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Biblioteca Einaudi - Roberto Esposito Terza Persona

Il documento esplora la nozione di 'persona' come fulcro di dibattiti filosofici, etici e giuridici, evidenziando la sua centralità nella bioetica e nei diritti umani. Tuttavia, l'autore, Roberto Esposito, sostiene che la categoria di persona possa contribuire alla separazione tra vita umana e diritti, suggerendo che la sua espansione possa essere alla base del fallimento dei diritti umani. Il saggio invita a riflettere su un concetto di 'terza persona' che supera il meccanismo escludente della persona, richiamando a una unità originaria dell'essere vivente.
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Biblioteca Einaudi - Roberto Esposito Terza Persona

Il documento esplora la nozione di 'persona' come fulcro di dibattiti filosofici, etici e giuridici, evidenziando la sua centralità nella bioetica e nei diritti umani. Tuttavia, l'autore, Roberto Esposito, sostiene che la categoria di persona possa contribuire alla separazione tra vita umana e diritti, suggerendo che la sua espansione possa essere alla base del fallimento dei diritti umani. Il saggio invita a riflettere su un concetto di 'terza persona' che supera il meccanismo escludente della persona, richiamando a una unità originaria dell'essere vivente.
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Biblioteca Einaudi

232

Terza persona
Mai come oggi la nozione di persona costituisce il riferimento
imprescindibile di tutti i discorsi - loso ci, etici, politici - volti
a rivendicare il valore della vita umana in quanto tale. È cosi
nell'ambito della bioetica, dove cattolici e laici, pur in contrasto
sulla sua genesi e la sua de nizione, convergono sulla valenza
decisiva dell'elemento personale: solo in base ad esso, la vita
umana è considerata intangibile. Ed è cosi sul piano giuridico,
lungo un percorso che lega sempre più strettamente il
godimento dei diritti soggettivi alla quali ca di persona: questa
appare l'unica in grado di riempire lo scarto tra uomo e
cittadino, diritto e vita, anima e corpo, aperto n dalle origini
della nostra tradizione. La tesi radicale e inquietante di questo
saggio è che la nozione di persona non sia in grado di
ricomporre tale scarto perché è proprio essa a produrlo. Più che
un semplice concetto, quello di persona è un dispositivo di
lunghissimo periodo il cui e etto primario è la separazione,
all'interno del genere umano e anche del singolo uomo, tra una
zona razionale e volontaria fornita di particolare valore e
un'altra, immediatamente biologica, spinta dalla prima verso la
dimensione inferiore dell'animale o della cosa. È contro la
potenza performativa di tale dispositivo, di origine romana e
cristiana, che Roberto Esposito, proseguendo una ricerca
loso ca originale e innovativa, apre una ri essione inedita
sulla categoria di impersonale: terza persona è quella che,
sottraendosi al meccanismo escludente della persona, rimanda
all'originaria unità dell'essere vivente.

Sommario:
Introduzione. -I. La doppia vita (la macchina delle scienze
umane). - II. Persona, uomo, cosa. - III. Terza persona.

Roberto Esposito insegna loso a teoretica presso l'istituto


Italiano di Scienze Umane. Tra i suoi libri, tradotti in diverse
lingue, Einaudi ha pubblicato: Communitas. Origine e destino
della comunità (1998 e 2006), Immunitas. Protezione e negazione
della vita (2002), Bíos. Biopolitica e loso a (2004)

ISBN 978-88-06-18781-1
€ 17,00
Introduzione

1. Se c’è un postulato indiscusso nel dibattito contemporaneo,


esso riguarda il valore universalmente conferito alla categoria
di persona. Che ci si riferisca agli ambiti della loso a e della
teologia, oppure a quelli, più specializzati, del diritto e della
bioetica, essa resta la fonte di legittimazione per ogni discorso
‘teoreticamente corretto’. Non si tratta di un'opzione
concettualmente elaborata, ma di un'evidenza che sembra non
avere bisogno di ulteriori dimostrazioni: da qualsiasi
prospettiva si parta, oggi non è neanche concepibile attivare
uno sguardo critico su quella che già negli anni Cinquanta Maria
Zambrano ebbe a de nire «la parte più vivente della vita umana,
il nucleo vivente capace di attraversare la morte biologica»1. Da
allora - anche se orientato a intendimenti diversi e in rapporto a
de nizioni disomogenee del termine - tale presupposto non è
mai venuto meno, neanche nella fase calante del movimento
personalista. Proprio questa è stata, anzi, l'occasione per un
nuovo investimento di interesse sul paradigma in questione:
«Mort le personnalisme, revient la personne» - ha annunciato
qualche anno addietro Paul Ricoeur. Se quello «non è stato così
competitivo da vincere la battaglia del concetto», questa «resta
il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche,
economiche e sociali» del nostro tempo2. Da qui un rilancio
sempre più intenso dell'idea di persona che ha trovato la sua
fonte di ispirazione più so sticata in uno speci co segmento
della fenomenologia primonovecentesca3, ma che taglia in
maniera trasversale l'intero quadrante della loso a
contemporanea4, mettendo in relazione da un lato le tradizioni
analitica e continentale e dall'altro la concezione laica e quella
cattolica.
In particolare questa seconda convergenza - mai dichiarata, e
anzi sovente negata, benché operante nei suoi e etti di senso - è
ben riconoscibile nella discussione, spesso aspramente
polemica, che da più di un ventennio si è aperta sul terreno
scivoloso della bioetica. Dove lo scontro in atto verte sulla
individuazione del momento preciso in cui un essere vivente - o
su quale tipo di essere vivente - possa essere considerato
persona, ma non sulla valenza decisiva che tale attribuzione
comporta. Che la vita sia dichiarata personale a partire dall'atto
del suo concepimento, da un certo grado di sviluppo
dell'embrione o dall'evento della nascita, ciò non toglie che a
conferirle valore incontrovertibile sia comunque il suo ingresso
nel regime della persona. Rispetto al quale non importa neanche
che esso sia avvenuto per via naturale o per decreto divino, di
colpo o per passaggi successivi: ciò che conta è la soglia al di là
della quale qualcosa di genericamente vivente assume una
pregnanza che ne cambia radicalmente lo statuto. Non mi
risulta che, pur nel dissenso più profondo su ciò che possa, o
debba, essere de nito persona - nonché sulla distinzione,
anch’essa altamente problematica, tra persona potenziale e
persona attuale5 - si sia mai messo in dubbio, o quantomeno
aperto un interrogativo di fondo sull'assoluto primato
ontoteologico di ciò che, per consuetudine o per scelta,
chiamiamo persona. Se c’è un tacito punto di tangenza tra le
concezioni, apparentemente contrapposte, che si rifanno alla
tesi cristiana della sacralità della vita e a quella, laica, della sua
qualità, esso poggia proprio su questa prevalenza presupposta
del personale sull'impersonale: può essere sacra, o
qualitativamente apprezzabile, soltanto la vita di ciò che è in
grado di fornire le credenziali della persona.
Se dal lessico della loso a, o della bioetica, si passa a quello,
più determinato, del diritto non solo si ritrova la stessa
presupposizione, ma se ne riconosce anche la radice
concettuale. Si tratta del nodo che la concezione giuridica
moderna ha da tempo stretto tra la categoria di persona e quella
di soggetto di diritto in una modalità che fa del primo termine
la condizione di pensabilità del secondo e viceversa: per
rivendicare quelli che hanno assunto il nome di diritti
soggettivi - alla vita, al benessere, alla dignità - bisogna essere
preventivamente entrati nel recinto della persona, così come,
all'inverso, essere persona signi ca godere di per sé di quei
diritti. Come è stato ancora recentemente a ermato con una
formulazione ripresa dagli autori più diversi, «il diritto di avere
diritti signi ca oggi il riconoscimento a ogni essere umano dello
statuto universale di persona, indipendente dalla sua
cittadinanza nazionale»6. In proposizioni del genere c’è
qualcosa di più di quello che potrebbe sembrare un semplice
truismo - dell'asserzione che ogni uomo deve essere considerato
tale. Si tratta dell'idea, sempre più di usa, che pertenga proprio
alla categoria di persona la funzione di riempire,
concettualmente e dunque prima o poi anche di fatto, lo iato
ancora drammaticamente aperto tra uomo e cittadino che
Hannah Arendt aveva messo a nudo già alla ne della seconda
guerra mondiale. Se la Arendt rintracciava l'origine di tale
scarto nella mancata estensione, o nella voluta sottrazione,
della cittadinanza a interi gruppi di uomini, spinti così nella
condizione insostenibile di apolidi, l'orientamento che va
prendendo corpo con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del
’48 è che esso possa essere sanato soltanto da una nozione
fornita di un tasso di universalità maggiore di quello presente
nel concetto moderno di cittadinanza. È da tale convinzione,
oggi tanto estesa da potere essere considerata implicita, che
nasce l'invito, o l'auspicio, continuamente riproposto, a
transitare dallo stato di individui a quello di persone, come
titola un in uente saggio di Martha Nussbaum7.
Quanto ai giuristi veri e propri, essi articolano ulteriormente
questa posizione lungo due vettori di senso apparentemente
divaricati, ma assimilati dal comune riconoscimento della
centralità strategica della persona. Da un lato questa, per la sua
stessa portata universale, è individuata come l'unico campo
semantico di possibile sovrapposizione tra le sfere, separate
dall'ideologia nazionale della cittadinanza, del diritto e
dell'umanità. Ciò vuol dire che solo attraverso il lessico della
persona risulta concepibile e praticabile una nozione come
quella di diritti umani. Secondo Luigi Ferrajoli ciò non signi ca
cancellare la speci cità di altri tipi di diritti - quali quelli
pubblici, riconosciuti ai soli cittadini, o politici, riservati a
coloro che, tra questi, siano «capaci di agire» -ma includerli
all'interno di un cerchio più ampio costituito da quei diritti
fondamentali spettanti a tutti gli esseri umani dotati dello
status di persona. Nel momento in cui le dinamiche di
globalizzazione scompaginano i con ni degli Stati nazionali,
spingendo la prassi giuridica in una dimensione sempre più
internazionale, i diritti umani non spettano «ai soggetti in
quanto cittadini, ma unicamente in quanto persone»8. A
ulteriore conferma di questa tesi, pur se in una cornice
argomentativa diversa, Stefano Rodotà desume la nuova
rilevanza del concetto di persona - destinato anche per lui a
sostituire quello, più ristretto, di cittadino - dalla centralità del
corpo nella realtà concreta delle e ettive condizioni di
esistenza. In questo caso «lo slittamento dell'attenzione dal
soggetto alla persona, testimoniato dalla prevalenza di
quest’ultima parola in gran parte della letteratura recente»9,
non nasce dal suo superiore grado di astrazione, ma, al
contrario, dalla sua maggiore aderenza alla situazione materiale
dell'individuo vivente. Se prima la concretezza della vita era
esclusa dalla concezione formale del soggetto giuridico, oggi
«siamo di fronte a una saldatura tra umanità e diritto, che
assume la forma della compenetrazione tra persona e diritti
fondamentali»10. Anche in questo caso, insomma, quella di
persona appare l'unica categoria capace di uni care uomo e
cittadino, anima e corpo, diritto e vita.
2. Ma le cose stanno veramente in questo modo? Basta una
rapida occhiata al panorama mondiale per sollevare più di un
dubbio in proposito. Il numero crescente di morti per fame,
guerra, malattie epidemiche è ampiamente espressivo del grado
di ine ettualità di quelli che sono stati chiamati diritti umani.
Se con questo termine si voleva alludere all'ingresso dell'intera
vita umana nel cerchio protettivo del diritto, si è costretti ad
ammettere che oggi nessun diritto è meno garantito di quello
alla vita. Come mai? Da dove origina questa divaricazione
crescente tra enunciazione di principio e pratica e ettiva
proprio nel momento in cui l'idea di inviolabilità della persona
umana è divenuta la stella polare di tutte le loso e sociali di
ispirazione democratica? Non doveva, la categoria della
persona, costituire il punto di de nitiva giuntura tra diritto e
vita, soggettività e corpo, forma ed esistenza? Naturalmente si
può sempre rispondere - come spesso si fa - che essa non è
abbastanza estesa da produrre gli e etti desiderati. Che la sua
a ermazione resta parziale sul piano della quantità e
approssimativa su quello della qualità. Che per quanto
annunciata, invocata, stampata su tutte le bandiere, l'idea di
persona non è ancora saldamente insediata al cuore delle
relazioni interumane.
La risposta contenuta nelle pagine che seguono va in una
direzione diversa, se non opposta. In esse si a accia l'ipotesi, più
inquietante, che il sostanziale fallimento dei diritti umani - la
mancata ricomposizione tra diritto e vita - abbia luogo non
nonostante, ma in ragione dell'a ermarsi dell'ideologia della
persona. Che esso vada concettualmente ricondotto non alla sua
limitatezza, ma alla sua espansione. Non, insomma, al fatto che
non saremmo ancora entrati a pieno nel suo regime di senso, ma
a quello che non ne siamo mai davvero usciti. Naturalmente con
questa formulazione eccessivamente sintetica, e anche
volutamente drastica, anticipo una conclusione che nel libro
verrà presentata in maniera assai più articolata e dialettica.
Intanto perché, come vedremo, la categoria di persona è fornita
di tale complessità interna da renderne oltremodo di cile la
p
riduzione a un solo ordine di signi cati - come n dall'inizio
risulta dalla sua oscillazione costitutiva tra semantica giuridica
e linguaggio teologico, protrattasi no a oggi nel doppio
registro, laico e cattolico, che la connota. Ma la cautela
ermeneutica è suggerita anche da un'altra, e forse più rilevante,
considerazione, questa volta di carattere storico. Alludo alla
circostanza che il generale rilancio della categoria, databile alla
ne della seconda guerra mondiale, si con gura come replica
quasi dovuta al vero e proprio attacco che essa aveva subito da
parte di un lone di pensiero eterogeneo nelle sue modalità
espressive, ma che proprio nella decostruzione del concetto di
persona aveva trovato il più intenso punto di uni cazione
interna.
Alla sua origine, situata nei primi anni del XIX secolo, vi è la
commistione, e il reciproco in usso, del nuovo sapere biologico
con quelli della loso a e della politica. Se ho dato particolare
rilievo a questo connubio - e all'opera del grande siologo Xavier
Bichat nella quale esso comincia a pro larsi in forma quasi
archetipica - è per la convinzione, argomentata nel corso di
tutto il testo, che il passaggio, e ancora di più il salto, di
paradigma, all'interno di ogni scienza dell'uomo, avvenga
attraverso l'incorporamento di un elemento estraneo
proveniente da un altro lessico disciplinare. In questo senso ho
cercato di rintracciare il ruolo decisivo che hanno giocato prima
la linguistica e poi, attraverso di essa, l'antropologia nel
processo di generale biologizzazione della politica che oggi ha
assunto il nome di ‘biopolitica’. Le analisi dedicate alla teoria
organicistica del linguaggio di August Schleicher e dei suoi
successori, nonché quelle rivolte a un'antropologia a sua volta
inclusiva di elementi di zoologia, delineano un percorso di
sempre più radicale contestazione della nozione moderna di
persona come centro di imputazione giuridica e soggetto
razionale di azione politica. La teorizzazione - avanzata da
Bichat all'interno del sapere medico, e poi ‘tradotta’ da
Schopenhauer in quello loso co e da Comte in quello
sociologico - di una doppia falda biologica all'interno di ogni
g pp g g
essere vivente, una di tipo vegetativo e inconsapevole, e un'altra
a carattere cerebrale e relazionale, avvia un processo di
desoggettivazione destinato a modi care drasticamente il
quadro della concezione politica moderna. Nel momento in cui
si pensa che l'uomo sia internamente attraversato dalla
tensione tra due forze eterogenee, e anzi determinato, nelle sue
passioni e nanche nella sua volontà, da quella più aderente alla
semplice vita riproduttiva, viene meno lo stesso presupposto su
cui poggia il paradigma politico moderno. Se l'individuo,
immerso nella corporeità cieca della propria vita vegetativa,
non è in grado di governare neanche se stesso, come potrà aver
intenzionalmente dato luogo all'ordine politico al punto da
derivarne i propri diritti soggettivi? In realtà - è la conclusione,
diversamente declinata, di tutti questi autori - l'organizzazione
della società, tutt’altro che dalla libera volontà dei cittadini e
dalla sovranità da essa istituita, dipenderà piuttosto da un dato
biologico a entrambe preesistente e immodi cabile nel suo
assetto complessivo.
Quando questo lone biopolitico - inizialmente privo di
particolari connotazioni ideologiche - incrocerà prima
l'antropologia gerarchica di ne secolo e poi quella, decisamente
razzista, degli inizi del Novecento, il quadro muterà
rapidamente. Il punto di svolta va individuato nel trasferimento
del principio della doppia vita dall'ambito del singolo vivente a
quello della specie umana nel suo insieme: è questa adesso ad
apparire tagliata in due zone giustapposte fornite di diverso
valore e dunque di di erente diritto alla sopravvivenza. Ciò è
l'esito di uno spostamento paradigmatico che va anche al di là
della semplice contaminazione lessicale tra discipline di erenti.
Quello che in esso si registra è una sorta di e etto retroattivo, o
di rimbalzo prospettico, in base al quale l'in usso della biologia
sulla politica viene preventivamente caricato di signi cato
politico aggressivo ed escludente. Il commutatore semantico di
questa vera e propria mutazione genetica della concezione
moderna, più ancora del vecchio organicismo linguistico, è
un'antroposociologia a sua volta declinata in chiave di zoologia
p g g
comparata. Per essa l'umanità non è che l'insieme,
in nitamente operabile, di tipologie antropiche di erenziate in
base alla loro relazione, di contiguità o di distanza, rispetto alla
specie animale. Più che origine dell'uomo - come aveva
sostenuto Darwin in un programma di ricerca ripreso e
rovesciato dal sociodarwinismo - l'animale diventa così il punto
di divisione, all'interno del genere umano, tra specie di uomini
separati dalla relazione con la vita e dunque anche con la morte,
nel senso che la vita agevolata degli uni risulta direttamente
proporzionale alla morte coatta degli altri. Come in questa
stretta tanatologia vada in frantumi qualsiasi idea di
uguaglianza formale tra soggetti forniti di volontà razionale è
del tutto evidente. Ma è negli anni Trenta del Novecento che il
progetto di depersonalizzazione, avviato con altre prospettive
nel secolo precedente, trova un punto di assoluto non ritorno.
Più che loso camente decostruita, la persona,
immediatamente schiacciata sul suo nudo referente biologico,
appare letteralmente devastata.

3. Ma, anche in questo caso, l'apparenza corrisponde in tutto


alla realtà? Senza negare gli evidenti elementi di contrasto tra la
cultura della persona e i saperi, o i poteri, che ne hanno inteso
prosciugare la fonte, il libro adotta una prospettiva trasversale
che rende problematica una risposta pienamente a ermativa.
Dal punto di osservazione in esso istituito, continuità e rotture,
piuttosto che negarsi frontalmente, si dispongono in un quadro
più complesso che sfugge alla linearità del modello dicotomico.
Il tentativo è quello di sdoppiare lo sguardo - o meglio di
dislocare i fenomeni su un doppio piano sovrapposto - in una
forma che non separi le fratture di super cie dallo strato
geologico in cui esse si aprono. Secondo tale ottica, di
orientamento archeologico o topologico, quella che appare una
negazione di principio può con gurarsi come una
complementarità contrastiva, vale a dire come una piega
interna alla gura più ampia cui intende contrapporsi. Ora
questo di erente modulo prospettico va applicato sia al fronte
di attacco aperto, lungo la linea appena ricostruita, nei
confronti della categoria di persona, sia alla risposta che, alla
ne della guerra, si è voluta dare in suo nome. Abbiamo visto
come il nazismo, compiendo, e insieme rovesciando, la critica
biopolitica alla tradizione moderna, schiacciasse la persona sul
corpo, individuale e collettivo, che ne è portatore. Come ha
dimostrato precocemente Levinas11, al cuore del suo progetto
mortifero vi è, infatti, l'eliminazione di ogni elemento di
trascendenza della vita umana rispetto al suo immediato dato
biologico. Non può, dunque, sorprendere che il rilancio in
grande della nozione di persona, avviato sulle ceneri ancora
fumanti del regime nazista, fosse rivolto a riaprire uno scarto, di
carattere trascendentale se non ontologico, tra il soggetto e il
sostrato biologico che lo sottende. d'altra parte un qualche
dislivello nei confronti del corpo era già implicito nel nucleo
genetico dell'idea di persona - intesa come maschera che
aderisce al volto dell'attore, senza tuttavia identi carsi con esso.
La tradizione cristiana, che presto si appropria del concetto,
ponendolo addirittura al centro della gura trinitaria, tende ad
approfondire quello scarto caricandolo, per di più, di un preciso
signi cato meta sico. Per quanto indissolubilmente legata a un
corpo vivente, la persona non coincide integralmente con esso e
anzi trova il suo elemento più intrinseco precisamente in quella
non coincidenza che le consente il transito nella vita
ultraterrena. Si tratta di una connotazione tanto costitutiva da
riproporsi, naturalmente secolarizzata, nel dualismo cartesiano
tra res cogitans e res extensa e, attraverso di esso, nell'intera
cultura moderna.
Ma l'elemento di maggiore durata, rispetto al signi cato e al
destino del concetto, è quello ssato dal diritto romano. Anche
in questo caso - e anzi in esso più che mai - non vanno a atto
diluite le discontinuità, anche radicali, che ne scandiscono la
storia interna e, tanto più, la separano dalla concezione
giuridica moderna. In nessun modo intendo proporre una
proiezione in avanti di un apparato concettuale legato al suo
tempo e incomparabile con la semantica soggettivistica che, a
partire da un certo momento, ha segnato tutta la storia
ulteriore del diritto, come è stato ampiamente messo in luce
dalla letteratura in argomento. Ciò non toglie, tuttavia, la sua
persistenza sotterranea che, come una sorta di inconsapevole
anacronismo, ria ora in più punti della nostra loso a
giuridica mettendola in contraddizione con se stessa. Uno di
questi nodi antinomici tra arcaico e contemporaneo, e anzi
senz’altro il più rilevante, è costituito proprio da quello che d'ora
in avanti chiamerò il ‘dispositivo’ della persona, per
sottolinearne il ruolo performativo, cioè produttivo di e etti
reali. Esso si basa sulla separazione presupposta, e
continuamente ricorrente, tra persona come entità arti ciale e
uomo come essere naturale cui può convenire o meno uno
statuto personale12. Tale scarto sistematico non costituisce che
la prima e originaria distinzione tra categorie astratte, ma
concretissime nelle procedure di esclusione cui danno luogo,
poste in essere dal diritto romano. Tuttavia la terribile potenza
costitutiva di tale dispositivo non va cercata tanto nella
delimitazione normativa tra le varie categorie, quanto,
piuttosto, nelle zone di indistinzione che esso determina ai loro
con ni - a partire da quella, in tutti i sensi decisiva, che
caratterizza la condizione dello schiavo, situato appunto a metà,
o nel transito, tra persona e cosa, e pertanto de nibile sia come
cosa vivente che come persona rei cata.
In realtà la condizione dello schiavo non è che la punta più
visibile di un intero meccanismo di disciplinamento sociale
funzionante precisamente attraverso lo spostamento continuo
delle soglie categoriali che de niscono, o producono, lo status di
tutti gli esseri viventi. Da qui quel movimento perpetuo di
oscillazione tra gli estremi della persona e della cosa che fa
dell'una insieme l'opposto e lo sfondo dell'altra - non solo nel
senso generale che la de nizione dell'uomo-persona emerge in
negativo da quella dell'uomo-cosa, ma in quello, più pregnante,
che essere pienamente persona vuol dire mantenere, o spingere,
altri individui viventi ai con ni della cosa13. Come si
argomenterà nelle pagine seguenti, questa straordinaria
attitudine performativa del formalismo giuridico romano è
riconoscibile soprattutto nelle due gure, opposte e speculari,
della manumissio e della mancipatio - deputate appunto a
regolare con precisi rituali il doppio usso incrociato di
personalizzazione e depersonalizzazione. In esse il passaggio,
comunque provvisorio e reversibile, dalla schiavitù alla libertà e
dalla libertà alla schiavitù attesta il carattere sempre
eccezionale della condizione libera. Questa non è che una
parentesi, una sorta di sporgenza innaturale dell'orizzonte
servile che include nel suo cerchio più ampio tutti gli esseri
umani, ad eccezione dei cittadini romani adulti e di sesso
maschile, essi stessi entrati nel regime della persona dopo un
lungo tirocinio in quello, interamente sottoposto, del glio. Che
il suo assoggettamento al potere vitae ac necis del pater anticipi,
o meno, un dominio speci camente biopolitico, fondato cioè sul
solo rapporto di sangue, può essere oggetto di discussione.
Quello che è certo è che anche in questo caso - generalizzabile a
tutti i cittadini di Roma - il processo di personi cazione passa
comunque per la stazione della cosa e in essa può sempre
fermarsi.

4. La separazione romana tra persona e uomo penetra come


un cuneo profondo nella concezione loso ca, giuridica e
politica moderna. Se questa contiguità non è percepibile a
occhio nudo dipende intanto dal fatto che non è facile cogliere i
rapporti di implicazione dentro i sommovimenti, e anche i
rovesciamenti, semantici che li percorrono. E poi perché la netta
svolta soggettivistica che caratterizza la teoria del diritto
almeno a partire dalla stagione giusnaturalistica tende a
cancellare le impronte della tradizione romana. In realtà, sotto
la crosta spessa di una trasformazione vistosa nei suoi esiti
lessicali, trapelano i segni profondi di una presenza mai del
tutto negata dai grandi giuristi. Non si tratta di continuità o,
tanto meno, di analogia - la gura circolare che il libro cerca di
restituire è semmai quella che unisce gli opposti sul margine
estremo del loro contrasto, come i punti di una circonferenza
che, quanto più si allontanano tra loro, tanto più, per altro
verso, niscono per ricongiungersi. È quanto accade alla
nozione di persona, nel transito epocale dal formalismo
oggettivistico del diritto romano al soggettivismo
individualistico dei diritti moderni. Nel momento stesso in cui
questi, almeno a partire dalla rivoluzione francese, ma già da
Hobbes, sono attribuiti a tutti gli uomini, uguagliati dal comune
stato prima di sudditi e poi di cittadini, la separazione romana
tra distinte categorie umane parrebbe cadere insieme alla
originaria distanza tra maschera e volto: non solo perché, per
così dire, ogni uomo ha adesso la sua maschera, ma perché la
maschera aderisce al suo volto in una maniera talmente
intrinseca da divenirne parte integrante.
Che le cose non stiano propriamente così - che questa
rappresentazione lasci fuori una parte non secondaria di realtà -
è provato non soltanto dalla circostanza che proprio Hobbes
distacca la persona dal corpo al punto di farne il rappresentante
di altri soggetti umani o addirittura non umani. Ma dalla stessa
de nizione moderna della persona, estesa, almeno in linea di
diritto anche se non di fatto, a ogni essere vivente, ma soltanto
per quanto riguarda la sua parte razionale o morale. Persona - si
potrebbe dire - è quanto, nel corpo, è più del corpo. Torna, da
questo lato, lo scarto originario implicito nel concetto, già
elaborato dalla dogmatica cristiana e successivamente
riconvertito in chiave giuridica. Contro quella linea biopolitica,
e poi tanatopolitica, che tendeva a uni care persona e corpo
schiacciando la prima sulla materia biologica del secondo, il
personalismo moderno, in tutte le sue espressioni, reinstalla in
ogni individuo la separazione tra soggetto personale ed essere
umano. In questa maniera il diritto soggettivo, anziché inerire
all'integralità dell'uomo, si riferisce soltanto a quella parte
superiore, di tipo razionale o spirituale, che esercita il proprio
p p p p p
dominio sulla zona residua sfornita delle stesse caratteristiche e
perciò sospinta nel regime dell'oggetto. Avere diritti, da questo
punto di vista, signi ca propriamente essere soggetti della
propria oggettivazione. È, appunto, la de nizione della persona
proposta da Jacques Maritain nel momento in cui collabora
attivamente alla stesura della Dichiarazione universale del '48:
essa si quali ca per la sovranità che ogni uomo esercita sul
proprio essere animale. Non può sfuggire, in questa
formulazione, la simmetria contrastiva con le due vite di cui
parlava Bichat. Anche se con un evidente rovesciamento del
rapporto di prevalenza tra di esse - in Bichat assegnata alla parte
vegetativa e irrazionale, in Maritain a quella razionale e
volontaria. Ciò che, tuttavia, resta in comune è la collocazione,
all'interno dell'uomo, di un elemento non umano, destinato in
un caso a sovrastarlo e nell'altro a farsene padroneggiare. Che si
voglia vedere nella loso a della persona una forma non
consapevole, e anzi negata, di biopolitica, o nella biopolitica
antipersonalista una piega interna del dispositivo della persona,
comunque l'uomo risulta de nito dal rapporto con l'animale
che insieme lo abita e lo altera. Al fondo di questa convergenza
vi è naturalmente la de nizione aristotelica dell'uomo come
animale razionale - in un caso assunta dal lato dell'animalità e
nell'altro da quello della razionalità. È a partire da tale
presupposto che, contrariamente a quanto può a prima vista
sembrare, corporeizzazione biopolitica della persona e
personalizzazione spiritualistica del corpo si inscrivono nello
stesso cerchio teoretico.
La strada per aprirlo passa per una revisione profonda dei
rapporti di contiguità e di opposizione ssati dalla tradizione
interpretativa. Si è parlato della relazione tra diritto romano e
concezione giuridica moderna. Qualcosa di analogo va detto per
il rapporto, solo in apparenza contrastivo, tra biopolitica e
liberalismo. Si potrebbe addirittura ipotizzare che sia proprio
quest’ultimo il tratto di giuntura antinomico tra l'antica, e
recente, loso a della persona e la liera che le si oppone,
riproducendone rovesciati i presupposti. In questione è, ancora
p p pp q
una volta, il nesso di erenziale tra persona e corpo. Per la
concezione liberale - come è rappresentata da Locke o da Mill - il
corpo è proprietà della persona che lo abita. Già qui si evidenzia,
naturalmente, la distanza radicale, e anche il contrasto di fondo,
con la biocrazia nazista: mentre questa lavora sulla specie
umana nel suo complesso, il liberalismo si riferisce
esclusivamente all'individuo. Non solo: se il nazismo a da la
proprietà del corpo alla sovranità statale, la concezione liberale
l'assegna alla persona in esso impiantata. Ma proprio questa
eterogeneità di fondo misura anche il tratto di simmetria,
de nito per entrambi da una concezione produttivistica della
vita - nell'un caso funzionalizzata ai destini superiori della razza
eletta e nell'altro alla massima espansione della libertà
individuale. Solo che tale libertà passa per la potenziale
riduzione del corpo a cosa appropriata. Il punto di sutura tra gli
opposti è sempre relativo alla de nizione della persona. Per
esserne proprietaria, la persona non può coincidere con il
proprio corpo - anzi è quali cata precisamente dalla distanza
che la separa da esso. Se si fa riferimento al lone di bioetica
interno alla tradizione liberale, si ritrova, spinta ai suoi esiti
ultimi, l'antica separazione romana tra persona e homo: sia per
Hugo Engelhardt che per Peter Singer non soltanto non tutti gli
esseri umani sono persone, ma non tutte le persone sono esseri
umani. Da qui la conseguente gradazione, o degradazione, tra
persona piena, semipersona, non-persona e antipersona -
rappresentate rispettivamente dall'adulto, dall'infante o dal
vecchio disabile, dal malato irrecuperabile e dal folle. Dove a
ogni grado di personalizzazione - o di depersonalizzazione -
corrisponde un diverso diritto alla determinazione, e nanche
alla conservazione, della propria vita. Anche qui, con
formulazioni che richiamano da vicino il potere sovrano del
pater familias sui gli e su coloro che ne riproducono la
condizione rei cata, la macchina decidente della persona segna
la di erenza ultima tra ciò che deve vivere e ciò che può essere
legittimamente respinto nella morte.
5. Per quanto profonda nella sua genealogia ed estesa nei
suoi e etti, la logica della persona non occupa, tuttavia, Finterò
orizzonte contemporaneo. Ad essa si contrappone, in modi non
sempre riconoscibili, a volta appena abbozzati, un pensiero
dell'impersonale. Il terzo capitolo del libro ne propone alcune
gure, o segmenti, attinti soprattutto dalla loso a
novecentesca. Altri riferimenti avrei potuto scegliere
nell'ambito dell'arte contemporanea - in particolare della
pittura, della musica e del cinema, da tempo volti a una
decostruzione del soggetto personale14. In questa occasione ho
privilegiato la loso a per fornire una prima griglia teoretica
rispetto a un oggetto sfuggente quasi per de nizione, appunto
perché da sempre emarginato, o sopra atto, dai saperi e dai
poteri della persona. È per ciò che il discorso qui svolto non può
avere un andamento lineare e coerente. La sua eterogeneità, e
anche frammentarietà, non è contingente, ma strutturale - nel
senso che attiene, più che alla diversità tonale degli autori e dei
testi convocati, alla natura negativa di una categoria che
assume senso solo dal contrasto con un'altra ad essa
presupposta o sovrapposta. Anche su questo, però, è opportuno
fare subito chiarezza. Naturalmente l'impersonale si situa fuori
dall'orizzonte della persona, ma non in un luogo ad essa
irrelativo - piuttosto al suo con ne. Sulle linee di resistenza, più
precisamente, che ne tagliano il territorio impedendo, o almeno
contrastando, il funzionamento del suo dispositivo escludente.
l'impersonale - si potrebbe dire - è quel con ne mobile, quel
margine critico, che separa la semantica della persona dal suo
naturale e etto di separazione. Che blocca il suo esito rei cante.
Non è la sua negazione frontale - come sarebbe una loso a
dell'antipersona - ma la sua alterazione, o estro essione, in
un'esteriorità che ne revoca in causa e rovescia il signi cato
prevalente.
È questa relazione complessa, non semplicemente
oppositiva, dell'impersonale nei confronti della persona, a
rendere ragione della gura ‘terza’ che dà il titolo all'intera
ricerca. Lavorare concettualmente sulla ‘terza persona’ vuol dire
aprire un varco a quell'insieme di forze che, anziché annientare
la persona - come pretese di fare, nendo per ra orzarla, la
tanatopolitica novecentesca -, la spingono fuori dei suoi con ni
logici e anche grammaticali. A questa strategia di estraneazione,
o di aggiramento, risponde perfettamente il testo, a tutti gli
e etti fondativo, di Benveniste sui pronomi personali, la cui
analisi apre il terzo capitolo. Se c’è qualcosa che travalica il suo
naturale terreno di pertinenza linguistico, con un investimento
di senso che illumina per intero l'arco delle questioni sollevate, è
proprio l'insistenza dell'autore sull'eterogeneità della terza
persona, nel pronome e nel verbo, rispetto alle prime due. Essa,
a di erenza di queste, è l'unica a non avere connotati personali,
al punto di poter essere de nita ‘non-persona’. E ciò non
soltanto perché rimanda a qualcosa, o a qualcuno, non
circoscrivibile in un soggetto speci co - nel senso che può
riferirsi a tutti e a nessuno - ma, ancora più a fondo, perché
sfugge del tutto al regime dialogico dell'interlocuzione cui
restano invece ssate le altre due. Questa assoluta speci cità - la
terza persona è l'unica a poter essere singolare e insieme plurale
- risalta tanto più dalla connessione inscindibile, e anzi
speculare, che vincola invece la prima alla seconda: nel contesto
discorsivo l'io si rivolge sempre, implicitamente o
esplicitamente, a un tu, così come il tu presuppone sempre un io
che lo designi tale, prima di esserne sostituito nel ruolo di
soggetto dell'enunciazione. È una necessità, questa, che rivela il
carattere retorico di tutte le loso e della seconda persona, da
Buber a Jankélévitch e oltre - sempre logicamente interne allo
statuto della prima, nonostante le proprie dichiarazioni di
eccedenza. Qualunque sia, infatti, la modalità del loro rapporto -
diretto o rovesciato, frontale o obliquo, orizzontale o verticale -
il tu non assume senso che dall'io che lo interpella, sia pure nella
forma del comando, dell'invocazione, della preghiera. Il due è
per forza di cose inscritto nella logica dell'uno, così come l'uno
tende sempre a sdoppiarsi in due per potersi specchiare, e
riconoscere, nel proprio interlocutore umano o divino.
p p
6. Ma una volta ssata questa di erenza costitutiva della
terza persona rispetto alle altre, quali sono le gure prevalenti
che essa assume nelle varie loso e dell'impersonale? La prima
è quella della giustizia, intesa in una forma che si oppone tanto
al diritto oggettivo di matrice romana quanto a quello,
soggettivo, di impronta moderna. Questa opzione radicale è al
cuore del pensiero di Simone Weil. Il lo diretto che, contro la
tradizione personalista di Maritain, la Weil tira tra il carattere
privativo ed escludente del diritto e la generalizzazione dell'idea
di persona getta un fascio di luce abbagliante sul quadro da noi
indagato. Contro gli e etti nichilistici di tale connessione, che
da Roma sembrano allungarsi come un'ombra sinistra no al
regime nazista, la Weil a erma, con una nettezza che non ha
precedenti, la verità dell'impersonale. Quello che è sacro,
nell'uomo, non è la persona, ma ciò che non è coperto dalla sua
maschera. Solo ad esso potrebbe riuscire di ricostituire il
rapporto, interrotto dalla macchina immunitaria della persona,
tra umanità e diritto - di rendere possibile qualcosa di
apparentemente contraddittorio come un ‘diritto comune’ o ‘in
comune’. Tutti gli autori che insistono sulla terzietà essenziale -
non semplicemente funzionale - del diritto, da Kojève a
Jankélévitch, a Lévinas, non fanno che riproporre, da un angolo
di visuale sempre di erente, l'esigenza posta dalla Weil. In
ciascuno di essi è la terza persona ad annunciare l'avvento di un
diritto nalmente traducibile in giustizia. Se per Kojève esso è
situato alla ne della storia, quando l'uomo si reimmergerà
nella propria natura animale, Jankélévitch insieme lo a erma e
lo nega, posponendolo al faccia a faccia dell'amore. Tra i due,
Lévinas pro la una posizione più complessa che tenta di
comporre, sovrapponendole, la responsabilità esclusiva del
rapporto a due e l'esigenza di giustizia universale nei confronti
del terzo.
Che tale tentativo sia destinato alla scacco - appunto per
l'irriducibilità della logica ternaria a quella binaria - non è che il
sintomo di un'antinomia più profonda che rimanda alla natura
stessa della terza persona. Si è già detto che essa non è un'altra
p g
persona - rispetto alle prime due - ma qualcosa che sporge dalla
logica personale a favore di un diverso regime di senso. Quando
Maurice Blanchot identi ca il terzo con la gura enigmatica del
neutro, intende sottrarla in maniera preventiva a ogni indebita
personalizzazione. Neutro non è qualcun altro che si aggiunge ai
primi due, ma ciò che non è né l'uno né l'altro - che sfugge a tutte
le dicotomie fondate, o presupposte, dal linguaggio della
persona. Perciò esso si situa non in un punto qualsiasi - alto o
basso, centrale o laterale, come ancora voleva Lévinas -
dell'interlocuzione, ma decisamente al suo esterno, no a
identi carsi con lo spazio senza luogo del ‘fuori’. Da qui - da
questo gesto di e razione radicale nei confronti del modello
dialogico, invece adottato da tutte le loso e della prima e della
seconda persona - l'incomprensione, o l'aperta ostilità,
dell'intera tradizione loso ca nei confronti di una gura, come
quella del neutro, sempre negata, o addomesticata, nei suoi
e etti dirompenti. l'unica forza capace di porsi alla sua altezza è,
per Blanchot, quella della scrittura. In essa - là dove si rinuncia
anche a parlare del neutro, per parlare al neutro o per far parlare
il neutro - non soltanto Fautore, ma anche il personaggio,
depone la possibilità di dire ‘io’, e dunque ‘tu’, per inscriversi nel
regime impersonale del ‘si’. Ciò che si determina, in questo
modo, non è il soggetto di un'azione, ma un'azione senza
soggetto o coincidente con esso nella impredicabilità
dell'evento. La cancellazione del proprio nome dai documenti
collettivi stesi tra gli anni Sessanta e Settanta vuole essere, da
parte di Blanchot, il tentativo, certo assai problematico, di
trasporre l'esperienza dell'impersonale dall'ambito letterario a
quello politico - di fare politica alla terza persona.
Come? Come fare dell'impersonale non soltanto una potenza
decostruttiva dell'antico, e nuovo, dispositivo della persona, ma
la forma, o meglio il contenuto, di una pratica che modi chi
l'esistenza? Come immettere quell'ulteriorità, o quell'esteriorità,
all'interno della nostra esperienza singolare e collettiva? Questa
è la domanda, ultima e prima, dentro la quale Michel Foucault e
Gilles Deleuze incrociano i propri sguardi in un punto di
p p g p
tangenza che va ben al di là della semplice amicizia, perché
tocca qualcosa che non attiene propriamente alle persone, ma al
piano preindividuale, o transindividuale, che le precede e le
attraversa. La gura che in entrambi i casi assume la terza
persona è quella della vita. Ma il modo di pervenirvi è, tra i due,
assai diverso. Foucault, come già Blanchot, passa per il fuori -
per quella «linea oceanica» che lambisce la voragine della morte
resistendole. Come aveva a suo modo fatto Bichat, anche
Foucault parte dalla morte, dalla sua assoluta estraneità, per
arrivare alla vita. Il suo procedimento è quello di spingere il
fuori sempre più fuori, di esteriorizzare ciò che è già esteriore,
no al punto di rovesciarlo nel suo contrario - cosa è più esterno
dell'esterno se non un dentro più interno di qualsiasi
interiorità? Quel fuori ci appare così ina errabile proprio
perché sta dentro di noi - siamo noi stessi guardati da un punto
di vista che non collima, e anzi che collide, con quello della
soggettività personale. La vita, si potrebbe dire, è per Foucault
quella falda biologica che non coincide mai con la soggettività
perché è sempre presa in un processo, duplice e simultaneo, di
assoggettamento e di soggettivazione - lo spazio che il potere
investe senza mai riuscire a occuparlo integralmente e anzi
generando forme sempre nuove di resistenza. È da questo lato
che si delineano i contorni, ancora incerti, di una biopolitica
a ermativa - tale, cioè, da non ritagliarsi in negativo rispetto ai
dispositivi del sapere/potere moderno, ma situata sulla linea di
tensione che li traversa e li disloca.
Diversa, anche se orientata al medesimo esito, la direzione
assunta da Deleuze. Non quella dell'esteriorizzazione, ma del
ripiegamento. Ad essere in gioco è sempre la questione
dell'immanenza. Ma non ottenuta, come in Foucault, per via
negativa, attraverso il trascendimento della trascendenza, la
fuoriuscita del fuori. l'immanenza, per Deleuze, non è né
prodotta dialetticamente dalla trascendenza come in Hegel, né
attraversata da essa, come nella tradizione fenomenologica o
heideggeriana. Non è che la piega dell'essere su se stesso - vale a
dire la sua declinazione in divenire. È questa la vita - sempre una
q p
vita: non ciò che resiste alla morte e scaturisce dal confronto
con essa, ma ciò che la separa da se stessa distendendola in un
processo di continua mutazione. Da qui la decostruzione della
persona in tutte le sue espressioni - teologiche, giuridiche,
loso che. A venir meno, nel piano di immanenza, è proprio
quello scarto personale che ha sempre collocato il soggetto fuori
dal sostrato corporeo in cui è impiantato, così come la sostanza
è sempre stata separata dai suoi modi. Ciò non vuol dire,
tuttavia - neanche in Deleuze, soprattutto in Deleuze -, fare di
ciò che chiamiamo soggetto il recettore inerte e passivo
dell'evento. Al contrario, identi carlo con questo signi ca
conferirgli la capacità di «controe ettuarlo», cioè di piegarlo in
una direzione diversa, o anche opposta, da quella iniziale. Di
scegliere, nell'evento, l'inclinazione più inedita, meno bloccata
nella sua determinazione presupposta. È di cile, per una
tradizione come la nostra, imbevuta n nelle sue origini di
teologia politica, sottrarre la categoria di decisione alla
connessione con quelle di individuo e di sovranità - coniugarla,
anziché con la persona, con l'impersonale. Ma è appunto quanto
fa Deleuze attraverso una teoria della virtualità che, rompendo
con l'alternativa, o con la coincidenza, meta sica di possibile e
necessario, apre l'identità al gioco plurale delle di erenze. La
gura estrema, quasi postuma, del «divenire animale» - che
sembra anticipare nel presente l'immagine preumana, o
postumana, proiettata da Kojève alla ne della storia - apre il
pensiero dell'impersonale a una prospettiva ancora ignota nel
suo signi cato d'insieme. Ciò che in essa si pro la, ormai fuori
dalla sagoma fatale della persona, e dunque anche della cosa,
non è solo la liberazione dall'interdetto fondamentale del nostro
tempo. È anche il rimando a quella riuni cazione tra forma e
forza, modo e sostanza, bíos e zoé, sempre promessa, ma mai
davvero sperimentata.
Capitolo primo
La doppia vita (la macchina delle scienze umane)

1. La crisi che a partire dall'inizio del XIX secolo investe la


nozione di persona - vale a dire di soggetto razionale capace di
autodeterminazione in rapporto con altri individui forniti degli
stessi requisiti - si origina fuori dalla teoria politica e
precisamente nell'ambito della biologia. Come spesso accade nei
momenti di svolta paradigmatica, l'urto decisivo agli e etti del
mutamento viene dall'esterno. Del resto le stesse categorie
politiche moderne, adesso contestate, nascono segnate dalla
contaminazione con concetti teologici secolarizzati. Con la
di erenza che, mentre in quel caso a penetrare nel lessico
giuridico-politico era un elemento trascendente, adesso si tratta
di una materia, di una sostanza, immanente come la vita. Ma il
dato ancora più sintomatico - della dialettica che si determina
tra le varie scienze dell'uomo - è che tale nozione di vita,
destinata a mutare in profondo il lessico politico, si presenta
essa stessa politicamente connotata: n dalle sue prime
formulazioni, infatti, la vita indagata dal nuovo sapere biologico
è de nita precisamente dal con itto assoluto con la morte. Se si
vuole cogliere la straordinaria novità dell'opera di Xavier Bichat
- e il motivo della sua singolare fortuna nella prima metà del
secolo - anche nei confronti della concezione vitalista cui essa
viene solitamente ascritta, bisogna rivolgersi a questa presenza
incombente della morte all'esterno e all'interno della vita.
Mentre i vitalisti classici, come Bordeu o Barthez, si limitavano a
sottrarre l'organismo vivente alle leggi generali della sica, ma
in questo modo nivano per privarlo di un principio normativo
capace di uni carne le molteplici espressioni in un quadro
scienti camente caratterizzato, Bichat ne individua lo statuto
speci co appunto nella opposizione attiva alla pressione della
morte. Quando, nel famoso incipit delle sue Recherches, egli
scrive che «la vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla
morte»15, bisogna conferire a questa espressione il signi cato di
un con itto senza tregua: nell'organismo vita e morte si
a rontano come potenze contrapposte che tendono a superarsi
a vicenda in un giuoco a somma zero in cui all'avanzamento
delle une corrisponde l'arretramento, o il cedimento, delle altre:
«La misura della vita è dunque, in generale, la di erenza che
esiste tra lo sforzo delle potenze esteriori e quello della
resistenza interna. l'eccesso delle une annuncia la sua
debolezza; il predominio dell'altra è l'indice della sua forza»16.
Sarebbe di cile rintracciare, all'interno del sapere biologico,
un lessico più intensamente politico - le sue metafore sono
improntate all'arte della guerra, sosterrà Canguilhem17- di
quello adoperato da Bichat all'alba della siologia moderna:
azione-reazione, attacco-difesa, potere-resistenza sono tra i
termini più usati in un racconto che ha per oggetto la
sopravvivenza o l'annientamento del bíos. È come se la vita
trovasse la pensabilità della propria de nizione soltanto dentro
un'orbita semantica segnata dalla necessità del con itto
mortale - a morte e contro la morte. La prima parte del libro,
dedicata alla de nizione generale della vita, non assume senso e
consistenza che nel raccordo con la seconda, impegnata in una
dettagliata fenomenologia dei vari tipi di morte. Che il suo
autore, scomparso all'età di trentuno anni, avesse nella sua
breve vita aperto e analizzato migliaia di cadaveri di persone
morte violentemente, perlopiù sotto la ghigliottina nel periodo
del Terrore, è un dato che va forse al di là di una semplice
contingenza biogra ca, per assumere un signi cato più
generale. «Cos’è l'osservazione, se s’ignora la sede del male?
Aprite qualche cadavere e vedrete dissiparsi l'oscurità che la sola
osservazione non avrebbe mai potuto dissipare»18 - più che un
suggerimento clinico, questa celebre proposizione dell'Anatomie
generale sembra una grande apertura di scenario sull'intreccio
costitutivo tra morte e sapere della vita. Per conoscere la verità
profonda di un corpo, la scienza medica deve insinuarsi nello
stesso taglio che vi ha inciso la morte e raddoppiarlo. Come si
espresse Foucault, solo la chiara luce della morte può
illuminare, come in un lampo, la notte oscura della vita - a
conferma del predominio logico ed epistemologico della prima
sulla seconda19. Tale predominio si esercita innanzitutto
dall'esterno, da parte delle forze ambientali che stringono la vita
in un cerchio che essa non può spezzare, ma soltanto, no a
quando ne ha l'energia, contenere nella loro potenza nefasta. Ma
poi, anche e contemporaneamente, dall'interno del corpo, dove
la possibilità, e anzi la necessità, della morte è insediata n dalla
sua nascita come un tumore che cresce in maniera progressiva e
inesorabile. Essa non ha l'aspetto di un taglio secco che recide la
testa d'un colpo, ma di un mormorio sordo che accompagna, e
rode silenziosamente, ogni momento della vita, distribuendosi
in tante piccole morti che solo a un certo punto si congiungono
in un unico evento letale.
In questa cornice di decessi parziali, di entropie locali, di
mortalità continua e ra renata, si inserisce anche il fenomeno
della morte apparente - una sopravvivenza postuma in cui la
morte sembra sospendersi e arretrare davanti al ritorno
inaspettato della vita. Da cosa dipende? A quale altra verità
questo fenomeno enigmatico e inquietante dà voce? La risposta,
per più versi decisiva, di Bichat è che tale duplicazione della
morte rimanda a una duplicazione della stessa vita. La morte
apparente - e cioè quella morte non assoluta in cui si apre un
intervallo temporale tra il suo primo ingresso in scena e la sua
vittoria nale - è l'espressione rovesciata dello scarto
preliminare tra due modi di essere della vita. Meglio, tra le due
vite da cui è composta ogni vita: quella organica, alla quale
Bichat ascrive le funzioni vegetative - di digestione,
respirazione, circolazione del sangue -, e quella animale, che
sovrintende alle attività motorio-sensorie e intellettuali
riconducibili alle relazioni con l'esterno. Mentre la prima è
chiusa e ripiegata su se stessa, la seconda si a accia
sull'ambiente modi candolo ed essendone modi cata. Se l'una
non conosce principio di simmetria - vi è un cuore, uno
stomaco, un fegato - l'altra è organizzata in maniera simmetrica
e binaria, come risulta dalla corrispondenza degli occhi, delle
orecchie o delle braccia. Ma l'elemento che appare catturare
ancora di più l'attenzione di Bichat, come già nel caso della
relazione della morte con la vita, è la prevalenza, funzionale e
quantitativa, della vita organica su quella animale. Intanto nel
senso che essa continua anche durante il sonno, mentre questa
s’interrompe, per riprendere solo al momento del risveglio. Ma
poi, ancora di più, prima della nascita, quando il feto
sperimenta solo una vita nutritiva, e, da ultimo, all'avvento
della morte, allorché la vita organica prosegue per qualche
tempo dopo che si è spenta quella animale - come si deduce
dalla crescita delle unghie e dei capelli anche dopo la ‘prima’
morte. A una doppia morte, insomma, fa riscontro una doppia
vita, fornita di rilievo disuguale perché non solamente orientata
a scopi diversi, ma anche dotata di di erente intensità20.
Senza fermarci più in dettaglio sulle conseguenze cliniche di
tale scarto - decisivo, per esempio, per la possibilità di trapianto
di organi ancora viventi dopo la morte cerebrale - quello che
conta, in ordine al nostro problema, è la conseguenza
trasversale che esso determina nei confronti di altri linguaggi e
in particolare del lessico loso co-politico. Ciò spiega il motivo
della sua costante ripresa da parte di autori e testi non
immediatamente interessati a ricerche siologiche, ma proprio
perciò espressivi del rilievo del sapere della vita sulla
con gurazione della loso a e della politica. La questione che
soprattutto ne risulta investita è il rapporto tra la natura del
soggetto vivente e la forma dell'agire politico. È su questo punto
di tangenza, su questo incrocio categoriale, che si scaricano gli
e etti dirompenti della tesi di Bichat. Mentre, come sappiamo, il
presupposto indiscusso della loso a politica moderna è
costituito dalla presenza di soggetti dotati di volontà razionale
che, per scelta collettiva, istituiscono un determinato assetto
ordinativo, il principio siologico della ‘doppia vita’,
naturalmente in una forma esterna alle intenzioni dell'autore,
produce uno spostamento d'ottica tutt’altro che irrilevante. Se
assumiamo come punto di riferimento la posizione di Hobbes,
viene revocato in causa sia il criterio della cesura fondativa tra
stato naturale e stato politico, sia il percorso logico che conduce
al patto e così all'instaurazione dell'ordine. E ciò non solo perché
la vita non può mai spezzare il legame biologico con la natura,
ma perché è essa stessa ‘decisa’, tagliata, da un discrimine
precedente ogni altra decisione e destinato a pesare
potentemente su di essa. Se, per esempio, le passioni - che
Hobbes aveva posto all'origine dell'opzione civile - non
dipendono dalla vita animale, ma da quella organica, come
Bichat sostiene con nettezza, ciò vuol dire che gli atti da esse
condizionati non sono più riconducibili a motivazioni razionali.
Non solo, ma che, propriamente parlando, non esiste neanche
un soggetto politico, come fonte di azione volontaria, perché la
stessa volontà, pur legata alla vita animale, è profondamente
innervata in un regime corporeo sostenuto, e in buona parte
governato, dalla sua parte vegetativa. Già qui - ripeto, ben al di
là delle intenzioni di Bichat - si apre un percorso, di per sé
dirompente nei confronti del linguaggio concettuale moderno,
che va nel senso di una radicale desoggettivazione della prassi
umana. Ciò che comincia a incrinarsi - o quantomeno a non
riconoscersi più nella sua formulazione canonica - è l'idea stessa
di persona, intesa come centro di imputazione giuridico-
politica. Già insidiata, nelle sue classiche prerogative, dalla
pressione incontenibile della morte, essa appare adesso
ulteriormente decentrata dalla scissione in due zone
sovrapposte - o sottoposte - che ne precludono ogni immagine
unitaria. Divisa in una ‘vita di dentro’ e in una ‘vita di fuori’, in
una vita vegetale e in una vita animale, essa è attraversata da
una potenza estranea che ne determina istinti, emozioni,
desideri in una forma non più riconducibile a un unico
elemento. È come se un non-uomo - qualcosa di diverso e di
anteriore alla stessa natura animale - si insediasse nell'uomo. O
vi fosse da sempre insediato con e etti dissolutivi rispetto alla
sua modalità personale. Da quel momento funzione della
politica - ormai inevitabilmente biopolitica - non sarà più tanto
quella di de nire il rapporto tra gli uomini, ma piuttosto quella
di individuare il punto preciso in cui è situata la frontiera tra ciò
che è uomo e ciò che, all'interno dell'uomo stesso, è altro
dall'uomo.

