti o l'induzione diretta di variazio­
ni favorevoli da parte dell'ambiente). L'essenza del darwinismo sta
nel suo affermare che è la selezione naturale a creare gli adatti. La va-
38 Questa idea della vita

riazione è dovunque e la sua direzione è casuale. È la selezione natu­


rale che dirige il corso dei cambiamenti evolutivi, agendo sulla mate­
ria prima fornita dalle variazioni. Essa conserva le variazioni favore­
voli e costruisce gradualmente i piu adatti. Perciò, dato che gli artisti
realizzano le loro creazioni a partire da una materia prima costituita
da note, parole o pietra, la metafora non mi sembra inappropriata.
Ma Bethell, che non ammette l'esistenza di un criterio di idoneità in­
dipendente dalla mera sopravvivenza, difficilmente può assegnare un
ruolo creativo alla selezione naturale.
A sentire Bethell, il concetto di Darwin della selezione naturale
come forza creativa non è altro che un'illusione alimentata dal clima
sociale e politico dei suoi tempi. Nel momento in cui l'ottimismo
vittoriano dell'Inghilterra imperiale arrivava all'apice, il cambiamen­
to assumeva un valore intrinsecamente progressivo; perché quindi
non mettere sullo stesso piano la sopravvivenza in natura con l' au­
mentata idoneità, intesa in senso non tautologico come migliora­
mento nel progetto?
lo sono un accanito difensore della tesi secondo la quale la <<veri­
tà>> proclamata dagli scienziati spesso finisce per essere solo lo spec­
chio dei pregiudizi propri delle convinzioni politiche e sociali domi­
nanti. Ho dedicato diversi saggi a questo tema perché credo che esso
aiuti a <<demistificare>> la pratica scientifica, evidenziandone la natura
di attività umana creativa simile alle altre. Ma il fatto che un discor­
so sia vero in genere non significa che esso valga in tutti i casi, perciò
resto dell'opinione che Bethell si sbaglia applicandolo a Darwin.
L'opera di Darwin comprende due aspetti ben distinti: l'aver con­
vinto il mondo scientifico dell'esistenza dell'evoluzione e l'aver pro­
posto, come suo meccanismo, la teoria della selezione naturale. Pos­
so anche ammettere che il discorso di Darwin sia stato accettato con
piu facilità dai suoi contemporanei per la tendenza, allora diffusa, a
considerare l'evoluzione come sinonimo di progresso, ma è un dato
di fatto che nella seconda parte della sua impresa egli non riusd ad
avere successo, finché fu in vita. Solo negli anni quaranta del nostro
secolo la teoria della selezione naturale giunse ad essere accettata uni­
versalmente. Secondo me essa non poté essere accettata nel periodo
vittoriano soprattutto perché negava che l'evoluzione comportasse
Prematura sepoltura di Darwin 39

necessariamente un progresso generale. La selezione naturale è una


teoria dell'adattamento <<locale» ad ambienti che cambiano. Essa non
propone principi di perfezionamento, non garantisce un migliora­
mento generale; non c'era insomma motivo per cui potesse venir ac­
cettata in un clima politico che portava a considerare il progresso co­
me insito nella natura.
È vero che il criterio di idoneità indipendente di Darwin è il <<mi­
glior disegno>> dell'organismo, ma questo miglioramento non ha il
senso cosmico che avrebbe gradito l'Inghilterra dell'epoca; per Dar­
win migliore voleva dire soltanto «meglio progettato per uno speci­
fico ambiente». Gli ambienti cambiano continuamente: divengono
piu freddi o piu caldi, piu umidi o piu secchi, piu erbosi o piu bosco­
si. L'evoluzione per mezzo della selezione naturale non è niente di
piu di un inseguimento di questi ambienti in modificazione grazie al­
la conservazione differenziale degli organismi meglio progettati per
viverci: il pelo del mammut non ha alcun significato di progresso in
senso cosmico. Certi risultati della selezione naturale, come l' au­
mento delle dimensioni del cervello che caratterizza l'evoluzione,
gruppo dopo gruppo, dei mammiferi (si veda il saggio 23), possono
indurci a pensare che un progresso piu generale esista. Ma i grandi
cervelli sono utili negli ambienti specifici e, di per sé, non sono la
prova che esista una qualche tendenza al raggiungimento di una con­
dizione piu elevata. Darwin si compiaceva nel mostrare come spesso
il risultato dell'adattamento locale sono «degenerazioni» del disegno
come, ad esempio, le semplificazioni anatomiche dei parassiti.
Se la selezione naturale non è una dottrina di progresso, allora la
sua popolarità non può essere il riflesso delle condizioni politiche di
cui parla Bethell. Se la teoria della selezione naturale comprende un
criterio di idoneità indipendente, allora non è tautologica. lo conti­
nuo a pensare, forse ingenuamente, che la sua attuale intatta popola­
rità sia legata alla sua capacità di spiegare le pur imperfette informa­
zioni che oggi possediamo sull'evoluzione. Sospetto, anzi, che avre­
mo Charles Darwin tra i piedi ancora per un bel po'.
Parte seconda
L'evoluzione dell'uomo
5
Una questione quantitativa

In Alexander's feast, John Dryden descrive il suo eroe che, istupi­


dito dal pranzo, ripete il racconto dei suoi meriti militari:

Il Re si riempi d'orgoglio;
Vinse tutte le sue battaglie piu e piu volte;
E tre volte mise in fuga tutti i suoi nemici,
E tre volte uccise l'assassinato.

Centocinquant'anni piu tardi, Thomas Henry Huxley si rifece al­


la stessa immagine nel rifiutarsi di portare oltre la decisiva vittoria
che aveva riportato su Richard Owen nel famoso dibattito sull'ippo­
campo: <<La vita è troppo breve per impegnarsi piu di una volta ad
uccidere chi è già mortO>>.
Owen aveva creduto di stabilire la nostra unicità sostenendo che
una piccola circonvoluzione del cervello umano, l'ippocampo mino­
re, era assente negli scimpanzé e nei gorilla (e in tutti gli altri anima­
li) e presente soltanto in Homo sapiens. Huxley, che aveva dissezio­
nato dei primati mentre preparava la sua opera Ilposto dell'uomo nel­
la natura, dimostrò in modo definitivo che tutte le scimmie antropo­
morfe avevano un ippocampo, e che la discontinuità nella struttura
dei cervelli dei primati sta tra le proscimmie (lemuri e tarsi) e tutti
gli altri primati (uomo compreso) e non tra l'uomo e le scimmie an­
tropomorfe. Eppure per un mese, nell'aprile del 1861, tutta l'Inghil-
44 Questa idea della vita

terra poté vedere i suoi due piu grandi anatomisti darsi battaglia per
una piccola struttura dell'anatomia cerebrale. Il Punch ne rise e ne
trasse spunto per dei versi, mentre Charles Kingsley parlò dell' «hip­
popotamus major>> nel suo classico per per l'infanzia del 1863, I bam­
bini del mare. Se mai si fosse trovato un esemplare di questa specie,
commentava, <<bisognerebbe metterlo sotto spirito o incartarlo nel­
l'Illustrated News, o forse tagliarlo in due metà, povera piccola cosa,
e spedirne una al professar Owen e una al professar Huxley, per ve­
dere cosa ne possa dire ognuno di loro>>.
Il mondo occidentale non si era ancora rappacificato con Darwin
e con le implicazioni della teoria evoluzionistica; il dibattito sull'ip­
pocampo non faceva altro che mettere in luce quello che era il mag­
giore ostacolo a questa riconciliazione: la nostra riluttanza ad accet­
tare la continuità tra noi e la natura, la nostra spasmodica ricerca di
un qualcosa che consentisse di sostenere la nostra unicità. Piu volte t
grandi naturalisti avevano enunciato teorie generali della natura fa­
cendo singolari eccezioni per gli uomini. Charles Lyell (si veda il
saggio 18) si era immaginato un mondo in stato stazionario: nel cor­
so del tempo non sarebbe avvenuto alcun cambiamento nella com­
plessità della vita, e tutte le forme organiche sarebbero state presenti
fin dall'inizio. Soltanto l'uomo era stato creato un istante geologico
fa: un salto quantico nella sfera morale sovrapposta alla costanza del­
la pura struttura anatomica. Anche Alfred Russell Wallace, ardente
selezionista che andava oltre lo stesso Darwin nella sua rigida insi­
stenza sulla selezione naturale come unica forza-guida del cambia­
mento evolutivo, fece la sua unica eccezione per il cervello umano
(per poi darsi allo spiritualismo negli ultimi anni della sua vita).
Darwin stesso, sebbene accettasse questa stretta continuità, fu ri­
luttante ad esporre la sua eresia. Nella prima edizione dell'Origine
delle specie (1859), si limitò a scrivere che «luce sarà fatta sull'origine
dell'uomo e sulla sua storia>>. Nelle edizioni successive la frase fu
cambiata in «molta luce sarà fatta...>>. Solo nel 1871 egli ebbe il corag­
gio di pubblicare L 'origine dell'uomo (si veda il saggio 1).
Gli scimpanzé ed i gorilla sono stati a lungo il campo di battaglia
della nostra ricerca dell'unicità; infatti la nostra arroganza cosmica
potrebbe trovare una giustificazione solo se si potesse stabilire una
Questione quantitativa 45

netta distinzione - qualitativa anziché quantitativa - tra noi ed i


nostri parenti piu prossimi. La battaglia si è spostata da tempo dal­
l'ambito del semplice dibattito sull'evoluzione: oggi la gente istruita
accetta la continuità evolutiva tra gli uomini e le scimmie antropo­
morfe, ma siamo ancora cosi legati alla nostra eredità filosofica e reli­
giosa che continuiamo a cercare un criterio per poter distinguere
nettamente le nostre capacità da quelle degli scimpanzé. Poiché, co­
me canta il salmista, <<che cos'è l'uomo, per meritare le tue attenzio­
ni? ... Perché tu l'hai fatto di poco inferiore agli angeli, e l'hai incoro­
nato con gloria e onore>>. Di criteri di distinzione ne sono stati pro­
vati molti, ma sono caduti ad uno ad uno. L'unica onesta alternativa
è quella di ammettere una precisa continuità qualitativa tra noi e gli
scimpanzé. Cosa veniamo a perdere? Solo un antiquato concetto di
anima, per guadagnare una piu umile, ma ugualmente esaltante visio­
ne della nostra unione con la natura. Mi propongo a questo punto di
esaminare tre criteri di distinzione e di dimostrare che, sotto tutti i
punti di vista, la nostra parentela con gli scimpanzé è piu stretta di
quanto lo stesso Huxley osasse pensare.
l. Unicità morfologica di tradizione oweniana. Huxley mise con­
tinuamente in crisi coloro che cercavano con passione una disconti­
nuità anatomica tra gli uomini e le scimmie antropomorfe. Tuttavia,
c'è ancora chi non ha abbandonato questa ricerca. Le differenze tra
gli uomini e gli scimpanzé adulti non sono trascurabili, ma non han­
no alcuna base qualitativa. In ogni parte siamo identici; sono diverse
solo le relative dimensioni e i ritmi di crescita. Con la meticolosa at­
tenzione per i dettagli tipica della ricerca anatomica tedesca, il prof.
D. Starck e i suoi colleghi hanno recentemente concluso che le diffe­
renze tra i crani degli uomini e quelli degli scimpanzé sono solamen­
te quantitative.
2. Unicità concettuale. Dal momento della sconfitta di Owen in
poi, pochi scienziati hanno fatto leva sull'argomento anatomico. I
difensori dell'unicità umana hanno invece postulato un incolmabile
baratro tra le capacità mentali degli uomini e quelle degli scimpanzé.
Per poter dimostrare l'esistenza di questo divario, sono andati alla ri­
cerca di un criterio di distinzione inequivocabile. Inizialmente si cre­
dette di potersi basare sull'uso degli utensili, ma questa discriminan-
46 Questa idea della vita

te non può reggere di fronte all'osservazione che gli intelligenti


scimpanzé adoperano ogni tipo di strumenti per raggiungere delle
banane altrimenti inaccessibili o per liberare compagni imprigionati.
Piu di recente l'attenzione si è spostata sul linguaggio e la concet­
tualizzazione, ultimo baluardo di potenziali differenze qualitative. I
primi esperimenti con i quali si tentava di insegnare a parlare agli
scimpanzé furono dei veri fallimenti, tutto ciò che si ottenne furono
alcuni grugniti ed un vocabolario insignificante. Alcuni ne trassero
la conclusione che dovesse esistere una deficienza nell'organizzazio­
ne cerebrale di questi animali, ma la spiegazione, in realtà, sembra
essere molto piu semplice (il che comunque non significa che non sia
importante per ciò che comporta sulle capacità linguistiche degli
scimpanzé in condizioni naturali): le corde vocali degli scimpanzé
sono costruite in modo tale da rendere impossibile la produzione di
un largo repertorio di suoni articolati. Se solo riuscissimo a trovare
un altro modo per comunicare con loro, potremmo scoprire che gli
scimpanzé sono molto piu intelligenti di quanto pensiamo.
Ormai tutti quelli che leggono i giornali e guardano la televisione
sanno dei sorprendenti successi iniziali di un altro sistema di comu­
nicazione con gli scimpanzé: quello che utilizza il linguaggio dei se­
gni usato dai sordomuti. Da quando Lana, allieva modello dello Yer­
kes laboratory, ha cominciato a chiedere i nomi di oggetti che non
aveva mai visto, non è piu possibile continuare a negare agli scim­
panzé la capacità di concettualizzare e astrarre. Questo non è sempli­
ce condizionamento pavloviano. I primi risultati furono ottenuti nel
febbraio del 1975 da R. A. e B. T. Gardner con due piccoli scimpan­
zé abituati al linguaggio dei segni sin dal giorno della loro nascita.
(Washou, il soggetto da loro precedentemente studiato, era stato abi­
tuato a questo linguaggio solo da quando aveva un anno. Dopo un
addestramento di sei mesi, aveva un vocabolario di due soli segni.)
Entrambi i piccoli scimpanzé cominciarono a fare segni riconoscibili
al terzo mese. Uno, Moja, aveva un vocabolario di quattro parole al­
la tredicesima settimana: vieni-dammi, vai, di piu e bevi. Attualmen­
te i loro progressi non sono piu lenti di quelli di un bambino (anche
i nostri bambini ci fanno dei segnali ben prima di parlare, ma non ce
ne rendiamo conto perché siarnc abituati ad aspettare le parole). Ov-
Questione quantitativa 47

viamente, io non credo che le differenze mentali tra noi e gli scim­
panzé siano solo una questione di educazione; non ho dubbi che i
progressi di questi scimpanzé rallenteranno rispetto a quelli che si
registrano durante la crescita dei bambini, e non dobbiamo temere
che il presidente del nostro paese possa in futuro appartenere ad
un'altra specie, tuttavia il lavoro di Gardner è una sorprendente di­
mostrazione di come abbiamo sottovalutato i nostri parenti biologi­
ci piu stretti.
3. Differenze genetiche complessive. Anche ammettendo che nes­
suna caratteristica o capacità separi completamente gli uomini dagli
scimpanzé, potremmo sempre affermare che c'è una discreta diffe­
renza genetica complessiva. Dopo tutto, le due specie hanno un
aspetto molto diverso e fanno cose molto diverse in condizioni natu­
rali. (A fronte di tutte le capacità quasi-linguistiche mostrate dagli
scimpanzé in laboratorio, non abbiamo alcuna prova di una ricca co­
municazione concettuale in condizioni di vita selvaggia.) Ma recen­
temente Mary-Claire King e A. C. Wilson hanno pubblicato un rap­
porto sulle differenze genetiche complessive tra le due specie (Scien·
ce, 1 1 aprile 1975): i risultati in esso contenuti sono tali da spazzar
via un pregiudizio che, mi pare, siamo ancora in molti a portarci die­
tro. In poche parole si è visto, usando tutte le tecniche biochimiche
attualmente disponibili ed esaminando il maggior numero possibile
di proteine, che le differenze genetiche complessive sono notevol­
mente piccole.
Quando due specie hanno una morfologia molto simile, ma si
comportano in natura �ome popolazioni separate e riproduttiva­
mente isolate, i biologi parlano di <<specie gemelle>>. Le specie gemel­
le mostrano generalmente differenze genetiche molto minori di
quelle esistenti in coppie di specie appartenenti allo stesso genere ma
chiaramente diverse per morfologia (dette <<specie congeneri>>). Ora,
è evidente che lo scimpanzé e l'uomo non sono specie gemelle; se­
condo la pratica tassonomica tradizionale non sono nemmeno specie
congeneri (gli scimpanzé appartengono al genere Pan, noi siamo Ho·
mo sapiens). Ma King e Wilson hanno dimostrato che la distanza ge­
netica complessiva tra gli uomini e gli scimpanzé è inferiore a quella
48 Questa idea della vita

media esistente tra specie gemelle e molto minore di quella che si ri­
scontra in qualsiasi coppia di specie congeneri.
Ci troviamo cosi di fronte ad un bel paradosso; infatti anche se io
ho sostenuto fermamente che le differenze tra noi e gli scimpanzé
sono solo una questione quantitativa, siamo pur sempre animali
molto diversi. Se la differenza genetica complessiva è cosi piccola,
cosa ha causato una tale divergenza nella forma e nel comportamen­
to? A stare alla concezione atomistica secondo la quale ogni carattere
organico è controllato da un singolo gene, ci sarebbe impossibile
conciliare le differenze anatomiche con i risultati di King e Wilson,
giacché molte differenze di forma e di funzioni dovrebbero riflettere
molte differenze nei geni.
La risposta potrebbe essere che certi tipi di geni, anziché determi­
nare un singolo carattere, hanno un effetto a largo raggio, influen­
zando l'intero organismo. Alcuni cambiamenti in questi geni chiave
produrrebbero quindi una grande divergenza tra due specie senza
che ci sia per questo una grossa differenziazione genetica. In pratica,
King e Wilson cercano di risolvere il paradosso attribuendo le diffe­
renze tra noi e gli scimpanzé principalmente a mutazioni nel sistema
di regolazione.
Le cellule del fegato e quelle del cervello hanno esattamente gli
stessi cromosomi e gli stessi geni. La profonda differenza tra di esse
non scaturisce dalla costituzione genetica, ma da diverse linee di svi­
luppo. Durante lo sviluppo, per ottenere risultati cosi diversi dallo
stesso sistema genetico, differenti geni devono essere attivati o disat­
tivati in tempi diversi. In realtà, tutto il misterioso processo dello
sviluppo embriologico deve essere regolato da una sottile definizio­
ne dei tempi di azione dei geni. Per differenziare una mano a partire
da un omogeneo abbozzo d'arto, per esempio, le cellule devono pro­
liferare in alcune aree (destinate ad essere le dita) e morire in altre
(gli spazi tra di esse).
Gran parte del sistema genetico, piu che della determinazione di
specifici caratteri, deve essere incaricato di determinare i tempi di
questi eventi, attivando o disattivando i geni. Chiamiamo sistema di
regolazione l'insieme dei geni che controllano la successione tempo­
rale degli eventi di sviluppo. Ovviamente, cambiamenti in un singo-
Questione quantitativa 49

lo gene regolatore possono avere profondi effetti sull'intero organi­


smo. Un ritardo o un'accelerazione di un evento chiave nell'embrio­
logia e l'intero corso del successivo sviluppo può essere cambiato.
King e Wilson suppongono quindi che la principale differenza gene­
tica tra gli uomini e gli scimpanzé stia in questo fondamentale siste­
ma di regolazione.
Si tratta di un'ipotesi ragionevole (e necessaria). Ma che cosa sap­
piamo sulla natura di questa differenza di regolazione? Attualmente
non siamo in grado di identificare gli specifici geni coinvolti; per
questo motivo, King e Wilson si esprimono prudentemente. «Per lo
studio dell'evoluzione umana, - essi scrivono, - sarebbe estrema­
mente importante la dimostrazione di differenze tra le scimmie an­
tropomorfe e gli uomini nel controllo dei tempi dell'espressione dei
geni durante lo sviluppo.>> Ma, secondo me, noi conosciamo già le
basi di questo cambiamento nella determinazione dei tempi. Come
sostengo nel saggio 7, Homo sapiens è una specie fondamentalmente
neotenica; noi ci siamo evoluti a partire da antenati del tipo delle
scimmie antropomorfe grazie ad un generale ritardo nel ritmo di svi­
luppo. La nostra attenzione dovrebbe rivolgersi ai cambiamenti re­
golativi che rallentano le tendenze ontogenetiche che abbiamo in co­
mune con tutti i primati e ci permettono di mantenere proporzioni
e ritmi di crescita giovanili.
Il fatto che la distanza genetica tra gli uomini e gli scimpanzé sia
molto piccola potrebbe farci venire la tentazione di provare l' esperi­
mento scientifico potenzialmente piu interessante ed eticamente
inaccettabile che mi riesca di immaginare: incrociare individui delle
due specie, e quindi chiedere semplicemente ai risultati di questo in­
crocio che cosa voglia dire essere, almeno in parte, uno scimpanzé.
Le differenze genetiche che ci separano sono cosi piccole che l'incro­
cio non sarebbe affatto impossibile. Ma, onde evitare che si tema il
sorgere di una razza paragonabile agli eroi del Pianeta delle scimmie,
aggiungo subito che gli ibridi sarebbero quasi certamente sterili, co­
me il mulo, e per gli stessi motivi di ordine citogenetica: le differen­
ze genetiche tra gli uomini e gli scimpanzé sono minime, ma com­
prendono almeno dieci grosse inversioni e traslocazioni. L'inversio­
ne è, letteralmente, la rotazione di un segmento cromosomico; ogni
50 Questa idea della vita

cellula ibrida avrebbe un corredo di cromosomi di scimpanzé ed un


corrispondente corredo di cromosomi umani. Le cellule uovo e gli
spermatozoi si formano in un processo detto meiosi, o divisione ri­
duzionale; nella meiosi, ogni cromosoma si deve appaiare (faccia a
faccia) con il suo gemello prima della divisione cellulare, in modo
che i geni corrispondenti possano accoppiarsi uno ad uno: ogni cro­
mosoma di scimpanzé dovrebbe quindi accoppiarsi con il suo omo­
logo umano, ma se un pezzo di cromosoma umano è invertito ri­
spetto al suo omologo negli scimpanzé, l'accoppiamento gene per
gene non può avvenire senza la formazione di anelli e attorciglia­
menti che di solito compromettono il successo della divisione cellu­
lare.
La tentazione è grande, ma ho fiducia che questo accoppiamento
rimarrà nella lista degli esperimenti proibiti. La tentazione, in ogni
caso, diminuirà sicuramente quando scopriremo come parlare con i
nostri parenti piu stretti. Comincio a pensare che quanto vogliamo
sapere lo impareremo direttamente dagli stessi scimpanzé.
6
Cespugli e scale
nell'evoluzione umana

Il mio primo insegnante di paleontologia era vecchio quasi quan­


to alcuni degli animali di cui parlava. Per le sue lezioni utilizzava de­
gli appunti scritti su fogli protocollo gialli che credo risalissero ai
tempi in cui era stato studente universitario. Le parole che diceva
erano sempre le stesse ogni anno, ma la carta diventava sempre piu
vecchia. Io stavo seduto in prima fila ed ero coperto di polver6 gial­
la, perché la carta si rompeva e si sbriciolava ogni volta che lui girava
pagma.
È una fortuna che non abbia mai dovuto fare una lezione sulla
evoluzione umana: negli ultimi dieci anni i ritrovamenti di fossili
nuovi ed importanti si sono succeduti con un ritmo cosi veloce che
il destino di qualsiasi tipo di appunti per le lezioni si può definire
con lo slogan di un'economia irrazionale: obsolescenza pianificata.
Ogni anno, quando arrivo al momento di affrontare questo argo­
mento nel mio corso, non faccio altro che prendere la mia vecchia
cartella e scaricarne il contenuto nel primo raccoglitore che mi capiti
sotto mano. E si continua ad andare avanti cosi.
Sulla prima pagina del New York Times del 3 1 ottobre 1975 si leg­
geva questo titolo: Ifossili trovati in Tanzania consentono di seguire le
tracce dell'uomo per 3, 75 milioni di anni. La dottoressa Mary Leakey,
eroina poco nota del famoso clan omonimo, aveva scoperto le man­
dibole e i denti di almeno 1 1 individui in sedimenti posti tra due
52 Questa idea della vita

strati di fossili vulcanici datati, rispettivamente, 3,35 e 3,75 milioni


di anni. (Mary Leakey, meglio nota come la vedova di Louis, è una
scienziata famosa, con credenziali piu sensazionali di quelle del suo
ultimo brillante marito. Ha scoperto anche diversi dei fossili che di
solito sono attribuiti a Louis, compreso l'«Uorno schiaccianoci>> di
Olduvai, l'Australopithecus boisei, che fu il loro primo ritrovamento
importante.) Mary Leakey classificò questi frammenti come resti di
creature dal genere Homo, probabilmente della specie dell'Africa
orientale Homo habilis, descritta per la prima volta da Louis Lea­
key*.
E allora? Nel 1970 il paleontologo di Harvard Brian Patterson
stabili in 5,5 milioni di anni l'età di una mandibola trovata nell'Afri­
ca orientale. E' vero che egli attribui il frammento non al genere Ho·
mo, ma a quello Australopithecus, ma l 'Australopithecus è stato larga­
mente accettato come l'antenato diretto dell'uomo. Anche se la con­
venzione tassonomica richiede l'assegnazione di nomi diversi alle
tappe di una linea evolutiva, questa consuetudine non dovrebbe im­
pedirci di vedere la realtà biologica. Se l 'Homo habilis è il diretto di­
scendente dell'Australopithecus africanus (e se le due specie hanno
differenze anatomiche minime), allora l'«uomO>> piu antico potrebbe
ben essere il piu antico Australopithecus, anziché il piu antico desti­
natario dell'arbitraria definizione di Homo. Ma cosa c'è, allora, di
tanto eccitante nel ritrovamento di mandibole e denti di un milione
e mezzo di anni piu recenti del vecchio Australopithecus?
Io credo che questo ritrovamento di Mary Leakey sia la seconda
scoperta del decennio in ordine di importanza. Per chiarire il moti­
vo della mia esaltazione, dovrò fare un po' di paleontologia umana e
affrontare un passaggio fondamentale, anche se trascurato, della teo­
ria della evoluzione: il conflitto tra due metafore dei mutamenti evo-

•·
Questo saggio è stato scritto nel gennaio del 1976. A conferma di quanto dicevo
poco sopra, l'attribuzione delle mandibole di Laetolil al genere Homo, fatta da
Mary Leakey, è stata messa in dubbio da diversi colleghi. Pur senza proporre ipo­
tesi alternative, essi argomentano che le mandibole da sole non bastano per una
diagnosi certa. In ogni caso, la tesi fondamentale di questo articolo rimane valida;
sulla base delle nostre conoscenze dei fossili africani, il genere Homo può essere
vecchio quanto le australopitecine. D'altra parte continuano a mancare prove cer­
te di una qualche evoluzione all'interno di una qualsiasi specie di ominide.
Cespugli e scale nell'evoluzione umana 53

lutivi, quella del cespuglio e quella della scala (a pioli). Quello che
voglio dimostrare è che l 'Australopithecus, cosi come noi lo conoscia­
mo, non può essere stato l'antenato dell'Homo e che, in ogni caso, la
scala a pioli non è una valida rappresentazione del percorso dell'evo­
luzione (per <<scala>> intendo l'immagine comune dell'evoluzione co­
me sequenza continua di antenati e discendenti). I denti e le mandi­
bole scoperti da Mary Leakey sono quindi, secondo me, i piu antichi
«uomini>> che conosciamo.
La metafora della scala ha dominato gran parte dei discorsi sull'e­
voluzione umana. Si è sempre cercato di ricostruire un'unica pro­
gressiv.a sequenza che collegasse qualche antenato scimmiesco all'uo­
mo attraverso successive graduali trasformazioni. L' <<anello mancan­
te>> non era altro che il <<piolo mancante>>. Ha scritto recentemente
(1971) il biologo inglese J. Z. Young in Introduction to the study of
man: <<Qualche popolazione interfeconda ma variata subi graduali
modìficazioni fino a raggiungere la condizione che noi identifichia­
mo come Homo sapiens••.
Paradossalmente, fu proprio la metafora della scala a indurre, in
un primo momento, a negare un ruolo delle australopitecine africa­
ne nell'evoluzione dell'uomo. L'andatura dell'A. africanus era com­
pletamente eretta, ma il suo cervello era di dimensioni inferiori ad
un terzo del nostro (si veda il saggio 22). Quando avvenne la sua sco­
perta, nel 1920, molti evoluzionisti pensavano che all'interno di
ogni linea evolutiva i cambiamenti dovessero avvenire di concerto
tra loro, secondo la teoria cosiddetta dell'<<armoniosa trasformazione
del tipo>>. Una scimmia a stazione eretta ma con un piccolo cervello
non poteva essere altro che una diramazione anomala destinata ad
una rapida estinzione (probabilmente per costoro la giusta via di
mezzo avrebbe dovuto essere un bruto a stazione semi-eretta e con
un cervello grande la metà del nostro). Ma queste obiezioni contro
l'Australopithecus scomparvero negli anni trenta quando vide la luce
la moderna teoria evoluzionistica. La selezione naturale può agire se­
paratamente sui singoli caratteri all'interno delle sequenze evolutive,
cambiando ciascuno di essi in tempi e con ritmi diversi. Di frequen­
te, un intero gruppo di caratteri cambia completamente prima che
altri subiscano la minima trasformazione. I paleontologi parlano, a
54 Questa idea della vita

proposito di questi cambiamenti indipendenti dei caratteri, di <<evo­


luzione a mosaico».
Grazie all'evoluzione a mosaico, l'A. africanus ottenne l'elevato
status di antenato diretto dell'uomo. Di conseguenza l'ortodossia si
trasformò in una scala a tre gradini: A. africanus, H erectus (Uomo
di Giava o di Pechino), H sapiens.
Negli anni trenta sorse però un piccolo problema quando fu sco­
perta un'altra specie di australopiteco, la cosiddetta forma robusta,
A. robustus (e piu tardi quella ancora piu accentuata, l' <<iperrobusta••,
l'A. boisei, ritrovato da Mary Leakey alla fine degli anni cinquanta).
Gli antropologi furono costretti ad ammettere che le due specie di
australopitechi erano contemporanee e che la scala conteneva alme­
no una diramazione. Ma lo status di antenato dell'uomo per l'A.
africanus non era ancora messo in dubbio, ci si limitava a riconosce­
re l'esistenza di un suo secondo discendente destinato ad avere ben
poca fortuna, una stirpe robusta con piccolo cervello e grandi man­
dibole.
La novità radicale venne nel 1964, quando Louis Leakey e i suoi
colleghi diedero il via ad una profonda revisione della storia dell'e­
voluzione umana introducendovi una nuova specie dell'Africa
orientale, l'Homo habilis. Secondo loro l'H habilis era un contempo­
raneo delle due linee di australopitecine; inoltre, come si capisce dal
nome con cui lo battezzarono, lo consideravano decisamente piu
umano di entrambi i suoi contemporanei. A questo punto per la sca­
la erano guai: erano esistite contemporaneamente tre linee di pre­
umani! Per di piu un probabile discendente, l'H habilis, era vissuto
nello stesso periodo occupato dai suoi presunti predecessori. Leakey
arrivò cosi a formulare l'ovvia eresia: entrambe le linee di australopi­
tecine erano diramazioni prive di qualsiasi ruolo nell'evoluzione del­
l' Homo sapiens.
Ma attorno all'H habilis, cosi come lo aveva definito Leakey, in­
furiarono subito le polemiche. I motivi per cui era ancora possibile
difendere la tradizionale scala erano due:
l. I fossili erano solo dei frammenti e provenivano da tempi e
luoghi diversi. Molti antropologi sostennero quindi che la definizio­
ne di Leakey mischiava due cose diverse, nessuna delle quali era in
Cespugli e scale nell'evoluzione umana 55

realtà una nuova specie: alcuni dei fossili piu vecchi erano da attri­
buire all'A. africanus, alcuni di quelli piu recenti sarebbero stati H.
erectus.
2. La datazione dei fossili era incerta. Anche ammesso che l'H.
habilis fosse davvero una specie a sé, poteva essere piu giovane della
gran parte degli australopitechi conosciuti. Era perciò possibile ag­
giornare l'ortodossia aggiungendo semplicemente un quarto piolo
alla scala: A. africanus, H. habilis, H. erectus, H. sapiens.
Ma nel 1973, proprio quando la nuova scala <<allungata» comin­
ciava a raccogliere nuovi consensi, Richard Leakey, figlio di Mary e
Louis, fece la scoperta del decennio. Aveva dissotterrato un teschio,
quasi intero, con una capacità cranica di circa 800 cc, quasi doppia di
quella di un qualsiasi campione di A. africanus. Per di piu, ed è que­
sto il punto cruciale, egli stabili tra i 2 e i 3 milioni di anni l'età del
cranio, dando come piu probabile la data piu antica, e collocando co­
si il nuovo ritrovamento in un periodo precedente a quello a cui ri­
salgono la maggior parte di fossili di australopitecine e non lontano
da quello del piu vecchio, datato 5 milioni e mezzo di anni. L'H. ha­
bilis non era piu solo una chimera, frutto dell'immaginazione di
Louis. (Spesso il campione di Richard Leakey è citato prudentemen­
te con il solo numero datogli nel campo di scavo, ER-1470. Comun­
que, che si usi o meno il nome di H. habilis, si tratta indubbiamente
di un membro del nostro genere, ed è certo che si tratta di un con­
temporaneo del!'A ustralopithecus.)
Ora Mary Leakey ha portato indietro il dominio dell'H. habilis
di un altro milione di anni (o forse di due, se, come pensano oggi
molti esperti, il <<1470» va collocato piu vicino ai 2 che ai 3 milioni di
anni orsono). H. habilis non può essere il discendente diretto del no­
to A. africanus, poiché i nuovi reperti sono piu vecchi di quasi tutti i
campioni di A. africanus (inoltre, lo status tassonomico di tutti i
campioni frammentari piu vecchi dell'H. habilis di Mary Leakey
non è sicuro). Perciò, sulla base dei fossili a noi noti, il genere Homo
è vecchio tanto quanto !'Australopithecus. (Si potrebbe ancora soste­
nere che Homo si è evoluto da un Australopithecus piu vecchio non
ancora scoperto, ma non c'è alcuna prova a sostegno di questa prete-
56 Questa idea della vita

sa, ed io potrei sostenere, allo stesso modo, che l'Australopithecus si è


evoluto da un Homo sconosciuto.)
Intanto, l'antropologo di Chicago Charles Oxnard ha assestato
un nuovo colpo all'Australopithecus su un versante differente. Egli
ha studiato le spalle, le pelvi e i piedi delle australopitecine, dei mo­
derni primati (le grandi scimmie antropomorfe e qualche altra scim­
mia) e dell'Homo con le rigorose tecniche dell'analisi multivariata
(un metodo che consente di prendere in considerazione contempora­
neamente dal punto di vista statistico un gran numero di misure). La
sua conclusione, che trova comunque in disaccordo diversi antropo­
logi, è che le australopitecine erano «eccezionalmente diverse» sia
dalle scimmie antropomorfe che dagli uomini; inoltre, secondo Ox­
nard, «i diversi membri di questo genere, curiosamente unico, di in­
dividui dal piccolo cervello andrebbero allontanati in una o piu linee
laterali parallele lontane da un collegamento diretto con l'uomo>>.
Ma cosa ne è della nostra scala se dobbiamo ammettere la esisten­
za contemporanea di tre linee di ominidi (A. africanus, A. robustus e
H habilis), nessuno dei quali si può considerare con certezza deriva­
to da uno degli altri? Inoltre, nessuno dei tre mostra alcuna tendenza
evolutiva nel corso del suo periodo di presenza sulla Terra: nessuno,
avvicinandosi ai nostri giorni, sviluppa un cervello piu grande o una
stazione piu eretta.
A questo punto, devo ammetterlo, mi sento sprofondare, perché
immagino perfettamente cosa staranno pensando tutti i creazionisti
che mi inondano di lettere. <<Cosi Gould ammette che tra i primi
ominidi africani non ci sia traccia di alcuna scala evolutiva, le specie
appaiono e scompaiono senza diversificarsi dai propri bisnonni; tut­
to ciò sembra creato apposta per me.» (Anche se ci si potrebbe chie­
dere perché mai il Signore dovesse ritenere conveniente fare tutti
questi tipi di ominidi, e perché alcune delle sue ultime produzioni,
in particolare l'H erectus, abbiano un aspetto molto piu umano dei
suoi primi «modelli».) Secondo me lo sbaglio non è nell'evoluzione
stessa, ma nel continuare ad immaginarsela, come fa la maggior parte
di noi, come se funzionasse secondo l'ingannevole schema della sca­
la. Tutto ciò mi porta ad affrontare il tema del <<cespuglio».
Quello che voglio sostenere è che l' «improvviso» apparire delle
Cespugli e scale nell'evoluzione umana 57

specie nella documentazione fossile e la nostra incapacità di notare


successivi cambiamenti evolutivi sono in perfetto accordo con la
teoria dell'evoluzione cosi come noi la intendiamo. Di solito l'evolu­
zione procede per <<speciazione>>, cioè per separazione di una linea da
un ceppo originario, e non per mezzo di lente e costanti trasforma­
zioni a partire da quest'ultimo. Ripetuti episodi di speciazione pro­
ducono un <<cespuglio>>. Le <<sequenze>> dell'evoluzione non sono i
gradini di una scala, ma la nostra ricostruzione retrospettiva di un
sentiero sinuoso che corre come un labirinto, di ramo in ramo, dalla
base del cespuglio sino ad una linea che sopravvive in cima ad esso.
Come avviene la speciazione? Questo è un tema sempre scottante
nella teoria dell'evoluzione, ciò nonostante la maggior parte dei bio­
logi sono propensi ad accettare la teoria <<allopatrica>> (si sta discuten­
do sull'ammissibilità di altri modelli, ma quasi tutti sono d'accordo
che quella allopatrica è la modalità di speciazione piu comune). Allo­
patrico significa <<in un altro luogo>>. Secondo la teoria allopatrica,
resa celebre da Ernst Mayr, le nuove specie nascono in popolazioni
molto piccole che rimangono isolate dal gruppo originario alla peri­
feria dell'area ancestrale. In questi gruppi isolati la speciazione avvie­
ne in centinaia o migliaia di anni (geologicamente un microsecon­
do), è quindi molto rapida rispetto ai tempi medi di evoluzione: cen­
tinaia o migliaia di anni (un microsecondo geologico).
In queste piccole popolazioni isolate possono avvenire i maggiori
mutamenti evolutivi. Le mutazioni genetiche favorevoli possono
diffondersi rapidamente al loro interno. Inoltre, nelle aree geografi­
camente marginali, nelle quali le specie riescono appena a tenere un
punto d'appoggio, la selezione naturale tende ad essere piu intensa.
Nelle popolazioni centrali, d'altra parte, le mutazioni favorevoli si
diffondono molto lentamente e la gran parte dei cambiamenti incon­
tra una risoluta resistenza da parte di popolazioni che sono ben adat­
tate. Possono aver luogo piccoli cambiamenti per andare incontro
alle esigenze che nascono da lente alterazioni climatiche, ma le tra­
sformazioni genetiche maggiori hanno luogo nelle piccole popola­
zioni isolate alla periferia, dalle quali si formano nuove specie.
Ma se l'evoluzione avviene quasi sempre grazie alla rapida specia­
zione in piccoli gruppi isolati alla periferia, piuttosto che per lenti
58 Questa idea della vita

cambiamenti in grandi popolazioni centrali, cosa ci possono dire le


testimonianze fossili? Scoprire, leggere nei fossili l'evento stesso del­
la speciazione è poco probabile. Esso accade troppo rapidamente, in
un gruppo troppo piccolo, isolato, troppo lontano dall'area origina­
ria. La nuova specie fossile comparirà per la prima volta quando
reinvade la zona originaria divenendo a sua volta una numerosa po­
polazione centrale. Nel corso della sua storia, cosi come ci appare
dalle testimonianze fossili, non possiamo aspettarci di assistere a
grandi cambiamenti, perché quella che abbiamo modo di conoscere
è solo una riuscita popolazione centrale. Essa parteciperà al processo
di cambiamento organico solo quando alcuni suoi gruppi, rimasti
isolati alla periferia, daranno origine per speciazione a nuovi rami
del cespuglio dell'evoluzione. Ma apparirà nei fossili «improvvisa­
mente>> e piu tardi si estinguerà altrettanto velocemente senza aver
mutato di molto le sue forme.
I fossili di ominidi dell'Africa rispondono in pieno a queste aspet­
tative. Attualmente conosciamo tre diramazioni coesistenti del ce­
spuglio umano, ma sarei stupito se prima della fine del secolo non se
ne scoprisse un numero doppio o anche molto superiore. Osservan­
do i fossili, non notiamo alcun cambiamento nel tempo di queste tre
ramificazioni. La cosa non può risultare strana, una volta compresa
correttamente l'evoluzione, perché questa è il verificarsi della specia­
zione con eventi rapidi, il prodursi di nuove diramazioni.
L'Homo sapiens non è il predestinato punto d'arrivo di una scala
che è stata fin dall'inizio protesa verso la nostra tanto esaltata condi­
zione. Noi siamo soltanto il ramo sopravvissuto di un cespuglio che
fu, a suo tempo, lussureggiante.
7
Il vero padre dell'uomo
è il bambino

Ponce de Leon è ancora alla ricerca della sorgente della giovinez­


za nelle case di riposo del Regno della Felicità di cui è lo scopritore;
gli alchimisti cinesi tentarono di ottenere l'elisir di lunga vita fon­
dendo l'incorruttibilità della carne con l'eternità dell'oro; quanti di
noi non sarebbero disposti a fare, come Faust, un patto con il diavo­
lo in cambio della vita eterna?
Ma il problema dell'immortalità compare anche nella nostra let­
teratura. In una sua lirica famosa, Wordsworth dice che la luminosa
visione infantile di <<splendore nell'erba, di gloria nel fiore>> viene poi
perduta per sempre, anche se ci raccomanda di non affliggerci, cer­
cando piuttosto di trovare forza in quello che viene dopo. Aldous
Huxley scrisse una novella, After many a summer dies the swan, per
far capire che essere immortali non vuol dire necessariamente essere
felici. Il protagonista del racconto, ]o Stoyte, con la tipica arroganza
dei milionari americani, decise di acquistare la sua immortalità. Lo
scienziato al suo servizio, il dott. Obispo, viene a sapere che il quin­
to conte di Gonister è riuscito a prolungarsi la vita di oltre duecento
anni ingerendo giornalmente delle interiora di carpa. Entrambi cor­
rono quindi in Inghilterra, irrompono nella protetta residenza del
conte e scoprono, con orrore di Stoyte e profondo divertimento di
Obispo, che il conte e la sua amante si sono trasformati in scimmio­
ni. Viene cosi a galla l'orrida verità sulla nostra origine: la nostra
60 Questa idea della vita

evoluzione è consistita nel conservare le fattezze giovanili dei nostri


antenati, un processo che è noto tecnicamente come neotenia (che
letteralmente significa <<mantenere la gioventu>>).
«"Un feto di scimmia antropoide che ha avuto il tempo di cresce­
re, - riusd a dire, alla fine, il dott. Obispo. - È troppo divertente!",
e cominciò a ridere di nuovo ... Mr. Stoyte lo afferrò per la spalla e lo
scosse violentemente: "... Che cosa gli è successo?". "Niente altro
che il tempo", disse con disinvoltura il dott. Obispo ... il feto di scim­
mia antropoide aveva potuto raggiungere la maturità... senza muo­
versi dal luogo in cui era seduto, il conte orinò sul pavimentO.>>
Aldous Huxley ricavò il suo soggetto dalla <<teoria della fetalizza­
zione>> proposta negli anni venti dall'anatomista danese Louis Bolk
(al quale probabilmente era stata trasmessa dal fratello Julian, autore
di alcune importanti ricerche sulle metamorfosi ritardate negli anfi­
bi). Bolk basò la sua idea sull'impressionante elenco di tratti che ab­
biamo in comune con gli stadi giovanili (ma non con quelli adulti) di
altri primati e di mammiferi in generale. Tra i piu di venti caratteri
compresi nella lista troviamo:
l. I nostri crani arrotondati e bulbosi, sede di un cervello piu
grande di quello delle scimmie. Un cranio simile si trova anche nelle
scimmie allo stato embrionale, ma poi la crescita del cervello proce­
de tanto piu lentamente da quella del resto del corpo (si vedano i sag­
gi 22 e 23) da far sf che nell'adulto la volta cranica divenga piu bassa
e piu piccola rispetto al corpo. Probabilmente il nostro cervello rag­
giunge le sue grandi dimensioni grazie al mantenimento dei rapidi
ritmi di crescita propri dello sviluppo fetale.
2. La nostra faccia «giovanile>>: profilo diritto, mascelle e denti
piccoli, arcate sopraccigliari poco sporgenti. Mascelle altrettanto pic­
cole le troviamo nelle giovani scimmie antropomorfe, ma esse cre­
scono poi con un ritmo piu veloce di quello del resto del cranio, for­
mando il muso sporgente degli adulti.
3. La posizione del foramen magnum, il foro nella nostra base
cranica dal quale emerge il midollo spinale. Come negli embrioni
della maggior parte dei mammiferi, il nostro foramen magnum giace
nella parte inferiore del cranio, rivolto verso il basso. Il nostro cra­
nio è posto in cima alla colonna vertebrale e, quando siamo in posi-
Il vero padre dell'uomo 61

zione eretta, il nostro sguardo è rivolto in avanti. In altri mammiferi


questa situazione muta durante lo sviluppo embrionale perché il fo­
ramen si sposta posteriormente, rivolgendosi all'indietro. Ciò è indi­
spensabile per una vita quadrupede, cosi che la testa è montata da­
vanti alle vertebre e gli occhi guardano in avanti. Possiamo perciò
dire che il mantenimento dei tratti giovanili può aver giocato un
ruolo importante nell'evoluzione dei tre caratteri morfologici piu
spesso citati come marchi di umanità: grande cervello, mascelle pic­
cole e postura eretta.
4. Il ritardo nella chiusura delle suture craniche ed altri segni di
ritardata calcificazione dello scheletro. I bambini hanno una grande
<<area molle>> e le loro suture craniche si chiudono completamente
solo molto tempo dopo il raggiungimento dell'età adulta. In questo
modo il cervello può espandersi notevolmente anche dopo la nascita
(nella gran parte degli altri mammiferi alla nascita il cervello è quasi
completo e il cranio è quasi totalmente ossificato). Ecco quanto ha
detto un importante anatomico dei primati: <<Sebbene l'uomo rag­
giunga, nell'utero, dimensioni maggiori di quelle di ogni altro pri­
mate, alla nascita la maturazione del suo scheletro è minore, per
quanto ne sappiamo, di quella che si ha in qualsiasi scimmia o scim­
mia antropomorfa>>. Soltanto l'uomo nasce con le estremità delle di­
ta e delle ossa lunghe ancora completamente cartilaginee.
S. Il fatto che nella donna il canale vaginale sia orientato ventral­
mente. Se noi copuliamo piu comodamente faccia a faccia è perché
siamo costruiti per farlo in questo modo. Il canale vaginale è rivolto
in avanti anche negli embrioni degli altri mammiferi, ma negli adulti
esso è ruotato all'indietro, e cosi i maschi montano le femmine da
dietro.
6. Il nostro grosso alluce, forte, non ruotato e non apponibile.
L'alluce della gran parte dei primati all'inizio è come i nostri, in con­
giunzione con i suoi vicini, ma poi ruota di lato e diviene apponibile
per permettere una presa piu efficiente. Il mantenimento di questo
carattere giovanile ha consentito di avere un piede piu forte per cam­
minare, favorendo cosi una postura piu eretta.
La lista di Bolk era impressionante (questa è solo una parte), ma
egli la legò ad una teoria che condannava all'oblio le sue osservazioni
62 Questa idea della vita

e che diede ad Aldous Huxley lo spunto per la sua metafora antifau­


stiana. Bolk propose che la nostra evoluzione fosse stata causata da
uno squilibrio ormonale responsabile di un ritardo del nostro svi­
luppo complessivo. Egli scrisse: «Volendo rendere il principio fon­
damentale della mia idea con un'espressione perentoria, avrei detto
che l'uomo, nel suo sviluppo corporeo, è un feto di primate che ha
raggiunto la maturità sessuale>>. O, per citare ancora Aldous Huxley:
«C'è un qualche tipo di squilibrio ghiandolare ... Poi si sviluppa una
mutazione che lo sconvolge. Si ottiene cosi un nuovo equilibrio che
ritarda il ritmo di sviluppo. Tu cresci, ma lo fai in modo cosi lento
da morire prima di esserti sviluppato del tutto, quando sei arrivato
ad essere solo come il feto del tuo trisnonno>>.
Bolk non ebbe alcuna esitazione a trarre le ovvie implicazioni. Se
tutti i nostri tratti caratteristici sono dovuti ad una inibizione ormo­
nale dello sviluppo, è evidente che si può pensare di rimuovere que­
sto blocco: <<Vi accorgerete, - scrive Bolk, - che molti di quelli che
potremmo definire tratti pitecoidi sono presenti in noi allo stato po­
tenziale, pronti a manifestarsi di nuovo in seguito alla rimozione del
meccanismo ritardante>>.
Che colpo per la posizione del re del creato! Egli non è altro che
una scimmia antropomorfa che non ha completato la sua crescita e
se ha ancora qualcosa di divino il merito è solo di un'inibizione chi­
mica dello sviluppo ghiandolare.
Il meccanismo proposto da Bolk non riscosse mai grossi consensi,
ma cominciò a manifestare la sua assurdità negli anni trenta, quando
si consolidò la moderna teoria darwiniana. Come poteva un sempli­
ce cambiamento ormonale produrre un effetto morfologico tanto
complesso? Non tutti i nostri caratteri appaiono ritardati (non lo è,
ad esempio, la lunghezza delle gambe), e quelli che lo sono mostrano
dei gradi di ritardo diversi. Gli organi si evolvono indipendentemen­
te in risposta a diverse richieste adattative, secondo quella che noi
chiamiamo <<evoluzione a mosaico>>. Il guaio è che sotto la pioggia di
giuste critiche al fantasioso meccanismo proposto da Bolk andarono
perdute anche le sue eccellenti osservazioni. Oggi la teoria della neo­
tenia umana è di solito relegata in uno o due paragrafi nei libri di te­
sto di antropologia. Eppure, secondo me, essa è fondamentalmente
Il vero padre dell'uomo 63

corretta e coglie un aspetto essenziale, se non dominante, dell'evolu­


zione umana. Ma come possiamo salvare le osservazioni di Bolk dal­
la sua teoria?
Se dovessimo basare le nostre argomentazioni sulla lista dei carat­
teri neotenici saremmo perduti. Secondo il concetto di evoluzione
<<a mosaico>> non ci sono dubbi che l'evoluzione dei vari organi segue
percorsi diversi in risposta a diverse pressioni selettive. I sostenitori
della neotenia elencano i loro caratteri, i suoi detrattori portano i lo­
ro e presto si giunge ad una situazione di stallo. Chi può dire quali
siano i caratteri «piu fondamentali>>? Per esempio, un sostenitore del­
la neotenia ha scritto che «la maggior parte degli animali mostrano
uno sviluppo ritardato di certi caratteri, un'accelerazione di altri...
Tutto sommato, io penso che nell'uomo, rispetto agli altri primati,
il rallentamento sia prevalente sull'accelerazione». Ma un detrattore
della teoria a sua volta proclama che «i caratteri neotenici... sono
una conseguenza secondaria dei caratteri chiave non-neotenici>>. La
convalida della neotenia, piu che nell'imponente lista di caratteri a
sviluppo ritardato, sta nel fatto che essa è un'esigenza fondamentale,
va accettata come un risultato prevedibile dei processi che agiscono
nell'evoluzione umana.
Inizialmente la nozione di neotenia divenne famosa come rispo­
sta all'opposta teoria della ricapitolazione, che era un'idea dominan­
te nella biologia di fine Ottocento. Secondo la teoria della ricapitola­
zione, gli animali ripercorrono gli stadi adulti dei loro predecessori
nel corso del loro sviluppo embrionale e postnatale: l'ontogenesi ri­
capitola la filogenesi, è la frase misteriosa che tutti abbiamo impara­
to a scuola dai libri di biologia. (I ricapitolazionisti ritenevano che le
fessure branchiali presenti nell'embrione umano fossero le vestigia
del pesce adulto dal quale discendiamo.) Se la teoria della ricapitola­
zione fosse stata, in generale, vera, cosa che non è, allora nel corso
dell'evoluzione i caratteri avrebbero dovuto svilupparsi in modo ac­
celerato, perché solo cosi i tratti dei predecessori adulti potrebbero
divenire gli stadi giovanili dei discendenti. Ma nel caso dei caratteri
neotenici lo sviluppo è ritardato, visto che le caratteristiche giovanili
dei predecessori appaiono nei discendenti quando essi sono divenuti
adulti. C'è insomma una corrispondenza tra sviluppo accelerato e ri-
64 Questa idea della vita

capitolazione da una parte e sviluppo ritardato e neotenia dall'altra.


