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Fuga Dal Tempo

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1

Impaginazione di Daniele Imperi


Prima edizione 23 novembre 2017
Sito web: pennablu.it
La presente opera è rilasciata secondo la licenza Creative
Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere
derivate 3.0
http://creativecommons.org/licenses/by-nd/3.0/it/deed.it
http://creativecommons.org/licenses/by-nc-
nd/3.0/it/legalcode

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Daniele Imperi

Fuga dal tempo

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“Time? What kind of theory can you have about time? Time is
time.”

― James Dickey, To The White Sea

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Giorno lunare 3, ore 14:27 UTC
Da quella distanza l’avamposto lunare somigliava a un grosso
acino d’uva semisepolto nei depositi eluviali della piana. Victor
Bresnik si era lasciato alle spalle le propaggini sudorientali del
cratere Kies B e adesso osservava dal rover in avvicinamento
quella che sarebbe stata casa sua per sei intere lunazioni. Solo,
unico uomo sulla Luna, per una missione in cui aveva creduto
fin dal principio. Donald Corbin, Direttore sulle operazioni
all’equipaggio, un tipo che non mancava mai di indossare un
cappellino da baseball sul suo completo giacca e cravatta, non
aveva dovuto convincerlo a lanciarsi in quell’avventura spaziale
in solitario. Victor, divorziato da un anno e mezzo e
intenzionato a restarci, si era reso conto di amare soltanto lo
spazio. Il matrimonio non faceva per lui, anche se all’inizio
aveva pensato di poter vivere con una moglie al suo fianco. Ben
presto si era però reso conto di desiderare altro nella vita,
qualcosa che nessuna donna avrebbe mai potuto dargli: il vuoto
siderale oltre la Terra. Staccarsi dal pianeta e raggiungere mete
impensate – anche se era consapevole di non potersi mai
spingere oltre la Luna o Marte. Ma a lui bastava uscire
dall’atmosfera terrestre, penetrare le tenebre del cosmo,
navigare nel nulla spaziale. Molti suoi colleghi avevano
confessato di avvertire una certa claustrofobia nelle navicelle,
ma Victor si sentiva a suo agio nei ristretti scomparti delle
capsule.
Sette mesi prima della partenza Corbin l’aveva convocato nel
suo ufficio, una grande stanza piena di pubblicazioni della
NASA, dalle cui pareti spiccavano i volti sorridenti e immoti di
alte personalità dell’agenzia. Su una mensola la lunga storia
delle esplorazioni spaziali veniva raccontata in miniatura da
una serie di modellini in metallo, che partivano dalle vecchie
missioni Apollo fino a giungere allo Shuttle Columbia e alle
prime missioni su Marte. Alle spalle di Corbin, proprio accanto
all’ampia finestra, Victor aveva notato il poster del nuovo
programma spaziale EcoMoon. Se ne parlava già da alcuni anni
e i primi test del veicolo di lancio Eris, che avrebbe spedito di

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nuovo l’uomo sulla Luna, si erano rivelati più che soddisfacenti.
«Siamo pronti per vivere sulla Luna?», chiese quel giorno
Victor con un misto di entusiasmo e apprensione.
«Non proprio», rispose Donald. «Per ora sarà soltanto un
avamposto. Una sorta di base provvisoria, se vuoi chiamarla
così. Con la prima missione, EcoMoon 1, vogliamo innanzitutto
studiare la resistenza umana in prolungate permanenze sul
suolo lunare, con il minor consumo d’energia. Sì, sarà un
soggiorno ecologico, fondato sul risparmio energetico e su una
coltivazione sperimentale di vegetali. È una missione
importante, Victor, forse la più importante e delicata del nuovo
programma lunare. Porrà le basi per la costruzione di una vera
città sulla Luna. I futuri coloni dovranno produrre da sé i
propri alimenti e non torneranno a casa prima di cinque anni.
Se torneranno, perché potrebbero decidere di restarvi per
sempre, costruendo habitat che ricalchino in tutto e per tutto i
paesaggi terrestri. Questo è il traguardo che vogliamo
raggiungere e EcoMoon è il primo passo da compiere.»
«Be’, diavolo se non è un progetto coi fiocchi», disse Victor.
«Di questa città lunare se ne parla già da un po’.»
«Vedrai che entro i prossimi tre decenni al massimo sarà una
realtà.»
«Hai parlato di permanenze prolungate. Prolungate quanto?»
«Sei mesi.»
Un fischio uscì dalle labbra di Victor. «È un bel po’ di tempo,
Don.»
«Già. E sarai solo, Vic», aggiunse un attimo dopo. «Finora
abbiamo spedito astronauti in solitario limitandoci a farli
orbitare intorno alla Terra, ma questa volta vogliamo testare un
collaboratore robotico. Nella capsula che resterà in orbita
attorno alla Luna ci sarà un robot a pilotarla, un robot che
svolgerà ogni funzione che prima era affidata all’uomo.»
«Questa sì che è una notizia bomba. La stampa ne è al
corrente?»
«Stai scherzando? I media lo sapranno a tempo debito. Per
ora è tutto top secret.»
«Com’è fatto questo robot?»
«Oh, non immaginare un robot umanoide o un androide alla

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Blade Runner», rise Corbin. «Si tratta di una navicella
robotizzata. Un’idea dei nostri ingegneri, ma ti assicuro che è
qualcosa di spettacolare. L’abbiamo testata nel deserto e ne
siamo rimasti davvero soddisfatti. È in grado di sostituire
totalmente l’uomo.»
Victor si fece pensieroso per qualche istante, fissando un
punto davanti a sé. Poi tornò a guardare l’amico e disse:
«Perché hai scelto me per questa missione?»
Don alzò le spalle. «Sei l’astronauta che ha reagito meglio
degli altri ai lanci spaziali, finora. Al rientro eri l’unico che
pareva non aver riportato alcun effetto. Come se per te fosse
stata una normale passeggiata lungo una avenue.»
Victor rise.
«Te la senti?», chiese Corbin. «Per me sei tu l’uomo adatto,
Vic. L’uomo che darà il via a una civiltà lunare.»
Victor, ricordò in quel momento, non aveva dovuto pensarci
neanche per un secondo. Sarebbe stato il primo uomo al mondo
a restare sulla Luna per sei mesi e, di fatto, il primo astronauta
a raggiungere un pianeta da solo. Il primo pioniere di una
colonia extraterrestre. Sarebbe passato alla Storia.
E così eccolo là, ormai sul satellite terrestre da tre giorni e
già alla sua quarta EVA.
Il 23 giugno 2081 Eris IV lo aveva portato in orbita attorno
alla Luna e con il Lunar Outpost Module, Avior, Victor era
allunato sul Mare Nubium il giorno successivo, alle 20:39:45
UTC. Prima dell’allunaggio dell’Avior la NASA aveva spedito sul
satellite terrestre alcune strumentazioni, come il sistema di
controllo dell’ambiente e di sostegno alla vita, che avrebbe
fornito ossigeno e acqua potabile, rimuovendo l’anidride
carbonica e filtrando l’aria, e un modulo di viveri sufficienti per
l’intera permanenza. Se il VEGS (Vegetables Growth System), il
sistema per collaudare la produzione di piante sulla Luna,
avesse funzionato, Victor avrebbe potuto variare la sua dieta
lunare, anche se non credeva di avere il pollice verde.
La messa in funzione dell’avamposto non era stata
difficoltosa: all’allunaggio la capsula abitativa si era sganciata
dall’astronave. Il grosso cilindro, in realtà un modulo
decagonale lungo quattro metri e largo due, si era sollevato

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dalla navicella grazie a due supporti telescopici. A quel punto
erano fuoriuscite le ruote motrici e un braccio robotizzato
l’aveva deposto al suolo. Dall’interno di Avior Victor aveva
telecomandato il modulo abitativo allontanandolo di circa
cento metri dall’astronave. Poi aveva fatto fuoriuscire la
membrana gonfiabile, che in pochi minuti aveva assunto la
forma di una cupola ovoidale: l’Hab era completo e pronto ad
accogliere Victor.
Nella prima EVA aveva dovuto compiere operazioni di
routine come in ogni altra missione lunare: sganciare il rover,
che viaggiava ripiegato come ai tempi di Apollo 15 nel 1971;
erano poi occorsi diversi minuti per metterlo in funzione,
anche se le operazioni erano state di gran lunga velocizzate
rispetto al XX secolo, oltre al fatto che ora era un veicolo chiuso
e non più una “dune buggy” lunare, come amava chiamarlo
Victor. Parcheggiato il rover, Victor aveva piantato la bandiera
americana e poi aveva preso possesso della sua nuova casa,
concedendosi un sorriso di trionfo. E un goccio di bourbon che
aveva portato con sé, riservandolo per le occasioni speciali.
La seconda EVA, effettuata ancora il primo giorno, era stata
invece impegnativa: Victor aveva dovuto montare l’antenna a
ombrello e alcuni strumenti del laboratorio, collegare il sistema
di controllo ambientale all’Hab e portare all’interno il VEGS.
Alla terza EVA, il giorno successivo, Victor aveva eseguito
una serie di test per verificare le trasmissioni verso la Terra,
ricevendo un “forte e chiaro” da Kurt Whittaker, ex astronauta
suo amico e CAPCOM della missione, il solo uomo preposto alle
comunicazioni.
La sua quarta EVA, che stava per concludersi, era stata degna
di chiamarsi attività extraveicolare: Victor aveva raggiunto il
cratere Kies B e raccolto diversi campioni di rocce. La sua
passeggiata lunare era stata filmata dalla telecamera del rover e
trasmessa alla Terra. E adesso, dopo quasi cinque ore all’aperto,
stava finalmente tornando a “casa”.
L’Hab non era certo il massimo della spaziosità, ma era
quanto poteva permettersi la NASA per quella missione.
Complessivamente di appena 60 metri quadrati, per Victor
erano più che sufficienti. Aveva portato con sé il suo rolltablet

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con un migliaio di ebook da leggere e circa cinquecento film.
Non gli serviva molto spazio per vivere e la solitudine dei mesi
lunari non sarebbe stata un problema.

