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Leuropa Del 900 Riassunto Del Testo Leuropa Del Novecento

Il documento analizza l'Europa del Novecento, evidenziando i progressi economici, sociali e politici che hanno caratterizzato il continente all'inizio del secolo, nonché le tensioni e le contraddizioni che hanno portato a conflitti. Si discute l'emergere di movimenti operai e socialisti in risposta alle dure condizioni di lavoro e alla crescente disuguaglianza, insieme all'evoluzione verso una società di massa e il processo di democratizzazione. Infine, viene esaminato il nazionalismo e il razzismo che hanno influenzato le dinamiche politiche e sociali, in un contesto di imperialismo e conflitti tra nazioni.

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Leuropa Del 900 Riassunto Del Testo Leuropa Del Novecento

Il documento analizza l'Europa del Novecento, evidenziando i progressi economici, sociali e politici che hanno caratterizzato il continente all'inizio del secolo, nonché le tensioni e le contraddizioni che hanno portato a conflitti. Si discute l'emergere di movimenti operai e socialisti in risposta alle dure condizioni di lavoro e alla crescente disuguaglianza, insieme all'evoluzione verso una società di massa e il processo di democratizzazione. Infine, viene esaminato il nazionalismo e il razzismo che hanno influenzato le dinamiche politiche e sociali, in un contesto di imperialismo e conflitti tra nazioni.

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L'europa del '900 - Riassunto del testo "L'Europa del


Novecento"
Storia contemporanea (Sapienza - Università di Roma)

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PARTE PRIMA – DAL 1900 ALLE CRISI DEGLI ANNI TRENTA:

CAP. 1: L’alba del secolo:

1.1: Il primato europeo:

L’Europa esce dall’Ottocento sull’onda di una lunga serie di progressi economici, tecnologici, sociali e
politici. In quasi tutto il continente il PIL si era quadruplicato e la produzione era aumentata. Si creò una
“grande divergenza” tra Europa e Asia, grazie anche allo sfruttamento del carbone e all’aumento delle
relazioni con i territori americani.

Una “seconda rivoluzione industriale” si sviluppò sulla base di una più stretta collaborazione tra ricerca
scientifica e produzione industriale, in particolare nel settore manifatturiero. Aumentava il settore
industriale e terziario, e lo sviluppo tecnologico portò all’emergere di nuovi settori oltre che ad un aumento
della produttività agricola, con una più diffusa propensione a produrre per il mercato e ad aprirsi a nuovi
consumi.

La crescita economica si era accompagnata ad una crescita demografica anch’essa senza precedenti. Grandi
reti di scambio e comunicazione vennero a legare gli Stati e i continenti. Il processo di formazione di solide
reti non investiva solo la dimensione economica. I progressi tecnologici resero possibile in poco tempo la
circolazione di informazioni anche da un continente all’altro. Nel tentativo di dare ordine alla crescente
integrazione, si moltiplicarono le organizzazioni internazionali.

L’Europa ricopriva una centralità che le consentiva di essere anello di congiungimento tra l’area atlantica e
pacifica. Aveva acquistato una forza politica e militare più influente nel mondo. Esercitava un controllo
diretto su vaste zone dell’Africa e dell’Asia, soprattutto da un punto di vista culturale. L’Inghilterra perse
gradualmente il suo ruolo di principale protagonista, lasciando spazio alla Germania, che in pochi anni
divenne una vera e propria potenza.

Le profonde contraddizioni che segnavano la politica europea e l’accumularsi di tensioni tra potenze furono
a lungo trascurate. In questo quadro la guerra iniziava ad apparire un evento sconveniente, destinato in
breve tempo a diventare un reperto storico. All’inizio del Novecento il continente veniva da un trentennio
(dopo la guerra franco-prussiana) in cui nessun conflitto di grande rilevanza aveva attraversato il continente.
Le prospettive di pace si concretizzarono attraverso l’istituzione della Corte permanente d’arbitrato nel
1899. Inoltre, fra i premi Noble istituiti nel 1901, uno di essi fu dedicato alla pace.

Nel 1900 ci fu l’Esposizione Universale di Parigi. 40 paesi presentarono a 50milioni di spettatori le novità
tecnologiche, industriali e artistiche. Lo sviluppo sembrava inarrestabile, la direzione intrapresa sembrava
giustificare entusiasmo e piena fiducia nel futuro. Questo clima portò ad alimentare l’idea che l’inizio del
secolo fosse stato una belle époque.

Già da inizio secolo, i marxisti e non solo, sottolineavano come lo sviluppo del capitalismo fosse
accompagnato dall’acuirsi di squilibri e disuguaglianze. Alcuni intellettuali condannavano l’imperialismo.
Nelle correnti artistiche si rilevò un’inquietudine che vedeva il progresso come un’illusione. Infatti, erano già
in corso affermazione di movimenti nazionalistici e la corsa al militarismo delle maggiori potenze.

Diversi fermenti che animarono la cultura e le arti diedero espressione all’idea che le certezze consolidate si
stessero sgretolando, che il progresso fosse un’illusione.

Le potenze europee subirono i primi rovesci militari nelle colonie ( vedi l’esercito italiano ad Adua,
Etiopia, 1896). Alcune colonie avevano intrapreso processi di sviluppo economico rielaborando il modello
occidentale. Inoltre, nonostante la crescita demografica europea, l’Asia rimaneva il continente più popoloso.
Il rapporto tra Europa e paesi extraeuropei era in mutazione, in particolare con il Giappone e gli USA, i quali
crescevano demograficamente ed economicamente con una gran rapidità, mostrando la formazione di

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moderne economie industriali non come una prerogativa esclusiva dell’occidente. Il Novecento si aprì nel
segno di tendenze contrastanti.

1.2: la fine dell’ancien régime: industrializzazione, società di massa, secolarizzazione:

L’Europa conobbe un periodo di grande espansione fino alla prima guerra mondiale. La nuova fase fu
segnata da uno sviluppo che interessò quasi tutti i settori e coinvolse quasi tutti i paesi.

La Germania emerse come la prima economia del continente: attraverso la ricerca, all’istruzione e alla
formazione di imprese, si specializzò nei settori più avanzati. L’Europa centrale e settentrionale vide un
maggior sviluppo, mentre la Francia rimaneva legata ad un’economia agricola e il Regno Unito vedeva
l’inizio del proprio declino. Anche alcune economie periferiche videro uno sviluppo industriale, seppur
lento, esposto a fluttuazioni e concentrato in alcune aree. Molti paesi soprattutto mediterranei rimasero
indietro.

L’aumento della produzione e del reddito fu superiore a quello della popolazione. Il divario tra i paesi
sviluppati e tutti gli altri si ampliò notevolmente: nel 1913 i primi facevano registrare un reddito pro capite
di oltre tre volte superiore.

Si verificò un lento ma costante aumento dei prezzi e dei redditi, che però coinvolse principalmente gli
imprenditori e i professionisti qualificati. Contrariamente al passato, anche gli operai qualificati, o attivi nei
settori ad alto sviluppo economico, videro in molti casi crescere il proprio reddito.

Si allargò la dimensione del mercato, più persone hanno accesso ai beni di consumo durevole
(macchina/bici) e beni voluttuari (libri/orologi/biglietti per il teatro). Le produzioni in serie prevalsero
sull’artigianato, e la rete commerciale si avvale di modalità di vendita estese e innovative (prezzo fisso,
pubblicità, pagamento a rate etc.).

Per la prima volta il motore principale di questa innovazione si spostò dal continente europeo agli Stati
Uniti. Il rapporto con il consumo cambiò: nacquero nuovi prodotti e le modalità per acquistarli. Influenti
furono anche i cambiamenti produttivi: iniziò ad affermarsi il modello “fordista” che nacque da Henry Ford e
dalla sua concezione di catena di montaggio. Il “taylorismo” era un sistema di organizzazione del lavoro che
si basava sull’esigenza di far lavorare i propri operai studiando meticolosamente i tempi dei loro movimenti
per poter avere la massima resa produttiva.

Si andò verso la formazione di una società di massa. L’urbanizzazione favorì lo sviluppo di un vivere sociale
basato su strutture impersonali e di grande estensione. Ci si allontanò dalla mentalità dell’ancien regime
legata al familismo e ai legami con le comunità locali. Il tempo libero diventò un’opportunità per uscire dal
contesto familiare. Si avviò il processo di secolarizzazione che dura ancora oggi.

Diminuì gradualmente l’analfabetismo, e i mezzi di comunicazione di massa diventano influenti nella vita
quotidiana, a partire da un più diretto coinvolgimento della popolazione nella vita politica.

Il percorso di progresso era segnato da forti squilibri territoriale, ma anche disparità di genere.

1.3: un nuovo protagonista: il movimento operaio:

Un elemento qualificante della storia politica dei primi anni del XX secolo fu la nascita dei movimenti dei
lavoratori, di sindacati e di movimenti socialisti. Le condizioni degli operai erano estremamente critiche:
lavoravano 12 ore al giorno in condizioni nocive per la salute e svolgevano mansioni estenuanti. Le loro case
erano sovraffollate e prive di servizi elementari. Le condizioni nelle campagne erano simili: dilagava la
disoccupazione e i redditi erano stagnati.

Persistevano forti correnti migratorie, in particolare dall’Italia (6 milioni di persone). 18 milioni di europei
lasciarono l’Europa.

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Sorsero fermenti da parte dei sindacati e partiti a orientamento socialista. Il socialismo unificava realtà
sociali molto diversificate, mettendo in comunicazione sindacati e cooperative, favorendo l’alfabetizzazione.
Nacquero le prime divergenze interne al socialismo:

- I riformisti ambivano ad una nuova società instaurata gradualmente attraverso riforme, una volta
arrivati al governo tramite le elezioni;
- I rivoluzionari intendevano rovesciare i governi e instaurare una nuova società attraverso la dittatura
del proletariato.

I partiti socialisti raggiunsero un ampio consenso in molti paesi europei, primo fra tutti il Partito
Socialdemocratico Tedesco. La SPD, guidata da Ksutsky (componente maggioritaria) e Bernstein (minoranza
revisionista) rivendicava inizialmente una fedeltà alle teorie marxiste, ma gradualmente assunse un
orientamento più riformista. Fu il primo partito ad assumere una dimensione di massa e a sviluppare un
modello organizzativo presente su tutto il territorio. Il riformismo era messo in discussione da una corrente
rivoluzionaria minoritaria, guidata da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.

In Italia, una strada analoga fu intrapresa dal partito di Filippo Turati. In Francia, il partito maggioritario era
in opposizione con il sindacato rivoluzionario di Georges Sorel.

In Russia, il Partito Socialista rivoluzionario, erede delle posizioni dei populisti, è minoritario rispetto al
Partito Operaio Socialdemocratico con a capo Nikolai Lenin, il cui programma è interamente votato alla
lotta. Questa linea risulta maggioritaria, da cui “bolscevica”, e si separa dalla linea “menscevica” nel 1912.

La povertà, l’autoritarismo del sistema politico, la diffusa propaganda rivoluzionaria e il cattivo andamento
della guerra contro il Giappone portarono a proteste e scioperi diffusi. A gennaio del 1905, il governo zarista
represse duramente una processione a San Pietroburgo diretta al Palazzo d’Inverno.

Un moto insurrezionale guidato dai Soviet, organismi di rappresentazione degli operai, investì gran parte del
Paese, e coinvolse anche episodi di ammutinamento delle truppe. Lo zar reagì incoraggiando la formazione
di milizie paramilitari nazionaliste, ma anche concedendo la libertà di parola e di stampa e istituendo un
parlamento elettivo, la Duma. Si riaprì un confronto tra menscevichi (vincitori delle elezioni) e bolscevichi.

I liberali ebbero difficoltà nell’attuare le riforme e lo zar avviò una restaurazione assolutista.

La Russia fu un caso particolare in quanto fu l’unico paese in cui si giunse a una situazione insurrezionale.
Negli altri paesi, la forza del movimento operaio rimase connessa alla legittimazione istituzionale.

Il movimento operaio si sentì sempre di più nella dimensione internazionale. Entrò in funzione la Seconda
Internazionale, un organismo costituito nel 1889 come federazione tra i partiti di orientamento marxista.
Essa tuttavia non riuscì a mantenere una coesione fra le linee dei singoli partiti, la cui azione è sempre più
“nazionalista”. Le élite borghesi e liberali furono costrette a ricorrere a politiche di inclusione piuttosto che
puntare sugli strumenti della repressione.

1.4: stati, nazioni e imperi:

In risposta all’ascesa del movimento socialista, i governi introdussero nuove garanzie e tutele, i primi pilastri
dello Stato Sociale, quali innovazioni nella legislazione del lavoro, la riduzione dell’orario, i sistemi
assicurativi. Le legislazioni penali divennero più garantistiche, concedendo il diritto di sciopero e maggiore
libertà per i sindacati e i partiti socialisti.

Prima della Prima Guerra Mondiale, quasi tutti i paesi europei passarono al suffragio universale maschile (in
Italia nel 1912). Gli operai, i contadini, le minoranze nazionali e i movimenti politici religiosi ebbero
rappresentanza per la prima volta. Il voto alle donne era prerogativa di pochissimi paesi, fra cui Finlandia e
Norvegia.

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Il processo di democratizzazione non fu lineare e univoco, e nella maggior parte dei paesi coesisteva con
monarchie autoritarie stile ancien regime. La Germania, il paese più avanzato anche in termini di sistema
assicurativo, previdenziale e istruzione, era gestita da un potere autoritario.

Il Regno Unito, con il partito liberale, realizzò un piano di riforme sociali e una politica fortemente
progressiva. La Francia, con il partito radicale, promosse interventi analoghi in aggiunta a un’accentuata
laicizzazione dello Stato. Rimasero fortemente autocratici l’Impero austro-ungarico e l’Impero russo.

Le classi dirigenti facevano appello all’unità della nazione, cementando l’identità collettiva con l’iscrizione
pubblica, la leva obbligatoria, la stampa, le cerimonie, le parate etc. L’obiettivo era far si che persone in
condizioni molto diversificate si riconoscessero in un passato, presente e futuro comuni, in cui lo stato era
garante, includendo le fasce sociali più isolate. I rituali “insegnavano” la nazione attraverso l’esperienza, in
modo emozionale ed evocativo.

Mentre la popolazione nell’Europa centrale e occidentale era piuttosto omogenea, negli imperi centro-
orientali coesistevano una pluralità di nazionalità che spesso ambivano all’indipendenza politica. Sorsero
movimenti nazionalisti “dal basso” a favore dell’ordine costituito, fra cui la Lega pantedesca e il panslavismo,
o nettamente contro, come il nazionalismo francese. Questi movimenti, collocati nella destra antiliberale,
erano accomunati da un ripudio delle idee illuministiche e democratiche e contribuirono alla diffusione di
idee razziste.

Il razzismo colpì le popolazioni asiatiche e africane, gli slavi, e in particolare gli ebrei, la cui persecuzione fu
incoraggiata dal regime zarista all’inizio del secolo.

La celebrazione dello stato-nazione prevedeva una corrispondenza tra confini politici e omogeneità della
popolazione. Tuttavia, l’inizio del secolo era anche il culmine dell’età degli imperi. La tradizione coloniale
coinvolse la maggior parte degli Stati: solo l’Austria-ungheria non conquistò territori extra-europei.

Da un lato, il colonialismo permise la diffusione di idee politiche, organizzazione delle città, la struttura dei
tribunali, gli eserciti, dei censimenti e la diffusione dei saperi specialistici.

Dall’altro, l’ordinamento liberale presente negli Stati nazionali non era esteso alle colonie, dove invece si
sperimentavano politiche di repressione e sterminio, fra cui i campi di concentramento (ex. gli spagnoli a
Cuba) e lavori forzati (re Leopoldo II in Congo). L’impiego di moderne tecnologie per assoggettare le
popolazioni sarà riprodotto durante le guerre mondiali. Fuori dall’Europa anche Giappone e Stati Uniti
acquisirono possedimenti coloniali.

 Lenin considerava l’imperialismo come “fase suprema del capitalismo”.

1.5: alleanze e contrasti tra le grandi potenze:

Il dominio europeo non era indiscusso. Gli Stati Uniti si profilavano come la principale economia del pianeta,
e nelle colonie si moltiplicavano i fenomeni di ribellione al dominio occidentale, spesso in nome di
un’identità nazionale, appigliandosi al bagaglio ideologico importato dallo stesso nazionalismo europeo.

Le tensioni e rivalità fra le potenze coloniali furono generalmente ricomposte in sede diplomatica e anche
tramite importanti accordi (tra cui l’entente cordiale nel 1904). Fu invece all’interno del continente che si
configurarono delle aree di tensione che segnarono le relazioni internazionali:

- Rivalità franco-prussiana, che risaliva alla guerra del 1870, con la vittoria della Prussia e l’annessione
dell’Alsazia e la Lorena e lo sviluppo del “revanscismo” (sentimento di rivalsa francese). La contesa
per il controllo del Marocco fu infiammata e a favore della Francia, alimentando spinte militariste e
nazionaliste in Germania.
- La rivalità fra Regno Unito e Germania rispetto alla potenza della flotta militare.

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- La rivalità fra Austria-Ungheria e Russia per il controllo dei Balcani, zona resa instabile dalla crisi
dell’impero ottomano.
I Balcani diventarono il focolaio determinante in seguito a dei disordini derivati dal disgregamento
degli Stati alleati (Serbia, Bulgaria e Grecia, sostenute dalla Russia) che avevano sconfitto l’impero
Ottomano.

Intorno a questi campi di tensione si configurarono due sistemi di alleanza:

- La Triplice Alleanza (1882), patto difensivo che legava Austria-Ungheria, Germania e Italia.
- La Triplice Intesa (1894), un patto di muta protezione tra Regno Unito, Francia e Russia.

Da un lato si rafforzarono le politiche militariste con una corsa agli armamenti. Crebbe l’esaltazione di tipo
marziale, un’esaltazione alla guerra nel discorso pubblico.

Dall’altro lato, le connessioni economiche e cultuali e le attività di diplomazia mitigavano i contrasti.


Tuttavia, nonostante la classe dirigente fosse consapevole della distruttività di una “guerra totale”, ogni
stato si armò per trasmettere insicurezza agli altri, confidando forse troppo nella diplomazia.

Questa catena di eventi e di convincimenti errati fece sì che l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando a
Sarajevo nel 1914 provocò lo scoppio della II Guerra Mondiale.

CAP 2: guerra e rivoluzione:

2.1: estate 1914:

Il bosniaco indipendentista Gavrilo Princip uccide l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico.
I Balcani erano un “focolaio”, in quanto in essi convergevano le mire espansionistiche dell’Austria-Ungheria e
della Russia. Inoltre, vi erano molti movimenti indipendentisti locali.

Le rivalità tra gli stati erano alimentate dalla percezione che gli stati fossero accerchiati e dovessero
autodifendersi. Germania, Francia e Regno Unito rivendicavano i propri interessi e l’intenzione di impedire il
predominio di una potenza. Ciascun governo cercava di capire le mosse degli altri, nessuno voleva passare
per aggressore né farsi sopraffare e rispettare accordi e alleanze. Era un convincimento comune che una
strategia offensiva e tempestiva avrebbe garantito un vantaggio. Dopo la corsa agli armamenti e la ricerca di
nuove alleanze (già iniziata prima), nel 1914 si passò alle dichiarazioni di guerra.

Il 28 luglio, 5 giorni dopo l’ultimatum in cui si chiedeva alla Serbia di rinunciare alla propria sovranità
delegandole le indagini, l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. La Russia mobilità le sue truppe in
sostegno della Serbia. La Germania il 1 agosto dichiarò guerra alla Russia e il 3 alla Francia. Il giorno dopo
invase il Belgio neutrale per entrare in Francia, e scese in campo il Regno Unito in difesa del Belgio.

Rispetto alle guerre locali degli anni precedenti, il 1914 vide il nascere di un conflitto su larga scala, a causa
del coinvolgimento dell’Austria. Pur appartenente alla Triplice Alleanza, l’Italia si dichiarò neutrale. Scese in
campo il Giappone per contrastare le rivendicazioni della Germania in estremo oriente.

Le popolazioni nelle città accolsero la guerra con entusiasmo patriottico. Nelle campagne, vigeva
l’indifferenza per la politica internazionale e la preoccupazione. L’entusiasmo patriottico travolse anche i
partiti socialisti 8tranne quello italiano) i quali rivendicavano la loro partecipazione attiva alla mobilitazione.
Questo segnò la fine della Seconda internazionale e la crisi dell’internazionalismo socialista.

2.2: una guerra lunga:

La Germania si scagliò sul fronte occidentale verso il Belgio, secondo il piano Schlieffen che prevedeva di
concentrare gli sforzi verso la Francia prima di rivolgersi a Oriente. In Belgio, i tedeschi sferrarono duri
attacchi alla popolazione civile. La controffensiva francese si mobilitò quando i tedeschi erano già molto

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vicini a Parigi. Dopo alcune grandi battaglie, il fronte si stabilizzò, dando via ad una sanguinosa guerra di
posizione. I francesi erano sostenuti dal Regno Unito.

I nuovi armamenti, fra cui fucili e cannoni più precisi e soprattutto le mitragliatrici, consegnarono la
superiorità militare al difensore, e tutte le strategie tradizionali si rivelarono inefficaci.

Soprattutto sul fronte occidentale, furono costruiti molti chilometri di trincee, delle fosse di massimo 9
metri protette da filo spinato. Le trincee erano separate da quelle nemiche dalla “terra di nessuno”. Le
trincee furono messe in comunicazione tra di loro, e spesso ce n’erano due o tre a qualche chilometro di
distanza, in cui stazionavano le truppe di riserva e i depositi.

Sul fronte orientale si configurò invece una guerra di movimento. Dopo alcuni successi dei russi, si imposero
i tedeschi, e i russi iniziarono una lunga ritirata che vide lo spostamento di milioni di civili per fare terra
bruciata intorno all’avanzata tedesca. Nel 1915 il fronte si stabilizzò. Il conflitto smosse i già fragili equilibri
tra le molteplici nazionalità della zona; fra le varie questioni, si riaccese la questione polacca. Nel frattempo,
si erano aperti altri due fronti minori, l’uno fra l’Austria e la Serbia e l’altro nei territori dell’Impero
Ottomano, schieratosi contro l’Intesa.

Fu rilevante il fronte del mare, nel quale la Germania rispose al dominio inglese con la guerra sottomarina.
L’affondamento del transatlantico inglese Lusitania (sul quale si trovavano un migliaio di statunitensi) nel
1915 aprì il dibattito sul labile confine tra militari e civili, fra belligeranti e neutrali.

Nel maggio 1915, dopo un ampio dibattito fra posizioni neutrali e interventiste, l’Italia entrò in guerra a
fianco della Triplice Intesa in seguito al patto di Londra. I combattimenti si svolsero sul fronte con l’Austria-
Ungheria, fra le montagne e gli altipiani, dove la difesa degli austriaci e dei tedeschi ebbe la meglio.

Fu una guerra di coalizione, che si sviluppò su molti diversi fronti e scenari, con caratteristiche politiche e
strategiche anche molto diverse. Se da un lato i sistemi di alleanza permisero di gestire un conflitto così
complesso, dall’altro, ogni belligerante doveva difendere i propri interessi, e fra le armate ci furono spesso
diffidenze e rivalità, in particolare fra la Germani e i suoi alleati.

Il 1916 fu caratterizzato dai tentativi dei tedeschi di sconfiggere i francesi. Grazie all’intervento degli inglesi,
che aprirono un nuovo fronte sulla Somme, i tedeschi furono sconfitti nella battaglia di Verdun
(600.000morti). Furono usati per la prima volta i tanks (carri armati).

Nel 1917, la Francia tentò ripetutamente di spezzare le linee tedesche sull’altopiano del Chemin des Dames
con esito fallimentare, causando anche una crisi sociale e politica.

Furono sperimentate delle innovazioni tattiche e tecnologiche, in particolare l’uso dell’aviazione militare e
dei carri armati, che resero di nuovo efficaci le azioni offensive.

Il 2 ottobre 1917, l’esercito italiano fu sfondato a Caporetto e contenuto sul Piave dalle forze austro-
tedesche. Il generale Adorna fu sostituito da Armando Diaz, ma la disfatta rimase a lungo radicata
nell’immaginario collettivo degli italiani inoltre, l’uscita della Russia dal conflitto favorì gli austro-tedeschi, i
quali erano disimpegnati dal fronte orientale.

Nonostante queste condizioni favorevoli agli imperi centrali (anche alcune avanzate in Belgio e Francia),
l’ingresso in guerra degli Stati uniti nel 1918 fu determinante. La decisione fu presa dal presidente Wilson in
risposta all’offensiva sottomarina tedesca che ledeva anche gli interessi commerciali americani. Le sorti della
guerra si spostarono completamente sul fronte occidentale. La presenza di un milione di soldati americano
spostò le sorti del conflitto. La battaglia di Amiens costrinse i tedeschi ad una ritirata progressiva: in
Germania cadde il governo e ci fu un grave dissidio fra politici e militari.

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Forti di alcuni successi difensivi, l’Italia riconquistò le terre occupate del Veneto e del Friuli, la cui conquista
avrebbe portato a compimento il processo risorgimentale, secondo il discorso patriottico.

Il 4 novembre gli austro-ungarici firmarono l’armistizio, e l’11 novembre lo chiese la Germania. Nonostante i
molteplici fronti, la guerra si decise sul fronte occidentale. L’immaginario del fronte occidentale è rimasto
più vivo poiché in esso si svolse l’infinita guerra di posizione e la battaglia di materiali (anche se gli altri
fronti ebbero un impatto decisivo del conflitto.

2.3: una guerra brutale:

L’apparizione di diverse tecnologie belliche, fra cui mitragliatrici, mezzi corazzati, sommergibili, tanks, e
anche gas velenosi, procurarono al conflitto un potenziale distruttivo senza precedenti. Furono coinvolti
circa 70 milioni di militari, di cui 10milioni morirono e 8milioni rimasero gravemente invalidi. Moltissimi
soffrirono di “shell shock”, disturbo post traumatico da stress. Il numero di vittime della prima Guerra
Mondiale fu esponenzialmente maggiore a qualsiasi altro conflitto: in Germania, ad esempio, morì il 12%
degli uomini tra i 15 e i 50 anni.

Nel 1918, si diffuse la “febbre spagnola”, la quale originò forse negli Stati Uniti o in Francia. La notizia si
diffuse dalla Spagna neutrale, mentre i paesi belligeranti tennero nascosta la notizia per non incrinare il
morale dei cittadini. Dopo tre ondate, nel 1920 il virus risultò debellato ovunque. Il virus colpì
principalmente giovani tra i 20 e i 40 anni, che vivevano in condizioni igienico-sanitarie meno favorevole, ad
esempio la vita al fronte. Le vittime della guerra furono celebrate come “eroi” e “martiri”, ma non c’era la
stessa enfasi per la memoria dei morti nella pandemia.

Fu una guerra fortemente ideologica: l’obiettivo non erano specifiche conquiste territoriali, né un
cambiamento negli equilibri politici, bensì nell’affermazione di un sistema di valori minacciato dai nemici:
l’obiettivo era la capitolazione del nemico, attraverso una ferocia e una drammaticità che avevano pochi
precedenti.

Soprattutto nelle trincee, le condizioni igieniche, di temperatura, e di risorse erano disumane, fra l’odore dei
corpi dei caduti nella terra di nessuno. Spesso ci si annoiava, in una lunga attesa che annebbiava la
percezione, poiché era difficile dare un senso all’esperienza che si stava vivendo, poiché i soldati erano
tenuti all’oscuro delle strategie, delle scelte politiche, del rapporto con un nemico invisibile. Molti vissero un
vero e proprio shock culturale, di fronte a un progresso tecnologico unicamente legato a delle barbarie,
mentre chi era spinto dal nazionalismo o dall’eroismo militare fu molto deluso dalla realtà bellica.

Il cameratismo fu una risorsa preziosa: i membri dei reparti si sentivano parte di una comunità che
condivideva sofferenze. Molti evasero dalla realtà attraverso varie forme di regressione culturale, ad
esempio superstizioni, miti e leggende, anche se si registrò un numero alto di nevrosi.

I governi riuscirono a mantenere la disciplina attraverso il timore delle punizioni e del nemico, ma anche
attraverso un forte sentimento nazional-patriottico mantenuto vivo dalle minoranze più ideologizzate. Si
propagava la sacralizzazione della guerra e il martirio eroico, oppure il patriottismo difensivo. La propaganda
istituzionale e il controllo dell’informazione incoraggiavano una rappresentazione del nemico estremamente
negativa, anche attraverso la diffusione di false voci. La censura toccò tutti i mezzi di informazione, che
ricorsero a diciture eufemistiche, e anche la posta personale dei soldati.

La guerra fu per molti la partecipazione a un processo di riunificazione nazionale, in cui chi incarnava la
“tregua politica”, ad esempio i pacifisti, era osteggiato.

Fra il 1915 e il 1916, nell’Impero Ottomano gli armeni vennero additati come nemici interni, reputati alleati
dei russi, e furono deportati a milioni verso la Siria, provocando fino a un milione e mezzo di vittime. Il

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genocidio armeno è ancora oggi al centro di un’aspra controversia, poiché le istituzioni turche ritengono che
“non fosse premeditato” ad una vera politica dello sterminio.

2.4: una guerra totale:

Anche sul “fronte interno” la popolazione espresse almeno un’accettazione della guerra, anche se essa colpì
anche i civili in quanto a disponibilità di viveri, inflazione, condizioni lavorative, e la perdita degli uomini di
famiglia. I civili furono anche coinvolti in prima persona dalle violenze attraverso la dinamica stessa
dell’invasione, che ricordava il controllo delle colonie.

La brutalità riguardò tutti i belligeranti: i tedeschi che avanzarono in Belgio e in Francia, gli austriaci in
Serbia, gli imperi centrali a Caporetto, i russi contro i tedeschi. Si fece ampio uso di internamenti e dei lavori
forzati.

La sempre più labile separazione tra guerra e popolazione avrebbe caratterizzato tutte le guerre del XX
secolo. La guerra era “totale” poiché nessuno poteva chiamarsi fuori dal conflitto:

- L’obiettivo era la capitolazione incondizionata dell’avversario;


- I vertici militari violarono i limiti morali condivisi e il diritto internazionale;
- Tutti i settori politici, sociali ed economici furono mobilitati verso la guerra.

La guerra sempre più si configurava come uno scontro di macchine e tecnologie, una “battaglia di mezzi
meccanizzati”. L’industria produceva armi, munizioni, ma anche mezzi di fabbisogno giornaliero per migliaia
di soldati. L’agricoltura fu sottoposta a un depauperamento tecnico e produttivo che influì
sull’approvvigionamento alimentare della popolazione.

Furono sospesi gli scioperi e allungati gli orari di lavoro. Le donne entrarono in massa in molti settori
lavorativi per fornire manodopera, e alcuni impieghi subirono un vero e proprio processo di
femminilizzazione. Il nuovo rapporto tra i sessi incrinò l’immaginario più tradizionalista.

Le concezioni liberiste furono soppiantate e lo stato dovette impegnarsi in prima persona per sostenere lo
sforzo bellico. Gli stati aumentarono le tasse, incrementarono la moneta in circolazione e ricorsero al debito
pubblico (attraverso i “prestiti di guerra”). Nessuna di queste strategie fu particolarmente efficace. Tutti i
paesi subirono nel dopoguerra una riduzione dei consumi privati, inflazione e debito pubblico.

Si crearono nuovi uffici e apparati amministrativi, e l’economia di guerra divenne centrale. L’intreccio tra
economia e politica orientato alla guerra tolse spazio alle istituzioni rappresentative, a partire dai
parlamenti. In tutti i paesi anche democratici si moltiplicarono i poteri di controllo. In stati più autoritari,
invece, si andò verso l’introduzione di nuovi diritti sociali, segnando una tappa significativa nello sviluppo
del welfare statale.

2.5: una guerra globale:

Anche se la prima guerra mondiale fu innescata da contese territoriali e nazionali interni all’Europa, essa si
configurò in realtà come una “grande guerra”, una guerra globale, per la sua estensione mondiale. Le
trasformazioni delle relazioni geopolitiche ridefinirono gli equilibri interni ed esterni all’Europa. L’impero
Ottomano intervenne anche in Medio Oriente, e furono coinvolti Giappone, Australia, Nuova Zelanda e
Sudafrica. Gli stati erano spinti da legami con il Regno Unito o con l’interesse a espellere la presenza tedesca
nelle loro aree. La partecipazione di alcuni paesi nel 1917 a fianco dell’Intesa fu determinante più su un
piano diplomatico.

Le colonie ebbero un ruolo fondamentale. Le società coloniali furono coinvolte in quanto parte dei sistemi
economici europei, come riserva di soldati o forza lavoro per attività di supporto del Regno Unito, uomini
indiani combatterono perlopiù su fronti extraeuropei. Sul territorio africano si combatterono i tedeschi

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contro l’esercito britannico, composto da coloni di diverse provenienze. Regno Unito e Francia puntarono ad
acquisire il Medio Oriente, libero dall’influenza dell’Impero Ottomano, secondo un accordo di spartizione
stipulato già durante la guerra. I paesi spesso incitavano i coloni degli altri paesi alla ribellione, ad esempio
l’impero ottomano spronava le colonie inglesi e francesi alla “guerra santa”.

La Grande Guerra ebbe delle conseguenze sull’integrazione economica, sancendo un allentamento della
globalizzazione. Molti paesi abbandonarono i gold standard, che garantivano la stabilità dei cambi fra le
valute, e si tornò al proibizionismo.

Il sistema finanziario, contribuì a orientare le sorti del conflitto. Il Regno Unito e la Germania garantivano
prestiti ai loro alleati; più tardi, i governi dell’Intesa poterono accedere ai mercati finanziari americani, che si
rivelò una risorsa determinante prima ancora dell’invio di soldati nel 1918. Inoltre, l’Intesa poté attingere
alle importazioni dagli Stati Uniti e dai paesi neutrali come l’America latina.

In questo contesto, l’Europa perse la sua centralità, anche a causa dei movimenti anticoloniali e
dell’anacronismo dello stato imperiale. Il progetto ampio degli Stati Uniti era di promuovere una profonda
rifondazione della politica internazionale, assumendosi la responsabilità globale. I Quattordici punti di
Wilson ponevano le basi per una pace duratura, attraverso alcuni punti chiave:

- L’autodeterminazione dei popoli;


- La rinuncia alla diplomazia segreta;
- Il disarmo generale;
- La rimozione delle barriere doganali;
- La creazione di un organismo internazionale per risolvere le controversie.

2.6: la rivoluzione russa:

Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, l’Impero zarista veniva da una fase di intensi cambiamenti. L’entrata
in guerra fu resa difficile dall’arretratezza degli armamenti e il cattivo equipaggiamento dei soldati. Vi fu un
numero elevatissimo di caduti (2milioni) e una diminuzione drastica della produzione agricola. Il dilagare di
scioperi e proteste vide un inasprimento del carattere dispotico dello zar. L’ingresso delle truppe tedesche
fece crollare la fiducia nelle autorità.

Nel febbraio (russo) del 1917 esplose un’insurrezione a Pietrogrado, che scatenò una diffusione di moti per
tutto l’impero. Lo zar abdicò e si ricostruirono i Soviet, e si formò un governo provvisorio, i “cadetti”,
espresso dal partito social-democratico. Furono introdotte delle riforme molto avanzate, fra cui l’abolizione
della censura di stato, il suffragio universale etc., ma il cambiamento poggiava su basi molto fragili. Al
governo “ufficiale” si opposero i Soviet, in cui prevalevano i menscevichi e i socialisti rivoluzionari.

Rientrato dall’esilio, Lenin enunciò un nuovo programma attraverso le Tesi di aprile, in cui affermava la
maturità per una vera rivoluzione socialista, con la quale i Soviet avrebbero avuto pieni poteri e la Russia
sarebbe riuscita dalla guerra. Il governo scatenò una repressione che colpì anche Lenin, ma si indebolì
sempre di più, a causa dei crescenti consensi dei bolscevichi e il sorgere di manacce zariste
controrivoluzionarie.

