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Santangelo - Origine Del Linguaggio

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AVVENTURE DEL PENSIERO

UNA RACCOLTA DI VOLUMI IMPENSATI, CHE LA-


SCIANO IL LETTORE ORA PENSOSO, ORA COMMOS-
SO, ORA SBALORDITO, TRASPORTANDOLO IN UN
MONDO RARAMENTE ESPLORATO DAI LIBRI, QUASI
UN’OASI LONTANA DALLE CURE
E DAI PENSIERI ABITUALI

VO L UM E LXVII

L'ORIGINE
DEL LINGUAGGIO
di PAOLO ETTORE SANTANGELO

Vi è un documento umano di valore inestimabile: il lin-


guaggio. Su di esso, come su di una creta molle e tenace,
le generazioni hanno scritto le loro memorie, che ora giac-
ciono chiuse e fossilizzate nelle parole che ci scambiamo
quotidianamente.
- La scienza che scioglie questi viventi coaguli, che analiz-
za a uno a uno gli elementi di cui sono fatti questi conglo-
merati, si chiama glottologia. Essa è di recente formazione,
e non risale, in quanto scienza, che al 1833. Ma quanti
orizzonti in poco più di un secolo ha saputo dischiudere!
Parole nate da radici identiche e che servono a indicare la
medesima cosa, sono documenti di origini comuni, di scam-
bi, di relazioni fra gruppi etnici, che i documenti più an-
tichi, fino allora noti, cf presentavano stabiliti su territori
lontanissimi, separati da immensi oceani e che erano rite-
nuti impraticati e impraticabili in quei tempi remotissimi.
Parole nate da identiche radici per designare cose, azioni,
sentimenti diversi, permettono di rifar la storia di associa-
zioni di idee, di posizioni religiose, morali, sentimentali a
noi remotissime, nel tempo o per natura...
Paolo Ettore Santangelo, in un libro pieno di inaspettate
scoperte, di impensati accostamenti, solidamente documen-
tato e piacevole come una lunga favola, guida il lettore at-
traverso gli attraenti misteri di questa scienza avventurosa.

Volume di 476 pagine

BOMPIANI
A V V E N T U R E DE
PENSIERO

VOLUME LXV1I
L 'O R IG IN E DEL
LINGUAGGIO
Opera pregevole di un importante linguista italiano.
L'opera è stata stampata nel 1949 (75 anni orsono) e l'au-
tore, nato a fine Ottocento, non risulta aver più pubbli-
cato nulla dopo tale data; si può presumere quindi che i
diritti d'autore siano scaduti.
Le critiche di Santangelo alla teoria dell'indoeuropeo,
mai esistito, erano fondate ed è stata ormai abbandonata
(così come la derivazione dal Sanscrito, del tutto errata)
senza comunque trovare prove della esistenza di una
lingua originaria. In Italia il Semerano ha sostenuto la
derivazione delle lingue moderne dall'Accadico, lingua
semitica, ma è stato smentito da altri autori che hanno
dimostrato come anch'essa si ricollegabile ad lingua an-
teriori.
In sostanza ora si preferisce ritenere che da molteplici
lingue dei popoli sulle rotte migratorie da Africa e Asia
verso occidente si siano formate le lingue antiche a noi
note (Ittiti, Assiri, Babilonesi, Egiziani, Persiani, Ebrei,
Sumeri tramite continui rimescolamenti ed influssi per
effetto di conquiste, migrazioni commercio. Quindi si
possono rintracciare radici comuni, ma è impossibile ri-
salirne all'origine, specie considerando che le modiche
possono essere rapide e non più spiegabili; si pensi alla
parola latina aqua ( che però si ritrova anche nel germa-
nico ahwa, e potrebbe anche essere baltica o indo-ira-
niano) e come in Francia ess si è rapidamente trasfor-
mata in eau (ewe, euwe, egua eau).
Si veda:
Semerano Giovanni (1994), Le origini della cultura europea
Joseph Greenberg - Indo-European and its Closest Rela-
tives: The Eurasiatic Language Family. 2000.
Szemerényi Oswald - Introduzione alla linguistica indeu-
ropea 1985.
Edoardo Mori
L’O R I G I N E
DEL L I N G U A G G I O
DI

PAOLO ETTORE SAN TAN GELO

VALENTINO BOM PIA NI


19 4 9
P R E F A Z I O N

Sollecitato da diverse parti a raccogliere in un vo-


lume gli articoli linguistici e di preistoria da me pub-
blicati nel Corriere della Sera (Pomeriggio) nel corso
degli anni 1944 e 1945, mi è parso che nulla avrebbe
potuto meglio giustificare questa iniziativa quanto il
ripresentare in forma organica una materia da me
allora trattata sporadicamente e per suggestioni me-
ramente occasionali. Per raggiungere questo scopo
io avevo due vie innanzi a me: l’una era di rifondere
la materia degli articoli in un complesso organico,
Valtra era di ripubblicare gli articoli tali e quali, con
completamenti e inquadrature che conferissero ad es-
si l’impronta unitaria di un sistema. Nel primo caso
avrei avuto un libro piti conciso e serrato, ma anche
inevitabilmente alquanto arido; nel secondo caso, ci
sarebbe stata nell’opera qualche ripetizione e qual-
che digressione, ma il libro sarebbe riuscito più ac-
reato, e di più facile ed attraente lettura. Nel dare la
preferenza a quest’ultima soluzione, ebbe qualche
peso anche il fatto che il pubblico si era enormemen-
te interessato agli artìcoli, e molti, sìa a voce che per
iscritto, m i hanno manifestato il desiderio di poterli
riavere in volume.
La mia ambizione è stata di far opera originale e
di approfondimento dei principali problemi della

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linguistica, c nello stesso tempo accessibile a un pub-
blico medio, la quale possa servire come passatempo
e insieme come utile strumento di cultura spicciola.
Non conosco altro libro che, in questa materia, si sia
proposti scopi simili al mio; ma solo l’avvenire dira
se e in quale misura esso sia stato da me raggiunto.

P. E. S A N T ANG ELO

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P A R T E P R I M A

LA G L O T T O L O G IA IN D O E U R O P E A
E LA S C I E N Z A D E L L I N G U A G G I O

La scienza del linguaggio o Glottologia, che i


Francesi chiamano Linguistica e gli Inglesi Filologia
comparata, è una scienza relativamente recente, aven-
do avuto inizio soltanto nel secolo scorso coi lavori
di Humboldt, Grimm, Bopp, Schleicher, Pott, Max
Miiller, Graziadio Ascoli e altri. L ’atto di nascita
vero e proprio fu costituito dalla pubblicazione, av-
venuta nel 1833, della « Grammatica comparata del
sanscrito, zendo, greco, latino, lituano, gotico e te-
desco » a opera di Francesco Bopp, il quale, mediante
il raffronto delle forme grammaticali di queste lin-
gue, pose su basi scientifiche l’opinione allora diffu-
sa, ma rimasta ancora allo stato di intuizione piutto-
sto vaga, che esse costituissero i rami di una mede-
sima famiglia. Le lingue che in tal modo rivelarono
la loro affinità di struttura furono dette indoeuropee
o indogermaniche, volendosi con questa denomina-
zione mettere in evidenza i limiti estremi del vasto
territorio linguistico che andava, non senza qualche
discontinuità, dalle rive dell’Europa occidentale alle
rive del fiume Gange.
Fu certo una piacevole sorpresa per molti Europei
questo toccare quasi con mani la propria parentela
con gli antichi popoli dell’Asia e nello stesso tempo
il prendere coscienza dell’unità d’origine di tante lin-
gue che fin allora erano rimaste avvolte come in un
misterioso alone di lontananza. Fin allora, l’unica idea
scientifica o creduta tale sull’argomento era quella
che il mondo colto aveva attinto nella Bibbia, sulla
cui autorità si era creduto che tutte le lingue derivas-
sero dall’ebraico, e che questa lingua fosse pertanto
la lingua primitiva dell’umanità. Molti vocabolari
etimologici allora in voga avevano, con maggiore o
minore sforzo ed artifizio, preteso di trovare nell’e-
braico le radici delle parole nostrane. Di colpo, ora,
tutto ciò si rivelava arbitrario e fantastico. L’unica
cosa reale era la parentela di un certo gruppo di lin-
gue, formanti una famiglia a sé e bene individuata,
e dalla quale l’ebraico era perentoriamente escluso.
Le conseguenze furono varie e di vasta portata.
Anzitutto si formò l’idea che questa parentela lin-
guistica avesse per sostrato la perentela etnica; che
perciò all’esistenza di una famiglia linguistica indo-
europea corrispondesse una razza indoeuropea o aria,
differente dalla razza camitica, semitica, mongolica e
via dicendo. Quest’idea è stata spesso confutata con
vari argomenti, primo fra tutti quello che non sem-
pre l’unità di lingua testimonia l’unità di razza (es.
Impero Romano, Impero Britannico, ecc.), che as-
sai spesso essa viene imposta o per prestigio di cul-
tura o per dominio politico, e che tutto un popolo
può cambiare lingua (es. gli ebrei attuali parlano
nei vari paesi d’adozione le lingue piu disparate);
ma un certo valore lo ha sempre conservato e lo
conserva tuttavia.
In secondo luogo, una volta affermata l’esistenza
d’una unità indoeuropea, sembrò naturale cercare
dove fosse stata la culla originaria della razza. Il
prestigio che fin allora aveva tenuto l’Oriente nelle

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tradizioni c nella cultura dei popoli civili, fece li per
li supporre che la culla fosse stata l’India, o qualche
regione dell’Asia in prossimità dell’India e della Per-
sia; lo sviluppo delle teorie su questo problema sarà
da noi tratteggiato nelle pagine che seguono.
Più importante è per noi l’altro problema, che in
certo modo era in dipendenza del primo, e cioè quale
fosse, tra queste lingue indoeuropee, la più antica:
il latino, per es., dice pater (padre), il greco patér,
il gotico fadar, il sanscrito pitàr: quale di queste
forme è la primitiva? In principio prevalse l’idea
che la lingua più antica fosse il sanscrito o lo zendo,
ma poi si giunse a stabilire che tutte erano derivate
da una lingua primitiva andata perduta. Tuttavia si
credette che il sanscrito fosse la lingua più vicina
all’indoeuropeo primitivo. Perché? Ma non solo pel
prestigio che la cultura indiana aveva agli occhi degli
stupiti europei, non solo perché l’Asia rigurgitava di
iscrizioni ancora indecifrate e rimontanti alla più
alta antichità, e l’India possedeva libri misteriosi che
racchiudevano la storia più antica del genere umano
e la saggezza primordiale degli Arii, sibbene anche
per alcuni argomenti a carattere tecnico. L’uno era
che la lingua sanscrita non ha le molte vocali che
si trovano nelle nostre lingue, e risponde con la sola
vocale a alle tre vocali nostre a, e, o, nel che si vedeva
un segno di struttura più embrionale, mentre la
varietà vocalica era considerata effetto di evoluzio-
ne (1). L’altro era che il sanscrito possiede una

(1) Oggi si crede il contrario, vale a dire che l 'a sanscrito derivi
da a, e, o indoeuropee; che pertanto la varietà vocalica sia primordiale.
Si venne a questo convincimento osservando il comportamento delle
gutturali sanscrite: p. es. nel perfetto sanscrito con raddoppiamento
catara (leggi ctacàra « io sono diventato », analogo a greco ge-gonà)
la consonante del raddoppiameno è una palatale invece di una gutturale.
Confrontando questa formazione con quanto avviene nel raddoppia-

li
declinazione e una coniugazione di gran lunga piu
completa che non il greco e il latino (possedendo, per
es., i casi locativo e strumentale che in queste lingue
sono andati perduti); e con un ragionamento falsa-
mente analogico se ne deduceva che questa maggiore
perfezione fosse indizio di maggiore antichità. Il
Settecento aveva abituato gli uomini al pensiero che
il paradiso terrestre fosse all’inizio, e la storia non
fosse se non una decadenza; e Rousseau, il grande
innovatore, era in fondo rimasto fermo all’idea bi-
blica, quando attribuì la perfezione allo stato di
natura. Ma del resto non era avvenuto qualcosa di
simile nel processo storico della lingua latina, dallo
sfacelo delle cui declinazioni e coniugazioni erano
sorte le lingue romanze ? L ’evoluzione del linguaggio
come decadenza fu uno dei concetti piu resistenti nel
campo della linguistica, esso ispirò le migliori pagine
del grande linguista Max Miiller, e nonostante il
cambiamento di taluni punti di vista, domina ancora
nella glottologia attuale.
Questa idea di un linguaggio indoeuropeo perfet-
to all’inizio, di cui le parlate storiche non sono che
frammenti, trovò la sua migliore espressione nel-
l’opera dello Schleicher, il quale, partendo dalla com-
parazione delle varie lingue, pretese di ricostruire la
lingua madre scomparsa, e si permise persino di scri-
vere una favola in linguaggio indoeuropeo!
Egli credeva di potere, mediante il confronto delle
varie forme delle diverse lingue, risalire al suono
originario che rifrangendosi nell’organo glottico dei

mento greco, si concluse che il cambiamento è dovuto al fatto


che nella lingua primitiva il raddoppiamento aveva la vocale e al
posto dell’a. Infatti in latino la vocale e, unendosi alla gutturale, la
cambia in palatale (es. ca leggi \a, ce leggi ce). Io faccio le mie riserve
su questa spiegazione; ma la priorità della varietà vocalica indoeuropea
sull’a uniforme del sanscrito è fuori dubbio.

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diversi popoli, aveva determinato la varietà delle
forme. Questo vertice di astrazione sistematica rag-
giunto dallo Schleicher si trascinava però dietro una
pericolosa illusione. Si cominciò a precisare l’idea che
le variazioni di uno stesso suono originario da una
lingua all’altra non fossero dovute a storpiature e ad
arbitrii, ma obbedissero a leggi ferree, le così dette
leggi fon etiche. Per conseguenza, se io ho una parola
in una data lingua indoeuropea, posso, mediante la
conoscenza di queste leggi, stabilire quale altra forma
essa assumerà in altra lingua della stessa famiglia.
Però la realtà non confermò queste illusioni; la
pretesa legge fonetica non fu trovata, o non fu tro-
vata quale si credeva. Le forme corrispondentìsi nelle
varie lingue sorelle non obbediscono a un criterio
rigido; si tratta perciò piuttosto di una tendenza
(cioè di un’approssimazione) anziché di una legge.
E le ragioni di questi scarti erano varie: mancava
alle lingue antiche quell’uniformità che la cultura e
la diffusione della scrittura (fissatrice per eccellenza
dei suoni) hanno fatto raggiungere alle lingue mo-
derne; e si pensò anche alla persistenza di tendenze
fonetiche dovute a linguaggi anteriori, sui quali erano
poi venute a sovrapporsi le lingue indoeuropee, quan-
do gl’invasori arii assoggettarono le altre popolazioni.
Questi residui di pretesi linguaggi non indoeuropei
preesistenti furono detti sostrati; ma questa spiega-
zione diede a sua volta luogo a nuove difficoltà. Se
effettivamente fossero esistite queste lingue preindo-
europee, avrebbe pur dovuto trovarsi, in qualche an-
golo rimasto allo scarto dalle invasioni, qualche
esemplare di dette lingue; ciò che invece non si è
ancora trovato. Cosicché si arrivava a questa incon-
gruenza: che si ammetteva una lingua mediterranea,
parlata dai popoli che poi furono sottomessi dagli

13
Indoeuropei, e si arianizzarono (cioè adottarono la
lingua dei conquistatori), senza che la si potesse indi-
viduare in alcun caso. A poco a poco però si venne
alla conclusione che queste aree linguistiche, se pur
ne erano mai esistite, circondate com’erano dalla
marea indoeuropea, erano scomparse; e che i loro
residui erano da cercare o nella presenza, in seno al
lessico indoeuropeo, di vocaboli aberranti, la cui eti-
mologia non era chiarita dal suddetto lessico {so-
strati), o nella forma aberrante assunta da taluni vo-
caboli indoeuropei nella bocca di gente abituata a
parlare altra lingua (alloglottism o). Si pensò infine
che la violazione delle leggi fonetiche avviene talora
per influsso di fattori a noi sconosciuti, ma che l’in-
dagine poteva a poco a poco mettere in luce, ristabi-
lendo la fiducia nella legge. Cosi per es., alcune leggi
minori, dette di Grassman, di Werner ecc. (dai nomi
dei loro scopritori), spiegano perché la legge fonetica
in taluni casi particolari, e sotto l’influsso di deter-
minate circostanze, sembri violata.
La fiducia nella legge era cosi pienamente rista-
bilita. Dagli studi di questi primi linguisti era emer-
sa intanto una legge di trasformazione dei suoni, che
sembrava offrire la chiave per un grandioso avvenire
della scienza. Fu la cosi detta legge di Schleicher-
Pott-Grimm, comunemente nota come legge di
Grimm, il quale elaborò particolarmente l’ultima
parte di essa, quella relativa alla trasformazione dei
suoni indoeuropei nel campo delle lingue germa-
niche. Noi la esamineremo più avanti.
Ma ad evitare ogni possibilità di errori, le ricerche
furono circondate di una serie di precauzioni meto-
diche che dovevano chiudere per sempre la via alle
etimologie improvvisate, a quelle tendenziose nonché
a quella faciloneria che aveva nel secolo precedente

14
trascinato la scienza nel ridicolo. Fu stabilito quindi
come canone fondamentale che l’affinità di due pa-
role in due lingue diverse della stessa famiglia non
conta nulla se non è suffragata dall’affinità dei signi-
ficati; e che l’affinità tra due parole non appartenenti
a lingue della medesima famiglia non conta nulla,
neanche se concorra l’affinità di significato. Ciò era
del resto una conseguenza rigorosa del concetto di
legge fonetica: è chiaro infatti che se il suono ori-
ginario si rifrange differentemente nell’organo glot-
tico delle varie popolazioni, le identità in lingue di-
verse non sono possibili. Max Miiller anzi arrivò a
formulare il principio che se due parole si somiglia-
no perfettamente in due lingue differenti, non pos-
sono essere identiche. L ’identità vera non è quella
superficiale, ma quella che si stabilisce volta a volta
mediante l’applicazione delle leggi fonetiche.
Cosi si pose il concetta di om ofono fortuito. Si di-
ceva: i suoni sono limitati, le parole sono infinite;
ne viene di conseguenza che molte parole estranee
fra loro possono eventualmente constare di suoni
identici, e darci l’illusione di una ingannevole paren-
tela. Vedremo a suo tempo che questo ragionamento
nasconde in sé un errore fondamentale; ma pel mo-
mento seguitiamo la nostra esposizione.
Tuttavia un piccolo giro d’orizzonte su queste affi-
nità fra parole di lingue assai distanti l’una dall’al-
tra dà risultati che lasciano pensosi. Voi trovate, p.
es., la parola potam ós (fiume) in greco e potom ac
in lingue indigene d’America; cacare in italiano (far
cocchi o caccole, cioè cose rotonde) e cacallo nel-
l’azteco; cocco hflhi, cacao, co\a, cahucu (caucciù),
guaco o guajaco (tutte parole aventi il significato di
frutto rotondo), coccola o giuggiola, che sono varian-
ti; sop-ire in latino e sofà in turco, e in ungherese

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szoba (camera da letto); sippe (generazione) in tede-
sco, pro-sap-ies in latino, zebb (membro virile) in
arabo, sep (amare, generare) in turco, zubu (mem-
bro virile) in siciliano, sub-urra (quartiere meretricio
in Roma); skìvà (ombra) in greco, shew e in copto,
shev-ól (regno delle ombre) in ebraico, schw-arz
(nero, cioè ombroso) in tedesco; geben (dare) in te-
desco, cv-il (dono) in etrusco, Elio-gabalo (dono del
sole) nome siriaco; bantù bum ba (casa), cioè tana
scavata sottoterra, e greco \ata-\ymbas (catacombe);
etiopico tu\-ùl, ital. tugùrio, lat. teg-ere (coprire),
ted. Dach (soffitto), inglese /(nife (temperino), fran-
cese canif, greco ktiéphas (crepuscolo, ma propria-
mente crepa, fessura, da cui filtra un tenue chiarore),
basco nab-ela (coltello), ainu nipe (coltello), greco
tàphos (tomba), siciliano tabutu (feretro), e in lin-
gue australiane tabù (col significato di cosa sacra, in-
toccabile, come sono le tombe e le reliquie dei de-
funti); ted. gard-en (giardino), inglese yard (corte),
ungherese czar da (corte, albergo), etrusco ce\a (do-
no, ma propriamente tazza votiva, ital. chicch-era,
cocc-io, conc-a-), ted. schen\-en (versare da bere, poi
donare), «basco viz-on o giz-on (uomo), lat. ves-ulus
(dio), celto *vesu (dio), greco eu (da vesu, divina-
mente, bene), ebraico isbà (donna, femminile di *vish,
Yish «uomo, dio», cfr. ted. Iseo, figlio di Manno),
ital. Isa, Gisa, Iso-bella (donna bella o donna signora,
femminile di Baal o Belo), Gis-elda (donna eroina),
AdaUgisa (nobile donna), giapponese gesha (donna),
ecc. Si potrebbe continuare cosi per centinaia e cen-
tinaia di pagine.
E allora viene spontanea la domanda: è proprio
vero che si tratta di coincidenze accidentali, o come'
disse il linguista Meillet, di « scherzi di natura » ? È
possibile che queste affinità siano fortuite, anche

16
quando costituiscono masse imponenti? Si risponde
che talora può trattarsi di vocaboli importati da una
lingua all’altra, per causa di commercio o per altre
ragioni, di imprestiti. Ma si possono prendere in
prestito vocaboli riferentisi ai bisogni più elementari
della vita di tutti i giorni, come sarebbe l’acqua, l’om-
bra, l’amore, il nome dell’uomo, quello della donna
(greco gyné, copto jene)? Si importa il nome di un
albero speciale, di una casa costruita con criteri e
gusti locali (es. chalet, Water-closet, ecc.), di un ani-
male esotico, di un frutto e simili; ma come pensare
che i Greci abbiano importato la voce s\i(v)a (om-
bra) dal copto shewe o dall’ebraico sheva (vocale
appena pronunziata, quasi un’ombra di suono), che
ha dato il nome allo Schevol (regno delle ombre)?
l’ebraico patah (vocale aperta) ricorda il patet latino;
vocaboli indicanti l’operazione dell’aprire sono di
quelli che si importano? Noi abbiamo importato
dal francese ouverture, ma qui si tratta di una meta-
fora con un suo significato tutto speciale. Quanto
sopra basta a farci capire che questo dogma degli
omofoni fortuiti, che è uno dei cardini del metodo
dell’attuale linguistica, dev’essere riconsiderato at-
tentamente.
Altra condizione per la sicurezza della ricerca eti-
mologica e dei raffronti linguistici è che le parole
siano prese nella loro forma più genuina ed antica.
Non si ammette in altri termini che io possa ricavare
etimologie dal confronto diretto di parole di lingue
moderne; bisogna risalire al prototipo. E questo va
bene. Ma il guaio è che talora il latino non è il vero
prototipo di fronte alla forma italiana, la quale attra-
verso la tradizione dialettale può risalire a forme
coeve o anche più antiche e genuine delle latine, co-
me talora le forme tedesche moderne sono più ge-

17
2. - L'origine d el linguaggio.
nuine delle forme dell’antico tedesco. Di ciò vedremo
in seguito qualche esempio. E c’è in più da osservare
che non sempre gli anelli intermedii costituiti da
queste forme più antiche sono a nostra disposizione,
e noi perciò in molti casi dobbiamo farne a meno o
ricostruirle per congettura.
Accurata dev’essere poi la trascrizione, perché essa
nasconde il segreto della storia della parola. L ’ingle-
se ten (dieci), per es., non ci dice nulla; ma il ted.
zehn, per via di quellA inutile nella pronunzia, ci
rivela che esso è null’altro che il plurale di zehc
(dito), quindi significa « le dita », da cui poi il signi-
ficato di «dieci». Questo esempio basti per far ca-
pire l’importanza e l’essenzialità di una esatta trascri-
zione; in seguito poi vi farò vedere gl’inconvenienti
e gli errori del feticismo per le trascrizioni precise,
che a volte si risolve in inutile e dannosa pedanteria,
in un atteggiamento pseudoscientifico.

L a l i n g u i s t i c a e i l p r o b l e m a d e l l a r a z z a a r ia . —
La scoperta della parentela delle lingue indoeuropee
accennanti all’esistenza, in tempi remotissimi, di una
lingua madre, da cui tutte erano derivate, fece pen-
sare, come abbiamo detto, a un popolo che l’avrebbe
parlata, e che venne identificato nei cosi detti Arii,
la cui patria originaria fu posta nell’Asia, nell’alto-
piano centrale a oriente del Caspio, bagnato dai fiumi
Jaxarte e Oxus, e confinante a sud con l’Indocush
e col Pamir. L ’emigrazione del popolo ario da que-
sta antica sede avrebbe avuto luogo in varie direzioni
(verso l’India, verso l’Iran e verso l’Europa) pel so-
praggiungere di una grande ondata di freddo, di cui
ci è rimasto il ricordo in un celebre passo al principio
del Zendavesta (libro sacro dell’Iran).
La parola Arii (che diede origine al nome del-

18
l’Iran) è variamente interpretata; sembra tuttavia
non significare altro se non capri o guerrieri, lat. vir,
0 heros, ted. H err (signore); e in effetti la parola Aru
che ancor si trova nel celtico e nel greco àristos (no-
bile), ha conservato il significato di «sig nore»; epi-
teto bene appropriato a una casta di guerrieri, i quali
nei vari territori da essi conquistati si costituirono in
casta di dominatori. Queste prime deduzioni, e più
che deduzioni, intuizioni, furono poi estese e com-
pletate mediante ricerche linguistiche. Un viennese,
Giulio KJaproth, trovò che il nome della betulla (lat.
betula, da abet-ula, quindi una varietà di abete), la
quale in sanscrito si chiama bhuria e in russo bereza
(1), era il solo nome di albero che si trovasse in Euro-
pa e in India: e ne concluse che, siccome la be-
tulla è un albero nordico, e nell’India si trova solo
nelle pendici meridionali dell’Imalaia, i popoli emi-
grati dall’altopiano centrale nel discendere in India
non vi trovarono altri alberi da essi conosciuti all’in-
fuori della betulla. L ’illazione è di scarso valore, ma
era importante il fatto che uno studioso avesse avu-
to l’idea di servirsi dei nomi della fauna e della flora
per risolvere il problema delle origini arie; iniziativa
che diede nascita a una nuova scienza, detta Paleonto-
logia linguistica, il cui concetto si può riassumere co-
me segue: se il nome di un albero, di un animale o
di una istituzione civile si trova nelle lingue di tutti
1 rami della famiglia indoeuropea, o per lo meno in
due lingue di due rami diversi della detta famiglia,
e che non hanno presumibilmente avuto tra loro rap-
porti commerciali o culturali, come ad esempio, Gre-
ci e Indiani, Germani e Latini, latini e iranici eec.,

(1) Questa parola equivale, come vedremo, a birb e, perqu- e lat.


quercu-s: indica perciò anche la quercia. Ma ciò a quel tempo non
era neanche sospettato.

19
noi possiamo concludere che questo oggetto era co-
nosciuto dagli Arii prima che avvenisse la separazio-
ne dei vari rami della famiglia, che dunque esso si
può considerare come elemento appartenente alla fase
unitaria, cioè all’indoeuropeo primitivo, o con locu-
zione più breve al periodo indoeuropeo senz’altro.
Se viceversa un nome si trova in una lingua o in un
gruppo di lingue e non in altri, si conclude l’oggetto
indicato dal nome essere un’acquisizione posteriore
e che non appartiene al periodo indoeuropeo. Trovia-
mo, p. es., che il latino dice rex (re) e il sanscrito
rajan; se ne deduce che l’ordinamento monarchico
appartiene al periodo unitario. Estendendo le ricer-
che a tutti gli elementi della civiltà, ci si può cosi
fare un’idea dell’agricoltura, degli animali domestici,
dell’ordinamento politico, delle credenze religiose ecc.
e ricostruire nel suo insieme il patrimonio civile de-
gli Indoeuropei indivisi.
Fu cosi che tra il 1859 e il 1863 si giunse alla
grandiosa sintesi dello svizzero Adolfo Pictet: « L e
origini indoeuropee e gli Arii primitivi. Saggio d i pa-
leontologia linguistica ». Il difetto di questa opera
è che l’autore parte da un principio posto a priori-.
che cioè la patria originaria degli Indoeuropei sia la
Battriana. Questo arbitrio iniziale toglie non poco del
suo valore a un’opera per più rispetti ammirevole.
Si è rimproverato al Pictet di fare molte etimologie
ad orecchio (e si sa che in questi casi si obbedisce
quasi sempre al bisogno di puntellare una tesi pre-
concetta); ma più grave difetto è a volte la mancan-
za di rigore logico. Per esempio, il Pictet riconosce
che il nome del cammello è semitico, ma tuttavia,
siccome il cammello è indigeno nella Battriana, con-
clude ugualmente che dev’essere stato conosciuto da-
gli Arii. La coerenza avrebbe richiesto che, poiché

20
il nome, secondo lui, non è ario, la cosa da esso desi-
gnata non dovesse essere ritenuta appartenere alla
civiltà originaria degli Arii. Ma ciò avrebbe distrutto
la tesi delPorigine battriana degli Arii.
Il libro del Pictet però ha sempre un grande valo-
re, in quanto fu il primo tentativo di una sintesi gran-
diosa, costruita con idee scientifiche, benché queste
poi fossero difettosamente applicate. L ’Europa vide
risuscitare innanzi ai propri occhi il misterioso pae-
saggio della sua storia primitiva. Con Pictet ha ini-
zio la letteratura sul cosi detto Paradiso indo-eu-
ropeo : gli Arii vi sono rappresentati come un popolo
pio, tutto dedito all’agricoltura e alla pastorizia, os-
sequente alle idee morali, laborioso, ordinato, corag-
gioso, e per ciò stesso predestinato al dominio sugli
altri popoli. Lo sciovinismo e il razzismo trovarono
in questa letteratura a tinte alquanto romanzesche
una miniera inesauribile di argomenti pseudoscienti-
fici per l’apoteosi della razza aria.
L ’argomentazione piu forte con cui il Pictet ap-
poggiò la sua tesi che la culla della razza aria fosse
la Battriana è questa: che ivi ci sono soltanto tre
stagioni (inverno, primavera, estate) e che appunto
i nomi di queste tre sole stagioni sono del periodo
indo-europeo. Ma gli si osservò che Tacito aveva det-
to la stessa cosa della Germania e dei Germani: « I
Germani ignorano il nome e i frutti dell’autunno));
perciò la conclusione in favore della Battriana non è
perentoria. E non mancarono altre critiche appuntate
piu specialmente sul metodo: è proprio vero che, se
un nome manca nelle varie lingue indo-europee, la
cosa da esso indicata doveva essere sconosciuta ? Degli
Europei, p. es., possono andare in America, qui tro-
vano che un certo tipo di automobili è detto jeep (1),
O ) Lo confronterei con l’etrusco gapos, inglese cab (carrozza).

21
r..
ed essi possono abbandonare il loro antico vocabolo
per appropriarsi il nuovo, anche quando parlano la
loro lingua. Una pratica di questo genere dev’essere
stata frequente presso i nomadi della preistoria, in
quanto certi animali erano differenti per qualche
particolarità da un luogo all’altro, e il nome indige-
no serviva a meglio distinguere tali varietà. I gruppi
indoeuropei che migravano alla conquista di nuovi
territori potevano cosi aver perduto benissimo i loro
vocaboli, sostituendoli con vocaboli indigeni. I fran-
cesi hanno la parola papier, gl’italiani la parola carta;
ma forse che possiamo inferirne che il papyrus fosse
sconosciuto ai loro antenati latini?
Con queste critiche un nuovo elemento s’inseriva
nella metodologia scientifica, ed era il concetto del
vocabolo preso a prestito o importato, che doveva
poi prestarsi ad applicazioni cosi esagerate, da creare
tutta una dottrina dei sostrati, della quale in seguito
mostreremo la falsità. Ma per intanto il criterio di
ricostruire la preistoria con l’aiuto del lessico conti-
nuava a dare importanti risultati. Nel 1870 com-
parve un’opera di V. Hehn (ripubblicata poi nel
1887) che aveva per titolo: a L e piante coltivate e gli
animali dom estici nel loro passaggio dall’Asia in
E u r op a». L ’autore vi fa un’osservazione notevole:
non basta, egli dice, accertarsi che nei lessici delle va-
rie lingue ie. ci siano determinate parole, bisogna
anche accertarsi del loro significato. Il cavallo, p. es.,
è indicato come parola comune alle varie lingue ie.;
ma come si fa a concludere, dalla semplice presenza
di questo vocabolo, che il cavallo era allo stato dome-
stico, che quindi l’addomesticamento del cavallo è
un elemento compreso nel quadro della civiltà ie. ?
Non poteva il cavallo essere allo stato selvaggio? Ma
allora il quadro cambia: voi non potete stabilire qua-

22
le estensione ebbe il fenomeno dell’addomesticamen-
to del cavallo nel periodo ie. Hehn si oppose poi al
Pictet, il quale aveva sostenuto che gli Arii erano
rimasti allo stato indiviso fino all’età dei metalli,
asserendo invece che la separazione dei vari gruppi
ie. aveva avuto luogo nel periodo neolitico.
La teoria delle parole prese a prestito ebbe applica-
zione nell’opera di Hehn, il quale, avendo creduto
che molte parole ie. del periodo unitario fossero state
prese a prestito dal lessico semitico, concluse che le
patrie rispettive di queste due razze fossero origina-
riamente contigue. Contro questa veduta si pose in-
vece il Tomaschek, secondo il quale gl’indoeuropei
avevano preso a prestito molti vocaboli dai Tartari e
dagli Ugro-finnici : quindi per lui la patria degli Indo-
europei doveva essere posta in vicinanza della sede
di questi popoli.
La controversia sull’origine degli Indoeuropei inte-
ressava sempre più vasti strati di pubblico: in concor-
renza coi linguisti vennero a prender parte alla disputa
antropologi, e in seguito archeologi; ma specialmente
gli antropologi, trattandosi di razze, credevano di
avere anch’essi una parola da dire. Molti di costoro
credevano all’origine asiatica degli Indoeuropei; ma
ecco che un geologo belga, J. J. D’Omalius d’Halloy,
in un suo trattato di etnografia, viene ora ad affermare
che i conquistatori arii dell’India erano partiti dal-
l’Europa. Le sue argomentazioni non erano di natura
linguistica, e si possono cosi riassumere: gli Arii erano
biondi e il tipo biondo è predominante in Europa,
mentre in Asia si trova solo sporadicamente: dunque
l’Europa fu il centro d’irradiazione delle orde bionde
che conquistarono il mondo. Del resto, aggiungeva,
se gli Arii fossero venuti dall’Asia, troveremmo nella
loro mitologia allusioni ad elefanti e cammelli, men-

23
tre invece non ve n’è traccia. Alla tesi dell’origine
europea degli Arii aderì anche un linguista inglese,
il Latham : trovando molte somiglianze lessicali fra le
lingue lituslave e il sanscrito, egli espresse l’opinione
che il ramo che andò a conquistare l’India fosse par-
tito dalle regioni del Baltico.
Questa idea di fare dell’Europa la culla della razza
dominatrice cominciò quindi a guadagnare terreno,
sopratutto a causa del mescolarsi nella controversia di
idee scioviniste e razziste. Nel 1868 un celebre india-
nista, il Benfey, osservò che nell’indoeuropeo primiti-
vo mancavano i nomi del leone, della tigre e del cam-
mello; dunque gli Indoeuropei, nel periodo unitario,
non abitavano l’Asia centrale. Propose perciò di assu-
mere come luogo d’origine della razza aria le pianure
steppose a nord del Mar Nero. Finalmente nel 1871
Luigi Geiger sostenne che la patria degli Indoeuropei
fosse addirittura la Germania. Non aveva lo storico
antico Tacito detto della Germania che essa era « la
fabbrica delle razze » (Vofficina gentìum ) ? Geiger si
fondava su tre nomi di alberi: quello della betulla,
quello del faggio e quello della quercia. Gli studi les-
sicali facevano concludere che questi tre alberi fos-
sero i piu diffusi nel periodo indiviso; e d’altro canto
era noto essere stato il faggio predominante, in tempi
antichissimi, nella Germania centrale. Se non che, fu
osservato che il nome del faggio non è uguale nel
gruppo delle lingue europee e nel gruppo delle lin-
gue indoeuropee dell’Asia (sanscrito, zendo): e allora
la costruzione di Geiger crolla: si può ammettere
tutt’al più che il gruppo indoeuropeo occidentale
risiedette indiviso per un certo tempo nell’Europa
centrale.
Tre erano dunque gli argomenti di coloro che so-
stenevano la tesi dell’origine europea: due di questi

24
argomenti erano di natura linguistica, da un canto i
nomi del leone, della tigre e del cammello (Benfey),
dall’altro quelli del faggio, della betulla e della quer-
cia (Geiger); il terzo argomento era di natura antro-
pologica: che cioè il centro di diffusione dei biondi è
l’Europa (D’Omalius). Ma era poi sicuro che gli Arii
fossero biondi? Né i Celti delle Alpi (razza alpina),
né i romani dovevano essere biondi; altrimenti non
avrebbero notato con sorpresa la predominanza di
questo colore fra i Germani. C’era perciò chi sostene-
va la tesi che nella razza aria ci fosse il biondo e il
bruno; o anche che il termine « a rio» indicasse un
insieme di popoli aventi una medesima cultura, e non
necessariamente di una medesima razza ed origine:
con che la tesi dell’origine europea si trovava di nuovo
in pericolo. Ma le convinzioni che non poteva im-
porre a titolo perentorio la scienza, potè invece im-
porle lo sciovinismo: dato che in Germania la pre-
valenza era dei biondi, era impossibile non ammette-
re che la razza aria non fosse bionda. Un francese,
il De Gobineau, scrisse tre volumi per dimostrare
che tutta la storia della civiltà si compendiava nella
lotta dei biondi contro i bruni, i primi tendenti a
formare stati saldamente gerarchici ed autoritari, con
alla testa le aristocrazie del sangue, i secondi tendenti
alle strutture colloidali della democrazia e all’anar-
chismo endemico: quelli, rappresentanti i periodi del
fiorire delle culture; questi, rappresentanti tipici di
tutte le decadenze. E un filosofo, brillantissimo scrit-
tore, ma filologo soltanto a metà, Federico Nietzsche,
osservava che se anche nelle società arie si trovavano
i bruni, questi erano elementi aggregati sorti dallo
incrocio dei dominatori coi dominati. La vera, la
genuina razza aria era rappresentata dalle aristocra-
zie, mantenutesi immuni, mediante il sistema delle

25
caste, dai contatti impuri: biondi erano gli Dei, bion-
di, gli eroi di Omero; cerulo era l’occhio di Siila,
bionda, almeno in una certa percentuale, l’aristocra-
zia romana. Queste osservazioni, che non apparten-
gono solo al Nietzsche, non mancano di acutezza; ma
più acuta fu l’analisi delle idee morali costituenti la
civiltà antica. Il Nietzsche scoperse che vi sono innu-
merevoli contraddizioni nelle nostre idee morali, le
quali, volta a volta esaltano sentimenti opposti, come
la fierezza e la modestia, il pudore e l’ardire, la forza
. e la mansuetudine, la generosità e la parsimonia, lo
«spirito d’avventura e la solidità ecc.; e vide in que-
ste contraddizioni l’esistenza di due strati comme-
scolati, e cioè di due sistemi morali, la morale dei
padroni e la morale degli schiavi, quella dei domi-
natori e quella dei vinti. L ’una esaltava le qualità
della razza dominante, e qualificava spregevoli quelle
della razza inferiore (la modestia diventa timidità,
l’umiltà abbiettezza, la mansuetudine debolezza, la
parsimonia grettezza, la solidità spirito routìnier e di
sottomissione e rassegnazione ecc.); l’altra faceva il
contrario (la fierezza è bollata come superbia, la
forza è qualificata prepotenza e brutalità, l’ardire
sfrontatezza, la generosità sperpero, lo spirito d’av-
ventura mancanza di solidità ecc.). Va notato che il
nucleo essenziale delle idee del Nietzsche su questo
argomento si trova già nel « Gorgia » di Platone; cosa
che diminuisce di molto i suoi meriti di filosofo e
pensatore, assegnandogli piuttosto la parte di divul-
gatore brillante e di genialissimo scrittore.
Tutto questo, benché non fosse solidamente scien-
tifico, era però altamente suggestivo, e dava forza
alla tesi sciovinista, la quale era divulgata da scrittori
facili e brillanti, e capaci di far presa su vasti strati
dell’opinione pubblica. Ma tornando agli specialisti,

26
i quali sono quelli che qui maggiormente c’interes-
sano, ecco V. Hehn tornare all’assalto della tesi euro-
peista con un nuovo argomento. Il nome del sale,
egli disse, esiste solo nelle lingue europee. Dunque
gl’indoeuropei indivisi non conoscevano il sale e lo
dovette conoscere soltanto il ramo europeo, quando,
nella sua migrazione, raggiunse le rive del Caspio.
Dunque ancora la sede originaria non era l’Europa.
Gli si può obbiettare che questo nome potrebbe be-
nissimo essersi perduto nel ramo asiatico, per aver-
ne esso, nelle nuove sedi, adottato un altro, o fatto
addirittura a meno di questo condimento; oggi però
in seguito alla scoperta della lingua tocaria (Tur-
kestan orientale) sappiamo che il nome del sale (salyi)
esisteva anche nel ramo asiatico.
Su queste due opposte posizioni sembrava dunque
sempre piu polarizzarsi la polemica, e gli Europisti
sembravano anzi guadagnare sempre più terreno. Nel
1878 Teodoro Poesche emise l’opinione che l’origine
della razza bionda fosse da cercare nel territorio pa-
ludoso bagnato dal Pripet e dalla Beresina, perché
ivi è frequente, più che in qualsiasi altra parte del
mondo, l’albinismo. Aggiungeva però un particolare
interessante, e cioè che questa origine spiega l’abitu-
dine di costruire le abitazioni su palafitte, mantenuta
poi anche in Italia, in terreni che più non esigevano
tale precauzione. Osservando poi che gli eroi d’Ome-
ro non conoscevano l’equitazione, deduceva che gli
Indoeuropei primitivi non conoscevano il cavallo, che
dunque non abitavano nella steppa. Un altro, il Pie-
trement, osservò che la patria degli Indoeuropei do-
veva essere il sud ovest della Siberia, basandosi su un
testo dei libri sacri della Persia, ov’è detto che il più
lungo giorno dell’estate è uguale a due volte il giorno

27
più breve dell’inverno, e che la più lunga notte del-
l’inverno è uguale a due volte la notte più corta del-
l’estate; cosa che, secondo lui, ha luogo al 49° lati-
tudine nord. Gli studiosi ebrei (Hommel, Giovanni
Schmidt ecc.) pensarono a ravvicinare gli Arii ai Se-
miti, che la dottrina allora corrente diceva oriundi
dell’Arabia. Hommel (« I nomi dei mammiferi presso
i Semiti meridionali », 1879) osservò che ci sono Semi-
ti meridionali (siro-palestinèsi e arabi) e Semiti set-
tentrionali (assiri e babilonesi). Orbene, in questi due
gruppi il nome del cammello è comune, ma non
i nomi della palma e dello struzzo. Dunque i Semiti
settentrionali non possono essere venuti dal sud, do-
po aver vissuto allo stato indiviso coi meridionali;
viceversa quelli del sud possono bene essere venuti
dal nord, perché il cammello è indigeno nell’Asia
centrale. Osservò poi che fra i nomi comuni ai due
gruppi, e cioè fra i nomi della lingua del periodo
unitario, figurano nomi di animali che non si trova-
no in Arabia, quali il bue selvaggio, la pantera e
l’orso. Viceversa la vite, l’ulivo, il fico, la palma han
nomi comuni solo nelle lingue del gruppo meridio-
nale, il quale quindi, dopo essersi staccato dall’altro
ramo, deve aver vissuto allo stato indiviso nella Me-
sopotamia.
Ma la Mesopotamia fu soltanto una tappa dei Se-
miti nella traiettoria della loro diffusione; la culla
dev’essere stata più a nord, in vicinanza e anzi in
contiguità della patria degli Arii, perché diversi nomi
sono comuni ad Arii e Semiti: toro-, sem. tanni, ie.
s-taura; corn o: sem. garnu, ie. \arna; oro-, sem. ha-
rudu, ie. gharata; argento-, sem. tarpu, ie. sirpara;
vino: sem. wàìnu (vite), ie. waina. Altri due nomi
sono comuni al sumero e all’indoeuropeo: rame-.

28
sum.urud, ie. randa (1); falce: sum. balag, ie. pa-
ranti. Queste parole appartengono al fondo primitivo
in entrambe le famiglie (ie. e semitica); se ne deve
dunque concludere una contiguità d’origine. Ed egli
opinò che la patria originaria fosse la regione a sud
del Caspio.
Ed ecco nel 1883 compare la più brillante e insie-
me la molto fragile teoria che appassionò tutta l’Eu-
ropa colta: quella dei dolicocefali biondi e della raz-
za nordica. Gli studi antropologici avevano messo in
luce la preponderanza, in Germania, del tipo biondo
a cranio allungato; la razza aria dunque, oltre che
bionda, doveva essere dolicocefala. L ’autore, il Penka,
un viennese, le cui due opere: « Origines ariacae » e
« Herì{unft der Arier » (Origine degli Arii) uscirono
rispettivamente nel 1883 e nel 1886, pone la culla
degli Indoeuropei nella Svezia meridionale. C’era
però una grossa difficoltà, perché all’epoca della pri-
ma comparsa (secondo si credeva allora) dell’uomo
in Europa, la Svezia era coperta di ghiacci. Penka
girò l’ostacolo, facendo arrivare coloro che poi furo-
no i progenitori degli Arii, quando i ghiacci si erano
ritirati. Il genere umano, secondo lui, nasce nell’Eu-
ropa centrale; poi viene un forte freddo: gli uomini
meno resistenti vanno verso il sud, in climi più tem-
perati; i più robusti rimasero nell’Europa centrale
e occidentale, dove vissero di caccia. In questo clima
severo, e in questa vita di movimento e di avventura,
(1) Hommel non s’accorge che questo nome urud è in fondo iden-
tico a quello di harudu, che abbiamo visto significa « oro ». Connessi
sono ted. G old (oro), e G e li (denaro), il nome greco dei C haldaioi
(caldei, fabbri, metallurgi), e forse quello dei C halybes; lo slavo z oloto
(oro) e forse anche lat. solidum (soldo). La rad. è car, gar come in
greco (JOer-ythr-ós (rosso), lat. (c)ruf-us, russo krasniì (rosso), greco
chrys-ós (oro), lat. (c) aur-um (oro), ecc. Il lat. crud-us (rosso, san-
guinante) corrisponde esattamente al semitico harudu (oro, metallo
rosso) e al greco ( k)eryth-rós (rosso).

29
essi divennero più forti, più coraggiosi, amanti del
rischio, dominatori e violenti; insomma, una razza
di guerrieri. In questo clima freddo, la loro pelle si
depigmentò, gli occhi divennero celesti, le stature
gigantesche, i capelli biondi; e quando l’ondata di
freddo cessò, essi, inseguendo le renne, della cui cac-
cia vivevano (il regime carneo aveva anche molto
sviluppato i loro muscoli), s’avanzarono verso nord
e si stabilirono nella Danimarca, dove si sviluppò
una civiltà che oggi noi conosciamo per via dei molti
rottami di utensili di cucina trovati dagli archeolo-
gi, e denominata civiltà di Kjoe\ \enm oeddinger. Co-
storo furono gli antenati degli Arii. Col bel tempo,
poi, tornarono a rifluire verso il nord coloro che
erano andati nel sud. Sono esseri più fragili, a pelle
scura, a capelli bruni, dediti a opere di pace, miti,
facili a lasciarsi dominare. Gli Arii li sottomisero e
stabilirono il loro dominio su tutta l’Europa.
Il Penka appoggiò questa sua teoria (che fu qua-
lificata «rom anzo») con argomenti linguistici, ri-
velatisi tutti molto fragili. Il nome dell’anguilla è
uguale nel lituslavo, nel latino e nel greco: pure non
havvi anguille né nel Mar Nero né nel Mar Caspio;
ma si risponde: questo nome significa «serpentel-
lo», e il serpente era conosciuto da tutti. Il nome
dell’ostrica è uguale nel celto-slavo e nel latino e
greco. Ma i linguisti credono invece che questo nome
sia importato. L ’argomento principe del Penka è
però quello noto sotto la denominazione di linea del
faggio. Questo albero in Europa si trova solo fino
a una linea che va da Koenigsberg alla Crimea; a
oriente di questa linea non si trova più. Il nome del
faggio (ted. Buche, lat. fagus) non può dunque ave-
re avuto origine che in Europa. Ora se quest’albero,
a oriente della linea già detta, non si trovasse proprio

30
piu, l’argomento potrebbe avere qualche valore; ma
dopo uno spazio nel quale è assente, esso ricompare
in Asia Minore e a sud del Caspio. Allora l’argomen-
to non ha più valore. Il nome della betulla è uguale
in tutte le lingue ie. ; ma la betulla si trova anche
in Asia: non si può dunque dedurne nulla. Il nome
del pino è uguale nel latino e nel sanscrito solamente:
non si può dunque stabilire se viene dall’Asia o dal-
l’Europa.
Un professore di Jena, O. Schrader, è autore della
più apprezzata monografia su questo argomento
« Comparazione linguistica e preistoria », 1883). Egli
si propose di sottoporre a revisione critica tutto quan-
to si era scritto fin allora sull’origine degli Arii. Ma,
secondo lui, dall’esame della fauna ie. non si può
trarre altra conclusione che questa: gli Indoeuropei
conoscevano gli animali domestici, ma non avevano
pollai, perché l’unico nome di volatile domestico co-
mune alle varie lingue ie. è quello dell’oca; dall’esa-
me della flora ie. risulta che i nomi di alberi comuni
alle varie lingue sono molto pochi, mentre sono nu-
merosi i nomi di alberi comuni al solo gruppo euro-
peo: se ne conclude che gl’indoeuropei dovevano
vivere in un terreno poco alberato, e che solo il grup-
po europeo è vissuto in regioni boscose. In base
a questi risultati, Schrader fissò la culla degli Indo-
europei nella regione del corso medio del Volga, per-
ciò nella steppa. Ma si oppone un dato di fatto im-
portante: il nome dell’orso è comune a tutte le lingue
ie., questo animale doveva dunque trovarsi nell’am-
biente primitivo degli Indoeuropei. Invece nella step-
pa l’orso non si trova. Crede inoltre lo Schrader che
gli Indoeuropei conoscessero soltanto il rame, non
gli altri metalli; ma che la maggior parte dei loro
utensili, nel periodo indiviso, era ancora in pietra le-

31
vigata: la separazione e migrazione dei vari rami
sarebbero dunque cominciate nel periodo neolitico
(o meglio eneolitico). Possedevano allora pochi ani-
mali domestici, e non è certo che fra questi ci fosse
anche il cavallo.
Nel 1891 un dotto celtista, il Rhys, mise avanti
un’idea nuova. Egli osservò l’esistenza nel celtico di
due diversi strati linguistici, il goidelico o celto pro-
priamente detto, che ha il suono K (es. ech « cavallo »)
al posto in cui il bretone o gallico preferisce il suono P
(es. ep-aul « cavallo »); cosi il goidelico chiama il fab-
bro creidne, parola che non significa altro se non
pritano o britanno. Un’opposizione simile si trova fra
il latino (es. equus «cavallo», (K) uter «quale dei
due ») e il gruppo osco-umbro (es. puter — lat. uter),
nonché fra il greco jonico (es. i k k os « cavallo », kpté
« allora ») e il greco dorico (hippos « cavallo », potè
« allora », póteros = lat. uter). Secondo lui, l’ondata
etnica che impose questi cambiamenti (cioè il cambio
di K in P) doveva venire da un centro unico; perché
altrimenti sarebbe inconcepibile che in punti cosi di-
versi del mondo ario si verificasse lo stesso fenomeno,
il quale, secondo lui, non si riscontra in nessun’altra
lingua. Sempre secondo lui, il popolo che impose que-
sto cambiamento non era ario, ma arianizzato.
Nel 1892 Herman Hirt oppugnò l’opinione dello
Schrader, che la patria degli Indoeuropei fosse la
steppa. Abbiamo visto che a questa tesi si opponeva il
nome ie. dell’orso. Ma si oppone anche il nome del-
l’ape, la quale, trovandosi nella steppa, avrebbe dovuto
avere un nome ie., mentre invece questo nome non
appartiene al fondo primitivo del lessico ie. Infine,
l’esistenza di tre sole stagioni invece di quattro non si
accorda con la meteorologia della steppa.
Hirt osservò che il nome del pino è comune alle

32
varie lingue: ma questo nome non è quello che si
riallaccia alla radice di lat. pinus (comune al latino-
greco e al sanscrito solamente) (1), sibbene l’altro che
si riallaccia alla radice *dru- (in greco indica la quer-
cia), che in origine indicava il pino. Inoltre il culto
della quercia (#perqu-) (2), comune a tutti i rami della
famiglia, mostra ch’essi non sono cresciuti in un paese
di steppe, ma in regioni boscose e precisamente in un
ambiente primitivo. Un tal paese sarebbe la regione
del Baltico; soluzione questa tanto più accettabile in
quanto, secondo lui, le lingue lituslave hanno caratteri
arcaici.
Intorno al 1900, in ima serie d’imponenti lavori,
l’antropologo Giuseppe Sergi cercò di risolvere il pro-
blema degli Arii con criteri sopratutto antroprome-
trici. Secondo lui, l’Europa attuale è abitata da due
grandi razze, una di origine africana con cranio allun-
gato (dolicocefala) e faccia sottile (leptoprosopa), e
una di origine asiatica con cranio rotondo (brachice-
fala) e faccia larga (platiprosopa). Gli uomini della
prima razza, che in sostanza son quelli che comune-
mente designiamo col nome di mediterranei, occupa-
rono l’Europa in tempi preistorici, spingendosi fino
all’Inghilterra e alla Scandinavia; ma col tempo, per
le influenze combinate del clima e del regime di
vita, quelli che abitavano la zona settentrionale di-
ventarono di più alta statura e più muscolosi, acqui-
stando anche la tinta chiara, gli occhi celesti e i
capelli biondi; gli uomini del sud rimasero invece
fisiologicamente più gracili, più piccoli e di tinta
più carica. Su questa popolazione omogenea razzial-

(1) Sanscrito pìtu-dóru (albero pino). D ura corrisponde al lat.


forum , gr. dory (asta, ramo d’albero).
(2 ) Io trovo questo nome in Perpignano (Francia) « albereto »,
con allusione ai famosi bagolari.

33
3, - L 'origin e d el linguaggio.
mente, benché a caratteri somatici diventati cosi dif-
ferenti, venne un bel giorno a riversarsi un’ondata
d’invasori provenienti dall’Asia. Questi sono i veri e
propri Arii, che dunque sembrano corrispondere ai
Celti. L ’ondata attraversò l’Europa centrale e di qui
poi dilagò in tutte le direzioni: la massa rimase sca-
glionata intorno alla fcatena delle Alpi (Austria,
Italia settentrionale, Francia, Germania meridiona-
le), mentre soltanto poche punte si spinsero verso le
regioni periferiche dell’Europa. In questa estremità
gli Arii pertanto rimasero in minoranza di fronte
alle popolazioni eurafricane; troppo pochi di numero
per alterarne i connotati somatici, non riuscirono ad
altro se non a farsi assorbire. In compenso però im-
posero ad esse la loro cultura: giungendo come do-
minatori, importarono gli ordinamenti politici, la
religione e la lingua; subirono tutt’al piu qualche
influenza deviatrice. Cosi si spiega che tutta l’Europa
sia diventata un paese di cultura aria, mentre dal
punto di vista razziale essa non è aria se non nella
zona centrale; e pertanto le popolazioni della Sicilia
e della Svezia sono, da questo ultimo punto di vista,
piu affini tra loro che non quelle della Toscana e
della Lombardia, o quelle della Prussia e della Svezia.
Il punto debole di questa teoria è uno, ma formida-
bile: come mai queste popolazioni eurafricane, che
prima dell’arrivo degli Arii avrebbero dovuto parlare
linguaggi non indoeuropei, viceversa sembra che, per
quanto indietro si risalga nel tempo, non abbiano mai
parlato altri linguaggi se non di tipo indoeuropeo?
Tutte le complicate ipotesi del Sergi, e recentemente
del Patroni (che professa una dottrina alquanto affine),
non hanno mai potuto risolvere questa difficoltà.
Nel 1913 Sigmund Feist pubblicò a Berlino un libro
sull’origine degli Arii. Quest’opera risente alquanto

34
della dottrina del Rhys e di quella del Sergi, ma rie-
laborate in senso originale. Per Sergi i Celti sono gli
Arii che avanzano dall’Asia verso il cuore dell’Europa,
e pongono il loro quartiere generale a cavallo delle
Alpi; pel Feist, questa ondata d’invasori Celti, che
importarono in Germania il cavallo e le brache pro-
prie dei popoli cavalieri, è aria, ma veri Arii per lui
non sono gli antichi Germani, i quali appartenevano
alla razza indigena europea, e furono soltanto indoeu-
ropeizzati dai Celti (1). Abbiamo già incontrato un’i-
dea simile nel Rhys, quando dall’esistenza di due
diversi strati linguistici, quello del suono K e quello
del suono P, dedusse l’esistenza di un’ondata d’inva-
sori parlanti una lingua aria, ma non di razza aria.
Il libro del Feist è fine e bene informato, ma non mi
sembra che, tutto sommato, abbia fatto progredire la
questione (2). E vi dirò anche il perché, il quale è poi
un perché che si applica a tutte le teorie esposte fin
qui.
A demolire tutti questi argomenti, che abbiamo vi-
sto sfilare innanzi a noi, e che riassumono l’opera di
varie generazioni d’intellettuali in più di un secolo,
basta una sola osservazione. Il criterio della Paleonto-
logia linguistica, cosi convincente a prima vista alme-

(1) Differisce dunque dal Sergi in questo: che pel Sergi i Ger-
mani sono mediterranei nordici, mentre per lui appartengono alla razza
europea nordica, non avente nulla a vedere coi mediterranei.
(2) Un’osservazione felice e, a mio parere, definitiva del Feist, è
questa: poiché recentemente fu scoperta in Asia l ’esistenza di una
lingua tocaria affine alla latina, se ne deduce giustamente che dal-
l’Asia è partita l ’invasione aria alla conquista dell’Europa. Meno felice
è il Feist quando sostiene che l ’accento germanico, il quale poggia sulla
radice delle parole, non è originariamente ario: come infatti avrebbe
potuto un popolo non ario, apprendendo una lingua ad esso stranie-
ra, avere questo stupefacente senso etimologico, da distinguere nelle
parole il radicale dagli allargamenti e dalle agglutinazioni, se nem-
meno gli Arii riuscivano a distinguerli? Ponete che i Germani, come
anche gii Etruschi, siano protoarìi: allora tutto diventa chiaro e logico.
Tornerò su ciò in. altra sede.

35
no in linea teorica, non ha valore se non nel presup-
posto che, quando il primitivo pronunziava, p. es., la
parola «cavallo» o la parola «quercia», intendesse
alludere al genere cavallo e al genere quercia, con
esclusione di qualsiasi altro oggetto; o in altri termini
nel presupposto che le parole primitive avessero un
significato preciso e ben individuato; perché in effetti
sarebbe stato assurdo, allora come oggi, che un uomo
applicasse il nome di un oggetto ad altro oggetto, ciò
che avrebbe avuto per conseguenza, fra l’altro, di ba-
belizzare il linguaggio e renderlo inadatto alla sua
specifica funzione. Ma se invece il nome, p. es., del
cavallo, non è in origine il nome di un animale deter-
minato, ma un nome che significa genericamente
« d io » o qualcosa di simile, allora è concepibile che
varie tribù della medesima razza e della medesima
lingua, disperdendosi per nomadismo, o per conqui-
sta in differenti territori, applicassero lo stesso nome,
ciascuna nel proprio nuovo ambiente, agli animali del
luogo, quindi, p. es., al cane, al capro, al maiale e via
dicendo, cosi come certamente avranno applicato il
nome di « cibo » qua al frumento, là al dattero, in un
terzo luogo al latte, a seconda che l’ambiente offrisse
loro l’uno o l’altro prodotto; e che poi queste stesse
tribù, ritornando per una causa qualsiasi a vivere in
conglomerati unitari, riportassero questo stesso nome,
con leggere varianti di pronunzia, ma con significati
molto differenti, in una lingua ridiventata unitaria.
Si spiega cosi il fatto sorprendente e pur reale, che
pochi nomi, con le loro infinite varianti, servano, in
tutte le lingue di una famiglia e anche di famiglie
affini, alla denominazione di centinaia e centinaia di
animali differenti, e viceversa che i nomi più dispa-
rati indichino a volte un medesimo animale o un
medesimo albero. Allora che cosa resta del criterio

36
cosi sensato e lucido della Paleontologia linguistica,
secondo il quale un nome che si trovi identico in
tutte le lingue ie. appartiene al fondo primitivo e,
in caso diverso, no? In caso di concordanza (ma solo
entro certi limiti) il criterio resta (1); ma in caso di
discordanza, l’illazione contraria non è affatto peren-
toria. Non basta in altri termini scorrere i vocaboli
delle varie lingue, in base al criterio della corrispon-
denza dei significati; ma vedere anche al contrario
se una data radice non si trovi nelle varie lingue tra-
sferita a significare altri oggetti. La parola che nell’ie.
indica la betulla *bir\e, nella variante *perqu-, lat.
quercus, indica la quercia, nell’it. perg-ola, la vite;
la parola che in tedesco indica l’abete, Tarine, in
ebraico indica la palma, Tarn; la parola che indica
la quercia o il pino *dru, *derva, indica anche il te-
reb-ynthus o l’idea generica di albero, lat. s-tirp-s; la
parola che in sumero indica il rame, urud, nel semi-
tico indica l’oro, harudu, in greco il rosso, (f()erytk-
r-ós, in latino l’idea di sanguinante, crud-us o di ros-
so (c)rubr-; la parola che in tedesco indica il lupo,
W olf, è anche quella che in lat. indica la volpe, il
lupo (*vlup-us), il lepre (lep-us); la parola che in gre-
co indica il vitello, móschos, nella stessa lingua indica
anche l’albero {móschos, ramo), e in altre lingue
indica anche il maschio, la mosca, il musco e il dio
(onde moschea, il tempio del dio) (2). Cosf il trovare

(1) Tuttavia il linguista viennese Kretschmer è scettico anche a


questo riguardo. Egli osservò che il nome del pepe, di origine india-
na, si propagò in tempi storici pel tramite dei Greci in tutte le lingue
di Europa. Se non si avesse questa notizia per via culturale, col pre-
detto criterio di paleontologia linguistica si sarebbe concluso che que-
sto nome appartiene al periodo ie. Conosciamo noi le relazioni com-
merciali e culturali della preistoria?
(2) Mushi in ainu vale imperatore. In italiano m ià o , siciliano musei,
è il gatto; in latino mus è il topo (poi rotacizzato in m ur-).

37
in lat. rcx, in sanscrito rajan, non autorizza a con-
cludere che l’ordinamento monarchico appartiene al
periodo ie. Nelle varianti ie. di questo nome si na-
sconde tanta varietà di significati, che sarebbe arduo
dire se re indicasse un re, come noi lo conosciamo
dalla storia, o semplicemente il concetto di un essere
potente, di un sacerdote, di un mago o di un animale-
dio. Anche la capra era detta rea, cioè regina, dea
(nome che del resto le è dato in qualche lingua, p.
es. in somalo re, e in albanese de) (1); ciò ci fa intra-
vedere che dietro il nome del re, nella preistoria ie.,
c’è tutt’altro che l’idea di un determinato potere po-
litico, ma piuttosto un insieme di confuse credenze
magiche e religiose.
Con quale autorità si può dire ora che l’uno di que-
sti significati è il primitivo, l’altro il derivato, e
come si fa a stabilire quale, fra tanti significati, fosse
l’originario ? Se si trattasse di parole a significato pre-
ciso, basterebbe, nel confronto lessicale, la conver-
genza dei significati. Ma il semplice porre questa do-
manda mostra già che si fraintende la questione, e
che si ritorna alla vecchia posizione (2) del nome che

(1) In greco T ithe n e indicava la capra e anche la regina. In egizio


ra (re, dio) indica il sole.
(2 ) Per confutare definitivamente questa opinione vi porto un pic-
colo numero di esempi impressionanti, tratti dall’idea di pia n o : lat.
pratutn (pianura, prato), pro d a e proedium (podere), ted. breìt (largo),
ted. brett. « asse piatta » (onde it. pred-ella), lat. piattini « piatto », it.
blatta <( animale piatto, scarafaggio », it. latta (da piatta, ferro spianato),
ted. blatt « foglia », ingl. biade « lama », it. blan do, greco hradys « len-
to », it. landa e ted. L a n d a paese, pianura », sicil. lanna « latta », it.
blen da « ferro piatto » (da cui blin da e blin dare), pa l(a)m a « piatto
della mano », lam a « ferro piatto e superficie di acqua », pelagus e
Incus ( *placus) « superficie piatta, mare ». Il lat. lentus può essere va-
riante di blandus oppure connesso con ted. leh nen « inclinare », quindi
« zoppo, tardo » (analogo al nostro lem m e lem m e connesso con ted.
Vàhm « zoppo » e a tardus che è variante di tortus). Anche brando
« spada » può essere connesso con blenda.
Ora io domando se. in presenza di questa labilità semantica, pur

38
indica una cosa determinata, a esclusione di tutte
le altre (abbiamo visto infatti che la variazione dei
significati si ha nel seno di una stessa lingua). Nella
prospettiva a cui adesso siamo giunti, sparisce la
distinzione fra originario e derivato, fra indoeuropeo
e semitico, si entra nell’amorfo della preistoria. Sia-
mo andati oltre l’indoeuropeo e oltre il semitico,
che sono differenziazioni tardive, e siamo entrati nel
periodo preparatorio, nel grande puerperio della pre-
istoria. Vi porterò un paragone con fenomeni del
mondo biologico, da intendere però cura grano salis.
Nulla di piu facile che il dire che il leone è indigeno
dell’Africa, la tigre dell’Asia, il giaguaro dell’Ame-
rica. La cosa è di una evidenza solare. Pure noi sen-
tiamo che queste tre forme non possono essere crea-
zioni accidentali ed indipendenti l’una dall’altra, che
esse sono evoluzioni differenti di un esemplare piu
primitivo, e che perciò sarebbe azzardato dire che
questo antenato comune ebbe nascimento in un con-
tinente piuttosto che nell’altro. Ma questo antenato
non poteva essere né leone né tigre né giaguaro; era
un qualcosa di differente, non era ancora nessuno dei
tre. Esso è diventato leone in Africa, come è diven-
tato tigre nella giungla, ma era, se cosi posso dire,
un protoleone e un prototigre. Insomma, la razza si
è formata sul posto, è un punto di arrivo e non un
punto di partenza. L ’indoeuropeo e il semitico in un
periodo anteriore sono qualcosa che non è né l’uno
né l’altro, un protoindoeuropeo che è anche un pro-
tosemitico, perché queste razze si sono formate cia-
scuna nel suo ambiente, sono un prodotto della sto-

tra lingue vicinissime, come inglese e tedesco, e talora nel seno di una
stessa lingua (come ital. lag o, placca, blatta, latta) il criterio meccanico
della corrispondenza dei significati, derivante dal concetto primitivo
delle parole a significato preciso, sia scientificamente applicabile.

39
ria e non esistevano in origine come tali; e le rispet-
tive lingue hanno assunto fisionomia distinta nel-
l’ambiente, mentre in origine non erano che lessico
indifferenziato. È a questo di là dunque che noi vo-
gliamo giungere, a questo stadio per così dire proto-
plasmatico della storia e della lingua, nel quale si an-
nullano tutte quelle caratteristiche che sembrano co-
stituire la natura individuale di ciascuna, mentre non
sono che determinazioni storiche e contingenti.

L a g l o t t o l o g i a i n d o e u r o p e a . — La glottologia ie.
non è, come comunemente si crede, la scienza del
linguaggio, ma un ramo molto specializzato e par-
ticolare di questa scienza. Ha ben poco che vedere
con la glottologia che vi esporrò in questo volume,
e le due scienze, salvo alcune divergenze essenziali
di punti di vista su taluni argomenti, potrebbero in
fondo coesistere. La glottologia, nel concetto corren-
te, è il sistema delle corrispondenze fra due o più
lingue storicamente attestate; in fondo essa dunque
persegue, senza più illusioni e per semplice forza
d’inerzia, il vecchio sogno chimerico di trovare, data
la parola di una lingua, quale sarà la fisionomia che
essa assumerà in altra lingua della stessa famiglia. La
glottologia, nel senso in cui io l’ho concepita, ha
ben altri compiti: essa cerca di scoprire quali truc-
cature o mascheramenti o varianti di una parola di
una data lingua esistono in questa stessa lingua o in
lingue più o meno affini; vuole spiegare come si sia-
no formate le parole e le grammatiche, e stabilire in-
fine il rapporto di parentela tra famiglie di lingue
oggi ritenute affatto estranee le une alle altre, p. es.
fra l’indoeuropeo e il mediterraneo, fra l’ie. e le lin-
gue camito-semitiche, e via dicendo.
Questi compiti sono assolutamente estranei alla

40
glottologia corrente. Un glottologo, posto che voi vi
proponiate di fargli toccare con mani la parentela del-
le lingue ie. con le lingue semitiche, vi risponderà
con un’alzata di spalle. Gli manca, per giudicare
della fondatezza o meno dei vostri risultati, prima
di tutto la preparazione professionale, poi anche la
stessa curiosità per ricerche di questo genere; in ef-
fetti, egli le vede già a priori destinate alla sterilità,
quasi esse fossero il frutto di un indirizzo errato,
perché parte da un dogma (che egli però crede es-
sere un dato di fatto positivo) che le famiglie lingui-
stiche siano circoli chiusi, nell’interno dei quali sono
soltanto valide le comparazioni lessicali e la valo-
rizzazione delle eventuali somiglianze. Il guaio è
che il pubblico scambia a volte l’atteggiamento ri-
servato del glottologo, non già come l’espressione di
una severa coscienza dei limiti della propria com-
petenza, ma come una implicita sconfessione di ogni
nuovo indirizzo; e il competente manca certamente
di franchezza quando, presa coscienza dell’equivoco
che può sorgere sul significato del suo atteggiamento,
non sente il dovere di prendere nettamente e pub-
blicamente posizione. Per questi motivi la mia trat-
tazione non potrà essere candidamente e pacatamen-
te espositiva, ma dovrà assumere qua e là un anda-
mento polemico, destinato a sottolineare la diver-
genza delle vedute e i motivi che hanno ispirato que-
sto mio cambiamento d’indirizzo.
Benché qui non si parli quasi mai della linguisti-
ca classica, se non per criticarne i metodi e i risultati,
sarà utile al lettore avere un’idea sommaria, ma chia-
ra, di questa disciplina.

I. - Consonanti e vocali. — Si chiama consonante un


suono che ha bisogno della vocale per costituire sil-

41
laba; vocale o sonante è invece un suono che può
essere pronunciato senza bisogno di appoggiarsi ad
altro suono; semisonante un suono che può essere,
volta a volta, vocale o consonante: p. es., i e « sono
vocali, ma possono in taluni casi diventare conso-
nanti (lat. jam , it. uomo)-, in tal caso si usa scriver-
li i. u. Ci sono viceversa alcune consonanti — le liqui-
n a

de l, r, e le nasali m, n, — che possono adoperarsi come


vocali; in tal caso vengono contrassegnate con un
cerchietto sottoscritto: 1 r m n. Si chiama infine shevà
o o o o

e si scrive con una e corsiva capovolta a una vocale


indefinibile paragonabile alla e brevissima dell’ebrai-
co e alla e muta del francese e dell’inglese.
Le consonanti possono venir classificate riguardo al
tempo, riguardo al modo e riguardo al luogo del-
l’articolazione. Riguardo al tempo si distinguono in
m om entanee od occlusive, se vengono pronunziate
bruscamente, producendo una specie di esplosione:
es. p, t, e in durative o spiranti, se si pronunziano
formando con le labbra una stretta, attraverso la
quale può passare l’aria per un tempo piu o meno
lungo: es. s, v, f, ecc. Riguardo al modo dell’articola-
zione, le consonanti si distinguono in m ute (dette an-
che tenui o sorde), quando la pronunzia non è accom-
pagnata da vibrazione delle corde vocali, es. \, t, p ;
e in sonore o medie, quando si ha vibrazione: es. g,
d, b. Riguardo al luogo si hanno gutturali o velari
(k> g)> palatali (c, j), dentali (t, d), nasali (m, ri), lin-
guali o liqu ide (l, r). Le prime quattro serie possono
essere aspirate, cioè seguite da un’aspirazione : \h, g h ;
eh, jh ; ph, b h ; th, dh.
Le spiranti sono sorde, sonore, aspirate e si qua-
lificano secondo il luogo dell’articolazione: es. f è
una spirante sorda dentale o meglio labio-dentale ;

42
v è spirante sonora labio-dentaìe ; th greca è una spi-
rante sorda dentale, th inglese quando ha suono dol-
ce ( = dh), per es. nell’articolo thè, è spirante sonora-
dentale ; la z dolce è spirante sonora (es. in zaino),
ecc. Si chiamano affricate le consonanti composte di
occlusiva e spirante: es. z (con suono ts) è affricata-
dentale sorda, dz è affricata-dentale sonora, ecc.

Segni convenzionali. — Per trascrivere le parole


delle varie lingue, si usano segni convenzionali de-
stinati a dare la pronunzia per quanto è possibile esat-
ta; ma siccome molte lingue hanno suoni del tutto
speciali, ignoti ad altre lingue, cosi per esse i glotto-
logi usano far precedere ai loro trattati una tabella
che spiega la maniera in cui essi hanno reso certi suo-
ni (es. p nel gotico si legge th sorda; ei si legge z; ai
si legge e; an si legge o ; q si legge \w, ecc; nel san-
scrito g sono gutturali, ì ( g palatali, ecc.). Noi
dunque tralasciamo qui ogni ulteriore indicazione,
riservandoci, quando se ne presenterà il caso, di spie-
gare come debbano pronunziarsi questi segni speciali.

Principali leggi della glottologia indoeuropea. —


Nell’interno della famiglia linguistica ie. si sono no-
tate varie corrispondenze di suoni come anche talune
divergenze. In generale le tenui si corrispondono in
tutte le lingue ie; quindi, se p. es. noi troviamo in
latino la parola pater si può presumere ch’essa avrà
le medesime consonanti in greco, in sanscrito, ecc.
Le divergenze piu notevoli sono:
1. Quando nell’ie. (cioè nella lingua primitiva)
c’era una tenue, questa tenue, rimasta tale e quale
nelle varie lingue ie., è diventata spirante nelle lin-
gue germaniche: es lat. pater, got. fathar; lat. cent-
um. ted. mod. hund-ert. Questa trasformazione non

43
avviene dopo una spirante o un h : es. lat. stare, ted.
stehen.
2. Le sonore ie. (g, d, b) diventarono sorde (^, t, p)
nel germanico.
3. Quando nell’ie. c’era un’aspirata sonora, questa
nelle lingue germaniche e nell’armeno è diventata
una media (es. scr. bhàrami «portare» got. baira
(pronunzia béra); nel sanscrito, nel latino, nell’osco,
nell’umbro, nel greco è diventata una spirante sorda o
una tenua aspirata: (es. scr. bhàrami, lat. fero; nel la-
tino però, nel corpo della parola, è diventata una me-
dia: es. umbro alfa, lat. albus (bianco); umbro rufru,
lat. rubros; osco m efià, lat. media. Questa è la così
detta legge di Grimm, che ha molte eccezioni, alcune
delle quali si è preteso di spiegare, chiamando in causa
l’interferenza di altri fattori (leggi di Werner e di
Grasmann) (1), altre sono rimaste inintelligibili (es.
greco heptà «sette» e greco hebdomos «settim o»);
in altri casi, specialmente riguardanti il comporta-
mento delle consonanti nelle lingue germaniche, si è
data questa giustificazione: i cambiamenti nel ger-
manico ebbero luogo a partire da una data epoca;
quindi le parole che non ubbidiscono a queste leggi,
devono essere di data anteriore allo stabilirsi di
esse (2).

(1) La legge di Grasmann vale pel sanscrito e pel greco: essa dice
che, quando in una parola si susseguono due sillabe aspirate, la prima
diventa tenue: es. greco thrix « capello », genitivo trich-ós (invece di
thrichós)-, tt-th emi « pongo » per th i-them i, ecc. La legge di Werner
dice: le tenui ie. (che nel germanico diventano spiranti) dopo una
sillaba accentuata diventano spiranti sorde, dopo sillaba non accentata
diventano aspiranti sonore e quindi medie; nelle stesse condizioni s di-
venta z. Si spiega cosi perché a scr. pitàr « padre » corrisponda got.
fa da r (ted. Vater), a scr. B hràtà « fratello » il gotico Brbthar (ted.
Bruder).
(2) A rigore la legge di Grimm riguarda solo il germanico, e
parte dal presupposto che l ’ie, avesse tre sole serie di consonanti:
sorde ( \, p, t), sonore (g, b, d), sonore aspirate (g h , b h , dh ). Dispo-

44
Prima di procedere allo studio di fenomeni più
particolari, esporremo qui brevemente quale sia la
posizione reciproca delle lingue ie. e quale la posi-
zione dell’intera famiglia rispetto ad altre famiglie
linguistiche.

Classificazione delle lingue. — La famiglia delle


lingue ie. viene comunemente divisa in due gruppi:
il gruppo orientale o ario che comprende l’indiano
e Yiranico, e il gruppo occidentale o europeo. L ’in-
diano si divide in indiano vedico, che è il più antico,
in sanscrito o indiano classico, in m edio indiano e in
pracrito o indiano volgare (si tralascia, per brevità,
l’elencazione di molti dialetti particolari). La carat-
teristica più nota della lingua sanscrita è la prepon-
deranza che in essa ha la vocale a, la quale nelle pa-
role sanscrite sta al posto dell’», dell’c e dell’o che si
trovano nella parole corrispondenti delle altre lingue
ie. L ’iranico comprende l’antico iranico, di cui il
dialetto più importante è Xavestico o zendo o bat-
tilano antico, e l'antico persiano, in cui sono scritte
le iscrizioni cuneiformi dei re Achemenidi (VII-IV
sec. av. C.); inoltre, il m edio iranico, il m edio per-
siano o pehlevi, e infine il persiano m oderno. Questo
gruppo ario ha, insieme con l’armeno, con le lingue
slave e con lo, lingue baltiche (lituano e lettone) la
caratteristica di rispondere con sibilanti (j , z) alle gut-
turali delle lingue ie. occidentali.
Il gruppo occidentale comprende (oltre all’armeno
e al lituslavo già ricordati), il greco, il latino, il ger-

nendole in quest’ordine, la trasformazione avviene in senso retrogrado:


le aspirate diventano sonore; le sonore, sorde; le sorde, spiranti sorde
(k, f , ih), perché nel germanico non sonvi aspirate. Nell’alto tedesco si
ebbe poi una seconda retrocessione: le sonore (da aspirate ie.) passa-
rono a sorde, le sorde a spiranti sorde (con z al posto di th), le spi-
ranti sorde rimasero (ma si ebbe z al-posto di th).

45
manico, le lingue celtiche e i dialetti italici antichi
(osco-umbro, dialetti sabellici). Caratteristica di que-
sto gruppo di lingue è che esse mantengono le gut-
turali là dove il gruppo delle lingue arie (e con esse
ii lituslavo e l’armeno) hanno sibilanti o spiranti den-
tali: opposizione che si usa designare coi termini con-
venzionali di lingue d el centum (o lingue della ^),
e di lingue del satern (o lingue dellV): centum e
satem sono rispettivamente le due parole significanti
« cento » nel latino e nell’avestico.
Le lingue slave, baltiche e l’armeno tengono una
posizione intermedia: per certi riguardi si accostano
al gruppo occidentale, per altri (come p. es. pel fe-
nomeno satem) al gruppo orientale. Una curiosità
notevole offre la lingua cosi detta tocarica, scoperta
verso la fine del secolo scorso nel Turkestan orien-
tale (1). Pur appartenendo geograficamente all’area
orientale, essa ha sorprendenti somiglianze col latino,
e ciò ha contribuito ad arruffare maggiormente il
già complesso problema genealogico dell’indoeu-
ropeo.
Come si venne alla divisione della famiglia lingui-
stica ie? Senza entrare in molte intricate questioni,
che del resto sono oggi superate, accenneremo alle
due teorie principali. L ’una è la cosi detta teoria del-
Yalbero genealogico che fu formulata dallo Schleicher
nel 1853: la lingua primitiva, secondo lui, si sarebbe
scissa in due rami, corrispondenti alle due grandi
correnti migratorie, l’orientale e l’occidentale. Cia-
scuno di questi due rami si sarebbe poi suddiviso in
rami minori, man mano che le tribù ie. avanzavano
(1 ) Il nome T och àrìo i si trova in Strabone: esso venne dato a
questa lingua da F, W . K . Miiller a traduzione di un vocabolo T och rì
in un frammento proveniente da Turfan. Si distinguono due varietà di
lingua tocarica, il tocarico A o nord-ario, e il tocarico B o tocarico
vero e proprio.

46
sia in Europa che in Asia, per occupare le loro sedi
storiche. Il ramo orientale si sarebbe suddiviso in ira-
nico e indiano; il ramo occidentale si sarebbe suddi-
viso in un ramo settentrionale (germanico e lituslavo)
e in un ramo meridionale (greco, albanese, italo-
celtico). E dal fatto che, secondo lo Schleicher, il
germanico e il lituslavo (suddiviso a sua volta in li-
tuano e slavo) sono piu lontani dall’ie. primitivo che
non il latino e il greco, egli concludeva che il ramo
settentrionale fu il primo a staccarsi dal ceppo comu-
ne. Questa teoria fu molto criticata: non tutti am-
mettevano che il lituslavo fosse discosto più che al-
tre lingue ie. dalla lingua madre; e abbiamo visto che
vari linguisti ravvisano anzi in esso caratteri di mag-
giore arcaicità. E poi, quando anche fosse veramente
più discosto, è proprio vero che una lingua emigrata
si corrompe più presto che non una lingua rimasta
più vicina alla sua matrice? Il francese del Canada
p. es. ha caratteri di maggiore arcaicità che non il
francese della Francia. Il grado di corruzione di una
lingua dipende dunque dalla maggiore o minore pos-
sibilità offertale di rimanere in uno stato di isola-
mento e di sottrarsi ad influenze estranee. D ’altro
canto, molti fenomeni linguistici, osservati nelle va-
rie lingue ie., contraddicono alla idea semplicistica
della divisione, come l’ha concepita Schleicher. Ab-
biamo visto che, nella teoria di Luigi Geiger, i nomi
del faggio, della betulla e della quercia facevano con-
cludere che il gruppo occidentale rimase probabil-
mente indiviso per qualche tempo nell’Europa cen-
trale, e che quindi la suddivisione in ramo setten-
trionale e ramo meridionale non avvenne secondo
lo schema dello Schleicher. Ma c’è di più. Si osservò
che spesso due lingue della stessa famiglia geografi-
camente lontane, p. es. il greco e il latino, o il latino

47
e il sanscrito, e cosi via, hanno tra loro sotto ce
riguardi maggiori affinità che non due lingue vicin
per es. il greco e il latino, lo slavo e il lituano, ecc.
che il semplicismo della divisione lineare, a imma
ne dell’albero, sfuma in una caotica promiscuità. P
spiegare queste irregolarità, il linguista Giovan
Schmidt immaginò una così detta teoria delle on
(W ellentheorié). Secondo lui esisteva all’inizio u
lingua ie. unica che si stendeva dall’Atlantico all’I
dia: da un’estremità all’altra le piccole differen
dialettali costituivano un insieme di sfumature gr
duali che facevano rassomigliare tutta questa area li
guistica a un piano inclinato. Ma avvenne poi c
qua e là qualche gruppo etnico acquistò preminen
politica, e la sua influenza s’irradiò tutt’intorno
aree piu o meno vaste, su per giu come quando
sasso buttato in uno stagno suscita un increspa
concentrico di onde. Per conseguenza l’antico pia
inclinato diventò «una scalinata». Questa genia
teoria, che certamente contiene molta parte di v
rità, è però anch’essa soggetta a molte obbiezioni.
linguisti non credono più all’esistenza della ling
ie. unica; troppi fenomeni sono in contrasto c
una simile ipotesi. Vi basterà qualche esempio.
pronome di prima persona singolare (« io »), ricostr
to in base alle lingue del ramo europeo, dà l’
agam , ricostruito su quelle del ramo ario (sans
ahanì) dà ie. *agham . Dunque non esisteva una li
gua ie. unica. (Per quanto mi riguarda person
mente, vi dimostrerò in seguito che questo prono
*agam non poteva esistere nell’ie. primitivo, sia p
ché questa parola è erosa, ha perduto cioè la cons
nante iniziale, sia perché Ym finale è un suffisso a
giunto in epoche piu tardive per indicare il si
golare).

48
Io non credo all’esistenza di una famiglia lingui-
stica ie. nel senso in cui l’ha concepita la scienza
attuale. La critica di questo concetto sara fatta nel
corso di quest’opera; qui, tanto per dare un orienta-
mento preliminare al lettore, esporrò la concezione
che io mi son fatta circa l’origine delle lingue eu-
ropee.
Io credo contrario alla natura pensare che esistesse
un linguaggio primitivo. Il linguaggio ebbe un ini-
zio, e se lo ebbe in maniera naturale, e non sopran-
naturale, cominciò con l’essere una parola, poi due,
poi tre e cosi via. Il problema è dunque di scoprire
quale può essere stata la prima parola. Voi vedrete
nel corso di questo libro che il modo di porre que-
sto problema è errato, o in altri termini non può es-
serci stata una prim a parola. Quando nacque la
prima parola, essa dovette essere pronunziata in ma-
niera cosi fluida e in forme cosi varie, che pratica-
mente la sua forma era inafferrabile. Perché in ef-
fetti, se la parola nacque nel consorzio umano, la
sua origine è legata alla pronunzia di molti uo-
mini, ciascuno dei quali doveva avere tanta preci-
sione nel riprodurla, quanta ne ha uno dei nostri
bambini nell’età in cui cominciano ad articolare
le prime parole. E lo stesso dicasi del suo signi-
ficato, che, come vedremo, variava da gruppo a
gruppo e da persona a persona. Che significato
può avere in una simile concezione dell’origine del
linguaggio il tentare di stabilire se la parola primitiva
era agam o a g itam i Null’altro se non documentare
che un simile criterio non è fatto per comprendere
il nocciolo essenziale del problema. Tempo fa, nel
fare la recensione di un’opera del Meillet, io scrivevo:
«Vero è che si può obbiettare: poiché il linguaggio
dovè pur avere origine in un punto, una prima lin-

49
4. - L'origine del linguaggio.
gua unitaria ci dev’essere stata. È vero; ma la c
pia umana o il gruppo umano che iniziò questa s
pefacente creazione, era stata fino a questo mome
senza questo strumento di comunicazione, non ave
perciò bisogno di fare, come dicesi, un giro d’or
zonte, e mettersi ad assegnare un nome per cias
no a centinaia di oggetti, pei quali non aveva sent
fin allora alcun bisogno di designazioni particola
D ’altronde, per fare questo gli mancava, oltre c
il bisogno e la mentalità del giro d’orizzonte, anc
lo strumento per poterlo realizzare. Per fare u
convenzione e stabilire ((quest’oggetto va chiam
cosi, quest'altro in quest’altro modo» ci vuole
un linguaggio; questa supposizione ci immettereb
dunque nell’interno di un circolo vizioso. Le par
perciò saranno sorte sporadicamente, a notevoli
stanze di tempo, secondo prolungati bisogni, preci
mente come la biologia spiega la nascita dei nos
organi fisiologici. Saranno passati per es. decenni
secoli fra l’introduzione della parola « padre » e qu
la della parola (( figlio » (infatti ci fu originariam
te una sola parola per entrambi, cfr. ebraico bar «
glio », lat. par-ens « padre », cosi come ci fu una s
parola per «m am m a» e «pad re», cfr. lat. par
«sono par» cioè «partorisco» detto dalla don
donde risulta dunque che par vale padre e anc
madre) (1), e in questo intervallo di tempo gli al
gruppi venuti a contatto col gruppo in questio
avranno avuto tutto il tempo dì apprendere e def
mare fin le primissime due o tre parole da que

(1) Nota queste etimologie curiose: lat. pa r «u gu ale » (cioè


migliante come padre e figlio), par -eo « obbedire » cioè « farsi p
uniformarsi »; it. parere a sembrare » cioè « essere pari »; lat. par
« preparare » cioè a rendere pari a qualche cosa » (in seguito pa
a significare « difendere, riparare » onde lat. pariet « parete »
cosa che ripara, « paravento ».

50
trovate, o anche d’insegnarne ad esso qualcun’altra.
Perché non essendoci autorità costituita, non ci po-
teva essere né autorità né regola, e perciò nemmeno
regolarità che è quanto dire uniformità: il bisogno
d’intendersi e l’imitazione erano tutto, e l’imitazione
è sempre qualcosa di approssimativo e anche, non
ostante il paradosso, di « creativo ».
Quanto al significato di queste parole primitive, il
Meillet, nella sua « Introduzione alla linguistica ie. »
(3a ediz., pag. 369) dice che « a percorrere un dizio-
nario etimologico si ha l’illusione che la lingua ie.
abbia proceduto per parole e per radici di un valore
astratto e molto generico, mentre ci si deve rappre-
sentare ciascun parlare ie. aH’immagine di un parlare
lituano moderno, povero in termini generali e pieno
di termini precisi indicanti le azioni particolari e i
dettagli degli oggetti famigliari». A dir vero non
capisco come possa essere che, mentre il dizionario
ie. ci dà una data impressione, noi viceversa dob-
biamo immaginare il contrario. Il Meillet probabil-
mente ha confuso due cose ben distinte, e non ha
posto mente che altro è il significato generico di una
radice, altro i significati particolari che le parole trat-
te da una medesima radice (generica) assumono in
determinati linguaggi. È diventato un luogo comune
il dire che il selvaggio non concepisce l’idea di al-
bero, e che quando nomina l’albero intende sempre
un dato albero, il pero o il melo o altro qualsiasi, e
non già l’albero in genere. Questa opinione deriva
da una incomprensione della genesi del lessico delle
lingue. Un primitivo ha un nome molto generico
per indicare un albero o un animale; lo chiama « dio,
nutritore» ecc., ma volta per volta nello ambiente
particolare di un gruppo umano, il vocabolo è rife-
rito a un dato animale, a un dato albero, che sono

51
considerati totem o numi tutelari della tribù. Per con-
seguenza è un errore chiedere, come fa il Meillet,
aH’etimologia il significato preciso e particolare del-
la parola; l’etimologia non potrà darvi che il signifi-
cato generico; i significati particolari appartengono
alla storia delle parole e non sono compresi nella sua
etimologia, se non per cause accidentali. Vi porterò
un esempio. Voi sapete che i linguisti parlano di pa-
role più antiche e di parole meno antiche, e che pre-
sumono a volte di determinare con precisione in
quale località e in quale secolo è nata una data parola.
Se con ciò essi intendono dire che quella parola fu
una creazione di cui possiamo rintracciare i dati ana-
grafici, s’ingannano. Quando mi si dice che la pa-
rola «stornello» nel senso di poesia avente deter-
minati caratteri è sorta in Toscana nel tale o tal altro
secolo, non si vuol dire altro se non che questa pa-
rola, la cui origine in ogni caso si perde nella notte
dei tempi, cominciò ad essere adoperata con quel
significato m etaforico nella tale e tal altra occasione.
La storia di una lingua perciò non è altro che la
storia delle m etafore, e un vocabolario etimologico
inteso in questo senso non è che la storia degli usi
metaforici e la documentazione degli usi letterari del-
le parole (1).
Io respingo dunque l’idea di un linguaggio ie. e
sostituisco a questa parola il termine « paleoeuropeo ».
La ragione non è formalistica, ma include un cambia-
mento radicale nel modo di considerare l’origine e
l’evoluzione del linguaggio. Il termine «paleoeuro-
peo» è semplicemente convenzionale, e non esige a
(1) Una cantonata simile han preso gli storici con la parola
Bretti, ch’essi credono nata in tempi storici per indicare gli schiavi
fuggiaschi del Bruzio, mentre Bretti è parola antichissima, semplice
varietà della parola Bruttiì. È recente soltanto l’impiego nel significato
di schiavi.

52
rigore la convinzione che il linguaggio sia proprio
nato in Europa: è una soluzione che è prematuro
proporci per ora. Ma la radiazione del termine « indo-
europeo» è necessaria, perché esso implica concetti
errati e che metterebbero confusione in una dottrina
nuova. Il termine « indoeuropeo » implica in altri
termini la credenza in una famiglia di lingue del
tutto a parte, la quale si contrappone ad altre famiglie
(camitica, semitica, ugro-finnica, ecc.). Tutto ciò è
errato e mi accingo a mostrarvelo.
Il termine «indoeuropeo» secondo me dovrebbe
essere riservato a un significato più ristretto, e indi-
care una famiglia di lingue legate fra loro da affinità
grammaticali. Il lessico, come vedremo, è comune a
tutti i linguaggi del mondo, il che significa che in ba-
se ad esso le parentele o le eterogeneità non si possono
stabilire. Ma la grammatica è lessico diventato fossile,
materiale amorfo che diventa scheletro e acquista
caratteristiche fisse; l’affinità delle grammatiche sta
dunque a mostrare che quelle date lingue apparten-
gono a popoli vissuti allo stato indiviso per un piu
lungo periodo di tempo. In altri termini l’affinità del
latino col greco non esige la conclusione che Greci e
Latini siano di identica origine, mentre non lo sono
Greci e Semiti, ma soltanto che Greci e Latini si se-
pararono molto più tardi che Greci e Germani, o
Greci e Semiti, il che non esclude in nessun caso
l’eventuale comunanza di origine di tutti questi po-
poli, la quale resta documentata dalla comunanza del
lessico.
Come dobbiamo dunque concepire la genesi delle
famiglie linguistiche ? La lingua che io ho denomina-
to «paleoeuropea» non era una lingua vera e pro-
pria nel senso di un organismo, ma un insieme di vo-
caboli pronunciati in maniera variabile, e che a poco

53
a poco e in questo e in quel luogo si avviarono a for-
mare strutture fìsse e organismi grammaticali. Il
paleoeuropeo è insomma il modo in cui ciascuna tribù
primitiva, nell’infanzia del linguaggio umano, pro-
nunziava i primordiali suoni (probabilmente) onoma-
topeici K. T . P. e quel piccolo numero di parole non
sempre identiche, ma certamente affini, che ne aveva
cavato per designare i principali oggetti del suo am-
biente che non sempre corrispondevano a quelli che,
servendosi delle stesse parole, designavano altre tribù.
Cosi p. es. una parola indicante un essere vivente o
divino «B acco» veniva impiegata per designare il
bue (bucco o vacco), o il capro, la pecora (lat. pec-us),
la cagna (ingl. bitch), un personaggio importante
(ingl. big — grosso, russo boje — dio, turco bey per
beg «signore, cfr. Scander-beg » Alessandro Magno,
il signor Alessandro), un albero (ted. Buche, inglese
bou gh), un fiume (ted. Bach, torrente, Bacch-iglione,
Bug, nome di fiume polacco, Oxus e Jax-arte = « il
gran vacco», nomi di fiumi asiatici), un monte
(greco pàgos, lat. pagus, copto th-bahj «città»),
il pronome personale « io » (ie. *baga, eroso aga-m,
dove m è segnasingolare), il pronome personale « voi »
(ted. Euch da *yu-wig) ecc. ; con una parola indicante
«albero» (ie. *perqu- lat. querc-us) veniva indicata
volta a volta la quercia, la betulla (bìr\è), la vite
(lat. perg-ula), il monte (ted. Berg, greco pyrg-os), il
maiale (lat. porc-us), la barca o feluca (cf. felce), ecc.
Al di sopra di ciò, non v’è una sostanza originaria,
c’è il nulla.
Da questo linguaggio primordiale non si formaro-
no le lingue ie. e non si formarono le lingue semitiche.
L ’evoluzione non fu cosi lineare come fin oggi han
creduto i linguisti. Si tratta ora di rifare anello per
anello la catena delle trasformazioni, far vedere che,

54
dentro lo scheletro della grammatica ie. si trova, allo
stato latente, lo scheletro embrionale della grammati-
ca semitica, della grammatica tartarica e forse di
molte altre. Ma procediamo per ordine.
Questa lingua paleoeuropea era dunque soltanto
lessico, non aveva ancora grammatica. Voi avete cer-
tamente sentito parlare della distinzione delle lingue
in m onosillabiche, agglutinanti, flessive e incorporanti.
Vediamo che cosa ciò possa significare, e ci renderemo
meglio conto di cosa dovesse essere il paleoeuropeo.
Il cinese è l’esempio classico di una lingua monosilla-
bica. Questa lingua non ha grammatica, non è altro
che lessico. Che significa ciò? Significa che ciascun
monosillabo è nello stesso tempo nome, aggettivo,
verbo, avverbio, a seconda dei casi. Molte volte basta
la collocazione delle parole per assegnare a ciascun
vocabolo il suo giusto senso: p. es., un monosillabo,
messo al principio della frase, è un nome e significa,
p. es., « lo scritto )) ; messo dopo il soggetto è verbo,
e significa « scrivere ». E non c’è bisogno di indicare
nel verbo il singolare o il plurale, perché questo
risulta dal soggetto; non c’è bisogno di indicare il
passato o il futuro, perché queste idee sono indicate
da appositi monosillabi affiancati al verbo, e che si-
gnificano « ieri, molto tempo fa, in passato » e simili;
oppure « domani, in seguito, in futuro » e via dicendo.
I nomi non hanno plurale; per indicare il plurale si
aggiunge un monosillabo indicante «mucchio)): p.
es. gen significa « uomo » ; gen tu (mucchio) significa
« gli uomini ».
Questa lingua, non avendo grammatica, non ha
scheletro. È allo stato amorfo, diffuso, colloidale. È
probabile che il cinese sia la lingua originaria dell’u-
manità, ma se voi confrontate le sue parole con le
nostre, non trovate grandi rassomiglianze. Ciò non

55
significa necessariamente che il suo lessico sia a parte.
Prima di tutto le alterazioni fonetiche avranno influito
a creare una sempre maggiore distanza fra il cinese
e le lingue nostrane; ma coloro che han confrontato
il cinese col vocabolario delle lingue tartariche, asse-
riscono di aver trovato moltissime rassomiglianze (1),
come del resto non poche ce ne sono fra vocaboli tar-
tarici e indoeuropei. Ma c’è anche un’altra ragione.
Il significato delle parole è labile come il loro suono;
in una lingua dove non s’è formato uno scheletro che
conferisca un po’ di fissità ai suoi elementi, non c’è
piu modo di rintracciare i significati originari, se non
in ambiti molto ristretti, dove vengono in soccorso i
documenti letterari. Pensate che da noi la parola la-
tina captivus « prigioniero » ha dato l’it. cattivo (mal-
vagio), il siciliano cattiva « vedovo », il francese cheti]
(gracile). Siccome molti di questi significati sono
legati a circostanze storiche o sociali occasionali, bi-
sognerebbe conoscere la storia minuta della civiltà
cinese, cioè di un popolo che non ha storia, per rico-
struire l’evoluzione del suo vocabolario!
Lo stadio del monosillabismo è stato superato da
quasi tutte le lingue conosciute, comprese le lingue
parlate della Cina; solo il cinese letterario non ha
potuto svincolarsene, per effetto, come io credo, della
struttura atomistica del suo sistema di scrittura. Ma
l’esistenza di suffissi in questa lingua (e quindi di
parole virtualmente polisillabiche per via di aggluti-
nazione) è attestata dalla usuale distinzione che fanno
i grammatici cinesi tra parole piene (cioè aventi un

(1) Notate, per esempio, che in cinese uomo si dice gen (lat.
gen-ius, greco gyné « donna »); donna si dice nu (lat. anu-, greco
ino, lat. nutrio da * gnut-er cfr. genitrdx); mano, hj (greco che-ir,
finnico \ade); cielo, tien, cfr. arabo zen-ith « c ie lo » , d en -eb (stella,
dio del cielo); e lo stesso vocabolo sin « cinese » può non essere altro
che una forma satetn del tartarico \an, inglese kin~g « re ».

56
senso) e parole vuote (le quali sono veri e propri suf-
fissi, ma che la scrittura non può rendere se non allo
stato isolato).
Un passo piu in là abbiamo le lingue agglutinanti.
Se voi immaginate che alcuni di questi monosillabi, a
furia di essere adoperati per modificare il significato
di altre parole, a poco a poco si specializzino in questa
funzione, e perdano la loro esistenza indipendente,
per vivere quasi soltanto addossati alle altre parole,
sia dalla parte iniziale (prefissi), sia dalla parte termi-
nale (suffissi), voi avete le lingue agglutinanti. E allo-
ra comincia anche la grammatica vera e propria:
perché queste particelle fisse nella loro struttura e
funzione costituirono una specie di intelaiatura gene-
rale per l’uso del lessico. Che cosa è dunque una gram-
matica? Null’altro che lessico allo stato fossile! Pen-
sate che un grande filologo come il Renan aveva sup-
posto che la grammatica fosse anteriore al lessico (!!),
quasi il plasma generatore del lessico! Questo si chia-
ma aver proprio le traveggole. Ma non sono meno lon-
tani dalla verità quei linguisti che han fatto dell’appa-
rato grammaticale una specie di essudato cerebrale
di talune razze privilegiate, e han trovato nella gram-
matica la ragione ultima sulla quale si basa la diffe-
renza d’origine dei linguaggi!
Le lingue flessive, a cui appartengono, fra altre, le
lingue ie. e semitiche, rappresentano un ulteriore sta-
dio della evoluzione del lessico. I suffissi ora, invece
di giustapporsi alle parole lasciandole immutate (come
avviene nelle lingue agglutinanti) s incorporano nelle
parole, modificandole per saldare meglio la pronun-
cia, e venendo cosi a costituire le parti mobili (artico-
lazioni) e insieme i quadri fissi del linguaggio (sche-
ma grammaticale), come se questo non fosse altro se
non materia amorfa che prende vita e significato solo

57
se inquadrata nello schema. È chiaro perciò che la
grammatica rappresenta l’ulteriore stadio della evo-
luzione del linguaggio, precisamente come negli esse-
ri viventi lo scheletro è il più alto punto di arrivo
dell’evoluzione organica. Ne viene di conseguenza
che queste lingue aventi raggiunto uno stadio di tale
perfezione non sono originariamente differenti dalle
lingue agglutinanti, e che in questi fenomeni quindi
non si esprime il genio di una razza particolare, ma
un ulteriore perfezionamento spirituale dovuto a fa-
vorevoli condizioni d’ambiente e di civiltà. Ciò pre-
messo, la pretesa origine a parte delle lingue indoeuro-
pee sfuma nel nulla. In seguito vi mostrerò particola-
reggiatamente le tappe di questa evoluzione; pel mo-
mento mi limito a esporvi le ragioni che orientarono
il mio spirito in tal senso, e mi condussero ad assumere
questo punto di vista.
La mia dottrina è sorta da studi di toponomastica.
Ora è notorio che i nomi di luogo ritengono più
tenacemente la loro fisionomia, che non i nomi di
oggetti. Ciò che colpisce l’osservatore è che in grandi
tratti della zona europea, africana ed asiatica, dove
abitano popoli di razze credute differentissime, i nomi
di luoghi (e molti nomi di persona) hanno le più
sorprendenti rassomiglianze tra loro. Trovate in Afri-
ca il Senegai e in Europa i Senoni Galli e la Sena (1)
gallica; un fiume Congo in Africa, un fiume Gange
in India, un fiume Yantze in Cina; Aztechi nel Mes-
sico e Astigi nella penisola iberica; Dravidi in India,

(1) Sena è parola assai comune per indicare la terra madre, la


terra altrice e si trova in varie forme (Siene, Soana, Sena, ecc.). Senoni
ha un riscontro in lat. Sen-ex « nutritore, dio », poi « anziano di tribù,
vecchio », etrusco senis « padrone », in gr. zeno n, ecc. Curioso che
accanto al Senegai si trova il fiume Gam bia e la Senegambia. Se
gam bia è un nome divino, esisteva un nome del genere anche presso
i Celti, cfr. A m bio-rix « re degli Ambii ».

58
Druidi presso i Celti e Dervisci in Arabia ; e certi nomi
cinesi come ad es. Yu-an che sembra corrispondere al
nostro « Giovanni » (1). Si potrebbero riempire grossi
volumi con queste corrispondenze. Io non dico che si
possa stabilire a p riori l’identità di queste denomina-
zioni; ma voi non potete distruggere il sospetto che
questo strano fenomeno sia dovuto alla universale
diffusione di una razza, che assoggettò gran parte del
mondo abitabile, portando ovunque la sua lingua e la
sua civiltà. Questo sospetto acquista corpo per la >con-
vergenza di molti indizi: nelle credenze religiose e
nelle tradizioni dei popoli più disparati e selvaggi, si
trovano molti elementi che li accomunano alle nostre
razze europee. La storia delle religioni su ciò ha molte
cose da dirvi. E allora io ho pensato che questi topo-
nimi siano veri e propri sostrati, vale a dire residui
dell’antica lingua dei bianchi in regioni dove oggi si
parlano lingue del tutto differenti.
Bisogna precisare questo concetto. Platone in un suo
celebre dialogo parlò della diffusione della «razza
degli Dei ». D ’altro canto noi sappiamo da Erodoto
che ancora al suo tempo vivevano nelle grotte dell’Al-
to Egitto i cosi detti Trogloditi, il cui linguaggio era
rimasto allo stato inarticolato, che era quindi costitui-
to da grida quasi animalesche. Dunque al confine
della civiltà camitica c’erano uom ini non aventi an-
cora il linguaggio articolato; e per conseguenza non
è improbabile supporre che la massa indigena (ne-
groide) dell’Egitto avesse appreso il linguaggio dai
conquistatori bianchi.
A che punto di evoluzione era il paleoeuropeo,
quando avvenne la diffusione della razza degli Dei?

(1) Nota anche: Sam ar-kanda (città di Sumeri), Candida-hor « cit-


tà o monte di Centauri» (Can-daule o Gan-darva = Can « r e »
+ « toro »).

59
E chi erano questi Dei ? Se voi analizzate i nomi che
designano le varie popolazioni antiche, voi vi con-
vincerete che la parola « dio » indicava un totem. Che
cosa era il Vitulus o Italo, cioè il vitello, in Italia, se
non l’uomo che, credendo discendere dal vitello,
s’abbigliava in modo da rassomigliare a un vitello,
cioè indossava pelli di vitello e si cingeva la testa con
le corna? Dove il totem era il leone, s’indossavano
pellicce di leone, si stendeva, a guisa di emblema, una
pelle di leone avanti la capanna (oggi noi, per una
sopravvivenza, usiamo stenderle sui pavimenti dei
salotti) (1), e i membri delle tribù si chiamavano
« i figli del Leone », cioè nel significato di quel tempo,
« i figli del Dio », il quale era impersonato nel capo
tribù, da cui tutti gli altri membri di essa discende-
vano. Gli Dei erano dunque null’altro che uomini
bianchi; i quali, provvisti di un sapere magico e civile
superiore a quello delle razze di colore, giungevano
ad esse spacciandosi per divinità o in altri termini per
« figli di Dio » (2). Una espressione di questo genere
«figlio del Cielo» si è tuttora conservata in Cina; e
non è inutile ricordare che il significato dell’espres-
sione « figlio di Dio » presso i Semiti coincideva con
quello dell’espressione « figlio dell’uomo ».
Vi sono del resto altri indizi che appoggiano questa
veduta. Nel Vangelo di S. Giovanni, in cui si trovano
espressioni mistiche, le quali quasi sempre sono espres-
sioni esoteriche, e quindi tramandano formule anti-
(1) Nella stessa maniera si deve spiegare l’uso di mettere il cane
nei pavimenti dei vestiboli delle case romane. 11 Cerbero dell’Inferno
conserva dunque il ricordo di un uso totemico, che prima di essere
applicato alle dimore dei defunti fu applicato alle dimore dei viventi.
(2) Il concetto di « Dio » nei tempi primitivi era quello di capo,
di un essere più potente, di un generatore e nutritore: e siccome in
genere si trattava di persone di alta statura ed aitanti e vestite meglio
degli altri, a poco a poco a questo concetto si accompagnarono attri-
buti di perfezione e di natura privilegiata.

60
diissime c non più comprese in tempi storici, è detto
che <( la parola era appo Dio, ed era Dio ». Una inter-
pretazione spregiudicata di questa proposizione ci
suggerisce l’idea che ciò che in origine distingueva
l’umanità bianca dalla umanità di colore, e cioè gli
Dei dagli uomini, era che l’umanità bianca aveva il
privilegio della favella; e che il linguaggio era crea-
tore, divino, appunto perché il suo uso primitivo non
fu quello di assicurare la comunicazione di pensieri
c sentimenti, ma quello di uno strumento pel coman-
do magico. I primitivi credono ancora che la parola
possa imporsi agli elementi: per essi ancor oggi è la
parola che crea il m on do. E si capisce quindi perché
lo strumento che conserva la parola, cioè il segno alfa-
betico, era considerato cosa magica, misteriosa, e da
custodirsi gelosamente alla stregua di un segreto tec-
nico, capace di assicurare a chi lo possiede la superio-
rità su altri uomini e il diritto al dominio.
Lo stadio nel quale si trovava il paleoeuropeo a
quell’epoca è approssimativamente quello in cui si
sono fissate le lingue camitiche antiche. In queste
lingue si trova un lessico quasi indoeuropeo (p. es.
copto sage = dire, ted. sagen = dire), e si trova già il
meccanismo dei prefissi e dei suffissi; noi lo vedremo
particolareggiatamente in seguito. Ma è un errore
credere che la grammatica camitica sia fondamental-
mente differente dall’indoeuropea; bisogna invece
dire che la grammatica indoeuropea porta entro se
stessa e nella sua preistoria le tracce di strutture del
tipo camitico e semitico, ma che in seguito le modificò
o le perfezionò, gettando su di esse una patina che le
ha fatto assumere una fisionomia del tutto a parte.
Una riprova di quanto dico è data dalla posizione
particolare che hanno talune lingue antiche nel siste-
ma della classificazione corrente. I linguisti attuali

61
non possono risolvere questi enigmi, perché sono pri-
gionieri di vecchi pregiudizi. C’è l’antico ligure, p. es.,
che da una parte confina col finnico, col quale ha mol-
te affinità lessicali, dall’altra coi linguaggi berberi, coi
quali non manca di avere altre affinità. Ma che cosa
se ne concluse? Che c’erano due lingue liguri, il
« ligure indoeuropeo » e il « ligure mediterraneo ».
Altre volte i linguisti, avendo notato non poche affi-
nità fra parole mediterranee e parole indiane, fabbri-
carono la nozione di un linguaggio indo-mediterra-
neo. Una terza categoria di linguisti, trovando o cre-
dendo di trovare affinità fra parole mediterranee e
parole malesi, imbastì nientemeno l’ipotesi che parte
dell’Europa un tempo fosse abitata da razze austra-
liane; e ciò con grande scandalo dei paleontologi ai
quali risulta in maniera perentoria, in seguito all’esa-
me dei crani e degli scheletri delle sepolture preisto-
riche, che la distribuzione delle razze nella area eu-
ropea non ha sensibilmente cambiato dal paleolitico
ad oggi. Tutto ciò che cosa significa? Che man mano
che le conoscenze linguistiche progrediscono, la dot-
trina classica diventa un vecchio mantello sforacchia-
to che non copre più nulla; e s’arrichisce di termini
contradditori i quali vogliono ostinatamente conser-
vare sotto le vecchie denominazioni una sostanza che
è cambiata. Allora vai meglio mettersi con tutta fran-
chezza su un terreno di maggior coraggio e di mag-
giore coerenza.
Gli avventurieri arii che invasero l’Africa dovettero
arrivare fin nelle regioni più meridionali. All’altezza
delle regioni equatoriali sono stati infatti scoperti
ornamenti di un tipo arcaico a noi ben noto. In ogni
stregone di tribù selvagge dovete sospettare il tardo e
degenerato epigono dell’antica razza dei conquistatori.
Ci sono delle caste nobili di tribù africane, che hanno

62
nomi tipicamente europei, p. es. i W olof (lupi?): esse
si distinguono anche per la prestanza fisica e la mag-
giore regolarità dei loro lineamenti. I Faraoni d’Egitto
furono i prototipi di questa genia di meticci: essi
infatti hanno fisionomie prevalentemente europee,
ma qua e là, in qualche tratto, trapela l’innesto ne-
groide, e il colore della loro pelle è africano. Nella
Bibbia Dio punisce gli angeli (cioè i bianchi) perché
sposano le figlie degli uomini (cioè le ragazze di co-
lore): solo il Diluvio, concepito come lavacro in gran-
de stile, poteva rigenerare una umanità diventata cosi
animalesca.
L ’Africa è il dominio delle cosi dette lingue bantù.
Queste lingue sono affini alle lingue berbere (camiti-
che), il cui territorio è la costa mediterranea dell’Afri-
ca, dall’Egitto al Marocco; sono dunque derivate da
esse. E invero, potremmo noi ammettere il contrario,
vale a dire che gl’inventori del linguaggio, una delle
creazioni più geniali dello spirito umano, siano i
negri, e che i bianchi siano stati a scuola da loro?
Tuttavia non possiamo nemmeno ammettere che le
lingue bantù rappresentino lo stadio paleoeuropeo
più antico. La ragione è che questi selvaggi d’Africa,
abbandonati a se stessi, fecero probabilmente regredire
il linguaggio appreso nel contatto coi bianchi, alte-
rando la pronunzia e il significato delle parole in rela-
zione al loro più basso livello di vita e al carattere più
rudimentale dei loro ambienti. Ma è certo che talune
caratteristiche dell’antico linguaggio dei bianchi (pa-
leoeuropeo) sono rimaste nei dialetti bantù, e noi ne
abbiamo cavato indicazioni preziose. Per indicare il
singolare, le lingue bantù premettono una m alla
parola, es. m -ganda (un uomo dell’Uganda), m-puru
(un uccello, inglese bir-d); plurale: ba-ganda, ba-puru.
Voi vedrete in seguito che l’m diventò il segnasingo-

63
lare in molte lingue indoeuropee e semitiche, e che
b, w, f (o insomma altre labiali equivalenti, compresa
la vocale «) diventò la desinenza del plurale nell’um-
bro, nell’egizio e nelle terze persone dei verbi semitici
(es. ebraico qatel-à « uccisero », propriamente « ucci-
sori essi»). Nel copto il sistema del prefisso e quello
del suffisso coesistono; ma poiché il sistema del pre-
fisso si trova nel bantu, e quello del suffisso si genera-
lizzò nell’indoeuropeo, si deve concludere che il pa-
leoeuropeo, al momento della diffusione degli Dei, si
trovava ancora allo stadio prefiggente, e cioè in uno
stadio ancora agglutinante.
Gli altri gruppi linguistici ci interessano molto me-
no, se se ne eccettuino le lingue camito-semitiche (1),
le caucasiche, le lingue indigene dell’America, il basco,
e la lingua ainu. Quanto alle altre, basti dire che in
tutta l’Asia, dall’India in su, nonché nell’Indocina e in
alcune regioni dell’Europa settentrionale, (Lapponia,
Finlandia, Siberia) e inoltre nell’Ungheria e in Tur-
chia, domina il tipo delle lingue mongoliche a carat-
tere agglutinante; e che nell’India meridionale, nella
Malesia e nell’Oceania si hanno linguaggi che, come
l’antico sumero (parlato nella Mesopotamia pre-semi-
tica) da un canto hanno rassomiglianze con le lingue
mongoliche, dall’altro coi linguaggi indoeuropei e
mediterranei.
Nell’Asia Minore, ove adesso è parlato il linguaggio
agglutinante e mongolico dei Turchi, erano parlate

(1) Le lingue semitiche sono flessive e si distinguono in setten-


trionali (assiro e babilonese, ebraico con moabito e samaritano, fenicio
con punico, aramaico con caldaico, siriaco e sabeo), e in meridionali
(arabo, hymiaritico, etiopico). Le lingue camitiche comprendono l ’egi-
zio antico (geroglifico), il copto, il berbero e qualche altra lìngua
specialmente nella regione a sud deH’Egitto. Le lingue africane, astr.ì-
zion fatta di quelle di tipo camitico o semitico, si raggruppano in 2
grandi famiglie: sudanesi e banttt.