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Giorno lunare 7, ore 11:44 UTC
Victor festeggiò la sua prima settimana sulla Luna con un
bicchierino di bourbon e una telefonata alla madre. In realtà la
signora Virginia Bresnik fu invitata al Centro controllo per
l’occasione: suo figlio aveva già battuto il record di permanenza
sul satellite e quello era un evento speciale. Victor le promise di
restare al caldo, preferendo non informarla sugli oltre 100 °C
che si registravano nelle ore diurne, ma sarebbe stato troppo
complicato parlare di tute spaziali e moduli abitativi. Vi fu
anche una videochiamata del Presidente, che si congratulò con
lui per il coraggio dimostrato nell’affrontare la missione e per
aver posto così le basi per un futuro insediamento umano sulla
Luna. EcoMoon, in effetti, era un programma partito nel
migliore dei modi. Victor scambiò qualche battuta con Kurt,
rassicurandolo sulla tabella di marcia. I due si diedero
appuntamento telefonico di lì a tre giorni, dopo la visita al
cratere Wolf.
I primi sette giorni erano comunque volati. Victor aveva
effettuato tre nuove EVA e stava per iniziare l’ottava. Da buon
geologo amava stare “all’aria aperta”, anche se quell’espressione
lo fece sorridere all’interno del casco, mentre apriva il portello
della camera di compensazione e iniziava a scendere per la
scaletta con la consueta lentezza dovuta alla bassa gravità.
Eppure, per quanto la malinconica desolazione lunare potesse
mettere a dura prova anche il più misantropo e solitario degli
uomini, per Victor Bresnik quel paesaggio grigio e smorto
rappresentava quanto di meglio gli offrisse la vita in quel
momento.
Quel giorno lo aspettava un viaggio di quasi centocinquanta
miglia fino al cratere Wolf e altrettante al ritorno. Alla
massima velocità avrebbe impiegato otto ore per coprirle, ma
sapeva benissimo di non poter spingere il rover fino a quel
punto. Gli ordini erano stati chiari: mantenersi a una velocità
di crociera di sei, sette miglia orarie. La superficie lunare non
era un’Interstate. Questo significava giungere a destinazione in

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poco più di ventuno ore. Ma ciò che più lo preoccupava di
quell’EVA era la notte da trascorrere nel rover, ben lontano dalle
spartane comodità dell’Hab.
Lasciatosi alle spalle la fenditura chiamata Rima Hesiodus,
guidò il rover in direzione Nord-Est, poi impostò il pilota
automatico. Dopo quasi dieci ore superò i crateri Hesiodus B e
Hesiodus X, passandovi in mezzo, quindi puntò a settentrione
verso le propaggini del Wolf, che raggiunse infine in altre
undici ore di viaggio, zigzagando fra i numerosi crateri da
impatto. Grazie all’autoguida poté dormire qualche ora, ma fu
un sonno inquieto per gli scossoni del rover e le vibrazioni dei
motori elettrici. Una o due volte tentò di leggere, ma ben
presto vi rinunciò. C’era qualcosa nel monocromo paesaggio
lunare che lo distraeva, che catturava il suo sguardo e la sua
attenzione. Nei periodi di veglia tentava di penetrare nelle
chiazze d’ombra proiettate dai versanti delle rupi o di
immaginare cosa avrebbe scoperto oltre l’orizzonte nero di
fronte a lui. C’erano momenti in cui vedeva quei luoghi desolati
e inabitati come un cosmico sepolcro che avrebbe custodito i
suoi resti per l’eternità e se davvero avesse potuto scegliere un
posto per morire e riposare in pace quello sarebbe stato
l’immutabile suolo lunare. Le ceneri di Victor Bresnik sparse su
uno dei mari, divenute parte dell’eluvium, parte della Luna. Si
chiese cosa avesse generato quei pensieri macabri e si sorprese
a sorridere, mentre il rover avanzava avvicinandosi sempre più
alla meta.
Stranamente il pendio meridionale del cratere non gli parve
sconosciuto. Victor frugò nella sua memoria in cerca della
fotografia che era sicuro d’aver visto in qualche libro.
Un’immagine presa dall’alto, ricordava. Il grigio luce della
pianura in netto contrasto con le tenebre dello spazio. Il Wolf
era stato fotografato una sola volta dall’Apollo 16 nell’aprile
1972 e dopo oltre un secolo da quella storica missione la Terra
poteva avere immagini ravvicinate e ad altissima risoluzione
del cratere. E grazie ai campioni che Victor avrebbe raccolto si
sarebbe potuta descrivere con la massima precisione la sua
geomorfologia, anziché limitarsi alle emissioni termiche della
superficie misurate con un radiometro montato su un orbiter.

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Il bordo del cratere era discontinuo, interrotto proprio sul
lato meridionale da cui proveniva Victor e dove fermò il rover.
Disceso dal mezzo, prese il rastrello, le pinze e alcuni
contenitori e iniziò a setacciare il suolo.
Fu l’attività extraveicolare più lunga mai compiuta sulla
Luna e dall’uomo: quasi quarantotto ore. Victor era stanco,
avvertiva un lieve mal di testa, ma si sentiva anche raggiante:
quanti record avrebbe battuto in quella missione? Il Guinness dei
primati avrebbe dovuto pubblicare un allegato soltanto per lui.
Ci voleva un bourbon al rientro.
Parcheggiò il rover accanto alla capsula abitativa e scese dal
veicolo. Saltellando si diresse alla scaletta, salì e aprì il portello.
La camera di decompressione gli sembrò curiosamente
familiare, mentre poggiava in terra il contenitore di campioni e
si apprestava a togliersi la tuta. Si guardò attorno, ma non vide
nulla fuori posto. Anche il suo secondo déjà-vu sulla Luna fu
ben presto dimenticato.
Erano le ore 16:32 UTC del nono giorno lunare.

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Giorno lunare 8, ore 13:07 UTC
Mentre il rover percorreva le ultime miglia del suo lungo
viaggio verso il cratere Wolf, Victor ne osservò i pendii brulli e
smorti, cercando di confrontare quel panorama in tempo reale
con la fotografia scattata dall’Apollo 16. La digitale montata sul
rover produceva immagini a 7 gigapixel. Sulla Terra avrebbero
gioito. C’era però qualcosa che lo incuriosiva in quello scenario,
e non era solo l’impressione di vivere dentro un’illustrazione in
bianco e nero, ma non seppe spiegarsene la ragione. Man mano
che si avvicinava, tuttavia, gli parve di esservi già stato e quella
sensazione non poteva certo provenire dal vago ricordo di un
vecchio scatto visto anni addietro. Accantonò presto quel
pensiero e preferì concentrarsi sul lavoro che l’attendeva.
Sceso dal veicolo, prese il carotiere, le pinze, il martello e un
rastrello e iniziò a raccogliere campioni di suolo e rocce alle
pendici del cratere. Avrebbe voluto esplorarne l’interno, ma era
troppo vasto per quell’EVA, e fu costretto a rinunciare. Un senso
di nausea, poi, sopravvenuto durante il viaggio, non gli avrebbe
permesso di godersi quell’avventura non prevista.
Dopo circa quattro ore rimontò sul rover e si rimise in
viaggio verso l’Hab. Uno strano malumore lo accompagnò per
l’intero tragitto, accentuato da un’emicrania che minacciava di
peggiorare e da quel disturbo cinetosico che l’accompagnava
fin dal viaggio di andata. E infine il senso di aver già effettuato
quell’attività extraveicolare, come se quelle giornate fossero
state ripescate dal calderone dei ricordi, disarchiviate e
replicate lungo la linea del tempo, di nuovo disponibili per
Victor Bresnik.
Al rientro, dopo altre ventuno ore di viaggio, si sentì stanco,
spossato, il corpo pervaso da una fredda sudorazione. Non
riuscì a spiegarsi quella sintomatologia, ma ciò che lo colpì,
quando fu dentro la camera di compensazione e si fu tolto la
tuta, fu la sensazione di aver già vissuto anche quella scena. Ma
certo, si disse, è la mia ottava EVA, chiaro che abbia già
compiuto questi movimenti. Eppure due déjà-vu a breve
distanza erano insoliti. Si applicò dietro l’orecchio un cerotto

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transdermico alla scopolamina e si sdraiò sull’amaca turbato e
sfinito nel corpo e nell’animo.

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Giorno lunare 9, ore 17:28 UTC
Il sonno fu inquieto, turbato da scosse ipnagogiche e numerosi
microrisvegli. Fastidiose fotopsie abbagliarono le sue visioni
oniriche, come flash sparati contro la retina dei suoi occhi da
un gigantesco riflettore. Quando finalmente si svegliò del tutto,
gli parve di aver dormito un’eternità, ma era trascorsa appena
un’ora da che si era messo a letto. Se ne stette supino, a
osservare il soffitto dell’Hab, rimuginando sulle ultime ore.
L’emicrania non era passata, anzi era aumentata d’intensità.
Tuttavia non avvertiva più la nausea.
Si decise ad alzarsi, si tolse il cerotto e lo gettò nel serbatoio
di stoccaggio. Cercò di rammentare cosa avesse in programma
quel giorno, ma non ne aveva idea. Si chiese anzi cosa avesse
fatto il giorno prima. Era stato fuori? C’era stata un’altra EVA?
Sforzò le meningi, ma nessuna immagine gli tornò alla mente,
come se la sua memoria si fosse svuotata. Deficit mnesico. In
preda al nervosismo, cominciò a camminare avanti e indietro
nel piccolo spazio, la sudorazione che aumentava e la paura,
una paura senza nome, che lo avvinghiava come una belva. Che
gli stava succedendo?, si chiese. Si ritrovava da solo su una
pianeta deserto e senza risoluzioni a portata di mano.
Okay, Victor, sta’ calmo, si disse. A cosa può essere dovuto?
Stress da soggiorno lunare? Troppe EVA ravvicinate? Prolungata
solitudine? Oppure si trattava di un vero deterioramento
cognitivo causato da un virus stellare o da un’anomalia
genetica?
Decise di fare un check-up e accese il sistema di
biomonitoraggio. Si infilò il casco EEG e attese. Un’ora dopo
l’HMS (Healthcare Monitoring System) gli mostrò i risultati:
attività elettrica cerebrale nella norma, alterazioni di bassa
entità nella regione temporale. Nessuna diagnosi da segnalare.
Stava bene. Sì, caro Victor, stai bene, quindi rilassati e
continua con la missione. E allora perché quel mal di testa
stava aumentando? Imprecò ad alta voce.
Consultò il cronografo da polso. Era ormai ora di cena. Si

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accorse di non avere appetito, ma si costrinse a mangiare
qualcosa. Non poteva permettersi di perdere forze. Prese un
sacchetto porzionato senza neanche guardarne il contenuto e
lo ficcò dentro lo scaldavivande. Ci avrebbe pensato il sistema
robotizzato a leggerne i tempi di cottura. Un bip, infatti, lo
avvisò quattro minuti dopo. La sua cena spaziale era pronta.
Sorrise involontariamente. Se sulla Terra avesse proposto ai
suoi amici una “cena spaziale”, tutti si sarebbero aspettati
un’abbuffata coi fiocchi, qualcosa a cui il molliccio prelavorato
che aveva davanti non si avvicinava minimamente. Tuttavia
mangiò, quasi non avvertendo il sapore del cibo.
Due ore dopo si ritrovò a fissare il suolo lunare da uno degli
oblò dell’Hab. L’immutevole panorama era una distesa
monocromatica che si perdeva nell’oscurità del cosmo.
Trascorse parecchi minuti perso in se stesso, alla ricerca di
risposte che non giungevano, che gli sfuggivano, anzi, come
spezzoni di sogni al risveglio.
Infine, stanco dell’apatia e dell’inazione, se ne andò a
dormire.