2. La loso a sulla quale la decostruzione del soggetto


personale operata, in ambito biologico, da Bichat incide più
profondamente è quella di Schopenhauer. In realtà già altri
autori, a partire da Hegel, avevano fatto esplicito riferimento
all'autore delle Recherches. Ma quella che in essi resta una
relazione esterna, per Schopenhauer diventa un'implicazione
talmente intrinseca da con gurare una vera e propria
identi cazione con «quest’uomo straordinario, così presto
strappato al mondo», autore di una «tra le opere di pensiero più
profonde della letteratura francese»21. Al suo centro vi è proprio
l'opposizione tra vita organica e vita animale che Schopenhauer
riconduce a quella, da lui stesso elaborata, tra volontà e
intelletto. Se Bichat sembra riportare la volontà alla vita
animale - avverte il losofo contro una lettura non
su cientemente radicale del suo testo - non bisogna
equivocare: egli sta parlando della determinazione cosciente,
cioè dell'analisi e del calcolo dei motivi, il cui prodotto si
presenta come atto volontario. Non del vero volere, cieco e
opaco - ascrivibile, invece, esclusivamente alla vita organica.
Chiarito tale scambio terminologico, la corrispondenza con la
sua opera appare a Schopenhauer perfetta: «Le sue e le mie
ri essioni - egli dichiara - si sostengono reciprocamente, in
quanto le sue sono il commentario siologico delle mie e le mie
il commentario loso co delle sue, cosicché verremo capiti
meglio, se saremo letti insieme da entrambi i punti di vista»22. I
luoghi topici di questa conclamata convergenza sono
essenzialmente due, connessi tra loro in un'unica trama
discorsiva. Da un lato l'appartenenza delle passioni a quella
stessa vita vegetativa cui pertiene anche la sfera della volontà.
Dall'altro, e conseguentemente, l'immutabilità del carattere che,
radicandosi appunto nella falda organica dell'essere vivente,
non può essere trasformato dall'educazione o dall'ambiente
esterno. La conclusione che Schopenhauer ne trae è il più netto
ri uto della tesi cartesiana - rilanciata di recente prima da Franz
Joseph Gall e poi da Marie-Jean Pierre Flourens - secondo la
quale gli atti di volontà sarebbero assimilabili ai pensieri. l'unità
della vita - in piena sintonia con la prospettiva inaugurata da
Bichat - non si articola più nel vecchio dualismo tra anima e
corpo, ma nello scarto biologico tra una «vita di dentro» di tipo
organico e una «vita di fuori» a carattere relazionale.
Sarebbe di cile immaginare uno strappo altrettanto
violento nei confronti dell'impianto coscienzialista del sapere
moderno. Ad essere colpito, e lacerato, è quel nucleo inscindibile
di volontà e ragione che costituisce la quintessenza di ciò che
tutta una linea di pensiero ha de nito soggetto, o persona,
proprio a partire dalla sua distanza, o quantomeno non
coincidenza, con il corpo in cui pure è impiantato. Non che
Schopenhauer contrapponga la sfera del corpo a quella della
volontà - al contrario le sovrappone in una stretta meta sica
che fa dell'una l'oggettivazione dell'altra. Le conseguenze
loso che di tale passaggio sono note. Quelli che ci riguardano
più da vicino sono, però, gli e etti politici - e anzi, ormai,
decisamente biopolitici - ad esse connessi. Il confronto con la
posizione di Hobbes risulta, come al solito, illuminante in
ordine al vero e proprio passaggio di paradigma che qui si
registra. Schopenhauer è ben lontano dal negare il lato, per così
dire, antropologico del dispositivo hobbesiano - cioè la
riconduzione dello stato naturale al bellum omnium contra
omnes - che egli porta, semmai, a esiti ancora più esasperati. La
natura, essa stessa espressione della inarrestabile volontà di
vita che governa il mondo, è attraversata, e anzi addirittura
costituita, da una lotta implacabile tra tutte le sue componenti,
già dal livello inorganico dei cristalli a quello vegetale e poi
g g q g p
animale, in cui il con itto si fa talmente distruttivo da rivolgere
la sua punta contro colui stesso che per primo lo muove in una
sorta di perenne autodivoramento:
Il giovane polipo a tentacoli che cresce dal vecchio a guisa di
ramo, e più tardi se ne separa, lotta già con quello, mentre
ancora vi aderisce, per la preda che si fa innanzi; l'uno
strappandola dalla bocca dell'altro. l'esempio più sorprendente
del genere ci è dato dalla formica-mastino (bulldog-ant) che si
trova in Australia; se la si taglia in due, si impegna subito una
lotta fra la testa e la coda; la prima a erra con le sue mandibole
la seconda, e questa si difende bravamente col suo pungiglione:
la lotta di solito dura una mezz’ora, no a che i due litiganti non
muoiono o non vengono separati da altre formiche23.
Il motivo di questo scontro a morte - e anzi a doppia morte,
prima dell'intero e poi dei singoli pezzi - sta soprattutto nella
natura in nitamente espansiva del desiderio vitale di cui è
intessuto l'individuo, portato a vedere in ogni altro un semplice
prodotto della propria rappresentazione e dunque eliminabile a
piacimento24. Ma poi, più a fondo, nella circostanza che le
medesime di erenze individuali non sono che la rifrangenza
esterna, l'immagine moltiplicata, di una volontà unica e
dunque, per il suo incontenibile impulso vitale, in continuo
contrasto con se stessa. È perciò che al con itto interumano non
c’è vero rimedio. Al massimo lo si può limitare, restringere,
entro forme destinate, prima o poi, ad essere travolte dalla forza
micidiale che le attraversa e le scuote. Ogni successo, ogni
vittoria, delle forze superiori, tese a nutrirsi delle inferiori, reca
dentro di sé la resistenza di queste ultime che, come un tarlo, le
indebolisce, risucchiandole progressivamente nel loro vuoto
no alla morte che già da sempre le insidiava: «Da ciò deriva,
in ne, anche il peso della vita sica, la necessità del sonno, e in
ultimo della morte, quando le forze naturali soggiogate, favorite
nalmente dalle circostanze, strappano all'organismo, stancato
dalle sue continue vittorie, la materia che esso aveva loro
sottratta, e arrivano a manifestare senza più ostacolo alcuno la
propria natura […] Sembra che di queste verità avesse un vago
sentore Jakob Böhme, quando a ermò che i corpi degli uomini e
degli animali, e anche delle piante, sono tutti semimorti»25.
Conformemente alle tesi di Bichat, anche qui la morte,
sopraggiunta dall'esterno e dall'interno della vita, la ria erra
non appena essa tenta di sfuggire al suo dominio. Come nel
vivente - animale o umano, ormai distinti soltanto da una
di erenza di grado, non di essenza - la parte inferiore, di tipo
organico, domina quantitativamente quella superiore, a
carattere cerebrale, determinandola, o almeno condizionandola,
in tutte le sue manifestazioni, allo stesso modo la morte prevale
sempre sulla vita che pure rende possibile attraverso il con itto
degli individui e il ricambio delle generazioni. Tale meccanismo
ciclico-naturale, in cui il singolo non è che uno strumento di
espansione della specie, non può essere arrestato da nessun
congegno tecnico-arti ciale. Perciò alla piena assunzione
dell'antropologia negativa di Hobbes fa riscontro, in
Schopenhauer, un secco rigetto della sua soluzione politica. Non
per un ri uto di principio dell'idea di patto - cui, almeno
formalmente, anch’egli fa riferimento - ma per il suo
svuotamento, conseguente all'impossibilità del passaggio dallo
stato naturale a quello civile. Se esso era possibile, e anzi
necessario, all'interno della moderna concezione della
soggettività, de nita appunto dal primato della volontà
razionale su un corpo distinto e dominato da essa, è
letteralmente impensabile per uomini non soltanto schiacciati
sul loro corpo, ma anche in buona parte governati dalla sua
parte vegetativa. In questo caso, evidentemente, non ci può
essere transito, come invece accadeva in Hobbes, dalla paura,
innervata, insieme alle altre passioni, nella componente
organica, a una qualsiasi forma di razionalità politica.
Da qui una concezione del diritto esplicitamente negativa,
cioè desunta non dall'esigenza a ermativa di giustizia, ma dalla
incombenza del suo contrario: «Ne risulta che il concetto
originario e positivo è quello dell'ingiusto; il suo contrario, il
giusto, non è che un concetto derivato e negativo»26. Il giusto,
ina errabile in se stesso, non è che il negativo, il rovescio, di
quella negazione dell'altro e ettuata dall'unica forza in sé
positiva, benché distruttiva, che è la volontà di vita. È evidente
come, in questo orizzonte radicalmente biopolitico, lo Stato,
certo necessario a imporre l'ordine, non possa godere di
nessuno degli attributi morali che ancora gli conferiva Hegel.
Tutt’altro che etico, o portatore di libertà, esso deriva da quello
stesso egoismo che deve regolare attraverso una dura
coercizione. Non eliminando il con itto, in quanto tale
inevitabile, ma limitandosi a trasferirlo dall'interno all'esterno,
vale a dire dallo scontro nello Stato alla guerra tra gli Stati. Per
questo il dispositivo statale è lontano dal conseguire un esito
paci co. Non solo perché tale obiettivo non è in sé raggiungibile.
Ma perché, se anche lo fosse, produrrebbe una conseguenza - un
eccesso quantitativo di vita - insostenibile per coloro che vivono
nello e dello spazio aperto dal lavoro della morte: «E
immaginiamo pure che una saggezza illuminata da esperienze
di millenni riuscisse a vincere, a estirpare anche questo agello
- conclude Schopenhauer ebbene: il risultato ultimo si
tradurrebbe in un eccesso di popolazione infestante l'intero
pianeta; uno spaventoso disastro, di cui soltanto un'audace
immaginazione riesce oggi a farsi un'idea»27.
3. Se nora si è trattato dell'in usso oggettivo e, per così dire,
inintenzionale del sapere biologico su quello politico, viene un
momento, tuttavia, in cui esso è colto e sistemato anche sul
piano teorico. All'origine di questo mutamento di sguardo c’è
l'opera - apparentemente arcaica solo perché estranea e ulteriore
all'asse portante della concezione moderna - di Auguste Comte.
Quando, nell'introduzione al suo Système de politique positive,
egli conierà il termine di «biocrazia»28, propedeutico a quello,
ulteriore, di «sociocrazia», si può ben a ermare che un lessico
concettuale esterno alla semantica democratica sia ormai
costituito: il potere non ha più come orizzonte di riferimento il
dèmos - cioè l'insieme dei soggetti riuniti in una comune
identità nazionale - ma il bíos, la vita di un organismo,
individuale o collettivo, esteriore ed eccedente ogni
formulazione giuridico-politica convenzionale.
Non sorprenderà che all'origine di questo transito
categoriale compaia anche questa volta, sia pure in un quadro di
valutazione più mosso e variegato, il nome dell'«incomparable
Bichat»29, al cui «luminoso genio» si deve non soltanto il
trasferimento della «presidenza generale della loso a
naturale» dall'astronomia alla biologia30, ma anche quella
di erenza capitale tra funzioni animali e funzioni vegetali che
de nisce il rapporto tra «vita di dentro» e «vita di fuori».
Proprio su questo punto, però, Comte gli muove una critica non
irrilevante per la successiva sistemazione biopolitica. A
di erenza di Bichat, che aveva interpretato la relazione tra vita e
ambiente nei termini di una resistenza dell'organismo vivente
alle potenze di morte venute dall'esterno, Comte la riconduce a
una dialettica più complessa: se tutto ciò che circonda i corpi
viventi tendesse e ettivamente a distruggerli, la loro
condizione di esistenza verrebbe meno. Ma così non è. Solo
quando l'ambiente subisce radicali perturbazioni, la sua
in uenza diventa distruttiva - altrimenti tende a conservare
una vita che, a sua volta, può interagire con esso31. Ora questo
riferimento alle «condizioni di esistenza», che Comte desume,
oltre che da Couvier, soprattutto da Blainville, è doppiamente
signi cativo. Non soltanto perché articola in maniera più
so sticata lo schema rigidamente bipolare - natura vivente
contro natura morta - istituito da Bichat, ma perché, di fatto,
interviene anche sul rapporto di prevalenza, da lui ssato, tra
vita organica e vita animale all'interno dell'uomo. Non che
Comte contesti la rilevanza della parte vegetativa che lega
l'uomo a tutti gli altri esseri viventi, ma individua la sua
speci cità nei loro confronti proprio nella possibilità, certo
parziale e problematica, di rovesciarne il primato a favore di
quella animale. Benché sempre mosso da un impulso naturale
di tipo biologico, l'uomo, in determinate circostanze, può
arrivare a spezzare il cerchio dell'autoconservazione individuale
per una nalità di ordine sociale.
È il passaggio, sempre reversibile, dal livello della «biocrazia»
a quello della «sociocrazia». Tra i due ambiti passa una relazione
biunivoca: come il primo costituisce la necessaria radice del
secondo, così questo è destinato a retroagire sistematicamente
su quello. Lo stesso nesso di implicazione e di reversibilità
congiunge biologia e politica, così come tutte le altre scienze in
cui si articola l'Enciclopedia comtiana: se, attraverso il principio
tassonomico, la biologia diventa il modello degli altri saperi, e in
particolare di quello socio-politico, quest’ultimo reinterpreta la
classi cazione tassonomica in una chiave gerarchica che a sua
volta si ri ette sulla procedura biologica. Il presupposto di
fondo che governa l'intera macchina delle scienze umane è la
necessità che ogni linguaggio disciplinare possa progredire e
acquisire complessità soltanto oltrepassando i suoi con ni
originari per cercare fuori di sé gli strumenti in grado di
convalidare i propri statuti epistemici. In questo senso, per
Comte, il sapere della vita costituisce l'esteriorità all'interno
della quale la scienza della politica deve cercare, prima ancora
che le risposte, le domande che non è possibile porre all'interno
del proprio lessico. Non aver colto questa necessità è stato
l'errore della loso a politica moderna - da Montesquieu a
Condorcet, per non parlare di Rousseau. Partiti dal giusto
proposito di ricondurre i fenomeni politici a invariabili leggi
naturali, a un certo punto tutti costoro hanno perso i contatti
con un sapere generale della vita, ripiegando su principi astratti
e dottrinari che li hanno allontanati dalla realtà. Non solo, ma
tentando di emanciparsi dall'assolutismo meta sico, hanno
messo in campo nozioni - quali quelle di diritto naturale,
sovranità, volontà generale - esse stesse in qualche modo
tributarie di un orizzonte teologico-politico, sia pure
secolarizzato. Da qui l'esigenza, per la nuova loso a positiva, di
una decostruzione radicale non solo della teoria democratica,
ma anche dell'intero dispositivo giuridico-politico in cui essa
a onda le proprie radici:
p p
Il termine diritto deve essere eliminato dal vero linguaggio
politico quanto il termine causa dal vero linguaggio loso co.
Di queste due nozioni teologico-meta siche, l'una è ormai
immorale e anarchica come l'altra irrazionale e so stica.
Ugualmente incompatibili con lo stato nale, esse non
convengono, presso i moderni, che alla transizione
rivoluzionaria, per la loro azione dissolvente rispetto al sistema
precedente. Non vi possono essere veri diritti che no a quando
i poteri regolari emanano da volontà soprannaturali32.
Quello che in questo modo si delinea è un'ulteriore spinta al
processo di desoggettivazione, o depersonalizzazione, di cui si è
ricostruita la genesi nelle pagine precedenti. Ciò che ha
condotto agli esiti, insieme anarchici e dispotici, degli anni della
rivoluzione è stata l'idea illuminista che l'organizzazione della
società potesse dipendere dalle libere volontà degli individui o
dai principi normativi scaturiti dalla mente di un legislatore.
Quando, invece, le une e gli altri sono essi stessi il risultato,
insieme storico e naturale, di un ordine già dato che gli uomini
possono, e certamente devono, perfezionare, ma non
stravolgere in maniera arbitraria. Il soggetto, insomma, non può
creare daccapo il mondo - come vorrebbe la teologia
secolarizzata delle rivoluzioni moderne, ma anche la logica
democratica del popolo sovrano - perché ne fa parte, è situato al
suo interno. Ma - ecco il punto decisivo - essere interno al
mondo, per il soggetto, vuole dire essere in qualche modo
esterno a se stesso, essere parte di qualcosa che nello stesso
tempo lo include e lo trascende. Questo qualcosa è appunto la
vita - non solo del singolo individuo, ma del grande organismo
collettivo che lo comprende, eccedendolo, nella totalità del
genere umano33.
Quando Comte sostiene che per la sociologia «sarebbe ormai
una grave eresia, altrettanto irrazionale che immorale, de nire
l'umanità dall'uomo, anziché riportare l'uomo all'umanità»34,
intende dire che il soggetto, come è immaginato da Cartesio in
poi, acquista corpo solo se ripensato nella forma biologica della
vita. Ma anche che la vita umana si realizza a acciandosi sul
suo fuori, sulla linea di con ne con quell'alterità ambientale in
cui è possibile riconoscere la sua origine e il suo destino. Già
l'idea che la specie umana non sia sola nel mondo, ma condivida
larga parte della propria natura con altri esseri viventi ad essa
contigui, vale a incrinare il pregiudizio antropocentrico della
sua assoluta superiorità: «sono convinto - scrive Comte - che la
preponderanza troppo prolungata della loso a teologico-
meta sica in un tale ordine di idee inspiri oggi un disdegno del
tutto irrazionale nei confronti di un ravvicinamento scienti co
della società umana rispetto ad ogni altra società animale»35. È
proprio il rapporto con l'animale a trattenere la critica comtiana
dell'ugualitarismo democratico a riparo da ogni concezione
aristocratica o addirittura razzista, a di erenza dell'«insolente
orgoglio che porta certe caste a considerarsi in qualche modo
come appartenenti a un'altra specie rispetto al resto
dell'umanità»36. Ma è la concezione della morte, inseparabile da
quella della vita, a costituire, per Comte, il più deciso tramite di
decentramento del soggetto-persona. La crescita
impressionante del numero dei morti nel grande corpo
dell'umanità, così come si è andato formando nel corso della
storia, non rappresenta un oltraggio alla vita, qualcosa contro
cui essa debba difendersi e resistere, come voleva ancora Bichat,
ma piuttosto ciò che ne consente contemporaneamente la
continuazione e la variazione. Nel succedersi delle generazioni,
come chi nasce prende il posto di un altro, da cui proviene, così
chi muore apre uno spazio di vita per colui che lo sostituirà.
Inevitabilmente incastrata nella vita, la morte ne costituisce
insieme l'assoluto fuori e il centro d'irradiazione interno a
partire dal quale ciò che è vivente sperimenta il limite della
propria identità e la misura della propria alterazione.

4. Fin quando si resta all'interno dell'orizzonte de nito dal


ruolo fondativo giocato dalla biologia nei confronti degli altri
saperi, e della teoria politica in particolare, la nozione classica di
persona, insieme a quelle, connesse, di diritti individuali e di
sovranità statale, è incrinata nei suoi presupposti di fondo, ma
non ancora frontalmente negata. La sociocrazia comtiana, con
le sue aperture metodologiche e le sue derive antimoderne,
rappresenta un fragile punto di equilibrio all'interno di questa
dialettica. La rottura vera e propria in direzione di una diversa
logica, non semplicemente bio loso ca ma assai più
intensamente biopolitica, richiede un nuovo passaggio
costituito all'incrocio produttivo con il lessico dell'antropologia.
È attraverso di esso che la riformulazione biologistica della
loso a politica moderna si carica di un signi cato normativo
volto a trasformarla radicalmente in senso impositivo ed
escludente. Non abbandonando le categorie portanti della
prospettiva precedente, ma sottoponendole a un di erente
registro concettuale che di per sé ne modi ca e stravolge
l'e etto. È quanto, appunto, accade alla bipartizione
fondamentale operata da Bichat, trasferita dall'ambito della
siologia individuale - cioè del corpo singolare di ciascun uomo
- a quella della specie umana nel suo complesso e nel suo
sviluppo. In questo passaggio di scala il discorso antropologico,
a sua volta politicizzato in senso gerarchico, svolge il suo ruolo
strategico di commutatore semantico: ciò che nella
formulazione di Bichat era una di erenza funzionale di
carattere esclusivamente biologico acquista adesso il signi cato
di una decisione comparativa tra di erenti livelli di umanità.
Per cogliere la portata di questo generale spostamento
categoriale prodotto dal sapere antropologico n dalla metà del
secolo è opportuno risalire a un testo pubblicato già nel 1837 da
Victor Courtet de l'Isle, con il titolo programmatico La Science
politique fondée sur la Science de l'homme ou Etude des races
humaines. In esso l'autore parte dalla considerazione
preliminare che l'uomo, così come ogni altro essere vivente, può
essere analizzato in quanto individuo oppure in quanto
appartenente a una specie, a un genere, a una razza
determinata. Mentre il primo tipo di studio, a seconda che si
rivolga al suo aspetto sico o a quello morale, riguarda la
g p q g
scienza siologica o quella psicologica, il secondo costituisce il
territorio speci co dell'antropologia. Ora la tesi di fondo
dell'autore è che la debolezza costitutiva del sapere politico
moderno nasce dal fatto che esso ha concentrato la propria
attenzione da un lato sull'individuo piuttosto che sulla specie e
dall'altro sul versante psicologico anziché su quello siologico.
Come se non bastasse, quella che si è voluta de nire scienza
politica - per esempio da parte di Montesquieu - ha immaginato
di poter ricavare le caratteristiche dei vari regimi, o sistemi di
governo, da fattori esterni, quali il clima, l'educazione, i
costumi, trascurando in questo modo proprio l'elemento
decisivo, perché più intrinseco, vale a dire la di erenza
biologico-naturale che separa i diversi gruppi umani. Ciò che
conta, nella vita politica e ettiva, non è quello che scaturisce
dalle scelte soggettive e volontarie delle persone, ma quanto,
dall'interno della loro speci ca natura, le precede e le determina
con la necessità perentoria di uno stampo originario:
l'uomo non è solo uno strumento, egli è anche dotato di una potenza attiva e
intrinseca. Perciò non bisogna limitarsi ad analizzare le in uenze che subisce, è
necessario analizzare altrettanto l'in uenza delle sue facoltà, delle sue
predisposizioni native. Ora, diciamolo, l'uomo di erisce nelle facoltà e nelle
predisposizioni native in base alla razza cui appartiene, vale a dire in base alle
di erenze di organizzazione che risultano dalla molteplicità delle razze37.

Vero è, ammette Courtet, che da qualche tempo - il riferimento


esplicito è alla frenologia di Gall, ma può ben estendersi alla
siologia di Bichat - la scienza politica si è aperta agli apporti
della biologia, individuando la radice di un dato pensiero in una
certa piega del cervello, oppure derivando un atteggiamento
caratteriale dalla conformazione del cranio. Ma questa indagine
- pure fruttuosa e ormai irrinunciabile sul piano, per esempio,
della patologia criminale - è stata trattenuta nei con ni
dell'analisi individuale e non allargata allo studio delle
popolazioni come insiemi etnici distinti, vale a dire all'oggetto
speci co del sapere politico. Proprio ad esso rimanda, invece,
l'antropologia comparata delle razze. La quale, tutt’altro che
presupporre l'unità del genere umano, è precisamente la scienza
rigorosa delle sue di erenze interne, in quanto tali invalicabili
perché radicate nella falda più profonda della nostra natura.
Solamente se si scende, o meglio si penetra, al suo interno, la
relazione costitutiva tra vita e politica sfuggirà all'astrattezza
delle elucubrazioni loso che e all'arbitrarietà delle
introspezioni psicologiche, per attingere il livello più concreto
della vita collettiva. In base a tali presupposti, e attraverso
un'ampia esempli cazione documentaria che occupa la parte
centrale del saggio, Courtet può isolare le seguenti proposizioni:
1) Gli esseri viventi sono graduati secondo una scala gerarchica
che va non soltanto dagli animali inferiori all'uomo, ma che
divide secondo determinate cesure il medesimo genere umano;
2) I di erenti gradi di quest’ultimo corrispondono alle diverse
razze descritte e classi cate dai siologi; 3) Tali di erenze
razziali non si instaurano soltanto tra popoli lontani per
aspetto, colore, linguaggio e altri caratteri esteriori, ma anche
all'interno della stessa società nazionale; 4) Nel tempo si
determinano delle miscele razziali che producono una
discendenza meticcia, ma non in maniera tanto estesa da
cancellare i caratteri originari dei tipi primitivi; 5) Essendo
questa ibridazione tra popolazioni diverse ormai il fenomeno
bioantropico più rilevante, è evidente che la conoscenza dei
risultati sici e morali che ne conseguono debba costituire il
bagaglio fondamentale delle scienze sociali; 6) Dal momento
che gli organi di cui sono dotate le razze - con particolare
riguardo alla loro conformazione cerebrale - non sono
ugualmente sviluppati, ne deriva incontestabilmente che anche
le loro facoltà intellettuali saranno qualitativamente diverse. Da
qui la conclusione, presentata nella forma di una vera e propria
legge di natura, perché confermata dall'osservazione sul campo
di storici, viaggiatori, siologi: «le di erenze di casta rimontano
originariamente a di erenze di razza; ciò che, nel mio pensiero,
porta necessariamente ad a ermare che l'ineguaglianza di
potenza naturale delle razze determina l'ineguaglianza del loro
rango sociale»38.
Contro le diverse anime della loso a politica moderna -
l'individualismo assolutistico di Hobbes, l'ugualitarismo
radicale di Rousseau, il liberalismo costituzionale di Constant,
assunti dall'autore come bersagli espliciti della propria critica -
quello che in questo modo si delinea è un'antropologia
biopolitica, o una biopolitica antropologica, situata non più
soltanto fuori, ma decisamente in contrasto con la vulgata
democratica e le sue categorie di soggetto personale, volontà
individuale, uguaglianza delle condizioni. A una scienza politica
ancora concentrata su «questioni di persone e di governi»39 - già
criticata come insu ciente da Charles Dunoyer in un testo
presentato dall'autore come proprio precedente diretto40 - si
sostituisce un sapere del corpo e della specie che fa del sangue
l'unico elemento politicamente dirimente. Naturalmente il
motivo della di erenza razziale, già ampiamente circolante
nella trattatistica settecentesca, non è nuovo nella letteratura
del tempo. Ciò che, però, segna una svolta, destinata a ssarsi e a
intensi carsi nei decenni successivi, è l'uso diretto del
dispositivo antropologico all'interno del discorso politico e
insieme la preventiva modulazione politica del congegno
antropologico: è proprio il concetto, in sé indi erenziato e
universalistico, di humanitas a divenire il luogo speci co e la
materia vivente della selezione sociale. Con un'antinomia tipica
di tutta questa linea di pensiero, a caratterizzare il genere
umano come insieme biologico è posta proprio la decisione
gerarchica ed escludente tra le sue di erenti tipologie interne.
Allo stesso modo esso nisce per includere dentro di sé quella
bestialità dalla cui esclusione pareva derivare la propria identità
di specie. Il valore e dunque la legittimità biologica - in ultima
analisi il diritto alla vita - delle razze diventa così misurabile in
base alla relazione proporzionale, che in questo modo si
determina, tra inclusione ed esclusione: tanto più l'una può
essere elevata a un livello superiore quanto più l'altra, o le altre,
vengono spinte e relegate in quello inferiore.
5. Se si dovesse indicare in maniera sintetica il ruolo giocato
dall'antropologia nel processo di implicazione reciproca tra
politica e biologia, si potrebbe a ermare che esso concerne il
trasferimento del suo oggetto - l'uomo in quanto specie vivente
- dall'ambito della storia a quello della natura. È appunto questo
- la naturalizzazione di colui che era sempre stato rappresentato
in termini storici - a renderne possibile l'inquadramento
tassonomico in una scala gerarchica comprensiva, almeno nel
suo tratto inferiore, di caratteristiche provenienti dal mondo
animale. Solo se preventivamente destoricizzato, l'essere
umano, o quantomeno una sua tipologia interna, può essere
animalizzato. Tuttavia, perché questo spostamento fosse
e ettuabile in tutta la sua portata e, come dire, senza resto,
occorreva superare un ostacolo di non poco conto, perché
coincidente con la di erenza stessa tra qualsiasi tipo di uomo e
qualsiasi tipo di animale, vale a dire il linguaggio. Se ogni altra
prestazione umana può in qualche modo essere, se non
identi cata, certo assimilata a quella di alcuni animali
superiori, ciò non vale per il linguaggio verbale, proprio soltanto
di quell'essere vivente chiamato homo sapiens. È appunto questa
di coltà - la necessità del suo superamento - a conferire il
massimo rilievo strategico a un'altra disciplina, situata nel
punto di giuntura tra antropologia e biopolitica, vale a dire la
linguistica. Torna con forza la considerazione, già
precedentemente avanzata, circa la funzione produttiva, anche
in senso legittimante, dell'interscambio tra le scienze umane in
vista di un mutamento di paradigma. Si potrebbe, a tale
proposito, a ermare che, come l'antropologia è il commutatore
semantico che consente alla politica di modellarsi sul calco della
biologia, così la linguistica - e più precisamente la grammatica
comparata - costituisce l'alveo di scorrimento della
politicizzazione integrale dell'antropologia.
All'origine di questo transito concettuale c’è l'opera del
grande linguista tedesco August Schleicher. Già esperto di
botanica, poi specialista di lingue slave, il suo rilievo, all'interno
del nostro discorso, sta non solo nella netta svolta naturalistica
impressa allo studio del linguaggio, ma soprattutto nel percorso
teorico che la sottende, situato tra Hegel e Darwin. Dove
l'elemento ancora più signi cativo non sta tanto nel passaggio,
esplicitamente dichiarato, dall'in uenza del primo a quella del
secondo, quanto negli e etti potentemente ideologici del loro
incrocio in ordine al rapporto tra natura e storia sotteso alla
biologizzazione della politica. Come è stato rilevato da Patrick
Tort in lavori ormai indispensabili41, a spingere il margine di
sovrapposizione tra scienza dell'uomo e politica della vita in
direzione gerarchica e aggressiva non è l'assunzione del
paradigma darwiniano in quanto tale, ma la sua preventiva
immissione entro un quadro analitico e normativo che lo
precede e predetermina in una forma diversa da quella ad esso
originariamente inerente. Di questo e etto retroattivo la
linguistica costituisce un tramite decisivo. Già rivolta a una
classi cazione genealogica tra lingue più o meno perfette,
quando la biologia era ancora ferma a una prospettiva ssista,
essa era stata usata dallo stesso Darwin come referente
analogico per il proprio modello evolutivo. d'altra parte
l'interpretazione del linguaggio come corpo vivente in continua
evoluzione risale alla tradizione preromantica dei vari Herder,
Humboldt e Schlegel. In questo quadro di larga contiguità
disciplinare - attestata anche dai riferimenti linguistici del
geologo Charles Lyell42 - la svolta impressa da Schleicher attiene
al brusco transito dalla metafora alla realtà: la lingua non è più
soltanto qualcosa di organico - perché caratterizzata dalla
interconnessione funzionale di tutte le sue parti - ma un vero
organismo dotato di vita propria anche rispetto a colui che la
parla.
Tale tesi, ancora racchiusa in una cornice hegeliana nel
primo volume delle sue Sprachvergleichende Untersuchungen del
184843, acquista sempre più nettezza nel secondo, edito due
anni dopo col titolo Die Sprachen Europas in systematischer
Übersicht44. In esso l'autore arriva a un certo punto a abbozzare
una sorta di autocritica rispetto alla sua precedente
impostazione, allorché aveva ipotizzato, al seguito di Hegel, che
la lingua appartenesse alla sfera spirituale, perché dispiegata
lungo il corso della storia. Con ciò egli non vuole negare che essa
conosca uno sviluppo nel tempo, ma in una forma che non è
propriamente storica, bensì essenzialmente biologico-naturale.
Quello che ne risulta non è una brusca elisione della dimensione
spirituale, ma la sua separazione funzionale rispetto a un'altra
sfera, più opaca e pesante, che, però, nello stesso tempo ne viene
considerata la radice originaria e ineliminabile. È in questo
procedimento di articolazione per di erenza che va rintracciato
il punto di raccordo e di intersezione con il quadro
antropologico in questione. Come solo sul fondo oscuro
dell'animale-uomo assume rilievo la gura luminosa dell'uomo
interamente umano, cioè non-anche-animale, così solo dalla
falda spessa e indi erenziata del suo corpo biologico può
separarsi qualcosa come lo spirito della lingua:
La scienza che ha per oggetto la lingua in generale [è l'incipit dell'introduzione] è
separata in due branche distinte. l'una, che si chiama la lologia, studia la lingua
per arrivare attraverso di essa alla conoscenza dell'essenza intellettuale delle
nazionalità; la lologia appartiene alla storia. l'altra si chiama la linguistica; essa
non s’occupa per nulla della vita storica delle nazioni: è parte della siologia
dell'uomo […]. l'usignolo non saprebbe mai cantare come la civetta: lo stesso
accade per l'elemento primitivo delle di erenti lingue umane45.

Come accadeva nel modello biologico di Bichat per l'intera vita,


anche in questo caso un elemento biologicamente decisivo,
quale è il linguaggio, risulta identi cato dalla di erenza che lo
separa da se stesso in due zone a un tempo autonome e
articolate. E anche in questo caso tale articolazione ha a che fare
con il rapporto contrastivo tra volontà e necessità: a una zona
più esterna, caratterizzata dalla libera costruzione storica,
risponde, e si contrappone, un'altra ripiegata su se stessa,
sottomessa al ferreo vincolo della necessità naturale. È appunto
quest’ultima l'oggetto proprio della linguistica. Se il linguaggio
in quanto tale costituiva l'ultimo ostacolo ontologico alla piena
naturalizzazione dell'animale-uomo, o dell'uomo-animale, la
scienza che lo studia ne individua un livello primario che
proprio nella natura trova il suo terreno di radicamento.
Il debito di Schleicher nei confronti di Darwin, già dichiarato
nel libro sulla lingua tedesca46, trova la sua espressione più
esplicita nei due brevi testi degli anni 1863-64, intitolati
appunto La teoria di Darwin e la scienza del linguaggio47 e
Dell"importanza del linguaggio per la storia naturale dell'uomo48.
In essi l'autore, oltre a radicalizzare la propria prospettiva
naturalistica - individuando nel linguaggio null'altro che
un'entità biologica risultante dall'attività degli organi fonatori e
dei terminali neurali - la inscrive radicalmente all'interno del
quadro interpretativo darwiniano. Vero è che l'elaborazione
dell'albero genealogico delle lingue, in base al quale esse
discendono per variazioni graduali da un tronco comune, per
poi di erenziarsi in rami speci ci, precede, nell'apparato
epistemico di Schleicher, l'incontro con Darwin. Ma ciò che era
un costrutto di tipo analogico viene adesso caratterizzato dalle
categorie - di selezione naturale, lotta per la sopravvivenza,
sviluppo disuguale - messe in campo dall'autore dell'Origine
delle specie. È questa brusca immissione di un lessico
inizialmente estraneo, come quello darwinista, nell'ambito
linguistico che ne determina, a sua volta, la diretta
sovrapposizione con quello antropologico. Tutt’altro che
ostacolo insormontabile alla presenza di soglie bioantropiche
di erenziate, il linguaggio, appunto perché intimamente
inerente alla conformazione anatomica dell'uomo, appare a
Schleicher ciò che ne convalida e legittima la costituzione:
Se il linguaggio è il carattere speci co, kat’exochen, dell'umanità, ciò suggerisce il
pensiero che il linguaggio potrebbe ben servire da principio distintivo per una
classi cazione scienti ca e sistematica dell'umanità, e formare la base di un
sistema naturale del genere uomo. […] Abbiamo visto che è soprattutto il
linguaggio che distingue l'uomo come tale, e che, di conseguenza, i diversi gradi
del linguaggio devono essere considerati come i segni caratteristici dei diversi
gradi dell'uomo49.

È il punto in cui teoria della lingua e sapere dell'uomo si saldano


in un'unica linea de nita dal rilievo biopolitico di clivages
interni al genere umano. La corrispondenza, e anzi la
funzionalità reciproca, dei due saperi appare perfetta: come
l'antropologia poligenista - sostenitrice, cioè, dell'origine
diversi cata delle razze - o re alla teoria del linguaggio il
quadro ideologico di orientamento, così la linguistica restituisce
alla scienza dell'uomo un ulteriore materiale di prova per la sua
opzione di erenzialista. Al centro di questo incrocio, nel punto
di articolazione dei due lessici, la biologia darwiniana, essa
stessa decontestualizzata e inserita in una cornice semantica ad
essa precedente ed eterogenea, quale è l'hegelismo, mai ri utato
in toto e anzi utilizzato come collante generale dell'intera
operazione. Già si è visto come Schleicher non elimini di per sé
la dimensione storica, ma piuttosto la con ni alla pratica
lologica, rivolta all'analisi dei fenomeni lessicali e letterari. In
questo modo la lingua, più che irrelativa alla sfera della storia, si
dispone con essa in una relazione di inversione proporzionale,
nel senso speci co che nasce dal suo ritiro. Anche la lingua,
infatti, come tutti gli altri organismi animali, è soggetta a uno
sviluppo, che per Schleicher - come già per Humboldt e per i
fratelli Schlegel - consiste generalmente nella successione da
una fase iniziale di tipo isolante a una, successiva, di carattere
agglutinante, per culminare, in ne, in una modalità essiva. Ma
- ecco l'inversione di senso - tale movimento appartiene alla
stagione preistorica, non a quella storica, dove invece la
progressione si blocca e si torce in una inevitabile decadenza:
quanto più accrescono le loro possibilità fonetiche, tanto più le
lingue moderne riducono l'originaria ricchezza grammaticale e
subiscono un destino di inarrestabile impoverimento:
Dal momento in cui l'Uomo comincia a riconoscersi in ciò che de nisce Storia, ha
fatalmente cessato di creare la Lingua, questa immagine ri essa della sua
essenza; egli l'aveva creata, ma in un'epoca in cui non possedeva ancora coscienza
di se stesso. Tale epoca è al di qua di ogni storia, sottratta a ogni memoria. A
partire da allora non vi è negli idiomi che riproduzione, al posto della creazione,
nello stesso tempo in cui vi è sempre maggiore degenerazione nelle razze degli
idiomi50.
La relazione è così ssata: il progresso è compatibile solo con la
non-storia, come la storia si associa solo a decadenza. È
precisamente qui che l'antica teoria degenerativa, parzialmente
adottata anche da Hegel, risucchia nel suo alveo e sottomette
quella, ad essa nettamente contraria, del trasformismo
darwiniano. Mentre questo non prevede la necessità del declino
- anzi presuppone, in linea di massima, una progressione dal
semplice al complesso -, Schleicher lo sottopone a una
traduzione in termini hegeliani che ne rovescia la direzione
originaria. Dopo aver modellato la classi cazione ascendente
delle lingue sulla tripartizione gerarchica della storia naturale
in Hegel - facendo corrispondere al regno minerale le lingue
monosillabiche, al regno vegetale le lingue agglutinanti e al
regno animale quelle essive - ne desume anche l'implicito
criterio valutativo. Nonostante il fatto che tutte le lingue
moderne presentino i segni di una degenerazione progressiva,
alcune di esse, a partire da quella indogermanica, sono pur
sempre superiori alle altre, rimaste bloccate a una fase
primitiva, come del resto appare evidente anche dalla
superiorità dei caratteri razziali di chi le parla. Non può, a
questo punto, sfuggire il cortocircuito cui perviene
l'implicazione reciproca tra linguistica e antropologia51. Se
lingue diverse corrispondono a conformazioni biologiche
diverse, il linguaggio costituisce il referente migliore per
classi care le varie razze umane. Ma, essendo fornite le lingue di
diverso valore, anche le razze cui esse corrispondono avranno
una di erente dignità. In questo modo la superiorità biologica
dei caratteri razziali determina quella, altrettanto biologica,
delle lingue e la qualità superiore delle lingue conferma quella
delle razze che ne fanno uso.
6. Negli stessi anni in cui Schleicher porta avanti le sue
ricerche biolinguisiche, l'antropologo Paul Broca dedica un
saggio, invero anche critico, al rilievo crescente che le scienze
del linguaggio vanno assumendo nei confronti del sapere
antropologico52. Il motivo di tale implicazione è ricondotto alla
circostanza che la conoscenza della lingua consente di risalire
alle origini del popolo che la parla con un arretramento
prospettico che supera all'indietro la soglia della storia
radicandosi in un terreno ancora più primordiale. In questo
senso Adolphe Pictet aveva potuto sottointitolare il suo volume
sugli Ariani primitivi Essai de paléontologie linguistique. Nulla
come i reperti linguistici consente di scoprire la genesi di ciò che
conosciamo solo nella fase del suo sviluppo, dal momento che
essi hanno una capacità di conservazione incomparabile
rispetto a ogni altro tipo di manufatto umano: «Le parole
durano quanto le ossa; e, così come un dente contiene
implicitamente una parte della storia di un animale, una parola
isolata può dare indicazioni su tutta la serie di idee che ad essa si
legano lungo la sua formazione»53. Altri, come Max Müller,
avevano addirittura paragonato gli strati più profondi della
lingua a quelli della lava o della crosta terrestre, indagati dalla
geologia. Ciò che in entrambi i casi si voleva sottolineare,
evidenziando il carattere extrastorico, o almeno preistorico, del
linguaggio è la sua estraneità di principio all'azione volontaria
degli uomini. È proprio perché sfugge ai mutamenti della storia
che la lingua è capace di rappresentare l'origine. Ciò vale anche
per il rapporto con gli esseri umani - tanto intrinseco sotto il
pro lo della specie, quanto debole sul piano della coscienza. Più
che parlare consapevolmente una data lingua, essi ne sono
inconsapevolmente ‘parlati’ in una forma che scava uno iato
nella loro identità soggettiva. Anziché soggetti, gli uomini
nascono assoggettati ai vincoli oggettivi di un linguaggio che li
precede e li determina in tutta la loro attività consapevole.
Ferma restando la distinzione, già ssata da Schleicher, tra
evoluzione naturale e processo storico, la lingua è interpretata,
infatti, da Müller come un dato indipendente che sottende
l'esperienza umana senza esserne modi cata. Perciò può
rivelarci qualcosa della preistoria dell'uomo che neanche
l'antropologia arriva a penetrare - perché, mentre le razze si
incrociano e ibridano nel corso del tempo, il linguaggio resta
aderente al suo ceppo primario. Un celto - argomenta Müller -
può diventare inglese e il sangue inglese può contenere elementi
di diversa provenienza. Non così le lingue, che non sono mai
miste. Tali potrebbero essere, forse, il lessico e la sintassi, ma
non certo la grammatica:
Nel dizionario inglese lo studente di scienze del linguaggio può rintracciare,
attraverso i propri testi, gli ingredienti celtici, normanni, greci e latini, ma non
una sola goccia di sangue straniero è entrata nel sistema organico del linguaggio
inglese. La grammatica, il sangue e l'anima del linguaggio, è tanto pura e intatta
nell'inglese come è parlato nelle isole britanniche, quanto lo era quando era
parlato sulle coste del mare germanico dagli Angli, dai Sassoni e dagli Iuti del
continente54.