64
nell’antichità le cosi dette lingue asianiche o anatoliche
(licio, cario, lidio) che possono essere ricondotte in
seno al sistema indoeuropeo; e lo stesso dicasi del
cretese, del quale ci rimangono alcune iscrizioni, e
che sembra di tipo mediterraneo. Con questo nome si
designa un gruppo di lingue, oggi tutte scomparse,
che avrebbero preceduto, nella zona mediterranea, le
lingue indoeuropee (ligure, iberico antico, aquitano,
etrusco, ecc.); ma un’analisi dei residui di queste lin-
gue ci fa concludere che esse non erano se non varietà
protoindoeuropee, cioè linguaggi indoeuropei arcaici,
nei quali molte di quelle caratteristiche che i linguisti
sono soliti attribuire all’indoeuropeo o non avevano
ancora preso un adeguato sviluppo, o per essere in pro-
porzioni insignificanti, non sono state bene osservate.
Ne daremo qualche saggio nel corso di questo libro.
Il basco ha una posizione particolare, perché costi-
tuisce una specie di isola linguistica assolutamente
unica in Europa, e che è creduta il residuo della par-
lata dalla più antica razza europea. Taluni ritengono
il basco un avanzo dell’antico iberico. La cosa è mol-
to probabile, ma se fosse veramente cosi, non potrem-
mo concludere altro se non che il basco è un lin-
guaggio protoindoeuropeo. Il suo lessico è composto,
per almeno il 70%, di parole facilmente individuabili
come nostrane; quanto alle altre, alle parole vera-
mente basche, un’analisi etimologica condotta con
criteri esenti da pregiudizi, dimostrerebbe che esse
sono connesse con radici indoeuropee: p. es. hilì « cit-
tà, monte », confronta inglese hill « collina » (che ha
niente che vedere con ted. Hug-el), lat. cil-ium « orlo,
sporgenza », lat. coll-is, forse greco ll-ion « cittadella »
(di Troia), Gilli-tani « abitanti delle montagne », ecc.;
basco errom a\o «rom ano», parola assai vicina al-
l’etrusco rumach «rom ano», ma di essa più genui-

65
L ’origine del linguaggio.
na, perché conserva in quella e iniziale la traccia di
una consonante caduta; basco vìzon o gizon «uo-
mo », cfr. celto vesu « eroe », ebraico isha « donna »,
giapponese gesha « ragazza » ecc. Ma quel che spe-
cialmente rende per noi interessante il basco è che
esso rappresenta in Europa, insieme col turco, il tipo
delle lingue cosi dette incorporanti, il cui dominio è
propriamente l’area americana. Quasi tutte le lingue
indigene del nuovo continente offrono infatti questa
peculiarità di sviluppo, tanto che ci fu chi pensò se
non fosse il caso di considerare il basco come un re-
siduo della lingua dell’antica Atlantide, attraverso
la quale isola (che si supponeva estendersi traversal-
mente dallo stretto di Gibilterra alle Antille, quasi a
costituire un ponte fra il vecchio e il nuovo mondo)
si sarebbe poi diffusa nel continente americano. L ’o-
pinione concernente l’Atlantide e il suo preteso lin-
guaggio incorporante è certamente errata (lo vedre-
mo a suo luogo); ma non è affatto da trascurarsi la
circostanza che il lessico indigeno dell’America offre
un grandissimo numero di analogie con quello del-
l’Europa (v’è perfino, nei verbi, l’aumento — costi-
tuito dalla vocale o — come nel greco e nel sanscri-
to): es. potom ac «fiu m e» e greco potamós', azteco
cacallo e italiano cacca-, azteco m an i ((rimanere» e
lat. maneo-, azteco chichu e lat. quinque-, azteco ta
ovvero tate «tata, padre»; teo-tl, greco theós «d io »,
ecc.
La caratteristica delle lingue incorporanti o poli-
sintetiche è che esse incorporano nel verbo il com-
plemento oggetto, e siccome fra i complementi og-
getti vi sono anche i pronomi personali, ciascun ver-
bo finisce per avere venti, trenta e perfino trentasei
forme di coniugazione. Ma questo principio del po-
lisintetismo non è proprio di alcuna razza, prova ne

66
sia che anche il turco, che è una lingua agglutinante
(mongolica), è anche uno dei tipi più perfetti di lin-
gua polisintetica. Il polisintetismo dunque era una
tendenza diffusa, che in certi ambienti ebbe uno svi-
luppo imponente, mentre in altri fu neutralizzata da
tendenze contrastanti. In un mio opuscolo sull’opera
linguistica di Max Miiller (pag. 13-14) io notai che
anche nel latino v’è qualche traccia di una originaria
tendenza incorporante.
Nella parte settentrionale della maggiore isola del-
l’arcipelago nipponico si trova una popolazione che
parla una lingua creduta una delle più antiche della
terra. È il popolo Ainu. Questa lingua, secondo glot-
tologi autorevoli, è talmente aberrante, che «non so-
miglia ad alcun’altra ». Quante volte non ho sentito
dire cose simili a proposito di altre lingue! Il basco,
l’etrusco, l’iberico antico sono anch’esse lingue che
per molto tempo furon credute «non somigliare ad
alcun’altra». Io ebbi perciò curiosità di scorrere per
intero il vocabolario ainu, e con mia grande sorpresa
vi trovai centinaia e centinaia di parole che mi par-
vero lampantemente affini a parole di lingue a me
note. Siccome sembra che gli Ainu abbiano subito
l’influenza del linguaggio dei commercianti europei,
specialmente portoghesi, che nei secoli scorsi bazzi-
cavano quei mari, cosi è probabile che una parte di
queste parole siano imprestiti; ma che lo siano tutte
non è verosimile. Eccone alcuni esempi: R am a « dio »
cfr. Baba-cama «padre divino» dei negri (del resto
cam, come radice ie., significa «santo, fecondato-
re» ); \ura « oscuro » greco hur-nos, slavo cara «ne-
ro» lat. obs-curus; A ka — acqua; Pet «ruscello» lat.
Pad-us, greco pot-am-ós-, ma\irì «coltello» greco
màchaira-, wappo «pupo, bebé» cfr. papo, guappo;
mutai = lat. mat-er\ \uch-an «orsa» cfr. ted. \uh

67
«vacca»; seta «cane» cfr. egizio Sothì, nome della
stella Sirio, cioè della costellazione del cane\ tu — due;
an « u n o» articolo indeterminato, cfr. inglese an\
anohaì « io » , ebraico ano\i « io » ; \ara «fare», ra-
dice notissima nell’ie. con lo stesso significato; pon-
gane «dio, re » inglese fyng; mesu «tagliare», ted.
Mess-er «coltello»; ne\\e = noce; tunni «quer-
c ia» cfr. ted. Tanne «ab ete»; tannu «cetaceo» cfr.
tonno, ed ebraico thanna\ be\o, pekp = becco, lat.
pec-us; pon e «osso» inglese b o n e; \up — coppa;
\us\ = guscio; Pan = pane; tumbu «casa» (tumba
in linguaggio dell’Africa meridionale vale casa, cfr.
ted. zim m er); m ari «volp e» e maratto «orso» ras-
somigliano ai nostri nomi indicanti « dio, signore »,
ebraico mar-an, e anche il maiale (marrano) [cfr.
inoltre: maru, nome umbro ed etrusco di magistrato,
sicil. maricchia, nome familiare della capra, propria-
mente «regina» greco tithene e R h ea ] ; pora-pora
« uccello », in bantù puru, in siciliano puri puri, voci
con cui si chiamano le galline; neina — nenia;
yaghi — capra, greco aix (cfr. il nome del jac\, bue
indiano); Pom ari — albero, cfr. Tamar-indo, Tamer-
ici, ebraico tam «palm a»; unu «m adre» greco Ino,
lat. juno, etrusco Uni «Giunone» « la donna»; o-
toppo «capelli» sicil. tuppu «acconciatura di capel-
li » propriamente « cocuzzolo, casa alta » inglese top
« cima »; tam « spada » lat. tem-no « taglio »; o-mushi
« re » cfr. greco móschos « animale dio, vitello », m o-
schea «casa del dio o mosco», it. maschio, musco,
mosca ecc. (nomi di animali-dei), masch-era «faccia
del personaggio importante» spesso animalesca; m a-
ssim o forma il comparativo, cfr. lat. mag-is (mago,
macco, maschio, mo\o in Berberia «pezzo grosso»
sono varianti);, \iutu-chup « mese del pesce » (nota la
corrispondenza del calendario e delle credenze; quan-

68
to a kjutu — pesce, ricordo che i pirati sposavano
\eto cioè la nave rassomigliante a un cetaceo, ciò che
diè luogo al racconto di Giona, che stette tre giorni
nel ventre di un cetaceo, cioè nella barca: Giona equi-
vale anche per via del nome a Enoch, Noè, e cosi
apprendiamo che i sette o otto mesi del diluvio fu-
rono non più che tre giorni); \o in ainu si premette
ai verbi per formare l’infinito, come nel bantù si pre-
mette \u e nell’inglese to ; chin forma il plurale: cfr.
shen (poi hen, eri) con cui si forma il plurale nel
copto e nelle lingue semitiche. E tralascio qui la pa-
rola tashìro-nìp « coltello da tasca » (cfr. inglese \ni-
fe) che può essere un’importazione, come anche ^am-
bi « carta » cioè moneta da cambio » ecc. Vi sembra
dunque che tutte queste rassomiglianze possano es-
sere accidentali, o che tutte siano imprestiti? E non
suggerisce alcuna riflessione il fatto che nel mordvino
sh\ai significa «cielo» (inglese s\y), nel finnico
lotta vale « donna » (inglese lady, licio loda), in zulù
n-\ulu n-\ulu è il dio del cielo (cfr. greco kotton
«cosa cava» lat. coelum e culutn «cavità, buco
anale ») ?
Ed ora due parole sulla lingua degli Zingari o Zi-
gani (forse venditori di armi; cfr. lat. sica «spada»;
in antico detti Sicani «metallurgi» di Sicilia, e Si-
gynni «venditori ambulanti di armi» nella Gallia
aquitana). È una di quelle che offrono maggiori dif-
ficoltà, perché in conseguenza del nomadismo degli
zingari si è formata mediante l’accozzaglia di parole
di gerghi disparatissimi. Il Pott, che scrisse su questa
lingua due grossi volumi, crede che gli zingari siano
oriundi dall’India. Su che cosa si basava? Su confron-
ti linguistici. Ma con un popolo girovago tali con-
fronti sono scarsamente conclusivi; né ci può dare
molto aiuto l’analisi etimologica, perché questo gergo

69
è capriccioso, e, p. es., chiama i francesi C abinet; sa-
rebbe come se noi chiamassimo i Russi tovarìch e i
Tedeschi Panzerdìvisionen. Direi perciò di procedere
con altro criterio. Comincerei dalla parola che in lin-
gua zingara designa gli Zingari stessi: e questa pa-
rola è P om i. La semantica sistematica, come vedre-
mo, c’insegna che normalmente tutti i popoli primi-
tivi si autodenominano « dei » o « animali », ma che
questi termini indicavano la loro qualità di uomini.
In lingua ainu, Ainu vale « uomo » (cfr. greco Va-
nax, ebraico Venoch)-, i Germani discendevano da
M anno (uomo) e da Iseo (in ebraico isha ~ donna,
perciò isco o asco o aso = dio, uomo); in Arabia tro-
viamo la tribù Yem en (uomini), in Palestina la tribù
di Ben-iam ino (ben-Yamin = figli degli uomini), ecc.
Ora rom i nel gergo zingaresco significa «uom o», e
lo stesso significato ha nel copto. Abbiamo qui un
punto di riferimento importante. Gli Zingari, tribù
di fabbri ambulanti, non poterono essere venuti in
Egitto se non dalle regioni metallurgiche del Tauro
o della regione caspico-caucasica. Qui è dunque da
cercare la probabile culla della razza. Gli storici degli
Unni ci tramandarono una notizia curiosa: questi po-
poli sotterravano in qualche posto una spada, che
consideravano come il loro dio. Nulla d’impossibile
che il popolo della spada o sica si chiamasse Si-
càrio (1).

(1) Credo doveroso qui fare un’avvertenza. L ’analisi della topo-


nomastica ungherese, paese molto zingaresco, mi ha portato ad altre
conclusioni circa l ’etimologia della parola « zingaro », che si trovano
esposte in un volume dal titolo « Schizzo d i storia della preistoria »
facente seguito al presente volume. A mo’ d’anticipazione posso dire
che rintuizione generale della patria originaria degli Zingari resta
confermata; ma la parola «z inga ro» forse è una forma satem di
Caucone o Ky\on (uomo del Caucaso). Questa parola che in ebraico
si pronunzia Gug (Gige), diè origine in Grecia al nome di O-gige. I
Gheghi attuali dell’Albania sarebbero i rappresentanti della popola-

70
Alcune altre leggi fon etiche dell’indoeuropeo. - Il
comportamento delle gutturali ie. offre, secondo la
glottologia ie., tre casi tipici:
1) In un primo caso si trova che la gutturale ie.
(cioè la gutturale primitiva) rimane gutturale nelle
lingue ie. storiche: in questo caso, abbiamo K o G
in tutte le lingue, salvo i cambiamenti che nel ger-
manico sono richiesti dalla legge di Grimm (X di-
venta h).
2) La gutturale ie. rimane gutturale nelle lingue
occidentali (greco, latino, osco-umbro, celtico, ger-
manico), ma diventa sibilante o spirante dentale nel-
le lingue orientali (indiano e iranico), e inoltre nel-
l’armeno, nello slavo e nelle lingue baltiche (btuano,
lettone). Tuttavia nel sanscrito la gutturale g diventa
j (palatale, come / francese) e la gutturale aspirata
sonora gh diventa h. Il fenomeno qui descritto è
quello cui si accennò nelle pagine precedenti, quan-
do si divisero le lingue ie. in lingue centum e lin-
gue satem.
3) La gutturale primitiva rimane gutturale nelle
lingue satem, diventa invece labio-velare cioè qu- in
latino, k_w, gw , h w nel germanico (a seconda che si
tratti di tenue, media, aspirata) e talora, per la ca-
duta della prima consonante, v opp. f (a seconda
che si tratti di sonora o di aspirata); diventa labiale
(p, b, f) in osco-umbro; in greco diventa labiale (p,
b, ph) davanti a vocale scura (p. es. o, in póteros, cor-

zione venuta ivi dal Caucaso, il cui eponimo è O-gyges (anche il no-
me « Albania » è di sospetta origine caucasica). Le varie isole ogige
del Mediterraneo erano isole di fabbri, connessi con Adante e con i
Calibi (cfr. K alyp-so, la figlia di Adante). La parola « ghego » nelle
lingue slave assume la forma satem z eg « ceco ». Molti toponimi un-
gheresi ce l ’hanno conservata, es. Szeg-e-din « terra o città di gheghi
o cechi », cfr. ted. Gugen-heim . In una forma palatalizzata Gug (il
Caucaso) diede Jug, che tuttora presso gli Slavi indica il sud, cioè
la regione del Caucaso; es. Jugo-slavi, gli Slavi del sud.

71
rispondente a lat. qui, *qu ter, uter « quale dei due »),
dentale (t, d, th) davanti a vocale chiara (p. es. i in
tì-s corrispondente a lat. qui-s), mentre talaltra volta
rimane gutturale; infine nel celtico rimane gutturale
o diventa labiale a seconda dei dialetti, e precisa-
mente: gutturale nel gruppo goidelico o celtico, e
labiale nel gruppo bretone o gallese, corrispondente
su per giù al gallico.
Per spiegare questo capriccioso comportamento del-
le gutturali nelle varie lingue ie., sì suppone che già
in origine le gutturali ie. avessero fra di loro delle
differenze di suono; ma questa spiegazione riporta
a galla l’opinione che esistesse una lingua ie. bell’e
formata e ben differenziata nei suoi suoni costitutivi,
opinione che oggi tutti i linguisti respingono in teo-
ria, mentre poi, come si vede, continuano a servir-
sene nella metodologia. In sostanza dunque si tratte-
rebbe di ammettere questo: che in alcune gutturali
si fosse insinuato, già in periodo ie., un elemento pa-
rassitario, cioè una vocale (i, e) la quale trasformò
la gutturale in palatale (fenomeno che fu detto in-
tacco), mentre in altre gutturali si sarebbe insinuato
un elemento parassitario di natura labiale (una vo-
cale u avente la possibilità di diventare suono conso-
nantico, «).
Queste spiegazioni, oltre lo svantaggio che abbia-
mo avvertito, e cioè di trasferire la ragione delle di-
vergenze nel periodo unitario, hanno anche il di-
fetto di non essere che pure costruzioni astratte, le
quali non tengono conto di tutta quanta la comples-
sità della realtà. Un criterio di severità metodica, en-
comiabile sotto tutti i riguardi, è diventato a poco a
poco uno strumento di sterilizzazione della facoltà
di osservazione. In un primo tempo, quando i lin-
guisti si accinsero a gettare le fondamenta della nuo-

72
va scienza, posero come principio che la comparazio-
ne delle diverse lingue ie. dovesse farsi esclusivamen-
te fra parole di etimologia sicura (p. es. è indubita-
bile già a prima vista che lat. pater = greco patér e
sanscrito pitàr, che lat. dec-em — greco deha, scr. dan-
ari, ecc.); ma poi cosa successe? Queste leggi rica-
vate da un materiale troppo esiguo non sempre cor-
rispondevano al comportamento della gran massa de-
gli altri vocaboli; ma siccome questi non erano di
etimologia sicura, non avevano alcuna voce in capi-
tolo contro la tirannide dei pochi privilegiati, la cui
etimologia a prima vista s’imponeva come sicura.
Io non credo dunque che il processo dell’intacco
abbia le cause supposte dalla glottologia ie., perché
questo fenomeno di palatalizzazione e spirantizza-
zione delle gutturali continua a svolgersi sotto i no-
stri occhi, e non può quindi farsi risalire a una diffe-
renza originaria delle gutturali ie. Confrontate que-
sti vocaboli: conca, congio, conciare, cioncare; pac-
co, spaccare, spacciare; lat. cunnus e it. d o n n o « scioc-
co» (metafora triviale come p. es. nel veneto m ona);
garrulo e ciarlare (*garrularé), slavo gora « monte »,
francese Joura (monte dell’Europa centrale) e sicilia-
no Giarre (monte, città). Un elenco sterminato di pa-
role prova che il fenomeno è diffuso oltre l’ambito
ie., che si trova nell’area semitica e si continua nelle
lingue moderne; es. greco \ephalé (testa, sporgen-
za), arabo gebel (monte), coccola e giuggiola (per
influsso forse di pronunzia semitica, cfr. anche greco
zizoula, sicil. ’nzinzula che è la stessa parola, accanto
a greco gongyle « cosa rotonda, coccola, e anche
rapa »).
Questo fenomeno di palatalizzazione che non è
in fondo se non un caso di iotizzazione, cioè di in-
serzione della vocale i, non è limitato alle gutturali,

73
ma compare anche nelle labiali e talora anche nelle
nasali. Per conseguenza, tutte le volte che in latino o
in greco o anche in altre lingue ie., e talora anche
fuori deH’ambito ie., troviamo il gruppo i + vocale
(ia , ie, io , tu , ecc.), dobbiam o sospettare la caduta di
O I". o <”*

una gutturale o di una labiale: p. es. lat. iac-io da


*cac-io cioè «cocco, palla» quindi ((lanciare la pal-
la » (cfr. greco ballo « lanciar la palla »); greco iàp-to
(variante del precedente) «lanciare», ted. Jag-d del-
la stessa rad. di iac-io « lanciare il dardo, caccia »
(l’it. cacciare è più genuino del latino, riproduce la
parola con la sua radice integrale); lat. ]uno «G iu -
none» greco gyné « la sposa»; lat. iu-sum (da *iu-
vorsum) da *gusum , greco ge, ga «terra», quindi
«verso terra»; greco hya\-inthos «Giacinto, il lan-
ciatore»; greco iàllo «lancio» variante di b a llo; e-
braico i-yer-ii «temettero», lat. ver-eor; greco an-
ier-ós « indesiderato » ted. gier-ig « desideroso » ; gre-
co Iàcchos (variante di Bàcchos (lac\ in India vale
« vacco » ; Iaccaei variante di Vaccaei ; A-iax il Bacco
o Vacco, greco A-iant (aiace) « il Vendo o Vando»
(una popolazione di lanti occupò in tempi antichi
il nord della Grecia, e oggi ante è nome diffuso fra
gli slavi, cfr. anche Ant-enor «duce di anti»); greco
anér « uomo » (da *gan er cfr. lat. gener propriamen-
te «fecondatore» e femminile De-ianeira ((la dea
principessa»); greco hoios «solo», antico battriano
aeva « uno » ; greco omerico anthropo-io (da *anthro-
po-so); etrusco pula (moglie) da *p uva (cfr. lat. puer
da puber); lat. Jov- (Giove) da vov- (bove) rimasto
ancora in vov-eo « offro a Giove » poi « offrire » sen-
z’altro (come si vede anche nell’etrusco tins-cvil « vo-
to » ma propriamente « dono a Tino o Giove ») ; lat.
scaevus « obbliquo » greco shaiós; Jorgen-sen « figlio

74
di Giorgio » (nome scandinavo), lombardo jella « di-
sdetta», greco Gettò «dea infera».
Quanto al terzo caso (gutturali ie. che compaiono
come labiali o come labio-velari in periodo storico)
notiamo che la distribuzione degli esempi non con-
ferma la spiegazione data dai linguisti sulla maggio-
re primitività dei suoni labio-velari (trovantisi già
nell’ie.) rispetto ai suoni labiali o gutturali trovan-
tisi nelle lingue storiche. Il fenomeno, anche qui, è
molto più vasto dell’ambito ie., e chiama in causa
anche il lessico semitico. Per di più esso sembra avere
ben altre ragioni che non quelle supposte dalla glot-
tologia ie. (per iniziativa dell’Ascoli), trattandosi di
un fenomeno connesso col processo generale di diffe-
renziazione dei suoni nel mondo primitivo (1). In-
fine, la spiegazione del cambiamento, il quale avreb-
be avuto luogo mediante l’introduzione di un ele-
mento parassitario labiale nella gutturale, suscita non
poche riserve: infatti non s’intende la ragione per-
ché sia stato introdotto questo elemento parassitario,
anzi si può sospettare che questo elemento parassi-
tario sia non già il labiale, ma il. gutturale, e se ne
intende anche benissimo il motivo, essendo esso sor-
to in appoggio al suono labiale, che per un feno-
meno notissimo di erosione, era scaduto dal grado
di consonante al grado di semisonante o di vocale.
Il fenomeno si verifica giornalmente sotto i nostri
occhi, e vi citerò perciò qualche esempio. Il lat. vespa
è diventato in francese g a ép e; il ted. warten ha dato
l’it. guardare; dalla parola ted. wasser (acqua) è ve-
nuto l’it. sguattero e dalla stessa parola, nella variante
water, che si trova nell’inglese, l’it. guatare (in quan-
to l’acqua è considerata una superficie riflettente, uno

(1) Vedi capitolo: a Struttura intima d el vocabolario », p. 155.

75
specchio: così in latino m ìrari «guardare» è connes-
so con m are, e inglese see «vedere» con sea «m a-
re»); ma in tutti questi casi si vede un influsso della
pronunzia germanica (guad-are, connesso con la me-
desima radice, può però derivare dall’arabo uadi « fiu-
me» lat. Pad-us «il Po» greco Baìtis «Guadalquivir»).
A rigore però non si vede bene in che cosa consista
questo influsso, trattandosi di un fenomeno generale
dovuto allo scadimento o erosione del suono labiale,
e al suo rinforzamento mediante l’introduzione della
gutturale. Ma questo stesso fenomeno si verifica an-
che in casi del tutto estranei all’influsso germanico:
mastós è in greco la mammella, e noi sappiamo che
le forme che i nostri fornai e pasticcieri danno al pane
e ai dolci (trecce, serpente, cuore, ferro di cavallo,
fegato, mammella, phallus nei « maritozzi » romani,
ecc.) derivano da antichi riti religiosi, su per giù
come avviene per i nostri ex-voto. Il pane in forma di
mammella (pagnotta) in Sicilia si chiama vastedda o
uastedda, dove vediamo reso con una v (tendente a
diventare semisonante per via di erosione) Ym iniziale
della parola greca mastós. Ebbene, in francese si ha
gàteau (per *guasteau), in italiano il cognome siciliano
Vastedda è reso con Guastella, così come il latino
vastare (propriamente «abbattere con l’asta» perché
lat. hasta è da *vasta o bastione, cfr. fusto, pest-are,
pist-acchio variante di fest-uca, ecc.) è reso con guasta-
re, e il lat. vael ha dato origine all’italiano guai!, a
guaire e a vagire. Vediamo ora un esempio nel campo
indoeuropeo. In sanscrito si ha K arm (verme), in lat.
verm-is, in ted. w u rm : queste forme dovrebbero la
loro origine al {atto che nell’ie. la parola suonava
K warm. Ora in primo luogo osservate che questo è un
caso particolare di un fenomeno generale, che illu-
streremo più avanti, e cioè della indifferenza origina-

76
ria dei suoni primitivi, per cui K , T, P ci si mostrano
sempre intercambiabili fra loro: e infatti, nell’esempio
in questione, si hanno le forme parallele verme, tarma,
scr. K arm . La radice è quindi tanto car, quanto tar e
p ar: greco \eiro «taglio», lat. carère «scardassare»,
car-men «pettine», car-ies «carie, verm e»; lat. ter-
ere, part- (divisione), Parcae (le amministratrici nel-
l’antichissimo ordinamento matriarcale), onde parc-
ere «sapere amministrare» e poi «risparmiare», it.
parco «luogo recinto, separato»; palm ento «torchio
che schiaccia», s-parg-ere «disseminare, dividere»,
sprizzare, spruzzare, sperperare, ecc. Quale bisogno
c’è dunque di ricorrere a ipotesi complicate, e per le
quali mancano dati giustificativi, quando, vediamo
trattarsi di un fenomeno comunissimo e che giornal-
mente cade sotto i nostri occhi ? E, come vi ho detto,
esso si stende oltre l’area ie., nell’area semitica. Un
particolare verme (cocciniglia) usato per tingere in
rosso, ha dato origine all’aggettivo verm-iglio, al no-
me arabo ai-kerm es (dove vediamo ricomparire il
karm del sanscrito), ai nostri vocaboli crem isi e carm -
inio. Dobbiamo perciò concludere che questa spiega-
zione data a questo fenomeno dall’attuale glottologia
è dovuta al persistere in essa di due idee già dimostra-
te erronee: quella dell’esistenza di una lingua ie. ben
definita, e quella dell’esistenza di leggi fonetiche.
Al solito, è difficile confutare queste leggi trovate
dai linguisti, perché a chi si ostina a difenderle si of-
frono tante scappatoie, che difficilmente voi potete
arrivare a convincerlo del suo errore. Quando io vole-
vo distruggere la legge di Grimm, della cui erroneità
ero più che convinto, la faccenda si rivelò molto seria:
perché per ogni caso in cui la legge di Grimm sembra
violata, ci sono sempre delle scappatoie: o si tratta di
un’eccezione non ancora bene approfondita, o si trat-

77
ta di un fenomeno avvenuto in limiti di tempo ante-
riori allo stabilirsi della legge di Grimm, o c’è una
legge di portata più ristretta che spiega l’anomalia, o
c’è una seconda fase della legge di Grimm per cui,
una volta determinatisi alcuni cambiamenti nel ger-
manico, in un secondo tempo le consonanti sorte da
questi cambiamenti trapassarono in altre consonanti;
e infine, quando manca del tutto una giustificazione,
resta sempre un argomento perentorio: si dichiara
che quel dato vocabolo, appunto perché vive in barba
alle più venerabili leggi della fonetica indoeuropea,
mostra per ciò stesso di essere un forestiero, un intru-
so. Bisognava dunque che io trovassi un argomento
nuovo, un argomento, per cosi dire, che battesse in
breccia contemporaneamente tutti gli spalti della vec-
chia fortezza, e questo fu trovato. Constatai che tutte
le forme le quali, per la legge di Schleicher-Pott, poi
integrata dalla legge di Grimm nei riguardi del ger-
manico, si sarebbero dovute distribuire secondo una
certa rotazione nelle varie lingue della famiglia ie.,
viceversa coesìstevano in una sola e m edesim a lingua;
se ciò non era stato osservato, l’omissione era dovuta
al fatto che ancora la glottologia ie. non conosceva i
veri prìncipi dell’etim ologia. Voi vedete che il meto-
do escogitato per la demolizione della legge di
Grimm è applicabile anche alla demolizione della
dottrina delle gutturali ie.
Non si può neanche mantenere la distinzione rigo-
rosa fra lingue satem e lingue centum, perché una
esplorazione meno pregiudicata del lessico mostra che
in ciascuna lingua le due tendenze fonetiche coesisto-
no e si può tutt’al più affermare che, a partire da un
determinato tempo (che è su per giù quello nel quale
venne elaborato l’organismo grammaticale), l’una delle
due tendenze (già coesistenti e documentate dal les-

78
sico) ebbe in taluni gruppi uno sviluppo preponderan-
te, mentre in altri gruppi sembra essersi atrofizzata.
Il tedesco è una lingua del centum, cosi come del
resto il greco, il latino e le altre lingue occidentali;
orbene, vedete quante forme satem si trovino in que-
sti lessici: lat. cu-m, greco sy-n (coi derivati cum-ul-
are, sim-ul e il greco koinè»s «com une»; l’etrusco
cerrrul equivalente a lat. simul, cfr. cippo di Perugia
cem ul lescul «insieme al sepolcro», greco lósche
«sepolcro»); lat. cand-ela, accend-ere, ted. ent-zund-
en; lat. s-cribo, greco graph-o, ted. schreib-en ; lat.
quat-io, ted. schossen («colpire», oggi usato per le
armi da fuoco «sparare»); lat. claudere, clausum e
ted. schlossen, schloss (luogo chiuso, castello); lat.
vas da vac (bacino, bacile onde vacuus e vacavi; ba-
sium « bacio » da bucca (cfr. friulano busa — baciare);
lat. grad-us, ted. schritt (passo); lat. gridus, ted. schrei;
lat. caedo « taglio », ingl. cut, ted. scheid-en; greco
\neph-as « crepuscolo » ma propriamente « fessura »,
francese canif «temperino» ted. schneìd-en «taglia-
re » ; inglese heart «cuore», ted. zàrt-lich «tenero»
propriamente «cordiale»; lat. cella, ted. schale (con-
chiglia e simili); it. camera, ted. zim m er (alcuni deri-
vano questa parola da timber)-, greco \eiro, ted.
scheren « taglio », nonché Schar « divisione, schiera »,
siciliano scevra (contesa»; lat. curt-us «m ozzato»,
ted. \urz, inglese short; lat. canus, ted. scheinen
« splendere » e schnee « bianca » cioè neve, in lat.
(5) nix, con forma satem anche qui ; ted. \alb « vitel-
lo » propriamente « d io », selb-st «medesimo» cioè
« lo spirito di uno », sylphe « silfo, dio », lat. sulphur
«zolfo » cioè dio; greco arkjtos «o rso» lat. ursus,
inglese horce «cavallo» (variante hircus «capro»);
lat. cal « tagliare » p. es. in-columis « non tagliato,
intero » e lat. scelus « delitto » propriamente « ucci-
sione » o « lacerazione della legge, del patto »; lat. sub
«sotto» e sup-er «sopra» variante satem di *cup
«coppa» e «capo», cioè altezza e profondità, spor-
genza e cavità; lat. aequus «uguale» cioè «sim ile»
a superficie di mare o aequor (questo a sua volta da
aqua, quasi «acquore») e greco tsos «uguale»; lat.
clang-or « rumore » ted. hlingen « suonare » e schla-
gen « battere, menar colpi » (a meno che non si voglia
connetterlo con lat. clad-es, rad. cal, tagliare, «stra-
g e»); lat. camusus greco simós, però lat. simia che è
connesso a « animale, dio » (il significato di « camu-
so » è derivato dal fatto che la popolazione dei Camiti
o santi in Africa si meticcio, acquistando caratteri ne-
groidi); greco cham ai « a terra» lat. humus, greco
Samos « terra, isola », Sem ele « la santa », ma per al-
cuni una personificazione della terra, russo Zem lià
« terra »; XJmbro, Camers, Cam erino ecc. e forme
come lat. 1-sombres o In-subres mostrano le due va-
rietà; greco \yvon (cane); scr. sva, greco hys (porco);
per sys, come prova l’omerico sybótes «porcaro»
dunque la rad. è \uv, sm/, cfr. ted. schw-ein dove tro-
viamo una forma satem (1).
Il fenomeno si estende anche fuori dell’ambito
indoeuropeo, come prova la variante Cam, Sem (en-
trambi significano « santo »), Gomer, Cimbri, H om e-
rus « il Gomer», arabo Omar ed Em iro, e forme
satem come shom ar «Samaritano» e «Sumero»,
Somalo, A m ali (popolazione gotica); Sin «cinese» e
K an « re dei Tartari», ecc. Nel dialetto veneto è di
regola, nel francese e nell’inglese è frequente, es.
francese chetif «gracile» (dal lat. captìvus), chef da
caput, chanter ((cantare » ; nel siciliano e nell’etiopico

(1) Ted. hund-ert « ce n to » , got. thu-sundi « m ille » in origine


« duecento », oggi ted. tausend; ted. regen « pioggia », ingl. drazz-U
« piovere », greco drósos « rugiada ».

80
ci sono casi degni di essere segnalati. I suoni latini pi,
cl in siciliano sono resi entrambi con chi (palatale):
es. chiovi (piove), chianu (piano); ma il suono aspirato
fi è reso con sci: es. fium e, sicil. scium i; fiore, sciuri,
ecc. In etiopico abbiamo sham m a (lat. flammeus),
shaman (flamine, fiammingo, cioè sacerdote), ecc. (1).
Ma il destino delle gutturali è molto più complicato
di quanto non si sia creduto fin adesso. C’è il vocabolo
latino iug-um (giogo), sanscrito yug-àm, cui corri-
sponde il greco zyg-ón e il ted. zug « cosa trainata,
tirata». Se ne è dedotto, in base alla corrispondenza
latino-sanscrita, che per la sua distribuzione geogra-
fica (ai due estremi opposti del mondo indoeuropeo)
appartiene o dovrebbe appartenere al fondo primitivo
ie., che la radice sia jug- e che Vi iniziale si sia nel
n

greco trasformata in z. Qui l’insuificienza dell’etimo-


logia è evidente. La radice jug- non è primitiva, è
sorta per palatizzazione da gug, g u n g: in latino e in
greco esistono varianti della stessa parola nelle quali
è caduta la consonante iniziale: es. lat. unguis, unc-
inus, greco ón\os, ecc. Ma l’erosione non è avvenuta
d’un tratto: alcune volte le iniziali, cadendo, lasciano
una traccia della loro caduta in una h ; altre volte, la
caduta dell’iniziale è avvenuta dopo la palatalizzazio-
n e : allora rimane, con o senza Vh, la vocale i che si
trasforma in i : da gung- abbiamo quindi giung-
hiung- (2), e quindi ìung-, iug- (es. iung-ere — aggan-
ciare; anche gancio è variante di guncio o uncino).

(1) Quest’ultima etimologia non è sicura, perché Sciamano è an-


che sacerdote-mago della Siberia e di altri territori deU’Asia mongo-
lica: connesso quasi certamente con la parola semitica shem « sa nto ».
(2) Queste forme intermedie si trovano in talune parole greche:
hieràs « sacro » da rad. ver (capro, dio); hyic-inthos « Giacinto », con-
nesso col lat. iacio « lancio » quindi « il lanciatore di disco » ; hiatrós
« medico » ecc.

81
6. - L ’origine d el linguaggio.
Che cosa è allora la z della parola greca e tedesca se
non una forma satem?
Questa spiegazione rimette di nuovo in questione
la esattezza del criterio della Paleontologia lingui-
stica, circa l’assegnazione delle parole al fondo primi-
tivo. Pensate infatti che in questo stesso esempio la
cosa potrebbe essersi svolta cosi: la palatalizzazione
sarebbe avvenuta in periodo unitario; quindi le due
parole greca e tedesca avrebbero assunto la forma sa-
tem-, mentre le parole latina e sanscrita, migrando,
avrebbero perduto gradualmente le iniziab in talune
aree della stessa lingua e popolazione, conservandole
invece in talune altre: si spiegherebbe cosi perché
coesistano forme come il lat. cumque (il cui signifi-
cato originario è « unghio »), unguis e unquam, tango,
iug-um, uncinus, ecc. In questo caso, l’identità delle
radici sanscrita e latina non garantirebbe affatto la
primitività della loro forma, e neanche la loro appar-
tenenza, in questa stessa forma, al fondo primi-
tivo ie.
Tralasciamo qui, per brevità, l’esposizione della dot-
trina delle vocali ie., cioè delle corrispondenze delle
vocali da una lingua all’altra di questa famiglia (1).
Questa dottrina contiene alcuni grani di verità; ma

(1) La dottrina delle vocali ie si può riassumere brevemente come


segue. Generalmente le vocali originarie (a, e, 6) sono mantenute
nelle varie lingue, mentre nel gruppo ario sono rese con a (es. lat.
equ-us « cavallo » greco ikAos, irl. e eh, ma scr. ag-vas, se ne deduce
ie. *ekw o ). Anche il germanico talvolta rende I’o ie. con a. Quando in
tutte le lingue ie. si trova a, e nel gruppo ario a questa a corrisponde
una i, si suppone che nell’ie. ci fosse una vocale di suono imprecisato,
una specie di e muta francese che i glottologi chiamano s h e v i e scri-
vono con una e rovesciata ( a ); es. lat. pater, greco pat-ér, gol. fath-ar,
scr. pitàr: da ie. * patr.
Ho scritto patr e non pater e ora spiego il perché. Si suppone che
nell’ie. esistessero le cosi dette semisonanti, liquide e nasali, che fos-

82
anche nel campo del vocalismo si deve osservare che
coesistono assai spesso in una stessa lingua forme con
vocali, come p. es. in italiano sprazzo, spruzzo, spriz-
zare, in lat. her-os e vir, in greco Ares « Marte », her-
os « guerriero » ecc. (1), e che quindi la dottrina non
può accettarsi senza riserve. Si deve piuttosto dire che,
a partire da un determinato stadio della lingua, che
è approssimativamente lo stadio della formazione
grammaticale, le vocali, fissandosi in forme stabili,
possono offrire materia per raffronti; ma che dal pun-
to di vista dell’etimologia e dell’origine e formazione
del lessico, la considerazione dell’elemento vocalico
è nel suo insieme quasi trascurabile. Perciò nei con-
fronti fra indoeuropeo e semitico, trattandosi di radici
che risalgono a un’epoca anteriore al costituirsi degli
organismi grammaticali, la vocale è elemento inessen-

sero insieme consonanti e anche vocali (r, l, m , n). Queste vocali sono
rese nelle varie lingue ie. nel modo seguente:
ie. antico indiano greco latino germ anico
n a, an a, an en un
o
m a, am a, am em um
o
r ar, ra or ur
o j
1 1 al, la ol ul
o

Si chiama infine apofonia quel fenomeno di alternanza vocalica,


per cui, nella declinazione o nella coniugazione, le vocali di una
radice si scambiano (es. greco gén-os « genere » e ge-gon -a « fui ge-
nerato ». Questa apofonia è qualitativa. L ’apofonia quantitativa è in-
vece quel fenomeno pel quale, nella declinazione o nella coniugazione,
le radici si presentano o con vocale brevissima (grado zero), o con vo-
cale breve (grado normale), o con vocale lunga (grado allungato o gu-
nazione); es.: greco patr-6s (genitivo di patér): grado zero; greco
pat’er (vocativo): grado normale; pat-ér (nominativo): grado al-
lungato.
(1) nota: it. barca, bricco, bu rchio; ceffo e ciu ffo; bard-otto, bard-assa
(ragazza), somalo farda « cavallo », ted. pfcrd « cavallo », greco pardos
«anim ale d io »; lat. cad o, scendo, scandalum, gr. hindynos « pericolo,
trabocchetto »; lat. pax, pectus « petto, cioè parete compatta », pix, pi
gnus, forse pugnus, e gr. pyhnós « fitto, compatto ».

83
ziale. Molti alfabeti la ignorano addirittura; e la cosa
ha una sua logica, perché la vocale è un semplice ele-
mento d’appoggio, che quindi dipende dallo equili-
brio variabile della parola, e subisce l’influenza degli
allungamenti delle parole, degli spostamenti degli
accenti e delle collisioni dei suoni.
Anche una teoria degli accenti è, in una glottologia
generale, fuori di posto: perché l’accento si è andato
consolidando in epoche storiche e quindi non ha al-
cuna importanza nella ricerca etimologica e nella
dottrina della formazione delle parole.
C’è tuttavia qualche punto, ignorato dalla glottolo-
gia ie., ma importante nel nostro sistema, che merita
un cenno in questo trattato. Perché mai in talune lin-
gue ie. la vocale a rappresenta il genere femminile,
la vocale u (o) il maschile? La risposta a questa do-
manda sarà data a suo luogo, per intanto facciamo
notare che, anteriormente allo stadio nel quale fu
assegnato un genere alle parole, non esisteva nella
grammatica la nozione stessa del genere, e questo
spiega perché molte parole che nell’epoca storica por-
tano il segno del femminile, nelle loro forme più
arcaiche hanno vocali che potrebbero farle classificare
per maschili. La parola greca g a «te rra» nell’anti-
chissimo latino aveva la forma gu rimasta in iu-
sum (1); la parola greca band «donna» corrisponde

(1) De significa «te rr a» (propriamente « d io » ), si trova nella


forma tu in lat. tu-m e du-m (lì, allora), da in tedesco (lì), thè nel
verbo greco thé-o « corro » cioè « vado per terra » (significa anche
« vedere », perché thè, indicando anche divinità, indica cosa luminosa).
In Bìrm in-gha-m (terra di Armini o Ermani) abbiamo g a ; in Ams-ter-
da-m (terra della fortezza, cfr. semitico m asr « edificio, dimora » e
il nome del paese siciliano di Camastra) abbiamo da-, negli allarga-
menti abbiamo -tani (in Iberia), -dunum fra i Celti (es. Lug-dunu-m ),
duna in Africa, diin e in Germania (collina, es. Dun-quer\e, « chiesa
della duna »), dòn in Grecia, es. M ake-dan (terra del Mago o Macco);
dann « allora » in tedesco, tannu « allora » in siciliano, then in inglese;

84
a lat. anu-s (« vecchia » ma propriamente « donna »
da *ganu-s o *vanu-s) e a Venus (Venere); e lo stesso
*
dicasi di Leto (variante L e d a « moglie » di Giove); di
Kalypsó, Kabeiró, Gorgo, Ino (lat. Juno), di 16 (greco
H ebe, ebraico H avvah « Èva », ted. W eib « Èva, don-
na ») ; di Psapphó, ecc.
E ora, riassumendo il fin qui detto, noi possiamo
stabilire quanto segue: i suoni primitivi devono essere
stati gli occlusivi, quindi, nelle tre serie K , T, P,
oppure G, D, B senza ragione conosciuta per questa
differenza, se non quella della particolare conforma-
zione dell’organo glottico dei parlanti, epperò da con-
siderare praticamente come del tutto equivalenti. Ma
con l’andar del tempo, nelle parole primitive che era-
no tutte monosillabiche, questi suoni si andavano ero-
dendo, diventando in un primo tempo aspirati (K h ,
g h ; th, d h ; ph, bh) e trasformandosi in spiranti (1) e
quindi riducendosi al semplice elemento aspirato
{h), che a sua volta tendeva a scomparire, lasciando
all’inizio delle parole la semplice vocale o addirittura
nulla. L ’aspirazione è quindi un principio d i erosione,
e pertanto le radici con iniziale aspirata non devono
essere considerate come primitive (2); e la stessa cosa

in greco then con significato leggermente differente (da lì, da quel


luogo).
(1) Nel dialetto siciliano il processo di erosione è tuttora visibile:
braccio si dice vrazzu, due si dice dhui, dare si dice cibari-, ma se
la consonante perde il suo carattere di iniziale, riacquista la sua in-
tensità originaria: es. sbrazzarirsi (sbracciarsi), sdari o sdunarsi (darsi
alla macchia), pirdunari (perdonare, al semplice dhu nari « donare »).
Il fenomeno è esattamente simile a quello che avviene nel greco, dove
abbiamo rad. thè ma sténai (stare); e nel licio dove stele o stylos
« colonna » si scrive sttala. Per la gallin a si ha in siciliano: gh addina,
iaddina, addina.
(2 ) Per questo non credo alla regola comune pel riconoscimento
delle radici ie. Una radice è costituita di consonante e vocale, o di
consonante -f- vocale -f- consonante. In questo ultimo caso sono am-
messe tutte le combinazioni eccetto che le due' consonanti siano en-

85
deve dirsi della iotizzazione e palatalizzazione, non-
ché della labializzazione, perché la comparsa del-
l’elemento parassitario è considerata come un com-
penso dell’avvenuta erosione (semplicemente si ri-
cordi che nella cosi detta labializzazione l’elemento
parassitario non è la semisonante labiale, ma assai
più probabilmente la gutturale di appoggio).
È questa la ragione per la quale molte parole ci si
presentano senza la sillaba iniziale (il che è quanto
dire: mancano della vera e propria radice e non sono
costituite che di elementi banali ed ascitizi); e fra
queste, quasi sempre, quelle che cominciano con liqui-
da (1, r), o con nasale (n, m) e assai spesso anche quel-
le che cominciano con s (1). Nel nome italiano di que-
ste consonanti si è conservato, non si sa come, il ricor-
do dell’antica erosione; noi diciamo infatti elle, erre,
em m e, enne non già ro, mi, ecc. Nel sanscrito la r
iniziale si pronuncia er, cosa che denunzia la caduta
di una consonante iniziale; nel copto n iniziale si
legge en ; nel basco un r iniziale esige innanzi a sé una

trambe sonore: nel qual caso si esclude che trattisi di radice ie.:
così p. es. b e i o bib-ere non sarebbero radici ie., a meno che bib o sia
sorto da raddoppiamento (cfr. scr. pì-ba-ti « beve » con dissimilazione),
come greco di-dò- (dare), e lat. se-ro « seminare » (da se- so cfr. greco
*si-sc-mi « porre »).
(1) L ’m iniziale è quasi sempre un segno di avvenuta erosione
tranne il caso in etti esso sia stato sostituito, per mera varietà dialet-
tale, ad altra consonante: es. lat. milites sta forse per velites, la pa-
rola quindi non è erosa; ma' francese m alie è erosa, cfr. greco am alla
(borsa), it. gam ella da cam , cosa cava; ted. bfanti è eroso da gam an,
lat. hom in (uomo).
Si obbietterà: per quale ragione una parola primitiva non potrebbe
cominciare per liquida o nasale? Ma, a dir vero, non c’è una ragione
d’ordine generale, c’è solo una ragione d’ordine contingente o storico,
ed è che la radice primordiale fu un’esplosiva. Non già che non avreb-
be potuto essere una liquida o una nasale, ma tutti gl’indizi ci fan
concludere che fosse un’esplosiva. Se la radice primordiale fosse stata
una liquida, si dovrebbero considerare erose le parole non comincianfi
per liquida.

86
ì oppure e. Quando dunque vi trovate in presenza di
una parola che voi sospettate erosa, è buona regola
tentare d’integrarla con le consonanti gutturali e la-
biali (perché quasi sempre la radice ha la varietà in
labiale e la varietà in gutturale) o talora con s; mentre
la erosione delle dentali, almeno nell’ambito delle
lingue a noi note, è cosa rara e sporadica. Voi avete,
p. es., la parola L ibìi; potete essere sicuri che la radice
sarà Caleb o Veleb, che quindi questa parola equivale
a ted. \alb (vitello, animale dio) e ted. W olf (lupo,
animale dio). Avete il greco Kteino « uccidere » : è da
ki\t o vi\t, significa «colpire»: lat. ict-us «colpo,
dardo », greco a\té « la spiaggia battuta dai marosi »,
a\tin «dardo del sole, raggio», i\tm «animale che
colpisce, nibbio», A\teón «cacciatore, che colpisce»;
ktein «oggetto a punta, pettine» (il lat. pect-en è
invece cosi detto perché fatto a somiglianza delle co-
stole del petto, e pectus « petto » è cosi detto nel senso
di « compagine, cassa, cosa impaccata » rad. pac, che
è in pacco, pece « colla che unisce », pace « unione »,
greco pyknós, «spesso» siciliano pìcinusu «appicci-
caticcio, attaccabottoni » e, detto di terreni, « argillo-
so »; ted. acht-en «fare attenzione» ma propriamen-
te « puntar su ». Avete l’egizio netar « dio » (propria-
mente «taglialegna» perché la sua insegna è la scu-
re, quindi « re del bosco »), l’ebraico netzer « naziro »
(cioè figlio di Dio), potete essere sicuri che la radice è
can « tagliare », come in francese canif, inglese \nife
(temperino), basco nab-ela « coltello », ted. schnìtzer
«tagliatore).
Quanto sopra vi chiarisce un fenomeno sul quale la
glottologia ie. ha idee molto errate. Voi trovate in
latino la parola nom en, in greco o-nom a (nome); vi si
dice che questa vocale o non fa parte della radice, che
è una vocale prostetica o anorganica, cioè dunque un

87
mero capriccio. Se voi riflettete che laL nomen è da
*gnom en (connesso con *gnoscere « conoscere ») v’ac-
corgerete che quella pretesa o anorganica è tutt’altro
che un’aggiunta capricciosa, è il vestigio di un’ala di-
roccata dell’antico edilizio. Queste vocali prostetiche
greche corrispondono dunque alle vocali prostetiche
del basco; sono le tracce dell’avvenuta erosione. E
d’altro canto la dottrina indoeuropea delle protesi
vocaliche non spiegava il perché di talune vocali che
si trovano addossate, dalla parte iniziale, a parole non
comincianti per n : es. o-\ean-ós,A-borig-ìnes,l-som br-
es, ecc. Per tutti questi casi non si può dare una legge
generale, ma è necessario stabilire caso per caso, con
molta pazienza e talora a prezzo di moltissime canto-
nate e palinodie, se si tratti di una traccia di erosione
ovvero di un articolo incorporato, come usa nelle lin-
gue camitiche e semitiche. Quando io ignoravo il fe-
nomeno dell’erosione, e finché non ebbi una piena
coscienza della vastità e della estensione universale di
esso, avevo tendenza a vedere dappertutto articoli in-
corporati; per vederci chiaro mi occorsero anni ed an-
ni di laboriose ricerche, e il rifacimento ex novo di
molti lavori che mi erano costati indicibili sforzi.
La glottologia ie., che aveva ereditato dai gramma-
tici indiani la nozione di liqu ide e nasali sonanti, cre-
dette per molto tempo che fossero suoni originari, ap-
partenenti perciò all’ie., privandosi cosi di giungere
alla via maestra dell’etimologia. Ciò è stato d’impaccio
specialmente nel campo della lingua sanscritta, dove
esistono molte parole comincianti per r, quindi deri-
vate da una radice primitiva her o ver-, e parimenti
non si capi la ragione per la quale tutte le parole
greche comincianti per r hanno lo spirito aspro (es.
rhythm ós « ritmo, divisione », cfr. arythm ós « divisio-
ne, numero»): in questa aspirazione aggiunta all’r

88
iniziale si è conservato il vestigio di un’antica con-
sonante caduta (hr = her, da \er, ver, ecc. : es. *\a-
ryth-mós da car «dividere, tagliare», lat. num-erus
da can «dividere»).
Non più felice essa è stata nello spiegare taluni
doppioni di parole, nei quali ora compare la radice
con n, ora. senza n: p. es. cent-um corrisponde a
greco he-\at-on (he iniziale qui è articolo, e signifi-
ca « u n o » : «u n vaso o un cantaro»). La dottrina
corrente spiega questi doppioni cent-, \at-, asseren-
do che la radice ie. doveva essere knt, conteneva cioè
o

una nasale sonante, la quale in talune lingue, e per


effetto di uno speciale fenomeno detto apofonia, di-
venta a volte semplice vocale: es. greco pod-a «pie-
de» (caso accusativo), lat. ped-em . Questa dottrina
viene ridotta a zero dalla constatazione che le varian-
ti con e senza n si trovano in tutte le parole e in tutte
le lingue, e il fenomeno accade anche fuori dell’am-
bito ie. È chiaro dunque trattarsi di ben altro feno-
meno, altrimenti si sarebbe costretti ad ammettere
che tutte o pressoché tutte le radici ie. contengono
nasali: es. conca e coccio (pentola); lat. vado, it. (v)
and-aré, ted. wand-ern ; stecco e stinco (osso puntu-
to); stucco e stanco (punto, abbattuto, lat. fessus);
dente e ingl. too th; greco m anthàno «apprendo» e
lat. i-m it-or; cantare, centone (canzone) e cit-are e
greco kjthara (cetra); mandare e lat. m ittere; fian-*
co (fianco, parte floscia, debole del corpo umano) e
fiaccus (fiacco) e fiuxus (floscio); afa (da *v a fa ) e
vampa, affannare e anfanare; greco \ata (giù), lat.
cad-ere (andar giù) e sc-end-ere; lat. caedo e scand-o
(scandire); lob o (da globo) e lombo (il rene, lobato
come le foghe dei fichi, che han dato il nome al
fégato: ficatum , cioè lobato); labbro, inglese lip e

89
lembo (orlo di qualche cosa); cicca, francese chèque
(cosa tagliata) e cencio; labrusco e lambnisco (vino
da fiasco o labrum) e Lam bro (fiume, celto labara,
«fontana, recipiente); lat. unda e greco hyd-or (ac-
qua); piffero e fanfara; grufo e grinfia; succo e san-
gue; vampa e vap-or\ ammaccare e mancare, monco
(essere ammaccato, mutilato); greco pithecos «scim-
mia, animale sapiente» e pynthanom ai «im paro»;
lat. facere e fingere e fungere e it. in-fing-ardo (che
non fa); cionco (ubbriaco) e ciocco; greco s-phex, lat.
fuc-us (vespa, propriamente « animale fecondatore »)
e s-phinx (animale dio, il re d’Egitto) (1) e ted. Vìn\
(fringuello); cupr-um (rame) e cemb-alo; placca, lac-
ca (eroso) e frane, piane h e ; plaga e novarese langa
(per * pianga) (2); mucca e mongana e mungere;
s-gabuzz-ino e cambusa; lat. foc-us e ted. Fun\e (scin-
tilla), connessi con greco phaino «apparire»; lat.
clang-or «rum ore» ted. \ling-en «sonare», france-
se cloche «campana» e claque «schiamazzo a co-
mando»; ted. lagen ((giacere», lat. loc-us «luogo»,
lat. lanx «piatto», cfr. frane, planche e it. (plaga);
ruggire e ringhiare; russare e ronzare; ted. ruf-en
«chiamare» e it. ronf-iare; lat. obba « vaso» e am-
p h o ra; lat. rota e runda «rotonda, che corre» cfr.
lat. ruere, greco rheo «c o rro » ; nube e nimbo; ted.

(1) È curioso che il geroglifico indicante il re d’Egitto è l’ape o


vespa; e a questo geroglifico può riferirsi la denominazione « sfinge ».
Però in egizio questo geroglifico si legge Viti « ape », cfr. ted. Biette,
rad. T i, pungere; ma l ’uso che se ne fa per designare il re non è
dovuto a idee totemiche, sibbene a una ragione puramente grafica.
Bitu è nelle lingue ie. il re, cfr. Bitu-rige, cioè il vitello (oggi questo
nome è diventato Vito nel territorio latino, e Guido nel territorio
germanico); il geroglifico dell’ape si prestava a esprimere approssima-
tivamente questo complesso di suoni. Ciò è sfuggito agli egittologi.
(2) Plaga, pelagus, lacus (eroso) significano dunque « piano », così
come Latinum è da *platium «pianura»; onde iMcini e Latini sono
varianti, corrispondenti a L acon i (abitanti di pianura o lago e si-
mili); cfr. lun o Lacinia = marittima, « venuta dal mare ».

90
sag-en « dire » e singen « cantare » ; greco prox « ani-
male dio, cervo» e lat. princ-eps, ted. F r a n k ; greco
taphos e it. tom ba; cap-anna e campana (cavità); gre-
co schizo, it. schidione e lat. scind-ere; Id a «monte
boscoso» e anda (monte), anta (colonna, pilastro),
antenna «cosa eretta come colonna), Athos «mon-
te », Ossa « monte » ecc.; it. mente, ted. mut, inglese
wit («spirito» con w — m ); pizzo e pinza e punta
(pinza, nel senso di «focaccia» è da altra radice);
zoppo o zompo, tuffo o tonfo; vampiro e iranico
upir; inglese m eat «carne» francese mets «cibi»,
e lat. mand-ucare (cioè «ammaccare, stritolare coi
denti»); al-cova e cov-are e cata-combe (cucce sotter-
ranee); cuccia, guscio e conca; greco typ-to «batto»,
ingl. s-tep «passo» «pestata», e timpano, timbro,
s-tampa, tamb-uro e tiburio; liquido e limpha\ lat.
ob-liquus, greco loxós, it. losco, lussare « storcere »
e ted. links (a sinistra, obliquo); bebé e bambino; lat.
bib-ere e it. bomb-are; luce e lince (lucente, occhi
lucenti); lat. studeo, priamente « pungere, affrettare »,
e ob-tundere « togliere la punta » (cfr. taed-ìum pun-
tura, fastidio e quindi « no ia» ); lat. pap-yrus; popu-
lus e bambù; inglese pipe «tubo, conduttura» e it.
pompa, onde bombolo e bombare, e francese bom-
bance «bere molto, far baldoria»; monte, talora mut
(es. Mut-ina — Modena), greco m eta (con, far muc-
chio), lat. m eta «colonnetta, monticello», Y-mettos
(il monte, Inietto), Liccubetto (monte del lupo, con
b = m), mattone « duro come roccia », mat-eria, mat-
assa, massa «mucchio, monticello» ecc.; chicca e
chincaglia (chicco, variante di cece, cocco, cosetta ro-
tonda); vacco e Vingio, vengio (popolazioni antiche)
e inglese w hìg (nome di un partito inglese); greco
Kèpos, lat. cam pus; ted. M untze «m oneta», sicil.
meta, got. meta, greco misthós (propriamente «m i-

91
sura, tariffa » cfr. lat. modus, mod-erare, med-ius, ecc.
a lor volta da una radice significante tagliare, am-
maccare, qual è in mand-ucaré)-, scappare e scam-
pare; inglese thin\ «pensare», lat. tongere, greco
T échne «scienza» ted. Tug-end «virtù», taugen
«sapere» «valere», lat. doc-eo «insegnare» inglese
teach «insegnare»; lat. tot-us e tant-us, greco -tatos
(nei superlativi, es. bel-tatos «tanto bello»); Tab-or
nome di vari monti, e Tem pc nome di valli ma an-
che di monti, es. sicil. tim pa «m onte», it. tempia
«sommità del capo», tufo «m onte» poi «pietra di
monte»; strada e ted. strand; passus e it. ponte (che
fa passare; invece greco pontos «m are» è connesso
con pantano, e vale nutritore, dio); ted. Rande ((ro-
gna » e it. prud-ere; rombo e roboante (rad. car, « suo-
no » ; invece rom bo, come figura geometrica è connes-
so con rom pere, vale «scheggia» e corpo in forma
di scheggia); sicil. savucu, it. sam buco, ram pogna, si-
bilo e lat. sub-ulo; latino e greco Kantharos; scapolo
e scampolo « scampato, superstite » quindi « isolato » ;
ciancia e ciacola, greco \o\yo « far rumore come gal-
lo» (francese coq) onde Cocito: il fiume dei lamenti;
ghimberga e ted. G ebirge «m on te»; chicchera, ci-
coria « bevanda », etrusco ce\a « tazza, dono », it.
conca, ted. schenl^en «versare da bere e regalare»;
greco ater « senza » ma propriamente separazione (da
*sater), e ted. sondern; botte, bottiglia, francese pot
(onde forse potassa, materia per vasi) e it. pent-ola,
greco ópkis e lat. anguis «serpente»; greco obà «va-
so » om phalós « umbilico » ; it. mica, lombardo m in-
ga, gr. pachys e lat. pinguis, ted. lum pe « rifiuto » e
gr. leipo (( lasciare », gr. blépo « guardare » e lam p-
ada ; lubrico, lom brico (animale scivolante) e lam brec-
chtno (fregio a forma di lombrico), sbilenco per *bìs-
lenco e bis-lacco\ ted. Rote «ambasciatore» e gr.

92
bant- « andante », ted. echt « schietto » e lat. scmc-tus,
rozza e ronzino, ecc.
Un fenomeno fonetico comunemente attribuito al-
la lingua latina è il cosi detto rotacismo, e cioè la
trasformazione dellV intervocalica in r: es. Valesius
diventò Valerius, Ligures sarebbe derivato da Ligu-
ses. E si conosce perfino l’epoca in cui questa innova-
zione avrebbe cominciato ad introdursi nel latino,
come risulta da una testimonianza di Cicerone, e dal
fatto che p. es. la parola Lares (Lari) nel canto dei
fratelli Arvali figura ancora nella sua forma origina-
ria Lases.
La dottrina concernente il rotacismo latino può
considerarsi esatta; ma ciò che lo è molto meno è
l’asserzione che il rotacismo sia fenomeno apparte-
nente alle lingue storiche ie., mentre lo si può docu-
mentare già nel preindoeuropeo (che per me è sem-
plicemente protoindoeuropeo mentre per la dottri-
na corrente è extraindoeuropeo). Se Ligures fosse
una forma dovuta al rotacismo latino, come va che
Lloygw ir (ligure) si trova già nel celtico? Come va
che questo fenomeno si trova nelle lingue germani-
che (es. ted. dar-um per das-um « per ciò », ed esem-
pio ancora più notevole è il verbo ted. wesen «es-
sere » che in talune sue voci prende IV, es. war « era »,
nonché la coniugazione dello stesso verbo nella lin-
gua danese?). Come va che nelle lingue mediterra-
nee preindoeuropee, p. es. nell’etrusco (ma anche in
altre lingue) si trovano plurali in r che sono sorti
per l’aggiunta di un suffisso se a un tema terminante
in vocale (es. ted. Kind-er è da Kinde-se)? E nel-
l’etrusco e nel lido dativi in -eri derivanti da -esi, es.
etrusco Erm -eri « a Erm ete», licio Prijem -eri «a
Priam o»? Casi di rotacismo non mancano neanche
in greco; ed è normale poi nelle lingue ie. il rotaci-

93
smo nella formazione dei nomi di agente del tipo
latino pat-er o del tipo tedesco Berlin-er «berli-
nese» (1).
Quando una parola ie. comincia per vocale, nella
maggior parte dei casi questa è un residuo della sil-
laba iniziale caduta (erosione); ma in molti altri ca-
si, come si è detto, si tratta di articolo incorporato:
es. lat. dent- (dente) è eroso da edent- « mangiante »
ed eroso è perciò l’inglese tooth « dente », il ted. zahn,
meno eroso invece il greco odont (dente). Invece nel-
la parola greca o-phry-s «sopracciglio» Po iniziale
è articolo incorporato, come dimostra il lat. front
(parte anteriore della faccia, fronte), Bronte (città
dell’Etna, propriamente « sporgenza, collina »), tutte
parole derivate da prò che significa « avanti » (origi-
nariamente invece «fecondatore» rad. par, quindi
« dio, capo, principe » e perciò « primo, che va avan-
ti»). Notate, di passaggio, in tutte queste parole, la
nessuna osservanza delle leggi di Schleicher-Pott-
Grimm.
Altri esempi di articoli incorporati sono: greco
a-gdpe «banchetto» propriamente «orgia sessuale»
da rad. cup che è in lat. cup-io « fecondo » e quindi
«amo, desidero»; a-cervo (mucchio), connesso con
parole come Karpe, K alp e (alpe), Corfù tee. signifi-
canti montagna ; A-dernò (città siciliana) da confron-
tare con Derna, in Cirenaica, Dorn, Thorn , onde ri-
sulta che il lat. A-dranum è parola meno genuina del-
l’attuale Adernò; greco cu-thy-s ovvero i-thy-s ((di-
ritto » propriamente « che corre bene » (theo « cor-
rere ») oppure « divino » quindi « retto » (theós, dio);

(1) Vedi capitolo « Origine delle for m e gram m aticali », pag. 333. Se
confrontate il nome latino dell’oro *ausum (poi aurum ) da *causum
col nome ie. dell’oro *gh arata vi accorgete che il rotacismo risale alla
pili alta antichità e si trova nelle lingue semitiche e anche nel sumero.

94
greco e-teós « sincero » propriamente « divino » (con-
nesso con theós, dio); é-timos «v ero» propriamente
«rispettabile» {timào «onore» propriamente «bru-
cio timo o incenso per uno») (1); greco hé-\astas
«ciascuno» propriamente « il casto, il dio, il sole»
quindi « il tutto» e quindi ancora «ogni cosa»; in-
glese e-leven « undici » propriamente « il vaso » lat.
lab-r-um (2); forse greco l-ton accennante a una po-
polazione di Tani, Timi, Tini o Danai; greco a-byssós
{bi, pungere, scavare, lat. fossa, dov’è a notare la nes-
suna osservanza della legge di Schleicher-Pott-
Grimm); lat. a-dolesco, rad. d ol «fiorire» greco thal-
lós « fiore » siriaco thalìta « giovinetta », al cui pro-
posito è da osservare che l’etimologia corrente ad-
olesco dal verbo olere « odore » è sorta per la sugge-
stione del verbo ab-olesco (questo si che è da olere),
col quale mi sembra non abbia nulla che vedere;
forse greco a-nàn\e « necessità » lat. nec-esse (nec =
nodo, difficoltà), ted. N ot da * K n o t «no do » rad.
can «piegare» che si trova in lat. gena «piegatura,
ginocchio », greco gónos « angolo », lat. ham-us
«amo, uncino», ted. \amm «pettine» (per *\am b,
greco góm phos, chiodo), cam -ola « verme che rode »
(raffigurato ad artiglio), ecc. Questi accostamenti mi
han fatto considerare troppo astratta e speciosa l’eti-
mologia corrente di an-an\e come « cosa che non si
piega ». Dalla stessa rad. il lat. nanc-iscor « afferro »,
cfr. sicil. gnaccu «uncino, calappio», lat. ham-us, it.
ganc-io, ted. (ga)nag-el «unghio, artiglio».

(1) Il lettore non prenda scandalo di questo tim ào connesso con


timo (thymus); anche greco pithecos 8 scimmia » propriamente « ani-
male sapiente » è connesso con pynthanomai « apprendo » e con
Pittacós (nome proprio) e psittac is per s-pittacàs «pappagallo» cioè
« sapiente, imitatore ».
(2) A rigore e qui vale uno, e Uvcn « conca, giumella » cioè a 10
dita »; quindi uno - f d ica .

95
L ’articolo, incorporato è il residuo nelle lingue ie.
storiche, e sopratutto nella toponomastica, di uno sta-
dio linguistico di tipo camitico e semitico; occorrerà
perciò molto tempo, prima che l’etimologia riesca
a vederci chiaro in tutti i casi, i quali devono essere
analizzati uno per uno. Ci sono infatti dei casi in
cui può essere indifferente ammettere che la vocale
iniziale sia articolo o residuo di erosione: es. in lat.
A- mestrata (Mistretta) che, cominciando per M, è
parola erosa, Va iniziale può appartenere alla radice
(lat. m aneo, Mestre = dimora, maniero), ma poiché
la parola masr (edificio, fortezza) doveva essere co-
munissima, specialmente nel mondo semitico, non si
può escludere che a questa sia poi stato attaccato
l’articolo.
Ci sono casi invece nei quali distinguere è della
massima importanza, perché dal preferire l’una o
l’altra soluzione deriva un totale cambiamento del-
l’etimologia. Ma purtroppo non siamo ancora al pun-
to da potervi dare su ciò una dottrina definitiva. Vi
dirò perciò soltanto le cose che pel momento mi sem-
brano accertate, e accennerò con riserva ad alcune
ipotesi probabili.

Origine dell’articolo. - L ’origine dell’articolo è cu-


riosa. Come vedrete nei capitoli intitolati « Curiosi-
tà lessicali» e « N om i P rop ri» esso in origine non
era che un semplice titolo di riguardo, e significava
« dio, signore ». Ma ancora non era articolo, perché
non he aveva acquistato la funzione. La sua funzio-
ne ebbe inizio come conseguenza di un fenomeno
sintattico. Vi porterò un esempio tratto dalle lingue
bantu, le quali mi hanno reso preziosi servigi in
queste mie ricerche. Per dire: « il padre bastona il
figlio» il bantu dice: « il padre egli bastona il fi-

96
glio» (1); senza questo egli non si capirebbe se sia
il padre che bastona il figlio o viceversa. Ora, per
distinguere il soggetto della proposizione, si usò per-
ciò aggiungere ad esso un pronome. Questo prono-
me fu aggiunto in principio delle parole come pre-
fisso; o alla fine, come suffisso. In questo secondo
caso esso diede origine ad alcune desinenze della de-
clinazione indoeuropea, che saranno viste a loro luo-
ghi; nel primo caso invece, rendendosi via via su-
perfluo per l’intelligenza degli ascoltatori, diventa a
poco a poco un vezzo d i lingua o in altri termini un
articolo; e quando si perdette il senso della sua fun-
zione originaria, lo si uni perfino ai casi obliqui.
L ’articolo fu quindi in origine un pronome avente
una funzione che in seguito si rese inutile; sia perché
l’intelligenza dell’umanità si faceva adulta, sia per-
ché, come vedremo, questa funzione fu simultanea-
mente e pletoricamente attribuita anche ad altri pro-
nomi incorporati nei nomi e nei verbi. Ora che cosa
erano questi pronomi? Null’altro che vocaboli indi-
canti un uomo o più uomini, e siccome l’uomo di
una tribù aveva il nome del totem della tribù, vale
a dire era un bue, un cane ecc. oppure un « uomo »
o un « d io », cosi questi pronomi in definitiva non
significano altro se non il concetto generico di « dio »;
p. es. l’ie. agam « io » significa «un bue» (baga +
em cioè bue + uno); in greco hemln e hymtn (« noi »
e « voi ») significano propriamente ed entrambi « uo-
m ini»; in ebraico ano\-i (io) è \ana\ dei Greci (si-
gnore, uomo, bano). Ma è evidente che, nella fun-
zione di articolo, non vengono in considerazione se
non i pronomi di persona: nelle lingue semitiche,

(1) Residui di questo modo bantu di costruire il periodo sono nel


dialetto friulano: p. es., per dire « egli fa » si dice a lui al fasD
(lui, egli fa).

97
7. - L'origine del linguaggio.
al (ebraico ’el «d io » , arabo allah « d io » ); nelle lin-
gue camitiche, p pel maschile, t pel femminile, hen,
en (da shen) pel plurale; nel greco ho i\ o, \u, come
risulta dalla mitologia celtica, nonché dall’onomasti-
ca di varie regioni, p. es. in Anatolia, cho premesso
ai nomi, significa « d io » ); nelle lingue germaniche
e nordiche si hanno articoli derivati dalla parola di
(dio), es. inglese thè, ted. die, ecc.
Ora il problema è il seguente. Dato che il linguag-
gio ie. attraversò uno stadio grammaticale camito-
semitico e forse, in alcune zone, stadi grammaticali
di tipo mongolico (ugro-finnico), è possibile isolare
dai nomi ie. e dalla onomastica e toponomastica del-
l’Europa e delle adiacenze classiche, gli articoli ri-
masti eventualmente incorporati nelle parole? In al-
cuni casi, i risultati offrono un grado sufficiente di
probabilità, vorrei perfin dire di certezza; in altri,
non ancora. Eccone alcuni esempi:
I. - Ja si trova usato con nomi propri e in questo
caso può essere, piuttosto che articolo, titolo: es.:
ja-cob (il signor capo, la in ebraico vale «d io » );
Ja-dert (Zara) cfr. Dert-ona, Dert-osa, Dard-ania, do-
ve D ard vale «città, fortezza», cfr. Tart-esso, Terg-
este, Torg-ovia, Trogh-ir (Trau), ecc.
Talvolta questo Ja è reso con A i: Ai-gyp-tos (il ca-
po, il gufo o gheppio, greco gyps, o animale in ge-
nere); forse è anche articolo in lat. a-dul-ari «com -
portarsi da schiavo» (greco doùlos, schiavo, da deo
«legare» cioè «essere del dio», «appartenere allo
harem del tempio»; connesso è forse il ted. dienen
« servire »).
II. - Eu in Eu-ganei (gli dei Gani, cioè uomini,
parola corrispondente a lat. gen-ius e greco gyné
«donna»); Eu-phrates « i l dio Puratu o Partho o
fecondatore»; greco eu-thy-s, di cui si parlò in pre-

98
cedenza. Questo eu greco, rimasto come avverbio col
significato di « bene » è da vesu (lat. ves-ulus, dio,
vizir) e ha dato origine al verbo eào «permetto»
cioè «sono vesu- comando».
Non è invece necessariamente articolo in Europa
(Ereb, regione dei Ver o capri), Eurota «corrente»,
Eridano, Rodano perché questi nomi sono erosi (rad.
vìr, girare, scorrere); tuttavia, il caso resta dubbio
(Eri-dano può anche spiegarsi « fiume di capri o ver,
cfr. Api-dano, fiume di Apii).
III. - Y in Ym ettós « il monte» parola senza n :
cfr. motta, smottare, smussare (togliere la sporgen-
za), muso « viso sporgente come quello animalesco »
ecc. M ento invece vale « monte », sporgenza del viso.
IV. - I n : lat. in-musulus, In-gauni, In-subres (va-
riante di Isom bres ). Potrebbe eventualmente trattar-
si di hen (dio), che si trova in pronomi danesi (hun,
bari) e in nomi come ted. H en-rich « il signor ricco
o re ». Invece in En-gaddi (ebraico En-ghedi « la
sorgente santa»), En-gadina, non è articolo; è il no-
me della sorgente (arabo ain, ted. Inn, nome di fiu-
me, lat. Anna perenna, Anio, Anapus ed eroso in
Non, es. Portus N onae «Pordenone». Val d i N on,
ecc. In ebraico Ge-hinnon « Geenna », l’ultima paro-
la vale « torrente, fiume ».
V. - H i: spagnuolo H i-dalgo (cfr. greco Telch-
ines «fabbri») «signor fabbro, cavaliere». L ’Iberia
era antica regione di fabbri metallurgi, e questo vo-
cabolo è un fossile rivelatore.
VI. - J o : jo-casta « la feconda» (cfr. kass-andra
«casta donna»); Josep h « il santo», lo-\anan (il ba-
no o gano), ]u-gurtha « il signor capo ». Mi-giurtinia
forse: terra (mat, m atia come in M atgog e Dal-matia)
del Giurta o capo.
VII. - In Ol-ombres « i signori Gomer o Umbri

99
o Em iri», Vil-ombres a i signori Umbri» si tratta
di titolo, usato poi per distinguere le varie tribù.
L ’uno è al (dio), l’altro è Baal, che ha diverse varian-
ti: Belo (da cui it. bello), inglese w ell (bene), lat. vilis
passato poi a significato peggiorativo; ma il signifi-
cato originario si conserva in Vil-no a città del re,
capitale », in ted. Wil-hel-m « il signor dio » (bel —
al, dio; m finale, come vedremo, è un segnasingo-
lare).
Quando al significato di a umbro», conservatosi
nell’arabo em iro, cfr. il lat. imperator, umbro em-
brasur a sono capo o gomer, emiro».
V ili. - P : si ha il sospetto che p iniziale in alcuni
nomi sia articolo di tipo camitico: greco psy-ché
(il succo, il sangue e l’anima creduta risiedere in
esso) (1); greco p-seud-os a menzogna» propriamen-
te « sogno, illusione » da (s)eudo « dormire » ; Af-gani
a signori ga ni»; greco ap-sinthion a assenzio» pro-
priamente a erba santa»; greco p-samma, lat. sab-ies
a la sabbia», a la santa» perché feconda la terra,
cfr. greco \onis, lat. cinis a fecondatrice » (greco
kyo, a fecondare »), perché la cenere si spargeva sui
campi per renderli fecondi. Invece in greco psittacós
a pappagallo» v’è inversione per * s-pittacós (cfr. pi-

(1) Crescono a dir vero sempre più gl’indizi che gran parte delle
parole cominciami per s (dove essa non sia un fenomeno satem) siano
erose. Così la rad. san indicante nutrizione, santità, è probabilmente
erosa: nota lat. sanus e vesanies « belluinità, veemenza »; greco xan-
thós «biond o» ma propriamente «santo, della casta dom inante»; per-
ciò greco psàm m a « sabbia y>,psyché « succo, anima » ecc. potrebbero
essere da rad. pa, k.a « nutrire ». È curioso, p. es., che a lat. seg-nis
« tranquillo » « tardo » ma propriamente « ben pasciuto » corrisponda
greco ( v)ésych-os, dove l ’erosione è quasi certa. Che il nome degli
Sciti Saca sia eroso si sospetta per via del nome moderno dei Cosacchi;
così Salii per via di greco psallo « salto » e di ted. casali (vassallo);
lat. sepclio «sep pellire» per via di véspìllo «becchino »; e lat. sept-em
« sette » « la luna sepolta » per la stessa ragione, cfr. del resto anche
l’etrusco ce-sp (sette?).

100
the^ós scimmia): ((animale sapiente, imitatore, pap-
pagallo » (connesso con greco pynthanomai « appren-
dere »); in p-salis « forbice » v’è inversione per *s-palis
(rad. pai « tagliare », cfr. pal-mento e greco pel-epys
« scure ») ; in greco pn eùm a « spirito », p non è artico-
lo (cfr. pneo « respirare » rad. ve, p e « girare » come
in vent-um, (v)animus, ecc.).
Sembra articolo invece in p-tyo (lat. spuo, sputare);
p-toliethron « piccola polis o città » e in P-toletnaios
« Tolomeo ». Per quanto riguarda il secondo, si può
sospettare una inversione (t-polìethron), ma non è da
escludersi una variante *tolis per polis, cfr. Tell-ene,
arabo teli « collina », l’isola Thu le, il lat. tell-us; quan-
to al terzo, si può sospettare una inversione t-polema-
ios (guerriero, da po lem os «guerra»). Se non che,
doveva esistere una variante T olem os « guerra » come
ci attesta l’esistenza del verbo tolm ào « ardisco ». Me-
no probabile mi sembra una terza soluzione: *tpole-
m os potrebbe corrispondere esattamente a lat. *dvel-
lum (da duellum , onde poi bellum, guerra).
Insomma, restano più dubbi che certezze; quanto a
psào, psodio, vedi XI.
IX. - T in T m olo « il molo o monte » ; ma si può
sospettare una contrazione da Tytnolos «altura».
Nell’etrusco t-macstrev « fu magister, o mastarna o
generale » ; ma si può sospettare che questa t iniziale
corrisponda a lat. et, greco te (congiunzione è).
X. - Al. Doveva essere anche nell’ie. ; nel latino ha
dato origine al pronome ille, nonché ad al-ius, al-ter,
ul-ter, che non sono se non varianti; e tuttora si trova
agganciato, col significato originario di titolo onorifi-
co, a nomi propri: Al-berto, Al-fonso o Al-onso (con
erosione) « i l signor principe o Ponzio»; mentre in
Ilde-fonso, Adal-berto, ilde e adal significano rispetti-
vamente «eroe, anziano» (ted. alt, e ted. held) e

101
« nobile » (ted. adel per *vedel « vitello »); in Adalgi-
sa il secondo termine vale « donna » come in Gis-
elda, in Isa-bella (isha in ebraico vale donna, ves-ula,
dea; bella = signora, femminile di Belo); cfr. anche
basco gizon « uomo », giapponese gesha (donna ») (1).
XI. - Benché non esista un articolo camitico in
gutturale, — esistono si dei pronomi — si ha qualche
motivo di sospettare la presenza di un articolo di que-
sto genere:
1) in greco ch-thon ((terra», perché -tanu, -don
(nel greco, -dunum (nel celtico), *thina (nel greco)
accennano concordemente a una radice cominciante
per dentale;
2) nel greco ch-thés (ieri). Questo caso è assai diffi-
cile a decifrare, perché la forma latina hes-ternus (di
ieri), il ted. gestern (ieri), il russo ciàs (adesso) e il ted.
ge premesso ai participi passati e l’aumento greco e
(da *ge) accennano a una gutturale o a una palatale
quale radice della parola e non a una dentale come
in greco ch-thes. Dunque, o si tratta di una metatesi
(chthes per thehes), nel qual caso l’articolo sarebbe th,
o si tratta di una grafia arcaica, per rendere in greco
un suono palatale. Ricordo qui che questo procedi-
mento grafico non è isolato. Il copto, p. es., nel suo
alfabeto grecizzante, rende il suono della parola Sog-
diana mediante la trascrizione Soggiana. E che cosa
sarebbe questo ges palatale (cioè jes) ? Potrebbe essere

(1) Noto qui però che molti A l, 11, 01, premessi a nomi di origine
germanica, sono riduzioni di alt (anziano), held (« celto, eroe »): es.
Ilde-brando ha dato le forme volgari Olle-prandus, it. Ali-prandi,
Libranti (cognomi); Aldi-ghiero ha dato Alighieri, ecc. Quindi Alberto,
Ulrico ecc. possono benissimo essere riduzioni da Childe-berto, Childe-
rico, ecc. (Berto = principe, rico = re, ricco; brando — Brenno, capo;
cfr. Brenta, nome di monti, fiumi e del cervo in Brentésion = Brindisi,
città). Se ne deduce che renna è da brenna, parola ancora in uso fra
noi pel cavallo.

102
una trascrizione di die-s « giorno » da *dies (lat. heri
per *hes-i locat., significa dunque « nel giorno, giorno
è »), cosi come lat. jam, ebraico yo-m «giorno» sono
forse trascrizioni di diam, diom, greco dià è trascri-
zione di ga «terra» (suono palatale), lat. Jovis di
Diovis (da gw - « capo » o vov- « bove, capo »), Jana
di Diana, ecc.
Si potrebbe sospettare un articolo ^ in greco \-san-
thós « biondo » (propriamente « santo »), nel persiano
\-satrapa «satrapo», nell’indiano \-satria (nome di
una casta), ma ci sono molti dubbi. Il trovarsi parole
come greco By-zantion (terra di santi, cfr. Bì-thynia
« terra di Tini ») e come ital. Zante, che deve ripro-
durre una denominazione antica, obliteratasi nella
tradizione letteraria, ci fa sospettare che l’articolazio-
ne \s avesse lo scopo di rendere un suono z, prima
della introduzione di questo segno alfabetico. In gre-
co, p. es., abbiamo doppioni come \-sào « raschiare »
e p-sào «raschiare» (onde psilós «dolce» cioè ra-
schiato, lisciato; psorós «scabro» «che raschia»;
psephos «pietruzza» forse «pulitura, raschiatura»
dell’epoca neolitica): ebbene, questa doppia grafia ci
fa sospettare che l’accoppiamento delle due consonan-
ti KS, PS sia un artificio grafico per rendere un suono
zeta o altro suono aberrante del greco classico, tanto
più che la lettera greca W (psi) sembra null’altro che
la riproduzione della lettera ebraica ]11 (shirì) (1).
Invece in greco psàllo « cantare », lat. salio « saltare,
danzare» si deve sospettare una erosione; il signifi-
cato di questi verbi deriva dall’operazione caratteristi-
ca dei sacerdoti Salii, abitanti nei boschi (detti perciò
in lat. saltus), e Salio sarebbe da vassallo, ted. vasall,

(1) Nota che in lat. sorex «roditore, sorcio», in ted. sauer «acido,
corrodente », in inglese sore « corruccio » la radice per indicare l’idea
di rodere è sa.

103
lat. ves-ul-us «vizir, dio»; infatti, presso i Franchi,
che avevano la denominazione di Salii, si trovano i
vassalli.
XII. - Più intricata ancora è la questione di un
eventuale articolo s. È un fatto che molte radici sono
precedute, senza che se ne veda ragione alcuna, da
una s anorganica, che non ne altera affatto il signifi-
cato: es. lat. s-puo, lat. fuc-us e greco s-phex «vespa»
e s-phinx (variante con n del vocabolo precedente);
lat. r-pl-endere (rad. pai come in pall-ido, in bal-eno,
in fol-gore, ful-mine, fal-ò, nel ted. blond « biondo »,
nell’inglese bl-ind «cieco» forse «accecato dalla lu-
ce» ecc.); greco trepo e s-trepho «volgo», s-trophé
«evoluzione di danza, ritornello»; ecc. Bisogna poi
considerare che questa s prefissa a verbi si deve sup-
porre prefissa in origine a nomi, perché in sede di
evoluzione del linguaggio nomi possono derivare da
verbi e viceversa (es. lat. spe-s « speranza » è derivato
da spero, il quale a sua volta è da *spera greco sphaira
«il fecondatore, il cielo», rad. sep «fecondare», e
dal significato di «volta celeste» passò a quello di
«cosa rotonda, sfera»: sperare quindi significa «in-
vocare il Cielo»); ma in origine, come vedremo, il
punto di partenza fu sempre il nome e non il verbo.
In terzo luogo bisogna considerare che nello spagnuo-
lo e nel francese, la cosi detta s impura è preceduta
ordinariamente da vocale integrativa, cosi come del
resto, in certe situazioni speciali, anche in italiano, e
che il nome italiano dellV, a somiglianza del nome di
l, r, m, n, accenna a erosione. Questa peculiarità della
pronunzia italiana, per quanto possa parere cosa mo-
derna, ha il suo valore; ho infatti notato che talora
pronunzie credute moderne, come p. es. quella di it.
giogo rispetto a lat. iug-um, it. giuso rispetto a lat.
iu-sum, sono non già innovazioni, ma raffioramenti

104
0 anche continuazioni di pronunzie antichissime (in
questo caso, g palatale) rimaste superstiti in margine
alle pronunzie culturalizzate (1).
Ciò premesso, vediamo quale potè essere l’origine
di questa s articolo. In italiano molte delle cosi dette
s impure derivano dall’ex latina; analogamente si può
pensare che la parola che diede origine al ted. aus (da)
inglese out (forse da *caut, cut « tagliare, resecare »)
abbia lasciato, per causa di erosione, la sola s, rimasta
per tal modo a sembrare un suffisso (2). In questo caso
si tratterebbe di una preposizione e non già di un arti-
colo; ma questa ipotesi non servirebbe a risolvere tutti
1 casi, anzi servirebbe solo in qualche caso: es. it. sfa-
celo sembra risalire al greco spha\elos «cancrena,
disfacimento»; ma questa parola greca non si spiega
facilmente con l’attuale lessico greco, e potrebbe essere
un imprestito dal latino: vuoi che si connetta alla
rad. fac di facere, come l’it. disfare da fare, quindi
« disfacimento », vuoi che si connetta alla rad. pac di
pacco, pace, fag-otto (paccotto), nel senso di «disso-
luzione ».
Nella maggior parte dei casi, questa s impura è
assolutamente indifferente rispetto al significato della
parola, e non può quindi derivare da una preposizione
come quella che abbiamo chiamato in causa: es. greco
gràph-o e lat. s-crib-cre\ lat. s-pat-ium e s-pat-ula con-
nessi con patet «essere piano, aperto»; lat. s-qual-or
connesso con scaglia «insieme di scaglie o scorie,
(1) È evidente che iù per giti non è altro che una erosione. La
parola genuina è perciò la piu integra, non l’altra.
(2) Un oth con significato di separazione si trova in greco othneios
« estraneo »; se- con significato di separazione è frequente in latino,
es. se-paro, s-parum da un antico set- sec-, onde anche lat. ex per * sec-s,
e col senso di azione compiuta (es. ex-haurio) come il ted. aus in
aus-lehen « finir di vivere ». Lat. haud (non), aut (togli) sono connessi.
In it. sprangare e spalancare (eie. frane, planche « asse piatta »), che
foneticamente sono varianti, si trovano questi due opposti sensi.

105
sudiciume » (s-caglia è anche connesso con s-qualo
«pesce» propriamente «d io » cfr. ted. Wal-fisek
«pesce dio o Baal», it. balena «dea, baalina», it.
gual-drappa «drappo del dio, il cavallo»: drappo a
sua volta è connesso con greco trepo « avvolgere »
quindi «coperta»); it. scarpa, greco (£)arbyle; it.
ciotola e s-catola, greco Kyma «onda» lat. s-puma
per *s-cuma, ecc.
Nel licio esiste la parola isbazi che significa « locu-
lo, posto per il defunto », e perciò è verosimile trattar-
si di un vocabolo corrispondente a lat. spatium. Qui
ci si presenterebbe una forma più integra di prefisso,
cioè is; ed è curioso che un articolo is esiste in unghe-
rese. Questi accostamenti fanno supporre che l’articolo
is stia per vis, che sia cioè un antico titolo divino vesu,
il quale in greco si trasformò in eu, che anch’esso ab-
biamo già visto usato come articolo. Altra supposizio-
ne probabile potrebbe essere questa: che l’r sia nato
da un se, cioè da un pronome che si prefiggeva ai no-
mi per segnare il nominativo; quello stesso pronome
che, usato quale suffisso, ci diede la desinenza in s
dei nominativi greci e latini e che, rotacizzato, ci die-
de i plurali indoeuropei e mediterranei in r (1).
Naturalmente si tratta soltanto di ipotesi, e per di
più la questione è complicata dalla difficoltà in cui
spesso ci si trova di stabilire in talune lingue se abbia-
mo a che fare con un articolo s incorporato o con una
forma satern: es. in ted. schmarotzen «far mariole-
rie» (francese maraude), sch iniziale è il vestigio di
una erosione, perché il mani era un personaggio san-
to, un camauro o gomer diventato in seguito magi-
strato, maschio (lat. mar, maschio), signore (ebraico
mar-ari), e quindi ancora briccone (it. mariuolo); ma

(1) Vedi capitolo: « L a lìngua degli 'Etruschi ».

106
a it. s-catola, dove l’r è articolo incorporato, corrispon-
de ted. schachtel : abbiamo qui una forma satem o un
articolo incorporato? Se paragonate lat. s-cribere e
ted. schreiben, lat. caedo e ted. scheiden (tagliare),
lat. canus e ted. scheinen « splendere », vi accorgerete
della difficoltà di sentenziare in questo groviglio. I
Medi chiamavano il cane s\a\a, ed è probabile che s
qui sia articolo, perché \a \a sembra il nome dei Cauri
(Caucaso), forse conservato nello spagnuolo gaucho,
quindi un nome divino che in greco ci diede \a \6 s
« cattivo » : se ne deve concludere che il nome dei re
persiani shah non è altro che il nome del cane, nome
del re presso i Tartari (e cosi lo she\ degli Arabi, che
non è altro se non lo shah dei Persiani, e che in Sicilia
passò per dispregio a significare « asino »), cosi come
il Califfo non è altro che il cane (ebraico caleb « ca-
ne»). Ma se viceversa ska\a non fosse altro se non
una trascrizione approssimativa dei Greci, noi non
dovremmo più vedere qui un articolo incorporato, ma
semplicemente un tentativo maldestro di rendere la
pronuncia satem della parola scitico-persiana. Questo
ragionamento non perde il suo valore anche se la
vera lezione di Erodoto (I, 110), là dove parla del
cane presso i Medi, sia spaka e non s\a \a (1).
Da quanto sopra risulta che nulla è tanto certo,
quanto l’esistenza di articoli incorporati nell’ie.; ma
nulla è cosi irto di difficoltà quanto lo stabilire, volta
per volta, se una data protuberanza di parola sia resi-
duo di erosione o articolo incorporato. Farà certamen-

(1) K a \- è nome generico di animale, cfr. francese coq, it. ctic-ulo,


cucco, eie-ala, cie-ogna, greco k y\-nos « cigno », it. ciuco o ciocco,
forme palatalizzate di * \o \-. Se i greci ne trassero la parola bakós
con significato di « cattivo », se ne deve concludere che considerava-
no questa parola come straniera. Vedi su ciò il capitolo: « Mitologia e
Preistoria ». Quanto a spalla, esso sarebbe da rad. sei? « santo » e corri-
sponderebbe al nome che gli Egizi davano al coccodrillo (soba\i).

107
te opera geniale colui che risolverà questo problema
meglio che io non abbia saputo fare fin adesso; perché
sono convinto per esperienza che le difficoltà che resi-
stono più ostinatamente ai nostri sforzi di analisi sono
quasi sempre quelle da cui poi si sprigionano — al
momento della soluzione — le grandi e luminose
verità che rivoluzionano dalle fondamenta gli orga-
nismi delle scienze.

Equivalenza delle occlusive primitive. - Vi ho detto


che i suoni primitivi devono essere stati gli occlusivi
(p, t, b, d, g) e che perciò, all’inizio delle parole, se
esse non sono erose, dobbiamo aspettarci di trovare
qualcuna di queste consonanti o le succedanee delle
gutturali (z, s, sh): queste ultime per altro sembrano
meno primitive. Ora qui aggiungo che, quando voi
trovate una parola erosa, potrete integrarla aggiun-
gendo una qualunque di queste consonanti, perché
esse in origine erano indifferenziate, onde ne venne
che le radici si trovano quasi sempre in tutt’e tre le
varianti (gutturale, labiale, dentale). L’unica avverten-
za da fare è che non sembra, almeno nell’ambito ie.
e camito-semitico, che ci sia stata erosione delle den-
tali iniziali; se ne può tutt’al più citare qualche esem-
pio sporadico e non sempre sicuro: es. sicil. antìcchia
«un tantino»; sicil. ampa «tanfo»; inglese aunt,
ted. tante «z ia» (?) (1).
Nel corso di questo libro l’equivalenza delle occlu-
sive sarà trattata diffusamente; qui bastino alcuni
esempi: I. greco hólos «tutto» lat. solus «solo»,
ebraico coll «tutto», ingl. whole «tutto». II. lat.
gen-ius, homo (*gomó), greco gyné «donna», lat.
]uno ; greco beot. banà « donna » lat. Ven-us (Venere),
(1) Scr. aqru «lacrim a», gr. dà \ry; gr. aleurós e maleurós « fa -
rina ».

108
anus (donna), greco Ino (Ino, Ines), greco Vanax
«uomo, eroe, bano»; lat. Jana (gana, cfr. greco
gyné) e Diana; etrusco Tana, fenicio Tan-it, greco
A-thene; lat. ]ov-is {Djovis), lat. vov-eo «dedico a
Giove o Gove o Bove», greco Zeus (Djeus), greco
Hebe (femminile di Zeus), ebraico Havvah «Èva»,
ted. Weib « donna », greco Ió (*vivó) « Èva ».

L ’onomatopea e il linguaggio. - Nel sistema che vi


sto esponendo, c’è poco posto per le parole cosi dette
onomatopeiche, il cui quantitativo è cosi esiguo da
non avere alcuna importanza pratica. Ciò non signi-
fica che l’origine del linguaggio umano non debba
essere cercata nella imitazione intenzionale dei suoni;
ma il difficile è precisare in quale misura questa imi-
tazione abbia contribuito alla formazione del lessico.
Cercheremo perciò di precisare i dati essenziali del
problema.
Se c’è un campo nel quale l’onomatopeia avrebbe
potuto avere applicazioni su vasta scala, è quello che
riguarda le voci degli animali. Volgarmente si crede
che queste voci siano imitative, e molti filosofi hanno
costruito su questo principio tutta una estetica fanta-
sista. Ma l’analisi etimologica dimostra che questa
opinione è radicalmente falsa; le parole indicanti le
voci degli animali sono tratte dai nomi degli animali,
e non rappresentano affatto un tentativo di imitare
i loro suoni. Il lat. murmur è metafora presa dal ru-
moreggiare del mare (mare+mare), bisbiglio non è
da pissi! pissil, ma da vespa (*vespiglio, « rumore co-
me di vespe»), e altra parola derivata da vespa è
bisb-occia, quasi «vespaio» al figurato; gorgoliare,
gargarismo si spiegano con gorgo, garga (garganella),
gurga (gurgite, vortice, rad. gar, girare); ronzare non
è da ron, ron, ma da *rundiare « far la fonda, giron-

109
zarc », o forse anche è una variante con n di russare,
ruzzare (rad. gar, far rumore, cfr. garrire, gergo, ecc.);
ronfiare e il ted. ruf-en « chiamare » sono della stessa
radice delle precedenti, e cosi lat. orare è da os, oris
«bocca»; grillo è da gar, far rumore; barrire (1), bra-
mire, pigolare (pivola, «pupetta, civetta, uccello»),
chioccare (cfr. francese coq, gallo), ruggire, ringhiare,
ragghiare o ragliare {rag, rug, lat. rex, re, animale
dio, onde anche rocc-olo «urlare del lupo»; francese
hennir «nitrire» (2) (lat. hinnus «cavallo», ted.
henne «gallina», tubare (ted. taube, colomba, lat.
tat-iare voce delle colombe (greco tettiges « rondinel-
la», lat. Tities «nutritori, nutrici») sono parole
connesse coi nomi degli animali, non con le loro voci.
Squillare è da squilla (*s-cella, cfr. chiglia, cella, cosa
concava); cigolare è variante di cicalare; pigolare è va-
riante di pipilare (sicil. piula « pivola » è la civetta o
pivetta, lat. bubo)\ crosciare è variante di croccare
connesso con francese cloche « campana », con claque,
clìquetis, e ted. hjingen « sonare »; sing-ulto è connes-
so con ted. sing-en « cantare » e con lat. sonus, forma
satem di canere «cantare»; cinguettare o ciangottare
è connesso con cianciare, variante con n da ciacolare,
connesso con francese coq (gallo) e greco \o \y o « can-
tare, urlare» con palatalizzazione delle gutturali;
cinciallegra «che ciancia allegramente»; muggire e
mugghiare sono da mucca-, belare non è da be be
(voce delle pecore) ma è connesso con greco melos

(1) Bar in ted. è l ’orso, in greco var (Ar-es) è il capro, e indicando


genericamente un animale può aver indicato anche l’elefante. Bramire
fa supporre che brama cioè « dio » fosse nome applicato anche alla
tigre.
(2) nitrire da *genitr- cioè da una parola indicante « generatore,
d io » ; nutrire è parola connessa: da *genuter, onde nel lat. genitor,
genitrìx. Nota che in lat. Acca (*vacca) era nome di donna; in sici-
liano la giovenca è chiamata genizza, cioè « donna » (greco gyné).

110
« pecora » con b al posto di m (cfr. lat. mcl-ior com-
parativo di bello o Belo); greco melos (melodia) è
apparentato con meli (miele, dolcezza); frignare è da
fringuello; squittire o schiattare, variante di schianta-
re da spiantare rumore di pianta abbattuta; trillare è
connesso con greco threnos <( lamento » e lat. tr-ium-
phus « schiamazzo, acclamazione » (indicava forse in
origine teoria o treno di supplici captivi, dietro il
carro del vincitore; oppure è da rad. ter, girare « ru -
more di cosa che gira », cfr. greco troùllos « torrione »,
in Puglia truddu «costruzione preistorica»), miago-
lare è dubbio se sia da miao (voce del gatto) o da
miciolare (micio); brontolare è connesso con greco
bronté « tuono ».
Non è forse nemmeno onomatopeico abbaiare, che
a tutta prima accade di accostare a bau bau, mentre
è invece connesso con baiae « bocca aperta » (onde lat.
aio da *baio — dico), e con greco boé « grido », parola
la quale è invece onomatopeica, e corrisponde al gri-
do vae! vael (la voce dei bambini) da cui è derivato
il ted. weinen (piangere) e l’it. guaire, vagire. Da que-
sto piccolo quadro siamo in grado di dedurre un
insegnamento notevole: c’è nella lontana origine del
linguaggio una «presa» onomatopeica, ma tutto il
resto non ha nulla a che vedere con essa, è nato dal
libero giuoco delle varianti fonetiche e dei processi
morfologici.
Queste difficoltà si complicano per via di talune
affinità che rendono incerta l’etimologia: p. es. lat.
bucca (bocca) è connessa con greco phàgo «mangia-
re» e con bacca, o non piuttosto con lat. vox e con
greco (v) akpùo « udire » ? E qui entriamo nel campo
di una nuova scoperta. Considerate infatti la parola
greca ode (voce) e il lat. audio (udire): abbiamo una
corrispondenza chiastica con le prime due parole,

111
cioè lat. vox e greco {v) akpuo. La rad. di audio è
vaud- cioè una radice che indica genericamente pun-
tura e quindi sensazione; è la stessa radice che trovia-
mo in greco ózo «odorare» e lat. od-or; in greco
pynth-anomai (sento), in lat. putet « fa puzza » e
foetor (fetore); in ted. fiihlen «sentire» e lat. pulsus
(polso) connessi con lat. petto « spingo » e inglese to
pulì (tirare, premere); nel ted. fìnden « trovare, idea-
re » e lat. fundus, ecc. (Altre volte però questi signifi-
cati derivano dagli organi del pensiero e del sentimen-
to: es. lat. sentio connesso con sinus «il seno, il cuore,
il senno » ; greco phronéo « penso » connesso con
phren « petto, viscere » ; noto qui che sinus è da rad.
sa « nutrire », cfr. greco sene « mammella » e dà ori-
gine a sinister « dalla parte del cuore ». In altri ancora
si tratta di significati metaforici: es. lat. censeo «pen-
sare» è propriamente «contare il censo», e censum
« denaro », significa propriamente « ferro » è variante
non erosa di lat. ensis « spada, ferro » scr. osi, e altra
variante senza n è lat. aes «bronzo» greco /{assi
(teros) «stagno», propriamente «casto, dio». Da
specus « la tomba » che in origine era il mare, è deri-
vato specchio e lat. a-spicere, e species « apparenza »;
da inglese sea « mare » si ha il verbo see « vedere », da
lat. mare si ha miror, da greco hydor « acqua » si ha
la rad. vid «vedere», da inglese water «acqua», it.
guatare e badare, da ted. wasser « acqua », ted. hassen
«odiare», cosi come in lat. odere «odiare» è inten-
sivo di vìdere «guardare intensamente, in-videre»,
e optare è intensivo connesso con oculus e greco op-
« vedere »).
Il trapasso udire-parlare avrebbe dunque una base
semantica nel significato attivo-passivo « udire-far udi-
re » ; e su base semantica possiamo risolvere il quesito
postoci in precedenza. Come lat. orare «parlare» è

112
connesso con os, oris che a sua volta è dalla rad. vor
« mangiare » cosi voc- è connesso con bucca che a sua
volta è connesso con greco phago « mangiare ». Una
volta poi sorto il segno per indicare il suono {vox),
esso servi anche per l’audizione: {v) akpuo — odo.
Un’analoga difficoltà offre il lat. ver-bum <( parola »
che potrebbe riportarsi alla radice vor variante di vid
(cfr. greco orào «vedere»), ma si potrebbe anche
connettere alla parola ver (lat. vir « l’uomo capro, il
generatore »), allo stesso modo in cui le altre voci ani-
malesche si riportano ai nomi degli animali che le
emettono: e quest’ultima etimologia anzi permette-
rebbe di spiegare il significato di «creatrice» che
l’esoterismo antico attribuiva alla parola, come anche
il doppione par che si trova in greco parabolé, lat.
paraula, da cui it. « parlare » (1).
Neanche il greco demi « respirare » sembra onoma-
topeico, potendosi connettere a rad. cha « aprir boc-
ca» come certamente è connesso con detta radice il
ted. gàhnen « aspirare » cioè « ansimare dietro qual-
cosa » ed àhnlich « che aspira qualche cosa, che è si-
mile a qualche cosa ». Ma demi si può anche connette-
re con rad. va che si trova in greco {v)ànemos, lat.
ventum, greco pnéo, e che significa « girare, correre »,
greco trecho « correre » e tróchos « ruota », greco néo
« nuotare » da \inéo « muoversi », propriamente « gi-
rare », lat. cur-rere rad. cur, gir; lat. rito, greco rhéo
«correre», ecc.
Neanche le interiezioni, tranne alcune eccezioni,
sono onomatopeiche: ahi è il lat. Vae! (onomatopei-
(1) Parrhasios è da para -f- rad. re, cfr. retor, lat. orator. Il bosco
parrasio è il bosco parlante, il bosco degli oracoli, cioè il bosco profe-
tico dove il dio, con lo stormire delle frondi, dà i responsi (di passag-
gio, stormire è da torma «rum ore di cose in m assa»; torma è va-
riante di turba (m = b), cioè truppa, tribù, ted. dorf « villaggio »;
da una rad. terv « albero », qui propriamente «albero genealogico »).

113
8 . - L’origine del linguaggio.
co), ohi vale « dio » e cosi de h i, mal (madre, padre,
dio); marameo sembra significare «signor mio». Lo
stesso dicasi delle parole con c u i si chiamano gli ani-
mali: in Sicilia al gatto si dice -musei, cioè micino (ma-
go, dio); al cane tè, che può essere «tieni» oppure
«dio» (greco theios, divino); all’asino arri! («il re»,
cfr. urrà « il re! », egizio uro « il re » spagnuolo arriva!
« il ravo o re »), oppure biri-cà (forse burro, parola
spagnuola per indicare l’asino, e che è il byrrós « ani-
male, scarafaggio ecc. » dei Greci, il Boris degli Slavi,
il Pirro dei Macedoni, lo H o r degli Egizi); al caval-
lo passa-cà (forse «Pascià», Basso e Besso, cfr. lat.
pas-ser «passero, dio»); alla capra mari o maricchia
(la signora, la donna del M aru); alle galline puri-
puri (in bantu, puru — uccello, in inglese bir-d, in
greco peri-stherà è la colomba); al maiale chiò-chiò
{\u, ho, erano antichissimi no m i divini), e negli A-
bruzzi uz! uz! che forse è il greco hys « maiale » (1).
Che cosa resta dunque di sicuramente onomato-
peico? Di sicuro, appena due o tre parole, e una di
queste è il lat. vae/; di probabile, una decina: tin-
tin-no, suono dei campanelli (ma pensate che è con-
nesso con tono, e questo h a due varianti, cfr. lat.
canere e greco phoné «voce» (2); lat. s-puo «sputa-
re » ; ted. beben « tremare », forse dal tremar delle
labbra di chi è intimidito; ti-tu-bare, forse « far te te »
cioè non riuscire a parlare (m a si noti che può essere
un iterativo di tubare, esprimersi come le colombe, e
allora, addio onomatopeia!); e qualche altro. Meno
sicuri sono: balbettare da lat. balbus e borbottare,
(1) Per allontanare il gatto, in F riu li si dice ghèsì, in Sicilia frissi,
kissi!. Ma non ho, per spiegarli, alc un a congettura plausibile. Forse
si accenna a graffiare, greco xdo; forse meglio si ha qui un vocabolo
significante «g atto» : cfr. ted. \atze, inglese kit « g a ttin o » .
(2) Da tintinnare è derivato, per m etafora, it. tentennare « oscillare
come battaglio di campana ».

114
che è variante, forse derivano da barbarus reso in la-
tino con balbus: «barbaro» è propriamente il sol-
dato primitivo, il soldato dell’orda nordica, che parla
un linguaggio inintelligibile, onde poi per metafora
si sarebbe cavato borbottare ; greco blaisós (bleso), con-
nesso forse con blaterare, che può essere onomato-
peico (a far blè, blè », cioè non riuscire ad esprimer-
si), ma può anche essere metafora, cioè ballesio « sal-
tellante » ; tartagliare « far ta, ta », o forse anche « par-
lare come i Tartari»; cuculo, perché fa cucù (ma è
affine a francese coq « gallo » e ha dato origine a un
verbo greco significante « cantare, urlare », cioè \o \y o
«cantare come il gallo» (1), e al nome del fiume
infernale Cocìto o fiume del pianto; lat. bubo «gu-
fo», dal grido burnì burnì (ma è probabilmente
null’altro che « pope, papo, dio » : e i francesi lo chia-
mano infatti il «gran duca»). Il termine francese
hibou è eroso da bibo, bubo « capo » ; e il vocabolo
dialettale lombardo gibi-gianna sembra connesso con
esso (far lo specchiolino, far l’occhio di civetta).
Il ted. pfuiì, ital. puah!, è imitativo del suono dello
sputo. La rad. po, bo « bere » (lat. po-culum « tazza »,
bi-bere da *pi-pere o *pi-bere) potrebbe essere onoma-
topeica; cosi anche lat. dare, a meno di connetterlo al
concetto di « distribuire » e quindi « dividere » (rad.
de, dividere); cfr. ted. geb-en «dare» e rad. gab.
«spezzare», es. \ap-ut «rotto»; etrusco mulu, greco
molein «d are», rad. mal «schiacciare, dividere»;
mentre altre volte il concetto di dare si esprime con
nomi di oggetti che si sogliono offrire alla divinità:
it. regalare da regalia « la porzione che spetta al
re » ; etrusco ce\a « dono », « dare » da ceka « tazza »
(votiva); fìer «offrire» da fler «statua votiva»;

(1) Cfr. anche fr. chuchoter: « bisbigliare ».

115
cfr. gr. prap-ìdes « visceri », la parte del re o bravo.
Da interiezioni derivano gr. oimózo «fare oimè»,
ted. ach-zen «fare ah!» (greco àchos, ingl. ache,
« dolore »).
Ho sentito anche dire che i Mongoli usano molte
parole onomatopeiche, e per es. chiamano il treno
tungul tùngul, dal ritmo dello stantuffo o dallo sba-
tacchiare l’un contro l’altro che fanno i vagoni; ma
la mia competenza non si estende fin li. A me pre-
meva soltanto di precisare in quale misura si potesse
considerare l’onomatopeia come principio formativo
del linguaggio. E ho trovato ch’essa fu bensì al prin-
cipio del lessico umano, ma non è più attiva nel les-
sico storico delle lingue da noi scientificamente co-
nosciute; e che pertanto tutte le speculazioni etimo-
logiche, estetiche e metafisiche a questo riguardo de-
vono considerarsi prive di fondamento.

116
P A R T E S E C O N D A

ETIMOLOGIA E PREISTORIA

(Questa parte consta di una serie di articoli formanti


un panorama, in gran parte già pubblicati nel C o r r ie r e
d e l l a S e r a , edizione del P o me r ig g io fra il 1944 e il 1945.
Gli articoli o parte di articoli segnati con * vedono ora la
luce per la prima volta).

* I. - A l fa bet o e st r u t t u r a d el l in g u a g g io .

Sull’origine dell’alfabeto corrono ancora molti luo-


ghi comuni, che sarebbe ormai tempo di distrug-
gere. L’attuale dottrina ha le sue radici nelle sco-
perte del secolo scorso, quando la decifrazione dei
geroglifici permise ai dotti d’intravedere il rapporto
in cui la cultura mediterranea stava con la cultura
dell’Egitto e dell’Oriente fenicio. Egittologi ed orien-
talisti dimostrarono allora la derivazione dell’alfabe-
to greco dal fenicio, e dell’alfabeto fenicio dai gero-
glifici egizi. Questa veduta oggi ha bisogno di un’ac-
curata revisione. La scrittura egizia è detta ideografi-
ca, essa cioè indica gli oggetti mediante disegni, p.
es. per indicare il cane o il leone disegna il profilo
di questi animali, per indicare il sole disegna un di-
sco. È chiaro perciò che essendo i geroglifici in nu-
mero illimitato (almeno in teoria), un vero e proprio

117
alfabeto ancora non esiste. Sono i fenici invece colo-
ro ai quali comunemente si attribuisce il merito del-
l’invenzione dell’alfabeto nel preciso significato del
termine. Che cosa fecero essi? Furono gli scopritori
del cosi detto principio acrofonico; in altri termini,
un segno rappresentante un oggetto, p. es. la casa
(in fenicio be-th) non indica più la casa, ma il suono
iniziale di questa parola (nel nostro caso la lettera
b). I segni dunque nel fenicio non hanno più un va-
lore ideografico, ma fonetico. E, per effetto di ciò,
una immensa semplificazione si rende possibile: con
soli 22 segni si poterono esprimere tutti i suoni e
quindi tutte le idee. Il merito di avere selezionato
dalla ingente massa dei geroglifici questi 22 segni
e di averli tramandati a tutto il mondo civilizzato,
spetterebbe dunque a questo popolo di commercian-
ti e di navigatori.
Ora un’obbiezione ci si affaccia a tutta prima: so-
no i geroglifici veramente di origine egizia? Il prin-
cipio ideografico si trova, oltre che nei geroglifici
egizi, anche nei geroglifici babilonesi (anteriori ai
caratteri cuneiformi che ne furono una derivazione);
e molti segni, nell’una e nell’altra scrittura, sono tal-
mente simili, da far supporre, se non precisamente
la derivazione dell’una scrittura dall’altra, la loro co-
mune derivazione da un prototipo. Cosi stando le
cose, si ha il diritto di non trascurare alcuni e non
lievi indizi, i quali autorizzano il sospetto che l’ori-
gine dei geroglifici (o per lo meno del nucleo pri-
mordiale di essi) non sia egizia, ma nordica, e che
la scrittura fu importata nell’Egitto — ove poi subi
una ulteriore evoluzione locale — dagli invasori Ca-
miti, costituitisi in casta dominante. Per dire « dio »
gli Egizi dicono netar (cioè naziro, ebraico netzer,
spiegato come «virgulto», ma che invece è parola

118
erosa da rad. can. la quale si trova nel francese can-if
« temperino » e nel ted. schn-eiden « tagliare ») e che
vale dunque «tagliatore di legna, boscaiuolo». Il
geroglifico corrispondente a questa parola è una scu-
re q , cioè l’emblema di un re del bosco: se ne
deve concludere che la casta dominante egizia è oriun-
da da una regione boscosa, mentre tale non è l’Egit-
to, regione quasi totalmente priva di alberi. E che
questa regione d ’origine sia nordica e non, putacaso,
equatoriale africana, è provato dal fatto che l’emble-
ma della scure si trova anche a Creta, nell’Asia mi-
nore, a Roma e insomma in tutte quelle zone di cul-
tura primitiva ove c’era la famosa istituzione del Re
del bosco. I Romani, p. es., avevano il vocabolo vapu-
lare «essere bastonati»; e le parole corrispondenti
ted. waffe e ingl. weap-on (arma) stanno li a testimo-
niare che le armi primitive furono semplici bastoni,
come del resto si addice a tribù viventi nei boschi.
Ma ci sono altri indizi. Donde è venuto l’uso dei ge-
roglifici, e cioè delle colonne scolpite ? Se voi abbrac-
ciate con uno sguardo comprensivo le colonne dei
templi egizi, vi accorgete che esse raffigurano tron-
chi di alberi, e l’imponente insieme delle colonne vi
si presenta come la trasfigurazione pietrificata di una
foresta. Orbene, l’uso di incidere la scrittura nei tron-
chi degli alberi è proprio delle regioni nordiche, on-
de il nome irlandese dato a questa peculiare scrit-
tura (ogh-arn eroso per bogh-am, inglese bough « ra-
mo», ted. Buche «faggio» e Buch «libro»). La
scrittura primitiva fu dunque una incisione: si con-
frontino lat. s-crib-o e greco graph-o, aventi la stessa
radice del ted. grab-en «scavare».
Del resto, la provenienza nordica dei Camiti si ap-
poggia anche ad altri indizi, dei quali citerò solo
alcuni. Camuni e Camiti avevano in comune un dio

119
Conso, che troviamo anche a Roma; la rad. cam
« santo » si trova anche nel nome degli Umbri (cfr.
Camers, Camerino, ecc.) e dei Gomer o Cimmerii,
nonché in molti nomi nordici (Ham-burg, Ham-let,
Cam-ulo ecc.); il dio egizio Osiride (Asar) è parola
erosa per vizir (cfr. Busìrìdé) ed è il nome degli As-
siri; la piramide egizia ricorda le zigurrath (piramidi
a terrazze) della Mesopotamia; la pratica egizia del-
l’imbalsamazione dei defunti con sostanze tratte dal
lago Asfaltide ci fa sospettare che questa invenzione
derivò dall’uso primitivo di seppellire i cadaveri nel-
l’acqua, uso che dovette essere generale nella preisto-
ria, perché si trova anche a Roma e se ne trova un
residuo perfino nelle attuali aspersioni che si fanno
ai defunti. La denominazione Mar Morto significa
dunque, non già «mare dalle acque immobili» ma
necropoli e il ritrovamento di cadaveri intatti nel suo
fondo può avere suggerito l’idea di servirsi dei sali
disciolti nelle sue acque per l’imbalsamazione (1). Ma
se i rifi egizi ci conducono verso la Mesopotamia,
neanche i Mesopotamici si possono ritenere indigeni
della contrada. A farvene dubitare, oltre il racconto
dello storico Beroso che fa giungere ivi, portatore
della civiltà, dal golfo Persico, il mostro Oànnes, me-
tà uomo e metà pesce (si tratta dunque di un totem
marino, un uomo vestito in modo da rassomigliare a
un pesce), vi basti questo particolare. A Babilonia si
celebrava una festa detta Sacaea: e Saca è un nome
antichissimo degli Sciti. Del resto, anche la tradizio-
ne biblica fa venire i Semiti dall’Ararat (Ur-artu =
monte alto), da un paese dove fioriva la vite (pen-
sare che molti dotti moderni li fanno derivare dal-

(1) Il nome di Asfaltide dato al Mar Morto sembra confermare


questa opinione Asf-alto è da rad. vesp- che indica l’Occidente, ma
propriamente la sepoltura.

120
l’Arabia!!); onde non è affatto azzardato vedere nel
nome degli Ebrei (Hibrt) null’altro che il nome degli
Hiberi del Caucaso. I geroglifici sono dunque con
tutta probabilità di origine nordica, ma resta una
seconda obbiezione. Furono veramente i Fenici gl’in-
ventori del principio fonetico ? Un primo dubbio con-
tro questa opinione muove dal fatto che il prin-
cipio fonetico non è del tutto estraneo agli Egizi e
che questi erano già sulla via di svilupparlo. Ma se-
condo me il principio fonetico sembra non essere la
invenzione dì nessuno, ma un’evoluzione necessaria
del principio pittografico.
Per capire ciò, bisogna considerare lo stato del lin-
guaggio primitivo. È quasi certo che i primitivi non
avevano se non parole monosillabiche; ma in tali
condizioni è evidente — dato che la vocale era flui-
da ed inessenziale — che ciascuna parola primitiva
(e quindi il segno che la rappresentava) non fosse in
fondo altro se non una consonante. Vi porterò un
esempio. La parola semitica be-th (casa) non è altro
che una B (la th finale è il segno del femminile), e
questa B non è altro che il profilo della tenda dei
nomadi ( A A ) raddrizzato. La pretesa invenzione ge-
niale dei Fenici svapora cosi in una creazione anoni-
ma della preistoria. Ma ebbero almeno i Fenici il
merito di selezionare dalla massa dei pittogrammi i
22 segni fortunati che servirono di fondamento alla
cultura dell’umanità?
Senza voler negare del tutto che i Fenici abbiano
in ciò avuto qualche merito, mi sembrano necessarie
alcune precisazioni, che restringono di molto la por-
tata di questa asserzione. Vi farò vedere che certi
segni alfabetici greci e latini postulano l’esistenza di
un prototipo comune a Fenici e Greci (o Latini),
e non già, o per lo meno non in ogni caso, una di-

121
retta derivazione dal Fenicio. Le idee su questo ar-
gomento si sono venute affermando per l’influenza
di una veduta erronea, la quale attribuiva la diffu-
sione dell’alfabeto alla diffusione del commercio. Ora
ciò potè esser vero in un secondo tempo, quando
già si erano formati alfabeti profani per uso com-
merciale o burocratico; m a prima di essi devono aver
esistito alfabeti arcani o esoterici, il cui segreto veniva
custodito nei templi e la cui diffusione avvenne es-
senzialmente per via sacerdotale. Quando un ramo di
tribù si staccava dal vecchio tronco, e andava a for-
mare un nuovo popolo, esso era d’ordinario capeg-
giato da un re-sacerdote che portava con sé oltre ai
segreti tecnici della civiltà (agricoltura, industria del
latte e del vestito, metallurgìa, ecc.), anche il segreto
della scrittura. Le lettere erano ritenute dotate di po-
teri magici ed erano perciò chiamate dèi o diavoli
(zéphyroì, cfr. siciliano cifaru «diavolo», dalla qua-
le parola è derivato il termine « cifra ») (1). Bisogna
perciò diffidare di quelle notizie di autori antichi, i
quali vi assicurano che taluni popoli arretrati del lo-
ro tempo non conoscevano la scrittura, come p. es.
Catone afferma dei Liguri. Che non esistessero alfa-
beti laici è probabile; questo però non significherebbe
altro se non che l’uso della scrittura non si era ge-
neralizzato e fatto profano. Ma affermare di più mi
sembra azzardato; vi basti considerare questo feno-
meno curioso: i Romani avevano per gli usi profani
una propria numerazione (cosi come del resto i Gre-
ci), ma le parole indoeuropee indicanti i numeri ac-
cennano a figure quali noi troviamo nelle cosi dette

(1) Generalmente si ritiene che anche la nostra parola zero ven-


ga da zefiro, ma questa derivazione m i sembra molto dubbia, e credo
più probabile che zero non sia altro se non una forma veneziana per
giro cioè « cerchio », che è l ’usuale segno dello zero.

