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Paolo Pagani
Studi di filosofia morale
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via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN 978–88–548–1962–7
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di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: agosto 2008
INDICE
Introduzione ............................................................................ p. 7
Parte Prima
Studi sul concetto di virtù
Capitolo I. Platone e la geometria dell’anima ........................ p. 21
Capitolo II. Virtù, passione e comunità ................................. p. 45
Parte Seconda
Sudi sulla libertà e il bene
Capitolo I. Tommaso: libertas differentiae ........................... p. 59
Capitolo II. Eternità e libertà: appunti ................................... p. 99
Capitolo III. La lezione tommasiana sul male,
nel recente dibattito ........................................... p. 109
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6 Indice
Parte Terza
Studi su libertà e principialità
Capitolo I. Da Epitteto a Nietzsche, e ritorno ........................ p. 131
Capitolo II. Promemoria su libertà e legalità in Kant ............. p. 145
Capitolo III. Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine
di Maurice Blondel ............................................ p. 171
Capitolo IV. Fondamento e fondazione .................................. p. 209
Parte Quarta
Studi sull’ontologia della persona
Capitolo I. Essere e persona: un destino solidale ................... p. 247
Capitolo II. Metafisica e antropologia in Sciacca
e in Rosmini ...................................................... p. 277
Parte Quinta
Studi su etica e universalità
Capitolo I. Lo schematismo nell’etica kantiana ..................... p. 325
Capitolo II. Kant e la Regola Aurea ....................................... p. 389
Capitolo III. L’etica del discorso in Habermas:
un’analisi di struttura ......................................... p. 439
INTRODUZIONE
1. Il presente volume raccoglie studi di argomento antropologico–
morale, elaborati nel corso degli ultimi anni, e per lo più già pubblicati
in volumi collettanei, in atti di convegni e in riviste.
I testi qui raccolti sono nati da occasioni diverse, e tra loro eteroge-
nee. Ciò nonostante essi obbediscono ― così credo possa cogliere an-
che il lettore ― a un criterio comune: quello di ricondurre, ove possi-
bile, l’argomentazione, anche quando si impegna sui temi della realtà
pratica, alle proprie ragioni ultime: ovvero elenctiche e, in subordine,
apagogiche. Gli autori che via via le pagine seguenti chiameranno in
causa, saranno interrogati proprio in riferimento a quelle istanze criti-
che, nella consapevolezza che il ruolo di tali istanze ― proprio perché
legato alla trascendentalità ― è destinato a risultare imprescindibile
anche in campo pratico.
Alla imprescindibilità di figure fondative come quelle ora citate è
dedicato un saggio specifico all’interno del volume (cfr. Parte III, n.
4): saggio in cui la permanente attualità di quelle figure viene confer-
mata in relazione alle obiezioni variamente avanzate, nei loro confron-
ti, nell’ámbito del dibattito novecentesco sui fondamenti del sapere.
2. Il volume si è venuto articolando intorno a cinque nuclei temati-
ci, che intercettano, tra l’altro, segmenti significativi della storia della
filosofia: dall’antichità greca alla nostra contemporaneità. Anzi, un ul-
teriore carattere che accomuna gli scritti qui raccolti è proprio
l’intento, da essi documentato, di coltivare la riflessione teorica
dall’interno di puntuali ricognizioni testuali. Queste riguardano autori
classici, in riferimento ai quali abbiamo affrontato alcuni dei temi de-
7
8 Introduzione
cisivi di una filosofia della pratica, nel tentativo di vedere le cose
“con” loro; ma anche, quando possibile, “oltre” loro.
2.1. Il primo nucleo tematico riguarda la virtù, cioè la cifra sintetica
della vita buona, messa a tema anzitutto dai Greci: tipicamente, da
Platone e da Aristotele. Questo tema è proposto per primo, perché, a
ben vedere, le altre figure che la riflessione morale ha via via messo a
fuoco, possono essere intese come i presupposti o gli elementi analiti-
ci proprio di quel luogo sintetico che è la virtù morale.
La virtù è presentata, classicamente, come la sintesi difficile, e
sempre perfettibile, che l’uomo è chiamato a realizzare tra la materia
che è offerta dal mondo passionale e la forma che è costituita dal giu-
dizio della ragione. La sintesi trova il suo mediatore nell’elemento che
Platone chiama thymoeidés: cioè, nella capacità propriamente emozio-
nale dell’uomo, che fa da interfaccia tra ragione e passione. Si tratta,
più precisamente, della capacità del mondo passionale di provare e-
mozione, cioè di essere sensibilizzato e attivato dal mondo simbolico,
che è il luogo proprio della comunicazione tra ragione e passione.
L’immagine, come simbolo ― e quindi come apertura al mondo dei
significati ―, è un fattore imprescindibile nella educazione alla vita
buona; pena il crearsi delle situazioni dicotomiche ragione–passione,
teorizzate invece come inevitabili da quella parte della filosofia mo-
derna che presenta la ragione come impotente rispetto alla passione
(emblematica, al riguardo, la posizione di Hume); e semmai impegna-
ta a giustificare le mosse di quest’ultima, nel disperato tentativo di da-
re di esse una qualche razionalizzazione a posteriori (emblematica al
riguardo la posizione dell’ultimo Freud).
Dunque, grazie alla mediazione dello thymoeidés, il rapporto tra le
dimensioni razionale e passionale dell’essere umano può presentarsi
come qualcosa di proporzionabile. Se queste due dimensioni risultano
rappresentabili, in linguaggio matematico, da grandezze reciprocamente
non commensurabili ― rispettivamente, il lato e la diagonale del qua-
drato ―, lo thymoeidés funziona tra loro in modo analogo a quella linea
“mediale” che, nei “platonici” Elementi di Euclide, è proposta come
medio proporzionale tra due lunghezze tra loro incommensurabili.
Non a caso nei dialoghi della maturità Platone allude ripetutamente
alla possibilità di confrontare ― nell’immagine ― il razionale e il non–
razionale (il «limite» e l’«illimite»). Questa intuizione porterà, nel XIX
Introduzione 9
secolo, il matematico platonico Dedekind a suggerire di intendere i va-
lori matematici irrazionali come punti proiettabili sulla retta rappresen-
tante convenzionalmente il continuum dei numeri, quindi come valori
immaginativamente omogenei a quelli razionali. In particolare, nel Poli-
tico Platone parla di una «giusta misura» (métrion), alludendo al tenta-
tivo di rendere razionale l’irrazionale, per approssimazione. Sulla stessa
questione ritorna ― come sappiamo ― la figura aristotelica della «giu-
sta medietà». La mesótes aristotelica è in realtà la vita (e l’esempio visi-
bile) dell’uomo virtuoso, che condensa in sé, in modo approssimativo
ma reale, l’esito ideale di un lavoro di per sé mai finito: quello della
moderazione delle passioni contrapposte, in funzione di una vita piena-
mente umana. C’è dunque un evidente parallelo tra il considerare un va-
lore matematico “irrazionale” come se fosse un numero a pieno titolo
(avente il proprio posto nella sequenza numerica), e il considerare la
virtù ― cioè qualcosa che è sempre un limite di approssimazione ―
come un che di vivibile ed esemplificabile.
Quello della virtù come sinolo tra passione e ragione è un modello
che, affermatosi in modo pienamente maturo nella grande Scolastica,
ha attraversato i secoli trovando felice espressione anche in un classi-
co della modernità come Hegel: si pensi alla sua dottrina dello Spirito
soggettivo. Ciò a riprova della validità di un modello che ha saputo at-
traversare territori metafisici tanto distanti tra loro, per fiorire in o-
gnuno di essi.
2.2. Il secondo nucleo, in cui il volume si articola, mette a tema la
libertà e il suo referente naturale: il bene. E lo fa guardando in linea
principale a Tommaso d’Aquino: autore nel quale è particolarmente
evidente la referenzialità oggettiva ― e quindi la natura non autorefe-
renziale ― della libertà umana; ma anche la dissimmetricità del bene
rispetto al male.
Paradossalmente, la segreta consapevolezza del carattere oggetti-
vamente referenziale della libertà sta al fondo persino della risposta
che il senso comune meno educato è portato a dare alla domanda su
che cosa significhi essere liberi. Rispondere, infatti ― come è usuale
―, che essere liberi consiste nel “poter fare quel che si vuole”, impli-
ca un impegno con l’oggetto del nostro volere: con ciò che in realtà
vogliamo. Se non che, il referente in questione sembra connotarsi, al-
meno immediatamente, in modo negativo: come un niente. Connota-
10 Introduzione
zione che Tommaso ci aiuta a decifrare, in senso positivo, come il be-
ne nella sua accezione trascendentale.
A ben vedere, la citata espressione del senso comune implica, an-
che, che ciò che vogliamo sia nell’ordine delle cose che si possono fa-
re. Ma, è davvero così? Si tratta, cioè, del potenziale contenuto di un
facere? In realtà, il nostro facere viene progettato sulla base della no-
stra immaginazione, la quale ― a sua volta ― si struttura sulla base
del dato empirico. Ora, se il fare è appunto inteso come un fare pro-
gettabile da noi, allora il contenuto di quel fare (quindi, per ipotesi, il
contenuto del nostro volere) andrebbe inteso come un che di empirico.
E non sembra che possa essere così. Sembra, anzi, che la portata di ciò
che vogliamo, ecceda ogni prefigurazione immaginaria, oltre che ogni
esperienza pregressa: che ecceda, in generale, ogni contenuto finito:
del resto, l’esperienza dell’inquietudine e quella dell’insoddisfazione
ce lo confermano a sufficienza.
Il volere di un soggetto intelligente può mostrare una sterminata
capacità di afferrare e deporre ciò che ha tra mano, in quanto previa-
mente capace di incessantemente desituarsi rispetto ad esso. Provando
ad interpretare che cosa indichi tale capacità di desituarsi (ovvero tale
indeterminazione) rispetto alle situazioni empiriche e alle sollecitazio-
ni che queste costituiscono per il soggetto umano, si può dire che essa
esprima una capacità trascendentale del volere. Dire che il soggetto è
libero, è un modo per dire che esso è capace (anche come desiderante)
del trascendentale in quanto tale. Già Aristotele affermava che
“l’anima è in qualche modo tutte le cose”: espressione che Tommaso
riprendeva, affermando che “l’anima diviene in qualche modo ogni
cosa”. Ma è proprio questa referenza trascendentale (e quindi abissa-
le), a fondare la arbitrarietà della scelta, cioè a dar gioco alla volontà
rispetto alle configurazioni empiriche del desiderabile.
Il volere è volere di: è quindi intenzionante, ad–petente, avente mi-
ra strutturalmente a una oggettività. Se non che ― abbiamo già accen-
nato ―, il suo oggetto tematico, non è empirico. Ogni oggetto empiri-
co, infatti, può essere messo in parentesi, sospeso idealmente, nell’atto
deliberativo, che consiste nel riferire l’oggetto ad un contesto di rela-
zioni e di conseguenze possibili: in breve, all’altro da sé. Ora, se il
contenuto empirico fosse voluto per se stesso (o in quanto è quel par-
ticolare contenuto), questo lavoro non avrebbe senso. Il tema del vole-
Introduzione 11
re è dunque trascendentale, nel senso che insegue, nelle oggettività
empiriche, una qualità eidetica che nessuna di esse adegua (neppure
nella dilatazione immaginativa che ad esse si può tentar di dare). Pen-
siamo qui, di passaggio, al tema dell’utopia. Se anche l’utopia ― cioè
la delineazione immaginativa del progetto più completo di cui un uo-
mo sia capace ― potesse essere realizzata, essa non sarebbe il com-
pimento del desiderio umano. L’uomo attende infatti più di quanto
non riesca a progettare, in quanto attende più di quanto non riesca ad
immaginare ― come già sappiamo. Ne era già consapevole Aristotele,
il quale, sia pure di sfuggita, annotava nel Primo della Nicomachea
che la felicità non potrebbe essere, per l’uomo, se non un dono divino:
l’uomo, infatti, non sarebbe in grado di procurarsela con le proprie so-
le mani.
Anche la posizione kantiana, che pure è disomogenea all’impianto
classico ora accennato, ripropone, a ben vedere, la stessa indicazione,
quando dice che la ragion pratica (cioè la volontà in quanto propria del
soggetto razionale) è pura (cioè è se stessa) in tanto in quanto rimane fe-
dele alla forma che le è appropriata, che è quella della “volontà di un es-
sere ragionevole in generale”: e così non risulta captabile da nessuno dei
presunti beni che le si propongono come attraenti, i quali sono eloquenti
per il mondo passionale, ma non per la volontà propriamente detta.
In sintesi, il dinamismo del volere sembra allora descrivibile ― in
negativo ― come indipendenza o in–determinazione rispetto a ogget-
tualità empiriche, in quanto esse non adeguano la sua capacità ad–
petente; e ― in positivo ― come auto–determinazione, nel senso che,
se niente costringe a questo piuttosto che a quello, il potere di mettere
a tema e di eleggere questo o quello, è decisione o arbitrio del volente.
Nella prospettiva di Tommaso, la tensione del volere è esplicitamen-
te descritta come movimento strutturale (ovvero non occasionale), ori-
ginato da una attrazione destinale alla beatitudo. È questo moto, da
sempre attivo nel volente, quel che rende possibile pensare la libertà
come auto–causalità, senza che ciò comporti autocontraddizione. In al-
tre parole, nella prospettiva tommasiana, ciò che muove la scelta non è
il contenuto scelto, né la scelta stessa, bensì il (precedente) dinamismo
permanentemente attivo della volontà, di cui la scelta è declinazione.
La prospettiva di Tommaso resta intelligibile anche nel caso in cui
si intendesse mettere in parentesi (come noi faremo) l’esistenza effet-
12 Introduzione
tiva di un polo destinale di attrazione: la tensione, con il suo orienta-
mento ad apertura trascendentale, sarebbe ugualmente rilevabile. E
porrebbe il problema della natura dell’oggetto intenzionato
dall’adpetitus intellectivus: oggetto che dovrà coincidere con un con-
tenuto almeno intenzionato come possibile ― pena la contraddizione.
Se, infatti, coincidesse con qualcosa di intenzionato come impossibile,
tale oggetto non potrebbe essere oggetto del volere: un volere
dell’impossibile (intenzionato come tale) sarebbe un volere di nulla, e
quindi un nulla di volere.
2.3. Il terzo nucleo tematico riguarda ancora il tema della libertà,
ma lo considera secondo una prospettiva tipica della modernità. Infat-
ti, se è proprio del pensiero patristico e scolastico vedere la libertà
come energia di adesione perfettiva all’essere; con Kant prevale un al-
tro tipo di sguardo: quello che vede nella libertà la condizione di pos-
sibilità della comprensione della legge morale. Un motivo, questo, che
altri autori ― tra questi Jules Lequier e Maurice Blondel ― avrebbero
sviluppato evidenziando il legame di senso che vige tra libertà e primi
principi logico–ontologici.
In generale, ciò che emerge in prospettiva moderna è la possibilità
di introdurre criticamente la libertà come capacità dei principi, e quin-
di come funzione della trascendentalità. Una trascendentalità che ora
ricompare sotto altra veste. Veste che però, se adeguatamente conside-
rata, si rivela convertibile con la precedente.
Non esiste infatti, propriamente, un trascendentale “scolastico” (o
oggettivo) e uno “moderno” (o soggettivo). Il termine “trascendenta-
le” indica un significato la cui area semantica è intrascendibile: non
ha, cioè, alcunché che gli stia al di là o al di qua. Per questa ragione,
non potrà essere inteso come autentico trascendentale né un “essere”
che, per ipotesi, fosse estraneo al “pensiero”; né un pensiero che, per
ipotesi, fosse estraneo all’essere. Nessuna di queste due figure, infatti,
potrebbe istanziare la intrascendibilità. (Del resto, la stessa introdu-
zione che nel tommasiano De veritate viene fatta dei nomi dell’essere
trascendentale, li riferisce alle dimensioni ― teoretica e appetitiva ―
dell’anima; e quindi, ultimamente, all’apertura del pensiero in quanto
tale. E, specularmente, il Denken kantiano non è mai privo di un con-
tenuto, sia pur eccedente rispetto ad ogni possibile schema immagina-
tivo, e quindi alla presa categoriale dell’intelletto).
Introduzione 13
“Trascendentale” è, in definitiva, l’essere che si manifesta, ovvero
che si dà a pensare e a volere: cioè, una figura di cui essere e pensiero
risultano elementi analitici. Rispetto a tale figura, poi, la stessa scan-
sione tra soggetto e oggetto risulta secondaria: nel senso che andrà cri-
ticamente introdotta. Del resto, è in un ambito come questo, che ogni
problema emerge; e noi stessi, come problema, veniamo in luce.
Se il trascendentale è il significato inevitabilmente presupposto e
implicato in ogni problematizzazione, e persino nella negazione che si
tentasse di esso (o della sua consistenza), esso non può patire negazio-
ne o effettiva violazione (cioè violenza). Piuttosto, i tentativi di fargli
violenza si tradurrebbero in eventuali deformazioni di particolari enti
reali; ma, soprattutto, si ritorcerebbero contro il violento stesso, il qua-
le, se davvero tentasse di fare a meno di strutture trascendentali, do-
vrebbe rinunciare a dimensioni essenziali di sé.
Questo modo di considerare il trascendentale ne evita (Cantor do-
cet) una prefigurazione insiemistica o seriale ― quasi che esso fosse
l’insieme di tutti gli enti o la serie, aperta all’infinito, dei medesimi
―; ed evita così, anche la discussione delle aporie che, da una simile
prefigurazione, possono conseguire.
Il termine “trascendentale” si può usare anche al plurale. Dire “i tra-
scendentali”, significa indicare delle figure coestensive con l’essere–che–
si–manifesta. Si può trattare di figure semantiche (e una lunga tradizione
parla, al riguardo, dei “nomi” dell’essere), oppure di figure sintattiche (e
tradizionalmente si parla, al riguardo, di “primi principi”). In ogni caso, è
trascendentale ciò che risulta inevitabile, in quanto lo si ritrova ― seman-
ticamente o sintatticamente ― implicato nella propria negazione. Si può
quindi dire che “trascendentale” è ciò che gode di statuto elenctico.
Tutto ciò che ha formale relazione col trascendentale, partecipa del-
lo statuto elenctico. Anche l’io ― in quanto è capace del trascendenta-
le ― partecipa, a suo modo, di tale statuto. L’io non è certo condizio-
ne costitutiva del trascendentale, ma è piuttosto condizione del suo
manifestarsi: anche qui, non in senso assoluto, ma è condizione del
suo manifestarsi in quella forma semantico–sintattica che ci è nota. In
una parola, potremmo dire che l’io è condizione (implicazione prag-
matica) del manifestarsi in forma astratta del trascendentale.
2.4. Proprio di quest’ultimo tema tratta la quarta Parte del volume:
quella che riguarda la relazione tra essere e persona. Si tratta anche qui
14 Introduzione
del nesso principialità–libertà, considerato però a partire da una diver-
sa coppia lessicale e dal contributo di autori diversi da quelli citati in
precedenza. Rosmini, in particolare, è colui che nel modo più rigoroso
ha saputo affrontare il tema ontologico, introducendo criticamente la
persona umana come capacità, formalmente adeguata ma finita,
dell’essere. La persona umana, dunque, come apertura prospettica
sull’orizzonte trascendentale; e, per ciò stesso, come capacità di ritor-
nare su di sé, come su di un contenuto (singolarmente privilegiato) di
tale orizzonte.
La tradizione rosminiana intende la “persona” come “condizione
ontologica dell’essere”, ovvero come la modalità del darsi concreto
dell’essere, sia a livello originario sia a livello originato. Il che non fa
altro che riproporre, in termini più radicali, il senso ultimo della clas-
sica definizione boeziana, e poi scolastica, che dice della persona co-
me rationalis naturae individua substantia.
Di tale definizione, già Tommaso sottolineava l’aggettivo indivi-
dua, che indica, letteralmente, la non–divisibilità. Ora, l’individualità
in senso pieno è l’autocoscienza: questo sembra emergere dai testi
tommasiani (quali S.Th., I, q. 29). L’individualità propria della perso-
na, consisterebbe dunque nella capacità che questa ha di ritornare su di
sé, e così di non stare divisa da sé (o presso altro), bensì di stare pres-
so di sé (o di essere “per sé”, nel senso del tedesco für sich). Al con-
trario, la realtà non–autocosciente è “per altro”, cioè esiste in riferi-
mento ad altro, che sa di essa.
Tommaso non intende ricondurre banalmente “persona” a “sostan-
za”, quasi considerando la prima come un semplice caso della secon-
da. Piuttosto, egli è consapevole che “persona” è l’analogato principa-
le all’interno del genere “sostanza”: tanto che, è guardando alla prima
che acquista spessore il significato della seconda. Ancora più esplici-
tamente, Rosmini identifica senz’altro “sostanza” e “persona”, uscen-
do con coraggio dalla moderna querelle intorno alla individuazione
della sostanza.
2.5. La figura imprescindibile della persona è emersa all’orizzonte
anche dell’ultimo gruppo di interventi, dedicato all’etica
dell’universalità. L’istanza etica, classicamente concepita come ideale
della vita buona, si è progressivamente coniugata con il modello della
legge morale, variamente coltivato in ámbito stoico e in ámbito patri-
Introduzione 15
stico. La riforma kantiana ha cercato di spostare il criterio della legali-
tà (l’istanza regolativa) dalla promozione della vita buona al rispetto
della coerente universalizzabilità dell’azione. La pretesa in tal modo
avanzata ― com’è noto ― era quella di un formalismo assoluto: “as-
soluto” rispetto ad ogni positivo contenuto morale (legato alla persona
umana e alle sue virtù proprie). Il pensiero di Habermas, a sua volta,
rappresenta uno dei più importanti tentativi di proporre la legge mora-
le come espressione di una “giustizia” disimpegnata sul versante di
una antropologia sostanziale.
In realtà, una antropologia ― sia pur minimale ― resta inevitabil-
mente implicata sia nel formalismo kantiano sia in quello habermas-
siano. I saggi della quinta Parte si incaricano di mostrarlo: e cercano
di farlo, non trascurando, ma proprio portando a fondo le istanze legit-
time che presiedono al modello formalistico in questione.
La Diskursethik è uno dei migliori tentativi esperiti per recuperare
in spirito kantiano una fonte normativa, dopo che la ghigliottina di
Hume aveva presuntivamente messo fuori gioco, da questo punto di
vista, il ruolo della natura umana. Se non che, la radice della normati-
vità classicamente riconosciuta alla natura umana, risiede nell’essere
tale natura informata dalla trascendentalità: in particolare, dalla tra-
scendentalità del desiderio, che attraversa le pulsioni organizzandole
in bisogni propriamente umani. Del resto, la radice della culturalità dei
bisogni dell’uomo e delle risposte ad essi adeguate ― culturalità tanto
enfatizzata da Habermas ―, sta proprio nel loro essere bisogni in cui
l’uomo chiede che sia riconosciuta la sua trascendentalità desiderante.
Ora, questa radice attraversa e supera la multiculturalità, evitando le
secche del “multiculturalismo”: e ciò dovrebbe essere chiaro anche a
chi, come Habermas, vede nell’agire comunicativo un comportamento
che qualifica, non questa o quella cultura particolare, ma piuttosto
l’umano in quanto tale.
Del resto, la contraddizione specifica che lo stesso Kant intende
evitare nel suo test di universalizzazione, è quella di tipo “buletico”:
contraddizione rispetto alla qualità trascendentale della volontà.
Quindi, già il trascendentalismo kantiano ― cui Habermas a suo
modo si rifà ― non segue una impostazione meramente procedurale,
ma piuttosto fa riferimento, sia pur tra mille aporie, ad una antropo-
logia trascendentale. Quando il trascendentalismo, viceversa, non fa-
16 Introduzione
cendo riferimento a una tale antropologia, cerca una coerenza di tipo
meramente procedurale, finisce di fatto per adagiarsi sul “principio
di autonomia”.
In particolare, si potrebbe ipotizzare che la posizione habermassia-
na finisca oggettivamente per convergere con l’ampia tradizione mo-
ralistica che teorizza una composizione armonica di progetti di vita
autonomamente formulati. In tal senso, la posizione di questo autore
realizzerebbe un modello del compromesso relazionale, anziché un
modello del consenso pienamente inteso. È certo, però, che Habermas,
il quale sembra escludere che il criterio dell’autonomia privata abbia
competenza assoluta a decidere nel campo stesso della definizione del
bene, è alla ricerca di altro: egli vorrebbe che la procedura stessa della
formazione del consenso andasse a dare una forma ― consensual–
argomentativa, cioè razionale ― all’azione; che essa, insomma, uma-
nizzasse l’agire stesso dei singoli. Si tratta comunque di capire a che
cosa il nostro autore possa effettivamente fare riferimento, quando
propone qualcosa di diverso dal contratto tra autonomie private. A ben
vedere, quando egli auspica il collocarsi di ciascuno dal punto di vista
di chiunque ― in senso dinamico e rivedibile ―, sembra indicare
proprio il tentativo di collocarsi dal punto di vista della persona come
tale. E la “indisponibilità” del punto di vista morale, da lui propugna-
ta, sembra a sua volta indicare la “indisponibilità” della persona stes-
sa, intesa come principio normativo.
Portato a coerenza, il trascendentalismo habermassiano piega inevi-
tabilmente verso il recupero del senso normativo della persona, che è
il vero presupposto imprescindibile dell’agire comunicativo. Già per
Kant, del resto, assumere il punto di vista universale, significa pensar-
si come membro legislatore, oltre che suddito, del regno dei fini o del-
le persone; ovvero profilare le proprie massime secondo la prospettiva
della persona in quanto tale.
3. I testi contenuti nel presente volume sono, per lo più, già com-
parsi ― con lievi differenze ― in altre sedi editoriali.
Per quanto riguarda la Parte Prima, il saggio Platone e la geometria
dell’anima è comparso in «Rivista Teologica di Lugano», III (1998);
mentre il saggio Virtù, Passione e Comunità è comparso col titolo
L’eredità di Trasimaco in «Dialoghi», 2007, vol. 3.
Introduzione 17
Per quanto riguarda la Parte Seconda: il saggio Tommaso: libertas
differentiae è comparso col titolo Tommaso: la libertà della differenza
nel volume: C. Vigna (a cura di), La libertà del bene, Vita e Pensiero,
Milano 1998; il saggio Eternità e Libertà: Appunti è comparso, in
forma un poco diversa, nel volume: M. Hauke – P. Pagani (a cura di),
Eternità e libertà, Franco Angeli, Milano 1998, che riporta gli Atti
dell’edizione 1996 dei “Colloqui internazionali di Teologia di Luga-
no”; mentre il saggio La lezione tommasiana sul male, nel recente di-
battito è comparso in «Studia Patavina», LI (2004).
Per quanto riguarda la Parte Terza, il saggio Da Epitteto a Nie-
tzsche, e ritorno è comparso in «Rivista Teologica di Lugano», III
(1998); il saggio Promemoria su libertà e legalità in Kant è inedito; il
saggio Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di Maurice
Blondel è comparso nel volume: S. D’Agostino (a cura di), Logica
della morale, Biblioteca della Enciclopedia Treccani, Roma 2006, che
riporta gli Atti del Convegno “Logica e vita morale” organizzato a
Roma nel febbraio 2003 dalla Pontificia Università Gregoriana,
dall’Istituto della Enciclopedia Italiana e dalla Associazione Maurice
Blondel–Sezione italiana; il saggio Fondamento e fondazione è com-
parso nel volume: A. Ales Bello – L. Messinese – A. Molinaro, Fon-
damento e fondamentalismi, Città Nuova, Roma 2004, che riporta gli
Atti del Convegno Internazionale “Fondamento e fondamentalismi”
organizzato a Roma nell’aprile 2002 dall’Università Lateranense.
Per quanto riguarda la Parte Quarta, il saggio Essere e persona: un
destino solidale è comparso in «Rivista rosminiana di filosofia e di
cultura», XCVI (2002), negli Atti del II Simposio Rosminiano di Stre-
sa dal titolo “La fine della persona?”; mentre il saggio Metafisica e
antropologia in Sciacca e in Rosmini è comparso nel volume: P.P. Ot-
tonello (a cura di), Sciacca. La necessità della metafisica, Olschki, Fi-
renze 2004, che riporta gli Atti del IX corso della “Cattedra Sciacca”
organizzato presso l’Università di Genova nel maggio 2003.
Per quanto riguarda la Parte Quinta, il saggio Lo schematismo
nell’etica kantiana è comparso col titolo Schematismo trascendentale.
Etica e intersoggettività in Kant nel volume: C. Vigna (a cura di),
Trascendentalità pratica ed etica intersoggettiva, Vita e Pensiero, Mi-
lano 2002; il saggio Kant e la Regola Aurea, è comparso col titolo
Kant e la Regola d’Oro nel volume: C. Vigna – S. Zanardo, La Regola
18 Introduzione
d’Oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano 2005; mentre il
saggio L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura è
comparso nel volume: C. Vigna (a cura di), Libertà, giustizia e bene in
una società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2003, che riporta gli Atti
del Convegno “Libertà, giustizia e bene nel pensiero del Novecento”,
svoltosi nel maggio–giugno 2002 a cura del “Centro Interuniversitario
per gli Studi sull’Etica” presso l’Università di Venezia.
PARTE PRIMA
STUDI SUL CONCETTO DI VIRTÙ
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CAPITOLO I
PLATONE E LA GEOMETRIA DELL’ANIMA
Nel settimo Libro delle Leggi, Platone ― per bocca dell’ospite A-
teniese ― traccia un ordo studiorum ideale, nel quale dovrebbe trovar
posto anche un aspetto del sapere matematico che fa problema alla
mentalità greca: lo studio dei rapporti incommensurabili1.
1
Ecco il brano in questione: «ATENIESE: E la lunghezza e la larghezza rispetto alla profondità, e
la larghezza e la lunghezza fra di loro, non pensiamo di esse tutti noi Greci che sono commensurabili
reciprocamente [dynatà metreĩsthai pros állela], in qualche modo? CLINIA: Senza dubbio. ATEN.: E
se invece ci sono dei casi in cui tale operazione è da ogni punto di vista assolutamente impossibile e,
come dissi, tutti noi Greci pensiamo invece che sia possibile, non sarebbe giusto che vergognandomi
per tutti loro, loro dicessi: “O voi che siete i migliori fra i Greci, non è forse questa una di quelle cose
in relazione alle quali dicevamo risultare vergognoso il non sapere, mentre non è per nulla cosa meri-
tevole il sapere quelle che sono necessarie?” [...] Ci sono poi altri fatti congiunti per genere a questi, in
cui noi cadiamo in errore per più ragioni, in errori fratelli a quelli sopra esposti. CLIN.: Quali sono?
ATEN.: I reciproci rapporti delle grandezze commensurabili e incommensurabili [ta tõn metretõn te
kai amétron pros állela] e il fatto di sapere quale è la loro natura per cui essi sono tali […]. Io dico
dunque, Clinia, che i giovani devono apprendere queste cose, e infatti non sono dannose né difficili e,
apprese insieme al gioco, saranno di giovamento e per nulla di danno al nostro stato» (cfr. Platone,
Leggi, VII, 820a–d; trad. it. di A. Zadro sul testo greco curato da J. Burnet). Che la considerazione dei
rapporti incommensurabili ― e dei valori “irrazionali”, cioè incalcolabili, che ad essi danno luogo ―
fosse qualcosa di ostico per il senso comune degli antichi Greci, derivava da una eredità dell'antico pi-
tagorismo. Infatti, i Pitagorici antichi ― com’è noto ― avevano sviluppato una teoria dei valori nume-
rici che lasciava posto solo ai numeri interi e frazionari. In particolare, era loro convinzione che vi fos-
se sempre un segmento tale da essere misura comune di altri due segmenti dati; ovvero che, dati due
segmenti (o comunque due grandezze), se ne potesse in ogni caso trovare un terzo che fosse contenuto
un numero intero di volte nell'uno e un numero intero di volte nell'altro. Essi pensavano, insomma ―
per restare all’ámbito geometrico –, che due lunghezze avessero un rapporto reciproco sempre di natu-
ra razionale: esprimibile cioè con un rapporto tra numeri interi (m/n). Infatti, se esiste XY, cioè il seg-
mento comun divisore dei due segmenti dati AB e CD, si avrà: AB/CD = (AB/XY)/(CD/XY) = m/n.
21
22 Parte prima: studi sul concetto di virtù
Con questo termine2, la cultura matematica greca indica quei rapporti
in cui, almeno una delle grandezze in gioco, deve avere un valore “irra-
zionale”: vale a dire, incalcolabile. Paradigma del rapporto incommensu-
rabile è quello tra il lato e la diagonale del quadrato, che, nel caso del
quadrato di lato unitario, è dato ― per il teorema di Pitagora ― da 1/√2.
Ora, è verosimile che l’accenno di Platone alla importanza educati-
va dello studio dei rapporti incommensurabili contenga un riferimento
implicito alla questione dell’uomo, e segnatamente al rapporto tra le
dimensioni (eĩde) dell'anima umana3, così come sono introdotte dallo
stesso Platone nel quarto Libro della Repubblica. Reciprocamente in-
commensurabili sembrerebbero essere, infatti, la dimensione razionale
e quella concupiscibile (o passionale) dell'anima ― almeno, stando al
modo in cui Platone le introduce criticamente –; anche se, nel caso
dell’anima umana, sembra emergere la possibilità di individuare un
elemento comune (quasi–omogeneo ad entrambi i fattori in gioco):
l’elemento “irascibile” (o emozionale). Ma procediamo con ordine.
1. Una distinzione inevitabile
Nel quarto Libro della Repubblica, Platone introduce criticamente la
distinzione tra un principio razionale ed uno passionale nell’anima del-
In tale ipotesi, anche il rapporto tra il lato e la diagonale del quadrato, essendo il rapporto tra due seg-
menti, dovrebbe essere un valore razionale ― esprimibile cioè come rapporto tra due numeri interi.
Invece, intorno al 430 a.C., fu proprio un pitagorico di nuova generazione ― Ippaso di Metaponto ―
a scoprire che la diagonale del quadrato unitario ha un valore irrazionale, esprimibile, al limite, come
quel numero il cui quadrato è 2 (da cui, quel rapporto tra incommensurabili, che oggi esprimiamo co-
me: 1/√2). È chiaro che la scoperta di questo, e di altri valori “irrazionali” metteva in crisi il senso co-
mune matematico greco, mostrando come “ci fossero più cose in cielo e in terra” di quante ne preve-
dessero i logoi pitagorici.
2
«Le grandezze commensurabili [sýmmetra meghéthe] ― spiega Euclide nella definizio-
ne 1 del Libro X degli Elementi ― sono quelle «misurate da una stessa misura», mentre «in-
commensurabili» (asýmmetra) sono «quelle di cui non può esistere nessuna misura comune»
(cfr. Euclide, Gli elementi, a cura di A. Frajese ― L. Maccioni, tr. it. condotta sull’ediz. Hei-
berg, UTET, Torino 1970).
3
Cfr. Platone, Repubblica, IV, 435c; testo greco a cura di E. Chambry ― A. Diès. La di-
stinzione dei tre aspetti dell’anima umana, Platone la eredita da una tradizione forse di origine
pitagorica (cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, tr. it. di M. Corsi, La Nuova Italia, Fi-
renze 1976, pp. 437– 439). Egli però intende riprendere criticamente questa eredità (cfr. Pla-
tone, Repubblica, IV, 435c–d) ― come ora cercheremo di documentare.
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 23
l'uomo. E lo fa argomentando per assurdo. Citiamo prima i passaggi prin-
cipali dell'argomentazione, e proviamo poi a schematizzarli. «È chiaro»
― secondo il Socrate platonico ― «che l’identico soggetto nell’identico
rapporto e rispetto all’identico oggetto non potrà insieme fare o patire co-
se contraddittorie. Sicché, se per caso scoprissimo che in quei principi si
verificano questi fatti, sapremmo che non erano il medesimo principio,
ma più principi diversi»4. Nell’uomo, però, accade proprio che la tenden-
za che lo spinge a soddisfare un bisogno, si trovi ad essere contrastata da
una forza interiore opposta, che frena il soddisfacimento5. Dunque, nel-
l'uomo sono compresenti due fattori ― uno “razionale” (loghistikón) e
uno “passionale” (epithymetikón)–, che, proprio in quanto capaci di op-
porsi reciprocamente, risultano tra loro inconfondibili6 («perché, come
s’è detto, l’identico non può effettuare nel medesimo tempo azioni oppo-
ste con la stessa sua parte e rispetto all’identico»7).
La forma esteriore dell’argomento, è quella del modus ponens: (a)
se nell’anima dell’uomo ci sono tendenze opposte circa la medesima
azione possibile, allora queste tendenze mettono capo a principi tra lo-
ro diversi; (b) ma, nell’anima dell'uomo sono riscontrabili tendenze
opposte circa la medesima azione possibile; (c) dunque, queste metto-
no capo a principi diversi tra loro (il razionale e il passionale), che
convivono nell’anima dell’uomo.
Ma se lo schema argomentativo è quello ora ricostruito, è chiaro
che il cuore dell’argomentazione sta nella premessa maggiore, e cioè
nella consequenzialità, lì stabilita, tra il principio di non–contrad-
dizione “pratico” (per cui il medesimo non fa ― o non subisce ― in-
sieme i contraddittori8), e la presenza nell’anima dell’uomo di principi
diversi come soggetto di eventuali tendenze tra loro contraddittorie.
Ora, la consequenzialità in questione è esplicitamente legata alla ne-
cessità di evitare contraddizione: la contraddizione che si avrebbe se si
attribuissero al medesimo soggetto tendenze tra loro contraddittorie (a
fare e insieme a non fare x).
4
Cfr. Platone, Repubblica, IV, 436b.
5
«‘E non ci sono alcuni che talora hanno sete ma non vogliono bere?’ ‘Molti, anzi, e
spesso’» (cfr. ivi, 439c).
6
Cfr. ibi, 439d.
7
Cfr. ibi, 439b.
8
Ovvero, gli opposti in relazione al medesimo.
24 Parte prima: studi sul concetto di virtù
Si può dire, allora, che la “maggiore” del modus ponens è, a sua
volta, costituita da una argomentazione per assurdo, che potremmo
schematizzare così:
(A) negare che nell’anima dell’uomo siano presenti più principi, si-
gnifica attribuire al medesimo principio eventuali tendenze in con-
traddizione tra loro;
(B) se non che, attribuire al medesimo principio tendenze in con-
traddizione tra loro significa far entrare la contraddizione nella attività
del principio in questione, e quindi negare ― contro l’ipotesi ― ogni
capacità attiva all’anima dell’uomo;
(C) di conseguenza, occorre riconoscere che nell’anima dell’uomo
sono presenti più principi ― nell’ipotesi, naturalmente, che vi siano
tendenze capaci di opporsi circa il medesimo.
In questa argomentazione per assurdo, a sua volta, il punto decisivo è
il (B), dove l’attribuzione al medesimo di appetizioni tra loro inconcilia-
bili, fa di quel medesimo il soggetto di una autocontraddizione: quella
che consisterebbe nel tendere insieme a x e a non–x. Situazione che equi-
vale al tendere a niente, e dunque al non tendere simpliciter: per questo
già si accennava al fatto che la contraddizione in gioco avrebbe come ri-
sultato quello di negare ogni capacità attiva all’anima dell’uomo.
L’esempio di tendenze tra loro contraddittorie che Platone ci offre,
riguarda il soddisfare o meno la sete. «L’anima di chi ha sete, in quan-
to ha sete, non desidera altro che bere e tende e mira a questo […].
Ebbene, se, quando ha sete, c’è qualche altra cosa che la tira in senso
opposto, non ci sarà in lei un elemento diverso da quello che ha sete e
che, come una bestia, la spinge a bere? Perché, come s'è detto,
l’identico non può effettuare insieme azioni opposte con la stessa sua
parte e rispetto all’identico […]. Ora, possiamo dire che ci sono per-
sone che, per quanto assetate, non vogliono bere? E quello che così
vieta, quando sorge, non sorge dalla ragione? E gli impulsi e le attra-
zioni non sono dovuti a passioni e sofferenze? […] Non avremo torto,
dunque, a giudicare che si tratti di due elementi tra loro diversi: l'uno,
quello con cui l’anima ragiona, lo chiameremo il suo elemento razio-
nale [to loghistikón]; l’altro, quello che le fa provare amore, fame, sete
[…], irrazionale e passionale [to aloghistón te kai epithymetikón]»9.
9
Cfr. Platone, Repubblica, IV, 439a–d.
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 25
Non è difficile ipotizzare che Platone ritenga i due principi interiori
così individuati, come tra loro incommensurabili: nel senso che l’uno
sarebbe incapace di intervenire direttamente sull’altro. Piuttosto, sembra
che il rapporto tra i due principi sia ― per Platone ― di tipo estrinseco.
Essi infatti non parlano una lingua comune, come ben si evince da quei
passi del Timeo in cui viene ripresa la distinzione della Repubblica: per-
ciò non possono moderarsi reciprocamente; e anche l’intervento del lo-
ghistikón sull’epithymetikón non va inteso tanto come moderatore,
quanto come un intervento limitatore od oppositore. Nel Timeo, appun-
to, parlando dell’epithymetikón Platone dice che esso «non avrebbe mai
potuto comprendere la ragione [logou oute synésein]»10. E aggiunge che
il pensiero razionale (diánoia) deve cercare con quello un contatto di ti-
po mediato, «non volendo né muovere né venire a contatto con la natura
contraria alla propria [he enantía heauté physis]», in quanto quella «non
partecipa della ragione e della prudenza»11.
2. Il paradigma degli incommensurabili
Ma gli incommensurabili paradigmatici sono, ovviamente, quelli
matematici: del resto, l’incommensurabilità è una figura propriamente
matematica, che solo in senso analogico può essere applicata al caso
dell’uomo12. E Platone, in un noto passo del Teeteto (cfr. 147d–148b),
10
«E se anche ne avesse sentito qualche influsso, non sarebbe mai stato nella sua natura di
curarsene» (cfr. Platone, Timeo, 71a; testo greco a cura di A. Diès).
11
Cfr. ibi, 71c–d.
12
Del resto, per Platone è normale assimilare il discorso sulle realtà geometriche al di-
scorso sulle realtà umane. Si pensi solo al celebre caso del Menone, in cui la possibilità di in-
terrogarsi intorno alla virtù, viene introdotta dal celebre esperimento maieutico relativo pro-
prio al teorema di Pitagora. È interessante osservare, in proposito, che anche nel caso del Me-
none il problema matematico proposto da Socrate investe il rapporto paradigmatico della in-
commensurabilità: quello tra lato e diagonale del quadrato. Infatti, la possibilità di costruire
un quadrato di area doppia a quella di un quadrato dato, risulta legata alla costruzione di un
quadrato sulla diagonale del quadrato dato; mentre tutte le proposte ― fatte dallo schiavo di
Menone ― di costruire quadrati di lato commensurabile con quello del quadrato dato, risulta-
no inadeguate allo scopo (cfr. Platone, Menone, 82b–85b). Un altro esempio che si può porta-
re in proposito, è quello di un curioso passo del Politico, dove addirittura, con un gioco di pa-
role ― per cui dýnamis vuol dire a un tratto “potenza matematica”, a un tratto “capacità” –,
Platone collega il modo di camminare dei bipedi alla «linea diagonale che è in potenza due
piedi»; e il modo di camminare dei quadrupedi alla «diagonale della diagonale». Ora, la prima
26 Parte prima: studi sul concetto di virtù
ci dà un saggio della sua conoscenza13 di valori irrazionali, cioè non
commensurabili con l’unità. In particolare, Teeteto nel dialogo con
Socrate indica un criterio per individuare gli irrazionali: sono irrazio-
nali i lati (dynámeis) quadrati aventi quei valori di superficie che non
si ottengono dalla moltiplicazione per se stessi di numeri razionali14.
Teeteto poi divide i numeri in due grandi categorie: quelli idealmen-
te rappresentabili con il “quadrato”, cioè quelli che corrispondono ad un
quadrato perfetto (ovvero al quadrato di un valore commensurabile con
l'unità); e quelli idealmente rappresentabili con il “rettangolo”, cioè
quelli che derivano necessariamente dalla moltiplicazione di due fattori
diseguali. I primi vengono chiamati “lunghezze” (méke); i secondi “po-
tenze” (dynámeis): la differenza specifica di questi ultimi stando nel fat-
to che, «in misura lineare, non sono commensurabili alle lunghezze, ma
nel valore della superficie quadrata che possono formare, sì»15.
Ma il tema dell'incommensurabile matematico è presente anche in
altri passi dell'opera platonica. Ne è attento indagatore il Taylor. Que-
sti vede nel celebre passo geometrico del Menone, un accenno signifi-
cativo al metodo per ricavare il valore della diagonale del quadrato u-
è chiaramente la diagonale del quadrato unitario (√2), sulla quale si costruisce il quadrato di
superficie 2; la seconda è invece la diagonale (2) del quadrato di superficie 2, sulla quale si
costruisce il quadrato di superficie 4 (cfr. Platone, Politico, 266a–b; tr. it. di A. Zadro, sul te-
sto greco di J. Burnet).
13
O meglio, della conoscenza interna all'Accademia.
14
È questo il caso ― per stare agli esempi citati da Teeteto ― di superfici di valore 3, 5,
6, 7, 17.
15
Cfr. Platone, Teeteto, 148b; testo greco a cura di A. Diès. Se valori come √13 e √15 non
hanno alcuna misura comune, invece un’area di 3 mq e una di 5 mq ce l'hanno, e consiste
nell’area di 1 mq. Come spiega Taylor: «questo è il motivo per cui le linee della seconda clas-
se sono chiamate potenze; esse non sono misurabili l’una con l’altra, ma le loro seconde po-
tenze lo sono» (cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, p. 505). Com’è noto, la versione
sistematica della teoria di Teeteto (e di Teodoro di Cirene) ci è offerta dal teorema 9 del libro
X degli Elementi di Euclide: «Dice infatti la X, 9 di Euclide che due linee sono commensura-
bili (in lunghezza: cioè nel senso nostro ordinario) quando, e solo quando, i quadrati (geome-
trici) costruiti su di esse stanno tra loro come un numero quadrato sta ad un numero quadrato.
Basta considerare come seconda linea del confronto l’unità di misura delle lunghezze perché i
due metodi vengano, per dir cosi, estremamente ravvicinati. Così per esempio, il Teeteto pla-
tonico riconoscerebbe l’irrazionalità della radice quadrata di 2 dal fatto che 2 non è un numero
quadrato, mentre il Teeteto euclideo riconoscerebbe l’incommensurabilità della diagonale e
del lato di ogni quadrato (ciò che è lo stesso), dal fatto che i quadrati costruiti sui due segmen-
ti stanno tra loro come 2 a 1, e quindi non come un numero quadrato a un numero quadrato»
(cfr. A. Frajese, Commento alla proposizione X, 9, in Euclide, Gli elementi, p. 615).
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 27
nitario16: un metodo cui Platone sembra far riferimento anche in un
controverso passo del Libro VIII della Repubblica (cfr. 546b–c). In
realtà, qui Platone parla di alcuni criteri per costruire valori numerici
di significato cosmologico17, ma non sembra alludere con sufficiente
chiarezza ― come Taylor vorrebbe18 ― alla sequenza convergente di
pleurikoì kaì diametrikoì arithmoí, grazie alla quale Teone di Smirne e
Proclo sapevano individuare il valore della diagonale del quadrato
unitario19. Tuttavia, Teone considerava esplicitamente la sequenza ora
indicata, come una delle conoscenze matematiche utili per la com-
prensione del pensiero platonico20.
16
Nel citato passo del Menone si tratta di ottenere la lunghezza il cui quadrato dia il dop-
pio della superficie del quadrato dato. Tale lunghezza non sarà quella doppia del lato del qua-
drato di partenza, ma neppure sarà quella lunga una volta e mezza la lunghezza di partenza.
Osserva in proposito Taylor: «La lunghezza della linea che si cerca dev’essere maggiore di
quella della linea originaria, ma minore della linea lunga una volta e mezzo quella originaria
(√2> 1 < 3/2)». E aggiunge: «Per esprimerci in termini aritmetici, quel che è stato dimostrato
è che la √2 sta tra 1 e 1,5. Nel famoso passo della Repubblica, 546b ss. risulta chiaro che So-
crate, in realtà, conosce assai bene come costruire l'intera serie delle frazioni che formano le
successive convergenti su √2. Qui però gli basta considerare la seconda convergente 3/2 e
mostrare che è una approssimazione per eccesso» (cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e
l’opera, p. 216).
17
«Ora, mentre per la creatura divina esiste un periodo espresso da un numero perfetto,
per quella umana ne esiste uno espresso da quel numero in cui per primo accrescimenti di ra-
dici e di potenze [auxéseis dynámenái te kai dynasteuómenai], comprendenti tre distanze e
quattro termini di quantità assimilanti e disassimilanti, crescenti e decrescenti, fanno apparire
tutte le cose tra loro commensurabili e razionali [proségora kai retá]. La loro base epitrita
unita con il numero cinque, tre volte accresciuta, dà luogo a due armonie: l’una costituita dal
prodotto di numeri uguali, cento per cento; l’altra eguale in un senso, ma oblunga, costituita
cioè da cento quadrati di diagonali di cinque (diminuiti ciascuno di un’unità se le diagonali
sono razionali [retá], di due se sono irrazionali [árreta] e da cento cubi di tre».
18
Cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, pp. 216, 788–789. In questo, Taylor è se-
guito da P. Zellini nel suo bel libro sull’infinito (cfr. P. Zellini, Breve storia dell’infinito, A-
delphi, Milano 1989, pp. 61–62).
19
Per convincersene più criticamente, si può consultare un autorevole saggio dedicato
proprio all'interpretazione del passo platonico in questione: J. Dupuis, Le nombre géométrique
de Platon, in Théon de Smyrne, Exposition des connaissances utiles pour la lecture de Pla-
ton, a cura di J. Dupuis, Bruxelles 1966, pp. 365–400.
20
Si tratta della sequenza di origine pitagorica, volta ad esprimere razionalmente la dia-
gonale del quadrato. Essa è fondata su una “ragione generatrice” (logos spermatikós) che pro-
viamo a ricostruire come segue. Ogni valore della sequenza viene espresso come rapporto ra-
zionale tra un numeratore (detto “numero diagonale” = d) e un denominatore (detto “numero
lato” = l); pertanto, posto convenzionalmente il primo valore della serie come (d1= 1) / ( l1 =
1), segue che un generico valore successivo sarà costruibile cosi: (dn = 2ln–1 + d n–1) / (l n = ln–1
+ dn–1 ). A Teone interessa rilevare che i rispettivi numeri “lato” e “diagonale” sono tali che d2
28 Parte prima: studi sul concetto di virtù
Si tratta di una sequenza di valori, alternativamente minori e mag-
giori di √2, e tali che ognuno di essi differisce dal limite di convergen-
za ― appunto √2 ― di una quantità minore del precedente.21. Quanto
al testo platonico, esso presenta piuttosto dei semplici accenni che
sembrano rivelare, però, come l'autore abbia familiarità con tale se-
quenza: si pensi a quelle «quantità crescenti e decrescenti» cui si ac-
cenna in 546b, e che avrebbero il potere ― stando al testo ― di e-
sprimere in termini razionali anche l’irrazionale22.
In realtà, una autentica presa sull’irrazionale in quanto tale, e non
solo su sue forme specifiche, richiede il ricorso esplicito alla figura
dell’infinito, come ben si evince dal teorema 2 del libro X di Euclide23
= 2l2 –/+ 1; il che significa che i valori che corrispondono a d/l ― cioè le frazioni i cui nume-
ratori e denominatori inverano l’equazione precedente ― sono approssimazioni razionali, al-
ternativamente per difetto e per eccesso, del valore d2 = 2l2 (cfr. Théon de Smyrne, Exposi-
tion, p. XXXI). Una versione geometrica del metodo di costruzione della sequenza di “numeri
lati e diagonali” ora ricostruita, si trova nel teorema II, 9 di Euclide che dice: «Se si divide
una linea retta [AB] in parti uguali [AC = CB] e disuguali [AD, DB] la somma dei quadrati
delle parti disuguali [AD2+ DB2 = M2 + m2] è il doppio della somma del quadrato della metà
della retta [AC2 = N2] e del quadrato della parte compresa fra i punti di divisione [CD2 = n2]» .
Ora, qui si pongono in relazione tra loro quattro grandezze (m <M, n <N), in modo tale che
valga: M=AD =AC+ CD = CB + CD = DB + 2CD = m + 2n; N = AC = CB = DB + CD = m +
n. Si ha cosi una piena corrispondenza con la sequenza che abbiamo ricavato da Teone, dove
ogni “numero diagonale” (qui, M) equivaleva al precedente numero diagonale sommato al
doppio del precedente numero lato (qui, m + 2n), e ogni “numero lato” (qui, N) equivaleva al
precedente numero diagonale sommato al precedente numero lato (qui, m + n) (cfr. A. Fraje-
se, Commento a II, 9, in Euclide, Gli elementi, pp. 181–182). La formula ricorsiva che abbia-
mo indagato, si trova anche in: Proclo, In Platonis Rempublicam commentarii, a cura di G.
Kroll, Teubner, Lipsia 1901, vol. II, KΓ. Qui, l’invenzione dei numeri “lati e diagonali” è fatta
risalire ai Pitagorici, ma la sua conoscenza è attribuita anche a Platone.
21
In riferimento al binomio hemiólios ― (1 + 1/2) ―, la si può rappresentare, nel modo
più semplice, così: 1; 1 + 1/2; 1 + 1/(2 + 1/2); 1 + 1/[2 + 1/(2 + 1/2)]; e così via. «Continuan-
do nel procedimento» ― afferma Taylor ― «riusciamo ad ottenere una frazione a/b tale che
a2/b2 differisce da 2 meno di qualsiasi grandezza che le si voglia attribuire. È quello che in-
tendiamo quando diciamo che √2 è il valore limite» verso cui converge la sequenza in que-
stione (cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, p. 788).
22
«Panta proségora kai retá pros állela apéphenan» (cfr. Platone, Repubblica, VIII,
546b–c). Secondo Attilio Frajese, anche l’espressione “diagonali razionali” ― usata in questo
brano platonico ― alluderebbe ai valori (razionali) dei “numeri diagonali” che entrano nella
nota sequenza che ha come limite √2 (cfr. A. Frajese, Platone e la matematica nel mondo an-
tico, Studium, Roma 1963, pp. 145–150). Su questo, cfr. anche: I. Toth, Aristotele e i fonda-
menti assiomatici della geometria, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 392.
23
«Se di due grandezze diseguali veniamo a sottrarre, sempre e vicendevolmente, la mi-
nore dalla maggiore, e quella restante non misura mai la grandezza ad essa precedente, le
grandezze saranno incommensurabili» (cfr. Euclide, Gli elementi, X, 2).
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 29
― la cui impronta accademica è difficilmente negabile. Qui viene in-
trodotto un criterio definitorio dell’incommensurabile ― e quindi
dell’irrazionale ―, che è di carattere generale, e che mette capo
all’infinità della «diade di grande e piccolo». Più tecnicamente, questo
teorema applica la proposizione del «massimo comune divisore» (cfr.
Elementi, VII, 2) alle grandezze lineari, stabilendo che anche tra quel-
le è possibile trovarne che siano ― mutatis mutandis ― «prime tra lo-
ro», cioè prive di una comune unità di misura: e questo, nel caso in cui
l'operazione progettata ― di riportare quante volte possibile la gran-
dezza minore sulla maggiore, il resto sulla minore, il secondo resto sul
primo resto, e così via ― non dovesse aver termine. L’inesauribilità
della progressiva sottrazione, viene poi a significare che tra due punti
di una retta è sempre possibile inserire almeno un punto intermedio:
ogni segmento di retta, cioè, contiene infiniti punti; i quali, stando in
numero infinito in una lunghezza finita, dovranno dunque essere privi
di una lunghezza propria24.
Il procedimento di sottrazione progressiva del meno dal più (an-
thyphaíresis), può essere naturalmente applicato anche al caso specifi-
co del lato e della diagonale del quadrato; e, anche qui, si avrà che la
sottrazione non può giungere ad un termine (di commensurabilità) ―
a meno di introdurre un minimo (puntuale) di lunghezza25. Secondo un
autorevole interprete degli Elementi, ciò configurerebbe una petitio
principii, in quanto la posizione del punto inesteso, che può essere in-
tesa come una conseguenza della scoperta della incommensurabilità di
24
Su questo, cfr. A Frajese, Commento a X, 2, in Euclide, Gli elementi, p. 599.
25
Si procederà come segue. Se ABCD è il quadrato, si riporta il lato AB sulla diagonale
AC, ottenendo come resto EC (in termini algebrici: √2 - 1 = r). Poi si riporta EC sul lato BC;
ma, essendo EC = EF = BF, EC è già riportato su BC tramite BF, che genera il residuo FC (in
termini algebrici: 1 - r = r'). Si tratterà ora di riportare EC su CF, e stabilire la differenza tra i
due (in termini algebrici: r' - r = r"). Ma, essendo CF la diagonale del quadrato EFHC, di cui
EC è lato, ciò equivarrà di nuovo a riportare il lato sulla diagonale di un quadrato: per questo
si può dire che il procedimento riproporrà all’infinito analoghi passaggi su grandezze sempre
più piccole. «Ma il procedimento richiede che quei quadrati si possano andar impiccolendo
sempre più, senza mai arrivare ad un ultimo quadrato: richiede cioè, che tra due punti (come
B, C) di una retta si possa inserire sempre un punto intermedio (come F), cioè, in ultima anali-
si, richiede che la retta venga concepita come contenente infiniti punti privi di dimensioni»
(cfr. A Frajese, Commento a X,2, in Euclide, Gli elementi, p. 599). Nel linguaggio che è pro-
prio del Libro X degli Elementi, si può dire che EC sia un’“apotome” ― cioè la differenza tra
due linee commensurabili solo in potenza ―; e che, in generale, la sottrazione progressiva so-
pra prospettata, sia una sottrazione tra apotomi.
30 Parte prima: studi sul concetto di virtù
lato e diagonale del quadrato, d'altra parte ne sarebbe ― almeno stan-
do alla dimostrazione ora accennata ― anche un presupposto essen-
ziale26. In realtà, si potrebbe articolare il quadro in modo più ampio, ri-
levando quanto segue.
1) Il valore–limite della diagonale del quadrato è già individuabile
grazie al teorema di Pitagora27.
2) L’irrazionalità di tale valore è questione che può essere stabilita ―
senza petizioni di principio ― tramite la dimostrazione per assurdo
(aristotelica) di cui si darà conto nel prossimo paragrafo28.
3) L’inestensione del punto può dunque essere introdotta come un co-
rollario dei due teoremi precedenti (che non ne fanno però viziosa-
mente uso): lo vedremo meglio nel paragrafo che segue, ma già fin
d'ora possiamo infatti intuire che l’eventuale estensione del punto
― costituendo una sorta di mediatore universale ― andrebbe a
confliggere con l’incommensurabilità di lato e diagonale (e quindi
con l’accertata irrazionalità di uno dei due).
3. La questione di un medio
È opportuno collegare a ciò che stiamo dicendo, quanto ci testimo-
nia Aristotele nel primo Libro della Metafisica circa la concezione
platonica del “punto” (stigmé). «Platone contestava l'esistenza di que-
sto genere di enti, pensando che si trattasse di una pura nozione geo-
metrica» ― scrive Aristotele29. In altri termini, Platone associava la
26
Petitio che, a sua volta, spiegherebbe come mai ― né negli Elementi né altrove ― si sia
pensato di fondare, appunto, l’incommensurabilità paradigmatica, sul teorema X, 2 (cfr. ibi,
pp. 599–600).
27
Occorre tener presente il ruolo di perno che il teorema di Pitagora svolge nella matema-
tica degli Elementi ― il cui scopo fondamentale era verosimilmente quello di dare ad un così
autorevole teorema, la fondazione più completa (cfr. H.G. Zeuthen, Théorème de Pythagore,
origine de la géométrie scientifique, Ginevra 1904).
28
Cfr. nota 33.
29
«Egli chiamava i punti ‘principio della linea’, e spesso anche usava l’espressione ‘linee
indivisibili’» (cfr. Aristotele, Metafisica, I, 992a 20–22; testo greco e tr. it. a cura di G. Rea-
le). Quest’ultima espressione ― “linea indivisibile” ― va probabilmente letta nel senso che la
linea non può essere divisa in elementi che non siano essi stessi linee: essa è cioè un
continuum (cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, p. 782).
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 31
scienza dell’irrazionale alla esclusione del punto come minimo di e-
stensione (o di volume) ― con ciò preparando la definizione euclidea
del punto (semeĩon) come «ciò che non ha parti»30.
A ben vedere, un punto inteso come un minimo di estensione, sa-
rebbe esattamente l'ipotesi in grado di rendere reciprocamente com-
mensurabili tutte le lunghezze, ivi comprese quella del lato e della
diagonale del quadrato. Infatti, se AB è il lato del quadrato, AC la dia-
gonale e d è la ipotetica lunghezza di un punto, allora si potrà indicare
con m il numero di punti contenuto in AB (essendo AB/d = m). Nel
qual caso, m sarebbe un numero positivo e finito, essendo valori posi-
tivi e finiti sia AB che d ― non solo, ma m sarebbe anche un numero
intero, perché i punti sarebbero per ipotesi componenti reali di AB, ta-
li da occupare quest'ultimo senza residui e senza mezzi termini31. Per
analoghe ragioni, si potrà indicare con n il numero di punti di AC (es-
sendo AC/d = n); dove n, per le note ragioni, sarebbe un numero posi-
tivo, finito, intero. Dunque, la misura comune tra AB e AC potrebbe
essere data appunto da d, cioè dal minimo di lunghezza costituito da
un solo punto esteso. In tal caso, per il teorema X, 6 di Euclide («se
due grandezze hanno fra loro il rapporto che un numero ha con un
numero, le grandezze saranno commensurabili») avremmo: AB/AC =
(AB/d)/(AC/d) = m/n. In altri termini, il rapporto tra lato e diagonale
del quadrato sarebbe un rapporto tra due numeri interi, cioè un rappor-
to razionale.
D'altra parte sappiamo ― dal teorema di Pitagora ― che AB/AC =
1/√2; e sappiamo da una dimostrazione che Aristotele e Alessandro di
Afrodisia hanno contribuito a formalizzare ― che √2 è un valore irra-
zionale32 (e dunque, complessivamente, che è irrazionale il loro rap-
30
Definizione comunemente intesa proprio nel senso che il punto euclideo non avrebbe
estensione alcuna (cfr. Euclide, Gli elementi, Libro I, def. 1).
31
Infatti, il punto resterebbe comunque punto ― e perciò indivisibile. In caso contrario,
non sarebbe più punto (sia pure esteso), bensì segmento.
32
La storia di questa formalizzazione potrebbe essere oggetto di una trattazione a sé stan-
te. Per questo ci limitiamo a citarne i luoghi fondamentali. La sua introduzione ufficiale si ha
in: Aristotele, Analitici Primi, I, 41a 27–30 (testo greco a cura di D. Ross). Qui, lo Stagirita
offre, come esempio di dimostrazione per assurdo, «la prova che stabilisce l’incommen-
surabilità della diagonale (del quadrato), fondandosi sul fatto che quando viene supposta la
sua commensurabilità, i numeri dispari risultano uguali ai pari». Un esplicito svolgimento del-
la prova si trova nella Appendix ad libr. X, prop. 27, degli Elementi di Euclide (cfr. ediz. Hei-
berg–Stamatis); ma trova la sua formulazione più completa in: Alessandro di Afrodisia, In
32 Parte prima: studi sul concetto di virtù
porto). Per evitare contraddizione, si giunge allora alla conclusione
che il punto non ha estensione: si ottiene cioè quella definizione che
― evidentemente non a caso ― Euclide mette in cima agli Elementi.
È notevole il fatto che l’argomentazione per assurdo ora accennata, e
trattata nella nostra nota 33, sia presente ― almeno in nuce ― nei teo-
remi dal 5 all’8 del Libro X degli Elementi33: un libro i cui contenuti
sono tradizionalmente attribuiti a Teeteto, e dovevano essere perciò
patrimonio anche di un grande amico di Teeteto, qual era Platone.
Così ― come già sappiamo ―, doveva esser ben presente a Platone
la solidarietà che c’è tra incommensurabilità della diagonale e del lato
del quadrato, da una parte, e inestensione del punto, dall’altra. Una so-
lidarietà, questa, che potrebbe venir sviluppata secondo una sequenza
Analyticorum Priorum, 260, 9–261, 28; testo greco a cura di M. Wallies. Alessandro ― che fa
costante riferimento piuttosto ai Libri VIII e X degli Elementi ― svolge una dimostrazione
che si può provare a sintetizzare come segue. (1) Si consideri il quadrato ABCD, e si suppon-
ga che la diagonale AC sia commensurabile rispetto al lato AB (assunzione per assurdo). (2)
Allora il rapporto AC/AB sarà esprimibile da un rapporto di numeri interi primi tra loro: p e q
(per definizione di rapporto razionale). (3) Ora, anche p2 e q2 saranno primi tra loro (per Ele-
menti, VII, 27). (4) D’altra parte, il quadrato di AC è il doppio del quadrato di AB: p2 = 2q2
(per il teorema di Pitagora). (5) Dunque, p2 è pari (il doppio di un numero intero è pari). (6)
D’altra parte, q è pari (la metà di un numero quadrato pari, è pari). (7) Allora anche q2 è pari
(il quadrato di un numero pari, è pari). (8) Se non che, p2 e q2 sono primi tra loro, dunque non
possono essere entrambi pari (dal passo 3 e dal fatto che due numeri pari hanno almeno come
comune divisore il 2). (9) Eppure si è dimostrato che entrambi sono pari (dai passi 5 e 7). (10)
Così si ha contraddizione (dal confronto tra i passi 8 e 9). (11) Ergo, risulta negata la com-
mensurabilità del rapporto, e affermata l’incommensurabilità (per i principi di non contraddi-
zione e del terzo escluso). Una versione della prova di Aristotele–Alessandro, organizzata se-
condo i criteri della derivazione logico–formale contemporanea, si può trovare in: R. Trudeau,
The non–Euclidean Revolution, Boston 1987, cap. 1. Non a caso Aristotele (cfr. Analitici
Primi, II, 65b 17–21) contrapponeva, come autentica, la prova della irrazionalità della diago-
nale da lui proposta, ad un’altra prova ― rifacentesi alle dicotomie zenoniane –, da lui consi-
derata inautentica. In particolare, egli contestava quest'ultima prova ― che potremmo far
coincidere con quella da noi indicata alla nota 26 –, in quanto caso di non propter hoc (o di
impertinenza logica). La posizione dell’incommensurabilità della diagonale, insomma, non
deriverebbe dal procedere all’infinito delle misurazioni tra apotomi del quadrato ― semmai
ne sarebbe il presupposto logico. In tal modo, Aristotele appare consapevole della possibilità
di incorrere nella petitio principii di cui alla nota 27, ma consapevole anche della possibilità
di evitarla.
33
Ecco gli enunciati di questo “quadrilatero” euclideo. X, 5: «Le grandezze commensura-
bili hanno fra loro il rapporto che un numero ha con un numero». X, 6: «Se due grandezze
hanno fra loro il rapporto che un numero ha con un numero, le grandezze saranno commensu-
rabili». X, 7: «Le grandezze incommensurabili non hanno fra loro il rapporto che un numero
ha con un numero». X, 8: «Se due grandezze non hanno fra loro il rapporto che un numero ha
con un numero, le grandezze saranno incommensurabili» (cfr. Euclide, Gli elementi).
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 33
più articolata, tale da qualificare un certo assetto del piano geometrico:
il V postulato del Libro I degli Elementi porta ad una certa dimostra-
zione del teorema di Pitagora34, il teorema di Pitagora porta alla in-
commensurabilità di lato e diagonale del quadrato, e quest’ultima ren-
de necessaria l’introduzione del punto inesteso. In generale, doveva
essere ben presente a Platone la concepibilità di situazioni geometri-
che che, convenzionalmente, potremmo chiamare non–euclidee: situa-
zioni ipotetiche nelle quali almeno qualche elemento della sequenza
ora indicata non sia rispettato, senza però che ciò comporti danno ap-
prezzabile per la consistenza dell’ipotesi.
Secondo Imre Toth, una tipica situazione “non–euclidea” conside-
rata da Platone sarebbe quella, assai rilevante, del quadrato massimale,
avente ad ogni vertice un angolo piatto. L’accenno platonico ― poi
ampiamente raccolto da Aristotele35 ― sarebbe contenuto nel Timeo36,
e potrebbe venir graficamente tradotto, sia pure in modo approssima-
tivo, con un segmento avente come estremi A e C ― cioè due vertici
in diagonale ―, e come punto intermedio B/D, cioè un punto corri-
spondente agli altri due vertici in diagonale. Ora, un simile quadrato
(che potremmo provare a chiamare A–B/D–C) avrebbe la diagonale
commensurabile col lato37, e il valore della sua diagonale risulterebbe
diverso da quello previsto dal teorema di Pitagora38.
Tutto questo, per dire che gli incommensurabili geometrici sono ri-
conducibili a comune misura solo nel caso in cui venga mutato il quadro
delle premesse in cui essi si collocano. Se però questo è ammissibile in
un discorso geometrico di tipo esplicitamente assiomatico ― e lo è già
per il matematico Platone, se seguiamo i brillanti addentramenti di Toth39
34
Come teorema I, 47.
35
Cfr., ad esempio: Aristotele, Etica Eudemia, 1222b 36; testo greco a cura di R.R. Wal-
zer e J.M. Mingay, Oxford 1991.
36
«La seconda specie nasce dai medesimi triangoli, quando però formano otto triangoli
equilateri e questi formano un unico angolo solido composto di quattro angoli piani (mían ste-
reàn gonían ek tettáron epipédon) (cfr. Platone, Timeo, 55a).
37
Infatti, nel quadrato massimale, AC sarebbe il doppio di AB. Aristotele considererà l’ipotesi
di quadrati con la diagonale commensurabile al lato, in De Caelo, 218b 5–6. È chiaro, invece, che
la grandezza √2, in quanto tale, resta incommensurabile anche in situazione non–euclidea.
38
Se il lato del quadrato massimale è 1, il quadrato costruito sulla diagonale sarà 4.
39
Il riferimento è alla interpretazione che Imre Toth dà a Cratilo, 436a–e, intendendolo
come una problematica introduzione alla possibilità di una assiomatica formale (cfr. I. Toth,
Aristotele, capp. 8–9).
34 Parte prima: studi sul concetto di virtù
―, non lo è più se si parla dell’uomo, e se gli incommensurabili in que-
stione sono le dimensioni razionale e passionale dell’anima. In altre paro-
le, non avrebbe senso ipotizzare un uomo, per dir così, “non–euclideo”,
nel quale le dimensioni razionale e passionale risultassero tra loro imme-
diatamente confrontabili. Occorrerà piuttosto ― nel rispetto del quadro
che Platone ha rigorosamente evidenziato nel Libro IV della Repubblica
― cercare un fattore che sia in grado di comunicare in qualche modo e
con l’una e con l’altra dimensione. Com’è noto, Platone lo individua nel-
lo thymoeidés: l’elemento “emozionale”40.
Non è facile rendere efficacemente quel che Platone intende con
quest’espressione; ma sicuramente il riferimento allo thymós dice, non
tanto di una funzione settoriale nell’ambito della psyché, quanto di
una dimensione per cui la psyché è capace ― se adeguatamente edu-
cata ― di cogliere il vero emozionalmente: quasi di sentire e di vedere
il vero e di aderirvi spontaneamente, reagendo invece polemicamente
alla proposta del falso41. In tal senso va letta l’insistenza platonica cir-
ca la, almeno potenziale, alleanza che viene a prodursi tra il razionale
e l’emozionale nella lotta contro il disordine passionale42.
Nel Fedro l’immagine della “biga alata” ― pur con tutte le cautele
del caso43 ― può essere intesa come un’indicazione utile ad approfon-
40
Cfr. Platone, Repubblica, IV, 441a.
41
«Nell’anima questo terzo principio deve essere l’elemento emozionale, che è alleato
della natura razionale, se questa non è corrotta da una cattiva educazione. Sì, è inevitabilmen-
te il terzo ― rispose. Certo ― soggiunsi –, purché si riveli diverso da quello razionale come si
è rivelato diverso da quello passionale. Ma constatare questo non è difficile ― disse. Si può
osservarlo anche nei bambini, che montano subito in collera, e a me sembra che alcuni non
siano mai in possesso della ragione» (cfr. ibi, 441a).
42
«Il sentimento (orghé) talvolta lotta contro le passioni (epithymíai), perché l’uno è di-
verso dalle altre […]. E in molte altre circostanze, quando un uomo è sopraffatto dalle passio-
ni nonostante la ragione, quando si adira contro ciò che gli fa violenza, il sentire (thymós) di
costui non si allea forse, in questa specie di duello, con la ragione?» (cfr. ibi, 440a–b). E anco-
ra: «L’elemento emozionale [thymoeidés] ci appare l’opposto di ciò che ci appariva poco fa.
Allora infatti pensavamo che fosse qualcosa di passionale [epithymetikón], mentre ora siamo
ben lontani da una simile affermazione: anzi, al contrario, quando nell’anima c’è rivolta,
l’emozionale prende le armi a sostegno del razionale» (cfr. ibi, 440e).
43
Non è facile dire se il mito dell’auriga e dei due cavalli, contenuto nel Fedro (cfr. in
particolare 253d–254e), sia una ripresa in grande stile del tema della tridimensionalità
dell’anima, già introdotto nel Libro IV della Repubblica: a questa diffusa interpretazione si
potrebbero avanzare delle riserve. Scrive in proposito G. Reale: «Se per quanto concerne il si-
gnificato dell’auriga non ci sono dubbi, per quanto concerne invece il significato dei due ca-
valli sorgono molti dubbi. Infatti nel Timeo Platone ci dice con chiarezza che anima concupi-
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 35
dire la multidimensionalità dell’anima, già introdotta nella Repubbli-
ca. In particolare, la descrizione del “cavallo bianco” ― che «ama
l’onore insieme alla moderazione e al pudore, è amico della vera opi-
nione, non ha bisogno di frusta», e per guidare il quale «basta
l’incitamento verbale [keleúsmati mónon kai logo heniocheĩtai]»44 ―
sembra suggerire l’idea di una dimensione dell’anima che sia in grado
di comprendere il linguaggio dell’“auriga”, cioè del giudizio
dell’anima razionale, traducendolo in un’azione omogenea e modera-
trice rispetto al muoversi scomposto del “cavallo nero”: un’azione,
dunque, in tutto analoga a quella propria dell’elemento emozionale.
Non tradendo affatto il testo platonico, si può intendere lo thymoeidés
come la capacità di provar emozioni sulla base di immagini, e si può
vedere ― grecamente ― in questa capacità il medio proporzionale tra
la dimensione razionale e quella passionale45. E la stessa insistenza
platonica sulla capacità del “cavallo bianco” di provare pudore (ai-
dós), sembra indicare che esso è in grado di cogliere, quasi a occhio
nudo, lo svelarsi, non argomentativo ma emozionale, di una verità che
esige di essere custodita.
scibile e anima irascibile sono mortali, mentre i due cavalli del mito del Fedro rappresentano
proprio la struttura della stessa anima immortale […]. Probabilmente, con la metafora della
biga alata Platone alludeva al paradigma stesso dell’anima, ossia alla sua struttura ideale, di
cui le stesse anime mortali, concupiscibile e irascibile, sono esplicazioni nella dimensione del
corporeo. A nostro avviso, in ogni caso, per comprendere la struttura del modello dell’anima
rappresentato dalla biga alata non si può se non far riferimento alle dottrine non scritte. I due
cavalli richiamano la struttura diadica, e la funzione dell’auriga richiama l’armonizzare gli
opposti e il far ordine nel disordine» (cfr. G. Reale, Introduzione, in Platone, Fedro, a cura di
G. Reale, Rusconi, Milano 1993, p. 25). Potremmo aggiungere che, già nel Libro X della Re-
pubblica (cfr. 611b–c), Platone mette in dubbio che la articolazione dell’anima umana nelle
tre dimensioni ― razionale, emozionale, passionale ― sia qualcosa di originario e di destina-
le: e questa sua perplessità gli viene ― come sappiamo ― dalla convinzione che l’uomo vero
coincida con la noeticità allo stato puro. La validità del discorso che stiamo conducendo, resta
comunque indipendente dalla convinzione platonica secondo cui l’articolarsi dell’anima sa-
rebbe legato esclusivamente alla sua condizione terrena. Secondo Taylor, Platone ritiene che
«nell’uomo che raggiunge la sua salvezza eterna, gli elementi dell’anima ‘irascibile’ e di quel-
la ‘concupiscibile’ sono, per così dire, transustanziati, sublimati nell’intelletto. (Naturalmente
questo ‘intelletto’ non è una ‘fredda e neutra’ comprensione della verità, ma è acceso dal fuo-
co della ‘passione’ intellettuale, è una intelligenza piena di ardore)» (cfr. A.E. Taylor, Plato-
ne. L’uomo e l’opera, pp. 438–439).
44
Cfr. Platone, Fedro, 253d; tr. it. di M. Tondelli, su testo greco a cura di C. Moreschini,
Mondadori, Milano 1998.
45
«La teoria dei medi proporzionali (tõn mesotéton) è necessaria per comprendere gli
scritti di Platone» (cfr. Théon de Smyrne, Exposition, LIV, 15 ss).
36 Parte prima: studi sul concetto di virtù
Del resto, più avanti, nel Timeo, Platone stesso avrebbe legato la
dimensione intermedia dell’anima alla capacità immaginativa. Qui, in-
fatti, da una parte si evidenzia la funzione mediatrice dello thymoeidés
che, «udendo» (katékoon) la ragione, insieme con lei può governare
(katéchoi) la stirpe delle passioni, quando questa non vuole affatto
spontaneamente lasciarsi persuadere dall’ordine e dalla parola che
vengono dall'acropoli» dell’anima46; dall’altra, però, si precisa che la
dimensione passionale dell’anima47 è particolarmente sensibile ad
«immagini e visioni» (éidola kai phantásmata), e per governarla oc-
corre appunto «spaventarla» oppure «rasserenarla» attraverso quelle48.
In generale, la dimensione intermedia dell’anima ― che pure ha un
suo particolare modo di accedere alla verità ― deve anche saper a-
scoltare ciò che la ragione le suggerisce, per tradurlo poi in un lin-
guaggio che sia persuasivo per la dimensione passionale. Si tratta an-
che qui, come nel rapporto tra incommensurabili matematici, di mette-
re in comunicazione ciò che originariamente è incomunicante.
Non si dimentichi al riguardo che, nel linguaggio matematico di
Platone, “razionale” e “irrazionale” sono, rispettivamente, retón e ár-
reton49, dove il primo è ciò che è interno alla dimensione comunicati-
va, e il secondo è ciò che non lo è. A quest’ultima connotazione non è
dunque difficile accostare quella dell’epithymetikón come un che di
estraneo al loghistikón, non solo nel senso che non ne parla la lingua,
ma nel senso che nemmeno è in grado di ascoltarla: si pensi qui al
“cavallo nero” del Fedro, che è appunto “sordo” (kophós) ― tanto che
obbedisce di suo solo a frusta e pungoli.50 E qui il nostro parallelo
giunge a compimento, se si considera che gli irrazionali matematici
46
Cfr. Platone, Timeo, 70a.
47
Che, nel Timeo, è presentata in primo luogo come la zona inferiore dello stesso thymo-
eidés (cfr. ibi, 70d–72e).
48
Il creatore dell’anima passionale, «formò il fegato e lo pose nella sede di quella […], af-
finché in esso la potenza dei pensieri provenienti dalla mente, come in uno specchio che ac-
coglie le impronte e fa vedere le immagini, la spaventasse […]. Quando invece un soffio di
mitezza proveniente dal pensiero disegnasse apparizioni di tipo opposto [tanantía phantásma-
ta apozographoĩ], tale potenza avrebbe dovuto procurare pace all’amarezza e […] rasserenare
e tranquillizzare la parte dell’anima che ha sede nel fegato» (cfr. ibi, 71a–d).
49
In Platone non manca neppure la voce álogon ― tradotta da Cassiodoro con inrationale
(cfr. De artibus et disciplinis liberalium litterarum, IV) –, voce che assume un significato tec-
nico in Euclide.
50
Cfr. Platone, Fedro, 253e.
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 37
sono normalmente qualificati come “numeri sordi” o “sordomuti” in
buona parte della letteratura medievale e moderna ― musulmana, e-
braica o cristiana ―, sviluppatasi sull’argomento51.
Così, grazie alla mediazione dello thymoeidés, il rapporto tra le di-
mensioni platoniche dell’anima può presentarsi come qualcosa di si-
mile ad una proporzione continua52. Una proporzione, però, che non è
garantita una volta per tutte, ma che va piuttosto ricercata incessante-
mente, secondo l’indicazione che ci viene dallo stesso Platone: «oc-
corre fare attenzione che i movimenti delle parti dell’anima siano tra
loro proporzionati [pròs állela symmétroi]»53
Non è forse inutile, in proposito, ricordare che nel Libro X degli
Elementi euclidei ― tradizionalmente ricondotto a matematici ben no-
ti a Platone, come Teodoro e Teeteto ― troviamo un raffinato argo-
mentare intorno alle varie tipologie di lunghezze irrazionali (“media-
le”, “binomiale”, “apotome”), che è in realtà una circuizione del rap-
porto tra lato e diagonale del quadrato54. In particolare, la “mediale” è
proprio la media proporzionale tra due lunghezze commensurabili solo
in potenza, quali sono lato e diagonale del quadrato55. Essa, dunque,
potrebbe rappresentare il corrispettivo matematico della dimensione
emozionale dell’anima; tanto più che si tratta di una linea essa stessa
irrazionale, tale però da consentire il rapportarsi di quelle che rappre-
sentano il razionale e l’irrazionale per antonomasia.
51
«Nelle traduzioni arabe del Medioevo, al posto dell’espressione greca, si usa la parola
asamm nel senso di sordo e muto. Nelle traduzioni ebraiche del Medioevo, figura invece
l’espressione veterotestamentaria illem, nel chiaro senso di muto. […] Al Biruni, nel suo Al
Tafhin, caratterizzava i numeri irrazionali […] come sordomuti […]. In Gerardo da Cremona
ricorre spesso il vocabolo surdum, e dalla letteratura specialistica inglese è stato usato per
lunghi secoli come terminus technicus per indicare il numero irrazionale surd» (cfr. I. Toth,
Aristotele, p. 391). Ma l’uso di “sordo” per “irrazionale”, è anche di altri matematici successi-
vi, tra cui: Fibonacci, Stifel, Leibniz e Newton.
52
Una proporzione nella quale A/B = B/C. Di queste proporzioni si occupano le defini-
zioni 8 e 9 del Libro V degli Elementi di Euclide: Libro i cui contenuti sono comunemente at-
tribuiti a Eudosso, celebre collaboratore di Platone nell’Accademia.
53
Cfr. Platone, Timeo, 90a.
54
Infatti, l e d sono due lunghezze commensurabili solo in potenza ― come sappiamo –, e
l’“apotome” è appunto la linea–differenza tra due lunghezze di questo tipo; e così la “bino-
miale” è la loro somma (cfr. Euclide, Gli elementi, X, 21; 36).
55 Nel caso canonico, ponendo la mediale come x, avremo: √2 : x = x : 1; da cui: x = √2/x;
quindi, x2 = √2; e, infine, x = √√2.
38 Parte prima: studi sul concetto di virtù
4. Oltre l’incommensurabile
A questo punto, è ben più di una curiosità rilevare che la definizio-
ne di “proporzione” offerta dal Libro V di Euclide (cfr. def. 5) ― de-
finizione notoriamente eudossiana, e quindi “accademica” ―, nasce
probabilmente dallo sforzo di abbracciare in sé sia il caso del rapporto
tra grandezze commensurabili sia il caso del rapporto tra incommen-
surabili.
Questa, almeno, è l’interpretazione che ne dà autorevolmente Atti-
lio Frajese: «essa infatti stabilisce che due grandezze, A, B sono nello
stesso rapporto di altre due C, D quando, presi in qualunque modo i
numeri interi m, n, e considerati gli equimultipli nA, mC, della prima e
della terza grandezza e gli equimultipli nB, nD, della seconda e della
quarta, a seconda che si abbia mA maggiore/uguale/minore di nB si
abbia corrispondentemente mC maggiore/uguale/minore di nD, corri-
spondendo il segno maggiore al maggiore, l’uguale all’uguale, il mi-
nore al minore: cioè quando tutti i valori approssimati per difetto del
rapporto tra le prime due grandezze siano valori approssimati pure per
difetto anche del rapporto tra le altre due grandezze, e similmente per i
valori approssimati per eccesso. Ciò equivale appunto a dire che due
numeri reali sono uguali se determinano la stessa sezione nell’insieme
dei numeri razionali»56. Ora, l’osservazione di Frajese è rilevante pro-
prio perché implica che, dal punto di vista dei matematici
dell’Accademia, si possa proporre una proporzione anche tra valori
incommensurabili. In tal senso, venendo al caso dell’anima, la pro-
spettiva di mediazione sopra indicata non risulta, in quanto tale, falsi-
ficare il dato di partenza ― che sembrava appunto essere quello
dell’incommensurabilità tra razionale e passionale.
In fondo, l’orizzonte in cui si colloca una concezione così aperta
della proporzione, è quello secondo cui anche i valori irrazionali sono
a ben vedere dei numeri. Si tratta, qui, di una concezione di “numero”
56
Cfr. A. Frajese, Introduzione al Libro V, in Euclide, Gli elementi, p. 293. Quella che co-
sì Frajese ci offre è una parafrasi della celebre definizione 5 del Libro V, sulla quale egli stes-
so osserva: «si tratta di uguaglianza o di disuguaglianza di rapporti che si riferiscono tanto al
caso delle grandezze commensurabili quanto a quello delle grandezze incommensurabili. An-
zi, come il lettore potrà vedere […], si coglie quasi una sensazione di sforzo in questo forzato
abbinamento dei due casi» (cfr. ibi, p. 294).
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 39
che è più ampia di quella pitagorica, e che, meglio che da altri, è stata
messa in rilievo da Imre Toth, attraverso uno studio finissimo di quei
passi platonici che ne indicano per accenno le coordinate teoriche.
Il riferimento è in particolare a quei passi dei dialoghi del Platone
più maturo, nei quali ― con chiara allusione alle “dottrine non scritte”
― si prospetta la riconduzione dell’“illimite” al “limite”, mediante
una “giusta misura”. Si pensi, in primo luogo, al Politico, dove lo
Straniero di Elea ipotizza che si debba costringere «il più e il meno a
divenire commensurabili non solo l’un all’altro, ma anche in relazione
alla produzione della giusta misura [métrion]»57. Una giusta misura
che sembra essere il limite dell’illimitato, cioè il valore ― simbolica-
mente espresso ― che costituisce il “limite” (anche nel senso moder-
no dell'espressione) di quel processo di indefinita approssimazione per
eccesso e per difetto in cui si traduce la determinazione pitagorica del-
la misura di una grandezza irrazionale58. Ma, già nel Sofista, lo Stra-
niero parlava ― nei termini tecnici dell’Accademia ― di «ciò che non
è» come di una «unità», sia pur «inesprimibile a parole» (álogon),
«indicibile» (árreton) e «impronunciabile» (áphthenkton)59; probabil-
mente alludendo, con questo, proprio al numero irrazionale come limi-
te di convergenza di un processo diadico. Nel Filebo, è invece Socrate
a parlare di un processo che «fa cessare la reciproca discordanza degli
opposti e li rende commensurabili e li armonizza ponendo fra di loro il
numero [arithmón]»60.
Del resto, già Taylor sosteneva che, sia pure in un passo «incerto e
probabilmente corrotto»61 ― Epinomide, 990c–991b –, Platone pre-
senta forse in assoluto per la prima volta i valori irrazionali come au-
tentici numeri o numeri in sé (arithmoì autoí)62, quando invece la ten-
57
Cfr. Platone, Politico, 284b–c. Più in generale, cfr. ibi, 283c–284d.
58
«In questo caso, [2*, 1] rappresenta la giusta misura, to métrion, della diagonale. È la
misura assoluta della diagonale: né maggiore, né minore […], anzi l’esatto in sé, che sta fra i
due estremi dell’eccesso e del difetto. E questa misura è risultato di una generazione: una ge-
nerazione all’essere […] del limite dell’illimitato» (cfr. I. Toth, Aristotele, p. 236).
59
Cfr. Platone, Sofista, 239; testo greco a cura di J. Burnet.
60
Cfr. Platone, Filebo, 25d–e; tr. it. di A. Zadro, su testo greco a cura di J. Burnet. Più in
generale, cfr. ibi, 23c–26d.
61
Cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, p. 774.
62
Il passo–chiave del brano indicato da Taylor mi pare il seguente: «Appresa la scienza
dei numeri in sé, dopo questa se ne deve studiare un’altra, che […] viene detta geometria; per
natura, infatti, non tutti i numeri sono commensurabili tra loro [tõn ouk ónton de homoíon al-
40 Parte prima: studi sul concetto di virtù
denza prevalente nella cultura matematica greca era quella di conside-
rare tutt’al più l’esistenza degli irrazionali come di grandezze geome-
triche (ad esempio, segmenti)63. Addirittura, Taylor vede in Platone
qualcosa della teoria dedekindiana del numero reale come “sezione”
(Schnitt) di un continuum: in tal senso, il valore della diagonale del
quadrato unitario sarebbe il prototipo di un α(A1, A2), in cui né il
campo A1 ― quello delle frazioni razionali i cui quadrati sono minori
di 2 ― possiede un massimo, né il campo di A2 ― quello delle frazioni
razionali i cui quadrati non sono minori di 2 ― possiede un minimo64.
Probabilmente la realtà è più articolata. Un primo passo importante
è stato quello di Eudosso, il maggior matematico professionista del-
l'Accademia platonica, il quale ha operato un chiaro superamento della
matematica pitagorica, riconoscendo che, ad esempio, la diagonale del
quadrato ha, non solo una grandezza, ma anche una sua misura. Infat-
ti, «avere una grandezza significa poter soddisfare le relazioni di u-
guale, maggiore, minore, in riferimento ad un’altra grandezza pre–
esistente; e la diagonale è maggiore del lato e minore del doppio del
lato»65. Lo sforzo accademico è proprio quello di introdurre una consi-
derazione della misura che sia sufficientemente ampia da accogliere in
sé anche il caso degli irrazionali, e lo si nota dalla definizione 3 ―
eudossiana ― del Libro V di Euclide, secondo la quale il logos tra due
lélois phýsei arithmõn]; possono, invece, divenire chiaramente commensurabili quando ven-
gano tradotti in superfici […]. Alla geometria segue la scienza dei numeri elevati alla terza
potenza e resi omogenei alla natura del solido; o meglio la scienza dei numeri non commensu-
rabili fra loro, ma tra i quali si pongon dei rapporti mediante una nuova arte, simile alla prece-
dente: coloro che l’hanno scoperta le han dato il nome di stereometria» (cfr. Platone, Epino-
mide, 990d–e; tr. it. di F. Adorno su testo greco a cura di J. Burnet).
63
Quest’ultima, del resto, è l’impostazione che ritroviamo nei canonici Elementi di Eucli-
de, dove l’irrazionale è linea o superficie.
64
«Possiamo dunque definire la ‘radice quadrata di 2’ o come questa ‘sezione’ stessa, o,
se preferiamo, come il gruppo di ‘frazioni i cui quadrati sono minori (o, se vogliamo, maggio-
ri) di 2’. Anche in questo caso il concetto di ‘sezione’ di frazioni razionali presenta i caratteri
descritti da Platone. Implica una ‘dualità’, o ‘grande–e–piccolo’, rappresentata dai due gruppi,
dei quali l’uno ha tutti i suoi termini minori, l’altro tutti i suoi termini maggiori di un determi-
nato valore; tale ‘dualità’ è inoltre ‘indefinita’ perché uno dei gruppi manca del termine più
alto, l’altro di quello più basso» (cfr. A.E. Taylor, Platone. L’uomo e l’opera, p. 789). Più
precisamente, «le frazioni razionali non sono un continuum, ma soddisfano all’unica condi-
zione perché si abbia un continuum che fosse nota al tempo di Platone, quella cioè che fra due
membri si possa sempre inserire un terzo membro» (cfr. ibi, p. 790). Sulla attribuzione taylo-
riana a Platone di una embrionale teoria dei numeri reali, cfr. anche ibi, pp. 792–793.
65
Cfr. I. Toth, Aristotele, p. 235.
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 41
grandezze (omogenee) è «un certo modo di comportarsi [poía schésis]
rispetto alla quantità». Definizione, questa, di cui la successiva (def. 4)
è uno sviluppo: «si dice che hanno fra loro rapporto [logos] le gran-
dezze le quali possono, se moltiplicate, superarsi reciprocamente».
Ora, l’importanza di simili truismi sta proprio nel fatto che essi
consentono di considerare in senso omogeneo grandezze commensu-
rabili e incommensurabili. Ma forse le premesse date da Platone alla
matematica accademica contenevano in nuce sviluppi anche più rivo-
luzionari di quelli eudossiani. Se, infatti, nella concezione di Eudosso
ogni rapporto tra grandezze geometriche corrisponde ad un logos ma-
tematico, ma non viceversa, la teoria platonica del limite (peras) di
convergenza della diade illimitata apriva di fatto la prospettiva della
esistenza di numeri reali, capaci di individuare comunque una sezione
nell’ideale continuum geometrico dei numeri66.
In sintesi, gli sviluppi espliciti di Eudosso–Euclide, combinati con
quelli impliciti dello stesso Platone, consentono di dire, anzitutto, che
la diagonale del quadrato unitario è minore di 2 e maggiore di 1: dun-
que, è omogenea ai lógoi, cioè è essa stessa un logos67. Inoltre, ripren-
dendo la duplice sequenza convergente cui già sopra più volte si è fat-
to riferimento, e considerando i valori 1/1; 7/5; 41/29;... (razionali e
tutti minori di √2), e i valori ...99/70; 17/12; 3/2 (razionali e tutti mag-
giori di √2)68, si può anche dire che «sussiste fra tutti questi commen-
surabili da una parte, e il segmento non commensurabile 2* dall’altra,
un logos eudossiano»; nel senso che «il segno reale del punto 2* ri-
colmo di essere indica nell’insieme dei segmenti pitagorici commen-
surabili, e quindi razionali, una sezione–Dedekind»69.
Nei dialoghi del Platone più maturo si insiste sul fatto che il limite
e l’illimite possono essere relazionati tra loro, solo se entrambi vengo-
66
«Tutto quello che sappiamo sulla concezione di Platone della diade infinita, dal Filebo,
dal Parmenide, dal Sofista, e soprattutto dalle testimonianze di Aristotele sulle sue dottrine
non scritte, comunica un’impressione: nelle sue speculazioni, specie con il suo concetto di mi-
sura, un concetto già molto vicino a quello dei numeri reali, Platone deve aver superato di
molto i confini metafisici della geometria del suo tempo, forse avvicinandosi più a Dedekind,
che a Eudosso» (cfr. I. Toth, Aristotele, p. 371).
67
Nel senso che tutti i logoi sono relazioni binarie, ma non necessariamente di due numeri
pitagorici.
68
Si tratta di un modo diverso di presentare la stessa sequenza da noi già indicata alla nota 22.
69
Cfr. I. Toth, Aristotele, pp. 357–358.
42 Parte prima: studi sul concetto di virtù
no relazionati anche alla produzione di una giusta misura70. Ora, se
questa giusta misura ― nella metafora matematica ― è la proiezione
del valore irrazionale della diagonale su quella retta sul cui segmento
unitario è costruito il quadrato della diagonale stessa, se dunque tale
misura è metaforicamente l’individuazione sulla retta della lunghezza
corrispondente alla radice di 2, si può dire anzitutto che in Platone è
effettivamente presente l’intuizione della convertibilità reciproca di
lógoi e punti del continuo rettilineo, e che in quest’ultimo possono ―
per dir così ― confrontarsi, pur conservando la propria rispettiva spe-
cificità, sia il razionale71 sia l’irrazionale72. Ma soprattutto si può dire
che il punto che fa da corrispettivo rettilineo del logos irrazionale ri-
sulta come l’immagine di quello; l’immagine di un limite: inadeguata,
ma non impropria. E, più in generale, è possibile dire che è
nell’immaginario del continuum rettilineo che risultano confrontabili
gli incommensurabili.
Così, fuor di metafora, se la vita buona è quella in cui la passione
viene governata in senso “monarchico” (cioè, autorevole e persuasivo)
dalla ragione; per quanto una simile vita sia il “limite”, per dir così, di
continui processi educativi, essa sarà pure ― approssimativamente ma
propriamente ― resa visibile, amabile e incontrabile dalla presenza
stessa dell’“uomo monarchico”, che concretamente la realizza73.
5. Uno scorcio prospettico
Abbiamo visto in queste pagine come in Platone sia ben presente
― sia pure nel modo a–sistematico che caratterizza i suoi scritti ―
una dottrina dell’irrazionale; e come egli, insieme ai suoi collaboratori
dell’Accademia, sia consapevole della grande sfida che è per il pensie-
ro il compito di confrontare in qualche modo l’irrazionale col raziona-
70
Cfr. Platone, Politico, 284b–c.
71
«Numero rispetto al numero» ― nel linguaggio del Filebo (cfr. 25a).
72
«Ciò che è sminuzzato e diviso in piccole parti» e cui pure va attribuito, «per quanto è
possibile, il segno caratteristico di una sola natura» (cfr. ibidem).
73
L’immagine di un governo, non dispotico, bensì monarchico del mondo passionale ―
ripresa poi da Aristotele ― è indicata già chiaramente da Platone: «l’uomo migliore e più giu-
sto e più felice è quello sommamente regale [basilikótaton], perché regna su se stesso» (cfr.
Platone, Repubblica, IX, 580b–c).
Capitolo I: Platone e la geometria dell’anima 43
le. Categorie, queste, che l’indole particolare del pensiero platonico e
accademico sottrae ― come si è visto ― ad una esclusiva rubricazio-
ne matematica.
È facile verificare, infatti, come le indicazioni matematiche che
Platone ci offre intorno a questi problemi, appartengano a contesti in
cui, in linea principale, è in questione l’autenticità della vita
dell’uomo: basti pensare al Filebo (dove è in discussione una valuta-
zione dei differenti tipi di vita: bíoi) e al Politico (dove è in questione
l’arte di ordinare la convivenza umana)74. E non è inverosimile ipotiz-
zare ― come abbiamo fatto fin qui ― che la possibilità di mediare,
nell’anima, tra l’indicazione razionale del limite (ovvero del fine) e il
movimento passionale diadico (che, di suo, non conosce fine alcuno),
resti affidata alla dimensione thymoéides, che è capace di avvertire la
verità del giudizio tradotta in immagine, e risulta perciò condizione di
possibilità di un autentico metaxý tra razionale e passionale.
