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Riassunto Storia Moderna I Temi e Le Fonti Di Guido Dallolio

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Riassunto "Storia moderna. I temi e le fonti" di Guido Dall'Olio

Storia sociale dell'età moderna (Università degli Studi di Torino)

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RIASSUNTO STORIA MODERNA - Guido Dall’Olio


1. I quadri generali: popolazione, economia, società nell’Europa preindustriale.
La popolazione europea tra antico e nuovo regime demografico.
Contare la popolazione dell’Europa dell’età moderna e individuare le tendenze di lungo periodo è
un’operazione complessa. Perciò i dati sono stati ricavati sintetizzando i risultati di innumerevoli
ricerche basate su fonti che non danno nessuna garanzia di esattezza assoluta, ma almeno
permettono di avere un’idea dell’ordine di grandezza relativo di alcuni paesi europei. (tabelle a-b)
Gli studiosi della prima età moderna basano i loro calcoli sulle rilevazioni condotte, per lo più a
scopo fiscale, dalle autorità civili. Molto importanti sono anche i registri parrocchiali che, quando
sono conservati integralmente, danno conto dei battesimi, delle sepolture e dei matrimoni. Si
aggiungono gli stati delle anime, che fornivano elenchi nominativi di tutti i parrocchiani, redatti in
prossimità della Pasqua allo scopo di verificare l’osservanza del “precetto pasquale”, cioè l’obbligo
di confessarsi e di fare la comunione almeno una volta l’anno. Quindi, laddove la rete delle
parrocchie era solida, come ad esempio in Spagna e negli Stati Italiani, i calcoli dei demografi
possono partire da un’epoca più remota; fu poi il Concilio di Trento (1545-1563) a cercare di
regolarizzare e diffondere la tenuta dei registri parrocchiali. Le rilevazioni fiscali tenevano
solitamente conto soltanto dei capifamiglia, cioè di coloro che pagavano le tasse, ed escludevano i
miserabili; i registri parrocchiali erano più ricchi di dettagli, ma erano comunque strumenti ideati
per il controllo della pratica religiosa e non per contare uomini, donne e bambini, infatti
escludevano tutti coloro che non praticavano la religione cristiana.
La crescita complessiva della popolazione europea è avvenuta in due fasi nettamente distinte:
- La prima, che ha la sua origine nella faticosa ripresa demografica seguita al tracollo della
peste nera del 1348-1351, consiste in una crescita a ondate lente, con una pausa di
stagnazione nella prima metà del ‘600.
- La seconda fase, a partire all’incirca dal 1750, portò in 50 anni a un raddoppio del ritmo di
crescita, destinato poi ad aumentare ancora nella prima metà del XIX secolo. Erano gli
effetti congiunti delle rivoluzioni agricola e industriale, nonché dei progressi delle scienze
mediche.
Questi fondamentali eventi segnarono l’uscita dall’Antico regime demografico europeo e l’ingresso
in una nuova fase di continuo e accelerato aumento della popolazione.
Mortalità, nuzialità e natalità
In Antico regime si ha una mortalità a livelli costantemente alti, con punte elevatissime durante le
“crisi di mortalità”. I fattori in gioco erano principalmente tre: le epidemie, le carestie e le guerre.
L’innesco di una carestia era dovuto, generalmente, a uno o più fenomeni climatici distruttivi.
Durante l’Antico regime era quasi impossibile accumulare scorte da utilizzare in casi di emergenza;
quando cominciava la carestia i prezzi dei cereali aumentavano vertiginosamente (prima il grano e
poi anche i cereali inferiori). Le campagne erano molto svantaggiate rispetto alle città: il privilegio e
il dominio politico della città sulla campagna faceva sì che, generalmente, i produttori fossero
obbligati a far confluire in città il loro grano. Le autorità cittadine erano le uniche ad avere
un’organizzazione e una forza sufficiente per requisire i cereali in eccesso e impedire speculazioni

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di mercanti senza scrupoli; si poteva importare grano dagli Stati confinanti, ma non era facile
aggirare i divieti di esportazione e gli altri vincoli che gravavano sul commercio dei cereali. Dopo la
carestia arrivava l’epidemia, infatti i due fenomeni si presentavano molto spesso in successione. Più
della denutrizione, erano le condizioni igieniche di gran parte della popolazione, soprattutto
urbana, le responsabili dell’insorgere di molte epidemie.
Anche le guerre ebbero una forte ripercussione sull’equilibrio demografico europeo. Le perdite più
gravi derivanti dalle guerre erano imputabili non tanto alle morti in battaglia, quanto ai danni
arrecati alle popolazioni civili. Data l’arretratezza dei sistemi logistici e l’irregolarità dei pagamenti
gli eserciti vivevano per lo più di saccheggi e di rapina, ai danni delle popolazioni urbane e,
soprattutto, contadine. Questo spiega il perché gli eserciti “amici” (composti solitamente di
mercenari) provocassero spesso danni non inferiori a quelli inferti dai nemici. Le precarie
condizioni igieniche dei soldati, unite alla loro mobilità geografica, favorivano la diffusione di
epidemie di ogni tipo.
Non fu soltanto l’elevata mortalità che impedì alla popolazione europea di crescere
indefinitamente. Fattori che limitarono e contenerono la natalità: una serie di costrizioni di natura
socio-culturale:
- Esistenza di una forte componente di celibi e nubili, sia per motivi religiosi che per ragioni
legate a meccanismi di successione ereditaria; molto spesso queste due motivazioni erano
strettamente correlate: agli esclusi dall’eredità e dalla possibilità di sposarsi restava quasi
soltanto la carriera ecclesiastica, per i maschi, e la reclusione nei monasteri, per le
femmine.
- Influiva fortemente sulla fecondità l’età del matrimonio, che in gran parte dell’Europa
occidentale sembra essere stata relativamente alta rispetto all’inizio della pubertà, cioè
quasi sempre superiore ai 20 anni.
I vincoli erano efficaci soltanto se esisteva una correlazione stretta tra matrimonio e procreazione.
Di questo si incaricarono le chiese: i loro divieti e le loro condanne riuscirono a far sì che le nascite
illegittime rappresentassero una percentuale molto bassa del totale. Di fronte a questa eventualità
si poteva ricorrere a una soluzione tanto drastica e crudele, quanto praticata: l’abbandono del
neonato. Esistevano, infatti, apposite istituzioni che si incaricavano di raccogliere di “infanti
esposti”. Non sempre si trattava di figli illegittimi, a volte era semplicemente l’impossibilità
materiale di allevarli che spingeva i genitori all’abbandono. Tuttavia, le precarie condizioni in cui
questi bambini erano allevati ne causava la morte precoce. La mortalità infantile era altissima.
Aspetti della vita economica nell’Europa di Antico regime
L’incremento demografico verificatosi a partire dalla seconda metà del XV secolo è alla base del
fenomeno chiamato “rivoluzione dei prezzi”. Si trattò di un aumento generalizzato dei prezzi,
verificatosi in primo luogo per i beni di prima necessità, che trascinarono poi al rialzo anche le altre
merci. Le conseguenze della rivoluzione dei prezzi furono molteplici e differenziate a seconda delle
aree geografiche: in Europa orientale, il potere della grande nobiltà di origine feudale era ancora
molto forte e legato alla gestione diretta delle proprietà terriere, l’aumento dei prezzi dei cereali
accrebbe ulteriormente la forza dei signori che si arricchirono con l’esportazione delle derrate
verso occidente. Nessun beneficio ricadde sui contadini, i quali videro peggiorare le loro condizioni
socio-economiche, tanto che in molte aree comparvero vincoli di servitù che legavano gli uomini