Se fosse possibile dimostrare che nell'evoluzione umana c'è, in gene­
rale, un ritardo dello sviluppo, allora la neotenia dei caratteri chiave
diverrebbe un'attesa, e non semplicemente un'elencazione empirica.
Il ritardo della crescita è, a mio giudizio, un dato basilare nell'e­
voluzione dell'uomo. Innanzi tutto, i primati in genere si sviluppa­
no piu lentamente della gran parte degli altri mammiferi. Essi vivo­
no piu a lungo e arrivano a maturità piu lentamente degli altri mam­
miferi di dimensioni corporee simili. La stessa tendenza continua
poi all'interno dell'evoluzione dei primati stessi. Le scimmie antro­
pomorfe sono in genere piu grandi, crescono piu lentamente e vivo­
no piu a lungo delle altre scimmie e delle proscimmie. Questo ritar­
do è ancor piu accentuato nel caso dell'uomo. Il nostro periodo di
gestazione è poco piu lungo di quello delle scimmie antropomorfe,
ma i nostri piccoli nascono molto piu pesanti, probabilmente perché
il ritmo di crescita del feto non è affatto diminuito. Ho già parlato
del ritardo nella calcificazione delle nostre ossa. C'è ancora da dire
che i nostri denti escono piu tardi, che noi raggiungiamo la maturità
piu tardi e che viviamo piu a lungo. Molti nostri apparati continua­
no a crescere dopo che quelli degli altri primati sono giunti a matu­
razione. Alla nascita, il cervello di una scimmia Rhesus ha raggiunto
il 65 % delle dimensioni finali e quello dello scimpanzé è arrivato al
40,5 %, mentre il nostro non è che al 23 %. Scimpanzé e gorilla rag­
giungono il 70 % delle dimensioni cerebrali finali all'inizio del loro
primo anno di vita, noi arriviamo a questo stadio solo all'inizio del
terzo anno. W. M. Krogman, il nostro maggiore esperto di sviluppo
infantile, ha scritto: <<L'uomo ha, in assoluto, tra tutti gli esseri vi­
venti il piu lungo periodo infantile, adolescenziale e giovanile, ed è
quindi un animale neotenico o a lunga crescita. Quasi un terzo dello
spazio della sua vita è dedicato alla crescita>>.
Non è detto che il ritardo nel nostro sviluppo comporti la perma­
nenza di proporzioni giovanili nell'individuo adulto, ma certo crea
le condizioni favorevoli alla ritenzione di quei caratteri giovanili che
sono adatti al modo di vivere dei discendenti adulti, dato che di soli­
to neotenia e sviluppo ritardato sono fenomeni collegati. Di fatto i
caratteri giovanili sono un serbatoio di possibili adattamenti per i di-
Il vero padre dell'uomo 65

scendenti, ed essi possono essere facilmente utilizzati se lo sviluppo è


fortemente ritardato (ne sono un esempio, come già abbiamo visto,
l'alluce non apponibile e il viso piccolo dei feti dei primati). Nel no­
stro caso la disponibilità di caratteri giovanili influenzò chiaramente
il realizzarsi di molti dei nostri adattamenti distintivi.
Ma che valore adattativo ha, di per sé, lo sviluppo ritardato? Pro­
babilmente la risposta sta nella nostra evoluzione sociale. L'uomo è
soprattutto un animale in grado di apprendere. Non siamo partico­
larmente forti, veloci o ben disegnati; non ci riproduciamo rapida­
mente; il nostro vantaggio sta nel nostro cervello, con la sua notevo­
le capacità di apprendere mediante l'esperienza. Proprio per aumen­
tare l'apprendimento abbiamo prolungato l'infanzia, ritardando la
maturazione sessuale e con essa la brama di indipendenza tipica del­
l' adolescenza. In tal modo i nostri bambini restano legati ai loro ge­
nitori per periodi piu lunghi, ed hanno cosi piu tempo per l'appren­
dimento e anche per il rafforzamento dei legami familiari.
Si tratta di un'argomentazione vecchia, ma che resiste bene. John
Locke (1689) fece le lodi della lunghezza della nostra infanzia, che ha
l'effetto di mantenere saldo il legame tra i genitori: <<Com'è possibile
non ammirare la saggezza del grande Creatore che ... ha fatto in mo­
do che il legame tra l'uomo e la donna fosse piu duraturo di quello
tra i maschi e le femmine delle altre creature, cosi che la loro opero­
sità ne risultasse incoraggiata, i loro interessi si fondessero nel mi­
gliore dei modi ed essi provvedessero ai bisogni e accumulassero be­
ni per la loro prole comune>>. Ma, a questo proposito, è ancora piu
efficace quanto detto da Alexander Pope (1735), per di piu in distici
eroici, alle reclute della marina:

L'animale e l'uccello accudiscono la loro prole comune


Le madri la nutrono, i genitori la difendono
Il giovane si allontana, per percorrere la terra e il cielo,
Là si ferma l'istinto, e là termina la cura.
Il fragile genere umano richiede una piu lunga attenzione,
Quella cura piu lunga che porta a piu durevoli legami.
8
Neonati come embrioni

Mel Allen, irreprensibile cronista di baseball dei miei tempi", fin!


per divenirmi antipatico per la sfacciataggine con cui pubblicizzava
gli sponsor dei suoi programmi. Non mi ero mai scandalizzato
quando parlava delle corse dei battitori di casa come di <<valanghe
Ballantine>>, ma la mia pazienza giunse al limite quando un pomerig­
gio Di Maggio sbagliò il bersaglio per pochi centimetri ed Allen
esclamò: <<Mancato, mancato solo per la cenere di un sigaro White
Owl!>>. Spero di non irritarvi allo stesso modo confessando che leggo
con piacere Natura/ History e che qualche volta gli articoli di questa
rivista servono da spunto per i miei saggi.
Alla fine di novembre del 1975, il mio amico Bob Martin scrisse
un pezzo sulle strategie riproduttive dei primati, puntando la sua at­
tenzione sul lavoro di uno dei miei scienziati preferiti: l'intollerante
zoologo svizzero Adolf Portmann. Nei suoi voluminosi studi, Port­
mann ha identificato due schemi fondamentali nelle strategie ripro­
duttive dei mammiferi. Alcuni mammiferi, che di solito sono da noi

*
Sfuggo qui alla promessa fatta nell'introduzione di evitare ogni riferimento all'o­
rigine di questi saggi, la mia rubrica sul Natura! History Magazine. Ma sono co­
stretto a farlo, perché non credo che avrò piu un'occasione simile per rendere
omaggio all'uomo piu importante della mia gioventu, dopo mio padre; a lui ed
agli Yankees devo tantissime gioie di quel periodo (conservo anche una palla persa
un giorno da Di Maggio).
Neonati come embrioni 67

definiti <<primitivi>>, hanno gravidanze brevi e dànno alla luce figliate


numerose di neonati poco sviluppati (minuscoli, privi di pelo, inca­
paci di difendersi e con occhi ed orecchie ancora chiusi). La durata
della loro vita è breve, i cervelli sono piccoli (rispetto al corpo) e il
comportamento sociale non è ben sviluppato. Questo tipo di strate­
gia riproduttiva è definita «altriciale>> da Portmann.
D'altra parte, molti mammiferi «superiori>> hanno gravidanze
lunghe, una maggior durata della vita, cervelli grandi, comportamen­
to sociale complesso e dànno alla luce neonati piccoli, ben sviluppa­
ti, che sono subito in grado di provvedere a se stessi, sia pur limitata­
mente. Sono questi i tratti che identificano i mammiferi precoci. Per
Portmann, che considera l'evoluzione umana come un processo ine­
sorabilmente diretto verso l'alto, teso al raggiungimento di un mag­
gior sviluppo spirituale, il modello altriciale è primitivo ed ha prepa­
rato il piu elevato tipo dei precoci, con i quali si sono evolute le mag­
giori dimensioni del cervello.
La gran parte degli evoluzionisti di lingua inglese respinge questa
interpretazione e collega i diversi modelli di base alle necessità im­
mediate di diversi modi di vita. (Noterete come io sfrutti questi saggi
per dare sfogo alla mia avversione per l'identificazione dell'evoluzio­
ne con il «progresso>>.) Il modello altriciale, sostiene Martin, sembra
sia da mettere in relazione con ambienti marginali, fluttuanti, insta­
bili, nei quali gli animali tendono ad avere la prole piu numerosa
possibile, in modo che alcuni possano superare le aspre difficoltà e
l'incertezza delle risorse. Il modello di strategia riproduttiva dei pre­
coci sembra invece il migliore per gli stabili ambienti tropicali. Qui,
dove le risorse sono piu sicure, gli animali possono investire le loro
limitate energie in una prole poco numerosa ma ben sviluppata.
Quale che sia la spiegazione, nessuno può negare che i primati so­
no l'archetipo dei mammiferi precoci. Tra tutti i mammiferi sono
quelli che hanno, relativamente alle dimensioni del corpo, i cervelli
piu grandi, i maggiori tempi di gestazione e la durata della vita piu
lunga. La figliata raggiunge nella maggior parte dei casi il minimo as­
soluto, essendo composta da un solo neonato. Alla nascita i piccoli
sono ben sviluppati e capaci. Comunque, anche se Martin non ne fa
menzione, esiste una lampante ed imbarazzante eccezione: l'uomo.
68 Questa idea della vita

Noi abbiamo in comune con i nostri cugini primati la maggior parte


dei nostri caratteri precoci: la lunga durata della vita, il cervello mol­
to sviluppato, le figliate poco numerose. Ma alla nascita i nostri neo­
nati sono indifesi e poco sviluppati come quelli della maggioranza
dei mammiferi altriciali. Infatti, lo stesso Portmann parla dei piccoli
dell'uomo come di mammiferi <<Secondariamente altriciali». Ma per­
ché questa specie, che è per alcuni tratti (in particolare il cervello) la
piu precoce di tutte, ha evoluto dei neonati cosf poco sviluppati e
piu indifesi di quelli dei suoi antenati primati?
La risposta che proporrò a questa domanda è destinata a sembra­
re assurda alla gran parte dei lettori: i piccoli dell'uomo nascono co­
me embrioni, ed embrioni rimangono all'incirca per i loro primi no­
ve mesi di vita. Se le donne li partorissero al momento <<giusto>>, cioè
dopo una gestazione di circa un anno e mezzo, i nostri neonati
avrebbero, in media, le stesse caratteristiche di precocità degli altri
primati. Questa è l'opinione di Portmann, sviluppata in una serie di
articoli pubblicati in Germania negli anni quaranta e praticamente
sconosciuta negli Stati Uniti. Alle stesse conclusioni arrivò indipen­
dentemente Ashley Montagu in un lavoro pubblicato sul Journal of
American Medicai Association nell'ottobre del 1961. Nel 1975 prese
le difese di questa teoria lo psicologo R.E. Passingham, di Oxford, in
un articolo pubblicato da una rivista specializzata, Brain, Behavior
and Evolution. Io stesso mi schiero con questo ristretto gruppo nel
considerare fondamentalmente corretta la tesi di Portmann.
L'impressione iniziale di trovarsi di fronte ad un vero e proprio
nonsenso è dovuta al fatto che la gravidanza nell'uomo è già molto
lunga. Quelle dei gorilla e degli scimpanzé non sono molto piu bre­
vi, ma la gravidanza umana resta comunque la piu lunga tra quelle di
tutti i primati. Come sostenere allora che i neonati umani siano in
realtà degli embrioni perché nascerebbero (in un certo senso) troppo
presto? La risposta è che i giorni astronomici non sono sempre un si­
stema di misura del tempo adatto alla valutazione dei fenomeni bio­
logici. Alcuni problemi possono essere trattati correttamente solo se
si relativizza la misura del tempo al metabolismo o al ritmo di cresci­
ta del singolo animale. Noi sappiamo, ad esempio, che la durata della
vita dei mammiferi varia da poche settimane a piu di un secolo. Ma
Neonati come embrioni 69

si tratta ancora di differenze <<reali» se consideriamo la percezione


del tempo e i ritmi di vita dei vari mammiferi? Veramente un ratto
vive «meno>> di un elefante? Le leggi delle proporzioni impongono
che i piccoli animali a sangue caldo vivano secondo un ritmo piu ve­
loce di quello degli animali relativamente piu grandi (si vedano i sag­
gi 2 1 e 22). Il loro cuore batte piu rapidamente ed il metabolismo ha
un livello molto piu elevato. In realtà, sulla base di diversi criteri di
tempo relativo, tutti i mammiferi vivono all'incirca per lo stesso pe­
riodo. Tutti, per esempio, respirano all'incirca lo stesso numero di
volte durante la loro vita (i piccoli mammiferi a vita breve respirano
piu rapidamente di quelli piu grandi, a metabolismo lento).
ln termini di giorni astronomici, la gestazione umana è lunga, ma
rispetto ai nostri ritmi di sviluppo essa è corta, interrotta prematura­
mente. Nel saggio precedente ho sostenuto che una, se non la princi­
pale caratteristica dell'evoluzione umana, è stata il rilevante ritardo
nei tempi dello sviluppo. I nostri cervelli crescono piu lentamente e
per un periodo di tempo piu lungo di quelli degli altri primati, la cal­
cificazione delle nostre ossa avviene piu tardi, e il periodo adolescen­
ziale è molto piu lungo. In realtà, noi non raggiungiamo mai il grado
di sviluppo cui arriva la maggior parte dei primati. Gli esseri umani
adulti mantengono, sotto molti punti di vista, i tratti giovanili dei
nostri predecessori primati, secondo un fenomeno evolutivo detto
neotenia.
In confronto agli altri primati, noi cresciamo e ci sviluppiamo
con la velocità di una lumaca; eppure la gravidanza della specie uma­
na è solo di pochi giorni piu lunga di quella dei gorilla e degli scim­
panzé. Relativamente al nostro particolare ritmo di sviluppo, la gra­
vidanza della donna ha subito un marcato accorciamento; se si fosse
allungata secondo lo stesso processo di rallentamento che ha interes­
sato il resto della nostra crescita e del nostro sviluppo, i bambini do­
vrebbero nascere sette o otto mesi (stima di Passingham) oppure un
anno (stima di Portmann e Ashley Montagu) dopo i nove mesi che
in realtà passano in utero.
Qualcuno forse penserà che parlare di «Stato ancora embrionale>>
per il neonato umano non sia nient'altro che una metafora o una fra­
se ad effetto, ma non è cosf. Ho appena tirato su due figli oltre que-
70 Questa idea della vita

sta tenera età, ed ho provato tutta la gioia ed il mistero del loro svi­
luppo fisico e mentale, cose che mai potrebbero verificarsi nell'am­
biente chiuso e buio dell'utero. Mi sento d'accordo con Portmann
anche quando prendo in considerazione i dati sul loro sviluppo fisi­
co durante il primo anno, perché il tipo di crescita dei bambini è
quello dei feti dei primati e dei mammiferi e non quello degli altri
piccoli dei primati. (La distinzione tra modalità di sviluppo fetali e
post-natali non è arbitraria; lo sviluppo post-natale non è la mera
continuazione di quello del feto; la nascita rappresenta, sotto molti
punti di vista, un momento di discontinuità.) I neonati dell'uomo,
per esempio, hanno le estremità delle ossa degli arti e delle dita anco­
ra non calcificate; i centri di ossificazione sono di solito completa­
mente assenti nelle ossa delle dita. Questo grado di ossificazione si
raggiunge nei macachi alla diciottesima settimana di sviluppo fetale.
Quando i macachi nascono, alla ventiquattresima settimana, hanno
un grado di calcificazione delle ossa degli arti che i bambini raggiun­
gono solo anni dopo la nascita. Cosa ancora piu importante, i nostri
cervelli continuano a crescere dopo la nascita con gli stessi rapidi rit­
mi propri del feto. I cervelli di molti mammiferi al momento della
nascita sono sostanzialmente giunti al termine del loro sviluppo. In
altri primati lo sviluppo del cervello prosegue durante la prima cre­
scita post-natale, ma nel nostro caso la situazione è ben diversa: le di­
mensioni del cervello di un bambino alla nascita sono solo un quar­
to di quelle finali. Scrive Passingham: «Il cervello dell'uomo raggiun­
ge le dimensioni di quello dello scimpanzé neonato solo dopo circa
sei mesi dalla nascita. Questo è anche esattamente il momento in cui
ci sarebbe da aspettarsi che l'uomo nascesse se la durata della gravi­
danza fosse proporzionata a quella del nostro sviluppo e della nostra
vita cosi come nelle scimmie antropomorfe>>.
A. H. Schultz, uno dei maggiori anatomisti di primati del secolo,
riassunse i suoi studi comparati sulla crescita nei primati affermando
che: «È evidente che l' ontogenesi umana non è unica per quanto ri­
guarda la durata della vita intrauterina, ma essa si è fortemente spe­
cializzata nel singolare rinvio del compimento della crescita e dell'i­
nizio della senilità».
Ma perché i bambini nascono prima del tempo? Perché l'evolu-
Neonati come embrioni 71

zione ha prolungato cosf tanto il periodo del nostro sviluppo com­


plessivo, mantenendo fissa la durata della gestazione, di modo che i
nostri bambini sono ancora sostanzialmente degli embrioni al mo­
mento della nascita? Perché la gravidanza non si prolungò come il
resto dello sviluppo? Per Portmann, che ha una visione spiritualisti­
ca dell'evoluzione, la funzione di questa nascita prematura sarebbe
quella di rispondere alle esigenze dello sviluppo mentale. Secondo il
suo ragionamento gli uomini, che sono animali capaci di apprendi­
mento, hanno bisogno di lasciare l'ambiente buio ed immutabile del­
l'utero per aver accesso a quello extrauterino, ricco di immagini,
odori, suoni e contatti, quando sono ancora embrioni flessibili.
Ma io credo, come Ashley Montagu e Passingham, che ci sia un
motivo piu importante, deducibile da una considerazione che Port­
mann scarta con disprezzo come volgarmente meccanicistica e mate­
rialistica. Per quanto ho avuto modo di vedere (anche se non posso
esserne sicuro), quella del parto è un'esperienza gioiosa, quando non
ci si immischiano gli arroganti medici maschi, con la loro pretesa di
controllare completamente una situazione che è del tutto estranea al­
la loro esperienza personale. Ciò nonostante, non penso che si possa
negare che la nascita dell'uomo sia difficilmente paragonabile a quel­
la della gran parte degli altri mammiferi. Per dirla un po' grossolana­
mente, la nascita è una compressione, una strettoia. Si sa che le fem­
mine dei primati possono morire durante il parto quando le teste dei
feti sono troppo larghe per passare attraverso il canale pelvico. A.H.
Schultz fa l'esempio del feto di un babbuino amadriade nato morto e
del canale pelvico della madre morta durante il parto: la testa del­
l'embrione è un bel po' piu larga del canale. Schultz conclude che in
questa specie le dimensioni del feto sono vicine a quelle massime
possibili: <<Mentre è chiaro che la selezione tende a favorire un largo
diametro pelvico delle femmine, deve anche essere impedito ogni al­
lungamento della gestazione o almeno, ogni aumento eccessivo delle
dimensioni dei neonati».
Sono certo che poche donne riuscirebbero a dare alla luce felice­
mente un bambino di un anno.
Il colpevole, in tutta questa storia, è la nostra piu importante spe­
cializzazione evolutiva, il nostro grande cervello. Nella gran parte
72 Questa idea della vita

dei mammiferi la crescita del cervello è un fenomeno interamente fe­


tale, ma dato che le dimensioni da esso raggiunte sono contenute,
ciò non comporta alcuna difficoltà per il parto. Nelle scimmie, che
hanno cervelli piu grandi, la crescita è leggermente ritardata per per­
mettere un allargamento cerebrale post-natale, ma la durata della
gravidanza non si è dovuta modificare in rapporto a quella dello svi­
luppo. I cervelli umani, però, sono cosi grandi che per avere parti
senza problemi doveva essere adottata una strategia aggiuntiva: l'ac­
corciamento della durata della gravidanza rispetto a quella dello svi­
luppo complessivo, la nascita quando il cervello ha raggiunto solo
un quarto delle sue dimensioni finali.
Probabilmente il nostro cervello ha ormai raggiunto il culmine
della sua espansione. Il prodotto piu elevato della nostra evoluzione
ha trovato un limite alla possibilità di una sua ulteriore crescita pro­
prio nelle sue dimensioni. A meno che non avvenga un radicale ri­
modellamento della struttura pelvica femminile, se vogliamo conti­
nuare a nascere dovremo accontentarci del cervello che abbiamo.
Ma non importa. Possiamo impiegare tranquillamente parecchi dei
prossimi millenni a imparare come utilizzare il suo immenso poten­
ziale, che abbiamo appena cominciato a capire e a sfruttare.
Parte terza
Organismi bizzarri e casi esemplari
di evoluzione
9
L'alce irlandese, animale chiamato
male, trattato male e compreso male

La natura stessa sembra aver prescelto


questa creatura, dandogli, con le corna
grandi e maestose, una forma che la
distingue chiaramente dal volgare branco
di tutti gli altri piu piccoli quadrupedi
Thomas Molyneux

L'alce irlandese, il Sacro Romano Impero e il corno inglese for­


mano proprio uno strano insieme. Hanno però in comune la totale
inadeguatezza dei loro nomi. Come disse V oltaire, il Sacro Romano
Impero non fu sacro, né romano, né impero. Il corno inglese non è
altro che un oboe continentale; la versione originaria era un corno
ricurvo, da cui <<angolare», parola poi deformata in «inglese>>. Quan­
to all'alce irlandese, esso in realtà non era solo irlandese e nemmeno
era un alce. Era semplicemente un cervo, il cervo piu grande che mai
sia esistito. Ancora piu impressionanti erano poi le dimensioni delle
sue corna. Di <<queste voluminose corna» si meraviglia il dottor Mo­
lyneux nella prima descrizione dell'animale, pubblicata nel 1697.
Nel 1842 Rathke le descrisse in linguaggio incomparabile esprimen­
done l'enormità come bewunderungswuerdig cioè degna di ammira­
zione. Anche se non compaiono nel Guiness dei primati, che non
parla dei fossili e onora l'alce americano, le corna dell'alce irlandese
sono davvero uniche, non c'è niente di paragonabile in tutta la storia
naturale. La loro apertura arrivava, secondo stime attendibili, a 3,65
m. La cosa appare ancora piu impressionante dal momento che pro­
babilmente queste corna cadevano e ricrescevano ogni anno, come
. . . .

ne1 cervi ven e propn.


In Irlanda le corna del cervo gigante erano conosciute già da mol­
to tempo prima che attirassero l'attenzione degli scienziati; non era
76 Questa idea della vita

difficile trovarne nei sedimenti dei laghi, sotto i depositi di torba, ed


esse furono utilizzate come cardini e persino per costruire un ponte
provvisorio su un ruscello nella contea di Tyrone. Secondo una sto­
ria, probabilmente apocrifa, un immenso falò di ossa e corna di cer­
vo gigante fu acceso nella contea di Antrim per celebrare la vittoria
su Napoleone a Waterloo. Il motivo per cui furono chiamati alci è
che l'alce europeo era l'unico animale conosciuto le cui corna avesse­
ro delle dimensioni che ricordavano quelle del cervo gigante.
Il piu antico disegno che si conosca delle corna del cervo gigante
risale al 1588. Quasi un secolo piu tardi, Carlo II ricevette un paio di
queste corna e, secondo il dottor Molyneux, «rimase cosi impressio­
nato dalla loro prodigiosa larghezza» che le appese nella galleria delle
corna del castello di Hampton, dove <<superavano talmente>> tutte le
altre per dimensioni da «far perdere gran parte della curiosità al resto
della collezione>>.
La pretesa che si trattasse di un animale solo irlandese svani nel
1746 (anche se poi il nome restò) quando un cranio completo di cor­
na fu ritrovato nello Yorkshire, in Inghilterra. Segui, nel 1781, la
prima scoperta continentale, in Germania, mentre il primo scheletro
completo (che si trova oggi al museo dell'Università di Edimburgo)
fu dissotterrato nell'Isola di Man nel secondo decennio del secolo
scorso.
Oggi sappiamo che l'area in cui viveva il cervo gigante si estende­
va ad est sino alla Siberia ed alla Cina e a sud fino all'Africa setten­
trionale. I resti trovati in Inghilterra ed in Eurasia sono quasi tutti
incompleti, e i magnifici esemplari che adornano tanti musei in giro
per il mondo provengono quasi tutti dall'Irlanda. Il cervo gigante si
evolvette pochi milioni di anni orsono, durante l'ultima glaciazione,
e mentre in Europa potrebbe essere sopravvissuto anche in epoca
storica, in Irlanda si estinse circa 1 1 .000 anni fa.
«Tra i fossili dell'Impero britannico, - scrisse nel 1 8 1 1 James
Parkinson, - nessuno è piu adatto a suscitare meraviglia.>> E infatti
cosi è stato, durante tutta la storia della paleontologia. A parte la me­
raviglia che sorge sempre di fronte a cose cosi straordinarie e a parte
i curiosi aneddoti che ne sono derivati, l'importanza del cervo gigan­
te sta nel ruolo che esso ha avuto nel dibattito sulla teoria dell'evolu-
L'alce irlandese 77

zione. Ogni grande evoluzionista ha usato il cervo gigante per soste­


nere la validità delle sue tesi preferite. Due sono i punti principali at­
torno ai quali si è incentrata la controversia: (l) Potevano essere utili
in qualche modo delle corna cosi voluminose? e (2) Perché si estinse
il cervo gigante?
Dato che per molto tempo il dibattito sull'alce irlandese si è svol­
to attorno ai motivi della sua estinzione, sembra impossibile che
Molyneux, nel suo primo articolo, sostenesse che doveva esistere an­
cora. In realtà, molti scienziati del XVII secolo sostenevano che l'e­
stinzione di una specie sarebbe stata in contrasto con la bontà e la
perfezione di Dio. Cosi esordisce il dottor Molyneux nel suo artico­
lo del 1697: «È opinione di molti naturalisti che nessuna vera specie
di creature viventi si sia estinta in modo cosi completo da essere del
tutto scomparsa dal mondo da quando questo è stato creato; e questa
opinione va cosi d'accordo con l'idea che la Provvidenza si prenda
cura di tutti gli animali che ha creato, che non possiamo non condi­
viderla>>.
Però in Irlanda il cervo gigante non c'era piu e Molyneux fu co­
stretto a cercarlo altrove. Dopo aver letto, nei resoconti di alcuni
viaggiatori, quali erano le dimensioni delle corna dell'alce america­
no, ne trasse la conclusione che dovesse trattarsi dello stesso anima­
le; si sa che chi torna da un viaggio ha una certa tendenza all'esagera­
zione nel raccontare quanto ha visto, è sempre stato cosi. Molyneux
non poteva disporre né di disegni né di accurate descrizioni dell'alce,
perciò le sue conclusioni non sono poi cosi assurde come ci sembra­
no oggi alla luce delle conoscenze attuali. Quanto alla scomparsa del
cervo gigante dall'Irlanda, Molyneux la attribui ad un'epidemia pro­
vocata da <<una insana composizione dell'aria>>.
Per tutto il secolo successivo quanto sostenuto da Molyneux fu
oggetto di vivaci polemiche; ci si continuava a chiedere a quale delle
specie moderne appartenesse il cervo gigante. Molti sostenevano
trattarsi dell'alce, altrettanti propendevano per la renna.
Quando i geologi del XVIII secolo portarono alla luce la docu­
mentazione fossile della vita precedentemente esistita sulla Terra, di­
venne via via sempre piu difficile sostenere che anche tutte le strane
e sconosciute creature rivelate dai fossili vivessero ancora in qualche
78 Questa idea della vita

remota regione del pianeta. Forse la creazione non era avvenuta in


una sola volta e per sempre, forse Dio si era cimentato continuamen­
te tanto nella creazione che nella distruzione. Se cosi era, il mondo
doveva certo avere ben piu di quei seimila anni che gli attribuivano
gli interpreti alla lettera della Bibbia.
La questione dell'estinzione fu il primo grosso terreno di scontro
della moderna paleontologia. In America Thomas Jefferson sostene­
va il vecchio punto di vista, mentre Georges Cuvier, il grande pa­
leontologo francese, si serviva proprio dell'alce irlandese per dimo­
strare che l'estinzione della specie era una realtà. Nel 1 8 12 Cuvier
aveva risolto due problemi scottanti: aveva dimostrato, con minute
descrizioni anatomiche, che l'alce irlandese non assomigliava ad al­
cun animale moderno e, collocandolo tra i molti mammiferi fossili
privi di un corrispettivo attuale, aveva dimostrato la realtà della sua
estinzione, ponendo le basi per una scala dei tempi geologici.
Una volta stabilito che l'estinzione era un dato di fatto, il dibatti­
to si spostò sulla sua collocazione nel tempo. In particolare ci si chie­
deva: era riuscito l'alce irlandese a sopravvivere al diluvio? Non si
trattava di una domanda inutile, perché se questa specie era stata
spazzata via dal diluvio, o da qualche catastrofe precedente, allora la
sua scomparsa poteva ancora essere stata un evento naturale (o so­
prannaturale). Nel 1825 l'arcidiacono Maunsell, uno scrupoloso di­
lettante, scrisse: <<Capii che questi animali dovevano essere stati di­
strutti da un insostenibile diluvio>>. Un certo dottor Mac Culloch ar­
rivò persino a credere che i fossili venissero trovati in posizione eret­
ta, con i nasi all'insu; sarebbe stata l'ultima reazione di fronte al cre­
scere delle acque, un'ultima estrema difesa: a quel punto non restava
altro da fare che evitare le onde.
Se, invece, l'alce irlandese era sopravvissuto al diluvio, il suo <<an­
gelo sterminatore» non poteva essere stato che la stessa scimmia nu­
da. Gideon Mantell, scrivendo nel 1851, diede la colpa alle tribu cel­
tiche; nel 1830 Hibbert attribui lo sterminio ai romani ed alle carne­
ficine che essi facevano durante i ludi. Se qualcuno crede che ci sia­
mo resi conto solo recentemente delle nostre capacità distruttive,
stia a sentire cosa scrisse Hibbert nel 1830: <<Sir Thomas Molyneux si
immaginò che una qualche epidemia, o una moria pestilenziale, do-
L'alce irlandese 79

vesse aver spazzato via l'alce irlandese ... Ci sarebbe comunque da di­
scutere se, in certe occasioni, la razza umana non si sia dimostrata ef­
ficace quanto una pestilenza nello sterminare, in diverse regioni, in­
tere razze di animali selvatici>>.
Nel 1846 il piu grande paleontologo britannico, Sir Richard
Owen, riassunse i dati fino ad allora raccolti e concluse che, almeno
in Irlanda, il cervo gigante era scomparso prima dell'arrivo dell'uo­
mo. In quel momento il diluvio di Noè non era piu proponibile co­
me tesi seria in geologia. Ma quale era allora la causa dell'estinzione
del cervo gigante?
Charles Darwin pubblicò L 'origine delle specie nel 1859. Nel giro
di dieci anni quasi tutti gli scienziati accettarono l'evoluzione come
un dato di fatto. Ma il dibattito sulle sue cause ed i suoi meccanismi
si risolse (a favore di Darwin) solo negli anni quaranta del nostro se­
colo. La teoria della selezione naturale di Darwin implicava il fatto
che i cambiamenti evolutivi fossero adattativi, cioè risultassero utili
agli organismi. Perciò gli antidarwiniani cercarono nei fossili dei casi
in cui l'animale in questione non poteva aver tratto alcun giovamen­
to dalla sua evoluzione.
Il punto di riferimento dei paleontologi antidarwiniani divenne
la teoria dell'ortogenesi, giacché secondo questa teoria l'evoluzione
procedeva per linee rette sulle quali la selezione naturale non aveva
alcuna influenza. Si sosteneva che certe tendenze, una volta avviate,
non potevano piu essere arrestate, anche se conducevano all'estin­
zione. Si portarono ad esempio certe ostriche che avrebbero fatto
crescere le proprie valve l'una sull'altra fino al punto che l'animale
vi rimaneva definitivamente ed ermeticamente rinchiuso; si disse che
le tigri dai denti a sciabola non potevano fermare la crescita dei loro
denti e i mammut quella delle loro zanne.
Ma, tra tutti gli esempi di ortogenesi, quello di gran lunga piu fa­
moso fu proprio l'alce irlandese. Il cervo gigante si era evoluto da
forme di dimensioni minori che avevano anche corna piu piccole.
Anche se all'inizio le corna si erano dimostrate utili, la loro crescita
non poteva essere limitata e il cervo gigante, proprio come l' appren­
dista stregone, si sarebbe accorto troppo tardi che anche le cose buo­
ne hanno i propri limiti. Appesantiti dal peso di queste escrescenze
80 Questa idea della vita

del cranio, questi animali trovavano la morte impigliati negli alberi


o impantanati negli stagni. La causa dell'estinzione dell'alce irlande­
se diventava perciò l'alce stesso o, meglio, le sue corna.
Nel 1925 il paleontologo americano R.S. Lull fece appello al cer­
vo gigante nel suo attacco al darwinismo: <<La selezione naturale
ignora la superspecializzazione, perché è chiaro che la selezione può
portare un organo alla perfezione, ma mai potrebbe portarlo ad una
condizione nella quale esso costituisce una vera minaccia alla soprav­
vivenza... cosi come è successo per le grandi corna ramificate dello
scomparso cervo irlandese».
Negli anni trenta, guidati da Julian Huxley, i darwiniani passaro­
no al contrattacco. Huxley notò che al crescere del cervo, sia nel cor­
so dello sviluppo che nel confronto tra adulti di diverse dimensioni,
le corna non si ingrandivano nella stessa misura del corpo; il loro ac­
crescimento era piu veloce, cosi che le corna dei grandi cervi non so­
lo sono piu grandi irÌ assoluto di quelle dei cervi piu piccoli, ma lo
sono anche relativamente alle maggiori dimensioni del corpo. Hux­
ley chiamò allometria questo regolare ed ordinato cambiamento di
forma che accompagna l'aumento di dimensioni.
L' allometria forni una comoda spiegazione per le corna del cervo
gigante. Dato che l'alce irlandese era piu grande di qualsiasi altro cer­
vo, l'enormità delle sue corna poteva essere semplicemente il risulta­
to delle relazioni allometriche comuni a tutti i cervi. A questo pun­
to, se la selezione aveva favorito un incremento delle dimensioni del
corpo, le grandi corna dovevano essere state una conseguenza auto­
matica. Certo esse devono aver creato dei problemi, ma questo svan­
taggio era piu che compensato dai benefici derivanti dalle maggiori
dimensioni dell'animale e la tendenza continuò. Naturalmente,
quando le difficoltà create dalle dimensioni delle corna superarono i
vantaggi dati da quelle dei corpi, la tendenza si sarebbe interrotta
perché non poteva piu essere favorita dalla selezione naturale.
Quasi tutti i moderni libri di testo sull'evoluzione presentano
l'alce irlandese sotto questa luce, citando la spiegazione allometrica
come risposta alle teorie ortogenetiche. Quando ero studente crede­
vo ingenuamente che questa tesi, ribadita in continuazione, fosse sal­
damente basata su una notevole mole di dati. Piu tardi mi accorsi
L'alce irlandese 81

che il dogma del testo si riproduce da solo, perciò quando, tre anni
fa, scoprii che questa spiegazione data per scontata era priva di dati
che la giustificassero, fui deluso, ma non sorpreso. Se si escludono al­
cuni occasionali tentativi di stabilire le dimensioni massime delle
corna, nessuno aveva mai misurato un alce irlandese. Metro alla ma­
no, decisi di porre rimedio a questa situazione.
Il Museo nazionale d'Irlanda a Dublino ha in esposizione dicias­
sette esemplari di alce ed un numero molto maggiore di corna, am­
mucchiate le une sulle altre, si trovano in un vicino magazzino. La
maggior parte dei grandi musei dell'Europa occidentale e d'America
possiede un alce irlandese, mentre molti altri adornano le sale dei
trofei della piccola nobiltà inglese ed irlandese. Le corna piu grandi
sono quelle che adornano l'ingresso ad Adare Manor, la residenza
del conte di Dunraven. Lo scheletro piu misero è nella cantina del
castello di Bunratty, dove ogni sera, dopo un banchetto medioevale,
riparano frotte di turisti allegri e un po' alticci. Questo povero dia­
volo, quando lo vidi la mattina stava fumando un sigaro, perdeva
due denti e aveva tre tazze di caffè tra le ramificazioni delle corna.
Per quelli che amano i confronti, dirò che le corna pili grandi d'A­
merica sono a Yale e le piu piccole del mondo ad Harvard.
Per vedere se le corna del cervo gigante crescevano allometrica­
mente, confrontai le loro dimensioni con quelle del corpo. Per le di­
mensioni delle corna adottai una misura composta dalla lunghezza,
dalla ampiezza e dalla lunghezza delle ramificazioni principali. Per il
corpo la misura piu corretta sarebbe stata quella della lunghezza del
corpo oppure la lunghezza e larghezza delle ossa maggiori, ma non
potei adottare questo parametro perché la gran parte degli esemplari
consisteva nel solo cranio con le corna. Inoltre i pochi scheletri com­
pleti contenevano immancabilmente ossa di piu animali, molto ges­
so ed anche dei surrogati occasionali (il primo scheletro di Edimbur­
go esibiva inizialmente un bacino di cavallo). Perciò utilizzai la lun­
ghezza del cranio come misura delle dimensioni totali. Il cranio rag­
giunge la sua lunghezza definitiva quando l'animale è molto giovane
(tutti i miei esemplari erano vissuti piu a lungo) e successivamente
non varia; si tratta, quindi, di un buon indicatore delle dimensioni
del corpo. Il mio campione comprendeva settantanove crani e corna
82 Questa idea della vita

provenienti da musei e case private d'Irlanda, della Gran Bretagna,


dell'Europa continentale e degli Stati Uniti. Le mie misurazioni di­
mostrarono che le dimensioni del corpo e quelle delle corna erano
strettamente correlate e che, all'aumentare delle dimensioni dell'ani­
male maschio, si verificava un incremento delle corna due volte e
mezzo piu rapido di quello del corpo. Quello che costruii non era
però un grafico della crescita individuale, perché la relazione era sta­
bilita confrontando adulti di differenti dimensioni. L'ipotesi allome­
trica era cosi confermata. Se l'evoluzione aveva favorito i cervi gran­
di, si poteva pensare che le corna ancora piu grandi che ne derivaro­
no fossero state solo una conseguenza di per sé priva di significato.
Tuttavia, non appena ebbi confermato l'esistenza della relazione
allometrica, cominciai a dubitare della spiegazione tradizionale per­
ché conteneva un curioso residuo della piu vecchia teoria ortogeneti­
ca. Io supponevo che le corna fossero in sé prive di qualsiasi signifi­
cato adattativo e fossero state tollerate solo per i notevoli vantaggi di
un corpo piu grande. Ma perché dovremmo presumere che quelle
immense corna non avessero alcuna funzione primaria? Si può be­
nissimo sostenere anche l'interpretazione opposta: la selezione ope­
rò in modo diretto ad aumentare le dimensioni delle corna, produ­
cendo cosi l'incremento delle dimensioni del corpo come conseguen­
za secondaria. In realtà, le corna dell'alce venivano considerate svan­
taggiose solo per una impressione soggettiva suscitata dalla loro
enormità.
Accade spesso che teorie da tempo abbandonate continuino ad
esercitare la loro influenza in modo piu sottile. Cosi le tesi ortogene­
tiche continuavano a vivere all'interno della teoria allometrica che
era stata proposta per sostituirle. Secondo me quello delle corna «pe­
santi» o «ingombranti» è un falso problema, una invenzione che ha
le sue radici in un concetto di etologia ormai abbandonato.
Per i darwiniani del XIX secolo il mondo della natura era un tea­
tro di crudeltà. I successi evolutivi venivano misurati in termini di
battaglie vinte e nemici distrutti. In questo contesto le corna erano
viste come formidabili armi contro i predatori ed i maschi rivali.
Nella sua Origine dell'uomo, Darwin accenna ad una idea diversa, e
cioè che le corna potessero essersi evolute come ornamento per at-
L'alce irlandese 83

trarre le femmine: «Se le corna, come le splendide bardature dei ca­


valieri dei tempi antichi, accrescono la nobiltà dell'aspetto di cervi
ed antilopi, esse possono essere state modificate in parte per questo
scopo>>. Tuttavia egli si affrettò ad aggiungere che «non aveva alcuna
prova a favore di questa ipotesi>> e continuò a spiegare le corna sulla
base della <<legge della battaglia>> e dei vantaggi che potevano dare «in
un ambiente dove la vita era continuamente in pericolo>>. Inizial­
mente tutti gli autori supponevano che l'alce irlandese usasse le cor­
na per uccidere i lupi e scacciare i maschi rivali nel corso di feroci
combattimenti. Per quanto ne so l'unico che si oppose a questa in­
terpretazione è il paleontologo russo L. S. Davitashvili, il quale nel
1961 sostenne che le corna servivano prima di tutto come segnale di
corteggiamento verso le femmine.
Se ammettiamo che le corna sono delle armi, siamo costretti a
riammettere la tesi ortogenetica, perché effettivamente piu di qua­
ranta chili di corna ampie e palmate, che ricrescono ogni anno ed ar­
rivano ad un'apertura di oltre tre metri e mezzo, mi sembrano trop­
pe, qualcosa di ancora piu esagerato dei nostri attuali bilanci militari.
Perciò, se vogliamo mantenere una spiegazione darwiniana, dobbia­
mo rifarci all'ipotesi allometrica nella sua formulazione originale.
Ma se non erano delle armi, quale era allora la funzione principa­
le delle corna? I moderni studi sul comportamento animale hanno
prodotto un concetto che ha grande importanza per la biologia del­
l'evoluzione: molte strutture che erano state precedentemente consi­
derate come vere e proprie armi o come emblemi da esibire di fronte
alle femmine sono in realtà usate per combattimenti ritualizzati tra
maschi. La loro funzione è quella di prevenire i combattimenti reali
(con le loro conseguenze di morti e feriti) stabilendo delle gerarchie
che i maschi possono riconoscere facilmente e alle quali facilmente si
sottomettono.
Corna e corna ramificate come quelle dei cervi sono un ottimo
esempio di strutture usate per combattimenti ritualizzati. Esse ser­
vono, come dice Valerius Geist, come «Simboli visivi del rango di
dominanza>>. Le corna grandi conferiscono uno status elevato e dàn­
no accesso alle femmine. Dal momento che non c'è vantaggio evolu­
tivo piu potente della garanzia del successo riproduttivo, la pressio-
84 Questa idea della vita

ne selettiva a favore di corna piu grandi deve essere stata molto in­
tensa. Piu si osservano gli animali dotati di corna nel loro ambiente
naturale e piu la vecchia idea dei combattimenti mortali deve essere
abbandonata di fronte all'evidenza del realizzarsi di semplici esibi­
zioni rituali senza contatto tra i corpi, o di combattimenti chiara­
mente programmati in modo da evitare le ingiurie corporali. Osser­
vazioni di questo tipo sono state fatte sul cervo da Beninde e Dar­
ling, sul caribu da Kelsall, e sulla pecora delle montagne da Geist.
Come simbolo che i maschi si esibiscono reciprocamente, le
enormi corna dell'alce irlandese acquistano finalmente senso di
strutture adattative a sé stanti. Inoltre, come ha fatto notare R. Coo­
pe dell'Università di Birmingham, in questo quadro trova per la pri­
ma volta una spiegazione la particolare morfologia delle corna. Nel­
le sue esibizioni il cervo tende a mostrare le sue corna ampie e pal­
mate in tutta la loro larghezza. Il daino attuale, considerato da molti
come la specie relativamente piu vicina all'alce irlandese, per mostra­
re le sue corna in tutta la loro estensione, deve ruotare la testa da un
lato all'altro. Per fare la stessa cosa, dato che le sue corna pesavano
piu di quaranta chili, il cervo gigante avrebbe dovuto produrre
un'immensa forza di torsione. Proprio per questo le sue corna sono
disposte in modo da mostrare tutta la loro ampiezza quando l'ani­
male ha la testa rivolta diritto in avanti. Cosi, sia la strana forma che
le enormi dimensioni delle corna possono essere spiegate postulando
che esse fossero usate come manifestazione di dominio piuttosto che
per il combattimento.
Ma se le corna hanno un loro valore adattativo, qual è la causa
dell'estinzione dell'alce irlandese, o almeno quella della sua estinzio­
ne in Irlanda? Temo che la risposta piu probabile a questo vecchio
dilemma sia piuttosto banale. Il cervo gigante prosperò in Irlanda so­
lo per un periodo molto breve, durante la cosiddetta fase intermedia
di Allerod sul finire dell'ultima glaciazione. Questo periodo, una
breve fase abbastanza calda tra due epoche piu fredde, durò per circa
1 .000 anni, tra 12.000 e 1 1.000 anni fa. (L'alce irlandese era migrato
in Irlanda nel corso della fase glaciale precedente, quando l'abbassa­
mento del livello dei mari creò nn collegamento dell'isola con l'Eu­
ropa continentale.) L'animale era ben adattato alle vaste distese erbo-
L'alce irlandese 85

se con pochi alberi tipiche del periodo di Allerod, ma pare non po­
tesse adattarsi né alla tundra sub-artica che subentrò nella successiva
epoca fredda, né alla fitta vegetazione che si sviluppò dopo il defini­
tivo ritirarsi dei ghiacci.
L'estinzione è il destino della gran parte delle specie, generalmen­
te a causa della loro incapacità di adattarsi abbastanza rapidamente ai
cambiamenti climatici o alla competizione. L'evoluzione darwiniana
esclude che un animale possa sviluppare attivamente una struttura
dannosa, ma non può garantire che delle strutture utili continuino
ad essere vantaggiose in circostanze ambientali mutate. Probabil­
mente l'alce irlandese fu vittima del suo stesso precedente successo.
Sic transit gloria mundi.
10
La saggezza organica, ovvero
perché un insetto dovrebbe crescere
divorando dall'interno il corpo
della madre

L'uomo ha creato Dio a sua immagine e somiglianza, e la dottri­


na della creazione divina non ha mai avuto difficoltà a spiegare que­
gli adattamenti che sono evidenti a tutti. Come possiamo dubitare
che gli animali siano appositamente progettati per i ruoli loro asse­
gnati quando osserviamo una leonessa che caccia, un cavallo che cor­
re, un ippopotamo che sguazza nel fango? Certamente se fosse possi­
bile leggere un supremo disegno in tutti gli organismi viventi la teo­
ria della selezione naturale non avrebbe mai soppiantato la dottrina
della creazione divina. Charles Darwin comprese questo fatto e con­
centrò il suo studio proprio su quegli aspetti della vita che non
avrebbero alcun senso in un mondo costruito con la perfetta saggez­
za di Dio. Per quale motivo, ad esempio, un progettista assennato
avrebbe dovuto creare in Australia una serie completa di marsupiali
per coprire gli stessi ruoli che negli altri continenti sono occupati dai
mammiferi placentati: Darwin arrivò al punto di scrivere un intero
libro sulle orchidee per dimostrare che le strutture evolute per assi­
curare la fecondazione da parte degli insetti erano delle strutture <<di
recuperO>>, costruite con parti che i progenitori usavano per altri sco­
pi. Le orchidee sono delle macchine assurdamente complesse come
quelle disegnate dal cartoonist Rube Goldberg; un buon ingegnere
avrebbe certamente fatto qualcosa di meglio.
Lo stesso principio è valido ancora oggi: il modo migliore per il-
Saggezza organica 87

lustrare gli adattamenti evolutivi è quello di ricorrere ad esempi che


ci colpiscono perché contengono qualcosa di molto caratteristico o
bizzarro. La scienza non è mai una sorta di <<senso comune organiz­
zato>>: nei suoi momenti migliori è invece in grado di trasformare la
nostra concezione del mondo, introducendo delle potenti teorie al
posto di quegli antichi, antropocentrici pregiudizi che noi chiamia­
mo intuizioni.
Consideriamo, per esempio, gli insetti delle galle, i cecidomiidi.
Il modo di vivere di questi minuscoli insetti, visto alla luce delle
norme dei nostri codici sociali, non può non suscitare fastidio o
disgusto.
I cecidomiidi possono crescere e svilupparsi in due modi diversi.
In certe condizioni nascono dalle uova, seguono una normale se­
quenza di stadi !arvali e pupali per divenire poi dei normali insetti a
riproduzione sessuata. In altre circostanze le femmine si riproduco­
no per partenogenesi, producendo la loro prole senza alcun inter­
vento dei maschi. La partenogenesi è un fatto abbastanza comune
tra gli animali, ma in questo caso assume un interesse particolare.
Prima di tutto, le femmine partenogenetiche si bloccano ad uno sta­
dio precoce del loro sviluppo, non divengono mai insetti normali,
adulti, si riproducono mentre sono ancora larve o pupe. Inoltre,
queste femmine non depongono uova. La prole cresce all'interno del
loro corpo, non alimentata ed «impacchettata» da un utero, ma nei
tessuti stessi della madre, fino a riempirne tutto il corpo. Per cresce­
re, la prole divora dall'interno il corpo materno. Nel giro di pochi
giorni i figli ne escono e al posto del loro unico genitore non resta
che un guscio chitinoso. Entro due giorni toccherà a loro, saranno i
loro piccoli in sviluppo che cominceranno letteralmente a mangiarli.
Il Micromalthus debilis, un coleottero non loro parente stretto, ha
evoluto un sistema simile, con in piu un tocco macabro. Da alcune
femmine partenogenetiche nasce un unico figlio maschio; questa lar­
va resta attaccata alla cuticola della madre per quattro o cinque gior­
ni, quindi infila la testa nel suo orifizio genitale e la divora. <<Greater
love hath no woman», nessuna donna può amare di piu.
Ma perché si è evoluta una modalità riproduttiva cosi particolare?
La cosa è infatti strana anche tra gli insetti, oltre che per i nostri irri-
88 Questa idea della vita

levanti criteri percettivi. Qual è il valore adattivo di un sistema di vi­


ta cosi lontano da quello che noi intuiamo per un qualcosa di ben
progettato?
Per rispondere a queste domande procederemo con il modo di ar­
gomentare tipico degli studi sull'evoluzione: il metodo comparativo.
(Non a caso Louis Agassiz scelse, per l'edificio in cui lavoro, il nome
di Museo di zoologia comparata, nome che ha lasciato perplesse inte­
re generazioni di visitatori di Harvard.) Quello che ci serve è un og­
getto di confronto che sia geneticamente simile, ma adattato ad un
differente modo di vita. Fortunatamente il complesso ciclo vitale dei
cecidomiidi ci fornisce un'opportunità in questo senso. Non è neces­
sario confrontare la madre larvale ed asessuata con una qualche spe­
cie imparentata, di incerta affinità e somiglianza genetica; il confron­
to può essere fatto con la forma normale della stessa specie, che si al­
terna a quella asessuata ed è geneticamente identica. Quali sono le
differenze di carattere ecologico tra la forma normale, sessuata, e
quella partenogenetica?
I cecidomiidi vivono sui funghi e si nutrono degli stessi funghi,
generalmente di quelli mangerecci. L'individuo normale, mobile, ha
il ruolo di esploratore: è quello che trova il nuovo fungo. I suoi di­
scendenti, che si vengono a trovare su di una fonte di cibo sovrab­
bondante, cominciano a riprodursi asessualmente, come larve o pu­
pe, dando cosi origine alla forma «brucante>> e incapace di volare (un
solo fungo può ospitare centinaia di questi moscerini). La riprodu­
zione partenogenetica continuerà poi fino a che il cibo sarà abbon­
dante. Fornendo cibo a sufficienza e prevenendo l'affollamento, un
ricercatore riusd a produrre 250 generazioni larvali consecutive.
Quello che succede in natura è che, alla fine, del fungo non rimane
piu nulla.
H. Ulrich ed i suoi collaboratori hanno studiato la sequenza dei
cambiamenti che avvengono nella specie Micophyla speyeri in rispo­
sta ad un calo della disponibilità alimentare. Quando hanno cibo in
abbondanza, le madri partenogenetiche generano una prole intera­
mente femminile nel giro di quattro o cinque giorni. Se la disponibi­
lità di cibo diminuisce, nelle figliate compaiono anche i maschi. Se
invece le larve femmine si trovano ad essere del tutto prive di cibo
Saggezza organica 89

continuano il loro sviluppo e divengono degli insetti normali. Que­


ste relazioni hanno una base adattativa abbastanza chiara. La femmi­
na partenogenetica che non vola si ferma sul fungo e se ne nutre;
quando ha esaurito la sua risorsa di cibo produce dei discendenti ala­
ti che troveranno nuovi funghi. Siamo però ancora solo alla superfi­
cie del nostro dilemma, perché non abbiamo ancora una risposta al
nostro interrogativo centrale: perché l'insetto si riproduce cosi pre­
cocemente, quando è ancora larva o pupa e perché si autodistrugge
in un supremo sacrificio a favore dei propri figli?
Io credo che la soluzione di questo dilemma stia proprio in quel
<<cosi precocemente>>. La teoria tradizionale dell'evoluzione spiega i
vari adattamenti sulla base della diversa morfologia. Ma, in questo
caso, quale vantaggio possono trarre i cecidomiidi dei funghi dal
mantenere la morfologia giovanile nelle femmine in riproduzione:
in realtà la teoria tradizionale non trovò mai una risposta perché la
domanda era mal formulata. Nel corso degli ultimi quindici anni, il
sorgere di un'ecologia di popolazione teorica ha trasformato lo stu­
dio dei fenomeni adattativi. Gli evoluzionisti hanno imparato che
gli organismi si adattano non soltanto mediante modificazioni della
propria forma e delle proprie dimensioni, ma anche regolando i pe­
riodi della vita e l'energia impiegata nelle differenti attività (alimen­
tazione, crescita e riproduzione, per esempio). Questi adattamenti
sono chiamati <<Strategie vitali>>.
Per adattarsi ai diversi tipi di ambienti gli organismi evolvono di­
verse strategie; tra le varie teorie che mettono in rapporto l'ambien­
te con le strategie adottate quella che ha avuto piu successo è la teo­
ria della selezione <<n> e <<K>>, sviluppata alla metà degli anni sessanta
da R. H. MacArthur e E. O. Wilson.
L'immagine dell'evoluzione che viene riportata dai libri di testo e
dalla stampa non specializzata è quella di un processo di inesorabile
perfezionamento nella forma: gli animali si mettono <<in sintonia>>
con il loro ambiente attraverso la costante selezione delle forme piu
adatte. Ma ci sono diversi tipi di ambienti che provocano risposte di
altro tipo. Supponiamo che una specie viva in un ambiente che le
impone una mortalità irregolare e catastrofica (per esempio uno sta­
gno che si secca, oppure acque marine poco profonde sconvolte da
90 Questa idea della vita

violente bufere). O supponiamo che le fonti alimentari siano effime­


re e difficili da trovare, ma che una volta trovate esse siano sovrab­
bondanti. In questi casi gli organismi non possono adattarsi all' am­
biente, perché non c'è nulla di sufficientemente stabile cui adattarsi.
È molto meglio, allora, investire tutta l'energia disponibile per la ri­
produzione, producendo la prole piu numerosa possibile, in modo
che almeno una parte della discendenza sopravviva alla catastrofe. La
soluzione è quella di riprodursi in modo frenetico fino a che si ha la
disponibilità dell'incerta sorgente di cibo, perché questa non durerà
a lungo e una parte della progenie deve sopravvivere fino a trovarne
un'altra.
Definiamo r-selezione la pressione evolutiva tendente a massimiz­
zare lo sforzo riproduttivo a spese dei sottili adattamenti morfologi­
ci; gli organismi cosi adattati sono r-strateghi (<<r>> è il fattore che in­
dica il <<ritmo di incremento intrinseco della popolazione>> in una se­
rie di fondamentali equazioni in ecologia). Le specie che vivono in
ambienti stabili, le cui popolazioni hanno dimensioni vicine al mas­
simo sopportabile dall'ambiente, non hanno invece interesse a pro­
durre delle schiere di discendenti poco adattati. È molto meglio per
loro avere una prole poco numerosa ma in ottima sintonia con le
esigenze ambientali. Queste specie hanno una strategia <<K» (<<K» è
la misura della <<portata» dell'ambiente nello stesso gruppo di equa­
zioni).
Le larve partenogenetiche dei cecidomiidi vivono in un ambiente
<<r» classico. I funghi mangerecci sono pochi e lontani tra loro, ma
una volta trovati sono, per degli insetti cosi piccoli, una sorgente di
cibo molto al di sopra delle necessità. Per questo i cecidomiidi han­
no un vantaggio selettivo se sfruttano i funghi appena scoperti per
far crescere la loro popolazione nel modo piu rapido possibile. Qual
è, quindi, il sistema piu efficiente per far sorgere rapidamente una
popolazione? Sarebbe forse sufficiente che questi insetti deponessero
piu uova, o è necessario che si riproducano il piu precocemente pos­
sibile? Questo problema ha fatto scorrere fiumi di inchiostro tra gli
ecologi portati per la matematica. Nella maggior parte dei casi la
chiave per un rapido incremento è una riproduzione precoce. Spesso
Saggezza organica 91

un abbassamento del lO % dell'età della prima riproduzione ottiene


lo stesso effetto di un aumento del lOO% della fecondità.
A questo punto possiamo capire la particolare biologia della ri­
produzione dei cecidomiidi: essi non hanno fatto altro che evolvere
dei notevoli adattamenti per una riproduzione precoce e per una du­
rata estremamente breve delle generazioni. Cosi facendo, sono dive­
nuti degli esperti in strategie «r>> nel loro tipico ambiente <<r>> con ri­
sorse effimere ed occasionalmente sovrabbondanti: cosi essi si ripro­
ducono quando sono ancora allo stato !arvale e poco dopo la nascita
cominciano a far crescere dentro di loro la generazione successiva. In
Mycophila speyeri, per esempio, l'individuo r-stratega partenogeneti­
co raggiunge un unico stadio, si riproduce quando è ancora una larva
e dà origine a 38 generazioni in cinque giorni; l'adulto normale, ses­
suato, impiega invece due settimane per la crescita. Queste larve
mantengono una fenomenale capacità di aumentare le dimensioni
della popolazione: due settimane dopo la sua introduzione su un let­
to di comuni funghi mangerecci, Mycophila speyeri può raggiungere
la densità di 20.000 larve riproduttive per decimetro quadrato.
Per convincerci della validità di questa spiegazione possiamo ser­
virei ancora del metodo comparativo. Le stesse modalità di sviluppo
dei cecidomiidi sono seguite da altri insetti che abitano un gruppo di
ambienti simili. Un esempio sono gli afidi, che si nutrono della linfa
delle foglie. Per questi insetti una foglia è come un fungo per un ceci­
domiide: una grossa, effimera fonte di cibo che deve essere rapida­
mente convertita nel maggior numero possibile di afidi. La gran par­
te degli afidi alternano due forme partenogenetiche, una alata e una
priva di ali (esiste anche una forma <<svernante» sessuata che qui non
ci interessa). Come probabilmente avrete già capito, la forma priva
di ali è un mangiatore che non vola. Anche se non è una larva, man­
tiene molte caratteristiche della morfologia giovanile ed ha anche
una notevole capacità di riprodursi precocemente. In realtà lo svi­
luppo embrionale inizia nel corpo della madre prima ancora che
questa sia nata, e all'interno di una «nonna» si possono trovare due
generazioni successive, qualcosa di simile alle bamboline russe. (Gli
afidi comunque non vengono divorati dalla loro prole.) La loro ca­
pacità di aumentare rapidamente le dimensioni della popolazione è
92 Questa idea della vita

leggendaria. Se tutta la prole vivesse abbastanza per riprodursi, una


singola femmina di Aphisfabae produrrebbe in un anno una prole di
524 miliardi di afidi. Quando la foglia è consumata subentra la for­
ma alata, che si sviluppa piu lentamente. Gli afidi alati volano verso
una nuova foglia, dove la loro prole tornerà ad essere priva di ali e ri­
comincerà il loro rapido ciclo generazionale.
Quello che all'inizio sembrava cosi strano appare ora del tutto ra­
gionevole. Per certi ambienti questa può essere persino una strategia
ottimale. Dato che molti aspetti della biologia dei cecidomiidi sono
del tutto sconosciuti, questa potrebbe sembrare un'affermazione im­
prudente. Ma va sottolineata l'incredibile convergenza verso la stessa
strategia da parte di un organismo ben diverso, il coleottero Micro­
malthus debilis. Quest'ultimo vive nel legno umido e marcio e di
questo legno si nutre. Quando il legno si secca il coleottero sviluppa
una forma sessuata per andare alla ricerca di nuove fonti di nutri­
mento. La forma che risiede nel legno e vi <<pascola>> ha evoluto una
serie di adattamenti che ricalcano fin nei minimi e piu caratteristici
particolari quelli dei cecidomiidi. Anche il Micromalthus debilis si ri­
produce per partenogenesi; anche esso si riproduce in uno stadio
morfologicamente giovanile; anche in questo caso i piccoli si svilup­
pano dentro il corpo della madre e finiscono per divorarla; anche in
questo caso le madri dànno origine a figliate di tre tipi diversi: solo
femmine quando il cibo è abbondante e solo maschi o maschi e fem­
mine quando le risorse diminuiscono.
Noi uomini, con il nostro sviluppo cosi lento (si veda il saggio 7),
la nostra lunga gestazione e le figliate ridotte al minimo, siamo dei
consumati esperti in strategie <<K» e guardiamo con perplessità alle
strategie degli altri organismi, ma è certo che gli insetti dei funghi
hanno trovato una giusta soluzione per poter vivere nel loro mondo
r-selettivo.
11
Sui bambu, le cicale
e l'economia di Adam Smith

Generalmente quello che avviene in natura supera anche le piu


fantasiose tra le favole umane. La Bella Addormentata aspettò il suo
principe per cent'anni; Bettelheim sostiene che la goccia di sangue
che esce dalla puntura del dito simboleggia la prima mestruazione, e
il lungo sonno il letargo dell'adolescenza in attesa della piena maturi­
tà. Dato che la vera Bella Addormentata fu fecondata da un re e non
soltanto baciata da un principe, possiamo interpretare il suo risve­
glio come l'inizio della sua realizzazione sessuale (B. Bettelheim, The
uses ofenchantment, A. Knopf, 1976, pp. 225-236).
Nell'anno 999 fiori in Cina un bambu dal formidabile nome di
Phyllostachys bambusoides. Da allora, con infallibile regolarità, questa
pianta ha continuato a fiorire ed a mettere i semi all'incirca ogni 120
anni. Dovunque viva, il P. bambusoides segue questo ciclo. Alla fine
degli anni sessanta la varietà giapponese (a sua volta importata dalla
Cina secoli prima) fiori contemporaneamente in Giappone, Inghil­
terra, Alabama e Russia. L'analogia con la Bella Addormentata non
è azzardata, perché in questi bambu la riproduzione sessuale avviene
dopo piu di un secolo di celibato. Ma il P. bambusoides e la favola dei
fratelli Grimm divergono su due aspetti importanti; queste piante
non sono inattive durante i 120 anni di attesa, sono infatti delle gra­
minacee che si riproducono asessualmente producendo nuovi ger­
mogli dai loro rizomi sotterranei; in piu non li attende una vita feli-
94 Questa idea della vita

ce, perché dopo aver messo i semi muoiono: una lunga attesa per
una rapida fine.
L'ecologo Daniel H. Janzen dell'Università della Pennsylvania
narra la curiosa storia del Phyllostachys in un suo recente articolo,
Why bamboos wait so long to jlower (Annua! Review of Ecology and
Systematics, 1976). La gran parte delle specie di bambu hanno periodi
di crescita vegetativa piu breve, ma la contemporaneità della fioritu­
ra è una costante, e sono molto poche le specie nelle quali l'interval­
lo tra una fioritura e l'altra è inferiore ai 1 5 anni (alcune possono
aspettare anche piu di 1 50 anni; ma le documentazioni storiche sono
troppo frammentarie per permettere delle conclusioni certe).
La fioritura di una specie non è determinata dall'intervento di un
qualche fattore ambientale ma da un orologio genetico interno; la
miglior prova della veridicità di questa nostra affermazione è pro­
prio la infallibile regolarità del ciclo, dato che non si conosce alcun
fattore ambientale che si ripeta in modo tale da poter regolare con
precisione i tempi di fioritura di piu di cento specie diverse. In se­
condo luogo, come abbiamo già detto, le piante appartenenti ad una
stessa specie fioriscono simultaneamente, anche quando vengono
trapiantate in una parte del mondo opposta a quella del loro habitat
originario; infine, piante di una stessa specie fioriscono contempora­
neamente anche quando sono cresciute in ambienti molto diversi.
Janzen racconta la storia di un bambu birmano che, investito piu
volte dagli incendi della giungla, era ormai alto solo quindici centi­
metri, ma fior! contemporaneamente ai suoi compagni rimasti intat­
ti ed alti dodici metri.
Come fa il bambu a contare gli anni che passano? Janzen sostiene
che il meccanismo non può essere quello del progressivo immagazzi­
namento di riserve alimentari, perché le piante piccole e stentate fio­
riscono nello stesso momento di quelle alte e in piena salute. Egli
ipotizza che il calendario «debba essere costituito dall'accumulazio­
ne o dalla degradazione annuale o giornaliera di una sostanza chimi­
ca fotosensibile ma insensibile alla temperatura». Niente consenti­
rebbe di stabilire se i cicli di luce sono diurni (giorno-notte) o annua­
li (cioè stagionali). Come prova del fatto che la luce funziona da
marcatempo, Janzen fa notare che nessun bambu che abbia un ciclo
Bambu e cicale 95

preciso cresce entro 5 gradi di latitudine dall'equatore, perché in


questa zona le variazioni di luce, sia diurne che stagionali, sono mi­
mme.
La fioritura dei bambu ricorda un altro esempio di sorprendente
periodicità che molti conoscono bene: quello della cicala dei dicias­
sette anni. (Nonostante comunemente le cicale vengano assimilate ai
grilli, in realtà appartengono all'ordine degli omotteri, un gruppo di
insetti, prevalentemente di piccole dimensioni, che comprende afidi
e affini; mentre locuste, grilli e cavallette, appartengono all'ordine
degli ortotteri.) La storia della cicala periodica è ancora piu sorpren­
dente di quanto non creda la maggioranza della gente: per 17 anni le
ninfe di questa cicala vivono sottoterra, succhiando i succhi delle ra­
dici degli alberi in tutti i boschi della metà occidentale degli Stati
Uniti (fatta eccezione per gli stati meridionali, dove un gruppo di
specie molto simili emerge ogni 13 anni). Poi, nel giro di poche setti­
mane, milioni di crisalidi mature emergono dal terreno, divengono
individui adulti, si accoppiano, depongono le uova e muoiono. (La
migliore descrizione del ciclo vitale di questo insetto, da un punto di
vista evoluzionistico, si può trovare in una serie di articoli di M.
Lloyd e H. S. Dybas, pubblicati su Evolution nel 1966 e su Ecologica!
Monographs nel 1974.) La cosa piu eccezionale è che non una, ma tre
distinte specie di cicala periodica seguono esattamente lo stesso pro­
gramma, emergendo insieme in perfetta sincronia. Possono essere
fuori fase in un'area diversa, per esempio le popolazioni che vivono
attorno a Chicago non vengono in superficie nello stesso anno di
quelle dei New England, ma il ciclo di 17 anni (13 nel sud) è costante
in tutte le <<nidiate>>: in uno stesso posto le tre specie emergono sem­
pre insieme. Janzen arriva perciò alla conclusione che le cicale e i
bambu, a dispetto della loro distanza biologica e geografica, rappre­
sentano lo stesso problema evolutivo. Recenti studi, egli scrive, <<non
rivelano cospicue differenze qualitative tra questi insetti e i bambu
fatta eccezione forse per il modo da essi usato per contare gli anni>>.
Come evoluzionisti, noi cerchiamo di capire il perché di questi
fenomeni. Perché, in particolare, dovrebbe evolversi un sincronismo
cosi sorprendente e per quale motivo il periodo tra diversi episodi di
riproduzione sessuale dovrebbe essere cosi lungo? Come ho sostenu-
96 Questa idea della vita

to nel discutere le abitudini matricide di certe mosche (saggio 10) la


teoria della selezione naturale trova forza proprio nella sua capacità
di spiegare in modo soddisfacente fenomeni apparentemente bizzar­
ri o privi di senso.
In questo caso ci confrontiamo con un problema che va oltre
l'apparente stranezza di un tale spreco (dato che pochissimi semi
possono germogliare in un terreno cosi saturo). Il sincronismo nella
fioritura o nell'emergere delle cicale sembra ora riflettere un ordine,
un'armonia che opera a livello dell'intera specie, piuttosto che sui
singoli membri. Eppure secondo la teoria darwiniana non esiste al­
cun principio superiore che vada al di là della tendenza degli indivi­
dui a perseguire il proprio interesse, cioè ad assicurare il manteni­
mento dei propri geni nelle generazioni successive. Perciò quello che
dobbiamo chiederci è che vantaggio tragga la singola cicala o la sin­
gola pianta di bambu dallo stabilirsi di un sincronismo sessuale.
Il problema è simile a quello affrontato da Adam Smith quando
sostenne che una sfrenata politica del «laissez-faire>> era la via piu si­
cura per raggiungere l'armonia del sistema economico. L'economia
ideale, sostenne Adam Smith, apparirebbe ordinata ed equilibrata,
ma scaturirebbe «naturalmente>> dal libero gioco tra gli individui che
si limitassero a fare unicamente i propri interessi. Il fatto che il siste­
ma si diriga chiaramente verso una maggiore armonia, sostiene
Smith nella sua famosa metafora, è soltanto il risultato dell'azione di
una «mano invisibile>>: «Benché ogni singolo ... dirigendo la sua indu­
stria in modo che il suo prodotto abbia il massimo valore, si propon­
ga soltanto il massimo guadagno, egli, in questo come in molti altri
casi, è guidato da una mano invisibile a raggiungere dei fini che non
si era proposto ... Facendo i propri interessi spesso l'individuo pro­
muove quelli della società meglio di quanto intenda farlo cosciente­
mente».
Visto che Darwin per fondare la sua teoria della selezione natura­
le trapiantò Adam Smith nel mondo della natura, quello che dobbia­
mo fare è cercare una spiegazione all'armonia cui ci troviamo di
fronte nel vantaggio che questa porta ai singoli individui. Che van­
taggio ha, quindi, la singola cicala o il singolo bambu a concedersi il
sesso cosi di rado e contemporaneamente a tutti i suoi compatrioti?
Bambu e cicale 97

Per trovare una spiegazione verosimile dobbiamo renderei conto


che la biologia umana costituisce spesso un modello inapplicabile al­
lo studio delle lotte per la sopravvivenza degli altri organismi. Gli
uomini sono animali a crescita lenta. Noi consumiamo una gran
quantità di energie per crescere pochi figli che giungono a maturità
solo dopo molto tempo. Le nostre popolazioni non sono controllate
dallo sterminio della gran parte degli individui giovani. Inoltre molti
organismi seguono una diversa strategia nella <<lotta per la sopravvi­
venza>>: producono un gran numero di semi o di uova, sperando (si
fa per dire) che alcuni riescano a sopravvivere ai rigori delle prime
fasi della vita. Spesso questi organismi sono controllati dai loro pre­
datori e i meccanismi di difesa che hanno evoluto non possono che
essere strategie atte a ridurre la probabilità di essere mangiati. Sia le
cicale che i semi di bambu sembrano essere un boccone prelibato per
un gran numero di organismi.
La storia naturale è, in larga misura, la storia dei diversi adatta­
menti atti ad evitare la predazione. Alcuni organismi si nascondono,
altri assumono un sapore sgradevole, altri si muniscono di spine o
spessi gusci, altri ancora assumono l'aspetto di un <<parente>> nocivo;
la lista è praticamente senza fine, si tratta di uno degli esempi piu
sbalorditivi della varietà della natura. I semi di bambu e le cicale se­
guono una strategia insolita: non si mascherano e non si nascondo­
no, ma compaiono cosi raramente e cosi numerosi che i predatori
non riescono comunque a consumare tutta l'offerta di cibo. Tra i
biologi evolutivi, questo tipo di difesa va sotto il nome di <<appaga­
mento dei predatori>>.
Una efficiente strategia di appagamento dei predatori comprende
due adattamenti. Primo, è necessaria una perfetta sincronia nella ri­
salita o nella riproduzione, in modo da saturare realmente il merca­
to, e soltanto per un breve periodo. Secondo, questa saturazione non
può avvenire molto spesso, altrimenti i predatori finirebbero per
modificare il loro ciclo vitale sulla base dei periodi in cui il cibo è
presente in eccesso. Se i bambu fiorissero tutti gli anni, i mangiatori
di semi ne seguirebbero il ciclo schierando un'abbondante popola­
zione giovane in coincidenza con il periodo di massima offerta. Ma
se il tempo che intercorre tra due fioriture supera di molto la durata
98 Questa idea della vita

della vita dei predatori, allora nessuno può mettersi sulle tracce del
ciclo e adattarvisi (se si esclude un particolare tipo di primate che usa
scrivere la propria storia). Ora è abbastanza chiaro qual è il vantag­
gio che le singole cicale o i singoli bambu ricavano dalla sincronia:
chi si presenta fuori fase viene rapidamente inghiottito dai predatori
(accade a volte che delle cicale <<sbandate>> emergano in anni anomali,
ma vengono regolarmente spazzate via).
L'ipotesi della sazietà dei predatori, sebbene non provata, soddi­
sfa il primo requisito di una spiegazione efficace; è in grado di legare
tra loro una serie di osservazioni che altrimenti rimarrebbero scon­
nesse e, in questo caso, apparirebbero davvero strane. Sappiamo, per
esempio, che i semi di bambu piacciono ad un gran numero di ani­
mali, compresi vari vertebrati che vivono molti anni; in questo con­
testo la rarità dei cicli di fioritura piu brevi di 15 o 20 anni è ben
comprensibile. Sappiamo anche che la posa contemporanea dei semi
può arrivare a inondare l'area interessata. Janzen riporta un caso in
cui sotto la pianta madre si formò un tappeto di semi spesso 15 cen­
timetri. Nel corso di una fioritura di massa, due specie di bambu
malgasci produssero 50 chili di semi per ettaro su un'area totale di
100.000 ettari.
La sincronia delle tre specie di cicale appare particolarmente im­
pressionante se si considera che gli anni di risalita variano da luogo a
luogo, mentre le tre specie risalgono sempre assieme in una stessa
area. Ma quello che mi impressiona ancora di piu sono i tempi di
questi cicli. Perché le cicale risalgono ogni 13 o 17 anni, perché non
ci sono cicli di 12, 14, 15, 16 o 1 8 anni? Entrambi sono intervalli di
tempo abbastanza lunghi da superare il ciclo vitale di qualsiasi preda­
tore, ma si tratta anche di due numeri primi (cioè non divisibili per
numeri interi piu piccoli). Molti potenziali predatori hanno cicli vi­
tali di 2-5 anni. Tali cicli non sono disposti secondo la disponibilità
della cicala periodica (giacché si hanno troppo spesso dei picchi di
popolazione in anni di non risalita della cicala), ma questa potrebbe
comunque essere falciata ad ogni coincidere dei cicli. Consideriamo
un predatore con un ciclo di cinque anni: se la cicala emergesse ogni
15 anni, ogni sua <<fioritura» sarebbe colpita dal predatore. Con cicli
basati su un numero primo abbastanza alto, la cicala riduce al mini-
Bambu e cicale 99

mo il numero delle coincidenze (in questo caso i due cicli coincide­


ranno ogni 5 per 17, cioè 85 anni). Nessun piccolo numero potrà
coincidere spesso con il 13 e il l7, nessun ciclo breve potrà <<insegui­
re>> questi cicli lunghi.
Per la gran parte delle creature, come dice Darwin, l'esistenza è
una lotta. Non necessariamente le armi usate per sopravvivere sono
però artigli e denti; gli schemi riproduttivi possono essere mezzi al­
trettanto validi. La presenza occasionale in quantità eccessive è una
soluzione efficace. Qualche volta può essere conveniente fare le uo­
va tutte in una volta, ma bisogna essere sicuri di farne abbastanza, e
non si può farlo troppo spesso.
12
Il problema della perfezione,
ovvero come può un mollusco
applicare un pesce a una delle sue
estremità?

