Giuseppe Baretti Lettere Familiari 2
Giuseppe Baretti Lettere Familiari 2
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DIRITTI D'AUTORE: no
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INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
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2
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SOGGETTO:
TRV009130 VIAGGI / Europa / Spagna e Portogallo
TRV010000 VIAGGI / Racconti e Documentari di Viaggio
CDD:
856.6 EPISTOLOGRAFIA ITALIANA. 1748-1814
914.04253 GEOGRAFIA. EUROPA. Viaggi. 1715-1789
DIGITALIZZAZIONE:
Giovanni Mennella
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REVISIONE:
Ruggero Volpes
IMPAGINAZIONE:
Giovanni Mennella
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PUBBLICAZIONE:
Claudia Pantanetti, [email protected]
3
LIBER LIBER
4
Indice generale
Liber Liber...................................................................... 4
Lettere famigliari di Giuseppe Baretti a’ suoi fratelli a
Torino..............................................................................7
Lettera ventisettesima.................................................8
Lettera ventottesima.................................................16
Lettera ventinovesima...............................................24
Lettera trentesima.....................................................31
Lettera trentunesima.................................................45
Lettera trentaduesima...............................................46
Lettera trentatreesima...............................................49
Lettera trentaquattresima..........................................55
Lettera trentacinquesima...........................................60
Lettera trentaseesima................................................72
Lettera trentasettesima..............................................87
Lettera trentottesima.................................................96
Lettera trentanovesima...........................................103
Lettera quarantesima...............................................107
Lettera quarantunesima...........................................112
Lettera quarantaduesima.........................................120
Lettera quarantatreesima.........................................130
Lettera quarantaquattresima...................................132
Lettera quarantacinquesima....................................137
Lettera quarantaseesima.........................................143
Lettera quarantasettesima.......................................154
5
LETTERE FAMILIARI
DI
GIUSEPPE BARETTI
A’ SUOI TRE FRATELLI
FILIPPO GIOVANNI E AMEDEO
EDIZIONE TERZA
TOMO SECONDO
PIACENZA MDCCCV
DAI TORCHJ DI MAURO DEL MAJNO
Con Approvazione
6
LETTERE FAMIGLIARI
DI GIUSEPPE BARETTI
7
LETTERA VENTISETTESIMA
Di Cintra li 12. Settembre 1760.
8
diedero il benvenuto con un bicchierino di vin bianco e
con una fetta di pane per ciascuno accompagnata da una
dozzina di fichi, che non fecero poco a non farsi
inghiottire anco le vesti, tanto erano buoni. Quindi ne
fecero vedere il resto del convento, che sarebbe capace
di cinque o di sei padri di più, se il terremoto non
n’avesse sconquassata una parte. Il sommo del monte
forma un cortile lastricato di tegoli di majolica dipinti
turchini e bianchi a mo’ di scacchiere, e disposti in guisa
che l’acqua piovana doccia in una cisterna che è sotto il
cortile, intorno al quale v’è il chiostro colle mura pur
incrostate di que’ tegoli di majolica. Dalle finestre de’
Religiosi l’occhio scorre liberamente lungo un
grandissimo tratto di paese composto [3] per la più parte
di montagne sterilissime, e sparse di sassi talora grossi
come case. Pure nelle vicinanze del convento fra que’
gran massi di pietra que’ padrini hanno coltivati alcuni
piccoli pezzi di terreno, che somministrano loro
l’insalata e qualche legume. Frutti non ne hanno, che le
nebbie troppo frequenti su quella lor vetta ammazzano
tutti i fichi, e l’uva, e i poponi, e altra simil gente, onde
sono obbligati a mandar quì a Cintra per essi. Quello di
che hanno mediocremente, è della meliga, o gran Turco,
come altri chiamano quel grano: e con tal meliga
nutrono molti polli per uso loro, e talvolta ne fanno
delle focacce, che a un bisogno servon loro di pane.
Tutto l’edifizio è cinto di rupi inaccessibili, fuorchè da
una banda: e siccome la chiesa e il convento sono stati
dapprima fabbricati con buona calce, che s’è incorporata
9
e insassita con le rupi, a cui in parte s’appoggiano,
nessuno de’ frati ricevette danno nella persona dal
terremoto, che non fece altro che scompaginare alquanto
un chiostro superiore, e buttò giù solamente certe stanze
destinate ad alloggiare chi si compiace di visitare quel
romanzesco luogo. Tutti i solaj, e il tetto della chiesuola
patirono però molto, ma i danni leggieri furono tosto
rimediati, il luogo si chiama Nostra Signora della Pena.
Vista e rivista ogni cosa, fatta [4] una poca di limosina
alla Madonna, e ringraziati i padri, prendemmo una
guida perchè ne conducesse a un altro monte lontano tre
miglia da questo, dove giungemmo attraversando un
paese assai sassoso, per la più parte abitato da tante e sì
diverse pianticelle silvestri, che mi dolse non esser
botanico per potervene dire qualcosa; e in qualche
valletta incontrammo altresì molti pini di mediocre
altezza, che fanno una vaghissima verdura in mezzo a
quelle tante nude rupi. Chi non si compiacque di quella
verdura furono i nostri Borros, cioè asinelli, perchè il
cammino per quel paese è asprissimo, e bisognava
tenerli ben saldi pe’ capestri, e andar giù bel bello per
non tombolare da’ sassi, e tra gl’innumerabili arbusti
spinosi che crescono per que’ deserti. A capo di due ore
giungemmo sulla vetta di un altro monte chiamato la
Serra di Cintra, che è quello stesso Rock of Lisbon
(Sasso di Lisbona) mentovato in altra mia, la di cui vista
mi costò qualche liberalità a’ marinai per evitare un pajo
di tuffi nell’Oceano. Su quella vetta la natura s’è
sbizzarrita facendo tante buche nel sasso, che ajutate un
10
poco dall’arte, sono diventate il più bell’Eremo che
l’immaginazione possa formare: e mi vorrebbe la penna
dell’Ariosto, o il pennello del mio Zuccarelli, per dare il
suo dovuto al più grottesco, al più ameno, [5] e al più
singolar luogo che sia in tutto quanto il mondo. La
maraviglia comincia dove si smonta dall’asinello, che
quivi due sassi grandissimi, e coperti di folta e verde
muffa, formano una spezie di arco molto contro le
architettoniche regole del Vignola1, ma che pur serve di
porta per entrar nell’Eremo, in cui per altra via non può
aver accesso chi non è uccello. Saliti alcuni malfatti
scaglioni, i padri che ne avevano scorti di lontano, ne
diedero il benvenuto a casa loro con domandarci se
avevamo pranzato, e rispondendo io negativamente,
subito ne fecero apparecchiare un desinaretto, di cui or
ora dirò, e mentre il desinaretto s’apparecchiava, ne
condussero in una spezie di cortile, in capo al quale v’è
una gran buca nel sasso, dove hanno fatto un ornamento
di conchiglie e di chiocciole marine intorno a una
immagine della Maddalena che sta in atto di persona
che dorme. Per un’apertura che è dal lato sinistro di
questa buca della Maddalena, entrammo in un’altra buca
che è la loro chiesa, e poi in un’altra buca che è la loro
sacristia, e di là in un’altra buca che è il loro dormitorio,
da un canto del quale [6] vi sono delle buche
quadrilunghe, nelle quali una persona di mediocre
11
pancia a fatica può entrare, e per tali buche si cala nelle
celle, che sono anch’esse tante buche, dove i frati hanno
i loro letticciuoli tanto piccini, che appena possono
essere da quelli contenuti quando si coricano, e quelle
celle hanno delle buche rimpetto alle lor porte, che
servono di finestre. Il refettorio è pure una buca, dove è
la loro Biblioteca, inferiore di molto alla Bodlejana
d’Oxford, e alla Vaticana di Roma, poichè i suoi libri
non vanno alla decina; e nel mezzo di quel refettorio è
un sasso massiccio molto, che serve di mensa a’ padri,
quando il mal tempo non permette loro di mangiare nel
cortile già detto. Un’altra buca serve di confessionale e
di camera di penitenza. Viste tutte queste buche fummo
condotti in un’altra buca nominata la cucina; e questa è
la più grande di tutte quelle tante lor buche, e veramente
degnissima dell’onorato nome di cucina. Un cuoco
Franzese non se ne contenterebbe forse, ma i frati ne
sono contentissimi. Tutte queste buche sono state, come
dissi, fatte dalla bizzarra natura, e guarda il sasso quanto
vuoi, appena vedi quì e quà un qualche vestigio di
scalpello. L’arte non ha quasi fatto altro a quell’Eremo,
che alcuni muricciuoli, i quali hanno talora spartita, e
talora [7] rinchiusa qualche parte di quelle buche, dove
quelle buche avevano bisogno d’essere o rinchiuse o
spartite per maggior comodo degli abitanti. Un’altra
cosa molto singolare si trova quivi; ed è che i pavimenti,
i solaj, le scale, e parte de’ muri, tutto è coperto di
sughero, e sino i taglieri, su cui mangiano in refettorio,
sono di sughero, e di sughero pur sono la più parte degli
12
altri lor mobili e utensigli; onde hanno quasi ragione i
marinaj Inglesi, che chiamano quest’Eremo The Cork-
Convent cioè Convento di Sughero. Una buona ragione
m’hanno data i frati di questo lor tanto usare il sughero
in casa loro, cioè l’umidità continua del luogo, che se
non fosse a quella rimediato con quel sughero, non vi
saria modo d’abitar quivi. E di fatto l’acqua trapela e
suda in ogni parte da’ sassi, che sono tutti coperti di
muffa, come que’ due di cui già dissi, che formano
quella buca in arco, da essi chiamata la porta
dell’Eremo. Dopo di essermi avvoltato per tutte quelle
buche, e notato ogni cosa, i padri mi condussero
all’aperto; ed è una consolazione vedere il loro giardino,
e le passeggiate fatte a scala che hanno intorno al loro
abituro, tutte fiancheggiate di alberi assai fronzuti, e di
cespugli, e di macchie, e di boscaglie foltissime; e calati
molti scaglioni mi fecero vedere un’altra buca sotto
terra, pur [8] fatta dalla natura, dentro alla qual buca uno
de’ lor frati nel secolo decimosesto, per quanto dice una
lapida, ebbe il coraggio di morire, dopo d’avervi passati
più di vent’anni della sua vita, ne’ quali vent’anni non
ebbe pur una sola volta il conforto di starsene ritto sulla
persona, o lungo e disteso in terra, perchè il cielo della
buca è sì basso, e il fondo sì stretto, che un uomo di
statura comunale bisogna stia gobbo gobbo per capirvi
dentro. Di gran cose hanno fatte alcuni uomini
fermamente risoluti di guadagnarsi il Paradiso! Poco
lunge di là v’è una gran fontana d’acqua viva della più
perfetta, e più al basso v’hanno certi orticelli, ne’ quali
13
si coltivano erbe e legumi in tanta copia, che bastano al
convento per tutto l’anno. Per fare quegli orticelli è stato
in più luoghi mestiero aggiungere al sasso, e in più altri
scapellarlo via, e portarvi a mano della terra: ma
siccome i pochi religiosi dal guardiano sino al guattero
sono tutti giardinieri e ortolani ogni cosa s’è fatta bene,
e quegli orticelli, egualmente che il giardino sono tanto
belli e ridenti, che non denno aver invidia a que’
dell’Esperidi, perchè non mancano mai loro nè
zappatori, nè acqua, la quale è abbondevolmente
somministrata dalla suddetta freschissima fontana. In
somma un più vago assembramento di sassi, di grotte,
d’orti, di [9] boschetti, di sorgenti, e di gratissime
ombre, non è possibile immaginarselo, come già dissi. E
aggiungi all’infinita leggiadria di quella solitudine una
prospettiva d’ogni banda, che ti bea gli occhi, perchè di
lassù tu vedi un gran tratto d’Oceano, e parte delle
castella che stanno alla foce del Tago, e le cime del Real
convento di Mafra, e capanne, e case, e villaggi, e ville,
e catene di monti e di colli senza fine, parte pietrosi e
sterili, parte coperti alle falde d’aranci, di limoni, e
d’altri agrumi, e d’olivi, e di ricchissime viti, e parte co’
gibbosi dossi, ombrati da frondosissimi e svelti pini.
Quando ogni minimo angolo di quell’incantato
soggiorno fu ben visitato, i padri ne condussero in quel
cortile, di cui vi dissi dapprima, e quivi sur un sasso
tagliato a mo’ di tavola, con un muricciuolo intorno che
serve per sedili, stava apparecchiato il nostro desinaretto
composto di un insalata amplissima, d’un piatto di pesce
14
marinato alla moda Portoghese, d’un pezzo di caccio
d’Olanda, e pesche, e mele, e pere, e uva, e fichi, e
pane, tutto in copia, e un gran fiasco di vino bianco
molto buono. Quivi ci sedemmo, e mangiammo con un
appetito smisuratissimo, cianciando piacevolmente di
molte cose co’ padri, che vollero a me e al compagno
mio cortesemente far da coppieri, incoraggiandoci con
modo bello [10] a far passaggio da boccone a boccone,
e da bicchiere a bicchiere, con una dolcezza, con un
amore, con un’ospitalità da rapire. Siccome sono
Francescani, non c’è modo di ricompensarli con danari
del buon trattamento; pure la prefata Maddalena dorme,
e non s’accorge se alcuno le lascia cascar vicino un
qualche conio. E se se n’accorgesse, e rifiutasse una
limosinuccia, come potrebbono i buoni padri far
provvedere la tanta vettovaglia che quotidianamente
occorre alla tanta gente che va a visitare quel lor luogo,
dove l’appetito sta anche di casa? Venuta l’ora di tornare
su i nostri asinelli, ci accommiatammo da que’ santi
religiosi, augurando loro ogni più possibile contentezza
in quel loro convento, o Eremo, o Romitoro, o Topinaja,
o Conigliera che se la voglian chiamare. Verso il calar
del Sole giungemmo quì, e per non perder tempo, e per
non lasciarmi freddare la fantasia, mi posi a
scarabocchiarvi questa descrizione, che più gentile e più
poetico luogo da descrivere con parole son certo di non
trovarlo mai più. Altre cose e di Cintra e di Mafra vi
scriverò domani sera da Lisbona. Per questa sera n’ho
propio abbastanza, che sono pieno di stanchezza e di
15
sonno. Addio. [11]
LETTERA VENTOTTESIMA.
Di Lisbona 13. Settembre 1760.
16
giorni, che queste esattezze insignificanti io duro fatica
a tenerle. La scalea, per cui dalla piazza si entra nella
chiesa, è molto bene immaginata. Il vestibulo d’essa
chiesa è soverchio piccolo per un tanto edifizio; e molte
statue in esso vestibulo sono soverchio grandi per la sua
picciolezza. Se il vestibulo fosse stato proporzionato al
resto della fabbrica, e se le statue, che sono il doppio più
grandi del naturale, fossero state collocate un po’ più in
alto di quel che sono, sarebbe meglio a parer mio. La
chiesa è ricca di marmi, e ricchissima di paramenti. Ha
undici altari, se la memoria non mi gabba, e sei organi
che faranno bene all’occhio, e all’orecchio, quando
saranno tutti sei terminati; e quando suoneranno tutti sei
insieme. Ma è chiesa troppo piccola in proporzione
dell’edifizio, e se ne sta come una creaturina a dormire
nel mezzo di un vasto letto. È scura sì, che non vedi con
vantaggio i marmi e le cose preziose che contiene. Di
quà e di là della chiesa vi sono due cortili assai grandi, e
a mio giudizio bellissimi. L’architettura è Jonica, e le
colonne e gli archi di leggiadra proporzione quanto dir
si possa. I due appartamenti reali contengono stanze e
sale molte, [13] e grandi, e bene intese, e degne di un
Re. I mobili eran riposti, che quando la corte è assente,
il palazzo è sfornito, ma già si apprestavano a riporlo in
ordine, perchè in ottobre la famiglia reale vi debbe
andare, come fa ogni anno per quindici o venti dì. Le
scale che conducono a quegli appartamenti sono pure
bastevolmente belle. La cupola della chiesa è delle più
vaghe; e vaghi pure sono i campanili che contengono
17
cento e più campane. Gl’ingegni dell’orologio empiono
una stanza assai grande, e consistono in un numero
innumerabile di ruote, di suste, di molle, di verghe, e di
bacchette di ferro, e altri imbrogli da sbalordire ogni più
valoroso orologiajo. E il danaro che quegl’ingegni
costarono al Re, e i pensieri che debbono aver costati
all’artefice per inventarli, furono certamente molti: ma
l’effetto non è proporzionato alla causa, ed è stata, pare
a me, una cosa assurda e ridicola buttar via tanto ferro,
tanto rame, tanto lavoro, tanta spesa, e tanti pensieri, per
metter in moto de’ battagli e de’ martelli che producono
poca e cattiva musica. Basti questo della chiesa e degli
appartamenti. Vegniamo al convento, che se sia un
convento capace, ve lo dicano trecento padri e
cencinquanta conversi che contiene, tutti Francescani
dal primo all’ultimo. I dormitorj loro ben potete credere
che [14] sono lunghissimi, e le celle di quà e di là sono
stanze da prelati anzi che celle da frati. Il refettorio è
veramente degno d’esser visto. Io v’entrai poco prima
che i religiosi si mettessero a tavola. Ogni due padri
avevano un bel bocale di majolica pieno di vino, e un
gran pane, e sur un tagliere di legno del Brasile sei
buoni fichi, e due belle pere, e un grappol d’uva, e un
limone per ciascuno. Le lor pietanze mi dicono che sono
tre, e tutto a spese del Re. A tavola ogni coppia di frati è
servita da un converso, che sta loro a spalle come
staffiere. In capo al refettorio v’è un’altra gran tavola,
alla quale il Re si siede talora, e con Don Pedro, e con
alcuni gran signori, e cortigiani suoi desina insieme
18
colle Riverenze loro. Il convento ha due Biblioteche.
Una è già piena di libri, e l’altra si va empiendo. In
questa seconda tutti gli scaffali da un lato contengono
libri Portoghesi, e il numero loro va a forse due mila.
Dopo il terremoto questa è diventata la più ampia
raccolta di libri Portoghesi che il mondo s’abbia, perchè
fra gli altri gravi mali che quel terremoto ha fatti a
questa nazione, uno è che ha fatte dal fuoco distruggere
molte Biblioteche in Lisbona. M’ha fatto sogghignare il
vedere sugli scaffali di Mafra tanti libri in foglio, in
quarto, e in ottavo di Genealogia. Oh quanti ve [15]
n’hanno! E que’ libri genealogici sono forse l’alimento
principale dell’albagia insoffribile de’ Portoghesi.
Probabilmente quell’albagia produsse dapprima alcuni
di que’ libri, e que’ libri accrebbero poi quell’albagia di
modo, che l’una e gli altri, e gli altri e l’una si
doppiarono e si moltiplicarono molto e molto più che
non occorrerebbe. Nel contemplare tanta faragine di
genealogica nobiltà, mi passò di galoppo pel capo, che
un nobilissimo assassino bisogna n’avesse letti un gran
numero di que’ libri, che trattano della grandezza de’
suoi avoli e della castità delle sue avole, per indursi a
soffocare nella sua mente un’idea, che il savio e colto
popolo di Francia ha soffocata da secoli e secoli. Andate
dire a un Francese, che molte pagine di un libro di
genealogia si macchiano se una femmina di una qualche
loro nobil prosapia fa quattro passi fuor di strada con un
dappiù di lei, quel Francese vi riderà dietro, e vi crederà
fuor del senno daddovero. Ma non usciamo della
19
Biblioteca di Mafra. Oltre a’ genealogici vi sono fra i
libri Portoghesi molti libri di Teologia mistica, di
Teologia scolastica, e di Cronologia Lusitana, e di
Lusitana Storia. Le vite de’ Santi, e le narrative de’
miracoli fatti dalle loro immagini, sono senza fine. Vi
sono alcuni autori di quaresimali, e fra gli altri quello
del loro padre Vieira, [16] che da’ loro critici è
sfacciatamente anteposto al Bourdaloue, al Tillotson, e
al Segneri. L’esordio d’una predica, che aprendo a caso
un tomo mi venne sotto agli occhi, è cosa puerile e
matta. Quell’esordio comincia con le lodi della figura
circolare, e il sacro oratore ha conchiuso il lungo ed
importante elogio di tal figura con dire, che se il signor
Dio avesse a mostrarsi in qualche figura geometrica,
eleggerebbe la circolare a preferenza della triangolare,
della quadra, dell’ovata, della esagona, della decagona,
e di qualunque altra conosciuta da’ geometri. Questa
sorte d’acute corbellerie incanta gli uditori Portoghesi
quando il dire è accompagnato da una voce tuonante, e
da un gesticolare da ossesso. Apersi il loro gran
Dizionario Portoghese e Latino, che è contenuto da
nove, o dieci tomi in quarto; ed è rimarchevole che il
Padre Bluteau Gesuita, da cui fu compilato, era
Francese, e non Portoghese. Quì lo stimano assai, e non
senza ragione; ma per quel ch’io posso giudicare come
persona del mestiero, non hanno poi ragione quando lo
preferiscono a quello de’ nostri signori cruscanti, e a
quello dell’accademia Francese, abbenchè l’uno e l’altro
di questi sia ancora assai mancante; e il Toscano
20
biasimevolissimo per le tante parolacce, e frasacce, e
proverbiacci plebei, e sporchi, e osceni, [17] e profani,
registrati in quello da quegli scostumati accademici, i
quali credettero oro e gemme tutto lo sterco Fiorentino.
E giacchè sono a dire; che bene si credettero mo’ que’
signori di fare al mondo, assistendo le sgualdrine, e i
bertoni, e la canaglia tutta a esprimersi, e informando la
gente civile, e morigerata, e onesta de’ modi di parlare
usati dal lor popolazzo più vile, da’ loro scrittori più
dispregievoli, e forse da essi medesimi? Oh io mi
arrossisco in pensare, che un corpo d’Italiani riputati
dotti, un numero di Cristiani gentiluomini, che
avrebbero dovuto essere specchi e modelli agli altri
d’ogni bel parlare egualmente che d’ogni buon costume,
abbiano così sconciamente imbrattata un’opera così
grande e così importante, qual è il loro vocabolario, con
tanti stomachevoli vocaboli e modi di dire, parte tratti
da molti de’ loro ribaldi prosatori e poeti, e parte raccolti
ne’ chiassi e ne’ lupanari di Firenze! Quel vocabolario
doveva essere un libro da poterlo porre in mano a’ nostri
figliuoli alla sicura, perchè da esso imparassero a
parlare e a scrivere puramente: ma qual è quel dabben
padre che possa in coscienza lasciar in balia di un
curioso fanciullo, o di una ragazza innocente un libro,
dal quale si possono con poca fatica imparare tutte le
porcherie dicibili nella nostra lingua? Da’ viventi
accademici [18] però si spera, che venendo il caso di
una nuova edizione, quel vocabolario sarà ripurgato, e
reso come si può facilmente fare, il più insigne di quanti
21
ne sono stati scritti in Europa finora, avvertendo di
aggiungervi le etimologie, e di rendere le definizioni un
po’ più precise, e un po’ più filosofiche. Torniamo per
un momento ancora nella Biblioteca di Mafra. Posi le
mani e l’occhio su molt’altri libri Portoghesi con licenza
del padre Bibliotecario, che mi lasciò a mio piacere
rovistare ogni scaffale; ma in quattr’ore e più da me
spese leggendo a salti in quà e in là, non ho incontrato
un pensiero che meritasse d’essere portato via. Lo stile
di quegli autori che trascorsi è gonfio, e sproporzionato
alle cose che dicono; e i nostri Acchillini, i nostri
Ciampoli, e anche i nostri Tesauri e i nostri Giuglaris,
tradotti in Portoghese, non riuscirebbono male. Mi
stupisco che nessuno abbia pensato a mettere in
Portoghese il nostro Calloandro, e la Dianea, e il
Coralbo, e l’Eromena, ed altri tali nostri capi d’opera
d’ampollosità e di natura idropica. Desiderai vedere una
traduzione fatta di fresco di alcuni de’ drammi di
Metastasio, ma non è ancora entrata in Biblioteca. M’è
stato assicurato, che il traduttor Portoghese ha aggiunto
molto del suo nella traduzione, dando de’ servidori di
livrea a Arbace, a Ezio, [19] a Temistocle, ad Acchille, e
agli altri Eroi di Metastasio, e dando delle fantesche e
delle balie a Mandane, a Vitellia, a Aspasia, e a
Deidamia, e all’altre Eroine, che tutti e tutte vengono a
fare delle scene buffonesche dietro alle scene eroiche
de’ padroni, e delle padrone loro, risum teneatis amici?
In quell’altra Biblioteca, che è già tutta piena, ho
osservato così correndo che v’hanno de’ libri buoni in
22
buon numero, ma erano i libri Portoghesi che mi
stavano a cuore, e che mi premeva di esaminare: e se
non avessi avuto meco il signor Edoardo, a dispetto
degl’insetti che m’avevano voluto divorare la notte
antecedente nell’osteria, avrei passata colà una
settimana intiera almeno, per esaminargli più
accuratamente, e con la penna in mano. Esco ora dalla
Biblioteca, e torno al convento, una delle di cui scale è
ampia, e comoda, e chiara. Il giardino de’ padri è poca
cosa, perchè il sasso del monte, su cui è eretto questo
edifizio, fu tagliato a furia di scalpello intorno intorno, e
dirò così incavato, la qual originale scelta di sito
produce due diffetti, uno che il giardino è sterile, e non
poteva riuscire altramente, eccetto che si fossero quivi
portate carrettate di terra a milioni per coprire il sasso
bene, l’altro diffetto è, che venendo da Lisbona non vedi
nè convento, nè nulla, sinchè non sei [20] molto vicino a
Mafra. Da’ monti circonvicini si vedono le sommità
dell’edifizio; ma chi vuol vederlo da cima a fondo
bisogna che vada in quel meschinissimo villaggio di
Mafra, e che lo guardi di lontano una frombolata. Il tutto
insieme però è cosa che riempie molto bene gli occhi
de’ riguardanti, e molte delle sue parti sono perfette.
L’Architetto fu un Tedesco che aveva studiato molt’anni
in Roma. Ho scordato il suo nome. Le cave di marmi
bianchi e bellissimi che sono lontane circa due leghe da
Mafra, hanno somministrato il corpo a quell’edifizio, e
le colonne, e i pavimenti, e gli altri fregi di quella
chiesa, e di molte parti del palagio e del convento, sono
23
di marmi di diversi colori, tutti molto belli, e tratti pure
da altre cave circonvicine. Ma ecco il mio Africante col
calesso e co i muli. Bisogna lasciar di scrivere, e andar a
pranzo fuor di casa. A rivederci stasera, se a quel pranzo
non mi toccherà di bere all’Inglese. Intanto addio. [21]
LETTERA VENTINOVESIMA.
Di Lisbona la sera
de’ 13. Settembre 1760.
24
famoso Poeta Pope stava un giorno passeggiando nelle
vicinanze di Londra lungo [22] un campo con due suoi
sapientissimi amici Walsh e Wicherley3. Uno d’essi
strappò del campo una spiga, e voltosi agli altri due
domandò loro che spiga era quella. Di frumento, rispose
uno d’essi. Nò, è di segala, disse l’altro. Credo
v’inganniate tutt’a due, soggiunse il terzo, perchè questa
debb’ essere una spiga d’avena. Il fatto sta, che nessuno
de’ tre clarissimi viri conosceva quella spiga. Mentre
stavano della spiga disputando, e cominciando ad
altercare con molta ferocia, passò di là il celebre
Botanico Miller, il quale con moltissime risa decise la
quistione: somministrando così materia di moralizzare
sulla crassa ignoranza che adorna le menti degli uomini
più cospicui e più riputati per sublimi, i quali troppo
sovente si perdono a speculare dietro innumerabili cose,
di cui il mondo potrebbe fors’anco far di meno, senza
mai pensare in vita loro ad acquistare la minima
conoscenza di quell’altre tante cose che tanto rendono la
vita confortevole e grata, quanto l’umana miseria
permette che sia grata e confortevole. Moltissimi sono i
Dotti che non sanno neppure come si faccia a far [23] il
pane, e il vino; e di alcune centinaja ch’io n’ho
conosciuti, non ne ho forse trovato un solo, che sappia
come si faccia il sapone, che è cosa così comunale e
così utile; e che fu pure uno degli sforzi maggiori che
3 Il Walsh fu riputato bon critico, e Wicherley è stato autore fra
l’altre cose di alcune commedie. Fra le opere di Pope sono
stampate alcune lettere di que’ due Scrittori.