L’esigenza di una simile mediazione, del resto, non è qualcosa di
peregrino, ma costituisce piuttosto un elemento costante della rifles-
sione platonica. Essa sembra essere vivamente avvertita già in quei
dialoghi nei quali Platone ancora non ha introdotto l’articolazione
dell’anima che troviamo nella Repubblica, e sulla quale ci siamo con-
centrati in precedenza. Si pensi, al riguardo, al Fedone, dove Socrate
riconosce che il giudizio appropriato sul destino dell’anima non forni-
sce ancora sufficiente scorta all’uomo che sa di dover morire, a meno
che un «incantesimo quotidiano» non venga operato sul «fanciullino»
che è in lui75. Ed è chiaro, qui, che la possibilità dell’incantesimo in
questione non è affidata semplicemente al giudizio che consegue ad
una argomentazione, ma piuttosto al giudizio incarnato in qualche fi-
gura esemplare e persuasiva.
Lo stesso problema del Fedone è presente nel Protagora, là dove
Socrate parla di una «forza delle apparenze» (tou phainoménou dýna-
mis), cui la metretiké dovrebbe togliere autorità in materia di giudi-
74
Ma pensiamo anche al Protagora, dove ― non va dimenticato ― la possibilità di una
vita veramente umana viene affidata proprio ad una metretiké, la cui autentica connotazione
viene però rinviata ad altra sede: come a dire che essa non va confusa con un banale calcolo
dei piaceri quale quello che, nel dialogo con Protagora, Socrate ha ironicamente prospettato
(cfr. Platone, Protagora, 356d–357d; testo greco a cura di J. Burnet).
75
Cfr. Platone, Fedone, 77d–78b; testo greco a cura di G. Reale (da J. Burnet e L. Robin).
44 Parte prima: studi sul concetto di virtù
zio76. Ora, è chiaro che questa particolare techne non potrà semplice-
mente consistere nella individuazione del limite cui gli eccessi e i di-
fetti passionali sono comunque orientati come a loro telos, ma dovrà
anche consistere nella capacità di persuadere il mondo passionale a la-
sciarsi condurre verso questo telos, che andrà inevitabilmente tradotto
in una concreta immagine di vita. In una attività mediatrice, legata al
potere dell’immaginario, sembra del resto concretarsi la possibilità
stessa di un lavoro educativo, condotto su se stessi e sugli altri.
E proprio nel testo delle Leggi, dal quale avevamo preso le mosse,
Platone fa appunto consistere la paideía in una formazione dei senti-
menti, che deve precedere lo stesso sviluppo dispiegato dell’attività
razionale, e che deve essere condotta in modo da risultare concorde
col giudizio della ragione (symphoneĩn tõ logo).
Ecco, per concludere, le parole stesse dell’Ospite Ateniese: «Il pia-
cere e l’amore e il dolore e l’avversione quando ineriscono rettamente
all’anima di chi non sa coglierli col discorso, così che armonizzeranno
poi al discorso [logos] di chi a ragionare avrà imparato, in relazione
all’essere stati correttamente assuefatti, derivanti dai convenienti co-
stumi, e tutta insieme questa piena armonia, è virtù. Ora, qualora tu di-
stingua […] quello che è il primo giusto orientamento del piacere e del
dolore, tale che si abbia avversione per ciò che bisogna odiare, subito
dal primo all’ultimo giorno di vita, ed amore per ciò che bisogna ama-
re e chiamando ciò ‘educazione’, tu diresti bene»77.
76
Cfr. Platone, Protagora, 356d.
77
Cfr. Patone, Leggi, II, 653b–c.
CAPITOLO II
VIRTÙ, PASSIONE E COMUNITÀ
1. La virtù come unità dell’uomo
1.1. Indicazioni generali
Nell’antichità greca prevale una accezione pre–morale della parola
“virtù”, secondo la quale il bene indicato con tale parola consisterebbe
per lo più in abilità di tipo tecnico, fisico, prestazionale: riguardanti,
insomma, l’uomo in quanto artista, atleta, amministratore, o altro an-
cora; ma non l’uomo in quanto uomo. Con Aristotele e gli Stoici pri-
ma, e con la letteratura patristica e scolastica poi, inizia invece a pre-
valere l’accezione specificamente morale di “virtù”, che è quella
tutt’ora corrente.
In particolare, secondo la concezione aristotelico–tomista, la virtù è
ultimamente l’unità dell’uomo con se stesso, cioè il suo saper essere
completamente presente in quello che fa. Al contrario, secondo la
concezione kantiana, la virtù si realizza nel distacco della persona
(“uomo noumenico”) dalla propria animalità (“uomo fenomenico”): in
tal senso, un’azione sarebbe tanto più virtuosa, quanto più riuscisse a
liberarsi dalla passione. Nella prima prospettiva, la virtù ha a che fare
col bisogno e ha in vista la felicità; nella seconda prospettiva, la virtù
entra in contrasto col bisogno e con il desiderio di felicità.
Nella prospettiva aristotelico–tomista, comunque, la parola “virtù”
aggiunge qualcosa al semplice “bene morale”: si tratta della consape-
45
46 Parte prima: studi sul concetto di virtù
volezza che il bene ― dell’azione libera e della vita umana in generale
― va inevitabilmente a lavorare la “materia” passionale, e con le tur-
bolenze della passionalità deve fare i conti. Quindi, agire e vivere be-
ne, implica un lavoro e una fatica. Non basta sapere come comportar-
si; bisogna anche saperlo fare realmente e stabilmente. Parlare dunque
di “virtù”, significa indicare gli stili di vita ― storicamente già speri-
mentati e consolidati ― che traducono la regola morale in vita vissuta,
e che sono tradizionalmente riconosciuti come aspetti autentici della
vita buona.
Osservava già Aristotele, che la razionalità umana non può sensata-
mente esercitare, su quelle che chiamiamo “passioni”, un “governo di-
spotico” ― come se esse fossero dei meri strumenti da usare indifferen-
temente per la realizzazione di uno scopo –; dovrà invece esercitare su
di esse un «governo politico o monarchico»1, cioè un governo che cer-
chi di ascoltare le loro implicite ragioni e di farle il più possibile parte-
cipi dei suoi criteri, senza però cedere loro il comando. Il frutto di que-
sto lavoro di persuasione e di educazione delle passioni, è la virtù mora-
le, che Tommaso avrebbe poi definito come «la forma che è impressa
dalla ragione nelle tendenze dell’uomo come un sigillo»2. Una metafo-
ra, questa, che indica nella virtù il “sinolo” (ovvero la sintesi) di quella
“materia” che è il mondo emotivo (passionale), e di quella “forma” che
è il giudizio di coscienza.
Si può dire, allora, che la virtù è, fondamentalmente, il frutto del
processo attraverso cui l’uomo ricompagina continuamente se stesso,
riconducendo tutti gli aspetti della sua persona a convivere tra loro in
modo il più possibile armonico, in funzione del cammino alla meta
adeguata. Un uomo unito in se stesso è un uomo forte, che cammina
con passo sicuro (virtù ― areté in greco e virtus in latino ― vuol dire
“forza”); un uomo diviso in sé dal disordine delle dinamiche pulsiona-
li lasciate a se stesse, sarà invece incerto e paralizzato dall’esitazione
― come è indicato nella parola “vizio” (derivante probabilmente dalla
radice indoeuropea “VIET” o “VIT”, che dice piuttosto deviazione e
impaccio).
1
Cfr. Aristotele, Politica, 1254b 6; testo greco a cura di W.D. Ross, Oxford 1957.
2
Cfr. Tommaso d’Aquino, De virtutibus in communi, a. 9; testo latino Marietti, Torino–
Roma 1965.
Capitolo II: Virtù passione e comunità 47
1.2. La virtù secondo Aristotele
La vita dell’uomo è mossa da certe passioni e strutturata secondo
certe abitudini (secondo un certo ethos): non si potrà dunque intra-
prendere un cammino morale che non tenga conto di questo, cioè che
non tenda a utilizzare il più possibile gli elementi passionali, e a darsi
la solidità di un ethos (di una vita concreta). Questa è la grande
intuizione espressa da Aristotele nel Secondo Libro dell’Etica
Nicomachea.
Aristotele concorda con Socrate nel ritenere che la virtù morale (a-
reté ethiké) non si possa insegnare teoricamente3; ed è anche convinto
che essa possa essere conquistata soltanto a partire da singoli atti buo-
ni4; tuttavia è molto sensibile all’importanza che tre fattori rivestono
per la sua acquisizione: (1) l’impronta che sull’agire ha l’educazione,
specie nei primi anni di vita5; (2) l’importanza che ha l’esercizio nella
acquisizione delle abitudini (buone o cattive che siano)6; (3)
l’importanza che, nell’acquisizione di un’abitudine e di una mentalità,
rivestono le leggi dello Stato7.
In fondo, si può dire che in tutt’e tre le circostanze ora richiamate,
giochi un ruolo di primo piano la gratificazione. Infatti, se «è a causa
del piacere che compiamo le cose cattive ed è a causa del dolore che ci
asteniamo dalle cose moralmente belle», il lavoro educativo (da com-
piere su di sé, sui figli, sulla società) consisterà nel guidare e
nell’essere guidati subito da giovani ― come dice Aristotele citando
Platone8 ―, «a rallegrarsi e a dolersi delle cose appropriate»9. E
l’assegnazione (a sé e agli altri) di rinforzi positivi o negativi, avrà
proprio la funzione di aiutare a scoprire il bene morale come qualcosa
di soddisfacente, e il male come qualcosa di frustrante.
Dunque, occorre educarsi ed educare alle attrattive del bene,
all’amore per la vita buona; non, presentarla, a sé e agli altri, come un
3
Cfr. Platone, Protagora, 361a.
4
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1; testo greco a cura di F. Susemihl – O. Apelt,
Leipzig 1912.
5
Cfr. ibi, II, 1103b 24–25.
6
Cfr. ibi, II, 1103a 31–35.
7
Cfr. ibi, II, 1103b 1–5.
8
Cfr. Platone, Leggi, 653a.
9
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1104b 8–13.
48 Parte prima: studi sul concetto di virtù
peso da portare. Queste sono le indicazioni centrali della trattazione
aristotelica intorno alla virtù: «non è infatti cosa da poco per le azioni,
che si gioisca e si provi dolore in modo buono o cattivo»10. Si tratta
nientemeno che dell’accordo dell’uomo con se stesso.
Per realizzare questo risultato, bisogna però abituarsi ad orientare il
mondo emotivo in modo che rinforzi il giudizio della ragione, e non si
opponga invece ad esso. Virtù sarà appunto il realizzarsi in noi della
“disposizione stabile” (héxis in greco, habitus in latino) a guidare op-
portunamente la passionalità11. Aristotele indica poi, sinteticamente, la
forma della virtù morale nella “medietà” (mesótes), ma meglio sareb-
be forse dire “centralità”. Il “medio” che Aristotele ha in mente, non è
infatti una disposizione alla mediocrità (un evitare di sbilanciarsi trop-
po), bensì una disposizione a trovare il “meglio” (áriston) in ogni cir-
costanza12.
Come scrive Aristotele, «la virtù è dunque una disposizione che o-
rienta la scelta, consistente in una medietà relativa a noi, determinata
dalla ragione (logos), vale a dire nel modo in cui la determinerebbe
l’uomo saggio (phrónimos)»13. La scelta buona è dunque favorita, resa
più agile, dal fatto di collocarsi nel contesto di una vita virtuosa, cioè
di una vita educata. L’uomo educato (il phrónimos), è l’uomo che
sceglie secondo coscienza, e non reagisce semplicemente all’accaduto.
L’uomo virtuoso (spoudáios), in cui questo atteggiamento è divenuto
abituale, diviene familiare o connaturale col bene; tanto da «vedere»
― quasi a colpo d’occhio, come capita a chi è esperto di una certa ma-
teria ― «la verità in ogni cosa»14: ad esempio, quale sia il bene più ur-
gente da promuovere o da salvare in una certa situazione.
Aristotele esemplifica che cosa si debba intendere per “medietà”,
parlando del “coraggio”. Infatti, in relazione al pericolo, il coraggio è
la medietà tra gli eccessi opposti della “temerarietà” e della “viltà”15.
In tal modo, lo Stagirita rivela di avere in mente una medietà che non
10
Cfr. ibi, II, 2.
11
Cfr. ibi, II, 4.
12
Infatti, «provare determinate passioni quando si deve e nelle circostanze in cui si deve e
verso le persone che si deve e in vista del fine che si deve e come si deve, è realizzare il me-
dio e al tempo stesso il meglio: il che è proprio della virtù» (cfr. ibi, II, 1106b 21–23).
13
Cfr. ibi, II, 6.
14
Cfr. ibi, III, 6.
15
Cfr. ibi, II, 7.
Capitolo II: Virtù passione e comunità 49
è di tipo aritmetico16 (una sorta di “medio” quantitativo tra il più e il
meno), bensì di tipo qualitativo. La medietà ― aristotelicamente inte-
sa ― è l’agire ponderato e scelto, visto in contrapposizione all’agire
sconsiderato e reattivo, in cui è l’inerzia passionale a prevalere.
L’eccesso infatti è la mancanza di criterio razionale, le cui conseguen-
ze emotive e operative varieranno in relazione ai diversi temperamen-
ti17, ma saranno moralmente tra loro equivalenti. Quando poi l’agire
sconsiderato diviene, a sua volta, una disposizione abituale, si può
parlare di “vizio”18.
A ben vedere, quella che Aristotele chiama “medietà secondo ra-
gione”, è ciò che la tradizione successiva avrebbe chiamato “giudizio
di coscienza”. La “coscienza morale” ― come vedremo meglio ― è la
ragione, in quanto impegnata a capire quale sia il bene nell’agire: che
cosa sia moralmente bene qui e ora. Che cosa dice allora in più il di-
scorso intorno alla virtù, rispetto a quello intorno alla coscienza?
Semplicemente questo: che l’azione buona ― pur traendo il suo senso
dal giudizio di coscienza –, deve trarre la sua energia dalle fonti emo-
tive: deve, cioè, non dominarle in modo violento, ma piuttosto con-
trollarle coinvolgendole. In una parola, deve educarle.
1.3 Virtù ed educazione
L’alleanza tra ragione e passione trova il proprio mediatore in
quell’elemento che Platone chiama thymoeidés19: cioè, nella capacità
propriamente “emozionale” dell’uomo, che fa da interfaccia tra le due
dimensioni ora citate. Si tratta, più precisamente, della capacità del
mondo passionale di provare emozione, cioè di essere sensibilizzato e
16
Cfr. ibi, II, 5.
17
Stando all’esempio fatto, ci sarà chi – per sua propensione individuale – sarà orientato a fug-
gire davanti al pericolo, e chi, senza pensarci, gli correrà incontro: viltà e temerarietà, appunto.
18
Cfr. ibi, II, 8.
19
Cfr. Platone, Repubblica, IV, 441 a. Platone esprime plasticamente la relazione fra le tre
dimensioni dell’uomo (razionale, passionale, emozionale) nel celebre “mito dell’auriga”: l’intero
dell’uomo è simile ad una biga alata, trainata da due cavalli (uno bianco e uno nero) e guidata da
un auriga. L’auriga è la razionalità, il cavallo nero (riottoso e sordo ai richiami dell’auriga) è la
passionalità, mentre il cavallo bianco è la capacità emozionale (thymoeidés). Il cavallo bianco sa
ascoltare i richiami dell’auriga, ed è in grado di persuadere il suo compagno nero a seguire la
strada che l’auriga indica a entrambi. (Cfr. Platone, Fedro, 253d–254e).
50 Parte prima: studi sul concetto di virtù
attivato dal mondo simbolico, che è il luogo proprio della comuni-
cazione tra ragione e passione. L’immagine, come simbolo ― e quindi
come apertura al mondo dei significati ―, è un fattore educativo im-
prescindibile20.
L’uomo virtuoso, che tende costantemente a riconciliarsi, senza
compromessi, con il proprio mondo emotivo, e che deve esercitarsi ―
cioè combattere ― per giungere a questa effettiva disposizione, ha
dunque tra le sue armi, in questa battaglia contro la violenza e
l’astuzia delle passioni21, oltre la lucidità del giudizio, anche il potere
suggestivo dell’immaginazione. L’immaginario, orientato dal giudi-
zio, può captare le energie emotive, se è prodotto in modo tale da inte-
ragire con le dinamiche di quest’ultime. Si tratterà di volgere a van-
taggio della verità il fenomeno della “seduzione”. Ordinariamente, la
seduzione è una reazione indotta ― attraverso un lavoro sull’im-
maginario ― nelle passioni altrui, in modo da eccitarle e captarle in
un progetto rispetto al quale l’altrui volontà risulti impotente. Nel no-
stro caso si tratta di una autoseduzione22, guidata dalla volontà stessa,
nel tentativo di allargare le proprie fonti energetiche.
Ma l’immaginario, ben prima che in questo lavoro su di sé (ascesi),
opera nell’incontro educativo. La ricerca della virtù risulta per un uo-
mo una prospettiva interessante, solo dopo che questi abbia incontrato
persone autorevoli, cioè capaci di suscitare in lui una disposizione
all’ascolto. La persona autorevole non solo dice cose vere, ma nel dir-
le le comunica, cioè le rende attuali per chi le ascolta con attenzione.
Ora, questa capacità comunicativa lavora nell’immaginario di chi a-
scolta e di chi osserva, e, di lì, orienta le energie emotive in senso fa-
vorevole alla proposta di vita contenuta nelle cose dette. Insomma, è
vedendo e frequentando una persona che sia davvero unita in se stessa,
20
Pena il crearsi di quelle situazioni di pura contrapposizione tra ragione e passione, rite-
nute inevitabili da parte di quegli autori che presentano la ragione come impotente rispetto al-
la passione (emblematica, al riguardo, la posizione di David Hume: cfr. Ricerche intorno ai
principi della morale [1752], Appendice I); e semmai impegnata a giustificare le mosse di
quest’ultima, nel disperato tentativo di dare di esse una qualche razionalizzazione a posteriori
(emblematica al riguardo la posizione dell’ultimo Freud: cfr. Il disagio della civiltà [1929],
trad. it. di E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1971).
21
Che spesso mutano aspetto per essere più facilmente assecondate.
22
L’“incantesimo del fanciullino”, di cui parlava Socrate nel Fedone (cfr. Platone, Fedo-
ne, 77d–78b).
Capitolo II: Virtù passione e comunità 51
cioè che abbia un volto armonico, che inizierò a sentire l’urgenza di
realizzare in me qualcosa di analogo a ciò che in lei vedo accadere.
2. Le virtù
2.1. Una articolazione tradizionale
Una lunghissima tradizione ― che inizia con la Repubblica di Pla-
tone e, in parte attraverso Aristotele, in parte attraverso lo Stoicismo e
la Patristica, giunge a Tommaso d’Aquino ―, usa distinguere quattro
fondamentali (o “cardinali”) declinazioni della virtù, denominandole
“prudenza, fortezza, temperanza e giustizia”.
a) “Prudenza” (phrónesis, nel greco di Aristotele) è la capacità di sta-
bilire con sicurezza «che cosa si deve fare oppure no»23. Essa, come
diceva Tommaso, è «recta ratio agibilium» (retto criterio riguardo
a come vivere). Coincide con la genialità interpretativa che una co-
scienza ben formata sa esercitare sulle situazioni in cui vive.
b) Ma, parlare di “prudenza” non significa affatto alludere alla paura o
alla meschinità. Infatti, il prudente è sempre “forte”, cioè disposto
ad impiegare le proprie energie emotive per affrontare gli ostacoli e
le inerzie che si oppongono alla scelta buona. La fortezza è chiama-
ta a regolare le passioni che la tradizione classica chiama “irascibi-
li”: tipicamente, il timore, la temerarietà, l’aggressività.
c) La “temperanza” poi, cioè la capacità di tenere sotto controllo la
passionalità sensuale (cioè le passioni della sfera classicamente
detta “concupiscibile”), è sì, frutto della prudenza; ma ne è an-
che “custode”24. Infatti l’intemperante non è più capace di co-
gliere il bene in modo limpido e disinteressato; il temperante,
invece, trova gioia nel bene, perché ha modo di verificarlo come
adeguato a sé.
d) La prudenza acquista poi il nome di “giustizia”, quando investe di-
rettamente il rapporto interpersonale. La più generale forma di giu-
23
Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 11.
24
Cfr. ibi, VI, 5.
52 Parte prima: studi sul concetto di virtù
stizia, quella “distributiva” ― espressa dalla formula “dare a cia-
scuno il suo” ―, non consiste in una regola meccanica, ma indica
piuttosto l’attenzione a riconoscere e a rispettare il significato delle
diverse presenze in rapporto alle quali si svolge la nostra vita25.
Applicazioni più specifiche della giustizia distributiva sono: la
“giustizia commutativa” (che vige nei rapporti tra pari, e che ri-
chiede equità nello scambio)26 e quella “sociale” (che richiede la
rimozione, da parte dell’autorità civile, degli impedimenti
all’esercizio dei diritti dell’uomo).
2.2. Uno sviluppo possibile
Intorno a ciascuna di queste virtù si raduna una costellazione di al-
tre virtù. Accenniamo ad un caso, per ciascuna virtù cardinale.
a) Insieme alla prudenza è opportuno considerare l’“abilità” o “arte”:
quella virtù che in greco è detta techne e in latino ars. Tommaso la
definisce come «il retto criterio riguardo a come fare le cose» (rec-
ta ratio factibilium)27. “Arte” è la maniera adeguata di realizzare le
cose: fare qualcosa a regola d’arte, significa realizzarla secondo
quel che di meglio la tradizione ci ha suggerito ed esemplificato in
proposito. Naturalmente chi possiede realmente un’arte, saprà in-
novarla, facendo rivivere la tradizione (in modo creativo, o anche
polemico). Quel che ci interessa sottolineare è che l’uomo virtuoso
o prudente, non potrà non tendere anche ad essere artista di quel
che fa, cioè ad essere competente e appassionato, al punto da risul-
tare creativo. Questo vale per il mestiere (anche il meno appari-
scente), per la professione, per la funzione sociale e politica, ma
anche per i rapporti umani ed educativi. Senza arte ― cioè, senza
competenza operativa negli ambiti in cui agisce ―, l’agente finisce
25
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I IIae, q. 60, a. 3; testo latino della Editio
Leonina.
26
È quella giustizia che tipicamente presiede ai contratti.
27
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 22, a. 2. L’ars è l’esatto risvolto, sul
piano del fare esteriore (facere), di quel che è la prudenza sul piano dell’agire interiore (age-
re). E non a caso lo stesso Tommaso (cfr. Summa Theologiae, I IIae, q. 57, aa. 3–4) metteva
in relazione, pur nella necessaria distinzione, queste due dimensioni operative.
Capitolo II: Virtù passione e comunità 53
per risultare negligente o per operare male, sia pur con buone in-
tenzioni28.
b) Accanto alla fortezza occorre considerare quelle sue fioriture che
sono la “pazienza” e la “sofferenza”. In proposito, si consideri co-
me sofferenza e dolore non siano affatto la stessa cosa: il dolore è
passività (subire la privazione), mentre la sofferenza è attività vir-
tuosa, cioè capacità di non lasciarsi vincere dal dolore, ma piuttosto
di inserirlo in un possibile disegno di senso, “sop–portandolo”, cioè
portandolo su di sé lungo il proprio cammino. Sofferenza è allora la
specifica virtù che ha come propria materia il dolore.
c) Accanto alla temperanza è opportuno considerare il “pudore”. Il
pudore, visto come reazione spontanea, è una passione; ma, se
adeguatamente coltivato, esso diventa una vera e propria virtù.
Come virtù, esso consiste nella costante disposizione a custodire
l’irriducibilità dell’io, nell’ambito della sua inevitabile esposi-
zione corporea al mondo. Nella prospettiva aristotelico–tomista,
il corpo non è infatti uno strumento dell’anima (cioè dell’io), ma
è piuttosto ciò che si vede dell’anima. Il pudore come virtù nasce
proprio da questa consapevolezza, divenuta esplicita. Quel che si
guarda o che si sfiora della persona, non è qualcosa d’altro o di
meno intimo e rilevante del suo stesso io (classicamente, della
sua stessa anima); il che suggerisce una attenzione e una discre-
zione adeguate.
d) Insieme alla giustizia non si può non considerare l’“amicizia”. Ari-
stotele le dedica addirittura due Libri dell’Etica Nicomachea, di-
stinguendo tra amicizia autentica (philía) e amicizia inautentica
(phílesis). La prima è una compagnia che cerca la verità, ad ogni li-
vello del vivere comune: c’è una amicizia familiare, un’amicizia
verso il singolo, un’amicizia comunitaria e una sociale. La seconda
è invece una complicità che aiuta a fuggire dalle responsabilità
28
Esemplificando, possiamo dire che un insegnante che sia animato dalle migliori
intenzioni educative, non potrà vivere coerentemente il suo lavoro come gesto, se non
si abituerà ad approfondire costantemente la sua materia, a preparare coscienziosamen-
te lezioni e interrogazioni e a trattare i suoi studenti come amici potenziali. Analoga-
mente, il pubblico amministratore che non si occupi di tecniche legislative o non si
preoccupi di conoscere come si struttura un bilancio, potrà essere portatore di un bril-
lante programma politico, ma non interpreterà di sicuro in modo virtuoso la funzione
cui ha voluto accedere.
54 Parte prima: studi sul concetto di virtù
quotidiane. L’amicizia autentica, in fondo, è ciò cui tende ultima-
mente la stessa giustizia, come a proprio ideale regolativo: infatti, il
rapporto con le altre persone è completamente adeguato (giusto),
quando è inteso come una compagnia che attraversa l’intero viag-
gio della vita, senza limiti preventivati ― come accade appunto
nell’autentica amicizia.
3. Virtù e convivenza
3.1. Virtù e comunità
Abbiamo parlato della virtù come di qualcosa cui ci si educa e si
viene educati, in riferimento a modelli. Ma, se è vero che il para-
digma del lavoro da cui fiorisce la virtù è il saggio ― cioè l’uomo
per il quale la virtù è già un modo di essere ―, viene allora da pen-
sare che siamo sempre preceduti, nella vita buona, da qualcuno; e
da qualcuno che ci invita a seguirlo. La spinta verso il bene è in noi
naturale; ma la nostra capacità di tradurre la vocazione destinale in
un concreto progetto di vita, questa è dovuta alle immagini di vita
che ci formiamo all’interno della vita morale già in atto in chi ci
precede o ci circonda, e rispetto alla quale anche la nostra vita mo-
rale si struttura. Una vita morale che si attua secondo una certa
forma è un ethos; e un ethos (una forma di vita) è sempre partecipa-
to da una comunità.
Questa classica evidenza è stata riproposta, in epoca a noi contem-
poranea, da Alasdair MacIntyre, con il volume After Virtue (1981).
MacIntyre ci ricorda che non ci sono virtù, senza comunità e tradizioni
al cui interno esse possano essere trasmesse, coltivate e innovate. Tali
comunità sono le famiglie, le comunità di lavoro, quelle sociali e quel-
le religiose. Ora, una insostituibile virtù è proprio quella di saper col-
tivare i luoghi al cui interno le virtù di cui parlavamo possano matura-
re ed essere testimoniate. Anzi, nell’attuale momento storico, quella
ora richiamata appare proprio come la virtù più urgente. Senza questi
luoghi, infatti, l’uomo tendenzialmente diviene un semplice prodotto
del potere politico, e si riduce ad un insieme di funzioni socialmente
controllabili.
Capitolo II: Virtù passione e comunità 55
3.2. Virtù e convivenza civile
Come opportunamente osserva il Socrate platonico nel Primo Libro
della Repubblica, persino una banda di delinquenti ― se vuole riuscire
nelle proprie imprese ― deve conservare, nei propri membri, una qual-
che forma di virtù, e più precisamente, di quella virtù architettonica che
è la giustizia. Se nella banda non vi fosse lealtà reciproca, le imprese
progettate non potrebbero riuscire per mancanza di accordo operativo;
se l’ingiustizia nei rapporti reciproci fosse totale, la convivenza ― an-
che quella ordinata al male ― sarebbe impossibile, e con essa l’agire
comune: prevarrebbe invece la discorde affermazione degli appetiti di
ciascuno, e tendenzialmente il gruppo si disgregherebbe29.
Naturalmente, ciò che vale per un gruppo particolare e deviante,
vale a maggior ragione per la convivenza nella società civile, cui
l’uomo è portato per natura. La celebre pagina in cui Socrate conduce
Trasimaco a riconoscere che senza virtù ogni convivenza si rovescia
in conflitto, ci suggerisce che, solo limitando liberamente la propria
spontaneità in funzione di una più ampia architettura del bene, detta
“bene comune”, l’uomo può realizzare la dimensione sociale della
propria natura, e in tal modo fiorire egli stesso.
29
Cfr. Platone, Repubblica, I, 351c–352d.
56 Parte prima: studi sul concetto di virtù
PARTE SECONDA
STUDI SULLA LIBERTÀ E IL BENE
57
58 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
CAPITOLO I
TOMMASO: LIBERTAS DIFFERENTIAE
1. Tre modelli
La libertà di scelta è interpretata da Tommaso secondo una model-
listica che si sviluppa, dai testi degli anni Cinquanta a quelli degli anni
Settanta del XIII secolo1, attraverso tre stadi di approfondimento.
1.1. Protomodello
Il primo stadio è quello in cui la libertà di scelta è presentata come
l’autonomia della volontà, che è dovuta alla autonomia del giudizio.
Questo protomodello ― già annunciantesi nel Commento alle Senten-
ze2 ― appare esplicitamente nel De veritate, dove il tratto della auto-
nomia è marcato oltre ogni dubbio dall’espressione «causa sui»3, che,
1
Per la scansione cronologica dei testi tommasiani, faremo riferimento ― in linea princi-
pale ― allo studio di J.P. Torrell, Initiation à Saint Thomas d’Aquin, Ed. Universitaires, Fri-
bourg ― Ed. du Cerf, Paris 1993.
2
In alcuni testi del Commento alle Sentenze viene affermata con chiarezza l’autonomia della
volontà rispetto ai condizionamenti passionali, che diventano efficaci ― sul giudizio di valore
― grazie allo spazio che viene loro volontariamente concesso (cfr. II Sent., d. 39, q. 1, ad 4um;
testo latino dell’Editio Leonina). L’autonomia in questione viene riconosciuta dipendere dal «ju-
dicium de actione propria»; e questo, a sua volta, è visto dipendere dalla capacità ― esclusiva-
mente intellettuale ― di riconoscere la «ratio finis» (cfr. ibi, d. 25, q. 1, a. 1, Resp.).
3
«Voluntas est radix libertatis. Sed libertas praecipue competit Deo; liber enim est qui causa
sui est, secundum Philosophum in I Metaphys.; quod maxime de Deo verificatur. Ergo in Deo in-
venitur voluntas» (cfr. De veritate, q. 23, a. 1, Sed contra; testo latino dell’Editio Leonina).
59
60 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
nel caso della libertà umana, sembra investire appunto il «judicium e-
lectionis». «Judicium est in potestate judicantis secundum quod potest
de suo judicio judicare: de eo enim quod est in nostra potestate, pos-
sumus judicare. Judicare autem de judicio suo est solius rationis,
quae super actum suum reflectitur, et cognoscit habitudines rerum de
quibus judicat, et per quas judicat: unde totius libertatis radix est in
ratione constituta»4. Dunque, il giudizio dell’uomo che sceglie è auto-
nomo, in quanto è un giudizio giudicato, e non ― come quello degli
animali ― una «naturalis aestimatio»5. Dire che è un giudizio giudi-
cato ― cioè un giudizio «riflesso» ―, significa che esso esprime una
propensione, non solo spontanea, ma anche consapevole, cioè saputa
in relazione6 al fine che le è proprio.
Nella Contra Gentiles, questo modello primitivo viene reso in mo-
do più esplicito, ponendo la capacità di riflessione come condizione
della possibilità di «muovere sé» (o di essere «causa sui»7) nel giudi-
zio di scelta. La libertà di scelta è posta così esplicitamente come «li-
berum arbitrium», cioè come autonomia, non solo dell’«azione», ma
anche del «giudizio»8. Anche qui, però, l’autonomia del giudizio viene
fatta dipendere dalla capacità, esclusivamente intellettuale, di afferrare
la «communis ratio boni», e dalla capacità, propriamente razionale, di
applicare tale «communis ratio» alle situazioni pratiche particolari,
senza risultare legati a nessuna di esse in modo esclusivo9.
4
Cfr. De veritate, q. 24, a. 2, Resp.
5
Cfr. ibidem.
6
Tommaso parla di «aliqua collatio» (cfr. ibidem).
7
«Liberum est quod sui causa est» (cfr. Contra Gentiles, I, c. 88; testo latino dell’Editio
Leonina).
8
«Haec sola libere judicant quaecumque in judicando seipsa movent. Nulla autem poten-
tia judicans, seipsam ad judicandum movet, nisi supra actum suum reflectatur; oportet enim,
si se ad judicandum agit, quod suum judicium cognoscat; quod quidem solius intellectus est.
Sunt igitur animalia irrationalia quodammodo liberi quidem motus sive actionis, non autem
liberi judicii […]; intellectualia vero, non solum liberae actionis, sed etiam liberi judicii;
quod est liberum arbitrium habere» (cfr. ibi, II, c. 48).
9
«Illa igitur sola se ad judicandum movent quae communem boni vel convenientis ratio-
nem apprehendunt. Haec autem sunt sola intellectualia. Sola igitur intellectualia se, non so-
lum ad agendum, sed etiam ad judicandum movent; sola igitur ipsa sunt libera in judicando;
quod est liberum arbitrium habere. Amplius, a conceptione universali non sequitur motus et
actio, nisi mediante particulari apprehensione; eo quod motus et actio erga particularia est
[…]. Sed universale continet in potentia multa particularia. Potest igitur applicatio concep-
tionis intellectualis fieri ad plura et diversa. Judicium igitur intellectus de agibilibus non est
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 61
1.2. Modello oggettivo
Nel modello primitivo, la libertà viene dunque interpretata come
una capacità di muovere se stessi nel senso dettato dal proprio «judi-
cium de agendis»10. Ma, quel che resta da interpretare, è proprio que-
sto movimento: ed è quanto accade in quello che potremmo chiamare
il secondo modello, che si esprime pienamente nella Summa Theolo-
giae. Il passo–chiave è quello in cui Tommaso chiarisce in che senso
dire che la volontà muove se stessa ― cioè è autonoma ― non sia
qualcosa di autocontraddittorio. Infatti, «voluntas non secundum idem
movet et movetur; unde nec secundum idem est in actu et in potentia;
sed inquantum actu vult finem, reducit se de potentia in actum respec-
tu eorum quae sunt ad finem, ut scilicet actu ea velit»11. Dunque, la
«reflexio» di cui sopra, viene scoperta ora come la distinzione formale
― logicamente necessaria ― tra volontà che in atto, indeflettibilmen-
te, è tensione al fine proprio, e volontà potenziale delle opzioni che al
fine sono riferibili: distinzione formale, che è insieme ― «consilio
mediante»12 ― necessaria articolazione, almeno nel senso che non si
può volere ciò che non è propriamente il fine, senza investirlo della
stessa volizione del fine13. È questo l’unico modo per rendere attuale
la volizione, di per sé solo potenziale, di ciò che non è il fine assoluto.
Questo snodo, a dire il vero, poteva dirsi già sinteticamente acquisi-
to nel De veritate, là dove Tommaso riprendeva la distinzione aristote-
lica tra proaíresis e órexis, topicizzandola in quella tra «eligere» e
«velle»14. In fondo, in questa articolazione ― cui alludeva anche il
modello precedente, quando cercava di dar ragione di sé –, sta tutta la
struttura del libero arbitrio secondo il modello che stiamo ora esplo-
rando. Infatti se la volontà è tensione al fine ultimo, ciò che non coin-
cida con quello ― o che non appaia necessariamente previo al suo
determinatum ad unum tantum» (cfr. ibidem). Questi temi, con linguaggio simile, ritornano in
alcuni luoghi della Summa Theologiae (cfr. I, q. 59, a. 3; q. 83, aa. 1 e 2).
10
Quest’espressione è presente, ad esempio, in De veritate, q. 24, a. 1, ad 20um, o in Contra
Gentiles, II, c. 48, o anche in Summa Theologiae, I IIae, q. 13, a. 6, ad 2um e q. 14, a. 1, Resp.
11
Cfr. ibi, I IIae, q.. 9, a. 3, ad 1um.
12
Cfr. ibi, a. 4, Resp.
13
«In ea quae sunt ad finem, in quantum hujusmodi, non potest ferri, nisi feratur in ipsum
finem» (cfr. ibi, q. 8, a. 3, Resp.).
14
Cfr. De veritate, q. 24, a. 6.
62 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
conseguimento15 ―, non sarà propriamente o assolutamente voluto: si
troverà piuttosto «in potestate» della volontà16, la quale, restando inde-
terminata rispetto ad esso, sarà perciò «in diversa flexibilis»17.
Nella Contra Gentiles, il secondo modello viene ripreso e fondato
sulla base della dinamica conoscitiva. Gli animali bruti, che conosco-
no solo «formae sensatae vel immaginatae […] receptae in eis ab e-
xterioribus sensibilibus», non sono creativi nel loro «appetere», ma
semplicemente inseguono ciò su cui la loro conoscenza si conforma.
Gli uomini, come esseri intellettuali, sono invece essi stessi autori del-
le «formae intellectae», e, per questo, sono in grado di indirizzare au-
tonomamente la propria vita appetitiva18. Infatti, l’intelletto è capace di
strutturarsi in tutti i modi che non siano inconsistenti: è dunque in gra-
do di trasgredire l’attuale in direzione del possibile ― seguito, in ciò,
dal volere19. In questo senso, si può dire che la vita intellettiva sia a-
perta ad «ipsum bonum commune», e non sia captata né da questo né
da quel bene particolare; d’altro canto, essa è in grado di concentrarsi
su qualunque realtà le si mostri «sub ratione boni»20.
È comunque nella Summa Theologiae che il secondo modello viene
valorizzato sistematicamente. Nella Pars Prima, il luogo esemplare è
q. 83, a. 2, dove l’apertura trascendentale del desiderio intellettuale è
15
L’ipotesi ― sulla quale torneremo ― è già considerata, ed esclusa, da Tommaso nel De
veritate: «Ea quae sunt ad finem, non habent hanc determinationem respectu finis, ut remoto
aliquo eorum, removeatur finis; cum per diversas vias possit perveniri ad finem ultimum vel
secundum veritatem vel secundum apparentiam. Et ideo ex necessitate quae inest appetitui
voluntario respectu finis, non inducitur necessitas ei respectu eorum quae sunt ad finem» (cfr.
ibi, q. 22, a. 6, ad 4um).
16
«Respectu objecti quidem est indeterminata voluntas quantum ad ea quae sunt ad fi-
nem, non quantum ad ipsum finem ultimum […]; quod ideo contingit, quia ad finem ultimum
multis viis perveniri potest, et diversis diversae viae competunt perveniendi in ipsum»; perciò,
«voluntas […] non de necessitate appetit aliquid eorum quae sunt ad finem. Unde respectu
hujus est in protestate ejus appetere hoc vel illud» (cfr. ibi, q. 22, a. 6, Resp.).
17
Cfr. ibi, ad 1um.
18
«Forma autem intellecta, per quam substantia intellectualis operatur, est ab ipso intel-
lectu, utpote per ipsum concepta et quodammodo excogitata, ut patet de forma artis quam ar-
tifex concipit et excogitat et per quam operatur. Substantiae igitur intellectuales seipsas agunt
ad operandum, ut habentes suae operationis dominium» (cfr. Contra Getiles, II, c. 47).
19
«Apprehensio intellectiva non determinatur ad quaedam, sed est omnium; unde et de
intellectu possibili Philosophus dicit (De anima III) quod est quo est omnia fieri. Appetitus
igitur intellectualis substantiae est ad omnia se habens. Hoc autem est proprium voluntatis ut
ad omnia se habeat» (cfr. ibidem).
20
Cfr. ibi, c. 48.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 63
vista come garanzia del carattere relativo, e non necessitante, di ogni
attrattiva particolare cui l’uomo sia soggetto21. Solo la fruizione
dell’idealità del bene realizzata ― e cioè la visione beatifica ― sareb-
be in grado di adeguare il desiderio; e anche i beni che alla beatitudo
conducono, sarebbero necessariamente voluti solo se apparisse con as-
soluta evidenza la necessità del loro nesso col fine ultimo: evidenza
che non appartiene alla condizione del viator22.
Nella Prima Secundae, invece, il luogo esemplare è q. 10, a. 2. «Si
proponatur aliquod objectum voluntati quod sit universaliter bonum et
secundum omnem considerationem, ex necessitate voluntas in illud
tendit, si aliquid velit; non enim poterit velle oppositum. Si autem
proponatur ei aliquod objectum quod non secundum quamlibet consi-
derationem sit bonum, non ex necessitate voluntas fertur in illud». In-
fatti, «quaelibet particularia bona, inquantum deficiunt ab aliquo bo-
no, possunt accipi ut non bona; et secundum hanc considerationem
possunt repudiari vel approbari a voluntate, quae potest in idem ferri
secundum diversas considerationes»23. Qui lo schema è particolarmen-
te chiaro, e rivela anzi la sua aspirazione alla forma apogogica: è auto-
contraddittorio ipotizzare una scelta necessitata ― dove il senso della
autocontraddittorietà resta naturalmente affidato alla fenomenologia
della coppia velle–eligere. Una fenomenologia che viene delineata nel
modo più chiaro nella Pars Prima, dove leggiamo: «Velle importat
simplicem appetitum alicujus rei; unde voluntas dicitur esse de fine,
qui propter se appetitur. Eligere autem est appetere aliquid propter
21
«Cum possibilitas voluntatis sit respectu boni universalis et perfecti, non subjicitur ejus
possibilitas tota alicui particulari bono, et ideo non ex necessitate movetur ab illo» (cfr.
Summa Theologiae, I, q. 82, a. 2, ad 2um).
22
«Antequam per certitudinem divinae visionis necessitas hujusmodi connexionis de-
monstretur, voluntas non ex necessitate Deo inhaeret, nec his quae Dei sunt» (cfr. ibi, Resp.).
Nel De malo, dopo aver proposto uno schema in tutto simile a quello di Summa Theologiae, I,
q. 82, a. 2, Tommaso precisa che «non ex necessitate Deo inhaerere» non significa certo «be-
atitudinem non velle», ma significa solo non saper riconoscere la beatitudine nella «inhaesio»
in questione (cfr. De malo, q. 3, a. 3, Resp.; testo latino dell’Editio Leonina). Lo stesso tema è
svolto in Summa Theologiae I IIae, q. 13, a. 6.
23
Cfr. ibi, I IIae, q. 10, a. 2, Resp. Lo stesso modello qui esposto compare già nel De ma-
lo, dove Tommaso, al termine del suo argomentare, afferma: «Patet ergo quod objectum non
ex necessitate movet hominem ad agendum. Relinquitur ergo quod causa perficiens et propria
voluntarii actus sit solum id quod operatur interius. Hoc autem nihil aliud esse potest quam
ipsa voluntas» (cfr. De malo, q. 3, a. 3, Resp.).
64 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
alterum consequendum; unde proprie est eorum quae sunt ad finem».
Osservazioni da cui Tommaso trae la analogia tra il rapporto intellet-
to–ragione, e quello volontà–libertà di scelta24.
1.3. Metamodello
Occorre però considerare che il secondo modello della libertà di
scelta, ora esplorato, non è l’ultima parola di Tommaso in materia. In-
fatti, già nel De veritate ― e sempre più nel prosieguo della meditazio-
ne tommasiana ―, si fa strada un modello più comprensivo: una sorta
di metamodello, nel quale continua a trovare spazio il precedente, ma in
un quadro più concreto. La novità consiste in una distinzione: quella tra
«libertas quantum ad actum, inquantum potest velle vel non velle; et
quantum ad objectum, inquantum potest velle hoc vel illud, et ejus op-
positum»25. Ora, la prima considerazione ― quantum ad actum ―, è la
più radicale, perché riguarda la volontà «in quolibet statu naturae re-
spectu cujuslibet objecti»; mentre la seconda ― quantum ad objectum
―, riguarda la volontà, «secundum quemlibet statum naturae», ma solo
«respectu eorum quae sunt ad finem, et non ipsius finis»26.
Non è difficile riconoscere nella considerazione «oggettiva» della
libertà di scelta il secondo modello della nostra indagine: un modello
astratto ― secondo lo stesso Tommaso –, in quanto non tiene conto
della capacità, da parte della volontà, di relativizzare il proprio atto di
volizione del fine ultimo27. Capacità che è invece tenuta in conto nella
considerazione «attiva» della libertà, stando alla quale, anche la voli-
zione attuale del fine ultimo può essere vista come un bene particola-
re, non solo non coincidente con lo stesso fine ultimo, ma anche non
24
Cfr. Summa Theologiae, I, q. 83, a. 4, Resp.
25
In realtà, Tommaso aggiunge anche una «libertas quantum ad ordinem finis, inquantum
potest velle bonum vel malum»; ma subito precisa che intervenire arbitrariamente sull’ordine
dei fini sarebbe una patologia della libertà ― secondo la classica formula di origine anselmia-
na per cui «velle malum nec est libertas, nec pars libertatis, quamvis sit quoddam libertatis
signum» (cfr. De veritate, q. 22, a. 6, Resp.).
26
Cfr. ibidem.
27
«Primum bonum est per se volitum, et voluntas per se et naturaliter illud vult; non ta-
men illud semper vult in actu: non enim oportet ea quae sunt naturaliter convenientia animae,
semper actu in anima esse; sicut principia quae sunt naturaliter cognita, non semper actu
considerantur» (cfr. ibi, a. 5, ad 11um).
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 65
relazionabile ad esso secondo un nesso di necessità assolutamente e-
vidente (ciò che sarebbe possibile solo nel caso in cui l’altro termine
della relazione ― il fine stesso ― comparisse in piena attualità ed e-
videnza). Con ciò si può notare che anche questo terzo modello si svi-
luppa da un approfondimento del precedente: infatti, la possibilità di
considerare la stessa volizione del fine come qualcosa di sospendibile,
è dovuta alla capacità, propria della volontà, di relativizzare ogni bene
in relazione al bene assoluto (allo stesso fine ultimo), osservando, di
ogni bene non assoluto, anche gli aspetti che ne segnano, appunto, la
non assolutezza.
Questo terzo modello, riceve la sua piena valorizzazione solo nelle
opere più mature di Tommaso. Nella Pars Prima della Summa Theo-
logiae, l’Aquinate insiste sulla possibilità di distinguere tra una consi-
derazione attiva e una oggettiva della volontà28. Egli, in quel contesto,
applica tale distinzione anche all’intelletto, per poi istituire un con-
fronto incrociato tra le due «potenze»29. Non introduce, invece, quella
reduplicazione o riflessione della volontà su se stessa, che la distin-
zione in parola apre come possibilità, e che la autorelativizzazione del
volere, introdotta nel De veritate, poneva come effettiva. Nella Prima
Secundae, sempre indagando i rapporti tra intelletto e volontà, Tom-
maso precisa la distinzione precedente, parlando di «voluntas quoad
exercitium actus» (o considerata «ex parte subjecti») e «voluntas quo-
ad specificationem actus» (o considerata «ex parte objecti»). In parti-
colare, «dupliciter aliqua vis animae invenitur esse in potentia ad di-
versa: uno modo quantum ad agere vel non agere; alio modo quantum
ad agere hoc vel illud»30.
Dopo queste precisazioni di vocabolario, una ripresa chiara del ter-
zo modello si ha, sempre nella Prima Secundae, alla q. 10. Ecco il te-
sto esemplare: «Voluntas movetur dupliciter: uno modo quantum ad
28
«Voluntas dupliciter considerari potest: uno modo secundum communitatem sui objecti,
prout scilicet est appetitiva boni communis; alio modo secundum quod est quaedam determinata
animae potentia, habens determinatum actum» (cfr. Summa Theologiae, I, q. 82, a. 4, ad 1um).
29
Cfr. ibidem.
30
Cfr. ibi, I IIae, q. 9, a. 1, Resp. Secondo Tommaso, l’intelletto muove la volontà, non
quanto all’esercizio dei suoi atti, ma quanto alla specificazione di essi; mentre la volontà
muove le altre facoltà quanto all’esercizio dei loro atti. La mozione quoad specificationem è
da intendere, poi, come la presentazione alla volontà, da parte dell’intelletto, dell’«oggetto»
che le è proprio (cfr. ibi, Resp.).
66 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
exercitium actus; alio modo quantum ad specificationem actus, quae
est ex objecto. Primo ergo modo voluntas a nullo objecto ex necessita-
te movetur; potest enim aliquis de quocumque objecto non cogitare; et
per consequens neque actu velle illud. Sed quantum ad secundum mo-
tionis modum, voluntas ab aliquo objecto ex necessitate movetur, ab
aliquo autem non»31. Alla q. 13 il tema viene approfondito osservando
che «potest ratio apprehendere ut bonum, non solum hoc quod est vel-
le aut agere, sed hoc etiam quod est non velle et non agere»32.
Quello che abbiamo chiamato terzo modello è già presente, e in mo-
do egemonico, nel De malo. Qui, Tommaso ne ribadisce la complessità,
ricordando che la volontà si volge a qualcosa, mossa sia ab exteriori
(cioè «ab objecto apprehenso»), sia ab interiori (cioè «ab eo quod pro-
ducit ipsum voluntatis actum»)33. Inoltre, in quel trattato autonomo che
è la quaestio 6, troviamo già il vocabolario della Prima Secundae34, ma
inserito in un più ricco quadro teorico. Infatti, la distinzione tra «exerci-
tium» e «objectum», se applicata al complesso intelletto–volontà, ci ri-
vela che ultimamente è l’intelletto ad indicare all’uomo l’«objectum»,
ovvero la forma propria, del suo agire; mentre è la volontà che ultima-
mente costituisce il motore nell’esercizio dell’azione35. Invece, la mede-
sima distinzione, applicata alla sola volontà, ci dice che questa,
«quantum ad exercitium actus», muove se stessa; considerata poi «ex
parte objecti», essa è mossa dal bene che riconosce concretamente co-
me conveniente, e sarebbe mossa in modo necessario solo se ricono-
scesse qualcosa come un bene che le conviene da ogni possibile punto
di vista. Ma le due dimensioni dell’atto di volontà ― attiva e oggettiva
― non sono certo estranee l’una all’altra, nel senso che la prima è in
31
Cfr. ibi, q. 10, a. 2, Resp.
32
Cfr. ibi, q. 13, a. 6, Resp.
33
Cfr. De malo, q. 3, a. 3, Resp.
34
«Potentia aliqua dupliciter movetur: uno modo ex parte subjecti; alio modo ex parte
objecti. Ex parte subjecti quidem, sicut visus per immutationem dispositionis organi movetur
ad clarius vel minus clare videndum; ex parte vero objecti, sicut visus nunc videt album nunc
videt nigrum; et prima quidem immutatio pertinet ad ipsum exercitium actus, ut scilicet aga-
tur vel non agatur aut melius vel debilius agatur: secunda vero immutatio pertinet ad specifi-
cationem actus, nam actus specificatur per objectum» (cfr. ibi, q. 6, Resp.).
35
«Si consideremus motum potentiarum animae ex parte objecti specificantis actum, pri-
mum principium motionis est ex itellectu; hoc enim modo bonum intellectum movet etiam ip-
sam voluntatem. Si autem consideremus motus potentiarum animae ex parte exercitii actus,
sic principium motionis est ex voluntate» (cfr. ibidem).
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 67
grado di sospendere l’esercizio della seconda. Leggiamo infatti: «Si er-
go apprehendatur aliquid ut bonum conveniens secundum omnia parti-
cularia quae considerari possunt, ex necessitate movebit voluntatem; et
propter hoc homo ex necessitate appetit beatitudinem […]. Dico autem
ex necessitate quantum ad determinationem actus, quia non potest velle
oppositum; non autem quantum ad exercitium actus, quia potest aliquis
non velle tunc cogitare de beatitudine; quia etiam ipsi actus intellectus
et voluntatis particulares sunt»36. Naturalmente l’impegnativa afferma-
zione secondo cui la volontà può sottrarsi alla considerazione del pro-
prio fine ultimo37, riguarda la condizione del viator: non certo quella del
beatus. Infatti, la condizione beatifica, rendendo attuale l’«objectum»
proprio della volizione, renderebbe anche evidente la necessità della vo-
lizione come condizione di accesso a quello: in tal senso, la beatitudo
non solo riempirebbe l’orizzonte oggettivo della volontà, ma ne leghe-
rebbe anche la dinamica attiva.
In ogni caso, non è difficile notare che la capacità di intervento del-
la dimensione attiva su quella oggettiva è legata alla possibilità che la
prima ha di ricondurre la seconda entro coordinate più ampie: tali da
relativizzare l’atto stesso di volizione ― captabile dall’«oggetto» ap-
propriato –, considerando esso stesso come un che di «oggettivo» ― e
di «oggettivamente» particolare.
Provando ora a schematizzare, possiamo dire che il primo modello
fonda l’autonomia del volere sul carattere riflessivo del judicium de
agendis su cui quello si struttura. Il secondo modello interpreta
l’autonomia del volere secondo la scansione velle–eligere: per cui
l’autonomia va intesa come un gioco di indeterminazione oggettiva
del velle rispetto ai beni particolari, e di autodeterminazione ad essi.
Nel secondo modello, dunque, la riflessione giudicativa viene intesa
come la capacità intellettiva di riconoscere nei beni l’idealità del bene,
ma di tenerli distinti da essa, considerandoli come oggetto di volizione
solo potenziale, traducibile in atto dalla volizione ― già da sempre at-
tuale ― dell’idealità del bene.
36
Cfr. ibidem.
37
«Voluntas […] potest tamen non velle actu, quia potest avertere cogitationem beatitu-
dinis, in quantum movet intellectum ad suum actum; et quantum ad hoc nec ipsam beatitudi-
nem ex necessitate vult; sicut etiam aliquis non ex necessitate calefieret, si posset calidum a
se repellere cum vellet» (cfr. ibi, ad 7um).
68 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
Il terzo modello non smentisce la permanente attualità della tensio-
ne all’idealità del bene; semplicemente porta a fondo il riconoscimen-
to della autonomia del volere, intendendola come autonomia rispetto
al proprio determinato atteggiarsi (anche in relazione all’idealità del
bene). Non può essere messa tra parentesi la tensione costitutiva del
volere: può però essere relativizzato ogni atto in cui essa si esprime. E
può esserlo, in quanto, non comparendo nella sua concretezza il ter-
mine cui la tensione è orientata, neppure le determinate forme del ten-
dere potranno comparire come necessariamente connesse con quello.
In questo quadro, la riflessione giudicativa arretra fino ad investire
l’atto stesso della volizione: così, il rapporto volitivo–electio ― che è
quanto il secondo modello giungeva a considerare –, viene considerato
nel più ampio rapporto voluntas–volitio. In tal senso si può allora par-
lare del volere ― per suggestione kierkegaardiana ― come di un
«rapporto che si rapporta a se stesso». Questa capacità di porsi a di-
stanza da sé, fa sì che la volontà non sia ― pur nella inevitabile ten-
sione al bene come tale ― necessitata a volere sé secondo particolari
condizioni: il possibile progetto della noluntas ― per stare
all’esempio tommasiano ― testimonia paradossalmente della effettiva
trascendentalità dell’autonomia del volere.
1.4. Un’antropologia elementare
Il nodo irrisolto, in questa modellistica della libertà di scelta, resta
comunque quello del rapporto intelletto–volontà all’interno dell’atto di
scelta. Al riguardo, Tommaso propone con insistenza un modello «cir-
colare», reperibile sia nel De veritate sia nella Summa Theologiae. Se-
condo questo modello, l’intelletto agirebbe sulla volontà come causa fi-
nale (indicandole l’«objectum»), mentre la volontà agirebbe
sull’intelletto come causa efficiente38. Il testo esemplare, in merito, è
Pars Prima, q. 82, a. 4, dove si precisa che le due «potentiae» ― aven-
do un orizzonte trascendentale ― sono appunto in grado di captarsi a
vicenda, riconducendosi l’una l’altra entro coordinate empiriche39. Que-
38
Al riguardo, alcuni testi di riferimento sono: De veritate, q. 22, a. 12, Resp.; q. 24, a. 6,
ad 5um; De malo, q.6, ad 18um.
39
Cfr. Summa Theologiae, I, q. 82, a. 4, ad 1um.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 69
sto modello viene, non smentito, bensì integrato nel De malo, dove si
precisa che l’«objectum intellectus» (non, dunque, l’intellectus) funzio-
na come causa formale dell’atto libero, mentre l’«objectum voluntatis»
(non, dunque, la voluntas) ne è causa finale; ovvero, il bene, cui mira la
volontà, attrae, ma non secondo un percorso deterministico, in quanto è
il bene così come è noto all’intelletto: nella sua formalità trascenden-
tale40.
Nei testi di Tommaso, però, è presente anche una diversa imposta-
zione del problema, che forse già si annuncia nel Commento alle Sen-
tenze e nel De veritate, là dove si spiega che il libero arbitrio non è
una «potenza» superiore, rispetto alla quale intelletto e volontà sareb-
bero «parti integranti»41: esso piuttosto nomina «potentiam voluntatis
vel rationis, unam siquidem per ordinem ad alteram». Infatti, l’atto
della scelta «progreditur ab una scilicet earum per ordinem ad aliam,
secundum hoc quod Philosophus dicit 6 Ethic., quod electio est appe-
titus intellectivi, vel intellectus appetitivi»42. Il riferimento ad Aristote-
le risulta illuminante, perché, proprio nel brano cui Tommaso fa rife-
rimento, lo Stagirita afferma che il principio della scelta è, non una fa-
coltà particolare, ma l’uomo stesso43. La libertà di scelta appare così
come il luogo rispetto al quale intelletto (e quindi, ragione) e volontà
si rivelano, non parti integranti, bensì dimensioni astratte di un concre-
to che è l’uomo.
Ora, è vero che Tommaso insiste spesso sull’inerenza della libertà
di scelta alla volontà ― proponendo la proporzione analogica per cui
la volontà starebbe alla libertà di scelta come l’intelletto sta alla ragio-
ne44 ―; è anche vero, però, che proprio nel tentativo di giustificare
40
«Objectum intellectus est primum principium in genere causae formalis, est enim ejus
objectum ens et verum; sed objectum voluntatis est primum principium in genere causae fi-
nalis, nam ejus objectum est bonum, sub quo comprehenduntur omnes fines» (cfr. De malo, q.
6, Resp.).
41
Cfr. II Sent., d. 24, q. 1, a. 2, Resp.; De veritate, q. 24, a. 5, Resp.; a. 6, Resp.
42
Cfr. De veritate, q. 24, a. 4, Resp.
43 «Orektikòs noũs e órexis dianoetiké, kai e toiaúte archè ánthropos» (cfr. Aristotele,
Etica Nicomachea, VI, 2, 1139b 4–5).
44
Come abbiamo visto, il testo esemplare in proposito è Summa Theologiae, I, q.83, a. 4.
Ma la questione era già espressamente definita ― sotto l’autorità di Giovanni di Damasco ― in
De veritate, q. 24, a. 6, Sed contra e Resp. E, prima ancora, analogo pronunciamento si trova in
II Sent., d. 24, q. 1, a. 3, ad 4um. Nell’ultima fase della sua riflessione, Tommaso avrebbe legato
questo suo pronuciamento alla autorità di Aristotele: «Utrumque pertinet ad unam potentiam;
70 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
questa inerenza, l’Aquinate felicemente ricade nel modello aristotelico
sopra ricordato. «ille actus quo voluntas tendit in aliquid quod propo-
nitur ut bonum» ― leggiamo nella Prima Secundae –, «ex eo quod
per rationem est ordinatum ad finem, materialiter quidem est volunta-
tis, formaliter autem rationis»45. Si tratta, a ben vedere, di un modello
ilemorfico, che si riferisce ad una unità sostanziale: esplicitamente, la
sostanza in questione è data dalla electio46; ma, remotamente e più ap-
propriatamente, si può ipotizzare che la sostanza cui Tommaso allude
sia l’unità stessa dell’uomo.
Troviamo lo stesso modello “ilemorfico” adombrato, ancora, nella
Prima Secundae, alla q. 14, là dove si riconosce l’inestricabilità di
ratio e voluntas, le quali «ad invicem ordinantur»; e si indica nella
prima l’«ordine» (la forma) della electio («materialmente» volontaria),
e nella seconda la «materia» del consilium che precede l’electio (il
quale è «formalmente» razionale)47.
Ho insistito sulla credibilità di questo modello «ilemorfico», perché
quello precedente ― “causale” ― finisce per considerare intelletto e
volontà come realtà che interagiscono tra loro dopo essersi costituite
in modo reciprocamente autonomo. Ora, proprio l’illusione di questa
reciproca autonomia sta alla base di possibili false rappresentazioni
della libertà di scelta ― che la modellistica di Tommaso non sempre
aiuta ad evitare. Ad esempio, non è difficile rappresentarsi il secondo
scilicet ad appetitum rationalem, qui voluntas dicitur. Sed voluntas nominat hujusmodi potentiae
actum relatum in bonum absolute. Electio autem nominat actum ejusdem potentiae relatum in
bonum, secundum quod pertinet ad nostram operationem, per quam in aliquod bonum
ordinamur» (cfr. Sententia libri Ethicorum, III, lect. V; testo latino dell’Editio Leonina).
45
Cfr. Summa Theologiae, I IIae, q. 13, a. 1, Resp.
46
«In hujusmodi autem, substantia actus materialiter se habet ad ordinem qui imponitur a su-
periori potentia; et ideo electio substantialiter non est actu rationis, sed voluntatis» (cfr. ibidem).
47
«Quando actus duarum potentiarum ad invicem ordinantur, in utroque est aliquid quod
est alterius potentiae; et ideo uterque actus ab utraque potentia denominari potest. Manifes-
tum est autem quod actus rationis dirigentis in his quae sunt ad finem, et actus voluntatis
secundum regimen rationis in ea tendentis, ad se invicem ordinantur. Unde et in actu volunta-
tis, qui est electio, apparet aliquid rationis, scilicet ordo; et in consilio, quod est actus ra-
tionis, apparet aliquid voluntatis, sicut materia, quia consilium est de his quae homo vult
facere, et etiam sicut motivum: quia ex hoc quod homo vult finem, movetur ad consilium de
his quae sunt ad finem» (cfr. ibi, q. 14, a. 1, ad 1um). Confermano il modello in questione,
anche alcune espressioni che Tommaso usa poco più avanti. Leggiamo infatti: «cum Augusti-
nus attribuit consensum rationi, accipit rationem secundum quod in ea includitur voluntas»
(cfr. ibi, q. 15, a. 1, ad 1um; cfr. anche a. 4).
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 71
modello in un senso intellettualistico: come se l’intelletto, dilatando
l’orizzonte di una volontà di per sé cieca, salvasse quest’ultima dal
necessitarismo. Analogamente, è facile rappresentarsi il terzo modello
della libertà di scelta, in un senso volontaristico: quasi che fosse una
volontà arbitraria, cioè estranea all’intelletto, a salvare questo dalla
eventualità di venir captato dall’oggetto adeguato al suo orizzonte.
Nessuna delle due rappresentazioni è invece corretta, dal momento
che la volontà è già tendenza intellettiva, e non esiste un intelletto che
non sia originarìamente appetitivo: pura volontà e puro intelletto sono,
insomma comode astrazioni. Occorre ribadirlo, sfidando la banalità,
per chiarire che la reflexio, che in vario modo sta alla radice dei tre
modelli di libero arbitrio, ha sempre il medesimo soggetto: l’uomo, in-
tellettivo e appetitivo insieme. Del resto, il giudicare che ― stando al
primo modello ― garantisce l’autonomia del volere, è un «muovere sé
a giudicare», cioè un giudicare che è già appetitivo48; e l’intelletto che
― stando al secondo modello ― consente alla volizione di stare a di-
stanza dai beni particolari (o, simmetricamente, di non trascurarne
nessuno), è un intelletto che non potrebbe fare questo, se non fosse già
in origine intellezione intrinseca all’adpetitus. E ancora, la volontà
può trattare i propri atti di volizione come objecta particolari ― terzo
modello –, in quanto già intellettiva, già capace cioè di giudzio. In-
somma, ovunque ci volgiamo, troviamo quella ordinatio intellectus ad
voluntatem o voluntatis ad intellectum, che è il vero originario antro-
pologico.
2. Il nodo della indifferenza
2.1. Una libertà non neutrale
Una costante sembra comunque attraversare le varie fasi del pen-
siero di Tommaso intorno alla libertà di scelta: il rifiuto di intenderla
nel senso di una libertà di indifferenza. Il rifiuto è esplicito, fin dal
Commento alle Sentenze. Qui, l’ipotesi di una assoluta indifferenza ri-
48
«Nulla autem potentia judicans, seipsam ad judicandum movet, nisi supra actum suum
reflectatur» (cfr. Contra Gentiles, II, c. 48).
72 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
spetto alle alternative viene esclusa come incompatibile con la dina-
mica stessa della scelta: questa, infatti, non potrebbe accadere se non
in funzione di una già da sempre attiva ricerca del fine autentico. Leg-
giamo al riguardo: «nihil agit nisi secundum quod est in actu; et inde
est quod oportet omne agens esse determinatum ad alteram partem:
quod enim ad utrumlibet est aequaliter se habens, est quodammodo
potentia respectu utriusque: et inde est quod, ut dicit commentator in
2 Phys. ‘ab eo quod est ad utrumlibet, nihil sequitur, nisi determine-
tur. Determinatio autem agentis ad aliquam actionem, oportet quod
sit ab aliqua cognitione praestituente finem illi actioni’»49. Insomma,
la scelta si struttura sì secondo un rapporto di opposizione; ma, più al
fondo, la stessa opposizione tra possibili «objecta» ― ovvero tra «a-
genda»50 ― ha occasione di istituirsi, solo in riferimento al fine asso-
luto: gli objecta, infatti, hanno senso come «ea quae sunt ad finem».
Se dunque l’uomo è in grado di riconoscere un ordine «oggettivo» ―
de agendis ―, risulterà coerente col senso stesso della libertà cercare
di rispettarlo. È per questo, che Tommaso scrive: «quamvis potentia
rationalis sit ad opposita, non tamen ad utrumque oppositorum ae-
qualiter ordinatur; sed ad unum naturaliter, et ad alterum, secundum
quod a perfectione propriae naturae deficit»51. E, ancor più esplicita-
mente: «ad rationem liberi arbitrii non pertinet ut indeterminate se
habeat ad bonum vel ad malum: quia liberum arbitrium per se in bo-
num ordinatum est, cum bonum sit objectum voluntatis, nec in malum
tendit nisi propter aliquem defectum, quia apprehenditur ut bonum»52.
Se nel Commento alle Sentenze Tommaso insiste sul carattere non
moralmente neutrale della libertà di scelta, nel De veritate egli usa e-
splicitamente il termine «indifferentia», e lo fa in più accezioni. C’è
una «indifferenza» che è propria della stessa «spontaneità» animale ―
«indifferentia ad agere et non agere» –, e che non è, di per sé, indice
di libertà di scelta: la chiave della libertà non sta infatti nella semplice
indeterminazione ad un comportamento piuttosto che ad un altro, ben-
49
Cfr. II Sent., d. 25, q. 1, a. 1, Resp.
50
Resta inteso che il termine «objectum», per come compare nel presente scritto, è tratto
dal vocabolario della filosofia pratica di Tommaso, e indica, dunque, il contenuto della azione
(il contenuto della scelta) ― attuale o possibile che sia.
51
Cfr. II Sent., d. 39, q. 2, a. 2, ad 1um.
52
Cfr. II Sent., d. 25, q. 1, a. 1, ad 2um.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 73
sì nel fatto che tale indeterminazione sia fondata nella capacità di judi-
care de agendis, e dunque di relazionare i comportamenti al bene tra-
scendentalmente inteso. L’indifferenza di spontaneità, del resto, è pas-
sibile di coazione fisica; la libertà di scelta, propriamente, no53. C’è
poi una «indifferenza» che coincide con quell’indeterminazione che si
fonda, appunto, nell’attività giudicativa; e questa può a buon diritto
venire associata alla libertà di scelta54: non ne rappresenta, però, il sen-
so ultimo. Infatti, nonostante non manchino ― nella Summa Theolo-
giae ― concessioni strategiche ad un linguaggio indifferentista55, re-
sta, obiettivamente, che il senso ultimo dell’atto libero sta, per Tom-
maso, nella inevitabile tensione al bene ideale, e nella conseguente
ermeneutica dei comportamenti, come possibili vie a quello.
2.2. Compulsio e impulsio
Dunque, indifferenza come autonomia dal relativo. Non, indiffe-
renza come considerazione delle scelte nel segno dell’equivalenza.
Nel senso autentico, indifferenza è allora l’impossibilità di essere pre-
da di una «coactio sufficiens» o «compulsio». Già nel Commento alle
Sentenze Tommaso distingue tra una «coazione sufficiente» e una «in-
sufficiente» (o «impulsio») : la prima è data da una costrizione assolu-
53
«Quamvis in brutis sit quaedam indifferentia actionum, tamen non potest proprie dici
quod sit in eis libertas actionum, sive agendi vel non agendi: tum quia actiones, cum per cor-
pus exerceantur, cogi possunt vel prohiberi, non solum in brutis, sed in hominibus, unde nec
ipse homo dicitur liber actionis suae; tum etiam, quia quamvis sit indifferentia ad agere et
non agere in bruto, considerata ipsa actione secundum se ipsam; tamen considerato ordine
ejus ad judicium, a quo provenit quod est determinatum ad unum, etiam ad ipsas actiones ob-
ligatio quaedam derivatur, ut non possit in eis inveniri ratio libertatis absolute» (cfr. De veri-
tate, q. 24, a. 2, ad 3um).
54
«Ad ipsum universale bonorum principium voluntas se extendit, ad quod nullus alius
appetitus pertingere potest; et propter hoc creatura rationalis non habet determinatas actio-
nes, sed se habet sub quadam indifferentia respectu materialium actionum» (cfr. ibi, a. 7,
Resp.).
55
Il riferimento è, naturalmente, a Summa Theologiae, I, q. 83, a. 2, dove la preoccupa-
zione è quella di confutare che il libero arbitrio sia habitus (per poterlo rubricare come poten-
tia). Dunque, Tommaso osserva ― con linguaggio un po’ sbrigativo ― che il libero arbitrio,
che può scegliere sia l’honestum che l’inhonestum senza con ciò pregiudicare la propria esi-
stenza, non è, appunto, un habitus: «Liberum arbitrium indifferenter se habet ad bene eligen-
dum, vel male. Unde impossibile est quod liberum arbitrium sit habitus. Relinquitur ergo
quod sit potentia» (cfr. ibi, Resp.).
74 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
ta; la seconda coincide con le condizioni e i condizionamenti entro i
quali la libertà si muove56. La compulsio, a sua volta, può investire gli
organi fisici dell’uomo, e, al riguardo, si può dire che «liberum arbi-
trium non potest cogi in suo actu proprio, qui est eligere; sed tamen
potest cogi in aliquibus actibus imperatis ab ipso propter coactionem
virtutum exequentium»57; ma può anche investire intelletto e volontà,
nell’ipotesi in cui essi riconoscano il loro «oggetto» destinale58. E, se
nel primo caso la compulsio si colloca al di qua della scelta ― non
riesce cioè nemmeno a raggiungere l’orizzonte di quella ―, nel caso
seguente la compulsio si colloca piuttosto al di là dell’orizzonte della
scelta: o meglio ― come vedremo ―, in un orizonte in cui la scelta
non si articola su possibili alternative. Per queste ragioni, si può dire
che la compulsio è estranea al regime della libertà di scelta59. Non così
l’impulsio, che anzi ne rappresenta l’ambiente normale di esercizio.
Ogni specie di impulso, comunque, in quanto entra nell’orbita co-
scienziale, rientra anche nell’area potenziale del giudizio ― che riferi-
sce i particolari al senso ultimo dell’agire ―, e quindi rientra
nell’ambito della libertà di scelta. È lo stesso Tommaso a dire che,
«cum electio sit quoddam judicium de agendis, vel judicium consequa-
tur, de hoc potest esse electio quod sub judicio nostro cadit»60. In quan-
to, poi, non entrasse nell’orbita coscienziale, l’impulso risulterebbe
piuttosto assimilabile alla prima forma di compulsio: cioè, ad un fattore
potente sulle condizioni entro cui la scelta viene ad esercitarsi ― poten-
te, ad esempio, nel delineare lo scenario delle opzioni o l’atmosfera
emotiva che lo pervade –, ma non potente sulla scelta in sé considerata.
Tommaso sviluppa, sia pure non sistematicamente, un’ampia casisti-
ca delle varie forme di «impulsio» con cui la libertà di scelta può avere
56
Per chiarire come l’esercizio della libertà di scelta non sia essenzialmente compromesso
dai condizionamenti in cui si muove, Tommaso distingue tra «libertas a necessitate» (quella
che interessa il nostro discorso) e «libertas ab impellentibus et disponentibus»: la prima è una
realtà strutturale ― che o c’è o non c’è –, la seconda può variare qualitativamente e quantita-
tivamente, secondo le condizioni esistenziali (cfr. II Sent., d. 25, q. 1, aa. 4 e 5, Respp.).
57
Cfr. II Sent., d. 25, q. 1, a. 3, ad 1um.
58
Cfr. ibi, a. 2, Resp.
59
«Liberum arbitrium dicitur ex eo quod cogi non potest. Coactio autem [...] est duplex:
una compellens, et alia inducens vel impellens. Hoc autem est naturale et essentiale libero
arbitrio ut sufficienter non cogatur coactione compellente. Et hoc sequitur ipsum in quolibet
statu; unde non augetur talis libertas nec diminuitur per se» (cfr. ibi, d. 25, q. 1, a. 4, Resp.).
60
Cfr. De veritate, q. 24, a. 1, ad 20um.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 75
a che fare. Comprensibile, in relazione all’epoca, è la sua insistenza sul
problema dell’azione dei corpi celesti sull’azione libera dell’uomo. Su
questo tema egli formula già nel Commento alle Sentenze la soluzione
― di ispirazione aristotelica ― che ribadirà poi nel corso di tutta la sua
opera61: non si tratta di negare possibili incidenze della disposizione dei
corpi celesti sulla disposizione della natura corporea dell’uomo, e quin-
di della sua vita sensitiva; si tratta piuttosto di considerare che la vita
sensitiva non è identica formalmente a quella intellettiva, su cui ― sol-
tanto ― si innesta la dinamica della libertà di scelta.
Perciò, la potenza sull’una può essere interpretata solo come un
condizionamento della materiale disposizione dell’orizzonte entro cui
la scelta si esercita ― Tommaso parla di affezioni che possono stimo-
lare l’attività giudicativa62 –, ma non come un sigillo impresso
all’attività elettiva63.
L’impulsio ha poi un sicuro protagonista nel mondo passionale64;
ma la possibilità che «impetus passionis [...] intercipitur judicium ra-
tionis, ne actu judicet in particulari quod in universali habitu tenet»65,
non comporta che ― in quanto ne è cosciente ― l’uomo non sia libe-
ro anche in relazione alle passioni66. Queste, infatti, possono modifica-
re ― per così dire ― il campo visivo dell’uomo con particolari colo-
razioni emotive67, ma non possono dominare l’attività giudicativa; di
qui la conclusione: «inquantum ergo ratio manet libera, et passioni
non subjecta, intantum voluntatis motus, qui manet, non ex necessitate
61
Cfr., in proposito: Contra Gentiles, III, cc. 84 e 85; De malo, q. 6, Resp.; Summa Theo-
logiae, I IIae, q. 9, a. 5; II IIae, q. 95, a. 5; Ethicorum, III, lect. XIII. Specie nella q. 6 De malo
e nel Commento all’Etica Nicomachea, l’autorità richiamata, a proposito della distinzione tra
sensibilità e intelletto, è l’Aristotele del III Libro del De anima.
62
«Ex dispositione corporis, quam impressio caelestis relinquit, aliquo modo anima in-
clinatur ad sequendum affectiones corporis per modum quo passiones corporales rationem
inclinant, et quandoque deducunt» (cfr. II Sent., d. 15, q. 1, a. 3, Resp.). Su questo, cfr. anche:
ibi, d. 25, q. 1, a. 2, ad 5um.
63
«Alii philosophi ponentes ‘intellectum a sensu differre in hoc quod ad corpus non de-
pendet, nec corporali organo suum actum explet’, dixerunt ‘nullam virtutem corporalem cau-
salitatem super intellectum humanum habere, sed omnino ab extrinseco esse, et ideo etiam e-
lectionem humanam non dependere ex corporibus caelestis nisi per accidens’» (cfr. ibi, d. 15,
q. 1, a. 3, Resp.).
64
Cfr. II Sent., d. 24, q. 1, a. 4, Resp.
65
Cfr. De veritate, q. 24, a. 10, Resp.
66
Cfr. ibi, a. 2, Resp.
67
Cfr. Summa Theologiae, I IIae, q. 9, a. 2, Resp.
76 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
tendit ad hoc ad quod passio inclinat; et sic aut motus voluntatis non
est in homine, sed sola passio dominatur; aut si motus voluntatis sit,
non ex necessitate sequitur passionem»68. A dir la verità, l’alternativa
qui proposta andrebbe più opportunatamente trasformata in una distin-
zione di dimensioni che attraversano l’azione umana: è normale, infat-
ti, che l’agire libero si levi su di un substrato, anche molto complesso,
di realtà psichiche le cui dinamiche per lo più «subterfugiunt delibera-
tionem rationis» (ovvero, «impraemeditate occurrunt»). Comunque,
tali realtà, non appartenendo all’orizzonte coscienziale, non sono, di
per sé, nella sfera della libertà di scelta: nel senso che l’uomo non è in
grado di deliberare su di esse, ma piuttosto si trova ad esercitare la
propria scelta sui fenomeni che da esse conseguono69.
Considerazioni analoghe a quelle svolte sul mondo passionale, so-
no fatte vedere da Tommaso per i casi, più particolari, dei singoli tem-
peramenti personali e delle abitudini acquisite70; e, ancora, per la stes-
sa «servitù del peccato» (originale e attuale)71 –, la quale «non dicit
coactionem»72. Neppure del primo autore del peccato, il diavolo, si
può dire che sia, nell’uomo, «causa peccati», se la tentazione che da
lui proviene è effettivamente tale, e cioè se rientra ― in qualche modo
― nell’orizzonte coscienziale dell’uomo73.
Una particolare attenzione merita, però, l’accenno che Tommaso fa
― nel suo Commento al Perì Hermeneías ― alla ipotesi fatalistica in
relazione alla libertà di scelta. Estremizzando l’idea di una incidenza
dei moti degli astri sulla vita umana, Tommaso la fa convergere con il
68
Cfr. ibi, q. 10, a. 3, Resp.
69
L’importante accenno di Tommaso a questo genere di realtà ― accenno che sembra
quasi prefigurare problemi che sarebbero stati esplicitamente posti, in ambito psicoanalitico,
dalla postulazione dell’inconscio ― è contenuto in De veritate, q. 24, a. 12, Resp.
70
Cfr. ibi, a. 1, ad 19um; Summa Theologiae, I, q. 83, a. 1, ad 5um: «Ex hujusmodi dispo-
sitione homo inclinatur ad eligendum aliquid, vel repudiandum. Sed istae inclinationes subja-
cent judicio rationis, cui obedit inferior appetitus [...]. Unde per haec libertati arbitrii non
praejudicatur. Qualitates autem supervenientes sunt sicut habitus et passiones, secundum
quas aliquis magis inclinatur in unum quam in alterum. Tamen istae etiam inclinationes sub-
jacent judicio rationis; et hujusmodi etiam qualitates ei subjacent, inquantum in nobis est ta-
les qualitates acquirere vel causaliter vel dispositive, vel a nobis excludere. Et sic nihil est
quod libertati arbitrii repugnet».
71
Cfr. II Sent., d. 24, q. 1, a. 4, Resp.; d. 25, q. 1, a. 4, ad 4um.
72
Cfr. De veritate, q. 24, a. 1, ad 6um.
73
«Diabolus non potest liberum arbitrium hominis movere; hoc enim libero arbitrio re-
pugnaret. Non est ergo diabolus causa peccati» (cfr. De malo, q. 3, a. 3, Sed contra).
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 77
necessitarismo megarico, di cui è questione nel testo aristotelico da lui
commentato. Ora, ciò che interessa il nostro discorso, è che
l’Aquinate, che già si è impegnato a discutere il fatalismo, ad un certo
punto del suo discorso sembra ― per esperimento ― ammetterlo, per
precisare subito che «ex hac causa» ― il fato, appunto ― «non potest
provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur». E spiega: «multa
enim hic» ― nelle cose umane ― «fiunt ex intellectu et voluntate,
quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum»74.
Quel che segue è lo sviluppo argomentativo già collaudato in riferi-
mento alla solita ipotesi dell’influsso degli astri sulla condotta umana.
Ma, al di là dello sviluppo consueto ― per cui ammettere il determini-
smo astrologico sarebbe ridurre l’intelligenza a sensazione –, ciò che
può essere sottolineato come originale, è la tesi, non sviluppata, per
cui la concezione metafisica del fatalismo (in questa o in altre forme)
potrebbe essere ammessa, senza che sia però in grado di mettere in
crisi la consapevolezza della libertà di scelta dell’uomo. Insomma ―
interpretando, e un po’ dilatando, il sobrio dettato tommasiano –,
l’accertamento della libertà di scelta passa attraverso una analisi della
struttura coscienziale dell’uomo, e di fatto può essere condotto, alme-
no in prima istanza, anche in modo indipendente da una ontologia del-
le modalità e da una dispiegata metafisica (creazionista o fatalista)75.
Solo una metafisica della creazione libera è in grado di fondare in
modo appropriato la piena contingenza di una realtà ― come anche
74
Cfr. Expositio libri Perì Hermeneías, I, lect. 14; testo latino della Editio Leonina
(1989).
75
Se Tommaso avesse voluto essere preciso e consequenziale, su questo terreno, avrebbe
dovuto evitare di fare appello direttamente alla «contingenza» delle realtà particolari, per fon-
dare su di essa l’indeterminazione dell’atto di scelta. Tale appello compare invece in Summa
Theologiae, I, q. 83, a. 1, Resp. Qui Tommaso scrive: «Ratio enim circa contingentia habet
viam ad opposita [...]. Particularia autem operabilia sunt quaedam contingentia; et ideo cir-
ca ea judicium rationis ad diversa se habet, et non est determinatum ad unum». Diversamen-
te, in precedenza (cfr. ibi, q. 82, a. 2, Resp.), Tommaso aveva parlato di mancata evidenza di
una «connessione necessaria» dei beni particolari col bene propriamente voluto, arrestandosi
così, più opportunamente, sul piano fenomenologico. Dico, più opportunamente, perchè
all’accertamento dell’indeterminazione della volontà rispetto ai «particularia operabilia», è
sufficiente il riconoscimento del loro carattere ― appunto ― finito, particolare; ovvero il ri-
conoscimento della loro sproporzione rispetto all’ideale del bene, e della inevidenza della loro
connessione necessaria con la concreta realizzazione di esso (inevidenza facilmente accertabi-
le, come già si diceva, considerata la precedente inevidenza del darsi immediato e inequivo-
cabile di una tale concreta realizzazione).
78 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
Tommaso riconosce, e proprio nel contesto cui ci stiamo riferendo76.
Non si potrà quindi invocare la contingenza come sfondo dell’atto li-
bero di scelta dell’uomo, senza con ciò sottintendere di aver già acqui-
sito la verità della Creazione. Ora, in linea di diritto non sembra che,
per fondare la libertà umana, occorra passare attraverso lo sviluppo di
una metafisica della Creazione (ancorché la si ritenga valida) ; né, una
simile subordinazione, ci sembra effettivamente praticata nei testi
tommasiani. Non sembra, cioè, che ad accertare quella contingenza di
secondo grado che investe i particularia agenda in relazione al fatto
che vengono scelti liberamente dall’uomo77, sia essenziale l’accerta-
mento previo della loro piena contingenza metafisica.
3. Libertà e necessità
3.1. Fatale e destinale
Come abbiamo visto, Tommaso accenna alla ipotesi fatalista ― di-
ciamo pure a quella suscitata da Diodoro Crono col suo «discorso in-
vincibile» ―, riconoscendo però nella volontà umana (e nell’atto eli-
cito che ne proviene) una zona franca rispetto a quella ipotesi, la quale
pure potrebbe estendere il suo potere a quelle dimensioni dell’atto im-
perato, che ne fanno qualcosa di naturale (un atto–base–fisico). E nel
76
In primo luogo, Tommaso riconosce che «possibilitas materiae ad utrumque [...] non
est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit
omnino determinata ad unum»: dunque, il fatto che qualcosa possa divenire in un senso che
non appare predeterminato, non è ancora prova della sua contingenza; si tratterà piuttosto di
interrogare la realtà dalla quale, ultimamente, quel divenire dipende. E se tale realtà è il libero
Atto creatore di Dio ― «causa quaedam profundens totum ens et omnes ejus differentias» –,
allora si potrà parlare di contingenza nel senso pieno o metafisico del termine: nel senso, cioè,
che serve per confutare il necessitarismo megarico di cui è questione nel testo aristotelico che
Tommaso sta commentando (cfr. Expositio libri Perì Hermeneías, I, lect. 14).
77
È lo stesso Tommaso a parlare di una certa contingenza in cui l’atto umano costituisce i
suoi objecta. Leggiamo, infatti, che «Philosophus signanter radicem contingentiae in his quae
fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem, et tamen non
sunt determinata». Poco prima, Tommaso precisa che sta parlando di «alia radix contingen-
tiae» ― rispetto a quella creatrice –; ma meglio sarebbe forse parlare, come abbiamo fatto nel
testo, della radice di un’altra specie di contingenza, rispetto a quella propriamente metafisica
(cfr. ibidem). La contingenza dipendente dall’atto umano, è quella che incontriamo anche in
Summa Theologiae, I IIae, q. 13, a. 6, ad 2um.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 79
porre tale zona franca, Tommaso non sente la necessità di passare at-
traverso la confutazione metafisica dell’ipotesi in questione: egli, cioè,
non fa appello, in quel contesto, alla metafisica della Creazione.
Si tratta solo di uno scorcio prospettico ― da approfondire a parte,
e in altra circostanza. Quel che però interessa direttamente l’economia
del nostro attuale discorso, è che, di fronte all’ipotesi fatalista, si im-
pone all’attenzione una distinzione fondamentale, rimasta alquanto
trascurata nella filosofia classica: quella tra «fatale» e «destinale». È
infatti la destinazione attiva al bene come tale, il fattore che salva
l’uomo da ogni captazione inautentica, in quanto gli consente di porsi
a distanza critica rispetto ad ogni impulsio, e gli consente anche di im-
possibilitare alla radice una ipotetica compulsio che vada ad investire
l’atto elicito ― foss’anche, essa, potente sulla dimensione imperata di
questo. L’unica compulsio possibile ― come già abbiamo visto ― ri-
marrebbe infatti quella che sull’atto di scelta venisse operata da un o-
bjectum adeguato all’ampiezza dell’umano volere: ma non si tratte-
rebbe più, a questo punto, di un’attrazione inautentica (e, in tal senso,
fatale), bensì della attrazione propriamente destinale, qui finalmente
inverata. Insomma, solo l’attrazione destinale può salvare l’uomo dal
fato: anánke contro heimarméne.
Parliamo volentieri di anánke, perché i testi di Tommaso insistono
in modo costante sul carattere «necessario» della ricerca umana del
bene come tale; e la radice indoeuropea dei due termini ― necessitas
e anánke ― è presumibilmente la medesima. Tale radice ― NAC o
NANC ― indica proprio la inevitabile tensione al fine.
3.2. La necessità del volere nel Commento alle Sentenze
Ma veniamo ad una rapida rassegna dei testi tommasiani, che ―
sola ― può ridarci il senso proprio della necessità in questione. Fin
dal Commento alle Sentenze, appaiono con chiarezza alcuni punti fer-
mi della dottrina tommasiana intorno al rapporto tra necessità e liber-
tà: primo fra tutti, la consapevolezza ― già aristotelica ― che «electio
non est de fine, sed de his quae sunt ad finem»78; che la libertà di scel-
78
«Rationalis potestas dicitur esse oppositorum, quae sub electione cadunt, quorum pro-
prie est liberum arbitrium. Electio autem non est de fine, sed de his quae sunt ad finem [...]:
80 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
ta, insomma, si struttura sulla base di un rapporto non scelto, bensì da-
to. La stessa considerazione, attraverso un linguaggio diverso, emerge
là dove Tommaso parla di una dimensione «naturale» della volontà ―
«voluntas ut natura» ―, che esprime la tendenza al bene secondo la
forma propria dell’uomo: quella intellettiva (e perciò razionale); e che
fonda la possibilità di ogni particolare declinazione del volere secondo
questo o quel bene particolare ― «voluntas ut deliberata»79. Si tratta,
in entrambi i casi, di riconoscere che l’eligere è in funzione di un velle
che lo precede e gli conferisce senso ― secondo la formula «voluntas
totius libertatis finis est»80.
Quando Tommaso parla di «voluntas ut natura», intende dire che
― genericamente ― la volontà umana ha il suo oggetto proprio, al
quale tende «absolute»81; ma ― specificamente ―, tale oggetto è còl-
et ideo de fine non potest voluntas contrarie se habere. Voluntas enim non potest esse de mi-
seria neque de malo inquantum hujusmodi, sed semper est de bono et de beatitudine» (cfr. II
Sent., d. 7, q. 1, a. 1, ad 1um). Che Tommaso tragga esplicitamente da Aristotele la calibra-
zione del confronto tra volontà e scelta, è ben testimoniato dal suo commento all’Etica Nico-
machea, in particolare là dove egli riprende la tipica espressione aristotelica per cui «he men
boúlesis toũ télous estì mãllon, he de proaíresis tõn pros to telos» (cfr. Aristotele, Etica Ni-
comachea, 1111b 26–27), sviluppandola così: «Sed voluntas nominat hujusmodi potentiae ac-
tum relatum in bonum absolute. Electio autem nominat actum ejusdem potentiae relatum in
bonum, secundum quod pertinet ad nostram operationem, per quam in aliquod bonum ordi-
namur» (cfr. Ethicorum, III, lect. 5). Quanto all’altra importante espressione aristotelica, per
cui «eudaimoneĩn boulómetha men kai phamén, proairoúmetha de léghein ouch harmózei»
(cfr. Aristotele, ibi, 1111b 28–29), Tommaso spiega che «electio est solum eorum quae sunt
ad finem, non autem ipsius finis. Quia finis praesupponitur, ut jam praedeterminatus» (cfr.
Ethicorum, III, lect. 5). Quella di Tommaso circa il carattere non originariamente deliberativo
della volontà è dunque una insistenza su elementi che già ― sia pure in modo più rapsodico
― sono presenti nello Stagirita; si veda al riguardo anche quest’altra espressione aristotelica:
«to d’hekoúsion ou pãn proairetón» (cfr. Aristotele, ibi, 1112a 14–15).
79
«Voluntas ut deliberata, et ut natura, non differunt secundum essentiam potentiae: quia
naturale et deliberatorium non sunt differentiae voluntatis secundum se, sed secundum quod
sequitur judicium rationis: quia in ratione est aliquid naturaliter cognitum quasi principium
indemonstrabile in operabilibus, quod se habet per modum finis, ‘quia in operabilibus finis
habet locum principii’, ut in 6 ethic. dicitur. Unde illud quod finis est hominis, est naturaliter
in ratione cognitum esse bonum et appetendum, et voluntas consequens istam cognitionem di-
citur voluntas ut natura. Aliquid vero est cognitum in ratione per inquisitionem ita in operati-
vis sicut in speculativis; et utrobique [...] contingit inquirentem rationem errare; unde volun-
tas quae talem cognitionem rationis sequitur, deliberata dicitur, et in bonum et malum ten-
dere potest, sed non ab eodem inclinante» (cfr. ibi, d. 39, q. 2, a. 2, ad 2um).
80
Cfr. ibi, d. 25, q. 1, a. 5, ex.
81
«Voluntas ut natura movetur in aliquid [...] absolute» (cfr. III Sent., d. 17, q. 1, a. 2a,
Resp.).
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 81
to secondo la forma intellettivo–razionale: non può dunque essere
qualcosa di «unum» in senso categoriale o in senso empirico82. Ora,
Tommaso ― che qui usa un lessico proveniente, per la mediazione di
Pier Lombardo, da Giovanni di Damasco83 ― indica con l’espressione
«voluntas ut ratio» la dimensione specificamente umana della stessa
«voluntas ut natura»: quella dimensione, appunto, che le impedisce di
volgersi «absolute» a qualcosa che non sia il bene assoluto84.
Sulla base di questa distinzione, si può cercare anche di articolare il
senso della «necessitas coactionis», che è il contrario della volontarie-
tà85. Ora, in senso generico, Tommaso riprende l’accezione aristotelica
di coatto ― o «violento» ― come di ciò «cujus principium est extra»;
e, in tal senso, si potrà dire che «voluntarium» ― nel senso generico
della «voluntas ut natura» ― è ciò «cujus principium est intra»86. Ma
intendere la volontarietà come spontaneità generica, il cui contrario
sono le forze che con essa collidono in vario modo, non ridà ancora il
senso propriamente umano di questa figura. La violenza capace di op-
porsi ― specificamente ― alla volontarietà umana, dovrebbe piutto-
sto essere intesa come impedimento alla libera scelta: ma una simile
violenza specifica è esclusa a priori dalla struttura stessa dell’atto di
volontà ― come si è visto parlando dell’ipotesi della compulsio.
Non si può comunque non rilevare che nel Commento alle Sentenze
è presente una certa venatura problematica circa la necessaria tensione
della volontà al fine ultimo. Tommaso, infatti, ricorda che la volontà
82
«Homo naturaliter in bonum tendit. Sed motus naturalis a forma progreditur secundum
conditionem formae. Voluntas tamen talis conditionis est, et ratio, ut non sint determinata ad
unum, quin in aliud flecti possint» (cfr. II Sent., d. 39, q. 2, a. 1, Resp.). Naturalmente, l’unum
destinale potrebbe solo coincidere con una realtà che attuasse in sé il bene nella pienezza del
suo significato: «voluntas [...] felicitatem naturaliter appetit» (cfr. ibi, d. 25, q. 1, a. 2, Resp).
83
La distinzione del Damasceno è quella tra thélesis e boúlesis, ripresa dal Magister nei
termini di «voluntas ut natura» e «voluntas ut ratio» (cfr. III Sent., d. 17, q. 1, a. 1c, ad 1um).
In fondo, però, il referente ultimo della distinzione in gioco potrebbe essere lo stesso Aristote-
le, quando distingue tra la generica órexis e la specifica bouleutiké órexis.
84
«Voluntas ut natura [...] si per rationem non ordinetur in aliquid aliud, acceptabit illud
absolute, et erit illius tamquam finis; si autem ordinet in finem, non acceptabit aliquid absolu-
te, quousque perveniat ad considerationem finis, quod facit voluntas ut ratio. Patet igitur
quod voluntas ut natura imperfecte vult aliquid, et sub conditione, nisi feratur in ipsum sicut
in finem» (cfr. III Sent., d. 17, q. 1, a. 2a, Resp.).
85
«Necessitas coactionis voluntati contraria est» (cfr. II Sent., d. 25, q. 1, a. 2, ad 1um).
86
Cfr. ibi, a. 1, ad 6um.
82 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
creata può venir meno «in suo actu»87, dal momento che «ordo volun-
tatis ad finem ultimum, non est per operationem finis ultimi in volun-
tate, sed per operationem voluntatis in finem tendentis: et quia volun-
tas defectibilis est, ideo ab isto ordine deficere potest per defectum
suae operationis, et non per defectum finis»88. Né vale, qui, dirottare
sull’ignoranza la responasbilità della deviazione dal fine: infatti, la
stessa ignoranza è facilmente interpretabile come il frutto di una vo-
lontaria negligenza89.
Per contenere la problematicità al di qua della soglia aporetica, è
sufficiente però osservare che le espressioni ora citate, e le altre ana-
loghe che si potrebbero citare90, si riferiscono, più o meno esplicita-
mente, al possibile «defectus» della volontà nell’atto di scelta; e, dun-
que, finiscono per riguardare il problema della coerenza della scelta
con il fine ultimo: insomma, il problema morale. Si può dire che ri-
guardano il problema della scelta, in riferimento alla «intenzione»91.
Ora l’intenzione non è l’orientamento fondamentale della volontà al
fine ― di cui dunque non è in questione l’indefettibilità –, bensì è la
ricerca attiva del fine, vissuta dentro una circostanza particolare. Per
distinguere le due figure, Tommaso parla, rispettivamente, di «volun-
tas finis» e, appunto, di «intentio»92 ― costituendo, l’intentio, la di-
mensione finalistica della electio93.
87
Cfr. ibi, d. 39, q. 1, a. 1, Resp.
88
Cfr. ibi, ad 2um.
89
«Ille error qui est in ratione, secundum quod aestimat bonum quod non est bonum, est
secundum ignorantiam electionis, ut in 3 Ethic. dicitur; et haec ignorantia non causat invo-
luntarium, quia voluntas hujusmodi ignorantiae quodammodo causa est, dum passiones non
cohibet, quae rationem in aestimando absorbent, quarum cohibitio in potestate voluntatis est:
et ideo peccatum voluntati imputatur» (cfr. ibi, ad 4um).
90
Cfr. ibi, q. 2, a. 2, ad 1um.
91
Non a caso, le considerazioni della distinctio 39 sulla fallibilità del volere, sono prece-
dute, alla distinctio 38, da quelle sul concetto di «intentio».
92
«Actus voluntatis potest ferri in finem dupliciter. Vel immediate in ipsum finem [...]; et
talis actus proprie dicitur voluntas finis, ut velle beatitudinem. Alio modo fertur actus in finem
mediante eo quod est ad finem; et hoc proprie dicitur intendere finem» (cfr. ibi, d. 38, q. 1, a.
5, Resp.). Altrove, Tommaso precisa che «intentio dicitur esse de fine, non secundum quod
voluntas in finem absolute fertur, sed secundum quod ex eo quod est ad finem, in finem ten-
dit» (cfr. ibi, q. 1, a. 3, Resp.).
93
«Intentio non est actus voluntatis absolute, sed in ordine ad rationem actus voluntatis or-
dinantem. Sed ratio potest ordinare actum voluntatis dupliciter: vel secundum quod voluntas est
de fine, et sic actus voluntatis in ordine ad rationem est intentio; vel secundum quod est de his
quae sunt ad finem; et sic actus voluntatis in ordinem ad rationem est electio» (cfr. ibi, ad 5um).
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 83
Del resto, che la fallibilità della volontà rispetto al fine ultimo ri-
guardi solo l’atto di scelta, risulta sufficientemente chiaro già dal mo-
do in cui l’Aquinate sfrutta il riferimento al celebre effato di Giovanni
di Damasco ― «omne quod est ex nihilo, vertibile est in nihil, vel
quantum ad esse, vel quantum ad electionem» ―, precisando che la
«vertibilitas in nihil», propria della volontà umana, non è «quantum
ad esse», ma «quantum ad electionem». Insomma, non viene meno il
riferimento al fine ultimo, che è un elemento costitutivo dell’atto u-
mano ― in termini teologici, è «pars imaginis» –; ma può venir meno
il riconoscimento esplicito e attivo di questo orientamento strutturale.
«Et hoc non fit nisi per peccatum» ― spiega Tommaso94.