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Giorno lunare 10, ore 6:04 UTC
La mattina successiva si ritrovò a catalogare gli ultimi
campioni prelevati al cratere Wolf, quando il trillo della
notifica spezzò il silenzio all’interno della cupola. Un bip che
non si era aspettato nella confusione di pensieri che
turbinavano nella sua testa. Al risveglio aveva dovuto
applicarsi un nuovo cerotto transdermico, perché l’emicrania
continuava a martellarlo senza lasciargli tregua, poi aveva
mangiato qualcosa per colazione e infine, dopo aver controllato
la tabella di marcia, si era messo al lavoro sui campioni.
Sullo schermo del computer apparve un videomessaggio in
arrivo.
Proveniva dall’avamposto stesso.
Il mittente era lui.
Victor aggrottò le sopracciglia. Un errore, pensò. Il
programma mi ha mostrato i messaggi inviati e non quelli in
arrivo. Ma Victor non aveva inviato alcun videomessaggio e fra
quelli in arrivo c’era solo l’ultima chiamata di Kurt, avvenuta
alcuni giorni prima.
No, quel messaggio era stato inviato da Victor Bresnik a
Victor Bresnik. La data riportata era il giorno lunare 13. Tre
giorni a venire. Victor era sempre più confuso. Forse un bug del
programma gli aveva inoltrato una vecchia chiamata.
Incuriosito, avviò la videoregistrazione.
E fu sorpreso di ritrovarsi davanti alla telecamera.

“Hai avuto dei déjà-vu, caro Victor? Sì, ne hai avuti. E sono cominciati
in prossimità del cratere Wolf. Ti sembrava familiare, come ti sono
sembrate familiari altre azioni da te compiute. E che dire dell’emicrania,
del senso di straniamento, dei vuoti di memoria? Tutti legati ai déjà-vu.
Ma non sono déjà-vu. No. È un fottuto esperimento della NASA! Il tempo è
andato in loop. Il tempo è andato a farsi fottere, amico. Stai ripetendo da
giorni la stessa musica. Sì, s’è incantato il disco, per usare una vecchia
espressione. La buona notizia è che ho scoperto cosa ha causato il loop. È
un dispositivo che hai portato sulla Luna e si trova nel lander. La cattiva

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notizia è che non si può disattivare. Sei costretto a un eterno ripetersi degli
eventi. Ma forse c’è una scappatoia. Forse puoi fare qualcosa, come ho
fatto io spedendoti questa registrazione dal futuro. Ho cambiato la data al
computer e così hai potuto riceverla nel passato. Lascia perdere, meglio
non starci a ragionare su, a me è venuto più volte il mal di testa. È l’effetto
farfalla, amico mio, che ti salverà. Ti resta solo quello. Modifica gli eventi,
anche di un’inezia. E forse riuscirai a trovare una soluzione per tornare
alla normalità.”

Victor si lasciò cadere sulla sedia. Era uno scherzo? Da parte


di chi? No, era proprio lui quello che parlava seduto su quella
stessa sedia, davanti alla webcam del computer. Ma se era lui,
perché non ricordava di aver registrato quel messaggio? “Forse
puoi fare qualcosa, come ho fatto io spedendoti questa
registrazione dal futuro.” Era assurdo, com’era possibile tutto
questo? E perché la NASA avrebbe mandato un dispositivo sulla
Luna per mandare il tempo in loop? La sua missione prevedeva
altro, non esperimenti sul tempo. Stette a rimuginare sulla
questione per oltre un’ora, rivedendo altre tre volte il
videomessaggio, senza venirne a capo. No, si convinse infine,
forse non ricordava di aver registrato il videomessaggio per via
del malessere che l’aveva colpito il giorno prima. Il deficit
mnesico non gli permetteva di accedere ai suoi ricordi e
l’emicrania doveva esser stata talmente intensa da averlo fatto
sragionare. Soltanto così poteva spiegarsi quel delirio sul
tempo.
Eppure nella videoregistrazione appariva in sé, il tono di
voce era quasi canzonatorio, non alterato come ci si sarebbe
aspettati se avesse avuto un disturbo mentale.
Decise di rivedere il filmato ancora una volta, ma la
percezione che ebbe fu la stessa: quel Victor Bresnik era una
persona normale, non aveva uno sguardo perso, allucinato, non
mostrava di esser preda di psicosi. Era un uomo sano di mente.
Avvertì un senso di panico nascere in qualche punto in
profondità del suo animo, un piccolo focolaio di angoscia e
smarrimento che minacciava di trasformarsi in un incendio
distruttivo. Un accenno di tachicardia e un aumento della

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sudorazione lo avvolsero in una stretta che si faceva via via più
soffocante. Si accorse di lacrimare, un pianto silente,
d’abbandono. Erano anni che non piangeva, dalla morte del
padre, che risaliva a quindici anni addietro. Quella volta aveva
lasciato che le lacrime scorressero senza inibizioni, ma nessuno
aveva fatto caso a lui, tutti gli sguardi erano per il Generale
Bresnik che veniva calato nella fossa assieme alla bara avvolta
nella bandiera. Tre salve di commiato avevano spezzato il
silenzio e quello fu l’ultimo addio, l’ultimo suono che aveva
legato Arthur Bresnik alla terra dei vivi.
Victor si asciugò le lacrime col dorso della mano.
Quell’umidità lo riportò all’immediata realtà.
Fu allora che decise di contattare Kurt.
Si fermò prima di attivare la chiamata. Che cosa gli avrebbe
chiesto? Non poteva parlargli certo dei déjà-vu e del mal di
testa. Avrebbe dovuto accennare al dispositivo? No, forse era
meglio non farlo. Voleva scoprire quanto sapesse Kurt
dell’intera faccenda, quanto gli stesse nascondendo. Era
probabile che l’amico non ne sapesse nulla. Forse era meglio
rimandare. Poi gli balenò in mente un’idea.
“È un dispositivo che hai portato sulla Luna e si trova nel lander.”
Victor Bresnik iniziò a prepararsi per la sua nona EVA.

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Giorno lunare 10, ore 12:44 UTC
Non era più rientrato su Avior da quand’era allunato. Da quel
momento aveva vissuto nell’Hab, uscendone soltanto per le
attività extraveicolari. Per compiere il tragitto dal modulo
abitativo al lander preferì muoversi a piedi: erano soltanto un
centinaio di metri e coprì la distanza in un paio di minuti. Salì
la scaletta, aprì il portello e s’introdusse all’interno.
Si domandò dove potesse essere il dispositivo. Perché non
l’aveva notato nel suo viaggio dalla Terra alla Luna? Dove
l’avevano nascosto? Cinque metri cubi di volume abitabile non
erano pochi, a pensarci bene. Avrebbe potuto essere ovunque,
anche perché il Victor Bresnik del futuro non solo aveva
dimenticato di rivelargli dove fosse, ma anche che forma e
dimensione avesse. E il Victor Bresnik del presente non poteva
certo mettersi a smontare tutti i pannelli per trovarlo.
Quella nuova EVA fu un fiasco e Victor ritornò all’Hab
sconsolato e frustrato. Durante il breve tratto a piedi, anzi, si
costrinse a voltarsi indietro più volte, come se si sentisse
attanagliato da una forza invisibile in agguato nello spazio.
Accelerò l’andatura, balzando come una palla al rallentatore, e
non si sentì sicuro finché non si fu chiuso il portello dell’Hab
alle spalle.
Trascorse i seguenti due giorni arrovellandosi su quel
problema. Si augurò di ricevere altri messaggi dal Victor del
futuro, ma non giunse nulla. Ebbe, così almeno gli parve, altri
due o tre déjà-vu, accompagnati da forti emicranie, vuoti di
memoria, fotopsie notturne e incubi. Cercò di concentrarsi sul
lavoro, finendo di archiviare i campioni e preparando i piani
per altre due EVA, la prima alla Rima Hesiodus e l’altra al
cratere Mercator. La prossima videochiamata dal Centro di
controllo missione sarebbe avvenuta la sera del dodicesimo
giorno, ma Victor non aveva ancora deciso come indagare sul
dispositivo con Kurt.

20
Giorno lunare 10, ore 6:06 UTC
Non aveva sentito la notifica acustica della videochiamata in
arrivo, troppo preso dalla catalogazione degli ultimi campioni
prelevati e con la testa che minacciava di scoppiargli da un
momento all’altro. La scopolamina del cerotto transdermico si
era rivelata inefficace, così al risveglio aveva buttato giù
quattro pastiglie di fesol-bromuro di entocibina, che avevano
solo peggiorato la situazione. I dolori si erano intensificati
subito dopo, raggiungendo uno stato quasi parossistico. Victor
aveva urlato, tenendosi le tempie come per alleviare la
sofferenza, poi aveva scaraventato in terra alcuni contenitori e
più volte aveva preso a pugni la parete metallica dell’Hab prima
di calmarsi. Ridotto quasi a uno stadio larvale, era stato certo
che la sua fine sarebbe presto giunta. Un giorno una squadra
inviata dalla Terra avrebbe trovato le sue spoglie, un corpo
raggomitolato in un angolo dell’Hab senza più parvenza di
quello che un tempo era stato uno dei migliori astronauti al
mondo. Quel crollo l’aveva lasciato senza fiato e senza forze, la
mente quasi vuota di emozioni. Era caduto in una sorta di
trance, in un sonno di penombra popolato da frammenti
opalescenti di sogno, da pensieri ancora in stato embrionale
che erano svaniti ancor prima di concretizzarsi. Soltanto
mezz’ora più tardi era riuscito a rimettersi al lavoro,
nonostante l’emicrania.
Ora, passando davanti al monitor del computer, vide la spia
rossa lampeggiante e, incuriosito, si avvicinò. Aveva parlato
con il CAPCOM qualche giorno prima, perché aveva già
richiamato?
Quando lesse il mittente del messaggio, restò sbalordito. Il
mittente era lui stesso. Avviò il bug checker e attese, ma il
programma non rilevò alcun errore o avaria al LunaCom, il
sistema di connessione laser con cui comunicava con la Terra.
Dunque, per quanto improbabile, l’unica verità possibile era
che si fosse autoinviato un videomessaggio. Ma per quale
motivo e, soprattutto, perché non lo ricordava? Con un leggero