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alla terra e al padrone. In alcune aree dell’Europa occidentale, al contrario, il fenomeno colpì le
rendite in denaro, avvantaggiando i grandi affittuari e favorendo la formazione di una proprietà
medio-grande. L’aumento dei prezzi favorì, in sostanza, coloro che producevano per il mercato e
non per l’autoconsumo.
Nelle città il quadro delle attività produttive si complica. In buona parte dell’Europa di Antico
regime gravavano pesanti vincoli sulle attività manifatturiere derivanti dagli statuti delle
corporazioni; le corporazioni furono considerate intollerabili residui del passato dalla Rivoluzione
francese, che le abolì nel 1789. Ci fu il crollo delle manifatture italiane, non appena si affacciarono
sul mercato concorrenti più agguerriti e meno vincolati. Un’altra norma era la proibizione di
trasferire l’attività produttiva nelle campagne. Proprio su questo terreno il potere delle
corporazioni cittadine cominciò a subire forti incrinature ben prima del crollo dell’Antico regime.
Per ovviare all’elevato costo della manodopera, fin dal Seicento, molti produttori cominciarono ad
affidare la lavorazione di tessuti ai contadini, che potevano sfruttare le lunghe pause che i lavori
agricoli subivano nei mesi invernali e integrare così il loro reddito. Si tratta del fenomeno della
“protoindustria” o “industria a domicilio”.
A partire dal tardo Cinquecento la tendenza dominante fu quella del mercantilismo. Si trattava di
una linea di politica economica il cui presupposto ultimo era la fissità delle risorse disponibili;
secondo questa impostazione i diversi Stati dovevano accaparrarsi la maggior quantità di ricchezza
possibile e trattenerla all’interno dei propri confini, mantenendo in attivo la bilancia commerciale.
Le politiche mercantilistiche miravano ad attuare pesanti forme di protezionismo, incentivando
l’importazione di materie prime e scoraggiando quella di manufatti provenienti dall’estero,
attraverso l’imposizione di pesanti dazi doganali. Spesso, laddove la forza economica e politico-
militare di uno Stato era ridotta, questi provvedimenti servivano in realtà soltanto ad alimentare
lucrosi contrabbandi.
Una società di ceti
In Antico regime, la società europea fu una società di ceti o “stati”. Le barriere tra i differenti ceti
erano ritenute parte di un ordinamento naturale e divino, dunque immutabile. La nobiltà era
considerata come una qualità innata ed ereditaria; oltre alla nascita, componente fondamentale
del concetto moderno di nobiltà era l’idea di onore, originariamente connessa al comportamento
in guerra e in seguito passata a designare una sfera più ampia in cui rientrava la reputazione, il
comportamento in pubblico, la ricchezza e il rapporto con il denaro. Considerando questo ultimo
aspetto bisogna sottolineare l’incompatibilità tra stile di vita nobiliare e razionalità economica: se
voleva mantenere il proprio status e il proprio “onore”, l’aristocratico era obbligato a spendere in
modo vistoso e ostentato anche quando le sue tasche non glielo permettevano.
Era presente una grande varietà tra le nobiltà europee, ad esempio c’è molta differenza tra la
nobiltà guerriera di lontana origine feudale e la nobiltà ottenuta attraverso l’acquisto di una carica.
L’ideologia e lo stile di vita della nobiltà rappresentarono per lungo tempo un modello culturale
egemone, nel senso che furono spesso considerati normativi anche dagli altri ceti. L’idea di onore,
per esempio, pervade tutta la società di Antico regime: uomini di ogni condizione sociale
difendevano o ripristinavano il loro onore minacciato od offeso. Mercanti e banchieri
consideravano spesso i titoli nobiliari, il possesso della terra e la vita di rendita delle mete ideali da
perseguire, almeno in Europa continentale. Nelle società mercantili dell’Europa settentrionale, a

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partire dal Seicento, cominciò ad affermarsi un’etica borghese del lavoro, contrapposta al lusso e
all’ozio improduttivi della nobiltà.
La cultura degli abitanti delle campagne europee era pressoché interamente affidata all’oralità. Il
più delle volte essa giunge a noi attraverso il filtro di osservatori appartenenti agli strati
alfabetizzati della società; non si tratta di osservatori “neutrali”, bensì spesso proprio di coloro che
esercitarono un’azione violenta di controllo, indottrinamento e repressione nei confronti di quel
mondo.
Il contrasto tra città e campagna e gli stereotipi negativi sull’inferiorità dei contadini appartenevano
ad un patrimonio culturale condiviso in Europa e in particolare in Italia. Le differenze tra cittadini e
contadini erano percepite in termini di natura e perciò anche di corporeità e di fisicità: si riteneva
che certi cibi fossero adatti alla “grossezza” dei contadini e altri invece riservati agli stomaci delicati
dei cittadini che non dovessero essere confusi.
Al di fuori della rigida suddivisione in ordini e ceti, si collocavano quei gruppi che vengono chiamati
“marginali”: si tratta di uomini e donne pressoché esclusi dalla normale convivenza civile, o per le
loro condizioni economiche di estrema miseria, o per il marchio di infamia dovuto alla loro
professione, oppure perché essi stessi, con le loro scelte di vita, si autoemarginavano, finendo col
creare delle vere e proprie sottoculture.
Considerata nel Medioevo come un fenomeno fisiologico e anzi positivo, in quanto permetteva
l’esercizio di un’opera di carità come l’elemosina individuale, la povertà iniziò a essere percepita
come una minaccia con le conseguenze dell’aumento demografico e della rivoluzione dei prezzi e il
precipitare nell’indigenza di vaste masse di popolazione che vivevano al limite della soglia di
sussistenza. Le rivolte alimentari scoppiate in numerose città europee indussero le autorità civili ad
adottare politiche nuove nei confronti della povertà: la mendicità fu proibita, i poveri forestieri
furono spesso cacciati dalle città, la gestione delle elemosine passò alla Chiesa e ai privati cittadini,
infine si distinse tra poveri “meritevoli” di soccorso e poveri abili al lavoro, che furono costretti a
lavorare con mezzi talvolta violenti.
Frontiere sociali e religiose: ebrei e musulmani
Sempre in bilico tra tolleranza e persecuzione politica e religiosa, nell’Europa dell’inizio dell’età
moderna gli ebrei erano numerosi in Spagna, in Portogallo, negli Stati italiani, in alcune aree
dell’Europa orientale e nell’impero Ottomano: grazie alla tolleranza dei sultani, a Costantinopoli
viveva la più grande comunità ebraica d’Europa. L’espulsione degli ebrei dalla Spagna (1492) e la
loro conversione forzata in Portogallo (1496-97) provocarono migrazioni di massa, inizialmente
verso l’Italia e l’impero Ottomano e successivamente verso la tollerante Olanda. Le persecuzioni e
l’isolamento non cancellarono l’identità del popolo ebraico e anzi contribuirono a rafforzarla. I
provvedimenti dei re spagnoli, che non consentivano agli ebrei di continuare ad abitare in Spagna
senza convertirsi al cristianesimo, non provocarono soltanto fenomeni migratori ma anche una
notevole quantità di conversioni sulla cui sincerità era praticamente impossibile non nutrire dubbi.
Più drastica fu la politica attuata dal Portogallo, che in un primo momento non prevedeva
nemmeno la possibilità dell’emigrazione. I “cristiani nuovi” iberici erano continuamente sospettati
di essere in realtà dei “marrani”, cioè di continuare a praticare in segreto il giudaismo. Il continuo
attraversamento delle frontiere religiose tra giudaismo, cristianesimo e islam finì col favorire
l’insorgere di forme di ibridazione e di scetticismo che prepararono il terreno alla sfiducia nelle

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religioni rivelate e alla “crisi della coscienza europea”. L’odio contro gli ebrei fu particolarmente
feroce nella penisola iberica nella prima età moderna anche per motivi politici; la Spagna aveva
costruito la propria identità culturale nel corso della reconquista, cioè della lunga e vittoriosa lotta
conto gli arabi. L’appartenenza etnica divenne pertanto un elemento fondante nel nuovo Stato:
l’assenza di ascendenti arabi o ebrei finì con l’essere considerata un requisito indispensabile per
poter ricoprire cariche pubbliche.
Uomini e donne, mariti e mogli, genitori e figli
Il coro degli intellettuali era quasi unanime nel considerare le donne inferiori rispetto agli uomini.
Conseguenza dell’inferiorità attribuita al sesso femminile era la necessità di tenere le donne sotto
la tutela maschile. Il matrimonio rappresentava anche il passaggio della donna dal controllo del
padre (o dei fratelli) a quello del marito. Laddove il matrimonio non era possibile erano i parenti
maschi a decidere di far entrare le donne in convento e di prendervi i voti. Assai comune fu il
fenomeno della monacazione forzata; ciò non significa che non vi fossero donne che desideravano
entrare in monastero, che in fondo rappresentava uno spazio in cui si potevano scampare i pericoli
cui erano esposte le donne sposate e in cui era possibile dedicarsi ad attività come lo studio e la
scrittura.
Avere la possibilità di accedere al mercato matrimoniale non significava scegliere liberamente il
coniuge, né per gli uomini né per le donne. Le decisioni erano prese dai genitori o dalle famiglie di
origine dei futuri sposi, soprattutto nei ceti più abbienti; era il matrimonio stesso a essere
considerato più come un contratto e un’alleanza tra famiglie che non come unione tra due
persone. Sarà solo il Concilio di Trento a restituire al matrimonio quel carattere sacramentale che la
società europea prima quasi ignorava o comunque metteva in secondo piano.
In questo stesso arco di tempo si modificarono anche i rapporti tra genitori e figli che, nella prima
età moderna, erano quasi sempre improntati a rigidità gerarchica. È presente un cambiamento di
lungo periodo che contraddistingue l’atteggiamento generale verso l’infanzia e la giovinezza
nell’età moderna e che non riguarda gli aspetti affettivi ed emozionali del rapporto tra genitori e
figli. Si tratta del tentativo di estendere alle prime fasi della vita quella stessa esigenza
disciplinatrice messa in opera da Stati e Chiese per tutta la società. Ecco, quindi, pedagoghi di ogni
tendenza, come Erasmo da Rotterdam, cercare di instillare la “modestia” nei fanciulli attraverso
l’apprendimento delle “buone maniere”.
Occorre, infine, tenere presente il fatto che in molte società tradizionali i bambini e, soprattutto, gli
adolescenti maschi fungevano da “tutori del disordine”; potevano cioè esprimere quelle pulsioni
violente non consentite agli altri membri della comunità e usarle per ribadire le leggi non scritte su
cui si basava la convivenza civile.