3.3. Sviluppi successivi
Nel De veritate gli stessi elementi ritornano95, non senza alcune pe-
culiari insistenze: prima fra tutte, la netta contrapposizione tra necessi-
tà di natura e necessità di coazione. L’autorità di riferimento è qui
quella di Agostino: «sicut potest accipi ex verbis Augustini, 5 de Civi-
tate Dei (cap.10), duplex est necessitas: necessitas scilicet coactionis,
et haec in volentem nullo modo cadere potest; et necessitas naturalis
inclinationis, sicut dicimus Deum de necessitate vivere: et tali necessi-
tate voluntas aliquid de necessitate vult»96. Agostino, in effetti, par-
94
Cfr. ibi, d. 39, q. 1, a. 1, Sed contra 2. Il riferimento al libro II del De fide orthodoxa del
Damascenus, ritorna nel De veritate, dove si tratta di escludere l’ipotesi della impeccabilità
naturale della creatura razionale (cfr. De veritate, q. 24, a. 7, Sed contra). Nel De veritate
Tommaso usa un ossimoro per esprimere la fallibilità del volere: ossimoro che è facilmente
interpretabile come espressione della peccabilità nella scelta. Leggiamo: «patet quod voluntas
non habet necesse velle hoc vel illud, quamvis sine gratia inveniatur deficiens ab indeficienti
inclinatione in bonum» (cfr. ibi, q. 22, a. 5, ad 7um).
95
Ritroviamo, naturalmente, la distinzione tra voluntas ed electio: «Sicut de primis prin-
cipiis non judicamus ea examinantes, sed naturaliter eis assentimur, et secundum ea omnia
alia examinamus, ita et in appetibilibus, de fine ultimo non judicamus judicio discussionis vel
examinationis, sed naturaliter approbamus; propter quod de eo non est electio, sed voluntas.
Habemus ergo respectu ejus liberam voluntatem; cum necessitas naturalis inclinationis liber-
tati non repugnet, secundum Augustinum, 5 de Civitate Dei; non autem liberum judicium,
proprie loquendo, cum non cadat sub electione» (cfr. De veritate, q. 24, a. 1, ad 20um). Su
questo tema, cfr. anche ibi, a. 6, Resp.
96
Cfr. ibi, q. 22, a. 5, Resp. Scrive Agostino nel passo in questione: «Si enim necessi-
tas nostra illa dicenda est, quae non est in nostra potestate, sed etiam si nolimus efficit
quod potest, sicut est necessitas mortis: manifestum est voluntates nostras, quibus recte
84 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
lando della «necessitas mortis» come del prototipo della coazione,
mostra, quasi di passaggio, che questa non incide propriamente sulla
volontà umana. Essa, infatti, gode di assolutezza rispetto a tutto ciò
che entra nel suo campo visivo–appetitivo senza saturarlo: in tal senso
― aveva anticipato Agostino nel capitolo precedente ―, la struttura
della libertà di scelta risulta impermeabile anche all’ipotesi di un rigi-
do fatalismo97. Parlando invece della divina «necessitas vivendi» come
del prototipo della necessità intrinseca (o, in senso lato, naturale), A-
gostino ha buon gioco a mostrare che questa, esprimendo una struttura
ontologica, non può risultare in alcun modo coattiva. Così, venendo al
caso specifico della libertà umana, Agostino spiega che «cum dicimus
necesse esse, ut, cum volumus, libero velimus arbitrio: et verum pro-
cul dubio dicimus, et non ideo ipsum liberum arbitrium necessitati su-
bicimus, quae adimit libertatem»98. Occorre però notare che, mentre
Agostino si riferisce, qui, a una necessità di tipo ipotetico ― se vo-
gliamo qualcosa, per come siamo fatti non possiamo che volerla se-
condo libertà ―, Tommaso sfrutta il riferimento a questo passo di
Agostino per sostenere il paradosso per cui la libertà di scelta si fonda
vel perperam vivitur, sub tali necessitate non esse. Multa enim facimus, quae si nolle-
mus, non utique faceremus. Quo primitus pertinet ipsum velle; nam si volumus, est, si
nolumus, non est; non enim vellemus, si nollemus. Si autem illa definitur esse necessitas,
secundum quam dicimus necesse esse ut ita sit aliquid vel ita fiat, nescio quur eam time-
amus, ne nobis libertatem auferat voluntatis. Neque enim et vitam Dei et praescientiam
Dei sub necessitate ponimus, si dicamus necesse esse Deum semper vivere et cuncta pra-
escire; sicut nec potestas eius minuitur, cum dicitur mori fallique non posse, minoris es-
set utique potestatis» (cfr. Agostino, De civitate Dei, V, cap. 10; testo latino del Migne:
PL 41). Come si può vedere, Agostino afferma che «non bisogna avere paura della ne-
cessità», perché: (a) o la necessità va intesa come alcunché di fisicamente costrittivo (ad
esempio, la necessità di morire); e allora essa non fa che determinare il campo di eventi
entro il quale la coscienza libera (di per sé impermeabile a ogni presa fatalistica) andrà a
prendere posizione; (b) o la necessità va intesa come la stessa natura della libertà, e
quindi come la stessa nostra natura; e, in tal senso, sarà costitutiva della nostra libertà, e
non opposta ad essa (in tal senso, si potrà dire che il nostro non essere liberi nei riguardi
della nostra libertà, non toglie certo la nostra libertà, pur configurandola come non meta-
fisicamente assoluta). Il passo agostiniano è commentato distesamente da Tommaso in
De veritate, q. 23, a. 4, Resp.
97
«Quapropter si mihi fati nomen alicui rei adhibendum placeret, magis dicerem fatum
esse infirmioris potentioris voluntatem, qui eum habet in potestate, quam illo causarum ordi-
ne, quem non usitato sed suo more Stoici fatum appellant, arbitrium nostrae voluntatis aufer-
ri» (cfr. Agostino, De civitate Dei, V, cap. 9).
98
Cfr. ibi, V, cap. 10.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 85
in una necessità di tipo assoluto: quella con cui la volontà tende al be-
ne come tale99.
Necessità, dunque, e non coazione: «quamvis autem quadam neces-
saria inclinatione ultimum finem velit voluntas; nullo tamen modo
concedendum est quod ad illud volendum cogatur»100. La coazione,
che per Tommaso può investire l’attività intellettiva, non riguarda
quella volitiva101. Quanto alla necessità, essa non esprime certo una
«impotenza della volontà», bensì la sua «virtù» propria: il cuore stesso
della sua autonomia102.
Anche nel De veritate compare la distinzione tra voluntas ut natura
e voluntas ut deliberata103, con una opportuna precisazione, che già
avevamo in qualche modo anticipato riferendo del Commento alle
Sentenze: il naturale sta al volontario, come il generico sta allo speci-
fico. Quindi, ogni tentativo di contrapposizione tra i due termini ―
fondato, ad esempio, sulla determinazione «ad unum» di ogni moto
99
Leggiamo, infatti, poche righe sotto la citazione da Agostino: «Natura et voluntas hoc
modo ordinatae sunt, ut ipsa voluntas quaedam natura sit: quia omne quod in rebus invenitur,
natura quaedam dicitur. Et ideo in voluntate oportet invenire non solum id quod voluntatis
est, sed etiam quod naturae est. Hoc autem est cujuslibet naturae creatae, ut a Deo sit ordina-
ta in bonum, naturaliter appetens illud» (cfr. De veritate, q. 22, a. 5, Resp.).
100
«Coactio enim nihil aliud est quam violentiae cujusdam inductio. Violentia autem [...]
est cujus principium est extra [...]. Sed cum ipsa voluntas sit quaedam inclinatio, eo quod est
appetitus quidam; non potest contingere ut voluntas aliquid velit, et inclinatio ejus non sit in
illud; et ita non potest contingere ut voluntas aliquid coacte vel violenter velit, si aliquid na-
turali inclinatione velit» (cfr. ibidem). Su questo punto, cfr. anche ibi, q. 24, a.1, ad 18um, e
q. 23, a. 4, ad Sed contra («necessitas naturalis ordinis libertati non repugnat, sed sola neces-
sitas coactionis»).
101
Cfr. ibi, ad 12um.
102
«Non pertinet ad impotentiam voluntatis, si naturali inclinatione de necessitate in ali-
quid feratur, sed ad ejus virtutem; sicut grave tanto est virtuosius, quanto majori necessitate
deorsum fertur. Pertineret autem ad ejus infirmitatem, si ab alio cogeretur» (cfr. ibi, ad 2um
in contrarium). L’accostamento ― duro, ma corretto ― della volontà alla gravità, è ripreso
ibi, q. 24, a. 14, Resp., e anche nel De potentia (cfr. q. 10, a. 2, ad 5um; testo latino della edi-
zione Fiaccadori, Parma), dove ritorna anche il solito riferimento agostiniano.
103
«Principale quidem volitum est in quod voluntas fertur secundum suam naturam; eo
quod ipsa voluntas natura quaedam est, et naturalem ordinem ad aliquid habet; hoc autem
est quod naturaliter voluntas vult: sicut humana voluntas naturaliter appetit beatitudinem, et
respectu ejus voliti voluntas necessitatem habet, cum in ipsum tendat per modum naturae;
non enim potest homo velle non esse beatus, aut esse miser. Secundaria vero volita sunt quae
ad hoc principale volitum ordinantur sicut in finem. Et ad haec duo volita hoc modo se habet
voluntas diversimode» (cfr. De veritate, q. 23, a. 4, Resp.).
86 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
naturale104 ―, finisce per contrapporre tra loro, in realtà, la specie ad
un genere «cum praecisione sumptum»105, cioè inteso come chiuso ri-
spetto ad ulteriori perfezioni. Ma il genere, se assunto per come entra
in realazione con la differenza all’interno della specie ― e cioè inde-
terminate ―, non può certo essere a quest’ultima contrapposto106: dun-
que, neppure può esserlo il naturale, se inteso come dimensione gene-
rica del volontario, rispetto al volontario specificamente umano.
Anche il tema della libertà in relazione al peccato, è presente nel
De veritate. Il riferimento è ad Anselmo: scegliere il male morale non
è propriamente libertà; è semmai «quoddam libertatis signum»107. E lo
è, perché anche l’opzione del male avviene sulla base di quanto di ―
sia pur disordinatamente ― positivo l’atto cattivo realizza108.
Nella Contra Gentiles, la relazione tra libertà e necessità non si
può dire un tema centrale109. Comunque, qui troviamo una interessan-
te distinzione tra «necessitas coactionis» ― esclusa, alla radice, dal-
la libertà di scelta ―, e «necessitas ex interiori inclinatione».
Quest’ultima non sembra coincidere con la aspirazione al destino,
che è la base dell’atto libero; ma piuttosto sembra consistere in quel-
la agilità ad assecondare in modo coerente la tensione destinale, che
tradizionalmente è detta virtù, e che, in modo indefettibile, investirà
104
Cfr. ibi, q. 22, a. 5, 6um Sed contra.
105
«Voluntas dividitur contra appetitum naturalem cum praecisione sumptum, idest qui
est naturalis tantum, sicut homo contra id quod est animal tantum; non autem dividitur contra
appetitum naturalem absolute, sed includit ipsum, sicut homo includit animal» (cfr. ibi, q. 22,
a. 5, ad 6um in contrarium).
106
Per quel che riguarda la differenza tra la considerazione «precisiva» e quella «indeter-
minata» del genere, il riferimento classico è al De ente et essentia.
107
Cfr. De veritate, q. 22, a. 6, Resp.
108
«Nihil est adeo malum quod non possit habere aliquam speciem boni; et ratione illius
bonitatis habet quod movere possit appetitum» (cfr. ibi, ad 6um). Se l’atto cattivo non realiz-
zasse alcun bene, non potrebbe essere scelto liberamente, essendo la libertà orientata al bene:
«in qualibet actione peccati remanet aliquid de bono; et quantum ad hoc libertas conserva-
tur; remota enim specie boni, electio cessaret, quae est actus liberi arbitrii» (cfr. ibi, q. 24, a.
10, ad 11um; cfr. anche ad 1um).
109
Per esempio, in Contra Gentiles, I, c. 88, prevale la contrapposizione tra «spontaneità»
e «necessità»: «liberum arbitrium dicitur respectu eorum quae non necessitate quis vult, sed
propria sponte»; o tra «libertà» e «natura»: «homo dicitur [...] liberum arbitrium habere, quia
ad volendum judicio rationis inclinatur, non impetu naturae». Certo, il contesto fa capire che
l’impeto naturale in questione è quello degli animali bruti; però, almeno le scelte linguistiche
sono piuttosto lontane da quelle del De veritate.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 87
la beatitudine escatologica110. Un altro tipo di necessità che Tomma-
so distingue dalla coazione, è la «necessitas ex fine», la quale altro
non è che la «necessitas ex suppositione» considerata al livello degli
atti umani111. Si tratta di una figura che compare nel contesto di un
discorso sulla libertà, in quanto allude alla coerenza morale, o alla
sensatezza pratica delle azioni.
Nella Pars Prima della Summa Theologiae112 incontriamo una tri-
partizione solo in apparenza equivalente a quella ora citata. Infatti, se
vi compaiono la medesima necessità di coazione e la medesima neces-
sità «ex fine», la «necessitas naturalis» che vi troviamo è diversa dalla
«necessitas ex interiori inclinatione» di cui sopra. Infatti, ora si allude
di nuovo alla necessità destinale in sé considerata113: quella che fa da
base alla dinamica della volontà114.
Nella Prima Secundae troviamo, in primo luogo, un testo esempla-
re, in cui diviene esplicita, più che in ogni altro passo, la incompatibi-
lità reciproca tra la «ratio voluntatis» e la «ratio violentiae»; le quali,
escludendosi eideticamente, non possono entrare neppure in un rap-
porto di limitazione reciproca. Infatti, «contra rationem ipsius actus
110
«Coactum enim est quod est voluntati contrario. Est autem quaedam necessitas ex in-
teriori inclinatione procedens, et haec laudem virtuosi actus non minuit, sed auget; facit enim
voluntatem magis intense tendere in actum virtutis; patet enim quod habitus virtutis, quanto
fuerit perfectior, tanto vehementius voluntatem facit tendere in bonum virtutis et minus ab eo
deficere; quod, si ad finem perfectionis devenerit, quamdam necessitatem infert ad bene a-
gendum, sicut est in beatis, qui peccare non possunt […]; nec tamen propter hoc aut libertati
voluntatis aliquid deperit aut actus bonitati» (cfr. Contra Gentiles, III, c. 138).
111
«Sicut quum dicitur alicui necesse esse habere navem ut transeat mare» (cfr. ibidem).
112
Cfr. Summa Theologiae, I, q. 82, a. 1, Resp.
113
Necessità che Tommaso articola in un momento «materiale» e in uno «formale» ― in
analogia a quanto avveniva per la «voluntas ut natura». «Necesse est enim quod non potest
non esse; quod quidem convenit alicui, uno modo ex principio intrinseco, sive materiali, sicut
cum dicimus, quod omne compositum ex contrariis necesse est corrumpi; sive formali, sicut
cum dicimus, quod necesse est triangulum habere tres angulos aequales duobus rectis. Et ha-
ec est necessitas naturalis et absoluta» (cfr. ibidem). La esplicita distinzione tra necessità di
coazione e necessità naturale della volontà, compare anche in III, q. 14, a. 2, Resp.
114
«Nec necessitas naturalis repugnat voluntati: quinimo necesse est quod sicut intellec-
tus ex necessitate inhaeret primis principiis, ita voluntas ex necessitate inhaereat ultimo fini,
qui est beatitudo» (cfr. Summa Theologiae, I, q. 82, a. 1, Resp.). Di questa necessità naturale,
Tommaso ribadisce che non può esserci scelta ― «appetitus ultimi finis non est de his quorum
domini sumus» (cfr. ibi, ad 3um) –; come, in generale, non c’è scelta di quelle cose «ad quae
naturaliter inclinamur» (cfr. ibi, q. 83, a. 2, Resp.). Su questo punto, cfr. anche ibi, I IIae, q.
13, a. 3, Resp. e a. 6, Resp.
88 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
voluntatis est quod sit coactus vel violentus; sicut etiam est contra ra-
tionem natuaralis inclinationis vel motus lapidis, quod feratur sursum.
Potest enim lapis per violentiam ferri sursum: sed quod iste motus
violentus sit ex ejus naturali inclinatione, esse non potest. Similiter
etiam potest homo per violentiam trahi; sed quo hoc sit ex ejus hoc sit
ex ejus voluntate, repugnat rationi violentiae»115.
In secondo luogo, ritroviamo esplicitamente indicato il carattere
«naturale» del «motus voluntatis», che ― appunto, naturalmente ― si
dirige al «bonum in communi» (attraverso la mediazione dei fini infra-
valenti «quae conveniunt aliis potentiis»)116. Una naturalità, questa,
non «determinata ad unum» ― come sappiamo. O meglio, non deter-
minata «ad unum particulare secundum ordinem naturae», bensì «ad
unum commune» ― conformemente alla specifica natura della volontà
umana117. Infatti, la volontà non si risolve nella natura (non è, cioè, un
puro dato, ovvero un dinamismo il cui corso sia già determinatamente
tracciato), bensì è capace di autodeterminarsi ― sempre però a partire
dal suo orientamento naturale118. E, proprio in tal senso, Tommaso
precisa che, per poter parlare di volontarietà umana, occorre che, al
criterio aristotelico della intrinsecità dell’iniziativa, si coniughi la con-
sapevolezza del fine cui si tende: in una parola, l’intelligenza119.
Nella quaestio 6 del De malo120 si ha cura di precisare che il caratte-
re necesario del «motus voluntatis» non riguarda le particolari mosse
della electio. Si precisa, inoltre, che la naturalità di tale «motus» non
ne fa un che di determinato «ad unum»; e ciò, in considerazione del
carattere intellettivo che specifica la tendenza dell’uomo al bene, con-
servandola come «indeterminate se habens ad multa». Nella quaestio
115
Cfr. ibi, q. 6, a. 4, Resp. A questo punto, è analitico affermare che «la violenza causa
l’involontario» (naturalmente, al livello degli atti imperati) (cfr. ibi, a. 5, Resp.).
116
Cfr. ibi, q. 10, a. 1, Resp. Cfr. anche ibi, q. 15, a. 3, Resp.
117
Cfr. ibi, q. 13, a. 2, Resp.
118
«Quia voluntas in aliqua natura fundatur, necesse est quod modus proprius naturae
quantum ad aliquid participetur a voluntate, sicut quod est prioris causae participatur a po-
steriori. Est enim prius in unaquaque re ipsum esse, quod est per naturam, quam velle, quod
est per voluntatem; et inde est quod voluntas naturaliter aliquid vult» (cfr. ibi, ad 1um). Qui,
il rapporto tra causalità prima e seconda adombra quello tra genericità e specificità ― di cui
già si è parlato.
119
Cfr. ibi, q. 6, a. 1, Resp.
120
Cfr. Resp. Benché la stesura di tale quaestio sia ritenuta precedente rispetto a quella
della Prima Secundae, ne trattiamo a questo punto punto per ragioni di economia espositiva.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 89
16, invece, la specificità intellettuale dell’«adpetitus» umano serve a
Tommaso per spiegare l’immutabilità del volere circa il fine ultimo:
«Sicut immobiliter nos habemus in cognitione primorum principio-
rum; ita intellectus eorum immobiliter se habet circa omnia quae na-
turaliter cognoscit. Et quia voluntas proportionatur intellectui, conse-
quens est quod etiam voluntas eorum naturaliter sit immutabilis circa
ea quae ad ordinem naturae pertinent»121. Qui, come già sappiamo e
come si capisce dal riferimento ai primi prinicipi, non si tratta di una
immutabilità per cui, senza soluzione di continuità e senza variazioni
di atteggiamento, la volontà si proponga tematicamente il fine ultimo
― così come i principi irrinunciabili del pensiero non sono sempre
tematicamente pensati, e con invariabile grado di consapevolezza. Si
tratta, piuttosto, di una «immutabilità» che dice l’inevitabilità ― e
dunque, la necessità ― che qualunque atto umano sia interpretabile
sotto il segno della volizione del bene come tale: qualunque sia il gra-
do attuale di consapevolezza di chi lo sta compiendo.
4. Libertas differentiae
4.1. La velleitas come segno destinale
Per penetrare meglio il senso della libertà di scelta così come
Tommaso ce lo viene proponendo, è opportuno porre attenzione alla
figura della «velleitas»122, che risulta, a ben vedere, esattamente sim-
metrica a quella del peccato. Se infatti il peccato è la scelta di ciò che
― propriamente o tematicamente ― non può essere voluto, in quanto
contraddittorio con l’oggetto proprio della volontà123, la velleità è piut-
tosto la volizione di ciò che non si può realmente scegliere. Ebbene,
121
Cfr. De malo, q. 16, a. 5, Resp.
122
«Voluntas incompleta est de impossibili, quae secundum quosdam velleitas dicitur,
quia scilicet aliquis vellet illud, si esset possibile» (cfr. Summa Theologiae, I IIae, q. 13, a.5,
ad 1um).
123
Che di una contraddizione ― appunto agita, e non tematizzata ― si tratti, lo ammette
lo stesso Tommaso nel Commento alle Sentenze, quando afferma che, per compiere il male,
occorre quella che in termini contemporanei chiamiamo «malafede» (una consapevolezza del-
la contraddizione, che si tenta di rimuovere): infatti, «per habitum corruptum reprimitur con-
tradictio rationis, ratione obtenebrata» (cfr. II Sent., d. 25, q. 1, a. 4, ad 5um).
90 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
tale volizione, pur aprendosi a possibilità patologiche, originariamente
non è che l’indicazione più chiara del carattere trascendentale del vo-
lere umano, che pure ha operativamente a che fare con possibilità fini-
te. Sembra alludere a ciò lo stesso Tommaso, in un brano esemplare
della Contra Gentiles: «Apprehensio intellectiva non determinatur ad
quaedam, sed est omnium; unde et de intellectu possibili Philosophus
dicit (de Anima III) quod est quo est omnia fieri. Appetitus igitur intel-
lectualis substantiae est ad omnia se habens. Hoc autem est proprium
voluntatis ut ad omnia se habeat; unde et Philosophus dicit (Ethic. III,
c. 5) quod est possibilium et impossibilium»124.
Si impone, al riguardo, una precisazione. Quando Tommaso ― ri-
ferendosi al testo aristotelico125 ― parla di «impossibili», si riferisce a
ciò che è fuori della portata pratica dell’uomo, cioè a quanto è impos-
sibile che l’uomo realizzi ― non a ciò che è impossibile ontologica-
mente. L’esempio aristotelico dell’immortalità, è istruttivo in proposi-
to. Del resto, nel suo Commento all’Etica Nicomachea, Tommaso
spiega che «nullus eligit talia quae fiunt per alium, sed solum illa
quae existimat posse fieri per ipsum»126; ed è ben lungi, con ciò, dal ri-
tenere formalmente impossibile ciò che eccede le possibilità umane127.
124
Cfr. Contra Gentiles, II, c. 47.
125
«Proaíresis men gar ouk ésti tõn adynáton [...], boúlesis d’ésti kai tõn adynáton, hoĩon
athanasías» (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1111b 20–23).
126
Cfr. Ethicorum, 1. III, lect. 5.
127
«Electio enim, quia refertur ad nostram operationem, non dicitur esse impossbilium. Et si-
quis dicat se eligere aliquod impossibilium, videbitur esse stultus. Sed voluntas, quia respicit bo-
num absolute, potest esse cujuscumque boni, licet sit impossibile. Sicut aliquis potest velle esse im-
mortalis, quod est impossibile secundum statum hujus corruptibilis vitae» (cfr. Ethicorum, III, lect.
5). Ora, Tommaso si contraddirebbe se comprendesse nell’ambito del trascendentale bonum ― co-
estensivo dell’essere ― il formalmente impossibile. Che l’impossibile in questione sia un impossi-
bile pratico, e non ontologico, è confermato anche da un passo del De veritate, dove ― sia pure e-
sponendo un’obiezione ― Tommaso afferma positivamente che, mentre «voluntas est possibilium
et impossibilium [...]; liberum autem arbitrium solum eorum quae sunt in nobis» (cfr. ibi, q. 24, a.
4, objectio 10). Ancora più chiaro è un altro passo, in cui Tommaso parla di ciò che eccede la «po-
testas» del libero arbitrio, in quanto supera le capacità realizzative dell’uomo: «sicut volare non su-
best libero arbitrio hominis, quia excedit vim potentiae motivae in homine» (cfr. De veritate, q. 24,
a. 12, Resp.). Mi sembra che quest’ultimo sia un buon esempio di ciò che Tommaso intende con
«velleitas». Nel Commento alle Sentenze, l’Aquinate accennava alla «velleitas» come ad una voli-
zione imperfetta, perché «sub conditione»: vorrei x, se x fosse possibile. L’esempio portato in pro-
posito ― quello di Cristo che vorrebbe non patire, se questa fosse la volontà del Padre –, conferma
la nostra precedente interpretazione, in quanto non riguarda una impossibilità formale ovvero asso-
luta (cfr. III Sent., d. 17, q. 1, a. 2a, Resp.).
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 91
Del resto, nel luogo in cui distesamente discute del tema della «vellei-
tas», l’Aquinate spiega che la scelta umana, riguardando azioni uma-
ne, non può, di diritto, avere a tema se non contenuti praticamente ac-
cessibili; infatti, «ea quae per nos aguntur, sunt nobis possibilia»128 ―
dove, quel «nobis» è ciò che chiarisce il dettato.
Ora, il fatto è che l’uomo, non solo può aspirare a qualcosa che è
fuori della portata della sua scelta, ma anzi, è destinalmente orientato
proprio a quella assolutezza di bene che è per lui inimmaginabile, e,
dunque, persino improgettabile: lo stesso Tommaso diceva che essa
«potestatem cujuslibet creaturae excedit»129. In tal senso ― e azzar-
dando un po’, ma solo lessicalmente ―, si può dire che la «velleitas»
è la cifra stessa del desiderio umano; e ― si badi ― essa non può ve-
nire intesa come autocontraddizione, visto che è ― anche nei testi
tommasiani ― volizione (e non scelta) di ciò che non si può scegliere.
L’oggetto proprio della «velleitas» è, in fondo, la stessa felicità ―
che, del resto, sia Aristotele che Tommaso riconoscevano inaccessibi-
le allo sforzo umano130, e possibile frutto solo di un dono divino.
4.2. Il paradosso beatifico
La libertà è destinata così a realizzarsi oltre il progettabile. Tom-
maso parla, al riguardo, di «beatitudo». La riflessione tommasiana in-
torno alla situazione beatifica è vastissima: quel che di essa può inte-
ressare lo sviluppo del nostro discorso è quanto può ulteriormente i-
struirci circa il senso della libertà di scelta.
Per procedere con ordine, conviene chiarire che la beatitudine è il
realizzarsi della idealità del bene: è cioè la situazione in cui il fine che
orienta tutto l’agire umano si dà come realtà esistenziale. E nei testi di
Tommaso la tensione al termine ideale e quella al termine reale ven-
gono normalmente identificate tra loro, per cui è frequentissimo in-
contrare espressioni come «homo ex necessitate appetit beatitudi-
nem»131. Ora, ciò che importa sottolineare è che la situazione beatifica
128
Cfr. Summa Theologiae, I IIae, q. 13, a. 5, Resp.
129
Cfr. II Sent., d. 23, q. 1, a. 1, ad 2um.
130
Per Aristotele, cfr. Etica Nicomachea, 1099b 9–18; per Tommaso, cfr. Summa Theolo-
giae, I IIae, q. 5, a. 5.
131
Cfr. De malo, q. 6, Resp. In proposito, cfr. anche: ibi, q. 6, ad 7um; ibi, q. 16, a. 5,
92 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
― termine appropriato della tensione volitiva dell’uomo ― viene da
Tommaso prospettata come qualcosa che sátura, ma non blocca la li-
bertà di scelta. Possiamo sommariamente esplorare questo paradosso
da tre lati.
Il primo lato del paradosso beatifico è quello per cui, chi vive la bea-
titudine, «in contrarium deflecti non potest»132, eppure questa impossi-
bilità non può essere intesa come qualcosa di incompatibile con la liber-
tà di scelta. Non è infatti per una coazione, che la volontà beata non può
volgersi altrove; ma piuttosto perché ― nell’ipotesi ― un altrove, per il
desiderio, propriamente non c’è, essendo il bene beatifico la realizza-
zione senza residui dell’idealità del bene: «ex hoc enim voluntas immu-
tabilis redditur quod totaliter impletur ita quod non habet quo divertat
ab eo in quo est firmata» ― leggiamo nella Contra Gentiles133. Si tratta
di una situazione in cui ― finalmente ― l’oggetto della electio si iden-
tifica con quello della volitio: l’uomo sceglie ciò che propriamente vuo-
le; e in tale accordo di sé con sé si attua perfettamente la libertà di scelta
― le cui attuazioni in via possono dirsi analogati secondari. Alcuni testi
del Commento alle Sentenze sono già abbastanza chiari in proposito.
Leggiamo, ad esempio, che «de ratione beatitudinis vel gloriae est ut
aliquis omnia habeat quae vult, et nihil mali velit, ut dicit Augustinus;
et ideo gloria in nullo impedit usum liberi arbitrii; et propter hoc non
assignatur aliqua libertas a gloria: nulla enim voluntas miseriam quae-
rit et gloriam fugit, cum omnes naturaliter beati esse velint»134. O, anco-
ra, leggiamo che: «quaedam ordinata sunt ad finem ultimum beatitudi-
nis, quae ipsi fini conjunguntur, ut videre, amare et hujusmodi: et re-
spectu horum erit sempiterna et libera electio»135.
Un secondo aspetto del paradosso beatifico consiste nel fatto che la li-
bertà di scelta si realizza destinalmente al di là della alternativa tra il bene
e il male morali. Infatti, dire che la volizione non può deflettere dalla bea-
Resp.; Contra Gentiles, IV, c. 92; Summa Theologiae, I, q. 82, a. 2, Resp.; ibi, q. 83, a. 2,
Resp.; Perì Hermeneías, I, lect. 14.
132
Cfr. II Sent., d. 7, q. 1, a. 1, Resp.
133
Cfr. Contra Gentiles, IV, c. 70. L’impossibilità di un altrove, per il desiderio appagato,
è quanto, in altri termini, è ribadito anche in Contra Gentiles, IV, c. 92: «Si igitur anima beata
posset adhuc transmutari de bono in malum, nondum esset in ultimo fine; quod est contra be-
atitudinis rationem».
134
Cfr. II Sent., d. 25, q. 1, a. 5, ad 4um.
135
Cfr. ibi, a. 1, ad 4um.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 93
titudine conseguita, significa ― analiticamente ― che non può pecca-
re136, ovvero venir meno alla propria vocazione strutturale. Su questo
punto, i testi tommasiani sono numerosi. Chiarissimo è ciò che
l’Aquinate afferma in proposito nel Commento alle Sentenze: «liberum
arbitrium per se in bonum ordinatum est, cum bonum sit objectum volun-
tatis, nec in malum tendit nisi propter aliquem defectum, quia apprehen-
ditur ut bonum: cum non sit voluntas aut electio nisi boni, aut apparentis
boni: et ideo ubi perfectissimum est liberum arbitrium, ibi in malum ten-
dere non potest, quia imperfectum esse non potest»137. E ancora: «lauda-
bilitas non dependet essentialiter a potestate peccandi sed a voluntate
adhaerente bono: alias virtuosus, in quo est minor mobilitas ad peccan-
dum, esset minus laudabilis in actu suo, quam carens virtute et bonum
operans»138. Né deve fuorviare l’insistenza di Tommaso ― e di altri sco-
lastici ― intorno alla necessità che i beati siano per Grazia divina «in bo-
no confirmati»139: infatti, la Grazia in questione già consiste tutta nel dono
che Dio fa ad essi della propria presenza beatificante, senza bisogno di
ulteriori supporti. In altre parole, quando l’Aquinate, sull’autorità di alcu-
ni Padri, dichiara impossibile che «aliquam creaturam esse voluntate
immutabili adhaerentem Deo per propriam naturam»140, non fa altro, a
ben vedere, che ribadire l’impotenza dell’uomo a darsi la beatitudine ―
e, con essa, l’immutabilità in questione141. Che poi l’esclusione del pecca-
136
«Illi qui jam beati sunt apprehendunt id in quo vere beatitudo est, sub ratione beatitu-
dinis et ultimis finis; alias in hoc non quiesceret appetitus, et per consequens non essent beati.
Quicumque igitur beati sunt voluntatem deflectere non possunt ab eo in quo est vera beatitu-
do. Non possunt igitur perversam voluntatem habere» (cfr. Contra Gentiles, IV, c. 92).
137
Cfr. II Sent., d. 25, q. 1, a. 1, ad 2um.
138
E prosegue: «sed potestas peccandi est signum laudabilitatis respectu laudantium, in-
quantum ostendit non coacte voluntatem bono adhaerentem» (cfr. II Sent., d. 7, q. 1, a. 1, ad
4um). E quando, più avanti, Tommaso accenna al possibile carattere meritorio di quegli atti che
sono «voluti naturalmente», evidentemente pone la libertà di scelta anche all’interno della voli-
zione che ha come oggetto la beatitudine già conseguita (cfr. II Sent., d. 39, q. 2, a. 2, ad 5um).
139
Cfr. De veritate, q. 24, a. 8, Sed contra: «sancti qui sunt in patria, ita sunt in bono con-
firmati, ut ulterius peccare non possint: alias de sua beatitudine securi non essent, et per con-
sequens nec beati. Non autem haec confirmatio inest eis per naturam [...]. Ergo hoc est per
gratiam; et ita liberum arbitrium per donum gratiae confirmari potest».
140
Cfr. De veritate, q. 24, a. 1, ad 16um. I Padri in questione sono Gregorio di Nissa e
Giovanni di Damasco.
141
È lo stesso Tommaso ad ammetterlo implicitamente, quando afferma che il libero arbitrio
umano non è per natura confermato nel bene, proprio perché non può afferrare questo concreta-
mente; ma, una volta che sia messo in grado di afferrarlo, non potrà che fissarsi in esso. Leggia-
mo: «Naturaliter liberum arbitrium creaturae in bono confirmatum esse non potest, quia in na-
94 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
to dall’orizzonte della beatitudine non elimini, ma anzi esalti la libertà di
scelta, è dovuto al carattere patologico ― i medievali dicevano «difetti-
vo»142 ― di quello; ovvero alla struttura di contraddizione pratica che ne
costituisce il senso profondo, e che la situazione beatifica corregge defini-
tivamente143. E, su questo terreno, Tommaso non fa che riferirsi alla tra-
dizione anselmiana, cui già facevamo cenno.
Il terzo aspetto del paradosso beatifico è uno sviluppo dei prece-
denti. Se il senso ultimo del libero arbitrio non consiste nel poter sce-
gliere tra bene e male, ma nel dire sì al destino beatifico, si può con-
cepire ― sempre in prospettiva escatologica ― anche una possibilità,
per così dire, intermedia: quella in cui il libero arbitrio si esprima co-
me scelta tra atteggiamenti diversi, ma tutti honesti (cioè, autentica-
mente riferiti al fine ultimo). Qui il paradosso raggiunge forse le sue
estreme posibilità, perché accenna a delineare le coordinate di una
prassi escatologica, che si svolge cioè entro la stessa situazione beati-
fica. Ora, non rientra nei limiti del presente lavoro una indagine circa
un eventuale aevum beatifico ed una eventuale prassi che gli sia corre-
lata; non possiamo però non riferire almeno alla condizione del viator
l’importante intuizione tommasiana: quella per cui la libertà di scelta,
anche quando si muove tra objecta relativi, è tanto più autentica,
quanto più è tutelata dalla minaccia del male. Non alludiamo, ovvia-
mente, ad una tutela di tipo estrinseco144 ― e dunque, inautentico –;
bensì a quella robusta familiarità con l’honestum, che la tradizione fi-
losofica chiama virtù145.
tura sua non habet perfecti et absoluti rationem boni, sed cujusdam boni particularis: huic au-
tem bono perfecto et absoluto, scilicet Deo, liberum arbitrium per gratiam unitur. Unde si fiat
perfecta unio, ut ipse Deus sit libero arbitrio tota causa agendi, in malum flecti non poterit.
Quod quidem in aliquibus contingit, et praecipue in beatis» (cfr. De veritate, q. 24, a. 8, Resp.).
142
«Ista diversitas» ― del bene e del male ― «non per se pertinet ad potestatem liberi
arbitrii, sed per accidens»; «non autem pertinet ad rationem alicujus potentiae quod deficiat
in suo actu; [...] et ideo nihil prohibet inveniri liberum arbitrium quod ita tendit in bonum,
quod nullo modo potest tendere in malum» (cfr. De malo, q. 16, a. 5, Resp.).
143
Qualunque sia il tipo di patologia che affligge l’atto libero, essa «totaliter a beatis tol-
letur ex conjunctione ipsorum ad Deum»; infatti, «hac cognitionis claritate intantum mens
roborabitur, quod in inferioribus viribus nullus motus insurgere poterit nisi secundum regu-
lam rationis» (cfr. De veritate, q. 24, a. 8, Resp.).
144
Ad esempio, una tutela di tipo «politico», come quella tentata dal Grande Inquisitore
dostoevskiano.
145
Cfr. II Sent., d. 7, q. 1, a . 1, ad 4um.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 95
Ma veniamo, brevemente, al testo tommasiano. Il passo esemplare
― della Pars Prima della Summa Theologiae ― riguarda direttanente
la vita angelica e indirettamente quella dei beati; ma mostra anche una
valenza antropologica radicale. «Voluntas angeli» ― leggiamo ― «se
habet ad opposita, quantum ad multa facienda vel non facienda; sed
quantum ad ipsum Deum, quem vident esse ipsam essentiam bonitatis,
non se habent ad opposita; sed secundum ipsum ad omnia diriguntur,
quodcumque oppositorum eligant, quod sine peccato est»146. Nello
stesso contesto, Tommaso riprende poi il suo consueto parallelo tra
scelta pratica e conclusione argomentativa, per affermare che, come si
può variamente argomentare a partire dai medesimi dati ― nel costan-
te rispetto dei principi della logica –, così appartiene alla perfezione
del libero arbitrio di poter scegliere diversamente ― «servato ordine
finis». E aggiunge: «Sed quod eligat aliquid, divertendo ab ordine
finis, quod est peccare, hoc pertinet ad defectum libertatis. Unde
major libertatis arbitrii est in angelis qui peccare non possunt, quam
in nobis qui peccare possumus»147.
Ciò che Tommaso sembra indicare, in quello che abbiamo chiama-
to il terzo lato del paradosso, è che il libero arbitrio si realizza autenti-
camente in via, e definitivamente in patria ― insomma, destinalmente
― come creatività nel bene. Infatti, «si tamen aliqua creatura immo-
biliter adhaereret Deo, non propter hoc privatur libero arbitrio: quia
potest adhaerendo multa facere vel non facere»148.
Senza addentrarsi realmente nella questione escatologica, che in sé
sfugge alla portata del presente scritto, si può senz’altro trattenere del
testo tommasiano un’ultima indicazione: la libertà di scelta è destinata
ad essere, già in via, un progettarsi coerente ed originale in direzione
146
Cfr. Summa Theologiae, I, q. 62, a. 8, ad 2um. Altrove Tommaso propone il caso op-
posto dei demoni, che, qualunque cosa scelgano, scelgono il male (cfr. De malo, q. 16, a. 5,
Resp.).
147
Cfr. Summa Theologiae, I, q. 62, a. 8, ad 3um. Le stesse considerazioni sono già pre-
senti nel Commento alle Sentenze, dove leggiamo: «apud illos quorum est indeficienter recta
aestimatio finis, sicut apud angelos, qui ipso fine perficiuntur, impossibile est esse voluntatem
alicujus eorum quae a fine deordinant, cujusmodi est voluntas peccati, sed tamen possunt vel-
le hoc vel illud, quorum neutrum a fine deordinat; et sic salvatur proprietas rationalis pote-
statis, inquantum possunt hoc facere vel non facere; quamvis non possint in haec opposita,
bonum et malum» (cfr. II Sent., d. 7, q. 1, a. 1, ad 1um). Su questo punto si veda anche: ibi, d.
7, q. 1, a. 1, ad 3um; d. 44, q. 1, a. 1, ad 1um; De veritate, q. 24, a. 3, ad 2um.
148
Cfr. De veritate, q. 24, a. 1, ad 16um.
96 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
del fine. Coerente, innanzitutto; cioè non praticamente contraddittorio.
Ed originale, cioè traguardante il fine, secondo quell’angolo prospetti-
co irripetibile in cui ogni uomo è costituito. Ma tale originalità è con-
cepibile anche in patria, dove ― non più distratta dalla invadente pos-
sibilità dell’incoerenza ― la scelta è sì affermazione della fruitio che
già si vive, ma lo è secondo il timbro proprio di ciascuna personalità.
Inoltre ― ma qui la prospettiva che Tommaso apre si fa vertiginosa –,
non è neppure possibile escludere che la libertà di scelta possa eserci-
tarsi, anche in patria, su opzioni relative: tali da poter essere còlte o
tralasciate, al di fuori comunque della minaccia dell’insensatezza.
Quest’ultimo scorcio prospettico ci consente di chiudere osservando
che la libertà di scelta si rivela, ad un’analisi approfondita, come
quell’intreccio misterioso di destinale e di spontaneo in cui consiste
l’umano. Il destino ― cioè la meta ― istituisce la possibilità stessa del
cammino, e, letteralmente, “fa la differenza”149, cioè salva dalla indiffe-
renza dell’insensatezza. Ma se la dimensione destinale salva l’uomo
149
Già il titolo del nostro scritto indica con nettezza la distanza tra l’impostazione tomma-
siana del tema della libertà, e un certo indifferentismo che, dopo aver attraversato alcune re-
gioni del pensiero scolastico, è culminato in Molina. Tra gli Scolastici, il riferimento classico
è a Occam, e a certa sua insistenza circa la libertà come indifferenza o neutralità rispetto agli
opposti: insistenza che rischia di far consistere la struttura positiva del libero in quella che è
invece una sua ― sia pur notevole ― implicazione «negativa». Si veda, ad esempio, Quodli-
bet, I, q. 16 e I Sent., d. 1, q. 6 L. Per quanto riguarda Molina, il riferimento obbligato è a:
Concordia liberi arbitrii cum Gratiae donis, disp. II, dove leggiamo: «Secundum est, volunta-
tem non omnes suos actus posse non elicere; etenim voluntas ejus, qui Deum intuetur in pa-
tria, non potest Deum non diligere, saepe etiam dum sumus in via surrepunt actus, quos vo-
luntas non valuit impedire: atque hinc est ut voluntas non comparatione quorumcunque suo-
rum actuum sortiatur rationem liberi arbitrii, sed comparatione eorum tantum, quos potest
non elicere, in quo libertas quoad exercitium actus cernitur. Quod si simul possit elicere in-
differenter vel hunc, vel contrarium actum cernitur etiam libertas quoad speciem actus, ut vo-
cant, quae plenae et perfectae libertatis rationem habet». Per Molina, la libertà di scelta si re-
alizza tanto più, quanto maggiore è l’indifferenza rispetto all’objectum ― quindi, a ben vede-
re, quanto maggiore è l’estraneità rispetto al destino. Nella sua prospettiva, segno di libertà è
poter sospendere la volizione di x; ma piena manifestazione di libertà è poter scegliere «indif-
ferentemente» ― cioè arbitrariamente ― tra x e y. Dunque, il senso ultimo della libertà di
scelta sarebbe la possibilità, da parte della volontà, di autoassegnarsi l’objectum. Molina non
misconosce la dimensione necessitaria del volere, ma la mette in conflitto con la libertà di
scelta: libertà contro necessità ― all’opposto che in Tommaso. Per quest’ultimo, infatti, la li-
bertà si costituisce nella differenza tra ciò che ha senso ― ciò che è passo alla meta ― e ciò
che immediatamente si progetta come insensato; e si esprime nel procedere all’interno di que-
sta differenza, tenendola ferma. La libertà è insomma fedeltà al destino, che non può che esal-
tarsi in situazione escatologica.
Capitolo I: Tommaso: libertas differentiae 97
dall’errare insensato, anche lo salva da ogni captazione servile, asse-
gnandogli il rango filiale del “libero”. Un rango che non dice certo uni-
formità e passività, bensì creatività all’interno del rapporto originante.
Infatti, il conseguimento della coincidenza tra la necessità
dell’attrattiva e la spontaneità della scelta150 ― secondo quanto il dettato
tommasiano lascia solo intravvedere ― illumina in modo definitivo gli
objecta particularia (i multa facienda vel non facienda di cui sopra),
che ancora possono essere presenti al beato, e rivela di essi un duplice
aspetto: da un lato, la loro assoluta inessenzialità al costituirsi della si-
tuazione destinale (che è già costituita indipendentemente da essi);
dall’altro, la loro pienezza di senso, che si rivela alla luce del loro nesso
con la situazione destinale. Questa ambivalenza ― di massima legge-
rezza e anche di massimo peso ― sembra porre tali objecta in una si-
tuazione analoga a quella in cui si trova la creatura rispetto al Creato-
re151. Ora, l’emergere della vocazione ad una creatività in senso analogi-
co, sembra essere l’indicazione suprema che ― dall’azzardo escatolo-
gico di Tommaso ― viene al senso che la libertà di scelta è chiamata ad
avere già in via. Ma al nostro lavoro presente, basta aver messo in luce
una prospettiva, che converrà approfondire in altro luogo.
150
Dove “spontaneità” dice intimità e originalità.
151
Nel senso che, come il creandum è inessenziale alla perfezione del Creatore, eppure
può assumere, in riferimento a Lui, un valore unico; così il faciendum (o l’agendum) del beato
― di per sé inessenziale alla beatitudine –, può assumere, alla luce della situazione beatifica,
un valore unico, tale da renderlo desiderabile. In fondo, il creandum e il faciendum sono rea-
lizzazioni analogiche del contingente.
98 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
CAPITOLO II
ETERNITÀ E LIBERTÀ: APPUNTI
1. Immutabilità e libertà di Dio
In che senso queste due verità metafisiche, che ereditiamo da una
gloriosa tradizione, non sono tra loro inconciliabili? Occorre, per ca-
pirlo, intenderle nel loro senso appropriato, evitando quindi di prefigu-
rarle in modo improprio o addirittura banale.
Parlando dell’immutabilità occorre sempre tenere presente che, con
questa figura, la tradizione metafisica non indica una privazione, bensì
la rimozione di una privazione. La privatio che qui viene remota è il
mutamento, inteso nel senso ampio della aristotelica metabolé1 ―
comprensiva della kínesis ―, il cui corrispettivo scolastico sembra es-
sere il moveri. Il mutamento consiste in una ek–staticità2, che è acqui-
sto, e che è insieme anche perdita (un estendersi, che è insieme un ri-
trarsi); in cui, per il diveniente, guadagnare qualche perfezione è rice-
verla da altro, e perderla è lasciarla cadere in altro: altro che è dunque
capace di determinare la realtà ek–statica in questione, la quale non si
autopossiede.
È poi l’impossibilità di interpretare l’“altro” come non essere asso-
luto ― incapace, come tale, di accogliere o di produrre alcunché ―,
ciò che introduce il dinamismo inferenziale verso una realtà che sia
autosufficienza, o autopossesso. Espressione, quest’ultima, che ri-
1
Cfr. Aristotele, Fisica, V, 1–2; testo greco a cura di W.D. Ross.
2
Cfr. Aristotele, Fisica, IV, 222b 16.
99
100 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
chiama Tommaso d’Aquino: «ad designandum immutabilitatem et in-
deficientiam aeternitatis, usus est nomine possessionis»3. Ciò che qui
viene escluso, nella configurazione dell’assoluto, non è propriamente
l’ékstasis in quanto tale, bensì una ékstasis che si alimenti ad altro, a-
vendo altro come originariamente potente su di sé, e avendo dunque la
vita in modo non pieno o non autoconsistente ― se è vero che «illud
cui id quod naturaliter habet, non determinatur ab alio, hoc est quod
obtinet summum gradum vitae»4.
Detto in altre parole, ciò che del mutamento fa metafisicamente
problema, non è la varietà degli scenari, né il dinamismo del loro av-
vento, bensì l’incompatibilità reciproca tra essi. Insomma, non fa pro-
blema ciò che il mutamento ha di atto, bensì il negativo cui esso dà
luogo: ciò che in termini neoscolastici è detto il “non essere
dell’essere”, ovvero l’incapacità del diveniente ad autopossedersi, e il
suo perdere incessantemente se stesso nell’estendersi verso il novum.
Proponiamo di intendere l’immutabilità, alla maniera di Tommaso,
come autopossesso o summum gradum vitae. E ciò, al di là delle am-
biguità di Aristotele, il quale ― sia pur di passaggio ― dichiara essere
l’akíneton (termine col quale pure qualificherà il motore divino), una
figura privativa della kínesis5.
Venendo ora al secondo termine in questione, conviene ricordare
che ciò che è possibile sapere di Dio e della sua libertà, in filosofia, è
ciò che è logicamente necessario introdurre per non rinnegare l’acqui-
sizione di quel che prima chiamavamo autopossesso: quell’autopos-
sesso che, detto in relazione al mondo, è la “trascendenza”. In partico-
lare, per stabilire la libertà divina, due sono gli argomenti classici che
sembrano efficaci.
Il primo, sovente evocato da Agostino e ripreso dagli Scolastici, fa
riferimento alla originaria perfezione divina ― all’autopossesso, inte-
so come perfezione ―, e argomenta così: Dio è assolutamente perfet-
to; quindi, se crea il mondo, non lo fa per dare compimento a sé. Dun-
que, crea gratuitamente, nel senso che il suo agire non è dettato dal bi-
sogno (dalla mancanza). Al riguardo, Tommaso afferma che «actio
3
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 10, a.1.
4
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 18, a. 3.
5
Cfr. Aristotele, Fisica, V, 2.
Capitolo II: Eternità e libertà: appunti 101
Dei est maxime liberalis»6. Provando a sviluppare questo spunto, pos-
siamo dire che Dio non ha bisogno di chiedere la propria identità
all’altro da sé ― come invece accade alla hegeliana coscienza servile.
E crea l’altrui sguardo, per incontrarlo da amico. In questa accezione,
libero vuol proprio dire ― come del resto è indicato nell’etimologia
della parola ― estraneo alla dialettica della servitù e della signoria (o,
più semplicemente, della servitù, di cui anche la signoria è un modo).
Se non che, dire libertà come autoconsistenza, non significa ancora,
formalmente, parlare di libertà di scelta.
Il secondo argomento classico intorno alla libertà divina è meno
frequentato, ma più stringente. Lo troviamo nel De rerum principio,
già attribuito a Duns Scoto7; e lo ritroviamo, molto più tardi, in Anto-
nio Rosmini8, e, ancora più tardi, in Amato Masnovo9. Si tratta di un
argomento apagogico: se Dio ponesse il mondo de necessitate (non
potendo non porlo), allora Egli dipenderebbe dal proprio prodotto; in-
fatti, in questa ipotesi, l’assoluto, che propriamente sarebbe Dio–in–
relazione–al–mondo, accoglierebbe in sé quell’insufficienza che aveva
indotto la riflessione metafisica ad uscire dal mondo per giungere a
Dio. Qui l’argomento approda formalmente alla libertà di scelta: e di
conseguenza c’è chi ― valga l’esempio di Tommaso ― non ha avuto
paura di parlare con insistenza di “libero arbitrio” in Dio10. Sarà, que-
sto, un libero arbitrio senza deliberazione, in quanto non bisognoso di
inquisitio ― come spiega lo stesso Tommaso11 –; ma esso indicherà
pur sempre che il mondo, che è niente indipendentemente da Dio, non
ha la forza di imporsi a Lui come creandum. Insomma, l’ipotesi qui
esclusa è che alla necessità con cui Dio vuole se stesso (necessità che
è l’identità stessa di Dio, la sua “natura” ― e Dio è la propria natura),
appartenga anche la creazione.
6
Cfr. Tommaso d’Aquino, De potentia, q. 7, a. 10.
7
Cfr. (Vitale del Forno?), De rerum principio, IV, 1, 1; vol. 3 della edizione Wadding
dell’Opera Omnia di J. Duns Scoto.
8
Cfr. A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, voll. 12–17 della
Edizione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini (curata dell’Istituto di Studi Fi-
losofici di Roma e dal Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa), Città Nuova Edi-
trice, Roma 1998–2001, Parte I, Libro II, § 454.
9
Cfr. A. Masnovo, La filosofia verso la religione (1936), Vita e Pensiero, Milano 1977, pp. 76–77.
10
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 19, a. 10.
11
Cfr. Tommaso d’Aquino, De veritate, q. 24, a. 3.
102 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
Ora, che il libero arbitrio sia una astrazione già nella configurazio-
ne della libertà umana, è chiaro: esso indica infatti la libertà in quanto
esercitata in relazione al bene non assoluto ― nel caso di Dio, al bene
partecipato. Ma una astrazione non è una falsità. Specie se, come nel
caso che ci interessa, abbiamo cura di parlarne in senso analogico,
cioè rispettando quel che già sappiamo di Dio: dunque, escludendo
una oscillazione dubitosa tra opzioni. Che cosa resta, allora, del libero
arbitrio, in Dio? Semplicemente il suo essere libertà ― cioè afferma-
zione del bene ―, volta però ad altro che al bene assoluto.
Dire poi che Dio «può fare ciò che non fa»12, è sì una denomina-
zione estrinseca rispetto a Dio stesso, ma è forse anche un modo per
parlare del mondo, più che di Dio; ossia un modo per dire che c’è del
possibile oltre l’attuale: che dunque il destinale, non è il fatale. E se
poi si dicesse che l’apparato delle “modalità” è inappropriato alla de-
lineazione dell’agire divino, allora sarebbe inappropriata allo scopo
anche quella particolare modalità che è la necessità.
Affermare che Dio “può fare ciò che non fa” è dunque un modo per
far interagire la verità della creazione con il “discorso invincibile” di
Diodoro Crono e della tradizione fatalista. A ben vedere nessun greco
― e neppure l’Aristotele di De interpretatione 9 o di Metafisica Θ ―
ha mai saputo rintuzzare in modo pertinente la provocazione di Diodo-
ro: e ciò perché, solo riconoscendo un’origine libera del mondo, è
possibile stabilire la contingenza di quest’ultimo, ovvero il suo esiste-
re sullo sfondo di una alternativa possibile. Non mi sembra, allora, che
il percorso della metafisica scolastica possa essere presentato come il
tentativo di risalire dalla contingenza al libero arbitrio divino: anzi, un
simile percorso sarebbbe un ýsteron–próteron, dal momento che la
contingenza è figura metafisica, e non fenomenologica ― come inve-
ce la semplice finitezza ―, e può essere fondata solo sulla libertà
dell’atto creatore.
Comunque, se non si volesse confutare il necessitarismo megarico,
che ne sarebbe della sensatezza della preghiera? Infatti, non confutare
la prospettiva necessitarista non impedirebbe ― a rigore ― di soste-
nere la libertà di scelta dell’uomo13; comprometterebbe però il senso
12
Cfr. Tommaso d’Aquino, De potentia, q. 5, a. 1.
13
Su questo punto, si veda il capitolo precedente del nostro testo.
Capitolo II: Eternità e libertà: appunti 103
del rapporto personale tra l’uomo e Dio. Ma occorre al riguardo spie-
garsi meglio.
Alla tesi del libero arbitrio divino si può obiettare: che senso ha dire
che Dio non è costretto a fare x, dire che “non lo obbliga nessuno” (se,
appunto, nessuno c’è che possa intervenire sull’atto creatore)? Espri-
mersi così, non è tautologico? Se Dio fa x, vuol dire che x è ciò che ha
senso fare: è ciò che non ha rivali ― se non nelle fictiones leibniziane!
Senonché, se l’uomo è libero, secondo la complessità della libertà uma-
na, allora, potendo interagire con Dio (o tentare di farlo), può chiedere
che accada y invece che x: si pensi al paradigma offertoci dalla preghie-
ra che Abramo rivolge a Dio che ha deciso di distruggere Sodoma. Ecco
così che il possibile, inteso come il correlato metafisico del contingente,
diventa rilevante per l’uomo ― pur non essendolo per Dio considerato
nella Sua assolutezza. Solo nell’ipotesi di una piena contingenza del
mondo, si può ritenere intelligibile che la liberalità di Dio lasci che
l’uomo sia così potente da sfruttare la latenza dei possibili ― cioè
l’onnipotenza divina; e da sfruttarla in un senso analogicamente creati-
vo. È quanto appartiene al concetto di “permissione”: concetto che non
va affatto relegato ad amministrare il problema del male.
Queste ultime considerazioni ci aiutano a guardare lungo la dire-
zione già prima indicata: quella di pensare a fondo l'immutabilità in un
senso non privativo. Alcuni luoghi classici della cultura filosofica me-
dievale ci possono guidare in questo. Si pensi al IV e al IX capitolo
del De divinis nominibus, dove Dio è presentato come capacità di ge-
nerare, e dunque di uscire da sé, sempre ritrovandosi, ovvero facendo
stabilmente sintesi con sé ― secondo l’immagine “elicoidale” suscita-
ta da Dionigi. Ma, anche senza insistere sulla forse troppo viva meta-
foricità del linguaggio dionisiano, rimane vero che la metafisica ―
che, per potersi sviluppare senza quaternio terminorum, si rivolge di
norma alla metaforicità lessicalizzata ― ha sempre cercato di attribui-
re a Dio un agere che fosse autentico, cioè autofondantesi.
E, autofondantesi, non significa indifferente. Il carattere non reale
(certa neoscolastica dice “ideale”) del rapporto di creazione ex parte
Creatoris, non dice indifferenza verso la creatura, bensì tutela della
positività fontale: dipende, cioè, alla indicazione ― non facoltativa ―
di evitare configurazioni illogiche per cui la positività fontale sia pre-
da della contraddizione, e quindi dell’assoluto non essere. In fondo, fi-
104 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
losoficamente parlando, il discorso di analogia non consiste
nell’attenuare i toni, ma semplicemente nel rifiutare la contraddittorie-
tà, fin dove questa è avvistabile. Ora, una volta tenuta ferma questa
cautela (non facoltativa), cioè tenuta ferma la fontalità originaria come
tale, qualunque attributo la coscienza credente riterrà di dover ricono-
scere a Dio ― a partire dalla Rivelazione e dalla esperienza religiosa –
, potrà essergli riconosciuto con l’approvazione della metafisica clas-
sica; purché sia noto che tale connotazione non potrà essere intesa in
modo tale da rinnegare l’assunzione metafisica della positività auto-
possedentesi. Tener ferma l’assoluta positività originaria è infatti la
condizione stessa del pensare ― e quindi, anche di quel pensare nella
fede che è descritto dalla formula fides quaerens intellectum.
Se, ad esempio, sappiamo che Dio soffre per noi, possiamo anche
essere più audaci di Tommaso ― pur nella sua stessa linea –; e, posto
che il tratto divino in questione «pro remotione cujuscumque defectus
accipiatur»14 (dove defectus dice infedeltà alla natura fontale), pos-
siamo pure superare il divieto posto da Tommaso a vedere in Dio una
«misericordia secundum affectum»15, e parlare, con Jacques Maritain16
della «accettazione vittoriosa», come di una dimensione della beatitu-
dine divina: quella per cui è Dio stesso a volere che altri sia in qualche
modo potente su di Lui. Si tratta ― come Maritain stesso riconosce ―
di una «analogia metaforica»; ma, d’altronde, almeno in questo caso,
il contributo propriamente filosofico alla riflessione teologica, sta tutto
nel “che” della remotio defectus: quanto al “come”, di quel “che”, la
parola non può che essere, anche, allusione poetica.
In generale, il punto è che non si configurino situazioni nelle quali
l’originario risulti contingente: come invece accade, dove alla libertà
divina si assegnino, appunto, i connotati della libertà umana. Non so-
no mai mancate concezioni che attribuiscono a Dio stesso la potestas
peccandi ― erroneamente considerata essenziale alla libertà. Tali
concezioni, invece di interpretare la libertà divina come la fonte non
contingente della contingenza, finiscono per interpretarla come auto-
datrice di contingenza. Si tratta di concezioni che, evidentemente, ri-
14
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 21, a. 4.
15
Cfr. ibi, I, q. 21, a. 3.
16
Cfr. J. Maritain, Approches sans entraves (1973), trad. it. di P. Nepi ― M. Ivaldo, Città
Nuova, Roma 1978, III, pp. 71–77.
Capitolo II: Eternità e libertà: appunti 105
sentono della prefigurazione della libertà di scelta come libertas indif-
ferentiae ― secondo la linea Occam–Molina –; quando invece la li-
bertà è sempre (e originariamente in Dio) libertas differentiae, cioè
consapevole e attiva destinazione al bene come tale, e non ad altro ―
secondo la linea Agostino–Anselmo–Tommaso.
2. Libertà umana ed escatologia
Il tema della visione beatifica, pur configurandosi in prima battuta
come teologico, ha una portata radicalmente antropologico–filosofica.
Due pensatori emblematici della classicità, quali Tommaso d’Aquino
e Duns Scoto, pur giungendo a esiti teologicamente non dissimili, so-
no stati costretti, lì, a contrapporsi, scoprendo le loro carte proprio a
riguardo della libertà umana. Leggiamo nel finale dei Reportata Pari-
siensia scotiani: «Videtur quod voluntas non posset se avertere a vi-
sione; sed hoc est falsum, quia non est contra rationem, et naturam
voluntatis, quod possit se convertere, cum sit libera; igitur tunc non
necessario vellet istam visionem»17. Mentre nella Contra Gentiles, così
si esprime Tommaso: «Omnis substantia intellectualis naturali desi-
derio tendit ad illam visionem. Non ergo ab illa deficiet nisi per vio-
lentiam. [...] Visionis autem divinae causa est Deus. Ergo, cum nulla
virtus virtutem divinam excedat, impossibile est quod illa visio per
violentiam tollatur»18. Per entrambi, è un intervento gratuito di Dio
che concede e conferma la visio; ma, nel primo caso, si fa fatica a ca-
pire in che senso questa Grazia confermatrice convenga realmente
all’uomo ― se la sua libertà è strutturalmente ancipite.
Nel brano di Tommaso ora citato sta il senso radicale del carattere
immutabile della fruitio beatifica: essa è immutabile perché, se c’è
l'uomo, c’è la sua tensione alla fruitio, cioè a quell’agere (o práttein)
che costituisce il bene propriamente umano ― secondo l’indicazione
remotamente aristotelica, seguita e da Tommaso19 e dagli stessi repor-
tata scotiani20.
17
Cfr. J. Duns Scoto, Reportata Parisiensia, IV, 49. 5; testo latino dell’edizione Wadding.
18
Cfr. Tommaso d’Aquino, Contra Gentiles, III, c. 62.
19
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I IIae, q. 3, a. 2.
20
Cfr. J. Duns Scoto, Reportata Parisiensia, IV, 49, 1.
106 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
Quanto al carattere progressivo o simultaneo della fruizione, occor-
rerà considerare che, se l’entelécheia umana consiste in una “opera-
zione”, e se questa operazione non può essere omnino immobilis21 ―
perché l’assenza assoluta di divenire è solo di Dio22 –, allora la diffe-
renza metafisica tra il beato e Dio permane. Con ciò, resta ancora da
pensare come possa configurarsi la fruizione beatifica, che Tommaso
presenta come un «appropinquarsi» a Dio23. Il magistero scotiano, al
riguardo, ci parla di una «tentio», qualificabile ― qui è la provocazio-
ne ― come «quaedam passio». Questa tentio, quanto alla volontà, è
amor amicitiae, in cui l’uomo tende ad amare Dio più di se stesso24:
come, del resto, indica destinalmente l’apertura trascendentale del de-
siderio umano, la quale non può essere colmata dalla autofruizione,
ma solo dalla fruizione di Dio. È questo l’amore ek–statico, che vuole
la gioia dell’amato, e in cui consiste il senso stesso della fruitio. Infat-
ti, amare Dio significa, nella situazione beatifica, essere partecipi
dell’amore con cui Dio ama se stesso, e amare sé all’interno dell'amo-
re con cui Dio ama se stesso. Questo è, in fondo, un perdersi; in cui
però ci si ritrova: Anselmo dice infatti che in questa situazione ci ri-
troviamo amati più di quanto saremmo capaci di amarci noi stessi ―
secondo la lezione che già era di Agostino25.
Occorre però, anche qui, una cautela. Nulla vieta di parlare di una
progressione, quasi di una educazione che, come un lumen26, disponga
l’uomo, anche corporalmente27, ad autotrascendersi, cioè a vincere mi-
sure parziali del desiderio ― e Tommaso parla esplicitamente di una
dilatazione del desiderium ad opera della charitas, che è partecipazio-
ne alla vita di Dio28. L’importante è che, con questo linguaggio, non si
alluda ad un differimento all’infinito della condizione propriamente
beatifica: diceva al riguardo Agostino, che, finché si rimane «spe bea-
ti», non si è realmente beati29.
21
Cfr. Tommaso d’Aquino, Contra Gentiles, III, c. 62.
22
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 9, a. 2.
23
Cfr. Tommaso d’Aquino, Contra Gentiles, III, c. 62.
24
Cfr. J. Duns Scoto, Reportata Parisiensa, IV, 49, 1.
25
Cfr. Anselmo d’Aosta, Proslogion, 25; testo latino a cura di F.S. Schmitt.
26
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 12, a. 5.
27
Cfr. ibi, I IIae, q. 4, a. 6.
28
Cfr. ibi, I, q. 12, a. 6.
29
Cfr. Agostino, De Trinitate, XIII, 7; testo latino del Migne: PL 42.
Capitolo II: Eternità e libertà: appunti 107
L'equivoco denunciato da Agostino, è quello in cui ― com’è noto
― sarebbe caduto Kant, in quel suo breve scritto intitolato La fine di
tutte le cose30, nel quale la vita ultraterrena dell’uomo è da lui prospet-
tata, in modo consapevolmente aporetico, come una progressione
all’infinito verso il fine ultimo (nella permanente intenzione di rag-
giungerlo). In questo, che è uno degli ultimi scritti kantiani, è ancora
attivo il pregiudizio della Critica della ragion pura. Infatti, da un lato
Kant denuncia la surrezione teorica in cui si incorre proiettando la
condizione del tempo su ciò che temporale non è (cioè, pensando
l’altra vita come un tempo senza fine); dall’altro, egli si impone il di-
vieto di pensare positivamente al di là dell’ambito dell’immaginabile
― se non nella forma del postulato pratico, che pure non ha potere de-
terminante sugli stessi contenuti che introduce. Si può dire, allora, che
quella di Kant è una speranza senza pensiero, o il cui unico pensiero è
quello della inadeguatezza dell’immagine.
Ora, anche noi sappiamo che non è possibile affidare all’immagine
un potere teoreticamente determinante; ma sappiamo anche che aste-
nersi dal potere determinante dell’immaginazione non è astenersi dal
pensiero metafisico: per questo, possiamo tentare di delineare qualche
struttura intelligibile, senza della quale la speranza si atrofizzerebbe
(almeno, nel suo esercizio esistenziale), perché l’uomo non saprebbe
più in che cosa concretamente sperare.
In via preliminare, si può dire che, se il mutamento ― fruibile co-
me tempo ― è un prima e un poi cui corrispondono solidalmente «in-
novatio» e «veteratio»31, l’immutabilità ― fruibile come eternità ―
esclude tutto ciò: sia la scansione sia la reciproca esclusione degli
scanditi. Per capire poi qualcosa di quella realtà intermedia ― tra il
tempo e l’eternità ― che è la condizione beatifica, è forse opportuno
tenere presente la riflessione scolastica intorno alla vita angelica, frui-
ta come aevum. Secondo Tommaso, l’aevum è una durata
dell’intrasmutabile (ovvero di ciò che non perde la sostanza,
l’identità). Ora, l’intrasmutabile non rifiuta di per sé il prima e il poi;
né rifiuta ― possiamo forse aggiungere ― l’innovatio: una innovatio,
30
I. Kant, Das Ende aller Dinge (1794), in Kant’s gesammelte Schriften, hrsg von der
Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Band VIII, Berlin 1912.
31
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 10, a. 5.
108 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
però, cui non corrisponda alcuna veteratio, o in cui, meglio, la vetera-
tio sia continua maturazione e sintesi senza impoverimento. In genera-
le, la faticosa riflessione medievale intorno all’aevum ci dice che è
concepibile, anche se non è immaginabile, una duratio che corrispon-
da alla partecipazione creaturale all’amore di Dio per sé: una parteci-
pazione all’eternità, in cui ci si possiede, in quanto si è posseduti radi-
calmente da Chi è perfetta autopossessio.
CAPITOLO III
LA LEZIONE TOMMASIANA SUL MALE,
NEL RECENTE DIBATTITO
1. Una riscoperta del De Malo
Abbiamo assistito, negli ultimi anni del Novecento, a una risco-
perta ― nell’ambiente accademico italiano ― della classica lezione
contenuta nelle Quaestiones Disputatae De Malo di Tommaso
d’Aquino. Tale riscoperta, che si inserisce nella mai sopita e anzi
sempre più insistente ricerca speculativa intorno alle figure del male,
ha prodotto, tra l’altro, due traduzioni del testo tommasiano, in pre-
cedenza non disponibile in lingua italiana: quella integrale a cura di
Fernando Fiorentino (Il male, Rusconi, Milano 1999), e quella par-
ziale, a cura di Umberto Galeazzi e Raffaella Savino, articolata in
due volumi: I vizi capitali (traduzione delle qq. VIII–XV), Rizzoli,
Milano 1996; Il male e la libertà (traduzione delle qq. I–III e VI),
Rizzoli, Milano 2002.
Nel presente intervento ci occuperemo in linea principale dell’am-
pia introduzione che Galeazzi ha premesso al secondo volume da lui
curato; la quale costituisce di fatto un saggio autonomo, di notevole
respiro, che va ad abbracciare con taglio teoretico i temi del male e
della libertà. Lo faremo valorizzando ― all’occasione ― anche
l’ampia introduzione, prevalentemente a sviluppo storico, che Fioren-
tino ha premesso a sua volta alla propria traduzione dell’opera tomma-
siana; e, naturalmente, non mancheremo di allargare lo sguardo ad al-
109
110 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
tri contributi in lingua italiana che, nello stesso periodo, si sono venuti
collocando nel medesimo ambito di indagine e di discussione.
2. Un varco da lasciare aperto
Il centro di gravitazione del testo di Galeazzi sembra risiedere in un
brano, che sarà opportuno riportare per intero, anche in considerazione
della sua esemplare chiarezza e precisione.
«Di fronte al terribile e minaccioso enigma del male l’atteggia-
mento primo e fondamentale, che si addice all’uomo, è quello dell’u-
miltà, che è realismo, adesione alla verità, perché nella sua ricerca teo-
retica ed esistenziale deve cercare di capire, per quanto gli è possibile,
il disegno di Dio come si manifesta nella creazione e nella rivelazione:
‘Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me, che io
non comprendo’ (Gb 42, 3), riconosce Giobbe dopo la sua durissima
esperienza e la lezione che gli è stata impartita. Di fronte ad aspetti
della verità, sul piano ontologico e fenomenologico, che ci appaiono
prima facie inconciliabili tra loro (in questo caso la bontà e la genero-
sità donativa del progetto della creazione e l’esperienza del male, co-
me male morale e come sofferenza, anche innocente), nulla ci autoriz-
za razionalmente a rifiutare l’uno o l’altro. Si tratta di indagare più a
fondo, di ricercare altri elementi, imputando l’aporia ai limiti della no-
stra comprensione, testimoniati incontrovertibilmente dallo stesso
progredire (chi progredisce non conosce tutto) del nostro sapere, delle
stesse nostre conquiste, che dischiudono nuovi e più ampi orizzonti
inesplorati»1.
Dunque, la questione del male ― ovvero, di come sia possibile che
il mondo, creato da colui che è la bontà stessa, sia segnato in vario
modo dal male ―, si presenta come una antinomia. Una antinomia
che l’autore suggerisce anzitutto di non lasciar cadere senz’altro nel
calco della contraddizione; ma di intendere piuttosto entro i limiti in
cui essa ― come ogni autentica antinomia ― si dà a pensare: che so-
no quelli del paradosso, e quindi della provocazione a indagare più a
1
Cfr. U. Galeazzi, Introduzione, in: Tommaso d’Aquino, Il male e la libertà, a cura di U.
Galeazzi e R. Savino, Rizzoli, Milano 2002, pp. 34–35.
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 111
fondo. Del resto, un referto di contraddittorietà risulterebbe qui im-
proponibile, dal momento che i due lati dell’antinomia in questione2
coincidono con due asserti, entrambi veri, e senz’altro riconosciuti
come tali da chi nella situazione antinomica si viene a trovare3: pertan-
to, nessuno dei due asserti potrebbe essere con ragione (né oggettiva
né soggettiva) sacrificato all’altro. Per evitare di intendere la realtà,
nel suo cuore stesso per giunta, come un che di autocontraddittorio,
occorrerà dunque ulterius quaerere, cioè individuare quali siano i fat-
tori che rendono reciprocamente compatibili i due versanti antinomici
in cui la questione si articola; l’indagine in parola, poi, non potrà che
investirli entrambi ― coincidendo essi, rispettivamente, con una fe-
nomenologia del male e con una metafisica della creazione.
La figura teorica intorno alla quale ruota tradizionalmente la feno-
menologia del male (anzitutto del male in senso ontologico, ma, se-
condariamente, anche del male morale), è quella della privazione (sté-
resis o privatio). Che il male sia specificamente privazione, e non ge-
nericamente limite, è insegnamento di origine aristotelica che ― lun-
go una linea che da Plotino, attraverso Agostino, Dionigi e Anselmo,
giunge fino a Tommaso ―, è stato tradizionalmente fatto valere con-
tro l’opposta indicazione di origine gnostica4. E, se privazione vuol di-
re mancanza di un bene “dovuto” per natura5, si tratterà, per penetrare
nel mistero del male, di approfondire il significato di quel “dovuto” ―
come opportunamente suggerisce di fare Fernando Fiorentino, nel
momento teoreticamente più impegnato del suo testo6.
2
Come quelli di ogni autentica antinomia.
3
In particolare, se non si ammettesse ― almeno implicitamente ― la verità della creazio-
ne, il male potrebbe essere problema, ma non certo scandalo. Se poi non si ammettesse neppu-
re una generica originarietà del positivo, neppure il problema sarebbe coerentemente avvista-
bile come tale.
4
Su questo punto, così si esprime Galeazzi: «Il bene finito non è tutto il bene, manca di
tutte quelle dimensioni della positività che sono altre dalla sua determinatezza. [...] Questa
mancanza non è di per sé male, ma connota un bene comunque non assoluto, non totale». «In-
vece, considerare la finitezza come un male, [...] conduce o alla disperazione, perché la fini-
tezza è ineliminabile, oppure alla pretesa impossibile e, in definitiva, assurda da parte
dell’uomo di considerarsi o di farsi assoluto» (cfr. U. Galeazzi, Introduzione, p. 41).
5
Cfr. Aristotele, Metafisica, V, 1022b 27 ss.
6
L’interpretazione del male come “assenza del bene dovuto” è propria ― come si diceva
― anche di Anselmo. Intendendo l’Anselmo del De casu diaboli come diretta fonte del De
Malo tommasiano, così annota Fernando Fiorentino: «S. Tommaso interpreta aristotelicamen-
te il dovuto anselmiano. Ogni natura tende per sé verso il proprio bene, che è la sua perfezio-
112 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
Ora, il debitum cui il male si oppone, non allude alla conferma di
una mera regolarità statistica, ma piuttosto richiama una debita inte-
gritas: esso, dunque, rinvia ad una integrità di senso, che non solo non
viene nell’immediato soddisfatta, ma che appare anzi propriamente
violata. È infatti solo in relazione ad una integrità violata, che la priva-
tio è avvistabile come tale: tutta la sua consistenza, il suo peso di real-
tà, sta appunto lì, in quella relazione negativa tra la realtà deprivata e
l’idealità in confronto alla quale essa risulta essere tale.
Dunque, se considerata secondo la cautela suggerita dallo husser-
liano “principio di tutti i principi”, la privazione ― lungi dal rivelar-
si quale luogo dell’insensatezza ― mostra di essere avvistabile solo
in riferimento ad una regolatività: mostra cioè di essere implicito
rinvio ad una integrità di senso. Integrità, appunto, violata. Ma, a che
cosa rinvia, a sua volta, un simile modo di rinviare ― un modo di
rinviare, cioè, di tipo non fisiologico, bensì patologico: tale, insom-
ma, da passare attraverso la violazione di un’integrità? È questa, ap-
ne. Una cosa che non giunge alla sua perfezione è priva d’un bene che le spetta per natura.
[...] Non sono mali tutte le altre privazioni, che Leibniz, capovolgendo la tesi pitagorica, se-
condo cui l’infinito è imperfetto e male, il finito è perfetto e bene, definirà ‘male metafisico’.
[...] Innanzitutto ciò che non è dovuto è un male in rapporto ad un individuo, perché ne osta-
cola la perfezione, non in rapporto al mondo nella sua totalità. In questa distinzione S. Tom-
maso si serve indubbiamente delle osservazioni di Sant’Agostino circa il rapporto tutto parte.
Essere mangiata dal leone è un male per la zebra, non per il leone. L’amputazione della gam-
ba è un male per la gamba, non per il corpo. [...] S. Tommaso traspone la necessità del male
dal piano trascendente e metafisico, su cui l’aveva collocata Plotino, all’esclusivo piano im-
manente e fisico: il bene assoluto increato può esistere senza il male, ma il bene creato non
può. [...] Il concetto di dovuto chiude definitivamente qualsiasi discorso intorno al male meta-
fisico: il dovuto è attributo d’un soggetto, mentre il male in sé dovrebbe essere una sostanza,
cosa che già Plotino aveva negato come possibile. Il concetto di dovuto, inoltre, rimanda ad
una ‘volontà razionale’, stando a quanto ha sostenuto Sant’Anselmo, perché il debet richiede
un soggetto, che può agire in un modo e nel suo contrario. Una cosa naturale non può essere
soggetto del debet. Ora, ciò che è dovuto alla natura dipende dalla volontà di Dio e ciò che è
dovuto alla rettitudine dell’atto morale dipende dalla volontà dell’uomo. Da qui si biforca la
natura del male. Quando si tratta d’una privazione nella natura, il male non può essere, in rap-
porto alla volontà divina, se non una pena, poiché Dio, non potendo volere il male a motivo
della sua bontà, lo deve per conseguenza solo permettere nel mondo attraverso le cause se-
conde a titolo di castigo, o per ricostruire l’ordine violato della giustizia o per ricavarne un
bene, secondo l’insegnamento di Sant’Agostino, di cui farà tesoro S. Tommaso. Quando, in-
vece, si tratta d’una privazione nella rettitudine dell’atto morale, il male è una colpa d’una na-
tura intellettuale finita, in quanto può commettere una colpa solo la volontà d’un tale essere»
(cfr. F. Fiorentino, Introduzione, in: Tommaso d’Aquino, Il male, trad. it. di F. Fiorentino sul
testo della Editio Leonina, Rusconi, Milano 1999, pp. 65–68).
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 113
propriatamente formulata, la domanda sul senso del male: una do-
manda, allora, non sull’esserci o meno di un tale senso, ma semmai
sulla qualità di esso7.
Ma, una volta messo a fuoco in che cosa la privazione consista, si
apre la possibilità di differenti tipi di indagine. Una cosa è indagare
quali siano le condizioni che rendono possibile che la privazione in
generale si dia; altra cosa è indagare se il darsi (attuale o possibile) di
essa, possa rientrare in un qualche disegno di senso; altra cosa ancora
è indagare se effettivamente o meno essa rientri in un disegno di sen-
so, e se sì, in quale. Il primo tipo di indagine può trovare una qualche
soddisfazione in sede filosofica, anche quanto al male morale (classi-
camente interpretato come privazione di ordine, inerente all’azione li-
bera)8; lo stesso dicasi ― come meglio vedremo ― per il secondo ti-
po. Non altrettanto si può dire, invece, per il terzo tipo di indagine. Per
poter dar soddisfazione a quest’ultima, occorrerebbe essere in una
condizione radicalmente diversa da quella in cui siamo. Si tratterebbe,
infatti, di avere nozione, non solo del “che” della creazione, ma anche
del suo determinato “perché: occorrerebbe, insomma, godere del pun-
to di vista dello stesso Creatore; o, più precisamente, occorrerebbe po-
ter ricomprendere nel nostro anche il Suo punto di vista, in modo da
poter giudicare che cosa eventualmente possa dirsi inconciliabile ri-
spetto ad esso9.
7
In altri termini: se il male è rinvio al senso attraverso la patologia; che senso ha un rinvio
di questo tipo? A che cosa, a sua volta, esso rinvia?
8
«Ora, il Bene totale o sommo non ha, e non può avere, delle potenzialità passive [...]; in-
vece il bene parziale, finito, proprio delle realtà create, implica delle potenzialità, che tendono
ad attuarsi. [...] Ciò porta a distinguere, in ogni realtà creata, due livelli di positività, di perfe-
zione: quella che è implicita nella propria realtà ontologica, nell’attualità per cui quella realtà
è, e quella che consegue con il compimento delle proprie potenzialità. Per gli esseri capaci di
agire morale, in quanto liberi, emerge, così, la disequazione tra bene ontologico e bene morale
[...]. Qui c’è la possibilità del male morale. Infatti, come il bene morale è nell’agire libero se-
condo l’ordine che conduce al fine, al compimento, così il male morale consiste in un agire,
da parte dell’uomo, disordinato, cioè non secondo l’ordine che conduce al fine [...]. Come si
vede, la possibilità del male morale nasce dalla finitezza e dalla libertà, o meglio, dalla condi-
zione umana della libertà finita. Non che il finito sia il male, ché, come abbiamo visto, ogni
realtà finita ha una intrinseca positività, ma nella finitezza c’è la possibilità del male» (cfr. U.
Galeazzi, Introduzione, pp. 23–25).
9
Opportunamente Galeazzi rende il senso dell’intervento di Dio nel libro di Giobbe, nei
termini seguenti: «Ma tu sai qual è il senso della vita dell’uomo e qual è il suo vero bene? Tu
che giudichi il bene e il male nella tua storia personale facendo riferimento a eventi circoscrit-
114 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
In generale, le ragioni del male non possono essere indagate, se non
all’interno di una più ampia indagine che riguardi le ragioni del bene;
e, una simile indagine verrebbe a coincidere con una metafisica della
creazione ― col che il discorso si affaccia al secondo versante del-
l’antinomia in questione.
Ora, una metafisica correttamente impostata ha come esito il “che”
(tradizionalmente il quia) del rapporto di creazione, ma non certo il
“perché” (tradizionalmente, il propter quid) di questo. Ad un’indagine
condotta a partire dall’esperienza, è in effetti accessibile la consapevo-
lezza “che” il mondo in cui viviamo dipende radicalmente, e gratuita-
mente, da una realtà ad esso trascendente; ma, con ciò resta impregiu-
dicata ― almeno in sede filosofica ― la questione del perché il mon-
do sia creato, e del perché sia creato secondo certe curvature anziché
altre. Solo se tutto questo ci fosse noto, potremmo eventualmente giu-
dicare alcunché, di ciò che accade, come insensato: cioè potremmo
giudicarlo come irrimediabilmente, e non solo apparentemente, oppo-
sto al disegno della creazione. Dunque, esplorando più avvedutamente
i due lati dell’antinomia del male, si trovano le ragioni che ci vietano
di chiudere quest’ultima nel calco dell’autocontraddizione10.
3. Realismo e dissimmetria
La tradizionale dottrina del male come privazione non corrisponde
naturalmente ad un patetico tentativo di estenuare teoricamente la for-
ti nel tempo e di cui non conosci gli esiti futuri, che li farebbero intendere in una luce nuova
conferendo loro un significato certamente diverso, pretendi di guidare il Creatore, che non è
prigioniero del tempo e vede tutti gli sviluppi futuri di determinati fatti e circostanze e cono-
sce l’esistenza umana in tutta l’ampiezza delle sue dimensioni e nella sua destinazione
all’Eterno. [...] Insomma, tutto l’intervento di Dio nel libro di Giobbe e, perciò, la lezione di
questo libro, mira a svegliare l’uomo dal sonno dogmatico della sua superbia, che, tutta infa-
tuata per la propria pretesa superiorità, osa mettersi alla pari e addirittura al di sopra di Dio,
sottoponendolo al proprio giudizio» (cfr. U. Galeazzi, Introduzione, p. 33).
10
Annota al riguardo Galeazzi: «Non si pretende forse di saperne più di Dio quando ci si
abbandona alla disperazione riguardo alla possibilità di vittoria sul male, cui Dio chiama
l’uomo? Come si vede, la lezione del libro di Giobbe sul male presuppone e trae le conse-
guenze dalla verità speculativa della metafisica della creazione. Questa lezione mette fuori
gioco, come insensata e assurda, ogni possibile teodicea, in cui anche chi difende Dio accetta
in qualche modo che egli possa essere sottoposto a giudizio da parte dell’uomo» (cfr. U. Ga-
leazzi, Introduzione, p. 37).
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 115
za con cui il male si impone all’esperienza umana11 ― come hanno
sostenuto, invece, più correnti di pensiero12. È anzi opportuno ricorda-
re come uno dei più autorevoli tra gli interpreti contemporanei della
tradizione che parla in termini di privazione ― Jacques Maritain ―,
abbia addirittura enfatizzato il realismo del male, fino al punto di af-
fermare che la privatio boni, pur essendo una sorta di «mutilazione
dell’essere»13, è, in un certo senso, «quanto vi è di più reale nelle co-
se»14. Con la figura della privatio boni non si intende insomma liqui-
dare affrettatamente la questione del male, quanto piuttosto lasciarla
aperta, prevenendo semmai, al suo riguardo, i più gravi fraintendimen-
ti. In particolare, essa esprime la dissimmetria che segna la relazione
tra bene e male, e ― come al riguardo si esprime un altro, più recente,
autore ― «vuole stabilire che il male, in virtù della stessa logica
dell’essere, non può limitare originariamente il Bene»; esso piuttosto
appartiene al bene: «si tratta, dunque, di chiarire il senso di questa ap-
partenenza»15.
11
Cfr. U. Galeazzi, Introduzione, p. 11.
12
Si pensi, da un lato, alle note polemiche illuministiche intorno alla teodicea (emblema-
tico qui il nome di Pierre Bayle); e dall’altro, alle reviviscenze gnostiche nel Novecento (em-
blematico, in proposito, il nome di Carl Gustav Jung). Secondo Jung, pensare il male ― nelle
sue diverse forme ― come privatio boni, sarebbe del tutto fuorviante, per chi volesse cogliere
la funzione reale ed energetica di questo fattore nella vicenda umano–divina. «Questa formula
classica» ― scrive Jung ― «priva il male dell’esistenza assoluta e ne fa un’ombra [...]. Invece
al bene si attribuisce positività e sostanza». Senonché, «a un male apparente non può contrap-
porsi che un bene apparente [...]. Certo un ente si contrappone a un non ente, ma non mai un
bene che è a un male che non è, poiché quest’ultimo è una contradictio in adjecto» (cfr. C.G.
Jung, Versuch zu einer psychologischen Deutung des Trinitätsdogmas [1948]; trad. it. di O.
Bovero Caporali, col titolo: Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, in
C.G. Jung, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino 1992, pp. 165–6).
13
Cfr. J. Maritain, De Bergson à Thomas d’Aquin (1944); trad. it. di R. Bartalozzi, col ti-
tolo: Da Bergson a Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1980, p. 209.
14
Cfr. J. Maritain, Dieu et la permission du mal (1963); trad. it. di A. Ceccato, col titolo:
Dio e la permissione del male, Morcelliana, Brescia 1977, pp. 18–20.
15
Cfr. I. Sciuto, La felicità e il male, FrancoAngeli, Milano1995, p. 66. Come opportu-
namente richiama lo stesso autore: «Questa non è ancora la soluzione filosofica del problema
del male. È piuttosto la sua corretta posizione, che rende evidente la necessità di correggere la
domanda manichea: quando si chiede unde sit malum, bisogna prima interrogarsi circa il quid
sit malum» (cfr. ibi, p. 65). Sullo specifico ruolo che la figura in questione svolge nel pensiero
di Agostino, Sciuto osserva: «Pur derivando chiaramente dal pensiero neoplatonico, questo
modo d’intendere il male come privatio boni non confuta soltanto il manicheismo, che so-
stanzializza e assolutizza assurdamente il male, ma corregge anche l’ambigua terminologia di
Plotino, che parla di ‘sostanza del male’, di ‘primo male’ e di ‘male in sé’» (cfr. ibi, p. 64).
116 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
Più al fondo, la dissimmetria in questione16 risiede nell’essere, il
bene e il male, una coppia di opposti che si fronteggiano non come
contrari, bensì come l’uno (il male) privazione dell’altro (il bene). È
per questo, che «bisogna capire che cosa sia il male dalla nozione di
bene» ― senza che valga il reciproco17. Del resto, i contrari dovrebbe-
ro essere entrambi delle realtà positive; e ciò ― se vale la classica
convertibilità del bene con il positivo ― non può attagliarsi al male18.
Ma, se è così, come è possibile che il male in qualche modo operi,
cioè eserciti una azione distruttiva o deformatrice (non priva, tra l’altro,
di un suo fascino attrattivo)? La risposta tommasiana è che l’efficacia (ef-
ficiente e finale) del male risiederebbe, non nella natura privativa di que-
sto, bensì nella positività di quel bene cui pure il male deve inerire19.
Piergiorgio Grassi, in un suo intervento dedicato a Male radicale e
salvezza, valorizza invece, in proposito, la differente risposta data da
Kant20. Questi, nel saggio del 1763 dedicato al concetto delle quantità ne-
gative, introduce anzitutto la distinzione tra nihil negativum e nihil priva-
tivum: dove, il primo è suarezianamente l’impossibilità a costituirsi
dell’autocontraddittorio; mentre il secondo è il risultato nullo di una
composizione di forze effettive, insistenti sul medesimo, ma equivalenti
ed opposte tra loro. Kant ulteriormente distingue tra nihil privativum (o
privatio) e defectus: dove, il secondo termine indica una mancanza che si
16
Qui usiamo il termine con cui Jacques Maritain (cfr. Dio e la permissione del male, p.
17) esprime una tesi centrale del De Malo (cfr. q. 1, a. 1, ad 2um)
17
Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 48, a. 1. Annota, al riguardo, Galeazzi: «Si po-
trebbe dire che, giacché la struttura originaria del nostro sapere è caratterizzata dalla priorita-
ria intenzionalità all’essere, e quindi al bene, ogni ulteriore incremento della conoscenza la
presuppone. E, poiché la volontà è appetito razionale, essa è originariamente e prioritariamen-
te tensione al bene. [...] Perciò ‘l’inclinazione dell’appetito verso il bene è causa
dell’inclinazione di esso a fuggire il male’ (S. th., I–II, q. 36, a. 2, ad 1um). Qui Tommaso
chiarisce e sottolinea una evidenza originaria, di cui si può dare anche una dimostrazione con-
futativa, nel senso che chi volesse negarla sarebbe costretto, nel suo tentativo di negazione, a
riaffermarla. Infatti, anche chi ritiene [...] ‘che il male è originario, mentre il bene è derivato’,
poi, nel sostenere la sua tesi, nel richiamarsi alla ‘coscienza razionale pratica’, caratterizzata
dal ‘tentativo di evitare il male’, non può non riconoscere che questo tentativo non è altro dal
‘tentativo di evitare l’assenza di un bene possibile’. Ora, ognuno vede che tentare di evitare
l’assenza di un bene, non è altro che tendere a quel bene, cercare di conseguirlo» (cfr. U. Ga-
leazzi, Introduzione, pp. 13–14).
18
Cfr. U. Galeazzi, Introduzione, p. 38.
19
Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 48, a. 1, ad 4um.
20
Cfr. P. Grassi, Kant: male radicale e salvezza, «Humanitas», LVII (2002), pp. 424–425.
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 117
presenta in una realtà fin dal suo primo apparire; mentre il primo termine
― come abbiamo visto ― indica una mancanza derivante da una opposi-
zione reciproca di forze insistenti sul medesimo21. Ora, quest’ultima di-
stinzione è rilevante ― secondo Kant ― in relazione alla interpretazione
del male. «L’errore in cui sono caduti molti filosofi per averla trascurata è
palmare. Si trova infatti che essi trattano quasi sempre i mali come mere
negazioni [Verneinungen], sebbene, seguendo le nostre spiegazioni, sia
ben chiaro che vi sono mali di assenza [Übel des Mangels] (mala defec-
tus) e mali di privazione [Übel der Beraubung] (mala privationis). I pri-
mi sono negazioni che non danno causa ad una posizione contraria, i se-
condi invece presuppongono delle cause positive che annullano quel bene
che ha a sua volta un’altra causa effettiva, e sono un bene negativo.
Quest’ultimo è un male assai maggiore del primo»22.
La distinzione kantiana tra defectus e privatio cerca di rendere con-
to della efficacia di cui il male sembra, in più sensi, capace: esso infat-
ti ha l’aspetto, almeno in alcuni casi, di una presenza negativa (kantia-
namente, di una privatio), anziché di una assenza (kantianamente, di
un defectus). Senonché, anche dal punto di vista classico si è in grado
di dar conto della facies attiva del male, riferendola alla realtà positiva
di cui il male è comunque parassita: l’attività di ciò che è privo di
qualcosa di dovuto, risulta infatti inevitabilmente disordinata, e a sua
volta deformatrice: quindi, foriera di male.
Ma ― ad avviso di Grassi23 ―, ciò che Kant vuol iniziare a mettere in
luce fin dal testo del 1763, è qualcosa di specificamente riferito all’uomo:
più precisamente al carattere attivo di quella non occasionale, bensì stabi-
le ed originaria, proclività al comportamento maligno, che, nel celebre te-
sto del 1793, verrà chiamata “male radicale” [radikales Böse]. Infatti,
Kant indicherebbe con tale espressione, non tanto una assenza di perfe-
zione, quanto una “naturale tendenza” [natürlicher Hang] al male24 ―
che nella storia umana sembra darsi positivamente in competizione con
l’opposta tendenza al bene.
21
Cfr. I. Kant, Versuch den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen
(1763), in Kant’s gesammelte Schriften, Band II, Berlin 1912, pp. 171–178.
22
Cfr. ibi, Abschnitt II, p. 182.
23
Cfr. P. Grassi, Kant: male radicale e salvezza, pp. 421–423.
24
Cfr. I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793), in Kant’s
gesammelte Schriften, Band VI, Berlin 1914, pp. 29 ss.
118 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
Senonché ― osserviamo noi ―, quando lo stesso Kant deve
connotare in modo più preciso il male radicale, si rifiuta di presen-
tarlo come «una vera malizia [Bosheit]» ― cioè, come una «inten-
zione di accettare come motivo della propria massima il male in
quanto male» –, ma ne parla piuttosto come di una «perversità di
cuore [Verfehrtheit des Herzens]»: dove, ad essere pervertita (o an-
che ridotta in termini di mera legalità esteriore), resta evidentemen-
te l’intenzione di bene25; rispetto alla quale, il male radicale finisce
dunque per configurarsi come isterilimento o riduzione: ovvero, in
termini classici, privazione.
4. Male, dolore, sofferenza
Un punto sul quale l’analisi di Galeazzi opportunamente insiste ―
fedele anche in questo alla lezione tommasiana ―, è la distinzione tra
male e dolore. Distinzione, questa, troppo spesso ignorata nella rifles-
sione filosofica degli ultimi decenni26. «Per Tommaso il dolore è una
‘passione dell’anima’, un ‘moto dell’appetito sensitivo’, cioè una pas-
sione dell’uomo nell’unità della persona, in cui non c’è separazione
tra la dimensione corporeo–sensibile e il suo principio intellettivo.
Dunque il dolore non è mera carenza o privazione, ma è il soffrire del-
la privazione, del male»27.
La distinzione va ben tenuta in conto, in quanto il dolore (da quello
fisiologico fino al rimorso di coscienza), lungi dall’identificarsi col
male, è anzi risorsa insostituibile per contrastare quest’ultimo e per,
tendenzialmente, evitarlo. In tal senso ― avvertiva Tommaso ―, «è
un bene, supposta la presenza del male, che si produca la tristezza o il
dolore»28; e, «secondo quell’aspetto per il quale è buona, la tristezza
25
Cfr. I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, p. 37.
26
Si pensi solo alle pagine assai penetranti di Lévinas sull’esperienza del “male” ― che
risultano, per lo più dedicate, di fatto, all’esperienza del dolore. (Cfr. E. Lévinas, De Dieu qui
vient à l’idée [1982]; trad. it. di G. Zennaro, col titolo: Di Dio che viene all’idea, Jaca Book,
Milano 1986, pp. 155–160. Ma si veda anche: Id., Autrement qu’être ou au–delà de l’essence
[1974]; trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, col titolo: Altrimenti che essere, Jaca Book, Mi-
lano 1991, pp. 65, 80–81).
27
Cfr. U. Galeazzi, Introduzione, pp. 44–45.
28
Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I IIae, q. 39, a. 1.
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 119
può essere un bene onesto. Infatti si è detto che la tristezza è un bene
come percezione e ripulsa del male»29.
Non solo, ma il dolore costituisce la base “materiale” di una espe-
rienza ― la sofferenza ―, che rappresenta un’occasione non sostitui-
bile di umanizzazione, per chi la vive e per chi la condivide. Restando
nel vocabolario classico: se il dolore è una passione, la sofferenza è la
specifica virtù che nasce dalla elaborazione di quella passione, e che
ad essa conferisce una forma propriamente umana. Accettare di soffri-
re, cioè di portare su di sé il dolore, anziché subirlo, significa ricono-
scergli implicitamente una direttrice di senso; e significa, con ciò,
ammettere che il criterio per riconoscere sensatezza o meno a ciò che
accade, non coincide ― come invece tanto di frequente surrettizia-
mente si assume ― con la corrispondenza di questo ad un disegno
dell’uomo o ad una, sia pur lecita, aspettativa sua.
Ma significa anche accettare implicitamente che la privazione del
“dovuto” ― di un dovuto che sia tale, non solo soggettivamente, ma
anche obiettivamente ― possa indicare, per l’uomo e per il cosmo
stesso, una destinazione che ecceda il normale configurarsi di un ciclo
naturale. Accettare di soffrire, insomma, vuol dire riconoscere di fatto
che la vicenda umana sembra essere portata, per natura, oltre natura:
ovvero, verso un compimento differente da ogni immaginabile perfe-
zionamento o riuscita.
5. Tommaso e Kant
Una posizione come quella che Galeazzi fa emergere dai testi di
Tommaso sembra affine ― per un certo aspetto ― a quella che ritro-
viamo nel Kant dello scritto Sull’insuccesso di ogni saggio filosofico
di teodicea. In particolare, Kant afferma che l’esercizio di una teodi-
cea avrebbe senso solo a patto di presupporre (ipotesi ovviamente au-
tocontraddittoria) l’onniscienza dell’indagante, cioè la capacità sua di
stabilire in che senso, ciò che prima facie appare contrario ai fini della
creazione ― ovvero il male di colpa, il male di pena o un’ingiusta cor-
29
Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I IIae, q. 39, a. 2.