Nel 1802 l'arcidiacono Paley decise di rendere gloria a Dio illu­


strando gli straordinari adattamenti degli organismi ai ruoli cui era­
no stati assegnati. La perfezione meccanica dell'occhio dei vertebrati
gli ispirò un estatico discorso sulla perfezione divina; persino la fan­
tastica somiglianza di certi insetti a pezzi di sterco suscitò la sua am­
mirazione, perché Dio sembrava proteggere tutte le sue creature,
grandi e piccole. La teoria dell'evoluzione fin! per distruggere il
grande disegno dell'arcidiacono, ma qualche brandello della sua teo­
logia naturale sopravvive ancora oggi.
I moderni evoluzionisti parlano degli stessi giochi e degli stessi
giocatori, quelle che sono cambiate sono solo le regole. Adesso noi
diciamo, con la stessa meraviglia e ammirazione, che l'agente di que­
sto meraviglioso disegno è la selezione naturale. Come erede del
pensiero di Darwin, non ho dubbi in proposito. Ma la mia fede nel
potere della selezione naturale non è basata sull'esistenza di quelli
che Darwin chiamava «organi di estrema perfezione e complessità>>,
ha altre radici. Non a caso Darwin considerava l'impeccabilità di
questo disegno come un problema per la sua teoria. Ecco cosa scrisse
in merito: <<Supporre che l'occhio, con tutti i suoi inimitabili conge­
gni per la messa a fuoco su distanze diverse, per l'introduzione di di­
verse quantità di luce e per la correzione delle aberrazioni sferiche e
Il problema della perfezione 101

cromatiche, possa essere stato prodotto dalla selezione naturale mi


sembra, devo ammetterlo, il massimo dell'assurdità>>.
Nel saggio 10 mi sono rivolto agli insetti delle galle per spiegare il
problema opposto dell'adattamento: la presenza di strutture e com­
portamenti che sembrano del tutto privi di significato. Ma, nel caso
degli <<organi di estrema perfezione>>, il senso e il valore delle struttu­
re è estremamente chiaro, quello che non è facile è spiegare come
possano essersi formate. Secondo la teoria darwiniana, gli adatta­
menti complessi non compaiono d'un passo perché, se cosi fosse, la
selezione naturale verrebbe ridotta al compito puramente distrutti­
vo di eliminare gli inadatti ogni qualvolta appaiono improvvisamen­
te delle creature meglio adattate. Nel sistema di Darwin la selezione
naturale ha invece un ruolo costruttivo: essa crea gli adattamenti per
gradi, attraverso una sequenza di stadi intermedi, mettendo insieme,
in successione, elementi che sembrano avere senso solo come parti
di un prodotto finale. Ma cosa permette la costruzione di una ragio­
nevole serie di forme intermedie? Che valore può avere, per il suo
possessore, il primo minuscolo passo verso la costruzione dell'oc­
chio? Certo gli insetti che si mimetizzano come sterco sono ben pro­
tetti, ma che senso può avere assomigliare ad un escremento solo per
il 5%? A proposito di questo dilemma, i critici di Darwin dicevano
che si trattava di trovare un valore adattativo a quelli che erano <<i
primi stadi di una struttura utile>>. E Darwin respinse le critiche, cer­
cando di trovare gli stadi intermedi e specificando la loro utilità: <<La
ragione mi dice che se si potesse dimostrare che esistono vari stadi da
un occhio semplice ed imperfetto ad uno complesso e perfetto e che
ogni livello di sviluppo è utile al suo possessore ... allora la difficoltà
di credere che un occhio perfetto e complesso possa essersi formato
per selezione naturale, sebbene insuperabile per la nostra immagina­
zione, non dovrebbe piu costituire un problema per la teoria>>.
La disputa infuria ancora oggi, e gli <<organi di estrema perfezio­
ne>> sono tra gli argomenti preferiti dai moderni creazionisti.
Ogni naturalista ha il suo esempio favorito di adattamento in gra­
do di incutere timore per la sua perfezione. Il mio è quello del <<pe­
sce» trovato in diverse specie del mollusco d'acqua dolce Lampsilis.
Come la maggioranza dei bivalvi, il Lampsilis vive sommerso nei se-
102 Questa idea della vita

dimenti del fondo, con una parte della conchiglia emergente. A ca­
vallo di questa parte emergente c'è una struttura che appare in tutto
e per tutto come un piccolo pesce. Ha un corpo idrodinamico, delle
perfette pinne laterali che terminano in una coda ed anche una mac­
chia che sembra un occhio. Inoltre, che ci crediate o no, le pinne
hanno un movimento ondulatorio ritmico che imita il nuoto.
La gran parte dei molluschi libera le proprie uova direttamente
nell'acqua circostante, dove vengono fecondate ed hanno il loro svi­
luppo embrionale. Ma le femmine degli unionidi (nome tecnico dei
mitili di acqua dolce) trattengono le uova all'interno del corpo, dove
vengono fecondate dallo sperma emesso nell'acqua dai maschi che vi
si trovano. Le uova fecondate si sviluppano poi in tubi all'interno
delle branchie, formando una borsa contenente la figliata, o marsu­
pw.
Nel Lampsilis, il marsupio gonfio delle femmine gravide forma il
«corpo>> del falso pesce. Intorno al pesce, da entrambi i lati ed in mo­
do simmetrico, si trovano delle estensioni del mantello, la <<pelle>>
che racchiude le parti molli del mollusco e che di solito termina con
la conchiglia. Queste protuberanze hanno una forma elaborata e so­
no colorate in modo da dare l'immagine di un pesce, con ad una
estremità una <<coda>> ben visibile, spesso in movimento, ed all'altra
un «Occhio>>. L'innervazione di queste strutture è assicurata da un
ganglio sito all'interno del limite del mantello. Quando i lembi si
muovono ritmicamente un impulso, partendo dalla coda, procede in
avanti spingendo lungo il corpo un rigonfiamento dei lembi stessi.
Questo complesso apparato formato dal marsupio e dai lembi del
mantello ha non solo l'aspetto, ma anche i movimenti di un pesce.
Ma perché un mollusco dovrebbe montare un pesce sul bordo del
mantello? La risposta sta nell'insolita biologia della riproduzione del
Lampsilis. Le larve di unionidi per svilupparsi hanno bisogno di tra­
scorrere la prima fase della loro crescita sui pesci. Per potervisi attac­
care la maggior parte di queste larve di molluschi è dotata di due pic­
coli uncini. Quando vengono liberate dal marsupio della madre, ca­
dono sul fondo e aspettano il passaggio di un pesce. Ma le larve di
Lampsilis sono prive di questi uncini e quindi non possono attaccar­
visi per sopravvivere, devono introdursi nella bocca del pesce e cer-
Il problema della perfezione l 03

care una collocazione migliore spostandosi nelle branchie. Il falso


pesce del Lampsilis funziona come un richiamo animato, simulando
tanto la forma che il movimento dell'animale da attirare. Quando
un pesce si avvicina, il Lampsilis scarica le larve dal marsupio; alcune
di queste verranno inghiottite dal pesce e potranno cosi arrivare alle
sue branchie.
Lo stratagemma adottato dalla Cyprogenia, un genere vicino al
Lampsilis, mette in evidenza l'importanza che ha l'attirare un ospite
per questi animali. Questi mitili <<vanno a pesca>> in un modo che fu
poi reinventato dai discepoli di lzaak Walto n. Le larve si attaccano a
dei <<Vermi>> di color rosso vivo, prodotti con materiale proteico al­
l'interno del corpo della madre e vengono estrusi attraverso il sifone
esalante. Diversi osservatori riferiscono che i pesci vanno in cerca di
questi vermi e li mangiano, arrivando in molti casi a strapparli dal si­
fone della femmina mentre non ne sono ancora usciti del tutto.
Certo è difficile dubitare del significato adattativo del pesce da ri­
chiamo, ma come può essersi evoluto? Come avvenne che il marsu­
pio e i lembi del mantello si misero insieme per realizzare il loro
trucco? Ci è piu facile pensare ad un fortunato accidente o ad un di­
segno preordinato che non alla selezione naturale e ad una costruzio­
ne graduale attraverso delle forme intermedie che, almeno negli stadi
iniziali, non potevano assomigliare molto ad un pesce. Il complicato
pesce del Lampsilis è un classico esempio di un grosso dilemma del
darwinismo. Siamo in grado di trovare un valore adattativo per gli
stadi iniziali di queste strutture utili?
Il principio generale proposto dai moderni evoluzionisti per ri­
solvere questo dilemma si rifà ad un concetto che ha preso l'infelice
nome di <<preadattamento». (Dico infelice perché il termine fa pensa­
re che le specie si adattino in anticipo ad eventi imminenti della loro
storia evolutiva, mentre il significato è esattamente opposto.) Spesso
il successo di un'ipotesi scientifica è legato ad un fattore sorpresa.
Spesso le soluzioni non scaturiscono dalla diligente raccolta di nuove
informazioni nell'ambito della vecchia impostazione del problema,
ma proprio da una intelligente riformulazione del problema stesso.
Con il preadattamento, ci sbarazziamo del dilemma che riguarda la
funzione degli stadi iniziali accettando l'obiezione tradizionale e am-
l 04 Questa idea della vita

mettendo che nelle forme intermedie le funzioni siano diverse da


quelle dei loro discendenti perfezionati. L'ottima domanda: a cosa
può servire il 5 % di un occhio? è superata affermando che il posses­
sore di una simile struttura primordiale non la usa per la vista.
Ci rifaremo ora ad un esempio classico. I primi pesci erano privi
di mascelle; come è possibile che un congegno cosi complicato com­
posto di diverse ossa interconnesse, si sia evoluto dal nulla? Quel
<<dal nulla» si dimostra in realtà solo un modo di dire. Le ossa erano
presenti già nei predecessori, ma servivano ad altro, sostenevano un
arco branchiale situato subito dietro la bocca. Erano ben disegnate
per il loro ruolo respiratorio, erano state selezionate solo per questo
e non «sapevano>> nulla di una qualsiasi funzione futura. Col senno
di poi, si può dire che le ossa erano ammirevolmente preadattate a
divenire mascelle. La complicata struttura c'era già, ma veniva usata
per la respirazione anziché per la masticazione.
È possibile, allo stesso modo, che la pinna di un pesce divenga
l'arto di un animale terrestre? Nella gran parte dei pesci le pinne so­
no costituite da sottili raggi paralleli che non potrebbero sopportare
il peso di un animale sulla terra. Ma un particolare gruppo di pesci
d'acqua dolce abitanti dei fondali - nostri antenati - evolvette una
pinna con un robusto asse centrale e solo alcune diramazioni. Que­
sta struttura era ammirevolmente preadattata a divenire una zampa
terrestre, ma si era evoluta semplicemente per i suoi scopi nell'am­
biente acquatico, probabilmente per consentire all'animale di corre­
re sul fondo con rapidi movimenti dell'asse centrale.
In breve, il principio del preadattamento sostiene semplicemente
che una struttura può cambiare la sua funzione in modo radicale
senza che la sua forma cambi di molto. Possiamo superare il limbo
degli stadi intermedi ammettendo che le vecchie funzioni continui­
no ad esistere mentre se ne stanno sviluppando altre di nuove.
Ci aiuterà il preadattamento a capire come il Lampsilis arrivò ad
avere il suo pesce? Si, se saremo in grado di soddisfare due condizio­
ni: l) trovare una forma intermedia che usi almeno alcune parti del
pesce per scopi differenti; 2) identificare le altre funzioni che il pro­
to-pesce poteva assolvere al posto di quella di richiamo visivo men­
tre acquisiva gradualmente la sua fantastica rassomiglianza.
Il problema della perfezione l 05

La Ligumia nasuta, una «cugina>> del Lampsilis, pare soddisfare la


prima condizione. Le femmine gravide di questa specie non hanno i
lembi del mantello, ma possiedono delle membrane nastriformi pig­
mentate di scuro, che riempiono lo spazio vuoto tra le valve parzial­
mente aperte. La Ligumia usa queste membrane per produrre uno
strano movimento ritmico. A metà della conchiglia i margini oppo­
sti dei nastri si separano per formare un varco di diversi millimetri
di lunghezza. Attraverso questo varco il colore bianco delle parti
molli interne si staglia contro la pigmentazione scura del nastro. Al
propagarsi di un'onda di separazione lungo le membrane, il punto
bianco sembra muoversi verso il retro della conchiglia. Queste onde
possono ripetersi circa una volta ogni due secondi. Scrisse J. H.
Welsh nel numero del maggio 1969 di Natura/ History: <<La regolari­
tà del ritmo è sorprendente. Quello che attrae l'occhio umano, e for­
se anche quello del pesce, è il punto bianco che sembra muoversi
contro il fondo scuro del mollusco e del substrato in cui questo è se­
minfossato. È chiaro che potrebbe trattarsi di un richiamo per un
pesce ospite e che può essere un adattamento specializzato dal quale
si evolvette poi il piu elaborato richiamo del finto pesce>>.
Anche in questo caso abbiamo a che fare con uno stratagemma
per attirare il pesce, ma qui il meccanismo è astratto: movimento re­
golare e non mimetismo visivo. Se questo trucco funzionava mentre
i lembi del mantello si stavano evolvendo e lentamente sviluppavano
la loro rassomiglianza ad un pesce, allora non avremmo piu il pro­
blema degli stadi iniziali. Il movimento del mantello attraeva il pesce
fin dall'inizio, il lento sviluppo di una <<tecnologia alternativa>> si li­
mitò ad intensificare il processo.
La seconda condizione è soddisfatta dallo stesso Lampsilis. Anche
se nessuno ha mai negato il potere di richiamo della somiglianza visi­
va, il nostro maggior studioso di Lampsilis, L. R. Kraemer, mette in
dubbio la comune convinzione che l' <<ondeggiare>> del corpo serva
unicamente ad imitare i movimenti tipici di un pesce. Questo ondeg­
giare si sarebbe evoluto o per aerare le larve contenute nel marsupio
o per tenerle sospese nell'acqua dopo la loro emissione. D'altra par­
te, se l'ondeggiare forniva fin dall'inizio questi vantaggi la fortuita
somiglianza dei lembi del mantello con un pesce potrebbe essere un
106 Questa idea della vita

preadattamento. L'imperfetta imitazione iniziale può essere stata


perfezionata dalla selezione naturale mentre i lembi del mantello as­
solvevano ad altre importanti funzioni.
Se si vuole avere una visione scientifica delle cose il senso comune
serve a poco, perché in genere è il riflesso di pregiudizi culturali e
non di una primitiva onestà, del tipo di quella del ragazzino della fa­
vola del «re nudo>>. Il senso comune diceva ai critici di Darwin che
un graduale cambiamento della forma doveva indicare la progressiva
costruzione di una funzione. Dal momento che non potevano asse­
gnare alcun valore adattativo ai primi ed imperfetti stadi di una fun­
zione, essi sostenevano che questi primi stadi non erano mai esistiti
(e che le forme perfette erano state create tutte d'un colpo), oppure
che non si erano originati ad opera della selezione naturale. Il princi­
pio del preadattamento, che significa cambiamento funzionale nel­
l'ambito di una continuità strutturale, può risolvere questo dilem­
ma. A conclusione del suo paragrafo sull'occhio, Darwin diede un
suo acuto giudizio sul buon senso: «Quando si disse per la prima vol­
ta che il sole era immobile e che il mondo gli girava intorno il senso
comune dell'umanità dichiarò falsa questa teoria; ma, come sa ogni
filosofo, nella scienza il vecchio detto Vox populi vox Dei ha ben po­
co valore».
Parte quarta
Disegni e «punteggiature»
nella storia della vita
13
I l pentagono della vita

Quando avevo 10 anni rimasi terrorizzato da James Arness nei


panni di una vorace carota gigante in La <<COSa>> da un altro mondo
( 1951). Pochi mesi fa, piu vecchio, piu saggio e un po' annoiato, ho
rivisto questo film in televisione ed ho provato un forte senso di col­
lera. L'ho visto come un documento politico, nel quale si ritrovano i
peggiori sentimenti dell'America della guerra fredda: c'è l'eroe, un
militare tutto d'un pezzo che pensa solo a come annientare il nemi­
co; il cattivo, uno scienziato ingenuamente liberale che vorrebbe ca­
pire meglio chi è questo nemico; la <<cosa» ed il suo disco volante,
una chiara metafora del pericolo rosso; ci sono, infine, le parole con­
clusive del film, un appassionato appello di un giornalista: <<attenzio­
ne al cielo; dovunque, scrutate il cielo», un incitamento alla paura e
allo sciovinismo.
Pensando a tutto ciò mi venne in mente per analogia una conside­
razione di carattere scientifico dalla quale è scaturito poi questo sag­
gio: le categorie tassonomiche, che vengono spacciate per assolute,
sono in realtà qualcosa di sfumato e relativo. Siamo soliti dire che il
mondo è abitato da animali che possiedono un linguaggio concettua­
le (noi) e da animali che ne sono privi (tutti gli altri); ma ora ci tro­
viamo di fronte a scimpanzé che parlano (si veda il saggio 5). Si dice
che tutte le creature debbano essere piante o animali, ma Arness, nel
1 1O Questa idea della vita

suo ruolo di vegetale gigante e mobile, appariva alquanto umano,


pur se terrificante.
O piante o animali. La nostra concezione delle differenze tra gli
esseri viventi è basata su questa divisione. Eppure si tratta di poco
piu di un pregiudizio, frutto della nostra condizione di grossi anima­
li terrestri. È chiaro che una volta definiti piante i funghi perché so­
no dotati di radici (nonostante non abbiano fotosintesi) non sarà dif­
ficile classificare i macroscopici organismi che ci circondano. Se fos­
simo piccole creature fluttuanti nel plancton oceanico, però, non
avremmo introdotto una simile divisione. A livello unicellulare le
ambiguità abbondano: ci sono <<animali>> mobili con cloroplasti fun­
zionanti, ci sono cellule semplici come i batteri che sono prive di
chiare parentele con qualsiasi altro gruppo.
I tassonomi hanno codificato il nostro pregiudizio riconoscendo
l'esistenza di due soli regni all'interno del mondo vivente: Plantae e
Animalia. Chi legge potrà forse pensare che una classificazione ina­
deguata sia un problema insignificante; dopo tutto, cosa importa se
le nostre categorie di base non esprimono adeguatamente tutta la ric­
chezza e la complessità del mondo vivente, quando siamo comunque
in grado di definire accuratamente i vari organismi? Il fatto è che
una classificazione non è un neutrale attaccapanni, ma l'espressione
di una teoria sulle parentele che si riflette nei nostri concetti. Il siste­
ma di divisione in piante ed animali, come un letto di Procuste, ha
distorto la nostra visione della vita e ci ha impedito di comprendere
alcuni dei piu importanti passaggi della sua storia.
Diversi anni fa, l'ecologo R. H. Whittaker della Cornell Univer­
sity propose un sistema di divisione del mondo vivente in cinque re­
gni (Science, 10 gennaio 1969); recentemente questo schema è stato
difeso ed ulteriormente sviluppato da Lynn Margulis, biologa della
Boston University (Evolutionary Biology, 1974). La loro critica alla
dicotomia tradizionale comincia dagli organismi unicellulari.
L'antropocentrismo ha uno spettro di conseguenze eccezional­
mente ampio, che va dalle estrazioni minerarie sconsiderate allo ster­
minio delle balene; nella pratica tassonomica esso ci porta a fare di­
stinzioni sottili tra le creature a noi vicine e distinzioni molto ap­
prossimative tra gli organismi ,,semplici>> e piu lontani da noi. Per
Il pentagono della vita 111

definire un nuovo tipo di mammifero è sufficiente l a scoperta d i una


nuova protuberanza su di un dente, mentre c'è la tendenza a mettere
tutte le forme unicellulari sullo stesso piano, come organismi «pri­
mitivi>>. Ciò nonostante, oggi gli specialisti sostengono che la piu im­
portante distinzione all'interno del mondo vivente non è quella tra
le forme «piu elevate>> di piante ed animali, ma quella che divide in
due gli organismi unicellulari: batteri ed alghe azzurre da una parte,
gli altri gruppi di alghe e i protozoi (amebe, parameci, ecc.) dall'al­
tra. E nessuno dei due gruppi, cosi come sostenevano Whittaker e
Margulis, può entrare a far parte del regno delle piante o di quello
degli animali; dobbiamo cosi introdurre due nuovi regni per gli or­
ganismi unicellulari.
I batteri e le alghe azzurre mancano delle strutture interne o <<Or­
ganelli>> delle cellule superiori. Non hanno nucleo, cromosomi, clo­
roplasti o mitocondri (le <<fabbriche di energia>> delle cellule superio­
ri). Queste cellule semplici sono dette <<procariotiche>> (che significa,
grossomodo, prima del nucleo, dal greco karyon, che vuoi dire noc­
ciolo). Le cellule dotate di organelli sono invece definite <<eucarioti­
che>> (realmente nucleate). Whittaker considera questa distinzione
come <<la divisione piu chiara e realmente netta dei livelli di organiz­
zazione del mondo vivente>>. Tre distinti argomenti sostengono la
validità di questa divisione:
l. La storia dei procarioti. Le piu antiche prove dell'esistenza del­
la vita si trovano in rocce vecchie di circa tre miliardi di anni. Sulla
base di tutte le testimonianze fossili disponibili possiamo dire che da
allora ad almeno un miliardo di anni fa sono esistiti soltanto organi­
smi procarioti. Per due miliardi di anni i tappeti di alghe azzurre fu­
rono le piu complicate forme di vita esistenti sulla Terra. Su quanto
è successo dopo le opinioni sono contrastanti. Il paleobotanico J. W.
Schopf crede di avere le prove dell'esistenza delle alghe eucariotiche
in rocce australiane vecchie di circa un miliardo di anni. Altri sosten­
gono che gli organelli di Schopf sono in realtà prodotti di degrada­
zione post mortem di cellule procariotiche; se cosi fosse, le prime
prove dell'esistenza degli eucarioti comparirebbero solo nell'ultimo
Precambriano, immediatamente prima dell' <<esplosione>> cambriana
di 600 milioni di anni fa (si vedano i saggi 14 e 15). In ogni caso, gli
1 12 Questa idea della vita

organismi procarioti dominarono da soli la Terra per un periodo


che va dai due terzi ai cinque sesti della storia della vita. Con piena
ragione, Schopf denominò il Precambriano «età delle alghe azzurre>>.
2. Una teoria sull'origine della cellula eucariote. Ha suscitato
molto interesse, negli ultimi anni, il recupero in chiave moderna di
una vecchia teoria, ad opera di Margulis. Si tratta di un'idea che all'i­
nizio sembra del tutto assurda, ma che finisce poi per attirare l' atten­
zione, se non il consenso. Personalmente sono convinto della sua va­
lidità. Margulis sostiene che le cellule eucariotiche sorsero da una co­
lonia di procarioti; cosi, per fare un esempio, il nostro nucleo ed i
nostri mitocondri sarebbero stati originariamente degli organismi
procarioti indipendenti. Alcuni moderni procarioti possono invade­
re le cellule eucariote e vivere al loro interno come simbionti; la
gran parte delle cellule procariote ha piu o meno le stesse dimensioni
degli organelli eucarioti; i cloroplasti degli eucarioti fotosintetici so­
no straordinariamente simili alle cellule intere di alcune alghe azzur­
re; infine, alcuni di questi organelli hanno dei propri geni che si re­
plicano indipendentemente, residuo della loro antica condizione di
organismi autonomi.
3. Il significato evolutivo della cellula eucariote. I sostenitori della
contraccezione hanno la biologia decisamente dalla loro parte quan­
do sostengono che il sesso e la riproduzione hanno fini diversi. La ri­
produzione serve a propagare la specie, e per far questo non c'è me­
todo piu efficiente della gemmazione e della scissione impiegate dai
procarioti. La funzione biologica del sesso è, invece, quella di pro­
muovere la variabilità mescolando i geni di due (o piu) individui.
(Normalmente il sesso è abbinato alla riproduzione perché cosi la
mescolanza dei geni viene realizzata nella prole.)
Nessun grosso cambiamento evolutivo è possibile se gli individui
non possiedono una buona riserva di variabilità genetica. Il processo
creativo della selezione naturale opera conservando le varianti piu
favorevoli all'interno di un piu vasto pool genico. I meccanismi ses­
suali possono originare delle variazioni già su questa scala, ma un'ef­
ficiente riproduzione sessuale richiede l'aggregazione del materiale
genetico in unità discrete (cromosomi). Cosi, negli eucarioti i gameti
hanno la metà dei cromosomi contenuti nelle normali cellule soma-
Il pentagono della vita 1 13

tiche; il normale quantitativo di materiale genetico viene poi ristabi­


lito quando due cellule sessuali si uniscono per produrre uno zigote.
Tra i procarioti, invece, il sesso è poco frequente ed inefficiente (è
unidirezionale, perché comporta il trasferimento di alcuni geni da
una cellula donatrice ad una ricettrice).
La riproduzione asessuale produce copie identiche delle cellule
parentali, a meno che non intervenga una nuova mutazione a deter­
minare un qualche cambiamento. Ma una nuova mutazione è un fat­
to raro e le specie asessuate mancano cosi della variabilità necessaria
per significativi cambiamenti evolutivi. Per due miliardi di anni i
tappeti di alghe rimasero tappeti di alghe. Ma con le cellule eucario­
tiche la riproduzione sessuale assunse un'importanza fondamentale,
e meno di un miliardo di anni dopo, eccoci qui: uomini, scarafaggi,
cavallucci marini, petunie e quahog''.
In breve, per riconoscere la differenza tra gli organismi unicellu­
lari procarioti ed eucarioti è necessario adottare la piu avanzata clas­
sificazione tassonomica esistente. Questa sancisce l'esistenza di due
distinti regni tra gli organismi unicellulari: Monera per i procarioti
(batteri ed alghe azzurre), Protista per gli eucarioti.
Tra gli organismi pluricellulari, i regni Plantae e Animalia con­
servano il loro valore originario. E il quinto regno? Prendiamo in
esame i funghi. La nostra ferrea dicotomia li costringeva nel regno
Plantae, probabilmente perché sono fissi in un certo luogo. Ma la lo­
ro somiglianza con le piante vere e proprie si ferma a questa ingan­
nevole caratteristica. I funghi superiori possiedono un sistema di vasi
apparentemente simile a quello delle piante; ma, mentre nelle piante
vi scorrono le sostanze nutritive, nei vasi dei funghi a scorrere è il
protoplasma stesso. Molti funghi si riproducono riunendo nuclei di
diversi individui in un tessuto multinucleato senza che avvenga la fu­
sione nucleare. La lista potrebbe allungarsi, ma l'importanza di que­
ste voci diviene relativa se si considera un dato fondamentale: i fun­
ghi non hanno fotosintesi. Essi vivono immersi nella loro fonte di
cibo e si nutrono per assorbimento (spesso secernendo degli enzimi

•>
Mollusco che si trova nelle acque tra il Maine e la Florida (n.d.t.).
1 14 Questa idea della vita

per la digestione esterna). I funghi, quindi, formano il quinto ed ulti­


mo regno.
Come dice lo stesso Whittaker, i tre regni della vita pluricellulare
rappresentano una classificazione ecologica oltreché morfologica. I
tre modi principali di condurre l'esistenza nel nostro mondo sono
ben rappresentati dalle piante (produzione), dai funghi (degradazio­
ne) e dagli animali (consumo). E mi affretto a sottolineare, piantan­
do con ciò un altro chiodo nella bara della nostra presunzione, che il
ciclo vitale maggiore è quello che lega la produzione e la degradazio­
ne. Il mondo potrebbe benissimo fare a meno dei consumatori.
Mi piace il sistema dei cinque regni perché consente una lettura
ragionevole della diversità organica. Le forme di vita sono disposte
in tre livelli di crescente complessità: gli unicellulari procarioti (Ma­
nera), gli unicellulari eucarioti (Protista) e gli eucarioti pluricellulari
(Plantae, Fungi e A nimalia). Inoltre, andando verso i livelli piu alti
troviamo una maggior varietà di esseri viventi, come era logico
aspettarsi dato che un'aumentata complessità delle forme consente
maggiori possibilità di variazioni. Tra i protisti i tipi chiaramente di­
stinguibili tra loro sono piu numerosi di quelli identificabili nel re­
gno Monera. Al terzo livello la diversità è cosi grande che, per com­
prendere tutte le forme di vita che vi si trovano, abbiamo bisogno di
tre diversi regni. Infine, noto che il passaggio evolutivo da un livello
a quello successivo avviene con una certa frequenza; i vantaggi del­
l'aumentata complessità sono tali che molte linee evolutive differen­
ti convergono sulle poche soluzioni possibili. I membri di ogni re­
gno hanno in comune la struttura, ma non le origini. Secondo Whit­
taker, le piante si evolvettero dai loro progenitori protisti, in almeno
quattro circostanze separate, i funghi almeno cinque volte e gli ani­
mali almeno tre volte (ne sono testimonianza i bizzarri mesozoi, le
spugne e tutti gli altri).
A prima vista, il sistema dei cinque regni e tre livelli potrebbe
sembrare una conferma dell'esistenza di un inesorabile progresso
nella storia della vita. L'aumento della diversità e i ripetuti passaggi
di livello sembrano riflettere un preciso ed inevitabile cammino ver­
so le forme superiori. Ma la documentazione paleontologica non so­
stiene affatto una simile interpretazione. Non c'è stato alcun pro-
Il pentagono della vita 1 15

gresso lineare verso un superiore sviluppo del disegno organico. Al


contrario, abbiamo avuto dei lunghi periodi durante i quali non c'è
stato alcun cambiamento o ce ne sono stati pochissimi e un'esplosio­
ne evolutiva che ha dato origine all'intero sistema. Per i primi due
terzi o cinque sesti della storia della vita i procarioti hanno abitato la
Terra da soli, e niente fa pensare che ci sia stato un continuo pro­
gresso tra procarioti «inferiori>> e <<superiori>>. Allo stesso modo, da
quando l'esplosione del Cambriano ha riempito la nostra biosfera
non c'è stata l'aggiunta di alcuno schema fondamentale (anche se
possiamo provare che all'interno di alcuni di questi schemi ci sono
stati dei limitati miglioramenti, di cui sono un esempio i vertebrati e
le cormofite).
Piuttosto, possiamo dire che l'intero sistema sorse in quel 10%
della storia della vita che circonda l'esplosione cambriana circa 600
milioni di anni fa. Io direi che gli eventi principali sono stati due: l'e­
voluzione della cellula eucariote (che attraverso una efficiente ripro­
duzione sessuale ha consentito di raggiungere la variabilità genetica
necessaria a costruire il massimo di variabilità possibile) e il <<riempi­
mento della botte ecologica>> con un'esplosiva diffusione di eucarioti
pluricellulari.
Prima di allora il mondo vivente era tranquillo e relativamente
tranquillo è stato anche da allora in poi. Il recente svilupparsi della
coscienza deve essere visto come l'avvenimento piu sconvolgente dal
Cambriano in poi se non altro per i suoi effetti geologici ed ecologi­
ci. Eventi evolutivi piu importanti possono avvenire senza che deb­
bano essere introdotti nuovi schemi. Gli eucarioti, grazie alla loro
flessibilità, continueranno a produrre novità e diversità fino a che
uno dei loro prodotti piu recenti si controllerà abbastanza per con­
sentire al mondo di continuare ad esistere.
14
Un eroe uni cellulare
dimenticato

Ernst Haeckel, colui che piu di tutti ha contribuito a divulgare in


Germania la teoria dell'evoluzione, amava coniare nuove parole. La
stragrande maggioranza delle sue creazioni scomparve con lui mezzo
secolo fa, ma tra quelle che sono sopravvissute ci sono «Ontogenesi>>,
,<filogenesi>> ed <<ecologia>>. Quest'ultima sta oggi andando incontro
ad un destino opposto: la perdita di significato per un uso largamen­
te inflazionato ed improprio. Il linguaggio corrente minaccia di fare
di <<ecologia>> ed «ecologico>> delle etichette per tutto quello che c'è di
buono lontano dalle città o per ogni cosa priva di composti chimici
sintetici. Nella sua accezione piu ristretta, piu tecnica, l'ecologia è lo
studio della diversità delle forme viventi. Si occupa delle interazioni
tra gli or�anismi e il loro ambiente nel tentativo di rispondere a
quella che si può considerare la domanda piu importante della biolo­
gia dell'evoluzione: <<Perché esistono cosi tanti tipi di esseri viven-
.
ti.,>>.
Durante il primo secolo di vita del darwinismo, gli ecologi hanno
ottenuto dei risultati piuttosto scarsi nei loro tentativi di rispondere
a questa domanda. Di fronte all'imponente complessità della vita,
scelsero il metodo empirico ed ammassarono enormi quantità di dati
su semplici sistemi di aree ben definite. Ora, a circa venti anni di di­
stanza dal centenario dell' Origine delle specie di Darwin, questa cene­
rentola delle discipline evolutive ha conquistato un ruolo guida. Sul-
Un eroe unicellulare dimenticato 1 17

la spinta degli sforzi di ricercatori con una certa propensione alla


matematica, gli ecologi hanno costruito dei modelli teorici per le in­
terazioni tra gli esseri viventi e li hanno applicati con successo nel­
l'interpretazione dei dati raccolti sul campo. Stiamo cosi finalmente
cominciando a capire (ed a quantificare) le cause della diversità delle
forme di vita.
L'ecologia teorica, che lavora nella piu ridotta delle dimensioni
temporali, quella del tempo «ecologico>> (interazioni organiche nel
corso di stagioni o tutt'al piu di anni), ha cominciato ad influenzare
la paleontologia, custode della piu estesa di tutte le dimensioni tem­
porali: quella dei tre miliardi di anni della storia della vita. Nel sag­
gio 16 spiegherò come una teoria ecologica che mette in relazione la
diversità organica con l'area abitabile possa aver risolto il mistero
dell'estinzione del Permiano. Qui mi propongo di dimostrare come
un'altra teoria ecologica, quella che tratta del rapporto tra diversità e
predazione, può fornire una traccia utile a risolvere il secondo gran­
de dilemma della paleontologia: !'<<esplosione>> di vita avvenuta du­
rante il Cambriano.
Circa 600 milioni di anni fa, nel breve arco di pochi milioni di
anni all'inizio di quello che i geologi chiamano periodo Cambriano,
comparve la maggior parte dei principali phyla degli invertebrati.
Che cosa era accaduto durante i precedenti quattro miliardi di anni
di storia della Terra? Quali condizioni si crearono sulla Terra all'ini­
zio del Cambriano perché potesse verificarsi una attività evolutiva
cosi esplosiva?
Queste domande hanno tormentato i paleontologi da quando,
piu di un secolo fa, trionfò la concezione evoluzionistica. Anche se
le rapide «fiammate» evolutive e le massicce oncl,ate di estinzione
non sono in contrasto con la teoria darwiniana, un ben radicato pre­
concetto del pensiero occidentale fa in modo che ci si aspettino cam­
biamenti continui e graduali; come proclamavano gli antichi natura­
listi, natura non facit saltus.
L'esplosione cambriana disturbava a tal punto Darwin da spin­
gerlo a scrivere, nell'ultima edizione della sua Origine delle specie:
«Attualmente il caso rimane irrisolto; ed esso può effettivamente es­
sere presentato come valido argomento contro le tesi che abbiamo
1 18 Questa idea della vita

qui preso in considerazione». Certo ai tempi di Darwin la situazione


era ben peggiore. A quei tempi non era ancora stato trovato alcun
fossile del Precambriano e la prova piu antica di una qualsiasi vita
sulla Terra era fornita dalla esplosione di invertebrati complessi av­
venuta nel Cambriano. Se cosi tante forme di vita sorsero contem­
poraneamente e con una simile complessità iniziale, chi può impe­
dirci di pensare che Dio avesse scelto l'inizio del Cambriano per il
momento (o i sei giorni) della sua creazione?
Oggi la difficoltà cui si trovò di fronte Darwin è stata parzial­
mente superata. Abbiamo ora testimonianze di vita precambriana
che arrivano fino a piu di tre miliardi di anni orsono. In diversi luo­
ghi sono stati recuperati batteri ed alghe azzurre all'interno di rocce
datate tra i due e i tre miliardi di anni.
Ciò nonostante, questi eccitanti ritrovamenti di paleontologia del
Precambriano non risolvono il problema dell'esplosione cambriana,
perché riv,uardano solo i batteri e le alghe azzurre (si veda il saggio
13), e qualche vegetale superiore come le alghe verdi. L'evoluzione
dei metazoi complessi (cioè degli animali pluricellulari) continua ad
apparire come un fenomeno improvviso. (Un esempio unico di fau­
na precambriana è stato trovato a Ediacara in Australia. Vi si trova­
no forme affini ai moderni coralli a ventaglio, meduse, creature ver­
miformi, artropodi e due forme enigmatiche che non assomigliano a
niente che viva attualmente. Tuttavia le rocce di Ediacara stanno
proprio sotto la base del Cambriano e si possono dire precambriane
solo per uno strettissimo margine. Alcuni isolati ritrovamenti in al­
tre aree sono, allo stesso modo, precambriani solo approssimativa­
mente.) Anzi, ammesso che sia possibile, il problema è peggiorato,
perché l'esame approfondito di un crescente numero di rocce pre­
cambriane sta distruggendo la vecchia e diffusa tesi secondo la quale i
metazoi complessi realmente sarebbero in quelle rocce solo che non
li abbiamo ancora trovati.
Gli ultimi cento anni di discussioni hanno prodotto solo due fon­
damentali strategie per una spiegazione scientifica dell'esplosione del
Cambriano.
Primo, noi possiamo sostenere che in realtà l'esplosione sia solo
apparente. In realtà l'evoluzione sarebbe stata lenta e graduale, pro-
Un eroe unicellulare dimenticato 1 19

prio come ci impongono di pensare i nostri preconcetti occidentali.


La cosiddetta esplosione rappresenterebbe solo la prima comparsa
nella documentazione fossile di creature che avevano vissuto e si era­
no svilupnate per lunga parte del Precambriano. Ma che cosa avreb­
be impedito la fossilizzazione di una fauna cosi ricca? Abbiamo una
varietà di proposte che vanno dalle piu assurde alle piu plausibili.
Per citarne solo alcune:
l. Il Cambriano è il primo caso di rocce che si sono conservate
inalterate. I sedimenti precambriani sono stati sottoposti ad un tal
calore ed hanno subito tali pressioni che i loro resti fossili sono stati
cancellati. È provato senza alcun dubbio che tutto ciò è falso.
2. La vita si sviluppò nei laghi. L'esplosione cambriana rappresen­
ta la migrazione di questa fauna nel mare.
3. Tutti i primi metazoi avevano corpi molli. Il Cambriano rap­
presenta l'evoluzione di parti dure fossilizzabili.
La popolarità di questa prima strategia è crollata con la scoperta
di abbondanti depositi fossili precambriani privi di qualsiasi organi­
smo piu complesso di un'alga. Tuttavia, la spiegazione basata sulla
mancanza di parti dure, anche se non ci fornisce una risposta com­
pleta, contiene probabilmente una parte di verità. Un mollusco non
può vivere senza una conchiglia, e per costruirne una non è suffi­
ciente ricoprire un qualsiasi organismo a corpo molle. È chiaro che
le delicate branchie e la complessa muscolatura si evolvettero in as­
sociazione con un rivestimento esterno duro. L'evoluzione delle
parti dure richiede spesso la simultanea e complessa modificazione
dell'organismo che le acquisisce, qualsiasi esso sia; la loro improvvisa
comparsa nel Cambriano implica, quindi, un'evoluzione davvero ra­
pida degli animali che vengono ad esserne ricoperti.
In secondo luogo, possiamo sostenere che l'esplosione cambriana
sia un evento reale di evoluzione estremamente rapida della com­
plessità degli esseri viventi. Ma, perché possa esserci stata una cosi ra­
pida fiammata evolutiva, deve essere successo qualcosa all'ambiente
dei semplici precursori a corpo molle dei metazoi del Cambriano.
Le possibilità alternative sono soltanto due: cambiamenti dell'am­
biente fisico o cambiamenti dell'ambiente biologico.
Nel 1965 due fisici di Dallas, Lloyd V. Berkner e Lauriston C.
120 Questa idea della vita

Marshall, pubblicarono un famoso articolo proponendo che i livelli


di ossigeno dell'atmosfera avessero esercitato un diretto controllo fi­
sico sull'esplosione della vita avvenuta nel Cambriano. I geologi
concordano sul fatto che nell'atmosfera terrestre originaria l'ossige­
no libero era poco o mancava del tutto. L'ossigeno aumentò gradual­
mente come conseguenza dell'attività fotosintetica delle alghe pre­
cambriane. I metazoi hanno bisogno di elevate concentrazioni di os­
sigeno libero per due ragioni: direttamente, per la respirazione; indi­
rettamente, perché l'ossigeno, sotto forma di ozono, assorbe le dan­
nose radiazioni ultraviolette negli strati alti dell'atmosfera prima che
queste raggiungano gli esseri viventi sulla superficie terrestre. Berk­
ner e Marshall proposero semplicemente che l'inizio del Cambriano
segnasse it primo momento in cui l'ossigeno atmosferico aveva rag­
giunto una concentrazione sufficiente per la respirazione e la difesa
dalle radiazioni dannose.
Ma questa attraente teoria è caduta sul terreno delle prove geolo­
giche. È probabile, infatti, che organismi fotosintetizzatori abbon­
dassero già piu di due miliardi e mezzo di anni fa. È forse ragionevo­
le pensare che siano stati necessari circa due miliardi di anni per lo
sviluppo dell'ossigeno sufficiente alla respirazione? In piu, molti
estesi depositi di età comprese tra uno e due miliardi di anni conten­
gono notevoli volumi di rocce fortemente ossidate.
L'ipotesi di Berkner e Marshall è l'espressione di un atteggiamen­
to troppo diffuso tra i non biologi: essi non si rendono sufficiente­
mente conto della complessità degli organismi viventi, complessità
che rende impossibile il paragonarli ad una macchina.
Spesso i modelli fisici si riferiscono ad oggetti inerti, semplici co­
me palle da biliardo, che rispondono in modo automatico all'azione
delle forze fisiche, ma non si può far muovere un organismo vivente
con la ste�sa facilità e certamente la sua evoluzione non è automati­
ca. L'ipotesi di Berkner e Marshall si ricollega a questa concezione
meccanicistica che io definisco «fisicismo>>: non appena rimosso l'o­
stacolo fi�ico alla loro esistenza i metazoi si sarebbero evoluti auto­
maticamente. In ogni caso, la presenza di sufficienti quantità di ossi­
geno non garantisce l'evoluzione immediata degli organismi in gra­
do di resyirarlo; l'ossigeno è condizione necessaria, ma purtroppo
Un eroe unicellulare dimenticato 121

insufficiente per l'evoluzione dei metazoi. In realtà è probabile che


ci fosse giJ. abbastanza ossigeno un miliardo di anni prima dell'esplo­
sione cambriana e forse quelli che dovremmo prendere in considera­
zione con maggiore attenzione sono i fattori biologici.
Steven M. Stanley della Johns Hopkins University ha sostenuto
che uno di questi fattori biologici, e forse il piu importante, potreb­
be essere desunto da un fondamentale concetto dell'ecologia, il
«principio dell'utilizzazione>> (Proceedings ofthe National Academy of
Sciences, 1973). Il grande geologo Charles Lyell affermò che un'ipo­
tesi scientifica è elegante e stimolante nella misura in cui contraddice
l'opinione comune. Il principio dell'utilizzazione è appunto un con­
cetto che va contro il normale modo di pensare. Nel considerare le
possibili cause della diversità organica, potremmo attenderci che
l'introduzione di un nuovo consumatore (erbivoro o carnivoro) in
un ecosistema riduca il numero delle specie presenti in una data area:
dopo tutto, se un consumatore si nutre in un'area precedentemente
vergine, dovrebbe ridimensionarne la diversità biologica e far sparire
del tutto alcune delle specie piu rare.
Lo studio della distribuzione degli organismi nell'ambiente fa
pensare invece che le cose vadano in modo completamente diverso:
nelle comunità di produttori primari (che ricavano il proprio nutri­
mento dalla fotosintesi e non si nutrono di altri organismi) prevalgo­
no in genere una o poche specie che monopolizzano lo spazio dispo­
nibile; tali comunità possono avere un'enorme biomassa, ma di soli­
to presentano un ridotto numero di specie. Ora, in un sistema di
questo tipo, un consumatore tende a nutrirsi delle specie presenti in
abbondanza, ridimensionandole e, di conseguenza, liberando spazio
per altre specie. Un eterotrofo ben evoluto può decimare la sua spe­
cie preferita, ma non la distrugge (se lo facesse potrebbe ridursi a
mangiare individui della sua stessa specie in un'eventuale carestia).
Un ecosistema ben utilizzato è diversificato al massimo, le specie so­
no molte e rappresentate ciascuna da relativamente pochi individui.
Perciò, al contrario di quanto si potrebbe immaginare, l'introduzio­
ne di un nuovo livello della piramide ecologica tende ad espandere il
livello sottostante.
Il principio dell'utilizzazione è convalidato da diversi studi sul
122 Questa idea della vita

campo: un pesce predatore introdotto in uno stagno artificiale causa


un incremento nella diversità dello zooplancton; la rimozione dei
ricci di mare da una comunità di alghe porta alla dominanza di una
singola specie.
Consideriamo la comunità di alghe del Precambriano, che era im­
mutata da uno o due miliardi di anni. Era composta soltanto da sem­
plici produttori primari. Non era utilizzata da nessuno e, proprio
per questo, era biologicamente «monotona>>. Si era evoluta con
straordinaria lentezza e non raggiunse mai una grande varietà perché
lo spazio fisico era strettamente monopolizzato da poche specie pre­
senti in abbondanza. La chiave per capire l'esplosione cambriana, so­
stiene Stanley, è l'evoluzione di eterotrofi erbivori, protisti unicellu­
lari che si nutrivano di altre cellule. Gli eterotrofi crearono le condi­
zioni per una maggiore diversificazione dei produttori, e questa au­
mentata diversità consenti l'evoluzione di predatori maggiormente
specializzati. La piramide ecologica si dilatò improvvisamente in en­
trambe le direzioni, con l'aggiunta di nuove specie ai livelli inferiori
della produzione e l'aggiunta di nuovi livelli di eterotrofi carnivori
al suo apice.
Com'è possibile provare un'affermazione simile? Probabilmente
il protista predatore originario, quello che è forse l'eroe sconosciuto
della storia della vita, non sub! il processo di fossilizzazione, ma c'è
comunque qualche prova indiretta che può essere indicativa. Delle
piu numerose comunità di produttori del Precambriano sono rima­
sti gli stromatoliti (tappeti di alghe azzurre che legano ed avvolgono
il sedimento). Oggi gli stromatoliti prosperano solo in ambienti
molto ostili, quasi del tutto privi di metazoi predatori (laghi ipersali­
ni, per esempio). Peter Garrett ha scoperto che questi tappeti di al­
ghe persistono negli ambienti marini piu comuni solo quando questi
siano privati artificialmente dei predatori. Probabilmente se nel Pre­
cambriano erano cos! abbondanti il motivo era proprio l'assenza dei
predatori.
La teoria di Stanley non è frutto di un lavoro empirico sulle co­
munità del Precambriano, si tratta di un ragionamento deduttivo ba­
sato su un consolidato principio di ecologia che non contrasta con
alcuna realtà del mondo precambriano e pare inoltre trovare riscon-
Un eroe unicellulare dimenticato 123
\
\
tro in alcune osservazioni. Con franchezza, in un paragrafo conclu­
sivo, Stanley espone quattro ragioni per accettare la sua teoria: l.
«Essa sembra in accordo con i dati disponibili sulla vita del Precam­
briano>>; 2. «È semplice, anziché complessa e macchinosa>>; 3. «È pu­
ramente biologica, e fa a meno di invocare fattori esterni ad hoc»; 4.
«È , in larga misura, frutto di deduzioni dirette da un principio di
ecologia comunemente accettato>>.
Giustificazioni simili sono in contraddizione con l'idea semplici­
stica del progresso scientifico che viene insegnata nella gran parte
delle scuole superiori e diffusa dalla maggior parte dei mezzi di co­
municazione di massa. Stanley non si appella a delle prove, non esi­
bisce nuove informazioni, frutto di rigorosi esperimenti; il secondo
motivo che porta a giustificazione della sua teoria è un argomento
metodologico, il terzo una scelta filosofica, il quarto l'applicazione
di una teoria preesistente. Solo il primo motivo fa riferimento ai dati
sul Precambriano, limitandosi alla poco rilevante constatazione che
la sua teoria <<rende conto>> di quello che si sa sulla vita in quel perio­
do (cosa che vale anche per molte altre teorie).
Ma il pensiero creativo nelle scienze è proprio questo, non mec­
canica raccolta dei dati e induzione di teorie, ma processo complesso
in cui sono in gioco l'intuizione, i pregiudizi e i suggerimenti prove­
nienti da altre discipline. La scienza, nei suoi aspetti migliori, privile­
gia l'umana capacità di valutazione e l'onestà intellettuale rispetto a
tutti i suoi metodi; dopo tutto (anche se talvolta ce lo dimentichia­
mo) a farla sono degli esseri umani.
15
L'esplosione cambriana è una
crescita sigmoide?