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2. Le scoperte geografiche e la mondializzazione della storia


La scoperta
L’impresa di Cristoforo Colombo era stata finanziata dalla monarchia di Spagna allo scopo di
cercare una nuova via per le Indie, dato che il Portogallo si avviava a impadronirsi della rotta che
passava per l’Africa e per il Capo di Buona Speranza. Si trattava di un progetto in cui, forse, più
dell’intraprendenza e del coraggio degli uomini contava la volontà espansionistica di una grande
potenza europea.
Una volta sbarcato, Colombo innanzitutto ringraziò Dio per la riuscita della sua impresa, poi diede
all’isola appena scoperta il nome di San Salvador, infine ne prese possesso a nome dei re cattolici.
Si tratta di tre atti fondamentali, che da allora in poi avrebbero caratterizzato l’espansione europea
nel Nuovo Mondo, all’insegna di Dio e dei re. Nello sbarco di Colombo gli “indiani” giocano ancora
un ruolo secondario, infatti essi interagiscono con i nuovi venuti solo dopo che la loro isola ha
ricevuto un nome nuovo.
Lo sguardo attraverso cui gli europei osservavano il nuovo continente non era libero da pregiudizi,
miti, utopie e da schemi interpretativi spesso deformanti, che erano proiettati sull’oggetto della
loro attenzione. Il più evidente di questi fraintendimenti fu, da parte di Colombo, la convinzione di
essere giunto nelle “Indie”. Nonostante tale errore fosse corretto di lì a poco dallo stesso Colombo
nel suo terzo viaggio, nel 1498, e poi definitivamente da Amerigo Vespucci nel 1503, l’uso dei
termini “indios” e “indiani” per indicare le popolazioni originarie rispettivamente dell’America
centro-meridionale e settentrionale si è mantenuto.
Conquiste e colonie spagnole
Scoperte ed esplorazioni ed espansione territoriale non possono essere considerate realtà distinte.
La conquista richiedeva una base giuridica: in un primo momento fu papa Alessandro VI a
concedere soltanto ai re spagnoli il diritto di annettersi tutte le terre situate a ovest del meridiano
che passava a cento leghe a occidente delle isole Azzorre. Ma la bolla pontificia apparve come un
favoritismo del papa spagnolo nei confronti dei suoi connazionali.
Nel 1494 si arrivò ad un accordo tra le due principali potenze impegnate nella navigazione
atlantica. Il trattato di Tordesillas, stipulato tra Spagna e Portogallo, spostava di quasi duecento
leghe verso ovest l’inizio dell’area di colonizzazione spagnola, stabilendo i diritti dei re portoghesi
su tutte le terre scoperte a est del nuovo meridiano di demarcazione. Si trattava della prima
divisione del mondo in “zone di influenza”.
Nei primi due decenni del Cinquecento fu colonizzata una gran parte delle isole caraibiche;
quest’ultime fornirono la base di partenza per la conquista del Messico, portata a termine
all’incirca tra il 1520 e il 1540. Negli anni ’30 cominciò l’espansione in America meridionale,
terminata nel 1570.
In America centrale dominava l’impero atzeco, mentre in America meridionale quello inca.
Per quanto riguarda la conquista del Messico emergono alcuni elementi che segnano la superiorità
degli spagnoli (documento 4-5-6-7). Il resoconto della prima battaglia sostenuta dagli uomini di
Cortés sul suolo messicano è una testimonianza della micidiale potenza di due armi che gli atzechi
non possedevano: le spade, le armature di ferro e i cavalli. A queste occorre aggiungere le armi da

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fuoco e anche i batteri importati dall’Europa, contro i quali gli atzechi erano del tutto sprovvisti di
anticorpi.
Cortés comprese la natura fragile dell’impero atzeco, nel quale una sola popolazione teneva
soggiogate le altre. Sfruttando i risentimenti dei capi sottomessi il conquistador si alleò con i più
deboli per combattere il più forte e, alla fine, ottenne una vittoria schiacciante.
Queste battaglie combattute con le armi, implicavano anche un conflitto più generale, che
coinvolgeva due culture e due civiltà estremamente differenti. Una di queste differenze riguardava
la natura e gli scopi della guerra: se per gli spagnoli la guerra era finalizzata alla conquista del
territorio, gli atzechi erano, invece, abituati a usare le armi per ottenere la sottomissione degli altri
gruppi etnici e il pagamento dei tributi. L’uccisione dell’avversario era più un fatto rituale che non
un mezzo per ottenere la vittoria; alcuni dei nemici catturati erano sacrificati agli dei, fatto che
riempiva di orrore gli europei, contribuendo a convincerli della propria superiorità culturale. I
nuovi venuti erano degli esseri divini, predestinati alla vittoria: questo mostra una sconfitta
culturale ancor prima che una politico-militare.
La conquista dell’America meridionale, iniziata da Francisco Pizarro, si svolse in un arco di tempo
più lungo, sia a causa delle difficoltà di penetrazione in un territorio accidentato e ricco di barriere
naturali, sia per il perdurare della resistenza indigena. La strategia che Pizarro utilizzò contro gli
inca si componeva degli stessi elementi che avevano consentito la vittoria di Cortés sugli atzechi:
superiorità tecnologica abilmente sfruttata, alleanza con i più deboli e guerra totale. Anche in
questo caso è implicito un incontro-scontro tra civiltà differenti.
Parallelamente alla conquista vera e propria, procedeva l’opera di organizzazione politica ed
economica dei territori americani. I nuovi possedimenti dei re di Spagna furono inizialmente
affidati ai capi militari che avevano comandato le spedizioni, poi inquadrati più stabilmente
nell’insieme dei domini della corona spagnola e delle sue istituzioni. Furono così distinti due
viceregni, Nuova Spagna (Messico e zone limitrofe) e Perù (America meridionale), e dotati di
strutture amministrative ispirate al modello spagnolo. L’intensa opera di sfruttamento economico
finì col creare nuove forme di dominio dell’uomo sull’uomo responsabili, insieme alle guerre, del
genocidio della popolazione india. La più tipica fu l’encomienda: si trattava di un provvedimento
attraverso il quale ai coloni spagnoli era affidato un certo numero di indigeni; in cambio del solo
impegno di nutrirli e di fornire loro un’educazione cristiana, l’encomendero aveva il diritto di
impiegarli come manodopera nei campi e nelle miniere. L’encomienda finì con il diventare un
sistema di schiavitù istituzionalizzata e perdurò fino al 18° secolo.
La colonizzazione inglese
Le altre principali potenze europee avevano organizzato diverse spedizioni, dirette per lo più in
America settentrionale, dove la presenza spagnola era meno consistente. Fu, soprattutto, a partire
dagli ultimi decenni del ‘500 e dai primi del ‘600 che inglesi, francesi e olandesi cominciarono a
stabilire proprie colonie in Nord America.
Le operazioni di insediamento compiute dagli inglesi non furono inizialmente condotte con mezzi
forniti dallo Stato, bensì dai privati; soltanto in un secondo momento i re d’Inghilterra
appoggiarono tali iniziative. Questa caratteristica originaria dell’espansione inglese ebbe notevoli
riflessi sull’organizzazione politica delle colonie. Quando, infatti, la corona iniziò a prendere sotto la