25
mai facesse l’umana invenzione. Per questo io mi rido
spesso e di me, e di molti miei amici, che troppo spesso
vogliamo fare i barbassori, frecciando l’ignoranza co’
nostri sarcasmi e colle invettive nostre, e tessendo i be’
panegirici allo studio e alle dottrine, e poi in mille
occasioni siamo all’oscuro di cose che uomini
grossolani e dozzinali artefici sanno a menadito. Non
meritiamo noi, dottissimi Patrassi, di essere tanto
dispregiati da questi quanto noi li dispregiamo? Ma noi
sappiamo cianciare un po’ meglio d’essi, e spacciare il
nostro Orvietano con più artifizio, e con maggior
impostura che questi non sanno; e questo è quasi tutto il
vantaggio che sopr’essi abbiamo. Quanto bene diceva
quel Sere quando diceva: Io so d’esser un gran Bue! E
veramente, in proporzione di quello che v’è in questo
mondo da sapere, il più gran filosofante che viva sa
tanto poco, che gli è propio vergogna vada tronfio e
pettoruto, come se fosse un’arca di scienza. Almeno
volessero i signori dotti confessar qualche volta la loro
buaggine ingenuamente, come faccio io, che dico di non
intendermi [24] d’organi ora che l’organajo di Mafra mi
fa esaminare quello che sta terminando. Quel suo lavoro
tuttavia mi parve un lavoro di maestria singolare. Quel
organajo è un piccolino di statura, e una delle più
sparute persone che io m’abbia mai viste; ma l’ingegno
che rinchiude in quel suo corpicello è maraviglioso. Egli
ha avuto il posto d’organajo reale a preferenza di otto
altri famosi maestri d’organi, che il Re presente aveva
fatti venire d’Italia, di Germania, e di Fiandra,
26
vincendoli tutti con le sue sottili invenzioni, e fra l’altre
con una tromba e con un tremolo trovati da lui in
quell’organo che fece a gara con gli altri. E i due
immortalissimi castrati Caffarello e Egiziello, e il
maestro di cappella David Perez, e altri solenni musici
scielti dal Re a dare il lor giudizio di quegli organi,
sentenziarono a favore dell’organajo piccolino, e lo
dichiararono il più pindarico organajo del mondo. Il suo
nome è Eugenio Niccolao Egan. Di Patria è Irlandese. Il
mestiero lo imparò in Londra. Egli non è pagato a
porporzione de’ suoi rari talenti, e il più cattivo de’
quaranta castratelli della cappella reale di sua Maestà
fedelissima ha tre volte più salario che non ha
quell’ingegnoso e vivace Pimmeo. Ma e’ si cura poco di
ricchezze. Racconta a tutti que’ che gli capitano innanzi
[25] i suoi passati trionfi; e si pasce della immensa
gloria acquistata nel combattere e vincere que’ suoi
rivali e competitori organaj, i quali tutti furono mandati
a’ lor paesi dopo d’avere con eterna vergogna loro fatto
alle braccia con questo Ercole in miniatura. Visto
l’organo, e sentitolo suonare da uno de’ trecento Padri
Francescani, il nano mi condusse da un Fiammingo che
suona le campane del convento. Quel Fiammingo è
veramente l’Imperadore de’ suonatori di campane,
perchè oltre a’ minuetti, e alle gighe, e alle sarabande, e
all’altre gentilezze che sa fare sulle campane per
divertire la famiglia Reale quando è a Mafra, ha anche
in casa qualche galanteria che merita per la singolarità
sua qualche benigna occhiata da un viaggiatore. Voglio
27
dire che ha inventati due stromenti musicali a mo’ di
gravicembali, che non so bene come descrivere con
parole. Uno di quelli stromenti si suona correndo colle
dita su certi cavicchi lunghi un palmo, i quali facendo
battere certi martelletti sopra certi legni resi sonori dalle
loro reciproche proporzioni, se ne cava una musica non
dispiacevole. L’altro consiste di molti pezzi di terra
cotta distesi col dovuto ordine sur una tavola, che sono a
un dipresso delle varie lunghezze delle corde d’una
spinetta, e larghi due dita ciascuno, e il campanajo
Fiammingo [26] picchiando con due martelli, che tiene
uno per mano, su que’ pezzi di terra cotta, fa tutto quello
che si potrebbe fare sulla meglio spinetta, e il suono che
egli cava da que’ pezzi di terra cotta è ancor più dolce
all’orecchio di quello che cava da pezzi di legno
dell’altro strumento. E sì che mi suonò e sur uno
strumento e sull’altro delle composizioni di maestri
celebratissimi nel feffautte; e spezialmente del suddetto
Perez, che quì è considerato come l’Acchille de’ bimolli
e de’ biquadri. Il Sole cominciava ad abbassarsi quando
si finì di vedere, onde abbracciato molto stretto il mio
piccolino Irlandese, e datogli il più amoroso addio che
avessi nel cuore, montammo in calesso, e voltammo
verso Cintra, che è villaggio o città distante da Mafra
nove o dieci miglia. La strada che conduce da Mafra a
Cintra è delle più cattive. Gli uomini l’hanno lasciata
come la natura e i carri l’hanno fatta, e tutto il paese
intermediato è un deserto vivo e vero. Per via non ebbi
tempo di smontare e di visitare le cave d’onde si
28
traggono i marmi, e mi contentai della vista passeggera
di molti bozzi grossissimi, e di certe lunghe e corpute
colonne che giaciono per quel deserto, e che sono
destinate per Mafra. Giungemmo a notte chiusa in
Cintra, dove non v’è che un’osteria Inglese mantenuta
da [27] un’associazione di mercanti di varie nazioni, i
quali di Lisbona vanno là a villegiare o a comprare
aranci e limoni, che Cintra e i luoghi circonvicini
producono in copia grande. La sventura volle che i letti
in quell’osteria erano già tutti occupati al nostro
giungere, onde mi convenne dormire sul mentovato
coltrone per quella notte. Il signor Edoardo faceva i
brutti visi perchè non v’era altro che un altro coltrone
anche per lui; ma gli feci ricordare i letti de’ Cappuccini
Italiani di Lisbona4, e gli dissi che se voleva essere un dì
chiamato Padre Edoardo di Wisbich 5, bisognava
cominciare ad avvezzarsi nell’osteria di Portogallo a
esercitare la pazienza. Rise, si stese giù; e dormì, perchè
la pancia l’aveva ben piena, che si stette male a letto per
quella notte, non s’era stato male a cena. La seguente
mattina s’andarono a visitare i due già descritti conventi
della Madonna della Pena, e quello delle buche nella
Serra di Cintra; e tornati poi a Cintra di buonora, ebbi
tempo di vedere un antico Palazzo del Re poco lontano
dall’osteria. L’architettura di quello è d’un gotico
diverso da tutti i gotici ch’io m’abbia mai visti. Ma è
4 Vedi la lettera venticinquesima.
5 Città situata in quella parte della Provincia di Cambridge che
è chiamata l’Isola d’Ely dove il signor Edoardo è nato.
29
Palagio [28] quattro quinti rovinato dal terremoto, e vi
rimane poco da vedere. V’è una sala grande, che nel
soffitto ha dipinti de’ cigni al naturale, con corone d’oro
al collo. V’è una camera con delle ghiandaje, o piche,
pur dipinte nel soffitto, e ogni ghiandaja ha scritto
accanto Por ben, cioè Per bene. E siccome la ghiandaja
in Portoghese si chiama Piga, unendo il suo nome a
quel motto si fa Piga por ben, le quali parole alludono
bisticciando a non fa che sciocca avventura amorosa
succeduta qualche secolo fa in quella stanza, e di cui s’è
voluto con quel magro Colibeto conservar la memoria.
V’è un’altra stanza, che ha nel soffitto dipinti de’ daini, i
quali portano sul dosso varie arme o divise di famiglie
nobili Portoghesi; e m’immagino che beati quelli i quali
hanno la loro arma dipinta sul dosso di que’ daini. I
pavimenti e i muri di quelle stanze sono di pietre
commesse a scacchi di diversi colori. V’è una stanza
terrena che contiene una fontana, e da molti buchi fatti
nel muro, prima che il terremoto guastasse il palazzo,
zampillava fuora quando si voleva molt’acqua per
bagnare alcuno nella stanza, e far ridere la brigata. Di
grandi invenzioni hanno trovate gli uomini per ridere gli
uni a spalle degli altri! Effetto di quella superbia e di
quella malignità che entrò ne’ nostri cuori insieme col
peccato originale. La vista [29] che si ha dalle finestre
di quella sala de’ daini è molto bella, perchè l’occhio
comanda molto paese. Il resto di tale edifizio, come
dissi, è tutto guasto, e pressochè tutto rovinato. Ora lo
stanno rifacendo, e pare che vogliano rifarlo come stava
30
prima. Il Reale Convento di Mafra però non è stato
buttato giù nemmeno in parte dal terremoto, come
avvenne a tant’altre fabbriche del Portogallo. Ne ha
avuto solo qualche leggero danno. Ed è cosa strana
vedere fra l’altre cose il zocco delle due colonne
all’entrata della sua Chiesa rotto via dallo inchinarsi di
quelle. Ma è edifizio tanto sodo, e tanto fortemente
connesso insieme, che quantunque sia stato scosso, anzi,
come canna, dal vento, piegato a destra e a sinistra due
o tre volte dall’ondeggiar del suolo, pure nel fermarsi
della terra tanta mole tornò a trovarsi perpendicolare. E
diciamo anche, che per buona sorte il terremoto non fu
così violento a Mafra come lo fu a Lisbona e a Cintra,
altrimente guai a’ trecento frati da Messa, e a’ cen-
cinquanta conversi! Già ho preso congedo da Mafra.
Ora lo prendo da Cintra, e dal suo sito amenissimo, e da
moltissimi buchi de’ piccioni che ornano il tetto del
sopradescritto palazzo gotico, e dalle montagne che le
stanno a cavaliere; e a voi, fratelli, do la buona notte al
solito, parendomi, d’avere scritto quanto basta per oggi.
State sani. [30]
LETTERA TRENTESIMA.
Di Lisbona la sera
de’ 15. Settembre 1760.
31
faccende ultimamente transatte in Portogallo. Di
parlarvi a dilungo del Re e della corte, di don Bastian
Giuseppe Carvalho, di don Luis de Cunha, del Cardinal
Patriarca, del Cardinal Acciajuoli, de’ Gesuiti, de’ due
legittimati fratelli del Re, del Duca d’Aveiro, delle due
Marchese di Tàvora e di Govèa, de’ tanti nobili e de’
tanti ignobili Portoghesi messi a morte o imprigionati
quì in questi recentissimi tempi, e di monsù Parisotto da
me trovato quì trasformato per la terza volta; e facevo
anche conto di dirvi le varie opinioni, e le varie notizie
che ho raccolte in caso de’ due ministri Brittannico e
Olandese, e da molti Inglesi, e da’ Portoghesi, e da altre
genti intorno a tali faccende. Ma perchè prevedo che
non potrei contentar tutti col mio scritto dire, aspetterò a
farvi fratellevolmente parte de’ singolari aneddotti che
ho quì messi insieme, quando sarò a tu per tu con voi.
Intanto l’ora della mia partenza di qui facendosi vicina,
ho voluto impiegare un giorno [31] intiero in visitare
attentamente questa Metropoli, cioè quella parte antica
che contiene le rovine, e quelle parti nuove fabbricate
per ricetto di que’ che fuggirono al terremoto, e che
rimasero senza abitazione. Delle rovine già v’ho detto
tanto che basta per darvene un’idea, comechè sia
impossibile fare con la scrittura un disegno di
desolazione così grande quanto quelle rovine. Si vede
però chiaramente da esse, che la forza del terremoto si
ravvolse per così dire in una striscia dall’Oriente
all’Occidente, e chi ebbe lo sventura di abitare o di
trovarsi lungo quella striscia, ebbe più sventura di chi ne
32
abitava, o se ne trovava lontano perchè ogni edifizio
lungh’essa fu scaraventato in terra, e gli edifizj fuori
d’essa soffersero più danno dal fuoco casualmente
acceso dal suo rotolare e dal suo cadere su i suoli di
tavole, e su altri combustibili materie, che non ne
soffersero dalla furia di quel sotterraneo turbine, o
folgore, o diavolo che si fosse. Per questa ragione
cred’io che il palagio Reale di Cintra fu poco meno che
diroccato tutto, e quello di Mafra stette in piedi; e lo
stesso dico di tutti i Palagi e delle fabbriche tutte di
Lisbona, e d’altre Città, e d’altri luoghi di questo Regno.
Mi vien detto che in una città marittima non troppo di
quì lontana l’impeto delle scosse fu così tremendo, che
non rimase [32] in piedi nè muro nè muricciuolo; che gli
alberi stessi furono sradicati, e che de’ grossi sassi, e
sino de’ cannoni che erano forse da lustri e da secoli in
fondo al mare per casi di naufragio, furono levati fuor
dell’acque, e scagliati un gran tratto sul lido; e i pesci si
trovarono morti a milioni lungo esso lido, e alcune navi
pescatorie e mercantili, e sino una da guerra furono
sbattute fuora del loro elemento, e dall’acque
repentinissimamente riboccate furono tratte un gran
tratto d’arco dentro la spiaggia, e quivi lasciate in secco
sfracellate e infrante. Cose incredibili se migliaja di
testimonj non le assicurassero. Cessata finalmente
quella infernal furia, e tornati in se stessi questi abitanti
quì di Lisbona (che di questi soli voglio ora parlare) si
risolvettero fabbricarsi alla meglio delle capanne di
legno o di tela per salvarsi dal rigore della stagione che
33
s’era fatta fredda e piovosa oltremisura. E quelle
capanne coll’andar del tempo divennero poi tante
casupole per la maggior parte d’un piano solo, e quale
d’una, quale di due, e quale di tre o quattro stanze al
più. Di queste casupole che quì sono chiamate Baracas
(Baracca nel singolare) ben potete credere che ve n’ha
ora un numero assai difficile a contarsi, sparse su e giù
per tutto il paese; e dalla baracca dove io abito, cioè sur
un alto colle, come parmi [33] avervi già detto,
chiamato Buonos ayres, vicino a un molino a vento, a
egual distanza da Lisbona e da Belemme, io posso
vedere quattro spezie di piccole Città, tutte quattro
composte di queste Baracas. Il Re stesso ha la sua
Baracca in Bélem, nella quale abiterà con tutta la sua
famiglia sintanto che non sia fabbricato il suo nuovo
palazzo verso la valle d’Alcantara, il quale si è già
tracciato dagli architetti, ma non ancora cominciato. Di
quegli edifizj che sfuggirono in qualche parte al
terremoto e al fuoco, si sono anche in qualche parte già
racconci i danni, ma che questa città sia riedificata come
era prima, cioè che si rimuovano le rovine, e che poi si
torni a fabbricare sopr’esse, non mi pare cosa fattibile,
se tutti i Portoghesi si facessero muratori, e se vi
lavorassero poi intorno un secolo intiero; che questa
città era di vasta ampiezza, e a giudicare tanto dalle
rovine, quanto da quel che rimane, era città sodamente
fabbricata, con poco risparmio di macigni e di marmi. In
alcune poche chiese che o in tutto o in parte stettero in
piedi, ho visti alcuni begli altari, e fra gli altri uno in
34
quella di San Rocco, moltissimo ben inteso, e di valore
grandissimo; ma della chiesa Patriarcale, che era, per
quanto dicono, una cosa delle più grandi e delle più
magnifiche, e degna veramente della terza Metropoli
d’Europa, [34] e pieno zeppo di arredi oltremodo ricchi
e preziosi, non si salvò una spilla, che il fuoco fece del
resto in poche ore, dopo che il cadere della volta e delle
mura ebbe ammazzati tutti quelli che v’eran dentro, che
passavano il mille tra maschi e femmine. Ma non si
finirebbe mai di dire le ricchezze che in tante e tante
chiese perirono in quel dì, perchè non si finirebbe mai di
dire quanto i Portoghesi sieno sfoggiati nell’arrichire le
chiese. E quì voglio osservare, che quando fu mentovato
il gran fuoco onde Lisbona fu quasi consunta nel tempo
del terremoto, si sparse voce ne’ paesi lontani, che il
terremoto aveva spalancate delle voragini di fuoco in
Portogallo; ma questo non è vero, e non vi fu altro fuoco
se non quello casualmente acceso da’ lumi nelle chiese,
e da’ fuochi che stavano cuocendo i desinari del popolo.
Nel visitare le parti rovinate, e le parti nuove di tanta
città, ho trovate molte delle sue strade iniquamente
sporche, perchè, gran parte de’ Lisbonesi hanno
anch’essi il bel genio degli abitanti di Madridde, i quali
buttano le quotidiane immondizie per le finestre. Gli è
vero che quì vi sono degli editti severissimi che si
oppongono a tanta porcheria; ma gli editti non si
eseguiscono da se stessi, e sono cosa ridicola quando
non si fanno osservare. Siccome tanto [35] la città
vecchia quanto le nuove abitazioni stanno sur un terreno
35
montuoso e inegualissimo, è cosa dispiacevole e
faticosa molto l’andare sù e giù per queste brutte strade;
pure per una volta ho voluto fare così lungo cammino a
piedi per potermi cacciare in ogni buco, e veder tutto,
malgrado la sferza del Sole che m’ha fatta sudar via
mezza la persona; e così mi sono cavato il ruzzo di
sapere a un dipresso come è fatta Lisbona, e mi sono
anche formata in mente una competente idea delle sue
vicinanze, e di Belemme. Ora ho visto Belemme e
Lisbona da molte parti del fiume, d’onde tutto pare
bello; e da molte parti della terra, d’onde tutto pare
brutto. Avrei volentieri comprata una carta topografica
di Lisbona, e i disegni del suoi principali edifizj; ma i
Portoghesi non si guastano troppo con l’arti liberali, e
non si dilettano punto di multiplicare con intagli in rame
le cose rare che adornano il loro paese, del quale non
hanno neppure una buona carta geografica. Di
letteratura non hanno punto fama d’essere soverchio
ghiotti, nè lo potrebbono fors’essere quand’anche lo
volessero, per alcune ragioni che voglio lasciar
indovinare alla gente sagace. Quel poco che scrivono,
sia in prosa sia in verso, è tutto panciuto e pettoruto,
come già osservai. Non è però tutto panciuto nè
pettoruto [36] un libro che ho quì sul tavolino, stampato
dieci anni sono quì in Lisbona, e intitolato Istruzione a’
principianti per uso delle Scuole6. Questo libro è stato
6 Instrucao de principiantes e novo metodo de se aprenderem
as primeiras letras para o uso das escolas ec. Lisboa anno
MDCCL.
36
scritto da’ Maestri delle Scuole di nostra Signora della
necessità, che sono le scuole pubbliche, dove questa
gioventù è educata, e dove bisogna che chi vuole
studiare vada o per amore o per forza, non essendo quì
permesse altre scuole nè pubbliche nè private. È una
storiaccia molto mal digerita de’ Sovrani del Portogallo,
la quale comincia dal conte don Enrico di Borgogna,
che viveva intorno al mille e cento, e vien giù sino al
presente Monarca inclusive. Parte è in prosa corrente, e
parte in dialoghi, che epilogano quella prosa, la quale, a
differenza de’ dialoghi, è piena di epiteti altitonanti, di
concetti sforzati, e di pensieri puerilissimi. Quasi a ogni
pagina v’è un qualche maraviglioso racconto che
farebbe ridere un can bracco, nè è libro che possa in
conto alcuno riuscire del minimissimo soccorso al
buono e al savio vivere, che è, o dovrebb’essere lo
scopo principale di tutti i libri. Eppure i poveri ragazzi
sono battuti spietatamente da que’ maestri delle [37]
Necessità se non l’imparano a mente; e mi fanno propio
compassione i due grami figliuoli del mio oste, che
tuttodì si stanno distillando il cervello per cacciarsi nella
memoria quelle tante inutili corbellerie che contiene,
onde poter salvare le lor misere mani, e i deretani loro
miserissimi dalle crudeli pendantesche scutiche. Per
darvi un saggio dell’importanza di questo gran libro,
che è stato composto (dice il Prologo) perchè serva
d’introduzione alla rettorica, voglio tradurvi quì l’ultimo
suo dialogo, che dice ad litteram così.
Interrogazione. Don Giuseppe Primo di chi è figlio?
37
Risp. Del Re don Giovanni quinto, e della Regina
donna Maria Anna d’Austria.
Int. In che anno nacque?
Risp. Nel 1714.
Int. In che dì?
Risp. A’ sei di Giugno.
Int. Quando e da chi fu battezzato?
Risp. A’ 29. d’Agosto nell’anno stesso dal Cardinale
di Cugna.
Int. Con chi s’accasò?
Risp. Sendo ancora Principe del Brasile s’accasò con
la Serenissima Infanta di Spagna donna Marianna
Vittoria.
Int. Chi trattò questo accasamento?
Risp. Antonio Guedes de Pereira, sendo Inviato alla
corte di Madrid. [38]
Int. Chi andò a pigliare con formalità la serenissima
Signora Infanta?
Risp. Il Marchese d’Abrantes don Rodrigo Eanes de
Sà.
Int. Quando arrivò questa Signora in Portogallo?
Risp. A’ diciannove di Gennajo 1729.
Int. Quando entrò in Lisbona?
Risp. A’ 12. di Febbrajo dello stesso anno.
Int. Quando cominciò il Re don Giuseppe primo a
regnare?
Risp. L’ultimo di Luglio 1750.
Int. Quando fu acclamato?
Risp. A’ sette di Settembre dello stesso anno.
38
Int. Quanti figli ha?
Risp. Ha quattro figlie, che sono la signora
Principessa del Brasile donna Maria Francesca Isabella,
la signora Infanta donna Maria Anna Francesca, la
signora Infanta donna Maria Francesca Dorotea, e la
signora donna Maria Francesca Benedetta. E qui finisce
il dialogo e il libro delle Istruzioni a’ principianti che
deve introdurli alla rettorica. Vedete che begli elementi
di rettorica son questi; e se tutte queste frivole notizie
non sono cose da imparare dalla mamma e dalla balia,
anzi che da’ solenni Maestri nelle pubbliche e regie
scuole. Al mio primo giunger quì m’informai se v’era
scuola pubblica, o università, con [39] intenzione di
procurarmi subito la conoscenza de’ più insigni suoi
letterati. Mi fu detto di queste scuole delle Necessità,
onde mandai a regalare alle scuole una bella carta di
caratteri antichi greci composta da un dottissimo Inglese
vivente, chiamato Morton, di cui avevo portato
parecchie copie d’Inghilterra per simili effetti,
accompagnandola con una mia lettera al Superiore delle
scuole, il quale con un suo compagno mi venne a
ringraziare del dono all’osteria. Pensate se li caricai
entrambi di cortesi parole, e di cerimonie, e di rispetti
profondissimi, che li violentarono entrambi a star meco
a pranzo, onde passai gran parte d’una giornata con essi,
stuzzicandoli sempre a parlare. Ma si farebbe un libro
più ridicolo della vita del Piovano Arlotto chi volesse
scrivere le innumerabili inezie pomposissimamente
dettemi dalle loro signorie, che avevano entrambe lo
39
scilinguagnolo rotto assai bene. Essi mi regalarono in
contraccambio della mia carta chirografica il prefato
libro, da cui ho tratto questo scienziuto dialogo, e mi
raccomandarono di leggerlo attentamente, che l’avrei
trovato un capo d’opera d’ingegno, di locuzione,
d’erudizione, e di facondia. Li ho serviti; l’ho letto, e
n’ho quì tradotto parte per alluminare di più in più la
mente de’ miei fratelli. Può darsi che qualch’altro
maestro di quelle [40] scuole sia meno ignorante di que’
due buoni uomini, e che in questa città vi sia della gente
studiosa e dotta; ma non ho potuto sentirne nominare un
solo da’ molti Inglesi che sono quì, che pur sono per la
più parte curiosi di conoscere gli uomini più singolari
de’ paesi forestieri da lor visitati. Inglesi, Francesi, e
Italiani, tutti s’accordano a dirmi, che quì non si studia
cosa di momento, e che la più parte di questo popolo è
vaga di nulla fuorchè di genealogie, di ferrajuolo, di
femmine, d’infingardaggine, e di vedersi sberrettare
dalla gente. In una città sessanta o settanta miglia
lontana di quì, chiamata Coimbra, è la grande università
de’ Portoghesi, che mi dicono sia il primo tomo delle
scuole delle Necessità. Facevo conto d’andarvi per
finire di chiarirmi del sommo sapere Lusitanico, ma il
signor Edoardo mi prega a non farne altro, e a uscir con
lui del Portogallo il più presto che potremo; nè mi
occorre farmi forza per compiacerlo, che se gli è stanco
lui lo sono anch’io di questo addottrinatissimo paese.
Ne’ miei diversi giri per questa Metropoli ho fatto
capolino in quelle botteghe che mi parvero d’artefici e
40
di manufattori, e non ne ho trovata una sola che non
appartenesse a Italiano, a Francese, a Tedesco, o a
qualch’altro straniero. I Portoghesi non sanno neppur
fare [41] una ruota da carro, ed è cosa troppo piena di
fastidio l’incontrare per le vie di Lisbona, o a cammino
que’ loro carri tirati da’ buoi, che ti forano propio la
testa come farebbe una lesina o un succhiello collo
acutissimo stridore delle loro ruote, che si sente una lega
lontano. E questi superstiziosi di contadini t’assicurano
che quello stridore fa fuggire il Diavolo sì, che non può
far male al loro carro e a’ loro buoi. I contadini
Spagnuoli hanno una meno mal fondata opinione dello
stridore de’ carri, notata dal Cervantes de Saavedra nel
suo famoso don Chisiotte, dove parlando delle ruote mal
fatte e mal unte de’ carri dice De cuyo chirrìo aspro y
continuado sezdi e que huyen los Lobos y los Ossos 7. Se
l’opinione Spagnuola non è fondata sull’esperienza, è
fondata sulla probabilità; ma quella de’ Portoghesi su
che è ella fondata? Una cosa che sorprende un forestiero
al suo primo giunger quì, è la quantità grande di negri
dell’uno e dell’altro sesso, che formicano in ogni canto.
Questi sono poveri schiavi trasportati da diverse porti
dell’Africa, e condotti malgrado loro alle colonie
Americane, o all’Isole Tercere, o in altre parti soggette
alla Corona di Portogallo. [42] In tutti i tempi la
naturale superbia degli uomini vinse l’umanità loro, e
41
gl’indusse a farsi schiavi gli altri uomini potendo. E noi
leggiamo fra gli altri d’alcuni antichi grandi del
Campidoglio, che ne avevano sino a cinquanta mila e
più per ciascuno. Una così traboccante superbia non
avrebbe dovuto mai trovar luogo fra’ cristiani; pure s’è
manifestata, e si manifesta tuttavia in modo
crudelissimo ne’ paesi scoperti da essi in questi ultimi
secoli, i di cui abitanti sono fatti schiavi da’ loro fratelli
in Cristo, e senza misericordia alcuna obbligati ad
affaticarsi tutta la lor vita per gli orgogliosi, prepotenti,
ed ingiusti Europei. E questo iniquo abuso è divenuto
finalmente sì grande e sì universale, che non è più
rimediabile da forza o da sapere umano. Ma così va il
mondo; e così è sempre andato; onde lasciamolo pur
anche andare in avvenire come vuole, e la legge della
violenza prevaglia pur sempre alla legge d’equità, che
un dì la giustizia Divina peserà gli oppressori e gli
oppressi sull’eterna bilancia, e ognuno avrà il suo
dovuto. Intanto questi negri e queste negre o trasportati
dalla loro Africa in Portogallo, o nati in Portogallo da
parenti Africani, riempiono questo cantuccio d’Europa
con una spezie di mostri umani chiamati mulatti, che
sono figli o d’un negro e d’una bianca, o [43] d’una
negra e d’un bianco, e questi mostri producono poi altri
mostri unendosi o con altri Europei e Europee, o con
altri Africani, o con altri del loro colore più o meno
cangiato dalle differenti misture di sangue, cosicchè
poche sono le famiglie Portoghesi che si possano
conservar pure Europee, e coll’andar del tempo
42
s’imbastardiranno tutte, che in tutte entrerà o poco o
assai del sangue Africano. Dicesi che il Portogallo
abbondi anche assai di Ebrei in maschera; voglio dire di
ebrei che fingono tutta la vita loro d’essere cristiani, e
che all’occorrenza prendono moglie cristiana se son
maschi, o cristiano marito se son femmine, e di strane
fisonomie veramente s’incontrano quì ad ogni passo;
onde anche questo deve purgare di più in più la nobiltà
di questa nobilissima nazione, che si crede la più illustre
e la più degna di tutte le nazioni. I Portoghesi plebei
hanno veleno con gl’Inglesi forse più che con altri
Europei, e sì che odiano tutti i popoli d’Europa a uno a
uno, come fa anche, generalmente parlando, il popol
basso di Genova, e come fanno anche li ebrei. Quando il
terremoto venne a visitare questo paese, io era in
Londra, come sapete; e mi ricordo che la novella di
tanta calamità percosse di moltissimo orrore le menti
degl’Inglesi, e subito si cominciò fra i grandi
egualmente [44] che fra i piccioli a dire, che la nazione
Britannica avrebbe dovuto mandare immediatamente
qualche buon soccorso di vettovaglie e di danari agli
sventurati Portoghesi tanto per umanità, quanto perchè
quel regno era amico e profittevole al loro. Questa
vociferazione crebbe con tanta rapidezza, che il
parlamento si raccolse tosto, e tosto fu conchiuso
nemine contradicente, che la nazione Inglese donasse a’
poveri di Portogallo cento mila lire sterline, la metà in
contanti, e la metà in commestibili, e subito si spedirono
43
gli ordini a Portsmouth8 perchè il danaro e la roba si
allestisse e facesse velocemente vela in quattro navi da
guerra. Viva i miei magnanimi Inglesi, che dal primo
all’ultimo tutti si rallegrano di quella pronta risoluzione
del loro parlamento. Questo spirito universale di carità
in quegl’Isolani mi diede tanto buon’idea d’essi, che
d’allora in poi non feci più caso di qualche parolaccia, o
urto, o altro sgarbo usatomi dal popolaccio per le vie;
tanto più che osservai anco negl’Inglesi uno universal
rammarico quando venne la nuova dell’assassinio
commesso dal pazzo Damiens a Versaglies, dove colui
cacciò un coltello nel fianco a un [45] Re, col quale essi
avevano già cominciata la disperata guerra che dura
tutta via. Ma se gl’Inglesi usarono nella suddetta
congiuntura umanità a’ Portoghesi, e soccorsero al loro
urgentissimo bisogno in quello immenso disastro loro,
poca grazia ne mostrano loro questi sconoscenti, che se
trovano la notte per le vie di Lisbona un Inglese o solo o
mal accompagnato, gli fanno assai mal giuoco se
possono, favorendolo anche a un bisogno d’una
coltellata nella schiena. Se io non mi ricordassi del mio
cominciato lapidamento nella valle d’Alcantara, non
darei orecchio a chi mi narra de’ fatti di questa sorte; ma
essendo stato pur troppo testimonio della buona indole
di questa gente, m’è forza credere, e scrivere quel che
credo. Finiamo però queste osservazioni che fanno
44
troppo torto alla corrotta natura umana. Finiamole col
dire anche un pò di bene della plebe Portoghese, che se
è ignorante e barbara per mancanza d’educazione, è
però naturalmente divota della Madonna e de’ Santi; nè
si può andar per queste strade senza vedere molti
uomini, e molte donne col loro rosario in mano; e la
venerazione che i Portoghesi hanno per ogni abito
religioso è altresì grandissima, perchè incontrando frati
per via, o vedendoli apparire nelle lor case o nelle altrui,
subito corrono con aria molto compunta [46] a baciar
loro il lembo o la manica della veste, e massime se sono
Domenicani o Francescani; e molti Portoghesi sì nobili
che plebei quando muojono vogliono essere sepolti
vestiti da frati, comprando sino a trenta e quaranta scudi
un abito d’un qualche frate, di cui hanno buon concetto,
perchè sia loro messo indosso subito morti; nè vi sono
forse cristiani al Mondo, che si lascino tanto vedere per
le Chiese quanto i Portoghesi, nè che quanto essi
facciano celebrare o ascoltino Messe in copia, non solo i
dì di festa, ma anco que’ di lavoro. Addio.