Roderick Murchison, spinto da sua moglie, abbandonò le gioie


della caccia alla volpe per i piu sublimi piaceri della ricerca scientifi­
ca. Questo geologo aristocratico dedicò molta parte della sua secon­
da carriera allo studio delle prime fasi della vita. Scopri cosi che il
primo popolamento degli oceani non avvenne gradualmente per ag­
giunte successive di forme di vita via via piu complesse. La maggior
parte dei gruppi piu importanti sembrava, invece, spuntare contem­
poraneamente in quella che oggi i geologi chiamano la base del Cam­
briano, circa 600 milioni di anni fa. Per Murchison, un creazionista
convinto che scriveva negli anni trenta del secolo scorso, questo fat­
to non poteva essere altro che la conseguenza della decisione di Dio
di popolare la Terra.
Charles Darwin considerò con preoccupazione questa osservazio­
ne. Per lui, sulla base dell'evoluzione, il mare precambriano doveva
«pullulare di creature viventi>>. Per spiegare la mancanza di fossili nei
piu antichi reperti geologici, ipotizzò apologeticamente che i nostri
moderni continenti non avessero accumulato sedimenti durante il
Precambriano perché durante quel periodo sarebbero stati coperti
da mari limpidi.
La nostra opinione attuale sintetizza queste due tesi. Naturalmen­
te, Darwin l'ha spuntata sul concetto cui teneva di piu: la vita del
Cambriano sorse da predecessori organici e non per mano divina.
L'esplosione cambriana 125

\
Ma le osservazioni fondamentali di Murchison rispecchiano una
realtà biologica, non le imperfezioni delle testimonianze geologiche:
i reperti fossili del Precambriano (escluso l'ultimo periodo) sono
batteri, alghe azzurre e poco altro per due miliardi e mezzo di anni.
Le forme di vita complessa sorsero con sorprendente velocità imme­
diatamente prima (alla base) del Cambriano. (Chi legge deve tenere
presente che i geologi hanno un concetto particolare di <<rapidità>>.
Per il modo di pensare comune 10 milioni di anni dànno l'idea piu
di una lenta espansione che non di un'esplosione. Tuttavia, 10 milio­
ni di anni sono solo 1/450 della storia della Terra, solo un istante
per un geologo.)
I paleontologi hanno passato un secolo a cercare di spiegare l' <<e­
splosione>> cambriana, con ben pochi risultati (si parla di esplosione
perché il massimo di diversificazione delle specie si raggiunge già du­
rante i primi 10 o 20 milioni di anni del periodo cambriano) (si veda
il saggio 14). Di solito hanno dato per scontato che l'evento enigma­
tico fosse l'esplosione stessa. Una buona teoria avrebbe perciò dovu­
to spiegare cosa avesse di cosi particolare il Cambriano inferiore:
forse rappresenta la prima accumulazione di ossigeno atmosferico
sufficiente per la respirazione, o il raffreddamento della Terra che
precedentemente era troppo calda per permettere forme di vita com­
plesse (le semplici alghe possono sopravvivere a temperature molto
piu alte di quelle sopportabili dagli animali complessi), oppure un
cambiamento nella chimica degli oceani che crea il deposito di car­
bonato di calcio necessario per rivestire con scheletri protettivi gli
animali che erano in precedenza a corpo molle.
Io ho la sensazione che oggi stia per avvenire un grosso cambia­
mento di atteggiamento all'interno della paleontologia. Forse abbia­
mo affrontato questo problema nel modo sbagliato. Forse l'esplosio­
ne fu soltanto la prevedibile conseguenza di un processo inarrestabi­
le avviato da un precedente evento del Precambriano. Se cosi fosse,
non dovremmo piu pensare che le prime fasi del Cambriano avesse­
ro qualcosa di <<speciale>>; la causa dell'esplosione andrebbe cercata in
un evento antecedente che avrebbe dato il via all'evoluzione della vi­
ta complessa. Recentemente mi sono convinto che probabilmente le
cose vanno viste in questo modo. Le modalità dell'esplosione cam-
126 Questa idea della vita l

l/
briana sembrano seguire la legge generale della crescita. Questa legge
prevede una fase di rapida accelerazione; l'esplosione non è piu im­
portante del precedente periodo di crescita piu lenta o della fase di
stabilizzazione successiva (e non ha bisogno di una spiegazione parti­
colare). Qualsiasi sia stata la causa che ha dato origine alla prima fa­
se, questa comunque conteneva già la potenzialità della successiva
esplosione. A conferma di questa nuova concezione, porto due pro­
ve basate sulla quantificazione delle testimonianze fossili. Spero che
ciò, oltre ad aiutarmi nel mio caso, serva anche ad illustrare il ruolo
che può avere la quantificazione per provare ipotesi in professioni
che una volta rifuggivano tale rigore.
Il quotidiano lavoro di rilevamento geologico è una pratica meti­
colosa fatta di dettagli e di piccoli particolari: la mappatura degli
strati, i rapporti temporali tra questi strati per mezzo dei fossili e
della «sovrapposizione>> (i piu giovani sopra i piu vecchi), la registra­
zione dei tipi di rocce, le dimensioni dei grani, gli ambienti di depo­
sizione. Spesso i giovani, bravissimi in teoria, disdegnano questa atti­
vità, considerata un lavoraccio adatto a gente senza alcuna immagi­
nazione; eppure senza la base fornita da questi dati la scienza non
potrebbe esistere. In questo caso, la nostra nuova concezione dell'e­
splosione cambriana poggia su un perfezionamento della stratigrafia
cambriana realizzato principalmente da geologi sovietici in anni re­
centi. Il lungo periodo del Cambriano inferiore è stato suddiviso in
quattro stadi e le prime comparse di fossili cambriani sono state cata­
logate con cura molto maggiore. Oggi è possibile organizzare queste
prime comparse in una sequenza ben definita, mentre prima tutti i
gruppi venivano registrati come appartenenti al <<Cambriano inferio­
re>> (accentuando cosi l'immagine di un'esplosione).
J. J. Sepkoski, un paleontologo dell'Università di Rochester, ha
scoperto recentemente che riportando in un grafico l'incremento
della diversità organica in funzione del tempo, dalla base del Precam­
briano alla fine dell'esplosione, si ottiene una tipica curva sigmoide
(a forma di S), caratteristica di tutti i processi di crescita. Consideria­
mo, ad esempio, la crescita di una tipica colonia batterica su un ter­
reno precedentemente non colonizzato: ciascuna cellula si divide
ogni venti minuti (per formare due cellule figlie). All'inizio l'aumen-
L'esplosione cambriana 127

to delle dimensioni della popolazione è lento (il ritmo della divisio­


ne cellulare è sempre lo stesso, ma le cellule fondatrici sono poche e
la popolazione arriva lentamente al suo periodo esplosivo.) Questa
fase «lenta>> o fase «lag>> forma il segmento iniziale, a crescita modera­
ta, della curva sigmoide. La fase esplosiva o fase «log» è causata dal
fatto che le divisioni si susseguono ogni venti minuti anche quando
la popolazione ha raggiunto un numero notevole. Chiaramente que­
sto processo non può continuare all'infinito, altrimenti l'intero uni­
verso finirebbe forse per riempirsi di batteri. Alla fine è la colonia
stessa a raggiungere il proprio equilibrio (o la propria fine) occupan­
do lo spazio disponibile, esaurendo le sue risorse nutritive, inquinan­
do il suo ambiente con i cataboliti (prodotti di rifiuto), e cosi via.
Questa stabilizzazione pone fine alla fase log e completa la S della di­
stribuzione sigmoide.
Certo il salto dai batteri all'evoluzione della vita è grande, ma la
crescita sigmoide sembra caratteristica comune di certi sistemi, e in
questo caso l'analogia sembra reggere. Al posto della divisione cellu­
lare bisogna vedere la speciazione; al posto dell'agar di una piastra di
laboratorio, gli oceani. La fase lag della vita è il lento incremento ini­
ziale dell'ultimo Precambriano. (Oggi abbiamo una modesta fauna
appartenente a questa età, soprattutto celenterati - cioè coralli e me­
duse - e vermi.) La famosa esplosione cambriana non è altro che la
fase log di questo processo continuo, mentre la stabilizzazione post­
cambriana rappresenta l'iniziale esaurirsi dei ruoli ecologici disponi­
bili negli oceani del pianeta (la vita terrestre si evolvette piu tardi).
Se la prima diversificazione della vita segui le leggi della crescita
sigmoide, allora non c'è nulla di strano nell'esplosione del Cambria­
no. Si tratta semplicemente della fase log di un processo determinato
da due fattori: 1) l'evento che diede il via alla fase lag nel pieno del
Precambriano e 2) le caratteristiche dell'ambiente che ha consentito
la crescita sigmoide.
Come ha scritto in un suo recente articolo S.M. Stanley, paleon­
tologo della Johns Hopkins University (American ]oumal ofScience,
1976): «Possiamo abbandonare l'idea che la nascita dei maggiori taxa
fossili avvenuta verso l'inizio del Cambriano ... sia un enigma. Ciò
che rimane del "problema cambriano" è il ritardo con cui è apparsa
128 Questa idea della vita

sulla Terra la pluricellularità, solo dopo circa quattro miliardi di an­


ni». Possiamo negare l'esistenza del problema cambriano rigettando­
lo indietro, spostandolo su di un evento precedente, ma la natura e
la causa di questo evento precedente resta l'enigma degli enigmi in
paleontologia. Una spiegazione si può trovare in parte nel fatto che
la cellula eucariote si è evoluta solo nel tardo Precambriano. (Nel
saggio 13 ho sostenuto che per un'efficiente riproduzione sessuale
era necessaria una cellula eucariote con il patrimonio genetico orga­
nizzato in cromosomi, e che gli organismi complessi non potevano
evolversi in assenza della variabilità genetica fornita dalla riprodu­
zione sessuale.) Ma non abbiamo la minima idea del perché la cellula
eucariote sia nata solo piu di due miliardi di anni dopo l'evoluzione
degli antenati procarioti. Nel saggio 14 mi sono rifatto alla teoria di
Stanley della utilizzazione per spiegare l'inizio dell'incremento sig­
moide seguito all'evoluzione delle cellule eucariotiche. Stanley so­
stiene che le alghe procariotiche del Precambriano avevano occupa­
to tutto lo spazio disponibile del loro habitat potenziale, impedendo
cosi, oltre all'affermarsi dei competitori, anche l'evoluzione di for­
me piu complesse. Il primo erbivoro eucariote con i suoi abbondan­
ti, monotoni, planetari banchetti, liberò lo spazio sufficiente all'evo­
luzione dei concorrenti.
Potrebbe essere affascinante condurre una ricerca in questo sen­
so, ma abbiamo poco di concreto da dire circa il primo fattore, la
causa che ha determinato l'inizio dell'incremento sigmoide. Possia­
mo, invece, fare di meglio per il secondo, la natura dell'ambiente che
ha permesso questo incremento. La crescita di tipo sigmoide non è
una proprietà universale dei sistemi naturali; essa si realizza solo in
un certo tipo di ambiente. I nostri batteri di laboratorio non sareb­
bero aumentati secondo una curva sigmoide se il mezzo fosse già sta­
to densamente popolato oppure privo di sostanze nutritive. Il mo­
dello sigmoidale si realizza solo in sistemi aperti e privi di impedi­
menti, dove cibo e spazio sono tanto abbondanti che gli organismi
crescono fino a che il loro stesso numero non ne limiti l'incremento
ulteriore. Gli oceani precambriani formavano evidentemente un si­
mile ecosistema <<VUOtO>>: spazio e cibo in abbondanza, nessuna com­
petizione. (I primi eucarioti potevano ringraziare i loro predecessori
L'esplosione cambriana 129

procarioti non solo per l'immediata offerta di cibo, ma anche per


aver fornito ossigeno all'atmosfera con la fotosintesi.) La curva sig­
moide - con l'esplosione cambriana come fase log - rappresenta il
primo popolarsi del mondo degli oceani, un modello di evoluzione
prevedibile negli ecosistemi aperti.
Gli animali che si evolvono durante la fase log non dovrebbero
mostrare schemi evolutivi diversi da quelli sorti in un regime di
equilibrio autoregolato. Negli ultimi due anni ho dedicato molto del
mio stesso lavoro di ricerca a definire queste differenze. lo e i miei
colleghi (T.J.M. Schopf dell'Università di Chicago, D.M. Raup e J.J.
Sepkoski dell'Università di Rochester e D.S. Simberloff della Flori­
da State University) abbiamo costruito modelli di alberi evolutivi
trattandoli come processi casuali. Dopo aver costruito un albero, lo
dividiamo nei suoi <<rami» maggiori e consideriamo la storia di ogni
ramo (che è detto tecnicamente «dado») nel corso del tempo. Ogni
dado viene rappresentato con un grafico detto «a fusO>>. Questi dia­
grammi a fuso si costruiscono semplicemente contando il numero
delle specie che vivevano durante un certo periodo e variando di
conseguenza l'ampiezza del diagramma.
A questo punto si misurano le diverse proprietà di questi dia­
grammi. Una di queste misure, chiamata CG, definisce la posizione
del centro di gravità (approssimativamente, il punto in cui il dado è
piu largo o piu diversificato). Se questo punto di massima diversità
sta alla metà dell'estensione del dado, diamo al CG un valore di 0,5
(che sta a significare metà dell'estensione totale del dado). Se un da­
do raggiunge la sua diversità maggiore prima del suo punto di mez­
zo, il valore del CG sarà minore di 0,5.
In un sistema casuale come il nostro il CG è sempre vicino allo
0,5; il dado ideale è un rombo con il suo punto piu ampio al centro.
Ma questo mondo casuale è un mondo di equilibri perfetti. In esso
non possono esistere le fasi log della crescita sigmoide; un numero
costante di specie si mantiene nel tempo, poiché i ritmi di estinzione
uguagliano quelli di comparsa.
Ho passato una buona parte del 1975 a contare i generi fossili ed a
registrare la loro longevità per cercare di costruire dei diagrammi a
fuso per dei dadi reali. Oggi dispongo di oltre 400 dadi per gruppi
130 Questa idea della vita

che sorsero e morirono dopo la fase log dell'esplosione cambriana. Il


loro valore medio è di 0,4493: non si poteva pretendere niente di piu
vicino allo 0,5 del nostro mondo ideale all'equilibrio. Ho anche al­
trettanti diagrammi a fuso per dadi che si originarono durante la fa­
se log e scomparvero successivamente. Il loro CG è significativamen­
te inferiore a 0,5. Sono testimonianza di un mondo anomalo con di­
versità in aumento, e i loro valori possono essere usati per stabilire i
tempi e le intensità della fase log dell'esplosione cambriana. Questi
valori sono inferiori allo 0,5 perché questi dadi si svilupparono in
periodi di rapida diversificazione, ma scomparvero in periodi stabili
in cui le specie si originavano e si estinguevano piu lentamente. Cosi
essi raggiunsero rapidamente un massimo di diversità perché i loro
primi rappresentanti si trovarono in una fase log di incremento sfre­
nato, ma si esaurirono piu lentamente nel mondo stabilizzato che se­
gui.
L'approccio quantitativo ci ha aiutati a capire l'esplosione cam­
briana in due modi. Primo, siamo in grado di dire che questa ha avu­
to il carattere di una crescita sigmoide e di identificare le sue cause in
un evento precedente; il problema cambriano, di per sé, scompare.
Secondo, possiamo definire tempi e intensità della fase log della cre­
scita cambriana mediante l'analisi statistica dei diagrammi.
Secondo me, il risultato piu importante di questa analisi non è
tanto il basso valore dei CG dei dadi cambriani, quanto la corri­
spondenza dei valori di CG degli ultimi dadi con il modello ideale
di un mondo in equilibrio. Possibile che la diversità della vita mari­
na abbia mantenuto il suo equilibrio attraverso tutte le vicissitudini
di un pianeta in movimento, tutte le estinzioni di massa, le collisioni
dei continenti, la scomparsa e la creazione degli oceani? La fase log
del Cambriano portò all'occupazione di tutti gli oceani della Terra.
Da allora, l'evoluzione ha prodotto una continua variazione su un
numero limitato di schemi di base. La vita marina è stata abbondan­
te nella sua varietà, ingegnosa nei suoi adattamenti e (se mi si per­
mette un commento antropocentrico) meravigliosa nella sua bellez­
za. Eppure, sotto un certo punto di vista, l'evoluzione dal Cambria­
no in poi si è limitata a ricidare i principali prodotti della sua stessa
fase esplosiva.
16
L'ecatombe

Circa 225 milioni di anni or sono, al termine del Permiano, una


buona metà delle famiglie di organismi marini si estinsero nel breve
spazio di alcuni milioni di anni: un tempo enorme per la piu parte
degli standard di misura, solo minuti per un geologo. Tra le vittime
di questa estinzione di massa ci furono tutti i trilobiti che erano so­
pravvissuti fino ad allora, tutti gli antichi coralli, tutte le linee di am­
moniti salvo una e la gran parte dei briozoi, dei brachiopodi e dei
crinoidi.
Questa grande moria fu la piu importante di una serie di estinzio­
ni di massa che hanno punteggiato l'evoluzione della vita durante i
passati 600 milioni di anni. Il secondo posto tocca all'estinzione del
tardo Cretaceo, circa 70 milioni di anni fa. Questa ultima portò alla
distruzione del 25% delle famiglie allora esistenti, e spazzò via dalla
Terra gli animali che allora vi dominavano, i dinosauri e i loro pa­
renti, ponendo cosi le basi per la dominanza dei mammiferi e la suc­
cessiva evoluzione dell'uomo.
Nessun problema di paleontologia ha attirato di piu e condotto a
piu frustrazioni di quello delle cause di queste estinzioni. Il catalogo
delle ipotesi potrebbe essere lungo come l'elenco telefonico di Man­
hattan e comprendere tutte le cause immaginabili: il formarsi di
montagne di estensione mondiale, fluttuazioni del livello del mare,
sottrazione di sale dagli oceani, supernovae, ampi influssi di radia-
132 Questa idea della vita

zioni cosmiche, pandemie, restrizioni dell'habitat, bruschi cambia­


menti climatici, e cosi via. Né il problema ha mancato di divenire di
dominio pubblico. Ricordo bene la prima volta che mi si è presenta­
to, quando avevo cinque anni: i dinosauri del film Fantasia di Disney
raffigurati mentre si avviano alla morte attraverso un paesaggio de­
sertico sulle note della Sagra della primavera di Stravinskij.
Dato che l'estinzione del Permiano è notevolmente maggiore di
tutte le altre, è stata per molto tempo l'obiettivo preferito degli studi
sul tema. Se fossimo in grado di spiegare questa grande moria avrem­
mo forse la chiave per capire le estinzioni di massa in genere.
Durante l'ultimo decennio si sono avuti una serie di importanti
progressi combinati in geologia ed in biologia evoluzionistica che ci
hanno portati vicini ad una risposta verosimile; questa soluzione si è
sviluppata in modo cosi graduale che alcuni paleontologi non si ren­
dono ancora conto che il loro piu vecchio e piu profondo dilemma è
stato risolto.
Dieci anni fa era opinione comune dei geologi che i continenti si
fossero formati nelle loro sedi attuali. Si ammetteva che larghe por­
zioni della crosta terrestre potessero muoversi su e giu e che i conti­
nenti potessero «crescere» per l'aggiunta di catene di montagne che
si sollevavano ai loro margini, ma era escluso che i continenti si
muovessero sulla superficie terrestre; la loro posizione era considera­
ta fissa nel tempo. All'inizio del secolo era stata proposta una teoria
alternativa basata sulla deriva dei continenti, ma era stata quasi uni­
versalmente respinta per la mancanza di un meccanismo in grado di
spiegare il movimento dei continenti.
Oggi, grazie alla teoria della tettonica a zolle nata dallo studio dei
fondi oceanici, si sa che questo meccanismo esiste. La superficie della
Terra è divisa in un piccolo numero di zolle delimitate da dorsali e
zone di subduzione. I nuovi fondi oceanici si formano in coinciden­
za delle dorsali, mentre le vecchie porzioni delle zolle se ne allonta­
nano. Per bilanciare queste aggiunte, le parti piu vecchie delle zolle
vengono inghiottite nelle zone di subduzione.
I continenti giacciono passivamente sulle zolle e si muovono con
esse; non è quindi vero, come sostenevano teorie precedenti, che i
continenti si aprono un varco nel solido fondo oceanico. La deriva
L'ecatombe 133

dei continenti è quindi solo una conseguenza della tettonica a zolle;


tra le altre importanti conseguenze ci sono i terremoti ai limiti delle
zolle (di cui è un esempio la faglia di S. Andrea che corre vicino a
San Francisco) e le catene di montagne in corrispondenza delle zone
di collisione tra due zolle che sostengono continenti (l'Himalaya si
formò quando la <<piattaforma>> indiana <<UrtÒ>> contro l'Asia).
Quando ricostruiamo la storia dei movimenti delle terre emerse
ci rendiamo conto che nel Permiano ci fu un evento eccezionale: tut­
ti i continenti si riunirono per formare il supercontinente denomi­
nato Pangea. Furono proprio le conseguenze di questa unione a cau­
sare la grande estinzione del Permiano.
Ma quali conseguenze e perché? Una simile fusione può produrre
un largo spettro di risultati, che vanno dai cambiamenti del clima e
delle correnti oceaniche alle interazioni di ecosistemi precedente­
mente isolati. A questo punto dobbiamo valerci della parte piu avan­
zata della biologia dell'evoluzione, l'ecologia teorica, e della nuova
capacità di capire la diversità delle forme viventi.
Dopo vari decenni di lavoro altamente descrittivo e privo di
struttura teorica, la scienza dell'ecologia è stata ravvivata da una se­
rie di approcci quantitativi alla ricerca di una teoria generale della di­
versità organica. Oggi si comincia a capire molto meglio in che mo­
do i differenti fattori ambientali influenzano l'abbondanza e la di­
stribuzione della vita. Molti studi ci dicono che la diversità - cioè il
numero di specie diverse presenti in una certa area - è fortemente
influenzata, se non in gran parte determinata, dall'estensione dell'a­
rea abitabile. Se, per esempio, contiamo il numero di specie di formi­
che che vivono nelle varie isole di un arcipelago che differiscano solo
per le dimensioni (e siano invece simili per caratteri come il clima, la
vegetazione e la distanza dal continente) vediamo che, in generale,
piu grande è l'isola, maggiore è il numero delle. specie che vi si tro­
vano.
Certo c'è una bella differenza tra le formiche delle isole tropicali
e gli esseri viventi marini del Permiano. Tuttavia abbiamo buoni
motivi per sospettare che l'area a disposizione debba aver giocato un
grosso ruolo nella grande estinzione. Se potessimo stimare area e di­
versità organica per vari momenti del Permiano (mentre era in corso
134 Questa idea della vita

l'unione dei continenti), allora potremmo verificare l'ipotesi basata


sul controllo esercitato dalle dimensioni dell'area.
Innanzi tutto dobbiamo capire due cose sull'estinzione del Per­
miano e i fossili in genere; la prima è che l'estinzione del Permiano
riguardò soprattutto gli organismi marini. Il fenomeno toccò solo
marginalmente le piante e i vertebrati terrestri, entrambi abbastanza
poco numerosi. La seconda osservazione è che la gran parte dei fossi­
li di cui disponiamo contiene forme di vita marina di acque poco
profonde. Abbiamo quasi nessun fossile di organismi abitanti le pro­
fondità oceaniche. Cosi, se vogliamo verificare la teoria che assegna
alla riduzione dell'area il ruolo principale nell'estinzione del Permia­
no, dobbiamo interessarci dell'area che era occupata da mari poco
profondi.
Dal punto di vista qualitativo, i motivi per cui una unificazione
dei continenti avrebbe dovuto portare ad una drastica riduzione del­
l'area dei mari poco profondi sono due. Il primo è una semplice con­
siderazione di geometria: se tutte le masse terrestri dei tempi preper­
miani erano completamente circondate da mari poco profondi, è
chiaro che la loro unione deve aver avuto come conseguenza la
scomparsa di tutta l'area in corrispondenza delle suture: unite in un
unico quadrato quattro quadrati piu piccoli ed avrete una periferia
totale ridotta della metà. Il secondo motivo ha a che fare con la mec­
canica della tettonica a zolle. Dato che le dorsali oceaniche produco­
no attivamente il nuovo fondo marino per estrusione, esse si elevano
al di sopra delle parti piu profonde dell'oceano. In conseguenza di
questo fatto, dai bacini oceanici viene spostata dell'acqua, il livello
medio dei nostri mari sale e i continenti vengono parzialmente som­
mersi. Per contro, se l'estrusione diminuisce o si arresta le dorsali co­
minciano a collassare ed il livello del mare cala.
Quando nel Permiano superiore ci fu la collisione dei continenti,
le zolle che li portavano si incastrarono le une sulle altre; questo fat­
to portò ad un'interruzione del processo estrusivo: le dorsali oceani­
che sprofondarono ed i mari meno profondi si ritirarono dai conti­
nenti. Ma la drastica riduzione di questi mari non fu causata da
un'altrettanto drastica riduzione del livello dei mari, bens1 dalla con­
figurazione dei fondi marini sui quali avvenne questo calo. Infatti il
L'ecatombe 135

fondo oceanico non scende uniformemente dalla linea costiera alle


profondità oceaniche. Generalmente i continenti attuali sono cir­
condati da una piattaforma in cui l'acqua è relativamente poco pro­
fonda. Piu al largo c'è invece la scarpata continentale, molto piu ripi­
da. Se il livello del mare si abbassasse abbastanza da esporre l'intera
piattaforma continentale la gran parte dei mari poco profondi del
mondo scomparirebbero. Questo è proprio quello che si presume
sia accaduto durante il tardo Permiano.
Recentemente questa ipotesi dell'estinzione per riduzione di area
è stata convalidata da Thomas Schopf dell'Università di Chicago.
Schopf ha studiato rocce terrestri e acque poco profonde per stabili­
re quali erano i limiti continentali e l'estensione dei mari superficiali
in diversi momenti del Permiano, mentre avveniva l'unione dei con­
tinenti. Quindi, riesaminando completamente la letteratura paleon­
tologica, ha contato il numero dei diversi tipi di organismi che vive­
vano durante ognuno di questi momenti del Permiano. Successiva­
mente, Daniel Simberloff della Florida State University ha dimostra­
to che le equazioni matematiche standard che legano il numero delle
specie alle dimensioni dell'area abitata sono in ottimo accordo con
questi dati. Schopf ha inoltre dimostrato che l'estinzione non riguar­
dò solo certi gruppi, ma colpi uniformemente tutti gli abitanti delle
acque poco profonde. In altre parole, non c'è bisogno di andare alla
ricerca di una causa specifica collegata alle caratteristiche di alcuni
gruppi animali. L'effetto fu generale. Semplicemente, allo scompari­
re dei mari superficiali, il ricco ecosistema del primo Permiano perse
lo spazio necessario a sostenere tutti i suoi membri. Ridotta la scac­
chiera, non ci fu piu spazio per tutti i pezzi.
Ma il fattore area non basta a dare una risposta completa al feno­
meno. Un evento cosi critico come la nascita di un singolo super­
continente deve aver determinato altre conseguenze a carico dell'in­
stabile ecosistema del primo Permiano. In ogni caso, Schopf e Sim­
berloff ci hanno fornito prove sufficienti per poter assegnare un ruo­
lo centrale al fondamentale fattore dello spazio.
Fa piacere notare che la risposta ad un irrisolto dilemma della pa­
leontologia sia nata come sottoprodotto degli emozionanti progressi
in due discipline affini: l'ecologia e la geologia. Quando un proble-
136 Questa idea della vita

ma si dimostra inattaccabile per piu di un centinaio d'anni è inutile


continuare a raccogliere dati nello stesso modo e sotto le stesse cate­
gorie. Grazie all'ecologia teorica siamo riusciti a porci le domande
giuste, mentre la tettonica a zolle ci ha permesso di applicarle alla si­
tuazione geologica reale dell'epoca.
Parte quinta
Teorie sulla Terra
17
I l piccolo sporco pianeta del
reverendo Thomas

<<Non mi sembra di abitare nello stesso mondo dei nostri lontani


antenati... Per dare benessere ad un uomo, dieci devono lavorare e
compiere fatiche ingrate ... La terra non produce cibo per noi, se non
a prezzo di molta fatica e molto impegno .. L'aria è spesso impura o
infetta.>>
Non si tratta di moderna propaganda ecologica. Le opinioni
espresse sono le stesse, ma lo stile è rivelatore. Si tratta, invece, del
lamento del reverendo Thomas Burnet, autore del piu popolare la­
voro di geologia del XVII secolo: Telluris theoria sacra. Il tema del
suo lavoro non è un pianeta impoverito da uomini troppo avidi, ma
un mondo che ha perduto l'originale grazia divina dell'Eden.
Tra i lavori di geologia biblica, la Theoria sacra di Burnet è sicura­
mente il piu famoso, il piu diffamato e il meno capito. In esso Bur­
net cerca di dare spiegazione geologica a tutti gli eventi biblici, passa­
ti e futuri. Secondo un'opinione semplicistica ma molto diffusa,
scienza e religione sarebbero degli antagonisti naturali e la storia dei
loro rapporti registrerebbe la crescente avanzata della scienza nel
«territorio intellettuale>> precedentemente occupato dalla religione.
Cosa sarebbe Burnet in questo contesto se non un piccolo, inutile
contributo ad una diga che sta crollando?
In realtà il vero rapporto tra religione e scienza è ben piu vario e
complesso. Spesso la religione ha incoraggiato attivamente la scien-
140 Questa idea della vita

za. Se c'è un vero nemico della scienza questo è l'irrazionalismo, e


non la religione. La verità è che Burnet, teologo, fu vittima delle
stesse forze che perseguitarono quasi trecento anni dopo, nel Ten­
nessee, l'insegnante di scienze Scopes. Esaminando il caso di Burnet,
svoltosi in un periodo ed in un mondo cosi lontani da noi, ci sarà
piu facile capire la natura delle forze che continuano ad opporsi alla
sctenza.
Comincerò riassumendo la teoria di Burnet. Dal nostro punto di
vista, questa ci appare cosi stupida e macchinosa che ci sembrerà
quasi inevitabile collocare Burnet tra i dogmatici oppositori della
scienza. Ma poi passerò ad esaminare il suo metodo di indagine e sa­
rà cosi possibile collocarlo tra i razionalisti scientifici del suo tempo.
Nella sua persecuzione da parte della teologia dogmatica pare di ri­
vedere il dibattito Huxley-Wilberforce o la controversia californiana
sulla creazione, gli attori sono gli stessi anche se vestono panni diffe­
renti.
Il punto di partenza dell'indagine di Burnet fu il tentativo di spie­
gare la provenienza delle acque del diluvio universale. Egli era con­
vinto che gli oceani moderni non bastassero a sommergere le monta­
gne della Terra. Scrisse ad un contemporaneo: <<Posso credere che il
mondo potrebbe essere inondato dalle acque che vi si trovano quan­
to al fatto che un uomo possa essere sommerso dalla propria saliva».
Burnet rifiutava l'idea che il diluvio di Noè potesse essere stato un
evento soltanto locale, divenuto universale sulla base dei racconti di
viaggiatori che non potevano essersi spostati di molto, poiché un'i­
potesi simile avrebbe messo in crisi l'autorità delle sacre scritture.
Ma respinse con ancor piu decisione l'idea che l'acqua in piu fosse
stata semplicemente creata da Dio con un miracolo, perché ciò era
incompatibile con il mondo razionale della scienza. Elaborò perciò
la seguente spiegazione della storia del pianeta.
Dal caos del vuoto primordiale, la nostra Terra si condensò come
sfera perfettamente ordinata. I materiali che la componevano si di­
sposero secondo le loro densità. Le rocce pesanti e i metalli formaro­
no un nucleo sferico al centro circondato da uno strato liquido, a sua
volta sormontato da una sfera di sostanze volatili. Lo strato di so­
stanze volatili era composto in gran parte d'aria, ma comprendeva
Il piccolo sporco pianeta 141

anche particelle solide. Nel corso del tempo queste precipitarono


formando uno strato solido, perfettamente liscio e indifferenziato al
di sopra del livello liquido.
«I primi panorami furono quelli di questa Terra liscia, in cui vide
la luce la prima generazione del Genere Umano; questa Terra aveva
la Bellezza della Gioventu e la floridezza della Natura, fresca e ferti­
le, e non vi era una Ruga, non una Cicatrice o Frattura in tutto il
suo corpo; non Rocce né Montagne, non vuote Caverne né fendenti
Canali, ma essa era piatta ed uniforme ovunque.>>
In questa perfezione originale non c'erano stagioni, poiché l'asse
terrestre era ben diritto e il giardino dell'Eden, posto conveniente­
mente ad una media latitudine, godeva di una perpetua primavera.
Ma l'evoluzione stessa della Terra richiedeva la distruzione del
paradiso terrestre, cosa che accadde naturalmente quando il disobbe­
diente genere umano rese necessaria la punizione. Le piogge erano
inconsistenti e la terra cominciò a seccarsi e spaccarsi. n calore del
sole fece evaporare parte dell'acqua sotterranea. Questa usci dalle
fenditure, si formarono delle nuvole e cominciò la pioggia. Ma an­
che quaranta giorni e quaranta notti di pioggia non potevano bastare
per fornire acqua a sufficienza, ne doveva uscire dell'altra dagli abis­
si. L'acqua che cadeva riempi le fenditure, creando una pentola a
pressione priva di valvola di sicurezza, poiché il vapore sotterraneo
premeva per poter uscire. La pressione saH, e alla fine la superficie fu
sfondata, con conseguenti diluvi, maremoti e la rottura e lo sposta­
mento dell'originale superficie terrestre a formare montagne e bacini
oceanici. Queste devastazioni furono cosi violente che l'asse della
Terra si spostò verso la sua attuale inclinazione (si veda Velikovsky,
saggio 19). Finalmente l'acqua si ritirò negli abissi, lasciando <<una gi­
gantesca, orrenda rovina ... un accidentato e confuso cumulo di cor­
pi». Gli uomini, ahimè, erano stati fatti per l'Eden e la durata della
vita, che era di circa novecento anni per i patriarchi, diminui di oltre
dieci volte.
E cosi, secondo il reverendo Thomas, noi abitanti di un «piccolo
sporco pianeta>> dobbiamo attenderci che questo si trasformi come
promesso dalle scritture e dedotto dalla fisica planetaria. I vulcani al­
lora erutteranno tutti in una volta, e comincerà la conflagrazione
142 Questa idea della vita

universale. La Bretagna protestante, con le sue riserve di carbone (al­


lora in gran parte trascurato) brucerà furiosamente, ma il fuoco co­
mincerà certamente a Roma, la dimora papale dell'anticristo. Le par­
ticelle carbonizzate ricadranno lentamente a terra, formando ancora
una volta una sfera perfetta priva di rilievi. E comincerà cosi il mille­
nario regno di Cristo. Al suo termine appariranno i giganti Gog e
Magog, che combatteranno una nuova battaglia tra il bene e il male.
I santi saliranno in seno ad Abramo e la Terra, avendo fatto il suo
corso, diventerà una stella.
Del tutto fantastico? Certo, per il 1975; ma non per il 168 1. In
realtà, per i suoi tempi, Burnet fu un razionalista, dato che sosteneva
la validità del mondo di Newton in un'età di fede. La principale
preoccupazione di Burnet era infatti quella di interpretare la storia
della Terra non sulla base dei miracoli o dei capricci divini ma per
mezzo di processi naturali, fisici. Il racconto di Burnet sarà fantasti­
co, ma i suoi protagonisti sono le comuni forze fisiche dell'essicca­
mento, dell'evaporazione, della precipitazione e della combustione.
Senza dubbio egli credeva che le scritture riportassero inequivocabil­
mente i fatti della storia della Terra, ma credeva anche che questi
eventi dovessero essere in accordo con la scienza, altrimenti le paro­
le di Dio sarebbero state in contraddizione con le sue opere. La ra­
gione e la rivelazione sono due guide infallibili per la verità, ma <<è
pericoloso pensare di richiamarsi all'autorità delle Scritture, in op­
posizione alla Ragione, nelle dispute sul Mondo della Natura; per­
ché il Tempo, che porta alla luce tutte le cose, rivelerebbe come evi­
dentemente falso ciò che abbiamo fatto sostenere alle Scritture>>.
Inoltre, il Dio di Burnet non è quello onnipresente ed onnipoten­
te dell'età prescientifica, ma piuttosto il grande orologiaio di New­
ton che, creata la materia e dettate le sue leggi, lascia la natura al suo
corso: <<Noi pensiamo che lui, da eccellente artista, abbia costruito
un orologio in grado di battere regolarmente ad ogni ora, non per­
ché ad ogni ora vi pone mano, ma grazie alle Molle ed ai Meccanismi
che vi ha inserito. E se uno si inventasse un meccanismo che fosse in
grado di battere a tutte le ore e di fare tutti i movimenti regolarmen­
te per un tempo simile, e se questo meccanismo, venuto il momento,
per aver ricevuto un certo segnale o per lo scatto di una Molla si di-
Il piccolo sporco pianeta 143

sintegrasse da solo; non sarebbe tutto ciò molto piu artistico del ve­
der arrivare all'ora prevista l'Artigiano che lo spacca a pezzi con un
grande Martello?».
Ovviamente non voglio sostenere che Burnet fosse uno scienzia­
to nel senso moderno del termine. Burnet non compi esperimenti e
non fece osservazioni su rocce e fossili (nonostante lo facessero di­
versi suoi contemporanei). Usò il metodo basato sulla ragione «pu­
ra>> (noi diremmo <<da salottO>>) e scrisse di un ignoto futuro quasi
con la stessa confidenza con cui si può parlare di un passato verifica­
bile. Inoltre nessuno scienziato moderno, che io sappia, segue il suo
metodo, con l'unica eccezione di lmmanuel Velikovsky. Burnet, in­
fatti, presupponeva la verità delle scritture e creò un meccanismo fi­
sico che rendesse possibile quanto vi si racconta, proprio come Veli­
kovsky inventò una nuova fisica planetaria per evitare ogni contrad­
dizione con le testimonianze degli antichi testi.
Eppure Burnet non fu affatto un pilastro dell'establishment reli­
gioso. Fini anzi in guai seri a causa della sua sacra teoria. Secondo il
migliore stile dell'Inquisizione, il vescovo di Hereford attaccò la fede
di Burnet nella ragione con queste parole: <<0 il suo cervello si è gua­
stato per un eccesso della sua stessa creatività, o il suo cuore è corrot­
to da qualche disegno diabolico>>, che è come dire che rappresentava
la sovversione della Chiesa. Con una classica manifestazione di ami­
scienza, un altro critico clericale osservò: <<Anche se abbiamo Mosè,
credo si debba attendere Elia per avere il vero modus filosofico della
creazione e del diluvio>>. (Elia è nella Bibbia il profeta che tornerà
per annunciare l'avvento del Messia - come dire che la scienza non
può occuparsi di questi problemi e che per la loro soluzione dobbia­
mo attendere qualche futura rivelazione.) John Keill, un matematico
di Oxford, sostenne che le spiegazioni naturali di Burnet erano peri­
colose perché portavano a credere che Dio fosse qualcosa di super­
fluo.
Ciò nonostante, per un certo periodo Burnet ebbe fortuna. Di­
venne chierico del gabinetto della corte di Guglielmo III. (Non si
tratta di un modo stravagante per definire coloro che puliscono le la­
trine, ma della denominazione del confessore del re: il gabinetto è
infatti una cappella per le preghiere private del re.) Secondo alcune
144 Questa idea della vita

voci egli fu persino considerato come un possibile successore dell'ar­


civescovo di Canterbury. Ma alla fine Burnet si spinse troppo oltre.
Nel 1692 pubblicò un lavoro in cui sosteneva un'interpretazione al­
legorica dei sei giorni della Genesi ed immediatamente perse il suo
impiego, nonostante si fosse ampiamente scusato per tutte le invo­
lontarie offese alla religione.
Alla fine chi bloccò Burnet non furono i teologi ma i dogmatici e
gli irrazionalisti (bisogna ricordare che nell'Inghilterra del XVII se­
colo nessuna persona rispettabile era atea). Un centinaio di anni do­
po lo stesso tipo di persone costrinse Buffon a ritrattare la sua teoria
sull'età della Terra. Dopo altri centocinquant'anni i nostri si sono
scatenati, contro J ohn Scopes, con l'enfasi di chi è destinato alla
sconfitta. Oggi, usando la retorica liberale dell'epoca, stanno cercan­
do di cancellare la teoria dell'evoluzione dai libri di testo degli Stati
Uniti.
Certamente anche la scienza ha fatto i suoi errori. Abbiamo per­
seguitato i dissenzienti, abbiamo indottrinato, e abbiamo cercato di
estendere la nostra autorità in una sfera morale dove la scienza non
ha valore. Eppure, non ci può essere soluzione per i problemi che ci
affliggono se non lasciamo libere di agire nel loro campo la scienza e
la razionalità. Ancora oggi la Bestia non si è assopita.
18
Uniformità e catastrofe

La Gideon Society - accolita di consolatori di una nazione in ve­


loce cambiamento - nelle sue note al primo capitolo della Genesi
insiste nel fissare la data della creazione al 4004 avanti Cristo. Secon­
do i geologi, il nostro pianeta è almeno un milione di volte piu vec­
chio; avrebbe cioè circa quattro miliardi e mezzo di anni.
Ognuna delle scienze principali ha dato un contributo essenziale
al lungo processo di allontanamento dall'iniziale convinzione della
nostra importanza cosmica: l'astronomia ha stabilito che la nostra
dimora è un piccolo pianeta riposto in un angolo di una galassia di
media grandezza tra milioni di altre; la biologia ci ha strappati dalla
condizione di esseri costruiti ad immagine e somiglianza di Dio; la
geologia ci ha dato la dimensione dell'immensità del tempo e ci ha
insegnato quanto sia piccola la porzione di tempo coperta dalla no­
stra specie.
Nel 1975 si è celebrato il centenario della morte di Charles Lyell,
unanimemente considerato l'eroe della rivoluzione geologica, <<lo
specchio di tutto quanto c'è di realmente importante nel pensiero
geologico>>, come lo ha definito un suo recente biografo. General­
mente la storia dell'impresa di Lyell suona cosi: all'inizio del XIX se­
colo, la geologia era egemonizzata dai catastrofisti, difensori della
teologia che cercavano di comprimere la storia geologièa nelle stret­
toie della cronologia biblica. Per raggiungere questo scopo immagi-
146 Questa idea della vita

narono che i modi di cambiamento del passato fossero profonda­


mente diversi da quelli del presente. Il presente era perciò caratteriz­
zato da uno scorrere lento e graduale, come lento e graduale è il la­
voro delle onde e dei fiumi; gli eventi del passato erano invece repen­
tini e cataclismatici: del resto, come avrebbero potuto altrimenti far
rientrare tutto in poche migliaia di anni? Le montagne erano sorte
in un giorno, i canyons si erano aperti in un colpo solo. Insomma il
Signore era intervenuto ad interrompere con la sua volontà il domi­
nio delle leggi naturali, ponendo cosi il passato al di fuori della sfera
di ciò che è spiegabile scientificamente. Scrisse Loren Eiseley: <<Lyell
entrò nel campo geologico quando questo era un oscuro, magico pa­
norama di gigantesche convulsioni, diluvi, creazioni ed estinzioni
soprannaturali di forme viventi. Uomini illustri hanno prestato il
potere del proprio nome a queste fantasie teologiche>>.
Nel 1830 Lyell pubblicò il primo volume dei suoi rivoluzionari
Principles ofGeology nel quale, continua il resoconto classico, procla­
mò coraggiosamente che il tempo non aveva limiti. Quindi, rimosso
questo fondamentale impedimento, propugnò una filosofia <<unifor­
mista>>, dottrina che fece della geologia una scienza. Le leggi di natu­
ra non variano. A questo punto, con tutto questo tempo a disposi­
zione, per produrre il panorama completo degli eventi passati non
c'era piu alcun bisogno di appellarsi a qualcosa che non fosse lo svol­
gersi lento e costante dei fenomeni del presente. Il presente è la chia­
ve del passato.
Questo racconto del ruolo di Lyell non è diverso dalla gran parte
dei resoconti di storia della scienza: è molto estroso ma alquanto po­
co prectso.
Pochi mesi fa, curiosando tra le montagne di libri dell'antica bi­
blioteca di Harvard, ho scoperto la copia dei Principles ofgeology di
Lyell appartenuta a Louis Agassiz, con le annotazioni di quest'ulti­
mo (nelle biblioteche sono sepolte molte piu cose di quante ci si pos­
sa immaginare). Agassiz fu il piu noto biologo ed anche il catastrofi­
sta piu ostinato d'America. Eppure nelle sue note a margine c'è una
netta contraddizione con la versione ufficiale dell'impresa di Lyell.
Le note a matita di Agassiz comprendono tutte le critiche classiche
della scuola catastrofista. Testimoniano, in particolare, la convinzio-
Uniformità e catastrofe 147

ne di Agassiz che la somma delle cause attuali nel tempo geologico


non potesse rendere conto della dimensione di alcuni eventi passati;
la nozione di cataclisma, secondo Agassiz, continuava ad essere indi­
spensabile. Eppure, come valutazione finale, scrive: <<I Principles of
geology di Lyell è certamente il lavoro piu importante comparso nel­
l'insieme di questa scienza da quando essa ha meritato il suo nome>>.
(Pensai che Agassiz potesse aver citato un giudizio contenuto in una
recensione pubblicata da qualcun altro, ma ho consultato diversi sto­
rici e ritengo che questa nota riflettesse la sua opinione personale.)
Se i catastrofisti avesst;ro avuto i baffi neri, se gli uniformisti aves­
sero ostentato stellette d'argento e capelli bianchi, e se Lyell fosse
stato lo sceriffo dal tiro veloce che caccia tutti i cattivi fuori dalla cit­
tà - secondo la versione manichea o western della storia della scien­
za - allora le affermazioni di Agassiz sarebbero assurde; che senso
può avere che un fuorilegge in libertà lodi lo sceriffo in modo cosi
ossequioso? O c'è un errore nel copione del western o Agassiz era
matto.
Perché, allora, Agassiz loda Lyell? Per rispondere a questa do­
manda devo analizzare il cosiddetto uniformismo di Lyell, onde di­
mostrare che la geologia moderna è veramente una miscela di con­
cetti tratti tanto da Lyell che dai catastrofisti.
Charles Lyell di professione era un avvocato, e il suo libro è il piu
brillante memoriale che sia mai stato pubblicato da un legale. È una
raccolta di precise documentazioni, di argomentazioni incisive e di
alcuni di quei <<cavilli, scappatoie e ... trucchi» che Amleto attribuisce
al mestiere forense dissotterrando dal cimitero il cranio di un avvo­
cato. Per far passare la sua visione uniformista come l'unica vera in
geologia, Lyell si affidò a due astuzie.
Per prima cosa, si procurò un fantoccio da distruggere. Nel 1830
nessun serio scienziato catastrofista credeva che i cataclismi avessero
una causa soprannaturale o che la Terra avesse solo 6. 000 anni di vi­
ta; ciò nonostante, molti profani erano ancora di questa idea, cosi
come alcuni teologi che si occupavano di scienza. Una geologia
scientifica richiedeva la loro sconfitta, ma questi geologi erano stati
avviati alla professione sia da catastrofisti che da uniformisti. Agassiz
148 Questa idea della vita

lodò Lyell per il modo molto deciso con cui questo aveva imposto il
proprio punto di vista di geologo al pubblico.
Non è colpa di Lyell se le generazioni successive presero il suo
fantoccio per un'accurata rappresentazione dell'opposizione scienti­
fica all'uniformismo. Eppure tutti i grandi catastrofisti del XIX seco­
lo - Cuvier, Agassiz, Sedgwick, e in particolare Murchison - accet­
tarono l'idea che la Terra fosse molto antica, e tutti loro cercarono
una spiegazione naturale ai mutamenti cataclismatici avvenuti nel
passato. Certo una Terra con soli 6.000 anni di vita obbliga a credere
nelle catastrofi per poter comprimere la storia geologica in un tem­
po cosi breve. Ma l'inverso non è affatto vero: credere nelle catastro­
fi non vuol dire necessariamente ritenere che la Terra abbia 6.000
anni. Le montagne potrebbero essere sorte molto rapidamente, in­
dipendentemente dal fatto che la Terra abbia 4,5 o 100 miliardi di
anm.
In realtà i catastrofisti ragionavano in modo molto piu empirico
di Lyell. La documentazione geologica sembra deporre a favore delle
catastrofi: le rocce sono fratturate e contorte; faune intere sono state
annientate (si veda il saggio 16). Per poter superare l'apparenza, cosi
chiara, Lyell fece uso della sua immaginazione. La documentazione
geologica, disse, è estremamente imperfetta, ed è necessario inserirvi
quello che possiamo ragionevolmente arguire ma non ci è possibile
vedere. I catastrofisti erano gli empiristi ad oltranza dell'epoca, e
non gli ottusi difensori della teologia.
La seconda astuzia sta nel modo in cui sono presentate le afferma­
zioni che costituiscono l'<<uniformismo>> di Lyell. Una è una premes­
sa metodologica che deve essere fatta propria da ogni scienziato, ca­
tastrofista o uniformista che sia; altre sono affermazioni di merito
che si sono poi dimostrate errate. Lyell le mischiò assieme e, con
molta spregiudicatezza, tentò di far passare l'affermazione di merito
sostenendo che la proposizione metodologica doveva essere accetta­
ta, altrimenti <<vedremo rivivere l'antico spirito speculativo, e si ma­
nifesterà il desiderio di rimuovere il difficile problema, anziché risol­
verlo>>.
Gli elementi principali del concetto di uniformità di Lyell sono
quattro, molto diversi tra loro:
Uniformità e catastrofe 149

l. Le leggi di natura sono costanti nel tempo e nello spazio. Co­


me ha dimostrato John Stuart Mill, questa non è un'affermazione di
contenuto; si tratta di una pregiudiziale di metodo che gli scienziati
devono porre per poter procedere ad una qualsiasi analisi del passa­
to. Se il passato è capriccioso, se Dio viola a suo piacimento le leggi
di natura, allora la scienza non può chiarire la storia. Agassiz ed i ca­
tastrofisti la pensavano allo stesso modo; cercarono anche una causa
naturale per i cataclismi e approvarono Lyell nella sua difesa della
scienza dalle ingerenze della teologia.
2. Per spiegare gli eventi del passato bisogna basarsi sui processi
che tuttora stanno modellando la superficie terrestre (uniformità di
processo nel tempo). Dato che gli unici processi direttamente osser­
vabili sono quelli che agiscono ancora oggi, ne sapremo molto di piu
se riusciremo a spiegare gli eventi passati sulla base di questi fenome­
ni. Neanche questo è un argomento di contenuto, è un'affermazione
che riguarda il procedimento scientifico. Ed ancora una volta tutti
gli scienziati sono d'accordo. Anche Agassiz e i catastrofisti preferi­
vano rifarsi ai processi agenti attualmente, e applaudirono la squisita
documentazione di Lyell sul meccanismo d'azione di molti di questi
fenomeni. Il loro dissenso riguardava un altro punto. Lyell credeva
che i fenomeni attuali fossero sufficienti a spiegare il passato, i cata­
strofisti sostenevano che una spiegazione basata su questi fenomeni
era sempre preferibile, ma che nel caso di alcuni eventi del passato
fosse necessario considerare cause che non agivano piu o altre i cui
ritmi si erano molto rallentati.
3. Il mutamento geologico non è cataclismatico o parossistico ma
lento, graduale e costante (uniformità del ritmo). Qui abbiamo final­
mente a che fare con un'asserzione di merito che può essere verifica­
ta, e con un punto sul quale le tesi di Agassiz divergono realmente
da quelle di Lyell. I geologi moderni direbbero che il punto di vista
di Lyell ha avuto di gran lunga piu successo, anche se la insistenza su
un ritmo quasi uniforme fini per soffocare la sua immaginazione.
(Lyell, per esempio, non accettò mai la teoria sui ghiacci sviluppata
da Agassiz; non voleva ammettere che le quantità di ghiaccio ed i rit­
mi di scorrimento fossero stati cosi diversi nel passato.)
4. La Terra è rimasta fondamentalmente la stessa dal momento
150 Questa idea della vita

della sua formazione (uniformità di configurazione). Questo ultimo


elemento dell'uniformità di Lyell è stato discusso di rado. Dopo tut­
to si tratta di un'affermazione di carattere empirico, e in gran parte
errata: chi è disposto a smascherare i passi falsi di un eroe? Eppure io
credo che fosse questa l'uniformità che Lyell sentiva di piu e la piu
importante nella sua concezione della Terra. La Terra di Newton
ruota eternamente attorno alla sua stella senza che la sua storia si
muova in alcuna direzione. Ogni momento è uguale a tutti gli altri.
Perché non applicare una visione cosi geniale anche alla storia geolo­
gica del nostro pianeta? La terra ed il mare, pur potendo cambiare le
loro posizioni, esisterebbero nel tempo in proporzioni approssimati­
vamente costanti; le specie vanno e vengono, ma il grado medio di
complessità della vita resterebbe sempre quello. Interminabili cam­
biamenti nei dettagli, aspetto sempre costante: uno stato di equili­
brio dinamico, per usare il linguaggio odierno della teoria dell'infor­
mazlOne.
Lyell arrivò quindi a dire, contro ogni evidenza, che sarebbe sta­
to possibile trovare dei mammiferi negli strati fossiliferi piu antichi.
Per conciliare la sembianza di direzione presente nella storia della vi­
ta con l'equilibrio dinamico, Lyell suppose che l'intera documenta­
zione fossile rappresentasse solo una parte di un <<grande anno>>, un
grande ciclo che si sarebbe ripetuto quando «l'enorme iguanodonte
riapparirà nei boschi; e l'ittiosauro nel mare, mentre lo pterodattilo
[sic] volerà di nuovo tra gli ombrosi boschetti di felci>>.
I catastrofisti si basarono su ciò che era evidente. Secondo loro
c'era una direzione nella storia della vita e, in retrospettiva, possia­
mo dire che avevano ragione.
La gran parte dei geologi vi direbbe che la loro scienza rappresen­
ta il completo trionfo dell'uniformità di Lyell sulla visione non
scientifica dei catastrofisti. Il memoriale di Lyell ebbe successo gra­
zie alla celebrità del suo autore, ma la verità è che nella moderna
geologia si trovano mescolate in parti uguali le due scuole scientifi­
che: l'originale, rigido uniformismo di Lyell e il catastrofismo scien­
tifico di Cuvier e Agassiz. È vero che oggi noi accettiamo le prime
due «uniformità>> di Lyell, ma lo fecero anche i catastrofisti. La terza
uniformità debitamente ammorbidita è il suo contributo essenziale;
Uniformità e catastrofe 151

la quarta (e piu importante) uniformità è stata benignamente dimen­


ticata.
Eppure ci sarebbe molto da dire sull'idea di equilibrio dinamico
di Lyell. Apparentemente questo concetto può sembrare in contra­
sto con aspetti chiaramente direzionali della storia della vita e della
Terra. Ma la cristianità medioevale riusciva ad inglobare entrambe le
visioni nel suo modo di concepire la storia. Nei vetri delle cattedrali
la storia umana è raffigurata come una sequenza lineare che comin­
cia nel transetto nord e corre lungo tutta la navata fino a quello ri­
volto a sud - un processo direzionale -: creazione, venuta di Cri­
sto, resurrezione dei morti. Ma il sistema è anche pervaso d'armo­
nia, e l'impressione che si vada in una qualche direzione si perde nel­
la dimensione dell'eternità. Il Nuovo Testamento è la ripetizione del
Vecchio. Maria è come il roveto ardente perché entrambi avevano
dentro di loro il fuoco di Dio, eppure non ne furono consumati.
Cristo è come Giona perché entrambi risorsero in extremis dopo tre
giorni. Le due visioni - direzionalismo ed equilibrio dinamico -
non sono inconciliabili. Anche per la geologia era quindi possibile
tentarne una sintesi creativa.
19
L'eresia di Velikovsky

Non molto tempo fa, Venere si staccò da Giove, come Atena eb­
be origine dalla fronte di Zeus - esattamente allo stesso modo! -
quindi assunse la forma e l'orbita di una cometa. Nel 1500 a.C., al
tempo dell'esodo degli ebrei dall'Egitto, la Terra passò due volte at­
traverso la coda di Venere, e ne derivarono sia fortune che sciagure;
cadde la manna dal cielo (o piuttosto dalla coda di idrocarburi della
cometa) e comparvero i fiumi insanguinati delle piaghe di Mosè (cau­
sati dal ferro della stessa coda). Continuando la sua corsa erratica,
Venere si scontrò con Marte (o lo sfiorò), perse la sua coda e precipi­
tò verso la sua orbita attuale. Marte lasciò allora la sua posizione
normale e nel 700 a.C. mancò di poco la Terra. Tale fu il terrore in
queste circostanze e cosi sentito il desiderio di dimenticarle che il lo­
ro ricordo è stato cancellato dalla nostra coscienza. Ma esse restano
in agguato nella nostra memoria ereditaria ed inconscia e sono all'o­
rigine di paure, nevrosi, aggressività e delle conseguenti manifesta­
zioni sociali, come la guerra.
Questo potrebbe sembrare il copione di uno di quei filmetti che
vanno in onda a tarda ora in TV. Eppure si tratta della teoria esposta
seriamente da V elikovsky in Mondi in collisione. E V elikovsky non è
né un pazzoide né un ciarlatano, anche se, per dire la mia opinione e
citare uno dei miei colleghi, sta come minimo commettendo un
enorme errore.
L'eresia di V elikovsky 153

Mondi in collisione, pubblicato venticinque anni fa, continua a su­


scitare un intenso dibattito. Le conseguenze di questo lavoro hanno
anche oltrepassato l'ambito strettamente scientifico. È indubbio che
Velikovsky fu maltrattato da certi accademici che cercarono di im­
pedire la pubblicazione del suo libro. Ma per ottenere lo status di
Galileo non basta essere perseguitati, bisogna anche avere ragione. I
risultati scientifici e quelli sociali sono due cose distinte. Inoltre, i
tempi ed il trattamento riservato agli eretici sono cambiati. Bruno fu
bruciato vivo; Galileo, dopo aver visto gli strumenti di tortura, fu
costretto a languire agli arresti domiciliari. Velikovsky ottenne pub­
blicità e diritti d'autore. Torquemada fu crudele; gli accademici av­
versari di V elikovsky sono stati soltanto stupidi.
Per quanto sorprendenti possano essere le affermazioni di Veli­
kovsky, io trovo che il suo metodo d'indagine poco ortodosso e la
sua teoria fisica siano interessanti. L'ipotesi di lavoro iniziale del no­
stro eretico è quella che tutte le storie riportate come dirette osserva­
zioni dalle antiche cronache debbano essere assolutamente vere - se
la Bibbia dice <<il Sole si arrestÒ>>, allora deve essere stato cosi davvero
(poiché il passaggio di V enere avrebbe fermato per un po' la rotazio­
ne terrestre). Egli tentò quindi di trovare una spiegazione fisica, per
quanto bizzarra, che legasse tra loro tutte queste storie e le rendesse
credibili. La gran parte degli scienziati farebbero esattamente l' oppo­
sto, usando i limiti della realtà fisica per giudicare quali delle antiche
leggende possano essere prese alla lettera. (Ho dedicato il saggio 17
all'ultimo importante lavoro scientifico condotto con i metodi di
Velikovsky, Telluris theoria sacra di Thomas Burnet, pubblicato per
la prima volta negli anni ottanta del XVII secolo.) Inoltre, Velikovs­
ky sapeva bene che le leggi universali di Newton, secondo le quali le
forze gravitazionali governano il movimento delle grandi masse,
non permettono deviazioni al moto dei pianeti. Perciò propone una
nuova rivoluzionaria teoria delle forze elettromagnetiche per le
grandi masse. In poche parole, Velikovsky, pur di salvare il contenu­
to letterale delle antiche leggende, vorrebbe ricostruire l'intera scien­
za della meccanica celeste.
Avendo escogitato una teoria cataclismatica della storia umana,
Velikovsky cercò poi di estendere la sua fisica a tutto l'arco dei tem-
154 Questa idea della vita

pi geologici. Nel 1955 pubblicò Earth in Upheaval, il suo trattato di


geologia. Con Newton e i fisici moderni già sotto tiro, se la prese
con Charles Lyell e la geologia moderna. Se nel giro di soli 3.500 an­
ni la Terra aveva incontrato due volte i pianeti vaganti, certo la sua
storia doveva essere segnata dalle catastrofi, e non dai lenti e graduali
cambiamenti previsti dalla teoria uniformista di Lyell.
V elikovsky scorse la letteratura geologica dei cento anni prece­
denti per trovare la testimonianza di eventi cataclismatici - diluvi,
terremoti, eruzioni, nascita di montagne, estinzioni di massa e muta­
menti climatici. Una volta trovati questi eventi, ne cercò una causa
comune: <<Ciò che li ha causati deve essere stato improvviso e violen­
to; ricorrente, ma ad intervalli molto irregolari; e deve essere stato di
potenza titanica>>.
Cosa che non ci stupisce, egli invoca le forze elettromagnetiche
dei corpi celesti esterni alla Terra. In particolare, sostiene che queste
forze sono in grado di modificare rapidamente la rotazione terrestre
- fino al punto di capovolgere letteralmente la Terra in casi estremi,
scambiando i poli con l'equatore. Velikovsky offre un resoconto
piuttosto colorito degli effetti che potrebbero accompagnare cosi
improvvisi spostamenti dell'asse di rotazione terrestre: <<In quel mo­
mento un terremoto farebbe tremare il globo. L'aria e l'acqua conti­
nuerebbero a muoversi per inerzia; gli uragani spazzerebbero la ter­
ra, e i mari si scaglierebbero contro i continenti ... Si svilupperebbe
calore, le rocce fonderebbero, i vulcani entrerebbero in eruzione, la
lava fluirebbe dalle fenditure del terreno e coprirebbe vaste aree.
Dalle pianure sorgerebbero delle montagne>>. Certo se le prove per
Mondi in collisione sono quelle delle leggende umane, non c'è dubbio
che a sostenere Earth in Upheaval sia sufficiente la storia geologica.
L'intera argomentazione di Velikovsky ruota attorno alla sua lettura
della letteratura geologica. Lettura che è stata, a mio avviso, piutto­
sto approssimativa e carente. Quello che intendo fare ora, anziché
dedicarmi alla confutazione delle specifiche affermazioni di V eli­
kovsky, è occuparmi in particolare degli errori generali del suo me­
todo.
Primo, il ritenere che la somiglianza delle forme rifletta la simul­
taneità degli avvenimenti: Velikovsky si occupò dei pesci fossili di
L'eresia di Velikovsky 155

