Aa VV - Giacomo Matteotti Immagini e Documenti - Fondazione Giacomo Matteotti
Aa VV - Giacomo Matteotti Immagini e Documenti - Fondazione Giacomo Matteotti
IMMAGINI E DOCUMENTI
Matteotti e il socialismo
del suo tempo p. 6
Contro la guerra e in
Parlamento p. 23
Il delitto Matteotti p. 43
La memoria p. 50
La casa della famiglia Matteotti è oggi una Casa-Museo aperta al pubblico. Vi è allestita
una esposizione permanente con la documentazione messa a disposizione dalla
Fondazione di studi storici Filippo Turati. La curatela scientifica è del prof. Stefano
Caretti e l'allestimento è dell'arch. Monica Mengoni.
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culturale. Il matrimonio fu allietato dalla nascita di tre figli: Giancarlo,
Matteo e Isabella. La corrispondenza con Velia ci restituisce un
Matteotti passionale, amante della vita, dell’arte, del cinema, della
musica, viaggiatore sempre curioso.
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Giacomo nel periodo universitario
Tesi di laurea
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Velia Titta, la moglie
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Matteotti e il socialismo del suo tempo *
In una lettera del 1904 Matteotti si dichiarava socialista militante “da un
pò di tempo”, impegnato nella promozione di circoli, leghe e cooperative
a favore del proletariato rurale del Polesine. Nel gennaio 1908 fu eletto nel
consiglio comunale di Fratta Polesine, e poi, in virtù della legge vigente,
anche di Villamarzana e Boara, dove fu sindaco, e ancora Lendinara,
Badia, Bellino. Dal 1910 fece parte del consiglio provinciale di Rovigo, da
cui fu escluso per incompatibilità durante la guerra, ma vi tornò con le
elezioni del 1920. Matteotti mantenne sempre un legame profondo con il
territorio, traendo dalla esperienza di amministratore locale continua
ispirazione.
Matteotti era convinto che al proletariato, in quanto prodotto del
capitalismo, spettasse il compito di indirizzare lo sviluppo nel segno della
libertà individuale e collettiva e della giustizia sociale. Del socialismo
coltivava un’idea etica e pedagogica, che presupponeva la spinta dal basso
e si alimentava di esperienze solidali e di competenze acquisite: si faceva,
insomma, patrimonio collettivo diffuso, traducendosi in un’opera di
civilizzazione di portata storica. Fu un riformista perché pensava e
operava per il progressivo allargamento della cittadinanza politica e
sociale, senza dogmatismi ma con tenacia assoluta, convinto com’era che
il socialismo fosse meta ideale, ma anche prassi concreta in quanto
sistema di valori che si definivano nel farsi.
Matteotti affidava ai corpi sociali l’articolazione del graduale processo
riformatore. Essi erano il comune, deputato all’esercizio delle libertà e alla
“solidale convenienza”; la scuola, requisito per lo sviluppo produttivo e
“strumento primo e validissimo dell’emancipazione dei lavoratori”; la
lega, unità sindacale di difesa salariale, ma ancor più di distribuzione del
lavoro, e financo embrione della comunità solidale; la cooperativa, come
strumento per “democratizzare” il capitale liberandolo dagli intermediari
e conferire all’organizzazione del lavoro continuità e capacità produttiva.
Erano gli anni in cui il Partito socialista italiano, costituito al congresso
di Genova nel 1892, si andava diffondendo attraverso circoli e sezioni
territoriali, si dotava di sedi stabili, dava vita ad una fitta rete di fogli locali
e ad un quotidiano (“Avanti!”, dal 1896), vedeva crescere i propri consensi
nelle elezioni politiche e amministrative. A latere si andava sviluppando un
forte movimento cooperativo (la Federazione, poi Lega nazionale nasceva
nel 1889) e sindacale, fondato sulle camere del lavoro e sulle federazioni
di mestiere, che nel 1906 dettero vita alla Confederazione generale del
lavoro. Nell’immaginario collettivo del movimento socialista, in Italia e in
Europa, era l’attesa che il nuovo secolo gli appartenesse**.
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L’ascesa del mondo socialista *
L’ascesa del socialismo nel corso del XIX fu un fenomeno europeo,
destinato a irradiarsi al di fuori dei confini originari pur con modalità
diverse, c talvolta anche configgenti con il nucleo identitario originario,
lino a improntare la storia dell’intero secolo XX. La consistenza del
fenomeno, inteso come patrimonio culturale e movimento organizzato,
fu tale da sfidare la potenza degli Stati e perfino da porsi in concorrenza
con la millenaria Chiesa. Per comprenderne dimensioni e durata occorre
considerare che esso fu figlio dell’industrializzazione e del progresso
tecnico, in un periodo nel quale quella si presentava come il futuro, la
modernità avanzante e per certi versi irresistibile, tale da travalicare già la
culla europea, per espandersi oltre Oceano negli Stati Uniti o in
Giappone. Insomma, il socialismo, prima ancora di esserne l'avversario,
era il figlio del capitalismo, che reclamava libera circolazione di merci e
uomini, e che eleggeva a classe dirigente la borghesia, inizialmente in
cooptazione, come in Italia, con la proprietà terriera, se e quando questa
ne facesse propri i valori e le procedure nella gestione del potere.
Nell’espressione più matura ed evocativa il capitalismo si esprimeva nella
fabbrica, o, per meglio dire, nel sistema di fabbrica e nella gestione delle
grandi infrastrutture, soprattutto ferroviarie, determinando la
formazione di un nuovo ceto di lavoratori, operai sem¡qualificati ma
soprattutto comuni, che pur essendo minoranza svolgevano un ruolo di
aggregazione fondamentale, con un’influenza crescente anche nei
confronti delle figure impegnate nelle tradizionali attività artigianali, nei
servizi e perfino nelle professioni. L’affermazione di tale soggetto
poneva bisogni e sfide nuovi, e con essi l’esigenza di adottare procedure
più articolate nella gestione delle risorse. In una prima fase la classe
dirigente vi vide una minaccia e assunse atteggiamenti ora ostili, ora di
mal sopportata tolleranza, ma ben presto comprese che la strutturazione
delle domande veicolate dal nuovo soggetto era necessaria, e quindi utile
allo sviluppo ordinato della società. Subentrò quindi una seconda fase
nella quale il confronto, lo scontro e il compromesso furono considerati
e praticati non più come eccezioni, ma in via ordinaria, il che, a ben
vedere, sollevava problemi di compatibilità generale, con esili diversi.