Ma colui che stringe con un nodo ancora più vincolante la


struttura della lingua alla sostanza biologica della razza è il
linguista belga Honoré Joseph Chavée, collaboratore della
«Revue de linguistique et de philologie comparée» e autore di
un testo appunto intitolato Les langues et les races. «Ogni lingua
- è la sua proposizione di esordio - non è che un complemento
naturale dell'organizzazione umana anatomicamente,
siologicamente e psicologicamente specializzata in ogni razza.
Le di erenze caratteristiche della causa produttrice (tale
organizzazione cerebro-mentale data) si ritrovano per forza
ri esse negli e etti prodotti»55. Ciò signi ca - egli prosegue -
che la razza cinese sta alla lingua cinese come la razza indo-
europea alla lingua indo-europea. Nessuno potrebbe modi care
questa simmetria, né dall'esterno né dall'interno delle stesse
razze, dal momento che il linguaggio è un fenomeno inconscio,
del tutto simile all'apparato digerente o alla circolazione
sanguigna e dunque assolutamente impermeabile ai comandi
del libero volere. Rispetto alla canonica bipartizione di Bichat, la
lingua, benché rivolta alla comunicazione interumana, è, nella
sua struttura materiale, più vicina alla ‘vita organica’ che a
quella ‘animale’. O, forse meglio, espressiva di una terza falda
biologica a sé stante, essa stessa sdoppiata in due versanti -
quello della semantica, capace di conservare l'anima della
parola in una stato di perfetta integrità e quello del corpo
sillabico, destinato a indebolirsi e ad ammalarsi, a perdere
«denti e capelli, no a divenire irriconoscibile»56. Tutte le lingue
portano le tracce indelebili di queste malattie, esse stesse
sottomesse a leggi sse, riconducibili a quel processo
degenerativo sperimentato, allo stesso modo, dai gruppi etnici
che le parlano. Anche se ciò non signi ca che le varie lingue -
come del resto le varie razze - vadano situate sul medesimo
piano. Ritorna, e s’approfondisce, la stessa inconseguenza logica
riscontrata in Schleicher: tutte le lingue degenerano - ma alcune
meno, o più lentamente, delle altre perché hanno una forza
germinale che le protegge dalla pur inevitabile decadenza. Ciò
vale soprattutto per le uniche due - quella ariana o indoeuropea
e quella semitica o sirio-araba - che hanno «largamente
conosciuto l'opera dell'incarnazione del pensiero nella
parola»57.
l'autore cui, con queste espressioni, Chavée esplicitamente
rimanda è Ernest Renan. Egli non solo spinge la comparazione
tra linguaggio e razza no al punto da cancellare, nella categoria
di ‘razza linguistica’, anche il margine di erenziale che l'allievo
di Chavée, titolare della cattedra di antropologia linguistica
all'École d'Anthropologie, Abel Hovelacque, pur sulla scia di
Schleicher e Müller, ancora rivendicava nel suo trattato di
linguistica58. Ma inchioda il rapporto tra le lingue - e dunque tra
le razze - a un quadro comparativo che non prevede spostamenti
né verso l'alto né verso il basso. Ogni lingua resta ssata al grado
gerarchico cui la destina la sua inevitabile connotazione
razziale. Ciò vale per le due razze linguistiche nobili, quelle
ariana e semitica - esse stesse situate su piani tutt’altro che
equivalenti, dal momento che la prima è aperta alle acquisizioni
della scienza, dell'arte, della politica, mentre la seconda resta
ripiegata su se stessa, incapace di pensare il molteplice, chiusa
nei confronti dell'avvenire59. Ma vale soprattutto nella
relazione, e anzi nella contrapposizione, tra queste e tutte le
altre, disposte su una scala gerarchica discendente e degradante
verso la condizione animale.
Quanto alle razze inferiori dell'Africa, dell'Oceania, del Nuovo Mondo, e a quelle
che precedettero quasi dovunque l'arrivo delle razze dell'Asia centrale, un abisso
le separa dalle grandi famiglie di cui si è parlato. Nessuna branca delle razze
indoeuropee o semitiche è discesa allo stato selvaggio. Queste due razze ci
appaiono dovunque con un certo grado di cultura. d'altronde non vi è un solo
esempio di un popolo selvaggio che si sia elevato alla civiltà. Bisogna supporre
che le razze civilizzate non abbiano mai attraversato lo stato selvaggio e abbiano
portato esse stesse, dall'inizio, i germi dei progressi futuri60.

Ciò che, insomma, tiene a in nita distanza i due tipi di uomini -


superiori e inferiori - non è solo la di erenza presente, ma
quella passata e futura. Meglio: il fatto che, come i primi non
hanno passato, i secondi non hanno futuro. Gli uni stanno già
da sempre dopo l'uomo, gli altri ancora e sempre prima. Perciò
la loro diversità non è solo di razza, ma di specie: più che umana
in un caso e meno che umana nell'altro.

7. Il nesso necessario tra lingue e razze, elaborato dal gruppo


di linguisti raccolto intorno a Schleicher, era già al centro del
grande a resco di Gobineau sur l'inegalité des races humaines. Si
può ben dire che questo costituisca il punto di convergenza, e
nello stesso tempo di intensi cazione, di tutti i vettori nora
rilevati lungo una direzione sempre più esterna al lessico
loso co-politico moderno, come ben dimostra la reazione nei
suoi confronti di un autore tutt’altro che canonico, ma pur
sempre tributario di una semantica concettuale di provenienza
classica, quale è Tocqueville: «Mi fermo qui; permettetemi, vi
prego, di troncare il discorso a questo punto. Siamo separati da
una distanza troppo grande perché la discussione possa essere
fruttuosa. Vi è un intero mondo intellettuale fra la vostra
dottrina e la mia»61. La domanda con cui il saggio sulle razze
esordisce non è di erente da quella, a suo tempo posta da
Bichat, sulla presenza assidua della morte nella vita,
sull'inesorabile scivolamento della vita nella morte.
Naturalmente con lo spostamento dell'angolo di osservazione,
già e ettuato da Courtet, dall'ambito dell'individuo a quello
della specie, a sua volta articolata nella di erenza presupposta
delle varie razze. Perché «il più oscuro di tutti i fenomeni della
storia», il «segreto intorno al quale non smette di ruotare il
pensiero umano», non è la nascita, o lo sviluppo, dei popoli - «i
loro successi, le loro conquiste, i loro trion » - ma la distruzione
che li travolge con una tale ripetitività che «si è costretti a
constatare che ogni agglomerazione umana, anche se protetta
dall'ingegnosità dei più complicati legami sociali, contrae, nel
giorno stesso in cui si forma, nascosto tra gli elementi della vita,
il principio di una morte inevitabile»62. È alla ricerca di questo
principio degenerativo che è dedicato l'intero libro: dove si
origina, cosa lo muove, come si riproduce? Il motivo ultimo del
suo di cile rinvenimento sta, per Gobineau, nella circostanza
che esso coincide con quell'elemento etnico in cui risiede la
stessa forza della vita. Perciò sbagliano coloro che lo cercano
fuori della costituzione biologica dei popoli: nel clima, nelle
forme politiche che essi si sono dati o anche nella guerra con
altri popoli. Perché non colgono che non esiste qualcosa capace
di vincere la forza organica delle singole razze che non sia la loro
stessa sostanza - vitale quando resta integra e indebolita no al
tracollo quando si mescola con quella di altri ceppi razziali.
È qui che l'autore inserisce un esplicito riferimento a Bichat,
come a colui che «non ha cercato di scoprire il grande mistero
dell'esistenza studiando ciò che sta fuori di essa; egli lo ha
sempre interrogato dall'interno del soggetto umano»63. Dove
l'elemento che emerge con più evidenza non è tanto la parziale
forzatura della posizione del siologo francese - volto, in realtà,
a individuare proprio nell'ambiente esterno la minaccia più
ricorrente alla continuità della vita - quanto lo slittamento,
ancora più rilevante sul piano biopolitico, dal discrimine
topologico tra dentro e fuori a quello, immunitario, tra
omogeneo ed eterogeneo, integro e corrotto. A interrompere il
usso della vita non è l'incontro casuale, o necessario, con una
potenza esterna - quanto la sua contaminazione determinata
dall'incrocio etnico tra due liere razziali diverse. Che tale
metissage sia necessario allo sviluppo della civiltà non ne toglie
il carattere potenzialmente letale. È per questo che la storia è in
sé principio di morte - perché è già pensata nella forma,
intrinsecamente mortale, dell'esistenza biologica. Questa
trasposizione naturalistica del processo storico costituisce forse
la cifra più peculiare della prospettiva di Gobineau. Quando
scrive che «si tratta di fare entrare la storia nella famiglia delle
scienze naturali»64, egli intende compiere un'operazione più
complessa di una semplice contrapposizione del linguaggio
biologico a quello storico. Il suo obiettivo è piuttosto una
traduzione della stessa storia nella lingua delle scienze naturali.
Ciò è reso possibile attraverso una duplice omologazione che, se
da un lato modella l'ordine storico sullo sviluppo dell'individuo,
dall'altro deriva quest’ultimo dal destino evolutivo della specie.
In questo modo è come se Gobineau, più che limitarsi a
naturalizzare la storia, distendesse nel tempo lungo della vita
dell'umanità quel segmento che ha preventivamente
destoricizzato. Una relazione simile si determina tra materia e
spirito: tutt’altro che eliminato a favore di un materialismo
estraneo alla vocazione aristocratica dell'autore, lo spirito
costituisce il piano immateriale lungo il quale la materia
biologica aderisce o diverge da se stessa, la forma ideale nella
quale la vita coglie la necessità e l'articolazione delle sue soglie
interne.
A quindici anni di distanza dall'edizione del libro sulle razze,
Gobineau pubblica in tedesco una Memoria su diverse
manifestazioni della vita individuale. Per niente riducibile a
semplice appendice, o complemento, dell'opera maggiore, essa
costituisce non soltanto l'unico contributo di tono
esplicitamente loso co dell'autore, ma anche quello in cui egli
imposta in maniera più distesa la questione del rapporto tra
lingua e razza già anticipata nel capitolo xv della prima sezione
dell'Essai. A giusta ragione il curatore del testo, ristampato nel
1935 in edizione bilingue, individua un preciso rimando a
Schleicher e in particolare alla sua introduzione, già qui
commentata, al secondo volume delle Ricerche, tradotto in
francese nel 185465. Di essa Gobineau riprende la
interpretazione naturalistica del linguaggio come organismo
vivente indipendente ed esterno alla dimensione storica. Come
dimostra la superiorità del sanscrito, ma anche del greco e del
latino, sulle lingue moderne sempre più sclerotizzate e inaridite
nella loro capacità espressiva, non c’è alcun rapporto tra
incremento culturale dei popoli e stato di salute della loro
lingua. Impoverimento costante del vocabolario, distorsione
della funzione propria dei pronomi, atro a progressiva dei
verbi, riduzione no alla scomparsa dell'uso del congiuntivo e
della forma passiva sono tutti segni tangibili dell'inaridimento
inarrestabile delle primitive fonti linguistiche. Ma se n qui
Gobineau si limita a riprodurre un modello - quello critico-
degenerativo - largamente circolante nella grammatica
comparativa di impronta schleicheriana, a un certo punto,
tuttavia, cambia passo, aprendo uno scenario biolinguistico
assai più denso e peculiare. Al suo centro vi è la relazione,
problematica e anche antinomica, tra i tre piani, insieme
collegati e di erenziati, dello spirito, del corpo e del linguaggio.
Generati contemporaneamente alla nascita dell'essere umano,
essi cominciano a divergere nel corso del suo sviluppo. Così è
vero che la lingua trova il proprio ambiente speci co nella sfera
dell'intelligenza o dello spirito - il termine tedesco usato
dall'autore è Geist - ma senza che si possa dire che ne costituisca
un prodotto. Al contrario sta in essa come un corpo separato ed
estraneo: «La lingua non trova un suolo dove impiantarsi fuori
dello spirito umano; tuttavia è un essere a parte. Allo stesso
modo, l'acaro della quercia non vivrebbe sul salice, né quello del
salice sul faggio; tuttavia non è l'albero che, dando
all'animaletto la possibilità di vivere, ne ha creato il principio
[…]. Relativamente allo spirito, la lingua è un corpo parassita»66.
Non bisogna perdere il lo complesso del ragionamento di
Gobineau: vi è, certo, un punto di intersezione tra spirito e
lingua - situato sull'interfaccia in cui le parole assumono il loro
senso. Ma tale congiunzione non riduce in nessuno modo
l'eterogeneità di principio tra i due elementi. «l'individuo
idiomatico» (idiomatische Individuum) - come Gobineau
de nisce l'essere del linguaggio - è essenzialmente esterno alla
struttura che pure lo ospita. È ontologicamente altro rispetto
all'elemento ambientale - quello appunto dello spirito - di cui
condivide la sostanza:
Lo spirito trova, in se stesso, un essere che esso non ha creato, ma che vive in lui,
la cui sostanza è analoga alla sua, senza essergli completamente omogeneo; lo
addomestica e se ne serve. Lo adatta ai suoi bisogni ntanto che può piegarlo a sé;
gli fa portare il giogo; lo tratta, in una parola, come noi facciamo con le di erenti
razze animali, sulle quali estendiamo la nostra azione, senza tuttavia pretendere
né di averle create né di modi carne i caratteri essenziali67.

È questa disomogeneità di fondo, questa alterazione originaria


della propria identità, che impedisce all'uomo di esercitare una
qualche opzione soggettiva sul linguaggio che egli parla, e che
anzi parla in lui. Esso non dipende in alcun modo dalla sua
volontà - altrimenti potremmo parlare qualsiasi lingua
straniera come facciamo con la nostra. Se ciò è evidentemente
impossibile, non è certo, prosegue Gobineau, per un limite della
nostra intelligenza, ma perché ci è precluso da qualcosa, da un
altro, più dispotico, padrone, cui «l'individuo idiomatico»
risulta vincolato in maniera assai più cogente che non allo
spirito, vale a dire dalla potenza biologica della razza. È essa a
esprimere il più massiccio e etto di padronanza su quella specie
di «parassita», di «individuo», o «animale», linguistico che abita
in noi come altro da noi: «la lingua vale ciò che vale la razza e
mostra una organizzazione corrispondente alla sua natura. Fin
quando la razza rimane pura, anche la lingua non si modi ca;
ma, nel momento in cui la razza subisce delle mutazioni,
cambiando lo spirito, la lingua si trasforma»68. Lo spirito,
insomma, incapace in sé di condizionare il linguaggio,
interviene come tramite tra questo e la razza. Tale tramite
immateriale è necessario perché la lingua, se non è un prodotto
dello spirito, non è neanche un semplice calco fonetico di
determinate operazioni cerebrali. Pur non avendo la stessa
sostanza dello spirito, non è neppure una parte del corpo, come
provano determinate malattie in cui l'assenza di parola è
compatibile con uno stato di perfetta salute siologica. Oppure,
al contrario, in cui la dissoluzione del corpo non determina una
crisi analoga nella capacità di linguaggio - n quando, almeno,
lo spirito non è anch’esso colpito a morte. Se nascono insieme,
insomma, non è detto che spirito, corpo e linguaggio muoiano
anche nello stesso momento.
Torna ancora una volta, e moltiplicato per tre, il principio
bichatiano dello sdoppiamento tra le due forme di vita -
organica e animale. A contendersi il campo dell'analisi sono
adesso tre potenze vitali, connesse e separate dallo stesso
diaframma che fa dell'una il punto di articolazione e di
di erenziazione tra le altre due. Ciò che ne determina
l'integrazione - o il contrasto esiziale - è la corrispondenza
razziale. Solo se uniti dalla medesima razza, spirito, corpo e
lingua - i tre «individui» in cui si articola l'animale chiamato
uomo - sperimenteranno al meglio la propria potenza di vita. La
vita in quanto tale, una vita qualunque, anche informe o
degradata, tendenzialmente degenerata come quella di tutti i
popoli moderni esposti all'ibridazione etnica, è sempre possibile
- Gobineau ancora non immagina che si possa, o si debba,
intervenire su di essa per spegnerla o restringerla. Si limita a
constatare che «l'individuo idiomatico nato e vivente nel
cervello di un uomo comune non è mai uguale a un altro
individuo idiomatico che fa parte degli attributi di una stessa
razza e annessa a un personaggio superiore»69. Quando si dice
che Dante ha creato la propria lingua, si vuole indicare con
questo che egli ha goduto di una potenza dell'essere idiomatico
che sorpassava di gran lunga quella degli altri uomini del
tempo. La sorpassava per forza di irradiazione e qualità
intrinseca. Ma la sorpassava anche perché aderiva, come la pelle
al corpo, al «genio» della propria razza, senza il cui sostegno e
guida la lingua declina e si impoverisce no al mutismo.

8. Il più in uente punto di sintesi tra la ricerca biolinguistica


di Schleicher e il sociodarwinismo successivo è costituito
certamente dall'opera dello zoologo tedesco Ernst Haeckel,
traduttore e massimo divulgatore di Darwin in Germania.
Proprio a lui era diretta la già richiamata lettera di Schleicher su
La teoria di Darwin e la scienza del linguaggio - a ulteriore riprova
di quell'intreccio disciplinare in cui si è ravvisato il terreno, e
insieme il motore, del salto di paradigma in atto tra gli ultimi
decenni dell'ottocento e i primi del Novecento. Ciò che unisce in
un'unica ispirazione di fondo Haeckel, oltre che a Schleicher, al
teologo David Friedrich Strauss, all'etnologo Friedrich Hellwald
o al losofo-politico Bartholomäus Carneri è un doppio
movimento congiunto che, mentre riporta ogni altro statuto
epistemico al sapere sull'uomo, spinge decisamente
quest’ultimo nel campo delle scienze naturali70. Così, se da un
lato la linguistica, la politica e per no la teologia - nella
peculiare versione immanentistica di Strauss - si interrogano
dal punto di vista dell'antropologia, questa viene a sua volta
trattata come parte integrante della zoologia e inserita, in
quanto tale, nel novero delle scienze della natura. Come Fuso del
linguaggio non è considerato per nulla esclusivo della specie
umana, allo stesso modo tutte le attività superiori, compresa la
ragione, a ondano la propria radice nell'universo animale.
Quando Haeckel, enunciando quella che è stata de nita legge
biogenetica fondamentale, a erma che l'ontogenesi ricapitola la
logenesi, cioè che la storia dell'individuo riproduce su scala
ridotta quella della specie, intende dire che ciò che ci appare
come progresso storico è in realtà l'esito predeterminato
dell'evoluzione naturale. Ciò non signi ca - come già nel caso di
Schleicher - che Haeckel escluda dal proprio campo di
osservazione quello che si de nisce comunemente spirito, o
anche anima, ma che, al contrario, lo include preventivamente
all'interno del generale processo sico-chimico da cui, a un dato
momento, è scaturito un particolare tipo di animale che si è
voluto chiamare uomo. Gli stessi atteggiamenti etici o religiosi,
tutt’altro che valori eterni, o norme interiori generate da un
imperativo categorico, sono la risultante funzionale di quella
lotta per la sopravvivenza in cui è impegnato l'intero mondo
organico.
È evidente, a partire da simili presupposti, la rotazione di
centottanta gradi che sperimenta la concezione della politica
rispetto a tutte le sue possibili declinazioni moderne. Da questo
punto di vista, il fatto che Haeckel non abbia assunto una
speci ca posizione nella lotta ideologica del tempo - che si sia
limitato a dichiararsi antisocialista, ma anche antiliberale,
antiriformista e insieme antitradizionalista - va inteso, più che
nel senso di un'attitudine costitutivamente impolitica, come
l'esito di uno strappo radicale rispetto al precedente assetto
loso co-politico. Ben si comprende allora come, riprendendo e
sviluppando in una chiave ancora più intensamente biologistica
il ragionamento di Courtet, Haeckel possa sostenere che i difetti
incresciosi della politica contemporanea «si spiegano con ciò,
che la maggior parte degli impiegati dello Stato sono appunto
giuristi, uomini di una cultura formale eccellente, ma sforniti di
quella cognizione profonda della natura dell'uomo, che può
essere acquistata solo per mezzo dell'antropologia comparata e
della psicologia monistica, privi di quella conoscenza dei
rapporti sociali, i cui esempi organici ci sono forniti dalla
zoologia e dall'embriologia comparata, dalla teoria cellulare e
dalla protistologia»71. Contro l'idea, implicita nel paradigma
loso co moderno, che l'attività politica sia espressione della
volontà consapevole di individui razionali, titolari, in quanto
persone giuridiche, di una serie di diritti soggettivi che li
rendono in qualche modo padroni del proprio destino, comincia
a pro larsi non soltanto la tesi della determinazione della
volontà, ma anche quella della sua sostituzione col vincolo,
ancora più insolubile, della trasmissione ereditaria dei caratteri
naturali: «sappiamo ora che ogni atto di volontà è determinato
dall'organizzazione dell'individuo volente, e dipende dalle
condizioni eventuali dell'ambiente esterno, come ogni altra
attività dello spirito. Il carattere delle tendenze è determinato a
priori per eredità dai genitori e dai progenitori; la decisione a
ciascuna azione è dovuta all'adattamento, alle condizioni
momentanee in dipendenza del motivo più forte, secondo le
leggi che determinano la statica delle emozioni. l'ontogenia ci fa
conoscere lo sviluppo individuale della volontà del bambino, la
logenia lo sviluppo storico della volontà nella serie dei nostri
antenati vertebrati»72.
Già qui si apre la strada a quella depersonalizzazione radicale
che conoscerà l'epilogo nello schiacciamento dell'identità del
soggetto sul nudo dato biologico-razziale. Ma l'elemento che
conferisce all'antropologia di Haeckel un ruolo di vera e propria
anticipazione rispetto alla deriva tanatopolitica dei decenni
successivi sta nella rottura di continuità operata nella serie delle
razze umane attraverso l'immissione, al suo interno, del
referente animale. Questo - in esplicita rottura anche con quel
paradigma darwiniano che pure aveva costituito il quadro di
riferimento epistemologico del monismo haeckeliano - non
costituisce più il luogo di provenienza originario della specie
umana, ma la misura della sua di erenza interna. Così, dopo
una dettagliata descrizione delle diverse razze in base al tipo di
capelli, al colore della pelle e alla conformazione del cranio, da
cui risulta una scala gerarchica che va dall'homo australis
all'homo mongolicus, no a quello caucasico e indo-atlantico, si
viene a sapere che non soltanto gli animali superiori si
avvicinano più agli uomini che agli altri animali inferiori, ma
anche che gli uomini inferiori sono più simili agli animali che
agli uomini superiori. Ciò vuol dire che gli animali domestici, o
domesticabili, sono situati, nella scala gerarchica delle specie
viventi, tra le razze primitive e quelle civili - e che dunque
l'humanitas è tagliata in due zone distinte e contrapposte dalla
linea trasversale costituita dal referente animale. l'animale non
è l'origine dell'uomo, ma la separazione inscritta all'interno
della sua specie:
Se si volesse ad ogni costo ssare un limite ben rilevato, bisognerebbe tracciarlo
tra gli uomini più distinti e i selvaggi più grossolani, riunendo agli animali i
diversi tipi di uomini inferiori. Questa è l'opinione di molti viaggiatori, che
hanno osservato queste razze umane degradate. Essi dicono che è impossibile
guardare a un Negro come a un uomo, perché allora bisognerebbe ammettere il
gorilla nella famiglia umana; che i nostri animali domestici sono più atti alla
civilizzazione che questi popoli stupidi e brutali. Essi sono molto al di sotto degli
animali privi di ragione73.

Quale sia l'esito di questa decisione biopolitica - situata nel


punto di incrocio e di sovrapposizione tra umanizzazione degli
animali superiori e animalizzazione degli uomini inferiori - è
evidente. I popoli indogermanici già trionfano in tutto il mondo
grazie alla potenza biologica del loro sviluppo cerebrale.
«Quanto alle altre razze, il cui numero è del resto molto ridotto,
sono destinate a soccombere presto o tardi nella lotta per
l'esistenza, davanti alla superiorità dei Mediterranei. Già gli
Americani e gli Australiani marciano rapidamente verso
un'estinzione totale, così come i Papuasici e gli Ottentotti»74.

9. Già in Häckel l'antropologia assume un ruolo di oggettiva


contrapposizione nei confronti di quell'insieme di categorie che
con uiscono nella de nizione moderna di democrazia. E ciò
non in contrasto, ma in ragione, della sua estraneità di principio
rispetto all'ambito lessicale classicamente assegnato alla
politica. Il criterio di eguaglianza non è invalidato da una
diversa concezione della società, ma in nome di un dato
biologico più originario e prepotente che ne costituisce il
fondale ontogenetico. Come egli scrive in Freie Wissenschaft und
freie Lehre, la legge della selezione naturale è in sé tutt’altro che
democratica, dal momento che salva i pochi, mentre condanna
alla distruzione la maggioranza75. Ad essere messo
radicalmente in discussione, più che una qualsiasi opzione
ideologica, è insomma l'intero orizzonte politico della
modernità, a partire dallo stesso concetto di persona giuridica -
da un lato schiacciata sul suo sostrato corporeo e dall'altro
massi cata nella indistinzione della specie o della razza. Ma un
passaggio ancora più netto in direzione tanatopolitica si
determina allorché il sapere antropologico, anziché opporsi
dall'esterno alla sfera politica, ne incorpora la valenza operativa,
letteralmente decisionale, de nendosi appunto ‘antropologia
politica’ o ‘socioantropologia’. Sono esattamente i termini che
compaiono nei titoli di due libri destinati a esercitare un ruolo
di guida nella trasformazione paradigmatica del lavoro
antropologico a cavallo del secolo: Die Gesellschaftsordnung und
ihre natürlichen Grundlagen: Entwurf einer Sozial-Anthropologie
zum Gebrauch für alle Gebildeten, die sich mit sozialen Fragen
befassen di Otto Ammon76 e Politische Anthropologie. Eine
Untersuchung über den Ein uss der Deszendenztheorie auf die
Lehre von der politischen Entwicklung der Völker di Ludwig
Woltmann77.
La soglia critica che li distanzia dall'antropogenia di Haeckel
- ancora situabile, sia pure con qualche forzatura, all'interno
dell'orizzonte darwiniano - è strettamente connessa alla
ricezione della teoria del plasma germinale elaborata da August
Weismann, secondo la quale la selezione naturale non agisce al
livello somatico del fenotipo, ma a quello, più profondo, del
genotipo. Tale presupposto - e cioè l'idea che le generazioni
siano unite nel tempo dalla continuità ininterrotta dello stesso
sangue - taglia ogni ponte con la tesi lamarckiana della
ereditarietà dei caratteri acquisiti, ancora confusamente
commista con l'insegnamento di Darwin e utilizzata,
soprattutto in ambienti socialisti, come riprova dell'in usso
ambientale sulla formazione del carattere. l'unico mutamento
possibile appare, adesso, quello, di tipo degenerativo,
determinato dalla ibridazione razziale. Anche se Weismann,
come più tardi Mendel, non è certo responsabile dell'uso
biopolitico, o meglio tanatopolitico, della sua scoperta, ciò che
comunque l'antropologia tedesca del tempo ne deduce è la
necessità di arrestare la degenerazione restaurando l'ordine
naturale infranto e pervertito prima dall'incrocio delle razze e
poi dai meccanismi di protezione sociale volti alla difesa degli
organismi più deboli. A tale scopo ben si presta il concetto di
‘selezione arti ciale’ (Auslese), sempre connesso a quello di
‘ereditarietà’ (Vererbung)78. Ma ciò che ancora più conta, perché
restituisce il senso della secca inversione di marcia operata dalla
nuova antropologia, è la circostanza che esso è ora adoperato in
una chiave direttamente contraria all'uso fattone da Darwin
qualche decennio prima. Mentre secondo quest’ultimo la
selezione arti ciale, già messa in atto da agricoltori e allevatori,
doveva servire a incrociare le specie esistenti in natura di piante
e animali per la creazione, appunto arti ciale, di un tipo
migliore, adesso essa è volta a bloccare ogni mescolanza di
sangue a favore di un recupero dei tipi originari. Se, nel caso di
Darwin, si trattava in qualche modo di andare oltre la natura,
forzandola in una direzione innaturale, l'intento perseguito
dagli antropologi tedeschi è quello di ricreare per arti cio una
natura perduta o snaturata. Ma il progetto, in sé contraddittorio,
di rinaturalizzare arti cialmente la natura - di rigenerare con
l'arti cio il naturale - è possibile solo rovesciandolo in negativo:
prima escludendo, e poi eliminando, gli organismi degenerati o
destinati alla degenerazione.
Gli Essais d'Anthroposociologie di Vacher de Lapouge - già
curatore francese del saggio di Haeckel sul monismo - editi di lì
a qualche anno con il titolo di Race et milieu social ripercorrono
precisamente questa parabola. Partito dal canonico riferimento
a Gobineau come precursore della teoria razziale, egli se ne
distacca in nome di una diversa attitudine scienti ca, maturata
appunto in relazione alle scoperte di Weismann e di Mendel. In
base ad esse, e contro le illusorie supposizioni del trasformismo
lamarckiano, la nozione di ereditarietà di sangue ha condotto
l'antroposociologia allo statuto di vera scienza. Da allora la razza
non è interpretata più in maniera metaforico-letteraria come
comunità di cultura o di destino, ma in senso immediatamente
zoologico riconducibile alla canonica nomenclatura di Linneo.
Due ne sono, in Europa, i tipi prevalenti, misurabili attraverso
l'indice cefalico e la de nizione dei tratti somatico-caratteriali -
l'homo europaeus, dolicocefalo, col cranio allungato, energico e
ardito, e l'homo alpinus, brachicefalo, col cranio rotondo,
sedentario e poco intraprendente. l'intera storia del mondo
civile non è che il risultato del confronto, o dello scontro, tra
queste due razze e tra esse e quelle intermedie, come la
mediterranea, che ne hanno mischiato i caratteri originari. La
conseguenza che Vacher ne trae, in riferimento alla loso a
politica moderna, è un contrasto non mediabile nei confronti
della democrazia: «È certo, d'altra parte, che vi è un'antinomia
assoluta tra la biologia contemporanea e le idee democratiche.
Dico la biologia e non l'antroposociologia, perché le nozioni che
fanno da base del con itto sono prese in prestito, da parte
dall'antroposociologia, dalla biologia»79. Da questo punto di
vista il politico è integralmente incorporato nel biologico non
solo perché lo scontro ha per oggetto la vita stessa, ma anche
perché esso non è mai individuale, o socioculturale, ma sempre,
in ultima analisi, etnico e razziale. l'individuo, inteso come
soggetto uguagliato agli altri dalla facoltà del libero volere o
dalla titolarità di diritti soggettivi, non esiste in quanto tale, se
non come epifenomeno di una di erenza assoluta perché
attinente al plasma germinale che circola nel nostro corpo. Il
punto di rottura, e di inversione, dello sviluppo nel regresso,
all'interno della storia moderna, è costituito dalla rivoluzione
francese, allorché il predominio del tipo ariano su quello alpino
si è rovesciato a vantaggio di quest’ultimo con e etti
degenerativi di lungo periodo. Per questo al motto
rivoluzionario ‘Libertà, fraternità, uguaglianza’ Vacher risponde
con la formula, altrimenti minacciosa, ‘Determinismo,
ineguaglianza, selezione’80. Il presupposto biotanatologico
sottinteso è n troppo evidente: se la purezza naturale della
razza è stata corrotta dal sangue, solo da uno spargimento di
sangue potrà essere ripristinata: «Lasciamo perdere la
fraternità, guai ai vinti. La vita si conserva solo attraverso la
morte»81.

10. Torna, rovesciata nel suo senso, la dialettica che Bichat


aveva ssato all'origine della loso a della vita. La morte non è
più lo sfondo ineluttabile, o la s da ininterrotta, rispetto a cui la
vita assume rilievo ed esercita resistenza, ma lo strumento
primario della sua conservazione e del suo potenziamento. Il
luogo - concettuale e operativo - in cui tale rotazione di senso
prende corpo è la nozione o, forse meglio, la ‘pratica’ di umanità.
Contrariamente a quanto si potrebbe ritenere, con il montare
della marea nazista, essa non restringe i propri con ni, ma li
dilata progressivamente, no a comprendere al suo interno
anche il proprio contrario. Da qui il ruolo crescente
dell'antropologia, ra orzato e potenziato prima dalla linguistica
e poi, progressivamente, dalla zoologia e dalla botanica. Non a
caso i termini di cui essa fa uso, in riferimento all'uomo, sono
sempre più spesso tratti dal lessico di queste discipline:
selezione, come s’è detto, ma anche ‘addomesticamento’
(Zähmung), ‘allevamento’ (Züchtung), ‘coltivazione’ (Anbau) -
tutte procedure implicanti come esito nale l'‘eliminazione’
(Ausmerzung) dei prodotti guasti. Quella che Vacher de Lapouge
aveva de nito ‘antroposociologia’ si confonde sempre di più con
una zootecnia dell'animale-uomo in cui l'uomo deve essere di
volta in volta separato chirurgicamente dall'animale che lo
abita. Dove ciò che può variare è, appunto, la tecnica di
selezione, ma non il carattere ‘materiale’ del suo oggetto. E ciò
non perché venga meno il riferimento alla forma, alla gura,
all'idea - costantemente esaltata come la destinazione ultima
dell'uomo razzialmente perfetto. Ma sempre in contrasto - e anzi
in rapporto di inversione proporzionale - con un altro tipo, o con
un contro-tipo, de nito proprio dalla deformazione originaria, o
dall'assenza di forma, che lo riduce a semplice materia
vivente82. In questo senso si può dire che per l'antropozoologia
nazista l'humanitas sia la linea, in continua rielaborazione,
lungo la quale la vita si separa da se stessa in due polarità
contrapposte e reciprocamente funzionali nella misura in cui
l'eccesso di forma dell'una è complementare, e conseguente, alla
assoluta deformalizzazione dell'altra. Mai come in questo caso,
insomma, bíos e zoé, forma di vita e vita senza forma, si sono
divaricate in una distanza irrimediabile perché costituita dalla
relazione, inversa o diretta, con la morte: da una parte una vita
talmente viva da proporsi come immortale, dall'altra una vita
non più tale - «esistenza senza vita» (Dasein ohne Leben), come
fu detto - perché n dall'inizio contaminata e pervertita dalla
morte.
Collegando in un solo colpo d'occhio i tanti libri sull'umanità
dell'uomo pubblicati, non solo in Germania, a ridosso degli anni
Trenta, si ottiene un'istantanea impressionante di simile deriva.
Se già Vacher, non dimentico dei più sinistri insegnamenti di
Haeckel, dedicava un'intera sezione delle sue Sélections alla
necessaria eliminazione dei tipi umani difettosi, e pertanto
nocivi alla società nel suo complesso, è proprio in nome
dell'umanità che il premio Nobel Charles Richet poteva
a ermare, anch’egli in un libro sulla Sélection humaine, che «una
massa di carne umana senza intelligenza umana, non è niente.
Si tratta di materia vivente che non è degna di alcun rispetto e
compassione»83. Così come l'altro Nobel Alexis Carrel, nel
capitolo su La reconstruction de l'homme del celebrato volume,
ancora oggi ristampato, l'homme, cet inconnu, non aveva
mancato di raccomandare, per rapinatori a mano armata, ladri e
speculatori, l'edi cazione di «un luogo di eutanasia, provvisto
di gas appropriati, che consentirebbe di disporne in maniera
umana ed economica. Lo stesso trattamento - proseguiva - non
sarebbe applicabile ai pazzi che hanno commesso atti criminali?
Non bisogna esitare a ordinare la società moderna in rapporto
all'individuo sano. I sistemi loso ci e i pregiudizi sentimentali
devono sparire davanti a questa necessità. Dopo tutto, è lo
sviluppo della personalità umana che è lo scopo supremo della
civiltà»84. d'altra parte, nel saggio sulla ‘vita non degna di essere
vissuta’, scritto a quattro mani con Karl Binding, Alfred Hoche
aveva messo in guardia da «un concetto gon ato di umanità»85,
cioè tale da non cogliere quanto sia disumano applicare lo stesso
trattamento a tipi di uomini essenzialmente, vale a dire
biologicamente, diversi. È l'argomento ultimo, ma anche primo,
teorizzato nella forma più compiuta nel testo, puntualmente
intitolato Humanitas, e di uso capillarmente a tutta la gioventù
hitleriana come prontuario di etica applicata, del ‘ losofo’
nazista Hans Günther: contro la riduzione dell'umanesimo,
condotta da levantini immigrati, soprattutto ebrei, a «una
dottrina della fratellanza e dell'uguaglianza, in nome dell'uomo
astratto che non esiste», la vera humanitas non è un dato, ma
un compito da adempiere, un modello da raggiungere […] un ideale di selezione
razziale e matrimoniale, perché solo una concezione che distingua tra i migliori e
i peggiori può serbare una vera eticità e idealità, una concezione aristocratica […]
una concezione che è sapienza di un sangue migliore che deve essere
incrementato e di un sangue peggiore dal quale non ci si deve augurare una
numerosa discendenza86.

In questo modo il percorso che va dal sapere della vita - nato,


con ben altro intento, all'inizio del secolo precedente - alla più
micidiale pratica di morte è davvero compiuto. Solo se
rovesciata nel suo signi cato e nella sua direzione, quella che si
è de nita biopolitica - nel senso dell'implicazione originaria tra
politica e vita - perviene, col nazismo, a esprimere la sua
estrema portata tanatologica. Al suo centro, o alla sua origine,
come si è visto, vi è la secca sostituzione della idea di persona
con quella del corpo umano in cui essa è biologicamente
radicata. l'essere vivente chiamato uomo, in questo caso,
ricondotto alla sua nuda determinazione di razza o di specie, è
ciò che resta della distruzione della forma personale -
dell'abolizione della ‘maschera’ - di cui la loso a politica
moderna lo aveva vestito. Quando i nazisti reclamarono per sé il
diritto di operare incisivamente nel continuum biologico della
specie per salvarla dalla sua incipiente degenerazione,
portarono all'esito ultimo quel progetto, già assunto in proprio
dall'antropologia tedesca del tempo, di spogliare il corpo vivente
di ogni mediazione formale per farne oggetto di decisione
politica. Naturalmente una politica, come quella nazista, che si
occupa direttamente di corpi umani, non può essere diversa,
nella sua intenzione risanatrice, da una medicina ricondotta a
chirurgia razziale. È l'ultima sovrapposizione lessicale - dopo
quelle con la biologia, l'antropologia, la linguistica e la zoologia -
cui il sapere politico è sottoposto in una forma che assegna al
«grande medico tedesco», come si autoproclamava il Führer,
l'alto compito di procedere all'amputazione necessaria: a
subirla, del resto, non sarebbero state più singole persone, ma
quel grande corpo dell'umanità in cui esse erano state da tempo
inghiottite87.

11. Uno degli strumenti più e caci della decostruzione


nazista della persona è stato il linguaggio. Il lologo ebreo-
tedesco Victor Klemperer, sopravvissuto al genocidio solo grazie
al matrimonio con una donna ‘ariana’, ha ricostruito e
documentato il processo di trasformazione della lingua operato
dal nazismo88. Esso, più che una semplice riconversione
ideologica funzionale al nuovo potere, è stato un vero e proprio
avvelenamento della parola che a poco a poco ha contaminato
tutti gli strati della società tedesca. È come se, collaborando
attivamente all'annientamento della libertà individuale, e poi
degli stessi individui, il linguaggio divenisse esso stesso preda
della propria potenza distruttiva scivolando progressivamente
in una sorta di gorgo. Ciò che in esso a ondava non era solo la
naturale ricchezza metaforica, la plurivocità semantica, lo
spessore storico di quella lingua, quanto la sua medesima
capacità di signi cazione, intorbidita e poi, sempre di più,
azzerata dalla volontà manifesta di spegnere ogni attitudine
critica e alla ne la possibilità medesima del pensiero. Quello
che si registrava, nelle dichiarazioni u ciali dei capi nazisti, ma
anche nella comunicazione ordinaria di coloro che ne erano
in uenzati - vale a dire la quasi totalità dei tedeschi - era la
continua riduzione, quantitativa e qualitativa, del lessico a
un'unica funzione coincidente con la subordinazione di un
intero popolo alla volontà criminale di coloro che lo avevano
reso schiavo. A tale scopo non serviva la creazione di nuove
espressioni - bastava lo stravolgimento di quelle esistenti in un
senso diverso, se non opposto, al loro signi cato originario. Così,
mentre alcune locuzioni più complesse, giudicate inutilizzabili
se non nocive, scomparivano, altre, riconvertite in slogan e
parole d'ordine regressive, venivano impresse indelebilmente
nell'anima, o per meglio dire nei corpi, della razza eletta. In tal
modo la lingua, mutilata e stravolta, diventava una forza
occulta destinata a orientare i comportamenti degli uomini in
una forma che sfuggiva al loro controllo razionale e alla loro
stessa volontà cosciente. Da questo punto di vista sia la tesi del
carattere irrazionale e involontario del linguaggio, sia quella
della sua progressiva degenerazione, teorizzate da Schleicher e
dai suoi successori, appaiono entrambe confermate. Fatto salvo
il particolare, non irrilevante, che proprio la lingua ‘indo-
tedesca’ che, secondo quei linguisti, avrebbe dovuto evitare, o
quantomeno rallentare, il processo degenerativo in atto, lo
portava a compimento. Cos¡ quella che - già per Hegel - sarebbe
dovuta essere la lingua loso ca per eccellenza, perché capace
di ospitare, nelle sue espressioni più pregnanti, la potenza della
contraddizione, si rivelava la più antitetica all'esercizio creativo
del pensiero.
Il luogo in cui, più che in ogni altro, la lingua tedesca palesa,
e insieme produce, quest’e etto di spersonalizzazione è
certamente il campo di concentramento. In esso la riduzione
della funzione comunicativa alla secchezza dell'ordine, alla
brutalità della minaccia, alla volgarità dell'imprecazione tocca il
proprio apice. Nulla o quasi lega più la parola urlata, il grido
strozzato, il latrare caotico e informe che accompagna i
deportati dal momento dell'arrivo al campo no a quello della
morte, alla lingua di Goethe e di Heine. Più che comunicare un
contenuto, o anche informare di qualcosa, essi si incidono nel
corpo delle vittime come il numero impresso sul loro braccio o il
colpo infetto alle loro membra. Non a caso a Mauthausen il
manganello era chiamato «l'interprete» (der Dolmetscher) -
perché costituiva lo strumento di traduzione più diretta di un
comando per coloro che non capivano il tedesco. Naturalmente
tutto ciò implicava un progetto di integrale bestializzazione dei
prigionieri: «Era un segnale - commenta a questo proposito Levi
-: per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come con le
vacche o i muli, non c’è una di erenza sostanziale tra l'urlo e il
pugno»89. Così, per indicare la, peraltro ridotta al minimo,
attività di mangiare, da parte dei prigionieri, si usava il verbo
fressen, tipico della nutrizione animale, anziché essen,
comunemente riferito agli uomini. Mentre l'atto, ben più
frequente, da parte degli aguzzini, di inseguire, o di uccidere, i
detenuti era de nito attraverso vocaboli tratti dal gergo della
caccia e della disinfestazione di lepri, conigli, topi - carne
maciullata, tritata, infornata. Se gli internati sono bestie,
tuttavia, essi sono anche e soprattutto cose. Il linguaggio
restituisce, e nello stesso tempo determina, questa rei cazione
mediante un'opera di Akkusatvierung, vale a dire di riduzione
del nominativo ad accusativo. Più che uomini e donne, si parla
di pezzi (Stücke), di oggetti di ricambio (Häftlinge), di materiale
umano (Menschenmaterial), da prestare (ausleihen), scaricare
(abladen), spedire (verschiken) e, alla ne, naturalmente,
distruggere, dopo averne recuperato le parti riciclabili90.
Ma l'e etto per certi versi ancora più devastante di tale
‘svolta linguistica’ è il suo potere di contaminazione rispetto a
coloro ai quali era rivolta. Tutti quelli che sono sfuggiti alla
morte hanno raccontato, infatti, come essi stessi abbiano nito
per adottare un modo di parlare non diverso, nella struttura
lessicale e nella tonalità di fondo, da quello dei loro potenziali
assassini. Ciò derivava innanzitutto dal fatto che la
maggioranza di essi non erano tedeschi e dunque non potevano
esprimersi che nel linguaggio, violento e abbreviato, che
ascoltavano, o meglio avvertivano, come frustate, sul proprio
corpo. Ciò conferma la tesi di coloro91 che hanno parlato di una
vera e propria lingua dei campi - di una Lagersprache o, nel
tedesco polacchizzato, Lagerszpracha, assimilabile ai linguaggi
speciali (Sondersprachen) inclusivi delle tre funzioni
di erenziate del gergo segreto, del gergo tecnico e del gergo di
gruppo. Il linguaggio del campo, anzi, avrebbe la peculiarità di
riunirle in un medesimo ‘ordine del discorso’: se esso è
necessario ad a rontare determinate situazioni che richiedono
speci che competenze, è anche utile per comunicare con altri
prigionieri di provenienza diversa e, quando possibile, per far
transitare verso l'esterno informazioni segrete. In alcuni casi,
proprio perché aderente alla modalità espressiva dei carne ci,
esso consente di sfuggire alla loro presa, aprendo vie di fuga
rispetto ai rischi più immediati. Non a caso Levi sostiene che la
Lagersprache - la capacità di entrare in contatto con le SS,
evidentemente all'interno dei loro moduli linguistici -
costituisse il maggior tesoro che, in quella condizione, si potesse
avere, al punto che il suo possesso poteva determinare, e infatti
spesso determinò, la sottrazione alla morte che inghiottiva
regolarmente i più lenti nell'impararlo. Alla stessa circostanza si
deve forse ascrivere la tendenza, registrata in più occasioni, da
parte dei sopravvissuti, a tornare a quella lingua degradata e
abietta quando, dopo la ne della guerra, si incontravano di
nuovo. Quale ne fosse il motivo, è certo che essi avevano una
qualche di coltà a rimuovere quanto avevano appreso
nell'inferno da cui erano emersi. Al punto che sempre Levi
racconta come abbia dovuto spesso contrastare i propri
traduttori quando essi pretendevano di cancellare, o
urbanizzare, le espressioni più crude che egli riportava
fedelmente dal proprio Lagerjargon: «spiegai loro [ad alcuni
funzionari della Bayer] che non avevo imparato il tedesco a
scuola, bensì in un Lager di nome Auschwitz […]. Mi sono reso
conto in seguito che anche la mia pronuncia è rozza, ma
deliberatamente non ho cercato di ingentilirla; per lo stesso
motivo non mi sono fatto asportare il tatuaggio dal braccio
sinistro»92.
Come si spiega questa fedeltà a un fantasma che tutto
porterebbe a voler dimenticare, o almeno a evitare di ridestare?
Perché attaccarsi a quel linguaggio come a un lembo della
propria pelle o a un organo del proprio corpo? La risposta più
ovvia è che in tal modo si vuole testimoniare, per chi non l'abbia
direttamente conosciuto, l'esistenza di quel mondo capovolto
che tende, nel tempo, a sfumare i suoi contorni o addirittura a
perdere di verosimiglianza. Salvando il linguaggio dei campi, i
superstiti attestano la sua realtà storica, la morte che esso ha
pronunciato per milioni di persone. La mia impressione,
tuttavia, è che questa sia solo una parte della verità. Che quel
linguaggio scheletrico e satanico, oltre e dentro la morte,
richiami anche e soprattutto la vita ad essa strappata. La
Lagersprache è stata insieme la lingua degli assassini e quella
della sopravvivenza delle vittime sfuggite al loro destino. Non,
come è stato detto, perché trasportava pur sempre un certo
‘sentimento della vita’, ma perché era espressione, nuda e
materiale, della vita senza sentimento di coloro che non erano
altro da essa. Di uomini e donne non più de nibili persone, ma
proprio perciò assolutamente aderenti alla falda biologica del
loro semplice essere in vita. Torna, da quest’altro punto di vista,
qualcosa che rimanda alla natura biologica della lingua in una
modalità precedente, o successiva, alla forma personale, e anche
speci camente umana, dell'individuo. Di essa, mai come in
questo caso, si può dire - come si esprimevano i linguisti
romantici - che non fossero gli uomini a parlarla, ma ad esserne
parlati senza saperla padroneggiare. Ma con un segno
diametralmente rovesciato che richiama piuttosto la
persistenza della vita organica, al di là di quella animale, di cui
parla Bichat. Anche per gli internati nel lager quella lingua-vita,
o quella vita-lingua, era qualcosa di assolutamente comune a
tutti coloro che, a prescindere dalla propria diversa provenienza,
la parlavano e soltanto così sopravvivevano. Nella sua integrale
impersonalità, essa era vita-con - l'unica convivenza ancora
possibile, nché durava. Ma anche vita-contro tutto ciò che da
ogni lato l'assediava tentando di mandarla letteralmente in
fumo - resistenza alla morte, quando non solo la vita umana,
ma anche quella animale, si era già arresa alla sua pressione.
Capitolo secondo
Persona, uomo, cosa