Old Red Sandstone, una formazione devoniana che si trova in In­


ghilterra (vecchia di 350-400 milioni di anni). Ci sarebbero le prove
di una morte violenta di questi pesci - contorcimento del corpo,
mancanza di predazione, persino segni di «sorpresa e terrore>> im­
pressi per sempre nei lineamenti dei fossili. Egli ne deduce che tutti
questi pesci devono essere morti a causa di una qualche improvvisa
catastrofe; eppure, per quanto spiacevole possa essere stata la morte
di ognuno di loro, questi pesci sono distribuiti su decine di metri di
sedimenti che sono la testimonianza di diversi milioni di anni di de­
posizione! Lo stesso vale per i crateri della Luna, che si assomigliano
ed ognuno dei quali si è formato per il violento impatto di un me­
teorite. Il flusso di meteoriti dura infatti da miliardi di anni, e l'ipo­
tesi preferita da Velikovsky, secondo la quale i crateri si sarebbero
formati simultaneamente dal ribollire della superficie di una Luna li­
quefatta è stata definitivamente bocciata in seguito alle missioni
Apollo.
Secondo, il supporre che eventi che hanno avuto effetti di note­
voli proporzioni debbano essere stati necessariamente improvvisi. Il
modo con cui Velikovsky affronta l'argomento dei ghiacci del Plei­
stocene e delle centinaia di metri di acqua degli oceani che devono
essere evaporati per formarli è pittoresco. L'unica spiegazione di
questo processo è per lui un'ebollizione dell'oceano seguita da un
raffreddamento generale: <<Fu necessaria un'insolita sequenza di
eventi: gli oceani devono essere evaporati e il vapore acqueo deve es­
sere caduto come neve alle latitudini dei climi temperati. Il caldo e il
freddo devono essersi succeduti in un breve arco di tempo>>.
Eppure i ghiacciai non nascono in una notte. Essi si formano rapi­
damente rispetto ai tempi geologici, ma nelle poche migliaia di anni
della loro crescita c'è tutto il tempo di realizzare un graduale accumu­
lo di neve tramite le precipitazioni annuali. Non c'è bisogno di far
evaporare gli oceani; nel Canada settentrionale nevica ancora oggi.
Terzo, la deduzione di eventi su scala mondiale da catastrofi loca­
li: nessun geologo ha mai negato che avvengano catastrofi locali ad
opera di diluvi, terremoti o eruzioni vulcaniche. Ma tutto ciò non
ha assolutamente niente a che vedere con la nozione di Velikovsky
di una catastrofe globale provocata da un improvviso spostamento
156 Questa idea della vita

dell'asse terrestre. Tuttavia la gran parte degli <<esempi>> riportati da


Velikovsky sono proprio quegli eventi locali combinati in un feno­
meno globale con un'arbitraria estrapolazione. Egli cita, per esem­
pio, l'Agate Springs Quarry del Nebraska - un cimitero di mammi­
feri contenente (secondo una stima) le ossa di circa 20.000 grandi ani­
mali. Ma questo grosso deposito può benissimo non essere la testi­
monianza di un evento catastrofico: fiumi ed oceani possono accu­
mulare gradualmente grosse quantità di ossa e conchiglie (mi è capi­
tato di camminare su spiagge fatte solo di grandi conchiglie e detriti
corallini). Inoltre, anche ammesso che questi animali siano annegati
per un diluvio locale, non c'è alcuna prova che i contemporanei loro
simili, abbiano avuto, sugli altri continenti, il minimo problema.
Quarto, l'uso di sole fonti datate: prima del 1850, la gran parte
dei geologi pensavano alle catastrofi generali come causa principale
dei cambiamenti geologici. Non erano degli stupidi, e sostenevano la
loro posizione in modo convincente. Se leggiamo solo i loro lavori,
le loro conclusioni ci appaiono conseguenti. Nell'intera discussione
sulla catastrofica moria di pesci fossili europei Velikovsky cita solo i
lavori di Hugh Miller del 1841 e di William Buckland del 1820 e
1837. Evidentemente la voluminosa letteratura dei cento anni tra­
scorsi da allora contiene cose di nessuna importanza. Cosi è anche
per le nozioni di metereologia nel discorso sull'origine delle ere gla­
ciali, nozioni tratte dal lavoro di John Tyndall del 1833. Eppure si
tratta di uno dei soggetti piu discussi nelle società di geologia duran­
te questo secolo.
Quinto, trascuratezza, imprecisione e giochi di prestigio: Earth in
Upheaval è costellato di piccoli errori e mezze verità, di per sé poco
importanti, ma che riflettono un atteggiamento disinvolto nei con­
fronti della letteratura geologica o, piu semplicemente, una sua man­
cata comprensione. Cosi Velikovsky attacca il postulato uniformista
secondo il quale le cause attuali consentono di spiegare il passato, so­
stenendo che al giorno d'oggi non si sta formando alcun fossile.
Chiunque abbia raccolto vecchie ossa dal fondo di un lago o conchi­
glie dalle spiagge sa che questa affermazione è semplicemente assur­
da. Allo stesso modo Velikovsky rifiuta il gradualismo darwiniano,
sostenendo che «alcuni organismi, come i foraminiferi, sopravvisse-
L'eresia di Velikovsky 157

ro a tutte le ere geologiche senza partecipare all'evoluzione>>. Questa


affermazione compare occasionalmente nella letteratura piu vecchia,
scritta prima che qualcuno avesse studiato seriamente queste creatu­
re unicellulari. Ma nessuno ha continuato a sostenere questa tesi do­
po il voluminoso lavoro descrittivo di John Cushman degli anni
venti. Per finire, veniamo a sapere che le rocce ignee - granito e ba­
salto - <<hanno inclusi al loro interno innumerevoli organismi vi­
venti>>. Né io né nessun altro paleontologo ne abbiamo mai saputo
nulla.
Ma tutto ciò non è nulla di fronte alla piu definitiva confutazione
degli esempi di Velikovsky: la loro spiegazione come conseguenze
della deriva dei continenti e della tettonica a zolle. E qui Velikovsky
non ha colpa. È semplicemente stato vittima - come molti altri le
cui opinioni erano precedentemente ritenute le piu ortodosse - di
questa grande rivoluzione del pensiero geologico. In Earth in Uphea·
val, Velikovsky rigetta in modo abbastanza ragionevole la deriva dei
continenti come spiegazione alternativa per i piu importanti feno­
meni da lui citati a sostegno della sua teoria catastrofista. E la rigetta
per il motivo che è stato poi piu comunemente addotto dai geologi:
la mancanza di un meccanismo per il movimento dei continenti.
Questo meccanismo è stato trovato con la verifica del dispiegarsi del
fondo dei mari (si vedano i saggi 16 e 20). La fenditura africana non è
una spaccatura formatasi durante un repentino capovolgimento del­
la Terra; è parte di un sistema di fenditure del pianeta, è una giunzio­
ne tra due piattaforme della crosta; l'Himalaya non sorse durante
uno spostamento della Terra, ma quando la piattaforma indiana pre­
mette lentamente contro l'Asia. I vulcani del Pacifico, il <<cerchio di
fuoco>>, non sono il risultato della iiquefazione della crosta durante
l'ultimo spostamento dell'asse di rotazione, sono il confine tra due
piattaforme. E' vero, ci sono coralli fossili nelle regioni polari, car­
bone nell'Antartico, e prove della glaciazione permiana nel Sud
America tropicale. Ma non c'è bisogno del capovolgimento della
Terra per spiegare tutto ciò, perché i continenti si sono spostati nelle
loro attuali posizioni da differenti regimi climatici.
Per sua sfortuna, Velikovsky con la tettonica a zolle ha perso
qualcosa di ancor piu importante del suo meccanismo di spostamen-
158 Questa idea della vita

to assiale; probabilmente ha perso completamente l'ammissibilità ra­


zionale della sua posizione catastrofista. Come sostiene Walter Sulli­
van nel suo recente libro sulla deriva dei continenti, la teoria della
tettonica a zolle ha fornito una sbalorditiva conferma della tesi uni­
formista secondo la quale gli eventi passati vanno attribuiti all'azio­
ne di cause tutt'ora esistenti senza che l'intensità di queste debba
aver subito grossi cambiamenti. Infatti le piattaforme continuano a
muoversi anche oggi, portando con loro i continenti. E il desolante
panorama di eventi collegati - la cintura di vulcani e zone sismiche
che si estende su tutto il mondo, le collisioni dei continenti, le estin­
zioni faunistiche di massa (si veda il saggio 16) - possono essere spie­
gati con il continuo movimento di queste gigantesche piattaforme al
ritmo di soli pochi centimetri all'anno.
Dall'affare Velikovsky nasce quella che è forse la piu fastidiosa
delle domande sulle conseguenze sociali della scienza. Che diritto ha
un profano di giudicare le affermazioni di gente che si suppone
esperta? Qualsiasi persona abile con le parole può intessere un di­
scorso persuasivo su un qualsiasi soggetto che non sia nel dominio
dell'esperienza personale del lettore. Io non sono in grado di giudica­
re gli argomenti storici di Mondi in collisione. Non me ne intendo
molto di meccanismi celesti e ancor meno della storia del Regno Me­
dio d'Egitto (anche se ho sentito i lamenti degli esperti per la crono-
. logia poco ortodossa di Velikovsky). Non voglio sostenere che i non
specialisti debbano per forza avere torto. Ma quando vedo in che
razza di modo Velikovsky usa i dati che mi sono familiari, allora
non posso non avere dei dubbi sul suo modo di trattare il materiale
che non conosco. Ma che ne sarà di una persona che non sa nulla di
astronomia, egittologia e geologia, considerando anche che è posta
di fronte ad un'ipotesi in fondo cosi eccitante e dato che tutti noi,
mi pare, abbiamo la tendenza a fare il tifo per il perdente?
Sappiamo che molte idee fondamentali della scienza moderna so­
no sorte come speculazioni eretiche avanzate da non specialisti. Tut­
tavia la storia costituisce un filtro che influenza il nostro giudizio.
Noi cantiamo le lodi dell'eroe anticonformista, ma per ogni eretico
che ha successo ci sono un centinaio di uomini dimenticati che sfida­
no le opinioni dominanti e perdono. Chi di noi ha mai sentito parla-
L'eresia di Velikovsky 159

re di Eimer, Cuénot, Trueman o Lang, i principali sostenitori del­


l'ortogenesi (la teoria dell'evoluzione «Con direzione>>) contro l'on­
data darwiniana? Tuttavia io continuerò a parteggiare per l'eresia
predicata dai non specialisti; sfortunatamente, non credo che Veli­
kovsky sarà tra i vincitori in quello che è il piu difficile tra tutti i
giochi.
20
La convalida della deriva
dei continenti

Nel momento in cui la nuova ortodossia darwiniana si impose in


Europa, il suo piu brillante oppositore, il vecchio embriologo Karl
Ernst von Baer, osservò con amara ironia che ogni teoria destinata al
trionfo passa attraverso tre stadi: inizialmente è respinta come falsa;
poi è respinta perché contraria alla religione; infine è accettata come
un dogma e tutti gli scienziati affermano di essersi resi conto da tem­
po della sua validità.
Ebbi a che fare per la prima volta con la teoria della deriva dei
continenti quando questa era ancora sotto l'inquisizione del secondo
stadio. Kenneth Caster, l'unico grande paleontologo americano che
osava sostenerla apertamente, venne a tenere una conferenza alla
mia università, l' Antioch College. Questo istituto aveva la fama di
essere una roccaforte del piu rigido conservatorismo, ma la gran par­
te di noi respingeva sia le idee di Caster che questa arroganza conser­
vatrice. (Dal momento che ora sto vivendo il terzo stadio della teo­
ria della deriva, mi ricordo bene che Caster ebbe la capacità di far
sorgere in me dei seri dubbi.) Ricordo ancora l'atteggiamento di
aprioristica derisione del mio illustre professore di stratigrafia nei
confronti di un visitatore australiano, sostenitore della deriva, che
venne alcuni anni piu tardi alla Columbia University, dove stavo
conducendo i miei studi post-universitari. Poco ci mancò che orga­
nizzasse un coro di benvenuto con una massa meschina di studenti
La deriva dei continenti 161

fedelissimi. (Sempre a conferma del mio passaggio al terzo stadio, de­


vo dire che ricordo questo episodio come divertente, ma al tempo
stesso disgustoso.) Per riguardo nei confronti del mio professore, de­
vo ricordare che andò incontro ad una rapida conversione solo due
anni dopo, e passò il resto della sua vita a riscrivere i suoi lavori.
Oggi, solo dieci anni piu tardi, i miei studenti respingerebbero,
ridicolizzandolo ancora di piu, chiunque negasse l'evidente verità
della deriva dei continenti: se un profeta pazzo è divertente, un pe­
dante sorpassato fa soltanto pena. Perché è avvenuto un cambiamen­
to cosi profondo nel breve arco di dieci anni?
La gran parte degli scienziati continua a pensare - o almeno cosi
dichiara per il pubblico consumo - che la loro professione sia una
inarcia verso la verità compiuta con la raccolta di un numero sempre
maggiore di dati, sotto la guida di un procedimento infallibile chia­
mato <<metodo scientifico>>. Se ciò fosse vero, non sarebbe difficile ri­
spondere alla nostra domanda. I fatti, cosi come li conoscevamo die­
ci anni fa, parlavano contro la deriva dei continenti; da allora in poi
abbiamo imparato molte cose in piu e abbiamo rivisto le nostre opi­
nioni di conseguenza. Tuttavia io dimostrerò che questo scenario è
tanto inapplicabile in generale quanto del tutto sbagliato in questo
caso specifico.
Durante il periodo in cui la teoria era quasi universalmente re­
spinta, la prova diretta della deriva dei continenti - che è il dato ot­
tenuto dalle rocce visibili sui nostri continenti - era buona tanto
quanto lo è oggi. Veniva respinta perché nessuno aveva inventato un
meccanismo fisico che spiegasse come i continenti potessero aprirsi
un varco in un fondo oceanico apparentemente solido. In assenza di
un meccanismo credibile, l'idea della deriva dei continenti era riget­
tata come assurda. I dati che sembravano confermarla potevano sem­
pre essere spiegati in un altro modo. Per quanto queste spiegazioni
suonassero forzate, sembravano comunque molto piu verosimili del­
la deriva dei continenti. Durante gli ultimi dieci anni abbiamo rac­
colto una nuova serie di dati, questa volta riguardanti i bacini ocea­
nici. Con questi dati, con una forte dose di immaginazione creativa e
con una migliore comprensione della struttura interna della Terra,
abbiamo forgiato una nuova teoria di dinamica planetaria. Una volta
162 Questa idea della vita

accettata questa teoria della tettonica a zolle la deriva dei continenti


diviene una inevitabile conseguenza. I vecchi dati sulle rocce conti­
nentali, che in precedenza erano respinti in blocco, sono stati riesu­
mati ed esaltati come prove conclusive della deriva. Per farla breve,
oggi noi accettiamo la deriva dei continenti perché risponde alle
aspettative di una nuova ortodossia.
lo considero questa vicenda come tipica del progresso scientifico.
Dati nuovi, raccolti con sistemi vecchi sotto la guida di vecchie teo­
rie, raramente portano a qualche sostanziale revisione del pensiero. I
dati non «parlano da soli>>; vengono letti alla luce della teoria. Il pen­
siero creativo, nella scienza cosi come nell'arte, è il motore dei cam­
biamenti di opinione. La scienza è un concentrato di attività umana,
non un processo di meccanica, robotica accumulazione di informa­
zioni obiettive che, grazie alle leggi della logica, porta a conclusioni
inevitabili. Cercherò di illustrare questa tesi con due esempi ricavati
dai dati «classici>> a favore della deriva dei continenti. In entrambi i
casi si tratta di storie vecchie che dovevano essere rimosse finché la
deriva era poco popolare.
L La glaciazione del tardo Paleozoico. Circa 240 milioni di anni
fa i ghiacciai coprirono parte di quella che è oggi l'America del sud,
dell'Antartico, dell'India, dell'Africa e dell'Australia. Se la posizione
dei continenti fosse fissa, questa distribuzione sarebbe difficilmente
spiegabile, dato che:
a) L'orientamento delle striature nella parte orientale dell'Ameri­

ca del sud indica che i ghiacciai si mossero verso l'interno del conti­
nente a partire da quello che è oggi l'Oceano Atlantico (le striature
sono graffiature del letto roccioso dei ghiacciai causate dal movimen­
to di pietre congelate al loro interno). Gli oceani del mondo forma­
no un sistema unico e il trasporto di calore dalle aree tropicali impe­
disce il congelamento della gran parte di questi oceani.
b) I ghiacciai africani coprirono quelle che ora sono aree tropicali.
c) I ghiacciai indiani devono essere cresciuti nelle regioni semitro­

picali dell'emisfero settentrionale; per giunta le striature indicano la


loro origine nelle acque tropicali dell'Oceano Indiano.
d) In nessuno dei continenti dell'emisfero settentrionale esisteva­
no ghiacciai. Com'è possibile che non ci fossero ghiacciai nel Cana-
La deriva dei continenti 163

da o nella Siberia settentrionali, se la Terra era tanto fredda da con­


gelare l'Africa tropicale?
Tutte queste difficoltà svaniscono se durante questo periodo gla­
ciale i continenti meridionali (compresa l'India) erano uniti assieme
e localizzati nel piu profondo sud, a coprire il Polo; i ghiacciai del­
l' America del sud mossero dall'Africa, non dall'oceano; l'Africa
«tropicale>> e l'India <<semitropicale>> erano vicine al Polo sud; il Polo
nord stava nel mezzo di un oceano ben piu grande di quello attuale,
e quindi i ghiacci non si poterono sviluppare nell'emisfero setten­
trionale. Tutto ciò è in perfetto accordo con la deriva, e oggi nessu­
no ha dubbi che le cose siano andate cosi.
IL La distribuzione dei trilobiti del Cambriano (fossili di artropo­
di vissuti da 500 a 600 milioni di anni fa). I trilobiti cambriani del­
l'Europa e dell'America del nord si dividono in due faune piuttosto
diverse che si distribuiscono in modo molto particolare sulle attuali
carte geografiche. I trilobiti della regione atlantica vissero in tutta
l'Europa e in alcune aree molto ristrette dell'estremo confine orien­
tale dell'America del nord: la Terranova orientale (ma non quella oc­
cidentale) e il Massachusetts sud-orientale, per esempio. I trilobiti
della regione del Pacifico vissero in tutta l'America e in alcune picco­
le zone ai margini piu occidentali delle coste europee: nella Scozia
settentrionale e nella Norvegia nord-occidentale, per esempio. È ter­
ribilmente difficile dare un senso a questa distribuzione se i due con­
tinenti sono sempre stati lontani 5.000 km.
Ma la deriva dei continenti suggerisce una soluzione sorprenden­
te. Nel periodo cambriano, l'Europa e l'America del nord erano se­
parate: i trilobiti atlantici vivevano nelle acque attorno all'Europa, i
trilobiti del Pacifico nelle acque attorno all'America. Poi i continen­
ti (che oggi comprendono i sedimenti con inclusi i trilobiti) andaro­
no alla deriva uno verso l'altro e alla fine si unirono assieme. Piu tar­
di si divisero di nuovo, ma non esattamente lungo la linea della loro
precedente congiunzione. Dei pezzi sparsi dell'antica Europa, conte­
nenti trilobiti atlantici, rimasero attaccati alla parte piu orientale del­
l' America del nord, mentre alcuni pezzi della vecchia America del
nord restarono uniti alla parte piu occidentale dell'Europa.
Entrambi questi esempi vengono oggi ampiamente citati come
164 Questa idea della vita

prove della deriva, ma negli anni precedenti erano rigettati in bloc­


co, non perché i dati fossero meno completi, ma solo perché nessu­
no aveva trovato un meccanismo credibile per il movimento dei
continenti. Tutti i primi sostenitori della deriva immaginavano che i
continenti si facessero largo attraverso uno statico fondo oceanico.
Alfred Wegener, il padre della deriva dei continenti, sostenne all'ini­
zio del nostro secolo che la gravità era sufficiente a mettere in movi­
mento i continenti. Questi si sarebbero spostati lentamente verso
ovest, per esempio, perché le forze attrattive del Sole e della Luna li
trattenevano mentre la Terra ruotava sotto di loro. I fisici risero di
questa idea e dimostrarono matematicamente che le forze gravitazio­
nali sono di gran lunga insufficienti a consentire uno spostamento
cosimonumentale. Perciò Alexis du Toit, un sudafricano che soste­
neva la teoria di W egener, provò una strada diversa. Ipotizzò che i
continenti potessero scorrere attraverso il fondo oceanico grazie ad
una sua fusione per radioattività nei pressi dei confini continentali.
Questa ipotesi non aumentò però la credibilità della speculazione di
Wegener.
Dato che in assenza di un meccanismo per il movimento dei con­
tinenti la teoria sembrava assurda, i geologi ortodossi fecero in mo­
do di presentare le impressionanti prove a suo favore come una serie
di coincidenze indipendenti.
Nel 1932 il famoso geologo americano Bailey Willis si sforzò di
far quadrare le prove della glaciazione con la staticità dei continenti.
Egli invocò il deus ex machina degli «istmi di collegamento»: stretti
ponti di terra lanciati con audace slancio attraverso 5.000 km di
oceano. Ne pose uno tra il Brasile orientale e l'Africa occidentale, un
altro tra l'Africa e l'India via Madagascar, un terzo tra il Vietnam e
l'Australia, attraverso il Borneo e la Nuova Guinea. Il suo collega,
professor Charles Schuchert di Yale, ne aggiunse uno dall'Australia
all'Antartico e un altro dall'Antartico all'America del sud, comple­
tando cosi l'isolamento di un oceano meridionale dal resto delle ac­
que del pianeta. Un tale oceano isolato poteva congelarsi lungo il
suo margine meridionale, permettendo ai ghiacciai di muoversi tra­
sversalmente all'interno della parte orientale dell'America del sud.
Le sue fredde acque avrebbero anche alimentato i ghiacciai dell'Afri-
La deriva dei continenti 165

ca meridionale. I ghiacciai indiani, posti al di sopra dell'equatore,


5.000 km piu a nord di qualsiasi ghiaccio meridionale, richiedevano
una spiegazione a sé. Scrisse Willis: <<Non è ragionevole che ci sia al­
cuna connessione diretta tra gli avvenimenti. Il caso deve essere con­
siderato sulla base di una causa generale e delle condizioni geografi­
che e topografiche locali>>. L'inventiva di Willis fu all'altezza del
compito: semplicemente ipotizzò che l'altezza della zona dovesse es­
sere tale da causare la precipitazione delle calde acque provenienti da
meridione sotto forma di neve. Quanto all'assenza di ghiacciai nelle
zone temperate ed antartiche dell'emisfero settentrionale, Willis
pensò ad un sistema di correnti oceaniche che gli permetteva di po­
stulare «una corrente calda che scorre verso nord sotto le piu fredde
acque di superficie ed emerge nella zona artica funzionando come un
sistema di riscaldamento ad acqua calda>>. Schuchert era soddisfatto
della soluzione fornita dagli istmi di collegamento: <<Secondo il bio­
geografo Holarctis, grazie a un ponte di terra dall'Africa del nord al
Brasile, un altro dall'America del sud all'Antartide (che non è scom­
parso del tutto), un altro ancora da questa terra polare all'Australia e
da quest'ultima all'Asia attraverso il mare Arafura, il Borneo e Su­
matra, piu i mezzi accertati di diffusione attraverso le secche marine
e per mezzo di venti, correnti marine e uccelli migratori, è possibile
spiegare la diffusione della vita e dei suoi regni marini e terrestri nel
corso delle ere geologiche senza dover pensare a mutamenti dell'at­
tuale disposizione dei continenti>>.
La sola proprietà che tutti questi ponti di terra avevano in comu­
ne era il loro status del tutto ipotetico; non c'era la benché minima
prova a sostegno di ciascuno di essi. Tuttavia, onde evitare che la sa­
ga degli istmi di collegamento sia letta come una storia fantasiosa e
mistificante inventata dai dogmatici per sostenere una ortodossia in­
difendibile, faccio notare che la deriva dei continenti sembrava legit­
timamente dieci volte piu assurda e immaginaria dei ponti di terra
lunghi migliaia di chilometri a Willis, Schuchert e ad ogni assennato
geologo degli anni trenta.
Alla luce di una cosi fertile immaginazione era ovvio che i trilobi­
ti cambriani non dovessero costituire un problema insormontabile.
Le regioni atlantica e del Pacifico erano interpretate come ambienti
166 Questa idea della vita

diversi, piuttosto che come luoghi differenti: acque poco profonde


per quella del Pacifico, piu profonde per l'atlantica. Liberi di inven­
tare praticamente qualsiasi ipotetica geometria per i bacini oceanici
del Cambriano, i geologi disegnarono le loro mappe e diedero forma
alla loro ortodossia.
Quando, alla fine degli anni sessanta, la deriva dei continenti di­
venne di moda, i dati classici sulle rocce continentali non giocarono
alcun ruolo: la deriva si presentò sotto le vesti di una teoria nuova,
sostenuta da nuovi tipi di prove. Le assurdità fisiche della teoria di
Wegener poggiavano sulla sua convinzione che i continenti si apris­
sero la strada nel fondo oceanico. Ma in che altro modo poteva av­
venire la deriva? Il fondo oceanico, la crosta della Terra, doveva esse­
re stabile. In fin dei conti, com'era possibile che se ne muovessero
dei pezzi senza che si producessero dei buchi sulla Terra? Piu chiaro
di cosi! O no?
L' «impossibile>> generalmente è un frutto delle nostre teorie e
non una realtà della natura. Le teorie rivoluzionarie lavorano sul­
l'imprevisto. Se i continenti si muovessero attraverso gli oceani, non
ci sarebbe deriva; supponiamo, comunque, che i continenti siano
congelati all'interno della crosta oceanica e si muovano passivamen­
te quando si spostano i pezzi di crosta che li circondano. Come ca­
varsela, visto che abbiamo appena affermato che la crosta non può
muoversi senza che si formino degli squarci? A questo punto ci tro­
viamo in una situazione di stallo che può essere risolta solo per mez­
zo dell'immaginazione; con un'altra campagna di studi sulle pieghe
degli Appalachi non si risolverebbe nulla; si tratta di concepire la
Terra in modo completamente diverso.
Il problema degli squarci nella crosta può essere superato grazie
ad un audace postulato, che pare comunque valido. Se due pezzi del
fondo oceanico si allontanano l'uno dall'altro, non si creerà alcun
vuoto se dall'interno della Terra fuoriesce del materiale che colma il
crepaccio creatosi. Rovesciando i rapporti causali di questa afferma­
zione si può fare un ulteriore passo avanti: la forza che determina
l'allontanamento del vecchio fondo oceanico può essere l'emergenza
di nuovo materiale dall'interno della Terra. Ma, dal momento che la
Terra non si sta espandendo, devono esistere anche delle regioni nel-
La deriva dei continenti 167

le quali il vecchio fondo marino sprofonda all'interno della Terra,


consentendo cos1 il mantenimento di un equilibrio tra creazione e
distruzione.
Infatti, la superficie della Terra sembra essere rotta in una decina
scarsa di «zolle>>, circondate su tutti i lati da strette zone di emergen­
za (dorsali oceaniche) e sprofondamento (le fosse). I continenti sono
bloccati all'interno di queste zolle, assieme alle quali sono costretti a
muoversi quando il fondo marino si sposta dalle zone di emergenza
alle fosse oceaniche. La deriva dei continenti non è piu una grandio­
sa teoria a sé stante; è divenuta la passiva conseguenza della nostra
nuova ortodossia: la tettonica a zolle.
Oggi abbiamo una ortodossia, basata sul movimento, precisa e as­
soluta come lo staticismo di cui ha preso il posto. In questa luce, i
dati classici sulla deriva sono stati riesumati e propagandati come
prove valide. Eppure questi dati non ebbero alcun ruolo nella conva­
lida del concetto dei continenti mobili; la deriva trionfò solo quando
divenne la necessaria conseguenza di una nuova teoria.
La nuova ortodossia ci porta ad una lettura diversa di tutti i dati;
non esistono ,,fatti puri>> in un mondo complesso come il nostro.
Circa cinque anni fa i paleontologi trovarono nell'Antartico un ret­
tile fossile chiamato Lystrosaurus; questo animale viveva anche in Su­
dafrica, e probabilmente nell'America del sud (dove non sono state
trovate rocce di quel periodo). Se qualcuno avesse usato un argo­
mento simile a sostegno della deriva in presenza di Willis e Schu­
chert sarebbe stato sicuramente messo a tacere, e giustamente. Infatti
l'Antartico e l'America del sud sono quasi uniti da una striscia di iso­
le, e sono stati certamente collegati diverse volte in passato da un
ponte di terra (che si riformerebbe ancor oggi con un minimo abbas­
samento del livello marino). Il Lystrosaurus potrebbe benissimo aver­
lo percorso, dato che si tratta di un viaggio piuttosto breve. Ciò no­
nostante, sul New York Times apparve un editoriale nel quale, sem­
plicemente sulla base di questo ritrovamento, si proclamava che la
deriva dei continenti era stata provata.
Forse molti lettori si saranno irritati per quanto ho sostenuto sul
primato della teoria. Non si rischia cos1 di arrivare al dogmatismo
ed alla sottovalutazione dell'importanza dei dati? Il rischio esiste, è
168 Questa idea della vita

vero, ma non è detto che si debba necessariamente commettere que­


sto errore. La storia ci insegna che le teorie vengono sconfitte da
teorie rivali, non che le ortodossie durano in eterno. Per quanto ri­
guarda lo spirito da crociata della tettonica a zolle, non me ne di­
spiaccio, per due motivi. La mia intuizione, vincolata ai dati attual­
mente di nostra conoscenza, mi dice che essa è fondamentalmente
corretta. Visceralmente, sento che è terribilmente stimolante, quan­
to basta per dimostrare che la scienza tradizionale può essere ben
piu interessante di qualsiasi cosa inventata da tutti i von Daniken e
di tutti i triangoli delle Bermude prodotti dall'ingenuità umana di
oggi e di ieri.
Parte sesta
Dimensioni e forma, dalle chiese
ai cervelli, ai pianeti
21
Dimensioni e forma

Chi potrebbe credere all'esistenza di una


formica sulla base di una descrizione
teorica? O spiegare una giraffa sulla base
di un disegno tecnico? Diecimila
specialisti del possibile farebbero fatica a
disquisire su metà della giungla dei
viventi.

Queste righe di J ohn Ciardi riflettono la convinzione che la no­


stra arrogante pretesa di sapere tutto finirà per essere abbandonata
di fronte alla traboccante varietà delle forme organiche. Eppure, ol­
tre a celebrare la diversità ed a mettere in luce le particolarità degli
animali, dobbiamo anche riconoscere l'esistenza di sorprendenti
«leggi>> comuni nel disegno di base degli organismi. Questa regola­
rità è particolarmente evidente nella correlazione forma e dimen­
swm.
Gli animali sono oggetti fisici. Vengono modellati dalla selezione
naturale per il loro vantaggio; di conseguenza, devono assumere le
forme che piu si adattano alle loro dimensioni. La intensità relativa
di molte forze fondamentali (per esempio la forza di gravità) varia in
modo regolare al variare delle dimensioni, e molti animali hanno ri­
sposto a questa pressione selettiva con modificazioni morfologiche
sistematiche.
La correlazione tra forma e dimensioni si basa sulle proprietà
fondamentali enunciate dalla geometria dello spazio tridimensiona­
le. Se la sua forma non subisce modificazioni, semplicemente ingran­
dendosi, qualsiasi oggetto subisce una continua diminuzione del rap­
porto area di superficie/volume. Questa diminuzione avviene per­
ché il volume aumenta secondo il cubo della lunghezza (l x l x l),
172 Questa idea della vita

mentre la superficie aumenta solo secondo il suo quadrato (L x 0: in


altre parole, il volume cresce piu rapidamente della superficie.
Che importanza ha questo fatto negli animali? Molte funzioni
che dipendono dalla superficie devono servire l'intero volume del
corpo. Il cibo digerito passa al corpo attraverso delle superfici, l'ossi­
geno respirato è assorbito attraverso delle superfici, la lunghezza del­
l'osso di una gamba dipende dall'area della sua sezione trasversale,
ma la gamba deve sostenere un corpo che aumenta in peso secondo
il cubo della sua lunghezza. Galileo fu il primo a riconoscere l'esi­
stenza di questo principio nei suoi Discorsi del 1638, il capolavoro
scritto mentre era sottoposto a vincolata dimora per ordine dell'In­
quisizione; egli fece notare che l'osso di un grande animale, per avere
la stessa forza relativa del sottile osso di un animale piccolo, deve in­
grossarsi in modo sproporzionato.
Nell'evoluzione progressiva di organismi complessi e di grandi
dimensioni è stato assai importante un espediente: lo sviluppo degli
organi interni. Il polmone è sostanzialmente un sacco dotato di una
superficie riccamente ripiegata, adatta allo scambio dei gas; il sistema
circolatorio distribuisce materiale ad uno spazio interno che nei
grossi organismi non può essere raggiunto per diffusione diretta dal­
la superficie esterna; i villi del nostro intestino tenue aumentano l'a­
rea disponibile per l'assorbimento del cibo (e infatti, i piccoli mam­
miferi che non ne hanno bisogno, ne sono privi).
Alcuni animali piu semplici non hanno mai evoluto organi inter­
ni; se aumentassero le dimensioni, dovrebbero cambiare la loro for­
ma in modo cosi radicale che la plasticità richiesta per ulteriori cam­
biamenti evolutivi sarebbe sacrificata a favore di un'estrema specia­
lizzazione. È il caso, ad esempio, della tenia: può essere lunga molti
metri, ma il suo diametro non può superare qualche millimetro per­
ché cibo ed ossigeno devono passare direttamente dalla superficie
esterna a tutte le parti del corpo.
Altri animali sono costretti a rimanere piccoli. Gli insetti respira­
no attraverso invaginazioni della loro superficie esterna, l'ossigeno
deve passare attraverso queste superfici per raggiungere l'intero vo­
lume del corpo. Dal momento che queste invaginazioni devono esse­
re piu numerose e complesse in corpi piu grandi, esse impongono un
Dimensioni e forma 173

limite alle dimensioni dell'organismo: se fosse grande anche solo


come un piccolo mammifero, un insetto sarebbe <<tutto un'inva­
ginazione>> e non avrebbe spazio sufficiente per gli altri organi in­
terni.
Noi siamo prigionieri delle percezioni che ci derivano dall'avere
le nostre dimensioni, e raramente ci rendiamo conto di quanto il
mondo debba apparire diverso agli animali di piccole dimensioni.
Dato che la nostra superficie è cosi ridotta rispetto al nostro volume,
siamo condizionati dalla forza di gravità; la stessa forza è invece tra­
scurabile per gli animali molto piccoli, che hanno un alto rapporto
superficie/volume; essi vivono in un mondo dominato dalle forze di
superficie e giudicano i piaceri ed i pericoli del loro ambiente in mo­
di del tutto estranei alla nostra esperienza.
Un insetto non compie alcun miracolo camminando su di un
muro o sulla superficie di uno stagno: la modesta forza di gravità che
lo farebbe cadere o lo spingerebbe verso il fondo è contrastata con
facilità dalla forza che lo fa aderire alla superficie. Se staccate un in­
setto dal soffitto la sua caduta sarà piuttosto lenta, dato che le forze
di attrito che agiscono sulla sua superficie si oppongono efficace­
mente al movimento dovuto alla forza di gravità.
Il fatto che in questi organismi gli effetti della forza di gravità sia­
no trascurabili permette anche modalità di crescita insostenibili in
animali di dimensioni maggiori. Gli insetti hanno uno scheletro
esterno e possono crescere solo liberandosene e riformandone un al­
tro adeguato alle nuove dimensioni del corpo. Nel periodo tra la ca­
duta del vecchio scheletro e la formazione di quello nuovo (periodo
di muta), il corpo rimarrà molle; un animale di grandi dimensioni
privo di qualsiasi scheletro di sostegno collasserebbe in una massa in­
forme sotto l'azione della sola forza di gravità, mentre un piccolo in­
setto è in grado di mantenere la sua struttura; aragoste e granchi, che
hanno delle affinità filogenetiche, oltre che strutturali, con gli inset­
ti, possono crescere di piu perché gli stadi di muta avvengono nel­
l'acqua, dove gli effetti della forza di gravità sono molto meno rile­
vanti. C'è quindi un altro motivo che spiega le piccole dimensioni
degli insetti.
Gli autori di film dell'orrore e di fantascienza sembrano poco
174 Questa idea della vita

propensi a tener cont-o del rapporto tra forma e dimensioni. Questi


<<diffusori dell'impossibile>> non riescono a liberarsi dai pregiudizi
che derivano dalla loro percezione della realtà. I piccoli uomini del
Dottor Ciclops, La moglie di Frankenstein, Radiazioni BX distruzione
uomo e Viaggio allucinante si comportano proprio come le loro co­
pie di dimensioni normali; precipitano dalle rocce o sul pavimento
con forti tonfi, brandiscono le armi e nuotano con agilità olimpioni­
ca. Gli innumerevoli grandi insetti dei film continuano a camminare
sui muri o a volare anche se hanno le dimensioni dei dinosauri.
Quando il mite entomologo di Assalto alla Terra scopre che la formi­
ca regina gigante è partita per il suo volo nuziale, calcola rapidamen­
te questa semplice relazione: una formica normale è lunga qualche
millimetro e può volare per centinaia di metri; queste formiche, lun­
ghe alcuni metri, devono essere in grado di volare per centinaia di
chilometri; quindi, possono essere arrivate a Los Angeles (dove, in­
fatti, si trovavano, nascoste nelle fogne)! Ma la capacità di volare di­
pende dalla superficie delle ali, mentre il peso che deve essere solleva­
to aumenta secondo il cubo della lunghezza. Possiamo essere certi
che anche se le formiche giganti fossero riuscite a superare il proble­
ma della respirazione e delle mute, non sarebbero mai riuscite a sol­
levarsi dal suolo a causa della loro massa.
Altre caratteristiche essenziali degli organismi cambiano, con
l'aumentare delle dimensioni, anche piu rapidamente del rapporto
superficie/volume. L'energia cinetica, in alcune situazioni, aumenta
secondo la quinta potenza della lunghezza. Se un bambino alto la
metà di voi cade a terra, la sua testa urterà non con la metà, ma con
1/ 32 dell'energia con cui urtereste voi in una caduta simile. Un
bambino è protetto piu dalle sue dimensioni che non dalla struttura
del suo cranio, ancora «molle>>. In compenso, noi siamo protetti dal­
la forza fisica dei suoi scatti d'ira, perché il bambino potrà colpire
non con la metà, ma con 1/ 32 dell'energia che possiamo mettere in
campo noi. Ho provato per lungo tempo una particolare simpatia
per i poveri nani che soffrono sotto i colpi di frusta del crudele Albe­
rich nell Oro del Reno di Wagner. Essendo molto piccoli, non riusci­
'

vano ad estrarre, con i picconi da minatore, il prezioso minerale che


Dimensioni eforma 175

Alberich voleva, nonostante continuassero ad insistere nel loro vano


tentativo''.
Questo semplice principio della graduazione differenziale secon­
do l'incremento delle dimensioni può essere considerato il fattore
piu importante nel determinarsi delle forme organiche. J. B. S. Hai­
dane scrisse che «l'anatomia comparata è in gran parte la storia della
lotta per aumentare la superficie in modo proporzionale al volume>>.
Ma questo stesso principio si può estendere anche al di là delle strut­
ture viventi, nella geometria delle navi, degli edifici e delle mac­
chine.
Le chiese medioevali costituiscono un ottimo banco di prova per
studiare gli effetti del rapporto tra dimensioni e forma, dal momento
che ne furono costruite di tutte le dimensioni prima che si inventas­
sero le travi d'acciaio, l'illuminazione artificiale e l'aria condizionata
che hanno permesso agli architetti moderni di superare alcuni vinco­
li di progettazione. L'umile chiesa medioevale di Little Tey, nell'Es­
sex, in Inghilterra, è un ampio edificio dalla semplice forma rettan­
golare con un'abside semicircolare. La luce penetra all'interno attra­
verso delle finestre nei muri esterni. Se si fosse costruita una catte­
drale con lo stesso progetto, semplicemente ingrandendone le misu­
re, l'area dei muri esterni e delle finestre sarebbe aumentata secondo
il quadrato della lunghezza, mentre il volume da illuminare secondo
il cubo. In altre parole, l'area delle finestre sarebbe aumentata molto
meno del volume da illuminare. L'uso delle candele ha dei limiti,
perciò l'interno di una simile cattedrale sarebbe stato tenebroso co­
me il comportamento di Giuda. Le chiese medioevali, come le tenie,
mancano di organi interni e, per poter essere piu grandi, devono
cambiare la loro forma in modo da acquisire una maggiore superficie
esterna. Inoltre, le chiese piu grandi dovevano essere relativamente
piu strette perché le volte dei soffitti erano in pietra ed era impossi­
bile coprire delle aperture molto grandi senza inframmezzarvi dei
sostegni. L; chiesa capitolare di Batalha, in Portogallo (che ha le vol-

'' A questo proposito un mio amico ha fatto notare che Alberich, essendo a sua vol­
ta piuttosto piccolo, avrebbe impugnato la frusta solo con una parte della nostra
forza, come dire la situazione non sarebbe stata poi cosi dura per i suoi subalterni.
176 Questa idea della vita

te in pietra piu larghe di tutti gli edifici medioevali), crollò due volte
durante la sua costruzione e alla fine fu portata a termine dai con­
dannati a morte.
Consideriamo la grande cattedrale di Norwich, cosi come appari­
va nel XII secolo. In confronto a Little Tey, il rettangolo della nava­
ta si è ridotto in larghezza, all'abside sono state aggiunte due cappel­
le e un transetto corre perpendicolarmente all'asse maggiore. Tutti
questi «adattamenti>> aumentano il rapporto dei muri esterni e delle
finestre con il volume interno. Spesso si afferma che i transetti furo­
no aggiunti per creare la forma di una croce latina. Può essere che la
posizione di questi <<rigonfiamenti>> sia stata dettata da motivi teolo­
gici, ma la loro presenza era imposta dalle leggi delle dimensioni. Le
chiese piccole che hanno dei transetti sono molto poche. Gli archi­
tetti medioevali avevano le loro regole empiriche per quanto riguar­
da le misure ma, per quanto ci è dato sapere, non conoscevano in
modo chiaro le leggi delle dimensioni.
I grandi organismi, cosi come le grandi chiese, non potrebbero es­
sere molto diversi da come sono. Oltre certe dimensioni, i grossi ani­
mali terrestri, fondamentalmente, si assomigliano: grosse zampe e
corpi relativamente corti e tozzi. Le grandi chiese medioevali hanno
tutte una forma allungata con diversi rigonfiamenti. L' <<invenzione>>
degli organi interni permise agli animali di mantenere la soluzione,
ben riuscita, di una forma esterna semplice contenente un grande vo­
lume interno; l'invenzione dell'illuminazione artificiale e l'uso del­
l'acciaio (nelle strutture) ha permesso agli architetti moderni di pro­
gettare grandi edifici di forma essenzialmente cubica. I limiti si sono
allargati, ma le leggi sono ancora valide. Nessuna grande chiesa goti­
ca è piu larga che lunga, cosi come nessun grande animale potrebbe
avere la forma di un bassotto.
Una volta mi capitò di sentire una conversazione tra bambini nel
parco di una scuola a New York. Due ragazzine discutevano sulle di­
mensioni dei cani. Una chiese all'altra: «È possibile che un cane sia
grande come un elefante?>>. La risposta della sua amica fu: <<No, se
fosse grande come un elefante, assomiglierebbe ad un elefante>>. Ave­
va propno ragwne.
22
Misurazione dell'intelligenza
umana

A. Corpi umani

<<Le dimensioni, - ebbe a far notare una volta Julian Huxley, -


hanno un proprio fascino.» I nostri zoo sono pieni di elefanti, ippo­
potami, giraffe e gorilla; chi tra voi non ha mai fatto il tifo per King
Kong impegnato in una delle sue battaglie in cima ai grattacieli?
Questa attenzione per le poche creature piu grandi di noi ci ha por­
tati ad avere un'idea sbagliata delle nostre stesse dimensioni. La gran
parte della gente pensa che l'Homo sapiens sia una creatura di dimen­
sioni tutto sommato modeste. In realtà gli uomini sono tra gli ani­
mali piu grandi della Terra; piu del 99% delle specie animali sono
piu piccole di noi. Su 190 specie che compongono il nostro ordine
dei mammiferi primati, solo il gorilla è piu grande di noi.
Dopo esserci autoattribuiti il ruolo di dominatori del pianeta, ab­
biamo messo un grande impegno nel catalogare quei tratti che ci
avrebbero permesso di conseguire questa nobile condizione. Spesso,
come fattori determinanti del nostro progresso evolutivo, si è fatto
riferimento al nostro cervello, alla postura eretta, allo sviluppo della
parola ed alla caccia in gruppo, ma sono rimasto stupito accorgendo­
mi di quanto raramente sia stata riconosciuta l'importanza che han­
no avuto le nostre grandi dimensioni.
La nostra intelligenza cosciente è sicuramente, nonostante la scar-
178 Questa idea della vita

sa considerazione che gode in certi ambienti, la condizione sine qua


non del nostro status attuale. Si sarebbe potuta evolvere ugualmente
anche se le dimensioni del corpo fossero state minori? Un giorno, al­
l'Esposizione universale di New York del 1964, entrai nella hall del­
la Free Enterprise per ripararmi dalla pioggia. All'interno, in bella
mostra, c'era una colonia di formiche con un cartello: <<Venti milio­
ni di anni di stagnazione evolutiva. Perché? Perché la società delle
formiche è un sistema totalitario, un sistema socialista>>. Certo un'af­
fermazione simile non merita una grande attenzione; ciò nonostan­
te, farei notare che le formiche sono molto ben organizzate, e che
l'impossibilità di raggiungere una elevata capacità mentale è dovuta
piu alle loro dimensioni che alla loro struttura sociale.
Oggi, nell'era dei transistor, utilizzando minuscoli componenti
elettronici siamo in grado di far entrare una radio nella cassa di un
orologio e nelle «cimici>>, cioè nelle microspie da applicare ai telefo­
ni. Una simile miniaturizzazione potrebbe portarci all'erronea con­
vinzione che le dimensioni assolute non abbiano alcuna importanza
per il funzionamento dei macchinari complessi. Ma la natura non
miniaturizza i neuroni (o altre cellule con la stessa funzione). La
gamma delle dimensioni cellulari che si trova negli organismi viventi
è incomparabilmente piu piccola della gamma delle dimensioni dei
loro corpi. Gli animali piccoli hanno semplicemente molto meno
cellule di quelli grandi. I cervelli umani contengono diversi miliardi
di neuroni; a causa delle sue dimensioni una formica deve acconten­
tarsi di un numero di neuroni inferiore di molte centinaia di volte.
È certo che tra gli uomini non è stata dimostrata alcuna relazione
tra le dimensioni cerebrali e l'intelligenza (spesso si porta ad esempio
il fatto che Anatole France aveva un cervello che non arrivava ai
1.000 cc mentre quello di Cromwell superava i 2.000). Ma queste os­
servazioni non possono essere estese alle differenze tra le specie e si­
curamente non alla gamma di dimensioni che stanno tra quelle delle
formiche e quelle degli uomini. Un elaboratore elettronico efficiente
ha bisogno di miliardi di circuiti ed è semplicemente impossibile che
una formica ne abbia un numero sufficiente, perché la relativa co­
stanza delle dimensioni cellulari impone che i cervelli piccoli con­
tengano pochi neuroni. Per questi motivi le grandi dimensioni del
Misurazione dell'intelligenza 179

nostro corpo hanno costituito una condizione preliminare necessa­


ria per lo sviluppo dell'intelligenza cosciente.
È possibile anzi sostenere la tesi che gli uomini, per poter funzio­
nare in questo modo, dovessero avere proprio queste dimensioni. In
un articolo affascinante e provocatorio (American Scientist, 1968), F.
W. Went si immaginò degli uomini di grandezza pari a quella delle
formiche per evidenziare l'impossibilità di una simile situazione
(ammettendo per un momento che fosse possibile - cosa che non è
- aggirare l'ostacolo posto all'intelligenza dalle piccole dimensioni
del cervello). Dal momento che quando un oggetto si ingrandisce la
massa aumenta molto piu velocemente dell'area di superficie, gli ani­
mali piccoli hanno dei rapporti superficie/volume molto alti: essi vi­
vono in un mondo dominato dalle forze di superficie, forze che han­
no su di noi ben poca influenza (si veda il saggio precedente).
Un uomo grande come una formica potrebbe indossare dei vesti­
ti, ma poi non riuscirebbe a toglierseli a causa delle forze di adesione
superficiale. Non potrebbe mai farsi una doccia, perché le gocce
d'acqua non possono essere piu piccole di quello che sono e ogni
goccia lo colpirebbe con la forza di un grosso sasso. Se il nostro
omuncolo riuscisse comunque a bagnarsi e cercasse di asciugarsi con
un asciugamano, questo gli resterebbe appiccicato addosso per tutta
la vita. Non potrebbe versare alcun liquido, né accendere un fuoco
(dato che qualsiasi fiamma stabile deve essere lunga diversi millime­
tri); potrebbe battere dei fogli d'oro fino a farli abbastanza sottili da
poterei costruire un libro adatto per lui, ma l'adesione superficiale
gli impedirebbe di sfogliarlo.
Le nostre doti e il nostro comportamento sono perfettamente ca­
librati sulle nostre dimensioni. Non potremmo essere alti il doppio,
perché l'energia cinetica in caso di caduta sarebbe da 16 a 32 volte
maggiore e il nostro peso (aumentato di otto volte) sarebbe sempli­
cemente insopportabile per le nostre gambe. Gli uomini giganti alti
due metri e mezzo e oltre sono morti giovani o sono ben presto ri­
masti zoppi per il cedere delle ossa e delle articolazioni. Se fossimo
stati grandi la metà, non avremmo potuto impugnare una mazza con
forza sufficiente per cacciare animali grandi (poiché l'energia cineti­
ca sarebbe stata inferiore da 16 a 32 volte); non avremmo potuto sca-
180 Questa idea della vita

gliare lance e frecce con l'impeto sufficiente; non avremmo potuto


spaccare il legno con arnesi primitivi o estrarre minerali con picconi
e scalpelli. Dal momento che tutte queste attività sono state essenzia­
li nel nostro sviluppo storico, dobbiamo concludere che la via della
nostra evoluzione poteva essere percorsa solo da una creatura di di­
mensioni molto simili alle nostre. Non voglio dire che noi viviamo
nel migliore dei mondi possibili, dico solo che le nostre dimensioni
hanno condizionato le nostre attività ed hanno, in larga misura, mo­
dellato la nostra evoluzione.

B. Cervelli umani

Un cervello umano medio pesa circa 1 .300 g; per far spazio ad un


cervello cos1 grande, abbiamo delle teste bulbose, a forma di palla,
diverse da quelle di qualsiasi altro grande mammifero. Ma sono suffi­
cienti le dimensioni dei nostri cervelli per stabilire una nostra supe­
riorità?
Gli elefanti e le balene hanno dei cervelli piu grandi dei nostri.
Ma questo non significa che i mammiferi piu grandi di noi abbiano
delle capacità mentali superiori. Corpi piu grandi hanno bisogno di
cervelli piu grandi per coordinare i loro movimenti. Bisogna perciò
trovare il modo di rimuovere dal nostro calcolo l'influenza data dal­
le dimensioni del corpo. Non è possibile stabilire una relazione di
proporzionalità diretta tra il peso del cervello e quello del corpo. I
mammiferi molto piccoli hanno di solito dei valori di questo rappor­
to molto piu alti di quelli della specie umana; hanno, cioè, molto piu
cervello per unità di peso corporeo. Le dimensioni del cervello au­
mentano con quelle del corpo, ma molto piu lentamente.
Se riportiamo in un grafico il peso del cervello in funzione del pe­
so corporeo per tutte le specie di mammiferi adulti, troviamo che il
cervello aumenta di peso con un ritmo che è solo due terzi di quello
con cui aumenta il peso corporeo. Dato che anche la superficie au­
menta ad una velocità pari a circa i due terzi di quella con cui au­
menta il peso del corpo, si può fare l'ipotesi che il peso del cervello,
piu che dal peso del corpo, sia regolato dalla estensione delle superfi-
Misurazione dell'intelligenza 181

ci di quest'ultimo, superfici in cui si trovano le terminazioni di tanta


parte dell'innervazione.
Questo significa che gli animali grandi possono avere dei cervelli
piu grandi - in senso assoluto - di quelli umani perché i loro corpi
sono piu grossi e che, relativamente alle dimensioni del corpo, i cer­
velli degli animali piccoli sono piu grandi di quelli umani (dato che
le dimensioni del corpo diminuiscono piu rapidamente di quelle del
cervello).
Questo paradosso può essere chiarito disegnando un grafico nel
quale il peso del cervello dei mammiferi adulti sia riportato in fun­
zione di quello del corpo. Il criterio corretto non è quello delle di­
mensioni cerebrali assolute né quello delle dimensioni cerebrali rela­
tive: è la differenza tra le dimensioni reali del cervello e quelle che ci
si aspetterebbero per un mammifero di quel peso corporeo. Basan­
doci su questo criterio, noi risultiamo, come giustamente ci aspetta­
vamo, i mammiferi che hanno il cervello di gran lunga piu grande.
Nessun altro mammifero supera quanto noi le dimensioni cerebrali
attese per un mammifero medio dello stesso peso.
Questa relazione tra peso corporeo e dimensioni cerebrali ci con­
sente di capire delle cose molto importanti circa l'evoluzione del no­
stro cervello. Il nostro antenato, o per lo meno nostro prossimo cu­
gino, Australopithecus africanus aveva una capacità cranica media, da
adulto, di soli 450 cc. I gorilla hanno spesso dei cervelli piu grandi,
perciò molti esperti hanno pensato che l'Australopithecus avesse delle
capacità mentali ben diverse da quelle umane. Un recente libro di te­
sto afferma: «Il primitivo uomo scimmia bipede del Sud Africa aveva
un cervello poco piu grande di quello di altre scimmie antropomorfe
e probabilmente i comportamenti erano relativamente simili>>. Ma
l'A. africanus pesava solo dai 22 ai 40 chili (rispettivamente per la
femmina e per il m�schio, secondo le stime dell'antropologo David
Pilbeam di Yale), mentre i grossi gorilla maschi possono pesare piu
di 270 chili. Basandoci, come criterio di giudizio, sulla differenza
con i valori attesi per i rispettivi pesi corporei, possiamo affermare
con certezza che l'Australopithecus aveva un cervello molto piu gran­
de di quello degli altri primati non umani.
Oggi il cervello umano è circa tre volte piu grande di quello del-
182 Questa idea della vita

l'Australopithecus. Spesso si è detto che questa crescita è l'evento piu


rapido e piu importante nella storia dell'evoluzione, ma anche i no­
stri corpi sono divenuti molto piu grandi. Dobbiamo pensare che
questa espansione del cervello sia una semplice conseguenza delle ac­
cresciute dimensioni del corpo, oppure possiamo ritenere che sia il
segno di nuovi livelli di intelligenza?
Per rispondere a questa domanda basta esaminare il rapporto fra
capacità cranica e peso corporeo ipotizzabile per i seguenti ominidi
fossili (che, forse, rappresentano la stirpe dalla quale discendiamo):
l'Australopithecus africanus; l'ER-1470, l'eccezionale reperto di Ri­
chard Leakey con una capacità cranica di quasi 800 cc e risalente a
piu di due milioni di anni fa (il peso è stato stimato da David Pil­
beam servendosi delle dimensioni del femore); l'Homo erectus di
Choukoutien (Uomo di Pechino); e il moderno Homo sapiens. Si no­
ta cosf che le dimensioni del nostro cervello sono aumentate ben ol­
tre quanto era necessario per compensare l'aumento del peso corpo­
reo.
Le mie conclusioni non sono rivoluzionarie, e vanno a sostegno
di un'identità che faremmo meglio ad abbandonare. Ciò nonostante,
il nostro cervello è andato incontro ad un incremento reale slegato
dalle necessità determinate dalle nostre accresciute dimensioni cor­
poree. È innegabile, siamo divenuti piu svegli.
23
La storia del cervello
dei vertebrati

La natura è molto restia a rivelare i segreti del suo passato. Noi


paleontologi costruiamo le nostre teorie basandoci su frammenti fos­
sili che si ritrovano, in cattivo stato di conservazione, all'interno di
sequenze incomplete di rocce sedimentarie. La maggior parte dei
mammiferi fossili è conosciuta solo per i denti - la sostanza piu du­
ra del nostro corpo - e poche ossa sparse. Una volta un famoso pa­
leontologo osservò che la storia dei mammiferi, cosi come ci appare
dai fossili, sembra una storia di incroci tra denti dai quali si origina­
no altri denti leggermente modificati.
I rari casi di conservazione di parti molli (mammut congelati nel
ghiaccio o ali d'insetto conservate come pellicole carbonizzate in let­
ti di scisto) sono per noi una vera festa. Eppure la gran parte delle
nostre informazioni sull'anatomia delle parti molli dei fossili non
proviene da questi casi eccezionali, ma da osservazioni compiute sul­
le ossa: i segni di inserzione dei muscoli o i fori attraverso i quali pas­
sano i nervi. Fortunatamente anche il cervello lascia una impronta
sulle ossa che lo contengono. Quando un vertebrato muore, il suo
cervello va rapidamente in putrefazione, ma lo spazio vuoto che ne
risulta può essere riempito da sedimento che, indurendosi, viene a
costituire uno stampo naturale. Questo stampo non ci dice nulla sul­
la struttura interna del cervello, ma le sue dimensioni e la sua super­
ficie esterna sono esattamente le stesse dell'originale.
184 Questa idea della vita

Sfortunatamente, per avere una misura attendibile dell'intelligen­


za di un animale non è possibile basarsi solo sul volume di un calco
fossile; la paleontologia non è mai cosi semplice. I problemi da pren­
dere in considerazione sono due.
In primo luogo, che significato hanno le dimensioni del cervello?
Sono in qualche modo collegate con l'intelligenza? Non esiste alcu­
na prova che, all'interno di una specie, ci sia un qualche rapporto tra
il livello di intelligenza dei singoli individui e le loro dimensioni ce­
rebrali, dimensioni che hanno un loro normale intervallo di varia­
zione (i volumi dei cervelli umani pienamente funzionanti variano
da meno di 1 .000 a piu di 2.000 cc). Il fenomeno delle differenze tra
individui di una stessa specie, comunque, è altra cosa da quello delle
differenze nei valori medi di specie diverse. Si presume, ad esempio,
che le differenze medie nelle dimensioni cerebrali tra gli uomini e i
tonni siano in qualche modo legate ad un diverso sviluppo dell'intel­
ligenza. D'altra parte, che altro potrebbe fare un paleontologo? Sia­
mo costretti a lavorare con quello che abbiamo, e oltre alle dimen­
sioni del cervello, abbiamo ben poco.
In secondo luogo, il fattore piu importante nella determinazione
delle dimensioni cerebrali non è costituito dalle capacità mentali, ma
dalle dimensioni del corpo. Un grosso cervello può essere solo la
conseguenza delle necessità del grande corpo che lo ospita. In piu,
quello tra le dimensioni del cervello e le dimensioni del corpo non è
un rapporto lineare (si veda il saggio precedente). Considerando ani­
mali piu grandi si nota che crescono anche le dimensioni del cervel­
lo, ma con un ritmo piu lento. Gli animali piccoli hanno cervelli re­
lativamente grandi; hanno cioè valori alti del rapporto tra peso del
cervello e peso del corpo. Quello che dobbiamo fare è rimuovere
l'influenza delle dimensioni del corpo. Ciò si può fare riportando su
di un grafico una equazione che descrive il «normale» rapporto tra
peso del cervello e peso del corpo.
Supponiamo che ci si stia occupando dei mammiferi. Compilere­
mo una lista dei pesi medi dei cervelli e dei corpi di adulti del mag­
gior numero possibile di specie. Queste specie saranno i punti del
nostro grafico; l'equazione che unisce questi punti mostrerà che il
peso del cervello aumenta con un ritmo che è solo i 2/3 di quello
Il cervello dei vertebrati 185

con cui aumenta il peso corporeo. A questo punto possiamo con­


frontare il peso del cervello di ogni specie data con quello del cervel­
lo di un mammifero <<medio>> di quel peso corporeo. Questo con­
fronto permette di rimuovere l'influenza del peso corporeo. Uno
scimpanzé, per esempio, ha un peso cerebrale medio di circa 395
grammi. Secondo il nostro diagramma, un mammifero medio dello
stesso peso corporeo dovrebbe avere un cervello con un peso di 152
grammi. Il cervello di uno scimpanzé è, quindi, 2,6 volte piu pesante
di quello che dovrebbe essere (395/152). Possiamo chiamare questo
rapporto tra dimensioni cerebrali attese e reali <<quoziente di encefa­
lizzazione>>; a valori piu grandi di uno corrispondono cervelli piu
grandi della media, a valori inferiori ad uno cervelli piu piccoli della
media.
Ma questo metodo impone ai paleontologi un'altra difficoltà. Si
tratta infatti di calcolare, oltre al peso del cervello, anche il peso del
corpo. Gli scheletri completi sono molto rari e spesso le stime ven­
gono fatte basandosi soltanto su alcune delle ossa di maggiori dimen­
sioni. A complicare le cose c'è il fatto che solo gli uccelli ed i mam­
miferi hanno cervelli che riempiono completamente le loro cavità
craniche; in questi gruppi, un calco cranico riproduce perfettamente
dimensioni e forma del cervello. Ma nei pesci, negli anfibi e nei retti­
li il cervello occupa solo una parte della cavità, e il calco fossile è piu
grande del cervello reale. È perciò necessario stabilire quale parte del
calco avrebbe occupato il cervello dell'animale vivo. Tuttavia, nono­
stante tutte queste difficoltà, nonostante fosse necessario fare tutti
questi calcoli, siamo riusciti a definire ed anche a verificare una sto­
ria coerente ed affascinante dell'evoluzione delle dimensioni del cer­
vello nei vertebrati.
Lo psicologo californiano Harry J. Jerison ha raccolto tutti i dati
disponibili - molti dei quali sono il frutto del suo lavoro di oltre un
decennio - in un libro intitolato The evolution ofthe brain and intel­
ligence (Nevi York, Academic Press, 1973).
Il tema principale del libro di Jerison è l'attacco al luogo comune
secondo il quale le classi dei vertebrati sarebbero disposte in una sca­
la di perfezione che va dai pesci ai mammiferi passando attraverso i
livelli intermedi degli anfibi, dei rettili e degli uccelli. Jerison respin-
1 86 Questa idea della vita

ge la concezione secondo la quale nel corso dell'evoluzione vi sareb­


be una intrinseca o preordinata tendenza all'aumento delle dimen­
sioni cerebrali, preferendo adottare una visione funzionale che mette
in relazione lo sviluppo del cervello con le specifiche necessità dei
vari modi di vivere. Le possibilità di espansione cerebrale dei verte­
brati moderni sono sfruttate al massimo soltanto in due aree: una oc­
cupata dai vertebrati a sangue caldo (uccelli e mammiferi), l'altra dai
loro parenti a sangue freddo (pesci, anfibi e rettili moderni). (Gli
squali rappresentano l'unica eccezione di questa regola generale. I lo­
ro cervelli sono veramente troppo grandi, una cosa sorprendente per
dei pesci considerati <<primitivi>>, ma ne parleremo piu avanti.) I ver­
tebrati a sangue caldo, a dire il vero, hanno cervelli piu grandi di
quelli dei loro parenti a sangue freddo delle stesse dimensioni, ma
ciò è frutto del rapporto tra le dimensioni del cervello ed alcuni mec­
canismi fisiologici elementari e non di un continuo, regolare progre­
dire verso stadi superiori di organizzazione. Secondo Jerison, infatti,
i mammiferi hanno evoluto i loro grossi cervelli per rispondere a
specifiche richieste funzionali presentatesi quando essi erano ancora
piccole creature in lotta per sopravvivere alla periferia di un mondo
dominato dai dinosauri. I primi mammiferi sarebbero stati animali
notturni e avrebbero avuto bisogno di cervelli piu grandi per tradur­
re le percezioni uditive ed olfattorie in termini di rapporti spaziali,
rapporti spaziali che potevano essere valutati con il solo uso della vi­
sta degli animali attivi alla luce del sole.
Il lavoro di Jerison contiene una serie di notizie molto interessan­
ti. Non è mia abitudine mettere in discussione, dei dogmi comune­
mente accettati, proprio quelle parti che farebbero comodo cosi co­
me sono, ma sono costretto a dire che i cervelli dei dinosauri non
erano affatto piccoli, avevano esattamente le dimensioni che è logico
debbano avere i cervelli di rettili cosi immensi. Mai avremmo potu­
to aspettarci di piu dal Brontosaurus, dato che gli animali di grandi
dimensioni hanno cervelli relativamente piu piccoli e i rettili, di
qualsiasi peso corporeo, hanno cervelli piu piccoli di quelli dei mam­
miferi.
Il vuoto esistente tra i vertebrati moderni a sangue freddo e quelli
a sangue caldo è colmato perfettamente dalle forme fossili interme-
Il cervello dei vertebrati 187

die. Dell'Archaeopteryx, il primo uccello, non abbiamo che meno di


una dozzina di esemplari, ma uno di questi ha un calco cerebrale in
ottimo stato di conservazione. Questa forma intermedia con piume
e denti da rettile aveva un cervello che si colloca esattamente nel
mezzo dell'area che resta scoperta tra i rettili e gli uccelli attuali. I
mammiferi primitivi, che tanto rapidamente si evolvettero dopo l'e­
stinzione dei dinosauri, avevano dei cervelli di dimensioni interme­
die tra quelle che hanno attualmente rettili e mammiferi dello stesso
peso corporeo.
Possiamo anche cominciare a capire il meccanismo di questo in­
cremento evolutivo delle dimensioni cerebrali ricostruendo uno dei
circuiti feed-back che ne sono all'origine. Jerison ha calcolato i quo­
zienti di encefalizzazione dei carnivori e delle loro probabili prede
tra gli erbivori ungulati per quattro distinti gruppi: i mammiferi «ar­
caici>> del Terziario inferiore (il Terziario è l' <<età dei mammiferi» e
copre gli ultimi 70 milioni di anni di storia della Terra); i mammiferi
piu sviluppati del Terziario inferiore; i mammiferi del Terziario me­
dio e superiore; i mammiferi moderni. Tenete presente che il quo­
ziente di encefalizzazione 1 ,0 rappresenta le dimensioni cerebrali at­
tese per un mammifero moderno medio.