A ben vedere, il partito e il sindacato - e specialmente quello generale
e confederale - furono la risposta al nuovo tipo di conflittualità sociale
emergente a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, la quale
* L’ascesa del mondo socialista, di Maurizio Degl’Innocenti, prof. Ordinario di Storia
contemporanea, in Prefettura di Bologna, “Le culture politiche in Italia dal
Risorgimento alla costituzione repubblicana”, Convegno del 150° dell’Unità d’Italia,
Bologna 9 giugno 2011, Bologna Bup 2011, pp. 59-71.
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reclamava modalità più complesse e aperte, più organizzate: dalla pratica
dello sciopero, alla disciplina dell’orario di lavoro con l’evocazione delle
“tre ore” (di lavoro, di riposo e di tempo libero) implicita nella
mobilitazione collettiva per la festa del 1° maggio, al controllo
dell’allocazione della manodopera con l’ufficio di collocamento, alla più
generale definizione del contenzioso fino alla pratica contrattuale
collettiva e alla magistratura arbitrale. Era la stessa società di massa, che
avanzava in modo impetuoso, a farsi complessa, ad articolarsi in
organizzazioni di interessi, a reclamare lo sviluppo di istituti più
rappresentativi, a sollecitare il ruolo attivo degli enti territoriali, ad
affiancare alle istituzioni pubbliche organi consultivi, a sviluppare
apparati simbolici c rituali. Il Partito dei lavoratori e l’organizzazione
corporativa dei lavoratori, cioè il sindacato, ne furono tra le espressioni
più significative, e da allora nessuna società avanzata avrebbe potuto
farne a meno. Parafrasando l’immagine del “decollo” per connotare la
fase iniziale dell’industrializzazione, si potrebbe dire che il socialismo
veicolò il decollo del moderno sistema politico fondato sui partiti di
massa, nazionali e territoriali. Il costituzionalismo, grande conquista
lasciata in eredità dall’Ottocento si connotò in tal senso, e nuovi diritti
vennero emergendo, a cominciare da quello del lavoro, introducendo
problematiche avvertite sempre più urgenti, dalle tutele, a cominciare
dalle categorie più deboli come i fanciulli e le donne, alle assistenze e
previdenze. Punti più critici erano quelli delle assicurazioni contro gli
infortuni del lavoro e la concessione delle pensioni, ma la gamma degli
interventi era vasta c destinata a incrementarsi. Lo Welfare State faceva il
suo ingresso.
Il lavoro appariva ora una fonte di riscatto morale ed economico
fattore di una riforma intellettuale e civile della società intera. Il Partito,
che da esso traeva ispirazione e che con esso cercava collegamenti
organici, si faceva portatore di identità collettive, e, al centro di un
universo associativo che tendeva a porsi come microcosmo, esprimeva
conforto e sicurezza. Nel far ciò si caricava di un bagaglio utopico,
trovando per questa via canali efficaci lungo i quali trasmettere messaggi
più politicamente orientati o rivendicazioni di immediato impatto.
L’evoluzione della società, dove la specializzazione si accompagnava ad
impensabili sviluppi della scienza e della tecnica, richiedeva razionalità
nelle scelte e nei comportamenti, individuali e collettivi, ma le dimensioni
dell’agire collettivo reclamavano suggestioni ed evocazioni. In tempi di
razionalità, anche l’irrazionale trovava la sua rivincita.
Il partito dei lavoratori, nella sua versione socialdemocratica, era
speculare allo Stato nazionale territoriale, prodotto della
modernizzazione della politica, che l’Ottocento lasciò in eredità al secolo
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successivo, clic rie decretò il trionfo su scala planetaria. Quel tipo di
partito, infatti, era nazionale e territoriale, e parlamentare e
tendenzialmente di massa. Era, di fatto, espressione della
nazionalizzazione delle masse, nonostante clic individuasse
nell’associazionismo internazionale, e di classe, un elemento identitario
così forte da improntare a ciò in progressione le diverse fasi della sua
storia (1, II, III c perfino IV Internazionale). Non a caso, dalla plebe, dai
ceti di rango inferiori, dagli emarginati, dalla gente comune, esso andò
rivolgendosi al ceto lavoratore e quindi alla classe operaia, portando in
tale processo il valore aggiunto della coscienza e dell’organizzazione,
intesa quest’ultima come completamento della personalità del singolo. E
poi dietro la militanza era il supporto ddl’azione volontaria: il mettersi
insieme per emanciparsi, l’auto-aiuto, il riconoscersi come “compagni” di
una causa, che si faceva sempre più comune fino a diventare universale.
Il simbolo più universalmente riconosciuto fu quello delle mani
intrecciate, ancor più di quello recante la falce c il martello nella supposta
unione dei lavoratori dei campi e della fabbrica. Era non solo la promessa
di un futuro migliore, ma anche una dimensione comunitaria percepita
nel vivo, e quindi remunerativa. Lo scatto del premio di fedeltà, con così
forti tratti fideistici, non sarebbe altrimenti comprensibile.
La nazionalizzazione delle masse e la maggiore complessità della
società comportavano l’allargamento della cittadinanza politica, con lo
sviluppo degli istituti rappresentativi, del ruolo attivo degli enti territoriali
e l’affermazione degli organi consultivi dello Stato. Lo sviluppo
dell’istruzione, diventata obbligatoria, era ora tra gli obiettivi centrali
dello Stato nazionale. La socialdemocrazia si definì intorno ad una
tipologia di partito educatore, che perseguiva la propaganda di massa,
anche ma non solo a fini elettorali, perché andava dotandosi di sedi
territoriali deputate a svolgere un’attività costante. Tale partito, insomma,
era uno dei principali fattori della mobilitazione politica diffusa,
rivestendo una duplice, ma sinergica, funzione negli anni della 11
Internazionale (1889): politica c democratica, sindacale e corporativa.
Costituito da apparati e sezioni territoriali, attrezzandosi per il cimento
elettorale ai cui esiti imparò presto a misurare successi e insuccessi, si
realizzò nella direzione dell’espansione della cittadinanza attiva, politica e
sociale, educando il singolo e il gruppo alla gestione della cosa pubblica,
e soprattutto aggregando e mediando i nuovi interessi o bisogni sociali.