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tocco sullo schermo avviò la videoregistrazione.
Durò circa un minuto e lasciò Victor scioccato. Sedette sulla
sedia, riguardando le immagini almeno altre due volte, come
per sincerarsi che fossero reali, che non fosse tutto un’illusione,
uno scherzo bizzarro del destino, di una qualche divinità
nascosta nello spazio interstellare. O forse erano i primi
sintomi della selenopatia, il disturbo psicotico verso cui gli
scienziati avevano messo in guardia la NASA, quando le prime
voci su una futura città lunare avevano iniziato a circolare.
Allucinazioni, senso di estraneità, egodistonia. Nessuno poteva
prevedere come avrebbe reagito l’organismo in un pianeta
inabitabile come la Luna, rinchiuso in un guscio protettivo a
gravità controllata, mangiando cibo liofilizzato e vivendo
lontano dalla civiltà, dall’aria pura, dalla natura. E se quei suoi
malesseri, quei disturbi fossero i sintomi di una selenopatia?
No, si convinse Victor, nulla di tutto ciò. Quello là davanti
era proprio lui, che lo avvisava di uno strano dispositivo
caricato sul lander, che aveva mandato in loop il tempo sulla
Luna. Un circolo vizioso di eventi che non avrebbe mai avuto
fine. Ecco il perché dei déjà-vu, si disse. No, è pazzesco,
aggiunse mentalmente subito dopo, dev’esserci una
spiegazione più razionale. E se invece fosse tutto vero? O,
peggio, se stesse impazzendo, se non fosse selenopatia ma una
vera psicosi, un male che aveva mandato a farsi fottere il suo
cervello, non il tempo?
Devo parlarne con Kurt a ogni costo.
Ma cosa gli avrebbe detto? Che un certo Victor Bresnik gli
aveva mandato un messaggio avvertendolo del dispositivo? Che
quel messaggio proveniva dal futuro? Che il tempo si stava
ripetendo? Kurt avrebbe annullato la missione e l’avrebbe fatto
rientrare, facendolo poi ricoverare in una clinica psichiatrica.
Se davvero il tempo era andato in loop, “a farsi fottere”, come
aveva specificato lui stesso – sì, era proprio lui ad aver parlato,
ci si riconosceva perfettamente – allora non ci sarebbe mai
stata alcuna partenza dalla Luna e alcun ritorno di Victor
Bresnik sulla Terra.
Fu allora che decise di fare un salto sul lander. Sarebbe stata
una EVA non prevista. Meglio così, pensò subito dopo, mentre

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raggiungeva la camera di compensazione per infilarsi la tuta.
Dopo tutto era stato lui stesso a consigliarsi di modificare gli
eventi.

23
Giorno lunare 10, ore 8:43 UTC
La breve camminata che lo portò dall’Hab al lander lo stancò
come se avesse percorso dieci chilometri anziché soltanto un
centinaio di metri. Più volte fu costretto a fermarsi, spaziando
con lo sguardo la piana del Mare Nubium in cerca di qualcosa
cui non sapeva dare un nome. Man mano che si avvicinava alla
capsula avvertiva quell’evento come un’esperienza già vissuta
in precedenza, anche se era la prima volta che faceva ritorno al
lander. Un ennesimo déjà-vu che aumentò il suo senso di
disagio.
All’interno di Avior Victor si chiese dove potesse nascondersi
il fantomatico dispositivo. Dietro il pannello del computer
principale? Dietro quello delle telecomunicazioni? O dietro
quelli degli strumenti di navigazione? O dei fusibili? O perfino
sotto il piano antiscivolo? Ci aveva forse camminato sopra
senza saperlo? Nonostante lo spazio limitato, l’Avior
nascondeva altro volume oltre quello visibile e era impensabile
mettersi a smontare tutto per cercare un dispositivo di cui non
conosceva nemmeno la forma. E se anche l’avesse trovato, cosa
avrebbe dovuto farne? Distruggerlo? E se avesse peggiorato
tutto? Se la distruzione del dispositivo avrebbe incasinato
ancor più il tempo, magari bloccandolo, magari creando un
buco nero temporale e uccidendolo all’istante?
Speculazioni che non portavano a nulla, si disse. L’unica
certezza era l’impossibilità di scovare quel congegno là dentro.
Si arrese e fece ritorno all’Hab. A fatica si tolse la tuta nella
camera di compensazione, e il solo pensiero di dover affrontare
un’altra intera giornata di lavoro lo fece precipitare in una crisi
di ansia. Vagò nel piccolo spazio come un automa senza
controllo, finché si decise a continuare il lavoro di
archiviazione.
Quando giunse l’ora del pranzo, quasi non se ne accorse.
L’inappetenza aveva iniziato ad affliggerlo già dal giorno prima,
rammentò in quel momento. E ancora una volta Victor si
costrinse a mangiare, per non rischiare anche un deperimento

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fisico nelle sue condizioni. Inoltre l’indomani l’aspettava una
nuova EVA e doveva terminarne i preparativi, quindi doveva
stare in forze.

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Giorno lunare 11, ore 7:21 UTC
Quella mattina Victor si alzò di nuovo con una forte emicrania,
ingollò alcune pastiglie di entocibina e si augurò che passasse
al più presto. Aveva avuto una notte inquieta, quasi insonne,
tra sogni confusi e continue veglie durante le quali si era
lambiccato il cervello su quel bizzarro messaggio ricevuto
dall’immediato futuro. Era sempre più convinto di dover
parlare con Kurt, ma non trovava un modo “diplomatico” per
affrontare l’argomento. Il futuro non era ancora scritto e
qualsiasi evento del presente avrebbe potuto generare uno
degli infiniti futuri possibili. Si chiese se cambiando dei minimi
particolari avrebbe davvero causato quell’effetto farfalla che gli
avrebbe garantito una probabilità di salvezza, di uscita dal
loop temporale. In quel momento, comunque, aveva un’altra
EVA da affrontare e accantonò la questione.
Era diretto alla Rima Hesiodus, una lunga frattura che per
circa centosessanta miglia si estendeva dal cratere che le dava il
nome fino al cratere Capuanus. Il graben, ampio quasi cinque
miglia, aveva una profondità di almeno dieci metri e Victor per
discendervi avrebbe sperimentato la nuova cintura-razzo
progettata appositamente per l’esplorazione di spaccature e
crateri lunari.
Uscì dall’Hab e caricò sul rover i sismografi da posizionare
sul fondo della fossa, controllò gli attrezzi per la raccolta dei
campioni e assicurò con delle cinghie la cintura-razzo. Poi saltò
a bordo e si mise in viaggio. La Rima distava sei ore
dall’avamposto e Victor contava di rientrare per le 24 al
massimo. Il mese successivo sarebbe comunque dovuto
ritornarvi per spostare i sismografi, fino a coprire una
lunghezza di trenta miglia con altre quattro EVA.
Durante il viaggio Victor ragionò sul loop temporale, sulla
sua effettiva possibilità, chiedendosi quando tutto sarebbe
nuovamente ricominciato. Più vi rifletteva e più gli appariva al
di fuori di ogni logica. Sarebbe dunque vissuto in eterno, se non
fosse riuscito a sbloccare la situazione? No, impossibile,

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l’eternità non era contemplata, quindi sarebbe invecchiato
comunque, magari più lentamente, magari senza accorgersene.
In un punto imprecisato nell’intervallo di tempo del circolo
vizioso Victor Bresnik sarebbe deceduto e nessuno avrebbe mai
ritrovato le sue spoglie, perse per sempre nelle nebbie del
tempo. Forse era già morto, anzi, e ciò che stava vivendo non
era altro che una memoria post mortem, un ricordo codificato
nel DNA del tempo, costretto a un infinito riavvolgersi della
bobina degli eventi. Si domandò anche quando scattasse il
loop: a un certo punto, che secondo lui coincideva con l’attimo
esatto in cui era stato azionato il dispositivo, il tempo iniziava
a scorrere come in un ipotetico cerchio, ritrovandosi infine al
punto di partenza. In quel momento due domande gli saltarono
in testa: quando avevano attivato il dispositivo? E quanto
durava il loop? Il congegno era stato di sicuro azionato dalla
Terra, quindi il computer di bordo avrebbe potuto
rintracciarne il segnale. Avrebbe controllato al rientro.
Riguardo al periodo di durata del loop, Victor non aveva idea di
come calcolarlo. Avrebbe potuto prendere nota dei vari déjà-
vu, ma quegli appunti sarebbero rimasti al ripetersi dei giorni?
O sarebbero scomparsi? Il mal di testa s’intensificò e lo fece
desistere dal continuare quelle speculazioni sul tempo.
Da lontano la Rima Hesiodus era una linea quasi retta e nera
nel grigio grafite del suolo lunare. Appena la scorse, Victor
accelerò, portando il rover quasi a ridosso della fenditura.
Scese, si avvicinò saltellando al bordo e osservò per qualche
secondo la calma e l’immobilità del paesaggio lunare,
assaporandone il senso di vuoto che emanava. La Luna,
immaginò in quel momento, era una terra cimiteriale popolata
dai fantasmi dei primi astronauti che ne avevano calpestato il
suolo. Chi sono io per dissacrare questo tempio cosmico?
Tornò sui suoi passi, liberò la cintura-razzo dal rover, poi la
indossò, non senza fatica, e vi agganciò i primi due sismografi.
Alla NASA aveva provato innumerevoli volte quell’operazione,
ma farlo sulla Luna era un altro paio di maniche, constatò. La
cintura-razzo era una variante più leggera e meno ingombrante
delle MMU. Le Manned Maneuvering Unit, le unità di
manovrazione per le EVA, erano state progettate per eseguire