120 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
rispondenza tra i due30 ―, risulti in realtà, a seconda dei casi: o non
essere veramente contrario a tali fini, o esserlo senza responsabilità di
alcuno, o esserlo per volontà di qualcuno che comunque non sarà il
Creatore31. L’indagine kantiana si articola poi nella applicazione di
ciascuna delle tre strategie ora richiamate, ad ognuna delle tre specie
di male in precedenza indicate: applicazione da cui dovrebbe emergere
l’intera gamma delle risposte ― tutte insoddisfacenti, secondo Kant
― che la teodicea è in grado di fornire32.
Ora, per respingere definitivamente le pretese di una qualche teodi-
cea ― scrive Kant ―, occorrerebbe «dimostrare con certezza che la
nostra ragione è assolutamente incapace di intendere il rapporto tra un
mondo così come sempre ci è dato conoscerlo tramite l’esperienza, e
la saggezza suprema»33. Tale incapacità, poi, consiste nel non avere di
fatto alcun «concetto dell’unità dell’accordo» che può esserci tra la
«saggezza artistica» [Kunstweisheit], che si manifesta nel mondo fisi-
co, e la suprema «saggezza morale» [moralische Weisheit], che è po-
stulata dall’esercizio umano della ragion pratica; e nel non poterlo a-
30
L’esistenza del male di colpa sembra contraria alla “santità” di Dio; l’esistenza del male di
pena sembra contraria alla “bontà” di Dio; l’esistenza di una inadeguata corrispondenza tra il se-
condo e il primo tipo di male sembra contraria alla “giustizia” di Dio. Ora ― secondo Kant –,
santità, bontà e giustizia sono i tre aspetti, reciprocamente irriducibili, che compongono il “con-
cetto morale” di Dio. (Cfr. I. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der
Theodicee [1791], in Kant’s gesammelte Schriften, Band VIII, Berlin 1912, pp. 256–257; trad. it.
di G. Riconda, in: Kant, Scritti di filosofia della religione, Mursia, Milano 1989).
31
Cfr. I. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee, p. 255.
32
Indichiamo con la sigla (1) il male di colpa, con (2) il male di pena e con (3)
l’ingiustizia; e indichiamo con (a) l’ipotesi che il male in questione non sia effettivamente ta-
le, con (b) l’ipotesi che esso sia effettivo, sì, ma non comporti alcuna responsabilità, e con (c)
l’ipotesi che esso non comporti responsabilità divina, bensì responsabilità di altra natura. Ora,
le risposte considerate da Kant sono schematizzabili come segue. (1a) La presenza del male
morale è in contrasto con la legge morale così come essa ci è nota, ma non è detto che, con
questo, tale presenza non sia necessariamente inscritta nel disegno della provvidenza supre-
ma; (1b) il male morale non è imputabile né al Creatore né all’uomo, essendo implicato inevi-
tabilmente nella natura finita del creato; (1c) del male morale è responsabile l’uomo, per per-
missione divina; (2a) nell’arco della vita umana, il piacere è sempre prevalente sul dolore: in-
fatti è normale che si preferisca la vita alla morte; (2b) il dolore è inseparabile dalla condizio-
ne umana; (2c) il dolore ha la funzione di renderci degni della felicità eterna; (3a) anche
l’ingiusto che sembra prosperare, in realtà è afflitto dal rimorso di coscienza; (3b) il dolore
che affligge il giusto, in realtà serve ad affinarne la virtù; (3c) l’accordo tra male di colpa e
male di pena si realizzerà nell’al di là. (Cfr. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen
Versuche in der Theodicee, pp. 258–262).
33
Cfr. I. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee, p. 263.
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 121
vere di diritto. Infatti ― spiega Kant ―, per poter cogliere qualcosa
come un accordo tra l’ordine che si dà nella natura sensibile e ciò che
la saggezza suprema esige, occorrerebbe una diretta, e quindi per
l’uomo improponibile, contemplazione dell’atto creatore34.
Insomma, quale sia l’«intenzione finale» [Endabsicht] che il Crea-
tore persegue attraverso i determinati accadimenti naturali e storici del
creato, è qualcosa che l’intelligenza umana cerca da sempre e invano
di congetturare, attraverso, appunto, una «teodicea dottrinale», il cui
equivoco risiederebbe nella pretesa di arguire verità morali da accadi-
menti fisici. Occorrerebbe invece cercare l’«interpretazione autentica»
[authentische Auslegung] delle intenzioni del Creatore, secondo la via
offertaci da Lui stesso. Ora, tale via viene individuata da Kant nella
legge morale e nelle sue implicazioni. E, dal punto di vista kantiano,
Giobbe rappresenta appunto l’uomo che affronta il mysterium iniqui-
tatis armato solo della sua buona coscienza: consapevole di non aver
meritato le disgrazie che gli piovono addosso, e deciso, nonostante
queste, a mantenere intatta la sua buona condotta35.
Bene, nelle considerazioni di Kant si trova una obiettiva ragione di
convergenza con la posizione tommasiana, per come sopra era emersa.
Kant infatti, di fronte all’ipotesi per cui ciò che ripugna alla coscienza
morale dell’uomo possa invece essere coerente con la santità del Crea-
tore36, osserva che «questa difesa, in cui la risposta è peggiore dell’ac-
cusa, non merita confutazione e può essere tranquillamente abbando-
34
«Solo colui che si spinge sino alla conoscenza del mondo soprasensibile (intelligibile) e
a capire il modo in cui sta a fondamento del mondo sensibile, giunge a comprendere [un simi-
le accordo]. Solo su questa conoscenza si può fondare la prova della saggezza morale del Cre-
atore nel mondo sensibile, poiché quest’ultimo ci presenta soltanto l’apparenza di quello so-
prasensibile: ma ad essa nessun mortale può giungere» (cfr. I. Kant, Über das Mißlingen aller
philosophischen Versuche in der Theodicee, pp. 263–264).
35
«Dunque la sincerità di cuore e non l’eccellenza nel conoscere, l’onestà di confessare i
propri dubbi apertamente e la ripugnanza a fingere ipocritamente convinzioni non sentite e
soprattutto di fronte a Dio, con il quale è folle volere giocare d’astuzia, queste sono le qualità
che nel giudizio divino hanno deciso la superiorità dell’onesto, nella persona di Giobbe, nei
confronti dell’ipocrisia religiosa. La fede poi che nacque in lui da una soluzione così sorpren-
dente dei suoi dubbi, cioè dalla sola convinzione della propria ignoranza, poteva sorgere solo
nell’anima di un uomo, che in mezzo ai suoi dubbi più vivi poteva dire (XXVII, 5, 6): ‘Finché
non verrà la mia fine, io non verrò meno alla mia pietà, ecc...’. Infatti con questa sua disposi-
zione egli mostrava di non fondare la sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità» (cfr.
I. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee, pp. 264–267).
36
Si tratta della ipotesi da noi indicata come (1a) nella rassegna che ricostruiamo alla nota 33.
122 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
nata all’esecrazione di ogni uomo che abbia un ancorché minimo sen-
so della moralità»37. Di Giobbe, poi, egli apprezza la fedeltà alla testi-
monianza della coscienza, come punto fermo nel dialogo con Dio38. In
sintesi, Kant sembra affermare che alcuni criteri elementari di ragion
pratica possono essere terreno di comunicazione e d’intesa tra la crea-
tura razionale e il Creatore; analogamente a come, in Tommaso, veni-
va riconosciuto alla creatura razionale uno spazio legittimo di interro-
gazione nei confronti del Creatore, in riferimento all’evidenza39. En-
trambi gli autori, insomma, escludono qualcosa come un arbitrarismo
divino (rispetto al quale non resterebbe all’uomo che il buio inquietan-
te dell’enigma)40.
In effetti, nel suo commento al libro di Giobbe, Tommaso sostiene
il diritto della creatura razionale ad interrogare il Creatore. «Giobbe
infatti voleva disputare con Dio, ma nel modo di uno che ha da impa-
rare [quasi ad addiscendum], come un discepolo col maestro» ― e
non «nel modo di uno che, da pari a pari, sostenga un contraddittorio
[ad contradicendum quasi de pari]». E anche le espressioni forti che
Giobbe usa per invocare una risposta da Dio, secondo Tommaso, «non
erano pronunciate nel senso di una contesa [per modum contentionis],
ma da uno che desiderava conoscere le ragioni [rationes] della sapien-
za divina»41: ragioni all’uomo mai del tutto inaccessibili, benché da lui
mai completamente dominabili42.
37
Cfr. I. Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee, p. 258.
38
Un punto, questo, che anche Tommaso valorizza: «Va anche considerato che Giobbe,
richiamando la propria giustizia, non intendeva accusare di iniquità il giudizio divino, come
invece i tre suoi amici ed Eliuh pensavano erroneamente; bensì intendeva mostrare che non
veniva punito in compenso per i suoi peccati, come essi volevano fargli ammettere, ma per es-
sere messo alla prova» (cfr. Tommaso, Expositio super Job ad litteram, cap. XL, lectio I; in
Sancti Thomae Aquinatis Opera Omnia, Fiaccadori, Parma 1852–1873, t. XIV).
39
«Secondo Giobbe, anche il credente ha diritto a una qualche evidenza etica dell’agire di
Dio» (cfr. P.A. Sequeri, Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 48).
40
È, per l’appunto, una enigmaticità di questo tipo, che Galeazzi (cfr. Introduzione, pp.
26–27) vede affacciarsi nella metafisica dell’ultimo Pareyson (cfr. Ontologia della libertà,
Einaudi, Torino 1995).
41
Cfr. Tommaso, Expositio super Job ad litteram, cap. XXXIII, lectio II.
42
Cfr. Tommaso, Expositio super Job ad litteram, cap. XXXVI, lectio II.
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 123
6. Giobbe more metaphysico interpretato
Con ogni evidenza, porsi di fronte al male soffrendo il dolore che
ne viene ― e non semplicemente subendolo ―, implica già tacita-
mente una qualche ricerca di senso. E il senso può essere cercato con
pertinenza solo presso qualcuno, e non presso qualcosa: qualcuno cui
possa essere messa in conto, ultimamente, la responsabilità dell’acca-
dere in quanto tale. La risposta adeguata alla domanda dell’uomo sof-
ferente ― emblematicamente, di Giobbe ― è quindi qualcosa che ri-
guarda in primo luogo, non tanto il male per sé preso, quanto piuttosto
il volto di Dio: una tale risposta, insomma, non potrà essere qualcosa
di meno che l’intervento in prima persona del Creatore, che non per
niente, nel testo biblico, contesta ogni tentativo umano di risposta che
non sia anzitutto grido a Lui stesso.
Certo, la superiorità di Giobbe sui suoi amici è, in senso stretto, te-
ologica. All’interrogativo suscitato dal dolore e dall’ingiustizia, egli
infatti non accetta di dare risposte religiosamente atee (il dolore è
scuola di vita, il proprio dolore è causato sempre dal proprio peccato,
prima o poi Dio ricompensa e castiga in modo equo; e così via): rispo-
ste in cui Dio risulterebbe garante di un senso inventato dall’uomo, e
non di un senso offerto da Lui stesso. La superiorità di Giobbe è però
anche metafisica. Egli infatti riesce ad evitare la metábasis (ovvero la
fallacia) nella quale incorrono i suoi amici. Essi, pur avendo evidenza
solo del quia ― e non del propter quid ― del creato (cioè, del bene
ontologico a noi direttamente noto), pretendono di saltare al propter
quid del male ontologico, magari deducendolo frettolosamente dal suo
quia, di cui pure c’è qualche evidenza.
Come già si accennava, conoscere il quia è conoscere le condizioni
di possibilità di una certa realtà: ad esempio, sapere che il mondo può
esserci solo in quanto creato da Dio; oppure sapere che l’interazione di
beni molteplici ― e quindi finiti ―, e il disordine liberamente introdot-
to dall’uomo, possono causare nel mondo la deformità o la tragedia.
Conoscere il propter quid, invece, è conoscere per priora simpliciter: il
che corrisponderebbe, nel nostro caso, al vedere “a occhio nudo”43 Dio
43
La metafora è di Pier Angelo Sequeri, che, in riferimento alla parte centrale del libro di
Giobbe, scrive: «La domanda [...] ‘come può Dio fare questo?’ è una domanda pregiudicata: es-
124 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
che crea il mondo (cioè, vedere il “perché” del mondo); e anche al ve-
dere, sempre “a occhio nudo”, Dio che nel mondo lascia spazio alla de-
formità e alla tragedia ― e, con ciò cogliere, di queste, le ragioni.
L’errore degli amici di Giobbe sta, dunque, nel voler risolvere un
problema di cui essi non possiedono i dati elementari. In altre parole,
il propter quid del male potrebbe essere apprezzato solo all’interno del
propter quid del bene ― che invece non consta. Infatti il male, come
sappiamo, non può essere considerato absolute rispetto al bene44.
Nel libro di Giobbe, quasi a confermare la distinzione aristotelica e
tommasiana in parola45, Dio interviene proprio contro la fallacia di cui
sopra. Ma non lo fa citando Dante ― «state contenti, umana gente, al
quia»46 –, bensì proponendo un numero d’eccezione: il suo bestia-
rium! Giobbe, quand’anche fosse etologo, non potrebbe conoscere i
segreti intimi del cerbiatto adolescente47, e neppure potrebbe sapere
perché l’indole del coccodrillo sia tale da impedire ad un uomo, un
po’ originale, di mettere il bestione al guinzaglio per far ridere le pro-
prie bambine48.
Insomma, l’esperienza del male ci forza a riconoscere che il prop-
ter quid è di Dio, e a Lui ne va chiesto conto, pregando o imprecando;
mettendola comunque sul piano personale, perché di questo si tratta:
di una sfida, di una pro–vocazione49. Il male che ci cápita di subire, ma
anche di compiere, è in qualche modo una persecuzione (un esser pre-
si di mira), che ci vuole snidare e quasi moralmente costringere a ri-
volgerci ad un Tu50.
Il mistero radicale non è, a ben vedere, quello del male, ma semmai
quello del bene. Si badi: non del “come è possibile che ci sia il bene”,
sa infatti si riferisce a uno sguardo capace di vedere ‘a occhio nudo’ il legame che unisce Dio e il
mondo. Questo legame invece non può essere visto» (cfr. P.A. Sequeri, Il timore di Dio, p. 50).
44
Mentre non vale di diritto la reciproca.
45
Quella tra il conoscere hoti e di’hoti (Aristotele), ovvero tra il conoscere quia e propter
quid (Tommaso).
46
Cfr. Dante, La divina commedia, Purgatorio, III, 37; testo a cura della società dantesca,
Sansoni, Firenze 1922.
47
Cfr. Giobbe 39, 4.
48
Cfr. Giobbe 40, 29.
49
Cfr. Giobbe 38, 3; 40, 7.
50
Difficilmente evitabile è qui il riferimento a Emmanuel Lévinas, il quale ci ricorda, in
sostanza, che quella del male è questione “teologica”, e non “tecnica” (cfr. E. Lévinas, Altri-
menti che essere, p. 154).
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 125
ma del “perché esso ci sia”. Quest’ultima questione la filosofia può
formularla, ma non risolverla; e le è di guida, al riguardo, la prudenza
dantesca51. Alla preghiera e alla “cura” ― nel senso ancora una volta
dantesco, piuttosto che heideggeriano, del termine –, sta di esplorare
la risposta52.
A ben vedere, chi dichiara irrazionale (ovvero irrimediabilmente
ingiusto) il male, ha già implicitamente scommesso sulla irrazionalità
del bene. In altre parole, rinunciare ad ammettere un propter quid del
male ontologico, significa aver rinunciato ad ammettere un propter
quid del bene (un perché del mondo): significa, insomma, aver identi-
ficato ― ma su quali basi? ― la radice del mondo con qualcosa di
impersonale (ad esempio, con un generico Wille); ed avere con ciò e-
scluso l’ipotesi di una libera intenzione creatrice.
Far derivare dalla irrazionalità del male la non esistenza del Creato-
re, significa allora imboccare un tipico ýsteron–próteron. Al riguardo,
osservava a suo tempo Gustavo Bontadini: «Questo male sarebbe ve-
ramente inconciliabile con l’esistenza di Dio, solo se ... Dio non esi-
stesse, cioè se la realtà, che da tale male è afflitta, fosse la realtà totale,
e perciò il male stesso fosse originario e irredimibile. Questo spiega
come tali obiezioni si impongano alla coscienza di coloro che, ‘desi-
derando’ che Dio non esista, già ragionano sui concetti quali si vengo-
no calibrando di sulla concezione dell’Intero, che corrisponde a quel
‘desiderio’ o prefigurazione»53.
Del resto, non è forse ad una simile prefigurazione che finisce per ob-
bedire tacitamente il noto dilemma54, ispirato alla tradizione epicurea, cui
Hume dà forma nei suoi Dialogues55? Si tratta del sillogismo ipotetico di-
sgiuntivo che, avendo come antecedente ipotetico la compatibilità tra
l’esistenza di una divinità provvidente e l’esistenza del male, ne fa conse-
guire le due uscite, tra loro alternative, della impotenza o della malvagità
divine: entrambe considerate per altro autocontraddittorie, e quindi tali da
costringere ad un ripensamento dell’antecedente.
51
Cfr. Dante, Paradiso, XIX, 79–90; XXXII, 61–6; testo a cura della società dantesca.
52
Cfr. P.A. Sequeri, Il timore di Dio, pp. 94 ss.
53
Cfr. G.Bontadini, Conversazioni di metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1971, vol. II, p. 60.
54
Qui, “dilemma” è detto nel senso del logico dílemma, e nel del retorico dilémmaton.
55
Cfr. D. Hume, Dialogues concerning Natural Religion; trad. it. a cura di M. Dal Pra,
col titolo: Dialoghi sulla religione naturale, Laterza, Bari 1963, dialogo X.
126 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
La logica della argomentazione in parola si trova anche in Hans Jo-
nas, che la ripropone secondo una formulazione più complessa. Oc-
corre ― ad avviso di Jonas ― individuare, nell’ambito dei tre attributi
di «bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità», che la tradi-
zione ebraico–cristiana riconosce a Dio, una delle tre coppie che se ne
possono ottenere; rinunciando invece alla tripla. La tripla degli attribu-
ti, infatti, sarebbe resa inconsistente dalla presenza del male nella sto-
ria degli uomini. Tra le coppie, poi, l’unica degna del nome di Dio, sa-
rebbe quella che associa tra loro bontà assoluta e comprensibilità ―
rinunciando, così, all’onnipotenza56.
Se non che, anche l’argomentazione di Jonas vive sul surrettizio
presupposto della insensatezza del male. Infatti, è solo su questa base
che scatta l’inconsistenza della tripla degli attributi divini. Più preci-
samente, è solo se l’esserci del male, nel mondo e nella storia57, viene
inteso come un che, non di misterioso, bensì di radicalmente irraziona-
le, che esso diventa inconciliabile con la compresenza della tripla di
attributi nel Creatore. È per questo che un Dio il quale, pur essendo
onnipotente e buono, lasciasse spazio al male, dovrebbe venire inteso
come arbitrario, cioè come tale da rinnegare la bontà o provvidenziali-
tà dei propri disegni: dovrebbe esserlo, appunto, se il male venisse già
56
«La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una
totale non–comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. Di fronte
all’esistenza nel mondo del male morale o anche solo del male meramente fisico, dovremmo
sacrificare la comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto. Di
fronte all’esistenza nel mondo del male morale o anche solo del male meramente fisico, do-
vremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla coesistenza in lui degli altri due attributi.
Solo di un Dio totalmente incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e coo-
riginariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò, sopporta il mondo così
com’è. Più in generale, i tre attributi in questione ― bontà assoluta, potenza assoluta e com-
prensibilità ― sono fra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo.
Questo è allora il problema vero: quali sono i due concetti veramente irrinunciabili, fonda-
mentali per il nostro concetto di Dio e quale è il terzo che deve essere escluso? [...] Dopo Au-
schwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente
o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile. Ma se Dio può essere compreso solo in un
certo modo e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve e-
scludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è onnipotente. Solo a que-
sta condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono e che nonostante ciò nel
mondo c’è il male» (cfr. H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz; trad. it. di C. Angelino,
col titolo: Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 2002, pp. 33–34).
57
Dunque, del male difettivo, del tragico e della possibilità del male morale (con ciò che
ad esso consegue).
Capitolo III: La lezione tommasiana sul male, nel recente dibattito 127
in partenza assunto come inconciliabile con ogni possibile disegno
provvidenziale. Ed è per la stessa ragione, che un Dio che invece non
potesse essere inteso come arbitrario, se fosse onnipotente non potreb-
be essere considerato buono, e se fosse buono non potrebbe essere
considerato onnipotente; ciò, insomma, accadrebbe sulla base del me-
desimo assunto surrettizio: ovvero, che la presenza del male sia un che
di inconciliabile con un disegno provvidenziale di senso58.
Del resto, anche una teodicea che cercasse di escludere in ogni mo-
do la “responsabilità” di Dio circa il malum naturalis defectus e il ma-
lum poenae, finirebbe per sottintendere ― irrazionalmente ―
l’irrazionalità di queste figure. Nessuna meraviglia, dunque, che lo
stesso Tommaso si manifesti contrario ad un simile progetto59.
58
Appare chiaro, a questo punto, che, quando Jonas decide di tener ferma la “comprensi-
bilità”, ovvero la non–arbitrarietà del Creatore, non compie una scelta a sua volta arbitraria,
ma piuttosto riconosce che in Lui non vi è spazio per l’autocontraddittorietà. Dopo di che, la
partita viene giocata tra bontà e onnipotenza, optando per la prima a discapito della seconda.
Senonché, la contraddizione tra bontà e onnipotenza viene suscitata precisamente dalla inocu-
lazione, nel male, di una inconciliabilità sua con la bontà divina, cioè con il carattere provvi-
dente dell’atto creatore.
59
Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 19, a. 9, Resp.
128 Parte seconda: studi sulla libertà e il bene
PARTE TERZA
STUDI SU LIBERTÀ E PRINCIPIALITÀ
129
130 Parte terza: studi su libertà e principialità
CAPITOLO I
DA EPITTETO A NIETZSCHE, E RITORNO
1. Una generosità “principiale”
Nella seconda delle sue Diatribe, Epitteto1 si rivela buon alleato di
Aristotele nel far valere i diritti elenctici delle supreme ovvietà2 del
pensiero. Ma, e più ancora, si rivela alleato di chiunque intenda rico-
noscere ciò che è semplicemente irrinunciabile (e irrinunciabile al ri-
conoscere stesso): ciò che, appunto per questa sua riconoscibile irri-
nunciabilità, ha assunto già nel dire più antico dei Greci il nome di
“principio”. Ma ecco alcune delle parole stesse dello schiavo–filosofo.
Leggiamo: «Di ciò che è retto ed evidente si avvalgono di necessità
anche coloro che lo contraddicono3. E si potrebbe quasi dare come
prova suprema dell’evidenza di qualcosa, il fatto che esso sia ricono-
1
Gli otto libri delle Diatribe ― di cui solo quattro sono giunti fino a noi ― sono in realtà
l’attendibile redazione che lo storico Flavio Arriano ci ha lasciato delle lezioni tenute da Epit-
teto a Nicopoli alla fine del I secolo d.C.
2
“Ovvietà” è detto qui per attrazione dal tradizionale “degnità”; ma vuol indicare qualco-
sa di ancor più radicale (e, per meglio dire, principiale). Se con “degnità” si rende ― vichia-
namente ― lo scolastico dignitas, e remotamente l’aristotelico axíoma ― cioè l’elemento di
valore o di stabilità cui una certa analisi mette capo ―, l’ob–vium (letteralmente, “ciò che vie-
ne incontro”) è il carattere, non semplicemente assiomatico, ma propriamente principiale, ap-
partenente a quelle strutture che, revocate in dubbio, non possono però essere evitate (da qua-
lunque parte si voglia portare l’analisi).
3
Tois hyghíesi kai enarghésin ex anánkes kai hoi antilégontes proschrõntai.
131
132 Parte terza: studi su libertà e principialità
sciuto necessario e sia preso in prestito4 per sé, anche da chi lo con-
traddice»5.
Ora, non occorre riprendere analiticamente il complesso argomen-
tare aristotelico del Libro Gamma della Metafisica, per cogliere come
Epitteto ne riviva qui il motivo dominante: quello elenctico; motivo
che il verbo synchráomai rende con una chiarezza insuperabile. Che
cos’è infatti élenchos se non la messa in chiaro della inevitabile impli-
cazione di una certa struttura principiale nella stessa (pretesa) nega-
zione di essa? Un principio, infatti, è realmente tale, se non appare
possibile la sua messa fuori gioco; ovvero se ogni dire e fare ― ivi
compreso il dire e il fare di chi progettasse la messa fuori gioco sud-
detta ― risulta strutturato (anche) secondo quel principio: pena, ap-
punto, il non dire e il non fare niente6. Anzi, la natura principiale di al-
cunché ― come lo stesso Epitteto indica ― diviene riconoscibile e-
splicitamente grazie appunto all’esperimento elenctico, mentre in pre-
cedenza può essere solo ipotizzata.
In tal senso, si può affermare che ogni progetto di negazione di una
realtà effettivamente principiale, in qualunque forma esso intenda rea-
lizzarsi ― come enunciazione verbale di invalidità (negazione formu-
lata), oppure come controesempio fattuale o immaginativo (negazione
effettuale) –, non potrà che risultare come una concreta determinazio-
ne del principio astrattamente negato. Non potrà, insomma, se non vi-
vere parassitariamente di quel principio; il quale, nella sua generosità
trascendentale, risulterà prestare se stesso anche ai progetti che inten-
dono negarlo.
4
Synchrésasthai.
5
Continuando la lettura: «Così, se qualcuno contraddice che ci sia qualcosa di universal-
mente vero, è chiaro che costui è tenuto a porre l’asserzione opposta: niente è universalmente
vero. Schiavo, neanche questo sarà vero. Infatti, che cosa significa ciò, se non che, se qualche
asserzione è universale, essa è falsa? E ancora, se venisse qui qualcuno e dicesse ‘sappi che
niente è conoscibile, e tutto è incerto’, o un altro che dicesse ‘credimi che ti conviene: a un
uomo non si può credere affatto’, o ancora un altro che dicesse ‘impara da me, uomo, che
niente si può imparare: te lo dico io, e se vuoi te lo insegnerò’; in che cosa dunque differisco-
no da questi […], coloro che si proclamano Accademici? ‘O uomini, […] credete a noi che
diciamo che nessuno crede a nessuno’» (cfr. Epitteto, Diatribe, II, 20, 1–5; testo greco a cura
di J. Souilhé).
6
Non rientra nell’orizzonte del presente intervento una trattazione sistematica della que-
stione dell’élenchos. Questa meriterebbe ben altro spazio, ed è stata per altro trattata distesa-
mente ― anche da chi sta scrivendo ― in altri luoghi.
Capitolo I: da Epitteto a Nietzsche, e ritorno 133
2. Forme della reductio
Il progetto di violazione di qualche dimensione del trascendentale è
dunque, per quel che realizza, attuazione (anche) della dimensione che
intende violare; e non è, proprio per quel che realizza, effettiva viola-
zione di essa. Questa eterogenesi dei fini può essere letta, in prima bat-
tuta, come una contraddizione performativa; ma il suo senso più pro-
fondo è un altro: quello elenctico, appunto, che indica, al di là della au-
toconfutazione della negazione, l’obiettivo convenire di essa con la
struttura negata. Ora, questa prospettiva più profonda è certamente nota
ad Epitteto, anche se la superficie del suo testo insiste più facilmente sul
momento che, nel linguaggio oggi usuale, abbiamo chiamato della
“contraddizione performativa”: la contraddizione, cioè, che può verifi-
carsi, nella asserzione, tra il contenuto locutorio e la proiezione ― sullo
stesso piano locutorio ― del contenuto illocutorio della medesima.
È chiaro, per altro, che la riconduzione a contraddizione performa-
tiva è una figura di più diffusa portata rispetto ad élenchos. Essa va in-
fatti ad investire casi anche diversi da quelli che riguardano il trascen-
dentale stesso. In generale, è possibile distinguere casi di contraddi-
zione performativa che potremmo chiamare “occasionali” ― cioè, le-
gati alle particolari condizioni pragmatiche in cui si realizzano7 –, da
casi che potremmo invece chiamare “strutturali”, nei quali ad esser
violate sono condizioni, non contingenti, ma appunto strutturali
dell’atto di discorso: quelle che riguardano, (1) le particolari forme
dell’illocutorio in quanto tali, o (2) l’atto di discorso in quanto tale.
Come esempio del caso (1), si può pensare alla asserzione di un con-
tenuto proposizionale che smentisca esplicitamente la possibilità
dell’impegno di verità che l’asserzione, come tale, implica8. Quanto al
caso (2), esso coincide con una sorta di autoesclusione per immediata
inconcepibilità, come quella che riguarda la violazione delle strutture
7
Ciò significa che il realizzarsi di contraddizione performativa, in questi casi, si ottiene in
relazione o a determinati tipi di enuncianti, o a determinati tipi di interlocutori, o a determina-
te modalità pratiche di enunciazione. Dalla contraddizione performativa occasionale si può
occasionalmente uscire (come occasionalmente ci si è entrati), modificando il fattore ― enun-
ciante, interlocutore o modalità di enunciazione ― che genera l’incongruenza.
8
Può valer qui come paradigma il noto paradosso di Moore: “p ma non ci credo” (cfr. G.E.
Moore, Etica (1912), trad. it. di M.V. Previdal Magrini, FrancoAngeli, Milano 1982, pp. 125 ss).
134 Parte terza: studi su libertà e principialità
semantiche o sintattiche o pragmatiche che reggono l’atto del discorso
in quanto tale9. Ora, negare la regia di tali strutture è possibile solo fa-
cendone comunque uso. Perciò, se la negazione in gioco si propone
come atto di discorso, allora può essere ricondotta ― come sappiamo
― ad un caso eminente di contraddizione performativa strutturale (e-
minente, perché riguardante fattori trascendentali e non categoriali
dell’apofantico); se essa invece intende propriamente mettere fuori
gioco qualcuno dei fattori trascendentali, allora non può che delinearsi
o come intenzionale autosottrazione all’orizzonte noetico–linguistico
(cioè al discorso con sé e con altri), o come atto di discorso mancato,
cioè come conato di qualcosa che, compiendosi, costituirebbe un con-
troesempio del proprio intento progettuale. In tal senso, si può dire che
la movenza elenctica si realizza, in prima battuta, come rilevamento di
una speciale contraddizione performativa ― dovuta all’impossibilità
di non esercitare la struttura che viene segnatamente negata ―; e, in
seconda battuta, come evidenziazione della impossibilità di porre al-
cunché, di detto o di fatto, prescindendo da quella struttura10.
Da parte sua, Epitteto non opera una distinzione tematica tra le due
fondamentali forme della contraddizione performativa strutturale; per
questo, non sempre egli appare consapevole della differenza specifica
che segna, rispetto agli altri, i casi a sviluppo elenctico; o, per lo meno,
esegue confutazioni dell’uno e dell’altro tipo, senza metterne a fuoco la
differenza. Comunque, nel suo testo è reperibile una sorta di crescendo,
in cui si presentano ― in ordine ― entrambe le forme della contraddi-
zione performativa strutturale. Egli, in primo luogo, conduce una appas-
9
Valgano qui tre esempi paradigmatici. Rispettivamente: (a) la rinuncia alla determina-
tezza del contenuto di discorso; (b) la rinuncia alla coerenza del discorso; (c) la rinuncia alla
responsabilità illocutoria circa il discorso.
10
Il paradigma, qui, è ovviamente quello del celebre “tronco” aristotelico. È importante
rilevare, al riguardo, che il rendersi esplicito di élenchos (nella sua seconda e decisiva battu-
ta), non è affatto logicamente mediato dalla necessità di evitare la contraddizione performati-
va: ciò che chiaramente introdurrebbe una petizione di principio. Piuttosto, l’elemento elen-
cticamente propulsivo sta nella scoperta che certi fattori sono implicati inevitabilmente anche
nelle varie forme della negazione che di essi si può fare. Dunque, non solo implicati (il che
vale genericamente per la contraddizione performativa), ma implicati in modo inevitabile,
cioè: (a) indipendentemente dalle variazioni di enunciante, di interlocutore e di modalità di
enunciazione, di cui sopra si diceva; (b) indipendentemente dalle particolari categorie
dell’illocutorio secondo le quali la negazione scegliesse di esprimersi.
Capitolo I: da Epitteto a Nietzsche, e ritorno 135
sionata polemica contro l’individualismo epicureo11, impostandola ap-
punto come una reductio a contraddizione performativa, in cui la di-
mensione illocutoria delle formule “epicuree” viene esplicitata sul piano
locutorio12. Ora, l’esplicitazione in parola conduce a riconoscere che
l’invito a superare l’idea di una connaturata socialità dell’uomo, si inne-
sta proprio su quello stesso ceppo che intenderebbe svellere.
Leggiamo in proposito: «Quando Epicuro vuol negare13 la comu-
nione naturale che lega gli uomini tra loro, prende in prestito precisa-
mente ciò che ha negato14. Che cosa dice infatti? ‘Non illudetevi, uo-
mini, non lasciatevi sviare né ingannare: non c’è alcuna comunione
naturale che unisca tra loro gli esseri razionali; credetemi. Quelli che
dicono diversamente, vi ingannano con falsi ragionamenti’. Ma a te
che cosa interessa? Lascia pure che veniamo ingannati. […] Uomo,
perché ti preoccupi e vegli su di noi? perché accendi la lampada, ti alzi
e scrivi libri così ponderosi? È per timore che qualcuno di noi si lasci
ingannare e creda che gli Dei si occupino degli uomini, o che qualcu-
no pensi che l’essenza del bene sia altra dal piacere? […] Ma che te ne
importa di come gli altri la pensino ― correttamente o scorrettamente
― su queste cose? Che cosa c’è infatti tra te e noi?»15.
Ora, la contraddizione performativa in cui cade l’“epicureo” di Epit-
teto si coglie, in superficie, nell’interessamento attivo a che si riconosca
un’originaria indifferenza: più a fondo, sta tra l’esercizio appassionato
della comunicazione e il contenuto della stessa, secondo cui non è pro-
prio dell’essere razionale il comunicare16. Si tratta, così chiarito, di un
felice esempio di contraddizione performativa strutturale, che ha come
motivo la comunicazione della (propria e altrui) impossibilità a comu-
nicare ― motivo che resta indipendente dall’eventuale variare
dell’enunciante, dell’interlocutore e della modalità enunciativa.
11
Di cui Epitteto dà certamente una interpretazione iperbolica, estranea all’autentico in-
tendimento epicureo.
12
Tale esplicitazione, in un linguaggio a noi contemporaneo, verrebbe chiamata “proiezione”.
13
Anaireĩn.
14
Autõ tõ anairouméno synchrétai.
15
Cfr. Epitteto, Diatribe, II, 20, 6–11.
16
L’opportunità di una simile modifica estensiva dell’enunciato di Epitteto sta nel fatto
che, nell’ipotesi in cui si ponessero un enunciante ed un interlocutore non umani, non si a-
vrebbe più contraddizione ― e si retrocederebbe così al caso della contraddizione performati-
va occasionale.
136 Parte terza: studi su libertà e principialità
3. Sulla violenza impotente
Quando poi Epitteto porta più a fondo la sua polemica, il tema della
semplice autoconfutazione per contraddizione performativa sembra
passare in second’ordine, mentre emerge in primo piano il tema pro-
priamente elenctico: quello per cui, dalla negazione delle strutture tra-
scendentali, si giunge alla homologhía17 con esse. Così, leggiamo che
― con la sua dottrina ― «Epicuro ha amputato tutte le prerogative
che sono proprie dell’uomo18, del padre di famiglia, del cittadino,
dell’amico, ma le tendenze umane più profonde19 non le ha amputate:
infatti, non ha potuto farlo, così come i frivoli Accademici non posso-
no rinnegare o accecare le proprie percezioni, malgrado lo vogliano
sopra ogni cosa»20.
“Amputare” (apokóptein), in questo contesto, vuol dire negare ciò
che appartiene alla physis, che stoicamente è la struttura delle realtà.
Ora, nel caso in cui la realtà considerata sia lo stesso trascendentale,
allora l’amputazione genera ― come sappiamo –, non solo contraddi-
zione performativa, ma anche e principalmente élenchos: cioè, ricono-
scimento di inevadibilità. Inoltre, nel caso in cui la realtà considerata
sia quella dell’uomo, e l’amputazione ipotizzata riguardi le dimensioni
specifiche dell’umano ― cioè quelle in cui il trascendentale ha occa-
sione di manifestarsi come tale –, anche qui essa ha un esito elenctico.
Infatti, il tentativo di mettere fuori gioco una realtà che sia implicata
inevitabilmente nella manifestazione delle strutture trascendentali, non
fa altro che riproporre per altra via la realtà in questione ― come in-
segna esemplarmente il si fallor sum di Agostino21. L’esistenza di un
io capace del pensiero (cioè dell’essere che si manifesta come tale) ―
e dunque implicato, in senso noetico e affettivo, con la verità (cioè,
con l’autenticità di quel manifestarsi) –, non è un dato puramente onti-
co, che possa venir messo fuori gioco, senza che ne soffra la sensatez-
17
Il verbo homologheĩn è impiegato ― per illustrare l’esito elenctico ― da Alessandro di
Afrodisia nel suo celebre commentario al testo aristotelico (cfr. Alessandro di Afrodisia, In
Aristotelis Metaphysica commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1891, 298–300).
18
Ta men andròs pantapekópsoto.
19
Tas de prothymías tas anthropikás.
20
Cfr. Epitteto, Diatribe, II, 20, 20.
21
Cfr. Agostino, De civitate Dei, XI, 26. Nel celebre passo agostiniano, si mostra come
non possa essere messa fuori gioco l’esistenza dell’io che pensa e che desidera.
Capitolo I: da Epitteto a Nietzsche, e ritorno 137
za del procedimento. Piuttosto, il senso stesso di quel procedere non
potrebbe, a sua volta, se non innestarsi sull’esistenza dell’io pensante
― quantunque problematico nelle sue ulteriori connotazioni –, e sulla
sua tensione ad una verità riconoscibile come tale. Questo, ultimamen-
te, il contenuto della riflessione di Epitteto.
Questi allarga poi il proprio orizzonte polemico alle posizioni scet-
tiche di quegli Accademici che, dai cosiddetti errori dei sensi, argo-
mentano in favore di una universale indiscernibilità22, equivalente per
altro a quella “banalizzazione”23 integrale che discenderebbe anche da
una diretta negazione del principio di non contraddizione24.
4. Servitù nicciana
È proprio un ipotetico sostenitore di tali posizioni, che Epitteto rap-
presenta, più avanti, in poche e incalzanti battute. Tali battute assumono
ben presto il tono di una commedia, nella quale non manca forse lo
spunto autobiografico. Leggiamo: «Uomo, che cosa fai? Ti smentisci da
solo ogni giorno25, e non vuoi abbandonare queste morte argomentazio-
ni? Quando mangi dove porti la mano: alla bocca o all’occhio? Quando
fai il bagno, dove entri? Quando mai tu chiami piatto la pentola o spie-
do il mestolo? Se fossi il servitore di uno di questi signori, anche a costo
di essere frustato a sangue da lui ogni giorno, lo metterei io alla tortura.
‘Ragazzo, versa un po’ d’olio nell’acqua del bagno’. Andrei a prendere
della salamoia e, tornato, gliela verserei sulla testa. ‘Che cos’è questo?’.
‘Mi è venuta una rappresentazione indiscernibile26 da quella dell’olio,
proprio uguale; lo giuro sulla tua buona sorte’. ‘Dammi qui la tisana’. E
io gli porterei una tazza piena di aceto. ‘Non ti ho chiesto la tisana?’. ‘Sì
signore: e questa è la tisana’. ‘Ma questo non è aceto?’. ‘Che altro, se
22
Il riferimento di Epitteto sembra essere a quella che Sesto Empirico chiamava “Terza
Accademia”, e al suo scolarca Carneade.
23
Qui, “banalizzazione” è detto nel senso propriamente logico che il termine riceve in ri-
ferimento al principio dello “pseudo–Scoto”.
24
Nel senso ― messo assai bene in rilievo da Aristotele ― che, se non valesse il principio
di non contraddizione, non sarebbe possibile alcuna differenza (cfr. Aristotele, Metafisica, IV,
1007b 18–23; testo greco a cura di G. Reale).
25
Ánthrope, ti poieĩs? autò seautòn exeléncheis kath’heméran.
26
Adiákritos.
138 Parte terza: studi su libertà e principialità
non tisana’. ‘Prendi e annusa, prendi e assaggia’. ‘Ma da che cosa lo sai,
se i sensi ci ingannano?’. Se solo avessi tre o quattro compagni con le
mie stesse intenzioni, lo porteremmo, schiumante di rabbia, a impiccarsi
oppure a cambiare idea. Insomma, costoro si prendono gioco di noi, ma
intanto usano di tutti quei doni della natura ― che pure sopprimono a
parole»27.
Dunque, nel fare i conti con la negazione del principio di non con-
traddizione, il nostro autore mette in rilievo l’impraticabilità di una
simile posizione, analogamente a quanto Aristotele aveva fatto in un
celebre passo di Gamma (cfr. 1008b 2–31). Ma le assonanze aristote-
liche non finiscono qui. Epitteto, infatti, usa un termine che in Aristo-
tele è addirittura tecnico: si tratta del verbo anairéo, usato dallo Stagi-
rita per indicare il tentativo di mettere fuori gioco le esigenze del lo-
gos ― secondo la formula anairõn logon hypoménei logon28 ―, e ri-
preso da Epitteto per indicare il tentativo di mettere fuori gioco le esi-
genze della physis (corrispettivo stoico del logos aristotelico)29.
Comunque, un privilegiamento così esplicito della versione prati-
ca di élenchos circa il principio di non contraddizione, non può non
30
richiamare alla mente la pagina nicciana de La gaia scienza, dedicata
alla “genealogia” della logica. Come si ricorderà, Nietzsche vuol ri-
condurre la consapevolezza umana delle fondamentali strutture logi-
che ― quelle di portata trascendentale ― ad un’origine di tipo darwi-
niano, pensando in tal modo di demistificarle, indicandole come carat-
teri acquisiti31 da alcuni individui all’interno della evoluzione filoge-
27
Parà tes phýseos didómenois pãsi chrõmenoi, logo d’autà anairoũntes (cfr. Epitteto,
Diatribe, II, 20, 28–31).
28
«Chi toglie il logos, lo conferma» (cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 1006a 26). La formula
in questione è quella che, meglio di ogni altra, sigilla il senso della triplice esecuzione di élen-
chos (a livello semantico, a livello sintattico e a livello pratico) che lo Stagirita ci offre in Gam-
ma. È interessante che Alessandro di Afrodisia abbia poi ripreso la formula di Aristotele usando
il verbo chráomai, tipico (in questo contesto teorico) di Epitteto: anairõn de logon chrétai logo
(cfr. Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysica commmentaria, 274, 27).
29
Si può ricordare, in proposito, che lo stesso testo aristotelico autorizza l’accostamento,
ad esempio quando ― proprio in Metafisica IV (cfr. 1008b 5) ― cita il termine physis, quale
corrispettivo presocratico di logos.
30
“Pratica”, appunto, e non “pragmatica” ― come capita spesso di leggere. Infatti,
“pragmatica” si potrebbe dire, genericamente, ogni versione di élenchos.
31
In considerazione della frequente confusione operata ― a livello divulgativo ― tra darwi-
nismo e neo–darwinismo, è forse opportuno ricordare che nel pensiero di Darwin viene accettato
― e addirittura dilatato ― il dogma lamarckiano della ereditarietà dei fattori acquisiti.
Capitolo I: da Epitteto a Nietzsche, e ritorno 139
netica: caratteri capaci di determinare un decisivo vantaggio nella lotta
per la sopravvivenza, e dunque una significativa piega in ordine alla
selezione della specie.
Ma leggiamo la narrazione nicciana, nella sua provocatoria ― ed
efficacissima ― sommarietà. «Chi non riusciva a trovare abbastanza
spesso l’‘uguale’, relativamente alla nutrizione o agli animali a lui o-
stili, colui che quindi procedeva troppo lento, troppo cauto nella sus-
sunzione, aveva più scarsa probabilità di sopravvivere di chi invece, in
tutto quanto era simile, azzeccava subito l’uguaglianza. Ma l’incli-
nazione prevalente a trattare il simile come l’uguale, un’inclinazione
illogica ― perché nulla di uguale esiste ― ha creato in principio tutti i
fondamenti della logica. Similmente, perché nascesse il concetto di
sostanza […] non si dovette per lungo tempo né vedere né sentire il
permutarsi delle cose […]. In sé e per sé, […] ogni inclinazione scetti-
ca è un grande pericolo per la vita. Non si sarebbe conservato alcun
essere vivente, se non fosse stata coltivata […] l’opposta inclinazione,
diretta ad affermare piuttosto che a sospendere il giudizio, a errare e a
immaginare piuttosto che a restare in posizione d’attesa, ad assentire
invece che a negare»32.
Non è qui il luogo per una analisi approfondita di questo testo. Ma
occorre dire che, se esso ha di mira, in prima battuta, il carattere obiet-
tivo e distributivo dei concetti universali (caratteri, per altro, entrambi
elencticamente riscattabili), ultimamente il suo obiettivo polemico
sembrano essere i primi principi dell’essere, di cui intende negare il
carattere originariamente ontologico. Ebbene, se l’argomento nicciano
sta nella esibizione di una “utilità” dell’esercizio dei principi, di una
loro «applicabilità alla vita»33 ― che dovrebbe rivelarne la “genealo-
gia” pratica, e dunque l’indole pragmatistica –, si potrebbe commen-
tarlo osservando che il breve esperimento mentale di Epitteto suggeri-
sce, della medesima funzionalità pratica dei principi, una lettura esat-
tamente inversa: i principi non sono posti come veri perché di fatto
funzionano, bensì funzionano di fatto, proprio perché sono veri. Il
nocciolo della questione sta qui: non è la loro una validità pratica oc-
casionale, meramente incidentale, sulla quale azzardare una previsione
32
Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), trad. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 1979, § 111.
33
Cfr. ibi, § 110.
140 Parte terza: studi su libertà e principialità
che sia al più statisticamente ragionevole; si tratta invece di una vali-
dità pratica più profondamente fondata. Infatti, anche chi decidesse di
non accettarla ― per porsi in quell’atteggiamento presuntamente pri-
mordiale che Nietzsche vuol evocare ―, non per ciò cesserebbe di ri-
conoscerla, ad esempio individuando, e reciprocamente distinguendo,
l’un atteggiamento e l’altro (almeno, per non ricadere in quello che e-
gli riterrebbe dei due l’“ingiusto”).
Come si ricorderà, già Aristotele indicava l’almeno potenziale au-
tolesionismo del negatore effettuale del principio di non contraddizio-
ne34; come a dire che la violenza del suo atteggiamento, impotente cir-
ca il trascendentale, può tradursi invece nel disordine ontico (il trattare
una cosa per un’altra), che è la cifra stessa della immoralità ― come
anche Epitteto non manca di rilevare35. Un disordine, questo, il cui li-
mite ideale ― seguendo una paradossale coerenza ― sarebbe in fondo
l’automutilazione del violento (la apokopté di cui già si diceva). Tale
automutilazione, poi, coincide con la apraxía, che già Alessandro di
Afrodisia indicava nel suo commento a Gamma: un atteggiamento–
limite, che non coincide tanto col non agire, quanto con l’agire a caso,
senza giudizio ― come quando si pronuncia qualcosa, senza dire
niente36 ―, se è vero che il giudizio è ciò che specifica l’agire umano,
rispetto al semplice muoversi del generico vivente37.
Del resto, anche chi progettasse di regredire al livello del generico
vivente ― paradigma nicciano della “giustizia” verso la natura ―, sa-
rebbe poi costretto dalla viva forza delle cose38 (e cioè dalla natura
34
Il quale, se volesse attuare realmente il proprio progetto, dovrebbe agire senza annettere
differenza, ad esempio, al cadere o non cadere in un precipizio, o al cadere o non cadere in un
pozzo (cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 1008b 14–17).
35
Tí oun katá se agathón he kakón, aischrón e kalòn taũta e taũta (cfr. in generale: Epit-
teto, Diatribe, II, 20, 32–37).
36
Cfr. Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysica commentaria, 300, 2. Analo-
gamente, si può dire che la autentica aphasía cui è destinato il negatore del principio di non
contraddizione, non è tanto il silenzio assoluto (che resta un limite inattingibile), ma piuttosto
quell’insignificante pronunciar parole, che il vocabolario tecnico di Aristotele indica col ver-
bo phthéngomai (cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 1008b 8–9).
37
Aristotele parla del tendenziale regredire, da parte dell’ipotetico negatore effettuate del
principio di non contraddizione, al livello puramente vegetativo: di pephykós, appunto (cfr. i-
bi, 1008b 11–12; seguendo, qui, la variante offerta dai codici Vindobonensis e Laurentianus).
38
Aristotele direbbe che i negatori che non si persuadono liberamente della validità dei
principi trascendentali, sono costretti poi a rispettarli per forza: hoi men gar peithoũs déontai
hoi de bias (cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 1009a 17–18); dove bia non indica l’ipotesi di una
Capitolo I: da Epitteto a Nietzsche, e ritorno 141
stessa) a regolarsi obiettivamente secondo le strutture del trascenden-
tale. Dunque, egli realizzerebbe non più quell’obbedienza intenzionale
alle necessarie condizioni del vivere, che qualifica l’essere libero, ma
semplicemente subirebbe un convenire obiettivo con la necessità; e
così ― stante l’inevitabile consapevolezza –, vivrebbe in sé la situa-
zione, non del puro vivente, ma dello schiavo. Del resto, proprio così
― come “schiavo” –, il nostro autore aveva apostrofato il negatore nel
brano da cui eravamo partiti: uno schiavo che poi, nel brano che tra i
suoi abbiamo citato per ultimo, rivestiva il ruolo sociologico del pa-
drone, secondo una inversione di ruoli che al liberto Epitteto doveva
apparire forse suggestiva39.
5. Che cosa stai facendo?
La variante pratica di élenchos in relazione ai primi principi non è
una parente povera, o addirittura imbarazzante, di versioni più nobili e
radicali (quella semantica e quella sintattica) ― come invece è stato
autorevolmente sostenuto40. Infatti, la sua sostanza non sta nel mostra-
violenza che il difensore dei principi dovrebbe praticare, ma indica piuttosto la forza stessa
delle cose, che impone la logica trascendentale anche a chi non la riconosce (cfr., al riguardo,
ibi, IV, 1011a 15). Ora, la nota espressione aristotelica potrebbe essere intesa nello stesso sen-
so in cui Epitteto usa l’espressione ergo, quando dice che il negatore diventa egli stesso, per la
forza dei fatti (appunto: ergo), l’accusatore delle proprie opinioni: autòs ergo katégoros ghé-
nou ton sautoũ dogmáton (cfr. Epitteto, Diatribe, II, 20, 16–17).
39
Non è infatti un caso che, in quel brano, la posizione teoreticamente libera, e umana-
mente piena di iniziativa, competa proprio ai servi–filosofi.
40
Si pensi invece a quanto scrive al riguardo Emanuele Severino, con diretto riferimento al
testo aristotelico. «Anche se l’interpretazione problematica del comportamento dello scettico di-
ventasse qualcosa di evidente e di incontrovertibile ― se cioè fosse evidente che lo scettico non
pensa che sia lo stesso gettarsi o non gettarsi nel pozzo –, lo scettico potrebbe replicare dicendo
che, appunto, è la sua volontà di sopravvivenza, è il suo istinto a fargli considerare come diffe-
renti il gettarsi e il non gettarsi nel pozzo, ma che questa volontà e che questo istinto non sono da
confondere con la verità, e cioè che la ‘verità’ è la maschera dietro alla quale l’istinto di soprav-
vivenza si nasconde e protegge se stesso. La critica di Nietzsche al principio di non contraddi-
zione aristotelico è cioè pienamente valida in relazione alla variante pragmatica dell’élenchos
(anche se Nietzsche non considera analiticamente l’élenchos e tanto meno distingue le varie
forme di esso). In altri termini, lo scettico può riconoscere la propria incapacità di fatto di ‘smon-
tare’ dal riconoscimento della determinatezza ― incapacità prodotta da svariati motivi, non ul-
timo la volontà di sopravvivenza e di rendere il mondo vivibile –, ma lo scettico non riconosce
verità alle proprie idiosincrasie. Così come non riconosce verità all’idiosincrasia consistente nel
142 Parte terza: studi su libertà e principialità
re che il riconoscimento di alcune differenze ontiche e pratiche è un
“presupposto” che deve essere accettato da chi non rinuncia
all’“istinto di sopravvivenza” ― per cui, chi vuole sopravvivere, deve
fare come se le scelte x e y non fossero indifferenti tra loro. Piuttosto,
la sostanza dell’argomento consiste nel rilevare che un agire che vo-
lesse porsi come controesempio delle strutture trascendentali, si pro-
spetterebbe, per ciò stesso, come privo di possibile contenuto poietico;
o meglio, come una intenzione pratica cui non potrebbe conseguire al-
cunché di attivo ― se non a patto di modellarsi su quelle stesse strut-
ture. Insomma, la variante pratica di élenchos può essere ridetta così:
agire è inevitabilmente scegliere; l’azione, cioè, si struttura inevita-
bilmente sulla alternativa ― tematizzata o no ― tra i contraddittori. E
ciò in analogia con la versione semantica di élenchos, per cui pensare
è determinare, cioè il pensiero si struttura sulla alternativa tra i con-
traddittori.
Il velleitarismo del negatore semantico ― ben espresso da Pierre
Aubenque ― potrebbe essere declinato anche per il negatore pratico.
Osserva Aubenque che il negatore del principio di non contraddizione,
negando, dice «ciò che non può voler dire»41. Infatti, quel che egli dice,
negando, è un impossibile, ovvero qualcosa che, non potendo essere
propriamente pensato, neppure può essere in quanto tale voluto. Ma,
analogamente, si può aggiungere che egli, neppure può voler fare (o
semplicemente può fare) qualcosa che sia in linea con la sua negazione.
Infine, quando Epitteto, retoricamente, chiede al negatore che cosa
stia facendo (ti poieĩs), egli implica opportunamente, con ciò, che il
contenuto intenzionale dell’agire42 ― e dunque l’incontraddittorietà
riconoscimento dei presupposti che si accettano partecipando alla discussione, o nel riconosci-
mento dei presupposti che si accettano per il fatto stesso di vivere» (cfr. E. Severino, “Elenchos”,
in La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988, p. 103). Nella pagina pre-
cedente, Severino aveva indicato un altro aspetto problematico della variante di élenchos da lui
detta “pragmatica”: essa avrebbe bisogno di ammettere il presupposto della intersoggettività (cfr.
ibi, p. 102). In realtà, il procedimento elenctico che Aristotele propone integralmente in chiave
dialogica, può benissimo essere riproposto ― senza perdere valore ― anche in altre chiavi, me-
no compromesse con la convinzione dell’esistenza di una pluralità di coscienze. Basterebbe ri-
proporre il dialogo tra i due interlocutori retorici, come dialogo interiore alla coscienza del sin-
golo, o ad una ipotetica coscienza trascendentale.
41
Cfr. P. Aubenque, Le problème de l’être chez Aristote, P.U.F., Paris 1966², p. 126.
42
In termini scolastici: l’objectum actionis; in termini analitici l’“azione–base–
intenzionale”.
Capitolo I: da Epitteto a Nietzsche, e ritorno 143
obiettiva di esso ―, sia qualcosa che può solo essere confessato ad al-
tri (o a sé come altri) dall’agente stesso ― e non invece interpretato
strategicamente da un osservatore esterno43. Insomma, se l’incontrad-
dittorietà della dimensione fisica dell’agire è immediatamente alla
portata di qualunque osservatore, l’incontradditorietà del giudizio che
guida l’azione è disponibile immediatamente solo a chi la compie. Co-
sì, alla domanda “che cosa stai facendo?”, può rispondere solo chi se
la sente rivolgere44. Che cos’è, del resto, tutto l’appassionato discorre-
re di Epitteto, se non un serrato appello alla nostra interiore consape-
volezza e vigilanza?
43
È questo un punto su cui, meglio di altri, si è espresso Paul Ricoeur (cfr. La semantica
dell’azione [1977], trad. it. di A. Pieretti, Jaca Book, Milano 1986, pp. 64 e 74).
44
E, in tal modo, trova risposta anche un’altra obiezione mossa da Severino all’élenchos
pratico: quella per cui esso presupporrebbe la possibilità, da parte del difensore dei principi, di
“interpretare” obiettivamente l’esteriore comportamento (cioè, l’“azione–base–fisica”) del
negatore (cfr. E. Severino, “Elenchos”, pp. 102–3). In realtà, non occorre alcuna interpreta-
zione psicologica delle intenzioni da parte di un interprete altro dall’agente; piuttosto,
nell’élenchos pratico è in questione una interpretazione ontologica che può essere anche sol-
lecitata da altri (e aiutata da altri a trovare una adeguata espressione teorica), ma che l’agente
stesso dovrà poter compiere sul proprio agire.
144 Parte terza: studi su libertà e principialità
CAPITOLO II
PROMEMORIA SU LEGALITÀ E LIBERTÀ IN KANT
Il compito che assegniamo alle pagine seguenti, è semplicemente
quello di fornire un sintetico orientamento su un tema che, per più a-
spetti, verrà richiamato nel prosieguo del nostro testo: quello della fi-
losofia kantiana della libertà. Un particolare interesse riveste poi, per
l’economia di questa parte del nostro lavoro, il legame che Kant ha
individuato tra principialità e libertà. A esso, dunque, sarà rivolta ― in
linea prevalente ― la nostra attenzione.
Il nostro promemoria non può, comunque, non fare cenno anche ad
altri temi che Kant introduce nel proprio discorso sulla libertà: primo fra
tutti, la relazione problematica tra libertà e mondo dell’esperienza, che
sta al centro della discussione sulla terza antinomia della ragion pura.
1. La libertà nella Critica della ragion pura: la terza antinomia
Le “antinomie della ragion pura” sono quattro coppie di tesi con-
trapposte, relative alla pretesa determinazione di come sia fatto il
“mondo”, cioè il contenuto di quella che per Kant è un’idea della ra-
gione. La pretesa di determinare il contenuto di un noumeno conduce
― secondo il nostro autore ― a delle situazioni, appunto, antinomi-
che: tali per cui, su di una medesima questione, sono sostenibili, con
ragione, posizioni contraddittorie tra loro. Delle quattro antinomie
considerate nella “Dialettica trascendentale” della Critica della ra-
145
146 Parte terza: studi su libertà e principialità
gion pura, ci occuperemo della terza: quella che ha a tema la libertà
umana1.
1.1. Tesi e Antitesi a confronto
Recita la tesi della terza antinomia: «La causalità secondo le leggi
della natura non è la sola da cui possono esser derivati tutti i fenomeni
del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche
una causalità per libertà». E così recita l’antitesi: «Non c’è nessuna li-
bertà, ma tutto nel mondo accade unicamente secondo leggi della na-
tura». Anticipiamo che ― secondo il nostro autore2 ― questa formale
contraddizione (tra la tesi, che è una proposizione “particolare affer-
mativa”, e l’antitesi, che è una proposizione “universale negativa”)3
non avrebbe occasione di scattare, nel momento in cui si ipotizzasse
che esse valgono, non sullo stesso piano, ma su due piani diversi:
dunque, non secundum idem. Ma approfondiamo la questione.
1.2. A proposito della Tesi
Kant illustra come si possa cercare di giustificare la tesi. «La legge
della natura [Naturgesetz] consiste appunto in ciò: che niente accada
senza una determinata causa a priori sufficiente. Dunque questa pro-
posizione che ogni causalità [Causalität] sia possibile soltanto secon-
do leggi naturali, si contraddice da se stessa nella sua illimitata univer-
salità». Una “causa a priori sufficiente”4 dovrebbe essere una realtà
“causante, ma non causata”, cioè avente in se stessa le condizioni della
propria non–autocontraddittorietà. Ora, l’ipotesi di un rinvio all’infi-
1
Cfr. Cfr. Kritik der reinen Vernunft (1787) ― d’ora in poi: KrV –, in Kant’s gesammelte
Schriften, hrsg von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin–Leipzig
1900–1955, Band III; trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo–Radice, col titolo: Critica della
ragion pura, Laterza, Roma–Bari 1987, “Dialettica trascendentale”, Libro II, Cap. II, Sez. II.
2
Che riconosce e difende la validità trascendentale del principio di non contraddizione.
3
Rispettivamente, la I e la E del “quadrato logico” delle proposizioni.
4
Qui “sufficiente” è detto nel senso del leibniziano “principio di ragion sufficiente”, la
cui versione più precisa, afferma: «nihil est sine omnibus ad existendum requisitis» (“niente
esiste senza tutto ciò che è richiesto per la sua esistenza”). Cfr. W.G. Leibniz, Catena mirabi-
lium, in: Opuscules et fragments inédits de Leibniz (1903), Hildesheim 1961.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 147
nito nella catena delle cause causate ― e la conseguente esclusione di
un causante non causato ― genererebbe una autocontraddizione. In-
fatti, tale rinvio comporterebbe la mancata posizione della ragion suf-
ficiente dell’intera catena causale, e, con ciò, l’implicita ipotesi, per
essa, di una origine ex nihilo absoluto (mentre il non–essere assoluto,
per sua definizione, non esiste, né tanto meno può essere origine di al-
cunché). Occorre dunque riconoscere ― per evitare di porre l’auto-
contraddittoria esistenza del non–essere assoluto ― una “spontaneità
assoluta” come origine dei fenomeni.
Non è chiaro se qui la ricostruzione argomentativa di Kant metta
capo ad una “causalità a priori sufficiente” (o “spontaneità assoluta”)
di tipo divino o di tipo umano. In ogni caso, nella “Nota alla terza
antinomia” ― che Kant propone di seguito alla giustificazione di tesi
e antitesi ― la causalità o spontaneità in questione viene ulterior-
mente connotata come «una facoltà di cominciar da se stesso una se-
rie di cose o di stati successivi». Tale connotazione ― spiega Kant
― designa «l’idea trascendentale [transzendentale] della libertà»; la
quale va tenuta distinta dal semplice «concetto psicologico [psycho-
logische] della libertà».
Il cominciamento [Anfang] in questione ― quello che connota la
libertà [die Freiheit] ― è: (a) cominciamento di «una nuova serie
di fenomeni, che procede all’infinito»; (b) cominciamento “assolu-
to” in relazione alla “causalità”: cioè, non determinato in modo ne-
cessario da una serie fenomenica precedente; (c) non è invece co-
minciamento “assoluto” quanto al “tempo”: cioè, non è un comin-
ciamento che non possa, a sua volta, essere interpretato come un
evento fenomenico ― riconducibile, dunque, ad una serie causale
antecedente.
1.3. A proposito dell’Antitesi
Kant illustra poi la possibile giustificazione della antitesi, nel modo
seguente. Se davvero si desse una libertà trascendentale (cioè una facol-
tà di iniziare da sé, da parte di un soggetto, una serie di eventi o di stati
successivi), si avrebbe un arresto della catena causale; si avrebbe in-
somma un controesempio alla legge di causa, ovvero un cominciamento
dal niente (ex nihilo absoluto) ― improponibile, pena l’autocontraddi-
148 Parte terza: studi su libertà e principialità
zione5. Con ciò, salterebbe «l’unità dell’esperienza» [die Einheit der Er-
fahrung], che è una unità garantita dalla validità di leggi (tra cui, emi-
nente, quella di causa). Se non che, l’unità dell’esperienza ci è nota; e
l’ipotesi della libertà trascendentale, essendole incompatibile, andrà ne-
gata. «Natura, dunque, e libertà trascendentale, si distinguono come
l’esser conforme a leggi e l’essere eslege».
Nella “Nota alla terza antinomia”, Kant osserva che i sostenitori
della antitesi potrebbero osservare che, come si può rinunciare a stabi-
lire un “primo matematico” (cioè, un cominciamento nel tempo)6, così
si può rinunciare a stabilire un “primo dinamico”, cioè un comincia-
mento nell’ordine della causalità. O, se si vuol stabilire comunque un
tale “primo”, ci si può limitare a porlo in una libertà estrinseca al
mondo, ovvero trascendente rispetto alla natura: infatti, una libertà che
fosse ad essa intrinseca, ne farebbe saltare l’interna legalità (come so-
pra si diceva).
1.4. Soluzione della antinomia
In un altro luogo della “Dialettica trascendentale”7, Kant offre la
propria determinazione della questione suscitata con l’antinomia. E af-
ferma: «non si può pensare se non una doppia specie di causalità ri-
spetto a ciò che avviene, o secondo la natura o per libertà». In altre pa-
role: il collegamento di uno stato empirico con lo stato antecedente,
secondo una regola, è dimensione che attraversa l’intero mondo sensi-
bile, senza eccezioni (ovvero, ciò che si dà nel tempo, si articola se-
condo nessi di causa–effetto); viceversa, la libertà è una “idea pura”,
cioè essa non ha un contenuto che appartenga alla esperienza, e che sia
sottoposto alla sequenzialità (e consequenzialità) temporale. Non è
dunque la libertà il fattore che salva la catena causale dell’esperienza
dalla possibilità di un regressus in indefinitum8 (ovvero, il fattore che
5
Non è difficile notare come la ragione ultima che va a giustificare l’antitesi sia la stessa
che andava a giustificare la tesi ― sia pur diversamente applicata.
6
La rinuncia in questione ― tipica della metafisica scolastica –, è oggi meno pacifica di quanto
non fosse ai tempi di Kant: si pensi alla ipotesi cosmologica detta del big bang, e a certe sue pretese
in relazione alla possibilità di datare in qualche modo l’inizio dell’esistenza del cosmo.
7
Cfr. KrV, “Dialettica”, Libro II, Cap. II, Sez. IX.
8
Come lo stesso Kant avverte (cfr. KrV, “Dialettica”, Libro II, Cap. II, Sez. IX), quando
non si conosce l’intero della serie (e non si sa dunque se essa sia realmente infinita), è corretto
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 149
la può rendere “sufficiente”): tale catena è piuttosto destinata a rima-
nere insatura. Del resto, secondo la prospettiva kantiana, la catena fe-
nomenica è incapace di produrre una totalità dispiegata (di elementi
tutti compresenti): non si dimentichi che il “mondo” è ― per Kant ―
una idea della ragione (l’“idea cosmologica”, appunto), e non certo un
oggetto dell’esperienza.
1.5. Dimensione negativa e dimensione positiva della libertà
Da quanto detto in precedenza, è lecito concludere che la libertà
trascendentale, se considerata in riferimento all’esperienza naturale ―
ovvero come “libertà cosmologica”, o in dimensione cosmologica –,
può essere connotata solo negativamente: come ciò che si sottrae alla
catena causale (ovvero come l’indipendenza della ragione dai feno-
meni). Per avere connotazioni positive della libertà, occorrerà riferirsi
al “concetto pratico” della medesima, ovvero alla libertà in dimensio-
ne pratica.
«La libertà nel senso pratico è la indipendenza dell’arbitrio dalla
costrizione degli stimoli sensibili», cioè la sua capacità di guidare
l’azione senza dipendere ultimamente da essi. Arbitrium o Willkür è
― nel vocabolario del nostro autore ― la capacità di determinarsi ad
agire. Esso è sensitivum, se può essere modificato (cioè condizionato)
da stimoli sensibili. A sua volta, l’arbitrium sensitivum si specifica in
arbitrium brutum, da una parte, e arbitrium liberum, dall’altra. Il pri-
mo, è proprio dell’animal brutum, che prima fa x (che lo attrae), e poi
fa y (che lo attrae): ma non sullo sfondo di un orizzonte più ampio. Il
secondo, è proprio dell’uomo, che invece fa x sullo sfondo di un oriz-
zonte per cui x, pur essendo attraente, non è mai totalizzante.
“Libero arbitrio” è dunque il nome che la libertà assume in dimen-
sione pratica, cioè quando viene considerata come la «facoltà di de-
terminarsi da sé indipendentemente dalla costrizione degli stimoli sen-
sibili». La libertà in senso pratico «presuppone che, sebbene qualche
cosa non sia accaduto, avrebbe tuttavia dovuto accadere, e la sua causa
fenomenica non era perciò così determinante, che non fosse nel nostro
parlare di regressus in indefinitum, anziché di regressus in infinitum ― visto che l’infinito in
questione è solo potenziale.
150 Parte terza: studi su libertà e principialità
arbitrio una causalità di produrre da sé indipendentemente da quelle
cause naturali, e perfino contro la loro potenza, qualche cosa che,
nell’ordine del tempo è determinato secondo leggi empiriche, e però
di cominciare assolutamente da sé una serie di avvenimenti».
La libertà, insomma, diventa comprensibile in senso “positivo”
(cioè, nella sua specifica natura), quando la si guarda, non come e-
lemento dell’“esperienza” (libertà psicologica), bensì come elemen-
to noumenico. E, a questo livello, essa è accessibile come libertà
“pratica”, cioè come implicazione del dovere: vale a dire, come im-
plicazione di una legalità che è di altro genere rispetto a quella “na-
turale”.
1.6. Introduzione del dualismo tra fenomeno e noumeno
In considerazione di quanto sin qui detto, diventa comprensibile
una ulteriore affermazione kantiana: quella secondo cui, se i fenomeni
fossero “cose in sé” [Dinge an sich] ― ovvero, se spazio e tempo fos-
sero forme delle cose in sé; o ancora, se vi fossero solo fenomeni –, la
libertà non sarebbe possibile. In tal caso, infatti, condizioni (o antece-
denti) e condizionati (o conseguenti) dovrebbero essere sempre mem-
bri tra loro omogenei di una medesima serie, che sarebbe sottoposta
esclusivamente alle leggi di natura. Solo se i fenomeni non coincidono
con le cose in sé, è dunque possibile che un medesimo avvenimento
sia insieme naturale e libero.
Nella prima ipotesi, ci sarebbe “disgiunzione completa” tra e-
venti che accadono secondo necessità ed eventi che accadono se-
condo libertà. In tale ipotesi, per altro, il secondo termine
dell’alternativa (l’accadere secondo libertà) dovrebbe essere inteso
come autocontraddittorio ― in quanto, nel semplice ambito feno-
menico, niente potrebbe fare eccezione alle leggi di natura (princi-
pio di causa). Esprimendo con Nx l’accadere di x per cause necessa-
rie, e con Lx l’accadere di x per causa libera, ecco dunque il model-
lo che si avrebbe:
1. ∀x (Nx aut Lx) (nell’ipotesi di una disgiunzione completa);
2. Lx |- ⊥ (se si accetta l’onnicomprensività del piano fenomenico);
3. ∀x (Nx) (da 1. e 2.).
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 151
Al contrario, il modello kantiano potrebbe essere da noi espresso
così: ∀x (Nx ∨ Lx), dove, la disgiunzione debole (in vel), lascia aperte
tre possibilità ― che vi siano eventi naturali e non liberi; eventi liberi
e non naturali; ed eventi naturali e insieme liberi, sia pure sotto aspetti
differenti ―; escludendo solo una possibilità: che vi siano eventi né
naturali né liberi. Insomma, l’accadimento x potrà essere libero, in re-
lazione alla sua “causa intelligibile”, e insieme concatenato con una
serie necessaria, quanto alla sua fenomenicità (quanto, cioè, a quel che
di esso è sperimentabile sensibilmente e scientificamente).
La distinzione tra piano empirico e piano noumenico viene dunque
introdotta, almeno nella discussione della terza antinomia, per via a-
pagogica. Tale distinzione equivale alla identificazione di quell’inco-
gnita che deve essere ammessa per poter salvare due referti, entrambi
validi, ma tra loro inconciliabili, se assunti senza ulteriori mediazioni.
Nella fattispecie, un “soggetto agente” dovrà essere considerato come
esistente intelligibilmente, sul piano noumenico: e, in tal senso, come
posto fuori del tempo, e quindi fuori dell’ambito di ciò che erscheint
(appare) e può essere osservato. Ciò che accade a quel livello, non è
causato, al modo dei fenomeni, da uno “stato di cose precedente”: an-
che perché, a quel livello, non vi sono precedenti temporali. Eppure,
come intelligibile, quel soggetto è fondamento possibile di fenomeni.
Insieme, quello stesso soggetto può essere considerato come fenome-
no, e quindi come realtà sottoposta al nesso causale. Da questo punto
di vista, tutte le sue mosse diventano spiegabili secondo leggi della na-
tura (comportando un «regresso verso le loro condizioni, che non
permette una totalità assoluta»).
Si può dire che, come intelligibile, il soggetto “inizia da se stesso” i
suoi effetti nel mondo; senza però che l’azione “cominci in lui stesso”
― incominciando essa, piuttosto, in quel mondo empirico, di cui pure
il soggetto partecipa (ma in quanto fenomenico).
Dunque, l’“atto” [Handlung] non coincide col semplice “fatto”
[Tatsache]. C’è piuttosto un atto, originario rispetto ai fenomeni, ep-
pure avente anche un risvolto fenomenico, limitatamente al quale esso
risulta omogeneo ad una sequenza fenomenica. Questa considerazione
ci introduce alla antropologia di Kant, secondo cui l’uomo è, da una
parte, fenomeno e causa naturale di fenomeni (secondo leggi di natu-
ra); e, dall’altra, è ragione, e, in quanto tale, è soggetto al dovere.
152 Parte terza: studi su libertà e principialità
1.7. La tesi per cui il dovere implica il potere
Il dovere [Pflicht] ― cioè il contenuto del dover–essere [das Sollen]
― è una qualità eterogenea rispetto allo “è, era, sarà”, su cui si attesta
l’intelletto scientifico. Il dover–essere, infatti, è una qualità che inerisce,
non a fatti, bensì ad atti: cioè, a realtà extra–temporali, che non stanno
in relazioni di tipo temporale. Più precisamente, il dover essere esprime
un atto possibile; e ciò, in due sensi. (1) “Possibile” [möglich], anzitut-
to, nel senso che l’atto potrebbe non tradursi mai in un fatto attuale, ed
essere però ugualmente reale ― anche se in una dimensione diversa da
quella empirica. La possibilità qui in questione, sembra essere quella
normalmente considerata nell’ambito della filosofia moderna, dove il
possibile ― come non–internamente–contraddittorio ― è la base co-
mune tra l’ideale (o meramente possibile) e l’attuale (che traduce il pos-
sibile in realtà effettiva)9. (2) Ma, il contenuto del Sollen è detto da Kant
“possibile” anche nel senso che esso non può non essere anche “possi-
bile in condizioni naturali”. In altre parole, Kant ritiene che, se so che
“devo fare x”, per ciò stesso so anche che “posso fare x”: nel senso che
x, non solo è un contenuto non–internamente–contraddittorio (in astrat-
to), ma è anche un contenuto realizzabile nelle condizioni empiriche in
cui deve essere attuato (cioè, non è neppure contraddittorio rispetto al
contesto che deve accoglierlo). Leggiamo dal testo kantiano: «La ragio-
ne non s’arrende al principio, che è dato empiricamente, e non segue
l’ordine delle cose, com’esse si presentano nel fenomeno; ma si fa, con
piena spontaneità, un suo proprio ordine secondo idee, alle quali adatta
le condizioni empiriche, e alla stregua delle quali dichiara necessarie
perfino azioni che per anco non sono accadute e probabilmente non ac-
cadranno; ma di tutte, nondimeno, suppone che la ragione, rispetto ad
esse, possa esercitare una causalità, giacché senza di ciò dalle sue idee
non attenderebbe nessun effetto nella esperienza».
Quando invece non è il dovere la causa dell’umano volere, ma piut-
tosto “un impulso sensibile” [ein sinnlicher Trieb], allora l’oggetto (il
contenuto) dell’azione non avrà le caratteristiche (1) e (2) ora indicate;
e la volizione di quell’oggetto sarà solo condizionata, e non libera. Ri-
9
Questa concezione diventa prevalente nel pensiero moderno, a partire da Francisco Suarez
(cfr. in particolare: Disputationes metaphysicae, XXVIII, 3.15; testo latino a cura di C. Berton).
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 153
guardo a quell’oggetto, l’uomo potrà farsi libero, in tanto in quanto lo
investirà con la categoria morale del dovere, che esprime la ragione
che è in lui, e che assegna agli oggetti pratici (cioè agli atti) “misura e
scopo”, “inibizione e autorità” ― come Kant si esprime.
1.8. Temperamento e carattere
Quando la ragione è causa di fenomeni, essa fa apparire di sé un
aspetto che non è noumenico: ed è l’”arbitrio empirico”. L’arbitrio
empirico è il comportamento di cui un essere razionale ha consapevo-
lezza. Esso ― secondo Kant ―, in tanto in quanto si dà nell’esperien-
za, è perfettamente riconducibile ad antecedenti causali, ed è altrettan-
to perfettamente prevedibile in tutte le sue mosse future. L’“antropo-
logia pragmatica” si occupa, appunto, di studiare l’uomo da questo
punto di vista, classificando i diversi tipi di “temperamento” [Sinne-
sart]. Le stesse mosse, se considerate come frutto di una ragione pro-
duttiva di azioni (“ragion pratica”), possono invece esser considerate
come non necessitate e imprevedibili (addirittura, in certi casi, non
dovute). In tal senso, esse sono viste come frutto del “carattere intelli-
gibile” [intelligibele Denkungsart].
Dal punto di vista del temperamento, un certo comportamento (ad
esempio, una menzogna con effetti criminosi) potrà essere spiegato
come il risultato della sequenza dei suoi antecedenti (un’indole parti-
colare, abitudini acquisite nel tempo, determinate circostanze). Dal
punto di vista del carattere, però, la medesima azione può legittima-
mente venir biasimata, in quanto può essere considerata «come del
tutto incondizionata [unbedingte] rispetto allo stato antecedente, come
se l’autore con essa cominciasse del tutto da se stesso una serie di
conseguenze»: può essere, cioè, giudicata a partire da una legge non
empirica, qual è la legge morale.
In quanto razionale, il soggetto è ― secondo Kant ― fuori dal
tempo. Per questo, non ha senso porsi una serie di domande: quelle
che trattano la libertà come se essa agisse nel tempo. Ad esempio, non
ha senso chiedersi: «perché la ragione non si è determinata altrimen-
ti?»; infatti, questo tipo di domanda, presuppone la possibilità di un
arretramento nel tempo, fino alla situazione in cui il soggetto ha agito
in un certo modo, per poter sperimentare mentalmente la sua capacità
154 Parte terza: studi su libertà e principialità
di agire diversamente ― mentre l’azione propriamente noumenica non
è nel tempo.
Un’altra domanda che non può trovare risposta è la seguente: «per-
ché la nostra libertà non ha determinato diversamente i fenomeni?».
Infatti, al massimo si può giungere a riconoscere che l’uomo è libero,
ma non è possibile risalire oltre, fino a scoprire per quali ragioni la sua
libertà si determini in un modo, anziché in un altro. Tutto quello che si
può rispondere, è che il carattere di quell’uomo contribuisce a deter-
minare in lui progressivamente un certo temperamento, e certi feno-
meni a questo conseguenti.
1.9. Conclusione
In conclusione, ciò cui la discussione della terza antinomia ha con-
dotto ― osserva Kant –, non è la dimostrazione della “realtà” [Reali-
tät] della libertà. Una tale dimostrazione ― sempre a suo avviso ―
avrebbe ricondotto la libertà a oggetto dell’esperienza. Neppure si è
guadagnata, con la precedente discussione, la “possibilità” [Möglich-
keit] della libertà. Semplicemente, si è “mostrato” che la libertà, se
c’è, è compatibile con le leggi di natura; rinviando ad altra sede la
questione della sua positiva affermabilità e del suo esserci.
2. La tesi per cui il dovere comporta il potere
Questa tesi appare come qualificante per il discorso kantiano sulla
libertà. Proviamo ad approfondirla con l’aiuto di un minimo di lin-
guaggio simbolico.
2.1. In un ambito di logica puramente “deontica”10 ― ad esempio nel
calcolo O–KD11 –, è derivabile una formula come: (a) ¬(Oα ∧ O¬α), la
quale viene a dire che non può essere obbligatoria la autocontraddizio-
ne, cioè, nessuno è tenuto a porre insieme atti contraddittori tra loro
10
In logica deontica trova luogo l’operatore di obbligazione: O.
11
Per una esposizione del calcolo O–KD, e del calcolo KQ, di cui si dirà nel seguito, si ve-
da: S. Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche II: applicazioni filosofiche della logica deon-
tica, ISU, Milano 1987. Al testo di Galvan il presente paragrafo del nostro scritto deve molto.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 155
(“non si dà che sia obbligatorio α e insieme sia obbligatorio non–α”). La
(a) è derivabile grazie alla presenza in O–KD dell’assioma O–D, il qua-
le asserisce che “se α è obbligatorio, allora c’è almeno un mondo possi-
bile e buono (ossia una alternativa deontica) in cui α è vero (cioè, rea-
lizzato)”. Applicando all’assioma O–D la “regola di contrapposizione”
(C)12, si può derivare che, se non c’è alcuna alternativa deontica in cui α
è vero, allora α non è obbligatorio. Kant probabilmente sottoscriverebbe
questa conclusione: infatti, dal suo punto di vista, il contenuto del dove-
re (cioè α) ha una propria realtà (diciamo pure nel “regno dei fini”), che
è indipendente dall’attuazione empirica.
La (a) equivale a: (b) ¬O⊥, cioè “non c’è obbligo all’autocontrad-
dizione”. La possibilità implicata dall’obbligatorietà ― in O–KD ―
consiste infatti nella semplice non–contraddittorietà. Senonché, il “pote-
re” (la possibilità operativa) cui alludeva Kant, è certamente qualcosa di
più ricco, di quanto qui riconosciuto. Qui si documenta piuttosto la po-
vertà espressiva di un sistema (o calcolo) di logica puramente deontica.
2.2. Più espressivo al riguardo risulta un sistema “aletico di logica
deontica”: cioè, un sistema che usi un linguaggio misto, in cui le co-
stanti deontiche (come O) trovano posto accanto ai simboli modali,
come quello della possibilità (◊). Ad esempio, nel sistema misto KQ,
risulta derivabile: (c) Oα → ◊α. La (c) significa che l’obbligo di com-
piere α, implica materialmente che sia possibile compiere α. Anche
qui, comunque, occorre intendersi bene sul significato dei simboli usa-
ti. Infatti, se ◊α significasse, non la possibilità di realizzare α, ma solo
la non–interna–contraddittorietà di α, allora ciò non sarebbe sufficien-
te a esprimere quel che la formula kantiana indicava.
Ma anche riguardo all’implicazione ci sono problemi. Se la leggo
genericamente così: “non si dà che α sia obbligatorio e non sia insieme
possibile”13, allora va bene (dal punto di vista di Kant). Ma, con una
simile formula, non si sarebbe ancora colto il senso filosofico della
questione. Ne è prova il fatto che, per contrapposizione , si potrebbe
rovesciare la (c) in: (c’) ¬◊α → ¬Oα (“se α non è possibile, allora non
è neppure obbligatorio”); il che, oltre che formalmente lecito, sarebbe
12
Quella per cui, se p → q, allora ¬q → ¬p.
13
Simbolicamente: ¬(Oα ∧ ¬◊α).
156 Parte terza: studi su libertà e principialità
forse anche accettato da Kant ― senza però che, con questo, il senso
della sua affermazione venga minimamente espresso.
2.3. Non a caso, Jaakko Hintikka14 nega che (c) sia espressione a-
deguata della formula kantiana, e propone in alternativa: (d) O(Oα →
◊α); formula nella quale ― come si vede ― la freccia dell’impli-
cazione materiale è sottoposta all’operatore deontico O, e viene dun-
que a esprimere una “implicazione deontica”. La (d) può esser letta
come segue: “la realizzabilità di α è una condizione deonticamente e-
sigita nel mondo in cui α è obbligatorio”; il che è certamente più im-
pegnativo della semplice affermazione ― proposta in alternativa da
altri autori –, per cui “la realizzabilità di α è condizione di senso per il
valere della obbligatorietà di α”15.
2.4. Come si può notare, Kant ― con la formula che stiamo discu-
tendo ― propone un tipo di inferenza che è l’inverso di quello che la
“ghigliottina di Hume” intendeva vietare. Uno dei divieti previsti dalla
“ghigliottina di Hume”, era che non si potesse passare argomentati-
vamente dall’”essere” al “dover–essere” (dall’is all’ought): Kant pro-
pone piuttosto di passare dal “dover–essere” al “poter–essere” (che
comunque presuppone in vario modo l’”essere”). Kant, insomma, in-
ferisce dal deontico il modale, il quale presuppone in qualche modo
l’aletico (infatti, che un contenuto di dovere sia possibile a realizzarsi,
è un asserto che dice anche alcunché su come stanno le cose).
3. La libertà nella Fondazione della metafisica dei costumi
Anche nella terza Sezione della Fondazione del 1785, Kant si oc-
cupa della libertà16. Vediamo rapidamente in quali termini.
14
Cfr. J. Hintikka, Models for Modalities, Reidel, Dordrecht 1969.
15
Cfr. S. Galvan, Introduzione alle logiche filosofiche II: applicazioni filosofiche della
logica deontica, cap. 3.
16
Cfr. Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785) ― d’ora in poi: G ―, in Kant’s ge-
sammelte Schriften, Band IV; trad. it. di F. Gonnelli, col titolo: Fondazione della metafisica
dei costumi, Laterza, Roma ― Bari 1997.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 157
3.1. Dalla libertà alla legge morale
La volontà [Wille] è considerata dal nostro autore come una specie
del genere “causalità” [Causalität]; e la libertà è la differenza che spe-
cifica la volontà rispetto agli altri tipi di causalità (quelli empirici).
Dunque, la volontà è la causalità libera.
La causalità, a sua volta, è una specie del genere “legalità” [Gesetzli-
chkeit]. La specifica legalità che caratterizza quella (specifica) forma di
causalità che è la volontà, deve essere una legalità appropriata ad un sog-
getto libero. E, una legalità che, appunto, sia in grado di obb–ligare [ver–
binden] un soggetto libero, potrà essere solo una legalità tale da esprime-
re la “autonomia” che caratterizza quel tipo di soggetto: tale, quindi, da
non imporsi ad essa dal di fuori (cioè, eteronomamente)17.
La legalità che esprime l’autonomia del soggetto, è la legge morale
[das moralische Gesetz]. Alla individuazione della legge morale, Kant
dedica la seconda Sezione della Grundlegung. Nel corso di tale Sezione,
compaiono ― come ben sappiamo ― differenti formulazioni della legge
morale. H.J. Paton, in un suo classico studio18, ne individua cinque: cite-
remo ora, rispettivamente, la prima della rassegna di Paton (I), e una sua
variante (Ia). La (I) suona così: «Agisci solo secondo quella massima19
che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale». E
così la (Ia): «Agisci come se la massima della tua azione dovesse diven-
tare, per mezzo della tua volontà, la legge universale di natura».
Il bene morale [das Gut], per Kant, è il contenuto di una volontà
che resti conforme alla propria natura non–soggettivistica, non legata
cioè all’interesse particolare o empirico, ma piuttosto a quello univer-
sale: una volontà, insomma, che sia, non del Sé [Selbst] in quanto mio
piuttosto che tuo, ma del Sé in quanto tale.
3.2. Libertà trascendentale
La libertà non è il contenuto di un’esperienza: non può esserlo, per-
ché è una qualità noumenica (una qualità del Sé), e il noumeno non
17
La sequenza indicate qui da Kant è la seguente (dal più generico al più specifico): lega-
lità < causalità < volontà.
18
Cfr. H.J. Paton, The Categorical Imperative, Hutchinson, London 1947.
19
“Massima” è il criterio di una scelta.
158 Parte terza: studi su libertà e principialità
cade nell’esperienza, ma semmai va a costituirla. La libertà considera-
ta in modo autentico, è detta da Kant “libertà trascendentale” o libertà
come “idea della ragione”, e consiste nella autonomia di cui si diceva.
Come sappiamo, la libertà trascendentale ha due versanti: uno “ne-
gativo” (o “cosmologico”) e uno “positivo” (o “pratico”). Sul versante
negativo, la libertà è indipendenza da cause empiriche, ivi comprese
quelle rappresentate da “impulsi” [Triebe, Antriebe] che sorgono
nell’uomo stesso. Sul versante positivo, la libertà è autonomia: non
più semplicemente indipendenza (o indeterminazione) rispetto a cau-
se, ma anche autodeterminazione, cioè capacità della volontà di muo-
versi da sé, mantenendosi pura dagli impulsi. Non tanto muoversi ver-
so il bene, quanto muoversi bene: secondo un criterio universale ovve-
ro razionale ― in quanto è la ragione che consente alla volontà di vo-
lere in modo “puro”.
La “libertà positiva” verrà definita da Kant nella Metafisica dei co-
stumi20 come «la facoltà della ragion pura di essere per se stessa prati-
ca»21. Essa è la capacità che il Sé ha di determinarsi ad agire secondo
un criterio universale, cioè secondo la legge morale, che è forma della
ragione in quanto pratica.
La legge morale, poi, sarebbe una legge descrittiva di una necessità
assoluta [Notwendigkeit], se noi fossimo realtà puramente e semplice-
mente razionali; ma, in quanto siamo anche realtà sottoposte a impulsi,
allora la legge morale assume una forma prescrittiva, cioè la forma del
Sollen: il dover–essere, che può di fatto anche essere disatteso.
3.3. Presupporre o introdurre criticamente?
Stando al testo della Grundlegung, la libertà del Sé non è dimo-
strabile nella sua realtà. Occorre “presupporla”. Kant, descrivendo il
cammino seguito nella terza Sezione dell’opera, dice di aver stabilito
la libertà del volere come presupposto [Voraussetzung], e di aver ot-
tenuto da essa, per “analisi”, l’autonomia del volere stesso, e da que-
20
Cfr. Die Metaphysik der Sitten (1797) ― d’ora in poi: Met –, in Kant’s gesammelte
Schriften, Band VI; trad. it. di G. Vidari, riveduta da N. Merker, col titolo: La metafisica dei
costumi, Laterza, Roma ― Bari 1989.
21
Cfr. Met, Principi metafisici della dottrina del diritto, Introduzione alla metafisica dei
costumi, I.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 159
sta, sempre per analisi, la legge morale come criterio adeguato per il
volere.
Se però si volesse riscattare il presupposto della libertà, per tentar-
ne una introduzione critica, occorrerebbe partire proprio dalle legge
morale. Sarà nella Critica della ragion pratica, che questo approccio
alla libertà verrà sviluppato: lì, la libertà sarà introdotta come “postu-
lato” (o condizione di senso), a partire dalla legge morale.
C’è un circolo vizioso ― si domanda Kant ― tra queste due intro-
duzioni: quella analitica, che va dalla libertà alla legge morale; e quel-
la postulatoria, che va dalla legge morale alla libertà? La sua risposta è
negativa: non c’è circolo vizioso, in quanto le due introduzioni non si
fondano l’una sull’altra (realizzando la forma del diallele), ma piutto-
sto hanno origine da due punti di vista complementari. In particolare:
se un uomo si pensa (nel senso del denken) come membro del mondo
intelligibile, allora egli si sa libero22; e, di qui, può arrivare a conclude-
re alla legge morale, come implicazione analitica (oggi diremmo “im-
plicitazione”) della libertà. Se invece lo stesso uomo si pensa come re-
altà che non vive come propria la legge morale, ma piuttosto la subi-
sce come semplice obbligazione cui non riesce a sottrarsi (se si pensa,
cioè, come uomo del Sollen, che vive su entrambi i versanti: fenome-
nico e noumenico), allora in quel caso, l’avvertenza del dovere prece-
derà quella della libertà; e, anzi, la libertà potrà essere introdotta come
condizione di senso del dovere.
Si potrebbe dire ― usando una terminologia che non è kantiana –,
che la libertà è ciò che è primo per sé, mentre la legge morale è ciò
che è primo quanto a noi. Così, nella Grundlegung si parte da ciò che
è primo per sé; nella Critica della ragion pratica si partirà invece da
ciò che è primo quanto a noi.
3.4. Chi è libero è persona
L’uomo, in quanto capace di libertà, è “persona” [Person]. La per-
sona sarà anche detta ― nella Metafisica dei costumi ― homo nou-
22
“Pensarsi” [sich denken] ― spiega Kant ― è diverso da “intuirsi” [sich anschauen] o
“percepirsi” [sich empfinden]: queste due ultime possibilità sono precluse al soggetto in quan-
to membro del mondo noumenico.
160 Parte terza: studi su libertà e principialità
menon. La “dignità” [Würde] propria della persona ― quella che giu-
stifica il “rispetto” [Achtung] che le è dovuto incondizionatamente ―
consiste appunto nella sua capacità di essere radicalmente indipenden-
te dall’empirico.
Sulla persona come membro ― suddito, ma insieme legislatore23 ―
del “regno dei fini” [das Reich der Zwecke] Kant si sofferma nella se-
conda Sezione della Grundlegung. Con l’espressione “regno dei fini”,
il nostro autore indica quella natura di secondo grado (o noumenica),
di cui la legge morale è legislazione appropriata. I “fini”, poi, non so-
no altro che le persone stesse24, che l’osservanza della legge morale è
in grado di porre in armonia tra loro, e con chi a questo regno presie-
de: cioè il Creatore.
Assumere il punto di vista richiesto dalla legge morale, significa
assumere il punto di vista stesso della persona: non, dunque, quello
del Sé nella sua particolarità, ma del Sé come persona.
4. La postulazione della libertà nella Critica della Ragion Pratica
Come abbiamo visto, la libertà, che nella discussione della terza an-
tinomia, veniva introdotta soltanto come una ipotesi ― e quindi nep-
pure come una effettiva possibilità ― è riproposta, nel discorso della
III Sezione della Fondazione della metafisica dei costumi, come un
presupposto. Eppure, già nella Fondazione si trovano accenni alla
possibilità di introdurre criticamente la libertà (nella sua accezione po-
sitiva), come condizione di senso della legge morale. Più precisamen-
te, si accenna a come la volontà di un soggetto razionale non possa
che essere autonoma, cioè libera, proprio in quanto razionale, e quindi
capace di giudicare intorno al proprio agire in riferimento a “principi
propri”, cioè da lei stessa riconosciuti per tali. Ma si accenna anche a
23
Con tale duplice indicazione, Kant intende farci capire che la persona non è autrice del-
la legge morale: se la ritrova dentro, senza potersene sbarazzare. D’altra parte, se egli fosse in
grado di darsi una legge di comportamento, non potrebbe che volerne una identica a quella
che di fatto si ritrova: essendo, questa, la legge che esprime il punto di vista proprio della per-
sona, cioè quello razionale.
24
Nella seconda Sezione della Grundlegung, Kant insiste nell’affermare che «ogni natura
razionale è fine in se stessa» (Zweck an sich selbst).
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 161
come un tale risultato non sia propriamente da assumersi come “teore-
tico”, ma piuttosto come “pratico”: ovvero implicato come condizione
effettuale [wirklich] della subordinazione di un tale soggetto alle “leg-
gi” che gli sono proprie25.
4.1. I postulati in Kant
L’intuizione viene ripresa, in un contesto teorico più ampio, nella Cri-
tica della ragion pratica26. Qui, nella “Dialettica della ragion pura prati-
ca”, si parla dei «postulati» [Postulate] della ragion pura pratica. Essi so-
no (fondamentalmente): l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, e,
appunto, la libertà dell’uomo. Il risultato della postulazione kantiana è di
stabilire la «possibilità» [Möglichkeit] di questi «oggetti» [Objekte] della
ragion pura speculativa, e non la loro «realtà oggettiva» [objektive Reali-
tät]: essi sono stabiliti come tre «idee» ― tre «pensamenti» [Gedanken]
―, «in cui non è contenuto niente d’impossibile». Per questo, si può dire
che tali idee sono «reali concettualmente»: gioco di parole, per dire che
esse corrispondono a delle strutture intelligibili e quindi effettivamente
possibili. Il che non significa ancora che corrispondano ― dicevamo ― a
“realtà oggettive”, in quanto non è dato nell’esperienza alcun oggetto a-
deguatamente corrispondente ad esse.
25
Si pensi alla seguente pagina: «Ogni essere che non possa agire altro che sotto l’idea
della libertà è perciò stesso realmente [wirklich] libero dal punto di vista pratico, ossia per es-
so valgono tutte le leggi che sono inseparabilmente connesse con la libertà, proprio come se la
sua volontà fosse spiegata come libera anche in se stessa, e in modo valido per la filosofia teo-
retica. Ora io affermo: ad ogni essere razionale che abbia una volontà, dobbiamo necessaria-
mente accordare anche l’idea della libertà sotto la quale, soltanto, egli agisce. Infatti in un tale
essere noi ci raffiguriamo una ragione che è pratica, ossia che ha causalità riguardo ai propri
oggetti. Ora, è impossibile raffigurarsi una ragione che, con coscienza di sé riguardo ai suoi
giudizi, accolga una guida esterna, poiché altrimenti il soggetto attribuirebbe la determinazio-
ne della facoltà di giudizio non alla sua ragione, ma ad un impulso. La ragione deve conside-
rare se stessa come autrice dei propri principi, indipendentemente da influssi esterni, dunque,
in quanto ragione pratica ovvero in quanto volontà di un essere razionale, deve considerarsi
libera, vale a dire che la volontà di un essere razionale può essere una volontà propria solo
sotto l’idea di libertà e questa deve perciò essere attribuita dal punto di vista pratico a tutti gli
esseri razionali» (cfr. G, p. 131).
26
Cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (1788) ― d’ora in poi: KpV –, in Kant’s
gesammelte Schriften, hrsg von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften,
Band V; trad. it. di F. Capra, rivista da E. Garin, col titolo: Critica della ragion pratica, La-
terza, Roma–Bari 1997.
162 Parte terza: studi su libertà e principialità
Più precisamente, le realtà che corrispondono ai contenuti di queste
idee devono essere poste come «necessari presupposti» [notwendige
Voraussetzungen] della vita pratica, cioè come condizioni che ― se
ammesse ― rendono ragionevole, piuttosto che meramente paradossa-
le, l’obbedienza alla legge morale27.
4.2. La libertà come implicazione della legge morale
La libertà è comunque un postulato diverso dagli altri. Essa costi-
tuisce ― a nostro avviso ―, non tanto un “presupposto”, quanto una
“implicazione” della legge morale (in quel senso dell’implicare che è
proprio del verbo inglese to imply e del neologismo implicature: im-
plicatura). Vale a dire: la libertà è una condizione di senso della obbli-
gazione [Verbindlichkeit], cioè della forma della legge morale. Ma ve-
diamo più da vicino come Kant introduca la libertà nella Critica della
ragion pratica.
4.2.1. Nella Prefazione all’opera la libertà è detta da Kant «reale»
[wirklich], in quanto è «condizione [Bedingung] della legge morale».
Ma, “condizione” è un’espressione ancora generica: occorrerebbe
chiarire se lo è in quanto presupposto ontologico o in quanto implica-
zione di senso della legge. Dal contesto si capisce che, almeno qui,
viene fatta valere ― dal nostro autore ― la seconda ipotesi.