122
cifre arabiche (es. luna calante, 6; luna nuova 9, ec
È dunque probabile che le cifre arabiche non siano
altro se non l’antichissima rappresentazione esoterica
dei numeri indoeuropei. Noi possiamo anche coglie-
re, nella forma delle lettere alfabetiche, il processo
della loro laicizzazione. Generalmente bisogna sup-
porre che il pittogramma primitivo riproducesse il
profilo degli oggetti in maniera realistica; ma più
tardi i sacerdoti, volendo volgarizzare tali segni sen-
za profanare il segreto, s’industriarono di renderli
inintelligibili, e a ciò giunsero col deformarli, con
l’abbreviarli, col capovolgerli. Talune di queste ope-
razioni possono essersi rese necessarie per ragioni tec-
niche (speditezza, rotondità, esigenza della materia
scrittoria, per cui, p. es., i cuneiformi han dovuto
abolire i tratti curvilinei, ecc.), come anche possono
essere derivate dal bisogno di armonizzare il senso
dei pittogrammi col senso della scrittura: p. es. l’alfa,
che è la testa del toro y con le corna, in una scrittura
che va da sinistra a destra viene coricata in senso
conforme OC) mentre il raddrizzamento verticale oc-
corrente a farcene intendere il significato ci rammen-
ta che il senso primitivo della scrittura era quello di
una colonna verticale incisa sul tronco di un albero.
Allo stesso modo si spiegano le retroversioni, per cui
ad es. noi troviamo l’E anche nella forma 3 • Ma
non sempre queste spiegazioni sono sufficienti, onde
bisogna pure ricorrere all’idea di un mascheramento
intenzionale per ragioni esoteriche dell’idea racchiu-
sa nel pittogramma.
La dottrina esoterica sui segni alfabetici ci è stata
parzialmente tramandata dalla Cabbaia. Con questa
parola più tardi s’intese un complesso di dottrine ver-
tenti sui più svariati argomenti, ma nell’ambito di
una ricerca extra-razionale dei principi divini che in-
terferiscono nel mondo della materia: in breve, una
specie di cosmologia e di metafisica. Io esaminai tem-
po fa con viva curiosità il cosi detto libro segreto del-
la Cabbaia, e ne ebbi una impressione del tutto dif-
ferente da quella che ne ha il pubblico degli specia-
listi o quello degli alchimisti, di solito grandi pregia-
tori di questo libro. La maggior parte dei precetti
ivi contenuti mi parve avesse un chiaro significato
sessuale; il nucleo fondamentale del libro deve essere
perciò di data assai antica, e rimontare all’epoca delle
religioni falliche, quando l’uomo, colpito dal mistero
della generazione, credette di scorgere in essa una
manifestazione della divinità. E mi parve anche che
potesse esservi un rapporto fra questo segreto esote-
rico e il divieto ancora vigente nell’umanità civile di
chiamare col loro vero nome le cose sessuali, divieto
che in grado più rigoroso troviamo tuttora nelle so-
cietà anglosassoni, le quali han conservato un senso
acuto dtWunnominable e presso le quali il vocabolo
indicante « vergogna » non è altro se non il vocabolo
stesso che altra volta indicò il « santo » il divino (sha'
me da sem, «santo»). Di questa antica religione.si
vedono ancora tracce nei misteri greci, dove l’allu-
sione al mistero generativo era l’essenza e il culmine
del dramma mistico; e quello stesso concetto di agno-
stos theós che poi in epoca ellenistica fu interpre-
tato con la teoria degli eóni mi sembra che in origi-
ne non avesse altro significato se non fallico, cioè di
una cosa innominabile, sacra, e da tenere nascosta.
Il senso vivo di questo divieto esoterico lo si coglie
ancora nella parola greca cndoia (cosa da non vedersi
né nominarsi) con cui venivano indicati gli organi
della generazione, e probabilmente anche nel demiur-
go platonico, il cui significato sembra essersi conser-
vato nella nostra volgare espressione « fabbricatore

124
di popoli » e che è ritenuto mediatore fra il mondo
e un dio inaccessibile. (Noto qui, di passaggio che
un’eco di questa concezione del demiurgo dev’essersi
conservata nella espressione massonica « il grande
fabbro dell’universo » ; perché invero la religione fal-
lica sembra essere stata in origine religione esoterica
delle consorterie dei fabbri dette thiasi od orgeones,
cioè consorterie orgiastiche).
Chiedo venia se m ’indugerò ancora alquanto sulla
Cabbaia, perché dallo studio di essa mi vennero al-
cune di quelle idee che poi ho applicato con risul-
tati cosi corrosivi alla scienza del linguaggio. Non è
improbabile che la parola Cabbaia (dalla rad. cap,
che si trova in lat. cup-io, in greco a-gàpe « banchet-
to orgiastico » nell’ebraico hab « desiderio » nel lat.
av-arus, av-idus con rad. erosa da cap, quindi varian-
ti di « cup-idus») significhi «dottrina della genera-
zione»; ma nulla osta che si accetti il significato
corrente di « tradizione » (rad. cab « dare », cfr. ted.
geb-en, etrusco cv-il « dono », il nome siriano di Ela-
gabalo «dono di Dio»). Ed è anche probabile che
essa in origine non fosse se non un semplice catechi-
smo sessuale per iniziare i membri della tribù, nel-
l’età della pubescenza, al gran mistero pel quale essi,
divenendo generatori e padri di famiglia, entravano
anche a far parte della tribù quali membri adulti ed
effettivi. È noto infatti che i primitivi per molto tem-
po non ebbero alcuna idea del meccanismo fisiolo-
gico della generazione, la quale essi attribuivano o
all’acqua o al sole, o ad altri influssi sia terrestri che
astrali. Ancor oggi un’eco di queste credenze preisto-
riche è viva nel popolo, quando p. es. si crede che i
bagni di mare siano favorevoli alla prolificazione, o
nella pratica assai diffusa del bagno prematrimoniale,
o in taluni racconti che parlano di fecondazioni av-

125
venute in riva alle fontane o per virtù della pioggia,
o infine quando gli Orientali velano le loro donne,
nel timore che lo sguardo altrui possa fecondarle.
Ora è evidente che la dottrina della Cabbaia, con la
scoperta del meccanismo della generazione, mise una
parte dell’umanità su un piano di cultura superiore;
e a guardarci ben dentro, questo libro sembra il com-
pendio dell’esperienza di una razza superiore (la
bianca), che vuol prendere tutte le precauzioni perché
le razze inferiori (la negra e le razze meticciate) non
s’impadroniscano del suo segreto. La differenza di
destino fra Cam e Sem nella Bibbia dipende in fondo
dall’esistenza o meno di un pudore sessuale; e un’eco
delle precauzioni prese dalle razze superiori contro
le inferiori è perfino in quel racconto nel quale si
stigmatizzano gli angeli (cioè i figli dei bianchi) che
han commercio con le donne di colore o <( figlie degli
uomini». I precetti di castità che inculca la Cabbaia
sono in relazione col pudore proprio della razza bian-
ca, che è pressoché ignoto ai maledetti figli di Cam.
Occorre il segreto, cioè l’intimità. Il nudo è condan-
nato come violazione di cosa sacra, quindi profana-
zione. La divinità Yod = God (dio) in queste spe-
culazioni cabbalistiche è concepita come unione di
vau e di daleth: ora, se si pone mente che il vau
(greco jP ebraico ) ) è il chiodo (vav = papo, capoc-
chia) e daleth (greco delta) la fessura triangolare A,
la porta della tenda dei nomadi, il relativo simbo-
lismo sessuale diventa trasparente (1). Ma altre espres-
sioni ricorrono in questo libro, le quali non lasciano
dubbio sulla proposta interpretazione. La lettera P
negli alfabeti semitici ha una forma ideografica a

(1) Vale a dire: la divinità cabbalistica non è altro che la fecon-


dazione o copulazione graficamente espressa così:

126
carattere fallico —a ; ma il suo nome semitico phe
(forse il greco pé-os = phal-lus) significa « viso » : or-
bene, è assai curioso che la Cabbaia distingue nel-
l’uomo il viso normale dal piccolo viso, il quale ulti-
mo ha un significato sessuale. Tale interpretazione è
resa perentoria dal fatto che nella stessa Cabbaia si
trovano frasi come queste: «L a forma del naso vi
dà la forma del piccolo viso » e « La fortuna dell’uo-
mo dipende dal piccolo viso», che somigliano fin
troppo a sguaiati proverbi popolari nostrani (« qual
naso tal F... » ; e, a Napoli : « la fortuna d’o cristiano
è o C... »).
L’interpretazione del vau come ideogramma ses-
suale, oltre che essere confermata dalla Cabbaia, ha
un’applicazione interessante nella morfologia ie., e
introduce nello studio del linguaggio una nozione
del piu alto interesse, vale a dire che la scrittura ha
influenzato l’evoluzione del linguaggio. Nella Cina
il monosillabismo è risultato dalla ferrea necessità
imposta da quel sistema di scrittura. Mentre infatti
nel cinese corrente il monosillabismo è superato, la
scrittura invece, per via della sua struttura essenzial-
mente atomìstica, lo ha conservato artificialmente
nella lingua letteraria. Prendiamo, p. es., un nome
come quello del fiume Yan-tze, che con tutta proba-
bilità corrisponde esattamente a quello indiano del
Gange. Orbene, l’impossibilità pel cinese di concepi-
re la fisionomia di una parola polisillabica ha fatto
si che Yan-tze sia interpretato come un composto,
mentre è con tutta probabilità quello che i linguisti
chiamano un sostrato, cioè un nome indoeuropeo in-
terpretato da una popolazione di linguaggio meno
evoluto. Ne è derivata nel cinese la dottrina gram-
maticale delle parole piene e delle parole vuote, con
le quali ultime si è cercato di dare una spiegazione

127
di vari suffissi (nel nostro caso -tze) che avevano un
senso nel linguaggio primordiale e non ne ebbero
più nel linguaggio posteriore. Ora, tornando al vav,
è da notarsi che il suo significato di ideogramma ses-
suale ebbe appficazione nella morfologia. Aggiunto
alla fine di un nome di essere animato, lo forniva
dell’attributo maschile, e poiché il suo suono era v
(u), i maschili formarono i temi in u (o); mentre le
lettere theta e delta rispettivamente simboleggianti la
mammella o tetta (©) e la fessura triangolare (a oppu-
re v), del cui simbolismo sessuale si è già fatto cenno,
formarono femminili, es. ted. hraf-t «forza)), ]ag-d
«caccia» (cfr. lat. iac-io «lancio il dardo»), Mag-d
« ragazza » (cfr. lat. himagó), Luf-t « aria » (eroso da
bluf, cfr. ingl. blow « soffiare »), ecc. Quanto alla desi-
nenza dei femminili greci in è (t j) e dei latini in a,
questa desinenza non è altra cosa che la lettera semiti-
ca he (TT), che equivale all'età e alla X dei greci e al-
l’acca (h) dei latini, e che la Cabbaia espressamente
qualifica « lettera femminile » perché in effetti essa
indica il cancello, la palizzata avanti l’apertura e per-
ciò anche l’apertura stessa (onde il verbo lat. hi-o
«essere aperto» greco Xa-, ted. gdh-nen). Per una
necessità inerente all’organo vocale dei Semiti, questa
lettera, che è un’aspirazione gutturale, esigeva avanti
a sé la vocale a; ne venne che tutti i nomi diventati
femminili per l’aggiunta della suddetta consonante
terminarono in ah e quindi in a. Nel greco non si ebbe
Va perché la lettera che indica aspirazione nel semiti-
co, ivi suona e; ma il vocabolo omerico Nausica-a ci
conserva un rudere di una formazione primordiale
differente (1).

(2) Siccome il nome semitico della H è het, non è improbabile che


questa lettera, aggiunta in fine di parola come ideogramma sessuale, sia
stata letta in origine et o it (cfr. l’indiano it che è la e breve, cioè

128
Ci poniamo ora la domanda: esistono indizi che
permettono di asserire che dietro questi alfabeti da noi
conosciuti ne esistesse un prototipo segreto? Si, ve ne
sono parecchi.
Antichissimi storici e fra questi Sanconiatone, ci
hanno tramandato la notizia che alfabeti segreti erano
gelosamente custoditi nei templi di Siria; cosa che del
resto si potrebbe concludere anche per via di retiode-
duzione dall’esistenza di un cabbalismo fondato sulle
lettere dell’alfabeto. Ma abbiamo anche prove partico-
lari, concrete. Nell’Egizio Yu che forma il maschile è
rappresentato dal geroglifico raffigurante il pulcino:
se ne deve dedurre che il pulcino è stato sostituito al-
l’organo sessuale, il quale solo poteva avere la virtù di
precisare il genere, affinché il segreto esoterico, Yaido-
ion, l’innominabile, Yàgnostos non diventasse troppo
trasparente e fosse quindi profanato. Altra prova.
Esiste in greco la parola àbakps che significa « tavo-
la», «plinto» (cioè platum, varietà senza n di plin-
to). Ma il nome, che sembra derivare da a, b, c fa so-
spettare l’esistenza di un alfabeto nel quale l’ordine
delle lettere era alquanto differente (a, b, non a,
b, g come nell’alfabeto profano dei Greci). Questa
induzione può parere dubbia, ma ci sono altri indizi.
È noto che l’alfabeto ieratico degli Egizi è ritenuto

l’antico nome dell7; da cui ebbe origine l’età greca): onde il femmi-
nile di A n u « signore » fu A n-et o A n-it o più esattamente Ana-hit
in iranico; mentre la stessa parola suona Annafjx) nei linguaggi medi-
terranei, che diedero all’h il nome, non già di it, ma di ach (acca). La t
finale del nome het è un segnafemminile. Nel Tamilico e nel sanscrito
il segnafemminile è ith, i (quest’ultimo è di regola nel sanscrito, dove
finì per indicare la semplice vocale e o i).
Un residuo dell’antico ith segnafemminile si trova in greco nei suf-
fissi nasalizzati inth, ynth, con significato diminutivo (significato che
è una derivazione del femminile), es. Kórynth-os « Corinto » cioè « col-
linetta », Polenta (*polintha) « cittadina ». A torto è ritenuto segnafem-
minile 17 di nomi come reg-ina, gali-ina, perchè ina è suffisso partici-
piale con significato diminutivo.

129
. - L'origine del linguaggio.
una semplificazione del geroglifico, e che il demotico
è ritenuto una semplificazione dello ieratico. Ora i
dotti del secolo scorso, e fra essi il Rougé, che fonda-
rono la dottrina della derivazione dell’alfabeto feni-
cio dallo egizio, credettero di potere stabilire che le
lettere fenicie non imitano direttamente i geroglifici,
ma i caratteri ieratici in uso al tempo delle dinastie
immediatamente succedute alla cacciata dei re Ixos
(dinastie XVIII-XIX). Ed ecco ora un fenomeno assai
curioso. Certe lettere greche che si pretendono deri-
vare dallo ieratico non somigliano affatto al loro
preteso modello; viceversa, nella evoluzione molto
tardiva dello ieratico, figura talvolta qualche lettere
che rassomiglia perfettamente ad analoga lettera gre-
ca. Ora è del tutto inverosimile supporre che, partendo
da un segno qualsiasi, due popoli diversi, ignorantisi
reciprocamente, lo abbiano modificato in maniera da
cavarne entrambi un segno pressoché identico. Biso-
gna dunque ammettere, o che i Greci abbiano derivato
il segno non già dallo ieratico antico, ma dallo ieratico
tardivo, ovvero che lo ieratico tardivo derivi dal greco.
Se ci sono delle ragioni per escludere l’una e l’altra di
queste due congetture, resta soltanto da spiegare la
cosa ammettendo che nello ieratico antico, accanto al
segno comunemente conosciuto, ne esistesse un altro
meno conosciuto o segreto che poi fu volgarizzato da
alfabeti posteriori (1).

(1) Il Rougé, in Memoire de l’origine égyptienne de l'alfabet phé-


ninicien, pag. 53 dice che l’ebraico ' ; (daleth) non risponde alla fi-
gura della porta come il greco A e che il minuscolo greco 8 non
risponde al maiuscolo greco ma al fenicio <~v ; a pag. 55 poi afferma
che l’ultima forma ieratica è arrivata a rassomigliare a un A . S’im-
pone dunque la mia deduzione. Noto qui di passaggid che Rougé
non ha visto che la lettera rabbinica “3 è un rigirato in maniera
da nascondere il suo significato; e che il segno fenicio è lo stesso
segno rabbinico ’q ma nella forma arrotondata invece che nella forma
quadrata.

130
Ancora più significativa è l’obbiezione che a questa
opinione della derivazione degli alfabeti fenicio e gre-
co dallo ieratico viene dall’esame dell’alfabeto ebraico-
rabbinico. L’antico ebraico aveva un alfabeto su per
giù simile a quello fenicio, ma nel Medio Evo i dottori
ebrei elaborarono un alfabeto che è quello in uso nel-
l’ebraico moderno, e che è detto rabbinico. Si dovreb-
be dunque presumere che questo alfabeto sia cosa del
tutto moderna e priva di valore per intervenire nella
questione dell’origine degli alfabeti. Invece non è cosi.
È noto che gli Ebrei custodivano la tradizione o mas-
soni, e che quindi i loro sacerdoti si tramandavano eso-
tericamente segreti antichissimi. Non a torto infatti
si sospetta che la Massoneria, associazione segreta, e
il cui nome è affine a quello di Massora, Mosé ecc., sia
ima propaggine dell’esoterismo giudaico. Ora ecco un
altro fenomeno curioso. Alcune lettere greche, che si
pretendono derivare dall’alfabeto fenicio, non somi-
gliano affatto ai loro pretesi prototipi, ma sono invece
somigliantissime alle lettere rabbiniche: es. greco fi-
e rabbinico ù , greco a e rabbinico D (non è altro
che il sigma greco retroverso). Inoltre vi sono lettere
latine che si pretende derivare dalle greche e non so-
migliano affatto ai loro pretesi prototipi, ma sono in-
vece somigliantissime alle lettere rabbiniche: es. C
non ha nulla che vedere col greco K né col fenicio
y , ed è invece identico al rabbinico D (retroverso).
Tutto ciò mostra che la diffusione degli alfabeti non
è avvenuta nel modo in cui se la rappresenta la scien-
za del secolo scorso e molta parte della scienza attuale;
e che dietro gli alfabeti comunemente conosciuti esi-
stevano alfabeti segreti o magici, i cui elementi sono
andati via via affiorando man mano che decadeva il
sentimento religioso, o per lo meno il sentimento di
venerazione per i segreti religiosi. Ciò premesso, ve-

131
diamo ora brevemente quale dovette essere il signifi-
cato primitivo delle lettere.
L’alfa (aleph dei semiti) rappresenta la testa del toro
con le corna y ; coricandola, si ha a . B (be-th dei Se-
miti) « casa », rappresenta la tenda o casa dei nomadi
aa.; raddrizzandola, si liaP, poi (3. Gamma: la parola
significa « gamba », nel rabbinico si ha j , dove si
vede la gamba col piede; la ,7dei latini imita la forma
rabbinica, e cosi la minuscola greca y. La maiuscola
greca F è una gamba capovolta, col piede in alto; la
maiuscola latina 9 è invece la stessa gamma minusco-
la, nella quale si è ingrandito enormemente l’elemento
superiore e si è ridotto a proporzioni insignificanti il
piede; onde è più vicina al rabbinico91. Richiamiamo
intanto qui l’attenzione su un particolare interessante;
e cioè che non sempre maiuscola e minuscola nello
stesso alfabeto si corrispondono e che non di rado l’u-
no e l’altro hanno origine differente.
Delta (daleth dei Semiti) è la porta triangolare del-
la tenda dei nomadi d. L’E (e psilón dei Greci he dei
Semiti) è ridotto da B ; Ve lunga dei Greci, detta età,
het dei Semiti, è una varietà dello stesso segno. Ori-
ginariamente esso indicava una espirazione come si
vede ancora nell’H dei Latini, la cui forma minuscola
h è simile all’età greca 7j (le rispettive maiuscole sono
identiche). Si noti che il nome AtWacca, come si de-
duce, oltre che dalla figura, anche dalla parola tede-
sca Hag, significa «siepe, cancello». Il greco, dopo
Ve, aveva un segno, poi scomparso, che si scriveva F
e aveva il suono della nostra v. Questo segno era detto
di-gamma, perché si crede sia stato artificialmente
composto, aggiungendo una seconda sbarra traversale
alla lettera gamma. Ma è un errore. Il digamma non
è altro che il vav dei semiti I retroverso in F (indica
il chiodo e l’organo sessuale); l’f latina non è che una

132
forma piu corsiva dello stesso segno ed anche la lette-
ra greca <p (=: ph)\ onde si vede che un medesimo se-
gno, nelle sue forme lapidarie e in quelle corsive ha
finito talora nello stesso alfabeto per indicare suoni e
quindi consonanti differenti. Il nome vav che si con-
servò nel semitico e, cosa assai significativa, anche nel
latino, significa papo o capocchia; cfr. pap-ula, ov-um
(da *vov-um) « cosa grossa e rotonda, bob-ina, ecc.
La lettera theta dei Greci in origine indicava la tetta
o mammella (fenicio <*), greco © e talora ©, che però
fu abbandonato perché veniva a confondersi col segno
dell’o); ma un’altra forma della theta fi- indicava il
serpente (1), ebraico i3 tet, « il serpente». È curioso
però che il tet semitico non ha il suono th, come la
lettera greca theta, e per contro la lettera tau (t) dei
Greci, che corrisponde al thau semitico, ha il suono t
e non th come presso i Semiti. Il disegno greco anti-
co V s’interpreta assai bene col confronto del segno
rabbinico f) (thau) ; è il braccio della bilancia col peso
che pende. Il nome sembra indicare « palo » ; cfr. ted.
s-tab ((bastone», ital. tav-ola, s-taff-ile, ecc. Nell’egi-
zio il t è indicato dalla mammella disegnata di pro-
filo Q (2); qui dunque c’è maggiore accordo fra il
greco © (mammella vista in pianta) e l’egizio, che non
fra greco e fenicio; mentre nel segno $ l’accordo è
maggiore fra greco e fenicio. Lo iota (i), ebraico yodd
è comunemente interpretato come «m ano»; forse
indica il dito, forse non è altro se non una forma de-
curtata del vav. questo sospetto è appoggiato dal fatto

(1) La forma 0 si conserva nella maiuscola greca 0 . Della sua


confusione con l’ideograma dell’occhio è forse rimasta traccia nel
verbo greco théo « guardare ».
(2) Cfr. greco theta e it. tetta. Questa mammella ricorda la forma
della nostra pagnotta, che è un pane in forma di tetta per offerte
rituali, e perciò detto in siciliano vastedda da greco mastós « mam-
mella » (con v = m).

133
che nel linguaggio cabbalistico yod significa « dio »
(cfr. inglese god = dio). La lettera K dei Greci deriva
dall’egizio -*■ che indicava il calamaio; raddrizzando
questo i Fenici cavarono f che credettero indicasse la
palma (cioè il ramo del dattero, e non la palma della
mano come comunemente si crede); retrovertendo il
segno fenicio, i greci ottennero f , K. Il nome sembra
significare « cosa cava » e si accorda meglio col segno
latino C, che corrisponde esattamente al rabbinico C,
entrambi forse derivati dall’egizio <=?• (la coppa col
manico). L’elle (greco lambda, ebraico lamed) sembra
indicare il punteruolo, la lama (A). Il greco ny (N, v)
e l’ebraico antico J sembrano indicare il pesce in pro-
filo, la parte biforcata superiore è la coda. Il nome è
eroso da *gnu che vale « generatore, dio » (cfr. num-
eri da *gnumen) e che è rimasto a un mammifero
asiatico. La lettera latina x, greca £ (ari) sembra rap-
presenti la sega, o raschiatoio con molti denti. Il suo
posto nell’alfabeto ebraico è tenuto dalla lettera sameh
che però non corrisponde sostanzialmente ad essa ma
al sigma greco o , di cui è l’analogo retroverso ( D )• Il
nome in greco significa « spada » o propriamente
«roncola» della quale raffigura il profilo capovolto,
e c’è del resto una varietà del sigma a profilo diritto
(?). Il nome ebraico same\ significa « piuolo », ma è
lecito sospettare che si tratti di una metafora, in quan-
to il piuolo o gancio per appendere oggetti (piuolo da
*pip-olo, piccola capocchia, chiodo) ha la forma flessa
come una roncola (_^>). Infatti sigma (lat. sica) è la
rad. sig che si presenta talora come si-n o sì-m; vedi
p. es. lat. sìg-num (incisione, taglio da servire come
segnale) e greco sèma « segno ».
La sega a molti denti si trova negli alfabeti semitici
al posto in cui nell’alfabeto greco è il sigma; ed è
detta shin (ti) nel rabbinico, % nel fenicio). Questa

134
ultima forma non lascia alcun dubbio circa la sua
identità col greco £. Ma perché il suono sia trapassato
da sh a x non è difficile spiegarlo: gli è che per dire
« raschiare » i Greci dicevano xào oppure psào. Que-
sto spiega inoltre perché piu tardi sia sorto in greco
un segno ps che non è altro se non una riproduzione
dell’ebraico shin (grecoty, ebraico Ut)-
La lettera o indicava l’occhio e nel maiuscolo aveva
talora il puntino nel mezzo (©). Nell’alfabeto fenicio
non aveva valore di vocale, ma di aspirazione e si
chiamava ’ayn «occhio» (1): la sua figura era y
ebraico y (cioè il profilo dei due occhi, col naso e
talora anche la bocca, adombrata nel tratto terminale).
Il latino lo rese fedelmente. Nel greco Yu è propria-
mente una o non chiusa. Il suono in origine doveva
oscillare fra Po e Yu (come nell’ebraico), perché il
doppio o che si usava per indicare Po lunga od omega
(to) in latino assunse il suono deciso u (non è altro in
figura se non l’omega greco, mentre Po nell’antico
latino pare abbia avuto anche il suono «; cfr. anche
il suono u del greco oo da oo). L’omega maiuscolo Q
è nato dal doppio o, nel quale si è enormemente svi-
luppata la linea di raccordo da assurgere a parte prin-
cipale ( 51), mentre le vere parti significative che sono
le due terminali e che riproducono le due vocali si
ridussero ad appendici insignificanti. La lettera p
sembra null’altro che una varietà del simbolo sessuale
(quindi del vau e dell’effe); il suo nome ebraico phe
interpretato come «viso» fa pensare al piccolo viso
della Cabbaia ed è troppo vicino al termine greco
pé-os, che ha lo stesso significato. La lettera q in
ebraico coph significa «capo»; la figura è quella di
una testa su un busto (ebraico P).
(1) Ciò spiega perché Yu iniziale in greco è sempre preceduto da
aspirazione.

135
La lettera R in greco rho, ebraico resh, sembra in-
dicare « capo, re » (cfr. ras, « capo, principe ». Io opi-
no che non sia altro se non la corona dell’alto Egitto
rovesciata {#). La minuscola greca -f è una forma
corsiva della stessa figura, e in latino * non è altro
che la stessa minuscola greca leggermente deformata
(* da T \ L’elemento significativo che nel greco è
l’ansa sporgente, qui diventa la posizione angolare del-
le estremità. Il fenicio fc/ fa pensare a una testa regale
e quindi con le corna, rovesciata 2f (simile all’aleph).
Nell’alfabeto greco l’ultima lettera è la zeta: questo
posto indica che l’introduzione di questa lettera fu tar-
diva. In effetti la parola zeta corrisponde alla parola
zade dell’alfabeto semitico (rabbinico greco Z).
Anche questo segno sembra raffigurare una specie
di roncola o sega; ma il suono greco è dolce, quello
ebraico, duro. Se ne deduce che assai spesso due va-
rietà dello stesso segno nello stesso alfabeto si specia-
lizzarono nell’indicare sfumature diverse d’uno stesso
suono; ma quasi sempre in altri alfabeti le parti sono
invertite, e la corrispondenza precisa del segno e del
suo nome da un alfabeto ad altro non garentisce la
corrispondenza precisa del suono. Ne abbiamo già
visto un altro esempio lampante a proposito delle let-
tere theta e tau dei Greci nei confronti con l’ebraico.
Per non aver fatto questa osservazione il Rougé, che
fu quello che per primo dimostrò la dipendenza dei
nostri alfabeti dall’Egizio, commise molti errori che
si sono perpetuati fino ai nostri giorni.

II. - Il n o m e d i M il a n o (5-5-1944).

In questa seconda parte noi tratteremo di alcune


applicazioni della linguistica ai problemi della prei-

136
storia o della storia più vetusta ; faremo cosi una serie
di capitoli necessariamente incompleta, ma che può
servire come un panorama abbracciante le origini
della nosta civiltà nei suoi aspetti più essenziali. In-
cominceremo qui col dirvi che il nome della città di
Milano — Mediolanum — non significa, come comu-
nemente si crede, «in mezzo al piano», ma «città
del piano » ; che la sua grafia originaria, alterata poi
dai Latini che non ne intendevano il senso, doveva
essere Meda-lami (m), che quindi Milano avrebbe
avuto in origine lo stesso nome dell’attuale cittadina
di Meda. La quale parola significa «monte, muro,
fortezza», è analoga perciò alla parola latina meta,
indicante, com’è noto, una colonnetta (perciò un’al-
tura, una specie di monte), posta alla fine delle corse
(quello che noi oggi usiamo dire il «traguardo»), e
perciò in seguito passò a significare « fine e scopo ».
Connessa con questa parola è la preposizione tedesca
mit, nonché la preposizione greca meta « con » ma
propriamente « mucchio, monte » e la parola inglese
meet («incontrare» propriamente «far mucchio»)
che ha un riscontro nell’italiano ammutinarsi «far
folla, mucchio, comizio ».
Sull’altra parola lanum (piano) ho letto in un libro
recente di toponomastica lombarda essere questo l’uni-
co esempio per planum; il che non è vero, poiché
esiste la parola latina Lanuvium, e poi anche per un’al-
tra ragione che è del più grande interesse. Ho avuto
occasione di dirvi che tutte le parole comincianti per
liquida (l, r) o per nasale (m, n) sono erose, han per-
duto cioè qualche sillaba o consonante iniziale, della
cui originaria esistenza è rimasta traccia in qualche
vocale che si trova all’inizio delle parole: p. es. il
francese rótir e l’ital. arrostire si trovano in forma più
integra nel ted. Brust (fuoco) e nell’it. (ab) brusto-lire.

137
Una estensione di questa regola è data nell’afferma-
zione che tutte le parole di qualsiasi lingua comincian-
ti in vocale o sono erose, oppure sono composte me-
diante un articolo (rappresentato dalla vocale inizia-
le): p. es. a-cacia si deve dividere in a che è articolo e
in caria che vale «cocco» cioè frutto coccola (con-
fronta gaggìa); asfodelo o asfodillo invece deriva da
*casfodillo lat. *caput-illum, cioè « capocchietta, fiore
a capocchia ».
Ora l’applicazione piu interessante di questa regola
è fatta sui nomi dei popoli antichi, specialmente su
quello dei Liguri. Bisogna cominciare con lo stabilire
non essere vero che il nome dei Liguri sia stato alte-
rato dai Romani da un primitivo Liguses, tant’e vero
che in celto Ligure è detto Lloygwir, dove per di piu
quella doppia l iniziale sta a testimoniare l’avvenuta
erosione, precisamente come nello spagnuolo llano le
due l iniziali testimoniano la caduta di una p iniziale
(plano). In secondo luogo si osservi che il gruppo gw
di Lloygwir sta a testimoniare l’identità dei due nomi
Liguri e Liberi o Libii, come del resto fa sospettare
la vicinanza e affinità fra Liguria e Livorno e Uburnia
e gli antichi Ligyrei della penisola balcanica. Ora, poi-
ché una parola cominciante per l è erosa, Lib o Lig
(radice del nome Liguri o Liberi) suppone una forma
primitiva Veleb o Keleb, o Velec e Kalec, la quale
indicava genericamente un essere divino, quindi un
animale, un albero, un monte, un uomo o un popolo.
Esempi se ne potrebbero citare a centinaia: notate il
ted. Wolf «lupo» il lat. vulp-es, il greco valóp-ex
(volpe) e le forme erose: ted. Lowe (leone), ebraico
lebi (leone), lat. lup-us, lat. lep-us, antico iberico laur
(per lav-ur) «coniglio», francese lap-in «coniglio»,
greco elaph-os « cervo » eleph-as « elefante » ecc. Che
cosa significa dunque ligure? Ma lupo, leone, cervo,

138
volpe e via dicendo: significa in altri termini un po-
polo che ha per totem un animale (da cui deriva il
suo nome), il quale animale in una regione poteva
essere un lupo, in altra un leone o altro ancora, p. es.
un cane (ebraico Kaleb) o un toro (ebraico aleph) o un
vitello (ted. Kalb). Ne viene di conseguenza che i no-
mi di animali non indicavano in origine un animale
preciso, ma genericamente l’animale-dio di una tri-
bù, e perciò lo stesso nome presso tribù differenti de-
signa animali differenti: onde la conseguenza che i
nomi dei più svariati animali nelle varie lingue e an-
che in una stessa lingua, sottilmente analizzati, si ri-
velano essere varianti più o meno alterate di uno stesso
nome fondamentale: cosi, per stare alle parole già
citate, vediamo che lupo e leone in tedesco sono varie-
tà di una medesima parola, in latino lupo, volpe e le-
pre sono semplici varianti.
Ma il meraviglioso non s’arresta qui : perché, come
vi dicevo, Veleb (Velec), e Keleb (Kalec) indicando in
genere un essere divino, designano anche monti, fiu-
mi e alberi: a) monti: Kalpe (Alpe), Carp-azi, Alb-
ani, Helv-etii (alpigiani), Uva (isola d’Elba, cioè mon-
te), llvati (abitanti dell’Elba o Alpe); b) fiumi: Elba,
Alb-ula, Alf-èo; c) alberi: lat. (k) arb-or, (ka) rob-ur
(rovere), (ka) lav-ur (laur-um, lauro), (ka) lib-er (li-
bro, siciliano (ka) lav-uri « grano in erba », (k) alg-a,
(k) ilec-s (leccio).
Non meno curioso è il fenomeno delle varietà na-
salizzate o non nasalizzate, delle quali tuttavia non si
riesce a capire la ragione. In altri termini tutte o qua-
si tutte le parole han quasi sempre due varianti, una
con n e una senza n; esempi: it. monte e Meda, meta
e muda (fortezza, prigione); it. mente e ted. Mut
(animo); monte e Mutina (Modena, monte, fortezza),
e Modane; anta, antenna e simili e Athos, Athenae ed

139
Ent-ello; ciucciare e cioncare; braccio e branca (brac-
cio dell’albero, da *vir-anca « cosa verde »), e bronco
(ramo del polmone); russare, ruzzare e ronzare; ted.
rufen «chiamare» e it. ronf-iare; tutto e tonfo; chic-
ca e chinc-aglia; francese chèque, it. cicca e cencio
(pezzetto), spagnuolo chico «piccolo»; piffero e fan-
fara; graffiare e grinfia, mucca e mongana, tipo e
s-tampa, chiacchiera e ciancia (1), proco e prence, ecc.
Migliaia e migliaia di vocaboli possono cosi sfilare
innanzi ai nostri occhi, facendoci cogliere rapporti in-
sospettati, svelandoci etimologie rimaste finora ine-
spliscabili, e rovesciando, di colpo, quasi tutte le nostre
idee convenute. Il vocabolario non ci sembra piu
un’accozzaglia di parole, fra le quali non s’intravede
alcuna sicura connessione, e che perciò dobbiamo ac-
cettare cosi come sono, come dati ultimi e non preci-
sabili, o come prodotti di un arbitrio creativo, o come
insondabile mistero delle origini; comincia invece a
sembrarci un insieme di rottami, tutti accennanti, per
leggeri segni marginali, a commessure reciproche e
facenti vagamente intravedere il disegno di una mira-
bile architettura unitaria.
Noi cercheremo dunque di scavare più addentro,
sempre più addentro nel mistero della formazione
del lessico, e cercheremo di farvi toccare quasi con
mani l’unità di piano di tutte le creazioni della natu-
ra. Quella scoperta dell’unità del linguaggio, che il
Trombetti annunziò come cosa da lui realizzata, ma
che poi invano si cerca nelle sue opere, qui invece di-
venterà una realtà elementare. Sapete perché i lessici
delle varie lingue vi sembrano cosi differenti? Una
prima ragione sta nella varietà delle pronunzie, che

(1) C£r. veneto ciàcola, greco kpkyzo « lamentarsi » cioè « cantare,


far rumore come gallo » (frane, coq). Inoltre: ted. bringen al passato
brach (portare in braccio).

140
deformano, di popolo in popolo, le parole; ma que-
sto non basta. La scoperta più importante è ben altra.
Si è sempre detto che il lessico è un cimitero di meta-
fore, ma questa verità, diventata un luogo comune,
non è finora assurta a concetto produttivo nel campo
degli studi linguistici. Cercherò perciò di mostrarvi
quali sorprendenti applicazioni si possano fare di que-
sto concetto, e narrarvi un suggestivo romanzo, o
piuttosto la storia misteriosa di tante parole che oggi
sembrano non dire più nulla allo spirito umano. Voi
vedrete con meraviglia risuscitare innanzi ai vostri
occhi il paesaggio antichissimo della preistoria, e v’ac-
corgerete che nelle parole è conservato, come in un
astuccio meraviglioso, il ricordo delle civiltà primor-
diali e l’anima delle generazioni scomparse da mil-
lennii.

III. - V o c a b o l a r io e Pr e is t o r ia (20-5-1944).

Un celebre liguista francese, il Meillet, nel libro


Introduction a l’étude des langues indo-européennes
sostiene che l’evoluzione del lessico umano è procedu-
ta nel senso del generale, che perciò noi, risalendo ver-
so le origini, non troveremo parole aventi significati
generici, ma anzi sempre più definiti e circoscritti ;
che in origine non esistevano parole significanti l’al-
bero in genere o la montagna in genere, ma questo e
quest’altro albero, questa e quest’altra montagna;
individui, insomma, e non concetti. E in un capitolo
dello stesso libro si sforzò di stabilire il significato
precìso delle radici e la loro precisa fisionomia fone-
tica.
Ed ecco che quanto noi abbiamo detto in prece-
denza viene ora a sfondare tutta questa dotta ragna-

141
tela. Esso ci fa toccare quasi con mano che le parole
primitive non avevano né significato ne fisionomia
precisi, ma tutto era allora, come la stessa mente del-
Tuomo primitivo, allo stato labile, fuggevole, indeter-
minato. E dice inoltre il Meillet: aprite due dizionari
qualsiasi, poniamo l’inglese e il persiano, nell’uno e
nell’altro troverete due vocaboli che si rassomigliano
perfettamente (e qui cita la parola bad), ma questi due
vocaboli hanno nell’uno e nell’altro un ben diverso
significato, non han quindi nulla a che vedere fra
di loro. E ne conclude che le affinità fra parole di
lessici differenti non hanno alcun valore al fine di
stabilire la eventuale parentela dei linguaggi.
Tutto ciò può sembrare a prima vista un prodigio
di cautela scientifica, ma non è altro se non l’effetto
di una visione in pura superficie. Questa solidità scien-
tifica è tutta apparente. Non è il caso d’intraprendere
qui una complicata dimostrazione per convincervi,
con prove di fatto e con argomenti teoretici, che non
possono esistere omofoni fortuiti, cioè parole di suono
eguale che non siano anche imparentate fra di loro;
ma non sarà inutile qualche esemplificazione.
Prendiamo il lat. agnus (agnello) e il sanscrito agni
(il fuoco). Queste parole, cominciando per vocale,
sono entrambe erose, la radice integra è sac, sag che
vale « nutrire ». La grande preoccupazione dell’uomo
primitivo era il problema di procurarsi il cibo; perciò
nutritore e divino nella sua mente si identificano. Il
mistero della generazione (la quale moltiplica il cibo
animale e vegetale), lo stupore della luce e il terrore
della forza completano, o press’a poco, il suo bagaglio
spirituale: nel fondo del lessico umano non ci sono
altre idee all’infuori di queste, e tutte le altre non
sono che evoluzioni posteriori, processi metaforici.
Agnus e Agni significano dunque «sacro, puro» e

142
l’uno in latino indicò la vittima immacolata, l’agnello,
l’altro in sanscrito indicò il fuoco purificatore. Ma
questa seconda accezione metaforica non fu estranea
neanche ai Latini, e la troviamo in ign-is (fuoco) che
non è altro se non una variante di agnus. In greco
hagnós (puro) in tedesco seg-nen (benedire) apparten-
gono a questa medesima famiglia. E da questa stessa
radice sac (nutriente, divino) vedete quante altre pa-
role si sono cavate: lat. sacer (sacro), ebraico sha\ar
(l’albero della vite, l’albero sacro, nutriente), umbro
ed egizio samara (tomba, lat. sac-ellum), babilonese
ziqurr-at (tomba a piramide), lat. soc-er (per *suacer,
suocero, nutritore, capo della famiglia), ted. Schwag-er
(cognato) (1), lat. ager (*sager) « campo », greco sac-
charon (zucchero, cibo), lat. succ-us (succo), sanguìs
(sangue, variante della parola succo con nasale), it.
zucca, sag-ina (biada), sacco (tela cavata da piante),
ted. segel (vela, propriamente tela da sacchi), secchio
(recipiente di tela, sacco). Non è inutile qui aggiunge-
re che la scoperta dell’agricoltura, cioè il segreto della
semina, ebbe origine dal rito della sepoltura, per l’uso
di deporre sotto terra accanto al cadavere provviste di
cereali; che perciò uno stesso vocabolo — « sacro» —
indicava la tomba, la vegetazione o campo coltivato
sulla tomba {ager = sager), e l’albero che era creduto
il morto risorgente in forma vegetale (ebraico sha\ar,
vite; cfr. greco zagreùs) (2).
Ora tutto questo che cosa prova ? Che questo appa-
rente caos non è un vero caos, ma che la tendenza me-
taforica ha prodotto l’indefinito diversificarsi del les-

(1) Nota che in sanscrito questa stessa parola nella forma centum
« sva\yra » significa « suocero » e nella forma satem « svasar » significa
« sorella » onde lat. soror (*svosor).
(2) Cfr. anche larix « larice » cioè « albero dei Lari o delle tombe »,
greco daphnìs « alloro » connesso con taphos « tomba ».

143
sico, e che le molte varianti di uno stesso vocabolo
nate dalla labilità della fonetica primitiva furono via
via utilizzate per esprimere significati sempre piu
specializzati.
L’esplorazione etimologica del lessico è una delle
occupazioni più appassionanti, e ci può potentemente
aiutare a ricostruire la preistoria della civiltà umana.
Alcuni esempi ve ne convinceranno. Il Iat. pulvinar
(cuscino) c’insegna che i primitivi dormivano su sac-
elli pieni di sabbia o polvere; la parola remo, ted.
Rahm, ci dice che il primo remo fu un ramo d’albero,
la cui biforcazione o triforcazione a una delle estre-
mità creò la leggenda del tridente di Nettuno; la
parola charta ci dice che la prima materia scrittoria
fu la corteccia degli alberi, e la parola lat. s-crib-ere
(greco gràpheiri) è apparentata alla tedesca grab-en
che significa « scavare, incidere ». Il primo libro fu
dunque l’albero (del resto liber *= albero) e non già,
badate, perché la carta fu ottenuta con la concia del-
le foglie di taluni alberi, ma perché i primi monu-
menti scritti furono le incisioni sulle scorze degli al-
beri. Provatevi a immaginare, se vi riesce, che l’ori-
gine dei geroglifici sia egizia: troppe cose vi avver-
tiranno dell’impossibilità della cosa. Non mi soffer-
mo qui su vari particolari delle figure, non sempre
spiegabili con l’ambiente egizio, vi invito soltanto a
contemplare lo spettacolo della colonna egizia tutta
coperta di geroglifici. Ebbene, l’Egitto era un paese
quasi privo di alberi, queste colonne ricordano ben
altro paesaggio, e richiamano alla mente una antica
abitudine nordica che si conservò fin in epoche re-
centi nell’Irlanda, la scrittura sui tronchi degli al-
beri detta ogh-am (da bogham, cioè ramo, inglese
bough). E invero il nome tedesco del libro Buch e
quello francese bouquìn ricordano il buxus (bosso)

144
e il phagus (faggio); il lat. liber è eroso da (£) alìber,
albero; i nomi greci pàpyros e biblos ricordano gli
analoghi latini pap-av-er e pop-ulus. Il nome tedesco
dell’arma waffe è connesso col lat. va-pulare (essere
bastonato); il nome latino arma significa ramo, cioè
braccio d’albero (onde il ted. arm che vale braccio):
questi nomi dunque ci dicono che i popoli che li
usarono vissero in regioni boscose, e che la loro ar-
ma fu il bastone; mentre il greco hóplos accenna ad
armatura di metallo (lat. cupr-um). In latino autum-
nus (avi e temno, avi = ovi) è la stagione in cui si
tondono le pecore; aprilis (da caprilis) è il mese del-
la dea Capra o Cabira o Cipra o Cibele, cioè la Ve-
nere Anatolica, e ci fa sospettare che la leggenda di
Enea non sia del tutto leggenda; la frase bora matu-
tina ci fa scoprire le tracce di un’antichissima reli-
gione astrale in Italia, significando l’ora della mater
matuta cioè la matriarca della tribù, identificata nel-
la stella Venere, stella del mattino e della sera, del
cui culto ci restano tracce nella « Salve, Regina »
(che è la preghiera del mattino) e nell'Ave Maria.
È la solita cristianizzazione degli antichi culti pa-
gani; ricordate l’invocazione del Tasso alla Vergine
«che ha di stelle immortali aurea corona»?... Il lat.
hon-or (onore) e onus (peso, ma propriamente il pe-
so in metallo che si pagava per le cose, quindi il
prezzo o valore) sono varianti e ricordano il greco
onos (prezzo) che corrisponde esattamente al ven-
latino di ven-dere (animale dato come prezzo); la
parola venia (animale offerto in riscatto di peccati)
ci spiega il nostro concetto del peccato veniale (cioè,
riscattabile).
E si può, sulla base del lessico, stabilire il luogo
d’origine della razza, che costruì l’edificio della ci-
viltà. Nella parola inglese smith (fabbro) voi trovate

145
10. - L ’origine del linguaggio.
il semita, in caspa (parola assira per indicare il me-
tallo) trovate un accenno al Caspio; nel nome Amara-
n ti, antica patria degli Indù, troviamo il ricordo
dei Gomer o Gimmerii; nelle Sacèe di Babilonia (fe-
sta del re di 5 giorni, specie di nostro carnevale e di
saturnale romano) troviamo il nome degli Sciti, Saca
(eroso per *qosa\a, oggi Cosacchi).
Il lessico ci aiuta anche a stabilire che l’organizza-
zione primordiale della società europea ebbe carat-
tere totemico. Vi feci altra volta vedere che Ligure
o Veleb, Velee era il nome di un popolo che aveva,
a seconda delle tribù, i più svariati totem; con que-
sto nome erano (e sono tuttavia) indicate le masse
popolari di quasi tutta l’Europa e dell’Africa setten-
trionale da esse conquistata: Belgi, Valachii, Pelasgi,
Volsci, il lat. vulg-us, il ted. Vol\, il russo bolshoi
(onde bolscevico!), il greco (v)ochlos (per volch-os),
il lat. pleb-s, il greco laós (per palav-ós). Gl’Itali era-
no un popolo che aveva per totem il vitello, i Cini
o Cunei il cane, i Galli il gallo o più probabilmente
il cavallo {gallo può essere riduzione di Caballus, co-
me mostra il ted. gawl), come fa sospettare l’episo-
dio di Vercingetorige, il quale ad Alesia si privò del-
l’aiuto prezioso della cavalleria, non volendo, per
scrupolo religioso, esporla all’assedio e al massacro;
presso i Tartari, Kan vale re, e presso gli Arabi ca-
liffo (che è l’ebraico caleb, cane) indicò il capo su-
premo.
L’applicazione di questo principio è interessante e
vi dà delle piacevoli sorprese. Sapete perché i Latini
chiamavano i figli liberi? Ma perché l’antica casta
dominante era ligure; onde libertas si disse lo stato
privilegiato dei liguri o principi (in greco oltgoi —
liguri, passato poi a significare i pochi rispetto alla
massa di colore), precisamente come il ted. fran\

146
(libero) non e altro che il nostro prence. Sapete per-
ché gl’inglesi chiamano i ragazzi boy ? Ma perché
in una tribù di Boìi ogni membro di essa giunto alla
pubertà è un bue, e ottiene la vestizione totemica,
cioè viene abbigliato in modo da rassomigliare a un
bue, e in questa divisa prende parte alle guerre del-
la tribù. Col tempo questo abbigliamento si riduce
a qualche tratto essenziale, per esempio, mettere le
corna sulla testa, o sull’elmo un cimiero equino —
segno del totem — o indossare una pelle di leone o
di capra, come Giovanni Battista e gli eremiti della
Tebaide, o un berretto di scorza d’albero, ecc. E di
esempi di questo genere, nel lessico ne trovate a biz-
zeffe. Per dire giovane, i Latini dicono iuvenis (cioè
giovenco); la donna, in quanto sacerdotessa dome-
stica, è Acca Laurentìa, dove acca vale vacca, cioè
nutrice dei Lari o divinità domestiche, a cui faceva
ogni mattina le libazioni; in quanto è moglie, è det-
ta lupa (onde lupanar, casa di sacerdotesse di Ve-
nere) o Fauna-lupa (Pene-lópe); sposare una donna
si dice « diventar lupo di una » (lat. lub-ere, ted. lich-
en)', il marito è Fauno (greco Pan) che vale capro
o lupo, ovvero vir (cioè ver, che vale verro o anche
capro, var, greco Arci); il fidanzato o amante è un
porco, nome che poi fini per indicare soltanto l’ani-
male, ma che nel suo significato originario di prin-
cipe e generatore si trova nel Phor\ys della Mitologia,
nei Proci omerici e nel re Proca dei Latini; analoga-
mente Bruto presso i Latini (principe, prete) restò
confinato al significato animale, presso i Tedeschi in-
dica ancora il fidanzato o amante (Braut). Sauroma-
tia (Sarmazia) è il paese dei Sauri o cavalli detti an-
che aspa (sanscrito apvas) cioè caput, cab- (allus), con
una s intrusa come nell’inglese priest rispetto all’it.

147
prete, o in asphod-illum per * caput-illum, o in cesp-
ite (capitozza d’albero) per caput, ecc.
È bene tuttavia non attendersi troppo dal solo les-
sico. Questo totem non è sempre individuabile in
maniera precisa: si è visto infatti che i nomi degli
animali non indicano tanto la specie, quanto l’idea
generica del dio, del nutritore della tribù. Cosi i
Latini davano il nome di ursus all’orso, mentre gl’In- '
glesi lo danno al cavallo (horce); il nome della don-
na, che in greco è gyne, in celto zena, in gotico qena,
in inglese passò a significare regina (queen), e in
tedesco gallina {henne). Il nome del maiale sus in
latino, in ebraico designa il cavallo; il nome greco del
cigno, Ky\nos, in tedesco indica il gallo (H uhn).
Concludendo: abbiamo trovato nel lessico una chiave
di prim’ordine per aprire gli scrigni misteriosi della
preistoria; ma la provvida natura non concede i suoi"
tesori se non a chi sa usarne con cautela e con par-
simonia, e con quel senso della misura nell’abbon-
danza, che è il segno piu certo della maturità scien-
tifica.

IV. - Se s s u a l it à e l in g u a g g io (3-6-1944).

Vi siete mai domandati perché noi diciamo buono


al maschile e buona al femminile? E come mai il
primitivo abbia potuto concludere che la vocale a
fosse femmina, e la vocale o (u) fosse maschio?... È,
secondo me, una delle scoperte più curiose della sto-
ria della cultura, e cercherò di.spiegarvene quel tan-
to che mi è permesso dall’indole del foglio, che ospi-
ta questi miei articoli. Vi dirò dunque subito che
le parole primitive non avevano l’indicazione del ge-
nere, prima di tutto perché gli uomini ignorarono

148
per millennii le cause della generazione, e in secondo
luogo perché, per arrivare alla distinzione del gene-
re nelle parole, fu prima necessaria l’invenzione del-
l’alfabeto; onde una conseguenza a primo aspetto pa-
radossale, che cioè la forma delle parole e quindi la
lingua, a partire da un certo stadio della sua evolu-
zione, dipenderebbe dalla scrittura. Quanto al pri-
mo di questi perché, non occorrono molte parole:
è notorio infatti che la Mitologia ci offre molti rac-
conti, nei quali sorprendiamo ancora l’ingenua cre-
denza che la generazione avvenga per cause del tut-
to fantastiche: Danae è fecondata da una pioggia
d’oro, con ogni verosimiglianza la pioggia dei rag-
gi solari; talora la fecondazione è attribuita a un ba-
gno (onde la pratica assai diffusa del bagno prema-
trimoniale, che non ebbe in origine nulla a vedere
con l’igiene né con la decenza); talora è attribuita al-
la vicinanza d’un fiume o d’una sorgente (onde il
lessico primitivo chiama questi dei «fecondatori)),
ricorda a questo proposito Anna Perenna cioè la sor-
gente ferens o feronia, fecondatrice), o al misterioso
potere di uno sguardo (onde le «gelosie» degli O-
rientali, e il velo che impedisce la visione dei volti
femminili), o alla vicinanza d’un tempio (onde la
trista fama dei portici o fornici e il significato dato
al verbo fornicare), o infine anche alla presenza del-
la luna (onde le danze delle driadi o tribadi (1) al
chiarore lunare, e i convegni notturni delle ninfe e
dei pastori, e la leggenda del sabbato delle streghe,
e l’identificazione di Venere-Astarte con la luna). Piu
interessante è per noi il secondo perché. Già da an-
ni io scopersi che per distinguere il genere maschile

(1) Tribade connesso con ie. derva (albero) è lo stesso che driade,
e prova che le driadi erano donne che in vesti di capre accedevano a
convegni notturni di tipo orgiastico.

149
nella scrittura gli uomini pensarono di aggiungere
alla fine delle parole un cuneo quale emblema del
sesso, il quale cuneo, per puro caso, si trovava nel-
l’alfabeto ad indicare il suono u (o), e aveva il nome
di vau: ne venne perciò che la parola si arricchì di
una terminazione in « e diventò maschile. Per indi-
care il femminile si aggiunse alla fine delle parole
Fimmagine della porta, propriamente la figura trian-
golare della porta della tenda dei nomadi, la quale
nell’alfabeto primitivo rappresentava il suono d (del-
ta), oppure l’immagine della mammella (che nell’al-
fabeto egizio è disegnata di profilo e ha suono t,
nell’alfabeto greco ha suono th), onde in molte lin-
gue (camitiche, semitiche, indoeuropee) l’aggiunta di
una dentale alla radice servi a formare il femminile
(quasi tutti i femminili tedeschi originari terminano
in dentale, es. Schrif-t « scritto », Jag-d « caccia »,
Hand « mano » ecc. L’origine dell’# dei nomi fem-
minili è connessa con la cosi detta «terminazione
enfatica» dei mesopotamici, ma la spiegazione sa-
rebbe troppo complicata, chiedo perciò venia se sono
costretto ad ometterla (1).
Non meno curiosa è la spiegazione dell’origine del-
le terminazioni che indicano il numero dei nomi (sin-
golare e plurale) e che spero di esporvi in qualcuno
dei prossimi articoli. Ma una delle dimostrazioni più
gravide di conseguenze per l’avvenire degli studi lin-
guistici è protostorici è la demolizione della famosa
legge di Grimm. Il nome di Grimm è, nel campo
della filologia, uno dei piu importanti del secolo XIX,
(1) Si noti che i! maschile indicava in origine anche la classe
nobile, onde molte dee hanno nomi con desinenza maschile, es.
Kalypso; mentre il femminile indica in lingue primitive anche le cose
(perché la donna era considerata cosa) e questa sembra la ragione
perchè spesso i neutri hanno suffissi femminili, es. gr. hepa-t « fegato ».
Ciò avviene oltre che nell’ie., nell’elamico, nel caucasico, ecc.

150
e la sua legge è, si può dire, la spina dorsale di quel-
la scienza che va sotto il nome di « linguistica indo-
europea». Buttare giù questa legge significa dunque
far franare il terreno sotto i piedi a tutto l’attuale
indirizzo degli studi dell’antichità. Allorché si potè
stabilire che un certo gruppo di linguaggi, il latino,
il germànico, il celtico, lo slavo, il persiano, l’indiano
avevano fra di loro delle parentele cosi profonde da
costituire una famiglia a sé, distinta dalle altre, sorse
anche il pensiero di vedere secondo quali rapporti
avvenivano dall’una all’altra lingua, nell’interno di
questa famiglia, le modificazioni di vocali e conso-
nanti, onde nasceva la diversità dei singoli membri
di essa; per quale ragione, per esempio, il latino fra-
ter figura come Bruder nel tedesco, e il lat. pater co-
me Vater nel tedesco, father nell’inglese, pitàr nel
sanscrito. L’essenza della legge di Grimm consiste
in questo: secondo lui, nell’ie. primitivo ogni serie
di consonanti (serie .gutturale, dentale, labiale) aveva
quattro suoni (1): tenue, aspirato, sonoro, sonoro aspi-
rato: le gutturali perciò erano K, h, g, gh; le den-
tali t, th, d, dh ; le labiali p, ph, b, bh. Dopo la di-
spersione della famiglia indoeuropea, ciascun grup-
po del grande ramo continuò i suoni originari in
maniera propria e differente dagli altri, e, per portare
qualche esempio, il suono primitivo \ si conservò
nel latino e nel greco, ma diventò h nel germanico,
il suono p si conservò nel latino e nel greco ma
diventò f nel germanico, il suono bh diventò f nel
latino e nel greco, b nel germanico, ecc. : è per questo
\ che al latino centum corrisponde in tedesco hundiert)

(1) Veramente tre, perché si trovò che le aspirate delle lingue


ie. storiche nel sanscrito corrispondevano alle sonore aspirate: se ne
dedusse che l’ie. aveva dovuto possedere soltanto le aspirate sonore.
Ciò che però non è affatto certo.

151
al lat. pater corrisponde Vater (pronunzia fater), al
lat. frater corrisponde Bruder. Che bellezza, dunque,
avere sott’occhio una qualsiasi parola d una lingua
qualsiasi della famiglia e potere, in base ad essa, in-
dovinare la forma che la parola avrà in altra lingua
della stessa famiglia!
Purtroppo i risultati non giustificarono queste ro-
see illusioni. Si era corso troppo, si era concluso sul-
la base di un troppo esiguo numero di dati. L’erro-
re fondamentale di questa concezione è che essa po-
stula l’esistenza di un linguaggio primordiale unico,
ben definito morfologicamente e foneticamente, che
si possa quindi risalire a una forma originaria delle
parole ben precisabile nei suoi elementi costitutivi,
consonanti e vocali. Ne abbiamo già mostrato l’assur-
do nel nostro articolo precedente. Questa concezione
non poteva nascere che in una mentalità ancora im-
pregnata di preconcetti settecenteschi: Rousseau ave-
va immaginato la perfezione dello stato di natura,
Grimm pensava a un linguaggio perfetto all’inizio,
e del quale i linguaggi posteriori non erano che cor-
ruzioni: insomma, un paradiso terrestre iniziale e,
al posto del progresso, la decadenza. Una falsa ana-
logia servì a puntellare l’errore: come dalla corruzio-
ne del latino erano sorte le lingue romanze, così dal-
la corruzione del primitivo indoeuropeo erano sorti
i linguaggi storici appartenenti a questa famiglia. Ci
sono poi delle altre obbiezioni da fare al modo in
cui Grimm intende la sua legge: essa suppone che
una parola trasportata da una lingua ad altra vi su-
sciti una reazione unica, mentre l’esperienza dimo-
stra che essa viene storpiata in più modi (oggi le
scuole, i giornali, la letteratura, la comunità di pen-
siero e di vita in seno alle esistenze nazionali creano
una uniformità di pronunzia e di lessico che non

152
esisteva nelle società antiche). Per provare l’infonda-
tezza della legge di Grimm noi non abbiamo dunque
a fare altro se non mostrare che le tre serie delle
consonanti (tenui, sonore, aspirate), le quali dovreb-
bero corrispondersi secondo una determinata rotazio-
ne nei vari gruppi della famiglia ie., si trovano in-
vece coesistenti in una stessa lingua', o, in altri ter-
mini, ciascuna lingua non offre una reazione unica,
ma rappresenta un composito nel quale vengono ca-
tegoricamente negate quelle particolarità per le quali
essa acquistava una sua individualità nella legge di
Grimm. E a trovare esempi dimostrativi non è nem-
meno necessaria la lanterna di Diogene, il vocabola-
rio ne è pieno: l’it. buttare vale «metter fuori ger-
mogli» o putti o bottoni, ed è connesso con potare
(far putti o rami) e putare (contare), con re-futare
(variante di ri-buttare') con futile (refutabile) e con-
futare', in greco si ha potis (marito, generatore), bo-
tane (erba, pianta che butta o germoglia, onde la pa-
rola botanica, cfr. it. puttana «donna che fa putti»
poi prostituta), e phytón (pianta) ; in latino si ha crates
(graticcio), gratus (obbligato, legato come da un gra-
ticcio), hortus (luogo recinto); falx (falce, cosa che
taglia), plag-ium (staccare, rubare), greco péle\-ys
(falce) e blàbe (danno, cioè togliere, tagliare); it. falla
(taglio, buco) e piluccare (staccare dal ramo, inglese
to pluck). In greco si ha phaino e phainómenon (ap-
parenza) in tedesco Fun\e (scintilla) e bunt (vario-
pinto, appariscente); in italiano pallido (bianco), ba-
leno (idea di luce), falò (luminaria), biondo (per bion-
do), in tedesco blond (biondo) e blass (pallido); in
latino pungere, fundus, fendere, in greco bathos, a-
byssos (fosso), in ted. Veind (nemico, che colpisce),
Boden (fondo), Wunde (puntura, ferita), Wunder
(meraviglia, propriamente « cosa che colpisce » come

153
in lat. s-tupeo è connesso con typus che vale « colpire,
battere »); in italiano ficcare, piccare, beccare ecc. (1).
Come mai dunque tanti studiosi non se n’erano fi-
nora accorti?... Ma perché la scienza etimologica, fi-
no ad oggi, è stata ignorata. La legge di Grimm po-
trebbe sostenersi se essa si limitasse ad affermare che,
in una piccola percentuale di casi, avvengono le tali
e tali altre trasformazioni e corrispondenze nel pas-
saggio da uno ad altro gruppo della famiglia lingui-
stica indoeuropea; nella sua forma attuale è invece
un errore, ed anzi un errore pernicioso, perché ha
contribuito a deviare la Scienza dal retto sentiero e
a impedire che si costituisse una scienza etimologica
piu vera e piu comprensiva. Immaginate che fin oggi
tutti i casi che infirmavano la legge di Grimm sono
stati considerati come perturbazioni dipendenti da
cause non bene accertate, o come indizi che le tali
e tali altre parole ribelli alla legge non fossero indo-
europee! Siamo dunque dinanzi ad un tipico esem-
pio di generalizzazione affrettata, costruita su un ma-
teriale insufficiente, e con una piu che insufficiente
conoscenza della struttura etimologica del lessico in-
doeuropeo; accettata quindi passivamente da varie
generazioni di studiosi, i quali, sulla base di questo
ipse dixit, arrivarono a negare perfino la luce del so-
le asserendo, ad esempio, che parole così .manifesta-
mente affini come il lat. habere e il ted. haben (avere)
non avessero nulla che vedere fra di loro! (Secondo
la legge di Grimm, infatti, se nel germanico ce haben
cioè l’aspirata h, nel latino dovrebbe aversi la tenue
k> e non Yh di habere).

(1) Cfr. inoltre greco hypèr e hybr-is (soperchieria); gr. brag-ós


«p alude» (onde it. bragòzzo e lat. (p)lacus «lago » ; it. putto, botolo
ecc. e ingl. body « corpo »; etrusco urch-orcio (Bende, col. VI) e ur\em ,
lat. urccus.

154
La verità della scienza si basava sulla esattezza del-
le etimologie, ma queste, a loro volta, venivano col-
laudate sulla base della legge di Grimm. Era dun-
que un circolo vizioso, che doveva fatalmente spin-
gere la scienza in un vicolo cieco. Vi ho fatto già
vedere che l’etimologia non può farsi unicamente
basandosi sugli attuali significati delle parole, i quali
non sono se non metafore accidentali appartenenti a
un determinato stadio nella evoluzione della parola;
vi farò vedere in seguito un altro e piu grave errore
che avrebbe impedito alla linguistica, forse per se-
coli, di mettersi sulla giusta via.

V. - St r u t t u r a in t im a d el v o c a b o l a r io (1-7-1944).

Vi ho già parlato dell’errore della legge di Grimm


e di altro grave errore che avrei voluto chiarirvi. Io
sostengo esservi stato uno stadio del linguaggio uma-
no in cui non esisteva una netta delimitazione fra
suoni gutturali, dentali, labiali, ma tutti allora veni-
vano promiscuamente usati l’uno per l’altro. Diversi
viaggiatori han parlato delle difficoltà incontrate nel
trascrivere i suoni delle lingue dei selvaggi e come
per es. là dove uno crede di sentire kfipa un altro
senta tapa o che so io, perché nel primitivo non si
è ancora nettamente degagée la fisionomia della den-
tale da quella della gutturale, ma il suono fluttua
indeciso tra l’una e l’altra come se egli avesse dell’una
e dell’altra natura. Se ne deve concludere che la pre-
cisione del suono, quella che può dirsi la sua indivi-
dualità, è piuttosto un punto di arrivo che un pun-
to di partenza, ciò che viene per altra via a contrad-
dire l’opinione di un primitivo linguaggio indoeuro-
peo ben articolato morfologicamente e foneticamen-

155
te. Ed invero esistono molti indizi che esso abbia at-
traversato uno stadio paragonabile a quello degb at-
tuali idiomi dei selvaggi. Non vi chiedo di credere
alle mie asserzioni; vi prego di scorrere per conto
vostro il vocabolario: vi troverete un’infinità di pa-
role che postulano una radice scritta indifferentemen-
te con gutturale, labiale o dentale.
Ecco alcuni esempi:
I. Idea di tagliare, incidere'. A) car, cal\ classe
(divisione), (corazza (suddivisione), cruna (buco), nor-
dico {c)runa (lettera incisa), etrusco shren (incisione,
immagine), greco krene (grotta, sorgente), lat. {can-
tera (incisione), ingl. (c)little (mozzato, piccolo), lat.
(c)litus (orlo, divisione), it. lite, lizza, lotto (divisione,
parte), lotta, greco (k)arythmós (divisione, numero),
greco rhythmós (ritmo, divisione) ecc. B) pai, par:
palmento (che schiaccia), valle (solco), falla (buco),
falce (che taglia), plagio (staccare, rubare), piluccare,
greco péle\ys (falce); parte, porz-ione, lat. parcae
(che dividono, amministrano), parcere (amministrare,
quindi risparmiare, economizzare) ecc. C) tal, tar:
ted. Tal (valle, solco), teil (parte), it. tagliare, greco
delta (porta, fessura), thyra (variante del precedente),
lat. del-eo (rompo, distruggo), dolor (taglio, danno,
dolore).
II. Idea di luce e di suono-. A) cal, car: col-ore,
lat. hor-a (luce del giorno, ora), her-i (ieri, «giorno
or è»); garr-ulo, chiac-cher-a (radice raddoppiata per
indicare frequenza; però può anche connettersi a fr.
coq, a greco \o\-yzo, a veneto ciac-ola, ecc.), lat.
chor-us, (c)orare, ecc. E con \ trasformata in s: sir-ena
(cantatrice, incantatrice), sir-ima (canzone), sus-surr-o
(con radice raddoppiata per indicare frequenza), ecc.
B) tal, tar: ingl. tale (racconto), teli (dire), ted. zahlen

156
(raccontare), etrusco zilac (dettare, « dittatore »), gre-
co delos (manifesto), ted. Dolmetscher (interprete),
ebraico talm-ud (commento), ebraico targum (com-
mento), it. dragomanno, greco threnos « lamento » lat.
triumphus «acclamazione)) ecc. C) pai, par: pallido,
baleno, fulmine, folgore, greco pyr (fuoco), lat.
(b)uro «brucio» ecc.
III. Idea di terra, terra emersa, monte, quindi
cosa secca o anche cosa nutriente, producente-. A) col,
car: lat. (c)ora (spiaggia), greco chora o hóros (luo-
go), kprynthos (monte, città), slavo gora (monte), it.
carso (terra secca), crosta, crist-allo, Carnia (monte),
lat. hlact, greco gàlakt (latte), carne (nutrimento).
B) tal, tar-, lat. tell-us, greco Delos (terra, isola), Tuie
(variante del precedente), arabo teli (collina) ecc.
C) pai, par : greco bóros (monte), Paros (isola, monte),
Pharos (isola egizia, variante del precedente), lat.
porr-um (sporgenza, porro), lat. inferi (dentro terra),
polpa (nutrimento).
IV. Idea di girare-, vir-are, gir-are, tornare, Cecrope
(= ciclope, occhio circolare, cioè mago con specchio
rotondo in fronte); tarchiato (torchiato, compresso,
cioè più largo che alto), sicil. firriari (girare) ferraiuolo
(mantello che avvolge); tarma, verme, sanscrito \arm
(verme), ai-kermes (liquore vermiglio), cremisi (color
di alkermes).
V. lat. -que, greco hai, te, ligure antico pe, ebraico
ve, lat. ve (enclitico): «e, o».
Quest’ultimo numero è di particolare interesse, per
sfatare un errore corrente. Si ritiene infatti che là dove
si corrispondono in varie lingue ie. i suoni qu- e p (es.
lat. quinque, greco pente) la forma con qu- sia quella
dell’ie. primitivo. Donde è venuta questa opinione?
Agli inizi della scienza linguistica si riteneva che il

157
sanscrito fosse più vicino alla lingua madre che non
il latino o il greco: trovandosi la parola greca hippos
(cavallo), la latina equus, la sanscrita aqvas, si conclu-
se che la forma equus essendo più vicina alla sanscrita
fosse primitiva rispetto alla forma greca hippos; ed
era del resto un dogma della paleontologia linguistica
che quando si trovano due concordanze in due lingue
ie. geograficamente distanti e non aventi avuto rap-
porti fra di loro, tale fenomeno dovesse ascriversi al
periodo indoeuropeo indiviso. Vi mostrai nella parte
prima il lato debole di questo ragionamento; ma nel
caso specifico dell’equivalenza qu = p, ho qualche
ragione per credere che il contrario debba essere vero.
Vi citerò qui, ad es., la parola licia \batru (figlia),
il sicil. putru (puledro), francese poutrelle (trave,
putto dell’albero) e la sanscrita putra (figlio). Dovre-
mo allora concludere che il lido, lingua cosi scarsa-
mente indoeuropea, rappresenti in confronto del san-
scrito, una forma più genuina? Ma io ho trovato
anche una prova decisiva, e, a mio parere, di notevole
finezza, per la quale chiedo la benevola attenzione
del lettore. Nelle lingue primitive, comprese le indo-
europee, esisteva il cosi detto « stato costrutto », non
era possibile cioè l’accostamento di due parole, p. es.
maestro e scuola, perché queste due parole accostate
avrebbero significato « maestro di scuola ». Tracce di
questo costrutto si trovano in vari nomi arcaici greci,
p. es. Mene-lao (pastore del popolo), Basi-leus (signore
posis, del popolo laós), mentre nel greco posteriore si
sarebbe detto Laomene, Laoposis, ecc. Per fare una
enumerazione bisognava dunque avvertire il lettore
che le parole stavano a sé, isolate, e non già in stato
costrutto; e nell’assiro noi vediamo essersi provveduto
a ciò, interponendo fra parola e parola un cuneo, la
cui funzione equivaleva dunque a quella che ha da

158
noi Ve oppure l’o. Nell’ebraico la congiunzione e vien
precisamente rappresentata da un cuneo, il cui nome
è vav, e che quindi si legge ve-. questo cuneo ebbe nel
greco, insieme con qualche insignificante ritocco gra-
fico, il nome più recente di digamma, nel latino invece
conservò il nome originario di vau. È chiaro dunque
che il lat. que, il \aì e il te dei Greci sono i continua-
tori di questo antico segno, e lo stesso dicasi del ve
latino enclitico e del pe ligure: e poiché l’origine della
loro funzione si deve all’impiego del cuneo, e non
già a un significato qualunque che queste particelle
avessero per se stesse, è chiaro che la pronunzia origi-
naria doveva essere quella che sta in connessione col
nome del cuneo o vau, cioè dunque ve (1). Non si
confonda questo ve col lat. vel, voce del verbo velie
equivalente al nostro «vuoi... vuoi... »; né con la con-
giunzione latina ac, che è variante senza n di anc, che
si trova nell’etrusco e che forse è il nostro « anche »
letteralmente «anca, giuntura, cosa in aggiunta»; né
infine col lat. et, di cui il ted. und e Tingi, and
(= unendo, unito) sono varianti con nasale connesse
col numerale latino unus, greco en, ingl. an e con
l’etrusco um (= e).
Qualcuno dei lettori potrebbe ora chiedere: ma
dunque la scienza linguistica, da un secolo a questa

(1) Si faccia attenzione a una interessantissima concordanza: l’im-


piego enclitico di queste particelle in latino e greco ha la sua ragione
d’essere nel fatto che il cuneo si metteva alla fine della parola per
isolarla dal seguito; dunque una particolarità sintattica ie. ha il suo
fondamento in una grafia di tipo semitico. La pronunzia antico-ligure
di questa particella (pe) ci fa concludere che le lettere p e / erano, co-
me il vau, mere varietà del simbolo fallico. Si ricava infine una con-
seguenza di vasta portata: l ’invenzione dell’alfabeto deve rimontare
almeno all’epoca in cui indo-europei e semiti erano indivisi. Ciò io
ho sostenuto, senza per altro poter addurre prove decisive, nel mio
lavoro Schizzo di Storia della preistoria; qui sono lieto di poterne fi-
nalmente dare la prova. Aggiungo che la ? indiana si chiamava it:
con che resta provata la derivazione semitica (het).

159
parte, è stata tutta un errore? È stata tutta inutile?
No, e sarebbe ingiusto sottovalutarne l’importanza.
Essa ha notevolmente approfondito !a conoscenza
tecnica delle varie lingue della famiglia ie. ; con un
metodo rigoristico, che oggi ci sembra troppo angusto
e privo di idee, che oggi quindi non ha alcun signi-
ficato, ma che allora ne aveva uno grandissimo, in
quanto bandiva da questo campo di studi ogni faci-
loneria e superficialità, ha raccolto e vagliato diligen-
temente un ingente materiale di studio, ha fissato la
cronologia dei documenti e si è sforzata insomma di
preparare condizioni ideali di studio a coloro che
verrebbero dopo. Di ciò si deve renderle atto. Ma
bisogna anche non chiudere gli occhi ai suoi torti.
Essa ignorò i rapporti fra la famiglia ie. e le altre
famiglie linguistiche, e anzi se ne disinteressò delibe-
ratamente. Credette di poter meglio in tal modo col-
tivare il suo orticello privato, ma si privò di sussidi
preziosi e si precluse la via per giungere a un alto
, punto di vista, da cui dominare con più vasta e pene-
trante sintesi il complesso dei fenomeni. La sua cono-
scenza del fatto linguistico rimase monca, mediocre-
mente empirica, contraddittoriamente positiva, senza
ampiezza di sguardo e senza una vera radice nella
conoscenza dell’antecedente preistorico. E idee erro-
nee di ogni genere, sotto le apparenze della scientifi-
cità più rigorosa, s’insinuarono nel suo sistema. Una
di queste fu che le parole si potessero datare, che si
potesse chiedere ad esse il loro atto di nascita. Si com-
pilarono repertori nei quali si precisava che la tale o
tal altra parola è del tal secolo, che è più o meno
recente, più o meno autentica o di seconda mano.
Vietato fare una etimologia, partendo direttamente
da un vocabolo italiano, o da un vocabolo tedesco mo-
derno; bisognava passare attraverso il latino, attraver-

160
so il gotico o l’antico alto tedesco (1). Scambiava spesso
la data del documento letterario nel quale una parola
è attestata per la prima volta con la data di nascita
della parola; e anche quando asseriva di saper distin-
guere benissimo fra queste due cose diverse, pratica-
mente tutto poi avveniva come se distinzione non
esistesse. Non s’accorgeva che spesso un vocabolo
moderno ha forma piu genuina di un vocabolo cre-
duto più antico (p. es. ted. hell « chiaro » conserva nel-
Yh iniziale la trama dell’erosione, ed è quindi più
genuino del vocabolo do creduto più antico); perché
ciò che è vivo ancor oggi può benissimo aver vissuto
millennii, anche se ha smarrito i suoi archivi di fami-
glia, e l’attuale dialetto parlato può bene essere stato
coevo di un dialetto scomparso da secoli. Non le
riuscì di elevarsi a un concetto più ampio e più vero,
che cioè, se si prescinda dalle parole composte o deri-
vate per via morfologica (es. lezione è posteriore a
leggere, perché ne è derivato), o ridotte dall’uso in
forma logora (es. sodo da solido, scempio da semplice),
non si può parlare di parole piu antiche e meno anti-
che, tutte essendo egualmente antiche, ma soltanto di
parole che in un determinato tempo affiorano nella
lingua letteraria e giungono al traguardo del docu-
mento storico, o di parole che in un determinato tem-
po acquistano una nuova accezione metaforica e per-
ciò si presentano come parole nuove (es. stornello nel
senso di canzonetta è metafora di un dato secolo, cosi
come quinta colonna è metafora del nostro tempo, il

(1) Questa precauzione è lodevole, perché la fisionomia di una pa-


rola moderna può essere alterata; m a la ragione profonda' che la ispirò
fu altra: l’idea che il collaudo dell’etimologia dovesse basarsi sulla legge
di Schleicher-Pott-Grìmm, la quale non s’applica se non alle lingue ie.
ritenute di prima mano. Ma questo preteso collaudo, oltre a essere di
scarso valore, è stato il punto di partenza di molte vedute erronee.

161
11. - L'origine del linguaggio.
che non significa che le parole, in quanto tali, siano
di creazione recente). /
Questo errore se ne trascinava dietro un altro: la
credenza che le parole possano essere create. Questo
argomento è cosi affascinante, perché intimamente
connesso con un problema che ha in ogni tempo
sollecitato lo spirito umano, quello dell’origine unica
o multipla del linguaggio, che mi riservo di trattarlo
separatamente in altro capitolo.
Un altro errore riguarda la concezione attuale delle
cosi dette radici delle parole. Si prendeva una parola,
p. es. il greco aidós (pudore), si staccavano le termina-
zioni, e quel che restava — in questo caso aid — si
chiamava radice. La quale era reputata racchiudere
l’idea generica indicata dalla parola. Ora io posso
assicurarvi invece che aidós deriva da aidota «pu-
dende » propriamente « cose da non vedersi », parola
che a sua volta deriva da ìd {vid) « vedere » preceduto
dal cosi detto a privativo (non esiste in effetti alcun
alfa privativo, questo essendo una semplice riduzione
da aneu « senza », come Viti latino di instabilis e si-
mili è da sine e l’un tedesco di un-nòtig « non neces-
sario » e simili è da ohne « senza ») (1). Prendiamo un
altro esempio: la parola gemere (piangere). Anche qui
non abbiamo alcuna radice gem- indicante tale idea,
gemere è un traslato, vale «far gemme» cioè goc-
cioline lucenti, « trasudare » e ha perciò per radice la
parola gemma, che a sua volta è connessa con la pa-
rola greca gàmos (lat. amos poi amor) cioè « genera-
zione»; è la «generata dell’albero», cosi come la sua
variante gomma « secrezione dell’albero » e il sicilia-
no giummo « pennacchio » propriamente il ciuffetto
di foglioline della gemmazione. La conclusione è che
(1) Meno ancora si può ammettere che l ’alfa privativo sia per una
primitiva n (nasale sonante) ie., la cui esistenza è pili che incerta.
©

162
gemere riposa su una radice gemma, la quale è diven-
tata radice solo in quanto è divenuta metafora e solo
a partire da questo momento. Voi vedete dunque che
la teoria classica delle radici ne rimane tutta scombus-
solata, e che per giunta non si arriva mai a una radice
nel senso tradizionale della parola, ma sempre a un
vocabolo intero e parlato, che diventa radice solo in
quanto acquista un nuovo significato metaforico.
Prendete il greco \ym a (onda), \om e (villaggio),
Cuma (città greca d’Italia), il lat. coma (chioma),
l’it. cima-, l’idea base è quella del giacere in un luogo
(greco hpìmai giaccio, da \e i = qui, li), e siccome le
abitazioni dei primitivi erano sulle terre alte, si an-
nesse a queste parole l’idea di altura, superficie e si-
mili. Se vi ricordate il modo con cui intendeva fare le
comparazioni lessicali il Meillet, bisogna concludere
che mai con tal metodo si sarebbero scoperte queste
affinità. In latino abbiamo captivus (prigioniero), in
siciliano cattiva (vedovo), in francese chetij (gracile);
in siciliano tintu (cattivo), in italiano tinto (dipinto):
sono dunque omofoni fortuiti?...
Voi ora percepite bene l’assurdo di questo metodo.
Ma per darvi una idea ancora piu chiara della strut-
tura del lessico, vi porterò un ultimo esempio. Noi
oggi con la parola re intendiamo un personaggio ben
definito con funzioni definite. Ma se prendete il re di
una tribù preistorica, trovate che egli è, oltre che re,
mago, sacerdote, guerriero, guaritore, il più bello, il
più forte, il più buono, il più serio, è insomma la
quintessenza di tutte le virtù trascendenti: e da questa
molteplicità deriva una possibilità molteplice di meta-
fore, che, diventate radici, creeranno innumerevoli
genealogie di parole. Prendete la parola ver {par, ca-
pro o verro), voi avete il vir (eroe) e lo her-os (*ver-os)
dei latini, lo herr (signore) dei Tedeschi, il capro

163
arren o arseti dei Greci, il medico etrusco arshina, ted.
arzn-ei «medicina», it. arsenico (medicinale); il guer-
riero Ares dei Greci, ted. wehr «esercito», il difen-
sore o garante (inglese warrant), l’uomo non mendace
verus, il generatore o amante tir, greco erào (*verào)
«am are»; il conte ear-l degli Inglesi, il vocabolo lat.
ver-eor «temere, riverire» in ted. eroso: Ehre, in
greco eroso Erinys, le Furie o venerande, la virtus,
il valore (ted. wert) e infinite altre parole che oggi
sembrano, sia per il suono, sia per il significato, non
aver nulla a che vedere fra di loro. Come volete che
la scienza del secolo scorso, tutta basata sulla legge di
Grimm, potesse fare l’etimologia, se non sapeva ele-
varsi a queste considerazioni, se confrontando i di-
versi lessici e trovando parole simili con significati
differenti, pensava a scherzi di natura?... Una parola,
cari lettori, è come una cellula, che diventa a volta a
volta fibra, muscolo, tessuto connettivo, tessuto ner-
voso, cuore, globo oculare: che da ameba diventa ret-
tile, uccello, insetto, mammifero, pur rimanendo sem-
pre quella, sempre fondamentalmente una e pari a
se stessa. Anche il lessico, come già la fisica, la chimi-
ca, l’astronomia, la biologia, riconferma quell’unità
di piano della natura, che è una delle leggi fondamen-
tali dell’universo, e che in fondo non è forse altro se
non una forma della legge generale del minimo
mezzo.

VI. r O r ig in e u n ic a o m u l t ip l a d el l in g u a g g io ?
(17-6-1944).

L’opinione che l’origine del linguaggio sia unica


si appoggiava un secolo fa sull’autorità della Bibbia, e
si connetteva a un’idea che oggi ci sembra inaccetta-

164
bile: vale a dire che tutti i linguaggi derivassero
dall’ebraico. Questa opinione cadde definitivamente
in seguito all’avvento del metodo positivo e della
linguistica indoeuropea; ma era ancor prima di allora
caduta in discredito, in quanto spingeva alla facilone-
ria e alle etimologie piu disinvolte e piu strambe, si
che Voltaire, buon’anima, se n’era beffato da par suo,
dicendo che la linguistica era la scienza per la quale le
consonanti contavano poco e le vocali nient’affatto.
E, parodiando i metodi etimologici del suo tempo, si
assunse di dimostrare che la parola «violino» era
derivata dalla parola « Nabuccodonosor»! Tuttavia,
l’opinione dell’unità d’origine del linguaggio non si
spense mai del tutto; essa è risorta più volte ancoran-
dosi ad altre idee più serie, ma fin oggi, a dir vero,
quasi sempre senza fortuna. Uno degli ultimi tenta-
tivi — pur esso andato a vuoto — fu quello del nostro
Trombetti. Ora si domanda: è possibile risolvere que-
sta questione coi dati di cui oggi dispone la scienza?
È noto che, in seguito alle molte cantonate prese
nel 700 da etimologisti improvvisati o presuntuosi, la
linguistica instaurò un metodo estremamente severo:
non si devono — ella disse — tenere in alcun conto le
affinità di suono fra parole di lingue differenti (e
nemmeno, a volte, fra parole di una stessa lingua):
la somiglianza delle parole è un elemento superficiale
e ingannatore, la vera parentela si deve provare sulla
base delle leggi fonetiche. Due parole possono non so-
migliarsi affatto, come lat. lacrima e ingì. tear, ed
essere ciò non ostante sorelle germane. Tutto ciò è
esatto, e va approvato. Quel che non va approvato è
il tentativo di estendere oltre certi limiti la validità
di questo ragionamento.
Il linguista odierno asserisce di non volersi occu-
pare delle questioni d’origine; egli ha la religione del

165
metodo positivo, si limita perciò ad asserire che l’unità
d’origine del linguaggio pel momento non gli risulta;
che egli non la nega e non la pregiudica: ma opera
come se praticamente la questione non esistesse. Ora
precisamente qui si annida, senza che egli se ne ren-
da pieno conto, un grossolano parologismo, che fa
del preteso positivista un incorreggibile apriorista.
Quando il linguista vi dice che non bisogna con-
frontare fra loro le parole della famiglia indoeuropea
con parole di altre famiglie (camitica, semitica, tura-
nica ecc.) egli crede fare del positivismo metodico,
ma in effetti preclude a sé e pretende precludere a voi
una serie di esperienze. Supponiamo p. es. che il
vocabolario umano sia unico e che i vari linguaggi si
siano in altri termini ritagliati un proprio dominio
a parte dal territorio prima indiviso. È chiaro allora
che voi troverete vocaboli indoeuropei che possono
benissimo essere vicini di casa di vocaboli camitici o
turanici. Che vi si domandi di dimostrare la reale
affinità di questi vocaboli è ammissibile (benché, a
rigore, se le affinità sono a migliaia, il numero e la
massa siano per se stessi una prova); ma che vi si dica
che voi non dovete far confronti oltre la cerchia in-
doeuropea, solo limite entro il quale essi sono am-
messi (per l’esistenza di leggi fonetiche di collaudo)
e che il semplice farli è un errore da condannare in
via pregiudiziale, mettendo il tentativo nel novero
delle iniziative non scientifiche, questo è già un pren-
dere partito, e in nome di un malinteso positivismo,
un volere imporvi a priori delle vedute sulla non
unicità d’origine del linguaggio. In parole povere,
questo si chiama dogmatismo.
Potete chiedere : ci sono degli indizi che vi autoriz-
zano a supporre che gli attuali lessici particolari delle
varie lingue siano mucchi di rottami di un tutto uni-

166
co? Altro se ve ne sono! Vedete: i linguisti parlano
di lingue del K e di lingue dell’S, volendo alludere al
fatto che le parole le quali nelle lingue indoeuropee
occidentali (latino, greco, celto, germanico) hanno K,
nelle lingue slave e arie orientali hanno S; ma voi tro-
vate eccezioni a migliaia; esempi: greco àr\tos, lat.
ursus; latino hircus, variante di ursus, ted. Hirsch
(cervo) e inglese horce (cavallo); lat. camusus e greco
simós; lat. ac-cend-ere e ted. ent-ziind-en; greco gyné
(donna) e celtico sena, zena; lat. curt-as (mozzato) e
inglese short. C’è dunque promiscuità, non taglio net-
to; e la stessa cosa si trova nei rapporti con le lingue
semitiche; osservate: lat. garr-ul-us, greco chorós
(coro), gary (voce) ed ebraico shir (canto), it. sìr-ena
(cantatrice), sir-ima (canzone), sus-sur-ro (1), ecc. Voi
potete osservare poi un fenomeno curiosissimo: i nomi
di luogo (toponomastica) in tutte le regioni si rasso-
migliano, indizio, secondo me, che la razza degli Dei,
di cui parla Platone, o razza bianca, si diffuse in tutto
il mondo, fondò la casta aristocratica in tutte le tribù
di colore, insegnò ad esse il linguaggio e i rudimenti
della civiltà.
Se queste tribù selvagge, per incapacità intellettuale,
deformarono poi l’antico linguaggio unico, i nomi
dei luoghi, rimasti invariati, e quasi sempre in nessun
rapporto con le parlate dei selvaggi, rimangono qua-
li testimonianze dell’antica conquista dei Bianchi. E
come si spiega poi che molti vocaboli nelle lingue
più disparate si corrispondono? Notate il russo Boje
(dio), il nome del fiume Bug (dio), Buca-rest, Buco-
vina (da confrontare con Erzego-vina, territorio
dello Her-zog o duca), turco bey, albanese beg
(becco, signore; onde anche l’inglese big «grosso,
grande »); il nome palestino Baal, da confrontare con
(1) Cfr. anche greco syr-ing-s «zam pogna».

167
lat. val-eo (sono Baal, son forte), Vol-o (sono dio, co-
mando), bello (dio), francese bei-ette (donnola, cioè la
signora, la dea), e poi balia, bailo, Dece-balo (Baal o
re dei Daci), ecc.; vizir, etiopico vizeró (signora),
Weser (fiume, dio), Vis-ula (Vistola), Isère, Istro, astro
(stella, dio), Istar (l’astro o stella Venere, Iside), ingle-
se star (eroso del precedente, vale « stella »), histrio
(personaggio tragico, Re), bistro (maschera di perso-
naggio tragico, poi «belletto»; altra etimologia è da
greco Bystra, « fuliggine che ottura i camini ») ecc. ;
manto nel senso di « uomo » (eroso da gam- « fecon-
datore»): Rada-manto (rosso-uomo), Eri-manto da
confrontare con Raimundo, Edmundo (capro, guer-
riero); manto o mantia (variante senza n matia) nel
senso di monte, abitazione, lat. maneo; Dal-matia,
Moss-ul, Masr (nome arabo dell’Egitto), Mazàra,
Masèra, Mestre, Mistretta, Misurata ecc. (Non si con-
fonda manto o mantello, variante con n del greco
Himat-ion « vestito di camita o sacerdote, come cami-
sia è « tunica camita o egizia »). Queste somiglianze
le si spiegano in due modi. Si dice : i vocaboli viaggia-
no; in ogni bngua quindi troverete vocaboli importati
da altre lingue. Ma a dir vero non s’importano voca-
bofi che designano oggetti della vita elementare, p. es.
il pane, l’ombra, il monte, l’albero, il fiume ecc. Si
importa il nome di un albero esotico, di una forma di
panino speciale ecc. non già il nome generico di
oggetti che sono a base della vita di tutti (es. greco
s\ìvà, copto shewe « ombra », greco gyné, copto jena
«donna» leggi come j francese). E si dice: le parole
sono cosi numerose, i suoni in numero cosi limitato
(21 lettere o giu di li in tutto) che le affinità accidentali
devono essere inevitabili. Anche questo è un argomen-
to capzioso: quelle venti lettere, col metodo combi-
natorio, vi dànno cifre cosi astronomiche, che prati-

168
camente è da escludere ogni affinità accidentale. Nei
libri di linguistica, ogni parola vien sempre citata
facendola precedere dalla indicazione della lingua cui
appartiene (e ciò ad evitare affinità ingannatrici):
ebbene, io non dubito di dirvi che, pur approvando
per ragioni pratiche tale consuetudine, l’indicazione
non è affatto indispensabile, e se voi mi allineate da-
vanti in disordine cento parole di lingue a me note,
la probabilità che io prenda uno scambio è del tutto
trascurabile. E ciò prova che il pericolo degli omofoni
fortuiti è uno spauracchio che più non impressiona.
Può avvenire talvolta confusione fra spagnuolo e por-
toghese, fra danese e svedese, perché sono, in fondo,
condialetti; ma i veri omofoni fortuiti (es. italiano da,
ted. da, che però a rigore non lo sono nemmen essi,
infatti l’uno è da de « dio» e l’altro da de «terra»
ma in origine « dio, dea ») si contano sulla punta
delle dita, e non valeva perciò la pena di mettere
l’umanità in tanto imbarazzo per preservarla da un
pericolo di proporzioni cosi infinitesime: sarebbe co-
me vietare agli uomini di circolare in città pel timore
che ogni tanto si spezzino i fili della luce o del tranvai.
Quando dunque trovate due parole affini, in qual-
siasi lingua, è infinitamente più probabile che voi ab-
biate a fare con delle vere affinità che non con delle
mere coincidenze (il che non significa che voi dob-
biate attendervi che anche i significati attuali si cor-
rispondano). È una comoda scappatoia quella di taluni
linguisti, i quali dicono che tali coincidenze (se pur
ve ne sono) sono scherzi di naturai Ma io apro venti,
trenta dizionari di lingue diverse, e trovo che questi
scherzi di natura formano il 90 per cento d’ogni lessi-
co. Possibile che la natura — beata lei! — si dia tan-
to buon tempo, o che essa, simile a un biscazziere
impenitente, non abbia fatto altro, per millennii, se

169
non barare con la ragione umana?... Cosa curiosa: c’è
un vetro spezzato e per terra sono sparsi innumere-
voli pezzettini. Voi avete diritto di dire: non credo
che questi rottami siano di un’unica provenienza; ma
perché impedirmi di tentare, mediante un paziente
accostamento dei pezzetti, di ricostruire l’insieme?
Dite di essere positivi, ma in verità non siete che
dogmatici.
Vediamo ora se regge l’idea che i linguaggi siano
di origine differente. Come sarebbero essi sorti? Co-
munque voi giriate e rigiriate la questione, arriverete
sempre alla conclusione ch’essi siano stati creati per
convenzione: idea assurda, perché la convenzione po-
stula l’esistenza di un mezzo per intendersi, e dunque
d’una forma qualsiasi di linguaggio (1). Viaggiatori
riferiscono che presso gl’indiani d’America le lingue si
trasformano rapidamente, perché certe parole, diven-
tate per motivi accidentali tabu, vengono radiate e
sostituite con parole che inventano li per li certe
megère. Una teoria scientifica può imbastirsi su asser-
zioni di viaggiatori mediocremente colti, che non
comprendono bene l’ambiente attraverso cui passano,
e ne sballano spesso di pacchiane? Che ne sanno essi
se le parole inventate sono proprio nuove e proprio
inventate?... Ma l’esperienza a me dice che nessuno in
questo mondo ha mai creato una sola parola. Io in
vita mia non ne ho mai creata alcuna, e quelle che si
dicono parole create sono o derivazioni morfologiche
(1) Che le lingue possano essere sorte indipendentemente presso
vari popoli, o che miti simili possano essere creati dai popoli piu
disparati in virtù della fondamentale identità della natura umana, è
un’idea aprioristica senza alcun valore probante. Tutto in questo m on-
do è accidentale, e se le lucertole d’Europa rassomigliano a quelle d’Asia
o d ’America ciò non avviene a causa della universale identità di natura,
ma perché le une e le altre sono coeredi di un comune gruppo ante-
nato, nel quale accidenti di ambiente e di storia impressero alcune
date proprietà.

170
da altre parole, o nuove metafore. Anche i linguisti,
in fondo, pensano la stessa cosa, benché parecchi di
essi non se ne rendano sempre conto. Quando in Ome-
ro si trova una parola che non si spiega col vocabola-
rio greco, che cosa dicono essi? Che questa parola è
un sostrato, cioè appartenente a qualche linguaggio
anteriore al greco e poi scomparso. Essi dunque pen-
sano che Omero non possa averla inventata. Ma se né
Omero né Dante creano delle parole, chi dunque le
creerà?... I popoli! Ma i popoli son costituiti da indi-
vidui in prevalenza inferiori a Omero e a Dante;
volete dunque che questo ciarpame umano abbia gli
attributi divini e creatori che avete negato ai geni?
Altra idea erronea è che la parentela dei linguaggi,
invece che sul lessico, debba stabilirsi sulla grammati-
ca: il lessico è parte fluida, inconsistente, la gramma-
tica è parte stabile, duratura, lo scheletro osseo della
lingua. Ma un esame approfondito mostra poi la
grammatica non essere altro che lessico fossile, quindi
in definitiva torniamo al punto di partenza. Per di
piu, la grammatica e uno stadio nel processo di forma-
zione di una lingua, è il congelarsi delle espressioni
piu correnti, delle consuetudini espressive (le lingue
piu primitive hanno, al posto della grammatica, il
semplice lessico, esempio il cinese): la grammatica,
dunque, come cosa tardiva, non potrà mai sentenziare
sul lessico, che è molto piu antico, ed escluderne l’ori-
gine unica. Essa tutt’al più ci dirà che le affinità gram-
maticali fanno concludere nel senso che i rispettivi
popoli sono vissuti insieme sino in epoche più recenti.
Se qualche volta avrò occasione di parlarvi dei nu-
merali vi illustrerò meglio questa verità: perché in-
fatti ci sono stati dei linguisti che han cercato di
stabilire la parentela delle lingue in base al con-
fronto dei numerali.

171
Tutte queste ragioni convinceranno il pubblico?
Ahimè, non c’è da farsi illusioni. Diceva Leopardi
che gli uomini non sono soggiogati dalla forza delle
ragioni, che essi credono soprattutto per abitudine.
Ricordatevi che il Cristianesimo, quando penetrò nel-
la società colta pagana, apparve come un insieme di
assurdità superstiziose, mentre qualche secolo dopo
a quella stessa società diventata ormai cristiana parve
incredibile che uomini colti come Platone o Cicerone
o Cesare avessero accettato per buona moneta le as-
surdità del paganesimo. Anche il credere o non cre-
dere all’unità d’origine del linguaggio, alla bontà di
un metodo piuttosto che di un altro, sarà dunque
affare di tempo, questione d’abitudine. Cinque anni
or sono io non ci credevo, e ci credo adesso. Forse di-
pende dall’essermici incallito. E l’essere in voce di
competente in fatto di lingue non giova affatto a
vedere nel fondo della questione (la quale è, oltre che
di tecnica, di alto raziocinio), cosi come poco giova
essere un gran fisico o un grande poeta o un grande
politico per vedere a fondo nella questione dell’esi-
stenza di Dio.

VII. - N u m e r a l i e cr oce g a mm a t a (5-8-1944).


Se esaminate le comuni cifre arabiche, trovate una
cosa curiosa: il sei e il nove sono indicati con due
segni simili, ma disposti in senso contrario; il 6 ha
la forma della luna calante (lat. sex = sica, falce); il
9 ha la forma della luna nuova (lat. nov-em, greco
ennèa = nuova). Voi avete cosi un primo sospetto del
come il primitivo abbia potuto esprimere l’idea della
molteplicità. Si tratta del solito sistema a base di me-
tafore: e se esaminate i nomi del sette e dell’otto,
trovate che il primo indica la luna sepolta (lat. sept-

172
erri), l’altro la luna morta (lat. o-\to connesso col ver-
bo greco \teino «uccidere»). Troviamo dunque in
questi numerali adombrato tutto un dramma divino:
il dio lunare che viene squartato e ridotto a brani, che
quindi vien sepolto e che al terzo giorno risuscita.
Non meno curioso è poi il fatto che le cifre arabiche
esprimano con le figure ciò che i numeri indoeuropei
esprimono con le parole. Se ne deve concludere, o
che gli Arabi non furono gl’inventori delle cifre (e
questo è ormai assodato), o che gl’Indeuropei, accanto
ai noti sistemi di rappresentazione dei numeri (i
Latini avevano i cosi detti numeri romani, i Greci
utilizzavano a ciò l’alfabeto), avessero un cifrario eso-
terico, segreto, che non essendo mai stato reso di pub-
blica ragione venne obbliato e fu praticamente perdu-
to, fino a quando gl’indiani o gli Arabi non ce lo
fecero recuperare.
Il numero dieci significa « le dita », il numero
cinque (greco pente) indica la mano aperta (latino
pandere, patere «essere aperto») e generalmente la
figura della mano aperta si vede nel V romano (1).
Il numero quattro è da una radice indicante taglio,
divisione (lat. quat-io, inglese cut «tagliare»); in
greco questa parola ha varie forme, o con t (tettarei),
o con p (pityres connessa con it. pez-zo e s-pez-zare) o
hyt (cfr. Hyttenia, tetrapoli) o infine anche pisyres
(connessa con lo spagnuolo pisar da pinsar, triturare);
in ebraico l’idea è resa mediante una parola che in
origine forse indicava albero (’arba), in basco median-
te una parola di eguale significato (laur, cioè albero,
(1) Il numero romano X (dieci) è ottenuto con l’unione di due V.
Il ted. zehn « dieci » vale come se fosse plurale di zehe « dito ».
La forma sanscrita panca « cinque» è analoga forse a lat. pug-nus
e trovasi in lingue di tutte le parti del mondo nelle forme pili varie:
fungo, fanga, bong, w ong, won, on, piaga, pentii, ecc.; cfr. ted. fing-er
« dito » e fang-en « agguantare ».

173
lauro, eroso da *\alav-ur). La ragione di questa meta-
fora sta nella usuale triforcazione o quadriforcazione
dei tronchi degli alberi; onde non è a stupire se la
stessa metafora dell’albero nelle lingue indoeuropee
servi a designare il tre (Iat. ter, cfr. s-tir-p-s « pianta »,
tor-um greco dór-y « asta, tronco d’albero), parola che
però a rigore potrebbe interpretarsi con l’idea gene-
rica di « divisione » (lat. ter-ere « triturare »).
Maggiore varietà troviamo nell’espressione del due.
Le lingue ie. lo esprimono con la rad. du, dub, div
(es. div-ido, dub-ium «essere fra due, essere incer-
to ») ma non è certo che questa radice non sia erosa
da bid- vid, fid (fendere). Infatti, nell’etrusco divi-
dere si diceva ìduare (idus, idi, metà del mese, pa-
rola connessa con lat. vid-uus «separato dal coniu-
ge», con greco (v)eith-eos «scapolo» con francese
vider «vuotare, separare» onde inglese wide «vuo-
tato, largo, dove c’è spazio » e col ted. beidc « coppia,
cose che vanno a due» onde ci sono venute alcune
parole: bidone (recipienti appaiati), frane, bidet (di-
minutivo del precedente), il cui significato ci si ren-
de chiaro mediante confronto con parole affini, es.
paìuolo, bigoncia, « una di un paio di conche » ecc.).
Per indicare l’uno gl’indoeuropei usarono una pa-
rola indicante il sole, l’unico, il dio per eccellenza,
cioè sem o sun (ted. Sonne) che diede in greco hem
(hen), in lat. un-us e sem-el (1).
L’esistenza antica di questa parola sem « sole » in
greco è garantita dal vocabolo hem-éra o sèmeron
(giorno, propriamente porzione solare della giornata)
in tedesco da Sommer (estate, cioè stagione solare),
nonché dal nome siriano della città di Em-esa (città

(1) In russo l'uno si indica col nome del dio Odino (oditi = uno).
Il lat. multi, da rad. mal, mar « schiacciare » vale « sminuzzati » e
quindi dà idea di pluralità.

174
del sole). Oltre la parola Sem fu usata anche la paro-
la Sol (sole) che diede il lat. solus, o infine la parola
Cad « il dio, il casto o fecondatore » (ebraico e san-
scrito a-had «uno»). E siccome l’uno indicava an-
che l’intero, lo stesso nome hi usato per esprimere
l’idea del tutto: confronta fra loro lat. ol-im «una
volta » e greco holos « tutto » nonché lat. sollus « tut-
to» ed ebraico le-holàm «tutte le volte»; lat. sem-el
« una volta » e sem(p)er « tutte le volte », ted. samm-
eln « riunire in uno », ted. immer (eroso per sìmmer,
sempre); lat. sim-ul (insieme, in uno), sim-ilis «che
va insieme, compagno e quindi eguale» (onde sim-
ulare « far simile »), (s)om-nes « tutti » ; ebraico ahad
«u no» ted. tede «ogni», it. cada-uno, ecc. L’undici
in inglese e tedesco è indicato con un composto: in-
glese e-leven, ted. e-lf dove e sta per en (uno) e lef
vale cavità, recipiente, propriamente « giumelle » cioè
le dieci dita, le mani giunte (cfr. greco lep-as «va-
so»); lat. vi-gintì, tri-ginta vale «due, tre conche o
giumelle» cioè, dunque, due, tre volte dieci dita (1).
La parola cento significa la stessa cosa: recipiente, co-
sa curva (cfr. cent-ina, canto o cantone). Varietà inte-
ressanti ci offrono i moltiplicativi: greci, latini, etru-
schi, inglesi contano per buoi: greco tetràhjs (4 vol-
te) dove l’aggiunta alps vale bue (cfr. ingl. ox =
bue, Achei — Vacchi); e in latino prende la forma
es, in etrusco ez, in inglese ice. Abbiamo qui quella
solita promiscuità di ^ e di s, di cui vi parlai in un
(1) ginta, gr. \onta vale «m ano» , ted. hand. In lingue uralo al-
taiche e in talune lingue ie. nordiche le decine sono indicate con tug
« d ito » (gr. deha, lat. in-dex): ant. islandese tu-ttugu (2 X 10 = 20).
In lingue uralo altaiche, africane e di altre parti del mondo si trova
pel 5 o pel 10 la parola mano: egizio cham-s (5), bantu Kono, gam i
(10), cafro sum i (10, forma satem di Komo) ugrofinnico K iim me (10).
Forse questa parola è derivata per erosione dell’ie. de\e-m , mediante
perdita della sillaba iniziale.
Si noti che il ted. halb « metà » ha riscontro in lingue Uralo altaiche:
halap « metà » (rad. cal, tagliare).

175
articolo precedente, e che non è univoca, ma scam-
bievole: infatti ad aì{is greco corrisponde lat. es, a
greco tsos (uguale) corrisponde lat. aequus. In tede-
sco si aggiunge mal, es. drei-mal (tre volte), parola
che io accosterei al greco mèlon (pecora); talora si
aggiunge jack, che vale « piega, rotolo » es. ein-fach
«semplice»: questa parola jack è connessa con lat.
pax (unione), pac-tum (unione) ecc. In francese fois
(volta) in italiano fiata valgono « feto, putto » e in-
ducono a un confronto col lat. put-are (far calcolo,
contare) e con l’etrusco pute (volta; nelle Bende di
Agram, cis pute = 5 volte) (1). Calcolo invece vale
pietruzza, in altri termini si contava, oltre che per
buoi o per figli, anche per pietruzze. Quanto ai pesi,
si usavano pietre, come oggi si usano pezzi metallici ;
la parola latina libra vale appunto labrys, lapis, greco
lava (pietra) ed è erosa da ì{alpe o alpe.
Per indicare il singolare si usò la parola indicante
uno, cioè em, en, o mettendola avanti, come fanno
le lingue africane (es. nell’Uganda puru significa uc-
cello, m-puru « un uccello » ; in albanese m-bret « pre-
te, re»); o mettendola dopo, es. lat. templ-um. Per-
ciò la desinenza in m, n non indicava in origine in
greco e in latino il genere neutro, ma semplicemente
il singolare; e fu soltanto quando, per distinguere il
soggetto, si usò aggiungere una s alla fine delle pa-
role (la cui origine curiosa forse vi racconterò qual-

(1) Greco potè « un a volta». Pel mille si ha: lat. mille «numerosi
come i grani di miglio », gr. chilioi (*cheslìoi) « numerosi come con-
chiglie ». È possibile che il sanscrito (sa)-hasr- « mille » corrisponda
alla parola greca; ma gl’indoeuropeisti farebbero bene a considerare
l’estrema somiglianza col camito-semitico asr’ « dieci », ciò che ci porta
a una forma chesr « m ano » cioè « giumella, conca o conchiglia », e
quindi forse in origine indicò una manciata, una grande quantità. Il
ted. tausend « mille » in origine significava « due cento », got. tu-sundi.
L’egizio chfn « 100.000 » significava « grande quantità », « un cesto »,
greco k.óphinos « cofano ».

176
che volta), fu soltanto allora, dunque, che Vm finale
assunse la funzione di segna-accusativo, il quale ca-
so, non esigendo l’aggiunta dellV finale, rimase come
testimonio della forma originaria. Nelle lingue semi-
tiche poi l’aggiunta di queste m ed n finali segna-
singolare costituì il fenomeno interessantissimo e fi-
nora rimasto misterioso della così detta mìmmazione
(o nunnazioné) semitica.
Il plurale si esprimeva o ripetendo due volte la
parola, o aggiungendo alla fine di essa una B (segno
del due, forse perché indicava la doppia tenda a a ),
che nelle lingue camitiche diventò poi W, nell’um-
bro F (ciò fa sospettare, come l’enclitica latina que
di cui in un precedente articolo, che la morfologia
indoeuropea si abbozzò in epoca indivisa ario-semi-
tica); o anche una T, come avveniva nell’antico
ebraico, e come avviene tuttora in lingue mongoli-
che; questa T sta per tu, che vale «due» oppure
« mucchio ». In altre lingue si aggiunse il nome dei
due luminari (sole e luna), cioè shen ridotto a etr.
p. es. in tedesco molti nomi formano il plurale, ag-
giungendo n\ in greco il duale si forma in in, e si
aggiunge una n impropriamente detta efelcustica nel-
le terze plurali dei verbi (1); in ebraico il plurale
(1) Come potrebbe venire in mente d i usare una consonante
qualsiasi a scopo di eufonia? Tutte queste consonanti pseudoeufoniche
sono antichi elementi significativi, richiamati in vita dalla eufonia: es. la
n dell’alfa privativo è da greco aneti « senza », la d di it. ad, ed è da ad,
et; la t del francese aime-t-il? rappresenta la finale del lat. ama-t, ccc.
Plurali contratti del tipo arabo e con cambio di vocale (umlaut) si
trovano nel dialetto romagnolo: es. al eas « le case»; nel tedesco: es.
vater « padre » plur. vàter; nell’inglese, es. tooth « dente », plur. teetli,
woman « donna », plur. tvimen.
Hanno doppio segno del plurale: ingl. child-r-en « fanciulli » con n
segnaplur. di tipo mediterraneo -f- en segnaplur. di tipo semitico; ingl.
brethr-en « fratelli » (plur. contratto con Umlaut + en); berbero i-\n e
« gemello » plur. i-\ne-w -n (segnaplur. w + eri). Quanto all’etimolo-
gia di ì-\ne, cfr. ted. \nabe « rampollo, ragazzo ». lat. (g)nep-ot
« nipote ».

177
12. - L'origine del linguaggio.
si forma con im; in copto con hen che viene africa-
namente preposto: es. hen-apostolos (apostoli).
Il punto di partenza per la spiegazione etimologica
dei numerali è stata l’interpretazione delle figure. E
da una interpretazione delle figure è scaturita la spie-
gazione della croce gammata o svastica. Voi sapete
che questo segno misterioso si trova nelle più diverse
parti del mondo, nell’Egeo (Creta, Cipro, Hissarlik),
nella Mesopotamia e nell’Elam, nel Tibet e perfino in
India e in Cina; e che nel 1910 i gruppi antisemiti di
Germania lo adottarono come simbolo di arianità. Ma
non si è d’accordo sul suo significato, che i più cre-
dono indichi la ruota del sole (gli uncini rivolti ver-
so sinistra darebbero alla figura il senso del movimen-
to); mentre il nome svastica viene derivato dal san-
scrito su (bene) as (essere); quasi a indicare lo star
bene, la salute. Io non credo che la spiegazione sia
stata imbroccata, né per quanto riguarda la figura,
né per quanto riguarda l’etimologia. Altra e più ve-
rosimile traccia ci offre lo studio delle civiltà preisto-
riche. Dovete sapere che l’uomo primitivo mancava
della bussola, e che egli, essendo insufficientemente
protetto contro i rigori delle stagioni, aveva l’abitu-
dine delle migrazioni stagionali. Egli aveva abitudi-
ni simili a quelle degli uccelli e degli armenti; e del
resto, non era egli stesso organizzato in orde, in ar-
menti}... Che significa questa parola orda} Essa è
connessa col nome del pastore (ted. Hirt), significa
dunque mandra, armento. Ancor oggi, in tedesco,
l’autorità che presiede a una collettività si chiama Be-
hòrde, e nel latino è rimasta la parola co-horte (cioè
insieme di animali guerrieri) e la parola ordo, ordi-
nare (cioè disporre in orde, in greggi umani).
Le orde umane migranti imitavano gli uccelli e
ne seguivano il volo. Era questa la bussola dell’uo-

178
rao primitivo e da questo bisogno dell’uccello-guida
nacque l’uso, per le schiere migranti, di farsi prece-
dere dall’uccello-profetico, fermandosi là dove egli
si fermava, piantando le tende là dove il comporta-
mento dell’uccello annunziava il raggiungimento del-
la tappa. Fu per analogia di questa consuetudine prei-
storica, di cui una traccia è perfino nel racconto di
Noè, che in seguito gli uomini si servirono degli uc-
celli, per sapere dove fondare una città, ciò che si
diceva (( trarre gli auspici » (1).
Nulla di ciò che è entrato una volta a costituire il
patrimonio delle umane usanze e dell’umana civiltà
può mai essere perduto; ma tutto si conserva, si riat-
ta, si trasforma. Quando non fu più d’uso farsi pre-
cedere dall’uccello in carne ed ossa, gli uomini fecero
marciare le loro legioni, facendole precedere da uc-
celli simbolici, cioè da aquile scolpite in cima a sten-
dardi, da insegne. E poiché l’aquila, vera o simbo-
lica, era creduta uno spirito assistenziale, un dio, un
elfo, il portatore dell’insegna fu detto alfiere. Del-
l’uso di questo vocabolo rimane una traccia nell’in-
glese, dove l’espressione my self (me stesso) letteral-
mente significa « il mio spirito, la mia anima ». Non
si trova nella Bibbia « lo spirito o l’angelo di Jahwe »
al posto della semplice parola Jahwe?
Che cosa è dunque un’insegna d’aquila che precede
un esercito? È la reviviscenza di un antichissimo sce-
nario, di una consuetudine preistorica. Che cosa è
un’animale alato posto su una colonna, come quello
che si vede nella piazzetta di S. Marco? È il segno
che qui si era fermato l’uccello profetico, e che qui
perciò sorse un sepolcro, attorno a cui fu fondata

(1) Nota che in albanese l’uccello è detto zog, in inglese il cane


è detto dog: ciò che può significare « duce ».

179
una città o domus, con relativo focolare votivo. E
che cosa significa quella parola merlo che noi diamo
alle dentellature delle sommità dei muri di una for-
tezza? Questa parola non è una semplice metafora,
è un preciso ricordo degli uccelli che un tempo si
allevavano nelle fortezze (onde queste eran dette au-
guracula) e che ancor oggi si vedono sui fastigi di
molti templi (es. San Marco in Venezia). L ’usanza
è tanto antica, che i frontoni dei templi greci si chia-
mavano aetós (aquila) e aquile solevano appender-
visi a ricordo di Prometeo.
Diversi studiosi avevano intravisto nella croce gam-
mata la figura stilizzata di un polpo o di un uccello
che vola; ma mancò ad essi una sicura coscienza del
significato profondo della cosa, perché ignoravano
o prescindevano dalla storia delle religioni e la loro
opinione si ancorava a ragioni puramente pittogra-
fiche: il tedesco Von den Stein notò infatti che nelle
fusaiole troiane con processioni di cicogne le svasti-
che terminavano con estremità bifide, ciò che faceva
pensare a becchi di uccelli. Le nostre ragioni sono
altre, e differente è la nostra etimologia : svastica vale
sebastica cioè « la santa, lo spirito santo » ed è curio-
so notare che la parola latina s-pirit-us significhi uc-
cello (la colomba) corrispondendo all’inglese bird (uc-
cello) e a un vocabolo africano dell’Uganda m-puru
(uccello) nonché alla voce con cui in varie regioni
d’Italia si chiamano le galline «puri, puri» o anche
«pira, pira». (Che l’uccello sia lo spirito santo per
eccellenza risulta anche dalle tradizionali figurazioni
della colomba nel rito del battesimo (greco peri-
stherà — uccello santo, colomba).
Che cosa è dunque la croce gammata ? È il ricordo
di una abitudine preistorica, è il simbolo di una ci-
viltà che da Creta s’irradiò in tutto il Mediterraneo,

180
è la stilizzazione di quell’aquila che guidò le legioni
romane alla conquista del mondo.

Vili. - L a m it o l o g ia c o me p r e is t o r ia (2-9-1944).

Tempo fa s’insegnava che la mitologia era stata il


grande parto della fantasia primitiva, la creazione
poetica d’una umanità più giovane, che viveva in
affettuosa solidarietà con la natura. Tutto allora vive-
va intorno a noi, tutto aveva una voce, un sospiro,
un palpito, una simpatia umana e cordiale; e la no-
stalgia di questa bella epoca scomparsa vive immortale
nel canto dei poeti. Ma a noi, figli di una scienza
arida e freddamente curiosa, epigoni di un secolo
scettico e irriverente, si diede nelle scuole un’altra
spiegazione: la mitologia non era stata, no, opera di
fantasia, era stata invece opera scientifica, filosofia
primitiva. In ogni mito si nascondeva un’allegoria;
e il nocciolo ne era sempre e invariabilmente un
dramma atmosferico. Ercole va alle Esperidi? È il
sole che va da oriente a occidente. Minosse insegue
Dedalo in Sicilia, e vi è ucciso da Cocalo, il re dei Si-
cani, che lo immerse in una caldaia d’acqua bollente ?
È il sole che va a tramontare nell’Oceano occidentale.
Tutto, in questa nuova concezione, era spiegato a
base di sole e di pioggia, di fulmini, di rugiada, di
fasi lunari e di altrettali ingredienti meteorologici.
Si diceva: la mitologia è personificazione di feno-
meni naturali, un primo tentativo fatto dall’uomo
per rendersi conto delle cause che li producono; e
quante volte questa frase non è sonata al nostro
orecchio, carica di una verità così frusta, così an-
tica, cosi banale, che sarebbe sembrato a chiunque
perfino inutile lo sprecarvi una sola parola di com-

181
mento! — Eppure non è cosi. Io non nego che vi sia
qualche verità nell’attuale modo di considerare la
mitologia; ma ne restringo notevolmente la portata.
Io vorrei qui esporvi una nuova veduta, che a
primo aspetto ha del paradossale. La mitologia è,
secondo me, il ricordo trasfigurato della preistoria:
sotto forma di leggiadri racconti essa ci ha con-
servato le tradizioni più antiche dell’umanità, il suo
modo di pensare e di sentire, la storia delle gran-
di conquiste della civiltà e quella delle lotte che le
razze superiori (gli dei) condussero contro le razze
inferiori (gli uomini) per appropriarsi il territorio
necessario alla fondazione di convivenze sociali me-
glio organizzate. Alcuni esempi chiariranno questa
idea. Gli dei della mitologia nordica sono detti Asi,
e i loro nemici sono i Vani: la mitologia nordica ha
per contenuto la lotta di questi due gruppi di divinità
o spiriti. Orbene, se voi supponete che gli Asi siano
gli uomini venuti dall'Asia, che i Vani siano i Bani
(termine slavo per indicare un capo) o Vendi, che il
dio Loc\e sia il ligure o Lupo, questa mitologia nor-
dica si chiarifica come ricordo più o meno storico
delle lotte sostenute dagli invasori Asiatici per la
conquista del territorio europeo.
Una prova rapida e conclusiva di questa teoria può
essere esposta in poche righe. Gli Asura indiani sono
demoni, gli Asura (ahura) iranici sono divinità buone;
e viceversa i Deva sono divinità in India, demoni nel-
l’Iran. È chiaro dunque che i demoni non sono altro
se non le divinità dei nemici, cosi come il Moloch
(re-dio) dei Fenici è un demonio per gli Ebrei; sono
anche le divinità di un popolo sottomesso, quando un
popolo invasore impone una nuova credenza, e accor-
da un diritto subordinato agli antichi dei del territo-
rio. Ora precisamente alcuni indizi tratti dal lessico

182
ci permettono di stabilire che parole le quali un tempo
indicarono popolazioni o divinità potenti, in seguito
indicarono demoni malvagi e di trascurabile potenza,
0 anche razze inferiori e spregevoli.
La mitologia ci parla della lotta di Giove contro i
Titani. Questa parola è un plurale a raddoppiamento,
sta per Tini-Tani, accenna quindi a un popolo di
Tatti, pel quale dunque la parola Tati indicava la
regalità e perciò anche la divinità. Residui storici di
questo popolo sono i Thini (Bi-thynia, terra di Thini),
1 Danai, oriundi della Scizia e poi venuti a stabilirsi
in Grecia, dopo esser passati per l’Africa settentrionale,
ove dagli Egizi eran detti Tame-hu, gli A-tin-tani, i
Dani o danesi del nord, ecc. I loro dei sono: Zen (una
specie di Giove), Tin (il Giove etrusco), Zane (Diana
etrusca), Tana (divinità etrusca), A-thena (1), Tan-it
(divinità semitica), Thammuz (divinità mesopotami-
ca, corrisponde a Tommaso), ecc. Ora è quasi regola
che i nomi degli dei siano anche quelli di divinità
come gli astri (Zen-it), il cielo (cinese Tien), la stella
Den-eb, i fiumi {Dan-uv-ius, Tanai, Tamigi, Timavo,
ecc.), le acque (Tosi-don «signore dell’acqua))), la
terra (tana = terra, frequente in nomi come Mahe-don
« terra del Mago », Cale-don « terra di Galli », Carche-
don corrispondente a Carpe-tania ecc.; in nomi come
Lusi-tani e simili ; celtico dunum, in nomi come Lug-
dunum, nell’it. duna «collina» ecc.). Orbene: questa
parola Tan il cui significato «Santo» si è conservato
in ted. Tanne (albero sacro, abete), nell’etrusco Tanne
(santo), nell’etrusco than-arshina « il venerabile medi-
co », nell’ebraico tanna (— ital. tonno) e Leviathan
(leone-pesce), nel greco thanein (morire, cioè diven-
tar dio), dyn-amai (sono Giove, sono dio, sono poten-
(1) Athena, A dam , Eden, Wotan, Odin fanno sospettare che il no-
me Tan sia eroso.