�--�-- -��- ��-- ---- - ----- ----- ---- --

Erbivori Carnivori
Terziario inferiore (forme <<arcaiche») 0, 1 8 0,44
Terziario inferiore (forme <<avanzate>>) 0,38 0,61
Terziario medio e superiore 0,63 0,76
Moderni 0,95 1,10

Tanto gli erbivori che i carnivori mostrano un continuo aumen­


to delle dimensioni cerebrali nel corso della loro evoluzione, ma ad
ogni stadio i carnivori erano sempre in testa. Gli animali che si pro­
curano di che vivere cacciando prede che si spostano rapidamente
sembrano aver bisogno di cervelli piu grandi di quelli degli erbivori.
E quando (probabilmente per l'intensa pressione selettiva imposta
dai loro predatori carnivori) i cervelli degli erbivori divennero piu
grandi, anche tra i carnivori comparvero cervelli di dimensioni mag­
giori per mantenere lo scarto a loro favore.
188 Questa idea della vita

L'America del sud ci fornisce un esperimento naturale per verifi­


care questa ipotesi. Fino a quando non emerse l'Istmo di Panama,
appena un paio di milioni di anni fa, l'America del sud era un conti­
nente isolato. I carnivori piu sviluppati non vi erano mai arrivati, e
il ruolo di predatore era coperto da carnivori marsupiali con bassi
quozienti di encefalizzazione. Qui gli erbivori non mostrano, nel
corso del tempo, alcun incremento delle dimensioni cerebrali. Il lo­
ro quoziente di encefalizzazione restò al di sotto dello 0,5 per tutto
il Terziario; inoltre, questi erbivori indigeni furono rapidamente eli­
minati quando i carnivori piu sviluppati attraversarono l'Istmo di
Panama provenienti dall'America del nord. Ancora una volta si veri­
fica che le dimensioni cerebrali sono un adattamento funzionale al
modo di vita e non un valore che ha un'intrinseca tendenza ad au­
mentare. Quando si riscontra un incremento, possiamo metterlo in
relazione con delle specifiche richieste determinate da pressioni se­
lettive di tipo ambientale. Proprio per questo, non dovremmo sor­
prenderei per il fatto che gli squali, pesci <<primitivi», abbiano dei
cervelli cosi grandi; essi sono, dopo tutto, i carnivori piu importanti
del mare, e le dimensioni del loro cervello riflettono il loro modo di
vivere, non l'età della loro origine evolutiva. Allo stesso modo, di­
nosauri carnivori come l'Allosaurus e il Tyrannosaurus avevano cer­
velli piu grandi di quelli degli erbivori come il Brontosaurus.
Ma cosa rispondere al quesito che ci preoccupa di piu: c'è qualco­
sa nella storia dei vertebrati che ci può spiegare perché una particola­
re specie ha evoluto un cervello cosi grande? Ecco quanto possiamo
dire a questo proposito. Il calco cerebrale piu antico di un primate
appartiene ad una creatura vissuta 55 milioni di anni fa, detta Teto­
nius hornunculus. Per questo animale Jerison ha calcolato un quo­
ziente di encefalizzazione di 0,68. Il cervello è grande solo un terzo
di quello di un mammifero medio vivente dello stesso peso corpo­
reo, è vero, ma è di gran lunga il cervello piu grande della sua epoca
(una volta rapportato al peso corporeo); è infatti piu di tre volte piu
grande di quello di un mammifero medio dello stesso periodo. I pri­
mati sono stati in testa proprio fin dall'inizio; il nostro grande cer­
vello non è che l'esagerazione di un modello sperimentato fin dall'i­
nizio dell'età dei mammiferi. Ma perché un cervello cosi grande si
Il cervello dei vertebrati 189

evolvette in un gruppo di mammiferi piccoli, primitivi, arboricoli,


piu simili a ratti e toporagni che non ai mammiferi solitamente giu­
dicati piu avanzati? E con questa domanda provocatoria finisce il
mio articolo, perché nonostante si tratti di uno degli interrogativi
piu importanti che ci si possa porre, non siamo assolutamente in gra­
do di darvi una risposta.
24
Dimensioni e superfici
dei pianeti

Charles Lyell espose in termini molto chiari il concetto guida del­


la sua rivoluzione geologica in una lettera scritta nel 1829 e indiriz­
zata a Roderick Murchison, suo collega ed oppositore delle sue teo­
rie: «Il mio lavoro ... tenterà di istituire nella scienza il principio del
ragionamento .. secondo il quale dai tempi piu antichi a quelli sui
.

quali possiamo indagare, fino ai giorni nostri, non ha mai agito al­
cun tipo di causa diversa da quelle che agiscono ancora oggi; e queste
cause non hanno mai agito con livelli di energia diversi da quelli che
esercitano attualmente>>.
La dottrina dei ritmi di cambiamento lenti, continui, e sostanzial­
mente uniformi ebbe una profonda influenza nel pensiero del XIX
secolo. Darwin la adottò trenta anni piu tardi, e da allora in poi i pa­
leontologi si sono messi alla ricerca, nelle testimonianze fossili, di ca­
si di lenta e continua evoluzione. Ma quale fu l'origine della propen­
sione di Lyell a credere nel cambiamento graduale?
Tutte le generalizzazioni cosmiche hanno radici complesse. È ve­
ro che in un certo senso Lyell non fece altro che <<scoprire» i suoi
pregiudizi politici nel mondo naturale (in un mondo sempre piu
scosso dai conflitti sociali, per i liberali era confortante sapere che
sulla Terra, fin dalle ere piu remote, i cambiamenti erano sempre av­
venuti in modo lento e graduale). Ma, d'altra parte, la natura non è
un palcoscenico vuoto sul quale gli scienziati mettono in scena le lo-
Dimensioni e superfici dei pianeti 191

ro preferenze a priori; anche la natura è in grado di dire la sua. Mol­


te delle forze che dànno forma alla superficie del nostro pianeta agi­
scono lentamente e di continuo. Lyell fu in grado di misurare l'accu­
mulo di sedimento sul fondo dei fiumi e la graduale erosione dei
pendii collinari. Il gradualismo di Lyell, sebbene davvero eccessivo,
troppo estremizzato nella sua formulazione, rendeva ragione di gran
parte della storia della Terra.
Le graduali trasformazioni del nostro pianeta sono causate dall'a­
zione di quelle che i miei colleghi Frank Press e Raymond Siever
chiamano le macchine termiche della Terra, macchine che sono una
esterna ed una interna. Il motore della macchina esterna è il Sole, ma
per poter esercitare la sua azione esso deve servirsi dell'atmosfera
terrestre. Scrivono Press e Siever: <<L'energia solare crea nell'atmo­
sfera un complesso sistema di venti che determinano i climi e il tem­
po meteorologico, e negli oceani un sistema di correnti accoppiato
con i movimenti atmosferici. L'acqua e i gas degli oceani e dell'atmo­
sfera reagiscono chimicamente con la superficie solida [del pianeta] e
trasportano materiale da un luogo all'altro».
La gran parte di questi processi avviene gradualmente, secondo
modalità classicamente lyelliane; i grossi risultati che ne derivano so­
no la somma di minuscoli cambiamenti. L'acqua corrente corrode la
terra; le dune si spostano nel deserto; in alcuni luoghi le onde di­
struggono il litorale, mentre le correnti trasportano la sabbia in ogni
dove.
Il motore della macchina interna è il calore prodotto dal decadi­
mento radioattivo. Alcuni dei fenomeni prodotti, come, ad esempio,
i terremoti e le eruzioni vulcaniche, ci stupiscono perché sono im­
provvisi e catastrofici, ma il meccanismo fondamentale, scoperto so­
lo una decina di anni fa, non può che rallegrare lo spirito di Lyell. Il
calore interno mette in movimento la superficie della T erra, allonta­
nando tra loro i continenti al ritmo lento di qualche centimetro l'an­
no. Questo movimento graduale, protrattosi per piu di 200 milioni
di anni ha portato alla divisione dell'originario ed unico superconti­
nente di Pangea nei nostri attuali continenti, cosi lontani tra loro.
Eppure la nostra T erra è decisamente un caso a sé tra i corpi cele­
sti piu interni del nostro sistema solare: Mercurio e Marte e la nostra
192 Questa idea della vita

Luna. (Non considero Venere perché della sua superficie non sappia­
mo quasi nulla; solo una sonda sovietica è riuscita a penetrare senza
danni nella sua atmosfera densa e ad inviarci due ambigue fotografie;
escludo anche Giove e i grandi pianeti esterni; essi sono talmente piu
grandi e meno densi dei pianeti interni da dover essere necessaria­
mente inclusi in una classe di corpi celesti molto diversa.) In nessuno
dei pianeti interni, Terra a parte, un geologo, per qùanto attaccato ai
suoi pregiudizi, avrebbe potuto sostenere una dottrina gradualista
come quella di Lyell.
I crateri derivanti dal bombardamento meteoritico dominano le
superfici di Marte, di Mercurio e della nostra Luna. La superficie di
Mercurio, a dire il vero, è poco piu di una distesa di crateri vicinissi­
mi l'uno all'altro o addirittura sovrapposti. La superficie della Luna
è divisa in due aree: le regioni montagnose dense di crateri e i <<mari>>
di lava basaltica dove i crateri sono piu sparsi. Il gradualismo lyellia­
no, cosi adatto alla nostra Terra, non è in grado di descrivere la sto­
ria dei corpi celesti a noi vicini.
Consideriamo, per esempio, la storia della nostra Luna, cosi co­
me ci appare sulla base dei dati raccolti dalle missioni Apollo, rias­
sunti alla Columbia University dal geologo W. Ian Ridley: la solidi­
ficazione della crosta lunare avvenne piu di 4 miliardi di anni fa. Cir­
ca 3,9 miliardi di anni fa era terminato il periodo di piu intenso
bombardamento meteoritico, si erano formati i crateri maggiori e i
bacini marini. Tra i 3,1 e 3,8 miliardi di anni orsono il calore genera­
to dalla radioattività produsse la lava basaltica che andò a riempire i
bacini marini. Quindi il calore emesso diminui, la superficie si raf­
freddò e la crosta si solidificò nuovamente; circa 3,1 miliardi di anni
fa la crosta divenne troppo spessa per permettere la fuoriuscita di
nuovo materiale basaltico, e l'attività sulla superficie lunare era pra­
ticamente conclusa. Da allora in poi non è piu accaduto nulla, se si
esclude il costante afflusso di piccolissimi meteoriti e l'impatto occa­
sionale di meteoriti di grandi dimensioni.
L'aspetto odierno della Luna è lo stesso che essa mostrava 3 mi- ·

liardi di anni fa. Essa è priva di un'atmosfera che possa erodere e rici­
clare il materiale della sua superficie, e non ha il calore interno ne­
cessario per farla ribollire modificando cosi il suo aspetto. La Luna
Dimensioni e superfici dei pianeti 193

non è morta, ma è certamente in uno stato di quiescenza. Dai dati


sui <<lunamoti>>, che si concentrano alla profondità di 800-1.000 km,
si può dedurre che la crosta rigida ha uno spessore di questo genere,
ben diverso quindi da quello della litosfera terrestre, che è di circa 70
km. Al di sotto della crosta lunare esiste forse uno strato di materia­
le parzialmente fuso, ma si trova troppo in profondità per poter in­
fluenzare la superficie. Dai campioni prelevati alla superficie, che è
molto antica, possiamo conoscere la storia delle sue catastrofi: la
massiccia caduta di meteoriti e l'eruzione della lava. Ma, mentre il
primo periodo della sua storia fu caratterizzato da violenti cambia­
menti, pochissimo è accaduto negli ultimi 3 miliardi di anni.
Come mai la Terra, a differenza dei suoi vicini, ha una storia se­
gnata in larga parte dal sommarsi di processi graduali, piuttosto che
da antiche catastrofi? I lettori potrebbero essere tentati di pensare
che la risposta stia in qualche complicata differenza di composizio­
ne. Ma, per quanto ne sappiamo, i pianeti interni sono fondamental­
mente simili per densità e contenuto di minerali. Vorrei invece di­
mostrare che questa differenza è causata da un fatto incredibilmente
semplice: le dimensioni e nient'altro: la Terra è infatti molto piu
grande dei suoi vicini.
Il primo ad analizzare l'importanza fondamentale delle dimensio­
ni per la forma e la meccanica di tutti gli oggetti fisici fu Galileo (si
vedano i saggi 21 e 22). Sulla base di semplici considerazioni di geo­
metria, è evidente che i corpi di grandi dimensioni sono soggetti ad
un equilibrio di forze diverso da quello di oggetti piccoli della stessa
forma (tutti i pianeti sono, per forza di cose, all'incirca sferici). Con­
sideriamo il rapporto superficie/ volume in due sfere di raggio diver­
so: la superficie è il prodotto del raggio al quadrato per una certa co­
stante; il volume quello del raggio al cubo per un'altra costante. Per­
ciò, quando oggetti della stessa forma divengono piu grandi, il volu­
me aumenta piu velocemente della superficie.
Secondo me la gradualità scoperta da Lyell è il risultato del parti­
colare rapporto superficie/volume, nel caso della Terra, e non, come
egli pretendeva, una caratteristica comune a tutti i cambiamenti. Bi­
sogna innanzi tutto partire dal fatto che la storia della T erra non è
stata molto diversa da quella dei suoi vicini. Anche il nostro pianeta,
194 Questa idea della vita

ad un certo punto, deve essere stato segnato da un gran numero di


crateri. Questi crateri scomparvero però miliardi di anni or sono, di­
strutti dalle due macchine termiche, fusi dalla macchina interna (sol­
levati dalle montagne, coperti di lava o bruciati nelle profondità del­
la Terra dopo esservi sprofondati per subduzione ai bordi delle zolle
in cui è divisa la litosfera) o cancellati rapidamente dalla macchina
esterna, per erosione operata dalle acque o dall'atmosfera.
Queste due macchine possono agire solo perché la Terra è abba­
stanza grande per possedere una superficie relativa ridotta (cioè pic­
cola rispetto al volume) ed un grosso campo gravitazionale. Sia Mer­
curio che la Luna mancano di un'atmosfera cosi come di una superfi­
cie attiva. La macchina esterna non può lavorare in assenza di un'at­
mosfera. Secondo l'equazione di Newton la forza gravitazionale è
direttamente proporzionale alla massa dei due corpi ed inversamente
proporzionale al quadrato della distanza che li separa. Per calcolare
la forza gravitazionale che lega una molecola di vapore acqueo alla
Terra e alla Luna, è sufficiente considerare la massa del pianeta (quel­
la della molecola è una costante) e la distanza tra la sua superficie ed
il suo centro. Al crescere del pianeta, la massa aumenta secondo il
cubo del raggio, mentre il quadrato della distanza tra il centro e la
superficie è solo il quadrato del raggio. Perciò, al crescere del piane­
ta, l'attrazione gravitazionale esercitata su di una particella atmosfe­
rica cresce come il rapporto r3lr2 (dove <<f>> è il raggio del pianeta).
Sulla Luna e su Mercurio questa forza è troppo piccola per trattene­
re un'atmosfera, anche le particelle piu pesanti non durano molto.
La forza gravitazionale della Terra è invece sufficientemente forte da
trattenere in modo permanente un'atmosfera di grandi dimensioni,
che può agire come tramite per la sua macchina esterna.
Il calore interno è generato per radioattività da tutto il volume di
un pianeta, ed è irradiato nello spazio dalla sua superficie. I piccoli
pianeti, che hanno un alto rapporto superficie/ volume, perdono ra­
pidamente il loro calore e i loro strati piu esterni si solidificano fino
a profondità relativamente grandi. I pianeti piu grandi conservano
invece il loro calore e la mobilità delle loro superfici.
Il test ideale per questa ipotesi sarebbe un pianeta di dimensioni
intermedie, poiché secondo le nostre previsioni un corpo simile do-
Dimensioni e superfici dei pianeti 195

vrebbe presentare un miscuglio di catastrofi primordiali e fenomeni


di cambiamento graduale. Marte si presta a questa verifica; le sue di­
mensioni sono proprio a metà tra quelle della Terra e quelle della
nostra Luna e di Mercurio. Della superficie di Marte, circa la metà è
coperta di crateri, il resto mostra i segni dell'attività di deboli mac­
chine termiche, esterne ed interne. La gravità di Marte è debole se
confrontata con quella terrestre, ma è abbastanza forte da trattenere
una leggera atmosfera (circa 200 volte piu sottile della nostra). Sulla
superficie del pianeta soffiano forti venti e sono stati osservati dei
campi di dune. Ancor piu evidenti sono le prove di un'erosione flu­
viale, sebbene, data la scarsità di vapor acqueo nell'atmosfera marzia­
na, esse costituiscano in un certo senso un mistero. (Il mistero si è in
gran parte dissolto con la scoperta che le calotte polari di Marte sono
composte di acqua gelata e non, come si credeva, di anidride carbo­
nica. È anche probabile che nel terreno marziano si trovi una consi­
derevole quantità d'acqua ghiacciata, in formazioni simili al perma­
frost. Cari Sagan mi ha mostrato delle foto in cui si vedono delle fi­
gure lobate che si dipartono in tutte le direzioni da crateri relativa­
mente piccoli. L'unica ipotesi credibile è che si tratti di colate di fan­
go formatesi nel luogo dell'impatto a causa dello scioglimento della
brina che vi si trovava. Si può escludere che si tratti di colate laviche
perché in questo caso i meteoriti erano troppo piccoli per generare il
calore necessario a fondere la roccia.) Altrettanto abbondanti sono le
prove dell'esistenza di un calore interno, mentre di recente alcune
teorie hanno ricollegato in modo credibile queste stesse prove con il
meccanismo responsabile del movimento delle zolle terrestri. Marte
ha una regione vulcanica con montagne giganti piu grandi di qualsia­
si montagna terrestre. L'Olimpus Mons ha una base larga 500 km, è
alto 8 km e il suo cratere ha un diametro di 70 km. La vicina Vallis
Marineris fa impallidire qualsiasi canyon terrestre: è larga 120 km,
profonda 6 e lunga piu di 5.000 km.
Veniamo al ragionamento: secondo molti geologi le zolle terre­
stri sono mosse da getti di calore e materiale fuso provenienti dalla
parte piu interna della Terra (e forse anche dalla regione di confine
tra il nucleo ed il mantello, 3.200 km al di sotto della superficie).
Questi getti vengono in superficie in <<punti caldi>> relativamente fissi
196 Questa idea della vita

e le zolle vi corrono sopra. Le isole delle Hawaii, per esempio, sono


in pratica una serie lineare in cui l'età aumenta mano a mano che si
procede verso nord-ovest. Se si ammette che la zolla del Pacifico si
sia mossa lentamente su di un getto fisso, allora il fatto che le isole
Hawaii si siano formate ad una ad una è perfettamente spiegabile.
Marte, per le sue dimensioni intermedie, dovrebbe essere piu di­
namico della Luna, ma meno della Terra. La crosta della Luna è
troppo spessa perché possa muoversi e, per lo stesso motivo, il calo­
re interno non raggiunge la superficie. La crosta della Terra è abba­
stanza sottile per spaccarsi in zolle e muoversi continuamente. Sup­
poniamo che la crosta di Marte sia abbastanza sottile da permettere
la salita del calore, ma troppo spessa per rompersi e muoversi ampia­
mente. Supponiamo inoltre che i getti esistano sia sulla Terra che su
Marte. Il gigantesco Olimpus Mons potrebbe allora essere il locus di
uno di questi getti, in salita sotto una crosta che non può muoversi;
l'Olimpus Mons sarebbe allora qualcosa di simile alle Hawaii, messe
le une sopra le altre. La Vallis Marineris, invece, potrebbe essere un
«tentativo>> fallito di tettonica a zolle: la crosta si è fratturata, ma
non si è potuta muovere.
La scienza, nei suoi aspetti migliori, rivela l'esistenza di inattese
uguaglianze. Colpisce la mia immaginazione rendermi conto che il
principio per cui una mosca può restare attaccata al soffitto è lo stes­
so che determina l'unicità della nostra Terra tra i pianeti interni (le
mosche, come tutti gli animali di piccole dimensioni, hanno un alto
rapporto superficie/volume; le forze gravitazionali, che agiscono sul
volume, non sono abbastanza forti da vincere la forza di adesione su­
perficiale che tiene attaccate al soffitto le zampe della mosca). In una
metafora planetaria, Pasca! paragonò la conoscenza ad una sfera nel­
lo spazio; piu impariamo, piu grande diventa la sfera e maggiore di­
venta il contatto con l'ignoto (la superficie del pianeta). Ciò è abba­
stanza vero, ma non dimentichiamoci il principio delle superfici e
dei volumi! Al crescere della sfera, cresce anche il valore del rappor­
to tra il noto (volume) e l'ignoto (superficie). Mi auguro che la cre­
scita assoluta dell'ignoranza continui ad essere accompagnata dalla
crescita relativa della conoscenza.
Parte settima
La scienza nella società.
Uno sguardo storico
25
Eroi e stolti nella storia
della scienza

Come un romantico adolescente, io credevo che la mia futura vi­


ta di scienziato avrebbe avuto un senso se fossi riuscito a scoprire un
singolo fatto nuovo e ad aggiungere un mattone al tempio luminoso
dell'umana conoscenza. La convinzione era abbastanza nobile, ma la
metafora era semplicemente assurda. Eppure quella metafora condi­
ziona ancora l'atteggiamento di molti scienziati nei confronti del lo­
ro lavoro.
Secondo il modello convenzionale di <<progresso>> scientifico, noi
partiamo da uno stato di superstiziosa ignoranza e ci muoviamo ver­
so la verità attraverso l'accumulazione successiva di fatti. In questa
presuntuosa prospettiva, la storia della scienza finisce per ridursi a
poco piu che una fonte di aneddoti, poiché essa non può che limitar­
si alla cronaca degli errori del passato, e rendere onore a chi ha aper­
to degli squarci verso la verità finale. Tutto si svolge in modo chiaro
come in un melodramma di vecchio stampo: la verità (quello che noi
oggi riteniamo tale) è l'unico arbitro, e il mondo degli scienziati del
passato è diviso in bravi che avevano ragione e cattivi che avevano
torto.
Negli ultimi dieci anni gli storici della scienza hanno abbandona­
to completamente questo modello. La scienza non è una spassionata
ricerca di informazioni oggettive, ma un'attività umana creativa;
l'attività dei suoi geni assomiglia di piu a quella degli artisti che non
200 Questa idea della vita

a quella di un elaboratore di dati. La sostituzione di una teoria con


un'altra non è una semplice conseguenza di nuove scoperte, ma il
frutto di un lavoro creativo influenzato dalle forze sociali e politiche
dell'epoca. Non dovremmo giudicare il passato attraverso le anacro­
nistiche lenti delle nostre convinzioni, dando degli eroi agli scienzia­
ti che ci sembrano aver ragione sulla base di criteri completamente
esterni alla loro situazione. Chiamare Anassimandro (VI secolo a.C.)
evoluzionista perché, difendendo un ruolo primario dell'acqua tra i
quattro elementi, sosteneva che la vita era iniziata nel mare, è pu­
ra stupidità; eppure la gran parte dei libri di testo gli fanno questo
onore.
In questo saggio prenderò in considerazione il gruppo di cattivi
che compare piu spesso nei libri di testo e cercherò di dimostrare
che la loro teoria era ragionevole per la loro epoca e che ha tuttora
qualcosa da insegnarci. I nostri cattivi sono i <<preformisti>> del XVIII
secolo, sostenitori di un'embriologia ormai passata di moda. A senti­
re i libri di testo, i preformisti credevano che all'interno dell'uovo
umano (e dello spermatozoo) si trovasse un omuncolo perfettamen­
te miniaturizzato, e che lo sviluppo embriologico altro non fosse se
non un aumento delle dimensioni di questo essere. Ciò appare anco­
ra piu assurdo, continuano i testi, se si considera anche il necessario
corollario che deriva dall' emboi'tement (inscatolamento), dalla chiu­
sura di un essere dentro l'altro: se l'uovo di Eva conteneva un omun­
colo, poi l'uovo dell'omuncolo un omuncolo piu piccolo e cosi via,
si arriva a qualcosa di impossibile, un uomo completo di tutte le sue
parti ma piu piccolo di un elettrone. Certo i preformisti dovevano
essere ciechi, dei dogmatici antiempirici, per sostenere a priori una
dottrina dell'immutabilità contro la chiara evidenza dei sensi (basta
infatti aprire un uovo di pollo per vedere lo sviluppo di un embrio­
ne dalla semplicità iniziale alla complessità finale). Al contrario, il
loro piu importante portavoce, Charles Bonnet, era giunto a procla­
mare che <<il preformismo è il piu grosso trionfo della ragione sui
sensi>>. Gli eroi dei nostri libri di testo erano invece gli <<epigenisti>>;
questi ultimi, anziché perdere tempo a fantasticare, si dedicavano al­
lo studio delle uova. Con l'osservazione giunsero cosi a dimostrare
che la complessità della forma adulta di sviluppa gradualmente nel-
Eroi e stolti 201

l'embrione. Alla metà del XIX secolo il loro successo fu definitivo.


Un'altra
l vittoria dei dati dell'esperienza sul pregiudizio e sul dogma.
In realtà la storia non è cosi semplice. Nelle loro osservazioni em­
piriche, i preformisti erano attenti ed accurati quanto gli epigenisti.
Inoltre, se proprio dobbiamo avere degli eroi, questo onore spetta
anche ai preformisti che sostennero, contro l'opinione degli epigeni­
sti, una concezione della scienza del tutto simile alla nostra.
Non possiamo scambiare il pensiero di un'intera scuola con le
fantasie di alcune immagini marginali che questa ha prodotto. Tutti i
grandi preformisti, Malpighi, Bonnet, von Haller, sapevano perfetta­
mente che l'embrione di pollo ha inizialmente l'aspetto di un sem­
plice tubo e diviene poi sempre piu complesso mano a mano che gli
organi si differenziano all'interno dell'uovo. Essi avevano studiato a
lungo l'embriologia del pollo, ricavandone disegni e sottili osserva­
zioni che collimavano in tutto e per tutto con quelle ottenute dagli
epigenisti dell'epoca.
Sulle osservazioni, preformisti ed epigenisti erano d'accordo; il
fatto è che mentre gli uni erano pronti a prendere alla lettera quelle
osservazioni, gli altri insistevano sul portare l'indagine <<al di là del­
l'apparenza>>. I preformisti sostenevano, cioè, che le manifestazioni
visibili dello sviluppo erano ingannevoli, che le ridotte dimensioni
iniziali dell'embrione ed il suo aspetto gelatinoso e trasparente non
avrebbero comunque permesso di vedere le strutture preformate
con i rudimentali microscopi a disposizione. Scrisse Bonnet nel
1762: «Non dobbiamo pensare che gli esseri organizzati comincino
ad esistere quando cominciano a divenire visibili; non costringiamo
la natura all'interno dei nostri sensi e dei nostri strumenti>>. Inoltre, i
preformisti non credettero mai che le strutture preformate fossero
organizzate in un perfetto omuncolo in miniatura all'interno del­
l'uovo. Certo già nell'uovo dovevano esisterne degli abbozzi, ma in
posizioni e con proporzioni relative che poco avevano a che fare con
la morfologia dell'adulto. Scrive ancora Bonnet nel 1762: «Quando
il pollo è ancora un germe tutte le sue parti hanno forme, proporzio­
ni e posizioni molto diverse da quelle che verranno ad assumere du­
rante lo sviluppo. Se fossimo in grado di vedere ingrandito questo
germe, non riusciremmo a riconoscervi il pollo. Le varie parti del-
202 Questa idea della vita

l'embrione non si sviluppano nello stesso momento e in modo uni­


forme».
Ma come giustificavano i preformisti la reductio ad absurdum del­
la chiusura di un essere dentro l'altro per cui tutta la nostra storia sa­
rebbe stata incapsulata nelle ovaie di Eva? Semplicemente questo
concetto non era assurdo nel contesto del XVIII secolo.
Prima di tutto, gli scienziati credevano che il mondo esistesse so­
lo da alcune migliaia di anni, cosi come di alcune migliaia di anni sa­
rebbe stato il suo futuro. Il numero di generazioni da incapsulare era
quindi limitato, ben diverso da quello che può prodursi nel corso dei
diversi milioni di anni previsti dalle tabelle delle ere geologiche del
XX secolo.
In secondo luogo, nel XVIII secolo non esisteva una teoria cellu­
lare che ponesse un limite minimo invalicabile alle dimensioni degli
organismi viventi. Oggi sembra assurdo che si potesse sostenere l'esi­
stenza di un omuncolo perfettamente formato piu piccolo di un'uni­
ca cellula, ma uno scienziato del XVIII secolo non aveva motivo per
supporre l'esistenza di questo limite. Era infatti diffusa la convinzio­
ne che gli animaletti di Leeuwenhoek, le microscopiche creature
unicellulari che tanto avevano scosso la fantasia degli europei, fosse­
ro dotate di un completo corredo di organi in miniatura. Cosi Bon­
net, a sostegno della teoria corpuscolare (secondo la quale la luce è
fatta di particelle distinte), si dilungò nel decantare l'inconcepibile
piccolezza dei diversi milioni di globuli di luce che sarebbero dovuti
penetrare contemporaneamente negli occhi degli animaletti. <<La na­
tura può fare le cose piccole quanto vuole. Non conosciamo assolu­
tamente il piu basso livello di divisione della materia, ma possiamo .
osservare che essa è stata divisa in modo prodigioso. Dall'elefante al­
l'acaro, dalla balena all'animaletto 27 milioni di volte piu piccolo
dell'acaro, dal globo solare al globulo di luce, che inconcepibile mol­
titudine di livelli intermedi!>>
Ma perché i preformisti sentivano un simile bisogno di penetrare
al di là delle apparenze? Perché non volevano accettare le prove di­
rette dei sensi? Vediamo quali erano le alternative. O tutte le parti
erano presenti fin dall'inizio, oppure l'uovo fecondato era completa­
mente privo di forma. Se l'uovo è privo di forma, allora per forza di
Eroi e stolti 203

cose deve esserci una qualche forza esterna che impone delle struttu­
re alla materia, materia che ha soltanto potenzialmente la capacità di
produrle. Ma che tipo di forza può essere? E deve trattarsi della stes­
sa forza nel caso di ogni animale? Come possiamo conoscerla, prova­
re che esiste, percepirla, toccarla, o capirla? Come può rappresentare
qualcosa di piu un semplice ricorso ad un misterioso e mistico vita­
lismo?
Il preformismo rappresentava il meglio della scienza newtoniana.
Fu concepito per difendere un atteggiamento generale, che oggi di­
remmo «scientifico>>, dal vitalismo suggerito dall'esperienza sensibile
pura e semplice. Se le uova erano veramente fatte di materiale disor­
ganizzato, omogeneo, privo di parti preformate, come potevano
produrre una cosi meravigliosa complessità senza l'intervento di una
misteriosa forza guida? Lo fanno, e possono farlo, solo perché la
struttura (non solo la materia prima) richiesta per costruire questa
complessità si trova già al loro interno. Vista in questa luce, anche
l'affermazione di Bonnet circa il trionfo della ragione sui sensi sem­
bra piu ragionevole.
Per finire, chi può dire che l'embriologia di oggi segni il trionfo
degli epigenisti? La maggior parte dei grandi dibattiti si risolve se­
condo l'aurea mediocritas di Aristotele, e questo non fa eccezione.
Dal nostro punto di vista, gli epigenisti avevano ragione; durante lo
sviluppo embrionale gli organi si differenziano gradualmente a parti­
re da semplici abbozzi, non esistono parti preformate. Ma i prefor­
misti avevano anche ragione nell'insistere che la complessità non
può sorgere da una materia grezza informe, che ci deve essere qual­
cosa all'interno dell'uovo che ne regola lo sviluppo. Tutto quello
che possiamo dire (ammesso che sia importante) è che sbagliarono
nell'identificare questo <<qualcosa>> con le parti preformate, che oggi
sappiamo trattarsi delle istruzioni codificate nel DNA. Ma che altro
potremmo aspettarci da scienziati del XVIII secolo, epoca in cui non
solo non esistevano ancora i programmi dei calcolatori elettronici,
ma non era stata ancora inventata la pianola? Il loro bagaglio cultu­
rale non comprendeva l'idea di un programma codificato.
Provate un po' a pensare: cosa può esserci di piu fantastico del­
l'affermazione che un uovo contiene migliaia di istruzioni, scritte in
204 Questa idea della vita

molecole che dicono alla cellula di attivare o di interrompere la pro­


duzione di certe sostanze che regolano la velocità delle reazioni chi­
miche? La nozione di parti preformate mi sembra molto meno mac­
chinosa. L'unico punto a favore delle istruzioni codificate è che sem­
brano esistere davvero.
26
La pastura creò l'uomo

Nessun evento diede tanta fama e prestigio all' American museum


of natura! history quanto le spedizioni nel deserto del Gobì compiu­
te negli anni venti. Le scoperte, tra le quali quella delle prime uova
di dinosauro, furono interessanti e numerose, e le storie fantastiche
che ne derivarono non avevano niente da invidiare alle epopee hol­
lywoodiane. Ancora oggi è difficile trovare una storia di avventure
migliore di quella del libro di Roy Chapman Andrews che porta lo
sciovìnìstìco titolo di The new conquest of centra/ Asia. Ciò nono­
stante, le spedizioni fallirono completamente lo scopo per cui erano
state organizzate: trovare l'antenato dell'uomo nell'Asia centrale. E
fallirono per un motivo semplicissimo: la nascita dell'uomo non av­
venne in Asia ma in Africa, come aveva già supposto Darwin cin­
quanta anni prima.
I nostri antenati africani (o almeno i nostri cugini piu prossimi)
furono scoperti, nel corso degli anni venti, nei sedimenti di alcune
cave. Ma l'aspetto dì queste australopitecine era diverso da quello
dell'ideale «anello mancante», e molti scienziati sì rifiutarono dì con­
siderarle membri della nostra stirpe. La gran parte degli antropologi
pensava che il cammino evolutivo che aveva portato dalla scimmia
antropomorfa all'uomo si fosse svolto in modo abbastanza armonio­
so, sotto la spinta dell'aumento delle capacità mentali. L'anello man­
cante doveva perciò avere dimensioni intermedie, sia dì corpo che di
206 Questa idea della vita

cervello (si vedano, a questo proposito, le vecchie e false rappresen­


tazioni di Alley Oop, in cui gli uomini di Neandertal appaiono cur­
vi). Ma le australopitecine si rifiutarono di adattarsi a questo schema.
È vero, i loro cervelli erano piu grandi di quelli di una qualsiasi scim­
mia antropomorfa delle stesse dimensioni, ma non di molto (si veda­
no i saggi 22 e 23). L'aumento evolutivo delle dimensioni del cervel­
lo avvenne per la gran parte dopo che noi avemmo raggiunto lo sta­
dio di australopitecine. Eppure queste australopitecine dai piccoli
cervelli camminavano in posizione eretta come me e voi. Com'è
possibile? Com'è possibile che la postura eretta, che non è un carat­
tere qualsiasi, ma un «segno di umanizzazione>>, si sia evoluta prima
che avvenisse l'aumento delle dimensioni del cervello, se è stato pro­
prio questo sviluppo del cervello a spingere la nostra evoluzione? In
un saggio del 1963, George Gaylord Simpson si riferisce a questo di­
lemma per illustrare <<la clamorosa incapacità di prevedere le future
scoperte anche quando ci sono tutte le premesse per farlo. Un esem­
pio, nel campo dell'evoluzione, è l'incapacità di prevedere la scoper­
ta di un "anello mancante", oggi noto [l'Australopithecus], che avesse
stazione eretta e fabbricasse degli strumenti, ma simile alla scimmia
antropomorfa per fisionomia e capacità cranica>>.
Il principale responsabile di questa <<clamorosa incapacità>> è un
sottile pregiudizio che ci porta alla seguente erronea estrapolazione:
noi dominiamo gli altri animali grazie al potere del nostro cervello
(e a poche altre cose); quindi, durante ogni sua fase, la nostra evolu­
zione deve essere stata spinta dall'aumento delle dimensioni cerebra­
li. La tradizione secondo la quale si subordinava la stazione eretta ad
un cervello in espansione è una costante di tutta la storia dell'antro­
pologia. Scrisse nel 1 828 Karl Ernst von Baer, il piu grande embrio­
logo del XIX secolo (e secondo solo a Darwin nel mio pantheon per­
sonale di eroi della scienza): <<La stazione eretta è solo la conseguenza
del piu elevato sviluppo del cervello ... tutte le differenze tra gli uo­
mini e gli altri animali dipendono dalla struttura del cervello>>. Cen­
to anni piu tardi, ecco l'opinione dell'antropologo inglese G. E.
Smith: <<Se dalla scimmia antropomorfa si giunse all'uomo, non fu
per l'adozione della posizione eretta o per l'invenzione di un lin­
guaggio articolato, ma per il graduale perfezionamento del cervello
La postura creò l'uomo 207

ed il lento costruirsi della struttura mentale, di cui il portamento


eretto e la parola sono alcune delle conseguenze incidentali>>.
In questo coro di opinioni sul ruolo del cervello, pochissimi
scienziati continuarono a sostenere il primato della stazione eretta.
Sigmund Freud basò su questo primato buona parte della sua teoria
molto personale sull'origine della civiltà. A partire dalle lettere a
Wilhelm Fliess degli anni novanta, per culminare nel suo saggio del
1930, Il disagio della civiltà, Freud sostenne che l'assunzione della
stazione eretta aveva fatto divenire la vista un senso piu importante
dell'olfatto. In seguito a questa svalutazione dell'olfatto, la fonte del­
l' eccitazione sessuale si spostò dagli odori dell'estro, che sono ciclici,
alla visione dei genitali femminili, che avviene in qualsiasi periodo. Il
continuo desiderio dei maschi portò quindi all'evoluzione di una
continua ricettività da parte delle femmine. La gran parte dei mam­
miferi copulano solo nei periodi in cui le femmine hanno l'ovulazio­
ne; gli uomini sono sempre sessualmente attivi (tema caro a tutti co­
loro che scrivono sulla sessualità). La sessualità continua ha cementa­
to la famiglia umaria e ha reso possibile la civilizzazione; gli animali,
che copulano solo in una certa fase di un ciclo rigido, non hanno
una forte spinta a formare una struttura familiare stabile. <<Il decisivo
processo di civilizzazione, - conclude Freud, - si sarebbe perciò
realizzato in seguito all'adozione, da parte dell'uomo, di una postura
eretta.>>
Sebbene le idee di Freud non trovassero alcun credito tra gli an­
tropologi, ci fu una corrente di pensiero minore che sosteneva il pri­
mato della stazione eretta. (La tesi di questa <<scuola» era, sia detto
per inciso, la stessa che viene adottata oggi per spiegare la morfologia
delle australopitecine e la via seguita dall'evoluzione umana.) Il cer­
vello, sostenevano i rappresentanti di questa scuola, non può comin­
ciare a crescere da solo; deve prima esserci uno stimolo costituito da
un mutato modo di vivere che porti ad un forte premio selettivo per
gli individui piu intelligenti. La stazione eretta libera le mani dalla
locomozione consentendo la manipolazione. Per la prima volta, at­
trezzi ed armi possono essere realizzati e usati con facilità. L'accre­
sciuta intelligenza è in larga misura una risposta alle enormi possibi­
lità date dall'avere le mani libere per costruire manufatti. (Inutile di-
208 Questa idea della vita

re che nessun antropologo è mai stato cosi ingenuo da sostenere che


il cervello e la postura sono completamente indipendenti nel corso
dell'evoluzione, che uno dei due raggiunge il suo livello pienamente
umano prima che l'altro debba ancora cominciare a cambiare. Ci
troviamo di fronte a un fenomeno di interazione e di mutuo rinfor­
zo. Tuttavia, all'inizio della nostra evoluzione la cosa piu importan­
te fu il rapido cambiamento della postura e non una modificazione
del cervello; la completa liberazione delle nostre mani per l'uso di
strumenti precedette la gran parte dell'accrescimento evolutivo del
nostro cervello.)
A riprova del fatto che non basta essere prudenti per avere ragio­
ne, Lorenz Oken, mistico e profetico collega di von Baer, arrivò alla
soluzione <<corretta>> nel 1809, mentre alcuni anni piu tardi von Baer
imboccò la strada sbagliata. «L'uomo ha assunto le sue caratteristi­
che grazie alla stazione eretta, - scrisse Oken. - Le mani rimasero
libere e poterono essere utilizzate ad altri fini... con la libertà del
corpo si garanti anche la libertà della mente.» Ma il piu accanito so­
stenitore della stazione eretta durante il XIX secolo fu Ernst Haec­
kel, che difendeva in Germania la teoria darwiniana. Senza il bricio­
lo di una prova, Haeckel ricostru1 il nostro predecessore e gli diede
anche un nome scientifico, Pithecanthropus alalus, scimmia antropo­
morfa dal piccolo cervello, priva di linguaggio e dal portamento
eretto. (Il Pithecanthropus, detto per inciso, è probabilmente l'unico
nome che sia mai stato dato ad un animale che non era stato ancora
scoperto. Quando nell'ultima decade del XIX secolo Du Bois scopri
l'uomo di Giava, adottò per il genere il nome di Haeckel, cambian­
do però la denominazione della specie in quella di Pithecanthropus
erectus. Oggi, di solito, noi includiamo questa creatura nel nostro
stesso genere, con il nome di Homo erectus.)
Ma per quale motivo, nonostante l'opposizione di Oken e Haec­
kel, l'idea di un primato del cervello divenne cosi radicata? Una cosa
è certa: non c'era nessuna prova a sostegno di questa tesi, perché non
ce n'erano per nessuno, qualsiasi fosse la posizione sostenuta. Se si fa
eccezione per l'Uomo di Neandertal (che secondo la gran parte degli
antropologi è una variante geografica della nostra stessa specie) nes­
sun fossile umano fu scoperto fino agli ultimi anni del secolo scorso,
La pastura creò l'uomo 209

cioè molto tempo dopo che il primato del cervello era divenuto un
dogma. Ma le dispute in assenza di prove sono quelle piu rivelatrici
della storia della scienza, perché in assenza delle limitazioni imposte
dai dati vengono a galla i pregiudizi culturali che inquinano tutte le
forme di pensiero (e che gli scienziati sono assiduamente impegnati a
negare).
In realtà ci fu chi nel XIX secolo fece una brillante opera di sma­
scheramento in questo senso; fu Friedrich Engels, anche se alla mag­
gioranza dei lettori questo potrà sembrare strano. (La cosa risulterà
meno strana una volta ricordato che Engels aveva un vivo interesse
per le scienze naturali e cercava di fondare la sua filosofia, il materia­
lismo dialettico, su delle basi <<positive>>. Egli non visse abbastanza
per portare a termine la sua «dialettica della natura>>, ma trattò am­
piamente di scienza in opere come l'Anti-Diihring.) Nel 1876, Engels
scrisse un saggio intitolato Parte avuta dal lavoro nel processo di uma­
nizzazione della scimmia, che fu pubblicato postumo nel 1896 e, sfor­
tunatamente, non ebbe alcuna influenza visibile sulla scienza occi­
dentale.
Per Engels tre sono i passaggi essenziali dell'evoluzione umana: il
linguaggio, un cervello piu grande, e la stazione eretta. Il primo pas­
so, sostiene, deve essere stato la discesa dagli alberi che aveva portato
i nostri antenati terricoli ad evolvere la stazione eretta. <<Passate a
muoversi sul terreno, queste scimmie antropomorfe cominciarono a
perdere l'abitudine ad usare le mani e ad assumere un'andatura sem­
pre piu eretta. Questo fu il passaggio decisivo nella transizione dalla
scimmia antropomorfa all'uomo.>> La stazione eretta rese disponibili
le mani per l'uso di strumenti (cioè per il lavoro, secondo la termi­
nologia di Engels); la maggiore intelligenza ed il linguaggio vennero
piu tardi. <<La man� non è quindi soltanto l'organo del lavoro: è an­
che il suo prodotto... solo attraverso il lavoro: attraverso l'abitudine a
sempre nuove operazioni ... attraverso la sempre rinnovata elabora­
zione dei perfezionamenti cosi ereditati per mezzo di nuove, e sem­
pre piu complicate operazioni, la mano dell'uomo ha raggiunto
quell'alto grado di perfezione, sulla base del quale ha potuto compie­
re i miracoli dei dipinti di Raffaello, delle statue di Thorwaldsen,
della musica di Paganini.»
2 10 Questa idea della vita

Engels presenta le sue conclusioni come logica conseguenza delle


premesse della sua filosofia materialista, ma io ritengo che le abbia
copiate da Haeckel. Le due formulazioni sono quasi identiche ed En­
gels cita le pagine di Haeckel sull'argomento, per altri scopi, in un
precedente saggio del 1874. Ma non importa. Quello che conta del
saggio di Engels non sono le sue conclusioni di merito, ma la sua ta­
gliente analisi politica del perché la scienza occidentale fosse cosi at­
taccata all'aprioristica asserzione del primato del cervello.
Quando gli uomini impararono a dominare il mondo materiale
che li circondava, sostiene Engels, alla primitiva attività della caccia
se ne aggiunsero altre: l'agricoltura, la filatura, la ceramica, la naviga­
zione, le arti e le scienze, la legge e la politica e, finalmente, <<il fanta­
stico riflesso delle cose umane nella mente umana: la religione>>. Con
l'accumularsi delle ricchezze, piccoli gruppi di uomini si impadroni­
rono del potere e costrinsero altri a lavorare per loro. Il lavoro, sor­
gente di tutte le ricchezze e causa prima dell'evoluzione umana, as­
sunse lo stesso basso status riservato agli sfruttati. Dato che i sovrani
governavano per mezzo della loro volontà (cioè usando la testa), le
azioni del cervello sembravano avere la loro stessa potenza. La pro­
fessione del filosofo non aveva niente a che vedere con la ricerca di
un candido ideale di verità. I filosofi facevano affidamento sullo Sta­
to o sul mecenatismo religioso. Platone, con la sua filosofia astratta,
forse non operò coscientemente per sostenere i privilegi delle classi
dominanti, ma la sua posizione di classe lo portava a considerare il
pensiero come principio basilare, come elemento dominante ed asso­
lutamente piu nobile ed importante del lavoro a cui sovrintendeva.
Questa tradizione idealista si conservò indisturbata fino all'epoca di
Darwin. La sua influenza fu cosi sottile e persuasiva che ne fu vitti­
ma anche un materialista come Darwin, che era uno scienziato, ma
non si interessava di politica. Perché possano essere rimossi, i pregiu­
dizi devono prima essere riconosciuti come tali. Il primato dell'intel­
letto sembrava cosi ovvio e naturale che fu accettato come un dato,
anziché essere riconosciuto come un ben radicato pregiudizio sociale
legato alla posizione di classe dei pensatori di professione e dei loro
mecenati. Scrive Engels: <<Tutto il merito dei rapidi progressi della
civiltà venne attribuito alla mente, allo sviluppo e all'attività del cer-
La postura creò l'uomo 211

vello; gli uomini si abituarono a spiegare la loro attività con il loro


pensiero invece che con i loro bisogni... Sorse cosi, col tempo, quella
concezione idealista della vita che ha dominato le menti sin dalla fi­
ne della civiltà antica. Essa è ancora tanto dominante, che persino gli
scienziati materialisti della scuola darwinista non riescono ancora a
farsi un'idea chiara delle origini dell'uomo, perché, essendo ancora
sotto l'influsso ideologico dell'idealismo non riescono a riconoscere
la funzione che ha avuto il lavoro in quel processo».
L'importanza del saggio di Engels non sta nel fatto che la teoria
da lui proposta - grazie ad Haeckel è stata felicemente conferma­
-

ta dall'Australopithecus, ma piuttosto nella sua lucida analisi del ruo­


lo politico della scienza è dei pregiudizi sociali che inevitabilmente
influenzano tutto il pensiero.
In effetti, la separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale
di cui parla Engels ha avuto storicamente un grosso ruolo nel dirige­
re e limitare il corso della scienza. La scienza accademica, in partico­
lare, è stata vincolata ad un ideale di ricerca «pura>> che anticamente
teneva lontano lo scienziato dall'uso estensivo della sperimentazione
e della verifica empirica. L'attività scientifica degli antichi greci era
limitata dal fatto che i pensatori patrizi non potevano compiere i la­
vori manuali degli artigiani plebei. I chirurghi-barbieri del medioevo
che avevano a che fare con i feriti sui campi di battaglia fecero fare
piu passi avanti alla pratica medica dei medici delle università che ra­
ramente esaminavano i pazienti e che basavano i loro trattamenti su­
gli studi di Galeno e su altri testi eruditi. Ancora oggi i ricercatori
<<puri>> tendono a disprezzare la pratica, e nei circoli accademici si
sente spesso parlare con esasperante frequenza di istituti e facoltà di
agraria come di <<scuole per contadini e bovari>>. Se cogliessimo la so­
stanza del messaggio di Engels e riconoscessimo che riteniamo supe­
riore la ricerca pura solo a causa di un pregiudizio sociale, comince­
rebbe a farsi strada tra gli scienziati quell'unione tra la teoria e la pra­
tica di cui ha tanto bisogno un mondo pericolosamente vicino al ba­
ratro.
27
Razzismo e teoria della
ricapitolazione

L'adulto che mantiene piu tratti fetali o


infantili .. è indiscutibilmente inferiore a
.

quello che li ha superati con il suo


sviluppo. Sulla base di questo criterio, gli
Europei o le razze bianche stanno in testa
alla lista, gli Africani e i negri in coda.
D. G. Brinton (1890)
Sulla base della mia teoria, io sono
ovviamente un sostenitore
dell'ineguaglianza delle razze. Nel corso
del suo sviluppo fetale il negro passa
attraverso quello che per l'uomo bianco è
già lo stadio finale. Se il ritardo nello
sviluppo continuasse, quello che per la
razza negra è ancora uno stadio di
transizione pqtrebbe anche divenire uno
stadio finale. E possibile che le altre razze
raggiungano lo zenith nello sviluppo che
oggi è occupato dalla razza bianca.
L. Bolk (1926)