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sua protezione le compagnie commerciali dedite all’insediamento nel Nuovo Mondo, concesse loro
una serie di diritti e di prerogative che consentivano una forte autonomia, pur nella subordinazione
alla madre patria. In alcuni casi furono gli stessi colonizzatori a “costituirsi in un corpo civile e
politico” e a darsi delle leggi. Così giurarono di fare i “Padri pellegrini”, i fondatori delle colonie più
settentrionali dell’America inglese. Pur dichiarandosi fedeli sudditi dei loro re, gli emigranti che
giunsero sulle coste del Massachusetts nel 1620 erano puritani, cioè oppositori della chiesa
nazionale anglicana. Ciò che li spinse a creare insediamenti nel Nuovo Mondo era l’idea di un
completo rinnovamento della cristianità e della fondazione di una Nuova Gerusalemme.
L’origine composita, l’autonomia e talora l’indipendenza di fatto delle colonie inglesi conferì loro
una precoce inclinazione per la democrazia e il federalismo.
I beni materiali e il commercio coloniale
Alimenti come mais, patate e pomodori erano completamente sconosciuti in Europa; si trattava di
piante adattabili ai più diversi tipi di clima e a rendimento molto più alto dei cereali europei.
L’applicazione delle tecniche agricole europee a queste colture avrebbe consentito in futuro a
intere popolazioni di sfuggire a carestie sempre incombenti.
Le nuove terre offrivano in abbondanza i loro preziosi prodotti ai colonizzatori e al tempo stesso
diventavano mercato per lucrosi affari.
Nella seconda metà del ‘500, con la distruzione quasi totale delle popolazioni indie, nell’America
spagnola e portoghese cominciò a scarseggiare la manodopera: fu così che ebbe origine uno dei
più spietati e redditizi commerci dell’età moderna, il commercio degli schiavi neri. Gli schiavi
provenivano dalla regione del golfo di Guinea, dove i portoghesi avevano stabilito numerose basi
commerciali strategicamente disposte sulla rotta per le Indie orientali. Comprati o catturati, poi
trasportati sulle isole dell’arcipelago di Capo Verde gli africani erano acquistati dagli spagnoli che, a
loro volta, li rivendevano in America, ottenendone considerevoli guadagni. Anche questo traffico,
come tanti altri dell’epoca, era fortemente condizionato dalla presenza di dazi e appalti che, per
lungo tempo, lo resero praticabile quasi soltanto dai sudditi degli Stati che possedevano colonie.
Le colonie fornivano in grande abbondanza metalli preziosi.
Piuttosto diversa era la situazione in Estremo Oriente, dove i portoghesi avevano creato un vasto
impero commerciale. Le colonie portoghesi in Asia si trovavano a fronteggiare civiltà assai più
evolute e più potenti rispetto a quelle dell’America precolombiana; esse, infatti, furono limitate a
piazzeforti strategiche, localizzate quasi sempre sulle coste, visto che non fu possibile l’occupazione
di vasti territori dell’entroterra. Nonostante ciò, l’attenta sorveglianza sui traffici e la protezione
fornita dalla corona ai propri mercanti consentirono ai portoghesi di trarre notevoli profitti dal
commercio delle spezie e dei tessuti pregiati, altamente richiesti in Europa.
A partire dal secondo ‘500 e dal ‘600 in avanti, il declino economico della Spagna e del Portogallo
cominciò ad avere pesanti ripercussioni sui loro affari con le colonie. Ne trassero vantaggio potenze
commerciali più dinamiche come l’Olanda e l’Inghilterra. Nel Seicento, infatti, il monopolio ispano-
portoghese era entrato in crisi: l’episodio più significativo del passaggio di consegne nel commercio
internazionale è la cessione ufficiale dell’esclusiva della tratta degli schiavi neri all’Inghilterra,
avvenuta al termine della guerra di successione spagnola nel 1713.

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I “selvaggi”: la riflessione sull’uomo


Le scoperte geografiche e l’espansione coloniale misero gli europei per la prima volta di fronte a
intere civiltà completamente sconosciute. L’incontro con quelle popolazioni costituì per molti una
sfida intellettuale: si trattava di riflettere non soltanto su coloro che furono identificati quasi subito
come “selvaggi”, ma anche su stessi e sul significato della “civiltà” europea.
Michele de Cuneo (documento 17) manifesta un’incomprensione quasi totale per gli uomini da lui
osservati. Più che descrivere, egli traduce in termini a lui familiari ciò che vedono i suoi occhi; a
quest’opera di “traduzione” corrisponde un atteggiamento di condanna morale e di disprezzo.
Bartolomé de Las Casas (documento 18) tenne un atteggiamento opposto. Nell’intento di
denunciare le atrocità commesse dai suoi connazionali, il domenicano spagnolo vide negli “indios”
tutte le qualità positive che un missionario come lui poteva desiderare. Las Casas si può
considerare uno dei fondatori del cosiddetto “mito del buon selvaggio”, concezione secondo la
quale gli esseri umani sarebbero virtuosi per natura, il che implicava un fondamentale ottimismo
sull’uomo.
All’altro capo del mondo gli europei ebbero a che fare con civiltà più sviluppate, che spesso e
volentieri guardavano i nuovi arrivati con disprezzo. Un’area che offriva molte resistenze alla
penetrazione europea era il Giappone (documento 20). Al di là dell’esito della missione, Francesco
Saverio e i suoi compagni ebbero modo di compiere molte osservazioni sui giapponesi. I gesuiti
non riuscivano nemmeno a concepire l’idea che una questione centrale nella cultura filosofica e
religiosa europea potesse rivelarsi indifferente in Giappone.
Una particolare variante del “mito del buon selvaggio” fu proposta, alla metà del Settecento, da
Ludovico Antonio Muratori (documento 23). La “felicità” degli “indios” paraguaiani dipendeva non
solo dalle loro inclinazioni naturali, bensì dall’opera civilizzatrice dei gesuiti, che avevano creato nei
loro territori delle strutture che egli paragonava alle chiese del cristianesimo primitivo.

3. La politica: la nascita dello Stato moderno


Le idee
Il pensiero di Niccolò Macchiavelli maturò nel corso della crisi che investì gli Stati italiani tra la fine
del Quattrocento e gli inizi del secolo successivo, quando divenne chiaro che le piccole entità
politiche erano destinate a soccombere di fronte alla potenza delle grandi monarchie europee.
Macchiavelli scrisse “Il Principe” con l’intenzione di tracciare il profilo di un capo di Stato privo
delle debolezze che avevano contraddistinto i governi italiani fino ad allora. Nel fare ciò dichiarava
apertamente che le leggi della politica non potevano essere determinate da alcuna istanza
superiore, ma dovevano derivare unicamente dall’esperienza e dalla “necessità”. In ogni caso la sua
riflessione si soffermava principalmente sull’individuo.
Formalmente cattolico, Bodin fu impegnato in politica: fu avvocato al Parlamento di Parigi e
rappresentante del Terzo stato agli Stati generali di Blois. Egli si riconobbe nel gruppo dei
“politiques”, cioè di coloro che, rifiutando l’estremismo distruttivo delle fazioni in lotta,
caldeggiavano una pianificazione religiosa in funzione del rafforzamento dello Stato e della
monarchia. La riflessione sul concetto di “sovranità” occupa un posto centrale nel suo pensiero. A

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causa della sua affermazione, secondo cui il monarca è svincolato dalle leggi che lui stesso emana,
fu identificato come un fautore dell’assolutismo monarchico; infatti il ruolo assegnato alle
rappresentanze era puramente consultivo. Tuttavia, Bodin ammetteva l’esistenza di leggi superiori,
che neanche il re era autorizzato a violare: tra queste ricordiamo la legge divina e le leggi
costitutive del regno, come quelle che regolavano la successione al trono.
Thomas Hobbes teorizzò una sovranità ancor più assoluta. Le turbolente vicende della rivoluzione
inglese contribuirono a infondere nelle sue concezioni politiche e metafisiche una particolare
insistenza sull’obbedienza all’autorità. Per Hobbes, lo stato di natura è una guerra di tutti contro
tutti; l’uomo naturale può porre fine a questa situazione soltanto creando un uomo artificiale, cioè
lo Stato. È a questa entità che i singoli, attraverso un patto di ciascuno con tutti gli altri,
trasferiscono gran parte dei loro diritti; ma questa costruzione vive di una vita propria e fa sì che
l’interesse della collettività coincida con l’interesse dello Stato.
John Locke, inglese che, con la sua filosofia, influenzò gli illuministi francesi. Il punto di partenza di
Locke è apparentemente simile a quello di Hobbes: anch’egli riconosce la natura convenzionale
delle istituzioni politiche e parla di un accordo di tutti gli uomini con i propri simili. Per Locke il
potere legislativo e il potere esecutivo devono essere separati e collocati in mani differenti, per
proteggere i sudditi dalle possibili tentazioni autoritarie dei governanti. Questo principio è
fondamentale, in quanto è ancora alla base delle moderne democrazie occidentali.
Le istituzioni e la pratica della politica tra Cinquecento e Seicento
All’inizio dell’età moderna vi fu, specialmente nelle monarchie, un processo di unificazione
territoriale e di centralizzazione: fu ridotto il ruolo dei feudi e delle aree esenti dalla giurisdizione
dei monarchi, a vantaggio del patrimonio e della giustizia di questi ultimi. A causa del continuo
stato di guerra aumentò in generale il peso delle imposte, di conseguenza monarchie e repubbliche
dovettero dotarsi di un efficiente apparato di riscossione. Questo mutamento diede luogo a quel
processo di burocratizzazione che rappresentò una delle principali caratteristiche della nascita degli
Stati moderni. Era presente un’organizzazione in cui era la struttura a prevalere sulle persone; gli
uomini che occupavano incarichi d’ufficio provenivano spesso dalla borghesia e in molti casi
avevano studiato diritto nelle università. In questo modo, gli Stati dell’Europa moderna seppero
legare ai propri interessi una quantità sempre maggiore di persone provenienti da un ceto che fino
ad allora non aveva mai partecipato al potere.
Ovunque, il potere dei re si dispiegava pienamente in tre ambiti fondamentali: l’esercito, il
monopolio dell’uso della forza, la fiscalità e la giustizia. Nel tardo medioevo gli ordinamenti
giuridici presenti in un territorio erano molti, spesso in conflitto tra loro; con la nascita e lo sviluppo
delle monarchie moderne, la giustizia dei re in parte si sovrappose, ma in parte rispettò l’esistenza
di quelle “giustizie particolari”. In diversi paesi, il contrasto fra l’antico e il nuovo diritto fu regolato
all’interno di grandi corti di giustizia, che finirono con l’assumere il ruolo di sedi del confronto tra i
monarchi e i detentori di diritti particolari. È questa l’origine del Parlamento inglese che, con il
tempo, divenne una vera e propria rappresentanza della popolazione del regno, dotata di potere
legislativo. Il Parlamento di Parigi, invece, mantenne il suo profilo di alta corte di giustizia; esso,
tuttavia, aveva il diritto di esaminare ed eventualmente porre il veto sugli editti del re e quindi
partecipava, in qualche misura, al potere legislativo. In Francia il ruolo di rappresentanza dei corpi
sociali di fronte al re era svolto dagli Stati generali.