LETTERA TRENTUNESIMA
Di Lisbona li 16 Settembre 1760.
45
LETTERA TRENTADUESIMA
D’Aldeagallego 17 Settembre 1760.
46
par mio, che s’è lasciato cogliere come un minchione a
venire in queste contrade. Oh povero Giuseppe, e dove
dormirai tu [48] stanotte, se in quel tuo nobile
appartamento non v’è letto? Dove eh! sur un pagliaccio,
Padri coscritti: sur un paliaccio che il mio servo Battista
per bona ventura mi ha fatto comprare a mio dispetto in
Lisbona, sub conditione però ch’io trovi della paglia da
comprare ogni sera, cosa non tanto facile a ottenersi.
Già vedo chiaro che stanotte mi toccherà fare a chi
pizzica più colle pulci. Ve ne sono in questa stanza de’
reggimenti, anzi degli eserciti più numerosi assai di
quello che si traeva dietro Attila flagellum Dei. Beato
me, se non mi svenano. Per la cena non me ne do
fastidio, che ho meco della roba da banchettare tre o
quattro coppie di sposi, portata da Lisbona parte cotta e
parte cruda per consiglio d’un savio mago, il quale ne
predisse che saremmo morti come il conte Ugolino 9 in
Pisa, se ci mettevamo ad attraversare queste regioni
senza un’ampia provisione di vettovaglia. Deh voi, nove
sorelle di Pindo, Aonie Damigelle, deh per quella foja
ch’io ebbi sempre di seguirvi fin da bambino, deh per
que’ tanti magri versi che mi sentiste cantar vosco da
fanciullo, da adolescente, e da viro, deh pregate
l’illustrissimo signor Febo vostro padre, che domattina
imbrigli Eto e Piroo [49] un pò più presto dell’usato,
perchè io me ne possa di buonora andare da
Aldeagallego per non vi tornare mai più, mai più, mai
47
più! Fratelli miei, dormite voi bene per me, ch’io non
ispero più un’ora di buon dormire fintanto ch’io dormo
in Portogallo; anzi per quanto mi profeteggiano i mali
indovini, fintanto ch’io non son fuori della gloriosa
Iberia. Addio.
POSCRITTA. La cena è spacciata; e veggendo pe’
sopraddetti buchi e fessi delle finestre una fetta di luna
splender chiara come l’ambra, m’è venuta voglia
d’andare un pò notturnamente a spasso per
Aldeagallego. La voglia che era venuta a me era pur
venuta a molti abitanti di questo villaggio. Sono ito
piano piano un’ora lungo la riva del Tago, che è
tranquillo e vago a vederlo, e la passeggiata fresca e
piacevolina, guardando ora al fiume, ora alla luna; ed
ascoltando i bisbigli, e badando a i ghignetti de’ ga-
vegini Aldeagallegani, che mi passavano ogni momento
accanto, avviticchiati alle loro abbronzite e sudicie
Aldeagallegane. Ora è tempo d’andar a dormire, voglia
o non voglia, perchè non è cosa buona passare tutta una
notte passeggiando o meditando in riva a un fiume;
onde abbandonando il placido Tago, e volgendo i lenti
passi verso lo stallage, esclamo sospirosamente con
l’innamorata Colombina della commedia. Oh
pagliaccio, pagliaccio! Addio di nuovo. [50]
48
LETTERA TRENTATREESIMA
Ventasnuevas li 18 Settembre 1760.
49
Tranne gli Aspidi, le Emorre, le Chelidre, i Ceneri, gli
Scitali, le Anfesibene, le Faree, i Basilischi, i Draghi, e
gli altri Libici abitanti che Catone vide per quella
Regione, e che io non vidi per questa, in tutto il resto mi
pare che vi sia somiglianza molta, perchè da
Aldeagallego sino a queste Ventasnuevas non ho visto
altro che sabbia coperta d’arbusti silvestri, e quì e quà
alcun albero di pino, tranne però quel miglio di vigneti
detto di sopra. Il cammino arenosissimo è troppo
faticoso alle bestie, e a chi viaggia pedestremente.
All’un’ora dopo mezzodì si giunse allo stallage, cioè a
luogo dove si fa alto. E con ragione sono tali luoghi
chiamati stallagi da’ Portoghesi, perchè in essi v’è stalla
pe’ muli; ma pei cristiani non v’è cosa degna
dell’onorato nome d’osteria. Lo stallage dove
smontammo a pranzo sì chiama Peagones, lontano
cinque leghe da Aldeagallego. Quel Peagones è un
luogo che contiene due edifizj fatti a modo di case, e
che si potrebbono forse chiamar case se avessero stanze,
e sale, e porte, e finestre, e tavole, e scranne, [52] e
sedie, e letti, e altre cose di tal fatta. Quivi si trovò un
poco di pesce il quale fu salato non prima che putisse,
ma dopo. E con quel pesce ne fu posta innanzi anche
una minestra di cicerchie condita con olio stantìo, che
avrebbe bastato ad avvelenare il cavallo di marmo che
adorna lo scalone del palazzo Reale di Torino insieme
con que’ due di bronzo che sono nella piazza di
Piacenza, anzi pure quel di Troja, che non era nè di
marmo nè di bronzo, ma di legno. Qual sapore
50
s’avessero quel pesce e quelle cicerchie, io non lo so,
perchè n’ebbi anche troppo d’una fiutata sola, e volli
aver ricorso alla vettovaglia recata nosco da Lisbona, e
all’uva d’Aldeagallego, di cui n’avevo pieno un cesto.
Dopo pranzo fatte tre altre leghe di cammino si giunse
quì, e sempre per l’arenoso deserto. Queste otto leghe
d’oggi fanno venticinque buone miglia delle nostre; e
tratta la celebre Metropoli del prefato Peagones, non si
vede abitazione veruna in tanto paese. Pensate che
abbondanza di Popolo! A cammino non veddi altre
creature viventi, che dieci o dodici passerotti, sette o
otto capre, altrettante pecore, e forse cinque o sei
viandanti co’ lor muli, o co’ loro asinelli. Di fiumi, di
rivi, di sorgenti, e d’altre simili delizie, quì non se ne
vede la minima stampa. E questa costante solitudine,
con quel non vedere altro che di quegli [53] arbusti e di
que’ pini, con quel non sentir altro che quelle meste
canzoni de’ mulattieri nostri, o calesseros, come li
chiamano quì, accompagnate da quella soave musica de’
campanegli e de’ sonagli de’ muli, con quel Sole che
riverbera tanto ardente da quel perpetuo sabbione, tutto
questo messo insieme, dico, ne rende il viaggiare tanto
doloroso, che bisogna di certo avere una frega estrema
di vedere il mondo per sostenere tanto disagio senza
smarrirsi. E poi la sera per rifarti i danni vengono questi
maladetti stallages che finiscono di disfarti affatto. Pure
rimane la confortevole speranza che un giorno sarò in
casa mia co’ miei fratelli; e allora i dì parranno ore; e
quando il Sole sarà ito ben sotto mi riporrò l’ossa in
51
sesto con un letto cristiano, se Dio mi dà grazia di
condurmi a salvamento il resto della via, come ho fatto
da Londra fin quì. Sceso stasera del calesso andai a
vedere per di fuori una casa bassa, ma lunga più di
secento de’ miei passi, la quale appartiene al Re
fedelissimo. Un’ala di questa casa (che palazzo non si
può chiamare) non è finita. Il Re vi viene di rado, e non
credo la faccia finir mai, perchè stà in brutto sito, senza
giardino, e senza vista piacevole. Non si può dire di che
architettura sia, che le sue mura sono lisce, e non v’è
colonna alcuna. Le porte e le finestre non hanno alcun
[54] ornamento, e, trattane la sua lunghezza, non merita
un’occhiata. Mi dicono che lontano venti leghe di quì
Sua Maestà ha un altro domicilio campestre, chiamato
Villavicosa, assai magnifico e bello; ma siccome
bisognerebbe uscir di strada alquante miglia per andarvi,
e stare per conseguenza qualche ora di più in Portogallo,
faccio conto di non vederlo. Alli Stallages ne’ quali ho
avuta la sventura di vedermi costretto a entrare, cioè a
Cabeça, a Mafra, a Cintra, e sù questa strada di Spagna,
non si può dire l’importunità delle femmine che vi
vengono civettando intorno a pregarvi sfacciatamente di
dar loro qualche danaro per comprare delle fettucce pe’
loro figliuolini e per se stesse; e quando le avete
compiaciute, vi chieggono poi qualche cosa per la
sorella o per la cugina; e poi pe’ mariti, o pe’ padri, o
per le madri, o pel canchero che le mangi. Una di queste
impronte donne trovai a Peagones, che venendomi
intorno alla tavola volle prima un pò di danaro, e poi un
52
pò di torta che avevamo portata nosco, e poi un pò del
nostro cacio lodigiano, e poi quattro delle nostre frutta
candite, e poi un pò della nostra uva, e poi una coppia
de’ nostri pani, e poi voleva anche una scatola dipinta in
cui avevo non so che roba, e poi un ventaglio che avevo
in mano; e non v’è modo di togliertele [55] d’intorno, se
dessi loro un occhio, che subito ti chiederebbon l’altro,
e poi i denti tutti trentadue, e poi la pelle. E quando le ti
recano il conto, pare che t’abbiano dato a mangiare cibi
d’oro, e a bere bevande d’argento, a tanto gran somma
lo fanno ascendere. Questo sia detto per dare un saggio
dello modestia e della schifiltà delle femmine plebee di
Portogallo. I calesseri, gli stallageri, e in generale tutti
gli uomini di bassa condizione, se t’abbatti a parlar con
essi, ti rispondono a capo scoperto, ma con familiarità e
franchezza fratellesca, e non sono punto vergognosi nè
timidi. Mi ricordo che una mattina in Lisbona mandai
per un barbiere, che mi radesse. Venne il signore
gentilmente sorridendo; si rallegrò meco della mia
venuta in Portogallo, mentre mi stava acconciando la
tovaglia; m’insaponò il mento con molta furia, dopo
d’aver preso con molta flemma una presa di tabacco
domandatami. Barba facendo m’informò di molte cose
di cui mi suppose ignorante; come a dire che in
Portogallo fa molto caldo; che l’uva e i fichi vi sono
assai abbondevoli; che il pesce v’è in copia, perchè il
mare è vicino; e che i limoni e gli aranci non vi
mancano. Poi mi disse, che il rasojo con cui mi
rabescava via il pelo d’in sul viso, era un rasojo di
53
Barcellona. Quando una guancia fu [56] sbarbata, si
fermò, e mi domandò qual opinione io aveva de’ suoi
paesani; e rispondendogli io che non gli conoscevo
ancora perchè ero venuto di fresco, egli m’informò che
os Portugueses estao moilto valerosos10, e mi
smargiassò una mezz’ora dinanzi col rasojo alto,
narrandomi come i Portoghesi furono sempre vittoriosi
nelle loro battaglie contro gli Spagnuoli, e che ogni
Spagnuolo trema come foglia al nome de’ Portoghesi, e
che un Portoghese solo basta per far fuggire una mezza
dozzina di Spagnuoli, ed altre simili ciance; nè vi fu
modo che si volesse disporre a sbarbare la mia guancia
sinistra come aveva fatto la destra, se non dopo d’aver
annichilate tutt’a due le Castiglie. De’ Gradassi e de’
Rodomonti, come quel signor barbiere in Portogallo ve
n’ha tanti, che il numero de’ dappochi e de’ fuggifatica
non è maggiore; e di cento Portoghesi non voglio dire
quanti sieno creduti fuggifatica e dappochi. Tutte le
nazioni limitrofe si odiano vicendevolmente: ed io non
ne so alcuna in Europa, che sia una eccettuazione a
questa regola fuorchè la Milanese, la quale da nessuna
delle sue vicine è odiata. Ma l’odio che i Portoghesi
hanno agli Spagnuoli è tale, che s’assomiglia alla
rabbia; e gli Spagnuoli non [57] hanno odio, ma
disprezzo pe’ Portoghesi, dicendo d’essi
11
proverbialmente Portugueses pocos y locos . De’ ladri
54
in Portogallo è fama ve ne sia pure una bastevole
quantità. Nell’atto del partire stamattina, domandai al
signor Don Manuello mio calessero, perchè le stanghe
del suo calesso non hanno quella spezie di staffa, su cui
si mette il piede, e che rende agevole il salirvi dentro.
Em esta Terra furaò todo, mi rispose colui; cioè a dire,
ogni cosa è furata in questa Contrada. E quella sua
laconica risposta servirà d’avviso al lettore; voglio dire
che mi farà badare alla roba mia; cosa raccomandatami
assai in Lisbona da tutti quelli che pretendono conoscere
la plebe Portoghese, la quale ha credito tra i nativi stessi
non che tra gli strani, d’essere più inclinata a rapir
l’altrui che non i Zingani e i Tartari. Ma le palpebre
pesano, e sento che la zucca m’è stata un po’ troppo
riscaldata dal Sole, onde vado a metterla senza cena sul
mio fedelissimo pagliaccio sino all’apparire dell’alba,
che non può star tre ore a fare la sua comparsa. Addio.
[58]
LETTERA TRENTAQUATTRESIMA
Di Arraiolos li 19 Settembre 1760.
55
Ventasnuevas ebbi ad ammazzarmi con due cavalieri per
amore d’una bella. Non avevo quasi ancora levato il
corpo stanco dal mio benemerito paliaccio, che entrò
nella mia camera, idest caverna, una sporca femmina, la
quale jersera a forza d’importunarmi m’aveva ad uno ad
uno cavati alcuni pezzi d’argento della tasca; uno cioè
per un suo bambino, e poi uno per una sua bambina, e
poi un altro per un’altra sua bambina, e poi ancora un
altro per un altro suo bambino. Appena me la vidi
comparir dinanzi, m’indovinai quello che volevo; onde
con modo stizzoso le dissi, Aveis otros Muchachos, y
Muchachas Cara de Puta?12 Non avessi mai
pronunziato quel Cara de Puta, che la sudicia,
scordandosi ingratamente la mia ripetuta liberalità della
sera, e [59] odiando sentirsi dir il vero come se fosse
stata di razza principesca, cominciò a dirmi il fatto mio
gridando a mo’ di spiritata. Accorsero alle sue grida due
robusti furfantacci con le gambe scalze, e sentendo da
Madonna ch’io l’avevo con molto poco rispetto
chiamata Cara de Puta, mi stralunarono gli occhi
addosso, e volendo cominciar a braveggiare, e a dirmi
villania, anzi uno d’essi cacciandosi la mano in tasca
come per cavare un coltello, mi veddi costretto ad
abbrancare una pistola corta, alla di cui vista, e allo
scricchiolar del cane i due birboni, e la femmina
s’ebbono a rompere il collo giù della stretta e ripida
56
scala. E il mio smargiasso Battista accorrendo al romore
con lo sciabolotto sfoderato, mi guardò le spalle a salire
in calesso, sicchè prima che quegli Eroi avessero tempo
di riaversi dallo paura, mi veddi fuora di quello stallage.
Pranzammo a Montemar, città quattro leghe lontana da
Ventasnuevas, dove il Padre Domenicano, che era
venuto con noi fin d’Aldeagallego, ne abbandonò per
volgersi altrove. Ci separammo con molte reciproche
cerimoniose offerte, perchè egli era contento d’essere a
cammino stato chiamato a parte de’ nostri cibi
all’Inglese, ed io era stato soddisfatto di lui
nell’avventura amorosa di stamattina, ch’egli volle esser
l’ultimo a montar in calesso per impedire che nessuno
degli [60] abitanti di Ventasnuevas ne movesse tumulto
dietro. La notte siamo venuti a passarla quì in Arraiolos.
Che bei nomi polissillabi hanno questi miserabili
villaggi Portoghesi! Aldeagallego, Peagones,
Ventasnuevas, Arraiolos! Chi crederebbe che così bei
nomi fossero dati a così brutte cose! Al nostro scendere
trovammo lo stallage tanto perfido, che mandai Battista
a provare se poteva indurre il Padre Superiore d’un
convento vicino a darci due letti, offerendogli venti
Messe per l’anime del Purgatorio, ma sua Riverenza non
volle avere sotto il suo santo tetto do Hereses Ingleses13.
Il pazzo Battista si credette farmi vantaggio dicendo due
fidalghi d’Inghilterra, e il vantaggio fu che mi buscai
dell’Eretico per compagnia da quel Frate. Mandai anche
57
dal Curato per moverlo a pietà, ma l’uom dabbene fece
vedere a Battista il suo ristrettissimo tugurio per
convincerlo che non gli era possibile compiacerne; e
non contento di così bell’atto di cortesia, si pose un
ferrajuolo indosso per far fronte alla pioggia che
cominciava a venir giù gagliarda, e andò a insegnargli
un altro stallage che aveva pavimento e tetto, le quali
due cose mancavano a quello dove eravamo smontati;
onde vi feci tosto portare le nostre robe dopo una non
breve altercazione collo stallagero, [61] che si tenne per
disonorato dal nostro dar la preferenza a un suo rivale, e
fu duopo pagarlo molto bene per l’incomodo datogli di
scendere da’ calessi dinanzi al suo nobile alloggio.
Mangiato un boccone nel nuovo stallage mi posi a
scarabocchiare questo poco; ed è cosa buona ch’io abbia
risoluto di così fare ogni sera, perchè così passo via la
mattana, e sfogo alquanto la stizza che mi rode di
essermi lasciato corbellare dalla mia curiosità, e venuto
a viaggiare per queste regioni barbare e deserte. Da
Ventasnuevas in quà il paese non è più così piatto come
è da Aldeagallego sino a Ventasnuevas; pure non si può
ancora chiamare montuoso. A qualche distanza della
strada si vedono delle collinette sparse di piante, e la
città di Montemar gira un mezzo miglio con le case per
di fuori tutte bianche; ma per quanto ho potuto scorgere
avvoltandomi per essa, tutte quelle sue case sono abitate
da poveraglia, nè vi veddi un viso che fosse viso di
benestante. Il terremoto a Montemar non ha fatto gran
danno; ma se l’avesse anco rovinato, pochi sarebbono
58
tombolati giù dal primo piano, perchè Montemar è città
fabbricata sul gusto Cinese, cioè col pianterreno
solamente. Arraiolos non l’ho visto perchè piove; ma se
ne vedrò qualcosa domani lo saprete domandasera.
Intanto addio. [62]
POSCRITTA, e ancora da Arraiolos alle quattro della
mattina, a dì 20. Settembre. L’oggetto principale de’
miei pensieri tant’anni sono, quando io ero innamorato,
mi pare che fosse o Clori, o Fille, o Amarilli, o
qualch’altra simile rinnegataccia. E mi ricordo che in
quegli anni beati scrivevo de’ versi in uno stile così tra il
Petrarca e il Zappi, da ammollire un piedestallo d’una
colonna d’ordine Toscano. Ma quali versi potrebbono
ammollire que’ materassi, su i quali ho vegliato queste
cinque o sei ore? Qual mio gravissimo peccato m’ha
condotto per queste vie? Per questi Aldeagalleghi, per
queste Ventenueve, per questi Arraioli? Jersera quando
ebbi coll’ajuto di quel buon curato trovato questo
stallage meno cattivo di quell’altro, mi confortai tutto
veggendo in questa camera un mucchio di dieci o dodici
materassi; e ordinai tosto a Battista di non si dar
pensiero del pagliaccio, e di preparare tosto un unguento
alle mie ammaccate schiene con quattro di que’
materassi. E quando furono tutti quattro l’un sull’altro; e
le nostre lenzuola stese sopr’essi, mi spogliai con più
fretta che non n’aveva Ruggiero quando scese
dell’Ippogrifo nel prato con la Regina del Catajo dopo
d’averla liberata dal mostro nell’isola d’Ebuda. Ma oh
miseria infinita, infanda, immensa, immensissima! Que’
59
quattro materassi, grazie [63] alla lana d’agnello, cioè
alla borra d’asino, che v’era stata messa dentro in forma
di palle di spingarda, formarono un totale così duro e
così scabroso sotto il pondo del corpo mio, che nessun
penitente nel deserto s’ebbe mai un letto più impietrito
del mio. Oh pagliaccio, pagliaccio, torno ad esclamare
con Colombina! Ohimè, che fia pur duopo avere
quindinnanzi costantemente ricorso a te, e piaggiarti, e
accarezzarti, e prometterti amore e fedeltà, perchè non
m’abbandoni più! Tant’è: pagliaccio sarà quindinnanzi il
miglior personaggio di questa commedia, ora che mi
sono chiarito di questi materassi traditori. Ma Don
calessero grida che vuol partire, e i muli scuotono i
campanegli, onde maledicendo entrambi gli stalagi
d’Arraiolos vi faccio, fratelli miei, umilissima riverenza.
LETTERA TRENTACINQUESIMA.
Di Estremoz la sera de’ 20.
Settembre 1760.
60
penna mia, a cavarnelo fuora, e farti onore, e confortare
i miei poveri fratelli, che si disperano e intisichiscono
per la rabbia leggendo questi miei tanti disastri. Per non
metter tuttavia il carro innanzi a’ buoi, ripiglierò il filo
della mia lamentevole storia dal mio montare in calesso
stamattina. Nell’attraversare Arraiolos diedi un’occhiata
a un castellaccio antico, il quale sta sur un’altura
digrignando i denti; voglio dire che ha certi merli
scantonati, che in un bisogno di rima si potrebbono
paragonare a i denti d’un vecchio babbuino quando
sorride. Le colline che accerchiano Arraiolos non fanno
mal vedere di lontano. Per la via sino a Venta do
Duque14 si vedono quà e là molti ghiandiferi cerri e
alcuni olivi, ma non ho visto vigneto alcuno. Alle dieci
giungemmo a quella Venta do Duque, cioè a una casa
isolata, dove credo che si ricoverino ogni notte la fame e
la rabbia, e altra simil gente. Quare quell’albergo da
masnadieri sia chiamato Venta o alloggio del Duca, è un
punto d’etimologia, che non ho trovato chi me lo
dicifrasse. Forse quella Venta fa fatta fabbricare [65] ab
antico dal Duca Gano di Maganza, che, al dire de’ nostri
primi romanzieri e primi poeti, fu un traditore famoso a’
tempi di Marsilio Re di Spagna e di Portogallo.
Mangiato quivi un boccone in fretta di roba che
avevamo con noi, e pagatala a colui dalla Venta come se
fosse stata roba dataci da lui, non volli neppur aspettare
che i calesseros avessero finito di rodere uno scheltro di
61
coniglio, che fu recato loro per pranzo; e lasciando
indietro il signor Edoardo, pedestremente mi posi in via
con tanta furia, che camminai due leghe e mezza, prima
che i lenti muli mi raggiungessero. Il sole s’era ben
risoluto di ardermi, ma un amoroso venticello si oppose
alla sua cruda voglia. Pigliando le scorciatoje pe’ campi
osservai diverse piante che non credo nascano in
Inghilterra, e per quanto l’occhio può ricordarsi, non
nascono neppure in quell’Italia che ho vista. V’ha per
que’ campi una sottil sorte di ramerino di dilicatissimo
odore in copia magna, e in copia magnissima un certo
arbusto, le di cui foglie sono glutinose e fetenti, di cui
mi dicono se ne servano, gli acconciacuoj per acconciar
pelli, e altri artigiani per fare un fuoco violento. Brutta
cosa non esser botanico quando si viaggia a piedi! Il
giovine Dottor Alione nostro, e il mio Marsili di Padova
m’avrebbero invidiata la bella sorte di [66] poter vagare
a mio talento nelle vicinanze della Venta do Duque, ed
io avrei rinunciato loro il mio privilegio per questa presa
di tabacco che prendo ora con questa mia man sinistra;
mentre colla destra tiro innanzi a dire, che quando il
Dottor Marsili fu meco in Londra, qualche volta
m’aggiravo con esso per l’orto botanico di Chelsea 15, e
mi facevo da lui dire i nomi di queste piante e di quelle;
ma di lì a un momento erano scordati; e tutta la mia
botanica consiste tuttavia in null’altro che nel
conoscimento di que’ semplici, che son buoni da
62
mangiare, come a dire, lattuga, indivia, aglio, cipolla,
rapa, ravanello, ed altre piante e radici di questa razza di
cui si fa quotidiano uso da’ Cristiani. E di tutte le piante
esotiche non conosco e non amo altro che l’ananasso,
frutto del Tropico, che ho sentito dire si vada
introducendo in molte parti d’Italia: e che dal prefato
Marsili spero mi sarà fatto mangiare quando sarò in
Padova con esso, ch’egli n’ha imparata in Londra la
coltura molto bene; sicchè, Marsili mio abbi pazienza se
io scrivo quì questa cosa dell’ananasso, che io faccio
così per ricordo, cioè per ricordarmi di mangiare
quell’ananasso che mi darai a suo tempo, quantunque io
non sia come [67] tu nato per essere seguace di
Tournefort e di Linneo, e quantunque la botanica, se non
è della mangiativa, non mi voglia rimaner fitta nella
memoria. Dall’alto di tutte le colline che andavo
salendo a piedi, scorgevo un non so che di fabbrica sur
una lontana altura che non sapevo ben definire cosa si
fosse. Guarda e guarda, cammina e cammina,
finalmente il vetro dell’occhialino mi disse che era una
Città fortificata alla moderna. Una tal vista non è nulla a
chi viaggia per paese domestico e pieno d’abitazioni;
ma a uno che va per tre dì a traverso una regione
salvatica e spopolata: a uno che per lo spazio di
cinquanta miglia, o sessanta, o settanta non trova che un
Peagones o una Venta do Duque: a uno che in una intera
giornata vede appena un uomo, due capre, e quattro
passerotti, la vista d’una Città fortificata all’uso
moderno è una vista che gli rallegra la vista: e una cosa
63
che gli apre un poco il cuore, e in quello introduce un pò
di letizia. E quella mia letizia si fece grande a un tratto,
quando sopraggiunto da’ calesseri, che m’ero adagiato
sotto un albero ad aspettare, intesi che quella città
fortificata alla moderna era Estremoz, e che quivi, e non
più in una Venta, si sarebbe passata la notte. Alla buona
novella mi cacciai in calesso, e si toccò via. Giunti alla
porta, che ha [68] una statua della Madonna in alto, certi
soldati che erano quivi di guardia ne circondarono, e un
uffizialetto assai pezzentemente vestito, ma coraggioso
come un Patroclo o un Brandimarte, se avesse avuto a
far battaglia con uno stufato, si presentò al mio calesso,
e mi domandò imperiosamente O Passapuerte. Il
passaporto io me lo cavai dalla scarsella con molta
gravità, l’apersi a bell’agio, e glielo posi in mano senza
pronunziar sillaba. Era un passaporto che il Conte di
Kinnoul m’aveva procurato in Lisbona da don Luis de
Cunha segretario di stato. Bisogna che l’uffizialetto non
si fosse troppo fregata la memoria coll’abbici, perchè lo
guardò pel rovescio, come io glielo aveva
maliziosamente posto in mano, facendo pur le viste di
leggerlo con un pò di brontolio. Battista intanto era
saltato giù del calesso, e sapendo il costume del paese
per esser stato altre volte per questa via, tolse con poche
cerimonie il passaporto di mano a quell’audace
mandricardino, domandò che un soldato andasse con lui
dal Governatore, e ordinò autorevolmente a me suo
antico e nuovo padrone di proseguire il mio viaggio col
signor Edoardo verso lo Stallage. Nello entrare in città,
64
oh che spettacolo inaspettato! Ci abbattemmo, fratelli,
in un crocchio di maschere che circondarono il nostro
calesso. Quelle maschere con voci mentite, [69] e con
gesti, e modi buffoneschi ne dissero mille cose spiritose
in Portoghese, delle quali non intesi una palabra, perchè
garrivano tutti insieme, come fanno i grilli e le rane pe’
prati nostri le sere di state. Il romore de’ calessi e delle
maschere trasse alle finestre a misura che andavamo
innanzi un mondo di femmine, che io m’andai
squadrando col mio occhialino, senza che esse
mostrassero d’aver dispiacere d’essere da me così
guardate a traverso un vetro. E quì, giacchè viene a
proposito, voglio dire, che molto torto hanno molte delle
nostre Dame e Gentildonne d’Italia, le quali vedendosi
mirate da qualcuno con l’occhialino, subito corrono
sdegnosette a coprirsi la faccia col ventaglio, come se
chi così le mira fosse un basilisco il quale dovesse
avvelenarle col guardo. Adunque perchè un galantuomo
ha la disgrazia d’aver la vista corta, dovrà esser privo
del privilegio di contemplare un momento le loro
bellezze? Che giustizia è questa, padrone mie? Gli è
giusto come se negaste da mangiare a uno, perchè ha
perduti i denti; o come se voleste obbligare uno che ha
le gambe storte a non far uso di scarpe. Quando una
bella donna vede di esser mirata coll’occhialino da un
qualche mezz’orbo di galantuomo, la giustizia e la carità
vogliono anzi, che ella si faccia un pò più in quà perchè
da esso [70] possa esser anche mirata senza ajuto di
vetro. Eh via, lasciatevi, padrone mie, guardare e
65
coll’occhialino e senza l’occhialino, e non fate di questi
rozzi e contadineschi sgarbi a que’ che non hanno buoni
occhi, che taluno d’essi potrebbe anche a un bisogno
scrivere un sonetto in vostra lode, e mandare il nome
vostro a farsi glorioso per tutti i secoli in qualche futuro
tomo della raccolta del Gobbi. Voglio però avvertir anco
certi goffi, che avendo consumata la vista, Dio sa come,
ed essendo costretti a far uso di vetri, usano di piantar
l’occhialino per uno spazio così indiscreto di tempo
nella vereconda faccia d’una bella, che non v’è proprio
modo di soffrirli, perchè mettono quella in pericolo di
avere troppi occhi rivolti a lei, la qual cosa riesce
sempre alquanto molesta a quelle donne che sono
suscettibili di modestia, e che hanno l’animo dilicato e
signoresco. In sostanza quelle femmine di Estremoz alle
finestre, e quelle maschere per la via, tutti ridevano
come forsennati, e come forsennati ridevamo pure il
signor Edoardo ed io. Si giunse allo stallage, si scese del
calesso, si montò in una camera col pavimento e col
soffitto entrambi fessi, e rotti, e trasparenti al solito. Ci
mettemmo alla finestra che guarda nella piazza d’arme,
e dappertutto eran maschere. E che maschere! Uno era
vestito da orso, l’altro da [71] scimia. Chi aveva le
corna sul capo come bue, chi una coda di cavallo
appiccata al deretano. Chi portava un ferrajuolo cinto ai
fianchi a mò di gonnella donnesca, e chi aveva le
calzette di due colori, molti avevano la goliglia alla
Spagnuola, e molti un gran pajo di brache alla Svizzera.