183
te) c forse anche nel giapponese Termo (il santo, il
divino, l’imperatore), in seguito passò a indicare cose
servili: tun-ica (veste da contadino), daetnon (geniet-
to malvagio), dèmos (basso popolo), inglese Tommy
(uomo del popolo); l’originario significato di «nutri-
tore, sacro» che è ancora nel greco thoime (cibo),
nel siciliano fuma (formaggio, cibo), si applicò alla
classe servile, in quanto produttrice di cibo per le
caste nobili (1). In celto donno fini per significare
bruno cioè uomo della massa di colore, in opposizione
a vindì (cioè vendo, veneto) che prese il significato di
bianco. L’opposizione aristocrazia-democrazìa (Arii-
demos) si trova perfino nel mondo asiatico: in Pale-
stina si usava tirar le sorti a Urim e Thummin (Arii
e Tame-hu) come da noi si giocherebbe a carte o
bastoni. È lecito perciò concludere che si sia trattato
di una vasta lotta fra i rappresentanti di due razze
(guerrieri-contadini), di due costumi, di due religioni.
I Tani sembrano essere stati adoratori di divinità
terrestri o ctonie, quindi probabilmente praticavano
la inumazione dei cadaveri; gli Arii erano adoratori
di divinità celesti o astrali (2), e praticavano la cre-
mazione mediante la quale il defunto assurgeva alle
sfere celesti. Totem dei Tani dev’essere stato il ser-
pente, che è generalmente creduto una divinità cto-
nia; voi sapete che il serpente è nell’India il nemico
degli invasori Arii (Indra cioè Andra « uomo, eroe »)

(1) Cfr. anche l ’ebraico Tarn (palma), il nome della palma dam-dum
l’it. dumo, Tingi, tornato (pomodoro).
(2) La religione astrale sembra piu recente della religione totemica,
perché sole, luna, stelle furono spesso indicate con nomi della civiltà pa-
storale (cioè come tori, vacche, pecore ecc.). In armeno er\u (cfr. lat.
hirc-us) è un duale che indica cielo e terra; e tori e vacchi furono
chiamati anche i fiumi: es. Acheloos «fium e (lovo, cfr. celto lab-ara)
dei vacchi » è raffigurato come un toro. Tuttavia non è da escludere
che qualche nome (es. Diu, Sem, ecc.) per indicare il cielo, il sole,
la luna, sia di data piu antica.

184
e nella Bibbia è considerato come un demone; il suo
nome semitico Tet (nutritore) è quello che hanno le
classi infime della popolazione greca (thetes), e in
genere dell’Europa lat. Tities, ted. Tcuti onde poi
deutsch, umbro tonta «città» cioè terra altrice (1).
Come dobbiamo rappresentarci questa decadenza
dell’antica razza? Gl’invasori bianchi dell’Europa e
delle adiacenze mediterranee vi trovarono presumi-
bilmente una razza negra e che ancora non aveva
l’uso del linguaggio; i resti di questa popolazione
primitiva, ancora ai tempi di Erodoto vivevano in
grotte ed emettevano grida inarticolate alla maniera
degli animali. Furono i bianchi perciò che la inizia-
rono alla civiltà e le insegnarono il linguaggio. Ma
c’era, nell’organizzazione primitiva della società dei
Bianchi, un principio di decadenza. Questa società
era organizzata a poligamia. L’anziano era re-sacer-
dote e aveva anche la proprietà assoluta delle donne e
della discendenza, che considerava come una ricchez-
za privata alla stregua delle bestie dei suoi armenti.
I figli ch’egli aveva dalle mogli bianche erano la
razza divina; i figli delle sue schiave di colore erano
la razza degli uomini; i primi erano immortali, gli
altri, mortali. Vi ricordate dei due Dioscuri, l’uno
mortale, l’altro immortale? Questi due fratelli sono
il sole (Polluce) e la luna (Castore), il dio che muore
ma poi risorge all’immortalità (gli Asvini degli Indù) ;
ma il loro mito riflette le condizioni sociali della

(1) Anche bruno (ted. Braun ) in origine significava « principe,


fecondatore )» (lat. Feronius) e cose divine (es. la sorgente, ted.
Brunnen ); Kala propriamente « gallo, capo, dio » e anche « bianco »
diede la parola « giallo » ma presso gli slavi significò « nero » (cosi
anche la Cali indiana); in inglese d a r\ significa « nero » m a è an-
tico nome divino ( T a r \ , Tarcone, re), e presso i greci die origine
a derko « gu a rd are » e a drakon (animale dio, drago) nonché a Tragos
(capro) e al nome dei th ra \e s (Traci).

185
famiglia preistorica. Ne dobbiamo dedurre che le pri-
me ondate arie ebbero la tendenza a meticciarsi e
formarono quelle razze di colore che poi le ondate
piu recenti considerarono come razze inferiori.

IX. - E t im o l o g ia e s e m a n t ic a (14-9-1944).

Distruggendo la legge di Grimm, ci si trova da-


vanti a una obbiezione : « ma allora, come farete voi,
senza una legge di collaudo, a distinguere nelle parole
le affinità reali da quelle meramente superficiali e
ingannatrici ? Potete sul serio ammettere che la parola
italiana ama, terza singolare presente del verbo amare,
sia identica alla parola greca hama che significa
“insieme” ? Quale regola sostituite insomma alla
regola distrutta ? » L’autore dei presenti saggi, a dir
vero, distruggendo la fonetica corrente, ha creato,
senza volerlo, una nuova fonetica, che ora non posso
esporvi. Ma ciò non ha importanza. La sua risposta
alPobbiezione ne prescinde. Egli pone un solo prin-
cipio generale: quando trovate che in due lingue qual-
siansi una stessa cosa è indicata con due parole diffe-
renti — a meno che la differenza non derivi da de-
formazioni di pronunzia — potete essere sicuri che
trattasi di due differenti metafore per indicare la
stessa cosa; e viceversa, quando trovate parole di suo-
no eguale in due lingue qualsiansi del globo, dovete
presumere che si tratti di parole realmente affini. In
altri termini, non esìstono omofoni fortuiti.
Mi direte che in tal modo io pongo un principio
a priori, vale a dire che il lessico umano sia unico. Ma
anche voi, che vantate il positivismo del vostro meto-
do, ponete un apriori, che il linguaggio cioè sia di
origine multipla, tant’è vero che, là dove voi ammet-

186
tete l’unità d’origine (p. es. nell’ambito delle lingue
ie.) ammettete anche il confronto delle parole affini,
che invece respingete negli altri casi. Apriorismo per
apriorismo, perché l’uno dovrebbe essere scientifico
e l’altro no ? E il mio apriorismo, badate, non è nem-
meno un apriorismo vero e proprio, è una deduzione
rigorosa da un fatto impressionante: la constatazione
che il 90% delle parole di tutti i lessici si rassomiglia-
no. Come potete seriamente sostenere che tutto ciò
sia uno scherzo di natura ?
Eccoci dunque in una situazione paradossale. In
fondo io son partito da un’idea molto semplice. Ho
voluto farvi vedere che, ricorrendo al principio delle
metafore, un’infinità di etimologie che per voi sono
ancora avvolte nel mistero, diventano trasparenti. Ora
quando io enunciai il principio che la somiglianza
anche esteriore delle parole fosse da prendere un po’
piu sul serio che voi non facciate, ho sentito il cachin-
no del solito filisteo che crede di saperla lunga: « Co-
me! ? Voi andate per somiglianze! Torniamo dunque
al 700 ? » Certamente coloro che parlavano in tal
modo avevano degli omofoni fortuiti un concetto
settecentesco. Essi ragionavano come quel calabrese
emigrato, che trovava stramba la lingua degli Stati
Uniti, perché tutto, secondo lui, vi era a rovescio, e
p. es. le donne vi erano chiamate « uomini » (woman)
e le strade, benché larghissime, erano qualificate
«strette» {Street). Al contrario, quando io trovo in
due lingue diverse due parole affini, non penso per
principio ad alcuna identità di significato, e non mi
credo affatto dispensato dal ricorrere al vocabolario,
corro anzi subito a consultarlo, allo scopo di rendermi
conto attraverso quali processi metaforici i significati
rispettivi siano riusciti a divergere, e ricostruire cosi
la trama dell’evoluzione del lessico. Quando avete

187
ripetuto per mille o duemila parole questa operazione,
potete esser sicuri di esservi impadroniti della strut-
tura intima di quei due lessici, e di essere penetrati
nello spirito delle rispettive lingue.
E, come vedete, noi siamo giunti a risultati che
hanno dello stupefacente. Nel saggio « Struttura in-
tima del vocabolario» abbiamo trovato la parentela
di parole come porzione e lido, che non hanno attual-
mente assolutamente nulla in comune, né il signifi-
cato, né il suono generale, e nemmeno una sola delle
lettere che rispettivamente le costituiscono (1). Sopra
che cosa ci siamo dunque basati? Ma, ve lo ripeto,
da un canto sulla possibilità di ricostruire idealmente
la genesi dei significati, dall’altro, sulla possibilità di
intravvedere la parentela di suoni differenti non già
attraverso una discutibile legge fonetica, ma attra-
verso una visione panoramica, la quale ci fa coglie-
re in atto il processo per cui un suono, insensibil-
mente trapassa ad un altro suono, rotolando per cosi
dire di sfumatura in sfumatura, fino ad acquistare
una fisionomia distante, che, appunto perché distante,
sembra del tutto eterogenea. Voi mettete in altri ter-
mini l’una accanto all’altra parole italiane, francesi,
inglesi, norvegesi e cosi via, e, di variazione in varia-
zione, arrivate talora a punti estremi del tutto diffe-
renti. Potete formulare una legge di trasformazione?
No; ma voi potete, mediante pazienti accostamenti,
ricostruire il processo di diversificazione nella sua
concreta individualità. Questa constatazione tiene luo-
go della legge. Non avviene del resto qualcosa di si-

ti) Nota anche questa connessione: lituano dervd (albero), lat.


s-tirp-s (erba), lat. trib-us (albero genealogico, tribù), ted. dorf (vil-
laggio, tribù), lat. turba (folla, cittadinanza), e da questa l’ital.
torma, ciurma, s-tormire (rumore come di moltitudine), ciurmare
(arringare il popolo, essere ciarlatano, ingannare). Stirpe e ciurmare
sono dunque connessi!

188
mile nei colori dello spettro? H a forse nulla che ve-
dere il rosso col verde e col violetto? Ma voi sostituite
a quella che vorrei dire l’esistenza atomica delle qua-
lità, la loro esistenza dinamica, cioè la loro genetica, e
la sintesi che sarebbe impossibile realizzare per equa-
zione viene realizzata per dinamismo e per colpo
d’occhio.
Che cosa dunque abbiamo ottenuto noi con questo
nuovo metodo ? Anzitutto, un rinnovamento dei punti
di vista, e un nuovo e originale concetto del fatto
linguistico; poi, sul terreno pratico, la scoperta di una
specie di filo d’Arianna, che ci permette di muoverci
attraverso l’intricato labirinto del lessico umano come
attraverso un’architettura ben conosciuta, della qua-
le ciascun elemento è stato esattamente misurato, e
che perciò non ci fa temere alcuna sorpresa. Noi ci
troviamo in altri termini rispetto al lessico, esattamen-
te come oggi si trova il biologo rispetto ai fenomeni
della vita e ai rapporti fra le specie animali. Si ha già
un quadro d’insieme, si conosce già in anticipo l’inte-
laiatura generale. Certo, errori se ne commetteranno
ancora, ma si ha la certezza che questi errori resteran-
no confinati in quadri ristretti, che non avranno quin-
di apprezzabili ripercussioni sull’insieme. Immaginate
un uomo politico che abbia ben assiso le file della
sua organizzazione: egli avrà la certezza che le oscil-
lazioni delle indiscipline individuali non avranno
mai ampiezze tali da esorbitare dai quadri minori per
intaccare le linee maestre dell’edifizio e portare a
dislocamenti di proporzioni pericolose.
Passiamo ora ad altri problemi meno generici. Noi
abbiamo negato che esistano parole più antiche e
meno antiche, e affermato che tutte sono di eguale
antichità. Ma tutto ciò è vero in linea assoluta? Noi
diciamo certamente che Basileus è parola piu antica

189
di Imperator, e non a torto. Ma non si tratta di negare
questa storicità, si tratta solo di vedere se la sostanza
della parola possa essere creata. A questo si risponde
negativamente. La storia di una parola perciò non è
altro se non la storia dei suoi significati, o la storia
delle sue vicende fonetiche e morfologiche. La parola
Basileus è anteriore al lessico comune del greco clas-
sico, ma la sostanza dei suoi elementi è eterna, è
ab initio. Per rendersi conto di ciò, facciamo un para-
gone. Noi parliamo di famiglie antiche e di famiglie
recenti; pure è certo che, tanto nell’un caso che nel-
l’altro, la serie ascendente degli antenati ci porta allo
stesso punto, ai primordi del genere umano o se volete
anche piu in là, agli inizi della sostanza vivente. Che
cosa è dunque questa antichità in più o in meno?
L’antichità concernente la data dello ingresso di una
famiglia nella storia, la documentabilità della sua
esistenza negli archivi pubblici o privati, l’epoca in
cui fu fondato un focolare, in cui l’uomo senza gàmos
ottenne il diritto di avere una propria famiglia e un
proprio nome. È dunque tutta un’antichità estrinseca,
che concerne accidentalità di esistenza, modalità e
non già la sostanza generativa.
Un’altra obbiezione riguarda il metodo della rico-
struzione. «Quando noi tentiamo una ricostruzione
— essi dicono — noi non affermiamo mai nulla che
non sia suffragato da un documento; l’etimologia non
tiene conto di parole ipotetiche, ma solo di quelle sto-
ricamente attestate, cioè che si trovano in testi dei
quali si può fare l’esatta citazione. Ci moviamo in-
somma su una trafila storica, e non concediamo nulla
alla congettura ». Ora ciò non è del tutto esatto. Una
ricostruzione è sempre qualcosa che contiene in sé ele-
menti congetturali, e i linguisti non possono, malgra-
do la loro buona volontà, farne del tutto a meno,

190
tant’è véro che, mediante l’artificio degli asterischi,
introducono surrettiziamente le testimonianze di cui
hanno bisogno. Per me la cosa è differente. Io non ho
bisogno di percorrere una strada biffata di pali indi-
catori, perché la concezione d’insieme serve in qualche
modo da bussola e non posso aspettarmi sorprese che
non siano previste, perché, come vi dissi, gli eventuali
scarti non esorbitano dai piccoli riquadri interni, e gli
spostamenti entro tali limiti non possono influire sen-
sibilmente sull’insieme. Gli errori qui, se mai ce ne
fossero, non hanno la stessa importanza. C’è anzi,
nel mio sistema, una specie di ostentata indifferenza
alla mania delle grafie esatte al cento per cento. Tutto
ciò è mera pedanteria, e, benché possa sembrare pa-
radossale, può perfino essere considerato un errore.
Questa grafia cosi meticolosa vuol darvi infatti l’im-
pressione che il linguista conosca esattamente quale
sfumatura di suono il primitivo annetteva a una data
radice, il che è una ciarlataneria. Il primitivo non
aveva né suoni precisi, né la possibilità di concepirli.
Che mi vale allora sapere che questi dotti asseriscono
di non credere nemmen essi al linguaggio indoeuro-
peo, quale archetipo, se poi vi ammanniscono radici
con l’apparato di molti segni diacritici, quasi a darvi
l’idea ch’essi spaccano in quattro un capello, e vi
presentano la parola primitiva nella sua adamitica
esattezza? Se non credono a questa esattezza, perché
ne mantengono in piedi l’illusione? Io non ho al
contrario alcuna esitazione ad affermarvi che questa
pseudo-precisione deve cedere il posto a una conce-
zione del fatto linguistico primitivo come di una la-
bilità fonetica e semantica, e che quindi ogni ulteriore
tentativo di precisazione è scientificamente un errore.
Se voi sopprimete questa labilità iniziale (giustificata
d’altronde dalla maestosa unità di piano della natura,

191
che dappertutto ha creato la piu mirabile varietà par-
tendo dal semplice e dall’indifferenziato), voi vi pre-
cludete la via per intendere la genesi del linguaggio
umano. Se i significati originari fossero stati precisi,
questa bagatella avrebbe ucciso in radice l’attività
metaforica; se i suoni primordiali fossero stati precisi
e ben definiti, come suppone la linguistica attuale, se
una d non potesse rappresentare una t (1), e ima vo-
cale non potesse rappresentarne un’altra qualsiasi,
sarebbe venuta a mancare tutta quella vegetazione di
doppioni inutili, che il progresso della spiritualità rese
poi utili, applicandoli a significati sempre più diffe-
renziati e speciali. Questa stecchita precisione origi-
naria avrebbe avuto conseguenze catastrofiche: il les-
sico non sarebbe mai andato più in là di qualche cen-
tinaio di parole.
* II. - Le lingue di popolazioni selvagge o molto pri-
mitive, come quelle di parecchie tribù australiane o
africane, non hanno alcuna importanza ai fini di
stabilire lo stadio primordiale del linguaggio umano.

(1) Un insigne linguista svedese m i osservò tempo fa che l’inglese


do e il ted. thum (fare) non possono mettersi sullo stesso piano; ma
qui l’evidenza vale piu di ogni legge, tanto piu che nell’inglese
troviamo accanto a do la parola thing (cosa), e nel tedesco, accanto a
thun, la parola ding (cosa). Come si vede, lo scambio non è solo da
una ad altra lingua della medesima famiglia, ma coesiste in una
sola e medesima lingua. Un professore italiano, a proposito del mio
saggio Numerali e croce gammata m i obbiettò che il lat. tres non
può trarre la sua origine dal greco dory « albero » (veramente questo
riferimento del mio pensiero non è esatto, ma lasciamo correre), per-
ché una t non è una d (sic!) e aggiungeva: « Perché dovrebbero ren-
dere senza una speciale ragione una t per una d ì Se hanno la possibilità
di pronunziare una dentale, perché sostituire una tenue con una media,
in cui cambia solo l’intensità della pronunzia? ». Vorrei rispondere:
perché noi, senza speciale ragione, abbiamo sostituito sfrata con strada
(e ritenuto per giunta il doppione strato!), spata con spada (e rite-
nuto per giunta i doppioni spatola e spazzola!)? E il professore sud-
detto non s’è neanche accorto che, nello stesso saggio testé citato, era
citato il greco dor-y (asta, albero) accanto al lat. tor-um che è asso-
lutamente la stessa parola.

192
Astrattamente parlando, sembrerebbe che questi po-
poli, appunto perché meno evoluti o fossilizzati, siano
rimasti alla fase primitiva della favella umana, e per-
ciò più prossimi alle origini; e in taluni casi è vera-
mente cosi, e noi ne abbiamo tratto partito in diversi
punti di questo libro, come p. es. quando nei plurali
di alcune lingue primitive, formati mediante la ripe-
tizione delle parole, troviamo una pezza d’appoggio
per interpretare i cosi detti plurali a raddoppiamento
paleoeuropei; o come quando nel segnasingolare
bantu (una m preposta alla parola) troviamo un’analo-
gia col meccanismo di formazione degl’infiniti nel
greco e nell’umbro (i quali sono null’altro che i nomi
singolari terminanti in n ed m ), o dei nomi neutri
greci e latini, o della nunnazione e mìmmazione se-
mitiche; o come quando infine da una particolarità
sintattica del Bantu, dal modo cioè con cui in questa
lingua viene indicato il soggetto della preposizione,
si deduce il processo di formazione del caso nomina-
tivo in molte lingue indoeuropee, nonché la forma-
zione dell’infinito nel latino; ma dal punto di vista
fonetico ed etimologico sarebbe un errore basarsi sul
lessico di queste lingue. La ragione di ciò sta in un
fatto molto semplice: questi popoli non sono inven-
tori del proprio linguaggio, ma lo hanno ricevuto bel-
l’e fatto dai conquistatori arii (e da avventurieri arii
distaccatisi dai propri gruppi, per andare a fare i
maghi e stregoni in seno a orde selvagge, alle quali
si presentarono come divinità); o in altre termini essi
sono, rispetto alla pronunzia delle parole, nella stessa
condizione in cui si troverebbe un incolto europeo o
un bambino al quale venga insegnata una parola dif-
ficile. Che cosa avviene in casi simili P La parola viene
storpiata nella pronunzia e spesso anche nella sua ap-
plicazione. Un bambino al quale ogni mattina la

193
. • L’origine del linguaggio.
mamma veniva a dire: vuoi alzarti?, quando aveva a
sua volta voglia di alzarsi, chiamava la mamma gri-
dando: Mamma, atàti. La parola atàti significava
perciò per lui «voglio alzarmi». Ora immaginate
che questo bambino abbandonato a se stesso (come
avvenne alle primitive tribù rimaste nello isolamento
della preistoria) sia a sua volta il trasmettitore di quel
linguaggio rudimentale (limitato a pochi vocaboli
indispensabili) ai membri della sua tribù. È chiaro che
atàti diventerà un verbo per sé stante (suscettibile poi
di ricevere la desinenza dell’infinito o l’agglutinazio-
ne di pronomi personali) e, benché derivato dal nostro
alzarsi, sarebbe estremamente temerario per un lingui-
sta azzardare un qualsiasi confronto etimologico (1).
Perciò bisogna partire dal concetto che questi dialetti
primitivi possono, per certe lontane affinità di suono,
fornire una impressione generale di parentela coi no-
stri linguaggi, ma sarebbe un errore il farne la base
di investigazioni metodiche comparate; si può soltanto
trarne la generica constatazione che le affinità di suo-
no concorrano a formare l’impressione dell’unità d’o-
rigine, mentre le discordanze non hanno alcun signi-
ficato al fine di stabilire l’unità o eterità di origine del
linguaggio umano. Vale a dire che in questi casi una
sana regola scientifica è quella di non trascurare le
somiglianze, ma, se mai, le differenze; esattamente
la regola contraria a quella che pretende di stabilire,
come unica regola scientifica, la moderna glotto-
logia (2).

(1) Qualcosa di simile è avvenuto con l’inglese dose «chiudere»


(da lat. dausum)i che è diventato verbo e ha formato un nuovo par-
ticipio: dosed\
(2) Analoga impressione di alloglottismo deformante danno, fra le
lingue ie. meglio conosciute, il licio, l’armeno, l ’irlandese e il persiano
antico.

194
Non è infine da trascurare un fenomeno, che io
vorrei chiamare di analogìa popolare, e che finora,
ch’io sappia, non è stato osservato da alcuno. Nelle
campagne della Sicilia, quando fu introdotto il ve-
locipede, si tradusse dialettalmente questa parola con
municipiu (municipio), l’automobile diventò lata-
morbu e anche comunemente il morbu. Non trattasi,
com’è facile vedere, di etimologia popolare, ma della
sostituzione di un gruppo di suoni ostici alla pronun-
zia (non però estranei al dialetto siciliano, che conosce
p. es. la parola mobili) con un gruppo di suoni più
familiari. E io credo che negli antichi dialetti italici,
specialmente nell’umbro, sia posibile dimostrare le
tracce di procedimenti del genere di quelli che abbia-
mo illustrato in questo paragrafo: la qual cosa, men-
tre conferisce ai dialetti italici un assai scarso valore
quali strumenti di comparazione etimologica, dimo-
strerebbe anche che i popoli italici incorporarono
grandi masse di popolazione eterogenea aventi un
linguaggio ancora rudimentale o che addirittura ap-
presero per la prima volta il linguaggio dei loro con-
quistatori. In questo secondo caso, la conquista aria
dell’Italia dovrebbe essere retrodatata di vari mil-
lennii (1).
III. - Nelle precedenti discussioni, mi è talora occor-
so di parlarvi di semantica. Vediamo perciò di preci-
sarne il concetto. Che cosa abbiamo fatto noi ? Abbia-
mo sostituito a un sistema di derivazione delle parole
sulla base dei suoni, un sistema di derivazione sulla

(1) È vero che con le somiglianze si possono prendere cantonale,


ma se ne prendono anche ignorandole deliberatamente per un eccesso
di precauzione metodica: p, es. in Silloge ascoltarla p. 191-2, un dotto
iranista come il Pagliaro crede varianti fonetiche lo avestico aéthra
«fuoco» che è Vaithér greco, e her (da aeso) «possesso, patrim onio»:
il quale ultimo è lampantemente il lat. aes « denaro » greco èra, ted.
ware « merce ».

195
base delle idee. Abbiamo in altri termini accentuato
la natura semantica della scienza linguistica.
La parola sematica fu introdotta nella scienza dal
francese Bréal-, essa significava «dottrina dei signi-
ficati » (delle parole), e costituì per molto tempo un
capitolo trascurabile della linguistica. Era più che al-
tro una scienza filosofica e talora semplicemente de-
scrittiva. I linguisti non l’hanno mai presa sul serio,
e ne parlavano tutt’al più o per desiderio di comple-
tezza, o per cercare di dare una vernice filosofica al
loro tecnicismo. Io ho inteso la sematica in un sen-
so profondamente diverso, come scienza cioè che cer-
ca il rapporto fra il suono di una parola e il suo si-
gnificato, che quindi è chiamata a risolvere il più
grosso problema, l’unico forse che abbia un valore
per lo spirito umano, e cioè perché a determinati
suoni si siano legate determinate idee. Un problema
simile non si può affrontare senza porsi contempora-
neamente il problema dell’origine del linguaggio.
Perciò una esigenza di questo sistema è quella di
mettersi in condizione e di sentirsi in dovere di spie-
gare tutte le etimologie, di cacciarsi quindi in una
situazione che un linguista di vecchia scuola defini-
rebbe inammissibile o per lo meno presuntuosa.
Mi si chiederà come allora si spiega l’origine del
linguaggio. Una tale domanda è cosa troppo grande
perché si possa pretendere una risposta precisa ; sareb-
be eccessiva nei riguardi dell’Autore, e non sarebbe
troppo filosofica da parte dell’interrogante. Si può
solo suggerire una soluzione verosimile, che dev’es-
sere intesa in senso approssimativo e necessariamente
congetturale. Se voi supponete che uno dei suoni fon-
damentali, i soli che siano forse originari, K T P (con
qualsiasi vocale, questa essendo un semplice elemen-
to di appoggio e perciò inessenziale) abbia avuto al-

196
l’inizio, per una ragione contingente qualsiasi, la fun-
zione di esprimere una qualche idea fondamentale,
come quella di padre, generatore, nutritore, dio (con-
cetti fluidi e che si equivalgono nello spirito impre-
ciso del primitivo), voi potete poi agevolmente spie-
garvi come da questa linguistica (di natura monosil-
labica) sia scaturito tutto il linguaggio umano: la
labilità del suono primordiale vi dà lo sviluppo del-
l’architettura fonetica, la tendenza metaforica o labi-
lità del significato primordiale ha condizionato lo svi-
luppo dell’architettura sematica, e vi fornisce quel
filo conduttore mediante il quale il primitivo, con
la sua indigenza di mezzi, si sforzò di esprimere,
per via di somiglianze, le cose piu disparate.
L’etimologia in questo sistema non è semplicemen-
te il far vedere da quale altra parola derivi un dato
vocabolo. Quando voi mi avete detto che Sarmazìa
viene dal latino Sauromatia voi non mi avete ancora
detto nulla, e la mia intelligenza non si è arricchita
di alcuna idea. Io intendo per etimologia essenzial-
mente quella che potrebbe anche dirsi etimologia
remota', in altri termini, che cosa significa intima-
mente ed originariamente la parola Sarmazia ? Quan-
do io vi ho spiegato che essa è composta da Sauro
e mafia, che quest’ultimo componente significa <( di-
mora, regione » (dal lat. maneo), e Sauro vale « Dio,
Zar, o anche cavallo, animale-dio » (cfr. lat. aur-iga
cioè sauro -f- agere « guidatore di sauri o cavalli, cfr.
anche l’omerico Auri-medonte «signore di cavalli »),
che quindi ancora Sarmazia significa «regione di
uomini che hanno il totem del cavallo, e che dànno
a se stessi il nome divino di Sauri o Zar », allora io
sento che il mio spirito si è parzialmente appagato.
La semantica è di conseguenza per me il centro della
linguistica, e non già un’appendice dilettantistica per

197
gli sfoghi pseudo-filosofici o le diversioni di pura
curiosità come è stata fino ad oggi. E di qui anche
l’importanza sovrana che nel mio sistema ha la to-
ponomastica. Questa scienza aveva un’importanza as-
sai limitata nella linguistica classica: essa è il domi-
nio dell’arcaico, dell’aberrante, del non perfettamen-
te assimilato e quindi del non tipico; ma io che non
credo al tipico, e credo invece alla genetica, trovo
nella toponomastica quelle testimonianze di antichi-
tà e di preistoria del linguaggio, che non sempre mi
fornisce il vocabolario classico.
E insieme con la semantica acquista importanza in
questo sistema un particolare capitolo di essa, la cosi
detta « semantica sistematica », cioè una veduta d’in-
sieme del modo di esprimersi dei primitivi, che ci
fornisce, da un canto lo specchio delle idee che giac-
ciono nel fondo del lessico umano, dall’altro un pre-
zioso sussidio euristico per la scoperta di etimologie
che resistono a volte a qualsiasi tentativo di analisi.
Noi sappiamo da essa, p. es., che quasi tutti i nomi
di città significano monte oppure recinto, oppure
« la nutriente », oppure « la sede del re, del nume,
del mago» ecc.; che i nomi indicanti fiumi, monti,
astri, alberi, animali significano quasi sempre « dio » ;
che molte delle parole esprimenti l’idea di sensazio-
ne o pensiero, derivano da radici significanti «pun-
tura»; che l’idea di giuoco deriva dall’idea di com-
battimento (lat. lud-us, cfr. lit-is, clades; it. scherzo
cfr. lat. cert-ari; lat. iocus cfr. iaccio, lanciar la pal-
la), e questo perché il giuoco non fu se non l’eserci-
tazione o l’allenamento alla vita attiva della tribù
(che allora era prevalentemente guerresca) nei mo-
menti di stasi o di riposo, ovvero l’imitazione della
vita degli adulti che facevano i bambini (perfino nei
giuochi più sedentari, carte o scacchi, l’elemento gucr-

198
ra è sempre presente); che l’idea di mare è quella
di « dio, generatore, nutritore o santo », e che le pa-
role indicanti «fontana» han quasi sempre il signi-
ficato di «dea, nutriente» (al femminile più spesso
che non al maschile, perché la fontana era creduta
null’altro che la diva o ninfa che ne era guardiana,
e la cui statua in tempi posteriori si usò porre ac-
canto ad essa, cfr. il nome omerico di fontana « Ino »
cioè la «donna»); ecc. La parola elleboro che resi-
steva a qualsiasi analisi si lascia facilmente spiegare
col confronto del ted. niess-wurz (cioè radice, wurz-el,
onde l’it. borsa per somiglianza con un bulbo, e ge-
nesen «guarire»): infatti Elle è connesso con ted.
heil-en « guarire » (propriamente « santo », cfr. etru-
sco hil-ari «sacro a...») e bor vale cosa mangiabile,
radice, greco vriza) (1).
Una delle attribuzioni più delicate della etimolo-
gia e della semantica sistematica è anche di indivi-
duare, in ogni famiglia di parole, il vocabolo intruso,
o per cosi dire, il cucco nel seno della figliolanza le-
gittima. Ci sono vocabili infatti che con la loro somi-
glianza ingannano. E che, si dirà, siamo dunque agli
omofoni fortuiti? No, ma piuttosto agli omofoni ne-
cessari. Il concetto offre una sfumatura importante
e mi spiegherò meglio con qualche esempio. L’it.
brodo e il ted. Brot (pane) non sono omofoni for-
tuiti, la loro unità d’origine si scopre nel comune

(1) È curioso che il Meillet, in Linguistique histortque etc. voi. Il,


p. 162, dice che il greco àcido e l’armeno e r\i «tem ere» non hanno
corrispondenza in altre lingue ie. Ora l’asserzione è molto strana e la
semantica sistematica ce lo fa scoprire di colpo: basti osservare che
la radice àcido è dive, cioè quella del numero due e anche in
armeno er\u vale due. Allora è chiaro che a base del concetto di
« temere » c’è il concetto di « essere in dubbio » (lat. dub-ium è con-
nesso con due). Connessi con dive « temere » sono greco deinós « terribi-
le » e deilós « pavido » (formato come lat. cred-td-us), e forse anche lat.
dirus.

199
concetto di « c ib o » ; la parola iberica antica laur (co-
niglio), lat. (lepur) e lat. laur-um (alloro, albero) si
unificano nel concetto originario di «d io » cioè di
totem vegetale (l’alloro) o animale (il lepre); ecc. In-
vece l’it. stucco (calcina) e stucco (essere stufo) sono
diversi: il primo è variante senza n corrispondente a
tingere (o anche a teg-ere «rivestire»), il secondo è
variante senza n corrispondente a stanco', apparten-
gono dunque a due famiglie diverse. Ma non sono
omofoni fortuiti, perché la coincidenza dei suoni non
è affatto casuale, l’uno e l’altro discendono da una
medesima radice tic, tue, con l’idea di «pungere,
colpire» quindi «stancare», o con quella di punge-
re, toccare con punta, con pennello, tingere; sono
dunque due famiglie semantiche diverse, ma discen-
denti da un medesimo antenato. La stessa cosa si
può dire di it. ama (3“ sing. di amare') e di greco
ham a «insiem e» (propriamente uno, in uno, rad.
sam, gam il sole, il generatore); nonché di lat. ius
(tur, brodo, rad. vor, mangiare) e lat. ius (tur, il di-
ritto, propriamente «giuramento, patto giurato, leg-
ge » perché la radice comune è ver o bor « dio, nu-
tritore». Dunque dalla stessa radice ver, vor «nu-
trire» sono partite due famiglie semantiche diffe-
renti. Al concetto antico ed errato dell’omofono for-
tuito, che postulava la credenza nella creazione arbi-
traria delle parole, sostituiamo quindi il concetto di
om ofon o necessario o correlativo genealogico, e da
esso si vede che sempre l’affinità di suono denunzia
una affinità originaria, e che la divergenza si verifica
poi in sede di lessico sul terreno semantico (1).

(1) Omofono fortuito sembra invece it. aà-agio (da agio variante
di lat. otium *gotium *(g)u tor, e g au à-eo « g od o ») e it. aà -agìo
« proverbio » da *b a g o, gr. bà zo (connesso con bucca e gr. phàg o
« mangiare »), onde n-ego (tic-ago), a io « dire » invaio, cfr. abbaio), lat.

200
E poi c’è la cosi detta erosione, cioè la scoperta che
un grandissimo numero di parole ha perduto o una
qualche consonante o addirittura l’intera sillaba ini-
ziale. Si obbietta che questo fenomeno non era del
tutto sconosciuto all’attuale linguistica. Si, ma entro
quali limiti? Si sapeva che il greco aveva perduto il
digamma e spesso Ih iniziale o intervocalico; che il
celtico aveva perduto le labiali iniziali, e questo era
tutto. Ma l’erosione della quale vi parliamo è feno-
meno di proporzioni molto più vaste e di portata
universale. Anzitutto si estende a tutte le lingue, o
piuttosto a tutto il lessico conosciuto (nel lavoro
Schizzo di storia della preistoria ne ho mostrato esem-
pi nell’egizio, nell’assiro, nel sumero); il che signi-
fica che non è fenomeno da cercare nel seno di sin-
gole lingue, quasi ne fosse una distinta peculiarità,
ma in una disposizione generale dell’organo sonoro
dei popoli primitivi (1). Poi si estende a tutte le specie
di consonanti, in prevalenza alle labiali, gutturali e
sibilanti, ma talora anche alle dentali, e per di più
essa affetta, oltre che singole consonanti, anche intere
sillabe. E, cosa curiosa, ci sono di quelli che ancora
ne dubitano. Ma si può, in senno o in coscienza, du-
bitarne, quando si paragonino parole come ted. be-
gehren (desiderare) e greco eros (desiderio), an-ierós
(indesiderabile, dove la i è la traccia dell’erosione);
baiae « bocca aperta », frane, béan t, it. abbaino, ted. weinen « piangere »,
lat. vae « g u a i !» : ho però qualche difficoltà ad ammettere che ted.
sagen « dire » e lat. prae-sag-iutn siano varietà della stessa radice, per-
ché li connetto a lat. sonus « suono » e ted. sing-en « cantare ». Vero è
che lo scambio dell’iniziale si trova in lat. vox greco vepos (voce),
e lat. in-sece « dimmi », e forse anche in lat. veho (porto) e greco écho
( *sech o) (avere), nonché in sex (sei) e gr. Fax.
(1) Si potrebbe darne una impressionante documentazione col les-
sico delle lingue primitive di Africa, Asia, Australia. Si potrebbe anche
far vedere che il monosillabismo cinese e indocinese è piuttosto di ori-
gine secondaria: es. bir (due) divenuta bi, p i, ir, ri, irti, irandu, rand a,
ren d, reddu, pili, li, peleng, leng, oeng, n g e cento altre varianti.

201
ted. eijer « zelo » greco aphrós « ribollimento, schiu-
m a», lat. vap-or, febris «calore» e fab-er; ted. Ehre
(ortore), greco Erinys « venerande » e lat. ver-eor (ri-
verire); ted. genug « abbastanza » e ingl. enough ; ted.
erst « primo » e inglese first ? E, cosa ancora più
curiosa, voi non potete dire che l’inglese erode, e il
tedesco no, o viceversa; perché form e erose e non
erose coesistono promiscuamente in ciascuna lingua.
Il ted. ha infatti, accanto ad erst la parola f tirsi (prin-
cipe), che non è altro se non una variante della pri-
ma; l’inglese che ha enough contro ted. genug, ha
anche first contro ted. erst. L ’inglese ha fram e « cor-
nice» (da vir, girare, quasi * viramen), il tedesco ha
Rahm (cornice); l’inglese ha either, il tedesco weder,
il lat. uter, l’umbro puter, il greco póter-os (uno dei
due). Succede insomma qui quel fenomeno di pro-
miscuità che noi abbiamo rilevato, nonostante il pa-
rere contrario dell’attuale linguistica, anche nel com-
portamento delle cosi dette lingue dellV e del ^ o
lingue del centum e lingue del satem. L ’erosione è
dunque una delle scoperte più importanti che si sia-
no mai fatte in questo campo, ed essa ci apre la via
a una intelligenza più piena del tessuto etimologico
del lessico.
Parole come greco euné «letto » (da * henne, lat.
cuna, rad. hi, giacere), parole come lat. am are (gene-
rare, connessa con greco gam os «generazione»), o
come lat. ave! (da *vave, cioè vivi!), ovatio «far
ave!, salutare», aevum (da *vaev-um, greco aión
*vavon) «vita, durata, evo», avus (da *vav-us o bob,
ebraico ab) «babbo, avo» che prima sembravano
inintelligibili, diventano immediatamente trasparenti.
Tutte le parole comincianti per liquida, o per nasale
(tranne il caso in cui m sta per b), o per vocale, tran-
ne il caso in cui trattasi di articolo incorporato, si

202
rivelano immediatamente erose; il lat. rogo «chie-
do» si connette subito con prec-or e ted. frage (do-
mando); il ted. l'àhm (zoppo, cfr. it. lemme lemme)
si connette con greco ialino (inclinare) e lat. clem-ens
(pieghevole, dolce), il ted. lin\s « a sinistra » con lat.
ob-liqu-us-, il ted. lieb-en «am are», lust «voglia»
con ted. wollust e lat. volup-tas (originariamente « es-
sere lupo o marito di qualcuna », quindi amare, desi-
derare ecc.). Si ricordi a questo proposito un partico-
lare del rito delle nozze romane: la soglia della casa
veniva cosparsa di grasso di lupo! Sapete voi che un
dialetto greco, il panfilico, premetteva una B a tutte
le parole cominciami per vocale? Era un vezzo dia-
lettale? N o; ma piuttosto una persistenza di ten-
denze arcaiche (1). Sapete voi che l’attuale scienza di-
stingue meticolosamente fra spirito dolce e spirito
aspro nel greco? La dottrina dell’erosione ci appren-
de ora che questa differenza non esiste: lo spirito
aspro denunzia un’aspirazione che tien luogo della
consonante erosa, lo spirito dolce denunzia la ulte-
riore caduta di questa aspirazione residua, quindi
una seconda erosione, un approfondirsi del processo
erosivo. Un esempio tipico ce lo dà il lat. fasena di-
ventato poi barena e quindi arena, e in italiano ad-
dirittura rena.
Questa scoperta cambia fondamentalmente il mec-
canismo della ricerca etimologica. Vi porterò un
esempio. Il ted. 1{lingen « sonare » (rad. \al, cfr. gre-
co tratto « chiamo ») è connesso con lat. loqu-or greco
(b)lego (dico), elenchos (chiamata in giudizio, accu-
sa), aiolà (grido di guerra), lat. (c)ul-ulo, ebraico Hill-
el (canto), ebraico (c)allel-ù-ja, lat. (c)lingu-a, ecc. Ma
attraverso la corrispondenza lìngua = lat. dingua, si
(1) Come la i iniziale che si trova nelle lingue slave (proìotazionx)
e che è la succedanea di una palatale o di una labiodentale caduta.

203
avrebbe la possibilità di una connessione con lat.
dico, in-digit-are (invocare gli dei, recitare la lita-
nia), greco dà\-tylos «sacerdote-profeta» e anche
«d ito». Come mai un organo non sonoro come il
dito è connesso con una radice indicante suono?
Ma, al solito, per una estensione metaforica, e cioè
pel tramite del verbo dico che significa «parlare»
ma anche « accennare, mostrare » (il linguaggio
mimico dei primitivi, cfr. it. cenno, che indica una
mimica, ma etimologicamente vale «canto» o ((pa-
rola»); in altri termini lat. dico corrisponde a greco
dei\-ny-mi « mostrare » ; e perciò dito significa « che
mostra, indice».
Ora che ve ne pare, o lettori, di questa connessio-
ne della parola dito con una rad. kal, «chiam are»?
L ’asserzione, a rigore, non è piu rivoluzionaria che
noi sia il dire, p. es., che una cellula del cervello
di Cesare o di Napoleone fu già cellula del tessuto
vivente di un insetto o di un chicco di grano. Ma,
cosa curiosa, vedete dunque come si sono invertite
le parti. In principio avevate accusato l’autore della
presente teoria di basarsi su somiglianze superficiali
e di tornare ai metodi del 700; e ora si trova invece
essere proprio lui il più rivoluzionario e il più avan-
zato. Che cosa diventa, in seguito a queste consta-
tazioni, quella vostra asserzione sulla origine mul-
tipla del linguaggio, basata com’essa è unicamente
sull'apparente diversità fonetica e semantica delle
parole? Null’altro che una impressione di superfi-
cie, un « non scientifico ». Gli avevate rinfacciato
il suo scarso interesse alle leggi fonetiche, ed egli
ne ha scoperte di nuove. Ma queste non sono più
concepite come equazioni meccaniche, e non hanno
alcun carattere di necessità, sono mere espressioni
di tendenze riuscite a generalizzarsi più o meno, vor-

204
rei quasi dire sono le varie truccature delle radici
nel loro ' passaggio da lessico a lessico, o da parola
a parola dello stesso lessico. Ecco alcuni esempi.
Chi riconoscerebbe nella parola it. ciurmare la stessa
radice che è in stirpe ? Chi nella parola cornice quel-
la stessa radice cor, cur che è in corona (1), in carro,
in correre, in lat. hortus (recinto), in giardino, in
Carth-ago « recinto, città », in Crot-one, in Kart-um ,
in Cirta di Numidia, in Gortina, in Cortina (cfr.
Cortina d’Ampezzo), in Garda (città), Cord-ova,
Card-iff e nel russo grad (es. Lem n-grad) ?
La parola uncino è da * ga ncio (variante di gan-
cio) ed è quindi erosa; significa, forse, «am ante»
cioè, per metafora, maschio che penetra in un bu-
co, oppure «cosa puntuta», rad. cac (cfr. ted. ho ch
«alto», H ùg-el «collina», lat. cac-umen, ac-utus)
nella varietà con n, o forse ancora « cosa curva » cfr.
conca, (c)ang-olo, greco ón\os e góm ph-os (chiodo)
ecc. E vedete come si comporta capricciosamente
nell’ambito stesso della lingua latina: in greco si ha
la forma erosa in 6n\os (unghio, chiodo), la forma
centum in góm ph-os e la forma satem in zyg-ón
(giogo); in varie lingue ie. si hanno forme miste,
erose o no, nelle varietà con n o senza n : ted. ec\e,
lat. ang-ulus\ ted. Angst «angoscia» lat. anxia\ gre-
co an\ón (curvatura), engys (stretto, compresso), ecc.

(1) Questa stessa radice è in corno (cosa curva, uncinata), e in


Gòring (propriamente « recinto, città » e quindi anche cognome tede-
sco, come da noi Ghiringhello, città e cognome). Affine è arengo cioè
« recinto » per le assemblee. Io suppongo anche non improbabile che
il nome delle aringhe sia dovuto alla loro disposizione entro un
recinto o arengo (barile), tanto piu che il nome delle acciugh e accen-
na a una cosa simile (sicil. an ciova; inglese en chovy, connessi forse
con greco engys «strette, pigiate in barile»; ma non si esclude una
eventuale parentela con lat. anguis, anguilla « serpentello »). Alla
stessa radice si può forse connettere il vocabolo gretto, cioè stretto,
misurato.

205
Seguiamo ora il comportamento della parola latina
iungere (agganciare): lat. ungu-is (unghia, propria-
mente uncino), uncia « oncia, peso piccolo della for-
ma di un unghio, cfr. inglese inch, corrispondente
alla nostra parola oncia, e significante «pollice, mi-
sura piccola»; lat. inqu-am «aggiungere, soggiun-
gere, dire» dove si vede una variante della parola
unghio simile all’inglese inch', unqu-am (in ne-un-
quam «neanche per un unghio »); cu m qu e (es. quod-
cum que « qualsiasi unghia, qualsiasi briciola, qualsiasi
cosa »); con-iux e ux-or (per *iu xor) « aggiogato insie-
me, coniuge » ; ung-ere « spalmare con le unghie »
(etimologia appoggiata dal confronto con it. s-palm-
are « ungere con la palma della mano »).
È dunque un miraggio il mio, o la scoperta di un
paesaggio nuovo? È stato l’autore vittima di un’al-
lucinazione raziocinante, o egli, a furia di scalfire
con dito nervoso la parete del mistero, ha sollevato
il velo d’Iside sul segreto laboratorio della natura?
Vedete: vi sembrava che andasse indietro, e ora si
ha l’impressione che la scienza corrente sia ancora
allo stàdio teologico, la sua allo stadio evoluzioni-
stico. Voi vedete nelle parole esseri a sé, formati ab
initio, cosi come il Dio biblico crea uccelli, mam-
miferi, insetti, conformati alla loro rispettiva manie-
ra fin dalla nascita del mondo; egli ha trovato il
filo conduttore nel labirinto, e vi mostra come tutti
questi vocaboli siano lentamente emersi dal caos per
effetto del differenziarsi di un’unica sostanza ele-
mentare. Basta dire che ancora non si era riusciti
a vedere alcune cose della più tangibile evidenza:
che cioè la radice ie. del verbo essere è ve-s (ve-r) e
non as, e quella del lat. ire è gì (vi) e non z! ! Né mai
si erano spiegati (forse neanche osservati) fenome-
ni del tipo seguente: come si ha in greco kólaph-os

206
(schiaffo), in latino la forma erosa alapa, e in italia-
no di nuovo la forma piena colpo (rad. cal, tagliare,
cfr. francese couper) (1). È evidente che le parole
credute più recenti sono a volta più genuine delle
parole credute più antiche!

X. - Cu r io s it à o m e r ic h e (2-8-1944, 9-8-1944).

I. L ’isola dei Ciclopi. - Un esame dell’itinerario


di Ulisse, a partire dalla terra dei Ciclopi, ci fa con-
cludere che le peripezie dell’eroe non possono essere
state inventate, ma che il poeta ha ricamato su par-
ticolari contenenti un fondo di verità. In genere, le
alterazioni sono soltanto qualche volta dovute a fan-
tasia poetica, il più spesso alla ignoranza dell’auto-
re che lavora su un materiale venutogli da tradi-
zioni lontane e che egli non di rado fraintende. Det-
to itinerario si può ricostruire con sufficiente appros-
simazione. E prima di tutto sfatiamo un errore cor-
rente: la terra dei Ciclopi non è la regione orientale
della Sicilia, e l’identificazione del famoso «scoglio
del Ciclope» al largo di Acireale è meramente ar-
bitraria. Questo paesaggio non corrisponde affatto
alla descrizione omerica, non essendovi isole vere e
proprie fronteggianti la costa siciliana, mentre la
terra dei Ciclopi sembra essere stata una piccola iso-
la; poi anche perché Omero distingue benissimo fra
l’isola del sole, o Trinacria, e l’isola di Polifemo, su
cui impera Posidone: particolare, questo, che ci ob-

(1) Cfr. anche lat. alvus (seno), greco \6lpos (seno), it. g olfo . Ciò
perché nella parlata latina si era conservata una variante che poi
affiorò nel latino della decadenza colphus. Vi sono dunque canali oscuri
di trasmissione che non affiorano nella tradizione letteraria: es. acciaio,
tolta (il preistorico tali, « metallo » e « pietra »), lombardo fella greco
G elló « spirito infernale, disdetta ».

207
bliga a spostare la scena verso la parte occidentale
del Mediterraneo, su cui un tempo dominò quella
famosa popolazione degli Atlantidi, che appunto ri-
conosceva Posidone per sua divinità. Tutto somma-
to dunque l’ubicazione della regione dei Ciclopi nel-
la parte orientale della Sicilia sembra derivata dal-
l’arbitraria supposizione che il Ciclope sia una per-
sonificazione dell’Etna. Io non solo diffido di que-
sto comodo e banale sistema d’interpretazione della
mitologia, ma vi invito a considerare che i partico-
lari relativi alla vita di Polifemo sono estremamente
concreti e realistici, riproduzione dal vero e non al-
legorie nebulose: Polifemo è un pastore, ignora l’a-
gricoltura, allinea forme di cacio nella sua spelon-
ca, la chiude con un enorme blocco di pietra, non
riconosce la sovranità di Giove, a cui anzi si crede
superiore, ed è cannibale. Non restano dunque che
tre ipotesi verosimili per l’identificazione della terra
di Polifemo: che essa sia un’isola delle Baleari (Ba-
lari nell’antico latino o italico-ligure significava pa-
stori); che sia la Sardegna, nelle cui adiacenze tro-
vami varie isole Caprarie; che infine — e questa è
l’ipotesi preferibile — sia qualcuna delle isole Egadi
o isole delle capre, o anche la punta occidentale, del-
la Sicilia, che conservò per molto tempo il nome di
L ilibeo a ricordo della sua antica popolazione ligure
o pelasgica (la radice è raddoppiata per indicare col-
lettività, come in Le-legi, Bar-bari, Mir-mid-oni, ecc.).
Polifemo parla un dialetto affine al greco, perché
tra lui e Ulisse si comprendono benissimo. È vero
che Ulisse, come pirata, avrà potuto parlare un gergo
cosmopolita, ma non si tratta di questo, si tratta pro-
prio di greco. Il nome di Polifemo non ha signifi-
cato in questa lingua, per lo meno in rapporto alla
leggenda omerica: egli non è né eloquente né chiac-

208
chieronc. Il nome significa verosimilmente Pelope,
cioè pelasgo, pastore; il suffisso em (Polyph-em ) è
un segnasingolare senza significato. Ora egli do-
manda a Ulisse come si chiami. Ulisse, badate, si
chiama Odisse, non già perché questa fosse la for-
ma originaria del suo nome, ma perché cosi veniva
pronunziata nella sua isola natale. Vi spiegherò que-
sto garbuglio. Esiste una variante del nome di Odìs-
sèo, ed è Olisse oppure Olissèo; la prima di queste
due dev’essere la piu antica, perché corrisponde alla
forma latina Ulixes. Questa parola « Ulisse » è da
noi ben conosciuta, essa è erosa da Volisi, Volsci, ed
è insomma una forma particolare del nome generico
di Liguri. Nel Portogallo c’era, per esempio, una po-
polazione di Lusi o Lisi od Olisi che aveva per ca-
pitale Olisi-po (cioè Olisi-bona, Lisbona, la fortezza
dei Lisi) e i campi del Portogallo si chiamavano cam-
pi Elisi (campi dei Lisi). Sarebbe inoltre difficile (1)
citare un caso di trasformazione di una d va. I, men-
tre il contrario (/ che diventa d) è frequente; es. la-
crima dà in greco dakrya in inglese *teagr (tear\ la
radice è lac (cosa liquida, lucente) o l{al (suono, la-
mento); lingua connesso con lat. loqui, greco lego
(dire), in tedesco dà Zunge, in inglese tongue (rad.
kloc, che si trova in francese claque, cloche e in ted.
kling-en «sonare») ecc. Olisse dunque è forma più
antica che Odisse, ma l’Ulisse della leggenda pro-
nunziava il suo nome Udisse e non Ulisse.
Ora notate un particolare importante. Ulisse, ri-
chiesto del proprio nome, lo rivela candidamente:
«m i chiamo Odisse». Ma Omero dev’essere di mol-
to posteriore al fatto che canta; egli non capisce più

(1) Su questo punto particolare ho poi modificato alquanto le


mie vedute; il lettore veda su ciò il paragrafo fen o m e n i fon etici di
questo libro.

209
M. - L’origine del linguaggio.
la cosa. Per lui Ulisse è Odisseo, egli conosce cioè
il nome del suo eroe nella forma più tardiva, che
è più lunga e diversamente accentata. Perciò crede
che Ulisse inganni Polifemo. Voi sapete che fu una
vera fortuna per Ulisse che il suo nome — Odisse
— fosse frainteso dai Ciclopi e scambiato per Utis
0 Oudeis « nessuno » ; cosa che prova all’evidenza che
1 Ciclopi intendevano il greco. Ma che cosa avrà
detto Ulisse, che cosa avreste detto voi in una si-
mile congiuntura? «Che fortuna, che provvidenza
che il mio nome sia stato frainteso! ». Omero non
la intende cosi; egli fa vantare Ulisse d’aver avuto
l’accortezza di dare a Polifemo un falso nome. Io
domando in che modo Ulisse avrebbe potuto pre-
vedere gli sviluppi romanzeschi di questa somiglian-
za del suo nome col pronome significante «nessu-
n o » ; e se avesse voluto dare un nome falso si sa-
rebbe ben guardato dal darne uno cosi sospettabile.
L ’elemento romanzesco è dunque evidentemente sor-
to perché il fatto non fu più capito. La qual cosa
prova sia la veridicità del racconto, sia la distanza
di tempo fra Ulisse e Omero.
C’è anche un’altra ragione per supporre che in
Sicilia, a quel tempo, si fossero stabilite popolazioni
d’origine greco-pelasgica. Più in su della Sicilia so-
no le isole Eolie. Su per giù Omero le colloca al
loro giusto punto, perché Ulisse, allontanatosi dalla
terra dei Ciclopi, approda subito alla dimora di Eo-
lo; e il suo itinerario successivo s’accorda bene con
questa ubicazione. Ebbene, che significa questo no-
me di E o lie ? che fossero abitate da Eoli?... Può dar-
si; allora è logico supporre che Eoli si fossero stabi-
liti nelle coste d’Italia e di Sicilia prospicienti le
dette isole. Può però trattarsi di ben altro. Voi sa-
pete che i Greci chiamavano la tramontana Borea,

210
nome che venne riferito alla parola Bóros (monte),
quasi a significare «vento della montagna». Ma è
anche verosimile che Borea non alluda affatto ai
monti, sibbene invece alle popolazioni stanziate a
nord della Grecia, cioè nella Tracia e nella Sarma-
zia, come prova il fatto che tutt’oggi il nome di
Boris è diffuso fra gli Slavi. In Macedonia questo
nome si pronunziava Burro o Pirro, nella quale
ultima forma noi intravediamo il vocabolo latino
vir e Tit. birro (cioè capro, soldato). Il paese dei
Bori ha lasciato il nome al Boris-tene (cioè fiume,
Tanai, dei Bori), e al Dnie-per (cioè Don, fiume
dei Pirri), nonché ai Bar-bari (parola composta
col raddoppiamento di var, bar, «capro, soldato»).
Questi plurali a raddoppiamento erano cornimi nel-
le lingue primitive, es. car-cer (pietra -fi pietra, cava
di pietre, miniere), chìac-chier-a (car, voce, coro), sus-
surro, bar-baglio, ghiri-goro, ca-chinno (canere, can-
tare, far rumore), mur-mur (mare -f- mare, rumore
come di mare), m ar-mor (mare -fi mare, iridescenze,
marezzature, pietra marezzata, marmo). Mi sembra
dunque impossibile — come pretendono vari dotti
— che il nome delle isole Eolie sia tardivo e rimonti
soltanto all’epoca della colonizzazione greca in oc-
cidente: se Omero colloca Eolo vicino a Polifemo,
è logico dedurne ch’egli alluda alle Eolie; e si deve
perciò concludere che i Pelasgi abitanti in Sicilia era-
no Pelasgi del Peloponneso, e non già, poniamo, del-
l’Asia Minore o della Grecia continentale, altrimen-
ti essi non avrebbero dato il nome di Eolo al vento
del Nord. La finzione dell’otre dei venti non ha poi
nulla di mitologico: che un sonatore di cornamusa
possa essere stato creduto operare l’incantesimo sui
venti è cosa in accordo coi principi della magia sim-

211
patica (spargere acqua per far piovere, soffiare per
far vento, ecc.).
Fin qui dunque la narrazione omerica è veritiera:
ma ecco ora uno scoglio. L ’Ulisse omerico è quel
che oggi direbbesi un «ballista»: ha troppa viva-
cità, esagera un po’ troppo. Possiede del vino, che
vien battezzato in ragione di una coppa di vino con-
tro venti di acqua; ingrandisce oltre ogni verosimi-
glianza le dimensioni corporali di Polifemo; il sas-
so che blocca l’antro del Ciclope non può essere
smosso da meno di venti uomini; il mostro scaglia,
a guisa di sassi, fette di montagna, e, a colazione,
mangia due uomini, con ossa, muscoli, interiora e
midolla. Tutto ciò mostra che Omero raccoglie tra-
dizioni popolari molto alterate, ma quello che an-
cora è piu strano è che egli non sa che cosa sia un
Ciclope. Questa dei Ciclopi era una istituzione co-
munissima nella preistoria, perché il ricordo se ne
trova anche in Cecrope (Ciclope), negli Arimaspi
ricordati da Erodoto, nello specchio della Gorgona,
nel nome di Orazio Coelite (Ciclope), nei maghi bul-
gari dell’esercito di Attila, i quali, mediante specchi,
cercavano fascinare e terrorizzare il nemico. L ’oc-
chio era costituito da uno specchio rotondo posto
sulla fronte (oggi, un residuo di questo specchio-
talismano è nel rubino che i principi orientali por-
tano sul davanti del turbante, e perfino in quell’in-
nocuo distintivo luccicante che i militari portano
sul davanti del berretto). Il luccichio di uno specchio
è una cosa terrorizzante per un selvaggio, il quale
vedendo la propria immagine riflessa in un corpo
estraneo, crede che gli venga captata la sua anima
e che perciò il suo spirito e la sua stessa vita si tro-
vino in balia altrui. È quello stesso terrore di veder

212
riflessa la propria immagine nell’occhio altrui, che
ha creato la superstizione del <( malocchio ».
Omero non capisce piu tutto ciò. Per lui il Ci-
clope è l’uomo-mostro, che ha un solo occhio. E
immaginate: quest’occhio è tanto vasto che quando
Ulisse vi affonda un tronco d’ulivo appuntito e ar-
roventato, stride intorno a quel palo «come quan-
do un fabbro immerge nell’acqua fredda un ferro
rovente». Qui sorprendiamo la nascita di un qual-
cosa, che era ignoto nel mondo fino a quel tempo:
l’immaginazione poetica. Quando Omero descrive
le morti degli eroi nell’Iliade, sono descrizioni cru-
de, realistiche; qui egli ha inventato di sana pianta
pel piacere d ’inventare, e si dà l’aria di far ciò per
darvi un’idea piu esatta della cosa. È nato in altri
termini l’illusionismo, l’arte come cosa riflessa e co-
sciente; non è piu l’arte istintiva dell’Iliade, ma la
fantasia che giuoca deliberatamente con se stessa.

II. Il regno di Circe. - Dalla dimora di Eolo, Ulis-


se giunge all’isola di Circe, E èa (Aiate). Circe è una
ricciuta cantatrice, parola che è sinonima d’incan-
tatrice, perché gl’incantesimi si ritmavano (1). Il suo
nome potrebbe connettersi alla rad. \ìr, che si trova
in chor-us e simili, quindi « cantatrice » ; o forse me-
glio a fir\ os «sparviero» ed essere quindi analogo
a lat. strix «civetta» che ha dato origine al nome
delle streghe, a causa della loro attività notturna.
Ella compone filtri, parola che fu creduta indicare
pozioni amorose (dal greco philéo, amare), ma che
forse in origine indicava altro, cioè il feltro con cui
si filtravano i decotti delle erbe magiche. E infatti

(1) Il greco poiesis (poesia) non significa « creazione » (concetta


metafisico troppo evoluto) ma « fattucchierìa, incantesimo; cfr. Paian
« fattucchiera, guaritore » (Apollo).

213
Circe è una assidua tessitrice. La sua isola può darsi
che non sia propriamente un’isola, perché la parola
greca nésos è parola generica per indicare monte,
sporgenza sul mare, è quindi identica a Naso (spor-
genza sul viso), che designa anche una città sicula,
e a N axos e simili; essa è talora applicata anche a
continenti, es. Pelopon-nèso. Ma Aiate, che significa?
Un’ipotesi dotta, ma non seria, vuole che sia parola
onomatopeica, perché nelle sue vicinanze c’era l’A-
verno, e si udivano i lamenti {ahi! ahi!) dei defunti.
Onomatopee forse non ne esistono nel linguaggio
umano, o, se ce ne sono, si contano sulla punta del-
le dita: basti osservare che quasi tutte le parole in-
dicanti le voci degli animali derivano dai nomi de-
gli animali e non già da suoni imitativi: es. tubare
si connette al ted. Taube (colomba), francese hennir
(nitrire), a hinnus, ruggire a rug (cfr. egizio ruva
«leone», greco ly\-os «lupo»), barrire a bar, var
(capro, orso, animale in genere); bisbiglio non è da
pis! pisi, ma da *vespìglio, rumore come di vespe,
cosi come bisbetico è vespetico «inquieto come una
vespa» e bisb-occia è «vespaio, baccano»; murmure,
sussurro e simili, non sono onomatopeici, come si è
già visto; latrare è «gridare al ladro» (1) e abbaiate
è connesso col greco bob (grido), e lat. baiae (bocca
aperta), la quale ultima è forse onomatopeica (vae!
pianto dei bambini, it. guai!, ted. wei-nen «pian-
gere»). Ora precisamente Aiaie sembra una parola
composta dell’articolo a (iniziale) e da aie o iaie, for-
ma erosa del latino Baiae. Siamo dunque a Baia,
nelle vicinanze di Napoli. La scienza fin oggi non
poteva spiegare questo nome, perché ignorava sia

(1) La tro è da rad. \al «rubare, tagliare», cfr. greco (Ifìleta


(bottino), {k)lestós, ecc. Il nostro lesto rapido, veloce (come i ladri),
« svelto » è forse connesso,

214
la dottrina dell’articolo incorporato, sia la dottrina
dell’erosione delle radici. In genere, il processo del-
l’erosione è il seguente: p iniziale (pa, pe ecc.) si
attenua in ph (f), poi in h, poi cade del tutto; b
{ba, be ecc.) si attenua in v, poi in ia, poi ancora in
a, e infine cade del tutto; e lo stesso dicasi di h;
di g, ia, ecc. Basterà qualche esempio: il greco *gan er
(uomo) diventò ianer (es. De-ianir-a, cioè Dea-fecon-
datrice), poi anér: in umbro abbiamo ner (principe),
in latino nur-us (giovinetta, nuora, cfr. le N o m e del-
la mitologia nordica), in tedesco nar (uomo ispirato,
eroe, quindi matto, stravagante, così come greco
mantis che era il profeta diede origine alla parola
mania-, in latino narrare è propriamente «profetiz-
zare», «essere aedo e cantastorie», concetti che al-
lora facevano tutt’uno). Insomma, l’erosione è pre-
ceduta dall’attenuazione, e l’aspirazione è perciò
un’attenuazione, cioè un principio di erosione. Al-
tra forma di attenuazione è la cosi detta palatalizza-
zione o iotizzazione, p. es. v si attenua in molte lin-
gue in ia, Bacco diventa lacco, Vaccaei (popolazio-
ne iberica) Jaccaei; V oce si scambia in Jove (la for-
ma vove è attestata dalla esistenza del verbo lat.
voveo «devolvere» cioè «dare in dono a G iove»);
l’ebraico ]ahw e (Dio) è da cave, cioè babbo, avo (da
*vav-us). Del tutto simile è la palatalizzazione di g :
es. slavo gora (monte) corrisponde a Giura (monte
in Francia), a G ia n e (città-monte in Sicilia); uncino
da *guncio variante di gancio diede il verbo iun-
gere, ecc. Due esempi bellissimi di palatalizzazione
sono i seguenti: a) conca, congio, bi-goncìa (conche
che vanno appaiate), cioncare (bere nella conca), con-
ciare (mettere nella conca, mettere al macero); b)
pacco-, s-paccare (disfare il pacco), s-paccìare (di-
sfare i pacchi, vendere, smaltire); connesse con que-

215
ste parole sono molte altre, che vale la pena di ci-
tare: pa ce (unione), o-paco (compatto), pece (cosa
che unisce), greco pachys (lento, tardo), pacchiano
(grosso, grossolano), lat. pig-er (lento, appiccicoso
come pece), bigio {piceo, color di pece), ap-picc-icare,
spicc-icare, spiccio, spicchio, ecc. Pece a sua volta
sembra connesso con greco Pettine (pino), cosi come
bitume sembra connesso con abete (abetume, resina
di abete).
Siamo dunque a Baiae e l’ipotesi è confermata dal-
la vicinanza dell’Averno (per caverno, cavernus
deus, dio sotterraneo). E qui si vede come il fondo
della tradizione sia veritiero, ma come il poeta, per
ignoranza, faccia continue confusioni e prenda i piu
strani qui prò quo. Mentre la topografia dell’itine-
rario è, senza possibilità di dubbio, tipicamente oc-
cidentale e anzi tirrenica, il poeta, vuoi che abbia
scambiato gli Umbri — popolazione vicina alla re-
gione di Circe — per i Cimmerii (in effetti i due
nomi erano originariamente identici), vuoi che ab-
bia scambiato Aiate con A ie che si trova in Colchide
(anche qui il gran golfo di Crimea giustifica il ter-
mine Baia, o forse Aia è dà gaia « terra » onde Aiete
« il re di Aia»), ci fa sapere che l’isola è all’estre-
mità orientale della terra, che nelle sue vicinanze
abitano i Cimmerii e che le notti vi sono brevissime!
Poiché non si tratta di luoghi facenti parte dell’iti-
nerario di Ulisse, è necessario concludere che si trat-
ti di semplici ed erronee aggiunte del poeta.
Un certo interesse offre la descrizione dell’ambien-
te di Circe. A guardia del suo palazzo, che ora è
in pianura, ora in valle, stanno lupi e leoni. È in-
tuitivo trattarsi di figurazioni totemiche, il lupo spe-
cialmente era il totem di varie popolazioni italiche,
e abbiamo visto che le mogli erano indicate, in quasi

216
tutta l’Europa preistorica, col nome di lupe (perfino
l’inglese lady, da hlaef-di-ge mostra la stessa etimo-
logia, benché per errore si usi interpretarlo come
« la guardiana del pane » !). Ma lo strano è che Cir-
ce cambia i compagni di Ulisse in porci. Qui il to-
tem non c’entra più, qui si tratta di una cantonata
del poeta. C’è un luogo di Pomponio Mela (III li-
bro), là dove parla delle vergini Gallicenas nel quale
è detto: «Con incantesimi comandano al mare e si
trasformano in tutte le specie di animali... Esse si
offrono ai naviganti». Questo avveniva in una lon-
tana isola dell’Atlantico, l’isola di Sena. Quest’isola
di Sena è un rebus; il nome a rigore può giustificarsi
come « terra fertile, nutrice, mammella » (e di que-
sti nomi ne esistono molti in diverse varianti, es.
Sena isola nell’Adriatico, Siena, Soana, Siene di E-
gitto, ecc.); ma l’identità di questo nome con quello
delle Gallicenae o Gallizenae induce il sospetto che
qui siasi fatta una confusione, e che si tratti piut-
tosto dell’isola delle donne, che perciò senae o zenae
siano le donne (greco gynè) o vergini galliche (o
anche le « figlie dei Galli o sacerdoti », cen = greco
genes come in Diogenes, e ted. chen, che oggi si usa
per formare diminutivi). Circe ci appare in condi-
zioni del tutto simili: se ne deve perciò concludere
essersi trattato di una istituzione assai diffusa spe-
cialmente nell’Occidente ove c’era una sviluppata na-
vigazione, ma anche nell’Oriente ove( la leggenda
di Istar e Izdubar, da me analizzata nel mio Schiz-
zo d i storia della Preistoria (pag. 70), ci presenta una
stupefacente concordanza di particolari (Istar tra-
sforma i suoi amanti in animali di varie specie).
Calipso, Scilla e Cariddi (cherub, col suffisso d, che
segna il femminile) sono donne dello stesso tipo:
ne è rimasta la tradizione della Tata M organa (cioè

217
fatila, fantìulla che m olce, alletta; e, in Gallia, quel-
la di Melusina, cfr. il greco m elos « dolcezza, mu-
sica n). Che cosa sono dunque i Porci di Circe? Ome-
ro intende bene che cosa siano i Proci (mnasteres)
di Itaca, ma il vocabolo italico corrispondente, porco
«am ante» (che un poeta della Magna Grecia rese
in latino con Procus) non l’intende. Questi marinai
infatti, che Circe alletta, diventano suoi amanti, do-
cili ai suoi comandi, dimentichi delle loro famiglie
e dei loro doveri. Ed è perciò che Omero, di sua
propria iniziativa, imbastisce la scena del porcile e
dei colpi di frusta: ricamo del genere di quello che
abbiamo già incontrato nell’episodio dell’accecamen-
to del Ciclope.
Ma in conclusione non è possibile dubitare né del
fondo storico della tradizione, né della ubicazione
occidentale dell’itinerario di Ulisse: si pensi che do-
po Circe Ulisse incontra le Sirene (donne del tipo
delle Gallicenaé), e Scilla e Cariddi, e che vede
un’isola fumante: verosimilmente lo Stromboli. Per
di più, di fronte a Baia, si trova l’isola di Precida
(Vrochyta), il cui nome ricorda i Proci di Circe, e ciò
spiega come questo nome grecizzante, divenuto in
ambiente italico Porci, sia stato frainteso. Vero è pe-
rò che, volendo fare di Precida l’isola di Circe, bi-
sogna dare ad Aiate il significato di un aggettivo
femminile da Baiaios « l’isola della Baia ». Come mai
dunque i dotti han potuto imbastire tante conget-
ture evanescenti, e si sono lasciati sfuggire tanti par-
ticolari precisi?...

XI. - Sc o pe r t a d ei m et a l l i (12-10-1944).

Ci sono, cinque parole che possono orientarci circa


il luogo d’origine della metallurgia, e sono il ted.

218
Ku pfer (rame), l’inglese Smith (fabbro), il nome del-
la città di Alybe, l’ebraico Tubal-cain (tribù di Cai-
niti fabbri), e la parola accadica Caspu (metallo);
tutte, tranne la prima, orientantici verso la medesi-
ma regione, la caspico-caucasica. Smith significa ori-
ginariamente «sem ita», A lybe è città ricordata da
Omero, e ha dato origine al nome greco dell’acciaio
chalybs (cfr. Kalyp-só, la figlia di Atlante, cioè di
una popolazione di metallurgi del Mediterraneo oc-
cidentale), Tubal-cain accenna ai gauni o zingari o
fabbri del Tauro, e infine Caspu accenna al Caspio.
Quanto a K u pfer si credette in altro tempo che al-
ludesse all’isola di Cipro; ma si tratta piuttosto del
contrario: Cipro deriva il suo nome da Cipra o Ca-
bira o Cibele, la Venere anatolica, ciò che in defi-
nitiva aggiunge un nuova conferma alle quattro pre-
cedenti circa il luogo d’origine del metallo.
La parola m etallo è erosa, ed è della stessa origine
di smith, significa perciò «materia da fabbro o se-
mita » (cfr. Chaldaei, parola connessa con ted.
G old — oro, metallo, variante G eld «denaro; men-
tre l’ebraico Khasdim «Caldei» significa altro, cioè
«sacerdoti, casti»); parola più intera è scimitarra,
la quale, essendo passata attraverso una pronunzia
mongolica (Turchi) ha trasformato Ih impura di
s(e)mit in una sillaba aperta (1). E connesso con
smith per erosione è il nome della tribù di Mad-ìan
nella Palestina (tribù di fabbri), nonché il nome ge-
nerico di M edo o M ago (casta sacerdotale dell’Iran),
che ci illumina su un particolare di alto interesse:
e cioè che i fabbri erano ritenuti maghi e taumatur-
ghi, e reciprocamente i sacerdoti orientali erano in
origine fabbri (un residuo di ciò si vede nell’uso

(1) Cosi p. cs., i Cinesi per dire Cristo dicono Ke-li-se-to.

219
dell’alta casta sacerdotale ebraica d’imparare un me-
stiere manuale). Notate infatti che nelle lingue clas-
siche M edo ha dato origine a med-icus, a re-med-ium ,
al nome di M edea (la maga classica), a macchina,
màngano, magnano, m agnete e Magnesia (tutte pa-
role connesse con mago)', mentre il nome dei sacer-
doti ebrei Cohen (variante di Caino, del celto gobann
«fabbro», di Chaon, Jaon, Aon « Joni, Greci»)
è quello che ancor oggi in Germania si dà agli zin-
gari (i quali d’ordinario sono fabbri): Jaun o Zi-
geuner (1). Né è forse inutile aggiungere che gli Ara-
bi designano gli Ebrei col nome di Magrebini
(.Magrab = mago rosso), parola che fa pensare al-
l’espressione «diavoli rossi» di cui ci gratificano i
Cinesi.
Poca luce ci viene dagli altri nomi che designano
i fabbri. Il lat. Mamurius (per Ma -j- Musius «pa-
dre Mosè, papà il fabbro») ci riporta a Mosè, cioè
alla parola Camuso o Camita, variante di semita (il
m a premesso alla parola si trova in M e-hercle «p a-
dre Ercole», in Ma-vort «padre Marte», in Mau-
solo, ma-hyssollos, «padre visulus, cioè dio» ecc.);
il nome di Cabiro significa « capro » (2) e si trova
in Cibele, in Chaber (casta nobiliare ebrea), forse an-
che in Abr-am (*C abram ) e E ber eponimi degli
Ebrei, in H ibrì «ebreo», in H iber (iberico, sia del-
l’Iberia caucasìca, sia dell’Iberia occidentale ove poi
un ramo di questa popolazione migrò) e nei nomi
diventati moderni di Cafri e Afri. Questa parola ca-
biro ci scopre una particolarità curiosa, ed è che i

(1) Cfr. greco Kaun-à\es «vestito caldeo» cioè di Gauni o Cohen,


zingari, fabbri.
(2) Cabiro « dio » passò anche a significare « grande », cfr. greco
M egaloi theo i « grandi dei » (i Cabiri), arabo qebir « magnifico ».
Cosi anche beg « becco » diede l ’inglese big « grosso ».

220
fabbri si abbigliavano come capri, onde è venuta la
popolare figurazione del demonio con le corna (det-
to anche Orco, cioè hircus, capro).
Varianti con s di questa parola « capro » sono Ze-
phyros (diavolo cabbalistico), zauro, sauro, Isauro
(paese dei fabbri), shap-or (nome di re orientali), Saul
(in assiro Savul, onde si vede la parentela con Sibil-
la, la veggente).
Varianti con labiale sono: Hav-ila (paese anatoli-
co), Kabili, tedi Web-er, lat. fab-er (onde febris
«calore», greco vaphrós «ribollimento, schiuma»,
ted. Eif-er «zelo, rabbia» e forme erose come lat.
ebrius «ebbro» e greco brouo «ribollire»); greco
Heph-aistos «Efesto» Hyph-aino «tesso».
I fabbri erano indicati, oltre che come capri, anche
come tori; e a questo proposito si può osservare che
Tubal-cain (cainiti fabbri del Tauro) anziché deri-
vare il suo nome dalla catena del Tauro, può anzi
aver dato ad essa il suo nome: Tauro o Tubai perciò
significherebbe «monte dei fabbri». Noi troviamo
questo Tubai nel ted. T eu fel (diavolo), nel greco dià-
bolos, nonché nel celto tala (tauro). Si può però dubi-
tare che questa parola sia integra: essa sembra infatti
erosa da vìt-aur-us o ve ter (cfr. il lat. veterinarius)
variante di vit-ul-us « vitello ». Le tracce di questa
erosione si vedono nel nome ebraico del ferro bdil,
nonché nel nome dei fabbri Atala-nti (Vatali), che
si trovano emigrati cogli Iberi a Occidente. Vitulo
però in origine non indicava precisamente un anima-
le, ma una divinità in genere: esso, tra l’altro, servi
a designare il Volga (Aetel), e diede origine ai nomi
di Attila, Attalo, Attilio, ecc.
II nome di Vulcano significa « il fabbro del mon-
te» [vote, nome di animale-dio, del lupo, di nomi
di fiumi come il Volga, ecc.) in quanto si credeva

221
che il fuoco dei vulcani fosse dovuto alla sottostante
officina di un dio fabbro. E il fatto che Vulcano sia
zoppo è un’allusione a una particolarità professio-
nale dei fabbri, costretti a manovrare il mantice col
piede; onde poi è venuta la popolare raffigurazione
del «diavolo zoppo».
Altro nome per indicare il capro e perciò anche i
fabbri era Tar\ (greco, tràgos). Con questo nome
s’indicavano i re in Asia Minore, ove M ida (il cui
nome ricorda i M edi) era re dell’oro e inventore del
metallo; nelle isole dell’Egeo ci furono corporazioni
di fabbri vaganti detti T elefon i; tar\ era nome di sa-
cerdoti etruschi (popolo di fabbri insigni); e tarocco
è rimasto nella lingua corrente per indicare i re delle
carte da giuoco, o frutti delle qualità sovrane (1).
Forse anche Mitra, il dio persiano identificato col
sole, e la cui officina era negli antri dei monti, signi-
fica fabbro o m edo; ne è rimasta una traccia nel gre-
co mydros (ferro rovente), in ted. M utze it. mitra
«berretto di sacerdote fabbro» ecc. E infine non è
inutile qui accennare al mito dei Coribanti, alla na-
scita di Giove fra un batter di metalli, ecc. Con tutta
probabilità queste figurazioni mitologiche accennano
alla celebrazione di misteri della metallurgia.
Una certa luce, bene o male, si è cavata da tutte
queste etimologie, ma se si credesse che i nomi spe-
cifici dei metalli possano darci ulteriori illuminazio-
ni, si rimarrebbe delusi. Ché i nomi dei metalli sono
generici e gli antichi li usavano promiscuamente l’u-
no per l’altro. E quasi tutti significano «dio». Il
perché di questa divinizzazione è facile a capirsi. I
metalli, essendo lucenti, atterrivano l’uomo primiti-
vo, che non ama veder riflessa la propria immagine
(1) Cfr. zircone (pietra preziosa, araba az-zarkun, che ricorda il
Turcorte.

222
in un corpo estraneo. Egli crede che chi è in possesso
della sua im m agine tiene in suo potere la sua anima
e perciò la sua stessa vita. Per questa stessa ragione
essi usavano rivestirsi di armi metalliche: il fulgore
di queste armi bastava per se stesso a mettere in fuga
i nemici. Omero descrive il giungere di Apollo come
di un uragano: è ima immagine per rendere il ter-
rore che ispirava la sua armatura. Anche lo scudo
della Gorgone atterriva. E si deve a questo terrore
l’uso dei primitivi di portare gingilli luccicanti come
amuleti, o l’uso ancora vivo fra noi di fugare gl’in-
flussi malefici col toccar ferro.
Le seguenti etimologie dei metalli più comuni ser-
viranno di complemento a quanto sopra: lat. aur-um
(oro) da *caur «lucente» connesso con greco K aio
e chr-ysós «oro », lat. arg-entum «lucente» connes-
so con cert-us (chiaro), arg-os (pianura palustre, lu-
cente per acqua), arg-illa, (ecc. rad. car, luce).
Lat. ferr-um, basco birun (piombo), in gl iron
(per *virorì) « ferro»; lat. plumb-um è variante. Con-
nessi con fa (luce).
Lat. aes (bronzo) da caes, casci, cas « dio, splenden-
te» (onde forse il nome attuale del gas «spirito,
dio». Ted. Eis-en (ferro) è connesso con lat. aes.
Lat. stannum per *stagnum, rad. tag « splendere »
che si trova in ted. T ag (luce solare, giorno), Tag-o
(fiume della Spagna), stagno (acqua lucente), ted.
stakl «acciaio» (connesso con tali, il nome preisto-
rico della pietra levigata e del metallo; cfr. frane.
dalle «lastra di pietra», e it. folla «latta, metallo»).
È da notare però che lat. s-tannum può anche signifi-
care « santo » cfr. ted. fanne « abete » e ted. zinn
«stagno» che l’it. ha reso con zinco. Il greco chia-
ma lo stagno \assi4eros cioè « più lucente, più dio »;
abbiamo infatti visto che (c)aes è il bronzo. Greco

223
chal\-ós (rame) della stessa radice di (c) arg-entum.
It. latta sta per piatta «piatta». It. acciaio, frane.
acier, sicil. azzaru: è poco probabile che sia da con-
nettere con la rad. ac (cioè «cosa acuta, lam a»); pre-
feribile la connessione con vizir, vazar «d io » che è
il nome di Osiride (egizio Asar), degli Assiri, del
((signore» in ungherese, del maiale in ebraico, del
leone in arabo (hasid), e che si ritrova anche nell’it.
azzurro cioè «dio, cielo».
Questo è quanto la linguistica può dire fin oggi di
piu ragionevole ed equilibrato sull’argomento. Da
quanto sopra risulta che gl’inizi della metallurgia,
così come quelli dell’agricoltura, ebbero in origine
carattere di riti religiosi, e celebravano misteri nei
quali venivano insegnati sotto forme simboliche e
con apparato scenografico suggestivo i segreti tecnici
dell’arte e i ricordi delle grandi scoperte che aureo-
larono le origini dell’umana civiltà. Una ulteriore
precisazione della storia del metallo non potrà aversi
che da una piu approfondita esplorazione del lessico,
ma soprattutto dei miti, dove sono depositate le piu
venerabili tradizioni della storia umana (1).

XII. - L ’e n ig m a di P il a t o (17-10-1944).

I critici moderni hanno molto discusso sulle vere


ragioni della condanna a morte di Gesù. Alcuni han
trovato inverosimile che Pilato avesse condannato
Gesù per motivi religiosi, cioè per dare soddisfazione

(1) Altre parole notevoli sono: m edag lia ( — metallo); T if-on e « il


dio fabbro, il dio del fuoco » (cfr. lat. tep-idus), ire. creidne per
preitne « fa b b ro » ma propriamente «britanno, prete»; ted. silber « a r -
gento» cioè «silfo, d io» , e se ne ha perfino la prova: lo stesso nome
in lat. significa « z o lfo » (stdpk-ur) e questo in greco si chiama theìon
« dio ».

224
ai Giudei che vedevano in lui un eretico, e hanno
osservato che, se Gesù fosse stato condannato per mo-
tivi religiosi, la morte sarebbe avvenuta, giusta la
legge mosaica, per lapidazione. Il fatto che fu con-
dannato alla crocifissione starebbe invece a testimo-
niare ch’egli fu convinto del' reato d i sedizione contro
la potenza dominante (Roma); ma siccome ciò
avrebbe in seguito impedito la propaganda cristiana
nell’Impero (la quale sarebbe evidentemente parsa
un’apologià di reato), si cercò di dare a intendere che
l’autorità romana lo aveva trovato innocente, e che
coloro che assolutamente vollero la sua condanna a
morte furono gli Ebrei. (Non è superfluo qui osserva-
re però che ci fu effettivamente un tentativo degli
Ebrei di lapidare Gesù, e che l’ostilità che fin dal-
l’inizio gli Ebrei ebbero per la Chiesa nascente non
si può spiegare bene se non con una precedente ini-
micizia verso Gesù). Altri hanno spiegato la cosa
altrimenti. I Vangeli descrivono le derisioni a cui fu
sottoposto Gesù nella sua qualità confessata di Re
dei Giudei. D’altro canto Pilato, convinto della sua
innocuità, avrebbe chiesto alla folla se preferiva che
fosse crocifisso un delinquente di nome Barabba, ov-
vero Gesù, essendo costume, a Pasqua, di graziare
un condannato. Ora di questo costume non si trova
alcuna traccia nella legislazione giudaica. Ma si è
osservato che questo procedimento derisorio corri-
sponde stranamente a una cerimonia (Sacaea) che si
celebrava in Babilonia, dove a Pasqua veniva con-
dannato a morte il cosi detto Re d i cinque giorni o
Zo-ganes. Questa cerimonia appartiene a un folklore
assai diffuso, le cui tracce sono state trovate anche in
Pannonia nel IV secolo d. C. (martirio di S. Dasio,
decapitato a Durostolum presso il Danubio, nel 303
d. C., per aver rifiutato di far la parte di Re dei Sa-

225
15. - L'origine del linguaggio.
turnali). Inoltre Filone (in « Flaccum », 6) racconta
che gli Alessandrini solevano vestire da re da burla un
certo Carabbas, e crede che facessero ciò con inten-
zioni allusive verso il Re Agrippa. Mettendo insieme
questi sparsi elementi, si è tentato di ricostruire il
processo di Gesù in maniera del tutto nuova.
Si è notato anzitutto che il nome di Bar-abba si-
gnifica il « figlio di suo padre » e vi si è vista un’al-
lusione satirica contro Gesù che si qualificava « F i-
glio del Padre » (celeste), cioè di Dio. Non è però cer-
to che Barabba significhi questo, e può essere sen-
z’altro una variante del nome Carabba, che significa
genericamente «re, dio, personaggio importante»,
da cui è derivata la festa del Carabbalis (1) che è il
nostro carnevale (un personaggio che viene ucciso
dopo molte derisioni). Filone perciò credette a torto
che Carabba fosse il nome proprio di un mattoide,
che in Alessandria si prestava alla pantomima deri-
soria; questo nome era invece del personaggio che si
rappresentava in abbigliamento di re da burla, e poi
era rimasto appiccicato come nomignolo al mattoide
alessandrino. Ora c’è un luogo del Vangelo che ac-
credita l’opinione che Gesù fosse stato deriso e mal-
menato perché trattato come un re d a burla. Gli
Ebrei dissero: «Occorre che un uomo muoia pel
popolo ». Questa esigenza s’intende solo alla luce
della dottrina sui sacrifici. Fin dal tempo di Isacco,
figlio di Abramo, si era sostituito, per ordine di Dio,
al sacrificio umano, un sacrificio animale. A Pasqua
per l’appunto si sacrificava un capro o un agn ello: il
significato di questo rito era di dare a Dio una spe-
cie di saldo a forfait per tutti i peccati commessi dal
popolo. Ma è pratica costante di tutti i rituali primiti-
(1) Nota che in siciliano si dice c a m v a l i; in francese charivari è
forse una variante.

226
vi che in determinate circostanze particolarmente
gravi il surrogato non è ammesso, e si torna al rito
originario (sacrificio umano e anzi uccisione del capo
tribù, ritenuto responsabile dei mali che si abbattono
sulla comunità). A questi sacrifici,, in tempi tardivi,
si destinavano i delinquenti, i quali dovendo comun-
que essere messi a morte, potevano benissimo servire
allo scopo senza che ci fosse bisogno di ricorrere a
crudeli designazioni; quanto alla qualità regale del
sacrificando, la si simulava mediante un’acconcia
messa in scena (manto rosso, corona, bastone, ecc.;
si noti a questo riguardo che anche le vittime animali
venivano inghirlandate, e ciò non tanto per presen-
tarle a Dio in veste più gradevole, ma perché queste
vittime animali rappresentano l’antica divinità o re-
galità della tribù (1). Gesù quindi nella Pasqua del
29 della nostra èra fu destinato per questo sacrificio
al posto dell’agnello consuetudinario. Questa versione
spiega non soltanto il procedimento derisorio a cui
Gesù fu sottoposto, ma risponderebbe meglio all’or-
todossia cattolica, la quale, per costante tradizione,
ha attribuito alla morte di Gesù il significato di un
sacrificio, mediante il quale vennero riscattati i pec-
cati del genere umano. Il fatto che il condannato
veniva ucciso nella qualità di Re, mostra che in an-
tico era il Re stesso della tribù che veniva considerato
responsabile o reo (Reus vale rex, come rea vale Re-
gina, es. R ea Silvia « la regina del bosco, la moglie
del Re del bosco ».
Si capisce ora dunque l’agire di Pilato, il quale
non fa che rispettare una tradizione locale. E si ca-
piscono due cose che fin oggi han dato luogo a mol-
te controversie. Alcuni critici moderni han sostenuto
(1) Il nome di Isacco ricorda la vittima delle feste dette Sacaeae
(cioè feste degli Sciti).

227
che l’interpretazione della morte di Gesù come un
ministero od opera di salute fu introdotta nel Cristia-
nesimo, posteriormente a Gesù, dall’apostolo Paolo.
La verità è invece che questa nozione è congenita nel
Cristianesimo fin dalla sua origine, e i profeti, quan-
do parlano della sofferenza del popolo ebreo in
espiazione di peccati secolari, sono su questa stessa
scia. Per di più, non bisogna dimenticare che i Cri-
stiani, i quali in origine furono chiamati Santi o
N azorei, in Antiochia per la prima volta furono
chiamati Crestiani e non Cristiani. Ora Chrestós in
greco è la vittima «pu ra» «immacolata» (onde il
nostro vocabolo castro, castrato (cioè purificato, risa-
nato; e in siciliano addirittura sanàtu), e si usa comu-
nemente per « agnello », parola che ha lo stesso si-
gnificato (lat. agnus, greco hagnós « sa nto »; cosi
come in lat. ignis e in sanscrito agni «fuoco» val-
gono a puro, santo» (1); vedi ted. segnen «benedi-
re » ed etrusco sacni « santo »). Perciò, fintantoché
non si dimostrerà che S. Paolo fu il fondatore della
Chiesa di Antiochia — cosa che sembra contraddetta
, sia dagli Atti degli Apostoli, i quali nominano in
primo luogo Barnaba e solo in ultimo luogo Saulo
(cioè S. Paolo), sia dal fatto che S. Paolo, pur cosi
geloso delle Chiese sue fondazioni, abbia abbando-
nato Antiochia a Barnaba, e non abbia mai indiriz-
zato a questa Chiesa alcuna lettera — bisogna am-
mettere, in accordo con la dottrina cattolica, che la
nozione di un dio che muore pel riscatto dei peccati
degli uomini è anteriore a S. Paolo, e che Gesù fu
sacrificato come vittima espiatoria (H ostia divina),
cioè, come agnello (Chrestós) pasquale.

(1 ) Cfr. lat. purus connesso con greco pyr « fu oco».

228
XIII. - L e p iu a n t ic h e p o p o l a z io n i it a l ic h e

(28-10-1944).

È di pochi anni fa la scoperta, in Italia, di un cranio


che si fa risalire a 50 mila anni or sono; ma la storia
non ha ambizioni cosi lontane, e si ritiene abbastan-
za fortunata se riesce a ricostruire avvenimenti ag-
girantisi intorno al 2000 a. C. nel nostro Occidente, e
al cinque o seimila a. C. nel mondo orientale. Solo
il lessico, a volte, ci permette di spingere imo sguardo
curioso più oltre, ed è probabile, p. es., che il copto
em m o («verso» ma propriamente «braccio») e
l’ebraico ham m a (braccio), corrispondenti al greco
gam m a (gamba, siciliano am ma) ci abbiano conser-
vato un ricordo di vita arborea, quando i nostri pro-
genitori non sentivano ancora il bisogno di distingue-
re troppo sottilmente fra arti anteriori e posteriori.
Non diedero essi del resto il nome di «braccio» ai
rami degli alberi (branca = braccio) e reciprocamen-
te il nome di ramo (ted. Arm da *varm , cfr. verm-
ena) al braccio umano? (1).
Il popolo più antico d’Italia, a ricordo di storia, è
ritenuto il Ligure. Termine chiarissimo fino a pochi
anni or sono, quando si credeva che indicasse un
popolo, non lo è più adesso che abbiamo assodato
trattarsi di un nome totemico, riferibile a svariati
animali (lupo, leone, cervo, elefante, coniglio ecc.) e
alle tribù che li veneravano quali loro divinità. Lo si
trova nell’Europa settentrionale (Belgi), nell’occiden-
tale (Olisi), nella centrale (W eie he dei Tedeschi), in
Palestina (Leviti), nell’Africa settentrionale (Libici),
e persino in Etiopia (cfr. il nome Mene-li\ « pastore
di Liguri », L ig g nome etiopico di persona, ecc.). E

(1) In molte lingue primitive la stessa parola significa « m a n o » e


« piede ».

229
la lingua dei Liguri mostra affinità all’estremo nord
col finnico, al sud coi linguaggi indoeuropei e berberi.
Un noto termine ligure, A m broni (« forti ») si ritrova
nel nome degli Umbri, dei G om er o Cimm erii, dei
Cimbri, dei G om eriti di Britannia e d’Arabia, degli
Em iri arabi, dei Mauri (Camauri) e con tutta proba-
bilità in quelli dei Sumeri, dei Samaritani (Shom er) e
dei Somali. E il nome creduto tipicamente ligure del
Danubio si ritrova in molti altri fiumi d’Europa e
d’Asia {Don, Tham es, ecc.), in fiumi dell’Africa
{Tana), e dell’Iran (Danus); mentre il nome ligure
del Po, Bod-inco, richiama il nome russo dell’acqua
{vod-a), il pot-am ós (fiume) e vyd-or (acqua) dei
Greci, il wad-i degli Arabi (it. guado, lat. Pad-us,
iberico Bait-is, cfr. anche Bat-avia «città acquea».
Infine, il dio ligure Penino, che ha dato il nome agli
A ppennini (dove A iniziale è articolo incorporato) è
vocabolo diffuso in tutta l’area ie. e vale « nutritore » :
cfr. lat. fenus (fieno), Penus «cred enza» Penates,
Punicus, Panis, greco phoinix «p alm a» ecc.).
Questo vanificarsi dell’antica questione ligure, in-
vece di portare a una confusione di idee, porta a una
notevole chiarificazione. Se il fondo della popolazio-
ne europea è unico, cade di colpo la teoria del Sergi
sulle due razze primitive, la dolicocefala mediterra-
nea e la brachicefala aria. Questa teoria del resto ave-
va fin dai suoi inizi urtato contro un dato di fatto
inesplicabile. Secondo il Sergi gli Arii, provenendo
dall’Asia, occuparono la zona centrale dell’Europa
attorno alla catena delle Alpi (razza alpina); gli
Scandinavi e i Mediterranei (italici, iberici, egei) rap-
presenterebbero invece la popolazione prearia di pro-
venienza africana (razza eur-africana), spezzata in
due rami (nordici e meridionali) dall’invasione aria.
Ma — e questo è l’ostacolo insormontabile — non

230
esiste il m enom o indizio che m ai in Italia siasi par-
lato un linguaggio non ario. Mediterranei, secondo
il Sergi, sarebbero stati i Siculi e i Sardi; ma il voca-
bolo siculo antico leporis (lepre) e l’iberico laur (lap-
ur «coniglio») sono patentemente indoeuropei; il
sardo giddostru greco p lastro n , creduto un sostrato
mediterraneo, non è altro che caul-astrum, cioè cavo-
laccio, erbaccia cespugliosa. Una schiera di dotti ten-
tò convalidare le vedute del Sergi, andando in cerca
dei così detti sostrati, cioè dei residui dell’antica par-
lata mediterranea. E, in questo campo, non c’è cer-
velloticheria che non sia stata detta. Si disse p. es. che
gli Arii, provenendo dall’interno del continente Asia-
tico, non conoscevano il mare e non avevano perciò
parola per questo oggetto; prova ne sia che i Greci
chiamavano il mare sale (hals) o passaggio (pontos).
Se ne concludeva che perciò la parola latina m are
doveva essere mediterranea. Ma, prima di tutto, m are
è parola erosa da samar, cam ar (santo, nutriente), co-
me prova il nome àtW ambra, il lat. amarus (del sa-
por del mare), il greco ham àra (canale): poi, è pro-
prio vero che la parola non esisteva nel lessico greco ?
Vedete: c’è smàragdos (color del mare, smeraldo),
Mara-thón (palude), mer-mer-izo (ondeggiare come
il mare), mar-aino (afflosciarsi come acqua), ecc. Me-
diterranea doveva essere la parola greca rhód-on (ro-
sa): ma è un semplice aggettivo neutro, e significa
albero rosso (ted. rot «rosso»; in greco dendron è
neutro, in lat. invece arbor è femminile, quindi rosa
è parimenti femminile). Erano sostrati, parole come
lat. car-ére (mancare), satelles (compagno armato, sa-
tellite), paries (parete), egizio n-anti (fiore): ma è
facile accorgersi che rispettivamente significano «a-
ver caro », « pollone, pianticella che fa corteggio a
un grande albero», «paravento» cioè cosa che para

231
o ripara »: tutto è chiaro indoeuropeo, il sostrato
svapora. Quanto a n-anti esso è composto con l’artico-
lo copto n e con una parola corrispondente al greco
ànthos (fiore); la forma anti ha poi in etiopico una
variante senza n « Addi » che noi conosciamo bene
in A d dis A beba (fiore nuovo). Concludendo, la dot-
trina dei sostrati si rivelava una dotta allucinazione.
Il linguaggio preindoeuropeo non è altro che un lin-
guaggio protoindoeuropeo, cioè una forma arcaica
dell’indoeuropeo. La razza prearia non è altro che
un’ondata aria più primitiva.
Il nome dei Latini non ci dà migliore illuminazio-
ne: da Latium (per *platium «piatto, piano») signi-
fica «abitanti della pianura» (cioè il Latium vetus
ch’era ima semplice striscia piana in riva al Tevere)
in contrapposto a Hern-ici (Cam ici, abitanti dei mon-
ti, cfr. slavo brn = monte), ad Alb-ani (Alpe, colle)
abitanti di colline, ad A-borìg-ines (abitanti di bor-
ghi, montanari) forse anche a Calab-ri (Calpe = Al-
pe = montanari ; cfr. H elv-etii = *Alpetii, alpigiani).
Dei Galli si suol fare un popolo diverso dagli ita-
lici, ma qui ci troviamo in presenza di nuove vedute.
La parola Gallo significa «capo» forse anche cav-
allo; e il costume dei Galli (Gallia bracata) è quello
di popoli usi al cavalcare. Gli Enotrii, venuti dal Pe-
loponneso, si stanziarono nell’Italia meridionale; il
loro nome significa «nutritori» ed è connesso col
verbo latino nutria che è eroso. I Bretti o Bruttii por-
tano nome ie. (greco protos «principe, primo»); i
Basili nell’Italia centrale ricordano il nome vesul-us
(dio) e l’anatolico kyssollos.
Negli Etruschi la scienza moderna ha voluto vede-
re a ogni costo un popolo non ario. Ma la tesi poggia
sul vuoto. La toponomastica etnisca è indoeuropea.
Sentirete dire che tipicamente etrusco è il nome della

232
città di V erolla; ma questo nome è assai diffuso e di
marca indoeuropea (vera « recinto » da vir « girare »,
cfr. vera o ghiera «cerchietto, anello»): lo si trova
in Ver-ona, Bari, Baròlo, Baruletta, Berolino, ecc. Si
rischierebbe perciò, come capitò testé a un dotto tede-
sco che scrisse un grosso volume sui nomi latini di
persona, di vedere etruschi dappertutto. Le divinità
etrusche portano nomi indoeuropei: Tin (Giove, O-
dino), Uni (Giunone), Menerva (Mene-ruva «pa-
stora di lupi o leoni » o Men-urbi « pastora del recin-
to o città»), Turan (Venere, cioè tyrannos «nutrito-
re »), Esera (la luna, lat. as-t-r-um, da ve sera, vizir);
Cautha (capo, dio, ted. Gott, connesso con Ceuta
«prom ontorio», Caud-illo «capo», ted. gut = buo-
no, lat. ut-or « far buono, usare », lat. gaud-eo « usa-
re, godere », e lat. caud-a « coda » cioè « sporgenza ».
Non è a meravigliarsi se ora qui vi parlo dei Feaci.
In Omero essi si dicono oriundi dal paese alto
(H ypereia), cioè dalle montagne; si sono poi stabi-
liti nella Scheria (costa), perché molestati dai Ciclo-
pi. Non risulta da alcun luogo che la Scheria sia
un’isola, e difficilmente avrà potuto essere l’isola di
Corcira, così vicina ad Itaca, e che avrebbe perciò do-
vuto essere ben conosciuta da Ulisse. Che in Italia
esistesse l’istituzione dei Ciclopi risulta dal nome di
Orazio Coelite (Ciclope), nonché dalla ubicazione
dell’isola omerica dei Ciclopi. Io credo perciò proba-
bile che F eaci significhi fecialì, cioè fattucchieri. E
che la cosa sia verosimile è provato dal fatto che nel-
le isole del Tirreno sembrano esserci stati Ciclopi.
Sono noti i Cercopi (Ciclopi) di Ischia; non biso-
gna però credere né all’etimologia popolare di que-
sto nome, né al mito etimologico dei due Cercopi
che si divertono alle spalle di Ercole. D ’altronde,
questo mito ebbe delle varianti: siccome \er\os, che

233
propriamente è «circolo» passò a significare «co-
da » (per via del suo attorcigliarsi), si pensò a uomi-
ni caudati, a uomini-scimmie. Alcuni etruscologi as-
seriscono che la parola arim in etrusco significava
scimmia, basandosi sul fatto che le isole A rim e fu-
rono poi dette Pithecusae (isole delle scimmie). Sup-
pongo però che qui si tratti di una serie di abbagli.
Il vocabolo pithecus non indicava affatto, in origine,
la scimmia, ma il «veggente, il saggio»: prova ne
sia che una sua variante Pittacos è nome di persona,
e un’altra, psittacos, indica il pappagallo, l’uccello
« saccente ». La scimmia non era pithecos, ma \er\o-
pithe\os cioè « il saggio con la coda». Fu forse il
composto che a poco a poco trasmise il suo signifi-
cato a uno dei componenti.
D ’altra parte, le isole A rim e sono dette anche Ena-
rime e questo en doveva primitivamente essere ain
perché altro nome dell’isola En arim e è Aen-aria che
ha tutta l’aria d’esserne una semplificazione. Ora,
considerando che ain nelle lingue semitiche signi-
fica occhio (corrisponde a ted. Auge), ain-arim po-
trebbe significare «occhio rotondo» «cercope o ci-
clope» (arim per varìm, rad. vir, girare), ed essere
analogo al termine Arim-aspi (ciclopi della Scizia).
Alcuni particolari appoggiano questa ipotesi: gli Ar-
meni, popolo di fabbri del Caucaso, il cui nome ri-
corda gli Arim-aspi, chiamavano se stessi Hay\ (ca-
pri, greco aìx), e i Ciclopi omerici sembrano da
localizzare nelle isole Caprarie, tanto che Omero,
per errore, fece di essi dei caprai; in Sicilia, isola in
vicinanza delle zone ciclopiche, si sono rinvenuti cra-
nii ultrabrachicefali di tipo armenoide\ la natura
vulcanica di varie isole del Tirreno, è particolar-
mente indicata per localizzarvi i Ciclopi, le cui re-
lazioni con la civiltà metallurgica sono ben accer-

234
tate. Lo sciamare di questi Ciclopi nelle isole dev’es-
sere stato preceduto dal loro insediarsi in Italia: e
nella città di Arim-in-um troviamo ancora una trac-
cia del loro nome anatolico-scitico. Ciò postula l’ipo-
tesi che i Ciclopi, prima di passare in Italia, abbiano
soggiornato nella zona montuosa della Balcania, do-
v’esisteva una popolazione di Paiones il cui nome
sembra una variante di Phaìa\es.
Concludendo, dunque possiamo affermare non esi-
stere alcun indizio, che in Italia si siano mai par-
lati linguaggi non indoeuropei, e abbiano abitato
razze non arie.

XIV. - Il v ia g g io d i E n ea (4-11-1944).

Anche la scienza non è esente da mode. Un gior-


no alcuni dotti, e fra essi il celebre Mommsen, me-
ditando sulla primitiva storia di Roma, la trovarono
discretamente inverosimile, ma invece di cercare le
cause di questa inverosimiglianza, preferirono riget-
tarla in blocco come cosa favolosa, su cui non va-
lesse la pena di soffermarsi. Procedimento, a mìo
parere, alquanto discutibile; anche se non posso qui,
per ragion di spazio e di convenienza, dimostrar-
vene particolareggiatamente l’infondatezza.
Uno degli argomenti con cui si è tentato d’infir-
mare la più antica storia di Roma, è che essa ci sia
stata tramandata da fonti greche, e che i Greci, per
boria nazionale, cercavano di dare origini patrie al-
le più illustri città del mondo antico. L ’argomento
non manca di speciosità, ma è una semplice presun-
zione, e non ha per sé alcuna prova decisiva. Ci so-
no invece indizi positivi del contrario?
Vediamo di semplificare la questione. Secondo le

235
vedute di questi dotti, la leggenda di Enea sarebbe
tardiva, mentre noi sappiamo d’altronde che Enea
non si mosse dall’Asia Minore e regno, dopo la di-
struzione di Troia, su popolazioni di quella contra-
da. Ora, se Enea fosse un personaggio preciso, la
cosa potrebbe ritenersi provata. Ma invece non è
cosi. Il nome di Enea, cosi come quello di Ercole,
è appellativo generico di capo e «nutritore di tri-
bù» (bario, Pan, Phaunus), ed era perciò applica-
bile a differenti personaggi, prova ne sia che in Pe-
loponneso esisteva un culto di Afrodite-Enea (Ve-
nere altrice); e analogamente il nome di Er-cole si-
gnifica «capo di Arii o capri o guerrieri», e sarà
stato verosimilmente, cosi come i nomi di Zeus, o
di Marte, o di Bacco, l’appellativo di più di un con-
dottiero della protostoria. La cosa allora cambia to-
talmente aspetto.
Bisogna dunque porre la questione in altro mo-
do. Si può fondatamente negare l’influsso greco e
anatolico su Roma? Qui non si tratta di fare dello
sciovinismo, perché tanto abbiamo sempre a che fare
con la medesima razza aria peregrinante per diverse
sedi. E gl’indizi che già in epoca preistorica l’am-
biente italico fosse impregnato di grecità non man-
cano. Perché Rea Silvia (la « Regina del bosco » cioè
la moglie del Re del bosco) si chiama Ilia, cioè dun-
que con un nome greco (H yle = silva) ? Perché si
trova presso Rieti un’isola portante un nome pret-
tamente greco, Issai Questo nome corrisponde a lat.
ins-ula, cioè anta, monte, sporgenza sul mare ed è
noto che le forme in -nt assunsero in Creta la forma
in -ns e in Italia poi la forma in -ss: p. es. il greco
ànthos «fiore» diventò assa (es. assa fetida), ecc.
La sposa del Re Numa portava un nome greco,
Egeria, cioè maga, sibilla. E il nome della capra,

236
come nome di donna feconda e di fattucchiera, è
comune all’Italia e all’Asia Minore. Noi sappiamo
da Ateneo, che i Partenoni della Lidia (templi de-
dicati alla dea della fecondità) si chiamavano agne-
ónes, cioè case di agnae (caprette), mentre poi sem-
bra che acne sia parola etrusca per indicare «m o-
g lie» ; d’altro canto, nel tedesco, le megère sono
dette H exe, parola che ricorda il greco aìx (capra)
e il ted. Ochs (bue), ma che è di entrambi più ge-
nuina, perché conserva in quell’/ / iniziale la trac-
cia dell’erosione (la parola in origine doveva essere
vega, oggi rimasta a una stella del cielo, benché non
più nella costellazione della Capra, e corrisponde
esattamente a vacca e becco, al francese biche e al-
l’inglese wìtch « strega »).
Molti altri nomi ricordano l’Asia Minore, e per
converso molte parole di linguaggi anatolici ricor-
dano il latino: il m aiale ricorda Maia, i Meoni e il
Meandro; A prile (*caprile, mese di Venere) ricorda
Capra, o Cibele o Cipra: e quest’ultimo era preci-
samente un nome della Giunone o Venere etrusca;
mentre nel lessico latino si trova Brutus per indi-
care un principe o un animale-dio (greco pròtos,
primo), troviamo poi il numerale ordinale primus
che ricorda il principe (Priamus) di Troia. Il nome
di Ettore, che forse vale « guidatore di cavalli », sem-
bra connesso col lat. veho, vector (si può pensare
anche a una connessione con lat. ictus nel senso di
«guerriero, che colpisce»), quello del fratello Ales-
sandro detto Paride col latino pirata. Nella lingua
licia troviamo parole come quatri-ieres (tetraremi),
isbazi (spatium, lòculo tombale), pablati (forse == lat.
populatus, «danneggiare») nonché dativi in eri (es.
Prijem-eri = a Priamo) che sono perfettamente si-
mili a dativi etruschi (es. Erm-eri « a Ermete »). E

237
le porte scèe di Troia ricordano l’aggettivo latino
scaevus, greco s\aiós « tortuoso ». A tutto ciò si ag-
giunga la somiglianza del nome dei Teucri col no-
me dei Tóchari, e la circostanza molto significativa
che la lingua tocarica, lingua di una regione remo-
ta dell’Asia Orientale, si trova ad essere cosi strana-
mente simile alla latina; mentre sappiamo d’altron-
de che un’immigrazione di Tocari in Europa ebbe
luogo circa nel tempo in cui v’immigrano gli Asìoi,
che io identifico cogli Asì della mitologia nordica.
La parentela dei Latini coi Teucri riposerebbe dun-
que su altri indizi, che non la semplice tradizione
del viaggio di Enea.
Semplici indizi, d’accordo; ma io potrei citarvene
decine e decine, forse centinaia. E che sono questi
Tirreni, ch’esercitano nell’Egeo la pirateria, e che poi
troviamo in Italia? Se Paride, come dice il suo stes-
so nome, non è altro che un pirata, voi avete una
spiegazione verosimile, e nient’affatto frivola, della
guerra di Troia, guerra dunque di polizia maritti-
ma. Il nome dei Tirreni vale molto probabilmente
tyrannos (nutritore re) e Troia significa «città al-
trice » (analogo ad altri appellativi dello stesso signi-
ficato, es. Sena, Perusia, Cosa, e all’umbro tonta)-.
or come mai troviamo in Italia un eroe Turno cioè
Tirreno, e presso gli Etruschi la parola druna (va-
riante di Turno) per indicare un principe? Come
mai quel Tur\-os, che avrebbe capeggiato la spedi-
zione dei Tirreni dall’Asia Minore in Italia, si ri-
trova nel Tar\ degli Etruschi, mentre poi la costoro
abilità come fabbri ci ricorda i misteriosi Telch-ìni
o fabbri delle isole Egee? E non vediamo anche la
parola greca Koiranos (tiranno) riprodotta nel no-
me di Romolo Quirinusì Io ho sempre pensato che
la leggenda di Enea sia un ricordo della venuta

238
degli Etruschi, o uno dei tanti sbarchi etruschi in
Italia. Non già che Etruschi e Tirreni siano uno
stesso popolo; gli Etruschi veri e propri erano l’an-
tica popolazione indigena d’Italia, che poi si fuse
coi nuovi venuti e fu designata insieme con essi con
un’unica denominazione. Questa parola Etrusci sta
per Veteri, Veterusci e indicava propriamente i Vi-
tali o Itali; infatti nel latino è rimasta la parola ve-
terinarius (medico di animali) attestante l’esistenza
di una variante veteri significante vìtulì. Nella loro
lingua, i dominatori chiamavano se stessi Ras-ena,
cioè ras, capi, notabili.
Dobbiamo anche, conforme alla leggenda, ammet-
tere una immigrazione di cretesi arii, anch’essi pi-
rati, in Italia, e cioè i resti dell’esercito di Minosse
sconfitto in Sicilia. Da questa immigrazione trasse
origine il popolo dei Messapii. L ’attuale storiogra-
fia non crede all’antichità di questa immigrazione,
argomentando ciò dal fatto che Omero sembra igno-
rare i Messapii d’Italia. Argumentum ex silentìo\
Ma, a parte ciò, Omero è testimonio degno di fede?
In alcuni articoli precedenti vi ho fatto toccare con
mani la sua scarsissima erudizione geografica. E vi
sono invece alcuni indizi in favore della tradizione
cosi detta mitica. Avete certamente sentito parlare
dei (.ipopoli d el marey>, che davano tanto da fare
ai Faraoni d’Egitto, che li chiamavano Apu, cioè
Apii, Greci (Apia, cioè terra di Vacchi o Achei, es-
sendo un nome antico della Grecia). Ora precisa-
mente il nome di Messapii vale A pii del m are (pa-
role come Mosa, Massa-geti o Geli delle acque, Mas-
sìlìa « città marittima, porto » ecc. provano che la
parola m are è derivata per rotacismo da una primi-
tiva parola con r); esso risponde perciò letteralmente
alla designazione degli Egizi, mentre d’altro canto

239
1’esistenza in Creta di un fium e Messapios ci dà un
argomento in piu per stabilire la realta della paren-
tela dei Messapii con gli Apii di Creta.
Son tutti spunti questi pochi soltanto fra i mol-
tissimi che avrei potuto ammannirvi — che merite-
rebbero una ragionata elaborazione, dalla quale cer-
tamente scaturirebbe una nuova e più intelligente
visione della preistoria. Alcune tradizioni che sem-
brano mitiche si rivelerebbero fra le più veridiche.
Nulla, secondo me, c’è in questa materia di più fa-
tuo e di più vano, che una critica radicale per par-
tito preso. Pensate, per esempio, che quell’Orazio
Coelite il quale compie gesta così inverosimili (al-
meno, agli occhi della storiografia moderna) po-
trebbe essere agevolmente ricondotto alle modeste
e umane proporzioni di un eroe dei nostri giorni,
se si penetrasse meglio il significato della sua con-
dotta. Se egli, come dice il suo nome, era un Ci-
clope, cioè un feciale (fattucchiero ufficiale, dal ver-
bo facere «far fattucchierie»), la sua permanenza
sul ponte all’inizio delle ostilità risponde alla con-
suetudine dei Feciali di compiere le operazioni ri-
tuali di maledizione e di scongiuro. La sua furbe-
ria consistette nell’aver profittato di questo suo in-
carico e della sua immunità sacerdotale, per dar tem-
po ai suoi concittadini di tagliare il ponte. Quando
gli Etruschi scopersero il trucco, Coelite si salvò a
nuoto. Che cosa c’è di mitico, di esagerato, di so-
prannaturale in una così patriottica furberia?...

XV. - I l do l o r e a n t ic o (27-11-1944).

A cercare le idee giacenti nel fondo del vocabo-


lario si resta a volte stupiti che tanta ricchezza spi-

240
rituale, quale noi oggi ammiriamo in questo capo-
lavoro della creazione che è la mente umana, sia
stata costruita con materiali cosi poveri e cosi in-
formi. Ma a volte, anche, quale malinconico senso
di tragedia si sprigiona da queste esumazioni! Si
direbbe che la via dell’umana elevazione sia incro-
stata di sciagure e di sangue e che sotto la poesia
delle cose giunte alla vetta della perfezione palpiti
ancora l’anima torturata di un’umanità che si con-
torse sotto immani rovine. La storia del pensiero è
forse la storia di coloro che non seppero risolvere
il problema dell’esistenza, intendo di un’esistenza fa-
cile e gioiosa, tutta volta alla ricerca di un benessere
personale, per salire nelle atmosfere fumose degli
ideali ?...
Come l’uomo primitivo concepì la malattia? Sem-
bra ch’egli siasi spiegato l’indolenzimento che i ma-
lori e le febbri producono nel suo corpo con l’idea
di una bastonatura da parte degli spiriti maligni. La
malattia è tab-es (tap, battere), pestis (pestatura),
m orbus (mor, schiacciare, battere), greco nósos (ero-
so da una rad. can, tagliare, abbattere); talvolta è
concepita come uno scioglim ento o liquefazione del
corpo {lucs, marasma, languor, parola connessa con
liquidus, di cui è una variante con n (1); tal altra,
come un manifestarsi della divinità entro l’uomo
{manìa da mantis «eroe-profeta», lat. aeger per
*saeg-er, cioè «sacro, tòcco dal dio» (2), emphasis,
entousiasmós, obsessio, tutte parole esprimenti l’idea
dello spirito che soffia dentro l’uomo).

(1) liqu -o r è forse connesso con lacus (lago); varianti sono languor,
che si usò solo in un senso figurato, e lym pha. Nota la corrispondenza
ph = qu.
(2) saeg-er può essere anche <tsiccusy> denutrito, ingl. sic\ (mala-
to): il suffisso er in casi analoghi non è infrequente: es. pig-er (ap-
piccicaticcio, lento, pigro).

241
16. - L’origine dei linguaggio.
Anche la morte ebbe pel primitivo un duplice si-
gnificato. Alcune parole ce la rappresentano come
un «tag liare» {occid-ere, nec-are, eroso da can ta-
gliare, che in greco dà ni\-ào cioè «vincere, uccide-
re», mentre il lat. vincere è variante di vincire, cioè
legare il nemico, ridurlo in schiavitù, e forse rimon-
ta all’epoca dell’addomesticamento degli animali); o
come un « battere, pestare » (morior, inglese m urder
«assassinare» equivalente al nostro m ordere, pesta-
re, schiacciare coi denti). Altre ce la rappresentano
invece come una divinizzazione, come un trapasso
all’immortalità. Che cosa sono infatti le nòstre pom-
pe funerarie, se non un residuo di riti magici per
divinizzare il defunto? Vedete: i Greci dicevano
thanein (morire, propriamente «diventar tano o
dio »), i Latini dicevano sit divus dum non sit vivus,
gli Inglesi dicono die (diventar dio, morire), gli E-
truschi lupu (diventar lupo o dio); solo i Tedeschi
dicono s-terb-en (cioè interrare, rad. tarp, talp «sca-
vare», cfr. licio trbbe «to m b a» e Tùrbe-dar è nel-
l’Armenia un sacerdote addetto a cerimonie fune-
bri). Il greco oll-y-mi «m orire» è connesso con te-
desco M òlle «inferno» e con gr. Gettò, Iouló, divi-
nità infere (1). /
Nelle grotte liguri si trovano i morti dipinti in
rosso; ed a torto si crede a un’usanza specificamente
ligure. La dipintura o truccatura del viso ha il si-
gnificato di una divinizzazione. È noto che gl’impe-
ratori bizantini (e anche i generali romani celebran-
ti il trionfo) si truccavano come oggi le dive del tea-
tro; e gli scultori antichi coloravano le statue degli
dei, non già, come comunemente credesi anche dai
più dotti, per renderle piu parlanti, ma per dare ad
(1) Secondo Meillet (Linguist. Hist., I, 329) il ted. tod t « morbo »
c il got. dtwans sono connessi: dunque anche qui idea di divinità.