Il 25 ottobre, una mobilitazione promossa dai bolscevichi rovesciò il potere costituito e prese possesso del
Palazzo d’Inverno. Il nuovo governo, presieduto da Lenin, proclamò la pace, restituì le terre ai contadini,
istituì il controllo operaio sulle fabbriche, sancì il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Tuttavia, nelle
zone rurali, i bolscevichi non erano la forza maggioritaria. Lo scioglimento dell’assemblea costituente
(Duma) fu una prima manifestazione dell’intolleranza dei bolscevichi contro il pluralismo.

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L’armistizio firmato a Brest-Litovsk impose condizioni durissime, in particolare perdite territoriali. Si


consolidò il potere dei Soviet ma non iniziò un periodo di pace: l’ostilità verso i bolscevichi e l’intervento di
alcune potenze europee portò ad una guerra civile.

Oggi molti storici parlano di “processo”, che si concluse solo nel 1921, con l’affermazione del potere
bolscevico. La rivoluzione si situa in una più ampia catena di processi, a partire dalla complessa situazione
russa già da inizio secolo, all’effetto della militarizzazione della lotta politica innescato dalla prima guerra
mondiale.

In ogni caso, la nascita del primo stato socialista segnò profondamente i decenni successivi: in comunismo si
incarnava in uno stato, prospettando modelli economici e sociali che mettevano in discussione la
democrazia capitalistica.

CAP 3: LA CONVULSIONI DEL DOPOGUERRA:

3.1: i lasciti della guerra:

La prima guerra mondiale fu l’esito di processi avviati nei decenni precedenti:

- Il “popolo in armi” della Rivoluzione Francese, la mobilitazione di massa e patriottica;


- I processi di standardizzazione e uniformazione della rivoluzione industriale;
- Una brutalità attinta dalle pratiche dispiegate nelle guerre coloniali.

Nonostante ciò, la guerra fu un evento traumatico, che accelerò il passaggio di una mentalità improntata
alla modernità industriale. L’impatto psicologico e culturale fu reso attraverso il ricorso alla scrittura: le
società europee raccontarono se stesse. In Europa si diffuse l’ostilità tra i popoli, sia alleati sia ex-nemici.
Dall’altro lato, fu un evento omologante, che vide l’omogenizzazione di società e culture.

Eric Hobsbawm sostenne che la prima guerra mondiale avesse segnato una discontinuità nella storia
europea. Il Novecento, inteso come secolo con caratteri specifici, inizierebbe dolo la guerra, interpretazione
condivisa da molti storici.

La storia d’Europa del 1914-45 vede l’intrecciarsi di una grande complessità di eventi e processi, anche
fortemente contraddittori. Si diffusero ideologie e movimenti transnazionali, ad esempio il comunismo, ma
anche i fascismi e i nazionalismi autoritari. Lo scontro politico divenne sempre più ideologico, basato su
differenze tra sistemi di valori.

Alcuni storici definiscono il periodo tra le due guerre come “guerra civile europea”, sulla base della
numerosità, della radicalità e della violenza dei conflitti che ci furono. Tuttavia, gli eventi furono legati a
fenomeni molto diversi tra loro, non solo conflitti ideologici, ma anche obiettivi geopolitici e geoeconomici,
guerre etniche e espansioni territoriali.

Inoltre, questi anni videro dei processi di crescente partecipazione collettiva:

- Ampliamento diritto di voto;


- Espansione dello stato sociale;
- Crescita dei beni di consumo;
- Circolazione di informazioni.

3.2: l’Europa ridisegnata:

I Quattordici punti di Wilson e la rivoluzione Russa avevano prefigurato una rifondazione della politica
internazionale. Nella realtà, le posizioni wilsoniane furono accolte solo in parte e rifiutate dagli stessi Stati
Uniti, mentre la Russia bolscevica fu ostracizzata.

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Aperta il 28 gennaio 1919, ospitò un gran numero di leader politici di 27 nazioni. Non fu coinvolto il governo
bolscevico. Di fatto, gli Stati Uniti, il Regno Unito, Francia e Italia formarono un consiglio a quattro che prese
le decisioni più importanti. Wilson ambiva ad una “pace senza vincitori”, che arginasse il rischio di un nuovo
conflitto; Francia e regno Unito, invece, rivendicavano una più tradizionale pace punitiva per la Germania,
seppur manifestando una differenza reciproca. L’Italia era interessata ad incassare il dividendo bellico.

Vennero firmati alcuni trattati. Quelli di Versailles, stipulato con la Germania, si configurò come un diktat
imposto a costo dell’occupazione militare e del blocco economico. Esso prevedeva:

- La cessione del 13% del territorio: Alsazia e Lorena alla Francia, la ricostruzione della Polonia, la
privazione del “corridoio polacco” e della città si Danzica, la privazione delle colonie spartite tra le
potenze dell’Intesa.
- Pesanti riparazioni economiche e finanziarie;
- Il disarmo quasi completo: abolizione del servizio di leva, riduzione dell’esercito, etc.

Nacquero l’Austria, l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia. All’Italia non fu affidata la Dalmazia, che
portò all’immaginario di “vittoria mutilata”.

Nacque lo stato nazionale turco sulla penisola dell’Anatolia. La Repubblica Socialista Russa non fu
riconosciuta, anzi, furono incoraggiati i tentativi controrivoluzionari.

La Società delle Nazioni, costituita nel 1920 con sede a Ginevra, avrebbe dovuto garantire il rispetto dei
trattati e il mantenimento della pace attraverso l’arbitrato, conferenze internazionali e sanzioni economiche.
Tuttavia, essa nasceva minata in partenza, in questo escluse i pesi sconfitti, la Russia, e il Senato
statunitense non ratificò l’adesione degli Stati Uniti stessi, i quali si disimpegnarono dalle vicende europee
verso l’isolazionismo.

3.3: gli anni della violenza:

Successivamente alla pace di Parigi non si riuscirono ad evitare e rivendicazioni territoriali e il revanscismo 1
in quanto:

- Gli Stati Uniti si retrassero;


- La Germania fu umiliata;
- La Russia e gli sconfitti furono isolati;
- La divisione dei territori non fu sempre basata su un principio di nazionalità.

John Manyard Keynes, parte della delegazione britannica, disse profeticamente in “Le conseguenze
economiche della pace” (1919) che le condizioni punitive nei confronti della Germania ne avrebbero
fomentato lo spirito di rivalsa.

In questo caso nacquero molti movimenti che si appellavano all’idea di un’Europa unita, fra gli intellettuali,
uomini dell’economia e dell’industria, e politici di diverso orientamento, fra cui Filippo Turati in Italia.

Fra il 1918 e il 1923, si dispiegò un periodo di rivoluzioni controrivoluzioni, Pogrom, lotte per l’indipendenza.
Divenne centrale la violenza paramilitare, in gran parte formata da reduci del fronte. Queste violenze
caratterizzarono soprattutto i territori degli imperi sconfitti, ma anche l’Italia, il Regno Unito nel contesto
della questione irlandese.

George Mosse elaborò la tesi storiografica secondo cui l’esperienza del fronte portò a prolungare gli
atteggiamenti belligeranti anche in tempo di pace, tramite il cameratismo, la violenza e l’odio per il nemico.
La sensibilità di uomini e donne sarebbe stata incrinata a fronte di tanti anni di crudeltà e morte.

1 Tendenza di un paese a conseguire la rivincita per mezzo della guerra.

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Dopo la sconfitta militare della Turchia, il trattato di Sèvres riconobbe l’occupazione greca della Turchia e
delle regioni egee dell’Anatolia. Si affermò il movimento nazionalista di Ataturk, e seguirono tre anni di
combattimenti durissimi. L’assedio della città si Smirne (1922) e la presa di Istanbul segnarono la vittoria dei
turchi, sancita dal trattato di Losanna del 1923. Fu stabilito anche uno scambio di popolazione: i greci
lasciarono l’Anatolia e i Turchi tornarono in patria, secondo i progetti di “pulizia etnica” perseguiti a partire
dal genocidio armeno.

Da decenni l’Irlanda era attraversata da violenti indipendentismi, complicati dai contrasti tra la maggioranza
cattolica e la minoranza protestante dell’Irlanda del Nord.

- 1916: la rivolta scoppiata a Dublino culminò nella proclamazione dell’indipendenza. In una


settimana di duri scontri, l’esercito britannico ristabilì il predominio.
- 1918: il movimento indipendentista Sinn Féin proclamò l’indipendenza
- 1919-21: si combatté una guerra civile fra le forze paramilitari indipendentiste e le forze britanniche,
alla fine della quale si istituì lo Stato libero d’Irlanda, dominio dell’Impero britannico.
- 1922-23: si combatté una sanguinosa guerra civile fra i favorevoli all’accordo e gli oltranzisti che
rivendicavano l’integrità territoriale e la piena indipendenza.

3.4: rivoluzione e controrivoluzione:

Molti scontri e violenze post bellici nascevano dall’ideale di una rivoluzione sociopolitica capace di
trasformare radicalmente l’assetto dei poteri pubblici. La guerra aveva radicalmente trasformato i regimi
politici: prima, quasi tutti gli Stati (tranne Francia, Svizzera e Portogallo) erano retti da monarchie ereditarie;
dopo la guerra, tutti tranne la Russia erano passati a regimi parlamentari, con un netto declino della forma
monarchica. Gran parte dell’Europa vide l’allargamento della partecipazione democratica e politiche sociali
nuove. Tuttavia, il quadro politico-sociale era altamente instabile.

L’ascesa dei partiti socialisti e dei sindacati, unita ad aspirazioni più radicali sul modello della Rivoluzione
russa portarono a un’ondata di lotte operaie e contadine. Il modello russo era percepito come una minaccia
da altri fasci della popolazione, e le spinte rivoluzionarie furono soppresse con formazioni paramilitari (ad
esempio i Freikorps o il partito milizia).

Durante la “guerra civile russa” si sovrapposero vari conflitti:

- L’Armata Rossa del governo bolscevico contro gli avversari controrivoluzionari, i “bianchi”. Nel 1920
vinsero i bolscevichi, grazie alle debolezze dei Bianchi, male organizzati e malvoluti dai contadini;
- Le spinte indipendentiste ai confini dell’impero;
- Le insurrezioni contadine in reazione alle requisizioni forzate;
- La presenza di truppe dell’Intesa mandate a presidiare i punti di accesso al paese;
- L’attacco della polonia dopo la fine della guerra, che riuscì a rivendicare alcune aspirazioni
territoriali.

Il governo bolscevico rinunciò all’antimilitarismo, ai progetti di autogoverno popolare e alla centralità dei
Soviet. Il potere politico fu sempre più accentrato nel Partito Comunista, che perseguiva gli avversari politici
con la Ceka (polizia politica) e la reintroduzione della pena di morte. In campo economico, fu attuato il
“comunismo di guerra”, che prevedeva requisizioni forzate di prodotti agricoli, la nazionalizzazione
dell’industria e un rigoroso controllo delle fabbriche.

In Germania nel 1918 operai e soldati, sull’esempio dei Soviet, diedero vita a rivolte di carattere
rivoluzionario. Fu proclamata la Repubblica guidata dai socialdemocratici antirivoluzionari che vinsero le
elezioni. Le correnti più radicali, guidati dalla Lega di Spartaco, incitarono i lavoratori di Berlino a rovesciare
il governo, che reagì in modo durissimo anche avvalendosi dei Freikorps, squadre di volontari guidate da

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nazionalisti e conservatori. Fu proclamata la Repubblica di Weimar, che aveva una struttura democratica
avanzata. Iniziarono a costituirsi le prime minacce alla democrazia dall’estrema destra.

In Austria e Ungheria ci furono episodi simili che furono repressi.

In spagna, tra il 1918 e il 1920, vari conflitti si diffusero fra cui quelli in Catalogna, repressi sanguinosamente
dalle forze di polizia. (triennio bolscevico spagnolo).

In Italia l’avanzata dei socialisti fu accompagnata da scioperi e proteste che culminarono nell’occupazione di
grandi fabbriche. Tuttavia la maggioranza dei socialisti era di orientamento riformista. Il sentimento di paura
e il desiderio di rivalsa furono i presupposti della nascita dei Fasci di Combattimento, fondati nel 1919 da
Benito Mussolini, ex leader socialista. Si fecero interpreti anche della “vittoria mutilata”. Costituirono un
modello di “partito milizia” minuto di squadre paramilitari: un esempio rilevante di brutalizzazione e
militarizzazione della politica.

L’idea di esportazione della rivoluzione si incanalò a Mosca nella costituzione dell’Internazionale comunista,
per coordinare gli sforzi dei partiti rivoluzionari di tutto il mondo.

3.5: l’Europa nel mondo:

Si interruppe il processo di integrazione economica e aumentarono le barriere al commercio, causando un


rollo degli scambi e della circolazione finanziaria europea. I paesi rimasti neutrali, in alcuni casi, rafforzarono
la loro posizione nel sistema economico internazionale, ad esempio il Giappone e l’India che fornivano
risorse all’esercito russo e agli inglesi. Il crollo dell’agricoltura favorì le importazioni, anche di materie prime
per l’industria.

Da un punto di vista industriale, gli Stati Uniti divennero il baricentro del sistema produttivo mondiale,
commerciale e finanziario: durante la guerra il PIL aumentò del 15% (mentre quello europeo si contrasse del
10%). Le esportazioni di armi e forniture verso gli alleati crebbero esponenzialmente, rendendo gli Stati
Uniti i maggiori finanziatori dello schieramento vittorioso.

La finanza americana divenne il centro della circolazione di capitali internazionali, e il dollaro divenne la
valuta più potente. La restituzione dei prestiti agli Stati Uniti passò per l’incasso delle riparazioni dalla
Germania.

La potenza degli Stati Uniti si manifestò anche attraverso l’esportazione di un nuovo modello di società,
basato sulla catena di montaggio, il jazz, Hollywood, le catene di negozi, un nuovo sistema di consumi di
mass legato a un’idea di benessere diffuso.

Si modificarono le carte politiche dell’Africa, dell’Asia orientale, dei confini mediorientali. Si incrinarono i
legami coloniali. Le colonie avevano sostenuto enormi sacrifici e il dominio coloniale appariva poco
legittimo. La diffusione di propaganda anticoloniale era stata attuata dalle stesse potenze europee, per
indebolire le colonie altrui. La società delle nazioni introdusse l’istituto del mandato, che prevedeva
l’istituzione di stati formalmente indipendenti, sottoposti al controllo delle potenze europee, che ne
dovevano garantire il benessere e lo sviluppo.

In Medioriente, l’accordo di Sykes-Picot avrebbe condizionato profondamente le vicende di quei territori. Si


organizzarono movimenti anticoloniali influenzati dalle teorie nazionaliste, che videro crescere il consenso.

L’Europa fu portata a riflettere sul suo posto nel mondo, con un prevalere di disincanto e pessimismo. La
perdita di forza economica e politica era accompagnata dal timore del declino demografico, a causa di un
milione di morti e dell’aumento dei divorzi, espresso da “La minaccia della culla vuota” di Bernard Vaughan.
“Il tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler vedeva nell’eredità della guerra l’inizio di un’irreversibile
decadenza della civiltà europea.

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3.6: una società in movimento:

Per l’elaborazione dei lutti furono adottate numerose pratiche pubbliche, come la commemorazione dei
morti attraverso riti e cimiteri militari.

La guerra aveva richiesto una vasta mobilitazione di risorse, che sfociò nel debito pubblico e nell’impennata
dell’inflazione. Dilagò la disoccupazione dei soldati rientrati, che faticavano a reinserirsi nella società. La
frammentazione del territorio europeo significava nuovi confini, sistemi di scambio, dogane, apparati
ammnistrativi e produttivi spesso inadeguati.

Nonostante tutto, le masse uscirono dalla guerra con una nuova consapevolezza, soprattutto dei propri
diritti, rivendicati ella fine della guerra o nell’attesa della rivoluzione. L’ingresso delle donne nel mondo del
lavoro e l’indipendenza delle stesse e dei giovani dai padri mise in crisi l’immagine della famiglia patriarcale.
La gioventù, che accolse le mode importate dagli Stati Uniti, si riconosceva come un mondo a part. La
politica rifletté questi cambiamenti con la nascita di movimenti femministi, il suffragio femminile e
movimenti che esaltavano il protagonismo dei giovani. Le destre e la Chiesa si fecero interpreti
dell’opposizione a questi cambiamenti.

CAP 4: VERSO UNA STABILIZZAZIONE:

4.1: Germania 1923:

Nella maggior parte dei paesi, le convulsioni e i conflitti del dopoguerra erano riassorbiti. In Germania,
tuttavia, si rivelarono più persistenti. Il pagamento delle riparazioni fu affrontato stampando nuova moneta.

L’estrema destra nazionalista tentò di cavalcare i risentimenti soprattutto per le perdite territoriali
denunciando un tradimento di una parte di una società, che si era piegata alle imposizioni dei vincitori. La
Repubblica fu discreditata e i gruppi dell’estrema destra (tra cui la NSDAP di Hitler) scagliarono un’offensiva
contro la classe dirigente, accusata di essere il risultato di un complotto di matrice ebraica e bolscevica. Vi
furono omicidi e tentativi di colpo di stato, in particolare in Baviera dopo l’ordine della fine della resistenza
passiva all’invasione della Ruhr, ma i promotori, fra cui Hitler, furono arrestati.

Nel 1923, in risposta al mancato pagamento delle ripartizioni, Francia e Belgio occuparono la regione
industrializzata della Ruhr, che causò il definitivo tracollo del sistema finanziario tedesco. L’inflazione fuori
controllo vide i prezzi anche triplicarsi nel giro di una settimana. Il cancelliere Stresermann, che avrebbe poi
incarnato la politica di distensione con la Francia, ordinò la fine della resistenza passiva.

Si tentò di contenere l’inflazione riducendo i consumi con tagli alla spesa pubblica e aumento delle tasse,
introducendo il “marco di rendita”. Nel 1924 si elaborò il Piano Dawes, che prevedeva di dilazionare nel
tempo il pagamento delle riparazioni e di favorire l’erogazione di prestiti per la Germania. Si superarono coì
le principali contraddizioni degli accordi di pace, e si distesero i rapporti tra Germania e Francia. Ian Kershaw
dipinse le prospettive più brillanti dell’Europa di quanto lo fossero state per più di un decennio.

4.2: la crescita economica:

A metà degli anni 20, l’economia europea vide la crescita della produzione industriale e agricola, e
l’aumento degli scambi fra nazioni ed esportazioni. Tuttavia, erano presenti forti squilibri fra le nazioni, che
si distinsero in diversi modelli strutturali in relazione all’importanza dei settori primario, secondario e
terziario:

1. Paesi maggiormente industrializzati (UK, Belgio, Svizzera, Germania e Olanda) vedevano la maggior
parte della forza lavoro impegnata dall’industria e in parte dai servizi;

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2. La Francia, la Cecoslovacchia, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia erano invece sulla strada
dell’industrializzazione, che tuttavia aveva lo stesso peso dell’economia. La Francia aveva nuclei
manifatturieri più avanzati.
3. Gli altri Paesi, fra cui l’Italia, registravano una spiccata prevalenza dell’agricoltura, anche se in alcuni
paesi vigevano sistemi fi agricoltura estensiva a più bassa produttività rispetto ad altri.

Nel 1924 la maggior parte dei Paesi rientrò nel golden standard, sistema monetario basato su cambi fissi e
sulla convertibilità delle valute in oro.

La stabilizzazione dei mercati e delle relazioni sociali fu incoraggiata dall’implementazione di politiche di


intervento pubblico, sul modello di quelle sperimentate durante la guerra, creando una forma di
“capitalismo organizzato”. Facevano eccezione gli stati dell’Europa centro-orientale, i cui fragili apparati
amministrativi dovevano fare i conti con una limitata autonomia economica.

Gli Stati Uniti influenzarono nell’economia europea:

- I consumi: nei paesi ad alto reddito la crescita fu trainata anche dai consumi, uno dei principali
canali in cui si espresse l’influenza degli Stati Uniti sull’economia. Arrivarono l’automobile e gli
elettrodomestici, la pubblicità e i grandi magazzini.
- I sistemi produttivi: la catena di montaggio del fordismo e la parcellizzazione delle operazioni
lavorative del taylorismo trasformarono i sistemi produttivi.
- I capitali americani: il trasferimento dei capitali americani divenne un punto di riferimento per le
prospettive di crescita del continente europeo.

D’altra parte, la linea isolazionista intrapresa dagli USA era accompagnata da una chiusura del mercato
interno, con l’approvazione di dazi doganali e forti restrizioni all’immigrazione.

L’aumento della capacità produttiva del campo agricolo e industriale rese le potenze extraeuropee
importanti nel commercio globale.

4.3: la ricerca della distensione:

L’uscita dalla crisi tedesca portò all’avvio di una fase di distensione con la Francia su iniziativa di Stresemann,
ministro degli Esteri fino alla sua morte, e di Briand, ministro degli Esteri francese. Il governo tedesco si
convinse che i problemi venissero dalle perdite territoriali a Est, in particolare in Polonia; i buoni rapporti
con le potenze occidentali erano cruciali per ridiscutere in futuro questi confini. Insieme a Regno Unito e
Italia, nel 1925 si organizzò una conferenza a Locarno. Vari accordi furono firmati in quell’occasione:

- Riconoscimento delle frontiere comuni fra Francia, Germania e Belgio tracciate a Versailles, di cui
Italia e Regno Unito si facevano garanti;
- Risoluzione delle divergenze fra Germania, Polonia e Cecoslovacchia attraverso convenzioni di
arbitrio.

Un’altra manifestazione del clima di distensione il patto Briand-Kellog, si manifestò nel 1928, in cui i
rappresentanti di quindici nazioni europee si impegnarono a rinunciare alla guerra per risolvere le
controversie internazionali. L’atto era impegnativo, ma dal valore puramente simbolico.

Locarno previde accordi fra le maggiori potenze, come era solito nella politica estera tradizionale.
L’universalismo wilsoniano e la Società delle Nazioni non avevano preso piede, la Germania entrò nella
società delle nazioni a titolo pressoché simbolico. Fallì il progetto di Briand di dare vita a una Unione
Federale Europea.

4.4: il fascismo e l’ondata autoritaria:

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Se alla fine della guerra era sembrato aprirsi un trionfo del liberalismo e della democrazia, pochi anni dopo,
la maggioranza dell’Europa meridionale vide l’instaurarsi di regimi autoritari o di governi chiusi al
pluralismo.

Nel 1922, Benito Mussolini guidò migliaia di miliziani armati, le camicie nere, a marciare su Roma, e il re
Vittorio Emanuele III gli affidò il governo. Mussolini era il leader del Partito Nazionale Fascista, evoluzione
dei Fasci di combattimento. Un’iniziale continuità istituzionale fu sostituita da elementi di rottura e violenza.
L’ascesa del fascismo era stata già accompagnata da violenze contro gli avversari che non furono
adeguatamente condannate.

Superate le proteste generate dal delitto Matteotti, il governo, sotto la guida carismatica di Mussolini, passò
delle leggi che sancivano la fine dello stato liberale:

- Rafforzamento dei poteri di forza della polizia;


- Riduzione della libertà di associazione e di stampa;
- Soppressione dei partiti di opposizione;
- Presenza radicata di un partito unico strutturato e militarizzato, che sostituiva lo stato;
- Ufficializzazione del Gran Consiglio del fascismo come organo costituzionale del Regno d’Italia.

Il partito unico era parte di una rete di organizzazioni e attività che investivano ogni ambito della sfera
pubblica e condizionavano quella privata, coinvolgendo vasti settori della popolazione. L’obiettivo sociale
era di conformare gli italiani al prototipo del “perfetto fascista”. L’apparato propagandistico, l’intervento
dell’economia, le istituzioni corporative che miravano a superare il conflitto di classe caratterizzarono un
regime innovativo. L’ordine e la gerarchia erano celebrati. Il fascismo accettò la modernità industriale,
mantenendo legami con i maggiori gruppi industriali, con l’esercito e con la chiesa cattolica.

Le rispettose soluzioni diplomatiche non nascosero l’intenzione di potenziare il ruolo dell’Italia, in


particolare nei Balcani. Il fascismo voleva apportare una svolta nella politica europea che riaffermasse il
valore positivo della gerarchia e dell’autorità.

Negli stati più arretrati dell’Europa centro-orientale, con deboli radici democratiche e spaccature
ideologiche e di integrazione nazionale, si affermarono regimi autoritari e conservatori. Tuttavia, essi erano
di stampo più tradizionale rispetto al fascismo italiano. Furono restaurate le tradizionali gerarchie sociali, e
gli altri partiti non furono eliminati bensì ridimensionati, repressi con formazioni paramilitari. Gli stati
intermedi della popolazione non furono coinvolti.

- In Spagna, nel 1923 un colpo di stato portò al potere il generale Miguel Primo de Rivera;
- In Portogallo, nel 1926 si impose la dittatura militare di Antonio Oliveira Salazar;
- In Ungheria prese il potere l’ammiraglio Miklos Horthy;
- In Bulgaria un colpo di stato militare portò il potere nelle mani di generali golpisti;
- In Polonia prese il potere il generale Jozef Piludski;
- In Lituania ci fu un colpo di stato attuato dalle forze antisovietiche
- In Albania Zogu si fece proclamare re
- In Grecia si succedettero colpi di stato militari;
- Nel Regno dei Serbi, il re instaurò una dittatura personale.

4.5: le democrazie:

La democrazia liberale rimase concentrata pressoché solo nell’Europa settentrionale e occidentale. Tuttavia,
anche in questi paesi la situazione non corrispondeva alle aspettative del dopoguerra.

L’ascesa dell’estrema destra in primo luogo vide la politicizzazione delle masse e lo spazio per la
mobilitazione favorì il sorgere di gruppi politici antisistema, in particolare appartenenti all’estrema destra

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più che alle formazioni comuniste. Molti gruppi si chiamarono Fascisti: i British Fascist inglesi, Le Faisceau
francese, e i nazionalsocialisti guidati da Hitler in Germania. Questi gruppi raggiunsero consensi ma fino agli
anni ’30 rimasero in una posizione marginale.

Il modello della democrazia sociale faticò a trovare piena realizzazione, nonostante fosse tradotto in norme
costituzionali in tutte le maggiori democrazie. Tuttavia, negli anni ’20, si assistette a una riscossa delle forze
conservatrici e tradizionali.

Nel Regno Unito i conservatori furono ininterrottamente al potere, praticando una politica di rigore
finanziario.

In Francia, il governo era sempre in mano alle forze moderate, le cui politiche fecero ricadere il peso sui
redditi delle classi popolari.

In Germania, la preminenza dei socialdemocratici cedette il passo a indirizzi di governo moderati e


conservatori. Era ancora forte il legame con l’Impero Guglielmino. Le politiche sociali furono contemperate
da una politica economica favorevole alla grande industria.

4.6: la rivoluzione in un paese solo:

Ovunque si arrestò l’espansione dei partiti di sinistra, sia a causa delle svolte autoritarie di destra, sia per la
frattura creatasi tra socialisti, sostenitori di una linea riformista, e comunisti, che traevano ispirazione dalla
rivoluzione russa. I socialisti furono relegati all’opposizione, e i comunisti videro tramontare la concreta
prospettiva di una rivoluzione in tempi brevi.

La Russia, devastata dalla guerra civile, era fortemente provata dalle ristrettezze dovute al comunismo di
guerra. Nel 1921, una carestia provocò la morte di 5 milioni di persone. Il dissenso era sempre più vasto, ma
le ribellioni furono duramente represse. In risposta, i bolscevichi vararono la Nuova politica economica, che
concesse una parziale liberalizzazione della produzione e degli scambi. La produzione agricola aumentò e
crebbe la produttività nella piccola industria, mentre le imprese statali faticavano a riprendersi. Ad
avvantaggiarsene furono principalmente i kulaki, i contadini più agiati. A dispetto degli irrigidimenti
autoritari, gli anni della NEP videro una modernizzazione della società, grazie anche a politiche di parità di
genere, di laicizzazione della società, di lotta all’analfabetismo.

Con il divieto di formare correnti organizzate dentro al partito, la Russia e le altre province dell’ex Impero
prese il nome di RUSS, entità statale il cui potere era centralizzato nel partito comunista a discapito della
popolazione. Furono rafforzate le misure contro gli oppositori.

Nel 1924 morì Lenin, e si aprì una dura lotta per la successione. Si impose Stalin, il segretario del partito, la
cui visione corrispondeva a una concrezione autoritaria e centralizzata del potere politico. Stalin cambiò
anche la proiezione eterna dell’URSS, sostenendo la dottrina del “socialismo di un paese solo”, che si
concretizzò in discorsi patriottici e una parziale ripresa dei rapporti internazionali.

CAP 5: LA CRISI DEL CAPITALISMO:

5.1: il crollo:

Il 24 ottobre 1929, che passerà ala storia come “giovedì nero”, un’ondata di vendite fece crollare il valore
delle azioni di Wall Street. Grandi istituti finanziari subirono grandi perdite e piccoli risparmiatori finirono sul
lastrico. I risparmiatori ritirarono i loro depositi, le anche chiesero il pagamento dei prestiti. L’economia
reale subì i colpi di un effetto domino di eventi: la riduzione dei capitali e dei consumi influenzò le imprese;
la diminuzione delle vendite anche di fronte ai licenziamenti determinò un calo della produzione.

L’alto grado di interconnessione fece sì che il crollo colpì tutto il mondo industrializzato. I segnali
dell’esaurimento del ciclo di crescita dell’economia erano già riscontrabili da prima: le nuove modalità di

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produzione industriale avevano provocato un aumento della produzione a scapito della minore capacità di
aumento dei mercati. Il boom azionario aveva fatto sembrare scongiurare la possibilità di una
sovrapproduzione, ma non fu così: si formò una “bolla” nell’economia americana che influenzò
profondamente l’Europa.

Il flusso di capitali americani incoraggiato dal piano Dawes legava l’economia europea a quella statunitense.
Nel 1923, l’Europa toccò il picco negativo della produzione. I paesi impegnarono tempi diversi per
riprendersi:

- Quelli sconfitti dalla prima guerra mondiale, fra cui Germania e Austria, videro una contrazione del
PIL anche del 25%. La Germania vide tassi di disoccupazione anche del 40%. La società tedesca
venne profondamente destabilizzata, poiché già si reggeva su un sistema politico fragile di
consenso.
- Altre economie, come Francia, Belgio e Olanda, videro una contrazione minore. La Francia fu meno
duramente colpita ma la crisi si trascinò più a lungo.
- Alcuni paesi, di ridotte dimensioni o periferici, non risentirono troppo della crisi, come Regno Unito
e Italia venivano da una crescita già piuttosto frenata.
- Alcuni paesi, fra cui l’URSS, non subirono quasi alcuna perdita. Questa “vittoria” simboleggiava la
superiorità e la maggiore stabilità del modello socialista rispetto al capitalismo.

Furono molto colpite le banche miste, che avevano elargito prestiti a lungo termine e detenevano azioni. In
Austria, fallirono le prime due banche; in Germania, si verificarono una serie di crolli che investirono gran
parte del sistema bancario nazionale. In tutta Europa, l’intervento statale fu necessario per salvare le
banche.

Le banche centrali dovettero intervenire ricorrendo alle proprie riserve auree. Barry Eichengreen ritenne
che la crisi esacerbata dalla coesistenza della rigidità del gold standard e gli squilibri ereditati dalla guerra,
che invece avrebbero beneficiato di politiche flessibili ad hoc.

5.2: disoccupazione e povertà:

Ci fu un diffuso peggioramento delle condizioni di vita, a seguito di una crisi senza precedenti. La
disoccupazione toccò tutti i settori dell’economia, più duramente sulle classi meno abbienti, sui giovani,
sugli anziani e sulle donne. Tornò a crescere la povertà, peggiorarono i regimi alimentari, le cure sanitarie,
crollò il tasso di natalità. Si verificarono molte migrazioni interne, verso le maggiori città o verso le
campagne.

Un’indagine sistematica condotta da un gruppo di sociologi a Marienthal, vicino Vienna, descrisse le


condizioni di svuotamento di senso, disincanto, passività, estraneità dalla vita sociale, famiglie che si
disgregarono, disperazione.

5.3: la frammentazione del mercato internazionale:

L’integrazione arretrò notevolmente, e molti stati imposero politiche protezionistiche, attraverso un sistema
di contingentamenti, l’aumento dei dazi doganali, sistemi di clearing. L’obiettivo era mettersi al riparo dalla
concorrenza estera e dalle fluttuazioni.

Il volume degli scambi mondiali si ridusse a un quarto del suo volume prima della crisi. Chiudendo i mercati,
si scaricavano gli effetti della crisi sui produttori delle altre nazioni. Gli scambi multilaterali si dissolsero a
favore dei più fluttuanti scambi bilaterali. I flussi dei capitali si contrassero, in particolare quelli provenienti
dagli Stati Uniti: fu decretata una moratoria nei confronti della Germania (che penalizzò tuttavia i paesi che
ricevevano una quota dei pagamenti tedeschi) e cessò quasi completamente l’emissione di prestiti esteri. In
questo modo, gli Stati Uniti si misero in una posizione di isolazionismo finanziario.

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Nel 1931, il Regno Unito uscì dal gold standard e svalutò la sterlina, per rendere più economiche le proprie
merci all’estero. Si innescò una reazione a catena, per cui anche gli altri paesi abbandonarono il gold
standard: gli utili ad uscire furono i paesi del “blocco dell’oro” che resistettero ancora alcuni anni. Inoltre,
molto paesi introdussero controlli sulle quotazioni della moneta, per difendersi dalle fluttuazioni del
mercato internazionali.

La tendenza dominante fu quella di ridurre i rapporti con gli altri paesi. Fallirono i tentativi di stabilire regole
comuni, ad esempio attraverso la Conferenza nazionale sui problemi monetari del 1933. Le economie più
avanzate formarono dei blocchi commerciali chiusi, che spesso si costituirono intorno alle strutture
imperiali. L’impero britannico e francese rafforzarono i legami con i loro domini d’oltremare, lanciando
programmi per sfruttare le risorse, spesso in modo “ineguale”, per cui si acquistavano materie prime a
prezzi vantaggiosi in cambio di prodotti industriali e servizi venduti al riparo della concorrenza.

Una tesi ampiamente condivisa dagli storici vede la frammentazione del mercato mondiale come
conseguenza dell’assenza di un leader dotato di forza finanziaria, ruolo precedentemente ricoperto dal
Regno Unito. Gli USA erano riluttanti ad assumersi la responsabilità della loro posizione. Secondo alcuni
storici, gli Stati Uniti non erano comunque dotati di mezzi finanziari adeguati, nonostante la forza acquisita.

5.4: le prime proposte dei governi: nel solco della tradizione:

la chiusura commerciale non riuscì a rilanciare la produzione, anzi, ebbe l’effetto contrario. I governi
nazionali seguirono politiche economiche interne analoghe: non furono pianificati interventi statali. Le
finanze pubbliche erano troppo fragili, a causa del calo delle entrate e delle risorse investite nei salvataggi
bancari. Inoltre, era ancora vigente una mentalità ancorata ad una cultura economica ortodossa, che
privilegiava l’iniziativa privata e prevedeva per lo stato poco intervento economico. La crisi del dopoguerra
aveva gettato luce negativa sui progetti di interventismo economico sperimentati nella prima guerra
mondiale.

I governi optarono per politiche deflazionistiche e di austerità, mirate a mantenere il pareggio del bilancio
attraverso il taglio della spesa pubblica, licenziamenti e riduzione degli investimenti. Tuttavia, queste
politiche inasprirono la situazione, mentre la svalutazione della sterlina aveva permesso al Regno Unito un
importante margine di flessibilità in più.

Gradualmente, divenne evidente che l’autoregolazione del mercato non fosse una strategia efficace. A
partire dal 1932, molti governi iniziarono a sperimentare l’intervento statale e l’aumento della spesa
pubblica. L’obiettivo era aumentare i salari e quindi i consumi, per incoraggiare le imprese ad investire,
spronando un circolo vizioso. L’idea del “moltiplicatore”, la moltiplicazione degli effetti dell’intervento
pubblico sull’economia privata, fu messa a punto dall’economista John Maynard Keynes, fondata
dell’intervento pubblico a sostegno della domanda interna.