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Quasi tutti gli Stati europei conobbero forme di rappresentanza che erano rigorosamente divise per
ceti, ognuno contraddistinto dal possesso di particolari diritti o prerogative.
Caratteristiche salienti dei principali Stati europei:
Spagna
Nonostante il matrimonio tra Ferdinando re di Aragona e Isabella regina di Castiglia, celebrato nel
1469, fino al 1512 i due regni ebbero monarchi distinti. Anche dopo l’unificazione le due parti del
regno rimasero istituzionalmente separate sotto molti aspetti; continuarono così a esistere delle
rappresentanze (Cortes) per la Castiglia e altre per l’Aragona. La forza che la monarchia castigliana
aveva acquisito dopo la fine della riconquista risulta evidente dalla composizione di queste Cortes:
alla seduta erano presenti esclusivamente i rappresentanti delle 18 città castigliane con diritto di
voto alle Cortes; la nobiltà e il clero non erano nemmeno stati convocati. In questo modo, i
monarchi potevano contare su un’assemblea più docile ai loro voleri. (vedi libro)
Francia
L’editto di Nantes del 1598 mise fine alle guerre di religione, che avevano lacerato la Francia per
più di 30 anni. Tutte le concessioni fatte ai protestanti dipendevano unicamente dalla volontà e
dall’autorità del re; nel 1685 Luigi XVI revocò l’editto di Nantes, in virtù del principio secondo cui un
re non poteva essere vincolato dalle leggi emanate dai suoi predecessori.
Tra le memorie del cardinale Richelieu (documento 8) troviamo la descrizione dello svolgimento
della riunione degli Stati generali di Francia nel 1614. Attraverso questo racconto possiamo
osservare la procedura dei lavori: le camere separate dei tre stati, le discussioni. Una delle
questioni più importanti che furono sollevate fu la vendita delle cariche pubbliche e la tassa che
consentiva di renderle ereditarie. Su questo punto si ebbe una netta spaccatura tra nobiltà e clero,
i quali intendevano far dipendere privilegi e incarichi unicamente dalla nascita, e il Terzo stato, per
il quale invece la possibilità di acquistare cariche pubbliche era un importantissimo fattore di
ascesa sociale. L’assemblea, infine, fu chiusa da un atto di autorità della monarchia, senza che fosse
stata raggiunta una conclusione significativa. Il racconto del cardinale si chiude con l’affermazione
per cui gli Stati generali non sarebbero più stati convocati fino al 1789.
La Francia appare come uno degli Stati europei in cui si realizzò maggiormente un governo di tipo
assolutistico.
Inghilterra
Una caratteristica generale del potere monarchico della prima età moderna è la tendenza a
sottomettere alla propria volontà anche quei settori che tradizionalmente erano vincolati ad altre
obbedienze, come il clero. Praticata da tutti i sovrani europei, questa politica assunse in Inghilterra
caratteristiche particolari dopo l’Atto di supremazia, secondo cui il re rappresentava l’unico vertice
della chiesa nazionale inglese, ma questa riforma fu alle sue origini un fatto più politico che
religioso.
La peculiarità dell’ordinamento politico inglese (documento 11) era che accanto alla “potestà regia
e assoluta”, rappresentata dal cancelliere e dai tribunali speciali istituiti dal re, un’imprescindibile
centro di potere era il Parlamento, che, benché sottoposto per molti aspetti all’autorità del re,
deteneva un forte potere legislativo.

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Impero (Sacro romano impero)


L’imperatore si trovava nel doppio status di sovrano propriamente detto nei suoi possedimenti
ereditari e di monarca sovraterritoriale all’interno dei vastissimi confini dell’Impero, in grande
maggioranza di lingua tedesca; inoltre, in via del tutto eccezionale, Carlo V era anche re di Spagna.
L’Impero era quindi un’accozzaglia di Stati di diversa natura, ognuno dei quali era retto da un
proprio governo; le uniche istituzioni unitarie di un qualche rilievo erano il Tribunale camerale
imperiale e le Diete. In linea generale, Carlo scelse di lasciare agli innumerevoli territori posti sotto
la sua sovranità un largo margine di autogoverno.
Suo figlio Filippo che, insieme alla Spagna, ereditò anche i Paesi Bassi, cercò di ispanizzare quel
territorio attraverso una politica di tipo assolutistico. Il risultato fu lo scoppio di una grande rivolta,
da cui nacque la repubblica delle Province Unite; nel 1581 gli Stati generali della nuova repubblica
dichiararono decaduto Filippo II dal suo diritti di sovranità.
La Repubblica, riconosciuta ufficialmente dalla Spagna solo nel 1648 ma di fatto ormai attiva da un
cinquantennio sulla scena politica europea, divenne presto un centro di accoglienza per gli
oppositori dell’assolutismo di tutta l’Europa.
Polonia e Russia
In Polonia il monarca era eletto dall’assemblea dei nobili del regno. La nobiltà aveva un forte
potere, tanto da riuscire a condizionare pesantemente i sovrani, spesso appartenenti a dinastie
straniere.
A partire dal regno di Ivan IV il Terribile la Russia si trasformò in un vero e proprio impero,
estendendosi sempre più verso oriente e rafforzando contemporaneamente le proprie strutture
interne. Questo processo fu lungo e complesso, infatti incontrò in varie riprese l’opposizione della
nobiltà russa, che scatenò diverse rivolte. Il codice del 1649 rappresenta la concezione
personalistica e autoritaria che gli zar avevano del loro potere; la minuziosa regolamentazione
delle procedure di espatrio è un’efficace espressione del forte isolamento che caratterizzò la Russia
almeno fino al Settecento.
Uno Stato italiano
La Toscana di Cosimo I de’ Medici era caratterizzata da una forte contraddittorietà: alla tranquillità
e alla grande prosperità economica corrispondeva un regime di assolutismo principesco che il
suddito di una repubblica non poteva non vedere con profondo orrore. Si trattava di uno Stato ben
provvisto di strutture giudiziarie e amministrative.
In tutta l’Italia, anche le piccole entità politiche, intrapresero quella via alla modernizzazione e alla
costruzione dello Stato caratteristica di tutto l’Occidente europeo.

4. La religione: dall’età della Riforma e della Controriforma all’illuminismo cristiano


La cristianità tradizionale
Il cristianesimo europeo prima della Riforma è paragonabile a una lingua condivisa da tutti, anche
se parlata in tanti dialetti diversi. Si trattava di una religione in cui gli aspetti dottrinali occupavano