242
esse il loro tradizionale carattere divino. Non è
sintomatico il fatto che gli Egizi parlassero della lo-
ro antica razza divina come di una razza rossa ? E
a uno scopo del tutto simile servivano i profumi:
li si usava coi morti, perché questi erano dèi (e ne
venne poi la pratica dell’imbalsamazione) ; se ne un-
gevano, a titolo d’omaggio, i personaggi importan-
ti; li usavano le dive o sacerdotesse di Venere, così
come oggi le loro continuatrici professionali; e la
presenza degli dei e delle dee è di solito annunziata
da un’atmosfera d’ambrosia (1).
E quale visione di guerre, di rivoluzioni, di spo-
stamenti di masse, di sommersione di popoli si spri-
giona dal fondo del lessico! Non vi sembra signi-
ficativo il fatto che quasi tutti i nomi indicanti ser-
vitù siano nomi di popoli già potenti e poi sotto-
messi da altri popoli? Geti e D ai in Grecia erano
nomi usati per indicare servi; noi diciamo ligio (li-
do), servo (serbo), schiavo (slavo). Coloro che Ome-
ro chiama « i divini Pelasgi» diedero poi il nome
in Egitto ai miserabili fellah (falascia oggi in Etio-
pia sono detti gli Ebrei); e Pelasgo nell’Italia meri-
dionale diventò sinonimo di « servo ». Eteri in Etru-
ria erano detti i semi-liberi, ma questi eteri Inveteri)
non erano altro che la popolazione italica (vitali)
indigena sottomessa dagli invasori Rasena, e lo stes-
so nome in Etruria nella variante ithal significò
«schietto», in tedesco vale «nobile» (edel per *ve-
del — vitulo), in greco vale « commilitone, compa-
gno» (hétairos per *vetairos, vitello, soldato vestito
da bue). S-purius era attributo di cittadino (polis
*poris « città », p. es. in Singa-por), ma quando una
nuova ondata aria conquistò i focolari italici, negan-

t i ) Anche le m aschere sono nel costume degli antichi personaggi.

243
do agli indigeni ridotti in servitù il diritto di aver
famiglia, e quindi nome gentilizio, spurio indicò un
uomo del popolo, un paria. N ell’Italia meridionale
Bretto indicava in tempi storici « schiavo » e « de-
linquente»; ma i Bretti o Britanni erano in Bri-
tannia i preti, i membri di una potente casta sacer-
dotale (oggi Puritani = Pritani o Britanni); Pritano
in Grecia, Prthnè in Etruria indicavano un magistra-
to; m-bret è il nome dei re albanesi; praet-or (prete)
era il nome del più alto magistrato di Roma. A pro-
posito di questo nome, è da rilevare un errore cor-
rente. Non parlo della ridicola etimologia che lo fa
derivare da prae-itor (colui che va innanzi); ma è
noto che nomi come oratore, aratore e simili sono
comunemente spiegati come composti con un suf-
fisso in -tor, mentre sono composti da un participio
orat (variante senza n di orant « parlante ») e da un
suffisso or formatore di nomi di agente. L ’origine di
questo suffisso or (er) è curiosa, e cercherò di spie-
g acela in breve. Vedrete allora come la parola dal
nulla vada prendendo corpo, e per quale istinto mi-
sterioso si vadano sviluppando in essa il tessuto con-
n e ttiv o e la linfa vivente. Le lingue bantù, che so-
no probabilmente quelle che le razze di colore ap-
presero dai bianchi in tempi antichissimi, e che ve-
rosimilmente sono rimaste in uno stadio rudimen-
tale, ci insegnano quale doveva essere press’a poco
a quel tempo il linguaggio dei bianchi. Un bantù
per dire « il padre bastona il figlio» dice: « il padre
eg li bastona il figlio » ; senza questo egli infatti non
si saprebbe se è il padre che bastona il figlio o vice-
versa. Questo egli dunque serve a distinguere il sog-
getto. Ora è curioso che nelle lingue ie., a un certo
stadio della loro evoluzione, si nota che, per distin-
guere il soggetto di una proposizione, si aggiunge

244
una s. Questa r è il residuo di un pronome «egli,
ella, ecc. » (so, se, ecc.) che in talune lingue si tra-
sformò in ho, he. Nella lingua licia si trovano en-
trambe le forme; in Omero si trova un fossile pre-
zioso in Nausi\a-a dove l’a finale sta per sa o ha.
In latino e greco l’aggiunta di questa s finale formò
i nominativi in os, us quando il tema finiva in vo-
cale, e i nominativi come audac-s, ai\-s, prudent-s
quando il tema finiva in consonante (negli infiniti
latini, che sono sostantivi, l’articolo se si trasformò
in re: es. ama-se diede ama-ré). Ma è interessante
anche vedere che la lingua non reagì uniformemen-
te, e p. es. la stessa parola in greco dà ono-s (prez-
zo), in latino hono-s (pregio, prezzo, onore) od onus
(prezzo pagato in moneta, quindi «peso» perché
la moneta si pesava); nel latino IV finale s’incorporò
e sembrò far parte integrante del tema. In greco ab-
biamo gam os (nozze), in latino (h)amos (amore),
in greco genos (genere) in latino genus, ma mentre
in greco si ha il verbo genn-ào derivato direttamente
da gen- in latino si ha gener-are derivato da gen, al
quale è incorporato il suffisso, quasi facesse parte del-
la radice. Più tardi i parlanti acquistarono coscien-
za della esistenza di una terminazione or, er (deri-
vata da o-se, cioè dal pronome aggiunto per distin-
guere il nominativo) e ne fecero uno strumento con-
venzionale per la creazione di nomi di agenti; fu
cosi, p. es., che da Berlin si cavò Berlin-er (berlinese).
Ma torniamo al nostro argomento.
Ci sono parole decadute-, esse indicavano gradi so-
ciali elevati, e finirono per indicare esseri abbietti:
sintomo di una mutata coscienza morale dei popoli,
o di rivoluzioni nel senso proletario. L ’asceta, greco
erem os (eremita), specie di santone pei primitivi,
ha dato A rm (povero) in tedesco; il Ram a (dio) ha

245
dato il nostro gram o, ramingo (accattone che va in
giro), e l’inglese groom (valletto; però in bride-groom
(( fidanzato » esso conserva significato buono, (( fe-
condatore »). Mara che indicava un personaggio im-
portante nell’antica società italica diè origine al ma-
riuolo, alla m arachella, al francese marauderie, al
tedesco schm arotzen (far furfanterie). M ascalzone è
da mascalcìa, vale dunque «maresciallone»; baro
è il var (capro, guerriero), birro è il Pyrrhus o burrus,
furbo è forse «fulv o» cioè il barbaro biondo, che
diventa signore feudale ed esercita il brigantaggio
(cfr. francese f a m e « fulva » che vale « belva » e per
converso l’inglese fair « fiera » passò al significato di
«biondo»). I G eli o Goti, gente ch’esercitava il me-
stiere di fabbri girovaghi e che in antico era assai
rispettata, diedero origine a parole di spregio: git-ani
(zingari), guitti, ghetto (quartiere guitto, quartiere
zingaresco, poi di Ebrei), francese gueux e infine
goetia (magia nera) cioè arte di Geti o zingari.
Si potrebbe continuare questa lista per molte e
molte pagine, ma mi limiterò qui a citarvi una del-
le categorie più interessanti. È quella delle maschere
popolari. La parola m aschera è connessa con m a-
schio, ed indica un personaggio importante, dal cef-
fo che incute timore (greco m óschos «vitello, ani-
male-dio»; cfr. m oschea, casa del dio o moscos); il
lat. diceva histrio ( * vistrio, vizir, dio), o persona,
parola connessa con l’etrusco fersu (it. farsa) e Por-
senna e che vale perciò «principe, personaggio im-
portante ». Voi vi ricorderete, a questo proposito, che
la tragedia metteva sulla scena soltanto persone, cioè
personaggi regali, e che per renderli più imponenti
li calzava di coturno e li truccava. Orbene: anche i
personaggi comici hanno la stessa origine. Sono i
re che diventano rei, i capi delle tribù che cadono

246
in balìa della vendetta e del dileggio popolari. Il
più celebre di tutti è Carabba che diè origine al ca-
rabalis (carnevale), frane, charivari, sicil. carrivali):
dove la carne non ha proprio nulla che vedere.

XVI. - T a s t ie r a m it o l o g ic a (29-12-1944).

A) Battesimo precristiano. - È curioso constatare


che il verbo greco Bap-tizo (battezzare) significa eti-
mologicamente «essere babbo o bafo, essere padri-
n o » ; che dunque l’idea della paternità attraverso
il battesimo è anteriore al cristianesimo e le sue ori-
gini si perdono nella notte dei tempi. Questa rive-
lazione cesserà dall’essere sbalorditiva, quando si sa-
prà che in Norvegia persistono riti battesimali a fon-
do pagano, e che tracce di riti simili si trovano nel
folklore greco e romano. In Grecia il neonato veniva
portato in giro attorno al fuoco (<am phidrom ia); e
una purificazione mediante il fuoco viene ricordata
anche nei Vangeli. « Io vi battezzo con acqua —
diceva S. Giovanni Battista — ma dopo di me verrà
uno che vi battezzerà col fuoco». Anche nelle tra-
dizioni di altri popoli, compresi i popoli indoeuro-
pei, troviamo la purificazione con l’acqua e col fuo-
co; e io credo ch’essa derivi dal ricordo del diluvio
— comune a tutti i popoli classici — quando Dio,
per mezzo del temporale, cioè mediante l’acqua ac-
coppiata al fuoco celeste (fulmine) aveva purificato
l’umanità (1). Va qui segnalato anche che l'Epifanìa
è detta popolarmente Befana (ted. Pop-anz), «festa

(1) Tale carattere hanno i fa lò che si fanno in alcune feste, p. es.


fuochi di S. Giovanni (che è un santo del battesimo). Questo folklore
ci ha conservato un vero e proprio rito di A m ph id rom ia; si danza at-
torno al fuoco, e tutti sono obbligati a saltare attraverso le fiamme.

247
del bafo o papo o padrino», e quindi non ha nulla
a vedere col concetto che comunemente si annette
a questa parola, cioè « manifestazione » (di Dio);
contiene invece il concetto di babbo o padrino, e
quindi di battesimo. Nel Mezzogiorno d’Italia l’Epi-
fania è detta Tufania, ove troviamo una nuova con-
ferma alla nostra opinione, che^j&carattere di questa
festa sia baptismale: in tedesco cioè tuffo è il
battesimo, e la misteriosa acqua tofan a è l’acqua del
battesimo, o anche l’acqua del fiume Giordano alla
quale si attribuivano virtù miracolose. Ricordo qui
come una curiosità poco nota, che quando Bona-
parte venne in Italia corse voce che gl’italiani voles-
sero avvelenarlo con l’acqua tofana!

B) Un culto singolare. - In un paese della Sicilia


chiamato Aidone, si venera l’immagine di un santo
negro, popolarmente detto S. Filippo. La presenza
di un santo negro in una regione abitata da bianchi
è cosa per se stessa eccezionale e fa pensare a quei
culti popolareschi di m adonne n egre nei quali gli
studiosi di storia delle religioni ravvisano avanzi di
culti pagani cristianizzati e, nel caso in ispecie, del-
Ylside egizia, che in Grecia era venerata sotto il no-
me di D em etra nera (o Demetra d’Arcadia) (1). E un
sospetto del genere è venuto anche a me pel fatto
che questo San Filippo di Aidone non risulta in-
cluso nell’elenco cattolico dei santi siciliani. Riflet-
tendo su questa circostanza, mi si è presentata alla
mente una spiegazione che potrebbe forse avere qual-
che interesse per gli studiosi della storia della Sici-
lia antica.
Aidone sorge su un’altura, sulla quale anticamen-
te sorgeva la città di H er-bita (bitta vale collina,
(1) Il nero però in questo caso si riferiva alle gramaglie.

248
monte, muro, edificio, e si trova nella nostra parola
bitta, in baita, nell’ebraico beth « casa », nel tedesco
Ge-bàude « edificio », nel francese boùt e bùt « estre-
mità, fine» e in nomi di città come Bufo, Buda,
A-byd-os, But-era, Butrio e, con s intrusa, Busto Ar-
sizio ecc.) cioè « città di Arii o guerrieri ». Il nome
moderno, Aidone, è d’origine ignota, e si è avan-
zata l’ipotesi che sia di origine medioevale-araba. Ma
se si pon mente al fatto che nel suo territorio esi-
stono miniere di zolfo, e che la sua ubicazione, in
vicinanza di Enna, corrisponde a quella nella quale
gli antichi collocarono la scena del ratto di Proser-
pina, il sospetto che qui noi ci troviamo in presenza
del nome greco di Plutone, Aidoneus, acquista cor-
po. La primitiva rappresentazione dell’Ade (H ades
non già, come credesi, «invisibile» ma «sotterra-
neo» in connessione con greco katà « g iù » e lat.
cad-ere «andar g iu »; o anche «sacro» (rad. cad),
«tabù», parola quest'ultima che sembra connessa
con greco tàphos «tom ba») fu derivata dalle grotte
o tane, dove abitava l’uomo preistorico (1), e dov’egli
poi, quando si fabbricò altre sedi, continuò a sep-
pellire i suoi defunti (2). In seguito, a questa rap-
presentazione se ne sostituì un’altra, e cioè quella
di un luogo di pene e di castighi. Io credo, modifi-
cando una veduta del Reinach, che questa conce-
zione ebbe origine, in parte, dalle pitture che si usa-
vano fare nelle pareti degli ipogei. Un artista, p. es.,
raffigurò Tantalo nell’atto di cogliere i frutti del suo
meraviglioso giardino. Ora, tutti coloro che perio-

(1) Tan a è parola probabilmente erosa, c£r. greco chthon che è


più integro; in ted. si ha la forma satem (stein).
(2) In greco se ne ha quasi una prova palpabile, perché z óp h o s
significa « A d e » ; eppure non è che una variante di taph os « tom ba » .
La parola A d e si trova anche in egizio (M -ades, dove m mi sembra
articolo incorporato).

249
eticamente scendevano nella sua tomba, che cosa ve-
devano? Un uomo sempre in procinto di cogliere
frutti, che in verità però non coglieva mai. In altri
termini, la mentalità primitiva confondeva il desti-
no di Tantalo giacente nella tomba con quello che
egli aveva nella pittura. Ma anche questa concezione
dell’Ade si evolvette: l’idea dell’inferno, quale luo-
go di tormenti e di fuoco, deriva, sia dalle officine
dei fabbri (creduti diavoli), sia dalle miniere dove
esseri scuri e deformi sfacchinavano fra visioni spet-
trali ed emanazioni sulfuree. Ora precisamente que-
sta località della Sicilia si prestava a una localizza-
zione dell’inferno, e i neri zolfatai possono bene aver
dato l’impressione di esseri infernali. E quel nome
di F ilippo è sospetto, e può bene essere stato allusivo
al cocchio di Plutone, sul quale venne rapita Proser-
pina. Io ho visto talora, in paesi, il cocchiere del car-
ro funebre abbigliato in nero e in cosi truce unifor-
me, da farmi pensare a un residuo dell’antica raffi-
gurazione di Plutone sedente sul carro infernale (1).

C) Il cinghiale A done. - A Pasqua, a Carnevale e


in altre feste, a seconda dei luoghi, vige l’abitudine
d’imbandire vivande con carni di determinati ani-
mati (maiale, tacchino, colomba, ecc.). E quest’uso
si è esteso alle forme dei dolci: se ne fabbricano in
forme di colombe, di serpenti, di pesce, di cuore, di
trecce o di capelli singoli (capelli d’angelo), di mam-
melle, di phallus (i m aritozzi di Roma), e via dicen-
do. I Semiti, che d’ordinario non mangiavano carne
di maiale, ne mangiavano invece, per una specie di
obbligo rituale, in determinati giorni. La cosa si spie-

(1 ) Il santo di Aidone porta un bastone fiorito in mano: ciò


prova che è un’antica divinità ctonia. Ho visto talora figure del dia-
volo alla catena: esse fan pensare agli schiavi dam nati a d m etallo.

250
ga ammettendo che un dato animale fosse venerato
come totem di una tribù (la quale perciò s’interdi-
ceva di versare il suo sangue) ma che in certi gior-
ni dell’anno (corrispondenti a quelli nei quali si so-
leva uccidere il re-dio) si mangiassero le sue carni
per incorporarsene la forza magica. Ora, quando
più tardi si usò uccidere annualmente il maiale o il
cinghiale, i Semiti si spiegarono l’usanza asserendo
che questa uccisione aveva luogo per punire il cin-
ghiale dell’avere ucciso Adone. Ma il curioso è che
lo stesso dio Adone non è altro se non il cinghiale,
onde ne nasce una confusione di idee: insomma, si
chiede, il cinghiale è considerato un nume da ado-
rare (ed eventualmente mangiare) o un nemico da
punire ?
In verità il cinghiale è I’una cosa e l’altra. Adone
(il signore, il dio) è un cinghiale, cioè ne incarna il
totem (veste perciò come un cinghiale), ma dal mo-
mento ch’egli è re di una tribù ha l’obbligo di pro-
vare annualmente la sua forza, cioè la sua idoneità
alla funzione regale, mediante una lotta contro un
rivale adeguato. E se questo rivale lo uccide, suben-
tra nel suo posto, diventa in altri termini un Adone,
cioè un cinghiale-dio. E ciò spiega perché A don e
cinghiale venga ucciso da un cinghiale.

D) L e m ura di Gerico. - Variamente giudicato da-


gli storici è il grande navarco spartano Lisandro:
dagli uni considerato un ambizioso che aspirava al-
la dittatura, dagli altri un eroe disinteressato, che
avrebbe voluto adeguare la costituzione di Sparta al
nuovo rango che questa intendeva assumere di po-
tenza egemonica della Grecia, e che visse sempre
modesto e semplice, senza lasciarsi stordire dai fumi
dell’adulazione e del potere. Altri poi lo accusavano

251
di non avere un generoso sentimento ellenico e na-
zionale, e di avere assistito allo smantellamento del-
le mura di Atene al suono dei flauti.
Ora quest’accusa, secondo me, muove da un frain-
tendimento. Anche Siila entrò più tardi a suon di
musica per la breccia ch’egli aperse nelle mura di
Atene, ma a lui, come romano e straniero, si usa per-
donare. Il torto però sta nel credere, che la musica,
nelle dette circostanze, avesse un significato giubila-
re, mentre ne aveva uno strettamente rituale. Nel
libro di Giosuè apprendiamo che le mura di Gerico
caddero al suono delle trombe; e quest’analogia ci
fa concludere che la musica avesse, nei tempi primi-
tivi, un significato d’incantesimo. Questo significato
si è perpetuato, in maniera inconscia, fino ai giorni
nostri, e la Bastiglia, nel 1789, fu assaltata al canto
del Qa ira. La forza della tradizione, in questa come
in altre cose, è sempre stata cosi grande, che gli eser-
citi in tutti i tempi han costantemente sentito il bi-
sogno di marciare alla carica a suon di trombe e tam-
buri. In alcune lingue la parola guerra significa « gri-
do, clamore » ; i Somali p. es. la chiamano lalù, parola
che ricorda Vaiala (grido di guerra) dei Greci, e che
forse è da mettere sullo stesso piano della parola ted.
hrieg (guerra), che con tutta probabilità significa
«grido, clamore» (1). Questo rito ebbe termine, al-
meno nella tecnica ufficiale, con la passata guerra
mondiale: e molti ancora fra noi si ricordano che nei
primi giorni della nostra entrata in campagna la
carica veniva comandata a suon di tromba. L ’espe-
rienza poi dimostrò che lo svantaggio di avvertire il
(1) Ted. hrieg è connesso con greco \ràzo «g rid o », lat. clang-or
« clamore », con lat. grac-ulus, it. gracchiare ecc. L 'alala greco ha una
parentela estesa: greco h aléo (chiamo), lat. (c)ul-ul-are, ebraico H all-el
(canto del banchetto), greco Icùein « cicalare », ted. lalì-namen « nomi
del parlare dei bimbi », inglese H a loo (interiezione).

252
nemico al momento dell’assalto, superava il vantag-
gio dello incuoramento che un ritmo aggressivo suo-
le infondere nei combattenti (1).
Ma non è meno curioso il fatto che gli antichi
usassero la musica anche nei banchetti. La cosa non
si può spiegare se non richiamando la dottrina del-
l’origine dei banchetti cosi detti di com unione; nei
quali si soleva uccidere e mangiare il dio o re-sacer-
dote della tribù (più tardi sostituito da un animale
totem) per incorporarsene la forza magica. Si tratta-
va dunque di una funzione religiosa, di un rito ma-
gico. Ed era naturale che in questa occasione il capo
del banchetto pronunciasse discorsi edificanti, desti-
nati a illuminare i presenti su argomenti connessi con
la cerimonia. Da ciò l’uso greco, abbastanza curioso,
di tenere a tavola discussioni filosofiche, specialmen-
te sull’anima e il destino futuro: dove si scopre, se-
condo me, l’originario carattere funerario del ban-
chetto. E anche oggi i famosi brindisi, e i discorsi
connessi coi brindisi, che altro sono se non un resi-
duo degli antichi riti delle libazioni? Per di più,
presso alcuni popoli il pranzo, anche il più semplice
pranzo consumato nella intimità della famiglia, esi-
ge un abbigliamento speciale e non si compie se non
con cerimonie (canti, preghiere, compostezza di con-
tegno, ecc.) che ne svelano il carattere rituale (2).
Voi vedete cosi quanta parte della preistoria viva
ancora in noi, e come la nostra vita di tutti i giorni
sia stranamente intessuta coi ricordi inconsci del n a-
stro più lontano passato (3).

(1) L ’impiego magico della lira è adombrato anche nel nome greco
ph orm -ing « che eccita » (cfr. h orm ào da *phorm ào).
(2) Il tovagliolo attaccato al petto, e il vestito bianco dei cuochi
hanno anch’essi origine rituale.
(3) Nota che il velo che oggi si mettono le spose e le oblate ha
un significato preistorico: la donna era offerta al dio. Il diritto del

253
XVII. - L ’e t i m o l o g i a c o m e a r t e (12-2-1945).

Mi è stato talora chiesto da cortesi lettori perché io


nel dare le mie etimologie mi scosti assai spesso dal
dettato dei più autorevoli vocabolari etimologici. Ma
è chiaro che non sempre si può, nel breve spazio di
un articolo di giornale, esporre le cento ragioni (sto-
riche, filologiche, linguistiche, ecc.) che a volte con-

matrimonio (gdm os) apparteneva perciò solo alla razza divina (il
patriziato) e cosi il diritto di sepoltura che implicava la divinizzazione.
Il velo nero delle vedove ha un sgnificato preciso: era il segno di una
vittima offerta a un dio ctonio, e se ne può perciò dedurre che la ve-
dova veniva sepolta col marito defunto, suo dio o signore. Il co'or
nero era dovuto a imitazione delle tenebre dell’Ade, cioè della cripta
sotterranea. Altri residui sono: l ’uso di bere insieme con l ’ospite (ga-
ranzia che gli si dava di non aver messo il veleno nella bevanda);
l ’uso di coprirsi il capo per la preghiera o di non entrare a capo sco-
perto nelle sinagoghe: indizio che la preghiera fu in origine abbinata
al sacrifizio. L ’uso di distribuire, nelle cerimonie nuziali, confetti, e
cioè m a nd orle inzuccherale, è un surrogato del lan cio d i cereali delle
epoche antichissime: il rapitore della sposa voleva, con questo diver-
sivo, impedire ai rivali o ai difensori della fanciulla, di disputargli la
sua conquista. I balli in costume sono inconscie reminiscenze di usi
totemici, le uniformi di corpo sono riproduzioni di antichissimo
fo lk lo re tribale. Il cenno del capo per dire si oppure no è un residuo
dell’epoca in cui l’uomo veniva, al pari dei buoi, aggiogato al carro:
egli abbassava la testa, quando si sottometteva docile al giogo, s’inal-
berava in caso contrario. La mano alla bocca, quando si sbadiglia, non
è un portato dell’educazione moderna, essa aveva in origine lo scopo
d’impedire agli spiriti vaganti nell’aria di penetrare nel nostro corpo
e insediarvisi. Gli alberi e i pergolati che si mettono avanti le case
(p. es. Marziale abitava al pero), oggi trasformatisi nell’uso signorile
di aiuole e di parchi, e i boschetti che circondano i templi, in origine
ebbero un significato totemico: si piantavano alberi sul sepolcro degli
antenati, che era il tem p io della casa. L ’uso moderno di cambiare la
toelette alle ragazze diventate signorine, ricorda l’uso antico di tagli ir
loro le trecce per offrirle alla divinità: onde il nome di tose, cioè
tondute. L ’uso di commettere le pietre dei muri in forma di reticolato
{opus reticulatam ) ricorda l ’antico costume di fabbricare capanne con
rami intrecciati; e simile è ('origine della decorazione a rete nei vasi.
Perfino una istituzione, ritenuta dagli storici una creazione interamente
ex novo, cioè il sorgere della Repubblica dopo la cacciata dei Tarquimi,
non fu altro se non un ritorno alla regalità preistorica: i tre consoli
non erano che i re annuali d elle tre tribù, i quali ogni anno dovevano
sottostare, come gli antichi t e del bosco, al collaudo della loro idoneità.

254
sigliano di scartare le etimologie più correnti, anche
se godono degli appoggi più autorevoli. L ’etimologia
è infatti soltanto per metà frutto di scienza, per altra
buona metà essa è arte, cioè intuito, divinazione, con-
vergenza di molteplici rivoli verso un punto focale;
e tutte le conoscenze di questo mondo a volte non vi
dànno ciò che soltanto una innata attitudine può per-
mettervi di scoprire. V i porterò alcuni esempi. La
parola de-lubro in origine indicava un semplice tron-
co d’albero venerato come dio {de « dio », luber- « li-
bro o albero »), ma sul quale più tardi fu uso inta-
gliare rozzamente Timmagine della divinità. Ebbe-
ne: vedete quanti illustri eruditi si sono vanamente
affaticati a spiegarla, tirando in ballo nientemeno
che il verbo latino deleo (distruggere) e stillandone
il peregrino significato di cosa che distrugge o can-
cella l’impurità, oggetto purificatore!! Nel secolo
scorso un grande linguista tedesco insegnò, e i lin-
guisti di tutte le altre nazioni ripeterono che il ted.
pferd (cavallo) deriva dal latino medioevale parave-
redus (cavallo da diligenza), attraverso una primitiva
riduzione in pferfrit. È un doppio errore; pferfrit sta
per pferd-frit, perciò contiene già e quindi postula
come preesistente la parola pferd. La quale si ritrova
in molti vocaboli di molte altre lingue, prima di tutto
nel già citato paraveredus (para = cavallo, ve-redus
= bi-roteus quindi « cavallo da biroccio » cfr. lat.
reda variante di rota), poi nel somalo farda (cavallo),
nell’it. bard-otto, bard-assa (ragazza, cioè mula, come
si dice nel Triestino), fard-elio (soma di animale), si-
ciliano vard-uni (basto di cavallo), ebraico parish
(cavallo), it. leo-pardo (variante Leo-poldo), gatto-
pardo ecc. (in queste parole il termine pardo è indi-
cazione generica di animale-dio). I linguisti tedeschi
spiegano il ted. G esell (compagno) come apparentato

255
con casa (quasi *casalìo, convivente a casa); ma qui
il ge è l’equivalente del lat. con, come dimostra'resi-
stenza di parole quali Ge-bruder (con-fratelli), ge-
m e in (com-munis), ecc., e quindi Ge-sell equivale al
lat. con-sul (che siede insieme, cfr. prae-sul «che
presiede », sella o sol-ium « seggiola »). Né giovò ai
Tedeschi la vicinanza del norvegese sells-cab (socie-
tà), corrispondente al ted. Gesell-schaft per trarli dal
loro errore (1). Il signor Dauzat, autore di un rino-
mato vocabolario etimologico francese, fa derivare
avec (con) nientemeno che dal lat. apud h o c ; mentre
è chiaro che avec è variante senza n del participio
presente del verbo avere, oggi in inglese having (2), e
perciò dire: « L e roi avec sa cour » vale lo stesso che
dire: « il re avente la sua corte ». Tutti questi esempi
vi dimostrano che in fatto di etimologia la dottrina
non basta, e che il bernoccolo e il buon senso, qui
come in tante altre cose, fanno parte integrante del
metodo scientifico.
Ma se non posso darvi, per ogni singola parola, la
ragione della mia scelta, posso almeno fornirvi un
principio generale, un criterio euristico, che vi servirà
di bussola in molti casi (ma, s’intende, non esageria-
mo). Non vi è mai capitato di vedere insigni specia-
listi, che, alle prese con qualche etimologia, si perdo-
no come nei meandri di un labirinto, mentre una
spiegazione semplice, sensata, naturale, è a portata di
mano? Sapete allora che succede? L ’etimologo non

(1) Parimenti gli dei con-sentes (che siedono insieme) degli Etruschi
corrispondono ai ga-sindi o ge-sith dei Tedeschi e degli Anglosassoni.
Il numero 12 degli d ei consentes corrispondeva al numero delle città
federate: cfr. i nove arconti della Grecia e la triade capitolina: divi-
nizzazione del governo federale.
(2) Suffissi in -nì± se ne trovano anche in latino: prop-inquus,
longinquus. Ma sono rarità nella variante con n, frequenti nella va-
riante senza n, es. am ic-us (scarnante).

256
vede la m etafora racchiusa nella parola e, certo, se la
vedesse, non si darebbe tanta pena per correre dietro
a incredibili stiracchiature. Vi dò qui perciò un sag-
gio di parole con a fianco la spiegazione metaforica:
se ne avvantaggerà la comune conoscenza della lin-
gua italiana, e si formerà nel lettore una piu chiara
coscienza della maniera in cui l’umanità è andata
estendendo il suo lessico.
Vispo (svelto come vespa); vespa non da una ra-
dice indicante « tessere », attività che non avrà potu-
to colpire i primitivi, ma da una radice significante
«pungere» (in messapico bisbe vale «scure, cosa
tagliente»); bis-boccia (vespaio, al figurato); ebbro
(eroso dalla rad. di febr-is), brillo (ebrillus, alticcio);
avo (eroso da cavo, babbo, ebraico ab «pa dre»);
ave (eroso per cave, vive = vivi !, verbo che si trova
in lat. aev-um per vaev-um «esistenza, durata»);
lat. ovum per *vov-um {bob, cfr. bob-ina, cosa roton-
da, capocchia, papo); durare (essere duro, resistere);
lat. ex-em plum {ex-em ere, oggetto che si compra
come campione, quindi «eccellente»); bidone frane.
bidet connessi con ted. beide (paio, coppia) quindi
«paiuolo, recipienti che vanno accoppiati»; oi-bò
{ohi -f- voi contrario di ohi -f- mé)\ prae-fica {preci-
facere, che fa preghiera); tardo (variante di torto,
zoppicante, quindi lento)-, torta (da torreo, torrefatta,
cotta al forno, variante tart-ina); clem ente (connesso
con greco blino, quindi «pieghevole, arrendevole»);
coqu eo «cuocere» (mettere nel coccio o pentola);
fag-otto (variante di paccotto)-, pettine (lat. pecten,
fatto a guisa delle costole del petto); spegnere o spen-
gere {ex-pingere, ex-tinguere); siciliano astutari (spe-
gnere) propriamente « rendere astuto, dissimulare »
e quindi smorzare; pegno connesso con pactum o an-
che con pendere (cosa data a peso); unguento, unge-

257
17. • L angine aci linguaggio.
re (spalmare con le unghie); cerc-are andare in giro o
circo; francese pam phlet, variante con n di biblos e
papyrus «lib ro » ; plinto variante con n di platus
« piatto » greco plinthos; iocus (da iacio, divertirsi al
lancio di qualche cosa); iacio (da cac, cosa rotonda,
disco che si lancia, cfr. coccola, caccola, cachi, ecc.);
serenata da sirena (cantatrice) e non da sereno; trop-
po vale «una truppa» e truppa vale « tu rb a»; ted.
D orf (villaggio) da ie. derva « albero » e quindi « al-
bero genealogico» o tribus, che ne è una variante;
lat. nimis « troppo » vale « una foresta » (nemus).
E qui potrei citarvene altre molte, che sono inte-
ressantissime e nuove, come vorrei parlarvi anche di
taluni curiosi fenomeni lessicali, tra gli altri, ad es.,
quello per cui idee contrarie sono indicate mediante
la m edesim a radice; ma di tutto ciò avrò forse occa-
sione d’intrattenervi in seguito.

XVIII. - C u r io s it à l e s s ic a l i (16-3-1945).

È imo dei fenomeni più curiosi del lessico che as-


sai spesso idee contrarie siano indicate con parole di
ima medesima radice. Tempo fa, un dotto tedesco,
Karl Abel, tentò di dare di questo fenomeno una
giustificazione fondata sulla psicologia: e cioè che
noi non possiamo pensare, p. es., il color bianco o la
luce se non in funzione dei loro contrarii. Può darsi
che un grano di verità in questa spiegazione ci sia;
ma, francamente, preferisco credere che le ragioni
del fenomeno siano diverse. Gioverà qualche esem-
pio. C’è nella lingua ebraica una regola, secondo la
quale, storpiando una parola (cioè alterandone le
vocali) essa assume un significato peggiorativo: p. es.
mele\ è il re, il dio; m olo\ è il demonio. Questa re-

258
gola si può spiegare cosi: poiché tribù vicine d’ordi-
nario parlano una stessa lingua con sfumature di
pronunzia differenti, e poiché assai spesso queste tri-
bù sono fra loro nemiche, ne viene di conseguenza
che le rispettive pronunzie sono oggetto di dileggio
reciproco, e le parole di ciascuna di esse indicano per
l’altra tribù oggetti nemici e spregevoli. Altre volte
però non si tratta di questo, ma del fatto che cose
differenti o contrarie suscitano in noi sensazioni pres-
s’a poco identiche. Non diciamo noi, p. es., che la
brina brucia le piante? Ebbene, brina è della stessa
radice del verbo latino (b) uro, ted. brennen (bru-
ciare); e in analogo rapporto stanno fra loro gran
quantità di altre parole: es. brace, frigg-ere (rad.
bur, greco pyr «fuoco») e frig id o e briv-ido; ted.
p a h (freddo) e lat. cal-idus « caldo » (rad. col, essere
splendente, detto sia del ghiaccio che del fuoco; lat.
call-idus «esperto» vale invece «incallito, che ha
fatto il callo a una cosa»); lat. jerre «portare» e fu r
(ladro, che porta via); fides «fed e» e foedu s «fello-
n e » ; videre e odere (per *vod-ere, guardar m ale,
odiare); sacer «sacro» e «in fam e»; ted. leben «vi-
vere, essere lupo » ed etrusco lupu (morire, diventar
lupo o dio); cosi it. vallo e valle ; lat. siccus e suc-
cus ecc.
È opinione corrente ma erronea che il titolo di
«Signore» sia un’invenzione delia cortesia (o ipo-
crisia) moderna. Ebbene: leggete Omero. Egli non
nomina mai gli eroi senza premettere rispettosamen-
te ai loro nomi il titolo nobiliare: dios Achilleùs,
dios Odysseus (il signor Achille, il signor Ulisse).
Nello stesso senso oggi nell’Italia Meridionale dico-
no « lo zio Tizio » per « il signor Tizio » e gli Etru-
schi dicevano zia Velthina (il signor Velthina) o than
arshina (il signor medico). I Latini usavano in manie-

259
ra analoga ille, il cui significato originario non sem-
bra essere stato quello di un articolo o di un prono-
me, ma quello di «dio, signore» corrispondente
quindi a quello dell’arabo A llah (ebraico Et) « dio »
diventato poi articolo nella forma al. L ’espressione
lat. Cicero ille significa perciò « il signor Cicerone ».
Epperò quando noi troviamo, ad es., nel finnico un
nome come ll-Marinen non possiamo affatto esclude-
re il sospetto che questo il abbia avuto in origine una
funzione identica a quella che ha Ville latino o Val
nelle lingue semitiche. Ci sono d’altronde non pochi
indizi che questo al abbia assolto una funzione ana-
loga anche nell’antico germanico: es. Al-bert « il si-
gnor principe » (bert — Parthus, principe, cfr. ted.
pjerd = animale-dio, cavallo; bert-uccia, scimmia,
onde sbert-ucciare, ecc.).
Oltre ad al, ul (che talora son riduzioni da H eld
«eroe» o significano «anziano» ted. Alt, ingl. old,
es. Ul-rico = Ulde-rico « anziano + re, ricco» ecc.)
nel germanico si trovano con lo stesso significato H er
(Her-bert, herr), H en(n), Co(n), H u (m ): es. He(n)~
•rich (rich — re, ricco); Co{n)rad {rad — re), Hu(m)-
bert, ecc. Queste tre ultime forme sono varianti del
nome Cu (dio), con la terminazione m segnasingo-
lare; e si trovano in una sfera molto ampia, perfino
in Anatolia (nella forma Cho-) e in Mesopotamia, es.
Cho-asar, (Classare) propriamente « il signor vizir»;
]ohan « il signor bano » ecc. Molto comune è anche
ma, es. Mà-usolo « il signor vizir » o hyssollos
Ma-murius « il signor fabbro», M e-hercle, Ma- dia,
Ma-mercus, ecc.
Ed eccovi infine una continuazione del precedente
saggio di etimologie, alcune delle quali rispondono
a domande espressamente rivoltemi da lettori: opt-
are, rad. op «guardare intensamente, scegliere», in-

260
vid-ere «guardare intensamente, desiderare»; are-ere
«tener lontano con l’arco»; ex-erceo « m i addestro
all’arco»; tozzo, variante senza n di tonso, mozzato,
tagliato; tanfo cfr. greco tdphos (tomba) «odore co-
me di tomba» (1); vit-ium (da vite «stortura»); ae-
m ulare « far le corse come i muli, gareggiare » (mtt-
lus è eroso da gamulus, è quindi una variante di cam -
m ello); adulari «comportarsi come uno schiavo»
(greco doulos « schiavo ») ; latrare « abbaiare al la-
dro», greco latreés «che latra, can e»; latria «adu-
lare, comportarsi come i cani»; lat. m er-eo «sono
mer, soldato» (eroso per gom er, cimbro, santone);
om ertà « qualità di gom er o cam auro o santone » (te-
nuto al segreto esoterico); fast-igium da fusto «trava-
tura, tetto » ; basta eroso per * fasta = fusto, basi-one, o
* vasta che si trova in vast-are (distruggere con l’asta);
fest-inare (cfr. fusto) «pungere col bastone; inglese
baste « fretta » connesso con fest-inare; ted. ungeheuer
« mostruoso » propriamente « ungaró » (vocabolo de-
rivato dalle invasioni dei mongoli); Oder (fiume te-
desco) connesso col greco hydor «a cqu a»; poltrire
« stare nel feltro o peltro » ; bacchettone — bigotto-
ne; bigotto, non dal ted. bei G ott «che sta presso
D io » ma connesso con un verbo beg «pregare»
tuttora esistente nell’inglese, quindi « che prega il
dio » (beg — becco, dio), tanto è vero che ha una
variante begh-ino e becchino (chi pregava per i de-
funti), cfr. anche beg-ardo; ted. H unger «fam e»
propriamente «uncino, crampo allo stomaco»; lat.
m os «costum e» connesso con m aneo «maniera di
stare»; greco (s)ethos, ted. sitte «maniera di stare o
sedere, costume»; cost-ume da casta (regola di ca-

(1 ) Oppure da ted. D am p f « esalazione, vapore ». Connessi sono:


ted. dàm m er-ung «crepuscolo, nubilosità » ; lat. ten ebra i (per *tem eb rae,
scr. tamisra)-, lat. tem ere « alla cieca » tem erarius « che va alla cieca ».

261
sta) o da casto (morigeratezza); castigare «rendere
casto»; ultra variante di altro, vale «altrove»; ad-
ulter-are — alterare; m ille «numerosi come i grani
di m iglio»; greco chilioi «m ille», propriamente
«numerosi a mo’ di conchiglie»; quis-quiliae «con-
chigliette, cose da nulla», plurale con raddoppia-
mento (quiliae corrisponde a greco chilioi, visto pre-
cedentemente, a ingl. shéll, lat. cella, frane, quille,
it. s-quilla e chiglia, tutti oggetti indicanti cavità);
a-pud propriamente «a piedi» cfr. po{d)m oerium
«terreno a piè delle m ura»; lat. venenum alterato
per vel-enum in gallico bel-enion (erba velenosa, giu-
squiamo), propriamente «ciò che unge le frecce»
(greco belos = dardo) (1): dunque l’it. veleno è piu
genuino del vocabolo latino, com’è più genuino it.
Mistretta rispetto a lat. Mitistrata (misr = mansura,
connesso con maneo, et e desinenza dei femminili,
cfr. Misur-ata in Libia); abbaìno «bocca che abbaia,
finestra » cfr. francese béant « a bocca aperta » « ab-
baiante» e bailler «sbadigliare, aprir la bocca»; lat.
aio «dico» eroso per *ba io «apro la bocca, abbaio»;
pre-bendo «afferro con m ani» (ted. hand, mano);
lat. ot-ium eroso per *got-ium , cfr. lat. (g)ut-or e
gaud-eo: vale propriamente «godimento» e agium
l*gag-ium ) e variante di *got-ium e gaud-ium ; svi-
gnarsela contrario di avvinghiarsi; carosello (carroz-
zelle che gira nello stadio); lat. inquit (disse) varian-
te di iungit « soggiunse » (per la variazione i = u,
cfr. lat. uncia, it. unghio e ingl. inch «misura di
un’oncia, dito»); lat. quaeso «chiedo q u is », posco
«chiedo chi» (greco po significa chi?), inglese as\
(domando) è eroso, e corrisponde a lat. po sco; greco
aitéo «chiedo chi? », (infatti greco tis — chi?), men-

(1) Cfr. tossico « ciò che unge l ’arco» (greco toxós, arco).

262
tre ai iniziale è forse connesso con lat. aio «d ire».
Da questo breve elenco voi vedete quante corre-
zioni ci siano da fare alle nostre conoscenze etimo-
logiche; ve ne darò forse esempi piu caratterizzanti
in altra occasione.

XIX. - La l in g u a d eg l i E t r u sc h i (28-3-1945).

L ’esplicazione della lingua etrusca costituisce un


problema dei più ardui. Quasi tutti la credono non
indoeuropea, e c’è chi ha tentato spiegarla con l’ugro-
finnico (Martha), chi col caucasico (Trombetti), chi
con l’armeno (Bugge) (1), chi col basco e via dicen-
do; altri infine (Pauli, Torp), rinunziando a con-
frontarla con qualsiasi altra lingua, han tentato, con
maggiore o minor fortuna, il metodo combinatorio:
in breve, spiegare l’etrusco con l’etrusco. Di parole
simili a parole greche o latine nell’etrusco c’è abbon-
danza; ma di queste non si usa tener conto; e sa-
pete perché? Perché potrebbero essere penetrate nel-
l’etrusco dall’ambiente circostante. Sono dunque gli
Etruschi piovuti sulla terra dal pianeta Marte? Que-
sta incapacità di individuare i raccordi di una lin-
gua con altre a noi note è, secondo me, una delle
tante prove della erroneità dei criteri che informano

(1) Un etruscologo tedesco, il Goldmann, credette di poter stabilire il


carattere ie. degli Etruschi, basandosi su due vocaboli etruschi, am e
nach che secondo lui significano « giorno » (greco hem éra) e « notte »
(greco nykt). Posto pure che il significato di questi vocaboli sia quello
che asserisce il Goldmann, la sua teoria si può demolire d’un colpo,
osservando che il vocabolo greco hem -éra (che ha una variante si-
m eron col significato di « oggi » « in questo giorno ») vale « ora del
sole, parte solare del tempo » cioè è connessa con sem o sam , antico
nome del sole, che si trova nell'ebraico shem -esh (sole), in Emesa
(città del sole), e nelle parole tedesche sonne (sole) e som m a r (sca-
gione del sole, estate). La parola etrusca am significherebbe dunque, se
mai, il sole e non il giorno.

263
l’attuale scienza del linguaggio. Quando io vedo che
un dottissimo linguista {Silloge Ascoltano., pag. 701)
per spiegare il preteso vocabolo gallico belénion o
belenuntia (giusquiamo) incomoda non so quante
radici misteriose e perfino personaggi mitologici, sen-
za accorgersi di essere in presenza del banalissimo
vocabolo «veleno», «erba velenosa», e che non si
è riusciti a identificare il dio celtico Granno che tro-
vasi nel nome di Aquis-grana col dio delle sorgenti
(greco K ren e); o, infine, che non si è saputo trarre
la conseguenza giusta dall’esistenza in una stessa
lingua di varianti come inglese yard c gard-en (en-
trambe corrispondenti a lat. hort-us, ted. ort e Gart-
en) o come bury e Yor% (corrispondenti a ted. burg,
celtico e-buriac), o Aspa-dana «Ispahan» ed Ecba-
tana «città del Cavallo-dio o Caspio»), e cioè dun-
que che desistenza d ì tali varianti esclude l’azione
della legge linguistica, nel senso in cui l’ha form u -
lata la scienza attuale, io allora mi sento autoriz-
zato a dire che questa scienza, rispettabilissima e
benemerita nel secolo scorso, non può piu essere quel-
la del nostro secolo.
Vediapo ora invece, alla buona, se si possa inter-
pretare l’etrusco con l’aiuto di lessici a noi fami-
liari. È positivamente conosciuto il significato della
parola etrusca verse (fuoco); ebbene: si può ora di-
mostrare che, per indicare l’acqua, gli Etruschi di-
cevano achua. L ’iscrizione del bronzo di S. Feliciano
dice: Cauthas achuas verste. Qui Cautha significa
« D io » , ted. G oti (propriamente «cap o» cfr. Caud-
illo, Ceuta « promontorio », lat. cauda « sporgen-
za » poi «coda») e l’insieme può tradursi: « al dio
dell’acqua e del fuoco» cioè « a l dio del tempo-
rale». Si può anche dimostrare che l’espressione usi
ovvero huslne trin significa «vino versare» perché

264
in latino esiste la parola haus-trin-ator ((mescitore
di vino». Fasti è la fattucchieria o malocchio, lat.
fascinarti (da fac ere «far fattucchierie» greco poie-
sis «incantesimo, fascinazione e quindi canto; cfr.
anche lat. fa{s)num «tempio, luogo di magia», fe-
siae poi feriae «cerimonie magiche»); Esera è la
luna (eroso da veser, vizir «d ea » lat. as-t-r-um con
t intrusa); apasi sval-ce vale «m o ri» «agli avi vo-
lò», dove la prima parola ha la forma del dativo
plurale greco, la seconda s-val-ce la forma del per-
fetto indicativo greco e la radice medesima che tro-
vasi nel latino ala (da vola, cfr. vol-are, vél-ox, *vol-
ax, ecc.); quanto all’espressione, essa è ancora viva
nel cremasco « ndà a babe » (morire). Suthi o sithu
in etrusco è la tomba, propriamente sede o sito (mor-
tuario); d’altro canto è noto che la parola silenzio
è una metafora, propriamente significa «tom ba»,
«deposito di anime » (ted. seele, anima): ma è
estremamente curioso che l’it. zitto! e il ted. zut! cor-
rispondano esattamente alle due voci etrusche in-
dicanti il sepolcro; e altro vocabolo etrusco di ugua-
le significato è muns-l evidentemente connesso con
lat. maneo « dimora » (mortuaria). F in indica il bec-
cuccio dei vasi; propriamente significa «naso» e
questa parola è nota ai grecisti; quanto alla meta-
fora notate il lat. nasi-terna (vaso a tre becchi). La
desinenza i o ti in etrusco indica il locativo, precisa-
mente come anche in greco (cfr. anche i locativi
latini di prima e seconda declinazione, e gli antichi
ablativi latini in -d ch’erano originariamente loca-
tivi); etrusco e\e-ti «in questo» si usa col signifi-
cato di « a cagion di ciò», precisamente come in
greco e\e-tì oppure {h)en-e\a « in ciò, per ciò ». Gli
Etruschi dicono cilth (gilda lat. gens), nesu («mor-
to » greco né\ys, iranico nasu « la dea dei cadaveri »,

265
nordico nas-strand «spiaggia dei m orti»); prthne
«pritano» o prete; cam thi «cam ita» o sacerdote,
vìnum «v ino», L etham «Leda o Latona» cioè
«m oglie» (di Giove), inglese lady, lido lada (1); di-
cono ur-\ « aureo », ucar (lat. uxor), acne « moglie »
propriamente agna, ugnella, capra, cfr. greco Agneón
«casa di donne...»; gap-os «carro » cfr. ingl. cab
e jeep-, ucntm «p ittura» (lat. unctum)-, cem ul «in -
sieme» lat. sim ul; lescul «tom ba » greco lè s e le ;
hilarì «sacro a, consacrato a » cfr. ted. heìl-ig, gre-
co hilarós con altro senso; cas-nar «folletto, spiri-
tello della casa», propriamente « il matto di casa»,
cfr. il francese « la folle du logis » che ha preso
altro senso (cas — lat. casa, greco \asi-gnetos « nato
in casa»; nar cfr. ted. narr «m atto»), acil (da sacil,
lat. sacer) «sacro» ecc. (2). Tutto questo mi pare
che non dia l’idea di una lingua tanto aberrante co-
me ce la si dipinge; ma v’è di meglio.
Una bilingue ci apprende che etr. frontac significa
« fulguratore », cioè sacerdote pioggiaiulo che co-
manda ai fulmini. Troviamo dunque qui il noto
vocabolo greco bronté (fulmine). Ma interessa assai
più la terminazione ac equivalente al nostrano suf-

(1 ) Più d’uno si ostina a restare incredulo a questa etimologia: e


crede che il licio lad a sia un omofono fortuito. Ebbene: c’è il finnico
lotta « d o n n a » : è forse un altro accidente?... È anche un accidente la
somiglianza del mordvino S k h a i con l ’inglese S\y « cie lo» ? E mi pare
che anche in lingue dell’estremo Oriente, australiane o indonesiane, si
trovi: lad a — moglie.
(2) Cfr. anche etr. jalan d o « cielo » e lat. palat-um « impalcatura,
soffitto » quindi « volta » (di pali); etr. f e r e « statua » e lat. falerce
(connesso con phallus) «statuette, amuleti falloidi», quindi «o fferta » ;
m alena « specchio » ted. m alen « dipingere » cioè « far copia, ripeti-
zione » (ted. m al) « una volta, due volte, ecc. da rad. m al « sminuzza-
re in parti » cfr. gr. m éros « parte e Pyg-malión « pittore, scultore ». Il
numerale thu — due, cfr. tu-luter « gemelli » cioè « 2 uomini » (ted.
leute); tu-surthir « con-sortes » con formazione analoga a lat. du o-v iri;
thu ff-thicla =r dupla Tecla, cioè «doppia lampada» (ted. T ag «g ior-
no »), per indicare la coppia Sole-Luna.

266
fisso participiale ant (ent, ecc.) come p. es. in latino
dove aud-ac — aud-ent (che osa), jer-ac = fer-ent
(che porta frutto). In un articolo precedente {strut-
tura intima del vocabolario) io accennai al fatto cu-
rioso che i primitivi non distinguevano tanto pel
sottile fra labiali, dentali e gutturali; questa osserva-
zione si applica benissimo ai participi indoeuropei
e mediterranei: etrusco aminth lat. a-mic-us (varian-
te senza n di * am ine); ted. haben d (avente), inglese
hav-ing, francese av-ec\ nelle lingue slave troviamo
varianti in ens\, ìns\ come in latino in ascus, iscus
ecc. Infine nell’umbro e nell’egizio troviamo parti-
cipi in labiali (in greco un residuo di tali participi
è nei nomi in eus, es. Peleùs tema Pel-ev = lat. Pa-
lante, Baiati « pelasgi, pastori » ; in latino un residuo
di formazioni aggettivali in labiale si ha in long-
inquus, propinquus). Da tutto ciò dobbiamo dedurre
che l’etrusco s’inserisce benissimo nel sistema delle
lingue a noi note.
I tempi passati della coniugazione etrusca ce ne
danno una ulteriore conferma: troviamo ad es. tur-
ce (diede), ten-ve (tenne), sacni-sa (consacrò), marun-
uc-te (fu marone o magistrato), e cioè tutte le va-
rietà d ei preteriti indoeuropei-, in \ e in s come nel
perfetto e aoristo greci, in labiale (perfetto e imper-
fetto latini), in te (perfetto tedesco). Inoltre la frase
avil crii ci mostra anche la varietà del preterito russo
in /. È indifferente qui che il verbo sia avil o e r il;
l’uno è connesso con vav- (vivere) e (v)av-num (an-
num); l’altro con it. èra, ted. jahr (anno), greco bora
(stagione), lat. bora e ver « stagione, poi primavera »
(e nella forma ber anche mese, es. octo-ber «ottavo
mese», nu-per «nella nuova stagione» «recente-
mente », etrusco Cbos-fer forse = bu tb-fer = octo-

267
ber). Infine, in etrusco e-prthne-ve « fu pritano » tro-
viamo l’aumento come nel greco.
Altro fenomeno curioso è il seguente. Si è detto
da oltre mezzo secolo che esiste una desinenza del
plurale in -r tipicamente mediterranea; l’etrusco
clan «fig lio» fa, p. es., al plurale clen-ar. Ma è fa-
cile vedere che questo modo di formazione (il quale
si spiega benissimo con l’indoeuropeo, vedi saggio
Il dolore antico) si trova esattamente anche nel te-
desco e in entrambe le lingue, etrusca e tedesca, con
l’accompagnamento del cosi detto um-laut (muta-
zione della vocale): insomma clen-ar sta al singo-
lare clan come ted. Bùch-er « libri » sta a Buch « li-
bro ». Di passaggio sia detto anche che Yumlaut nel-
la formazione del plurale è rimasto nel dialetto ro-
magnolo, e potrebbe essere sopravvivenza etrusca (1).
Altra affinità dell’etrusco col tedesco è nel tratta-
mento delle dentali. Il greco dice dei\- (mostrare),
il ted. zeig-en; il greco del, es. delóo «dire, manife-
stare», l’inglese teli «d ire» il ted. zahlen (contare).
Ebbene, anche l’etrusco rende talora le dentali greco-
latine con z e risponde a inglese teli con zìi, esem-
pio zil-ath o zil-c «che detta, dittatore»; forse in
etrusco ziv- troviamo un equivalente di greco taph-os
(tomba) o zóph-os.
Da quanto sopra, e da molto altro che si potreb-
be ancora aggiungere risulta all’evidenza che l’etru-
sco s’inserisce organicamente nella cultura europea
e nel sistema linguistico ario-mediterraneo.

(1) È un errore perciò credere, come fan taluni etruscologi, che


in etr. Clenar-a-si « ai figli » il segnaplurale sia Va, mentre invece è
IV; la desinenza ari qui corrisponde a quella di gr. andr-dsi « agli
uomini », e si trova spesso in etrusco: es. apasi « agli avi », tnucasi «r ai
morti ».

268
XX. - L a m is t e r io s a A t l a n t id e (23-4-1945).

Non bisogna confondere l’isola Atlantide di Pla-


tone, sommersa da un cataclisma circa diecimila an-
ni or sono, col continente Atlantide dei geologi,
estendentesi dalle Canarie alla Groenlandia, che si
sarebbe inabissato nell’èra terziaria, vale a dire a di-
stanza di milioni di anni da noi. Su questa famosa
Atlantide platonica ci sono rimaste testimonianze
di natura linguistica, che non è senza interesse in-
vestigare. Non si può, p. es., chiudere gli occhi di-
nanzi alle molte corrispondenze onomastiche e to-
ponomastiche fra la regione del Caucaso c la regio-
ne del moderno Atlante. Tanto qui che là troviamo
il nome degli Hiberi-, e ai G om er o Cimmerii (Cim -
bri, Umbri) dell’Europa orientale corrispondono i
Mauri (Camauri, Gom er) del Marocco. Troviamo il
nome di K udu r (Codro) nella storia di Grecia e di
Oriente, e quello di A gadir nella Spagna attuale.
Nel testo di Avieno riproducente forse antichi peri-
pli cartaginesi è detto che Gadir in lingua punica
significava «recinto pel gregge» e possiamo anche
dire addirittura ((gregge)), perché nel plurale que-
sta parola significava «pecore» (i moderni oggi lo
interpretano « il m uro»); ma trattandosi di un no-
me forse presemitico, non si può fare assegnamento
su testimonianze tardive, mentre poi è sintomatico
il fatto che il nome di Gadiro, re di Atlantide, figura
nel racconto platonico col significato di «pastore,
re», significato che ben s’attaglia a quello che ha
Kudur nelle storie orientali (K u da vale « dio », ted.
Goti, e presso gli Sciti indicava anche il dio cavallo;
cfr. Kent-ar « centauro » e l’egizio hat-ar « cavallo »,
nonché Antares nome di cavaliere e oggi di ima
stella).

269
In un articolo precedente spiegammo che il nome
degli H iberi significa «capri» e «fabbri» (Cabiri,
lat. Faber, ted. Web-er sono varianti); e al nome dei
Cabili dell’Africa settentrionale corrisponde in Ana-
tolia la regione di Hav- ila, nonché il nome della
dea Cibele o C ifra. Ma ci sono altre regioni che ci
autorizzano a supporre una migrazione dei fabbri
del Tauro (detti anche Tori o tali) in Occidente, dove
avrebbero assunto il nome tipico di A-tala-nti (fab-
bri). Il nome di Attalo in tempi storici è attestato in
Asia Minore. Il padre di Atlante è Giapeto, suo fra-
tello è Prometeo: entrambi ci rimandano al Caucaso.
Questo stesso nome talo si ritrova in Dai-dal-os (1)
(artefice), nel russo dièlat (fabbricare), nel celto teda
(toro), nel greco tàl-anton (talento, oro, metallo),
in Dal-matia (regione di Tori), in Tol-mino, Tot-
m ezzo (monte o città di Tori), in Taor-mina, in
Tarvisio e Treviso, forse anche in Tata-mone-, nella
parola tali, nome con cui in origine s’indicava la
pietra levigata (oggi francese dalle), e poi il metallo
(it. tolta, ted. s-tahl), nella veste talare (veste di sa-
cerdoti fabbri), in telesma e talismano, nel greco te-
leuté (mistero, cioè celebrazione religiosa dei segreti
tecnici della metallurgia). Si chiamavano Telch-ini
i fabbri girovaghi dell’Egeo, Tar\ i re fabbri del-
l’Anatolia, e oggi l’inglese dar\, significante «oscu-
ro » ci conferma nell’idea che Tar\ indicasse in ori-
gine i fabbri o i minatori dal viso annerito. In Sici-
lia troviamo un Cocalo, re dei Sicani, che dispone
di grandi caldaie; nel Peloponneso troviamo una po-
polazione di Cauconv. entrambi questi nomi ricor-
dano il Caucaso. Nella Grecia continentale c’è un
fiume E bro che ha un omonimo nell’Iberia. In Ome-

(1) « Divino-fabbro » opp. raddoppiamento di d a l «fabbricare».

270
ro poi è nominata un’isola, certamente da localiz-
zare nel Mediterraneo occidentale, che si chiama
Ogigia. La spiegazione di questa parola avrà un’im-
portanza decisiva per la presente nostra ricerca.
I Greci credevano Ogige uno dei re più antichi
della loro terra; al suo nome si associava il ricordo
del diluvio. In quasi tutti i nomi greci comincianti
con o (omega), questa vocale è articolo incorporato:
tali sono o-\eanós (oceano, da \yo «fecondare»;
nella variante \ycmos passato a significare il «color
del mare, l’azzurro», cosi come zaffiro, indicante
il cielo fecondatore della terra, dalla rad. sep, che è
in lat. pro-sap-ies, in ted. sippe ((generazione» ecc.,
passò a significare il colore «celeste »); o-gen-on (lat.
genti) «ginocchio»; o-\iminos (lat. cuminum ba-
silico, o erba delle cime) ecc. O-gyg-es significò per-
ciò Gige, in semitico Gug o Gog (il famoso G og e
Ma{t)-gog della Bibbia) cioè il Cauco. Anche qui
ci troviamo dunque in presenza del nome del Cau-
caso trasportato nell’Occidente (1).
In Ogigia abita Calypsó, la quale, notate bene,
è figlia di Atlante e porta un nome che ricorda i
Chalybes o fabbri del Caucaso. E l’isola è creduta
l’umbilico del mare, o in altri termini è ubicata
verso la parte centrale del Mediterraneo; bisogna
dunque pensare a qualche isola del gruppo maltese
o meglio a qualcuna delle Sirti.
La tradizione della venuta di Ogige in Grecia ha
un significato trasparente: ci dev’essere stata una
migrazione di fabbri metallurgici dal Caucaso verso
la Grecia, cosi come ce ne fu una verso l’Egitto,

( 1) Il nome Cauco nel senso di « fabbro, diavolo », si trova in frane.


cau che-m ar « incubo », gueux « zingaro, pezzente », in gauche « brut-
to, deforme, maldestro » (e poi mancino), e credo anche in spa-
gnuolo g a u ch o ; cfr. greco k “k ^ s « cattiv o».

271
prova ne sia che fra i compagni di Ogige sono ri-
cordati lnaco che è l’Enoch (N oè, eroso) egizio, e
il di lui figlio Foroneo, il cui nome ricorda quello
dei Faraoni.
G l’incantesimi di Calypso sono a base di zolfo,
che in greco è detto theion cioè «d io», in latino
sulph-ur, con un nome cioè che in tedesco è appli-
cato aH’argento (silber, propriamente elfo, silfo). È
chiaro dunque che Calipso figlia d i Atlante appar-
tiene a una civiltà di fabbri e di minatori. In gene-
re, costoro menavano una vita girovaga, come tut-
tora gli zingari (forse gli antichi Siginni, segnalati
in diverse località, nell’Egeo, a Marsiglia, appunto
perché girovaghi), e come i Camiti ricordati dalla
Bibbia; essi sostavano volentieri nelle isole, dove im-
piantavano le loro fucine nelle caverne dei monti,
dando origine alla credenza ch’essi fossero genii sot-
terranei, divinità in fernali e agenti di fenomeni vul-
canici. Positivamente sappiamo che i Telchini sog-
giornarono a Rodi, i Cabiri in Samotracia, che in
un’isola abitavano i Ciclopi, e in un’isola dell’Egeo
(Sikynthos) i Siginni. E anche l’isola di Creta fu
una stazione di fabbri, come si deduce dal mito di
Dedalo e da quello concernente la nascita di Giove
nell’antro idèo, ove forse abbiamo un’allusione alla
celebrazione dei misteri della metallurgia. Di pas-
saggio noto qui che la famosa Britomarte-D ictynna
era cosi chiamata perché profetessa (lat. dicere), tan-
to è vero che i sacerdoti si chiamavano dàbtyloi pa-
rola che ricorda il verbo latino indigitare (invoca-
zione rituale degli dei da confrontare con la nostra
litania dei Santi). Ma il nome di dictya dato alle reti
mostra ch’esse servivano a mo’ di oracolo, o piutto-
sto come mezzo per provocare un giudizio di Dio:
la sacerdotessa sospettata di lesa castità doveva preci-

272
pitarsi da una rupe sporgente sul mare, dove erano
state disposte delle reti per raccoglierla.
Dov’era l’Atlantide? Se non temessi di dilungar-
mi troppo, vi dimostrerei che il testo platonico non
autorizza la credenza in una terra posta al di là del-
le colonne d’Èrcole. Il mare atlantico di Platone non
è l’attuale Oceano Atlantico, ma il mare che costeg-
gia la catena dell’Atlante (Tunisia, Algeria, Maroc-
co); in vicinanza delle colonne d’Èrcole, e an che al
dì la, c’era l’estremità dell’Atlantide, vale a dire la
sua parte più lontana. Epperò s’intende bene anche
perché l’Atlantide, cioè la regione che va dalla Li-
bia al Marocco, sia lambita, al d i là delle colonne d i
Ercole, da un vero e proprio oceano, mentre tale
non può dirsi il mare al di qua dello Stretto.
Presumibilmente l’isoletta capitale di questo vasto
regno era nella piccola Sirte, ove il mare, dopo il
cataclisma, rimase inospitale; mentre la grande A-
tlantide, tutta cinta di monti strapiombanti sul mare
e con la sua pianura a canalizzazione regolare, fa
pensare al Fezzan (Phasania) o regione dei fiumi
(Phasis, cfr. Pisa « città fluviale » ecc.). La fama del-
l’Atlantide si conservò nelle leggende Arabe, dove
questa regione fu detta M agreb, cioè regione dei
m aghi rossi o diavoli rossi, autori dei più mirabo-
lanti incantesimi: e non so se rossi perché di razza
aria o per allusione all’elemento fuoco (1).
(1) Il ricordo della provenienza caucasica si conserva ancora nel
nome arabo dei Berberi, cioè K u m ir (Cimmerii); parola che significa
anche « rosso » e allude al colore biondo degli invasori. Il ricordo «lei
metallurgi si trova forse nel nome degli attuali abitanti della regione
interna dell’Atlante, i Tuareg, che è stranamente simile a zva rog, il dio
fabbro degli Slavi (ted. zw erg , nano, perché i nani erano creduti fabbri
eccellenti; cfr. il mio Sc h iz z o d i St o r ia d e l l a P r e is t o r ia , pag. 62, 125).
Osservo infine che lo stesso nome dei Cimmerii, nella forma \umtr
fu adoperato a significare il biondo, nella forma i k a) mauro, e quindi
m oro (greco m oryllos) fu adoperato a significare razze negroidi: come
avvenne per le parole bruno, gallo, tana, ecc.

273
• L'origine del linguaggio.
*X X I. - O r ig in e d e i C a m it i e d e i S e m i t i .

Nel saggio precedente vi ho mostrato esserci buo-


ne ragioni per credere alla verità delle tradizioni
sull’Atlantide e che questa non fu affatto la culla
di una razza misteriosa, provvista di non so quali
metafisiche prerogative (come vogliono taluni teo-
rici del razzismo), ma l’ambiente nel quale fu tra-
piantato e grandeggiò un tipo di civiltà metallur-
gica oriundo dal Caucaso. Vi voglio ora mostrare
che la lingua degli Atlantici ha lasciato qualche ve-
stigio, e che esso, convenientemente interpretato, non
lascia alcun dubbio sul carattere ario del popolo che
la parlava.
Nel saggio precedente abbiamo chiamato in causa
la ninfa Calipso, figlia di Atlante. Ora, trattandosi
di un nome atlantico, è senza dubbio da scartare
l’etimologia greca di questa parola, che fa di Ca-
lipso la « nasconditrice ». Il nome invece, in quanto
appartenente a una civiltà del metallo, si deve rite-
nere identico a Chalyps, nome di un popolo di me-
tallurgi del Caucaso, la cui città più famosa era
(Ch)alybe (onde Ccdìbàno, minatore, demone sotter-
raneo). Calipso dunque è un nome etnico e insieme
professionale. Va qui ricordato, a titolo di probabi-
lità, che questo stesso nome, nelle varianti con d
(es. Chaldaeì) e con \ (es. Chal\eùs) indicò corpo-
razioni di fabbri, e la prima di esse è connessa col
nome tedesco dell’oro (Gold) e del denaro (G eld).
Il nome di Calypso è interessante anche per un’al-
tra ragione. È opinione di autorevoli glottologi, che
la parola latina cupso (capro) sia d’origine berbera;
e qui anzi si vuol trovare l’area d’origine dei nomi
latini di questo tipo. L ’identità di struttura fra Ca-
lypso e cupso è evidente; la radice è cup (capo,

274
gufo, gheppio, greco gyp-s, tutte parole indicanti in
origine l’idea generica di capo o dio, onde verbi
come lat. cup-io, fecondare, amare); il suffisso so è
quell’articolo segna-soggetto di cui vi parlai nel sag-
gio II dolore antico. Da una parte voi vedete l’affi-
nità di questo nome con Ja-cob (il signor capo, per-
ché Ja = dio) e con Ai-gyp (Egitto), dall’altra l’iden-
tità formale col nome di un antico re di Numidia,
Mi-cip-sa (il signor capo). Ma se questa equazione
è indovinata, guardate allora che cosa ne viene: que-
sta misteriosa lingua atlantica usava premettere ai
nomi propri, in segno di rispetto, la parola mi, pre-
cisamente come i Greci in m a D ia e i Latini in me-
hercle (padre Ercole), in Ma-mercus, in Ma-murius,
ecc. E non solo la parola mi, ma anche fu , es. /«-
gurtha (il signor capo), precisamente come i Greci
in Jo-hJista (la feconda), H e-\àbe (la feconda), nie-
llate (la casta o cagna). E il nome di Gadiro (fab-
bro, pastore), il famoso re di Atlantide, vive ancora
in taluni nomi berberi: {K)adher-bal (Gadiro si-
gnore), Abd-el-\ader, ecc. nonché in francese gou-
dron (catrame).
L ’esame dei nomi e toponimi di questa regione è
molto importante per la nostra tesi: B occho (re di
Mauritania) ricorda il russo B oje (dio, bove), il ru-
meno Buca-rest (città del re), il francese bouc, l’it.
bucco (cfr. sicil. vucceri = macellaio) ; il re Giuba
ricorda Giove, e, in quanto nome generico di di-
vinità, lo si trova anche applicato a fiumi; Ceuta (pro-
montorio) ricorda lat. cauda (sporgenza, coda); Tag-
aste (monte, città) ricorda il turco-ameno D agh (es.
Mussa-dagh), Taig-eto, greco teich-os (muro), it.
diga, ted. dich-t « spesso, compatto » e Dach (soffitto,
costruzione), e il nome della Taiga siberiana (1);
(1) Connesso è ted. S-teig-en «m ontare».

275
/

H i-ppona ricorda Bona, Windo-bona, Bonn, Bono-


nia (fortezza-nuova) e lat. V ibo (1) che è forma non
erosa; Cirta, capitale di Numidia, ricorda Cerda (in
Sicilia), Carth-ago, Kart-um , Cort-ona, Crot-one, rus-
so grad (città); F ez, capitale del Marocco, e poi co-
pricapo che quivi si fabbrica, ricorda Pizzo (punta)
e Phaes-ulae (Fiesole, cocuzzoli), i Berberi e la Mar-
m a r l a ricordano i Bar-bari e il mar di Marmara,
i N um idi ricordano i n om adi cioè «pastori)); il la-
go Tritonide ricorda Amphi-trite, il Tritone e la
trota ; Malta (Melita) ricorda Mil-eto (mole, monte,
città), M ilae (Milazzo) e il celtico mal, m el «m on-
te». Infine le Syrti (da una rad. syr che si trova in
greco syr-inx «zufolo» in lat. sorb-eo «sorbire»
(cfr. sorbo, frutto che si sorbisce) significa «assor-
bite, sprofondate » ed è una non indifferente testi-
monianza della realtà storica del cataclisma atlan-
tico (dal senso di «succhiare» si passò poi a quello
di attirare, tirare, e inghiottire ; p. es. greco sorós è
il sarcofago) (2).
Il popolo che dal Caucaso giunse fino al Marocco
passò evidentemente attraverso l’Egitto ove in tem-
pi storici abitavano i Camiti, con una civiltà che
conobbe anch’essa in tempi remotissimi il metallo.
Ho detto più volte che i Camiti non sono indi-
geni dell’Africa (3), ma rappresentano un’ondata
d’invasori nordici che, insignoritisi della valle del
Nilo, ridussero in schiavitù le popolazioni negre,
ma ebbero anche il torto di meticciarsi con esse, di-
ventando alla lor volta negroidi (onde copto cha-

(1) Siciliano Biv-ona.


(2 ) Nell’attuale toponomastica berbera il T a che precede nomi
come T a-bar\a, Ta-ou rirt, T a-m u da ecc. corrisponde all'articolo fem-
minile copto th , es. t h 'b a k i « la città ».
(3 ) Vedi la mia Storia orientale e greca, Padova, C. E. D. A. M ,
1943, pagg. 12-14.

276
m et = nero, lat. camusus « dal naso come i ne-
groidi »). Qui mi basterà citarvi solo pochi argomen-
ti. Il profilo di molti faraoni è ortognato, quindi
di tipo europeo; le piramidi adombrano un paesag-
gio montagnoso, che non è quello dell’Egitto, e han-
no del resto analogia con le costruzioni mesopota-
miche dette ziqurrat (piramidi a terrazze); la scul-
tura geroglifica scolpita sulle colonne ricorda le in-
cisioni sui tronchi degli alberi proprie delle razze
nordiche; l’insieme delle colonne nei templi arieg-
gia uno di quei paesaggi boscosi che sono propri
della zona europea; il geroglifico indicante dio, che
è una scure l-| accenna evidentemente a un re del
bosco, istituzione assai diffusa presso i popoli arii,
mentre l’Egitto è una regione quasi totalmente priva
di alberi; il nome dei Camiti è diffuso su un’area
assai vasta: vi sono G om er in Cimmeria (notate fra
l’altro, che i Berberi sono detti dagli Arabi K hu m ir
cioè G om er e Mauri quindi = Camauri, Cimmerii),
G om eriti in Britannia e in Arabia, Cam unì in Italia,
Umbri in Italia; il dio Konso degli Egizi si trova
anche a Roma, e secondo il Giovannelli, anche in
alto Adige (nella frase: «chi è quel Conso? », cioè
quell’innominabile, e da questa parola potrebbe es-
sere derivato l’it. gonzo, con significato originaria-
mente fallico); Camulo, (c)am uleto, H am -let (dove
let vale «uomo, eroe»), H am -burg, Am -born (città
di Cam) e vari altri nomi stanno a testimoniare
della grande diffusione di questo popolo (o piutto-
sto casta di guerrieri e santoni). Il nome del dio egi-
zio Osiride (anche Basir, « Busiride ») ricorda gli As-
siri, cioè viziti, lat. ves-ulus (dio), e cosi Iside (vis-i-t).
Il nostro vocabolo Sire è quindi eroso, come lo è
Siro da Assiro, nonché Zar e Sarah (principessa bi-
blica). La forma sid si è conservata nell’arabo, vale

277
(( signore » (femminile setti) e nello spagnuolo Cid
«signore»; mentre una forma meno erosa è nel-
l’arabo H asid- (leone, ma propriamente «dio»). Va-,
rie parole umbre concordano con le egizie, es. samara
«tom ba» (lat. tacer, assiro ziqur-rat)-, umbro Kutep
sacerdote, sogdiano chutav (dio), egizio Amen-hotep
(sacerdote di Am mone), N eb-hotep (sacerdotessa di
Neb). Le parole A m m on e e N eh rispondono rispet-
tivamente a lat. H om o {homin-) e nymph-a (da
* gen-ip, * gen-imp). Altre concordanze saran viste
più giù. Qui vi osservo soltanto che, data la stretta
parentela delle lingue camitiche con le semitiche,
tutte le somiglianze che l’una o l’altra fra esse hanno
con l’indoeuropeo valgono solidalmente per la no-
stra tesi.
Non vi sembri paradossale, dopo quanto vi ho det-
to, se qui ora vi affermo che i Semiti sono indub-
biamente di origine aria. Moralmente e politicamen-
te questo risultato è di una importanza senza pre-
cedenti, perché pone fine a una incresciosa contro-
versia razzista, che tanti odi e tanti lutti ha semi-
nato nel mondo; ma le ragioni morali esulano dal
piano della mia dimostrazione, fondata esclusiva-
mente su motivi scientifici, e già da me cautamen-
te accennata in tempi molto inopportuni. Sin da
molto tempo io avevo avvertito l’inverosimiglianza
linguistica e storica di spiegare il nome degli Ebrei
secondo la comune etimologia, che ne fa gli «abi-
tanti del di là» cioè del fiume Giordano (1). Fu
allora che pensai a una possibile connessione col no-
me degli H iberi del Caucaso, e attorno a questa idea
riuscii ad ammucchiare una quantità impressionan-

ti) Ancora un’incongruenza: l ’ebraico ’eber « a l di là » è affine


a greco hypér, è quindi un vocabolo indoeuropeo! Connessi con h yp ir
sono greco per-an (eroso) e berbero abr-td « passaggio ».

278
te d’indizi concordanti. Qui devo anche accennare
a un deplorevole luogo comune, che fa derivare gli
Ebrei dall’Arabia; ma è stato sempre per me un
enigma lo spiegare in che modo una simile idea
abbia potuto germogliare nel cervello di un uomo
anche mediocremente intelligente. E del resto, co-
me avrebbe potuto la penisola arabica essere la cul-
la o anche semplicemente l’ambiente formativo di
una razza?
La creazione di un essere umano postula una mol-
teplicità di ambienti di passaggio, sopratutto la con-
dizione imprescindibile di un ambiente boscoso, che
potesse sviluppare i suoi arti anteriori, e di una ve-
getazione naturale che potesse nutrirlo gratuitamen-
te nei primordi della preistoria. Ora nulla di tutto
ciò offre l’Arabia. E ho anche la delusione di con-
statare che un’intelligenza cosi fine come quella del
Loisy non seppe su questo punto elevarsi al livel-
lo del più comune buon senso.
Che i Semiti siano scesi nella Mesopotamia e nella
Palestina dal nord, si può dedurre da molti indizi
convergenti. A Babilonia si celebravano le feste det-
te Sacaeae, e questa parola ci riporta al nome Saca
che fu un nome antichissimo degli Sciti. I Goti ci
presentano al nord una popolazione di fu ti (Dani-
marca), nella Scizia una popolazione di Tchude o
S-kythe\ e perché mai i ]e-hudi (il prefisso Je è re-
verenziale, vale «d io ») non potrebbero essere que-
sti T c h u d e? Noè scese dall’Ararat, ciò ci riporta al
Caucaso. L ’analisi dei nomi delle tribù di Giuda ci
dà nomi che si trovano anche altrove: Dan (Scizia,
Grecia, Danimarca, Inghilterra); Issacar {Saca, sacro,
«sacerdote»); L evi (il leone, i Libii o Liguri); Ben-
yamin (uomini), Asar (Assiri); mentre altri nomi si
spiegano benissimo con radici indoeuropee. In Me-

279
sopotamia il Nord era indicato con una parola che
significava « la direzione giusta », il che ci fa sospet-
tare uno di quei sistemi d’orientamento primitivi
che guardano sempre, come a punto fisso di riferi-
mento, alla culla originaria della razza (i popoli clas-
sici, venuti dall’Est, guardavano all’Oriente). La città
di Sippara è connessa col nome della Siberia, le cui
popolazioni sono da vari dotti credute originarie del
Sud. La regione dei morti in Mesopotamia era detta
Aralu, che fa pensare al lago di A rai e non solo a
causa dell’affinità del suono: perché è notorio che gli
antichi collocavano la regione dei morti nei loro pae-
si d’origine, e perché i laghi sembrano essere stati
antiche necropoli, e lo stesso Mar M orto deve questo
nome, non già alla pesantezza immobile delle sue
acque, ma al costume di seppellirvi i cadaveri, che le
sue acque ricche di sali conservavano intatti, facen-
do così scoprire agli Egizi il segreto dell’imbalsama-
zione. Del resto, è tassativamente detto che la regione
d’origine degli Ebrei era un paese dove fioriva la
vite (altro che l’Arabia!), chiamato Kede-m , parola
che i Settanta tradussero con l’espressione generica
di Anatolia, cioè Oriente. Ma se si consideri che il
nome dei punti cardinali non fu in origine altro se
non il nome delle popolazioni confinanti nelle ri-
spettive direzioni, noi dobbiamo vedere in K ed e il
nome di un popolo che con tutta verosimiglianza è
quello dei Geti o Gedi o Quadi o T chude; con che
ritorniamo sempre al medisimo punto geografico.
Fin qui si tratta d’indizi molto probabili, ma, co-
munque, soltanto di probabilità. Ci sono delle prove
piu sicure? Si, ci son quelle dedotte dalla mitologia
e dalla lingua. Nello schizzo di storia della Preistoria
io vi dimostro che la mitologia semitica non si diffe-
renzia da quella indoeuropea, e che l’una e l’altra,

280
lunge dall’essere la realizzazione fantastica di due
genii diversi, e di due diverse concezioni morali, o di
due metafisiche, erano in origine identiche, e consi-
stevano essenzialmente nel ricordo trasfigurato delle
lotte sostenute dalla razza bianca contro le razze di
colore per la conquista degli spazi vitali.
Un esame accurato del vocabolario semitico mi ha
convinto non esserci alcun vocabolo semitico che
non sia anche indoeuropeo e viceversa. Questo risul-
tato stupefacente vi lascerà increduli, e mi direte:
come mai, prima di voi, nessuno se n’è accorto, e
quelli che ne ebbero qualche sospetto, a cominciare
dall’Ascoli, ne parlarono con molta cautela? La cosa
si spiega col fatto che coloro che fondarono la scienza
linguistica, per delle ragioni allora plausibili ed oggi
superate, misero a base del loro metodo di ricerca
che le somiglianze esterne fra parole di lingue diver-
se non dovessero nemmeno prendersi in considera-
zione, potendo dipendere da cause del tutto acci-
dentali (somiglianze casuali, imprestiti, ecc.). Vera-
mente quando le somiglianze si contano a migliaia,
mi sembra buffo che ciò possa essere casuale. Ma io
pel momento rinunzio anche a questa argomenta-
zione (che conto sviluppare serratamente in altra
sede), anche perché si verifica questo fenomeno cu-
rioso: che i linguisti, i quali d’ordinario sono spe-
cializzati o nella linguistica indoeuropea o in quella
semitica, non hanno né interesse né competenza per
ricerche che vanno al di là del loro campo rispettivo,
e preferiscono rimanersene in un neghittoso agnosti-
cismo. La cosa ha il suo lato spiacevole, perché il
pubblico, il quale si attende avidamente dalla scienza
ufficiale, una risposta salomonica, che cosa vede in
questa reticenza? Evidentemente, esso dice, se la
scienza ufficiale ha renitenza ad occuparsene, vuol

281
dire che l’iniziativa è scarsamente convincente. Cosi
ciò che la scienza ufficiale fa per mera prudenza, o
per un onesto riconoscimento del proprio limite, di-
venta, suo malgrado, una disonestà: essendo eviden-
te che il pubblico scambia per una risposta implicita,
ciò che non è se non una fuga.
Ebbene, rinunziamo dunque a trarre partito dalle
affinità lessicali. Vi sbarazzo cosi anche di un altro
argomento specioso e solo parzialmente vero: e cioè
che non sempre lingua e razza coincidono. Ma c’è là
grammatica, e qui si tratta della struttura profonda
dello spirito, dove razza e lingua coincidono; e ci
sono vocaboli che non possono aver viaggiato da
una lingua all’altra come i nomi degli articoli com-
merciali, perché nessuno prende in prestito da un
popolo straniero i nomi delle cose piu elementari,
quelle di cui è fatta la sua vita di tutti i giorni. Come
mai il nome della donne, greco gyne, é gen a in cop-
to? Come mai l’ombra è detta in greco s\i(v)à, in
egizio shewe, mentre in ebraico She(v)ol è il regno
delle ombre? E badate che di questi esempi potrei
citarne a centinaia, se non forse migliaia. Come mai
per indicare il femminile, semiti, camiti, ed indoeu-
ropei s’accordarono nello scegliere il suffisso « d (i) »
oppure « a » ? e per indicare il maschile scelsero «
(V)? Come mai per indicare il plurale fu scelto im,
em (in, en), desinenza che è rimasta tuttora nel te-
desco, nel duale greco, e in quell’» cosi impropria-
mente detto efelcustico (eufonico) che si aggiunge
alle terze plurali dei verbi greci e nei locativi e dativi
plurali (si-n, phi-n)? Come mai nell’umbro c’è un
plurale in labiale, come precisamente anche nell’egi-
zio? Come mai in ebraico c’è un antico plurale in ot
e nello irlandese si ha un residuo di tal formazione

282
nella parola fichì-t (20X2, perciò è un duale), e lo
stesso avviene nel finnico \ade-t «m an i»?
Ho notato piu volte che i participi indoeuropei ter-
minavano indifferentemente in dentale, gutturale,
labiale: così accanto ad amant del latino, c’è inglese
lov-ing (amante) e l’umbro \ut-ep {cautens): orbene,
nel copto si hanno tutt’e tre queste forme, dunque
esso rispecchia uno stadio nel quale il linguaggio,
in via di formazione, era ancora fluttuante. Bisogna
partire dall’idea di una lingua c he si va costruendo,
e non già, come la linguistica attuale, dall’idea di
un linguaggio ie. che si va logoran do; la perfezione
non è all’inizio, anzi, man mano che risaliamo verso
stadi arcaici si hanno piu fluttuazioni e piu varianti:
confrontate il dialetto omerico e quello ellenistico, e
ve ne convincerete. Se è cosi, il sanscrito ha proba-
bilità di essere una lingua meno importante dal pun-
to di vista della formazione del linguaggio, che non
il latino o il greco. In greco accanto ai plurali in in
(cioè duali), abbiamo quelli in s, in latino prevalgo-
no quelli in s: dativo lat. bu-s, sanscrito bya-s, gre-
co si-n, phi-n-, lat. ama-mu-s, greco philé-o-me-n. Ora
l’ebraico ci illumina sui processi interiori dell’indo-
europeo. Nella prima persona dei verbi, l’ebraico
aggiunge ni (da ani, io), il greco m i; nel latino que-
sto m i non compare che una sola volta, nel verbo
esse (rad. wes, ver): presente (ve)-s-u-m(i). Questa
variazione m, n è dovuta all’esistenza, accanto a
hom in (uomo) di forme come greco (g)an-er «u o-
mo )) e gyné (donna), cioè lat. gen-ius (spirito, dio) e
lat. ven- (essere animato, animale): cosi accanto al
lat. (v)enos (noi), si trovano in greco hem in, hem eis
(noi), hym in, hym eis (voi) con le due forme tipiche
del plurale: in ebraico si ha nu. Tutte queste parole
significano propriamente «uom ini». T i oppure si

283
indicava la seconda persona; in latino e greco trovia-
mo però sempre si: es. atna-s; mentre la forma tu
nel latino s’incontra solo come pronome staccato. Ti,
te, indicavano anche la seconda persona plurale; gre-
co te, lat. ti-s (es. amavis-fer), ebraico tem , ten. T i si
usava anche per la terza singolare, lat. ama-t, greco
es-ti. Nel plurale greco-latino è dubbio se greco
philéo-nti, lat. ama-nt, siano participi o formazioni
mediante pronomi pariti, *atti plurali arcaici di
*antos «eg li»), come fan sospettare l’albanese attà
(essi), copto ent-uf (essi; la labiale qui segna il plu-
rale). Nel celtico, la forma carn-itus «fecero» della
iscrizione di Novara ci mostra il plurale in s, che fu
quello che poi si generalizzò nelle lingue moderne
(spagnuolo, francese, inglese). Nell’ebraico la terza
persona plurale termina in u (v): es. qatel-ù (ucci-
sero). È un plurale in labiale, che si spiega conside-
rando non essere altro il verbo ebraico se non un no-
me di agente, una specie di participio: m ele\ « re »
mala\ «reg nò »: quest’ultimo significa propriamen-
te « regnante » (fu), forma che non differisce da
quella che si trova p. es. in lat. amic(us), o in inglese
sing-ing (cantante) e che spiega il perché di quel
trilitterismo semitico che non è fenomeno essenziale,
ma secondariissimo. Infine il locativo greco -phi(n),
lat. u-bi (da *pubi, come uter è da *puter, greco
pó-ter-os, richiamano la preposizione ebraica be (in),
russo be (in), ted. bei (presso) ecc. Quando una lin-
gua ci spiega cosi la formazione segreta dell’indoeu-
ropeo, la questione circa l’origine della razza si può
considerare ormai risolta. Con ciò non voglio dire
che non esista una questione razziale semitica; dico
solo che la razza ebraica si è form ata, che essa è un
punto di arrivo e non un punto di partenza, che i
suoi precedenti sono nell’azione di fattori ambientali

284
e storici (culturali), e non già in una diversità di ori-
gine; e che insomma la questione razziale semitica
non poggia su terreno biologico.

*XXII. - N o m i p r o p r i.

La stragrande maggioranza dei cognomi deriva da


nomi di luogo (es. M orpurgo da M arburgo, Bolisani
da Bolzano, Lennóvari da H annover, Ghiringhelli,
ecc.) o di mestiere (Fabbri, Ferrari, ecc.) o di contras-
segni somatici (Longhi, Macri, Crispi, Rizzi, ecc.), o
infine — e questa è forse la categoria più numerosa
— da patronimici: Arrighi, Righi, Righetti, Ricazzi,
Ricasoli; Rigutini; Puleio (Apuleio); Tulli, Doletti
(Tullietti), Togliatti (Tulliacci); Bendiscioli (Bene-
dictioli), Federzoni (Federicioni), Giolitti (Giulietti),
Giuriati (Giuliacci); Turi, Turini o Durini, Turati;
Zuani, Zanutti, Zanoli, Zanolini, Zan-boni, Oiàn
(Joan); Zendrini (Zenarini), Luzio (Lucio), Ciam-
poli (Gian Paoli), Altrochi o Galtrucco (Gualtieruc-
ci), Vidoni, Vidussi (Guido, Vito), ecc. Questo avvie-
ne in tutte le lingue: es. Peter-sen, Amund-sen (figlio
di Edmondo), Nan-sen (figlio di Nando), M e Arthur
(figlio di Arturo, cfr. egizio ms « fig lio » ); Vlasof
(De Blasi), Litvin-of (Lituani), ecc.; e anzi noi pos-
siamo molto spesso, in base al cognome, ricostruire
la vicenda generale di una famiglia: p. es. i Pogliani
e Pogliaghi sono oriundi polacchi, i Marchesani sono
marchigiani passati attraverso il Veneto; i francesi
Benveniste e gli americani Durbin sono di origine
italiana; il greco Papa-rigo-pulos (signor-Enrico-fi-
glio) è d’origine italiana; e parimenti i nomi iugosla-
vi Fabbrovich, Marcovich (invece di Mircovich), Gal-
vanici!, Maclavellic, Covic, Musonich, Goidanich

285
(Gaetani), Marussig (cfr. Mari, Marotta, Marini, ecc.),
Prinzip, Trumbich, Kardely, Pusinich (di Pusino),
come il ted. Peratoner (Pier Antonio) mostrano lam-
pantemente la loro origine italiana (1).
Assai meno facile è individuare il significato dei
nomi, a ciò occorre un’analisi molto sottile: es.
Achi-leus (il vacco del popolo), Aga-me-mnon (il pa-
dre m e, pastore m enon di vacchi o Achei), Orfeo ( =
Corifeo, uomo che sta alla testa di un coro in vesti
animalesche o totemiche), N iobe (variante senza n di
Ninfa, egizio N eb, cioè « sposa » di Giove; ma i suoi
figli non sono che le 12 costellazioni uccise dai dardi
o raggi di Apollo-sole e di Diana-luna; onde il sospetto
che qui sia confusa, per etimologia popolare, Niobe
con la Notte; infatti greco nyx « notte » è variante di
greco nephos «nu be» e di fyiephas «crepuscolo»,
propriamente « piccola crepa o fessura da cui filtra un
tenue chiarore); Sopho-nisba « la saggia ninfa o don-
na » ; Raoul (*rav-ul il re o ravo, ebr. Rabbi, lat. Rab-
ula e Reg-ul-us); Ottone (Gott, dio); Otto-car (dio-J-
car, «ario, signore»); H ugo {Bug, russo Boje, dio,
bove); Olaf «lup o », Olga (lupa, o dea in genere, cfr.
Volga « il fiume-dio»); Haal{pn «v acco »; Astr-id
{Weser-it, Eser-it, Astarte, l’astro o luna); H ygiea (rad.
sug, cfr. succo, « la nutriente»); Im en e {gyn, cfr.
gàm os, nozze); A -pollo (A-pellon) « il Belo» con p
(1 ) Nota anche N arato-vich (figlio di Onorato), Boteclaric (B oltec-
chiari, B ottiglieri), H ov elacqu e (Abelaccio). È curioso che la Spagna con-
servi molti nomi di marca antichissima: G om ez (lat. Comes — conte),
Ram -iro, R adam anto, Blasco ( = Pelasgo). II cognome Unamuno fa
pensare a Onu A mon u, funzionario di un Faraone. Benché io non abbia
prove perentorie, ripugna alla mia coscienza linguistica considerarla una
coincidenza casuale. '
In alcuni nomi veneziani si intravede l ’origine italiana filtrata attra-
verso lo slavo: Orsen-igo (Orsi, Orsini), Graden -igo (Gradini, cioè oriun-
di dell’isola di Grado), M ocen-igo (Mudo, Mucini, Mocenni). Il famoso
aviatore austriaco Scorzèny ha un cognome d’origine italiana filtrato
attraverso l ’ungherese (Scorza, Scorzini).

286
per b come in A-pella (forma dorica per Boulé, as-
semblea) e in nordico Mus-pel (il dio Mosè o fabbro),
e in Polena (Beléne, la Baalina o dea Afrodite, la cui
statua era sulle navi); Roos-welt è etimologia popolare
germanica di un nome medioevale Ros-mun-dus, il
cui significato sarà dato più giù.
In altri casi bisogna richiamare in mente quei titoli
incorporati nei nomi dei quali vi parlai in un prece-
dente saggio. Qui aggiungo che un titolo viene ag-
giunto, in segno di riverenza, non soltanto a nomi di
persona, ma anche a nomi di monti o fiumi in quanto
divinità: Bri-manto « il dio monte» o il monte dei
Capri, cfr. Eri-dano « il fiume dei Capri » (e come no-
me di persona « il dio-eroe » cfr. ted. herr « ario, si-
gnore » e m anto « uomo » e « monte » : oggi direm-
mo Ar-m ando, A ri-mondo, Ed-m ondo, infatti ved è
variante di ver come mostra subito un confronto fra
ted. heir-athen «diventare herr o sposo» e inglese
w edd «sposare» greco hed-na «doni nuziali»); E d -
gardo « il signor bardo o principe»; Gari-baldo « il
signor principe » eroso in araldo e in ribaldo (parola
decaduta); Sventi-boldo (il santo principe o baldo o
Poldo; cfr. persiano spento «santo», greco {sv)edys
« dolce, nutriente », slavo svieto « santo » e Svata-
plu\); Zuider-see «m are degli Svedesi », cfr. il prece-
dente; Sven nome scandinavo, Zvoni-mir « il signor
principe », nome slavo, sono connessi con ted. schw ein
« maiale » che in origine significava « principe » cfr.
Schwein-furt « città del principe » ; Casi-mir « il casto
principe» (m ir è eroso da gom er, cimbro, santone);
Cassi-vellauno « il casto vallone»; Isa-bella (ebraico
isha « donna » bel, dea o anche bella)-, Gisa, Gis-
elda (donna + eroina, ted. held, h ilde), A dalgisa (no-
bile -f- donna): Ele-azar (Lazzaro, el « d io » asar
« visir, signore »); Hanni-bai « signore di Anni o Van-

287
ni o Bani », Hasdr-u-bal « signore di Assiri o princi-
pi », Isr-a-el, variante del precedente; Hanno-ver « cit-
tà veru, cioè recinto, di Vanni o B ani»; Ele-anor
« dea el + signora anor, femminile di aner che in gre-
co vale « eroe, uomo » e che si trova eroso nel latino
nur-us « giovinetta nuora », nell’umbro ner « princi-
pe » e nel ted. nar « uomo ispirato, poi matto » ; Dra-
go (1), Dragone, greco Tragos «capro, re», Tar\ no-
me di re presso Liei ed Etruschi, cfr. Traci — capri;
Rada-manto, Rodo-m onte, Rai-mundo, Rada-messe
(re + eroe, marito, cfr. mundio, potestà maritale);
Rosa-munda (rossa o regina + eroina, signora); Baia-
m onte, Boe-m ondo {bos, bue + uomo, eroe); Sigis-
mundo, « il signore della vittoria»; Ger-trude « la
signora druda o moglie); Ger-vaso « il signor Re o
dio» cfr. vesu in Sigo-vesu; questo nome vesu ha
avuto infatti un uso affine, p. es. Bellovesu « il signo-
re della guerra»; in ebraico ha dato Gesù, in greco
eu che isolato indica cosa buona o divina, ma incorpo-
rato ai nomi serve da titolo onorifico; Eu-m elo « il
signor pastore », Eu-m olpo « il signor cantore », Eu-
frate « il dio fiume o Puratu ». Si possono citare molti
altri nomi usati in maniera analoga: vitu o visto (vi-
tello, dio, corrispondente al nostro nome Vito): Bitu-
rige « il signor re », Ario-visto « il signor guerriero »,
(v)ist-aspa « il signor cavaliere » ; Ros-vita ha lo stesso
significato che Ros-munda; Elisa-betta (*velisa, lupa,
à ta + vita, cioè regina, vitella); Dumno-rige (il do-
minus rex); llde-brando (Olde-prando) « il signor
capo » o Brenno o Brenta (questo nome è applicato
anche a monti, fiumi, animali-dèi, p. es. Brent-esion
«Brindisi, cioè città del cervo»); Brun-ilde, dov’è a

(1) Francese X)riault — Drcw (Dragone) + alto = nobile; nota an-


che danese Rasmussen (Radamesse).

288
notare che il nome dei Bruni, già nome divino e ap-
plicato anche alle sorgenti (ted. Brunnen) che i Celti
chiamavano dive o divonne, i latini Feron ie o Peren-
ne, assunse, in seguito a invasioni, il significato di
razza di colore. Quanto a Ilde, olde (in inglese « an-
ziano, nobile))) sono, insieme con ted. held (celto,
eroe) semplici varianti.
Diffuso è fra gli Slavi il nome di Ante che ap-
partenne a un’antica popolazione della Grecia, e di
cui rosta traccia in A-iante (lat. A-iac ((il Bacco o
Jacco o Jante »), Ant-enore « capo di anti » e nel nome
del Re presso i Cassiti. Come Manto, anche m andro
o andrò si usano tanto per uomini, che per animali,
monti e fiumi (l’idea base è quella di divinità):
mandria (gregge), Anaxi-mandros « il signor prin-
cipe » ; De-ianira « la dea principessa » ; Ma iandro
« il padre fiume, il dio-fiume»; Sca-mandro «fiu-
me Scèo»; Ant-andro « il dio-monte» (1); ecc. Cosi
anche Belt (isola, monte), Parthus (persiano, prin-
cipe), Puratu (fiume Eufrate), ted. P ferd «cavallo-
dio », Belt-asar « Baldassare, principe di Assiri »,
Belisario (variante del precedente), M an-fredi « il
signor principe», Sìg-frido « il principe della vitto-
ria ». La parola tedesca hard « duro, forte » lat. ard-
uus, greco orthós «diritto, alto, rigido», persiano
Arta si usa per indicare qualità eccellenti: Mandrì-
cardo « il forte eroe», Rìcc-ardo « il gran ricco o
r e » ; Arta «città alta» (in Friuli); Arta-bazo («gran
pascià », Arta-ferne « alto principe », Ur artu « mon-
te alto, Ararat, greco èros orthós Sì .
In un senso analogo troviamo adoperate alcune pa-
role che poi decaddero alla funzione di semplici arti-
coli: H e-\abe « la donna feconda», He-\ate (la ca-

(1) Cosi anche gr. Kà l-andros «gallo o uccello-dio, Calandra».

289
19. - L ’origine del linguaggio.
gna, la casta»; Jo-kasta « la feconda»; ]o-seph « il
santo», ]u-gurtha « il capo»; Jo-han « il bano», Ja-
cop « il capo, o gufo o gheppio, greco gyp-s; Aigyp-t,
variante del precedente; Mi-cipsa « il signor capo, o
anche capro, lat. cu p so di origine berbera; Y-mettós
il monte, metto o matto, cfr. matt-one, Matto Grosso,
variante senza n di monte), Ja-vorsheì{ « il monte»,
]avorni\ « il monte ». Quanto a quest’ultimo, si noti
che il suo significato si stabilisce con precisione nel
confronto col ted. Pader-born (« città o monte del
fiume», cfr. Pad-us, Bod-inco, Paderno «città flu-
viale », in Sicilia Paterno, nonché Pat- avium, Bat-
avia ove la rad. è pad, greco pot-amós, russo vod'a
« acqua » e indicano città in riva a fiumi o sorgenti),
Am-born (variante di Ham-burg, « città del Cam o
camita o sacerdote »), frane, borne « cippo, rialzo ».
Molti sono i nomi di città che indicano l’idea di
capitale, sede del re o del nume-. Ratibor «città del
re » (bor - perù, recinto), Ratis-bona, Rado-witz (yi-
cus del re), Passaro-vìtz « vico del Bessarèo », Bratis-
lava (lava = monte, pietra, cfr. gr. lava e lóphos erosi
da Kalpe, Alpe), Rav-enna, Reg-ium, Reate, Reichen-
berg, Svine-munda (dimora, cfr. lat. maneo, e mun-
dus «abitazione» del principe o Sveno), Schwein-
furt variante del precedente, Ecbatana, aspa-dana
« città del cavallo », Ox-ferd « città del bue », Konigs-
berg, Buca-rest, Num-antia, Nom -entum , Mag-onza,
italico Mac-alla (l’antica Cere), etiopico Mal{-allé (cit-
tà del Re o Mago), Hanno-ver, Regal-buto, Racal-mu-
to, Misil-meri (castello dell’emiro), Bobb-io, Pav-ia
(città del papo, come pavese è la bandiera del Papo).
Si crede infine che molti nomi familiari siano di-
minutivi, p. es. Pippo di Giuseppe, Pano di Gaetano,
Tino di Agostino, Dino, e simili. Ma la cosa è molto
dubbia. Ci dev’essere stata piuttosto un’assimilazione

290
di antichissimi nomi preindoeuropei con nomi im-
portati da culture più tardive. Turi è già un nome
etrusco (cfr. il nome del dio nordico Thor), B eppe
si trova in Egitto (faraone Pepi), presso i Franchi
(Pipino), presso gli Etruschi ( Vipina, reso in latino
con Vibennd), T ino e Tana si trovano in Etrusco,
Tifi e Titina erano nel greco (Tithene = capra, re-
gina); Zeno, Zenone si trovano nel celtico e nel
greco; N ino si trova in Assiria, N ano era uno dei
nomi di Ulisse (cfr. N ando e Nan-sen « figlio di Na-,
no»); Fanny e Vanna o Vanda o Anna sembra non
significhino altro che nutrice (Phaunà) o donna (gre-
co Ino, lat. anus, cfr. Ines); Ivo è maschile di È va;
Ciccio o Cecco o Cicco sembra significhino «picco-
lino» (spagnuolo chico); Pino sembra significare
« bambino, piccoletto », ebraico ben « figliolo » ; Èva
da *veva, ted. V/eib, ebraico Havwah, vale « donna ».
Un esame di queste pretese corrispondenze darebbe
molte sorprese ai filologi e ai linguisti (1).

*N om i Propri. I l - Particolare interesse hanno al-


cuni nomi composti dell’età classica: Amphi-tryon
« il tiranno o drupa o trione della città » (dov’è a
notare che am ba = monte, città, e tryon col significa-
to di re, dio, si trova in Septem-triones « i sette ca-
valli o dei dell’Orsa », questa parola quindi corrispon-
de al Turno o tiranno o tirreno dei Latini, detto
druna dagli Etruschi); am phi-nom e « il nume della
città», amphi-anax « il signore della città» Iphi-ànas-

(1) Per Fanny, che si crede diminutivo di Francesca, cfr. lat. Fannius;
per M om m o, che si crede diminutivo di Guglielmo, cfr. il cognome ted.
M omm-sen (figlio di Mommo) e il greco M ómos « dio, propriamente ma-
schile di m am m a, quindi B abbo o B afo ». Infatti, imitare o scimmiottare
il pezzo grosso in ital. si dice beffa re « fare il Bafo », in greco si diceva
m im etn « fare il Momo o Bafo ». Il cognome scandinavo 1b-sen vale
« figlio di Ivo ».

291
sa « la dea della città» (iphi è variante senza n di
am ba, cfr. Eph-esos, Eph-yra, e il nome dell’isola
I f in Gallia); Iphi-m édeia (signora), lphi-cles « il
gallo o capo della città », asty-dameia « la dama della
città », alci-nome « la dea o nume dell’arce », Euri-
n om e (nume della città, eury vale vur, veru, lat.
ur-b-s, recinto; poi in greco se ne cavò un aggettivo,
« largo »), e nomi simili si trovano anche altrove, es.
Jerosolym a (ebr. Ierushalaim cioè Uru-chalem « città
di Salem »); ecc. Facile è ora intuire il significato di
nomi come Iphi-geneia «la dea della città», Poly-
n om e (nume), Perì-cles (capo della città), Peri-thoos
« dio della città », Met-anira « dea della città » (meta
= monte); ecc. Il suffisso geneia vale «generatrice»
o « generata, figlia », in celto e in etrusco esso è reso
con cne, in tedesco ha dato origine al suffisso chen
che forma diminutivi, es. màd-chen « piccola madre,
fanciulla ». — A rìadne significa « la moglie del capro,
la vacca» (lat. Ariet-); ma si può anche pensare a un
suffisso participiale, es. kj\edna (per *\i\enda « mi-
nestra di ceci»; échid-na per echin da «aspide»); Pa-
siphae « la signora splendente», adm eto per hadme-
tos « il Cadmo, il sacerdote»; Al-cestis « la casta»;
adrastos « il molto santo » (cfr. Atreo da *satreus
« sacerdote »), oppure « il vigoroso » (a articolo +
dr&o, operare); il lat. Amata, detto di principesse, va-
le forse Admata, cioè \adma, sacerdotessa corrispon-
dente al greco A dm eto, perché l’ambiente latino pri-
mitivo era impregnato di elementi greci (a malgrado
del parere contrario di parecchi storici). E qui cade
acconcio notare che volgarmente si crede che Camil-
lus sia da Kadm illus attraverso *Casm illus; ma non
è esatto. Si tratta, a parer mio, di due varianti; in
altri termini, si ha Cadm o e Cam o cosi come accanto
a ebraico Tarn «palm a» si ha Tadm -or «Paim ira»

292
e di fronte a Pam ìr sta forse Pàthm os « monte, pun-
ta », che in Iberia aveva ima variante beda, es. Idu-
beda, Oros-peda.
Il nome del paradiso terrestre E dem (o Eden) signi-
fica « oasi, palmizio )). Nomi simili sono Adana,
Tadm -or (Paimira), Dam-asco, E dom (Idum ea, fa-
mosa per le palme, ci mostra una interessante variante
di Tarn «palm a» che del resto è anche in lat. dum-
us). Non è inutile qui ricordare che Maometto credeva
che Damasco fosse il paradiso; ciò che fa sospettare
l’esistenza di una tradizione conservatasi nel fondo
dell’Arabia. È a pensare che in una tribù ove il cibo
è chiamato Tarn, anche altre cose credute divine
avranno questo nome: perciò noi troviamo il nome di
A dam dato all’uomo (« nutritore »), il nome di
Tham m u z o Tommaso a un dio fluviale, il nome di
A dem -ath alla terra altrice, e cosi via. In latino, il
diamante (adamant-) ha conservato l’antichissimo ap-
pellativo di « pietra santa » ; e gli alchimisti credono
infatti ch’essa sia la pietra filosofale.
I nom i orientali Arta-bazo, Arta-ferne, Eerna-bazo
(principe + bacco, pascià), Earn-ace, Tissa-ferne (prin-
cipe della città, in licio Czza-prna, cfr. greco gissa
« monte », issa — isola) sono facilmente spiegabili.
Aristarco si può spiegare con aristos «ottim o» e
are ho «comando» o con ari e Tar\, « r e » cfr. ted.
S-tarl^ « fo rte » ; A-bele, A-pollo, A-pelle « il belo»
sono varianti. I nomi ebraici in el si spiegano tenendo
presente che el significa « dio » : Gabri-el (cabiro),
Rapha-el (Ravo, re, gigante; questo nome si ritrova in
etrusco Rapal-ial, in Rav-enna, in Rap-allo); Micha-
el, Dani-el, ecc. I tre re Magi avevano questi nomi:
Gaspare (Jasp, casp « cavallo, dio »), M elchiorre (me-
lek, re), Belth-asar (baldo, principe + visir), o Belsh-
asar « Belisario ». Il greco Ormisda è la traduzione

293
del persiano Ahura-m azda (il dio grande). Sulla pare-
te di una sala del re di Babilonia erano scritte queste
parole :M ane-The\el-Phares; forse re {man) del T i-
gri e dell’Efrate ». Non è una congettura campata in
aria; in effetti il nome di Angra-mainu e degli Ache-
m enidi mostra che una parola simile in queste regio-
ni ha avuto esistenza storica. I nomi di uomini sono
anche applicati a monti e fiumi in quanto divinità, es.
Anaxì-mandro (signore + uomo), Lys-andro (*vel-
so, cioè lupo -f- uomo), Sca-mandro (fiume Sceo, o
fiume tortuoso, Skaios). Il nome della città egizia
di M em phi non deriva dal nome del re Menes, e non
è nome esclusivo dell’Egitto : si trova anche in Sicilia,
così come in varie parti d’Italia si trova il nome del
Cairo (rad. car «nutrice» «fertile»), È probabile
dunque si tratti di un nome generico per indicare
« monte » : infatti noi abbiamo M appa che indica
sporgenza (M em phi potrebbe essere variante con n.
La parola nappa da *\n- indica cavità, bicchiere,
sporgenza, nodo: cfr. Nabr-esina). Altri due o tre
nomi di città della Sicilia antichissima, fra cui quello
di Phthia sono comuni alla Sicilia, all’Egitto e alla
Grecia; su ciò non bisogna chiudere gli occhi, ma ri-
flettere e trarne le conseguenze.
I Ter-mili erano «uomini della campagna»; que-
sto ter si trova anche in Ter-wingi, Tir-novo, Ter-
nova (selva nuova), Der-visci e Dru{v) idi (« re del bo-
sco », vesu = dio, vito o bito o vido « re »). E non
mi scandalizzerei punto che con questi nomi sia da
connettere anche quello dei Dra-vidi dell’India. In
Grecia Tri-balli {Baal dei boschi) e Tri-bo\ii (becchi,
vacchi, russo boje « dio » quindi « dèi dei boschi »)
ricordano questa istituzione; invece Trib-adi = pro-
stitute, il loro nome è quello delle dry {v)adi, streghe,
baccanti dei boschi.

294
Vi narrerò forse qualche volta l’interessante e non
ancora conosciuta storia di queste ninfe, che danzano
in compagnia di pastorelli al chiaro di luna: basta
dirvi che tanto la danza quanto la luna sono elemen-
ti del rito fallico, per capire che trattasi di orgie ses-
suali. E perché le streghe indossano pelli di capre ? Si
direbbe che non siano se non le famose H am adryadi
(hama =; santo), le baccanti dei culti greci, e che il
loro sabbato sia il giorno del rito fallico, in connes-
sione con ciascuna fase lunare {sabbato è connesso con
rad. sap, procreare, cfr. lat. pro-sap-ies); e i pastori so-
no quegli antichi nomadi che visitavano saltuariamen-
te le loro amanti diventate matriarche nella civiltà
agricola. In proposito si ricorda che ninfa vale « don-
na, sposa » {gnymphaì) e che l’etimologia del velo è
una etimologia popolare (ma se sono velate, sono spo-
sate!); ninfe (rad. gen, come in greco gyne «don-
na »), è variante senza n di egizio neb « donna » (cfr.
Sopho-nisba con s intrusa « la saggia donna »), e il
loro castigo per aver perduto la loro verginità è dun-
que il travestimento di fatti assai diversi.
I tre figli di Manno in Germania si chiamavano
Iseo, Tuisco, H er- min. Ora isco è la parola con cui
in ebraico è indicata la donna: Isha da *visha o
*gisha, cioè vesu al femminile (cfr. giappon. gesha,
basco giz-on «uom o», Adal-gisa, ecc.). Tu-iscus da
cui Tuscus (toscano, e Tosco in Albania) è « il dio
Iseo, il signor principe »: Duis-bug « città di Tuisco »,
Aschen-burg «città degli Asi>;>.
Ecco ora alcuni nomi nordici: W anda (Venda, Ve-
neta), Amala-sunta « la santa Amalia, la regina degli
A m ali»; Teodo-rico (re di Teuti o del popolo); Mar-
tha (di origine ebraica) è femminile di Marte-, Al-
boino « il bano», Vino-m iro, Baldo-vino, Win-s-ton
{vino «principe, cfr. lat. ven » animale; miro = go-

295
m er, santo)-, A de-m aro {ode sta forse per alde a an-
zian o; o anche «p adre» cfr. etrusco Ati = madre);
Atha-ulfo (Santo, padre + dio); B eda = Guido, Vito,
vitello; Gense-rico (ganze = « dio» « il tutto» « l’o-
ca » + re »); Sugam bri {sue « Santo + mer, eroi);
Ger-vaso (il signor Vesu, dio: cfr. Malavasi, cogno-
me, che vale «cattivi spiriti, cattivi uomini, malva-
gi); Ger-trude « la signora druda »; Ida = Vita, Gui-
da (cfr. Ros-vita sinonimo di Ros-munda « la regina
donna»); W alde-maro, W ladi-miro, Cash-mir (casto
eroe), Gus-man (K os — casto, cfr. ted. Keush), e cfr.
anche greco K osm os « il casto, il dio, poi il mondo »;
Os-wald (casto + principe); Vil-fredo (signore, baal
+ principe); Fili-bert variante del precedente; Lan-
fredo, Lam -berto (bert o fred, principe, pardo; lam a
«d io » , cfr. Veru-lamio «città o recinto del lama»,
H ar-lem variante del precedente, cfr. Beth-lem « casa
del L am a»); Obreno-vich {Brenno — capo); Bosnia
« terra dell’asino » (lat. asinus, greco ósnos da #vós-
nos); Arn-aldo (Reginaldo) « re nobile» (questo no-
me in francese è rimasto alla volpe: renar d i); W il-
son « figlio del Baal »; A z of in Crimea « terra di Vasi
o vesi, Asi o Casi, cioè dèi » ; Stiria (ted. Stier, lat.
Taurus) «terra di Tori o Turingi o Dori e sim ili»;
Ines (cfr. greco Ino, donna); Al-fonso, Al-honso « il
ponzio o nutritore » ; Ilde-fonso « il nobile Ponzio » ;
Brun-ìlde « la nobile principessa ». Crim-ilde (signi-
ficato identico); Clot-ilde (Clot è qui il nome antico
della moglie, inglese lady, greco L etó « Latona », vale
velite, celta ») ; Lud-w ìg (Clodo = principe, + vingio,
«fecondatore»); Caroberto è lo stesso che Roberto;
R od-olfo (re - f elfo); P an d-olfo'(Ponzio + elfo); Ast-
olfo (Bitu o visto « re » + elfo) ; Ros-alba (regina—f
elfo); Luìt-prando (ted. leute «uomo, eroe + Brenta,
re, cervo, ecc.); llde-brando (eroe + re), Brande-bttrgo

296
(città del Brenta o Bretto o re) ; Ed-gardo (Ed —ved,
vitello, cfr. ver — capro + bardo, principe); Grimo-
aldo {G ramo, re, cfr. Crim-ilde) ; Gesu-aldo, Romo-al-
d o ; Visc-ardo (o da Weise «Saggio» o da Vesu —
isco, dio); Origene «figlio di H oro»; G aleazzo è
connesso con gagliardo, guaglione e gaglioffo (Baal,
uomo aitante, dio personaggio tragico) e forse anche
con Pagliaccio (a meno che non sia da connettere con
paglia « pupazzetto di paglia »); Anti-fonte « dio del-
la città », A rgi-fonte « dio di Argo », Anti-noo « men-
te della città o anta o monte » ; alci-noo « mente del-
l’arce o città » ; Oronzo ricorda il nome degli Aurun-
ci cioè « aurei, biondi » detti in Africa Ausei e in Ibe-
ria Ause-tani. Gli ultimi nomi, è superfluo il dirlo,
non sono nordici.
Il siciliano Sisidda è diminutivo di Gisa, donna;
Concetta non è da « concepire » ma corrisponde allo
spagnuolo Conchita (piccola ì{onka, forse femminile
di un nome indicante re, cfr. inglese K ing, re; Pa-
squita, femminile di Pasqua o Bacco; Blasco — Pela-
sgo; L o p e = Lupo; Giuditta, etiopico Zaoditu «la
Giudea»; N em -rot (Nembrotte) il «num e rosso»,
cfr. il nome semitico della tigre nim-ris.
Infine, ecco alcuni nomi di luogo: Viadana e Pià-
dena sono varianti (^platina = pianura) ; In-duno
(città, duna del fiume o della sorgente, In n); Oxus
« bue, fiume », Jax-arte « gran fiume, vacco + alto »);
Tol-one, Tol-edo, Tol-osa (arabo teli, collina, città);
Goti, S-cotti, Cotii sono varianti; Born per m onte
si trova in francese borne, in ]a-vorn-i\, in Pader-
born, in Parn-ete, Parn-aso, forse in B orneo; Sparta
significa « città sparsa », Lacon ia = pianura in con-
trapposto a Messenia (montagna); Salò, Salorno, Sa-
lerno, Salona accennano a mare o acqua in genere
(cfr. sale, derivato dal nome del mare e non vice-

297
versa); Upp-sala {a m b a-{-m are «città di m are»);
M elfi, M elpo in Alta Italia, e A -m alfi (rad. mal,
m el, monte); Kov-no, K iew (cfr. Gub-ium «m on-
te »); Dub-lin, Dover, Tabor, D oberdò, Dobrugia,
etiop. debra (monte) contengono la stessa radice del
precedente in una variante con dentale; Com o «ter-
ra », A l-cam o è variante; Boeri significa « contadini »
ma in origine doveva essere affine a Bayer (Baviera)
e Boiardi di Russia. Norvegesi (N or-w egen) « bec-
chi o vacchi o vingi del mare» cfr. N ord « il paese
del m are» (per gli abitanti dell’Europa centrale),
noria «pozzo», nar nome semitico per «fium e»
e di lago italiano, N arone, N arento, Narni, ecc. N ar
è dunque lo stesso che m ar (mare), e ciò dipende
dal fatto che la radice è K a {sa) « Santo » e l’allarga-
mento può essere ca-m-ar, ca-n-ar, ecc. Per questa
ragione avviene che quasi sempre le parole comin-
ciami in n hanno varianti con m , perché le conso-
nanti dell’allargamento sono variabili, essendo tali
consonanti iniziali non radici, ma consonanti di al-
largamento: es. greco nyssd «colonnetta, m onte»;
e m eta (colonnetta) e massa (monte); nappa e m ap-
pa-, nux (noce) e amyg-dala «m andorla»; lam a (col-
tello) e Lan-ista (gladiatore); Ferdi-nando (princi-
pe -f- eroe) e *m antho «uomo, eroe».
Il cognome inglese Tudor rende la pronunzia po-
polare di Theodor-, quello degli Stuart rende la pro-
nunzia di Stew-art (cioè «uomo della stiva» «no -
stromo»). Essi ci offrono materia a interessanti ri-
flessioni, mostrandoci che per le parole per le quali
non esisteva tradizione letteraria, la scrittura, ripro-
ducendo la pronunzia popolare, non aiuta in alcun
modo l’etimologia, e anzi la intralcia (come già det-
to in un articolo precedente).
Termino con alcuni cognomi: Bertu, Bertuetti,

298
Bertazzoli (Berto); Peretti, Perotti, Pirelli, Perazzi,
Perazzoli, Parazzoli (Pieri); Pisenti, Pesenti (Pez-
zenti); Luzzatti (Luciacci); Zupelli (Zoppetti); Sàn-
dron è nome veneziano (Sandròn per Alessandròn)
passato in Svizzera dove cambiò accento e si rese
irriconoscibile; Velarditi (forma diminutiva spagno-
lesca di Berardo o Belardo), Belardinelli, Gilardi,
Ilardi, Verardi, Gherardi, Girardi; Ottolini, Otto-
lenghi (Otto, Ottone = Gott, dio); L ap i = Lupi (cfr.
Lappon i, eroso da Olaf, * V o la f); Ghidini, Vidoni,
Vidussi, Vidussoni; Zampini (Gian Pino), Zambelli,
Zambeletti, Miglietti, Migliacci, Miglioli, Migliori
(Emilii), ecc.

* XXIII. - C u r io s it à l e s s ic a l i.