27
interventi straordinari nello spazio senza bisogno di ancorarsi
alla navetta. Una società aveva ripreso quel vecchio progetto,
adattandolo all’esplorazione lunare. Battezzata Lunar
Maneuvering Unit o LMU, la cintura-razzo aveva due
propulsori criogenici e una coppia di cloche per direzionarla e,
almeno a prima vista, sembrava semplice da guidare. Al
Johnson Space Center, nella grande piscina in cui si era
addestrato per simulare le EVA, aveva usato una LMU modificata
per operare sott’acqua e, ricordò, aveva subito familiarizzato
con il nuovo mezzo. Si augurò accadesse lo stesso, mentre
accendeva i propulsori. La cintura-razzo si sollevò dal suolo e
Victor la diresse più o meno al centro del graben, poi azionò il
comando per la discesa e atterrò sul fondo.
«Che succede se i propulsori smettono di funzionare quando
devo risalire?», aveva chiesto tre mesi prima della partenza a
Willy Torresi, l’ingegnere che aveva progettato la LMU.
«Funzioneranno», aveva risposto Torresi, laconico.
«Non mi basta, amico», aveva ribattuto Victor.
Alla cintura-razzo fu apportata una modifica: in un vano
erano custoditi dei ramponi e due piccozze che avrebbero
aiutato Victor a risalire l’acclive pendio della Rima. Al Johnson
Space Center si era esercitato anche in “arrampicata lunare”,
come scherzosamente l’aveva battezzata.
Sganciata la cintura-razzo, Victor piazzò il primo
sismografo. Poi saltellando e camminando si allontanò di
duecento metri per piazzare il secondo. Quindi, tornato
indietro, riagganciò alla tuta la cintura-razzo, risalì in
superficie, prese gli altri due sismografi e ripeté l’operazione.
Stava installando l’ultimo, a seicento metri circa dal primo,
quando gli sfuggì di mano. Miracolosamente il sismografo non
cadde al suolo. La mano di Victor lo intercettò afferrandolo
appena in tempo. Si congratulò con se stesso per la prontezza
dei riflessi. Poi rifletté su quanto era appena avvenuto. No, si
disse, non era stata una questione di riflessi. La sua mano si era
trovata nel punto e nell’attimo esatti in cui avrebbe potuto
riprendere lo strumento. Come se, inconsciamente, Victor
sapesse che quel sismografo sarebbe caduto. Come se avesse
avuto un

28
(déjà-vu)
suggerimento da un’indefinita entità. No, non c’era altra
spiegazione (né alcuna indefinita entità): Victor aveva appena
avuto un ennesimo déjà-vu. Il problema era che non erano dei
déjà-vu, ma niente di più che un’anomala replica degli eventi.
Victor aveva già vissuto quel giorno, aveva già svolto quell’ EVA,
e chissà quante volte. Si sentì demoralizzato, perso in una
frustrazione che, temeva, sarebbe cresciuta sempre più,
facendolo sprofondare in un apatico automatismo. Era
convinto che prima o poi i déjà-vu si sarebbero fatti più
frequenti, finché Victor sarebbe stato cosciente del loop
temporale, dal suo inizio alla sua fine. Doveva reagire, doveva
escogitare qualcosa per uscire da quel fenomeno, o sarebbe
vissuto come in un film riprodotto a ciclo continuo, senza
neanche rendersi conto di stare per morire.
È l’effetto farfalla, amico mio, che ti salverà. Ti resta solo quello.
Ricordò le parole del Victor Bresnik del futuro. Le sue parole.
E in quel momento gli venne un’idea. Era pericolosa, certo,
ma non più di tanto. In fondo spedire un uomo da solo sulla
Luna per sei mesi aveva i suoi rischi e non se n’era certo
preoccupato quando aveva accettato la proposta di Corbin.
Terminò di posizionare l’ultimo sismografo, poi tornò
indietro, dove aveva lasciato la cintura-razzo. Prese un paio di
pinze che aveva sempre con sé, assieme ad altri piccoli arnesi
sparsi qui e là sulla tuta per le riparazioni urgenti, e tranciò il
cavo di alimentazione.
«Ecco», disse, «adesso questa è inutilizzabile. Spero tu
capisca, Torresi. Non è niente di personale.»
Per risalire, ora, avrebbe dovuto usare i ramponi e le
piccozze, e direttamente sulla parete della Rima, non più su
quella fittizia e subacquea del Johnson Space Center.
I ramponi avevano la stessa funzione di quelli usati in
montagna per scalare le pareti di ghiaccio. Potevano essere
agganciati con facilità sulla punta dello scarpone, una trovata
ingegnosa che aveva dato del filo da torcere ai ricercatori del
Johnson.
Victor li tirò fuori dallo scomparto, li pose a terra e li infilò.
Si agganciarono subito. Poi prese le piccozze e iniziò la scalata,

29
dieci metri alla ridotta gravità lunare. Avrebbe impiegato
almeno mezz’ora per risalire.
Gli ci volle quasi un’ora. All’inizio andò spedito e gli parve
che l’ascesa non fosse così lenta e complessa ma, arrivato quasi
a metà, rischiò di cadere. Uno dei ramponi non fece presa e il
piede di Victor scivolò. La mano fu però rapida a puntellare
una piccozza sulla roccia e Victor se ne restò per un minuto
abbondante appeso al puntale, cercando di riprendere
l’equilibrio. Poi uno dei piedi colpì la parete e Victor poté
riassestarsi e proseguire l’ascensione. Da quel momento preferì
rallentare e prendersi tutto il tempo necessario. Tanto ne ho da
vendere, pensò con un certo drammatico umorismo.
Uscito finalmente dal graben, ripose ramponi e piccozze sul
rover, poi un lampo lo accecò e la visione di Victor si ridusse a
un enorme cerchio d’un bianco folgorante, contornato da
miriadi di altri piccoli, candidi cerchi che gli ruotavano attorno
come tanti satelliti impazziti. Cercò di schermarsi gli occhi con
le braccia, ma la luce era ovunque e sembrava trapassare ogni
cosa. Urlò, o almeno così gli parve, poi tutto divenne confuso.
Rivisse frammenti della sua infanzia intervallati a spezzoni di
sogni passati, come se la sua vita, filmata dalla telecamera del
tempo, avesse ripreso a scorrere dal principio e in mezzo
fossero finiti fotogrammi delle sue attività oniriche.
Svenne.
Al risveglio si ritrovò riverso sul suolo lunare, incapace di
orientarsi, a comprendere chi fosse e dove fosse. Impiegò del
tempo, non seppe stabilire quanto, a riprendere possesso delle
sue facoltà cognitive. Quando capì cosa era accaduto, il panico
lo assalì. La riserva di ossigeno stava per esaurirsi e doveva fare
al più presto ritorno alla base.
Salì sul rover, mise in moto e tornò indietro.

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Giorno lunare 12, ore 1:34 UTC
Al rientro all’Hab Victor fece il punto della situazione. Aveva
perso la cintura-razzo – sì, avrebbe potuto tentare la scalata
indossandola, anziché abbandonarla sul fondo, ci aveva
pensato, ma poi si era detto che era meglio lasciarla laggiù, che
quell’azione avventata sarebbe stata un’ottima spinta per
l’effetto farfalla e magari avrebbe anche funzionato – e aveva
anche perso quattro sismografi, che non avrebbe potuto
riposizionare alla prossima EVA prevista per la Rima Hesiodus.
Anzi, erano andate a farsi friggere anche tutte le successive EVA
per la Rima. Poi era svenuto. E questo, forse, era il problema
maggiore. Non gli era mai capitato finora. I déjà-vu avevano
provocato l’emicrania, i sensi di ansia e inquietudine, la
spossatezza e l’inappetenza – anzi, era meglio dire che il loop
temporale aveva provocato tutto ciò – ma mai una perdita di
coscienza. Victor si chiese se questo peggioramento, questa
sorta di evoluzione avvenuta nel suo organismo, non fosse un
segnale. Ma come doveva interpretarlo? Era giunto a una
svolta? Si avvicinava alla fine dei suoi giorni?
Doveva chiedere aiuto al CAPCOM, non aveva altre alternative.
Si chiese in quel momento se avrebbe dovuto confessare a Kurt
il danno alla LMU o se sarebbe stato meglio sorvolare. In fondo
la NASA era stata ben accorta a celare la presenza di un
dispositivo sul lander che aveva incasinato il tempo sulla Luna,
costringendolo a una sorta di reclusione temporale e minando
anche la sua salute mentale. La cintura-razzo si era
danneggiata durante una discesa, si disse Victor, e per poco lui
non ci aveva rimesso la pelle: questa sarebbe stata la sua
versione. Che andassero pure a controllare, se volevano. Adesso
aveva problemi più urgenti da risolvere.
Prima di chiamare Kurt, però, doveva fare una piccola
ricerca: il dispositivo era stato attivato dalla Terra, aveva
sospettato Victor, o al massimo dalla Terra ne avevano
programmato l’avvio in un giorno prestabilito, ma sarebbe
stato troppo rischioso: sebbene a ogni esplorazione spaziale si

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cercasse di calcolare tutto al millesimo di secondo, erano
tuttavia messi in conto eventuali ritardi, che puntualmente si
verificavano, per buona pace di tutto il controllo missione.
Quindi, dedusse Victor, quel congegno era stato azionato dopo
l’allunaggio. Il computer di bordo avrebbe potuto rintracciarne
il segnale, fornendogli data esatta e orario preciso. Victor
sedette al computer e richiamò il file di log, quindi avviò il
visualizzatore degli eventi e in pochi secondi lo schermo gli
mostrò l’intera cronologia. Adesso aveva sott’occhio tutto il
registro degli eventi di sistema dei due computer – quello di
bordo nel lander e quello nell’Hab, collegati in rete – e poteva
controllare quali file fossero stati aperti e quali programmi
avviati. Cliccò alla voce “Source” per avere un immediato
riscontro dei suoi sospetti. Le sorgenti del segnale avrebbero
dovuto essere soltanto due: Avior, relativa al computer del
lander, e Hab, relativa al computer che stava usando. La
schermata gliele mostrò in ordine alfabetico. Victor scorse la
pagina con la barra di scorrimento finché trovò una riga
sospetta:

Level Date and Time Source

Information 7/01/2081 15:21 MCC

«Bingo!», disse Victor. «Eccoti qui, mia cara».