1. Non bisognò aspettare neanche la ne della guerra perché si


di ondesse la percezione di un nesso assai stretto tra l'assoluta
eterogeneità del nazismo e il suo uso mortifero della categoria
di ‘umanità’. A di erenza di tutti i regimi precedenti, comunque
orientati all'elaborazione di un determinato modello di società,
era la natura umana come tale l'oggetto prescelto della sua presa
tanatopolitica. Non per niente la prima urgenza che si impose -
nel momento in cui cominciava a pro larsi la vittoria degli
alleati, e dunque la possibilità di portare a giudizio i capi nazisti
- fu quella di elaborare concettualmente, ancor prima che
giuridicamente, la nozione di ‘crimine contro l'umanità’. Che
cosa è, precisamente, e quale con gurazione assume, rispetto ad
altri tipi di reato, un crimine perpetrato contro l'intera
umanità? La risposta a questo quesito, evidentemente
preliminare a ogni altra considerazione, non era semplice
perché collocata ai margini, se non del tutto al di fuori,
dell'ambito del diritto. Si può dire che la di coltà fosse duplice.
Da un lato era come se il concetto di umanità manifestasse una
segreta resistenza, una sorta di incompatibilità semantica, nei
confronti del linguaggio giuridico. Dall'altro, e in maniera
ancora più imbarazzante, esso appariva in qualche modo
coinvolto, e dunque pregiudicato, nel lessico di coloro che, pur
stravolgendone e pervertendone no all'abiezione il signi cato,
lo avevano per primi fatto oggetto di immediata decisione
politica. Forse a tale sotterranea prossimità può essere riferita la
tentazione dei vincitori, superata solo con una certa riluttanza e
per timore di un discredito generale, di risolvere la questione
della punizione dei colpevoli indipendentemente da ogni
procedura legale. In particolare se il ministro della Giustizia
americano aveva espresso l'auspicio che si applicasse ai
criminali nazisti quella che in Texas si chiamava «la legge a est
di Pecos», vale a dire una sorta di linciaggio legalizzato,
Churchill riteneva che essi dovessero essere eliminati entro sei
ore dalla cattura. l'idea del suo consulente per gli a ari legali e
cancelliere lord Simon - ben espressiva di un atteggiamento
extragiuridico per certi versi simmetrico allo stato d'eccezione
permanente instaurato dal nazismo - era che si dovessero porre
letteralmente ‘fuorilegge’ coloro che si erano appunto sottratti a
ogni vincolo normativo. Il precedente cui ci si rifaceva era,
d'altra parte, una disposizione della Gran Bretagna medioevale
che autorizzava un gran giuri a dichiarare ‘bandito’, e cioè
appunto ‘fuorilegge’, qualcuno che si fosse macchiato di delitti
particolarmente e erati, senza passare per il giudizio di un
tribunale. In questo caso - esattamente come era accaduto agli
ebrei nella Germania nazista - egli poteva essere ucciso
legalmente da chiunque lo avesse catturato. Nel xiv secolo tale
diritto di dare la morte per direttissima, prima esteso a tutti i
cittadini, era stato ristretto al solo sceri o del posto. Ebbene,
benché proprio qualche anno prima la legge inglese avesse
abrogato in ambito penale lo status di fuorilegge, secondo
Simon gli alleati potevano, in quelle circostanze, ritenersi
equivalenti al gran giurì e i loro u ciali in alto grado allo
sceri o nei confronti non solo dei capi nazisti, ma anche di tutti
coloro che fossero ritenuti loro complici. In questo spirito
Clement Attlee, leader del partito laburista, avanzò la proposta
di giustiziare anche un certo numero di industriali tedeschi
«come esempio per gli altri»93.
Neanche quando simili opzioni furono accantonate a favore
della soluzione processuale le di coltà, tecniche e concettuali,
furono superate. Al contrario, esse parvero intensi carsi quanto
più ci si approssimava a quella nozione di crimine contro
l'umanità che costituiva evidentemente la punta di diamante
dell'intero impianto accusatorio. Incluso in una prima fase
all'interno del più consueto crimine di guerra, nello Statuto del
Tribunale militare internazionale fu da esso di erenziato
perché comprensivo di caratteristiche che sfuggivano alla sua
tipologia - a partire dalla circostanza che poteva essere
commesso anche in tempo di pace, come era appunto accaduto
in Germania dal ’33 al ’39. Ma l'elemento forse più dirompente
della nuova formulazione stava nel fatto che per la prima volta
poteva essere imputato un intero Stato per colpe commesse nei
confronti dei propri cittadini. Ciò voleva dire estendere anche al
singolo individuo quella soggettività giuridica no ad allora
conferita, in diritto internazionale, unicamente agli organismi
statali. In particolare l'articolo 6 dello Statuto sganciava la
competenza del tribunale dal diritto interno dei Paesi in cui il
crimine fosse stato commesso, mentre i due successivi articoli
sopprimevano le circostanze attenuanti del ruolo u ciale degli
accusati e dell'ubbidienza a un superiore in grado all'interno del
proprio ordinamento. Il crimine di lesa umanità, insomma,
sfuggiva ai vincoli spazio-temporali che avevano governato no
a quel momento le procedure del diritto degli Stati94. Ma
proprio tale eccedenza determinava problemi di non facile
risoluzione all'interno delle consuete categorie giuridiche.
Innanzitutto nei confronti della sovranità nazionale, contro cui
si pro lava un diritto di ingerenza potenzialmente illimitato. Se
un tribunale straniero poteva incriminare il governo autonomo
di uno Stato sovrano per reati commessi non soltanto nei
confronti della comunità internazionale, ma anche dei suoi
stessi cittadini, ciò avrebbe consentito di muovere guerra a
qualunque nazione in nome di leggi non scritte perché
considerate implicite nella consuetudine e nella natura del
genere umano. Sostenere, come appunto si fece, che alcuni
delitti sono talmente fuori dal comune da non poter essere
previsti prima di essere stati commessi, voleva dire situare il
crimine contro l'umanità in un orizzonte sfuggente, ma anche
con iggente, rispetto al diritto positivo.
Per evitare questa deriva extragiuridica i tribunali che
ricorsero, dopo il processo di Norimberga, alla nozione di
crimine contro l'umanità si appellarono alla Dichiarazione
universale dei diritti dell'uomo adottata dall'Onu nel dicembre
del '48. Solo in questo modo essi potevano opporre alla
prerogativa della sovranità statale un valore giuridico più alto
consistente nel diritto personale di ogni individuo appartenente
al genere umano. E tuttavia proprio tale riferimento niva per
aprire l'antinomia più vistosa all'interno della nuova dottrina.
Mentre l'articolo 8 della Dichiarazione proclama, infatti, il
principio di non retroattività della pena, stabilendo che nessuno
può essere punito in funzione di una legge promulgata dopo
l'attuazione del delitto, la nozione di crimine contro l'umanità,
come era stata applicata a Norimberga, invertiva quest’ordine
logico anteponendo il delitto alla legge che lo sanziona. Anziché
ridursi, il solco che n dall'inizio sembrava separare la categoria
di umanità da quella di diritto minacciava in tal modo di
approfondirsi. Il diritto individuale attribuito a ogni uomo dalla
Dichiarazione del '48 non corrisponde, come un positivo a un
negativo, alla nozione di crimine contro l'umanità. Piuttosto che
situarsi l'una nel rovescio dell'altra, le loro logiche divergono in
una maniera non componibile. Ciò che vale per il singolo uomo,
non vale per l'insieme degli uomini e viceversa. Comunque li si
pensi, i tre termini di individuo, diritto e umanità non riescono
a disporsi lungo un'unica linea. Ciascuno di essi sembra
frapporsi alla congiunzione degli altri due. Il diritto non è in
grado di uni care umanità e individuo. l'individuo non può
riconoscere il proprio essere umano nel dispositivo del diritto.

2. Mai come oggi la nozione di ‘diritti umani’ appare


consegnata a una palese contraddizione. A un crescente
successo sul piano dell'enunciazione - attestato dal moltiplicarsi
delle convenzioni ad essi ispirate - corrisponde una s ducia
sempre più pronunciata su quello della loro e ettiva attuazione.
Inizialmente proclamati nella Dichiarazione del 1789, essi
hanno conosciuto la fase di maggiore fortuna proprio alla ne
della seconda guerra mondiale per i motivi appena rilevati: nel
momento in cui ad essere colpita è stata, più che un singolo
popolo, l'umanità nel suo insieme, si è giustamente ritenuto di
dover rispondere appunto in suo nome a qualsiasi altra
minaccia presente e futura. E tuttavia proprio la formulazione
esplicita e solenne del diritto di ogni uomo a una adeguata
forma di vita ha reso ancora più evidente la continua violazione
di tale principio. A suggello dell'irriducibilità di tale scarto, è di
pochi mesi fa l'incredibile notizia che sono entrati a far parte del
Consiglio dei diritti umani alcuni tra i Paesi, come il Pakistan e
l'Arabia Saudita, che più si sono distinti in questi anni nella loro
sistematica devastazione. Da qui il progressivo formarsi di un
atteggiamento critico che si è andato articolando in tre loni
argomentativi distinti ma non incompatibili95: per il primo, di
ascendenza marxista, i diritti dell'uomo non sono altro che la
copertura ideologica dell'imperialismo politico ed economico
delle grandi potenze a danno dei regimi non allineati ai loro
interessi; il secondo, di ispirazione storicista, contesta il
carattere universale di rivendicazioni in continua mutazione, e
spesso in contraddizione reciproca, legate a contesti e situazioni
storiche determinate e dunque irriducibili a un catalogo sso
valido ovunque; il terzo, in ne, di orientamento realista, pur
ammettendo in linea di principio la validità normativa dei
diritti umani, ne denuncia l'impraticabilità in un mondo ancora
sospeso tra logiche globali e potere sovrano dei singoli Stati.
La mia impressione, tuttavia, è che nessuna di queste
angolature prospettiche penetri a fondo la questione - che tutte
restino in qualche modo alla super cie del fenomeno. Non che
ciascuna di esse non colga un elemento e ettivamente presente.
Solo che, isolandolo dal complesso del problema, ne perde il
quadro d'insieme nendo per confondere la causa con l'e etto.
Il nucleo di senso che in questo modo resta oscurato, o
quantomeno opaco, è l'aporia intrinseca del concetto di diritti
umani. Non la linea di tensione - su cui viene di volta in volta
posto l'accento - tra ideologia e realtà, universale e particolare,
prescrizione e descrizione. Ma quella che passa, scartandoli
violentemente, tra i due termini dell'espressione - tra diritto e
condizione umana. l'unica che ad essa si sia approssimata, pur
senza riuscire a tematizzarla no in fondo, è stata a suo tempo
Hannah Arendt. Nella sezione delle Origini del totalitarismo
intitolata Il tramonto dello stato nazionale e la ne dei diritti
umani, la Arendt riporta quest’ultima non all'incapacità di dar
seguito nella pratica a quanto proclamato nella teoria - alla
debolezza di una legge non sostenuta da una forza adeguata -
ma a qualcosa di più profondo, a un dispositivo immanente
nella stessa forma giuridica. Non è che questa non riesca a
proteggere l'uomo privo di quali che ulteriori al suo mero
essere umano per motivi contestuali o esteriori, ma perché il
suo medesimo funzionamento non lo prevede - meglio, lo
impedisce. Allo stesso modo l'uomo, inteso nel senso più nudo
dell'espressione, resta escluso dai suoi bene ci, privo di diritto -
non benché, ma perché, tale:
La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi
individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni speci che, tranne la
loro qualità umana […]. Se un individuo perde il suo status politico, dovrebbe
trovarsi, stando alle implicazioni degli innati e inalienabili diritti umani, nella
situazione contemplata dalle dichiarazioni che li proclamano. Avviene
esattamente l'opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso
le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile96.

Alla base di tale antinomia - per la quale i diritti umani


implodono precisamente quando avrebbero dovuto farsi valere
- la Arendt rileva un'anomalia relativa alla procedura giuridica
come tale. Al suo centro vi è il meccanismo strutturalmente
escludente - includente per esclusione - del diritto. Pur
ricollegandone l'emergenza più vistosa a una precisa situazione
storica, de nita dalla riconversione nazionalistica degli Stati
europei e dalla conseguente messa in circuito di masse sempre
più vaste di apolidi, la Arendt riconosce una invariante
costitutiva della struttura normativa nella de nizione
presupposta di un limite tra ciò che è interno e ciò che è esterno
al proprio ambito di intervento. Dal punto di vista giuridico il
‘dentro’, la misura dell'inclusione, si determina soltanto nel
contrasto con ciò che sta fuori, che non è compreso nei suoi
parametri. Ora, contro tutte le retoriche, passate e future,
sull'umanità del diritto, ciò che questo esclude dai propri
con ni è proprio l'uomo in quanto tale, ciò che la Arendt
de nisce la «nudità astratta dell'essere uomini e nient’altro che
uomini»97. Pur senza analizzare a fondo il congegno logico-
operativo di tale dispositivo, l'autrice ne coglie tutta la portata
aporetica: il diritto ammette al suo interno soltanto coloro che
rientrano in una qualsiasi categoria - cittadini, sudditi, per no
schiavi, in quanto comunque facenti parti di una comunità
politica. Per questo l'unica via per rientrarvi, da parte di coloro
che ne sono stati esclusi perché categorialmente non
caratterizzati, è quella, negativa, di infrangere la legge. Non di
adeguarvisi - dal momento che essa non può accoglierli
positivamente al suo interno - ma di trasgredirla. Solo in questo
modo, assumendo volontariamente lo statuto di reo, perdendo
una innocenza insostenibile perché non riconosciuta dall'ordine
giuridico, l'uomo senza altre prerogative può tornare a godere
quantomeno dei diritti concessi anche ai colpevoli: «Come
delinquente l'apolide non sarà trattato peggio di un altro
delinquente, cioè sarà trattato alla stregua di qualsiasi altra
persona. Solo come violatore della legge egli può ottenere
protezione da essa»98. Almeno no a quando durerà il processo
e si prolungherà la pena, egli potrà uscire dalla zona di
indistinzione giuridica in cui la sua condizione di non-più-che-
uomo lo ha collocato, per ridiventare un cittadino come gli altri,
sia pure condannato per una colpa in qualche modo impostagli
dallo stesso diritto che la sanziona.

3. Il lemma concettuale volto a riempire la frattura aperta,


n dalla Dichiarazione del 1789, tra le due polarità dell'uomo e
del cittadino è quello di ‘persona’. Se si confronta a quel testo la
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 la
di erenza salta agli occhi: il nuovo epicentro semantico,
rispetto all'enfasi rivoluzionaria sulla cittadinanza, è costituito
dalla rivendicazione incondizionata della dignità e del valore
della persona umana. Il motivo di questa sostituzione non va
cercato soltanto nella necessità di sottrarre i diritti dell'uomo ai
limiti necessariamente ristretti della nazione, ma anche nella
singolare capacità del termine ‘persona’ di riassumere in un
unico referente elementi ed echi derivati contemporaneamente
dalla cultura illuminista e dal linguaggio teologico. È di cile
rintracciare, infatti, nel corpus della tradizione occidentale, un
concetto altrettanto caratterizzato da questa doppia tonalità,
laica e religiosa a un tempo. Persona è la categoria che n
dall'origine del lessico cristiano connota la Trinità divina, ma
anche il soggetto di diritto in quanto portatore di volontà
razionale. l'alveo di transito, o il punto di tangenza, da un piano
all'altro è la concezione del diritto naturale, no a un certo
punto - coincidente sostanzialmente con la neo-scolastica
spagnola - ancora subordinato a un orizzonte soprannaturale e
poi, quantomeno a partire da Hobbes, interamente ricondotto
all'ambito terreno. Ora, a spiegare il successo plurisecolare del
termine ‘persona’, più che l'autonomia nalmente conquistata
nei confronti dell'ipoteca cristiana, è, al contrario, proprio la
permanenza, pur all'interno della secolarizzazione moderna, di
una risonanza da quella proveniente. Anche interpretata in
senso laico, insomma, l'idea di persona non è mai interamente
riducibile al sostrato biologico del soggetto che designa, ma
trova, invece, il suo più pregnante signi cato precisamente in
una sorta di eccedenza, di carattere spirituale o morale, che ne
fa qualcosa di più di esso, senza coincidere del tutto neanche
con l'individuo autosu ciente della tradizione liberale. Essa è,
piuttosto, il luogo più intenso della loro combinazione - la
relazione indissolubile tra corpo e anima in un'unica entità
aperta al rapporto con le altre persone.
Proprio questo elemento di ulteriorità - rispetto al nudo dato
corporeo - era stato oggetto prima della decostruzione e poi di
una vera e propria distruzione da parte di quella liera
biopolitica che abbiamo ricostruito nei suoi presupposti, nel suo
sviluppo e in ne nel suo rovesciamento mortifero attuato
pp
rovinosamente dal nazismo. Ciò che era stato progressivamente
incrinato - no a spezzarsi del tutto - era appunto quell'unità
trascendentale di volontà e ragione cui la loso a politica
moderna aveva a dato un'opzione consapevole sul modello
prescelto di convivenza associata. Già la separazione,
inizialmente ssata da Bichat, tra i due tipi di vita, organica e
animale, con la prevalenza quantitativa e temporale della prima
sulla seconda, aveva scompaginato l'idea di persona
responsabile dei propri atti e perciò centro di imputazione
giuridica di obblighi e diritti. Successivamente il trasferimento
di tale cesura biologica dal corpo dell'individuo a quello della
umanità aveva spinto il processo di depersonalizzazione a un
punto di non ritorno. Risucchiato nella sua semplice falda
corporea, quel nucleo biospirituale che la tradizione moderna
aveva chiamato persona era adesso privato di tutti i suoi
attributi a favore di entità collettive - di carattere nazionale,
etnico o razziale - predeterminate nel loro destino da insolubili
vincoli di sangue. Nessuno spazio di autonomia restava al
soggetto personale, come attore di scelte individuali e tanto
meno alla sua libera relazione con altre persone, trasformata
adesso in lotta a morte per la sopravvivenza. Già nei primi
decenni del secolo scorso alcune tra le più in uenti scienze
dell'uomo come sociologia, antropologia e linguistica avevano
trovato un micidiale punto d'intersezione con la zoologia in una
ride nizione operativa della natura umana direttamente
sovrapposta, o sottoposta, a quella animale: piuttosto che
origine ancestrale del genere umano, l'animale niva per
divenire il limite interno e il parametro di misura del grado di
umanità - o di disumanità - arbitrariamente attribuito a
tipologie antropiche divise e contrapposte in base alla loro
presunta qualità razziale.
Era del tutto naturale, nel momento stesso in cui cominciava
a delinearsi la scon tta del nazismo, che al centro della
ricostruzione loso ca, etica, giuridica della cultura
democratica rientrasse proprio quel concetto di persona già
intaccato dalla biopolitica ottocentesca e poi de nitivamente
p p
sventrato dalla tanatopolitica nazista. Se questa aveva sottratto
all'uomo ogni capacità di trascendere la propria materia
corporea, identi candolo immediatamente con essa, la prima
cosa da fare parve quella di riconsegnargli il suo potere
decisionale. Farlo di nuovo titolare di volontà razionale in
relazione a se stesso e ai suoi simili - padrone del proprio
destino all'interno di un quadro di valori condivisi. Era appunto
quanto prometteva il concetto, ritornato prepotentemente alla
ribalta, di persona, con tutta la gamma di signi cazioni di cui si
era caricato in contesti culturali diversi. Questa esigenza
rigenerativa fu più forte anche della di erenza di principio tra
visione laica e visione cristiana, nel senso che in entrambi i casi
ciò che contava era ristabilire la responsabilità dell'uomo -
davanti a Dio, a se stesso e agli altri. Non a caso la prima, e forse
più in uente, de nizione del concetto, dovuta a Jacques
Maritain - partecipe, con un ruolo di primo piano, della
elaborazione della Dichiarazione del ’48 - è centrata su questa
esigenza di autodominio:
La persona umana ha dei diritti per il fatto stesso che è persona: un tutto signore
di se stesso e dei suoi atti; e che per conseguenza non è soltanto un mezzo, ma un
ne, un ne che deve essere trattato come tale. La dignità della persona umana:
questa espressione non vuol dire nulla se non signi ca che, per legge naturale, la
persona umana ha il diritto di essere rispettata, è soggetto di diritto e possiede
dei diritti99.

La de nizione di Maritain va assunta in tutta la sua pregnanza


programmatica. La connessione intrinseca tra persona e diritti
dell'uomo sta precisamente nell'autodeterminazione che l'uomo
- ogni uomo, a prescindere dalla sua condizione razziale, sociale,
sessuale - può, e deve, esercitare verso se stesso. Tale
rivendicazione non contrasta - se tenuta entro con ni razionali -
con il diritto che, nella concezione cristiana condivisa
dall'autore, Dio ha sull'uomo, ma, al contrario, ne discende, dal
momento che proprio dalla sovranità divina l'uomo ha ricevuto
il diritto sovrano su se stesso e su tutto ciò che gli appartiene. È
perciò che, pensata nel lessico della persona, «la nozione di
diritto è anche più profonda di quella di obbligazione morale,
perché Dio ha un diritto sovrano sulle creature e non ha
obbligazioni morali verso quelle (anche se egli deve a se stesso di
dar loro ciò che è richiesto dalla loro natura)»100.

4. È su ciente questo richiamo alla persona a riattivare la


dinamica inceppata dei diritti dell'uomo? A fare dell'uomo il
soggetto naturale del diritto e del diritto l'attributo irrevocabile
dell'uomo? Basta un rapido colpo d'occhio al quadrante
contemporaneo per accorgersi che così non è. Se si prendono in
considerazione i sessanta anni che ci separano dalla
Dichiarazione del '48, non si può certo sostenere che i diritti
fondamentali siano estesi a tutti gli esseri umani - o anche
soltanto che si sia ridotto sensibilmente il numero di coloro cui
non è assicurata la soddisfazione dei bisogni vitali. Nonostante
la montante retorica dell'impegno umanitario, la vita umana
resta ampiamente al di fuori della tutela del diritto. Al punto
che si potrebbe agevolmente sostenere che, pur in un quadro di
crescente giuridi cazione della società, nessun diritto sia
disatteso quanto quello alla vita per milioni di uomini, di fatto
condannati a morte certa per fame, malattia, guerra. Come può
determinarsi simile esito in una situazione in cui l'essere
umano è pensato nel modo della persona? La tesi sostenuta nel
presente saggio è che ciò avvenga, non nonostante, ma in
ragione di tale lessico concettuale. Che sia proprio il dispositivo
della persona - destinato, nell'intenzione degli estensori della
Dichiarazione sui diritti umani, a riempire la frattura tra uomo
e cittadino lasciata aperta da quella dell'89 - a produrre uno
scarto altrettanto profondo tra diritto e vita. Lo stesso
paradigma che si presenta come il tramite della loro
ricongiunzione epocale funziona, insomma, da schermo di
separazione, da diaframma di erenziale, tra due elementi che
non riescono a incontrarsi che nella forma della loro
separazione. Perché tale e etto possa intendersi nelle sue
motivazioni di fondo, bisogna portare a consapevolezza la
circostanza che siamo in presenza non di una novità lessicale,
bensì di un costrutto formale di lungo, e anzi lunghissimo,
periodo, che di volta in volta ha assunto una con gurazione
diversa in relazione al contesto in cui si è esercitato. Da questa
prospettiva più profonda la stessa logica della cittadinanza, con
la esclusione che istituisce rispetto a coloro che ne sono privi,
può essere considerata una articolazione interna di quell'antico
ed e cacissimo meccanismo di sdoppiamento, o di
raddoppiamento, che trova nell'idea di persona la sua primaria
espressione.
Per coglierne i tratti caratterizzanti è necessario risalire alla
fonte stessa del concetto, essa stessa sdoppiata tra una matrice
teologica e un'altra giuridica101. Anziché tentare di
individuarne l'ordine di precedenza, o il grado di rilevanza,
bisogna puntare lo sguardo sull'e etto che, nel corso del tempo,
l'una produce nei confronti dell'altra. Già Siegmund
Schlossmann, nel suo classico saggio su Persona und προσωπον
im Recht und im christlichen Dogma102, riporta proprio a questa
provenienza incrociata, cristiana e romana a un tempo, il
carattere strutturalmente antinomico dell'idea di persona. Essa
rimanda insieme alla maschera e al volto, alla immagine e alla
sostanza, alla nzione e alla realtà. Non solo, ma si costituisce
precisamente nel punto di passaggio, e di scarto, tra la prima e
la seconda. Intesa originariamente come veste scenica, come
travestimento teatrale, la persona comincia a indicare anche
l'individuo che ne è portatore. Il segmento intermedio, tra i due
signi cati, è costituito dalla gura del personaggio recitato
dall'attore: è attraverso l'interpretazione di un ruolo, la
con gurazione di un tipo, che, poco alla volta, la maschera si
stampa sul volto di chi la indossa no a corrispondergli senza
residui. Come osserva Adriano Prosperi in una magistrale
rivisitazione di tale vicenda103, un ulteriore momento di
integrazione tra rappresentazione e realtà può essere
rintracciato nella maschera funebre di cera, modellata sul viso
del defunto e perciò del tutto corrispondente ai suoi tratti
sionomici. Nulla più di essa restituisce il senso di assoluta
adesione tra persona nta e persona reale, anche se morta. La
maschera funebre non è più ciò che nasconde, o altera, ma, al
contrario, ciò che rivela, nella sua espressione de nitiva, il vero
volto di colui che ricopre. Al cospetto della morte, insomma,
non è più l'uomo a mascherarsi, ma la maschera a incarnarsi nel
corpo umano al punto da costituirne la manifestazione più
autentica.
Tuttavia appunto questo rituale, che traduce nella liturgia
cristiana l'antica usanza, attestata da Svetonio, di indossare la
maschera di un antenato in occasioni solenni, lascia intravedere
lo scarto che, proprio mentre unisce persona e corpo, nello
stesso tempo li separa. Più che rappresentare l'essere umano
nella sua dimensione corporea, infatti, la maschera funebre ha
il ruolo di ra gurarne soprattutto la dimensione spirituale, o la
qualità morale, in una prospettiva di vita ultraterrena. Questo
passaggio, di evidente impronta teologica, trova un preciso
punto di tangenza con la distinzione aristotelica tra le tre
anime, vegetale, animale e razionale, all'ultima delle quali
solamente è riferita l'idea di persona. Sia che prevalga l'in usso
cristiano sia che, invece, assuma maggior rilievo quello
aristotelico, la persona, o personalità, pur aderendo all'uomo
come la maschera al volto del defunto, resta in ogni caso
riservata alla sua parte spirituale, e dunque separata, quando
non anche contrapposta, a quella corporea. La stessa dottrina
trinitaria, che sovrappone tre persone nell'unico Dio, ri ette, e
insieme potenzia, questa crescente spiritualizzazione del
concetto: proiettato sulla gura divina, l'attributo della persona
ritornava all'uomo segnato di una tonalità meta sica che lo
allontanava sempre più dal suo sostrato biologico104. Così la
tradizione cristiana poteva ricongiungersi a quella neoplatonica
che voleva l'anima prigioniera del corpo - allo stesso modo in cui
la persona, impiantata nella materia vivente dell'individuo,
sporgeva da essa in maniera irriducibile. Tornava, da questa
prospettiva, la medesima distanza che originariamente
separava la maschera dal volto - non, in questo caso, come
di erenza tra nzione e realtà, bensì come distinzione,
all'interno dell'essere umano, tra una dimensione individuale di
carattere morale-razionale e un'altra, impersonale, di natura
animale. Già la de nizione di Boezio della persona come
«naturae rationalis individua substantia» (De persona et duabus
naturis, 3) ssa questa accezione nettamente decorporeizzata
del concetto. Sia la tradizione cartesiana - con la distinzione
presupposta tra res cogitans e res extensa - sia quella lockeana,
che assegna all'identità personale un carattere non più
sostanziale ma funzionale, si inscrivono all'interno di questa
scissione: in entrambi i casi persona quali ca ciò che, nell'uomo,
è altro e oltre rispetto al suo corpo. Tutt’altro che identi care
nella sua integrità l'essere vivente in cui pure s’inscrive, essa
corrisponde piuttosto alla di erenza irriducibile che lo separa
da se stesso.

5. La tradizione giuridica romana non soltanto non colma


questo scarto, ma lo trasferisce dall'ambito singolare
dell'individuo alla trama complessiva dei rapporti tra gli
uomini. Questi sono uniti - nella generalità del diritto -
esattamente da ciò che li divide. O, se si preferisce, sono divisi
dalla forma che li collega in un unico destino. È appunto a
questa complessa dialettica di unità e separazione, di inclusione
e di esclusione, che va ricondotta l'essenza stessa dell'idea di
persona. Essa è la categoria più generale all'interno della quale si
dispongono tutte le altre mediante un gioco di biforcazioni
consecutive che dal genere porta alle specie, senza però mai
fermarsi all'uomo particolare. Così dalla summa divisio de iure
personarum, secondo la quale gli uomini si distinguono
inizialmente in schiavi e liberi, germoglia quella, successiva, tra
ingenui, cioè liberi per nascita, e liberti, vale a dire a rancati dai
loro padroni. Dove ciò che rileva è il fatto che, attraverso il ltro
formale della persona, il diritto resta sempre lontano
dall'esistenza concreta e dalla densità corporea del singolo
uomo, per concentrarsi nell'elaborazione di categorie astratte:
servi, lii in potestate, uxores in matrimonio, mulieres in manu,
liberi in mancipio, ma anche addicti, nexi, auctorati, sono tutte
classi di esseri umani alieni iuris -vale a dire sottoposti in forme
diverse a una padronanza esterna che li rende oggetti, non
soggetti, di diritto - de niti precisamente dal loro status che,
secondo i casi, li espone legittimamente ad essere uccisi,
venduti, usati o anche liberati dal pater familias, unico tipo di
vivente sui iuris.
Fin dalla sua genesi, insomma, il ruolo speci co del diritto si
riconosce nell'articolazione di cesure categoriali all'interno di
una continuità scandita e modulata secondo soglie successive di
inclusione ed esclusione. Ma ciò su cui si esercita con
inarrivabile potenza creativa la giurisprudenza romana, più che
la de nizione di statuti di erenti, è l'oscillazione semantica
costituita ai loro bordi, con e etti a volte dirompenti sulle stesse
norme che ne regolano il rapporto. Il caso più noto di questa
zona di indistinzione, o di sovrapposizione, statutaria è di certo
quello dello schiavo, eternamente sospeso tra la condizione di
persona e quella di cosa, cosa con un ruolo di persona e persona
ridotta allo stato di cosa, a seconda che si guardi ai compiti
e ettivi che assolve nella società romana oppure alla sua
classi cazione strettamente giuridica. Egli è letteralmente la
non-persona all'interno della più generale categoria di persona,
la cosa vivente o la vita murata nella cosa. Assimilato,
nell'utilizzo o nel trattamento, alle altre proprietà o agli animali
posseduti - paragonato a uno strumento parlante a di erenza di
quelli muti, e dunque in piena balia di colui cui appartiene nei
suoi atti e nel suo corpo - egli può, in alcuni casi, rappresentare
legalmente il dominus assente o addirittura amministrare un
peculium. Allo stesso modo, destituito di ogni personalità
giuridica, può, tuttavia, essere sottoposto a pena, purché
particolarmente crudele e infamante o anche, sotto tortura,
testimoniare davanti a un giudice. Chi dovesse ucciderlo - al di
fuori del padrone, sempre legittimato a farlo - è, a seconda della
volontà di quest’ultimo, condannato per omicidio, come accade
quando si procura la morte di una persona, o tenuto al
q p p
risarcimento pecuniario al proprietario, come se gli avesse
sottratto qualsiasi altro bene materiale.
Ma il luogo più caratteristico, perché codi cato da un
rigoroso rituale, spesso di tipo performativo - «hunc ego
hominem ex iure Quiritium meum esse aio», recita la formula
della vindicatio in servitutem trasmessaci da Gaio (4.16), - di
questa ambivalenza sta nel passaggio da uno stato all'altro, dalla
schiavitù alla libertà e viceversa. Dove ciò che importa non è
solo l'e etto di personalizzazione, o di spersonalizzazione, che
ne risulta, ma gli in niti stadi intermedi che scandiscono il
transito, mai de nitivamente compiuto e sempre reversibile, tra
la persona e la cosa. La gura più intensamente espressiva di
questa straordinaria capacità inventiva dell'esperienza giuridica
romana è forse quella della manumissio, cioè dell'a rancamento
dello schiavo. Essa, sempre dipendente dalla volontà sovrana
del proprietario, si distingue nelle tre forme della manumissio
vindicta, della manumissio testamento e della manumissio censu.
Nella prima l'emancipazione scaturisce dalla circostanza che
alla vindicatio in libertatem di colui che, d'accordo col dominus,
veste i panni dell'adsertor libertatis, non corrisponde una
contravindicatio da parte del padrone. Nella seconda, per
testamento, la liberazione avviene solo alla morte di
quest’ultimo, con la conseguente estinzione degli obblighi
patronali che negli altri casi continuano a vincolare il liberto.
Nella terza, in ne, la manumissio consiste nella iscrizione,
sempre da parte del dominus, dello schiavo nelle liste del censo,
e dunque nella sua ascrizione al novero dei cittadini liberi. Ma
ciò che caratterizza, in tutte le forme, la procedura di
manomissione è sempre la sua incompiutezza - vale a dire la
distanza residua, graduata secondo precise misure, rispetto alla
condizione di libertà e ettiva. La liberazione - una volta avviata
- poteva essere condizionata a un evento successivo, in assenza
del quale restava sospesa in attesa della sua e ettuazione: no
ad allora lo schiavo, ancora tale, ma prossimo alla libertà, era
de nito statuliber. Per non dire altro, la Lex lunia Norbana (19
d.C.), volta a regolare l'intera materia, distingueva tra
g g
l'autonomia così acquisita e la cittadinanza, conferita soltanto a
pochi, rispetto a tutti gli altri, assimilati invece ai latini delle
colonie. I quali avevano si il permesso di commerciare, ma non
di fare testamento, talché fu giustamente detto che vivevano da
liberi, ma tornavano schiavi al momento della morte. l'istituto
espressamente volto alla depersonalizzazione era del resto
codi cato con il nome di diminutio capitis, a sua volta distinta,
secondo i suoi e etti più o meno rei canti, in minima, media e
maxima. In questo modo la libertà - sempre nella disponibilità
del padrone - era limitata nella forma, nell'estensione e nel
tempo, a testimonianza del fatto che essa era intesa non come
una condizione originaria, bensì derivata, cui l'uomo poteva
accedere, temporaneamente e occasionalmente, attraverso un
processo arti ciale di personi cazione. Essa, in de nitiva, non
era che il ‘resto’, il residuo, la sporgenza sottile e fragile,
dell'orizzonte naturale della schiavitù. Nessun essere umano era
persona per natura - in quanto tale. Non certo lo schiavo, ma
neanche il libero, che prima di divenire pater, cioè soggetto di
diritto, era comunque dovuto passare per lo stato di lius in
potestate - a riprova del fatto che, nel dispositivo mobile della
persona, l'uomo, pervenuto alla vita dall'universo della cosa, in
esso poteva sempre essere di nuovo precipitato.
Sulla condizione del glio nella famiglia romana la
letteratura si è so ermata a lungo con esiti interpretativi non
sempre omogenei. In particolare a una tendenza, rappresentata
soprattutto da Pietro Bonfante105, che ha teso a omologarla a
quella degli schiavi, se ne è contrapposta un'altra, portata a
di erenziare maggiormente il potere paterno sui gli da quello
esercitato sulle altre persone in mancipio. Proprio tale
distinzione, tuttavia, rivolta a relativizzare l'assolutezza della
patria potestas, nisce per metterne in luce la particolare
pregnanza in ordine all'intero sistema giuridico romano. Essa è
stata giustamente accostata alla categoria di sovranità non
soltanto per l'intensità delle sue prerogative - a partire dallo jus
vitae ac necis - ma anche, e forse soprattutto, per la sua durata e
sostanziale intrasmissibilità. È questo l'elemento che più incide
sul regime personale del lius - e cioè sul processo della sua
ininterrotta depersonalizzazione. Come sempre avviene nel
diritto romano, questa non perviene mai a un esito de nitivo,
ma è funzione mobile del rapporto, sempre mutevole, tra norma
generale ed eccezione. Così il potere del padre di dare la morte,
ridotto nel periodo classico rispetto all'asprezza della fase
arcaica, era interdetto rispetto ai gli maschi inferiori ai tre
anni e alla primogenita. A meno che - ecco l'eccezione che
ripiega su se stessa la norma - non si tratti di bambini deformi o
di glia adultera. Ma anche i gli che non potevano essere
direttamente uccisi, potevano essere esposti, cioè abbandonati,
o venduti. Anche in questo caso il glio - per quanto precipitato
in una condizione del tutto assimilabile a quella dello schiavo -
non rientrava nella sfera potestativa del nuovo pater, ma
soltanto perché restava in quella del padre naturale. Questa si
estingueva nella gura della emancipazione solamente dopo tre
vendite consecutive secondo la formula «Si pater ter lium
duuit, lius a patre liber esto». Solo allora, dopo essere stato per
tre volte venduto come una cosa, il lius tornava
provvisoriamente persona - prima di entrare nello stato, esso
stesso depersonalizzante, dell'adoptio. Dove quello che va
rilevato non è soltanto la circostanza che ogni ‘passaggio’ verso
la persona pro la una nuova, e sempre diversa, forma di
spersonalizzazione, ma anche il carattere pressoché
inestinguibile della sovranità paterna - superiore, nella sua
origine di sangue, anche al diritto di proprietà del compratore: a
riprova del fatto che la sottomissione biopolitica al genitore è
più piena e durevole di quella di qualsiasi altro oggetto
posseduto per acquisizione successiva. Se lo schiavo è in tutto
equivalente alla cosa, il glio, cioè ogni cittadino romano, oscilla
tra una condizione personale di uomo libero e una,
depersonalizzata, ancora più degradata della cosa.
6. La separazione funzionale tra diritto e uomo che
caratterizza il dispositivo romano della persona si riproduce,
con una serie di variazioni, lungo l'intero corso della concezione
giuridica moderna, penetrando profondamente dentro il nostro
tempo. Naturalmente si può insistere, come molti storici fanno,
sugli indubbi tratti di discontinuità che tagliano in segmenti
distinti questa traiettoria, a partire dalla marca di con ne che,
secondo una formulazione canonica, separa il diritto degli
‘antichi’ da quello dei ‘moderni’. Ma a patto di non perdere di
vista la griglia concettuale sottostante che collega in maniera
profonda formulazioni lessicali apparentemente assai diverse. I
giuristi di antico regime ebbero sempre il senso acuto di questa
continuità - quasi avvertissero l'impossibilità di porsi fuori da
quella straordinaria, e terribile, macchina di disciplinamento
sociale che è stato, nel suo complesso, il diritto romano; di
sottrarsi alla potenza astraente e separante, ma insieme e
proprio per questo costitutiva, del suo formalismo106.
Certamente a nessuno di loro dovette sfuggire la distinzione
fondativa tra uomo come entità naturale e persona come
categoria arti ciale - creata, cioè, dal diritto - intorno alla quale
tutto un mondo complesso di rapporti e di di erenze, di poteri e
di dipendenze, si andava articolando. Riccardo Orestano ha
ricostruito questo nodo concettuale che lega, nella distanza
categoriale e semantica, antichi e moderni in un unico orizzonte
di senso107. Se già a metà Cinquecento Hugues Doneau
(Donellus, 1517-1591) rileva che «servus homo est, non
persona; homo naturae, persona iuris civilis vocabulum»,
Hermann Woehl (Vulteius, 1565-1634) limiterà l'attributo di
persona all'«homo habens caput civile, quod positum est in
tribus, in libertate, in civitate, in familia». Arnold Vinnen
(Vinnius, 1588-1657) porterà, in ne, a compiuta sistemazione
la distinzione, argomentando che «homo dicitur cuicumque
contingit in corpore humano mens humana», mentre «persona
est homo statu quodam veluti indutus». Non solo l'homo -
vocabolo che il latino riserva di preferenza allo schiavo - non è
persona, ma persona è esattamente il terminus technicus che
separa la capacità giuridica dalla naturalità dell'essere umano.
Vero è che a questa tradizione, caratterizzata da grande
rigore sistematico, comincia, a un certo punto, se non a
contrapporsi, quantomeno ad a ancarsi, un'altra linea
interpretativa, dottrinariamente più incerta, che tende, al
contrario, a uni care ciò che nella prima era rigidamente
separato. Essa, nata nella tarda cristianità, e sviluppata, con
qualche opacità teoretica, nella scolastica medioevale, trova il
proprio alveo più consistente nella scuola giusnaturalistica, per
poi con uire, con ulteriori slittamenti lessicali, nella
Pandettistica tedesca sette e ottocentesca. La trasformazione
più evidente riguarda il passaggio da una concezione
oggettivistica, tipica della impostazione romana, a una
soggettivistica del diritto. In questo caso l'individuo, più che
inserito in una trama oggettiva di relazioni giuridiche, viene
sempre di più inteso come un soggetto cui ineriscono
naturalmente determinate prerogative. Mentre nel linguaggio
latino, e ancora in quello medioevale, no almeno a Cartesio, il
termine subjectum indicava in realtà l'oggetto di una regolazione
ad esso esterna - l'assoggettamento a un complesso di regole e
norme oggettive - prima Hobbes e poi Leibniz capovolgono
questo signi cato risalente, facendone il soggetto di una attività
senziente e operante. A questo punto la distanza tra persona e
uomo viene a ridursi n quasi a scomparire. Nel momento in
cui ogni uomo, al di là di qualsiasi di erenza di status o quali ca
sociale, è considerato portatore di volontà razionale, diventa per
lo stesso motivo anche titolare di personalità giuridica. In
questo modo, il diritto, anziché essere sovraordinato al
soggetto, ne diviene l'attributo fondamentale, inteso come il
potere che ciascuno ha su se stesso e sulle cose che gli
appartengono. Da questo punto di vista, la di erenza romana
tra uomo e persona non ha più ragione di sussistere. Allorché la
rivoluzione francese sancirà l'uguaglianza di tutti gli uomini,
potrà nalmente aprirsi sul piano epocale quella stagione dei
diritti umani che trova oggi la sua de nitiva consacrazione.
gg
Chi ritenesse, tuttavia, risolto l'arcano - cioè il doppio fondo
originariamente contenuto nel termine persona, insieme volto e
maschera, intero e parte, attore e ruolo - sarebbe fuori strada.
Proprio nel momento in cui la persona cessa di essere una
categoria generale all'interno della quale si può transitare,
entrandovi e uscendone, come accadeva a Roma, per divenire
un predicato implicito in ogni uomo, essa si rivela diversa e
sovrapposta al sostrato naturale su cui si impianta. E ciò tanto
più nella misura in cui si identi ca con la parte razionale-
volontaria, o morale - vale a dire fornita di valore universale -
dell'individuo. Proprio in questo modo, infatti, si reinstaura,
all'interno di ogni essere umano, quello sdoppiamento, o
raddoppiamento, che prima lo separava, come semplice homo,
dalla categoria generale108. Si può dire che i conclamati diritti
della personalità abbiano come oggetto il proprio stesso
soggetto - che dunque siano l'espressione più antinomica di
quel congegno logico che consegna al soggetto la proprietà, e
dunque l'oggettivazione, di se stesso. Ma appunto in questa
maniera si reintroduce, potenziato, il dualismo che si intendeva
superare. È come se, tutt’altro che scomparire, la scissione,
dall'esterno, penetrasse all'interno dell'uomo, dividendolo in
due zone, in un corpo biologico e in un centro di imputazione
giuridica, la prima sottoposta al controllo discrezionale della
seconda. Anche in questo caso, insomma, e forse anche più di
prima, la persona non coincide con l'uomo nella integralità del
suo essere. E anzi si sovrappone - ma anche giustappone - ad
esso come un prodotto arti ciale dello stesso diritto. In questo
senso Kelsen può ben sostenere che persona e uomo restano
concetti diversi nonostante la formulazione, o dichiarazione,
moderna della loro coincidenza, come del resto si desume dalla
distinzione tecnica tra persona giuridica e persona sica.
Contrariamente a coloro che vorrebbero conferire alla prima
caratteri di realtà, Kelsen li sottrae anche alla seconda,
interpretandola come null'altro che la personi cazione
mitologica dei diritti e doveri attinenti al comportamento
umano: «La cosiddetta persona sica non è quindi un uomo,
bensì l'unità personi cata delle norme giuridiche che
attribuiscono doveri e diritti al medesimo uomo»109. Ancora
una volta, e sempre più chiaramente, il dispositivo della persona
si con gura come lo schermo arti ciale che separa l'uomo dai
propri diritti - che certi ca l'impossibilità di qualcosa come i
‘diritti umani’.

7. Si è già visto come la categoria giuridica di persona


presenti più di un punto di tangenza con quella, politica, di
sovranità. Ma l'autore in cui i due termini si annodano in un
viluppo concettuale talmente stretto da fare dell'uno l'e etto
dell'altro è sicuramente Hobbes. È la nozione di persona a
introdurre, e de nire, quella di Stato sovrano: «Questo è più del
consenso o della concordia; è un'unità reale di tutti loro in una
sola e medesima persona»110. Che nel capitolo XVI del
Leviatano, intitolato appunto Delle persone, degli autori e delle
cose impersonate, da cui è tratta la citazione, egli parta dalla
terminologia greca, e soprattutto latina, è un'ulteriore riprova
della lunga durata della tradizione giuridica classica. Ma dà
anche la misura del netto mutamento, semantico ancora più
che lessicale, intervenuto nei suoi confronti. Ferma restando,
infatti, la varietà di registri con cui il termine è usato all'interno
dell'opera hobbesiana, l'elemento di maggiore novità attiene al
trasferimento della separazione romana tra uomo e persona
all'interno della stessa nozione di persona, di erenziata da
Hobbes in naturale e arti ciale:
Una persona è colui, le cui parole o azioni sono considerate o come sue proprie o
come rappresentanti le parole o le azioni di un altro uomo o di qualunque altra cosa a
cui sono attribuite, sia veramente che per nzione.
Quando sono considerate come sue proprie, allora viene chiamata una persona
naturale; quando sono considerate come rappresentanti le parole e le azioni di un
altro, allora è una persona nta o arti ciale111.