5.5: la ricerca di un New Deal europeo:

l’applicazione più rilevante del keynesismo avvenne nel 1932 con il New Deal promosso dal presidente
Roosevelt, che consisteva in un pacchetto di riforme che intervenivano su tutti i settori della produzione.

Le maggiori potenze economiche seguirono una strada simile:

- La Germania richiese interventi energici: il governo cattolico conservatore varò un programma di


creazione di impieghi. Fu solo dal 1933, con l’ascesa dei nazionalsocialisti, che si ebbe la svolta: il
sistema bancario fu sottoposto al controllo statale, l’agricoltura riorganizzata secondo un piano
nazionale, e si avviarono programmi statali per le infrastrutture e non solo.
- L’Italia fascista vide l’aggregazione di molti settori del capitale azionario nazionale dell’IRI (istituto
per la ricostruzione industriale), il principale gruppo finanziario e industriale del paese.

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- Il Regno Unito, dopo l’uscita dal gold standard, finanziò opere pubbliche.
- La Francia fu lenta nello sganciarsi dall’ortodossia monetaria, che perpetuò la crisi a lungo. Fu solo
con la vittoria elettorale del Fronte Popolare nel 1936 e l’uscita dal gold standard che una serie di
riforme a orientamento progressista migliorarono le condizioni economiche.
- I piccoli paesi del nord Europa, fra cui la Svezia, seguirono una strada molto simile, gettando le basi
per un modello avanzato di welfare state.
- I paesi dell’est Europa erano ancora alle prese con l’arretratezza strutturale dell’apparato produttivo.

È interessante notare che sia le democrazie che i regimi autoritari fecero scelte economiche piuttosto simili.
L’idea è che le soluzioni sperimentate nei vari paesi fossero applicabili a tutte le economie di mercato. Il
New Deal statunitense divenne un importante mezzo di confronto. Il capitalismo assunse dei connotati che
lo avrebbero caratterizzato pressoché fino agli anni ’70.

Fu centrale il confronto con l’URSS, la quale non fu toccata dalla crisi e anzi, destava ammirazione per
l’espansione dell’industria pesante e la capacità del sistema di rimanere immune al disordine del mercato
internazionale.

Una parte della popolazione che non fu eccessivamente penalizzata dalla crisi visse importanti cambiamenti
e nuove opportunità:

- Il processo di urbanizzazione accelerò;


- Si espanse la classe media con la crescita del settore dei servizi;
- Calarono i prezzi dei beni agricoli, permettendo di destinare maggiori risorse a consumi non primari;
- Si svilupparono i mezzi di comunicazione di massa, come la radio e il cinematografo, che fornirono
una vetrina per un diverso modelli di vita e furono all’origine delle prime forme di
spettacolarizzazione della politica;
- Si sperimentarono abitudini, stili di vita, pratiche e mentalità che sarebbero diventati centrali in
seguito.

CAP 6: LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA E DEGLI EQUILIBRI INTERNAZIONALI:

6.1: la democrazia sotto assedio:

Se inizialmente il dilagare di sistemi sembrava essere una conseguenza temporale all’immaturità dei nuovi
stati europei e ai lasciti della guerra, con la depressione economica, divenne un problema strutturale. In altri
nove stati europei si incrinò la democrazia, che sopravviveva solo nel Regno Unito, in Francia, in Belgio, in
Olanda e in Svizzera.

Le turbolenze del dopoguerra e la crisi del 1929 generarono un’ampia disattenzione per le istituzioni, per la
democrazia e il sistema parlamentare. Le “democrazie dei partiti” mostrarono dei seri limiti:

- La maggiore partecipazione si tradusse in una molteplicità di formazioni politiche, la cui


frammentazione rendeva difficile il raggiungimento delle maggioranze. In un periodo in cui era
richiesta un’azione rapida e incisiva, i governi dovettero ricorrere a lunghe mediazioni in coalizioni
larghe ed eterogenee
- L’ideologizzazione della lotta politica significava scontri sui principi alla base dell’organizzazione
sociale: capitalismo vs. comunismo, riformismo e conservazione, democrazia e autoritarismo,
distensione ed espansione.

La dialettica politica conflittuale sembrava rispondere più alle logiche interne dei gruppi dirigenti che alle
esigenze concrete della popolazione. Il fascismo e il comunismo sembravano proporre un sistema politico
coeso, lontano dalle lungaggini delle mediazioni fra governo, parlamento, burocrazia e magistratura, nonché
fra gli stessi partiti e coalizioni. Essi promettevano di guarire i mali del capitalismo con un “uovo ordine”

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affermato in modo incisivo, il quale mette in primo piano gli interessi nazionali e sacrifica la libertà alla
sicurezza. Anche nelle grandi democrazie, i partiti antisistema conquistarono sempre più adesioni.

6.2: la Germania nazista e l’Italia fascista:

In Germania, il Partito nazionalsocialista dei lavoratori di Hitler ottenne il 38% dei voti nel 1932. La fragilità
politica tedesca spinse il presidente della Repubblica ad affidare ad Hitler, nel 1933, l’incarico di guidare un
nuovo governo di coalizione. L’ascesa derivava da molteplici fattori:

- Effetti della depressione sul piano sociale;


- L’efficacia del discorso ideologico di Hitler;
- Una rinnovata frustrazione per l’umiliazione del Diktat
- Le debolezze di fondo della Repubblica di Weimar.

Un incendio alla sede del parlamento nel 1933, attribuito a un olandese comunista, fu il pretesto per
sospendere la libertà di stampa e di associazione, e arrestare i comunisti. In meno di due anni, Hitler diede
vita al Terzo Reich. Fra il 1933 e il 1934 il governo approvò una serie di leggi che demolirono la democrazia:

- Furono sciolti tutti i partiti;


- Fu eliminata la divisione dei poteri a vantaggio di un assetto centralista;
- La carica del capo di governo fu fusa con quella del presidente della repubblica, dando più potere
ad Hitler che si fece chiamare Fuhrer;
- Hitler prese pieno controllo delle squadre paramilitari, le Squadre di Sicurezza e la Squadre
d’Assalto: i dirigenti di queste furono uccise ne “la notte dei lunghi coltelli”;
- Venne reintrodotta la pena di morte;
- Furono aperti i primi campi di concentramento per gli avversari politici: il primo fu quello di Dachau.

Si diede vita ad un ampio sistema associativo, per diffondere idee e comportamenti in linea con il nazismo.

Si diede vita ad un vasto sistema propagandistico, gestito da Joseph Goebbles.

Il Terzo Reich era caratterizzato da apparati profondamente difformi. Le strutture dello Stato si
sovrapponevano a quelle del partito, delle organizzazioni dipendenti e quelle paramilitari. Il caos dei poteri
poteva essere risolto solo dalla decisione del Fuhrer. Il dualismo stato-partito rimase irrisolvibile.

L’obiettivo dello stato era di sovrintendere la creazione di una comunità nazionale di “veri” tedeschi, fondata
su gerarchie rigide e omologanti. I bisogni dell’individuo erano fortemente subordinati a quelli della
collettività. Chi non era un “vero” tedesco o praticava pratiche “indegne” andava espulso dalla società.
L’omogeneità aveva una connotazione fortemente biologica: il razzismo era alla base dell’ideologia nazista.
Fra le razze, gli ebrei erano quella inferiore e più pericolosa per il loro gran numero sul suolo tedesco. Il
popolo tedesco doveva essere tenuto lontano dalle “contaminazione”, per aumentare la propria forza
biologica complessiva ed essere pronto per entrare in guerra. Nel 1933 furono varate le prime misure di
persecuzione degli ebrei e programmi di sterilizzazione per i gruppi sociali che minavano l’”igiene razziale”.

Sul modello del fascismo, Hitler voleva assorbire la società nelle strutture sociali, per cambiare la mentalità
degli individui. Ricorse altresì alla repressione sistemica dei dissidenti e all’integrazione forzata nelle reti
associative.

L’intervento statale, attraverso il varo di un piano quadriennale, riorientò la produzione alle esigenze
belliche e favorì il calo della disoccupazione e un rafforzamento dell’economia. Non vi furono sostanziali
miglioramenti nelle condizioni di vita delle persone.

Hitler dichiarò sistematicamente di aver tratto insegnamento dall’esperienza italiana. Tuttavia, vi erano
alcune rilevanti differenze:

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- Il nazismo era più repressivo, feroce e sanguinario;


- Il nazismo ottenne una maggiore autonomia dalle élite militari, burocratiche, economiche e
religiose;
- In Italia, lo stato era rimasto preminente rispetto al partito;
- La politica estera di Hitler fu più aggressiva;
- Il razzismo era centrale nell’ideologia nazista: in Italia, non ebbe la stessa centralità, limitandosi a
episodi più specifici.

6.3: l’Europa autoritaria:

Ci fu un’ascesa in tutto il continente di partiti dichiaratamente fascisti, e i governi autoritari sorti negli anni
’20 rafforzarono le tendenze dittatoriali e militariste. Ciascuno riproponeva elementi qualificati del modello
italiano o tedesco, ad esempio lo stile politico o la riformulazione del nazionalismo, ma riadattati al proprio
contesto nazionale. Gli elementi universalistici uniti al forte particolarismo e a un’impronta fortemente
nazionalistica furono alla base del fallimento della creazione di un’Internazionale Fascista. Movimenti del
genere si manifestarono in Austria, in Europa orientale e in Spagna, in cui le istituzioni liberali cedettero il
passo a dittature nazionaliste.

Tuttavia, rispetto a fascismo e nazismo:

- Mancava un partito unico autenticamente di massa;


- L’ideologia non era fortemente orientata alla trasformazione integrale della società;
- I governi continuavano a subire l’influenza dei poteri tradizionali.

Fra tutti i regimi autoritari, quello portoghese presentava più similitudini con il modello fascista.

Dalla età degli anni ’30, la Germania esercitò la maggiore attrazione. I regimi dell’Europa orientale
entrarono a dar parte dell’area commerciale dominata dal marco. Molti assorbirono il razzismo e
l’antisemitismo del nazismo, fra cui lo stesso fascismo, che adottò una linea apertamente razzista nel 1938.

6.4: le traiettorie del comunismo:

I partiti comunisti erano illegali in molti paesi, e in altri non riuscirono a mettere radici profonde nelle realtà
nazionali. Essendo allineati alle direttive dei Comintern che li finanziava, essi rifiutavano ogni collaborazione
con i partiti socialisti e socialdemocratici, rimanendo in una condizione di isolamento. L’ascesa di Hitler
spinse Stalin ad un cambiamento di linea, mirato alla ricerca di un’intesa con le potenze occidentali in nome
della “sicurezza collettiva”. Fu abbandonata l’idea del “socialfascismo” di cui erano accusate le realtà
socialiste.

Le alleanze antifasciste che sorsero presero il nome di “fronti popolari”, nati dai compromessi dei partiti
comunisti che rividero le loro priorità. Il mito della rivoluzione ormai si identificava completamente con i
processi interni all’URSS.

Dal 1929, Stalin avviò delle politiche incisive che portarono l’URSS a una crescita economica prodigiosa a
scapito delle condizioni di vita dei cittadini. Negli anni 30, l’economia sovietica divenne pienamente
industrializzata e l’agricoltura modernizzata.

Dekulakizzazione abbandonata la NEP, i kulaki, i proprietari terrieri contadini spesso avversi alle politiche
agrarie del governo, furono deportati in milioni e privati delle loro terre.

La collettivizzazione delle terre, che obbligò milioni di contadini ad aderire ai kolchoz, le grandi aziende
collettive. Inizialmente queste misure ebbero un esito catastrofico che sfociarono in una grande carestia nel
1932, ignorata volontariamente da Stalin.

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Nel 1928 fu varato il primo piano quinquennale, che fissò gli obiettivi produttivi per ogni settore. Ogni unità
produttiva era rigidamente posta sotto il controllo della polizia politica.

Si fece ampio ricorso al lavoro forzato nei campi di internamento, i gulag. Fu introdotta una vigilanza
pervasiva e una disciplina durissima per aumentare la produttività dei lavoratori. La produzione di materie
prime era a discapito dei beni di consumo.

Stalin consolidò le strutture del regime:

- La burocrazia era sempre più numerosa e godeva di notevoli privilegi;


- La polizia politica divenne il principale strumento di controllo;
- Una vasta azione repressiva, le purghe, vide negli anni 30 l’internamento di tutti i possibili dissidenti
di qualsiasi classe sociale. Il “grande terrore” portò all’uccisione di una media di 1500 “nemici” al
giorno.

6.5: totalitarismo e dittatura di massa:

Stalin fu un dittatore di grande ferocia, ma fu anche un leader carismatico, capace di suscitare l’entusiasmo
di milioni di lavoratori. La forza mobilitante dell’ideologia si basava sul culto dei leader e sull’integrazione
dei cittadini nelle strutture del regime.

Analogie tra regimi fascisti e dittatura di staliniana:

- Discrezionalità degli apparati repressivi;


- Persecuzione di gruppi e categorie individuati come “nemici interni”;
- Integrazione tra stato e partito;
- Predominio di un leader carismatico;
- Propaganda capillare;
- Ambizione di controllare a pieno la vita pubblica

Differenze:

- Differenze nei valori: antiegualitarismo, razzismo e nazionalismo vs. egualitarismo e


internazionalismo
- Differenze nella struttura economica e sociale: solido rapporto con la grande industria vs.
eliminazione della proprietà privata

Alla luce delle similitudini, alcuni storici, soprattutto ex comunisti, utilizzarono il termine “totalitarismo” alla
luce delle similitudini nell’organizzazione del potere politico e la sottomissione della popolazione. Tuttavia,
le differenze hanno sollevato ampie discussioni. Inoltre, il controllo totale della popolazione nascondeva
forme sotterranee di resistenza. Per questo si fa ricorso alla categoria di “dittatura delle masse”, estendibile
anche ad altre vicende storiche novecentesche. Questa dicitura sottolinea le differenze fra le grandi
dittature del XX secolo e il dispotismo tradizionale.

6.6: destabilizzazione e appeasement:

L’alleggerimento delle tensioni internazionali fu il risultato degli sforzi dei governi democratici. Con il sorgere
di governi autoritari, le tensioni internazionali aumentarono nuovamente. Le dittature fasciste dichiaravano
apertamente il disprezzo delle regole e della diplomazia. Inoltre, Mussolini e soprattutto Hitler non avevano
nascosto la volontà di ridisegnare la carta geopolitica del continente attraverso la guerra e la capitolazione
del liberalismo e il comunismo. Nel 1933 la Germania uscì dalla società delle nazioni, rafforzò l’apparato
militare e reintrodusse la leva obbligatoria, contravvenendo al trattato di Versailles.

Lo “spazio vitale” era un concetto centrale che rivendicava la dimensione territoriale necessaria per la
sopravvivenza della razza germanica. Erede del pangermanesimo di fine ottocento, lo spazio vitale si

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identificava principalmente con i territori a est, i cui abitanti, razzialmente inferiori, sarebbero stati
assoggettati a servizio del Reich.

Nel 1935, l’Italia invase l’Etiopia, sollevando le preteste delle forze antifasciste e coloniali. Tuttavia, la
Società delle Nazioni reagì tiepidamente, nonostante la trasgressione fu accompagnata dall’utilizzo di armi
messe al bando.

Nel marzo 1936 i tedeschi entrarono nel territorio smilitarizzato della Renania. Nel 1938, attraverso
l’Anschluss fu annessa l’Austria. Hitler non incontrò resistenze delle potenze democratiche.

Nel 1936 nacque l’asse Roma-Berlino, rafforzato dalla partecipazione di entrambi i paesi alla guerra civile
spagnola. Le potenze si unirono sempre più strettamente in coalizione con una predominanza del Terzo
Reich. La prospettiva di una guerra spinse entrambi i regimi a radicalizzare la persecuzione di oppositori e
minoranze, considerando la società come un “fronte interno”. Altri regimi dittatoriali rafforzarono i loro
rapporti con il Reich, fra cui il Giappone in posizione anti Comintern.

Per evitare il conflitto, Mussolini, Chamberlain (britannico) e Daladier (francese) si accordarono per
concedere i Sudeti alla Germania. L’idea era di evitare la guerra a tutti i costi, concedendo a Hitler delle
annessioni “ragionevoli” secondo il principio di nazionalità. Regno Unito e Francia interpretarono il
desiderio della popolazione di evitare la guerra, e temevano di dare un vantaggio alla Russia bolscevica con
un’entrata in guerra. Tuttavia, l’espansionismo nazista non si fermò, e poco dopo Hitler occupò i restanti
territori della Cecoslovacchia.

Con l’ascesa di Hitler, Stalin abbandonò l’isolazionismo assoluto. La Russia aderì alla Società delle Nazioni e
stipulò un’alleanza militare con la Francia. Il Comintern impostò la tattica dei fronti popolari. Tuttavia, non si
creò un blocco compatto antinazista.

L’entourage rooseveltiano manifestò insofferenza nei confronti dei limiti allo sviluppo posti
dall’isolazionismo. Nel 1936, Roosevelt indicò il suo impegno per la diesa della democrazia.

Nel frattempo, Francia e Regno Unito videro l’indebolirsi del proprio ruolo imperiali. L’accrescimento
demografico nelle colonie ridimensionò la quota di popolazione europea, rendendo insostenibile lo
sfruttamento delle risorse da parte dei coloni. L’aggressione all’Etiopia sgretolò la fiducia nel sistema dei
mandati e nelle regole difensive della società delle nazioni. Si allargarono i moti indipendentisti, ai quali la
Francia rispose con durezza, mentre il Regno Unito adottò una politica più elastica (ad esempio concedendo
la piena indipendenza all’Egitto nel 1936).

6.7: la guerra civile spagnola (1936-1939):

La Spagna fu uno tra gli ultimi paesi a risentire dell’ondata di democratizzazione del primo dopoguerra. Nel
1936 salì al governo una coalizione di Fronte popolare, provocando un fermento di agitazioni fra gli operai e
i contadini. Le destre accolsero la vittoria elettorale con grande timore, e gli estremisti (in primo luogo
Falange, di ispirazione fascista) risposero con violenza squadrista.

L’uccisione di un leader conservatore spinse ampi settori della destra alla soluzione eversiva. Alcuni reparti
delle forze armate, guidati da cinque generali fra cui spiccò Francisco Franco, si ribellarono dando vita a un
fronte reazionario.

Lo scontro sembrò inizialmente favorevole ai repubblicani, ma l’intervento di Germania e Italia a favore


degli insorti ribaltò le sorti del conflitto. L’Unione sovietica aiutò il fronte repubblicano con aiuti finanziari, e
da tutta Europa arrivarono i volontari delle Brigate internazionali (fra cui Ernest Hemingway, George Orwell,
Palmiro Togliatti, Pietro Nenni). Tuttavia, l’aiuto ricevuto non bilanciò le risorse degli insorti, complici anche i
crescenti contrasti interni al fronte fra stalinisti e antistalinisti. Gli Stati democratici portarono avanti
l’appeasement non intervenendo.

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Dopo tre anni di combattimenti, nel 1939 i franchisti conquistarono Madrid. Franco diede vita a un regie
autoritario e annunciò l’adesione all’Asse.

Rappresentò un compendio dei principali temi politici, diplomatici e ideologici dell’Europa degli anni ‘30

- L’intervento straniero prefigurò schieramenti futuri;


- L’Italia e la Germania collaborarono militarmente per la prima volta;
- L’esperienza delle Brigate internazionali fu la prima manifestazione della resistenza antifascista
transnazionale;
- Diventarono evidenti le fratture all’interno del comunismo e l’immobilismo delle grandi democrazie;
- Il livello di violenza considerato legittimo dalle culture politiche anticipò le forme del conflitto della
seconda guerra mondiale: in cui il nemico era rappresentato in modo disumano senza alcuna
possibilità di accordo; la labilissima distinzione fra civili e militari; le nuove modalità di distruzione di
massa attraverso i bombardamenti sulla popolazione civile.

PARTE SECONDA: DALLA SECONDA GUERRA MONDIALE AL SESSANTOTTO:

CAP 7: LA SECONDA GUERRA MONDIALE:

7.1: le origini del conflitto e la posta in palio:

Dopo aver creato una “grande Germania” attraverso l’annessione dell’Austria e dei Sudeti, Hitler voleva
conquistare il Lebensraum (“spazio vitale”) a Est, invadendo la Cecoslovacchia. Boemia e Moravia divennero
un protettorato del Reich, Slovacchia uno stato satellite. L’obiettivo era la Polonia. Chamberlain annunciò
che il Regno Unito sarebbe intervenuto se la Germania avesse attaccato la Polonia. Mussolini occupò
l’Albania (Aprile 1939). Il 22 maggio siglarono il Patto d’Acciaio sull’asse Roma-Berlino.

Stalin propose un’alleanza a chi sarebbe stato attaccato dalla Germania ma nessuno lo accolse, così il 23
agosto, Germania e Russia firmarono un patto di non aggressione (Molotov-Ribbentrop) e anche un
protocollo segreto per la spartizione dell’Europa centro-orientale.

Il 1 settembre 1939 scattò l’attacco alla Polonia. Due giorni dopo Francia e Regno Unito dichiaravano guerra
alla Germania.

7.2: l’offensiva dell’Asse:

Grazie alla “guerra lampo” (Blitzkrieg), azione combinata di forze di terra e forze aeree, la Germania
sconfisse la Polonia in un mese. Come previsto dal patto segreto, l’Armata rosa si mosse verso oriente,
attaccando la Finlandia, piegata nel marzo 1940. Poco dopo la Germania attaccò la Danimarca e la Norvegia
per il controllo del Mare del Nord.

Sul versante occidentale non fu presa nessuna iniziativa da parte franco-britannica, fino al 10 maggio 1940
quando la Wehrmacht fece il primo passo e il governo passò da Chamberlain a Churchill. Olanda e Belgio
capitolarono in due settimane, i tedeschi chiusero i francesi e arrivarono a Parigi il 14 giugno. 350ila soldati
scapparono imbarcandosi al porto di Dunkerque. Il 22 giugno Philippe Pétain siglò l’ultima resa.

L’Italia, che aveva optato per la non belligeranza, il 1 giugno entra in guerra con la Germania per
approfittarsi dell’imminente crollo francese. In seguito attaccò la Grecia neutrale ma fu respinta con vigore
in Albania. Subì sconfitte anche contro i britannici nel mediterraneo perdendo i possedimenti coloniali.

Nel frattempo il Regno Unito resisteva bloccando i piani della Germania che puntava l’URSS. Churchill rifiutò
una proposta di pace e la Luftwaffe (aviazione tedesca) colpì duramente la Gran Bretagna, che resistette,
costringendo Hitler a sospendere gli attacchi per concentrare le forze sulla Russia.

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Vitale fu il sostegno economico degli Stati Uniti. Il 14 agosto 1941 Roosevelt e Churchill sottoscrissero la
Carta Atlantica, che delineava il nuovo assetto del dopoguerra.

Nel frattempo avevano aderito all’Asse: Ungheria, Romania, Slovacchia e Bulgaria, unendosi al patto
tripartito tra Germania, Italia e Giappone.

Il 6 aprile 1914 le forze italo-tedesche invasero la Jugoslavia, che si smembrò, fu spartita e aderì al patto
tripartito, e la Grecia. A marzo i tedeschi inviarono truppe in Nord Africa a supporto degli italiani, ritardando
ancora l’attacco all’URSS, “operazione barbarossa”, che scattò il 22 giugno 1914. 4 milioni di soldati, la più
grande invasione della storia.

A dicembre Hitler e Mussolini dichiararono guerra agli Stati Uniti entrati in guerra dopo l’attacco
dell’aviazione giapponese contro la flotta americana a Pearl Harbor. Era un conflitto mondiale che si stava
delineando come uno scontro tra fascismo e antifascismo.

Il 1 gennaio 1942, i rappresentanti degli Stati in guerra con l’Asse firmarono la Dichiarazione delle Nazioni
Unite, impegnandosi ad adoperare tutte le risorse nel conflitto e a non siglare armistizi col nemico.

L’Unione Sovietica fu colta impreparata, truppe male addestrate ed equipaggiate. I tedeschi arrivarono a
poca distanza da Mosca, ma sottovalutarono le condizioni ambientali e la capacità di reazione. Stalin
richiamò alla “Grande guerra patriottica” e si ritirarono facendo terra bruciata, così da riorganizzarsi per
lanciare la prima controffensiva nel dicembre 1914 facendo saltare i piani hitleriani.

Nel frattempo, il Giappone si stava impadronendo dei possedimenti asiatici delle potenze europee
impegnate nel conflitto, conquistando l’Indocina francese, la Birmania e la Alesia britanniche e l’Indonesia
olandese.

7.3: guerra totale, guerre civili:

L’Intera società fu investita dal conflitto, la popolazione civile diventò oggetto e bersaglio delle operazioni
belliche. Venne evidenziato il carattere ideologico del conflitto. Con uno spirito di crociata l’intento non era
sconfiggere il nemico, ma annientarlo. Evaporò ogni distinzione tra combattenti e civili. Le “terre di sangue”
furono saccheggiate, violentate, massacrate, furono bombardati i centri abitati come Guernica nella guerra
civile Spagnola.

L’uso dell’arma aerea fu la grande novità della Seconda Guerra Mondiale. I bombardamenti colpirono
l’economia, le industrie, il commercio, le comunicazioni e soprattutto il morale. I britannici a loro volta
devastarono oltre il 50% del territorio urbano tedesco. I bombardamenti su Amburgo (operazione
“Gomorra”) uccisero 37.000 persone in una sola operazione, meno solo degli attacchi a Tokyo, Hiroshima e
Nagasaki. Anche Roma fu bombardata.

Soprattutto i tedeschi spinti da motivazioni razziali, considerarono i popoli slavi, ebrei, rom e non solo come
razze inferiori da eliminare. Anche il regime sovietico in Polonia attuò deportazioni ed esecuzioni di massa.
Non a caso il trattamento riservato ai prigionieri sovietici era molto diverso da quello dei francesi (il 95% dei
prigionieri francesi tornarono in patria, i sovietici solo il 50%).

7.4: il rovesciamento delle sorti del conflitto:

Le sorti del conflitto si erano ormai rovesciate. Cruciale fu la battaglia di Stalingrado tra l’agosto 1942 e il
febbraio 1943. Le truppe sovietiche sferrarono la controffensiva chiudendo con una manovra a tenaglia
l’armata nemica, che Hitler condannò al massacro vietando la ritirata. L’Armata rossa intraprese una lunga
marcia riconquistando apie porzioni di territorio.

Anche in Africa le forze dell’Asse vennero travolte dall’attacco dell’armata britannica a El Alamein (Egitto),
mentre gli americani sbarcavano in Marocco e in Algeria.

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La sorte del contingente italo-tedesco era ormai segnata (“la fine dell’inizio”). Gli Alleati aprirono un nuovo
fronte in Italia, vicina all’Africa e anello debole. Il 10 luglio 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia, incontrando
una debole resistenza e una benevola accoglienza. 9 giorni dopo bombardarono Roma.

L’Armistizio di Badoglio e l’arresto di Mussolini furono il colpo di grazie per il duce, che fu sfiduciato dal Gran
consiglio del fascismo e destituito dall’incarico di capo del governo dal re Vittorio Emanuele III che lo fece
arrestare. Fu la caduta del fascismo. Pietro Badoglio sostituì Mussolini e il 3 settembre siglò un armistizio
segreto con le forze anglo-americane a Cassibile.

Gli ex-alleati tedeschi occuparono la parte centro-settentrionale del paese, mentre il meridione era sotto il
controllo degli anglo-americani. I tedeschi liberarono Mussolini che fu messo a capo di un nuovo Stato
fascista alleato al Terzo Reich, che prese il nome di repubblica sociale italiana, detta anche Repubblica di
Salò, cittadina nel quale furono insediati ministeri e uffici. L’Italia era spezzata in due anche dal punto di
vista politico (Sud democrazia, Nord fascismo).

Solo nel maggio 1944 le forze alleate riuscirono a sfondare le difese nemiche e il 4 giugno entrarono e
liberarono Roma dall’occupazione tedesca. Gli alleati stavano lentamente risalendo la penisola.

Sul territorio francese, il 6 giugno 1944 (il D-Day) gli alleati sbarcarono sulle coste della Normandia. Venne
lanciata l’operazione “Overlord”, sotto il generale Dwight Eisenhower che fu un successo.

La Germania era costretta a combattere su tre fronti: quello orientale, quello italiano e quello occidentale
aperto in Francia.

7.5: collaborare e resistere nell’Europa occupata:

Hitler voleva dare vita ad un “nuovo ordine europeo” una “crociata” contro le “barbarie asiatiche”. Il
trattamento riservato ai territori orientali fu ben più duro. Quando emerse la vera natura dell’occupazione
tedesca gli entusiasmi si raffreddarono ma non mancò la disponibilità a collaborare con i nuovi padroni.

Si distinsero due atteggiamenti:

- La collaborazione, con i popoli che cercavano un’intesa con gli occupanti per difendere gli interessi
del proprio paese, come fece Pétain che governò la Francia di Vichy;
- Il collaborazionismo delle minoranze fasciste che si schierarono a fianco degli invasori in virtù di
un’affinità ideologica, come la Repubblica sociale italiana di Mussolini e la Croazia di Pavelic.

Ma si svilupparono anche numerose forme di resistenza, mosse da istanze patriottiche, motivazioni etiche e
circostanze personali. Le tre dimensioni complementari della resistenza italiana furono: una guerra
patriottica per la liberazione, ma anche una guerra civile contro i fascisti di Salò, e per operai e contadini una
guerra di classe contro capitalismo e borghesia.

In Jugoslavia e in Grecia la Resistenza svolse un ruolo decisivo nel conflitto, mentre più contenuta fu la
portata del movimento partigiano in Italia e in Francia. Le profonde differenze non impedirono la
collaborazione tra i principali partiti che sostenevano le formazioni combattenti.

Durissima fu la repressione antipartigiana da parte delle forze di occupazione. A Roma 355 persone furono
fucilate alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.

Alla resistenza armata e organizzata si affiancò la resistenza civile, che esprimeva in altre forme il proprio
rifiuto all’ordine imposto dagli occupanti attraverso scioperi, boicottaggi e proteste.

Il Regno Unito e poi gli USA fornirono armi, equipaggiamenti, addestramento, collegamenti e reti. Non
mancarono tensioni e conflitti generati dai diversi interessi e obiettivi politici.

7.6: la guerra razziale e la Shoah:

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Per i nazisti la guerra aveva una specifica dimensione razziale. I piani prevedevano di ridisegnare la carta
etnografica europea attraverso i trasferimenti di popolazioni e la riduzione dei gruppi etnici indesiderati. Gli
Untermenschen, i subumani erano principalmente slavi, rom, sinti ed ebrei, il più insidioso agente patogeno
che attentava alla purezza e alla salute della Volksgemeinscahft.

Nei primi due anni del conflitto i nazisti cercarono di allontanare il più possibile gli ebrei, relegandoli ai
margini dei territori da essi controllati. Si procedeva alla segregazione degli ebrei nei ghetti, sovraffollati e in
pessime condizioni igienico-sanitarie, sinonimo di alti tassi di mortalità.

Ancor più pericolosi erano gli ebrei sovietici e la frustrazione per i mancati successi in Russia si tradusse in
una rivalsa nella guerra agli ebrei.

La “soluzione finale” fu l’annientamento degli ebrei europei, col passaggio, nel 1941, al genocidio detto
Olocausto o Shoah. Si iniziò con le fucilazioni di massa, 1 milione e 400mila vittime. Tali pratiche erano però
inconvenienti per il dispendio di tempo e uomini, per l’eccessiva visibilità e per gli effetti sugli esecutori,
logorati dallo giustiziare a freddo una miriade di civili inermi.

Così si passò ai più funzionali campi di sterminio, in località isolate, dove sarebbero stati uccisi per asfissia,
prima all’interno di furgoni per mezzo dei gas di scarico poi in apposite camere a gas. I più importanti si
trovavano in Polonia. Il sistema più “pulito” ed efficace divideva coloro che potevano lavorare da chi veniva
indirizzato subito alle camere a gas, al riparo da occhi indiscreti, un dispositivo impersonale che aumentava
la distanza tra vittime e carnefici. I cadaveri venivano bruciati nei forni crematori. Un sistema di fabbriche
della morte operanti secondo la logica analoga alla catena di montaggio.

La Shoah costò la vita a circa 5-6ilioni di ebrei, due terzi di quelli presenti in Europa alla vigilia della guerra.

In nazismo combinò in forme nuove una serie di elementi ideologici, assunti culturali, pratiche e innovazioni
ereditati dal “lungo Ottocento”: razzismo, darwinismo sociale, eugenetica, antisemitismo, nazionalismo
aggressivo, imperialismo e violenza coloniale. La disumanizzazione del nemico, la morte anonima di massa,
le violenze contro i civili e le macchine di morte sempre più distaccate e automatizzate della Prima Guerra
Mondiale. La Shoah non è altro che il prodotto di questa civiltà.

7.7: la sconfitta del nazifascismo:

Il 22 giugno 1944, l’Armata rossa lanciò una grande offensiva che sbaragliò le truppe tedesche e aprì la
strada per la Prussia orientale. I tedeschi furono scacciati dai Balcani. Romania e Bulgaria cambiarono
campo dichiarando guerra alla Germania.

Sul fronte occidentale gli Alleati sbarcati in Normandia sfondarono le fortificazioni tedesche dilagando nel
cuore della Francia. Ad agosto, dopo un secondo sbarco in Provenza, i partigiani e l’Esercito di liberazione
liberarono Parigi. Il 25 agosto, il generale de Gaulle, che aveva lanciato l’appello alla resistenza nel 1940,
rientrò vincitore dopo quattro anni di esilio.

In Italia, liberare le città ancora in mano tedesca prima dell’arrivo degli Alleati erano una priorità della
Resistenza di sinistra. Firenze fu teatro di una vittoriosa insurrezione del Comitato di Liberazione Nazionale
(CLN) contro i tedeschi in ritirata a i fascisti di Salò: copione che si sarebbe ripetuto nelle città del Nord dopo
lo sfondamento degli Alleati che spianò la strada alla liberazione del paese.

Nell’autunno 1944 l’esito della guerra era ormai segnato. In alcune importanti conferenze internazionali gli
Alleati posero le basi dell’ordine postbellico. Hitler però, non era disposto a prendere in considerazione
l’idea della resa. Il 20 luglio era sfuggito a un attentato, i cospiratori furono giustiziati e la guerra proseguì.

Gli americani conquistarono la prima città tedesca, Aquisgrana, e l’Armata rossa era già entrata nella Prussia
e stava avanzando, assetata di vendetta nel territorio del Reich, lasciandosi una scia di violenze

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indiscriminate. Ad accrescere le sofferenze dei civili contribuirono i numerosi bombardamenti, come quello
che distrusse il centro storico di Dresda.

Il 25 aprile 1945 – mentre in Italia il CLN proclamava l’insurrezione generale – sovietici e americani si
incontrarono vicino a Berlino che capitolò il 2 maggio dopo una disperata difesa. Gli atti di resa furono
firmati il 7 e il 9 maggio.

Dopo 6 anni la Seconda Guerra mondiale in Europa era finalmente giunta al termine (il conflitto proseguiva
in Estremo Oriente dove il Giappone si sarebbe arreso solo in agosto dopo lo sgancio delle bombe atomiche
americane su Hiroshima e Nagasaki).

Hitler si era tolto la vita il 30 aprile nel suo bunker berlinese e Mussolini era stato fucilato due giorni prima
dai partigiani che lo avevano catturato mentre cercava di scappare in Svizzera. La morte dei due dittatori
sconfitti sanciva la fine dei regimi fascisti che avevano trascinato l’Europa nell’abisso della guerra.

CAP 8: L’Europa divisa:

8.1: l’eredità della guerra:

La guerra segnò il tramonto del fascismo e del nazismo, riconfigurò gli assetti geopolitici e sancì il passaggio
di potere dagli stati europei indeboliti dalle due nuove “superpotenze”: USA e URSS. A differenza della
prima, la seconda guerra fu seguita da un periodo di stabilità che permise all’Europa di rinascere dalle
proprie ceneri.