Moltissimi avevano il chitarrino, e stavano
66
scarabillando disperatamente. Molti saltavano a
cavalcione gli uni sul dosso degli altri, come usano i
nostri scapestrati ragazzi quando fuggono la scuola. Una
truppa di tali maschere venne sotto la finestra nostra, e
uno di essi alzò verso di noi un bastone, in vetta al quale
erano legati alcuni pappagalli di legno mal fatti e mal
dipinti, e poi tutta la truppa sghignazzando e ragghiando
come micci, ne gridarono, monsù monsù. Cosa
significassero que’ pappagalli non l’ho potuto sapere.
Suppongo però che vi fosse qualche cosa sotto di molto
portoghesemente spiritoso per mettere in ridicolo i
Francesi, poichè per Francesi ne scambiarono. Altri
mostrarono lo loro maravigliosa acutezza di mente,
facendoci delle scappellate e delle sberrettate lunghe e
profonde. In sommo tutti si rallegrarono assaissimo a
spese dos strangeros16. Tornò Battista dal sig.
Governatore con uno scrivano mandato da Sua
Eccellenza a [72] far cosa che mi riuscì nuova, perchè
colui si sedette a un tavolino, e domandando calamajo e
penna, si mise a scarabocchiare un non so che, e dopo
d’avere scarabocchiato tre minuti si volse a me, e mi
disse di stargli a fronte che voleva notare i miei sinais
(segnali), cioè dipingermi colla penna; e di fatto scrisse
giù per quanto potetti argomentare, che O senhor Dom
Ioseph Baretti è un uomo piuttosto grande che piccolo,
piuttosto brutto che bello, con un’aria di matto piuttosto
che di savio, e cose simili; e fatta la medesima
67
cerimonia al sig. Edoardo e a Battista; e domandata e
scritta l’età di ciascuno, fece il suo inchino, mi ficcò in
mano una licenza per uscir domane d’Estremoz, e via.
Andatosene lo scrivano, ci raffazzonammo un pochino
le persone, e poi uscimmo a veder la città, le di cui case
sono tutte piccole, ma bianche di bucato sì, che non
dispiaciono alla vista. In ogni canto s’incontravano
maschere, che nel passare ce ne volevano sempre dir
una o due. In un luogo, dove certe signore stavano a un
balcone se ne fermò una frotta, e un Giovanotto
mascherino, assai ben fatto della persona, fece un ballo
alla Portoghese con un altro giovane vestito da donna, e
fu ballo che mi piacque moltissimo per l’agilità e la
leggiadria di quel giovanotto mascherino. E se tutti i
Portoghesi ballano a [73] quel modo, per dar loro il
dovuto, bisogna confessare che in fatto di danza
rallegrativa i Portoghesi la sanno più lunga degl’Italiani,
degl’Inglesi, e de’ Francesi, i quali veramente non
hanno ballo nessuno di due persone la metà così galante,
e che riesca così snello all’occhio, come quello che
veddi quivi; e il Trescone de’ Toscani, e la Furlana de’
Veneziani, e la Corrente de’ Monferrini, e il Minuetto o
l’Aimable de’ Francesi, non sono che goffezze
comparativamente a quel ballo Portoghese. Questa
gente quì, e gli Spagnuoli sono stati famosi per ballare
anche ne’ secoli antichi, e spezialmente gli Andaluzzi e i
Granatini; e le loro fanciulle poco dabbene andavano
allora da questi paesi a Roma a ballare, e a far impazzar
d’amore gli antichi Consoli e gli antichi Tribuni, come
68
le nostre Ballerine d’oggidì fanno impazzare i nostri
moderni Marchesi e Conti per tutta Italia. Valerio
Marziale ha fatto motto delle Ballerine Betiche e
Gaditane, cioè del Regno di Granata e di quello
d’Andaluzia, (se non m’inganno) in qualche suo
Epigramma: e Giuvenale non si scordò di dire tutto il
bene che quelle antiche Virtuose meritavano si dicesse
d’esse nelle sue satire. Giulio Cesare Scaligero nella sua
Poetica disse anch’egli qualche cosa degli antichi Balli
di queste Contrade, i quali antichi Balli si confrontano
[74] ancora molto bene col ballare che tuttavia si usa in
queste Provincie. Fortuna vostra, fratelli, che non ho
meco nè Marziale, nè Giuvenale, nè Scaligero. Oh se li
avessi! Non vorrei certamente lasciarmi scappar di
mano l’occasione di farvi quì una bartolagine maladetta
d’erudizione, con le sue maladette postille in margine,
che il più maladetto squaccheramento di sapienza non
l’avreste mai visto! Finito il suddetto Ballo, e partite le
maschere, andammo a visitare i due principali Conventi
della Città, ma non veddi cosa singolare quivi. Ebbi solo
dalla finestra d’un Padre Agostiniano una vista assai
bella de’ colli intorno alla Città, molto pieni d’alberi.
Nel ravviarci verso casa ci abbattemmo in una nuova
mascherata, nè fu difficile conoscere che era composta
de’ soldati della guarnigione. I poveri tamburini e i
pifferi per mancanza d’abito mascherevole s’erano
velate le teste con de’ pezzi di velo nero, e facevano un
pifferare e un tamburinare che ti toglieva gli orrecchi.
Giunti in un certo luogo tutta la militare mascherata fece
69
alto, e uno d’essa che doveva essere o caporale o
sergente, si trasse di tasca una scritta e la lesse ad alta
voce. Quella scritta, per quel che potetti intendere, era
un proclama, o bando, come lo vogliam dire. Quel
bando ordinava agli abitanti di Estremoz di far feste e
mascherate [75] per otto dì in onore della signora
Principessa del Brasile, che mesi sono si maritò col
signor Don Pedro suo zio. Non potetti ben capire tutto il
senso del bando, che fu una lunga pappolata, in cui si
nominò la Principessa, Don Pedro, la Madonna,
Sant’Antonio, San Francesco, i Frati, le Monache, la
Pace del Regno, i balli, le maschere, la libertà, e altre
cose che mi parvero mescolate insieme un po’
profanamente, non parendomi che la Madonna e i Santi,
e poi i Frati e le Monache stiano troppo bene accoppiati
colle maschere e co’ balli; ma i Portoghesi concepiscono
le cose un poco diversamente da noi, e fanno in ogni lor
faccenda de’ miscugli di sacro e di profano, che nella
nostra più colta Italia non si sogliono più tanto fare,
come si faceva ne’ secoli men critici del secolo nostro.
Pure ancor oggi noi commettiamo, come i Portoghesi,
alcuni strafalcioni di questa natura, per una ragione che
non vo’ dire. La notte si fece finalmente scura, onde ce
n’andammo a cena: e Battista ne l’aveva provveduta
lauta per rifarci del poco e frettoloso pranzo che avevam
fatto stamattina a quella sporca e misera Venta do
Duque. Or ora anderò a coricarmi, e a dormire sul mio
pagliaccio disteso in terra, ve lo torno a dire, e ve lo
ridirò pur troppo ancora più volte; ma ho viste le
70
maschere d’Estremoz, e sono contento come [76] una
sposa. Vorrei solamente sapere perchè si è aspettato sì
lungo tempo dopo il matrimonio di quella Principessa a
farne la festa; ma nessuno quì me ne sa dire la ragione.
Domane mi sono poi risoluto d’andar a vedere Villa
Vicosa, quantunque l’andarvi m’abbia ad allungar la
dimora in Portogallo una mezza giornata o una giornata
intiera. Ruminando oggi su quello che mi scappò della
penna l’altra sera a Ventasnuevas sul proposito
dell’andare o del non andare a vedere quella Villa, mi
sono vergognato d’aver mostrato tanto poco cuore, onde
per punirmene vi voglio andar domattina a mio dispetto.
Che importa una mala notte di più o di meno in uno
stallage? Sicchè è probabile che la lettera di
domandasera sarà lunga lunga, perchè a me piace il fare
delle lunghe lunghe descrizioni. Voi però, fratelli, non
mi dovete aver grand’obbligo di tutto il passatempo che
v’apparecchio, scrivendo giornalmente, o per dir meglio
seralmente, tutte queste belle cose. Lo faccio per ritardar
l’ora che mi deve cagionare il fastidio di buttarmi sul
pagliaccio in questi stallages pieni di pulci e di pidocchi,
nè abbandono per lo più la penna, se non mi sento
cascante di stanchezza e di sonno, come mi sento ora.
Addio. [77]
71
LETTERA TRENTASEESIMA
Di Elvas li 22. Settembre 1760.
alle tre della mattina.
72
guerriera a’ signori seguaci di Marte. Avevo, come già
vi dissi, risoluto d’andare a Villavicosa, riflettendo che
non avrei forse mai più avuta opportunità di veder quel
luogo. Il signor Edoardo s’acconciò un po’ di mala
voglia alla mia voglia, perchè molto più di me è
infastidito dal nostro scomodo viaggiare per queste
incolte regioni; pure mi compiacque. Giungemmo
dunque colà in poche ore, e discesi allo stallage,
mandammo un messaggio al custode del palazzo Reale,
che quì si chiama Sceriffe, Vocabolo dirivato dall’antica
lingua Sassona, nella quale suonava appunto Guardiano
di casa. Con quel Messaggio noi pregavamo quel
signore di permettere a due forestieri una visita a quel
palazzo; ed egli cortesissimo si piegò tosto alle brame
nostre, ne mandò allo stallage un Gentiluomo con le
chiavi, e molto urbanamente si trovò egli stesso in capo
allo scalone al nostro giunger quivi poco dopo. La
nostra visita non durò troppo, che non v’è troppo da
vedere. In una sala assai grande sono intorno alla volta
dipinti al naturale de’ Re, delle Regine, de’ Principi, e
delle Principesse. In una [79] camera sono dipinte pur
nella volta non so quante virtù Cardinalesche da molto
mediocre pennello. In un’altra v’è Ercole che combatte
col Lion Nemeo; e il Figlio d’Alcmena egualmente che
la bestia sono così mal fatti, che quasi hanno bisogno
d’una iscrizione di sottovia che dichiari quale è Ercole,
e quale il Lione. L’altre camere non monta il pregio dire
come sono istoriate. I mobili di casa son meschini assai.
L’architettura della facciata è sì cattiva, che
73
d’improvviso par gotica, comechè a guardarla poi
meglio si comprenda che l’architetto intese di farla
Toscana di sotto, e Jonica di sopra. Nella piccola Città
di Vicenza vi sono almeno dieci edifizj più grandi, e
senza paragone più belli di quello di Villavicosa, e i
Vicentini non fanno la metà fracasso de’ loro dieci tutti
insieme, di quel che ne fanno i Portoghesi di questo
solo, il quale non si può neppure chiamare un Palazzo
Reale, perchè fu fatto fabbricare da un Duca di
Braganza prima che un suo successore s’insignorisse di
questo Regno. Nel tempo degli antichi Re di Portogallo,
e poi quando il Portogallo divenne una Provincia del
vasto Regno Spagnuolo sotto i tre successivi Filippi
secondo, terzo, e quarto, quel Palazzo di Villavicosa
serviva di residenza al signor di Braganza, primo de’ tre
Duchi di cui il Portogallo si vanta, o per dir [80] meglio
si vantava in que’ tempi. Ed è probabile che allora le sue
parti interne fossero qualche cosa di meglio che non
sono ora, cioè che quel palazzo avesse mobili un po’
migliori che ora non ha. Di fianco al palazzo è una poco
appariscente casa che appartiene al sig. don Pedro già
nominato, ma in essa non ne fu permesso entrare, non so
perchè! Accanto a quella casa v’è la cappella che
chiamano reale, che è piccola, e di nessuna bellezza.
V’hanno però dentro alcuni candelieri d’argento assai
grossi, e alcune lampade pur d’argento, e molto
massiccie. Dinanzi alla casa del signor don Pedro v’è
uno stretto e malandato giardino, e dietro al palazzo v’è
un orto, che non ha nulla degno d’uno sguardo. Il
74
villaggio non ha neppure cosa alcuna rimarchevole, e
sur un colle vicino v’è una cattiva Cittadella, le di cui
mura vanno tombolando a pezzi a pezzi come quelle
d’Estremoz. In caso d’assedio quelle due Fortezze non
le crederei volonterose di stare tre dì salde contra una
batteria di spingarde o di falconetti. Il signor Sceriffe
che è la meglio cosa da noi trovata a Villavicosa, ne
diede licenza d’attraversare ne’ nostri calessi il parco
reale, col qual favore ne accorciò e ne migliorò la via.
Quel parco gira molte miglia, ma pare più deserto che
parco. Vi sono alcune dozzine di [81] Daini dentro, e a
misura che qualcuno di essi mostravasi, i calesseri nostri
levavano le grida per farli correre; ma quantunque quel
correre fosse cagione di molto gaudio a’ nostri calesseri
che non avevano mai visti Daini, e a due servi dello
Sceriffe che ne accompagnavano per insegnarci la via, a
me però non mossero nè gaudio nè tristezza, che n’ho
visti migliaja e migliaja in molti bellissimi parchi
d’Inghilterra, dove se ne mangiano da chiunque può
pagare la lor carne tre volte tanto quanto quella di
vitello o di manzo, e che a gusto mio è tre volte appunto
più gustosa della carne di manzo e di vitello. Usciti del
parco avemmo che fare assai sù e giù per quelle ruvide
colline quasi senza sentiero per arrivare in questa città,
dove giungemmo che la sera era molto avvanzata.
Lontano una lega da Elvas comincia un acquidotto, che
mi fece quasi scordare la magnificenza degli archi
d’Alcantara, tanto è lungo, e tanto s’alza sù alto a
misura che s’avvanza verso questa città, la quale sta sur
75
un colle, come quella d’Estremoz, e le sue fortificazioni,
come quelle d’Estremoz, vanno tutt’ora scommettendosi
e rotolando nelle fosse. Ma questo è paese di pace, e
non occorrono quì nè fortezze, nè soldati. Il numero di
questi non ascende in oggi che a otto mila in tutto il
Regno, e trattine i loro sedici mila mustacchi, [82] non
hanno cosa alcuna di terribile, se sono tutti così belli
uomini, e se tutti sono vestiti e calzati come quelle
poche centinaja, che con molta fermezza di volto vanno
chiedendo a’ passeggeri la limosina non solo per le vie
di Lisbona; ma anche quando sono in sentinella, a
chiunque passa loro vicino. Fuori della porta per cui
entrammo in questa città di Elvas, v’era un mondo di
gente, e di bestiame cavallino e bovino, perchè è tempo
di fiera. Di quà e di là dalla via v’aveano molte tele
poste a mo’ di tende, e le corde che le sostenevano
attraversavano ed impedivano il passo di modo che non
avemmo poco che fare a farsi strada sotto quelle
frequenti corde co’ calessi. I Mercanti di quella fiera nel
tirare quelle corde in quel modo apparentemente non
s’aspettavano d’aver ad alzarle per lasciar passare delle
vetture, tanto pochi sono i viaggiatori che vadano per
quella via che andiam noi, vuoi verso Madridde o vuoi
verso Lisbona. In vedere quella tanta gente accorsa alla
fiera il cuore mi cominciò a picchiar di paura, perchè
subito mi s’affacciò all’immaginazione la difficoltà di
trovar ricovero allo stallage, conghietturando che
sarebbe stato troppo pieno per darci ricetto. Nè fu pur
troppo delusa la conghiettura mia, che giunti quivi ne fu
76
detto ogni minimo buco esser pieno pienissimo. [83]
Pensate che imbroglio; e tanto più che cominciava a
piovigginare. Fattomi nulladimeno coraggio, e
fidandomi a i galloni che ci eravamo messi indosso per
vedere decentemente il Palazzo di Villavicosa, balzai
dal calesso, e sfoderando arditamente tutto il Portoghese
che sapevo, rappresentai al signore Stallagero, che Sî
Messé, cioè Sua Signorìa, non ne potea negar ricovero
nel suo stallage, riflettendo con la sua solita prudenza,
che avevamo un gran passaporto di Sua Maestà
fedelissima, col quale se mi necessitava a farne uso sarei
ricorso dal signor Governatore. Lo Stallagero,
volonteroso più di dar alloggio a degli Stranieri
gallonati, che non a de’ Portoghesi senza calze, fece
tanto or con buone ed or con cattive parole che
finalmente cacciò un povero asinajo fuor d’una stanza,
hi quale da una troja pregna sarebbe stato scambiata per
la rispettabile abitazione delle sue antenatesse.
Sventurato Asinajo; che ti stavi coricato sulla tua propia
pelle in quell’umido e sozzo luogo russando
tranquillamente, goditi in pace quella poca moneta che
ti diedi per espiare l’atto ingiusto, onde fui in indiretta
maniera colpevole! Abbi pazienza, caro il mio asinajo,
perchè quantunque la più parte de’ moderni poeti non
sieno comparabili al più al più, che a’ tuoi somieri, pure
quando la capricciosa fortuna [84] mette un pò di
gallone sull’abito d’uno d’essi, bisogna che non solo un
asino, ma anco un asinajo ceda la mano al signor Vate, e
che se n’esca all’occorrenza sino d’un porcile di Elvas
77
perchè colui possa a preferenza intanarsi! Di quel
porcile fu duopo contentarci, e fattogli fare un
pavimento di paglia nuova e di stuoje vecchie, si
collocarono in pompa magna dal nostro gran Battista i
paliacci nostri sempre benemeriti su quelle stuoje, e poi
si pensò alla cena. Il credersi di trovar d’improvviso
nulla d’immediatamente manducabile in questi Paesi,
dove ogni cosa si fa bel bello, sarebbe troppa
presunzione; ma che importava a noi, che avevamo
nosco una tacchina, come dicono i Fiorentini, o un
gallinaccio, come diciamo noi, con tanto di groppone; e
un prosciutto di Lisbona per giunta, da muover
l’appetito a un gran soldano che avesse perduta la
gransoldania? E quì, Fratelli, vi dirò in parentesi, che i
prosciutti di Lisbona fino nel Portogallo medesimo
hanno fama presso tutti i ghiotti d’essere anche migliori
di que’ di Vestfalia e di Bajona. Si ordinò dunque
l’arrostimento della tacchina, e intanto s’andò in una
larga cameraccia, alla quale dai lati corrispondevano
alcune stanze tutte sì piene di gente che ne scoppiavano.
In cima e in fondo di quella cameraccia molti uomini
stavano lunghi e distesi per terra [85] co’ lor ferrajuoli
sotto per letto, e tutti o dormivano, o facevano le viste di
dormire. Quando fui a mezzo della cameraccia ebbi a
spiritare della paura, che avendo la testa piena di
terremoti, sentii traballarmi d’improvviso il suolo sotto
a’ piedi; ma per buona sorte non era altro che il moto de’
miei piedi, che cagionava quel traballamento.
Passeggiato un poco in sù e in giù, certi garzoncioni
78
mulattieri uscirono d’una di quelle stanze, e uno d’essi
cominciò a strimpellare una chitarra, e un altro ad
accompagnarlo con una canzoncina Castigliana. I due
musici avevano appena dato un cenno delle loro
armoniche facoltà, che subito da quelle stanze a’ lati
della cameraccia scapparon fuora da trenta e più
persone, parte maschi e parte femmine; e per farla breve
breve, in tre minuti si cominciò a ballare certi balli
chiamati Zighediglie, e cert’altri chiamati Fandanghi,
che mi sollucherarono l’anima. Quì bisognerebbe propio
ch’io diventassi Oca, e che tutte le penne di tal Oca
fossero penne da scrivere, e che tali penne da scrivere
potessero tutte scriver da se, per dire secondo il merito
di que’ balli, e degli abiti, e delle figure, e delle
fisonomie, e de’ gesti, e delle parole, e degli sguardi
mordenti, e dell’allegria, e della elasticità sì de’
ballerini, che degli spettatori. V’erano cinque o sei
donne [86] Portoghesi, e quattro Spagnuole. Le
Portoghesi erano mediocremente sudicie,
mediocremente gialle, mediocremente brutte. Delle
quattro Spagnuole una era vecchia, e madre d’una
giovanetta bruna e ben tarchiata. L’altre due erano due
sorelle, la più giovane delle quali di quindici o di sedici
anni sarebbe bella come la Venere de’ Medici, se la
Venere de’ Medici fosse di carne e non di marmo. La
sorella maggiore cedeva assai di bellezza alla minore,
ma avea in testa due occhi... oh che occhi! Che peccato
che il paragone degli occhi con le stelle sia già stato
trovato da migliaja e migliaja di Poeti d’ogni Nazione, e
79
spezialmente di Pastori Arcadi! Se quel paragone non
fosse stato trovato, mi farei adesso molto onore,
comparando que’ due begli occhi a due delle più belle
stelle del firmamento, e uno lo chiamerei la stella polare
artica, e l’altro la stella polare antartica per far la rima
con artica. Gli abiti di queste quattro Spagnuole sono
sfoggiati anzi che no; e tanto la vecchia quanto le
giovani hanno le loro sottanelle e le loro mantelline
molto ben guarnite chi d’oro e chi d’argento. Per quel
che intendo, sono quattro donne di Badajoz venute con
alcuni maschi lor parenti a veder la fiera; e quella bella
bella bella si chiama Catalina. Ho veduto ballare d’ogni
razza ballerini dalla [87] Dalmazia sino al Norte
d’Inghilterra; ma torno a dirlo, che nessun ballo di più
di cento diversi che forse ne ho visti a miei dì, non dà la
metà gusto di quelli che questa gente ha pur ora ballati.
Ora sì che s’io fossi Valerio Marziale vorrei fare degli
epigrammi in lode delle danze Betiche e Gaditane, che
m’immagino non fosser altro che la zighediglia e il
fandango ballati da quella fanciulla tarchiata e bruna,
dalla bella Catalina, e da quella sua sorella che ha quegli
occhi detti di sopra. Certamente que’ balli vivificano
propio la mente, e ti rallegrano anche più di quelli de’
marinaj Provenzali col pifferetto e col tamburinello.
Eglino sono ballati sì da’ Portoghesi che dagli Spagnuoli
talora al suono d’una o di più chitarre, e talora al suono
delle chitarre unito al canto sì degli uomini che delle
donne. Eppure tanto gli uomini quanto le donne appena
muovono le persone ballando, e le donne specialmente,
80
il moto delle quali è incessante, ma a stento sensibile.
Nel ballare sì le donne che gli uomini scopiettano tanto
bene, e tanto a tempo colle dita d’ambe le mani,
scoccando il dito pollice col medio, e le donne
picchiano tanto presto e tanto forte il suolo co’ calcagni,
e tanto a battuta, che gli è cosa d’andar in estasi a
vederle, massime chi le vede per la prima volta, com’era
il mio caso. E quell’io, [88] che non avevo che
dormicchiato per quattro notti, che ero stracco morto del
viaggio d’oggi, fatto in gran parte a piede, e che avevo
per via risoluto d’andare a buttarmi sul pagliaccio quasi
senza aspettar la cena, io mi trovai in pochi istanti così
rapito da quello spettacolo nuovo, bello, e repentino,
che non pensai più nè a gallinaccio, nè a pagliaccio, nè a
cos’altra di questo mondaccio; e me ne stetti coll’anima
inondata di subito diletto a guatare quella festa, la quale
era fatta vieppiù bella, vieppiù nuova e vieppiù
inaspettata dal vedere quegli sdrajati mascalzoni, poco
prima addormentati, saltar su a un tratto; e senza
cerimonie e senza vergogna delle loro calze piene di
porte e di finestre, entrar a ballare ora con quelle
Portoghesi brutte e mal vestite, ed ora con quelle
Spagnuole belle e attilatissime, senza che nessuno della
brigata mostrasse di punto scandalezzarsene, come
avrebbe in ogn’altro paese a me noto, dove il mal
vestito fa suo fratellanza col mal vestito, e il gallonato
col gallonato, senza comporre insieme il minimo
misculio. In un angolo della cameraccia è una tavola, e
lì su quella tavola (dovrei dire su questa tavola, perchè
81
sopr’essa sto scrivendo questo foglio) senza cerimonie e
senza vergogna anch’io, feci porre la tovaglia, e col
signor Edoardo m’acconciai a cenare, cogli occhi [89]
però sempre più volti a chi ballava che non a’ piatti.
Finita quasi la cena, Battista ne pose innanzi una certa
torta candita recata con noi da Lisbona, fatta all’Inglese
dalla padrona di casa dove colà alloggiammo. Quella
torto io la tagliai in sottili fette, e messe quelle fette sur
un piatto piramidalmente, le andai a presentare a quelle
donne, facendo loro un elegante complimento in
Castigliano, che ero stato un quarto d’ora a compormi in
mente; e tanto le Portoghesi quanto le Spagnuole si
servirono francamente di quelle fette, facendomi col
capo un inchinuccio per ciascuna, accompagnato da
quattro leggiadre parolette. Distribuita la torta feci
portar del vino, ed invitati tutti i ballerini e i mascolini
astanti a bere alla salute delle signore, la virtù de’
copiosi bicchieri doppiò il gaudio della festa; e quegli
uominacci che prima non avevano posto mente a los
Strangeros17, cominciarono a deporre il grave
sopracciglio, e presto vennero a infilzarmi de’
complimenti Portoghesi e Spagnuoli, che non finivan
mai, a’ quali io rispondeva con una dolcezza così ben
temprata di gravità; che non possa io aver roba mai [90]
se non parevo propio un Alcade18 di Burgos o di
82
Vagliadolid19. Alle donne dopo la torta feci portare de’
bicchieri d’acqua fresca, perchè l’offrir loro del vino
avrebbe guasto tutto il bene che avevo fatto con quella
piramide di fette, non potendosi in questo paese fare
affronto maggiore al femmineo sesso che offrirgli del
vino; e dopo l’acqua feci anco distribuir loro da Battista
un bel cesto d’uva, che fu pure da esse molto
benignamente gradito. Una delle donne Portoghesi che
era gravida mi fece chiedere un po’ del nostro
prosciutto, e portandoglielo io immediate, ne venne
anche voglia all’altre che avevano il ventre smilzo,
cosicchè in meno, che non balena, tutto il prosciutto,
trattone l’osso, sparì via. A mezza notte il ballo fu
interrotto da certi fuochi artifiziali che si facevano per
allegrezza delle nozze dell’Infanta maggiore col signor
don Pedro, onde tutta la brigata inferrajuolatasi,
andammo per vederli da un rivellino giusto fuora dello
stallage; ma la pioggia che s’ era fatta grossa, li aveva
con molta mia soddisfazione così malconci, che
tornammo tosto a casa tutti, e quivi si cominciò a
suonare, a cantare, [91] e a ballar daccapo, or una
coppia alla volta, e ora due coppie. Lo sorella della bella
Catalina, che era di fatto la ballerina più possente della
brigata, e per quanto mi parve celatamente volonterosa
di pagarmi della cortesia usata a lei, e alle sue
compagne, ballò poi una danza sola soletta, e fece tanti
83
piccioli passi, e tanti piccioli gesti, e tanti piccioli
graziosissimi moti e di testa, e di spalle, e di fianchi,
ch’io me la sarei propio mangiata e bevuta viva,
massime quando mi ficcava un momento, e di furto que’
suoi occhi negli occhi. Quand’ebbe finita quella danza a
solo, contra il sussiegato costume di queste regioni le
battei le mani con tanta forza, e fui in ciò così ben
secondato dal signor Edoardo e da Battista, che tutti i
circostanti, rotto il costume, le diedero il meritato
premio del suo bel ballare, battendole tutti alla disperata
le mani come avevo fatt’io. E un findalghino
Portoghese, pigliando il luogo lasciato vuoto da quella,
anch’esso ne volle dar prova della sua leggerezza di
gamba e di persona, ballando solo anch’esso, e
scoppiettando colle dita, e capriolando a maraviglia: ma
per applauso non volli dargli altro che un triplicato
Bravissimo, per lasciare alla sorella della Catalina tutto
il frutto della fatica fatta dalle sue dita scoppiettando, e
delle sue calcagna battute con [92] forza e con furia
indicibile. Delle canzoni che si cantarono da quelle
donne ve ne fu una Castigliana di quell’altra fanciulla di
Badajoz, che dissi bruna e ben tarchiata, la qual canzone
avrebbe intenerito un sasso, tanto eran dolci e vive le
amorose espressioni che conteneva. E un’altra che fu
cantata dalla bella Catalina mi fece un pò ridere
all’ultima strofe che terminò con questo strano pensiero.