Era stato registrato un evento l’uno luglio alle 15:21 – quando
era in viaggio per il cratere Wolf – e la sorgente non era né
l’Avior né l’Hab, ma l’MCC. Il Centro di controllo missione. La
Terra.
«Ne avete approfittato durante la mia EVA più lunga, così da
avere tutto il tempo per fare i vostri giochetti.»
Le righe che mostravano MCC come sorgente erano
sessantatré e coprivano un tempo di circa sette ore. Le righe
iniziali, una decina, erano contrassegnate come “Information”,
ma poi Victor ne trovò parecchie classificate come “Warning” e
le ultime cinque come “Critical”.
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Aveva

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bisogno di riflettere con calma, spegnendo la furia che sentiva
montare dentro di sé. Doveva pensare a freddo, capire che cosa
fosse successo con i pochi dati a disposizione. “Information”
poteva significare che era stata apportata una modifica a un file
o aperto un programma, o attivato un congegno. Quindi
all’inizio da Terra erano entrati nel computer del lander e
avevano lanciato il programma che avrebbe attivato il
dispositivo. Poi iniziavano i livelli di “Warning”, una
quarantina addirittura: qualcosa era andato storto. Il livello di
avviso indicava un problema serio, forse un danno, o un
conflitto fra programmi o file in esecuzione. Era chiaro che da
Terra non erano riusciti a risolverlo, perché le ultime righe
parlavano di errori critici: la situazione d’origine non poteva
essere ripristinata automaticamente.
E il tempo sulla Luna era andato a farsi fottere.
Complimenti al Centro di controllo missione. Complimenti
ai geni della NASA.
«Mi hai giocato un bel tiro, caro Kurt», disse Victor. Si chiese
a cosa servisse quel dispositivo, ma soprattutto perché glielo
avessero tenuto nascosto. Forse il loro intento non era mandare
in loop il tempo. Anzi, non era quello, Victor ne era certo. Il
loop era una conseguenza di tutti quegli “Warning”. Ma a che
sarebbe dovuto servire? Aveva comunque a che fare col tempo?
Okay, pensò, questa giornata ha avuto comunque i suoi lati
positivi: ho scoperto che i miei sospetti sul segnale partito dalla
Terra erano fondati e che la NASA aveva un esperimento segreto
da eseguire (e che non è andato a buon fine); ho rotto la
cintura-razzo e mandato al diavolo le prossime EVA alla Rima
Hesiodus, quindi dovrebbe essercene abbastanza per l’effetto
farfalla. Adesso c’è solo da sperare che arrivino déjà-vu su
quanto ho fatto oggi. Ma oggi può benissimo essere un déjà-vu.
C’è stato un momento, rifletté, in cui ho avuto ben chiaro in
mente il quadro di questa situazione incasinata e mi sono
spedito un messaggio per avvisarmi. Questo significa che alla
fine uscirò da questo impiccio? Che interromperò il loop?
«Merda!», esplose Victor, stremato da quelle domande senza
risposta. Con un pugno colpì uno dei pannelli dell’Hab e si
spaccò due nocche della mano destra. Strinse i denti, un velo di

33
rabbia che a stento riuscì a sedare. Poi andò a prendere il kit di
pronto soccorso e si medicò la ferita. Giudicò di non aver
bisogno di punti, anche se il taglio alle dita appariva profondo e
il sangue sembrava non arrestarsi. Tuttavia riuscì a tamponarlo
quanto bastava per poter applicare una pomata cicatrizzante e
una benda.
Era troppo stanco per mangiare qualcosa e poi l’emicrania
tornò a molestarlo. Prese due pillole di sonnifero e se ne andò a
letto.

34
Giorno lunare 12, ore 6:39 UTC
I sogni della notte precedente lo sfiancarono, ma si alzò con la
decisione di chiamare il CAPCOM. Era un pensiero germinato
nella paludosa confusione di visioni oniriche e ricordi che
l’aveva oppresso per tutta la notte. Al risveglio non seppe dire
cosa avesse sognato e cosa ricordato, ma era certo di dover
parlare con Kurt. Lo avevano preso in giro, forse convinti che
non si sarebbe mai accorto del loop – un altro dettaglio non
previsto dalla NASA – e Victor non voleva passare per stupido.
No, voleva mettere in chiaro tutto, sputargli in faccia la verità,
dirgli che da giorni stava rivivendo un pezzo della sua vita
senza che si prospettasse una via d’uscita, costretto a un futuro
già scritto, fatto di un passato duplicato. Voleva raccontargli
dei disturbi sopraggiunti in seguito al loop. Voleva delle
risposte e le voleva subito. Voleva sapere cosa stessero facendo
per salvarlo, se i cervelloni del Johnson Space Center stessero
lavorando per interrompere quel ciclo continuo temporale.
Dopo essersi lavato, bevve una tazza di caffè forte, mangiò
un paio di uova liofilizzate precotte e accese la radio. Il
LunaCom non mostrò altre chiamate dal futuro e Victor si
domandò che fine avesse fatto il Victor Bresnik del 13 luglio,
quello che aveva capito tutto e gli aveva inviato un messaggio
per metterlo sull’avviso. Quindi esisteva un futuro per lui? Il 13
luglio era l’indomani, ma un indomani originale o una sua
replica? Una replica, non c’erano dubbi, visto che aveva
coscienza, grazie ai déjà-vu, del tempo ripetuto. Si passò la
mano nei capelli e chiuse gli occhi. Quella situazione lo avrebbe
fatto impazzire.
Avviò la chiamata al CAPCOM.
La chiamata si interruppe.
Victor riprovò, ma il risultato fu identico. Fece un controllo
veloce con il bug checker, ma non riscontrò errori nel sistema.
Tentò altre chiamate, invano. C’era qualcosa che impediva al
LunaCom di connettersi con la Terra. Ma cosa?
Il dispositivo nel lander, forse?

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No, in fondo Victor si era autospedito un videomessaggio,
quindi il LunaCom funzionava, almeno per gli invii in intranet.
Vediamo se posso davvero inviarmi un videomessaggio, disse
fra sé. Accese la webcam, guardò nell’obiettivo e mostrò il dito
medio – in quel momento gli sembrò la cosa più ovvia da fare.
Fermò la registrazione, la salvò e la inoltrò alla sua casella di
posta. Pochi secondi dopo arrivò il bip della notifica. Okay,
funziona. Ma allora perché non mi fa chiamare la Terra? Provò
a spedire quel video all’email di Kurt, ma dopo alcuni minuti
ricevette uno strano messaggio di errore: l’invio era andato in
time out a causa di una lunga attesa del server SMTP.
«Maledizione!», sbottò. «Ma che diavolo sta succedendo?»
Si alzò e si riempì un’altra tazza di caffè. Poi lasciò vagare lo
sguardo oltre l’oblò, sul deserto lunare. Sarebbe stata quella la
sua casa per il resto dell’esistenza? Il Mare Nubium? Sarebbe
mai rientrato sulla Terra, avrebbe rivisto sua madre, i suoi
amici, i suoi colleghi? Aveva voglia di una birra, di un
hamburger con patatine inzuppate nel ketchup, aveva voglia di
camminare sulle strade di Dallas, sentire il rumore delle auto e
il vociare della gente. Gli mancava tutto questo, ma non per via
dell’isolamento della missione, bensì perché quella missione
non avrebbe mai avuto termine. Si chiese da quanto tempo
fosse sulla Luna. Era allunato il 24 giugno, quindi in teoria era
lì da diciotto giorni. In teoria. Ma quante repliche aveva
vissuto? Da quanti giorni era esattamente sulla Luna? Magari
era già passato un anno e neanche se n’era accorto. Magari era
passato un decennio e sua madre era morta senza che lui ne
sapesse nulla. Magari la vita sulla Terra si era già estinta e
quello era il motivo per cui nessuna chiamata poteva esser
ricevuta.
Quel giorno avrebbe dovuto dedicarsi a mansioni leggere:
controllare i filtri dell’aria e dell’acqua e iniziare la produzione
di ortaggi nel VEGS. Invece si sdraiò sull’amaca, accese il lettore
e si mise a leggere un ebook. Dopo due minuti lo chiuse. Provò
a guardare un film, ma si stancò già alle prime scene. Se ne
restò lì, a guardare il soffitto dell’Hab, chiedendosi se esistesse
una possibilità, anche minima, di tornare a casa e fermare quel
loop.

36
O se fosse meglio farla finita subito, prendere tutte le pillole
rimaste, poi un bel sonnifero e via verso l’ultimo viaggio, quello
senza ritorno.
Con quel pensiero suicida nella mente chiuse gli occhi,
cercando di rilassarsi, di non pensare a niente, finché si
addormentò.

37
Giorno lunare 12, ore 7:16 UTC
Victor fissò il suo volto sullo schermo del computer. Era un
volto emaciato, non la sua consueta espressione mattutina, un
viso non rasato da almeno tre giorni e uno sguardo non del
tutto presente, nonostante la tazza di caffè appena bevuta. Ma
erano appena le 7, che diavolo, era reduce da una EVA, era
andato a letto tardi, o almeno così credeva, e si trovava nella
merda fino al collo grazie al loop temporale. Il problema non
era il suo volto, però. La webcam lo aveva ripreso mentre
mostrava il dito medio della sua mano destra e in questo non
c’era nulla di speciale. Tranne il fatto che aveva già visto
quell’immagine, poteva giurarci. Sì, ma quando? In quel preciso
istante, ecco quando l’aveva vista. Fottuti déjà-vu! Quindi non
aveva risolto nulla, l’effetto farfalla era soltanto una scemenza.
Aveva rotto una cintura-razzo, impedendo così altre EVA, si era
allontanato varie volte dalla tabella di marcia, eppure era
ancora lì a rivivere il vissuto. Il giorno prima era stato denso di
déjà-vu, che da giorni si verificavano con sempre maggior
frequenza – come le emicranie!
Lasciò perdere quei ragionamenti e si concentrò sulla
questione più immediata: non era riuscito a mettersi in
contatto con Kurt. Eppure sarebbe stato bello pronunciare la
fatidica frase «Houston, ho un problema». Ma la chiamata si era
interrotta di continuo, eppure il LunaCom funzionava a
dovere. Così inviò quel breve video a se stesso, alla sua casella
di posta, e lo ricevette in pochi secondi. Fin qui tutto bene,
disse fra sé. Ora vediamo se me lo fa inviare sulla Terra. Lo
inoltrò all’email di Kurt e attese. Due minuti dopo giunse la
risposta: un messaggio di errore. Il server SMTP aveva tentato
diversi invii e infine era andato in time out. Victor imprecò. Era
tagliato fuori, totalmente isolato sulla Luna. Questo significava
che avrebbe dovuto cavarsela da sé. Dubitava che al Johnson
Space Center si stessero dando da fare per risolvere il suo
problema. Ne erano almeno al corrente? Forse sì, forse no. Di
certo, non ricevendo né chiamate né email, si sarebbero

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insospettiti. Magari avrebbero addossato la colpa al LunaCom.
Prima o poi, sperava Victor, avrebbero inviato sulla Luna una
squadra di soccorso. E se invece non fosse venuto nessuno a
salvarlo? Si ritrovò a pensare a Dallas, la sua città, ai rumori
nelle strade, alla gente che passeggiava. Si ritrovò a desiderare
un hamburger pieno di ketchup, con un abbondante contorno
di patatine fritte. Quanto gli mancava tutto questo!
Piangersi addosso non serviva a niente, pensò.
È l’effetto farfalla, amico mio, che ti salverà. Ti resta solo quello.
Be’, caro Victor del 13 luglio, il tuo effetto farfalla non m’ha
salvato per niente. Ritenta, sarai più fortunato.
Modifica gli eventi, anche di un’inezia. E forse riuscirai a trovare una
soluzione per tornare alla normalità.
Ma non li aveva modificati? Certo, e neanche pochi. Aveva
iniziato a modificarli da quando aveva ricevuto quel messaggio.
E cosa era cambiato? Nulla. Era ancora lì, a cercare di capire
come bloccare quel loop, visto che non era riuscito a trovare il
dispositivo su Avior.
Fu allora che gli giunse la soluzione, inaspettata come il
bacio di una bellissima donna, improvvisa come un temporale
estivo, desiderata come un amplesso troppo a lungo ritardato.
E apocalittica come una bomba nucleare.