Sotto questo aspetto la sua presenza può valutarsi positivamente nel
senso della stabilizzazione del sistema o. almeno, dello sviluppo della
società, nonostante che formalmente si ponesse in alternativa al potere
dominante e si facesse financo tramite di una visione “altra” della società
stessa, fondata sull’etica del lavoro, rispetto a quella vigente, che si voleva
disordinata, squilibrata e iniqua. La sua stessa evoluzione rifletteva tale
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attitudine di fondo, delineando dovunque il passaggio da movimento a
istituzione, da forma esterna e extraparlamentare a funzione centrale del
sistema politico rappresentativo di massa, da organismo a fondamento
classista a partito dello sviluppo sociale.
Se questa può considerarsi l’ascesa del socialismo ira Ottocento e
Novecento, c’è da chiedersi ora quale impatto abbia avuto in Italia,
nell’ambito dello sviluppo dello Stato unitario, di cui si intende qui
ricordarne la ricorrenza del 150° anniversario. La sua diffusione in Italia
nei decenni all’indomani dell’Unità ne attestava la connessione con il
respiro profondo della storia, forse senza ricoprirvi un ruolo
protagonístico, ma certamente con un proprio profilo che
sostanzialmente rifletteva le caratteristiche del paese sulla scena
internazionale. Correnti di pensiero, gruppi, uomini in sintonia con il
socialismo d’Oltralpe, santsimoniano e proudhoniano, bakuniniano e
marxista intrecciarono le proprie vicende con il processo risorgimentale,
contribuendo a conferirgli un carattere democratico-popolare. La prima
generazione socialista o pseudosocialista si legò agli esiti del processo
risorgimentale, in quanto intercettava le domande di coloro che
avrebbero voluto che la rivoluzione nazionale si traducesse in soluzioni
politico-istituzionali più radicali, dal suffragio universale alla forma
repubblicana, fino, ma in frange molto minoritarie, alla nazione armata o
all’ipotesi federalista; e che in ogni caso fosse occasione di profondi
mutamenti sociali a vantaggio di quei ceti popolari urbani e del mondo
del lavoro che l’egemonia borghese, o aristocralico-borghese
nell’ossequio al costituzionalismo sabaudo sembrava trascurare. Non
bisogna trascurare infatti che le “rivoluzioni nazionali” dell’Ottocento si
accompagnavano ad un’idea, che era anche una aspettativa, di libertà, la
quale riguardava i popoli, ma anche gli individui; c che tale tensione
emancipatrice poteva tradursi facilmente in una sia pure generica
occasione di riscatto sociale sulla spinta dell’azione del volontariato
urbano e giovanile, quando dall’ambito strettamente istituzionale e
politico travalicava nell’ambito delle relazioni interpersonali e della
gestione delle risorse.
Accanto alle correnti mazziniane, che larga influenza esercitarono
nelle società operaie, prevalentemente di mutuo soccorso, che
costituirono una prima ossatura del movimento, passando da 443
sodalizi a 1447 nel 1873, a 4896 nei 1885, a 6722 nel 1896, si palesarono
gruppi massonici e libero pensatori diretti da personalità come Luigi
Stefanoni e Luigi Castellazzo, cristiano-sociali, internazionalisti e
libertari, democratico-sociali, operaisti. Lo stesso Garibaldi,
pronunciatosi a favore della Comune nel 1871 a differenza di Mazzini,
espresse la sua simpatia per la nuova causa dichiarando che “il socialismo
è il sol dell'avvenire”. Fu a partire dagli anni Ottanta che si andarono
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costituendo le istituzioni fondamentali di quello che sarebbe diventato
l’universo socialista: la sinistra, non quella liberale e costituzionale al
Governo dal 1876 con Deprelis, Crispi e poi Giolitti, ma piuttosto quella
cresciuta nella società con modalità estranee al notabilato e alla proprietà
autolegittimante, o addirittura alternative alla prima, si andò
progressivamente strutturando. Fu una vera e propria svolta, favorita
dall’allargamento del mercato e dall’interazione internazionale di beni,
uomini c esperienze, dal decollo industriale, dal bisogno di maggiori
tutele sociali e del lavoro, dall’allargamento del suffragio ancorché a
quello universale maschile si pervenisse solo con la legge del 1912.
Quella svolta e gli esiti successivi lasciarono di fatto un eredità destinata
a durare almeno fino alla fine del XXI secolo, e forse oltre. Con tutti i
limiti ammissibili, l’Italia unita diventava più moderna ed europea, e si
faceva più nazione.
Della strutturazione della sinistra sopra citata basteranno qui pochi
dati. Nel 1902 vantava già l’adesione di 2823 cooperative, con mezzo
milione di soci, che nel 1914 raggiunsero il traguardo del milione. Come
nel caso delle società di mutuo soccorso, dove i socialisti rimasero
sempre componente minoritaria almeno fino agli anni giolittiani, anche
nel movimento cooperativo l’iniziativa fu inizialmente dei democratici,
radicali e repubblicani, e dei liberali (si pensi a Luigi Luzzatti), ma poi,
resisi autonomi precocemente i sodalizi del credito popolare e
cooperativo e separatisi i cattolici, l’influenza socialista si rafforzò
progressivamente, a partire dal settore di consumo e di lavoro e
produzione. Fu emblematica la nomina a segretario nel 1912 del
socialista Antonio Vergnanini, segretario della Camera del lavoro di
Reggio Emilia, in successione al radicale Antonio Maffi. Nel 1902 le
società cooperative censite erano 2823, con mezzo milione di soci. Nel
1914 raggiunsero il milione: un numero già molto ingente nell’Italia
liberale, ma che nell’immediato dopoguerra quasi raddoppiò. Si disse che
alla fine del 1920 il capitale azionario delle società aderenti alla Lega si
aggirava intorno ai 600 milioni di lire, con un movimento di affari sul
miliardo e mezzo. Accanto al sodalizio di mutuo soccorso o cooperativo
crebbe anche il circolo orientato all’impiego del tempo libero: la casa del
popolo di Massenzatico, la prima di una rete diffusa, apparve nel 1893.