Amor se encomienda
84
A la misericordia del Hospital.20
Quando il cantare fu finito, non tanto perchè molte cose
in quelle canzoni mi piacquero, quanto per vedere se
potevo in qualche modo barattare quattro parole con
quelle donne, feci pregare le due canterine di favorirmi
copia di quelle, se il potevano fare senza loro troppo
grave incomodo; e la bella Catalina mi mandò a
rispondere, che andando anch’essa il giorno dietro a
Badajoz, me n’avrebbe mandato un libro intiero alla
posada. Notate però quì, fratelli, che quel giorno dietro
voleva dire quello stesso giorno, perchè erano ormai tre
ore dopo la mezza notte, come ho segnato nella data,
che non v’imbrogliaste nel ragguaglio delle ore. Per far
fare quella richiesta a quelle donne io [93] m’era servito
d’uno, che alla sua familiarità con esse mi parve propio
messaggero; e voi quì mi direte. Quare Domine ti sei tu
servito di messaggero quando eri nella stessa stanza con
esse? Non potevi mò dimandare tu quelle canzoni colla
stessa tua voce? Sappiate però fratelli, che le usanze di
Portogallo e di Spagna sono alquanto diverse da quelle
d’Italia, e di Francia, e d’Inghilterra; e sappiate che se
mi fosse stato lecito parlare con quelle donne, non mi
sarei fatto tirar gli orecchi per attaccar un mercato con
esse, e colla sorella della Catalina spezialmente, che mi
pareva andasse tentando di farmi un pertugio nel cuore
con que’ suoi occhi pieni di lesine, malgrado i miei
quarantun’anni. Poco dopo le tre si finì la festa, e
85
ognuno andò a dormire per terra nel suo dato luogo. Sì
signori, tutti per terra, sino la stessa bella Catalina, e
sino la sua fiammeggiante sorella, con tutto l’oro, e
l’argento, e le fettucce, e i nastri, e le trine che avevano
per le sottane, e in capo, e al collo. Nessuno di tanta
brigata ebbe miglior letto del signor Edoardo, e di me, e
de’ cani, e de’ gatti, e de’ muli, e degli asini di Elvas.
Ma io mi trovai la fantasia in un garbuglio tale, che
invece d’andarmene al mio pagliaccio fattomi recare
penna, calamajo, e carta, mi posi a scarabocchiare; ed
ecco che le sei sono [94] suonate, ed io sono ancora quì
in questa traballante cameraccia, che mi maraviglio
come abbia potuto traballar tanto, e non affondarsi con
me, con la bella Catalina, con la sua sorella, con la
fanciulla bruna e ben tarchiata, e con tutti i ballerini, e
con tutti gli spettatori che si sono tutti buttati quà e là a
dormire. Quì d’intorno a me vi sono (lasciate ch’io li
conti) uno, due tre sei, e quattro dieci, e uno undici
uomini, che mi stanno sonoramente trombeggiando
addormentati intorno; e giacchè la pioggia si è fatta
dirotta, e che domane non abbiamo che tre corte leghe
di quì a Badajoz, mi vado a buttare per alquante ore
bello, e vestito sul pagliaccio per non parere da meno
degli altri; onde Addio.
86
LETTERA TRENTASETTESIMA
Di Badajoz la sera 22. Settembre 1760.
87
colazione, m’andai a far barbitondere in un lato di
quella cameraccia. La colazione e la barbitonsura finite,
vi fu un altro poco di ballo e di cantare al suono solito
delle chitarre, mentre altr’uomini si facevano, come
aveva fatt’io, radere in pubblico senza punto di
scrupolo, che quì si vive alla Calamucca e alla Tartara,
cioè come vivono i Calamucchi e i Tartari, che essendo
gente incolta e barbara, è da credere [96] che vivano
senza gentilezza e senza cerimonie, e non si fanno tante
smorfie, quante il Galateo21 vorrebbe che se ne facessero
dai Cristiani per meritarsi il titolo di ben creanzuti. La
pioggia veniva giù alla gagliarda; nulladimeno finito
quel po’di ballo quelle donne se ne vollero andar a fare
non so che visita. Non occorre fratelli, ch’io vi dica
come in tutto il tempo della precedente festa io aveva
guardati forse un po’ troppo spesso que’ lucidi diamanti
di quegli occhi, che la sorella della Catalina ha in fronte,
e che la strega mi mostrò con qualche mezza dozzina di
sguardi furbeschissimi, qualmente s’era accorta della
preferenza ch’io le dava sino sulla bellissima sorella.
Vorrei quasi anche aggiungere che andando a vedere i
fuochi artificiali, mi venne un leggier pizzico in un
braccio così tra ’l bujo e la pioggia. Ma basta che quelle
donne se ne vollero andar a fare non so che visita, onde
i loro uomini s’avviarono giù della scala i primi, ed esse
li seguirono sì, che per un momento rimasi solo nella
88
cameraccia, quand’ecco la mia brunocchiuta
Badajozana, che non è ancora giunta al più basso
scaglione della scala, e che finge d’avere scordato in
camera [97] qualche cosa, e che torna su con
leggierissima velocità, e che viene a dirittura a me, e che
mi schocca un biscottino sotto il mento, e che mi dice
piano all’orecchio, Dios te dea mil annos de bien,
Strangero. Alle quali improvvise parole non trovandomi
risposta pronta, le appiccai invece un baccio in bocca,
uno sull’occhio diritto, e uno sul sinistro, e prima che
potessi ricoglier la mente e il fiato, quella celeste
briccona mi scappò della vista come scappano i dardi e i
fulmini. Ella è ita, fratelli, e m’ha lasciato non vi posso
dir come! Oh povero me come m’ha lasciato! Se la
prima Spagnuola che ho vista anche prima di metter il
piede in Ispagna m’è venuta a sconvolger le interiora in
questo crudel modo, come farò io meschino per
portarmi il cuore a casa senza averlo tutto crivellato?
Tutta questa Spagna io l’ho pure ad attraversar tutta: e
se delle sorelle delle Cataline ve n’ha di molte, come è
probabile, da Badajoz a Madridde, e da Madridde a
Barcellona, e da Barcellona a’ Pirenei, chi mi
provvederà di tanto ghiaccio filosofico che basti a
conservarmi freddo come debb’essere un viaggiatore, e
spezialmente un viaggiatore che ha già viaggiato di là
dall’anno quarantesimo? Oh Seneca morale, oh Boezio,
oh voi barbuti sapientoni antichi e moderni, perchè non
venite traditori con le vostre savie sentenze e co’ [98]
gravissimi proverbj vostri ad assistermi in questo
89
pericoloso viaggio di Spagna, dove la natura senz’ajuto
dell’arte insegna alle sorelle delle Cataline, e fors’anco
alle Cataline stesse, a rovinare in un attimo fino i
Galantuomini di quarant’un anno? Insegnatemi voi, voi
gente di pelo canuto, insegnatemi come ho ora a fare per
cavarmi della fantasia colei, che mi s’è stamattina tolta
dalla vista per sempre! Per sempre? Oh pensiero che
agghiada propio tutta l’anima! Non bisogn’egli avere un
cuor di macigno, e una mente di bronzo per poter
soffrire senza fremiti d’orrore l’idea del separarsi per
sempre anche dagli oggetti men cari e men piacevoli?
Pensa poi quando ti tocca lasciar per sempre una
figliuola d’Eva, la quale per servire alla concatenazione
dell’uman genere piacque al Creator del tutto farla erede
di quella forza, che indusse Adamo ad alzar la mano al
vietato frutto! Beato chi può, quando la ragione glielo
comanda, resistere a quella immensa forza! Ma
quantunque molti si vantino d’essere mura di ferro
contra gli urti d’un tanto ariete22, poco son io disposto a
dar loro fede; e per lo più credo a quelle rodomontate
loro quando li conosco a qualche segnale [99] per
istolidi o per pazzi. Non occorre tuttavia scrutinar ora,
se di quest’uomini forti ve ne sieno, e ve ne possan
essere, che altre cose mi rimangono ancora stasera da
scrivere. Basta che con estremo rammarico io mi veggo
90
spiccato da quella troppo amabile Spagnuoletta, alla
quale restituisco di buon cuore il suo tenero augurio; sì,
glielo restituisco di buonissimo cuore. E quì dando,
fratelli, una storta violente al mio cervello per rivolgerlo
altrove, m’accomiato da quell’Angiolella, e dalla sua
formosissima Sirocchia, e mi faccio da capo.
La lunga veglia del giorno antecedente ne fece
risolvere di non partire che tardi, e di non fare che le tre
leghe di là a qui. Montammo in calesso alle tre dopo il
mezzodì a dispetto della pioggia che veniva giù
dirottissima. Andati un pajo d’orette guazzammo la
Caya, torrente così chiamato, che divide il Portogallo
dalla Spagna; e quantunque si passi tutto l’anno poco
men che a secco, pure l’acqua ne lavò la pancia a’ Muli,
tanto ero ingrossata per la pioggia, cosicchè perdetti
ogni speranza di quelle canzonette che la bella Catalina
m’avea promesse, veggendo bene che a’ fortunati
asinelli, sopra i di cui dorsi e la Catalina e la sua
rifulgente Sorella dovevano tornare a Badajoz, non era
possibile passar oggi quella Caya senza affogare se
stessi e la Catalina, e [100] la presente Sultana del cuor
mio. Ed ecco che contro la risoluzione fatta pur ora,
torno a nominare Colei, della di cui vezzosa immagine
ho la fantasia troppo ripiena. Ma così facevate voi pure,
Fratelli miei, quando eravate innamorati:
Mille migliaja di proponimenti
Che servian di ludibrio all’aure, a i venti.
Valicato quel limitrofo torrente non potetti far a meno di
91
non alzarmi in piedi nel calesso, e volgendo la faccia a
quel Portogallo che avevo testè abbandonato: Oh
Portoghesi, Portoghesi, esclamai, faccia il Cielo che nè
il terremoto, nè il Baretti vi visitino mai più in eterno! Io
vi perdono le sassate che mi furono scagliate nella valle
d’Alcantara; . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vi perdono eziam que’ vostri maladetti stallages con
quelle vostre camas maladettissime, che se non
ammaccano e rompono le cagnesche persone vostre,
ammaccano e rompono ben quelle degli stranieri che
vengono a visitare il vostro paese
.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Guadata la Caya, ed entrato in Ispagna, mi brillò a un
tratto il cuore per la gioja d’avere dietro le spalle quel
deserto e spiacevol Regno Lusitano. Al travaglio
sofferto in attraversarlo succedette la speranza di trovar
questo [101] di Spagna men cattivo; e non fu vano il
mio sperare, perchè giunto in Badajoz trovai la Posada
(quì non si dice più stallage) con un buon solajo, con un
buon pavimento, e con un letto, se non da galantuomo,
almeno senza paragone migliore di que’ canili
Portoghesi. I mobili di questa Posada di Badajoz non
sono, a dir vero, gran fatto più maravigliosi di quelli
degli Stallages. Le tavole tentennano qui come là, e le
sedie di legno sono quì come là vecchie e rose dal tarlo.
Armari, guardarobe, canterani, e simili agiatezze sono
condannate a starsene dall’altra banda de’ Pirenei, o
92
almeno più in là di Badajoz; e quì s’uno si volesse
specchiare, non solo non troverebbe specchio, ma non
potrebbe neppure aver ricorso a uno stromento lodato
con un capitolo dal Berni. Le finestre quì non si
chiudono con impennate di vetri, o di tela, o di carta, ma
con due imposte di legno mal connesse, e che danno
adito al vento egualmente che alla luce; e mi dicono che
sino a Madridde, ed anche un pezzo più in là todas las
posadas sono a un dipresso simili a questa. In Badajoz
s’entra per un ponte di pietra, che mi parve un pò più
lungo di Westminster Bridge, cioè del ponte nuovo di
Londra, ma molto men largo e men magnifico; pure è
uno de’ bei ponti ch’io m’abbia visti, e di lontano [102]
fa bellissima mostra. È tutto lastricato di larghi sassi,
che devono render comodo il passeggiar sopr’esso. E
non mi spiacque giungendo alla Guadiana che vi passa
sotto di vedere una mandra di vacche bianche come
neve, abbeverarsi in quel fiume. Credo che quelle
vacche fossero da cinquecento, e non credo ve ne sieno
tante in tutto l’Allantejo23, e l’Estremadura Portoghese.
Almeno posso giurare che non ne vidi neppur una da
93
Aldeagallego sino alla Caya, nè so dove mai i
Portoghesi si piglino que’ tori che ammazzano nelle loro
feste, e que’ buoi che tirano que’ loro scricchiolanti
carri. Forse li fanno venire di Spagna. In capo al prefato
ponte v’è una porta fiancheggiata da due torriciuole
tonde, che fanno bell’effetto agli occhi. Mi dispiacque
però di trovar in agguato dietro quella porta due
poltroni, coperto ciascuno d’un ferrajuolo nero, con
capellacci [103] in capo larghi come parasoli, che a un
tratto scambiai por dos Frayles, ma che conobbi tosto al
linguaggio essere due Gabellieri. Questi ne costrinsero
andare alla dogana con essi, e colà i forzieri ne furono
aperti, e visitati, ma non indiscretamente posti sossopra,
come si usa fare da certi can mastini in più paesi, e
spezialmente in Inghilterra allo sbarcare, dove se quella
canaglia te la può anche far netta, ti ruba qualche cosa
visitando, onde conviene aver l’occhio bene alla padella
mentre fanno la lor ricerca. Questo incomodo che là, e
in tant’altri luoghi del mondo si soffre viaggiando, è una
delle tante male conseguenze che derivano dal mal
oprare degli uomini. Il grosso del genere umano è ladro,
e troppi cercano di fraudare il Principe de’ suoi diritti
co’ contrabbandi; e chi riscuote i diritti del Principe non
può leggere in fronte a chi va e viene con un forziere
dietro il calesso, se abbia intenzione o no di far
contrabbando. La discretezza di que’ due gabellieri mi
obbligò a toccar loro destramente la mano; poi si venne
a questa Posada di Santa Lucia, perchè men cattiva di
quello della Soledad. Quivi sbarbatomi, incamiciatomi
94
di bucato e vestitomi da città, scrissi un biglietto al
signor Cardinale Acciajuoli, supplicandolo d’ammettere
un Italiano, che passava per Badajoz, al bacio della
Sacra Porpora. [104] Intanto che aspettavo la risposta,
m’entrò in camera uno, il quale avendo incontrato
Battista per la via, e riconosciutolo per averlo visto in
Lisbona, e domandatogli come fosse quivi, e intendendo
ch’egli era meco, e che io era in persona in quella città,
e in quella posada, venne subito a trovarmi. Questi era il
Dottor Merosio Medico di sua Eminenza, mio antico
conoscente Milanese. Pensate che allegrezza nel
rivederci dopo vent’anni! Avevamo un milione di cose
da dirci mutuamente, ma una benigna risposta del signor
Cardinale ne fece differire il reciproco ragguaglio di
quelle avventure che ne raccozzavano quel dì sulla
sinistra riva della Guadiana. Il Merosio mi accompagnò
da sua Eminenza, la quale si compiacque di ricevermi
con quella principesca affabilità di cui ha tanta
provvisione; e quanto le ebbi umiliate le salutazioni
delle monache Inglesi di Lisbona, s’entrò in millanta
ragionamenti che mi fecero parere molto breve la sera.
Quivi erano con sua Eminenza Monsignor Acciajuoli
suo nipote, ed alcuni altri gentiluomini Italiani, che tutti
ardentemente desiderano di poter presto cambiare
Badajoz in Roma. Ed io pure desidererei com’essi, se
fossi con essi, che un Badajoz non è Residenza troppo
Cardinalesca. Tratto un Conte della Rocca che ne è
Governatore, e due o tre uffiziali che hanno visto il
[105] mondo, non v’è gente quì, con cui si possa
95
esercitare un pò l’intelletto conversando, sicchè la
giornata si debbe per lo più passare assai nojosamente; e
la nottata poi Dio sa come si possa tranquillamente
dormire! Felici noi, oscuri mortali, che non abbiamo,
grazie alla santa picciolezza nostra, altro affanno che
disturbi i nostri sonni, se non la durezza d’un materazzo,
o un pensiero della sorella di Catalina! Domane il
Signor Edoardo ed io facciamo conto di fare come
abbiamo fatt’oggi, cioè di non viaggiare più di tre leghe
per ristorarci un pò quì della fatica sinora sofferta, onde
domane ciancerò tutta mattina col Dottor Merosio, e
partirò tardi il dopo pranzo. Intanto addio.
LETTERA TRENTOTTESIMA.
96
alle stampe. Cosa dunque ne dirà la gente di queste mie
lettere quando saranno stampate? L’amor propio
risponde, che la gente le leggerà con un avidissimo
piacere, e che sino i più affaccendati uomini, e le più
disattente donne lasceranno le loro faccende e i
passatempi loro, per godere di così dilettosa lettura.
L’amor propio risponde, che tutti loderanno l’idea delle
mie lettere; che tutti ammireranno la mia forbitezza di
lingua, la nettezza del mio stile, la varietà de’ miei
pensieri, la facilità delle mie espressioni, e la giustezza
de’ miei sentimenti. L’amor propio risponde, che alcuni
altri mi chiameranno un bel pittore d’oggetti materiali,
che mi considereranno come un sagace indagatore di
modi e di costumi, che ognuno addotterà i miei sistemi e
la mia morale, e che in sostanza tutti mi celebreranno
come uno de’ più chiari, de’ più eleganti, e de’ più sicuri
scrittori che s’abbia oggidì l’Italia. Ma, fratelli cari,
l’amor propio è un tristo, l’amor propio è un traditore
che sempre ne piaggia e ne lusinga, e che non cerca per
lo più che d’ingannarci, [107] e d’indurci in errore. La
lettura che ho fatta jersera mi fa temere che le mie
lettere sopra i Portoghesi non sieno da più d’uno
dannate a prima vista, malgrado i favorevoli
suggerimenti del mio amor propio. Quello che ho scritto
de’ Portoghesi, posto sotto l’occhio tutto insieme e letto
senza interrompimento, mi par che mi faccia un effetto
alquanto diverso da quello che mi faceva quando
m’usciva dello penna a intervalli ventiquattr’ore distanti
l’un dall’altro. Io giungo, verbigrazia, nello stallage di
97
Cabeca, e trovando quivi un cattivo alloggio, e un
peggio desinare, quantunque io mi curi poco d’alloggiar
bene o di desinar male, mi metto in bizzarria, e
lasciando correre scherzevolmente la penna, descrivo
quel pranzo, e quello stallage, e poi lo stallagero sopra
mercato, con una rettorica burlesca, e adopero tutto
l’ingegno perchè la mia descrizione non ceda a quella
d’un somigliante mal pasto e d’un altro mal albergo
fatta dal Berni nel suo famoso capitolo al Medico
Fracastoro. Se non mi fosse venuta che una volta o due
l’occasione di descrivere gli stallagi, se non fossi stato
nella valle d’Alcantara; e se non mi fossi abbattuto in
quella femminaccia di Ventasnuevas, ogni Portoghese
avrebbe a ridere della lettura di queste mie lettere come
ogn’altr’uomo d’ogn’altra nazione, perchè sarei [108]
sempre stato faceto senz’acrimonia, e morale senza
dispettosaggine. Ma e’ m’è venuto più fiate il bello di
mostrarmi acremente faceto, e dispettosamente morale,
scarabocchiando i miei pensieri tanto in Lisbona dopo il
lapidamento, quanto negli stallagi d’Aldeagallego, di
Peagones, di Ventasnuevas, d’Arraiolos, e di Elvas, che
tutti ho descritti corbellevolmente, perchè di fatto sono
cattivissimi alberghi, comparati massime agli alberghi
che si trovano a cammino viaggiando in altre parti.
Onde chi sa che qualcuno, o Portoghese di nascita, o
Portoghese di genio, non dica ch’io derido e vitupero
tutta la nazion Portoghese, mettendo in burla una
smattonata casa, una Venta mezzo rovinata, un pollastro
mal cotto, un salame stantìo, un rustico stallagero, una
98
stallagera importuna e sfacciatissima? Chi sa che le
austere riflessioni fatte in conseguenza delle sassate che
mi furono scagliate vicino alla valle d’Alcantara, non
sieno considerate come troppo sarcastiche, e come
troppo ciniche? E chi sa che alcuno non mi biasimi anco
per non aver descritto con uno stile serio e sublime la
Caccia de’ Tori, e l’Organajo Irlandese, e gl’Ingegni
dell’Orologio di Mafra, e i buchi de’ piccioni nel
palazzo di Cintra, e altre simili cose? In caso però ch’io
stampi questo mio viaggio, io prego sin d’ora il
leggitore ad [109] avvertire, che se io ho in alcuna di
queste mie lettere burlata e tartassata la parte più
abbietta della plebe di Portogallo, non mi sono nè anco
scordato di dir del bene di molti individui Portoghesi
che non sono plebe. Lascio stare che nella mia
descrizione del terremoto io ho a parer mio dipinto con
nobiltà e con vivezza di colori l’animo buono e
compassionevole d’un Monarca, che molto
luminosamente si mostrò compassionevole e buono in
quell’angosciosissima congiuntura. Lascio stare che
quando descrissi la funzione Patriarcale, notai l’estrema
ed esemplarissima pietà della Regina, e l’appajai con
quella d’un filosofo, che nella stimazione della ragione
può appajarsi co’ più alti personaggi senza ombra di loro
disdoro. Il poco tempo ch’io mi fermai in Lisbona, e la
picciolezza del mio carattere non m’hanno dato, nè mi
potevano dar modo di esaminare più da vicino que’ due
Regnanti e la famiglia loro; e se me l’avessero anche
dato, non avrei neppur osato di crearmi da me stesso
99
panegirista di Sovrani, non conoscendomi di tanto
erculea forza da addossarmi di così gravi pesi; oltre che
l’invincibile natura mia m’allontanò sempre da così
fatte intraprese. Se poi il tempo e le circostanze
m’avessero permesso di mirare viso a viso i Ministri, i
Nobili, e le altre persone più riguardevoli [110] del
Regno Lusitano, son certo che avrei avuto luogo
d’alzare talora lo stile, e di talora dipingere la saviezza,
e la giustizia di que’ Ministri, le virtù e le magnanime
qualità di que’ Nobili, e di quelle riguardevoli persone.
La gente nobile e civile in tutta la moderna Europa, sì
per quello che ho visto, come per quello che ho sentito
dire, è per lo più molto uniforme, e somigliante; ed è un
errore il credere che in una Corte o in un paese i Grandi
e i Signori sieno molto diversi da i Signori e da i Grandi
d’un’altra Corte o d’un altro Paese. Ma perchè io non ho
veduto più di quello, che ho realmente veduto nel mio
breve soggiorno in Portogallo, non ho del Portogallo
detto altro bene che quel poco che ne potevo dire, cioè
quel poco che ne ho veduto, non avendo costume
d’encomiare senza perfetta cognizion di causa anche chi
non merita che encomj. Ma se parte per natura, e parte
per non essere stato testimonio di vista ho passato sotto
silenzio cose che forse un altro scrittore non avrebbe
volute passare sotto silenzio, e se non ho date lodi
generali a quella nazione, mi permetta il discreto
leggitore di fargli osservare, come dissi, che se ho messe
in burla cinque o sei osterie, e se ho detto male della
plebe Portoghese, massime dopo il lapidamento
100
d’Alcantara, ho poi anche detto bene [111] di tutti que’
Portoghesi che me ne parvero degni. Ho lodata la bontà,
la bella creanza, e l’ospitalità de’ religiosi che trovai a
nostra Signora della Pena, e di quegli altri della Serra di
Cintra, o sia del Convento di Sughero, la memoria de’
quali mi sarà sempre rispettabile e cara. Allo Sceriffe di
Villavicosa ho resa quella giustizia che la sua elegante
gentilezza si meritò; e credo che l’urbano Curato
d’Arraiolos non si lagnerebbe di me, se potesse leggere
quello che ho scritto di lui. Del Religioso Domenicano,
che fu nostro compagno di viaggio da Aldeagallego sino
a Montemar, ho registrata con piacere la bontà da lui
spontaneamente usatami nel brusco impegno, in cui mi
pose quella impronta femmina di Ventasnuevas. E se ho
resa giustizia a tutti quelli che nel mio breve soggiorno
in Portogallo ho trovati cortesi, ospitali, e buoni, chi
sarà quel rigido sofista che mi verrà a biasimare per aver
raccontata con qualche vivezza, o riflettuto con qualche
asperità sulla poca bontà, o sulla poca creanza, o sulla
poca ospitalità di gente della più bassa plebe, anzi su
tutta la Portoghese plebe, che come la plebe di quasi
tutti i paesi del mondo, non ha, nè può avere delle
qualità buone, grandi, e pregievoli? Nessun pertanto si
dia a credere, che con quelle mie lettere io abbia avuta
intenzione [112] di parlare a svantaggio dell’intera
Nazione Portoghese, perchè io so senza che mi sia
insegnato, che dappertutto v’ha de’ buoni e de’ cattivi, e
che tutto il Mondo è Paese; e son persuaso
persuasissimo che se avessi avuto a fermarmi in
101
Portogallo tanto quanto feci in Inghilterra, v’avrei
trovato, come trovai in Inghilterra, della gente
meritevolissima d’esser nominata con rispetto, con
affetto, e con lode, come ho nominati i Padri della Pena,
que’ della Serra di Cintra, lo Sceriffe di Villavicosa, il
Curato d’Arraiolos, e il Domenicano che lasciai a
Montemar. A questa mia protesta aggiungerò, che in
qualcuna di queste mie lettere colle date Portoghesi ho
anche detto qualche cosa di qualche Ministro e del
Governo di Portogallo; ma perchè prima di parlare in
istampa de’ Governi e de’ Ministri bisogna esserne
minutamente informatissimo, per non farsi dir pazzo, o
ignorante, o prosuntuoso da que’ che sono bene
informati, lascerò fora in caso di stampa tutto quello che
ho scritto su que’ due argomenti; e così farò per nessun
altro fine, che per la sola tema di non parlarne con piena
esattezza, e con iscrupolosa puntualità, non volendo su
questi capi imitare certi baldanzosi scrittori, che
cianciano de’ Ministri e de’ Governi ex Cathedra,
puramente per darsi aria d’uomini importanti, e per
mostrarsi personaggi [113] valorosi e capaci di
sostenere a un bisogno qualunque pubblico impiego,
quantunque io non creda neppure che i maneggi politici
sieno cose superlativamente difficili, e richiedenti un
intelletto molte miglia più alto del mio. Dirò ancora per
giunta, che in questi scorsi anni il Ministero Portoghese
ha introdotta, a imitazione di quello che si è fatto
altrove, qualche riforma negli studj, per secondare le
intenzioni del Re; e ho sentito dire che si sieno fatti
102
cercare nelle parti più letterate d’Europa degli uomini
sapienti per tirarli con generosissimi stipendj a
insegnare ogni sorte di buone dottrine a’ sudditi di sua
Maestà Fedelissima. Prosperi il Cielo somiglianti
laudevoli cure, e faccia fiorire in Portogallo la probità
egualmente che il sapere, che io me ne rallegrerò
sempre assaissimo, insieme con tutti i buoni Cittadini
del Mondo; e non sarò l’ultimo, occorrendo a intrecciar
ghirlande d’applausi a tutti quelli che saranno di così
divina opra e Fautori e Promotori. Ma ecco quì il
Merosio, col quale vo’ fare un mondo di chiacchere;
onde addio, Fratelli, addio sino a stasera. [114]
LETTERA TRENTANOVESIMA.
Di Talaverola li 23. Settembre 1760.
103
mondo. Basta dire, che ha veduto sino il Giappone, e
che poco tempo fa è stata riscattata in Marocco, dove fu
condotta schiava l’anno passato da un Pirata Saletino.
Narrando storicamente la metà solo di quello che le è
avvenuto ne’ tanti lunghissimi viaggi da lei fatti, vi
sarebbe da fare un Libro assai curioso e pieno di notizie
degne d’esser comunicate al mondo. E a questo fare la
consiglierò, e l’ajuterò anche occorrendo, se mai la vedo
un giorno in Milano, dove il Merosio spera [115] di
poterla condurre tosto che sarà da Essa raggiunto. Egli
ha già sicure notizie che è sbarcata sana e salva da
Marocco in Gibilterra. Dopo quattr’ore e più di
confabulazione, convenne separarmi da quel buon
Milanese; e mangiato qualche cosa, e salito in calesse,
giunsi quì dopo d’avere attraversata la Riviera di
Guadixa a guazzo. Questo Talaverola è un poverissimo
Villaggio, e la Posada mal corrisponde alla breve e
sonora Iscrizione che ha sulla Porta: Meson de los
Cavalleros24; pure comparata agli Stallages di
Portogallo è anch’essa, come la Posada di Badajoz, un
Castello fabbricato per incanto dalla Fata Alcina. Giunto
qui, e standomi con le mani in mano sulla Porta di
questo Meson, e pensando come fare a passar un pò di
tempo aspettando la cena, mi venne intorno un gruppo
di Fanciulline scalze e mal vestite, ma vivaci come
fringuelli. Avendo io a caso tratto in quel punto
l’oriuolo, mi domandarono l’ora, e rispondendo io che
104
erano le sei, una d’esse mi richiese come lo potevo
sapere da quel Relox25? Io allora le mostrai col dito l’ago
e i numeri [116] e contando dall’una sino alle sei, e
facendole notare che l’ago era appunto sul numero di
sei: Come fa l’ago, disse Paolita, per andare alle sei, e
all’altre ore quando uno ha bisogno di saperle? Alla
quale interrogazione avvicinai l’Oriuolo all’orecchio di
Paolita, e fattole sentire il moto interno di quello, non si
può esprimere lo stupore che a un tratto la percosse;
onde le sue Compagne una dopo l’altra vollero tutte
avere l’Oriuolo all’orecchio, e mi divertirono
moltissimo colla semplicità delle loro riflessioni sulla
maravigliosa virtù dell’Oriuolo; nè potendo contenere
ne’ loro corpicelli una cosa tanto stupenda quanto
l’interno continuo picchettare di quello, gridarono a
tutta la ragazzeria maschile e femminile di quella strada,
di correre e venir a vedere il Relox del Hidalgo, cioè
l’Oriuolo del Gentiluomo; sicchè in due minuti fui
accerchiato da tutti gl’innocenti Abitanti di Talaverola, e
a tutti dovetti porre l’Oriuolo all’orecchio; e quelle
Fanciulle alle quali feci l’altissimo onore di far sentire il
ticche-ticche due volte, non si può dire il doppio gaudio
che s’ebbero di quella duplicata fortuna. Oh voi Grandi
della Terra, che andate in traccia di felicità mondana per
tante vie, e che vi credete di trovarla nello esercitare
potentemente la Grandezza vostra, sempre sforzandovi
25 Relox nel Dialetto d’Estremadura, e Relojo in lingua
Castigliana, vale Oriuolo, comechè l’Accademia Spagnuola
voglia che oggi si scriva Relox, e non più Relojo.