Il presente capitolo è dedicato alla esplicazione di


alcune etimologie che non sono date dai vocabolari
etimologici, o che sono ancora controverse.
Il ted. G renze «confine» è da rad. car «divide-
re » e connesso con l’it. grinza (ruga, solco che di-
vide) e grinta (smorfia, aggrinzamento del viso);
nella variante senza n abbiamo it. ridere (che fa ag-
grinzare il viso) e frane, ride « grinza » ; ma it. riso
nel senso di cibo è analogo a greco \rithé «o rzo »
(rad. car, nutrire, come in carne, cuore, crudus, gra-
num, ecc.). La parola it. lira (moneta) è da libbra,
l’it. lira (strumento musicale) da cal, suono, lat. lira
« solco » da cal, dividere. Atrio è da ater « nero, af-
fumicato » e questo da sat « Santo » ; onde greco
éthris « vittima, sacrificio » : l'atrio era dunque la
casa delle offerte sacrificali agli dei domestici, e
Atreo significa « Sacerdote ». Il nome dello Styge
è connesso con lat. stag-num da confrontare con

299
Tag-o fiume spagnuolo; il greco stygéo «odiare»
vale dunque « considerare cosa infernale » ; quanto
a tyg, tag o è variante di «tuffare» (1) o significa
«dio lucente» cfr. ted. tag «giorno» e lat. due-
tti. dio, guida ». Il lat. gena « mascella » è da rad. can
« tagliare », cfr. francese can-if « temperino » greco
gnàthos e it. gan-ascia, greco a-kjn-à\es «spada»
onde lat. nex (eroso = morte), e greco ni\-ào « vin-
cere » cioè uccidere.
L ’a iniziale di akjnakes è articolo e denunzia che
l’oggetto era in origine considerato dio (a = ia
«dio»); invece lat. vincere è variante di vincire «le-
gare il nemico », rad. vi « girare » lat. victima, ted.
widmen « offrire vittime, dedicare ». La parola ar-
gano è variante di organo, connesso con greco ergo
«lavorare» e ted. w er\ «lavoro»; è da una rad.
vi, ver « girare » che esprime idea di ruota e di mac-
china: lat. art-es «arti», ted. arb-eit «lavoro» sono
forse varianti; greco herk^os (della stessa radice) va-
le «recinto, chiusura», cfr. it. orcio «recipiente»
(invece orco è hircus vale «capro, diavolo»). Greco
orthós vale ritto, rad. \er, cosa scabra, che taglia:
connessi sono it. erto, irto e lat. horr-idus «irto, riz-
zato » (onde lat. horreo : « mi si rizzano i capelli »),
greco or-ny-mi « sorgere, rizzarsi », lat. or-ior e origo
«origine, luogo da cui spunta qualche cosa»; ted.
hard «duro», it. cardo «erba spinosa» lat. ard-uus
«difficile, aspro e anche alto» e arto nel senso di
«alto» che si trova in nomi di persone e di luoghi:
es. Art a «paese alto» della Carnia; Arta-jerne, Jax-
arte, Ur-artu, tee.
Frizzo è variante di freccia, rad. fir, pir come in
ferire, s-per-one ecc.; s-ghembo è connesso con gre-

t i ) Ted. Tauch-en — tuffare.

300
co kàmp-to «piegare» e gomph-os «chiodo» (per-
ché i chiodi avevano la estremità a uncino come dice
la stessa parola lat. claudus, rad. \el, girare e claudi-
care «zoppicare, aver le gambe storte»); bert-eggiare
è connesso con bert-uccia « scimmia » quindi « scim-
miottare » {berta significa « dio » cfr. ted. pferd « ca-
vallo» bard-otto, leo-pardo ecc.); mani-s-calco ((il
fabbro del signore » o « il signor fabbro », siniscalco
identico al precedente (lat. sen-ex ((anziano», cfr.
Senoni «dei»); greco isch-yrós «forte» vale «tena-
ce come il visco» (visco da vigeo, variante di vireo
vale «verdeggiare»); greco aischrós «vergognoso»
propriamente «debole» (è il contrario del prece-
dente); inglese bill «uccidere» rad. col, tagliare, co-
me in col-tello ; ingl. ili « malato » eroso da bill « col-
pito, abbattuto»; it. sciocco vale ciocco e ciuco; ingl.
sic\ ((malato» forse vale secco, emaciato (connesso
con it. succo e secco, ted. s'àugen «nutrire»: parola
esprimente idea contraria); lat. mac-er «macerato,
abbattuto», greco mikrós «piccolo» è affine al pre-
cedente (invece greco ma\rós esprime il contrario
« che schiaccia, che ha grossa mole ») ; greco echo
« avere » da *secho propriamente « nutrire », onde
lat. seq-uor, ((seguire, essere socio, nutrito»; greco
echó (eco) è connesso con vox; it. zoccolo «parte
bassa di una cosa» è propriamente «tronco» frane.
soc, ciò che nutre l’albero, in siciliano zuccu «tron-
co d’albero» (cfr. anche francese souche, ceppo);
it. ceppo è cappio e anche capo, cespo, cespuglio (con
intrusione di r); lat. opinari è da *Jovinare «essere
Giove, capo, comandare, pensare»; grato è «essere
legato come in graticcio»; lat. co-hors è per errore
creduto da Max Miiller identico a corte\ corte è
da rad. cor, giro, recinto; cohors invece è «insieme
di guerrieri », di heros, ted. herr, signore, inglese horce

301
«cavallo»; lat. temere «senza ragione, a caso» (on-
de temer-arius) è connesso con ted. dàmmerung
« crepuscolo » significa perciò « alla cieca » : a sua
volta Dàmmerung è connesso con ted. Dampf «va-
pore», quindi « nubilosità » ; Dampf è connesso con
greco thyo e lat. fumus-, it. tanfo è connesso con ted.
Dampf « vapore, esalazione » oppure con greco ta-
phos «tom ba» quindi «odore come di tomba»;
greco thiasos « associazione orgiastica » poi « associa-
zione» è connesso con thyo «esalare» (queste as-
sociazioni erano infatti dette anche orgeones, dov’è
l’idea di «orgia» da por, ribollimento, fuoco» cfr.
lat. (b)uro e greco pyr «fuoco»); lat. pur-us è con-
nesso con greco pyr « fuoco » cosi come lat. ignis
« fuoco » con agnus « agnello » ma propriamente « pu-
ro, santo» (da *Sacntts); piota è variante senza n di
pianta nel senso di « cosa piatta » pianta invece nel
senso di «albero» è da poi «nutrire»; chiacchiera,
veneto ciacola, variante senza n di ciancia; spranga
è connesso con ted. pr'àgen «pressare, serrare»;
branda o veranda (vir, girare) significa «cancello
che gira intorno» (it. cancello a sua volta è con-
nesso con cancro, perché i ferri attorti a ghirigori
somigliano a zampe di gamberi); brandello, brano,
frane, brin « piccola parte di una cosa » sono da pir,
tagliare e connessi con brando (it. pranzo e brìndisi
invece con lat. poro, mangiare); sgorbio è «scorpio-
ne », scarabocchio « scarafaggio » entrambi sono me-
tafore; facchino è per *pacchino «porta pacchi»;
ted. Quelle « sorgente » è il lat. polla, ted. quer « ob-
bliquo » è il lat. per (attraverso) ; ted. Sette « parte »
è connesso con lat. ab-sidis «cella separata», con
ted. sond-ern « separatamente, all’opposto », e greco
(s)ater «senza» propriamente «separando»; il no-
me greco del vento Euro è da *Sev-uro cioè è una

302
variante erosa di zéphyr-os (o forse anche connes-
so con lat. haur-io « seccare, essere caldo »); lat. saepe
«spesso» vale « siepe» cioè cespuglio (perché gli
antichi facevano siepi con le piante); e il senso di
«pianta» è connesso con rad. sap, sep «generare»
(cfr. lat. pro-sap-ies); etrusco pma «m oglie» sta per
*puva (onde puber, puer ecc.) quindi è identico a
ted. Weib «moglie» greco hebe «giovine», ebraico
Havvah « Èva » malese ibu « donna, madre » ; ted.
Fisterniss «tenebre» è propriamente «chiarore co-
me per piccola fessura o finestra » (ted. Fenster =■
finestra) con una semantica simile a quella per cui
lat. crepa «fessura» dà crepuscolo-, ted. West «o-
vest » è propriamente « fossa » dove cade il sole (cfr.
Hesp-eria, Hisp-ania, *ve-sep-elio, ecc.) rad. ve «pun-
gere » come in vespa, vas (vaso, cavità), vasca, greco
ósp-rios «pianta» cioè cosa seminata o seppellita,
forse anche in greco baf « immersione » (ma qui può
esserci altra etimologia); ted. schwer è il lat. severus
«grave, difficile» (da sev, santo, nutriente); ted.
schwuren «giurare» può essere connesso con lat.
turo da *vuro «invoco il dio»; ted. schweigen «ta-
cere » può essere connesso con greco sigào « tacere »
ma c’è qualche difficoltà fonetica; bacino è connesso
con ted. Bach «torrente»; ted. Ab-end «sera» pro-
priamente significa « fine » (inglese evening « se-
ra » = *ab-ending)\ ted. Morgen «m attino» è con-
nesso con margine «rottura» dunque: «al romper
del giorno » ; linea è da rad. cal « dividere » dunque
«divisione»; ofàno «vano, altero» è connesso con
greco pbaino «apparire»; ufo, offa sono connessi
con lat. opes a ricchezze » (propriamente « pecore »
oves')-, greco tau (la lettera t che indica anche la cro-
ce) è connesso con it. tav-ola, ted. s-taff « bastone »,
significa dunque « palo » ; it. staffa invece è da stare,

303
come anche stufa = stanza, e stufo « essere sudato,
annoiato» perché messo in stanza calda a stagiona-
re); proda — prato, praed-ium e braida ; lat. ora
« spiaggia » è greco chora, terra ; prode e prod-igio
sono connessi con greco protos ((principe, prim o»;
zav-orra è connesso con sabb-ia; tara con terra « sco-
ria» scoria con cuoio, pelle-, ted. L uft con ingl. bluff
e blow « soffiare » (rad. bai, girare, correre, quindi
«vento, corrente»); repente — a ch.t s’insinua come
serpe»; serpe vale «dio » e ha dato origine a ser-
pere ((serpeggiare» (cfr. seraf- serafino; ingl. sherif
«sceriffo»); campione è da ted. Kampf « lo tta» lat.
campus «campo di battaglia»; francese sot «scioc-
co» it. sozzo connessi con sud-icio; marciare = pe-
stare poi «camminare» (cfr. marcio, marcia «pus
da ammaccatura », marza-pane « dolce tenero »,
mart-ello, ted. hammer «martello» e «pietra per
pestare» ecc.); cretino — stupido come un pupattolo
di creta; schifo = scafo, ingl. ship = nave «cosa ca-
va» (e siccome lo scafo ha la sentina, passò al si-
gnificato di «cosa nauseante» onde schifare e schi-
vare)-, e connessi sono frane, équipe « la nave, la
ciurma della nave» ed equip-aggio-, schiatta è con-
nesso con ted. Ge-schlecht «generazione», rad. cal,
generare: cfr. ingl. child «fanciullo», etrusco cilth
«gente» it. gilda, ingl. Guild-hall «casa della co-
m unità»; evitare «girare al largo» (lat. citare, con-
nesso con vite, vitium, rad. vi, girare); scemo forse
non è, come credesi, da scempio « semplice » ma da
sema « Santo » passato poi a significare in inglese
e ted. vergogna sessuale, da noi « sciocco » (si po-
trebbe anche pensare a un *ex-cimare «diminuire
il livello»); bizzarro è da bizza connesso con ted.
beissen «m ordere» e biscia «animale che becca»;
osanna = « o santo » « o zanni » (= santone, oggi in

304
Sicilia «ciarlatano, taumaturgo»); lat. ex-cellere con-
nesso con collis, tollere «levare in alto» connesso
con arabo teli, collina; lato (fianco) è connesso con
lat. latet «nascondere» vale dunque «cantuccio»
,(rad. cal, cavità, come in celare «mettere nella cel-
la, nascondere»); urrah «il re» «evviva» spagnuo-
lo arrivai (burro o pino « re», ravo « re » ); tacc-
uìno da tacca (legno nel quale si segnavano con tac-
che i prestiti) (1); lat. lig-num « legno» da *\alig, on-
de alga, greco lig-ys «giglio» ecc.; sarg-asso (salg,
albero, erba); lapazzo, lat. lapathus (calp, albero);
alb-urno connesso con albero-, a-cervo ((monte, cal-
pe, o alpe» {corpo è invece da car, nutrire come
greco soma «corpo» è da sa, nutrire); tacere forse
è connesso con greco the^e, lat. tesca «tempio, tom-
ba, ripostiglio di reliquie, cripta» quindi «silenzio
come di tomba » (cosi silent-ium è metafora, propria-
mente è la cripta mortuaria, la « sede delle anime »
cfr. ted. seele «anim a» lat. sili-cern-ium «pranzo
per i defunti»); tegere «coprire» connesso con i
vocaboli precedenti, o anche con greco teichos « mu-
ro » ; tocc-are rad. tic, pungere; di qui poi greco
tàs-so « ordinare » « mettere insieme, disporre »,
texere «tessere», e tynchàno «ciò che tocca, la sor-
te»; bicocca è da lat. vicus «casa»; pendo «pesare,
appendere » (rad. come in pungere); pendeo « sono
appeso»; greco aisi-mnetes «divino pastore, menan-
te»; gr. phylax «guardia» propriamente «uomo
della tribù o phylé»; gr. alph-iton « grano» pro-
priamente « alb-eretto » ; balza è il ted. Fels « rupe »,
frane, falaise «scoscendimento» (rad. rompere, co-
me in falla, falce, valle «solco» ecc.); zozza è con-
nesso con succiare per succhiare, rad. sa « nutrire»;
(1) Onde taccagno a strozzino » «che segna centesimo per cente-
simo ».

305
20. - L ’origine del linguaggio.
zotico è forse frane, sot, it. sudicio (connesso con
sud-or, invece suc-ido è connesso con succo); zaffe-
rano « fiore color zaffiro » ; catapecchia è connesso
con greco kata-pég-ny-mi «mettere insieme, costrui-
re » (rad. pac, come in pacco, o-paco, compatto ecc.),
_quindi: «incastellamento di case per poveri» (nel-
l’antichità i ricchi abitavano case basse, i poveri quar-
tieri elevati); lat. mit-is affine a mut-us vale «abbat-
tuto, malleabile », ted. mild « mite » è connesso con
rad. mal «battere»; s-ter-ile «privato» rad. tar, ta-
gliare; greco s-ter-eós «solido come terra»; zibal-
done variante popolare di zabaione (che vale zup-
pone, mescolanza di cose diverse); ingl. step «pas-
so» rad. tip, battere, pestare; steppa e tappa e ingl.
stop « fermarsi » sono invece connessi con stare « di-
mora » dei nomadi (cosi come prato, nella variante
con s intrusa * prast diè luogo a ted. Rast ingl. rest
« riposo » « dimora » es. Buca-rest « dimora del bec-
co», Brest nome di città in Francia e in Polonia,
ecc.); nodo è da rad. gen, hen che indica piegatura,
curvatura, angolo; con nodo è connesso nido (*cni-
do, pagliuzze tessute insieme; ma forse nido è da
connettere a rad. gen, generare); connessi sono nes-
so, noce, nocca, ted. netz «rete» greco nédyia «in-
testini» (pel loro attorcigliamento), sicil. nicu «pic-
colino » quasi « nocciòla » ecc. Indicando nodo, que-
sta rad. \en, che ha una variante kem ’ ha indicato
anche sporgenza: es. Cnido, isola dell’Egeo; greco
nesos e Naxos « isola », lat. nasus « sporgenza », nap-
pa o in forma non erosa canapia « naso, sporgenza »
(e in francese « cavità » es. nappe d’eau « pozzan-
ghera», in it. nappo «bicchiere»), e una volta mes-
sasi su questa strada indicò anche monte, es. greco
nyssa «colonnetta» (lat. meta), poi città (es. Nizza,
Nis-ibi, Nissa, Calta-nissetta, Niscemi, Nissoria, Nic-

306
/

osia, ecc.) e anche «terra»: ted. meder « a terra»,


arabo nadir (l’opposto dello zenit). La parola mon-
te, massa che si può ascrivere alla rad. di lat. manco
«dim ora» e che talvolta sembra indicare «dio»
(perciò uomo, cfr. manto che e uomo e monte, es.
Eri-manto), per confluenza di radici si può anche
connettere a ftem (piegatura, nodo): in altri termi-
ni, varie radici possono aver confluito verso questa
parola: perciò accanto a nyssa «colonna» c’è mas-
sa e meta «colonna»; accanto a noce c’è amyg-dale
(che non è connesso con mand-orla, questa è da rad.
mand, «mangiare»); accanto a nuca, arabo na\a,
e accanto a sicil. naca ((culla, cioè corda annodata
ad un albero)) c’è una parola indigena d ’altro con-
tinente hamaca ecc. Il nostro bravo o probo si trova
nel greco brabeùs «re delle gare» e in Brabante
« terra del principe » nel Belgio. L’it. orbo è da car,
dividere, ted. halb «dimezzato»; lat. alveus corri-
sponde a greco ftólpos «seno»; rivo è connesso con
greco rheo «scorrere»; rima con car, voce; risma
con car, dividere; rapa con *vrapa, rad. vor, man-
giare (significa «radice»); barba è radice; cocchio
è cosa rotonda, cfr. cocco; mincere è connesso con
minchia « organo maschile » che è da ment-ula cioè
« monte, sporgenza » (come mento, che è sporgen-
za, monte del viso); vetro è da videre, vitrex (salice)
è da videre, perché si specchia nell’acqua; ted. glas
«vetro» è connesso con lat. glac-ies «ghiaccio» e
con lat. gelu «gelo» rad. cal, lucente; cristallo è
connesso con crosta (crosta della neve, rad. ftr, cfr.
lat. cor-ium « pelle » ; lenzuolo è da cal, dividere,
vale «fetta di tela» (cfr. sicil. lenza «spezzone di
terreno» e ted. grenze «confine»); ira è connesso
con lat. (b)uro «fuoco», con hora «luce» con iride \
indica il divenir rosso, onde anche rab-ies «divenir

307
rosso», lat. rob-ur «forza, aver sangue, esser di buo-
na ciera » (aera cfr. greco \ères « apparizioni » rad.
car, luce); furore è connesso con lat. fera e ferox
(rad. fer, fecondare, essere dio). Il nome del cavallo
scozzese poney vale « bonus, bano, dio»; canna è
« cosa cava », cannella è canna aromatica, cinnamo-
mo «cannella o aroma per mummie, per imbalsa-
mazione»; cin-abro è terra per fare vasi o canne,
poi terra rossa. Il ted. As-gard «Olimpo degli dei
nordici » è da Asi (dei) e gard « recinto, città » (rus-
so Grad, greco chortos)\ ted. ebene «pianura» è
connesso con sav-ana «santa, fertile»; noia è anne-
gamento, soffocazione (frane, noyer)-, greco miséo
« odiare » è connesso con mys « cattivo » (nome an-
tico di dei, poi anche del topo ; topo — tappo, per la
sua somiglianza a un batuffolo o batacchio); spilor-
cio è da spillare; idoneo è connesso con vìdeo «di
bella apparenza» o col verbo guidare «che guida
a...»; immergo è connesso con mare «tuffo nel-
l’acqua»; s-pargere vale «dividere» rad. par, cfr.
parte, Parche, ecc.; pala, palma = piatto, connessi
con planum (propriamente « fertile » come soglio-
no essere le pianure); aspro è da vasp, pungere, cfr.
vespa, vespillo «affossatore» ecc.; zonzo deriva da
zanzara, forma satem di cancer « insetto » (cane,
pungere); gambero è da gamba (che ha molte gam-
be); ted. tropfen «goccia» è connesso con greco
tròpo «volgere, riversarsi»; ted. Traube (vite) è,
come it. tralcio, connesso collo stesso verbo (attorci-
gliarsi); quatto è variante di quieto, connesso con
greco \ei-mai «giacere» come lat. ci-vis «abitan-
te», greco \om e «villaggio, abitazione» it. Como,
Cuma «città sul monte», it. cima; lib-are è da lab-
bro «bere» o da labr-um «vaso»; ted. Kràmer
«mereiaio» è connesso con greco keramis «stovi-

308
glia» (stov-iglia da stufa, stanza, cucina); lat. pro-
perare « spingere avanti », vitu-perare « spingere a
tornare, a pentirsi» {vi, vite, idea di girare; per,
«pungere» cfr. fer-ire, s-per-one ecc.); spiedo «che
punge», asp-ide è eroso, cfr. vespa, asp-er, ecc.; Ar-
iecch-ino forse è il « signor biechi » (demonio russo)
o Locf^e (demonio nordico); mandar-ino (frutto) è
connesso con mand-ucare e mat-urus (nel senso di
funzionario cinese è dal sanscrito mantrin «consi-
gliere» cfr. il nostro mentore)-, greco ha-pax «una
sola volta » da sa (insieme) e pac « unire » « unito
in un solo pacco»; contumace «che disprezza la
legge» (cfr. contumelia e contemneré)-, lat. lab-or
« fatica » o da lav (cfr. lav-are) « pallore » o da cal,
tagliare, abbattere (cfr. stanco, da ti, pungere; lat.
fess-us e fat-ica sono connessi con fendere); ted. scha-
de « danno » connesso con scheid-en « tagliare »; ted.
Luge «bugia», List «astuzia» (rad. cal, celare);
ted. Klug «saggio», connesso coi precedenti; ingl.
clever «abile» forse connesso coi precedenti, forse
anche significa «ligure, principe, bravo»; lat. um-
bilicus {amba, monte, cosa rotonda); lat. um-erus
«om ero» da amba, monte, altezza; it. arra «capar-
ra» è forse connesso con garanzia-, ted. fang-en
«prendere» connesso con ted. fing:er «dito» (vale
«pipa, pupetto, cosa lunga» o forse è connesso con
greco phaino, mostrare); sicil. cuòccìu «tum ore»
cuòzzu (nuca) onde gozzo passato ad altro signifi-
cato; e cuozzu (colle) che si trova anche in Taglia-
cozzo: da queste parole derivano cozzare e incoc-
ciare: onde coccio vale «cavità» e anche «spor-
genza» «capo»; it. moina è forse connesso con lat.
mina (moneta) perché portava l’effige, e con mina
(miniera) dove si scava il metallo che riflette le im-

309
magini: cfr. mani, manifestare ecc. (idea di appari-
zioni, di spiriti).
It. gabbare vale « danneggiare » rad. cap, tagliare
(cfr. ted. Kaput «rotto», it. cappone «castrato»
ecc.); ted. E he «matrimonio» è il lat. jug-um; ted.
Krebbe «mangiatoia» è l’it. greppia (vale groppo,
sporgenza, altura dove si pascola); Cedro (albero)
« santo, nutriente, puro, cfr. greco fatharós « pu-
ro»; si usa anche per sorgenti (es. Cedron, il torren-
te a sud di Gerusalemme), e per greggi, città ecc.
(es. Gadara). Col greco zéo «bollire» è connesso
l’etrusco zutos ((bevanda fermentata» e il sicil. zito
(fidanzato, uomo in calore), e questo è poi connesso
al greco zetéo «desidero». Non sembri strana que-
sta derivazione da una lingua ad altra: non si trat-
ta di parole prese in prestito; è un medesimo mec-
canismo lessicale, che è spiegato in altra parte di
questo lavoro.
Il ted. bleib-en « rimanere » vale propriamente
«essere lupo» «vivere», onde è variante di leb-en
«vivere» che è eroso. La connessione di bleiben con
greco leipo « lascio, faccio rimanere » è probabile. La
semantica è uguale in lat. maneo che vuol dire
« essere uomo, vivere, dimorare » e perciò anche « ri-
manere». Il lat. laxare invece è connesso con lac-
erare : rad. cal, tagliare la corda, rilasciare uno. Lat.
laqu-eus « laccio» è della stessa radice di lig-are
(da *plic-aré), o forse anche è connesso con lap-azzo
e calappio-, vale a dire, rad. calap, albero, ramo d’al-
bero, che serviva da legame (cfr. fune connessa con
fieno, perché fatta con erba) (1). Gotto è connesso
con greco \6tton, lat. catinus (recipiente); lat. gutta
«goccia» suppone un *guttare «versare il gotto»
(1) Invece lat. junus «fu nerale» è connesso con greco phonco « u c -
cidere ».

310
mentre non è sicura la connessione con ted. giessen
«versare» e lat. haurio (*hausio): «versare, secca-
re ». Vagare è da rad. vie « girare », lat. vacavi è va-
riante, ma con senso passivo: «in cui si può girare»
perciò (( vuoto ». La parola it. vuoto può darsi sia
variante di frane, vide (vuoto), lat. viduus «orbato,
privato», di-vid-ere «spezzare in due» (connesso
con ted. beìde «ambedue»); ma forse non è altro
che metafora da voto, perchè d’ordinario gli ex-voto
sono oggetti non massicci. Vulva è variante di valva,
per somiglianza: rad. vel, girare, «cosa rotonda, con-
chiglia. Lat. cap-io «prendo» è da rad. cap «cosa
piegata » (cfr. greco Kamp-to « piegare », it. s-ghem-
bo, ecc.): quindi «afferro». Lat. axilla (ascella) è
così detta perchè è l’asse o perno del braccio; apice
o da apere « raggiungere, toccare » quindi « estremi-
tà, meta » oppure da amba « monte » nella forma
senza n (cfr. greco apó, apo-geo, ecc.). Il termine
vacca non indica solo la mucca, ma tutto ciò che è
nutritore, «dio»: es. Acca Laurenfia (la nutrice dei
Lari, perché le mogli erano addette al culto dome-
stico), aqua da confrontare con ainu vah\a = ac-
qua; Aachen «Aquisgrana» cioè le «aque»; occi-
pite? (avvoltoio, « veloce-volante »). Il greco ei\6n
«icone, immagine» è da vie «girare, scambiare»;
perciò greco éoi\e « sembra » significa « si scam-
bia per». It. sembrare è da « simulare» è questo da
simile « essere simile », lat. similis è connesso con
simul «che va insieme, compagno». Noi diciamo
basta cioè «nutre», i latini dicevano satìs «abba-
stanza», rad. sa «nutrire» cfr. sat-ius; i Greci dice-
vano ar\eì « basta da *sar\ein « nutrire », cfr.
sarc-s «carne», ted. sorg-en «curare» propriamente
«nutrire». Ted ern-st «serio» è connesso con ver
«principe, dio» cfr. ted. ersi «prim o», lat. ser-ius

311
connesso con Sire (1); ted. Wild «Selvaggio» con
wald « bosco » (propriamente « che nutre, dio, baldo »
variante Veld « campo » ; ted. holz « legno » è da col
«nutrire» (cfr. ol-eum da col); ingl. wood «legno»
è variante di ted. wald «bosco»; inglese harb-our
«porto» è connesso con greco \6lpos «golfo»; gre-
co akeón « taciturno » è composto da alfa privativo
-f rad. a \ per va\, lat. voc-s, cfr. echó (*vechó). Casta
è da casto, nobile, fecondo; costume è «regola di
casta»; il ted. \eush «casto» è connesso col nome
dei Cusciti o Cassei o Casti. Mandra è connesso con
maneo « dimora » o anche con mandro (( animale,
dio» quindi «insieme di m andri»; sobrius forse
con sap-iens «saggio», greco téras prodigio forse
con dirus « dio » (cfr. greco teros, ebraico ter che for-
mano comparativi) ; spondeo (« far libazioni », quindi
«promettere solennemente invocando a testimoni i
m orti» è variante di spandere; re-spondeo «rispon-
dere» è il rito con cui l’altro contraente dichiara,
facendo a suo turno libazioni, di accettare il patto.
Polliceor « prometto » è propriamente « spingo,
induco» connesso con lat. pellere «spingere» e con
pollice, il dito che spinge o preme; arabo al-ambiq
(lambicco) è connesso con am-ph-ora, amp-ulla (am-
ba, monte, cosa gonfia); lab-rum « vaso » da colab
«cosa cava»: labbro detto della bocca, è metafora
(cfr. ingl. lip) ; lembo è metafora di labbro, (cfr. in-
glese lip, variante senza n) nel senso di orlo: si han-
no cosi le due varianti libare, lambire; greco lamb-àno
«prendere» è eroso da cal. tagliare: connessi sono
greco kjép-to « rubare » e lat. carp-ere « carpire » e it.
*grub-are onde rubare. Cosa curiosa: it. «la roba»
significa « ciò che si è bottinato o rubato » roba
(1) Ted. ern-tcn invece è da *Kern-ten (Kern, grano) quindi
<r raccogliere il grano, far la raccolta ».

312
dunque vale rubai La parola della litania Eleyson
« abbi misericordia » è connessa con ted. Elend
«miserabile, da compiangere» (rad. hel, dio, sono
santo, commisero); predica non da prae-dicere ma
da pred. (cfr. ret-or da *pret-); variante è prec-or
«prego» lat. rogo (eroso), ted. fragen «domanda»,
ted. s-prech-en «parlare» ingl. preach «predicare»;
lat. hort-or « esortare » vale « urtare, spingere », lat.
urg-eo «che urge, sollecita» è connesso con organo,
argano « ruote, ordigni » con greco hér\os « chio-
stra, chiusura», e significa «stringere, rinserrare»
(rad. vi, girare, come in orb-s «circuito»); tedesco
schlimm «cattivo» vale forse seiimo (nome di po-
polo antico), russo sloi «cattivo» vale forse sellós
(antico nome di popolo, e anche dei Greci o Eliot),
e russo durnoi « cattivo » vale forse « turno, tirreno »
(si tratterebbe dunque di parole di odio da popolo
a popolo); gr. ónar «sogno» (forse da *omr «om-
bra», o forse meglio anér «lo spettro del defunto,
l’antenato-dio, cfr. larva e lar), onde nuraghi « templi
dove si va per le visioni». Ted. leg-en «porre» lat.
plaga (nel senso di piaga o è metafora da placca, per
somiglianza, o è da rad. pai, « spaccare ») ; lat. ar-
biter «arbitro» è, nonostante la sorpresa che può
causare il confronto, il ted. arbeit-er «operaio» cioè
quindi «lo specializzato, il perito, il competente a
giudicare». Ambra è da *samar, eroso mare (cosa
santa o marina); it. sàmara è a seme, fecondatore»;
it. refe, ingl. rope « corda » è forse metafora per ser-
pente (greco rhépeìn « serpeggiare » rhap-to « cuci-
re»); it. pettegola è pìthecula (nome di vari animali,
fra cui scimmia, pappagallo, ecc.); boa vale «capo,
dio» (cfr. lat. bos, bue e ingl. boss «il capo, il pa-
drone»): per analogia noi chiamiamo boa una ca-
tena che stringe l’àncora, e boia lo strozzatore; greco
àmpelos « vite » vale « santa, nutriente » (da sam-
elos, variante con m di seb, cfr. gr. seb-o-maì) (1);
ingl. miss « signorina » corrisponde a lat. musa, pro-
priamente « la santa, la diva » analogo a Mose (da
camuso, sacerdote); ma in taluni nomi il gruppo mos
(m /) vale « figlio », cfr. irl. mac « figlio ».

*XXIV. - N u o v e c u r io s it à l e s s ic a l i e d i s t o r ia

ANTICA.

Sono spiacente di dover togliere ai miei lettori


qualche altra illusione sui Greci. Quante volte non
abbiamo sentito levare ai sette cieli la concezione
tutta greca (sic!) della dea Atena, la vergine casta e
guerriera, personificazione dell’intelligenza, il cui
tempio, che è insieme una delle meraviglie dell’arte
di tutti i popoli e di tutte le età, voglio dire il Parte-
none, sembra un inno innalzato alla purezza e alla
beltà? Ma era veramente una divinità greca questa
Atena, ed era proprio il Partenone, nel suo concetto
originario, risalente alla preistoria, un tempio per ca-
ste fanciulle ? Già quello scudo di pelle di capra (egi-
da) che Atena porta è un indizio sospetto, perché gli
indumenti di una divinità sono in genere il residuo
storico di un totem, e se Atena impersona il totem
della capra, essa non sarà con tutta probabilità diver-
sa da una delle tante dee orientali della fecondità.
Altro dunque che una casta donzella! Ma il nome
di Trito-geneia a lei attribuito è un indizio ancora
più esplicito: Atena non è nata in Attica, come co-
munemente si crede, essa è nata dal mare, in altri

(1) Lat. amplus « largo » è forse connesso con greco ampelos « vite »
con allusione alla larghezza delle foglie.

314
termini essa è stata importata in Grecia, precisamen-
te come Afrodite (1), da commercianti orientali, on-
de si può essere sicuri che la sua primitiva raffigu-
razione doveva essere di Amazzone, cioè di una
donna mammelluta sul tipo dell’Artemide frigia (2).
Le donzelle che servivano Atena perciò non erano
diverse da quelle che si trovano nei templi orientali
della dea luna (Astarte), e il loro attributo era la
fecondità adombrato nel mone Parthenoi (in origine
« parturienti »). Se viceversa in seguito questo nome
significò «vergine» ciò fu dovuto al cambiamento
delle idee morali verificatosi in Grecia per l’arrivo
di una nuova popolazione, e precisamente di una
popolazione di guerrieri, i quali consideravano la
donna come una proprietà del maschio, e cambia-
rono la nozione della castità (che in origine, pres-
so le popolazioni agricole, significava «fecondità»)
in quella di «fedeltà incondizionata all’uomo» e di
«contegno riservato, astinente». Anche l’epiteto che
si dava ad Atena, Pallade, è rivelatore, perché esso è

(1) Il mito di Venere nata dalle schiume del mare su una con-
chiglia non fu una invenzione, ma è un ricordo perfettamente rea-
listico. Le navi dei mercanti orientali portavano a poppa la statua
della loro dea regina, Venere-Astarte mammelluta (onde puppis fu
detta dal nome delle poppe) e i greci videro arrivare questa Venere
su una nave fenicia (la conchiglia), emergendo dalla scìa spumosa,
quasi nascesse addirittura dalle spume del mare.
(2) In tem pi tardivi, quando il nome di Trito-gencia non era più
intelligibile, lo si spiegò come « nata dalla testa » (di Giove), poiché
in lingua beota Tritò vale « testa ». Ma questo, com’è detto nel ca-
pitolo « Semantica sistematica » N. XVI, significa invece « mare » e
ciò cambia tutto. E il nome di Athena non è altro che quello di
Tana, cioè la luna, la Than-it dei Fenici (VA iniziale di Atena è ar-
ticolo; la t finale di Than-it un segna-femminile). Dunque A-thena,
Diana Artemide e Venere sono in origine tu tt’uno. Atena è una
matriarca di tribù agricola; e in quanto tale, essa è la regina e
quindi quella che guida le schiere alla battaglia. Come dirigente di
un’azienda agricola essa impersona la saggezza, e perciò più tardi
passò per una dea dell’intelligenza.

315
apparentato col lat. pellex, il quale indica tutt’altro
che le vergini (1).
Questa parentela della Grecia con l’Oriente non
è la sola su cui voglio richiamare l’attenzione. An-
che Artemide, come abbiamo detto, era una dea
orientale (2), in origine una capra, cioè una donna
in vesti totemiche di capra, e perciò tutt’altro che
una vergine. Tuttavia, se c e figura divina che nella
mitologia greca sia gelosa della purezza, questa è
Diana. Ma ncn mancano i tratti sospetti: essa ama
bagnarsi al chiaro di luna nelle acque del lago, e per
chi conosce il significato del bagno e dei chiari di
luna nella mitologia, questo rito è molto sospetto.
Siamo però in grado di rintracciare i dati precisi
della sua origine orientale.‘Nel mito greco c’è un
cacciatore, Atteone (della stessa rad. di lat. iac-io
« colpire », lat. ict-us <( colpo, dardo » significa per-
ciò « cacciatore » cfr. ted. Jag-d <( caccia ») che la
sorprende mentre ella fa il bagno; Diana allora lo
cambia in cervo, e Acteón viene perciò sbranato
dai suoi stessi cani. In questo mito, Diana ha agito
così per difendere la sua castità; ma disgraziata-
mente questo mito ha un precedente. Nella mitolo-
gia assira la dea lstar, che è una imperterrita caccia-
trice di amanti, trasforma in leopardo uno di questi
suoi amanti, Iz-dubar (Iz = vis, « dio » « vesu » dli-
bar cfr. ted. Teuffel «diavolo» e Tubal-cain (fabbro
+ gauno) che viene poi sbranato dai cani. Qui non
c’è alcuna difesa della castità; è pura malvagità di

(1) Il nome del Partenone perciò non è differente da quello latino


di lupa-nar (casa di lupe o mogli, di dive), e da quello di hagn-eàn
(casa di capre o agnelle) che si usava nella Licia: si trattava di luoghi
sacri destinati alla prostituzione rituale.
(2) Il nome significa « capra »: A rt sta per Vart, nome di Marte o
Ma-vort « padre Marte » in latino; em è segnasingolare, id segnafem-
minile; onde Art-em -id.

316
di donna che, come Circe, si diverte a cambiare i
suoi amanti in bestie. Diana limnea dunque non è
nata in Grecia; ha una preistoria assira e un certifi-
cato di moralità molto dubbio. Questo cambiamento
degli uomini in animali denunzia infatti un fatto
interessante: siccome gli uomini vestiti con le pelli
dei vari animali impersonavano vari totem, questo
preteso capriccio di mutare gli uomini nei più sva-
riati animali non significa altro se non che queste
donne esercitavano una prostituzione rituale e face-
vano collezione di amanti delle più svariate tribù.
Diana e la luna sono imparentate con le ninfe,
anch’esse ritenute vergini caste e punite quasi sem-
pre per non aver saputo abbastanza difendere questa
loro castità. Ma il curioso è che il loro nome signi-
fica «spose» (1) e che esse sono spesso raffigurate
come capre {Amadrìadi), figurazione che è super-
fluo dire che cosa significhi (basti ricordare che driadi
gr. dryvad- è una variante di tribadi). Esse stanno
a guardia delle fontane (altro particolare sospetto)
e nelle notti di luna vanno nei boschi a danzare coi
pastori. Ora, il significato della danza è essenzial-
mente sessuale (2), e perciò i riti di questi plenilunii
non dovevano essere differenti da quelle celebrazio-
ni orgiastiche, che nella mitologia nordica sono co-
nosciute col nome di sabbati delle streghe (3), caval-

(1) N ym ph- è da gynemp k (generatrice) cosi come lat. nep-ot


« generato, rampollo » è da *gnep, rad. gen « generare ». In egizio
la donna è detta neb da *gneb.
(2) I movimenti della danza riassumono le usanze matrimoniali
dei vari popoli en abregé, cioè in simbolo.
(3) Nota che la strega in varie lingue ha il nome della capra, es.
ted. hexe da confrontare con gr. aìx « cap ra» ; e ricorda l’Egeria del re
Numa, evidentemente una profetessa o maga in vesti di capra. Il nome
del sabb-ato è anch’esso rivelatore, perché era il giorno delle Sabae
(capre) cioè delle Baccanti che vestite da capre si abbandonavano ad
orgie sessuali (del resto, la parola è apparentata con arabo zebb « or-

317
canti su manichi di scope (simbolo di evidente sa-
pore freudiano). Che significato ha dunque questa
relazione delle ninfe coi pastori? Essa si spiega con
le condizioni particolari delle società preistoriche.
Avvenne allora fra i sessi una specie di divisione del
lavoro: le donne si dedicarono ai lavori agricoli,
nonché ad attività casalinghe (filare, tessere, ecc.),
compatibili con la loro maternità (1); gli uomini pre-
ferirono fare i cacciatori, i guerrieri, i pastori, ed
essi venivano ogni tanto a visitare le loro belle che
accudivano alle faccende agricole. Si spiega così per-
chè gli amori delle ninfe coi pastori abbiano luogo
quasi sempre di notte, al chiaro di luna, e in vici-
nanza delle fontane.
Queste ninfe, che in quanto svolgevano attività
anche notturne, erano dette streghe (con allusione
alla civetta lat. s-trix, che esplica la sua attività di
notte, cfr. anche Circe «la civetta, la sparviera, la
strega »), ci offrono un nuovo indizio di parentela del-
la civiltà occidentale con quella deU’Oriente. Le stre-
ghe notturne rapitrici di bambini nella mitologia
nordica sono dette Elle, nella mitologia assira Alla-t
(dove t finale è semplice segno del femminile), che
è evidentemente null’altro che il femminile del no-
me semitico Allah, « dio »; mentre in Grecia si chia-
mavano Gelló, Juló il quale ultimo nome era dato
gano maschile » e significava presso i Semiti il giorno di riposo che
doveva destinarsi al dovere maritale. La periodicità settimanale del
sabbato è in relazione con la fasi lunari, e di qui il suo carattere sacro.
(1) Di questa scarsa vocazione dei primitivi uomini pel lavoro
penoso (in contrasto con quanto avviene adesso) si legge un esem-
pio curioso nei Ricordi di M. D ’Azeglio. Gli uom ini delle campagne
piemontesi, quando si accorgono che un lavoro esige da loro molto
sforzo muscolare, te lo piantano là, dicendo: « questo è affare di don-
ne ». Essi conservano in altri termini u n residuo della mentalità dei
primitivi, che preferiscono per sé il lavoro irregolare e avventuroso
(caccia, guerra, ecc.), e lasciano alle donne il lavoro penoso e me-
todico.

318
anche a Proserpina, dea infernale e si trova nell’ El-
les-ponto (mare della dea Elle, dea infernale, ciò che
fa sospettare il mare essere stato necropoli, ove si
gettavano i cadaveri; e cosi anche lo Stige e la pa-
lude Stimphalia, dove la radice esprime l’idea di
tuffo). Gli Arabi chiamano Gule i mostri notturni,
e questo nome forse si ritrova nel francese houille
che indica il carbone tratto dalle viscere della terra e
che potè essere creduto una cosa infernale (per via
della sua infiammabilità) e nel nome delle ondate
marine (houle') le quali urlano come demoni e rapi-
scono negli abissi i malcapitati (1).
Questa concezione di Diana-luna come dea della
fecondità, anziché come vergine, è rimasta latente in
talune nostre superstizioni popolari. L’antica Diana
o Afrodite era mammelluta e callipigia; ciò significa
che si riteneva lo sviluppo delle parti grasse poste-
riori come un non plus ultra di bellezza e di attitu-
dine alla fecondità. Ora notate che noi attribuiamo
al numero 13 il significato di cattivo augurio; ciò
avviene perchè esso è al di là del 12, che per gli an-
tichi era un numero magico, perfetto, in quanto era
il numero dei mesi dell’anno. Virtù magiche si at-
tribuivano da taluni popoli (Greci, Romani, Etru-
schi) al numero 5 (2), che rappresentava le dita del-
la mano, e al 7, che rappresentava i giorni della set-
timana, cioè delle fasi lunari. Ma in talune regioni
d’Europa, p. es. in Sicilia, il 17 è ritenuto indicare
disgrazia; se ne può dedurre, per l’analogia del 13,
che il 16 è numero portante fortuna. Ora non è un

(1) Anche in fr. houlette (civetta); cfr. milanese jeìla «portare sca-
logna ».
(2) I Latini gridavano cinque volte lo triumphe, e raffiguravano
il dieci co! doppio cinque (X) ciò che poi fece X; i Greci avevano
il verbo pempàzomai « contare per cinque ».

319
caso che nella smorfia popolare il 16 significhi il
«sedere»; e che nel linguaggio triviale il sedere sia
diventato sinonimo di buona fortuna. A chi mi chie-
desse perché il 16 sia stato scelto a preferenza di al-
tro numero, non ho che a invitarlo a considerare il
significato lunare dell’Afrodite callipigia. Il plenilu-
nio, che rappresenta il massimo fiorire in bellezza di
questa dea, cade infatti nel 16.mo giorno dopo la
sparizione della vecchia luna; il 16 dunque è il nu-
mero della massima fortuna, perché in questo giorno
la dea spande in maggior misura la sua luce e le
sue grazie. Non saprei dirvi perché in Sicilia il sim-
bolo del sedere sia il numero 23; si può però a ti-
tolo probabile supporre che il computo dei giorni
da un plenilunio all’altro sia stato fatto a partire
dall’ultimo giorno del plenilunio precedente.
Ma se i Greci, contrariamente all’opinione corren-
te, non inventarono né Diana né Atena, ebbero però
il merito di averle raggentilite e moralizzate, e una
cosa simile avvenne anche nel concetto greco di
ginnastica (1) e di poiesìs (poesia). La gente (anche
quella dotta) crede che poesìa significhi « creazione »
da poìéo, faccio), ed è alle mille miglia dal sup-
porre che questa parola significhi «incantesimo»
cioè « fattucchierìa » (il verbo jare nei linguaggi an-
tichi ha questo significato magico che ancora, in
parte conserva nei nostri dialetti popolari) (2), per-
(1) Gymnós « n u d o » è connesso con gàmos (matrimonio, fecon-
dazione); la ginnastica in origine fu la rivista stagionale degli ado-
lescenti nudi, per l’accertamento della loro idoneità sessuale. Le gare
ginnastiche furono in origine le gare per scegliersi la sposa.
(2) In etrusco fasci è « fattucchieria »; in lat. fecialis era antico
mago fattucchiere, lat. jascinum è « fattucchieria », fantini (da *ftf-
snum ) « luogo di magia », ferine (da fesiae) « cerimonie magiche ».
Anche lat. carnem è piuttosto da rad. car « fare », « cioè fattucchieria,
incantesimo » che non da cano « cantare ». Il siciliano sfizio significa
« cosa fatta per capriccio » ma propriamente « per rompere l ’incante-
simo o la fattucchieria ».

320
ché la primitiva poesia fu la cantilena con cui si cre-
deva di poter comandare alle cose, per sottoporle al-
la volontà dell’uomo, e il peana (da poiéo « fare »)
che in seguito fu il canto pei morti delle batta-
glie in origine era il canto per guarire i feriti, e
peonio (dallo stesso verbo poiéo) era il nome di un
canto ma anche di un rimedio medicinale. Quando
Enea viene in Italia, suo figlio Julo (il villoso), vesti-
to di pelli di animali come gli stregoni, si occupava
di magìa, onde fu detto Ascanio (da *Bascanios)
perché i Greci del Lazio resero il lat. fascinum con
Bàs\anos.
Questa osservazione ci dà occasione di ritornare
sulla questione del viaggio di Enea in Italia. Si è
negato fin ora che elementi greci ci fossero nell’am-
biente primitivo del Lazio; e in altro capitolo vi ho
mostrato la falsità di questa asserzione. Vi basti qui
ricordare che i re del Lazio si chiamavano Proca,
con un vocabolo cioè che in greco è nome di ani-
male-dio, il cervo (prox); e che la moglie di Numa
si chiamava Egeria, cioè «capra» (1). Voglio ora
aggiungere un particolare piccante. Nel Turkestan
orientale fu scoperta mezzo secolo fa una lingua so-
migliante alla latina, il cosi detto Tòchri (Tocarico).
Ora pensate che gli uomini della Troade, che sareb-
bero venuti con Enea in Italia, si chiamavano Teu-
cri. È questa coincidenza puramente fortuita? Una
cosa simile sarebbe pensabile, se si trattasse soltanto
della somiglianza dei due nomi; ma ora viene alla
ribalta anche la somiglianza di due lingue in ac-
cordo con questi due nomi, e allora è lecito conclude-
(1) Ripeto qui alcuni nomi che denunziano l ’influenza greca nel
Lazio: Issa (isolai, cruna « buco », cfr. il nome della fonte omerica
Crune z= brine; lim ex « chiocciola » per somiglianza con una scala,
gtcco Klimax; lat. Odóre e Odysseùs; l a t amnis e Amnisós porto di
Cteta; lat. cloaca (Kluvaca) c kloùo «lavo».

321
' t .'origine aei Ungt:a~2ia.
re che la venuta di Enea in Italia è una di quelle
tradizioni che devono uscire dall’atmosfera del mito
per essere analizzate in sede di storia.
Termino con una serie di curiosità lessicali. Una
nuova prova che S-tyx (Stige) è dalla rad. tue «tuf-
fare» e che indicava perciò una necropoli (i cada-
veri si gettavano nell’acqua) identificata poi con l’in-
ferno, è nel ted. tauch-en «tuffare» che è connesso;
inglese pretty «bello» propriamente «bretto, pre-
te, britanno»; it. basso variante di fosso, cfr. greco
Bàthos «fosso»; Empedo-cles « il capo della città»
(Empedo variante con n di una parola corrispon-
dente a lat. oppid-um)', Concetto come nome pro-
prio è diminutivo di Concio, cfr. il cognome it.
Concino e lo spagnuolo Conchita-, Hugo vale Buc-
co, o forse meglio Gige, Gug, cfr. ted. Gugen-heìm
«città di Gheghi o zingari»; Gigi è da Gige, e non
da Luigi; ted. Cuna (nome) = Cane, cfr. l’it. Chino
e il nome dei Cunei (1); Malc-olm (Marco, cioè pasto-
re-}-re), Ol-mìitz «monte o città del Baal, del re» ;
Rand-olf {Brand, eroso rand « re » + elfo, cfr. Brati-
e Rad « re » varianti senza »); inglese wealth «ric-
co» propriamente «velite, guerriero»; ted. òde «de-
serto» cfr. frane, vide, it. vuoto e ingl. wìde «lar-
go, cioè vuoto, che ha spazio» (ted. wiiste, deserto,
cfr. lat. vastare)-, Osseti «m ontanari» cfr. Ossa
«m onte» in Grecia; coricarsi «ridursi a crocco o
uncino, acciambellarsi»; ringhiera «cancello dello
arengario » (cancello = ferri attorti a mo’ di cancri
o gamberi); Tirteo — torto, zoppo; Arn-hem «cit-
tà dell’Arno o Reno o fiume » {hem = heim, cfr.
frane, hameau «villaggio»); stiva — stufa cioè stan-
za (da stare) e varianti sono steppa, staffa e stoffa
(1) Nonché Cuni-mondo « re di C uni», Cune-gonda «regina o
cagna di Cuni o Cani », cfr. ted. H und « cane » e il nome degli Unni.

322
(materia, cosa solida su cui si sta, cfr. ingl. stop
«-fermarsi»); bighellonare (bighellone= bagolone =
baccellone); Ed-vige « il signor » (ed = ved = ver,
herr) capro (teig); Al-vise o Aloisio non è Luigi, ma
«signor» (al) capro (vig); issare cfr. greco hypsos
«alto» lat. sup-; Vences-lao « il Venco del popolo
o della città», Tomi-s-lao, S-tanì-s-lao « il Tano o
dio del popolo», Nep-tunus « il tano o tonno o dio
della nave»; Lua, nome della dea Bellona, da *La-
va = lupa, moglie, matriarca; Massi-nìssa «il Mosè
della città o nizza», Rada-messe, variante di Rada-
mantho « il rosso eroe, o uomo o Mosè»; amb-ig-uo
« che dice due cose » (rad. ag « dire » n-eg-o « non
dire » lat. aio « dire », rad. bag che è in greco phago
«m angio» in lat. bacca, in baiae «bocca aperta»
in voc- in ech-ó (greco — eco); Tarcisio — Tarque-
tias; ted. baefen «cuocere» connesso con frigio
Bekps «pane» e con veneziano baic-olo, vale quin-
di «fare il pane»; vin-dicare «stabilire il prezzo
del riscatto o venia » (veti-, greco Fovos «prez-
zo»); tangh-ero « contadinaccio» cfr. tanca «pra-
to» in Sardegna; it. birra ted. Brauerei «birreria»
cfr. greco Brodo « bollire, fermentare » eroso da ebbr-
a sua volta eroso da febr- «febbre, calore»; it. ma-
dido, cfr. greco methys «bevanda, liquido»; ted.
eis «ghiaccio» da weis «bianco»; lat. emere «com-
prare » da hamus « uncino » (ted. pamm — pettine)
quindi «afferrare, prendere»; greco osteon «osso»
da *kpsteon «cassa toracica)) (costa è variante di
cista «casta, cassa»); guizzare, cfr. frane, vite «pre-
sto» (idea di girare *vit, o di primato Bitu); futilis
vale re-jutilis « ributtabile, rifiutabile»; Spezia =
spazio, largo, golfo; scara-muccia (schiera + mesco-
lanza); greco speiro «seminare» rad. vesp- «sep-
pellire» o par «spargere, dividere», Sparta «città

323
sparsa, disseminata; Lace-daimon popolo della pia-
nura»; penetrare deriva da lat. penitus «in fondo»:
penitus = fino al pene, metafora con cui s’indicava
anche la radice, per somiglianza, e che è rimasta
nell’it. pane della vite (per somiglianza col pene);
greco alec-tryon «gallo» {vele « dio» + animale);
lat. laev-us «sinistro» da *claev-us, cfr. clivus «col-
le, pendice» quindi «inclinato» quindi la mano
storta, non salda; greco \ei-mai «giaccio» connes-
so con greco \ei- « q u i» ; greco askesis (ascesi) «di-
ligenza come quella del Vasaio, cfr. greco asìffd-ion
per * vas\ìdion «vaschetta, recipiente»; pisciare o
da pesce (metafora per l’organo genitale) o da pe, pi
ch’era l’antico nome dell’organo genitale raffigurato
nella lettera p (cfr. greco pé-os «membro virile»
e ted. pissen «pisciare»); frane, gaffe è connesso con
it. goffo e goffaggine {goffo = gobbo, ridicolo); pe-
sce è da pascor vale perciò «cibo»; tizzo, tizzone,
lat. taeda «fiaccola» (cfr. ted. Tag, danese Tid
«giorno» forse connessi con lat. div-us «dio, lumi-
noso»); it. aio (balio) vale avo, cioè *vavo, babbo;
it. piccolo vale big-olo, cioè piv-olo, pupetto, piccolo
amuleto in forma di membro virile (onde lat. phal-
era da phallus ed etrusco fiere « statuetta ») o anche
piccolo baccello (che ha la stessa forma), cfr. frane.
bijou «gioiello» propriamente «gingillo, amuleto»;
ging-illo variante di chinc-aglia «piccola chicca»;
Cheope = Khufu cioè gufo, nome generico di uc-
cello sacro degli Egizi, cfr. it. gheppio, ted. hab-icht,
rad. cap «che ghermisce» o cap «rompere, ucci-
dere» cfr. ted. \ap-ut «rotto», gabel «che rompe,
forchetta», cappone «animale mutilato», it. accop-
pare, frane, couper «rompere»; Kefren = Cafro, ca-
pro; frane, chicane, variante di cachinno «riso bef-
fardo» sicil. scaccànu e scaccaniari «sberteggiare»,

324
sobillare — sibilare, aizzare col fischio, come si fa
con certi animali; A-biss-inia «paese del Besso o
Bacco»; Pasqua «festa del Bacco che risorge, del
Pascià»; Ma\onen (nome abissino) = Magone, Ma-
go; Sador nome siciliano e abissino per Isidoro;
Papa-rigo-pulo (cognome greco) «figlio o pollo del
signor Enrico »; guscio, variante di cuccia « cosa con-
cava»; buccia variante di boccia, «cosa rotonda»;
cuscino connesso con it. cuccia e frane, coucher « ac-
cucciarsi » e connesso è pure cugino « della stessa
cuccia o parentela»; mosto «cosa spremuta» (cfr.
mattare, mozzare, mesto « abbattuto » morchia « pol-
tiglia» ecc.); mastice «pasta, cosa spremuta», ma-
stella «luogo ove si fa la pasta»; magma «pasta»
radice come nei precedenti; pampa «pianura»,
pàmpini «foglie larghe e piane», sicil. pampèra
«visiera, falda piana»; ted. stunde «ora» propria-
mente «seduta (rad. sta) della durata di un’ora»;
nei nomi svedesi Ingr-id (Angla), Astr-id (l’astro, la
stella, nome di donna) si trova la d finale segna fem-
minile come in molti nomi tedeschi e semitici (1);
sicil. stiggh-iólu «membro virile» e, per metafora,
«cosa lunga», sicil. sticchiu «organo femminile»
cfr. ted. stech-en «pungere» (connessi ted. stoc\
«bastone» it. stecca «cosa puntuta» it. stecchito,
ecc.); sbornia da rad. vor «mangiare»; frane, bornér
«limitare» da borne «pietra di confine» propria-
mente «pilastro, altura» cfr. Pader-born «monte o
città in riva al fiume»; Deledda (cognome sardo)
vale De Leila (questo nome esiste anche in Sicilia:
Lillu, Liddu, che forse significa « giglio » ma comu-
nemente lo si interpreta come diminutivo di Calci-

t i ) Ingr-id da *vingr, cioè venco, vingio, Yankee, ted. Jun\er (gio-


venco, bue): questo nome è dato dai malesi e australiani ai Bianchi
(binghcra, winghera): dev’essere ricordo di relazioni preistoriche.

325
gero); catnphora, scr. karbur vale semplicemente «al-
bero » lat. arbor\ Macola (cognome) sta per Erma-
cora «figlio di Erm e»; rogna connesso con rodere
eroso da prudere-, sicil. surfizio « scorpione » sta per
furfizio cioè «a forma di forbice»; sicil. giara-mita
«coccio» vale frane, mìette de jarre; Scannasio (lo-
calità collinosa in Lombardia e in Sicilia) = schiena
d’asino; omento — manto o mantello, greco hì-mat-
ion «mantello» (variante senza n), quindi: «ciò
che avvolge l’intestino»; ted. lamm (lamb) «agnel-
lo» variante con n di greco élaph-os «cervo»; ted.
Tell-er «piatto» propriamente «metallo» cfr. ted.
s-tahl « metallo, zinco » it. tolla « latta » (che in sicil.
è detta lanna corrispondente a blenda (blanda =
piatta, dolce) e blinda «corazza di ferro»; blatta
«scarafaggio» vale «insetto piatto»; cimice «inset-
to dei giacigli» (greco \eimai «ghiaccio»); solletico
è variante di sollecito «pizzicare» (1); guard-are è
metafora, propriamente « chiudere in recinto » « con-
servare » frane, garder (ted. gard-en « giardino »
ingl. yard «corte, luogo cintato») e metafora è il
ted. warten «aspettare» da cui deriva l’it. guardare
(lo scambio di significati è anche in lat. ex-spectare
«guardare chi viene, attendere» e in ted. hùten
« guardare, custodire » da H ut « cosa cava » poi « cap-
pello»); greco s-tergo «amare» propriamente «aver
nel tergo, nel cuore» (tergo significava il torso, il
petto, oggi significa il dorso che è variante di torso)-,
ted. Finger « dito » connesso con ted. fang-en « pren-
dere con le dita » e lat. pugnus, propriamente « cosa
puntuta»; Stein-herque, Dun-\erque (la Chiesa del-

t i ) Lat. sollicit-are fa pensare a stia: « la selce, il punteruolo di


pietra ». Qualcosa di simile si trova in lat. lepidus « pungente, spiri-
toso » connesso con greco lepis « scheggia di pietra, pietra puntuta »
(lat. lapis, pietra).

326
la pietra, la Chiesa della duna); Rys-wi\ « il vico
del re»; Pente-lico «punta bianca, montagna bian-
ca » (cfr. Pindo = punta, monte, e greco leukós
«bianco»); frane, botte «scatola» propriamente bu-
sta, variante di busto e fusto; gotto «bicchiere»
greco hptt-on «vaso» it. cat-ino; ingl. club «circo-
lo» cfr. globo; cece = cocco, «cosa rotonda», chic-
co, ging-illo è variante, e vale anche cosa piccola e
graziosa, spagnuolo chico « piccolo » frane, chic
«grazia»; ma per confluenza di radice può connet--
tersi anche a frane, chèque «cosa tagliata» e cho-
quer «colpire » (cfr. ic-tus); rombo è eroso da from-
bo ; fregio è da pir, vir « girare » quindi « contorno,
cornice»; ufo «sazietà» è onomatopeico (it. auff,
interiezione) oppure connesso con buffo, sbafare,
boffo (cosa gonfia); fiasco vale «cosa floscia, gon-
fia » rad. vel, girare, far vento o aria; Bezzecca vale
«bicocca» e questo è diminutivo di vicus cioè «ca-
sa»; il cognome irlandese Mac-donn-ald «figlio del
signore nobile» sta a testimoniare che donno nel
celtico non significava in origine «brun o» (come
poi significò) ma tano o dio; il greco phrenes « i
reni» ci dà la conferma che il greco rhéo «scorre-
re» è eroso; lat. aridus «arido» è variante di hor-
ridus cioè irto, «rigido» (greco orthós, eretto); il
nome troiano di Andro-macha (generatrice di uo-
mini) ci dà un curioso residuo di parola corrispon-
dente al ted. machen «fare», Kass-andra «casta-
donna » ci dà, come De-ianira, il femminile di greco
anér « uom o»; in lat. pugnus «pugno», fung-us
«fungo» (variante del primo) e greco s-póng-os
«spugna» (altra variante) troviamo violata la legge
di Schleicher-Pott-Grimm ; nei nomi tedeschi Fried-
man, Man-fred (analogo a Mane-gold) Gott-fred,
Sieg-frid questo fred significa piuttosto «principe»

327
anziché «pace» come comunemente credesi; Kas-
sala (nome di città africana) fa pensare a Kassel
(città tedesca) che riproduce una pronunzia simile
a quella di ingl. castle «castello» (leggi Keissl);
friulano cucà «guardare» propriamente «volgere il
capo o coccia» ha una semantica analoga a quella
di lat. cav-ere «guardarsi» propriamente «volgere
il capo»; in lat. platum «piatto» prat-um «prato,
pianura» corrispondenti ai ted. Brett «asse» cioè
«tavola piatta» (cfr. predella) e Blatt «piatto, fo-
glio» abbiamo una violazione della legge di Grimm;
il lat. statini «subito» significa «seduta stante», il
lat. mox «subito» significa propriamente «re, pri-
m o» {mo\o — mago); l’it. scivolare è metafora tol-
ta dallo scorrere dello schif o scafo della nave sulle
onde; il francese tàcher trae il suo significato dalla
tacca che si incideva su un legno per distribuire i
compiti ai dipendenti onde it. taccuino « libro di
appunti» in origine un legno con delle tacche; stov-
iglia « arnese di stufa o stanza o cucina » (stiva —
stufa, stanza della nave, poi per somiglianza il le-
gno ricurvo dell’aratro); lat. locu-plet «pieno di luo-
ghi o campi, ricco»; greco eth-nos «popolo» pro-
priamente « bestiame » (rad. vet, cfr. greco et-os « vi-
tello», lat. vit-ul-us); frane, route «via» connesso
con lat. ruo e greco rhéo «correre»; ingl. shad-ow,
ted. schatt-en «ombra» connessi con greco Hades
«regno delle ombre»; lat. vetus « vecchio» è iden-
tico a greco etos «vitello» che passò a un signifi-
cato quasi opposto, indicando il vitello di un anno,
poi addirittura l’anno; ted. B'óse «cattivo» in origi-
ne nome divino, Besso o Pascià (onde i nomi come
Basane, Boselli); in West-phalia «regno dell’Ovest»
abbiamo un residuo della parola creduta semitica
Baal «dio, re»; la parola lat. cerv-us non è da greco

328
\eras «corno» perché è affine a Cerb-er, corb-us,
Charyb-d-is (con d segna femminile, quindi una
maga in abbigliamento di fiera); Felsinei significa
ciò che in ted. Pfalz (Palatinato) cioè «città con re-
cinto di pali»; Faesulae (Fiesole) è affine a Fez
(città marocchina), «punta, cim a»; Knosso, Canu-
sìo sono varianti di Nizza o Nissa o Niscemi (Niss-
em, dove m è segna singolare); ìn-fing-ardo «che
non fa» prova che fingere, fungere sono varianti
con n di lat. facere\ pentola è variante con n di pa-
tella (padella) e di francese pot «vaso»; aizzare è
da *ict-iare «punzecchiare» (lat. ictus ; in sicil.
izzo è il riccio); gasindi significa consentes «che
siedono insieme, consiglieri»; lat. sollert- «soler-
te» = « tutto arte» (arte è da car, fare); crogiuolo
è connesso con frane, eruche «recipiente»; ted.
hinder-niss «impedimento» deriva da ted. hindan
«prendere» connesso con hand «m ano»; molti va-
le « sminuzzati » (rad. mal « schiacciare »); mensa
è connesso con mand-ucare e con frane, mets «ci-
b i» ; dolina è connessa con greco thólos «buca»,
lat. dol-ium « recipiente » greco delloi « fessure »
«buchi», ted. teil-en «tagliare»; il ted. treu «fe-
dele» significa propriamente troia cioè «am ante»;
l’infinito cosi detto storico del latino (es. amare —
amarono) è sincopato da forme come amavere-, Cune-
gonda «la cagna regina», llde-gonda « l’eroina-re-
gina» ci illuminano sul significato del nome della
città etiopica Gond-ar (città del re), cfr. Viti-hindo,
norvegese Vid-\un « il Bitu re » ; lat. peccare è da
pec-us « far da becco, fecondare » cfr. gr. hamart-àno
«far da Marte o becco» poi «peccare, sbagliare»;
ted. starr-en «guardar fisso» connesso con gr. astér
e ingl. star « stella » « brillare come stella » ; it. bett-
ola «casetta» ebraico beth «casa» it. baita ; ted.

329
zwerg «nano» connesso con zwei «due»: «di-
mezzato»; lat. flectere è variante di plectere (da
plico); lat. aquila per * avita cioè avis, uccello, gre-
co * vavetós; greco ktàomai « impadronirsi » da \ata
«giu »: «butto giu, sottometto»; it. zuppa (rad.
su «nutrire»); per metafora zuffa «mescolanza, sca-
ramuccia» cfr. ted. zunft «corporazione»; graspo =
grapp-olo con s intrusa; lat. uber —puber, ted. hubsch
«grazioso» (cup = fecondare); in lat. cit-are, gr.
kjthara «cetra» gr. \ud-os «gloria» è violata la
legge di Schleicher-Pott; lat. clitellae «basto» cfr!
etrusco e umbro klethra «lettiga»; la capra-regina
si trova in somalo re « capra », ted. Reh « capriolo »
greco Rhea « Cibele, cioè la capra », gr. tithéne « ca-
pra, regina»; ted. Rind «vitello» da Brenta che vale
anche «cervo» (es. Brentesion «città del cervo»);
lat. cum-ulare da cum (cfr. etrusco cem-ul — lat.
sim-ul che è forma satem di cum-ul; al nome greco
della città di Methymna risponde l’etiopico Metem-
na; il cognome meridionale Reitano — di Reggio ;
frenesia (da gr. phrénes) « nervosismo »; Corioli « abi-
tanti del villaggio, piccolo luogo » greco \6ros « luo-
go»; lat. ient-aculum «minestra», variante con n
di (v)ed-ere «mangiare» (cfr. (v)esca e vesc-or);
frequente = fregante, bazzicare — baciucchiare (so-
no metafore); ingl. big ((grosso» è propriamente
(( beg » — becco, dio; gr. skpliós « obbliquo » cfr.
scala ; sicil. cotica — gr. \ai te \ai, es. cantina catica
cammina «va e ancora va»; ted. pfad «sentiero»
connesso con lat. pat-ior e pet-ere (da ped «piede»
quindi: «camminare, pedeggiare»; per la semantica,
cfr. gr. hiketevo, rad. hi\, cfr. greco he\- lat. veho
«girare, andare».

330
P A R T E T E R Z A

GRAMMATICA COMPARATA E SEMANTICA

O r ig in e d el l e f o r m e g r a m m a t ic a l i ( Morfogonia
comparata).

Bisogna dunque respingere l’idea che l’indoeuropeo


primitivo possedesse una declinazione e una coniu-
gazione più perfette che non p. es. il latino e il gre-
co, e che il sanscrito, appunto perché più perfetto
sotto questo riguardo che non il latino e il greco, sia
per ciò stesso più vicino alla lingua originaria; e
bisogna anche respingere alcune idee accessorie, pro-
venienti da questa errata concezione dell’indoeu-
ropeo primitivo, le quali sono rimaste abbarbicate
all’attuale glottologia; p. es. quella che l’antico greco
avesse il duale e i casi locativo e strumentale, e che
le poche tracce di tali formazioni che s’incontrano
nella lingua greca siano i ruderi di un’architettura
frantumata. Tutto ciò sa ancora di paradiso ie., e
sente ancora molto il Settecento. Bisogna invece pen-
sare che la casta nobile indiana (cioè la casta degli
invasori arii dell’India), essendosi circondata di bar-
riere legali e religiose, per preservarsi dai contatti
con la razza sottomessa riguardata come impura,
sviluppò liberamente alcune tendenze della sua lin-
gua originaria, portandole alla loro più completa

331
espressione; mentre in Europa un difettoso sistema
castale (dovuto in parte al fatto che gl’invasori vi
trovarono non tanto razze di colore, quanto popola-
zioni proto-europee, cioè della loro stessa razza (1)
che le avevano precedute nella invasione dell’area
europea) e l’amalgama verificatosi tra la nuova cul-
tura indoeuropea e le vecchie colture parzialmente
riconosciute ed accettate contrariarono lo sviluppo
delle vecchie tendenze originarie dei linguaggi ie.,
introducendovi elementi e tendenze protoindoeuro-
pec, e cioè semitiche o camitiche e genericamente
mediterranee. Questo amalgama è documentato sia
dalla mitologia che dal lessico: in quella, vediamo
accettate a titolo subordinato e non respinte come
demoni malvagi talune divinità ctonie e genii locali,
con culto secondario; in questo vediamo riflettersi i
cambiamenti politici e sociali in corrispondenti cam-
biamenti di significati, e p. es. i Bruni e i Tani (To-
me, Danai) che originariamente erano « principi »,
diventare appellativi di razze di colore. Per conse-
guenza si deve dire che il duale greco non è un ru-
dere da demolizione, ma l’esemplare superstite di
una tendenza morfologica non riuscita ad affermarsi;
e che il minore sviluppo della declinazione greco-
latina in confronto della declinazione aria è dovuto
al fatto che, per indicare le relazioni degli elementi
della proposizione fra di loro, invece di essere fatto

(1) Una prova, fra tante, che p. es. nella Troade, anteriormente
allo stabilirvisi degli invasori Frigi indoeuropei, abitava una popola-
zione protoindoeuropea, ci è data da Omero (II. 20, 74) ove dice
che gli dèi chiamavano Xantko. cioè biondo, il fiume che gli uomini
chiamavano Scamandrox ora, gli dèi sono gli uomini della casta do-
minante, gli uomini sono gli appartenenti alla razza sottomessa. Ma
abbiamo visto nel capitolo N om i propri che Scamandro significa
« fiume » (mandro) « tortuoso o Sceo » (greco skaiós. lat. rraevus)
e il toponimo dunque denunzia l'esistenza di una razza affine al-
l’indoeuropea.

332
ricorso alla creazione di nuovi casi, si supplì per
mezzo di preposizioni. La qual cosa in fondo non
significa altro se non questo: alla tendenza sufAgen-
te (cioè ad aggiungere suffissi alle parole) propria
dell’indoeuropeo, si andò gradatamente sostituendo
la tendenza prefiggente propria del protoindoeuro-
peo, o meglio, come abbiamo visto, del paleoeuro-
peo. Bisogna dunque partire dall’idea di una lingua
che si va costruendo e non di una lingua che si va
logorando, come prova, tra l’altro, anche il fatto che,
man mano che si va verso la lingua arcaica, crescono
le irregolarità, in quanto che parole e costrutti sono
ancora in uno stato fluttuante e hanno molte va-
rianti. Un confronto fra la lingua d’Omero e la lin-
gua ellenistica vi farà toccare con mani questa verità.
Ciò premesso, per l’esatta intelligenza del signifi-
cato del fenomeno, vediamo ora come si procedette
alla formazione della declinazione.

I D — La formazione del nominativo


e c l in a z io n e .
singolare in s trovasi spiegata nel capitolo: Il do-
lore antico; la formazione del nominativo neu-
tro latino in -um e dello accusativo della seconda'
declinazione latina in -um nel capitolo: Numerali e
Croce gammata. L’origine della vocale tematica per
le parole maschili {o, u) è trattata nel capitolo Ses-
sualità e linguaggio, e quella della vocale tematica a
per le parole femminili nel capitolo Alfabeto e strut-
tura del linguaggio. Pertanto qui aggiungeremo sol-
tanto poche cose.
Nei nominativi latini in -um, greci in on (neutri),
originariamente l'm finale non segnava il genere, ma
il numero (singolare). Ma siccome in seguito ven-
nero in voga i nominativi in -s; la desinenza m cad-
de davanti a questa s (es. domin-u-m-s diede domin-

ili
u-s) ma rimase soltanto in alcuni nomi (i così detti
neutri) che originariamente dovevano prestarsi poco
a fungere da soggetti attivi, perchè in genere desi-
gnavano cose inanimate. Il segnanumero m (segna-
singolare) diventò pertanto un segnagenere. Ma che
anticamente questa desinenza fosse usata per i nomi
maschili e femminili, risulta da alcuni fossili lingui-
stici: in etrusco Leda è detta Letham, lettiga eie-
thram ; lat. vìnu-m ed etrusco vìnu-m corrispondono
a greco -voino-s; lat. cupru-m (rame) a greco ho-plo-s
(arma metallica); e confronta inoltre lat. templum e
tumulus (tumolo), parole originariamente identiche
perchè il tempio non fu altro che il sepolcro (1), lat.
liber (libro, albero) e de-lubru-m (dio + albero),
greco astér (stella) e lat. astr-um, lat. arc-us e greco
hercos (circuito, recinto). La desinenza in m è rima-
sta inoltre in molte forme indeclinabili o avverbiali:
sept-em (la luna sepolta, quindi «sette»), nov-em,
(la luna nuova, quindi «nove»), pal-am «aperta-
mente », propriamente « in città » (greco polis « cit-
tà»), clam «nascostamente» propriamente «nella
cavità, nel segreto» (cellam, onde celare)-, tand-em
«tanto a lungo, infine», ne-unquam «neanche per
un unghio», olim «una volta» (solus, uno); pri-
dem « il giorno avanti» (*pri-diem); greco palin
« di nuovo» (da pelomai, girare, ritornare), lat. <ro-
ra-m «nella città o terra» (greco chòra o \6ros
«luogo, città; cfr. lat. ora, che è eroso», «terra, re-
gione»). E dire che gli etruscologi vedevano nelle
parole vinum, clethram, letham, per via di queste
m finali, degli imprestiti! Queste forme in m sono

(1) Greco tem-en-os «recinto, separato». Ma per via del signifi-


cato di tumulo, in lat. tu m - passò a significare « gonfiezza », es.
tum-idus.

334
al contrario i segni della genuinità ed antichità del
vocabolo (1).
Una curiosità degna di nota è la seguente: talvolta
questa m segnanumero si agglutina alla parola come
se facesse parte integrante del tema, e riceve altri
suffissi: es. Vart è Marte, Art-em è la stessa parola
col segnasingolare, Art-em-id- è la stessa parola con
l’aggiunta del segnafemminile id; così la dea An-et
{Anna, la donna, lat. anus (2), in iranico, è detta an-
che An-un-et (in assiro); il martello, lat. mall-e-us,
nella mitologia nordica è detto mjol-m-ir, dove ir,
suffisso di nome di agente (colui che batte) è ag-
giunto dopo Vm segnasingolare; Hel-m che si trova
in ted. Wil-hel-m {Baal, signore + ehi «dio» ebrai-
co ’el, greco hellós, elleno, dio), Ans-elmo ecc. con-
tengono il segnanumero ormai saldamente organato
nel tema (3).
Non ci fu dunque una creazione dell’accusativo
latino in -uni perché questa desinenza segnacaso era
un suffisso segnanumero. Ne viene di conseguenza
che, essendo variato il modo di formazione del no-
minativo, l'accusativo è il caso che riproduce piu
esattamente la forma originaria della parola.
(1) Nota anche: lat. sinus « seno » gr. sine « mammella, nutrien-
te » ; lat. pcctcn « p e ttin e» gr. kten- (eroso), gr. heméra e sémeron
(giorno).
(2) Le fontane sono indicate spesso col nome « donna » es. IneS
in greco, A nna in lat., A n-et in iranico, Ain in arabo, Divona in
Gallia, ecc. La ragione è che vi si usava scolpire la ninfa, che ne era
guardiana.
(3) Ci sono nomi che han perduto il segnanumero sul nominativo,
ma lo conservano nei casi obliqui: lat. iec-ur, genit. iec-in-or-is (fe-
gato), femor, fem-ìn-is (femore), sangu-is, sangu-ìn-ìs, servitùs, servitud-
in- (servirti); in cup-so-{n) « capro » abbiamo entrambi i suffissi. L’ittito
eskar « sangue » corrisponde a lat. iecur, asar (sangue) e viscer « cibo »
(per via dell’uso sacrificale che se ne faceva).
La medesima struttura (cioè il segnanumero incorporato nel tema)
si trova in gr. pSl-em-os (lat. bell-um, guerra), path-m-os (punta,
monte), lath-m-os (sasso, roccia).

335
Questo antico segnanumero si trova in moltissime
lingue, cfr. p. es. lat. ol-im « una volta » ed ebraico
le-ol-àm «tutte le volte» (solus, greco hólos vale
«uno» e «tutto»); e specialmente nelle lingue semi-
tiche ha dato luogo alle così dette mimmazìone e
nunnazione, rimaste finora inesplicate: ivi son fre-
quenti le terminazioni an, am che rimontano al
tempo in cui ancora la vocale a non si era specializ-
zata nel significato femminile (es. Padd-am, Shat-an,
ecc.), così come in latino e greco Xu e Yo non s’erano
ancora specializzate nel significato maschile, es. lat.
anu-s « vecchia » corrispondente esattamente a greco
Inó (donna) (1).
D u a l e . - Il duale è formato nel greco con in, che
ancora si vede nei casi obliqui, ma non più nel no-
minativo, dove, per l’introduzione del suffisso se
{he) il modo di formazione cambiò; l’accusativo, per
analogia, si modellò sul nominativo, e questo è un
segno di scarsa arcaicità: dunque, p. es., chóra «ter-
ra » diventò chóra-he e poi fu contratto in chóra (2).
P - Uno dei modi più primitivi di formare
l u r a l e .
il plurale fu di ripetere due volte la stessa parola,
procedimento che è ancora in uso in lingue austra-
liane (Tasmania), e di cui si conservano tracce nel-
l’egizio antico, forse anche nell’etrusco, e tuttora nel
dialetto siciliano, es. tri ferri ferri «andare per le

(1) In questi antichi femminili l’o (a) e Va han talora semplice


significato fonetico di preferenze dialettali; cfr. lat. via e umbro aia;
lat. muìta e umbro m utu; greco ga « terra » e lat. iu-sum « verso terra »;
lat. civitat- e virtut- « condizione del cittadino, del vtr, ecc. ».
(2) Nel sanscritto si ha -a e si può supporre che nella seconda de-
clinazione greca ci fosse una a o una sonante labiale. Il valore seman-
tico di questa desinenza sarà visto nel capitolo dedicato al plurale
normale. In latino duo e ambo (propriamente *gambo « le due gam-
be») sono fossili dell’antico duale. Nel licio si trovano ancora le
forme con he e re: es. Trmili-se, Trmilì-hc.

336
terre », circari nti ssi càrziri càrziri — « cercare nelle
varie carceri », ecc. Un altro sistema, usato nella scrit-
tura egizia, è di far seguire alla parola due o tre li-
nee verticali; è un modo di indicare la ripetizione.
Le due parole la cui ripetizione era destinata a da-
re l’idea del plurale dovettero ben presto fondersi in
una sola, con l’inevitabile perdita di qualche elemen-
to della prima parola. Le tracce di questo modo di
formazione del plurale rimaste nei lessici delle lin-
gue storiche ci attestano che esso, almeno nell’area
ie., perdette il suo valore grammaticale e conservò
soltanto un valore sostanziale, indicò cioè un con-
cetto collettivo e cose (specialmente piccole) che d’or-
dinario sogliono presentarsi a mucchi. Io lo denomi-
nai plurale a raddoppiamento paleoeuropeo; eccone
alcuni esempi: lat. po-pul-us (poi + poi) l’insieme dei
polli o polloni o membri di una tribù (da non con-
fondersi con pop-ul-us «pioppo» che indica albero
cosa vivente o dio, papo o pope, e si trova in pap-
yros-, pap-av-er, greco pàpyr-os «libro» (variante
di pop-ulus), in ted. (v)e-pheu {edera, con « segna-
maschile, perché l’edera abbraccia o sposa l’albero),
in frane, (v) if «tasso», in ted. {v) apf-el «melo»
ecc.; greco sé-samon «sesamo», cioè insieme di gra-
nelli, seme + seme-, greco pé-pl-os cioè peplo, peli
intrecciati, frane, popeline; Le-legi (Liguri o Liei);
Li-lyb-oeum «Lilibeo» terra di Libii o Liguri; ca-
chinn-us «insieme di canti o suoni»; cin-cin-nus
«insieme di riccioli»; tin-tinn-are (tono + tono, in-
sieme di suoni; ghiri-goro (giro + giro); far-falla
(luccicori, insieme di luccicori, cfr. fal-ena variante
di baleno, quasi favilla errante); barbaglio (baleno
+ baleno); lat. mur-mur (insieme di rumori come
quelli del mare); greco mer-mer-izo «ondeggiare co-
me il m are»; lat. mar-mor (marmo, pietra marezza-

337
22 . • L ’origine del linguaggio.
ta, mare + mare); Bar-bar-i (insieme di bar o var,
capri, orsi, lat. vir, ted. Bar, orso; più precisamente i
Pirri, o Burri o Bori del nord della Grecia e della
zona slava, ove ancora adesso il nome di Boris è fre-
quente); Ber-ber-i, Mar-mar-a, Mar-mar-ica sono va-
rianti della parola precedente; Mir-mid-oni (1) «in -
sieme di mir o soldati o capri»; lat. membrum (gre-
co méros « parte », quindi * me-mer « insieme di par-
ti; rad. mar «pestare» lat. mort-uus «abbattuto»,
greco màrt-yr-os « testimonio » cioè « escusso, tortura-
to, perché faccia rivelazioni » ; lat. qui-s-quil-iaae « in-
sieme di conchigliette o cosa da nulla, IV intermedia
è articolo incorporato (2); quanto a *quilia per « cella,
cavità, conchiglia » ted. schale, cfr. it. chiglia, s-quil-
la « cosa cava » e greco chilioi « mille » cioè a gran-
di mucchi come si trovano nelle spiagge le conchi-
gliette, o come si trova il murice, che ha dato origine
alla parola mirìade); greco por-phyr-a (verme -f- ver-
me, o anche rosso + rosso, rad. pyr, fuoco) ; lat.
ci-cer come pi-per (pepe) che è variante può essere
grano + grano (cfr. inglese corti, grano), ma può
anche essere da cece, cocco e suffisso er come in
pass-er « il pascià, l’uccello-dio», da non confondere
con ital. chìcch-era (da coccio, o cocco, o conca, etru-
sco ce\a) che ha dato origine a cic-uta (bevanda),
cic-oria (bevanda) e cioè all’espressione dell’idea di
bere (cosi come conca ha dato cioncare); fan-faluca
per *fa-faluca con n intrusa, Tar-tar-um «monte-
tomba», cfr. il nome dei monti Tartra, il frane, ter-
tre «rialzo» il greco tritò «testa, sporgenza» (3).
(1) Mir vale miles « soldato » (cfr. greco melos « capro, guerrie-
ro); perciò lat. maer-eo « sono soldato, faccio servizio ».
(2) Ma può darsi che sia originario, perché il scr. -hasra « mille »
ha fatto concludere per un antico greco chisl-ioi, cfr. lat. cas-r-um
« accampamento » propriamente « cavità, recipiente ».
(3) Questa ripetizione della radice si trova in greco dc-n-dr-on

338
Plurale normale. - Il plurale, in quasi tutte le lin-
gue, non fu in origine altro che il duale; e siccome
il due si esprimeva con la radice du «dividere»
(es. lat. du-o «due», greco thy-ra «porta, fessura»,
greco delta « porta, fessura ») o con la rad. b, v che
si trova in lat. bis « due volte » ted. beide « entram-
bi», etrusco (v)iduare «dividere» onde idus «la
metà del mese», greco (v)eìtheos «scapolo» cioè
vid-uus «orbato, diviso» e francese vide «rimasto
orbato, vuoto», inglese whide (da «vuoto» passato
a significare « largo » « dove c’è posto »), lat. di-vido
«spezzo», abbiamo parallelamente due diverse for-
me di plurale. Nel bantu, per formare il plurale, si
prefigge ba, es. m-puru « uccello », ba-puru « uccel-
li»; in egizio e nell’umbro si aggiunge la desinenza
f, w. es. umbro ner-f «principi» (eroso, cfr. greco
anér «uomo, eroe»); turu-f — lat. tauro-s; nell’ebrai-
co questo plurale è rimasto solo nella terza persona
plurale dèi verbi, che è propriamente un nome di
agente: es. qatel-ù «uccisero» propriamente «uc-
cisori » (furono) (1). Nello stesso ebraico anticamente
si formava aggiungendo t in fine di parola: es. ab
(padre), cioè bab (eroso), plurale ab-óth. Nel finnico
si aggiunge t : es. kade-t «m ani». Si crede comune-
mente, per ciò che riguarda il finnico, lingua mon-
golica, che questa t segna plurale sia il cinese tu
(mucchio); ma se anche ciò fosse, la stessa parola
cinese tu non avrebbe potuto in origine indicare il
due e corrispondere alla parola ie. ? Nelle lingue ie.
{dry - f dry — albero), in aggettivi come gr. dt-dy-mos « gemello »
bé-baios {bios -(- bios = vigoroso), e in m olti verbi con significato ite-
rativo: es. lat. gt-gn-o (generare), ul-ul-o (chiamare, gridare, rad. col),
tc-ro « seminare » cioè « porre » {*se-so, gr. si-se-mi), bi-bo (bere, da
*pì-bo, *pi-pó), gr. gi-gn-ó-sko « conoscere » (cfr. ted. kpnn-cn), gr.
det-d-o, « temo » ecc.
(1) Questa formazione si trova anche nel duale greco e sanscrito,
come visto precedentemente.

339
si ha un curioso residuo di questo modo di forma-
zione del plurale nello irlandese, dove fichi vale
« venti », fichi-t = 40 (cioè 20 X 2).
Una terza maniera di formare il plurale è quella
che piu propriamente si direbbe semitica (perché
in queste lingue più diffusa), e che consiste nello
aggiungere le desinenze tm, in, che nel copto com-
paiono come hen (prefisso), nello ainu come shen,
nel tedesco come en, e che nel greco ci han lasciato
un fossile prezioso nel duale. Ma il fatto che i duali
greci siano adoperati solo nei casi obliqui (in in),
non deve indurre nell’errore di credere che questa
desinenza sia un segnacaso e non un segnanumero.
Perché nella lingua prefìggente originaria non esi-
stevano i casi, e i rapporti sintattici erano indicati
con la forma ancora indeclinata alla quale si pre-
mettevano (e in seguito si posposero) le particelle
che noi chiamiamo preposizioni o avverbi. È da que-
ste particelle, quando prevalse l’uso di posporle, che
è poi nata la declinazione.
Il fatto che il copto prefigge, alla maniera bantu,
mostra una cosa curiosa: questa lingua è almeno
tanto antica quanto la lingua egizia geroglifica. Non
bisogna infatti confondere l’antichità di una lingua
o di un vocabolo con l’antichità del documento let-
terario che ce li ha trasmessi; errore nel quale tal-
volta incorrono i cultori della glottologia indoeuro-
pea. Quanto all’origine di questo prefisso copto hen,
esso è da shen (ebraico shene «due», copto sen-a-u
« due »). Ma la parola copta ci fa scoprire una cosa
ancora piu interessante: essa è un duale, come si
rileva dalla « finale (sena-u); il che significa che
sen e shen in origine non significavano due, ma uno.
Ora la parola che significava uno era sem, il sole
(greco hen per sem), lo si è già visto nel capitolo

340
sui numerali; dunque settati in origine significò « i
due soli» « i due dei» cioè il sole e la luna.
Tracce di questa formazione del plurale in n si
trovano anche in latino, ove gli accusativi plurali
di prima e seconda declinazione hanno vocali lun-
ghe es. rosàs, e ciò perché questa voce è derivata
da *rosans, dove l’r è aggiunta in qualità di segna-
numero per analogia dei nominativi plurali in s, di
cui presto parleremo; tant’è vero che questa fun-
zione della desinenza s quale segnaplurale rimase
poi estesa, per analogia, a varie lingue moderne: spa-
gnuolo, francese, inglese. Nel dativo plurale latino
in is (prima e seconda declinazione) o in ibus (terza
declinazione) IV finale è puramente analogica (e cosi
anche nel sanscrito), tant e vero che al posto di que-
sta s il greco ha talora l’originario segnaplurale «:
es. kotyledon-ó-phi-n «nelle branchie». Questa n
che è detta erroneamente dai grammatici efelcustica
o eufonica è invece un fossile prezioso dello stadio
camito-semitico dell’indoeuropeo, e si trova, con egua-
le funzione di segnanumero, anche nel plurale dei
verbi greci, es. légousi-n «dicono» (1).
Troviamo dunque una cosa che ha del paradossale
(del resto non raro nella fenomenologia del linguag-
gio) e cioè che con la stessa desinenza m è indicato
tanto il singolare quanto il plurale. La cosa si spie-
ga considerando che in entrambi i casi si tratta sem-

(1) Per analogia fu poi introdotto nel singolare, es. greco estì-n
« è ». Perché invero la sua funzione di segnaplurale non era più capita.
Non è eufonico nemmeno 1’n che si aggiunge alla cosi detta alia
privativa es. a-morale, ma an-archico. Al contrario qui 1’n è l'ele-
mento originario, perché la forma primitiva era an (da aneu « senza »,
cfr. ted. ohne con un come prefisso privativo, lat. sine con in come
prefisso privativo): in altri termini, non esiste alcun alfa privativo,
m a solo il residuo di una parola significante privazione. Se ne ha un
fossile in lat. an-ceps « senza capo » che però taluni interpretano come
amphi-ceps « con due teste ».

341
pre della stessa parola sem «dio» « il santo» «il
sole» che ha servito come segnanumero. Ma nel
secondo caso, cioè nel caso del plurale, questa paro-
la sem {seri) assolveva tale funzione in quanto ave-
va assunto la forma duale sen-a-u, ed era questa u
finale (derivata da una labiale b, w) l’elemento ve-
ramente significativo; purtroppo però essa andò per-
duta nel dinamismo della flessione e fusione dei suo-
ni. Parimenti troviamo w (u) per indicare il ma-
schile e / (w) ed u per indicare il plurale, s nel la-
tino per indicare il nominativo singolare e s come
segno del plurale. È stata questa tremenda econo-
mia di mezzi usata dalla natura per formare la spa-
ventosa foresta del linguaggio umano che ha creato
la confusione nel cervello degli scienziati, che ha
reso cosi difficili le indagini, e in pieno secolo XX,
quando ormai tutte le altre scienze sono adulte, ha
fatto rimanere in uno stato ancora adolescente la
scienza del linguaggio.
Prima di chiudere questo paragrafo, devo richia-
mare l’attenzione su una curiosità. Nel latino gen-u-s
(genitivo *gen-es-is) il segnacaso s di genus, incor-
porandosi nel tema, dà l’illusione che non sia un
suffisso, ma parte integrante della parola: ma un
confronto con greco onos (prezzo, valore, poi onore)
vi fa subito capire come stanno le cose. Nel geni-
tivo latino hono-s-is abbiamo dunque un antico se-
gnacaso (hono-se diventato poi hono-s) incorporato
da un altro segnacaso -is. desinenza del genitivo.
Avete cosi un’idea del come le parole vadano acqui-
stando corpulenza, partendo da semplici radici mo-
nosillabiche. In verità esse sembrano fatte di nulla.
Mediante l’incorporazione di elementi, le cui fun-
zioni non erano piu capite, e che dunque erano di-
ventati inutili, le parole hanno assunto quelle fisio-

342
nomie caratteristiche, che sembrano conferire ad es-
se bellezza e personalità. Prendiamo, p. es., la pa-
rola lat. homo (uomo): questa, col segnanumero n,
diventò homo-n (e per via del ritrarsi dell’accento,
home-rì). Nel genitivo questo segnanumero n viene
incorporato, es. homin-is\ ed ecco che non abbiamo
più una parola hom- ma homin (1). Se l’accento re-
sta sulla vocale tematica, nel genitivo si ha ònis, es.
carb-ónis. Cosi si son formate tutte quelle parole
in -tìon (es. adulation) che ci sono tanto familiari:
parole come abundantia sono formate col participio
nasalizzato, parole come hortatio(n) sono formate
col participio nella varietà senza n : la differenza è
forse dovuta al fatto che l’n segnanumero avrebbe
costituito una cacofonia in unione con una parola
troppo nasalizzata, es. * abundantione. Finalmente
parole come amicitìa sono formati con nomi, ma
sul tipo delle precedenti derivazioni participiali. Se
ne conclude che non esistevano in origine suffissi
formanti nomi in tia, tion, ecc.: essi sono nati spon-
taneamente per agglutinazione di elementi insigni-
ficanti o aventi perduto significato (2).
Genitivo. - Altra traccia di un antico stadio semi-
tico nell’ie. è offerta dal genitivo. Nelle lingue se-
mitiche il genitivo si esprime semplicemente pospo-
nendo la parola al nome da cui è retta; questa di-
sposizione di parole si chiama stato costrutto: es.
(1) E per via di erosione m en, man, dove non esiste pili nulla
della radice: cfr. anche greco m in « lui ».
, Il segnanumero talvolta è scomparso, es. gr. Leto lat. Latona; greco
aion « tempo » ma aie(n)t « sempre » che è un locativo usato come av-
verbio.
(21 Alcune pim i e italiane in -azzo sono derivate da parole latine
in -tione es. schiamazzo — excìamatio; acauazzone = aauatìone. N o -
ta anche che in greco, my-s « topo » fa al genitivo m yis, in latino
mas « toDo » fa mur-is. Sembra dunque che il tema sia mar, ma qui IV
non è che il suffisso incorporato e rotacizzato.

343
dicendo: «stanza padre» si intende dire «stanza
del padre ». Ora l’antico genitivo ie. non è altro che
un nominativo, tant’è vero che esso conserva il se-
gnacaso proprio del nominativo, cioè il pronome
suffisso: es. « il colore della rosa » in lat. color rosa-sc
(il colore la rosa), e per la caduta dellV intervocali-
ca, color rosae (da rosa-hé). In greco invece è caduta
talora (prima declinazione) la vocale finale, ed è ri-
masta la s; nella seconda declinazione tutto è avve-
nuto come in latino; nella terza declinazione, sia
in latino che in greco, è caduta la vocale finale ed è
rimasta IV. Infine il genitivo plurale non fu altro che
un genitivo singolare con l’aggiunta àt\Ym segna-
plurale: es. rosa-se-m (1), poi, per rotacismo, rosarum.
Dativo. - Il dativo è un antico locativo in i, di cui
è ancora traccia nei cosi detti genitivi locativi latini.
È probabile che questa i derivi da si (in greco esi-
stono locativi in sì) ridotto prima a hi (es. lat. mi-hi
« a me, in m e» poi a semplice i): infatti nell’etrusco
Erme-ri « a Erme » si ha rotacizzazione di si. Il da-
tivo plurale è fatto con un si aggiunto al plurale del
nome, es. greco àndres «uom ini», dat. andres-si; o
col dativo singolare a cui si aggiunge una s come
segnaplurale, per analogia a ciò che avviene nel no-
minativo.
Locativo. - Si forma aggiungendo si, hi, talora
thi, i; ciò si è visto. Una seconda forma è in hi, che,
al pari di thi, originariamente significava «terra»
e si trova in Bi-thynia «terra di Tini», in ebraico
be « in » , russo be «in»', ted. bei « in » , lat. u-bì
(da *cu-bi, pronome kjì), lat. i-bi (pronome hic —
questo), forse anche nel famoso ponte di Bi-frost

(1) Il cambio di c in o avviene per influsso della m che segue.

344
(terra gelata) che nella mitologia nordica separa la
terra degli Asi (Germania) da quella dei loro ne-
mici, e che allude forse alla catena delle Alpi.
Questo locativo fu usato in latino per indicare
anche il dativo: es. tibi « a te», e nel plurale arti-
bu-s «alle arti». In quest’ultima parola IV finale è
un segnaplurale (greco phi-rì) (1).
La forma con ti (thi) si trova in greco e in etru-
sco: es. etrusco e\e-ti « a cagion di ciò», ma pro-
priamente «in ciò», cfr. greco eke-ti ed hen-e\a.
In etrusco sembra che talvolta abbia sostituito il ge-
nitivo, es. juth-kei ii-th « lo sposo di lei » « sposo
a lei» (Corpo iscrizioni italiche, 1916-bis). Questa
costruzione del resto si trova frequentemente anche
in latino.
Segnaliamo infine una curiosità. Il genitivo di un
nome come p. es. greco ànthropos «uom o» è in
Omero anthropo-io (per antropo-so). La s intervo-
calica, che spari nel greco classico, qui si era atte-
nuata in i semivocale. Questa trasformazione potreb-
be dipendere dal fatto che il suffisso segnacaso non
era soltanto so (se, ecc.) ma anche \o (\e, ecc.) e

(1) In sanscrito il dat. -ye, -ve, duale bya-m, pi. bya-s è un antico
locativo in bi (talvolta iotizzato in ye); lo strumentale in -ena, -ina è
■un antico locativo formato con la preposizione in; lo strumentale ar-
meno in e è un antico locativo in bi. In generale in tutte le lingue ic.
(e anche di altri continenti) si trovano ruderi di queste formazioni,
p. es. antichi locativi sono il genitivo singolare in -t e il genitivo plur.
in -ve dell’albanese; nel russo, il genitivo plur. in -ov; nel lituano Io
strumentale in « (da ve), o in m i (imi, um i), quest’ultimo originato
dalla preposizione in, im i (la forma im i si trova nell’egizio); nel latino
l'ablativo in -à e talora in -t (es. u-ti, u-t, ita = « come » « cosi, pro-
priamente in questo», greco os con s per t) e gli avverbi (es. male sta
per mal-et(i): «cattivo cosi», greco k.aì^ps = k a\-ò t(ì)); nell’antico
bulgaro, il dativo in -omu e lo strumentale in -ami, anch’essi originati
dalla preposizione in, im : ecc. Antichi locativi sono i genitivi plurali in
-nam del sanscrito e dell’iranico (l’m finale è una segnaplurale). Nel-,
l’antico irlandese, al posto dell’f che in latino, greco e sanscrito si spe-
cializzò quale segnaplurale, si trova g, cioè una forma centum.

345
quindi ho {he, ecc.). Nel licio sussistono entrambi i
suffissi he, se-, nello aquitano è documentato he, es.
Arte-he deo « al dio Marte o Varte»; nell’iberico
antico e nel leponzio l’abbondanza delle vocali fa
sospettare che questi segnacasi se, he si fossero trasfor-
mati in semplici vocali, come avvenne nella parola
greca Nausikjz-a. La presenza di una \ segnacaso in
etrusco è probabile (es. m utu-\ «tim o» cioè una va-
riante senza n della parola menta, con in più il segna-
caso questa parola mutu, col significato di «erba
odorosa » « incenso » si trova in metu-o « temo », cioè
brucio incensi perché avvenga o non avvenga una
cosa, analoga a timeo «brucio timo o incenso».
Questa interpretazione spiega la curiosità della co-
struzione sintattica di questi verbi latini con ut e
con ne.
Formazione dei nomi. - La formazione dei nomi
di agente è spiegata nel capitolo II dolore antico, e
nelle pagine precedenti, in questa stessa sezione del
libro, abbiamo parlato di altre particolarità concer-
nenti la formazione dei nomi. I nomi latini ìn-men-
tum (es. impedi-mentum) o in men (es. ag-men
« schiera »), greci in -minthos es. (v)asa-minthos
«vasca» sono formati con *mant, che ha il signifi-
cato di «uomo, spirito, dio». Questi nomi perciò
hanno un significato in relazione all’animismo pri-
mitivo, particolarmente diffuso nell’area italica: per-
ciò impedi-ment-um significherebbe «ciò che im-
pedisce, il nume o genietto che ha la funzione d’im-
pedire». Quando il genietto è supposto femminile,
si trova in greco -tyne (cioè tana, dea) o syne (cioè
gyné, «donna»; es. di\aio-syne «giustizia», mne-
mosyne «memoria» (1).
(1) Ingl. -ness es. swect-ness « dolcezza ». ted. nis es. Hinder-nis

346
I nomi latini in -brum (es. ventila-bruni) sono for-
mazioni analoghe a quelle greche in -thron e latine
in -tor: ventilabrum equivale a ventilator e si ana-
lizza come questo: cioè ventilab-or-um. In altri ter-
mini il suffisso è or e non bor, e l’um finale è il so-
lito segnanumero passato alla funzione di segnage-
nere. Quanto a ventilab, vedremo che questa forma
è equivalente a ventilant (ventilat nella varietà sen-
za »), è cioè una forma participiale.
Certi diminutivi sembrano formati coi suffissi del
femminile: es. Esera (la vizira, la dea) ci dà Eser-it
*Estrit, Astarte, «la dea, la luna»; lat. anus corri-
sponde a Anna incanna — greco banà, donna); in
iranico An-et è perciò Anita o Annetta. Mi doman-
derete: perché « librone » indica un grosso libro,
libretto un piccolo libro, libraccio un libro cattivo?
In regola generale può dirsi che queste alterazioni
per se stesse non hanno alcun significato, e che esse
si sono specializzate nel tale o tal altro significato
per cause accidentali. Trattandosi di cause acciden-
tali, una dottrina su di esse non può aver nulla di
perentorio, vale perciò solo come ipotesi probabile
e destinata a rimanere sempre tale. Noi possiamo
supporre p. es. che tra tavolone e tavolino il signifi-
cato accrescitivo sia stato attribuito al primo perché
una lunga tradizione lessicale ci ha abituati a dare
significazione maschile ai temi in o, femminile ai
temi in i; ma questa ragione non è forse la sola.
Per capire il complesso di influenze che agiscono
sul nostro spirito, orientandolo a fissare la semanti-
« impedimento » accennano a nìsse, genietto della mitologia nordica.
In greco si ha anche -ma(t), es. im blem a {t) che corrisponde a lat.
-nientum, e -m is es. barbaris-mós. Inglese -doom, es. King-doom (re-
gno), ted. -tum es. Reich-lum (regno) corrispondono a greco -dòn es.
Karche-dón (letteralmente: Carpe-tanta, usato però per indicare Car-
tagine).

347
ca di questi suffissi in un senso piuttosto che in un
altro, vi porterò un esempio. Pelide (greco Peleiàdes)
è un nome cosi detto patronimico: vuol dire «figlio
di Peleo». Voi potete supporre che trattisi di un
diminutivo (Peleetto, cioè principino), e che questo
significato diminutivo si debba al suffisso femmi-
nile in d. Ma potete spiegarvi la cosa anche altri-
menti. Se Peleo è il capo della casa, tutta la sua fi-
gliolanza prende nome da lui; perciò i Pelìdi (inteso
come aggettivo di Peleo) sono i figli, la prole e la
proprietà di Peleo. Un Pelide è dunque un piccolo
Peleo, un figlio di Peleo.
Analogamente si potrebbe dire che il suffisso ino
che forma diminutivi, sia derivato da un aggettivo.
Immaginate un signor Minerva, i suoi figli saranno
i Minervini; allora Minervìno significherà «un fi-
glio di Minerva» «un piccolo Minerva», e da ciò
potrebbe prendere origine un suffisso diminutivo.
Ma che diremo dei suffissi in accio, astro, cino, es.
libraccio, giovinastro, librìccìnoì Quanto al primo
di essi si può supporre che il punto di partenza sia
stato un aggettivo indicante somiglianza: es. vio-
laceo non è viola, ma un falso viola; gallinaceo è
qualcosa che somiglia a gallina, ma non è. È una
cosa falsa, peggiorativa. Ma potrebbe anche darsi
che il suffisso accio fosse in origine un diminutivo,
come quando noi diciamo libercolo, libello, scriba-
culus «scribacchino» graeculus « grecacchiattolo » ;
quasi per indicare, mediante l’idea di piccolezza, co-
sa dappoco e vile. In tal caso, la forma in accio po-
trebbe essere sorta da un diminutivo latino volgare
in -aculus: *« libraculus », libracchio, libraccio.
Quanto al suffisso cino (es. libri-ccino) che si tro-
va anche nel tedesco, es. Màd-chen «piccola madre,
ragazza », si può supporre che trattisi del celtico cen

348
« figlio » greco gen (es. Dìo-gen-és « figlio di Gio-
ve»), che nelle lingue germaniche ha anche una
variante satem (ted. Sohn, figlio), es. Peter-sen «fi-
glio di Pietro» Amund-sen, Steven-sen ecc. Quanto
al suffisso astro abbiamo per fortuna una documen-
tazione linguistica: greco Kelastron, cioè *caulastrum
« cavolaccio ». Questo è un aumentativo formato con
aser (da *vaser) che vale vizir, dio: significherebbe
dunque «cavolo grande e duro, perciò poco com-
mestibile». E da questo significato di grossolanità
si sarebbe passati al peggiorativo.
In tedesco e in inglese molti aggettivi sono parti-
cipi in ing, p. es. inglese din-ing room «pranzato-
ria o pranzante stanza»; e parimenti per dire «la
prole di Carlo» si diceva « i Carolingi». Da questo
uso potrebbe essere venuto il senso diminutivo di
aggettivi come guardingo, solingo, lat. longinquus
ecc. e di nomi come carlinga (in origine, carr-ello);
cfr. anche inglese dar-ling «caro» vezzeggiativo di
dear «caro». I peggiorativi in ardo, es. infing-ardo
(che non fa, fingere è variante di facere), bast-ardo
ecc., derivano dall’aggettivo tedesco hard « duro ».

Coniugazione. - Tempo fa, recensendo il libro del


Meillet, « Introduzione allo studio comparato delle
lingue ie. », io criticai la sua opinione che il verbo
fosse una creazione dello spirito umano. « Il verbo
— dicevo io — è un accidente del linguaggio, un
arto sviluppatosi nell’organismo del linguaggio, per
cause inerenti alla sua fisiologia, e non è una crea-
zione riflessa dello spirito umano. Non fu il risultato
di un pensiero deliberato, e non riflette, almeno in
origine, un’idea o immagine di natura dinamica.
Non esisteva nel linguaggio originario dell’umani-
tà; esso esiste ora per noi, come esiste p. es. il nu-

349
mero 157, che è un puro simbolo grafico, e al quale,
nella nostra mente, non corrisponde nulla. Se lo ana-
lizziamo, troviamo infatti che esso non è se non una
serie di 1 (uno) e precisamente una serie di 156 + 1
(uno); oppure non è altro se non l’immagine gra-
fica e materiale con la quale noi esprimiamo que-
sta serie. Analogamente, quando noi diciamo «sal-
tiamo» «saltate» «salterò», noi oggi annettiamo
a questi segni delle immagini, e perciò siamo indotti
a credere che le dette voci verbali riflettano queste
immagini; ma analizzando le singole parole, non
vi troviamo dentro se non questo: «uomini (noi,
voi, io) + salto ». L’idea dell’azione è nata nella
sintesi, cioè nella sutura di due immagini distinte,
cosi come l’immagine del movimento nella cine-
matografia nasce dalla sintesi di fotografie succes-
sive ».
La linguistica semantica risolve cosi non soltanto
l’annosa questione circa la priorità del verbo o del
sostantivo, ma, decomponendo l’attuale idea del ver-
bo nei suoi elementi originari, ci aiuta a capire co-
me sia nata a poco a poco l’idea stessa di verbo, che
al Meillet sembra cosi semplice e primesautiere,
mentre è una formazione sintetica nata nel seno
stesso del linguaggio, e non avente alcun sostrato
psicologico (anzi, responsabile di aver creato gradual-
mente questo sostrato), su per giu come l’immagine
del movimento delle figure cinematografiche non ha
alcun sostrato nelle fotografie, il cui contenuto è
essenzialmente di ordine statico.
Questa chiarificazione ci aiuterà a comprendere il
meccanismo di formazione del verbo. Noi scopri-
remo in esso il risultato di agglutinazioni di elemen-
ti molto più semplici.
Il verbo è in origine, per cosi dire, un participio

350
avanti lettera, cioè un sostantivo assumente funzione
participiale per l’agglutinazione di alcune determi-
nazioni le quali normalmente sono: 1) il pronome
soggetto che compie l’azione; 2) talvolta l’indicazio-
ne del tempo in cui l’azione ha luogo (aumento nel
greco, nel sanscrito, nel tedesco e nell’azteco).
L’aumento nelle lingue ie. è probabilmente costi-
tuito dalla parola die (giorno), quasi a dire: «gior-
no è», «giorni sono»; ma questa parola dovè su-
bire una palatalizzazione (diventare cioè * dje) tra-
passando in ge (tuttora usato nei participi tedeschi),
e quindi attenuandosi in he o je (lat. he-ri per he-si,
locativo «nel giorno»; lat. ja-m «giorno» e che
quindi significa «giorno è»; ted. ietz-t, inglese ye-t
«ora, ancora», dove t finale è probabilmente un
segnalocativo). In greco abbiamo una ulteriore ero-
sione che lo riduce a un semplice e {a nel sanscrito);
nell’azteco è costituito da una o.
Quanto al verbo vero e proprio, si noti che esso è
essenzialmente un nomen agentis: p. es. russo diel-
al (faceva) significa propriamente «facitore» (for-
mazione analoga a lat. cred-ul-us — credens « cre-
denteyy, ebraico qat-al «uccise» propriamente «uc-
cisore» (cfr. inglese cutt-er, da cut «tagliare» con-
nesso con ebraico qat-al e lat. caed-ere, quat-io).
Il verbo quindi esprime questa combinazione: «fa-
cente» (io, tu, egli); «facenti» (noi, voi essi); questo
per lo meno è il suo schema fisso nelle lingue ie. e
camito-semitiche.
Tra questi nomi di agente quelli che ottennero
maggiore diffusione ai fini della coniugazione ver-
bale furono: i nomi in / nel russo; i nomi in t, p,
(e loro varietà) nelle altre hngue. Approfondiamo
dunque questo argomento.
Prendiamo una radice, p. es. am (da gam, greco

351
gaméo « sposare » lat. am-are « fecondare » ; il parti-
cipio è am-ant; in inglese, da love (amare) si ha il
participio lov-ing; in umbro e in egizio si ha, rispet-
tivamente, \utep, hotep (lat. cautens). Si hanno
dunque tre forme parallele in gutturale, dentale, la-
biale; ciò che corrisponde bene a quella indifferenza
e intercambialità di questi suoni, della quale vi ho
parlato più volte.
Ma come è venuta al primitivo l’idea di formare
questi participi? Noi possiamo fare varie ipotesi. Bi-
sogna partire dall’idea che le parole primitive erano
monosillabiche; si può quindi pensare che una radi-
ce, p. es. \a si allargasse per raddoppiamento in
o con n in \a n \ e, per ragione di variazione, in kap
(f^amp), \a t (\ant). Questo raddoppiamento della
radice avrebbe avuto la funzione di esprimere il
ripetersi di un fatto, di esprimere quindi l’idea del-
l’azione. E siccome la primitiva radice \a era essa
stessa variabile, sia per rapporto alla vocale (\a, \e ,
hi, h°> Ku\ sia Per rapporto alla consonante {ha>
ta, pò), ne sarebbero risultate innumerevoli com-
binazioni, bastevoli per dar vita a un limitato lessico
primitivo. Tutte queste varianti, labili nella loro fi-
sionomia fonetica, non lo erano meno nei loro signi-
ficati; onde a poco a poco i doppioni si andavano
specializzando in significati differenti, e ciascuna pa-
rola poi, per via di metafore, acquistava un gran
numero di altri significati. Così sarebbe sorto il les-
sico.
Questa idea è verosimile e io stesso per molto tem-
po me ne tenni pago; ma l’analisi delle formazioni
grammaticali del copto introdusse perplessità nelle
mie convinizoni. Nel copto i participi sì formano
aggiungendo ì pronomi personali alle radici, sia co-
me prefissi, sia come suffissi; in altri termini, sono i

352
participi né più né meno che veri e propri nomi di
agenti; e, cosa che non mancherà di destare un certo
interesse, è che essi sono in labiale pel maschile (f),
in s pel femminile, in t pel maschile e pel femminile
insieme (1), e in labiale (ev) pel plurale. Mancano
participi in gutturale, ma siccome non mancano i
pronomi in gutturale, cosi non è del tutto da esclu-
dersi che participi in gutturale nel copto o in altra
lingua dell’area paleoeuropea siano esistiti.
Ora nell’ie. si trovano precisamente le tre serie
di participi, onde non sembra temerario supporre
che il participio sia anche nell’ie. un nome di agente
nato dalla unione di una radice con un pronome; e
per di più tutti questi participi ie. hanno sempre le
due varietà, con e senza n\ lat. amatus, amant-,
amand-us; inglese lov-ing «am ante», lat. amìc-us,
veloc-s, ferac-s, vìndec-s, pugnac-s, edac-s, mendac-s,
ligure bodinc-us cioè «acquoso» (cfr. russo vodà
«acqua») nome del Po; lat. Baiati (pastori), Ball-
ante (pastore, personaggio della primitiva storia di
Roma, onde Ballanza « la città del re o pastore » (2),
greco Peléus (*Pelev-), Pelop-s, Pelasgus, greco Bal-
lén « re pastore»; greco syr-ings «che canta»;
phorm-ings «che scalda, eccita»; pter-ygs «che vo-
la »; a. ted. kpn-ing «che può, è potente, re» ; greco
salp-ìng « che canta o salta » (p per t).
Queste varie forme in origine dovevano essere
semplici varianti fonetiche, senza distinzioni di si-
gnificati, tanto più che in un primo tempo non dovè
esserci distinzione di verbo passivo ed attivo (es. lat.
(1) Si potrebbe perciò perfino sospettare che in fondo questi suffissi
participiali non siano altro che gli organi maschile e femminile; c:ò
spiegherebbe perché i participi in ~nt abbiano assunto, attraverso il
femminile, il significato di diminutivi.
(2) Pallanza, Pallenc può però anche significare « palizzata » cioè
città con recinto di pali, ciò che poi fu detto palat-ium.

353
23. - L ’origine del linguaggio.
vapulare «essere bastonato» ha forma attiva e si-
gnificato passivo; cfr. lat. veho «faccio andare» e
ted. gehen « andare », greco héko « venire »). Nel la-
tino storico amans significa « che ama », amatus
« che è amato »; ma amand-us « da amarsi » sta a te-
stimoniare che la forma con n non era soltanto atti-
va, e amat-or (da *amat-o-se ») sta a testimoniare
che la varietà senza n non era soltanto passiva. Del
resto in origine non doveva esserci differenza fra
amans (amant) e amandus\ come vediamo in taluni
fossili quali sequent- e secundus (che segue), e iuc-
undus «scherzevole, giocante» (1); d’altro canto,
l’equivalenza di sequens con secundus (che segue)
ci testimonia ancora una volta che non dovea esserci
differenza, quanto al significato, fra amans e ama-
tus. Quest’ultima forma anzi ha sempre significato
attivo nei supini in -um e nei participi futuri in
-urus, es. amat-ur-us, che sono antiche varietà dei
nomi di agenti in or (es. amat-or) (2).
Anche questi nomi così detti di agente non sem-
pre hanno significato attivo, p. es. mat-ur-us (man-
giabile) rad. mat, cfr. inglese meat «carne, cibo» e
lat. mand-ucare (cioè tritare coi denti); mat-er (da
*gamat-er) « che genera », pat-er « che nutrisce »,
ten-er (3) «mangiabile», cel-er «che corre» (rad.
\el, \er « girare »), sac-er « che nutre », celeb-er « che
(1) Lo Zam baldi vuoi derivarlo da iuvi-cundus, con un suffisso -j-
cundus mai visto!! Rubicundus, irac-undus sono da verbi incoativi.
(2) Cosi in greco il participio presente presenta tracce di una
declinazione in os, es. ìabyrinthos, femminee in a, es. B^sTissa. Ai par-
ticipi lat. in -turus (*tusus) corrispondono i greci in -téos (da *tesos),
con significato passivo.
(3) Pel significato, cfr. ebraico Tarn (palma, cioè «cibo»), greco
tho'tme « cibo», siciliano tuma « c ac io » , inglese tornato «pom o-
d o ro », « c ib o » , ted. Tanne «quercia» cioè «santa, nutrice», greco
thene «m am m ella», ecc. Lat. ten-uis è invece da tcmno «tagliare»
e vale «tagliuzzato, sottile, tagliabile» (da tenev-, participio in la-
biale con senso passivo).

354
è corso, frequentato (rad. cel, come in cel-er); ecc.
Se ne deve concludere che questi differenti signifi-
cati sono sorti a poco a poco per via di specializza-
zione, entrandovi in gioco elementi del tutto occa-
sionali.
Si deve aggiungere che le forme in dentale, le qua-
li furono quelle che nelle lingue ie. ebbero più larga
fortuna allo stato libero (cioè come participi veri e
propri), furono soggette nella loro evoluzione dal
protoindoeuropeo alPindoeuropeo a molte evoluzio-
ni, di cui ecco le principali:
I. nn al posto di nt\ es. Anna Perenna (questa pa-
rola vale jerent «fecondatrice», cfr. ted. Brunn-en
«sorgente», Braun «principe» poi «bruno»; for-
me parallele a lat. princ-eps, ted. Fran\, a Bereng-
arius «principe»). Questi participi in nn, frequenti
nei dialetti italici, ci diedero in latino gli aggettivi
in anus, inus, ecc. Da ciò deduciamo un insegna-
mento fonetico, vaie a dire che nomi come Enna
(città sicula) derivano da Enta (cfr. Ent-ello, città si-
cula), cioè Anta, che vale « altura, pilastro » (cfr.
ant-ennà), ma in origine significava «m onte» (cfr.
il termine Anda e, nella varietà senza n, Athos
«m onte», Ossa «m onte» della Tessaglia, Athen-ae
«città», At-alla, at-essa, Ut-inum (Udine), ecc. Del
pari, Perenna (fonte) possiede la variante Eeronia e,
senza n, fret-us (da *ferent-us, ferens «fecondato-
re », perché gli antichi participi in nt potevano an-
che essere di seconda declinazione).
IL tt oppure ss al posto di nt: lat. Fov-ìssa (fov-
ens « che feconda ») « fontana », siciliano fav-ara (in
forma di nome di agente: Larissa o Laretia per Lau-
rent-um « bosco di allori » o « tempio di Lari » o
antenati, ritenuti rivivere in forma di alberi che ve-
nivano piantati sulle loro tombe, e quindi «città,

355
fortezza» perché le città sorsero attorno ai sepolcri,
che ne erano il centro sacro o palladio (l’uso di sep-
pellire i telesmi sta a testimoniare che in origine si
trattava di vere e proprie sepolture). Da qui ricavia-
mo non soltanto un insegnamento fonetico, e cioè
l’equivalenza ss — nt, es. Issa (da gissa che in greco
vale « monte ») = lat. ins-ula « monte, sporgenza sul
mare » che quindi è variante di Inta o Kanta (Anta)
«m onte»; ma anche un insegnamento semantico:
questo suffisso è aggiunto per formare semplici ag-
gettivi, es. Kypar-issos « cipresso » cioè « albero di
Cipro», o forse anche della dea Cipra, Venere; la-
byrìnthus « il palazzo della scure» (greco làbrys
« scure ») o il palazzo dei Lauri, la Larissa » ; greco
erébinthos (lat. herba, o, in forma erosa, lupinus per
*Kalup ((albero», oppure arb-or); tereb-inthos e
cioè «albero» cfr. *derva, nome ie. dell’albero in
genere. E si vede anche che, come formarono agget-
tivi i suffissi anus, inus già visti, così servì allo stesso
scopo anche inthos, issos. Varianti frequenti di essi
sono: ns es. ins-ula, etius, atìus es. Lucretius, Laretia.
Il suffisso cretese issos, issa ha fornito al latino e alle
lingue romanze uno dei suffissi più usati per forma-
re il femminile: es. lat. comit-issa «contessa» (1).
In latino e greco, le forme in gutturali non eb-
bero fortuna in funzione di participi, molta invece
in quella di aggettivi: es. lat. amic-us «che ama»,
greco Basilip-ós a regale ». Il suffisso -ic in latino si

(1) A torto i suffissi -tt, -nd, -nth ( = -nt) sono creduti non ie. Se
così fosse, il lat. stc-und-us = sequent- non sarebbe ie. Questi suffissi sono
semplici varietà dialettali, e così si spiega l’alternanza gr. andrós (uomo
al genit.) e ànthr-op-os « che ha figura di uomo ». La sostituzione di
una doppia o geminata a una nasale -f* consonante è fenomeno comune
aH’ie. e al semitico. Varietà dialettale è anche per int-, o anche -ia-:
es. lat. fìgu lbu s « che fa oggetti », greco dc-in-ós « che spaventa », con-
trario di de-il-ós « che teme ».