Alla fine del secolo, ma soprattutto nel 1901-1902, la sindacalizzazione
fece passi significativi non solo in direzione del lavoro dipendente in area
urbana, nelle arti e mestieri, ma anche nei servizi, dai maestri e insegnanti
ai postelegrafonici, per non parlare dei ferrovieri che dovunque erano
precocemente interessati al fenomeno per via del forte senso di
appartenenza corporativa. Perfino l’impiegato, si disse, “si faceva
popolo”, dividendone la vita c le aspirazioni. Era questo un fenomeno
europeo, come si c già dello, ma in Italia assunse un connotato
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particolare per la mobilitazione delle campagne, altrove sconosciuta per
dimensioni e rilevanza politica. Agli inizi del secolo circa duecentomila
lavoratori dei campi entrarono in sciopero per migliorare le condizioni
salariali c per diminuire la giornata di lavoro: fu la “resistenza”, la
resistenza al datore di lavoro. L’unità di base era rappresentata dalla lega,
che confluiva in organismi di secondo grado e infine in una Federazione
nazionale dei lavoratori della terra, nata a Bologna nel 1901 con una forte
vocazione classista. L’iniziale area di diffusione era quella padana ed
emiliana, e la figura protagonista prevalente era quella del bracciante, che
dal 1901 al 1911 rappresentò il 70 per cento degli organizzati e per 1 ’87
per cento l'attore delle agitazioni agrarie. Più lenta c controversa fu la
sindacalizzazione dei mezzadri, degli obbligati e dei piccoli proprietari,
che in ogni caso rimasero prevalentemente nell’influenza repubblicana o
cattolica. Un ulteriore fattore di straordinaria novità che non può passare
sotto silenzio fu il fatto clic per poco meno di venti anni a dirigere la
Federterra fu una donna, Argentina Altobelli, segno evidente che la
valenza emancipatrice riconducibile alla nuova idealità socialista fondata
sul riscatto e sull’etica del lavoro si innestava su un processo, quello
dell’emancipazione della donna, che, se avrebbe connotato la storia del
Novecento, allora, agli inizi del secolo, in un universo sostanzialmente
maschilista, era appena agli albori. Ne era traccia evidente la stessa
testata, La Difesa delle lavoratrici, del giornale fondato da Anna
Kuliscioff.
L’insediamento sindacale portò alla creazione delle Camere del lavoro,
organismi territoriali che riunivano gii organismi di base di tutte le
categorie; e delle Federazioni di mestiere, strutture verticali
tendenzialmente su base nazionale, con fondamento professionale. Più
lento fu il passaggio dal sindacato di mestiere a quello d’industria. Nel
1906 la maggioranza di tali organismi dettero vita alla Confederazione
generale del lavoro (CGdL), con una chiara vocazione socialista
riformista, favorevole alla legislazione sociale e alla tutela legale del
lavoro, in una proiezione parlamentare che implicava una interazione con
il partito socialista, e alla presenza del soggetto sindacale nelle istituzioni,
con la partecipazione agli organi consultivi dello Stato, a cominciare dal
Consiglio superiore del lavoro. La nascita della CGdL implicò la
costituzione della cosiddetta Triplice del lavoro, insieme alla Lega
nazionale delle cooperative e della Federazione nazionale delle società di
mutuo soccorso, da allora sempre più legata alla precedente con cui
condivideva l’organo ufficiale, “La Cooperazione nazionale”. La
denominazione stessa evocava, in contrapposizione, quell’alleanza
stipulata nel gioco diplomatico-dinastico, ultima eredità dell’Ancien
regime, tra gli Imperi dell’Europa centrale e l’Italia. La Triplice
“proletaria”, invece, ribadiva la centralità del lavoro per una politica di
sviluppo del paese che ne utilizzasse le risorse non a fini di potenza e di
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espansionismo coloniale, bensì per l’ammodernamento infrastrutturale,
le opere di bonifica e la messa in coltura delle terre incolte, il
potenziamento della domanda interna basata sui consumi. In un mercato
del lavoro fortemente squilibrato, e interessato a significativi flussi
migratori, con vaste aree di sottosviluppo e di precariato, soprattutto
femminile e giovanile, e gravato da basse retribuzioni, l’occupazione era
un obiettivo centrale. La “grande politica del lavoro” auspicata nel 1912-
1914, in alternativa al colonialismo tripolino e alla corsa agli armamenti
(al punto da condizionare il successivo orientamento neutralista dei
socialisti italiani), non trovò grande ascolto in tempi nei quali il rullo dei
tamburi di guerra diventava sempre più assordante; 116 migliore esito
conobbe nell’immediato dopoguerra il Rifare l'Italia di Filippo Turati,
che di quell’indirizzo fu l’elaborazione più matura, destinato comunque
a restare tra le testimonianze più alte dell’intera vita politica e
parlamentare dell’Italia unita.
Negli anni Ottanta si costituirono le prime organizzazioni partitiche.
Nel 1881 fu la volta della costituzione del Partito socialista rivoluzionario
di Romagna, subito dopo la svolta legalitaria impressa da Andrea Costa
con la lettera agli amici di Romagna con cui esplicitava il passaggio dal
primo internazionalismo libertario ad un socialismo che voleva
“mescolarsi con il popolo” e per esso “conquistare i comuni”.
Nonostante le proclamazioni rivoluzionarie, di fatto collocava tale
prospettiva in un futuro remoto. Il motto era: legalitari oggi, rivoluzionari
domani. Ma sul piano politico l’oggi diventava preminente. Alleato con i
repubblicani, nel 1882 il Partito riuscì a fare eleggere nel collegio di
Ravenna lo stesso Costa: il socialismo entrava così in Parlamento. Se il
riferimento sociale del Partito di Costa era popolare, più che proletario,
a Milano prese vita il Partito operaio nel 1882, che perseguiva
l’emancipazione del lavoro manuale in via autonoma, vale a dire
escludendo la presenza borghese, e dunque in polemica con il Consolato
operaio diretto da radicali. Entrambe erano formazioni poco più che
regionali, ma comunque destinate a porre le premesse per la costituzione
del Partito dei lavoratori italiani, poi Partito socialista italiano, a Genova
nel 1892, dove fu soggetto attivo la Lega socialista milanese guidata da
Filippo Turati, che guardava con attenzione all’esperienza della
socialdemocrazia, uscita vittoriosa dal braccio di ferro con Bismarck, e
che aveva rilanciato il proprio ruolo di guida nell’ambito della II
Internazionale, dopo il congresso di Erfurt del 1891. Non tanto o non
solo la separazione dagli anarchici, resa necessaria dall’adozione della via
legale alla conquista del potere, cioè con il consenso della maggioranza
attraverso il voto, quanto la creazione di un partito nazionale e territoriale
attraverso la rete delle sezioni e delle federazioni, a cui era preposta una
direzione e una segreteria generali, rappresentò davvero un salto di
qualità che inizialmente fu percepito da pochi, ma che ben presto si
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rivelò uno straordinario fattore di mobilitazione politica. La
volgarizzazione del marxismo negli anni Novanta, specialmente
attraverso La Critica sociale, stampata a Milano, capitale economica (e del
proletariato la direzione di Turati, consentiva di conciliare l’attesa della
conquista del potere attraverso il Partito e la lotta corporativa, o di classe,
affidata al sindacato.