105
di farla a tutti conoscere per anche [117] maggiore di
quello ch’ella è, perchè non venite tutti in Talaverola
con un oriuolo in mano per ciascheduno? Quì sì, che
sarete stimati dappiù degli altri con questo non meno
innocuo che facil modo di mostrar superiorità! Passata
quasi un’ora con tanto gusto quanto n’avevo
evidentemente dato a quelle buone creaturine, e
licenziatele con qualche monetuccia, rientrai nel Meson,
dove cacciando gli occhi dappertutto, come soglio
dappertutto fare, lessi sur una bussola elemosinaria uno
scritto in lettere majuscole, che diceva così:
O Tu onrado Cavallero
Que Vegais a este Meson,
Da un ochavo a las Almas,
Y ponlo en este Cajon.
Mira que la Obra es buena
Del divino Concistorio,
Y lo admite de mano ayena
Para que salgan de pena
Las Almas del Purgatorio.
Che volete di più, fratelli? Vi do sino della poesia
Talaverolesca, o Talaverolona come vogliam dire, e voi
vi lamenterete ch’io non vi mando minutamente ogni
cosa notabile che vedo viaggiando? Avete mo’ propio il
torto marcio, quando vedete che io vi copio sino de’
versi sgrammaticati dell’incognito Pindaro della [118]
Guadixa. Ma perchè non abbiate appiccagnolo nessuno
da rimproverarmi di pigrizia, to’ che ve li traduco.
106
Signor dabbene e bello,
Quì giunto a suo grand’agio
Deh lasci un quattrinello
Dell’anime in suffragio.
Vossignoria Illustrissima
Farà cosa gratissima
Al santo Concistorio
Con pecunia pochissima
Per chi sta in Purgatorio.
Andate in letto, fratelli, che gli è ora. Pigliate esempio
da me, che vi vado in questo momento. Addio.
LETTERA QUARANTESIMA.
Di Merida li 26. Settembre 1760.
107
azioni, direbbe cosa da uomo scempiato, perchè la
vergogna nostra, quando non è palese al mondo, non dà
troppo fastidio ad alcun di noi. Quare dunque non
facciamo noi una cosa che non è nè faticosa, nè
vergognosa, e che ne potrebbe facilmente condurre a
vivere una miglior vita, e che per conseguenza ne
procaccerebbe più felicità? Quia, rispondo io, sarebbe
cosa troppo uniforme e troppo piana lo scrivere ogni
sera dell’anno le medesime cose a un dipresso, poichè le
medesime cose a un dipresso deve fare e deve dire
chiunque vive una vita uniforme e piana, coricandosi
ogni sera in quello stesso letto d’onde si tolse la mattina,
e sedendosi ogni mattina e ogni sera a quella stessa
mensa a cui jermattina e jersera si sedette; e visitando
oggi o ricevendo visita da quelle stesse persone che jeri
visitò o dalle quali ricevette visita; e cianciando presso
che ogni giorno di quelle stesse cose, di cui fece i
precedenti giorni ripetutissime ciance. La noja d’aver
sempre dinanzi agli occhi gli stessi oggetti, contribuisce
moltissimo a rendere la vita più grave che non lo è
naturalmente, come [120] era il mio caso in quella nave
corriera con quelle corde, e quelle tele, e quegli stecchi;
e la floscia stanchezza che già si sente nel vivere una
vita uniforme, sarebbe forse accresciuta dal fare, e poi
dal riandare una uniformissima descrizione di quella
uniformità. Di quì nasce che gli uomini detestano più di
tutte cose la prigione, perchè in prigione più che in altro
luogo si vive una vita uniforme. Di quì nasce che due
tenerissimi amanti uniti in matrimonio, di rado si
108
trovano dopo alcun dì possessori di quella tanta
beatitudine che si promettevano già con la fantasia,
perchè pochi sono i tenerissimi amanti, che sappiano o
possano trovare nell’anima l’un dell’altro quella varietà,
che non è trovabile ne’ corpi loro. Di quì nasce che i
poveri s’affaticano per acquistar ricchezza, perchè le
ricchezze procurano i mezzi per rendere la vita varia. Di
quì nasce che i ricchi se ne corrono a ogni sorte di
spettacoli, che mutano sovente d’abito, che vogliono
aver dal cuoco i cibi variati ogni dì, e che sen vanno
vagando quando possono per molte parti del mondo. E
di qui nasce in somma, che gli uomini studiano chi armi,
chi lettere, chi arti, chi mercatura, chi questa, chi quella,
chi quell’altra cosa, unicamente per cambiare ogni
momento di scena, e per involarsi a quella maledizione
chiamata uniformità o medesimezza. [121] Ma faccia
l’uomo quel che vuole, non potrà mai far sì, che trovi
cose in questa sublunar vita affatto differenti una
dall’altra, e atte a fargli sdrucciolar via i giorni, senza
sentire in ognuno di que’ giorni molte ore di tedio. È
forza che il Re soffra qualche ora di noja ogni dì sul suo
trono, come il filosofo in mezzo a i suoi libri, e
l’ortolano nell’orto suo; faccia il Re, faccia il filosofo,
faccia l’ortolano quel che vuole. Lo studiare, e il
viaggiare par che sieno dalla pluralità degli uomini
considerati come i due più possenti mezzi per fuggire
uniformità, e per conseguenza tedio; ma l’uomo, che
studia, a ogni tratto dà di cozzo in pensieri ed
espressioni già da esso incontrate in altri libri, o sentite
109
da altre persone. E all’uomo che viaggia avviene ancora
di peggio, perchè alfin del conto non vede altro
dovunque si volga, che pianure, e montagne, e valli, e
uomini e donne quì, e uomini e donne là; e cavalli e
muli, e simili cose tutti quanti i dì; e non può far di
meno di non iscendere a un’osteria a pranzo, e a
un’osteria a cena, dove è sempre trattato con la stessa
civiltà, e con la stessa mala fede; dove non sente che le
stesse frasi; e dove di radissimo s’abbatte a vedere o a
udir cosa che lo paghi di molte ore d’uniforme andare
delle bestie che lo tirano, e sino d’uniforme positura di
corpo nella vettura in [122] cui è chiuso. E se si mette a
scrivere il giornale de’ suoi viaggi gli è peggio ancora
mille volte, che tutti i dì la medesima storia da capo. Io
so quest’ultima cosa spezialmente per attual prova, che
non v’è quasi modo la sera di cominciar il racconto
della giornata senza quel comunale vocabolo
Stamattina. Ma quello che è inevitabile, bisogna che sia
inevitabile; onde fratelli cari, abbiate pazienza, e
lasciatemi ogni sera cominciare col vocabolo solito di
Stamattina. STAMATTINA dunque partii di Talaverola
alle otto. Non ho vista nè fatta in tutt’oggi alcuna cosa
rimarchevole. Ho soltanto osservato che i leandri da noi
coltivati con tanta cura ne’ nostri giardini, crescono da
se sulle rive della Guadiana che abbiamo costeggiata
qualche miglio; e se pure ho fatta in tutto il dì alcuna
rimarchevole cosa, e’ non fu altro che pranzare seduto in
terra in un prato senz’erba. Entrai in Merida per un
ponte, che non è tanto bello quanto quello di Badajoz,
110
ma che pure ha il suo pregio. Pochi fiumi d’Europa
hanno due ponti come i due che onorano la Guadiana, la
quale bagna egualmente i piedi a quella e a questa città.
Per la via da Talaverola a Merida si comprarono alcuni
poponi, che non hanno che invidiare a que’ di Cantalupo
in Romagna, a que’ di Caravaggio in Lombardia, e a
que’ di [123] Cambiagno in Piemonte. Ed eccovi
un’altra mia operazione d’oggi non meno rimarchevole
della prefata. Avevo raccomandato a Battista di
conservarmi il seme di quei poponi, ma quella mezza
testa si scordò l’ordine, e buttò via quel seme, che
facevo conto di seminare in più parti d’Italia per
contribuire alla propagazione pel mondo delle cose
buone. Non avendo argomento per una lunga lettera
datata da Merida, ho voluto schiccherare quella
tantafera dell’uniformità, con quella po’ di giunta delle
operazioni rimarchevoli, de’ leandri e de’ poponi,
essendo risoluto di fare le mie lettere lunghe per
conciliarmi il sonno ogni sera; e mio danno se qualche
goffo Albanese sentenzierà ex Cathedra, che queste mie
quotidiane ciance sono prolisse troppo per meritare il
nome di lettere, e brevi troppo per essere decorate col
titolo di dissertazioni. Ho io altro da aggiungere? No.
Dunque finisco. Addio.
111
LETTERA QUARANTUNESIMA.
Di Meaxaras li 27. Settembre 1760.
112
furfanti da que’ suoi cavalleros, cosa che avrebbe potuto
agevolmente fare, perchè nè io nè il signor Edoardo non
sappiamo troppo l’arte della guerra; e se ci fosse stata
offerta battaglia da que’ suoi tanti Ferrautti, e Grandoni,
[125] e Baluganti, e Serpentini28, mille contr’uno che
rimanevamo a’ due primi colpi infilzati dall’aste della
prepotenza. Il Signor Don Colonnello volle però sfogare
la stizza sua in qualche modo, e quantunque i nostri
calesseri gli dicessero molto sommessamente, che i loro
muli avevano appunto finita la loro Cevada29, e che
mettevan sotto immediate, quel cortese signore senza
ascoltare intera una sola calesseresca palabra, per tema
forse non gl’imbrattasse il nobil buco di questo, o di
quell’altro nobile orecchio, ordinò impetuosamente a
tutto lo squadrone della sua cavalleria, che cacciassero
tosto i nostri quattro buoni muli d’una stalla, che ne
avrebbe capiti otto; per alloggiarvi le due sue maledette
rozze d’affitto. Che bella cosa è la forza! E anch’io
quando sarò Colonnello d’un reggimento di cavalleria
voglio cacciare tutti i muli di tutte le stalle, se m’avessi
a mettere io stesso alle mangiattoje, e masticarmi la
biada loro co’ miei propri denti. I calesseri abbrividando
dello spavento, mi vennero a raccontare il fatto, e mi
scongiurarono a partir subito, per tema che a quel
settuagenario Brandilone30 non venisse [126] anche il
ghiribizzo di far tagliare a pezzi i muli, i calesseri, i
28 Eroi Spagnuoli ne’ Poemi del Bojardo e dell’Ariosto.
29 Biada, o mangiare che si dà in Ispagna a’ cavalli e a muli.
30 Nome d’un Eroe furiosissimo nel Calloandro fedele.
113
calessi, e chi dovea continuare il viaggio in essi. Ma
siccome dalla finestra io vedevo avanzarsi verso la
posada il resto del reggimento di quel signor
Colonnello, ordinai loro d’andare ad aspettarci fuora del
villaggio, che volevo prima dar un’occhiata a quelle
genti, le quali, a dir vero, eran belle, ben vestite, ben
armate, e con di be’ cavalli sotto; e quel che importa più,
con un Colonnello che li comanda, capace a un bisogno
di far cacciar via d’una stalla quattro muli che hanno
cento volte più forza di lui, tanto la scienza militare
prevale alla natural robustezza. Quando ebbimo
squadrato ben bene il reggimento, e gli officiali, e le
mogli d’alcuni d’essi, che venivano in varie vetture alla
posada, ce n’andammo a raggiungere i nostri
malavventurati muli, che non si potevano dar pace del
poco fratellesco trattare del signor Colonnello, e
montando in calesse, e camminando, giungemmo
finalmente qui a Meaxaras, che già era tardi. Quì si cenò
per non poter fuggire da quella uniformità, sulla quale
feci jersera quella mia brava speculazione. Poi si andò a
fare una passeggiata al lume della luna, che era lucida e
tonda come lo è spesso una sposa dopo dugencinquanta
giorni circa di buon matrimonio. Vedemmo un Castello
rovinato [127] i novanta nove centesimi, e andammo
verso quel rovinato Castello, presso alle di cui ruine
stava passeggiando sol soletto il vecchio Piovano del
luogo. Salutati di quà e di là, si domandaron novelle di
quel Castello; e l’uom dabbene, tanto volonteroso
d’entrar in chiacchere con noi, quanto lo era io di
114
barattar parole con lui, mi disse ab Ovo tutto il negozio
del Castello, e si diffuse per questo in tanta storia
Spagnuola, che Tito Livio avrebbe sudate quattro
camicie a dirne altrettanto della Romana. Senza burle:
Trovai quel piovano molto eloquente, e molto leggiadro
nella sua storica dissertazion verbale, e l’avrei avuto
molto caro per compagno di viaggio, che un più
corrente e un più chiaro favellatore non saria facile
trovarlo. Venne l’ora di separarci; Criado de’ Vosted,
Sennor Cura; Criado de Vostedes31. La luna raggiava
bellissima, come dissi. E che diascane anderemo a fare
alla posada, con questo bellissimo lume di luna?
Godiamocelo un poco, e voltiamo un po’ di quà, che
sento gente cianciare e ridere. Gran cosa che sino in
Ispagna e sino in Meaxaras si trova gente che ciancia e
ride, come in Inghilterra [128] e in Italia! Ma tutto il
mondo è paese, dice il proverbio. Quella gente che
cianciava e che rideva erano alcuni ragazzi e alcune
ragazze di poca età come quelli e quelle di Talaverola e
del Relox. Stavano godendo il fresco a quel lume di
luna sghignazzando fanciullescamente in mezzo a una
strada, mentre i loro Padri, e le loro Madri se la
discorrevano in sul serio sur una porta lì vicina. Eh
Muchachito32, mi sapreste dire dov’è la posada di Tia
31 Servo di Vossignoria Signor Curato; servo delle signorie
vostre. Sono le parole di comiato dell’autore, e la risposta del
piovano nel separarsi.
32 Muchachito, diminutivo di Muchacho, che in Italiano vale
fanciullo. Si pronunzili quasi come noi pronunzieremmo
115
Morena33? Volti a mano manca, signore, e vada dritto
che la troverà. Vi ringrazio della vostra cortesia, e
accettate questa monetina in ricompensa. Il Muchachito
ciuffò34 come un margutte; e i suoi compagni [129] e le
compagne sue, trovando gente sì liberale, che pagava
fino le risposte date per la strada, ne furono subito
intorno. Señor, Señor, dia anche qualche cosa a me. E
anche a me Sennor. E anche a me. Questo era appunto
quello ch’io cercava, cioè di levarmi un pò di tafferuglio
intorno per passar tempo. Si distribuirono dal signor
Edoardo e da me tutte le mal tagliate monetine di rame
che avevamo indosso, e forse ne sarebbe toccata una per
ciascuno e per ciascuna di quella fangiullaglia, se le
grida e li schiamazzi loro non n’avessero fatta accorrere
dell’altra da tutta la strada, anzi da tutto il villaggio. Un
ragazzino mi tirava le falde, pregando per un
Quartillo35; una fanciullotta pigliava il signor Edoardo
Mucciaccio.
33 Morena era il nome della vecchia posadera, e Tia, che
significa in Italiano Zia, è vocabolo usato dagli Spagnuoli a
un dipresso come i villani di Toscana usano quello di
Madonna.
34 La prestezza con cui quel Muchachito pigliò la moneta
donatagli dall’autore, gli fece ricordare questi quattro versi
del Pulci nel Morgante Maggiore.
Florinetta una gemma ch’avea in testa
Gittò nella padella a mano a mano;
Margutte ciuffa, e la mano ebbe presta,
E disse: Io fo per non parer provano.
35 Quartillo è una moneta appena equivalente alla quarta parte
116
pel dito mignolo, e voleva il suo quartillo anch’essa; e
se non mi fossi messo a gridare col mio vocione più
forte delle loro vocine, credo ci avrebbero stracciati i
panni d’addosso, e sbalorditi con le loro importune
preghiere. Gridai dunque che non avevamo più
quartillos; ma che se volevano venir tutti alla posada di
Tia Morena n’avremmo trovati degli altri. Pensa se si
parlò a’ sordi! Ragazze e ragazze, [130] tutti ne
saltavano d’allegrezza intorno, come caprioli, e
incerchiati da quella moltitudine, e mettendo tutta la
terra a romore, e seguiti da tutti gli abitanti di Meaxaras,
che corsero ad accrescere lo marmaglia e le grida,
giungemmo dove si voleva giungere. Lo povera Tia
Morena quando sentì avvicinare alla sua casa tanto
fracasso ebbe a spiritare della paura; e non solo le donne
che aveva con seco per nipoti, e per serve, tremarono,
ma Monsù Battista e i calesseri stessi stettero infraddue,
che un qualche gran malanno s’immaginarono subito ne
fosse avvenuto. Pure chiamati altieralmente da me di
sulla porta si rincorarono, e venuti a noi si votarono le
tasche di quanti quartillos avevano; e Tia Morena recò
anch’essa tutti i suoi, e tutte le donne e gli uomini di
casa i loro, sicchè n’avevamo altro che le mani piene.
Quando n’ebbimo raccolti quanti se ne trovarono,
ordinai silenzio universale, e a me chiamando con
impetuosa maggioranza quattr’uominacci fuor della
folla, ordinai loro di fiancheggiar la porta della posada,
117
e di badar bene, che nessuno truffasse più d’un quartillo
con venire a farsi pagare due volte. Fatti quindi entrare
in quella porta todos los Muchachos, y todas las
Muchachas, gridai a queste di venire le prime fuora a
una a una. Tutte volevano esser prime, [131] e ognuna
faceva forza per avere il primo quartillo, ma i
quattr’uomini tennero saldo, e le fecero uscire nel
dovuto ordine una dopo l’altra. Chi sei tu? Son
Teresuela. Teresuela, fa un salto, e grida Biva el Rey
d’Espanna. Uppe: Biva el Rey d’Espanna36. Ecco il
quartillo, Teresuela, va con Dios. E tu chi sei? Son
Maffia, son Manuela, son Paolita, son Pepino, son
Antonieta, son questa, son quell’altra. Tutte in somma
dissero il lor nome, tutte fecero il lor salto, tutte
gridarono Biva il Rei d’Espanna, e tutte ebbero il
quartillo, e forse alcuna delle più grandicelle n’ebbe
due, e anche tre. Poi i ragazzi passarono la mostra nello
stesso modo che le fanciulle, con applauso, e risa, e
grida dell’astante popolo adolescente, maturo, vecchio,
e decrepito di Meaxaras, che dacchè Meaxaras si
fabbricò nel tempo de’ Mori, non si fece qui festa così
grande e così gaudiosa, e così generalmente approvata.
E tanto più si applaudì, e si gridò, e si rise, quanti più
furono gli orecchi che tirai ora a quel fanciullo, ed ora a
questa ragazza, che o volevano rientrar a forza nella
porta per poi uscirne di nuovo per un altro salto, un altro
grido, e un altro quartillo, o pretendevano d’essere pur
36 Viva il Re di Spagna.
118
allora giunti, [132] e di non aver avuto il dovere; nè mi
fu difficile riconoscerli quasi tutti quantunque da più di
cento, perchè avendo lor fatto dire dapprima i loro
nomi, e domandando ora come si chiamavano, que’
scimiotti e quelle arlecchine che non avevano pronta
malizia rimanevano sorprese dalla non pensata
domanda, e cercando altri nomi colle poco preste e
soprafatte menti, rimanevano lì senza parola; ed io con
un Pìcara37, o con un Ladròn, e una tirata d’orecchi, li
cacciava via, lasciando però scorrere con molta collera
un rimasto quartillo alle fanciulle, le quali per
nascondere a’ maschi la distinzione usata loro,
stringendo con una mano mollemente la destra che dava
il danaro, correvano coll’altra all’orecchio, a cui non
facevo altro che appoggiar la sinistra, e guardando negli
occhi al donatore con quanto più furbesco affetto
potevano, strillavano come se un pezzo d’orecchio mi
fosse rimasto fra le dita. La festa finì con un viva
generale a los Strangeros, e licenziati, ed esortati tutti
ad esser buoni ragazzi e buone ragazze, tutti e tutte se
n’andarono con moltissimo frastuono lungo quelle vie
chi di quà, chi di là, tutti gridando e saltando immersi
nell’allegrezza de’ quartillos, e forse più della
improvvisa [133] baldoria, che quantunque la notte sia
moltissimo avanzata pur v’ho voluto raccontare, avendo
sempre nella memoria un bel documento d’un moderno
119
autore Inglese, chiamato Armstrong, il quale nella sua
Descrizione di Minorca ne avverte, che se vogliamo
scrivere con vivezza, bisogna scriver le cose subito che
si vedono o che accadono, e non procrastinare;
altramente le idee s’indeboliscono, e le pitture che
cerchiamo fare, riescono insulse e fredde. Ma non ho
più candela, onde con la solita uniformità vi dico Addio.
LETTERA QUARANTADUESIMA.
Truxillo li 27. Settembre 1760.
120
regolare, direi che vanno colà a fare la Via Crucis, ma
sono sparse quà e là senz’ordine alcuno. Dalla parte
opposta a quella per cui entrammo, sono stato un quarto
d’ora studiando il diciframento d’una iscrizione
Spagnuola che sta in cima a un arco molto semplice e di
poca spesa, e che serve di porta alla città da quel lato.
L’iscrizione e l’arco sono roba di questo secolo; tuttavia
non mi fu possibile indovinarla, tante sono le sciocche
abbreviature che la compongono. L’autore credette forse
d’imitare in essa la maniera degli antichi Romani,
incorporando sempre due lettere in una; ma da’ Romani
antichi a’ Truxilliani moderni v’è qualche notabile
differenza. Il modo d’abbreviare le iscrizioni in queste
parti è a un dipresso questo. Volendo esempligrazia
esprimere Carlo Emanuele Re di Sardegna, un dotto di
Truxillo comincia a fare in modo assai majuscolo questo
segno Œ; e poi dentro quella gobba dell’E caccia un
piccolo erre e un esse; e così crede aver espresso
chiaramente quello che [135] voleva esprimere, perchè,
dice esso, l’erre vuol dir Re; e l’esse vuol dir Sardegna.
Vedete che asinesche fatiche si stanno preparando quì, e
in altre parti di questi dotti paesi, a i Bartoli che
verranno da quì a due o tre mill’anni! Beati saranno quei
tempi, ne’ quali s’avranno di quelle eruditissime
erudizioni a carra, come i tempi nostri sono stati beati
per quelle tante che si sono avute intorno alle iscrizioni
Etrusche, e intorno a’ dittici Quiriniani! Questa posada
quì di Truxillo è assai buona, ma è tutta piena di pianto,
perchè il vajuolo ha ammazzato alla posadera due
121
figliuoli stamattina. Se la povera donna fosse andata a
nascere, o a far figliuoli in Inghilterra, non avrebbe
probabilmente oggi l’altissimo dolore che ha, perchè li
avrebbe fatti, come dicono là, Inoculare, cioè avrebbe
trovato un medico che avrebbe fatto venire
artifizialmente il vajuolo a’ suoi figli prima che venisse
loro naturalmente; ed è cosa certissima, che i fanciulli
inoculati al dì d’oggi gueriscono tutti in Inghilterra, e
che quando sono un tratto gueriti, il vajuolo non torna
loro più. Nè l’inoculamento, o l’innesto del vajuolo si fa
colà ai bambini e a’ fanciulli solamente, si fa anche agli
adulti; e molti garzoni della mia statura, e molte ragazze
da marito, e fino delle donne maritate si fanno colà tutto
dì guerire [136] per quel mezzo di quel male, di cui
giacchè sono a dire, voglio dirvi qualcosa per allungar la
lettera di stasera38. Voi avrete, fratelli, letto che il
serraglio del Gran Signore a Costantinopoli, e quello del
Soffi a Ispahan, e tutti i serragli de’ Grandi di Persia e di
Turchia sono principalmente provvisti di bellezze da’
Giorgiani e dai Circassi. La Georgia e la Circassia sono
38 L’autore giunto alla patria ha veduto con piacere, che
medianti le esperienze de’ signori Fiorentini riferite dal
Dottor Targioni, e medianti alcuni altri sforzi fatti da altre
ben intenzionate persone, v’è da cominciar a sperar qual
cosa anche in Italia intorno all’innesto del vajuolo; pure
giacchè questa sua tiritera era scritta non ha giudicato a
proposito cancellarla, perchè anche ripetendo cose già da
altri scritte agl’Italiani nel tempo dell’assenza sua dall’Italia,
e’ potrebbe forse dare una spinta di più a questa faccenda
dell’innesto.
122
due Provincie d’Asia molto abbondanti di belle
femmine; ma perchè sono provincie mediterranee, e
sprovviste di derrate e di commercio, s’è introdotto in
esse l’iniquo costume, che i genitori trovandosi avere
delle belle figliuole, le allievano con molta cura e con
molta spesa per conservare in esse la bellezza con cui
son nate; e quando poi son giunte a una certa età,
barbaramente le vendono a chi offre loro più danaro.
Siccome però il vajuolo suole [137] sovente distruggere
l’umana bellezza, i Georgiani e i Circassi hanno
pensato, sono molti secoli, a liberarsi di questo terribile
nemico del loro commercio, inserendo il vajuolo alle
loro Figliuole quando la loro pelle per l’età è ancora
tenerissima, e facile a rimarginarsi e a rintegrarsi
ancorchè bucata, e rotta, e lacerata da quel male. È
probabile che i ripetuti esperimenti fatti da essi intorno
al miglior modo d’inoculare, abbiano perfezionata l’arte
di far venire e di guerir poi il vajuolo. Checchè ne sia,
non è ancora un mezzo secolo, che trovandosi
Ambasciadore alla Porta39 un Mylord Montaigu, e
avendo colà seco la sua moglie, donna assai filosofica,
questa ebbe a caso notizia dell’inveterato costume de’
Georgiani e de’ Circassi di far venire a lor posta il
vajuolo a’ loro figliuoli. La coraggiosa Lady, che ne
aveva seco quattro o cinque de’ suoi, volle fare il
terribile esperimento sopr’essi; e fattili con tutta la
possibil cura inocular tutti un dopo l’altro, la faccenda
123
gli riuscì felicissimamente. Tornata al suo paese ben vi
potete immaginare quanto fece per indurre tutti i padri e
tutte le madri Inglesi a fare quello che essa aveva fatto
per togliere la sua prole dal troppo gran pericolo di
perder la vita o almeno la bellezza. [138] Molti si
lasciarono persuadere: molti no. Ad alcuni di que’ che vi
s’arrischiarono, la cosa riuscì bene; ed altri no. Questo
produsse moltissimi scritti pro e contro l’inoculamento.
Quando più si disputava, e quanti più esperimenti si
facevano, tanto più l’inoculamento guadagnava
partigiani. L’arte finalmente d’inoculare si rese così
perfetta, che la presente Real Famiglia, la quale è molto
numerosa, è stata tutta inoculata, e ogni suo individuo è
guarito onninamente, nè ve n’è uno a cui sia pur rimasto
in faccia un solo bùttero di vajuolo. Quando una Real
Famiglia dà di questi esempi in un Regno, non è
difficile a credere, che si siegue volentieri da’ sudditi. Vi
ricordate voi di quelle tre figliuole del Baronetto
Dashwood, di cui vi scrissi una volta da Kertlington
nella Provincia d’Oxford? Ebbene se ve ne ricordate, vi
dirò che quelle tre Dee di bellezza le vidi io stesso
inoculare due anni dopo che fui in Londra, oltre a un
numero grande d’altri figli d’ambi i sessi di molti miei
amici e conoscenti; e non ve n’è stato uno solo che sia
morto per cagione di quella operazione. Monsù della
Condamine40, se [139] non m’inganno, riferisce in un
40 L’autore appunto s’è ingannato, perchè Monsù della
Condamine combatte anzi questa falsa opinione; ma un
viaggiatore scrive senza poter ricorrere a’ libri, e senza
124
libretto che ha scritto sul vajuolo artificiale, che a
qualcuno il vajuolo torna naturalmente dopo d’averlo
avuto artificialmente. Può darsi che il caso succeda una
volta in dieci mila; ma in Inghilterra dove s’inoculano
ogni anno almeno venti mila creature, io non ho mai
sentito che questo caso sia avvenuto. La creatura alla
quale si vuol far a forza venir quel male, è prima dal
medico purgata secondo le regole; e quando il corpo è
preparato a dovere, se le fa un picciolissimo taglio o
puntura a fior di pelle in qualche parte del corpo. Sù
quel taglio o sù quella puntura s’applicano poi delle
filacce intinte nella marcia del vajuolo di qualche
persona che ne abbia avuto di quello men pestifero. Si
fascia la ferita, e si lascia operare alla natura, la quale in
pochi dì fermenta, ed espelle il vajuolo fuor del corpo.