In Europa moltissime città erano state distrutte e i danni alle strutture industriali e alle infrastrutture erano
notevoli. L’insufficiente disponibilità di viveri, la fame, le malattie, l’aumento di furti e rapine, il ricorso alla
prostituzione segnarono una profonda crisi sociale e le autorità faticavano a imporre il proprio controllo e a
ristabilire l’ordine.

I partigiani sfogarono la propria rabbia contro chi si era schierato con i tedeschi, anche le donne che
avevano avuto relazioni sessuali con tedeschi, e venivano punite con l’umiliazione pubblica, per riscattare
una virilità compromessa e riaffermare le potestà degli uomini sulle donne.

L’URSS inglobò gli stati baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e assorbì i territori polacchi orientali (Ucraina e
Bielorussia). La Polonia incamerò le ex regioni tedesche, della Slesia e della Prussia Orientale.

A questo riassetto seguirono la fuga e il trasferimento forzato delle minoranze etniche (gli ucraini polacchi si
trasferirono nell’Ucraina sovietica e viceversa). Il fenomeno più grosso fu l’espulsione dei tedeschi
dall’Europa centro-orientale. I civili stranieri che si trovavano sul suolo tedesco diventarono profughi e
vennero rimpatriati nei paesi d’origine. Il processo di rimozione delle minoranze determinò una maggiore
omogeneità etnica e la riduzione della diversità culturale.

Gli ebrei dell’Europa sopravvissuti allo sterminio nazista non trovarono pace. L’antisemitismo non era
scomparso, e si contarono numerosi atti di ostilità e veri e propri pogrom. Molti ebrei lasciarono l’Europa
per rifarsi una vita in Palestina dove nel 1948 fu fondato lo Stato di Israele.

In Germania furono attuati una serie di processi contro i nazisti e i loro collaboratori per reati quali crimini di
guerra e crimini contro l’umanità. Il Tribunale militare internazionale a Norimberga, a fine 1945 giudicò
alcuni dei maggiori esponenti del Terzo Reich, condannandoli a morte o a lunghe pene detentive.

8.2: la guerra fredda e la divisione del continente:

Per USA e URSS si passò presto dalla “grande alleanza” a un antagonismo bipolare tra le due nuove
superpotenze. Gli Stati Uniti avevano conosciuto uno straordinario sviluppo industriale e possedevano una

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superiorità tecnologica e militare. L’Unione Sovietica, gravemente provata dal conflitto, aveva enormi risorse
e la potente Armata Rossa, che aveva conquistato mezza Europa.

Si sviluppò un contrasto geopolitico e ideologico che avrebbe raggiunto livelli di tensione elevatissimi senza
mai sfociare nello scontro armato diretto. Da qui il termine “guerra fredda”.

I futuri equilibri europei furono discussi in due conferenze internazionali tenutesi nel 1945 a Yalta in Crimea,
dove si approvò una Dichiarazione sull’Europa liberata che assicurava ai popoli colpiti il diritto di definire il
proprio assetto politico mediante libere elezioni e si stabilì che il territorio tedesco sarebbe stato suddiviso
in quattro zone affidate a URSS, USA, Regno Unito e Francia, e a Postdam in cui Churchill e Truman,
subentrato a Roosevelt, si confrontarono con Stalin in un clima assai meno cordiale e collaborativo.

I sovietici, che vedevano i rapporti internazionali come un conflitto tra capitalismo e comunismo, volevano
costruire una fascia di Stati non ostili che avrebbero fatto da cuscinetto in caso di aggressioni.

Gli americani, che volevano creare un nuovo ordine capitalistico internazionale basato su mercati liberi e
interconnessi in grado di assicurare la prosperità, la stabilizzazione democratica e la pace, erano disposti a
riconoscere un’egemonia di Mosca sull’Europa centro-orientale ma non una sua sovietizzazione. Inoltre
erano convinti che i sovietici volessero espandere il proprio raggio di influenza ed era quindi necessaria una
ferma opposizione da parte degli USA.

Nel marzo 1946 in un celebre discorso tenuto negli USA, Churchill denunciò l’assoggettamento dei paesi
dell’Est da parte dei sovietici (la cortina di ferro, la linea di demarcazione fra influenza sovietica e influenza
americana). Era la fine della “grande alleanza”.

Gli Stati Uniti hanno il dovere di sostenere i popoli liberi che intendessero resistere a tentativi di
soggiogamento da parte di minoranze armate o di pressioni esterne.

Nel 1947 gli USA elaborarono il containment, il contenimento della minaccia sovietica, temendo che Mosca
volesse approfittarsi della condizione critica dell’Europa per favorire l’ulteriore espansione del comunismo.

Lo European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall, programma per la ripresa del vecchio
continente, fu respinto dai sovietici che lo videro come un cavallo di Troia e proibirono di aderirvi ai paesi
dell’Est. Ne beneficiarono solo i paesi dell’Europa occidentale. Il piano proponeva un modello di crescita a
matrice statunitense incentrato sui valori della produttività e dell’integrazione economica, per rilanciare
l’economia, elevare il tenore di vita e assicurare la stabilità.

In risposta, i sovietici istituirono l’Ufficio di informazione dei partiti comunisti e operai, detto Cominform, un
organo per il coordinamento e il controllo dei partiti comunisti dei paesi dell’Est, della Francia e dell’Italia.

La coordinazione della Germania divisa in 4 zone si rivelò un’utopia. Americani e britannici unirono le loro
due zone. Successivamente si accordarono con i francesi per formare uno Stato tedesco nella Germania
controllata dagli occidentali. I sovietici decisero di indurre gli occidentali a desistere bloccando tutti gli
accessi stradali e ferroviari alla parte ovest di Berlino, città a sua volta divisa in 4 zone.

La prova di forza dei sovietici con il blocco di Berlino si risolse in un fallimento poiché gli anglo-americani
riuscirono a rifornire la parte ovest della città tramite un ponte aereo. Stalin tolse il blocco nel maggio 1949.
Nello stesso mese nacque la Repubblica federale tedesca (RDT) o Germania Est.

Il 4 aprile 1949 nasceva così il Patto Atlantico: un’alleanza stipulata tra gli Stati Uniti, il Canada e dieci paesi
dell’Europa occidentale che impegnava i contraenti alla difesa collettiva in caso di aggressione contro uno di
essi e prevedeva l’istituzione di un’organizzazione militare integrata: la NATO.

8.3: democrazia rinnovata: l’Europa occidentale:

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nel dopoguerra l’Europa occidentale vide la rinascita di una democrazia rinnovata. I paesi con regimi
autoritari si diedero nuovi ordinamenti costituzionali.

In Italia, il 2 giugno 1946, si tennero le elezioni per l’Assemblea Costituente, insieme a un referendum
istituzionale che chiamò i cittadini a decidere se mantenere la monarchia o adottare una forma di stato
repubblicana. La repubblica si impose con il 54% dei voti. In Francia fu varata la Costituzione della quarta
repubblica. Le due costituzioni ponevano l’enfasi sui diritti umani, per tutelare i cittadini dall’oppressione da
parte dello Stato, e i diritti sociali e alla solidarietà tra gli individui e le classi. L’obiettivo era mantenere la
pace.

Assai significativo fu l’estensione alle donne del diritto di voto. Grazie anche alla partecipazione alla
Resistenza, tra il 44 e il 48 il suffragio divenne universale in Francia, Italia e Belgio. La parità di genere
restava lontana in altri ambiti cruciali come quello del lavoro.

Nel primo dopoguerra le redini del governo erano prevalentemente in mano alla sinistra, soprattutto nei
paesi scandinavi e nel Regno Unito. Nel resto d’Europa i partiti di sinistra facevano coalizione con le forze
moderate di centro, in particolare con i democristiani.

In Italia nel 1945 la palla passò alla Democrazia Cristiana (DC) di Alcide de Gasperi. Tuttavia la coabitazione
tra la DC e le forze di sinistra (il PCI di Togliatti, e il PSI di Nenni) non era semplice. Infatti, dopo la dottrina
Truman i partiti comunisti furono estromessi dai governi di coalizione. In Italia l’alleanza centrista avvenne
tra la DC e i partiti laici minori (repubblicani, socialdemocratici e liberali).

L’anticomunismo arrivò a condizionare pesantemente la vita politica dell’Europa occidentale. In paesi come
l’Italia, dove il partito comunista aveva larghi consensi, le lotte sociali furono represse e si svilupparono reti
di intelligence e servizi segreti americani, deputati a contrastare un’eventuale invasione sovietica.

L’idea che lo stato dovesse assumere il ruolo di guida per garantire il progresso e il benessere si tradusse in
forme di controllo pubbliche sulle attività economiche, industriali e sociali. Una parziale eccezione furono
l’Italia e la Germania Ovest dove dopo il crollo dei regimi totalitari si optò per forme temperate di liberismo.

Nel Regno Unito, il governo laburista di Attlee lanciò un vasto programma di nazionalizzazione che portò allo
Stato il controllo di settori chiave. Nacque il Welfare State (stato del benessere o stato sociale), un’estesa
rete di assistenza e un articolato sistema di servizi di cui avrebbero beneficiato tutti i cittadini (ad esempio,
nel 1948 nacque l’NHS). Assegni per i familiari a carico, sistema pensionistico esteso, assistenza medica
gratuita universale, 1 milione di case popolari etc. Un progetto notevole in un paese inginocchiato dalla
guerra, indebitato, costretto ad adottare pesanti misure di austerità come il razionamento dei beni. Il
modello incentrato sull’economia mista e lo Stato sociale si sarebbe successivamente imposto in tutta
l’Europa occidentale.

8.4: “democrazie popolari”: l’Europa orientale:

Nell’Europa orientale le truppe dell’Armata Rossa stazionavano in Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria,
Cecoslovacchia e Germania Est. Questo controllo era un’esigenza di sicurezza. In pochi anni Stalin ampliò il
già vasto “impero interno” con un “impero esterno”. Il dittatore georgiano creò un blocco di stati satelliti su
un modello sovietico fedeli all’URSS a est della cortina di ferro.

Nella maggior parte di tali paesi i partiti comunisti videro crescere i propri consensi impossessandosi
gradualmente del potere. In una prima fase adottarono un approccio moderato, una “democrazia popolare”,
senza replicare il modello sovietico della dittatura del proletariato, percorrendo strade alternative. I
comunisti furono comunque attenti a controllare gli apparati militari e le forze di polizia per mettere sotto
pressione i partiti rivali all’occorrenza.

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Nel 1947 si aprì una seconda fase più rigida e radicale. I paesi dell’Est furono sottoposti a un processo di
sovietizzazione, con l’imposizione di un sistema politico, economico e sociale sul modello dell’URSS.
Scomparve ogni traccia di democrazia, la formula “democrazia popolare” rimase in uso nonostante fossero
divenuti regimi di stampo autoritario. Dopo aver liquidato le opposizioni gli esponenti dei partiti rivali
furono sottoposti a processi e puniti con la carcerazione, lavori forzati o la pena capitale. Si instaurò un
pesante clima poliziesco con la sorveglianza della popolazione e le sanzioni. Sul piano economico
nazionalizzazione, controllo statale, pianificazione e industrializzazione forzata, mentre sul pino agricolo
collettivizzazione delle fattorie.

In alcuni stati la presenza dell’Armata Rossa non fu determinante per l’affermazione dei comunisti. In
Cecoslovacchia il partito comunista si impose alla guida del paese senza l’appoggio delle truppe sovietiche,
la democrazia popolare non era stata imposta ma scelta. Per questo quando i cecoslovacchi dovettero
sottostare all’ingiunzione sovietica di rifiutare il Piano Marshall, nel 1948 ci fu il colpo di Praga. Il partito
comunista impose al presidente della repubblica di non indire nuove elezioni ma di avallare un rimpasto di
governo. Nacque così un esecutivo nel quale rimaneva solo un esponente non comunista, il ministro degli
esteri che il mese seguente morì in circostanze misteriose.

In Jugoslavia e Albania le forze comuniste della Resistenza, guidate da Tito e Enver Hoxha, giunsero
autonomamente al potere senza l’intervento dell’Armata rossa. Instaurarono regimi monopartitici di stampo
sovietico. In Jugoslavia venne varato un piano fondato sullo sviluppo dell’industria pesante e la
collettivizzazione dell’agricoltura.

Il regime di Tito possedeva una propria legittimazione rivoluzionaria che consentì al leader di non
sottomettersi all’autorità di Stalin, con una seria di iniziative non concordate in politica estera che irritarono
il dittatore sovietico che temeva che Tito potesse alimentare fermenti di autonomia e insubordinazione in
altri Stati del blocco socialista. Nel 1948 al secondo congresso del Cominform, i comunisti jugoslavi furono
accusati di deviazionismo per aver condotto una politica nazionalista e vennero espulsi dall’organizzazione.

Il rapporto tra Unione Sovietica e i suoi paesi satelliti non era solo di dipendenza politica ma anche di
subordinazione e sfruttamento sul piano economico. Nel 1949 venne istituito il Consiglio di mutua
assistenza economica (COMECON), attraverso il quale gli esperti sovietici indirizzarono le politiche
economiche e orientarono il commercio internazionale degli Stati dell’Europa Orientale.

8.5: dalla morte di Stalin alla crisi ungherese:

Il culto di Stalin raggiunse l’apogeo grazie alla vittoria su Hitler. Il paese dovette affrontare una durissima
ricostruzione. Gli sforzi per colmare il gap tecnologico con gli Stati Uniti furono premiati nel 1949 dalla
riuscita sperimentazione della prima bomba atomica sovietica. Già dal 1948 l’economia aveva iniziato a
riprendersi nonostante nelle campagne la situazione restasse critica. Aumentava la popolazione dei campi di
lavoro forzato del GULAG (2 milioni e mezzo di poveri, emarginati, minoranze etniche, ex prigionieri di
guerra ecc.). a ciò si accompagnavano nuove ondate di repressione alimentate dal nazionalismo russo e da
una spinta antisemita rafforzata dalla nascita dello Stato di Israele che rendeva gli ebrei infidi in quanto
legati agli USA.

In questo contesto il 5 marzo 1953 morì Stalin, con un autentico dolore e uno shock in buona parte della
popolazione rimasta orfana di un padre autoritario tanto temuto quanto amato. Il clima politico e culturale
si iniziò ad improntare verso una maggiore, ma contenuta, libertà: il “disgelo”. La diminuzione delle spese
militari si accompagnò a un rilancio dell’economia e del commercio e a un miglioramento delle condizioni di
vita. La nuova leadership, guidata da Chruschev, dimostrò che il sistema sovietico era in grado di superare il
capitalismo nella capacità di accrescere il benessere della popolazione.

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Il panorama internazionale era stato modificato da importanti eventi in estremo Oriente. Nel 1949 i
comunisti cinesi, guidati da Mao Zedong diedero vita a una Repubblica popolare. L’anno dopo scoppiò una
guerra tra la Corea del Nord comunista, fu posto termine a questo conflitto e la dirigenza sovietica iniziò a
parlare di distensione e coesistenza pacifica che sembravano spingere verso un allentamento del controllo
sui paesi satelliti. Aspettative destinate ad essere frustrate.

Nel 1955 venne firmato il Trattato di Vienna, con cui si stabilì che le potenze vincitrici della Seconda guerra
mondiale, che ancora occupavano l’Austria, avrebbero ritirato le proprie truppe e che il paese avrebbe
eseguito una linea di neutralità rispetto al confronto tra i due blocchi.

Il giorno prima, tuttavia, i sovietici avevano istituito il Patto di Varsavia, un’alleanza con i paesi satelliti che
prevedeva un’organizzazione militare integrata analoga alla NATO.

L’anno seguente si svolse il ventesimo congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) in cui
Chruscev tracciò una nuova linea di coesistenza pacifica con l’occidente, riconobbe che ciascun paese
poteva seguire una propria via al socialismo e professò grande fiducia nel futuro dell’URSS e del blocco
socialista. Soprattutto denunciò gli errori, gli abusi e i crimini di Stalin, la spietata repressione di massa e
deprecò il “culto della personalità” costruito intorno a lui. Un manifesto della destabilizzazione. La
demolizione del mito di Stalin del ventesimo congresso e le vicende che ne seguirono rappresentarono uno
degli snodi più drammatici del comunismo internazionale.

Nei paesi del blocco orientale molti interpretarono il congresso come una via libera alle riforme e a una
maggiore indipendenza dell’URSS, come sembrò confermare lo scioglimento del Cominform nel 1956. Le
agitazioni però ripresero e si allargarono fino a quando i dirigenti polacchi decisero di richiamare al potere
Gomulka che era stato incarcerato in epoca staliniana. Chruscev accettò questa soluzione che schiuse per la
Polonia una fase di liberazione.

In Ungheria invece gli eventi del 1956 presero una piega più drammatica. Qui le poteste di intellettuali,
studenti e operai contro lo stalinismo e la dipendenza da Mosca assunsero un carattere insurrezionale. Una
manifestazione invase le strade di Budapest, il governo bollò i manifestanti come fascisti e chiamò le truppe
sovietiche a ristabilire l’ordine.

Il Cremlino mise a capo dell’esercito Imre Nagy, un esponente riformista che aveva già guidato il governo.
Nagy accolse alcune delle richieste della piazza, annunciò la fine del monopartitismo e ottenne il ritiro delle
truppe sovietiche dal paese, dichiarando la neutralità dell’Ungheria e l’uscita dal Patto di Varsavia. Il
governo di Mosca decise di intervenire e il 4 novembre l’Armata rossa entrò a Budapest. Dopo una
settimana di combattimenti Nagy fu sostituito dal filosovietico Janos Kadar e venne arrestato e giustiziato.

8.6: la stabilizzazione del continente:

Nel primo decennio del dopoguerra si gettarono le basi di un ordine geopolitico e di un sistema di relazioni
internazionali che avrebbero assicurato all’Europa un lungo periodo di stabilità e di pace. La divisione in due
blocchi si rivelò un elemento di stabilità.

Un altro fattore fu la corsa agli armamenti, in particolare quella dei nucleari. L’arma atomica assunse le
sembianze di un incubo capace di condizionare le relazioni internazionali. Nel 1953 già entrambe le
superpotenze misero a punto la bomba II e si dotarono di missili balistici intercontinentali, molto più rapidi e
agevoli dei bombardamenti. La prospettiva di un conflitto si faceva più spaventosa e quindi più improbabile
per l’elevato rischio reciproco. Anche Regno Unito e Francia si dotarono do ordigni atomici generando il
cosiddetto “equilibrio del terrore”.

Eisenhower, l’ex comandante in campo delle forze alleate in Europa durante la seconda guerra mondiale era
stato eletto presidente degli Stati Uniti nel 1952. La mancata reazione all’invasione sovietica dell’Ungheria

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testimoniava che gli occidentali riconoscevano l’autonomia e l’intangibilità del blocco sovietico. La cortina di
ferro era un dato di fatto. Nessuno voleva rischiare una guerra dalle conseguenze apocalittiche. La priorità
era di natura di civile, la crescita economica, il benessere materiale la sicurezza sociale.

Sul piano politico, per i paesi dell’Europa occidentale gli anni ’50 furono un periodo di stabilizzazione
all’insegna dell’egemonia moderata. In Italia de Gasperi e il centrismo proseguì fino al 53 e poi da altri
sponenti della DC. Anche in Belgio, Olanda, Austria le forze moderate e conservatrici beneficiarono della
spettacolare ripresa economica degli anni ’50.

In Spagna e Portogalli permanevano le dittature di Franco e Salazar che optarono per un prudente
riorientamento dei loro regimi in senso più moderato, ma senza mettere in discussione la natura autoritaria.

CAP 9: L’EUROPA E IL MONDO:

9.1: declino europeo e nuovo ordine internazionale:

Nel secondo dopoguerra il primato europeo nella gerarchia internazionale era ormai un ricordo del passato.
La Francia aveva perso lo status di grande potenza con la sconfitta del 1940 e l’occupazione tedesca. Il
Regno Unito aveva avuto il sostegno degli americani. Con l’eccezione della Jugoslavia, i paesi europei non
riuscirono a liberarsi solo con le proprie forze ma furono costretti a fare affidamento su USA e URSS.

Gli USA avevano consolidato la lor posizione di maggiore potenza economica mondiale. L’URSS, provata
dalla guerra, poteva vantare la forza militare più consistente sul territorio europeo. Gli altri paesi avevano
perso terreno sul piano economico e strategico. Il prodotto nazionale lordo durante la guerra era diminuito
del 25% mentre quello americano era aumentato del 50%. Sul piano militare le forze armate di Francia,
Regno Unito e Italia messe insieme non erano pari alla metà dell’esercito americano e un terzo di quello
sovietico, inoltre nessun paese europeo possedeva la bomba atomica.

L’Europa nella guerra fredda restava il teatro principale delle tensioni internazionali ma erano appunto USA
e URSS a dare forma al nuovo ordine che si andava affermando in Europa, più oggetto che soggetto della
politica mondiale. Era la fine dell’era Europea, che era durata per oltre tre secoli.

Il Patto atlantico e la creazione della NATO suggellarono la sostituzione degli USA al Regno Unito. Non è n
caso che per indicare l’ordine internazionale in Occidente nel dopoguerra si parlò di pax americana e non di
pax britannica.

Nel giugno del 1945 a San Francisco, i rappresentanti di 50 Stati di tutto il mondo diedero vita all’ONU, il cui
statuto riprendeva i punti salienti della Carta atlantica firmata da Churchill e Roosevelt nel 1941. L’ONU
nasceva dalle ceneri della Società delle Nazioni, per mantenere la pace attraverso il dialogo, il negoziato e la
cooperazione internazionale. I suoi punti cardine erano la difesa dei diritti umani, l’uguaglianza dei diritti
delle nazioni, e il progresso economico e sociale dei popoli. Per adempiere a questi compiti fu creata una
serie di agenzie specializzate e di programmi e fondi come la FAO (per la fame nel mondo) l’UNESCO (cultura
e istruzione) l’UNICEF (per l’infanzia) e l’UNHCR (per i rifugiati). I principali organi erano l’Assemblea
generale e il Consiglio di sicurezza. La prima era una tribuna democratica a cui partecipavano tutti i popoli
ma forniva solo raccomandazioni. Il Consiglio di sicurezza invece, poteva adottare misure coercitive, anche
con l’uso della forza ed era ristretta a sei membri a rotazione e cinque parametri. (USA, URSS, Cina, Regno
Unito e Francia, ovvero le maggiori potenze vincitrici).

Un’altra conferenza importante si tenne a Bretton Woods nel 1944, in cui si pongono la basi di un nuovo
ordine economico internazionale. Si decise che il dollaro fosse liberamente convertibile in oro e che le altre
monete fossero agganciate ad esso in un sistema di cambi fissi, di fatto reintroducendo il gold standard
incentrato sul dollaro e non più sulla sterlina. Per garantire la stabilità dei cambi e sostenere gli stati in
difficoltà si decise di creare il Fondo monetario internazionale (FMI). Fu costituita una banca internazionale,

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poi Banca mondiale, per finanziare con prestiti a lungo termine i paesi bisognosi. Inoltre, prendendo atto
della diversità del blocco socialista, nel 1947 fu firmato il GATT (General Agreemento on Tariffs and Trade)
che prevedeva la generale riduzione dei dazi doganali per favorire il libero commercio.

9.2: gli imperi coloniali al tramonto:

Connessa al declino europeo vi fu la dissoluzione dei grandi imperi coloniali d’oltremare che i paesi del
vecchio continente possedevano in Africa e in Asia. I maggiori tra questi imperi erano quello francese e
britannico del primo dopoguerra. Già da tempo iniziarono a svilupparsi nelle colonie movimenti che
rivendicavano diritti, migliori condizioni di vita e più ampi margini di autonomia, se non l’indipendenza. Si
trattava di movimenti guidati da élite locali che spesso avevano studiato nelle scuole europee e americane
dove avevano acquisito i fondamenti delle ideologie politiche occidentali, i cui principi di libertà,
eguaglianza, emancipazione seppero ritorcere contro il potere coloniale.

Le colonie furono importanti risorse nella Seconda guerra mondiale, in termini di sfruttamento per il
prelievo di materie prime, ma la partecipazione al conflitto influenzò i sudditi coloniali che ne uscirono con
una maggiore consapevolezza della propria sottomissione.

Le sconfitte subite dalle potenze europee per mano dell’Asse incrinarono la reputazione dei padroni
imperiali e sgretolarono il mito della loro invincibilità, contribuendo al rafforzamento dei movimenti
anticoloniali.

In Estremo Oriente, l’occupazione giapponese dei territori a est dell’India agì come importante fattore di
destabilizzazione. I giapponesi cercarono di procurarsi l’appoggio delle élite locali con la parola d’ordine
“Asse degli asiatici”. Il governo giapponese arrivò a concedere l’indipendenza alla Birmania britannica e
all’Indocina francese. Queste proclamazioni di indipendenza resero più complicato per gli europei ristabilire
la propria autorità dopo la fine della guerra.

Nel dopoguerra le potenze coloniali misero in campo strategie improntate sia alla conciliazione sia alla
coercizione, introducendo alcune concessioni e nuove architetture costituzionali:

La Francia abolì ogni forma di lavoro forzato, estese la cittadinanza a tutti gli abitanti delle colonie e istituì
l’Unione francese. Tuttavia non esitò a reprimere duramente le proteste e a contrastare le rivolte
indipendentiste con misure contrarie al diritto internazionale.

In generale conservare il sistema imperiale era diventato troppo dispendioso. I benefici derivati dallo
sfruttamento delle risorse dei territori d’oltremare bilanciavano sempre meno i costi legati al loro
mantenimento.

L’anti imperialismo delle superpotenze incise il nuovo quadro internazionale del dopoguerra, significativa fu
la pressione esercitata dall’ONU e dalle superpotenze. L’ONU richiamava il principio di autodeterminazione
dei popoli e imponeva alle potenze coloniali di sviluppare l’autogoverno delle popolazioni, di assisterle nello
sviluppo e delle loro libere istituzioni politiche. Le superpotenze erano anti imperialiste, sia per ragioni
ideologiche che geopolitiche. Gli Stati Uniti, oltre a nascere da una rivoluzione anticoloniale, ambivano ad
un ordine internazionale fatto di libero commercio, più conveniente rispetto alle aree economiche chiuse
come quelle degli imperi. Tuttavia, gli Stati Uniti avrebbero poi sostenuto le potenze europee laddove i
movimenti indipendentisti erano guidati da forze comuniste.

9.3: la decolonizzazione in Asia:

A tracciare la strada del processo di decolonizzazione fu l’India, la più importante tra le colonie britanniche,
la perla dell’impero. Già da tempo si era sviluppato un movimento anticoloniale, la cui guida era stata
assunta dal Congresso nazionale indiano. Si era affermata la leadership di Nehru e Gandhi, che aveva
promosso una serie di campagne di disobbedienza civile fondata sulla strategia della non violenza e della

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non collaborazione col regime coloniale. Il governo inglese cercò di ottenere l’appoggio del popolo indiano
offrendo la concessione dell’autogoverno ma ottenne un netto rifiuto. Il successivo arresto di numerosi
dirigenti del Congresso suscitò una reazione popolare violenta che i britannici repressero duramente.

Dopo la guerra, Attlee accettò di porre fine al dominio britannico concedendo l’indipendenza. Ma il
subcontinente indiano precipitò nel caos. Scontri sanguinosi tra indù e musulmani scoppiati a Calcutta nel
1946 furono seguiti da violenze tra i due gruppi religiosi del subcontinente. I rappresentanti di Londra si
videro costretti ad accettare le richieste separatiste della Lega musulmana. L’India si divise in due Stati
indipendenti: l’India indù e il Pakistan musulmano. La violenza, tuttavia, non si fermò. Spietate campagne di
pulizia etnica causarono centinaio di migliaia di morti e lo stesso Gandhi, vittima del fanatismo, venne
assassinato da un estremista indù.

Gli altri possedimenti britannici del sud-est asiatico seguirono a ruota. Birmania, Malesia, Indonesia
olandese, aiutata dai giapponesi dall’ONU e dagli Stati Uniti.

In Indocina i francesi non riconobbero l’indipendenza conferita dai giapponesi e si mostrarono decisi a
ripristinare la loro dominazione. Essi incontrarono però una tenace resistenza della Lega per l’indipendenza
del Vietnam, guidata dal Partito comunista indocinese, costituita dal leader rivoluzionario Ho Chin Minh nel
1940. L’orientamento comunista del movimento vietnamita, la vittoria della rivoluzione di Mao Zedong in
Cina e lo scoppio della Guerra di Corea trasformarono il conflitto indocinese in un nuovo fronte di guerra
fredda: Unione Sovietica e Repubblica popolare cinese fornirono supporto al Vietnam nel nord, mentre gli
Stati Uniti sostennero i francesi nel sud. Il conflitto generò più di 500mila morti e si concluse nel 1954 con la
sconfitta dei francesi.

Ben più rapido fu il processo di emancipazione dei territori medio-orientali che erano stati assegnati a
Francia e Regno Unito sotto forma di mandato dopo la prima guerra mondiale, con la dissoluzione
dell’Impero Ottomano (Libano, Siria e Transgiordania).

La Palestina costituì, invece, un caso a sé. L’aumento dell’immigrazione ebraica in fuga dall’Europa e le
pressioni per la creazione di uno stato ebraico entrarono in conflitto con la popolazione araba, che aspirava
anch’essa a dar vita a un proprio stato nazionale. Fatte oggetto di attacchi terroristici da parte delle
organizzazioni sioniste, le forze britanniche operarono ritorsioni anche contro i civili ebrei. Nel 1947 il
governo di Attlee annunciò che avrebbe ritirato le proprie truppe, lasciando all’ONU il compito di trovare
una soluzione a un conflitto, quello tra palestinesi e i paesi arabi da un lato e gli ebrei e poi lo stato di
Israele, la cui nascita fu proclamata appunto nel maggio 1948, dall’altro.

9.4: la decolonizzazione in Africa:

Lo smantellamento delle colonie in Africa avvenne molto più tardi e coprì un arco di tempo più lungo. Il
primo paese a lasciare le colonie fu l’Italia che aveva perso il controllo dei propri possedimenti per effetto
delle sconfitte patite nella Seconda guerra mondiale. Il Trattato di pace di Parigi (febbraio 1947) impose
all’Italia la rinuncia a tutte le colonie, la cui sorte fu rimessa all’ONU. Alla Libia l’indipendenza, l’Eritrea fu
federata con l’Etiopia, la Somalia fu assegnata in amministrazione fiduciaria all’Italia per dieci anni, per
essere preparata all’indipendenza.

Per la Francia la perdita dell’Algeria rappresentò la vicenda più traumatica della decolonizzazione.
Possedimento francese da più di un secolo, l’Algeria era considerata parte integrante del paese. Il
movimento indipendentista era di diverso avviso e nel 1954 lanciò una serie di attacchi coordinati che
diedero il via all’insurrezione antifrancese. Parigi reagì con durezza ma la rivolta si estese. Il governo
francese inviò altri militari per ristabilire l’ordine con ogni mezzo necessario. Uno degli episodi cruciali fu la
battaglia di Algeri (1956-57).

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Parigi aveva concesso la piena indipendenza a Marocco e Tunisia e poté concentrarsi sull’Algeria. La società
francese prese a interrogarsi su questa sanguinosa guerra senza nome. La mobilitazione degli intellettuali si
accompagnò all’opinione pubblica stanca di una situazione che appariva sempre più senza uscita. Le
tensioni algerine stavano minando le fragili fondamenta della Quarta repubblica. I vertici militari in Algeria
avevano invocato il ritorno di de Gaulle, minacciando il colpo di stato, che venne richiamato alla guida. De
Gaulle però comprese presto che una pace negoziata era l’unica soluzione praticabile. Egli firmò dunque gli
accordi di Evian che prevedevano un immediato cessato il fuoco e il riconoscimento dell’indipendenza
algerina.

Nasser, presidente dell’Egitto decise di nazionalizzare il Canale di Suez. Il provvedimento assestava un brutto
colpo agli interessi di britannici e francesi, i quali controllavano la compagnia che gestiva il canale,
fondamentale via di comunicazione per il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. Il Regno Unito e la Francia si
accordarono allora con Israele per un’iniziativa congiunta mirante a rovesciare il leader egiziano. L’esercito
israeliano attaccò l’Egitto, poi truppe britanniche e francesi persero il controllo del canale di Suez
atteggiandosi a mediatori trai due continenti. L’iniziativa però incontrò la ferma opposizione delle due
superpotenze: gli Stati Uniti preoccupati che essa potesse spingere i paesi arabi verso posizioni
filosovietiche, intimarono a Regno Unito e Francia di sorprendere le operazioni e ritirarsi. Londra e Parigi
obbedirono.

Il disastroso esito rappresentò un’umiliazione per Francia e Regno Unito e diede nuovo slancio ai movimenti
indipendentisti dei territori ancora soggetti al dominio coloniale. Nel 1960, “anno dell’Africa”, ben 17 paesi
ottennero l’indipendenza. L’Assemblea generale dell’ONU condannò il colonialismo in quanto violazione dei
diritti umani fondamentali.

La decolonizzazione proseguì a ritmo sostenuto negli anni successivi. Nel 1961 il Sudafrica abbandona il
Commonwealth e si dà un ordinamento repubblicano. Nel 1963 l’indipendenza del Kenya etc.

9.5: la decolonizzazione: un bilancio:

Alla fine degli anni sessanta dei grandi imperi coloniali rimanevano pochi piccoli frammenti. Il fenomeno
della decolonizzazione poneva termine a ben cinque secoli di espansione europea nel mondo.

Il processo assunse forme diverse a seconda del variare dei fattori locali, dell’atteggiamento delle potenze
coloniali e del contesto internazionale.

L’approccio britannico fu più incline a concedere l’indipendenza in forme negoziate e pacifiche, mentre
quello francese più riluttante ad accettare lo smantellamento e deciso a difendere lo status quo anche con
la forza. Quella belga è più vicina a quella inglese, quella olandese e quella portoghese più a quella francese.
Tuttavia in altre occasioni l’emancipazione delle colonie francesi avvenne in forma meno violente. Nel Regno
Unito non si raggiunsero mai livelli di tensioni tali da innescare crisi politico-istituzionali come quella di
Parigi.

Tra gli effetti più diretti vi fu il rapido aumento degli Stati indipendenti a livello planetario. Nel 1967 l’ONU
era passata da 50 paesi membri a 122. Gli stati di nuova indipendenza andarono a costituire il nucleo del
“terzo mondo”, ovvero l’insieme dei paesi che non appartenevano né all’occidente capitalista né al campo
socialista. Gli stati usciti dalla decolonizzazione adottarono in grande maggioranza una posizione neutrale
nel quadro della guerra fredda, dando vita al movimento dei paesi non allineati, che rivendicavano
l’equidistanza dai blocchi e condividevano gli obiettivi della cooperazione e della pace mondiale. La
compagnia dei non allineati era guidata da una triade comprendente l’India di Nehru, l’Egitto di Nasser e la
Jugoslavia di Tito.

La decolonizzazione ebbe implicazioni cruciali anche per la geografia. Si affermarono nuove


rappresentazioni della Terra nelle quali veniva ampliato lo spazio assegnato ai tropici estendendo il confine

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africano e riducendo le dimensioni dell’Europa. La proiezione del tedesco Peters è una testimonianza della
non oggettività delle rappresentazioni cartografiche e dell’esigenza di elaborare nuove visioni del mondo
capaci di riflettere le trasformazioni maturate del secondo dopoguerra.

9.6: l’eredità degli imperi:

La dominazione europea lasciò un’eredità assai rilevante ai popoli che si andavano emancipando. Il modello
Stato-nazione. In molti casi le nuove entità statuali mantennero i confini dell’epoca coloniale, confini
generalmente tracciati dagli europei senza tenere in conto le differenze di carattere etnico-culturale
all’interno dei territori da essi conquistati. Con il crollo degli imperi ci furono conflitti tra le diverse comunità
che sfociarono in guerre civili segnate da operazioni di pulizia etnica e migrazioni forzate. Molte costituzioni
dei nuovi stati, furono ispirate a quelle delle ex potenze coloniali, mantennero le strutture istituzionali e
amministrative, infrastrutture, opere edilizie ed elementi culturali come la lingua ufficiale.