Non solo, dunque, come già sappiamo, la persona non coincide


con l'essere naturale in cui è situata - altrimenti non potrebbe
neanche autorappresentarsi - ma può rappresentare anche un
altro uomo. Più avanti, spingendo ancora più a fondo la propria
opera di decostruzione dell'identità personale, Hobbes arriva a
sostenere che le stesse cose inanimate, come una chiesa, un
ospedale o un ponte, possono essere impersonate. Lo strappo
non poteva essere più netto rispetto a una tradizione che, pur
di erenziandoli funzionalmente, non aveva mai messo in
discussione la relazione primaria tra persona ed essere umano: è
come se nella dialettica, prima evocata, tra maschera e volto,
immagine e sostanza, nzione e realtà, Hobbes sbilanciasse la
prospettiva del tutto a favore del primo termine. Non soltanto,
per essere persona, la maschera non deve necessariamente
aderire al volto di chi l'indossa, ma può ricoprire anche il volto
di un altro. Anzi è proprio questo il caso che interessa
maggiormente l'autore, al punto che si può ben dire che non è la
persona arti ciale a derivare logicamente da quella naturale, ma
questa da quella - anche perché è di più immediata evidenza la
rappresentazione di un altro che quella di se stesso. Ma il motivo
di fondo della prevalenza, logica e semantica, della persona
arti ciale su quella naturale sta nella circostanza che è appunto
a partire dalla sua de nizione che Hobbes può edi care la
propria teoria della sovranità, vale a dire l'architrave del suo
intero sistema. Il sovrano, infatti, non soltanto è persona
arti ciale, non dovendo rappresentare se stesso, ma è colui che
rappresenta ogni altra persona. Si dovrebbe, anzi, dire che è
proprio egli l'unico agente di personalizzazione, dal momento
che prima della sua istituzione nessuno può, in senso proprio,
de nirsi persona, né arti ciale né naturale, perché nello stato di
natura ciascuno coincide con il proprio essere vivente, e presto
morente - non esiste, cioè, quella trascendenza da sé che
costituisce la condizione necessaria della personalità. Quanto
alle altre persone ‘ nte’, attribuite a enti non umani, «tali cose
non possono essere impersonate prima che ci sia qualche stato
di governo civile»112.
Ma se il sovrano è agente di personalizzazione, egli è,
contemporaneamente, e proprio per questo, anche principio di
depersonalizzazione - di sottrazione alle altre persone di ciò in
cui risiede il nucleo stesso della personalità. Per cogliere in tutta
la sua pregnanza questo doppio e etto incrociato, è necessario
partire dalla relazione, implicita nell'idea di persona arti ciale,
tra autore e attore. l'attore è colui che rappresenta le azioni o
parole di un altro - che ne è l'autore. Trasferita sul piano della
teoria politica, questa distinzione vede nello Stato Leviatano
l'attore per eccellenza in cui tutti gli autori, uniti nel patto che lo
istituisce, si riconoscono al punto di considerare ogni suo atto
come prodotto da se stessi. Questo è il motivo logico per il quale
nessuno dei soggetti contraenti può mai - anche quando ne
fosse svantaggiato o addirittura condannato a morte -
lamentarsi di un ordine sovrano, dal momento che è egli stesso
ad averlo preventivamente autorizzato. Già qui, in questa
cessione non soltanto del proprio potere, ma anche della
possibilità di contestarne l'uso indebito, comincia a trasparire il
carattere rei cante della personalizzazione sovrana. Essa
produce, certo, i soggetti giuridici - conferendo loro una
personalità che nello stato di natura non avevano - ma nella
forma del più integrale assoggettamento. Più - e prima - che
soggetti di, essi sono innanzitutto e costitutivamente soggetti a
un attore che li interpreta spogliandoli di qualsiasi capacità
decisionale. Giustamente si è connesso questo vero e proprio
scambio di soggettività a una discontinuità lessicale, nella
categoria di autorità, tra la sua originaria declinazione latina e
quella, appunto, hobbesiana113. Mentre l'auctor romano -
derivato da augere - è colui che prende, ma anche che conserva,
l'iniziativa di un atto sia in diritto pubblico (i patres auctores), sia
in diritto privato (il tutore di qualcuno), sia, anche, in diritto
criminale (l'autore di un'infrazione), Hobbes, richiamandosi
piuttosto al verbo to authorize (abilitare un altro a parlare a
proprio nome), trasferisce il diritto, il titolo, e il corrispondente
potere, interamente nelle mani dell'attore. In questo modo
questi diviene, a sua volta, unico soggetto di ciò che fa, o dice,
autonomizzandosi del tutto dal controllo degli autori che lo
hanno inizialmente posto in essere perdendo la possibilità di
intervenire successivamente sul suo operato: «l'autore o il
legislatore - è detto più avanti - si suppone che sia evidente in
ogni stato, perché è il sovrano e, dato che esso è stato costituito
con il consenso di ognuno, si suppone che sia su cientemente
conosciuto da ognuno»114. Non solo, anzi, il sovrano, de nito
attore, una volta e per sempre autorizzato, risulta di fatto autore
di ogni proprio atto, ma può anche, come si addice appunto
all'autore, creare altri attori - i cosiddetti «pubblici ministri»115 -
essi stessi destinati a trasformarsi in autori nei confronti dei
sudditi che sono loro sottoposti.
Ma questo non basta. Si è già visto come il sovrano-attore -
una volta istituito - divenga l'unico autore della legge. In più
egli, come anche si è detto, ha la capacità di fare di cose, o di enti
inanimati, nuove persone giuridiche. Ma, oltre a trasformare le
cose in persone, è anche portato, per la sua stessa natura di
persona collettiva inclusiva di ogni altra, a spingere le persone
verso il regime della cosa. Che resterà, infatti, della persona,
intesa come centro autonomo di volontà e giudizio, dopo che gli
‘autori’ avranno conferito «tutti i loro poteri e tutta la loro forza
a un uomo o a un'assemblea di uomini che possa ridurre tutte le
loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, a una volontà
sola» e sottomesso «ogni loro volontà alla volontà di lui, e ogni
loro giudizio al giudizio di lui»116? Del resto la persona, resa tale
dal proprio ingresso nell'ordine civile, rapportandosi
unicamente a colui che legittimamente la rappresenta, cessa,
per questo medesimo motivo, di poter rappresentare qualsiasi
altro e anche, a maggior ragione, se stessa, perdendo in tal modo
lo statuto personale nel preciso momento in cui lo acquista. La
stessa circostanza che essa è vincolata sul piano esterno, ma
non anche su quello interno, all'obbedienza al sovrano la scinde
in due parti eterogenee che presto saranno ricondotte alla
dicotomia insanabile tra uomo e cittadino. Separata da tutte le
altre dal lo verticale che la vincola individualmente al sovrano,
ogni persona è, in questo modo, divaricata al proprio interno in
maniera non più ricomponibile. È questo il doppio e etto - di
personalizzazione e di spersonalizzazione - che la sovranità
incide nel corpo della persona: facendo della persona ciò che
non ha più corpo e del corpo ciò che non potrà più essere
persona.

8. Cerchiamo di riguadagnare prospettiva tornando all'asse


principale intorno al quale l'intero discorso si è andato nora
dipanando. Il rinnovato rilievo della categoria di persona, n
dagli anni Quaranta del secolo scorso, origina dall'esigenza di
contrastare, anche sul piano culturale, un'ideologia, o meglio
una biologia, politica, come è stata quella nazista, incentrata sul
primato assoluto del corpo razziale e sulla depersonalizzazione
che ne consegue. Contro l'idea, o piuttosto la pratica, dello
schiacciamento del soggetto sulla propria sostanza biologica, la
reazione ben comprensibile della cultura democratica, uscita
vincente dal con itto mondiale, è stata quella di ripristinare
una qualche distanza tra l'elemento razionale, o spirituale,
dell'uomo e il suo semplice dato corporeo. Da questo punto di
vista anche l'opposizione di principio tra prospettiva laica e
prospettiva cattolica restava in secondo piano - o comunque
appariva pur sempre mediabile - rispetto a quella, ben più
marcata, che separava irrimediabilmente entrambe dalla
tanatopolitica nazista. Alla assoluta immanenza dello ‘spirito
della razza’ rispetto al corpo, individuale o collettivo, cui
immediatamente ineriva, rispondeva la trascendenza, o almeno
la trascendentalità, del soggetto personale nei confronti del suo
essere biologico. l'essenza della persona sta in questa di erenza
irriducibile che distingue ciascuno nel suo stesso modo di
essere - nella non-coincidenza dell'essere rispetto al suo modo.
Mentre nella concezione che abbiamo de nito biopolitica -
portata a compimento e insieme a snaturamento dal nazismo -
non si è altro da ciò che si è biologicamente, la persona è quel
nucleo di volontà razionale impiantata, da Dio o dalla natura, in
un corpo singolo, ma non identi cabile con esso. In questo
senso, e secondo la formulazione canonica, persona è sostanza e
relazione, relazione di due sostanze, divina e umana, spirituale e
corporea, soggettiva e oggettiva, sovrapposte senza però mai
essere del tutto indistinte.
Ma se ciò è vero, come si con gura tale rapporto? Come si
de nisce la relazione tra le due entità, o principi, che
costituiscono la persona? È intorno a questa domanda che
comincia a giocarsi una partita, insieme giuridica, etica e
politica, oggi tutt’altro che esaurita. Non solo, ma che si rivela,
sul piano concettuale, un insospettabile tratto di contiguità tra
concezioni apparentemente lontane e anche contrapposte. Già
la de nizione - prima evocata - di Maritain chiama in causa la
categoria di sovranità: persona è quell'entità che si quali ca per
la signoria sul proprio sostrato biologico, un tutto capace di
uni care e dominare le sue parti. Colpisce la caratterizzazione
intensamente politica che Maritain imprime a una
problematica, originariamente giuridica, quale quella dei diritti
umani - al punto di derivare, per via analogica, la loro priorità
sugli obblighi proprio dal ra ronto con il potere assoluto che il
Creatore mantiene sulle proprie creature. Ma l'elemento ancora
più signi cativo - in ordine alla ‘doppiezza’ costitutiva della
categoria di persona - sta nella quali cazione ‘animale’ di
quell'altra parte di sé su cui la persona esercita il proprio
dominio: «se una sana concezione politica dipende prima di
tutto dalla considerazione della persona umana - argomenta
Maritain - essa deve nello stesso tempo tener conto del fatto che
tale persona è quella di un animale dotato di ragione, e che è
immensa la parte di animalità in tale misura»117. Bisogna
guardare ai due termini del rapporto nel loro legame
costitutivo: l'uno è necessario alla identi cazione per contrasto
dell'altro. l'uomo è persona precisamente perché, e se, mantiene
piena padronanza sulla propria natura animale. E ha una natura
animale per potere misurare su di essa il proprio statuto
sovrano di persona.
Non può sfuggire, a questo punto, una certa connessione con
quella opposizione tra le due vite, una relazionale e l'altra
vegetativa, ssata da Bichat all'origine della liera biopolitica
che ha prima decostruito e poi azzerato l'idea di persona. Solo
che mentre in quel caso - e sempre di più, lungo la deriva
tanatopolitica che abbiamo ricostruito in dettaglio - la parte
vegetativa prevaleva, per intensità e per durata, su quella
interrelazionale, adesso il rapporto risulta rovesciato a favore
della parte razionale e volontaria, destinata al dominio su quella
animale. In entrambi i paradigmi l'uomo mostra una parte
animale - ha un animale al proprio interno.
Ma ora, secondo una concezione che può essere fatta risalire
sia al cattolicesimo che all'illuminismo, l'uomo è tale - vale a
dire persona - se appare in condizione di governarlo, di
dominare la propria vita animale. E ciò, aggiunge Maritain, sia
nel corpo individuale sia in quello sociale, anch’esso tagliato da
una linea che separa la zona sana, governata dalla ragione e
dalla morale, da un'altra, insana e irrazionale, a data all'istinto
e alla passione distruttiva. Il nazismo stesso,
nell'interpretazione dell'autore, non ha fatto altro che scatenare
questa dimensione animale contro quella personale in una
forma che adesso va rovesciata nel suo opposto. l'uomo, il
singolo uomo e l'umanità tutta, deve rimettere al guinzaglio il
proprio animale, l'animalità bruta che costituisce il fondo
oscuro da cui la persona umana viene alla luce, evitando sia
l'utopica presunzione che quell'animale non esista - che l'uomo
sia interamente umano - sia il rischio di farsene schiavo:
Riguardo ai punti che ho indicato, è chiaro che una loso a politica fondata sulla
realtà deve lottare volta a volta contro due errori opposti: da una parte uno
pseudo-idealismo ottimistico, che va da Rousseau a Lenin, e che alimentava gli
uomini di false speranze, pretendendo di stimolare e snaturando l'emancipazione
alla quale essi aspirano, dall'altra parte uno pseudorealismo pessimistico che va
da Machiavelli a Hitler, e che piega l'uomo sotto la violenza, non ritenendo di lui
che l'animalità che lo rende schiavo118.
9. Non bisogna sorprendersi eccessivamente della singolare
continguità lessicale che queste espressioni con gurano tra il
‘personalismo’ di Maritain e l'‘animalismo’ della concezione
biopolitica contro cui pure esso intende reagire. A una
prospettiva ermeneutica più arretrata, capace di cogliere, sotto
le fenditure di super cie, gli strati geologici profondi in cui esse
si aprono, risulta evidente che l'elemento di lungo periodo dal
quale entrambi prendono le mosse è costituito dalla de nizione
aristotelica dell'uomo animale razionale. Come, in altro
contesto e con altro intendimento, anche Heidegger ebbe a
rilevare119, una volta ssato questo presupposto, non si può
optare che tra due prospettive in ultima analisi speculari: o si
tende, come la bio loso a ottocentesca, ad assorbire la vita
umana in quella animale, lungo una parabola portata al suo
estremo dal nazismo; oppure si istituisce tra di esse una
relazione asimmetrica che sottomette una parte, quella
animale, al dominio incondizionato dell'altra sulla base della
sua preliminare caratterizzazione razionale e volontaria. Da
questo punto di vista genealogico, o meglio archeologico, si può
allo stesso modo dire che la biopolitica a erra nei suoi
meccanismi impositivi anche la tradizione personalista che
intende contrastarla o che l'antica dinastia della persona
annette al proprio regime di senso anche il dispositivo
biopolitico volto a scardinarlo.
D'altra parte, in un confronto di lungo periodo, se la
concezione democratica, nel suo formalismo universalista, è in
linea di principio incompatibile con la deformalizzazione
biopolitica, così non è per il liberalismo, uscito come il vero
vincitore dal doppio scontro epocale con il nazismo e con il
comunismo. Come lo stesso Foucault ha dimostrato120, infatti,
lungo un vettore esegetico ben più produttivo della stanca
dicotomia tra totalitarismo e liberaldemocrazia121, la
prospettiva liberale, a sua volta ben distinta da quella
democratica, lungi dal contrapporsi all'orizzonte biopolitico, ne
costituisce una scansione speci ca interna. Naturalmente non
va in nessun modo sfumato il con ne, assai netto, che separa la
bio-tanatopolitica di Stato nazista dalla biopolitica individuale
di tipo liberale, che ne rappresenta un'evidente inversione122.
Mentre la prima si basa su una sempre più integrale restrizione
di libertà, la seconda è volta alla sua progressiva espansione -
ma pur sempre all'interno dello stesso imperativo, che è quello
della gestione produttiva della vita, nel primo caso a favore del
corpo razziale del popolo eletto e nel secondo del soggetto
individuale che ne diviene padrone. Ciò che, nonostante e
dentro questa di erenza pure capitale, sovrappone o incrocia i
due assi prospettici in un lessico concettuale non del tutto
dissimile è l'animalizzazione, o la cosi cazione, di una zona
dell'umano rispetto a un'altra alla prima nello stesso tempo
contrapposta e sovrapposta. È vero che nel caso della cultura
liberale - a di erenza del nazismo - la linea di con ne tra
animale e uomo passa all'interno del singolo individuo e non tra
popoli razzialmente gerarchizzati, ma ciò non toglie, anzi mette
ancora più in risalto, un'analogia di ragionamento nella
relazione, così istituita, tra il corpo e la cosa: a partire da una
concezione strumentale della vita - che sia in funzione dello
Stato oppure dell'individuo sovrano - la condizione dell'uno
tende a scivolare in quella dell'altra. Ora, contrariamente a
quanto si è supposto, condizionando la de nizione dei diritti
umani al linguaggio della persona, questo non è riuscito a
bloccare tale deriva. E non vi è riuscito, come si è dimostrato
aprendo un angolo prospettico più ampio, per il semplice
motivo che era proprio esso a produrla nella misura in cui,
identi cando un nucleo extracorporale - de nito in termini di
volontà e ragione - all'interno dell'uomo, necessariamente niva
per spingere il corpo in una dimensione, animale o vegetale, a
diretto contatto con la sfera della cosa.
Come si è visto in Maritain, la categoria attraverso la quale si
è pervenuti a questo esito è quella di sovranità in se ipsum. Ma
ad essa si è ben presto a ancata, e poi sovrapposta, in una
chiave più tipicamente liberale, quella di proprietà: la persona è
tale, l'uomo ha caratteri di persona, quando risulta proprietario
di se stesso, secondo una tradizione che risale a Locke e a Mill. Se
per il primo, «ciascuno ha […] la proprietà della sua persona: su
questa nessuno ha diritto alcuno all'infuori di lui»123, per il
secondo «il solo aspetto della condotta per cui si è responsabili
di fronte alla società è quello che concerne gli altri. Per la parte
che riguarda solo se stesso, l'indipendenza dell'individuo è, di
diritto, assoluta. Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria
mente l'individuo è sovrano»124. Già qui il corpo - su cui la
persona esercita il proprio dominio proprietario - è pensato
come cosa, cosa corporea o corpo rei cato. Ciò signi ca che il
dispositivo della persona, all'interno dello stesso individuo,
funziona nel medesimo tempo nel senso della personalizzazione
- quanto alla sua parte razionale - e nel senso della
depersonalizzazione, quanto a quella animale, cioè corporea.
Solo una non-persona, insomma, una materia vivente non
personale, può dare luogo, come oggetto del proprio soggetto, a
qualcosa come una persona. Così come, inversamente, la
persona è tale se riduce a cosa ciò da cui si rileva in ordine al
proprio statuto razionale-spirituale. Questo processo di
depersonalizzazione del corpo - opposto e complementare a
quello, biopolitico, di corporeizzazione della persona - è comune
a concezioni anche manifestamente diverse, come quella
cattolica e quella liberale, che inscrivono la propria proposta nel
lessico categoriale della persona. E dunque, necessariamente,
anche della cosa, dal momento che non soltanto non c’è l'una
senza l'altra, ma è appunto l'una a produrre l'altra. È singolare
che, nell'attuale dibattito sulla bioetica, sfugga precisamente il
punto d'incrocio che collega a un unico presupposto concettuale
schieramenti ideologici che sembrano disporsi su fronti
contrapposti. Sia coloro che avocano a sé la disponibilità del
proprio corpo - per migliorarlo, gestirlo, modi carlo, o anche
a ttarlo, venderlo, sopprimerlo - sia coloro che lo dichiarano
indisponibile perché proprietà intangibile di Dio, dello Stato o
della Natura, devono presupporre la sua traduzione in cosa. Solo
perché riportata anticipatamente nella categoria delle res extra
commercim, la vita umana è dichiarata sacra dagli uni e
quali cata dagli altri. Altrimenti, se così non fosse, se il corpo
non fosse già cosi cato, non ne sarebbe in discussione la
proprietà di chicchessia dal momento che sarebbe esso stesso
soggetto - evidentemente impersonale - di autodeterminazione.

10. Per la dottrina classica del diritto civile, il corpo umano è


giuridicamente inconfondibile con la cosa. Punto di partenza di
tale distinzione resta la summa divisio romana tra personae e res:
solo queste ultime sono appropriabili dalle prime. Ora, essendo
sostrato indisgiungibile della persona, il corpo non può
appartenere a nessuno. Non ad altri, ma neanche al soggetto
con cui coincide nella dimensione dell'essere e non in quella
dell'avere - il corpo non è qualcosa che si ha, ma ciò che si è. Per
questo, come recita il Digesto, «dominus membrorum suorum
nemo videtur». E tuttavia, lo stesso diritto che separa il corpo
umano dalla cosa apre più di un varco tra i due ambiti così
de niti. Intanto riconoscendo entità che, pur non essendo cose,
non sono neanche quali cabili come persone. Basti pensare allo
statuto incerto di embrioni, gameti, ovuli, ma anche ai feti
abortiti, considerati assimilabili a ri uti ospedalieri, nonché ai
cadaveri125. I complessi problemi giuridici che la loro
de nizione apre sono la testimonianza più palese della
oscillazione di rango ontologico cui la loro stessa natura li
sottopone: chi ruba degli embrioni va accusato di furto, come se
si appropriasse di cose altrui, o di rapimento, come se
sequestrasse delle persone? E che cos’è, propriamente, il reato di
profanazione di cadavere - un attentato alla persona che
egli/esso era o alla cosa che è diventato? Quando, precisamente,
un corpo è dichiarato cadavere e un feto persona? Cosa era
prima, e cosa sarà dopo, del segmento nito della vita
personale? Si può dire che quell'essere emerge da, e ritorna allo,
stato di cosa? Oppure ciò che precede e ciò che segue l'essere
persona non è mai una semplice cosa, bensì una non-ancora-
persona o una non-più-persona, situata a metà del tragitto dalla
cosa alla persona e dalla persona alla cosa?
Ma a questo primo ordine di problemi se ne aggiunge un
altro, non meno gravido di insuperabili aporie. Se il corpo nel
suo insieme è giuridicamente distinto dalla cosa, al punto da
essere inappropriabile da parte del soggetto stesso che lo abita,
ciò vale anche per le sue singole parti? Per alcune di esse, come
escrementi, secrezioni, unghie, denti, capelli, una volta separate
dal corpo, l'assimilazione alle res derelictae o nullius non è in
discussione. Ma già per gli organi o i tessuti medicalmente
amputati il discorso è più complesso. Di chi è l'appendice o il
rene dopo il loro espianto - del chirurgo, di chiunque se ne
appropri, del paziente? La questione, apparentemente
insigni cante, ha dato luogo a dispute giuridiche sfociate in
qualche caso in processi, come quando un'équipe medica ha
venduto a una ditta farmaceutica la cistifellea estratta da un
malato portatore di una rarissima formula sanguigna e perciò
utilizzabile per la fabbricazione di determinati farmaci. Anche a
prescindere dalla sentenza, pronunciata da una Corte della
California, favorevole al paziente contro l'ospedale costretto a
risarcirlo, ad essere ‘ loso camente’ in gioco era precisamente
lo statuto di quell'organo e dunque, attraverso di esso,
dell'intero corpo umano di cui era parte. Che la sua proprietà -
perché di ciò si trattava - fosse assegnata al malato, ai medici o
alla multinazionale in questione, ciò non mutava l'opzione
ontologica di fondo a favore della riconduzione di una parte del
corpo alla cosa appropriabile. Una volta assunto, e certi cato da
una sentenza, tale presupposto non può non valere per tutti gli
altri casi analoghi: se una persona è di fatto proprietaria di ogni
parte del proprio corpo, lo sarà anche del suo insieme126. Ma, se
è così, se il corpo è ricondotto giuridicamente a quel regime
della cosa da cui la dottrina civilista classica teoricamente lo
distingueva, allora il legittimo proprietario può disporne come
di ogni altro suo bene o come di uno schiavo: «Ciascuno è
proprietario di se stesso, - argomenta in merito Bertrand
Lemennicier. - Questa nozione di diritto, che consiste in
un'appropriazione del proprio corpo, è coerente. Il corpo umano
è un oggetto come un altro il cui proprietario è perfettamente
identi cato. Essa è universalizzabile, ogni essere umano
potenziale o no, ogni spirito incorporato in una macchina
biologica o non bene cia di un diritto di proprietà su questa
macchina perché ne è l'occupante o ne ha il possesso»127.
Proprio per difendere tale titolarità contro chiunque altro
volesse insidiarla, leggi successive hanno condizionato la
cessione di organi, da un corpo vivo o morto, all'esplicito
consenso dell'interessato, vietandone ogni forma di
remunerazione. Ma proprio in questo modo si ribadiva
implicitamente la rei cazione del corpo, pur senza il coraggio di
pervenire alle sue ultime conseguenze: l'organo ceduto è
insieme una cosa perché, a di erenza di una persona, può essere
donato, ma non lo è perché, a di erenza di ogni altro oggetto,
non può essere venduto.
l'altra soglia mobile che segna contemporaneamente il
con ne e il transito tra il regime del vivente a quello della cosa
appropriabile è l'istituto del brevetto128. È noto che si possono
brevettare le invenzioni arti ciali, non i prodotti naturali
all'interno dei quali è inclusa anche la vita in tutte le sue forme,
umana, animale e vegetale. Come non ci si può impadronire
delle res communes, quali aria, umi, montagne, non si può
brevettare qualcosa che è già data in natura. Anche qui, tuttavia,
come è già accaduto per gli organi trapiantati, da un lato la
logica del mercato e dall'altro lo sviluppo biotecnologico
modi cano radicalmente i protocolli giuridici precedenti,
mentre lo stesso diritto riarticola continuamente i limiti tra ciò
che è naturale e ciò che è arti ciale - cioè, ancora una volta, tra
non-cosa e cosa. Nel breve giro di qualche decennio - dal
cosiddetto Planct Act alle sentenze più recenti - si è consentito
prima il brevetto di semenze vegetali modi cate, poi di
microrganismi unicellulari anch’essi manipolati, poi di animali
transgenici, arrivando a lambire la stessa natura umana. Ora - al
di là delle problematiche attinenti a ciascuno di questi casi - ciò
che ci riguarda sotto il pro lo concettuale è da una parte la
direzione complessiva, che essi delineano, dal naturale
all'arti ciale, cioè la cosi cazione progressiva della vita;
dall'altra la modalità caratteristica con cui tale processo si
produce - che è sempre quella del trasferimento di un dato
prodotto da una categoria all'altra attraverso un'apertura e una
ride nizione dei loro con ni ontologici. Così ciò che era
considerato un vegetale è stato, a un certo punto, assimilato al
minerale, ciò che era animale al vegetale, no a una riduzione
all'animale di una zona liminare dell'umano. In questo modo
sono saltati i limiti che proteggevano giuridicamente i vari
generi appunto in virtù della loro di erenza presupposta -
prima creata e poi disfatta dal diritto. In questo passaggio
continuo dall'umano all'animale, dall'animale al vegetale e dal
vegetale al minerale si è aperto il passaggio generale dell'uomo
verso la cosa che segna la tendenza complessiva del nostro
tempo. Né la di erenza tra essere animato ed essere inanimato,
né quella tra naturale e arti ciale hanno retto alla pressione
congiunta di tecnica ed economia. Si può dire che in questa
nuova zona di indistinzione l'antica divisio romana trovi
insieme la propria sconferma e la propria conseguenza. Se
l'identità della persona è ricavata in negativo dalla cosa - dal suo
non-esser cosa -, la cosa è destinata a diventare lo spazio in
continua espansione di tutto ciò che la persona distingue e
allontana da se stessa.

11. La connessione romana tra persona e rei cazione del


corpo è al centro della bioetica liberale. Naturalmente, per
focalizzarla, è necessario attivare uno sguardo sagittale capace
di scorgere dietro, o leggere dentro, la palese discontinuità tra
‘antichi’ e ‘moderni’, tra oggettivismo dei primi e soggettivismo
dei secondi, il nodo meta sico che stringe il formalismo di una
concezione, come quella romana, volta a de nire rapporti
astratti e una modalità, intensamente biopolitica, destinata a
bruciare ogni mediazione tra diritto e vita biologica. Quel nodo,
come si è a più riprese detto, è de nito dal dispositivo della
persona. Sottoposto anch’esso alle svolte e ai rovesciamenti
semantici di cui si è dato conto, la sua prestazione
fondamentale resta la separazione presupposta, all'interno
dell'essere umano, tra un elemento naturale, corporeo,
meramente biologico e un altro trascendentale, costituito di
volta in volta in centro di imputazione giuridica, razionale,
morale. Ora la strategia argomentativa di quella branca della
bioetica contemporanea che si autode nisce liberale - in
contrasto con quella cattolica129 - sta appunto nell'allargare
sempre di più lo scarto originario, ssato nella codi cazione
romana, tra homo e persona: non soltanto non tutti gli esseri
umani possono ambire alla quali ca di persona, ma le persone
non sono tutte esseri umani. Sia Hugo Engelhardt che Peter
Singer, considerati i massimi esponenti di tale corrente,
insistono su entrambi questi principi, collegati tra loro dalla
distanza ontologica, da essi data per scontata, tra vita personale
e vita biologica. Venuta meno l'idea di corpo come sostrato
indisgiungibile della persona, questa diventa, o ritorna, una
quali ca condizionata alla presenza di una serie di attributi -
ragione, volontà, senso morale - che non tutti gli esseri umani
posseggono o che posseggono solo in parte. È appunto la
presenza, o la misura, di questi «indicatori di umanità», come li
de nisce Singer, a dividere quelli che comunemente chiamiamo
uomini in due grandi categorie ben distinte: coloro che
possiamo considerare semplici «membri della specie Homo
sapiens» e coloro che meritano l'appellativo di «persone» vere e
proprie130.
Naturalmente tra le due categorie, assunte nella loro purezza
tipologica - semplice zoé da un lato e bíos fornito del massimo
valore dall'altro - passano una serie di gradi intermedi che
vanno dall'una all'altra secondo soglie di personalità crescenti, o
decrescenti, a seconda del punto di osservazione. In ogni caso,
che si parta dall'inizio, o dalla ne, della vita, la persona
veramente tale occupa solo la sua fascia centrale, quella degli
uomini adulti e in salute, prima e dopo della quale si stende la
terra di nessuno della non-persona (il feto), della quasi-persona
(l'infante), della semi-persona (il vecchio non più valido
mentalmente o sicamente), della non-più-persona (il malato
in stato vegetativo) e in ne dell'anti-persona (lo stolto, che
Singer pone nella stessa relazione con l'uomo intelligente di
quella che passa tra l'animale e l'uomo normale, pur con una
palese preferenza per l'animale). A questa categorizzazione, per
così dire statica, delle di erenti classi di viventi, se ne aggiunge,
poi, una, dinamica, de nita dal passaggio da una condizione
all'altra. È soprattutto il caso di ciò che Engelhardt chiama
«persona potenziale» (potential person) - vale a dire di colui che,
pur destinato all'approdo nel mondo delle persone, almeno no
a quando non ne sia espulso da vecchiaia o malattia incurabile,
è ancora alieni iuris e perciò in potestate dei genitori. Dove il
riferimento al diritto romano, e in particolare alle due gure ‘di
transito’ tra persona e cosa della manumissio e della mancipatio,
salta agli occhi non soltanto in ordine al quadro complessivo
che così si de nisce, ma anche a precisi riferimenti quale quello
a Gaio: «Come rileva Gaio nelle sue Istituzioni - sostiene
Engelhardt - ‘[…] se catturiamo un animale selvaggio, un uccello
o un pesce, ciò che in tal modo catturiamo diventa subito
nostro, ed è tenuto a restare nostro nché viene mantenuto
sotto il nostro controllo’»131. Se ciò vale per l'animale catturato e
asservito, vale anche per un glio neonato o per un genitore non
più mentalmente o sicamente recuperabile, sottoposti al
potere assoluto dei familiari adulti, che esercitano su di loro una
tutela non lontana dalla ‘mano’ dell'antico pater familias. Essi
potranno trattenerli in vita e curarli oppure restituirli alla
morte in base a precisi calcoli di carattere medico ed economico:
«Oggi i genitori possono scegliere tra far vivere o sopprimere la
loro prole solo nel caso in cui un'eventuale anomalia venga
scoperta durante la gravidanza. Non esiste nessun motivo
logico per limitare la facoltà decisionale dei genitori solo a
questo genere di anomalie»132. Del resto, per restare
all'esperienza giuridica romana, ricordiamo che dal divieto di
uccisione dei bambini inferiori ai tre anni, erano esentati i padri
di gli deformi o mostruosi. Quando il rapporto tra la presunta
qualità della loro vita e il costo che la loro cura richiederebbe è
giudicato diseconomico, i familiari stessi potranno decidere di
mettere ne alla vita di un anziano irreversibilmente malato, e
perciò uscito dal recinto della persona, o di un bambino
difettoso (defective child), non ancora entratovi: «I neonati non
sono in grado di vedere se stessi come esseri più o meno capaci
di avere un futuro, e quindi non possono desiderare di
continuare a vivere. Per lo stesso motivo, se un diritto alla vita si
deve basare sulla capacità di voler continuare a vivere, o sulla
capacità di vedere se stessi come soggetti mentali continui, un
neonato non può avere un diritto alla vita»133.
Come questi testi, espressivi di un fronte culturale tutt’altro
che esiguo, destituiscano di senso, appunto rivelandone
l'antinomia costitutiva, la nozione di diritti umani è n troppo
palese. Ma quello che si dimostra ancora più signi cativo è il
ruolo decisivo che, in questa destituzione, assume la macchina
‘decidente’ della persona. È essa che separa giuridicamente la
vita da se stessa, che fa della vita il terreno di una decisione
preliminare tra ciò che deve vivere e ciò che, invece, può morire,
perché è una semplice cosa nelle mani di coloro che, per il loro
superiore statuto ontologico, solamente sono quali cati a
disporne. Che Singer senta il bisogno di di erenziare la propria
concezione della ‘vita degna di essere vissuta’ da quella,
tristemente nota, dei manuali eugenetici nazisti134, è
sintomatico di una contiguità avvertita anche da quegli autori
che si sforzano di negarla con argomenti che non fanno che
confermarla: anche i nazisti a ermavano, esattamente come
loro, che la ‘non degnità’ era de nita dal punto di vista non della
società, ma degli stessi candidati alla soppressione - appunto
perché non-persone, sotto-persone o anti-persone. Benché le
intenzioni consapevoli dei bioetici liberali siano lontanissime da
quelle dei massacratori nazisti, e anzi nascano da rigorosi
protocolli morali, ciò non cancella un'a nità semantica
inconsapevole perché radicata in un vettore concettuale di
lunghissimo periodo e perciò resistente agli urti e ai
capovolgimenti che, nel tempo, ha sperimentato. Da questo
angolo di visuale, in cui anche gli opposti ritrovano un
originario punto di tangenza, l'astrazione formale del diritto
romano pare rovesciarsi nella immediatezza concreta del potere
biopolitico. Interrogate lungo un unico asse problematico -
quello de nito dal dispositivo della persona - linee che a prima
vista sembravano divergere si ricongiungono dal lato del loro
contrario: personalizzazione e depersonalizzazione, insomma,
non sono che ussi divergenti di uno stesso processo, antico
nella sua genesi ma ben lontano dall'essere esaurito nei suoi
e etti.

12. Chi ha colto con assoluta limpidezza di sguardo gli esiti


antinomici di tale implicazione è stata, già negli anni Trenta del
secolo scorso, Simone Weil. Ponendo, con una radicalità che può
apparire faziosa, l'esperienza romana all'origine dell'hitlerismo,
la Weil si riferisce espressamente alla potenza performativa di
una tradizione giuridica volta n dall'inizio a trasformare gli
uomini in cose: «Lodare l'antica Roma per averci trasmesso la
nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché se si vuole
esaminare ciò che tale nozione era in origine, al ne di
determinarne la specie, si vede che la proprietà era de nita dal
diritto di usare e abusare. E in e etti la maggior parte di quelle
cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare
erano esseri umani»135. È perciò che, in controtendenza con
l'opinione dominante e in polemica diretta con le tesi di
Maritain sul primato dei diritti rispetto agli obblighi, la Weil
denuncia seccamente il nesso sovrano tra diritto e persona:
La nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa
mediocrità, quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È
situato a questo livello. Aggiungendo alla parola diritto quella di persona, il che
implica il diritto della persona a ciò che si chiama la propria realizzazione, si
farebbe un male ancora più grave136.

Il motivo di tale ri uto è riportato dall'autrice alla doppia


dipendenza della persona dalla collettività e del diritto dalla
forza. Quanto alla prima, la sua necessità deriva dalla naturale
tendenza della persona a cercare una protezione delle proprie
prerogative in un ordine sociale che nisce inevitabilmente per
opprimerla. Circa, poi, l'altra implicazione tra diritto e forza,
essa nasce dall'applicazione di una medesima misura a
situazioni diverse e a soggetti dotati di di erente potere.
Quando ciò accade - vale a dire pressoché sempre -, a garantire,
o a imporre, una spartizione fatalmente iniqua non può essere
che la forza: «La nozione di diritto è legata a quella di divisione,
di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di
per sé il processo, l'arringa.
Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e
quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito
dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo»137. Guardati da
questa prospettiva, quelli che apparivano due impulsi diversi
all'autonegazione - della persona in funzione del collettivo e del
diritto nei confronti della forza - si manifestano adesso come i
lati complementari di un'unica deriva immunitaria nalizzata
alla salvaguardia di un privilegio minacciato da coloro che ne
sono esclusi. Ciò che la Weil a erra, connettendolo in radice al
dispositivo escludente della persona, è il carattere di per sé
particolaristico, insieme privato e privativo, del diritto. Esso, per
avere senso, per distinguersi dal mero fatto, non può che
proteggere una determinata categoria di persone rispetto a tutti
coloro che non vi rientrano. Una volta assunto come attributo, o
predicato, di soggetti resi tali dal possesso di determinate
caratteristiche d'ordine sociale, politico, razziale, il diritto
nisce per coincidere con la linea di separazione che li distanzia
e contrappone rispetto a quelli che ne sono privi. Immaginare di
estendere a tutti gli stessi privilegi - conclude la Weil - sarebbe
«una specie di rivendicazione insieme assurda e bassa; assurda,
perché il privilegio per de nizione è diseguale; bassa, perché
non vale la pena di essere desiderato»138.
Fin qui la decostruzione di un paradigma che, nonostante e
attraverso i suoi mutamenti di registro lessicale, rinserra
l'intera civiltà occidentale in un'orbita segnata dal principio
della discriminazione. La Weil, tuttavia, non si limita a questo -
a sollevare la cortina retorica che copre il terribile dispositivo
della persona -, ma inaugura un vettore di discorso ad esso
potenzialmente alternativo. Se la categoria di persona ha
costituito l'alveo di scorrimento di un ininterrotto potere di
separazione e di subordinazione tra gli uomini, l'unico modo di
sottrarsi a tale coazione passa per il suo rovesciamento nel
modo dell'impersonale: «Ciò che è sacro, ben lungi dall'essere la
persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò
che è impersonale nell'uomo è sacro, e soltanto quello»139.
Perciò solo ad esso, e attraverso di esso, è dato chiedere giustizia
- che la Weil distingue radicalmente dal diritto. Come il diritto
appartiene alla persona, la giustizia concerne l'impersonale,
l'anonimo - ciò che, essendo privo di nome, sta prima o dopo il
soggetto personale, senza mai coincidere con esso, con i suoi
pretesi attributi meta sici, etici, giuridici. Per far meglio
intendere ciò cui si riferisce con quest’enigmatica espressione,
la Weil adopera un esempio di immediata evidenza: se un
bambino sbaglia un'addizione, l'errore nasce dalla sua persona.
Se il calcolo è esatto, vuol dire che essa è assente, che egli
aderisce all'ordine impersonale delle cose:
La perfezione è impersonale. La persona in noi è la parte dell'errore e del peccato.
Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto a ottenere che non ci fosse più
nella loro anima nessuna parte che dicesse ‘io’. Ma la parte dell'anima che dice
‘noi’ è ancora in nitamente più pericolosa140.

l'attenzione va adesso portata sulla seconda parte della frase.


Ciò che della persona va ri utato è precisamente quello che dice
‘io’ o ‘noi’. Ancora meglio, il lo logico che lega, nella modalità
grammaticale della prima persona, l'autocoscienza individuale
a quella collettiva. Di contro, l'impersonale è ciò che blocca
questo passaggio, che conserva il pronome al singolare, al riparo
dallo scivolamento, insieme autoprotettivo e autodistruttivo,
nel generale. Questo signi ca che tra persona e impersonale la
Weil non istituisce una relazione puramente contrastiva.
l'impersonale non è il semplice opposto della persona - la sua
negazione diretta - ma qualcosa che, della persona o nella
persona, interrompe il meccanismo immunitario che immette
l'io nel cerchio, contemporaneamente inclusivo ed escludente,
del noi. Un punto, o una falda, che preclude il transito naturale
dallo sdoppiamento individuale - ciò che chiamiamo
autocoscienza, autoa ermazione - al raddoppiamento
collettivo, al riconoscimento sociale.
Cosa esso sia, quale sia questo modo di essere che sta al di là,
o al di qua, della prima persona, la Weil non lo spiega. O
comunque lo immette in un orizzonte semantico, da lei stessa
de nito mistico, che non conviene adesso assumere a oggetto
diretto di analisi141. Ciò che più importa, nella nozione di
impersonale, è il nesso che comincia a delinearsi con quella, ad
essa apparentemente opposta, di singolare. Solo disinnescando
il dispositivo della persona, l'essere umano potrà essere pensato
nalmente in quanto tale - per ciò che ha di più unico, ma anche
di più comune a ogni altro: «Ognuno di quelli che sono penetrati
nella sfera dell'impersonale vi incontra una responsabilità verso
tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro, non la
persona, ma tutto ciò che la persona racchiude di fragili
possibilità di passaggio nell'impersonale»142. l'esigenza che la
Weil pone è quella di rompere il nesso costitutivo tra diritto e
proprio. Di rovesciare il particolarismo della forma giuridica
nella gura, consapevolmente aporetica, di ‘diritto comune’ - di
tutti e di ciascuno. A ciò allude l'intenzione di ristabilire, contro
il personalismo, il primato degli obblighi sui diritti: l'obbligo di
ciascuno, sommato a quello di ogni altro, corrisponde, in un
computo globale, al diritto dell'intera comunità umana. Solo la
comunità - pensata nel suo signi cato più radicale - può
ricostruire quella connessione tra diritto e uomo tagliata
dall'antica lama della persona. Ma come può farlo - nel modo
dell'impersonale - senza perdere quell'elemento singolare pur
sempre implicito nell'idea di persona? Come può neutralizzarne
la potenza escludente, custodendo, al contempo, l'impulso
relazionale che fa della persona qualcosa di diverso
dall'individuo isolato? Esiste, insomma, una persona non
personale o una non-persona nella persona? Senza potere
fornire una risposta esaustiva a questa domanda - la stessa da
cui nasce l'intero libro - il capitolo successivo presenterà una
serie di momenti, o movimenti, di pensiero in cui essa è, di volta
in volta, e sempre diversamente, formulata.
Capitolo terzo
Terza persona

1. Non-persona.

In un articolo tanto noto quanto ancora insondato in tutte le


sue possibili implicazioni, il grande linguista francese Emile
Benveniste traccia una netta distinzione tra i primi due
pronomi personali e il terzo. Nonostante la simmetria di
super cie che sembra collegarli in un unico paradigma a tre
termini, il pronome ‘egli’ risulta radicalmente di erente da ‘io’ e
‘tu’, al punto da potere essere de nito dal contrasto con essi: non
soltanto egli non è ciò che sono io e tu, ma è ciò che essi non
sono - non semplicemente il loro rovescio, ma qualcosa di
irriducibile alla diade indissolubile formata da quelli. Per
cogliere questa disomogeneità di fondo, bisogna partire dalle
caratteristiche che legano in una medesima tipologia bipolare le
prime due persone. Innanzitutto esse hanno una dimensione
esclusivamente discorsiva: anziché riferirsi a una realtà esterna,
a un qualsiasi dato oggettivo, assumono senso solamente
all'interno dell'atto di parola che le proferisce: «Io signi ca la
persona che enuncia l'attuale situazione di discorso contenente
io»143. Da qui l'altra qualità speci ca che connota la prima e la
seconda persona, vale a dire la loro unicità: sia l'io che parla sia il
tu che ascolta sono di volta in volta unici, non valgono che in
riferimento a se stessi e al contesto spazio-temporale implicito
nell'enunciazione. In tal senso sono accostabili a una serie di
‘indicatori’, di tipo ancora pronominale o anche avverbiale,
come questo, qui, ora, che rinviano all'attualità della situazione
di discorso. Anche se si riferisce a un altro tempo o a un altro
spazio, l'io parla al tu sempre al presente, non può evadere dalla
contemporaneità che de nisce la sua momentanea condizione
di locutore. Parlando, dichiarandosi come io, questi
letteralmente ‘si presenta’ - a se stesso e all'altro con cui
interloquisce. Ma l'elemento che quali ca nella maniera più
intensa la prima e la seconda persona - in opposizione alla terza
- è la loro reciproca reversibilità. Proprio perché hanno una
realtà puramente linguistica, perché non rimandano mai a un
oggetto esterno, esse sono dei segni vuoti riempibili a turno dai
parlanti. Se soltanto colui che pronuncia il termine ‘io’ assume il
ruolo di soggetto nei confronti del tu, è destinato ad esserne
sostituito non appena questi prenda a sua volta la parola,
sospingendo il primo locutore nel ruolo, muto, dell'ascoltatore.
Benveniste insiste sulla simmetria speculare che vincola le
due prime persone pronominali. Contro ogni teoria volta a
rimarcarne l'eterogeneità o l'indipendenza, egli ne riconosce
l'assoluta complementarità. È vero che l'io, riferendosi sempre a
se stesso, si pone a distanza da colui che chiama tu. Ma è
esattamente ciò che fa il tu nel momento in cui, all'interno del
discorso, subentra nel ruolo di soggetto parlante prima
occupato dall'io. Questo signi ca che tale distanza, piuttosto
che una di ormità o una contrapposizione, costituisce il luogo
stesso in cui i due termini si implicano a vicenda. Come l'io
implica sempre, in maniera diretta o indiretta, un tu cui
rivolgersi, così non esiste un tu senza un io che, separandolo da
sé, lo designi in quanto tale. Ciò non vuol dire che le prime due
persone siano sullo stesso piano, nel senso che è sempre l'io a
de nire il campo di pertinenza, e anche le coordinate spazio-
temporali, all'interno dei quali solamente può darsi qualcosa
come un tu. Il tu, da questo punto di vista, presuppone l'io. È il
suo alter ego - altro, ma in relazione all'ego che lo dichiara tale
sdoppiandosi, o raddoppiandosi, nella propria alterità. È perciò
che questo, per quanto voglia rispettarla nella sua autonomia,
salvaguardarla nella sua trascendenza, non può evitare di
esercitare un e etto di padronanza su di essa, dal momento che
tale alterità è logicamente dipendente dalla sua stessa
de nizione. Cosa quali ca, infatti, l'alterità, se non un punto di
q p
contrasto rispetto a un'entità che la precede? Nonostante tutte
le retoriche sulla eccedenza dell'altro, nel confronto a due
termini, esso è concepibile solo e sempre in rapporto all'io. Non
può essere che non-io - il suo rovescio e la sua ombra. In questo
senso, portando il discorso su un piano diverso, ma non
irrelativo rispetto a quello strettamente linguistico, Lacan potrà
a ermare, in un seminario contemporaneo al testo di
Benveniste, che «il supporto di questo tu, sotto qualsiasi forma
possa apparire nella mia esperienza, è un ego che lo formula […].
l'io che dice Io sono colui che sono, questo io, assolutamente
solo, è quello che sostiene radicalmente il tu nel proprio
appello»144. Ma, una volta indicato il primato, logico e
semantico, dell'io, la simmetria con la situazione del tu è
ristabilita dal continuo scambio che, sempre sul piano del
linguaggio, e ettuano le due prime persone. Come s’è visto, ciò
che tra esse transita senza sosta è il ruolo di soggetto. Dal
momento che solo uno - quello che dice di sé io - può occuparlo,
alla soggettivazione del primo termine corrisponde
automaticamente la desoggettivazione del secondo, nché
questo non acquista a sua volta soggettività desoggettivando il
primo.
È a simile dialettica che sfugge la terza persona in una forma
che non si limita a di erenziarla dalle prime due, ma che apre
un orizzonte di senso a queste del tutto eterogeneo. Ad essere in
gioco, con essa, non è più la relazione di scambio tra una
‘persona soggettiva’, indicata dall'io, e una ‘persona non
soggettiva’, rappresentata dal tu, ma la possibilità di una
persona non personale o, più radicalmente, di una nonpersona.
La sua esteriorità alla dialettica tra io e tu è un'esteriorità anche
alla modalità logica della persona: «La conseguenza deve essere
formulata con precisione: - osserva Benveniste a proposito della
persona verbale - la ‘terza persona’ non è una ‘persona’; è anzi la
forma verbale che ha la funzione di esprimere la non-
persona»145. È la punta dell'intero discorso, che l'autore non
intende in nessun modo smussare e che anzi non teme di
rendere ancora più acuta:
Non dobbiamo quindi rappresentare la ‘terza persona’ come una persona in grado
di depersonalizzarsi. Non vi è aferesi della persona, ma proprio la non persona,
che possiede come demarcatore la mancanza di quanto quali ca speci camente
l'‘io’ e il ‘tu’. Poiché non implica alcuna persona, può prendere un soggetto
qualsiasi o non contenerne alcuno, e questo soggetto, espresso o no, non è mai
posto come ‘persona’146.