La Wirklichkeit non è né il Dasein (“esistenza” come categoria mo-
dale della attualità) né la Realität (“realtà” come categoria qualitativa
della affermabilità). Anche qui occorre uscire dal generico. Kant stesso
lo fa nel prosieguo della Prefazione, affermando che «la ragion pratica,
per se stessa e senza aver fatto un accordo colla ragione speculativa,
procura la realtà [Realität] a un oggetto soprasensibile della categoria
della causalità, cioè alla libertà (benché come concetto pratico, anche
soltanto per l’uso pratico), e perciò conferma mediante un fatto quello
che colla speculazione poteva essere semplicemente pensato». Qui è
chiaro che, se la discussione teoretica della terza antinomia conduceva
alla libertà come a una ipotesi (qualcosa di “semplicemente pensato”),
la via della Seconda Critica introduce la libertà come alcunché di “rea-
27
Cfr. KpV, “Dialettica”, Cap. II.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 163
le”. Sappiamo però ― come già accennato ― che, nel linguaggio di
Kant, la Realität non è ancora l’esistenza effettiva: non è, insomma, una
categoria della “modalità”28, bensì una categoria della “qualità”29; non
riguarda, cioè il modo d’essere di una cosa (esistente, possibile, neces-
sario), bensì il suo essere oggetto d’affermazione (positiva, negativa o
infinita) ― qualunque sia il suo modo d’essere. Tant’è vero, che Kant
collega innanzitutto la qualità reale della libertà (cioè la sua positiva af-
fermabilità), non all’”esistenza”, bensì alla “possibilità”.
Annotiamo, al riguardo, che, delle altre idee postulate nella Secon-
da Critica, non si conosce ― per Kant ― neppure il carattere di piena
possibilità modale, bensì solo di intrinseca incontraddittorietà; infatti,
la postulazione ― per come egli la intende ― agisce fuori
dell’apparato categoriale che regola l’esperienza. Più precisamente, ta-
li idee godono di una possibilità ― quella evocata all’inizio del nostro
resoconto ―, che non è «teoretica», ma che sta piuttosto «in relazione
pratica» col Sommo Bene. Ciò, di per sé, vale anche per la libertà. Se
non che, lo statuto di quest’ultima è diverso da quello delle altre idee
postulate.
Infatti, il nesso delle altre idee con la legge morale è diverso da
quello della libertà: esse sono «condizioni», non della legge morale,
ma dell’ideale del Sommo Bene, sintesi di virtù e felicità30, che, a par-
tire dalla legge, viene introdotto come suo corollario. A tale scopo,
poi, è sufficiente che tali idee abbiano un’intrinseca incontraddittorietà
(siano cioè formalmente possibili); il che ― per Kant ― non equivale
ancora alla possibilità piena31.
Si può dire che è attraverso la dimostrazione della “realtà” della li-
28
Nella “Analitica dei concetti” della Prima Critica, la tavola delle “categorie” prevedeva
― come categorie della “modalità” –: «possibilità, esistenza [Dasein], necessità», che veni-
vano fatte corrispondere rispettivamente ai giudizi: «problematici, assertori, apodittici».
29
Le categorie della “qualità”, invece, comprendevano: «Realtà [Realität], negazione, li-
mitazione», corrispondenti rispettivamente ai giudizi: «affermativi, negativi, infiniti».
30
Si può comunque osservare che, in relazione all’ideale del Sommo Bene, le idee di Dio
e di Immortalità dell’anima intrattengono una relazione che si può dire di “implicazione di
senso” (anche se, in questo caso, la relazione si complessifica, considerando che l’ideale del
Sommo Bene anche “presuppone” Dio e immortalità, per potersi costituire).
31
Ne è piuttosto condizione necessaria, ma non sufficiente. Com’è noto, per Kant, oltre al
“formale” della possibilità, occorre anche il “materiale” (che ha a che fare con l’empirico).
(Cfr. I. Kant, Der einzig möglich Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes
(1763), in Kant’s gesammelte Schriften, Band II, Teil I, I, 1–2.
164 Parte terza: studi su libertà e principialità
bertà, che anche le altre idee in questione acquistano (in modo indiret-
to) un rilievo in ambito speculativo: risulta cioè dimostrata, al seguito
della libertà, anche la loro piena possibilità teoretica. Della libertà, in-
vece, conosciamo a priori tale possibilità (nel modo già detto), pur
«senza percepirla» ovvero senza averne esperienza.
Kant, per evitare l’impressione che libertà e legge morale diano
luogo ad un circolo vizioso, precisa che queste due figure si precedono
a vicenda, ma da due differenti punti di vista: la legge morale è ratio
cognoscendi (condizione di conoscenza) della libertà, mentre la libertà
è ratio essendi (condizione dell’esserci) della legge morale32.
In ogni caso, l’introduzione della libertà a partire dalla legge non
costituisce ― per Kant ― una vera estensione del sapere teoretico.
Con essa, piuttosto, si asserisce come “possibile” ciò che prima era so-
lo “problematico”. Qui, però, il nostro autore finisce per intricarsi un
po’ con le parole. Infatti, la stessa tavola delle categorie modali, da
Kant seguita, prevede che la “possibilità” sia il contenuto di giudizi
“problematici”, e il contenuto di giudizi “assertori” sia invece l’“esi-
stenza”. Il pasticcio nasce dalla ossessiva cautela con cui Kant tratta il
problema: cautela che gli vieta di ammettere esplicitamente che la sua
è una effettiva dimostrazione della natura libera del soggetto umano.
Egli infatti si è vietato di usare la parola “dimostrazione” per l’ambito
extra–empirico.
L’introduzione della libertà non va comunque intesa come espres-
sione di un esigenzialismo arbitrario, bensì come qualcosa di «irremis-
sibilmente [unnachlasslich] pratico», cioè di inevitabile da ammettere,
in relazione alla vita pratica dell’uomo.
4.2.2. Nell’Analitica della ragion pratica33 si afferma chiaramente
che «una volontà a cui la semplice forma legislativa delle massime
può esser di legge, è una volontà libera»; il che rappresenta l’inverso
di quanto leggevamo in linea principale nella Grundlegung (là si par-
tiva dalla libertà, per riconoscerne la legge appropriata; qui si parte
dalla legge morale, per riconoscerne il soggetto adeguato). Ma anche
32
Come si era visto nella Grundlegung, partendo dall’ipotesi che ci fosse la libertà.
33
Cfr. KpV, “Analitica”, Cap. I, § 5.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 165
nella Seconda Critica34 la mossa della Grundlegung viene riproposta:
«è la forma legislativa […] ciò che solo può costituire un motivo de-
terminante della volontà libera». Si rileva dunque una corrispondenza
reciproca tra legge pratica incondizionata e libertà.
Nello Scolio al § 6 del Cap. I si afferma che la «coscienza» [Be-
wußtsein] che si ha della legge morale è analoga alla coscienza che si
ha dei primi principi teoretici; sia la prima che i secondi sono: (a) in-
dipendenti da condizioni empiriche, (b) prescrittivi di una necessità.
Nel primo caso, si ha coscienza di una «volontà pura» (cioè, della li-
bertà), nel secondo caso di un «intelletto puro». In altre parole, noi
raggiungiamo la consapevolezza della libertà, attraverso la consapevo-
lezza dell’imperativo morale; e raggiungiamo la consapevolezza di un
intelletto capace di verità, attraverso la consapevolezza dei principi
che ci obbligano teoreticamente. Se la libertà non appare nell’espe-
rienza fisica, ma solo nella vita pratica, ciò non di meno essa condi-
ziona efficacemente anche la realtà fisica: un soggetto, infatti, «giudi-
ca di poter fare qualche cosa, perché è conscio di doverlo fare, e cono-
sce in sé la libertà che altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe
rimasta incognita». Ritorna qui la struttura del “posso perché devo”,
che avevamo già incontrata nella Prima Critica.
Poi più avanti35, Kant chiama in causa la «geometria pura»: espres-
sione con cui egli sembra indicare la geometria euclidea, intesa secon-
do la concezione da lui stesso offertane nella “estetica trascendentale”.
Ora, la geometria pone i propri postulati come necessità ipotetiche36, e
quindi come proposizioni ultimamente «pratiche». Invece, in campo
morale la necessità di seguire l’imperativo è assoluta. La «coscienza»
[Bewußtsein] dell’autoimporsi della legge morale è «un fatto della ra-
gione» [ein Faktum der Vernunft], che non va ulteriormente giustifica-
to. La legge morale si impone prima della coscienza della libertà: tale
legge ha la forma di una «proposizione sintetica a priori», che come
tale non si fonda su intuizioni, né pure né empiriche. Avrebbe invece
forma analitica, se si potesse ad essa presupporre la libertà (come ac-
cade nella III Sezione della Grundlegung). Ma, neppure della libertà
34
Cfr. ibi, § 6.
35
Cfr. KpV, “Analitica”, Cap. I, § 7, Scolio.
36
Qui il dettato kantiano è ellittico, ma forse risulta comprensibile alla luce di quanto tra
poco diremo da parte nostra sui postulati euclidei.
166 Parte terza: studi su libertà e principialità
c’è una intuizione intellettuale: per questo è corretto ricavarla dalla
legge morale.
Se la libertà negativa è l’indipendenza dai motivi e dagli impulsi
(ovvero da ciò che è “materia” della volontà), e la libertà positiva è la
dipendenza dalla legge morale (ovvero da ciò che è “forma” della vo-
lontà); si può dire che acquistare coscienza della libertà nel modo che
si è detto, è acquistarla sia della libertà negativa che della libertà posi-
tiva37.
Afferma Kant poco più avanti38, che il fatto della legge morale è
«legato inseparabilmente con la coscienza della libertà della volontà,
anzi è della sua stessa specie [mit ihm einerlei]»; e, per suo tramite, il
soggetto sa di essere noumenico (secondo quanto già si vedeva nella
discussione della terza antinomia).
4.2.3. In sintesi, la questione kantiana è la seguente: per quale tipo
di soggetto può valere una legge che abbia la forma della legge morale
(la quale, comunque, vale per noi)? Dunque, chi siamo noi, per poterci
sentire obbligati da quella legge, che di fatto ci obbliga? ― sembra
chiedersi Kant. E risponde: siamo soggetti liberi. Chiunque abbia “co-
scienza” ― nel senso di consapevolezza [Bewußtsein] ― di tale legge
fondamentale, non può che essere un soggetto libero. Infatti, un impe-
rativo ha senso solo se si rivolge ad una libertà39.
Ma, in che senso la libertà potrà dirsi ― come Kant la dice nella
“Dialettica” della Seconda Critica ― un “postulato”? In un senso ana-
logo ― credo ― a quello che il termine “postulato” assume negli E-
lementi di Euclide. Il punto fermo degli elementi di Euclide è il teo-
rema di Pitagora, di cui già si possedeva in precedenza l’evidenza in-
tuitiva, ma di cui ― lì ― si offre la prima dimostrazione rigorosamen-
te formale. Dal teorema di Pitagora si arriva a dedurre la incommensu-
rabilità del lato e della diagonale del quadrato. Ora, l’incommensura-
bilità di due segmenti ha come condizione di possibilità la inestensio-
ne del punto (cioè della componente del segmento): se infatti il punto
fosse un minimo di estensione, qualunque segmento sarebbe commen-
37
Cfr. KpV, “Analitica”, Cap. I, § 8. Teorema IV.
38
Cfr. ibi, § 8. Scolio II.
39
Infatti, non avrebbe senso dire a una pietra “cadi!” o ad una pianta “cresci!”; ma ha sen-
so dire a un bambino “obbedisci!”.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 167
surabile con qualunque altro (godendo i due, a priori, di un minimo
comun divisore). Dunque, l’inestensione del punto è da esigersi affin-
ché possa esser tenuta ferma la validità della dimostrazione del teore-
ma di Pitagora ― teorema della cui verità l’autore degli Elementi non
dubita. Ecco che l’inestensione del punto (stigmé) viene introdotta
come primo postulato euclideo (ma a tergo del teorema di Pitagora):
essa fa parte del quadro di consistenza che intorno alla verità pitagorea
viene disposto.
La relazione che Kant pone tra legge morale e libertà, è dunque a-
naloga a quella che Euclide poneva tra verità pitagorea e inestensione
del punto.
5. La questione del determinismo interiore
Kant pone come tra loro compatibili la “libertà psicologica” (avver-
tire certi fatti, come frutto di atti che procedono da noi spontaneamen-
te) e il “meccanismo” [die materielle Maschine] privo di libertà. Il te-
ma è da lui sviluppato, meglio che altrove, nella “Dilucidazione critica
dell’analitica della ragion pura pratica”, che conclude l’Analitica della
Seconda Critica40.
5.1. Insufficienza della libertà psicologica
Già Leibniz, nella Teodicea, avvertiva della possibilità che, accanto
a forme di automatismo materiale (autómaton materiale), si potessero
dare anche forme di automatismo spirituale (autómaton spirituale).
Una realtà spirituale potrebbe infatti essere eterodiretta mediante im-
magini che la attraggono in una certa direzione, anziché in un’altra. Se
la nostra libertà fosse solo quella psicologica ― osserva Kant al ri-
guardo ―, potremmo anche ipotizzare di essere come dei particolari
automi (simili a un orologio meccanico o a un girarrosto automatico),
programmati anche per sentire la nostra spontaneità (cioè il fatto che i
nostri movimenti vengono dall’interno di noi stessi). In realtà, il fatto
che io avverta che il tale evento procede da me, è condizione necessa-
40
Cfr. KpV, pp. 195 ss.
168 Parte terza: studi su libertà e principialità
ria, ma non sufficiente, perché io possa dire che esso procede secondo
libertà. Infatti, se quell’evento accade in modo avvertibile, per Kant
ciò significa che esso accade nel tempo; e quel che accade nel tempo,
ha sempre la propria condizione di possibilità in ciò che precede, cioè
in un passato, che, almeno in quanto è passato, sfugge al mio potere.
Dunque, come realtà empirica, io sono interpretabile sulla base degli
antecedenti, che ― per quanto ipotizzabili come posti secondo libertà
―, in quanto passati, sono lì a determinarmi.
È solo se esisto anche fuori del tempo, che potrò interpretare il mio
presente e il mio passato come frutto di libertà. Se io sono cosciente di
me stesso come di una realtà esterna al tempo (come noumeno), so
che lì nessun antecedente vale come tale: ovvero non c’è «niente di
anteriore alla determinazione della volontà» (neppure la mia storia
precedente). Il soggetto si dispone trascendentalmente rispetto ad ogni
(sua) esperienza possibile: cioè, accoglie ogni possibile esperienza in
un orizzonte che la supera e, in riferimento al quale, egli è in grado di
giudicarla e rivederla.
Il “pentimento”, ad esempio, ha senso, perché nel noumeno è vinta
la distanza e l’antecedenza temporale. Quindi, quel che è accaduto,
può essere ripreso e reinterpretato (in qualche modo, rideciso), e così
recuperato secondo un nuovo significato.
5.2. Libertà trascendentale
La libertà è qualificata da Kant come “trascendentale”, in quanto è
libertà della ragione, e quindi del soggetto in quanto pensante in senso
illimitato (in un senso che nessuna categoria può captare in sé). La
persona è dunque, per Kant, la capacità trascendentale di costituire
l’esperienza, dandole forma dal di fuori di essa, e dunque superandola
(non rimanendone prigioniera). Quella che Kant chiama “idea” della
ragion pura, è ― variamente descritto ― il contenuto del pensiero tra-
scendentale. Come lo stesso autore spiega nella “Dialettica” della Cri-
tica della ragion pratica, tale contenuto ideale può essere adeguato
solo dal “Sommo Bene” [das höchste Gut] ― «totalità incondizionata
dell’oggetto della ragion pura pratica»41. Ma, il sommo bene, per come
41
Cfr. KpV, “Dialettica”, Cap. I.
Capitolo II: promemoria su legalità e libertà in Kant 169
emerge dal prosieguo del discorso, altro non è che l’incontro reale (e
dunque meritato) della persona umana con la Persona per eccellenza,
che presiede al regno dei fini42.
42
Cfr. ibi, Cap. II.
170 Parte terza: studi su libertà e principialità
CAPITOLO III
LOGICA E LIBERTÀ
IN RIFERIMENTO AD ALCUNE PAGINE
DI MAURICE BLONDEL
Il presente intervento intende raccogliere alcune indicazioni
che troviamo in un importante testo di Maurice Blondel ― Prin-
cipe élémentaire d’une logique de la vie morale ―, di recente ri-
portato all’attenzione degli studiosi di lingua italiana1. Il lavoro
esegetico che queste pagine meritavano è già stato brillantemente
eseguito2; il nostro intento è piuttosto quello di raccogliere e valo-
rizzare qualcuna delle indicazioni blondeliane, tentandone un so-
brio sviluppo teorico, che contribuisca a evidenziarne la perenne
vitalità.
1. La libertà come implicazione del riconoscimento dei primi principi
Nel punto centrale del suo Principe élémentaire d’une logique de la
vie morale, Blondel mette brevemente a tema la relazione che inter-
corre tra l’esercizio della libertà e il riconoscimento del principio di
non contraddizione. Si tratta di una questione sulla quale si era già
soffermato in modo intelligente qualche decennio prima un altro auto-
1
Pensiamo in particolare a: S. D’Agostino, Dall’atto all’azione, Editrice Pontificia Uni-
versità Gregoriana, Roma 1999, cap. VII.
2
Cfr. ibi.
171
172 Parte terza: studi su libertà e principialità
re francese: Jules Lequier3. Ed è da un rapido svolgimento di tale que-
stione, che prenderà avvio la nostra riflessione.
1.1. L’impostazione di Blondel
L’impostazione blondeliana della questione si trova adeguatamente
contenuta in un brano che conviene riportare per intero, almeno in no-
ta4. Proviamo da parte nostra a ricostruire schematicamente ― e selet-
tivamente ― i contenuti del brano riportato.
3
Sulla questione, rinviamo a: P. Pagani, Libertà e non–contraddizione in Jules Lequier,
FrancoAngeli, Milano 2000, Parte I.
4
«È perché spontaneamente, noi ci crediamo capaci di modificare le cose, che acquistia-
mo l’idea che esse potrebbero essere diverse [autres]. E come mai noi ce ne crediamo capaci?
[...] Non è per una rivelazione a priori né per una anticipazione astratta che, sapendoci deside-
rosi e capaci di agire sulle cose, noi affermiamo retrospettivamente che un possibile, diverso
dal reale, è stato possibile e resta concepibile. È in seguito alla nostra iniziativa pratica e alla
nostra azione nello stesso tempo, sottomessa e padrona. Se noi non avessimo alcuna tendenza
originale né postulati pratici, se tutto ci fosse indifferente, o eguale, o concesso senza sforzo,
noi non ci accorgeremmo assolutamente che una cosa non esiste, che un atto non è mai esisti-
to, o non ha portato alcun frutto. E così è appunto dalla nostra attività esercitata che sorge la
prima alba della nostra vita logica. Ma l’idea dell’altro non ci basta e non basta a se stessa. Se
noi opponiamo le cose o gli atti, se noi le valutiamo, è proprio nella stessa misura con la quale
si assimilano alla nostra sorte e alle nostre esigenze, sia che si incorporino alla nostra persona
sviluppandola, sia che si introducano come dei veleni [...]. Le soluzioni contrarie sono contra-
rie tra di loro, non certo a prima vista in virtù di un’astrazione intellettuale, ma a causa di una
opposizione assolutamente concreta e qualitativa, che non soltanto differenzia la serie degli
altri, ma li urta tra di loro secondo la loro convenienza o la loro sconvenienza con
l’orientamento delle nostre tendenze. [...] Ma ciò non è tutto. Né la nozione dell’altro, né
quella della contrarietà, o della opposizione non potrebbe essere cosciente senza la nozione
almeno implicita della ‘contraddittoria’. E che è ciò che suscita questa nozione? È il senti-
mento dell’irreparabilità del passato. La legge di contraddizione non si applica al futuro; è
perciò che non si applica anche al passato, in quanto è pensato, conosciuto, possibile o conce-
pibile, ma solo in quanto è ‘agito’, realizzato, consacrato dall’attività che lo ha voluto o che lo
subisce. Un fanciullo, giocando, spezza un ramoscello: lo vorrebbe accomodare; è impossibi-
le: è contraddittorio che quel fuscello sia stato e non sia stato spezzato, contraddittorio che sia
rotto e intatto. Se dunque noi non fossimo capaci, dopo aver desiderato ed agito spontanea-
mente, di deliberatamente volere, noi più non sapremmo né, che una cosa fatta avrebbe potuto
essere stata fatta diversamente, né, che ciò che è posto è posto senza che si possa ritornare sul
momento passato [sur l’être même du passé] né, in una parola, che ci sia contraddittorio nello
stesso tempo irrealizzabile e pensabile. Questo contraddittorio che noi supponiamo sempre
soggiacente al reale, è in grazia ad una iniziativa soggettiva che noi l’insinuiamo, e perché le
esigenze della nostra esistenza [destinée] morale qualificano in modo assoluto e oppongono
gli atti compiuti o le condizioni realizzate. Brevemente, per aver coscienza che una cosa po-
trebbe essere diversamente, è necessario che noi abbiamo coscienza della nostra azione a
doppio taglio [double tranchant]. Per conoscere la nostra azione, bisogna che coscienti alme-
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 173
1.1.1. Uno schema
(a) Le nozioni logiche di “alterità”, “contrarietà”, “opposizione” e
“contraddittorietà” hanno senso solo in relazione alla vita pratica
dell’uomo, che è vita libera. Limitiamoci, per semplicità, a consi-
derare il primo e l’ultimo di questi casi.
(b) Che la situazione in cui siamo avrebbe potuto essere “altra” da
quella che è, o possa diventarlo, è qualcosa che concepiamo in ri-
ferimento alla nostra libertà e al presentimento della sua efficacia
pratica. È questo che ci consente di affermare «retrospettivamente
che un possibile, diverso dal reale, è stato possibile e resta conce-
pibile».
(c) La nozione di “contraddittorietà”, invece, matura in noi come con-
sapevolezza della «irreparabilità del passato»: precisamente, del
passato in quanto luogo di quel che è stato fatto. Come a dire:
factum infectum fieri nequit. (Per questa ragione Blondel azzarda
anche che il principio di non contraddizione non abbia presa sul fu-
turo: luogo in cui l’irreparabilità pratica non sembra aver senso5).
(d) Possiamo essere consapevoli della nostra impotenza a riformare «il
momento passato», e quindi possiamo sapere che esiste un «con-
traddittorio nello stesso tempo irrealizzabile e pensabile», che sta
sullo sfondo di ciò che di volta in volta accade nella vita pratica;
possiamo sapere ciò ― dicevamo ― solo in quanto siamo soggetti
no confusamente del conflitto delle nostre tendenze e delle esigenze della nostra sorte, noi ci
troviamo di fronte ad una opzione che interessa il nostro essere: in una parola, noi non abbia-
mo l’idea dell’essere e della contraddizione che in quanto siamo messi nella condizione di ri-
solvere l’alternativa dalla quale dipende l’orientamento della nostra vita e la nostra entrata
nell’essere, alternativa, se si può dire, ‘auto–ontologica’. Qui è la chiave di volta: e come la
pietra superiore, sostenuta dagli strati di pietre sottostanti, ne è a sua volta il sostegno, così il
principio di contraddizione, che implica prima di tutto per essere conosciuto, la spontaneità
dei desideri, dei postulati, dei successi ed insuccessi della nostra iniziativa orientata dalla na-
tura e rischiarata dalla riflessione, è finalmente indispensabile alla conoscenza distinta ed al
deliberato uso di tutto il nostro dinamismo intellettuale e morale» (cfr. M. Blondel, Principe
élémentaire d’une logique de la vie morale [1903]; trad. it. di E. Castelli col titolo: Principio
elementare di una logica della vita morale, Signorelli, Roma 1924, pp. 29–33).
5
Non entreremo qui analiticamente nel merito della questione. Ci limitiamo a richiamare
che ― come lo stesso Blondel sa bene (cfr. Principio elementare di una logica della vita mo-
rale, p. 27) ― un principio, o ha portata trascendentale, o non è. Sulla questione del futuro in
relazione ai primi principi, ci permettiamo di rinviare a: P. Pagani, Libertà e non–contrad-
dizione in Jules Lequier, pp. 347–349).
174 Parte terza: studi su libertà e principialità
liberi (e non semplicemente spontanei). Più precisamente: soggetti
liberi, che costantemente si trovano di fronte all’aut aut morale, da
cui dipende il delinearsi del nostro profilo personale.
(e) D’altra parte, l’esplicita considerazione del principio di non con-
traddizione è indispensabile per mettere criticamente in evidenza il
dinamismo della vita morale, e quindi l’esistenza stessa della liber-
tà. (Il nesso tra principio di non contraddizione ed evidenze morali
elementari ― tipicamente la libertà ― è paragonato da Blondel a
quello che sussiste tra le pietre che compongono una volta architet-
tonica: le pietre superiori, che si reggono sulle inferiori, consentono
a loro volta a queste ultime di stare in equilibrio).
1.1.2. Qualche spunto
Gli elementi rilevanti che emergono dallo schema precedente sono
almeno tre. Anzitutto, la relazione che Blondel coglie tra libertà e nes-
si logici: relazione che resta, a dire il vero, non adeguatamente defini-
ta. Essa infatti, nelle pagine del nostro autore, sembra oscillare tra due
modelli non reciprocamente compatibili, e di cui meglio diremo: quel-
lo dell’implicazione, secondo cui la libertà è condizione di possibilità
del riconoscimento dei nessi logici; e quello della genealogia, secondo
cui la libertà sarebbe condizione di possibilità (ovvero presupposto)
del costituirsi di tali nessi (di cui il principio di non contraddizione è
caso eminente).
Un secondo spunto notevole, che in qualche modo riorienta quello
precedente, è il recupero del ruolo epistemicamente fondativo del
principio di non contraddizione nell’accertamento della dinamica della
vita morale, e quindi ― eminentemente ― della libertà. Si può pensa-
re, al riguardo, al classico impianto scolastico ― che anche Blondel di
fatto e a suo modo riprende6 ―, secondo il quale la libertà di scelta è
accertabile sulla base di argomentazioni che coinvolgono esplicita-
mente il principio di non contraddizione7. In che senso la circolarità
6
Sono esemplari, da questo punto di vista, alcune pagine della prima Action (1893): cfr.
M. Blondel, L’Azione, trad. it. di S. Sorrentino, Parte III, Seconda Tappa, cap. III.
7
Rispetto a ciò che non è l’oggetto proprio del volere, la volontà è indeterminata, e per
questo risulta in diversa flexibilis (cfr. Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 22, a. 6, ad 1um),
cioè, capace di autodeterminarsi. Ecco che l’autonomia del volere può essere descritta come
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 175
che in tal modo si prospetta non sia alcunché di vizioso, è quanto cer-
cheremo di capire nel prosieguo.
Un terzo spunto, che riprenderemo solo nella seconda parte del
nostro testo, è quello che ci mette di fronte ad una ovvietà troppe
volte trascurata: la vita pratica ci porta a trattare l’attuale come
contingente, cioè a considerare le situazioni che ci vedono prota-
gonisti, come situazioni che accadono sullo sfondo di una radicale
alternativa possibile. E ciò, anche indipendentemente dalla nostra
eventuale capacità di fondare in senso metafisico la categoria del-
la contingenza.
una indeterminazione–autodeterminazione nei confronti dei beni; e questa è resa possibile da
una attrazione radicale che la volontà vive in direzione del significato stesso del bene (bonum
ut tale). Leggiamo in proposito: «Se si presenta alla volontà un qualche oggetto che sia uni-
versalmente buono, e lo sia secondo ogni considerazione, di necessità la volontà tende a quel-
lo, se [è vero che] vuole qualcosa; non potrebbe infatti volere l’opposto. Se infatti si presenta
ad essa qualche oggetto che non sia buono da ogni punto di vista, la volontà si porta ad esso
non per necessità». Infatti, «tutti i beni particolari, in quanto mancano di qualche bene, posso-
no essere presi per non buoni; e in questo senso possono essere rifiutati o approvati dalla vo-
lontà, che può portarsi su di essi secondo diverse considerazioni» (cfr. Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, I IIae, q. 10, a. 2, Resp.). Una simile introduzione della libertà di scelta
sembra tendere ad una forma apagogica. Richiamiamo in proposito lo schema della apagogia,
per come viene espresso nel “calcolo proposizionale classico”:
X ¬α |- β
Y ¬α |- ¬β
X ∪ Y |- α
Ora, nella fattispecie che ci interessa, possiamo stabilire le seguenti corrispondenze:
α ≡ “la volontà non è necessitata a scegliere ciò che non adegui il bene come tale”.
Ora, una volta ammessa ¬α, si avrebbe, in considerazione di X (e cioè, di quanto risulta
presupposto dalla stessa ammissione di ¬α):
β ≡ “i beni particolari adeguano il bene come tale”;
ma si dovrebbe anche riconoscere, in considerazione di Y (e cioè del carattere finito che,
per analisi, va attribuito ai beni particolari), la conseguenza:
¬β ≡ “i beni particolari (voluti, nell’ipotesi ¬α, secondo necessità) non adeguano il bene
come tale”.
Di qui l’autocontraddizione, per evitare la quale si confermerà ― come priva di alternati-
ve ― la tesi α.
Da quanto fin qui detto, emerge che “volere” non coincide con “scegliere”; e che la volon-
tà sta alla libertà di scelta, come l’intelletto sta alla ragione. Vale a dire, la libertà di scelta è la
volizione del bene, mediata dal negativo.
176 Parte terza: studi su libertà e principialità
1.2. Una proposta di approfondimento
1.2.1. Una premessa sui “primi principi”
Converrà chiarire preliminarmente che, quando parliamo dei nessi
logici fondamentali, chiamandoli con l’appellativo tradizionale di
“primi principi”, intendiamo riferirci ― da parte nostra ― a strutture
che appartengono al trascendentale in quanto tale, e che sono sue con-
notazioni “proprie” (ídia); non intendiamo invece riferirci alle versioni
meramente assiomatiche di tali strutture8. Ed è nostra convinzione che,
al di là di alcune espressioni problematiche, questa consapevolezza sia
propria anche di Blondel9; il quale, non per niente polemizza contro
una concezione astrattistica del principio di non contraddizione, che
porterebbe quest’ultimo a una relazione estrinseca ed artificiosa nei
confronti del reale. Il fatto è che Blondel ― come sappiamo ― vede
nella libertà in azione, e non nel mondo fisico, l’analogato principale
della realtà; ed è per questo che parla di un «acosmismo» del principio
di non contraddizione. Con tale espressione, infatti, egli allude alla ca-
librazione trascendentale del principio, per cui esso trova il proprio
adeguato luogo di verifica nella dinamica morale, in cui l’orizzonte
trascendentale è eminentemente in evidenza. Rispetto alla realtà fisica,
lungi dal potervi essere controesemplificato, esso vi risulta anzi ba-
nalmente vero10, avendo piuttosto ad altro riguardo la sua autentica pa-
rola da dire11.
8
Almeno, se “assioma” è inteso – come oggi è normale – in senso, non più “materiale”,
bensì “formale”. Nel primo caso, che era quello dei classici, l’assioma è descrittivo di come
stanno le cose; nel secondo caso, che è tipico della nostra contemporaneità, assioma è una as-
sunzione ultimamente di tipo convenzionale.
9
«Nel reale non si danno termini contraddittori ma solo termini contrari, di cui uno stesso
determinismo concatena gli sviluppi opposti. Dall’altra [parte], sotto quelle forme diversamente
compatibili dell’azione, ci imbattiamo in un principio di contraddizione, che fa valere il suo di-
ritto anche a livello del fatto, e decide in assoluto del senso dell’essere. Pertanto compatibilità ed
esclusione: è questo il senso profondo della legge di contraddizione che ci interessa chiarire. Es-
sa fa regnare la verità nell’errore senza eliminare l’errore, e introduce l’assoluto dell’essere nel
fenomeno senza abolire il relativo del fenomeno» (cfr. M. Blondel, L’Azione, p. 580).
10
«Mai la contraddittoria è data di fatto: è impossibile che ella lo sia realmente. Sembra che
tutto il significato del principio di contraddizione si risolva nel fatto che la realtà non ha alcuna
presa su di lui» (cfr. M. Blondel, Principio elementare di una logica della vita morale, p. 25).
11
Cfr. ibi, p. 32.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 177
I principi dunque ― proseguiamo ―, non vanno pensati come
semplici assiomi (axiómata), bensì per quello che realmente sono, e
cioè proprio come “principi” (archaí). La differenza non è trascurabi-
le. Si tratta infatti di ricordare che ― per fare l’esempio più classico
― il principio di non contraddizione non è riducibile ad una semplice
regola di un linguaggio (logico, matematico, filosofico che sia), non
può insomma venir trattato come se fosse solo o principalmente una
regola di derivazione, propria di uno o anche di tutti i linguaggi cono-
sciuti; ma va piuttosto considerato come una struttura che esprime
qualcosa (e qualcosa di rilevante) che riguarda il trascendentale in
quanto tale. Con i “primi principi” si mette dunque a tema una eidetica
trascendentale, cioè una descrizione delle strutture che innervano
l’essere dal di dentro, in ogni sua manifestazione12.
In quanto connotazioni proprie del trascendentale, i primi principi
si possono dire tanto logici (cioè, esprimenti ciò che appartiene in mo-
do inevitabile al pensiero), quanto ontologici (cioè, esprimenti ciò che
appartiene in modo inevitabile all’essere); in quanto il trascendentale
accoglie essere e pensiero come dimensioni astratte di sé. In tal senso,
li diremo “onto–logici”13.
Pensiamo, per intenderci, all’implesso costituito da “principio di
identità”, “principio di non–contraddizione” (PDNC) e “principio del
terzo escluso” (PTE). Di tali principi abbiamo anche varie e appropria-
te espressioni logistiche, che possono essere utili ad evidenziare la
convertibilità reciproca delle tre figure: convertibilità che si dà (signi-
12
Occorre comunque prendere sul serio il carattere originariamente e pienamente ontolo-
gico dei primi principi, che si dicono “primi” proprio perché esprimono dei caratteri che ap-
partengono al trascendentale. Nel linguaggio di Rosmini, diremmo che essi sono le leggi
dell’“essere per sé manifesto”.
13
Già Tommaso riconosceva con chiarezza che il principio di non contraddizione ― pro-
tótipo dei primi principi ― «si radica nel significato dell’essere e del non essere» (principium
contradictionis fundatur supra rationem entis et non entis) (cfr. Tommaso, Summa Theolo-
giae, I IIae, q. 94, a. 2 Resp.), quindi ha una portata immediatamente ontologica. Ma il filoso-
fo che forse meglio di ogni altro ha teorizzato questa verità, è stato Antonio Rosmini (cfr. A.
Rosmini, Logica [1850], a cura di V. Sala, vol. 8 della Edizione Nazionale e Critica delle O-
pere di Antonio Rosmini, Città Nuova, Roma 1984, Libro II, cap. IV). Si tratta di capire ―
con Rosmini ― che la logica, così come il filosofo la conosce, è sempre onto–logica, nel sen-
so che è espressione di quegli aspetti dell’essere che risultano innegabili, cioè che godono di
statuto elenctico. Infatti, un principio può dirsi effettivamente tale, proprio in quanto gode di
statuto elenctico: cioè, in quanto va a costituire le forme stesse della propria negazione.
178 Parte terza: studi su libertà e principialità
ficativamente solo) nel caso in cui esse vengano intese in senso filoso-
ficamente appropriato14.
In particolare, ciò che è vietato dalla formula NC ― |- ¬(α ∧ ¬α) –,
vale a dire, ciò cui si riferisce la negazione fuori parentesi, non sono i
singoli elementi congiunti, bensì l’intera congiunzione in parentesi, la cui
sintesi è espressa dal simbolo ∧ (et). Ora, la combinazione del non e
dell’et dà l’aut: aut(α, ¬α). Quindi, la formula NC è anche l’autentica
espressione logistica di PTE (non essendolo invece la regola TND ― |- α
∨ ¬α). In fondo, il terzo che il PTE esclude, è sì materialmente un medio
che falsifichi entrambi i poli contraddittori, ma formalmente esso è la
stessa autocontraddizione. Quel che si intende sostenere, è che sia il
PDNC sia il PTE trovano la loro adeguata espressione logico–formale in
NC, il che sta ad indicare la loro reciproca sostituibilità.
In realtà, il tentativo esperito variamente ― in prospettiva logicista,
ma soprattutto intuizionistica e minimale ― è quello di de–
trascendentalizzare i primi principi, rendendoli mere regole (derivabi-
li) di derivazione all’interno di un calcolo; e perdendone così di vista
la natura principiale.
1.2.2. Una considerazione filosofica del principio del terzo escluso15
Il PTE può fungere da luogo sintetico dell’implesso principiale on-
to–logico. Una considerazione autenticamente filosofica di esso può
14
Su questo punto, rinviamo al successivo capitolo: Fondamento e fondazione.
15
L’autentica formula del PTE nel linguaggio simbolico potrebbe essere la seguente: |- ¬(p
∧ ¬p), ― con la quale si esclude sia l’et et sia il nec nec. Tale formula, però, è già l’espressione
usuale per il PDNC. In realtà, ciò che in fondo si persegue, con l’uso della formula TND, è forse
proprio la riduzione del PTE a semplice PDNC: cioè, a semplice guardiano della fenomenologia,
senza capacità di introdurre alcuna verità ulteriore rispetto al dato immediato (ovvero, alcuna ve-
rità metafisica). In generale, si può dire che p e ¬p non si escludono ― logisticamente ― in for-
za di TND, ma semmai di NC: |- ¬(p ∧ ¬p). In altre parole, dal punto di vista di TND, non può
essere che né nevichi né non nevichi; ma può essere che nevichi e non nevichi: quest’ultima e-
ventualità resta infatti esclusa solo in forza di NC. In sostanza TND esprime solo un verso della
incompatibilità duplice che vige tra le contraddittorie. Il fatto che TND non riesca a captare la
valenza del PTE significa che quest’ultimo ― come legge trascendentalmente valida ― conti-
nua ad agire, per dir così, alle spalle dei calcoli logistici, entrando a costituire, ad esempio, la lo-
gica verofunzionale delle tabelle dei connettivi (che disgiunge vero e falso sine tertio ― nel più
perfetto stile aristotelico). Del resto, il TND può diventare tautologia ― come abbiamo visto ―
solo come espressione di questo codice genetico tabellare.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 179
consentirci di fissare l’attenzione (come, in fondo, auspicato da Kant,
e realizzato da Jules Lequier) su due momenti costitutivi del medesi-
mo, che risultano pertinenti anche ad una riflessione sulla libertà. Ci
riferiamo: 1) al “complemento semantico” (¬α); 2) all’oscillazione
formalistica (tra α e ¬α).
Quanto al complemento semantico, si può dire che esso ― o, più
precisamente, il fronteggiarsi di α e ¬α, cioè degli antikeímena16 ―
sia il luogo istitutivo della portata trascendentale dei principi. Ciò non
significa che α e ¬α diano luogo a qualcosa come un intero insiemi-
stico, ma piuttosto significa che, quanto indicato con ¬α, è lo stesso
trascendentale traguardato a partire da α; ed è anche un modo di con-
siderare α alla luce del trascendentale, cioè come un elemento che go-
de delle distributive proprietà trascendentali (ad esempio, della incon-
traddittorietà): un elemento, dunque, che anche nella sua nuda forma-
lità ha un senso. Inoltre, il complemento semantico consente al pen-
sante di aggirare, relazionare, relativizzare α.
Quanto alla oscillazione formalistica, essa consiste nel considerare
possibili a darsi allo stesso titolo, rispettivamente, sia α sia ¬α; e nel
considerarli, in tal senso, come com–possibili (anche se non recipro-
camente indifferenti). Ovviamente, ciò che si considera possibile a
darsi, non è la loro congiunzione, bensì che l’uno possa realizzarsi al
posto dell’altro, senza che il trascendentale, espresso dalla struttura
principiale α aut ¬α, ne soffra.
Dunque, dal punto di vista formalistico, qualsivoglia (quodlibet) dei
due può essere posto come vero. La sospensione formalistica fra i due
elementi equivale ad una assunzione, sia pur sperimentale, di libertà di
scelta. Anzi, proprio tale sospensione ci aiuta a calibrare il senso di tale
libertà. Infatti, di fronte alle alternative radicali si realizza una in–
differenza, che non è però immediatamente assiologica; tanto che si
rinvia alla necessità di una esclusione: aut l’uno aut l’altro, e non et
l’uno et l’altro, e neppure nec l’uno nec l’altro ― come a dire che i due
16
Gli antikeímena (letteralmente il termine greco vuol dire “giacenti l’uno contro l’altro”)
sono gli elementi della antíphasis, cioè della struttura semantica che lega tra loro ― senza
congiungerle ― le proposizioni (pháseis) tra loro contraddittorie (cfr. Aristotele, De interpre-
tatione, VI; testo greco a cura di L. Minio Paluello), o i termini tra loro contraddittori (cfr. A-
ristotele, Metafisica, V, 1018a 20–22).
180 Parte terza: studi su libertà e principialità
poli non sono nomi diversi dell’identico. E se si facesse riferimento ad
una indifferenza assiologica, non si prospetterebbe l’inevitabilità di
prendere l’uno per tralasciare l’altro, ma i due starebbero assiologica-
mente indiscernibili (dunque, o entrambi sì o entrambi no)17.
Piuttosto, l’in–differenza in questione è mediata da un terzo: cioè,
dalla istanza di incontraddittorietà (che è una proprietà, o “nome”, del
trascendentale): è questa che, dal punto di vista logico–formale, va ri-
spettata e perseguita; ed è rispetto a tale istanza che le due alternative
risultano in–differenti (l’una, in questo preciso rapportarsi all’istanza
trascendentale dell’incontraddittorietà, vale l’altra). Anzi, è proprio la
consapevolezza che l’istanza in questione è una necessità, ad essere il
motore della scelta: ad essere cioè quel che rende inevitabile la scelta
tra due elementi che, in relazione all’istanza stessa, sono invece indif-
ferenti tra loro.
1.2.3. L’implicazione della libertà
Provando a raccogliere alcuni degli elementi sin qui emersi, si può
dire che i primi principi ― sinteticamente potremmo dire il PTE ―
sono concepibili solo da un soggetto che: (1) sia capace di abbraccia-
re, ovvero di concepire, l’ambito semantico trascendentale; (2) sia ca-
pace di coglierlo come sfondo di una alternativa (l’antíphasis) tra con-
tenuti entrambi possibili ad essere posti in realtà ― e non per questo
indifferenti assiologicamente, ma piuttosto dal soggetto trattati come
se fossero indifferenti, alla luce del trascendentale (cioè, in relazione
non diadica, bensì triadica); (3) sia capace di vivere in se stesso
l’oscillazione formalistica che si realizza tra i due contenuti.
Ma, un simile soggetto può sinteticamente dirsi libero, almeno se-
condo un senso elementare della parola libertà, per il quale essa indica
la capacità di apprezzare una qualunque realtà, tenendola in relazione
al suo “altro”18. Così, cogliere i principi primi implica la libertà, in
quanto richiede la capacità ― propria del libero ― di trattare
17
Si può osservare, di passaggio, che l’ipotesi dell’et et ― cioè della compatibilità positi-
va dei contraddittori quanto alla attualità ―, e quella del nec nec ― cioè della compatibilità
negativa dei contraddittori quanto alla attualità ― sono descritte, rispettivamente, dal simbolo
della disgiunzione debole in vel (∨), e dalla “sbarra di Nicod” ().
18
O anche a sé come altro, cioè come potenzialità di cambiamento.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 181
l’empirico come contingente: cioè, come qualcosa che sta sullo sfondo
di una radicale alternativa, altrettanto possibile a essere realizzata,
quanto esso stesso lo era.
Con questo, non si è detto che il valore dei principi presupponga ―
almeno per quel che fin qui è noto ― l’esistenza di un soggetto libero,
o che l’accertamento di tale valore presupponga l’accertamento della
libertà.
1.2.4. A proposito di “implicazione”
Riservando il termine “implicitazione” all’implicazione di tipo ana-
litico ― quella che lega, ad esempio, un elemento del definiens, al suo
definiendum19 ―, ci concentreremo brevemente sulla distinzione tra
“implicazione” e “presupposizione”.
Per “presupposizione” intendiamo quel tipo di relazione (semanti-
ca), per cui, dire che la realtà x presuppone la realtà y, significa dire
che la realtà x non è consistente senza la realtà y. Dunque, negando
l’esser–posto di y (cioè, del presupposto), x sarebbe da intendere come
autocontraddittoria (e perciò impossibilitata ad esistere, mentre invece
esiste)20. In termini formali si potrebbe esprimere la relazione nel mo-
do seguente: ¬(x ∧ ¬y); ovvero: x → y.
Diverso è il caso della “implicazione”, che è una figura pragmatica
(corrispondente, in inglese, al verbo to imply). Dire che α implica β,
significa dire che la negazione di β renderebbe inconcepibile α. Anche
qui, comunque, si potrà esprimere esteriormente la relazione nel modo
seguente: ¬(α ∧ ¬β); ovvero: α → β.
Con questo, non si è ancora detto a quale tipo di incongruenza vada
incontro chi nega l’implicazione. Non si tratta della autocontradditto-
rietà (di α), bensì di una diversa e più radicale forma di inconcepibili-
tà, che, nel suo grado più forte, è l’impossibilità elenctica.
Indubbiamente, il to imply viene usato ― ad esempio da autori co-
me J.L. Austin ― anche per indicare relazioni meno radicali di quella
da noi sviluppata in precedenza: ad esempio, relazioni tra “tipi illocu-
19
In inglese, questa figura è indicata dal verbo to entail.
20
In inglese, questa figura è indicata dal verbo to presuppose.
182 Parte terza: studi su libertà e principialità
tori” (asserire → credere; promettere → impegnarsi; e così via)21. In-
vece, nel caso da noi considerato, il to imply indica la relazione tra una
struttura intelligibile ed una sua condizione di intelligibilità.
Per illustrare dal punto di vista formale la differenza che c’è tra pre-
supporre e implicare, si può ― come test ― applicare ad entrambe le
figure il seguente quesito: sostituendo l’implicans con la sua con-
traddittoria, si potrebbe ottenere ancora l’implicatum? Ora, la risposta,
nel caso dell’implicazione, risulterà negativa; nel caso della presuppo-
sizione, risulterà invece positiva. Si può verificarlo, considerando due
esempi. Come esempio di implicazione vale quello che abbiamo discus-
so in precedenza: “io sono in grado di riconoscere i primi principi” →
“io sono libero”. Come esempio di presupposizione, possiamo prender-
ne uno che illustreremo nel seguito: “il fatto x è posto secondo la con-
tingenza debole” → “il fatto x è posto secondo la contingenza forte”.
1.3. Implicazione contro genealogia
1.3.1. Le ragioni dell’implicazione
Si può intendere la relazione tra attestazione del libero arbitrio e at-
testazione del PTE, come un implesso (aperto anche ad ulteriori intro-
duzioni): ciascuna delle due verità attestate non presuppone l’altra; e
― come corollario di ciò ― ciascuna può anche essere introdotta in
modo indipendente dall’altra. Questo significa che il loro “implesso”
(il termine deriva da “implicazione”) non è un “complesso” (cioè una
struttura organica), dove l’un elemento non potrebbe essere tenuto
fermo se non in relazione all’altro.
Referenti storici di una posizione teorica come la precedente sono:
esplicitamente, Jules Lequier; implicitamente, Kant. Si pensi a Kant.
Per quest’autore, la legge morale è valida a priori, cioè è priva di pre-
supposti nel suo valere; eppure la libertà risulta implicata, quale con-
dizione di senso, dal valere della legge morale. Dunque, secondo
quanto Kant suggerisce, chiunque abbia la coscienza [Bewußtsein] di
21
Per la distinzione che Austin fa di “implicare”, “implicitare” e “presupporre”, si veda:
P. Pagani, Contraddizione performativa e ontologia, FrancoAngeli, Milano 1999, P. I, cap. II.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 183
questa legge fondamentale, non può che essere un soggetto libero22.
L’introduzione della libertà risulta, in tal modo, disomogenea rispetto
a quella degli altri postulati kantiani, che sono piuttosto delle presup-
posizioni [Voraussetzungen], ovvero la posizione di condizioni neces-
sarie alla osservanza effettiva della legge morale23.
Indicare una condizione di concepibilità di un principio è altra cosa
dall’indicarne una “genealogia”24. Nel primo caso, infatti, non si tenta
di ridurre ad altro ciò che, avendo natura principiale, è appunto irridu-
cibile ad alcunché di più “arcaico”; si intende piuttosto evidenziare
l’esistenza di un implesso di principi, in cui nessuno è presupposto di
nessun altro ― essendo ciascuno di essi riscattabile per via autonoma.
Le verità principiali, più precisamente, sono tali in quanto godono di
uno statuto elenctico. Élenchos consiste, in breve, nel mettere in discus-
sione proprio ciò di cui ogni argomentazione, in un modo o nell’altro, si
avvale; per ritrovarne poi l’intrascendibilità. Ora, un tale procedimento
è irriducibile a procedura: non è, infatti, qualcosa di “finitario” ― tanto
che non può essere tradotto in un processo di derivazione logico–
formale25. Anzi, per poter essere eseguito, richiede la capacità di desi-
tuarsi ― liberamente ― rispetto ad ogni procedura codificata.
Non solo élenchos è luogo di espressione della libertà; ma i suoi ri-
sultati sono anche un motivo di provocazione per la libertà. Infatti, in
relazione alle necessità trascendentali che élenchos variamente mette
in luce, la libertà si può atteggiare, o come “accettazione consapevole”
di quelle che sono condizioni inevitabili di ogni movenza dell’io, op-
pure come “violenza”, cioè come tentativo di violazione. Tale tentati-
vo risulterà impotente, quanto al trascendentale, ma potente rispetto
allo stesso io violento, che si autocondanna, se coerente, alla apraxía e
alla aphasía ― secondo le espressioni di Alessandro di Afrodisia26 –,
cioè all’agire e al parlare a caso, tanto da giungere a trattare una cosa
per qualsiasi altra (ciò che costituisce la cifra stessa dell’immoralità).
22
Cfr. I. Kant, KpV, Dottrina degli elementi, Libro I, cap. I, § 7.
23
Cfr. ibi, Dottrina degli elementi, Libro II, cap. II, VI.
24
L’espressione non è certamente di Blondel, ma appartiene piuttosto al vocabolario di
Kant e di Nietzsche.
25
Su questo punto, rinviamo a P. Pagani, Contraddizione performativa e ontologia, Ap-
pendice.
26
Cfr. Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysica Commentaria, p. 300.
184 Parte terza: studi su libertà e principialità
La circostanza per cui la libertà stessa è evidenziabile elenctica-
mente, mentre élenchos implica a sua volta la movenza libera, non co-
stituisce circolo vizioso ― come sarebbe se fosse in gioco la presup-
posizione, e non l’implicazione ―ma piuttosto indica quella circolari-
tà virtuosa, cui danno luogo le strutture che godono, appunto, di statu-
to elenctico: le quali fanno partecipare di sé, inevitabilmente, anche le
argomentazioni volte ad evidenziarle. E la libertà, in fondo, è stata da
noi evidenziata proprio elencticamente, quando si è mostrato come il
negarla comporterebbe ― tra l’altro ― il non poter più concepire, da
parte nostra, i primi principi.
1.3.2. La pretesa “genealogica”
Accettare una ricostruzione “genealogica”, significa invece muoversi
entro un impianto psicologistico e ultimamente gnoseologistico, con il
carico aporetico che la cosa comporta. Lo “psicologismo” è uno svilup-
po ― per altro largamente praticato ― dello gnoseologismo27: infatti,
nel tentativo di porre, nell’io, un accordo tra pensiero ed essere, consi-
derati come originariamente estranei tra loro, lo gnoseologismo incorre
normalmente in qualche forma di psicologismo. Psicologismo è la pre-
tesa che la tentata ricostruzione della dinamica conoscitiva dell’io28 pos-
sa di diritto precedere e condizionare la fenomenologia stessa del cono-
sciuto: pretesa ovviamente autocontraddittoria, visto che gli apparati
psicologici messi in campo allo scopo, resterebbero, quali elementi pre-
supposti, al di qua (e quindi in vana attesa) di quella validazione gnose-
ologica che proprio ad essi sarebbe per ipotesi affidata.
Ora, tentare una “genealogia” significa indicare la presunta genesi
psicologica di un principio: non dunque una condizione che lo renda
concepibile all’io, bensì una condizione che lo faccia valere per l’io.
27
L’equivoco gnoseologistico consiste nella fallace pretesa di trattare il tema gnoseologi-
co indipendentemente e antecedentemente rispetto a quello ontologico. Ora, il tema gnoseolo-
gico, in tal modo impostato, non potrebbe che essere svolto ― come testimonia la storia della
filosofia ― secondo opzioni dogmatistiche tra loro contrapposte: «realismo» e «idealismo»; le
quali si reggono sul comune presupposto del dualismo gnoseologico ― cioè, della reciproca
estraneità di essere e pensiero ―, con il carico di intrinseca contraddittorietà che questo com-
porta. E paradossalmente decidono, per vie opposte, di risolvere la presunta estraneità, ridu-
cendo arbitrariamente uno dei due termini all’altro.
28
Tradizionalmente, la “psicologia filosofica”.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 185
La differenza è segnata dal fatto che, se nel modello dell’implesso le
verità considerate si “implicano” reciprocamente, nel modello della ri-
costruzione genealogica una “presuppone” l’altra, e precisamente si
riduce a epifenomeno di questa.
Ebbene, nel testo blondeliano non mancano di certo espressioni che
tendono a quella metábasis eis allo ghenos che è la genealogia. Si
pensi in particolare ai brani in cui il nostro autore proietta sul principio
di non contraddizione ipoteche di tipo temporale, legate alla vita psi-
cologica del soggetto29; oppure ai luoghi in cui sembra sottintendere
― alla maniera di Nice30 ― che il valore dei primi principi risieda
semplicemente in una loro funzionalità alla vita pratica31. Ma queste ci
sembrano piuttosto concessioni alla sensibilità filosofica del tempo,
mentre l’aspetto vitale della ricerca blondeliana è salvato dal modello
che abbiamo considerato in precedenza.
2. Contingenza debole e contingenza forte
In questo secondo tratto del percorso cercheremo di approfondire
uno spunto blondeliano già citato, che però in precedenza era rimasto
solo sullo sfondo del nostro discorso. La libertà di scelta, col suo
“doppio taglio”, fa sì che l’uomo idealmente contingentizzi ― o me-
glio, tratti come contingente ― la realtà pratica attraverso la quale egli
si muove. Più precisamente, ogni pragma attuale acquista spessore dal
suo ideale porsi a distanza rispetto ad una alternativa radicale, ma non
meno possibile rispetto ad esso. Poco importa, poi, se l’agente sia in
grado di fondare in senso metafisico tale suo presentimento.
2.1. Alcune distinzioni preliminari
Per poter offrire qualche sviluppo a questo tema, ci permettiamo di
introdurre preliminarmente alcune precisazioni relative all’ambito del-
29
Cfr. M. Blondel, Principio elementare di una logica della vita morale, pp. 31 ss.
30
Per una discussione della concezione “genealogica” dei principi logici in Nietzsche,
rinviamo al precedente capitolo: Da Epitteto a Nietzsche, e ritorno.
31
Cfr. M. Blondel, Principio elementare di una logica della vita morale, p. 37.
186 Parte terza: studi su libertà e principialità
le categorie modali: precisazioni che ci consentiranno di procedere poi
senza gravi ambiguità.
2.1.1. Possibile e incontraddittorio
“Possibile” ― dall’antico latino potis esse, cioè “potente ad essere”
― è “ciò che può essere”. Nel senso più ampio, è ciò che non è im-
possibile ad attuarsi (in uno dei diversi modi, o livelli di realtà, che
possono convenire all’attuazione). In questa generica accezione po-
tremmo parlare di “possibile semantico”, associandolo alla seguente
formula definitoria: (i) ◊α ≡ ¬ ¬α; che si può leggere così: “la possi-
bilità di α equivale alla non–necessità di non–α”. La possibilità se-
mantica potrà dirsi anche “possibilità unilaterale”, in quanto essa e-
sclude da sé solo l’impossibilità, cioè la necessità di non–α: ¬α.
Referente storico (e classico) della figura ora in questione è Aristote-
le32. Aristotelicamente, «qualcosa è possibile (dynatón) se, assumendo-
lo, non c’è nulla di impossibile»33. Il problema di questa definizione, è
che l’impossibile, attraverso cui si vuol definire il possibile, rimanda a
quest’ultimo, secondo una circolarità di definiendum e definiens. Nella
Fisica troviamo però due passi34, nei quali si ripete la solita formula, ma
si usa átopon come sostituto di adýnaton. L’“impossibile”, cioè, viene
fatto equivalere al “privo di luogo”. Inoltre, l’“impossibile”, in altri pas-
si aristotelici35 compare nella formula “riconduzione all’impossibile”
(apagoghé eis adýnaton), con la quale lo Stagirita indica il metodo della
dimostrazione per assurdo (o, appunto, “apagogia”). Ora, in quella for-
mula l’“impossibile” viene connotato implicitamente come “autocon-
traddittorio”: infatti, la riconduzione all’impossibile è intesa ordinaria-
mente come esplicitazione della autocontraddittorietà della tesi con-
traddittoria a quella che si intende sostenere.
Si potrà dunque dire che, per Aristotele: (ii) ◊α sse α |-/ ⊥; cioè: “α
è possibile se, e solo se, da α non deriva autocontraddizione”; e così:
32
Sul “possibile” in Aristotele, si veda: M. Mignucci, Sulla nozione di possibilità in Ari-
stotele, «Élenchos», XXV (2004).
33
Cfr. Aristotele, Metafisica, IX, 1047a 24–28.
34
Cfr. Aristotele, Fisica, VII, 243a 1–2 e 30–31.
35
Valga per tutti: Aristotele, Analitici Primi, I, 50a 30–38; testo greco a cura di Th. Waitz.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 187
(iii) α sse ¬α |- ⊥; cioè: “α è necessario se, e solo se, dalla sua nega-
zione deriva autocontraddizione”.
Aristotele sa anche (e lo mostra nel libro Gamma della Metafisica)
che la autocontraddizione risulta essere impossibile in un senso che è
più radicale di quello della autocontraddittorietà ― pena la petizione
di principio. E si tratta della impossibilità elenctica: cioè della impos-
sibilità di metter fuori gioco le strutture principiali (e, potremmo ag-
giungere, l’impossibilità di metter fuori gioco ciò che è condizione
dell’esser note a noi di tali strutture).
Semantizzare il possibile come non–impossibile, non è una opera-
zione tautologica, solo se quest’ultimo è saputo anche come l’incon-
traddittorio. Ma, è sufficiente l’incontraddittorietà di una ipotesi, a de-
cretarne la possibilità? Vediamo.
Possiamo certo dire che: (I) “ogni autocontraddittorio è impossibile”.
Ma, siamo anche autorizzati a convertire la (I) in: (II) “ogni impossibile
è autocontraddittorio”? No. Infatti una universale affermativa, come la
(I), si converte solo parzialmente: nel senso che dalla (I) potrò valida-
mente ottenere solo che: (Ia) “almeno qualche impossibile è autocon-
traddittorio”. Quindi, non sapendo se vale la (II) ― che non è ottenibile
sulla semplice base della (I) ―, neppure sono autorizzato a introdurre, a
partire da essa, la sua contrapposta: (III) “ogni non–autocontraddittorio
è non–impossibile”; la quale, semplificata, darebbe la seguente proposi-
zione: (IV) “ogni incontraddittorio è possibile”. La contrapposizione
della (II) darebbe validamente la (III), e quindi la (IV); ma il fatto è che
la (II) non è stata a sua volta validamente introdotta.
In conclusione, l’incontraddittorietà è condizione necessaria, ma non
sufficiente, della possibilità. Se con P si intende l’esser possibile di qual-
cosa, e con I il suo esser incontraddittorio, possiamo scrivere: Px → Ix.
2.1.2. Possibile, virtuale, potenziale
Allora, che cosa sapremo essere possibile? A rigore, sappiamo es-
sere possibile solo l’attuale: solo dell’attuale, infatti, è autocontraddit-
torio negare che possa essere attuale (ovvero che sia possibile)36. Sap-
36
Lo stesso effato scolastico che dice ab esse ad posse datur illatio (“dall’essere al poter es-
sere è lecita l’illazione”), va a rigore inteso: o come qualcosa di analitico (come a dire che, quel
188 Parte terza: studi su libertà e principialità
piamo anche che l’ambito del possibile non coincide con quello
dell’attualmente presente, dal momento che il divenire ci costringe a
distendere l’attuale secondo le “estasi” temporali (passato, presente,
futuro). Con ciò, non sappiamo ancora se vi sia o no altro possibile ol-
tre il diversamente attuale: non sappiamo, insomma, se il modale ―
cioè il possibile, e i significati che intorno alla nozione del possibile si
organizzano ― sporga rispetto al meramente temporale.
Un possibile che sia tale oltre il diversamente attuale, può essere
genericamente detto “virtuale”. Filosoficamente parlando, il virtuale
non è l’immaginario (l’ámbito della fictio), bensì il potenzialmente
possibile, l’ipotetico: ciò intorno alla cui possibilità ci si interroga (e
che poi potrà venir identificato come contingente, o come alternativa
possibile al contingente, o come necessario, o come impossibile).
L’uomo si trova dunque a tentare il possibile, a procedere per tenta-
tivi, senza essere assicurato a priori sull’esito. Ora, lo spazio della in-
dagine sul virtuale è lo spazio costituito dal trascendentale. Il trascen-
dentale è la matrice del possibile (del potis esse). La differenza di po-
tenziale che sussiste tra l’attuale noto e l’orizzonte trascendentale in
cui esso è noto, si esprime appunto come un poter–essere ulteriormen-
te: il trascendentale è ciò che possibilita il possibile37.
Ma, se articoliamo idealmente l’attuale secondo le tre estasi tempo-
rali, che cosa resta del possibile? La ratio entis ha esaurito, in tal mo-
do, le sue possibilità? Per rispondere a questa domanda, si possono
seguire ― in parallelo ― due linee.
Si tratterà di esplorare il virtuale, concependo e tentando di imma-
ginare e attuare situazioni ulteriori rispetto a quelle attuali. Seguire in
questo il criterio della incontraddittorietà (o consistenza) sarà necessa-
rio, ma non sufficiente. Si potrà parlare in proposito di una “peirasti-
ca” (una messa alla prova) del possibile: di una certa ipotesi x, sapre-
mo realmente che è possibile in una determinata situazione, quando x
si sarà attuata in quella situazione; e l’ambito della verifica è il tra-
che accade, era possibile che accadesse); o come qualcosa di semplicemente illativo (come a dire
che, è ragionevole pensare che, quel che accade, possa ripetersi in forme analoghe).
37
Ora, la differenza di potenziale qui in questione è quella che i classici chiamavano ratio
entis, che è dunque la ragione generatrice (o il rapporto generatore) nell’ambito dell’essere. (Il
possibile è così ― in termini classici ― ciò che è de ratione entis, ciò che è conforme alle
strutture dell’essere).
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 189
scendentale. Quest’ultimo, con le sue strutture principiali, sarà anche
criterio negativo (necessario, dunque, ancorché insufficiente) della
messa alla prova del virtuale. Invece, il criterio positivo ― non più
dunque di esclusione, ma di determinata introduzione del possibile ―,
resta sempre l’attuale e la comprensione di esso.
Leggere l’attuale secondo la coordinata dei suoi possibili sviluppi
fenomenologici (cioè, di come variamente potrà apparire, rivelarsi),
vuol dire interpretarlo secondo le sue potenzialità (dynámeis). Ma, a
ben vedere, la rilevazione delle potenzialità (retroattiva, prima, e anti-
cipatrice, poi)38, non dice ancora niente circa un possibile che sporga
oltre l’attuale: semplicemente, essa legge il divenire come manifesta-
zione di strutture dinamiche (nature che si sviluppano, o che possono
essere sviluppate), piuttosto che come contiguità e successione di e-
venti atomisticamente isolati gli uni dagli altri.
Ma c’è anche una seconda linea secondo la quale interrogare
l’attuale che si distende secondo le tre estasi, per capire se esso lasci
spazio ad un possibile ulteriore. È la linea di una indagine esplicita-
mente metafisica. Classicamente, la lettura non–nichilistica del diveni-
re comporta l’introduzione di una realizzazione trascendente dell’es-
sere, e di una relazione creatrice tra la realtà trascendente e quella che
si distende nel divenire. Il culmine di un simile procedimento ― che
non è certo qui il luogo di ricostruire nei suoi determinati passaggi ar-
gomentativi ― consiste nel riconoscimento del carattere contingente
dell’attuale. La contingenza di x, infatti, non consiste semplicemente
nel fatto che x sia diveniente, ma nel fatto che x sia il correlato ogget-
tivo di un atto creatore, e quindi di un atto di libera e radicale produ-
zione ― in forza del quale, x esiste, ma potrebbe non esistere, o esiste-
re diversamente da come esiste. Insomma, il trascendente è l’origine
del contingente, così come il trascendentale lo è del possibile.
Tra le due acquisizioni si dà una analogia di proporzionalità. Infatti,
da un lato il soggetto della peirastica del possibile insiste intenzional-
mente sul trascendentale, e perciò il suo muoversi (il suo tentare) è li-
bero. Dall’altro, il contingente è tale, in quanto prodotto da una libertà
creatrice. In altre parole, l’invenzione del possibile è propria di una li-
38
La potenzialità viene scoperta, in prima battuta, quando si è rivelata, passando all’atto.
Poi, potrà essere pronosticata in casi analoghi.
190 Parte terza: studi su libertà e principialità
bertà in situazione; la creazione del contingente è propria di una liber-
tà originaria.
2.2. Il contingente
La contingenza è la “possibilità bilaterale”39. Ora, la bilateralità in
questione si configura, immediatamente, come una duplice esclusione.
Il contingente, infatti, esclude da sé sia l’impossibile, sia il necessario;
come è espresso dalla seguente formula:
(1) ♦α ≡ ¬ α ∧ ¬ ¬α; che potremo leggere così: “la contingenza di α
equivale alla non–necessità di α ― cioè della posizione di α –, con-
giuntamente alla non–necessità di non–α ― cioè della negazione di α”.
Nel testo aristotelico questa figura corrisponde all’endechómenon,
almeno nei termini in cui Aristotele ne parla in Analitici Primi, I, 32a
18–20 e in De interpretatione, XIII, 23a 7–15.
Senonché, tale bilateralità ne implicita un’altra, non meno rilevan-
te: quella che vige tra il contingente e la sua possibile alternativa
nell’accadere. Questa seconda bilateralità possiede un senso implici-
tamente metafisico, di cui però Aristotele non è in grado di dar con-
to40, e che si può esprimere così:
(2) ♦α ≡ ¬ α ∧ ◊α (si ottiene dalla (1) per def. di poss. come non–
imposs., cioè ◊α ≡ ¬ ¬α)
(3) ♦α ≡ ◊¬α ∧ ◊α (si ottiene dalla (2) per regola di tr. di in ◊, me-
diata dalla regola DN: ¬ α | ◊¬α)41.
Questo secondo tipo di bilateralità è presente, presso Aristotele, in
Analitici Primi, I, 32a 36–38. Si tratta di una figura di spessore meta-
39
Cfr. J.L. Gardies, Essai sur la logique des modalités, Puf, Paris 1979.
40
Lo rileva opportunamente anche Nicola Abbagnano (cfr. Scritti esistenzialisti, a cura di
B. Maiorca, Utet, Torino 1988, p. 551).
41
La non–necessità di α equivale infatti alla negazione della non–possibilità della nega-
zione di α. La regola DN ― della doppia negazione classica ― trasforma poi la duplice nega-
zione in affermazione: quindi, nella semplice possibilità della negazione di α.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 191
fisico, che appunto su quel piano va discussa. L’obiezione più rilevan-
te che si potrebbe muoverle, è così formalizzabile:
1. ◊α ∧ ◊¬α |- ◊(α ∧ ¬α)
2. ◊(α ∧ ¬α) |- ⊥.
Senonché, la raccolta del simbolo della possibilitazione e la sua
collocazione fuori parentesi, non è regola di trasformazione valida in
alcun sistema di logica modale.
Si potrebbe poi formulare un’altra obiezione, così esprimibile:
1. ◊α ∧ ◊¬α |- ◊α ∧ ¬◊α (dalla (3) per tr. di ◊¬α in ¬◊α)
2. ◊α ∧ ¬◊α |- ⊥.
Ma, anche qui, la trasformazione proposta, non è valida in alcun si-
stema di logica modale: e non a caso, visto che essa stravolgerebbe
completamente il significato dei simboli usati.
Circa la (1) si può, in positivo, osservare quanto segue: (a) la com-
plementarità che essa indica (tra possibilità alternative), non è di rilie-
vo fenomenologico; (b) non è però autocontraddittoria (come invece
sarebbe se fosse riconducibile alla formula: ◊α ∧ ¬◊α); (c) in effetti, è
autocontraddittorio ipotizzare che si realizzino insieme α e ¬α; cioè,
la loro compossibilità sarebbe autocontraddittoria solo se venisse inte-
sa come compossibilità a realizzarsi simultaneamente; (d) ciò che pro-
priamente è possibile, è che aut α aut ¬α si realizzino; dove la com-
possibilità è mediata dall’aut (e non dall’et).
Insomma, sono possibili et α et ¬α; cioè, è possibile che aut α aut
¬α si realizzino. Ciò ― aristotelicamente42 ― connota il possibile ri-
spetto all’attuale: due corsi contraddittori di sviluppo potenziale di una
realtà in atto, sono simul–consistenti come “mondi possibili” (nel sen-
so di Kripke)43; non lo sono invece come mondi attuali.
L’osservazione di alcuni autori44, secondo cui la possibilità che si
realizzi ¬α invece che α è precedente, e non simultanea, rispetto al
realizzarsi di α; è corretta, ma capziosa. Corretta, perché all’accadere
42
Cfr. Aristotele, Metafisica, IX, 1051a 11–13.
43
Secondo Saul Kripke, un “mondo possibile” non è un altro mondo da quello in cui vi-
viamo, bensì un possibile corso degli eventi, diverso da quello che si è di fatto realizzato (cfr.
S. Kripke, Naming and Necessity [1972]; trad. it. di M. Santambrogio, col titolo: Nome e ne-
cessità, Boringhieri, Torino 1982, p. 54).
44
Si veda, ad esempio: M. Visentin, Le categorie e la realtà, Le Lettere, Firenze 1990,
pp. 28–29.
192 Parte terza: studi su libertà e principialità
in t di α risulta certo impossibilitato (si pensi alla “schioppettata” di
manzoniana memoria...) l’accadere pure in t di ¬α. Capziosa, perché
con ciò si suggerisce che tale impossibilitazione sia retroattiva, cioè
tale da rendere α privo di alternative in t (non–contingente, appunto).
Era questo, del resto, il progetto di Diodoro Crono, cui accenneremo.
L’aspetto interessante di questa posizione, sta nel fatto che essa evi-
denzia come la bilateralità non sia una qualità coglibile attraverso una
ispezione del fatto (dal momento che factum infectum fieri nequit), ma
solo attraverso una ricostruzione della qualità dell’atto (che pone i fat-
ti). Il che conferma quanto di vero vi sia nella impostazione kantiana
del tema della libertà.
Ma ritorniamo ora, in termini più filosoficamente impegnativi, sulla
seconda obiezione sopra ipotizzata a riguardo della concepibilità stes-
sa della contingenza. Rilevavamo l’improponibilità del passaggio dal-
la: (3) ◊α ∧ ◊¬α, alla: (4) ◊α ∧ ¬◊α; passaggio cui avrebbe fatto se-
guito la denuncia di autocontraddittorietà.
Ora, questo passaggio ― errato ― non solo sottintende: (5) ◊¬α |-
¬◊α (secondo una invalida regola di trasformazione); ma, con ciò,
viene anche a sottintendere, per inferenza di “contrapposizione”, che:
(6) ◊α |- ¬◊¬α.
La (5), mediante una elementare regola di trasformazione (dalla
impossibilità di α alla necessità di ¬α), può essere riespressa come
segue: (5a) ◊¬α |- ¬α. Mentre la (6), attraverso una analoga regola
di trasformazione (dalla impossibilità di ¬α alla necessità di α), può
essere riespressa come segue: (6a) ◊α |- α.
Ebbene, la (5a) e la (6a) dicono, rispettivamente in senso negativo e in
senso positivo, la tesi fatalista di Diodoro Crono. Ora, questa tesi ― che
il passaggio scorretto dalla (3) alla (4) già sottintendeva ― andrebbe fon-
data, e non assunta surrettiziamente (cioè sottintesa alla obiezione che si
muove alla incontraddittorietà dell’ipotesi della contingenza).
Dunque, in attesa di una fondazione o viceversa di una smentita
della tesi megarica, la simultaneità delle possibilità alternative, resta
almeno una virtualità. Più precisamente, si può dire ― come ci ricorda
Blondel ― che essa è trattata come effettiva possibilità dal soggetto
libero, per il quale α e ¬α sono objecta actionis (contenuti eliciti). È
la libertà del soggetto che pone quoad se come compossibili di fronte
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 193
all’azione gli antikeímena; senza che ― anche prima di una indagine
metafisica ― ciò implichi autocontraddizione.
2.3. Due forme della contingenza
La struttura indicata dalla (3), intesa come una virtualità, può essere
detta “contingenza debole” (CD). La medesima struttura, intesa però
come una realtà effettiva, in quanto metafisicamente fondata, potrà es-
sere detta “contingenza forte” (CF). Nel caso in cui risultasse accertata
la CF, ed un contingente si realizzasse anche come scelto da un sog-
getto libero (e non solo in quanto evento naturale), allora si avrebbe
una intensificazione o reduplicazione di contingenza.
Ora, la CD presuppone semanticamente la CF, nel senso che: ¬(CD
∧ ¬CF). Non potrebbe esserci, cioè, CD senza CF. Più precisamente,
se risultasse accertata la CF, allora la (3) ― che, in quanto virtuale,
equivale a: (3a) ◊(◊α ∧ ◊¬α) ― diventerebbe: (3b) (◊α ∧ ◊¬α). Se
invece risultasse esclusa CF, allora la virtualità della (3) si rovesce-
rebbe nel modo seguente: (7) ¬◊(◊α ∧ ◊¬α) |- ¬(◊α ∧ ◊¬α), si tra-
sformerebbe cioè nella necessaria disgiunzione in aut, non più tra α e
¬α, bensì tra ◊α e ◊¬α, e quindi nella tesi megarica ― sia pur esposta
ora in forma diversa da quella precedente.
Comunque, la CD non presuppone epistemicamente la CF; ovvero,
si può avere consapevolezza della CD, anche senza avere consapevo-
lezza della CF. Del resto, lo testimoniano sia la via classica alla libertà,
che in Tommaso trova il suo interprete più raffinato, sia la via moderna
di Lequier (che, ad honorem, potrebbe essere riferita anche a Blondel).
Lequier, addirittura, inverte il procedimento che parrebbe più sensato,
ed esclude il panteismo (e quindi introduce la trascendenza e la libertà
dell’originario), proprio in quanto ritiene che il panteismo implichi la ne-
gazione della libertà umana ― previamente accertata. Più precisamente,
si può dire che sia possibile operare una sorta di falsificazione del mega-
rismo (fatalismo) ― teoria, quest’ultima, che è compatibile con una cor-
retta fenomenologia del divenire –, ponendo la libertà umana, con le pro-
prie movenze elicite, quale controesempio al fatalismo stesso45.
45
Su questo punto, rinviamo a: P. Pagani, Libertà e non–contraddizione in Jules Lequier,
Parte IV.
194 Parte terza: studi su libertà e principialità
L’obiettivo interesse di questa posizione sta nel fatto che essa pone
esplicitamente la tesi per cui l’accertamento della libertà umana, non
solo non ha necessità di esser preceduto da quello della libertà divina,
ma anzi, può essere inteso come un punto fermo che faccia da accesso
all’accertamento di quella.
2.4. Nota sul “discorso invincibile”.
Come abbiamo già detto, la tesi del fatalismo megarico non è supe-
rabile lungo la coordinata fenomenologica. Essa può venir confutata
solo da una indagine che si svolga lungo la coordinata metafisica. Ne
è indiretta conferma l’analisi della discussione che Aristotele riserva
al megarismo, in alcuni passi della sua opera46.
Il fatto è, che Aristotele introduce l’endechómenon sulla base del
senso comune, ma non è in grado ― pur definendolo correttamente ―
di giustificarne l’effettiva esistenza, perché questo richiederebbe una
fondazione metafisica che lo Stagirita non è in grado di fornire, non
avendo egli nozione di una metafisica della creazione.
Infatti, quando si propone di confutare il megarismo ― e quindi di
confermare indirettamente l’esistenza dell’endechómenon –, Aristotele
non fa altro, in realtà, che proporre una fenomenologia del divenire, in
cui esibisce la scansione e il passaggio dalla potenza all’atto. Ecco
come Aristotele sembra ragionare: se α passa dal non–esserci
all’esserci, ciò significa che α era prima in potenza e ora è in atto, cioè
― ecco il punto delicato ― che α non era impossibile, ovvero era
possibile, anche prima di esserci effettivamente.
A ben vedere, però, questa possibilità è solo una potenzialità di
possibilità. Infatti, il passaggio all’atto attesta semplicemente che ora
α non è impossibile: non attesta invece che lo fosse prima di realizzar-
si in atto; cioè, non attesta che α non si è realizzato, prima, pur poten-
do realizzarsi; o che ora si realizza, pur potendo non realizzarsi. Il cor-
relato della realizzabilità (prima) o della non–realizzabilità (ora), an-
drebbe giustificato per altra via. Diodoro Crono, ad esempio, potrebbe
46
Il riferimento è a Metafisica IX e a De interpretatione 9. Per una discussione più pun-
tuale di questi luoghi, rinviamo a: P. Pagani, Libertà e non–contraddizione in Jules Lequier,
Conclusioni.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 195
convenire con tutto quello che dice Aristotele in quei passi: anche sul-
la scansione tra potenza ed atto; senza che si sia neppure avuto acces-
so al problema da lui sollevato.
Senonché, lo stesso Diodoro non appare in grado di fondare la pro-
pria tesi fatalista, abitualmente citata come “discorso invincibile”. La
tesi diodorea ― sulla base di una indicazione dossografica di Cicero-
ne47 ― potrebbe liberamente essere enunciata così: “il possibile si ri-
duce all’attuale, e quindi al necessario”. Infatti, se non c’è altro
possibile, oltre a ciò che accade, ciò che accade non ha alternative
possibili, ed è dunque necessario ― nel preciso senso di “necessitato”.
Quanto alla giustificazione che Diodoro dava della tesi, possiamo
ricostruirla ― sulla base di una indicazione dossografica di Epitteto48
― come segue:
(1) in futuro accadrà α oppure non–α (infatti, non sapendo in anticipo
quale dei due accadrà, siamo costretti a dirli entrambi possibili);
(2) quando però sarà capitato ― poniamo ― α, allora non–α, da pos-
sibile diventerà impossibile (cioè, si rivelerà impossibile, dopo es-
sere apparso possibile);
(3) ma non può il possibile diventare impossibile (o rivelarsi tale);
(4) dunque, non–α doveva non esser possibile già in partenza (cioè, il
suo non esser accaduto, si rivela come una vera e propria impos-
sibilità ad accadere).
In realtà, ciò che si è in grado di esibire al punto (2) non è la im-
possibilità di non–α ad accadere, bensì il suo non essere accaduto (non
l’impossibilità, ma piuttosto la non–attualità). Il fatto che non–α non
accada, non comporta che sia impossibile il suo accadere.
Insomma, qui siamo di fronte ad un indebito slittamento, che risulta
speculare a quello che avevamo evidenziato in Aristotele. Se in Dio-
doro c’è una infondata illazione dall’accadere di α, alla sua necessità;
in Aristotele c’è infondata illazione dall’accadere di α, alla sua con-
tingenza. Ma l’accadere di qualcosa, di per sé, né possibilita né impos-
sibilita l’accadere del suo contraddittorio. Ecco dunque che la questio-
47
Cfr. Cicerone, De fato, IX, 17; testo latino a cura di R. Giomini.
48
Cfr. Epitteto, Diatribe, II, 19.
196 Parte terza: studi su libertà e principialità
ne merita ― oggi come ieri ― di essere affrontata con un impegno di
portata metafisica.
Nel caso specifico della scelta, ci si potrebbe chiedere che consi-
stenza abbia il possibile che in essa viene tralasciato. In altre parole,
una volta che ◊α diventa α, che ne è di ◊¬α? ― o che cosa rivela di
essere? Quando è in questione la libertà umana, esso resta un obiectum
di scelta possibile, che non va comunque fatto coincidere con un corso
di cose inattuato, ma attuabile: infatti, la sua attuabilità o meno resta
qualcosa di peirastico, e di strutturalmente velleitario. Quando è in
questione la libertà divina, il non attuato sarà interpretabile come una
latenza dell’atto creatore, il cui configurarsi non sarà da noi determi-
nabile, e la cui consistenza ontologica non è distinta realmente
dall’atto creatore stesso.
3. Una logica della libertà
Se la libertà è lo sfondo entro cui ha senso rappresentarsi
l’alternativa tra possibilità reciprocamente contraddittorie, occorrerà
poi considerare in che modo la libertà possa muoversi rispetto
all’alternativa che ad essa si prospetta. E il modo è ― a ben vedere ―
quello della stéresis. Infatti, l’incompatibilità tra i contraddittori im-
pone all’azione la forma della scelta, e ogni scelta ― ogni electio ― è
appunto selectio.
3.1. Antíphasis e stéresis secondo Blondel
Converrà anche qui, preliminarmente, riportare in nota alcuni brani
del testo blondeliano, per offrirne poi da parte nostra uno schema49.
49
«L’originale e reale senso del principio di contraddizione è quello di stabilire che ciò
che avrebbe potuto essere e incorporarsi, in virtù del nostro fare, a ciò che noi siamo (hexis),
ne è per sempre escluso (stéresis), senza che ciò che è così escluso cessi di servire a pensare
distintamente ciò che è stato scelto e fatto, ad alimentare lo sforzo della conoscenza e della
esecuzione, ed a determinare moralmente l’atto realizzato e lo stesso agente. Ma se noi consi-
deriamo unicamente dall’esterno il risultato apparente o i fatti che sembrano estranei alla no-
stra azione, allora tutto si riduce ad una questione di affermazione o di negazione (katáphasis
o apóphasis), e, perdendo di vista l’elaborazione interna del risultato e la complessità delle re-
lazioni che sussistono sotto l’idea della contraddittoria esclusa, noi sostituiamo a queste vive
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 197
3.1.1. Uno schema
(a) Il principio di non contraddizione rileva l’incompatibilità,
nell’atto e quindi nell’azione, tra le possibilità reciprocamente
contraddittorie. Esso attesta, dunque, che agire è scegliere, cioè
afferrare qualcosa tralasciando qualcosaltro.
(b) Il tralasciato, comunque, conserva una sua carica attiva, in quanto
quel che viene scelto non smette di riferirsi “simbolicamente” al
tralasciato, col quale resta in relazione organica.
(c) Tale relazione organica non ha limiti preventivabili di estensione,
dal momento che “l’uomo è in qualche modo ogni cosa”, cioè
l’apertura coscienziale ha una portata trascendentale.
(d) Il “rigore della logica formale”, apparentemente estraneo alla flui-
dità dell’esperienza morale, si rivela invece profondamente perti-
nente a suo riguardo: anzitutto, esso evidenzia, con l’incompati-
bilità in atto dei contraddittori, l’inevitabilità di procedere
diaireticamente; in secondo luogo, articolando l’incompatibilità
nel modo assoluto dell’antíphasis, presenta il “tralasciato” in una
chiave trascendentale.
relazioni la semplicità artificiosa del concetto e della parola» (cfr. M. Blondel, Principio ele-
mentare di una logica della vita morale, p. 33). «Mentre l’apóphasis sopprime il concetto ne-
gato senza che gliene resti traccia, la stéresis lascia nella potenza che poteva realizzarla le
stigmate dell’atto che recide. E l’hexis che segue non è identico a l’hexis che precede la stére-
sis. I rapporti delle idee si troncano con un sì ed un no; ed è detto tutto: è come una geometria
piana dove due linee si tagliano in un sol punto. Le reali relazioni sono organiche all’infinito,
sempre infallibilmente riflesse ed integrate. [...] ‘L’uomo è ogni natura’; nulla gli è estraneo o
indifferente; [...] nulla dunque in lui sfugge, se si può dire, a l’hexis e alla stéresis» (cfr. ibi, p.
41). «Sembrava al principio che Logica e Morale fossero ostili o per lo meno estranee: noi
vediamo ora che la logica misconosce le sue origini e perde il suo senso legittimo se non
l’affondiamo nel cuore della morale, e che la morale non è più tale se non partecipa ai rigori
della logica formale. [...] Solamente la mortificazione realizza la contraddittoria del non–
essere e mediante una specie di esperienza metafisica produce il nostro essere nell’essere; la
soluzione antagonista lo realizzerebbe nella privazione, la quale non è l’inesistente. Perché a
differenza della logica intellettuale che si limita ad affermare l’uguaglianza astratta riguardo
al possibile e l’incompatibilità formale delle soluzioni opposte, la logica morale, sebbene giu-
stifichi questo esclusivismo del quale essa manifesta l’utilità, l’oltrepassa, perché in fondo a
tutte le soluzioni possibili rimane uno stesso soggetto di inerenza a riguardo del quale sono
ineguali e di segno contrario. [...] Bisogna restituire al principio reale di contraddizione la
formula primitiva di Parmenide ma interpretata in modo assolutamente diverso: il non–essere
non è né in sé né per noi; l’essere morale non muore; e, dal punto di vista reale non è
l’antíphasis è la stéresis positiva che è l’estremo opposto dell’essere» (cfr. ibi, pp. 48–49).
198 Parte terza: studi su libertà e principialità
(e) I due volti della scelta ― quello dell’afferrare e quello del trala-
sciare ― sono rispettivamente indicati come “mortificazione” e
“steresi positiva”. La reale «contraddittoria del non–essere» stareb-
be appunto nella mortificazione, che, «mediante una specie di espe-
rienza metafisica, produce il nostro essere nell’essere». La reale
contraddittoria dell’essere starebbe invece nella steresi positiva.
3.1.2. Qualche spunto
Un primo spunto da evidenziare riguarda la relazione tra antíphasis
e stéresis: relazione messa a tema analiticamente nei testi aristotelici, e
che qui ritorna per cenni, con esplicita attenzione alla vita pratica. A
ben vedere, la stéresis pratica si colloca all’interno dell’antíphasis ―
secondo l’indicazione aristotelica per cui «la privazione è una certa
contraddizione»50 –, in quanto è la trascendentalità dell’orizzonte pra-
tico a configurare la scelta come privazione di una ulteriorità avvista-
ta: tale ulteriorità è infatti il complemento semantico del contenuto
della scelta, ogni empirica versione del quale risulta inadeguata. In al-
tre parole, β è negativamente implicato in α solo per la mediazione di
quel ¬α, cui β appartiene. Anzi, considerato che ¬α non è un insieme,
l’autentico implicatum di α è propriamente ¬α.
Un secondo spunto da evidenziare è la ricerca di come si configuri
ed agisca sul contenuto scelto la potenza del “negativo”, cioè del trala-
sciato. Tale potenza viene rappresentata da Blondel come un campo di
forze entro cui il vettore della scelta deve costantemente riorientarsi,
per realizzare un’effettiva composizione di quelle forze, a costo di tro-
varsi a raggiungere un obiettivo diverso da quello originariamente
perseguito51. Del resto, l’obiettivo perseguito altro non è ― già lo si
50
Cfr. Aristotele, Metafisica, X, 1055b 3–8.
51
«Le tendenze represse rimangono per additare il senso, per determinare il prezzo, per a-
limentare la vita delle trionfatrici: di modo che nulla sembra inibito ed escluso da noi senza
essere incluso e impiegato; nulla entra in noi che non provenga, sotto un certo punto di vista,
da una predisposizione intima; nulla esce da noi senza penetrarvi ancor più profondamente.
Dei due, o più, contrari, alcuno non sopravvive solitario all’opzione e all’atto; vi è una nuova
realtà; perché un’idea realizzata non è più quella che era prima di essere stata scelta tra le altre
ed opposta alle altre. La risultante dell’attività umana non si sviluppa dunque sulla linea asse-
gnata dall’idea semplice e chiara che noi, forse, crediamo di seguire sola: la logica della vita
si dispiega sulla diagonale del parallelogramma di tutte le forze concorrenti e solidali. Ed è
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 199
diceva ― che l’oggetto di una peirastica: se e come esso sia effettiva-
mente realizzabile, non è possibile saperlo a priori52.
Degna di nota è infine la riproposizione blondeliana dell’opposizio-
ne parmenidea, considerata in relazione alla prassi. Tutto lo spazio
pratico che si apre al realizzarsi del positivo, è quello che passa attra-
verso la condizione della “mortificazione”, cioè della accettazione del-
la finitezza ― la cui alternativa sarebbe una tentata noluntas. Grazie
alla mortificazione, qualche cosa che era possibile, ora sarà. Vicever-
sa, tutto lo spazio pratico che si offre al non essere, è quello della ri-
nuncia (o steresi propriamente detta). Grazie alla rinuncia, qualche co-
sa che era possibile, ora non sarà. Si tratta degli analogati umani del
potere creatore.
3.2. Verso un approfondimento
3.2.1. L’escluso
L’alternativa che nella deliberazione viene esclusa dalla scelta, che
statuto ha? Non si presenta mai esplicitamente sotto l’aspetto di ¬α
ma piuttosto come un plesso costituito da β, γ, δ, e così via: plesso che
solo remotamente rinvia a qualcosa come ¬α. Il non–scelto è insomma
qualcosa che è ritenuto essere un possibile pratico, e che, come tale,
non potrà avere la stessa ampiezza del possibile semantico. Parlare di
“possibile pratico”, vuol dire infatti specificare il generico possibile
per questo che spesso, che sempre noi mettiamo capo là dove non avevamo esattamente pre-
veduto che noi saremmo andati, là dove la dialettica astratta e monoideistica, con il suo dise-
gno lineare non ci avrebbe condotto» (cfr. ibi, pp. 44–45).
52
Dunque, che cosa propriamente “significhi” fare ciò che ha deciso di fare, l’uomo non è
in grado di saperlo, considerato che non gli è presente dispiegatamente l’organismo universale
delle relazioni in cui il contenuto della sua azione è coinvolto: organismo che si presenta ―
non dimentichiamolo ― come imprevedibilmente aperto nelle direzioni più diverse. E, a ben
vedere, la ragione per cui l’agente non sa mai perfettamente che cosa di fatto stia facendo (ab-
bia fatto o abbia intenzione di fare), è analoga alla ragione per cui egli non è mai garantito in
anticipo della riuscita del suo progetto. Anzi, si può dire che la ragione sia la medesima ― vi-
sta, rispettivamente, a parte ante e a parte post ―: e cioè, la non–assolutezza del contenuto
d’azione (progettato o attuato) rispetto all’organismo relazionale, il quale è in grado, rispetti-
vamente, di accogliere o respingere l’attuazione del progetto, e comunque di condurne
l’eventuale attuazione anche oltre il percorso preventivato dall’agente.
200 Parte terza: studi su libertà e principialità
semantico, facendo riferimento a ciò che rientra nell’ambito d’azione
del soggetto.
Considerare l’escluso nei termini di ¬α ― come accade nel lin-
guaggio dei primi principi ―, significa collocarlo in una prospettiva
trascendentale. Invece, una “logica della steresi” ― come quella che
Blondel vuole introdurre53 ― dovrebbe soffermarsi su quelle determi-
nazioni a portata empirica, come β, γ, δ, secondo le quali ¬α inevita-
bilmente viene a configurarsi. Stando ad un esempio elementare, se α
è il mio andare oggi a Milano e ¬α (l’alternativa esclusa) è il mio non
andarci, occorrerà ricordare che questo non andarci ha il volto deter-
minato o del restare a casa, o dell’andare a Torino (o magari
dell’indecisione tra questi due, o di altro ancora).
Seguendo l’indicazione di Blondel, possiamo aggiungere che le ra-
gioni54 del mio andare a Milano sono autentiche ragioni, solo se com-
prendono in sé anche le ragioni che avrebbero suggerito di restare a
casa o di andare a Torino. In altre parole, scegliere α non vuol dire
rinnegare quanto di ragionevole ci sarebbe stato nello scegliere β; ov-
vero, rinunciare a β non vuol dire rinunciare alle ragioni che portereb-
bero a β. Questa semplice considerazione si fonda su una radicale ve-
rità: le ragioni per scegliere α non coincidono con α, se sono ragioni
propriamente umane; esso sono piuttosto ragioni sempre eccedenti ri-
spetto all’empirico, ragioni appunto trascendentali. Anzi, il mio anda-
re a Milano è ragionevole, solo se intende soddisfare ― pur nel preva-
lere di una certa riconoscibile priorità o di una certa ragionevole ur-
genza ― anche le esigenze che mi avrebbero persuaso, in assenza di
53
Cfr. M. Blondel, Principio elementare di una logica della vita morale, III.
54
Leggiamo in proposito: «Dal momento in cui il concepimento di un atto è accompagna-
to da concepimenti contrari, e in cui, grazie all’antagonismo di queste forze rivali, è comparsa
la riflessione, la semplicità dell’automatismo primitivo è perduta». E poco dopo: «La ragione
decisiva di un atto non ci sembra mai risiedere in nessuna delle tendenze parziali che hanno
contribuito a renderlo possibile. Ai nostri occhi essa sta in questo potere, che nessuna delle
determinazioni particolari potrebbe esaurire e che, assorbendo tutte le ragioni particolari,
sembra naturalmente capace di dominare l’insieme delle forze definite: energie fisiche, appe-
titi, tendenze, motivi, determinismo della natura e dello spirito. L’azione cosciente trova la
sua spiegazione e la sua ragione totale solo in un principio irriducibile ai fatti di coscienza
come ai fenomeni sensibili. Essa è cosciente della propria iniziativa solo in quanto si attribui-
sce un carattere di infinitezza e di trascendenza». (Cfr. M. Blondel, L’Azione, pp. 210–213).
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 201
quella priorità o di quell’urgenza, a rimanere a casa oppure ad andare
a Torino.
La logica della steresi è dunque un approfondimento della logica
stessa della libertà. Se scelgo α è perché in α vedo la migliore possibi-
lità di perseguire quello che propriamente voglio, e che comprende
anche il positivo ― sterminato ― che α lascia immediatamente fuori
di sé. Ed è proprio per la strutturale eccentricità di α rispetto al vero
scopo del volere, che α si trova inevitabilmente coinvolto nell’orga-
nismo di richiami e sollecitazioni (da parte di β, γ, e altro) cui Blondel
― fin dalla prima Action55 ― fa riferimento.
Il nostro autore, anzi, è interessato a individuare le eventuali co-
stanti di tali organici richiami e sollecitazioni; e tenta di abbozzarne
un quadro nell’ultima parte del testo da noi considerato in linea prin-
cipale. Di tale quadro valorizzeremo tra poco un paio di punti.
3.2.2. Complementazione e negazione
Nelle pagine precedenti abbiamo fatto riferimento a più riprese al
complemento semantico e alle sue virtualità trascendentali. Sia che
comparisse nella formula del terzo escluso, sia che comparisse in
quella della contingenza, esso era inteso come complemento di un
qualche alpha, cioè di una incognita indicante l’esistenza di uno stato
di cose, o il contenuto di una scelta: in ogni caso, una proposizione e
non un puro e semplice significato.
Ora, è chiaro che, fino a che si ha a che fare con insiemi, valgono
formule come la seguente: A ∪ Ā = U (dove U è l’“insieme–
universo”). E qualcosa di analogo vale per le classi. Anche tra i signi-
ficati (A e non–A) vale una relazione di tipo organico, per cui A non
sta senza non–A. Qui, però, non è possibile stabilire una figura come
U, in quanto il relazionarsi dei significati complementari avviene sullo
sfondo del significato trascendentale, e non di una semplice totalità
collettanea.
Ancor meno riconducibili a canoni insiemistici sono una formula
(tipicamente una proposizione) e il suo complemento. Ma come andrà
55
Cfr. ad esempio: ibi, Parte III, Terza Tappa, cap. III.
202 Parte terza: studi su libertà e principialità
espresso il complemento di α? A rigore, dovremmo esprimerlo come
non–α. In realtà, non–α è sì formalmente altra cosa da ¬α; ma mate-
rialmente, in questo caso, complementazione (negazione semantica) e
negazione propriamente detta (negazione sintattica) sono la stessa co-
sa. Infatti, la formula ¬α, negando α senza sostituire determinatamen-
te la situazione negata, cioè senza proporsi come un certo β, equivale
ad uno sterminato declinarsi di possibilità alternative, cioè di descri-
zioni alternative del mondo in cui α ha senso.
A espressione della reciproca convertibilità tra non–α e ¬α, propo-
niamo le due formule seguenti, che attestano entrambe che simultane-
amente le stesse cose non possono stare in due modi alternativi tra
loro56:
(8) α ∧ ¬α = Ø
(9) α ∧ non–α = Ø.
Se invece le due situazioni complementari vengono considerate
come semplicemente possibili, allora il loro darsi simultaneo viene a
delineare l’orizzonte trascendentale (T); infatti l’unico ámbito comune
agli antikeímena è il trascendentale:
(10) ◊α ∧ ◊¬α = T
(11) ◊α ∧ ◊non–α = T.
Considerare le due formule complementari come delle semplici
possibilità, vuol dire attestarsi sui loro contenuti semantici, e consta-
tarne ― a quel livello ― la reciproca compatibilità: anzi, la reciproca
complementarità. Quest’ultima non significa che i contenuti delle due
formule possano darsi simultaneamente in atto; bensì che la ricchezza
semantica che in entrambi è presente, non esclude una attuazione sin-
tetica ― un atto puro e in nulla privativo –, di cui l’azione umana, del
resto, cerca incoativamente di inseguire la perfezione, secondo le di-
namiche cui Blondel è interessato.
56
Qui non si può usare il simbolo della congiunzione (∪), perché non sono in questione
degli insiemi. Si usa piuttosto il simbolo della simultaneità (∧).
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 203
3.3. Mortificazione e steresi positiva
Se l’azione umana è segnata dalla stéresis, la libertà come libero
arbitrio non può che tradursi nei due volti che alla stéresis apparten-
gono: la mortificazione e la steresi positiva.
La parola “mortificazione” era stato già introdotto da Blondel nella
prima Action, e anche lì nei termini di una «sperimentazione metafisi-
ca che investe l’essere stesso»57. Vivere la mortificazione è accettare il
carattere finito di ogni contenuto di scelta: accettare, cioè, che la voli-
zione sia ― in regime di libero arbitrio ― electio, e quindi selectio; e
non abbia presa diretta sul trascendentale quo talis. La mortificazione
nasce dalla presa d’atto che l’affermazione pratica è limitata, e per
questo vive del rapporto con i determinati contenuti del proprio com-
plemento semantico.
Si tratta di accettare l’incompatibilità tra positivi segnata dal prin-
cipio di non contraddizione, e accettarla come condizione di positività;
e così di riconoscere ― contro ogni tentazione gnostica ― la positivi-
tà del limite e insieme la tutela che il principio di non contraddizione
svolge in funzione di essa.