La decolonizzazione non recise ogni legame tra i paesi europei e le loro ex colonie. Nel caso del Regno
Unito, queste ultime aderirono in larga maggioranza al British Commonwealth of Nations, organizzazione
formalmente istituita all’inizio degli anni Trenta per riunire i paesi dell’impero di Sua maestà cui venivano
riconosciuti l’autogoverno o l’indipendenza. Il commonwealth stesso cambiò nome su richiesta indiana,
cadde il British.

Anche le altre ex potenze coloniali si adoperarono per convertire l’impero in un’area di cooperazione
politica ed economica, per esercitare la propria influenza sui loro affari. Uno degli strumenti cui fecero
ricorso per trasformare le responsabilità coloniali in vantaggi furono gli aiuti allo sviluppo. All’insieme di tali
dinamiche fu dato il nome di “neocolonialismo”.

La decolonizzazione lasciò un’eredità significativa anche in termini di movimenti di popolazione. Le persone


di origine europea rientrarono nella madrepatria. L’esodo più rilevante fu quello dei pied-noirs dall’Algeria
(1milione), ma anche gli olandesi di ritorno dall’Indonesia, la fuga dei belgi dal Congo. Trovandosi spesso ad
affrontare peri problemi di (re)inserimento nel paese di origine i rimpatriati iniziarono ad avere forme di
nostalgia e a sviluppare un reinserimento: molti di loro avrebbero finito per sostenere i partiti nazionalisti di
estrema destra.

I flussi migratori dalle colonie verso i paesi del vecchio continente, crebbero ancora per effetto delle guerre
di indipendenza, della miseria, dell’instabilità e dei conflitti. Gli ex-sudditi coloniali non erano più studenti in
soggiorno temporaneo ma donne e uomini che per costruirsi una nuova vita in Europa andavano a svolgere
i lavori più umili e mal pagati, sostituendo i lavoratori autoctoni che optavano per impieghi migliori. Così i
movimenti contribuirono all’inversione di un movimento plurisecolare che aveva fatto dell’Europa una terra
di emigrazione.

Le persone provenienti dalle ex colonie andarono a comporre un mosaico di minoranze antiche che arricchì
il profilo sociale dei paesi dell’Europa occidentale tendendoli più multiculturali. Questi migranti si
scontrarono però con atteggiamenti di chiusura e rigetto di natura xenofoba. Il loro arrivo fu percepito come
una sorta di minacciosa invasione che se non contrastata avrebbe stravolto la civiltà stessa.

Reazioni di questo genere derivavano da diffusi stereotipi e pregiudizi di stampo razzista che dovevano
molto alle mentalità degli europei abituati a vedere i colonizzati come ineguali e inferiori. Alle
discriminazioni si andarono a sommare le restrizioni legate all’immigrazione extraeuropee indotte in vari
paesi, le quali relegarono nella clandestinità un numero crescente di stranieri privi dei documenti richiesti
dalla legge.

La dissoluzione degli imperi impose di adattarsi alla scomparsa di un ordine incentrato sul primato europeo.
Le società europee avrebbero faticato molto a rielaborare il proprio passato coloniale. L’interesse e il favore

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verso il processo di integrazione europea appariva come la strada migliore per sostenere lo sviluppo
economico per riconquistare un ruolo di rilievo sulla scena internazionale.

CAP 10: I PRIMI PASSI DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA:

10.1: radici e ragioni dell’europeismo:

Sin dai tempi remoti si coltivava un’idea di Europa unita o di un’associazione dei popoli del vecchio
continente. Fu solo dopo la prima guerra mondiale che l’idea divenne un progetto politico. Negli anni Venti
ci furono i primi progetti. L’austriaco Richard Coudenhove-Kalergi fondò il movimento Paneuropa, che
individuava nell’unificazione economica e politica del vecchio continente la chiave per scongiurare il rischio
di nuove guerre per difendere la supremazia europea. Dopo gli anni Trenta, Paneuropa visse una
lacerazione interna e si sgretolò.

Il testimone fu raccolto dal movimento britannico Federal Union. In una serie di scritti alcuni dei suoi
esponenti più autorevoli denunciarono il nazionalismo additando la necessità di superare la sovranità
statale assoluta attraverso l’unione federale degli Stati Europei.

Con la Seconda guerra mondiale l’europeismo trasse nuova linfa dal rifiuto del “nuovo ordine” hitleriano.
Vari esponenti della resistenza espressero propositi di unificazione, cooperazione e solidarietà a livello
europeo. Fu proprio attraverso l’esperienza della Resistenza che il federalismo europeo poté trasformarsi in
un vero programma d’azione.

Il progetto di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, due antifascisti confinati Ventotene muoveva una critica
radicale alla sovranità assoluta degli Stati nazionali. Il superamento della divisione dell’Europa in stati
nazionali indipendenti, e la sua riorganizzazione federale, gli Stati Uniti d’Europa, erano presentati come
obiettivi di una rivoluzione che avrebbe permesso di mantenere la pace, prevenire il risorgere del
totalitarismo e instaurare ordinamenti democratici più avanzati ed egualitari. Nell’agosto 1943 Spinelli e
Rossi furono tra i fondatori del Movimento Federalista Europeo (MFE), nato per riunire gli antifascisti che
sposavano le tesi espresse nel Manifesto di Ventotene e impegnato poi nella Resistenza.

Nel secondo dopoguerra i movimenti europeisti vissero una stagione di fermento. Essi crebbero con la
propaganda e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica ed esercitarono una certa influenza sui governi.
C’erano due grandi correnti:

- Da un lato le organizzazioni federaliste che volevano l’unificazione politica, uno Stato federale e
un’Assemblea costituente europea (Unione Europea dei federalisti UEF);
- Dall’altro vi erano i gruppi che sposavano la linea di un’integrazione graduale che procedesse per
tappe coinvolgendo via via i settori che apparivano maturi per essere messi in comune, a parte
quelli economici (Lega europea).

I progetti di integrazione dovettero prendere atto che il continente era ormai diviso dalla cortina di ferro e
già nel 1947 la UEF abbracciò la linea del “cominciare in Occidente”, operare per un’unificazione limitata
all’Europa occidentale.

10.2: dal Piano Marshall al Consiglio d’Europa:

Gli Stati Uniti guardavano con favore alla prospettiva dell’integrazione dell’Europa occidentale e la
incoraggiarono. Un mercato aperto, integrato avrebbe mantenuto la pace e consentito all’Europa di
risollevarsi e riprendersi economicamente, riducendo al minimo la capacità di attrazione del comunismo
sulle masse popolari. Un’Europa occidentale unita sarebbe stata più forte e si sarebbe potuta contrapporre
con maggiore efficacia all’URSS.

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Gli americani sollecitarono i paesi europei a cooperare e nel 1948 promossero la creazione
dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), cui aderirono tutti i paesi beneficiari
degli aiuti del Piano Marshall, che sarebbe stato rimpiazzato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico (OCSE).

Sempre nel 1948 si tenne all’Aia il congresso d’Europa, organizzato dai gruppi che stavano confluendo nel
movimento europeo. Alla fine si stabilì che sarebbe stata convocata un’assemblea europea, composta da
delegati scelti dai parlamentari nazionali e investita del compito di elaborare i piani e indicare le misure da
prendere per realizzare l’unione politica ed economica dell’Europa.

Il 5 maggio 1949 i rappresentanti dei maggiori paesi europei firmarono a Londra lo statuto del Consiglio
d’Europa. Nasceva così una nuova organizzazione internazionale il cui scopo era tutelare e promuovere gli
ideali e i principi che sono loro comune patrimonio per favorire il loro progresso economico e sociale. Il
Consiglio, con sede a Strasburgo, aveva due organi: l’Assemblea consultiva e il Comitato dei ministri. La
prima aveva solo una funzione consultiva, ma anche il secondo aveva poteri assai limitati perché poteva solo
raccomandare misure agli Stati e non adottare decisioni per essi vincolanti. Il Consiglio d’Europa non fu
dunque in grado di avviare un reale processo di integrazione europea. L’obiettivo fu mancato soprattutto per
l’assoluta contrarietà del governo britannico a ogni limitazione dell’autonomia dei governi nazionali.

Il Consiglio d’Europa firmò a Roma nel 1950 dopo un anno di discussione la Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali firmata da 31 stati. La convenzione prevedeva l’istituzione di
una Corte europea dei diritti dell’uomo, entrata in funzione nel 1959, deputata a supervisionare il rispetto
della convenzione e giudicare su eventuali violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali avvenute
nei paesi aderenti.

10.3: l’avvio dell’integrazione economica: la CECA:

Il 9 maggio 1950 il ministro degli esteri francese Roberto Schuman propose di mettere in comune la
produzione francese e tedesca di carbone e acciaio, nel quadro di un’organizzazione aperta alla
partecipazione degli altri paesi europei eventualmente interessati. I prodotti avrebbero potuto circolare
liberamente tra i paesi aderenti senza dazi doganali o altre limitazioni.

L’unità europea richiedeva per prima cosa che si risolvesse lo storico contrasto tra Francia e Germania, ma
non poteva farsi in una sola volta. Anche sotto il profilo bellico l’accordo avrebbe fatto sì che una guerra
sarebbe stata materialmente impossibile.

La “dichiarazione di Schuman” costituiva il frutto di una svolta nell’atteggiamento francese nei confronti dei
tedeschi. La Francia dovette fare i conti con il nuovo approccio alla questione tedesca di USA e Regno Unito
che si erano mostrati decisi a risollevare la Germania Ovest anche in funzione antisovietica. Il governo
francese allora puntò a controllare e contenere l’inevitabile ripresa tedesca ancorandola ad una dimensione
comune, all’interno della quale Parigi avrebbe esercitato il ruolo di guida.

La proposta di Schuman fu accolta a favore nella RFT. Anche l’Italia rispose positivamente al piano Schuman.
I governi centristi guidati da De Gasperi seguivano una linea convintamente europeista. Anche qui giocava la
volontà di far riacquistare a un paese sconfitto una posizione di parità con gli altri stati.

Ben diversa era la posizione del Regno Unito. La classe dirigente britannica vedeva il paese come una
potenza imperiale globale. Il governo di Attlee era riluttante a cedere a un’autorità sovranazionale il
controllo di importanti settori economici e voleva evitare che le proprie politiche fossero messe in
discussione o sottoposte a interferenze estere.

Nel 1951 furono i rappresentanti di Francia, RTF, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo a firmare a Parigi il
trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) che prevedeva la formazione di

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un mercato comune fondato sul libero commercio e l’eguale accesso di tutti i paesi membri della comunità
alle risorse e alla produzione del settore carbosiderurgico.

- l’Alta autorità, che controllava e tutelava il mercato, definiva i programmi di sviluppo e adottava
misure per i lavoratori, era composta da otto membri designati dai governi più un nono scelto dagli
otto.
- Il Consiglio dei ministri era incaricato di valutare ex post le decisioni prese dall’Alta autorità
- L’assemblea comune doveva approvare o respingere il resoconto annuale dell’Alta autorità

La CECA costituì la pietra miliare della nuova Europa che iniziava a prendere forma lungo un asse di sviluppo
costituito dalle attività economiche.

10.4: battute d’arresto sul versante militare e politico:

Un mese e mezzo dopo la dichiarazione di Schuman, nel 1950 scoppiò la guerra di Corea. Il leader del nord
comunista, Kim II Sung aveva l’obiettivo di unificare l’intera penisola sotto il suo controllo. La divisione della
Corea e quella della Germania alimentarono negli USA il timore che la demarcazione territoriale potesse
essere violata anche in Europa e Truman si convinse che fosse giunto il momento di riarmare la RFT dopo la
seconda guerra mondiale. Gli americani annunciarono quindi l’intenzione di integrare la Germania Ovest
alla NATO per rafforzare il sistema di difesa dell’Europa occidentale. La prospettiva di un riarmo tedesco
suscitava diffuse preoccupazioni negli alleati e incontrava la netta contrarietà della Francia.

René Pleven propose di costruire sulla falsa riga della CECA una Comunità europea di difesa (CED). Il piano
prevedeva la creazione di un esercito europeo nel quale sarebbero stati integrati anche reparti della RFT
che, a differenza degli altri paesi che avrebbero mantenuto il proprio esercito nazionale, non avrebbe avuto
altre forze armate. La proposta prevedeva l’istituzione di un’Assemblea parlamentare e di un ministro della
Difesa comune, francese.

Le reazioni furono tutt’altro che entusiastiche, e fu necessario un lungo negoziato che modificò la proposta
originale. L’autonomia europea fu allontanata e confermata la tutela statunitense. L’esercito europeo infatti
sarebbe stato integrato nella NATO e sottoposto agli ordini del suo Comando supremo.

La CED prevedeva l’istituzione anche di una sorta di comunità politica. Il compito di definire i lineamenti di
una Comunità politica europea fu affidato all’Assemblea della CECA. I governi cambiarono atteggiamento,
mostrandosi riluttanti ad accettare un eccessivo grado di federalismo e la cessione di quote della sovranità
nazionale a favore dell’autorità politica europea. Lasciarono arenare il progetto della Comunità europea in
una seria di conferenze che non produssero esiti significativi.

In Francia il nuovo governo era ostile a qualsivoglia ipotesi federalista. In Italia, l’uscita di scena di De
Gasperi faceva venir meno il più deciso sostenitore dell’unificazione europea tra i leader di governo. Nel
1954 l’Assemblea nazionale di Parigi respinge il trattato. La CED usciva di scena, e insieme ad esso anche
l’ipotesi di dare vita alla Comunità politica. Nel 1955 la Germania Ovest fece il suo ingresso nella NATO (si
stabilirono limitazioni numeriche per l’esercito tedesco e gli si proibì di dotarsi di ordigni atomici e altri
armamenti strategici).

10.5: i Trattati di Roma e la CEE:

La bocciatura del CED e il fallimento della Comunità politica rappresentarono una battuta d’arresto per il
processo di integrazione europea. Negli anni seguenti, tuttavia, il percorso non si arenò e si registrò un
rilancio della costruzione europea che riprese a svilupparsi.

L’evento che segnò il rilancio dell’Europa fu la Conferenza di Messina tra i ministri Esteri dei paesi della CECA
che si tenne nel 1955:

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- Da un lato si volevano estendere le competenze della CECA alle altre fonti di energia, ai trasporti e a
una comunità settoriale nel campo dell’energia atomica;
- Dall’altro si voleva passare all’integrazione “orizzontale”, cioè on limitata a specifici settori, dando
vita a un mercato comune tra i paesi della CECA da realizzarsi attraverso un’unione doganale, senza
dazi e una politica commerciale comune verso il resto del mondo.

La prospettiva del mercato comune incontrava resistenze soprattutto da parte della Francia, riluttante a
privarsi della possibilità di ricorre al protezionismo per tutelare le proprie produzioni nazionali. La Francia
era la principale sostenitrice della comunità dell’energia atomica.

L’Italia, invece, espresse il proprio interesse verso entrambe le proposte contenute nel memorandum dei
paesi del Benelux (accordo economico composto da Belgio, Paesi bassi e Lussemburgo).

Decisivo per superare le resistenze all’unione doganale fu il mutuato atteggiamento del nuovo governo
francese guidato dal socialista Guy Mollet. Parigi ottenne rilevanti concessioni da altri paesi come la
garanzia che la liberalizzazione sarebbe avvenuta gradualmente, l’inclusione dell’agricoltura nel mercato
comune e una politica agricola comunitaria, che avrebbe offerto alla Francia vantaggiose possibilità di
esportazione.

Nel 1957 i rappresentanti dei governi dei Sei, a Roma in Campidoglio, firmarono due trattati che istituivano
la Comunità economica europea (CEE) e la comunità europea per l’energia atomica (CEEA, meglio nota
come Euratom, destinata a conoscere gli sviluppi meno significativi). Il Trattato CEE prevedeva la nascita di
un mercato europeo comune (MEC) basato sulla libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e
dei servizi. Inoltre, il trattato prevedeva l’avvio di politiche comuni nei settori dell’agricoltura, dei trasporti e
del commercio estero.

Si istituì:

- Un Fondo sociale europeo di supporto al ricollocamento dei lavoratori;


- Una Banca europea per gli investimenti e per finanziare programmi di modernizzazione per le aree
più arretrate;
- Un Fondo europeo di sviluppo, per fornire aiuti ai territori coloniali dei paesi membri.

La mediazione tra i governi costituiva l’architrave del sistema decisionale della comunità.

Come sede delle due Commissioni e dei vertici dei Consigli dei ministri fu scelta la capitale belga Bruxelles,
destinata a diventare una sorta di capitale anche delle istituzioni europee. I trattati di Roma entrarono in
vigore il primo gennaio 1958. Il processo mostrò come l’area di consenso all’integrazione europea si andasse
ampliando, in particolare a sinistra. I comunisti vedevano l’integrazione europea un processo funzionale alle
logiche del capitalismo e agli interessi egemonici degli Stati Uniti.

La nascita del MEC segnò una tappa fondamentale nel processo di integrazione europea. Negli anni
cinquanta l’espansione del commercio estero andava di pari passo con la crescita dei paesi occidentali. Ne
risultò l’incremento del commercio tra i Sei, sempre più legati tra loro da una fitta rete di scambi. Il mercato
comune contribuì ad alimentare la crescita dell’”età dell’oro”, che in certi paesi come la Germania Ovest e
Italia assunse caratteri tali da indurre a parlare di “miracolo economico”.

CAP 11: ECONOMIA E SOCIETA’ NELL’ETA’ DELL’ORO:

11.1: i “trenta gloriosi”:

dopo un avvio stentato la ripresa economica procedette spedita: entro il 1951 tutti i principali paesi della
parte occidentale del continente il PIL era tornato ai livelli massimi raggiunti prima della guerra. Fino ai

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primi anni Settanta ci fu per le economie capitaliste dell’Occidente una fase di crescita impetuosa e di
sensibile miglioramento del tenore di vita, cui si accompagnarono profondi rivolgimenti sociali e culturali.

Quello tra il 1950 e il 1973 fu il periodo di maggior dinamismo vissuto dall’economia mondiale nel corso
dell’intera storia. Hobsbawm definì questi anni come Golden Age. Il PIL europeo aumentò di quasi 3 volte.
La disoccupazione calò fino a scendere sotto il 2% a metà degli anni Sessanta quando ci si venne a trovare in
una situazione di piena occupazione. Il livello di salari e stipendi aumentarono tra due e tre volte.

La crescita fu più rapida e consistente in alcuni paesi europei, mentre più lenta e contenuta dove si partiva
da una base più avanzata.

- Il Regno Unito non andò oltre il 3% annuo;


- In Francia, i 30 anni dopo la guerra furono definiti i Trente glorieuses per celebrare la rivoluzione
invisibile avvenuta nelle condizioni di vita;
- Anche la Spagna, ancora retta dal regime autoritario di Franco, fu investita da un milagro economico
che portò una rapida modernizzazione;
- Portogallo e Grecia rimasero indietro:
- L’Europa orientale fu caratterizzata da un forte sviluppo produttivo e una modernizzazione
accelerata.

Ad alimentare la crescita fu l’aumento della popolazione (305 milioni nel 50 e 358milioni nel 73) dovuto al
babay boom del dopoguerra, cui concorsero anche i mivimenti migratori, gli aiuti americani del Piano
Marshall, l’incremento della produttività, frutto della modernizzazione degli impianti e delle tecniche, la
disponibilità del petrolio a buon mercato, il commercio internazionale, grazie all’incremento del libero
scambio, il processo di integrazione economica europea, il ruolo dei giovani e delle politiche pubbliche,
sempre più orientate a sostenere la crescita attraverso la spesa pubblica, la diminuzione dell’inflazione, gli
interventi per l’occupazione e la limitazione della conflittualità tra lavoratori e datori.

La trasformazione di maggior rilievo fu il declino del settore primario con la correlata espansione
dell’industria e del terziario. Il peso dell’agricoltura diminuì rapidamente soprattutto in termini
occupazionali. Si passò ad un’economia saldamente incentrata sull’industria e i servizi.

11.2: migrazioni e urbanesimo:

I movimenti migratori furono una componente essenziale dell’età dell’oro. Un gran numero di persone si
spostò verso l’Europa o soprattutto all’interno per trovare lavoro, migliorare le condizioni di vita, cogliere le
opportunità offerte dallo sviluppo economico. Diminuirono sensibilmente i flussi in uscita dal vecchio
continente: si invertì il bilancio.

I nuovi arrivati provenivano dal resto d’Europa, inclusi i paesi dell’Est, i possedimenti coloniali e le ex
colonie. Ma nel complesso il volume delle migrazioni all’interno del continente fu di gran lunga superiore a
quello delle migrazioni provenienti dall’esterno. Inoltre, si intensificarono le migrazioni interne allo stesso
paese.

I paesi che avevano guidato il processo di industrializzazione come Regno Unito e Belgio, e quelli che
stavano vivendo un boom economico, come Francia e Germania Ovest, attirarono milioni di lavoratori dai
paesi mediterranei che si trovavano in una condizione di relativa arretratezza.

All’origine dei movimenti migratori vi era un interesse all’import-export della manodopera: i paesi di
destinazione necessitavano forza lavoro abbondante a basso costo per sostenere il proprio sviluppo, mentre
quelli di partenza volevano alleviare la pressione demografica in eccesso e ridurre la disoccupazione
attraverso l’emigrazione.

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Fu così che i paesi stipularono una serie di accordi bilaterali per regolamentare e controllare gli spostamenti
di popolazione attraverso le frontiere.

Inizialmente gli immigrati andarono a fare lavori meno appetibili per livelli salariali e condizioni di lavoro, poi
incrementarono le file della forza valoro richiesta soprattutto dall’industria pesante e dal settore minerario. I
lavoratori immigrati risultavano particolarmente concentrati nelle occupazioni più dure e pericolose, il che
spiega l’elevato numero di stranieri infortunati sul lavoro.

La presenza dei lavoratori immigrati di provenienza europea era per lo più considerata temporanea nei
paesi di arrivo, secondo un modello che prevedeva il loro ritorno in patria dopo un certo periodo. Di
conseguenza gli Stati erano inclini a escludere gli immigrati da diritti e benefici sociali riservati ai propri
cittadini.

Con il passar del tempo, la tendenza dei lavoratori stranieri a stabilizzarsi e il moltiplicarsi dei
ricongiungimenti familiari. Anche per questo i paesi dell’Europa centro-settentrionale si sarebbero
adoperati per porre un freno all’immigrazione per lavoro come una serie di provvedimenti per ostacolare e
contenere l’afflusso di stranieri. Non erano mai mancati nelle società di approdo atteggiamenti di chiusura e
ostilità nei loro confronti, di xenofobia.

L’Italia era il paese da cui provenivano più immigrati. I governi avevano individuato nell’emigrazione un
fattore strategico per affrontare la ricostruzione, favorendo gli espatri al fine di alleviare la disoccupazione e
allentare le tensioni sociali. Ci furono una serie di accordi tra cui nel 1955 quello con RFT che divenne la
meta principale degli emigranti italiani.

Fu un’emigrazione assistita, ovvero pianificata e controllata dalle autorità italiane in tutte le sue fasi. In
pratica però la realtà del lavoro all’estero era diversa e gli accordi bilaterali venivano parzialmente rispettati,
la condizione occupazionale era precaria e i salari esigui, il vitto insufficiente e le condizioni abitative
lasciavano a desiderare.

Questi fattori indussero molti lavoratori a emigrare clandestinamente, senza seguire le procedure ufficiali:
così però andarono a costituire una manodopera priva di tutele legali e ancora più esposta allo
sfruttamento.

I flussi migratori interni si intensificarono: dalle aree rurali e dai piccoli centri verso le città, e dalle regioni
più arretrate verso quelle più sviluppate. Ne risultò una forte spinta all’urbanesimo. In Italia si muoveva
principalmente il Centro-Sud verso Roma e il triangolo industriale Genova-Milano-Torino.

La crescita delle città fu importante. All’incremento demografico si accompagnarono ovunque il boom


edilizio e l’espansione urbana. In linea di massima all’efficace regolamentazione pubblica che guidò lo
sviluppo di molte città del Nord contrapposero forme di crescita urbana incentrata sugli interessi privati e si
un’incontrollata speculazione edilizia. L’urbanizzazione spontanea incise negativamente sullo sviluppo e
sulla vivibilità dei territori urbani.

Al basso livello di comfort del patrimonio abitativo si andavano a sommare gli effetti della rapida crescita
demografica dovuta all’incremento delle nascite e ai movimenti di popolazione. Sovraffollamento e
coabitazione erano già largamente diffuse. Agglomerati di baracche si ampliarono ai margini delle grandi
città, come le bidonvilles di Parigi e i borghetti romani.

In tutti i paesi furono adottate politiche volte a favorire la costruzione di case attraverso iniziative private,
cooperative e piani di edilizia pubblici rivolti alle classi popolari ma anche ai ceti medi.

In Francia la forma più tipica fu quella dei grands ensembles; grandi complessi di massicci edifici residenziali
ad affitto moderato, costruiti alla periferia delle città sfruttando le nuove tecniche della prefabbricazione e
della standardizzazione edilizia. Per chi passava dalle baraccopoli era la scoperta del progresso: scarico per i

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rifiuti, ascensori, riscaldamento centralizzato non erano più privilegio esclusivo dei palazzi borghesi.
Ciononostante erano penalizzati dall’inadeguatezza dei trasporti pubblici, dalle carenze alla manutenzione
oltre che alla concentrazione di popolazione disagiata. Si trasformarono in quartieri-ghetto, stigmatizzati
come ambienti anonimi e disumanizzati che avrebbero favorito lo sviluppo di comportamenti devianti. Così
negli anni Settanta questo modello insediativo fu abbandonato.

11.3: rivoluzione dei consumi e trasformazioni sociali:

Negli anni Cinquanta ci fu una forte crescita dei consumi privati e un cambiamento nella loro composizione.
Cresceva la quota che gli individui potevano spendere per i consumi secondari, beni e servizi non di prima
necessità, ad esempio la cura e la bellezza della persona, l’arredamento della casa, la mobilità o il tempo
libero. Questa “rivoluzione dei consumi” fu resa possibile dalla diminuzione dei prezzi, l’aumento delle
retribuzioni, dai progressi della produzione agricola e industriale e da forme di agevolazioni come il credito
a consumo e la rateizzazione dei pagamenti. Nonché i crescenti investimenti pubblici nel welfare.

Elettrodomestici e mezzi di trasporto privati (automobili) furono l’aspetto più vistoso della rivoluzione dei
consumi. La televisione si diffuse con straordinaria rapidità, così come le automobili; l’era della
modernizzazione di massa alimentò il nuovo fenomeno del turismo di massa nei fine settimana e nelle
vacanze estive.

Per i profondi cambiamenti nella quotidianità e un miglioramento del tenore di vita si parlò di avvento della
società del benessere e anche di democratizzazione del comfort e del lusso.

Prendeva forma una moderna società dei consumi di massa. L’Europa seguiva così gli Stati Uniti che avevano
intrapreso questo percorso già da diversi decenni. Fu da oltreoceano che provenivano alcune delle novità
più significative dell’”età dell’oro”: dalla coca-cola ai blue jeans, dal jukebox ai format televisivi, dalle
tecniche di marketing basate sulle indagini di mercato ai supermercati self service.

Inoltre dagli Stati Uniti proveniva una quota rilevante dei film proiettati nelle sale europee e il cinema
hollywoodiano costituivano un potente veicolo di diffusione dell’American way of life. È lecito parlare di
“americanizzazione”? Gli intellettuali denunciavano l’omologazione e l’appiattimento culturale. In realtà, i
beni, i modelli, i messaggi furono mediati con tradizioni, adattati e rielaborati in forme originali.

La rivoluzione dei consumi ebbe rilevanti implicazioni di natura politica poiché il miglioramento delle
condizioni di vita e le nuove opportunità di consumo si rivelarono elementi determinanti nel consolidare il
consenso ai sistemi democratici. One dimensional man (1964) di Herbert Marcuse, intellettuale marxista:
solo gli esclusi, ovvero gli emarginati, delle società capitalistiche e i popoli del terzo mondo, avrebbero
potuto mettere in discussione il sistema e infine rovesciarlo.

Negli anni Sessanta i giovani si andarono a configurare come un gruppo sociale in sé. Particolarmente
accentuato era il gap generazionale tra i figli del baby boom e i loro genitori segnati dal clima della Grande
crisi e della guerra. I consumi giovanili divennero una realtà di primaria rilevanza soprattutto nella musica e
nel vestiario. Seguendo mode e tendenza nate negli USA o nel Regno Unito, i giovani svilupparono una
propria cultura di massa. Essi coltivavano, attraverso il rock di band inglese, abbigliamento o il trucco, la
propria diversità e indipendenza rispetto agli adulti e non uno spirito di rivolta. I giovani divennero un
gruppo capace di esercitare un’inedita influenza sull’intera società arrivando a dettare gusti, tendenze,
atteggiamenti anche agli adulti: il giovanilismo.

Gli anni Sessanta furono più all’insegna di un rilassamento dell’etichetta e l’affermazione di una moda più
comoda e casual, ancorata al gusto personale piuttosto che alle convenzioni sociali e una maggiore libertà
sessuale, favorita dalla diffusione della pillola anticoncezionale.

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Non furono sovvertite tutte le strutture sociali. Nell’ambito familiare era comunque saldo il modello della
famiglia nucleare (coppia etero sposata con figli) fondata sulla condivisa accettazione del primato del
marito, anche a livello giuridico, e sulla subordinazione della moglie, deputata a darsi carico delle esigenze
del marito, dei figli e della casa. L’egemonia di questo modello aveva motivazioni politiche, soprattutto per i
partiti moderati come i CD che della sua tutela fecero una bandiera. Un esempio è la repressione
dell’omosessualità , illegale nel regno unito fino al 1967.

Lo sviluppo economico, le migrazioni, l’urbanesimo, la rivoluzione dei consumi favorirono la


secolarizzazione, ovvero il declino della pratica religiosa e l’affievolirsi dell’influenza delle istituzioni
ecclesiastiche sulla società.

Giovanni XXIII era improntato a un atteggiamento più aperto nei confronti del mondo contemporaneo, alla
trasformazione della Chiesa. Il “papa buono” emanò encicliche innovative che incoraggiavano i poteri
pubblici ad adottare una politica di riforme per contrastare agli squilibri economici e promuovere la giustizia
sociale, ed esortava i paesi ricchi ad aiutare quelli poveri senza cadere nel neocolonialismo. Poi aprì il
Concilio Vaticano II che introdusse la celebrazione della messa nelle lingue moderne non più in latino e
rilanciò il processo riformatore della Chiesa.

11.4: un’altra modernizzazione: l’Europa orientale:

Le società dell’Europa orientale conoscevano una modernizzazione accelerata che presentavano tratti
specifici e distinti. I partiti comunisti introdussero nei paesi un modello economico ricalcato su quello
sovietico (industrializzazione forzata, pianificazione centrale, collettivizzazione agricola). La collettivizzazione
nelle campagne procedette con ritmi diversi e raggiunse livelli non omogenei nei vari paesi.

I primi piani quinquennali diedero esiti largamente positivi grazie ai grandi investimenti dell’industria
pesante e nel settore della difesa. La collettivizzazione agricola invece produsse effetti tutt’altro che
soddisfacente in termini di produttività. I consumi privati e il tenore di vita della popolazione tendevano a
essere sacrificati alle superiori esigenze dello sviluppo militare e industriale.

Del tutto particolare fu il cammino della Jugoslavia, che adottò un sistema misto basato sull’autogestione
delle imprese da parte dei lavoratori organizzati in consigli elettivi e poi anche su una parziale
liberalizzazione degli scambi e dei prezzi. La Jugoslavia, apertasi al commercio con l’occidente e al turismo
estero, visse un significativo sviluppo economico che consentì un aumento dei consumi cui si
accompagnavano però fenomeni come la disoccupazione, l’inflazione e le forti disuguaglianze sociali.

A Mosca, Chruscev destinò maggiori risorse alla produzione dei beni di consumo e al soddisfacimento dei
bisogni fondamentali della popolazione, le cui condizioni di vita andarono leggermente migliorando. Si
accompagnarono i successi nella corsa allo spazio, che introdusse l’Unione Sovietica a sfidare l’occidente sul
terreno economico.

Alcuni paesi satelliti cercarono di intraprendere percorsi di riforma per superare i problemi della
pianificazione centralizzata. Come Ungheria e Cecoslovacchia dove il processo riformatore fu brutalmente
represso dai sovietici.

Per quanto riguarda l’agricoltura, dopo la morte di Stalin si ebbe una breve stagione di decollettivizzazione.
Polonia a parte, negli anni ’50 e ’60 i paesi del blocco sovietico furono investiti da una seconda ondata di
collettivizzazione; in vari paesi tuttavia, fu concessa ai contadini la facoltà di mantenere piccoli
appezzamenti privati, insieme alla proprietà degli attrezzi e degli animali.

Fu un periodo di indubbia vitalità economica. Il PIL crebbe, si diffuse un benessere, e si registrarono


progressi nel regime alimentare, nell’aspettativa di vita e ella disponibilità dei beni di consumo. Nel

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complesso, grazie alla crescita economica, in questo periodo il divario tra i paesi dell’Est e l’Europa
occidentale tese a ridursi, sebbene la differenza nel tenore di vita restasse cospicua.

Anche qui il fenomeno più cospicuo fu l’esodo delle campagne, verso le città per prospettive occupazionali
nell’industria e per le possibilità che offriva la vita urbana. Piccoli paesi si trasformavano in centri urbani di
media taglia. Nelle periferie urbane di vecchie e nuove città sorsero innumerevoli quartieri di edilizia
popolare destinate ad accogliere i nuovi inurbati, molti dei quali vi trovarono la propria via d’accesso alla
modernità.

CAP 12: LE DUE EUROPE NEGLI ANNI SESSANTA:

12.1: le due nuove forme del confronto Est-Ovest:

La fase più acuta della guerra fredda si chiuse intorno alla metà degli anni Cinquanta, lasciando il campo ai
nuovi scenari della coesistenza pacifica tra i due blocchi. Non mancarono scontri tra gli Stati Uniti e Unione
Sovietica.

Una crisi si aprì a Berlino. Mosca doveva sostenere economicamente un regime debole ed esposto al rischio
del collasso per l’esodo dei cittadini tedesco-orientali che si postavano verso la Germania Ovest che viveva il
proprio miracolo economico. Il 10% della popolazione della RDT, soprattutto giovani, emigrò verso Ovest.

Chruscev lanciò un ultimatum nel 1958: se gli occidentali non avessero acconsentito a stipulare un trattato
di pace sulla Germania, che avrebbe implicato la fine dell’occupazione e il loro ritiro da Berlino, i sovietici
avrebbero firmato un trattato separato con la RDT, cui avrebbero lasciato il controllo sugli accessi a Berlino
Ovest. L’ultimatum fu ignorato, senza conseguenze. Nel 1961 Chruscev lo propose a Kennedy, disposto a
difendere Berlino Ovest con la forza. Chruscev diede l’autorizzazione a isolare fisicamente i quartieri
occidentali.

Nella notte del 13 agosto 1961 iniziò la costruzione di un “muro di protezione antifascista” tutto intorno a
Berlino Ovest. Due massicce pareti parallele di cemento armato separate dalla “striscia della morte” dove
numerosi fuggiaschi furono freddati dalle guardie di frontiera mentre tentavano di scappare. Il muro di
Berlino divenne il simbolo dell’Europa divisa.

Il culmine della tensione fu quando gli americani scoprirono che i sovietici stavano schierando dei missili
nucleari a Cuba, dove nel 1959 si era insediato un regime rivoluzionario guidato da Fidel Castro: per alcuni
giorni il mondo sembrò sull’orlo di una guerra nucleare (mutually assured destruction), che venne
scongiurata grazie all’accordo tra Kennedy e Castro.

Si aprì l’epoca della distensione che si basava sul reciproco riconoscimento di legittimità tra le due
superpotenze, con le rispettive sfere d’influenza.

- Il primo frutto della distensione fu il trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari
nell’atmosfera, nello spazio e sott’acqua, firmato da USA, URSS e Regno Unito a Mosca nel 1963.
Erano consentiti solo gli esperimenti nel sottosuolo, aderirono poi un gran numero di paesi.
- Un secondo trattato fu quello del 1968 di non proliferazione nucleare, che avrebbe vietato il
trasferimento di tecnologia nucleare ai paesi che intendessero usarla per fini bellici.