356
specializzò come secondo suffisso di nomi di agenti
per formare il femminile: es. vict-or, vìct-r-ic-s. E
qui cade acconcio il notare che assai spesso le idee
attenuate (femminile, diminutivo) sono rese mediante
il moltiplicarsi dei suffissi; es. filia, fìli-ol-cr, it. cam-
po, campi-cello. La ragione può essere una semplice
specializzazione o anche, per chi ama le spiegazioni
psicologiche, il piacere di insistere, mediante la lun-
ghezza della parola su una sensazione gradevole
(quasi un accarezzare, un vezzeggiare). Questi ag-
gettivi in -icus acus hanno anche varianti con s in-
trusa: iscus, ascus (frequenti anche in tedesco, ingle-
se, russo e specie quelli in ascus, nell’antico ligure):
questi aggettivi han servito, in latino e in greco,
a formare i cosi detti verbi incoativi, es. lat. cre-
sco, greco geràskjo « invecchiarne io» cioè «invec-
chio» (1).
Ma questi participi in gutturale e in labiale, quasi
assenti nel latino e nel greco allo stato libero, ebbero
invece una grande fortuna quali elementi della co-
niugazione del verbo. Se ci si domandasse in qual
modo il latino e il greco espressero le sfumature tem-
porali, bisogna convenire che, fatta eccezione pei

(1) L’origine delllr intrusa in questi suffissi sembra dovuta al fatto


che essi sono nati dall’abbinamento del suffisso in dentale con quello
in gutturale; in altri termini, greco gerisco « invecchio » deriva dal
gerant-(i)\-o; la t davanti a gutturale si è trasformata in s, la n è
caduta. Ma nel russo la n talora si è conservata; ivi abbiamo suf-
fissi in -iski e insili. I linguisti prendono scandalo da nomi come lat.
pap-av-er, cad-av-er (cad « santo, dio » il defunto o anche « il ca-
duto, il m orto» da cadere o « il tagliato, l’ucciso» da caederé), ma
queste formazioni sono frequenti anche con semplici nomi: es.
pu{b)er « fanciullo », pass-er « il Bacco o pascià, il Besso, il dio uc-
cello, voluc-er, ecc. Gli allungamenti in ev, eb (cel-eb-, cad-av-) sono
da participi in labiale e spesso han significato passivo: es. ceì-eb-er, m.m-
ducab-tl-is, ecc. Infine, anche i nomi di agente in l, es. cred-ul-us
( = cederti) hanno talora significato passivo: es. mut-il-us « ammac-
cato, frantum ato ». Aggettivi come vag-ab-und-us hanno doppio suf-
fisso participiale, il labiale senza n e il dentale con ».

357
casi nei quali è adoperato l’aumento (che abbiamo
visto essere una indicazione di tempo passato), non
c’è alcuna ragione per cui una data forma verbale
indichi p. es. il futuro a preferenza del passato o del
presente, e viceversa. Si tratta di specializzazione per
un dato uso piuttosto che per un altro, quindi di voci
destinate a un dato significato temporale soltanto in
via convenzionale, forse in seguito a circostanze oc-
casionali che per noi ora è impossibile individuare.
Il greco, p. es., utilizzò i participi in gutturale per
esprimere il tempo perfetto, i participi in s pel tem-
poaoristo (passato remoto) e pel futuro: il latino uti-
lizzò i participi in labiale pel futuro (amab-o),
amav-ero — « sarò avente amato »), per l’imperfetto
(amab-am) e in taluni casi pel tempo perfetto (amav-
i, tenui da *ten-vì « tenni »), i participi in s pel
tempo perfetto in alcuni altri casi {dic-si, « rimasi »
i quali corrispondono quindi, pel modo di forma-
zione, agli aoristi greci); il tedesco usa pel tempo
passato i participi in dentale {leg-te — posò). La di-
stinzione fra l’imperfetto e il futuro, pei quali in
latino serve la stessa forma di participio (1), è affida-
ta unicamente alla vocale, che nel futuro segna il
tempo principale {amab-o), nell’imperfetto il tempo
storico {amab-am)-, ma il cambiamento di questa vo-
cale denunzia un fatto curioso: e cioè che l’accento,
in origine, doveva, nei tempi così detti storici, esser-
si trasferito più indietro verso l’inizio della parola,
e anche oltre, cioè quindi sull’aumento. Basta perciò
il semplice fatto dell’esistenza di due vocali tema-
tiche, una per i tempi principali e una per i tempi

(1) Ciò avviene anche in greco per l’aoristo e il futuro: non è


perciò azzardato un confronto con le lingue semitiche, dove da una
parte si ha il perfetto, dall’altro l ’imperfetto, comprendente anche
il presente e il futuro.

358
storici, nonché di due categorie di desinenze (princi-
pali e storiche), per farci sospettare che anche in lati-
no dev’esserci stato ai primordi un aumento (alcune
tracce furono rilevate anche nell’etrusco), il quale
succhiò l’accento principale del verbo, provocando
l’oscurarsi e l’attenuarsi delle vocali più lontane
(quelle delle desinenze), e l’erosione o l’abbreviazio-
ne delle stesse desinenze: p. es., nei verbi greci, la
desinenza mi del presente (prima persona) diventa
semplice m nell’aoristo (trasformata poi in n per
una legge notissima), nell’imperfetto latino figura
come m\ es. amab-a-m(t) forse da un ja-amab-a-mi
o qualcosa di simile (1).
L’ottativo nel greco si forma con ja, je, es. te-thnà-
je-n « vorrei morire ». Questo ja significa « dio » e

(1) Questa spiegazione è probabile; essa postula che, di fronte al-


l’aumento o a un prefisso, il verbo ie. si comportasse come enclitico:
p. es. facto fa nei composti confido, perfido ecc., ciò che fa supporre
un’accentuazione confido ecc. Altri credono che l ’accento originario
latino poggiasse sull’iniziale della parola, e altri ancora che esso fos.se
mobile e di natura musicale. Ho riscontrato su questa questione una
certa confusione di idee; ma su ciò sarebbe necessaria una discussione
che qui mi è impossibile fare.
Io, attribuisco la mobilità dell’accento primitivo alla scarsa coesione
degli elementi aggregantisi per formare le parole, per cui vennero in
principio accentati gli elementi aventi maggior significazione, mentre
quando essi diventarono semplici strumenti morfologici l’accento ac-
quistò la tendenza a stabilizzarsi sul radicale; attribuisco il sorgere di
un accento musicale all’influsso del formulario magico, perché in
origine il linguaggio non servi alla comunicazione del pensiero, ma alla
espressione dì comandi sia diretti agli uomini che alle cose: e i co-
mandi, servendo ad accompagnare movimenti del corpo, ed essend)
sottolineati da gesti, erano necessariamente ritmati, ciò che fra l ’altro
agevolava la loro ritenzione mnemonica. Da questo accento musicale
si svolsero quelle cantilene che oggi persistono nei dialetti fefr. parole
come lat. letio-dnium , tiro-cinium, onde si vede che 1'insegnamento pri-
mitivo era canto, ritmo).
Aggiungo che parole come lat. (h)lac « la tte », nur-us ( *gan-ur, gr.
ànor)s ( v)enós ( — «or, « n o i» ) testimoniano dev’esistenza, nel primi-
tivo latino, di paiole con l’accento sull’ultima sillaba. È chiaro perciò
che la dottrina dell’erosione avrà ben presto una parola da dire sulla
natura e la sede dell’accento primitivo.

359
in tedesco l’esclamazione jà « per dio ! » è usata co-
munemente per dire «sì»: te-thnà-je-n perciò signi-
fica « morire (te-thna) per dio (je) io (n = mi) ».
La parola ià, che in ebraico significa « dio » era an-
cora in uso, con lo stesso significato, nella parlata
della gente rozza della Val Camonica (Camuni —
Camiti) fino al secolo XVII. Abbiamo su ciò la testi-
monianza formale del Padre Gregorio di Val Ca-
monica che nel 1698 pubblicò a Venezia, pei tipi di
Giuseppe Tramontin, un libro intitolato « Curiosi in-
trattenimenti sopra gli usi sacri e profani della Val
Camonica »: ivi, alle pagine 136 e 137 cita, oltre la
parola jà, anche altre parole che, secondo lui, non
potevano spiegarsi se non ammettendo che in tempi
antichissimi fosse venuta a stabilirsi in Val Camoni-
ca una colonia ebraica (es. baita, ebraico beth «ca-
sa»; ser «avo» ecc.). L’inglese, per dire sì, dice yes
(parola che potrebbe far pensare all’ebraico Iash,
«dio»), ma anticamente diceva Yish cioè Iseo, l’an-
tenato dei Germani, il dio che in fondo non era se
non un eroe, un uomo; ed appunto in ebraico isha è
il nome della donna (da *visha, lat. ves-ul-us, visir,
dio). Questo nome Ja significante « dio » si trova in
molte varianti: p. es. la-cob fu reso dai Greci con
Ai-gyp-t; in Macrobio (« Saturnali », I, XVIII) Iào è
un nome esoterico del sole ; Et era la misteriosa parola
scritta sul frontone del tempio di Delfo; le Paiàn e
fò Triumphe figuravano rispettivamente in cori greci
e latini; e a poco a poco questa parola diventò sem-
plice interiezione (oh!), e fu dai Latini e dai Greci
usata quale segno del vocativo (o); destino in qual-
che modo simile a quello della parola ma, che in ori-
gine indicava il dio, il padre (es. me-herche «padre
Ercole», greco ma Dia padre Giove), e ora è una
semplice congiunzione (e talora interiezione); così

360
anche il greco allà (ma) fa pensare allo Allah (dio)
degli Arabi.
G’infiniti sono semplici sostantivi. Perciò in origi-
ne avevano il segnasingolare m, p. es. osco ac-um
« agire », che in greco diventò n, es. àgei-n « condur-
re». In latino prevalse il segnanominativo se: age-se
diventò age-re (1). Le forme greche come deil^-ny-
naì « mostrare » saranno nate dall’agglutinazione
del segnanumero n col segnacaso se, sa, ridotto a he,
ha. Tuttavia non si può spiegare la forma ai se non
pensando al modo con cui è stato reso in greco lo
Ja di Jacob, cioè Ai-gyp-, oppure al fatto che nella
pronuncia semitica ha si legge ah, del che abbiamo
molti esempi: es. Ahmed sta per Hamed «il Cami-
to», Ahmos per Hamos « il Camuso, il sacerdote o
Camita ».
Altra forma di ottativo era in oi, che al pari di
te, ai, significa anch’esso « dio » (confr. it. ohi! « per
dio! »); e dalla fusione di questa interiezione con la
vocale tematica è sorto il congiuntivo, la cui caratte-
ristica essenziale è Vallungamento della vocale tema-
tica per Vassorbimento della interiezione incorporata
nel verbo. Che il congiuntivo sia un antico ottativo,
risulta chiaro in latino dal fatto che in questa lingua
le sue desinenze sono quelle dei tempi storici: o in
altri termini: conglobando nella voce verbale l’in-
teriezione, si produsse un aumento della distanza
fra la sillaba accentata del verbo e la desinenza, di-
stanza che causò l’accorciamento della predetta de-
sinenza.
(1) L ’originario se è rimasto in lat. (v)es-se « essere », e in lat. velie
(*vel-se) « volere ». j
Negl’infiniti passivi latini di terza coniugazione si può sospettare
la caduta dell'r intervocalica alla maniera greca: dici sta per dice-si,
sarebbe perciò un riflessivo. C’è dunque la possibilità di una fonetica
promiscua non solo per il lessico, ma anche per la grammatica.

361
Il verbo essere esige una spiegazione. Voi sapete
che la glottologia attuale crede che la radice di que-
sto verbo sia as, es. La radice invece è ves (talora
rotacizzata in ver) come avrebbero dovuto per primi
sospettare i danesi e i tedeschi, i quali ultimi possie-
dono la voce wesen (essere), e war (imperfetto del
verbo essere, « ero »). La coniugazione paleoeuropea,
ricostruita sulle attuali forme latine, doveva dunque
essere press’a poco: (ve)s-u-m(i), (v)es, (v)es-tt, plur.
(ve)s-u-mu-s, (v)es-ti-s, (vé)s-unt.
Le desinenze dei verbi non sono altro che i prono-
mi personali: m i (io) ridotto a m oppure n nei tem-
pi storici; si (tu) ridotto a s, ti (egli) ridotto a t (cfr.
greco es-ti, lat. es-t); mu-s «noi», ti-s «voi». Da
queste desinenze si ricava che s è aggiunto per for-
mare il plurale, per analogia con ciò che avviene
nella declinazione; infatti il greco ha, al posto del
lat. mus, me-n, l’ebraico, al posto del lat. ti-s, ha te-m,
te-n, e cioè indicano il plurale con Ym e Yn invece
che con IV.
Da quanto sopra risulta che ti, te si usava tanto
per la seconda persona che per la terza (cfr. lat. tu
? pers., e greco to pronome di terza pers.), e per la
prima persona si usava mi tanto al singolare che al
plurale (da *gomi, lat. homo).
La desinenza nt della terza plurale può essere nul-
l’altro che un suffisso participiale (es. lat. amant —
amantes)-, ma mi sembra più probabile che sia una
forma arcaica di pronome sul tipo del greco autós
« egli » tanto più che nell’albanese si ha atta « essi »,
nelle lingue camitiche ent-uj (dove uf è segnaplura-
le), nel celtico itu-s (dove s è segnaplurale): es. carn-
itus = fecero, nella iscrizione di Novara.
Infine, un confronto con le desinenze dei verbi
ebraici ci fa scoprire che ti si usava per la prima per-

362
sona, ta, te (rispettivamente maschile e feminile) col
plurale te-m (= lat. ti-s) per la seconda persona;
dunque in definitiva, fra semitico e indoeuropeo, si
ricostruisce un pronome ti valevole per tutt’e tre le
persone! (1).
Nell’ebraico la prima persona plurale si rende con
nu; la seconda e terza con nah: in latino si ha, allo
stato libero, no-s per la prima plurale (dove s è se-
gnap’.urale); dunque ricostruiamo un pronome nu
no valevole per tutte le persone. Per di piu, nell’<e.
si ha mi per la prima singolare, min in greco allo
stato libero per la terza singolare; in greco hemin,
hymin allo stato libero per la prima e seconda plura-
le: dunque si ricostruisce un pronome hemin (eroso
mi e miri) che vale per tutt’e tre le persone, e pro-
priamente significa « homo, homines ». Eroso è an-
che il lat. no-s da enós e questo da *venos o *genos
(cfr. lat. venum in venum dare «dare animali in
cambio di qualche cosa », e lat. gen-ius « uomo
dio »).
La terza persona plurale nell’ebraico termina in
u; ciò dipende dal fatto che il verbo è un semplice
nome di agente e Yu è la labiale che segna il plu-
rale: perciò qat-al «uccisore» (fu), qat-el-h «ucciso-
ri » "(furono). Una tabella mostrerà più chiaramente
questi risultati:
latino: amo (mi) « io » (2) ama-mn-s « noi »
ama s « tu » ama-ti-s « voi »
ama-t(i) «egli» ama-(e)nt «essi»
(1) Se ne deduce che, nel verbo semitico, i prefissi ni, mi, httk
( = tto , « emetto ») formano riflessivi-passivi e corrispondono ai suffissi
mi, si, ti dell’ie.
(2) La desinenza -o della prima persona non è dunque differente
da -mi, ma è il residuo di una forma più piena -orni (uomoY che nel*o
slavo ha dato -o nasalizzato, nell’antico tedesco -om, es. salb-om « io
ungo ».

363
perfetto ebraico : uccidere
qatal-ti «io » qatal-nu «n o i»
masc" qatal-ta « tu » qetal-te-m «voi»
fem. qatal-te « tu » qetal-te-n «voi»
masc. qatal « uccisore »
qatel-ù «uccisori»
fem. qatel-ha «essa»

Nell’imperfetto ebraico ci sono due innovazioni:


in alcune voci i pronomi sono prefissi e non suf-
fissi ; e figurano ti per la seconda e terza singolare, ni
per la prima plurale, nah per la seconda plurale. Il
trovarsi questi pronomi con tanta varietà di vocali è
una nuova prova di quanto vi abbiamo detto più
volte, e cioè che nel paleoeuropeo non esistevano vo-
cali definite e parole a fisionomia precisa, ma tutto
era affidato alla innovazione. Ma, come vi dicevo,
noi cerchiamo varietà e non leggi. Il nostro proble-
ma non è, come per la glottologia classica, di trovare,
data una parola di una lingua, quale fisionomia essa
dovrà necessariamente assumere in altra lingua della
stessa famiglia; ma quest’altro: dato che una parola
tende a modificarsi continuamente e a rendersi irri-
conoscibile, come si fa a individuarla sotto le trucca-
ture le più diverse. Il nostro insomma non è un tri-
bunale che emana leggi, ma, se così posso dire, un
ufficio di polizia investigativa che prende fotografie
da vari punti di vista e impronte digitali; e uno dei
nostri apporti a questa scienza è di avere diminuito
l’importanza del concetto di legge fonetica, e accen-
tuato invece l’importanza del concetto di innova-
zione.
Coniugazione passiva. - Un fenomeno di rotaci-
smo ci è offerto dalla coniugazione passiva del ver-
bo latino. In greco il passivo è un riflessivo; è un

364
fatto trasparente: es. ly-o-mai (per *ly-o-ma-mi)
« sciolgo io me » ; in latino avviene la stessa cosa,
ma il complemento oggetto è costituito dal pronome
se (per tutte le persone), che si rotacizza: es. dìco-r
sta per dico-s{e) «dico m e»; dice-si-se « dici-tu-te»
diventa diceris, ecc. abbiamo qui pertanto una vera
e propria forma incorporante (vedi pag. 66-7) (1).
Da notare che la seconda persona plurale termina
in lai. in mini, es. dici-mini «siete detti». Questa
forma non è altro che un antico participio passivo,
sparita dal latino, ma conservatasi in greco e in al-
cuni vocaboli celtici: es. greco legó-menos «detto»,
e il nome del dio celtico Cernu-mnus «cornuto».
Questo suffisso menos non è altro che la parola si-
gnificante « uomo » (greco min — egli), ed è erosa
da *gom-en (Pn finale è segnasingolare incorporato
poi nel tema). Fossili latini sono alumnus (nutrito),
columna, ecc.
Nell’aoristo greco abbiamo anche un’altra forma
di passivo con thè, es. ellàch-the-n «fui mutato»
(allatto, da allos «altro», quindi «far altro, diven-
tar altro»). Questa forma di passivo non è altro che
un antico participio in dentale del tipo latino che
si trova in amat-us\ perciò la parola sopra citata
significa « mutato io » (n = io, mi) (2).

(1) Un fenomeno simile si verifica nel lituano. In greco le desinen-


ze passive -metha — mi(io) -f- tu; -stila — se -f- tu; sthai =c ta + ti.
Non è chiaro se trattasi di forme inclusive, o di forme riflessive, c- me
m i sembra piu probabile. U n’analoga incertezza può nascere per le for-
me ebraiche come ti-qtol-nah, ove ti e nah sembrano pronomi.
(2) Non è però da escludere che questo thè sia un pronome, col
significato generico delle tre persone, come il se del verbo passivo
latino, e come del resto ne abbiamo incontrati nel confronto fra la
coniugazione semitica e l’indoeuropea; in tal caso ellach-the-n signifi-
cherebbe « alterai-me-io ». Ma se si tien conto del modo di forma-
zione dei participi (tema del verbo + pronome) ci si accorgerà che
in fondo l’una e l’altra spiegazione si equivalgono, c thè è in ogni
caso un pronome.

365
Sul deponente e sul passivo latini..- Il verbo depo-
nente latino è in fondo un riflessivo, come del resto
tutti i verbi passivi : sequ-or « mi associo » quindi
«seguo» (da soc-ius)-, hort-or «m i urto» quindi
«spingo»; vesc-or, pasc-or «m i cibo, mi pasco»;
ut-or «benefico me di qualche cosa» quindi uso;
nascor « sono generato »,. quindi « nasco ». Analiz-
zando tutti questi deponenti, si trova quindi che fu-
rono originariamente dei veri e propri passivi.
Ma dovette esserci anticamente in latino un’altra
forma di passivo, corrispondente alla forma che tro-
viamo neH’aoristo forte passivo dei Greci: es. e-tàph-
e-11 «fui seppellito», e-plà\-e-n «fui intrecciato».
In effetti nessuno mai, ch’io sappia, si è mai posta
la domanda perché in latino esistano quattro coniu-
gazioni dovute ad apparenti ragioni fonetiche, men-
tre in quasi tutte le lingue le varie coniugazioni di
un verbo hanno ragioni sostanziali, semantiche. Ora
io ho motivo di credere, che la seconda coniuga-
zione, e in parte anche la terza e la quarta, siano
antiche coniugazioni passive dove la e tematica (o la
t) sta in rappresentanza del pronome se scomparso
e non rotacizzato: es. par-are «rendere pari, rendere
atto a qualche cosa », par-ere « farsi pari, uniformar-
si », par-ere (partorire) « essere par, essere genitore ».
Le due ultime forme hanno dunque significato pas-
sivo, o riflessivo o neutro.
Ora precisamente quasi tutti i verbi della seconda
coniugazione latina hanno significato neutro o rifles-
sivo : ago « spingo » eg-eo « sono spinto » quindi
« manco di qualche cosa »; fug-are « metto in fuga »,
fug-io «sono messo in fuga»; ex-erc-eo «m i eser-
cito all’arco»; sol-eo (connesso con solium «sedia»)
« siedo, sto » (in ted. si ha setzen « porre » e sitzen
« porsi » : orbene, soleo corrisponde a questo secondo

366
verbo); arceo «sono tenuto lontano dall’arco, sono
bersagliato» quindi «m i apparto»; suadeo «sono
dolce con qualcuno» (greco *sved-ys — dolce); ful-
geo « sono splendente » ; queo « sono \u , sono dio,
sono potente » ; gaudeo « benefico me, mi servo di
qualche cosa » (ted. gut « buono » it. guadagno da
*gaudaneum cioè « godimento », gaggio, aggio va-
riante di gaudio « godimento » quindi anche « pe-
gno » onde francese gage, it. ingaggiare) ; iac-io « col-
pisco, dardeggio», iaceo «sono colpito, abbattuto»
e quindi « giaccio » ; doleo « sono danneggiato » (rad.
del, tagliare, cfr. del’co «danneggiare»); stupeo «so-
no colpito, mi meraviglio» (rad. tup, colpire); me-
reo « sono mer (eroso da gomer) cioè soldato, miles,
quindi «fo servizio»; debeo «sono legato» (rad.
de, legame) (1); moereo « sono ammaccato, moestus »,
ed è curioso e significativo che nella forma deponen-
te moeror, non sia piu della seconda coniugazione,
perché non c’è più bisogno dell’espressione riflessiva,
che è trasferita nella desinenza; ecc. (2).
Ci sono, certo, delle eccezioni, e ciò prova che in
seguito la formazione della seconda coniugazione ob-
bedì a criteri analogici, essendosi perduta la coscien-
za del suo significato; tuttavia in molti casi l’analisi
semantica mostra che il significato originario giusti-
ficava la forma di un verbo neutro : es. habeo « ho »
forse in origine « sono capo, sono ricco » ; iubeo « so-
no capo, comando» (sono Giove); tineo «sono Gio-
ve o Tino, sono ricco » ; reor « sono re o dio, penso,
comando»; careo «ho cara una cosa, ne ho biso-
( 1) Oppure da *de-haìeo « ho in meno, sono in debito ».
(2) L’oscillazione fra la prima e la terza coniugazione si coglie in
lat. carp-ere « prendere, arraffare » e usu-rpare (da *usu-carpare for-
mat0 come usu-caperc, cfr. greco harp-àzo); l’oscillazione tra forma in-
tegra e forma erosa in greco harpàzo, in lat. irp-ex e in lat. rap-ere (da
carp-ere).

367
gno » ; vereor « temo », probabilmente « sono inti-
midito » (la stessa semantica spiegherebbe timeo);
taceo « sono silenzioso come tomba o the\e » ; sileo
«sono silenzioso come tomba o silentiumvr, tee. In-
vece, deleo «distruggo» è ingiustificabile; si può
pensare o a un «sono tagliente» o che sia stato
foggiato sul tipo di doleo (1).
Noto infine che molti verbi indicanti sensazione
o puntura appartengono alla seconda o alla quarta
coniugazione: audio, sentio, video tee.; se si consi-
dera che in greco questi verbi hanno spesso la for-
ma mediale, es. pynthànomai «apprendo», opsomai
«vedrò», akroàomai «udire» si può sospettare che
la base semantica di queste formazioni sia l’idea di
«essere punto, colpito».
Pronomi. - La base di tutti i pronomi compresi
nell’ambito di queste nostre ricerche è, al solito, il
gruppo delle consonanti di radice o consonanti ori-
ginarie K, T, P, coi loro succedanei s, h, le semiso-
nanti (jo, je, tee.) e, infine, le semplici vocali resi-
due. Queste radici si trovano sia nei pronomi, es.
lat. qui-s, greco ti-s (chi?), po-, ho (da so, articolo),
lat. hi-c, ha-c (questo, questa), ebraico ha {ah) quale
suffisso della terza persona singolare femminile del
verbo, tee. Abbiamo anche visto che in origine non
esisteva una specializzazione dei pronomi nelle va-
rie persone (prima, seconda, terza) e che questa spe-
cializzazione dev’essere avvenuta più tardi, forse per
ragioni del tutto contingenti.
La radice del pronome ko, to, so tee. significa « fe-

(1) Nota ìat. cacdere «uccidere» e cad-ere «essere ucciso, e quindi


cadere». Ma retimologia può essere diversa, e cioè connessa con greco
k.atài « andar giti ». Nota anche greco do k^ò con significato passivo,
mentre il fat. doceo ha significato attivo « mostrare » di contro a « sem-
brare, essere mostrato ».

368
condatore, dio ». Perciò quando noi diciamo « tu »
a una persona, gli diciamo in sostanza «dio» o
« zio » ; analogamente, quando il latino diceva « ille »
di una terza persona, non si rendeva più conto, in
tempi storici, di dire « dio » e di pronunziare un vo-
cabolo che ancor oggi, nella variante el, allah, è ri-
masto con tal significato nelle lingue semitiche. Que-
sto vocabolo è tutt’altro che estraneo all’ie.; lo ab-
biamo incontrato in nomi propri.
Accanto a queste forme che vorrei chiamare fon-
damentali, ce ne sono altre derivate da nomi diven-
tati erosi a causa dell’uso troppo frequente che se
ne faceva: lat. no-s (da *ven-ós «animale»), ebraico
ono\-i «io» (connesso con greco vànax «signore»
ebraico Enoch «Noè, capo»), greco hemin (noi),
hymìn (voi) propriamente « uomini » e in forma an-
cor più erosa, min (lui).
Che cosa dunque è un pronome? Null’altrb che
il nome generico del membro di una tribù. Un uo-
mo della tribù dei Boii (buoi) era un bue (inglese
boy = ragazzo), un uomo della tribù del vitello era
un vitulus (Italo), un uomo della tribù della vacca
era un venco (vingio, cioè variante con n di pacco)
e, per erosione, Yankee, lun\-er, *vang-el (anglo),
vendo, o sindo, o zendo, o indo; vand-alo, anda-
luso, ecc. Per dire « giovane » il latino diceva iuven-is
come per dire «noi» diceva venósi è un nome della
tribù dei Vingi o del gio-venc-o (gio sembra titolo:
«signore»). Il ted. Euch «voi» (da iu-vig) e l’in-
glese whig (oggi nome dei liberali inglesi) signifi-
cano anch’essi « vacco » e il costume di dare del vi-
tello, del mulo ecc. doveva essere tanto diffuso che
in russo nomi del tipo Petro-vich finirono per signi-
ficare « figlio di Pietro », cioè il « vitellino di Pie-

369
24 . * L ’origine del linguaggio.
tro». Ricordate del resto che il greco chiamava il
figlio hyiós, cioè, press’a poco, «il porcellino».
Il lat. ego è eroso da veg e significa anch’esso « vac-
co o vingio»; l’ie. diceva ag-am, cioè vag-a-m «il
vacco » (cfr. russo boje = il dio, cioè il bove). Dire
« io » dunque significa: «il vitello (il bue o altro
animale totemico) che ti sta parlando». L’uomo che
così parlava doveva in quel tempo vestire come un
vitello, indossandone la pelliccia e mettendosene in
testa le corna; nel dir così egli si qualificava come
discendente del vitello, e di ciò era fiero (1).
L’ebraico ano\4 (io) e il cinese ngo (io) {erigo fa
supporre un vengo) ricordano anch’essi il vingio.
Questa rassomiglianza del pronome cinese con l’e-
braico è molto strana, e se non è casuale, la dice assai
più lunga sul carattere originario della lingua ci-
nese, molto meglio che non facciano lunghe serie di
parole poste a confronto. L’ebraico ano\-i è da ve-
rio\, greco vanax\ se il cinese ngò suppone an\ó
e vankó, il preteso monosillabismo originario risul-
terebbe invece essere il risultato del rattrappimento
di strutture molto complesse. E siccome questa non
è una di quelle parole che si prendono a prestito,
ne risulterebbe anche che il carattere originario del-
la lingua era ario, e ha somiglianze col lessico

(1) È curioso osservare che i nomi per indicare i giovani e quelli


per indicare i vecchi spesso nella medesima lingua accennano a totem
differenti, ciò che può costituire un indizio per ricostruire la stratifica-
zione dei totem: es. lat. iuuenis (giovenco), vir (capro), vetus (vitello),
sen-ex (cane, cfr. il nome tartarico Kan « re » nella forma satem « Sin »
che indica i Cinesi: è un nuovo indizio che il luogo d ’origine dei
Latini doveva essere vicino a quello dei Tokari, nel T urkestan orientale.
Il nome della vecchia A nu s accenna a un popolo di A nn i o Vanni (cfr.
Anno-ne, Hanni-bai, Hanno-ver ecc.). Il greco geraiós (vecchio) ricorda
i Grai, palaiós (vecchio) i Pelasgi. In inglese old (vecchio) ricorda i
Celti, H elden; il ted. Btirsche «garzone» il porco, \in d «b am b in o »
ricorda forse il cane: cfr. greco \aìnós « recente » (* \a n-) e scr. \anya
« fanciulla ».

370
ario (1). Il monosillabismo sarebbe perciò sorto dal-
l’incontro di una razza parlante un linguaggio ario
necessariamente in uno stadio ancora rudimentale
e quindi ancor vicino al monosillabismo, con una
razza avente un linguaggio indigeno monosillabico,
ed incapace di superare questo stadio, forse per ef-
fetto del sistema atomistico di scrittura. Insomma,
avremmo qui una prova che l’attuale lingua cinese
non è di origine semplice, ma composita (2).
Pronomi di terza persona. - Il greco autós « egli »
è da confrontare con l’etrusco cautha « dio », con
ted. Gott, con spagnuolo Caud-illo «capo». Que-
sta parola ebbe probabilmente una variante con n,
*Kant (3), che si trova in Kentar « il centauro » va-
riante del nome scita del cavallo, Kuda (ted. Gott
«dio»), variante che ci spiega perché in Omero
auto-medonte significhi «auriga, signore di caval-
li » (sinonimo di auri-medonte, cioè « signore di sau-
ri»). Questa forma Kant per Kauta si troverebbe
perciò allo stato eroso nel lat. am-ant (3* plur.) della
quale si è parlato in sede di verbi. Probabilmente è
connessa la parola ted. Ganz « il tutto » cioè « il
dio » che in greco ha la labiale (Pant, il tutto), in lat.
la dentale: Tant-us e Tot-us. La parola ted. Tante
« zia» significa perciò «dea, nutrice» e corrispon-
(1) E che dire poi se aggiungiamo che anche nello ainu si trova
la n o si ebraico? Quanti brutti scherzi della natura non bisogna sup-
porre?
Anche in Polinesia per dire <( io » si dice inaiti!
(2) Uno spiraglio di luce su questa evoluzione preistorica del cinese
può venirci dalla constatazione che alcuni monosillabi indocinesi ad
es. pao (padre) pui (madre) sono forme erose di apo, apid. Allora tro-
viamo in queste parole precise corrispondenze con lat. avus ebraico ab
« padre» . Cosi anche pili « 4 » in taluni dialetti indocinesi diventa pii,
li, in altri pesi ciò che fa pensare a piedi (i 4 piedi dei quadrupedi).
(3) U n fenomeno simile è avvenuto in *blancus (bianco) connesso
con greco glau\ó$ (glauco), leukps (bianco), rad. col, come in lat.
col-or, clarus, ccc.

371
de all’italiano dialettale tata, padre. A suo luogo fu
visto che nell’egizio ent-uf, e nell’albanese atta, non-
ché nell’ebraico att-em abbiamo degli equivalenti di
greco autós « egli », « essi ».
Lat. ille vale «d io» ; etrusco helu « di lui» porta
nell’/t iniziale la traccia dell’erosione; il ted. er
« egli » è da ver « capro, dio ». Che gli animali fos-
sero dèi, risulta non solo dalla mitologia, ma anche
da una precisa testimonianza linguistica: la capra
nutrice di Giove si chiamava Amal-theia cioè «zia
0 dea Amalia». E che Amai sia dal greco gamélios
« fecondo » risulta dal nome del mese Gamelión che
in Delfo era chiamato Amalos; in Amala-sunta
(principessa gota) abbiamo un composto «la Santa
Amala ».
Il ver o capro era il fecondatore della tribù come
nelle società animali lo è del gregge; le corna e la
barba, simbolo della sua forza sessuale, diventeran-
no nelle società antiche il simbolo della rispettabi-
lità. Lo stesso nome greco indicante l’animale, cioè
zoon, significa divino (*djoon). Noi crediamo oggi
che l'harem sia l’organizzazione della sensualità
orientale, mentre invece è il residuo di una gene-
rale organizzazione preistorica delle società umane
sul tipo delle società animali: il gallo nel pollaio,
il becco nel gregge, il maschio (greco móschos) fra
1 bovi, sono i modelli della regalità umana. E si
trovano ancora tracce dell’uso di dare a un uomo,
in segno di rispetto, un titolo animalesco: Giunone
ha gli occhi di bue, Atena occhi di civetta, Elena,
parlando di sé, dice che altra volta aveva più co-
raggio, era più «cagna». Un cinese, parlando con
qualcuno, gli dà, per riguardo, il titolo di «vec-
chio»; quanto a sé, si qualifica, per modestia, figlio
o nipote. Anche noi diamo alle persone di riguardo

372
del «signore», cioè dell’anziano; e viceversa, volen-
do mancar di riguardo, diamo del « giovinotto »,
del «pivello» (pupello, lat. pu(y)-er). Presso i La-
tini, senex (vecchio) era stato un termine indicante
«dio» o «principe» (probabilmente è una forma
saiem di canis, come sin « cinese » lo è forse di Kan
tartarico, e i Latini, come fa sospettare la molto af-
fine lingua tocarica, venivano da queste parti); e
infatti in etrusco senis vale « capo » e in latino sin-ere
vale «comandare, permettere» (poi significò anche
«finire» cioè «essere vecchio» «essere agli estre-
m i»); in greco i termini che indicano vecchiaia so-
no ger-as (cioè ver, fecondatore (1), che poi eroso
ha dato l’ebraico resh «capo», l’etiopico ras, l’egi-
zio ra « re» , il lat. re-c-s; e il greco geràspo «invec-
chio» in latino diede cresco)-, paìaiós «fecondato-
re » cfr. poll-uere e il nome del phallus, della pellex,
di Pallas Athene; arch-ont (arconte) lat. hirc-us «ca-
pro». In latino grandis è corrispondente del greco
geront «vecchio».
Ted. sìe (essa) propriamente «zia, dea»; ted. die-
se, danese de, ingl. thè (articolo) = lat. deus, dio;
ted. ihr, inglese her (essa) ricordano ted. herr « si-
gnora» lat. vir, her-os; ted. jene «quello» corrispon-
de a greco e-peinos, dove e è articolo incorporato e
peinos vale «che è qui», connesso con \e ì « li» e
verbo pei- a giacere » lat. cì-vìs « abitante » (al con-
trario xeinos vale «forestiero» da exo «fuori»); da-
nese han «egli» vale « il Kan, il Kon-ing o re» ;
danese ham (caso obbliquo di han) e danese hun
sono varianti; e corrispondono a molte parole tutte
piu o meno connesse: cam «santo», ted. huhn «gal-

(1) L’equivalenza ver = ger si prova con lat. grex (*ver-ec): « in-
sieme di verri o capri». Questa forma *greg è forse latente in greco
egeir-ò « spingo » (il gregge), « grido » (per adunare il gregge).

373
lo», henne «gallina» greco gyné «donna», inglese
queen «regina» (propriam. «donna»).
Ted. jede «ogni» corrisponde all’italiano cada-
una-, deriva da cad (rad. di castus, il puro, il dio),
quindi « l’uno» (ahad in ebraico e sanscrito) e « il
tutto » (greco he-\astos « ogni »). A suo luogo infatti
abbiamo visto che il nome dell’uno (Dio) è anche
il nome del tutto, cfr. lat. solus « solo » e sollus « tut-
to» onde sol-idum e saldare «rendere solido, fare
un tutto » (invece solum « la terra » è variante di
solium « dove ci si siede, la base » cfr. con-sules « che
siedono insieme » sella « dove si siede » ecc.). Nell’it.
ciasc-uno (inglese each « ciascuno ») abbiamo la stes-
sa parola castus nella forma cascus, cfr. ted. Keusch
«casto» e il termine Casci con cui nell’antico latino
si chiamavano i principi; in it. ciasch-ed-uno la par-
te intermedia è forse il ted. lede.
Ebraico asher «questo» oppure « il quale»: pro-
priamente è il vizir, il ves-ul-us. È curioso che esso
sia stato adoperato per formare accrescitivi, es. gio-
vinastro. Il ted. besser «meglio» vale propriamente
«vizir, dio».
Pronomi raddoppiati e composti. - Il pronome lat.
ille non aveva una forma fissa; essendo la vocale
un elemento variabile, esso poteva assumere l’una
o l’altra vocale. I Semiti hanno un articolo al (it. il);
il lat. aveva ullus e alius, che sono varianti di il'.e,
leggermente differenziati nei significati. Il lat. al-ter
è un comparativo « quello inoltre », ul-ter è variante
di al-ter, es. ad-ulter-are = alter-are.
In latino co-eteri (e gli altri) equivale al greco hai
héteroi « e compagni » (heter-os vale propriamente
vitello, membro di tribù, e anche soldato vestito da
bue, quindi «commilitone, compagno». Il ted. an-

374
der «altro» è forse variante con n di héteros o
hetairos, ma potrebbe anche essere parola corrispon-
dente al greco andres «uom ini».
Lat. qui-dam vale «uno del popolo» (greco de-
mos, popolo). Questa parola si trova in damo e dama\
ed a torto vi si vede un’abbreviazione del lat. domi-
nus «signore». Questa parola vale «capo della do-
musyy cioè della plebe di schiavi e clienti o demos
«popolo» che costituivano la sua azienda familiare.
Damo quindi indicava un popolo che prima fu pro-
spero ma poi fu sottomesso e costituì lo strato infi-
mo della popolazione.
Lat. i-dem è da hi « questo » oppure i-s (dove s è
segnacaso) unito con de-m («esso», cfr. inglese thè,
articolo); quindi « egli-desso», quindi ancora: «lo
stesso» (1).
Lat. qui-cumque è composto da qui con una pa-
rola significante «unghio»: vale «qualsiasi, per
piccolo e trascurabile che sia»; quod-cumque «qual-
siasi cosa, sia anche piccola come un’oncia o un un-
ghio»; ne-unquam «neanche per un unghio».
Lat. ip-se: in lat. sibi è un locativo con significato
di dativo « a sé»; e abbiamo visto che il locativo,
oltre a significare il dativo, fu adoperato anche per
significare « a causa di », e talvolta anche con signi-
ficato di genitivo. Nel lido sembra essere accaduta
una cosa identica, perché ivi eh-bi (da *seh-bi) vale
« suo, di lui ». Una volta diventato sinonimo di
« suo » ehb- si unì con altri pronomi : ehb-tehe « suo
di lui, proprio». Nel lat. ip-se abbiamo una forma
analoga: «il suo sè, se stesso» (2). Da questo sibi
(1) Si può pensare anche a id + em («egli anche» cfr. etrusco
ttm = : lat. et): questa interpretazione è appoggiata dall’analogia con
lat. it-em (e anche così), egom-et (io stesso), nonché dalla corrispon-
denza con le forme sanscrite.
(2) Si potrebbe anche pensare al camitico eph (egli) + se — egli
stesso.
375
con significato di genitivo è forse nato il possessivo
greco *svoos, lat. suus.
Lat. u-ter è da \uter o pu-ter (in umbro pu-ter),
in greco pó-teros, in ted. we-der in inglese eìther,
ecc.
Lat. ubi da \u-bi o pu-bi, greco po(v)i.
Lat. hi-c può essere nato da raddoppiamento, ma
forse è meglio credere che questa c finale è un an-
tico segnacaso, es. lido ti-\e oppure ti-se, greco ti-s,
lat. qui-s.
Lat. is-te sembra composto da is -j- te; dove que-
st’ultimo può essere un pronome «esso» oppure un
antico locativo: «quello-là»; cfr. ted. da = là; greco
ibi, segno del locativo.
I comparativi. - Si formano in latino, aggiungen-
do ios (ior) al positivo: es. mel-ior sta per *bel-ìor,
greco bel-teros «più bello, meglio»; lat. pe-jor
«peggio» connesso con ped «piede» e con pcssum
«andar giu». Questo suffisso vale «dio» cioè Bor,
egizio Hor « dio ». Il tedesco aggiunge er, eroso da
ver, che è una vairante di Bor. Il greco e l’ebraico
formano il comparativo con ter, che vale press’a poco
« principe, nutritore » (cfr. tyran-nos « nutritore,
principe» (1); in latino questo ter si trova in al-ter,
ul-ter, uter, nel tedesco in we-der e nell’articolo der\
«il dio, egli».
II superlativo in latino si forma con simus « Santo,

( 1) Può darsi che questo ter significante « nutritore » e quindi


« albero », debba la sua origine semantica piuttosto che all’idea di pp.i-
cipe. a quella di albero: ter come albero diede origine al nome del
num ero tre, per via della biforcazione o triforcazione dei rami. Non si
può escludere che ter abbia anche avuto il valore di due, perché in
queste forme comparative l’idea del due è essenziale: es. lat. u-ter
«quale dei due». Cfr. francese tris « assai» cioè « tre volte»; e come
curiosità si può citare il numerale bantù tato = tre, per la sua somi-
glianza col superlativo greco.

376
eccellente» (cfr. setti, da cui la parola semita e si-
mius «animale-dio»); in ted. con st da set «Santo»
o da (vi)st « il dio » variante di Vito o Bitu o vitello
(es. Ano-visto «il signor principe» (1); in greco con
ist (come nel tedesco) o con tato «tanto»: es. bel-
tato-s « tanto bello, tutto bello ». Infatti lat. totus e
tantus non sono la tovere, ma da rad. ta «nutrice»
e sono da distinguere da tot-quot « tanti-quanti » nei
quali si ha il correlativo qui-te che sono due prono-
mi: esso-esso. Anche il lat. qua-m e quu-m sono an-
tichi pronomi in forma indeclinabile; ad essi corri-
spondono tam e tum o dum « in quello, mentre ».
Lat. magis è connesso con magus «mago, dio» e
magnus «grande come un dio»; plus è connesso
con rad. poi «nutrire, riempire» cfr. lat. plenus,
greco poll-ós «molto». Il greco màllon «più» è
connesso con moles cioè «monte, montagna»; il lat.
multum vale «schiacciato», «disperso» e quindi
«diffuso», che si trova frequentemente.
Il suffisso lat. plex significa «piega» «intrico di
peli» (da pilum si è formato plico)', perciò sim-plex
(sim è da sem, uno, il sole). Questo verbo plico è
connesso con placet «alletta, avvince», con plac-are
« calmare, far piacere », ted. pflicht « dovere » pro-
priamente ((legame, obbligo», dove Ugo è da plig.
Per dire «piccolo» il ted. ha wenig (da veri, gene-
rare, quindi « il generato, il pargolo »), l’ebraico
yo ne\; per dire «m eno» il lat. dice minus da rad.
min «schiacciare, battere».

Negazioni. - Si esprimono con parole indicanti co-


se piccole: es. non vale nano; inglese not è da \not,
che vale nodo; ted. nicht vale anch’esso «nodo o

(1) Dalla pronunzia Arióvistos forse è derivato il cognome Ariosto.

377
nocciolino », lat. natici « infischiarsi di una cosa, non
curarla », inglese naught « nulla » cfr. nocca cioè no-
do; bolognese brisa «briciola», it. mica « bricciola
di pane» propriamente « mucchietto » ; francese pas,
point « un passo, un punto ». Lat. negare vale « dire
no » da ne + *ago, aio (1). Gr. o u \ sta per oun\
(unghio).
Preposizioni. - Ital. di vale «dio, padrone»: «la
casa di Pietro» significa «la casa padrone Pietro».
In tedesco si dice von, cioè bonus, che in origine si-
gnificava «dio, bano„ greco vàna\, olandese vani
quindi il significato è identico a quello di « di».
Lat. ab (da) significa «padre, avo» (babbo); indi-
ca perciò provenienza: in greco apó, in inglese of.
La parola ab in questo senso si trova anche in ebrai-
co: ab (da *bab = lat. avus, padre).
Lat. ob. significa « amba, monte », e ha dato origine
alla parola opp-id-um «città, fortezza»; si usa per
indicare ostacolo, cosa che sta in mezzo. In greco
questa stessa parola, nella forma epi significa «so-
pra, a monte di» (in ted. auf — su); nella forma am-
phi significa « intorno » e corrisponde al russo ob
«intorno» e al ted. um(b) «intorno». Per dire «in-
torno» il greco usava anche per-t, rad. per «gira-
re » : cfr. pir-uetta, vir-are, ecc.
Lat. cu-m « con ». È il nome del dio Ku, col segna-
numero m. Significa perciò uno, in uno. Il greco
syn « con » è forma satem di cum ed è connesso con
(s)em <( il sole » (ted. sonne, ebraico sham), e con *em

(1) N e può essere un nome divino usato in senso apotropaico, Io fa


sospettare il trovarsi in greco né ~ non (es>. ne-penthès, che non ta
soffrire), naizzzsi; me — non, ma Dw ~ si. Apotropaico può essere an-
che ebraico 16 (non), forse nome di dio ctonio per eló, cfr. greco Cello,
divinità in ferire. L’etimologia comune spiega non = ne-unu$; e il ieri.
nicht = ni tvight « nessun peso ». Ma si urta alla forma inglese.

378
«uno». Ma il lat. aveva la forma satem in sim-ul
«insieme, in uno» (in etrusco cem-ul nel cippo di
Perugia) e in sim-plex, sem-el (una volta), e il greco
aveva la sua forma centum in koin-ós che corrispon-
de al lat. (\)oenus «uno», e com-es «compagno»
(derivato da curri)-, cfr. anche lat. cum-ulare. In ted.
ge (con), es. Ge-sell = lat. consul « che siede insieme,
compagno ».
Lat. in, greco en, ein, ted. in, ein, inglese in, egi-
zio im i sono connessi con la parola lat. hum-us « ter-
ra » greco cham-ai « a terra », ted. heim, ingl. home,
frane, hameau «villaggio», it. Como, arabo-sicilia-
no Al-camo.
Greco anà (su) è da *\anna (anna, Enna = anta,
monte); inglese on, ted. an. In latino c’è la variante
senza n: ad (da *ant) « a monte di, addosso a», in
inglese at, in greco os (per ot) e \ata (da *\anta)
«sotto» lat. cad-ere «andar giù».
Lat. sub, sup-er sono forme satem per cap che si-
gnifica cavità (coppa) e sporgenza (coppa, capo): è
dunque la stessa parola usata in significati contrari
come avviene con greco anà e hatà che sono due va-
rianti di una stessa parola usate in sensi opposti.
Lat. prò « davanti » e anche « in favore di ». Il si-
gnificato originario è « fecondatore, principe » e sic-
come chi è a capo è anche il primo, cosi acquistò il
significato di «avanti» e di cosa sporgente, es. lat.
fro-nt « la parte alta della faccia ». L’inglese from
« d a » forse è connesso: dall’idea di sporgenza si è
passati a quella di provenienza. Il lat. ante «davan-
ti» deriva da anta «pilastro» che si usava mettere
nelle porte, nella facciata delle case: onde anche il
significato di « cosa che sta di faccia » : in greco an-
ti = contro. Variante è il lat. porro, ted. em-por
«davanti», onde il nome di porrum «escrescenza»

379
e, per somiglianza, «porro, cipolla»; greco Pdr-os
o Phàr-os (pronunzia egizia): «isola, monte», in-
glese fore, ted. fort « avanti ».
Greco metà (dopo e con) significa « monte »
(cfr. lat. meta «colonnetta, cippo, piccola altura»).
Il significato di con è dedotto dall’idea di « far mas-
sa, o mucchio, o monte », p. es. inglese meet « far
mucchio, incontrarsi», ted. mit «con» inglese with
(w — m) « con )). Il significato di « dopo » deriva
forse dal fatto che la meta segnava la fine delle
corse nelle gare (onde la parola italiana meta).
Greco dia « per, attraverso » è la terra (greco gei)
nella variante iotizzata o palatalizzata. Anche il lat.
per può significare « terra » (es. dei in-feri « dei sotto
terra nella terra»); ma può anche significare «bu-
co » rad. pir « pungere » (cfr. ted. s-por-n « sprone »,
s-pur «traccia»), come sembra potersi dedurre da
un confronto con ted. durch «attraverso», inglese
thorough, francese trou «buco».
Greco parà «dopo» sembra significare «terra»
(lat. per) (1) cioè « c’è terra, c’è spazio». Cosi l’it. do-
po fa pensare a greco tópos « luogo » (propria-
mente altura, cfr. ingl. top ((cima») (2). Il ted.
nach «dopo» sembra indichi «nodo» cioè «le-

(1) Al lat. per corrispondono in tedesco er (eroso) e ver. Il primo


si adopera come prefisso di verbi nello stesso significato in cui il
latino adopera per (es. per-ficere « fare al comp’eto »); ver nel senso di
stortura, di un andare per traverso: es. ted. ver-dàchtig « che pensa
a torto »; o anche nello stesso senso di er. Altra variante in tedesco è

quer « attraverso ».
(2) Le prime terre abitate furono le alture, perciò quasi tutti i
nomi indicanti luoghi di abitazione significano « altura »: es. greco
f{6ros, cfr. slavo gora «m onte», greco polis «altura, città»; Kyma
(Cuma, propriamente « abitazione » da \ci-m a i « abitare ») è connes-
so con lat. cima e coma « vetta di albero » poi « chioma », ecc. Il
significato di « dopo » con nomi indicanti m onti (cfr. anche greco
metà, « con » « dopo ») può anche spiegarsi con l'idea di « addos-
sarsi ».

380
gato a qualche cosa ». Il lat. post è variante (con s
intrusa) di pod, pot, significa «a piedi di» «vicino
a ». Il greco pedà « dopo » che è creduto variante do-
rica di attico metà (dopo) potrebbe essere invece una
parola corrispondente a lat. a-pud «a piedi di, pres-
so » e quindi « dopo ». Il got. afar « dopo » l’ebraico
aliar « dopo » l’inglese after « dopo » (ma quest’ul-
timo con minore probabilità) potrebbero essere rife-
riti a pod « piede ».
Questa sematica è appoggiata dal francese a-près
« dopo » che è variante di au-près e propriamente
significa «presso» cioè «serrato, vicino» e dal ted.
neben « accanto » che fa pensare a nach « dopo » e
a nach-bar «vicino» (1).
L’ital. « fino a » significa « la fine è al tal punto »
es. «corri fino a Roma» = « la fine della corsa è a
Roma». La parola fino deriva dal lat. fines «confi-
ni», propriamente «territorio che nutre una popo-
lazione» poi passato a significare il suo circuito.
L’inglese till «fino a» è connesso con greco telos
« fine » quindi « lontananza tanto ». Il greco os, lat.
us-que, ted. bis «fino a» significano «forza tanto»
(lat. vis, forza). Il greco mechri (connesso con m a\-
rós «grande») = grandezza tanto; achri (acro, o
lat. ager = campo) = estensione tanto.
Il greco plen «eccetto» significa «pieno, esau-
rito ».
L’it. come non è derivato da lat. quo-modo, ma
forse dal lat. comes « compagno » : es. « questo è come
quello = questo è compagno o simile a quello ».
L’inglese to-gether «insieme» è connesso col ver-
bo gather «riunire», greco hathró-os che per errore

(]) Pel lat. a-pud eh. Pomerìum per pod-moerìum « terreno a piè
delle mura ». Quanto a inglese after si potrebbe considerare la possibilità
di una connessione con ted. heft-en « attaccare ».

381
si suole derivare dal sanscrito sa- (insieme), cfr. greco
hà-pas « tutto », hà-pax « in un solo pacco » ha-plous
(da sa-plous = lat. sim-plex): infatti in lat. si ha ca-
ter-v-a che significa « massa », e cat-asta, cat-ena ecc.
Ted. wider «contro» forse da vi «girare» onde
anche il significato di wieder (che è variante) «d i
nuovo » (1). A una radice \en, \o n « girare » potreb-
bero connettersi il lat. contra (cfr. greco Kàmp-to
«piego» e ital. s-ghemb-o «obbliquo») e il ted.
ge-gen «contro» (onde ted. Ge-gende «il territorio
che fronteggia, la regione, i paraggi »). Il lat. re (per
indicare ripetizione) e retro « indietro » sono da re
«capo», quasi «andare a capo; retro è da re-tirare »
(tirare da capo). L’inglese ba1{ «dietro» è connesso
con ted. beugen « girare, curvare », rad. vi, « gira-
re», bog-en «arco, cosa curva».
Lat. trans « al di là » è da ter « girare », andare al-
l’altro versante.
Lat. inde è composto da i (questo, qui) con de
« provenienza da qui », greco then. Forse il ted. ent
(variante emp) è connesso.
Ingl. to, ted. zu (a, verso) è forse il residuo di un
locativo del pronome to, che si trova in lat. peni-tus
(= *-tu-tì), greco to-te « in quello, allora », gr. en-
tó-s (-to-ti). Questa trasformazione di t finale in s,
che si vede nei participi perfetti in -\ot, la si trova
anche in lat. ut greco os, onde si deduce che quando
in greco la t finale per ragioni morfologiche non
deve cadere, si trasforma in s. Lat. ante da *\ante
l’anta della porta che sta sulla facciata, onde il signi-
ficato « avanti ». Lat. sed (ma), (s)at, ted. sondern
indica separazione; gr. (s)at-er = senza.

(1) Connesso è forse lat. it-er-um « d i nuovo», onde si vede che


ire, iter sono erosi da *vì.

382
Congiunzioni e avverbi. - La congiunzione condi-
zionale latina si (se) è da sic (così; propriamente
« questo qui » ; si vale anche questo, lo abbiamo vi-
sto nei pronomi, c vale « questo » oppure qui) : « se
fai ciò ti punisco», dunque in origine significava
« sic facis hoc {sic) ego te punio » ; un residuo di
questo atteggiamento sintattico è nel tedesco, che
premette so (così) alla proposizione principale.
Quanto a sic, esso è composto da si (questo) e da c
(che può essere pronome o anche ke, segnacaso),
come lat. hi-c. Il greco per dire « se » dice ei. Que-
sta parola vale «per dio! » (cfr. greco eia, alalà « or-
sù, per dio»); analogo all’ebraico allelù-ia «lodate
Dio». Per ciò in greco la frase «se io facessi ciò,
avrei...» significa: «facessi io per dio ciò, avrei...».
Nel licio abbiamo iye con significato analogo. L’in-
glese if «se» significa anch’esso «per dio»: notate
infatti che questa parola indica in francese un albe-
ro, il tasso, e in tedesco l’edera (ephe-u), cioè dun-
que un essere divino. Ed è anche un nome proprio,
es. Ivo; e di donna Èva (ebraico Hawaii), ted. weib
«donna», greco Ivo (lo) «la donna».
Il lat. ut « affinchèi) significa propriamente ((buo-
no » ted. gut (affine a Gott « dio », perché le qualità
buone si indicano con nomi divini, es. bello — Belo,
magnus = grande, è il mago, ecc. perciò la frase
« ut ego faciam » (affinché io faccia) significa « buo-
no io fare ».
Lat. et è variante senza n corrispondente a ted.
und, inglese and, propriamente «unendo, unito»;
così anche lat. ac che è variante di et e che in etrusco
figura (forse) come anc, it. anche «unendo». Invece
lat. ve, que, greco \cà, te sono diversi: vedi capitolo
ha struttura intima del vocabolario.
Ted. auch «anche» è connesso con lat. aug-ere

383
«aumentare», rad. saug, sag «nutrire, allevare».
Invece il ted. wachsen « crescere » significa « diven-
tar vacco » cioè adulto, oppure « cambiare » cfr. lat.
vice, da vi, girare.
Ted. fern «lontano» connesso con fahren «an-
dare ».
Greco gar, ted. gar « certamente », francese guère,
it. guari connessi con lat. certus?...
Greco mèn-dè-. originariamente «questo-quello»;
men «per dio!, certo» cfr. ebraico amen «per
dio ! ».
Lat. nam, enim (connessi con numen «num e»):
«per dio! ».
Inglese hut «m a» significa «per D io!»; lat. sed,
at (da sai) «m a» significa «separato»: cfr. greco
ater (da sater) e ted. sondern con significati legger-
mente differenti; ted. aber ebraico abai « m a» da
caper, cabal «cavallo, capro, dio», quindi: per dio!
Greco oun «dunque», da goun «gauno, dio»;
quindi «per dio! ». Lat. haud e aut (*caui) = togli.
Ted. of-t «spesso» è propriamente «mucchio»
«massa» (0/ per omb, amba, monte; varianti auf,
Haufe «mucchio»). Forse è connesso con inglese
aft-er « dopo » e con afte « gonfiore ».
Lat. cum... tum, greco temos... hemos, ted. wenn
(opp. wann)... dann (sicil. tannu «allora»), vale:
« qui... là ». Invece di tum il latino usa in taluni casi
la variante dum. Il lat. quan-do è dunque composto
probabilmente con de «giorno»: «in quel giorno».
Lat. nuti-c «ora» inglese nota «ora» vale: «nuo-
vo, nuovamente»: ted. neun «nuovo» lat. *nu{v)us
in de-nuo, e anche nu-per «nuovo, recente» usato
come avverbio. Novus è connesso con greco neo da
kinéo «muoversi, cambiare»; il per di nu-per vale
«stagione» «anno» e anche «mese», es. lat. ver

384
«la stagione, la primavera» (variante hora che in
latino significa la luce del giorno, in greco «la sta-
gione»); octo-ber « l’ottavo mese», etrusco chos-fer
(hut — otto, fer — mese); ted. jahr «anno», greco
ear «stagione».
Gli avverbi latini in -ter sono formati con iter
(via): brev-i-ter «in via breve, brevemente».
Il lat. uti (come) è una forma locativa (= in que-
sto), ita (cosi) è variante; greco ós sta per ot (come).
Questo òs in greco forma gli avverbi; gli avverbi
lat. in e sono formati con e (ti), variante di ita e di
ut (cfr. russo eto «questo»). Quindi gli avverbi la-
tini in e, es. mal-e(t) corrispondono lettera per let-
tera ai greci in ós.

"Fenomeni fonetici. - Se voi diceste a un grecista


che Zagreùs è della stessa radice di lat. sac-er, vi ri-
sponderebbe che la cosa non è ammissibile, non es-
sendoci esempio che mai in greco una s ie. sia stata
resa z ; nel caso in ispecie, poi, vi ammetterebbe la
cosa tutt’al più ad un altro titolo: e cioè che questa
parola sia giunta attraverso un filtro orientale. Se voi
gli dite che in Erodoto sono chiamate zegeries le
dune del Sahara, vi risponderà trattarsi di parola
estranea al greco (IV, 192); ma il curioso è che que-
sta parola non è altro se non la parola umbra sama-
ra, cioè lat. sacer «tumulo, cosa sacra». Voi gli dite
che un monte Za\ro si trova a Creta e che in Tran-
cia si trova un By-zantion, e un Zante (santo) o Zà-
\ynthos (nutriente, terra altrice, radice come in it.
succo, in greco sàccharon «zucchero», in syh^-on
«fico», in it. zucca ecc.) si trova nello Jonio; vi dirà
che in tutti questi posti siamo fuori dell’area propria-
mente greca. Egli insomma è costretto a circoscrive-
re l’area della grecità in limiti sempre più ristretti,

385
25. - L origine del linguaggio.
fino a farla coincidere con l’area classica. La stessa
cosa si potrebbe dire a proposito della parola zeph-
yros «zefiro» ma anche «genio cabalistico » ; la
parola zefiro vale «che feconda» (lat. fav-onius);
è connessa dunque con greco seb-omai «venerare»,
con lat. pro-sapies «generazione», con ted. sippe
«generazione, gens», con arabo zebb «organo vi-
rile», con siciliano zubu «organo virile» con turco
sep «am are», forse anche con lat. sub-urra «quar-
tiere meretricio ». È dunque indubbio che qui una s
indoeuropea si presenta in greco come z; mentre
zefiro, nel significato di «genio, demonio», corri-
sponde a ted. teufiel «diavolo» e al siciliano cifaru
(nonché ad arabo sìfr, ted. ziffer « la cifra » creduta
cosa magica e demonica): dove troviamo, fra greco
e tedesco, invertito l’ordinario processo con cui sono
trattate le dentali.
Questa premessa è necessaria per capire lo spiri-
to della nuova concezione fonetica. Il paleoeuropeo
come noi lo abbiamo concepito, non è una lingua
definita come l’indoeuropeo dei glottologi, ma es-
senzialmente un materiale lessicale variante e fluida-
mente pronunziato, a seconda dei luoghi e talora nel
medesimo luogo (per via delle molteplici promiscui-
tà preistoriche, invasioni, nomadismo, ecc.) e in seno
al quale cominciano a delinearsi tendenze morfolo-
giche diverse, che in un luogo si sviluppano, in altro
si atrofizzano. Vi sono in altri termini centri di in-
novazione dappertutto, che s’irradiano in tutte le di-
rezioni, senza costituire compartimenti stagni, ma
ciascun settore lasciando coesistere nella sua area ele-
menti eterogenei. Ne viene che non c’è una fonetica
di una data lingua, se non a partire del momento in
cui essa, fra le varie tendenze fermentanti nel suo seno,
ne seleziona alcune che diventeranno dominanti (ma

386
raramente esclusive) e avranno un’influenza prepon-
derante sulla sua morfologia. Ma in una lingua il
materiale lessicale è all’infuori della grammatica ed
anteriore ad essa; questa, con le sue tendenze rinfor-
zate, riesce in qualche modo ad assimilare parte del
materiale lessicale, ma una zona ben più ampia re-
sta sempre fuori del suo dominio, e conserva il suo
carattere paleoeuropeo, con la caratteristica mesco-
lanza e coesistenza delle tendenze più diverse.
A noi è ora diffìcile convincere un linguista di
questa verità, e ciò a causa della mentalità profes-
sionale. Quando voi osservate a un cultore di glot-
tologia ie. che gran parte del lessico ie. sfugge alle
sue regole, egli invece di vedere in questo fatto una
confutazione definitiva delle sue opinioni, non esita
ad ammettere che quasi tutto il lessico ie. è estraneo
allo stesso ie. Ciò è per lo meno accaduto al celebre
Meillet. Se egli invece ci avesse detto che questo ma-
teriale è anteriore al costituirsi fonetico e morfologi-
co di alcune determinate lingue storiche, l’asser-
zione avrebbe una sua verità; ma la nozione di in-
doeuropeo che egli asservisce arbitrariamente alle sue
vedute, la cambia in un colossale errore.
Bisogna dunque farvi vedere e toccare con mani
che questo materiale lessicale non obbedisce alla fo-
netica di nessuna lingua particolare, ma di tutte le
lingue, che quindi nella ricerca etimologica non pos-
sono applicarsi le regole della linguistica corrente.
Giovanni Schmidt, il celebre autore della teoria del-
le onde — teoria che noi in parte accettiamo — non
fu capace di vedere chiaramente nella questione, e
perciò il suo opuscolo « Sulla parentela delle lingue
ie-H» che ebbe un’influenza immensa sull’avvenire
della scienza linguistica, è quasi tutto erroneo nei
dettagli. Il suo procedimento può essere brevemente

387
esposto così: lo Schimdt paragona vocaboli nordici
con sanscriti, slavi, ecc.; e vi fa vedere che spesso,
mentre p. es. un vocabolo greco non ha corrispon-
dente etimologico in latino (lingua con la quale il
greco dovrebbe avere maggiore affinità), viceversa
ha a volte il suo riscontro in vocaboli sanscriti, o sla-
vi, o nordici, ecc. Ne viene che l’antica concezione
delle lingue, come zone contigue di parentela {albe-
ro genealogico) è errata.
Ma il metodo Schmidt è a sua volta in errore pel
fatto che egli, allo scopo di stabilire se p. es. un vo-
cabolo tedesco si trova nel latino o nel greco, non si
è servito di altri strumenti di indagine se non i vo-
cabolari comparati delle lingue ie. Ma, prima di tut-
to, sono completi questi vocaboli? Un vocabolario
comparato ha tanti vocaboli, quante sono le affinità
etimologiche che il suo autore riesce a intravedere.
Ora chi ci assicura che questo compilatore, per dotto
che sia, abbia anche la vista di una lince? In secondo
luogo, queste comparazioni etimologiche sono am-
messe al collaudo, solo in quanto soddisfano le leggi
fonetiche stabilite dalla glottologia; ma, come vi ho
fatto vedere, queste leggi servono poco pur nell’am-
bito di una sola e medesima lingua; figurarsi dun-
que quale utilità possano avere nella loro applica-
zione a lingue diverse. In terzo luogo avviene talora,
che una parola che si trova allo stato libero in una
lingua, non si trovi allo stato libero in altra lingua;
ma ben può trovarvisi sotto il mascheramento della
metafora, esprimendo cioè idee del tutto differenti o
in un uso particolarissimo (nei quali casi è estrema-
mente difficile, coi criteri dell’attuale glottologia, l’in-
dividuarla), o infine può trovarsi in un composto: p.
es. la parola ted. Hand (mano) non ha riscontro né
in latino né in greco; ma essa non vi è del tutto as-

388
sente, perché ha lasciato tracce della sua esistenza in
greco chandàno (trattare, maneggiare), e nel lat. pre-
hend-o (e in entrambi i casi con violazione della leg-
ge di Grimm), nonché nell’ebraico yodd (variante
senza n e con iotizzazione); la parola greca asty
«città» non sembra trovarsi in latino, ma invece ci
si trova in Vesta (edificio, centro della città, onde
poi il significato di città che ha la parola greca: deri-
vata da fusto « albero » lat. basta « tronco d’albero »,
quindi « travatura, palizzata »); e si trova anche in
Asti (città del Piemonte), in lat. astutus «astuto,
scaltrito» come sono i cittadini rispetto agli uomini
delle campagne, in it. bast-ione, forse anche in mastio
(per bastio o bastione), in bast-imento, bast-one, ecc.
La parola greca polis «città» non si trova in latino:
ma poi si trova in lat. s-pur-ius «uomo del popolo,
senza focolare» (por = poi, cfr. Sìnga-pore); in Pol-
enta (città italiana), in S-poleto, ecc. (1); in ted. c’è
hexe «strega», ma in greco questa parola si trova
in aix « capra » (perché baccanti e streghe vestivano
pelli di capra, e anzi nel ted. hexe la iniziale aspirata
contiene la traccia dell’erosione (cosi nello inglese
bitch « cagna » e witch « strega », nel francese biche,
e nel nome della stella Vega che forse in origine in-
dicò la cóstellazione della capra)', in lat. c’è aqua
« acqua », ma in germanico questo nome si trova in
Aachen (l’Aia), in ted. c’è haf-en « porto » (cfr. Haf-
nio, antico nome di Copenhagen) propriamente
« cavità, golfo » (cfr. Giaffa, parola identica) e in in-
glese questa stessa parola significa «cielo» (inglese

(O Devo qui rettificare un errore. Piu volte credetti che lat. poi-ire
cs-ool-iare potesce-o connetterci a trreco polis: invece sono da rad.
poi « staccare, dividere » cfr. pula « buccia »: polire è auindi <r togliere
la buccia » (cfr. lat. phal-x, ingl. to pluck. « staccare ti). S-Onl-iare i va-
riante di poi-ire o è «togliere il vestito o pallio»? (pallio, rad. pel
« girare »: cosa che avvolge, « mantello ».

389
heav-en; cfr. lat. coelum e greco \oilos — cavo) ; in
lat. ce gumia « goloso » che secondo lo Ernout è un
vocabolo misterioso, ma secondo me non è altro che
una metafora incompresa, cioè «donna gravida»
(rad. gam, generare) che d’ordinario ha molte voglie
gastronomiche; in lat. ce lanx (il piatto della bilan-
cia, da * piane- cfr. francese planche «asse piatta»),
ma in greco questa parola si trova in lanch-àno
«toccare in sorte», cioè «pesare a ciascuno la sua
porzione», e nel nome della Parca Làchesis «colei
che pesa la lana» e poi «colei che pesa il destino
agli uomini»; in ebraico c’è là «dio» e in tedesco
c’è là col significato di « si », « per dio » ; in ebraico
troviamo m ele\ « re », in it. malga « pascolo », in
ted. milch «latte», in greco melos «pecora»; in
ebraico Baal «dio, signore», in Dacia, Dece-bal-os
« il Baal o re dei Daci », in inglese well, in it. bello,
in lat. val-eo « sono forte », vol-o « sono il padrone,
voglio », in it. balìa, bailo, ecc. in lituano Vil-no « cit-
tà del re», in inglese ]ohn Bull «il signor Giovan-
n i» e bull-dog « badi dux » cioè il cane, in greco
phallós «il baal generatore, l’organo virile»; in e-
braico l’Egitto è detto Masr o Misr (connessi con lat.
maneo « dimore, case », perché i Semiti nomadi non
ne avevano), e noi troviamo in Italia Mistretta, Maz-
zara, Mestre, Masera (in Lombardia), in Mesopota-
mia Mossul, in Libia Misurata (Misr-et dove et è
segnafemminile), in etrusco Munsle « dimora mor-
tuaria, tomba», in lat. mund-us «la terra abitata»,
in cretese (iscrizione di Praiso) mos-el-em «città».
Sono pochi esempi; ma potrebbero riempirsene vo-
lumi e volumi; come potremmo fidarci delle poche
centinaia di comparazioni con le quali lo Schmidt
crede di aver dato fondo al vocabolario? In siciliano
non esiste più la parola cunnu (organo femminile),

390
ma essa si è conservata in pappa cunnu (minchione).
Questo caso può servire come tipo: siamo sicuri noi
che in una lingua dove non esiste un dato vocabolo,
questo non sia esistito in origine e poi sia scom-
parso (1)?
In effetti io tempo fa esaminai tutte queste com-
parazioni dello Schmidt, e credetti di trovarne erra-
te almeno ottanta su cento. Vi citerò qualche esem-
pio. Lo Schmidt non ha visto che l’antico bulgaro
aiutati « aver fame » era una metafora per dire « es-
sere come un lupo », e quindi che non è parola estra-
nea al greco; ha comparato il greco hathróos «riu-
nito» con sanscrito Sandra (che a me sembra una
variante con n) ma non ha visto l’affinità con inglese
gather «riunire» e to-gether «insieme»; non ha vi-
sto l’affinità del greco aphrós «schiuma, bollore»
con lat. febrìs «calore», faber «fabbro», hibernare,
februarìus (mese degli accoppiamenti, onde hiber-
nus) e con ted. eifer «gelosia»; quella del greco
doulos « schiavo » con lat. a-dul-ari « comportarsi da
schiavi»; quella di greco Erinys «le venerande, le
Furie» con lat. ver-eor «temo, onoro» e ted. Ehre
«onore»; non ha visto che greco era «cose prezio-
se » è il lat. aes, aeris « metallo » (ted. ware « merce »
può essere «metallo» oppure ver «animale»), né
che il greco emos... temos, sanscrito jasmat... tasmat
è il lat. cum... tum, ecc.
Bisogna dunque supporre che la fonetica di una
lingua è un semplice punto di arrivo, il quale sup-
pone molti adattamenti e annaspamenti preventivi;

( 1) In siciliano c’è anche cunnuliarsi « gingillarsi, perder tempo li.


^ *n la t*n o c *c dies « giorno » in greco zoo (vivere,
3 l<*° spassare i g io rn i» ) e di aita «m aniera di vivere»; in lat. c’è
co u tn a e in greco holymbà" «im m ergersi» come fan gli uccelli ac-
quatici (rad. pel, \e lt volteggiare).

391
c se, nonostante lo sforzo che ciascuna lingua ha
fatto per assimilare e, per cosi dire, naturalizzare il
materiale lessicale, buona parte di questo rimane sem-
pre refrattario, che cosa sarà stato di esso nello sta-
dio paleoeuropeo? Si era allora allo stadio dell’as-
soluta imprecisione, non soltanto per quanto con-
cerne i suoni, ma anche per quanto concerne il ge-
nere, gli accenti, i significati e molto altro. Ciò è
mostrato da molti doppioni, che fin oggi sono stati
creduti parole differentissime fra loro: es. greco gyné
«donna » lat. anus, Juno e greco Ino; e, al maschile,
lat. gen-ìus, homo, greco Zen (forma satem), etrusco
Tin, greco (g)anér, lat. gen-er, femmin. (ge)nur-us
«nuora» ecc.; greco chora e \6ros «terra, luogo»;
greco àrhtos, lat. ursus, hìrcus, hirpus, inglese horce
«cavallo». Queste varianti non dipendono dalla fo-
netica di una data lingua, sono senza ragione nella
fonetica della propria lingua e talora anzi in oppo-
sizione ad essa-, perché, p. es., in latino, che non è
lingua satem, quella forma satem ursusì Perché nel
germanico, che non è lingua satem, forme come ted.
Sohn «figlio» norvegese sen (es. Amund-sen) cor-
rispondenti a celtico cen, greco gen {es)ì Perché nel
greco, che non è nemmeno essa lingua satem, la for-
ma satem Zen ? E se si nega che questa sia forma
satem, se la si vuol far derivare da Tin, Ten (forma
che è nell’etrusco), perché questa trasformazione di
una dentale in z, che in greco non è normale, men-
tre la forma femminile Tin, Tana (cfr. A-thene) ha
conservato la dentale? Perché nel tedesco la forma
centum hund- (cento) e la forma satem tausend (mil-
le) che è da got. thu-sundi (in origine, duecento, per
indicare numero grande, come lat. sexcènti) ?
Io vi confesso che non so in alcun modo indicare
la forma di una radice, perché non so con precisione

392
quale consonante e quale vocale avesse in origine e
perciò (unicamente per ragioni pratiche) scelgo, quan-
do posso, le forme che sono più vicine alle parole
da spiegarsi; o ricorro a parole ben conosciute le
quali concordemente si attribuiscono a quella radice
(es. gara per dire « terra », ver o vir per « uomo, ca-
pro », gyné per « donna », ecc.). In che maniera po-
trei segnare, p. es., la radice di greco àsty « città » ?
Dirò vesta, dirò hasta, dirò vasta? Queste parole,
oltre a non essere precise, non dicono nulla. Citando
la radice, io voglio anche fare intendere qual era il
significato originario; perciò ricorro alla parola fu-
sto, che foneticamente non è radice, ma che è quella
che pel momento può rendere meglio la mia idea.
La glottologia corrente, invece, è molto più disin-
volta: è sicura di potervi precisare sino alla sfuma-
tura con quali vocali e con quali consonanti i no-
stri antenati del Pamir e del Caspio pronunziavano
le loro parole. È superfluo qui ripetere che questa
sicurezza e precisione fanno a pugni con l’opinione
oggi professata dalla maggioranza dei glottologi che
l’indoeuropeo unico non esistesse, e che le radici sono
astrazioni.
Ho preferito perciò dare al mio sistema un’appa-
renza meno scientifica, ma che sostanzialmente è più
sincera e più solida; e solo mi dispiace di non aver
trovato fin ora un sistema empirico di trascrizione che
possa dare Un’idea sia pure approssimativa della flui-
dità e volubilità delle forme primordiali. Ma forse
ciò che è vivo e dinamico non si lascia tanto facil-
mente schematizzare, e io perciò desidero l’impos-
sibile.
11 culto idolatrico per la notazione precisa è do-
vuto in parte a esigenze rispettabili (specialmente al
momento in cui si costituì questa scienza), in parte

393
a un’idea errata sulla natura dell’indoeuropeo pri-
mitivo, e in parte infine a una falsa analogia. Nelle
lingue romanze e in talune lingue moderne, nelle
quali la pronunzia ha corroso le parole, la grafia, la
quale assai spesso riproduce, non già la fisionomia
attuale, vale a dire la pronunzia corrente della pa-
rola, ma quella antica, è uno strumento prezioso per
l’indagine etimologica: es. inglese tear (lacrima): se
noi non sapessimo che è da *teagr, non sarebbe stato
tanto facile stabilire la sua identità col greco da\rya
(lacrime); ma nelle lingue antiche, dove la scrittura
fu introdotta dopo l’erosione dialettale, essa ci dice
ben poco, anzi talora può trarci in inganno, special-
mente se noi siamo corrivi a farne troppo caso per
fini etimologici. Supponiamo, p. es., che la scrittura
inglese sia inventata ai nostri giorni; allora è chiaro
che gl’inglesi trascriverebbero il suono della parola
tear « lacrima » mediante tiah, il suono della parola
nature con né'tcce: occorrerebbe allora una forte do-
se di buona volontà per scoprire la parentela di tiah
con da\rya e di néicce con nature. Insomma, se l’in-
venzione della scrittura avvenisse ai nostri giorni,
un inglese non potrebbe scrivere la sua lingua se non
in quel modo convenzionale nel quale oggi i gram-
matici trascrivono le pronunzie. Ora precisamente
questo fu il caso occorso a molte lingue antiche: es.
quale vantaggio offre la grafia umbra etnbrasur ri-
spetto al lat. imperator? Se il siciliano dovesse scri-
versi secondo la sua genuina pronunzia, per che scri-
vesi pri, si dovrebbe scrivere ppi. Nel lido stele o
stylos (colonna) è scritto sitala: che funzione ha qui
la doppia t ? Il privilegio etimologico lo han dunque
solo quelle lingue nelle quali un’antica e non inter-
rotta tradizione scritta (o anche mnemonica, ma a
carattere rituale o letterario, perciò conservativo) ha

394
permesso di mantenere intatta la fisionomia origina-
ria delle parole, a malgrado del logorio delle corri-
spondenti forme parlate; e in ciò sta a volte la su-
periorità etimologica delle lingue letterarie sui dia-
letti, superiorità quindi che non deve essere sopra-
valutata (1).
Ora in italiano noi avvertiamo non esserci stato
cambiamento da scrittura a pronunzia (tranne in
casi sporadici e del resto ben conosciuti), e allora si
può anche azzardare la presunzione che là dove la
pronunzia dialettale differisce dal latino, non è sem-
pre certo che la forma latina sia la più genuina; il
latino, in fondo, non essendo che uno dei tanti dia-
letti coevi che un tempo si parlavano in Italia, e
l’opinione della sua maggiore importanza essendo
dovuta a ragioni di prestigio (letterarie o politiche),
e al fatto che essa come lingua che riuscì a imporsi
alle altre, influenzò le forme delle parole di vari
dialetti italici. Per conseguenza non è punto a me-
ravigliarsi se molte parole italiane possano aver con-
servato una fisionomia più genuina che non le cor-
rispondenti parole latine, dalle quali si pretende de-
rivarle: es. it. veleno e lat. venenum; it. digiunare
e lat. jejunare; Girg-enti (cfr. irlandese craigg « mon-
te») e Agrigentum; Adernó e Adranum ; Mistretta
e Amestrata o Mitistrata; Marsiglia c lat. Massilia,
greco Massalia « porto di mare » ecc.

(1) Si osservi p. es. che l’inglese ha trascritto Theodor con Tudor,


Stewart (uomo della stiva, marinaio) con Stuart, il cognome Canada
con Kennedy, e così Morri-son (Maurizio), Arri-son (Enrico), O'Connel
( colonel). Ciò perché nei cognomi di solito inintelligibili, la grafia si
adegua alla pronunzia. Si hanno casi analoghi in ted. K reuz « croce »
riproducente frane, croia, ted. deuten « significare » da fr. doigt « dito »,
beute «scatola» (fr. botte, boiste «busta, fusto»), widmen «dedicare»
(lat. victima), Neipperg per N eu Berg « Montenuovo », ewig « eterno »
connesso con lat. aev-um « evo », schloss « castello » da confrontare con
tngl. close la t clausura « luogo chiuso » (se il tedesco deriva dal latino,

395
Per queste stesse ragioni non bisogna poi tanto
eccedere, per scopi etimologici, nella pedanteria del-
le trascrizioni esatte al cento per cento. Ci sono casi
in cui la esattezza ha un valore euristico; ce ne sono
invece nei quali non ne ha alcuno. Potete scrivere
come volete sanctus o saindu (in basco = « santo »),
o xanthós (in greco = « biondo » ma propriamente
« santo »), Zendo, Sindo (indiano), a-bsinthum (as-
senzio, « erba santa »), *Zantìos (in By-zantion) ecc. ;
potete scrivere come volete monte, mantìa, metto,
matto, mattone, mussa, smusso ecc., il significato e
l’etimologia son sempre quelli e, se cambiano, vuol
dire che, pur rimanendo identica la radice, è cam-
biata la famiglia semantica e quindi l’etimologia.
Voi capite ora quel che vi dico, perché sapete che
cosa io intenda per radici semantiche, che sono le
parole le quali, mediante l’assunzione di un nuovo
significato metaforico o comunque per causa di una
nuova accezione di significato, diventano il punto
di partenza di una nuova serie (o «albero genealo-
gico») di parole, imparentate fra di loro. Ciò d’al-
tronde vi risulterà anche per altra via, e cioè dal

se ne deve concludere che le chiavi erano sconosciute ai tedeschi, e in


tal caso schliessen « chiudere » è forgiato su Schloss!)\ frane, mane
« sindaco » dal lat. maior; lat. Egeria (*Aeg-eria) « strega vestita da ca-
pra »; lat. Ilia ( = Silvia) da greco hylè « selva »; greco Siìénos « Silva-
no » da *sylè « selva »; persiano Aegma-tana per Ekba-tana o Aspa-
dana « città del cavallo ». Vi sono poi deformazioni per aplologia, « .
Nestor per Mnestor come provano gli affini aisi-mnetes « divino pa-
store », Klytai-maistra o Klytai-mnaistra e Poly-mestor; lat. sparare
per ex-par oppure se-par « spaiare, dividere » onde sparum « giavel-
lotto ». A questa categoria possono assegnarsi: gr. sphakelns « sfacelo »
( ex-facio?...), lat. sponte « per propria spinta », spondere « promettere »
che in origine valeva ex-pandere « spandere libagioni a titolo di giura-
mento »: lat. spoltare; gr. tiò « pagare » da th vò « brucio incenso »
onde « rendo omaggio, pago tributo »; gr. thiasos « associazione orgia-
stica » (thyo)\ lat. triones (gr. tryóri), lat. ex-ts-timo da aes-timo « p ezza-
re in metallo o aes »; lat. timeo da thym us, gr. pitkek.os e psitta\6s
(rad. pyth).

396
fatto de\Yassoluta indifferenza degli allargamenti
delle radici, che formano varietà infinite, senza che
il significato cambi (almeno per fatto loro). Avete,
p. es., una rad. mat (regione abitata, monte) connes-
sa con lat. manco; io ve la presento in questa forma
convenzionale, ma è chiaro che essa ha tante va-
rianti, che sarebbe temerario volersi dichiarare per
una di esse, come per la più genuina; ebbene: va-
riate ora in tutti i modi possibili questa parola, voi
vedrete che siete sempre sullo stesso terreno etimo-
logico:
Mat: matto («m onte» es. Matto grosso in Brasi-
le), matto (pazzo, cioè mattone, testa dura), mat in
ebraico «regione», in lat. matta (es. Dal-matid) sta
per *mantia «dimora».
Metto: Y-metto (monte) (1), inglese meet «far
mucchio, incontrarsi»; ted. mit «con» cioè «facen-
do mucchio », motta (2), s-mottare « sgretolarsi del
monte», muto in Racal-muto «monte o città rega-
le )), Mut-ina = Modena, Modane, ecc.
Massa (monte): Massa (città italiana), Messenia
(regione montagnosa) in opposizione a Laconia « pia-
nura»; s-mussare «togliere la sporgenza», muso
«faccia sporgente come quella degli animali».
Mac: lat. magnus «grande», mica «mucchiet-
to», mucchio « monticello », mac-erare, mac-iullare,
mascella, macco ((cosa schiacciata, spappolata», m u-
co « poltiglia » (3), sicil. mecco « il lucignolo ridotto
nell’olio a una specie di muco », indi miccia « specie
di lucignolo », micare « brillare », ammiccare, ingle-
se match «fiammifero»; ted. sch-merz-en «dolore»

(1) La vocale iniziale è vestigio di erosione.


(2) Oltre al significato di monte, anche quello di « associa-
zione, ammutinamento » della celebre lega lombarda del sec. XI.
(3) Onde mogio, moscio, ecc

397
propriamente « ammaccatura », greco mach-omai
«combattere, battere»; ingl. metch «combattimen-
to », it. mucrone « coltello » che serve a uccidere o
mattare, ammaccare, mut-ilare; ammutinarsi «far
massa o mucchio », lat. misceo « mescolare, far muc-
chio», mane-are (variante con «) «essere ammacca-
to, mutilato», monco = mut-ilo\ inglese to miss
« mancare », lat. mìs-er « indigente » (onde miser-eor
«commiserare»); greco mysos «uccisione, delitto»,
greco miséo « odiare, considero delittuoso » ; mosto
«cosa pestata» «poltiglia d’uva»; ted. mude «stan-
co, abbattuto»; muto propriamente «mut-ilo», sen-
za voce; lat. meta «monte, colonnetta»; it. meta
«scopo» perché la meta era la fine della corsa, il
traguardo; med-ius «tagliato in due», mod-us «ac-
corciare, ridurre le cose in proporzione», mod-era-
re, ted. mess-er «coltello», mis-ura «taglio, ridu-
zione in proporzione»; mozzare, siciliano e antico
tedesco meta « tariffa » cioè « misura del prezzo »,
greco misthós «mercede»; it. mord-ere «triturare»,
inglese murder «uccidere», it. morto «abbattuto»;
merda « poltiglia », malta « poltiglia » morchia
«poltiglia, rimasuglio di cosa spremuta»; marna
« argilla, poltiglia », mang-iare (1), mand-ucare « tri-
turare», ted. Mund «bocca» (inglese mouth va-
riante senza n), muro «monte, cosa elevata», mole
«monte, cosa elevata», molo (variante del vocabolo
precedente); mal « schiacciare » (2), lat. mall-eus « ma-
glio», moll-is «schiacciato», ridotto a sostanza ce-

(1) Non è da mand-uco ma da *mand-jo, cfr. mango « c ib o »


nom e di un frutto orientale.
(2) forse da questa radice, onde anche lat. m ulti (schiacciai,
quindi « sminuzzati, in gran numero »), il ted. mal che significa ripe-
tizione, es. drei mal = 3 volte; e il verbo ted. mal-en « dipingere »
cioè « far copie, moltiplicare » e l’etrusco malena « specchio » (che
moltiplica le immagini).

398
devole; indi, dall’idea di macinare, a quella di mu-
lino, di farina (ted. mehi), di cibi, ecc. (1); a quella
di «dividere»: greco méros «parte», Moira «Par-
ca», a quella di dolci teneri, es. marmellata, ecc.
Io ora vi domando: quale credete che sia la radice
primitiva? Come credete di rintracciare la retta gra-
fia in mezzo a questa foresta vergine? Io suppongo
che voi non abbiate alcuna idea della architettura
del lessico umano. Perché, vedete, non potrei am-
mettere che chi ha preso coscienza della vera entità
della materia, coltivi, per puntiglio professionale,
certe illusioni.
E poi c’è il giuoco delle consonanti iniziali. Spe-
cialmente quando si tratta di parole erose, voi do-
vete cercare di sostituire K, P, T, S, e la preferenza
che accorderete all’una o all’altra delle forme inte-
grate avrà per motivo la maggiore o minore somi-
glianza con le parole della nostra lingua.
Troviamo, p. es., nel ligure il nome Latumaru:
dobbiamo integrare Clutumaru (cioè Clodomiro) o
Vlatumaru (Valdemaro o Vladimiro)? Voi capite
che l’una o l’altra soluzione è indifferente, perché
Vlatu vale Baldo, Boldo, Poldo, principe; e Clutu
vale Celto, ted. Held, eroe, principe; maro e miro
indicano guerriero (cfr. lat. mer-eó) o maschio, per-
sonaggio importante (etrusco maru, lat. mas)', al-
l’ingrosso dunque « il signor principe».
Si domanda: il nome dei Liguri comincia con
K o con P ? Ma l’inglese clever « abile » e il nome
ted. Kleber fan supporre all’inizio una gutturale; il
nome di Pelope, del Veleb-it, dei Pelasgi, del lupo in
latino, fan preferire una labiale.
I nomi dell’uomo e della donna vanno integrati
(1) Es. miele; ìndi, dall’idea di dolce, a quella di « musica », greco
melos a melodia ».

399
con gutturale o con labiale? Ma voi avete greco
gyné «donna» e banà «donna»; lat. Venus e Jana
(da Gatta) o ]uno, ecc. Avete bonus (greco vanax
«signore») e gen-ius; avete, nel Nord, Bald-win «il
principe dio », Win-s-ton « il dio della città », Zvoni-
mir « Sveno » lat. suinus, ted. Schwein « porco, prin-
cipe » e mir « signore ».
Premesse queste avvertenze, che erano necessarie
per capire lo spirito di questa nuova fonetica, qoi
qui daremo alcuni elenchi ad illustrazione di leggi
già formulate nel corso di questa trattazione. Anzi,
per essere più precisi, ricordiamo che il nostro scopo
non è di stabilire leggi, ma di offrire un’ampia esem-
plificazione delle truccature nelle quali una stessa
parola si nasconde passando da una lingua ad altra,
o da una variante ad altra nella stessa lingua. Que-
sto è per noi il punto essenziale di una vera scienza
etimologica. Quando un lavoro di questo genere sarà
stato fatto su tutti i dizionari ie. e camito-semitici,
la ricostruzione della storia della civiltà sarà cosa
agevole, e l’estensione delle comparazioni lessicali ad
altre famiglie di lingue prenderà le mosse da van-
taggiose posizioni.

I. Sc a m b iom e d i b (p. v). — Questo scambio


d i

ha poca importanza quando avviene negli allarga-


menti delle radici, anche perché si può pensare trat-
tarsi di due semplici varianti: es. lat. primus e pro-
bus e privus (che poi cambiò significato e da « prin-
cipe » fini per significare « colui che è distinto dalla
massa, e poi «che è isolato»); greco hoios «solo»
(per *sovos), ant. battriano aeva, lat. oenus (poi
unus), portoghese umo, sicil. miatu = beato.
Cavetta, gamella; cubito, gomito; cavo e gomena;
bucco e mucca; cavallo e cammello; lat. milites

400
/

c velìtes «soldati»; ted. immer (da *simmer, lat.


semper) e inglese ever (forse anche in Ever-est e
Himalaja, connessi forse con ted. Him mel «cielo»
(quindi «il più vicino al cielo»); ted. mit «con»
e ingl. w ith; ted. mut «anim o» e ingl. wit «spiri-
to»; lat. mel-ior, greco bel-teros\ mazza e bazza
(mazza è anche l’asso di bastoni, che ha popolar-
mente significato fallico, di qui il significato di bazza
cioè «delizia»); lat. sab-ies, greco p-samma «sab-
bia»; mero e vero; barocco e marocco (stile more-
sco), Marte e Varte (in lat. Ma- Vort-)\ lat. mand-
ucare e ted. Wange «guancia»; màttola e o-vatta;
Imetto e Lica-betto (monte); Racal-muto e Regal-
buto; Carpe e Carm-el (monte in Palestina); lat.
plumb-um e greco mólyb-d-os; ted. wir « no i» e
mir (dialetto lussemburghese); ted. ver-bieten e ver-
meiden « proibire » (lat. vit-are « girare l’ostacolo »
da vite, giro); greco Boulo-mai «voglio» e greco
mello «sto per fare»; sicil. immusu e it. gibboso
(cfr. etiopico Gimma «gobba, monte»); sicil. urmu
e it. orbo «privo»; marena e barena; greco hamàra
«canale» e arabo bahr\ Barbari, Berberi e Marmara
e Marmarica; forse turco bazar e mazzàra (arabo
masr «edificio, maniero»); torma, ciurma e turba,
ted. Dorf «villaggio»; belare e greco melon «pe-
cora»; inglese sweat, lat. sud-or e ted. schm-utz-ìg
« sporco, sudato » (sudor è da su, « nutrire », onde
inglese sweet « dolce » greco (sv)edys « dolce » lat.
suavis, it. susino, ted. siiss « dolce » : dall’idea di cosa
nutriente a quella di «grasso», e da questa a quella
di «sporco» e anche di colla e cucitura di scarpe,
onde il lat. sut-or «ciabattino» «incollatore»); gre-
co momos « il dio dello scherzo » e it. beffare (imi-
tare o scimmiottare il bafo o babbo o gran perso-
naggio); mummia fu anche detto il defunto per la

401
26. - L 'o r ig in e d e l lin g u a g g io .
sua solennità, quindi «dio». Il greco miméomai
«scimmiottare il momo o bafo» non ha nulla che
vedere con lat. imit-or che è variante senza n di
greco manth-àno (connesso con mente) «im paro»;
lat. form-ica, greco myrm-ex\ lat. voc-s, greco vechó
(eco) e vépos.

II. V io l a z io n e d el l a £.e g ge d i Sc h l e ic h e r -P o t t -
G r im m . — Lat. fio «son fatto» greco phyo «son
generato», lat. puer (puber) it. buttare (far putti,
o rami o gemme), bottone «gemma», greco pytine
(puttina, bottiglia in forma di putta), botte (putta),
bud-ello, potta (organo femminile), fottere, bot-olo
(puttolo); lat. prat-um (variante di platum, piatto,
da par, pai «fecondare»): ted. Brett «tavola, asse
piatto », it. pred-ella, bretella, lombardo braida « pra-
to », it. preda (da praed-are « scorazzare per i pra-
ti»), lat. praed-ium variante di pratum, proda «re-
gione, prato»; lat. oves «pecore», op-ilio «pastore»,
opes «ricchezze in pecore», opimus greco opheìcs
« utile » lat. opulentus-, lat. vicus, it. bic-occa\ lat. bell-
um greco polem-os (?); lat. pugnus, fung-us greco s-
póngos (cfr. spugna); lat. fui, ted. wesen «essere»
bist «sei»; greco pra(v)ys «m ite» lat. prob-us, gre-
co prépei « è decente, è probo»; greco protos «pri-
mo, principe » lat. prod-ig-ium « impresa da pro-
de » (cfr. Brutus, Brettus), ted. Braut « la sposa, pro-
priamente la feconda»; it. bravo e pravo (che poi
passò a significare il contrario), greco Brabeùs «re,
bravo»; greco pleo «navigo, scorro» (rad. pel, gi-
rare), lat. pluere, fluere; lat. cor-ium «cuoio» greco
charte «carta di pelle», forse inglese shirt «cami-
cia, pelliccia»; lat. Ma-vors «M arte» e Mafurtium
«elmo di guerriero o Marte, berretto di pelle di ca-
pra»; lat. bulla, follis, ted. beule «pustola» greco

402
pel-omai « girare » (onde idea di velocità, di vento,
di gonfiore, ecc. con innumerevoli vocabili nei qua-
li si allineano le più grandi varietà fonetiche); fu-
sto, pistacchio, festura, fast-igio (= travatura, insie-
me di fusti), fistola, pustola, vastare, lat. hasta, it.
bast-ione; lat. tor-um greco dóry (bastone, asta); lat.
trab-s (trave), tribus (albero genealogico, discenden-
za cfr. ie. derva «albero», lat. s-tirp-s), ted. Dorf
«tribù, città» greco trépho «aver tribù, discenden-
za, quindi nutrire»; greco thao «nutrire» thene o
sene «mammella», it. tetta, greco thetes «nutrito-
ri, contadini» germanico Tenti «popolo», dipsa
(greco = sete), greco deip-non « cena », thoime « ci-
bo» tyrós «cibo, cacio»; ie. Bir\e «betulla», lat.
querc-us lat. perg-ula, it. felce, feluca, forca (albero
forcuto), fulcro; greco chora «terra» e kpros «luo-
go, terra», lat. *hora, ora «spiaggia»; greco chand-
àno «maneggio», lat. pre-hendo, ted. Hand «m a-
no»; greco broma «cibo», ted. Brot «pane», lat.
voro « mangio, divoro », it. brodo, lat. prand-ium,
it. brind-isi; lat. (b)uro «brucio» ted. brennen; ted.
feuer «fuoco», lat. formus «caldo» ted. warm, gre-
co pyr «fuoco»; greco phaino «apparire» ted. fun-
\e « scintilla », lat. fulmen, fulgur, pall-idus, it. bale-
nare e falò; lat. prò, greco o-phry-s «sopracciglio,
sporgenza », lat. front- « parte sporgente del viso » e
cfr. Bronte (1) «m onte» (città dell’Etna); greco
Ashjepìos (il dio serpente), ted. schleppen «striscia-
re» e schlupfen; lat. beare (nutrire) greco phàgo;
lat. carpere e greco harpàzo (ghermire); lat. careo
«son privo di» greco cherós «privo di»; ted. gern

(1) Cfr. anche por-rum « sporgenza » della stessa radice, ted. vor,
(em)por, pr. Pdros « isola », Bóros « monte » e Pharos nome d ’isola
egizia; sicil. Randazzo è Brantazzo.

403
«volentieri» lat. carus (1); lat. petum «peto» e gre-
co bdéo «far peti», bdella «ventosa» bdallo «suc-
chiare»; ted. zebe (dito), zeigen «additare, mostra-
re», la forma primitiva di lat. digitus doveva dun-
que essere dee, come mostrano le parole in-dec-s « in-
dice » e dec-em (le 10 dita), nonché il verbo dico,
che quindi in origine indicava la mimica e non la
parola; lat. caput, greco asphod-illon « capocchiet-
ta », frane, chef, it. ceffo, greco \ephalé, arabo gebel,
ted. gipfel, greco gyps (= gufo), napolit. coppa, e-
braico qoph (lettera q); lat. panis, penus e lat. fenus
«fieno, cibo» evìnum; virare e sicil. ferriari ((gira-
re», ferraìuolo «mantello che avvolge», piruetta,
frullare (*piruellare), frollo (cosa frullata, molle);
francese broder «ricamare» (propriamente «con-
tornare» rad. vir), inglese frame «cornice», ted.
Rham (eroso), lat. fraud- (raggiro); lat. form-ica,
bormax, ver-mis; greco là(v)a «pietra» (cfr. lava)
e lóphos «rupe»; amphora, amp-ulla, greco obà
(amba, ambone, cosa rotonda, «vaso»); lat. clarus,
greco a-gl-aós, greco kaléo ((chiamo» lat. gloria
«nom èa»; it. camminare e gamba (gambinare); lat.
ambo, greco ampho «due» (propriamente «le due
gambe»); alpes, alba «collina», Uva «isola, spor-
genza nel mare», Helvetii «montanari», greco Al-
phaios «alfeo»; greco phoibos « paura » e lat. pav-or
«paura, diventar bianco», infatti Phoibos «lumino-
so » è epiteto di Apollo, lat. fons « fonte » greco pon-
tos « mare » it. pant-ano; ted. Braut « fidanzata » e
Frau «signora», lat. brutus; lat. humus, greco cha-
mai «a terra»/ted. heim «patria»; it. frasca (*vi-
rasca), branca (*viranca), branco «una tribù un al-
bero genealogico » ; fronda, braccio (variante senza »
(1) Preferirei connetterlo a greco *gerào *verào (amare), ted. gier-ig
« desideroso ».

404
di branca (d’albero), bronco e branchie (per via del-
la somiglianza dei bronchi a rami di albero); bad-
are e guat-are, inglese water «acqua» e bath «ba-
gno» (che ne è variante); greco chào, lat. hio « sono
h, sono apertura » e ted. hag « cancello » ; greco ha-
thróos «riunito» sanscrito sandra e inglese gather
« riunire »; lat. ver « stagione », octo-ber « ottavo me-
se », nu-per « nella nuova stagione » ; greco \ud-os
« gloria » e kjth-àra (cetra), ecc. (1).

III. E l e n c o d i p a r o l e e r o s e . — Greco enne (det-


to», lat. cuna (connesso con verbo bei- «giaccio»);
ted. Rahmen «cornice» ingl. Frame (rad. vir, «gi-
rare, contornare»); ted. Rahm «crema» (rad. car,
nutrice); ted. Rahm «rem o» da *vir-am (cfr. *vir-
asca onde it. frasca, *vir-anca onde, it. branca e, sen-
za n, braccio); ted. arm «braccio» variante di ramo
e di remo; ted. Arm «povero» connesso con greco
érem-os che significa «solitario, asceta» onde poi
«povero» {brama, «dio, asceta»): di qui anche it.
gramo e Tingi, groom «servo»; O lga= Volga, cioè
«lupo, dio» (maschile Olaf); laccare— placcare;

(1) Nota anche: lat. carpe-re, greco harp-àzo, Harpy-ìa (arpìa), ted.
hoch (alto) e hùg-el (collina), lat. hos-pes, russo gos-pod-in (padrone
di casa) e ted. haus « casa »; greco Kampé, lat. gamba; greco oderos,
lat. titerus; lat. gnepos, ted. Knabe « ragazzo, rampollo »; ted. geld
« denaro » e gelten « valere » ; ted. feig « vile » metafora da lat. ficus
« fico » (invece fàhig = efficiente, lat. facere); ted. wagen « carro » e
lat. veho « trasporto », greco mechr't « fino a », cioè « grandezza tanta »
e m a\rós « grand e» ; gr. axri « fino a » cioè «estensione tanta» e Ut.
“ger « acre »; greco engys, -anchi « stretto e lat. angultis, e Ancona »:
lat. mentior « mentisco » cioè « invento con la mente » e mendax
« mendace », e mendari « togliere le mende » e mundtts « emendato »
(ner alcuni m undus è un calco del greco \6sm os « ornato » poi mon-
d o \ lat. cord- (cuore) e greco chordè (con significato generale di
« vìscere interne, intestino, onde poi et corda »): barzelletta (farse’et^a),
bagascia (vaccaccia), frane, fade (fatuus); greco hyper « sopra » e hybris
<( soperchieria », lat. gent- ted. K ind (generato) e hnnd (cane, gene-
ratore).

405
leccare, variante dal precedente; aspo — vaspo, basto-
ne (cfr. lat. vap-ulare — essere bastonato); lat. ora —
greco chora «terra» ; lat. hora «stagione» da car
«luce» (ebraico hor = luce), o da \ar «dividere»:
«suddivisione»; Lat-ium — * platium «pianura» (il
Latium vetus era la pianura in riva al Tevere); lac-us
da * placus et pelagus « pianura, mare » cfr. plaga =
pianura, frane, planche — asse piatta: onde Laconia
« pianura » in contropposizione a Messenia « zona
montagnosa »; lat. nox « notte » è lo stesso che nub-es
« oscurità », eroso da can, cfr. greco Kneph-as « crepu-
scolo» cioè «fessura da cui filtra un tenue chiaro-
re » ; greco neo « navigare » da \inéo « muoversi »
propriamente «girare» (rad. Kin, cfr. lat. genu
«piegatura, ginocchio» greco gónos «angolo»); lat.
meo da * hjmeo, cfr. ted. hommen «venire»; ted.
ebene «pianura» cfr. sav-ana «la feconda, la san-
ta»; lat. nep-os da nascor (*gnascor, rad. gen; ge-
nerare); ted. wandern e it. andare e vado; francese
aller «andare» da calle (rad. \el, girare, cammina-
re, cfr. cel-eber)-, lat. lig-are, connesso con plico e
con ted. pflicht «legame, dovere»; vampa e afa e af-
fanno, ted. Ofen « forno », greco aphe « accensio-
ne»; Veru-lamio «città del lama» e Har-lem (cfr.
Beth-lem «casa del lama»); Ida «m onte» (variante
senza n di arida da banda), greco issa « isola » e gissa
«m onte»; lat. aug-ere «accrescere» da saug (nu-
trire, cfr. succo); sep-elio «seppellire» da * vesp-
(pungere, cfr. vespa), quindi «scavare»: l’erosione
risulta dal confronto con vespillo « becchino », Hisp-
ania, Hesp-eria « regione del tramonto », greco ospr-
ios «legum e» «il sotterrato seme che risorge» (1)
da rad. sep erosa si formò poi: spel-unca «antro do-
(1) Cfr. anche sept-em (la luna sepolta, il sette) ed etrusco ce-sp
« sette » (?).

406
ve si seppellivano i defunti », spec-us « antro » e spi-
cio «guardare» perché spesso si seppelliva nell’ac-
qua dei laghi, onde specus diede speculum « spec-
chio» «superficie che riflette» (1); greco aetós
« aquila » da * vavetós (cfr. lat. avi da vavi — uccel-
lo) ; greco Bryon « muschio » per somiglianza ad ac-
qua che bolle, rad. febr- «bollire»; greco ainisso
«profetare» da ainós «terribile» «dio» in origine
forse «gauno» «m ago»; it. ruffiano, ted. grob-ian
« uomo », lat. hispidus da *vispìdus « pungente come
vespa»; ted. mann da *gaman lat. *gomen «uo-
mo, generatore, dio»; greco \tetno «uccido» rad.
\a \, lat. iac-io e ict-us « colpo » greco a\té « la spiag-
gia battuta dai marosi», a\teón «Atteone, il caccia-
tore », a\tìs « raggio, dardo del sole », i\tlnos « nib-
bio, che aggredisce», \teis «pettine, che incide»,
ted. acht-ung « attenzione » (può però essere da
wacht-ung, rad. wach, «vegliare, vigilare»); ted.
ubel « male » da kpbelos (in greco = coboldo, pro-
priamente «cavallo»); greco arton «pa ne» rad. vor
«m angiare»; lat. ambulare da * gambulare (muo-
ver le gambe); alabastro da \alab onde labrum «va-
so prezioso» (connessi con \alab «cosa cava» sono:
golfo, scialuppa, corvetta, carav-ella, greco \àrabos,
semit. \arawi «nave» ecc.); aspro da * vasper cfr.
vespa « che punge », vesp-er « dove il sole s’infos-
sa» oggi ted. west; lat. aper «cinghiale» da caper
« capro » ebraico eber e Ophir « Africa », lat. Afer;

(1) Analoga semantica hanno m olti altri verbi significanti « gu ar-


dare »: cfr. lu x e lacus; inglese see « vedere » e rea « mare »; it. b ai-
are e inglese bath « bagno », lat. Pad-us « fiume Po » (cfr. anche
ingl. wat-er « acqua »); lat. mirar e mare; forse anche sicil. taliuri
« guardare », friulano chialà e greco thàlassa « mare » (qui però si
presenta come verosimile una metafora da lat. talea « pallone, gem-
ma » che volgarmente è detta anche occhio, e che è connessa con
greco thallo « fiorire ».

407
greco odós «via» e lat. vado; alluce e pollice (cfr.
ingl. pulì «tirare, premere», lat. peli-ere)-, zar da
* Vizar o Cesar (Vizir, Cesare) cfr. Sarah, principes-
sa biblica; sire da Assiro, Osiride, Vizir, arabo sidi
«Signore» spagnuolo cid da Hasid «dio, leone»;
lat. alapa « schiaffo » greco kólaphos, it. colpo ; greco
1%-màlios e Pyg-malton («pittore» cfr. ted. malen
« dipingere », etrusco malena « specchio » « che fa
immagini»; omento (involucro) rad. vom «avvol-
gere» cfr. vòmere il lat. vom-eo ecc.); lat. uber (da
puber «fecondo»); greco ischyrós «forte» da * vi-
sco «tenace come il visco» lat. alvus, greco \ólpos
«seno»; lat. alapa, greco \ólaphos «schiaffo» «col-
po»; lat. alacer-volucer, ecc. Non credo eroso greco
ktàomai, che deriva da \ata (giu): ((assoggetto» (1).

IV. I o t i z z a z i o n e e P a l a t i l i z z a z i o n e . — A) Scatola,
ciotola, zattera; garetto, giarrettiera; cavetta e cia-
batta; conca e giunca (barca) e congio, bi-goncia;
ted. Hand «m ano» ebraico yodd «m ano»; ted.
wenig «piccolo» ebraico yone\\ gamella e giumel-
la; greco (g)anér «uom o» e De-ianira «principes-
sa»; cappa e chiappa (in altro senso) e giubba (e
forse anche giacca); cal (radice significante «bian-

(1) Nota anche: ted. ohr « orecchio », horen « udire » lat. auree
(*auses), pers. gos, onde si vede una radice analoga a quella di lai.
gustus; ingl. each « ciascuno », antico irlandese cach; ted. utenti, lat.
an ; egizio l i or « dio », sudanese utara « signora » ; greco ónos « asino »
(da *bonos, bonassós); ingl. lu c\y « felice », ted. Gitici « felicità »;
ted. reìsen «viaggiare» da Kreisen «circolare»; ted. regen «piovere»,
ingl. drazzle connesso con greco drósos « rugiada » da hydbr « acqua »
e da (hy)drotio « scorrere ». Il ted. E he « matrimonio » corrisponde a
lat. jug-um « giogo » greco zyg-ón, mentre ted. ziehen « tirare » non è
eroso. Rag-usa e Ra\-otide sono connessi con brago « pantano » (variante
di pelago e lago), e significano « città di mare, o del pantano »; lat.
lens « lenticchia » è connesso -on glande; lat. lituus « bastone ricurvo »
e greco littomai « pregare, cioè piegarsi, inginocchiarsi » rad. klit
« piegare ».

408
co ») e it. giallo; gaza e francese jaser « chiacchierare
come una gazza», e inglese jazz «musica rumoro-
sa», indiano Cali «dea infera» greco Gettò e Juló
e lombardo ietta; greco pelasgós e palaiós (vecchio);
frane, coq « gallo » it. chioccia e ciuco.
B) Bacco, lacco; porto, norvegese fjord; borgo,
norvegese Bjorkp, inglese York; bianco, sicil. iancu;
vengo, vingio, inglese Yankee, ted. junker; greco
Ballo e iallo «lancio»; greco óio-mai da * vovo-mai
« sono Giove o Bove, comando, penso » in greco
hóios «solo» da * sovos cfr. ant. pers. aeva «uno,
solo »; greco hierós « sacro » connesso con ver « dio »
e lat. ver-eor «onorare» (ted. Ehre — onore); lat.
ior nei comparativi da hor, ver « dio » ; greco s\aiós
lat. scaevus «mancino, obliquo»; Laios (il padre di
Edipo) da *lavos « lupo»; infatti la schiatta è detta
dei Lab-daci-di (lupi -f- duci, daci, dei); greco aguià
« via » (da agyg, participio di ago « conduco » ; Har-
pya «Arpia» da harpyg- «che carpisce»).
C) Tana, Diana, etrusco Zane; Turma, ciurma;
Djeus (Gev-) e Zeus; greco taphos e zóphos; it. tuffo
e zompo e zuppa (pane tuffato in un liquido), e za-
baione (=zuppone); (invece zoppo ha relazione con
zompo «saltellante» o con cioppo, connesso con
francese couper « tagliare », con it. cappone « castra-
to » con ted. kaP~ut <( frantumato » e ted. Gabel « ar-
nese per frantumare, forchetta » ; uggia, uggioso
(= odioso), greco zàó « vivere » da *diào « passare i
giorni», ecc.
D) Nogaro, Nogal, Nigel, Noguerro (in Spagna),
Nahar (nome semitico del Nilo e del Niger), in
America Niagara; lat. mall-eus «m artello», nordico
Mjol-m-ir.
V. S in t r u s a e T in t r u s a . — Mago, maccus, gre-

409
co móschos (animale dio) e motchos (lat. moechus
«adultero, maschio, fecondatore»); ant. ted. meta
« tariffa » e greco misthós « mercede » ; grapp-olo e
graspo; lat. post da p o i «a piedi di»; greco the\e
«cassetta, ripostiglio», e lat. tasca o testa (variante
di tasca; poi indicò le pentole, oggi il capo umano);
Brest (nome di varie località europee) è da prat-
(prato), e poi significò anche « tappa, dimora », ted.
Rast, ingl. Rest; greco botón e lat. bestia; ingl. meat
« carne » e greco mistyllion « pezzo di carne » ; muc-
chio e lat. misceo «mescolo, faccio mucchio»; Bitu,
Vito (Guido) nome di re, e Vìst-aspa «Istaspe» pa-
dre del re Dario (cioè: Bitu, re -f- aspa, cavallo, dio,
capo); greco phytón «pianta» e lat. fustum; it. ma-
stice, masticare, mastella e rad. mat. « pestare », gre-
co esthlós «bello» da *vesolos «d io» ; lat. pila
(*pistla), umbro peslum « tempio » cioè « colonnato ».
Aser «visir, assiro, Osiride» e Astr-um (stella,
dio); Iser (visir, fiume, dio») e Istro, Istria; Weser
e Vis-ula * Vistla, onde it. Vistola; arabo casr (casse-
ro) e lat. castrum; Kassel (città tedesca) e inglese
castle «castello» (leggi: cheissl); lat. dat-um e
* dest-um, che si trova in dest-ìnum « ciò che è dato
la sorte)); lat. s-t-litis (lite), s-t-locus (luogo) forme
satem per *clètis, *clocus; ted. streit = stlitis.

VI. S c a m b i o . — L — d\ lat. calamitas da cadami-


tas (\adam, badmillus, «santo, dio»); it. sedano e
greco sel-inon «piccante, pizzicante» (connesso con
sai, che a sua volta è da sa, nutrire); lat. hed-era da
heìl-era (rad. vel «girare, attorcigliarsi»); lat. dingua
e lingua (forse connessa con «dico»); sicil. addauru,
lat. laur-um; e, in genere, le doppie d in siciliano
sono sorte da II; ma non sempre, perché la fonetica
-di una lingua non è unica, es. sicil. sedda (sella), sicil.

410
stiletta « seiletta» eufemismo per «pitale»; sicil.
bieddu « bello » (di persona), sicil. bellu (di cosa).
Si ha invece scambio d ~ l in lat. uligo « umidi-
tà» connesso con greco hyd-or «acqua»; in lat. ol-
ére « far odore » connesso con lat. od-or e greco ózo
«odorare». Dubbio è invece lat. lep-ista «vaso» (o
da lab-r-um «vaso» o da dep-ista che è variante, e
potrebbe connettersi a greco dip-sa « sete »), e il no-
me della città di Akjudunnia (lat. Aquilonia), perché
aquila da *apila o *avila potrebbe esser derivato da
*avita «uccello», greco (F)a(F)etós «aquila».

VII. S c a m b i o . — d ~ r \ lat. curare e it. ac-cud-ire\


greco \èdeia, lat. cura; greco \ùdos «gloria» lat.
cit-are e garr-ulus e chor-us; lat. ced-ere, greco (ana)-
choréo (da rad. cir, girare) « tornare indietro » ; gre-
co kjbd-os «scoria» lat. cuprum «rame, metallo»;
inglese wedd «sposare» greco hedna «doni nuzia-
li », ted. heir-athen « sposare, diventare herr o signo-
re di una donna»; spagnuolo cid, arabo sidi «signo-
re », it. sire.
E l en c o d i pr e t e s i s o s t r a t i. - A) Sostrati latini-.
Alacer «alacre» da valac, cfr. velox, (v)ala, vo-
luc-er, ecc. v
Bardus (cfr. bardo, cantore nordico): «sciocco». È
parola decaduta, in origine significava «principe»,
cfr. baldo, fort-is, ted. pferd « cavallo-dio » ecc.
Pass-er e bassus « rondine ». Vale « pascià », forma
satern di Baccus, « dio » : cfr. vesu e ted. bose « catti-
vo» (parola decaduta). Inglese bad «cattivo» forse
da bitu « Vito, re ».
Ina ulnare « mettere nella cuna o cunicolo delle im-
mondizie». Se questo cunicolo immette in vasca di
acqua, la inquina. Invece del cunicolo delle immon-

di
dizie, si può trattare della cuna o culla che i bambini
sporcano; o si può trattare di «mettere in comune»
(greco kpinós) di fare una promiscuità disdicevole.
Colostro è da colare (rad. col, girare). Colazione è
invece da cal « nutrire », cfr. greco gal-a\t « latte ».
llex: elee; albero di selva o in greco hyle (selva);
cfr. hylax.
Fatigare: variante di fustigare « pungere, stancare »
(cfr. fast-igium; e greco phyt-ón «pianta»).
Inf-ula «benda», connesso con greco amphi «in-
torno»: «cosa che avvolge».
lu-bil-are: dal grido Iò Bel! (O Baal, dio).
Ocris «altura», greco a\ra (ac, punta, cima; aci
è toponimo frequente in Sicilia, semit. a \o \
Oment-um da rad. vom «cosa che avvolge»; cfr.
vom-er « che rivolta la terra », vom-eo « rigettare ».
Mul-ier «m oglie» (mula, da *gamul «generan-
te». La terminazione er si trova frequentemente:
puer, passer, pap-av-er, cad-av-er, gen-er, sor-or,
ecc. (1).
Hirudo : sanguisuga da *pir-udo, pir — pungere,
cfr. prud-ere (che eroso dà rodere), ted. s-porn « spro-
ne», s-pur «traccia». Rud-is «che è scabro, che ro-
de o prude».
Pariet (parete): da par-are «che ripara». Per l’al-
largamento iet (= ent) cfr. ar-iet, abiet-, ecc.
Papilio: papo, dio.
Parcere « economizzare, perdonare » : connesso con
pars «dividere, amministrare». Le Parcae sono «le
amministratrici ». Cosi greco pàr-ochos che a torto
è derivato da greco par-écho « offro » .
Poen-it-et « pentirsi », propriamente « essere in pe-
n a»; questa da pu- (pungere, punire).

(1) ux-or « m oglie» è da iug-, iung-ere: vale perciò con-iux.