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uno spazio relativamente ristretto nella vita dei credenti. Nel tardo Medioevo a un nucleo ristretto
di poche idee fondamentali, incentrate soprattutto sul valore della morte e della resurrezione di
Cristo, corrispondeva una vastissima gamma di pratiche e di comportamenti religiosi, più o meno
mediati dall’autorità ecclesiastica.
(vedi libro pag. 153-154-155)
La Riforma protestante
Martin Lutero aveva provato per molto tempo gli stessi sentimenti provati da Giovanni Morelli un
secolo prima di lui, ovvero l’angoscia per i propri peccati e il senso della propria nullità al cospetto
di Dio. La soluzione ai propri tormenti era arrivata all’improvviso, durante un’intensa meditazione
sulle Scritture. L’uomo, per quanti sforzi facesse, non poteva fare nulla per la propria salvezza:
soltanto Dio poteva regalare agli uomini la propria giustizia, attraverso la fede. Si trattava di una
concezione completamente opposta a quella tradizionale, che implicava l’annullamento di ogni
“merito” umano nei confronti di Dio. Era un messaggio liberatorio: dato che nulla di umano
contava ai fini della salvezza, tutte le “buone opere” prescritte o raccomandate dalle autorità
ecclesiastiche erano inutili. Ciò non significava una completa libertà da ogni vincolo morale, bensì
la negazione del legame tra azioni umane e accumulo di meriti di fronte a Dio; le “buone opere”,
secondo Lutero, sarebbero così diventate spontanee. Togliere di mezzo ogni idea di merito,
tuttavia, significava anche troncare di netto quel ponte tra Dio e gli uomini che la Chiesa cattolica
aveva costruito nel corso dei secoli e che aveva anche imparato a gestire a proprio vantaggio; un
ponte fatto di messe, digiuni, pellegrinaggi, indulgenze. Sulla questione delle indulgenze Lutero si
scontrò duramente col papato: negando il valore assolutorio dell’indulgenza Lutero sottopose a
minuziosa verifica anche tutti gli altri fondamenti del potere ecclesiastico e in particolar modo i
sacramenti. I criteri in base ai quali il riformatore giudicò validi soltanto il battesimo e l’eucaristia
erano due: l’idea della giustificazione per sola fede e l’attestazione delle Scritture. Cominciava così
la costruzione di una nuova chiesa e finiva l’unità del cristianesimo tradizionale nell’Europa
occidentale.
A questa riforma ne succedettero altre. Dopo Lutero, arrivarono Zwingli e Calvino che furono, a
loro volta, fondatori di nuove chiese.
Zwingli, pur condividendo molte posizioni di Lutero, se ne distaccò per diversi aspetti. In nome
della piena aderenza ai testi e con una grande attenzione al preciso significato delle parole, Zwingli
escluse dal proprio credo la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo e di tutte le immagini
sacre. Inoltre fece una riflessione più articolata sul vincolo che tiene uniti tutti i cristiani, la Chiesa.
Era anche presente una critica al sacramento del battesimo: il battesimo è il segno attraverso cui si
è ammessi nella comunità dei credenti e non può dipendere dalla fede di chi lo riceve.
Il punto di partenza della riflessione religiosa di Giovanni Calvino è diverso da quello degli altri
riformatori. Le sue argomentazioni partono dall’idea della potenza e della maestà assolute di Dio. È
da questa premessa che derivano sia il principio della giustificazione per sola fede, sia lo dottrina
della doppia predestinazione, secondo la quale i piani di Dio contemplano fin dall’eternità la
salvezza per alcuni e la dannazione per altri. Tale è la volontà di Dio, alla quale il credente si deve
conformare senza interrogativi sui suoi motivi; da questo principio, i calvinisti, trassero uno stimolo
all’azione nel mondo. Un’azione spesso e volentieri tutt’altro che pacifica: se Calvino predicava il

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rispetto verso il potere costituito, non per questo era a favore di un’obbedienza incondizionata
all’autorità. Fu così che il calvinismo sviluppò una forza rivoluzionaria, molto potente.
La Riforma radicale
Accanto alla Riforma di Lutero, Zwingli e Calvino, che è stata chiamata anche “Riforma magistrale”
è esistita una “Riforma radicale”, costituita da gruppi minoritari, perseguitati da tutte le chiese e da
tutti gli Stati. Anche se non si trattò di un movimento omogeneo, possiamo elencare alcuni principi
che furono caratteristici di questa riforma.
Il primo riguarda la concezione della chiesa. Mentre Lutero, Zwingli e Calvino avevano iniziato una
vera e propria “Riforma”, cioè un’opera di correzione di ciò che secondo loro era stato deformato
rispetto ai primi secoli del cristianesimo, i riformatori radicali ritenevano che la vera chiesa fosse
scomparsa già con la morte degli apostoli; perciò, più che di riforma, si è parlato di una volontà di
“restituzione”.
La differenza consisteva nel fatto che mentre nella comunità formata da Cristo e dagli apostoli si
entrava volontariamente, una chiesa fondata sul battesimo dei neonati comprendeva la totalità
degli abitanti del territorio su cui si era stabilita quella chiesa. I riformatori radicali vollero
ripristinare il cristianesimo apostolico e perciò fondarono delle comunità di cui facevano parte
soltanto coloro che avevano sperimentato una conversione religiosa. Il battesimo doveva essere un
segno visibile di quel cambiamento e, pertanto, poteva essere somministrato soltanto a coloro che
avevano raggiunto l’età della ragione. I primi gruppi che praticarono il battesimo degli adulti furono
chiamati anabattisti, cioè “ribattezzatori” che, non riconoscendo valido il battesimo, battezzavano
gli adulti che volevano entrare nelle loro comunità. Le comunità anabattiste non erano “chiese ma
“sette”.
Un’altra caratteristica importante è la radicale separazione tra Chiesa e Stato. Secondo gli
anabattisti, la comunità cristiana non doveva partecipare alla vita politica e civile perché tale
partecipazione ne avrebbe compromesso lo spirito evangelico; analogamente, lo Stato non doveva
avere il diritto di intervenire sulle questioni religiose. Per queste idee gli anabattisti risultavano
pericolosi agli occhi delle autorità politiche e religiose di tutta l’Europa: essi, infatti, minavano alla
base quell’alleanza tra potere politico e potere religioso che costituiva sia il fondamento del
cattolicesimo che della Riforma.
Al pacifismo della maggioranza degli anabattisti si contrappose la violenza rivoluzionaria di
riformatori come Thomas Muntzer. Caratteristica importante del suo pensiero è l’accentuato
spiritualismo: l’unico criterio di verità nelle questioni religiose non è più solo la Scrittura, bensì la
“parola interiore”, cioè la Scrittura interpretata attraverso l’ispirazione di Dio, che può manifestarsi
anche attraverso sogni, visioni e rivelazioni dirette.
Nella seconda metà del Cinquecento, quando ormai anche le chiese della Riforma si erano irrigidite
e chiuse nelle loro ortodossie, furono pochi coloro che difesero la libertà di coscienza e la
tolleranza religiosa. Tra di loro citiamo Fausto Sozzini, che si può considerare un esponente della
“Riforma radicale”; la sua negazione della divinità di Cristo e il conseguente rifiuto del dogma della
Trinità ne fecero un eretico. Fondamentale nel suo pensiero era la compiuta formulazione della
tolleranza religiosa.

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Mutamenti nel cattolicesimo: il Concilio di Trento e la Controriforma


Con l’espressione “Riforma cattolica” si intende quel moto di rinnovamento interno alla chiesa che,
almeno in un primo momento, si era sviluppato indipendentemente dalla polemica con il
protestantesimo.
Le nuove istituzioni nate nella Chiesa del Cinquecento si differenziavano dalle altre per una più
rigorosa selezione dei propri membri e per un rinnovato impegno nelle attività caritative, nella
propaganda religiosa e nell’evangelizzazione. Il più importante dei nuovi ordini fu la Compagna di
Gesù. Fondata dallo spagnolo Ignazio di Loyola e approvata da papa Paolo III nel 1540, la
Compagnia divenne uno dei principali e più attivi sostegni del cattolicesimo romano. Essa si
distinse principalmente in due settori: l’istruzione superiore e l’attività missionaria. I gesuiti
compirono una vasta opera di evangelizzazione nelle campagne e nelle zone marginali o isolate,
soprattutto italiane, in cui l’istruzione religiosa delle popolazioni era carente o del tutto assente.
Concilio di Trento: i suoi decreti rappresentano i presupposti teorici della Controriforma. Portato a
termine in tre fasi e fortemente condizionato dalla complessa situazione politico- religiosa
europea, il Concilio riunì in sé le esigenze di autoriforma che erano state della “Riforma cattolica”
e, al tempo stesso, la necessità di combattere l’eresia protestante attraverso rigorose definizioni
dogmatiche. Altrettanto importanti furono i provvedimenti di autoriforma, sia per quanto riguarda
il culto, sia relativamente al clero. Il concilio delineò un modello ideale di vescovo, inteso come un
vero e proprio “pastore del suo gregge”, il cui primo dovere era la residenza in diocesi. Il concilio si
occupò anche di ciò che chiameremmo vita civile ma che, a quei tempi, era inseparabile dalla
religione: il decreto sul matrimonio, riaffermandone la natura sacramentale, trasformò quello che
per lungo tempo era stato quasi soltanto un contratto tra due famiglie in un atto religioso, in cui il
ruolo del clero diventava centrale.
Cristianesimo e lumi
La Chiesa cattolica, dunque, non solo resistette all’urto della Riforma, ma seppe trovare in sé stessa
energie sufficienti per rafforzarsi e consolidare la propria egemonia sulle zone d’Europa rimaste
fedeli a Roma. Invece, la crisi che si aprì con l’Illuminismo fu assai più profonda e di lunga durata e
coinvolse tutte le chiese e tutte le ortodossie. Tuttavia, almeno fino alla metà del Settecento, parve
possibile a molti intellettuali europei una riforma del cristianesimo secondo le nuove esigenze di
moderazione, armonia e razionalità.
5. Il Seicento: un secolo di crisi?
Crisi del Seicento: il consistente rallentamento della crescita demografica, i mutamenti intervenuti
nel corso del secolo assunsero caratteristiche assai diverse a seconda della zona d’Europa presa in
considerazione.
La crisi italiana e spagnola; il successo olandese e inglese (vedi documenti 1-2-3-4-5-6)
Dal punto di vista demografico ed economico-sociale, l’area che manifestò maggiori segni di
disagio fu quella mediterranea, cioè la Spagna e gli Stati italiani.
Il fenomeno più rappresentativo della crisi economica italiana fu il crollo della produzione
manifatturiera nelle città, soprattutto nel settore tessile, che fino alla seconda metà del
Cinquecento era stato all’avanguardia in Europa. Quali erano le cause di questo declino? Una delle