L’antagonismo bipolare tra USA e URSS si era spostato dal confronto militare alla competizione economica e
tecnologica. Competizione rappresentata dalla corsa allo spazio. In principio l’URSS ottenne molti successi:
nel 1957 il primo satellite artificiale della storia, lo Sputnik (compagno di viaggio), nel 1961 Jurij Gagarin fu il
primo uomo mandato sullo spazio. Negli anni seguenti però, gli USA recuperarono l’iniziale ritardo
nell’esplorazione del cosmo e sopravanzarono i rivali con lo sbarco sulla luna del 1969.

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L’antagonismo tra i due blocchi si stemperò anche grazie al procedere della distensione intraeuropea. Varie
forme di dialogo e di collaborazione, iniziative di cooperazione, rapporti commerciali, turisti verso l’est e
soprattutto il ripensamento della politica della RFT verso l’est.

Willy Brandt, leader del partito socialdemocratico e borgomastro di Berlino Ovest, auspicò una nuova
Ostpolitik incentrata sull’accettazione degli assetti postbellici e sul riavvicinamento tra le due metà d’Europa
tramite lo sviluppo del dialogo e degli scambi. Negli anni seguenti Brandt divenne ministro degli esteri e poi
capo del governo.

L’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII del 1963 faceva appello ai politici affinché perseguissero
con la massima determinazione obiettivi vitali per il bene della comunità umana, quali la distensione
internazionale, la pacifica convivenza tra i popoli, la riduzione degli armamenti e la messa al bando di quelli
nucleari.

Negli anni Sessanta i paesi dell’Europa occidentale erano autonomi rispetto agli Stati Uniti. I motivi erano sia
il rafforzamento sul piano economico e politico ma anche le difficoltà statunitensi a causa dei sempre più
onerosi impegni internazionali e dei primi scricchiolii del sistema monetario definito a Bretton Woods. Gli
americani avevano stampato molti più soldi delle riserve auree del paese.

L’egemonia americana sul blocco occidentale si indebolì e insorsero frizioni con gli alleati europei, non più
pronti a seguire la linea Washington senza riserve. Soprattutto la Francia di De Gaulle, che nel 1966 uscì
dalla NATO (pur restando nel patto atlantico).

12.2: l’URSS e l’Europa orientale:

In Unione Sovietica il differenziale tecnologico e il divario delle performance economiche rispetto


all’occidente si andavano allargando. L’economia ufficiale faticava a soddisfare i bisogni dei cittadini.

Il riformismo di Chruscev che più volte aveva sfidato gli occidentali suscitò un malcontento e nel 1964 venne
rimosso da tutte le cariche. A succedergli come segretario del PCUS fu Leonid Breznev.

Breznev aveva una personalità meno brillante e carismatica ma aveva il pregio di rassicurare l’élite del
partito. Promise al popolo sovietico pace e tranquillità, il tempo dei rischiosi esperimenti era finito.

Furono introdotte misure a favore di operai e contadini, la settimana lavorativa accorciata, il salario minimo
aumentato. Le esigenze dell’economia civile e il tenore di vita dei cittadini restavano però sacrificati alla
priorità del riarmo finalizzato alla competizione con gli Stati Uniti. Le disfunzione e le difficoltà economiche
che andavano aggravandosi. Così la dirigenza sovietica tornò a metodi di governo più autoritari rispetto
all’epoca chrusceviana.

Nella RDT l’innalzamento del tenore di vita e l’aumento dei consumi si accompagnarono invece al
permanere di un rigido controllo sui mezzi di comunicazione e alla sorveglianza sulla popolazione effettuata
dalla STASI, l’onnipresente polizia segreta deputata ad assicurare la sicurezza dello Stato. Nel complesso le
condizioni di vita andarono migliorando.

Per indicare la realtà dell’Unione Sovietica e dei paesi del blocco orientale si diffuse l’espressione
“socialismo reale”. All’inizio degli anni Sessanta si cercò di rilanciare la cooperazione economica tra i paesi
del blocco attraverso il COMECON (consiglio di mutua assistenza economica).

Il programma era fondato su una precisa divisione internazionale del lavoro secondo criteri di
specializzazione e complementarietà. Ma non tutti gli stati satelliti si mostrarono pronti a sottomettersi alla
pianificazione sovranazionale voluta da Mosca.

Romania e Albania resistettero. La Romania sviluppò un’originale forma di comunismo nazionale,


conquistando una certa autonomia da Mosca migliorando i rapporti con i paesi occidentali. L’Albania invece

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operò una svolta filocinese, si schierò al fianco di Pechino ma l’isolamento in cui si trovò non favorì il
miglioramento delle sue condizioni di paese più povero d’Europa.

12.3: l’Europa occidentale tra stabilità e ricerca di nuovi equilibri:

In diversi paesi dell’Europa occidentale negli anni ’60 il potere tornò ai socialisti e ai socialdemocratici, fino
ad allora relegati all’opposizione rispetto alle forze conservatrici e cristiano-democratiche. La sinistra tornò a
governare grazie a una linea più moderata e pragmatica. L’età dell’oro stava portando a grandi
diseguaglianze, e per governare questi processi si pensò di coinvolgere la sinistra nelle responsabilità di
governo. Alla fine degli anni ’50 ci furono importanti novità per alcuni dei principali partiti socialisti e
socialdemocratici.

Il Labour Party britannico e la SPD (partito socialdemocratico tedesco) presero atto che la crescita
economica, lo sviluppo della società dei consumi e l’innalzamento del tenore di vita segnavano un’evidente
vitalità del capitalismo, smentendo i postulati marxisti dell’ineluttabile impoverimento della classe operaia e
della proletarizzazione dei ceti medi.

Anche in Italia il PSI cambiò linea dopo la destalinizzazione e l’invasione dell’Ungheria e il segretario Petro
Nenni abbandonò le posizioni filosovietiche e ruppe l’alleanza con il PCI. Esauritasi la stagione del
centrismo, la DC si aprì con prudenza alla collaborazione con il PSI. I socialisti entrarono a far parte del
nuovo esecutivo guidato da Aldo Moro, segretario della DC. Si avviava così la stagione del centro-sinistra. Si
avviava così la stagione del centro-sinistra. Le realizzazioni non furono pari alle attese.

Fu uno dei fattori che contribuirono a riportare la sinistra al governo.

L’SPD abbandonò il marxismo e adottò una nuova piattaforma di orientamento democratico e riformista,
per liberarsi dei connotati di partito della classe operaia per acquisire il profilo di una forza genericamente
popolare. La linea più moderata dei socialdemocratici o socialisti fece guadagnare loro nuovi consensi e, in
Italia e Germania Ovest, facilitò le alleanze con le forze politiche di centro.

Nella RTF nel 1966 si ruppe l’alleanza tra i cristiano-democratici della CDU e i liberali. La CDU decise di
formare una Grosse Koalitions con la SPD. Era la prima volta che la SPD partecipava al governo dopo la
guerra. La coalizione durò fino al 1969.

Nel Regno Unito, infine, il Labour vinse le elezioni del 1964 e tornò al potere con Wilson. Il governo
labourista diede la priorità alla stabilizzazione della sterlina per ragioni di prestigio internazionale, anche se
venne svalutata nel 1967. Wilson rinunciò a gran parte delle riforme sociali che aveva promesso, per
adottare misure di austerità come l’aumento delle tasse e del prezzo della benzina o il contenimento della
spesa pubblica.

Per la Francia gli anni ’60 furono contraddistinti da una salda egemonia conservatrice. Il generale De Gaulle,
richiamato alla guida del governo per risolvere la crisi algerina, ottenne dal parlamento la concessione di
poteri straordinari e l’avvio di un processo di revisione costituzionale. Con la nuova costituzione nasceva la
Quinta repubblica, di cui De Gaulle venne eletto presidente. Nel 1962 si tenne un altro referendum che
sancì l’elezione diretta del presidente della Repubblica: veniva così ulteriormente rafforzata una figura che
già la nuova carta costituzionale aveva potenziato, facendo della Francia un regime semipresidenziale, nel
quale il potere esecutivo era condiviso dal presidente della repubblica e del governo. De Gaulle si fece
promotore di una politica nazionale volta a rilanciare la Francia con l’obiettivo di porla alla testa di
un’Europa svincolata dalla logica dei blocchi.

Nell’Europa meridionale invece, permanevano i regimi autoritari di Franco e Salazar nella penisola iberica e
si andava ad aggiungere un’altra dittatura di destra della Grecia, dove nel 1967 i militari si impossessarono
del potere con il “golpe dei colonnelli”.

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I paesi scandinavi (Danimarca, Svezia, Norvegia) continuavano ad essere governati dai partiti
socialdemocratici che raccoglievano ampi e crescenti consensi.

12.4: sistemi di welfare e modello sociale in Europa:

I governi socialdemocratici dotarono i paesi scandinavi di sistemi di welfare, al fine di garantire la sicurezza
sociale a tutti i cittadini, soprattutto in Svezia, il modello del moderno stato sociale. La spesa sociale crebbe
sensibilmente in tutti i principali paesi, anche nei paesi minori. Nel complesso i paesi europei si attestavano
su livelli superiori rispetto agli Stati Uniti e al Canada.

Gli anni ’50 furono “l’età d’oro” del welfare state in Europa occidentale. Con l’estensione della copertura
delle tutele previdenziali, assistenziali e sanitarie a fasce sempre più ampie della popolazione si andavano
consolidando i tratti di quel modello sociale europeo che divenne una cifra distintiva del vecchio continente.

Esistevano due tipi di sistemi di welfare: quelli universalistici (una copertura di base fornita dallo stato a tutti
i cittadini contro la vecchiaia, la disoccupazione, gli infortuni, l’invalidità e la malattia) e quelli occupazionale
(casse mutue fornivano le prestazioni previdenziali, assistenziali e sanitarie alle diverse categorie di
lavoratori che versavano i contributi necessari a finanziare gli schemi di protezione sociale).

Le politiche sociali erano ancora improntate su un modello standard di famiglia nucleare fondata su un
matrimonio stabile e su una precisa ripartizione dei ruoli di genere. Il male breadwinner assicura al nucleo
familiare il sostentamento con i proventi del proprio lavoro retribuito, mentre alla donna spettano i compiti
di cura, soprattutto nei confronti di bambini, anziani e portatori di handicap.

Indicazioni convergenti vengono anche nell’Europa orientale. Gli stati comunisti istituirono stesi sistemi di
welfare che prevedevano istruzione e sanità gratuite per tutti i cittadini. Aumentarono i medici, gli
infermieri, diminuì la mortalità infantile e si allungò l’aspettativa di vita, mentre la scolarizzazione di massa
debellò l’analfabetismo.

Nel compresso gli europei godevano di standard di protezione sociale più elevati rispetto alle generazioni
precedenti nonché agli altri continenti: grazie ai sistemi di welfare e alle connesse politiche redistributive,
l’Europa poteva vantare il primato della minore disuguaglianza sociale a livello mondiale.

12.5: l’integrazione europea: sviluppi e contrasti:

Il leader del processo di integrazione europea negli anni 60 è De Gaulle. L’Europa autonoma a guida
francese doveva essere basata sulla cooperazione tra gli stati, la centralità dei governi nazionali, senza
spazio per istanze sovranazionali e istituzioni comunitarie con la CEE.

Il progetto una nuova costituzione europea, l’Unione di Stati, fu presentato dal governo di Parigi nel 1960 e
prevedeva una cooperazione economica, politica, culturale e di difesa. L’ispirazione non era federalista ma
unionista. Gli obiettivi di De Gaulle non era condivisa da Belgio e Olanda che temevano un’eccessiva
egemonia francese sull’Europa. Così fallì il progetto dell’Unione di Stati.

Nel 1962 fu avviata la Politica Agricola Comune (PAC), che secondo il trattato di Roma doveva incrementare
la produttività dell’agricoltura, stabilizzare i mercati, garantire la sicurezza degli approvvigionamenti,
sostenere i redditi della popolazione rurale e assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori. Fulcro del sistema
erano i prezzi comunitari, fissati annualmente per i prodotti della terra e dell’allevamento.

Da un lato la PAC era funzionale soprattutto all’esigenza della Francia, grande produttore agricolo, di trovare
uno sbocco protetto per i propri prodotti all’interno della CEE. Dall’altro la scelta di privilegiare gli interessi
dei produttori a quelli dei consumatori rispondeva all’obiettivo politico di dare sostegno alla famiglia
contadina in chiave sociale e del consenso in un mondo rurale investito da epocali processi di cambiamento
che ne mettevano a repentaglio gli assetti tradizionali.

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Negli anni 60, si pose il problema dell’allargamento della CEE. Nel 1961 il Regno Unito presentò la domanda
di adesione, perché il commercio estero era sempre più rivolto ai paesi comunitari e diminuivano le quote di
interscambio con il Commonwealth. Alla domanda si associarono Irlanda, Danimarca e Norvegia.

Il governo inglese però chiese rilevanti deroghe alle regole del MEC per non sacrificare gli altri legami
commerciali. Queste richieste incontrarono diffuse resistenze tra i Sei. In primis da De Gaulle che,
preoccupato di contendersi la leadership con il Regno Unito, dichiarò il commercio britannico incompatibile
con le regole del MEC nel 1963. Nel 1967 fu presentata una seconda domanda, esito analogo.

La Francia di De Gaulle fu protagonista anche di uno scontro con gli altri paesi della CEE che si intrecciava
con il nodo dei rapporti tra organi comunitari e stati nazionali.

La soluzione fu trovata nel 1966 con il “compromesso di Lussemburgo”. Si stabilì che il Consiglio dei ministri
si sarebbe dovuto fare ogni sforzo per raggiungere l’unanimità sulle proposte che toccavano interessi vitali.
Fu imposto alla Commissione di sottoporre preventivamente ogni proposta importante al vaglio degli
esecutivi nazionali. I governi dunque uscivano vittoriosi perché avrebbero potuti continuare a controllare
ogni sviluppo del processo di integrazione, bloccandolo se gradito.

12.6: sfide all’ordine costituito, 1968:

Nella seconda metà degli anni Sessanta l’ordine costituito venne messo in discussione su entrambi i versanti
della cortina di ferro. Le sfide più significative furono lanciate nel 1968, anni in cui i moti di rivolta giovanile
animati principalmente dagli studenti universitari, passati alla storia come “il sessantotto”, si manifestarono
ai quattro angoli del pianeta, con aspetti comuni a livello transnazionale e al tempo stesso caratteri specifici
nei diversi contesti nazionali e locali. Teatri principali furono Francia, Italia e Germania Ovest.

Ragazzi e ragazze iniziarono a sviluppare una propria cultura giovanile e con essa una nuova coscienza
generazionale. Ci furono diverse tensioni sul passaggio dall’università d’élite a quella di massa. Una
popolazione studentesca in crescita di trovava a fare i conti con strutture inadeguate, norme antiquate,
didattica tradizionale e difficoltà di inserimento nel lavoro per la svalutazione dei titoli accademici.

Dal punto di vista ideologico, il movimento studentesco attinse alla “nuova sinistra”: intellettuali
anticapitalisti, che rigettando il modello sovietico, si impegnano in un ripensamento critico del marxismo,
volto a delineare nuove forme di socialismo al passo con le trasformazioni della Golden Age. Gli elementi
principali furono l’antiautoritarismo e l’antimperialismo. Il rifiuto dell’autoritarismo accademico e la messa
in discussione dei meccanismi gerarchici furono estese a tutte le strutture sociali, dalla famiglia alle
istituzioni.

Il movimento adottava il principio del “partire da sé” per cambiare il mondo.

Sul piano internazionale il sostegno alle lotte per l’autodeterminazione si accompagnava nel Terzo mondo
alla protesta contro la guerra in Vietnam. Il Vietnam dopo il ritiro dei francesi dall’Indocina era stato diviso
in due stati: il nord comunista e il sud filoccidentale. Gli USA inviarono numerosi militari per contrastare la
guerriglia dei Vietcong, combattenti sud-vietnamiti, che con l’appoggio del nord si battevano per rovesciare
il governo e riunire le due metà del paese sotto la guida dei comunisti.

Gli studenti europei elessero a proprie icone figure rivoluzionarie come il leader nord-vietnamita Ho Chi
Minh, capace di tenere testa all’esercito più potente del mondo (anche ricorrendo alla distruzione e alla
violenza); il cinese Mao Zedong, esaltato per la rivoluzione culturale da lui lanciata nel 1966, che fu una
spietata repressione degli oppositori ma venne percepita come una campagna antiburocratica condotta dai
giovani; Ernesto Che Guevara, eroe della Rivoluzione cubana che aveva lasciato il posto da ministro per
rilanciare la lotta antimperialista on Congo e poi in Bolivia, dove morì bel 1967.

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Rifiuto della delega, assemblearismo, partecipazione e azione diretta furono i principi che ispirarono le
nuove forme della mobilitazione. Gli studenti si mossero autonomamente scendendo in strada, occupando
le facoltà, che vennero trasformate in centri di elaborazione politica e culturale dove sperimentare le attività
didattiche alternative e nuove dinamiche comunitarie.

In Francia l’epicentro del Sessantotto fu Parigi. Gli studenti occuparono alcuni spazi universitari come
protesta. La mobilitazione si estese poi dalle università al mondo del lavoro. Fu proclamato uno sciopero
operaio in solidarietà con il movimento studentesco e contro il governo. Si moltiplicarono le occupazioni
nelle fabbriche e si unirono altre categorie professionali alle mobilitazioni, come impiegati pubblici,
dipendenti delle banche e dei grandi magazzini, giornalisti etc.

Il paese si trovò in una situazione di paralisi e sospensioni, così De Gaulle annunciò lo scioglimento
dell’Assemblea nazionale e la convocazione di nuove elezioni. Si tornò all’ordine. Le barricate vennero
rimosse, le università sgomberate, gli scioperi cessarono. Le forze conservatrici si strinsero attorno a De
Gaulle che seppe riportare una netta vittoria alle elezioni.

Fu una spettacolare manifestazione ma si trattò di una fiammata, destinata a spegnersi altrettanto


rapidamente come si era accesa.

In Italia, invece, il Sessantotto ebbe una maturazione più lenta attraverso le agitazioni del 1967-68 e segnò
l’inizio di un decennio di forte mobilitazione sociale, tanto da parlare di un “maggio strisciante”.

L’apice della mobilitazione fu raggiunto all’inizio della primavera, dopo che il 1 marzo la “battaglia di Valle
Giulia” sede della facoltà romana di architettura, dove gli studenti si scontrarono con la polizia, aveva
segnato una svolta nel rapporto del movimento con la violenza di piazza.

Gli studenti cercavano un collegamento con le lotte operaie: autoritarismo, egualitarismo, rifiuto della
delega, assemblearismo, erano parole che riecheggiavano nelle lotte operaie. Grazie a queste lotte gli
operai ottennero vantaggiosi rinnovi contrattuali, cui seguì nel 1970 l’approvazione dello Statuto dei
lavoratori che introdusse importanti misure a tutela delle dignità del lavoro e della libertà sindacale, ad
esempio il regolamento del cottimo, i controlli sui luoghi di lavoro proibendo pratiche lesive dell’attività dei
lavoratori, il diritto di assemblea, etc.

In Germania Ovest i giovani imputarono agli adulti di non aver fatto i conti con la pesante eredità del
nazismo e denunciarono la continuità tra il Terzo Reich e la RTF a livello di strutture di potere e classi
dirigenti. A guidare la protesta fu la Lega socialista tedesca degli studenti (SDS). La SDS aveva formato con
altre associazioni studentesche e alcune organizzazioni sindacali un fronte noto come Opposizione
extraparlamentare, schierata contro il varo di norme che prevedevano la limitazione dei diritti civili e politici
in caso di proclamazione dello stato di emergenza. Ci furono duri scontri con le forze dell’ordine. Fu l’inizio
di una radicalizzazione delle forme d’azione del movimento, nel cui repertorio entrò la violenza. Il
movimento degli studenti rimase isolato e incassò un’arma sconfitta con le leggi di emergenza. La
mobilitazione iniziò a declinare e poco dopo poteva dirsi esaurita.

Il Sessantotto ebbe un impatto molto limitato in termini concreti, non ci fu nessun rovesciamento
dell’ordine costituito, gli equilibri politici non furono alterati. Tuttavia, su un piano generale, il Sessantotto
innovò radicalmente le forme della politica e introdusse nelle società europee fermenti di liberazione e
democratizzazione che sarebbero maturati negli anni seguenti. Sulle ceneri della rivolta giovanile sarebbero
germogliati nuovi movimenti come quello femminista, o i fenomeni della lotta armata e del terrorismo che
avrebbero scosso in particolare Italia e Germania.

In Europa orientale gli eventi ebbero solo in parte carattere analogo per il diverso contesto in cui
maturarono, regimi autoritari del “socialismo reale”.

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A innescare la protesta fu la Polonia, gli studenti scesero in piazza, occuparono le università, ma la


mobilitazione venne stroncata da una dura repressione che colpì studenti e docenti.

Anche in Jugoslavia scoppiarono moti di contestazione: l’Università di Belgrado fu occupata dagli studenti
che rivendicavano maggiore libertà e democrazia, denunciando i privilegi dell’élite e il riemergere delle
disuguaglianze sociali tra la popolazione. Il movimento si estese ad altri atenei ma le agitazioni rientrarono
presto dopo che il presidente Tito ebbe rivolto agli studenti parole comprensive e rassicuranti in un discorso
televisivo.

Nell’Europa dell’Est la vicenda di maggior rilievo si svolse in Cecoslovacchia, teatro dell’esperimento


riformatore che prese il nome di Primavera di Praga.

Il segretario del partito comunista venne sostituito da Dubcek che varò un programma che prevedeva
l’introduzione di elementi di pluralismo politico, la limitazione del potere dei servizi di sicurezza e una
completa libertà di espressione e di stampa con l’abolizione della censura. L’intenzione era dar vita a un
“socialismo da volto umano”.

La leadership sovietica era preoccupata che Praga potesse prendere una posizione di neutralità
internazionale e che il moto potesse estendersi agli altri Stati. Mosca optò per il ricorso alla forza e le truppe
dei paesi del Patto di Varsavia occuparono la Cecoslovacchia per porre fine al nuovo corso. La popolazione
reagì con una resistenza passiva attraverso manifestazioni, scioperi e boicottaggi. Dubcek e gli altri dirigenti
riformatori furono portati a Mosca dove vennero persuasi a revocare i principali provvedimenti carati nei
mesi precedenti. Dubcek venne rimosso dal partito ed espulso.

Simbolo della disperata resistenza fu uno studente che si diede fuoco sulla piazza principale di Praga in un
estremo gesto di protesta.

Gli avvenimenti cecoslovacchi diedero spunto alla “dottrina Breznev” che il leader illustrò poche settimane
dopo. I paesi satelliti erano liberi di determinare il proprio corso politico fintantoché non andavano contro i
principi del socialismo. Se si fossero spinti oltre l’Unione Sovietica avrebbe avuto il diritto-dovere di
intervenire per neutralizzare la minaccia. L’invasione fu criticata dalla Romania, Jugoslavia, Albania e anche
dai partiti comunisti italiano e francese che avevano appoggiato l’invio dei carri armati a Budapest nel 1956.

La Primavera di Praga trovò solo una limitata solidarietà nei movimenti studenteschi occidentali. La sua
brutale repressione sancì l’irriformabilità del “socialismo reale”, facendo cadere ogni speranza di poter
liberalizzare e democratizzare i paesi dell’Est.

Il 1968 fu un anno spartiacque perché segnò l’inizio della fine per il blocco orientale e la stessa Unione
Sovietica.

CAP 13: LA CRISI DELLA MODERNITA’ OCCIDENTALE:

13.1: la fine del sistema aureo e lo shock petrolifero:

Gli anni ’70 furono caratterizzati da radicali cambiamenti nel mondo occidentale. Si parla di “crisi della
modernità”, dovuta a una trasformazione politica, economica, sociale e culturale.

I progressi della CEE consolidarono il ruolo dell’Europa occidentale nello scenario economico, in parte
ridimensionando la supremazia delle superpotenze. D’altra parte, la distensione fra le due Germanie
consentì il rafforzamento della politica europea.

Gli Stati Uniti si ritrovarono in difficoltà per i costi della guerra del Vietnam e le politiche sociali di Lyndon
Johnson. Scelsero di stampare moneta, innescando una crescita dell’inflazione. Washington puntò a
rinunciare al ruolo di garante del sistema monetario internazionale per rilanciare la competitività nazionale.
Nixon annunciò la sospensione della convertibilità aurea del dollaro e una sovrattassa sulle importazioni,

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ponendo fine all’ordine monetario nato nel dopoguerra. Altri paesi svalutarono la propria moneta, e nel
1973 si sancì il superamento definitivo di Bretton Woods e l’introduzione di un nuovo sistema di variabilità
si tassi di cambio. La crescente speculazione valutaria rese le economie instabili.

Nel 1973, in reazione politica all’appoggio dei paesi occidentali a Israele, i paesi mediorientali ridussero la
produzione del greggio e aumentarono il prezzo del petrolio (che cambiò per la prima volta). Le
conseguenze compromisero gli sviluppi economici dei paesi importatori. Il colpo fu subìto più gravemente
dal Giappone e dagli stati europei occidentali, mentre l’Unione Sovietica, grande produttore del petrolio,
coprì le necessità degli stati satelliti.

L’inedita coesistenza di stagnazione produttiva e inflazione dei prezzi divenne un rompicapo teorico per gli
economisti dell’epoca. L’inflazione diventò una realtà quotidiana. Tutti i paesi affrontarono un calo dei
profitti delle imprese a causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime e del petrolio. Aumentò la
disoccupazione e il deficit dei bilanci pubblici. Progressivamente, i paesi si orientarono verso politiche
deflazionistiche attraverso un controllo rigoroso del bilancio.

Nel 1978 la Germania occidentale propose un meccanismo di tassi di cambio fissi garantiti dalla stabilità del
marco tedesco. I paesi furono portati a ridurre la spesa pubblica. Dopo un parziale risanamento, un secondo
shock petrolifero nel 1979 innescò di nuovo l’inflazione e il rallentamento della crescita.

La capacità di espansione del sistema produttivo nel blocco orientale appariva esaurita. La crescita dei prezzi
negli scambi internazionali mise in difficoltà i governi comunisti.

13.2: le trasformazioni dell’industria:

molti studiosi oggi interpretano il rallentamento della crescita come un fenomeno inevitabile: non fu un
rallentamento eccezionale, piuttosto, fu eccezionale la crescita degli anni ’50 e ’60. Nel corso degli anni ’70,
il PIL degli stati europei continuò a crescere, seppur con rallentamento rispetto a prima.

Le strutture produttive dei paesi capitalistici mutarono profondamente a causa delle innovazioni
tecnologiche e la crescita degli scambi intercontinentali.

- Si configurò una nuova divisione internazionale del lavoro: la produzione manifatturiera (soprattutto
le industrie pesanti e quelle tessili) si spostò nei nuovi paesi emergenti, dove i costi di produzione
erano più contenuti.
- Processi di deindustrializzazione: si trasforma il panorama industriale europeo: diminuirono le
industrie estrattive e siderurgiche, e l’industria automobilistica entrò in difficoltà. Chiusero molti
stabilimenti e in migliaia persero i posti di lavoro. Il settore secondario rimaneva comunque
determinante per il PIL.
- Microimprenditorialità diffusa: soprattutto in Italia e in Scandinavia, ci fu una crescita di piccole
imprese a condizione familiare, la cui flessibilità e abilità di conquistare settori specializzati mise in
crisi le teorie dello sviluppo fondate sull’avanzamento delle grandi multinazionali. Nel decennio
seguente, avrebbero ripreso piede le grandi aziende.

I sistemi economici dei paesi comunisti erano inflessibilmente orientati all’industria pesante e poco verso i
consumi. Inoltre, la diffusa corruzione continuava ad alimentarsi con rendite e privilegi ai dirigenti aziendali.
L’incapacità di rinnovare gli apparati industriali portò a una stagnazione e un accumulo di debiti per
finanziare le importazioni.

I processi di deindustrializzazione, la crisi della produttività e l’ascesa dei concorrenti astiatici fecero
registrare un calo significativo alla produzione industriale. Tuttavia, l’industria europea non fu relegata ad un
ruolo marginale nello scenario mondiale.

13.3: movimenti e conflitti sociali:

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il periodo fra il 1969 e il 1975 fu connotato da un’intensa conflittualità nel mondo delle fabbriche. Nel
Regno Unito i minatori costrinsero il governo a rimandare la chiusura delle miniere. In Italia, l’”autunno
caldo” vide numerosissime proteste di sindacati che ottennero molte richieste, fra cui la modificazione
dell’orario di lavoro o l’aggancio del salario all’inflazione, governi, partiti e sindacati stipularono dei “patti
sociali” per favorire la ripresa economica.

Si rafforzarono e si moltiplicò la rappresentanza degli interessi dei lavoratori dei servizi, fra i quali si
moltiplicarono gli scioperi, indice di un disagio diffuso anche tra i ceti medi.

Sorsero conflitti contro i lavoratori stranieri. I paesi di tradizionale immigrazione cominciarono a ostacolare
l’ingresso degli stranieri con norma di taglio razziale.

I tradizionali partiti di massa persero la capacità di conquistare consensi. Il voto delle classi medie iniziò a
rivendicare un atteggiamento critico nei confronti delle istituzioni pubbliche. Crebbe un senso di
insoddisfazione e allontanamento dalle culture politiche che precedentemente erano state protagoniste.
Complici di questo processo furono la mobilità sociale e geografica dei decenni precedenti e l’eco delle
contestazioni di fine anni ’60 che trasformarono il discorso politico.

Il modello di partito fondato sulle classi sociali lasciò spazio ad un attivismo legato all’identità culturale o
sessuale. Nacquero alcuni movimenti monotematici:

- Partiti antitasse, di protesta contro lo stato sociale, considerato costoso e inefficiente,


- Movimenti femministi, soprattutto nell’Europa cattolica, raggiunsero ampio consenso. Sempre più
presenti nel mondo del lavoro, le donne chiesero il riconoscimento degli stessi diritti e stessi salari,
una maggiore libertà individuale, parità giuridica familiare e la legalizzazione dell’aborto. In Italia, il
movimento femminista si distinse per un’efficace mobilitazione che portò all’introduzione del
divorzio nel 1970 e dell’aborto nel 1978.
- Movimenti ecologisti, anche le forze che più avevano celebrato il processo industriale esprimevano
disagio per l’inquinamento, l’espansione urbana, il consumo delle risorse e il degrado del paesaggio.
Nel 1973 i primi candidati ecologisti si presentarono alle elezioni in Regno Unito e Francia, e già dal
1979 i Verdi in Germania iniziarono un’ascesa fino a diventare una forza di governo. Anche in
Europa orientale si configurò un’ampia protesta ambientalista: l’ambientalismo divenne un terreno
comune di dialogo fra movimenti di protesta fra l’Est e l’Ovest.

13.4: la violenza politica:

Gli anni ‘70 videro il ritorno in Europa di una diffusa violenza politica, in contrapposizione netta con il
ventennio precedente. La violenza era favorita dalla crescente sfiducia nelle istituzioni democratiche. Le
formazioni della nuova sinistra avevano rilanciato un nuovo rivoluzionarismo lontano da quello sovietico,
mentre la destra radicale vagheggiava la costituzione di regimi totalitari in contrapposizione
all’ingovernabilità dei sistemi parlamentari.

Sulla scia del ’68 si diffuse il principio ideologico della legittimazione della violenza nella lotta politica. I
fenomeni di terrorismo si diffusero in particolare in Italia, in Germania, in Irlanda e in Spagna.

In Italia l’estrema destra colpì per prima, con l’attentato di piazza fontana a Milano, nel 1969, in piazzale
delle Loggia a Brescia nel 1974 e quello sul treno Italicus nel 1975. Nei primi anni ’80 ci fu il grande
attentato alla stazione di Bologna e quello sul treno Rapido nel 1984. La “strategia della tensione” aveva
come obiettivo di diffondere terrore per favorire una svolta conservatrice al governo. Dietro agli attentati si
nascondevano realtà diverse: organizzazioni neofasciste ma anche settori dei servizi segreti stranieri, che
miravano a sfruttare il disordine politico per condizionare la lotta politica.

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L’estrema sinistra mirava a innescare un processo rivoluzionario. L’obiettivo erano i “nemici” politici di uno
stato considerato servitore del capitalismo internazionale. Dapprima vi furono azioni dimostrative, come
sequestri e ferimenti, che si trasformarono poi in assalti armati e omicidi. Fra le varie organizzazioni
clandestine spiccavano le Brigate Rosse, nate nel 1970, responsabili di numerosi omicidi fra cui quello di
Aldo Moro, leader della DC e ex presidente del Consiglio. I partiti rifiutarono qualsiasi trattativa e
compromesso con i terroristi. L’azione investigativa delle forze dell’ordine e alcune nuove leggi sul
pentimento permisero l’isolamento delle Brigate Rosse che furono smantellate.

La RAF fu l’organizzazione terroristica di estrema destra tedesca, la cui ideologia univa un rivoluzionarismo
di matrice marxista ad una forte vocazione nazionalista. Negli anni ’70 compì rapine, sequestri, omicidi e
assalti armati alle basi dell’esercito statunitense. Compirono alcuni omicidi a personaggi degni di nota, fra
cui il ministro della Giustizia. Non riuscì a sovvertire l’ordine pubblico ma contribuì a diffondere l’idea del
popolo tedesco come vittima dell’ordinamento capitalistico.

La Provisional IRA nell’Ulster e l’ETA nei Paesi Baschi furono delle organizzazioni terroristiche separatiste che
martoriarono il Regno Unito e la Spagna.

- La Provisional IRA era composta da giovani militanti cattolici che volevano eliminare la sovranità
britannica e ricongiungere l’Ulster al resto dell’Irlanda. Nel 1972, nel Bloody Sunday, i soldati
britannici uccisero 13 civili per reprimere una protesta a Derry. Gli attentati proseguirono per un
trentennio provocando migliaia di morti.
- L’ETA, nata nel 1958, si batteva per l’indipendenza della regione basca, colpendo politici, poliziotti e
coloro che considerava i simboli della “decadenza culturale” spagnola. L’obiettivo era liberare la
cultura basca dell’influenza spagnola. Nel 1973 l’ETA arrivò ad uccidere il primo ministro spagnolo
Blanco, e gli attacchi proseguirono per tutti gli anni ’80.

13.5: gli intellettuali e il postmodernismo:

l’idea positivista di un progresso inarrestabile fu messa alla prova dalle difficoltà economiche, dalla nuova
sensibilità ecologista e dalla sfiducia nelle istituzioni. Il Club di Roma promosse la pubblicazione di una
ricerca degli scienziati del MIT, in cui si richiamava l’attenzione sull’esaurimento delle risorse naturali e il
rischio di compromettere le condizioni di vita sul pianeta. Lo shock petrolifero l’anno successivo inforzò le
tesi, poiché milioni di europei si trovarono ad affrontare un’improvvisa carenza di energia.

Il sociologo Daniel Bell mise a confronto il tradizionale modello occidentale di sviluppo con l’avvento di una
nuova rivoluzione postindustriale, caratterizzata dall’ascesa del settore terziario e il relegamento delle
attività manufatturiere a un ruolo marginale.

Molti studiosi teorizzarono la fine di un ciclo del capitalismo, caratterizzato sulla grande industria, i consumi
di massa, la produzione standardizzata, le economie di stato. Al suo posto, un nuovo ordine postfordista con
processi produttivi e mercati più flessibili. Questa rivoluzione vedeva il declino della classe operaia e l’ascesa
delle classi medie, oltre a una nuova geografia mondiale dello sviluppo.

Il filosofo francese Lyotard teorizzò un passaggio epocale connotato dalla fine delle grandi “metanarrazioni”,
ideologie che avevano legittimato la coesione sociale e le utopie rivoluzionarie, in favore dell’ascesa
dell’individualismo, del pluralismo interpretativo, della centralità della conoscenza e della comunicazione, di
una nuova interpretazione del tempo, che valorizzava l’idea dell’irriducibilità del presente.