Questa maniera però d’inserire il vajuolo può darsi che
coll’andar del tempo si perfezioni ancor di più per un
caso, che vi vo’ raccontare. Un certo Roberto Brooke41
medico forse ancora vivente in Marilandia, Provincia e
Colonia Inglese d’America, ha scritto di là dodici o
tredici anni fa, che un tratto egli ebbe a inoculare un
giovane Gentiluomo di [140] vent’anni circa: che a
questo effetto gli fece la solita incisioncella nel braccio,
alla quale applicò le filacce impregnate nella materia
vajuolosa, fasciandogli poi il braccio. Che, trovando il
poterli confrontare con la sua memoria.
41 L’autore si ricorda d’aver letta questa cosa in non so qual
tomo del Gentleman-Magazine, che si pubblica mensualmente
in Londra.
125
giorno dietro la fascia troppo molle al paziente, la
sciolse affatto per bendarli il braccio di nuovo: che
quando l’ebbe sciolta trovò che le filacce non erano
sull’incisione dove credeva d’averle applicate, ma che
erano scorse via, e passate dalla parte del braccio
opposta all’incisione: che su questo egli esaminò
attentamente la picciola ferita da lui fatta, e la trovò non
punto scolorata, come l’avrebbe dovuta trovare, se le
filacce vi fossero state sù alcun poco: che guardando
alla parte opposta del braccio dove le filacce erano
casualmente scorse, trovò che la pelle aveva quivi una
macchia assai rossa e infiammata: che vedendo
chiaramente non essersi alcuna parte della materia
vajuolosa introdotta per la incisione, esso signor Brooke
teneva per fermo che il giovane Gentiluomo non avesse
ad aver il vajuolo in conseguenza della sua operazione;
ma che s’ingannò in tale sua congettura, perchè il
vajuolo gli diede fuora tosto in poco più di trenta
pustulette, facendo il suo solito corso senza il minimo
minaccevole sintoma, e con tutta la maggiore felicità, e
buon esito. [141]
Il signor Brooke aggiunge alla sua relazione, che in
conseguenza di questa casuale scoperta da lui fatta, cioè
che l’inoculamento si poteva effettuare senza incisione,
provò poi a farlo così sopra altri pazienti, e assicura che
ebbe sempre un fortunato successo. Che quando ebbe
fatte di ciò molte e molte prove, credette potere con
tutta fiducia conchiudere, che men male e men pericolo
si avrà sempre nel comunicare il vajuolo al sangue
126
senza ferita che con ferita, perchè comunicandolo senza
ferita la parte più sottile e più pura della materia
vajuolosa entra pe’ pori della pelle, e la più grossa e più
impura se ne sta fuora. In favore di questo suo nuovo
metodo d’inoculare egli diede delle ragioni che mi
parvero convincentissime quando tanti anni fa lessi la
bella relazione che egli aveva mandata a Londra di tutta
quella faccenda; ma quelle ragioni io non me le ricordo
ora, perchè non ho il capo troppo medico, e bisogna
essere del mestiere per ricordarsi per sempre una cosa
che si è letta una volta sola. Non so se fra i Medici di
Londra ve n’ abbiano molti o pochi che abbiano
addottato il sistema inoculativo del Medico di
Marilandia. Qualcuno so che l’ha addottato. Ma che
quel sistema si addotti, o che si siegua ad inoculare per
incisione, io so che se avessi mille Figliuoli, non avrei
difficoltà [142] di farli inocular tutti mille, perchè oltre
alle fortunate esperienze che vedevo quasi ogni dì in
quella Metropoli, ho anche più volte date delle occhiate
alle liste de’ poveri che vengono per carità inoculati
nell’ospedale eretto a questo effetto colà, e ho quasi
sempre trovato che nessuno di que’ poveri è morto in
tutta l’inoculatoria stagione; e quì bisogna soggiungervi
che non tutte le stagioni sono propie per inoculare, ma
che bisogna aspettare o la primavera, o l’autunno,
perchè una stagione troppo calda o troppo fredda non
sarebbe tanto opportuna, massimamente in uno spedale
dove il vajuolo è dato a centinaja di creature a un tratto.
Voi altri in Italia non avete ancora introdotta
127
l’inoculazione del vajuolo artificiale, ma col tempo è
probabile che l’introdurrete. Gli è vero che quando si
comincerà, si sentiranno de’ contrasti tra i dotti, come è
stato il caso da principio in Inghilterra; ma se il clima
nostro non vi si oppone invincibilmente, il che non
parmi che possa mai essere il caso, si farà da noi quello
che si fa in Georgia, in Circassia, e in Inghilterra; e che
si avrebbe dovuto fare in Truxillo per risparmiarmi il
dispiacere di sentire questa povera posadera lagnarsi e
disperarsi della perdita de’ suoi due figliuoli. Dio sia
quello che ne la consoli. Voglio finire queste mie ciance
sul [143] vajuolo con raccontarvi come un bel
matrimonio si fece in Londra tra due amanti miei
conoscenti. Una povera; ma degna fanciulla era
innamorata d’un ricco giovane, che mostrava di amar lei
pure, ma che non sapeva risolversi a sposarla. Un giorno
che questi le stava bisbigliando non so che dolcezze
negli orecchi, la fanciulla con molta semplicità gli disse:
ma, signor tale, se gli è vero che mi vogliate bene,
perchè non mi pigliate voi per moglie, che io non avrei
caro altri che voi per marito? Eh so bene, soggiuns’ella,
veggendolo d’improvviso arrossire e confondersi, so
ben io la ragione che vi tiene irresoluto! La ragione è,
che io non ho un soldo di dote, e voi volete una che
abbia qualcosa, e aspettando che la vi capiti, voi venite
da me per passar via il tempo. L’amante vergognandosi
d’essere sospettato di viltà, e desideroso insieme di non
venir al punto, le rispose: signora, io mi contenterei
molto della bella persona vostra, e la dote non mi
128
cagionerebbe un momento d’irresolutezza; ma, a dirvi il
vero, ho pensato più volte, che non avete ancora avuto il
vajuolo, il quale se mai venisse a sfigurarvi quando
sarete mia, potrebbe anco a mio dispetto diminuire in
me quel sincero amore, che ho per voi, e renderne per
conseguenza entrambi sventurati. La fanciulla fu subito
[144] d’accordo che la ragione addotta era buonissima,
e gl’augurò lietamente buon viaggio nel separarsi da lui,
perchè egli doveva la stessa sera andare alla campagna
per un mese. Partito il giovine, la fanciulla mandò a
cercare un medico che le facesse tosto la cura
dell’inoculazione, la quale riuscì felicissima; cosicchè
tornando il giovane in città, poco voglioso di conchiuder
nulla, per quanto mi confessò dopo, e veggendo quanto
male essa aveva voluto sostenere per amor suo, le diede
il meritato premio del suo coraggioso amore,
facendosela sposa immediate; ed io li ho lasciati colà
dopo sei o sette anni di matrimonio, che pareva propio
si fossero appajati solamente il giorno innanzi.
Domane non faremo che quattro leghe, perchè
abbiamo una montagna da passare che mi dicono sia
cosa piena di spavento. Vedremo se sarà vero. Io però
non me ne sbigottisco, che le mie gambe mi servono
bene, e si fanno beffe delle più erte e delle più scabre
montagne. State sani. [145]
129
LETTERA QUARANTATREESIMA.
Zarayzejo li 28. Settembre 1760.
130
di que’ due muli si fosse rotta, stavamo da friggere; e
tuttavia secondo la regola se le dovevan rompere tutte
otto, scapucciando, cadendo, e tombolando come fecero.
Non è poca vergogna che non si faccia cosa alcuna, per
rendere un passo come quello un po’ meno rovinoso,
quando con poca polvere e con pochi picconi si potria
quivi rendere il cammino buono almeno per un secolo.
Ma s’abbiano i Portoghesi a cammino degli alloggi da
ladri, e gli Spagnuoli delle strade da assassini, a me non
debbe importar più troppo, che secondo la morale
probabilità non farò mai più questa via. Salita la
maladetta costa si giunse quì, dove affaticato dal
camminare a piede, e a un lume di sole che mi struggeva
riverberando da’ sassi, e reso stracco dall’ajutare a tener
i calessi in equilibrio, e più dal vegliare la precedente
notte in Truxillo pel mal di denti, e pel continuo gemere
e sospirare della posadera che sventuratamente m’era
vicina di stanza, mi buttai sur un letto, e dormii tanto,
che [147] si fe’ notte scura. Svegliato domandai al
segnor posadero se in questo Zarayzejo v’era alcuna
cosa degna d’esser vista; e sentendo da lui che questo
non è che un povero mucchio di povere case, mi posi a
scarabocchiare queste poche righe, intanto che
s’arrostiscono un pajo di pernici per cena. Mi scordai di
dirvi jersera, che pranzammo a Puerto de Santa Cruz,
che giace alle radici d’una brutta montagnaccia pelata e
sterile come una vecchia di novantanove anni. Se
domandate dove si pranzò oggi, rispondo che facemmo
un lauto banchetto sedendo sur un sasso, dopo che con
131
sommo stento s’ebbe rimesso il calesso sulle ruote; e
che quivi si bevette co’ mulattieri nostri del vino recato
da Truxillo in un fiasco di pelle chiamato da’ Portoghesi
Boraccho, e Bota dagli Spagnuoli. La mensa non era
apparecchiata secondo le mode d’oggi; le seggiole non
erano imbottite di bambagia, e i piatti e i bicchieri erano
qualche miglio lontani da noi; pure la fatica sofferta, e
l’aria della Sierra ne fecero divorare un pollo d’India
freddo, un mezzo prosciutto, un gran pezzo di cacio
pecorino, e non so quanti pani, con una furia da non
potersi dire nè in prosa nè in verso; cosicchè da Battista,
ma non dall’appettito mi sento chiamar a cena.
Contuttociò ubbidisco alla chiamata per costume, e vi
dico addio. [148]
LETTERA QUARANTAQUATTRESIMA.
Almaras li 29. Settembre 1760.
132
il mezzodì giungemmo ad un villaggio chiamato las
Casas del Puerto, dove con de’ Quartillos si fecero star
allegre alcune ragazzine, e un nuvolo d’esse ne venne a
insegnar la via saltando e ballando, che fu cosa
piacevole, ma neppur per ombra da compararsi alla festa
di Meaxaras. Son tre dì che si cammina pe’ monti, e
molto alti, e molto silvestri. Stamattina il tempo era
alquanto piovosetto. Se fosse stato sereno avrei salita
una costa delle più difficili a salirsi, e avrei vedute
dappresso le rovine del Castello di Mirabete, che sta in
vetta a un monte altissimo. Quel Castello è lontano una
[149] lega da Zarayzejo, e fu opera de’ Moreschi che
possedevano un tempo tutte queste parti di Spagna, e
che hanno dati i nomi che ancora si conservano a molti
di questi luoghi montuosi. Quel Castello di Mirabete è
affatto disabitato, e quasi intieramente rovinato. S’io
fossi un signor davvero, e non da burla, vorrei
trascorrere tutta Spagna, e visitare ogni suo luogo
piccolo e grande; e son sicuro che il piacere mi
pagherebbe della fatica, perchè de’ Moreschi solamente
vi sono per questi Regni reliquie numerose, e degne
d’esser viste, ed esaminate, e descritte. Quantunque la
Spagna sia tanto vicina a noi, e a’ Francesi, ed
agl’Inglesi, pure se ne sa da tutti noi forestieri tanto
poco, che è una vergogna; e tanto pochissimo da’ nativi,
che è una vergognissima. De’ Moreschi e de’ loro
costumi, verbigrazia, non si può dire quanto siamo
all’oscuro; eppure tutta Spagna n’era piena tre secoli fa.
De’ molti autori che fanno menzione di quel popolo,
133
nessuno m’ha data la minima soddisfazione, tranne il
Navagero, che nella sua descrizione di Granata ne disse
alcun poco minutamente. E da quel poco pur si rileva
che i Moreschi erano gente di lingua, d’abito, d’indole,
e di modi onninamente diversi da ogn’altro popolo
moderno d’Europa, e per conseguenza degni d’essere
stati guardati cogl’occhiali [150] filosofici d’un qualche
valentuomo. Le arti e le scienze di que’ Moreschi non
eran nè poche, nè scarse, ma con essi miseramente
anche perirono le loro arti e le scienze loro; e in Europa
non si sa più nulla nè della loro lingua, nè della loro
poesia, nè d’altra loro cosa, che tutto è stato sotterrato
nel nulla dall’ignoranza e dalla poca curiosità spagnuo-
la. Io sono però d’opinione che un attento e sagace
viaggiatore potrebbe ancora trovare per queste contrade
tanti materiali da comporre una bella storia, descrivendo
esattamente le reliquie che d’essi rimangono ancora,
dando una buona ripassata alle antiche canzoni, e
romanzi, e cronache spagnuole, e ragionevolmente
deducendo dal poco che resta, il molto che si aveva. Se
un Re di Spagna sapesse che paese è il suo, presto
sarebbe il più potente Re del mondo, perchè se si
badasse in queste sue provincie alle acque solamente, e
all’agricoltura, la Spagna potrebbe mantenere assai
milioni di gente più che non mantiene, come era il caso
pochi secoli fa. Molti miglioramenti si potrebbono con
facilità fare in quel po’ di paese da me visto la scorsa
settimana. Fra l’altre cose ho osservato che è paese fatto
apposta perchè vi crescano querce ghiandifere, o cerri,
134
come li chiamano i nostri poeti. E queste querce di quà
producono ghiande, che [151] sono tanto buone a
mangiare quanto le nostre mandorle. Ma quì non se ne
semina, e non se ne coltiva, e se la natura non dona della
roba agli abitanti, eglino fanno bene senza. Se
quest’albero solo fosse coltivato poca parte di questa
Spagna basterebbe a provvedere mezza Europa di
prosciutti, perchè i porci mangiando di queste ghiande
s’ingrassano maravigliosamente, e i prosciutti di
Spagna, come que’ di Portogallo, sono cosa
regalatissima. Eppure gli abitanti non hanno quasi che
mangiare tanto sono pigri e straccurati. È vero che poco
basta loro per tener l’anima unita al corpo, essendo, per
quanto ho osservato, il popolo più sobrio del mondo
vuoi nel mangiare o vuoi nel bere; ma e’ muove stizza
vederli tutti cenciosi e pidocchiosi, quando con poco
travaglio potrebbono passar la vita agiatamente, e avere
sulle mense pollami e prosciutti in copia, e indosso
qualche cosa da ascondere un po’ meglio le carni. Ho
notato camminando a piede, che in questi monti
v’hanno de’ marmi bellissimi d’ogni colore; ma dacchè i
Mori sono stati sbarbati di Spagna non s’è forse fatto in
questa provincia un edifizio solo di marmo, e la
picciolezza e la bruttezza delle case dove questa gente
abita per queste balze, non si può dire, e meno la loro
povertà. I Mori erano visibilmente uomini più
industriosi [152] a mille doppi: e innumerabili sono le
torri e le castella da essi fabbricate per queste balze; ma
gli Spagnuoli, che allora erano gente valorosissima,
135
dopo d’aver cacciati via que’ Mori s’impigrirono e
lasciarono andare ogni cosa in rovina, e in perdizione.
Così fecero i Romani quand’ebbero annichilata
Cartagine, e così molti altri gloriosi popoli quando i loro
emoli e nemici mancarono. Bisogna che la virtù, per
conservarsi lucida e viva, trovi ostacolo e contrasto,
altrimente s’irrugginisce e muore. Così succederà
agl’Inglesi quando avranno acquistato tutto il
commerzio del mondo a cui agognano. Otterranno da
quello per prima conseguenza tanta ricchezza, per
seconda conseguenza tanto ozio, e per terza
conseguenza tanti vizj, che il coraggio loro si snerverà,
e l’industria loro s’impigrirà; e un qualche popolo
povero e bellicoso farà ad essi quello che essi vanno da
un secolo facendo ad altrui. Ma non ingolfiamoci a
profeteggiare, e stiamo dove siamo, cioè
nell’Estremadura Spagnuola. Quando giungi in una
terra, ecco subito due, o tre, o quattro mascalzoni che
vengono colla bussola a chiederti una Lemosnita por las
Almas; e troppo grande è il numero degli Estre-
maduresi, che non sanno propio far altro che Pedir por
Dies. Va bene che le signorie loro chieggano per amor
di Dio, e che tormentino e infastidiscano i vivi per
assistere ai morti; [153] ma vorrei che pensassero etiam
a’ propi corpi, e che vivessero come Europei, e non
come Africani. Oltre alle quercie, che hanno quì
d’intorno, hanno anche degli olivi, e altri alberi
fruttiferi; ma di poco s’approfittano, e poco si curano
della liberalità della natura, che, se volessero, darebbe
136
loro cento volte più di quello che dà. Una mezza lega di
quà da Casas del Puerto si passa un’altra volta il Tago
sur un ponte di due archi assai larghi. Le acque sue
quivi sono del colore de’ mattoni mal cotti, e con poco
si potrebbono rendere navigabili; e navigabile pure si
potrebbe rendere la Guadiana, almeno da Merida in giù;
ma venga un canchero a quella barchetta che si vede su
questo o su quel fiume in Estremadura, e ne vengan due
a quel taglio, o argine, o sostegno, o altra cosa fatta per
adoperare le lor acque a irrigare e a fecondare qualche
terreno. Il ramerino, e molt’altr’erbe odorose crescono
per tutte le parti di questi monti che sono più salvatiche,
e profumando il cammino, rendono grato l’andar a piede
a chi n’ama la fragranza. Alcuni branchi di capre e di
pecore ho visti oggi sù per le rupi, e assai più se ne
potrebbon avere se si volesse. Ma sento il signor
Edoardo che russa possentemente, e la mezza notte
suona, onde mi butto giù anch’io. Fate lo stesso voi pure
fratelli, se avete sonno. Addio. [154]
LETTERA QUARANTACINQUESIMA
Di Navàl Moràl li 30. Settembre 1760.
137
Cevada43 per tirarci quattro leghe di più, facciamo
quattro ciance insieme, fratelli. Sono finalmente fuora
dei monti, e la via d’oggi è stata e sarà più piana.
Lontano una lega da Almaraz ho visti dei vignetti
amplissimi che appartengono a certi uomini ritirati, e
poi certe case dove si fa il vino delle Riverenze loro.
Quel loro vino m’era stato celebrato per così eccellente,
che risolvemmo di provvedercene a quelle case. Giunti
quivi trovai con non poco mio stupore, che l’osteria non
solo appartiene ad essi, ma che è da essi sovrantesa, e
tre o quattro ve n’eran quivi de’ più maturi. Erano quivi
pure alcune loro fantesche, fra le quali una, che la più
bizzarra puledra non la troverebbe chi cercasse tutta
Andaluzia: alta di testa, collo di giuncata, un pajo di
spalle piatte, petto e fianchi baldanzosi, e un occhio così
pien [155] di vista! Capperi! Bisogna essere fabbricato a
prova di bomba per non le fare proposizioni di
matrimonio! Quella giovane è nipote d’una vecchia
magra come una colonna gotica; ma la nipote, e non la
zia, è quella che tocca i danari di chi viene all’osteria, e
che la trincia da padrona. Sono vent’anni che mi passò
la voglia di abbandonare il secolo, ma se non partivo di
colà, chi sa che non mi fosse tornata? Fuor di burla. Io
non vo’ giudicar male del prossimo, ma vorrei che il
prossimo non mi presentasse agli occhi la minima
apparenza di male. Se nel nostro più colto e più
esemplar paese vi fosse il costume che è quivi, e se si
138
vedessero tre o quattro di tali persone sovrattendere
un’osteria servita dalle donne, non avrei quella buona
opinione che ho d’essi, perchè noi, qualunque abito ci
abbiamo indosso, siamo tutti fragili, e troppa santità si
richiede per resistere alle tentazioni troppo vicine.
Quella colonna Gotica mi dimandò se era vero, che il
Papa aveva scomunicato tutti i Portoghesi, e proibito
loro di dire il Rosario; e non ebbi poca fatica a trattener
le risa alle sue strane domande, che supposi procedere
da quell’antipatia reciproca, da cui l’ignorante volgo
delle due Nazioni è animato. Risposi negativamente, e
balzai in calesso. Attraversammo una gran foresta di
querce, e nell’attraversarla [156] andai ingannando il
tempo masticando ghiande. Faccio conto di recarvene
un canestrino. Scendemmo qui in Navàl Moràl per
rinfrescare i muli, e per asciolvere noi medesimi.
Terminato l’asciolvere, andai a visitare una chiesa poco
lontana dalla posada. Quivi si stata cantando la Messa
grande al suono d’un organo, il quale ha molti de’ suoi
tubi che pendono in fuora a mò di grondaje, e fatti a
tromba. Un frate suonava quell’organo con bravura
grande. Mi maravigliai vedendo la chiesa piena di
donne che stavano a sedere sulle calcagna, con un
manto nero indosso che le copriva tutte, e con di molte
candelette accese dinanzi. Domandai il significato di
que’ lumi, e mi fu risposto, che quelle erano vedove, le
quali accendevano que’ lumi in tempo di Messa per
suffragare l’anime de’ mariti morti. Non so se quelle
vedove avevano avuti tanti mariti quante avevano
139
candelette. Chi n’aveva una, chi due, chi tre; e alcuna
fino sette. Forse la quantità de’ lumi esprime la quantità
della divozione, e non la quantità de’ mariti. Faccio
punto sino a sera.
POSCRITTA NOTTURNA dalla Calzada d’Oropeza.
Uscito di Navàl Moràl si entrò in un altra foresta di
querce, che quella d’Ardena44, [157] in cui le Fate
incantavano i cavalieri e le donzelle, non era più bella.
Poi si sbocò in una vasta pianura circoscritta da ambi i
lati da montagne molto alte, e spezialmente quelle che
mi stavano a manca, le quali hanno le vette nevose,
malgrado il Sole di Spagna. Di quel Sole erano tre dì
che non n’avevo sentita la forza, perchè le nebbie
mattutine, e le diurne piovicelle gli avevano ribaditi gli
acutissimi raggi. Ma oggi sua luminosa signoria m’è
venuta addosso con quella medesima rabbia con cui
arrostiva i Portoghesi e me in Lisbona; e un buon pajo
di guanti non m’ha potuto liberar le mani da una tintura
caliginosa, perchè bisogna pur cavarli qualche volta,
almeno por tomar un polvo45. Pensate come mi deve
aver concio il muso che non porta guanti!
Apparecchiatevi pure, fratelli, ad essere baciati, non da
Giuseppe vostro primogenito, ma da un Principe
d’Etiopia; o se volete, da uno di que’ tanti
spazzacammini, che all’avvicinarsi dell’Inverno
rotolano giù come palei da’ monti della Savoja nel
44 Foresta famosa ne’ nostri antichi Romanzi e Poemi. Vedi fra
gli altri il Bojardo, e l’Ariosto.
45 Per pigliare una presa di tabacco.
140
Piemonte. Il signor Edoardo che ha gambe corte, ma
buone, volle partire prima de’ calessi da Navàl Moràl
per fare quattro passi, ordinando a’ calesseri di seguirlo
quando [158] giudicassero a proposito. E fu vano oggi,
come molt’altre volte, il mio dirgli che il sole gli
avrebbe scaldato molto il fodero del cervello, già troppo
caldo per natura, ch’e’ se ne volle pur andare a piede in
su quell’ora, senza punto curarsi di quel fodero, che è
vuoto di molto non men che caldo. Un’ora dopo la sua
pedestre partenza lo seguimmo co’ calessi, ma va
innanzi e va innanzi, non c’era modo di vederlo.
Domandavamo agli asinaj che s’incontravano di tanto in
tanto: Señor Cavallero46 ha Vosted visto un Hidalgo
vestito così, e così, che ha ciera di matto, e cammina a
piede? Nessuno de’ cavalieri asinaj l’aveva veduto.
S’era già fatta una buona lega e mezza, e i muli
andavano di buon passo, e il signor Edoardo non si
mostrava. Finalmente pel finestrino del calesso lo scorsi
correrci dietro a tutte gambe, coll’abito gallonato sur
una spalla, infiammato nel viso come una cresta di
gallo, e docciando pel sudore come una secchia piena e
screpolata. Giunto a noi mi raccontò come fu gabbato
dal suono di certi campanelli che sentì di lontano, i quali
lo fecero insospettire d’avere sbagliato il cammino,
veggendo d’avere scambiati campanelli di pecore per
campanelli di muli. Che tuttavia avrebbe tirato [159]
141
innanzi se non fosse giunto a quelle case dove avevamo
vista quella puledra d’Andaluzia, ma che accorgendosi
colà dello sbaglio balordamente preso, tornò correndo a
Navàl Moràl, e non veggendo quivi i calessi, e
intendendo a segni fattigli dal posadero, che noi
eravamo già lontani un buon tratto, ne seguì con furia
immensa, e con orribilissima fatica ne giunse, come
dissi. Quando gli accidenti riescono bene, se ne ride; ma
se non ci avesse giunti stava propio fresco in paese,
dove non sa dire nè intendere un vocabolo della lingua.
Questo caso spero lo renderà più cauto è più
arrendevole alle mie rimostranze quindinnanzi, ma
l’ostinatezza sua qualche volta mi mette in collera, e mi
fa rincrescere il non essere partito solo da Londra. Mi
sono stasera aggirato un poco per questa Calzada de
Oropeza, ma non ho vista cosa da ridirsi, trattane la
padroncina della posada, la quale ama cianciare con chi
viene ad alloggiarle in casa, come usano le garbate
ostesse di Francia e d’Inghilterra; nè fugge dagl’uomini
come fanno tutte le posadere e le stallagere che
vedemmo di Lisbona sin quì, le quali m’hanno tutte
schivato come si schivano tigri e serpenti, dopo
d’avermi cavato dell’ugne qualche regaluccio quando
han potuto. Una fante di questa posadera mi fa
attualmente ridere, che canta [160] sempre, o entri, o
stia, o esca della tua camera; e se le parli, canta; e se
taci, canta; e canta quando favelli con altrui, senza darsi
un pensiero al mondo nè di cose, nè di persone. Gran
cantare! Or ve’ che pastocchie vi sto infinocchiando!
142
Invece di riempiere la descrizione di questo mio viaggio
con cose magne vengo via colle padrone che cianciano,
e colle fanti che cantano. Ma, cospetto di Bacco, credete
voi, che vi sieno de’ tremendi terremoti, e de’ Monarchi
assassinati, e de’ Gesuiti banditi ad ogni passo? Di
qualcosa bisogna empier la carta quando s’ha la smania
di scrivere nelle dita; e quando si è detto de’ pomposi
Patriarchi, e de’ tori ferocissimi, bisogna venir via colle
posadere, e colle fantesche loro, o colle Cataline, e colle
lor sorelle se ne hanno; e in somma lo storico
debb’essere come la morte, che pulsat æquo pede
pauperum tabernas, Regumque turres47. Vedo che
ingrugnate, e che non mi volete menar buone queste
ragioni, onde corro in letto molto in collera con tre
fratelli così poco discreti. Addio. [161]
LETTERA QUARANTASEESIMA.
Di Talavera la Reyna il 1.
d’Ottobre 1760.
143
Oropeza ho visto più porci che non ve n’ha dalla Caja
alla Calzada; pure è mia opinione che in alcune parti da
me vedute piene di querce ghiandifere non sarebbe
difficile averne anche più che non n’hanno in quel po’ di
spazio da me trascorso oggi. E quì mi vien voglia di fare
un episodio de’ porci, e mostrare di quanto infinito
vantaggio sarebbe a questo Regno l’allevarne una
quantità innumerabile, come sarebbe facilissimo fare in
queste Provincie. Ma ho tropp’altre cose da dire stasera,
onde sia meglio avacciarmi per tema che il sonno me le
cacci del capo. Due leghe di quà dalla Calzada vidi
Oropeza, che mi stava a man destra sur una collina
molto alta. Oropeza è un villaggio appartenente a una
Contessa che ne porta il nome, e che ha in quel villaggio
un Castello, il quale di lontano fa una vista bellissima,
[162] essendo adorno di non so che cupole e torricciuole
molto ben fatte per quanto appare alla distanza d’un
miglio. E poi ha per fianco un altro edifizio molto
grande, e che mi dicono sia un monastero di monache
francescane. A man destra, e propio sulla via, i
Francescani hanno anch’essi un convento che contiene
quaranta frati, e di fuora non fa mal vedere, ma non mi
fermai a visitarlo. Notai solamente che l’abito loro è
bigio, o sia ci- nericcio, e non di colore giallognolo
scuro, come quello de’ Francescani nostri; e così mi
dicono che l’abbiano per tutta Castiglia. Avevo una
tentazione grandissima di lasciar i calessi, e salir quella
costa per visitare Oropeza, di cui mi sono state dette
molte cose vantaggiose; ma quell’avere un compagno
144
che è di rado animato da un pò di curiosità, è cagione
che non si vedono mille e mille oggetti degni d’esser
visti, e d’essere descritti, o d’essere almeno accennati; e
bisognerebbe veramente esser solo, o non essere
dall’urbanità e dalla creanza obbligato a cedere alle
voglie d’un altro. Così non ho vista Oropeza che di
lontano; e quel che più mi duole non ne ho vista la
padrona, alla quale avrei volentieri besado las manos,
[163] o metidome a sus pies48, per notare un poco i modi
d’una grandissima Dama Spagnuola quando si sta in
villeggiatura in un luogo che le appartiene, e quai segni
di sussiegata affabilità dia a’ suoi vassalli, e quai doveri
le sieno resi da que’ vassalli, quando Essa fa loro la
grazia di venir a stare alcun tempo con essi. Quella
Dama è appunto a quel suo Feudo ora, per quel che mi
dicono; e questo pezzo di costume Spagnuolo non ho
più speranza di opportunità alcuna per esaminarlo. Ma
se in questo lungo viaggio ogni cosa andasse a modo
mio, sarebbe troppa ventura, e molte cose non
anderebbono a modo del signor Edoardo, che anch’egli
è uno. Alla distanza di due altre leghe da Oropeza si
trovò una Venta di cui ho già scordato il nome, e non
monta in pregio domandarlo di nuovo. Non avendo ben
dormito la notte alla Calzada, nel giungere a quella
venta mi buttai sur un letto, e m’addormentai subito.