Se si guarda alle dimensioni del movimento sindacale e delle società
mutue o cooperative, si dovrebbe rilevare l’esiguità del corpo sociale del
Partito, che prima della guerra mondiale non superò mai i cinquantamila
iscritti. Ma la funzione politica del Partito, che portò nel 1 895 i primi
deputati in Parlamento e andò progressivamente insediandosi nelle
amministrazioni comunali, svolse un ruolo di orientamento,
coordinamento e impulso decisivi. Come fu teorizzato al congresso di
Stuttgart dell’Internazionale socialista del 1907, anche in Italia sembrò
prendere piede già nella società borghese il classico edificio socialista
fondato su tre pilastri: politico, sindacale e associativo o cooperativo; ma
di quei pilastri il decisivo era pur sempre ritenuto quello politico. A
quest’ultimo, infatti, erano riservate le funzioni essenziali della
formazione del militante c del quadro, la presenza in Parlamento in
rappresentanza delle esigenze comuni, la conquista degli enti territoriali,
cioè la direzione di fondo. E se per valutare la solidità di un movimento
politico si adottano, insieme alla consistenza degli iscritti, anche i
parametri della continuità organizzativa, la diffusione sul territorio, la
sinergia dei medesimi, la riconoscibilità, il consenso elettorale; allora, per
quanto attiene al Partito socialista, si deve convenire che esso ebbe vita
secolare, si alimentò di una riconoscibilità trasmessa su scala
generazionale, creò un patrimonio simbolico che s’innestò, con quello di
altre famiglie politiche, nel tessuto vivo dell’Italia repubblicana,
diventandone fattore identitario comune. Per restare al periodo qui
considerato, si valuti che in occasione delle elezioni del 1913 ottenne
900.000 voti, pari al 17,7 per cento, con 52 seggi, ma se ai voti dei
socialisti ufficiali si fossero aggiunti quelli degli indipendenti e dei
socialisti riformisti i voti sarebbero stati 1.147.000, pari al 22,9 per cento.
E infine da segnalare clic nelle città con oltre 100.000 abitanti il voto
socialista si attestava già al 37,6 per cento. Nel 1914 il successo fu
confermato dalla conquista dell’amministrazione di grandi città, come
Milano e Bologna. Nelle prime elezioni del dopoguerra, nel 1919, con il
sistema proporzionale lo scrutinio di lista il voto socialista arrivò al 32,4
per cento, con 156 seggi.
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Un universo associativo che si rappresenta e si propone *
Alla fine dell’Ottocento, il movimento operaio sviluppa e coltiva
un’immagine di sé tale da acquisire attenzione e consensi, fino a
annunciare la realizzazione di quella società futura mitizzata nel «sole del
Socialismo». Sviluppando una rete di circoli e società, il movimento
operaio si propone come soggetto nuovo e moderno, in grado di
misurarsi con le altre istituzioni esistenti, nei cui confronti non
nasconde di aspirare ad una funzione dirigente coprendo l’intero
territorio nazionale.
L’impulso alla organizzazione degli interessi dei lavoratori,
incoraggiato dalla crescente complessità della società, apre nuove strade
al sindacato, mentre l’industrializzazione diffusa sembra porre le
premesse della centralità della classe operaia, da affermare e
costantemente ribadire con un peculiare apparato simbolico e con
conosciute procedure rituali. In questo contesto, la definitiva scelta della
via legalitaria e parlamentare, e di promozione sindacale, ribadita nel
1900 dal Congresso di Parigi dell’Internazionale - una scelta che era
stata alla base della creazione nel 1892 del Partito socialista italiano -
impone la ricerca del consenso e un’attività di promozione e
pubblicizzazione dell'immagine, utilizzando i più moderni mezzi di
comunicazione e di proselitismo, ben oltre il consueto e scarno
messaggio orale. Il successo della stampa e il ruolo crescente
dell’opinione pubblica ne ribadiscono l’importanza.
Non meno rilevante è la produzione cartacea all’interno
dell’istituzione. Il documento è protocollato e dunque è destinato alla
conservazione. Ciò da riconnettersi alla graduale burocratizzazione che,
come coinvolge la società e l’attività economica, così a partire dai primi
anni del Novecento penetra nei partiti e nei sindacati in proporzione al
loro radicamento, già messo in luce negli studi di Sidney e Beatrice
Webb e di Michels. Ma ancor più ciò riflette la progressiva articolazione
dei vari partiti nazionali fra strutture centrali, locali e periferiche, dove
l’esigenza comunicativa si combina con la riaffermazione dell’identità e
non meno della significazione gerarchica. Infine la carta intestata e
protocollata, destinata all’archivio, esprime la volontà di “costruire" una
memoria, nella sedimentazione degli atti: avere una propria “storia” è
garanzia anche per il futuro.
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Pur con linee di tendenza comuni, derivanti dalla natura e dalla
vocazione internazionalista del movimento operaio e socialista, le
specificità nazionali emergono sin dall’Ottocento e permangono nel
corso del Novecento. Ciò impone una serie di riflessioni sulle
caratteristiche dell’evoluzione del movimento stesso, cioè sul fatto che
essa sia avvenuta sulla base della irradiazione di idee e simboli prodotti
da uno o più motori o se, viceversa, sia stata la risultante di un processo
creativo pluralistico più ampio e differenziato.