Brinton ci dice che i neri sono inferiori perché mantengono i


tratti giovanili. Bolk afferma che lo sono perché il loro sviluppo va
oltre i tratti giovanili che i bianchi mantengono. Dubito che qualcu­
no potesse costruire due argomenti piu contraddittori per sostenere
la stessa tesi.
I due diversi argomenti derivano da differenti letture di un capi­
tolo abbastanza tecnico della teoria dell'evoluzione: il rapporto tra
l'ontogenesi (la crescita degli individui) e la filogenesi (la storia delle
linee evolutive). Quello che mi propongo di fare qui non è di spiega­
re questo tema, ma piuttosto di fare il punto sul razzismo pseudo­
scientifico. Ci piace pensare che il progresso scientifico ci allontani
dalla superstizione e dal pregiudizio. Brinton legò il suo razzismo al­
la teoria della ricapitolazione, �econdo la quale gli individui, nella
Razzismo e ricapitolazione 213

propria crescita embrionale e giovanile, ripercorrono gli stadi adulti


dei loro antenati: in pratica ogni individuo, nel corso del suo svilup­
po risalirebbe il suo albero genealogico. (Per i sostenitori della rica­
pitolazione, le fessure branchiali dei feti umani rappresentano una
delle vestigia del pesce adulto dal quale discendiamo; secondo l'inter­
pretazione razzista della stessa teoria, i bambini bianchi passano at­
traverso ed oltre i livelli intellettuali che caratterizzano gli adulti del­
le razze «inferiori>>.) Negli ultimi anni del secolo scorso la ricapitola­
zione fu uno tra gli argomenti <<scientifici» piu usati dai razzisti.
Alla fine degli anni venti, comunque, la teoria della ricapitolazio­
ne era completamente crollata. Infatti, come ho spiegato nel saggio
7, gli antropologi cominciarono ad interpretare l'evoluzione umana
in modo esattamente opposto. A guidare questo movimento fu
Bolk, sostenendo che gli uomini si erano evoluti mantenendo gli sta­
di giovanili degli antenati e perdendo quelle che erano precedente­
mente le strutture adulte, un processo chiamato neotenia. Con un si­
mile rovesciamento, ci saremmo potuti aspettare una disfatta del raz­
zismo bianco: come minimo un silenzioso abbandono delle pretese
precedenti o, meglio, una onesta ammissione che le vecchie prove,
interpretate alla luce della nuova teoria della neotenia, deponevano a
favore della superiorità dei neri (dal momento che il mantenere i
tratti giovanili diveniva ora un segno progressivo). Non accadde
niente di tutto ciò. Le vecchie prove furono completamente dimen­
ticate,
• e Bolk cercò nuovi dati di segno opposto che permettessero di
sostenere ancora una volta l'inferiorità dei neri. Con la neotenia, gli
adulti delle razze «Superiori>> dovevano mantenere un maggior nu­
mero di tratti giovanili, cosi, nel suo lavoro, Bolk scartò tutti gli im­
barazzanti «fatti>> usati in precedenza dai ricapitolazionisti ed elencò
i pochi tratti giovanili dei bianchi adulti.
Chiaramente in questo caso la scienza non influenzò gli atteggia­
menti razziali. Accadde esattamente il contrario: un'aprioristica con­
vinzione dell'inferiorità dei neri condizionò la scelta delle «prove>>.
Da un ricco corpo di dati che potevano sostenere quasi ogni tesi raz­
ziale, gli scienziati selezionarono i fatti: che li avrebbero portati a
conclusioni coerenti con le teorie in voga in quel momento. Da que­
sta triste vicenda si può trarre, secondo me, una lezione di valore ge-
214 Questa idea della vita

nerale. Non c'è, e non c'è mai stata, alcuna prova chiara sulla deter­
minazione genetica dei caratteri che possa indurci a fare delle distin­
zioni razziste (differenze tra le razze nei valori medi delle dimensio­
ni cerebrali, dell'intelligenza, delle doti morali e cosi via). Eppure
questa mancanza di prove non ha impedito che si formulassero, a
questo riguardo, delle tesi scientifiche. Dobbiamo quindi concludere
che l'espressione dell'opinione scientifica è piu un atto politico che
un atto scientifico, e che gli scienziati tendono a comportarsi in mo­
do conservatore, fornendo quell'<<oggettività» che la gran massa della
società vuole sentire.
Per tornare alla mia storia: Ernst Haeckel, il piu grande divulga­
tore di Darwin, si rese conto del grande futuro che poteva avere la
teoria dell'evoluzione come arma sociale. Egli scrisse: <<L'evoluzione
e il progresso stanno dalla stessa parte, schierate sotto il luminoso
vessillo della scienza; dall'altra parte, schierate sotto la nera bandiera
della gerarchia, stanno la servitu spirituale e la menzogna, l'irrazio­
nalità e la barbarie, la superstizione e la regressione ... L'evoluzione è
l'artiglieria pesante della lotta per la verità; intere schiere di sofismi
dualistici le cadono innanzi ... come di fronte ad una scarica di arti­
glieria>>.
La ricapitolazione fu l'argomento favorito di Haeckel (fu lui a
chiamarla <<legge biogenetica>> ed a coniare la frase <<1' ontogenesi rica­
pitola la filogenesi>>). La usò per attaccare l'aristocratica pretesa di un
nostro status particolare tra gli esseri viventi (non siamo forse tutti
dei pesci durante lo sviluppo embrionale?) e per ridicolizzare l'im­
mortalità dell'anima (dove sarebbe infatti l'anima quando, da em­
brioni, somigliamo a dei vermi?).
Haeckel e i suoi colleghi invocarono la ricapitolazione anche per
affermare la superiorità razziale dei bianchi dell'Europa settentrio­
nale. Esaminarono i dati dell'anatomia umana e del comportamento
servendosi di qualsiasi cosa che potessero trovare, dai cervelli agli
ombelichi. Herbert Spencer scrisse che <<i caratteri intellettuali dei
non civilizzati ... sono ricorrenti nei bambini dei civilizzati>>. Cari
Vogt si espresse piu drasticamente, nel 1864: <<Il negro cresciuto par­
tecipa, per quanto riguarda le sue facoltà intellettuali, della natura
del bambino ... Alcune tribu, essendo dotate di una particolare orga-
Razzismo e ricapitolazione 215

nizzazione, hanno fondato Stati, ma, per il resto, possiamo tranquil­


lamente affermare che l'intera razza negra non ha mai fatto, nel pas­
sato come nel presente, qualcosa che tendesse al progresso dell'uma­
nità o che fosse degno di essere conservato>>. E il medico e anatomi­
sta francese Etienne Serres sostenne che i maschi neri sono primitivi
perché la distanza tra il loro ombelico ed il pene resta piccola (rispet­
to alle dimensioni del corpo) durante tutta la vita, mentre nei bambi­
ni bianchi è piccola, ma poi aumenta nel corso della crescita: l'ombe­
lico che sale, come simbolo di progresso.
Molte furono le applicazioni sociali di questa tesi. Edward Drin­
ker Cope, meglio noto per il suo <<antagonismo fossile>> con Othniel
Charles Marsh, paragonò l'arte troglodita dell'uomo del Paleolitico a
quella dei bambini bianchi e dei <<primitivi>> adulti di oggi: <<Noi tro­
viamo che i tentativi delle prime razze di cui sappiamo qualcosa era­
no simili ai disegni che le mani inesperte dei bambini tracciano sulla
lavagna o a quelli che i selvaggi dipingono sulle pareti rocciose delle
colline>>. Un'intera scuola di <<antropologia criminale>> (si veda il sag­
gio successivo) marchiò i malfattori bianchi come <<geneticamente ri­
tardati>> e li paragonò agli africani e agli indiani adulti: <<Alcuni di que­
sti criminali bianchi, - scrisse uno zelante propagandista, - sarebbe­
ro stati il vanto e l'aristocrazia morale di una tribu di indiani rossi>>.
Havelock Ellis notò che i criminali bianchi, i bambini bianchi e gli
indiani del Sud America generalmente non arrossiscono.
La teoria della ricapitolazione ebbe il suo peso politico maggiore
come argomento a favore dell'imperialismo. Kipling, nel suo poema
sulla <<responsabilità dell'uomo bianco», defini gli indigeni sottomes­
si come <<metà diavoli e metà bambini>>. Se la conquista di terre lon­
tane aveva sconvolto qualche spirito cristiano, la scienza poteva sem­
pre soccorrere le coscienze ferite precisando che i popoli primitivi,
cosi come i bambini bianchi, sono incapaci di autogovernarsi in un
mondo moderno. Durante la guerra ispano-americana, sorse negli
Stati Uniti un grosso dibattito sulla legittimità dell'annessione delle
Filippine. Quando gli antimperialisti citarono l'affermazione di
Henry Clay secondo la quale il Signore non avrebbe mai creato una
razza incapace di autogoverno, il reverendo Josiah Strong replicò:
<<Il concetto di Clay si è formato prima che la scienza moderna aves-
216 Questa idea della vita

se dimostrato che le razze si sviluppano nel corso dei secoli cosi co­
me gli individui negli anni, e che una razza sottosviluppata, che è in­
capace di autogoverno, non è un riflesso dell'Onnipotente piu di
quanto non lo sia un bambino incapace di decidere di se stesso». Al­
tri adottarono il punto di vista <<liberale» e plasmarono il loro razzi­
smo secondo la moda paternalistica: <<Un mondo senza i popoli pri­
mitivi sarebbe un po' come una casa senza la benedizione dei bambi­
ni ... Dobbiamo essere giusti con la "razza cattiva" all'estero cosi co­
me lo siamo con il "bambino cattivo" a casa».
Ma la teoria della ricapitolazione conteneva un difetto che le sa­
rebbe stato. fatale. Se i caratteri adulti degli antenati divengono quelli
giovanili dei discendenti, allora lo sviluppo di questi ultimi deve es­
sere accelerato per fare spazio all'aggiunta di nuovi caratteri adulti
alla fine dell'ontogenesi. Nel 1900, con la riscoperta della genetica
mendeliana, questa <<legge dell'accelerazione>> crollò, portando con
sé l'intera teoria della ricapitolazione, giacché se i geni servono a co­
struire gli enzimi, e gli enzimi controllano i ritmi delle reazioni chi­
miche, l'evoluzione può agire sia accelerando che rallentando il rit­
mo dello sviluppo; la ricapitolazione richiederebbe una generale ac­
celerazione, ma la genetica ci dice che un rallentamento è altrettanto
probabile. Quando gli scienziati cominciarono a cercare le prove per
il rallentamento, a venire alla ribalta fu proprio la nostra specie. Co­
me ho spiegato nel saggio 7, gli uomini per molti aspetti si sono evo­
luti mantenendo i caratteri giovanili comuni ai primati ed anche ai
mammiferi in genere: per esempio, il nostro cranio bulboso ed il cer­
vello relativamente grande, la posizione ventrale del foramen ma­
gnum (che permette la postura eretta), le mascelle piccole e la relati­
va mancanza di pelo.
Per mezzo secolo chi proponeva la ricapitolazione aveva raccolto
«prove>> razziali; tutto per sostenere che gli adulti delle razze <<infe­
riori>> erano come i bambini dei bianchi. Al crollo della teoria della
ricapitolazione, i sostenitori della neotenia umana avevano ancora
questi dati; una loro reinterpretazione obiettiva avrebbe portato ad
ammettere che le razze ritenute <<inferiori>> sono in realtà superiori,
visto che Havelock Ellis (uno dei primi sostenitori della neotenia)
scrisse: <<Il progresso della nostra razza è stato costituito da un avan-
Razzismo e ricapitolazione 217

zamento della giovinezza>>. A dire il vero, il nuovo criterio fu accet­


tato: la razza piu infantile sarebbe stata considerata da allora in poi la
razza superiore. Ma le vecchie prove furono semplicemente messe
da parte, e Bolk si affrettò a trovare dei dati di segno opposto per di­
mostrare che i bianchi adulti sono come i bambini neri. E, natural­
mente, li trovò (tutto si può fare, basta volerlo con la determinazio­
ne sufficiente): i neri adulti hanno crani lunghi, pelle nera, mascelle
fortemente sporgenti ed una «dentizione ancestrale>>; mentre i bian­
chi adulti e i bambini neri hanno crani corti, pelle chiara (o almeno
piu chiara), e mascelle piccole non sporgenti (lasciamo perdere i den­
ti). <<La razza bianca appare come la piu evoluta, pur essendo quella
con lo sviluppo maggiormente ritardato>>, disse Bolk. Havelock Ellis
nel 1894 aveva detto piu o meno lo stesso: <<Il bambino di molte raz­
ze africane è poco o affatto meno intelligente di quello europeo, ma
mentre l'africano col crescere diviene stupido ed ottuso, e la sua inte­
ra vita sociale cade in uno stato di scheletrica routine, l'europeo
mantiene molta della sua vivacità infantile».
Onde evitare che queste affermazioni siano considerate solo co­
me sbagli di un'epoca lontana, faccio notare che nel 1971 l' argomen­
to neotenico è stato invocato da un noto genetista determinista nel
corso del dibattito sul quoziente di intelligenza (QI). H. Eysenck af­
fermò che gli africani e i bambini americani neri mostrano uno svi­
luppo senso motorio piu veloce di quello dei bianchi; sostenne an­
che che questo rapido sviluppo senso motorio nel primo anno di vi­
ta era correlato con un piu basso QI successivo. Questo è un classico
esempio di una correlazione non causale e praticamente senza senso:
supponiamo che le differenze di Q l siano completamente determina­
te dall'ambiente; in questo caso il rapido sviluppo motorio non
avrebbe niente a che fare con un basso QI (si tratta semplicemente di
un altro mezzo di discriminazione razziale, e piu debole del colore
della pelle). Ciò nonostante, Eysenck si rifece alla neotenia per soste­
nere la sua interpretazione genetica: <<Questi risultati mostrano la lo­
ro importanza se letti sulla base di un concetto biologico molto ge­
nerale secondo il quale piu lunga è l'infanzia maggiori sono, in gene­
re, le capacità cognitive e intellettuali della specie».
Ma quella della neotenia è un'arma a doppio taglio, per un moti-
218 Questa idea della vita

vo che i razzisti bianchi hanno generalmente scelto di ignorare. È


difficile negare che le razze umane piu giovanili non sono bianche
ma mongoloidi (cosa che l'esercito americano non ha mai capito, da­
to che continuava a dire che i vietcong arruolavano ragazzini, molti
dei quali avevano in realtà già passato la trentina o la quarantina).
Bolk aggirò il problema; Havelock Ellis lo affrontò di petto e ammi­
se la sconfitta (anche se non l'inferiorità).
Se i ricapitolazionisti razzisti videro la sconfitta della loro teoria,
forse i neotenisti razzisti perderanno sul terreno dei dati (anche se la
storia suggerisce che i dati sono scelti semplicemente per essere adat­
tati alle teorie). Perché c'è un altro punto imbarazzante nei dati sulla
neotenia, lo status della donna. A questo proposito, finché si credeva
alla ricapitolazione, tutto andava bene; le donne sono piu infantili
degli uomini dal punto di vista anatomico: sicuro segno di inferiori­
tà, come sostenne, con tanto clamore, Cope negli anni ottanta del se­
colo scorso. Ma, sulla base dello stesso fatto, secondo l'ipotesi neote­
nica la donna dovrebbe essere superiore all'uomo. Ancora una volta
Bolk sceglie di ignorare il problema. E, ancora una volta, Havelock
Ellis lo affronta onestamente per ammettere la validità di quanto so­
stenne piu tardi Ashley Montagu nel suo trattato sulla «naturale su­
periorità della donna>>. Scrisse Ellis nel 1894: «La donna porta le spe­
ciali caratteristiche dell'umanità ad un livello piu alto dell'uomo ...
Questo è vero per i caratteri fisici: l'uomo della civiltà urbana, con la
testa larga, la faccia delicata, le ossa piccole, è piu vicino alla donna
tipica di quanto non lo sia il selvaggio. Non solo per il suo grande
cervello, ma anche per le sue larghe pelvi, l'uomo moderno sta se­
guendo il sentiero già tracciato dalla donna>>. Ellis suggerisce anche
che potremmo trovare la chiave per la nostra salvezza nella conclu­
sione del Faust: «L'eterno Elemento Femminile ci trae verso l'alto>>.
28
Il criminale come errore di natura,
ovvero la scimmia antropomorfa
dentro alcuni di noi

W. S. Gilbert dirigeva la sua satira implacabile contro tutte le for­


me di presunzione che gli capitasse di vedere. Nella maggior parte
dei casi i suoi attacchi mantengono ancora oggi il loro valore: pom­
posi uomini politici e poeti affettati sono ancora dei bersagli legitti­
mi. Ma Gilbert era in fondo un tranquillo vittoriano, e molte di
quelle che ai suoi occhi apparivano come pretese ingiustificate sem­
brano oggi idee illuminate, cosa che vale in modo particolare per l'i­
struzione superiore delle donne. <<Un college femminile! Siamo di­
ventati pazzi furiosi! Che cosa possono imparare di buono le ragazze
tra le sue mura?>>
In Princess Ida, la professoressa di materie classiche a Castle Ada­
mant fornisce una giustificazione biologica alla sua affermazione se­
condo la quale <<l'uomo è l'unico errore della natura>>. Racconta cosi
la storia di una scimmia antropomorfa che amava una donna meravi­
gliosa. Per conquistarla, la scimmia cercò di vestirsi e comportarsi
come un gentiluomo, ma ovviamente invano, perché <<l'uomo di
Darwin, per quanto ben educato, riesce tutt'al piu ad essere una
scimmia ben rasata!>>.
Gilbert scrisse Princess Ida nel 1884; otto anni piu tardi un medi­
co italiano, Cesare Lombroso, diede inizio ad uno dei piu importan­
ti movimenti sociali della sua epoca con un'affermazione simile, fat­
ta in tutta serietà, a proposito di una parte della popolazione: i cri-
220 Questa idea della vita

minali nati sono essenzialmente delle scimmie antropomorfe che vi­


vono in mezzo a noi. Piu avanti negli anni, Lombroso ricorderà cosi
il momento della rivelazione: «Nel 1870 compii delle ricerche durate
diversi mesi nelle prigioni e nei manicomi di Pavia, sia su cadaveri
che su persone in vita, al fine di determinare le differenze sostanziali
tra i pazzi e i criminali, senza ottenere grossi risultati. Improvvisa­
mente, la mattina di un nuvoloso giorno di dicembre, trovai nel cra­
nio di un brigante una lunga serie di anomalie ataviche ... Il problema
della natura e dell'origine del criminale mi sembrava risolto; doveva
trattarsi della riproduzione dei caratteri degli uomini primitivi e de­
gli animali inferiori nella nostra epoca>>.
Le teorie biologiche della criminalità non erano una novità, ma
Lombroso diede al discorso un taglio originale, di tipo evoluzionisti­
co: i criminali non sono solo degli squilibrati o dei malati ma, addi­
rittura, degli esseri regrediti ad uno stadio evolutivo ormai superato
dalla specie umana; i caratteri ereditari dei nostri antenati primitivi e
scimmieschi sono ancora presenti nel nostro patrimonio genetico, e
ad alcuni uomini capita la sfortuna di nascere con un numero anor­
male di questi caratteri ancestrali. Il comportamento di questi indivi­
dui, che poteva essere adatto alle società selvagge del passato, viene
oggi bollato come criminale. Possiamo aver pietà del criminale nato,
poiché non può far nulla per se stesso, ma non possiamo tollerare le
sue azioni. (Lombroso credeva che circa il 40% dei casi di criminalità
fossero di questo tipo, biologicamente determinati; negli altri casi al­
l'origine degli atti di delinquenza c'era l'avidità, la gelosia, l'eccesso
d'ira, e cosi via: ci si trovava cioè di fronte a criminali occasionali.)
Ho raccontato tutto ciò per tre ragioni che, nell'insieme, rendo­
no questa storia molto interessante:
l . Una considerazione di carattere storico-sociale: questa vicenda
può farci capire l'enorme influenza della teoria dell'evoluzione in
campi ben lontani da quello biologico. Anche gli scienziati piu puri
sono soggetti a dei condizionamenti. Le grandi idee hanno «ricadu­
te>> estremamente sottili ed a largo raggio. Chi vive nell'era nucleare
dovrebbe saperlo molto bene, ma molti scienziati devono ancora af­
ferrare questo concetto.
2. Una considerazione politica: tutte le volte che qualcuno si ap-
Il criminale come errore di natura 221

pella ai caratteri biologici innati per spiegare il comportamento uma­


no lo fa sempre in nome del progresso. I difensori del determinismo
biologico sostengono che la scienza può liberarci dalla superstizione
e dal sentimentalismo e farci capire qual è la nostra vera natura. Ma,
di solito, l'effetto principale delle loro affermazioni è stato diverso:
chi deteneva il potere di classe nella società le ha usate per sostenere
che l'ordine sociale vigente doveva essere accettato perché si trattava
di una legge di natura. Naturalmente, sarebbe assurdo rifiutare una
teoria solo perché non ci piacciono le sue conseguenze; ciò che dob­
biamo stabilire, per decidere se accettarla o meno, è se essa corri­
sponde a verità, sulla base degli strumenti che abbiamo a disposizio­
ne. Ma le affermazioni dei deterministi si sono sempre dimostrate
speculazioni basate sul pregiudizio, anziché fatti accertati, e l'antro­
pologia criminale di Lombroso è il migliore esempio che io conosca.
3. Una nota di attualità: l'etichetta dell'antropologia criminale di
Lombroso è scomparsa, ma il suo postulato fondamentale continua
a vivere nel popolare concetto di geni o cromosomi criminali. Si
tratta, né piu né meno, di versioni moderne della teoria lombrosia­
na. Se esse continuano ad attirare la nostra attenzione è solo perché
si continua inutilmente a far appello al determinismo biologico nel
tentativo di assolvere una società in cui molti di noi si ingrassano in­
colpando le vittime.
Il 1976 è stato il centenario del primo lavoro di Lombroso, in se­
guito ampliato nel famoso L 'uomo delinquente. Lombroso parte da
una serie di aneddoti per sostenere che il comportamento normale
degli animali inferiori è, per noi, un comportamento criminale: gli
animali uccidono per reprimere le rivolte; eliminano i rivali in amo­
re; uccidono per rabbia (una formica, spazientita da un afide recalci­
trante, lo aveva ucciso e divorato); formano associazioni a delinque­
re (tre castori dividevano un territorio con un individuo che viveva
da solo; il trio fece visita al vicino e ricevette una buona accoglienza;
quando poi il loro simile ricambiò la visita pagò con la vita la sua
premura). Lombroso arriva al punto di definire <<equivalente ad un
delitto» la cattura delle mosche da parte delle piante carnivore (an­
che se non riesco a vedere in che cosa questo modo di mangiare dif­
ferisca da altri comportamenti alimentari).
222 Questa idea della vita

Nel capitolo successivo Lombroso esamina l'anatomia dei crimi­


nali e vi trova i segni (le stimmate) del loro stato primitivo, le prove
che si tratta di individui regrediti al nostro passato evolutivo. Dato
che ha già definito criminale il comportamento degli animali, le
azioni di questi esseri primitivi devono scaturire dalla loro natura.
Le caratteristiche scimmiesche dei criminali nati comprendono brac­
cia lunghe, piedi prensili con grossi alluci mobili, fronte bassa e
stretta, grandi orecchie, crani spessi, mascelle grandi e sporgenti, fol­
ta peluria sul petto dei maschi, ed una diminuita sensibilità al dolore.
Ma le regressioni non si fermano al livello dei primati. Canini grossi
e palato piatto ricordano un piu lontano passato di mammiferi.
Lombroso arriva addirittura al punto di paragonare la pronunciata
asimmetria facciale dei criminali nati con la condizione normale del­
le sogliole (che hanno entrambi gli occhi sullo stesso lato della testa)!
Ma le stimmate non sono solo fisiche. Anche nel comportamento
sociale il criminale nato mostra i segni della sua parentela con le
scimmie antropomorfe e con gli attuali selvaggi. Lombroso mise
particolarmente in rilievo la pratica del tatuaggio, comune tra le tri­
bu primitive e tra i criminali europei. Realizzò voluminose statisti­
che sul tipo dei tatuaggi criminali e li trovò di contenuto osceno e ri­
belle o giustificativo (anche se dovette ammettere di averne letto uno
che diceva: <<Vive la France et les pommes de terre frites>>). Il gergo
criminale era secondo lui una vera e propria lingua, particolarmente
somigliante al linguaggio delle tribu selvagge in caratteristiche come
l'onomatopeia e la personificazione degli oggetti inanimati: <<Essi
parlano in modo diverso perché provano sensazioni diverse, perché
sono dei veri selvaggi nel mezzo della nostra brillante civiltà euro­
pea>>.
Il lavoro teorico di Lombroso andò anche al di là dell'ambito
strettamente scientifico. Egli fondò e guidò attivamente una scuola
internazionale di <<antropologia criminale>> dalla quale si sviluppò
uno dei piu importanti movimenti sociali del XIX secolo. La scuola
di Lombroso, definita <<nuova>> e <<positiva>>, si batté con forza per in­
trodurre cambiamenti nei codici e nelle pratiche penali. I suoi espo­
nenti consideravano il loro metodo scientifico per il riconoscimento
dei criminali nati come un contributo di primaria importanza alla
Il criminale come errore di natura 223

Giustizia. Lombroso suggeri anche una criminologia preventiva:


non è necessario che la società aspetti l'azione delittuosa (e ne sof­
fra), poiché le stimmate sociali e fisiche consentono l'individuazione
del criminale potenziale. Questo può essere identificato (fin dalla
prima infanzia), quindi tenuto sotto controllo e tolto di mezzo alla
prima manifestazione della sua inevitabile natura (Lombroso, che
era un liberale, optava per l'esilio anziché per la morte). Enrico Fer­
ri, il piu stretto collaboratore di Lombroso, raccomandava che «il ta­
tuaggio, l'antropometria, la fisiognomica, ... l'attività riflessa, le rea­
zioni vasomotorie [i criminali, sosteneva, non arrossiscono], e il cam­
po visivo», venissero usati come criterio di giudizio dai magistrati.
Gli esponenti dell'antropologia criminale si batterono anche per
una sostanziale riforma del sistema penale. Un'antiquata etica cri­
stiana sostiene che i criminali dovrebbero essere condannati per le
loro azioni, ma la biologia dichiara che essi vanno giudicati sulla ba­
se della loro natura. La punizione va adattata al criminale, non al cri­
mine. I delinquenti occasionali, che non hanno le stimmate e posso­
no essere rieducati, dovrebbero essere incarcerati solo per il tempo
necessario ad assicurare il loro recupero. Ma i criminali nati sono
condannati dalla loro stessa natura: <<Gli insegnamenti etici passano
sul cervello malato come l'olio sul marmo, senza penetrarvi>>.
Lombroso raccomandava detenzione a vita (in luoghi piacevoli
ma isolati) per qualsiasi recidivo che avesse le stimmate rivelatrici.
Alcuni suoi colleghi erano meno generosi. Ecco quanto scrisse a
Lombroso un influente giurista: <No i ci avete mostrato i feroci ed
osceni oranghi con facce umane. È evidente che, come tali, essi non
possono agire diversamente. Se violentano, rubano, e uccidono, è a
causa della loro natura e del loro passato, ma una volta provato che
essi rimarranno sempre degli oranghi avremmo tutte le migliori ra­
gioni per distruggerli». E Lombroso stesso non escludeva la <<soluzio­
ne finale»: <<Il fatto che esistano questi individui che sono delinquen­
ti nati, organicamente predisposti al male, riproduzioni ataviche non
dei semplici selvaggi ma animali dei piu selvaggi, ben lungi dal susci­
tare in noi, come è stato detto, maggiore compassione, ci corazza
contro ogni pietà».
Bisognerà menzionare anche un'altra conseguenza del pensiero
224 Questa idea della vita

!ambrosiano. Se i selvaggi, cosi come i criminali nati, mantengono


caratteri scimmieschi, allora le tribu primitive, <<meno civili perché
prive di leggi>>, potevano essere considerate come sostanzialmente
criminali. Cosi, proprio nel momento della massima espansione co­
loniale dell'Europa, l'antropologia criminale offriva al razzismo e al­
l'imperialismo un efficace argomenÙf) giustificativo. Ecco quanto
scrisse Lombroso notando, tra i criminali, una ridotta sensibilità al
dolore: <<La loro insensibilità fisica ben ricorda quella dei selvaggi i
quali, nei riti della pubertà, sopportano torture che mai un uomo
bianco potrebbe tollerare. Tutti quelli che hanno viaggiato conosco­
no l'indifferenza dei negri e dei selvaggi americani nei confronti del
dolore: i primi, pur di evitare il lavoro si tagliano le mani e ridono; i
secondi, legati al palo della tortura, cantano allegramente la gloria
della loro tribu mentre bruciano a fuoco lento. [Non c'è proprio
niente da fare contro chi è razzista a priori. Pensate a quanti eroi del­
l'occidente morirono coraggiosamente tra terribili sofferenze: Santa
Giovanna bruciata, San Sebastiano trafitto con le frecce, altri martiri
per le torture, altri ancora sventrati o squartati. Ma quando un india­
no non urla e non implora pietà, l'unica spiegazione è che non av­
verta il dolore]».
Se Lombroso ed i suoi colleghi fossero stati un gruppo di convin­
ti protonazisti, potremmo liquidare l'intero fenomeno come prodot­
to di una consapevole demagogia; tutt'al piu la vicenda servirebbe
come ammonimento, si potrebbe dedurne che è necessario vigilare
contro gli ideologi che fanno un cattivo uso della scienza. Ma i prin­
cipali esponenti dell'antropologia criminale erano degli <<illuminati>>
socialisti e socialdemocratici che consideravano la loro teoria un
punto di riferimento per una società razionale, scientifica, basata sul­
la natura dell'uomo. La determinazione genetica dell'azione crimi­
nale, sosteneva Lombroso, non è altro che la legge della natura e del­
l'evoluzione: <<Noi siamo governati da leggi silenziose che non cessa­
no mai di operare e che guidano la società con piu autorità delle leg­
gi contenute nei nostri codici. Il crimine si rivela un fenomeno natu­
rale ... come la nascita o la morte>>.
Oggi sappiamo che la <<realtà>> scientifica di Lombroso altro non
era che una proiezione dei suoi pregiudizi sociali, che nel suo studio,
Il criminale come errore di natura 225

che avrebbe dovuto essere oggettivo, si calpestava l'analisi dei dati


reali. Le sue teorie ebbero l'effetto di far condannare in modo som­
mario molti innocenti, semplicemente sulla base di un giudizio di
previsione. Il suo tentativo di capire il comportamento umano deli­
neando un potenziale innato che si sarebbe dovuto manifestare nella
nostra anatomia servi solo a contrastare le riforme sociali, scarican­
do tutte le colpe sui caratteri ereditari della criminalità.
Ovviamente oggi nessuno prende sul serio le tesi di Lombroso.
Le sue statistiche erano incredibilmente difettose; solo una fede cieca
nella validità della sua ipotesi può averlo portato a delle conclusioni
cosi sbagliate. Inoltre oggi nessuno considererebbe dei segni di infe­
riorità le braccia lunghe e le mascelle sporgenti; i deterministi mo­
derni puntano la loro attenzione sui geni e i cromosomi.
Molte cose sono accadute nei cento anni trascorsi tra la pubblica­
zione dell'Uomo delinquente e la celebrazione del nostro bicentena­
rio. Nessun serio sostenitore della criminalità innata raccomanda og­
gi la detenzione a vita o l'uccisione degli sfortunati che nascerebbero
con questa naturale propensione al comportamento criminale; nes­
suno arriva al punto di affermare che l'azione criminale è il prodotto
inevitabile di questa predisposizione. Eppure lo spirito lombrosiano
è ancora molto vivo. Quando Richard Speck assassinò otto infermie­
re a Chicago, i suoi avvocati sostennero che egli non poteva fare al­
trimenti perché aveva un cromosoma Y in piu. (Le femmine norma­
li hanno due cromosomi X, i maschi normali un X ed un Y. Una
piccola percentuale di maschi ha un cromosoma Y in piu ed è perciò
XYY.) In seguito a questa rivelazione, ci fu un fiorire di speculazio­
ni; le riviste piu popolari si riempirono di articoli sul <<cromosoma
criminale>>. Ecco quali erano gli ingenui argomenti dei deterministi a
sostegno di questa tesi: i maschi tendono ad essere piu aggressivi del­
le femmine; questo fatto può essere di origine genetica; se è cosi, l' ag­
gressività deve essere legata al cromosoma Y; chiunque possieda due
cromosomi Y ha una doppia dose di aggressività e potrebbe avere
una propensione per la violenza e per il crimine. Ma le informazioni
frettolosamente raccolte nelle prigioni sui maschi XYY apparvero
irrimediabilmente contraddittorie, e alla fine si scopri che lo stesso
Speck era in realtà un XY. Ancora una volta, il determinismo biolo-
226 Questa idea della vita

gico ha attirato l'attenzione generale, ha creato un'ondata di discus­


sioni e di chiacchiere da salotto ed infine si è dovuto ritirare per
mancanza di prove. Ma perché siamo cosi affascinati da ogni ipotesi
sulle tendenze innate? A che serve scaricare le responsabilità della
nostra violenza e del nostro sessismo sui nostri geni? I caratteri di­
stintivi dell'umanità sono non solo le nostre doti intellettuali, ma
anche la nostra elasticità mentale. Cosi come abbiamo costruito que­
sto nostro mondo possiamo anche cambiarlo.
Parte ottava
Scienza e politica della
natura umana

I
Razza sesso e violenza
29
Perché non dovremmo parlare di
razze umane. Un punto di vista
biologico

La tassonomia è lo studio della classificazione; noi applichiamo le


sue rigorose regole a tutte le forme di vita, ma quando arriviamo al­
la specie che dovremmo conoscere meglio, ecco che sorgono i pro­
blemi.
Di solito dividiamo la nostra specie in razze. Sulla base delle rego­
le della tassonomia, tutte le sottodivisioni formali delle specie sono
dette sottospecie. Le razze umane sono, quindi, sottospecie di Homo
sapiens.
Nel corso degli ultimi dieci anni, la pratica della divisione delle
specie in sottospecie è stata abbandonata gradatamente da molti, da­
to che l'introduzione di tecniche quantitative suggeriva metodi di­
versi per lo studio della variabilità geografica all'interno delle specie.
È sbagliato e illusorio pensare di definire le razze umane senza porsi
degli interrogativi di carattere etico e sociale che riguardano solo la
nostra specie. Tuttavia queste nuove procedure tassonomiche dànno
un nuovo contributo di carattere generale e puramente biologico ad
un vecchio dibattito.
lo sostengo che continuare a classificare in razze Homo sapiens si­
gnifica affrontare in modo sorpassato il problema generale della dif­
ferenziazione all'interno di una specie. In altre parole, respingo que­
sta classificazione razziale per la stessa ragione per cui preferisco non
dividere in sottospecie le lumache dell'India occidentale, in cui si os-
230 Questa idea della vita

serva una incredibile variabilità, e sulle quali sto conducendo i miei


studi.
Gli argomenti contro la classificazione razziale sono già stati
esposti molte volte, in particolare da undici autori in The concept of
race, un libro edito da Ashley Montagu nel 1964 (ripubblicato in
brossura nel 1969 da Collier-Macmillan). Ma queste opinioni non ot­
tennero allora un consenso generale perché l'abitudine di definire le
sottospecie era ancora sostenuta dalla pratica tassonomica. Nel 1962,
per esempio, Theodosius Dobzhansky espresse il suo stupore per il
fatto che <<alcuni autori si sono convinti che la specie umana non ha
affatto delle razze!... Proprio come gli zoologi osservano una grande
diversità di animali, gli antropologi hanno a che fare con una varietà
di esseri umani... La razza è oggetto dello studio e dell'analisi scienti­
fica semplicemente perché è un fatto di natura>>. E Grant Bogue
scrisse recentemente, in occasione di un dibattito con Ashley Mon­
tagu: «Alcuni accademici di dubbia serietà hanno detto no, che è tut­
to un errore ... e sono arrivati fino al punto di suggerire che anche lo
stesso concetto di razza sia tutto nelle nostre teste ... Varie sono le ri­
sposte che si possono dare a questa opinione; la piu comune è que­
sta: l'esistenza delle razze è un fatto evidente>>.
Queste affermazioni contengono un errore macroscopico. Quel­
lo che è evidente non è la razza, ma la variabilità geografica. Nessu­
no può negare che Homo sapiens sia una specie fortemente differen­
ziata; pochi saranno in disaccordo con l'osservazione che il piu chia­
ro segno esteriore di questa variabilità sia costituito dalle differenze
nel colore della pelle. Ma l'esistenza della variabilità non implica la
necessità della divisione in razze. Esistono modi migliori per studia­
re le differenze tra gli uomini.
La categoria «specie>> ha uno status speciale nella gerarchia tasso­
nomica; secondo il dogma del «concetto biologico di specie>>, ogni
specie rappresenta un'unità «reale>> in natura. La sua definizione ri­
flette questo status: «Popolazione di organismi che si incrociano o
potrebbero incrociarsi e hanno un comune pool genico>>. Oltre il li­
vello di specie si incontra una certa arbitrarietà. Quello che per qual­
cuno è un genere, per un altro è una famiglia. Ciò nonostante, ci so­
no delle regole che vanno seguite nella costruzione delle gerarchie.
Perché parlare di razze umane? 231

Non è possibile, per esempio, collocare due membri dello stesso taxa
(per esempio dello stesso genere) in taxa diversi di una categoria an­
cora superiore (per esempio le famiglie o gli ordini).
Sotto il livello della specie ci sono solo le sottospecie. Ecco come
Ernst Mayr definiva questa categoria in Systematics and the origin of
species (Columbia University Press, 1942): <<La sottospecie, o razza
geografica, è una suddivisione della specie geograficamente localizza­
ta, che differisce geneticamente e tassonomicamente dalle altre sud­
divisioni della specie>>. I requisiti che deve possedere la sottospecie
sono: l) essere riconoscibile dalle caratteristiche della sua morfolo­
gia, fisiologia, o comportamento, deve essere cioè <<tassonomicamen­
te>> (o, per deduzione, geneticamente) differente dalle altre sottospe­
cie e 2) occupare una certa parte dell'estensione geografica della spe­
cie. Quando decidiamo di caratterizzare la variabilità all'interno di
una specie stabilendo delle sottospecie, noi suddividiamo uno spet­
tro di variazioni in blocchi discreti con confini geografici distinti e
tratti riconoscibili.
Due sono i punti fondamentali che distinguono la sottospecie
dalle altre categorie tassonomiche: 1) i suoi limiti non possono mai
essere fissati e definiti perché, per definizione, un membro di una
sottospecie può incrociarsi con membri di un'altra sottospecie della
stessa specie (un gruppo che non può piu farlo deve essere considera­
to una specie vera e propria); 2) si tratta di una categoria di cui si po­
trebbe benissimo fare a meno. Tutti gli organismi devono appartene­
re ad una specie, ogni specie deve appartenere ad un genere, ogni ge­
nere ad una famiglia, e cosi via; ma non c'è nessun motivo per cui
una specie debba essere divisa in sottospecie. La sottospecie è una ca­
tegoria di comodo. La usiamo solo quando giudichiamo che si potrà
comprendere meglio la variabilità definendo all'interno delle specie
dei blocchi discreti e delimitati geograficamente. Oggi molti biologi
fanno notare che imporre una nomenclatura formale alle forme di­
namiche di variabilità che osserviamo in natura è non solo inutile,
ma anche completamente fuorviante.
Ma come risolvere allora il problema della ricca variabilità geo­
grafica che caratterizza un cosi gran numero di specie, compresa la
nostra? Esempio del vecchio approccio è una monografia, che fu
232 Questa idea della vita

pubblicata nel 1942, sulla variazione geografica della lumaca degli al­
beri delle Hawaii, Achatinella apex fulva. L'autore divideva questa
specie straordinariamente variabile in settantotto sottospecie formali
e sessanta «microrazze geografiche>> addizionali (perché si trattava di
unità un po' troppo confuse per assegnargli lo status di sottospecie).
Ogni sottodivisione riceveva un nome e una descrizione formale. Il
risultato è un libro voluminoso e quasi illegibile, che seppellisce uno
dei piu interessanti fenomeni della biologia evoluzionistica sotto un
impenetrabile groviglio di nomi e descrizioni statiche.
Da notare che ci sono ancora altre forme di variazione all'interno
di questa specie che affascinerebbero qualsiasi biologo: le relazioni
tra forma della conchiglia, altitudine e piovosità, variazioni che sono
in precisa sintonia con le condizioni climatiche, itinerari di migra­
zione riflessi nella distribuzione dei segni colorati sulla conchiglia. È
giusto affrontare una simile variazione alla maniera di un notaio?
Perché dovremmo dividere artificialmente un insieme cosi dinamico
e continuo in unità distinte con nomi formali? Non sarebbe preferì­
bile mappare obiettivamente questa variabilità senza sovrapporgli il
criterio soggettivo di suddivisione formale che ogni tassonomista de­
ve usare nel denominare le sottospecie?
lo penso che oggi i biologi, per la maggior parte, risponderebbero
affermativamente alla mia ultima domanda; penso anche che avreb­
bero dato la stessa risposta trenta anni fa. Ma perché, allora, conti­
nuarono ad affrontare il fenomeno della variazione geografica con la
definizione di sottospecie? La risposta è che non erano ancora state
sviluppate delle tecniche obiettive per la mappatura della variazione
continua di una specie. Certo, avrebbero potuto mappare la distri­
buzione di singoli caratteri, del peso corporeo, per esempio. Ma la
variazione di un singolo carattere è ben poco di fronte a variazioni
che interessano un cosi gran 'numero di caratteri simultaneamente.
Sorge inoltre il classico problema dell'«incongruità>>. Mappe costrui­
te per altri singoli caratteri presentano quasi sempre distribuzioni di­
verse: le dimensioni possono essere grandi nei climi freddi e piccole
in quelli caldi, mentre il colore chiaro in aperta campagna e scuro
nei boschi.
Un metodo soddisfacente per una mappatura scientifica obiettiva
Perché parlare di razze umane? 233

richiede che siano considerati contemporaneamente molti caratteri.


Questo trattamento simultaneo è detto «analisi multivariata>>. Gli
statistici svilupparono le basi teoriche dell'analisi multivariata già
molti anni fa, ma il suo uso di routine non fu possibile prima dell'in­
venzione dei grandi calcolatori elettronici. I calcoli necessari sono
estremamente laboriosi e vanno ben oltre le capacità dei calcolatori
da tavolo e i limiti della pazienza umana; ma gli elaboratori elettro­
nici possono realizzarli nel giro di qualche secondo.
Negli ultimi dieci anni, gli studi sulla variazione geografica sono
stati rivoluzionati dall'uso dell'analisi multivariata. Quasi tutti i ri­
cercatori che hanno adottato questo metodo hanno rinunciato a de­
finire le sottospecie. È impossibile mappare una distribuzione conti­
nua se tutti i campioni devono prima essere collocati in suddivisioni
discrete. Non è meglio limitarsi a caratterizzare ogni campione loca­
le sulla base della sua particolare morfologia ed andare alla ricerca di
interessanti regolarità nelle mappe che vengono cosi realizzate?
Il passero inglese, per esempio, fu introdotto nel Nord America
attorno al 1850. Da allora si è diffuso geograficamente ed ha subito
una notevole diversificazione morfologica. In precedenza, questa va­
riazione fu affrontata stabilendo l'esistenza di sottospecie. R. F.
Johnston e R. K. Selander (Science, 1964, p. 550) rifiutarono di segui­
re questo procedimento. «Non siamo convinti, - sostennero, - che
sia conveniente adottare delle denominazioni distinte in un sistema
che è manifestamente dinamico.>> Essi mapparono invece delle varia­
zioni complesse. Una delle loro mappe riguarda la variazione di una
combinazione di sedici caratteri morfologici legati alle dimensioni
del corpo. La variazione è continua ed ordinata. I passeri di grandi
dimensioni tendono a vivere nelle aree settentrionali ed interne,
mentre quelli piccoli abitano le aree meridionali e costiere. È ovvio
perciò che esiste una relazione stretta tra le grandi dimensioni ed i
climi invernali freddi. Ma l'avremmo vista in modo cosi chiaro an­
che se la variazione fosse stata rappresentata per mezzo di una serie
di nomi latini con un'artificiosa divisione dell'insieme? Inoltre que­
sto tipo di variazione obbedisce ad una importante legge della distri­
buzione animale. Secondo la regola di Bergmann i membri delle spe­
cie a sangue caldo tendono ad avere dimensioni maggiori nei climi
234 Questa idea della vita

freddi. Questo fatto viene spiegato rifacendosi alla relazione tra vo­
lume e superficie (argomento discusso nella parte sesta). Infatti gli
animali di grandi dimensioni hanno, in proporzione, una superficie
minore di quella degli animali piccoli. Dato che gli animali perdono
calore per radiazione attraverso la loro superficie esterna, una dimi­
nuzione del rapporto superficie/volume aiuta a trattenere il calore
del corpo. Naturalmente le forme di variazione geografica non sono
sempre cosf ordinate. In molte specie certe popolazioni locali sono
del tutto diverse da altre immediatamente adiacenti. Ma anche in
questo caso è preferibile mappare le variazioni in modo obiettivo
piuttosto che imporre dei nomi fissi.
L'analisi multivariata sta cominciando ad avere effetti simili negli
studi sulla variabilità nella nostra specie. Negli ultimi decenni, per
esempio, J. B. Birdsell aveva scritto diverse opere notevoli nelle qua­
li il genere umano veniva diviso in razze, secondo quella che era la
pratica accettata dell'epoca. Recentemente ha applicato l'analisi mul­
tivariata alle frequenze geniche dei gruppi sanguigni tra gli aborigeni
australiani. Egli respinge ogni divisione in unità discrete e scrive:
«Può essere che lo sforzo da fare sia quello di indagare sulla natura e
l'intensità delle forze evolutive, mentre va tramontando, forse per
sempre, il piacere di classificare l'uomO>>.
30
La non scientificità di certe tesi
sulla natura umana

Quando un gruppo di ragazze cadeva in trance di fronte ad una


donna accusata di essere una strega, la giustizia di Salem del XVII se­
colo non dava altra spiegazione oltre a quella della possessione de­
moniaca. Quando i seguaci di Charlie Manson attribuirono poteri
occulti al loro leader, nessun giudice li prese sul serio. Nei circa tre­
cento anni che separano questi due fatti, abbiamo imparato un certo
numero di cose sui fattori sociali, economici e psicologici che deter­
minano il comportamento di gruppo. Al giorno d'oggi chi fornisse
un'interpretazione semplicistica di questi fenomeni cadrebbe nel ri­
dicolo.
Un'interpretazione del genere è stata invece molto comune anche
riguardo alla natura dell'uomo e alle differenze tra i gruppi umani; il
comportamento umano era attribuito ai caratteri biologici innati;
come dire che se noi ci comportiamo in un certo modo è perché in
un certo modo siamo fatti. Questa tesi è espressa molto sintetica­
mente nel primo passo di un libro di preghiere del XVII secolo: sia­
mo tutti figli del peccato originale di Adamo. Uno dei movimenti
piu importanti della scienza e della cultura del XX secolo è stato
quello contro il determinismo biologico. Grazie a questo movimen­
to abbiamo cominciato a vedere noi stessi come un animale in grado
di apprendere e ci siamo convinti che il peso delle influenze di classe
236 Questa idea della vita

e della cultura supera di gran lunga le predisposizioni derivanti dalla


nostra costituzione genetica.
Ciò nonostante, durante gli ultimi dieci anni siamo stati sommer­
si da un risorgente determinismo biologico, che va dalla etologia
<<per tutti>> al piu scoperto razzismo.
Padrino di questa rinascita è stato Konrad Lorenz; grazie al lavo­
ro di drammatizzazione di Robert Ardrey ed a quello narrativo di
Desmond Morris si è data dell'uomo l'immagine di una <<scimmia
nuda>>, discendente da un carnivoro africano, con una aggressività in­
nata ed una altrettanto innata tendenza al dominio del territorio.
Lione! Tiger e Robin Fox cercarono di trovare una base biologica
per la sorpassata concezione occidentale che vuole l'uomo aggressivo
e lungimirante e la donna docile e limitata. Alla base delle differenze
culturali tra l'uomo e la donna ci sarebbero, secondo loro, dei mec­
canismi ormonali originatisi in funzione dei nostri ruoli ancestrali di
cacciatori di gruppo e allevatori di bambini.
Il segnale premonitore di quanto stava per avvenire lo diede Car­
leton Coon affermando (L 'origine delle razze, 1962) che il passaggio
dall'Homo erectus (l'Uomo di Giava e di Pechino) all'Homo sapiens
era avvenuto con l'evoluzione indipendente di cinque razze umane
principali, e che gli ultimi a subire questa trasformazione erano stati
i neri. Piu recentemente si è assistito ad un uso spregiudicato del test
per il quoziente di intelligenza al fine di dimostrare l'esistenza di dif­
ferenze di intelligenza tra le razze (Arthur Jensen e William Shoc­
kley) e tra le classi (Richard Herrnstein), guarda caso, sempre a bene­
ficio del gruppo particolare al quale appartiene l'autore (si veda il
saggio seguente).
Queste concezioni sono già state ampiamente criticate una ad
una; ma raramente è avvenuto che fossero prese in esame tutte assie­
me come espressione di un'unica filosofia: un rozzo determinismo
biologico. È ovvio che si può anche accettare una singola asserzione
e rifiutare le altre. Nessuno potrà essere accusato di razzismo perché
crede nella natura innata della violenza umana. Eppure tutte queste
affermazioni hanno una base comune in quanto postulano che i no­
stri caratteri fondamentali siano determinati geneticamente. È chia­
ro che se noi siamo programmati per essere quello che siamo, tutti
La non scientificità di certe tesi 237

questi caratteri sono ineluttabili. Ben che vada, possiamo incanalarli,


ma non potremo mai cambiarli, né con l'educazione, né con la cul­
tura.
Se noi accettiamo i luoghi comuni riguardo a quello che dovreb­

l
be essere il «metodo scientifico>>, il risorgere a piu voci del determi­
nismo biologico deve essere attribuito alla presenza di nuovi dati in
contraddizione con quanto precedentemente scoperto nel corso del
XX secolo. Si dice di soiito che la scienza progredisce accumulando
nuove informazioni e usandole per migliorare o respingere le vec­
chie teorie. Ma il nuovo determinismo biologico non si fonda su al­
cuna nuova informazione e non può citare a suo favore un solo fatto
inequivocabile. Perciò, se questa corrente riceve un rinnovato soste­
gno i motivi devono essere altri, molto probabilmente di natura so­
ciale o politica.
La scienza è sempre influenzata dalla società, ma è anche vero che
la sua opera è comunque strettamente vincolata ai fatti. La Chiesa
stessa, alla fine, ha fatto pace con Galileo perché, dopo tutto, è inne­
gabile che la Terra gira attorno al Sole. Nello studio della compo­
nente genetica di caratteri umani complessi come l'intelligenza o
l'aggressività, però, siamo liberi dalle costrizioni dei fatti, poiché in
materia siamo quasi completamente ignoranti. In questo campo le
influenze sociali e politiche assumono un ruolo determinante nella
produzione di <<scienza>>, e sono anche piu scoperte.
Quali sono allora le ragioni non scientifiche che hanno incorag­
giato il risorgere del determinismo biologico? Vanno, secondo me,
dalla piu meschina caccia ai diritti d'autore per i best-seller al perico­
loso tentativo di ridare credibilità scientifica al razzismo. Il denomi­
natore comune di tutte queste spinte sta nel nostro malessere diffu­
so. È molto comodo scaricare sui nostri presunti antenati carnivori
le responsabilità della guerra e della violenza, cosi come dare ai pove­
ri ed agli affamati la colpa della loro stessa condizione; altrimenti sa­
remmo costretti ad attribuire le responsabilità di questo stato di cose
al sistema economico o al nostro governo,. che non garantiscono a
tutti un livello di vita decente. Si tratta certamente di tesi gradite a
chi è al governo e che, sia detto per inciso, stanzia i soldi di cui ha bi­
sogno la ricerca scientifica per poter tirare avanti.
238 Questa idea della vita

Le tesi deterministiche si possono dividere nettamente in due


gruppi: quelle basate sull'ipotesi che esista un'unica natura della no­
stra specie e quelle che invocano l'esistenza di presunte differenze tra
<<gruppi razziali» di Homo sapiens. Affronterò qui le prime, mentre
rimando al saggio successivo per l'analisi delle seconde.
Riassumendo brevemente, la principale corrente dell' «etologia
per tutti>> sostiene che l'Africa del Pleistocene era abitata da due tipi
di ominidi. Uno, un piccolo carnivoro territoriale, diede poi origine
all'uomo; l'altro, erbivoro, piu grande, probabilmente di indole piu
gentile, si estinse. Alcuni portano fino in fondo l'analogia con Caino
ed Abele ed accusano i nostri antenati di fratricidio. Il «passaggio alla
predazione>> segnò il sorgere di un'innata tendenza alla violenza e dei
nostri istinti territoriali: «Con l'avvento di una vita da cacciatori l'o­
minide emergente cominciò a legarsi al territorio>> (Ardrey, The ter­
ritorial imperative). Noi possiamo essere vestiti, urbanizzati e civiliz­
zati, ma portiamo profondamente dentro di noi i modelli di com­
portamento che servirono ai nostri antenati, le «Scimmie antropo­
morfe assassine». Nella sua African genesis, Ardrey difende l'opinio­
ne di Raymond Dart secondo cui «il passaggio alla predazione e l'a­
dozione delle armi spiegano la sanguinosa storia dell'uomo, la sua
continua tendenza ad aggredire, la sua irrazionale, autodistruttiva,
inesorabile ricerca della morte per amore della morte».
Tiger e Fox ampliarono il tema della caccia di gruppo per procla­
mare l'esistenza di una base biologica per le differenze tra gli uomini
e le donne, tema da sempre caro alle culture occidentali. Gli uomini
cacciavano; le donne stavano a casa con i bambini. Gli uomini sono
aggressivi e combattivi, ma formano anche stretti legami tra di loro
che riflettono l'antico bisogno di cooperazione necessario per poter
uccidere grandi prede nella caccia e che oggi trovano espressione nel
gioco del football americano e nelle riunioni del Rotary Club. Le
donne sono docili e devote ai loro bambini; tra di loro non si forma­
no legami profondi perché le loro antenate se la cavavano da sole per
portare avanti la casa e accudire il proprio uomo: la comunità delle
donne è un'illusione. «Noi siamo legati alla caccia... Rimaniamo cac­
ciatori del Paleolitico _superiore, macchine accuratamente strutturate
per cacciare in modo efficiente» (Tiger e Fox, The imperia! animai).
La non scientificità di certe tesi 239

La storia propinata dall' <<etologia per tutti>> è stata costruita su


due serie di prove presunte, entrambe molto discutibili:
l. Le analogie con il comportamento di altri animali (i dati in ma­
teria sono abbondanti ma imprecisi). Non c'è alcun dubbio che in
molti animali (compresi alcuni primati, ma non tutti) il comporta­
mento aggressivo ed il senso del territorio siano innati. Possiamo
forse dire che avendo noi comportamenti simili, simile sia anche la
causa? La fallacia di questo assunto riflette un punto chiave della teo­
ria dell'evoluzione. Per gli evoluzionisti i caratteri simili di due spe­
cie si dicono omologhi, se presenti in specie che hanno antenati co­
muni e comune costituzione genetica, ed analoghi, se si sono evoluti
in due specie in modo del tutto indipendente (fenomeno detto di
«convergenza evolutiva>>).
Il confronto tra gli uomini e gli altri animali può portare ad asser­
zioni causali circa la genetica del nostro comportamento solo nel ca­
so che ci si stia occupando di caratteri omologhi. Ma chi ci può dire
se le somiglianze sono frutto di analogia o di omologia? È già diffici­
le differenziare quando si ha a che fare con strutture concrete, come
muscoli ed ossa. Non a caso, la gran parte delle tradizionali polemi­
che nello studio della filogenesi riguardano la confusione tra omolo­
gia ed analogia, poiché le strutture analoghe possono essere molto si­
mili. Figurarsi quanto può essere difficile esprimersi quando i carat­
teri simili sono costituiti solo dalle manifestazioni esteriori del com­
portamento! Sarà vero che i babbuini hanno il senso del territorio,
che i loro maschi sono organizzati gerarchicamente, ma la nostra ri­
cerca del Lebensraum, cioè dello spazio vitale, e la gerarchia dei no­
stri eserciti sonci forse il risultato di una stessa costituzione genetica
o solo una forma analoga che potrebbe avere delle origini puramente
culturali? E quando Lorenz ci confronta con le oche e con i pesci, ci
spingiamo anche piu in là nel campo della pura congettura; i babbui­
ni, se non altro, sono nostri secondi cugini.
2. Le prove desunte dagli ominidi fossili (dati frammentari ma di­
retti). La tesi della territorialità di Ardrey si basa sull'ipotesi che il
nostro antenato africano, l'Australopithecus africanus, fosse carnivo­
ro. Le prove di questo fatto sarebbero la forma e le dimensioni dei
denti di questo ominide e i mucchi di ossa e di strumenti nelle caver-
240 Questa idea della vita

ne da lui abitate nel Sud Africa. In realtà questi mucchi di ossa non
sono piu presi in seria considerazione; infatti è piu probabile che sia­
no opera delle iene piuttosto che di ominidi.
Quanto ai denti, siamo d'accordo che la cosa ha un'importanza
maggiore, ma io credo che questo fatto non basti, e che anzi sia pos­
sibile interpretarlo in modo opposto. Ciò su cui ci si basa sono le di­
mensioni relative dei denti addetti alla frantumazione (molari e pre­
molari). Per macinare il loro cibo abbondante e granuloso, gli erbi­
vori hanno bisogno di una superficie dentale maggiore. L'A. robu­
stus, che sarebbe stato l'erbivoro gentile, possedeva dei denti frantu­
matori relativamente piu grandi di quelli del suo parente carnivoro,
il nostro antenato A. africanus.
Ma l'A. robustus era piu grande dell'A. africanus. Quando un ani­
male diviene piu grande, devono crescere anche le dimensioni relati­
ve dei denti, altrimenti si troverebbe a dover nutrire il proprio cor­
po, il cui volume cresce secondo il cubo della lunghezza, masticando
con superfici dentali che crescono solo secondo il quadrato della lun­
ghezza. La cosa è impossibile, ed infatti i mammiferi di dimensioni
maggiori hanno denti piu grandi (relativamente al corpo) di quelli
dei loro parenti di dimensioni minori. Ho controllato la validità di
questa affermazione misurando le aree dentali e le dimensioni del
corpo di diversi gruppi di mammiferi (roditori, suini erbivori, cervi
e diversi gruppi di primati). Il risultato che ho ottenuto era sempre
lo stesso: gli animali piu grandi hanno denti relativamente piu gran­
di, non perché mangino cibi diversi, ma semplicemente perché sono
piu grandi.
Inoltre, i <<piccoli>> denti dell'A. africanus non sono poi tanto mi­
nuscoli. Come dimensioni assolute sono piu grandi dei nostri (nono­
stante noi si sia tre volte piu pesanti), e sono grossi piu o meno come
quelli di un gorilla che pesa circa dieci volte piu di loro! Le dimen­
sioni dei denti di A. africanus mi suggeriscono che esso doveva essere
primariamente erbivoro.
Il problema del determinismo biologico non è argomento astrat­
to da dibattere nei circoli accademici. Queste idee hanno importanti
conseguenze, ed hanno già fatto molta strada nei mezzi di comunica­
zione di massa. La discutibile teoria di Ardrey è un tema di spicco
La non scientificità di certe tesi 241

del film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio; lo strumento d'osso


del nostro antenato scimmiesco prima sfonda il cranio di un tapiro,
e poi fa una piroetta per trasformarsi in una stazione spaziale del no­
stro futuro passo evolutivo, mentre il tema del superuomo dello Za­
rathustra di Richard Strauss lascia il passo al Danubio blu di Johann
Strauss. Il film successivo di Kubrick, l'Arancia meccanica, continua
lo stesso tema e affronta il dilemma posto dall'affermazione del ca­
rattere innato della violenza umana. (Dovremmo accettare un regi­
me totalitario che mettesse in atto una «modifica dei programmi>> a
livello di massa, oppure tenerci la democrazia, ma con essa la malva­
gità e la violenza?) Ma lo scontro piu duro si avrà quando i privilegi
maschili dovranno scontrarsi con il crescente movimento delle don­
ne. Come osserva Kate Millett in Politica del sesso: <<Se il patriarcato
riesce a sopravvivere è perché si è riusciti a spacciarlo per un qualco­
sa di naturale».
31
Argomenti razzisti e quoziente
d'intelligenza

Louis Agassiz, il piu grande biologo americano della metà del­


l'Ottocento, sosteneva che Dio aveva creato i bianchi ed i neri come
due specie distinte. I difensori dello schiavismo trovarono molto co­
moda questa tesi, giacché nessuno li obbligava ad estendere le pre­
scrizioni bibliche di carità ed uguaglianza oltre i confini della specie.
Che poteva dire un abolizionista? La scienza aveva gettato la sua lu­
ce fredda ed imparziale sull'argomento; la speranza ed i sentimenti
cristiani non bastavano a contraddire queste affermazioni.
Tesi simili, con un marchio di presunta scientificità, sono state
continuamente invocate nel tentativo di far passare l'egualitarismo
per un'illusione sentimentalista frutto di cecità. La gente che ignora
questi ricorsi storici tende ogni volta ad accettarle ingenuamente: si
crede cioè che queste affermazioni scaturiscano da dati reali, anziché
dalle contingenze sociali.
Le tesi razziste del XIX secolo erano basate soprattutto sulla mi­
surazione dei crani umani. Al giorno d'oggi questi argomenti hanno
perso qualsiasi credibilità; il posto della craniometria è stato preso
nel nostro secolo dai test d'intelligenza. Il primo spiacevole effetto
dell'invenzione di questi test si manifestò in occasione della vittoria
del movimento eugenetico con l'Immigration Restriction Act del
1924, poiché le severe restrizioni nei confronti dei non europei e de­
gli europei meridionali e orientali poterono passare anche grazie ai
Razzismo e QI 243

risultati della prima applicazione uniforme ed estensiva dei test d'in­


telligenza in America: l'Army Menta! T est della prima guerra mon­
diale. Questi test furono progettati e gestiti dallo psicologo Robert
M. Yerkes, il quale affermò che <<l'educazione non potrà mai porre
la razza negra sullo stesso piano dei suoi antagonisti caucasici>>. Oggi
è chiaro che Yerkes ed i suoi collaboratori non sapevano distinguere
le componenti genetiche da quelle ambientali nell'interpretazione
dei diversi risultati dei test.
Nel 1969 ecco che il dramma ricomincia, a partire da quando Ar­
thur Jensen pubblica un articolo intitolato How much can we boost
IQ and scholastic achievement? (Di quanto possiamo aumentare il QI
e il rendimento scolastico?) sull' Harvard Educational Review. Anco­
ra una volta si voleva far credere che fossero venuti alla luce dei dati
nuovi ed imbarazzanti e che la scienza avesse detto la «verità>> anche
se ciò comportava l'abbandono di qualche concetto caro alla filoso­
fia liberale. Ma, ancora una volta, devo sottolineare, Jensen non ave­
va in realtà alcun dato nuovo e ciò che diceva peccava irrimediabil­
mente per inconsistenza ed illogicità.
Jensen parte dal presupposto che con il test per il QI sia possibile
misurare adeguatamente ciò che chiamiamo «intelligenza>>. Tenta
poi di separare i fattori genetici ed ambientali che stanno alla base
della diversità dei risultati. Per raggiungere questo scopo fa affida­
mento su quello che è l'unico esperimento naturale che possediamo:
i gemelli monovulari cresciuti separatamente, caso in cui, data l'u­
guaglianza genetica, le differenze di QI possono essere dovute soltan­
to all'ambiente. La differenza media nel QI tra gemelli monovulari è
minore della differenza che si trova tra due individui non imparenta­
ti cresciuti in ambienti altrettanto diversi. Dai dati sui gemelli Jensen
ricava una stima dell'influenza ambientale. Egli conclude che il QI
ha un'ereditabilità di circa 0,8 (o dell'SO%) all'interno della popola­
zione bianca europea ed americana. La differenza media tra gli ame­
ricani bianchi e neri è di 1 5 punti QI (una deviazione standard). Egli
sostiene che, data l'alta ereditabilità del QI, questa differenza è trop­
po grande per essere attribuita al fattore ambientale. Per evitare che
qualcuno pensi che Jensen si limiti a delle astratte disquisizioni
scientifiche, basterà citare la prima riga del suo famoso lavoro: «Si è
244 Questa idea della vita

tentato di far svolgere un ruolo compensativo all'educazione, ma a


quanto pare ciò si è dimostrato inutile>>.
Io credo che questo argomento possa essere respinto utilizzando
un ragionamento <<gerarchico>>, che sia cioè possibile evidenziarne la
falsità ad un certo livello, per poi dimostrare che, anche qualora su
questo piano Jensen avesse ragione, le sue tesi cadrebbero per dei
motivi anche piu generali di quelli esposti in precedenza.
Primo livello: a proposito dell'equazione tra il QI e l'intelligenza.
Chi sa cosa si misura in realtà con il QI? Questo test ci consente di
realizzare delle previsioni attendibili sul «successo>> scolastico, certo,
ma da cosa dipende questo successo? È legato all'intelligenza, è frut­
to di un comportamento da leccapiedi, o deriva dall'assimilazione
dei valori dominanti della società? Qualche psicologo ha aggirato
l'ostacolo definendo operativamente l'intelligenza come «il punteg­
gio ottenuto nei test di intelligenza>>. Un elegante artificio, ma a que­
sto punto la definizione tecnica di intelligenza si è tanto allontanata
da quella corrente che non sappiamo piu che farcene. Ma !asciatemi
ammettere (per quanto io non lo creda), per andare avanti con il ra­
gionamento, che il QI misuri realmente qualche aspetto significativo
dell'intelligenza cosi come questa è volgarmente intesa.
Secondo livello: sull'ereditabilità del QI. Ancora una volta ci tro­
viamo di fronte ad una confusione tra il significato tecnico e quello
«volgare>> della stessa parola. «Ereditario>>, per un profano, significa
«fisso>>, «inesorabile>>, o «immodificabile>>. Per un genetista «eredita­
rio>> si riferisce ad una valutazione della somiglianza tra individui im­
parentati basata sui geni che questi hanno in comune. Il concetto
non comporta alcun significato di inevitabilità o di entità immodifi­
cabili al di là delle influenze ambientali. Gli occhiali correggono una
grande varietà di problemi ereditari della vista; l'insulina può porre
rimedio al diabete.
Jensen insiste che il QI è ereditario all'SO%. Lo psicologo Leon J.
Kamin di Princeton si è preso la briga di controllare meticolosamen­
te, fin nei dettagli, gli studi sui gemelli che stanno alla base di questa
stima: vi ha trovato un sorprendente numero di incongruenze e di
vere e proprie inesattezze. Vale la pena di ricordare il defunto Sir
Cyril Burt, che produsse la maggior parte dei dati sui gemelli mono-
Razzismo e QI 245

vulari cresciuti separatamente, e che portò avanti i suoi studi sull'in­


telligenza per piu di quarant'anni. Nonostante egli continuasse a
«perfezionare>> le sue misure e ad aumentare le dimensioni dei suoi
campioni, alcuni dei coefficienti di correlazione da lui ricavati resta­
no immutati fino alla terza cifra decimale, una situazione statistica­
mente impossibile''. Il QI dipende in parte dal sesso ed in parte dal­
l' età; in molti studi non si è tenuto conto adeguatamente di questo
fatto. Una correzione inadeguata può produrre valori piu alti tra i
gemelli non perché questi abbiano in comune dei geni per l'intelli­
genza, ma semplicemente perché l'età ed il sesso sono gli stessi. I dati
sono tanto difettosi che risulta impossibile fare una valida stima del­
l'ereditabilità del QI. Ma ammettiamo pure (anche se ne mancano le
prove), per amore della discussione, che l'ereditarietà del QI sia ef­
fettivamente cosi alta, che raggiunga lo 0,8.
Terzo livello: sulla confusione tra la variazione all'interno del
gruppo e quella tra gruppi diversi. Jensen stabilisce una connessione
causale tra le sue due asserzioni principali: quella secondo la quale
l'ereditarietà del QI intra-gruppo è dello 0,8 per i bianchi americani,
e quella secondo la quale la differenza media di QI tra i bianchi ed i
neri americani è di 15 punti. Data l'alta ereditarietà del QI, ne deriva
che il «deficit>> dei neri è in gran parte attribuibile a cause genetiche.
Si tratta di un non sequitur della peggior specie, perché non c'è alcu­
na relazione necessaria tra l'ereditarietà all'interno di un gruppo e le
differenze nei valori medi tra due gruppi distinti.
Un semplice esempio sarà sufficiente ad evidenziare l'errore con­
tenuto nel ragionamento di Jensen. L'altezza ha certamente, all'in­
terno di alcuni gruppi, un'ereditabilità maggiore di quella che chiun­
que può aver attribuito al QI. Supponiamo che tra un gruppo di
contadini indiani denutriti l'altezza abbia un valore medio di 1,57
metri ed un'ereditabilità di 0,9 (valore realistico). L'alta ereditabilità