In sintesi, la mortificazione è la rassegnazione alla inevitabilità di
scegliere qualcosa di inadeguato alla portata del nostro volere; e con
ciò, ultimamente, un riconoscimento del nostro essere in via piuttosto
che in patria.
La steresi propriamente detta è invece il risvolto selettivo della e-
lectio. Vivere consapevolmente la steresi, è capire che ¬α non è un
oggetto che si possa a sua volta scegliere tematicamente: si potrà per-
seguirlo solo nella forma determinata di β o di γ, o di altro ancora. La
negazione pratica è anch’essa limitata: sia nel senso che ogni negazio-
ne è una qualche affermazione, sia nel senso che il negato resta sem-
pre relato all’affermato. Il ¬α che dà forma al principio di non con-
traddizione, non è dunque altro che un possibile, espresso in forma
negativa.
Se ― come osserva Blondel ― lo stesso contenuto eletto nella
scelta, assume inevitabilmente un aspetto diverso dopo la scelta, in
quanto su di esso agiscono i richiami di ciò cui, scegliendo, si è rinun-
57
Cfr. M. Blondel, L’Azione, p. 487.
204 Parte terza: studi su libertà e principialità
ciato; allora la scelta si configura come un certo qual “tradimento”,
non solo di quel che non si è scelto; ma anche di quel che si è scelto. E
― almeno a tratti ― il testo blondeliano lascia intravvedere la scelta
come un tertium tra possibilità tra loro contraddittorie58: l’atto (libera-
mente posto) sarebbe così il tertium quod datur tra i contraddittori
possibili.
Ma, al riguardo, occorre la giusta cautela. L’intento dell’autore non
è quello di oltrepassare le inoltrepassabili indicazioni onto–logiche e-
lementari; bensì quello di approfondire la relazione tra il non–scelto e
lo scelto, senza evitare le inerenti difficoltà ― analogamente a quanto
Hegel aveva fatto mettendo a tema la “negazione interna”.
3.4. Una nota sulla negazione interna
3.4.1. Un breve excursus hegeliano
Per potersi rapportare a sé come identica con sé, ogni realtà determi-
nata deve essere negazione dell’altro da sé (o “negazione della negazio-
ne” ― come Hegel si esprime). Già Spinoza, nella sua Epistola 50, af-
fermava che «omnis determinatio est negatio», come a dire che A è ciò
che non è non–A; Hegel riprende questa intuizione, affermando che o-
gni determinato si costituisce in sé come identico a sé, ma per star fer-
mo in tale costituzione, deve distinguersi (e dunque, relazionarsi negati-
vamente) rispetto all’altro da sé. Ora, in tal senso, il determinato si co-
stituisce come una sintesi di positivo e di negativo59, dove il “negativo”
è l’“altro in generale”, rispetto a cui la determinatezza si staglia60.
Ma, riconoscere che l’essere determinato ha un altro da sé, significa
anche riconoscere che esso è il “finito” (das Endliche). E, in tale fini-
tudine, risiede la sua “destinazione” (Bestimmung). Con questo termi-
ne, Hegel intende esprimere che l’alterità è inerente ad ogni realtà de-
terminata: le è ― per dir così ― presente come una limitazione inter-
na, in quanto è costitutiva del suo significato (A è ciò che non è non–
58
Cfr. M. Blondel, Principio elementare di una logica della vita morale, p. 41.
59
Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erster Band. Die objektive Logik (1812/1813), a
cura di F. Hogemann e W. Jaeschke, in Gesammelte Werke, hrsg von der Rheinisch–Westfälischen
Akademie der Wissenschaften, Band 11, Buch I, Abschnitt I, Kap. II, A.
60
Cfr. ibidem.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 205
A). E, per questo, la realtà determinata è altrettanto ben descrivibile
come un “essere in sé” e come un “essere per altro”61, cioè come un
qualcosa che ha nel suo significato, di essere destinato ad aver rela-
zione con l’altro da sé62.
Non solo, ma questo aver relazione con l’altro che lo limita, è per
l’ente finito l’occasione per uscire dal proprio limite, e diventare, ap-
punto, altro da sé. In tal senso, Hegel parla di una «inquietudine del
qualcosa, che consiste nell’essere, nel suo limite in cui è immanente,
la contraddizione [Widerspruch], che lo spinge oltre a se stesso»63.
È opportuno, poi, tenere in contatto questa pagina hegeliana della
“logica dell’essere” con quella dedicata ― nella “logica dell’essenza”
― alla contraddizione. Secondo Hegel, se la dialettica di identità e di-
versità si rivela come una autentica opposizione, la Aufhebung di
quest’ultima consiste (paradossalmente) nella “contraddizione” (Wi-
derspruch)64. Hegel intende per “contraddizione” l’unità degli opposti
(positivo e negativo), che si trasformano incessantemente l’uno
nell’altro. Essa non è quindi intesa da lui come lo “zero” logico (come
l’equivalente di una negatività assoluta); piuttosto è intesa come la
sintesi degli opposti, nella quale ciò che è negato non è né l’uno né
l’altro di essi, bensì la loro reciproca indipendenza65.
Possiamo azzardare ― andando oltre il dettato hegeliano ― che,
quel che Hegel intende dire presentando la contraddizione come sinte-
si dell’identità e della diversità (ovvero, del positivo e del negativo), è
che il principio di identità–non–contraddizione, da una parte, e la ne-
gazione interna ovvero l’implicazione tra ogni significato e il proprio
contraddittorio, dall’altra, sono veri insieme; e questo sembra dar luo-
go ad una situazione autocontraddittoria. Infatti, il principio di non–
contraddizione, formulato in senso hegeliano, risulterebbe: ¬(A ∧ ¬A);
il principio della negazione interna (che non cessa, hegelianamente, di
valere nel regno delle essenze) risulterebbe invece: A → non–A. Ora,
la seconda formula potrebbe venire espressa anche così: ¬(A ∧ ¬non–
A). Dunque, complessivamente si avrebbe: ¬(A ∧ ¬A) et ¬(A ∧ ¬non–
61
Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erster Band, Buch I, Abschnitt I, Kap. II, B.
62
Cfr. ibidem.
63
Cfr. ibidem.
64
Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erster Band, cit., Buch II, Abschnitt I, Kap. II, C.
65
Cfr. ibidem.
206 Parte terza: studi su libertà e principialità
A). Ora, è chiaro che le posizioni indicate dalle due formule qui con-
giunte non sono l’una la negazione dell’altra; anche se è altrettanto
chiaro che, se si considerassero la negazione sintattica (¬) e la nega-
zione semantica (non) come tra loro omogenee, e dunque come se
¬non–A fosse, quale doppia negazione, semplificabile in A; allora si
otterrebbe l’esito autocontraddittorio di cui Hegel è in cerca. Infatti, si
avrebbe: ¬(A ∧ ¬A) et ¬(A ∧ A) ― esito che sarebbe violazione del
principio di non–contraddizione.
3.4.2. Una precisazione
Nel caso in cui invece considerassimo una formulazione proposi-
zionale del principio di non contraddizione ― ¬(α ∧ ¬α) –, e conside-
rassimo l’“inquietudine” che spinge α verso il proprio complemento
― α → non–α –, l’aporia sopra prospettata si presenterebbe effetti-
vamente. Infatti, nel nuovo caso non ci sarebbe ragione di tener distin-
ta la negazione semantica da quella sintattica, e la situazione che si
creerebbe ― ¬(α ∧ ¬α) et ¬(α ∧ ¬non–α) –, sarebbe traducibile pre-
cisamente in: ¬(α ∧ ¬α) et ¬(α ∧ α).
Ma in realtà, l’esito aporetico qui provvisoriamente accennato è
frutto di una semplificazione, indebita quanto inavvertita. È chiaro che
l’implicazione tra α e ¬α non può riguardare queste due figure in
quanto entrambe attuali: se così fosse, tale implicazione altro non sa-
rebbe che un altro volto della contraddizione (come si è visto).
L’implicazione in questione vale invece tra ◊α e ◊¬α: ◊α → ◊¬α.
Non solo, ma ― ed è il caso che interessa Blondel ― essa vale anche
tra α e ◊¬α; come a dire che l’attuazione di un lato del possibile, è po-
larizzata dalla possibile attuazione del possibile alternativo: α → ◊¬α.
Il quale, naturalmente, è ora diversamente possibile da quanto non lo
fosse prima dell’attuarsi di α, in quanto l’irrevocabilità dell’esser stato
posto di α, rende irrevocabile anche il non esser stato posto di ¬α: per
questo, Blondel avverte che agire in regime di stéresis vuol dire veder
mutare in qualche modo entrambe le alternative tra le quali si era deli-
berato.
Capitolo III: Logica e libertà. In riferimento ad alcune pagine di M. Blondel 207
Concludendo
Nel chiudere questo giro di annotazioni, vorremmo indicare una
sorta di punto di fuga per la riflessione blondeliana sin qui considera-
ta. Parlare della stéresis significa attribuire alla scelta uno strutturale
carattere di privazione. È inevitabile, al riguardo, riandare alla pagina
aristotelica di Metafisica ∆, dove ― tra i vari significati di stéresis ―
i primi tre indicati dallo Stagirita parlano, variamente, di un difetto di
natura: della mancanza, cioè, di un che di naturalmente dovuto66. Ora,
parlare di un debitum inscritto nell’agire in quanto tale ― un debitum
che ob–ligat tale agire ―, significa alludere ad un ripensamento es-
senziale della classica figura della legge morale.
Parte di questo ripensamento potrebbe consistere in una sobria consi-
derazione, che accenniamo quasi di sfuggita. Nei termini più elementari
la legge morale classicamente intesa può essere descritta come
l’indicazione di vivere l’imprescindibile articolazione dei bisogni, secon-
do l’apertura trascendentale del desiderio. Il bisogno, infatti, è propria-
mente umano in quanto è desiderante: sta però alla responsabilità perso-
nale riconoscere questo, e vivere le azioni che esprimono o soddisfano il
bisogno, appunto secondo la profondità del desiderio, e cioè, non come
chiusura su ciò che si ha tra mano al momento, bensì come apertura verso
l’orizzonte trascendentale che ci attrae intimamente.
L’apertura a quell’orizzonte ― apertura che orienta e dà forma
all’azione ― non può che realizzarsi, all’interno di essa, come una lie-
vitazione intenzionale, cioè come un suo dilatarsi progressivo verso li-
velli di bisogno superiori a quello in cui immediatamente essa si muove,
e quindi come un aprirsi a fini infravalenti, che danno più diretto acces-
so al perseguimento ideale dell’oggetto proprio del desiderio67.
Ora, il riconoscimento dell’orizzonte illimitato in cui l’agire ha
senso, e l’ideale regolativo di una lievitazione intenzionale dell’azio-
66
Cfr. Aristotele, Metafisica, V, 1022b 22–31.
67
Pensiamo, per fare un semplice esempio, a come cambia di forma (nella cura e nella in-
tensità) l’adempimento di una mansione lavorativa, se questa viene vissuta come prestazione
puramente funzionale allo stipendio, oppure se viene vissuta come passo verso la realizzazio-
ne di qualcosa che è legato al raggiungimento di una finalità più grande, quale il bene della
propria famiglia o della propria comunità, o dell'umanità tutta: dove ciò che si intravvede sul-
lo sfondo è appunto la aspirazione ad un bene senza limiti.
208 Parte terza: studi su libertà e principialità
ne, che la porti ad abbracciare anche ciò che essa non può mettere di-
rettamente a tema, sono certamente tra le questioni principali che
Blondel ― nel breve testo cui ci siamo riferiti ― intende proporci. E
questo, nella più generale prospettiva di un ripensamento essenziale di
che cosa sia legge per la vita morale.
CAPITOLO IV
FONDAMENTO E FONDAZIONE
Nell’ambito del presente volume si sono a più riprese richiamate le
figure fondative dell’élenchos e della apagogia: proprio in riferimento
ai temi dell’antropologia filosofica e dell’etica. Nelle pagine seguenti
cercheremo di mettere a fuoco le figure ora richiamate.
1. Dalla fondazione al fondamento
Il tema del fondamento sembrerebbe, ad un primo sguardo, qualco-
sa di peregrino in relazione al dibattito attuale tra i filosofi. Ma, a que-
sta inattualità fa paradossalmente riscontro una sempre più accanita
discussione intorno alle possibilità fondative del linguaggio filosofico
― in qualche modo mutuata, quest’ultima, dalla secolare vicenda del
dibattito sui fondamenti della matematica.
1.1. L’apagogia come luogo fondativo
Nei luoghi in cui viene fatta valere una pretesa fondativa specifi-
camente filosofica ― specifica, ad esempio, rispetto alle risorse sa-
pienziali ―, è normale che si faccia appello almeno implicitamente al-
la classica apagogia (foss’anche nella forma della riduzione della anti-
tesi a contraddizione performativa). D’altra parte l’apagogia è diffu-
samente messa in crisi, in riferimento alle problematiche fondazionali
209
210 Parte terza: studi su libertà e principialità
del sapere matematico. A nostro avviso, però, le critiche messe in
campo al riguardo non risultano pertinenti; e, anzi, mostrano quanto
sia urgente il recupero di alcune ovvietà ontologiche, oggi troppo fa-
cilmente trascurate.
Si può parlare, anzitutto, di una crisi del principio portante
dell’apagogia: il principio del terzo escluso (d’ora in poi: PTE). Le
maggiori difficoltà al PTE vengono dalla matematica e dalla logica in-
tuizionistiche1, a partire dalle quali la problematicità di tale principio è
divenuta, anche presso i filosofi, quasi un luogo comune.
Il “primo atto dell’intuizionismo in matematica” prevede che il
PTE non valga per le “proprietà sfuggenti” ― che sono, ad esempio,
alcune proprietà dei “numeri irrazionali” (come π, o √2). In realtà, in
questo caso, il PTE viene inteso come “principio completo di giudica-
bilità”, secondo cui si dovrebbe essere sempre in grado o di giustifica-
re α o, in alternativa, di ridurre α all’assurdo2. Del resto, la particolare
1
Ci riferiamo in linea principale alle Lezioni sull’intuizionismo che il matematico olande-
se Brouwer tenne a Cambridge tra il 1946 e il 1951 (cfr. Brouwer’s Cambridge Lectures on
Intuitionism, Cambridge University Press, Cambridge 1981, cap. 1; trad. it. di S. Bernini, col
titolo: Lezioni sull’intuizionismo, Boringhieri, Torino 1983).
2
Tale principio è diverso da quello che Brouwer chiama ― ammetendone la validità ―
“principio semplice di valutabilità”, secondo cui si può sempre dimostrare o che α è non con-
traddittoria, o, in alternativa, che α è assurda. Rimanendo al terzo escluso, Brouwer distingue
tra un “principio semplice di giudicabilità” (o “principio semplice del terzo escluso”), che sa-
rebbe anche intuizionisticamente valido, limitandosi a dichiarare “disgiunte” due specie di en-
tità matematiche la cui intersezione sia vuota; e un “principio completo di giudicabilità”, se-
condo cui: «se a, b, c, sono specie di entità matematiche, con a e b sottospecie di c, e b consi-
ste degli elementi di c che non possono appartenere ad a, allora c è identica all’unione di a e
b». La differenza tra i due principi sta in questo: il primo prevede un dominio di applicazione
delimitato (cioè, completamente dato), mentre il secondo ammette un dominio di applicazione
non del tutto controllabile. In altre parole, il primo disgiunge tra un a e un b “preassegnati”,
per decidere le relazioni tra i quali è disponibile un certo metodo introspettivo di verifica; il
secondo, invece, disgiunge tra un a e un b, i quali ― configurandosi rispettivamente come
non–b e come non–a ― risultano non preassegnati, e non del tutto prevedibili nel loro svilup-
po: quindi, non finitariamente dominabili. Ora, il principio completo di giudicabilità, richiede
che, per come si configurano le due sottospecie di c, tra esse vi sia disgiunzione completa. Si
tratta però ― stando a Brouwer ― di due domini che non possono essere trattati come reci-
procamente complementari, dal momento che entrambi vengono a configurarsi come non fini-
tariamente dominabili; il che rende non dominabile finitariamente (non solo di fatto, ma anche
di diritto) l’intera disgiunzione. (Cfr. Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, cap. 1).
Provando con un esempio a chiarire che cosa l’autore intenda dire, possiamo ipotizzare che c
sia il dominio dei numeri reali, e che a sia quello dei numeri pari e b quello dei numeri non–
pari, cioè dei numeri dispari; a sua volta, a dovrà essere descritto come il dominio dei numeri
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 211
interpretazione che Brouwer dà dell’affermazione e della negazione
― per cui, affermare un’ipotesi significa riconoscere che essa è verifi-
cata introspettivamente, mentre negarla significa riconoscere l’impos-
sibilità di una sua verifica introspettiva ―, lo porta a leggere la formu-
la |- α ∨ ¬α nel senso ora indicato, secondo cui α deve risultare o giu-
stificato oppure impossibile3.
Ad esempio, se α è l’ipotesi che una certa sequenza numerica com-
paia nella serie decimale in cui si sviluppa un numero “irrazionale”,
essa può rimanere indecisa nelle condizioni a noi note: di qui, si pre-
tende che per quell’α non valga il PTE. In realtà ― come ben sappia-
mo ― il classico PTE, diversamente dal “principio completo di giudi-
cabilità”, dice solo che α o è vera o non lo è (nel senso dell’aut); ma
non decide, di per sé, se sia l’una oppure l’altra cosa; e neppure stabi-
lisce di per sé l’esistenza di un metodo finitario, universalmente valido
a decidere la questione4.
Il “secondo atto dell’intuizionismo” contiene più direttamente
l’esclusione stessa, dalla matematica, della “dimostrazione per assur-
do”: infatti, in considerazione della interpretazione intuizionistica del
simbolo della negazione, la formula ¬¬α equivale alla “assurdità del-
la assurdità di α”; dalla quale non si arriva alla necessaria posizione di
α5. In realtà, questo è vero anche dal punto di vista della filosofia clas-
non–dispari. In tal modo, c si configurerà come l’unione dei due domini disgiunti dei non–
dispari (a) e dei non–pari (b): dove la disgiunzione resta palesemente falsificata, ad esempio
dai valori irrazionali (pure appartenenti al dominio dei numeri reali), i quali possono dirsi in-
sieme non–dispari e non–pari. È chiaro, comunque, che l’aporia è suscitata nel momento in
cui si avalla l’indebita identificazione tra “dispari” e “non–pari”, da un lato, e tra “pari” e
“non–dispari”, dall’altro: identificazione, dunque, tra coppie di termini contrari e coppie di
termini contraddittori. Mentre, la disgiunzione completa ha senso ― classicamente ― tra
termini contraddittori, e non tra contrari.
3
Su questo punto, cfr. S. Bernini, Introduzione a: L.E.J. Brouwer, Lezioni sull’intuizio-
nismo, pp. 15–16.
4
Brouwer sostiene che l’ipotesi ora suscitata non soddisfi, non solo il “principio completo
di giudicabilità” ― da lui rifiutato in assoluto –, ma neppure il “principio semplice di giudi-
cabilità”, da lui invece accettato in riferimento a entità finitariamente dominabili. L’ipotesi in
questione ― a suo avviso ― controesemplificherebbe anche il “principio semplice di valuta-
bilità”, di cui sopra. (Cfr. Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuituinism, cap. 1).
5
Dal punto di vista intuizionistico ― per le ragioni già accennate –, la negazione della
negazione di una formula, equivale al riconoscimento della “assurdità della assurdità” di quel-
la formula; o, più precisamente, della impossibilità della impossibilità di una sua verifica in-
trospettiva. Ora, è chiaro che quest’ultima situazione equivale alla possibilità di una verifica
212 Parte terza: studi su libertà e principialità
sica, e non intacca la validità dell’apagogia. In particolare, se ― come
sembra ― l’“assurdità” consegue qui all’“impossibilità”, anche dal
punto di vista classico l’impossibilità dell’impossibilità di α equivale,
non alla necessità, bensì alla possibilità di α. Dunque l’intuizionismo
non nega in realtà né il PTE né l’autentica dimostrazione per assurdo,
bensì certe loro versioni alternative6.
Partecipe delle posizioni intuizionistiche è anche Wittgenstein7.
Negli anni Trenta, in diretto riferimento ai temi dell’intuizionismo ma-
tematico, questi scriveva: «chi enuncia il PTE ci mette davanti, per
così dire, due immagini tra le quali dobbiamo scegliere, dicendo che
una corrisponde ai fatti»8. Osserviamo, al riguardo, che, se i termini tra
introspettiva, e non ad una verifica già attuata. Per questo, non vale ― intuizionisticamente ―
il passaggio: ¬¬α |-α (equivalente alla “regola della doppia negazione classica”).
6
Heyting, che sviluppa in campo logico le posizioni di Brouwer e Kolmogoroff, conclude
che il PTE espresso alla maniera intuizionistica dovrebbe suonare così: «ogni problema è risol-
vibile» ― cioè come principio di decidibilità completa. (Cfr. A. Heyting, Les fondements des
mathématiques, Gauthier ― Villars ed E. Nauwelaerts, Paris ― Louvain 1955, pp. 18–19). In
realtà, anche la semplice considerazione del quadrato di Psello ― che del PTE descrive le virtua-
lità ― ci fa riconoscere che certi rapporti tra proposizioni, sulla semplice base del PTE, non sono
decidibili. Dunque il PTE non ha a che fare con il fasullo principio di decidibilità.
7
Già ascoltatore di Brouwer a Vienna nel 1928, e poi a Cambridge nella seconda metà
degli anni Quaranta.
8
Cfr. L. Wittgenstein, Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik, Basil Bla-
ckwell, Oxford 1956, IV, § 10; trad. it. di M.Trinchero, col titolo: Osservazioni sui fondamen-
ti della matematica, Einaudi, Torino 1988. Espressioni simili troviamo già nel Big Typescript;
dove comunque la portata delle considerazioni viene esplicitamente limitata al campo del lin-
guaggio matematico. «In matematica non si può mai provare nulla in questo modo: ho visto 2
mele sul tavolo; ora ce n’è rimasta una; dunque A ha mangiato una mela. ― In altre parole,
escludendo certe possibilità non è possibile provarne una nuova che non fosse già implicita in
quell’esclusione in forza di regole date da noi. In questo senso in matematica non ci sono al-
ternative autentiche. Se la matematica fosse la ricerca di aggregati empiricamente dati allora,
escludendo una parte, si potrebbe descrivere ciò che non è stato escluso; e qui la parte non e-
sclusa non sarebbe equivalente all’esclusione dell’altra» (cfr. L. Wittgenstein, Philosophische
Grammatik, hrsg von R. Rhees, Basil Blackwell, Oxford 1969; trad. it. di M. Trinchero, col ti-
tolo: Grammatica filosofica, La Nuova Italia, Firenze 1990, Parte II, § 39). In appunti ancora
precedenti, Wittgenstein sembra ricondurre il PTE ad un criterio di “decidibilità” (ovvero di
giudicabilità), cui sfuggirebbe la regia dei casi indecidibili. «La logica ha per presupposto che
non può essere a priori ― e quindi logicamente ― impossibile conoscere se una proposizione
è vera o falsa. Perché se la domanda sulla verità o falsità di una proposizione è a priori indeci-
dibile, la proposizione perde con ciò il suo senso, e appunto per questa via i principi logici
perdono per essa la loro validità» (cfr. Id., Philosophische Bemerkungen, a cura di R. Rhees,
Basil Blackwell, Oxford 1964; trad. it. di M. Rosso, col titolo: Osservazioni filosofiche, Ei-
naudi, Torino 1999, §§ 173–174).
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 213
loro contraddittori che il PTE disgiunge fossero davvero due “imma-
gini”, essi sarebbero A e B, e non ― come invece sono ― A e non–A.
Ora, non–A non può avere immagine, perché, dilatandosi virtualmente
all’infinito (ad abbracciare tutto ciò che non è A), risulta sì concepibi-
le, ma non propriamente immaginabile. In secondo luogo, il PTE ci
dice solo che le alternative non sono compatibili nella verità, ma non
ci obbliga a scegliere una di esse: è lecito, dunque, se non si hanno gli
elementi opportuni per fare altrimenti, scegliere di sospendere la scelta
tra le due.
Ora, l’approccio al tema da parte di Wittgenstein e dell’intuizio-
nismo è condizionato da un apriori “psicologistico” ed “empiristico”:
cioè dalla previa riduzione del pensiero all’immaginazione umana9. Il
PTE viene così confuso con uno schema immaginativo, comodo per
trattare la realtà. Secondo queste posizioni, pensare è immaginare; sa-
pere qualcosa, è saperlo costruire nella mente come immagine o come
schema (cioè, come metodo per costruire immagini).
1.2. Equivoci intorno al complemento semantico
Ma la crisi del PTE, e quindi della apagogia, è legata anche alla crisi
del complemento semantico. Preferiamo parlare di “complemento se-
mantico”, piuttosto che di “complemento booleano”, in quanto la se-
conda espressione risulta già compromessa con una logica delle classi,
che non si intende nel nostro discorso far valere10. Dal punto di vista di
Boole, se x è una classe, non–x è la sua classe–complemento (cioè la
classe di tutte quelle realtà che non appartengono a x). Ora, una simile
9
Si veda emblematicamente: L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Bla-
ckwell, Oxford 1953, Parte I, §§ 251 e 352; trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, col titolo:
Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1983.
10
«Poiché, insieme con l’idea di una classe qualsiasi di oggetti, per esempio ‘uomini’,
viene suggerita alla mente l’idea di una classe contraria alla quale appartengono quegli esseri
che non sono uomini, e poiché l’intero universo è fatto da queste due classi prese insieme ―
dal momento che di ogni individuo appartenente all’universo si può affermare o che è un uo-
mo o che non è un uomo ― diventa importante ricercare in qual modo si debbano esprimere
tali nomi contrari» (cfr. G. Boole, An Investigation of the Laws of Thought, on wich are foun-
ded the Mathematical Theories of Logic and Probabilities [1854]; trad. it. di M. Trinchero,
col titolo: Indagine sulle leggi del pensiero, Einaudi, Torino 1976, cap. III, § 14). In tal senso,
si avrebbe una formulazione del PTE come questa: l’“unione di x e non–x è vera (=1)”; e una
formulazione del PDNC come questa: l’“intersezione di x e non–x è falsa (=0)”.
214 Parte terza: studi su libertà e principialità
prefigurazione di non–x ― precisamente, come classe di tutte le classi
che non sono x ―, non può certo essere data per scontata; e ciò implica
che venga ripensata la figura del complemento booleano.
Ma allora, che tipo di realtà è, quella indicata da non–x? Ben prima
di Kant ― e della sua riflessione sul “giudizio infinito”11 ―, era stato
Aristotele a occuparsi del complemento semantico, chiamandolo aóri-
ston ónoma (“nome indefinito”). Si tratta ― secondo lo Stagirita ― di
qualcosa di unitario che significa un che di definito solo in relazione
negativa al suo correlato. Più precisamente, si tratta di un termine uni-
co, in cui però si raccoglie una congerie semantica solo negativamente
qualificata, di cui partecipano, non solo elementi dello stesso genere
prossimo12, ma piuttosto elementi di ogni genere13. Nel suo commento
al testo aristotelico, Tommaso spiega che il termine aóriston «signifi-
ca la negazione di una certa forma, negazione in cui molte cose con-
vergono come in un che di determinato secundum rationem»14.
Non c’è affatto bisogno di pensare il complemento semantico come
un insieme, per poter far valere il PTE, e con esso l’apagogia15. Il PTE
11
Se lo chiedeva Kant, nella Prima Critica, parlando del “giudizio in–finito” [un–
endliches Urteil], cioè del giudizio che ha come predicato un concetto negativo: giudizio del
quale egli suggeriva una considerazione, non puramente formalistica, ma piuttosto filosofica.
(Cfr. I. Kant, KrV, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo–Radice, “Analitica trascendentale”,
Libro I, cap. I, sez. II, § 9).
12
Se x è “uomo”, non–x non coinvolge solo gli animali non razionali, bensì anche ogni al-
tra realtà oltre a questi.
13
«Hen gar pos semaínei aóriston» (cfr. Aristotele, De interpretatione, 10, 19b 9).
14
Cfr. Tommaso d’Aquino, Expositio libri Perì Hermeneías, II, lect. 1. Osserva opportu-
namente il Belardi, che il termine indeterminato non implica l’esistenza di una sede determi-
nata in cui il “non–esser–tale” si realizzerebbe. Il valore di una simile espressione è dunque
completamente relativo ― al correlato positivo. Così, «ouk ánthropos può riferirsi a tutti i so-
strati possibili globalmente presi ed indica tali sostrati ad esclusione di ánthropos. Resta cioè
implicato il fatto che tra i sostrati non si annovera ánthropos, e non il fatto che in tali sostrati
si ravvisi la quiddità del non–essere–uomo» (cfr. W. Belardi, Filosofia, grammatica e retorica
nel pensiero antico, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1985, pp. 125–126).
15
Sembra questa la posizione di chi tratta il complemento semantico come segue: ¬x0 =
x1 ∧ x2 ∧ x3 ∧ x4...xn. In tale interpretazione, la negazione di ¬x0 diventa: ¬¬x0 = ¬(x1 ∧ x2
∧ x3 ∧ x4 ∧...xn); da cui, applicando le trasformazioni di De Morgan, si ottiene: ¬¬x0 = ¬x1
∨ ¬x2 ∨ ¬x3 ∨...¬xn. Ora, quest’ultima è una serie di enunciati la cui condizione complessiva
di verità, è che almeno uno di essi sia vero; ma, trattandosi di formulazioni negative, la loro
verità è la falsità della situazione descritta. Da cui la conseguenza, che «tutto il fondamento
della metafisica riposa sul principio: ‘deve pur esistere almeno un falso’» (cfr. F. D’Agostini,
“La stessa ferita ti salverà”. Nota sulla diagonalizzazione antifrastica, «Aut Aut», 291–292
[1999], p. 124). Il che non sembra niente di scandaloso, dal momento che la verità possiamo
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 215
infatti non disgiunge tra loro degli insiemi (più in particolare, un in-
sieme e il prodotto logico degli insiemi che idealmente comporrebbero
il complemento di quello); esso disgiunge piuttosto dei campi seman-
tici16 ― a meno che non si voglia far valere senz’altro l’equivalenza
tra “campo semantico” e “insieme”. Credo, ad esempio, che le diffi-
coltà manifestate da alcuni autori17 ― anche in recenti dibattiti ― nei
confronti della fondazione apagogica, intesa da loro come compito in-
finito (di reductio di tutte le componenti, potenzialmente infinite, ot-
tenute dalla disgiunzione della antitesi ¬α, e cioè: β, γ, ecc.), affondi
qui le proprie radici18.
Insomma, ciò che si è sovente insinuato, è che la negazione renda
omogeneo il complemento, rispetto al significato negato. Occorre qui
tenerla ferma solo in modo indiretto. Se non che, è possibile che con la precedente considera-
zione si intenda far scontare, ai linguaggi che adottano la logica classica, il “teorema di
Church”, secondo cui, per le proposizioni del calcolo dei predicati ― benché questo sia se-
manticamente completo, e quindi capace di un algoritmo che enumera via via tutte le sue e-
spressioni valide –, non esiste un algoritmo capace di enumerare le espressioni non valide,
con conseguente esclusione della decidibilità completa. (Per il teorema di Church, si veda:
J.B. Rosser, An Informal Exposition of Proof of Gödel’s Theorem and Church’s Theorem,
«The Journal of Symbolic Logic», IV [1939], pp. 56–60).
16
«I concetti hanno un loro campo [Feld] in quanto sono riferiti ad oggetti a prescindere
dalla possibilità della conoscenza degli oggetti stessi» (cfr. Kant, Kritik der Urteilskraft
[1790], in Kant’s gesammelte Schriften, Band V; trad. it. di A. Gargiulo riveduta da V. Verra,
col titolo: Critica del giudizio, Laterza, Roma ― Bari 1997, §11).
17
Il riferimento è a Enrico Berti, e al dibattito che lo ha visto impegnato negli anni Ottan-
ta nei confronti di Carmelo Vigna.
18
Scrive Berti: «Se si vuole dimostrare una tesi determinata (per esempio, p), la sua nega-
zione per essere generale, deve essere indeterminata (per esempio, non–p). Ma riesce difficile
immaginare come possa essere ridotta a contraddizione una tesi del tutto indeterminata» (cfr.
E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’epos editrice, Palermo
1987, p. 10). Di qui, la necessità di affrontare volta per volta, e all’infinito, negazioni deter-
minate della tesi in questione. Si pensi alla opportuna replica di Vigna: «La proposizione in-
determinata, quella nostra, cioè quella che esprime il rifiuto della metafisica (= ‘non esiste un
essere assoluto trascendente’) può essere benissimo dimostrata falsa, nonostante abbia la for-
ma ‘indeterminata’, perché il suo contenuto non è costituito da un mucchio sterminato di ‘og-
getti’, ma da un ‘oggetto’ solo, a cui l’affermazione e la negazione si riferiscono» (cfr. C. Vi-
gna, Enrico Berti e la controvertibilità del sapere, in: Id., Il frammento e l’intero, Vita e Pen-
siero, Milano 2000, p. 445). Berti, comunque, riconosce che il problema di cui sopra non si
pone, nel caso in cui si tratti di confutare una tesi determinata, e di porre l’indeterminata che
ne è contraddittoria. Quanto alla reductio della “indeterminata negativa”, Vigna indica tre vie:
(a) mostrare la contraddittorietà di non–p rispetto all’immediatezza fenomenologica; (b) esibi-
re il carattere analitico di p; (c) confermare p sulla base della sinergia dell’immediatezza fe-
nomenologica e dell’immediatezza logica. (Cfr. ibi, pp. 439–440).
216 Parte terza: studi su libertà e principialità
precisare che il complemento è istituito dalla negazione19, quindi la
sua determinatezza è negativa20. Nel caso di un termine (x), la generi-
cità (o specificità o individualità) solo virtuale del suo complemento,
dice che questo non è necessariamente da concepire come un totum se-
riale o comunque insiemistico (attualmente21 o potenzialmente22 dato,
poco importa). Analogamente, nel caso di una formula (α), il non di α
non è un β omologo ad α23, ma è piuttosto una possibilità aperta quan-
to è aperto il possibile24.
19
Dove, la negazione in questione, è ― per usare una distinzione di Trendelenburg ―
“logica”, e non “reale” (cfr. F.A. Trendelenburg Logische Untersuchungen, Leipzig 1870³,
cap. III; trad. it. di M. Morselli, col titolo: Il metodo dialettico, Il Mulino, Bologna 1990, pp.
13–14). Infatti, non–x non è un opposto che fronteggi x, strutturandosi come un omologo di x;
esso è piuttosto il contraddittorio di x: determinato sì, ma solo in senso relativo. L’analogo si
dica per ¬α rispetto ad α.
20
Se è vero che omnis determinatio negatio (α |- ¬¬α), è anche vero che omnis negatio
determinatio (¬¬α |- α).
21
Come disgiunzione chiusa.
22
Come disgiunzione aperta.
23
Ad esempio, che il cane Rambo non sia il numero 2, non vuol dire che sia un numero
diverso da 2.
24
Si veda invece la posizione espressa da Andrea Robiglio, sulla scorta di Cornelio Fabro,
e secondo la quale il PTE, per valere, dovrebbe omologare l’essere, riconducendolo a un che
di panoramicamente dominabile dall’ “intelletto umano”. Leggiamo al riguardo: «T.n.d. ha
valore come principio di identità–determinazione poiché permette di sostituire al contenuto
negato un secondo contenuto distinto dal primo ed in sé determinato. Ora, questo può verifi-
carsi solamente allorquando si ha presente la totalità ed è conoscibile come contenuto deter-
minato tutto quanto si oppone alla determinazione che viene negata. In altre parole, ¬α, per
affermare qualcosa di determinato, deve coincidere o con β o con γ o con δ, oppure con δi
(= β+γ+δ). β, γ, δ devono essere formule determinate oppure insiemi di formule determinate.
Inoltre, l’insieme di α e di β, γ, δ, ovvero δi deve esaurire la totalità attuale del reale, nella
quale vale T.n.d. [...] Arrivati a questo punto, si dovrà ammettere che il Tutto è finito, ovvero
che l’intelletto umano intenziona e comprende l’Infinito (attuale). Ora, secondo Fabro,
l’intelletto umano non può intenzionare la totalità, ‘perché il mondo non è tutto e perché
l’uomo si distingue dal mondo’. L’intenzionalità ― come ha insegnato la Scuola fenomeno-
logica ― è sempre prospettica e perciò parziale. Se ― come Fabro crede ― il punto di par-
tenza è l’ente, si capisce che T.n.d. non può essere ipso facto valido. Infatti l’ente non è il tut-
to e non è neppure una regione chiusa ed in sé risolta (a meno di volerlo considerare esclusi-
vamente sotto l’aspetto quidditativo). [...] La coscienza stessa ― pur essendo lo sfondo intra-
scendibile del presentarsi dell’ente ― non è il tutto [...]. In un’applicazione predicamentale
(riguardo ad un ambito conchiuso della realtà), il p.n.c. può effettivamente ottenere la mede-
sima performance di T.n.d. e coincidere con esso, ma ciò non toglie che si tratti di un caso
particolare. [...] Non si dà mai un tutto, di cui io e mondo, pensiero ed essere, rappresentino le
parti» (cfr. A. Robiglio, La logica dell’ateismo. Il principio di non contraddizione secondo C.
Fabro, «Divus Thomas», CII [1999], pp. 135–138).
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 217
Del resto, superata la tentazione di prefigurare il complemento se-
mantico25 in un senso seriale26 (come se contenesse una serie di elementi
omogenei rispetto al negato, e quindi omogenei tra loro), o anche in un
senso più genericamente insiemistico27, ci si renderà conto che
l’esplorazione di quell’ambito semantico ― per quanto resa prospettica
dalla focalità che si concentra su di un elemento particolare (x, oppure
α) ― può riservare scoperte di portata radicale, proprio in ordine alla
25
Il complemento semantico è forse accostabile a quella figura che Nicola Abbagnano
chiama “possibilità trascendentale” o “possibilità della possibilità” (cfr. N. Abbagnano,
L’esistenzialismo è una filosofia positiva, in: Id., Scritti esistenzialisti, Utet, Torino 1988).
Questa figura è ― secondo la tradizione esistenzialistica ― lo spazio di respiro della scelta
umana. Essa non indica il dispiegarsi, di fronte all’agente, del complesso di tutti i possibili
oggetti di scelta; e questo, sia perché non è noto se i possibili costituiscano un tale complesso
totalizzante, sia, soprattutto, perché non c’è nozione diretta del possibile determinato, se non
nell’attuale. Pertanto, il complemento semantico si rivela anzitutto come possibilità di desi-
tuarsi rispetto al punto di vista già assunto, per intraprendere eventualmente una peirastica
delle possibilità effettivamente disponibili. Ora, la disgiunzione x aut non–x ha l’estensione
del trascendentale, ed è, in fondo, l’espressione concreta di ogni disgiunzione pratica. In ogni
alternativa umana c’è sempre un elemento non–focale, rispetto al quale l’alternativa è, a prio-
ri, formalmente in aut. Questo elemento non–focale è appunto il complemento semantico, che
è comprensivo del possibile semantico non coincidente con l’elemento focale.
26
“Serie” è una relazione asimmetrica, transitiva e coerente. In tal senso, specifico, essa
non è semplicemente un insieme di termini tra i quali intercorra una qualsiasi relazione defi-
nibile (o “campo” di una relazione), ma è essa stessa una certa relazione. Ad esempio, le serie:
1, 2, 3; 1, 3, 2; 2, 3, 1; 2, 1, 3; 3, 2, 1; 3, 1, 2; sono differenti, per quanto abbiano lo stesso
campo (cfr. B. Russell, Introduction to Mathematical Philosophy [1919], Allen and Unwin
LTD, London 1960, cap. 4). Secondo Cantor, «ogni insieme K = {x}, costituito di numeri car-
dinali finiti e diversi, si può mettere sotto forma di serie: K = (x1, x2, x3, ...); essendo: x1 < x2
< x3 ...» (cfr. G. Cantor, Beiträge zur Begründung der Transfinite Mengenlehre [1895], § 5,
in: Id., Gesammelte Abhandlungen, hersg von E. Zermelo ― G. Olms Verlagsbuchhandlung,
Hildesheim 1962, p. 292).
27
La definizione classica (cantoriana) di “insieme” [Menge] è la seguente: «Per ‘insieme’
noi intendiamo ogni riunione M in un tutto di determinati e ben distinti oggetti m dati dai no-
stri sensi o dal nostro pensiero (che son detti gli elementi di M)» (cfr. G. Cantor, Beiträge zur
Begründung der Transfinite Mengenlehre, §1, p. 282). Ergo: l’insieme esiste ogni volta che
un molteplice si lascia pensare come “uno” mediante una regola; l’insieme è internamente de-
terminato, nel senso che, mediante la regola che lo costituisce e il PTE, si può sempre decide-
re se un oggetto qualsiasi appartiene o meno all’insieme stesso; l’insieme è una molteplicità
coerente nel senso che gli elementi di esso possono stare insieme [zusammensein] senza con-
traddizione; l’esistenza dell’insieme è oggettiva, cioè indipendente dal pensiero o dal linguag-
gio che lo esprime; come unità, l’insieme può sempre costituire l’elemento di un altro insie-
me. (Cfr. N. Abbagnano, Dizionario di filosofia [1960], TEA, Milano 1993, voce “insieme”).
Che la teoria degli insiemi si sia servita del PTE, non significa comunque che questo sia soli-
dale a quella.
218 Parte terza: studi su libertà e principialità
definizione dello statuto autentico di quell’x o di quell’α28 Per dirla tut-
ta, il complemento semantico va inteso come il trascendentale che si dà
in prospettiva. Dire che tale complemento è prospettico, è dire che la
sua relazione col termine o con la formula di partenza è dissimmetrica:
infatti, il dominio su cui il complemento si apre, è lo stesso trascenden-
tale traguardato a partire da un elemento particolare.
1.3. L’approccio minimalista alla fondazione
Un’ulteriore critica alla apagogia si traduce nella diffusa convin-
zione che essa ― come argomentazione negativa ― sia in grado di at-
testare l’inconsistenza della posizione avversa alla tesi sostenuta, ma
non di confermare positivamente la tesi stessa. Una simile posizione
(sviluppata dal razionalismo critico) può essere detta “minimalista”, in
quanto ricalca il modulo di quella che i logici chiamano la “regola del-
la negazione minimale” o regola ¬j, che si può schematizzare nella
forma seguente:
X α |- β
Y α |- ¬β
X ∪ Y |- ¬α
che si può leggere così: se l’assunzione di α in un calcolo logico
consente la derivazione di β e di ¬β, allora, in quel calcolo, si può de-
rivare ¬α.
Ora, lo schema diventa interessante per il nostro caso, se, al posto
di α, mettiamo ¬α: infatti, in questo caso, dal fatto che la negazione
di α risulti inconsistente, si ottiene la negazione della negazione di α
(appunto, la negazione della posizione avversa a quella che si intende
sostenere); ma non l’affermazione positiva dello stesso α:
X ¬α |- β
Y ¬α|- ¬β
X ∪ Y |- ¬¬α
(stante che qui: ¬¬α |-/ α).
28
L’indagine metafisica va precisamente in questa direzione.
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 219
Secondo una simile impostazione, dunque, sarebbe possibile falsifica-
re una tesi, ma non sarebbe possibile dimostrarla in senso ultimativo29.
Una prima radice teorica di questa posizione sta nella diffidenza
verso la regola della “doppia negazione classica” (DN), considerata da
alcuni autori come un frutto dell’aritmeticismo booleano (cioè, della
pretesa che anche in logica “meno” per “meno” dia “più”)30. Quando,
in realtà, dal punto di vista propriamente filosofico ― e non da quello
di una mimesi simbolica di esso ―, il significato dei due segni di ne-
gazione, che in DN compaiono, non è lo stesso: il più esterno nega
sintatticamente, il più interno fa corpo semanticamente con la formula
che lo segue immediatamente. È per questo, che lo α che sta a destra
del segno di derivazione (nella formula della doppia negazione), non è
formalmente equivalente ad un α che stia a sinistra di quel segno: il
primo α è infatti vero senza alternative possibili, cioè in modo neces-
sario. Se invece i due segni di negazione avessero esattamente lo stes-
so valore, e semplicemente si elidessero in senso computistico, allora
lo α che ne deriva, non sarebbe formalmente diverso da un α ipoteti-
co, assunto a sinistra del segno di derivazione.
Una seconda radice teorica della posizione che abbiamo detto minima-
lista, mi sembra si possa esplicitare così: si pensa che, stabilire che ¬α è
inconcepibile, non significhi ancora sapere che ¬α è impossibile. Per
questo, tra l’impossibilità di concepire ¬α, e la positiva affermazione di
α, si scava un vuoto, come se vi fossero delle possibilità intermedie. Ep-
pure, i sostenitori del minimalismo logico non sono di per sé contestatori
del PTE: essi, cioè, sarebbero disposti a riconoscere la verità di α, una
volta che avessero riconosciuto che davvero ¬α è impossibile; il fatto è,
che essi non sembrano riconoscere appunto quest’ultima circostanza.
29
È questa, ad esempio, la posizione del falsificazionismo popperiano.
30
Su questo, cfr. T. W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M.
1966; trad. it. di C.A. Donolo, col titolo: Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 142.
Obiezioni ad un modo meramente computistico di intendere la doppia negazione, vengono
avanzate da Wittgenstein nelle Ricerche. Wittgenstein ipotizza anche l’uso di differenti sim-
boli di negazione (X e Y): uno che, reduplicato, dia luogo ad un’affermazione; l’altro che, re-
duplicato, rafforzi la negazione. «Alle due negazioni associamo rappresentazioni differenti. È
come se ‘X’ facesse ruotare la proposizione di 180 gradi. È per questo che due di queste ne-
gazioni riportano il senso al suo posto di prima. Invece ‘Y’ è come uno scuotere il capo. E
come non si può eliminare una scossa del capo con un’altra, così non si può eliminare una ‘Y’
con un’altra» (cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Parte I, nn. 554–557).
220 Parte terza: studi su libertà e principialità
Essi avrebbero ragione, naturalmente, nel caso in cui si potesse sta-
bilire che ¬α è solo inimmaginabile ― perché, in tal caso, lo si po-
trebbe ancora credere possibile ―; senonché, l’autocontraddittorietà
sigla propriamente l’inconcepibilità di ¬α. Dunque, il problema è un
altro. Evidentemente, chi sostiene una posizione di tipo minimalista,
ritiene che ciò che vale per il pensiero non valga per l’essere, e dun-
que, che ciò che è escluso dal pensiero ― come inconcepibile –, non
risulti per ciò stesso escluso dall’essere ― come impossibile.
1.4. La radice gnoseologistica del minimalismo
Naturalmente, questa posizione gnoseologistica ha alla radice una
confusione tra il pensiero in quanto tale, che è la stessa intelligibilità o
manifestatività dell’essere, e l’io. Che le due realtà non coincidano, è at-
testato, tra l’altro, dal fatto che l’io sa anche concepire ― sia pure come
non attuale ― la possibilità del proprio non comparire nell’orizzonte
dell’essere. Ciò non toglie tuttavia che la relazione che l’io intrattiene
con l’orizzonte ― tradizionalmente, l’intenzionalità ― abbia di specifi-
co proprio questo: e cioè, di essere capace dell’orizzonte in quanto tale.
Insomma, ciò che specifica l’io è appunto la sua capacità ontologica,
che pure si apre a partire da un punto di visuale che è onticamente se-
gnato. Ora, la collocazione ontica viene sovente fatta interagire in modo
improprio con l’intenzionalità, come se la capacità ontologica potesse
venir intaccata dalla prospetticità secondo cui essa si apre. In realtà, la
possibilità stessa di riconoscere come inautentica quella capacità di ri-
dare l’ontologico, potrebbe fondarsi, propriamente, solo sulla presun-
zione di una apprensione autentica dell’ontologico stesso.
Dunque, la posizione gnoseologistica è traducibile in una contrad-
dizione performativa: tra la posizione esplicita della inautenticità della
manifestazione intenzionale dell’essere, e la presupposizione che vi
sia invece una manifestazione intenzionale autentica, che faccia da
termine di confronto rispetto alla prima. Ed è chiaro che, in questo
senso, il dualista gnoseologico fallisce il proprio atto di discorso.
Ma, se la considerazione più consueta trae motivo dalla autocontrad-
dittorietà dello gnoseologismo, per affermare la verità della posizione
ad esso contraddittoria (seguendo in tal modo proprio quello schema
apagogico, che è ora in questione), una considerazione più approfondita
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 221
può soffermarsi piuttosto sull’implicatum presupposizionale, e vedere
nella (appunto, implicita) assunzione di quello, il riconoscimento effet-
tuale della inevadibilità dell’apofantico dal terreno della autentica mani-
festazione dell’essere ― secondo uno schema elenctico. Si tratta di evi-
denziare che l’apofantico come tale ― e dunque anche l’apofansi di
contenuto gnoseologistico ― non può non essere impegno con la verità,
cioè con l’autentica manifestazione dell’essere, che dunque non potrà
mai esser detta fuori portata, senza con ciò venir riproposta.
1.5. Nota sulla natura trascendentale dei primi principi
La questione della apagogia coincide con quella della validità e fe-
condità inferenziale dei primi principi. È chiaro che, quando parliamo
di “primi principi”, ci riferiamo a costanti dell’essere dell’ente, a sue
connotazioni proprie; e non a semplici regole di derivazione di un lin-
guaggio formalisticamente organizzato: queste ultime potranno piutto-
sto intendersi come traduzioni assiomatiche di quelle. I primi principi
(archaí), dunque, non vanno pensati come gli assiomi di una assioma-
tica formale. E la differenza non è trascurabile. Si tratta infatti di ri-
cordare ― per fare l’esempio più classico ― che il principio di non
contraddizione non è riducibile ad una semplice regola di derivazione,
propria di un certo linguaggio (logico, matematico o filosofico che es-
so sia). Con i primi principi si mette piuttosto a tema una descrizione
delle costanti che innervano l’essere, in ogni sua manifestazione.
Non è difficile pensare che buona parte delle difficoltà che
nell’ultimo secolo si sono addensate sui primi principi, provenga dalla
loro identificazione ― già, a suo tempo, opportunamente vietata da
Alfred Tarski31 ― con le corrispettive regole di derivazione. L’indebi-
ta identificazione ha avuto, rispetto alla concezione dei principi, alme-
no due conseguenze: quella di proiettare su di essi i problemi di se-
31
Alfred Tarski ricordava che le «leggi di non–contraddizione e del terzo escluso, che ca-
ratterizzano la concezione aristotelica della verità» sono «leggi semantiche», che «non do-
vrebbero essere identificate con le relative leggi logiche di non–contraddizione e del terzo e-
scluso; queste ultime appartengono al calcolo proposizionale, cioè alla parte più elementare
della logica e non si richiamano in alcun modo al termine ‘vero’» (cfr. A. Tarski, The Seman-
tic Conception of Truth and the Foundations of Semantics, «Philosophy and Phenomenologi-
cal Research», IV [1944]; trad. it. di A. Meotti, in: Semantica e filosofia del linguaggio, a cura
di L. Linsky, Milano 1969, pp. 44–45).
222 Parte terza: studi su libertà e principialità
condarietà grammaticale e derivativa cui le regole in questione sono
esposte; e quella di proiettare su di essi il presupposto di origine boo-
leana, su cui sono impostate le tavole vero–funzionali che definiscono
i connettivi, e quindi le relazioni logiche, nei consueti calcoli logico–
formali.
Tale presupposto consiste nell’affidare alla disgiunzione tra valori
contrari ― quali sono vero/falso ― la classificazione dei termini e dei
connettivi; quando la disgiunzione a portata trascendentale sarebbe
piuttosto quella tra valori contraddittori: vero/non–vero. La conse-
guenza è che i casi di indecidibilità, controesemplificando la disgiun-
zione tra contrari, danno l’illusione di istanziare il tertium tra i con-
traddittori. In particolare, il PTE disgiunge, non tra la verità e la falsità
di α, bensì tra α e ¬α, cioè tra la verità e la non–verità di α. In altri
termini, α è vero oppure non è vero, in uno dei tanti modi in cui gli è
possibile non esserlo: cioè, il falso, l’impossibile ― di cui è specie
l’autocontraddiittorio –, l’indecidibile, l’insensato, il mal–formato, e
così via.
Nel linguaggio di Rosmini, potremmo dire che i primi principi sono
le leggi dell’“essere per sé manifesto”. Non sono, insomma, leggi va-
lide dal punto di vista dell’io, che poi si proietterebbero su di un prete-
so “essere in sé”, nella speranza (mai assicurata) di avere una qualche
presa su di esso. Quest’ultima posizione si supera nella considerazione
che il pensiero non è altro che il manifestarsi dell’essere (e l’io umano
è capace del pensiero)32.
Parlando di primi principi, pensiamo, per intenderci, all’imples-
so costituito da “identità” (PDI), “non–contraddizione” (PDNC) e
“terzo escluso” (PTE). E, se è vero che essi non devono essere con-
fusi con le rispettive versioni logico–formali, è anche vero che que-
32
Già Tommaso riconosceva con chiarezza che il principio di non contraddizione ― pro-
totipo dei primi principi ― «si radica nel significato dell’essere e del non essere» (principium
contradictionis fundatur supra rationem entis et non entis) quindi ha una portata immediata-
mente ontologica (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I IIae, q. 94, a. 2, Resp.). Ma
il filosofo che forse meglio di ogni altro ha teorizzato questa verità, è stato Antonio Rosmini
(cfr., in special modo: Logica, Libro II, cap. IV). Si tratta di capire ― con Rosmini ― che la
logica, così come il filosofo la conosce, è sempre onto–logica, nel senso che è espressione di
quegli aspetti dell’essere che risultano innegabili, cioè che godono di statuto elenctico. Infatti,
un principio può dirsi effettivamente tale, proprio in quanto gode di statuto elenctico: cioè, in
quanto va a costituire persino le forme della propria (tentata) negazione.
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 223
ste possono risultare utili ad evidenziare la convertibilità reciproca
delle tre figure33.
In particolare, è opportuno considerare che il terzo, che il PTE esclude,
è sì materialmente un medio che falsifichi entrambi i poli contraddittori,
ma formalmente tale medio ― là dove realmente dei contraddittori si tratti,
e non dei contrari ― è la stessa autocontraddizione34. Se rettamente intesi,
insomma, il PDNC e il PTE si equivalgono reciprocamente35.
2. L’élenchos e la sua peculiarità
L’apodissi ― di cui l’apagogia è l’estrema risorsa ― non è in gra-
do, da parte sua, di tener fermi i principi che sfrutta, e quindi non è in
33
In particolare, nel calcolo proposizionale, il PDI può essere formulato come regola I: |-
α → α; e il PDNC può essere formulato come regola NC: |- ¬(α ∧ ¬α). E si può rilevare che
le due formule sono simbolicamente equivalenti (in quanto si passa dall’una all’altra grazie a
una semplice trasformazione per equivalenza simbolica). Dunque: α → α ≡ ¬(α ∧ ¬α). La
trasformazione di I in NC è ottenibile tramite la regola di trasformazione della implicazione in
congiunzione (Tr→∧): α → β |- ¬(α ∧ ¬β). Eccone la derivazione:
α → β α |- β A (bis) MP
α ¬β |- ¬ (α → β) C
α ∧ ¬β |- ¬ (α → β) ∧I
α → β |- ¬ (α ∧ ¬β) C
34
Ciò che è vietato dalla formula NC, vale a dire, ciò cui si riferisce la negazione fuori pa-
rentesi, non sono i singoli elementi congiunti, bensì l’intera congiunzione in parentesi. Ora, la
combinazione del non fuori parentesi e dell’et entro parentesi, dà la sbarra di Nicod; ma la sbar-
ra, qui, agisce tra una formula e la negazione di essa: quindi, restano escluse le situazioni che
comportano la verità di entrambe e la falsità di entrambe. Si ha così, implicitamente, l’aut ―
aut(α, ¬α) –, che caratterizza esplicitamente il PTE. Volendo, comunque, si può anche operare
la trasformazione di TND in NC tramite le “leggi di De Morgan”. Si pensi ad esempio alla regola
di trasformazione della disgiunzione nella congiunzione, nella forma: α ∨ ¬β |- ¬ (¬α ∧ β).
35
Sulla presunta non equivalenza di significato dei due principi, si basa invece il tentativo
di dimostrare per assurdo il PTE. Si tratta di un tentativo esperito da Peirce in termini rico-
struibili come segue: se il PTE fosse falso, sarebbe falso che ogni proposizione deve essere o
vera oppure non–vera; in tal caso vi sarebbe almeno qualche proposizione insieme non–vera e
non–non–vera; ma, semplificando, si avrebbe ― dalla negazione del PTE ― che qualche pro-
posizione dovrebbe essere insieme non–vera e vera; il che è autocontraddittorio (cfr. C.S.
Peirce, Collected Papers, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge Mass.
1931–1958, vol. V, § 340). In realtà, la dimostrazione per assurdo già presuppone la validità
del PTE: infatti, se l’ipotesi ¬α risulta autocontraddittoria, la posizione in sua vece di α, pre-
suppone appunto che tra i due elementi non si dia un terzo.
224 Parte terza: studi su libertà e principialità
grado di superare la provocazione del trilemma di Fries36, rinviante di
fatto al trilemma aristotelico degli Analitici Secondi ― di cui i teoremi
gödeliani di incompletezza possono essere interpretati come una com-
plessa e originale conferma37. L’attualità del trilemma è confermata
dal fatto che le proposte epistemologiche che oggi si contendono il
campo ― fondazionalismo, giustificazionalismo condizionato e coe-
rentismo ―, sembrano corrispondere rispettivamente alle tre varianti
previste dalla classica aporia.
2.1. Élenchos come risposta al trilemma della fondazione
Per evitare il trilemma, occorre dunque far ricorso ad élenchos,
come discussione, non più apodittica, bensì dialettica38 dei principi ―
e anzitutto, dei principi fatti valere nell’apagogia. Ma, per considerare
adeguatamente élenchos, conviene preliminarmente considerare il te-
sto aristotelico di Metafisica Gamma, di cui è opportuno mettere in ri-
lievo alcuni tratti decisivi.
Anzitutto, il legame esplicito con gli Analitici39: il tema elenctico,
infatti, è introdotto in Gamma, proprio per affrontare il trilemma apo-
36
È stato Popper ad accostare la situazione del Barone di Munchhausen, che voleva trarsi fuori
dalla palude sollevandosi per i capelli, a quella illustrata nel “trilemma di Fries” (cfr. J.F. Fries, Neue
oder anthropologische Kritik der reinen Vernunft, 1807, vol. I, Einleitung). Il trilemma friesiano del
punto di partenza del sapere (che prevede per il sapere la possibilità, o di partire da assunzioni dogma-
tico–convenzionali, oppure di regredire all’infinito, o ancora di assumere evidenze legate alla psicolo-
gia del soggetto umano) viene piegato da K. Popper (cfr. Die beiden Grundprobleme der Erkenntni-
stheorie, J.C.B. Mohr, Tübingen 1979, cap. V) in un senso omogeneo a quello del trilemma aristoteli-
co degli Analitici Secondi. Infatti, Popper intende lo psicologismo di Fries come circolarità viziosa
(stabilire ad esempio che l’induzione è una legge della mente, richiede l’uso dell’induzione). Hans Al-
bert riprende il trilemma del cognitivismo, proponendolo nella discussione con Apel e Habermas; e lo
intende senz’altro nei termini canonici, già stabiliti da Aristotele (cfr. H. Albert, Traktat über kritische
Vernunft [1968], J.C.B. Mohr, Tübingen 1980, pp. 11–15).
37
L’incompletezza che è in questione nei teoremi VI e XI della nota memoria gödeliana
del 1931, è in prima battuta quella di tipo sintattico. Se non che, si può mostrare come tale ge-
nere di incompletezza implichi ― nel caso in questione ― anche quella semantica (cfr. S.
Galvan, Introduzione ai teoremi di incompletezza, FrancoAngeli, Milano 1992, pp. 160–61).
In generale, cfr. K. Gödel, Über formal unentscheidbare Sätze der Principia mathematica und
verwandter Systeme I (1931); trad. it. di P. Pagli, col titolo: Sulle proposizioni formalmente
indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini I, in Aa.Vv., Il teorema di Gödel
(1988), ediz. italiana a cura di P. Pagli, Muzzio Padova 1991.
38
Cfr. Aristotele, Analitici Secondi, I, 77a 29–30; testo greco a cura di W.D. Ross.
39
«Occorre che i miei uditori abbiano una preliminare conoscenza delle cose dette negli
Analitici» (cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 1005b 3–4).
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 225
retico di Analitici Secondi, I, 72b 5–1840. In secondo luogo, il registro
analogico dello svolgimento di élenchos nel testo aristotelico. La strut-
tura fondamentale delle esecuzioni elenctiche in Gamma ― quella
“semantica”, quella “sintattica” e quella “pratica”41 ― è infatti costan-
te, ed è sinteticamente espressa dalla formula anairõn logon, hypomé-
nei logon (chi toglie il logos, lo ripropone)42: dove per logos si inten-
de, a ben vedere, l’essere che si manifesta nella apofansi.
Così, il risultato complessivo di élenchos è l’esibizione dell’ineva-
dibile. È proprio questa dialettica elenctica la figura virtuosamente
circolare che evita il trilemma aporetico: ma lo evita, ben inteso, per
quel linguaggio filosofico in cui viene a parola l’essere come tale, con
le sue costanti proprie. Altri linguaggi, nei quali le archaí giocano in
senso non tematico, e cioè i linguaggi ai quali Aristotele pensa negli
Analitici, e per i quali le archaí sono tutt’al più degli axiómata (ovve-
ro gli elementi ultimi di valore cui l’analisi mette capo), non sembrano
invece potersi sottrarre alla regia del trilemma43.
40
Lo si capisce bene, quando Aristotele esclude che vi sia apódeixis del principio fermis-
simo, precisando che non di tutto può esservi apódeixis ― pena un aporetico “regresso
all’infinito” (cfr. Metafisica, IV, 1006a 8–9). E qui il riferimento è al primo corno del trilem-
ma degli Analitici (cfr. Analitici Secondi, I, 72b 8–9: «hoi men gar eis ápeiron axioûsin aná-
ghesthai»). Lo si capisce anche quando Aristotele in Gamma esclude un altro corno del tri-
lemma: quello del diallele (cfr. Analitici Secondi, I, 72b 16–18: «endéchesthai gar kyklo ghí-
gnesthai ten apódeixin kai ex allélon»), concretantesi nell’ipotesi di una fondazione apagogica
del PDNC. (Su questo, cfr. Metafisica, IV, 1006a 15–17: «La differenza fra la dimostrazione
elenctica e la dimostrazione simpliciter sta in questo: che dimostrando simpliciter [apodeikný-
on] si cadrebbe evidentemente in una petizione di principio»). Se poi, delle tre uscite aporeti-
che del trilemma, viene apparentemente trascurata in Gamma quella dell’arresto arbitrario ―
ad un livello ipotetico ― nell’ordine della fondazione regressiva (cfr. Analitici Secondi, I, 72b
11–15), va considerato che questo caso è in realtà quello di cui Aristotele si occupa in linea
principale. Infatti, se egli ― dopo aver chiarito che non hanno valore epistemico il regresso
all’infinito e il diallele ― si impegna a mostrare quale sia lo statuto appropriato della fonda-
zione del PDNC, lo fa appunto per fare in modo che questo venga assunto come un che di ul-
timo, ma non nel senso, appunto, della arbitrarietà, bensì in quello della “anipoteticità”: «De-
ve essere un principio anypótheton. Infatti, quel principio che di necessità deve possedere co-
lui che voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere una pura ipotesi (hypóthesis), e ciò
che necessariamente deve conoscere chi voglia conoscere qualsiasi cosa deve già essere pos-
seduto prima che si apprenda qualsiasi cosa» (cfr. Metafisica, IV, 1005b 14).
41
Rinviamo, per questa scansione, a: P. Pagani, Contraddizione performativa e ontologia,
Parte III.
42
Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 1006a 26.
43
Questo, infatti, non viene sciolto, nel corpo di Analitici Secondi; e solo nel finale
dell’opera assistiamo all’indicazione di uno scorcio prospettico, secondo il quale le archaí ―
226 Parte terza: studi su libertà e principialità
2.2. La struttura di élenchos
La struttura della movenza elenctica può essere ridetta, in estrema
sintesi, così: togliere è porre (quando il tolto è ciò che appartiene al tra-
scendentale)44. Naturalmente, tale formula non va intesa come se fosse a
non formalmente gli axiómata ― sarebbero il contenuto del nous, descritto a sua volta come
una hexis, e dunque come una capacità costante di possesso critico ― potremmo dire “dialet-
tico”. (Cfr. Aristotele, Analitici Secondi, II, 100b 5–15).
44
Si può allora aggiungere che l’ “ideale regolativo” ― per dir così ― di una negazione
effettuale del trascendentale sarebbe l’isolamento dell’intenzione soggettiva (finis operantis)
dalla esecuzione (obiectum actionis): nel senso che, se il negatore effettuale riuscisse davvero
a realizzare la propria intenzione, si autosottrarrebbe alla prassi (anche linguistica). Dunque, il
negatore non può voler dire quel che dice negando, perché quel che dice negando è
l’impossibile (ed è quindi ciò che non può essere voluto ― propriamente, cioè sub specie im-
possibilitatis –, perché non può essere propriamente pensato). Ora, compito di élenchos è ap-
punto quello di far apparire l’impossibile sub specie impossibilitatis, e di mettere in luce,
dunque, che il negatore vuole, esegue e radicalmente pensa sempre altro rispetto alla intenzio-
ne che dichiara. Perciò, l’afasía cui la negazione effettuale rinvia, per quanto irrealizzabile, è
un “limite teoretico” che risulta in qualche modo euristico: infatti, essa è il luogo di una pos-
sibile semantizzazione diairetica tra illocutorio e locutorio, in quanto il negatore effettuale
prospetta una illocuzione (una intenzione comunicativa) priva di una proiezione locutoria pos-
sibile ― mentre ogni proiezione locutoria di quella illocuzione sarebbe, rispetto alla medesi-
ma, un controesempio; così, l’illocuzione acquista rilievo come un che di autonomo rispetto
alla locuzione (e viceversa), e, d’altra parte, essa si mostra come qualcosa che, nel suo ipoteti-
co isolamento, non produce alcunché di discorsivo, ed è dunque strutturalmente riferita ad un
qualche contenuto (la locuzione). Ma la più generale figura “limite” della apraxía, è luogo di
una più ampia semantizzazione diairetica: quella, che già si diceva, tra intenzione ed esecu-
zione (tra ciò che ci si propone di fare e ciò che realmente si fa, nel dar corso al proponimen-
to). Infatti, per dir così, la proiezione poietica della intenzione pratica annunciata, è di per sé
nulla; mentre, ogni proiezione non nulla realizzerebbe eo ipso un controesempio
dell’intenzione stessa. Qui, dunque, si vede ― come limite teorico ― lo spezzarsi della prassi
in una intenzione e in un oggetto d’azione (pragma), di cui il secondo acquista un rilievo au-
tonomo rispetto alla prima, mostrando la propria refrattarietà al progetto di negazione effet-
tuale (delle strutture principiali), che la prima contiene. Si può d’altra parte osservare che il
locutorio, prodotto senza tematico riferimento alle strutture principiali, resta all’interno
dell’orizzonte come semplice dato ontico, perdendo la sua specificità ontologica. Ciò, però,
non offre spunti per una semantizzazione simmetrica alla precedente. E la ragione è che, in
questo caso, non va perduto il riferimento all’illocutorio: infatti, per fare un esempio eminen-
te, anche per quanto riguarda la stessa contraddizione in termini (proposizionale), sembra es-
senziale che essa si dia all’interno di un ambito illocutorio determinato e decifrabile, senza del
quale non sarebbe rilevabile come contraddizione. Si pensi, ad esempio, ad una situazione
che, risultando autocontraddittoria in un contesto standardizzato in senso assertorio (come
quello di una ricostruzione storica), potrebbe non esserlo più in un altro riferimento illocutorio
(come quello della poesia), aperto alla presenza della metafora viva. Un approfondimento ul-
teriore della analisi, consentirebbe però di rilevare un più fitto coinvolgimento reciproco delle
due dimensioni. Infatti, l’illocutorio, anche come pura intenzione, sarebbe destinato alla laten-
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 227
sua volta l’espressione di una autocontraddizione (P ∧ ¬P). Il “togliere”
e il “porre” ora in questione, infatti, non stanno tra loro sullo stesso pia-
no: non coincidono, cioè, con due mere locuzioni45. Per capirlo meglio,
è opportuno considerare partitamente i due casi di “toglimento” tradi-
zionalmente ipotizzati: quello di una “negazione formulata” (NF) dei
principi e quello di una loro “negazione effettuale” (NE).
Per il primo caso, si può rilevare che la NF di certe costanti tra-
scendentali, si realizza all’interno di quelle stesse costanti: essa fa ciò
che nega ― proprio nell’atto di negare ―; ovvero, “performativamen-
te” non riesce ad evadere da ciò che “locutoriamente” rifiuta. Qui si
tratta di rilevare come certe formulazioni locutorie dicano una nega-
zione di cui non sanno dare esecuzione. La NF è infatti, ad un livello
elementarmente ontico ― come ente fra gli enti (o meglio, pragma fra
i prágmata) ―, realizzativa di quelle costanti semantiche che entrano
a costituire tutto ciò che compare nell’orizzonte apofantico46. Questo
livello di considerazione del linguaggio è però generico: tanto generi-
co da comprendere in sé lo stesso linguaggio autocontraddittorio
(quello che rinuncia ad essere specificamente linguaggio). Senonché,
la NF è realizzativa del trascendentale anche secondo una più elevata
considerazione, specificamente ontologica47, per la quale anche quella
particolare apofansi che la NF è, risulta inveramento delle strutture
principiali: sia con la sua struttura sintattica, sia con la sua intenziona-
lità semantica (pragmaticamente condizionata).
za, se non fosse traducibile, sia pure per locuzione interiore all’io, in un che di espresso e di
comunicabile; il che significa che ― a rigore ― la stessa intenzione negatrice dovrebbe, per
coerenza, autosopprimersi. Così, si può dire che la semantizzazione prima suggerita accada in
una fase non ancora estrema del percorso elenctico.
45
Dunque, non vale obiettare che:
togliere NC ≡ ¬P
porre NC ≡ P
togliere–porre NC ≡ ¬P ∧ P
Infatti, le due figure non sono simmetriche: “togliere” implica “porre”, ma non viceversa.
Quindi: T → P, vale a dire: ¬(T ∧ ¬P); mentre, ¬(P → T), vale a dire: P ∧ ¬T.
46
Dire qualcosa, è a sua volta un che di incontraddittorio ― foss’anche un’autocon-
traddizione il contenuto di questo dire, oppure la negazione formulata del PDNC. Dal punto di
vista ontico, si può chiaramente osservare che il dire e il non dire non sono tra loro indifferen-
ti, e che, anzi, si escludono nella simultaneità.
47
È la considerazione per cui il dire non è un fare qualunque, bensì un fare nel quale, a-
prendosi l’orizzonte apofantico, è l’essere che si rivela come tale ― essendo, le costanti apo-
fantiche, funzionali a tale rivelazione.
228 Parte terza: studi su libertà e principialità
Nel caso della negazione effettuale (NE), è possibile distingue-
re due situazioni. La prima è quella di una messa fuori gioco par-
ziale delle strutture apofantiche, che ne violi esplicitamente qual-
cuna, all’interno dell’esercizio delle altre. In tal senso, si può cita-
re il caso di una formulazione volutamente autocontraddittoria, o
quello di un differimento all’infinito della determinazione seman-
tica dei termini, o quello di un differimento all’infinito della re-
sponsabilità illocutoria: tutti casi nei quali il dire, pur costituendo-
si per qualche aspetto, si ridurrebbe però ad un fare qualunque (di
tipo semplicemente ontico)48. La seconda situazione è quella di
una radicale epoché afasica (di tipo pirroniano) ― che si vieta,
comunque, di accedere al piano stesso della apofansi, e quindi an-
che di accedere al proprio apparire come negazione; e che, nella
misura in cui si realizza, lo fa vivendo parassitariamente delle
stesse strutture che epochizza. L’estrema possibilità di una NE
sembra dunque affidata ad una strategia del silenzio, la quale non
concederebbe nulla alle costanti trascendentali, ma neppure por-
rebbe nulla di proprio o di alternativo ad esse, soprattutto in con-
siderazione del fatto che il silenzio autentico del negatore dovreb-
be essere anche interiore e, in generale, dovrebbe essere anche ri-
nuncia ad una prassi intenzionale. Tali improponibili strategie di
NE si manterrebbero comunque inconciliabili con le rispettive op-
zioni contraddittorie ― e, anche solo per questo verso, fruirebbero
del regime trascendentale49.
2.3. Élenchos e libertà
In fondo, i grandi interpreti del motivo elenctico, hanno prospettato
una alternativa radicale: quella tra una adesione alle costanti
dell’essere, che sia consapevole e voluta (cioè libera); e una adesione
coatta, in cui, al tentativo di affermare la propria autonomia rispetto al
destinale, fa riscontro una forza delle cose che costringe ad una ade-
48
Seguendo il vocabolario di Austin: l’atto fatico verrebbe meno, e coinvolgerebbe in
questo l’atto retico (cioè, l’intenzionalità del dire).
49
Questo significa che il negatore realizzerebbe comunque i principi, sia pure secondo il
livello sempre più elementare di negazione sul quale sceglie via via di attestarsi.
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 229
sione da schiavi (come dice Epitteto)50 ― di cui è paradigma regolati-
vo il vivente vegetativo (pephykós)51.
Ora, la NE del trascendentale è violenza; la quale però non è poten-
te quanto all’ontologico, ma solo quanto all’ontico. Insomma, la vio-
lenza non è patita dal trascendentale; piuttosto essa si traduce in una
automutilazione del violento, il quale si trova ― senza peraltro riusci-
re ad attuare l’intenzione specifica della sua strategia ― a ridurre il
proprio agire ad un mero fare, che sarà, in generale, un muoversi al-
meno potenzialmente autolesionistico, “aprassico”: un fare a caso. E
sarà, specificamente, un parlare ontico (in latino: pronuntiare, in gre-
co: phthéngomai), non più rivelativo dell’essere: dunque “afasico”, nel
senso di banalizzato. Ma la dissociazione progressiva che il negatore
realizza, è dissociazione dal proprio riconoscimento del trascendenta-
le, e non ovviamente dal trascendentale stesso. Perciò, egli si sottrae a
se stesso; più precisamente, alla propria capacità di aderire liberamen-
te al trascendentale ― tendenzialmente regredendo dalla specie al ge-
nere, dal signatus all’exercitus.
2.4. La natura non formalistica di élenchos
La formula anairón logon hypoménei logon, potrebbe sembrare as-
similabile alla “regola di autofondazione” (AF), propria del calcolo
50
Il quale, paradossalmente, fa recitare la parte dello schiavo (negatore) ad un padrone di
schiavi–filosofi, che gli rendono la vita impossibile, prendendo alla lettera la sua negazione
teorica dei principi. Sul tema rinviamo al cap. I della Parte III del presente volume (il riferi-
mento è a: Epitteto, Diatribe, II, 20).
51
Infatti, si tratterebbe di regredire al generico livello vegetativo, per poter sostenere una
posizione propriamente non pensabile, tale insomma da escludere lo hypolambáno (suscipio):
la posizione di chi si muove acriticamente. Al riguardo, il testo aristotelico di Metafisica, IV,
1008b 11 presenta la variante ton pephykóton (plurale del participio perfetto di phyo), riporta-
ta nei codici Vindobonensis e Laurentianus. Ora, tale variante dice, forse meglio della sua al-
ternativa (ton ghe phytón), la regressione ipotetica al generico, che la NE richiederebbe. Essa
è discussa nel Commentario di Tommaso che ― riportata la dizione prevalente ― aggiunge:
«Alius textus habet [differre] 'ab aptis natis'. Et est sensus, quia talis, qui nihil suscipit, nihil
differt in hoc quod actu cogitat, ab illis qui apti nati sunt cogitare, et nondum cogitant actu;
qui enim apti sunt cogitare de aliqua quaestione, neutram partem asserunt, et similiter nec i-
sti» (cfr. Tommaso d’Aquino, Sententia super Metaphysicam, lect. IX; in edizione Fiaccadori,
Parma). Qui Tommaso accomuna i non ancora pensanti in atto e i regredienti tendenziali al
generico, nella esclusione (rispettivamente involontaria e volontaria) del suscipere ― in cui il
generico opinari è specificato dalla assertio distinguente (che afferma o nega).
230 Parte terza: studi su libertà e principialità
proposizionale52: quella per cui “se una formula è derivabile dalla sua
negazione e da eventuali altre assunzioni, allora è derivabile da
quest’ultime soltanto”53. In realtà, due ― almeno ― sono le ragioni
che rendono inassimilabili tra loro le figure in questione. In primo luo-
go, élenchos non può essere inteso come una regola derivabile di un
calcolo logico ― come si propone di essere invece AF54 ―; più in par-
ticolare, élenchos non presuppone la validità di “regole di derivazio-
ne” alla propria capacità argomentativa. In secondo luogo, l’insieme
di assunzioni introdotto con AF è, per ragioni ovvie, di tipo puramente
proposizionale, e dunque locutorio; quando invece, già da uno sguardo
sommario alle esecuzioni elenctiche di Gamma, si può arguire che é-
lenchos si istituisce alla confluenza di più dimensioni linguistiche55.
L’élenchos del PDNC non è dunque un procedimento di derivazio-
ne logico–formale56. E questa osservazione, lungi dal costituire obie-
52
Tale regola corrisponde alla cosiddetta consequentia mirabilis (cfr. F. Bellissima ― P.
Pagli, Consequentia mirabilis, Olschki, Firenze 1996): (¬p → p) → p. Franca D’Agostini
parla, al riguardo, di “straverità”, e aggiunge: «la straverità è la base, per lo più inavvertita e
misconosciuta, della teoria classica della verità. Agostino per primo nei Soliloqui, e con lui
molti altri, hanno autorevolmente sostenuto che la fondazione della verità si ottiene per la via
della non verità. L’enunciato ‘la verità non esiste’ si sottopone infatti all’obiezione elenctica
[...] Caso singolare di una tesi che contiene il proprio controesempio: ossia a rigore, caso pa-
radigmatico di straverità» (cfr. F. D’Agostini, “La stessa ferita ti salverà”. Nota sulla diago-
nalizzazione antifrastica, pp. 123–124).
53
La formulazione è tratta da: S.Galvan, Logiche intensionali, p. 33. Qui AF è formulata
come segue:
X ¬α |- α
X |- α
54
Secondo la seguente derivazione:
X¬α |- α hyp.
¬α |- ¬α A
X |- α ¬k
55
Anche altre ragioni, più evidenti, vietano di pensare AF come formalizzazione di élen-
chos: e precisamente la presenza, nella sequenza di derivazione di AF, di due regole come ¬k
e come la “regola di assunzione” (X |- α, per α ∈ X). Infatti, in quest’ultima qualcuno vuol
vedere la formalizzazione a livello proposizionale del “principio di identità–determinazione”,
in difesa del quale élenchos dovrebbe semmai intervenire; mentre ¬k è la formalizzazione
dell’apagogia, che a sua volta presuppone ― anche se non tematicamente ― il valore di
PDNC e PTE, sui quali élenchos è pure chiamato ad intervenire.
56
Nell’equivoco ― analogo ― di trattare il cogito come se fosse una derivazione logisti-
ca, cade F. D’Agostini (cfr. “La stessa ferita ti salverà”, pp. 114–117), che ― indicando con
D l’atto del dubitare ― traduce l’argomentazione di Cartesio come segue:
D(x) = x ∨ ¬x per significato di D
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 231
zione, va a difesa della specificità elenctica. Del resto, ciò che élen-
chos mette in questione, e sostiene, non sono ― in prima battuta ― i
possibili corrispettivi logico–formali dei principi primi; ma sono piut-
tosto i principi stessi nella loro valenza trascendentale: quella, per in-
tenderci, all’interno e nel rispetto della quale si dà l’istituzione gram-
maticale e sintattica, e l’interpretazione semantica, di ogni calcolo
possibile ― compresi i calcoli non–scotiani –; quella valenza, cioè, ri-
spetto alla quale non è possibile porsi a distanza. In altri termini: nel
programma elenctico non rientra qualcosa come la derivazione apodit-
tica della regola NC per tutte le formule di un certo linguaggio, ma
semplicemente la messa in chiaro che il PDNC è implicazione inevi-
tabile di qualunque positività.
In base a queste osservazioni, si possono considerare nella giusta
luce alcuni interessanti tentativi volti a mostrare l’impossibilità di ri-
dare una versione puramente logico–formale di élenchos (in relazione
al caso classico del PDNC). In particolare, da parte di alcuni autori, si
ipotizza la costruzione di un “calcolo e” ― che assuma come regole di
derivazione, quelle che sono riconosciute come “base comune” nella
discussione tra lo scettico (S) e il suo oppositore (O)57. Obiettivo per-
seguito sarebbe la derivazione in e di ¬τ (negazione della tesi dello
scettico), attraverso la sequenza di “autocontraddizione elenctica” (A-
E), per cui τ |- ¬τ
|- ¬τ.
Ma in e rientreranno anche alcune “minimali condizioni di coeren-
za”: S1 (che indica l’assunzione in e di tutto ciò che è condizione ne-
cessaria perché τ rimanga fermo)58, ed S2 (che indica l’esclusione da e
D(D(x)) = (x ∨ ¬x) ∨ ¬(x ∨ ¬x) per significato di D
D(D(x)) = (x ∨ ¬x) ∨ (¬x ∧ x) Tr di De Morgan
D(D(x)) = x ∨ ¬x eliminazione della contraddizione.
Una formula, l’ultima ottenuta ― x ∨ ¬x –, che si riproporrebbe per ogni ulteriore reite-
razione della D. Da cui la D’Agostini conclude che «l’iterazione del dubbio conferma il dub-
bio» (cfr. ibi, p. 115). Qui, evidentemente, manca la considerazione dell’elemento pragmatico,
su cui si innesta l’argomentazione elenctica reale.
57
Cfr. in particolare: S. Galvan, Le regole della negazione nella logica classica, intuizio-
nistica e minimale, Pubblicazioni ISU Università Cattolica, Milano 1994, pp. 79–89. La “base
comune” in questione viene fatta coincidere, da Galvan, con la base comune dei calcoli pro-
posizionali “classico”, “intuizionistico” e “minimale” + la regola E∀.
58
τ |- α
232 Parte terza: studi su libertà e principialità
di tutto ciò che impedirebbe di tener fermo τ)59. Dunque, se O riuscis-
se a derivare la premessa τ |- ¬τ (per brevità p), potrebbe ― applican-
dola a S2 ― ottenere la AE, con la conseguente derivazione di ¬τ in e.
Ora, se è possibile la derivazione di p ― nel linguaggio di e ― par-
tendo dalla negazione generalizzata del PDNC: ∀α(α ∧ ¬α)60; altret-
tanto non accade nel caso di una negazione locale del PDNC: ∃α(α ∧
¬α). Da quest’ultima assunzione, infatti, non si può più derivare p (e,
con esso, NC)61. Per farlo, occorrerebbe potenziare e con
l’introduzione di qualche regola aggiuntiva ― ad esempio la regola
¬i, detta anche dello “pseudo–Scoto”62.
Prima osservazione: è vero che la dinamica elenctica sta nel pas-
saggio dalla posizione della negazione, alla rilevazione della formale
autoesclusione di questa; ma sta anche ― e principalmente ― nella
messa in luce del convenire obiettivo della negazione con la struttura
che essa va a negare: di modo che occorrerà precisare che l’auto-
esclusione compete alla negazione (nella fattispecie, del PDNC) in
quanto è negazione (cioè, in quanto ha come contenuto locutorio la
negazione del principio), e non in quanto è “posizione” della negazio-
ne (cioè, in quanto è l’atto linguistico che ha quel contenuto)63. Infatti,
|- α
59
α |- ¬τ
|- ¬α
60
∀α (α ∧ ¬α) |- ∀α (α ∧ ¬α) A
∀α (α ∧ ¬α) |- τ ∧ ¬τ E∀
τ |- ¬τ E∧ e def. di τ (in senso generalizzato)
61
La non derivabilità di NC all’interno di e ― secondo Galvan ― non è solo questione di
fatto, ma può anche essere stabilita a priori, considerando che NC non è derivabile neppure
nel calcolo b+AC, di cui e è soltanto una restrizione (ottenuta per applicazione di AC al caso τ
). E che NC non sia derivabile nel calcolo b + AC, è qualcosa che l’autore ha dimostrato con
un teorema precedente, basato sulla costruzione di un contromodello per NC all’interno di una
semantica di tipo kripkiano, verificante la “correttezza” di b + AC. (Cfr. S. Galvan, Le regole
della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, pp. 71–74).
62
La derivazione potrebbe essere questa:
α ∧ ¬α |- α ∧ ¬α A
α ∧ ¬α |- α E∧
α ∧ ¬α |- ¬α E∧
α ∧ ¬α |- ¬(α ∧ ¬α) ¬i
τ |- ¬τ def. di τ
63
Diciamo “posizione” della negazione ― e non semplicemente “atto del negare” ―, per-
ché, che l’atto del negare non possa risultare semplicemente annullato dal successivo atto del
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 233
la stessa negazione, considerata nella sua struttura sintattica e nella
sua intenzionalità semantica (pragmaticamente condizionata), è inve-
ramento del trascendentale secondo le sue diverse valenze: nella fatti-
specie, è inveramento del PDNC in quanto norma della autocoerenza
sintattica e della determinatezza semantica e illocutoria.
Seconda osservazione: che la cosiddetta “negazione locale” di NC
non risulti logisticamente confutabile, è qualcosa che non intacca il
senso proprio di élenchos. Infatti, anche la negazione “locale”, per
proporsi come tale, ha bisogno di osservare di fatto ― come è testi-
moniato dalle regole S1 ed S2 ― quella condizione di autocoerenza di
cui NC è espressione formalizzata: anche la negazione locale, infatti,
evita di porre la negazione di sé. Non solo, ma così facendo, essa tute-
la la propria determinatezza semantica, e lo fa attraverso una ― alme-
no implicita, ma comunque esplicitabile ― intenzione illocutoria: S1
ed S2 vanno infatti tradotte (o proiettate) nei modi che si diceva.
Comunque, che il progetto complessivo di un calcolo e fosse ina-
deguato alla espressione di élenchos, è qualcosa che era lecito prono-
sticare già in partenza, rilevando che AC (regola fondamentale in e)
viene derivata attraverso l’impiego di ¬j. Ora, se ¬j non presuppone
formalisticamente la validità di NC, è però chiaro che essa esprime
tematicamente la valenza di “incompatibilità” sintattica, che è propria
del PDNC, e alla “evidenza” di esso fa sicuro riferimento. Così, la
pretesa formalizzazione di élenchos finisce per prospettarsi come una
petitio principii, in cui si presume di far valere, in questo caso, NC,
facendo appello a regole di derivazione che vivono già dell’evidenza
del PDNC trascendentalmente considerato.
2.5. Ancora l’equivoco gnoseologistico
Se non che, la difficoltà già discussa a proposito dell’apagogia ―
potere di negare l’altrui, ma non di affermare il proprio ―, viene nor-
malmente opposta anche ad élenchos. Il dualismo gnoseologico si
concreta, qui, nella pretesa distinzione tra una “impossibilità metafisi-
ca” o assoluta (IM), e una “impossibilità epistemica” (IE)64; laddove la
negare la negazione, è qualcosa che va da sé.
64
Cfr. H. Putnam, Analyticity and Apriority: beyond Wittgenstein and Quine, in: Id., Phi-
234 Parte terza: studi su libertà e principialità
IM sarebbe valida incondizionatamente (cioè, per ogni mondo possibi-
le)65, mentre la IE sarebbe valida in quel mondo che è accessibile alle
condizioni di esercizio in cui si trova l’intelligenza propria dell’uomo.
La realtà è che la distinzione stessa tra condizionato e incondizionato è
qualcosa che si colloca nell’orizzonte trascendentale, e si costituisce
grazie alle strutture di questo: di qualcosa, dunque, che si trova al di
qua della stessa pretesa distinzione. E lo stesso Putnam, cui si deve la
più fine proposta della distinzione in parola, è costretto a riconoscere
l’accessibilità del trascendentale, come condizione di esercizio di ogni
revisione critica del sapere66.
Comunque, secondo alcuni autori, la distinzione tra IE e IM gioche-
rebbe in élenchos, in quanto elencticamente si potrebbe solo esperimen-
tare che, di fatto, non si è in grado di produrre attualmente controesempi
ai principi; ma ciò non toglierebbe che la situazione attuale possa essere
smentita in qualche mondo possibile (M’). Al riguardo, osserviamo due
cose. (1) La “innegabilità attuale” non coincide affatto, di per sé, con
qualche forma di “contingenza”67. Contingente è infatti ciò che potreb-
losophical Papers, vol. III, Cambridge University Press 1983.
65
Si può aggiungere, al riguardo, che il fraintendimento della portata autentica delle strutture
principiali sembra oggi facilitato da una certa enfatizzazione della nozione kripkiana di “mondo
possibile”. A proposito della quale conviene osservare che, affinché siano ipotizzate anche situa-
zioni di “mondi non–normali”, occorre comunque che risulti posta tutta una serie di condizioni
strutturali, relazionali e interpretative, tali da portare ad intelligibilità il “modello” entro cui siano
progettabili quei mondi: modello che dovrà essere ipotizzato nel rispetto di regole rigorose che ne
impediscano la autobanalizzazione. Ciò significa che si struttura sulla base del PDNC come norma
trascendentale, anche un “mondo” in cui ― stanti le ipotesi su cui è progettato ― siano derivabili
insieme la negazione di una formula e la negazione di quella negazione.
66
Quando Putnam parla di “esseri razionali” in generale, si riferisce implicitamente proprio
al pensiero in senso trascendentale, di cui la logica indica le dimensioni costanti. Ora,
l’apofantico in quanto tale è apparire dell’orizzonte trascendentale e delle sue costanti; ed anche
Putnam sembra riconoscerlo, quando vede nel giudizio il luogo di resistenza ad un fallibilismo
assoluto. Il giudizio è, anche dal suo punto di vista, custode di una consapevolezza che non può
essere negata se non a costo della banalizzazione totale (noi parlavamo, al riguardo, di una cadu-
ta nel semplicemente ontico). Non interessa ora discutere della formulazione che Putnam dà di
questa consapevolezza: ciò che conta, è che egli la riconosce ― sia pure con qualche incertezza
― come la condizione stessa dell’esercizio di ogni revisione possibile, ovvero di ogni progresso
del sapere. Chi è capace del “giudizio”, dunque, è capace del trascendentale, e, con questo, del
logico. L’IE non è dunque niente di diverso dall’IL; e l’ “ineludibilità” principiale non è una
modesta scappatoia di fronte all’incapacità apodittica, bensì è l’esercizio più acuto della capacità
critica ― rispetto al quale la movenza apodittica brilla semplicemente di luce riflessa.
67
Leggiamo infatti che, «in quanto dimostra solo l’innegabilità attuale di un certo sapere,
[l’élenchos] non è in grado di escluderne la rivedibilità. Non è quindi in grado di fornire un
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 235
be, intelligibilmente, non essere; mentre le verità a statuto elenctico so-
no precisamente il luogo in cui si costituisce l’intelligibilità stessa:
quindi il loro non essere risulta con ciò inconcepibile. (2) Quando si
chiede che, perché stiano saldi i principi, venga esclusa la possibilità di
una forma radicalmente nuova e diversa di pensiero, si chiede, non solo
qualcosa di autocontraddittorio ― nel senso della contraddizione per-
formativa ―, ma anche qualcosa di più radicalmente inconcepibile,
proprio in senso elenctico. La contraddizione performativa di pensare
(attualmente) qualcosa che, per ipotesi, non è attualmente pensabile, si
traduce nella constatazione della impossibilità che il pensiero esca da
sé, e nella necessità (sperimentata) che esso convenga con sé.
Occorre però considerare che l’impossibilità ad uscire da sé del
pensiero, non è semplicemente il fregeano «non poter uscire dalla
propria pelle»68, ma è piuttosto la stessa intrascendibilità del trascen-
dentale. Se davvero si pretendesse che M’ venisse attualmente conce-
pito, per essere poi escluso in qualche modo, si pretenderebbe in real-
tà, non l’inverarsi del programma elenctico, quanto piuttosto il suo
stesso autoconfutarsi: se infatti M’ risultasse attualmente concepito,
sarebbe con ciò stesso qualcosa di possibile. Ma chi sostiene il pro-
gramma elenctico sa anche che, se M’ venisse attualmente concepito,
esso non sarebbe più M’ ― che nell’attuale orizzonte è destinato per
ipotesi a non comparire ―, ma sarebbe piuttosto qualcosa d’altro: per
esempio, il contenuto ipotetico di una evocazione strategica.
3. Regresso ontologico
L’attenzione che abbiamo dedicato alla figura elenctica è dovuta al
fatto che essa rappresenta la differenza specifica di una logica filosofi-
ca, rispetto ad una logica semplicemente apodittica.
Non deve trarre in inganno, circa il potere fondativo dei sistemi apo-
dittici, il fatto che di alcune costruzioni di questo genere69 si possa di-
sapere che possa oltrepassare la contingenza, la storicità delle nostre pratiche discorsive» (cfr.
M. Bianchin, L’argomento trascendentale, «Verifiche», XX [1991], p.202).
68
Cfr. G. Frege, Grundgesetze der Arithmetik (1893), Wissenschaftliche Buchgesell-
schaft, Darmstadt 1962, I. Band, p. XVII.
69
Come il calcolo proposizionale classico o il calcolo dei predicati del primo ordine.
236 Parte terza: studi su libertà e principialità
mostrare la completezza semantica. Infatti, la stessa semantica dei cal-
coli cui ora facciamo allusione, viene costruita assumendo un meta–
linguaggio, la cui assiomatica potrebbe essere discussa criticamente so-
lo in un ulteriore ambito meta–linguistico, e così via; mentre, il tentati-
vo di evitare il rinvio meta–linguistico, darebbe luogo ai noti cortocir-
cuiti indicati dai teoremi di incompletezza. In altre parole, ciò che vale
per l’assiomatizzazione della “aritmetica ricorsiva primitiva” ― e cioè
l’impossibilità di derivare la propria completezza sintattica e semantica
all’interno di una variante del proprio stesso linguaggio –, vale a mag-
gior ragione per gli altri linguaggi formalizzati, che in quello aritmetico
hanno il loro analogato principale70. Tutto questo, però, riguarda appun-
to i linguaggi strutturalmente apodittici; e non la filosofia, che essen-
zialmente è altra cosa.
L’apodittica, dunque, è destinata ad assumere una forma aperta, nel
senso che non le è possibile ritornare su di sé per derivare nel proprio lin-
guaggio tutte le proprie assunzioni. In termini più tradizionali,
l’incompletezza semantica strutturale, cui è destinato il discorso apoditti-
co, dice che esso ha un valore ipotetico. Ma si potrebbe anche descrivere
l’apodittica come un tipo di linguaggio programmaticamente monodi-
mensionale, che, in quanto tale, ha tra le sue possibilità quella di progre-
dire nell’operare la derivazione, o quella di arretrare nel ricostruirla, arre-
standosi però all’accettazione di regole primitive di derivazione.
70
È vero che ― a partire dai teoremi di incompletezza ― «si ha l’infondabilità logica
dell’affidabilità delle procedure in uso nella matematica». Ed è anche vero che «tali procedure
sono [...] le procedure di fondazione più rigorose che il pensiero umano abbia mai escogitato»
(cfr. S. Galvan, Introduzione ai teoremi di incompletezza, FrancoAngeli, Milano 1992, p.
195). Bisogna precisare, però, che questo è vero nell’ambito del sapere apodittico; e la filoso-
fia non è un sapere di questo tipo. Per questo non avrebbe senso proporre una disgiunzione di
questo tipo: o élenchos è un procedimento apodittico, e allora è destinato a subire la legge del-
la incompletezza sintattica (e semantica), oppure esso non è apodittico, e allora non è neppure
un procedimento razionale. Infatti, la disgiunzione ora richiamata ― che è quella tra incom-
pletezza sintattica e insensatezza ― finisce per presupporre, senza ragione, la portata totaliz-
zante dei teoremi di Gödel, quasi che anche il procedimento elenctico non potesse essere altro
(e perché mai?) che una teoria aritmetizzabile sul paradigma della aritmetica ricorsiva primi-
tiva ― cui le dimostrazioni di incompletezza ora accennate fanno riferimento. È lo stesso Gö-
del, del resto, a non estendere la portata delle sue dimostrazioni di incompletezza al di là del
ben preciso ambito dei sistemi che formalizzino “forme dimostrative finitiste” (cfr. K. Gödel,
Discussion on providing a foundation for mathematics [1931], Postscript, in: Id., Collected
Works, vol. I, edited by S. Feferman, Oxford University Press – Clarendon Press, New York –
Oxford 1986, pp. 203–205).
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 237
Invece, la riflessione propriamente filosofica, pur muovendosi a
partire da innumerevoli presupposti, è in grado di ritornare su di essi
per riscattarli, appunto, elencticamente. Quella che il discorso filosofi-
co persegue, non è dunque una completezza semantica che sia guada-
gnata una volta per tutte, ma piuttosto una completezza semantica che,
dall’interno del discorso stesso, si attualizzi continuamente e secun-
dum quid, cioè in relazione ai presupposti che siano venuti di volta in
volta in luce come tali.
Del resto, il fatto di realizzare la propria completezza semantica,
per dir così, in fieri, è la contropartita del carattere propriamente onto-
logico ― ovvero della portata tematicamente trascendentale ― del
linguaggio filosofico. Esso è quel linguaggio che mette a tema, appun-
to, ciò rispetto a cui non è possibile collocarsi a distanza in nessun
modo, ovvero ciò che non può essere considerato in riferimento ad un
meta–punto di vista71.
Così, a ben vedere, il linguaggio della filosofia ― che è specifica-
mente quello ontologico ― si trova in una situazione che è analoga,
anche se fortemente caratterizzata, rispetto a quella di un “linguaggio
semanticamente chiuso”72, cioè tale da discutere di sé, della propria
sintassi e semantica, al proprio interno73. Infatti, pur non realizzando
un sistema chiuso, esso è però costretto a non fare appello a metalin-
guaggi che gli siano autonomi.
Dunque, anche nella teoria ontologica classica74 (O) esistono verità
descrivibili con formule del tipo ∀α NC(α)75, tali che O |- NC(α), per
71
«Una metafilosofia non c’è» (cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Grammatik, I, n. 72).
72
Per esprimerci con Tarski. «Abbiamo assunto implicitamente che il linguaggio nel qua-
le viene costruita l’antinomia contenga, oltre che espressioni, anche i nomi di queste espres-
sioni, e anche termini semantici come il termine ‘vero’ riferito a enunciati di questo linguag-
gio; abbiamo anche assunto che tutti gli enunciati che determinano l’uso adeguato di questo
termine possono essere asseriti nel linguaggio. Un linguaggio con queste proprietà si dice
‘semanticamente chiuso’» (cfr. A. Tarski, The Semantic Conception of Truth and the Founda-
tions of Semantics, pp. 27–45).