La simbologia e ritualità del movimento socialista si richiama
inizialmente al mondo del lavoro dipendente, manuale e intellettuale.
Tuttavia, nella carta intestata delle organizzazioni e delle strutture ad
esso afferenti appare in modo evidente un gusto letterario e umanistico
che denuncia la presenza tutt’altro che marginale di elementi di origini e
formazione borghese o piccolo borghese. Il linguaggio allegorico che si
richiama alla tradizione classica, all’iconografica cristiana e poi a quella
massonica mettono in luce un’elaborazione nata in un ambiente colto,
frutto di una lettura complessa. Insomma, si coglie un’eredità di più
lungo periodo e di ambito sociale assai più vasta di quella che potrebbe
presumersi per partiti e istituzioni di tipo nuovo, espressione di una
classe di recente formazione o che si sta formando. Simbologie e
allegorie già note e in circolazione vengono semmai fatte proprie,
rivedute e rivestite di nuovi messaggi ed è la grande e piccola
intellettualità di matrice borghese a svolgere in ciò un ruolo
fondamentale.
L’evoluzione della carta intestata nella sinistra politica, sindacale e
associativa europea tra Ottocento e Novecento presenta un universo di
simboli, segni, scritture che mette in luce una realtà complessa, con
finalità educative e formative, che mettono in costante rapporto passato
e futuro. Il messaggio che ne deriva tende alla stilizzazione, alla sintesi,
alla astrattezza, alla standardizzazione ma mai alla banalità. Si richiama
ad una realtà definita territorialmente, sul piano dei programmi e su
quello dei referenti sociali, ma in un contesto sempre più ampio di
quello rigorosamente classista. Emerge la volontà di distinguersi dagli
altri, di ribadire un “io” e una appartenenza, anche territoriale, che
tuttavia porta con sé costantemente l’ambizione di trasformare il
mondo in nome dell’umanità intera, realizzando, attraverso la solidarietà
e l’emancipazione del lavoro, i principi dell’eguaglianza, libertà e
fratellanza affermatisi con la Rivoluzione francese del 1789.
Il mondo simbolico che si definisce tra la fine dell’Ottocento e l’inizio
del Novecento si trasmette fino a noi, con poche integrazioni, e semmai
con un’evoluzione grafica verso la stilizzazione. Si può dire che il
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momento creativo, che corrisponde all’affermazione dei soggetti
istituzionali dei movimento operaio (partiti, sindacati, associazioni ecc.),
è circoscrivibile ad una trentina d’anni. Successivamente subentra una
lunga fase di conservazione e di rielaborazione che non presenta
consistenti novità se si esclude quella - importante - della diffusione
extraeuropea, e in particolare nel Terzo Mondo, dei movimento.
Quali conseguenze trarre? Finito il momento creativo e propulsivo,
è subentrato un successivo lungo periodo di assestamento (fino alla
stagnazione), che preclude infine, a cavallo del XXI secolo, ad una crisi
di identità? E’ un problema di comunicazione nella forbice tra l’inerzia
tradizionale dell’organizzazione partitica o sindacale, sempre riluttante a
modificare simboli e riti, a fronte del dinamismo della società
contemporanea? Insomma, sta finendo irrimediabilmente un’epoca, qui
documentata nel suo immaginario collettivo, o siamo in presenza di una
transizione sia pure sofferta e difficile? 0 è tutto questo insieme?
La pagina web, che compare nell’ultimo scorcio del Novecento, è per
certi versi l’evoluzione e la trasposizione della carta intestata in e- poca
moderna, ma è innanzitutto il segno delle profonde trasformazioni
intervenute nella società e nel sistema politico, anche per effetto di altri
mezzi di comunicazione di massa come la televisione. La fine del
sistema bipolare ne ha accentuato le implicazioni sulle forme
tradizionali di autorappresentazione dei partiti. Dell’influenza
dell’informatica sul “discorso” politico e quindi sul sistema partitico è
prevalente una interpretazione positiva perché proprio nello strumento
informatico, in internet in particolare, si coglie l’espressione del
passaggio verso una società più aperta, libera, partecipata e democratica.
Anziché mero fruitore del messaggio politico, il cittadino diventerebbe
esso stesso partecipe, “scegliendo”, attraverso il proprio personal
computer, a quali informazioni accedere e quindi imponendo al
soggetto partito un nuovo modo di porsi e di presentarsi sul piano
simbolico e dei contenuti. La produzione del messaggio non sarebbe
pertanto più esclusivamente dall’alto al basso, o dal centro alla periferia,
ma si determinerebbe nei due sensi. Il percorso è naturalmente in atto,
essendo direttamente influenzato non solo dal confronto con il
cosiddetto “villaggio globale” ma anche dall’evoluzione tecnologica, che
mette progressivamente a disposizione di chi intende fare
comunicazione, in questo caso comunicazione politica, nuovi strumenti.
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Allegoria de “il trionfo del lavoro” che Walter Crane disegnò
in occasione del Primo maggio 1891
Nella simbologia socialista, oltre all’affermazione definitiva del sole, emblema del socialismo stesso,
giova ricordare la grande ricorrenza del libro (la Cultura e con essa il Progresso), della fiaccola e della
luce (la Conoscenza, l’Emancipazione), delle palme e degli allori (la Vittoria), dei fasci vegetali (la
Forza e l’Unione), dei fiori e della frutta (l’abbondanza, per lo più accompagnata alla giustizia), dei
tre cerchi (simbolo trinitario massonico, ma ora utilizzato per rappresentare la triplice alleanza tra
sindacato, cooperazione e mutuo soccorso). Così come non mancano moduli rappresentativi che
richiedono una lettura più complessa, come la barca in un mare in tempesta a simboleggiare le prove
difficili da superare in regime borghese, ma guidata dal timoniere (la classe operaia) con mano ferma
e vista attenta, e con l’ausilio del binocolo, verso il porto sicuro e tranquillo della società futura,
illuminato dal sole del Socialismo.