La produzione artistica vide il fiorire di una cultura della nostalgia. Le cifre connotative dell’arte
postmoderna erano la commistione di stili, l’ibridazione dei valori, lontane dai dogmatismi del modernismo.

Gli scrittori, i filosofi, gli artisti si allontanarono dai partiti. Negli anni ’80, le notizie sulle distorsioni degli
utopisti radicali portarono molti ad allontanarsi dal marxismo. In Europa ma soprattutto in Francia con i

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Nouveaux Philosophes, si sviluppò un’avversione al “socialismo reale” delle società comuniste, accusate di
aver implementato dei regimi totalitari e di aver distorto completamente i principi ideali del comunismo. Si
aprì un dibattito fra chi credeva che le degenerazioni dei regimi orientali non fossero attribuiti ad un vizio di
origine del marxismo-leninismo, e chi invece ritenesse che l’essenza stessa dell’ideologia rivoluzionaria fosse
da condannare in assoluto.

La difesa dei diritti umani e delle libertà personali divenne un tema centrale nel dibattito politico, che trovò
terreno fertile sia tra gli intellettuali dell’Est che dell’Ovest. Nel blocco orientale, i dissidenti cominciarono a
rivendicare il rispetto dei diritti che erano già presenti nelle costituzioni comuniste, creando un’opposizione
moderata che mise in difficoltà i regimi. Il nuovo vocabolario politico condiviso con l’Europa occidentale fu
decisivo per la futura delegittimazione del potere comunista.

CAP 14: FRA EST E OVEST:

14.1: ostpolitik:

Dalla fine deli anni ’60, la Germania occidentale iniziò a promuovere una politica di distensione verso il
blocco sovietico, promossa principalmente dal leader del SPD Willy Brandt. L’obiettivo era di ravvivare i
rapporti con la Germania orientale, inizialmente con l’obiettivo di riunire le due Germanie, ma anche per
rafforzare lo status internazionale della Germania e avere un ruolo più autonomo nell’alleanza occidentale.

Il presidente francese De Gaulle era andato a Mosca nel 1966 manifestando la convinzione che l’Europa
dovesse ripensarsi in una prospettiva unitaria. Tuttavia, la proposta non raccolse consensi nel blocco
occidentale europeo, in primis dal cancelliere tedesco Erhard che considerava i rapporti con Washington la
priorità assoluta.

L’orientamento tedesco mutò a partire dal governo di “grande coalizione” fra la CDU (unione cristiano-
democratica) e la SPD, con Willy Brandt (SPD) come ministro degli esteri. Già quando era sindaco di Berlino,
Brandt aveva percepito i limiti della politica di isolamento della Germania orientale. Brandt era convinto che
la posizione di chiusura rivendicata da Adenauer avesse ostacolata la RFT nell’accrescere la propria
autonomia. Brandt promosse il “cambiamento per mezzo del ravvicinamento”, che ambiva all’apertura di
scambi e comunicazioni con il blocco orientale e porre le basi per un nuovo ordine pacifico. Da ministro
degli Esteri, Brandt ristabilì relazioni con la Bulgaria e la Jugoslavia.

La politica di riavvicinamento richiedeva un’accettazione della divisione dell’Europa e di fare i conti con il
passato nazista. Brandt era consapevole della necessità di una rieducazione dei cittadini della Germania
occidentale, fra cui milioni di rifugiati, poiché un cambio di rotta verso i paesi comunisti rischiava di non
trovare consenso nell’opinione pubblica. Brandt si impegnò alla diffusione di un nuovo discorso pubblico
sulla storia tedesca.

Nel 1969 Brandt diventò Cancelliere e diede pieno corso all’Ostpolitik.

- Nel 1970 stipulò un trattato di collaborazione con i sovietici e con la Polonia basato sul
riconoscimento delle frontiere
- Nel 1972, concluse un trattato fra le due Germanie che prevedeva il rispetto delle frontiere,
l’uguaglianza dei diritti, l’incremento delle relazioni commerciali e culturali. Entrambi gli stati furono
annessi all’ONU.

Nel corso della visita in Polonia del 1970, Brandt si inginocchiò davanti al monumento dedicato alle vittime
della rivolta del ghetto del 1943, riconoscendo le colpe del passato e rinnegando il militarismo. Inoltre,
Bonn rinunciò alle armi nucleari. Nel 1971 Brandt fu premiato con il premio Nobel per la pace.

L’Ostpolitik rese Brandt molto popolare, anche dopo le sue dimissioni nel 1974 a causa di un collaboratore
che spiava per conto delle RDT. I successori del cancellierato non abbandonarono mai la sua linea strategica.

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Le conseguenze dell’Ostpolitik:

- Lo sviluppo delle comunicazioni favorì la diffusione della cultura occidentale nella RDT, in particolare
attraverso la televisione;
- Si intensificarono le telefonate i viaggi fra i due stati;
- Si stipularono intese per riunire le famiglie rimaste separate e rilasciare i prigionieri politici, anche
attraverso il pagamento di somme da parte della RFT per ottenere autorizzazioni;
- La RFT divenne un importante partner commerciale per i paesi dell’Est, assumendo importanza
anche in ambito politico;
- Fu accantonata la questione dell’unificazione tedesca, a favore del risanamento dei rapporti tra
RFT(ovest) e RDT(est)
- L’Ostpolitik si impose come un modello di distensione specificatamente intraeuropea. Brandt
dimostrò che il dialogo con il blocco comunista giovava al commercio con l’intero continente.

14.2: Leonid Breznev e l’evoluzione del sistema comunista:

Le società comuniste videro un processo di degrado progressivo negli anni ’70, dovuto a forme di
organizzazione del lavoro e della vita sociale obsolete che contrastavano con le tecnologie e le istituzioni
avanzate. Se da un lato l’apertura della politica estera e militare sembrava veder crescere l’influenza
comunista nel mondo, la politica interna vide un ritorno a un rigido controllo statale la cui priorità era di
stabilizzare il potere nel blocco orientale.

Breznev, il segretario succeduto a Chruscev, era una personalità grigia e poco carismatica. Egli abbandonò
l’energia riformatrice del suo predecessore sostituendola con un accentuato conformismo ideologico, un
richiamo ai valori della tradizione, l’accantonamento di qualsiasi pinta modernizzatrice. Ai cittadini era
richiesta un’obbedienza formale, che fu accompagnata dalla fine ogni tensione ideale nel mondo comunista
e dalla riscoperta della dimensione privata e familiare, che perse l’adesione severa dell’ideologia ufficiale. Di
parlò di “paratotalitarismo”, un totalitarismo privo degli aspetti legati al terrore. Dopo la repressione della
Primavera di Praga, Breznev accentuò la svolta autoritaria con il controllo del mondo culturale e irrigidì la
censura. Spinte oppositore si svilupparono nelle controculture giovanili e movimenti di ispirazione
nazionalistica.

Breznev parlava di “socialismo sviluppato”, come se fosse a pieno realizzato e non ci fosse il bisogno di
riformare. La disponibilità di capitali derivati dallo shock petrolifero non furono sfruttati per modernizzare il
sistema: l’URSS si militò a sovvenzionare i paesi satelliti. Si sviluppò un sistema “dualistico”, per il quale si
investiva nelle poche industrie avanzate per competere a livello internazionale, mentre il resto delle aziende
produceva merci scadenti che circolavano solo nel Comecon. Si accentuò il divario economico delle due
Europe.

La classe dirigente era consapevole della necessità di riforme, ma essa era estremamente corrotta,
privilegiata e opportunista, destinata a diventare un simbolo della degenerazione dell’URSS. Colpiva
l’aumento delle disuguaglianze sociali, per cui le classi più povere furono le principali a rimettere della
passività nei confronti dei problemi economici. Il disagio sociale si manifestò attraverso la povertà, la
crescita del crimine, il consumo di alcol, il peggioramento della mortalità infantile, la penuria di abitazioni e
di generi di prima necessità.

La Cecoslovacchia tentò di incentivare i consumi; l’Ungheria avviò un programma di riforme per stimolare
l’azione privata, spergiurando lo sviluppo si un’economia mista. Tuttavia, questo esperimento si rivelò
inefficace.

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Le politiche nazionalistiche di alcuni stati rappresentarono una delle contraddizioni più stridenti del blocco
sovietico. In Romania e in Bulgaria furono portate avanti delle politiche persecutorie verso le minoranze. Il
nazionalcomunismo rumeno sarebbe entrato in aperta rotta di collisione con l’URSS.

14.3: gli effetti della “distensione”:

La politica della “distensione” fra Stati Uniti e URSS fu stimolata dagli interessi comuni tra le superpotenze.
Infatti, la stabilizzazione del bipolarismo avrebbe permesso a entrambe le potenze di consolidare la propria
egemonia nei propri blocchi. Entrambi erano in difficoltà: gli Stati Uniti erano indeboliti dal conflitto in
Vietnam, l’URSS faticava a contenere le rivendicazioni autonomistiche di alcuni paesi satelliti.

Nel 1967, i paesi della NATO avevano approvato il “rapporto Harmel”, che prevedeva di affiancare la
strategia della “distensione” a quella del “contenimento”. Gli Stati Uniti volevano accontentare alcuni paesi
europei fra cui la Germania, ma miravano soprattutto a sviluppare un accordo con Mosca sul controllo delle
armi nucleari. L’obiettivo era di limitare la corsa agli armamenti in tutto il pianeta e imporre la propria
supremazia militare regolamentandosi con l’URSS. Le potenze trattavano con l’un l’altra alla pari, in quanto
avevano raggiunto la parità strategica degli armamenti. L’URSS aveva anche interesse a superare
l’isolamento diplomatico e rafforzare il proprio dominio dell’Europa orientale, attraverso il riconoscimento
dello status di superpotenza alla pari con gli Stai Uniti.

Nixon decretò la “distensione” come baricentro della strategia internazionale statunitense, così come
l’obiettivo principale di Breznev era di stabilire la “pace” con gli Stati Uniti. L’accordo SALT stabiliva la parità
strategica fra le potenze e ne regolava la corsa agli armamenti. Oltre all’importanza militare, l’intesa ebbe
un forte peso politico, indicando l’esistenza di un interesse reale e reciproco alla stabilità internazionale.
L’accordo aveva anche la funzione di migliorare l’immagine pacifista degli Stati Uniti davanti all’opinione
pubblica internazionale.

La conferenza di Helsinki del 1973, fu convocata per discutere la sicurezza e la collaborazione europea, vi
parteciparono tutti i paesi europei appartenenti a entrambi i blocchi. Una serie di accordi di fatto
ratificavano il quadro geopolitico emerso dopo la seconda guerra mondiale e favorivano la cooperazione
tecnica, industriale ed energetica, per sviluppare i rapporti commerciali. Inoltre, gli stati della Comunità
europea insistettero affinché si rispettassero i diritti umani e le libertà fondamentali.

Proprio questo impegno divenne un’arma centrale nelle mani dei dissidenti del blocco comunista, di fatto
indebolendo il sistema comunista ulteriormente. Più era possibile il confronto con il benessere
dell’Occidente, più la giustificazione ideologica dell’autoritarismo comunista perdeva senso. Gli intellettuali,
gli scienziati e gli artisti anelavano ad una reintegrazione dei paesi dell’Est nella cultura europea. Queste
riflessioni ebbero effetti significativi sugli stessi partiti comunisti dell’Europa occidentale.

Con l’avventi di Enrico Berlinguer alla segreteria nel 1972, il PCI cominciò a sviluppare una nuova strategia
politica capace di fronteggiare la crisi economica, la minaccia del terrorismo e la distensione fra Est e Ovest.
L’idea era di mettere da parte le differenze ideologiche con la DC per creare un nuovo governo di unità
nazionale. Fu centrale in questo processo l’allontanamento ideologico dal comunismo sovietico, già avviato
dopo la Primavera di Praga.

Nel 1975, il PCI prefigurò insieme al partito comunista francese e spagnolo un “eurocomunismo”, un
processo di revisione ideologica che mirava ad aprire il marxismo ai principi del liberismo. Questa svolta
ebbe successo in Italia, ma l’idea di un comunismo riformato faticò ad imporsi altrove.

14.4: il ritorno della democrazia nell’Europa mediterranea:

Grecia, Portogallo e Spagna videro il ritorno della democrazia negli anni ’70. I governi autoritari erano
sempre più anacronistici e andavano contro gli interessi dei ceti medi urbani, desiderosi di imitare consumi

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e comportamenti delle società democratici occidentali. Nell’arco di un decennio, furono costretti a cedere il
passo a processi di democratizzazione, spesso guidati da esponenti conservatori dei vecchi regimi più che
dai partiti progressisti.

Dopo la guerra civile in Grecia, ci fu una durissima repressione dei comunisti che avevano consolidato il
ruolo dell’esercito, più fedele agli Stati Uniti e alla Nato che ai principi costituzionali. L’instabilità politica
degli anni ’60 aveva portato nel 1967 a una presa di potere da parte di una giunta di colonnelli. Per sette
anni, il regime dittatoriale aveva isolato la Grecia, arrestando gli oppositori, censurando la stampo, ma
anche mettendo al bando la musica contemporanea, i capelli lunghi, le minigonne. L’obiettivo era di creare
uno stato autarchico contrastando l’internazionalizzazione.

Nel 1973 furono gli studenti universitari a organizzare la prima protesta significativa. I colonnelli reagirono
facendo leva sui sentimenti nazionalistici, rovesciando il governo di Cipro per annetterlo alla Grecia.
L’intervento della Turchia e lo smacco militare provocò delle accese proteste che costrinsero i colonnelli a
farsi indietro e cedere il governo a Karamanilìs, leader nazionalista già primo ministro negli anni ’60.

Nel 1974 nacque la repubblica greca. La questione di Cipro fu delegata all’ONU, che tuttavia non riuscì a
regolamentare la spartizione dell’isola. Già nel 1975, la transizione democratica era consolidata tanto sa
presentare una domanda di adesione alle CEE.

Il Portogallo di Antonio de Oliviera Salazar era il paese più povero dell’Europa occidentale. La spese militari
per fronteggiare le rivolte nei possedimenti africani gravavano sull’economia e spinsero i militari ad opporsi
al regime.

Nel 1968 Salazar fu colpito da un ictus e fu sostituito da Marcelo Caetano, i cui tentativi di rivitalizzare
l’economia fallirono provocando proteste popolari.

Nel 1974, un gruppo di ufficiali guidati da Antonio de Spinola promosse un colpo di stato, la rivoluzione dei
garofani, in nome della democrazia, della decolonizzazione e della modernizzazione economica. Furono
rilegati i partiti, rilasciati i prigionieri, ripristinata la libertà di stampa. In un anno, le colonie ottennero
l’indipendenza.

De Spinola non riuscì a fronteggiare le richieste di riforme più radicali e si dimise. Salirono al potere degli
ufficiali più giovani di orientamento comunista, che promossero una rivoluzione sociale con ampie
nazionalizzazioni e collettivizzazioni delle terre. Tuttavia, questi provvedimenti risultarono impopolari e i
comunisti persero le elezioni.

Il partito socialista di Mario Soares vinse le elezioni e fu approvata una nuova costituzione, eliminando i
riferimenti anticapitalistici. Nonostante le difficoltà economiche, si consolidò l’ordinamento democratico.

Anche la Spagna viveva una forte arretratezza economica e culturale. Solo la Catalogna e i Paesi Baschi
vivevano un precesso di modernizzazione, nel resto del paese l’arretratezza si sommava agli squilibri sociali.
Si creò una forte protesta operaia, e i movimenti sindacali furono tollerati seppur non ufficialmente
riconosciuti.

La morte di Franco nel 1975 rese la fine della dittatura un processo inevitabile. Il re Juan Carlos, designato
dallo stesso Franco per la successione, nominò Adolfo Suarez, ex leader della Falange, come primo ministro.
Suarez fondò l’Unione di centro democratico e avviò un processo di democratizzazione. Nel 1977 il partito di
Suarez vinse le elezioni e nel 1978 la Spagna divenne una monarchia parlamentare. Fu riconosciuto il diritto
di autonomia alla Catalogna e ai Paesi Baschi.

Nel 1981, le difficoltà economiche e le violenze dell’ETA costrinsero Suarez a dimettersi. I militari nostalgici
del franchismo tentarono un colpo di stato con l’occupazione armata del parlamento. Il re Juan Carlos difese
la democrazia, consolidando il nuovo ordinamento costituzionale.

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14.5: le nuove tensioni fra i due blocchi:

alla fine degli anni ’70, Stati Uniti e unione sovietica entrarono nuovamente in crisi, congelando il dialogo e
riprendendo i toni minacciosi della guerra fredda. Vi furono molteplici ragioni:

- L’influenza sovietica in Africa: mentre Washington aveva inteso la distensione come una strategia di
portata globale, Mosca l’aveva relegata al contesto europeo. Per questo, gli Stati Uniti percepirono i
rapporti dell’URSS con i paesi del terzo mondo come particolarmente minacciosi. Infatti, l’URSS era
intervenuta nei conflitti civili esplosi in Angola, Mozambico e Etiopia.
- L’opposizione dei gruppi repubblicani neoconservatori: la distensione era vista come
un’”immortalità”, un inaccettabile compromesso contro il nemico e l’abbandono dell’Est a un
destino di sottomissione.
- La questione dei diritti umani e la presidenza di Jimmy Carter: le pressioni dei progressisti portarono
all’approvazione di un emendamento che prevedeva che gli Stati Uniti avrebbero concesso
facilitazioni commerciali all’URSS solo se fossero stati concessi i diritti di emigrazione agli ebrei
sovietici. Divenne così centrale la questione dei diritti, che divenne centrale nella politica di Jimmy
Carter. Il presidente insistette anche affinché gli armamenti nucleari fossero diminuiti e non solo
contenuti.
- La questione degli euromissili: l’Europa occidentale aveva interesse a migliorare i rapporti con l
blocco orientale, ma allo stesso tempo, temeva il disimpegno di Washington dal ruolo di garante
della difesa Europea. Nel 1979, si formò il SALT 2, con qui si stabilì la diminuzione dell’arsenale
nucleare di entrambe le superpotenze. Tuttavia, quando l’URSS decise di installare nuovi missili
nucleari ai confini del blocco occidentale, anche la Nato installò i cosiddetti “euromissili” per placare
i membri europei allarmati, programmando un massiccio dispiegamento di armi nucleari che irrigidì
i sovietici.
- L’invasione sovietica nell’Afghanistan: nel 1979, l’URSS inviò truppe in Afghanistan per intervenire
nella guerra civile fra il governo comunista e il movimento islamico per contenere la minaccia del
fondamentalismo islamico. Gli Stati Uniti interpretarono il gesto come un’ulteriore manifestazione
delle mire espansionistiche sovietiche. La Casa Bianca congelò l’approvazione di SALT 2, mise un
embargo su alcune esportazioni e promosse il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980.
Inoltre, diede appoggio ai movimenti islamici afgani. La due superpotenze tornarono
all’antagonismo del passato.

CAP 15: VERSO UNA NUOVA ERA:

15.1: la crisi del welfare state e il neoliberismo:

A metà degli anni ’70 entrò in crisi il modello di stato sociale che aveva guidato le politiche di ricostruzione
nel dopoguerra. L’espansione del sistema produttivo europeo aveva permesso al welfare state di continuare
a funzionare, ma il rallentamento della crescita economica rese il rapporto fra spese e introiti insostenibile.
Inoltre, si moltiplicarono i disoccupati bisognosi di assistenza statale. I tassi di natalità calarono, sia a causa
della crisi, che per i nuovi valori e stili di vita, causando una contrazione demografica.

Inizialmente, nessuno stato pensò di abbandonare completamente il modello del welfare state, poiché esso
aveva assicurato un miglioramento delle condizioni di vita ma anche stabilità e coesione politica. Alcuni
paesi, come le neodemocrazie di Spagna e Portogallo ma anche l’Italia, avviarono politiche di espansione
del welfare state (l’Italia inaugurò solo nel 1978 il sistema sanitario nazionale). Nella seconda metà degli
anni ’70, una parte dell’opinione pubblica riteneva che l’”assistenzialismo” fosse non solo insostenibile, ma
un ostacolo alla crescita economica e allo sviluppo della libertà degli individui.

Si diffusero le teorie neoliberiste, secondo le quali lo stato sociale provocava inflazione e crescita della spesa
pubblica, penalizzando il mercato. Fu l’economista austriaco Freidrich von Hayek a incarnare queste teorie e

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a contrastare il keynesismo sin dagli anni ’30, ma solo negli anni ’70 lo scontro fra neoliberisti e keynesiani
assunse grande rilevanza nel discorso pubblico. Nel 1974, Hayek vinse il premio Nobel per l’economia e due
anni dopo a Milton Friedman, un suo seguace. Friedman era fautore del monetarismo, teoria secondo la
quale l’intervento dello stato deve ridursi al controllo dell’offerta di denaro, sostenendo l’offerta e non la
domanda (supply-side economics).

Attraverso alcune istituzione culturali private, ad esempio alcune prestigiose università britanniche e
statunitensi, il neoliberismo divenne parte integrante della formazione della nuova classe imprenditoriale.
Queste istituzioni erano spesso finanziate da gruppi imprenditoriali e politici. Non a caso, i critici del
neoliberismo ritenevano che esso fosse in realtà espressione degli interessi dei detentori della proprietà
privata, delle imprese commerciali, delle multinazionali e dei capitali finanziari. Alcuni vedevano nel
neoliberismo un progetto politico propriamente mirato a ripristinare il potere dell’élite economiche davanti
all’ascesa delle classi lavoratrici.

15.2: il Regno Unito di Margaret Thatcher:

Il neoliberismo divenne una dottrina dominante solo nel Regno Unito grazie a Margaret Thatcher, leader dei
conservatori, che nel 1979 vinse le elezioni e governò per 12 anni. Thatcher divenne un alfiere di una
rivoluzione culturale e politica, all’insegna della libertà di impresa, del ridimensionamento dell’intervento
economico pubblico, dell’individualismo e del nazionalismo, destrutturando il modello di welfare state. La
sua politica condizionò il blocco occidentale, ad esempio favorendo la diffusione dei principi neoliberisti alla
gestione degli organismi finanziari internazionali.

Il declino della competitività industriale inglese risaliva al secondo dopoguerra. Il Regno Unito fu incapace di
modernizzare il sistema industriale alla luce delle trasformazioni del capitalismo e della crisi degli anni ’70.
L’industria era paralizzata anche dai conflitti sindacali e da una diffusa resistenza al cambiamento. I governi
conservatori avevano provato a chiudere alcune miniere di carbone e a riformare i sindacati, ma con scarso
successo; i labouristi avevano altresì tentato di riformare l’industria ma ugualmente senza successo.
Margaret Thatcher vinse le elezioni durante “l’inverno dello sconcerto”, quando una serie di scioperi
avevano paralizzato il paese.

Il programma di Thatcher non prevedeva solo riforme di liberalizzazione economica, ma anche l’educazione
dei cittadini a dei nuovi valori: un radicale individualismo, patriottismo e conservatorismo morale.
L’intervento statale, la dipendenza dallo stato, gli alti livelli di tassazione, gli interessi sindacali e la tendenza
al compromesso erano i mali della nazione. Thatcher famosamente arrivò a postulare l’inesistenza della
società stessa, per esaltare le virtù dell’autonomia. I suoi critici videro in questi valori una competitività
sfrenata e un puritanesimo bigotto per cui ogni povertà sociale sarebbe stata una dimostrazione di
inadeguatezza individuale.

Thatcher come personalità politica era ben lontana dalla tradizione conservatorista. Il suo radicalismo
individualista e liberista delegittimava il solidarismo sociale. Inoltre, proveniva da un’estrazione sociale
modesta, a differenza dell’élite benestante che tradizionalmente costituiva il gruppo dirigente conservatore.

Thatcher passò alla storio anche per il suo stile di governo deciso, ostile a ogni forma di negoziazione,
energico e spontaneo, lontano dalle formalità diplomatiche.

Thatcher accentrò i poteri dell’amministrazione statale (in controtendenza con la decentralizzazione


intrapresa da altri paesi). Inoltre, tagliò gli investimenti nell’istruzione e nella sanità e privatizzò molte
proprietà statali. Riuscì a ridimensionare l’influenza dei sindacati, ad esempio costringendo i minatori ad
arrendersi dopo un lungo sciopero.

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La guerra vittoriosa contro l’invasione argentina delle isole Falkland fu un’altra manifestazione dell’energico
decisionismo di Thatcher. La leva sul nazionalismo fu applicata anche per rinegoziare i termini di adesione
alle CEE, in cui Thatcher rivendicò gli interessi nazionali con inconsueta disinvoltura.

La svolta neoliberista provocò un indubbio miglioramento dell’economia britannica, che riuscì ad espandersi
nei mercati globali. Tuttavia, lo smantellamento del settore pubblico non determinò la riduzione della spesa
pubblica auspicata. Infatti, i lavoratori che persero il posto con la chiusura di tante imprese furono costretti
ad affidarsi ai sussidi di disoccupazione.

Alcuni studiosi ritengono che il governo Thatcher abbia avuto un effetto dannoso sul tessuto sociale,
aumentando la disparità sociale e minando agli ideali di collettività, di servizi, di obblighi.

15.3: le trasformazioni della socialdemocrazia:

La crisi del welfare state non provocò una svolta a destra in Europa: la maggior parte dei partiti socialisti
europei facevano parte della maggioranza di governo. La socialdemocrazia non tramontò: piuttosto, gli anni
’80 furono caratterizzati da un desiderio di discontinuità, una disaffezione nei confronti dei partiti che
avevano governato durante la crisi economica.

Molti partiti socialisti europei videro l’avventi di un “neorevisionismo”, un radicale rinnovamento ideologico
in senso libertario. Questo si tradusse in un ulteriore allontanamento dal marxismo, un riconoscimento del
valore delle culture nazionali, un’apertura verso il libero mercato. Molti leader videro la Comunità europea
come un orizzonte di primaria importanza. Per alcuni, fu un’innovazione del socialismo; per altri, fu
l’adattamento necessario per perseguire in modo pratico gli ideali di giustizia sociale. In generale, tuttavia, i
socialisti continuarono a difendere lo stato sociale.

Schmidt, il successore di Brandt dell’SPD adottò misure di austerità economica che incentivarono l’iniziativa
privata. Riuscì a contrastare l’inflazione con il sostegno dei sindacati. Nonostante gli scontri all’interno del
partito, il consenso acquisito gli consentì di essere protagonista del rilancio dell’integrazione europea.

In Francia, già dagli anni ’70 Mitterrand aveva avviato un processo di rifondazione del partito, più libero del
marxismo. Il suo carisma “televisivo” portò il partito socialista in forte ascesa, imponendosi come leader
della sinistra a scapito del declino del partito comunista.

Nel 1981 Mitterrand vinse le elezioni, diventando il primo capo di stato socialista a vincere un’elezione
diretta a ottenere la maggioranza assoluta. Il suo ambizioso programma di riforme di stampo anticapitalista
suscitò l’allarme degli imprenditori e dei ceti benestanti, che spostarono capitali e beni all’estero,
minacciando la stabilità dell’economia nazionale.

Nel 1982, Mitterrand ribaltò la sua politica in senso liberale ed europeista. Concentrò gli sforzi nella lotta
all’inflazione, e indicò nell’integrazione europea una via di progresso e giustizia sociale. Rimosse dal governo
i ministri comunisti ed elogiò le virtù del capitalismo, indicando come modello modernizzazione l’esperienza
statunitense. Il partito socialista coabitò con i conservatori, aprendo una nuova fase della politica francese
caratterizzata dall’alternanza al governo. Non mancò chi vide nel suo cambio di rotta un tradimento
all’originaria missione socialista.

In Spagna, qualcosa di simile accade quando nel 1982 il PSOE conquistò la maggioranza in parlamento.
L’ascesa dei socialisti fu accompagnata dal declino dei comunisti. Anche il leader Felipe Gonzales passò da
un programma di matrice anticapitalista a una politica di modernizzazione di stampo liberista. L’opposizione
alla NATO fu sostituita dall’adesione a essa e all’integrazione nella CEE.

Anche il PSI di Craxi avviò un allontanamento ideologico dalla tradizione marxista, allontanandosi dal PCI e
avvicinandosi alla DCI per costruire una maggioranza di centro-sinistra. A capo del governo, Craxi avviò un
processo di “modernizzazione” attraverso una riforma del sistema istituzionale, l’apertura al mercato,

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l’esaltazione delle professioni della piccola imprenditorialità, la ripresa i un nuovo nazionalismo. La contesa
con il PCI non riuscì tuttavia a marginalizzarlo o a cancellarne la supremazia elettorale. Il miglioramento
dell’economia non fu accompagnato tuttavia dai programmi di “modernizzazione”.

15.4: la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione:

La rivoluzione delle tecnologie dell’informazione segnò una discontinuità storica. I rapporti fra scienza,
tecnologia e sviluppo economico avevano migliorato le condizioni di vita di milioni di persone sin dalla
Seconda guerra mondiale. Il baricentro della ricerca tecnologica si spostò da Londra, fulcro della rivoluzione
industriale, alla California, dove si svilupparono l’informatica, le telecomunicazioni e le biotecnologie.
L’informazione divenne il prodotto stesso dell’informazione; si svilupparono dispositivi per l’elaborazione
oppure l’elaborazione stessa delle informazioni.

Nel 1971 k0invenzione del microprocessore diede avvio alla miniaturizzazione dei chip, installati su ogni
macchina della ita quotidiana. Nel 1975 fu commercializzato il promo prototipo di computer, nel 1981l’IBM
commercializzò il personal computer.

La messa a punto delle reti a banda larga portò alla creazione delle reti informatiche di comunicazione, che
sarebbero stati integrati nel world wide web inventato del CERN di Ginevra. Nel 1995 internet venne
completamente privatizzato.

I progressi dell’ingegneria genetica si svilupparono si svilupparono nei pressi dei centri di microelettronica.
Nel 1973 fu messa a punto la clonazione genetica, i cui frutti furono efficacemente commercializzati solo
negli anni ’80. Alla fine degli anni ’80 si avviarono i primi progetti di mappatura del genoma umano.

Nel 1984, si stimava che il blocco orientale avesse dieci anni di ritardo rispetto all’Occidente nell’uso di
computer e robot industriali. Tuttavia, in Occidente no si sviluppò una vera industria informatica nazionale.

Ci fu una riduzione dell’occupazione e sparirono alcune figure professionali, come i tipografi e i dattilografi.
L’automazione dei sistemi produttivi diminuì la domanda di lavoro manuale non specializzato. Furono
privatizzati settori quali quello telefonico e televisivo. Le attività finanziarie internazionali si intensificarono
grazie alla velocità di circolazione e dei capitali e di comunicazioni fra operatori.

Le imprese tecnologiche investirono sulla specializzazione del personale, localizzandosi in distretti capaci di
attirare scienziati e tecnici. I dirigenti erano spesso giovani e favorirono la creazione di una “gerarchia
orizzontale”, che superava la distinzione fra azionisti, manager e lavoratori: i dipendenti avevano la
possibilità di possedere azioni sociali.

15.4: l’allargamento dell’Europa comunitaria:

Negli anni ’80 la CEE estese i suoi confini e assunse nuove competenze, grazie al nuovo ruolo di Francia e
Germania Ovest. Dopo De Gaulle, la rancia divenne più favorevole all’integrazione; la Germania occidentale
allargò i suoi obiettivi oltre la funzione antisovietica, vedendo nella CEE il rafforzamento delle connessioni
con l’Europa orientale.

La Conferenza all’Aia, 1969:

- Si aprì con un negoziato con gli aspiranti membri: nel 1973 entrarono Regno Unito, Irlanda e
Danimarca;
- Si iniziò l’elaborazione di un’unione economica e monetaria entro il 1980;
- Si avviò la progettazione di una futura unificazione politica, la trasformazione in Union Europea.

L’ingresso del Regno Unito fu particolarmente complesso, in primis, la Francia aveva interesse al
finanziamento della PAC, osteggiata dal Regno unito. In secondo luogo, la Francia giudicava incompatibile lo
status della sterlina in relazione all’integrazione comunitaria. La Regno Unito fu concesso un periodo di

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transizione per adattarsi alle regole finanziarie. Il compromesso raggiunto dal governo inglese fu criticato in
patria, tanto che il Regno Unito chiese una rinegoziazione e indisse un referendum, che tuttavia registra
un’ampia maggioranza a favore dell’adesione alla CEE.

Se la Francia considerava l’integrazione economica come uno strumento per riequilibrare i divari, la
Germania pretese che gli stati in passivo attuassero un risanamento per adeguarsi ai livelli degli altri. La
stagflazione complicò queste questioni. Nel 1975 fu istituito il Fono europeo per lo sviluppo regionale e si
istituì il Sistema monetario europeo. La Francia fu costretta a riconoscere il primato economico della
Germania.

Il rafforzamento del profilo diplomatico della CEE si sarebbe rivelato utile a contrastare la politica economica
degli Stati Uniti. Infatti, la CEE strinse degli accordi commerciali con paesi asiatici e africani. Ma la questione
dell’integrazione politica rimase controversa.

Un primo passo si ebbe con la nascita del Consiglio europeo, un organo composto dai capi di Stato destinato
a riunirsi periodicamente. Si approvò anche il principio di elezione diretta dal Parlamento Europeo, che
svolgeva un ruolo limitato al controllo del bilancio. Le prime elezioni videro i socialisti e i popolari come le
due formazioni politiche maggiori. Questa riforma favorì lo sviluppo di una politica transnazionale. Nel
1984, il “piano Spinelli” prevedeva che Parlamento europeo sarebbe stato dotato di potere legislativo,
distinguendo fra le competenze esclusive all’Unione europea e quelle dei governi nazionali. Questo trattato
fu di ispirazione per il consolidamento dell’UE.

Negli anni ’80 fecero il loro ingresso nella CEE gli Stati usciti da regimi dittatoriali, gli equilibri interni furono
complessi poiché questi stati necessitavano di forti investimenti per integrare le loro fragili economie.

L’aumento di spese portò il Regno Unito di Thatcher a richiedere un criterio di proporzionalità fra contributi
versati e ricevuti. Questa e altre obiezioni portarono ad uno sconto al Regno Unito e alla riforma del bilancio
comunitario, con un aumento delle risorse proprie della CEE. Nel 1988 si giunse all’introduzione di
contributi aggiuntivi in relazione al PIL del paese. Questa riforma ridisegnò i rapporti fra i paesi,
distinguendoli fra i contribuenti netti e i beneficiari maggiori.

Nel 1985, a Schengen, cinque paesi firmarono un trattato per abolire i controlli sulle persone alle frontiere
condivise; in seguito, aderirono anche gli altri paesi della CEE. L’atto unico europeo nel 1986 includeva
disposizioni economiche e politiche e fu un passaggio decisivo per la definizione di un’identità politica
comune:

- Il completamento del mercato unico entro il 1992, uno “spazio senza frontiere”
- L’introduzione del voto a maggioranza qualificata e una procedura di cooperazione fra Consiglio e
parlamento (un primo passo per l’esercizio della finzione legislativa)
- Un’estensione delle competenze della CEE a nuovi ambiti per rafforzare la coesione economica e
sociale.

CAP 16: LA FINE DEL BIPOLARISMO:

16.1: la ribellione polacca:

Negli anni ’80, la Polonia divenne l’epicentro delle proteste contro il sistema comunista. Infatti, in Polonia vi
era un diffuso nazionalismo antirusso, una forte influenza dell’autonoma chiesa cattolica e una classe
operaia combattiva. Gli anni ’70 avevano visto una lunga scia di proteste.

Nel 1970, fra i vari scioperi contro l’aumento dei prezzi, spiccarono quelli nei cantieri navali di Danzica, che
furono repressi con la forza. Gomulka fu sostituito da Gierek che tentò di accelerare la modernizzazione del
paese e sostenere i consumi privati. Il fallimento di questi tentativi portò a un secondo aumento dei prezzi
nel 1976 e un’altra ondata di proteste.

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Si consolidarono i movimenti di opposizione al regime, nacquero il Comitato di difesa degli operai e il


Movimento per la difesa dell’uomo. Fu fondamentale l’elezione nel 1978 dell’arcivescovo di Cracovia a
pontefice, con il nome di Giovanni Paolo II. Egli divenne una figura di riferimento nella resistenza comunista,
promuovendo una crociata ideale contro l’ateismo degli stati dell’Est.