Ciò che Benveniste intende sostenere è che la terza persona non


si limita a indebolire, o modi care, gli elementi caratterizzanti
delle altre due persone, ma li rovescia nel loro opposto
spingendoli in uno spazio esterno alla loro stessa formulazione.
Come la persona - nella forma alternata dell'io e del tu - non può
riferirsi autoreferenzialmente che a se stessa in una situazione
puramente discorsiva, così la terza persona - vale a dire la non-
persona - rimanda sempre a un referente esterno di tipo
oggettivo. A qualcosa, o anche a qualcuno - ma a un qualcuno
non individuabile come questa speci ca persona, perché o
riferito a nessuno o estendibile a tutti. Si potrebbe dire che essa
si situi precisamente nel punto di incrocio tra nessuno e
chiunque. O non è a atto persona o è ogni persona - in realtà le
due cose insieme.
Ad attestare il carattere non personale della terza persona,
Benveniste adduce un'ampia serie di testimonianze tratte dalle
lingue indoeuropee, da cui si evince con sempre maggior
nettezza la distanza strutturale tra i primi due pronomi e il
terzo. In particolare per i grammatici arabi, se la prima persona
è ‘colui che parla’ e la seconda ‘colui al quale ci si rivolge’, la terza
è ‘colui che è assente’. Mentre, come si è visto, l'ambito di senso
dell'io e del tu è l'eterna presenza - raddoppiata nella
rappresentazione che l'un termine produce dell'altro - quello
della terza persona è l'assenza. Anche nella coniugazione
verbale, in molte lingue, essa manca di desinenza, di
demarcatore o di pre sso. Quello che è assente è sempre la
qualità soggettiva della persona o, se si preferisce, l'identità
personale del soggetto. Non a caso, la terza persona è la sola
mediante la quale può essere predicata una cosa. Ciò non vuol
dire che essa non possa riferirsi a un'entità umana. Ma quello
che fa la di erenza è che tale entità non ha la forma autori essa
della persona. È appunto ciò che si rivela a pieno nel caso
dell'impersonale, allorché il verbo include dentro di sé, o
addirittura azzera, il soggetto dell'azione. In questo caso - quello
delle espressioni úei, tonat, it rains - il processo è inteso come
qualcosa di oggettivo, la cui produzione non è rapportabile a un
agente, ma a un evento senza soggetto o costitutivo del
soggetto: «Così - argomenta Benveniste - volat avis non signi ca
‘l'uccello vola’, ma piuttosto ‘vola, l'uccello’. La forma volat basta
a se stessa e, sebbene non personale, include la nozione
grammaticale di soggetto»147. A ulteriore conferma della
propria tesi, l'autore nota che in diverse lingue la forma
pronominale di terza persona, come in italiano l'espressione
‘ella’, viene usata in maniera allocutiva - rivolgendosi, cioè, a un
interlocutore presente - con nalità apparentemente opposte,
ma che coincidono nell'intenzione di sottrarlo allo status
normale di persona: o ponendolo al di sopra di essa, per
riverenza, o al di sotto, per disprezzo. Ancora una volta la terza
persona sfugge a quella modalità personale che stringe in uno
stesso destino linguistico la prima e la seconda. Tutto ciò non si
limita a fare di essa la più singolare delle persone - appunto
perché sottratta alla specularità inevitabile delle prime due. Ma
anche la più - e anzi Tunica realmente - plurale. Benveniste
conclude, infatti, la propria analisi osservando che la prima e la
seconda persona plurale - il ‘noi’ e il ‘voi’ - non sono in realtà
veramente tali. Esse sono una dilatazione,
corrispondentemente, dell'io e del tu. Non una pluralizzazione,
dal momento che un unicum non può moltiplicarsi, bensì una
loro estensione nella forma di una persona collettiva, più ampia
e pesante dell'io e del tu, ma con i medesimi connotati
identitari:
È chiaro infatti che l'unicità e la soggettività inerenti all'‘io’ contraddicono la
possibilità di una pluralizzazione. Non si possono avere più ‘io’ concepiti dallo
stesso ‘io’ che parla, per il fatto che ‘noi’ non è una moltiplicazione di oggetti
identici, bensì un congiungimento tra l'‘io’ e il ‘non io’, quale che sia il contenuto di
questo ‘non io’. Tale congiungimento forma una totalità nuova e di tipo a atto
particolare, dove i componenti non si equivalgono: in ‘noi’, è sempre ‘io’ che
predomina in quanto non vi è ‘noi’ che a partire da ‘io’, e questo ‘io’, per la sua
qualità trascendente, si assoggetta l'elemento ‘non io’. La persona dell'‘io’ è
costitutiva del ‘noi’148.

l'unica ad avere un plurale - anche quando è singolare, o proprio


in quanto tale - è la terza persona. Ma appunto perché, in senso
stretto, non-persona. La sua particolarità, ad essere più precisi,
sta nel non essere propriamente né singolare plurale. O
nell'essere entrambi - singolare-plurale. Nel far cadere
l'opposizione tradizionale, tipica della semantica della persona,
tra queste due modalità. Non essendo persona, essendo
costitutivamente impersonale, essa è insieme singolare e
plurale: «È proprio la non-persona che, espressa in modo esteso
e illimitato, esprime l'insieme inde nito degli esseri non-
personali. […] Solo la ‘terza persona’, in quanto non-persona,
ammette un vero plurale»149.

2. L'animale.

Cercando l'essenza del fenomeno giuridico durante una


stagione che sembra averne decretato l'eclissi - e cioè nel pieno
della seconda guerra mondiale - Alexandre Kojève la individua
nella presenza di una terza persona interposta nella dialettica
binaria tra altre due: si dà diritto ogni qual volta abbia luogo
l'intervento di un terzo disinteressato e imparziale nella
interazione tra due esseri umani con la conseguenza di
annullare la reazione del secondo all'azione del primo. Che si
consideri il diritto di quest’ultimo causa o e etto dell'intervento
del terzo - secondo una concezione soggettiva oppure oggettiva
del fenomeno giuridico così costituito - ciò non modi ca il
carattere necessariamente ternario della sua struttura. In ogni
caso il diritto resta costitutivamente legato alla gura del terzo:
come aveva già rilevato in altro contesto Simmel150,
sottolineando il ruolo qualitativamente decisivo del tre rispetto
a tutti gli altri numeri inferiori e superiori, perché si dia una
situazione sociale, quale è eminentemente quella giuridica, sì
richiede sempre e comunque una terna:
Il diritto è un fenomeno essenzialmente sociale. Tres faciunt collegium, dice un
adagio romano. Ed è profondamente vero. Due esseri umani, non diversamente
da un individuo isolato, non costituiscono una società (né uno Stato o una
famiglia). Perché ci sia una società, non è su ciente che ci sia un'interazione tra
due esseri. Bisogna - ed è su ciente che ci sia anche l'‘intervento’ di un terzo151.

È precisamente questo elemento - la di erenza da una


situazione a uno o a due termini - a rendere, nel suo carattere
essenziale, il fenomeno giuridico irriducibile a qualsiasi altro
ambito dell'esperienza umana. Non solo a quelli ad esso
palesemente eterogenei, come la prassi estetica o, al contrario,
apparentemente sovrapposti, come lo scambio economico, ma
anche ai territori contigui della morale, della religione e della
politica. Quanto al primo, alla relazione etica, solo
erroneamente essa può essere de nita tale, dal momento che
l'individuo morale non si rapporta che a se stesso - anche se
soggetto al giudizio altrui, si misura sempre alla propria gura
ideale, secondo una legge interiore che non condivide con
nessuno. Se la morale è, dunque, diversa dal diritto perché
essenzialmente monodica, la religione lo è perché
inevitabilmente diadica. A di erenza di quanto ritiene chi
considera il dio giudice supremo, e dunque terzo, egli è in realtà
sempre parte in causa in un rapporto a due con l'uomo religioso
che a lui si rivolge attendendone castigo o salvazione. Quanto,
poi, all'agire politico, Kojève ha buon gioco ad adoperare le note
tesi di Carl Schmitt - al cui modello d'indagine, del resto, ispira
l'intera Phénomenologìe152 - circa l'inconcepibilità politica «di un
terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’»153: in quanto
intrinsecamente caratterizzata dalla relazione oppositiva tra
amico e nemico, l'esperienza politica è non soltanto di erente,
ma addirittura incompatibile con quella giuridica. Che l'atto
giuridico sia impossibile nei confronti del nemico politico è n
troppo evidente, ma lo è anche rispetto all'amico - che non può
essere considerato tale dal giudice davvero imparziale. La
circostanza che nelle situazioni normali il diritto pubblico
appaia incorporato nella struttura formale dello Stato non
cancella a atto la distanza categoriale tra le due sfere: solo se
sottratto a una situazione essenzialmente politica - vale a dire in
ultima analisi con ittuale - il diritto può svolgere la propria
azione letteralmente neutrale, non pregiudicata a favore
dell'uno o dell'altro. Non a caso, nella prospettiva kojèviana, il
suo pieno dispiegamento dovrà attendere, per passare dallo
stato di potenza a quello di atto, il tempo della ne della politica.
Quest’ultima proposizione, di cui rileveremo tra poco le
conseguenze aporetiche, rimanda all'altro livello - quello
storico-genetico, o più precisamente genealogico - del testo di
Kojève, volto non più a de nire fenomenologicamente l'essenza
del diritto, bensì a rintracciarne diacronicamente l'origine e lo
sviluppo storico. È ovvio che da questo lato le distinzioni assai
nette tracciate nella prima parte tendano a sfumarsi, o a
dialettizzarsi, in un quadro unitario costruito intorno a quel
momento fondativo dell'esperienza umana che l'autore
de nisce ‘atto antropogeno’. Reincontriamo, da un punto di
vista eccentrico rispetto a quanto già conosciamo, un tema -
quello della speci cità della natura umana in rapporto alla
propria provenienza animale - che abbiamo seguito, nelle sue
diverse declinazioni, lungo l'intero lavoro. La tesi di fondo
dell'autore, molto liberamente tratta dall'opera di Hegel, è che
l'uomo si renda e ettivamente tale, pienamente umano, solo
nella contrapposizione con quella natura animale che gli fa da
inevitabile supporto. Mentre l'animale che egli ha dentro di sé e
da cui non può mai completamente emanciparsi - assimilabile,
nella sua irriducibilità, alla vita organica di cui parla Bichat -
tende all'acquisizione, o all'e ettuazione, di ciò che
istintivamente desidera, a partire dalla propria
autoconservazione, l'uomo è caratterizzato da una mancanza
originaria che non può mai riempire dal momento che il suo
desiderio è quello di essere a sua volta desiderato, e cioè
q
riconosciuto come valore assoluto, dal suo simile. Per ottenere
questo risultato, egli deve annullarsi in quanto animale della
specie homo sapiens, mettendo a repentaglio la vita che questo
vorrebbe salvaguardare e a rontare in una lotta mortale l'altro
individuo animato dal medesimo impulso negativo. Il risultato
è la ben nota dialettica hegeliana tra Signore e Servo che, nella
trascrizione originale di Kojève, perviene a sintesi nella gura
del Cittadino, come colui che riconosce quello da cui chiede di
essere a sua volta riconosciuto.
Se questa, nei suoi tratti essenziali, è la dinamica
dell'umanizzazione, in che senso essa è costitutiva della forma
giuridica? Come è noto, Kojève costruisce una simmetria tra le
tre gure del Signore, del Servo e del Cittadino e i tre tipi di
giustizia che si succedono nel tempo, pur senza smarrire, anzi
incorporando dialetticamente, gli elementi positivi della fase
precedente. Così l'equità - la giustizia del Cittadino - costituisce
la sintesi più matura tra l'uguaglianza signorile e l'equivalenza
borghese. Lo stesso con itto mortale che contrappone le due
gure del Padrone e dello Schiavo, basandosi su un mutuo
consenso a combattere, presuppone una situazione paritaria tra
i due contendenti e dunque una condizione, se non giusta,
quantomeno non ingiusta, preludendo così formalmente alla
realizzazione della giustizia futura. Ma, al di là di questo schema
un po’ maccheronico, contrassegnato da un'adesione insieme
eccessiva e difettiva al modello hegeliano, l'elemento che
de nisce la giuntura più intrinseca tra la dinamica di
umanizzazione e la genesi del fenomeno giuridico sta proprio in
quel processo di deanimalizzazione, e di conseguente
personalizzazione, che presiede alla costituzione del soggetto di
diritto. Quest’ultimo trova la sua speci cità - in una maniera
singolarmente rispondente a quanto abbiamo analizzato nel
capitolo precedente - proprio nel distacco rispetto all'essere
umano generico che l'autore ha de nito animale della specie
homo sapiens: «l'opposizione, reale e attuale, creata dalla lotta e
dal lavoro, tra l'uomo e la natura in generale, e la natura o
l'animale nell'uomo in particolare permette all'uomo di
p p
contrapporre l'entità umana che egli chiama ‘soggetto di diritto’
all'animale che le serve da supporto e di cui essa è la negazione
‘sostanzializzata’»154. Kojève, a di erenza di molti interpreti
attuali, è ben consapevole dell'uso restrittivo ed escludente che
il diritto storicamente realizzato ha fatto della distinzione di
principio tra soggetto giuridico ed essere umano in quanto tale:
delle soglie biologiche, di volta in volta costituite, o spostate, in
base all'età, al sesso, alla salute sica e psichica, alla razza,
attraverso le quali il dispositivo del diritto ha dispiegato la
propria potenza impositiva e selettiva. Ma ciò non toglie, a
parere dell'autore, lo scarto oggettivo che separa la persona
giuridica - in ogni sua possibile accezione di ‘persona sica’,
‘morale’, ‘collettiva’ - dal supporto animale in cui si radica, ma
da cui pure si rileva: «l'opposizione reale e attuale tra l'uomo e
l'animale nell'uomo giusti ca la nozione di ‘soggetto di diritto’
in generale e in particolare quella di ‘persona morale’»155. Al
punto che a tale opposizione - al suo mantenimento e al suo
approfondimento - è legato il destino di progressivo sviluppo
della giustizia nelle sue forme più mature e risolte: solo se
diverrà sempre più umano - cioè sempre meno condizionato
dall'originario fondale biologico - il diritto allargherà le sue
frontiere a un numero crescente di individui. Solo se
emancipato dalla coazione animale alla sopravvivenza, esso
restituirà alla vita la sua dimensione più autenticamente
umana.
A un tratto, tuttavia, portando in super cie un presupposto
n dall'inizio implicito nel suo eccentrico hegelismo, Kojève
imprime al proprio discorso una direzione diversa, spingendolo
verso un esito che capovolge radicalmente le precedenti
conclusioni. Si tratta della caratterizzazione di quello Stato
Universale e Omogeneo, o Impero, che alla ‘ ne della storia’, e
cioè nella stagione a venire in cui questa realizzerà tutte le
proprie promesse esaurendosi come tale, porterà a pieno
compimento anche la dialettica giuridica. Che solo in esso, sia
pure nelle forme appena tratteggiate con cui l'autore lo delinea,
il diritto trovi la propria compiutezza, era n dall'inizio previsto
nel di erente statuto del Terzo. Benché operante in tutte le fasi
precedenti nelle vesti del legislatore, del giudice e della polizia,
solo nello Stato nale questi risulta e ettivamente
disinteressato perché perde quei connotati di classe, o di
appartenenza nazionale, che lo hanno quali cato, e ancora lo
quali cano, in tutte le società passate e presenti. Mentre nei
sistemi giuridici nora sperimentati la terza persona non è mai
stata «chiunque», se non «all'interno di un gruppo determinato
in un momento determinato della sua esistenza storica»156, in
una società che «implichi l'umanità nella sua interezza», e in cui
dunque nessuno abbia un interesse privato che non sia già
risolto in quello comune, essa potrà essere davvero «uno
qualunque, senza eccezioni», una «persona qualsiasi»157,
sostituibile con ogni altra. In questo caso, in cui l'universale
potrà conciliarsi con l'individuale e l'essenza con l'esistenza, il
diritto delle persone si realizzerà, e insieme si destituirà, nella
vera giustizia: «La giustizia sarà pienamente realizzata nel
diritto e grazie al diritto, perché ogni dimensione dell'esistenza
umana sarà determinata dalla giustizia»158.
Ma il dato ancora più sorprendente o, a seconda dei punti di
vista, inquietante, sta nella circostanza che in una nota al suo
grande commento a Hegel, Kojève sostiene che lo Stato
Universale, comportando l'esaurimento dell'azione negativa
produttiva di storia, segna al contempo la ne della condizione
umana intesa nel suo distacco dal proprio supporto animale e
anzi il suo ripiegamento su di esso: «La scomparsa dell'Uomo
alla ne della storia non è una catastrofe cosmica: il mondo
naturale resta ciò che è da tutta l'eternità. Non è nemmeno una
catastrofe biologica: l'Uomo resta in vita come animale che si
trova in accordo con la Natura e con l'Essere dato»159. Ciò
signi ca che, al culmine della propria parabola, la civiltà
giuridica - coincidente con quella della storia umana nel suo
complesso - ripercorrerà d'un tratto, e a ritroso, i propri passi
scivolando nella stessa dimensione animale da cui si era così
faticosamente emancipata. La conclusione di Kojève lascia
naturalmente perplessi, e addirittura increduli, circa la sua
attendibilità agli occhi non solo nostri, ma dello stesso autore,
che troverà, peraltro, modo di ribadirla, e anche modi carla, nei
testi successivi. Senza adesso cercare di penetrarla in tutte le sue
rifrangenze - o, tantomeno, di ricondurla a una qualsiasi
posizione politica, reazionaria o rivoluzionaria che sia - quello
che comunque ne emerge è un vettore di senso che sembra
contraddire gli e etti astraenti di quel dispositivo della persona
giuridica cui pure l'autore sembrava riferirsi in maniera
neutrale, se non a ermativa: alla ne del tempo, allorché il
generale verrà a coincidere con il singolare e il proprio con il
comune, la terza persona ritroverà, o riconoscerà, il proprio
contenuto impersonale. È quanto anche Simone Weil, da ben
altra prospettiva, aveva inteso pro lando una impossibile
coincidenza di diritto e giustizia: un diritto in comune - di
nessuno, perché di tutti e di ciascuno: «il cittadino - a erma
Kojève con lei - agirà nella sua qualità di cittadino, cioè come
membro qualsiasi della comunità, o in funzione del suo essere
umano»160. È da questo passaggio che torna a ria acciarsi la
sostanza animale - quella mera vita biologica che si dimostra
sempre più resistente dei tentativi, troppo umani, di
oltrepassarla. Senza voler necessariamente contrapporre specie
biologiche diverse, forse lo sguardo ironico e scettico di Kojève si
è posato proprio sulla loro possibile congiunzione - su un
orizzonte a venire che non appartiene né all'ordine umano né a
quello animale, ma piuttosto alla sagoma, ancora indistinta, del
loro incrocio161. Del resto, che il divenire animale dell'uomo sia
situato alla ne della storia lascia intendere che esso non è un
puro ritorno a una condizione primitiva, ma il raggiungimento
di uno stato mai prima sperimentato: non una semplice
rianimalizzazione dell'uomo ormai umanizzato, ma un modo di
essere uomo che non si de nisca più nella alterità alla sua
origine animale.
3. Altrui.

l'estraneità del Terzo al linguaggio dei primi due è attestata, in


negativo, anche dai loso della seconda persona - nelle varie
tonalità del dialogo, dell'empatia, dell'amore che di volta in
volta essi adottano. Nel suo Trattato delle virtù, Vladimir
Jankélévitch situa la terza persona in una posizione delocutoria
che richiama singolarmente la formulazione avanzata, in altro
contesto e con altri intendimenti, da Benveniste:
l'amore si rivolge al Tu come il rispetto al Voi; ma la giustizia, quanto ad essa, non
si rivolge né al Voi né al Tu, perché non ha interlocutori; nessuno cui parlare,
indirizzarsi, porre questioni; nessuno da interpellare nella forma della supplica,
nessuno da chiamare con un vocativo imperioso o una pressante invocazione. La
persona di giustizia è la terza: voglio dire la terza persona, e non l'intermediario
della mediazione interposta tra i due estremi dell'io e del tu162.

Non si tratta - speci ca Jankélévitch - di qualcuno, o di


qualcosa, che abbia il compito di mettere in rapporto due
partner lontani, di collegare due elementi temporaneamente
separati. La persona della giustizia non è il «terzo discorsivo»
all'interno di una situazione dialogica, ma un punto di assoluta
irrelazione perché di per sé esterno al piano della
interlocuzione. Da questo angolo di visuale, e per la medesima
ragione rilevata da Benveniste, la terza persona, oltre che al
rapporto con gli altri, sfugge, in qualche modo, anche a quello
con se stessa, al proprio statuto di persona, per moltiplicarsi in
un numero talmente inde nito da produrre una sorta di
generale spersonalizzazione:

Tutte le persone della giustizia sono delle terze persone, e delle persone
de nitivamente terze - ciò che vuol dire: non c’è più una terza persona, non vi è
più neanche persona, quel che ne sia il numero; non vi è che l'agente qualunque,
cioè non importa chi o il signor Un tale, membro di una collettività di individui
intercambiabili tra loro: il ‘si’ (On) anonimo, impersonale e acefalo prende il posto
del Lui e non occupa alcun grado particolare nella scala della coniugazione;
questa persona senza volto, a cui Buber oppone il Tu del dialogo, è la persona che
non è persona, l'esso (Il) che è nessuno (oudeis)163.

Siamo in presenza di qualcuno che, per il suo grado di


anonimato, va anche al di là del ‘ciascuno’, del ‘chiunque’, di
Kojève, perché strutturalmente esterno alla semantica della
soggettività, condivisa invece dall'io e dal tu - dal tu come
interlocutore privilegiato dell'io. Solo che, nel caso di
Jankélévitch, ciò che per altri costituiva una speci cità, di
carattere linguistico o logico, diventa una negatività, una
perdita - e anzi qualcosa di letteralmente inconcepibile. Si
direbbe, anzi, che l'intero suo trattato abbia appunto la funzione
di disinnescare questa minaccia, di neutralizzare questa
eccedenza, riassorbendola nella dialettica dell'io e del tu. Il
punto di partenza, e anzi il vertice sommo, in base al quale ogni
altra ‘virtù’ viene da lui misurata è l'amore, inteso come la
relazione immediata che lega la prima alla seconda persona in
una forma estatica ed esclusiva di ogni distanza. In essa io si
rivolge non a un generico alter, ma a quell'unico tu che gli è più
intimo di se stesso - al punto di non poterlo convocare nella
forma normale dell'indicativo, ma solo in quella, diretta e
sublime, del vocativo, dell'invocazione, della preghiera. Nel
momento stesso, infatti, in cui tale tu slitta dal piano
intersoggettivo della compresenza a quello, neutro e oggettivo,
della de nizione - passando così dalla modalità
incommensurabile della parusia alla forma determinata
dell'ousía164 - già la seconda persona non è più del tutto tale, già
ha iniziato il percorso dissolutivo verso un esito che nirà per
disgregarla e disperderla nell'anonimato della terza. Tale
processo entropico procede per sdoppiamento e serializzazione
di colui che in tanto vale in quanto è unico e insostituibile. Già
la virtù del rispetto, collocata in una postazione intermedia tra
l'amore e la giustizia, se ancora nasce all'interno
dell'interlocuzione, la generalizza ed estende dalla singolarità
del tu alla pluralità del voi. In questa gura mediana -
caratterizzata dal riserbo o dalla di erenza di status -
l'interlocutore non scompare, ma passa dalla particolarità della
persona singolare, scelta e amata come tale, alla generalità di un
insieme, di una collettività, di una moltitudine - «il due fa qui
posto a una relazione policefala e anonima»165, come si esprime
l'autore. Perciò non sì dà passaggio dal rispetto, come anche
dalla più salda delle amicizie, al faccia a faccia dell'amore. Certo
può, in alcuni casi, realizzarsi una comunanza d'intenti, una
solidarietà nel pericolo, una fraternità improvvisa tra individui
prima lontani - ma nulla di veramente assimilabile alla
puntualità assoluta e penetrante, alla prossimità rovente e
illimitata dell'amore. Come il Voi non è un tu, neanche il Noi,
pur nella forma altissima della carità, è un io capace di
rispondere in maniera diretta ed esclusiva al richiamo di chi lo
interpelli.
Ma a questo primo declassamento, per moltiplicazione, della
seconda persona ne fa riscontro un altro, ancora più
incontrollato, perché inevitabilmente portato a scivolare, e cosi
a degradare, verso la terza. Ciò accade quando, pur in una
dialettica ancora abitata da soggetti parlanti, si a accia
quell'assenza che annuncia l'avvento di un Terzo più ostico,
meno urbanizzato - come colui che non si limita ad allargare, o
pluralizzare, il dialogo, ma minaccia di spezzarlo attraverso
un'esteriorità direttamente opposta all'intimità del faccia a
faccia. In questo caso, allorché il dentro della relazione comincia
a rovesciarsi nel fuori, il tu, quel tu necessario alla vita dell'io
quanto questo alla sua, si sente «espulso dal duo fraterno,
tenuto a margine di ogni allocuzione. Siamo alla presenza di un
trio di sordi i cui interlocutori sono tutti estranei l'uno all'altro e
assenti l'uno nei confronti dell'altro»166. In una situazione del
genere quella che è ancora declinata come una seconda persona
grammaticale si scopre, in realtà, terza sul piano spirituale - già
investita dal vuoto di senso che scava quest’ultima, spinta suo
malgrado a ridosso di quel Niente in cui trapela, in ne, il viso
s gurato dell'Impersonale: «il tu, divenuto cosa indi erente,
non si distingue dalle altre persone della coniugazione che per il
suo numero ordinario. Ogni persona concreta può trasformarsi
in monade astratta, ogni ipse indicibile in ipseità dicibile e
generica. La seconda persona concettualizzata è più o meno
tanto personale che l'il di ‘il pleut’»167. Le strategie difensive di
Jankélévitch nei confronti di questo evento traumatico -
dell'e etto estraniarne dell'impersonale - sono molteplici. La
terza persona o è da lui negata in quanto tale oppure estromessa
da un sistema, incentrato sulla relazione e usiva tra le prime
due, che non riesce in nessun modo a introiettarla e
padroneggiarla. Il presupposto, palesemente esorcizzante, da
cui la sua analisi parte è che «una persona assolutamente terza è
un mostro»168 - come non può non essere quella che neghi se
stessa, scomparendo così dall'orizzonte personale. Essa,
semplicemente, non è - non un'altra persona, ma
un'antipersona. Certo - ammette l'autore - una persona può
essere momentaneamente assente, ma sempre in relazione alle
presenze che, con il loro pieno, la spingono nella mancanza,
come la linea che scava un taglio verticale è dipendente dai
blocchi che separa. Come il silenzio, reso ‘udibile’ solo dalla
cessazione delle voci che lo precedono e lo seguono -
producendolo e sospendendolo169. Perciò non può esistere una
persona stabilmente assente - che non riprenda prima o poi a
manifestarsi, rientrando così nel cerchio dell'interlocuzione. A
meno che - è l'ipotesi estrema cui l'autore ricorre per negare ciò
che non riesce a concettualizzare - non sia morta. Come sarebbe,
appunto, un terzo veramente esterno al dialogo amoroso degli
altri due: «un assente escluso da ogni allocuzione a ettuosa,
imperativa o aggressiva, questo assente è un assente? Questo
assente è piuttosto un morto, se la morte è l'assenza assoluta,
incompensabile, de nitiva, e la soppressione di ogni presenza
non solamente attuale, ma virtuale»170.
Questa persona non più tale, incarnata dalla giustizia
astratta e impersonale, ha per Jankélévitch il nome
impronunciabile di ‘altrui’. Esso non è la terza persona ancora in
rapporto, sia pure precario, con la seconda e con la prima - e
dunque recuperabile, per via indiretta o obliqua, all'interno
dello schema dialogico: «Altrui è una Terza persona che non è
mai stata né diverrà mai seconda»171. Non qualcuno, uno
qualsiasi, uno qualunque. Ma ognuno - e perciò nessuno, come
aveva colto, in un diverso ordine di ragionamento, Benveniste.
Egli - prosegue l'autore - non essendo per me, per te e neanche,
alla ne, per sé, semplicemente non è. È un foro, o il fuori, della
relazione personale. La relazione senza persona e insieme la
persona senza relazione. l'irrelato, l'irrelativo, l'impersonale.
Puro atus vocis, incalza Jankélévitch. O, peggio, come accade
appunto a un altruismo indi erenziato, il modo surrettizio per
non interessarsi di nessuno, ngendo di interessarsi di tutti:
«Costretto a scegliere tra subito e mai più, tra adesso e da
nessuna parte, tra qualcuno e tutti, la loso a della terza
persona sceglie Nunquam, Nusquam e Nemo, di amare tutto il
mondo, e di conseguenza di non amare nessuno»172. Per
signi care l'irrecuperabile estraneità di questa entità rispetto a
qualsiasi declinazione personale, Jankélévitch arriva a de nirla
«quarta persona», intendendo, con ciò, espellerla
de nitivamente dal quadro. Arrivati al quarto, al pronome che
non esiste, l'intero sistema delle virtù s’inceppa e si rovescia
nella pura esteriorità: in un ordine all'ennesima potenza in cui
non soltanto non vi sono più persone, ma non è più neanche
possibile enumerarle, perché è andato perso anche il primo
numero, quell'ipse da cui l'intera dialettica personale aveva
preso le mosse e da cui, in fondo, non si era mai staccata:
Ogni genealogia s’arresta qui. Al di là della terza persona comincia in e etti il
vasto oceano indistinto, l'oceano grigio degli altri innumerevoli, innominabili,
intercambiabili che sommerge ogni ipseità. Perché nel mondo crepuscolare dove
tutti gli esseri sono altri gli uni agli altri e dove nessuno è, propriamente
parlando, ‘qualcuno’, chi che sia, ogni altro è insieme altro come altro e altro come
sé stesso. l'ego medesimo si è perso, annegato, rei cato alterando e alienando
tutti i suoi simili173.

4. Egli.
La questione della terza persona attraversa e inquieta l'intera
opera di Lévinas - nel senso che ne costituisce insieme il vertice
teoretico e il punto di crisi interna, l'assillo e il limite su cui essa
batte senza venirne a capo e anzi rischiando di spaccarsi in due
blocchi di senso tra loro di cilmente componibili. Lungi dal
tentare di neutralizzarla, o di escluderla dall'incontro tra l'io e il
tu, come fa ancora Jankélévitch, egli la riconosce al suo fondo
come l'angolo prospettico, o lo strappo laterale, destinato a
decentrare entrambi i poli, prima ancora di ride nire il loro
rapporto. Certo, anche per Lévinas essi si dispongono nella
frontalità del faccia a faccia. Anzi, mai come in lui, l'io è
interpellato, nella sua assoluta singolarità, da un volto
altrettanto unico e insostituibile. Ma è proprio l'originarietà del
volto - la radice ina errabile della sua provenienza - ad aprire
un campo di signi cazione irriducibile alla linearità di una
relazione a due, intraducibile nella ssità di una formulazione
binaria:
La dimensione personale che il volto dell'altro c’impone è al di là dell'Essere. Al di
là dell'Essere vi è una terza persona che non è de nita dal Se stesso e dall'ipseità. Ma
che è possibilità di quella terza direzione di radicale non-rettitudine che sfugge al
gioco bipolare dell'immanenza e della trascendenza, gioco caratteristico
dell'Essere, in cui l'immanenza ogni volta ha la meglio sulla trascendenza. Il
pro lo assente del passato irreversibile grazie alla traccia è il pro lo dell'‘Egli’. L'al
di là da cui proviene il volto è la terza persona174.

Per intendere il senso enigmatico - intenzionalmente sospeso


alla emergenza dell'Enigma - di queste espressioni, bisogna
risalire alle critiche a più riprese rivolte dall'autore alla
dialettica tra io e tu, così come è de nita dalla loso a della
seconda persona, segnatamente nella versione fornitane da
Martin Buber. Ciò che Lévinas soprattutto gli contesta è il
carattere formale, non necessariamente personale, di termini
disposti sullo stesso piano e dunque intercambiabili lungo una
direzione di lettura che può procedere indi erentemente da
sinistra a destra o da destra a sinistra. In questo caso l'uno non
risulta essere che la proiezione rovesciata dell'altro, a sua volta
reso tale solo in forza dell'autoposizione del primo175. Si tratta
di una disposizione topologica che riproduce, sul piano
loso co, l'implicazione tra prima e seconda persona ssata da
Benveniste in ambito linguistico: anche per Buber tra io e tu
passa lo stesso rapporto di simmetria, di compresenza e di
reciprocità che caratterizza la posizione dei due interlocutori
nell'atto del parlare. Il tu, per poter acquisire a sua volta un
ruolo soggettivo, deve presupporre l'identità dell'io - è
l'interlocutore di un io che si è già dichiarato tale. Lévinas
rovescia radicalmente questo schema logico, e anche
grammaticale, in tutti i suoi passaggi: non basta dire che l'io è
diverso dal tu - che il tu non è assimilabile all'io - perché una tale
formulazione rischia di ridurre l'alterità della seconda persona a
una semplice sporgenza da un fondo comune che la vincola
preliminarmente alla prima. Quando invece è tutt’altro da essa,
dal momento che «il linguaggio si parla là dove manca la
comunità tra i termini della relazione»176. Che il rapporto non
soltanto presupponga, ma sia addirittura costituito dalla
separazione dei suoi termini, come argomenta Lévinas, signi ca
che la diversità dell'altro non si con gura come una di ormità
speci ca all'interno di uno stesso genere, ma come una
insuperabile eterogeneità di piano nell'ordine sia dello spazio
che del tempo. Questa asimmetria, che è anche diacronia,
sottrae il tu alle regole, logiche e sintattiche, dell'usuale
comunicazione linguistica, conferendogli quell'esteriorità e
superiorità nei confronti dell'io che Lévinas de nisce con il
termine di ‘maestria’. È dall'alto - o comunque dal fuori - di tale
postazione che il soggetto è interpellato, e insieme espropriato,
a favore di qualcuno verso cui esercitare una responsabilità che
fa tutt’uno con la più alta forma di giustizia. Ma il processo di
alterazione che investe l'io, facendone l'oggetto del comando del
tu, è lo stesso che già da sempre sospende questo a una
trascendenza tanto remota che si può de nire solo in terza
persona. Se l'io, lungi dal nominarsi tale, deve declinarsi nel
modo dell'accusativo - ‘eccomi’, dice a colui che lo chiama - il tu
a sua volta va enunciato sempre al vocativo, come quello che
non è possibile conoscere in quanto oggetto. Il risultato - ma
anche il presupposto - di questa triangolazione in cui ciascun
termine è sovrastato, e al contempo dislocato, dalla precedenza
dell'altro, è una sorta di curvatura dell'essere che, pur nel faccia
a faccia, non consente agli interlocutori di darsi del ‘tu’, ma li
espone alla obliquità di un terzo termine cui conviene il nome di
‘illeità’.
È l'illeità che apre le porte della giustizia, che sottopone
l'agire individuale all'impegno intransigente di una giusta
responsabilità. Ma che cos’è, propriamente, l'illeità? Chi è il
terzo, l'‘il', cui essa rimanda? E che tipo di giustizia ne
scaturisce? Sono le domande - la questione, come egli stesso la
de nisce, sollevandola su tutte le altre - alle quali, come si
diceva, l'intera ricerca loso ca di Lévinas tenta di rispondere
senza mai pervenire a una formulazione de nitiva. E dunque
senza mai potersi sottrarre all'antinomia cui le sue diverse
risposte, a acciate nel corso del tempo, a volte anche all'interno
della stessa opera, continuano a dare luogo. Volendone
comunque individuare una scansione interna, si può dire che
per tutta una prima fase, che si spinge no alle pagine centrali
di Totalità e in nito, Lévinas assegna al termine illeità un
signi cato prevalentemente negativo: pur alludendo in ultima
analisi alla presenza divina, essa la esprime sempre nel suo
versante di assenza, come è implicito nella traccia barrata,
cancellata, dall'ina errabilità di ciò che in essa si dà solo
ritraendosi. Quanto all'incontro tra io e tu, l'illeità, pur
interrompendone la dialettica duale, non con gura un terzo
polo a quelli esterno. Non si situa al loro anco, né, tantomeno,
tra di essi - ma al loro fondo. È l'origine inoriginaria cui
entrambi tendono senza mai poterla raggiungere, lo scarto
laterale che ne devia il percorso, la linea di separazione che li
distanzia tagliandoli anche al loro interno. La loro non
congiunzione, non reversibilità, non immanenza. un'eccedenza,
un margine, una soglia. Mai, comunque, un'entità positiva.
Qui, tuttavia, si pone il problema: se è così, se l'il dell'illeità
può presentarsi soltanto in negativo, esclusivamente per ciò che
p p g p
non è, e non mai per quello che è; se è una faglia, un vuoto, un
vortice che non può riempirsi senza tradirsi, in che modo potrà
mai ricevere, o rendere, giustizia - almeno se per giustizia si
intenda non solo l'intenzione puntualmente orientata che
vincola l'io all'unicità del tu, ma una relazione più ampia che
riguardi anche altri, non solo l'altro o l'Altro, ma l'altro dell'altro
e l'altro di ogni altro? Ecco, nella sua formulazione essenziale,
l'interrogativo, la questione, che a un certo punto - o forse,
tacitamente, n dall'inizio - irrompe nella loso a di Lévinas
con una forza d'urto destinata a spaccarla, o quantomeno a
disporla secondo due assi paralleli di di cile sovrapposizione:
Se la prossimità mi ordinasse solo ad altri nella sua solitudine, ‘non ci sarebbe
stato problema’ - in nessun senso, neanche il più generale del termine. La
questione non sarebbe nata, né la coscienza, né la coscienza di sé. La
responsabilità per l'altro è un'immediatezza anteriore alla questione:
precisamente prossimità. Essa è turbata e diviene problema a partire dall'entrata
del terzo177.

Già nel saggio del ’54 su L'io e la totalità178 egli apre un


confronto serrato con i propri presupposti: il faccia a faccia, se
pensato in modo radicale, vale a dire nella assolutezza non
generalizzabile dei suoi termini, nirebbe per escludere dal
campo della giustizia ogni altro essere umano rispetto all'unico
interlocutore prescelto, e con ciò la possibilità medesima di una
vera giustizia. Per quanto costituito al suo fondo, e dunque non
coincidente con esso, l'Egli resta imprigionato nell'unicità del
Tu, non è terzo che nell'orizzonte aperto dal secondo e ad esso
relativo. Ma in questo modo, se il terzo resta incluso
nell'assolutezza del secondo, se «la contemporaneità del
multiplo si annoda intorno alla diacronia di due»179, allora il
primo non potrà mai incontrarlo direttamente, assumerlo nel
proprio raggio di azione. Vincolato al proprio impegno esclusivo
- intimo, ‘clandestino’, come si esprime l'autore alludendo alla
stretta della relazione a due - verso il proprio altro, l'io è
costretto a trascurare il terzo, i terzi, che non hanno meno
diritto di quello alla protezione e nei confronti dei quali la sua
indi erenza rischia di trasformarsi in una sottile violenza180.
La questione, nei suoi termini ultimi, è quella del rapporto,
di contiguità e di opposizione, tra giustizia e amore. Certo,
l'amore può essere considerato la fonte originaria della
giustizia, ma non può risolverla in sé. Anzi, ha al proprio interno
qualcosa - appunto la chiusura in un universo duale - che la
contraddice in essenza. E ciò non perché troppo, ma perché non
abbastanza, puro da esaudire quella richiesta generale di bene
cui solo la giustizia può corrispondere - come Lévinas scrive,
capovolgendo la gerarchia ssata a suo tempo da Jankélévitch:
«la morale terrestre invita alla svolta di cile che porta verso i
terzi rimasti fuori dall'amore. Solo la giustizia dà soddisfazione
al suo bisogno di purezza»181. Perciò non è a atto escluso che,
benché nato da esso, «il rigore della giustizia non possa
capovolgersi contro l'amore inteso a partire dalla
responsabilità»182. Naturalmente Lévinas tende a trattenere la
discrasia così stabilita tra i poli dell'amore e della giustizia - tra il
terzo, per così dire, ‘interno’ e il terzo ‘esterno’, o, forse meglio,
tra l'esteriorità ‘a due’ e quella ‘a tre’ - nei limiti di una
compatibilità logica. Proprio a tal ne comprime quella che egli
stesso ha presentato come una anteriorità assoluta sul piano
sincronico della compresenza: non è che appaia prima il volto e
poi l'esigenza di giustizia, così come la carità non precede la
legge, ma la sottende e innerva. Anche il più remoto passato, se
guardato da una prospettiva triangolare, può apparire
contemporaneo a ciò che gli succede nel tempo. Eppure, tutto
ciò non toglie il contrasto di fondo: non è su ciente ampliare, o
approfondire verticalmente, l'ordine diadico per ottenerne uno
triadico. I loro lessici sono incompatibili come la linea e il
cerchio. Non basta neanche dire, come fa appunto l'autore, che
la giustizia limita l'assolutezza etica della responsabilità come
questa, a sua volta, modera l'universalità del diritto. In verità
l'una non può esprimersi senza contraddire l'altra - non può
portarla a compimento senza, allo stesso tempo, negarla. Non a
caso la correzione della responsabilità asimmetrica da parte
della giustizia determina ciò che Lévinas stesso de nisce un de-
visage, una s gurazione del volto183. l'antinomia, ancora
implicita in Totalità e in nito, esplode in tutta la sua forza in
Altrimenti che essere:
Il terzo è altro dal prossimo, ma anche un altro prossimo, ma anche un prossimo
dell'Altro e non semplicemente il suo simile. Che sono dunque l'altro e il terzo,
l'uno-per-l'altro? Che cosa hanno fatto l'uno all'altro? Chi viene prima dell'altro?
l'altro si mantiene in una relazione con il terzo - di cui non posso rispondere
interamente anche se rispondo - prima di ogni interrogazione - del mio prossimo
solamente. l'altro e il terzo, miei prossimi, contemporanei l'uno dell'altro, mi
allontanano dall'altro e dal terzo ‘Pace, pace al prossimo e a chi è lontano’ (Isaia
57,19), comprendiamo ora l'acutezza di questa apparente retorica. Il terzo
introduce una contraddizione nel Dire la cui signi cazione dinanzi all'altro
andava, no ad allora, in senso unico184.

Il punto centrale su cui la contraddizione insiste è la distanza di


principio tra unicità e generalità, esclusività e inclusività,
smisuratezza e misura. In breve - tra parzialità e uguaglianza.
Perché se non c’è rapporto a due che non privilegi l'unicità del
volto che si ha di fronte, non c’è giustizia che non apra alla
pluralità dei volti che lo circondano: «È necessaria la giustizia,
vale a dire la comparazione, la coesistenza, la contemporaneità,
il raccoglimento, l'ordine, la tematizzazione, la visibilità dei
volti e, attraverso ciò, l'intenzionalità e l'intelletto e
nell'intenzionalità e nell'intelletto l'intellegibilità del sistema, e,
attraverso ciò, anche una compresenza su una base di
uguaglianza come davanti a una corte di giustizia»185. A nché
il terzo - non quello interno, incavato o scavato nel fondo del
secondo, ma quello esterno anche ad esso, fuori dalla prima e
dalla seconda persona e anzi costituito in un assoluto fuori - sia
individuabile, bisognerebbe non solo forzare, ma rompere, la
struttura dialogica del faccia a faccia e, con essa, la dialettica
intersoggettiva che la costituisce. Rovesciare il linguaggio della
persona - o anche delle persone, come sono tutte quelle
convocate da Lévinas - nella forma dell'impersonale. Ciò
ricondurrebbe la verticalità della trascendenza a un piano di
immanenza e moltiplicherebbe il singolare nel plurale. Ma è
precisamente quanto l'autore non può fare senza perdere
l'assolutezza del tu, e con essa anche quella dell'io, che
comunque egli antepone, o presuppone, a ogni ordine, largo e
stretto, generico o speci co, di giustizia. Proprio contro questo
rischio di depersonalizzazione nell'anonimato dell'il y a egli
aveva attivato tutta la propria prospettiva loso ca. La
neutralità della giustizia, la giustizia come neutralità - cui pure
si richiama in una delle sue ultime pagine186 - non fonda un
nuovo discorso sul neutro, non inaugura uno sguardo sagittale
su quel ciascuno, o quel qualunque, in cui la persona, davvero
terza, si specchia nel suo originario fondo impersonale.

5. Il neutro.

Il ‘passo al di là’ mancato da Lévinas è compiuto da Maurice


Blanchot. Ma l'elemento forse più singolare di questo passaggio
è che esso, anziché costituirsi nella distanza dal pensiero di
Lévinas, si inscrive nella sua assunzione rovesciata. È come se
Blanchot situasse la propria prospettiva sul margine estremo in
cui il percorso di Lévinas si tende no a sfondare i propri con ni
semantici e a debordare nel suo contrario. È perciò che nei suoi
numerosi interventi sull'opera levinasiana non è facile
individuare la linea oltre la quale il più sintonico dei commenti
lascia il posto a un'in essione critica rispetto a ciò che pure è
accolto come «un nuovo inizio della loso a»187. In questione è
sempre quel particolare rapporto che, nell'atto linguistico,
collega l'io e il tu nella forma della loro separazione. Come è
possibile, e come può de nirsi, una relazione tra termini
assoluti, cioè sciolti, dalla relazione stessa? Conosciamo la
risposta di Lévinas - l'individuazione di un terzo polo situato al
fondo del tu, o anche al di là di esso, secondo due modalità di
giustizia che nello stesso tempo si sovrappongono e divergono.
Proprio in merito a tale risposta, tuttavia, e pur riconoscendone
la forza innovativa, Blanchot manifesta una serie di perplessità.
Esse attengono intanto alla tonalità, speci camente etica,
conferita da Lévinas alla propria prospettiva in esplicito
contrasto con l'ontologia heideggeriana. È in grado, il
linguaggio dell'etica, di interpretare l'aporeticità costitutiva di
un rapporto basato sulla separazione dei suoi termini? Ma
soprattutto, e ancora di più, risultano, questi, e ettivamente
separati - se il luogo, o il mezzo, di tale separazione è la parola,
sia pure tesa nella in nita di erenza tra l'attualità vivente del
Dire e l'oggettivazione del Detto? È vero che Lévinas disloca i
due interlocutori su piani diversi, uno in nitamente superiore
all'altro, conferendo al tu un assoluto primato nei confronti
dell'io. Ma, a parte la considerazione che questo privilegio del tu
sull'io è pur sempre relativo alla posizione di quest’ultimo - dal
momento che non può con gurarsi un alto se non in paragone a
un basso -, il linguaggio parlato, con la continua possibilità di
chiarire, giusti care, modi care ciò che si dice, nisce per
restaurare quella simmetria tra l'uno e l'altro che si voleva
evitare. Non solo, ma, pur assumendolo nella sua radicale
alterità, fa anche del tu un io che parla in prima persona nel
momento stesso in cui si rivolge al proprio interlocutore
richiamandolo alla sua responsabilità. In questo modo, nella
presenza intima della parola a colui che la pronuncia, si
ricostituisce quella gura di soggettività autoreferenziale alla
cui destituzione il discorso era n dall'inizio orientato.
E allora? Se questo è l'esito del pensiero che più di ogni altro
si è impegnato nella decostruzione della relazione io-tu, non
resta che una mossa laterale, appunto un pas au-delà, che non si
limiti a mutare l'equilibrio tra i due dialoganti, o anche la
topologia del loro incontro, ma che revochi in causa la stessa
struttura dialogica in favore di ciò che Blanchot de nisce
«rapporto di terzo genere»188. Se per primo genere deve
intendersi l'operazione dialettica che risucchia l'altro nell'orbita
del medesimo, e per secondo la loro unità immediata nel modo
di una partecipazione diretta, terzo genere è quello costituito
dalla vertigine, dall'interruzione, che si apre tra i due
interlocutori vietandone ogni reciprocità. Ciò che è in gioco, in
questo caso, non è più una diversità di status che privilegi l'uno
nei confronti dell'altro, una superiorità che sospenda il primo
alla parola magistrale del secondo, ma una dislocazione
prospettica dell'intero campo logico e linguistico paragonabile
al salto di paradigma che ha portato dalla geometria euclidea a
quella di Riemann: a partire da essa la relazione non sarà più
de nibile in base al numero dei suoi termini, dal momento che
nessuno di questi sarà più tale, un ‘termine’ fornito della
prerogativa soggettiva di dire ‘io’, di parlare in prima persona.
Ciò non vuol dire limitarsi ad allargare, o anche solo a forzare, la
forma dialogica a favore di un terzo elemento, come, a partire da
un certo momento, abbiamo visto fare allo stesso Lévinas. In
discussione, insomma, non è la relazione a due a favore di un
altro o anche di quell'altro del tutto indeterminato cui è stato
conferito il nome di ‘altrui’. Se così fosse, se bastasse far
intervenire un terzo fra, o oltre, i due, egli potrebbe a sua volta
esprimersi in termini soggettivi, acquisirebbe - come appunto il
terzo ‘esterno’ di Lévinas - anch’egli il diritto di parlare in prima
persona: proprio contro tale interpretazione riduttiva Blanchot
ricorda che «secondo certi grammatici pedanti, ‘Autrui’ non si
dovrebbe mai usare alla prima persona. Posso avvicinarmi agli
altri, ma gli altri non si avvicinano a me. ‘Autrui’ è dunque
l'altro quando non funge da soggetto»189. Ma che cos’è, chi è,
come può de nirsi, qualcuno che, non potendo essere soggetto,
non è mai neanche oggetto? Che non è semplicemente un terzo
aggiunto ai primi due, ma neanche uno di essi? Che non è,
dunque, l'uno o l'altro, ma né l'uno né l'altro? Il terminus
technicus che connota questa entità eterodossa, estranea alla
logica e, per certi versi, alla stessa grammatica, che è esterna
non solo al rapporto dialogico, ma anche al linguaggio che pure
abita, è quello di ‘neutro’ ne-uter190. È questo il nome - da
sempre escluso, evitato, taciuto, oppure tradito - che Blanchot
conferisce a un'alterità che non è persona, ma che non si
schiaccia neanche sul piano oggettivo dell'impersonale:
Di conseguenza, prima di cancellarlo, ricordiamo che altro è un nome
essenzialmente neutro e che non ci solleva dalle nostre responsabilità nei
confronti dell'intelligenza del neutro; al contrario, ci ricorda che, in presenza
dell'Altro che viene a noi come Altri, dobbiamo rispondere a questa profonda
estraneità, inerzia, irregolarità, inoperosità che accogliamo nel cercar di
accogliere la parola del Fuori. l'Altro è l'uomo stesso attraverso il quale viene a me
ciò che non si rivela né alla potenza personale del Soggetto né alla potenza della
verità impersonale191.