Svegliatomi dopo un’ora me n’andai senza neppure
145
guardar in faccia alla padrona della venta. Mi direte. E
dove hai tu pranzato? Pranzato? Quasi me lo scordava
come il nome della venta. Mangiai qualche cosa
sedendo in calesso di buon mattino, e mi fermai a bere
in una terricciuola chiamata Torralva, il di cui vino
m’era stato raccomandato per buono, e di fatti non era
malo. Oh tu [164] sei diventato molto studioso di vini,
ripiglierete voi, dachè hai lasciata casa tua! Signori no,
v’ingannate. Io faccio molto poca differenza dal vino
alla birra, e dalla birra all’acqua; ma voglio sapere quali
paesi producono il meglio vino, e le meglio cose, e
anche le peggio. Queste sono cognizioni frivole, lo
conosco anch’io, ma quando si possono acquistare
strada facendo, non so mo’ perchè non s’abbiano da
acquistare. Il sapere ogni minima cosa di questo mondo
potrebbe a un bisogno giovare, ed io sono di questa
opinione, che questi saputoni i quali non cercano mai di
sapere le cose comunali, ma che stanno sempre in sul
empiersi i cervelli di cognizioni metafisiche, e di cose
stillate, non sono tanto da lodarsi e da pregiarsi quanto il
volgo fa generalmente. Nell’uscire della prefata venta a
piede col signor Edoardo, con intenzione di far quattro
passi intanto che i calesseri s’allestivano per seguirci,
vedemmo lì sulla porta alcuni soldati, cioè un
distaccamento di dodici soldati con un alfiere, un
sergente, e un caporale già da noi incontrati in Navàl
Moràl. I soldati sono gente che presto entra in discorso
con chicchessia, ed io non mi faccio tirar pel naso
quando si tratta di ciaramellare, onde presto si domandò
146
e si seppe d’onde venivano, dove andavano, il nome del
[165] loro reggimento, il loro numero, e simili
importanti notizie, in ricompensa delle quali si diede
loro qualche cosa pour boir un coup49, e poi
continuammo sulla via maestra a passo lento lento. Non
s’era fatto un miglio che ecco il distaccamento tutto
intero con due asini che ne portavano il bagaglio. Il loro
alfiere cavalcava un cavaluccio così meschino, che
Ronzinante50 si sarebbe con qualche ragione riputato un
Brigliadoro51 al confronto, o almeno un Mattafellone52.
Volle la sorte che uno di que’ soldati fosse un tempo
prigioniero degl’Inglesi a bordo d’una nave, onde
potette legare una spezie di discorso col signor Edoardo,
mentre anch’io da un altro canto me la stavo
pedestramente discorrendo con alcuni altri soldati.
All’offiziale non si fece moto, perchè essendo peggio
incavallato che non un mugnajo, e vestito come i fichi
troppo maturi, ebbi paura non si vergognasse d’essere
riconosciuto per uffiziale. Chi dicesse che la compagnia
de’ soldati non è compagnia piacevole, si potrebbe
mandar a dormire in una cuna per bambino: dico
quando i soldati sono soldati [166] vecchj, come erano i
quattro quinti del nostro distaccamento. Il signor
Edoardo pigliò gusto a chiaccherare con quel suo, che
49 Per bere un tratto. Il Francese in vece di dire bere un tratto,
dice bere un colpo.
50 Magrissimo cavallo di Don Chisciotte.
51 Cavallo d’Orlando.
52 Cavallo del traditore Cane di Maganza.
147
sapeva contare sino a venti in Inglese, ed io non
m’annojai con tre o quattro che n’avevo intorno, e
specialmente col bugiardo caporale, che pretendeva
essere stato all’assedio di Cuneo53, e che raccontò a suoi
commilitoni ed a me, com’era fatto quel Castillo. A
sentir colui la città di Cuneo nel tempo di quell’assedio
non aveva quelle mura di fascinate che aveva, e non era
una città come è di fatto, ma sibbene un castello con
sette muri, che l’intorniavano come sette cerchi, sicchè
preso il primo non s’era fatta che la settima parte della
bisogna dagli assediatori Spagnuoli. All’altre sei mura ti
voglio! a quel meldito Castillo es sin duda mas grande
y mas fuerte del tan nombrando Castillo de Milan54. Il
buon caporale ebbe a far piangere i suoi camerati, e me,
descrivendo i gran patimenti che aveva sofferti in
quell’assedio insieme coll’Infante Don Filippo. Basta
dire, che le bombe cascavano [167] nel campo
Spagnuolo del Castillo de lo Exercito Savojano, y de
muchas otras partes: y despues los pobres soldados no
tenian que comer, si no la nieve de aquellas malditas
Sierras che llaman los Apenniños55. Potete pensare,
148
fratelli, con che gusto ascoltavo tutto quello strano
avviluppamento di bugie fatto dalla pazza e veloce
fantasia del Señor Caposquadra56, il quale mi credeva
un Milorde Ingles, e che non si sarebbe mai sognato di
parlar con uno che passò due anni e più sulle
fortificazioni di Cuneo. Non si può dire sino a qual
segno vada l’attività d’un soldato quando comincia a
snocciolar bugie! Trovai il carattere di colui così bello e
così comico, che non giudicai a proposito di guastarlo,
come avrei fatto se gli avessi anche leggermente
accennata la conoscenza che io ho di Cuneo, o datogli il
menomo indizio d’incredulità, facendo qualche critico
commento alle sue poetiche descrizioni. Ma i signori
soldati andavano di buon passo, e il signor Edoardo ed
io menammo con essi tanto bene le nostre gambe [168]
per non perdere il nostro passatempo, che eravamo
andati due leghe senza quasi accorgersi che il caldo era
intensissimo. Pure il signor Edoardo cominciò a trovarsi
l’abito un po’ troppo pesante indosso, onde se lo trasse,
e se lo gittò sulla spalla. Un soldato cortese s’offrì di
portarglielo, ed egli senza pensar più là, se lo lasciò
togliere prima ch’io vi ponessi mente, che gli avrei forse
suggerito di cavar prima delle tasche quello che v’era
dentro. Sentirete or ora quello che accadde poche ore
dopo. Seguitiamo a viaggiare co’ soldati, poichè uno di
noi due ha le gambe di ferro, e l’altro si trova più atto a
misurare la snellezza delle sue calcagna con quella
56 Signor caporale.
149
d’ognuno del distaccamento ora che non ha più abito
indosso. I calesseri non ebber fretta di raggiungerci
perchè i muli andassero più leggieri, ma noi non ce ne
demmo fastidio, che i compagni nostri erano molto
miglior cosa che non i muli e i calesseri, e facemmo tre
buone leghe senza quasi accorgercene. Fatte le tre leghe
vedemmo una Quinta57 appartenente a certi Religiosi
molto grande, e molto ben fabbricata. Il caldo, e il
camminare a un sole ardentissimo lo spazio di dodici
buone miglia delle nostre, ne avevano messa nelle fauci
una [169] sete compagna di quella degli Ebrei nel
deserto, onde uscimmo un tratto d’arco fuor di strada
per andar a domandar al frate custode della Quinta un
po’ di vino per danari o per carità. Il rozzo laico,
veggendo il signor Edoardo e me giunger quivi in così
mala compagnia, mi disse che non si trovava aver vino
in casa per tanta gente; ma che un bicchiere pel mio
compagno e un altro per me vi sarebbe; e di fatti nel
fece recare da una brutta servaccia, sicchè i signori
soldati per non restare a gole secche furono costretti a
tracannarsi non so quanti boccali d’acqua. L’Uffiziale
stesso bisognò si contentasse della pura linfa tratta dal
pozzo, con molta mia vergogna e rincrescimento. E qui
è duopo sappiate fratelli, che in Ispagna i soldati odiano
i Religiosi molto paganamente, e questi detestano i
soldati; ed ecco la ragione per cui quel laico resistette
150
all’offerta che gli feci d’una limosina se voleva dar del
vino a que’ nemici del suo cappuccio e del suo
scapulare. Non ho osservato mai in altri paesi tanta
risoluta barbarie in negare un po’ di vino a’ viandanti,
sieno chi esser vogliono; ma non ho neppure in altri
paesi trovato mai nè soldati nè altri, che mostrino tanto
astio a gente religiosa. Nè è da dire che del vino quivi
non ve ne fosse, che certamente la cantina ne conteneva
di [170] molte carra. Io vidi molto bene scritto in lettere
majuscole nella faccia del signor officiale e de’ suoi
guerrieri il dispetto che s’ebbero nel vedersi negare un
po’ di vino dal laico, e vidi ne’ lor occhi ombreggiato
nella maniera forte del Caravaggio58 il lor desiderio di
vendetta. Ma quivi erano tre Padri seduti a una tavola,
che non dissero una parola nè a noi, nè al laico loro,
onde i soldati non fecero motto, e non feci motto io.
Lasciando alla servaccia, che mi diede il vino, qualcosa
Por las almas, volgemmo le spalle alla Quinta. Non
eravamo lontani dugento passi da quella, che si
costeggiò un vigneto amplissimo, conosciuto da alcuni
di que’ soldati per roba di que’ Padri; onde animato tutto
il drappello dal vino non bevuto, malgrado le spinose
foltissime siepi, e l’altezza del terreno che s’ergeva a
mo’ di parapetto lungo la via, sergente, caporale, e
soldati, tutti sbalzarono nel vigneto, e in meno che non
lo dico fu fatta una così orribil vendemmia di quell’uve,
151
che in una mezza lega, o poco meno di terreno i
vignajuoli del convento per quest’anno non avranno più
che spartire con alcuno. Il signor officiale, che era stato
zitto, ma che forse più degli altri si rodeva internamente
della poca [171] urbanità usatagli, cavalcò innanzi senza
darsi impaccio di quello che si faceva dietro alle sue
spalle, onde non vide aggravare i due asini con molta
uva, e non vide neppure le gran fazzolettate che que’
suoi ribaldi seguaci ne portavano via. Da volere a non
volere fu forza che il signor Edoardo ed io ne
mangiassimo almeno sette libbre per uno. Così
spiccando acini da’ grappoli, si giunse alla porta di
Talavera, dove il signor Edoardo riebbe la sua casacca, e
preso congedo da que’ mali compagnoni s’andò alla
posada, a cui poco dopo giunse Battista co’ calessieri,
che credevano averci perduti per sempre, non potendo
pensare, che le nostre quattro gambe potessero vincere
le sedici de’ lor muli. Entrati nella posada mi cavai la
mia pistolla di tasca, e chiedetti al signor Edoardo l’altra
che gli avevo imprestata pochi dì prima, perchè a un
bisogno si trovasse un’arma da fuoco indosso. Si
trattava d’un pajo di pistòlle corte d’Inghilterra di
curiosa e nuova invenzione, che avevo tratte meco per
regalarle poi a un qualche amico d’Italia. Cerca in
questa scarsella, cerca in quell’altra, non si trova più nè
la pistolla, nè due fazzoletti che le tenevano compagnia.
Pensa s’è mi saltò la mosca! Ero sicuro che il signor
Edoardo l’aveva quando partimmo della venta, che
gliel’avevo veduta in [172] mano un momento prima di
152
partire. Che s’ha a fare? I soldati sono certamente que’
che l’hanno rubata. No; che forse è cascata casualmente
fuor di tasca per la via. Sì; perchè mancano anche i
fazzoletti. No, sì; sì, no; finalmente corro a cercare de’
soldati, e ne trovo uno in piazza, e poi un altro, e poi un
altro; e dico a tutti, che il balordo il quale si è lasciato
tentare a rubarla, oltre che sarà impiccato se è trovato
con una pistolla corta addosso, non potrà neppur
caricarla senza un certo ferro che vi vuole per aprirla, e
senza il modello per far le palle a una certa misura;
sicchè scaricata un tratto, addio fave: il ladro gonzo si
trova non aver rubato che tre oncie o quattro d’inutil
ferro, che non venderà per un bajocco, e per cui io offro
di dare un bel Doblon de Ocho se alcuno della
compagnia me la reca alla posada, impegnando l’onor
mio di riceverla, e di pagare il doblone senza far fiato.
Questa novella parve che riuscisse spiacevole a que’
soldati, i quali mi promisero di far il possibile per
portarmela fra un’ora, e veramente, un’ora dopo, quattro
d’essi briachi come bestie ne vennero a trovare mentre
stavamo a cena. Dov’è la pistolla? Signore, non è ancor
trovata, ma prima di domattina si troverà. A che dunque
siete venuti? Per assicurar Vossignoria che si troverà.
Tanto meglio; [173] recatela, e avrete il dobblone. Sì
signore; ma intanto ne faccia dare un po’ di vino, e uno
d’essi ebbe anzi la sfacciataggine di cacciare una delle
sue sporche mani in un piatto d’insalata che avevamo
dinanzi, mentre un altro ciuffò una pernice che m’ero
153
recata sul tondo. Che creanza è questa, Picarones59,
gridai io! Mi pigliate voi quì per un qualche
quadrupede? E dando un candeliere in faccia a quel
della pernice, e abbrancando la spajata pistola, e
accoccando il cane, in un millesimo di minuto i quattro
gaglioffi se la fecero, uno con una manata d’insalata,
uno colla pernice: uno con un calcio buonissimo nel
deretano, e l’altro con una potente fiancata che diede
nella porta, per la maladetta furia del fuggire. Molte
persone accorsero allo scompiglio romoroso, ma los
Picarones se la batterono a rompicollo senza volgersi
indietro. Si continuò la cena prima con parole alte,
preste, e rabbiose; poi, mangiando, l’ira si calmò, e si
rise di que’ birbanti; poi mi posi a scrivere secondo
l’uso. La mezza notte è passata, e nessun altro soldato
comparisce, onde buona notte alla pistola Inglese, e a
voi altri Piemontesi. Domattina si deve far viaggio
mattutinamente, onde. Addio. [174]
LETTERA QUARANTASETTESIMA.
Di Zevolla li 2. Ottobre 1760.
59 Furfanti.
154
incantata di Talavera, sopranomata la Reyna, dove
qualche maligna Fata nemica de’ viaggiatori, ti fa
subitamente apparir dinanzi de’ mostri cornuti, dentuti,
unghiuti, e codilunguti, perchè t’impediscano o ti
ritardino l’andare pe’ fatti tuoi. Sono due ore che il sole
andò sotto; eppure non ho fatte oggi che quattro leghe
per una strana avventura che m’accingo a raccontarvi.
Siccome avevo ordinato al mio scudiere Battista, mi
sentii chiamare alle quattro; e messomi i miei panni
sulla persona presto presto, apersi la camera, credendo
che il calesso fosse pronto, quand’ecco sento da
Battista, che un soldato era alla porta della posada con
tanto di moschetto in ispalla per impedire a’ calessi
d’andarsene. E perchè? Perchè uno de’ vostri calessieri
Portoghesi ha fatto buglia con uno Spagnuolo, e gli ha
data una solenne coltellata. Sia laudato Sant’Antonio, e
dov’è il feritore? Egli è in prigione, che il posadero l’ha
[175] fatto arrestar subito. Mi spiacque il mio ritardo,
ma non mi dolse che quel briccone fosse in gabbia,
sperando trovarne un’altro che mi facesse men disperare
di quel che aveva fatto colui, ubriacandosi e
battagliando ogni sera con chiunque gli si parava
dinanzi. Mentre stavo parlando con Battista e con altri
di questa faccenda, una signora che all’abito mi pareva
Spagnuola, ma che di nascita era Svizzera mi venne a
dire in Castigliano, che essendo io Cavaliero,
(Cavaglierissimo, pensai io fra me stesso) non avrei
fatto male ad andarmene io medesimo dal Señor
155
Corregidor60 per sollecitarlo a lasciarmi cercare un altro
calessero, e per fargli torre l’ordine dato la notte, che
nessun calesso se ne andasse da quella posada;
soggiungendo che anch’essa aveva fretta d’essere in
Madridde, e che questo sventurato accidente le recava
infinito travaglio. Presi il suo consiglio, e me ne andai
dal Corregidor; ma sua Signoria stava ancora dormendo,
e non era visibile sino alle dieci o all’undici; che il
turbare e l’interrompere il sonno a un giudice, perchè
renda sommaria giustizia quando ve n’è bisogno, in
Talavera è un delitto troppo grave; onde per non
commettere un mal sì grande tornai alla posada, e tornai
a [176] chiaccherare colla Svizzera, la quale mi raccontò
che era moglie d’un Francese stabilito in Talavera da
dieci anni, e impiegato nelle Talaverane manifatture di
seta: Che il Direttore generale d’esse manifatture,
anch’egli Francese di nazione, fu uomo per molti anni
potentissimo in quella città, perchè favorito dal
Marchese della Ensenada quand’era primo Ministro; ma
che essendo il signor Direttore stato accusato e quasi
convinto d’aver rubato alcuni milioni di Reali 61 alle
manifatture, e di averli allegramente spesi in mantenere
sgualdrine teatrali, e fatte altre simili opere pie, era stato
arrestato non come un Gentiluomo, ma come un
mascalzone, e mandato a Madridde carico di ferri, dove
60 Equivale a Podestà.
61 Il Real de Villon in Ispagna equivale. a un mezzo paolo; Il
Real de Piata al paolo intiero. Credo che mercantilmente si
contratti sempre in Reales de Villon.
156
probabilmente morrà d’apoplesìa perchè d’apoplesìa
muore chiunque si fa stringere il collo con una fune:
Che quel Direttore nel tempo suo buono, avendo presa
molta amicizia pel di lei marito, lo aveva fatto suo
segretario e confidente, e che per questa cagione anche
suo marito era stato arrestato e mandato a Madridde.
Ma, signora, le diss’io, se vostro marito era segretario e
confidente del Direttor generale, come la passerà [177]
egli? Non gli attribuiranno i suoi giudici a delitto l’aver
saputo le malvagie pratiche del suo principale, e non
palesatele prima che quell’uomo dabbene buttasse
affatto via tutti que’ milioni? Questo non può essere,
rispos’ella, perchè il Direttore delle manifatture aveva
avuto dal defunto Re un potere assolutissimo su quelle,
e su tutte le persone o straniere o native in quelle
impiegate, cosicchè poteva incarcerare e mandare sino
schiavi sulle galere o in America chiunque voleva; cosa
che aveva per molt’anni messo un morso in bocca a
tutti: che oltre allo addurre questo suo giusto timore per
iscusa a’ giudici, suo marito aveva anche un’altra
ragione, la qual’era, che aveva per più di tre anni
domandato le tre e le quattro volte ciascun anno il suo
congedo, che gli era sempre stato negato per cagione
della sua riconosciuta probità ed attività nel Real
servizio. Per quanto ho potuto raccogliere dal lungo
discorso che feci con quella signora, la quale ha
certamente molto lume naturale, e lo scilinguagnolo
assai ben rotto, sono più di dieci anni che alcuni francesi
scappati dalla lor patria andarono a stabilire delle
157
manifatture in Talavera la Reyna sul modello di quelle
di Lione; e incoraggiati dal Ministero Spagnuolo fecero
costruire quivi molti telaj, e molini, e altri ordigni
seterecci; e coltivando Gelsi, e [178] adoperandosi a più
non posso, resero in poco tempo le manifatture di
Talavera un oggetto importante a tutta Spagna. I
Francesi, bisogna confessarlo, in questa sorte di
faccende sono più attivi, più industriosi, più
intraprendenti, e più costanti d’ogn’altra Nazione
d’Europa; e l’Inghilterra, e l’Olanda, e altre contrade lo
sanno, chi a suo vantaggio, e chi a svantaggio suo. E se
il già mentovato monsù Parisotto avesse avuto più
pratica, e meno vizj, col favore che aveva
inaspettatamente trovato in Inghilterra al suo primo
giungere, avrebbe di certo potuto far tanto da recare un
pregiudizio notabile a’ Gobelins, e all’altre manifatture
della sua patria che l’aria di varj distantissimi paesi non
gli aveva punto scemato il genio nazionale per questa
sorte d’intraprese. Utrum que’ danni recati da un
individuo alla sua propria patria sieno riconciliabili col
Cristianesimo, o no, lo lascieremo decidere a’ Casuisti.
Credo vi sia molto da dire pro e contra; ma non mi
ricordo aver letta alcuna decisione sur un punto, che in
morale non mi sembra di poco momento; ed avrei molto
caro che un qualche valentuomo vi scrivesse su qualche
buona dissertazione. Le dieci suonano, onde lasciamo le
manifatture, e la signora Svizzera, e andiamo dal
Corregidore. Eccomi in via. Eccomi alla sua porta di
nuovo. Su quella [179] porta stava un Gagliofaccio con
158
un ampio capellone in capo, con un ferrajuolone scuro
indosso, e con una bacchetta bianca in mano. Señor
Cavallero, si potrebbe riverire il Señor Corregidor? Non
lo so, ma lo domanderò alla Señora Fernanda. Ecco la
signora Fernanda. Oh che brutta e vecchia Squarquoja!
La fante del Vettori62 non v’ha che fare a tre miglia.
Signora Fernanda, vorrebbe vostra Mercede farmi la
grazia di dire al signor Correggidore, che un Cavaliero
(Cavalierissimo un’altra volta) vorrebbe dirgli una
parola? Chi è vostra Mercede? mi domandò madama la
strega. Sono, rispos’io uno straniero, al quale accadde
un accidente, che gli è mestieri lo comunichi subito al
signor Correggidore. Il signor Correggidore sta
levatandose, ripigliò Gabrina63, ed or ora saprà che
vostra Mercede brama parlargli. Venga un canchero per
uno alla Fernanda e al Correggidor, che mi fecero stare
su quella porta ancora per un’ora con colui della
bacchetta bianca, il quale in tutta quell’ora non si degnò
neppure di barattare dieci parole meco. Finalmente la
vecchia aprì un uscio a pian [180] terreno, e mi fece
entrare in una stanza, dove non era che un tavolino, e
una sedia d’appoggio di legno tarlato, sulla quale stava
Pro Tribunali sedendo quel signor Correggidore avvolto
in una zimarra tanto lacera, e con una berretta in capo
tanto sudicia, che un porcajo non l’avrebbe voluta in
62 Il Dottor Vittore Vettori Mantovano ha celebrata con molti
versi la bruttezza, la vecchiezza, la schifezza, e la
dappochezza d’una sua fantesca.
63 Eroina dell’Ariosto.
159
dono; e la stupida gravità che gli campeggiava in faccia,
chiedeva pugna, e sergozzoni d’una libbra ciascuno, se
il potere correggidoresco non si fosse opposto al giusto
e al convenevole. Lo scimione al mio entrare non mosse
altro che gli occhi biechi, e mi guardò come
l’Imperadore guarderebbe il Boja per la via. Pure
m’allacciai una lorica d’indifferenza, e raccontato
freddamente il caso in periodi il più che potetti laconici
cominciai con esso un dialoghetto in questi termini.
INTERLOCUTORI DEL DIALOGHETTO
BARETTI, E CORREGGIDORE
Baretti. Sono dunque a pregare istantemente vostra
Mercede, che faccia impiccare il calessero
Portoghese se lo giudica a proposito, ma che mi dia
anche licenza di cercarmene un altro per partire
immediate.
Correggidore. Senza dubbio Vosted se lo cercherà se
vorrà, ch’io non cerco calesseri per
Baretti. E chi si sogna di desiderare da Vosted [181] tal
cosa? Io non bramo altro che di partire di quì; e
siccome Vosted ha proibito che nessun calesso esca
dalla posada senza suo ordine, io non domando altro,
se non che Vosted toglia quell’ordine per quel che
riguarda me, un mio compagno, e un mio servo; e il
calessero, torno a dire, me lo saprò trovar io.
Correggidore. È forse Talavera della Reyna una Città
così cattiva che Vosted, y su Compagnero, y su
Criado non vi possono stare.
Baretti. Cattiva o buona, a me non deve importare.
160
Correggidore. Io dico a Vosted che questa è una città
molto buona.
Baretti. Sia; ma io non sono in Talavera nè Governatore
nè Correggidore, onde non so che me ne fare. Quello
che mi occorre oggi non è altro che di andarmene da
Talavera; onde chieggo a quel Magistrato il quale ha
potere di ritenermi o di lasciarmi andare, che mi
decida questo punto, se ho da andare o da non
andare:
Correggidore. E chi è Vosted, che vuole ogni cosa a suo
modo?
Baretti. Chi io mi sia, e il mio compagno, lo dirà a
Vosted questo Passaporto.
E quì mi trassi di tasca un passaporto del Conte di
Fuentes Ambasciadore Spagnuolo presso [182] il Re
d’Inghilterra, il quale era concepito in termini assai
precisi, e col quale si ordinava a tutti i sudditi di sua
Maestà Cattolica di lasciarne andare per la nostra via
senza disturbo, anzi prestandoci ogni assistenza
occorrendo. Se il Correggidor sappia leggere o no, non
lo saprei ben dire. So bene, che ne scorse coll’occhio
adagio adagio ogni sillaba; e restituendomelo con
un’aria un po’ meno burbera, non mi soggiunse altro, se
non Ande Vosted con la Madre de Dios64, al che senza
replicar parola, e appena inchinandomi alla signora
Fernanda, che volle essere testimonia del colloquio, gli
voltai tanto di spalle, molto maravigliato della
161
grossolana inciviltà d’un tal Magistrato, il quale pare sia
fermamente persuaso che l’Autorità Magistratesca
consista nella poca creanza, nel cipiglio, e nel sussiego.
Tornando indietro con la cotenna del capo alquanto
riscaldata dal tuono enfatico, e dal pazzo discorso di
quel bestione, incontrai uno de’ soldati del giorno
precedente, il quale cercando infinocchiarmi con una
storia del suo Officiale intorno alla pistola rubatami,
mandai al diavolo e l’officiale, e lui, e tutti i ladri del
suo reggimento. Giunto alla posada raccontai in termini
il dialogo da me fatto con quel Rinoceronte alla signora
Svizzera, la quale [183] mi disse che sicuramente il
Correggidore s’era offeso non per altro, se non perchè io
l’avevo trattato di Vosted, e non di Vuestra Señoria, la
qual dilicata distinzione nella lingua Castigliana mi fu
fatta scappar via dalla vista di quella lacera zimarra, e da
quella sudicia berretta; che se colui ricevesse la gente
con indosso un abito degno del suo impiego, non l’avrei
probabilmente Vostedato, ma Vossignoriato a suo
talento. Intanto ch’io parlava colla Svizzera, il
Gagliofaccio dalla bacchetta bianca stava facendo
l’inventario delle poche robe appartenenti al distributore
delle coltellate. Fatto che l’ebbe, mi volle render ragione
di quello che aveva fatto probabilmente per cavarmi
dell’ugne qualche danaro con melate parole, ma la mia
stizza col Correggidore suo padrone, e contra i ladri
soldati, era troppo accesa per essere tosto spenta da’
suoi goffi complimenti, tanto più che al mio giungere
dal Correggidore non m’aveva fatto alcun motto con
162
quel suo capellaccio; però gli dissi perentoriamente di
far l’officio suo, ch’io non intendeva sturbarlo; e
voltomi al posadero gli chiesi un calessante nuovo con
una faccia tanto arcigna, che colui pigliandomi per un
qualche Amostante65 incognito, fece subito [184] cenno
a un certo faccia di ribaldo; per nome Francisco di
Toledo, di venire a me. Sei tu calessero, Francisco? Sì
Signore. Vuoi tu condurmi in questo calesso a
Madridde? Sì Signore. Quanto vuoi? Voglio tanto.
Ebbene, chiama l’altro calessero Manuello, mettete i
muli, e partiamo. Signor posadero, mi dia il conto.
Eccolo. Ed ecco il suo danaro; E questo por las
Arfileres a la Muchacha66. Mentre si facevano queste
parole, la signora svizzera sentì dal Bacchetta bianca,
che anch’essa poteva partire a sua voglia, onde non si
fece pregare ad andarsene. A noi però toccò di stare
ancora più di due ore aspettando Manuello, che era ito a
vedere il compagno prigioniero. Venuto finalmente, feci
tanto romore, che presto fummo in ordine; e senza voler
assaggiare cosa alcuna, quantunque il mezzodì fosse già
suonato da un pezzo, partimmo da Talavera, di cui non
vi posso dir nulla, perchè tutto quel travaglio non mi
permise di darle un’occhiata da viaggiatore accurato. So
bene che da quel vigneto assassinato jeri da que’
marrani di soldatacci sino alla porta di Talavera, il paese
è uno de’ più be’ paesi che s’abbia il globo nostro. Non
65 Così chiamavansi i Principi de’ Saraceni, e i Condottori degli
Eserciti loro.
66 Per le spille alla fante, cioè la buona mano alla serva.
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si può dire la vaghezza maravigliosa d’una selva che
fiancheggia il cammino di [185] quà e di là, e come
sono fitti fitti gli olivi, e i gelsi, e gli aranci, e i limoni
che la compongono. Una lega di quà da Talavera si
passa il Tago per la terza volta, chi viene da Lisbona, sur
un ponte di legno assai lungo. Fermatici alquanto di quà
dal ponte per pagare non so che gabelluccia, intesi
casualmente da Francisco, che allungando il nostro
viaggio tre leghe solamente, potevamo veder Toledo e
Aranjuez. La notizia non mi spiacque, onde facemmo
voltar le vele inver Toledo, e domandassera vi saremo se
una qualche coltellata calesseresca non mi sforza
ricorrere a qualch’altro Correggidore. Intanto sono in
questo villaggio di Zevolla, di cui non v’è nulla da dire,
ch’io sappia, onde vado a cena, che quasi mi manca la
vista per la troppa fame, non avendo per la stizza voluto
disinare stamattina. Addio.
FINE DEL SECONDO TOMO
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