73
Il cui paradigma potrebbe essere offerto dalla “aritmetica ricorsiva primitiva” di Sko-
lem: «sistema assiomatico che intende catturare l’insieme delle proposizioni finitarie e si pro-
pone, al contempo, di formalizzare il concetto di procedura finitaria di derivazione, nel senso
che le procedure finitarie sono tutte e solo quelle formalizzabili entro tale sistema o suoi equi-
valenti» (cfr. S. Galvan, Introduzione ai teoremi di incompletezza, p. 117).
74
Tale cioè da ammettere la pertinenza ontologica dei primi principi, e la loro difendibili-
tà elenctica.
75
Dove NC indica la proprietà di essere non–contraddittorio.
238 Parte terza: studi su libertà e principialità
ogni α, e tuttavia O |-/ ∀αNC(α) ― come previsto dal cosiddetto pri-
mo teorema di Gödel76. Nella fattispecie dell’esempio emblematico
ora scelto, la consistenza va assunta, piuttosto che derivata. Ovvero, la
verità della incontraddittorietà trascendentale non può essere attestata
da procedure di derivazione nel linguaggio di O; e, rispetto ad O, la
formula ∀α NC(α) ha un senso infinitario. Questo, però, lungi dal co-
stituire un’aporia, apre piuttosto alla corretta considerazione di O, la
cui consistenza si radica nella interpretazione di quel, sia pur singola-
re, “universo”, che è il trascendentale stesso.
La coerenza, insomma, è preceduta dalla verità ― cioè dalla mani-
festazione dell’essere ―, e si fonda in essa. Va dunque riconosciuta
“regredendo”77 a quel modello trascendentale, che è la realtà ontologi-
camente interpretata. La nostra indicazione risulta in tal senso con-
forme con l’esito storico–teorico che i teoremi di incompletezza hanno
generato, e cioè la semantica dei modelli78, come terreno di verifica:
76
Da Rosser in poi, è usuale chiamare “primo e secondo teorema di Gödel”, rispettiva-
mente il teorema VI e il teorema XI della celebre ― e già citata ― memoria gödeliana del
1931 (cfr. J.B. Rosser, An Informal Exposition of Proofs of Gödel's Theorem and Church's
Theorem, «The Journal of Symbolic Logic», IV (1939), pp. 53–60). Il “primo teorema” enun-
cia la incompletezza sintattica di sistemi “semanticamente chiusi”: incompletezza sintattica
dalla quale ― come già si accennava ― è possibile derivare l’incompletezza semantica dei
medesimi.
77
L’espressione è propria di Antonio Rosmini, ma ― prima ancora ― è di Jacopo Zaba-
rella (cfr. A. Rosmini, Teosofia, Prefazione, nn. 28 e 95).
78
«Una realizzazione possibile in cui tutte le proposizioni valide di una teoria T siano soddi-
sfatte è detta un modello di T» (cfr. A. Tarski, A General Method in Proofs of Undecidability, in:
A. Tarsi ― A. Mostowski ― R. Robinson, Undecidable Theories, North–Holland Publishing
Company, Amsterdam 1953, p. 11). «Per quel che riguarda la nozione di soddisfacimento, pos-
siamo tentare di definirla dicendo che certi oggetti soddisfano una certa funzione se quest’ultima
diventa un enunciato vero quando sostituiamo in essa le variabili libere coi nomi degli oggetti
dati. In tal senso, ad esempio, la neve soddisfa la funzione enunciativa ‘x è bianco’, dal momento
che l’enunciato ‘la neve è bianca’ è vero». Per definire, invece, la nozione di verità a partire da
quella di soddisfacimento, occorrerà una nuova definizione di soddisfacimento, ottenuta per
“procedimento ricorsivo”. «Indichiamo quali oggetti soddisfano la più semplice delle funzioni
enunciative; e, in un secondo tempo, stabiliamo le condizioni alle quali certi oggetti soddisfano
una funzione composta [...]. In tal modo, ad esempio, diciamo che certi numeri soddisfano la di-
sgiunzione logica ‘x è più grande di y o x è uguale a y’ se soddisfano almeno una delle funzioni
‘x è più grande di y’ o ‘x è uguale a y’. Una volta ottenuta la definizione generale di soddisfaci-
mento, osserviamo che essa si applica automaticamente anche a quelle speciali funzioni enuncia-
tive che non contengono variabili libere, cioè agli enunciati. Risulta che per un enunciato sono
possibili soltanto due casi: o un enunciato è soddisfatto da tutti gli oggetti o da nessuno. Di qui
arriviamo a una definizione di verità e falsità semplicemente dicendo che un enunciato è vero se
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 239
anzitutto della coerenza interna di un calcolo logico, e poi della sua
validità e della sua completezza sintattica e semantica79. Dunque,
l’interpretazione ontologica della realtà viene a riproporsi come una
sorta di modellistica non–regionale. Questa, del resto, è l’indicazione
che viene dal pensiero dei classici80, secondo cui i primi principi sono
costanti che hanno luogo nell’essere, e lì vengono individuati e astrat-
ti. Nel linguaggio dell’ontologia classica, perciò, non si tratta di stabi-
lire un’assiomatica sull’essere, ma piuttosto di esprimere di esso le
curvature caratterizzanti (archaí)81.
Quando parliamo di “modello” semantico, lo facciamo dunque in
un senso che allude alla induzione aristotelica e tommasiana dei prin-
è soddisfatto da tutti gli oggetti, e falso in caso contrario» (cfr. A. Tarski, The Semantic Concep-
tion of Truth and the Foundations of Semantics, pp. 27–45).
79
«La sostanza del problema semantico per un calcolo si riduce a questo: trovare una inter-
pretazione dei suoi simboli, ossia riuscire a porre una corrispondenza fra i suoi simboli e gli og-
getti di un certo ambito (comprese le relazioni fra questi intercorrenti) che trasformino le formu-
le del calcolo in ‘proposizioni’ concernenti gli oggetti. Se poi l’interpretazione è ben trovata, al-
lora accade che gli assiomi e i teoremi del calcolo divengono proposizioni vere attorno agli og-
getti dell’ ‘universo’ su cui si effettua l’interpretazione; in tal caso si dice che l’interpretazione
offre un modello del calcolo. La ricerca di un modello (e quindi la problematica semantica) ha
acquistato un particolare valore dopo che si scoperse l’impossibilità di ottenere in generale la
prova di coerenza di un calcolo lavorando solo sui suoi simboli: si dimostra infatti che, se un
calcolo ammette un modello, esso è allora coerente, e in tal modo si dispone di un metodo per
verificare la coerenza, di carattere semantico» (cfr. E. Agazzi, La logica simbolica, La Scuola,
Brescia 1990, p. 154). «Se una interpretazione è modello di un calcolo (ossia rende vere tutte le
espressioni in esso derivabili), allora essa non potrà mai essere simultaneamente modello di una
espressione e della sua negazione, il che significa, appunto, che una delle due espressioni non
potrà derivarsi entro il calcolo, e questo risulta perciò coerente» (ibi, p. 346).
80
Si pensi qui a Tommaso, ad esempio. Per l’Aquinate, l’intelligibilità è direttamente
proporzionale alla ricchezza esistenziale: «Unumquodque inquantum habet de esse, intantum
est cognoscibile» (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 16, a. 3). Ma già nel
Commento alle Sentenze leggiamo che la verità si fonda nell’esse della cosa, più che nella sua
essenza definibile (quidditas) (cfr. Tommaso d’Aquino, II Sent., d. 19, q. 5, a. 1; ma anche: i-
bi, d. 33, q. 1, a. 1, ad 1um). La posizione di Tommaso sembra decisamente anti–formalista,
se per formalismo intendiamo il progetto di istituire linguaggi che non siano preoccupati in
primo luogo di parlare della realtà, ma piuttosto di trovare una loro interna coerenza, per cer-
care ― solo dopo ― la loro eventuale corrispondenza ad un “mondo” attuale o possibile. Dal
punto di vista tommasiano, ogni linguaggio non può che strutturarsi sull’essere (in qualcuna
delle varie forme del suo darsi), e la coerenza interna di un discorso può dirsi garantita solo da
questo riferimento ontologico (essendo l’essere, l’incontraddittorietà stessa).
81
Particolarmente coerente con questa consapevolezza si mostra Rosmini, sempre attento
a delineare i primi principi, non come assiomi, ma come espressioni ― per dir così ― del co-
dice genetico dell’essere (cfr. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull'origine delle idee, nn.559–570;
Id., Logica, nn. 337–360).
240 Parte terza: studi su libertà e principialità
cipi dalla ratio entis et non–entis, ma anche in un senso che è critica-
mente riguadagnato dopo la provocazione logistica; e che per questo
sa della inevitabilità di quella istituzione induttiva82.
Non sarebbe, invece, adeguata risposta alla mancanza di una risorsa
metalinguistica, quella di ricondurre il linguaggio propriamente onto-
logico ad un “calcolo elenctico” di tipo finitario, come quello discusso
in precedenza, in cui la derivazione della coerenza del sistema ― nella
forma ∀α NC(α) ― sia data in una sequenza enumerabile di passaggi.
Infatti, un calcolo come quello, riproporrebbe la forma specifica del
sistema chiuso, e, con essa, le aporie evidenziate dai cosiddetti teore-
mi di Gödel, e la necessità conseguente di sfondare la chiusura in di-
rezione di qualche contributo assiomatico aggiuntivo, che si ritenga
affidabile, ma che non sia derivabile però nel sistema stesso (come, ad
esempio, l’assunzione del principio dello “pseudo–Scoto” o di qualche
altra regola meno problematica)83.
4. Il punto di fuga
Mettere a tema l’essere, non presuppone la capacità di collocarsi
in un “nessun dove” perfettamente panoramico; bensì vuol dire
82
Sul senso propriamente teoretico della epagoghé aristotelica, si veda l’importante sag-
gio: C. Vigna, Aristotele e l’induzione (epagoghé), in: Id., Il frammento e l’intero, Vita e Pen-
siero, Milano 2000.
83
In fondo, l’idea di un calcolo elenctico si inserisce in una più generale strategia del tipo
seguente. Di fronte alla impasse evidenziata dai teoremi di incompletezza, sembra ragionevole
proporre una possibile circolarità solida tra un livello “epistemico” e uno “aletico” della giu-
stificazione. Per cui si può giustificare una tesi (nel senso epistemico di “derivarla”) sulla base
del vero che si assume, per poi giustificare il vero che si è assunto, sulla base di un altro lin-
guaggio derivativo (meta–epistemico); conferendo così al proprio discorso una giustificazione
che è fatta valere gradino per gradino ― e non in modo assoluto (su questo, cfr. S. Galvan, In-
troduzione ai teoremi di incompletezza, pp. 194 ss.). È chiaro, però, che la precedente strate-
gia ha senso per certe forme del sapere, ma non per la riflessione sul trascendentale, la quale è
caratterizzata proprio dal non fare riferimento ad un possibile gradino noetico che le sia ulte-
riore o esterno. Perciò, il circolo solido sopra accennato, essa non può che istituirlo entro il
proprio linguaggio, la cui potenza sta proprio, e nella capacità di parlare di sé, e in quella di
giustificare le proprie assunzioni. Del resto, che cosa qualifica come filosofico un procedi-
mento, se non la sua pretesa di riscattare i propri presupposti?
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 241
saggiare l’inevadibilità del positivo, che è testimoniata dal disporsi
in senso propriamente ontologico delle stesse condizioni della ten-
tata evasione.
L’essere non è la totalità degli enti e delle relazioni tra gli enti ― se
il termine “totalità” indica qualcosa di definito da elementi disposti in
senso seriale, o comunque insiemistico. Esso non è neppure, propria-
mente, un normale significato; ma è piuttosto la condizione di ogni si-
gnificato. È ciò di cui parlano i primi principi, cioè quel che di irri-
nunciabile è proprio di ogni positività. È quel che di ogni realtà ha
forma elenctica. E, in tal senso, esso si configura come un implesso84,
piuttosto che come un complesso o una struttura.
La metafisica della trascendenza creatrice ― conseguibile proprio
per via apagogica ― è poi garante della impossibilità che il trascen-
dentale risulti adeguato da una totalità di elementi omogenei tra loro.
La trascendenza creatrice istituisce infatti una asimmetricità radicale,
che vieta ― almeno tra trascendente e trasceso ― una relazione di ti-
po quantitativo; di modo che il trasceso è un positivo altro dal trascen-
dente, ma non tale da poter essere sommato o sottratto a quest’ulti-
mo85. Già Tommaso ― nel De potentia ― indicava come luogo pro-
prio delle relazioni reciprocamente reali, l’ambito delle realtà sottopo-
nibili a una comune regola quantitativa: almeno quella della enumera-
bilità ― con ciò che ad essa consegue86.
84
In un implesso (aperto anche ad ulteriori introduzioni), ciascuna delle verità accertate
non presuppone necessariamente le altre; e ― come corollario di ciò ― ciascuna può anche
essere introdotta in modo indipendente dalle altre. Questo significa che l’implesso di tali
verità (il termine “implesso” deriva da “implicazione”) non è un “complesso” (cioè una
struttura organicistica) ― dove ciascun elemento non potrebbe essere tenuto fermo se non
in solido con gli altri.
85
«È su questo piano [della quantità] che si può operare questo tipo di discorso: ‘Se x è un
numero tale che, aggiunto o sottratto da un numero y, non determina un aumento o una dimi-
nuzione di y, x è uguale a zero’. Sì che applicando questo tipo di affermazione alla presente si-
tuazione logica seguirebbe che la totalità del fenomenologicamente immediato è nulla. Ciò
che qui deve essere rilevato è che il concetto di alterità [...] tra due termini qualsiasi, a, b, non
implica come tale [...] che in a sussista una positività che non sussiste in b, e viceversa. Se
quel concetto implicasse come tale questa proprietà, sarebbe impossibile parlare di alterità tra
l’essere e il nulla, o tra il tutto e la parte» (cfr. E. Severino, La struttura originaria, Adelphi,
Milano 1981, pp. 549–550).
86
«Relationes quae dicuntur de Deo ad creaturam, non sunt realiter in ipso. Ad cujus e-
videntiam sciendum est, quod cum relatio realis consistat in ordine unius rei ad rem aliam, ut
dictum est; in illis tantum mutua realis relatio invenitur in quibus ex utraque parte est eadem
242 Parte terza: studi su libertà e principialità
Il dominio dell’essere, dunque, non è complessivamente riconduci-
bile sotto un’unica regola categoriale, bensì soltanto sotto l’implesso
dei principi trascendentali (secondo quel primordiale senso della uni-
vocità, che nulla toglie alla analogicità dell’essere, essendo anzi con-
dizione di possibilità di questa)87.
Quel che è di pertinenza elenctica, è di pertinenza trascendentale; e
con ciò va a delineare una ontologia elementare, costituita da elementi
irrinunciabili, non opzionali. Di pertinenza di una ontologia elementa-
re è, anzitutto, la calibrazione del termine “trascendentale”. Ciò che si
è inteso far venire alla luce era proprio una accezione primordiale di
questa figura, tanto variamente interpretata. “Trascendentale” in senso
originario, è appunto ciò che gode di statuto elenctico. Dire che il tra-
scendentale è l’elenctico, è come dire che esso è l’inevadibile. Ed ine-
vadibile in senso proprio, non sarebbe né un essere che fosse inteso
come semplicemente dato al pensiero, né un pensiero rispetto al quale
l’essere risultasse una alterità irraggiungibile: in entrambi i casi, infat-
ti, il trascendentale sarebbe già tradito, o nel senso che il pensiero sta-
rebbe oltre l’essere o nel senso che l’essere starebbe oltre il pensiero.
ratio ordinis unius ad alterum: quod quidem invenitur in omnibus relationibus consequenti-
bus quantitatem. Nam cum quantitatis ratio sit ab omni sensibili abstracta, ejusdem rationis
est quantitas in omnibus naturalibus corporibus. Et pari ratione qua unum habentium quanti-
tatem realiter refertur ad alterum, et aliud ad ipsum. Habet autem una quantitas absolute
considerata ad aliam ordinem secundum rationem mensurae et mensurati, et secundum no-
men totius et partis, et aliorum hujusmodi quae quantitatem consequuntur. In relationibus au-
tem quae consequuntur actionem et passionem, sive virtutem activam et passivam, non est
semper motus ordo ex utraque parte. Oportet namque id quod semper habet rationem patien-
tis et moti, sive causati, ordinem habere ad agens vel movens, cum semper effectus a causa
perficiatur, et ab ea dependeat: unde ordinatur ad ipsam sicut ad suum perfectivum» (cfr.
Tommaso d’Aquino, De potentia, q. 7, a. 10, Resp.).
87
In ciò non è implicita alcuna minaccia alla alterità di Dio rispetto al mondo, anche per-
ché l’univocità che, ascoltando Scoto, è opportuno considerare, non comporta che l’essere sia
realmente omogeneo in ogni sua manifestazione. Spiega lo stesso autore: «univocum concep-
tum dico, qui ita est unus quod eius unitas sufficit ad contradictionem, affirmando et negando
ipsum de eodem; sufficit etiam pro medio syllogistico, ut extrema unita in medio sic uno sine
fallacia aequivocationis concludantur inter se uniri» (cfr. Duns Scoto, Ordinatio, I, dist. 3,
pars 1, qq. 1–2; in: Ioannis Duns Scoti Opera omnia, studio et cura commissionis scotisticae
ad fidem codicum edita praeside P. Carolo Balić, vol. III, Typis Polyglottis Vaticanis, Civitas
Vaticana 1954, p. 18). In altre parole, l’univocità starebbe tutta in questo: che negare e insie-
me affermare formalmente qualcosa di Dio è autocontraddittorio, quanto lo sarebbe negare e
insieme affermare formalmente qualcosa del mondo (col che, Dio resta Dio e il mondo resta il
mondo).
Capitolo IV: Fondamento e fondazione 243
L’inevadibilità, invece, implica l’impossibilità di un collocarsi altrove
o a distanza. Ciò non toglie, naturalmente, che una distanza non sia ri-
cavabile sperimentalmente all’interno dell’inevadibile stesso, come
luogo in cui l’esperimento dell’evasione sia progettabile e superabile,
e l’inevadibilità divenga dunque riconoscibile.
Luogo dell’esperimento elenctico è il pensiero, cioè l’essere stesso
nella sua capacità di autosuperarsi in direzione di sé. E l’inevadibilità
in questione è apprezzabile da più lati: tanti, quante sono le dimensio-
ni irrinunciabili dell’essere ― dove, ancora una volta, il senso di quel-
la irrinunciabilità non precede élenchos, ma ne è sostanziato. Ma, la
poliedricità di élenchos, e i possibili sviluppi di una ontologia elemen-
tare, sono questioni che qui possono essere indicate solamente come
temi da svolgere in altra sede.
244 Parte terza: studi su libertà e principialità
PARTE QUARTA
STUDI SULL’ONTOLOGIA DELLA PERSONA
245
246 Parte terza: studi su libertà e principialità
CAPITOLO I
ESSERE E PERSONA: UN DESTINO SOLIDALE
Il tema indicato nel titolo, verrà sviluppato in esplicito riferimento
al pensiero di Antonio Rosmini. Allo scopo, terremo in primo piano
alcune pagine della Teosofia, che citeremo secondo la recente edizione
critica1. Esse, del resto, ci sembrano costituire il miglior luogo pano-
ramico sulla produzione rosminiana nel suo complesso. Una certa at-
tenzione verrà dedicata anche a quelle pagine della Psicologia2 ― e ad
alcune, imprescindibili, della Antropologia in servizio della scienza
morale3 ―, che costituiscono un naturale complemento alle prime.
1
Cfr. A. Rosmini, Teosofia, a cura di M.A. Raschini e P.P. Ottonello, voll. 12–17 della
Edizione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini (curata dell’Istituto di Studi Fi-
losofici di Roma e dal Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa), Città Nuova Edi-
trice, Roma 1998–2001. L’opera verrà prevalentemente citata omettendo “Parte I”, e indican-
do i Libri (in numero romano) e i paragrafi (in numero arabo).
2
Cfr. A. Rosmini, Psicologia, a cura di V.Sala, voll. 9, 9/A, 10, 10/A della Edizione Na-
zionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini, Roma 1988–1989. L’opera verrà prevalen-
temente citata attraverso l’indicazione dei Libri (in numero romano) e dei paragrafi (in nume-
ro arabo).
3
Cfr. A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, a cura di F. Evain, vol.
24 della Edizione Nazionale e Critica delle Opere di Antonio Rosmini, Roma 1981. L’opera
verrà prevalentemente citata attraverso l’indicazione dei Libri (in numero romano) e dei para-
grafi (in numero arabo).
247
248 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
1. Il crinale
1.1. L’essere iniziale ― che è, a nostro avviso, il centro autentico
della Teosofia rosminiana4 ― rappresenta una sorta di crinale o di
spartiacque. Esso dà origine a due versanti di indagine, che risultano
in tal modo tra loro solidali; e sono: quello che porta alla scoperta del-
la persona creante e quello che porta alla scoperta della persona creata.
Ogni indagine ― secondo Rosmini ― segue inevitabilmente i modi
del manifestarsi dell’essere, e si sviluppa come integrazione dialettica
della inizialità o astrattezza di questi, in direzione del riconoscimento
di quale sia la loro realizzazione o “terminalità” appropriata; dove
“appropriata” vuol dire: non implicante autocontraddizione5. Potrem-
mo parlare, al riguardo, di una “integrazione teologica” e di una “inte-
grazione antropologica”: entrambe orientate nel segno della persona.
È convinzione di chi scrive, che l’originalità della speculazione ro-
sminiana risieda in primo luogo in questa impostazione solidale ―
piuttosto che sequenziale ― dei due temi supremi; impostazione che
potremmo ridire nei termini seguenti. L’essere si manifesta, e il suo
“esser per sé manifesto” costituisce il contenuto di ogni evidenza. Se-
nonché, il manifestarsi dell’essere non consta come concreto o sussi-
stente, bensì solo come astratto o iniziale (in termini scolastici, si di-
rebbe “trascendentale”)6. Tale astrattezza7 o inizialità ontologica si
4
L’essere iniziale è ancora impregiudicato rispetto all’articolarsi delle forme ontologiche,
ed è, virtualmente, tanto ideale che reale (e morale). «Quest’essere dunque è quello che si ve-
de dalla mente nostra nell’intuizione prima di percepire i sentiti, e poscia si scopre che egli è
l’atto antecedente, l’atto dell’atto, di tutti i sentiti; onde quest’essere fa due cose ad un tempo
e fa che i sentiti sieno, e fa che sieno intelligibili alla mente: il qual fatto ontologico suol e-
sprimersi da noi in altre parole così: l’essere identico è ad un tempo ideale e reale, atto ante-
cedente delle cose e conoscibilità delle cose» (cfr. Teosofia, III, n. 800).
5
Potremmo dire che la terminalità appropriata, è quella che dà alla manifestazione
dell’essere la sua compiutezza o concretezza. La compiutezza o concretezza non è infatti la
terminalità in genere, bensì quella terminalità che adegua la virtualità del suo principio.
6
Secondo Rosmini, l’essere “in tale stato iniziale” può manifestarsi, di diritto, anche pre-
scindendo da reali finiti; anche se, in una tale condizione, esso non potrebbe diventare tema di
discorso, né interiore né esteriore. (Cfr. Teosofia, Il problema dell’Ontologia, n. 84). La pos-
sibilità di parlare ― anche in riferimento a Rosmini ― di “trascendentalità dell’essere”, è au-
torizzata, tra gli altri, da un passo importante della Psicologia. Leggiamolo: «L’essere ideale»
― ma la cosa converrebbe ancor meglio all’essere iniziale ― «abbraccia tutto l’ente, e tutto
ciò che è nell’ente (benché non in egual modo), e però non è solamente un elemento comune
dell’ente con esclusione del proprio. Dunque l’essere ideale ha natura interamente diversa da-
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 249
specifica in questo modo: appare la forma della “idealità”, disposta in
una relazione solo virtuale con la forma della “realtà”. Ora, riflettere
su questa manifestazione astratta dell’essere porta, lungo un certo ver-
sante, alla scoperta della concreta condizione ontologica di quell’a-
stratto: cioè alla integrazione teologica. Sull’altro versante, porta alla
scoperta di quelle che Rosmini chiama “condizioni materiali” di pos-
sibilità della astrattezza di quel suo manifestarsi, che si riassumono
nell’“intùito”, cioè in un certo punto di vista sull’essere: punto di vista
che si rivela esser proprio di un ente finito, il quale ― qualunque cosa
sia ― non potrà (in quanto finito) identificarsi col termine reale che dà
concretezza all’essere stesso.
In sintesi, la domanda che orienta il primo versante dell’indagine è:
come deve esser fatta una realtà che sia adeguata all’essere ideale? La
domanda che orienta il secondo versante dell’indagine è invece: come
deve esser fatta la realtà intuente ― cioè la realtà cui l’essere è presen-
te in modo astratto ―, perché l’essere possa appunto offrirsi ad essa, e
possa farlo nel modo astratto che sappiamo?
Prima di procedere possiamo citare lo stesso Rosmini che, in un
luogo panoramico della Teosofia, osserva che l’offrirsi astratto
dell’essere «è il mistero della finita intelligenza: è un fatto, e perché
oscuro e misterioso non è meno un fatto, e i fatti si devono prendere
tali quali sono e non negarli quantunque arcani appariscano: osservare
umilmente e fedelmente questi fatti primitivi ed arcani, e annodare ad
essi gli altri, ecco la filosofia»8.
1.2. Proviamo ora a svolgere in modo più completo i punti sopra
indicati. E partiamo dal carattere automanifestativo dell’essere. Il pun-
to di partenza di diritto del sapere ― per esprimersi nei termini della
tradizione idealistica, a Rosmini ben nota ―, non è l’evidenza della
esistenza dell’“io” umano9, né tantomeno l’evidenza della validità del-
gli astratti che esprimono solo ciò che l’ente ha di generico o di specifico–astratto, ed esclu-
dono le differenze» (cfr. Psicologia, Parte II, Libro IV, n. 1376).
7
Qui, il termine “astrattezza” viene usato, non in una accezione psicologica, ma piuttosto
nel senso ontologico del termine, che qualifica ciò che si dà realmente, ma in modo da non
poter essere pensato come autoconsistente.
8
Cfr. Teosofia, V, n. 2003.
9
La nostra esistenza ― afferma Rosmini ― «non è conosciuta e certa per sé, ma perché la ve-
rità evidentissima dell’essere, che c’è dato ad intuire ce la dimostra» (cfr. Teosofia, III, n. 799).
250 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
le sue facoltà conoscitive: esso è piuttosto il manifestarsi dell’essere
(la sua luminosità), che non ha bisogno d’altro da sé per farsi presen-
te10. È nella presenza dell’essere ― riconosciuta dalla “riflessione os-
servatrice”11 (per noi, fenomenologia) ― che si danno, infatti, anche
l’io e le sue facoltà: quelle, cioè, che l’indagine “psicologica” fa e-
mergere quali “condizioni materiali”, non tanto dell’apparire dell’es-
sere, quanto piuttosto del suo apparire in forma astratta12.
Questo tema dell’automanifestatività, mi pare la versione appro-
priata di quello che ― secondo una fenomenologia della conoscenza,
espressa nel linguaggio un po’ ambiguo della cultura filosofica allora
dominante ― Rosmini chiamava “innatismo”13; e la cui vera sostanza
stava e sta nella impossibilità, per l’intelligente, di porsi a distanza ri-
spetto all’orizzonte dell’essere ed alle strutture costanti di questo.
L’innatismo, infatti, non va inteso come una variante dello “psicologi-
smo”. È lo stesso Rosmini a escluderlo con tutta la chiarezza deside-
rabile, quando afferma che l’essere manifesto non è “una modificazio-
ne dell’anima umana”, in quanto «tutte le modificazioni di un ente
particolare sono particolari» ― e l’anima umana risulta essere, appun-
to, un ente particolare14.
10
Infatti, «l’oggetto è evidente per sé e non per le nostre facoltà; ed anzi queste si dimo-
strano efficaci a farci conoscere il vero, appunto per questo che l’oggetto che conosciamo è
tale evidentemente, onde l’evidenza dell’oggetto dimostra la bontà delle facoltà che ce lo mo-
strano e non viceversa» (cfr. Teosofia, III, n. 799).
11
In generale, la “riflessione” è la lettura del reale nell’ideale, compiuta dall’intuente.
Questi, deve essere capace infatti dell’orizzonte dell’evidenza, per poter ritornare su di sé e
sulle cose. Leggiamo: «L’uomo in quant’è un essere intellettivo è informato dall’essere idea-
le, e per questo esiste. Tuttavia egli che esiste per l’essere ideale trova ancora l’essere ideale
in cui contemplare se stesso informato dall’essere ideale. Questa è appunto la riflessione. La
riflessione suppone 1° il principio intelligente di cui l’essere ideale è la forma; 2° suppone
l’essere ideale in cui si vegga se stesso informato dall’essere ideale. L’essere ideale adunque
nella riflessione fa due ufficî, fa l’ufficio di forma del principio intelligente, che costituisce lo
stesso principio intelligente, e fa l’ufficio di mezzo del conoscere tale principio intelligente
già sussistente. [...] Ora dalla descritta riflessione nasce nell’uomo la coscienza, cioè la cogni-
zion di se stesso» (cfr. Psicologia, Libro IV, nn. 570–571).
12
Cfr. Teosofia, Prefazione, nn. 25–27.
13
«‘L’idea prima dell’essere indeterminato dee esistere nella mente prima che cominci il
suo movimento cogitativo, come indispensabile a questo’, il che significa la parola innata, che
si dà a questa idea. Qui si ferma l’Ideologia scienza delle idee considerate come fatti osserva-
bili davanti allo spirito» (cfr. Teosofia, III, n. 1180).
14
Invece, «il soggettivismo ossia psicologismo è quel sistema che riduce l’oggetto della mente,
l’idea, ad essere il soggetto stesso, od una sua modificazione» (cfr. Teosofia, IV, nn. 1537–1538).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 251
All’approfondimento della automanifestatività dell’essere, Rosmini
dedica specificamente la Parte I del Libro IV dell’opera che, in linea
principale, stiamo considerando: si tratta di pagine a tal punto radicate
nel cuore della tradizione metafisica occidentale, da apparire parados-
salmente eccentriche. Vi leggiamo che all’essere è essenziale il mani-
festare se stesso. Non manifestarsi, cioè non esserci per nessuna mente
(o consapevolezza) ― nota o meno che questa sia all’intuente –, equi-
varrebbe infatti a non esserci in assoluto: il che non è ovviamente
compatibile con la natura dell’essere15. Dice Rosmini che esso “è per
sé manifesto”, cioè, necessariamente, è insieme “manifestato”16 e
“manifestante”17. Infatti, niente potrebbe sostituirsi all’essere in nessu-
no dei due ruoli18. Al contrario, si potrebbe osservare ― in linea col
parmenidismo essenziale dello stesso Rosmini –, che il non–essere as-
soluto è quell’ipotetico contenuto che si autocondanna alla latenza ir-
rimediabile; e proprio per questo non è in grado di costituire alternati-
va, o limitazione, all’essere.
1.3. La Sezione II del Libro III della Teosofia è invece dedicata ad
analizzare il carattere astratto della manifestazione dell’essere. Tale
astrattezza o “limitazione” consiste nella impossibilità che l’essere i-
niziale sia l’essere in senso assoluto; e tale impossibilità risiede nella
autocontraddittorietà dell’ipotesi che lo sia. A sua volta, tale autocon-
traddittorietà assume una facies antinomica, cioè si struttura secondo
una intelligibilità solo potenziale, che diventa attuale se i termini della
antinomia (entrambi innegabili per parte propria) vengono accolti, an-
ziché in una crasi, in una sintesi conciliatrice. A ben vedere, proprio lo
15
«Perché si potesse escludere qualunque relazione essenziale tra quest’essere e una men-
te [...], non solo dovrebbe non esser pensato, ma di più esser tale che non potesse esser pensa-
to da mente alcuna né divina né umana, poiché se potesse già avrebbe una relazione essenzia-
le colla mente, per la possibilità d’esser pensato. Ma che ci sia un essere tale che abbia
un’intrinseca impossibilità d’esser pensato da mente alcuna, questo è assurdo, è contraddizio-
ne» (cfr. Teosofia, III, n. 775).
16
E, in tal senso, Rosmini lo dice anche “essenza” o “essere anoetico”: noi potremmo dire
“significato”.
17
E in tal senso, Rosmini lo dice anche “idea” o “essere dianoetico”: noi potremmo dire
“presentazione a una mente”.
18
Cfr. Teosofia, IV, nn. 1509–1511; 1513. Quel che Rosmini chiama “oggetto” (o “essere
oggettivo”, tema della Teosofia), è sintesi di essenza (tema della Ontologia) e di idea (tema
della Ideologia).
252 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
strutturarsi antinomico dei referti fenomenologici riguardanti l’essere
iniziale (ed è bene insistere sulla inizialità, per poter interpretare poi
l’idealità in una chiave dialettica, e non autoreferenziale), è ciò che in-
dica la “relatività” o “non–assolutezza” di quell’intuente, cui l’essere
appare, appunto, come iniziale o attualmente astratto19.
La forma generale della antinomicità dell’essere iniziale si può
rendere nei termini di assolutezza e non–assolutezza. L’essere iniziale,
cioè, è assoluto, in quanto è la presenza stessa di ogni presente, e la
presenza non può rinviare ad altro da sé; ma non è assoluto, in quanto
la presenza, priva di un contenuto presente che ne adegui le formalità
caratterizzanti, non è autoconsistente20. Più specificamente, esso è as-
soluta positività formale, ma è inadeguata positività reale. O, per altro
verso, esso è assoluta intelligibilità, ma non appare come qualcosa di
intelletto in modo assoluto, nelle condizioni dell’intùito.
Naturalmente, la grammatica dell’essere, che comprende la incon-
traddittorietà di questo, vieta che il dato intuitivo, esprimibile dalla ri-
flessione in forma antinomica, venga interpretato come autocontraddi-
zione ― come invece accade retoricamente nel sistema hegeliano21.
Alla riflessione che segua fedelmente il dato dell’intùito ― nei limiti
in cui questo si dà ―, l’essere appare nella sua limitazione, e
19
Cfr. Teosofia, III, nn. 752–754. «L’essere dunque è presentato al nostro spirito con una
limitazione che non è sua propria, ma procedente da quella del nostro pensiero. Il che
s’intende ad evidenza considerando, che quando noi col pensiero completiamo l’essere, rimo-
vendo da lui la limitazione, intendiamo che rimane tutto l’essere di prima, ma non più limita-
to: dunque quella limitazione non era sua propria. Anzi riguardando in lui stesso, e non altra-
mente, siamo venuti a conoscere che essa non gli poteva appartenere come quella che veniva
in contraddizione con altre sue proprietà; e per quest’unica ragione il pensiero si crede auto-
rizzato a levargliela, così completandolo. Prendendo dunque l’essere, non qual è in se stesso,
ma quale apparisce al nostro intùito, egli involge una contraddizione: una di quelle contraddi-
zioni che noi chiamiamo antinomie, intendendo per antinomie le contraddizioni relative e non
assolute, relative cioè a una maniera parziale di pensare, non al pensare stesso, o al pensare to-
tale e assoluto» (cfr. Teosofia, III, n. 754).
20
A tratti l’antinomicità dell’essere iniziale viene ad assumere, nel testo rosminiano, i
connotati semantici della contrapposizione tra infinita estensione e nulla comprensione (cfr.
Teosofia, III, n. 758).
21
«Questo è il merito dell’Hegel, l’aver veduto che un tal movimento [del pensiero] nasce
dalla contraddizione. Ma egli falsificò questo vero, e in vece d’attribuire al pensiero
dell’uomo la limitazione, e la conseguenza di questa, che è la contraddizione, che gli si offeri-
sce davanti, oppose la contraddizione allo stesso essere, e di più all’essere trasportò quel mo-
vimento che spetta solo al pensiero, dando così all’oggetto quello che è proprio del soggetto e
confondendo l’uno coll’altro» (cfr. Teosofia, III, n. 752).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 253
nell’orientamento virtuale ad un termine che gli sia adeguato; la rifles-
sione, poi, suscita l’ipotesi della autocontraddizione, per “rimuoverla”
comunque apagogicamente (Rosmini dice “deontologicamente”)22:
cioè, per introdurre, mediante progressive integrazioni, una considera-
zione adeguata dell’essere iniziale, e per introdurre anche una conside-
razione critica del fenomeno dell’intùito.
Secondo tale considerazione critica, che ha anch’essa movenza a-
pagogica, l’intùito non può essere la manifestazione originaria dell’es-
sere, ovvero l’essere non è originariamente ciò che di esso è intuíto; in
quanto, se così fosse, l’essere non manifesterebbe se stesso se non li-
mitatamente: ovvero sarebbe originariamente limitato dalla latenza ir-
rimediabile del non–essere. Dunque l’intuente ― chiunque esso sia ―
è un manifestante che limita il manifestato, e per questo è da ritenersi
altro dal manifestante originario23.
1.4. È forse opportuno soffermarsi brevemente sulla analisi che Ro-
smini dedica ai modi della azione limitante dell’intùito sull’intuíto,
che egli interpreta come sintomi della finitezza dell’intuente. Possia-
mo dire che la limitazione è avvistata come tale dall’intuente, cioè di-
venta essa stessa tema dell’intùito, quando questo si arricchisce della
“riflessione”; ma ciò accade come risposta ad un ostacolo: quello co-
stituito dall’apparire dell’ipotesi autocontraddittoria24. L’apparire della
possibilità di contraddirsi, e di rinnegare così il contenuto intuíto, ge-
nera poi il “movimento dialettico del pensiero”, che va però ristabilito
nella sua autenticità ― quella apagogica –, dopo la intemperante in-
terpretazione datane da Hegel25.
22
«Il principio di contraddizione adunque inchiuso virtualmente nell’essere è il punto sul
quale s’appoggia per argomentare la realità dell’essere assoluto, come condizione necessaria
dell’essere ideale». Insomma, se si negasse la realizzazione intelligente dell’essere ideale, «si
cadrebbe in una contraddizione» (cfr. Teosofia, III, n. 797). E ancora: «Poiché l’essere non
può non essere, ché sarebbe contraddizione, e la contraddizione non c’è nell’essere intuíto,
poiché la contraddizione non può essere pensata né può al tutto essere. E [...] la mente legge
tutto ciò nell’essere» (cfr. ibi, III, n. 798).
23
Cfr. Teosofia, III, nn. 756–757.
24
Cfr. ibi, V, n. 1955.
25
«Hegel adunque travide certamente una verità quando disse che il movimento dialettico
del pensiero nasceva dalla contraddizione; ma errava grandemente quando indi ne deduceva
che il principio di contraddizione, e gli altri astratti principi della logica antica non avevano
più valore e dovevan lasciarsi da parte; errava del pari, in un modo enormissimo, quando vo-
254 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Questi, infatti, aveva dato spazio all’autocontraddizione nell’ambi-
to della realtà, quasi che quella fosse il fattore dinamico dell’essere (e
dei suoi succedanei): aveva, cioè, attribuito la dialetticità, propria di
quel pensare che si rivela come non–assoluto o “imperfetto”, al pensa-
re viceversa “assoluto” (che è il manifestarsi dell’essere nei suoi ter-
mini concreti). Il fraintendimento hegeliano della dialettica era dunque
dovuto ― secondo Rosmini ― all’identificazione previa e surrettizia
del “conoscere umano” con il pensiero tout court26.
Al modello hegeliano, che riconduce il pensiero assoluto (manife-
stazione concreta dell’essere) al pensiero imperfetto (manifestazione
astratta di esso), il nostro autore contrappone un altro modello: quello
che stabilisce una relazione analogica tra le due forme del pensiero,
mediata dalla figura semplicemente formale ― pure lessicalmente di
origine hegeliana ― del “pensiero puro” o “pensiero come pensie-
ro”27, che sta in parallelo con la più tradizionale figura dell’“essere in
quanto essere”, e che finisce, a ben vedere, per coincidere con la stessa
manifestazione iniziale dell’essere28. Ora, il pensiero originario o divi-
no adegua questa “essenza” (è cioè il manifestarsi concreto dell’esse-
re), il pensiero umano è invece una realizzazione inadeguata della
stessa essenza; e la sua dialetticità è appunto segno di tale inadegua-
tezza. Ma ― come osserva Rosmini ― una manifestazione limitata,
resta comunque una manifestazione autentica29 ― se viene assunta en-
tro i propri limiti.
Un secondo modo della limitazione in parola ― trattato in partico-
lare nel Libro (V) su “La dialettica” ―, consiste nella forma “circola-
lea conservare la contraddizione e porla a capo di tutta la scienza o pretendeva che la contrad-
dizione stessa tenesse in sé la suprema unità stabilendo l’equazione del nulla coll’essere» (cfr.
Teosofia, V, n. 1957).
26
«Una supposizione assai grossolana a dir vero che non esista altra cognizione che
l’umana, o che l’umana sia il tipo di ogni cognizione» (cfr. Teosofia, V, n. 1975).
27
Rosmini, al riguardo, parla anche di “mente indeterminata” (cfr. Teosofia, III, nn. 827 e 829).
28
«Onde apparisce quell’altro singolarissimo scambio che fanno non solo l’Hegel, ma
prima di lui altri filosofi tedeschi, i quali si mettono in traccia del pensare assoluto, credendo
d’averlo raggiunto quando sono pervenuti al pensare privo di tutte le realità e di tutte le de-
terminazioni. Il quale per l’opposto è il pensare elementarissimo, come chi dicesse d’aver tro-
vato tutto lo scibile quando trovò e apprese le lettere dell’alfabeto» (cfr. Teosofia, V, n. 1975).
29
«Ripugna a que’ filosofi il confessare, che la mente umana abbia qualche naturale e
fondamentale limitazione: pare loro che una ragione limitata non sarebbe più ragione (e certo
in quant’è limitata non è ragione)» (cfr. Teosofia, III, n. 828).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 255
re” che è costretto ad assumere il sapere “scientifico” (da intendersi
qui come il sapere filosofico, quando esso intenda dare “giustificazio-
ne” controllabile delle proprie tesi). Si tratta di quel modo della limi-
tazione che, nel Novecento, la tradizione ermeneutica avrebbe espres-
so come “circolo ermeneutico”, e la tradizione logico–formale avrebbe
espresso come “incompletezza semantica”.
Il sapere scientifico deve inevitabilmente partire da presupposti
(ovvero “ipotesi”)30, incaricandosi di riscattarli nel prosieguo con ul-
teriore “riflessione”31: volgendo così ad “attuale”, un sapere che pri-
ma era solo “virtuale”32. Il primo dei presupposti in questione è la
stessa assunzione del “reale”33, di cui fa parte anche la “materia”,
cioè l’argomento di cui scientificamente si intende trattare34. In tal
senso, la ricerca di «un cominciamento che non lasci fuori nulla» è
improponibile; e la giustificazione filosofica dovrà, prima guadagna-
re riflessivamente l’imprescindibilità dell’essere ideale (cioè del-
l’evidenza), e poi progressivamente ricondurre a questa “base fon-
damentale” i presupposti che al suo interno (riflessivamente) saranno
emersi come tali35.
30
«Egli è vero che le prime cose che si mettono fuori non potendo essere subito dimostra-
te o giustificate si possono dimandare siccome ipotesi, le quali ricevono poi da quanto conse-
guita il lume dell’evidenza» (cfr. Teosofia, V, n. 2042; ma cfr. anche n. 2041).
31
«La cognizione scientifica, ondechessia incominci, ha bisogno d’una cognizione non
scientifica presupposta: il che è un difetto della scienza non propriamente della cognizione
umana; e della scienza che sembra involgere un circolo perché si propone di dir tutto ordina-
tamente e dimostrativamente e però deve incominciare dal dire alcune cose che ne presuppon-
gono alcune altre che dirà o anche dimostrerà in appresso; il che ha l’apparenza di un circolo»
(cfr. Teosofia, Il problema dell’Ontologia, n. 94).
32
Cfr. Teosofia, V, n. 2041.
33
«Si dirà: se voi cominciate la scienza, lasciando che vi scappi quasi fuor sopra qualche
cosa cioè il reale; questo reale voi dunque lo accettate come uno sconosciuto refrattario inte-
ramente al pensiero. ― Rispondo che se la scienza umana non raggiunge col suo primo passo
questo ben dimostra la limitazione dell’umano intendimento» (cfr. Teosofia, V, n. 2044).
34
Cfr. Teosofia, III, n. 808. Nulla scientia probat suum subjectum, osservavano già, ri-
prendendo Aristotele, gli Scolastici. Su questo tema ci permettiamo di rinviare a: P. Pagani,
Sentieri riaperti, Jaca Book, Milano 1990, Parte IV, cap. I.
35
Cfr. Teosofia, V, n. 2043. Secondo Rosmini, Hegel avrebbe cercato, autocontradditto-
riamente, un tale cominciamento assoluto della “scienza”. In realtà, «posto che sia vero che la
scienza dee assorbire ogni cosa non si può più definire il suo principio perocché in qual modo
si voglia ‹che› si definisca egli suppone sempre qualche cosa d’anteriore sfuggente alla cate-
goria della scienza. Infatti il pensiero, il puro pensiero non è ancora scienza, ma via alla scien-
za» (cfr. ibi, V, n. 2043).
256 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Almeno un presupposto, comunque, deve essere riconosciuto sfug-
gire alla possibiltà di venir ricompreso in un cominciamento, per dir
così, panoramico del sapere: ed è la realtà del “soggetto conoscente”
(o “intuente”), la quale andrà ricostruita e connotata attraverso l’ana-
lisi della limitazione dell’intùito di cui è soggetto36. L’intuente, insom-
ma, deve giungere riflessivamente (e quindi, mediante scansione di
passaggi) su di sé (e, in genere, sul reale), attraverso la mediazione
dell’essere ideale.
Un aspetto rilevante della circolarità riflessiva, è poi legato alla ne-
cessità di distinguere dialetticamente nell’essere ideale quelle note ad
esso coestensive, che sono i “principi formali”; e di individuare poi, di
questi, una formulazione proposizionale. La circolarità, qui, sta pro-
priamente nel non potersi mettere a distanza dall’essere, anche nel
trattarne scientificamente (in particolare, nel dover esplorare l’essere
attraverso ciò che essenzialmente gli appartiene); e inoltre, nel non po-
tersi porre a distanza neppure dai principi stessi ― implicazioni ine-
vadibili dell’essere ―, pur nel trattarne formalmente37. Comunque,
queste circolarità non–viziose ridanno uno degli aspetti più interessan-
ti della limitazione dell’intùito: quello per cui la trascendentalità del
positivo non è mai dominabile una volta per tutte come un dato, ma è
solo faticosamente accertabile come una condizione inevadibile38.
36
«La scienza considerata in se stessa e nella somma sua perfezione dovrebbe esser coe-
tanea ed adeguata a tutto l’essere, anzi non dovrebbe avere che un atto abbracciante tutta la
realità non escluso se stesso e quest’atto dovrebbe essere la stessa essenza del soggetto cono-
scitivo; ma quest’ideale del sapere che s’avvera in Dio non s’avvera nell’uomo, al quale non-
dimeno è dato conoscere in qualche maniera ciò che il proprio sapere ha di limitato. E limita-
zione di esso è pur questa che sia successivo e abbia bisogno di definizioni e divisioni ecc.,
che incominci e non sia sempre stato, che sia contingente e possa cessare, e che in quanto è
sapere scientifico sia un atto secondo il quale suppone innanzi di sé la realità del soggetto co-
noscente» (cfr. Teosofia, V, n. 2044).
37
Consapevolezza, questa ― si potrebbe aggiungere –, che sembra mancare ai non pochi
che, dalla possibilità di istituire calcoli logistici che emarginino il principio di non–
contraddizione o del terzo escluso come regole di derivazione, concludono al carattere non
trascendentale dei medesimi.
38
«Quantunque la scienza non potrebbe fare alcun ragionamento senza l’uso de’ principî
formali ed ha bisogno di questi anche quando ragiona intorno ad essi tuttavia prima d’ogni ra-
gionamento c’è davanti all’intelligenza l’essere ideale che li contiene in sé tutti virtualmente e
indivisi. Onde ogni qualvolta si dividono da lui riducendoli in proposizioni separate l’una
dall’altra, e poi s’adoperano a ragionare intorno allo stesso essere da cui derivarono per cono-
scerlo meglio, o per la stessa ragione intorno ai medesimi principî formali; allora si fa bensì
un circolo apparente ma non vizioso perché essi s’adoperano non già all’acquistare quella co-
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 257
Così, l’autentico nome di quello che di primo acchito si presenta
come “circolo”, è piuttosto “regresso”39: termine che sta ad indicare il
carattere non–vizioso, ma piuttosto virtuoso (cioè fecondo), del proce-
dere riflessivo40. Ma si potrebbe suggerire, allo stesso riguardo, anche
il classico nome di élenchos.
2. L’essere stesso è originariamente persona
L’approfondimento dei due versanti della integrazione metafisica
(quello teologico e quello antropologico, per intenderci) conduce Ro-
smini a decifrare duplicemente l’essere come persona. Vediamo come,
partendo dal versante teologico.
2.1. Esemplarmente nel Libro II41 ― ma in modo ricorrente lungo
l’intero corso della Teosofia ― Rosmini riprende quella via “a priori
pura” all’esistenza di Dio, che egli già aveva proposto nel Nuovo Sag-
gio42. La struttura della argomentazione è nota, e può essere schema-
tizzata come segue.
1. (Prima premessa). L’essere iniziale si dà necessariamente, cioè
“non può non essere”. Vale a dire: la presenza non può venir meno,
senza con ciò annullare ogni emergenza positiva (reale, possibile, ipo-
tetica che sia). 2. (Seconda premessa). Comunque, l’essere iniziale è
solo “qualcosa di un ente”, cioè non è di per sé sussistente ― non ma-
nifestando all’intùito un termine presente, a sé adeguato43. 3. (Passag-
gnizione che già si possiede perché la si presuppone; ma ad accrescerla una tale cognizione e
a renderla più viva esplicita, distinta, consapevole. E tant’è lungi che si cada con ciò nel vizio
del circolo che anzi questa stessa necessità di applicar l’essere a se stesso e i principî formali a
se stessi dimostra la certezza e necessaria verità della cognizione di cui si tratta. Poiché è una
prova della sua evidenza questo appunto il non potere illustrarsi, e intimamente conoscersi
che per se stessa» (cfr. Teosofia, Il problema della Ontologia, nn. 94–95).
39
Per una illustrazione del termine “regresso”, Rosmini rinvia alla propria Logica, e al De
regressu di Jacopo Zabarella. Per la Logica, cfr. nn. 701–708.
40
Cfr. Teosofia, Il problema dell’Ontologia, nn. 94–95.
41
Cfr. ibi, II, nn. 298 ss.
42
Cfr. Nuovo saggio sull’origine delle idee, n. 1461.
43
«L’essere non sarebbe essere senza che qualche cosa fosse» (cfr. Teosofia, III, n. 766).
È evidente che qui Rosmini evita il sofisma hegeliano del rovesciamento dell’essere puro nel
puro non–essere, in considerazione della ben più accurata ispezione dell’essere inizial–
258 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
gio). L’ente (o il presente) in cui l’essere iniziale si realizza adegua-
tamente, non è la serie degli enti che in relazione ad esso si avvicen-
dano (“enti contingenti”, li chiama il nostro autore, con scelta termino-
logica discutibile44). Infatti, ipotizzare che la realizzazione dell’essere
necessario coincida con gli enti che continuamente vengono meno, è
autocontraddittorio45. 4. (Conclusione). L’essere iniziale termina ne-
cessariamente in un Ente (a questo punto, Essere) che gli è adeguato
formalmente: cioè, che realizza i connotati ideali di quello.
2.2. Un’altra via a Dio da Rosmini costantemente indicata come pra-
ticabile ― fin dal Nuovo Saggio ―, è quella “ideologica”. Ne do sche-
matico conto, a partire da alcuni luoghi del Libro III della Teosofia46.
1. L’ipotesi di una assoluta anoeticità (o estraneità al pensiero)
dell’essere, è tale da non costituirsi nemmeno. Infatti, la questione del-
la pensabilità dell’essere ― condensabile nel “principio di cognizio-
ne”47 ―, come ogni questione principiale, “è sciolta coll’atto stesso
del proporla”. 2. L’essere ideale si rivela però come “assolutamente
essente”, e quindi come indipendente nell’esistere dall’intuente imme-
virtuale, da lui già messa in campo. «Il reale è l’attualità dell’essere, e non fa meraviglia se
facendo rientrare l’essere nella potenza e nella virtualità, l’Hegel ed altri filosofi pensassero
ridurla uguale al nulla: nel che errano non avvertendo che rimane ancora la virtualità stessa, la
quale non è nulla anzi suppone un atto; né tampoco avvertendo che la mente non può concepi-
re l’essere rientrato affatto nella potenza e nella virtualità se non trattandosi dell’essere finito;
non così dell’infinito, il quale si può concepire occulto all’uomo, non mai virtuale o potenzia-
le; e se la mente ha nell’idea dell’essere virtualmente compreso l’essere infinito, ella ben
s’accorge che questa è un’antinomia della sua ragione finita, la quale si scioglie ponendo che
la virtualità riguarda il modo del conoscere, è un’apparenza trascendentale, non l’essere stes-
so» (cfr. ibi, V, n. 2023).
44
Discutibile, in quanto “contingente” in senso proprio, è ciò di cui già si sia stabilita la
natura creata.
45
Considerando i nn. 800 e 837 del Libro III, si può ulteriormente precisare che: (1) I
termini reali e transeunti dell’essere sarebbero inconcepibili nella loro autonomia dall’essere
(dunque, sono ontologici, anche se non in modo assoluto); (2) tra questi termini e l’essere esi-
ste allora una relazione di sintesismo, che però va a senso unico, in quanto l’essere non è af-
fatto inconcepibile ― per Rosmini ― prescindendo dai reali transeunti; (3) la circostanza che
l’essere e le realtà finite, pur avendo caratteri tra loro contraddittori, si diano immediatamente
in una sintesi di fatto (il sintesismo a senso unico), è ciò che genera il movimento
dell’integrazione metafisica: per evitare di interpretare l’essere in senso autocontraddittorio,
occorre porre il suo termine adeguato oltre l’immediato (cfr. ibi, n. 837).
46
Cfr. ibi, nn. 776, 795, 797, 863.
47
«L’essere è l’oggetto dell’intelligenza» (cfr. Logica, n. 338).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 259
diato; il quale, essendo limitante, è altro dall’essere universale e ne-
cessario (e quindi ― come Rosmini afferma ― “è particolare e con-
tingente”). 3. La assolutezza dell’essere ideale non è però assoluta: in-
fatti, l’essere ideale ― mancante della determinazione reale appropria-
ta ― non può sussistere autonomamente, e quindi esiste in relazione a
quell’intuente da cui pure non può dipendere. 4. I passi (2.) e (3.) ―
entrambi innegabili ― sono tra loro in “apparente contraddizione”: la
situazione (antinomica) esige pertanto una “conciliazione”. Lo spazio
di manovra per la conciliazione è offerto da una considerazione che
diremmo fenomenologica: quella per cui, ciò che non appare intuiti-
vamente, non per questo è escluso dall’apparire tout court48, e andrà,
anzi, riconosciuto per altra via, nel caso che la sua esclusione dovesse
introdurre una interpretazione autocontraddittoria del dato intuíto49. La
manovra in questione, poi, consisterà nel riconoscere che ci deve «es-
sere una relazione dell’essere con una mente che non sia diversa
dall’essere stesso, e che non è l’umana, ma necessaria ed eterna come
l’essere»50. 5. Tale mente, a sua volta, non potrà essere estrinseca
all’essere stesso, perché «in tal caso l’essere non sarebbe a se stesso,
ma solamente ad altri»; e ciò è escluso, visto che un essere che non
fosse presente a se stesso, ma solo ad una mente altra da esso, non po-
trebbe più dirsi assoluto (o “in sé essente”). Quindi l’essere è, origina-
riamente, questa mente51.
2.3. Le due vie, almeno nella rielaborazione che esse ricevono
nell’ambito della Teosofia, vengono a convergere nel loro esito. Infat-
ti, l’Ente adeguato all’essere, cui conclude la via “a priori”, è perfet-
tamente autoconsistente (o assoluto); ma questo comporta l’intelligen-
48
Osserva Rosmini che per l’indagante «è più facile il negare che non sia l’osservare»
(cfr. Teosofia, III, n. 778).
49
«Quantunque nell’essere intuíto come essente in modo assoluto sia vero che mancano le
condizioni per le quali egli abbia un’assoluta esistenza subiettiva ed attiva, tuttavia queste non
sono escluse e negate, e però ci devono essere occulte, e dee riputarsi l’intuizione una facoltà
limitata che non apprende tutto ciò che ci ha nell’essere» (cfr. Teosofia, III, n. 795).
50
Cfr. ibi, III, n. 797.
51
Cfr. ibi, III, n. 863. In questo modo la via ideologica rosminiana tende ad assumere
l’impostazione che Manzoni aveva dato ad analoga via, nella seconda parte del dialogo
Dell’invenzione ― impostazione che è poi quella del classico argumentum ex veritatibus aeter-
nis (cfr. A. Manzoni, Dell’invenzione. Dialogo, a cura di P. Prini, Morcelliana, Brescia 1986).
260 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
za di sé (e quindi l’intelligenza tout court). Infatti, l’inconsapevolezza
di sé è propria di un’esistenza relativa (o in alio), e non di un’esistenza
veramente autonoma: in questa ipotesi, se non vi fosse un altro (o me-
glio, altri) cui x fosse noto, x non esisterebbe neppure52.
In termini più rigorosi, quest’ultimo argomento si può riproporre
così: l’Ente assoluto deve conservare il carattere della automanifesta-
tività, che è proprio dell’essere iniziale (nella sua idealità); ora, se tale
automanifestatività non fosse destinata originariamente a Lui stesso,
essa farebbe originario riferimento ad altro da Lui, cioè ad altro
dall’Assoluto. Ma che, originariamente, l’Assoluto sia in relazione ad
altro, è ipotesi autocontraddittoria. E questa precisazione, è la versione
più rigorosa di quanto già si trova argomentato, in modo meno chiaro,
a conclusione della via “ideologica” ― come abbiamo visto.
2.4. L’esistenza completa o autoconsistente è anche detta da Ro-
smini “subiettiva” o “soggettiva”, e il soggetto intelligente ― nel vo-
cabolario della Teosofia ― è detto “mente”. Nel Libro IV della Antro-
pologia in servizio della scienza morale, Rosmini aveva ragionato in-
torno al significato del termine “soggetto”. In senso generico, soggetto
equivale a sostanza53; senonché, il minimo di autonomia (o “sussisten-
za”) che si richiede per poter parlare di sostanza, sembra a Rosmini
l’attività del “sentire”54. Notevole la convinzione rosminiana ― deli-
neata in modo completo nel primo Libro della Psicologia –, secondo
cui la sostanza non è un sostegno occulto di fenomeni costantemente
concomitanti, come vorrebbe l’intemperanza naturalistica
dell’“immaginazione”55; ma, sostanza è piuttosto il sentimento stesso:
52
«Colui che non vive e non esiste a se stesso [...] non è: sarà qualche altra cosa, ma lui non
è: poiché, che cosa sarebbe questo lui, che non sa niente affatto del proprio esistere, e del proprio
vivere? Si supponga pure che ci sia l’esistere, che ci sia il vivere; ma il lui non c’è; è un vivere e
un esistere senza subietto, senza uno che veramente viva e veramente esista. L’esistenza dunque
perfetta, come pure la vita perfetta, esige l’intelligenza, poiché solamente il principio che sa di
esistere e di vivere, è colui che vive ed esiste veramente» (cfr. Teosofia, III, n. 745).
53
Cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 771.
54
Il senziente (ad esempio, già l’animale) ha in sé quel minimo di “continuità” attraverso lo
spazio e il tempo, che è tale da consentirgli di godere di una certa individualità e incomunicabili-
tà: in breve, di una “soggettività” (cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 796).
55
«Posciaché l’uomo non può fermarsi alle mere qualità sensibili de’ corpi esterni, ma per
la legge della percezione, egli è necessitato a supporre l’esistenza di qualche altra cosa, cioè
dell’atto, pel quale i corpi esistono; aiuta coll’immaginazione e suppone che quell’altra cosa
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 261
non in quanto questo si articola nei suoi termini materiali, ma piuttosto
in quanto esso è principio del sentire (che sente anche se stesso), ov-
vero in quanto è “sentimento fondamentale” o “Sé”56.
Quando tale attività, ovvero il “sentimento”, è inserita in un’altra
attività, che è l’intuizione dell’essere, si ha la “percezione intellettiva”,
che a sua volta si sviluppa come “attività ragionante”: riflettente e dia-
lettica57. Il soggetto sintetico di tale attività, quando giunge a riflettere
su di sé, si dice “Io”58. Notevole, al riguardo, l’insistenza di Rosmini
sulla inessenzialità dell’io al sé, cioè dell’autocoscienza dispiegata, ri-
spetto alla autoavvertenza pre–riflessiva59. Il soggetto in questione
(che ha l’io, cioè la “coscienza di se stesso”, come possibilità pro-
pria60) è il “soggetto umano”: «soggetto che è principio insieme del-
l’animalità e dell’intelligenza»61.
Ma, nel caso più generale di un “soggetto intelligente”, si parlerà
genericamente di “persona”: «si chiama persona un individuo sostan-
ziale intelligente, in quanto contiene un principio attivo, supremo, ed
necessaria alla sussistenza delle qualità sensibili abbia un suo luogo, e la colloca sotto le qua-
lità sensibili e superficiali chiamandola sostanza (sub–stans) senza avvedersi che se la sostan-
za de’ corpi giacesse sotto le loro superficie, ella si potrebbe trovare rompendosi i corpi, e
frugandosi nel loro interno, il che non si può. Ora una tale entità creata dalla immaginativa
riesce necessariamente un quid inesplicabile e misterioso: indi la conclusione di tutti i sensisti
nostri, che le sostanze delle cose sono pienamente incognite» (cfr. Psicologia, Libro I, n. 84).
56
Cfr. ibi, Libro I, nn. 79–91.
57
Cfr. Per quanto riguarda l’attività riflettente, cfr. Antropologia in servizio della scienza mora-
le, IV, cap. IV; per quanto riguarda l’attività dialettica, cfr. Teosofia, V, capp. XLV–XLVI.
58
Cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, nn. 805–811. «Il monosillabo Io
adunque non esprime solamente il soggetto, ma di più esprime la relazione che ha il soggetto con
se stesso mediante il sentimento intimo e le diverse sue riflessioni. [...] Nell’opera del Rinnova-
mento [...], ho dimostrato che l’Io non è noto per se stesso, non è il primo cognito: qui ho mo-
strato di più che l’Io è fattizio, e che egli non si forma se non a condizione che preceda l’uso
dell’intelligenza» (cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 809, nota 19).
59
«Ciò che costituisce il primo atto dell’uomo è puramente il Sé: questo è quel sentimento
proprio e sostanziale di cui abbiamo parlato nella Psicologia (71–80), è l’Io di prima formazio-
ne, il quale illustrato dalle notizie ontologiche che abbiam dato riceve questa definizione: ‘il
principio razionale in quanto inesiste nell’essere ideale’» (cfr. Teosofia, VI, n. 2519). E ancora:
«L’Io adunque consapevole di se stesso è una produzione dell’Io primitivo, il quale si potrebbe
in qualche modo dire che ha coscienza, ma non la coscienza di se stesso» (cfr. ibi, n. 2521).
60
È importante ricordare che Rosmini insiste sulla anteriorità del soggetto umano (cioè
dell’ “anima”), rispetto alla coscienza che esso acquisisce di sé (cioè rispetto all’ “Io”). «Ab-
biamo trovato nel fondo dell’Io un sentimento anteriore alla coscienza, che costituisce pro-
priamente la sostanza pura dell’anima» (cfr. Psicologia, Libro I, n. 74, e n. 105).
61
Cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 767.
262 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
incomunicabile»62. Già di suo l’intelligere è una specie particolarissi-
ma del sentire63 ― secondo il linguaggio rosminiano ―; dunque, per-
sona potrà dirsi anche un soggetto puramente intellettivo, e non dotato
di forme di sentimento che siano diverse dall’intelligenza. Per cui, se è
persona un uomo, si potrà parlare di persona anche non in riferimento
all’uomo, e neppure in riferimento all’io (il che ha come corollario che
anche la persona umana non necessariamente è un io)64.
2.5. Fatte queste premesse terminologiche, occorre però mettere in
luce quel che conta nel discorso rosminiano, e cioè il consistere ultimo
dell’essere nella persona: quella originaria di Dio, e quella originata
dell’uomo. La tesi forte di Rosmini è già formalmente espressa nella
Psicologia: «la persona è condizione ontologica dell’essere»65.
Accettando in senso stretto la accezione rosminiana di persona, a
stabilire l’identità personale di Dio sarebbe già sufficiente l’esito delle
vie teologiche sopra richiamate. Ma è chiaro che una più piena acqui-
sizione in merito, è quella che viene dalla introduzione filosofica della
verità della creazione. Tale verità viene sobriamente introdotta nel Li-
bro II della Teosofia66, come chiave interpretativa della relazione che
intercorre tra l’Essere sussistente e i suoi termini impropri: chiave in-
terpretativa “misteriosa”, certo, ma la cui negazione comporta l’“as-
surdo”67. Mistero e assurdo ― per il nostro autore ― sono termini che
si oppongono per contrarietà.
L’impostazione rosminiana del tema non è originale. Schematiz-
ziamola. 1. Nessuno degli enti finiti e transeunti dà sussistenza
all’essere iniziale come tale. Tali enti, dunque, “non sono l’essere”. 2.
Tuttavia, innegabilmente, essi “hanno l’essere”. 3. Ergo, essi “acqui-
stano l’essere” ― che non è loro dotazione originaria ―, e ciò non
può avvenire che per un “atto” dell’Essere sussistente.
62
Cfr. ibi, IV, n. 832.
63
Secondo la singolare dottrina rosminiana, il “sentire” ― che è condizione elementare
per essere “sostanza” ― è in certo modo possibile anche sine corpore. Cfr. Antropologia in
servizio della scienza morale, IV, cap. VI; e Psicologia, Libro V.
64
Cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, cap. VI. Per Rosmini vale anche
il reciproco: che cioè un io possa non esser persona.
65
Cfr. Psicologia, Parte II, Libro I, n. 876.
66
Cfr. Teosofia, II, nn. 302–310.
67
Cfr. ibi, II, n. 462.
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 263
A corollario del classico argomento, viene introdotta la libertas a
necessitate dell’atto creatore, secondo due motivi. Quello di origine
agostiniana, per cui a Dio non è necessario creare, «non essendo ne-
cessario al compimento dell’Essere stesso nessun ente finito»; e quello
di origine scotista, per cui, se Dio creasse necessariamente, il creato
― con il suo carico di mutabilità e finitezza ― sarebbe essenzialmen-
te inscritto in Dio, con conseguenze autocontraddittorie. Ma se
l’Essere sussistente è libero nel creare, allora è Intelligenza e Volon-
tà68: quindi, persona.
3. L’ente finito è destinalmente persona
Parliamo ora dell’altro versante dell’indagine che stiamo seguendo:
quello relativo alla integrazione antropologica.
3.1. Anche dal lato dell’intuente, Rosmini parla di “soggetto” e di
“mente”, oltre che di “ente pensante”69. Al riguardo, l’autore fa valere
implicitamente il principio secondo cui «ciò che è, ma che non ha
un’esistenza soggettiva» ― nel nostro caso, l’intùito –, «non può stare
senza che ci sia un soggetto»: principio, questo, già implicitamente
applicato all’essere iniziale, in direzione dei citati sviluppi. Tale “prin-
cipio di soggetto” va inteso come versione specifica del “principio di
sostanza” ― per cui «ciò che è, ma non è in se stesso né per se stesso,
dee essere in un altro, cioè in una sostanza» –; e come versione gene-
rica del “principio di persona”, per cui «ciò che è, ma non è persona,
non può stare senza che ci sia una persona»70.
Complessivamente, ciò che questi principi rosminiani esprimono, è
quella riconduzione dell’astratto al concreto, in cui consiste il lavoro
68
Cfr. ibi, II, nn. 454 ss.
69
«La mente, ossia l’ente pensante e riflettente su di sé, ha coscienza di non essere il pro-
prio oggetto, ma per opposto d’essere un soggetto che intuisce l’oggetto. Né in questo si può
ingannare, poiché il soggetto pensante è soggetto pensante in quanto pensa e sa di pensare, e
in quanto pensa e sa di pensare sa altresì di non esser l’essere indeterminato e impersonale;
ma sa di essere un ente determinato e una persona che intuisce un altro, diverso ed opposto a
sé, e lo intuisce senza provare le affezioni di esso intuíto, mentre sa ed esperimenta di provare
le affezioni proprie» (cfr. Teosofia, III, n. 774).
70
Cfr. Logica, Libro II, n. 362.
264 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
della “ragione”71. Non a caso, Rosmini descrive la ragione come «la
facoltà di completare l’intuizione primitiva», ovvero come «la facoltà
di conoscere quello che appartiene all’essere e che tuttavia non è dato
nell’intuizione»72. Sinteticamente, potremmo dire che essa è la facoltà
di riconoscere la persona (l’altrui e la propria).
Il soggetto dell’intuizione, è soggetto di un pensiero non–assoluto:
cioè, di una manifestazione che ha come contenuto l’essere in quanto
tale ― e che, per questo, è pensiero ―; e che tuttavia risulta limitata
(o secundum quid). Da un lato, dunque, l’essere73 è la “forma oggetti-
va”74 di quel pensiero non–assoluto (cioè, è l’orizzonte su cui questo
inevitabilmente insiste, e secondo le cui trame formali esso si artico-
la); dall’altro, lo è non secondo tutta l’attualità che all’essere compete,
ma solo secondo una sua attualità ideale75. Dunque, il soggetto pensan-
te in questione, è capacità finita della realtà assoluta, per cui partecipa
di una manifestazione autentica, ma anche astratta, di questa: manife-
71
Cfr. ibi, Libro II, n. 363.
72
Cfr. Teosofia, III, n. 798.
73
Qui potremmo precisare tanto con “iniziale” che con “ideale”, in quanto, a ben vedere,
l’ideale è lo stesso iniziale, considerato come forma del pensiero non–assoluto. L’ideale, in
quanto non è autosussistente, bensì “capace di subietto” ― cioè riferito simbolicamente al suo
complemento reale ―, dovrà dirsi propriamente iniziale (e virtuale). (Cfr. Teosofia, III, n. 1185).
74
Nel Sistema filosofico (1844) leggiamo: «Quando noi diciamo che l’essere ideale è
forma dello spirito, usiamo la parola forma in un significato intieramente diverso ed opposto
alle forme kantiane; perocché le forme di Kant sono tutte soggettive, e la nostra è una forma
oggettiva, e anzi oggetto per essenza» (cfr. A. Rosmini, Sistema filosofico, in Id., Introduzione
alla filosofia, a cura di P.P. Ottonello, vol. 2 della Edizione Nazionale e Critica delle Opere di
Antonio Rosmini, Città Nuova, Roma 1979, p. 221). Nella Teosofia Rosmini si esprime invece
così: «La presenza dell’essere puro al soggetto ha natura di causa formale, poiché tolta essa
non c’è altra causa formale che renda il soggetto intelligente [...]. Ma quello che rimane di-
stinto dall’essere oggetto, è l’atto del soggetto, che vede l’essere, cioè l’intuizione» (cfr. Teo-
sofia, III, n. 760).
75
«La mente umana è illimitata come illimitato ed universale è l’essere indeterminato, il
quale non è illimitato ed universale, nel senso che mostri una attualità infinita, ma è universale
ed illimitato virtualmente, in quanto che egli da parte sua ammette termini illimitati ed infiniti
e dimostra all’uomo così in generale questa sua infinita capacità; ma non dimostra mica
all’uomo attualmente tutti questi termini, anzi una parte ne tiene sempre nascosti; e ciò perché
l’uomo non può divenire una realità infinita, come sarebbe necessario che divenisse, qualora
dovesse abbracciare l’essere con tutti i suoi termini infiniti. Così accade che l’uomo sia limita-
to e che tuttavia possa conoscere qualunque cosa gli sia data a conoscere, benché non gli pos-
sano essere date a conoscere tutte le cose. [...] E questo è quell’infinito di cui partecipa neces-
sariamente ogni intelligenza per esser tale; e la limitazione non viene alle intelligenze finite se
non per rispetto ai termini. Di che si vede che si può benissimo dall’intelligenza umana trarre
per via d’astrazione l’essenza pura dell’intelligenza» (cfr. Teosofia, III, nn. 829–830).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 265
stazione il cui carattere iniziale è come un invito all’esplorazione. Ro-
smini dice al riguardo che il “pensare relativo”, quando resta autentico
pensare, è partecipazione del “pensare assoluto”, e dunque ha come
contenuto “una verità assoluta”, ancorché non completa76.
3.2. In modo più concreto, si può dire che l’oggetto del pensiero
non–assoluto è una semplice “astrazione teosofica”77 rispetto alla Per-
sona originaria e creatrice; astrazione alla quale, inevitabilmente, il
pensiero non–assoluto riferisce i contenuti di realtà che il suo soggetto
avverte in vario modo (e tra questi, anche se stesso78): senza riuscire
però a intuire tali contenuti come termini dell’atto creatore, ma solo
come termini inadeguati dell’essere iniziale, e quindi come materia di
quella che Rosmini chiama “sintesi primitiva” o “percezione”79.
76
«In ogni atto di pensare anche relativo si mescola il pensare assoluto e lo suppone
d’innanzi a sé; innestandosi ogni atto secondo di pensare sul tronco dell’atto primo, il pensare
relativo sull’assoluto. Questa è la ragione altresì per la quale in fondo ad ogni pensare (già
s’intende quando non esca dalle leggi logiche, e non cessi così d’esser propriamente pensare)
giace una verità assoluta» (cfr. Teosofia,V, n. 2000).
77
Con questa insolita espressione, Rosmini indica in senso positivo la capacità del pen-
sante non–assoluto di intuire l’essere nella sua obiettività impersonale ― rimanendogli «co-
perta la sua personalità» (cfr. Teosofia, III, n. 1180) –; e segnala la peculiarità di tale intuizio-
ne rispetto ad altre forme del pensiero non–assoluto: segnatamente l’astrazione universa-
lizzatrice. Com’è noto, infatti, per Rosmini nessuna astrazione dal finito può dare l’idea
dell’essere. Più in particolare, l’astrazione teosofica non va intesa come una operazione psico-
logica (alternativa all’astrazione universalizzatrice), ma va intesa piuttosto come la stessa
condizione propria dell’intuente. Questa, a sua volta, è creata, e quindi presuppone una “astra-
zione divina” o “creatrice”, cioè un aspetto dell’atto creatore per cui questo dispone di darsi a
conoscere dalla creatura, immediatamente, in modo parziale. (Cfr. ibi, III, nn. 1180, 1182,
1190). Com’è noto, Rosmini ammette comunque un ruolo, nella conoscenza dell’essere, an-
che per l’astrazione “riflessa”: cioè, per quella considerazione che intende l’essere come ele-
mento formale della percezione dell’ente. (Cfr. ibi, III, n. 1185).
78
Un aspetto peculiare della limitazione che segna l’intuizione dell’essere, è ― secondo
Rosmini ― che la mente umana, con tale intuizione, «non vede in esso sé medesima intuente
benché inesista in lui, giacché questo inesistere è il primo suo atto che non può essere atto di
cognizione perché ogni atto di cognizione suppone due cose opposte (principio e oggetto) e
non una sola, e il primo atto è uno solo» (cfr. Teosofia, VI, n. 2548).
79
«I reali finiti [...] sono anch’essi, secondo la loro assoluta esistenza, nell’Essere obietti-
vo sussistente, ma ci sono in quanto termini dell’Essere subietto liberamente agente. Ma
l’Essere subiettivo rimane interamente nascosto all’intuito umano. I reali finiti dunque, quan-
do dal pensiero umano si congiungono all’essere (nella percezione), si congiungono a lui in
modo, che rimane nascosto l’anello di mezzo, cioè l’Essere subiettivo che li crea, per virtù del
quale essi sussistono. Per questa lacuna rimane un’imperfezione, una sconnessione tra l’essere
intuíto dall’uomo, e i reali finiti» (cfr. Teosofia, III, n. 1194).
266 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Il pensante non–assoluto, che a causa della astrazione teosofica
non intuisce l’atto creatore, neppure potrà conoscere intuitivamente
(cioè, in modo immediatamente ontologico) il reale, ma dovrà piut-
tosto avvertirlo in modo diverso80. Questo è il nodo più delicato di
quella che abbiamo chiamato integrazione antropologica. Del resto,
questo nodo è, in un certo senso, il tema centrale della psicologia fi-
losofica di Rosmini. Si può riesprimerlo così: l’intuente non–
assoluto, se avverte altro oltre all’oggetto ideale, lo dovrà avvertire
non per via di intùito; ma egli di fatto avverte altro, ed è come oriz-
zonte di questo altro che acquisisce riflessivamente l’oggetto della
propria intuizione originale (Rosmini infatti ammette una subordina-
zione psicologica dell’ideale al reale); quindi, l’intuente avverte que-
sto altro ― il reale ― in modo non intuitivo.
Questo modus ponens dice il “che” della cosa, ma non il suo “come”.
Il come lo ricostruisce l’intuente stesso, interpretando progressivamente
la propria avvertenza del reale, in chiave ontologica: cioè, portando alla
luce le condizioni di possibilità di tale avvertenza. E tale avvertenza è
ciò che Rosmini, in termini positivi, chiama “sentimento”.
Del resto, l’indeducibilità è la facies che il reale assume per
l’intuente non–assoluto, cioè per quel soggetto intelligente, che non
è creatore. E la stessa realtà di sé, in quanto capace di tale avver-
tenza non–intuente (o “sentimento”), è altrettanto indeducibile, e
resta affidata al medesimo genere di avvertenza (in particolare, al
“sentimento fondamentale”). Il soggetto intuente, poi, integrato del-
la sua dimensione senziente, appare come ciò che tutti chiamano
“uomo”.
3.3. Sentire è assimilarsi ad un termine sentito (esteso) da parte di
un principio senziente (inesteso)81; mentre intuire è aver presente altro,
che resta altro dall’intuente; e che, come altro, può essere riconosciu-
80
«La connessione del reale finito coll’ideale in natura non è immediata, ma si fa per
mezzo del reale infinito; ma non essendo a noi dato il reale infinito mettiamo insieme i due e-
stremi quasi dicendo secretamente così: questi due termini debbono essere uniti benché non
sappiamo come; in appresso poi la riflessione integratrice conosce l’esistenza dell’anello di
mezzo che manca e che ci resta tuttavia impercepito ed ignoto quanto alla sua positiva natura»
(cfr. Teosofia, V, n. 1964).
81
Per Rosmini, il “senziente” e il “sentito” sono dimensioni sintesisticamente unite nel
“sentimento” (cfr. Psicologia, Libro II, n. 147).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 267
to, e affermato o negato82. Ora, l’uomo realizza in sé il misterioso cro-
cevia di queste due forme di relazione con l’essere ― materiale l’una,
e formale l’altra. Egli è un “ente finito”, in quanto, pur strutturalmente
aperto alla manifestazione dell’essere, lo è a partire da una collocazio-
ne reale che è inadeguata (aposterioristica), e non originaria83: infatti,
come soggetto reale, è finito e diveniente; e deve interpretare sé come
realtà ontologica, senza poter intuire la propria concreta relazione con
l’essere84; non solo, ma per via naturale può acquisire consapevolezza
della concretezza personale dell’essere, solo attraverso la dialettica85
dell’integrazione teologica86.
82
«Nell’ordine del senso non vi ha di veramente presente che il termine del sentire, cioè
la cosa in quanto è sentita. [...] Ma questa non si può chiamare con tutta proprietà presenza
perché quantunque nel sentito si manifesti altresì una forza straniera al senso; tuttavia il senso
non avendo niuna intelligenza non dice nulla non afferma né nega qualche cosa di diverso da
sé, ma solo è passivo e ricevente l’azione» (cfr. Teosofia, IV, n. 1587).
83
Nella Psicologia, Rosmini dichiara apertamente che il fattore di limitazione che costi-
tuisce l’intelligenza umana come intùito astraente, è il “sentimento fondamentale animale”,
che nel soggetto umano è presente. (Cfr. Psicologia, Parte II, Libro IV, n. 1292).
84
«Il principio è sempre un soggetto, e però ha un modo di essere che appartiene sempre
alla categoria del reale, ed è finito per due maniere per la finità e per l’estraneità del suo ter-
mine» (cfr. Teosofia, VI, n. 2378).
85
«Per modo dialettico s’intende in generale il pensare in quanto ubbidisce alle leggi
d’una mente che raziocina [...]. Ma l’entità ha due specie di relazioni colla mente, ha delle re-
lazioni fondate nella natura stessa dell’ente e dell’essere, e queste sono relazioni dianoetiche,
e ha dell’altre relazioni fondate nella natura speciale d’una mente limitata, e queste si dicono
semplicemente relazioni dialettiche» (cfr. Teosofia, III, n. 777).
86
Una volta sommariamente ricostruito lo statuto ontologico dell’essere umano, Rosmini ri-
torna sulla intuizione dell’essere, riproponendo ― non più per via inventiva, bensì genetica ― la
limitazione di essa, come causata dalla “contingenza” dell’uomo intuente: contingenza che qui
significa inadeguatezza rispetto all’essere. Leggiamo: «Abbiam dunque detto che la prima e su-
prema ragione per la quale il pensare dell’uomo riesce imperfetto, si è perché l’uomo non è un
reale illimitato, ed a lui non è dato se non un sentimento, un reale limitato e contingente. È limi-
tata la materia del suo pensare, benché non sia limitata la forma. Da questa prima limitazione di-
pendente dalla stessa costruzione dell’uomo e dell’ente finito in generale procedono tutte le limi-
tazioni e le imperfezioni del pensare. E veramente indi procede: 1° Che nell’oggetto
dell’intuizione manchi il reale, cioè non si apprenda attualmente ma virtualmente (possibilità del
reale) e quindi al tutto indeterminato: così l’essere dinanzi allo spirito non apparisce che nel suo
inizio. 2° Che quella stessa porzione limitata di reale che costituisce l’uomo, o che è data
all’uomo non si possa apprendere nella prima intuizione dell’essere ideale, ma vi abbisogni un
diverso atto dello spirito che è la percezione naturale (Psicologia, 254–271). Ma perché si dirà la
propria realità non si apprende e percepisce coll’atto primo col quale s’intuisce l’essere, quando
pure questa realità è data al soggetto intelligente? ― Ciò accade perché la posizione di realità
costituente l’uomo è contingente» (cfr. Teosofia, V, nn. 1960–1961).
268 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Questo incrocio di intelligenza e sentimento, cioè questo soggetto “ra-
zionale”87 ― che sintetizza reale e ideale, ed è in grado di riflettere anali-
ticamente sugli elementi della sintesi, traendone dialetticamente le inte-
grazioni che sappiamo ―, gode di una sua unità88, che però Rosmini non
direbbe sostanziale, quanto piuttosto personale. Precisiamo in che senso.
Quando è applicato all’uomo, il significato “persona” ― che per Ro-
smini indicherebbe in modo generico il soggetto intelligente ― viene a
specificarsi secondo la differenza della razionalità, che è il complessifi-
carsi dell’intelligenza secondo limitazione e sentimento, con le particolari
attività che a ciò conseguono. Ora, l’intellezione dell’essere rimane il
centro di gravitazione dello stesso sentimento: questo, infatti, viene riferi-
to dall’uomo all’orizzonte dell’essere, e viene inteso in tal modo come
ente; mentre ogni reale sentito viene inteso, a sua volta, come “entità”,
cioè come elemento astratto di un ente. Dunque il soggetto dell’intel-
lezione rimane quale «primo principio che raccoglie in sé tutte le attività
inferiori»; e così considerato si chiama, in senso umano, “persona”89. Nel-
la persona umana c’è poi spazio per l’articolazione in una “sostanzaprin-
cipio” (l’anima razionale) e una “sostanzatermine” (il corpo) ― come
l’autore si esprime nella Psicologia90.
87
Per Rosmini dire che “l’uomo è un soggetto razionale”, significa sintetizzare l’altra de-
finizione, per cui “l’uomo è un soggetto animale intellettivo e volitivo”. (Cfr. Psicologia, Par-
te II, Libro III, nn. 1122–1123).
88
Tale unità ― come meglio vedremo ― gli viene dall’intuizione dell’essere, grazie alla
quale esso è individuo (cfr. Psicologia, Libro IV, nn. 560 ss.).
89
«Più principi identificati formano dunque un solo senziente. Ma poiché quest’unico
senziente ha più termini, egli conserva tutte le attività relative ai termini diversi; e poiché
un’attività può avere una fisica precellenza e maggioranza in confronto dell’altre,
quest’attività è quella che signoreggia e costituisce il soggetto dominante, e se è intellettiva
anche la persona. L’anima umana adunque è un principio unico, l’attività maggiore del quale
costituente il soggetto dominante si è l’intellettiva» (cfr. Teosofia, VI, n. 2381; cfr. anche n.
2353). E ancora: «L’attività inferiore è quella che si può chiamare termine proprio, ma il prin-
cipio delle due attività è identico. Quindi se il principio si considera solamente in relazione
coll’attività superiore e poi si considera in relazione colla sua attività inferiore allora fra il
principio considerato sotto l’una relazione e il principio stesso considerato sotto l’altra inter-
viene il rapporto di principio e di termine proprio» (cfr. ibi, VI, n. 2527; ma cfr. anche Psico-
logia, Libro II, n. 199). Già nella Antropologia, Rosmini aveva precisato che “persona” in ge-
nerale «dee essere un principio supremo, cioè tale che nell’individuo non se ne trovi altro che
gli stia sopra onde egli mutui l’esistenza; anzi tale, che se vi sono nell’individuo degli altri
principj, questi dipendono da lui e non possono sussistere in quell’individuo se non pel nesso
che hanno con lui» (cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 834).
90
Cfr. Psicologia, Parte II, Libro I, nn. 872–874.
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 269
Nel vocabolario rosminiano, il sintagma “persona umana” descrive
l’uomo considerato nella sua “essenza”, ma non nella sua “natura”. Si
può dire che l’autore usi come sinonimi i termini “persona umana” e
“essenza dell’anima umana”, precisando che quel che essi indicano,
“contiene virtualmente” i principi e le operazioni della natura umana,
che non sono però essenziali alla persona91, ma che ― dotati piuttosto
di dinamiche proprie ― restano ad essa problematicamente sottoposti92.
La natura umana ― stando alla definizione della Psicologia ― è
l’uomo in quanto esso è un «composto che risulta dall’anima e dal
corpo personalmente uniti»93. Detta in termini scolastici, essa è il ma-
teriale passionale, su cui il principio personale è chiamato ad imprime-
re il sigillo della razionalità, umanizzando, cioè correggendo tale ma-
teriale, rispetto alle inerzialità cui lo lega la sua base fisiologica94.
La natura umana non è un principio dualisticamente contrapposto al-
la persona, ma piuttosto il terreno in cui questa è chiamata (letteralmen-
te) a realizzarsi. Che questo sia l’autentico intendimento di Rosmini, lo
si evince dal Libro IV della Teosofia, dove l’essere per sé manifesto è
presentato come “forma”, non semplicemente della intelligenza umana,
ma dell’uomo tout court. Leggiamo al riguardo: «Si ritenga dunque ben
fermo nella mente questo vero che “l’ente razionale umano è costituito
o formato dall’essere per sé manifesto in quanto è inizio degli enti fini-
ti”. La forma dunque dell’uomo, il fondamento dell’umana natura è 1°
l’essere per sé manifesto 2° in quanto è inizio degli enti finiti. Come
questo è il fondamento della natura umana così conviene che sia anche
il tema del suo sviluppo e del suo perfezionamento»95.
91
Cfr. ibi, Libro II, n. 200.
92
«L’animalità che è l’ente inferiore unificato coll’intelligenza umana non ubbidisce in-
tieramente a questa intelligenza umana perché egli ha per suo termine la materia, e la materia
è posta e modificata da un principio proprio impercettibile all’uomo che abbiamo chiamato
principio corporeo. La materia soggiacente all’azione di questo principio determina il senti-
mento animale e questo perciò si rimane restio all’impero della ragione e dell’intelligenza
umana e fino a un certo segno con essa combatte» (cfr. Teosofia, VI, n. 2354). Sullo stesso
tema, cfr. anche Antropologia in servizio della scienza morale, Libro IV, nn. 839 ss.
93
Cfr. Psicologia, Libro II, n. 204.
94
Del resto, è lo stesso Rosmini ad affermare che «un atto della natura umana» è «una
passione dell’umana persona» (cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 858).
95
Così prosegue il brano: «E quindi lo sviluppo della natura umana deve esser doppio
cioè poter farsi da due lati, dal lato degli enti finiti, e dal lato dell’essere in quanto è inizio di
questi. Ma l’inizio degli enti finiti essendo dato immobilmente dalla natura rimane sempre
270 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
3.4. Da quanto abbiamo detto, emerge che la persona umana è “en-
te finito completo”, in relazione al quale, soltanto, anche le realtà non–
personali potranno dirsi enti96. Le realtà non–personali, insomma, sono
giudicate da Rosmini come realtà relative a un qualche soggetto sen-
ziente e pensante97. Più precisamente, questo non significa che non e-
sista se non quel che è pensato in atto dall’uomo; ma piuttosto signifi-
ca, che il non esser pensato in assoluto (da alcuno) equivale al non esi-
stere semplicemente98. Dunque, ciò che esiste, o è persona, o è qualco-
sa di una persona, o è almeno qualcosa per una persona99.
L’autore, per esprimere icasticamente questa convinzione, che cioè
la persona sia la sintesi dell’ordine interno all’essere (e a livello origi-
nario e a livello creaturale), afferma, nell’Antropologia, che «il nome
quello davanti al soggetto e però non ammette naturale sviluppo o accrescimento. Se dunque
l’essere come inizio degli enti finiti manifestasse se stesso più copiosamente già non sarebbe
più ordine naturale, ma avrebbe luogo un altr’ordine, un ordine soprannaturale. Gli enti finiti
all’incontro sono quelli che costituiscono la natura, de’ quali l’uomo stesso è uno e però lo
sviluppo dell’umano pensiero ed affetto intorno a questi costituisce l’ordine naturale» (cfr.
Teosofia, IV, nn. 1561–1562).
96
«Noi abbiamo veduto che il finito relativo partecipa dell’ente in quanto è nella mente, do-
ve il reale finito e l’ideale infinito costituiscono un solo ente. Il reale finito adunque benché rela-
tivo è ente per partecipazione, e in quanto è ente in tanto imita Iddio che è l’ente. Questo vale per
tutti i reali finiti, benché incompleti, molto più vale per l’ente finito completo quali sono i finiti
intelligenti, fra’ quali è l’uomo. I reali incompleti privi d’intelligenza sono enti nella mente di chi
li pensa, ma l’uomo, e lo stesso dicasi d’ogni reale intellettivo è egli stesso mente» (cfr. Teoso-
fia, VI, n. 2620). E ancora: «L’osservazione ontologica [...] ci dice che ogni ente reale è
un’attività, e che questa si riduce ad un principio senziente ed intelligente individuato, sicché ri-
mosso il principio non vi ha essere alcuno reale. Ora ogni principio senziente ed intelligente è
così essenzialmente amabile a se stesso, che per la sua propria natura, per l’attività stessa per la
quale è ente egli tende alla propria conservazione [...]. L’osservazione ontologica adunque ci fa
conoscere 1° che l’ente non è compiuto senza senso e intelligenza 2° che l’ente così compiuto è
buono a se stesso, amabile, amato» (cfr. ivi, n. 2573).
97
Cfr. Teosofia, V, n. 1998.
98
«Da una parte tutti affatto gli uomini ammettono che possano esistere degli enti da essi
non conosciuti [...]. Ma poi dall’altra ripugna né si può intendere in alcun modo l’esistenza di
un ente che non sia affatto conosciuto né da se stesso né da alcun altro, poiché quest’ente sa-
rebbe nulla a se stesso, giacché neppure questa parola se stesso potrebbe convenire a
quell’ente, giacché il se stesso altro non significa che una persona intendente il proprio senti-
mento (Psicologia, nn. 69–80) ovvero un soggetto dialettico che non esiste se non nella mente
contemplatrice. Se dunque non vi avesse alcuna mente, non potrebbe esservi alcun essere»
(cfr. Teosofia, V, n. 1975).
99
Del resto, è parte delle “limitazioni del pensare umano” che esso debba «percepire o
pensare come ente quelle cose che non sono enti ma sono appartenenze dell’ente» (cfr. Teoso-
fia, VI, n. 2552). Questo è un aspetto del “pensare astratto” (cfr. ibi, n. 2639).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 271
persona non significa né meramente una sostanza, né meramente una
relazione, ma una relazione sostanziale, cioè una relazione che si trova
nell’intrinseco ordine dell’essere di una sostanza»100.
Ora, è chiaro che la tesi secondo cui la persona è la sintesi
dell’ordine interno all’essere, non esprime più, semplicemente, la dia-
noeticità dell’essere ― e quindi il superamento dell’equivoco gnoseo-
logistico101 ―, ma sembra piuttosto esprimere uno sviluppo di essa.
Infatti, i reali, che nella loro assolutezza rispetto all’essere sarebbero
“inconcepibili e impossibili” (in quanto autocontraddittori102), sono ri-
condotti all’essere da un qualche atto di pensiero: originariamente,
quello creatore, ma secondariamente quello della persona creata (ad
esempio, della persona umana); e, in quanto ricondotti all’essere in
modo percettivo, cioè in quanto intesi come enti, essi vengono “ogget-
tivati”. Varrà dunque anche rispetto ad essi, come vale rispetto
all’essere oggettivo o ideale, l’improponibilità di una relazione al sog-
getto intelligente umano, che sia spazialmente prefigurata secondo le
categorie del “dentro” o del “fuori”103.
Ora, l’alterità effettivamente irriducibile o inassimilabile per la per-
sona, è quella dell’altra persona ― già secondo la classica indicazione
della Fenomenologia hegeliana104 ―; quindi è lì, sembra dirci anche
Rosmini, che la persona incontra l’ente, cioè una realtà che inequivo-
cabilmente dà spessore all’orizzonte dell’essere, pur non adeguandolo
né tantomeno istituendolo. Del resto, che le sostanze che sono enti in
100
Cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 833.
101
«Quando voi dimandate, se l’essere sia cosa al tutto divisa da qualunque mente in mo-
do che sia privo d’ogni intelligibilità, ossia di qualunque relazione colla mente, io vi domando
se sapete cosa sia essere, intorno al quale voi proponete questa questione. Se al tutto non lo
sapeste non la potreste proporre, se poi lo sapete, l’essere dunque che cade nella questione è
tale che la questione stessa lo suppone cognito, e perciò la questione è sciolta coll’atto stesso
del proporla» (cfr. Teosofia, III, n. 776).
102
Cfr. Teosofia, III, n. 800.
103
«Fra il nostro spirito e i suoi oggetti non v’ha una relazione di spazio, [...] questa relazio-
ne di spazio si trova bensì fra il nostro corpo e gli altri corpi e in generale fra’ corpi, [...] però le
locuzioni fuori e dentro, interiore ed esteriore che significano relazioni di esteso ad esteso, non
esprimono in senso proprio, ma solo in senso figurato la relazione fra il nostro spirito e le sue i-
dee, e né tampoco fra il nostro spirito e il mondo reale» (cfr. Teosofia, IV, n. 1540).
104
Il nostro riferimento va naturalmente alle prime pagine della sezione “autocoscienza”
della Fenomenologia dello Spirito. (Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte
Werke, Band 9, a cura di W.Bonsiepen e R.Heede, (B), Selbstbewußtsein, IV. Die Wahrheit
der Gewissheit seiner selbst).
272 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
senso proprio e paradigmatico siano le persone, lo testimonia il fatto
che, in analogia a queste, l’uomo finisce per trattare anche le altre:
quelle animali, vegetali, e persino quelle inorganiche e oggettuali105.
In sintesi, possiamo dire che la persona umana è data a se stessa co-
me relazione intuitiva ad una presenza che, nella sua oggettività, è ma-
nifestazione iniziale della Persona originaria e originante; e questa sua
condizione pone la persona umana come realizzazione limitata, ma in-
tensiva (cioè capace di consapevolezza), dell’essere stesso: quindi come
ente finito ma completo. Così, se la possibilità di acquistare coscienza
riflessa dell’essere come tale, e di se stessa nell’essere, resta legata, nel-
la vicenda psicologica naturale della persona, all’incontro con il reale
― si pensi, al riguardo, alle note tesi della Antropologia106 e della Psi-
cologia107 ―, ecco che tale incontro è, in concreto, l’incontro con la
persona d’altri. La relazione interpersonale è dunque, propriamente, in-
troduzione alla relazione con la Persona originante.
Rosmini è esplicito nel sostenere che la tendenza della persona ad
“aderire” all’essere (tendenza da lui detta “ragion pratica”108), ha per
suo “termine” appropriato la “sostanza intelligente”, cioè un’altra per-
sona. Solo questa, infatti, è realizzazione a suo modo completa
dell’essere: dove completa vuol dire consapevolmente unita all’essere
infinito, e avente in esso la propria “sede”. Insomma, la persona è per
l’altra persona il luogo, non solo psicologicamente occasionale, ma
105
Le anime sensitive «non hanno ancora una suità, ad esse non compete il sé, e però
neppur propriamente il suo, né loro si addice in proprio alcun pronome personale. Ma l’uomo
pensa e parla di loro, come avessero un’esistenza in sé, e loro applica i pronomi personali. Il
che egli fa di nuovo, non a fine di trasnaturarle, ma di concepirle: non vuole con ciò attribuir
loro la propria suità, ma quel modo oggettivo e soggettivo di essere, senza il quale egli nulla
concepisce. Perocché questo modo suppone, che ‘l’ente abbia un atto suo proprio, sia in se
stesso qualche cosa, e però abbia un sé, una personalità’. In fatti non si dà essere completo, se
non è persona: la persona è condizione ontologica dell’essere. Onde le anime, sensitive me-
ramente, sono soggetti, ma soggetti incompiuti; e però non hanno tutta quella realità che è ne-
cessaria a costituire un ente reale. Alcune finalmente sono soggetti perfetti, perché hanno il sé,
e quindi si può a tutta ragione dire di esse che hanno un’esistenza in sé, queste sono le sostan-
ze intellettive le quali e sono enti–principio e non dipendono da niuna sostanza contingente né
antecedente, né conseguente ad esse» (cfr. Psicologia, Parte II, Libro II, nn. 876–877).
106
Cfr. Antropologia in servizio della scienza morale, IV, n. 801.
107
Cfr. Psicologia, Libro II, nn. 190 ss.