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cause principali furono sicuramente i pesanti carichi fiscali che gravarono su ogni settore
dell’economia, soprattutto nelle zone dell’Italia sotto il diretto dominio degli spagnoli, come lo
Stato di Milano. Il coinvolgimento della Spagna nella Guerra dei trent’anni fu sostenuto anche dalle
massicce contribuzioni dei territori italiani. Ma non si trattava solo della guerra e delle sue
conseguenze, che resero quasi impossibile le esportazioni verso la Germania. Il problema vero era
che i tessuti italiani non erano più preferiti a quelli della concorrenza straniera: erano rimasti
troppo elaborati, lussuosi e quindi costosi rispetto a un mercato che si stava invece orientando
verso la quantità, la leggerezza e l’economicità. La rigida struttura delle corporazioni, inoltre,
impediva alle manifatture italiane di adeguarsi alle mutate condizioni del contesto socio-
economico. Se le economie delle grandi città come Venezia e Firenze decaddero, in alcune zone
specie dell’Italia settentrionale, nella seconda metà del ‘600, si ebbe una forte ripresa delle
campagne e molte attività manifatturiere si trasferirono in centri minori che conobbero così una
forte ascesa economica.
Anche la Spagna, nonostante continuasse ad essere una grande potenza sul piano politico e
militare, cominciò a mostrare segni di debolezza. La rivoluzione olandese, la Guerra dei trent’anni e
le rivolte del Portogallo e della Catalogna inghiottirono un’enorme quantità di risorse umane ed
economiche. Nei primi decenni del Seicento i traffici mercantili e l’importazione di oro e argento
dai possedimenti americani cominciarono a declinare. Già gli osservatori dell’epoca si erano accorti
di un progressivo peggioramento delle condizioni di vita. Inoltre, grazie alle ricchezze importate dai
possedimenti americani, la Spagna aveva potuto prosperare, ma aveva anche imparato a vivere di
rendita, senza lavorare le materie prime e riesportare il prodotto finito, impoverendo così la
propria economia. Era inevitabile, dunque, che nei traffici internazionali si inserissero potenze
economiche e commerciali molto più dinamiche e aggressive.
Gli olandesi erano specializzati nel commercio di intermediazione, cioè nell’acquisto di prodotti che
erano immagazzinati e poi rivenduti su altri mercati, realizzando grandi profitti. Lo strumento
prediletto del capitalismo olandese erano le grandi compagnie commerciali fornite di monopolio,
tra cui la più celebre fu la Compagnia delle Indie Orientali. Verso la fine del secolo essa si era
trasformata in una vera e propria agenzia coloniale e controllava non solo il commercio, ma anche
la produzione di spezie e di tessuti dalla propria centrale di Batavia, dopo aver spazzato via la
concorrenza portoghese. Al fondo di questo successo olandese non vi erano soltanto ragioni
puramente economiche; una grande importanza avevano la particolare struttura e la composizione
sociale del governo repubblicano, nonché fattori legati alla cultura e alla mentalità.
La lezione olandese fu messa ampiamente in pratica dall’Inghilterra, come mostra sia l’aumento di
dimensioni della flotta mercantile e dei commerci inglese con l’Asia, sia gli esiti della Gloriosa
Rivoluzione del 1688-89, che sancirono definitivamente la subordinazione della monarchia
britannica al Parlamento.
Guerre rivolte e rivoluzioni
La Guerra dei trent’anni (vedi schemi)
Le due rivoluzioni inglesi (vedi schemi)

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Le rivolte contadine e la Fronda in Francia


Nei decenni centrali del Seicento le rivolte contadine scossero la Francia; non si tratta solo ed
esclusivamente di rivolte dettate dalla fame e dalla disperazione. L’aumento della pressione fiscale,
determinato soprattutto dall’intervento francese della Guerra dei trent’anni, si accompagnava
all’avanzamento del processo di centralizzazione del potere; le popolazioni non avevano la volontà
di sovvertire il sistema politico e sociale e nemmeno la monarchia, ma la pressione fiscale e
l’accentramento del potere li muovevano verso la protesta; tutto ciò permise alla monarchia
francese di imporre la sua volontà sui rivoltosi. Questa ricerca di legittimazione era l’espressione
della visione del mondo e della politica tipica di una società tradizionale come quella contadina, in
cui il re era sempre “buono” e i responsabili erano identificati nei suoi “malvagi ministri”. Solo in
alcune zone le agitazioni degli abitanti delle province trovarono alimento e motivazioni politiche
nella prima Fronda, quella animata dai Parlamenti del 1648-49.
Fenomeno complesso e controverso, la Fronda fu scatenata da quello stesso profondo mutamento
che aveva contribuito ad alimentare anche le rivolte contadine: l’affermazione di una monarchia
sempre più “assoluta” e ansiosa di liberarsi dai vincoli rappresentati dai corpi intermedi. Quindi era
evidente la volontà della monarchia di eliminare gli Stati generali.
La cultura: Galilei, Spinoza e Bayle
Visto con l’occio dello storico della cultura e delle idee, il Seicento fu tutt’altro che un secolo di
crisi.
Galilei (vedi libro pag. 203-204)
Il secondo Seicento è stato definito l’età della crisi della coscienza europea. Con questa espressione
si intende il crollo delle certezze che, nel progressivo esaurirsi del confronto tra le diverse
confessioni cristiane, investì completamente la religione. Spinoza era considerato un pericoloso
eretico tanto dagli ebrei, tra i quali era nato e cresciuto, quanto dai cristiani; poté sopravvivere
soltanto nella tollerante Olanda. La sostanziale equivalenza tra Dio e Natura, nel sistema metafisico
di Spinoza, dava luogo a una radicale negazione del “soprannaturale” in sé e a un panteismo che gli
avversari del filosofo considerano equivalente all’ateismo. Ancor più sconvolgenti furono i risvolti
politici della sua filosofia. Spinoza dissociò ortodossia religiosa e convivenza politica in modo più
radicale, dando un fondamento politico, più che religioso, alla libertà in materia di fede.
Fu Pierre Bayle a trasmettere i temi del libertinismo e dello scetticismo tardo-seicenteschi
all’Illuminismo europeo. Calvinista francese, costretto a rifugiarsi a Rotterdam nel 1681, fu
coinvolto nel dibattito politico-religioso europeo seguito alla revoca dell’editto di Nantes. Bayle non
si schierò con i calvinisti intransigenti, ma cercò una possibile conciliazione. Ciò gli attirò l’ostilità
dei calvinisti olandesi appartenenti alla fazione orangista, oltre che dei numerosi compatrioti
fuggiti dall’assolutismo di Luigi XIV. L’accusa ufficiale contro Bayle era quella di ateismo; nelle sue
opere mostrò l’assoluta inconciliabilità tra la ragione umana e le verità fondamentali delle religioni
rivelate, approdando ad uno scetticismo radicale, unico possibile garante di un’autentica tolleranza
religiosa.

7. La fine dell’Antico regime: la rivoluzione industriale

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L’ideologia
Il fenomeno denominato “rivoluzione industriale” è adatto per segnare il confine tra età moderna
ed età contemporanea. Si tratta di un fenomeno di lunga durata e di portata mondiale; le sue
origini si possono situare precisamente nello spazio e nel tempo, cioè l’Inghilterra degli ultimi
decenni del Settecento.
Per quanto riguarda i presupposti culturali che resero concepibili cambiamenti di quella portata,
nonché i mutamenti filosofici e ideologici che accompagnarono il progresso materiale e
tecnologico, bisogna partire dall’Illuminismo settecentesco. Il punto di vista di Raynal sul
commercio operava un doppio rovesciamento rispetto alle posizioni dominanti in Antico regime:
rifiutava l’ascetismo cristiano rivendicando la legittimità di un’etica edonistica, in cui la ricerca della
felicità occupasse un posto centrale; inoltre identificava il commercio come fonte di libertà e di
unione tra gli uomini. Posizioni analoghe a quella di Raynal erano ormai molto diffuse, tant’è che
sei anni dopo la Dichiarazione d’indipendenza delle colonie inglesi del Nord America poneva tra i
diritti fondamentali dell’uomo la ricerca della felicità.
L’approdo finale di questi cambiamenti di mentalità fu l’ideologia del progresso.
La rivoluzione agricola: l’energia e i trasporti
Tra i presupposti economici e materiali che precedettero e accompagnarono la rivoluzione
industriale, consideriamo tre fattori: l’agricoltura, l’energia e i trasporti.
Per alcune aree d’Europa, il Settecento fu un secolo di grandi innovazioni sia nelle tecnologie
agricole, sia nella struttura della proprietà agraria. Ciò che diede un impulso straordinario
all’agricoltura del ‘700 fu l’incrocio di due fattori, uno relativo ai metodi di coltivazione, l’altro alla
struttura della proprietà terriera. Dal punto di vista tecnico troviamo la progressiva sostituzione
della rotazione al sistema del maggese, sistema in base al quale la rifertilizzazione dei terreni
impoveriti dalla coltivazione di cereali era ottenuta semplicemente lasciandoli a riposo senza
coltivarli per un anno. Se poi nella rotazione s’introducevano le leguminose in grado di fissare
l’azoto nel terreno, la rotazione aveva il vantaggio di fertilizzare i campi senza lasciarli improduttivi
e di fornire foraggio per gli animali, i quali, a loro volta, fornivano sia forza motrice che concime per
i campi. Questo tipo di miglioramenti aveva buone possibilità di applicazione e di successo
soprattutto in proprietà medio-grandi, rigorosamente individuali. Ciò significava che occorreva
eliminare quello che restava delle proprietà collettive dei villaggi, dove era quasi impossibile
introdurre queste innovazioni tecniche, che oltretutto richiedevano una certa disponibilità di
capitali per essere applicate. Una prima diffusione delle nuove tecniche di rotazione si era avuta fin
dal Seicento in area tedesca e olandese; mentre la drastica riduzione delle proprietà collettive nel
corso dell’età moderna fu un fenomeno di portata europea. A tutto ciò non furono estranei fattori
politico-istituzionali, in particolar modo la sanzione giuridica che il Parlamento inglese diede alle
espropriazioni di terre collettive e alle recinzioni.
Il risultato di queste innovazioni fu una trasformazione profonda e irreversibile dell’agricoltura
inglese: da un’agricoltura ancora fortemente orientata alla sussistenza e all’autoconsumo si passò a
coltivazioni orientate verso il mercato, con forti investimenti di capitale e grandi profitti. Dato che
l’agricoltura arrivò a produrre più e meglio di prima impiegando una quantità di manodopera