Nel 1980 un nuovo aumento dei prezzi scatenò una nuova ondata di proteste. Nei cantieri navali di Danzica
si costituì un sindacato non ufficiale, Solidarnosc, guidato da un operaio, Lech Walesa. Le autorità furono
costrette a negoziare con gli scioperanti e a liberare gli arrestati. Solidarnosc divenne il primo sindacato
indipendente riconosciuto da uno stato comunista. Si configurò come un movimento di massa: i livelli di
adesione erano altissimi, son oltre 9 milioni di iscritti. A differenza dei tradizionali gruppi dissidenti,
rappresentava un’alternativa radicale al comunismo, ispirata a valori del cattolicesimo, al dialogo e al
pacifismo. All’inizio si mosse con cautela, in una sorta di “rivoluzione autocontrollata”, poiché Mosca lo
considerava un avversario insidioso da arginare al più presto.

Il generale Jaruzelski, sa poco segretario del Partito, organizzò un colpo di stato militare e impose la legge
marziale. Migliaia di sindacalisti e intellettuali furono arrestati e Solidarnosc fu bandita. Tuttavia, Jaruzelski
tentò di apportare delle novità, ad esempio ridimensionando il ruolo politico del Partito comunista. Questa
svolta autoritaria non suscitò reazioni in Europa: molti la videro come una scelta obbligata per prevenire un
intervento militare dell’URSS. Solidarnosc fu costretta alla clandestinità fino al 1989 nonostante Walesa
ricevette il premio Nobel per la pace.

16.2: Michail Gorbachev e la riforma del comunismo:

L’URSS si trovava in bilico a causa della stagnazione politica, economica e sociale. Inoltre gli effetti
dell’invasione militare in Afghanistan e della ripresa dell’antagonismo con Washington avevano messo a
dura prova il rapporto dell’URSS con i paesi islamici, ma anche traumatizzato una generazione di giovani
inviati al fronte. Inoltre, la coesione ideologica del sistema sovietico era ormai molto fragile.

Con la morte di Breznev, iniziò a scomparire la classe dirigente più legata al bolscevismo e all’adesione
dogmatica al marxismo-leninismo. I nuovi leader politici erano più distanti dalla tradizione ideologica,
sostenendo un nuovo socialismo che contribuì alla sfiducia nei confronti delle istituzioni del partito.

Nel 1985 fu eletto Gorbachev, un comunista riformista moderato, di formazione politica tradizionale ma ben
più giovane rispetto ai precedenti segretari. Egli era influenzato dalle precedenti influenze riformistiche e
avanzò l’idea di un “socialismo dal volto umano”.

Per rilanciare il significato ideale del comunismo, Gorbachev individuò tre obiettivi:

- Uskorenie, l’accelerazione dello sviluppo;


- Perestrojka, la riforma delle istituzioni dell’apparato normativo;
- Glasnost’, la rimozione della censura.

Gorbachev considerava prioritario il funzionamento dell’apparato produttivo, favorendo la nascita di un


“mercato socialista”. Tuttavia, i risultati furono deludenti: le aperture al mercato applicate all’economia
pianificata sovietica crearono un modello economico “ibrido” che non riuscì a migliorare la sua efficienza,
anzi, la produttività declinò ulteriormente.

Divenne urgente riformare il partito, obiettivo a cui si oppose la burocrazia ministeriale che era contro alla
decentralizzazione del potere. L’obiettivo era assicurare una maggiore trasparenza delle istituzioni e degli
apparati. L’incidente di Chernobyl nel 1986 mise in luce non solo l’obsolescenza dell’apparato tecnologico
sovietico, ma anche l’opacità con cui il partito (non) affrontava i problemi sociali.

Giornali e televisioni cominciarono a occuparsi di argomenti precedentemente vietati: la crescita della


povertà, i disagi dei reduci dell’Afghanistan, le deportazioni di Stalin. Quest’ultimo argomento in particolare

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aprì un ampio dibattito pubblico, e lo stesso Gorbachev denunciò apertamente lo stalinismo. Si avviò un
maremoto di comparazioni negative che minarono ulteriormente alla credibilità del partito.

Gorbachev favorì il decentramento dei poteri e la trasformazione in uno stato davvero federale. Rilanciò la
funzione dei soviet e istituì un nuovo organismo elettivo: nel 1989, si ebbe il primo voto parzialmente libero
dal 1918. Le riforme di Gorbacev si trasformarono nell’innesco di un’arrestabile accelerazione del
disfacimento dell’intero sistema comunista.

Gorbachev mirò a migliorare i rapporti con l’Occidente, a ridurre la spese militari e ad immaginare un nuovo
ordine mondiale, basato sul mantenimento della pace per la reciproca sicurezza. Annunciò la sospensione
del dispiegamento dei missili in Europa orientale; propose una moratoria sugli esperimenti nucleari, e tentò
di avviare un’ipotesi di disarmo con il presidente Regan. Queste posizioni conquistarono l’opinione pubblica,
nel 1987, fu firmato il trattato delle Intermediate-Range Nuclear Forces, che prevedeva lo smantellamento
dei missili a media gittata in Europa. In seguito, Gorbachev decretò la fine dell’intervento militare in
Afghanistan.

Gorbachev riconobbe la “libertà di scelta” come principio universale. Mosca non avrebbe più usato la forza
per imporre la sua versione di socialismo.

16.3: 1989: il collasso del comunismo nell’Europa orientale:

In pochi mesi, nel 1989, il blocco comunista si dissolse, con caratteristiche della fine di un impero. L’impero
aveva dato indubbi segnali di indebolimento, ma nessuno poteva immaginare un imminente disfacimento.
Le ragioni del collasso hanno assillato gli storici per molti decenni, poiché mai un impero territoriale si era
dissolto con tale rapidità. Oggi, il 1989 è interpretato da molteplici prospettive:

- L’origine policentrica delle mobilitazioni ridimensiona l’idea di un’unica rivoluzione;


- L’evoluzione della protesta fu definita una “rivoluzione negoziata” con le autorità, o come una
“rivoluzione costituzionale” per enfatizzare il ruolo centrale dei diritti civili;
- La dissoluzione del blocco rappresentò una fase tardiva del processo di delocalizzazione avviato nel
secondo dopoguerra.

Le mobilitazioni del 1989 ebbero alcuni tratti comuni:

- La rapidità dei processi di contagio e imitazione furono immensamente favoriti da mass media. I
regimi agivano solo gli occhi del mondo. Dopo la glasnost, divenne difficile per gli stati satelliti
tentare di controllare le informazioni;
- Ci fu un’ampia partecipazione popolare. L proteste non ebbero un ruolo decisivo nella caduta dei
regimi, ma a livello simbolico segnalavano un diffuso malcontento.
- Spiccò un consapevole rifiuto della violenza come strumento d’azione politica, ad eccezione della
Romania. Il ricorso alla violenza fu contenuto anche da parte delle autorità.

Ai cortei parteciparono cittadini di diverso orientamento ideologico. Tuttavia, all’interno di questa varietà
ebbero ruolo di primo piani i giovani, sensibili al “richiamo in Europa”, al desiderio di uno stile di vita
moderno con l’accesso ai consumi del mondo capitalista.

Il cambio di strategia di Gorbachev aveva ribadito l’indisponibilità dell’URSS a intervenire in difesa degli stati
satelliti. L’obiettivo era di abbandonare il comunismo in Europa ma salvarlo in Russia; invece, il collasso del
blocco orientale portò alla fine del comunismo anche in Russia.

La Polonia fu il prima paese a liberarsi dal dominio comunista attraverso una fine “negoziata”. La grave
situazione economica del paese aveva portato Jaruzelski ad una maggiore tolleranza per Solidarnosc,
sempre più sostenuta dalla Chiesa cattolica. Un nuovo aumento dei prezzi e la conseguente ondata di
scioperi spinsero Jaruzelski ad aprire una trattativa con Solidarnosc.

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Nel 1988 si arrivò alla costituzione di un Comitato civico di Solidarnosc; nel 1989, furono legalizzati i
sindacati indipendenti, si avviò una ristrutturazione del sistema economici e si istituì una nuova assemblea
elettiva.

Alle prime elezioni, sorprendentemente, Solidarnosc vinse con una maggioranza schiacciante. Jaruzelski
avviò una trattativa per la costituzione di un governo di coalizione. Il primo ministro Mazowiecki fu il primo
politico non comunista a capo di uno stato orientale. Si decise di coinvolgere i comunisti riformisti nella
transizione politica, e Jaruzelski fu eletto presidente della repubblica. Poco dopo la riforma della
costituzione, il Partito comunista si sciolse.

In Ungheria furono gli stessi comunisti a guidare l’uscita dal comunismo. Il governo di Kadar aveva avviato
alcune riforme, ma il malcontento lo portò ad adottare altre misure di apertura. Il dissenso fu
moderatamente tollerato; il governo aprì alle candidature multiple, aprendo ad alcuni politici indipendenti.
Con Grosz, un comunista riformista, sulla scia di Gorbachev, furono approvate riforme per sostenere
l’economia di mercato e si passò a un sistema politico multipartitico. Fu ostruita una commissione
d’inchiesta sui fatti del 1956, per riabilitare la rivolta e i suoi protagonisti, celebrati come eroi nazionali. I
resti di Imre Nagy ricevettero una nuova sepoltura con una seguitissima cerimonia ufficiale. Il governo aprì
un dialogo con i partiti d’opposizione, portando all’abolizione del ruolo guida del Partito comunista.

L’apertura delle frontiere ungheresi all’Austria fu determinante per la caduta del regime comunista tedesco.
Quando Budapest allentò i controlli ai propri confini, migliaia di tedeschi orientali si spostarono in Ungheria,
per raggiungere l’Austria e poi la Germania occidentale. Nacquero nuovi movimenti dissidenti e in migliaia
manifestarono contro l’immobilismo del governo di Honecker. Le manifestazioni si susseguirono al grido di
“noi siamo il popolo”, e il partito comunista decise di sostituire il vecchio leader con il riformista Krenz.

La RDT decise di liberalizzare parzialmente i viaggi all’estero. Dopo questo annuncio, migliaia di berlinesi si
accalcarono a ridosso del muro per attraversarlo, e alcuni lo demolirono. Cadde, in modo inaspettato, il
simbolo della divisione Est-Ovest.

Come in Ungheria, in Bulgaria avvenne una transizione controllata dal partito comunista. Le campagne di
espulsione della minoranza turco-musulmana aveva spinto il governo di Mosca a sostituire Zivkov.
Gorbachev immaginava che in tutta l’Europa orientale un cambio di leadership promuovesse una campagna
di riforme per “salvare” il comunismo.

La Cecoslovacchia godeva di un tenore di vita migliore degli altri paesi del blocco, più simile a quello
occidentale. Tuttavia, nel 1989, sulla scia degli altri stati, si moltiplicarono i gruppi di dissidenti. Ci furono
manifestazioni per commemorare la primavera di Praga e l’anniversario della nascita dello stato
cecoslovacco, ma le forze dell’ordine non intervennero. I veri disordini scoppiarono alla diffusione di una
notizia falsa sull’uccisione di un giovane, che scatenò una mobilitazione che costrinse il partito comunista
alle dimissioni.

La trattativa tra il governo e l’opposizione si concluse con la formazione di un nuovo governo guidato da un
comunista ma composto da una maggioranza di ministri ex dissidenti. Alexander Dubcek, protagonista della
primavera di Praga, fu eletto presidente, mentre Havel, capo del movimento Forum civico, divenne capo di
stato. I primi atti del governo videro lo scioglimento della polizia politica e l’amnistia per migliaia di
prigionieri politici.

La Romania aveva un rapporto privilegiato con l’Occidente, che finanziava generosamente Bucarest in
cambio del perseguimento di una politica autonoma da Mosca. Negli anni ’80, Ceausecu introdusse delle
misure durissime per ripianare il debito, che peggiorarono le condizioni di vita della popolazione; inoltre,
riorganizzò le campagne secondo un modello quasi preindustriale. Le monumentalizzazioni della capitale e
la costruzione di un palazzo faraonico de potere aumentarono un malcontento che esplose nel 1989.

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La repressione di una piccola rivolta spinse la polizia a sparare su una folla. C’è chi ha letto questa scelta
come un complotto delle forze dell’ordine per favorire la distensione di Cesusescu. La protesta popolare, alla
quale si unirono le forze dell’esercito. Portarono alla cattura e uccisione di Ceausescu. Il governo provvisorio
inizialmente si limitò a ristabilire il multipartitismo, senza smantellare le istituzioni.

16.4: la riunificazione tedesca:

I tedeschi orientali reclamavano l’unità nazionale. Non sarebbe bastata una transizione della RDT verso un
ordinamento democratico; bisognava negoziare una forma di unione con la RFT. Intanto, il partito comunista
cambiò nome in Partito del socialismo democratico e si convocarono le libere elezioni nel 1990. Uscirono
vincitori i cristiano-democratici, favorevoli alla riunificazione.

Il cancelliere della Germania occidentale, il cristiano-democratico Kohl, riuscì a stabilire le condizioni per la
riunificazione della Germania (già prevista dalla costituzione del 1949). La presenza di un governo
ideologicamente affine alla RDT permise la stipula di un trattato di unione.

La comunità internazionale, in particolare Regno Unito, Francia e Italia, furono inizialmente ostili alla
riunificazione. La Germania unificata rischiava di destabilizzare l’ordine politico ed economico europeo. Kohl
fece cambiare idea alla Francia assicurando il ruolo della Germania come promotrice dell’Unione Europea
integrata e l’introduzione della moneta unica. Gorbachev non poté opporsi, dopo i ripetuti riconoscimenti
dell’autodeterminazione dei popoli, ma si rassegnò con la promessi di Kohl di garantire un ingente flusso di
finanziamenti all’URSS. Infine, il sostegno della riunificazione da parte degli Stati Uniti fu determinante.

Le Germanie firmarono un trattato di unione monetaria, economica e sociale. Il marco occidentale sostituì
quello orientale con un cambio paritario, avvantaggiando i cittadini dell’Est. A fine anno, gli altri paesi
firmarono l’accordo finale, che stabiliva la permanenza della Germania nella NATO e la fine del controllo
internazionale su Berlino.

16.5: dall’Unione Sovietica alla Russia di Boris El’cin:

La popolarità di Gorbachev crebbe all’estero ma si indebolì in patria. Infatti, il leader era bersaglio di critiche
sia dai conservatori, sia dai riformatori, preoccupati per la lentezza del rinnovamento. Entrambi gli
schieramenti ritenevano che il centrismo del leader fosse inefficiente nel difendere gli interessi dell’URSS,
con una perestrojka fuori controllo.

Le repubbliche baltiche avevano preservato le loro identità nazionali sin dall’inizio dell’annessione. Crebbero
rapidamente dei gruppi nazionalisti. Nel 1989, il partito comunista lituano si schierò a favore
dell’indipendenza. L’esempio fu seguito da tutte le principali repubbliche sovietiche, che affermarono la
propria sovranità o indipendenza: anche in Ucraina, gli stessi comunisti si fecero promotori di una
dichiarazione di sovranità. I partiti comunisti spesso si trasformarono in paladini del nazionalismo in modo
opportunistico o no, per garantire l’autopreservazione.

Gorbachev decise di lanciare un segnale di ammonimento delle repubbliche, e nel 1991 i reparti speciali
sovietici entrarono a Vilnius e occuparono alcuni edifici pubblici. I soldati spararono sulla folla provocando
14 morti. La repressione non funzionò e Gorbachev fu contestato anche a Mosca.

Boris El’cin era un leader nazionalista caduto in disgrazia all’interno del partito, che riuscì a diventare
presidente del Soviet supremo dell’URSS. El’cin si fece interprete di uno “sciovinismo della grande Russia”. Si
schierò a favore dei baltici in funzione antisovietica. La popolarità di El’cin lo fece eleggere
democraticamente presidente della Repubblica Sovietica Russa.

Il Partito comunista destituì Gorbachev, assunse i poteri presidenziali e dichiarò lo “stato di emergenza”, con
il sostegno delle forze armate. El’cin denunciò pubblicamente l’illegalità del golpe e inviò folle a circondare il

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palazzo del Soviet russo per difenderlo dall’attacco dei militari. Una parte delle forze armate abbandonò i
golpisti e le proteste si intensificarono. El’cin divenne il leader della resistenza.

Il PCUS fu sospeso e Gorbachev si dimise da segretario generale. Estonia, Lettonia, Ucraina, Bielorussia e
Moldavia dichiararono l’indipendenza. Gorbachev, ebbe l’effetto collaterale di esacerbare i problemi
strutturali di più antica origine:

- L’inflessibilità del sistema produttivo di adeguarsi alle trasformazioni dell’economia mondiale;


- I costi degli interventi militari e della corsa agli armamenti nel confronto con gli Stati Uniti;
- L’indebolimento della forza attrattiva dell’ideologia ufficiale;
- Il rafforzamento delle autonomie locali;
- Lo smantellamento della pianificazione senza un’efficace alternativa;
- La delegittimazione del PCUS;
- Le proliferazioni di movimenti nazionalisti;
- L’effetto nella glasnost nell’enfatizzare le differenze fra Est e Ovest.

Eric Hobsbawm, uno dei maggiori storici marxisti del Novecento, disse dell’Unione Sovietica che essa non
era stata concepita come un’alternativa globale al capitalismo, quanto una risposta specifica alla situazione
peculiare di un vastissimo paese incredibilmente arretrato. Le condizioni per costruire il socialismo, da sola,
nel 1917, non erano presenti. I risultati furono comunque notevoli, ma a costi umani elevatissimi e
intollerabili.

CAP 17: L’EUROPA SENZA CORTINA:

17.1: dopo il comunismo:

Nel corso degli anni ’90, cessarono di esistere quattro stati e ne nacquero altri quattordici. Nonostante la
riconfigurazione della cartina politica dell’Europa, poche frontiere nazionali furono modificate. Nel
complesso, con l’eccezione della regione bianca, la fine della guerra fredda favorì la collaborazione fra stati
europei.

Il rinnovamento delle istituzioni statali e delle culture politiche dei nuovi paesi non fu tanto una transizione
verso un modello ad imitazione della democrazia, quanto una trasformazione nella quale i nuovi governi
sperimentarono strategie per introdurre istituzioni democratiche laddove spesso non c’erano mai state.
Questa trasformazione fu guidata dalle generazioni più giovani, mentre i cittadini più anziani ebbero
difficoltà ad adattarsi.

Emersero nuovi movimenti, sia di matrice nazionalista sia liberale. Ovunque vi fu una revisione degli
ordinamenti costituzionali.

Inizialmente prevalsero i movimenti con valori di centro-destra. Le difficoltà economiche e nella


riorganizzazione degli apparati amministrativi portò al ritorno dei post comunisti. In un clima di instabilità
politica, pochi governi riuscirono a rimanere più di un mandato.

Al centro del dibattito politico si pose la questione dell’epurazione degli apparati statali da chi si era reso
responsabile di abusi e crimini di guerra durante il regime comunista. Fu difficile individuare responsabilità
individuali, e talvolta si crearono delle ingiuste campagne di diffamazione. In Germania, questo processo fu
rigidamente regolamentato per evitare abusi.

Lo smantellamento dell’economia pianificata e l’introduzione del mercato libero furono passaggi inevitabili
ma particolarmente traumatici per molti cittadini. Le grandi istituzioni finanziarie mondiali promossero la
liberalizzazione, la privatizzazione, l’eliminazione delle barriere commerciali, per facilitare la connessione di
prestiti internazionali e l’afflusso di investimenti dall’estero.

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Alcuni paesi, come la Polonia e la Repubblica Ceca, adottarono un approccio istantaneo, rivoluzionando il
sistema economico in breve tempo ed affidandosi al naturale equilibrio del mercato, secondo le teorie
neoliberiste. Gli effetti immediati furono drammatici, con un calo vertiginoso del PIL e un’impennata della
disoccupazione. Altri paesi, come Romania o Ucraina, perseguirono un passaggio graduale orientandosi
secondo le opinioni pubbliche nazionali. A metà degli anni ’90, i paesi che avevano iniziato le riforme già
prima dello smantellamento dell’URSS, ad esempio la Polonia, mostrarono segni di ripresa.

Il processo di privatizzazione delle imprese fu di enormi dimensioni e avvenne secondo carie procedure,
consentendo di acquisire a prezzi stracciati interi settori dell’apparato produttivo. Schiere di nuovi
imprenditori in stretto rapporto con la classe politica ne approfittarono: in particolare, in Russia, grazie ai
funzionari corrotti, pochi individui si impadronirono delle aziende più redditizie.

La contrazione del sistema manifatturiero a favore della terziarizzazione dell’economia portò a milioni di
lavoratori a convertirsi a nuovi maestri e attività. Le ondate di licenziamenti portarono a un aumento della
povertà, in particolare fra le generazioni più anziane. La mortalità aumentò del 13% fra i maschi adulti.

17.2: le guerre jugoslave:

La Jugoslavia fu l’unico paese in cui il crollo del comunismo portò a una guerra devastante. Tra il 1991 e il
1999 si scatenarono sei diverse guerre che segnarono il dissolvimento della Federazione, provocando quadi
150.000 morti.

La causa principale fu senza dubbio la crescita di nazionalismi antagonisti all’interno di una federazione che,
non era stata segnata da evidenti linee di conflitto nei tre decenni dopo la Seconda guerra mondiale. Tito,
infatti, aveva dedicato particolare attenzione alla coesione interna della federazione. Però, già nel 1980,
questa coesione aveva iniziato a sfaldarsi davanti alla crisi industriale e alla crescita dell’inflazione che aveva
evidenziato il divario economico e sociale tra il nord sviluppato (Slovenia e Croazia) e il sud povero e
arretrato (Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia), aveva innescato nuove proteste e
rivendicazioni, soprattutto da parte della classe dirigente slovena e croata.

Si era aggiunta una ripresa della conflittualità in Kosovo.

Nella metà degli anni ’80 iniziarono a moltiplicarsi le iniziative di rivendicazione delle identità nazionali.
Quello che rimaneva del sentimento di nazionalità jugoslava rimaneva solo nell’esercito.

Ebbe grande effetto l’ascesa di Milosevic in Serbia, eletto leader del partito comunista locale nel 1986,
fomentò una rinascita del nazionalismo allo scopo di consolidare il suo potere personale e il ruolo guida
della Serbia all’interno della federazione. Ancor prima della sua elezione a presidente della Repubblica,
Milosevic promosse un accentramento dei poteri, riducendo l’autonomia delle regioni della Vojvodina e del
Kosovo, dove esplosero violenti scontri etnici.

Nel 1990 Belgrado arrivò ad appropriarsi della metà dei proventi fiscali della federazione, per pagare i
compensi dei dipendenti delle istituzioni federali e dei lavoratori delle imprese statali. I nazionalisti
macedoni, sloveni e croati decisero di accelerare la loro separazione dalla federazione. Nei primi mesi del
1991 Slovenia, Croazia e Macedonia proclamarono l’indipendenza, scaturendo timore di una
destabilizzazione nei Balcani da parte della diplomazia internazionale.

Nell’estate 1991, la situazione precipitò: Slovenia e Croazia avviarono una secessione unilaterale e l’esercito
federale entrò in azione. Così cominciò la sequenza di guerre jugoslave.

Nel primo conflitto, tra Slovenia e esercito federale, Belgrado non aveva interessi strategici, durò solo
qualche settimana. Assai più violento fu il conflitto in Croazia, in cui viveva una larga minoranza serba nelle
regioni della Krajina e della Slavonia. Queste ultime proclamarono la propria separazione da Zagabria, con il
sostegno dell’esercito federale (Serbia e Montenegro). Il governo croato reagì con forza e iniziò una guerra

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che non risparmiò i civili. Tra dicembre 1991 e gennaio 1992 la Comunità europea riconobbe l’indipendenza
della Slovenia e della Croazia. Poco dopo, Zagabria e Belgrado firmarono un armistizio che congelò il
conflitto fino al 1995.

Nella primavera 1992 i combattimenti si erano spostati in Bosnia-Erzegovina, composta da una maggioranza
musulmana e da due ampie minoranze serbe e croate. A marzo un referendum aveva posto la premessa per
una dichiarazione di indipendenza del parlamento bosniaco. I serbi-bosniaci decisero di creare una propria
repubblica secessionista in opposizione a quella di Sarajevo. Iniziò così una guerra devastante durata
quattro anni, caratterizzata da scontri violentissimi.

Quella bosniaca fu una guerra estremamente complessa, che inizialmente vide un’alleanza tra musulmani e
croati, che si sciolse all’inizio del 1993, e cominciò un vero e proprio conflitto triangolare, segnato da azioni
di pulizia etnica.

A queste azioni nei confronti delle minoranze ricorsero tutte le parti in conflitto. Sarajevo fu assediata e
bombardata per quasi 4 anni, con un bilancio di 14.000 morti. A Srebrenica, l’11 luglio 1995, si consumò una
delle stragi più orribili della storia europea, favorita dall’inerzia di un contingente olandese dei caschi blu: le
milizie serbe giustiziarono circa 8000 civili musulmani e accatastarono i cadaveri in fosse comuni.

Furono istituiti una Conferenza permanente sull’ex Jugoslavia e un Gruppo di Contatto che elaborarono
proposte di pace su una suddivisione più rispettosa delle frontiere etniche. Venne istituito all’Aia un
Tribunale internazionale per i crimini di guerra. Queste iniziative non rallentarono lo svolgimento dei
combattimenti né impedirono la ripetizione di violenze disumane.

Solo nell’estate 1995 mutarono le condizioni, la NATO decise di compiere azioni aeree contro l’offensiva
croato-musulmana, da ridimensionare il territorio controllato dai serbi. Tutti i paesi europei accettarono le
negoziazioni tramite la mediazione degli Stati Uniti  fallimento della diplomazia europea.

Nel novembre 1995, l’accordo di Dayton stabilì la restituzione della Krajina e della alla Croazia e la
costituzione di due entità politiche distinte all’interno della Bosnia-Erzegovina: la federazione croato-
musulmana, ciascuna entità aveva un proprio parlamento e un’ampia autonomia.

L’accordo ignorò la questione del Kosovo, che diventò l’epicentro delle tensioni balcaniche. Qui nel 1998 le
consuete forme di disobbedienza civile si trasformarono in attacchi violenti contro la polizia serba. La
reazione serba guidata da Milosevic fu durissima e contribuì ad una guerra civile che provocò migliaia di
vittime e la fuga di migliaia di profughi verso Albania e Macedonia.

Cominciarono negoziazioni internazionali con Belgrado, ma il mancato rispetto delle intese, convinsero le
potenze occidentali ad un intervento militare contro la Serbia. Il 24 marzo 1999, senza un mandato
dell’ONU, le forze aeree della NATO bombardarono gli obiettivi militari e civili che durò oltre due mesi e
mezzo. Alla fine Belgrado si arrese e fu stipulata una tregua con il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo.

Era l’inizio di un percorso politico che avrebbe condotto ad un’ampia autonomia per la regione, concluso
con un’autodichiarazione di indipendenza nel 2008.

L’azione militare della NATO scatenò un grande dibattito nell’opinione pubblica, perché sancì una
supremazia del diritto di “intervento umanitario” sul principio del rispetto della sovranità nazionale.
Nell’immediato, l’intervento della NATO indebolì il potere interno di Milosevic, che fu chiamato anche ad
affrontare le rivendicazioni di indipendenza del Montenegro. Nel 2000 il candidato liberale Kostunica, riuscì
a sconfiggere Milosevic. Pochi mesi dopo fu accusato di crimini contro l’umanità e fu arrestato ed estradato
presso il tribunale dell’Aia, morì in cella nel 2006 prima del verdetto.

17.3: la nascita dell’UE:

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la dissoluzione dell’URSS e la riunificazione tedesca favorì degli sviluppi di integrazione europea. La


Germania unita si era presa l’impegno a sostenere la formazione di una più coesa organizzazione
comunitaria. L’intesa franco-tedesca promuoveva un accordo su un’unione economica e monetaria,
ostacolato dal Regno Unito. Tuttavia, la dissoluzione dell’ordine bipolare imponeva di definire una propria
identità politica.

Due conferenze intergovernative, dedicate all’integrazione economica e all’adozione della moneta unica,
sfociarono nel Trattato sull’Unione Europea di Maastricht, con cui la CEE cambiò denominazione. L’accordo
riguardava questioni di economia e finanza, di politica estera e difesa, e modificò il sistema istituzionale e le
competenze della comunità.

Questioni economiche e finanziarie:

- Si stabilì la modalità di introduzione dell’Euro;


- Si contribuì la Banca Centrale Europea, un’istituzione sovragovernativa responsabile della politica
monetaria europea
- Furono decisi i criteri richiesti agli stati per aderire alla nuova moneta, secondo i principi ispiratori
del modello tedesco: il rispetto di certi parametri quantitativi sull’inflazione, il tasso di interesse, il
deficit, il debito pubblico, la stabilità del cambio.

Questioni di politica estera e difesa:

- Venne formalizzata la nascita di una politica estera di sicurezza comune, che tuttavia rimase
subordinata alle politiche estere nazionali.

Questioni istituzionali e di competenze:

- Furono estese le competenze comunitarie, con l’inclusione di nuovi ambiti come l‘industria,
l’istruzione, la cultura, la salute.
- Si introdusse una distinzione fra competenze esclusive dell’UE e competenze condivise con gli stati,
regolate dal principio di sussidiarietà, che privilegiava l’azione dell’UE laddove avesse offerto
maggiori garanzie di efficacia;
- Vennero ampliate le funzioni del Parlamento, che aveva potere di veto sulle decisioni del Consiglio;
- Si stabilì un fondo per sostenere lo sviluppo dei quattro paesi più poveri: Spagna, Portogallo, Grecia
e Irlanda.

Il governo britannico negoziò una clausola di esclusione sull’unione monetaria. Inoltre, si oppose a una serie
di norme sulle relazioni sindacali, e infine rifiutò l’inserimento nel testo dell’accordo ogni riferimento ad una
“vocazione federale”. Anche la Danimarca, a seguito di un referendum, e la Svezia, rinunciarono all’Euro. Il
trattato di Maastricht generò un sistema ibrido, dove coesistevano diversi livelli di integrazione comunitaria.

I negoziatori furono delusi dagli attriti all’integrazione riscontrati nell’opinione pubblica. Anche il
referendum francese approvò il trattato di Maastricht con una maggioranza esigua.

L’antieuropeismo fu alimentato dalla crisi finanziaria che aveva colpito la SME nel 1992, a causa di
speculazione da parte di grandi investitori per indebolire le valute nazionali più fragili rispetto al predominio
del marco tedesco. Varie valute subirono forti svalutazioni, e il sistema di cambi fissi deli anni ’70 si dissolse.

Fu deciso che l’euro sarebbe stato introdotto nel 1999 e messo in circolazione nel 2002. Tuttavia, solo
Germania e Lussemburgo possedevano i requisiti per l’adozione, si aprì un dibattito sull’interpretazione dei
criteri, e paesi come la Francia sollecitarono un approccio flessibile per favorire lo sviluppo. Prevalse la
visione più rigida della Germania. Inoltre, nel 1997 Berlino ottenne il Patto di stabilità e di crescita, che
istituì delle procedure di controllo dopo l’ingresso dell’euro per garantire un impegno duraturo da parte
degli stati.

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Vari paesi fecero richiesta di entrare nell’UE. Bruxelles decise di privilegiare quelli più in stretto contatto con
a CEE, che erano paesi più ricchi e sviluppati rispetto a Turchia, Cipro e Malta e i paesi ex comunisti. La
possibilità di adesione degli ex paesi comunisti suscitò consensi e resistenze: essi avevano caratteristiche
economico-sociali e tradizioni politico-culturali molto diverse da quelle dei membri dell’UE. Cominciò un
graduale percorso di avvicinamento, favorito dalla Germania e dal Regno Unito. La Germania aveva infatti
interesse che il baricentro del potere di Berlino si spostasse verso Est; il Regno Unito, invece, vedeva nella
creazione di una comunità ampia e variegata la difficoltà dell’instaurazione dell’integrazione politica,
osteggiata dall’opinione pubblica.

Ulteriori riforme istituzionali si resero necessarie con l’imminenza del potente ampliamento. Nel 1997, un
nuovo trattato aveva lo scopo di migliorare la struttura e il funzionamento dell’UE. Si istituì una nuova carica
per accrescere la visibilità dell’attività diplomatica, venne definito un campo d’azione militare dell’UE (senza
costituire un esercito europeo), si rafforzò il ruolo legislativo del parlamento.

Nel maggio 1998, tutti gli Stati membri dell’UE, tranne la Grecia e chi ne era volontariamente rimasto fuori,
poterono adottare l’euro. L’Italia, in bilico fino all’ultimo, riuscì a mettere parzialmente in ordine il deficit del
bilancio attraverso tagli alla spesa pubblica e una nuova “tassa per l’Europa”.

17.4: destra e sinistra dopo la guerra fredda:

All’indomani della guerra fredda l’Europa appariva “spossata sul piano ideologico”. Un diffuso sentimenti di
disillusione caratterizzò lo strano trionfo della democrazia, ridotta a libertà individuale e consumismo
capitalistico, che trovò conferma nel crescente astensionismo e nel declino del numero degli iscritti ai
partiti.

Questa trasformazione sembrava mettere in crisi l’idea stessa della sopravvivenza di una contrapposizione
tra “destra” e “sinistra”: quella dicotomia si era ormai esaurita. Nuove questioni legate alle identità
individuali che alle rappresentazioni classiche, avevano reso obsolete le categorie tradizionali, ritenute
incapaci di interpretare desideri e bisogni di una società in rapida trasformazione.

Oggi emerge un’analisi delle dinamiche politiche europee nel corso degli anni ’90 è piuttosto una
ridefinizione della contrapposizione tra destra e sinistra. Le due categorie continuarono ad essere utilizzate
nel dibattito pubblico e a indicare due sistemi di valori antagonistici: la sinistra “popolo di chi ritiene che gli
uomini siano più eguali che diseguali”, e la destra “popolo di chi ritiene che gli uomini siano più diseguali
che eguali”.

Negli anni ’90 è indubbio che si registrò un allentamento della tensione ideologica, assecondato dalla
trasformazione dei vecchi partiti e dalla nascita di formazioni che imposero nuovi temi al centro del
dibattito pubblico. Tra le questioni emergenti spiccò quella della corruzione del mondo politico. Il caso più
clamoroso fu quello dell’Italia, esploso nel 1992 con la scoperta da parte della legislatura di una fitta rete di
relazioni illecite tra politici, amministratori e imprenditori, capaci di alterare il funzionamento delle
istituzioni pubbliche. Caso noto come “Tangentopoli”.

Nei paesi UE i partiti della sinistra socialdemocratica vissero inizialmente una crisi, ma nella seconda metà
degli anni ’90 riuscirono a invertire la tendenza e a conquistare nuovi ruoli di governo. In Italia il PSD di
Romano Prodi nel 1996 e poi dal leader del partito Massimo D’Alema, nel 1998, costituì il partner più
importante di un esecutivo di coalizione; in Francia il PS tornò alla guida del governo con Lionel Jospin nel
1997; nel Regno Unito il partito laburista fu rinnovato da Tony Blair, che sconfisse la Thatcher nel 1997; in
Germania Gerhard Schroder interruppe il lungo dominio di Kohl nel 1998. Una sorta di “terza via” tra
socialismo e liberalismo, che avrebbe dovuto guidare la modernizzazione ideologica della sinistra europea
nel nuovo secolo.

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Alla fine del ‘900 l’Europa comunitaria sembrava stabilmente orientata a sinistra, ma maturavano anche
fenomeni di ispirazione opposta. All’interno della destra cominciarono ad emergere segnali di una
radicalizzazione di alcuni settori.

In molti paesi dell’Europa orientale, come reazione alle difficoltà provocate dall’introduzione della
democrazia e del capitalismo, cominciò a conquistare consensi un nuovo nazionalismo e una nostalgia del
passato comunista. Novi leader e movimenti divennero popolari in diversi stati dell’ex blocco orientale.
Esemplare fu il caso della Russia, dove il programma di riforme liberistiche intraprese da Boris El’Cin
incontrò significative resistenze

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