39
Giorno lunare 12, ore 8:03 UTC
Se c’era una cosa in cui gli ingegneri della NASA si erano
fossilizzati, era la procedura che avrebbe portato un
equipaggio umano sulla Luna: alle soglie del XXII secolo si
preferiva ancora il rendezvous in orbita lunare ideato da John
Houbolt nel 1961. Con le dovute migliorie, ovvio. Nel frattempo
la tecnologia aveva compiuto qualche passo in più rispetto al
secolo precedente.
«Non aspettarti una nave spaziale come in Guerre stellari»,
disse Victor a sua madre quattro mesi prima della partenza.
«Andrò sulla Luna come ci andarono Armstrong e Aldrin,
anche se con un razzo ben più veloce e avanzato.»
«Quindi partirete in due», concluse Virginia Bresnik. «Chi ti
aspetterà nel CSM?»
«Nessuno, mamma», rispose Victor. «Non ci sarà un Collins
nel modulo di comando. È una navicella robotizzata.»
Alla signora Bresnik quella notizia non piacque neanche un
po’. Affidare la vita del suo unico figlio a un pupazzo
meccanico era per lei inaccettabile. Volle capire fin nei minimi
dettagli come il figlio sarebbe arrivato sulla Luna e come ne
sarebbe ripartito, tornando sano e salvo a Dallas. Si
tranquillizzò soltanto quando Victor le mostrò un filmato in
3D che simulava il lancio, l’entrata nell’orbita lunare,
l’allunaggio, la partenza e infine l’ammaraggio nell’Oceano
Pacifico.
Il veicolo di lancio era un razzo multistadio della serie Eris,
progettata nel 2074. Il 23 giugno 2081 alle ore 12:48:07 UTC
Victor partì con Eris IV, formato dal modulo di comando e
servizio, il CSM (che Victor chiamò Virginia), dal modulo lunare
(che battezzò Avior, dal nome di una stella binaria), e dagli
stadi S-IVB, S-II e S-IC, che contenevano il propellente. Il giorno
successivo, alle ore 08:13:43 UTC, entrò nell’orbita lunare e il 24
giugno alle 20:39:45 UTC Avior toccava il suolo lunare. Da lì
sarebbe ripartito dopo sei mesi. Avior avrebbe usato lo stadio di
discesa come piattaforma di lancio, sarebbe entrato in orbita

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per riagganciarsi a Virginia, quindi Victor sarebbe passato dal
modulo lunare al CSM, avrebbe sganciato Avior e sarebbe
rientrato nell’atmosfera terrestre. Lì il CSM si sarebbe diviso in
due e soltanto il modulo di comando sarebbe ammarato nelle
acque dell’oceano.
Avior. Non era davvero necessario, pensò Victor, separarlo
dal modulo di comando e servizio. Avior era decisamente più
leggero dei moduli lunari delle vecchie missioni Apollo, che
pesavano quasi cinque tonnellate. Il peso di Avior era di 3.853
chilogrammi. Il CSM aveva una massa totale di 24.336 kg, di cui
4.776 per il CM. Se non avesse sganciato il modulo lunare dal
modulo di comando, avrebbe fatto navigare nello spazio una
navicella con una massa di 8.629 kg. Il combustibile era più che
sufficiente per farlo arrivare nell’atmosfera terrestre. Da lì in
poi ci avrebbe pensato la forza di gravità. I paracaduti si
sarebbero aperti, anche se la navicella, a causa della presenza di
Avior, sarebbe discesa obliqua. Non sarebbe stato un
ammaraggio elegante, ma non doveva certo partecipare a un
concorso. Doveva soltanto arrivare intera sulla Terra, con il suo
carico segreto, quello che la NASA gli aveva tenuto nascosto: il
dispositivo che mandava il tempo in loop. Dalla Terra
avrebbero saputo della partenza della navicella, si sarebbero
insospettiti, ma avrebbero mandato la USS Lemington a
recuperarla, la quale avrebbe comunicato a Houston la
presenza di Avior e allora tutti avrebbero capito, ancor prima di
trovare il messaggio registrato di Victor.
Ma a quel punto sarebbe stato troppo tardi.
Victor si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli
occhi. Nonostante l’emicrania e la nausea – durante la notte
aveva vomitato anche l’anima – riuscì a prendere quella
decisione. Si era svegliato la notte prima con degli atroci dolori
allo stomaco e una morsa che gli stava stritolando le pareti del
cranio. Non aveva fatto in tempo a prendere un sacchetto per il
vomito e gli era toccato quindi ripulire tutto, o avrebbe dovuto
dormire su una pozzanghera di succhi gastrici. Il risveglio era
stato traumatico. Aveva aperto gli occhi in una stanza di luce
livida, piena di oggetti sfocati e tremolanti. Aveva provato a

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ricordare gli eventi della sera prima, ma erano un guazzabuglio
di immagini distorte e sequenze di azioni senza capo né coda.
Victor stava precipitando.
Stava andando sempre più giù, in fondo a un baratro di cui
non vedeva il fondo. C’era solo buio, piena oscurità, tenebre più
fitte e dense dello spazio profondo.
Victor doveva fare qualcosa. Si era ritrovato a meditare il
suicidio per la prima volta in vita sua. In piena notte aveva
avuto voglia di sabotare Avior, di farlo esplodere per porre fine
ai suoi tormenti, anche se l’esplosione avrebbe potuto
ucciderlo. E in quel momento aveva desiderato che accadesse.
Infine, come un angelo custode sceso sulla Luna a dargli
conforto, fu proprio Avior a fornirgli la soluzione. O, almeno, a
dare il via al ragionamento che lo aveva portato alla soluzione
del problema.
Non c’era bisogno di far saltare in aria Avior.
Bastava rispedirlo sulla Terra.
Tornarsene a casa e abbandonare la missione avrebbe
significato trovarsi ancora in mezzo al ciclo temporale,
imprigionato nel loop anche sulla Terra, finché alla NASA non
avessero capito come risolvere il guaio. Magari con una carica
di esplosivo.
Sì, si convinse sempre più, Avior doveva tornare sulla Terra
senza di lui.

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Giorno lunare 12, ore 14:57 UTC
Il lancio era previsto per le ore 21:06:00. Victor si connetté al
computer di bordo del lander e iniziò a registrare il video in cui
avvisava Houston del motivo del rientro imprevisto del Virginia.
Quando si mise davanti alla webcam, si chiese se non dovesse
apparire in una forma migliore, magari rasato, ben pettinato,
con indosso abiti puliti e non la maglia sudicia di caffè, vomito
e sudore. Ma poi pensò che fosse meglio che al Centro di
controllo missione lo vedessero com’era ridotto, sfinito dalle
notti insonni e agitate, smagrito dai malesseri e dalla mancanza
di appetito, turbato dal nervosismo e dagli attacchi di panico e
ansia.

“Houston, c’è stato un problema”, esordì – alla fine era riuscito a


inserire la fatidica frase –, “ma credo di averlo risolto. Quando sono
andato al cratere Wolf, ho iniziato ad avere dei déjà-vu, che si sono fatti
sempre più frequenti. All’inizio non ne capivo la ragione, ma alla fine ho
scoperto cosa li causava. Ma voi, lì, sapete benissimo di cosa sto parlando.
Non sapete dei déjà-vu, forse, ma sapete del congegno che avete portato
sulla Luna a mia insaputa. A proposito, grazie, Kurt. Ero convinto che un
CAPCOM fosse un appoggio concreto per gli astronauti. Ero anche convinto
che fossimo amici. Non so a cosa serva quell’affare, ma qui ha mandato il
tempo in loop. Sì, avete sentito bene. Per giorni – o mesi, anni? – ho
rivissuto da capo ogni momento, senza avere neanche una vaga idea di
come bloccare quel circolo vizioso. Poi ho avuto una folgorazione, ma
avrete capito anche questo. In fondo la USS Lemington vi ha avvisato
della presenza di Avior assieme al modulo di comando. E dentro Avior
sappiamo tutti cosa c’è. Sono convinto che avete i mezzi per disattivare il
dispositivo, o per distruggerlo, ma intanto godetevi qualche giorno a ciclo
continuo. Vedete, avrei potuto farlo saltare in aria, assieme alla navicella:
sarei magari morto o al massimo sarei restato sulla Luna senza poter
rientrare, in attesa di una squadra di soccorso. Ma perché privarvi della
possibilità di vivere ciò che voi mi avete costretto a vivere? Ah, un’ultima
cosa. Se state pensando di farmela pagare e abbandonarmi quassù a

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morire di fame, sappiate che tutta la verità su quanto accaduto sarà a
disposizione della USS Lemington. Appena qualcuno della nave entrerà
nella navicella, sarà salutato da questa registrazione. Risparmiate dunque
al Presidente il comunicato stampa di contingenza, non è davvero il caso.
Buona vita, gente, e iniziate a preparare la squadra di recupero.”

Sì, poteva bastare, Victor era soddisfatto. Avrebbe voluto


pronunciare poche parole, ma poi si era lasciato andare
all’amarezza. Le cose stavano in quei termini, si disse, dopo
aver scritto la bozza del suo discorso. Aveva detto tutto ciò che
doveva dire. Probabilmente non avrebbe più partecipato ad
altre missioni spaziali, ma se ne sarebbe fatto una ragione. O
forse i vertici della NASA sarebbero stati licenziati e allora tutto
sarebbe finito per il meglio. Magari il prossimo CAPCOM sarebbe
stato proprio lui.
Okay, era meglio non fantasticare troppo. Doveva mettersi al
lavoro, adesso, e terminare i preparativi per il lancio.