,,
Ho scritto questo articolo nel 1974. Da allora il caso Burt ha preso una piega di­
versa. Là dove si credeva ci fossero solo delle trascuratezze, ci si è accorti che esi­
ste molto probabilmente una vera e propria truffa. Alcuni giornalisti del Time
hanno scoperto, per esempio, che i collaboratori di Sir Cyril (nei suoi indegni stu­
di sui gemelli) sarebbero esistiti solo nella sua fantasia. Alla luce delle scoperte di
Kamin è legittimo sospettare anche della veridicità dei dati.
246 Questa idea della vita

significa semplicemente che i contadini bassi tendono ad avere dei fi­


gli bassi, e quelli alti dei figli alti. Nulla ci dice contro la possibilità
che un'adeguata nutrizione possa portare l'altezza media fino ad un
metro e ottanta centimetri (rendendola in tal modo maggiore di
quella dell'americano bianco). Significa soltanto che, nelle condizio­
ni migliorate, i contadini piu bassi della media (che potrebbero ades­
so essere alti 1 ,78 metri) tenderebbero ad avere ancora figli piu bassi
di quelli degli altri.
Non voglio affermare che l'intelligenza - comunque definita ­
sia priva di basi genetiche, mi pare scontato che queste basi esistano,
è inutile ribadirlo; tutti i caratteri si esprimono mediante una com­
plessa interazione tra i fattori ereditari e quelli ambientali. Quello
che dobbiamo fare è semplicemente creare la situazione ambientale
adatta alla piena realizzazione del prezioso potenziale di ciascun in­
dividuo. Mi limito a sottolineare che le affermazioni secondo le qua­
li esisterebbe una deficienza genetica media nell'intelligenza dei neri
americani non si basano sulla acquisizione di nuovi elementi e non
possono far riferimento ad alcun dato valido a loro sostegno. Avreb­
be lo stesso valore affermare che sono i neri ad avere un vantaggio
genetico sui bianchi. E, comunque stiano le cose, sarebbe assurdo fa­
re di tutto ciò un motivo di discriminazione; non possiamo giudica­
re un individuo sulla base della media del suo gruppo.
Ma per quale motivo l'attuale determinismo biologico è divenuto
cosi popolare, se non si fonda su alcun elemento nuovo (anzi, manca
di una qualsiasi base oggettiva)? La risposta non può che far riferi­
mento alle attuali condizioni sociali e politiche. Gli anni sessanta fu­
rono anni d'oro per il liberalismo, fu spesa una considerevole quan­
tità di denaro per programmi di assistenza ai poveri ed i risultati fu­
rono relativamente pochi. Poi subentrano nuovi leader e nuove
priorità. Ci si comincia a chiedere perché i programmi precedenti
non avessero raggiunto il loro scopo. Le risposte possibili sono due:
l) non abbiamo speso abbastanza denaro, non abbiamo avuto l'in­
ventiva necessaria, o (cosa che indispettisce qualsiasi uomo di potere)
non possiamo in realtà risolvere questi problemi senza una radicale
trasformazione sociale ed economica del paese; oppure 2) i program­
mi sono falliti perché i loro destinatari non possono essere altro che
Razzismo e QI 247

quello che sono: come dire che si dà la colpa alle vittime. A questo
punto, quale credete sarà la scelta degli uomini di governo in un pe­
riodo di tagli alla spesa pubblica?
Spero di aver dimostrato che il determinismo biologico non è so­
lo un affascinante tema per chiacchiere da salotto sull'animale uma­
no. Si tratta di una concezione con importanti implicazioni filosofi­
che ed ancora piu importanti conseguenze politiche. Come scrisse
John Stuart Mill, con una frase che potrebbe ben essere il motto del­
l'opposizione: «Tra tutti i modi volgari di eludere l'importanza degli
effetti delle influenze sociali e morali sulla mente umana, il piu vol­
gare è quello che attribuisce le diversità di condotta e di carattere a
differenze naturali ereditarie>>.
II
Sociobiologia
32
Potenzialità biologica contro
determinismo biologico

Nel 1758, Linneo si trovò di fronte al difficile problema di come


classificare la sua stessa specie nell'edizione definitiva del suo Syste­
ma Naturae. Era giusto classificare semplicemente l'Homo sapiens tra
gli altri animali, o era preferibile creare per noi uno status particola­
re? Linneo optò per una soluzione di compromesso: ci collocò all'in­
terno della sua classificazione (vicino alle scimmie ed ai pipistrelli)
ma allo stesso tempo ci pose in una posizione autonoma scegliendo
una descrizione molto particolare. Mentre infatti i nostri vicini era­
no identificati sulla base dei tratti fisici caratteristici (dimensioni,
forma e numero delle dita delle mani e dei piedi), nel caso dell Homo
'

sapiens Linneo si limitò a scrivere l'imperativo socratico nosce te


ipsum, conosci te stesso.
Per Linneo l'Homo sapiens era al tempo stesso speciale e non spe­
ciale. Sfortunatamente, in seguito, questa definizione cosi sensata è
stata volgarizzata e del tutto distorta. Speciale e non speciale hanno
finito per assumere il significato di non biologico e biologico, di cul­
tura e natura. Si tratta di una contrapposizione priva di senso. Gli
uomini sono animali, e tutto ciò che facciamo fa parte del nostro po­
tenziale biologico. Sono orgoglioso di essere newyorkese (anche se
attualmente sono lontano dalla mia città) e niente mi fa arrabbiare di
piu del sentir dire da certi militanti di sedicenti gruppi «ecologici>>
che le grandi città sono «innaturali>> e che prefigurano la distruzione
252 Questa idea della vita

cui andiamo incontro. Ma - e sottolineo questo ma - anche se gli


uomini sono animali non dobbiamo pensare per questo che tutti i
nostri comportamenti e i nostri ordinamenti sociali siano comunque
direttamente determinati dai nostri geni. <<Potenzialità>> e «determi­
nazione>> sono concetti diversi.
Sono stato spinto a trattare questo argomento dalla discussione
seguita alla pubblicazione di Sociobiologia (Harvard Un. Press, 1975)
di E. O. Wilson, libro molto pubblicizzato ed accolto da un coro di
lodi. lo, comunque, appartengo alla piccola schiera dei suoi detratto­
ri. La gran parte di Sociobiologia sembra anche a me meritevole degli
encomi solenni che gli sono stati quasi universalmente accordati; So­
ciobiologia sarà ancora per molti anni un punto di riferimento per il
suo lucido resoconto dei principi dell'evoluzione e per l'attento esa­
me del comportamento sociale di tutti i gruppi animali. Ma l'ultimo
capitolo, «L'uomo: dalla sociobiologia alla sociologia>>, mi lascia dav­
vero molto insoddisfatto. Dopo ventisei capitoli, precisi e documen­
tati, sugli animali non umani, Wilson conclude con una lunga specu­
lazione sulle basi genetiche di quelli che secondo lui sarebbero i mo­
delli universali del comportamento umano. Purtroppo questo è an­
che il capitolo che ha attirato piu dell'SO% delle recensioni della
stampa, come era logico, dal momento che contiene le sue posizioni
sull'argomento che piu ci sta a cuore.
Noi che abbiamo criticato questo capitolo, siamo stati accusati di
negare completamente l'importanza della biologia nel comporta­
mento umano, di voler resuscitare un'antica superstizione ponendo
l'uomo al di fuori del resto del «creato>>. Stiamo dunque sostenendo
che l'uomo è frutto della sola cultura? Forse che a causa di una qual­
che ideologia politica siamo incapaci di scorgere i limiti che la nostra
natura biologica impone alla perfettibilità umana? ln entrambi i casi
la risposta è «no». Lo scontro non è tra biologia universale ed unicità
umana, ma tra potenzialità biologica e determinismo biologico.
Replicando ad una critica al suo articolo sul New York Times Ma·
gazine (12 ottobre 1975), Wilson scrisse: «Non c'è dubbio che i com­
portamenti sociali umani, quello altruistico compreso, sono sotto
controllo genetico, nel senso che rappresentano un ristretto sotto-
Potenzialità contro determinismo 253

gruppo dei comportamenti possibili, tutti comunque molto diversi


da quelli delle termiti, degli scimpanzé e di altre specie animali>>.
Se quello che Wilson intende per controllo genetico è tutto qui,
allora le nostre posizioni non sono poi cosi lontane. È indubbio che
noi non facciamo tutte le cose che fanno gli altri animali ed è altret­
tanto certo che la gamma dei nostri comportamenti potenziali è cir­
coscritta dalla nostra biologia. La nostra vita sociale sarebbe ben di­
versa se fossimo organismi in grado di operare la fotosintesi (l'agri­
coltura, la raccolta e la caccia, cosi determinanti per la nostra evolu­
zione sociale, non sarebbero mai esistite) o avessimo dei cicli vitali
come quelli dei moscerini di cui abbiamo parlato nel saggio 10
(quando in pochi hanno a disposizione un fungo intero, questi inset­
ti si riproducono allo stato larvale o pupale; il piccolo cresce all'in­
terno del corpo della madre, la divora dall'interno e ne esce, quando
questa è ridotta ad un semplice guscio vuoto, pronto per nutrirsi del
fungo, crescere la generazione successiva e compiere il supremo sa­
crificio).
Ma le pretese di Wilson sono ben piu gravi. Nel capitolo 27 non
c'è solo la descrizione della gamma dei potenziali comportamenti
umani o, al limite, l'affermazione che questa gamma di comporta­
menti è un sottoinsieme di quelli, ben piu vari, che si trovano in tut­
ti gli altri animali. Vi si trova, prima di tutto, una prolungata specu­
lazione sull'esistenza di geni per caratteri specifici e variabili del
comportamento umano - tra i quali il rancore, l'aggressività, la xe­
nofobia, il conformismo, l'omosessualità e le tipiche differenze di
comportamento tra l'uomo e la donna nella società occidentale. Na­
turalmente Wilson non nega il ruolo dell'apprendimento nel com­
portamento umano; ad un certo punto afferma persino che <<i geni
hanno perso gran parte del loro potere»; ma, aggiunge subito, essi
<<mantengono una certa influenza almeno su quelle qualità del com­
portamento che variano da cultura a cultura». E il paragrafo succes­
sivo contiene un appello per la nascita di una <<genetica antropo­
logica».
Il determinismo biologico è il filo conduttore della discussione di
Wilson sul comportamento umano; questo è l'unico significato pos­
sibile del capitolo 27. L'obiettivo principale dell'Autore, mi pare di
254 Questa idea della vita

capire, è quello di suggerire che la teoria darwiniana potrebbe con­


sentire una rifondazione delle scienze umane, cosi come ha trasfor­
mato tutte le altre discipline biologiche. Ma i meccanismi darwiniani
operano solo in presenza di geni da selezionare. Una volta escluso
che aspetti «interessanti>> del comportamento umano siano sotto spe­
cifico controllo genetico, la sociologia non pu6 temere alcuna inva­
sione del suo campo. Per aspetti «interessanti>> intendo quelle pro­
prietà sulle quali sociologi ed antropologi si scontrano piu spesso;
l'aggressività, la stratificazione sociale e le differenze di comporta­
mento tra l'uomo e la donna. Se i geni si limitano a precisare che noi
siamo grandi a sufficienza per vivere in un mondo condizionato dal­
la gravità, che abbiamo bisogno di riposare i nostri corpi dormendo
e che non facciamo la fotosintesi, ecco che il regno del determinismo
genetico perde molto del suo significato.
Qual è la prova dell'esistenza di un controllo genetico del parti­
colare comportamento sociale degli uomini? Adesso come adesso, la
risposta è che di prove non ce ne sono, di alcun genere. (In teoria,
non è impossibile che queste prove siano ottenibili mediante con­
trollati e ripetibili esperimenti di incrocio, ma non si possono alleva­
re degli uomini allo stesso modo dei moscerini da laboratorio, creare
delle linee pure o controllare gli ambienti in modo che le condizioni
di allevamento siano sempre le stesse.) I sociobiologi sono perciò co­
stretti a valersi di argomenti che, pur verosimili, sono sempre indi­
retti. Le linee strategiche sulle quali si sviluppa il discorso di Wilson
sono tre: universalità, continuità ed adattatività.
l. Universalità. Se certi comportamenti si trovano immancabil­
mente tanto negli uomini che nei primati piu vicini a noi, si può
avanzare l'ipotesi che ci si trovi di fronte ad un caso, circostanziato,
di controllo genetico ereditario. Il capitolo 27 abbonda di afferma­
zioni su supposti universali umani. Per esempio: <<È terribilmente fa­
cile indottrinare gli esseri umani, sono essi stessi a volerlo>> oppure
<<gli uomini preferiscono credere che sapere>> sono alcune delle
espressioni usate da Wilson. Tutto quello che posso dire è che la mia
esperienza personale mi porta a pensarla diversamente.
Quando deve ammettere l'esistenza della diversità, Wilson spesso
liquida queste scomode <<eccezioni>> come aberrazioni temporanee ed
Potenzialità contro determinismo 255

'
irrilevanti. Egli crede che le guerre ricorrenti, che sono spesso dei ve­
ri genocidi, siano la prova di una nostra predisposizione genetica alla
violenza, perciò l'esistenza di uomini non aggressivi risulta piuttosto
imbarazzante. Ma, scrive ancora Wilson: «È possibile che qualche
cultura isolata sfugga al processo per intere generazioni, ritornando
in realtà indietro, a quello che gli etnologi classificano come uno sta­
to pacifico>>.
In ogni caso, anche se riusciamo a compilare una lista di tratti
comportamentali comuni agli uomini e ai nostri vicini parenti pri­
mati, non per questo abbiamo provato l'esistenza di un controllo ge­
netico comune. Risultati simili non necessariamente implicano cause
simili; infatti, gli evoluzionisti sono a tal punto consapevoli dell'esi­
stenza del problema che hanno sviluppato un'apposita terminologia.
Caratteri simili dovuti ad una comune origine genetica sono detti
«omologhi>>, somiglianze dovute a funzioni uguali, ma con differenti
storie evolutive sono dette «analoghe>> (le ali degli uccelli e degli in­
setti, per esempio: l'antenato comune di entrambi i gruppi non ave­
va le ali). Piu avanti vedremo come una caratteristica fondamentale
della biologia umana ci conferma l'idea che molte somiglianze com­
portamentali tra gli uomini e gli altri primati sono analogie, e che
nel caso degli uomini non hanno alcuna origine genetica diretta.
2. La continuità con il comportamento animale. Wilson afferma,
secondo me pienamente a ragione, che la spiegazione darwiniana
dell'altruismo contenuta nella teoria della <<selezione di parentela>>
(kin selection) di W. D. Hamilton del 1964 costituisce la base per
una teoria evoluzionista delle società animali. Gli atti di altruismo
sono il cemento delle società stabili, eppure sembrano sfidare una
spiegazione darwiniana. Secondo i principi darwiniani, gli individui
selezionati sono quelli capaci di massimizzare il loro contributo ge­
netico nelle generazioni future. Com'è possibile allora che si sacrifi­
chino di buon grado o danneggino se stessi per compiere atti altrui­
stici?
La soluzione, pur complessa nei suoi dettagli tecnici, è concet­
tualmente affascinante. Andando a beneficio dei parenti, l'atto al­
truistico preserva i geni altruisti anche se a perpetuarli, cioè a tra­
smetterli alle generazioni successive, non sarà l'altruista stesso. Nella
256 Questa idea della vita

gran parte degli organismi che si riproducono sessualmente, per


esempio, un individuo ha (in media) la metà dei geni in comune con
i suoi fratelli ed un ottavo dei geni in comune con i suoi primi cugi­
ni. Si capisce perciò che, di fronte all'alternativa di salvare solo se
stesso o sacrificarsi per salvare piu di due fratelli o piu di otto primi
cugini, il meccanismo darwiniano favorisca il sacrificio altruistico,
poiché cosi facendo, un altruista porta ad un incremento effettivo
della propria rappresentazione genetica nelle generazioni future.
La selezione naturale favorisce dunque la conservazione di questi
geni altruisti. Ma come la mettiamo con gli atti di altruismo nei con­
fronti dei non parenti? ln questo caso, per poter salvare la spiegazio­
ne genetica, i sociobiologi devono introdurre il concetto di <<altrui­
smo reciprocO>>. L'atto altruistico comporta dei pericoli e non porta
alcun vantaggio immediato, ma se può spingere il suo attuale benefi­
ciario a ricambiare il gesto in futuro, può dimostrarsi conveniente
nel lungo periodo: un'esemplificazione in genetica del vecchio detto
<<io do una mano a te, tu dai una mano a me>> (anche se non siamo
parenti).
A questo punto subentra la tesi della continuità. Nelle altre socie­
tà animali gli atti altruistici possono essere spiegati tranquillamente
come esempi della selezione di parentela darwiniana; anche gli uomi­
ni compiono atti altruistici ed è verosimile che anche questi abbiano
una base genetica diretta. Ma, ancora una volta, risultati simili non
comportano un'identità di cause (piu avanti proporremo una spiega­
zione alternativa basata sulle potenzialità biologiche anziché sul de­
terminismo biologico).
3. L'adattatività: l'adattamento è il contrassegno di tutti i processi
darwiniani. La selezione naturale opera continuamente ed implaca­
bilmente per adattare gli organismi ai loro ambienti. Le strutture so­
ciali svantaggiose, cosi come le strutture anatomiche di disegno sca­
dente, non sopravvivono a lungo.
Non c'è alcun dubbio che le abitudini sociali umane abbiano un
valore adattativo. Marvin Harris si è divertita a dimostrare la logica
e la diversità di queste abitudini sociali in culture che appaiono le
piu bizzarre agli occhi dei presuntuosi occidentali ( Cow, pigs, wars,
and witches, Random House, 1974). Il comportamento sociale degli
Potenzialità contro determinismo 257

uomini è caratterizzato anche da atti altruistici, e l'altruismo ha sen­


za alcun dubbio un valore adattativo. Non è forse questo un argo­
mento evidentemente a favore dell'esistenza di un controllo geneti­
co diretto? La mia risposta è decisamente negativa, e spiegherò me­
glio il perché di questa mia opinione riportando una discussione che
ho avuto recentemente con un eminente antropologo.
n mio collega insisteva che la classica storia degli eskimesi e delle
loro migrazioni sulla banchisa forniva una prova adeguata dell'esi­
stenza di specifici geni altruisti conservati dalla selezione di parente­
la. A quanto pare, parte delle comunità di eskimesi sono strutturate
in gruppi familiari; se le risorse diminuiscono e per sopravvivere la
famiglia è costretta a spostarsi, i nonni accettano di buon grado di re­
stare indietro (a morire) pur di non mettere in pericolo la sopravvi­
venza dell'intera famiglia rallentando una migrazione che è già diffi­
cile e pericolosa. I gruppi familiari privi di geni per l'altruismo sono
stati sopraffatti dalla selezione· naturale perché le migrazioni ostaco­
late dai vecchi e dai malati portavano alla morte di intere famiglie.
Con il loro sacrificio, i nonni finiscono per aumentare il proprio
contributo genetico alla generazione successiva, poiché permettono
la sopravvivenza dei parenti stretti che portano i loro stessi geni.
La spiegazione del mio collega è verosimile, ma non ci dice niente
di definitivo, dal momento che esiste anche una spiegazione piu sem­
plice di tipo non genetico: basta pensare che non esiste alcun gene
dell'altruismo, che tra le famiglie eskimesi non esistono affatto diffe­
renze genetiche di rilievo. Il sacrificio dei nonni è effettivamente un
carattere adattativo, ma non genetico, bensl culturale. Le famiglie
che non seguono questa tradizione del sacrificio non sopravvivono
per molte generazioni. In altre famiglie il sacrificio è celebrato con
canzoni e racconti; i vecchi nonni che restano indietro diventano gli
eroi piu importanti del clan; fin da piccoli i bambini si abituano a
considerare questo sacrificio come una gloria ed un onore.
lo non posso provare la validità del mio discorso, cosi come il
mio collega non può dimostrare quella del suo. Ma, data l'attuale
mancanza di prove, entrambi sono almeno ugualmente possibili. È
innegabile che l'altruismo sia presente nelle società umane, ma ciò
non vuol dire che, per questo, sia determinato geneticamente. Come
258 Questa idea della vita

disse Benjamin Franklin: «Dobbiamo aiutarci tutti o, paradossal­


mente, ci distruggeremo a vicenda>>. Una società per funzionare può
aver bisogno dell'altruismo reciproco, ma non è necessario che que­
sti comportamenti vengano codificati nella nostra coscienza dai ge­
ni, è possibile inculcarli altrettanto bene con l'insegnamento.
Torno, a questo punto, al compromesso di Linneo: noi siamo
speciali e non speciali al tempo stesso. La caratteristica centrale della
nostra unicità biologica fornisce anche la ragione piu importante per
dubitare che i nostri comportamenti siano codificati direttamente da
particolari geni. Questa caratteristica è, ovviamente, il nostro grande
cervello. Le dimensioni sono sempre un elemento di notevole im­
portanza per la funzione e la struttura di qualsiasi oggetto; oggetti
piccoli e oggetti grandi non possono funzionare allo stesso modo
(parte sesta). Lo studio dei cambiamenti che accompagnano l'incre­
mento di dimensioni è detto «allometria». I piu conosciuti sono i
cambiamenti strutturali che compensano la diminuzione del rappor­
to superficie/volume nelle creature di grandi dimensioni: zampe re­
lativamente grosse e superfici interne convolute (come nel caso dei
polmoni e dei villi dell'intestino tenue). Ma quello dell'aumento di
dimensione del cervello nel corso dell'evoluzione umana è forse il
caso in cui l'allometria ha avuto le conseguenze piu profonde: le
connessioni neurali in piu furono sufficienti a convertire un conge­
gno immodificabile e programmato abbastanza rigidamente in un si­
stema elastico, a dare al cervello logica e memoria sufficienti a far si
che alla base del comportamento sociale potesse esserci l'apprendi­
mento e non una serie di istruzioni già codificate. La flessibilità può
essere considerata il fattore determinante piu importante della co­
scienza umana; probabilmente la programmazione diretta del com­
portamento è divenuta un carattere svantaggioso.
Perché immaginarsi che esistano particolari geni per l'aggressivi­
tà, la volontà di dominio o l'odio quando sappiamo che l'enorme
flessibilità del cervello ci permette di essere aggressivi o pacifici, au­
toritari o sottomessi, mal intenzionati o generosi? Certo la violenza,
il sessismo e la cattiveria in genere sono «biologici», rappresentano
una parte di una gamma di comportamenti possibili; ma vivere in
pace ed in uguaglianza, essere gentili, sono comportamenti altrettan-
Potenzialità contro determinismo 259

to biologici e non è difficile accorgersi che si diffondono non appena


creiamo una struttura sociale adatta. La mia critica a Wilson non si
rifà quindi ad alcun «ambientalismO>> non biologico; mi sono limita­
to a mettere in campo il concetto di potenzialità biologica (ogni cer­
vello è capace dell'intera gamma dei comportamenti umani e non ha
alcuna rigida predisposizione verso alcuno di essi) contro l'idea del
determinismo biologico (esistono geni particolari per particolari
tratti del comportamento).
Ma cosa c'è di tanto delicato, di esplosivo, in questo dibattito ac­
cademico? Entrambe le posizioni mancano di prove concrete; che
differenza può fare, ad esempio, se noi siamo conformisti perché è
avvenuta una selezione di geni per questo atteggiamento o perché la
totalità del nostro corredo genetico consente il conformismo come
uno dei comportamenti possibili?
Il lungo ed intenso dibattito attorno al determinismo biologico è
sorto in conseguenza del suo messaggio sociale e politico. Come ho
già sostenuto, il determinismo biologico è sempre stato usato per di­
fendere gli ordinamenti sociali come biologicamente inevitabili, dai
tempi dei sovrani assoluti fino all'imperialismo del XIX secolo e al
moderno sessismo. Perché altrimenti delle teorie cosi prive di prove
dovrebbero ottenere un cosi consistente appoggio da parte dei mezzi
di comunicazione del potere nel corso dei secoli? Questo uso è del
tutto al di fuori del controllo degli scienziati che propongono teorie
deterministiche per molte ragioni, spesso anche buone.
Non voglio fare alcun processo alle intenzioni di Wilson o di
chiunque altro. Né respingo il determinismo perché non mi piace il
suo uso politico. Ciò che ci deve interessare è il raggiungimento del­
la verità scientifica, nella misura in cui è possibile. Conviviamo già
con diverse verità biologiche spiacevoli, di cui la morte è la piu inne­
gabile ed ineluttabile; se il determinismo genetico è una verità, impa­
reremo a vivere anche con quello. Ma io ribadisco che non ci sono
prove a suo sostegno, che le sue grossolane versioni dei secoli passati
sono state definitivamente confutate, e che se continua ad essere po­
polare è solo perché la cosa fa comodo a chi beneficia maggiormente
dello status quo.
Ma non scarichiamo su Sociobiologia le colpe del vecchio determi-
260 Questa idea della vita

nismo. Quali sono state le conseguenze dirette dell'eccellente campa­


gna propagandistica che ha accompagnato la sua pubblicazione? Tut­
t' al piu abbiamo assistito al nascere di una linea di ricerca sociale
che, con il suo rifiuto di considerare l'intervento diretto di fattori
non genetici, promette solo assurdità. Il numero di Science del 30
gennaio 1976 contiene un articolo sull'accattonaggio che, se fosse
comparso tale e quale sul National Lampoon, avrei preso per una sa­
tira. Gli autori hanno spedito degli accattoni a chiedere un obolo a
vari soggetti. I risultati vengono discussi solo nel contesto della sele­
zione di parentela, dell'altruismo reciproco e delle abitudini di spar­
tizione del cibo degli scimpanzé e dei babbuini, mentre non c'è al­
cun riferimento all'attuale realtà urbana americana. Una delle con­
clusioni principali è che gli accattoni maschi hanno <<Un successo
molto maggiore con una donna sola o con due donne che con una
coppia» e che <<il risultato è particolarmente scarso quando la richie­
sta è fatta ad un maschio solo o a due maschi>>. Neanche una parola
sulla paura che esiste nelle città o sulle abitudini sessuali; tutto quello
che troviamo sono delle considerazioni sugli scimpanzé e sulla gene­
tica dell'altruismo (sebbene alla fine gli autori ammettano che proba­
bilmente in questo caso l'altruismo reciproco non c'entra: dopo tut­
to, dicono, non si capisce che vantaggio futuro ci si possa aspettare
da un accattone).
Nella prima recensione negativa di Sociobiologia, l'economista
Paul Samuelson (Newsweek, 7 luglio 1975) raccomandò ai sociobiolo­
gi di procedere con i piedi di piombo nel campo delle razze e del ses­
so. A quanto ho avuto modo di vedere non mi pare che il consiglio
sia stato ascoltato. Ha scritto Wilson nel suo articolo sul New York
Times Magazine del 12 ottobre 1975: <<Nelle società di cacciatori e
raccoglitori gli uomini cacciavano e le donne se ne stavano a casa.
Questa forte predisposizione persiste nella gran parte [il corsivo è
mio] delle società agricole ed industriali e ciò è sufficiente a farmi ri­
tenere che la cosa abbia origine genetica ... La mia personale conget­
tura è che la predisposizione genetica sia abbastanza intensa da cau­
sare una sostanziale divisione del lavoro anche nelle piu libere ed
ugualitarie società future . . È probabile che anche con un'educazione
.

uguale per tutti ed uguali possibilità di accedere a tutte le professioni


Potenzialità contro determinismo 261

gli uomini continuerebbero ad avere un ruolo sproporzionato nella


vita politica, nel mondo economico e nella scienza>>.
Noi siamo al tempo stesso simili e diversi dagli altri animali. In
contesti culturali diversi, può essere utile sottolineare ora l'uno ora
l'altro aspetto di questa verità fondamentale. Ai tempi di Darwin
l'affermazione della nostra somiglianza con gli animali ebbe l'effetto
di rompere con secoli di superstizione. Oggi possiamo aver bisogno
di sottolineare la nostra diversità, il nostro essere animali <<flessibili>>
con un'ampia gamma di comportamenti potenziali. La nostra natura
biologica non è un ostacolo alle riforme sociali. Noi siamo, come
disse Simone de Beauvoir, <<l'etre dont l'etre est de n'etre pas>>: l'esse­
re la cui essenza, sta nel non avere essenza.
33
Un animale ingegnoso e buono

Nel Disagio della civiltà Sigmund Freud affronta l'angosciante di­


lemma della vita sociale dell'uomo. Per natura noi siamo egoisti ed
aggressivi, ma ogni civilizzazione per avere successo deve spingerei a
reprimere i nostri istinti e ad agire altruisticamente per il bene e l' ar­
monia comuni. Freud sostiene inoltre che, mano a mano che le civil­
tà si fanno piu complesse e «moderne», noi dobbiamo rinunciare
sempre di piu alla nostra natura. Ci è però impossibile farlo comple­
tamente, e questo processo ci costa sensi di colpa, dolore e fatica; il
prezzo della civilizzazione è la sofferenza individuale: «È impossibile
non accorgersi di quanto la civiltà sia costruita sulla rinuncia all'i­
stinto, di quanto il suo preciso presupposto sia la non soddisfazio­
ne ... degli istinti piu potenti. Questa "frustrazione culturale" domina
tutto il vasto campo dei rapporti sociali tra gli esseri umani>>.
La tesi di Freud non è che una delle tante speculazioni sul tema
della <<natura umana>>. Quello che non ci piace di noi stessi lo attri­
buiamo al nostro passato animale. La brutalità, l'aggressività, l' egoi­
smo, la cattiveria in genere, sarebbero tutti retaggi della nostra origi­
ne scimmiesca. Quello che ci sembra giusto e che ci sforziamo di rag­
giungere (con risultati penosi), lo consideriamo come una sorta di
«sovrastruttura>> concepita dalla nostra razionalità e imposta ad un
corpo recalcitrante. Le nostre speranze in un futuro migliore stareb­
bero nella ragione e nella gentilezza, cioè nella nostra capacità di tra-
Un animale ingegnoso e buono 263

scendere mentalmente i nostri limiti biologici. «Build thee more sta­


tely mansions, o my souh>, costruisciti dimore piu sontuose, anima
mta.
A sostegno di questo luogo comune non c'è che un antico pregiu­
dizio e poco di piu. Di certo non c'è nulla di scientifico, dato che la
nostra ignoranza in tema di biologia del comportamento umano è
ancora molto profonda. Le fonti di questa convinzione sono in real­
tà il concetto teologico dell'anima umana ed il <<dualismo>> dei filoso­
fi che cercarono di collocare la mente ed il corpo in due regni distin­
ti. Le sue radici stanno in un atteggiamento che ho piu volte preso di
mira in questi saggi: il nostro desiderio di leggere una tendenza al
progresso nella storia della vita e di porre noi stessi in cima a tutto
(con tutte le conseguenze che possono derivare da una posizione di
dominio). Quello che cerchiamo è qualcosa che ci faccia sentire uni­
ci, qualcosa (ovviamente) di deciso sopra le nostre teste; quello che ci
interessa è definire come essenzialmente non biologici i nobili risul­
tati raggiunti dalla coscienza umana. Ma perché? Perché la nostra
cattiveria dovrebbe essere il retaggio del nostro passato scimmiesco e
la nostra bontà qualcosa di unicamente umano? Perché non cercare
anche nei nostri tratti <<nobili>> una continuità con gli altri animali?
In realtà esiste un ragionamento scientifico che pare dare credibi­
lità a questo antico pregiudizio. L'ingrediente essenziale della bontà
umana è l'altruismo, il sacrificio del nostro agio personale, e in alcu­
ni casi persino delle nostre vite, per il beneficio di altri. Ma come
spiegare l'esistenza dell'altruismo una volta accettato il meccanismo
darwiniano dell'evoluzione? La selezione naturale impone che gli
organismi agiscano sulla base dei loro interessi. Essi non sanno nulla
di concetti astratti come <<il bene della specie>>; lottano continuamen­
te per accrescere la presenza dei loro geni a spese dei loro compagni.
Questa è la nuda e cruda verità, e tutto ciò che accade; nessun princi­
pio piu nobile è stato scoperto in natura. Il vantaggio individuale,
conclude Darwin, è l'unico metro con cui si può giudicare il succes­
so in natura. L'armonia della vita non ha basi piu profonde, l'equili­
brio della natura non sorge dalla cooperazione, dalla spartizione del­
le risorse limitate, ma dall'interazione tra squadre in competizione,
264 Questa idea della vita

ciascuna delle quali tenta di ottenere, soltanto per sé, il premio in


palio.
Com'è possibile, allora, che si sia evoluto un tratto biologico del
comportamento diverso dall'egoismo? Se è vero che l'altruismo co­
stituisce il cemento di una società stabile, allora la società umana va
considerata fondamentalmente estranea alla natura. Esiste un modo
per aggirare questo dilemma. È possibile che un atto apparentemen­
te altruistico sia «egoistico» in senso darwiniano? È possibile che un
sacrificio individuale porti a perpetuare nella discendenza i geni di
chi rinuncia alla propria vita? La risposta a questa domanda apparen­
temente contraddittoria è affermativa. La soluzione di questo para­
dosso è possibile grazie alla teoria della selezione di parentela svilup­
pata all'inizio degli anni sessanta da W. D. Hamilton, un biologo
teorico inglese. E. O. Wilson ne ha fatto poi una pietra miliare di
una teoria biologica della società in Sociobiologia (nel saggio prece­
dente ho criticato gli aspetti deterministici delle speculazioni di Wil­
son sul comportamento umano; ma ho anche fatto le lodi della sua
teoria generale dell'altruismo, ed ora riprenderò proprio questo
tema).
Gli uomini eccezionali hanno in genere, anche, una capacità anti­
cipatrice poco utilizzata. Probabilmente il biologo inglese J. B. S.
Haldane riusd ad anticipare tutte le buone idee che i teorici dell'evo­
luzione avrebbero poi avuto nel corso del nostro secolo. Una sera,
mentre all'interno di un pub stava ragionando sull'altruismo, Balda­
ne fece alcuni rapidi calcoli sul retro di una busta e quindi annunciò:
<<Darei la mia vita per quella di due fratelli o di otto cugini>>. Cosa
voleva dire Haldane con questa frase enigmatica? I cromosomi uma­
ni si trovano sempre in coppie: ne riceviamo una serie dall'uovo di
nostra madre e un'altra dallo spermatozoo di nostro padre. In que­
sto modo possediamo per ogni gene una copia paterna ed una mater­
na (questo non vale, tra i maschi, per quei geni che si trovano nei
cromosomi sessuali, dato che il cromosoma materno X è molto piu
lungo - cioè ha molti piu geni - del cromosoma paterno Y; la gran
parte dei geni del cromosoma X non hanno la copia corrispondente
sull'Y, che è piu corto). Consideriamo un gene umano. Qual è la
probabilità che un fratello abbia lo stesso gene? Supponiamo che
Un animale ingegnoso e buono 265

questo gene si trovi in un cromosoma della madre (il ragionamento è


identico per i cromosomi paterni). Ciascun uovo contiene un cro­
mosoma per ogni paio, cioè la metà dei geni della madre. La cellula
uovo da cui si è formato vostro fratello può avere lo stesso vostro
cromosoma o l'altro membro della coppia di cromosomi di vostra
madre. La probabilità che voi abbiate lo stesso cromosoma di vostro
fratello sono esattamente del 50%. Vostro fratello ha la metà dei geni
uguali ai vostri il che equivale a dire, dal punto di vista del calcolo
darwiniano, che si tratta di una metà di voi.
Supponete, quindi, di camminare lungo un viale con tre vostri
fratelli. Si avvicina a voi un mostro con chiari intenti assassini. I vo­
stri fratelli non se ne accorgono. A questo punto avete solo due al­
ternative: andare incontro al mostro dandogli il benvenuto, con il
che mettereste in guardia i fratelli che potranno cosi scappare e na­
scondersi, e segnereste la vostra fine; oppure mettervi al riparo e assi­
stere alla scena del mostro che fa la festa ai vostri tre fratelli. Cosa
dovreste fare, sulla base delle regole del gioco darwiniano? Dovreste
andare incontro al mostro salutandolo calorosamente, perché cosi
perdereste solo voi stesso, mentre i vostri tre fratelli sono una volta e
mezza voi. È preferibile che vivano loro, perché possono trasmette­
re alla discendenza il 150% dei vostri geni. Quello che apparente­
mente è un atto altruistico si rivela qualcosa di geneticamente «egoi­
stico>>, dato che porta a massimizzare il contributo dei vostri geni
nella generazione successiva.
Secondo la teoria della selezione di parentela, gli animali evolvo­
no comportamenti che danneggiano se stessi o arrivano al sacrificio
solo se questi atti altruistici aumentano la diffusione dei loro geni
tramite il familiare che ne è beneficiario. L'altruismo e la società fa­
miliare procedono di pari passo; i benefici della selezione di parente­
la consentono anche di dare un impulso all'evoluzione dei rapporti
sociali. Il mio assurdo esempio dei quattro fratelli e del mostro è
semplicistico, ma la situazione diviene ben piu complessa con dodi­
cesimi cugini, geneticamente lontanissimi da voi. Ma la teoria di Ha­
milton non si applica soltanto ai casi ovvi.
La teoria di Hamilton ha avuto risultati sbalorditivi nella spiega­
zione di alcuni storici rompicapo biologici che si presentano nello
266 Questa idea della vita

studio del comportamento sociale negli imenotteri: formiche, api e


vespe. Perché questo comportamento - si può parlare di socialità
vera e propria - si è evoluto indipendentemente almeno undici vol­
te negli imenotteri e solo una volta tra gli altri insetti (le termiti)?
Perché tra gli imenotteri le caste di lavoratori sterili sono sempre
composte da femmine, mentre nelle termiti vi si trovano anche i ma­
schi? Le risposte pare stiano nell'effetto della selezione di parentela
sull'insolito sistema genetico degli imenotteri.
La gran parte degli animali che si riproducono sessualmente sono
diploidi; le loro cellule contengono due serie di cromosomi: una
proveniente dalla madre ed una proveniente dal padre. Le termiti,
come la gran parte degli insetti, sono diploidi. Gli imenotteri sociali
sono invece aplodiploidi. Le femmine si sviluppano da uova fecon­
date come normali individui diploidi con una serie di cromosomi
materni ed una serie di cromosomi paterni. I maschi si sviluppano
invece da uova non fecondate e possiedono solo la serie materna; essi
sono, in termini tecnici, aploidi (portano la metà del numero norma­
le di cromosomi).
Negli organismi diploidi, le relazioni genetiche tra i fratelli ed i
genitori sono simmetriche: i genitori hanno la metà dei geni uguale a
quella dei figli, e ciascun figlio ha (in media) la metà dei propri geni
in comune con ogni fratello o sorella. Ma nelle specie aplodiploidi le
relazioni genetiche sono asimmetriche, e ciò fa si che gli effetti della
selezione di parentela siano molto particolari. Consideriamo i rap­
porti di una formica regina con i suoi figli e le sue figlie, ed i rapporti
di queste figlie con le loro sorelle e con i loro fratelli:
1 . La regina ha un rapporto di 1/2 con i suoi figli e le sue figlie;
ogni membro della s1,1a prole porta infatti 1/2 dei suoi cromosomi, e
quindi 1/2 dei suoi geni.
2. Le sorelle hanno con i propri fratelli un rapporto che non è di
1/2 come negli organismi diploidi, ma 1/4. Vediamo perché. Consi­
deriamo uno dei geni di una sorella. Le probabilità che si tratti di un
gene paterno sono 1/2. Se è cosi, non è possibile che il fratello abbia
questo stesso gene, poiché non possiede alcun gene paterno. Se si
tratta di un gene materno, le probabilità che questo si trovi anche
nel fratello sono ancora 1/2. Il suo rapporto totale con il fratello è
Un animale ingegnoso e buono 267

quindi la media di O (per i geni paterni) e 1/2 (per quelli materni),


cioè di 1/4.
3. Le sorelle hanno tra di loro un rapporto di 3/4. Ancora, pren­
diamo un gene qualsiasi. Se si tratta di un gene paterno, è certo che
questo si trova anche nella sorella, dal momento che i maschi non
hanno che una serie di cromosomi da passare alle figlie. Se invece è
materno, la sorella ha il 50% delle probabilità di averlo, come prima.
Le sorelle sono quindi legate tra loro da un rapporto che è la media
di l (per i geni paterni) e 112 (per i geni materni), cioè da un rappor­
to di 3 /4.
Queste asimmetrie sembrano fornire una spiegazione semplice ed
elegante del piu altruistico tra i comportamenti animali: la <<VOcazio­
ne>> delle femmine operaie a rinunciare alla propria riproduzione pur
di aiutare le loro madri ad allevare un maggior numero di sorelle. Fi­
no a che le sarà possibile, un'operaia preferirà <<investire>> nelle sorel­
le, perché perpetuerà maggiormente i suoi geni aiutando la madre ad
allevare sorelle fertili (rapporto di 3 l4) che non facendo crescere del­
le proprie figlie fertili (rapporto di 1/2). Ma il maschio non mostra
alcuna inclinazione alla sterilità e al lavoro. I maschi preferiscono in­
fatti far crescere figlie loro, che portano tutti i loro geni, piuttosto
che contribuire all'allevamento delle sorelle che ne portano solo la
metà. (Non è mia intenzione attribuire una volontà cosciente a crea­
ture con cervelli cosi rudimentali. Il mio <<preferisconO>> è solo una
comoda abbreviazione di <<nel corso dell'evoluzione, i maschi che
non si comportavano in questo modo si sono trovati in una situazio­
ne di svantaggio selettivo e sono stati gradualmente eliminati>>.)
I miei colleghi R. L. Trivers e H Hare hanno pubblicato su
Science (23 gennaio 1976) la seguente importante scoperta: le regine e
le operaie preferirebbero differenti rapporti numerici tra i due sessi
per la loro prole fertile. La regina, avendo con i figli e le figlie lo stes­
so legame genetico, favorisce un rapporto 1 : 1 tra i maschi e le fem­
mine. Ma le operaie allevano la prole ed hanno la possibilità di im­
porre alla regina le loro preferenze con la nutrizione selettiva delle
sue uova. Le operaie preferiscono far crescere sorelle fertili (con le
quali hanno un rapporto di 3/4) piuttosto che fratelli (rapporto di
1/4). Ma devono comunque far crescere anche qualche fratello, altri-
268 Questa idea della vita

menti le sorelle resterebbero senza compagno. Giungono cosf ad un


compromesso, favorendo le sorelle in misura del piu stretto rappor­
to che hanno con esse. Dal momento che il rapporto con le sorelle è
tre volte quello che hanno con i fratelli, le operaie dovrebbero impe­
gnare un'energia tre volte maggiore nell'allevare le sorelle, dovreb­
bero distribuire a queste il triplo di nutrimento. L'entità del nutri­
mento si rifletterà poi nel peso della prole fertile adulta. Trivers e
Hare hanno perciò misurato il rapporto di peso femmine/maschi
per l'intera prole fertile in colonie di 2 1 specie diverse di formiche. Il
rapporto delle medie dei pesi, o rapporto di investimento, è molto
vicino a 3 : 1 . Già questo è un dato abbastanza sorprendente, ma la
conferma piu significativa viene dagli studi sulle formiche schiaviste.
In questi casi le operaie sono membri di altre specie che sono stati
fatti prigionieri. Queste operaie non hanno alcun rapporto genetico
con le figlie della regina che viene loro imposta e non dovrebbero
perciò favorirle rispetto ai figli della stessa regina. Pare certo che, in
queste situazioni, il rapporto di peso femmine-maschi sia di 1 : 1, an­
che se diviene nuovamente di 3 : 1 quando le operaie delle specie ri­
dotte in schiavitu non sono fatte prigioniere ma lavorano per la pro­
pna regma.
La selezione di parentela, con la sua azione sulla particolare gene­
tica degli aplodiploidi, sembra spiegare le principali caratteristiche
del comportamento sociale di formiche, api e vespe. Ma è in grado di
fare altrettanto anche per la nostra specie? Fino a che punto può aiu­
tarci a capire il contraddittorio amalgama di impulsi egoistici ed al­
truistici che forma la nostra personalità? lo sono propenso ad am­
mettere - e si tratta solo di una mia intuizione, dal momento che
non esistono dati che ci obblighino a farlo - che essa consenta di ri­
solvere il dilemma freudiano di cui ho parlato all'inizio. È possibile
che i nostri impulsi egoistici ed aggressivi si siano evoluti secondo il
meccanismo darwiniano del vantaggio individuale, ma questo non
significa che le nostre tendenze altruistiche rappresentino una strut­
tura anomala imposta dalle esigenze della civilizzazione. Può essere
che anche queste tendenze siano sorte secondo il meccanismo darwi­
niano, grazie alla selezione di parentela. Forse la gentilezza degli uo­
mini è altrettanto «animale>> della loro cattiveria.
Un animale ingegnoso e buono 269

Ma non intendo andare oltre, non voglio dare spazio a specula­


zioni deterministiche che tentino di spiegare <<Specifici» comporta­
menti con l'azione di specifici geni altruistici od opportunistici. Il
nostro corredo genetico ci permette un'ampia gamma di comporta­
menti - dai piu egoisti ai piu generosi. lo non credo che l'avaro ac­
cumuli il denaro a causa dei geni opportunisti o che il filantropo lo
doni perché la natura lo ha dotato di un numero di geni altruisti su­
periore al normale. L'educazione, la cultura, la classe sociale, lo sta­
tus e quell'elemento inafferrabile che chiamiamo «libero arbitrio>>
concorrono a causare i nostri comportamenti, a fare in modo che si
realizzino alcuni dei tanti comportamenti permessi dai nostri geni e
che vanno dall'estremo altruismo all'estremo egoismo.
Come esempio delle speculazioni deterministiche basate sull'al­
truismo e sulla selezione di parentela, citerò la spiegazione genetica
dell'omosessualità proposta da E. O. Wilson (New York Times Maga·
zine, 12 ottobre 1975). Com'è possibile che, stanti le regole fissate da
Darwin, si sia selezionato un gene dell'omosessualità, dal momento
che gli uomini esclusivamente omosessuali non hanno figli? Suppo­
niamo che i nostri antenati fossero organizzati socialmente in piccoli
gruppi in competizione composti di famiglie molto chiuse. Alcuni
gruppi sono formati unicamente da individui eterosessuali, altri
comprendono omosessuali che svolgono mansioni di «aiutanti» nella
caccia e nell'allevamento dei bambini: essi non hanno figli ma aiuta­
no la famiglia a far crescere i loro parenti genetici piu stretti. Se si
ammette che i gruppi comprendenti degli omosessuali abbiano pre­
valso nella competizione che li opponeva ai gruppi che ne erano pri­
vi, allora i geni dell'omosessualità potrebbero essere stati mantenuti
dalla selezione di parentela. In questa ipotesi non c'è nulla di illogi­
co, ma è anche vero che mancano dei dati che possano deporre a suo
favore. Nessuno ha identificato un gene dell'omosessualità, e niente
di quello che sappiamo sull'organizzazione sociale dei nostri antena­
ti suona a conferma di questa ipotesi.
L'intento di Wilson è lodevole; egli tenta di affermare la dignità
di un comportamento comune e molto disprezzato sostenendo che
per molta gente si tratta di una cosa naturale, e per giunta con un va­
lore adattativo (almeno in forme primitive di organizzazione socia-
270 Questa idea della vita

le). Ma si tratta di una scelta pericolosa, perché se questa ipotesi ge­


netica si dovesse rivelare inesatta il ragionamento si ritorcerà contro
di voi. Se infatti giustificate un comportamento sostenendo che si
tratta di una diretta conseguenza dei geni, come potrete continuare a
difenderlo quando si dimostrasse che la vostra ipotesi è sbagliata? A
quel punto il comportamento diventerebbe innaturale e passibile di
essere condannato. È decisamente preferibile una presa di posizione
filosofica sulla libertà umana: ciò che fanno tra di loro, nella vita pri­
vata, gli adulti liberi, è solo affar loro. Non è necessario trovare alcu­
na giustificazione - cosi come sarebbe assurdo formulare delle con­
danne - con argomentazioni basate sulla genetica.
Sebbene io mi sia preoccupato molto e molto a lungo per l'uso
deterministico della selezione di parentela, non posso che rallegrar­
mi degli spunti che essa offre al mio tema preferito, la potenzialità
biologica. Con la selezione di parentela, infatti, il dominio delle po­
tenzialità genetiche si è ulteriormente esteso, arrivando a compren­
dere anche la dote della bontà, che era sempre stata considerata un ti­
pico prodotto della cultura umana. Sigmund Freud sostenne che la
storia delle nostre maggiori intuizioni scientifiche rappresenta, per
ironia della sorte, una progressiva ritirata della nostra specie da una
posizione di centralità cosmica. Prima di Copernico e di Newton,
pensavamo di vivere al centro dell'universo. Prima di Darwin, pen­
savamo di essere stati creati da un Dio generoso. Prima di Freud, im­
maginavamo di essere creature razionali (certamente una delle prete­
se meno modeste della nostra storia intellettuale). Se la selezione di
parentela segnerà un'altra tappa di questa ritirata, ci sarà molto utile
per convincerci ad abbandonare l'idea della dominazione, comin­
ciando a rispettare gli altri animali ed a vivere in armonia con loro.
Epilogo

Dove sta andando il darwinismo? Quali sono le prospettive per il


suo secondo secolo di vita? Io non pretendo di avere la capacità di
prevedere il futuro, penso solo di conoscere alcune cose del passato.
Ma sono convinto che qualsiasi ipotesi su quello che potrà accadere
in futuro debba valersi della comprensione degli avvenimenti passa­
ti, cosa che vale in particolare per quelli che sono i tre elementi fon­
damentali della visione del mondo di Darwin: il concentrare l' atten­
zione sugli individui come principali agenti dell'evoluzione, l'identi­
ficare la selezione naturale come meccanismo dell'adattamento, e la
convinzione che i mutamenti evolutivi siano di natura graduale.
Credeva forse Darwin che tutti i mutamenti evolutivi avvenisse­
ro per mezzo della selezione naturale? Pensava forse che l'evoluzio­
ne producesse sempre e comunque individui adatti al loro ambiente?
Sul finire del XIX secolo, sorse nei circoli biologici un dibattito su
chi potesse veramente dirsi <<darwiniano». Questo titolo era rivendi­
cato da August Weismann, un rigido selezionista, per il quale non
esistevano altri meccanismi evolutivi oltre alla selezione. G. ]. Ro­
manes, che attribui a Lamarck e a tanti altri aspiranti eguale posizio­
ne rispetto alla selezione naturale, dichiarava a sua volta che quell'o­
nore spettava a lui. Avevano entrambi ragione ed entrambi torto al­
lo stesso tempo. La visione di Darwin era pluralistica ed accomodan­
te (si trattava, del resto, dell'unica posizione ragionevole di fronte ad
272 Questa idea della vita

un mondo cosi complesso). Certo egli attribuiva una preminente im­


portanza alla selezione naturale (W eismann), ma non tralasciava af­
fatto l'influenza di altri fattori (Romanes).
La controversia Weismann-Romanes sta riemergendo, mentre i
due movimenti piu discussi degli ultimi anni si schierano dietro i
due protagonisti della vecchia disputa. Io sospetto che, quando en­
trambe le formulazioni estreme si dovranno arrendere di fronte alla
molteplicità dei fattori in gioco nella natura, prevarrà ancora una
volta la posizione piu equilibrata di Darwin. Sul primo versante, i
«sociobiologi>> umani presentano una: serie di elaborate speculazioni
basate sul presupposto che tutti i piu importanti modelli di compor­
tamento debbano essere frutto della selezione naturale. Mi è capitato
di sentire sostenere la natura adattativa (e persino genetica) di feno­
meni come l'eredità patrilineare della ricchezza e l'alta incidenza del­
la fellatio e del cunnilingus tra le classi superiori.
I sociobiologi, con la loro fede suprema nell'adattamento univer­
sale, rappresentano un'estrema riproposizione dell'atomismo: tutti i
fenomeni vengono ridotti a livelli inferiori persino a quello indivi­
duale della formulazione darwiniana, apparentemente indivisibile.
Con una frase rimasta famosa, Samuel Butler affermò una volta che
un pollo non è altro che il mezzo con cui un uovo produce un altro
uovo. Alcuni sociobiologi prendono alla lettera questo epigramma e
sostengono che gli individui sono solo degli strumenti usati dai geni
per produrre altri geni identici. Gli individui divengono cosi dei ri­
coveri temporanei per le <<Vere» unità di evoluzione. Nel mondo di
Darwin gli individui lottano per perpetuare la propria specie, per i
sociobiologi i geni stessi sono i generali nella battaglia per la soprav­
vivenza; in questo duro combattimento vincono solo i piu adatti,
tutti i cambiamenti devono perciò avere un significato adattativo.
Dice Wolfgang Wickler: <<Dalla teoria dell'evoluzione segue che i
geni fanno funzionare gli individui secondo i propri interessi». Con­
fesso che non riesco a considerare questa affermazione come qualco­
sa di piu di un paradosso. Quello che mi preoccupa non è il fatto che
pare si attribuisca ai geni un fine consapevole; si tratta di una con­
venzione letteraria che anche io contribuisco a perpetuare. Quello
che mi dà fastidio è l'idea sbagliata che i geni siano particelle discrete
Epilogo 273

e divisibili, in grado di usare i caratteri ai quali dànno origine negli


organismi come armi per la loro diffusione. Non si può scomporre
un individuo in pezzettini di codice genetico indipendenti l'uno dal­
l'altro, poiché questi pezzettini sono privi di significato fuori dal­
l'ambiente del corpo in cui sono inseriti e, di per sé, non portano ne­
cessariamente alla formazione di alcun particolare elemento morfo­
logico o all'esistenza di alcun particolare comportamento. La morfo­
logia ed il comportamento non sono il prodotto obbligato di geni in
conflitto tra loro; non è detto che abbiano sempre, in tutti i loro
aspetti, un valore adattativo.
Mentre i sociobiologi tentano di «weismannizzare>> Weismann,
molti evoluzionisti molecolari assumono la tesi opposta, secondo
cui la gran parte dei cambiamenti evolutivi non solo non sono in­
fluenzati dalla selezione, ma avvengono in direzione del tutto casua­
le. (Per Darwin la materia prima della variazione può essere casuale,
ma il «cambiamento» evolutivo è deterministico e diretto dalla sele­
zione naturale.) Il codice genetico, per esempio, è ridondante. Lo
stesso aminoacido è codificato da piu di una sequenza di DNA. È
difficile immaginare come la selezione naturale possa premiare o re­
spingere un cambiamento genetico avvenuto in una di queste se­
quenze (dato che la selezione continuerà a <<vedere» lo stesso aminoa­
cido).
Potremmo scegliere di considerare irrilevanti tali <<invisibili»
cambiamenti genetici, poiché se la variazione non trova espressione
in un aspetto della morfologia o della fisiologia dell'organismo, la se­
lezione naturale non può esercitarvi la sua azione. Tuttavia, se la
gran parte dei cambiamenti evolutivi fossero cosi neutrali (cosa che
personalmente non credo), sarebbe necessario riformulare il discor­
so darwiniano. Saremmo costretti a considerare la selezione come
un epifenomeno, che tocca soltanto le poche variazioni genetiche
che si traducono in parti degli organismi significative dal punto di
vista adattativo: solo la superficie di un vasto mare di variabilità
sommersa.
Ma la sfida degli evoluzionisti molecolari è piu seria, poiché essi
hanno trovato nelle proteine (cioè in prodotti genetici visibili) una
variabilità maggiore di quella che dovrebbe esserci in una popolazio-
274 Questa idea della vita

ne secondo i modelli basati sulla selezione naturale. In piu, hanno


calcolato il ritmo dei cambiamenti evolutivi delle proteine su lunghi
periodi di tempo e lo hanno trovato sorprendentemente regolare, di
una precisione quasi cronometrica. Com'è possibile che l'evoluzione
lavori con la regolarità di un orologio, se è diretta da un processo di
tipo deterministico come la selezione naturale (l'intensità della sele­
zione varia secondo i ritmi dei cambiamenti ambientali, e i climi
non fanno tic tac come un metronomo)? La risposta non è comun­
que scontata come si potrebbe pensare; è possibile infatti formulare
delle ipotesi, forse non del tutto assurde, secondo le quali una copio­
sa variabilità e ritmi cronometrici possono scaturire dalla selezione
naturale. Quello che vorrei sostenere è che non abbiamo risposte de­
finitive.
Secondo me assisteremo ad un trionfo del pluralismo darwinia­
no. La selezione naturale si dimostrerà ben piu importante di quanto
non immaginino alcuni evoluzionisti molecolari, ma non onnipo­
tente, come sembrano pretendere alcuni sociobiologi. Sospetto infat­
ti che la selezione naturale di Darwin basata sulle variazioni geneti­
che abbia ben poco a che fare proprio con quei comportamenti che
oggi vengono enfaticamente citati come esempi.
lo spero che lo spirito pluralistico proprio del lavoro di Darwin
estenda la sua influenza in altre aree del pensiero evoluzionistico,
nelle quali, a causa di scelte mai messe in discussione, di vecchie abi­
tudini, o di pregiudizi sociali, regnano ancora rigidi dogmi. Perso­
nalmente il mio bersaglio preferito è la fede in lenti e regolari cam­
biamenti evolutivi professata dalla gran parte dei paleontologi (e che
trova alimento, devo ammetterlo, nella stessa opinione personale di
Darwin). I fossili non confermano affatto questa convinzione; in essi
predominano le estinzioni di massa ed il sorgere improvviso di nuo­
ve specie. Non è possibile dimostrare l'esistenza dell'evoluzione ba­
sandosi sui graduali cambiamenti osservabili nei fossili di qualche
brachiopode risalendo il versante di una collina. Di fronte a questa
spiacevole verità, i paleontologi sono corsi al riparo appellandosi al­
l'estrema inadeguatezza delle testimonianze fossili: tutti gli strati in­
termedi sono andati perduti, ciò che abbiamo sono solo poche paro­
le delle poche righe delle poche pagine di ciò che è rimasto del no-
Epilogo 275

stro libro geologico. Per difendere la loro ortodossia gradualista so­


no arrivati al punto di ammettere che i fossili non presentano quasi
mai proprio quei fenomeni che sono oggetto dei loro studi. Ma, se­
condo me, il gradualismo non è valido in tutti i casi (anzi, credo che
lo sia piuttosto raramente). La selezione naturale non ci dice nulla a
proposito dei ritmi dell'evoluzione. L'evoluzione può comprendere
cambiamenti rapidi (istantanei dal punto di vista geologico) che av­
vengono per speciazione in piccole popolazioni cosi come le tradi­
zionali e lente trasformazioni di intere stirpi, trasformazioni che
non siamo in grado di misurare.
Aristotele sosteneva che la maggior parte delle grandi controver­
sie si risolvono nell'aurea mediocritas. La natura è cosi meravigliosa-
. mente complessa e varia che vi accade quasi tutto il possibile. Il
«quasi mai>> del capitano Corcoran è l'affermazione piu azzardata
che uno storico della natura possa fare. Chi vuole risposte nette, de­
finitive, globali ai problemi della vita non le cerchi nella natura. In
realtà, ho dei forti dubbi che una ricerca onesta possa portare a ri­
sposte di questo tipo anche in altri campi. Siamo in grado di rispon­
dere definitivamente a piccole domande (sappiamo perché non potrà
mai esistere sulla Terra una formica lunga molti metri); ce la cavia­
mo ragionevolmente con i problemi di medie dimensioni (dubito
che il lamarckismo potrà mai risorgere come teoria dell'evoluzione);
ma quando formuliamo domande veramente fondamentali dobbia­
mo arrenderci di fronte alla ricchezza della natura: il cambiamento
può avere una direzione o essere senza scopo, essere graduale o cata­
clismatico, selettivo o neutrale. Personalmente apprezzo la varietà
della natura e lascio ai politici ed ai predicatori la chimera della cer­
tezza.
l
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Finito di stampare nel mese di maggio 1990
per conto degli Editori Riuniti
dalla tipografia L. Chiovini, Roma

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