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inferiore, l’eccedenza di lavoratori agricoli disoccupati finì con il riversarsi nelle fabbriche, dando
nuovo impulso al processo di industrializzazione.
Nell’Inghilterra dei primi decenni del Settecento fu scoperto un metodo che rendeva vantaggioso
l’utilizzo di carbon fossile anziché di legna per la produzione del ferro. Il perfezionamento di questa
scoperta e l’utilizzo della macchina a vapore fecero aumentare la produzione di ferro e carbone
richiesti dalla nascente industria in proporzioni che non ebbero uguale in altre parti d’Europa.
Un’importanza centrale ai fini del decollo industriale ebbero le vie di comunicazione. Prima che
l’invenzione della ferrovia intervenisse a modificare radicalmente il sistema dei trasporti, le
innovazioni principali riguardarono le vie navigabili e le strade. Nella seconda metà del Settecento
lo sforzo di costruzione di canali fu imponente e arrivò a collegare non soltanto le principali città
ma anche i centri minori. In seguito, furono le tecniche di costruzione stradale a compiere un salto
di qualità, grazie a John McAdam. I suoi principi cambiarono definitivamente la natura e l’aspetto
delle strade prima dell’Inghilterra e poi di tutta l’Europa, riducendo molto i costi dei trasporti. Alla
fine fu la ferrovia a imprimere un’ulteriore accelerazione alle comunicazioni.
L’organizzazione del lavoro: le macchine
È necessario riflettere sulle ragioni dell’assoluto primato dell’Inghilterra rispetto a tutti gli altri
paesi. L’Inghilterra del Settecento aveva non solo le risorse per avviare il primo processo di
industrializzazione, ma anche un mercato in grado di assorbire una produzione enormemente
aumentata e resa accessibile alle masse dall’uso delle nuove tecniche. Inoltre, con la Guerra dei
sette anni, la Gran Bretagna aveva assunto il controllo definitivo del Nordamerica; era presente in
maniera massiccia nei commerci con le colonie spagnole e con l’Africa, aveva iniziato la
colonizzazione dell’India, aveva un mercato interno florido. Da tutto ciò si capisce facilmente come
Londra, nella seconda metà del Settecento fosse il centro dei traffici mondiali. La forza
dell’Inghilterra era tale che nemmeno l’indipendenza degli Stati Uniti arrecò particolari danni al
suo predominio commerciale. Ecco, quindi, che la produzione in scala industriale di manufatti non
era soltanto possibile, ma necessaria.
Il principio della suddivisione del lavoro (qui enunciato dall’economista Adam Smith, documento
11) presupponeva una radicale trasformazione del modo di concepire la fabbricazione degli
oggetti. Suddividere il processo produttivo significava al tempo stesso sottrarlo al controllo del
singolo lavoratore e razionalizzare l’uso del tempo.
Una caratteristica importante della prima rivoluzione industriale è l’invenzione e il progressivo
perfezionamento del telaio azionato da una macchina a vapore. Questa innovazione si verificò
nell’industria del cotone. Industria giovane e quindi priva della zavorra della tradizione che invece
frenava altri settori del tessile, il cotone si prestava al confezionamento di capi pratici, leggeri e a
basso costo. La materia prima non mancava, data l’enorme estensione delle piantagioni americane,
coltivate da schiavi neri, che continuavano a rifornire le fabbriche inglesi. Molto importante è
anche il fatto che l’autore dell’invenzione fosse un dilettante e che la tecnologia occorrente per
realizzare il suo progetto non fosse molto sofisticata né particolarmente costosa. Il progressivo
miglioramento ad opera di altri industriali e imprenditori e il successo del telaio a vapore così
perfezionato danno la misura di quanto fosse importante il contesto socio-culturale in cui
nascevano e si sviluppavano queste innovazioni tecniche. (vedi libro per es. Germania)

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Lo sfruttamento del lavoro e le condizioni materiali di esistenza delle classi operaie


L’aumento della produttività del lavoro verificatosi con la rivoluzione industriale permise a tutta la
società il raggiungimento di un tenore di vita più elevato della soglia di sopravvivenza e questo,
insieme alla somma di altri fattori, consentì un’esplosione demografica.
Sradicati e privati della rete di solidarietà tipica dell’Antico regime, ridotti i rapporti di lavoro a meri
calcoli monetari, costretti a vivere in distretti industriali in cui le case diventavano nere per la
polvere di carbone che si depositava ovunque, gli operai erano sfruttati senza riguardo al sesso o
all’età; anzi, donne e bambini erano più ricercati perché potevano essere pagati di meno. Donne e
bambine erano costrette a lavorare in condizioni di durezza estrema, sia per gli orari di lavoro, sia
per le mansioni affidate. Inoltre si registrò un aumento dei figli nati fuori dal matrimonio, in quanto
mettere al mondo uno o più figli, in quelle condizioni, rappresentava un grosso problema; anche
perché i datori di lavoro calpestavano ogni diritto delle donne e del nascituro.
Le condizioni abitative erano assai poco salubri, sia per l’inquinamento atmosferico, sia per
l’improvviso enorme incremento demografico dei centri urbani, che rendeva difficile adeguare le
infrastrutture alla nuova situazione in tempi ragionevoli.
L’organizzazione operaia e gli inizi dello scontro di classe
La disciplina in fabbrica ebbe, fin dall’inizio, un aspetto punitivo e poliziesco.
Da parte operaia vi fu spesso una resistenza passiva che si manifestava attraverso pause più lunghe
del dovuto, orologi messi avanti e così via. Probabilmente, in questi comportamenti, è possibile
leggere una forma primitiva di protesta sociale. La repressione era presente dentro e fuori la
fabbrica: con il Combination Act del 1800 il Parlamento britannico puniva gravemente il nascente
associazionismo operaio, mostrando così la propria solidarietà di classe coi proprietari di fabbriche
contro i lavoratori. Nonostante questi provvedimenti fiorirono associazioni di ogni tipo e
ispirazione.
È in questo periodo che prende forma il luddismo, movimento che identificava nelle nuove
macchine la fonte di ogni male: disoccupazione, bassi salari, mutate condizioni di lavoro, cattiva
qualità dei prodotti. La risposta era la distruzione delle macchine. I luddisti ritenevano le proprie
azioni una sacrosanta difesa della legge, la quale tutelava tanto le loro condizioni di lavoro quanto
la qualità dei prodotti.
Soltanto con l’avanzare dell’Ottocento, le lotte operaie cominciarono a usare sistemi di protesta
meno distruttivi e più organizzati e a porsi obiettivi più concreti e realizzabili. Tali furono gli scioperi
per la riduzione dell’orario di lavoro. Nel frattempo, anche tra alcuni proprietari di fabbriche
cominciò a svilupparsi una certa sensibilità per le condizioni di vita e di lavoro dei loro operai. In
questi uomini stava maturando la convinzione che l’inferiorità imputata alle classi lavoratrici non
fosse naturale, bensì dovuta alle pessime condizioni della loro esistenza. L’industriale Robert Owen
spiccava sia per l’audacia delle sue idee, sia per il tentativo di realizzarle nella pratica. Owen criticò
la sostanza stessa del sistema capitalistico basato sulla competizione, proponendo un modello di
sviluppo in cui le classi sociali collaborassero anziché combattersi. Tutto ciò lui lo sperimentò
nell’organizzazione dello stabilimento tessile di New Lanark, di cui era comproprietario.

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