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Giorno lunare 12, ore 20:58:00 UTC
Victor iniziò la procedura di decollo di Avior, anzi dello stadio
di ascesa, alle ore 18:00:00 UTC. Mezz’ora prima si era scolato
un’abbondante tazza di caffé e aveva ingoiato alcune pillole di
entocibina, ma emicrania e nausea non erano passate. Resisti,
Victor, si era detto, manca poco ormai alla fine dei tuoi guai. E
Victor aveva resistito.
Il computer eseguì tutti i controlli, impostando
l’inclinazione della capsula una volta abbandonata la superficie
lunare. Poi, una volta in orbita, avrebbe corretto e regolato la
sua rotta per la fase di attracco a Virginia. L’accelerazione
iniziale della capsula sarebbe stata di 4,2 m/s 2. Avior avrebbe
raggiunto la sua orbita lunare iniziale alla velocità di circa
5.000 chilometri orari. Il computer comunicò che il propellente
sarebbe bastato. Un’ora e mezzo dopo la capsula si sarebbe
trovata a sessanta chilometri da Virginia e avrebbe iniziato la
manovra di avvicinamento per il rendezvous, viaggiando a 40
m/s. Giunta a circa cento metri da Virginia, avrebbe rallentato
fino a una velocità relativa di 15 cm/s. A quel punto il robot
all’interno del CSM avrebbe preso i comandi della capsula,
teleguidandola fino ad allineare la sonda di aggancio del
modulo di comando con il cono di aggancio della navetta, per
avere un corretto ancoraggio. A contatto avvenuto non ci
sarebbe stato nessun passaggio dell’equipaggio a bordo del
Virginia, come Victor aveva comunicato al computer del CSM. Il
sistema di propulsione avrebbe poi lanciato la navetta lungo la
traiettoria verso la Terra.
Victor si concesse un momento di rilassamento,
abbandonandosi sullo schienale della sedia e chiudendo gli
occhi per qualche secondo. Si chiese se stesse facendo la cosa
giusta e il pensiero andò a sua madre. Forse non si sarebbe
accorta dei déjà-vu, forse la NASA avrebbe fatto saltare in aria
Avior con il suo pericoloso contenuto. Si chiese anche quanto
tempo avrebbe dovuto trascorrere sulla Luna prima che una
squadra di recupero fosse sbarcata per portarlo via. La

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procedura prevedeva di far allunare la squadra di soccorso
almeno dieci giorni prima che terminassero le provviste.
Facendo due calcoli, avrebbe dovuto arrivare intorno al 14
dicembre, quindi gli restavano ancora centosessantuno giorni.
Ormai la missione EcoMoon non aveva più senso, se mai ne
avesse avuto uno. Davvero la NASA lo aveva spedito quassù per
sei mesi come primo esperimento per una permanenza
prolungata sulla Luna, in attesa della costruzione di una città
lunare? O EcoMoon era soltanto un nome di facciata per
nascondere una missione con altri fini? E cosa prevedeva quella
missione? Un loop temporale? O qualcosa di diverso? No,
pensò, EcoMoon era costata troppo per essere una semplice
missione di copertura. Era invece più probabile che l’agenzia
spaziale avesse voluto nascondergli un ulteriore esperimento,
che quel dispositivo fosse legato alle prolungate permanenze
dell’uomo sulla Luna.
Forse non avrebbe mai avuto una risposta alle sue domande,
neanche se avesse scatenato una polemica gigantesca,
pubblicato articoli su decine di quotidiani e presenziato a
chissà quanti programmi TV. Magari al rientro avrebbe scritto
un libro sulla sua avventura. Altri astronauti lo avevano fatto,
parlando della propria esperienza nello spazio. Ma che avrebbe
scritto? Sarebbe stato un libro ripetitivo, si disse, sorridendo.
I minuti trascorsero e giunse il momento del conto alla
rovescia.
10, 9, 8, 7, 6...
Accensione!
4, 3, 2, 1, 0...
Decollo!
Con un’esplosione Avior si separò dalla piattaforma di lancio
e venne sparato verso l’alto, verso le profondità inalterabili del
cielo lunare. Victor osservò tutto dall’oblò dell’Hab e restò a
guardare finché la capsula non divenne un puntino chiaro nelle
tenebre del cosmo e scomparve. Poi ne seguì il volo dal
monitor.
Come previsto, novantatré minuti dopo la navetta giunse a
una distanza di sessanta chilometri dal Virginia e iniziò a
rallentare. A circa trenta chilometri la sua velocità diminuì a 15

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cm/s. Victor controllò sullo schermo i dati in arrivo. Il robot nel
modulo di comando stava pilotando Avior regolandone
inclinazione e traiettoria. L’operazione di aggiustamento
sarebbe durata finché i due moduli si sarebbero trovati
perfettamente allineati a una distanza di pochi metri uno
dall’altro.
Circa un’ora più tardi le due capsule furono a poco più di un
metro di distanza fra loro e la velocità di Avior scese fino a 7
cm/s. Victor ingrandì l’immagine sul monitor. La sonda di
aggancio entrò con precisione millimetrica nel cono di
aggancio del Virginia. L’attracco era avvenuto con successo!
Adesso le due capsule congiunte avrebbero percorso
un’orbita lunare e poi si sarebbero dirette verso la Terra.
A Victor non restava che attendere.
E bere un goccio di bourbon. Diavolo, se se l’era meritato!

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Giorno lunare 173, ore 17:29 UTC
Laura Bowman fissò Victor per qualche istante, prima di
ripetere la domanda. Era il comandante della missione di
soccorso, appena giunta sulla Luna per prelevare Victor e
ripartire dopo qualche giorno. Come Victor aveva previsto, la
NASA aveva inviato la nuova navetta dieci giorni prima della fine
della missione.
Anche dalla Terra erano stati impossibilitati a chiamare e
spedire email verso la Luna. Dunque il dispositivo creava dei
conflitti con i server, mandandoli in time out. Alla NASA,
comunque, erano stati ingegnosi. Due mesi dopo l’arrivo del
Virginia avevano lanciato in un’orbita iperbolica il satellite
Thetasat. Dal satellite era partito un messaggio in codice Morse
preimpostato dalla Terra, che aveva raggiunto senza problemi
l’avamposto di Victor sulla Luna. Il computer dell’Hab lo aveva
poi decifrato automaticamente. La NASA lo avvisava che il 14
dicembre sarebbe giunta una squadra comandata dal Capitano
Bowman.
La navicella era allunata a circa un paio di chilometri di
distanza dall’Hab. Victor era montato sul rover e era andato a
prendere i suoi colleghi, Laura e Kenneth Davis. Nell’Hab
sarebbero stati un po’ stretti, ma il soggiorno sarebbe stato
breve. La missione, denominata EcoMoon Rescue, era stata
approntata in tempi da record, con un nuovo CAPCOM a tenere i
contatti con la Terra. Victor si chiese che fine avesse fatto Kurt,
ma non volle indagare. Una volta nell’Hab, i due nuovi inquilini
si erano liberati delle tute e Victor aveva offerto loro un
bicchierino del suo bourbon per festeggiare l’evento.
Fu allora che Laura chiese a Victor come se l’era cavata tutto
solo sulla Luna per sei mesi.
Victor non rispose, ma rimase a fissarla come imbambolato.
Laura ripeté la domanda, un leggero sorriso che le incurvava
la bocca. Kenneth finì di scolare il suo liquore e si appoggiò al
tavolo del computer, in attesa che Victor parlasse.
Victor, da parte sua, perse un po’ del colore naturale del viso.

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Avvertì anche un vago tremolio alle labbra e alle mani e dovette
posare il bicchiere prima di farlo cadere a terra. Da qualche
parte nella sua testa una leggera emicrania iniziava a far sentire
la sua presenza. Poi Victor tornò a fissare Laura come se fosse
apparsa lì nell’Hab all’improvviso, un fantasma lunare
proiettato dalla sua mente provata dagli ultimi eventi e
dall’isolamento cosmico. Ma Laura era reale, non era uno
spettro, erano reali tutti e due, stavano lì e erano venuti a
prenderlo. E presto sarebbe ritornato a casa, a Dallas, sulla
Terra, lontano dalla Luna e dalle sue follie. Avrebbe
riabbracciato sua madre e i suoi amici. E allora perché sentiva
quel malore impossessarsi di lui, del suo corpo, della sua
mente? Perché sentiva crollare attorno a sé ogni speranza?
Perché aveva voglia di uscire dall’Hab senza tuta e lasciarsi
morire?
Laura ripeté la domanda per la terza volta, lo sguardo ora
confuso.
E allora Victor ebbe la certezza. Tutti i suoi sospetti, che
l’inconscio aveva tenuto ben occultati, erano stati ora messi a
nudo da una parola, una sola parola che gli lacerò i pensieri
come una lama arrugginita.
Déjà-vu.

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Nota
Rispetto al passato scrivere oggi una storia di fantascienza è
difficoltoso – opinione mia personale. La tecnologia è andata
avanti, le missioni spaziali sono aumentate e un autore di
fantascienza non può non tenerne conto.
Per scrivere “Fuga dal tempo” mi sono dovuto documentare a
ogni sessione di scrittura: c’era sempre qualche dettaglio da
conoscere. Da una iniziale lettura delle missioni Apollo sono
approdato alle procedure dell’allunaggio e del rientro sulla
Terra, allo studio delle mappe lunari, agli strumenti portati
sulla Luna e via dicendo. Tutto ciò ha chiaramente rallentato la
stesura del racconto, ma è stato divertente e anche istruttivo.
Grazie ad Anna, mia lettrice beta, che ha individuato nel
testo una grossa lacuna a me sfuggita e per gli ottimi consigli di
sempre.

Sono possibili i loop temporali? Cercando informazioni in


rete, pare che si riscontrino soltanto in letteratura e
cinematografia. Edge of Tomorrow di Doug Liman, con Tom
Cruise, ne è un buon esempio.
Se leggete il saggio di Arnaldo Benini Neurobiologia del tempo,
capirete che i loop temporali non sono assolutamente possibili.
Il tempo è creato da... no, non voglio rovinarvi la sorpresa.
Ma allora perché ho scritto “Fuga dal tempo”?
Perché le storie servono anche a questo. A reinventare la
realtà.

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