Piuttosto occorre sottolineare come, rispetto al periodo successivo e specialmente agli anni seguenti
la seconda guerra mondiale, la carta intestata del movimento operaio e socialista tra Ottocento e
Novecento si caratterizzi non solo per l’elaborazione di immagini allegoriche e simboliche che poi
sarebbero state, con poche modifiche e lievi integrazioni, quelle tradizionali delle organizzazioni di
sinistra; ma anche per la assai più forte incisività figurativa. Questo può spiegarsi con il fatto che
proprio a cavallo del secolo la maggior parte delle istituzioni del movimento operaio si vanno
costituendo e radicando nelle rispettive società, con l’esigenza, dunque, dell’autorappresentazione.
Cartolina socialista
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L’allegoria del socialismo è una figura femminile
spesso con un berretto frigio in testa, mentre quando
si tratta di rappresentare la forza del movimento,
allora Walter Crane disegna una figura maschile, ai
piedi della quale pone arnesi da lavoro.
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Tessera del PSI del 1907
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Nel manifesto pubblicitario per la campagna
abbonamenti all' "Avanti!" del 1901 una figura
maschile a torso nudo è usata come allegoria del
movimento operaio che spezza le catene dell'
oppressione e dell'ingiustizia.
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Cartolina per l'VIII Congresso socialista
realizzata da Mataloni
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Contro la guerra e in Parlamento
Il movimento socialista italiano si era sempre opposto al
colonialismo, dai tempi della prima guerra africana, che culminò nella
disfatta di Adua (1896), fino alla occupazione della Libia (1911-12),
contrapponendo alle ambizioni di una politica estera da Grande Potenza
la prospettiva dello sviluppo economico e sociale all’interno (“la grande
Italia del lavoro”). Di fronte alla prima guerra mondiale, il Partito
socialista italiano fu nettamente favorevole alla neutralità dell’Italia, e
quando questa entrò nel conflitto nel maggio 1915 mantenne una
posizione di non adesione per rimarcare la divisione di responsabilità
dalle classi dirigenti interventiste, ritenute colpevoli di gettare il Paese in
un’avventura catastrofica, pur nel rifiuto di assumere iniziative che
potessero compromettere le sorti dei soldati italiani sul fronte (“né
aderire, né sabotare”). Matteotti si segnalò per l’atteggiamento
irriducibile contro la guerra, al punto da essere rinviato a giudizio per
“disfattismo”, subendo una condanna dal Tribunale che fu poi annullata
in Cassazione. Chiamato alle armi, venne allontanato dalla zona del
fronte come elemento ”pericoloso”. Congedato nell’agosto 1919,
riprese con grande impegno l’attività politica nel Polesine e nel
Ferrarese. Nelle elezioni dell’autunno 1919, le prime con sistema
proporzionale e scrutinio di lista, fu eletto deputato per il collegio di
Ferrara-Rovigo, poi confermato nel 1921 e 1924 per il collegio Padova-
Rovigo. Fece parte del direttivo del Gruppo parlamentare per la
componente minoritaria riformista, con un orientamento
concorde/discorde con la Direzione massimalista del Partito socialista.
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Tessera del Partito Socialista del 1916
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Tessera del Partito Socialista del 1918
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Scalarini sull'"Avanti!" negli anni della
Prima guerra mondiale: un contadino che torna
casa, autentico relitto umano, dalla sua donna
che lo aspetta affranta
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Bandiera con alcuni dei simboli socialisti
La lotta
organo dei Socialisti e delle
Organizzazioni economiche
del Polesine
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Filippo Turati
leader del socialismo riformista italiano
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Matteotti alla Camera
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La denuncia del fascismo
Sottoposto più volte a minacce e aggressioni da parte di fascisti e
nazionalisti, fino al “bando” dal Polesine, Matteotti richiamò
precocemente l’attenzione del Parlamento sul dilagare della violenza
squadrista nel Polesine e in Emilia e Romagna evidenziandone la
strategia di tipo militare contro “l’organizzazione dei lavoratori” e a
beneficio degli agrari. Tra i primi avvertì le tendenze autoritarie del
Governo Mussolini, costituitosi all’indomani della marcia su Roma,
cogliendo nella legge elettorale Acerbo (1923) il tentativo di schiacciare
le minoranze. Nella documentata denuncia delle complicità politiche e
delle inerzie dell’apparato statale, Matteotti proclamò: “Per conto
nostro, mai come in questo momento abbiamo sentito che difendiamo
insieme la causa del socialismo, la causa del nostro Paese e quella della
civiltà”.
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Lo squadrismo fascista
Reggio Emilia
Tipografia del giornale “La Giustizia” (1921)
34
Torino – Birraria: il salone dei concerti
35
Contro la violenza fascista
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Lettera di Giacomo Matteotti a Filippo Turati - Milano
Caro Turati. Scusa il mio ritardo per l'opuscolo. Ma ho finito appena ora di
cercare la casa e ora dovrò impiantarla!
Frattanto così potrei utilizzare i Bilanci 1923-24 che il Rag. generale mi dice
non saranno pronti prima del 29-30 dicembre.
Tutta la materia potrà occupare certamente un doppio opuscolo, che vi sarà un pò
più costoso per gli specchi di cifre. Non so se converrebbe utilizzare quelle della mia
Relaz[ione] presso questa tipografia della Camera; ma forse non sarà troppo facile
nè opportuno. Tu vedrai poi se convenga la pubblicazione per puntate della Critica.
A proposito della Critica, Treves ti comunicherà qualcosa, che non so se vi
sembrerà fattibile e gradito. Ovvierebbe però a un poco gradito pericolo di altro genere.
Sulla terra i diversi Einaudi e compagni non fanno che copiare (senza citare) le
mie cifre di pag. 38-42 delle Bozze e allegato L. Non avrei che da ripetere quanto
ivi è detto. Potrò tutt'al più fare qualche articoletto di volgarizzazione per la
Giustizia.
Le cose interne sembrano accomodate; e le corporazioni che divengono “fasciste”,
le milizie che divengono “del Presidente del Consiglio” avrebbero dovuto ormai aprire
gli occhi a tutti.