412
Lic-et: da lex (legge) «è lecito». Lex vale leg-
ame, patto; da lig, eroso da plig, che a sua volta è
da pelo «intreccio di peli». Lat. ius «diritto, leg-
ge» vale propriamente «giuramento, patto».
Cup-ìo (desidero): propriamente «genero» (copu-
lo), onde copia « figliolanza, poi abbondanza ».
Nauci «dappoco», propriamente «noce, nodo»,
ied. nich-t «nocca, nocciolo» poi «non».
Omen (augurio): connesso con amen «invoco dio,
dico amen! ». Questa parola è creduta ebraica, ma si
trova anche in greco men « per dio ». È erosa da Ho-
men «uom o» che significa anche «dio». Connesso
è lat. ab-ominari « farsi il segno della croce, invocare
Dio, dire amen » davanti a qualche cosa; e in greco
óm-ny-mi « giurare » propriamente « invoco dio,
amen ».
O-pac-us «opaco», rad. pac «cosa compatta»:
greco pach-ys « grosso, pesante » : cfr. pax « unione »,
pacco, patto, pix «pece, cosa che unisce» ecc. va-
riante con n: pìnguis.
Opi-mus: che ha molte ricchezze o opes o pecore
oves). Opes è variante di oves.
Fiscus «cesta»: connesso con fasces, fusto, ecc.
Satelles (satellite): propriamente pollone (rad. sat,
seminare): alberetto che cresce attorno ad un albero
piu grande, cosi come i satelliti sono l'entourage del
capo.
Furca (forca): propriamente «albero», lat. querc-
us da *perqu-, che d’ordinario si biforca.
Fop-ulus (greco bib-l-os) vale «albero» e anche
libro (greco biblos e pàpyr-os « papiro » sono varian-
ti): rad. pop, cosa che vive, dio (viv-ere è della stessa
radice): cfr. pap-av-er, pip-er francese if (da vif)
«tasso» ecc. Per analogia, ha preso anche il signi-

413
ficato di «capocchia». Invece po-pulus «popolo» è
plurale con raddoppiamento paleoeuropeo.
Lama « palude », cfr. greco leim-ón « campo », lat.
lim-us «fango»: da cla-m o pla-m, rad. pai, nutrire.
La stessa radice è in lat. palus, palude.
Ab-ies (abete): rad. vap, come in pop-ulus, greco
bib-l-os, ecc. Il suffisso ìet, come in par-iet, ariet, è
* participiale e protoindoeuropeo, ma non estraneo al-
l’indoeuropeo. È un caso di iotizzazione.
Vanus « vuoto », propriamente « via », ted. Bahn
«via» connesso con greco baino, «andare». In si-
ciliano van-edda vale «via».
Heres (erede) non da greco cherós «spogliato»
(è anzi il contrario), come vogliono taluni linguisti,
ma è connesso con lat. haer-eo «aderire», quindi
« essere il parente prossimo » ; haereo è poi connesso
con greco hairéo «afferro con mani, tocco» (greco
cheir = mano) ; infatti una variante di questo verbo
è helein, che è connesso con chclé variante di cheir
« mano » (forse anche con s-chele-tro, l’insieme degli
arti di un animale).
Gaud-eo da *gaud, ted. gut « buono » ; quindi va-
riante di lat. ut-or da *gut-or « servirsi, godere ». So-
no connessi: greco gethéo «assaggiare, godere»,
lat. gustus, it. guadagno «godimento» da *gaud-
aneum, it. gaggio «godimento, pegno» (da gaudio,
onde ((ingaggiareri), it. aggio «godimento, guada-
gno», e it. agio «gaudio, godimento, piacere» (va-
riante lat. ot-ium «ozio» da *got-ium cioè «pia-
cere, godimento»; connesso quindi con lat. ut-or,
godere).
Rota «ruota» da *vir-ota (vir, girare); cosi rivus
(( corrente », ted. Rein « il Reno » cioè « fiume, cor-
rente» (e ted. rein «puro» perché gli antichi cre-
devano che l’acqua corrente fosse sempre pura, ciò

414
che ancor oggi in Persia fa si che si gettino le im-
mondizie nel rigagnolo, da cui si trae l’acqua per
bere: ma, se l’acqua è corrente, non s’inquina!!);
inoltre Rod-ano, Erid-ano, Eurota.
Homo: da gom-, rad. gam «generare»: il tema
lat. hom-in è formato con l’aggiunta del segnanu-
mero.
Annum da *vav-num, come lat. aev-um da vaev-
um : connessi con vav- e viv-ere (cfr. lat. ave! da
*vave! cioè vivi!).
Opilio «pastore» da *opis per ovis «pecora»:
cfr. il dio A pi «bue», A pia (l’antica Grecia) «ter-
ra dei buoi » o Achei (= Vacchi, cfr. ted. och-s, bue,
bucco). Il fiume Api-dano in Grecia è perciò « fiume
dei buoi» come Egos-potamo è «fiume dei capri».
Cfr. anche opes « ricchezze » = oves « pecore ».
Mafurt-ium : elmo di pelle di capro, connesso con
Ma-vort «Marte, padre Varte».
Lab-ilis cfr. lavina «smottamento» o francese ro-
vine it. rovina, mina (da lat. ruo, correre* a sua vol-
ta eroso da cal, car « girare »).
Plausirum « carro » propriamente « impalcatura,
costruzione con pali », corrisponde quindi esattamen-
te a balaustra «palizzata». Questa ultima parola la
si suole derivare dal greco bàlaustron « melograno »,
ma questo significato della parola greca non è ori-
ginario, è invece derivato dalla somiglianza del fio-
re del melograno con le colonnine intagliate delle
balaustre.
Scrofa: animale che scava col grugno, ted. grab-en
«scavare» greco \ryp-ta «scavatura, grotta»; cfr.
anche grifo, grinfia, gruf-olare, grugno (da *grum-
po), greco gromphai-no «scavare»: francese grim-
per, it. arrampicarsi (per *aggrampicarsi), aggrappar-
si, e di qui, greppo, groppa, greppia (ted. Krebbe),

415
ccc. Con s intrusa: graspo da grappo(lo), «sporgen-
za» e con erosione, rupe.
Toph-us «m onte» «tufo»; cfr. Tab-or, Tebe «al-
tura », sicil. timpa « monte », it. tempia « sommità
del viso».
Trabea «vestito di gala ». È propriamente il vestito
primitivo fatto di vegetali, «travi» cioè alberi; noi
lo abbiamo conservato in certo folklore, e per un
inconscio ricordo, fabbrichiamo abiti a fiorami per
la primavera. Tuttavia il vocabolo trabea potrebbe es-
sere anche una variante di drappo e connettersi con
greco trepo « avvolgere, mantello che avvolge ».
Volèmus «grandioso». È probabilmente la parola
da cui è derivata per erosione la parola ulema e poi
lama. Non è poi senza interesse far sapere che in
alcune tribù africane wollem è parola che indica il
sacro, il divino e tutto quanto c’è di più potente.
Tesca «tem pio»: è variante di tasca e di greco
the\e «ripostiglio». Nei templi si custodivano le
cose più preziose: archivi di Stato, trattati, tesori e
arredi sacri.

So B) Nas-strand « spiaggia dei


s t r a t i t e d e s c h i. —
morti » (etrusco nes « morto », greco né\ys « morto »,
lat. nex «m orte», rad. can, tagliare). Si ha dunque
un satem tedesco che corrisponde a un satem etru-
sco ed iranico: Nasu, la dea iranica dei cadaveri.
Dune (duna): è il celtico dunum in Lug-dunum
e simili.
Klippe «scoglio» è il lat. clivus «pendio, colle»;
rad. Kalp, che si trova in Alpe, lava, tee.
Geest (spiaggia arida): forse connesso con lat.
haust-um «seccato, arido».
Ebbe (marea) da veb « rivolgimento », o forse me-
glio «bollore» cfr. lat. feb-ris, fab-er, tee.

416
Kahn «canotto, barca» è propriamente «canna»
cioè « albero cavo » ; cosi giunca « barca » è variante
di conca, e forse connesso con giunco «canna».
Kiel « canale » è della stessa radice del greco hpilos
« cavo » lat. coel-um « cielo, spazio » (forse anche
cul-um «cavità, buco». Da connettere con greco
chào « aprir bocca », chàos « voragine » o forse an-
che con greco \yó «partorire».
Butte f( cella, bigoncia » è simile all’it. botte (fran-
cese pot, pentola), da putta, perché i recipienti usa-
vano rappresentare fanciulle o anche donne grasse:
onde dami-giane «dama feconda»: giana sta per «
gana, donna, generatrice.
S-tòr « storione » dev’essere nome divino; cfr.
Thor, dio nordico: Dori, Tur-ingi, S-tiria, Thurseni,
e lat. turd-us « il tordo ».
Dachs lat. taxus indica animale e pianta; è anche
nome di monti: Dagh in armeno, Taiga in Siberia,
Taig-eto in Grecia, cfr. greco teich-os «m uro», ted.
Dach «soffitto» e dicht «spesso»; e nome di fiu-
mi: Tago (Spagna), e del cielo e della luce (ted. Tag,
giorno): dev’essere dunque un nome divino come
duce, Dado, ecc.
Fuchi «volpe», francese foix, lat. fuc-us «vespa»
cioè «fecondatore, dio».
lltis «puzzola» sta forse per siltìs « saltatrice».
Marder « martora » forse « l’assassina, la distrug-
gitrice», cfr. it. mordere, ingl. murder «uccidere».
Kresse «crescione», rad. car, nutrire.
Beule «tum ore» lat. bulla (pustola), follis «cosa
gonfia»; invece il ted. beute «scatola» è il francese
botte, propriamente «busta» «fusto» «cesta di vi-
mini ».
Ried «canna» (variante Rohr), lat. hir-undo da
vìr « cosa pieghevole, flessibile ».

417
27. * L ’o r ig in e d e l lin g u a g g io .
Eule «civetta» francese houlette, eroso da gallo,
galletto ; ma più probabilmente allude alla credenza
popolare nelle streghe rapitrici di bambini (la civet-
ta ha in latino proprio il nome della strega: strixl),
il cui nome universale, voglio dire in tutta l’area
indoeuropea e semitica, è Elle-, cfr. greco Gelló,
louló, e la dea mesopotamica Allat.
Finch «fringuello», cfr. Fuch-s «volpe»; vale
genericamente «dio»; cfr. S-phinx «lo Sfinge», il
re egizio.
Hab-icht «sparviero» connesso con it. gheppio,
greco gyp-s, forse da rad. cap «tagliare, uccidere»
come in it. cappóne, ted. Kap-ut lat. heb-et «m ino-
rato, ebete » ecc. Nella stessa maniera è designato in
greco (lktinos connesso con hteino, «uccidere»).
Lerche «allodola» rad. cal, vale «ciarliera»; lat.
(f()alaud-a, cfr. ted. laut «suono».
Wachtel «quaglia» forse da rad. vie «girare, ri-
tornare ». In greco è detta ortyx « colei che ritorna ».
L’italiano quaglia vale agalla, galletta».
Beere «bacca» connessa con lat. voro «mangio».
Anche bacca è connessa con greco phàgo « mangio ».
Lauch «pozzo» cfr. loch «buco» (rad. cal, divi-
dere, far fessura). Il vocabolo lat. puteus «pozzo»
è connesso con greco pót-os «bevanda» e pot-amós
« fiume » ; il tedesco doveva un tempo possedere una
parola analoga, perché nel suo lessico è rimasto il
vocabolo putzen « pulire » cioè « lavare nel pozzo ».
Rande «rogna» cfr. lat. prud-ere variante senza
n e non erosa; rad-ere, rodere ecc. sono varianti.
Segei « vela » propriamente «tela da sacco»: pa-
rola che è connessa con sagum, sag-ina perché la tela
è fatta con fibre vegetali. It. secchio è variante di
sacco.
Che cosa dunque si ricava dall’esame di questi so-

418
strati? Che essi si spiegano benissimo col lessico ie.,
che dunque non testimoniano dell’esistenza di lingue
anteriori all’ie., e di tipo diverso e sconosciuto; ma al
contrario confermano l’opinione che mai nel nostro
continente siano state parlate altre lingue non impa-
rentate con le lingue storiche a noi ben note.

Su l l ’o r ig in e d i a l c u n e f o r m e s a t e m e s u l l ’a r t ic o -
l o — L’aver potuto stabilire l’esistenza
in c o r p o r a t o .
di forme satem in tutti i lessici riesce di grande aiuto
alle ricerche, perché molte etimologie ritenute fin
oggi misteriose si rendono ora trasparenti: es. zimar-
ra e lat. gamurra (veste di gomer o Umbri o Santo-
ni); zappa, zappare e francese couper «tagliare», it.
cappone «m utilato»; zampa e gamba (zampillo è
invece da zaffo, variante di tappo e zipolo o zufolo
(con altro senso); zimbello è da *civello da confron-
tare con civetta da *pivetta (infatti in francese è
hibou, in siciliano piala cioè pivola, pivella, parole da
cui è derivato it. pigolare) (1); lat. sonus e can-ere
« cantare » ; ebraico shir « canto », it. sir-ena, sir-ìma
«canzone» e coro, garr-ulo, ecc.; zirlare e ciarlare;
elfo (da Kalb oggi in ted. «vitello») e silfo, ecc.
Ora ci sono dei casi nei quali sembra che la forma
satem abbia avuto origine da una s prefissa in qualità
di articolo incorporato: p. es. inglese shall «devo»
è da s-\all e può darsi che qui s sia stato articolo e \
avesse pronunzia palatale; vediamo infatti che in ted.
skall si è ridotto a soli, ma la forma originaria si con-
serva in ted. Schulde « colpa », propriamente « debi-
(1) Nota anche sicil. pipi (tacchino), it. piva e pav-one, lat. buboi
« pupo » è dunque nome generico di uccello, es. upupa. Per zimbello
si può proporre anche l’etim o zoppetto, perché l’uccello vien legato
per una gamba, perciò zoppica o zompa, saltella. Anche lat. cingere
greco zós- possono connettersi a iungere « agganciare » e greco syg-
« giogo ».

419
to» ; e la parola ted. see «m are» da *sewe (ma in
ted. schwimmen « nuotare » ricompare la forma ori-
ginaria), in norvegese è resa con s-hpv cosi come il
suffisso tedesco schaft in norvegese è reso s-cab.
Prendiamo ora la rad. su « nutrire » ; essa, in unio-
ne con suffissi in vocale, cambia la u in semivocale:
es. lat. suavis greco (sv)ed-ys « dolce », lat. Suetonius
o Suetonius, russo svieti « santo », persiano spento
« santo », e i nomi degli Schweitzer « Svizzeri », Sue-
bi o Svevi o Schwabe — Zuavi (ché a torto questa
parola è creduta moderna e di origine coloniale fran-
cese) e degli Svedesi « Schwed-en », es. Zuider see
«mare dei Santi o degli Svedesi». L’analisi invece
diventa difficile con la parola ven che in latino e gre-
co significa «anim ale» (es. greco onos «prezzo»
cioè « animale dato in pagamento » e greco ón-os
«asino» ecc.). Ora questa parola si trova in nomi
come Bald-win « il signor principe », Win-s-ton « il
principe della città », Zvoni-mir (sveno -fi eroe « il
principe guerriero», e nel ted. Schwein «maiale»
ma originariamente «principe», es. Schwein-furt
« forte o porto o città degli Svevi o Svedesi » (o an-
che «città del principe, capitale», cosi come in In-
ghilterra si ha Ox-ferd « città del bue »). Ora è diffi-
cile stabilire se questo Schwein corrisponde a latino
suinus (aggettivo di sus « maiale ») o è formato con
articolo incorporato, tanto piu che in lat. ìu-ven-is
cioè «animale, essere in età di fecondare» ha l’arti-
colo iù (1).
L a b il it à — Si può quasi porre in
d el l e v o c a l i.

regola pratica che in ogni lingua esistono sempre


doppioni di una medesima parola ottenuti per mez-

(I) Si potrebbe però supporre un *cutr-en, cfr. lat. cup-io (gene-


rare, amare) e ted. Kuh « vacca ».

420
zo della variazione delle vocali; il significato ne è
quasi sempre identico o genericamente affine, ma
talora è contrario, perché la variazione vocalica fu in
questi casi intesa come storpiatura intenzionale a
scopo peggiorativo o derisorio: es. torta e tartina
(dolce cotto al forno, torrefatto); rostro e rastrello;
solido, saldo e saldare; curva, corbello, ghirba (otre,
pelle) e garbo (bel garbo — bel profilo, belle curve);
bricco, brocca (che non è dunque da greco pró-choos
cioè dall’idea di «versare »); barca e burchio; coccio,
cucc-uma, chicch-era; cocca, cece, chiccho, chicca;
arco, orchestra (o perché disposta ad arco, o perché
si danzava in tondo, ad arco), e greco hérc-os « chio-
stra, circuito » e orcio ; ora, èra (lat. ver « stagione »,
ted. jahr «anno»); anda, onda, lat. unda; carrus,
currus e currere «girare » poi correre; cirro, circolo,
cerchio, circa e cercare (andare in giro); probo, bravo,
pravo (con significato contrario) e privo (il cui si-
gnificato originario di « principe, primo » si vede an-
cora in privi-legium e greco presb-ys (con s intrusa)
«anziano»; virare, vertice, vortice, e ted. gùrt-el
« cintura », forse anche baraonda (« girare », cfr. Gi-
ronda e Garonna = « corrente »); gronda {gir, gira-
re) o «vertice» oppure «dove scorre l’acqua», e
gir-affa «animale corridore»; tralcio (ramo attorci-
gliato), trama, trappola, treccia, tresca, tregua (ted.
treu « fedele » quindi « patto, intreccio, obbligazio-
ne; treu può però anche essere connesso con troia
«amante, feconda»); intrigo, trucco, francese tro-
quer « scambiare » ; ruffa e raffa ; buffo, boffice,
s-baf-are «saziarsi, diventar pieno», sicil. abbiffarisi
«rim pinzarsi»; ted. treten «camminare», trit-are
« pestare coi piedi », trottare ; greco térpo « alletto »
(propriamente « che volge verso, rad. ter girare),
tufpe « che ributta, fa rivoltare » ; lat. deleo « distrug-

421
ge» e dol-eo «sono danneggiato, ho dolore»; lat.
disco « imparo », docco « insegno » e dico « dire » ;
ted. Knecht «garzone» e ingl. \night «cavaliere»;
greco hé\o « vengo », hi\-né-omai « vengo », hi\-
etèuo «prego» cioè «vengo spesso, vengo a secca-
re» ; fregare e frequente «che frega, che sfiora con-
tinuamente » ; reggente e recente « che vige, regnan-
te » ; bazzicare e baciucchiare (sfiorare continuamen-
te); lat. cup-io « fecondare » poi « amare, desiderare »,
copia « figliolanza, moltiplicazione », cop-ula « atto
sessuale », greco a-gàpe « orgia, banchetto orgiastico »,
lat. av-idus variante di cup-idus (per *cap-idus), av-
arile, variante di av-idus, ebraico hab «desiderare»
(cup, cap erosi); torto e tardo (storto, zoppo, perciò
lento) (1); Tirteo «lo zoppo», lat. turd-us «sordo»
ma propriamente «storpiato, mutilato»; francese
blanch «bianco», inglese blac\ «nero»; pelle, pula
(rad. pai, separare) e paglia; palla, pillola, inglese bill,
biglietto, bolla, biglia; greco ballo « lanciar la palla »,
lat. pello « spingo » inglese pulì, « spingere », it. polli-
ce « il dito che preme », lat. pidsus, ted. fiihlen « sen-
tir la spinta », ted. s-pielen « giocare, gettar le palle »;
Deio «terra, isola» lat. tellus, Tuie (isola nordica);
cricco, crocco, croce, gruccia (rad. cir, girare, quindi
« uncino »); sera e surnio « uccello notturno, civetta »,
it. sornione; sprazzo, sprizzo, spruzzo, ted. spross
«germoglio» (rad. pir, pungere, spuntare, schizzar
fuori"), ceffo e ciuffo-, lat. dum e don-ec «finché» (2).

(1) Semantica come in it. lemme lemm e e ted. l'dhm « zop po» ;
il ted. spai « tardi » sembra il lat. spat-ium (cioè « grande intervallo
di tempo »); l’inglese late « tardi » il lat. tatui « largo », cioè un
« largo spazio di tempo ».
(2) Plezzo e ted. platz (pianura); staffa, steppa, stiva, stipo, in-
glese stop, stufa, ingl. stock (deposito) son connessi con stare; ted.
stock. « bastone » e stiicì; « pezzo » con stechen « pungere » (rad. tic)-,
stip-ite, ted. stab « bastone », greco lau ( *tav) son connessi con tav-ola;

422
SEMANTICA SISTEMATICA

La fonetica serve per ricercare e individuare il ma-


teriale, la semantica ci dà l’architettura psicologica del-
l’edificio e, una volta che sia adulta, viene essa stessa
in aiuto della fonetica, orientando le sue ricerche se-
condo le linee presunte della costruzione. Questa
architettura è quanto mai intricata e insieme fragile,
vorrei perfin dire aleatoria: a volte, non si crederebbe
davvero come siano potuti sorgere certi significati del-
le parole. Una stessa parola si sfaccetta in innumere-
voli significati cangianti; sembra un Proteo inafferra-
bile, e come l’idra della favola, non fa che buttare con-
tinuamente fuori nuove protuberanze, le quali creano
continuamente nuove famiglie di parole. Il concetto
di «dio» p. es. è un che di inafferrabile: indica un
uomo, un animale, un albero, un monte, un astro, un
fiume, una fonte, un qualcosa di potente, di luminoso,
di straordinario, di benevolo o malevolo, o anche sem-
plicemente di vivo. Voi non sapete mai perfettamente
che cosa significhi. Con nomi indicanti « dio » si de-
signa la vita (es. lat. vìv-ere « essere papo o pope, dio »;
cosi molti nomi di alberi e di animali: ted. ephe-u
«edera», lat. póp-ulus «pioppo» ecc.); la vita è in
greco detta Bios (*Bìv-); in greco vivere si dice zio
(zav, ziv, varianti di div, essere dio), e l’animale, il vi-
vente è zo(v)on (*djoon «divino»); in ted. vivere si

tappa, tuffo, ingl. s-tep «passo» connessi con tip, « battere»; tappo,
toppa, topo (per somiglianza con un tappo o batuffolo), stoppa, stoffa,
tappeto, gr. s-teph-anos « corona, copricapo vegetale » berretto di fra-
sche », tab-arro (con terminazione mediterranea come in sicil. cim-arra
« cima di scope » cfr. greco Cimasa « parte superiore »), connessi con
tep. teg «coprire». La corona e le ghirlande sono perciò ricordi degli
antichi abbigliamenti vegetali.

423
dice leb-en « essere lupo o dio » e con lo stesso concetto
si indica la morte (inglese die ((diventar dio, mori-
re » ; etrusco lupu « diventò lupo o dio, mori » ; invece
greco óll-ymi « morire » richiama Elle o Gulo, greco
Juló, Gelló la dea infernale, cfr. ted. Hólle «in-
ferno »).
Dio indica YUno e il Tutto: greco mónos (solo) è da
*gamon (Ammone, uomo); russo Oditi « u no» è
Odino il dio nordico; lat. solus è il sole, lat. unus è
anch’esso il sole (ted. Sonne), greco (s)em « un o» è
ancora il sole. E questa stessa parola indica il Tutto:
greco hólos (*solos) «tutto», lat. sem-p-er «tutte le
volte», ecc. Il nome greco indicante il Tutto, Pant, il
lat. Totus (variante di Tantus) significano « il nutri-
tore, il dio» (cfr. lat. Phaunus, greco Tithene «nu-
tritore »). E questo stesso concetto di Dio serve a indi-
care una serie di qualità eccellenti o cattive (nel caso
che sia un dio di genti sottomesse o nemiche): lat.
verus è da ver (capro, dio); lat. ser-ius è da ser (eroso
da vizir, come il russo Zar, da *vasar, vizir), e con que-
sto nome si connettono ser-enus, il greco {s)eiréne
« pace, calma », il greco Seirios (la stella Sirio, « dio,
luminoso», cfr. il dio solare ario Surias); il ted. gut
« buono » è da Gott « dio », lat. bonus da bano, Phau-
nus «nutritore»; bello, ingl. well «bene» da Belo;
ted. s-tar\ «forte» da Tar\ (dio e capro; greco trag-
os « capro », it. s-treg-one, lat. strigilis « civetta » gre-
co trigle «triglia» ecc.) (1); ricco è rex, re, dio; lat.
dives «ricco» è dio; ted. besser «meglio» è vizir; il
copto lama « ricco » è dio, lama; il russo bogàt « feli-

(1) La s di ted. s-tar\, di lat. s-trix ecc. fa sospettare una erosione,


cfr. del resto Vie. staura « toro » (ted. S-tier). La Stiria è quindi forse
«regione dei T ori», cfr. Tarwis (Tarvisio, città del toro). Dori forse
vale Tori. L’erosione si lascia sospettare in forme come greco he-tair-os
«com m ilitone» cioè «toro della stessa tribù », in Attalus, Àttil-ius ecc.
(connessi con vit-ul-us).

424
ce» è da boje «d io »; lat. fortis è «dio, principe»,
cosi ted. bald « forte, veloce, presto » ; e tutte le parole
indicanti primato: ted. rasch «rapido » (cfr. ras); on-
de ted. ùber-raschen « sorprendere, correr sopra » ; it.
presto (inglese prìest «prete», cfr. lat. prest-igium
« dignità di principe o prete », e pret-ium « valore di
prete o principe»); virtù «qualità del vir, greco
(v)aretè « qualità del var o Ares o dio guerriero », ted.
wert « valore » e wùrde « dignità » connessi ai prece-
denti; inglese early «presto» è connesso con eari
«conte» propriamente il ver (ver-ul); francese vite
«presto» connesso con Bitu o Vito (principe), lat.
mox «presto» connesso con mago, berbero m o\o
(guappo, pezzo grosso); greco méga «grande» e
ma\-ar «beato» con mago; greco e-teós «genuino»
connesso con theós « dio » o con vet (Bitu, re, vitello)
(greco e-timos «vero» è invece connesso con timdo
«rispettare» quindi «rispettabile»); inglese \in d
« gentile » connesso con King « re », cfr. Viti-Kindo
(nordico Vid-Kun) « il Vito re », celtico Ver-cingeto-
rix «re dei Vercingi o Vitichindi o guerrieri».
A volte si rimane sorpresi a vedere in che maniera
da certi nomi siano stati cavati certi significati. Uno
dei modi di creare famiglie di parole è il trarre verbi
da nomi. Ma il verbo che se ne trae non ha sempre il
significato letterale, ma un significato metaforico,
che dà origine a una nuova famiglia semantica o albe-
ro genealogico. Da Giove si fa vov-eo «dedicare a
Giove, offrire un voto», iuv-are «essere dio, assiste-
re », iub-ere « essere capo, comandare », ieiunare (per
Rovinare «indiarsi, praticare l’ascesi»), forse anche
hab-eo « sono dio, padrone, ho ». In ted. hilf-en « aiu-
tare» propriamente «sono elfo, dio», in greco elp-
izo « spero » (invoco l’elfo, l’angelo custode), alph-
àno « aiuto, sono elfo », in etrusco àlapn « dono », in

425
ted. geb-en « do » cioè « sono capo, aiuto ». In ted.
m'ógen «potere» (essere mago), in greco dyn-amai
« posso » (sono Tin o Giove), in lat. volo « voglio »
(sono Baal, comando), val-eo «sono forte, valgo»
(sono Baal, sono potente); e da questa parola poi valo-
re, balio, bailo, balia, vaglione, gagliardo (per *val-
iardo), gaglioffo, e il peggiorativo francese gaìllarde
« donna da trivio » e il siciliano caiorda « sudicia, pro-
stituta ». Senza la semantica, come si sarebbe potuto
sospettare che caiorda è derivato da Baal?...
La parola gnu indica oggi un animale (da gen, ge-
nerare), un giorno indicò il dio: onde da nu (eroso)
si fece numen (1), e i Greci ne trassero il verbo noéó
« pensare » e nóos « mente », i Latini nuo « coman-
do » quindi « accenno col capo » onde nutus « cenno
del capo » (it. cenno è invece connesso con can-ere e
ca-chinno « discorso su qualche cosa »); e con analogo
procedimento i Greci trassero da Giove o Vove il ver-
bo oto-mai (da *vovo-maì) « penso, comando » corri-
spondente quindi a lat. iube-o; i Latini da re (eroso
da * ver-e-c e ger-a-s) trassero cre-o « faccio » e re-or
«penso» (onde ratio, ragione, pensiero) e rit-us «ri-
to, legge stabilita »; da med-os (o mago, che è varian-
te) trassero mede-or «curare, guarire» e medit-or
« pensare » e i Greci manth-àno « apprendere » (on-
de poi mens, ted. mut, inglese wit che è variante sen-
za n), e i Latini imit-or « imito, apprendo » ; dalla pa-
rola de « dio » i Latini trassero debe-o, i Greci dein

(1) È a notarsi qui un fenomeno curioso detto «confluenza di


radice »: numen può anche derivare da rad. pen, ven (da cui lat.
ventum , (v)anim-us, greco pneuma « spirito, soffio ». Siccome i due
concetti di « generatore » e di « spirito » vennero a far parte dello
stesso concetto di « dio », la parola numen si può considerare deri-
vata da una doppia radice. Questo fenomeno, di natura essenzial-
mente semantico, è diverso dal fenomeno della indifferenza delle
iniziali (es. possiamo integrare una radice erosa con p-, con k. e talora
con s a piacere) che è di natura essenzialmente fonetica.

426
«essere del Dio, quindi dovere (onde déo quindi si-
gnificò « legare, appartenere al re o al tempio »); men-
tre è dubbio se l’inglese must «devo» ted. miissen
siano connessi con ingl. miss « mancare di una cosa »
quindi « dovere », o con il significato generale di « es-
sere premuto, costretto» che si trova p. es. in mosto
« ammaccato, uva pigiata », in moestus (afflitto, abbat-
tuto) ecc. Dalla parola indicante l’uomo, cioè *gaman
(generatore) o *gamant si trasse greco mantis «paz-
zo » ma propriamente « indovino, profeta, uomo ispi-
rato », e poi manta « pazzia » (cosi come dalla varian-
te *ganer greco anér « uomo » si trasse ted. Narr « uo-
mo ispirato, pazzo » e lat. narr-are « profetare, far poe-
mi, indi «narrare»); ma da *gaman si trasse anche
lat. manco « esserci uomini, vivere » onde anche « di-
morare, rimanere» (1), e la stessa parola, indicando
dio, indicò anche monte (2), che fu la dimora degli
uomini, onde poi l’infinita caterva delle parole con-
nesse con l’idea di monte, già viste a pag. 397.
Mi direte: questa non è un’architettura, ma una fo-
resta vergine, ma l’orripillante visione della foresta
primitiva; è l’ineffabile immagine del caos. Verissimo.
Ma non andiamo noi verso il laboratorio segreto della
creazione? Vedete: uno stesso concetto di albero dà
luogo a innumerevoli famiglie semantiche: quercia,
forca, pergola, feluca, piroga, baracca (travatura) ecc.;
uno stesso concetto di vivente o di animale dà luogo a
francese coq « gallo », cigno, cic-ala, cic-ogna, cuc-ulo,
ciuco, allo shah di Persia, allo sceicco degli Arabi, al
gallo (ted. Huhn, esattamente corrispondente al \y \n -

(1) Analoga semantica in ted. bleib-en da veleb «essere lupi, vi-


vere » onde poi « dimorare, rimanere », cfr. greco leipò « lasciare, tar
rimanere ».
(2) Anche qui c’è confluenza di radice: monte è dio, ma anche
« dimora » (da maneó). Latino mtindus « il mondo » è variante « U
terra abitata, la dimora degli uomini ».

427
os « cigno » dei Greci e a centinaia e centinaia simili
in tutte le lingue); una stessa parola gen « generatore,
uomo, donna » diventa lat. homo, ted. henne « galli-
na » got. qena « donna » inglese queen « regina », lat.
hinnus « cavallo », lat. canis « cane » celto sena « don-
na» copto iena «donna», lat. senex «vecchio» ecc.
Una delle creazioni più curiose sono i sostantivi di
ritorno. Avete p. es., una parola prato, o praed-ium o
proda o lombardo braida: se ne cava il verbo praed-
are « razziare per i prati » e da questo poi lat. praeda
che è una variante di prato ma che non ha più nulla
che vedere con esso pel significato; avete lat. prob-us,
se ne cava probare e poi il sostantivo prova; avete
*mantho « uomo » se ne cava greco Manthàno « ap-
prendo » e poi mente e menzione e lat. memini « ri-
cordare »; avete *man « uomo, capo » se ne cava greco
ménein « men-are » e poi lat. man-us (quella che gui-
da, la mano); avete *man «uomo» e da questo lat.
maneo e poi moen-ium « muro » mun-ire « cingere di
mura », munus « incarico, mansione » (onde poi « re-
galo»); amoenus (ameno, abitabile), mundus «dimo-
ra degli uomini, il mondo »; avete *man nel significa-
to di « dio » e manes (gli dei antenati), se ne cava il
nome che indica il dio per eccellenza, il sole, quindi
l’idea di luce (lat. mane « domani » propriamente « col
giorno», e mani-festa-re, e monstrum e monstrare,
l’it. mostra, ecc; avete greco sappheiros «zaffiro » cioè
«il cielo azzurro» (rad. sap «fecondare» come in
lat. pro-sap-ies), dall’idea di cielo si passa all’idea di
« cosa rotonda » come volta celeste, sphaira (sfera), da
questa si forma lat. sperare « invocare il cielo, spera-
re )), e infine si cava la parola spes « speranza ». Dóve
sono importanti due osservazioni : che a torto l’attuale
glottologia deriva i verbi da nomi che spesso son deri-
vati da loro; poi, che il fatto stesso che noi siamo co-

428
stretti, per ricostruire la genealogia semantica a inse-
rire nella serie dimostrativa anelli tolti da diverse lin-
gue (p. es. facendo derivare lat. sperare da greco
sphaira) mostra che il fondo lessicale un tempo era
comune a tutti, ma che i fossili di esso ora si trovano
dispersi nei vari territori della famiglia linguistica
paleoeuropea.
Analogamente da elfo (dio) il ted. cava hilf-en « aiu-
tare » e poi il nome Hilfe « aiuto » ; il greco da questo
stesso nome elfo cava elpizo «sperare», «invocare
l’elfo o dio » e poi elpis « speranza » che più non ha
nulla che vedere con elfo. Alcune volte poi il legame
è talmente occasionale, che solo una fortunata combi-
nazione può farcelo scoprire. Come avremmo potuto
sapere il perché la parola lat. salio significa « saltare »
e il greco psàllo «cantare» se non avessimo saputo
che i Salii erano specie di Dervisci, che avevano l’abi-
tudine di danzare al suono degli strumenti? (1). La
parola salio è erosa da ves-ulus « dio » ted. vasall « vas-
sallo », è quindi identica a russo zar (da * Casar o
Visar), quindi a Osiride, Assiro, a Sire, al nome della
stella Sirio (il signore (d’astro», onde poi il signifi-
ficato della radice ser « splendore »); la prova dell’ero-
sione è nell’esistenza di nomi come Pselli, Psilli e del
verbo greco psallo « canto ». E si spiega anche perché
una parola come lat. saltus significhi « bosco » : è la
dimora dei Salii, il tempio primitivo (detto anche
nem-us « cioè resecato, cintato a parte » rad. can « ta-

(1) Da sai, che indica anche il mare o l’acqua, la grande altrice


dei primitivi (rad. sa nutrice) avremmo tutt’al piu, attraverso l’idea del-
l ’acqua lucente, potuto stabilire il perché di una rad. sei indicante
luce (m a questa forse viene del nome del sole, lat. sol, greco {s)élios)t
e attraverso l ’idea di sale il perché di una rad. sii «essere piccante».
Aggiungo che secondo me la parola sai non indicò in origine il sale
ma il mare, donde poi per via del sapore fu trasferito al sale.

429
gliare » ; cfr. greco temenos « tempio » da temno « ta-
gliare» (1).
I significati dunque si sono legati a determinati suo-
ni in via puramente occasionale, e una metafora sta-
bilitasi in una parola ha influenzato il significato di
un’intera famiglia di parole (famiglia semantica); o
in altri termini, è diventata essa stessa una radice; ma
ciò, come dico, è puramente occasionale, e spiega l’ap-
parente paradosso che, mentre grandi gruppi di pa-
role hanno, per così dire, un’aria di famiglia, che ne
fa indovinare press’a poco e a prima vista il significato
(e non soltanto nella lingua, ma a volte in lingue di-
verse), d’altro canto l’esperienza del lessico c’insegna
che qualsiasi parola può significare qualsiasi cosa, che
non esiste un legame necessario fra suono e significa-
to, e quindi non è possibile stabilire mediante l’etimo-
logia pura e senza il sussidio della storia delle religio-
ni e del folklore quale sia il significato delle parole;
che quindi l’apparenza è che le parole, sotto il punto
di vista dei significati, si comportino come se fossero
state create arbitrariamente. Voi trovate, p. es., accan-
to a una famiglia di parole col suono cant (cantare)
come cantare, centone (= canzone), citare, cetra, chit-
arra ecc. parole come cantuccio, càntaro, de-cantare
(travasare), centina che vi danno tutt’altre idee, e pa-
role come ingl. Kent (regione inglese) che ve ne dan-
no ancora altre (monte): voi ne rimanete disorientati,
ma nessuno può incolparvi se, benché a torto, voi
concludete non esserci significati legati a suoni, e
che tutto, nel linguaggio, è assolutamente arbitrario.
La f o r m a z io n e d el l e r a d ic i s e m a t ic h e e l a c o n -
f l u e n z a d el l e r a d ic i. — Abbiamo visto che qualun-
(1) Si può ripetere questo ragionamento per francese fronde, nel
senso di «spirito di ribellione»: senza la conoscenza di una precisa
conoscenza storica, ogni sforzo etimologico sarebbe votato al fallimento.

430
que parola può significare qualunque cosa, perché nel-
le radici primitive è contenuto l’embrione di tutti i si-
gnificati possibili, che poi si agganciano alle parole in
seguito a circostanze occasionali. Ma si dirà: come mai
tanti significati diversi in una radice primitiva, o, p.
es., come mai la rad. cal potè indicare luce (es. greco
a-gl-aós «splendente»), suono (greco \al-éo «chia-
mo »), nutrizione (es. greco gal-akt « latte »), divisione
(es. greco kleros «parte»), e tante altre cose? Nelle
parole più recenti, gli anelli della catena semantica si
individuano con relativa sicurezza, es. brillare è da bi-
rillo e questo da penilo per la sua forma di piccola
pera (così perla vale ((peretta») onde brillare è lo
stesso che perlare; a sua volta pera è da una rad. pa
«nutrire» (cfr. lat. pascor, pat-er ecc.) o anche da
una rad. pir. « essere appuntito » (cfr. sper-one, a-
spid-e, ecc.). Così il lat. sum-ere « prendere » deriva
da soma « cibo » e significava in origine il mangiare,
onde sumptus «spesa pel mangiare» poi «spesa in
genere», e con-sumere «mangiare insieme, poi con-
sumare»; ma dall’idea di spesa venne poi quella di
acquisto e di « prendere » : cambiamento verificatosi
anche nel greco dapàne « spesa » che riposa su deipnon
«cibo» e lat. dap-es «banchetto». Ma nelle parole
primitive il processo è troppo vago, la mentalità che
vi ricorre troppo fluttuante, perché noi possiamo ora
ripercorrere le tappe dell’albero genealogico con si-
curezza: p. es. \a indicava il dio, il nutritore (cfr.
egizio \a «anima, spirito»); ma questo poteva esse-
re il sole, allora \al (e in forma satem sei, con la
variante ser) indicò luce; poteva essere il gallo (cioè
l’uomo, o l’animale-dio gallo), e allora cal indicò il
canto; poteva essere il cane (o il \an, re) e can indicò
suono, voce ; poteva essere il monte, la roccia, e allora
cal indicò la pietra con cui si colpisce (cal, tagliare);

431
e analogamente avvenne con radici varianti come
tal, pai ecc. Per es., tal indica il mare nutritore (gre-
co thal-assa) o l’albero fiorito (greco thallós, fiore);
ma dall’idea di acqua lucente, o dall’idea di colore
che è nel fiore, si ebbe tal indicante luce (in effetti,
sembra che il vocabolo siciliano taliari « guardare »
sia connesso con lat. talea che indicò la gemma degli
alberi, volgarmente detta occhio), onde tali fu detto
il metallo lucente (cfr. talea, verga di ferro dei Bri-
tanni), e dall’idea di metallo si venne all’idea di « ta-
gliare» (1). Così il lat. cernere «osservare» (rad. car,
«nutrire», inglese cor-n «grano») quindi «selezio-
nare il grano» onde la doppia idea di «secernere»
e di « guardare », e da questa idea di luce si avrebbe
poi certus «chiarito» e il suo contrario: lat. (obs-)
curus, slavo cara «nero», greco \yr-n-os «oscuro».
Ma questo processo non è unico; per altre vie si
poteva giungere allo stesso risultato: p. es. lat. can-
ere « cantare » può essere variante di greco phon-é e
di lat. ton-us « tuono » (il quale potrebbe essere ono-
matopeico: tin, tin, tintinnare'). Si avrebbe cosi quel
fenomeno che io chiamo confluenza di radici e che
sostituisce in questo mio sistema il concetto degli
omofoni fortuiti della glottologia ie. Ecco che cosa
succede. Supponete un fiume che si scinde in due
o più rami, e questi a lor volta in rami minori, ma
che poi tutti vadano a confluire in un unico collet-
tore. Considerate nella confluenza, le radici sono di
provenienza diversa; considerate più in alto, sono
della stessa provenienza.
Ci saranno pertanto in questa scienza sempre del-
le incertezze. Ma con ciò non si creda a una resurre-

(1) Più propriamente dall’idea di pietra, che è l’arnese primitivo:


tale infatti indicò anche la pietra (oggi in francese dalle). N ell’it. folla
si conserva l'antichissimo tali indicante « metallo ».

432
zione del mistero. Niente misteri. Si tratta di picco-
li vortici in una distesa di acque trasparenti. Le in-
cognite, quando ce ne siano, restano circoscritte a
piccole aree: si tratta di dovere scegliere fra due o
tre ipotesi: ecce tutto. E se anche tutt’e tre le ipotesi
fossero errate, e la giusta, la quarta, fosse destinata a
rimanere sconosciuta, tutto ciò non cambierebbe
gran cosa alle nostre convinzioni scientifiche: po-
trebbe avere tutt’al più una importanza da un punto
di vista micro-culturale, ma non muterebbe in nulla
lo schema generale della soluzione.
Il saggio di semantica sistematica che qui faccio
seguire, è destinato a dare un’idea d’insieme del mo-
do di esprimersi dei primitivi, e un panorama del
loro mondo spirituale e del loro atteggiamento di
fronte al mondo esterno.

I. I d e a d i c i t t à . — a) Monte\ in parole come Mut-


ino. o dove entra la parola amba, anta anca (da flam-
ba, \anta, \a n \a e, senza n, \ a \ \ es. cac-umen):
A g = ylla, At-ella, Ab-ella, Ath-enae, At-alla, Emp-
oli Eph-esos, Amp-elos (antico nome della Liguria),
cebo lbh « monte » cfr. isola If ecc. In Sicilia kento-
ripa (cant « monte » + urbs « recinto »). Anche con
polis: Liver-pool «città di Liguri od Olivieri».
b) Fortezza: nomi terminanti in -durum (tor-
re), -dunum (duna, monte), -gurris (monte, slavo go-
ra, es. Caia-gurris « città fortificata ») e bona (eroso
da Vib-ona, pip « altura » cfr. it. pepita, sicil. pipì-
tòni « pilastro Vip-it-eno, Bivona in Sicilia, ecc.).
c) Terra: francese hameau «villaggio», ted.
heim, it. Como, Al-camo, Cuma; Birmin-gham (ter-
ra di Germani, greco ga = terra); Amster-dam {da
—terra -f- amster, cfr. Mestre, Amestrata, Cama-
stra, ecc).

433
28. L 'o r ig in e d e l lin g u a g g io .
d) Recinto-, lat. ver o ur-b-s o or-b-s, greco eur-y,
altrove anche iero, laro: Hanno-ver (città di Bani),
Bari, Bar-olo, Verolla, Verona; Eury- nome «il nu-
me della città », ebraico Yeru-shalaim « città di Soli-
mi o Chalem», ungherese Temes-var «città di Ta-
mi ». Karth : Carth-ago, Kart-um, Cirta, Cerda, Gort-
yna, Card-iff, Cord-ova, Crot-one, Crustu-merium
«città con mura» (vuol dire che a quel tempo le
città avevano comunemente palizzate, eran perciò
dette Phalanna, Pailene, Palantia e Palatia; nota Cru-
stu con s intrusa); Lenin-grad (lat. hort-us, greco
chort-os, ted. gard-en) (1). Nella variante Tart: Tart-
esso, Dert-ona, Dert-osa, Ja-dert (Zara), Dard-ania
(però qui si potrebbe pensare a «terra del Dario, o
Doro, o Toro, o tyr-annos»).
e) Capitale: Rav-enna (città del Ravo o Re), Mac-
alla Mac-allé (mago), Mag-onza; Pav-ia, Bobb-io
(papo, pope, onde pav-ese «stendardo del Papo»);
Ratis-bona, Rati-bor, Rado-witz (vico del re), Bratis-
lava (lava = pietra, monte « del re »); Ra-stadt « cit-
tà del re», Passaro-witz «vico del Bacco o Bessareo
(cfr. Bessarabia); Numantia, Nomentum (nume),
Vil-no, Bielo-stoc\ (stanza del Baal); Brema, Reims,
Roma (* bromo) « città del Rama o Brama o flami-
ne o Bramano»; Myk-ene «città del Mucco o Moko
o Vacco»; Nin-ive «città del Nino o Nonno o re».
II. S p o r g e n z a e c a v i t à . — Con le stesse radici si in-
dicano la sporgenza e la cavità, il di sopra e il di sot-
to, e la ragione è che ciò che è puntuto è anche ciò
che scava. Cosi abbiamo coccio e cac-ume, it. testa
«sommità» e lat. testa «recipiente»; ingl. top «ci-
m a» c deep «profondo»; Dover, Doberdò, Tabor,
Dobrugia, etiop. Debra «m onte» e Tempe «valle»;
(1) Perfino in Indonesia: es. Soero-harta, Jagio-karta.

434
tempia « sommità » e tomba (cavità) e frane, tomber
« cadere » ; * (K)ant « altura » cfr. lat. antenna, Can-
ta-brici, Kent ecc.) e greco \atà «giu», onde sicil.
cat-usu «fogna», lat. cad-ere e scend-ere; Corfu
(calpe, monte) e golfo; vetta «bitta, cosa puntuta»
(invece lat. vitta «benda» è da rad. vi «girare, av-
volgere, cfr. vits «vite»); callo, colle e cala, «ra-
da»; (c)aula e caule (capocchia), lat. (c)olla «pen-
tola » e it. collo, lat. s-chola (aula), sala, forma satem
di cala, ingl. hall. Questa rubrica dunque è un caso
particolare della seguente:
III. P a r o l e e s p r i m e n t i i d e e c o n t r a r i e . — a) Pel
cambiamento delle idee morali e religiose: es. greco
parthénos « vergine » è connesso con parto, e indica-
va quindi in origine le donne àt\Yharem o Parteno-
ne, in licio Agneón; cosi lat. castus (in origine «fe-
condo») cosi il ted. scham «vergogna» che in ori-
gine significava «santo». Come ho detto altrove, il
segreto sulle cose sessuali dapprima fu un comando
religioso (esoterico), oggi s’interpreta come pudore o
ripugnanza per le cose triviali.
b) Ted. siinde «peccato» propriamente «santo»,
cfr. lat. sacer che vale « sacro » e « infame ». Questo
cambiamento deriva dal fatto che le cose consacra-
te agli dei infernali si ritenevano impure, perché ap-
partenenti al dio nemico.
c) Popoli già potenti diventano schiavi, onde le
cose che si riferiscono ad essi indicano cose abbiette:
cosi damo è « signore » greco dmós « schiavo », dèmos
« plebe ».
d) Per causa di rivolgimenti politici o sociali, no-
mi indicanti cariche e funzioni privilegiate diventano
nomi di scherno (nomi decaduti): tali sono: bravo
(manutengolo), pravo, baro, mascalzone (marescial-

435
Ione), bàbbèo, baggiano (paganus, perché pagus diede
anche Baggio in Lombardia, bagghiu « corte » in Si-
cilia, e il termine Bag-audì in Gallia); sicil. sceccu
«asino» (è l’antico nome dello sceicco arabo); lat.
vil-is da Belo «signore» (significato conservato in
Vii-ombria); mariuolo è l’antico maru « magistrato»;
nano affine a nonno «dio» (cfr. Nanos, epiteto di
Ulisse), aggettivo di vecchia gente, poi di piccola gen-
te (onde la negazione non): rad. *gan-an « genio, re ».
è) Talvolta il significato contrario deriva dall’op-
posizione dei significati attivo e passivo, pei quali in
origine esisteva una sola parola: così greco philos
« generatore, amante » e lat. fil-ius « generato » (onde
greco phyllon « foglia » « la generata dall’albero » e
filo il ricavato dalla foglia); lat. veho « faccio andare »
« porto » e ted. gehen « andare » ; ted. drehen « gira-
re », lat. trahere, ted. trag-en « far andare, quindi por-
tare»; ted. fahren «andare» e ftihren «portare»;
lat. Venus «Venere, la donna» ted. wenig «il gene-
rato, il piccolo»; it. succo «nutrimento», ingl. see\
denutrito, ammalato, cfr. it. secco; greco malprós
«grande, che schiaccia», greco mi\rós «schiacciato,
piccolino», lat. macer «sottile, m agro»; scr. pitar
« padre », putra « figlio ».
f) Altre volte la stessa parola indica « giovane »
«vecchio, anziano », padrone e servitore; ciò ha la sua
ragione nel fatto che in origine era l’anziano, il pa-
triarca della tribù, considerato il genitore di tutti, il
becco della mandra umana; ma in un secondo tempo,
col formarsi delle famiglie o focolari separati, il gio-
vane giunto all’età pubere era considerato membro
effettivo della comunità «fecondatore » e marito: es.
greco gér-as (vecchio) è parola identica a lat. vir (ver);
il lat. sen-ex « vecchio » è parola identica a celto sena o
zena «donzella, vergine» (greco gyné); e le parole

436
che indicano giovane o garzone, in lat. iu-ven-is, (in-
cus (venco, giovenco) o giovane (in inglese boy —
bue) ecc. sono identiche a quelle che in varie lingue
indicano l’adulto: vingio, Bayer «bavarese» ecc.

IV. P a r t e c e n t r a l e d i u n a c o s a . — a) Noi talora di-


ciamo « la anima di una cosa », l’inglese dice my self
«il mio silfo», cioè « il mio spirito» per dire «m e
stesso ».
b) Noi diciamo «il nòcciolo», il greco dice my-
chios «il muco» cioè «il midollo» di una cosa; la
parola midollo invece è connessa con lat. med-ìus
« mezzo », rad. med, tagliare.
c) Per dire metà si usa semi (da si « tagliare » es.
greco sema «segno, incisione» o da seme, perché
d’ordinario i semi si spaccano in due); il ted. dice
halb {col, tagliare); l’etrusco falas, il russo poi con-
nessi con ebraico phala\ «spaccare», lat. falx «fal-
ce », greco péle\-ys « scure » inglese pluc\ « staccare,
cogliere» e it. pilucc-are, s-piluz-zicare.

V. V e l o c it à , c a m m in o si esprimono con radici si-


gnificanti « g ira r e » : lat. curr-ere, rad. cir, ruo (da
*vir-uo), greco trech-o « co rre re » troch-os « ru o ta » ;
greco theo « correre » (o da te, girare, o da te « terra »
quind i « andar per la terra »); greco thac-ys « veloce »;
errare (da ver, girare); axis « asse» da vie « g ira re »
(cfr. Ixionne « l ’uom o della ruota o asse»); greco
amoibos « alterno, am ebèo » è connesso con lat. rr.ov-
eo «m uo versi», cosi come novus con greco neo o
hinéo « muoversi, cambiare ».
L’idea di primato, essere primo, è quella di principe;
lat. Primus vale Prìamus, greco Protos «prete, prita-
no, prode, Partho », e questa stessa idea rende l’idea di
comando: es. greco àrcho «comandare» ed «essere

437
primo », connesso con lat. hircus « capro » ; lat. iubeo
«sono capo, comando»; mando «sono manto o uo-
mo, dio, comando »; imperare « sono Gomer o cimbro
o umbro»; sinere «essere vecchio o anziano, coman-
dare»; greco eào «essere vesu o eù, permettere»;
greco heléo « sono gallo, comando » (cfr. Her-cul
«gallo di eserciti», etrusco Catta «gallo, capo»; ted.
leit-en « guidare » (essere Lidio o uomo, cfr. tedesco
Lente « uomini »); ted. ver-bieten « vietare » da bieten
(« essere bitu o Vito, essere re »); guidare « essere gui-
da, cioè Guido o Vito, essere re» {seguire invece in
ted. folg-en — essere V ol\ o popolo, essere agli ordi-
ni»); lat. sequi «essere socìus » e questo a sua volta
da rad. sa, nutrire, quindi indica gli animali lattanti
che corrono dietro alla mamma; da socius è venuto il
soprannome fittizio di sosia caro all’antica comme-
dia: « che somiglia come un gemello al gemello».
VI. P i a c e r e , d o l o r e , m a l a t t i a , m e d i c i n a . — Il piace-
re si esprime con l’idea di nutrire, es. lat. al-mus (cai-
rnus, «che nutre») (1), su-avis ecc.; o con quella di
usare, godere: lat. gaud-ium \ o con quella di amare:
lat. lib-et (da *veleb, essere lupo di qualcuna, essere
marito di una lupa o moglie); o con quella di legare,
allettare: lat. plac-et, all’attivo plac-are «rasserenare»
(in ted. le parole corrispondenti: pflegen «curare» e
«solere» pflicht «legame, dovere» esprimono altre
idee). Connessi con placet e plico sono lìcet, allicere,
deliciae e lex « legge », cioè legame, patto (2).
Talvolta l’idea di allegrezza si esprime con quella
di uomo forte e sano: lat. Gaius (*gavus = capo)
e it. gaio ; baldo e baldoria e sgualdrina (*W alterina
(1) L’idea di tranquillità è sovente espressa con quella di nutri-
zione: cfr. lat. seg-nis « tranquillo », greco hésychos « tranquillo »,
(rad. sa « nutrire »). Questa rad. è forse erosa.
(2) Anche ius, iuris « diritto » vale « giuramento, patto giurato ».

438
da Walter = Balder = fecondatore); lat. maro «m a-
gistrato, re » e « allegro » e inglese merry « allegro ».
L’idea di dolore si esprime con l’idea di colpire: lat.
doleo passivo di deleo « distruggo », damnum « dan-
no » connesso con temno « tagliare », greco àlgos
« dolore » da fyil « tagliare », greco àchos « dolore »,
inglese ache «dolore» da rad. ca\ «pungere» (cfr.
ascia). Il lat. dol-um « inganno » è connesso con deleo
« far male » rad. tal « tagliare »; noia è « annegamen-
to, soffocazione », cfr. francese noyer « annegare » ;
taed-ium è « puntura » ; fast-idium è anch’esso « pun-
tura » (da fusto, basta; cfr. fest-inare « sollecitare »
« pungere con fusto o bastone »).
I difetti fisici si esprimono con l’idea di mutilazio-
ne: muto è mutilo; lat. caecus «cieco» è da \ a \
« tagliare » connesso quindi con cicca, francese chèque
ecc. ; il greco typhlós « cieco » è da tap « colpire » (a
sua volta connesso con tip, tap « cosa acuta, pungente,
monte »); l’inglese blind « cieco » con pai, bai « luce »
(sia che indichi l’idea contraria o anche quella di
allucinato, abbagliato, sia che indichi il metallo lu-
cente, blenda (1), che serve per fasciare, blindare:
quindi «fasciato») (2); il lat. turd-us «sordo» da
ter, tar «tagliare» (diverso da torto che è da tor-
cere); surdus, rad. sir «suono» es. sir-ima «can-
zone». Lat. paetus «strabico» è connesso con gre-
co poiéo «fare» ma anche «fatturare, fare il ma-
locchio»: vale perciò «fatturato, che ha subito il
malocchio o è capace di farlo altrui». Questo vo-
cabolo fare si usa anche per indicare medicina,
magia: greco Paiàn «Apollo, il fattucchiero, il medi-

t i ) Blenda eroso *lenda, cfr. sicil. tanna (latta). It. latta è invece
da « piatta » (metallo piatto).
(2) Si può infine ammettere rad. pai « tagliare ®, quindi « m u-
tilato >.

439
co»; connessi sono: lat. fascinarti «fattucchieria»
(reso dai Greci con Bàskanos, cfr. Ascanius per *Ba-
scanius « l’incantatore»), facinus «azione malefica»
(invece scelus « delitto » è da cal, tagliare), etrusco
fasei «fattucchieria, malocchio», feciales (sacerdoti
fattucchieri che scagliavano maledizioni), fanum per
*fasnum «tempio, luogo di magia», fesine (ferine)
« cerimonie magiche ».
L’idea di magia si indicava anche con nomi di po-
poli: mago o medo (Persia) onde medicus, mederì
(curare), e poi meditare «pensare», Medea «la ma-
ga »; Paìones e Paionismós (canto anacietico pei mor-
ti delle battaglie); goetìa « magia nera », arte di Goti
o Geti o zingari o guitti; o anche con nomi generici
di eroi, dèi: greco arsen «maschio, capro» ted. arzn-
ei « medicina », it. arsenico « medicinale » ; it. guarire
connesso con ver « capro » (onde anche virus « me-
dicinale, veleno », ecc.). Lat. cur-are è da rad. car « nu-
trire », francese soin « cura » è connesso con sanus
«santo, nutriente» (onde besoin «cura» poi «bi-
sogno»), ted. heìlen «guarire» è connesso con heil-
ìg « santo » (rad. cal « nutrire ») e con etrusco hilari
(sacro a qualcuno).
La malattia è concepita come bastonatura: latino
tab-es, ted. kran\ (car, tagliare); la morte è divinizza-
zione oppure abbattimento: es. lat. mort-uus (rad.
mar, pestare); pestis « malattia, pestatura »; lues (con-
nessa con greco lyo « sciolgo ») è « dissolvimento » ;
marasma è connesso con mare (sciogliersi come ac-
qua). Lat. solvo « sciolgo » (greco lyo « sciolgo » è
eroso) è da sai, sei « mare ».
Il malocchio fu anche detto in greco phthónos
theón «invidia degli Dei» (rad. phth come in lat.
od-ére, da vod intensivo di vid : « guardare intensa-
mente » « invidere ».

440
VII. A m a r o , d o l c e . — L'amaro si indica con l’idea
di piccante, es. greco pik^-r-ós (rad. pie, piccare); ted.
bitt-er (rad. bit, pungere); in lat. amar-us vale «del
sapor del mare ».
Dolce si esprime con l’idea di nutrire: ted. sùss
«dolce» (rad. sa, nutrire), onde lat. in-dulgeo «uso
dolcezza » e ted. er-duld-en «pazientare ».
Il ted. Gluc\ affine al greco gly\-ys « dolce » indica
invece felicità; al lat. dulc-is «dolce» corrisponde in
greco dolìch-ós « lungo, alto » cioè « nutrito, cresciu-
to ». È la stessa semantica che ha dato al lat. altus « al-
levato» (rad. cab) il significato di «elevato» (1).
La parola miele è connessa con ted. Mehl « farina »,
da una rad. mol « macinare »; onde questa radice pas-
sò a indicare molte sostanze nutrienti o poltigliose;
ma l’idea di dolce che è in miele fu applicata alla mu-
sica, che i Greci chiamano mélos «dolcezza» (men-
tre gli Egizi esprimono l’idea di dolcezza con lo stru-
mento musicale) (2). Invece il greco hymnós (inno)
è da imene «sposalizio, canto nuziale» (rad. gam,
generare). Si nota qui che la parola greca gymnós
« nudo » da cui viene la parola ginnastica è connessa
con gàmos « nozze » e ci scopre una cosa interessante:
quella che nei tempi storici fu l’esibizione ginnastica,
era stata in tempi preistorici la rivista stagionale per
la scelta delle spose ai giovani diventati puberi. Per-
ciò essi si dovevano far vedere nudi: si doveva accer-
tare la loro idoneità sessuale. L’età in cui si faceva la
ginnastica in tempi storici era l’età in cui nei tempi
piu antichi questi giovani si sposavano. E le gare gin-
(1) Nelle lingue germaniche si ebbe invece il significato di «cre-
sciuto, adulto, anziano » e quindi di « signore, eroe » (ted. alt, Vec-
chio; held «celto, eroe»).
(2) L’ape in greco è detto mélitta « la mielante », ma non ha nulla
che vedere con essa il nome di Malta (Melila) che è simile a Mtl-eto,
Mil-azzo, e significa mole monte.

441
nastiche sono il residuo delle lotte per la scelta della
sposa. La ginnastica dunque non fu una invenzione
estetica del genio greco, come si va blaterando da chi
non se ne intende, ma la trasformazione di un’istitu-
zione di tutt’altra natura e significato.
V ili. G r a n d ezza , p ic c o l e z z a ; bu o n o e c a t t iv o . —
La piccolezza si indica o con nomi di popoli decaduti,
es. i Nani, o con l’idea di tagliato, mozzato. Il nome di
nano indicò un tempo un eroe, un uomo, un dio; fu
il nome di re dell’Assiria; e poi dié origine a nino
«bambino», ninnolo «balocco di bimbo», nenia
«canzone per bimbi, ninna nanna», onde anche
ninnare « cullare ». Il francese petit è da rad. pit (pun-
gere, tagliare, es. pezzo)-, lat. paulus è da *pap-ulus,
vale «pupetto, bimbo»; spagnuolo chico «piccolo»
è connesso con cece o chicco oppure con cicca, e vale
«tagliato, mozzato»; inglese little e ted. Klein «pic-
colo» sono entrambi da rad. col «tagliare» (1). It.
piccolo è da pivolo o pivello cioè « pupetto », cfr. lat.
pu(b)er, e it. pigolare da *pinola. Il ted. ztv-erg «na-
no» contiene la rad. della parola due (du, dividere):
vale dunque « mozzato ».
La grandezza si indica con l’anzianità (es. lat.
grand-ìs è il greco geront « vecchio »), o con nomi di
dèi e di popoli potenti: es. mago dié origine a sreco
mèga « grande » e a lat. magnus. Lo stesso dicasi delle
qualità buone; le cattive sono indicate invece con no-
mi di popoli schiavi o decaduti, o con divinità mal-
vage (perché di popoli nemici o vinti): es. ted. iibel
« male » e greco \6belos « cavallo, coboldo » fingi.
ugly «brutto» è forse connesso); brutto è il bruto;
cattivo è il captivus « lo schiavo » ; ted. b 'òse « cattivo »,

(1) Io sospetto che il suffisso tedesco letti che forma diminutivi è


eroso da \lein « piccolo >\

442
russo blesi it. basso è in origine il vesu (dio), il Besso
o Pascià; it. mal-vagio vale malo + veso e si trova an-
cora in cognomi italiani (Mala-vasi) e in Scandinavia
(dinastia dei Vasa) (1).
Lat. malus è il negro, greco mélas «nero»; ted.
Thor «m atto» (dio Thor) «duro, forte» passato poi
a significare «testa dura»; lat. daemon è il Tame
popolazione decaduta in seguito alla invasione indo-
europea. Si noti: lat. probus «bravo» greco pra[v)ys
« mite » è il re o ravo (in greco anche brabeùs) ; greco
eu-thys « diritto » (bene + dio, oppure « che corre
[théo] bene leu]), greco dys « male » (semplicemente
« dio » ma un dio di popoli sommersi) ecc. (2). Nelle
campagne dell’interno della Sicilia latino si usa per
« diritto ».
IX. D i g n i t à , v a l o r e , p r e z z o . — Il lat. vir-t-us è la
qualità del vir, il greco areté (virtù) la qualità del var
o Ares; il lat. Val-eo significa « sono Baal ». Il greco
àxios «degno» significa «che vale buoi» (inglese
ox — bue); lat. dignus è connesso con decet e questo
con dee, due (duce, dio). Tret-ium è « dignità di prete
o principe», prod-igium è da prode (greco pròtos,
principe); port-ent-um da Parto, «principe» (onde
anche fort-is). L’idea di comprare e vendere si espri-
me con nomi di animali: inglese buy «com prare»
(da cui busyness «affari») vale «scambiar buoi»,
greco poléin (vendere) « scambiar polli », lat. merc-ari
«scambiar pecore», lat. ven-dere «dare animali in
prezzo»; lat.^emere «comprare» è invece da *vem
(1) Arabo qebir « gran de » propriamente « c ap ro » « e abiro»: ingl.
big « grosso » è il becco, cfr. Scander-beg « Alessandro - magno, il signor
Alessandro » (turco bey, beg, becco, signore).
(2) Nota i Dasya indiani (demoni) e il nome ing'ese della mar-
gherita (daisy) « fiore-dio ». Nota etrusco Ubai « schietto » ted. càci
« nobile »: è il nome dei V ituli o Itali. Questo stesso nom e nella va-
riante eteri (veteri) indicò in etrusco i semi-liberi.

443
« girare » (cfr. vom-er « che rivolta la terra »), quindi
« baratto ». Stimare si dice « incensare, bruciar timo o
incenso », greco timào, lat. timeo o metuo (etrusco
mutu-\, lat. mentha)-, o anche lat. ver-eor da ver-.
« onorare il tir, stimare eroe ».

X. V e s t i t o . — Il lat. vestes significa <( fusto, albero,


fustagno»: è un ricordo dello abbigliamento vegeta-
le dei primitivi; il ted. \leid «abito» è connesso con
lat. col-us «conocchia» (rad. \el, girare) e ha dato
origine al nome della Parca Klotho «la filatrice»;
la parola cotone è connessa con lat. cut-io « cucire »
propriamente «legare» «far catenelle» (ted. \ette,
lat. cat-ena con idea di cosa che cinge, es. cat-ino,
greco \6tton «bicchiere» ecc.); la parola drappo (lat.
trabea) è connessa con greco trepo « avvolgere » e col
nome della Parca A-tropo (colei che avvolge il filo);
la parola sutor « calzolaio, cucitore » è connessa con
rad. sa « nutrire » onde sud-or « sudore » « cosa gras-
sa », ingl. sweat « sudore », e di qui poi l’idea di colla,
incollare, cucire (anche colla è connesso con cal nutri-
re); da su- (nutrire, grasso, dolce) è venuto il latino
as-su-esco « ammansisco, rendo dolce, avvezzo (vezzo
è da vit-ìum, e questo da vite «cosa attorta, stortu-
ra) (1). Il lat. ind-ustria è da induere « arte del vesti-
to»; industriosa è perciò la matrona che accudisce
alla filatura domestica. Vest-igio è traccia lasciata
dalla veste.
I nomi dei vestiti ricordano spesso i popoli che li
usano: camisia (ted. Hemd) è veste di camita; camau-
ro, gamurra o zimarra, veste di Gomer o Cimbro;
zendale, veste di Zendi o Santi o zingari; tunica,
veste di Tuni, o Tani o Tini (poi diventati povera

(1) Forse questa idea è in lat. ìur-idus (rad. cal, nutrire) V in


suc-idus (sudicio): « pieno di macchie di sugo ».

444
gente e contadini); mitra ted. Mùtze è benda di fabbro
o semita (inglese smith); greco Chitón (fenicio Keton-
eth) è veste di Geto o guitto o zingaro; greco himat-
ion it. manto (variante con n, erosa) è veste di camita,
santone, ecc. Altri nomi indicano «cosa che avvol-
ge » : drappo, tarb-ush, turb-ante (greco trépo « av-
volgo »), coltre (kjel, girare), calca (coperta e materas-
so) onde *colcarsi poi coricarsi; calceus « cosa cava,
scarpa», giubba e giacca e giaco valgono «coppa»
<( cosa cava » (cfr. coccio); il siciliano bunaca (giacca)
è forse «vestito di signore» (buono —dio); Martin-
gala « gala o gallone di Martino o guerriero » ; greco
s-téph-anos «corona» (tep, coprire, come in tappo,
tappeto, tab-arro); benda {vi, girare, lat. pitta, ted.
binden, legare); gonna «cosa cava» cfr. cunnus;
ber-etto, perché a forma di pera o cappuccio, ecc.

XI. L u c e . — L’idea di luce è espressa con nomi di-


vini o con nomi di corpi luminosi, astri ; acqua, fuoco,
metalli, fiori, che sono divinità: greco: théò «guar-
dare » connesso con theós « dio »; greco dér\o « guar-
do» connesso con Tar\ o drago (capro, dio) o con
dirus « divino» (onde anche dormio «aver visioni in
sogno», ted. Traum «sogno») (1); vid-ere connesso
con greco hyd-or « acqua », guatare con ingl. wat-er
« acqua » e bath « bagno », lat. spicio « guardare » con
specus «sepolcro acqueo», lat. mirar con mare, ted.
sehen con see « mare », lux con lacus (eroso da pela-
gus « superficie piatta » cfr. plaga, platus, Pelagonia,
ecc.); sei «splendere» con sol, greco {s)elios; ser
«splendere» con Weser (nome di fiumi, stelle ecc.)

(1) Greco trauma « ferita» è invece da ter «tagliare». Sop-ire è da


rad. so « nutrire, calmare » (cfr. lat. suavis), e greco (sv)eudo « dor-
mire » è connesso con (sv)edys « dolce, nutriente ». Dormio potrebbe
a rigore essere anche connesso con dolmen « sepolcro », propriamente
« dimora (men) di Tala o Tauro o fabbro (dol) ».

445
(onde poi *vaster, astrum); guardare da ted. warten
(che passò a significare « aspettare », cfr. lat. ex-
spedare) è invece « custodire in recinto » (gard'), ana-
logo a ted. hùten « custodire nella capanna o Hiite ».
Altre volte si esprime con idea di puntura o sensazio-
ne, o con quella di <( acuto, dardo » riferito ai raggi
del sole: es. oc-ulus «occhio» (rad. ac — acuto), gre-
co óp-somai « vedrò », ted. auge « occhio » greco
augé « raggio di sole ». I nomi dei colori sono generici,
e hanno assunto significati precisi per via di specializ-
zazione: lat. col-or è da rad. cal come cal-or (fuoco,
calore); greco chróma «colore» è connesso con car,
luce. Il ted. weiss «bianco» è connesso con vesu
(dio) o con vid- (videre), ingl. whìte « bianco » con
Bitu o Vito (dio) o con vid-ere. Il lat. vir-idis (verde)
con vìreo «cresco, ho forza» detto delle piante, la
parola rosso è in quasi tutte le lingue cavata dal no-
me del re e della razza aria, o dal nome del fuoco
(greco pyr); il blu, il glauco, il pallido, il giallo sono
da rad. cal, pai, indicanti luce in genere. Azzurro,
zaffiro, smeraldo, sono dal colore del cielo e del ma-
re; bisso è «color dell’a-bisso o m are»; turchese e
indaco dalla Turchia e dall’India; molti altri nomi
di colori derivano da nomi particolari: es. bigio
(= piceo, da pece); plumbeo, roseo, ecc. Molti nomi
di colori scuri o negri sono nomi di popoli arii poi
meticciatisi e diventati popoli di colore, es. bruno
«principe» indicò poi il colore oscuro; negro è «co-
lor del popolo della regione del Niger » (Niger, semi-
tico Nahar vale «fium e»; Nilo è variante); ^burnir
« berbero » propriamente « Gomer o Cimmerio » si-
gnifica anche «rosso», mentre lo stesso nome, di-
ventato da noi Mauro o Moro indica il nero. Inglese
fair «biondo» è il colore della fiera, che i francesi
chiamano fauve « fulva ». Il nome della fiera è fem-

446
minile in latino, es. bestia, belua, fera, felis «gatto»;
la ragione è che felis è esattamente il greco thélys
«donna», e fera è una variante (greco ther). La
cosa si spiega con l’origine della parola al tempo del
matriarcato, quando il totem era incarnato da una
donna; cosi come l’uso della parola capro per ma-
schio, lat. vìr {ver), greco arsen rimonta al tempo
della civiltà guerriera e maschile. Il lat. cras «do-
m ani» significa «con la luce» cfr. greco chrysós
« oro » e russo krasnìi « rosso ».

XII P a r e n t e l a . — Sono quasi tutti nomi generici,


indicano « il generante» e «il generato»: lat. nep-
os (da gen «generato, rampollo), corrisponde a ted.
hnech-t «ragazzo»; viceversa ted. En\el «nipote»
o è il francese uncle (lat. avuncutus « zio ») o è il
lat. ancus, ancilla (vacco, vengio, vitellino, cfr. an-
gelus e ang-ela che sono varianti); mater è * gamat-
er « generatrice », avo è * vav-us propriamente « bab-
bo»; la parola nutria postula una parola * genut-er
cioè genitrix. Il greco a-delphós «fratello» significa
«nato dallo stesso utero», da delphys «utero»;
lat. frat-er «fratello» vale «nutritore, fecondato-
re» forse perché in origine i fratelli usavano del-
le stesse mogli, o meglio perché tutti i membri fe-
condatori di una tribù si consideravano come fratelli.
L’it. cugino vale «della stessa cuccia» (it. cuscino
è anch’esso connesso con cuccia, la qual parola è
connessa con coccio e guscio « cosa cava » e con fran-
cese coucher « accucciarsi »); gem-ello è connesso
con rad. gam «fecondatore»; zìo è dio; ted. Tante
« zia» è «nutrice» (cfr. it. tata «padre»); garzone,
sicil. garzu « amante » è connesso con caro, caroccio,
sicil. caruso «ragazzo» che ha una variante, gar-
rusu, usato in significato di «pederasta passivo»

447
(reminiscenza greca?...)- Una varietà senza n della
parola ganza « amante » è gaza « fecondatrice »
(onde francese jaser «ciarlare, far la gazza» e in-
glese jazz «musica rumorosa»); e forse sono con-
nessi: cazzo (che non mi sembra da caput) e gonzo
« testa di cazzo ».

XIII. F a r e , a g i r e , c a u s a e c o l p a . — L’idea di fare,


creare, si indica col nome del dio; ted. mach-en «fa-
re» è connesso con mago o macco (onde macchina,
magnano, magnete, ecc.); ted. tu-n «fare» con tu
« dio »; greco poiéo « fare » cioè essere dio, essere Pa;
in lat. queo « sono ku, dio, posso » ; lat. possum « so-
no potis, signore, posso»; lat. patr-are «fare» cioè
essere padre. Lat. ag-ere « fare » può essere da rad.
ac « spingere, pungere » cfr. ac-utus; ma è anche
probabile sia da m e «sono vacco, sono capo»; ege-
món (in greco «duce») « vacco-pastore» affine ad
Ache-menidi « pastori di vacchi » e ad Aga-me-mnon
« padre {me) pastore {menon) di vacchi (Aga) ». Lat.
creo « sono re » (lat. rex è da * grec o vrec, ger « ge-
nerare»); lat. gero «faccio», cioè sono ger (greco
ger-as, anziano, capo tribù); lat. reus «reo» pro-
priamente « re» (che è causa di tutto).
Lat. causa, cosa, sono connessi con greco \y ó « fe-
condare » (i nomi di città Cosa, Cosentia significano
« fertile, terra altrice »), e connesso è ted. Hans « ca-
sa»; inglese shall «devo», propriamente «sono gal-
lo, capo {s-kalt), sono colpa io»; ted. Schulde «col-
pa»; lat. culpa è connesso» con greco \6lpos «il
seno che genera» (onde l’it. golfo «cavità»): invece
it. colpo è da cal, «tagliare»; greco Kólaphos
«schiaffo», lat. {c)alapa. Seno è da sa, nutrire (gre-
co sene mammella), e siccome nel seno ce il cuore, it.

448
senno (da seno) indicò anche sentimento, cfr. ted.
slnn (lat. sinus) e lat. sent-io «sentire, pensare».

XIV. I d e a d i e s s e r e . — Si esprime con la rad. wes


che vale « nascere, generare », quindi « essere viven-
te, essere dio, vesu, ver » (queste parole ne sono la vera
radice semantica). I verbi lat. viv-ere e greco zdo
« vivere » sono connessi con viv (essere papo, dio, al-
bero, animale; mentre il greco bivos «vita» è un
semplice sostantivo di ritorno) e con div (zdo =
djdo). Da questa stessa radice viene greco zéo «bol-
lire» «fermentare, essere attivo», e siciliano zitti
«fidanzato» detto anche di pollone che si innesta
o sposa ad altro albero; e forse anche it. citto «ra-
gazzo». Il siciliano zitti ci spiega l’esistenza del gre-
co zetéo «desidero» propriamente «sono amante»,
(zitti).

XV. P a r t i d e l c o r p o . — Fianco è variante con n


di floscio (lat. flaxus), «parte floscia del corpo»;
tergo è variante di torso, per somiglianza a torso di
verdura; petto cosi detto per somiglianza con le co-
stole di un pettine (lat. pecten; rad. pac, cosa com-
patta, legatura, intelaiatura); costa è cesta (cassa to-
racica) e poi rlenotò le singole parti di essa; dorso è
variante di torso; greco s-tergo «am are» propria-
mente « aver nel petto, avere a cuore » ; braccio è va-
riante di branca (* viranca, o da rad. vir « cosa at-
torta» o da vir «cosa verdeggiante»); bronco, bran-
chia, branco sono metafore; naso è da greco nèo
« scorre » perché vi scorre il muco (ciò significa an-
che il greco rhin «naso» connesso con rhéo «scor-
ro »), ma indicò poi sporgenza, oppure qui si ha una
confluenza di radici con * knasos « nodo, monte iso-
la»: es. Naxos, greco Nesos «isola», Naso e Naro

449
29. - L, o r ig in a d a l lin g u a g g io .
(città siciliane), Cnido «isola, nodo» (1) (it. nido
è invece da gen «generare» per *gnido); ted. Netz
« rete » da * kjiet « nodo ».
Collo vale colle, colonna, ted. hal-s «collo» è
connesso (e cosi ebraico hai « sopra » cioè « a monte
di»); palato vale «impalcatura di pali per soffitto»
quindi « volta » e gli Etruschi con questo nome {fa-
tando, variante con n) indicavano la volta celeste. It.
gamba è connesso con ted. gehen «andare», ted.
Beh « gamba » con greco baino « andare ». Delle
altre parti del corpo si è parlato sporadicamente nel
corso del libro.
XVI. A n i m a l i , a l b e r i , m o n t i , f i u m i , s o r g e n t e —
In genere sono indicati, come si è detto più volte,
con nomi indicanti divinità (cioè « il santo, il nu-
tritore»); solo qualche volta con parole indicanti
caratteristiche fisiche. Brenno è il capo dei Galli
(forse uguale a Bremo o Remo e a Bromo o Romo o
Romolo); Brenna è cavallo (eroso, dà renna), Bren-
na o Brenta, monte; Brenta fiume, Brentesion è la
città del cervo, Bronte la «città alta»; nelle varianti
senza n si ha (b)rozza « cavallo », Bretto, Bruto, ecc.
Thessales «divini» (greco theós, dio); Thes-protoi
«divini principi», A-thes-is «Adige, dio »; Tici-
num, Thessuinus, ecc.
Il nome di Pisa significa « città fluviale », cosi an-
che Pìs-aur-um «Pesaro». Talvolta il fiume è detto
«nutritore», es. Torre, torrente, Dora, Duero (rad.
tor, tar «nutrire»), Truentum (2), Treb-ula, Drava

(1) Questa semantica si potrebbe forse semplificare cosi: che il greco


nèos « isola » e le altre parole affini siano senz’altro metafore di naso,
nel senso di « sporgenza ».
(2) Probabilmente eroso da hydrount-on (nome anche del canale
di Otranto), connesso con greco hydor « acqua » e greco droùo (da
*hydrouaì) « scorro ». Nella varietà senza n, abbiamo Trito, onde

450
(cfr. greco trépho «nutrire»), Sir-daria, Amu-Da-
ria (1) ecc.
Greco ton « viola » da * viv-on,. lat. viola (* viv-
àio) sono dunque affini a frane, if (# vif) « tasso », a
pop-ulus ecc. It. mand-orla lat. amand-ula sono con-
nessi con lat. mand-ucare «cibo», e variante senza
n è madeira che in spagnuolo e in basco designa frut-
ta varie (pere, mandorle, ecc.): connessi sono i nomi
di Madrid e Madariaga. Alcune erbe odorose sono
dette «sante»: assenzio, menta, mirra (rad. cam,
serri)-, altre sono indicate come coccole (onde ad es.
cocaina, cucc-agna o isola delle frutta), altre come
alberi tombali: lauri (Lari), Dafne (cfr. greco ta-
phos « tomba »), lar-ix « albero lare ».
Fiume: rad. pel « girare » es. fl-umen o rad. cir
« girare » : es. ted. Rein « corrente » ecc. Le sorgenti
sono « sante » (cad. es. iCastalia, arabo ain da sain),
dive o produttrici: Feronia, Perenna (1), ted. Brun-
nen, (pozzo) ecc. È superfluo dire che Brunnen si
riallaccia a Brenno e Bruno «principe» cosi come
lat. fretus «mare, sorgente» a Protos, Bretto, ecc.
Lat. fovissa = la feconda.
l

XVII. Giuoco. — Idea di lotta: lat. lud-us {col


«tagliare», cfr. lit-is «lotta»), s-cherz-are, cfr. lat.
Tritone « animale m arino », Amphi-trites « il fiume che circonda il
m ondo» Tritogéncia (epiteto di Athena) «n ata dal m are» cioè ve-
nuta su dal mare come Afrodite, con cui in origine fu identica.
Athena è dunque di origine orientale e transmarina; ma siccome l’e-
piteto non si capiva piu ai tempi storici, si credette che Tritoneia
significasse « nata dal capo » (di Giove), perché il beotico T iitò
significava « testa ».
(1) Da ciò dobbiamo inferire che il nom e persiano di Dario si-
gnifica esattamente greco tyrannos « nutritore » a Dio » e forse è iden-
tico a Toro: infatti Sir-daria = Oxus cioè vacca; e Amou-daria ~
Jax-arte, cioè « il gran vacco » (Jacco + artu = . gr. orthós « alto »);
cfr. ted. Bach « torrente » cioè « Bacco, dio »; e di qui poi hac-ino,
Bacch-iglione, bicch-iere, ecc. Toro è quasi certamente parola erosa
da *vitaur-os. Var-dar — capro 4- fiume; Ta-tari o Tar-tari =. tori.

451
cert-ari «combattere» (rad. car, tagliare: cfr. curt-
us «mozzato». Altre volte, idea di ozio, piacere:
schola {col, «aula, stanza» dove si passa il tempo
leggendo e facendo musica, «scuola»), in greco
scholé «ozio»; i giuochi spesso si indicano col no-
me del re, che è quello che guida le parti in lotta:
es. tarocchi (da Tar\, re), scacchi (persiano shah
« re », briscola (lat. priscus, principe). Scopa invece
accenna all’azione di scopare, per una particolarità
del giuoco di questo nome (a sua volta scopa signi-
fica «capo, chioma, cesp-uglio» la quale ultima pa-
rola non è altro che la parola capo con s intrusa, e
cespit-e non è che il lat. caput con s intrusa) ; teff-are
vale « imitare e scimmiottare il bafo o babbo o per-
sonaggio»; francese moquer è connesso con M o\o
«guappo» usato nei paesi berberi, cfr. greco moich-
os «amante, maschio» (varietà mósch-os «vitello»);
greco mokdo-mai « far il mohfi, beffare ».
XVIII. I d e a d i t r o p p o . — It. troppo vale « truppa »
e truppa è « tribù » (— albero genealogico, cfr. ie.
* derva «alb-ero» lat. s-tirp-s); it. turba e torma so-
no varianti. Lat. nimis « troppo » vale propriamente
« una foresta » (lat. nemus — bosco, da can « taglia-
re», quindi « il bosco sacro, il tempio», cfr. greco
temenos «tem pio» da rad. tem «tagliare»); greco
àgan «troppo» è connesso con ted. wagen « u n va-
gone, un carro ». Inglese too, ted. zu « troppo », sem-
bra significhino « due, due volte ».
XIX. I d e a d i d a r e . — È espressa d’ordinario da ver-
bi che significano «aiutare», i quali a lor volta si-
gnificano «essere dio, essere protettore»: ted. hilf-
en «aiutare» propriamente «essere elfo, dio», gre-
co alphàno «dare», etrusco alapn «dono»; lat. do,
dono: «sono Tin o donno, sono Giove»; ted. geb-

452
en « dare », propriamente « sono capo », etrusco cv-ìl
«dono» (1).
XX. Se r e n it à , c a l ma . — Idea di nutrire: lat. seg-
nis (rad. sa, nutrire); greco hésych-os «tranquillo»
(stessa radice, ma in forma meno erosa), lat. cal-
m-us (cal, nutrire); idea di luce: lat. ser-enus (cfr.
sero « a giorno fatto » poi « sul tardi » onde il signi-
ficato di «sera»); lat. tranqu-illus della stessa radice
di it. « attrac-care » « assicurare, avvolgere con fu-
ni ». Fune è connessa con fieno (2), onde si facevano
i legami; il ted. fess-el «legam e» è connesso con
lat. fasc-es e con it. fusto; cfr. anche ted. fest «soli-
do » propriamente « legato ».

XXI. G u e r r a . — L’it. guerra è connesso con ver


«capro, guerriero»; il lat. bellum è da duellum «di-
visione, contesa » e forse anche contemporaneamen-
te connesso con greco pól-em-os « guerra » e con gre-
co ballo «colpire» (confluenza di radici). Qualche
volta la guerra è indicata come grido, clamore: so-
malo lalh «guerra» connesso con greco alala «gri-
do di guerra»; ted. hjìeg «guerra» connesso con
greco kfàzo «grido» e lat. clang-or «clamore» e
grac-ulus « che gracchia ». Il friulano sigar « grida-
re» è forse connesso con ted. siegen «vincere, com-
battere» (lat. sica «spada»); il greco sigào invece

(1) Le rad. do e geb possono anche significare «spezzare», perché


il concetto di dare si assimila a quello di « dividere, distribuire »; que-
sto concetto è in greco nómos « legge, distribuzione in parti uguali »
da némo « dividere ».
Abbiamo visto altri modi di rendere questo concetto: p. es. Iat.
vovere da *vove-Jovr (offrire a Giove); ted. schcnhcn « dare " - « ve--
sare » (connesso con etrusco ceka « tazza »), ecc., vedi il capitolo
« L'onomatopea e il linguaggio », in fine.
(2) Lat. funus « funerale » è invece connesso con greco phonéo
« uccidere », rad. pan « tagliare », cfr. malese bum « uccidere ».

453
significa «tacere»: esso è tratto da sigillo «segno
impressione» (rad. sig «incidere») con cui si assi-
curava la chiusura dei plichi contenenti cose segrete.
Da sigillo è purè derivato stelo « moneta rotonda co-
me un sigillo » e it. sigla (insieme di lettere o abbre-
viazioni come usa nei sigilli).

XXII. F a m e , s e t e . — Sono indicate con la stessa


idea di nutrire: lat. sitis «sete» (greco silos «fru-
mento» rad. sa come in sat-ius; lat. fam-es rad. fa
come in vescor e pascor; greco dipsa « sete » e dcip-
rtoti «pranzo», rad. ta, nutrire, che si trova anche
in greco déndron « albero ». Il vino che è una bevan-
da è indicato con la stessa parola che indica il fieno
(lat. foenus) e il pane (lat. panis): greco (v)oinos
«vino» è infatti una semplice variante, cfr. greco
phoinix «la palma da dattero, la nutrice». Sorb-ire
è metafora «ingoiare d’un tratto come si fa con le
sorbe m ature»; sorbus è da rad. so «nutrire» (cfr.
ted. Sorgeri «curare» cioè «nutrire»). Il néttare
(greco nè-\tar) è la bevanda degli dei (da ne « non »
e greco \teino «uccido») «che rende immortali».
Generalmente la si spiega diversamente: nec «m or-
te)), cfr. lat. nex e tar «senza»; questo tar sarebbe
l’elemento contenuto nella parola greca ater « sen-
za». Ma è un errore: ater è da * sater e indica sepa-
razione, come in lat. sed « ma » e sine « senza » e
come ted. sondern che ne è l’esatto corrispondente
nella variante con n: non esiste dunque un elemen-
to ter con significato «senza».
Altro nome per indicare la fame è il ted. Hung-er
che con tutta probabilità significa «uncino, crampo
allo stomaco»; e il greco limós che è o da col «ta-
glio, rodo» (come lima), o da cal «nutrire»; si usa
anche Boùlìmos che si crede composto con limós (1)
ma è forse nome indicante «lupo», al figurato «la
lupa, la fame ». (Se cosi fosse, corrisponderebbe esat-
tamente al lat. valemus «grandioso», cioè «dio »:
si noti anche che in Boùlìmos la i è lunga come Ve
di valemus).
Per indicare bevanda si usano anche parole deri-
vate dalla parola coccio nel senso di tazza; es. it.
chicch-era vale «tazza»: cic-oria, cic-uta indicano
erbe con le quali si preparano bevande.
XXIII. M e n t ir e v a l e « id e a r e c o n l a m e n t e , in -
v e n t a r e » . — Il greco p-seùd-os «menzogna» è

connesso con greco (s)eud-o « dormire », quindi «so-


gno, illusione». Lat. him-ago vale «forma di uo-
mo », lat. macula (2) è « imagula », piccola immagi-
ne», e ha dato origine a it. macchia e maglia. L’it.
bugia è da (b)usìa «far la bava, vantarsi» proprio
dei bambini; infatti le forme dialettali dell’Alta Ita-
lia hanno bauscià « millantarsi », friulano bausàr
« bugiardo » e babà « parlare ». Invece francese bou-
gie «candela» è creduto derivare da un nome di
città africana, ma io suppongo sia «chiarore come
di piccolo buco ».
XXIV. C e r c a r e , t r o v a r e . — It. cercare è da circa o
circolo «andare in giro». Ingl. tas\ «cercare» è
«frugar le tasche». It. trovare è connesso con greco
trèpo «volgere» e francese trou «buco»: quindi
«sfruconare, cercar nel buco». Ted. suchen «cerca-
re » è probabilmente connesso con lat. sequi « segui-
re» «andar sulla traccia»; ted. finden «trovare» è
forse connesso con fondo : « pescar nel fondo ».
(H Può essere invero la stessa parola limós allo stato non eroso, o
con bue: « fame da bue ».
(2) Il cognome italiano Macola deriva invece dal nome Ermacora.

455
XXV. G r a t it u d in e . — Lat. gratus vale « legato con
graticcio» (crates), rad. cer «cosa attorta» cfr. lat.
cert-amen «venire a scontro, avvinghiarsi, arruffar-
si », greco kartalta = cesto. Greco kjste « cesta » è '
connessa con kyo «generare» e eh a- essere aperto:
vale « cosa cava », cfr. ted. Kiel, canale. La parola it.
costa indicò in origine la cesta del torace, onde greco
(k)ostéon è l’osso, lat. ossum. Invece lat. ostium
(uscio) è connesso con vesta (casa, edifìcio): « aper-
tura della casa », o forse anche con os, oris « bocca ».
XXVI. V ic in o , l o n t a n o . — Vicino vale « della stessa
casa o vìcus »; lat. prope « presso » è da pro-ped « che
è avanti ai piedi» (onde propit-ius «vicino, amico,
favorevole»); presso è da premere, pressare. Lontano
postula una parola *longi-tanus «di terra lontana»;
a sua volta lat. longus è connesso con francese planche
lat. lanx, che significa «piatto, pianura» (cosi come
latus « largo » è da platus « piano ») (1). Il lat. proc-ul
«lontano» vale «principe, proco» quindi «distinto
dalla massa, in disparte»; cfr. privus. Altri spiega da
pro-cello «andar avanti».
XXVII. F r e t t a . — It. fretta, rad. pir, pungere; solle-
cito, rad. sii, sul «pungere» (es. lat. sulcus «terra
scavata»; sor-ex «roditore» ted. sauer «acido, cor-
rosivo»; ingl. sore «afflitto»); it. solletico è variante
di sollecito. La rad. sii in sìlice significa «contun-
dente » oppure « splendente, scintillante » (cfr. greco
s-élios « sole »), a causa del fuoco che si sprigiona dal-
la selce; in lat. sil-iqua significa «nutriente ».
XXVIII. N u m e r o , m is u r a , p e s i . — Numero è con-
nesso con greco némo « dividere» rad. can; lat. num-

(I) T.'incese wide « larg o » non è n!fro ebr il francese vide


« vuoto » (che quindi offre spazio); il ted. breit « largo » vale « pra-
to » (lat. platus onde latus è connesso con pratum).

456
mus è variante: «divisione, moneta spicciola»; gre-
co nómos è «distribuzione in parti eguali» quindi
« legge » ; greco nomeds « pastore », colui che fa leg-
ge nella tribù; greco arith-m-ós «num ero» è da rad.
car « dividere ». Ritmo è variante e vale « cadenza,
divisione del tempo».
Tempo è da temno « dividere »; ma le varie stagio-
ni e i giorni si indicano con l’idea di luce: lat. aestas
«estate» connessa con greco \aio e (k)aitho «bru-
ciare», lat. haus- «seccare» (onde austerus «secco,
arido, severo» austrum «vento secco, scirocco»:
quest’ultima parola è connessa con greco s\irrós
«secco»); lat. hiems «inverno» greco cheimón è
connesso con rad. sham « santo, nutriente » e accen-
na all’acqua che nutre: cfr. ebraico Sham-aim «cie-
lo », greco hyo « piovere » cioè « nutrire » (rad. su)
ecc. Con hiems è connesso lat. im-b-er « pioggia » e
um-b-ra, propriamente « nube, nubilosità », rad. sam,
cfr. francese sombre « fosco ».
Peso è da rad. punt «pungere, premere» (latino
pond-us «ciò che preme»). Inglese pound significa
«pondo» e indica la libbra. Quest’ultima parola è
connessa con greco labrys, lat. lap-is «pietra» (da
*\alap, kalpe, Alpe, lava), perché i pesi anticamente
erano costituiti da pietre di un peso controllato. Dol-
laro, tallero, talento sono connessi con la rad. tal, che
indica il metallo; cfr. ted. s-thal «zinco», it. folla
«latta», ted. Tell-er «piatto di metallo».

XXIX. — Per indicare l’idea di ritorno « di nuovo »


il lat. usa re, es. re-verti (ritornare). Questo re non è
abbreviato da retro (che è da re-tiro «trarre indie-
tro»), ma significa propriamente re, cioè «capo»
quindi « tornare da capo ». L’inglese usa a-gain (do-
ve gain ~ ted. gehen « andare », quindi « andando

457
sempre»). Il ted. usa riic\ che significa dorso, o
wieder che significa «guidare, dirigersi contro)) e
passò quindi a indicare l’idea di rimbalzo.
L — L’idea di abitare richiama idea di altu-
u o g o .
ra, cfr. greco \eimai « giaccio » e \ym a « cima », lat.
cima, e coma (« parte superiore dell’albero » poi « ca-
pelli, chioma»); greco tópos «luogo» cfr. ingl. top
« cima »; greco \óros « luogo » cfr. slavo gorà, mon-
te; lat. maneo «abitare» e mons «abitazione» poi
monte. Tuttavia lat. loc-us, ted. lagen sono da rad.
plac, «piano».

# * *

Alla fine di questo capitolo, che avrebbe potuto


essere non già di poche pagine, ma di parecchi volu-
mi, mi si riaffaccia alla mente il vecchio quesito che
per secoli e secoli ha sollecitato lo spirito umano: il
linguaggio è formazione naturale o convenzionale?
O, come dicevano i Greci, è sorto per natura (physeì)
o per convenzione (<thesei)? In principio, vi ho mo-
strato che esso è sorto come cosa naturale, e che sa-
rebbe assurdo ammettere il contrario; ma, a un cer-
to momento, quando si entra nel terreno dell’evolu-
zione semantica, sembra che la convenzione si sia
sostituita alla natura, e l’uomo abbia assegnato nuovi
significati e nuove funzioni alle parole con meditate
ragioni, e perciò con un certo quale suo arbitrio. Va
bene che l’assumere un nuovo significato metaforico
non dipende dal fatto di una sola persona — anche
quando questa possa illudersi di agire in piena liber-
tà. — ma dipende da tutto un ambiente e da un com-
plesso di tradizioni da cui siamo permeati ed a cui
non possiamo sottrarci; ma è anche vero che nessuno

458
impone a chi parla di scegliere una metafora piutto-
sto che un’altra, cosi come nessuno in questo mo-
mento obbliga me, per chiarire meglio il mio pen-
siero, a ricorrere a un paragone piuttosto che a un
altro. L’ambiente è dunque causa determinante ma
non necessaria; e in questo iato ce posto per un re-
lativo libero arbitrio e per la convenzione. Il vecchio
problema filosofico si risolve cosi come quasi tutti i
problemi concernenti le cose supreme: la ragione e
il torto stanno da una parte e dall’altra, e in ciascuna
soluzione contraria si trova un granello di verità.
Solamente, non è quel carattere convenzionale che
avevamo creduto; non è nato da una pattuizione o
da un accordo di persone che si concertano, ma, sulla
trama delle suggestioni di tutto un ambiente, da una
libera intuizione accettata dal consenso della comuni-
tà dei parlanti. Il linguaggio ci scopre cosi la sua ve-
ra natura di creazione estetica, e di prodotto di una
elaborazione fantastica, che a una materia eterna-
mente volubile e fluttuante, nata dagli abissi del tem-
po, ha dato l’impronta della contingenza, vale a di-
re l’impronta del tempo e degli ambienti, con tutta
la ricchezza di determinazioni della loro vita sto-
rica. '

Milano, agosto 1945.

459
APPENDICE

A C C EN T O P RIM ITIV O E A C C EN T O STORICO

La storia dell’accento ie. è un esempio tipico di


compromesso fra le esigenze della fisiologia e le in-
fluenze dell’analogia. Il principio fondamentale che
regola l’agglutinazione degli elementi formanti la
parola è l'enclisi. La quale in origine era un prin-
cipio generale, cioè non limitato ad alcune categorie
di parole, come fu poi nelle lingue storiche: ciò vuol
dire che erano enclitici sia i sostantivi, sia i verbi,
sia quelle parole (originariamente sostantivi) che
nello stadio storico ci appaiono in forme fossili, con
funzioni di pronomi (es. gr. min), avverbi (es. gr.
potè = putto, figlio, quindi <( una unità », « una vol-
ta »), negazioni (es. gr. o u\ da oun\ — unghio, cosa
piccola), preposizioni, congiunzioni, suffissi, desi-
nenze, ecc.
L’enclisi è un fenomeno di natura essenzialmente
meccanica: una parola accostata ad altra e formando
con essa una unità tende a perdere il suo accento o
per lo meno la sua energia originaria. E qui inter-
vengono complicazioni che introducono fra le lingue
caratteri distintivi suscettibili di valere come indizi
ai fini di stabilire le linee di parentela.
In origine non esistevano, in una lingua aggluti-
nante in senso lato come doveva essere l’ie., se non

461
monosillabi facenti parola a sé. Ora, nella giustappo-
sizione di due monosillabi, può accadere che ognuno
di essi conservi il suo accento, o che il primo mono-
sillabo conservi esso solo l’accento. Del primo tipo
sono le lingue germaniche e celtiche, del secondo il
latino e il greco. Il ted. durch-bóhren (forare) ha
due accenti, nel gr. pró-dromos (prodromo) il se-
condo elemento è trattato come enclitico; e cosi nel
lat. praé-ceps, àrti-jex, trt-pod, praé-fica, àcci-piter.
Questi due tipi di composizione si generalizzarono
nelle lingue rispettive per via di estensioni analo-
giche. Nelle lingue del primo tipo avvenne che l’ac-
cento del primo monosillabo si conservò nei casi in
cui tale monosillabo conservò il suo valore seman-
tico; ma dove esso lo perdette, il monosillabo ebbe
tendenza a diventare proclitico. Così si spiega che
accanto a dùrch-bóhren si abbia in tedesco er-blicfen
«guardare», e nelle lingue celtiche questa proclisi,
attenuando le iniziali, sviluppò la tendenza alle ero-
sioni. Per converso, nelle lingue germaniche la persi-
stenza dell’accento sull’elemento primitivo sviluppò
la tendenza a\Yaccentuazione della sillaba radicale.
A partire da questo stadio, tutti gli elementi aggiun-
ti posteriormente alla parola con funzione di suffissi
furono trattati da enclitici, cioè perdettero l’accento,
e la tendenza all’accentuazione del radicale produsse
la semplificazione dei suffissi e delle desinenze, per
ragioni fisiologiche. Infatti, nell’ie. una vocale ac-
centata non può sostenere se non due sillabe atone,
al massimo tre, in altri termini una parola non può
essere che al massimo bisdrucciola; ma siccome quan-
do è bisdrucciola ha bisogno di un accento sussidia-
rio (che cade naturalmente oltre le due prime sillabe
atone), allora avvenne che nelle lingue ove si con-
solidò l’accentuazione radicale si ebbe la semplifica-

462
zione dei suffissi e delle desinenze, mentre nelle altre
si ebbe la presenza nella stessa parola di due accenti,
dei quali l’ultimo, cioè l’accento sussidiario, assunse
col tempo la funzióne di accento principale. La pre-
senza latente dell’altro accento è però denunziata
da una tendenza a quella forma d ’accento impropria-
mente detta regressiva, e che non è se non la forza
latente dell’accento originario.
Perché il verbo era nell’ie. enclitico? Ma per la
semplicissima ragione che qualsiasi parola aveva la
capacità di diventare enclitica, e il verbo, sia perché
d’ordinario posposto al soggetto, sia perché origina-
riamente monosillabico o al massimo bisillabico, era
naturalmente esposto a questa funzione. Si osservi
che nel greco le enclitiche sono o monosillabi o bi-
sillabi; e che questi ultimi hanno, allo stato isolato,
l’accento sulla seconda sillaba. Questo accento non
è originario, ma è dovuto ad analogia. Un monosil-
labo enclitico è sempre assorbito completamente; ma
se l’enclitica è un bisillabo, per la legge fisiologica
delle tre sillabe, si trova non di rado per metà fuori
dell’azione dell’accento reggente, e allora assume un
accento sussidiario. Praticamente allora l’enclitica ci
si presenta come parola a sé con un proprio accento,
e questo ha indotto la persuasione che il suo accento
naturale sia sulla seconda sillaba.

O r ig in e d e l l a r egol a t r is il l a b ic a in gr eco e in l a -
t in o Originariamente l’ie. sopportava le bisdruccio-
.
le; ma ciò essendo contrario alle nostre tendenze fi-
siologiche, ne venne che: 1) o si sviluppò un accento
sussidiario nell’ultima sillaba; 2) o che l’accento prin-
cipa e si sposto in avanti. In latino ebbe luogo sol-
tanto questo secondo processo, cosi si spiega che
ccipiter sia diventato acctpiter, cónficio sia diven-

463
tato confido eco. In greco ebbero luogo entrambi i
processi, e se si sviluppò un accento sussidiario que-
sto diventò principale ma con tendenza regressiva,
es. phatós «detto» à-phatos «indicibile». Per spie-
garci la differenza dell’accentuazione greca e della
latina, bastano le poche osservazioni che seguono. In
entrambe le lingue l’accento non può ritrarsi oltre la
terzultim a sillaba; ma mentre in greco è decisiva,
per rapporto alla natura e sede dell’accento, la quan-
tità dell’ultima sillaba, in latino è decisiva la penul-
tima. Questa regola in latino è molto tardiva; parole
come confectus, perfectus mostrano che in origine
l’accento era sulla terzultima, cosi come in greco.
Per di più, in latino esistono indizi di una influenza
della vocale finale sull’accento sul tipo greco: p. es.
in dominó-rum, rosa-rum, Yo e Va sono lunghe solo
perché accentate, non essendoci alcuna ragione per-
ché debbano essere lunghe : e la vera ragione del loro
accento sta nella lunghezza dell’ultima sillaba (rosa-
rum sta per *rosa-so-om). Ed ecco ora le osserva-
zioni:
1) La parola primitiva non conosceva né lunghe
né brevi, e fu l’accento che, conferendo una mag-
giore intensità alla pronunzia di una sillaba in con-
fronto ad altre, creò la quantità lunga. Per conse-
guenza, anteriormente al tempo in cui per ragioni
morfologiche (contrazione, aplologia, ecc.) si determi-
nò il divorzio fra quantità e accento, la sillaba lunga
non era se non la sillaba su cui cadeva l’accento; e
dopo avvenuto il divorzio, le vocali lunghe, non giu-
stificate da ragioni morfologiche, costituirono le
tracce della primitiva accentuazione.
2) In latino, le parole composte tendono a ridur-
re allo stato di enclitica il secondo elemento, es.

464
]ù(iiypiter. In greco il secondo elemento diventa en-
clitico in certi casi (normalmente se ha significato
passivo), conserva l’accento e priva dell accento il
primo elemento in altri casi (normalmente se ha
significato attivo): es. cheró-plectos «percosso dalle
mani», chero-mysés «che macchia le mani».
3) Se il secondo elemento appartiene alla cate-
goria di quelli che si trasformarono in suffissi, esso
ha l’accento se conserva un valore significativo, di-
venta invece enclitico se il suo valore semantico si
oscura, ed esso acquista la funzione di mero stru-
mento morfologico: es. gr. pat-ér «colui che nutre»,
rhet-ér «colui che sta parlando», rhét-or « il par-
lante per mestiere; od-ónt « il mangiarne, il dente»
(formazione antica), éd-ont «mentre mangiava, nel
mangiare ».
4) Era naturale che, via via che si consolidava
una struttura morfologica, i procedimenti venissero
tipicizzati per l’influsso potente dell’analogia. È per
questo che i participi in -nt del greco non hanno
l’accento nel presente, ma lo hanno nell’aoristo for-
te: le ragioni della differenza stanno in condizioni
primitive che presto vedremo, ina poi si schematiz-
zarono in categorie meccaniche.
5) Il verbo, se era breve, diventava enclitico della
parola precedente che generalmente era il soggetto;
ma se il soggetto aveva una lunghezza che esclu-
deva, per l’equilibrio prosodico, una ulteriore incor-
porazione, o se il verbo per la sua lunghezza dove-
va necessariamente assumere un accento, allora ave-
va un accento proprio: es. autòs semamei « egli
segna » esclude che sèmànei possa essere trattato co-
me enclitico, dovendo in ogni caso avere accento.
Se dunque il verbo ha un accento proprio, si ve-

465
30. • L ’o r ig in e d e l lin g u e g g io .
rificano questi casi: a) l’accento tende a ritrarsi in-
dietro verso l’inizio della parola e oltre, quindi even-
tualmente sulla preposizione con cui esso è compo-
sto, oppure sull’aumento o sul raddoppiamento (1);
b) tutte le aggiunte posteriori alla radice furono trat-
tate da enclitiche, ma siccome un accento non può
sostenere più di due sillabe, ne venne che la voce
verbale si sforzò di ridurre a questa misura le sil-
labe atone che seguivano all’accento, sia mediante
contrazioni sia mediante apocopi sia infine con tra-
sporto in avanti dell’accento: es. gr. ly-o-ma-i per
ly-o-ma-mi; gr. é-pher-o-n per é-phe-ro-mi (e questa
fu la ragione per cui sorsero le desinenze dei tempi
storici); e-pher-ó-me-n per é-pher-o-me-mi. Parimen-
ti in lat. àm-ab-a-mi diventò amàbami o àmabanr.
nella forma storica amàbam abbiamo un risultato di
entrambe le forme.
6) I suffissi diventati puri strumenti di coniuga-
zione perdettero autonomia e furono trattati da en-
clitici, specie nelle forme piene del verbo che erano
forme originariamente accentate; ma alcuni di essi
conservarono l’accento, sia che conservassero coscien-
za del loro valore semantico (come in gr. od-ónt lat.
{e)d-ént «dente»), sia che fossero aggiunti a forme
verbali di grado zero, che sono forme originariamen-
te enclitiche, quindi atone, e perciò tendenti a diven-
tare eventualmente proclitiche: così si spiega la dif-
ferenza fra gr. pheyg-ont e phyg-ónt «fuggente».
7) Quanto precede è fondamentale per capire la
genesi dell’accento latino. I suffissi participiali in
-{m)p, ~{n)t in greco normalmente perdettero
l’accento, in latino invece conservarono l’accento ori-

t i ) in tal caso il verbo, essendo eclidco del prefisso ed atono,


assume norm almente il grado zero.

466
ginario: si confrontino gr. sàlping (cantante, lira),
phér-ont (parlante) e lat. ferént-, aud-àc- (osante),
vel-óc- (corrente). Ciò spiega perché in latino l’ac-
cento si stabilizzò sulla penultima (talora sulla ter-
zultima) in quanto questo accento del suffisso ridu-
ceva agevolmente allo stato enclitico le desinenze sia
monosillabiche che bisillabiche; mentre nelle lingue
che ebbero tendenza a stabilizzare l’accento sulla
radice, atonizzando i suffissi, si produssero due serie
divergenti di sviluppi: a) o si perdettero le desinen-
ze (germanico, irlandese); b) ovvero, dove non si
affermò la tendenza ad apocopare le desinenze (es.
greco), l’accento del radicale, a causa dell’allungarsi
della parola, diventò instabile, tendendo o a spo-
starsi in avanti (es. ly-o-me-n, ly-ó-me-tha), ovvero,
non riuscendo a ridurre sotto il suo dominio il suf-
fisso, a, restituire a quest’ultimo la sua autonomia
prosodica (es. stat-ì\-ó-s).

A — Ed ora due parole sull’apofonia. La


po f o n x a .
dottrina dell’apofonia ie. (vedi pag. 83) postula per
le radici ie. tre gradi: grado zero, grado normale,
grado forte: p. es. gr. letpó «lasciare» ha lip (zero),
leip (normale), loip (norm.) Un confronto col san-
scrito dove p. es. budh- (sapere) ha nel grado forte
baudh induce il sospetto che questa apofonia sia il
risultato di una contrazione interna per caduta di
una consonante in seguito a raddoppiamento. Non
essendoci alcuna ragione perché « debba dare au, io
suppongo che baudh è sorto da *ba-budh con ca-
duta della b interna.
Per sgonfiare la vescica di questa macchinosa dot-
trina dell’apofonia, basta un confronto con l’apofo-
nia siciliana, fenomeno non del tutto sfuggito ai
romanisti, ma neanche del tutto bene osservato. Ecco

467
alcuni esempi: nuova (nuovo), nova (nuova); liestu
(lesto), lesta (lesta). E in verbi:

(io) rìnnuovu priestu


(tu) tinnitovi priesti
(egli) rinnova presta
infinito rinnuvari pristari

Poiché conosciamo la lingua da cui derivano que-


ste parole, è evidente che qui non si può parlare di
tre forme di radici. E allora è chiaro trattarsi di
fatti puramente meccanici. Io credo che nel siciliano
ci sia una sopravvivenza delle intonazioni greche.
Perciò nitovtt — nóòvu, nova = nòóva, nel qual se-
condo caso l’intonazione acuta è dovuta a influsso
della tendenza (greca) a considerare lunga la desi-
nenza a della prima declinazione. E per analogia
l’intonazione fu estesa alle terze persone dei verbi.
Applicando queste idee al greco, p. es. leip-o (la-
sciare), se ne deduce: radice normale lep-, variante
lop-; radice enclitico-proclitica e perciò atonizzata
lip. Tema del presente leip- da *le-lip e questo da
*le-lep; tema del perfetto loip- da *lo-lip e questo da
*lo-lop con originaria armonia vocalica come nel
caucasico. Il secondo aumento del perfetto greco es.
lè-loip-a, senza armonia vocalica, è di origine tardi-
va, e forgiato con la vocale degli aumenti. I raddop-
piamenti dei presenti come di-do-mi (dare) continua-
no lo shwa ie. delle radici atonizzate.
Nel participio perf. le-loip-{v)5t, vot per vont, vent
(erosi in ont, ent) è il participio del verbo essere. Que-
sto participio (v)et si trova forse anche in hed-ys (gra-
do zero), hed-eì-a (normale) « dolce », e parole simili.

468
INDICE DI COSE NOTEVOLI

(Sono omessi gli argomenti trattati in precisi capitoli, pei


quali vedi l ’apposito indice; tuttavia alcuni di tali argo-
menti sono elencati anche qui, quando di essi sia fatto
cenno anche in altri capitoli, oltre quelli che sono loro
espressamente dedicati).

Accento latino primitivo 359, n. i. Eolo 211.


Alfa privativo 162. Erosione 85, 94, 100, 137, 201 sgg.
Ainu (parole) 67; plurale ainu e Etimologia (nuova concezione del-
plurale semitico 169. la) 197 sgg.
Agglutinanti (lingue) 57. Etruschi 232.
Apofonia indoeuropea 83, 467. Faggio (linea del) 24-5.
Articolo incorporato 88 , 94 sgg., Femminile (desinenze del) 128,
138, 271, 419-20. 148.
Aspirazione, principio di erosione, Ginnastica 320, 441.
85. Grafia (errore della g. troppo pre-
Athena Tritogeneia 314, 450-1. cisa) 191, 298, 391 sgg.
Atlantici (lingua degli) 274 sgg. Grammatica (cosa è la) 171.
Aut 105, 384. Greci vocaboli nel Lazio 236-7,
Bantu (lingua) 63; sua utilità nel- 321.
la morfogonia 244; limiti entro Grimm (legge di) 151.
cui può essere utile 192 sgg. Hispania variante di Hesperia 406.
Ber, suo significato in nu-per, Incorporati (lingue) 66-7; incor-
octo-ber ecc. 405. porazione in latino 365.
Berberi, detti dagli Arabi Khumir, Indigitazione 272.
cioè Gomer, Cimmerii, 277. Indistinzione di K, T, P, 77, 85,
Borea, Bori (Pirri), Boristene ecc. 1"5 sgg., 196, 399.
211.
Indoeuropeo (esiste 1’— ?) 52 sgg.;
Cabbaia 123-7.
il lessico ie. è estraneo all’ie.?
Centauri 59.
Ciclopi 212, v. Orazio Coelite 240. 387.
Cinese, parole piene e vuote 127; Latino, sua affinità con lingue del-
(sostrati nella toponomastica) l’Asia Minore 237.
127; cinese ed ebraico 371. Libertà, significato originario, 146.
Cosmetici 242-3. Liguri 138.

469
Lingue, loro genesi 52 sgg.; 1. Preistori (residui) nei nostri co-
centum e satem 78, 167, 392. stumi 253-4.
Mare, lo conoscevano gli Arii? Q e P nell’ie., 157.
231. Radici (significati primitivi delle
Meillet 51-2, 141. radici) sec. Meillet 51, 141-2;
Mitologia semitica e ie. 280, 314. (nuova idea delle) 162, 200,
Monosillabiche (lingue) 55. 423-33.
Monosillabismo primitivo 121. Razza rossa 243.
N efelcustico 177, 341. Re del bosco (il simbolo del)
Nomi latini in or, tor, loro origine presso gli Egizi 119, 277.
244, 343, 347; n. di popoli S scambiato con V, 201.
138 sgg.; indicanti sensazione Schmidt Giov. e il suo metodo
112, 198; indicanti fontane 198, 387.
235; di venti 210; di punti Semantica 195; sistematica e sua
cardinali 280; (storpiatura dei) utilità 198.
98. Sfinge, nome del 're di Egitto 90.
Nunnazione semitica 177. Significati vaghi delle parole pri-
Ogige 271. mitive 49 sgg., 51, 142, 191.
Omofoni fortuiti 142, 169, 186. Silentium 265.
200. Sostrati toponomastici 59, 70.
Onomatopea 214. Stato costrutto semitico e ie. 158.
Orazio Coelite 233, 240. Suoni primitivi e loro imprecisione
P e Q nell’ie. 157. 151, 191.
Paleoeuropea (lingua) 52. Svastica 178.
Paleontologia linguistica, criterio Ta iniziale nella toponomastica
ed errore 19, 35-9, 82. berbera 276.
Parole pili antiche e meno anti-
Teucri e Tocari 238, 321.
che 160, 262; si possono creare?
Titoli antichi diventati articoli 259.
162, 170; decadute 245-6; con
significati contrarii 258-9; si Tocari v. Teucri.
possono far confronti tra parole Varianti con n e senza n, 89 sgg.,
appartenenti a lingue di fami- 139; in m e in n, 298.
glie diverse? 166. Vocali iniziali di radice (non ci
Participio in K, T, P 266-7. sono) 86.
Periodo indiviso ario-semitico 159, Vocali prostetiche 87.
177. Vocalismo ie. e apofonia 83.
Plurale ainu e semitico 69: a rad- Zingari (lingua degli) 69, 220;
doppiamento 211, 337. toponomastica zingaresca in
Poesia (che significa) 213, 320. Europa 69.

470
INDICE DEI CAPITOLI

arte I: Glottologia indoeuropea e scienza


del l i n g u a g g i o ............................................. 9-116
La linguistica e il problema della razza aria 18
La glottologia in d o e u r o p e a ................................. 40
Consonanti e v o c a li.................................................. 41
Segni c on ven zion ali.................................................. 43
Principali leggi della glottologia ie. . . . 43
Classificazione delle l i n g u e ................................. 45
Alcune altre leggi fonetiche dell’ie. . . . 71
Origini dell’a r tic o lo .................................................. 96
Equivalenza delle occlusive primitive . . . 108
L’onomatopea e il linguaggio . . . . 109

P a r t e II: Etimologia e preistoria . . . 117-330


I. Alfabeto e struttura del linguaggio . 117
II. Il nome di M ila n o ............................... 136
III. Vocabolario e preistoria . . . . 148
IV. Sessualità e linguaggio . . . . 148
V. Struttura intima del vocabolario . . 155
VI. Origine unica o multipla del linguag-
gio? .......................................................... 164
VII. Numerali e croce gammata . . . 172
V ili. La mitologia come preistoria . . 181

471
IX. Etimologia e semantica . . . . 186
X. Curiosità omeriche: A) L ’isola dei Ci-
clopi .......................................................... 207
B) Il regno di Circe . . . . 213
XI. Scoperta dei metalli . . . . 218
XII. L ’enigma di P ila t o ............................... 224
XIII. Le più antiche popolazioni italiche . 229
XIV. Il viaggio di Enea . . . . . 235
XV. Il dolore a n t i c o ................................. 240
XVI. Tastiera m ito log ic a................................. 247
a) Battesimo precristiano, 247; b) un
culto singolare (il santo negro di Ai-
done), 248; c) Il cinghiale Adone, 250;
d) Le mura di Gerico, 251.
XVII. L’etimologia come arte . . . . 254
XVIII. Curiosità l e s s i c a l i ............................... 258
XIX. La lingua degli Etruschi . . . 263
XX. La misteriosa Atlantide . . . . 269
XXI. Origine dei Camiti e dei Semiti . . 274
XXII. N om i propri: I p. 285; II . 291
XXIII. Curiosità lessicali I I ................................. 299
XXIV. N uove curiosità lessicali e di storia
a n t ic a .......................................................... 314

Par t e III : Grammatica comparata e seman-


tica ......................................................... 331-459
Origine delle forme grammaticali (Morfogonia
comparata) . . 331
D e c l i n a z i o n e ......................................... ........ • 333
D p a l e .................................................................. • 336
P lu r a le ..................................................; . . • 336
Plurale norm ale. . . . .. . . . 339
Genitivo . . . . . . ., . . 343
Dativo .................................................................. 344
L o c a t i v o .................................................................. 344
Formazione dei nomi . . . . . ■ 346
Coniugazione . . . . . . . ■ 349

472
Coniugazione p a s s i v a ......................................... 364
Sul deponente e sul passivo latini 366
Pronomi .................................................................. 368
Pronomi di terza p e r s o n a ................................. 371
Pronomi raddoppiati e composti . . . . 374
I c o m p a r a tiv i.......................................................... 376
Negazioni . . . . . . . 377
P r e p o s i z i o n i .......................................................... 378
Congiunzioni e a vv e r b i......................................... 383
Fenomeni f o n e t i c i .................................................. 385
I. Scambio di m e di b (p, v) . 400
II. Violazione della legge di Schleicher-
P o t t - G r i m m .......................................... 402
III. Elenco di parole erose . . . . 405
IV. Iotizzazione e palatalizzazione . 408
V . S intrusa e T intrusa . . . . 409
VI. Scambio 1 = d (d = l) . 410
VII. Scambio d — r ......................................... 411
Elenco di pretesi sostrati: A) Sostrati latini . 411
B) Sostrati te d e s c h i......................................... 416
Sull’origine di alcune forme satem e dell’ar-
ticolo i n c o r p o r a t o .......................................... 419
Labilità delle v o c a l i ......................................... 420

Semantica s is te m a tic a ......................................... 423-459


La formazione delle radici semantiche e la
confluenza delle r a d ic i................................. 430
I. Idea di città, 433; II. Sporgenza e cavi-
tà, 434; III. Parole esprimenti idee contra-
rie, 435; IV. Parte centrale di una cosa, 437;
V. Velocità, cammino, 437; VI. Piacere, do-
lore, malattia, medicina, 438; VII. Amaro,
dolce, 441; V ili, grande, piccolo, buono,
cattivo, 442; IX. Dignità, valore, prez-
zo, 443; X. Vestito, 444; XI. Luce, 445;
XII. Parentela, 447; XIII. Fare, agire, cau-
sa, colpa, 448; XIV. Idea di essere, 449;
XV. Parti del corpo, 449; XVI. Animali,
alberi, monti, fiumi, sorgenti, 450- XVII
Giuoco, 451; XVIII. Idea di troppo, 452;

473
XIX. Dare, 452; XX. Serenità, 453; XXI.
Guerra, 453; XXII. Fame e sete, 454; XXIII.
Mentire, 455; XXIV. Cercare, trovare, 455;
XXV. Gratitudine, 456; XXVI. Vicino, lon-
tano, 456; XXVII. Fretta, 456; XXVIII. N u -
mero, misure, pesi, 456; XXIX. Idea di ri-
torno, 457; XXX. Luogo, 458.

Appe n d ic e : L ’accento primitivo e l’accento sto-


rico ..........................................................................
F inito di stampare il 20 luglio
j 949 per conto della Soc. Anon.
Editrice Valentino Bompiani coi
tipi della S. A . » L a Tipografica
Varese» -Varese-Viale M ilano, 20 .

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