Il massacro delle foibe rappresenta una delle tragedie più complesse e dolorose della storia italiana del
Novecento, un evento che si colloca all’interno di un più ampio contesto di tensioni nazionali, politiche ed
etniche che affondano le radici nei decenni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale. Tra il 1943 e il 1945,
nelle regioni della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, migliaia di persone furono arrestate, torturate
e uccise dai partigiani jugoslavi di Tito, con molte di loro gettate nelle foibe, profonde cavità carsiche
naturali, spesso ancora vive e legate insieme con filo di ferro. Le vittime furono prevalentemente italiani,
ma anche dissidenti politici, oppositori del regime comunista jugoslavo e persone sospettate di essere
legate all’amministrazione italiana o all’occupazione nazista.
Per comprendere le radici di questa tragedia, è necessario guardare agli eventi storici che hanno
caratterizzato i rapporti tra italiani e slavi nella regione. Dopo la Prima Guerra Mondiale, con il Trattato di
Rapallo del 1920, l’Italia ottenne l’Istria e parte della Dalmazia, terre che erano abitate da una popolazione
mista di italiani, sloveni e croati. Durante il ventennio fascista, il governo italiano attuò una politica di
italianizzazione forzata, vietando l’uso delle lingue slave, chiudendo le scuole e le istituzioni culturali
slovene e croate e imponendo severe misure di repressione politica contro gli oppositori. Queste azioni
alimentarono un crescente malcontento tra la popolazione slava, che si organizzò in movimenti di
resistenza, spesso repressi con durezza dalle autorità italiane.
L’occupazione italiana della Jugoslavia nel 1941 durante la Seconda Guerra Mondiale aggravò ulteriormente
la situazione. Il regime fascista, insieme ai nazisti, attuò una politica di repressione brutale nei confronti
della resistenza jugoslava, con rappresaglie, incendi di villaggi e deportazioni di civili nei campi di
concentramento. Questo generò un forte risentimento nella popolazione locale, che vide nell’Italia una
potenza occupante e nemica. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con il crollo del Regio Esercito e
l’abbandono delle regioni da parte delle autorità italiane, i partigiani jugoslavi presero il controllo di molte
aree dell’Istria e della Dalmazia, dando inizio alle prime ondate di violenze contro italiani considerati
collaborazionisti del fascismo o semplicemente nemici politici.
Una seconda ondata di massacri avvenne nella primavera del 1945, quando l’Armata Popolare Jugoslava
occupò Trieste, Gorizia e altre zone della Venezia Giulia. In questo periodo, molte persone vennero
arrestate con accuse spesso generiche e senza processo, per poi essere deportate, giustiziate o gettate
nelle foibe. La violenza non risparmiò nessuno: furono colpiti non solo ex fascisti e militari italiani, ma
anche civili, sacerdoti, funzionari pubblici e semplici cittadini. Molti furono costretti a firmare false
confessioni sotto tortura prima di essere uccisi. Il numero delle vittime è ancora oggi oggetto di dibattito tra
gli storici, con stime che variano tra 4.000 e 11.000 morti.
Parallelamente agli eccidi delle foibe, si verificò un altro dramma di enormi proporzioni: l’esodo giuliano-
dalmata. Tra il 1945 e il 1956, circa 250.000-300.000 italiani furono costretti a lasciare l’Istria, Fiume e la
Dalmazia, abbandonando le loro case, i loro beni e le loro terre per sfuggire alla violenza e alla persecuzione
jugoslava. Questi esuli trovarono rifugio in Italia, ma furono spesso accolti con ostilità e diffidenza, poiché
nel clima politico dell’epoca, dominato dalla contrapposizione tra comunisti e anticomunisti, parlare delle
foibe e dell’esodo era scomodo e politicamente divisivo. Per molti anni, la tragedia delle foibe fu ignorata o
minimizzata dalla storiografia ufficiale e dalla politica italiana, soprattutto perché la Jugoslavia di Tito, pur
essendo un regime comunista, si era distanziata dall’Unione Sovietica ed era diventata un importante
interlocutore per l’Occidente durante la Guerra Fredda.
Solo molti decenni dopo, a partire dagli anni ‘90, con la fine della Jugoslavia e l’emergere di nuovi studi
storici, si iniziò a parlare apertamente di questi eventi e a riconoscere la sofferenza delle vittime e degli
esuli. Nel 2004, con la legge 92 del 30 marzo, è stato istituito il Giorno del Ricordo, celebrato ogni 10
febbraio. Questa data è stata scelta perché il 10 febbraio 1947 fu firmato il Trattato di Parigi, con cui l’Italia
cedeva ufficialmente l’Istria, il Quarnaro e la Dalmazia alla Jugoslavia, sancendo la fine della presenza
italiana in quelle terre. Il Giorno del Ricordo è oggi un’occasione per commemorare le vittime delle foibe e
dell’esodo giuliano-dalmata attraverso cerimonie ufficiali, eventi culturali e iniziative di sensibilizzazione
nelle scuole e nelle istituzioni.
Questa giornata ha un valore particolarmente significativo perché restituisce dignità e memoria a una
tragedia che per troppo tempo è stata dimenticata. Ricordare gli eventi delle foibe non significa riaccendere
vecchie tensioni o alimentare rancori, ma riconoscere una ferita storica che ha segnato profondamente
migliaia di famiglie italiane. Comprendere ciò che accadde in quegli anni aiuta a costruire un futuro basato
sul rispetto della verità storica, sulla riconciliazione tra i popoli e sulla difesa dei diritti umani, affinché simili
tragedie non si ripetano mai più.