I motivi della di denza dell'autore nei confronti della nozione,


altre volte da lui stesso adoperata, di ‘impersonale’ non vanno
certamente ascritti a un residuo attaccamento a quella di
persona. Al contrario, quando Blanchot scrive che
«l'impersonale non garantisce abbastanza l'anonimato»192,
intende sottrarre la propria prospettiva al rischio di recupero
dialettico implicito in ogni negativo interno. Mentre il termine
‘impersonale’ resta, infatti, sia pure in maniera contrastiva o
privativa, nell'orizzonte di senso della persona, il riferimento al
neutro apre un campo semantico del tutto inedito. Ciò spiega
l'ostilità, o quantomeno l'incomprensione, che l'intera
tradizione loso ca gli ha riservato, tanto che «si potrebbe
interpretare tutta la storia della loso a come uno sforzo per
acclimatare e addomesticare il ‘neutro’ sostituendovi la legge
dell'impersonale e il regno dell'universale, oppure per ri utare il
neutro a ermando il primato etico dell'Io-Soggetto,
l'aspirazione mistica all'Unico Singolare»193. A questo ri uto, o
sublimazione, non si sono sottratti neanche coloro che, in modi
diversi, hanno cercato di tematizzare il neutro: da Freud, che lo
ha interpretato in termini di pulsione e di istinto, ma in una
prospettiva ancora antropologica; a Jung, che lo ha recuperato
nella forma dell'archetipo, declinandolo, tuttavia, in chiave
spiritualistica; a Sartre, in ne, che, pur cogliendone un versante
nella nozione di ‘pratico-inerte’, lo ha caratterizzato
negativamente, spingendolo ai margini della propria
prospettiva. Ciò che risulta ina errabile, del neutro, non è una
speci ca caratteristica, ma, paradossalmente, il fatto di non
averne - la sua sottrazione di principio alle tradizionali
dicotomie che hanno contrassegnato la storia del pensiero
occidentale, come quelle di essere e niente, di presenza e
assenza, di interno ed esterno. Pur non appartenendo alla sfera
dell'essere, infatti, il neutro non è riducibile al niente, ma
semmai collocabile nel loro punto di intersezione che
incessantemente traduce l'uno nell'altro: il nulla transitato
nell'essere, la presenza svuotata dall'assenza, l'interno
rovesciato all'esterno. In questo senso Blanchot può ben dire che
esso, questa «parola di troppo» che deborda in tutte le direzioni
dal nostro lessico concettuale194, «è ciò che non rientra in alcun
genere: il non generale, il non generico, il non particolare»195 -
qualcosa di irriducibile a qualsiasi categoria, al punto che, più
che di parlare del neutro, si dovrebbe parlare al neutro,
intendendo con ciò una rotazione di centottanta gradi del
nostro intero apparato logico-semantico in una forma che
corrisponde precisamente al passaggio dalla prima, o dalla
seconda, alla terza persona.
l'unico autore che ha centrato la questione è stato proprio
Lévinas, quando, a partire dal saggio sull'evasione, e poi
soprattutto in De l'existence à l'existant, ha tematizzato la
nozione di il y a, intendendola appunto come «il pronome della
terza persona nella forma impersonale del verbo, non un autore
dell'azione che non si conosce bene, ma il carattere di questa
stessa azione che, in qualche modo, non ha un autore, è
anonima»196. Esattamente come il neutro per Blanchot, anche
l'il y a che Lévinas riconosce al fondo dell'esistenza è
un'esperienza in cui si perde la distinzione tra essere e niente,
giorno e notte, vita e morte - un niente che continua ad essere,
un giorno che si eclissa nelle tenebre, una morte che si allunga
nella vita. O anche: la densità del vuoto, il brusio del silenzio, la
veglia allucinata dell'insonnia - non l'io che veglia nella notte,
ma la notte che veglia dentro l'io destituendolo del suo ruolo di
soggetto, della sua identità di persona, della sua capacità di
imputazione. Un evento, venuto da fuori e rivolto al fuori, che si
situa a un livello del tutto esteriore rispetto alla sfera personale
della coscienza, ma che non coincide neanche puramente con
l'inconscio: l'il y a è «l'essere in quanto campo impersonale, un
campo senza proprietario e senza padrone, in cui la negazione,
l'annientamento e il nulla sono si degli eventi propri come
l'a ermazione, la creazione e la sussistenza, ma eventi
impersonali»197. È il punto di massima coincidenza, ma,
insieme, proprio perciò, anche quello di massima divergenza tra
i due autori - come se un eccesso di trascendenza dovesse,
pervenuto al suo punto limite, rovesciarsi nella pura
immanenza: «con lo spirito che gli era proprio - osservò
Blanchot a proposito di Lévinas - Jean Wahl diceva che la
trascendenza più grande, la trascendenza della trascendenza, è
in n dei conti l'immanenza o il perpetuo rinvio dall'una
all'altra. La trascendenza nell'immanenza»198. È esattamente il
crinale, la possibilità antinomica, che insieme unisce e separa i
due autori. Da un lato Blanchot incorpora, e anzi intensi ca,
nella nozione di neutro, tutti i tratti dell'il y a di Lévinas;
dall'altro, e contemporaneamente, ne capovolge la valutazione.
Mentre quest’ultimo, infatti, vede nella sua potenza
impersonale la prigione insostenibile da cui è necessario
evadere attraverso la formazione di quella «ipostasi» che la
tradizione postcristiana ha assimilato al concetto di ‘persona’,
Blanchot lo considera il luogo stesso, certo inospitale e
sfuggente, ma inevitabile e destinato, della nostra esistenza: ciò
da cui non è possibile evadere per la semplice ragione che sta già
da sempre fuori e anzi è il fuori stesso nella sua dimensione più
intensa. È perciò che il pensiero non soltanto non può
neutralizzarlo - neutralizzare il neutro signi cherebbe, del resto,
raddoppiarlo - ma deve custodirlo come la sua possibilità
estrema.
Prima ancora, e forse meglio, del pensiero, a incontrare il
neutro è stata la scrittura - quella forma di espressione che, al
contrario della parola parlata, trova il proprio senso ultimo non
tanto nel ‘fare opera’, ma piuttosto nel disattivarla, o
‘disoperarla’, esponendola alla sua irrimediabile perdita di
padronanza. Non a caso n da sempre, «scrivere equivale a
passare dalla prima alla terza persona»199, vale a dire all'«evento
non illuminato di ciò che avviene quando si racconta»200. Se in
una prima fase - quella della forma epica - la terza persona
costituiva «la coerenza impersonale di una storia»,
successivamente, a partire da Cervantes, è diventata «il
quotidiano senza impresa, ciò che accade quando non accade
nulla»201. Essa segna la rinuncia dello scrittore alla possibilità
di dire ‘io’ a favore dei personaggi, destinati così a incarnare una
terza persona multipla coincidente con le vite individuali di cui
essi sono portatori. Finché, a un certo punto, alla ne della
stagione moderna, nel cuore dell'impersonalità si determina un
ulteriore sdoppiamento tra il ritiro del romanziere dietro le
quinte, rappresentato in maniera esemplare da Flaubert, e il ben
più devastante decentramento operato da Kafka. Con lui
l'assenza della voce narrativa penetra, come un'irriducibile
estraneità, non solo nella soggettività dei personaggi, ma nella
struttura stessa dell'opera. È questo passaggio, precisamente,
che inaugura il regno del neutro nella modalità peculiare della
terza persona:
Kafka ci ha insegnato - anche se la forma non può essergli direttamente
attribuita - che il raccontare mette in gioco il neutro. Sulla narrazione governata
dal neutro vigila la terza persona, che non è una vera terza persona, né la
semplice maschera dell'impersonalità. La terza persona narrativa in cui parla il
neutro non si accontenta di inserirsi nel posto generalmente occupato dal
soggetto, sia che si tratti di un ‘io’ dichiarato o implicito, sia dell'evento come si
realizza nel suo signi cato impersonale. La terza persona narrativa destituisce il
soggetto espropria l'azione transitiva o la possibilità obiettiva202.

Ciò implica, o produce, due e etti incrociati del massimo


rilievo: innanzitutto l'afonia della voce narrativa, coperta dal
mormorio anonimo degli eventi, e poi il rapporto di non
identi cazione dei soggetti dell'azione con se stessi. Quello che
comunque irrompe come una breccia nella compattezza del
testo è un movimento di depersonalizzazione talmente
irrecuperabile da essere paragonato a un foro interno a un altro
foro attraverso il quale le parole, in fuga da se stesse, risuonano
come un gong vuoto.
Tale processo di spersonalizzazione trova nella scrittura il
suo spazio privilegiato, ma non unico. Già si è visto come anche
il compito della loso a sia quello, se non di pensare il neutro -
p q p
in quanto tale non oggettivabile -, di pensare al neutro, cioè
fuori dalle consuete dicotomie soggetto/oggetto, essere/niente,
trascendenza/immanenza. Ma il sintomo forse più signi cativo
dell'attrazione di Blanchot verso una teoria della terza persona
sta nella traduzione che, a partire dalla ne degli anni
Cinquanta, egli stesso ne tentò all'interno della pratica politica.
Senza poter adesso dar conto neanche per semplici accenni della
complessità, e anche della contraddittorietà, del suo percorso
politico, l'elemento che più colpisce è lo sforzo, sempre teso, di
individuare un linguaggio pubblico corrispondente a una
loso a dell'impersonale. Se si scorre l'insieme delle sue
dichiarazioni e delle sue prese di posizione, il tratto che sembra
uni carle, anche più degli argomenti di volta in volta adottati, è
costituto dalla programmatica cancellazione del proprio nome -
di ogni nome proprio - a favore di un'attività anonima e
impersonale. Quando, già nel testo contro il ritorno al potere di
De Gaulle nel ’58, scrive che «il potere di ri utare non si compie
attraverso di noi e solo in nostro nome, ma a partire da un inizio
poverissimo che appartiene anzitutto a coloro che non possono
parlare»203, egli fa dell'impersonalità non soltanto il modo, la
forma, ma il contenuto stesso dell'atto politico. A partire da
allora tutti gli interventi successivi, protrattisi no
all'esaurimento del ’68 francese, battono con assoluta
determinazione sul carattere collettivo, e cioè non personale,
dell'impegno civile, come è confermato in una lettera
indirizzata a Sartre nel dicembre del ’60:
gli intellettuali […] hanno fatto esperienza - e non è il tratto meno signi cativo -
di un modo di essere insieme, e non penso soltanto al carattere collettivo della
Dichiarazione, ma anche alla sua forza impersonale, al fatto che tutti coloro che
l'hanno rmata le hanno portato il proprio nome, ma senza autorizzare a parlare
della propria verità particolare o della propria reputazione nominale. La
Dichiarazione ha rappresentato per loro una sorta di comunità anonima di nomi,
in un rapporto notevole che non a caso istintivamente l'autorità giudiziaria si
sforza di rompere204.

Il riferimento nale al contrasto con l'autorità giudiziaria non


va ristretto all'episodio speci co, ma immesso nell'orizzonte più
ampio di una critica del diritto a favore di quella che Blanchot
p q
stesso de nirà una «ingiunzione della giustizia per una
giustizia sempre maggiore»205. Ad esserne investite risultano
tutte le categorie giuridiche classiche - a partire da quelle,
fondative, di responsabilità personale e di diritto della persona.
In questo senso, in un testo di preparazione per una rivista
internazionale, egli potrà sostenere che «tutti diventano
responsabili di a ermazioni di cui non sono autori, di una
ricerca che non è più solo la propria, rispondono di un sapere
che non viene originariamente da se stessi»206. Solo in questo
modo si arriverà a una «messa in comune dei problemi letterari,
loso ci, politici e sociali così come si pongono nella
determinazione di ogni lingua e in ogni contesto nazionale. Il
che presuppone che ognuno rinunci a un diritto esclusivo di
proprietà e di sguardo sui propri problemi, riconosca che i
propri problemi appartengono anche a tutti gli altri, e accetti
così di considerarli nella prospettiva comune»207. Quanto
questo «comunismo di scrittura»208 sia di cile da realizzare, o
anche decisamente irrealizzabile, sarà provato, più ancora che
dal fallimento di quel progetto, dalla direzione verso il
«disastro» che negli anni successivi assumerà il pensiero di
Blanchot. Ciò non toglie che pochi autori, come lui, si siano
arrischiati a cercare una via, o ad aprire un varco, verso una
pratica teorica della terza persona.

6. Il fuori.

Pare che Michel Foucault non sia stato una persona - piuttosto
un campo di forze in contrasto, un commutatore di eventi senza
nome, un movimento di estro essione dolce e violento. Almeno
questa è l'immagine, singolarmente convergente, che ce ne
danno i due loso a lui più vicini. Il primo è proprio Blanchot:
con Michel Foucault non mi è accaduto di avere un rapporto personale. Non l'ho
mai incontrato, tranne una volta nella corte della Sorbona durante i fatti del
Maggio Sessantotto. Poteva essere giugno o luglio (ma mi dicono che non c’era)
quando gli rivolsi qualche parola e lui ignorava chi gli parlasse (checché ne dicano
i detrattori del Maggio, fu un bel momento quello in cui ciascuno poteva parlare
all'altro, anonimo, impersonale, uomo tra gli uomini, accolto senz’altra
giusti cazione che quella proprio di essere un uomo)209.

Del resto - prosegue Blanchot - «il suo primo libro, quello che gli
ha dato la fama, mi era stato recapitato quando ancora il testo
non era che un manoscritto quasi senza nome»210. Il secondo è
Gilles Deleuze:
Foucault stesso, non lo si percepiva esattamente come una persona. Anche in
circostanze insigni canti, quando entrava in una stanza, avveniva piuttosto
qualcosa come un cambiamento d'atmosfera, una specie di evento, si produceva
un campo elettrico o magnetico, come preferite. Questo non escludeva
assolutamente la dolcezza o l'agio, ma non erano dell'ordine della persona. Erano
un insieme di intensità. A volte lo irritava essere così, fare questo e etto, ma del
resto tutta la sua opera se ne nutriva. Bagliori, scintillii, lampi, e etti di luce
erano ciò che in lui costituivano il visibile. Il linguaggio è un immenso ‘c’è’, alla
terza persona, l'opposto cioè della persona211.

D'altra parte questa simmetria gurale - nel segno


dell'impersonale - non deve sorprendere visto che, secondo
Deleuze, proprio dall'opera di Blanchot Foucault aveva desunto
la centralità della terza persona: «come in Blanchot, c’è in
Foucault la promozione del ‘si’: si tratta ora di analizzare la terza
persona. Si parla, si vede, si muore. Sì, ci sono dei soggetti, ma
sono dei granelli che danzano nella polvere del visibile e degli
interstizi mobili in un mormorio anonimo. Il soggetto è sempre
un derivato. Nasce e sparisce nello spessore di ciò che si dice, di
ciò che si vede»212. È quanto risulta dalla teoria foucaultiana
degli enunciati, come è espressa soprattutto nell'Archéologie du
savoir. Così come la visibilità trova la propria condizione di
possibilità nell'essere (o meglio nel ‘c’è’, nell'il y a) della luce,
l'enunciato si radica nell'essere anonimo del linguaggio prima
che qualsiasi io prenda la parola. A di erenza delle proposizioni
o delle frasi, che rimandano a un soggetto dotato del potere di
aprire il discorso, l'enunciato si con gura come una pura
molteplicità, una emissione di singolarità, non derivabile da
una coscienza individuale, o anche collettiva, ma dalle
regolarità o dalle modi cazioni proprie allo stesso campo
enunciativo. Con ciò Foucault non esclude, all'interno di ogni
enunciato, o di una loro serie, un «posto» di soggetto, un ruolo
soggettivo. Solo che questo, tutt’altro che rinviare a un io
empirico o a un Io trascendentale, è sempre vacante, nel senso
che può essere di volta in volta occupato da individui prodotti
dall'enunciato stesso in una modalità irriducibile alla prima, o
alla seconda, persona e conforme solo all'impersonalità della
terza. Ciò vuol dire che l'analisi dell'enunciato si e ettua senza
referenza a un cogito: non è in questione sapere chi sia, in esso, a
parlare o a tacere, a manifestarsi o a celarsi, bensì il fondo
impersonale da cui la funzione enunciativa emerge nella forma
di un ‘si dice’ - non un'unica voce che parlerebbe
necessariamente attraverso il discorso di ciascuno; ma l'insieme
delle cose dette, gli scarti e le connessioni, gli snodi e le
digressioni, che a un certo punto possono prendere il posto del
soggetto o ricevere il nome di un autore. In ogni caso «‘non
importa chi parla’, ma ciò che egli dice, non lo dice da qualsiasi
luogo. Egli è preso necessariamente nel gioco di una
esteriorità»213. l'ambito che più di ogni altro restituisce questa
attitudine estro essa degli enunciati è costituito dalla
letteratura214. Essa - come già aveva sostenuto Blanchot - apre
uno campo di intensità in cui il soggetto è risucchiato
all'interno della enunciazione, e cioè catapultato nel proprio
fuori. A di erenza dell'io penso, ritirato nell'interiorità della
ri essione, l'io parlo si rovescia in una esteriorità in cui è
piuttosto il linguaggio a parlare nella forma impersonale di un
mormorio anonimo. È come se si producesse uno sdoppiamento
del discorso in due gure non sovrapponibili costituite dal
soggetto parlante e da un suo «doppio» che non ha il nome
rassicurante, oppure il volto trascendente, della seconda
persona, ma, come in Très-Haut di Blanchot, «è un egli senza
volto e senza sguardo, non può vedere che attraverso il
linguaggio di un altro che egli stesso inserisce nell'ordine della
propria notte»215.
Tuttavia, proprio la scena sventrata, senza autore e senza
opera, della grande letteratura contemporanea lascia a orare
una di coltà di fondo, un'aporia costitutiva, che coinvolge
l'intera teoria degli enunciati. Essa, come si è detto, è
radicalmente rivolta verso il fuori, produce una dislocazione
della persona nella sfera non linguistica dell'impersonale. l'Egli -
o il ‘si’ - è lo spazio estraniato in cui l'essere del linguaggio rivela
la propria irriducibilità al piano orizzontale dell'interlocuzione
tra io e tu o tra noi e voi. Eppure tale non-linguisticità resta
chiusa in una scrittura, essa stessa di natura inevitabilmente
linguistica, destinata a veicolarla. Anzi, appunto per sottrarsi
alla logica referenziale della comunicazione intersoggettiva, si
identi ca con quella - non esprime null'altro dalla scrittura
stessa. Ma se è così, se la scrittura è sempre scrittura di scrittura,
evidentemente, il fuori della letteratura ha la forma di un
dentro, non travalica mai i propri con ni prestabiliti. Quando
Foucault scrive che «la scrittura oggi si è liberata del tema
dell'espressione: essa si riferisce solo a se stessa senza tuttavia
essere presa nella forma dell'interiorità; essa si identi ca con la
propria esteriorità spiegata»216, è come se avvertisse il
problema, senza però venirne a capo all'interno del solo campo
enunciativo. Questo, come si è visto all'inizio, è parallelo a
quello della visibilità, nel senso che l'essere del linguaggio non
coincide mai con quello della luce. Ma come si passa dall'uno
all'altro - come è possibile vedere ciò di cui si parla o parlare di
ciò che si vede? Come l'esteriorità di una sfera può fuoriuscire
anche da se stessa, per rapportarsi a quella dell'altra? Cosa c’è,
insomma, fuori del fuori? Per rispondere a questa domanda,
Foucault rinvia al concetto nietzscheano di forza. È l'asse della
forza - o meglio delle forze, dal momento che una forza è tale
solo se si rapporta, ra orzandole o indebolendole, ad altre forze
- a costituire il punto di incrocio e di tensione tra la forma
dell'enunciazione e quella della visibilità: appunto perché
esteriore non soltanto alla duplice esteriorità del vedere e del
parlare, ma anche a se stesso. Deleuze spiega bene questa
di erenza sottile, ma decisiva:
Bisogna distinguere tra l'esteriorità e il fuori. l'esteriorità è ancora una forma,
come nell'Archeologia del sapere, anzi due forme, l'una esterna all'altra, dal
momento che il sapere è costituito da un duplice ambito, luce e linguaggio,
vedere e parlare. Il fuori concerne invece la forza: se una forza è sempre in
rapporto con altre, le forze rinviano necessariamente a un fuori irriducibile,
senza più forma e costituito da distanze non scomponibili attraverso le quali una
forza agisce su un'altra o è agita da un'altra217.

È così che, nella produzione di Foucault, l'archivio, cioè la storia


delle forme, è raddoppiato dal divenire delle forze, espresso,
invece, dal diagramma. Solo quest’ultimo incontra non solo
l'esterno, ma l'esterno dell'esterno, si a accia, come diceva
Melville, su quella linea «oceanica» che passa sotto gli uragani,
ruotando su se stessa no a toccare l'estremità di ciò che è più
estremo, l'assoluto fuori.
Ma qual è, propriamente, il fuori assoluto? Cosa c’è di più
esterno dell'esterno o di più estremo dell'estremo? Quale forza,
in altri termini, ha tanta forza da rovesciarsi nel proprio
contrario, pur mentre gli resiste? In Le parole e le cose questo
vortice ha il nome enigmatico dell'impensato - di ciò che
precede il pensiero in una modalità che si sottrae a ogni
ri essione perché è ciò da cui questa scaturisce. Nei testi
successivi, tuttavia, pur senza abbandonare questa prima
connotazione, e anzi elaborandola continuamente, Foucault
comincia lentamente, e poi sempre di più, a spostarla verso la
categoria di vita. È ancora Deleuze a metterci sulla strada giusta
quando osserva che un fuori più lontano di qualsiasi mondo
esterno e di qualsiasi forma di esteriorità, non può essere che un
dentro più profondo di ogni mondo interiore: «Il fuori non è un
limite sso ma una materia mobile animata da movimenti
peristaltici, da pieghe e corrugamenti che costituiscono un
dentro: non qualcosa di diverso dal fuori, ma proprio il dentro
del fuori»218. Quel fuori è così ina errabile perché, in qualche
modo e senza che ciò ne riduca assolutamente il tasso di
estraneità, sta dentro di noi - siamo noi stessi guardati da un
punto di vista che non coincide, e anzi collide, con quello,
trascendente, della nostra persona per sfociare nel piano
radicalmente immanente dell'impersonale. Ebbene cosa è che
noi siamo - al di là o prima della nostra persona - senza
potercene mai impadronire? Cosa è che ci attraversa, e travaglia,
no al punto di rovesciarsi nel suo contrario, se non la vita
stessa? Proprio in Le parole e le cose, del resto, la vita, insieme al
lavoro e al linguaggio, costituisce la linea vacillante in cui il
fuori si ripiega su se stesso come la fodera di una sto a o
l'invaginamento di un tessuto embriologico: «la vita è, ai con ni
dell'essere, ciò che a questo è esterno e che pure in esso si
manifesta»219. Essa sta, insieme, nel fondo del mio essere, al
punto da non essere altro da me, e al suo esterno, come un
fascio di luce che mi illumina spingendomi, nel contempo,
verso le tenebre: «Posso forse dire di essere questa vita che sento
in fondo a me e che tuttavia mi avvolge sia col tempo
formidabile che spinge seco e mi issa un istante sulla sua cresta,
sia, altresì, col tempo imminente che mi prescrive la mia
morte?»220.
Già in questo testo la vita costituisce il margine mobile lungo
il quale l'uomo combatte contro qualcosa che lo costituisce e
insieme lo minaccia - quello che Bichat aveva riconosciuto come
il fronte di resistenza al fragore sordo della morte. Ad esso in
fondo rimanda sia la linea oceanica di Melville, che, come
un'imbarcazione alla deriva, «si dà a orribili contorsioni e che
nel suo lare rischia sempre di trascinare un uomo», sia la linea
di Michaux, «dalle mille aberrazioni, a velocità molecolare
crescente, frusta di un carrettiere infuriato»221. Ma è
soprattutto nel ciclo aperto dalla Volontà di sapere e nei
contemporanei corsi sulla biopolitica che la vita, nella sua
semplice struttura biologica, diventa il terreno ultimo, e primo,
di una battaglia che spinge l'uomo verso un punto limite in cui
il rischio più estremo fa tutt’uno con la più inedita delle
opportunità. La posta in gioco, o il con ne semantico, tra queste
due possibilità è costituito ancora una volta dal pro lo
ambivalente della persona. Come si è visto nei primi capitoli del
libro, l'individuo inteso come centro di imputazione di una
personalità giuridica è l'oggetto privilegiato della decostruzione
biopolitica. Il signi cato, o l'e etto, più pregnante di
quest’ultima sta proprio nella sua sostituzione, o almeno
emarginazione, a favore di una sostanza, individuale o
collettiva, radicata nel fondo della vita biologica. Il potere, scrive
Foucault, «non avrà più a che fare solo con soggetti di diritto sui
quali la morte è la presa estrema, ma con degli esseri viventi, e la
presa che potrà esercitare su di loro dovrà porsi al livello della
vita stessa»222. Ciò non vuol dire, egli continua, che la legge e le
istituzioni giuridiche scompaiano, ma che esse funzionano
sempre più nel senso della normalizzazione attraverso una serie
di apparati di carattere medico e amministrativo, tesi a una
regolazione della popolazione nel suo insieme - «una società
normalizzatrice è l'e etto storico di una tecnologia di potere
centrata sulla vita. Nei confronti delle società che abbiamo
conosciuto no al XVIII secolo, siamo entrati in una fase di
regressione della dimensione giuridica»223. Costituzioni e
Codici, che dall'inizio dell'ottocento si susseguono a un ritmo
sempre più sostenuto, non sono che le forme di bilanciamento
che rendono possibile un potere di tipo normalizzatore.
Abbiamo seguito la deriva tanatopolitica cui questo processo ha
dato luogo nel tempo del nazismo. La distruzione della persona
giuridica, in quel caso, è diventata il piedistallo di una immensa
piramide del sacri cio alle falde della quale sono stati
accumulati milioni di morti. Tuttavia, come anche si è visto in
un'ottica di più lungo periodo, questo esito mortifero, più che
alla critica della categoria di persona avviata nel secolo
precedente, è addebitabile semmai alla persistenza del suo
dispositivo escludente n dentro il progetto della sua
abolizione.
Quest’ultimo passaggio del ragionamento - come anche il
disoccultamento della logica rei cante della persona - si situa
fuori del percorso di Foucault, limitato alla elaborazione
concettuale del paradigma di biopolitica. Ciò non toglie che
proprio attraverso questo egli individui nella vita, e più
speci camente nella sua opposizione all'ambito del diritto, un
elemento dirompente che si sovrappone, in maniera a volte
indistinguibile, alle dinamiche impositive del biopotere. Senza
voler forzare il testo foucaultiano in direzione di una biopolitica
a ermativa, ma senza neanche perderne la straordinaria forza
d'urto concettuale, tale ambivalenza va ricondotta
all'inseparabilità, da esso sempre a ermata, tra esercizio del
potere e resistenza - non soltanto nel senso che l'una risponde
all'altro, ma anche e soprattutto in quello che ne deriva: è
proprio il potere a generare la resistenza di ciò su cui si scarica.
Questo spiega perché la vita, distinta dalla soggettività della
persona come ciò che insieme la sottende e la rovescia nella sua
esteriorità materiale, costituisca l'oggetto del biopotere, ma
anche il luogo che più ad esso si oppone:
Contro questo potere ancora nuovo nel XIX secolo, le forze che resistono si sono
appoggiate proprio su quello ch’esso investe - cioè sulla vita e sull'uomo in quanto
essere vivente. Dal secolo scorso le grandi lotte che mettono in questione il
sistema generale di potere non si fanno più in nome di un ritorno agli antichi
diritti […] quel che si rivendica e serve da obiettivo è la vita, intesa come bisogni
fondamentali, essenza concreta dell'uomo, realizzazione delle sue virtualità,
pienezza del possibile224.

Solo da poco, e non per sempre, come Foucault aveva già


sostenuto in Les mots et les choses, l'uomo ha costituito la
modalità personale in cui, legandosi ad altre forze della
nitudine come quelle del lavoro e del linguaggio, la vita si è
espressa nella sua con gurazione più piena. Ciò non signi ca
che si debba, o si possa, immaginare una stagione in cui la vita
lavori, o parli, contro l'uomo e magari nella sua assenza. Ma
certamente se ne può desumere che la persona non va concepita
come l'unica forma entro la quale la vita sia destinata a scorrere.
E anzi che questa è portata a rompere i suoi argini formali a
favore di bisogni e desideri collettivi che il diritto soggettivo non
è in grado di rappresentare. È perciò che «la vita come oggetto
politico è stata in un certo qual modo presa alla lettera e
capovolta contro il sistema che cominciava a controllarla. È la
vita, molto più del diritto, che è diventata allora la posta in gioco
delle lotte politiche, anche se queste si formulano attraverso
a ermazioni di diritto»225. Solo a partire da essa sarebbe
concepibile una relazione intrinseca tra umanità e diritto,
sottratta al taglio soggettivo della persona giuridica e ricondotta
all'essere, singolare e impersonale, della comunità. Come possa
darsi, quali passaggi comporti, tale ‘diritto in comune’, Foucault
non lo dice. Anzi si può anche immaginare che la crisi di
ispirazione da lui sperimentata alla ne degli anni Settanta
nasca anche dall'incapacità di rispondere a tali domande.
Dall'impressione, più precisamente, di non riuscire a sfondare la
‘linea del fuori’ verso una zona ancora non occupata dai
diagrammi del potere. Dal timore, più che giusti cato, che la
vita - quella vita che egli cercava nelle pieghe, e anzi nel non-
essere-più-tale, della persona - fosse null'altro che una pausa
nell'incedere della morte, un posto vuoto nel corteo del ‘si
muore’226.
«Mi si dirà: rieccoci, sempre con la stessa incapacità di
oltrepassare la linea, di passare dall'altra parte, di ascoltare e far
comprendere il linguaggio che viene da altrove e dal basso»,
avverte Foucault in uno dei suoi saggi più intensi dedicato alla
Vita degli uomini infami. Che il suo soggetto sia appunto la vita,
ci segnala già la direzione estrema che, prima di interrompersi,
andava assumendo il suo discorso. Ma che la vita di cui si parla
sia quella di uomini letteralmente senza nome e senza volto,
senza nulla di quegli attributi che costituiscono il bagaglio
razionale, sociale e giuridico della persona, ne fa il testo in cui
più a fondo Fautore si spinge sul terreno impervio e arrischiato
dell'impersonale. Si tratta dell'introduzione a una progettata
antologia di brevi documenti, situati tra la seconda metà del
XVII e la prima del XVIII secolo, tratti dagli archivi
d'internamento dell'Hopital général e della Bastiglia: per lo più
lettres de cachet, suppliche al re, condanne al carcere o a morte.
Vite misere, anguste, quasi sempre scellerate. Vite in me,
perdute, ridotte a un pugno di cenere - ma anche «esistenze-
lampo», «vite-poema», riportate per un attimo alla ribalta della
cronaca dallo scontro momentaneo, e sempre traumatico, con
un potere che le ha attese al varco, perseguitate e poi spente.
Solo in questo modo, attraverso questo anello di presa e
so erenza, di inaridimento o di terrore, esse, già destinate a
passare al di sotto di qualsiasi discorso, hanno potuto lasciare
una traccia a volte ebile, altre incisiva, comunque inquietante.
Ciò che conta è che queste vite, non avendo mai giocato un ruolo
soggettivo di primo piano, sfuggendo, per così dire, alle maglie
della storia e perdendosi nell'anonimato dell'esistenza, non ci
parlano mai in prima persona, non pronunciano mai il pronome
‘io’, né si rivolgono mai a un ‘tu’. Non sono altro che dei fatti, o
degli eventi, in terza persona - che solo per circostanze
inaspettate, per una irregolarità della natura o per il capriccio di
un sovrano, ci sono state tramandate. Nulla di più lontano, in
esse, della luce che circonda gli eroi della politica e della storia
cari a Hannah Arendt - i protagonisti, o gli antagonisti, che si
incontrano e scontrano nel mondo, illuminato a giorno, della
sfera pubblica. Contrariamente a qualsiasi ‘fama’, essi sono
letteralmente infami. Uomini della notte - «vite che sono come
se non fossero mai esistite, che non sopravvivono se non negli
urti con un potere che non ha voluto che annientarle o
cancellarle, vite che non ci ritornano se non per una serie di
casi»227. Eppure nulla come tali vite senza splendore né forma
ha catturato lo sguardo di Foucault, gli ha trasmesso
un'impressione sica così intensa, lo ha fatto vibrare con tanta
violenza. E ciò non solo per la singolare sproporzione tra il
grigiore di queste esistenze insigni canti e la teatrale solennità
del potere che le ha colpite. Ma per l'ardore, l'energia, l'eccesso
che - guardata dall'altra parte dello specchio, dal lato esterno
della linea del fuori - connota la vita non più imprigionata nella
trappola meta sica della persona, ancora estranea al suo e etto
escludente, sordamente, ma ostinatamente, aderente solo a se
stessa.

7. L'evento.
Se la loso a contemporanea si è mai esposta alla potenza
dell'impersonale, questo incontro è certamente avvenuto
nell'opera di Gilles Deleuze. In essa tutte le gure che abbiamo
nora isolato - l'animale di Kojève, il neutro di Blanchot, il fuori
di Foucault - trovano un punto di coagulo nella decostruzione
sistematica della categoria di persona in tutte le sue possibili
espressioni. Alla sua base non vi è, come negli autori precedenti,
semplicemente la sostituzione di una persona all'altra, o anche
una triangolazione che apra il dialogo a due alla presenza
diagonale di un terzo, ma una rotazione dell'intero orizzonte
loso co in direzione di una teoria dell'evento preindividuale e
impersonale. Questo non si riduce, infatti, né alla personalità
del soggetto enunciativo né all'oggettività di uno stato di cose
inserito in una catena di cause e di e etti, né alla generalità
universale di un concetto astratto. Non attiene all'ordine della
designazione, della manifestazione o della signi cazione, così
come sfugge alla alternativa tra interno ed esterno, particolare e
generale, individuale e collettivo. Rispetto a tutte queste
opposizioni esso è essenzialmente neutrale - come una battaglia
situata al di sopra del campo in cui pure si e ettua, indi erente
rispetto al destino di vincitori e vinti, sempre sospesa tra ciò che
è già accaduto e ciò che può ancora accadere. O come una ferita
impressa nel corpo di qualcuno che la sente altra da sé e tuttavia
indisgiungibile dalla propria carne. Ciò non vuol dire, per
Deleuze, che il soggetto scompaia del tutto - che divenga un
contenitore inerte o uno spettatore passivo dell'evento che si
scarica su di lui. Al contrario, la formula più volte ripetuta, che
invita ciascuno ad essere degno di ciò che gli accade, rimanda a
una concezione più complessa, secondo la quale l'individuo da
un lato si identi ca con l'evento impersonale, ma dall'altro è in
grado di tenergli testa arrivando a rivolgerlo contro se stesso - o,
come Deleuze si esprime, a«controe ettuarlo». Giocando sulla
biforcazione temporale - tra un passato mai compiuto e un
futuro ancora a venire - che ogni evento porta in sé, egli può
liberare, all'interno di ciò che accade, la potenza evenemenziale
in esso racchiusa. Si tratta, in questo caso, di aderire a tal punto
q p
all'evento, di identi carsi talmente con esso, da trascinarlo oltre
il suo esito naturale e piegarlo a una logica diversa. In questa
chiave va inteso l'esempio dell'attore, che nella sua
interpretazione anticipa qualcosa che deve ancora veri carsi, o
riproduce un fatto già avvenuto, rappresentando ciò che in
quell'istante non è mai presente. l'attore è «il commediante dei
propri eventi»228, nel senso che li riproduce in una maniera
sempre sporgente rispetto alla loro realtà e ettiva. Li e ettua,
appunto, contro-e ettuandoli - entrando in contrasto con il loro
senso originario o raddoppiandolo in un eccesso che lo
trasforma nel suo contrario. Come accade con l'evento per
antonomasia, la morte - in cui ciascuno si perde, portando nello
stesso tempo anch’essa a perdersi nell'istante stesso in cui si
produce. O la vita, che ci attraversa e determina come ciò che è
più impersonale, visto che sfugge da tutti i lati al nostro
controllo, ma insieme più singolare - dal momento che nessuno
potrà mai replicarla nella sua assoluta unicità.
Proprio perché impersonale, insomma, l'evento coincide con
un'emissione di singolarità che non hanno né la forma
appercettiva dell'io né quella, trascendentale, della coscienza. È
quanto Deleuze de nisce piano di immanenza, intendendo con
ciò un ambito di vita interamente coincidente con se stesso - in
cui, per così dire, la causa faccia tutt’uno con il proprio e etto e
l'agente con il proprio paziente. Da qui la sua inconcepibilità per
l'intera tradizione loso ca, sempre portata a tradurlo, e così
tradirlo, in una forma, soggettiva o oggettiva, di difesa nei
confronti dell'indi erenziato. Che si dia a tale forma il carattere
di un Essere integralmente determinato dal suo concetto,
oppure quello di una persona, divina o umana, detentrice del
senso, si resta comunque nella alternativa tra il senza-fondo
dell'assoluta indi erenza e la chiusura forzata della singolarità
nel perimetro prede nito dell'individuo. Una bipolarità senza
sbocco, ssata non soltanto dalla tradizione loso ca, ma
anche, diversamente, dalla teologia, dalla cosmologia e dalla
psicologia. Proprio contro quest’ultima, nella sua versione
psicoanalitica, prima freudiana e poi lacaniana, Deleuze sferra
un attacco senza esclusione di colpi nell'Anti-Edipo. A risultarne
decostruita è appunto la triangolazione edipica - madre, padre e
glio - che ingabbia, neutralizzandola, la produzione del
desiderio in sagome personali di carattere mitologico. Anche in
questo caso la personi cazione, che riporta sul piano del
simbolico e dell'immaginario i ussi e le pulsioni costitutivi del
reale, è giusti cata con la necessità di ssare argini di
contenimento alla potenza, altrimenti distruttiva, del caos. Ma
la minaccia dell'indi erenziato non è che il prodotto secondario,
o la proiezione rovesciata, della di erenziazione personale. Così
come non sono le persone a porre gli interdetti, ma gli interdetti
- la legge che impedisce al desiderio di scaricarsi - a richiedere
gure personali capaci di rappresentarli sul palcoscenico
dell'Edipo. In questo modo un regime familiare della
coniugazione delle persone si sostituisce, forcludendola, alla
libera circolazione degli ‘oggetti parziali’. Questi vengono
sottratti alla molteplicità dei ussi impersonali e chiusi nella
gabbia trascendente di un signi cante generale che insieme
distribuisce i signi cati e ne impone la gerarchia. In questo
modo il polo paranoico-segregativo del delirio prevale su quello
schizo-nomadico attraverso il circuito escludente della legge,
della mancanza e del signi cante. Non solo, anzi, Deleuze
individua nella legge edipica la struttura generale
dell'esclusione, ma - quel che è ancora più rilevante in ordine al
nostro discorso - la riconduce al dispositivo giuridico della
persona, così come formulato nel diritto romano. È appunto
essa, la sua distanza presupposta dal movimento dei corpi, a
produrre quell'e etto rei cante di possessione, vale a dire di
depersonalizzazione, poi ereditato e perfezionato dalla
concezione moderna:
Il fatto è che le persone sono derivate da quantità astratte, al posto dei ussi. Gli
oggetti parziali, invece di un'appropriazione connettiva, diventano i possessi di
una persona e, al caso, la proprietà di un'altra. Kant, allo stesso modo che trae la
conclusione da secoli di meditazione scolastica de nendo Dio come principio del
sillogismo disgiuntivo, trae le conclusioni da secoli di meditazione giuridica
romana quando de nisce il matrimonio come il legame secondo il quale una
persona diventa proprietaria degli organi sessuali di un'altra persona229.

l'unica via per sfuggire alla dialettica, a noi ben nota, tra
personalizzazione e depersonalizzazione passa per la
decostruzione della categoria di persona in una logica che
privilegi la molteplicità e la contaminazione rispetto alla
identità e alla discriminazione. La nozione deleuziana di «corpo
senza organi» va intesa in questa direzione critica dell'idea di
persona proprietaria dei propri organi e insieme di corpo
organico separato dalla persona che lo abita. Nell'Anti-Edipo ad
essere investito da tale contestazione è essenzialmente l'ambito
dell'inconscio - sottratto alla tutela personale della ‘sacra
famiglia’ e restituito al usso impersonale delle macchine
desideranti. Ma nei testi successivi, e in particolare nei saggi
riuniti in Critica e clinica, la decostruzione si allarga a un
orizzonte più ampio che include la sfera del linguaggio e della
letteratura. Quest’ultima, contrariamente alla tendenza
psicoanalitica a determinare l'indeterminato attraverso l'uso del
personale o del possessivo, percorre il cammino opposto,
risalendo alla fonte indeterminata di ciò che è ingabbiato nel
blocco della determinazione. Come fa anche il linguaggio
infantile, essa privilegia i nomi preceduti dall'articolo
indeterminativo - un padre, un corpo o un cavallo, anziché mio
padre, il mio corpo o il mio cavallo. E ciò senza nulla perdere in
qualità espressiva, dal momento che l'indeterminativo non
manca di determinazione - solo che la sua particolare
determinazione non è quella, statica, dell'essere, ma quella,
uida, del divenire o, appunto, dell'impersonale. Da questo
punto di vista si conferma il rapporto, già rilevato da Blanchot,
della letteratura con la terza persona:
la letteratura segue la via opposta, e si pone solo scoprendo sotto le persone
apparenti la potenza di un impersonale che non è a atto una generalità, ma una
singolarità al livello più alto: un uomo, una donna, una bestia, un ventre, un
bambino. Non sono le prime due persone che servono da condizione
all'enunciazione letteraria; la letteratura incomincia solo quando nasce in noi
una terza persona che ci spoglia del potere di dire Io230.
Qui Deleuze sembra aprire un fronte polemico nei confronti
della teoria di Benveniste, da cui noi stessi siamo partiti, relativa
all'incapacità enunciativa della terza persona - e dunque al suo
non poter più essere de nita tale. In realtà, ponendo la
letteratura fuori e contro le leggi della linguistica, spingendola
sul piano della asintatticità e per no della agrammaticalità, egli
non fa che confermarla, portandola anzi alle sue conseguenze
più estreme: la forza contestativa della scrittura letteraria sta
proprio nel rovesciare una regola - quella ssata da Benveniste -
che vale per tutti gli altri tipi di interlocuzione. Essa parla alla
terza persona perché la sua enunciazione non enuncia nulla, o
appunto il nulla, dal momento che non si rivolge a nessuno, se
non a coloro che si pongono essi stessi ai con ni esterni del
linguaggio. Questo movimento di esteriorizzazione, o di
estraniazione, è il carattere saliente della vera letteratura: lo
scrittore, almeno a partire da Proust, è colui che trascina la
lingua fuori dai suoi solchi, facendola letteralmente ‘delirare’,
aprendola e rovesciandola come un guanto. Ciò può avvenire o
per immissione di un linguaggio straniero all'interno della
lingua materna oppure, al contrario, per trasferimento della
lingua materna nella terminologia di un linguaggio straniero.
Se Melville insinua una lingua estranea - addirittura inumana,
come quella della balena - all'interno dell'inglese, Wolfson
converte frasi della propria lingua in sintagmi linguistici
diversi, mentre Roussel scava, all'interno del francese, serie
omofone equivalenti alla presenza di un'altra lingua. Heidegger
e Jarry, invece - che Deleuze assimila in un vertiginoso
accostamento -, usano ancora un altro procedimento straniante,
che è quello di fare giocare una lingua morta in una viva, con
l'e etto di farle entrambe vacillare. In questo modo la lingua
barcolla, sussulta, crepita no a esplodere in una nuova entità
linguistica. E anzi a produrre qualcosa che non è precisamente
una lingua, che sta al di là, o al di qua, di essa, perché produce
visioni e audizioni che non appartengono alla forma vocale -
lembi di realtà che lo scrittore vede e ode nei fori del linguaggio,
non come interruzioni del processo, ma come «un'eternità che
p
può essere rivelata solo nel divenire, un paesaggio che appare
solo nel movimento. Non sono al di fuori del linguaggio, ne
sono il di fuori. Lo scrittore come veggente e audiente, ne della
letteratura: è il passaggio della vita nel linguaggio che
costituisce le Idee»231.
Proprio la vita - una vita, come titola l'ultimo testo lasciatoci
dal losofo232 - costituisce il termine in cui tutta la teoria
dell'impersonale sembra riassumersi e sporgere verso una
con gurazione ancora indeterminata, ma appunto perciò carica
di potenzialità inespresse. La vita è la tangente, la linea di forza,
lungo la quale l'immanenza si ripiega su se stessa elidendo
qualsiasi forma di trascendenza, qualsiasi ulteriorità rispetto
all'esser tale della sostanza vivente. Essa non rimanda né a un
soggetto razionale né a un nudo sostrato materiale. Ma
soprattutto, se intesa nella sua dimensione impersonale e
singolare233, è ciò che non consente - che contraddice in radice -
la divisione gerarchica tra queste due entità entro il dispositivo
separante della persona. Da qui una radicale distanza, o meglio
uno spostamento di piano, rispetto all'intero apparato
concettuale della loso a politica moderna. Si è visto come
questa condizioni la possibilità dell'ordine alla interazione tra
soggetti caratterizzati dal loro sdoppiamento tra un centro di
imputazione giuridica e una zona corporea sottomessa al
controllo del primo. Che esso passi per una mediazione sovrana
di carattere esterno, o che sia a dato all'arbitrio dell'individuo
proprietario, il corpo resta comunque esposto a un meccanismo
di appropriazione, scomposizione e manipolazione che nisce
per assimilarlo alla cosa, altrui o propria. Anche la semantica
cattolica della indisponibilità della vita - cioè la sua assoluta
valorizzazione derivata da un atto creatore che ne conserva il
possesso - resta interna al medesimo paradigma: in ogni caso a
disporre del corpo è una persona, divina o umana, non
coincidente con esso e anzi de nita in base alla propria
trascendenza. Lo stesso fatto che chi viene al mondo è
dichiarato, prima o poi - ma sempre in base a determinati
protocolli scienti ci, etici o religiosi - persona implica la sua
di erenza di principio dalla falda vitale in cui pure si impianta.
È in contrasto con questo modello dualistico che lavora
Deleuze lungo un percorso, insieme decostruttivo e a ermativo,
che tocca il suo apice in Mille plateaux. Esso si articola in tre
livelli strategici corrispondenti ai tre fronti dell'attacco portato
al concetto di persona. Il primo, presupposto agli altri, riguarda
la sostituzione, già avviata da Bergson, della categoria di
possibilità con quella di virtualità. Mentre la prima torna, sia
pure con modalità diverse, in tutte le loso e della
presupposizione di matrice schellinghiana, la seconda è l'unica
a non tradire l'immanenza, risolvendo l'origine all'interno del
processo di costituzione ontologica. Contro la distinzione
fondativa tra possibile e reale - che, per esempio, vede
nell'embrione una persona potenziale, ma non e ettiva,
lasciandolo così in una zona di indiscernibilità teoretica e di
disponibilità biopolitica - Deleuze assegna al virtuale il
medesimo statuto della realtà, relazionandolo, piuttosto,
all'attuale. La vita, in quanto tale e in ogni sua manifestazione, è
sempre reale, pur individuandosi in forme che di volta in volta
attualizzano quello che in uno stadio precedente è ancora
virtuale. Ciò non vuol dire che tutta la realtà sia attuale o che
l'attuale sia l'unico modo del reale - signi cherebbe un blocco
del processo di individuazione in forme immobili e
sclerotizzate. Anzi, come accade nella teoria ontogenetica di
Gilbert Simondon, secondo il quale ogni nuova individuazione
conserva sempre un elemento preindividuale che spinge
l'individuo fuori dai suoi con ni, anche per Deleuze resta
sempre una porzione di virtuale precedente, o eccedente, la
piena attualizzazione. Non c’è un momento topico in cui
qualcosa nisce di esser possibile per farsi reale, perché in ogni
momento il reale conserva una zona di virtualità. l'essere è
costituito appunto da questa oscillazione tra attuale e virtuale -
tra ordine e caos, tra identità e trasformazione, tra forma e forza
- che, tenendolo in perpetua tensione con se stesso, lo traduce
nel divenire.
Il secondo fronte di attacco nei confronti della persona passa
per il concetto di individuazione, spostato dall'orizzonte del
soggetto a quello della vita. l'individuazione della vita, di una
vita, non è la stessa di quella di un soggetto personale. Tra i due
s’interpone la categoria di ‘ecceità’. Anch’essa designa,
individuandola, qualcosa di molto particolare, ma non
necessariamente una persona, una cosa o una sostanza. Una
stagione, o un'ora della giornata, per esempio, sono ecceità
altrettanto determinate degli individui propriamente detti, ma
non coincidenti con essi. Così come uno scroscio di pioggia, un
so o di vento o un raggio di luna. Ciò che le connota, oltre il
movimento dovuto alla combinazione delle loro molecole, è
un'attitudine alla composizione con altre forze, di cui subiscono
l'e etto, o l'a etto, trasformandosi e trasformandole in
individualità più complesse, soggette esse stesse alla possibilità
di ulteriori metamorfosi. Un grado di temperatura può
combinarsi con una certa intensità di bianco, così come questa
può investire una super cie no a identi carsi con essa. A
mutare, rispetto al piano dei soggetti, oltre che la spazialità,
irriducibile a contorni pre ssati, è una temporalità che non ha
la forma stabile della presenza, ma quella, tesa tra passato e
futuro, dell'evento. un'ecceità non ha mai origine né ne - non è
un punto, ma una linea di scorrimento e di concatenamento. È
fatta non di persone e di cose, ma di velocità, di a etti, di
transiti, così come la sua semiotica è composta di nomi propri,
di verbi all'in nito, di pronomi inde niti. E cioè, ancora una
volta, di terze persone attraversate, e liberate, dalla potenza
dell'impersonale: «Egli non rappresenta un soggetto, ma
diagrammatizza un concatenamento. Egli non surcodi ca gli
enunciati, non li trascende come le prime due persone, ma al
contrario impedisce loro di cadere sotto la tirannia delle
costellazioni signi canti o soggettive, sotto il regime delle
ridondanze vuote»234. Non, dunque, io, tu - non soggetti
proprietari e corpi dominati - ma ‘Hans divenire cavallo’, ‘una
muta chiamata lupo’, ‘vespa incontrare orchidea’.
E siamo così all'ultima stazione del percorso, all'ultima
punta della costellazione polemica attivata da Deleuze nei
confronti dell'essere persona, della persona come forma
esclusiva, ed escludente, dell'essere. Si tratta di quell'esperienza
del «divenire animale» in cui il movimento di concetti n qui
delineato sembra trovare la sua gura più densa. Se ricordiamo
come l'animalizzazione dell'uomo abbia costituito l'esito più
devastante non solo del dispositivo della persona, ma anche dei
poteri tanatopolitici che hanno immaginato di contrastarlo -
potenziandone invece il potere coattivo -, il divenire animale di
Deleuze acquista tutta la sua carica insieme contestativa e
costitutiva. In una tradizione teologica, loso ca, politica, che
ha de nito l'uomo sempre attraverso il contrasto con l'animale -
con quella parte di sé, o con quella zona di umanità,
preventivamente bestializzata - la rivendicazione dell'animalità
come la nostra natura più intima rompe con l'interdetto
fondamentale che da sempre ci governa. Il divenire animale, per
Deleuze, non rappresenta né lo sprofondamento nel fondo più
buio dell'essere umano, né una metafora o un fantasma
letterario. Esso, al contrario, è la nostra realtà più tangibile - a
patto che per reale s’intenda il mutamento cui la nostra natura è
da sempre sottoposta. Non l'altro dall'uomo, o l'altro nell'uomo,
ma l'uomo ricondotto alla sua naturale alterazione. l'animale -
nell'uomo, dell'uomo - signi ca innanzitutto molteplicità,
pluralità, concatenamento con ciò che ci circonda o che da
sempre portiamo dentro: «Non si diviene animali senza una
fascinazione per la muta, per la molteplicità. Fascino del di
fuori? Oppure la molteplicità che ci a ascina è già in rapporto
con una molteplicità che abita in noi?»235. Ma esso signi ca
anche plurivocità, metamorfosi, contaminazione - critica
preventiva di ogni pretesa purezza ereditaria, etnica, razziale.
Contro di essa, contro i suoi presupposti immunitari e i suoi
e etti mortiferi, il divenire animale «cessa di essere
un'evoluzione liativa ereditaria per divenire invece
comunicativa o contagiosa»236. La di erenza sta nel fatto che, al
contrario delle liazioni di sangue e delle appartenenze di razza,
esso mette in rapporto termini completamente eterogenei come
un uomo, un animale, un microrganismo. Ma anche un albero,
una stagione, un'atmosfera. Perché ciò che conta in esso, prima
ancora del rapporto con l'animale, è soprattutto il divenire di
una vita che s’individua solo spezzando le catene e i divieti, le
barriere e i con ni che l'uomo vi ha inciso. Torna, da questo lato,
quel nesso tra impersonale e singolare che non è possibile
a errare se non dentro un radicale ripensamento della categoria
di persona. Non, come si è più volte detto, attraverso la sua
semplice negazione - semmai nella liberazione dalla forma,
escludente e rei cante, in cui la nostra tradizione ha sigillato il
suo signi cato. Il divenire animale dell'uomo allude allo
scioglimento di questo nodo meta sico - a un modo di essere
uomo che non coincide né con la persona né con la cosa. E
neanche con il transito perpetuo dall'una all'altra cui da sempre
sembriamo destinati. Esso è la persona vivente - non separata
dalla, o impiantata nella, vita, ma coincidente con essa come
sinolo inscindibile di forma e di forza, di esterno e d'interno, di
bíos e di zoé. A questo unicum, a questo essere singolare e
plurale, rimanda la gura, ancora insondata, della terza persona
- alla non-persona inscritta nella persona, alla persona aperta a
ciò che non è mai ancora stata.
Stampato per conto della Casa editrice Einaudi
presso Mondadori Printing SpA., Stabilimento N.S.M., Cles
(Trento)
nel mese di aprile 2007