Auguri natalizi
tuo MATTEOTTI
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Lettera di Giacomo Matteotti a Filippo Turati - Milano
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Nella tessera del Partito Socialista Italiano del 1924 un nocchiero, che indossa un manto
rosso e il berretto frigio, governa a stento una barca in un mare in tempesta. L'uomo
simboleggia il Socialismo mentre il rischio del naufragio allude al clima di violenza
istaurato dal fascismo che minaccia la stessa libertà
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Alla segreteria del Partito socialista unitario
Il tentativo dei socialisti riformisti di condizionare i Governi liberali
per una più efficace politica di contenimento del fenomeno
squadristico, in particolare dopo le elezioni del 15 maggio 1921, andò
fallito, non ultimo per l’esclusione di ogni collaborazione parlamentare
proclamata dalla direzione massimalista del Partito, che doveva
fronteggiare l’estremismo del neo costituito Partito comunista, nato
dalla scissione al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano (gennaio
1921), negli echi della Rivoluzione bolscevica. Quando il 4 ottobre 1922
si costituì il Partito socialista unitario, di indirizzo riformista, Matteotti
ne assunse la segreteria. Segnalandosi come uno dei leader più
competenti del socialismo europeo, denunciò i limiti della pace di
Versailles nell’imposizione delle pesanti riparazioni di guerra alla nuova
Germania democratica, con i rischi conseguenti del risorgente
nazionalismo e, con esso, di un futuro e più rovinoso conflitto
mondiale.
Nelle Direttive dell’aprile 1923, manifesto programmatico per un
socialismo rinnovato, Matteotti si rivolgeva non più solo agli strati
proletari, ma anche “ai più colti e moderni della borghesia”, sulla base
della irrinunciabilità del metodo democratico, imperniato sulle libertà
politiche e sul sistema rappresentativo, perché migliore delle dittature e
delle oligarchie avendo il vantaggio della libera critica. Restava fedele al
principio della lotta di classe, ma distinguendola dalla guerra di classe,
perché implicava un quadro di regole condivise e tale da sollecitare in
ognuno l’aspirazione “ad elevarsi nella coordinata armonia di tutti per la
comune ascensione”. Declinava la tradizionale logica produttivistica
nella lotta alla rendita. In una prospettiva già europeista ribadiva che la
“nazione, realtà geografica e vivente, entro cui tutti viviamo e
cresciamo” era la condizione prima del “domani socialista”, un
“domani” concepito a beneficio di tutti, e non di una classe esclusiva.
Con le politiche del maggio 1924 percepì che la lotta politica era
entrata in una fase nuova, che richiedeva gente di volontà per “una
resistenza senza limite” contro la dittatura fascista, essendo convinto
che il fascismo dominante non avrebbe mai deposto le armi né tanto
meno restituito spontaneamente all’Italia un regime di legalità e di
libertà. E allora Matteotti si rivolse ai “puri di cuore”, ricercando “gli atti
di coraggio e di fermezza dei compagni, perché da allora in poi il Partito
avrebbe dovuto attingere alle energie morali intatte in mezzo al
frantumarsi dell’inquadramento materiale”. La dimensione della lotta al
fascismo si spostava sul piano dei simboli, dei valori, delle idee, del
carattere. Il martirio di Matteotti ne avrebbe rappresentato l’apoteosi.
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Tessere del PSU
Lo studio di Matteotti
nella sede della
Direzione del Partito
Socialista Unitario
in piazza di Spagna
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Matteotti con i leader del socialismo europeo
a Berlino (marzo 1923)
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Il delitto Matteotti
Il 30 maggio 1924 alla Camera Matteotti contestò in blocco la validità
delle elezioni denunciando l’invadenza di “una milizia armata, composta
di cittadini di un solo partito”, che sosteneva “un determinato Governo
con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse”. La proposta
socialista di rinvio della convalida degli atti alla Giunta delle elezioni fu
messa ai voti e ottenne solo 57 sì, 42 astenuti su 384 presenti e votanti.
Come scrisse Sandro Pertini nella premessa ai Discorsi parlamentari
pubblicati dalla Camera dei deputati nel 1970, quasi presago della fine
dell’istituto rappresentativo Matteotti si sorprendeva che dovessero
essere proprio i socialisti “le ultime, sciolte, guardie del sistema
costituzionale”.
Il 10 giugno 1924 alle ore 16, 30 Matteotti usciva dalla sua abitazione
in Via Pisanelli 40, a pochi passi dal Lungotevere Arnaldo da Brescia, fu
aggredito e ucciso a coltellate. I miseri resti furono trovati nella macchia
della Quartarella presso Riano Flaminio. Filippo Turati lo commemorò
il 27 giugno 1924 a Montecitorio, ma non nell’Aula dove i deputati
dell’opposizione avevano deciso di non tornare più. A ben vedere il 10
giugno 1924 si determinò un solco non più colmabile tra due Italie
destinato a produrre effetti nel lungo periodo.
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L’automobile Lancia dei
sicari
44
Le ricerche del corpo di Matteotti nella campagna romana
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Il luogo del rinvenimento del corpo di Matteotti nel bosco della Quartarella vicino Roma
La giacca e i pantaloni
di Matteotti trovati in
una valigia di Amerigo
Dumini, uno dei sicari,
tagliati in venti pezzi
Filippo Turati (1) e Claudio Treves (2) a Riano per il riconoscimento ufficiale
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Trasferimento della salma di Matteotti
alla stazione di Monterotondo, in un
vagone merci, per Fratta Polesine
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Foto di Anna Kuliscioff dedicata a Velia Matteotti
Vignetta di Scalarini
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Lettera a Mussolini di Amerigo Dumini,
uno dei sicari, dopo il processo
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Scalarini sull’ “Avanti!”
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Mostra della stampa italiana
antifascista a Colonia
il 10 giugno 1928
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Almanacco Socialista degli italo-
americani del 1925
53
Riunione a Parigi dei socialisti italiani per il Fondo Matteotti
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Pubblicazioni commemorative degli antifascisti italiani esuli in Argentina
55
Manifestazione
antifascista a New
York
Inaugurazione del
monumento di Matteotti
alla Casa del Popolo di
Bruxelles
(11 settembre 1927)
56
Il Matteottihof di Vienna
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Hahn sul “Notenkraker” di Amsterdam
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Heine sul “Simplicissimus” di
Monaco
59
Roma, 10 giugno 1944: commemorazione di Matteotti
sul Lungotevere Arnaldo da Brescia
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Milano, 29 aprile 1945: raduno delle
Formazioni “Matteotti”
(sul podio Sandro Pertini)
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SANDRO PERTINI
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L'iscrizione al Partito Socialista Unitario
(lettera di Pertini alla segreteria PSU di Savona):
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