C.L. 18781

Ristampa
0123456

Anno

2007 2008 2009 2010


Biblioteca Einaudi

Filoso a

5. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica


dell'illuminismo
6. Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica
8. Jacques Derrida, Margini della loso a
10. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica
12. Umberto Eco, Semiotica e loso a del linguaggio
15. Walter Benjamin, Sul concetto di storia
23. Jacques Bouveresse, Filoso a, mitologia e psudo-scienza
24. Paul De Man, Allegorie della lettura
29. Leo Strauss, Gerusalemme e Atene
32. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logivo-philosophicus e
Quaderni 1914-1916
36. Friedrich Schlegel, Frammenti critici e poetici
38. Pierre Hadot, Che cos’è la loso a antica?
39. Michel Foucault, Nascita della clinica
48. Karl R. Popper, Logica della scoperta scienti ca
50. François Jullien, Trattato dell'e cacia
31. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni loso che
55. Ludwig Wittgenstein, Ricerche loso che
58. Immanuel Kant, Critica della facoltà di giudizio
39. Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scienti che
61. Ludwig Wittgenstein, Della Certezza
62. John McDowell, Mente e mondo
66. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco
70. Stanley Cavell, Alla ricerca della felicità
74. Hans Jonas, Organismo e libertà
79. Max Horkheimer, Eclisse della ragione
82. Luigi Pareyson, Ontologia della libertà
83. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sui colori
85. Jean-Luc Nancy, l'esperienza della libertà
86. Ludwig Wittgenstein, Libro blu e Libro marrone
92. Sergio Givone, Eros/ethos
95. Mario Perniola, l'arte e la sua ombra
100. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Filoso a della storia
universale
106. Peter Szondi, Poetica e loso a della storia
109. Alessandro Conti, Manuale di restauro
115. Carlo Ginzburg, Indagini su Piero
118. Theodor W. Adorno, Beethoven
131. Antonio Forcellino, Michelangelo Buonarroti
154. Joseph Rykwert, Seduzione del luogo
166. Michael Baxandall, Ombre e lumi
173. Bruno Zevi, Storia dell'architettura moderna, vol. I
174. Bruno Zevi, Storia dell'architettura moderna, vol. II
176. Theodor W. Adorno, Immagini dialettiche. Scritti
musicali 1955-1965
180. Bruno Zevi, Saper vedere l'architettura
186. Jean-Jacques Nattiez, Combattimento di Crono e Orfeo
189. Ernesto Napolitano, Mozart. Verso il Requiem
204. Horst Bredekamp, La fabbrica di San Pietro
213. Bruno Zevi, Saper vedere la città
214. Anthony Vidler, Il perturbante architettonico

Scienze sociali
9. Antonio Gramsci, Pensare la democrazia
21. Robert Alexy, Concetto e validità del diritto
46. Marcel Mauss, I fondamenti di un'antropologia storica
64. Piero Sra a, Produzione di merci a mezzo di merci
73. Norberto Bobbio, Teoria generale della politica
80. Marcel Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi
90. Karl Polanyi, La grande trasformazione
93. Bruce Lincoln, l'autorità
130. Ernesto De Martino, La ne del mondo
159. Armand Mattelart, Storia dell'utopia planetaria
177. Luigi Einaudi, Lezioni di politica sociale
178. Michael E. Porter, Il vantaggio competitivo
182. Neil e Philip Kotler, Marketing dei musei
216. Erving Go man, Il comportamento in pubblico

Storia
2. Jan Assmann, La memoria culturale
3. Gherardo Ortalli, Lupi genti culture
11. Carmine Ampolo, Storie greche
13. Pierre Toubert, Dalla terra ai castelli
19. Marc Bloch, Storici e storia
26. Geogra a politica delle regioni italiane, a cura di P. Coppola
28. John Bossy, Dalla comunità all'individuo
30. Jacob Burckhardt, Sullo studio della storia
31. Carlo Ginzburg, Storia notturna
33. Marc Bloch, Apologia della storia
37. Franco Venturi, Settecento riformatore, I. Da Muratori a
Beccaria
54. Marino Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del
Cinquecento
56. Giovanni Ragone, Un secolo di libri
63. Storia di Roma, a cura di Andrea Giardina e Aldo
Schiavone
67. Gian Enrico Rusconi, Clausewitz, il prussiano
71. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi
78. Aron Jakovlevič Gurevič, Contadini e santi
84. Jacques Le Go , Tempo della Chiesa e tempo del mercante
87. Angelo d'Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre
89. Sergio Luzzatto, Il Terrore ricordato
101. Ira M. Lapidus, Storia delle società islamiche, 3 voll.
139. Gilberto Sacerdoti, Sacri cio e sovranità
143. Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker, La
violenza, la crociata, il lutto
151. Alberto Aquarone, l'organizzazione dello Stato totalitario
155. Andrea Carandini, La nascita di Roma, 2. voll.
162. Gian Enrico Rusconi, Germania Italia Europa
168. Walter Barberis, Le armi del Principe
170. Lucy Riall, La Sicilia e l'uni cazione italiana
175. Piero Redondi, Galileo eretico
191. Franco Venturi, Pagine repubblicane
203. Nicola Tranfaglia, Ministri e giornalisti 1939-1943
207. Alberto Mario Banti, l'onore della nazione
210. Andrea Carandini, Remo e Romolo
212. Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento
223. Maria Malatesta, Professionisti e gentiluomini
227. Massimo Bucciantini, Galileo e Keplero

Scienza
7. David Deutsch, La trama della realtà
25. Jules-Henri Poincaré, Scienza e metodo
27. Amotz Zahavi e Avishag Zahavi, Il principio dell'handicap
43. Lee Smolin, La vita del cosmo
53. Niles Eldredge, Ripensare Darwin
69. Paolo Vineis, Nel crepuscolo della probabilità
72. Alain Prochiantz, A cosa pensano i calamari?
77. Morris Kline, Storia del pensiero matematico, 2 voll.
88. Benoit B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali
98. Gerald M. Edelman e Giulio Tononi, Un universo di
coscienza
114. John Maynard Smith e Eörs Szathmáry, Le origini della
vita
138. Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo
146. John R. McNeill, Ambiente
148. Enrico Bellone, La stella nuova
164. Piergiorgio Odifreddi, Il diavolo in cattedra
165. Julian Brown, Menti, macchine e multiverso
193. Gerald M. Edelman, Più grande del cielo
202. Stuart Kau man, Esplorazioni evolutive

Scienze religiose e antropologiche


133. Ida Zilio-Grandi, Il Corano e il male
184. Jörg Rüpke, La religione dei Romani
196. Carlo Severi, Il percorso e la voce
211. Moshe Idel, Il Golem

Saggistica letteraria
4. Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta
14. Alberto Asor Rosa, Genus italicum
17. Giovanni Macchia, Tutti gli scritti su Proust
16. Gerard Genette, Palinsesti
20. Luciana Stegagno Picchio, Storia della letteratura
brasiliana
22. Pieter de Meijer, Achille Tartaro e Alberto Asor Rosa, La
narrativa italiana dalle origini ai giorni nostri
34. Corrado Bologna, La macchina del «Furioso»
40. Baldesar Castiglione, Il libro del Cortegiano
41. Francesco Orlando, l'intimità e la storia
42. Marina Zancan, Il doppio itinerario della scrittura
45. Roland Barthes, Scritti
32. Franco Moretti, Il romanzo di formazione
57. Roland Barthes, «Variazioni sulla scrittura» seguite da «Il
piacere del testo»
68. Cesare Segre, Avviamento all'analisi del testo letterario
91. Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio
95. Mario Perniola, l'arte e la sua ombra
96. Maurizio Bettini, Le orecchie di Hermes
97. Paolo Mauri, Nord
99. Leone Ginzburg, Scritti
103. Michail Bachtin, l'autore e l'eroe
103. Michail Bachtin, Estetica e romanzo
110. Cesare Segre, Ritorno alla critica
112. Mario Lavagetto, Freud, la letteratura e altro
117. Michel Foucault, Il discorso, la storia e la verità
119. Michail Bachtin, l'opera di Rabelais e la cultura popolare
121. Alberto Asor Rosa, Stile Calvino
126. Valerio Magrelli, Vedersi vedersi
129. Salvatore Nigro, La tabacchiera di don Lisander
141. Mario Lavagetto, La cicatrice di Montaigne
144. Gian Biagio Conte, Virgilio
143. Carlo Dionisiotti, Scritti sul Bembo
149. Maria Corti, Scritti su Cavalcante e Dante
133. Franco Moretti, Opere mondo
136. Dante Isella, Carlo Porta
137. Cesare Segre, La pelle di san Bartolomeo
138. Elide Casali, Le spie del cielo
161. Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento
171. Leone Ginzburg, Lettere dal con no
201. Cesare Segre, Tempo di bilanci
206. Dante Isella, Lombardia stravagante

Arte-Architettura-Teatro-Cinema-Musica
18. Jean-Jacques Nattiez, Wagner androgino
60. Erwin Panofsky, Il signi cato nelle arti visive
76. Erwin Panofsky, Studi di iconologia
94. Michael Baxandall, Forme dell'intenzione
102. Andrea Carandini, Storie dalla terra
107. L'altra estetica, a cura di Maurizio Ferraris e Pietro
Kobau
108. Quentin Skinner, La libertà prima del liberalismo
111. Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale
122. Roberto Esposito, Immunitas
123. Jacques Derrida, La scrittura e la di erenza
124. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per
una loso a fenomenologica, vol. I
125. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per
una loso a fenomenologica, vol. II
127. Franca d'Agostini, Disavventure della verità
132. Mario Perniola, Del sentire
133. Ludwig Wittgenstein, The Big Typescript
136. François Jullien, Il saggio è senza idee
137. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L'Anti-Edipo
140. I concetti del male, a cura di Pier Paolo Portinaro
142. Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana
147. Hans Jonas, Il principio responsabilità
152. Jean-Luc Nancy, La creazione del mondo
169. Andrea Tagliapietra, La virtù crudele
179. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo
181. Li Zehou, La via della bellezza
185. Wilfrid Sellars, Empirismo e loso a della mente
183. Stanley Cavell, Il ripudio del sapere
190. Mario Perniola, Sex-appeal dell'inorganico
192. Laozi
195. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa
197. Roberto Esposito, Bíos
198. Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio
199. Steven Nadler, L'eresia di Spinoza
200. Norberto Bobbio, Politica e cultura
205. Carlo Augusto Viano, Le imposture degli antichi e i
miracoli dei moderni
208. Sergio Givone, Il bibliotecario di Leibniz
215. Pierre Hadot, Il velo di Iside
218. Hannah Arendt, Sulla rivoluzione
219. Theodor W. Adorno, Meta sica
221. Giorgio Agamben, Stanze
225. Hannah Arendt, Che cos'è la politica?
226. Ludwig Wittgenstein, Esperienza privata e dati di senso
Indice

Introduzione

Capitolo primo - La doppia vita (la macchina delle scienze


umane)

Capitolo secondo - Persona, uomo, cosa

Capitolo terzo - Terza persona

1. Non-persona.

2. L'animale.

3. Altrui.

4. Egli.

5. Il neutro.

6. Il fuori.

7. l'evento.
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by Luca Calcinai
1)
M. ZAMBRANO, Persona y democracia. La historia
sacri cial (1958), Barcelona 1988 [trad. it. Persona e
democrazia. La storia sacri cale, Milano 2000, p.
148]. ↵
2)
P. RICŒUR,
in «Esprit», 1 (1983) [trad. it. La persona,
Brescia 1997, pp. 21-36]. ↵
3)
Cfr. in particolare R. de Monticelli, La conoscenza
personale. Introduzione alla fenomenologia, Milano
1998; id. (a cura di), La persona: apparenza e realtà.
Testi fenomenologici 1911-1933, Milano 2000. ↵
4)
Una utile rassegna delle varie nozioni di persona
nel dibattito anglosassone è ora in M. DI FRANCESCO,
L'io e i suoi sé. Identità personale e scienza della
mente, Milano 1998. Per una diversa impostazione
della questione, si veda anche il ricco libro r. bodei,
Destini personali. L'età della colonizzazione delle
coscienze, Milano 2002. ↵
5)
Penso in particolare all'acuto saggio E. SEVERINO,
Sull'embrione, Milano 2005, che tuttavia non
penetra nella ‘scatola nera’ della persona. ↵
6)
S. BENHABIB, The Rights of Others. Aliens, Residents
and Citizens, Cambridge 2004 [trad. it. I diritti degli
altri. Stranieri, residenti, cittadini, Milano 2006, p.
53]. Si veda, in una direzione a ne, Globalizzazione
e diritti umani, a cura di R. Finelli, F. Fistetti, F. R.
Luciani, P. Di Vittorio, Roma 2004. In una chiave
diversa e originale, consapevole delle nuove
dinamiche biopolitiche, si muove N. IRTI, La
giuridi cazione del bíos, in «Communitas», 6
(2005), pp. 35-40. ↵
7)
Cfr. M. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana.
Da individui a persone, Bologna 2002; id., Women
and Human Development. The Capabilities
Approach, Cambridge - New York 2000 [trad. it.
Diventare persone. Donne e universalità dei diritti,
Bologna 2001]. ↵
8)
L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali, Roma-Bari 2001,
p. 23. ↵
9)
S. RODOTÀ, La
vita e le regole. Tra diritto e non diritto,
Milano 2006, p. 25. ↵
10)
Ibid., p. 32. ↵
11)
Cfr. e. levinas, Quelques ré exions sur la philosophie
de l'hitlérisme (1934), a cura di M. Abensour, Paris
1997 [trad. it. Alcune ri essioni sulla loso a
dell'hitlerismo, Macerata 1997]. ↵
12)
Decisiva, per il diritto romano, risulta l'analisi di Y.
THOMAS, Le sujet de droit, la personne et la nature, in
«Le débat», 100 (maggio-agosto 1998), pp. 85-107,
nonché, sempre di Thomas, Le sujet concret et sa
personne. Essai d'histoire juridique rétrospective, in O.
CAYLA e Y. THOMAS, Du droit de ne pas naître, Paris
2002, pp. 91-170. ↵
13)
Sulle strategie contemporanee di
depersonalizzazione, cfr. anche A. DAL LAGO, Non
persone. l'esclusione dei migranti in una società
globale, Milano 1999. ↵
14)
Si veda, in proposito, il numero 0 (2006) della
rivista «Fata Morgana», dedicato al rapporto tra
cinema e vita biologica, e in particolare il saggio di
P. Montani, Estetica, tecnica e biopolitica, pp. 27-55.
Va segnalata, in ne, l'importante mostra sulle
non-persone, dal titolo Nowheremen, curata da O.
Calabrese e M. Bettini, attualmente esposta nelle
Acciaierie Arte Contemporanea di Cortenuova
(Bergamo). ↵
15)
X. BICHAT, Recherches physiologiques sur la vie et sur la
mort (1800), Genève-Paris-Bruxelles 1962, p. 43.

16)
Ibid., pp. 43-44. ↵
17)
G. CANGUILHEM, Claude Bernard et Bichat, in Etudes
d'histoire et de philosophie des Sciences concernant
les vivants et la vie, Paris 1994, p. 158. ↵
18)
X. BICHAT, Anatomie générale appliquée à la
physiologie et à la médecine, Paris 1801, vol. I, p. 99.

19)
Cfr. M. FOUCAULT, Naissance de la clinique. Une
archéologie du regard médical, Paris 1963 [trad. it.
Nascita della clinica, Torino 1969, p. 169]. ↵
20)
Il rilievo della sopravvivenza della vita organica
rispetto a quella animale in Bichat è stato
sottolineato da G. AGAMBEN, Quel che resta di
Auschwitz, Torino 1998, pp. 141-44. ↵
21)
A. SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vorstellung,
in Werke, Zürich 1988 [trad. it. Il mondo conte
volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliarli, con
un'introduzione di G. Vattimo, Milano 1989,
Supplemento XX al libro II, p. 1080]. Per il rapporto
con Bichat si veda anche s. barbera, Il mondo come
volontà e rappresentazione, Roma 1998, pp. 183
sgg. ↵
22)
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e
rappresentazione cit., p. 1076. ↵
23)
Ibid., p. 225. ↵
24)
Per un'acuta lettura biopolitica, o ‘bioeconomica’,
di Schopenhauer, cfr. adesso L. BAZZICALUPO, Il
governo delle vite. Biopolitica ed economia, Roma-
Bari 2006, pp. 77-78. ↵
25)
A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e
rappresentazione cit., p. 223. ↵
26)
Ibid., p. 477. ↵
27)
Ibid., p. 493. ↵
28)
A. COMTE, Système de politìque positive ou Traité de
sociologie instituant la religion de l'Humanité, Paris
1969 (rist. an. dell'ed. 1851-54), vol. I, pp. 618-19.

29)
Ibid., p. 648. ↵
30)
Ibid., p. 584. ↵
31)
A. COMTE, Cours de philosophie positive, Paris 1968
(rist. an. dell'ed. 1893), vol. III, pp. 224-26. ↵
32)
ID., Système de politique positive cit., vol. I, p. 361. ↵
33)
Per questa interpretazione di Comte si veda adesso
l'importante monogra a di B. KARSENTI, Politique de
l'esprit. Comte et la naissance de la Science sociale,
Paris 2006. ↵
34)
A. COMTE, Système de politique positive cit., vol. I, p.
641. ↵
35)
ID., Cours de philosophie positive cit., vol. IV, p. 349.

36)
Ibid., p. 352. ↵
37)
La Science politique fondée sur la
V. COURTET DE L'ISLE,
Science de l'homme ou Elude des races humaines,
Paris 1937, p. IX. ↵
38)
Ibid., p. 139. ↵
39)
Ibid., p. VIII. ↵
40)
Cfr. C.-B. DUNOYER, l'industrie et la morale considérées
dans leurs rapports avec la liberté, Paris 1825. ↵
41)
Si veda soprattutto P. TORT, La pensée hiérarchique et
l'évolution, Paris 1983. ↵
42)
Cfr. CH. LYELL, The Geological Evidences of the
Antiquity of Man with Remarks on Theories of the
Origin of Species by Variation, London 1963, in
particolare il cap. XXIII sulla comparazione
dell'origine e dello sviluppo delle lingue e delle
specie. ↵
43)
A. SCHLEICHER,
Sprachvergleichende Untersuchungen,
I. Zur vergleichenden Sprachengeschichte, Bonn
1848. ↵
44)
ID., Die Sprachen Europas in systematischer Übersicht,
Bonn 1850. ↵
45)
Ibid., p.1. ↵
46)
A. SCHLEICHER, Die deutsche Sprache, Stuttgart 1860.

47)
ID., Die darwinsche Theorie und die
Sprachwissenschaft. O enes Sendschreiben an Herm
Dr. Ernst Häckel, Weimar 1863. ↵
48)
ID.,Über die Bedeutung der Sprache für die
Naturgeschichte des Menschen, Weimar 1965. ↵
49)
Ibid. Cito dalla riedizione in traduzione francese De
l'importance du langage pour l'histoire nature de de
l'homme, in p. tort, Evolutionnisme et linguistique,
Paris 1980, pp. 83-85. ↵
50)
A. SCHLEICHER, Die Sprachen Europas in
systematischer Übersicht cit., p. 14. ↵
51)
Su questo intreccio tra linguistica e antropologia si
veda l'ampia ricostruzione di A. MORPURGO DAVIES, La
linguistica dell'Ottocento, Bologna 1996, pp. 217
sgg. ↵
52)
P. BROCA,
La linguistique et l'anthropologie (1862), in
Mémoires d'anthropologie, Paris 1871, vol. I, pp.
232-76. ↵
53)
A. PICTET,Les origines indo-européennes ou Les Aryas
primitifs. Essai de paléontologie linguistique, Paris
1859-63, vol. I, p. 14. ↵
54)
M. MÜLLER, Lectures in the Science of Language
Delivered at the Royal Institution of Great Britain in
April, May, & June 1861, London 1961, pp. 74-75.

55)
H.-J. CHAVEE, Les langues et les races, Paris 1962, pp. 7-
8. ↵
56)
Ibid., p. 10. ↵
57)
Ibid., p. 13. ↵
58)
Cfr. A. HOVELACQUE, La linguistique. Histoire naturelle
du langage, Paris 1877, p. 403. ↵
59)
Sulle due lingue ‘elette’ cfr. M. OLENDER, Les langues
du paradis: Aryens et Sémites: un couple providentiel,
Paris 1989 [trad. it. Le lingue del paradiso: Ariani e
Semiti, una coppia provvidenziale, Bologna 1991].

60)
E. RENAN, Histoire générale et système comparé des
langues sémitiques, Paris 1855. Cito dalla terza
edizione del 1863, pp. 495-96. Per una valutazione
equilibrata del ruolo di Renan, si veda C. VALLINI,
Renan tra lologia semitica e linguistica
indoeuropea, in g. massariello merzagora (a cura
di), Storia del pensiero linguistico: linearità, fratture
e circolarità, Roma 2001, pp. 69-111. ↵
61)
Cito dalla lettera di A. de Tocqueville a A. de
Gobineau del 17 novembre 1853, in A. DE
TOCQUEVILLE e A. DE GOBINEAU, Del razzismo. Carteggio
1843-1859, a cura di L. Michelini Tocci, Roma
1995, p. 167. ↵
62)
A. DE Essai sur l'inegalité des races
GOBINEAU,
humaines, in Œuvres, Paris 1983, vol. I, pp. 141-42.

63)
Ibid., p. 161. ↵
64)
Ibid., p. 1152. ↵
65)
A. DE GOBINEAU, Memoire sur diverses manifestations
de la vie individuelle, a cura di A. B. Du , Paris 1935.
Il testo era stato pubblicato in tedesco, col titolo
Untersuchung über verschiedene Ausserungen des
sporadischen Lebens, in «Zeitschrift für Philosophie
und philosophische Kritik», 1868, vol. 52, pp. 17-
35, 181-204, e vol. pp. 1-41. Il riferimento del
curatore a Schleicher è a p. 9. In merito al Mémoire
si veda il già citato p. tort, La pensée hiérarchique et
l'évolution cit., pp. 199 sgg. ↵
66)
Ibid., p. 114. ↵
67)
Ibid., p. 194. ↵
68)
Ibid., p. 112. ↵
69)
Ibid., p. 210. ↵
70)
Sull'ambiente intellettuale di Haeckel, si veda M. DI
GREGORIO, Entre Méphistophélès et Luther: Ernst
Haeckel et la réforme de l'univers, in p. tort (a cura
di), Darwinisme et société, Paris 1992, pp. 237-83.

71)
E. HAECKEL, Die Welträtsel. Gemeinverständliche
Studien über monisteische Philosophie, Bonn 1899
[trad. it. I problemi dell'universo, Torino 1904, p.
14]. ↵
72)
Ibid., p. 169. ↵
73)
E. HAECKEL,Natürliche Schöpfungsgeschichte, Berlin
1868 [trad. it. La storia della creazione naturale,
Torino 1892, p. 649]. ↵
74)
Ibid., p. 612. ↵
75)
E. HAECKEL, Freie Wissenschaft und freie Lehre,
Stuttgart 1878. ↵
76)
Jena 1895. ↵
77)
Eisenach-Leipzig 1903. ↵
78)
Cfr. soprattutto W. SCHALLMAYER, Vererbung und
Auslese im Lebenslauf der Völker. Eine
staatswissenschaftliche Studie auf Grund der
neueren Biologie, Jena 1903. ↵
79)
G. VACHER DE LAPOUGE, Race et milieu social. Essais
d'Anthroposociologie, Paris 1909, pp. XXII-XXIII. ↵
80)
G. Vacher de Lapouge, introduzione a E. HAECKEL, Le
monisme: lien entre la religion et la Science, Paris
1902, p. 2 [ed. ted. Der Monismus als Band zwischen
Religion und Wissenschaft, Bonn 1893]. ↵
81)
G. VACHER DE LAPOUGE, l'Aryen: son rôle social, Paris
1899, p. 512. ↵
82)
Cfr. in merito S. FORTI, Biopolitica delle anime, in
«Filoso a politica», 3 (2003), pp. 397-418. ↵
83)
C. RICHET, La sélection humaine, in Eugénique et
sélection, Paris 1922, p. 164. ↵
84)
A. CARREL, l'homme, cet inconnu, Paris 1935, pp. 371-
72. ↵
85)
A. HOCHE, Ärztliche Bemerkungen, in K. BINDING e A.
HOCHE, Die Freigabe der Vemichtung lebensunwerten
Lebens: ihr Mass und ihre Form, Leipzig 1920, pp.
61-62. ↵
86)
H. F. K. GÜNTHER, Humanitas, München 1937, p. 18.

87)
Per questa interpretazione del nazismo si veda
adesso R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e loso a, Torino
2004, pp. 155 sgg. ↵
88)
V. KLEMPERER,LTI. Notizbuch eines Philologen (1947),
Leipzig 1975 [trad. it. LTI. La lingua del Terzo Reich,
a cura di M. Ranchetti, Firenze 1998]. Si veda a
proposito e. cohen dabah, Il potere silenzioso del
nazismo: la lingua del Terzo Reich, in C.-C. HÄRLE (a
cura di), Shoah. Percorsi della memoria, Napoli
2006, pp. 65-79. ↵
89)
P. LEVI, I sommersi e i salvati, Torino 1993, p. 71. ↵
90)
Cfr. su tutto ciò la dettagliata analisi di D. CHIAPPONI,
La lingua nei lager nazisti, Roma 2004, pp. 59 sgg.

91)
Mi riferisco in particolare a W. OSCHLIES,
‘Lagerszpracha’. Zu Theorie und Empirie einer KZ-
spezi schen Soziolinguistik, in «Zeitgeschichte», I
(ottobre 1985). ↵
92)
P. LEVI, I sommersi e i salvati cit., p. 78. ↵
93)
Su queste vicende si veda R. OVERY, Interrogations,
New York 2001 [trad. it. Interrogatori, Milano 2003,
pp. 9-24]. ↵
94)
Cfr. Y. TERNON, l'Etat criminel, Paris 1995 [trad. it. Lo
Stato criminale, Milano 1997, pp. 24-34]. ↵
95)
Tra i tanti interventi sui diritti umani segnalo, per
la sua nettezza, quello di S. ŽIŽEK, Against Humans
Rights, in «New Left Review», 2005 [trad. it. Contro
i diritti umani, Milano 2005]. ↵
96)
H. ARENDT,The Origins of Totalitarianism (1951),
New York 1966 [trad. it. Le origini del totalitarismo,
Milano 1996, pp. 415-16]. ↵
97)
Ibid., p. 412. ↵
98)
Ibid., p. 397. ↵
99)
J. MARITAIN,
Les droits de l'homme et la loi naturelle,
New York 1942 [trad. it. I diritti dell"uomo e la legge
naturale, Milano 1991, p. 60]. ↵
100)
Ibid. ↵
101)
Come aveva già fatto M. Mauss in Une catégorie de
l'esprit humain: la notion de persone, celle de ‘moi’, in
«Journal of the Royal Anthropological Institute»,
LXVIII (1938) [trad. it. Una categoria dello spirito
umano: la nozione di persona, quella di ‘io’, in Teoria
generale della magia, Torino 2000, pp. 351-80]. ↵
102)
S. SCHLOSSMANN, Persona und προσωπον im Recht und
im christlichen Dogma, Kiel 1906. ↵
103)
A. PROSPERI,
Dare l'anima. Storia di un infanticidio,
Torino 2005, in particolare pp. 285-99. ↵
104)
Cfr. in merito il saggio H. RHEINFELDER, Das Wort
Persona. Geschichte seiner Bedeutung mit besonderer
Berücksichtigung des Französischen und Italienischen
Mittelalters, Halle 1928, pp. 180 sgg. ↵
105)
Cfr. P. BONFANTE, Il ‘ius vendendi’ del ‘pater familias’ e
la legge 2, Codice 4, 43, di Costantino (1906), in
Scritti giuridici varii, Torino 1926, I, pp. 64 sgg.; id.,
Corso di diritto romano. Della famiglia, Pavia 1908,
pp. 5 sgg. e 66 sgg. ↵
106)
Per una genealogia rigorosa e innovativa della
tradizione giuridica romana si veda adesso il libro
A. SCHIAVONE, Ius. L'invenzione del diritto in
Occidente, Torino 2005, con particolare riguardo
alle pp. 155-264. Circa la problematicità del
concetto di ‘diritti soggettivi’ nel diritto romano,
cfr. anche E. STOLFI, I 'diritti' a Roma, in «Filoso a
politica», 3 (2005), pp. 383-98. ↵
107)
Cfr. R. ORESTANO, Il ‘problema delle persone giuridiche’
in diritto romano, Torino 1968, pp. 12 sgg. ↵
108)
Su questo complesso processo di sdoppiamento tra
uomo e persona ha lavorato con grande nezza -
anche se pervenendo a conclusioni non coincidenti
con le mie - Y. Thomas nei saggi già citati Le sujet de
droit, la personne et la nature e Le sujet concret et sa
personne. ↵
109)
H. KELSEN,Reine Rechtslehre, Wien 1960 [trad. it. La
dottrina pura del diritto, Torino 1966, p. 198]. ↵
110)
T. HOBBES,
Leviathan, in The English Works, London
1829-45 [trad. it. Leviatano, Firenze 1976, p. 167].

111)
Ibid., p. 155. ↵
112)
Ibid., p. 158. ↵
113)
Cfr. F. LESSAY, Le vocabulaire de la personne, in Hobbes
et son vocabulaire, a cura di Y. C. Zarka, Paris 1992,
pp. 155-86. Ma vedi, in merito, l'ampio e
documentato lavoro di a. amendola, Il sovrano e la
maschera. Saggio sul concetto di persona in Thomas
Hobbes, Napoli 1998. ↵
114)
T. HOBBES, Leviatano cit., p. 267. ↵
115)
Ibid., pp. 235 sgg. ↵
116)
Ibid., p. 167. ↵
117)
J. MARITAIN, I diritti dell'uomo e la legge naturale cit.,
p. 52. ↵
118)
Ibid., p. 54. ↵
119)
Alludo a M. HEIDEGGER, Brief über den ‘Humanismus’,
in Wegmarken, in Gesamtausgabe, Frankfurt am
Main 1978, vol. IX [trad. it. Lettera sull'umanesimo,
a cura di F. Volpi, Milano 1995, pp. 42 sgg.]. ↵
120)
Cfr., di M. Foucault, soprattutto Naissance de la
biopolitique. Cours au Collège de France 1978-79,
Paris 2004. ↵
121)
Cfr. R. ESPOSITO, 'Totalitarismo o biopolitica? Per
un'interpretazione loso ca del Novecento, in
«Micromega», 5 (2006), pp. 57-66. ↵
122)
Come, da altra posizione, ha sostenuto anche J.
Habermas in Die Zukunft der menschlichen Natur,
Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?, Frankfurt
am Main 2001 [trad. it. Il futuro della natura
umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L.
Ceppa, Torino 2002, p. 50]. ↵
123)
J. LOCKE,
Two Treatises of Government, Cambridge
1970 [trad. it. Trattato sul governo, Roma 1992, p.
23]. ↵
124)
J.S. MILL,On Liberty, London 1859 [trad. it. Sulla
libertà, Milano 2000, p. 55] ↵
125)
Sul rapporto tra corpo, persona e cosa cfr. I. ARNAUX,
Les Droits de l'être humain sur son corps, Bordeaux
1994, pp. 79 sgg. ↵
126)
Sulla questione si veda il libro B. EDELMAN, La
personne en danger, Paris 1999, pp. 289-304. ↵
127)
B. LEMENNICIER, Le corps humain: propriété de l'état ou
propriété de soi?, in «Droits», 13 (1991), p. 118. ↵
128)
Cfr. ancora B. EDELMAN, La personne en danger cit.,
pp. 305-22. ↵
129)
Sul rapporto tra le diverse bioetiche, è utile la
recente messa a punto di G. FORNERO, Bioetica
cattolica e bioetica laica, Milano 2005. ↵
130)
P. SINGER, Writings on an Ethical Life,New York 2000
[trad. it. Scritti su una vita etica, Milano 2004, p.
149]. ↵
131)
H. T. ENGELHARDT,The Foundations of Bioethics, New
York 1986 [trad. it. Manuale di bioetica, Milano
1991, p. 153]. ↵
132)
P. SINGER, Scritti su una vita etica cit., p. 211. ↵
133)
Ibid., p. 182. ↵
134)
Ibid., pp. 220-27. ↵
135)
S. WEIL, Lapersonne et le sacré, in Ecrits de Londres et
demières lettres, Paris 1957 [trad. it. La persona e il
sacro, in Oltre la politica. Antologia del pensiero
impolitico, a cura di R. Esposito, Milano 1996, p.
76]. ↵
136)
Ibid., p. 78. ↵
137)
Ibid., p. 75. ↵
138)
Ibid., p. 78. ↵
139)
Ibid., p. 68. ↵
140)
Ibid., p. 70. ↵
141)
Sul percorso complessivo di S. Weil - anche in
merito al rapporto tra vita biologica e vita
soprannaturale - si veda adesso il libro, acuto e
innovativo, di a. putino, Un intima estraneità,
Roma 2006. ↵
142)
S. WEIL, La persona e il sacro cit., p. 72. ↵
143)
E. BENVENISTE, La nature des pronoms (1956), in
Problèmes de linguistique générale, Paris 1966 [trad.
it. La natura dei pronomi, in Problemi di linguistica
generale, Milano 1971, p. 302]. ↵
144)
J. LACAN,
Le Sémìnaire, III. Les Psychoses, Paris 1981,
p. 323. ↵
145)
E. BENVENISTE, Structure des relations de personne
dans le verbe [trad. it. Struttura delle relazioni di
persona nel verbo, in Problemi di linguistica generale
cit., p. 273]. ↵
146)
Ibid., p. 275. ↵
147)
Ibid. ↵
148)
Ibid., p. 278. ↵
149)
Ibid., p. 281. ↵
150)
G. SIMMEL, Soziologie,
Berlin 1908 [trad. it. Sociologia,
Milano 1998, pp. 90 sgg.]. ↵
151)
A. KOJÈVE, Esquisse d'une phénoménologie du droit,
Paris 1982 [trad. it. Linee di una fenomenologia del
diritto, a cura di F. d'Agostino, Milano 1989, p. 81].

152)
Sul rapporto tra Kojève e Schmitt, cfr. G. BARBERIS, Il
regno della libertà. Diritto, politica e storia nel
pensiero di Alexandre Kojève, Napoli 2003, nonché
la postfazione di A. Gnoli a A. KOJÈVE, Il silenzio della
tirannide, Milano 2004, pp. 253-67. Più in generale
sull'autore, M. VEGETO, La ne della storia. Saggio sul
pensiero di A. Kojève, Milano 1999. Sul terzo nel
diritto, anche in rapporto a Kojève, cfr. in ne B.
ROMANO, Ragione giuridica e terzietà nella relazione,
Roma 1998; id., Sulla trasformazione della terzietà
giuridica, Torino 2006. ↵
153)
C. SCHMITT, Der Begri des Politischen, in «Archiv für
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LVIII, n. 1
[trad. it. Il concetto del politico (ed. del 1932), in Le
categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera,
Bologna 1972, p. 109]. Sul ruolo ‘impossibile’ del
terzo in politica, cfr. anche P. P. PORTINAIO, Il terzo,
Milano 1986. ↵
154)
A. KOJÈVE,
Linee di una fenomenologia del diritto cit.,
p. 233. ↵
155)
Ibid., p. 234. ↵
156)
Ibid., p. 91. ↵
157)
Ibid., pp. 94-95. ↵
158)
Ibid., p. 98. ↵
159)
A. KOJÈVE,Introduction à la lecture de Hegel, Paris
1979, p. 434. ↵
160)
Linee di una fenomenologia del diritto cit., p.
ID.,
518. ↵
161)
Anche G. Agamben, per vie diverse, giunge alla
medesima conclusione. Cfr. il suo L'aperto. L'uomo e
l'animale, Torino 2002, pp. 12-20. ↵
162)
V. JANKÉLÉVITCH, Traité des vertus, II. Les vertus et
l'amour, Paris 1970, p. 779. ↵
163)
Ibid. ↵
164)
All'interno di un analogo orizzonte teoretico - pur
con argomentazioni diverse - si colloca V. Vitiello,
in TU. La meta sica della seconda persona, in
«Hermeneutica», 2004, pp. 9-37. ↵
165)
V. JANKÉLÉVITCH, Traité des Vertus cit., p. 777. ↵
166)
Ibid., p. 793. ↵
167)
Ibid., p. 794. ↵
168)
Ibid., p. 780. ↵
169)
Sul rapporto tra musica e silenzio rimando alle
intense pagine del saggio introduttivo di E.
Lisciani-Petrini a V. JANKÉLÉVITCH, La musica e
l'ine abile, Milano 1998 [ed. originale La musique et
l'ine able, Paris 1961]. ↵
170)
V. JANKÉLÉVITCH, Traité des Vertus cit., p. 781. ↵
171)
Ibid., p. 793. ↵
172)
Ibid., p. 781. ↵
173)
Ibid., p. 797. ↵
174)
E. LEVINAS, La trace de l'autre, in En découvrant
l'existence avec Husserl et Heidegger, Paris 1967
[trad. it. La traccia dell'altro, a cura di F. Ciaramelli,
Napoli 1979, p. 40]. ↵
175)
Cfr. ID., Noms propres, Montpellier 1976 [trad. it.
Nomi propri, Genova 1984, pp. 22-39]. ↵
176)
ID.,Totalité et in ni. Essai sur l'exteriorité, La Haye
1961 [trad. it. Totalità e in nito. Saggio
sull'esteriorità, a cura di S. Petrosino, Milano 1977,
p. 71]. ↵
177)
ID., Autrement qu’être ou au-delà de l'essence, La Haye
1974 [trad. it. Altrimenti che essere o al di là
dell'essenza, a cura di S. Petrosino, Milano 1983, p.
196]. ↵
178)
ID., Lemoi et la totalità (1954), in Entre nous. Essai
sur le penser-à-l'autre, Paris 1991 [trad. it. l'io e la
totalità, in Tra noi. Saggi sul pensare-all'altro, a cura
di E. Baccarini, Milano 1998, pp. 41-67]. ↵
179)
ID., Altrimenti che essere cit., p. 199. ↵
180)
Si veda, in questo senso, J. DERRIDA, Adieu à
Emmanuel Lévinas, Paris 1977 [trad. it. Addio a
Emmanuel Lévinas, a cura di S. Petrosino, Milano
1998, pp. 91 sgg.]. ↵
181)
E. LEVINAS, Tra noi cit., p 51. ↵
182)
Ibid., p. 142. ↵
183)
E. LEVINAS, Altrimenti che essere cit., p. 198. ↵
184)
Ibid., pp. 196-97. ↵
185)
Ibid., p. 197. ↵
186)
E. LEVINAS, Paix et proximité, in Emmanuel Lévinas, a
cura di J. Rolland, Paris 1984, p. 345. ↵
187)
M. BLANCHOT, l'entretien in ni, Paris 1969 [trad. it.
L'in nito intrattenimento, Torino 1977, p. 70]. ↵
188)
Cfr. ibid., pp. 89 sgg. ↵
189)
Ibid., p. 94. ↵
190)
Si veda in tema l'importante libro di M. ZARADER,
L'être et le neutre. A partir de Maurice Blanchot, Paris
2001; ma anche F. GARRITANO, Sul neutro. Saggio su
Maurice Blanchot, Firenze 1992 e P. MESNARD,
Maurice Blanchot. Le sujet de l'engagement, Paris
1996. ↵
191)
M. BLANCHOT, L'in nito intrattenimento cit., p. 96. ↵
192)
ID., Le pas au-delà, Paris 1973, p. 53. ↵
193)
ID., l'in nito intrattenimento cit., p. 399. ↵
194)
Ibid., p. 416. ↵
195)
Ibid., p. 399. ↵
196)
E. LEVINAS, De l'existence à l'existant, Paris 1978
[trad. it. Dall'esistenza all'esistente, a cura di P. A.
Rovatti, Casale Monferrato 1986, p. 50]. ↵
197)
Ibid., p. 57. ↵
198)
M. BLANCHOT, Ecrits politiques. Guerre d'Algerie, Mai
68, etc. 1958-1993, Paris 2003 [trad. it. Nostra
compagna clandestina. Scritti politici (1958-1993),
a cura di C. Colangelo, Napoli 2004, p. 156]. ↵
199)
ID., l'in nito intrattenimento cit., p. 506. ↵
200)
Ibid. ↵
201)
Ibid. ↵
202)
Ibid., pp. 510-11. ↵
203)
M. BLANCHOT, Nostra compagna clandestina cit., p.
16. ↵
204)
Ibid., pp. 51-52. ↵
205)
Ibid., p. 168. ↵
206)
Ibid., p. 57. ↵
207)
Ibid., p. 58. ↵
208)
Ibid., p. 101. ↵
209)
M. BLANCHOT, Michel Foucault tel que je l'imagine,
Paris 1986 [trad. it. Michel Foucault come io
l'immagino, Genova 1988, p. 5]. ↵
210)
Ibid., p. 6. ↵
211)
G. DELEUZE, Pourparler, Paris 1990 [trad. it.
Pourparler, Macerata 2000, p. 154]. ↵
212)
Ibid., p. 144. ↵
213)
M. FOUCAULT, L'archeologie du savoir, Paris 1969, p.
161 [trad. it. L'archeologia del sapere, Milano 1980].

214)
Sugli scritti letterari di Foucault, cfr. J. REVEL,
Foucault, le parole e i poteri, Roma 1996. Più in
generale, sul suo lessico loso co, vedi anche E.
CASTRO, El vocabulario de Michel Foucault, Buenos
Aires 2004. ↵
215)
M. FOUCAULT, Le penseé du dehors, in Ecrits, Paris
1994, vol. I [trad. it. Il pensiero del di fuori, in Scritti
letterari, a cura di C. Milanese, Milano 1984, p.
130]. ↵
216)
ID., Qu’est-ce-qu’un auteur?, in Ecrits cit., vol. I [trad.
it. Che cos’è un autore, in Scritti letterari cit., p. 3]. ↵
217)
G. DELEUZE, Foucault, Paris 1986 [trad. it. Foucault, a
cura di P. A. Rovatti e F. Sossi, Napoli 2002, p. 116].

218)
Ibid., p. 128. ↵
219)
M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Paris 1967 [trad.
it. Le parole e le cose, Milano 1998, p. 296]. ↵
220)
Ibid., p. 349. ↵
221)
G. DELEUZE, Foucault cit., p. 161. ↵
222)
M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Paris 1976 [trad. it.
La volontà di sapere, Milano 1978, p. 126]. ↵
223)
Ibid., p. 128. ↵
224)
Ibid. ↵
225)
Ibid. ↵
226)
G. DELEUZE, Foucault cit., p. 126. ↵
227)
M. FOUCAULT, La vie des hommes infâmes,in Ecrits cit.,
vol. III [trad. it. La vita degli uomini infami, in
Archivio Foucault, 2,1971-1977, a cura di A. Dal
Lago, Milano 1997, p. 251]. ↵
228)
G. DELEUZE, Logique du sens, Paris 1969 [trad. it.
Logica del senso, Milano 1975, p. 135]. ↵
229)
G. DELEUZEe F. GUATTARI, l'Anti-Œdipe. Capitalisme et
schizophrénie, I, Paris 1972 [trad. it. L'anti-Edipo.
Capitalismo e schizofrenia, Torino 1975, p. 78]. ↵
230)
G. DELEUZE, Critique et clinique, Paris 1993 [trad. it.
Critica e clinica, Milano 1996, p. 15]. ↵
231)
Ibid., p. 18. ↵
232)
G. DELEUZE, l'immanence:
un evie…, in «Philosophie»,
47 (settembre 1995), pp. 3-7. ↵
233)
Si veda, in merito, R. SCHÉRER, Homo tantum.
l'impersonnel: une politique, in Gilles Deleuze. Une
vie philosophique, a cura di E. Alliez, Le Plessis-
Robinson 1998, pp. 25-42. A partire da Deleuze, R.
Ciccarelli sta lavorando a un'ampia genealogia del
pensiero dell'immanenza nella sua tesi
postdottorale presso l'istituto Italiano di Scienze
Umane. ↵
234)
G. DELEUZE, Mille plateaux. Capitalisme et
schizophrénie, Paris 1980 [trad. it. Mille piani.
Capitalismo e schizofrenia, Roma 1987, vol. I, p.
384]. Per una lettura politica di Mille piani si veda
l'e cace saggio di m. hardt, La société mondiale de
contrôle, in Gilles Deleuze. Une vie philosophique cit.,
pp. 359-75. ↵
235)
G. DELEUZE, Mille piani cit., p. 347. ↵
236)
Ibid., p. 346. ↵

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