108
Si tratta della ragione, considerata in quanto orientante la tensione con cui l’uomo “a-
derisce” all’essere. Così intesa, la figura è assimilabile al tommasiano adpetitus rationalis,
anziché alla omonima figura kantiana. (Cfr. Psicologia, Parte II, Libro IV, nn. 1406 ss).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 273
anche pedagogicamente adeguato, per aprirsi esplicitamente in dire-
zione dell’incontro con quella Persona di cui l’essere stesso è annun-
cio109. Aprirsi ad ulteriore incontro ― diciamo –, perché per Rosmini
la persona umana, in quanto ha di limitato, non può essere termine a-
deguato, e quindi propriamente “morale”, della ragion pratica, la quale
ha la latitudine stessa dell’essere110.
4. Persona e possibilità
Come abbiamo visto, la completezza sembra essere la versione non
naturalistica, bensì propriamente ontologica, della sostanza ― che il
nostro autore propone.
4.1. In fondo, l’unica realtà che gode di quella relativa autonomia o
completezza nell’esistere, che la tradizione esprime come sostanziali-
tà, è proprio la persona. Significativo, al riguardo, è che l’individualità
(ovvero, l’autonomia) sia data ― secondo Rosmini ― dalla intuizione
dell’essere; e questo, in polemica con quella tradizione scolastica, che
identificava il principium individuationis con la materia signata quan-
titate111. È l’intuizione dell’essere, infatti, che consente alla persona di
109
«Né pure il principio meramente senziente–animale può costituire il termine finale del-
la ragione pratica come quello che non è ente completo, ma solo un cotal rudimento di ente, è
in via ad essere ente. Oltre di che dovendo questa sempre spingersi all’infinito, il che la rende
morale, e il principio animale niente avendo in sé d’infinito, egli non può essere in alcun mo-
do ultimo termine della ragione pratica. L’essere intelligente all’incontro essendo quello che
ha sua sede nell’infinito, nell’essere ideale, nell’essenza dell’ente in universale, in quanto che
in questa s’affissa e riposa; partecipa della dignità infinita di questo, perché è a questo ordina-
to, e quindi ha ragione di fine, e di termine della ragione pratica. Ma posciaché anche fra gli
esseri reali–intelligenti v’ha un ordine, e il reale finito non è che una produzione dell’infinito,
che lo crea; così è necessario alla ragione pratica di aderire all’ente intelligente finito in modo
da riferirlo al suo principio, a Dio creatore; nel quale solo s’acquieta interamente come in suo
termine ultimo, completo, assoluto» (cfr. Psicologia, Parte II, Libro IV, nn. 1442–1443).
110
«L’attività morale va direttamente nell’essere, e però è universale come l’essere; di
maniera che se il segno ultimo a cui tende si restringesse, e così cessasse d’essere il puro esse-
re, e da assoluto com’è l’essere diventasse relativo, com’è ciò che si concepisce distinto
dall’essere, non ci sarebbe più nulla di morale» (cfr. Teosofia, V, n. 2029).
111
Cfr. Psicologia, nn. 567–571. Rosmini, opportunamente, osserva che «l’ente reale in
tanto è indivisibile, in quanto è uno. Ma come vi hanno diverse maniere di unità, così vi han-
no diverse maniere d’indivisibilità, e per conseguente d’individui» (cfr. ibi, Libro IV, n. 561).
Già Boezio, nel II Libro del suo Commento all’Isagoge di Porfirio (cfr. Commentaria in Por-
274 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
ritornare su di sé, e ricomprendersi, senza perdersi invece nel sentito.
Grazie ad essa, inoltre, la persona abbraccia nell’orizzonte ontologico
ogni realtà, ha cioè presente a sé il mondo, come qualcosa di relativo a
quell’orizzonte: come qualcosa, dunque, verso cui disporsi secondo li-
bertà. Niente infatti è in grado di intercettare in modo ultimativo
l’energia di “adesione” all’essere, se non adegua realmente l’idealità
di questo. La libertà è dunque il segno più esplicito della completezza
entitativa della persona umana; così come in Dio lo è della completez-
za ontologica112.
4.2. Ma, l’aspetto più felice del discorso di Rosmini intorno alla li-
bertà della persona umana sta ― a nostro avviso ― in una considera-
zione apparentemente laterale rispetto ad essa, come è quella relativa
al possibile. Il regno della persona, in quanto è libera, è infatti quello
del possibile. E il costituirsi della persona in relazione all’essere come
tale (e specificamente, alla idealità infinita di questo), coincide con
l’apertura stessa dello scenario della possibilità. L’essere ideale ― af-
ferma Rosmini ― è “la possibilità di tutte le possibilità”113: il trascen-
dentale è dunque l’orizzonte di una esplorazione del possibile.
La possibilità ― il poter essere ― si dà secondo differenti livelli.
Dal punto di vista “psicologico” la possibilità è per Rosmini la lettura
del reale come termine dell’essere ideale: e questa coincide con la
formazione dei concetti universali. Ma la concepibilità di altro, oltre al
phyrium, in PL 64, coll. 97–98), ricordava che in–dividuum è, ad esempio, la mente, in quanto
radicalmente indivisibile.
112
Le sostanze intellettive «non dipendono da niuna sostanza contingente né antecedente,
né conseguente ad esse; ma dipendono soltanto dall’essere eterno e divino. Queste sole hanno
la suità, e possono dire: Io, a quel modo che abbiamo spiegato, ed esistendo un Io, esiste una
vera causa, onde sono veri agenti, dotati di libertà. L’atto, con cui queste sostanze esistono,
essendo indipendente da ogni sostanza creata, possono quindi sovrastare a tutte, ed operare in
modo da non esser necessitate dall’azione di alcuna creatura; intendasi sempre in quanto sono
pure intelligenze, e non legate all’essere sensitivo o corporeo, come accade dell’uomo, essere
misto di sensitività corporea e d’intelligenza» (cfr. Psicologia, Parte II, Libro I, n. 877). In
tanto in quanto l’uomo è persona, la descrizione precedente vale anche per lui.
113
Cfr. Teosofia, IV, n. 1598. E ancora: «Perché la mente ha per suo oggetto essenziale il
primo atto dell’essere suscettivo di tutte le determinazioni, e quel primo atto colle diverse sue
determinazioni abbraccia tutta la possibilità dell’essere e tutti gli esseri possibili: onde
l’intelligenza è dotata d’un mezzo di conoscere che s’estende a tutte le entità possibili, sussistenti
o no. E nel vero, l’essenza dell’essere è la forma essenziale all’intelligenza: nulla dunque di ciò
che partecipa dell’essenza dell’essere può essere inintelligibile» (cfr. ibi, III, n. 775).
Capitolo I: Essere e persona: un destino solidale 275
reale, è la “possibilità logica”, alla quale è sufficiente la condizione
dell’incontraddittorietà114 (per cui, non solo ogni logicamente possibile
è non–contraddittorio, ma anche ogni non–contraddittorio è logica-
mente possibile).
Ma, anche se è tale ampiezza formale a far da sfondo all’agire della
persona, quest’ultima in concreto dovrà commisurare la “possibilità
logica” con quella che l’autore chiama “possibilità fisica”: cioè con la
effettiva realizzabilità, nelle condizioni date, del progetto concepito
quale astrattamente possibile. E tale possibilità ― cioè, l’oggettiva-
bilità dell’ipotesi di realtà considerata dall’agente ―, non è mai vera-
mente nota a priori ad una mente che, in quanto intuente, è soggetta a
limitazione, e non sa considerare integralmente i reali che l’ipotesi
stessa finisce per coinvolgere115. Ecco allora che la possibilità fisica è
altrettanto oggetto di tentativo116 quanto di invocazione: invocazione a
chi, avendo potere radicale (cioè creante) sui reali, li può disporre in
modo opportuno ad accogliere il progetto, strutturalmente sempre vel-
leitario, concepito dalla persona umana117.
4.3. A sua volta, poi, la riflessione su questa invocazione, porta
all’esito seguente: l’ipotesi che il possibile fisico sporga rispetto a
quanto di reale si fa attuale di volta in volta nel tempo ― cioè,
114
«È concepibile tutto ciò che non involge contraddizione; ma ciò che involge contraddi-
zione implica l’annullamento di sé» (cfr. Teosofia, II, n. 451).
115
L’incapacità della mente umana di considerare integralmente i reali coinvolti almeno
implicitamente nell’azione, sta alla radice della critica mossa da Manzoni ― d’intesa con Ro-
smini ― al consequenzialismo proprio dei “sistemi dell’utilità”. Cfr. A. Manzoni, Osserva-
zioni sulla morale cattolica (1855), a cura di R. Amerio, Ricciardi, Milano ― Napoli 1965,
cap. III, Appendice.
116
Si potrebbe parlare, in tal senso, di una “peirastica” del possibile determinato, operata
in relazione al trascendentale. Su questo tema, ci permettiamo di rinviare a: P. Pagani, Libertà
e non–contraddizione in Jules Lequier, Parte IV, cap. III.
117
Cfr. Teosofia, IV, n. 1554. «Alla possibilità fisica [...] si richiede di più che esista una
potenza atta a produrre quell’ente, di cui si ha il concetto, cioè a farlo sussistere. Ora questa
possibilità fisica manca del tutto nel puro essere reale, o ne’ concetti» (cfr. ibi). E ancora:
«‘Ogni concepibile si dichiara possibile’. Questo avviene perché ciò che è concepibile, in
quant’è concepibile, si vede eterno (essenza), e tale non potrebbe essere se non fosse concepi-
to da una mente eterna. Se dunque c’è una mente eterna, che ebbe potere di concepirlo la pri-
ma e così farlo essere, è consentaneo ch’ella abbia anche il potere di dargli la realità; essendo
cosa minore la realità, che non l’essenza: e la causa potente a produrre questa, molto più dee
esser potente a produrre quella» (cfr. ibi, II, n. 452).
276 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
l’ipotesi che l’accadere non sia fatalisticamente pregiudicato, ma piut-
tosto contingente in senso bilaterale ―, resta verificata solo alla con-
dizione che il Potente originario (cioè, chi governa i possibili) non sia
una mera entità impersonale, ma sia piuttosto una Persona libera, che
opera a sua volta in riferimento ad un ambito di possibilità, tale da ac-
cogliere in sé il momento latente, ovvero il corrispettivo non accaduto,
di ciò che di volta in volta accade. Ed ecco che, così profilato, l’agire
libero della persona umana, giunto ad un adeguato grado di consape-
volezza, viene ad assumere l’aspetto della preghiera.
CAPITOLO II
METAFISICA E ANTROPOLOGIA IN SCIACCA
E IN ROSMINI
Sarebbe praticamente impossibile, nello svolgere un tema come
quello enunciato nel titolo, procedere per ordine, trattando prima di Ro-
smini e poi di Sciacca: tanto imponente è la presenza dell’autore della
Teosofia nell’itinerario filosofico e negli scritti sciacchiani. Ho scelto,
pertanto, di incentrare la mia relazione proprio sui testi di Michele Fe-
derico Sciacca, per vederne emergere in filigrana Rosmini. Allo scopo,
mi concentrerò principalmente, anche se ― come vedremo ― non e-
sclusivamente, sulla produzione sciacchiana degli anni Cinquanta (quel-
la legata alla sigla della «filosofia dell’integralità»); organizzando
l’esposizione secondo una sequenza forse insolita, ma ― così almeno
ritengo ― fedele alla lettera e allo spirito del nostro autore.
1. Alle radici del dubbio
In Sciacca, compagno di strada dei problematicisti di ascendenza
gentiliana, è costante l’attenzione al tema del dubbio. A ben vedere, il
nostro autore ― memore della lezione agostiniana ― affida proprio ad
una considerazione analitica del dubbio, l’introduzione critica delle fi-
gure che vanno a costituire lo scenario della «filosofia dell’integralità»1.
1
Cfr. M.F. Sciacca, L’uomo, questo “squilibrato” (1956), vol. 4 delle Opere complete di
Michele F. Sciacca, Marzorati, Milano 1963, pp. 112–113.
277
278 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
In particolare, ne L’interiorità oggettiva (1952), l’ipotesi del falli radi-
cale introduce criticamente la duplice consapevolezza che «io sono», e
che «io sono capace di verità»; ed evidenzia che, essendo capace di ve-
rità per questa via negativa o elenctica ― appunto mediata dalla mo-
venza del dubbio ―, devo anche riconoscere che «io non sono la veri-
tà»: non sono, cioè, quel pensiero assoluto che coincide con la verità
stessa2. In altre parole, dal dubbio emerge anche che sono io a dovermi
disporre rispetto alla verità, anziché poter disporre di essa.
La verità è dunque, per me, problema; almeno nel senso etimologi-
co del termine3: cioè «oggetto» inevitabile di insistenza materiale4 e di
disposizione formale5 della mia attività pensante. In altre parole, se
non ci fosse l’orizzonte della verità (il “come stanno le cose”), non a-
vrebbe neanche senso dubitare: infatti, revocare in dubbio una convin-
zione, vuol dire ipotizzare che questa possa non corrispondere alla ve-
rità; così, se non si presupponesse lo stare in un qualche modo della
verità, neppure si potrebbe relativizzare alcunché. La questione, dun-
que, non è mai “se” vi sia verità, ma semmai “come” essa sia6.
In un testo di natura didattica, ma di sicuro rilievo teoretico ― Me-
tafisica ed esistenza di Dio, contenuto nel volume Filosofia e metafi-
sica (1950) ―, Sciacca evidenzia come il dubbio viva anche di altre
segrete implicazioni, coincidenti con i principi elementari del giudizio.
Ora, tali principi non sono revocabili in dubbio, se non sperimental-
2
«È evidente che nell’atto del pensare è implicita la presenza dell’essere come oggetto del
pensiero, altrimenti sarebbe impossibile dal fallor e dal cogito inferire il sum o l’ergo sum.
[...] Il si fallor sum, infatti, indica chiaramente che io acquisto coscienza del sum attraverso
l’ingannarmi e il dubitare; e che dunque il mio pensiero è limitato e imperfetto. Tale imperfe-
zione non infirma la certezza che io ho di essere, ma, nello stesso tempo che mi assicura che
sono capace di verità, mi rivela che non sono la verità, che questa non è il mio pensiero. E al-
lora: a) se il pensiero non è la verità, quantunque ne partecipi, la verità è suo oggetto dato [...];
b) se il pensiero è imperfetto, non è il Pensiero assoluto; c) se non è il Pensiero assoluto e se la
verità che intuisce gli è data, il negativo della sua imperfezione e il positivo della presenza
della verità rimandano, dall’interno del pensiero stesso, ad un Pensiero assoluto e infinito, che
è la Verità assoluta e infinita» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva [1952], vol. 1 delle
Opere complete di Michele F. Sciacca, Marzorati, Milano 1967, pp. 68–69).
3
“Problema”, da pró e da bállein, indica ciò che sta davanti al pensante.
4
Scolasticamente si parlerebbe di esse in veritate.
5
Scolasticamente si parlerebbe di cognoscere veritatem.
6
Il pensiero umano legge nel libro della verità (magari sbagliando le parole, saltando
qualche lettera, confondendo l’ordine dello scritto); ma lo scrutare del dubbio non avrebbe
senso, se quel libro non ci fosse.
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 279
mente, proprio perché il dubbio li deve esercitare per potersi esplicare.
Più precisamente: la referenza semantica che il dubbio implica, dovrà
essere incontraddittoria, per poter confermare, almeno in linea di dirit-
to, una delle alternative tra loro contraddittorie, tra le quali il dubitante
oscilla secondo un implicito aut aut. La verità, insomma, deve essere
o “così” o “non così”, perché abbia senso l’alternativa in aut che fa da
sintassi al dubitare.
In generale, viene a evidenza una linea di demarcazione tra ciò su
cui il dubbio può essere esercitato (per venire eventualmente superato
per ragioni di merito), e ciò che strutturalmente sta «al di là» del dub-
bio (e che fa da condizione di possibilità del medesimo): si tratta, ri-
spettivamente, dell’ambito della ragione e di quello dell’intelligenza7.
Annota sinteticamente Sciacca: «o non c’è verità e con ciò si arriva al-
la conclusione assurda e contraddittoria che ‘è vero che nulla è vero’;
o c’è verità e c’è un al di là della ragione»8. Quella di un dubbio insu-
perabile (o iperbolico) si palesa quindi come una «ipotesi proibita»9:
potremmo anche dire, autocontraddittoria; nel senso, però, della con-
7
Intesa, quest’ultima, come «presenza della verità alla mente». «Irrazionale (e ridevole) qua-
lunque tentativo di mettere in dubbio la verità dei principi del giudizio, in quanto, in tal caso, la
ragione pretende di giudicare intorno alla veridicità dei principi del giudizio fondandosi pro-
prio... sulla veridicità dei principi del giudizio! Ora, se i principi del giudizio sono ‘al di là’ del
dubbio, consegue che la mente o il pensiero come intelligenza della verità è ‘fuori’ del dubbio e
dell’errore: il dubbio è della ragione e del conoscere razionale non dell’intelligenza e del cono-
scere intuitivo: l’errore è nei nessi e nei rapporti che la ragione stabilisce (ed è dalla stessa ragio-
ne corretto), non è nei principi del giudizio e nell’atto intellettivo che li intuisce. L’intelligenza
come presenza della verità alla mente è sempre nella verità; la mia mente e ogni mente umana,
in questo senso, è come libera prigioniera della verità. Anche se volesse scacciarla, in odio alla
verità, non potrebbe mai: vi abita ed è in casa sua» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica,
Morcelliana, Brescia 1950, p. 159; il testo sarebbe stato in seguito riprodotto nei voll. 13 e 14
delle Opere complete di Michele F. Sciacca, Marzorati, Milano).
8
Cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 149.
9
«Ipotesi proibita è il ‘dubbio iperbolico’ di Cartesio [...]. Ora: il dubbio spinto al massi-
mo, fino a negare Dio, distrugge se stesso, perché distrugge il pensiero: se davvero fosse con-
cretamente possibile bloccare la mente nel dubbio assoluto, nel momento stesso, cesserebbe il
pensiero e dal dubbio non nascerebbe mai il Cogito: è contraddittorio pensare e nello stesso
tempo annullare il pensiero con un atto del pensiero (il dubbio assoluto). Chi dubita pensa, ma
se pensa, anche nel grado più negativo del dubbio, non può dubitare della realtà del pensare;
ma basta che vi sia un pensiero, anche come pensiero del dubbio, perché sia implicata
l’esistenza di Dio; dunque il dubbio iperbolico è impossibile, in quanto, negando sia pure co-
me momento metodologico, l’esistenza di Dio, si nega il pensiero e col pensiero anche l’atto
di pensiero che è ‘il dubbio iperbolico’ e con esso ancora l’ipotesi ateista» (cfr. M.F. Sciacca,
Filosofia e metafisica, p. 224).
280 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
traddittorietà performativa, la quale altro non è che la prima facies di
un élenchos10.
Andando ora oltre il dettato del nostro autore, possiamo in sintesi
affermare che il dubbio, cioè il momento di equilibrio instabile (o di
«squilibrio», nel senso propriamente sciacchiano del termine) che si
realizza costantemente nel cammino conoscitivo, ha una sua gramma-
tica complessiva11: articolabile in una “semantica”, in una “sintassi” e
in una “pragmatica”. La semantica del dubbio ha come referente un
mondo di cui si suppone che stia in un certo modo (che abbia una
qualche, sia pur paradossale, verità): si dubita, insomma, di come stia-
no le cose, ma non del fatto che esse stiano in un determinato modo.
Se si escludesse la sensatezza del problema dello “star così delle co-
se”, non si potrebbe neppure dubitare, cioè non ci si sforzerebbe di di-
sporsi rispetto alla verità, ma piuttosto si disporrebbe di essa. La sin-
tassi del dubbio, poi, è in aut; qualunque sia il contenuto della deter-
minata dubitazione. Osserviamo che si potrebbe paradossalmente re-
vocare in dubbio anche questo ― cioè che il dubbio sia in aut –; ma
non si potrebbe farlo, comunque, in vel: infatti, se fosse vero il secon-
do di questi corni dilemmatici, non potrebbe esserlo il primo, e vice-
versa. Se il dubbio non fosse disgiuntivo in aut ― come indica la stes-
sa etimologia della parola12 ―, esso non sarebbe più dubbio ma un al-
tro genere di atteggiamento. La pragmatica del dubbio, infine, implica,
non solo l’esistenza del dubitante, ma anche la libertà di esso: potendo
egli concepire come entrambe alternativamente possibili le disgiunte
in aut circa il medesimo13.
2. Intelligenza e ragione
L’al di là della ragione, ovvero il terreno su cui il dubbio può pog-
giarsi per procedere, è costituito da quei principi che fanno da criterio
10
Si veda, al riguardo: P. Pagani, Contraddizione performativa e ontologia.
11
Potremmo parlare, al riguardo, di una semiotica del dubbio.
12
“Dubbio”, infatti, viene da duplum: termine che implica la dualità.
13
Su questo punto, ci permettiamo di rinviare a: P. Pagani, Libertà e non–contraddizione
in Jules Lequier, Parte I, cap.II.
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 281
al giudizio e all’argomentazione, cioè agli atti tipici della ragione14. In
fondo, quello della ragione è un esercizio di coerenza, che non avreb-
be senso se non vi fosse alcunché di vero cui essere coerenti, cioè al-
cunché di vero da non rinnegare. Se infatti il gioco dei concetti si dice
razionale quando non sviluppa al proprio interno la contraddizione,
occorre almeno riconoscere che il criterio stesso della incontradditto-
rietà appartiene ad un ambito intuitivo che si configura come pre o ul-
tra concettuale (pre o ultra categoriale): ambito sul quale sta aperta ―
per sua essenza, in atto15 ― l’intelligenza16.
Dunque, la ragione si trova a seguire principi di cui non è ― e nep-
pure può essere ― in grado di dar conto, senza involgersi in una peti-
zione di principio (e a cui d’altronde non può opporre contestazione,
senza incorrere in una redarguitio elenctica)17. Resta, però, che essa è
comunque in grado di riconoscere la verità di tali principi. Senonché,
«il cosiddetto giudizio con cui la ragione riconosce la verità dei prin-
cipi non fonda la validità dei principi stessi, ma è l’atto con cui la ra-
gione si costituisce come capace di giudizi veri sul fondamento della
verità dei principi»18.
14
«Rosmini, che indubbiamente tiene presente S. Agostino, distingue tra ‘ragione’ e ‘lu-
me della ragione’: la prima è l’attività che ha come ‘oggetto’ l’idea dell’essere, che è appunto
il lume della ragione. Questa distinzione va approfondita» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e me-
tafisica, p. 181). «Questo problema è sfuggito a tutto il pensiero moderno, tranne che al Ro-
smini; e l’averlo visto è la sua grandezza e la sua verità perenne» (cfr. M.F. Sciacca,
L’interiorità oggettiva, p. 32).
15
«L’intelligenza è atto per essenza, è ontologicamente l’atto costituito dalla presenza
dell’Idea e l’atto costituente nell’Idea il carattere ad essa essenziale della presenza» (cfr. M.F.
Sciacca, Atto ed essere [1956], vol. 5 delle Opere complete di Michele F. Sciacca, Marzorati,
Milano 1963, p. 50).
16
«La ragione è sempre e per sua natura immanentistica; l’intelligenza è sempre e per sua
natura trascendentistica e teista. La ragione, infatti, è attività concettuale e giudicatrice; il
concetto di una cosa ne adegua la realtà [...]. Ora non vi è niente, nessun contenuto del mondo
umano e naturale, che possa adeguare l’Idea o l’oggetto dell’intelligenza» (cfr. M.F. Sciacca,
L’interiorità oggettiva, p. 38).
17
«Se la ragione giudica con esse norme, non può sottoporre le norme a giudizio, in quan-
to, se la norma stessa fosse passibile di giudizio, cesserebbe di essere norma di giudizio per
esserlo quella o quelle che la giudicano e che sarebbero le vere norme ingiudicabili del giudi-
zio». Ma, «se la ragione non giudica le norme del giudizio e da esse è giudicata, consegue che
le norme sono indipendenti dalla ragione, da essa non prodotte ma ad essa date e, come tali,
superiori alla ragione» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 151). «La ragione pertanto
applica i principi, li media, non ne ha conoscenza diretta: essi sono conosciuti direttamente
dalla mente o dall’intelligenza e applicati dalla ragione» (cfr. ibi, p. 153).
18
Cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 154.
282 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Si potrebbe osservare, al riguardo, che quel che la tradizione aristo-
telica chiama élenchos, è a ben vedere la razionalità specifica
dell’intelligenza19: dunque, una movenza argomentativa che non con-
siste in un calcolo, ma piuttosto in una testimonianza resa alla impre-
scindibilità di alcune strutture elementari della verità. Si tratta della
movenza che, ad esempio, vediamo all’opera nell’esperimento del si
fallor sum.
Dai brani che seguono si potrà constatare come il nostro autore ―
che pure non usa il termine aristotelico ― alluda inequivocabilmente
all’élenchos. Leggiamo ad esempio: «Com’è evidente, non vi è giudi-
zio con cui io possa distruggere la verità: anche se volessi, non potrei
distruggere la verità del giudizio con cui pretendessi distruggerla! Io
non posso distruggere la mia mente (non posso annientare in me
l’uomo profondo), anche se posso distruggere la mia ragione»20. In-
somma, per fare un caso eminente: negare il principio di non contrad-
dizione, non vuol dire essere in grado di concepire il contenuto ipote-
tico della determinata autocontraddizione; analogamente, negare a pa-
role la verità in quanto tale, non vuol dire saper evadere effettivamente
dal terreno aletico.
E, in modo ancora più esplicito: «I principi si scoprono, non si co-
struiscono; s’intuiscono, non si dimostrano. Sono anteriori a ogni di-
mostrazione per il motivo che ogni dimostrazione li presuppone; an-
che quella che eventualmente tentasse di dimostrare che essi non sono
veri, per essere dimostrazione valida, sarebbe costretta a presupporne
la validità! Ecco perché le varie forme di ‘convenzionalismo’, di ‘irra-
zionalismo’, di ‘assurdismo’ ecc. non hanno alcuna consistenza filoso-
fica e sono soltanto stati d’animo, atteggiamenti polemici e passionali.
[... Essi,] come sistemi, cioè dimostrati e sistematizzati, significano
una sola cosa: la conferma della validità oggettiva dei principi primi,
adoperati anche in queste sistemazioni»21.
Sciacca giustamente afferma che i principi ― che formano, per co-
sì dire, il residuo elenctico ― non possono avere carattere «conven-
zionale»; in quanto non c’è convenzione che possa precederli, e quindi
19
Ovvero, la razionalità propriamente filosofica.
20
Cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 160.
21
Cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, pp. 88–89.
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 283
prescinderne22. Neppure ritiene proponibile al loro riguardo un’origine
per induzione dall’esperienza sensibile (soluzione che egli ascrive alla
tradizione empiristica); né uno statuto aprioristico (nel senso del ra-
zionalismo o in quello del criticismo). Piuttosto, il nostro autore ritie-
ne inevitabile una terza impostazione del problema, propria di quella
tradizione che egli chiama «idealismo trascendente di derivazione [...]
platonica». Secondo tale tradizione, i principi del giudizio «sono pre-
senti alla mente, che ne ha intuizione»; e «fanno di essa (intelligenza)
la luce che illumina la ragione, che, illuminata, getta luce sulle cose,
cioè le giudica e giudicandole le vede nella loro intelligibilità o nel lo-
ro grado di essere»23.
3. I principi della presenza
I principi sono quel che resiste al dubbio, in quanto la loro elimina-
zione comporterebbe anche l’eliminazione della possibilità stessa di
dubitare. In tal senso, il principio per eccellenza altro non è che
l’essere in quanto tale, ovvero il luogo in cui ogni dato, anche ipoteti-
co, può darsi. «Dubitare dell’essere è ammutolire e chi è muto è muto;
non può neppure dubitare. La domanda “l’essere è?” è retorica, pura
finzione. C’è solo l’affermativa: “l’essere è”, in quanto l’essere non
può non essere» ― così osserva il nostro autore in Atto ed essere
(1956), non senza un occhio all’élenchos aristotelico24.
22
Anzi, «è possibile il convenzionalismo del sapere razionale, proprio in quanto vi sono
dei principi non convenzionali che lo rendono possibile. Se si dice che i principi stessi sono
convenzionali, allora si giudica ciò in base a cui si giudica e che non può esser giudicato. Inol-
tre io domando: in base a quali altri principi giudicate convenzionali i principi? [...] Se fossero
convenzionali anche questi principi, allora nulla sarebbe convenzionale» (cfr. M.F. Sciacca,
Filosofia e metafisica, pp. 159–160).
23
Cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, pp. 155–158. Anche Rosmini presentava i
primi principi come la grammatica dell’essere, su cui l’intelligenza sta originariamente aperta:
«Quantunque la scienza non potrebbe fare alcun ragionamento senza l’uso de’ principi forma-
li ed ha bisogno di questi anche quando ragiona intorno ad essi tuttavia prima d’ogni ragio-
namento c’è davanti all’intelligenza l’essere ideale che li contiene in sé tutti virtualmente e
indivisi» (cfr. A. Rosmini, Teosofia, Il problema della ontologia, n. 94). Anche in Rosmini,
però, assistiamo ad un riscatto elenctico dei principi, benché il termine élenchos non compaia
nei testi di questo autore (cfr. A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, nn. 562–567).
24
E ancora: «Se sospendo l’essere dell’essere non posso più formulare la domanda sull’essere,
nessuna domanda: non sospendo il pensiero, l’anniento. Perciò la filosofia è interrogazione su tutto
284 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Ora, il senso che l’affermazione ontologica radicale acquista in
questo contesto, può essere decifrato con l’aiuto di Rosmini. Secondo
il Roveretano, quando si dice che «l’essere è», si indica, col soggetto
grammaticale, l’oggettività o idealità, ovvero l’intrinseca intuibilità
dell’essere per l’intelligenza; con il predicato, invece, si indica
l’attualità di quello stesso essere, la quale non dipende ― per quel che
è immediatamente noto ― dal suo essere oggetto della intelligenza
umana25. Dalla analisi precedente derivano ― sempre rosminianamen-
te ― «i due primi giudizi [...] che comunicano la luce della verità e
quindi la certezza a tutti gli altri giudizi», i quali inevitabilmente «li
suppongono»: si tratta del «principio di cognizione», secondo cui
l’essere è l’oggetto dell’intelligenza, e del «principio di identità», che
esprime la convenienza dell’essere con se stesso26. Dal principio di
cognizione, Rosmini esplicita poi il principio di non contraddizione,
secondo cui «l’essere esclude il non essere», cioè non realizza con es-
so una sintesi possibile27.
Anche Sciacca propone un implesso simile28; e inoltre indica, al-
meno in alcuni luoghi e in sottintesa polemica con l’attualismo genti-
liano, il principio di identità e il principio di non contraddizione quali
condizioni di possibilità dello stesso divenire29.
a partire dall’essere dell’essere. Non c’è pensiero o parola senza, fuori, al di là dell’essere, prima e-
videnza da cui nascono tutti i problemi e le possibili soluzioni. Si tratta d’indagare che cosa,
nell’evidenza dell’essere, fa problema» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 21).
25
In questa distinzione reale della attualità dalla idealità, si fonda la dialetticità
dell’«essere iniziale» rosminiano.
26
Cfr. A. Rosmini, Logica, n. 337.
27
Cfr. A. Rosmini, Logica, nn. 341–342. Nel Nuovo Saggio, Rosmini spiega che
«l’impossibilità logica è il non potersi pensare; brevemente il nulla»; per questo, il principio
di non contraddizione, che vieta solo l’impossibilità logica, «non è altro che la possibilità del
pensare». È chiaro che il principio di non contraddizione si fonda sulla duplice constatazione
che «il nulla non può essere veduto» ― cioè concepito ―, e che quella della contraddizione è
una ipotesi nullistica. (Cfr. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, nn. 562–566).
28
«Nell’intuito dell’essere come Idea è implicito quello dei principi di identità e di non–
contraddizione, in quanto l’essere è identico a se stesso ed incontraddittorio» (cfr. M.F. Sciac-
ca, L’uomo questo “squilibrato”, p. 39).
29
«Proprio la presenza dei contrari nell’esperienza è testimonianza della identità dell’ente
a se stesso, in quanto non vi potrebbe essere movimento di questo ente a non questo ente sen-
za l’unità e la permanenza dell’ente, cioè se l’ente non restasse identico a se stesso. [...] Se tra
ente e non ente vi fosse rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che investe la stessa
essenza dell’ente per cui l’antitesi si irradica nella sua essenzialità) non vi sarebbe più possibi-
lità di stabilire i termini di un’antitesi. È possibile, invece, un’esperienza di contrari e un rap-
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 285
Naturalmente, egli non perde occasione per enfatizzare il carattere
originariamente ontologico di quelle figure, fino a definire la metafisi-
ca: «[la] scienza dei principi [intesi] come elementi ontologici
dell’ente in quanto tale e dell’essenza del pensiero in quanto tale»30. È
su tale originaria valenza ontologica dei principi, che si innesta l’altra:
quella propriamente logica. Essi, insomma, sono le booleane leggi del
pensiero umano, ma lo sono in tanto in quanto il pensiero umano è a
suo modo attuazione del pensiero come tale (espressione hegeliana,
cui corrisponde il rosminiano «pensiero puro»31), e questo è a sua vol-
ta il manifestarsi dell’essere32.
Il nostro autore rifiuta che i principi possano venir ridotti alle loro
eventuali versioni logico–formali, cioè trattati come se fossero sem-
plici regole di derivazione di un calcolo. Per questo, egli nega che ri-
spetto ad essi si possa progettare qualcosa di analogo a quello che era
stato il programma formalista per i fondamenti della matematica. E
anche esclude che sia ipotizzabile una relativizzazione storica dei
principi stessi: come a dire ― per usare il vocabolario di oggi ―, che
porto dialettico tra questo ente e non questo ente in quanto permane l’ente, sempre identico a
se stesso, che da questo diviene non questo. In altri termini, il principio di identità, piuttosto
che negare il divenire dell’esperienza molteplice, è quello che ne giustifica e ne spiega la di-
namicità, facendo che i contrari siano come momenti dell’ente, senza che la contraddizione
infirmi l’ente in se stesso, cioè quella sua positività essenziale e permanente» (cfr. M.F.
Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 97).
30
«Le matematiche non sono la metafisica ed hanno un loro oggetto di ricerca, ma la va-
lidità dei principi è comune ad esse e a tutte le scienze che siano veramente tali. Questa validi-
tà non è stabilita né dalle matematiche né da qualsiasi altra scienza, bensì dalla metafisica che
è appunto la scienza dei principi e non nel loro uso formale o logico, ma come elementi onto-
logici dell’ente in quanto tale e della essenza del pensiero in quanto tale» (cfr. M.F. Sciacca,
L’interiorità oggettiva, pp. 85–86).
31
Sull’uso rosminiano dell’espressione «pensiero puro», rinviamo al precedente capitolo
del presente volume.
32
«Bisogna mantenere la distinzione tra uso logico dei principi e loro validità metafisica.
Prima di essere applicati come elementi fondamentali ed universali di ogni giudizio ed essi
stessi perciò ingiudicabili, cioè prima di essere colti, diciamo così, nella discorsività del ra-
gionamento, vanno considerati metafisicamente, nell’ordine stesso dell’essere. Infatti
nell’intuizione originaria della Idea o dell’essere pensato nella sua estensione infinita, sono
impliciti i principi che chiamiamo logici [...]: intuire l’essere come Idea è intuire in tale Idea i
principi, in quanto l’essere è identico a se stesso, per se stesso incontraddittorio. Ciò conferma
che il problema della verità, prima che logicamente (in questa o quella scienza), va considera-
to metafisicamente come problema che riguarda l’essenza del pensare in quanto tale. Perciò la
metafisica è indagine sulla vita spirituale e va tenuta distinta, nel suo oggetto e nella sua pro-
blematica, da qualsiasi altra scienza» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 89).
286 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
in nessun mondo possibile (nel senso kripkiano dell’espressione33) si
può considerare controesemplificabile un principio che sia essenziale
al costituirsi di quello stesso mondo come, appunto, possibile34.
A ben vedere, l’approdo del discorso sciacchiano intorno ai principi
sembra essere il seguente: la coerenza presuppone la verità, cioè la
manifestazione dell’essere, e in essa si fonda; la coerenza interna di un
implesso di principi va dunque riconosciuta “regredendo”35 a quel loro
modello che è la realtà ontologicamente interpretata.
33
Nella proposta di Kripke, un “mondo possibile” non è un altro mondo da quello in cui
viviamo, bensì un possibile corso degli eventi, diverso da quello che si è di fatto realizzato
(cfr. S. Kripke, Naming and Necessity [1972], Basil Blackwell, Oxford 1980).
34
«Le scienze, in base a tali principi [ontologici], formulano ‘concetti’, che possono essere og-
gettivamente veri o ipotetici o anche erronei, senza che, quale che sia la validità dei ‘concetti’ pro-
pri di ciascuna scienza, ciò abbia a infirmare la validità oggettiva ― e di un’oggettività ontologica e
non puramente logica ― dei principi metafisici: si tratta di tener ben distinte le questioni per non
accrescere la confusione. Pertanto, quando, per esempio, alla tesi propria di F. Gonseth che le ma-
tematiche non hanno un fondamento esterno nell’evidenza e che il loro sviluppo ha un carattere sto-
rico, e dunque imprevedibile, dal cui stato di avanzamento dipendono gli assiomi e le definizioni, è
necessario precisare: se ciò significa che non vi è una verità primaria ed evidente di per se stessa o-
riginalmente intuita e costitutiva del pensiero, rispondiamo che lo stabilire tale conclusione o pro-
varne la validità non compete alla matematica in quanto matematica, ma alla metafisica in quanto
metafisica, perché si tratta di un problema che riguarda il pensare e l’essere in quanto tali, prima e
indipendentemente da qualsiasi scienza specifica e particolare conoscenza. Quando la matematica,
o qualsiasi altra scienza, pone in discussione i principi primi e incondizionati (nell’ordine del pen-
siero umano) del pensare come tale, cessa di porsi un problema suo proprio, e perciò cessa di essere
matematica, per porsene uno che riguarda l’essenza del pensiero e perciò la metafisica. [...] Il ma-
tematico che se ne occupa, non se lo pone come matematico ma come metafisico, e ha l’obbligo di
risolverlo metafisicamente, cioè non ponendosi il problema se la matematica o altra scienza com-
porti delle verità assolute, ma l’altro, se il pensiero come tale, nella sua struttura ontologica, com-
porti principi costitutivi del suo essere, che sono validi per il pensare e l’essere in tutta la loro esten-
sione. Il problema metafisico non è il problema logico né quello gnoseologico, ma il problema del
fondamento primo di validità e d’intelligibilità di ogni processo logico e gnoseologico [...]; la rispo-
sta metafisica è poi il fondamento delle varie forme del conoscere, ciascuna propria di una determi-
nata scienza, le cui verità sono tali per quel fondamento metafisico, senza che la validità di questo
abbia a dipendere dagli esiti positivi o negativi di questa o quella scienza particolare». Non è possi-
bile che «verità originarie costitutive dell’essenza stessa del pensiero siano anch’esse di formazione
storica: sia perché la stessa conclusione di sopra per essere vera presuppone la validità di quelle ve-
rità, sia anche perché le conclusioni che possono valere per le verità delle matematiche riguardano
una particolare forma di conoscenza, quella matematica, ma non la verità in quanto tale, non ancora
applicata a costruire una particolare scienza, in quanto cioè costitutiva dell’atto stesso del pensare e
per cui il pensare è pensare. Negare l’assolutezza delle verità originarie non è negare una verità,
questa o quella, ma lo stesso pensiero come tale; però, in tal caso, non si pensa più e niente ha sen-
so» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, pp. 86–87).
35
L’espressione è propria di Antonio Rosmini, ma ― prima ancora ― appartiene al De re-
gressu di Jacopo Zabarella. Cfr. A. Rosmini, Teosofia, nn. 28 e 95; Id., Logica, nn. 701–708.
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 287
Tale indicazione, del resto, risulta confermata anche dall’esito sto-
rico–teorico che il fallimento del programma formalistico ― eviden-
ziato dai teoremi di incompletezza ― ha generato quanto all’indagine
sui fondamenti della matematica, e cioè la nascita della semantica dei
modelli come terreno di verifica: anzitutto della coerenza interna di un
calcolo formale, e poi della sua validità e della sua completezza sintat-
tica e semantica. E così, in questo quadro tipicamente contemporaneo,
l’interpretazione ontologica della realtà viene a riproporsi come una
sorta di modellistica non–regionale.
Questa del resto ― osserverei ―, è prima ancora l’indicazione che
viene dai classici greci e scolastici, secondo i quali i primi principi so-
no costanti che hanno luogo nell’essere, e lì vengono individuati e da
lì indotti. L’induzione non è infatti solo quella empiristica o generaliz-
zante, che Sciacca sembra avere in mente, ma è anche quella aristote-
lica36, da intendersi come coglimento delle costanti ontologiche; del
tutto compatibile, questa seconda, con la decifrazione rosminiana dei
principi a partire dall’essere ideale, cioè dal luogo delle essenze: es-
senze che, con i loro nessi, sono precisamente l’oggetto, e non il risul-
tato, della induzione aristotelica.
Secondo l’ontologia classicamente intesa, perciò, non si tratta di
stabilire un’assiomatica formale sull’essere, ma si tratta piuttosto di
esprimere, di quest’ultimo, le curvature caratterizzanti (archaí)37.
Quando parliamo del mondo ontologicamente interpretato come del
modello semantico per eccellenza, lo facciamo dunque in un senso che
allude alla induzione aristotelica e tommasiana dei principi dalla ratio
entis et non–entis, ma anche in un senso che è criticamente riguada-
gnato dopo la provocazione formalistica; e che per questo sa della i-
nevitabilità di quella istituzione induttiva.
36
In proposito, cfr. P. Hoenen, De origine primorum principiorum scientiae, «Gregoria-
num», XIV (1933), p. 184.
37
Particolarmente coerente con questa consapevolezza si mostra Rosmini, sempre attento
a delineare i primi principi, non come assiomi, ma come espressioni ― per dir così ― appar-
tenenti al codice genetico dell’essere (cfr. A. Rosmini, Nuovo Saggio sull'origine delle idee,
nn. 559–570; Id., Logica, nn. 337–360).
288 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
4. Oltre lo gnoseologismo
Come già si è accennato, l’essere, ovvero il luogo dei principi, è
connotato da Sciacca come «presenza». La parola è ben calibrata, in
quanto indica etimologicamente qualcosa che “è già lì” e sul quale
chiunque abbia occhi da aprire, li apre. In tal senso, la «presenzialità»
(o automanifestatività38) va a sostituire, nel lessico sciacchiano,
l’«innatismo»39: espressione d’impronta razionalistica, con la quale il
primo Rosmini indicava l’impossibilità, da parte della mente, di porsi
a distanza dall’essere40.
Certo, la presenza è tale in riferimento a qualcuno cui possa presen-
tarsi. Infatti, in assenza assoluta di una capacità di sguardo, l’offrirsi di
qualcosa di intelligibile sarebbe insensato. Ciò non significa, però, che
la presenza sia qualcosa di relativo al pensante umanamente configu-
rato: sia, insomma, un che di semplicemente «immanente» al soggetto.
Tale ipotesi ― secondo Sciacca ― conterrebbe anzi una «contraddi-
zione». La contraddizione sta in questo: che, per essere semplicemente
immanente al soggetto, cioè all’esistente finito, la presenza dovrebbe
essere «adeguata» da quello; cioè, dovrebbe essere essa stessa qualco-
sa di finito: ciò che invece non è41.
38
Scrive il nostro autore, a proposito dell’essere come Idea, o semplicemente Idea: «Og-
getto intuíto, è nota per se stessa [...]. Oggetto manifestante della mente, è manifestata come
forma ideale, cioè è forma della cognizione o elemento formale–oggettivo di ogni cognizio-
ne» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 45).
39
«Piuttosto, dunque, che d’‘innatività’, e meno ancora d’innatismo, è meglio parlare di
‘presenzialità’ dell’Idea all’intelligenza, in quanto quest’ultima indica una presa attiva di pos-
sesso, un’avvertenza, una connaturalità (del pensiero e dell’oggetto primo intuíto) già in atto:
non una ‘possibilità’ di intelletto senza intellezione» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squi-
librato”, p. 120).
40
«Non posso mai ‘trovarmi’ fuori dell’essere senza perdermi. L’essere è una necessità
invincibile: si mostra da sé e mostrandosi esclude il puro nulla. Ci obbliga a riconoscere, pri-
ma di ogni esperienza esteriore, che senza di esso non vi è esperienza possibile e libertà. È la
grande scoperta del Rosmini. L’essere come Idea mi obbliga, anche quando suppongo il Nul-
la, a negare questa negazione e ad affermare l’Essere» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo
“squilibrato”, p. 162).
41
«Ma la riduzione della presenza ad immanenza della verità implica contraddizione: è la
contraddizione dell’idealismo trascendentale, specie della forma più matura e più coerente di
esso, che è l’attualismo del Gentile. Se presenza è immanenza, verità e pensiero
s’identificano: l’oggetto del pensiero è lo stesso soggetto pensante nell’atto che pensa: il pen-
siero pensa se stesso. L’attualismo dice invece che pensare è mediare: introduce la dialettica
di pensiero pensante e di pensiero pensato. O è un artificio o è una contraddizione, in quanto o
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 289
Insomma: altro è considerare che non vi è verità che non sia oggetto
d’un qualche atto di pensiero; altro è ridurre la verità ad un modo o ad
un prodotto dell’atto di pensiero di un pensante finito. Si tratta della
stessa difficoltà che Rosmini affronta, quando deve precisare che
l’essere che si manifesta non è «una modificazione dell’anima umana»,
in quanto «tutte le modificazioni di un ente particolare sono particolari»
― e l’anima umana risulta essere, appunto, un ente particolare42.
La presenza è ripetutamente chiamata da Sciacca «essere come I-
dea»43. Senonché, questa insistenza terminologica non deve offuscare
la natura propriamente primale o principiale dell’essere in questione:
quella che, rosminianamente, si direbbe la sua «inizialità», il suo esse-
re per sé manifesto. Tale primalità, che ben emerge da certe pagine
decisive di Atto ed essere44, è attestata dalla caratteristica inaggirabili-
tà: che compete ai principi, in quanto essi, appunto, sono curvature
della presenza.
È lo stesso Sciacca ad autorizzarci a interpretare la presenza come
l’equivalente del rosminiano essere iniziale, quando scrive che l’essere
intuíto, di cui egli parla, «è l’intelligibilità, anche delle cose, non in
il pensiero pensante adegua il pensiero pensato e c’è immanenza ma non mediazione, o non
l’adegua e allora c’è trascendenza e non più immanenza» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e meta-
fisica, pp. 166–167).
42
Cfr. A. Rosmini, Teosofia, Parte I, Libro IV, nn. 1537–1538.
43
«Non c’è concetto dell’essere, ma l’Idea, oggetto dell’intelligenza, ingiudicabile appunto
perché fondamento di ogni giudizio razionale: l’essere come Idea è la verità per cui è vero ogni
giudizio conoscitivo, morale ed estetico; è il principio primo e indipendente, nell’ordine della
conoscenza umana, di tutta l’attività spirituale ed è perciò il principio metafisico del conoscere,
del volere e del sentire, in quanto è il principio di intelligibilità di ogni forma della vita spirituale,
dell’esistenza e del reale» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, pp. 32–33).
44
«L’essere è primo; solo l’essere è il primo. Non è esatto neppure dire che è ‘prima’, in
quanto l’essere è principio. L’essere è presenza: è, si pone da sé; niente vi è ‘prima’ e ‘dopo’
dell’essere. Prima o dopo possiamo immaginare il Nulla, l’assenza dell’essere, ma tale imma-
ginazione è possibile in quanto l’essere è; dunque, il Nulla non annulla l’essere, perché è im-
maginabile per l’essere. Il non–essere non è che l’immagine del ‘contingente’, di ciò che è ma
non è l’essere pieno; che è in qualche modo, ma avrebbe potuto non essere. [...] Questa assen-
za, che è per la presenza, la chiamiamo non–essere; solo erroneamente può chiamarsi nulla.
Tutto ciò che esiste è ‘dialettico’: è presenza ed assenza di essere, ma l’assenza è condizionata
dalla presenza. Risalire o andare ‘al di là dell’essere’, è annullare l’oggetto verso il quale vo-
gliamo risalire e i mezzi, intuitivi o discorsivi, che adoperiamo; in questo senso l’essere è in-
sormontabile, indeducibile. Infatti, l’essere non potrebbe essere dedotto... che dall’essere stes-
so, ma la deduzione da sé è sempre l’essere, la sua stessa presenza» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed
essere, p. 19).
290 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
quanto sono queste o quelle, ma in quanto sono; dunque, è contempo-
raneamente “forma” originaria dell’intelligenza, e forma universale
del reale [...] in quanto reale; perciò è “forma della forma reale
dell’essere”. Come tale, l’Idea è il primo atto da cui il reale dipende e
senza del quale non sarebbe»45. Quelli ora indicati dal nostro autore,
sono appunto i caratteri che Rosmini riconosceva all’essere iniziale46.
Del resto, la grandezza di Rosmini consiste ― agli occhi di Sciacca
― proprio nella consapevolezza da lui mostrata circa la precedenza di
diritto del tema ontologico rispetto al tema gnoseologico. Occorre
prima riconoscere quale sia la relazione ontologica iniziale tra essere e
pensiero, per poter poi comprendere la questione critica dell’accesso
umano (o umana partecipazione)47 a tale relazione; e solo in un suc-
cessivo momento avrà senso indagare quali siano le determinate mo-
dalità di tale accesso, ovvero le dinamiche conoscitive dell’uomo e le
relative facoltà che ad esse presiedono.
Potremmo dire, in breve, che si tratta di far precedere la considera-
zione dell’essere iniziale a quella di ogni più specifico contenuto. In-
fatti, l’inizialità è propriamente l’automanifestatività dell’essere, che
precede di diritto ogni altra evidenza: ivi compresa quella dell’ “io so-
no” e di ciò di cui l’ “io sono” è capace. Evidenze, queste ultime ―
l’esistenza del soggetto finito e della sua capacità conoscitiva ―, che
non possono venir presupposte, ma piuttosto devono essere critica-
mente introdotte alla luce dell’essere. Non solo, ma la considerazione
dell’inizialità dell’essere deve precedere anche quella dell’essere nella
45
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 48. Leggiamo inoltre: «L’essere come Idea non lo
chiamiamo neppure ‘verità prima’, neanche ‘lume della mente’; preferiamo chiamarlo, con il
Rosmini, verità ontologica assoluta per se stessa, come quella che è intuizione dell’essere (e
dunque verità ontologica), che per essere intuito non ha bisogno di nessun termine esterno
all’atto stesso con il quale è intuíto; perciò è assoluta per se stessa» (cfr. ibi, p. 40).
46
Rosmini parla dell’essere iniziale come di «atto dell’atto di tutti i sentiti», che insieme
«fa che i sentiti sieno, e fa che sieno intelligibili alla mente». In tal senso, esso «è ad un tempo
ideale e reale, atto antecedente delle cose e conoscibilità delle cose» (cfr. A. Rosmini, Teoso-
fia, Parte I, Libro III, n. 800).
47
In Atto ed essere leggiamo che «la mente partecipa di una verità prima». E «questo
principio della partecipazione è fondamentale nell’idealismo, in questa o in quella forma, né
esclude quello, più propriamente aristotelico, dell’analogia, anzi lo include: la partecipazione
esclude che il pensiero sia vuoto di verità e dunque al di qua del valore ed esclude che sia esso
tutta la verità (e perciò assoluto) e per conseguenza adeguabile ed adeguato dal reale sensibi-
le» (cfr. ibi, p. 159).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 291
sua forma specificamente ideale. L’inizialità è automanifestatività, in
cui l’essere è sia manifestato che manifestante, cioè sia reale che idea-
le, indistintamente. Dunque, quella ideale è solo una delle forme se-
condo cui l’essere iniziale è analizzabile: quella che, vista in relazione
all’io, viene poi chiamata da Sciacca «Idea» o «interiorità oggettiva».
In sintesi, si tratta di essere consapevoli del debito di una introduzione
critica di soggetto e oggetto, che preceda lo studio ― altrimenti inge-
nuo ― del loro rapportarsi48.
La corrispondente inconsapevolezza, è detta invece dal nostro auto-
re «gnoseologismo». Espresso in termini rosminiani, lo gnoseologi-
smo sarebbe, anzitutto, l’atteggiamento di colui che pone il tema della
relazione tra le forme dell’essere in modo astratto e quindi estrinseco,
vale a dire al di fuori della loro originaria circuminsessione nell’essere
iniziale; e si vede costretto a cercare un accordo tra essere ideale ed
essere reale, dopo averli intesi come originariamente estranei tra loro.
Ma, dovendo poi cercare tale accordo nei dinamismi dell’io, e cioè al-
trove che nella sua sede originaria, costui finisce per non poterlo più
trovare, se non grazie a qualche tipo di opzione volontaristica.
Si potrebbe osservare, di passaggio, che lo spezzarsi della circola-
zione delle forme ontologiche nell’essere iniziale (tema, questo, che è
classicamente noto come quello della “convertibilità” reciproca dei
trascendentali), dà luogo anche ad altre degenerazioni teoriche analo-
ghe allo gnoseologismo ― quelle indicabili come “moralismo”, “este-
tismo”, “logicismo” ―: ognuna delle quali, caratterizzata dalla assolu-
tizzazione di una forma ontologica rispetto al suo radicamento
nell’implesso iniziale. Si tratta di fenomeni cui il discorso di Sciacca
è, per evidenti ragioni, particolarmente sensibile.
48
«L’indagine sull’essere, nella quale, in quanto esistenti, fin dall’inizio siamo impegnati
e coinvolti, è previa ed indipendente dal problema del conoscere [...]. Contro lo gnoseologi-
smo [...] ben se n’accorse il Rosmini, il primo pensatore moderno che ha restituito il problema
ontologico alla sua autenticità di problema anteriore a quello del conoscere, da esso distinto e
di esso fondamento. [...] L’ontologia è ‘scienza dell’essere’, ma come può essere presente alla
mente, cioè come Idea; suo oggetto è l’essere (e non solo sotto la forma dell’Idea), ma il suo
problema primo, direi iniziale, è quello della fondazione dell’ente spirituale, rispetto al quale
il problema del conoscere e ogni altro è posteriore [...]. Perciò il rosminiano intuito originario
dell’essere sotto la forma dell’Idea va inteso ed assunto prima nel suo senso e nella sua porta-
ta ontologico–metafisica e poi, come ‘forma ideale’, nel suo senso gnoseologico. Rosmini, da
questo punto di vista, nonostante alcune incertezze, è la prima seria e consapevole dichiara-
zione di guerra allo gnoseologismo» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 16–17).
292 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
In ogni caso, l’equivoco gnoseologistico sta proprio nella fallace pre-
tesa di trattare il tema gnoseologico indipendentemente e antecedente-
mente rispetto a quello ontologico49. Ora, il tema gnoseologico, in tal
modo impostato, non potrebbe che essere svolto ― come testimonia la
storia della filosofia ― secondo opzioni dogmatistiche tra loro contrap-
poste: «realismo» e «idealismo»50; le quali, proprio perché trascurano
l’indole dialettica dell’essere iniziale, giungono all’autocontraddizio-
ne51. Esse si reggono, infatti, sul comune presupposto del dualismo gno-
seologico ― cioè, della reciproca estraneità di essere e pensiero ―, con
il carico di intrinseca contraddittorietà che questo comporta. E parados-
salmente decidono, per vie opposte, di risolvere la presunta estraneità,
riducendo arbitrariamente uno dei due termini all’altro.
La dialettica di cui Sciacca parla in questo caso, e di cui in generale
diremo tra poco, non è uno schema aprioristico cui sottoporre le cose.
Essa piuttosto ― seguendo l’istanza hegeliana, ma purificandola dalla
49
«Vi è dunque intrinsecamente immanente al problema della conoscenza il problema
metafisico del conoscere stesso, non riducibile al problema gnoseologico, anzi sua condizio-
ne. Vi è il problema della verità, cioè del come l’uomo sia capace di verità, problema primo,
dalla cui soluzione dipende la veridicità o no dell’umano conoscere. È precisamente il pro-
blema ‘critico’: prima di porre quello del conoscere razionale va posto l’altro della validità di
tale conoscere, cioè il problema se la mente umana sia partecipe di verità. Solo quando esso
sia stato risolto è possibile porre gli altri dell’origine, del valore, e dei limiti della conoscenza
umana» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 33).
50
Questi “ismi” rappresentano in fondo delle scelte di campo, o delle opzioni di valore, alla
maniera a suo tempo indicata da É. Gilson nel suo Le réalisme méthodique, Téqui, Paris 1935.
51
«L’antitesi–riduzione del reale al soggetto (idealismo) e del soggetto al reale (realismo)
è apparente: il soggetto che è solo posizione o conoscenza del reale è una maniera diversa per
dire che si adegua al reale. Il problema non è di optare per l’idealismo o il realismo, [...] ma
l’altro di indagare sulla possibilità di una distinzione, sussistente nel seno dell’unità inscindi-
bile di essere e pensiero. Ma porlo così è già porsi al di là dell’antitesi di idealismo e realismo
[...]; è porre il problema al di là dell’opposizione soggetto–oggetto; è collocarsi di colpo
nell’interno del pensiero vivente nell’essere e dell’essere che è vita e luce del pensiero. [...]
L’opposizione di soggetto e oggetto, di io e non–io non è affatto, come si è sostenuto, una de-
terminazione iniziale dell’essere, né l’autoporsi dell’essere stesso in un’antitesi dialettica con-
tinuamente da esso superata per riconquistarsi nella sua unità e totalità: la determinazione ini-
ziale dell’essere non è in termini di opposizione, ma di sintesi primitiva. L’io e il non–io sono
due specificazioni dello stesso essere che, specificandosi, non perde affatto la sua unità inte-
riore: l’essenza dell’essere, pur non identificandosi con alcuna delle sue specificazioni o for-
me, è tutta in ciascuna di esse. Una dualità di io e non–io all’interno dell’essere sarebbe in-
sormontabile e la sua unità impossibile; la distinzione o l’opposizione tra l’io e il non–io non
è iniziale, ma già un’analisi dell’essere e dunque posteriore all’atto iniziale» (cfr. M.F. Sciac-
ca, Atto ed essere, pp. 22–23).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 293
sovradeterminazione retorica: ottenendo cioè la posizione rosminiana
― è l’esposizione della natura stessa dell’essere, come essere per sé
manifesto52. «Pensiero ed essere» ― scrive il nostro autore ― «non
stanno l’uno di fronte all’altro, armati e divisi da una linea ben robusta,
come se l’uno potesse pensare fuori dell’essere e questo starsene in sé,
muto spettacolo. Il pensiero è interiore all’essere, fuori del quale non vi
è niente; si muove nell’essere e se ne nutre e imbeve; solo nell’intimità
dell’essere è presente a se stesso; d’altra parte, l’essere è pensato solo in
quanto è presente all’intimità del pensare, senza che ciò significhi che
tutto l’essere sia quello presente e intimo al pensiero»53.
Nel tentativo di porre ― nell’io ― un accordo tra pensiero ed esse-
re, considerati per altro come originariamente estranei, lo gnoseologi-
smo incorre normalmente in qualche forma di psicologismo. Psicolo-
gismo è la pretesa che la tentata ricostruzione della dinamica conosci-
tiva dell’io54 possa di diritto precedere e condizionare la fenomenolo-
gia stessa del conosciuto: pretesa ovviamente autocontraddittoria, vi-
sto che gli apparati psicologici messi in campo allo scopo ― siano es-
si quelli della tradizione aristotelico–tomista, siano quelli del raziona-
lismo o del kantismo55, ― resterebbero, come elementi presupposti, al
di qua (e quindi in vana attesa), di quella validazione gnoseologica che
proprio ad essi sarebbe per ipotesi affidata.
Tipica movenza psicologistica, è quella di affidare alla astrazione
universalizzatrice la genesi stessa dell’essere come presenza: il che
implica, quasi inavvertitamente, la riduzione della Idea dell’essere a
concetto («l’uomo ha i concetti degli esseri, non dell’essere»), e quin-
di lo smarrimento dell’essere in favore dell’ente56 ― consapevolezza,
52
«Posizione la nostra che può essere giustificata e raggiunta solo attraverso una dialettica
d’implicanza dei principi della soggettività e dell’oggettività ― in una unità dunque che in-
clude anche il reale; e tale unità iniziale e concreta è appunto l’essere» (cfr. M.F. Sciacca, Atto
ed essere, p. 25).
53
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 25.
54
Tradizionalmente, la “psicologia filosofica”.
55
«Parlare inizialmente di dati sensibili, di fantasmi e fenomeni, di elaborazioni concet-
tuali del reale, è precludersi la possibilità di attingere l’essere, è accettare una procedura che
non può rendere conto della sua ‘metafisicità’ e del suo senso autentico» (cfr. M.F., Sciacca,
Atto ed essere, p. 38).
56
Ovvero, il «nichilismo». Su questo punto, cfr. M.F. Sciacca, Gli arieti contro la vertica-
le, vol. 30 delle Opere complete di Michele F. Sciacca, Marzorati, Milano 1969, p. 78.
294 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
questa, già propria per altro della migliore Scolastica57. Né preferibile
sembra l’altra strategia psicologistica, che riconduce l’essere a forma a
priori dell’esperienza (orizzontalmente trascendentale, in quanto ma-
trice formale del materiale empirico).
È invece importante ricordare che lo stesso Tommaso intendeva e-
vitare l’equivoco psicologistico, tenendo distinte le due questioni:
quella dell’evidenza del darsi dell’essere all’intelligenza, e quella delle
condizioni psicologiche di tale evidenza; e giungeva in proposito a so-
stenere che «non ha poi molta importanza» [non multum autem refert]
che, chi riconosce quell’evidenza, si orienti poi per la psicologia dell’
“illuminazione” piuttosto che per quella dell’“intelletto agente”58. An-
notazione, questa, che ― se debitamente tenuta in conto ― avrebbe
potuto evitare buona parte delle incomprensioni troppo a lungo persi-
stite fra neoscolastici e rosminiani.
5. L’uomo come inizialità dialettica
Occorre ora chiedersi dove sia osservabile la relazione iniziale di cui
si diceva; chiedersi, in altre parole, a chi si manifesti l’automanifestantesi
essere iniziale; beninteso: a chi si manifesti come iniziale, cioè come pre-
senzialità astratta, ovvero, priva di una terminalità appropriata.
Sciacca indica questa inizialità, anche con la seguente formula: «at-
to primo ontologico»59. Traduco quest’espressione così: “attuazione
57
Il celebre passo tommasiano ― illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum,
et in quod omnes conceptiones resolvit est ens (dove ens va tradotto con “essere”) ― lo atte-
sta, in quanto indica nell’essere il luogo in cui conferiscono i concetti [conceptiones], e non a
sua volta un concetto più universale degli altri. Non a caso, questo passo viene enfatizzato da
Sciacca (cfr. Prospettiva sulla metafisica di San Tommaso, vol. 40 delle Opere complete di
Michele F. Sciacca, Città Nuova, Roma 1975, pp. 53 ss.).
58
Cfr. Tommaso, Q.D. De spiritualibus creaturis, a. 10, ad 8um; testo latino della edizio-
ne Fiaccadori, Parma.
59
«Da un lato l’intelligenza non è senza l’essere intuíto [...]; dall’altro, l’Idea non sarebbe
se non fosse presente all’intelligenza, che, d’altra parte, non è la causa dell’Idea. Ma ‘essere
presente’ all’intelligenza significa intuizione dell’Idea, che è l’atto del soggetto intuente, dun-
que, se all’Idea è essenziale la presenzialità all’intelligenza, [...] consegue che vi è una dialet-
tica interiore all’atto primo ontologico. Questa: l’essere è atto per essenza, ma, in quanto Idea,
è atto che non può non essere presente all’intelligenza che lo intuisce [...]. Dunque, l’atto pri-
mo ontologico originario dell’essere è un atto unitario costituito dall’essenza dell’essere e dal
soggetto intuente, in cui l’essere, come atto primo di ogni reale e di ogni esistente ― dunque
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 295
iniziale o astratta dell’essere in quanto tale” (astratta, in quanto non
appare nella sfera empirica il termine reale di cui è attuazione). Nello
stesso senso, egli parla anche di «atto primo dell’esistente e del reale»
o di «essenza dell’essere», la cui «esigenza intrinseca è di essere com-
piuta» ― nell’ordine dell’ «esistenza»60 ―, senza che tale compimen-
to possa venirle dal reale della natura né dall’esistente umano61.
La risposta alla domanda precedente è che l’essere iniziale si mani-
festa al soggetto intelligente (rosminianamente si direbbe all’ «intuen-
te»)62, il quale rileva sé (e il reale empirico, cioè il proprio mondo)
come presente in quella presenza63. L’ “io sono” è la formula che e-
sprime questo autocoglimento dell’intuente come «radicato nell’esse-
re»64. Senonché, dire “io sono”, con la distinzione reale che ciò com-
porta tra soggetto ed essere, implica per l’io il sapersi già come dise-
quato (o in–adeguato) rispetto all’essere, dalla cui presenza, comun-
que, esso è costituito in quanto intelligente.
anche del soggetto ― e come atto per essenza, è atto di quell’atto che lo intuisce, che è insie-
me suo costituito e suo costituente, come quello che è atto per l’essenza dell’essere, ma della
quale, nello stesso tempo, è atto necessario, in quanto, a sua volta, ne è costitutivo» (cfr. M.F.
Sciacca, Atto ed essere, pp. 48–49).
60
«È la presenza sempre presente dell’Essere, che, presente come Idea, è assente come e-
sistenza; e perciò la sua presenza è intrinsecamente trascendenza» (cfr. M.F. Sciacca,
L’interiorità oggettiva, p. 38).
61
«Permane, dunque, sempre aperta e mai risolubile una dialettica atto–essere: dell’atto
soggettivo dell’intuizione, che tende ad attuare in un suo atto [...] l’Idea, oggetto del suo intúi-
to; e dell’essenza dell’essere, atto primo dell’esistente e del reale, che per la sua infinità sfug-
ge alla presa dell’atto spirituale e lo trascende infinitamente, pur inerendo in ogni suo atto
[...]. Pertanto, l’atto primo, che è l’essenza dell’essere, non è mai l’attualità dell’atto del sog-
getto intelligente, di nessuno e di tutti insieme e perciò il soggetto ha sempre un’attualità ulte-
riore a qualsiasi forma o grado di sua attualità» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 50–51).
62
Cioè, al soggetto capace di intúito.
63
Il «supremo principio dell’intelligibilità, fondamento e origine del principio
dell’intelligibilità della mente, fondante la sua capacità di conoscere il vero e di giudicare se-
condo verità [...] è l’essere, oggetto dell’intelligenza, e, come tale, Idea o verità. Dunque, ide-
alismo; ma l’Idea è oggetto ed è data come oggetto all’intelligenza, a cui è interiore senza che
essa la crei: anzi l’Idea fa che l’intelligenza sia intelligente; dunque, idealismo oggettivo o tra-
scendentistico. L’essere come Idea trascende ogni pensiero pensato e fa che il pensiero sia
sempre pensiero pensante, cioè attualità di pensare sempre attuale in ogni pensato, ma mai at-
tuata nel pensato, in quanto nessun pensato l’adegua; e perciò resta intatta e infinita capacità
di pensare. L’uomo per sua struttura ontologica primitiva, è incontro di finito e infinito e per-
ciò è sforzo perenne (costante dinamismo) di adeguazione di sé all’essere [...]. L’uomo non
può adeguare se stesso» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, pp. 33–34).
64
Cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 64.
296 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Ora, colui che dice “io”, nell’orizzonte dell’essere, che cosa e-
sprime con ciò, se non un «sentire»65 fondamentale66? Un sentire
che qui è inteso come il minimo comun denominatore dell’esistere,
e che, nel caso dell’io in questione, è, da un lato, un «sentire che è
interiore all’atto stesso del pensarsi esistente»67, e, dall’altro, un
sentire sé in quel corpo proprio68, in cui il sentimento fondamentale
trova un limite. Per questo, Sciacca può scrivere che «l’auto-
coscienza» ― di cui l’“io sono” è la formula ―, «come coscienza
di sé è finita»; mentre «l’interiorità oggettiva» ― su cui l’auto-
coscienza è aperta ― «è infinita, in quanto è possibilità infinita di
sentire, pensare, conoscere»69.
Bene, colui che sa dire “io sono” realizza allora in sé una certa sin-
tesi di esistenza (sentimento) e di idealità (intuizione)70. Dire “sintesi”,
significa parlare di una congiunzione esemplare, e non casuale: infatti,
non c’è sentimento possibile se non per una intelligenza; e non c’è in-
telligenza che non si apra dentro una base di sentimento71. Una sintesi,
comunque, non adeguata, ma piuttosto problematica. Infatti, l’esisten-
za in questione è finita, e quindi sproporzionata all’idealità di cui è in-
teriormente capace ― la quale ha invece un orizzonte infinito.
65
Ovvero un «sentimento».
66
«Sentire è esistere, è il sentimento fondamentale, sentimento dell’io come ente sussi-
stente: non è uno stato psicologico soggettivo, un fenomeno o un’illusione, ma una sostanza»
(cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 67).
67
Cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 96.
68
Cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, pp. 99–111.
69
«L’autocoscienza, dunque, attualità prima dell’interiorità oggettiva, non è tutta
l’interiorità oggettiva, che non è adeguata né esaurita da essa, quantunque sia in essa attualiz-
zata» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 101).
70
«L’atto intellettivo primitivo o la coscienza che il soggetto ha di sé come esistente è la
sua stessa struttura ontologica primitiva, cioè la sintesi gnoseologica originaria (la coscienza
di esistere) è la consapevolezza riflessa della sintesi primitiva ontologica, dell’esistente pen-
sante o uomo, che è unità originaria di finito (soggetto esistente) e d’infinito (l’essere oggetti-
vo dalla sua mente intuito). Questa, la persona; per questa struttura l’uomo è persona» (cfr.
M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 70). Come spiega Rosmini, «sentire» è assimilarsi ad
un termine sentito (esteso) da parte di un principio senziente (inesteso); mentre «intuire» è a-
ver presente altro, che resta altro dall’intuente. (Cfr. A. Rosmini, Psicologia, Libro II, n. 147;
Id., Teosofia, Parte I, Libro IV, n. 1587).
71
Del resto, «non vi è sentimento senza una mente che lo coglie e, d’altra parte, non vi
è mente senza sentimento, cioè che non lo sia di un esistente» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed
essere, p. 87).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 297
Ma, dire “esistenza”, significa qui indicare ― rosminianamente ―
la «realtà» nella sua modalità eminente72. Non solo, ma l’esistente “io
sono”, in cui e a partire da cui si apre l’indagine ontologica, si confi-
gura, grazie all’interiorità oggettiva, come persona. Dove «persona»
dice più di «natura»73, ma dice lo stesso che «individuo»: non c’è in-
fatti ― qui come in Rosmini ― autentico individuo che non sia per-
sona. Infatti, solo la persona ― grazie appunto alla interiorità oggetti-
va ― è in grado di ritornare su se stessa, realizzando quella indivisibi-
le unità con sé, che invece non appartiene al mondo fisico, neppure
nella sua sfera organica74.
Dunque, quel che tutti chiamano “uomo”, è «incarnazione del sin-
tesismo dell’essere»: ed è proprio grazie a questo, che l’uomo ha ca-
rattere personale75. In altre parole, vale anche per Sciacca il rosminia-
no «principio di persona», secondo cui la compiutezza, nell’ordine
dell’esistente (e, a maggior ragione, del reale) consiste proprio nella
persona76. Senonché, è proprio la struttura personale a fare dell’uomo
un esistente «ontologicamente squilibrato», costretto cioè a stare già
72
Infatti, «ogni reale esiste in relazione al soggetto umano, il quale è il solo reale, la cui
realtà è per se stessa esistenza e dunque il solo che esista in relazione a se stesso» (cfr. M.F.
Sciacca, Atto ed essere, p. 64). «Certo, se il reale non fosse, non potrei sentirlo, ma il reale è
come sentito e non sarebbe senza il soggetto che lo sente. Dunque, in sé non esiste? Ma il rea-
le in sé, il reale come tale, è appunto ciò che [...] è il mondo del sentito: essere come sentito è
l’esser proprio del reale. Reciso dalla relazione sintetica con il soggetto senziente, non è più
reale, né in sé né in relazione [...]. Le cose non hanno, dunque, una loro essenza? Ce l’hanno,
ma è l’essenza sentita» (cfr. ibi, p. 79).
73
Per comprendere come in Sciacca sia presente la dialettica ― già rosminiana ― di
«persona» e «natura», si veda il tema del dominio “non dispotico” del mondo passionale, così
come viene sviluppato nella seconda parte del volume L’uomo questo “squilibrato”.
74
«L’essere implica unità; solo l’uomo è essere, perché solo l’uomo è unità: ha un centro
indivisibile, la persona; tutte le altre cose non sono esseri. Non vi è, infatti, un’unità fisica:
ogni altra cosa vivente non è unità (solo dove vi è spirito vi è unità), ma una parte o un pezzo
della natura, che è una parte o un pezzo dell’uomo. L’unità è interiore a se stessa; nessuna co-
sa, tranne l’uomo, è interiore a se stessa» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 91).
75
«Il sentire fondamentale è il principio della soggettività pura; l’intúito fondamentale
dell’essere è il principio dell’oggettività pura; loro unità concreta, la sintesi ontologica primi-
tiva. Possiamo chiamarla anche iniziale rispetto alle determinazioni che la specificano e
l’attuano sempre parzialmente [...]. Ogni singolo uomo è questa sintesi, atto primo, principio
unitario della soggettività e dell’oggettività distinte e indissolubili» (Cfr. M.F. Sciacca, Atto
ed essere, p. 43). «Ciascuna persona, sintesi vivente delle forme dell’essere nella loro distin-
zione e unità, è l’incarnazione del sintesismo dell’essere e perciò è ad immagine e somiglian-
za di Dio» (cfr. ibi, pp. 64–65).
76
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 87 ss.
298 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
nativamente (e dunque, per natura) oltre natura: ovvero, a stare oltre sé
come semplice realtà compientesi nel proprio ciclo vitale77.
In tal senso, l’uomo può essere descritto come il punto d’incrocio
di due assi cartesiani: un asse orizzontale, corrispondente alla varietà
della esperienza esistenziale finita, e un asse verticale, che corrisponde
all’intellezione dell’essere come Idea. Ora, l’ideale Vertice di tale asse
è inteso da Sciacca come il punto limite della tensione morale: dove il
termine «morale» indica, rosminianamente, la ob–ligatio dell’esisten-
ziale nei confronti dell’ideale, ovvero l’attrazione naturale del primo a
lievitare fino ad adeguare il secondo78.
Siamo già da sempre oltre la nostra stessa finitudine ontica: questo
è il punto79. E il fatto che siamo in grado di svolgere la presente inda-
gine ontologica, dà già una decisiva indicazione su come vada impo-
stata la stessa questione antropologica.
C’è una insistenza sciacchiana di cui, a questo punto, occorre dar
conto. L’intelligenza umana è sì «illimitata», in quanto informata
dall’interiorità oggettiva; ma non per questo è «assoluta»80: anzi, essa
è illimitata proprio in quanto è relativa alla presenza come tale81. Dire
77
«La ‘natura dell’uomo’ è strutturalmente tale che non è adeguata dalla ‘natura’, ma tesa
verso una finalità super–naturale; e che dunque la ‘natura’ umana è naturalmente trans–
naturale» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, pp. 107–108).
78
«Voler ogni cosa secondo la linea verticale dell’essere come Idea e nell’aspira-
zione al Vertice, al di là delle due linee, come principio e fine supremo dell’una e
dell’altra: questa l’intelligenza morale, inclusiva della ragione. Ma l’orizzontale del fini-
to non può adeguare la verticalità del pensiero: l’esistente, per quanto possa esistenziarla,
non adegua mai l’Idea che lo fa ente spirituale. Vi è una ‘squilibrio’ ontologico irrepara-
bile tra esistenza ed essenza nell’uomo; e l’uomo, fortunatamente, è questo squilibrato,
in cerca dell’equilibrio che da solo non può attuare» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo
“squilibrato”, pp. 266–267). «L’attuazione dell’uomo nella sua integralità è l’attuazione
di tutte le possibilità inerenti a questi due principi, cioè dell’essere nella forma esisten-
ziale e dell’essere nella forma dell’Idea; tale attuazione è la perfezione di ogni esistente.
Come dice san Tommaso, l’essere è la perfezione di ogni ente. Ho riproposto in maniera
diversa e centrato nell’uomo una delle tesi metafisiche dell’Aquinate» (cfr. Id., Gli arieti
contro la verticale, pp. 60–61).
79
«Nec ego ipse capio totum, quod sum» (cfr. Agostino, Confessiones, X, 8; testo latino a
cura di F. Skutella).
80
Cioè, non è illimitata in senso autoreferenziale ― come vorrebbe l’attualismo.
81
«L’assolutezza della mente o la mente detta assoluta, solo perché conosce tutto il cono-
scibile o il reale, è soltanto una metafora, un’espressione impropria. La mente umana è sì illi-
mitata, ma perché illimitato ed universale è l’essere che intuisce; però questa presenza illumi-
nante e di essa costitutiva non è solo forma della conoscenza del reale, ma è, innanzi tutto,
oggetto alla mente presente e da essa distinto, con la quale forma un’unità, il primo ontologi-
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 299
che il pensiero umano è «trascendentale», in quanto capace all’infinito
di informare ogni possibile reale empirico, sembrerebbe invece al no-
stro autore una crasi compromissoria, tra finito e infinito, tale da non
salvare né la finitudine dell’esistente né l’infinità della presenza82.
A ben vedere, però, la trascendentalità può essere anche intesa
come il modo proprio (prospettico e trasgressivo) dell’esistente fi-
nito, di esercitare la propria originaria apertura sull’essere infinito:
apertura che, data la iniziale astrattezza di quest’ultimo, non può
che partire dalla focalizzazione di concrete realtà finite. Del resto,
anche Sciacca non può ignorare che l’apertura dell’intelligenza sul-
la interiorità oggettiva è sì costantemente attuale; ma lo è come ca-
pacità attiva (che per lo più lascia implicite le proprie virtualità), e
non come entelechia.
6. Dialettica dell’implicanza
Abbiamo fin qui visto come il procedere della filosofia di Sciacca sia
governato dalla necessità, razionale quant’altre mai, di evitare posizioni
autocontraddittorie; e come ― anche per il nostro autore ― le esigenze
del raziocinio non possano essere, gnosticamente, disattese o superate.
Nel suo discorso, comunque, l’autocontraddizione non viene mai
considerata quale momento inerente alla vicenda dell’essere ― come
voleva Hegel ―, bensì quale ipotesi che nasce da una astratta conside-
razione del medesimo, esprimentesi in forma antinomica83. Scrive
co. Pertanto, universale e infinito è l’oggetto o l’Idea e non il soggetto nella soggettività sua»
(cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 73).
82
Lo «squilibrio» ontologico dell’uomo, «denunzia il sofisma di quelle forme immanenti-
stiche dell’idealismo moderno le quali, posta la mente umana come illimitata, argomentano
che, potendo conoscere tutto il conoscibile, è assoluta. Ma l’illimitatezza di cui parla
quest’idealismo non è data dall’Idea come presenza dell’essere, bensì dall’idea come forma o
categoria del conoscere, cioè dalla trascendentalità, in cui si risolve lo Spirito nella sua essen-
za. Consegue che il conoscibile è soltanto il reale di esperienza, dal quale l’Idea risulta ade-
guata; ma il reale di esperienza, la natura o il mondo, è finito; perciò se adegua la mente, que-
sta risulta anch’essa finita e limitata: la trascendentalità è tutta attuata dal contenuto di espe-
rienza ed è forma di e per questo contenuto» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 72–73).
83
«Non la contraddizione è la molla del pensiero, ma l’inadeguatezza di sé a sé; non lo
muove l’urto del sic e del non ― che è al livello della ragione, non a quello della profondità
dello spirito ― ma la mancanza di un sic assoluto che di esso appaghi l’aspirazione infinita»
300 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Sciacca: «La consapevolezza vissuta dell’inadeguazione dell’esistente
a se stesso è genitrice di ogni dialettica della contraddizione, ma
l’esistente, nel suo fondo, è incontraddittorio»84.
La «contraddizione», allora, è figura suscitata, o lasciata sorgere, in
funzione euristica, secondo le diverse strategie apagogiche che il filo-
sofo intenda adottare85. Come acutamente osserva il nostro autore, «la
contraddizione è la valvola di sicurezza dello spirito, che se ne serve
per non morire in una conclusione che non lo adegua»86. L’intelligen-
za, che è originariamente apprensione dell’essere, non è mai nella con-
traddizione, ed è grazie a ciò che essa può considerare l’impossibilità
(cioè, la non–ontologicità) di una ipotesi autocontraddittoria; e sfrut-
tarla per confermarsi in nuove regioni della verità. In tal senso, la
«dialettica» ― nel senso della apagogia ― si configura come «movi-
mento nella verità verso la Verità»87.
(cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, p. 146). A questo riguardo, Sciacca ricalca
in qualche modo le orme del Rosmini critico della dialettica hegeliana; tema per il quale rin-
viamo al precedente capitolo del presente volume.
84
«Non l’antinomia, ma la sua finitezza, incoercibilmente aspirante all’infinito, è costitu-
tiva della sua natura. Essa, che non è contraddittoria, genera il rompersi dello spirito in dire-
zioni diverse ed opposte, ognuna delle quali non gli contraddice, in quanto ciascuna persegui-
ta in vista dell’appagamento desiderato. La formula ‘l’uomo è uno spirito fatto per l’infinito’
non esprime la contraddittorietà ontologica dell’esistente ma la sua armonia fondamentale, in
quanto l’aspirazione all’infinito è costitutiva dell’esistente finito. La contraddizione nasce dal-
lo stato non contraddittorio dell’esistenza, cioè dalla sperimentata inadeguatezza di un atteg-
giamento o di una direzione scelti come possibile adeguazione. Nel momento in cui
l’esistente, tra le infinite scelte, opta per quella rispondente alla sua esigenza d’infinito, ogni
contraddizione si oltrepassa nell’incontraddittorio fondamentale» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo
questo “squilibrato”, pp. 146–147).
85
Ora, «l’antinomia nasce dalla insufficienza della soluzione, dalla provvisorietà di ogni so-
luzione parziale; dunque l’antinomia non è il costitutivo essenziale dello spirito; anzi lo spirito è
per sua natura non antinomico, in quanto la sua aspirazione fondamentale è la risoluzione di ogni
contraddizione in una soluzione che, come definitiva, non ammette più possibilità di alternative.
Dunque la contraddizione è sempre provvisoria non, come credeva lo Hegel, il principio del
pensiero e del reale ― la legge dell’essere ― ma lo strumento di cui lo spirito si giova per attua-
re la propria adeguazione» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, p. 148).
86
Cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, p. 148.
87
«La contraddizione non è l’ultima parola, in quanto, nata dall’inappagamento perenne
per ogni soluzione parziale, non può essere l’appagamento. Così la dialettica dell’inappaga-
mento s’intreccia con la dialettica ― l’una è implicita nell’altra ― della vocazione all’essere.
La contraddizione non nascerebbe se lo spirito non aspirasse alla verità piena; dunque la veri-
tà è al principio e alla fine, al di là di ogni contraddizione, che nasce dalla inadeguatezza di un
particolare punto di vista e, come tale, partecipa della provvisorietà di esso. Perciò
l’intelligenza è al di sopra della contraddizione: non c’è la verità perché c’è la dialettica, ma
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 301
Affermazioni come le precedenti indicano il superamento sciac-
chiano dell’equivoco idealistico circa la effettualità e la necessità della
contraddizione; e il ristabilimento della contraddizione nell’ordine
delle ipotesi euristiche ― secondo la via apagogica. Si apre però, in
tal modo, lo spazio per la considerazione di un ulteriore tipo di dialet-
tica, esprimente questa volta la fisio–logica interna dell’essere, e non
più l’esclusione delle patologie del discorso che lo riguarda. Sciacca la
annuncia come «dialettica dell’implicanza e della compresenza»; ma
sarebbe forse più opportuno parlarne ― rosminianamente ― come
della dialettica del «sintesismo», se è vero che «la legge dell’essere è
il sintesismo e l’essere è sintetico per essenza»88.
Alcune precisazioni si impongono in proposito: la prima è che la
dialettica dell’essere, in quanto è dell’essere, deve esprimere qualcosa
che è proprio dell’essere come tale; ma, in quanto è dialettica, cioè
movenza progressiva, deve avere come soggetto qualcosa che è, ma
insieme ha da essere: cioè, l’esistente finito89. Deve essere, allora, dia-
lettica della circuminsessione90 delle forme dell’essere così come si dà
nella sintesi ontologica primitiva91.
Dunque, se il passaggio dall’idealismo hegeliano a quello gentilia-
no era stato siglato dal mutamento di paradigma dialettico ― il sog-
getto dialettico non era più identificato da Gentile con il conceptum,
bensì con il conceptus ―, Sciacca intende portar oltre il mutamento di
paradigma, intendendo il soggetto dialettico, cioè lo spirito, come
l’esistente finito (l’«animale spirituale»)92, asintoticamente in via
d’integrazione. Una integrazione, questa, che per l’esistente finito è
destinale, ma che pure non è da lui stesso conseguibile.
c’è la dialettica perché c’è la verità ed è dialettica come movimento nella verità verso la Veri-
tà. Il valore della dialettica è strumentale, non è il fine dello spirito, che è pace nella verità, nel
consenso all’Essere» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, pp. 148–149).
88
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 77.
89
«In Dio esistenza e pensiero di sé s’identificano. Ogni altro essere, non è in sé, ma in
relazione; è, in quanto è in relazione a; in questo senso, è dialettico: eccetto Dio, l’essere è
dialettico in tutte le sue forme» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 61).
90
Il termine è di Rosmini (cfr. Teosofia, Parte I, Libro III, n. 992).
91
«Ogni forma di attività umana esprime un valore o una forma dell’essere e tutte, che
nell’essere insessionano, concorrono solidali e convergenti a costituire l’unità dello spirito o
la persona nella sua integralità» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, p. 55).
92
Cfr. M.F. Sciacca, L’uomo, questo “squilibrato”, pp. 39 ss.
302 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
L’integrazione, è dunque la curvatura propria della dialettica in
questione: e non l’«esclusione», né la «risoluzione» reciproca dei ter-
mini dialetticamente implicati93. Parlando di dialettica della risoluzio-
ne degli opposti, il nostro autore allude alla logica hegeliana e a quella
gentiliana94; mentre la dialettica della reciproca esclusione dei contrari
è da lui identificata con quella del Fedone platonico95.
In termini positivi, si può dire che a Sciacca interessi salvare le sorti
dell’esistente finito, rispetto a due opposte captazioni teoriche. L’una,
idealistica, che di esso farebbe semplicemente la materia che si avvi-
cenda nell’infinito96; l’altra, neoplatonica, che di esso farebbe, in quanto
fedele alla propria finitudine, l’opposto incompatibile dell’infinito.
93
«Riteniamo erronea e sterile la dialettica di “esclusione” dei contrari come quella della “riso-
luzione” degli opposti, in quanto il diverso l’opposto il contrario, nella concretezza della vita spiri-
tuale, si implicano senza escludersi e risolversi o annullarsi l’uno nell’altro. All’interno di questa
dialettica identità e contraddizione si implicano» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 27).
94
«Il Gentile crede che le difficoltà dello hegelismo risiedano nel fatto che lo Hegel presup-
pone ancora una realtà al pensiero, che, in tal modo, risulta impossibile pensare dialetticamente;
a noi sembra che le difficoltà risiedano proprio nella concezione hegeliana della dialettica come
dialettica di opposizione e di risoluzione dei termini dialetticamente posti nella sintesi, e che tali
difficoltà permangano identiche nella ‘riformata’ dialettica gentiliana». E, ad attestazione di que-
sto, Sciacca ricostruisce la dialettica gentiliana in termini essenziali come segue: «Se l’essere è
l’essere del pensiero che è in quanto pensa, cioè in quanto non è ― è non essendo ― anche qui
l’essere del pensiero e il non–essere s’identificano e non vi è quella opposizione tra essere e
non–essere che genererebbe il divenire» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 148–149).
95
«D’altra parte, vi è una illusione realistica che ci porta ad intendere diversamente identità
e contraddizione. Il caldo esclude il freddo e viceversa: quando l’uno si avvicina l’altro scappa,
dice Platone nel Fedone. [...] Dunque, è contraddittorio che una cosa sia nello stesso tempo e
nelle stesse circostanze quello che è e il suo contrario; un contrario esclude l’altro e ogni cosa è
identica a se stessa [...]. Questo modo d’intendere il contrario e l’identico è proprio di una con-
cezione del reale come ‘cosa’, oggetto dato, ‘materiale’, come quantità. Infatti, se il principio
d’identità è inteso nel senso che ogni reale (cosa), pur divenendo, resta identico a se stesso, con-
segue che il cambiamento e il divenire sono puramente ‘quantitativi’, cioè riguardano gli acci-
denti: vi è un’essenza, identica in tutti gli individui della stessa specie; il mutamento concerne
solo le variazioni numeriche, cioè i molteplici cambiamenti dell’essenza sempre identica a se
stessa [...]. Anche la specie umana è concepita alla stessa stregua: vi è un’essenza dell’uomo (a-
nimale razionale) identica in tutti gli uomini, la quale, individuandosi ― e l’individuazione è da-
ta dalla ‘quantità di materia’ ― dà luogo alla molteplicità degli individui umani, diversi come
individui, identici come essenza. Così si arriva a negare che la persona sia un principio o
un’essenza, che ciascun uomo sia un’essenza singolare e personale [...]. È la contraddizione che,
inserita nel seno stesso dell’identità e con la quale fa sintesi (pur permanendo l’identico identico
a se stesso e il contrario contrario e perciò identico anche esso a se stesso), rende possibile ele-
varci dal piano quantitativo del ‘fatto–cosa’ a quello qualitativo del ‘reale–esistenza’ o del ‘rea-
le–atto’» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 28–29).
96
Come indicato dall’aggettivo «ideale» [ideell], di uso hegeliano.
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 303
«Concreta implicanza» è allora ― per fare un esempio eminente ―
quella di essere e non–essere nell’esistente finito97. Dove, si badi, il
non–essere in questione è inteso dall’autore come il «contrario», e non
come il «contraddittorio» dell’essere: esso non è insomma identifica-
bile con l’assoluto «nulla» (figura che paga la propria assolutezza, col
ridursi a testimoniare semplicemente dell’assolutezza dell’essere),
bensì è identificabile con quello héteron98 che ― secondo la lezione
dello Straniero di Elea ― viene a insidere nel positivo.
Concreta implicanza è anche quella di essere e pensiero99, che il
soggetto finito «esperimenta» in se stesso100. (Sciacca opportunamente
97
«L’essere è il contrario del non–essere e ciascuno è identico a se stesso; ma i due identici–contrari
sono compresenti e formano una unità nell’essere finito, pur restando l’uno essere e l’altro non–essere. Il
non–essere non è fuori dell’essere che gli è immanente e fa che esso sia tensione alla pienezza di se stes-
so. Il mio non–essere è dentro di me, dentro il mio essere, senza il quale non sarebbe; né sarebbe il mio
essere senza il suo limite o non–essere. Non vi è l’essere che esclude il non–essere o l’essere che si nega
nel non–essere e, negandosi, diviene, in quanto il divenire è dato dalla permanenza, nella loro identità,
dei due contrari; non permanenza statica, bensì loro unità dinamica: l’essere il non–essere il limite es-
senziale dell’essere fa l’essere costituito per sua essenza come essere in farsi, teso all’attuazione del suo
essere pieno [...]: ha l’‘orgoglio’ ontologico di essere sempre insoddisfatto. [...] Solo l’unità dei due con-
trari nella loro permanente identità spiega il movimento integrale dell’essere, la sua dialettica concreta di
implicanza e non di astratta esclusione o di non meno astratta negazione. Nell’ordine normale della vita
non vi è presenza (essere) senza assenza (non–essere), non positività senza negatività e viceversa [...].
La pienezza di noi stessi è un’esigenza intrinseca al dinamismo interno del nostro spirito, ma non è at-
tuabile nell’ordine umano e con le nostre sole forze, pur essendo una nostra permanente e indistruttibile
possibilità» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 33–34).
98
«L’Idea è l’oggetto per cui l’esistente è spirito nella verità, ma, nell’atto stesso che con
la sua presenza fonda l’interiorità oggettiva, la oltrepassa; è l’altro per il quale l’io pensa; il
pensiero è l’altro per cui l’Idea è pensata; il loro rapporto dialettico è necessario ed intrinse-
co» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 127).
99
«L’essere di pensiero od oggettivo non può essere pensato prima o fuori del pensiero; non
vi è pensiero senza l’oggettività dell’essere che gli è interiore e lo costituisce [...]. Ma proprio
questo vincolo ontologico di essere e pensiero denunzia come erronea e sterile la dialettica di ri-
soluzione degli opposti e come astratta quella dell’esclusione, propria di un ‘realismo’ dell’es-
sere che è oggettivismo naturalistico, ed esige quella dell’implicanza: né il pensiero si risolve
nell’essere, né l’essere nel pensiero; né l’essere del pensiero si oppone al pensiero come non–
essere del pensiero con cui poi s’identifica annullando il pensiero stesso e non facendo nascere
alcun divenire [...]. Il pensiero è il soggetto dell’essere suo oggetto, che lo costituisce come sog-
getto pensante e perciò il pensiero è sempre atto, in quanto pensa nell’essere ed è coscienza di
essere soggetto pensante nell’essere (sintesi originaria ontologica). [...] Questa dialettica
dell’implicanza di pensiero–essere: non ammette opposizione né identità né esclusione tra pen-
siero ed essere, ma diversità (e il diverso non è opposto né contraddittorio, né un termine ‘si ri-
solve’ o si nega nell’altro)» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 150–151).
100
«Questo l’errore di alcune posizioni filosofiche [...]: presupporre come possibile
l’esperienza senza l’essere e negare l’esperienza dell’essere, posto come problema limite
304 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
insiste sulla esperibilità, diversa da empiricità, della relazione essere–
pensiero). Si tratta della esperienza che consiste nella intuizione della
interiorità oggettiva: esperienza descritta appunto come «movimento
dialettico»101. Qui, la dialettica è quella dell’«idealismo vero» o «tra-
scendente»102 ― come Sciacca si esprime ―, ovvero quella di «essere
e atto» nell’esistente finito: dove l’essere è l’interiorità oggettiva, e
l’atto è l’intuizione soggettiva, sempre inadeguata, di quella103. Non
c’è intelligenza che non sia apertura sull’essere, e non c’è essere che
non sia offerta di sé all’intelligenza. E in questa perenne verità, non è
certo avvistabile contraddizione alcuna.
Concreta implicanza è poi quella che si dà nella dialettica dell’alterità
soggettiva, echeggiante le pagine ben note che la Fenomenologia dello
spirito dedica alla reduplicazione dell’autocoscienza. Senonché,
l’essenzialità dell’altra autocoscienza al formarsi della mia (questo stare
originariamente in relazione da parte di entrambe), non realizza alcuna
contraddizione ― come, del resto, è già vero nella pagina hegeliana104.
Ma un altro caso di concreta implicanza lo avevamo già visto nella
interpretazione del divenire come dialettica di permanenza e variazio-
dell’esperienza stessa; quel che essa non può cogliere. Di qui il concetto cosiddetto ‘critico’
(lockiano–humiano–kantiano) dell’esperienza, come limite della conoscenza razionale e per-
ciò della metafisica. Ma questo concetto ‘critico’ è assolutamente ‘dommatico’, perché muove
da una concezione dell’essere ‘in esilio’ (fuori dell’esperienza) e dell’esperienza dommatica-
mente presupposta come esperienza di tutto, tranne che dell’essere. Invece questo non è al li-
mite, ma l’esperienza è esperienza dell’essere (e degli enti); e il mio esperire è esperienza di
me come essere: coscienza del mio essere (‘io sono’) dal di dentro del mio essere stesso e
dell’essere» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo, questo “squilibrato”, p. 29).
101
Dunque, essa è, «non vuoto o nulla perché partecipa della verità per cui il pensiero è
pensiero, né è pieno, perché la verità di cui partecipa, nella sua infinità inadeguabile dal reale
di esperienza, lo stimola a cercare la adeguazione al di là di ogni realtà» (cfr. M.F. Sciacca,
Atto ed essere, p. 161).
102
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 156.
103
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 48–49.
104
«Il creato è altro da Dio, diverso da Lui; nella natura, l’uomo è altro o diverso da tutti i
reali, che sono l’altro dall’uomo, ciò che non è l’esistente. L’uomo esiste in relazione alle co-
se e agli altri uomini; ma mentre le cose sono l’altro dall’uomo, il suo simile è l’altro uomo,
non cioè l’altro reale o cosa, diverso dall’uomo, ma l’altro esistente simile a lui». E ancora:
«L’alterità da uomo a uomo è necessaria all’autocoscienza. Le cose sono necessarie al mio vi-
vere nel mondo; l’altro esistente lo è alla mia stessa esistenza, al mio sentirmi esistere, come
io sono necessario a lui. Non c’è coscienza di sé senza coscienza non dell’‘altro dalla coscien-
za’, ma dell’‘altra coscienza’, ben diversa dall’alterità della natura, che è appunto l’altro dalla
coscienza. Solo l’Esistente assoluto non ha bisogno dell’altro per esistere» (cfr. M.F. Sciacca,
Atto ed essere, pp. 107–108).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 305
ne in un soggetto105. Al riguardo, Sciacca osservava che una differente
configurazione dialettica del divenire (in particolare quella idealistica,
risolvente l’essere nel non–essere), non avrebbe saputo tutelare i ter-
mini stessi della dialettica in questione e, di conseguenza, non avrebbe
potuto salvare la fenomenologia della cosa106.
Non è difficile però notare una divergenza tra le determinate dina-
miche che Sciacca invoca come testimonianze effettuali della dialetti-
ca, e la teorizzazione astratta che di questa egli propone in certe pagi-
ne introduttive di Atto ed essere. Qui, infatti, il nostro autore non ri-
nuncia ― in ossequio alla temperie culturale in cui si era formato ― a
retoricizzare a proposito di una presunta sintesi di identità e contraddi-
zione107, su cui la dialettica dell’implicanza dovrebbe innestarsi.
Occorrono però alcuni chiarimenti al riguardo. Anzitutto va detto
che quando si esprime in forma propositiva ― e non polemica verso le
105
«Non vi potrebbe essere movimento di questo ente a non questo ente senza l’unità e la
permanenza dell’ente [...]. È questo ente che è contrario al non questo ente, ma l’ente, sia del
questo che del non questo, è sempre lo stesso identico ente» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e
metafisica, p. 97).
106
«Se tra ente e non ente vi fosse rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che in-
veste la stessa essenza dell’ente per cui l’antitesi si irradica nella sua essenzialità) non vi sa-
rebbe più possibilità di stabilire i termini di un’antitesi. È possibile, invece, un’esperienza di
contrari e un rapporto dialettico tra questo ente e non questo ente in quanto permane l’ente,
sempre identico a se stesso, che da questo diviene non questo» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e
metafisica, p.97).
107
«L’identità di A a se stesso, lo pone come opposto a B, suo contrario: non vi è identità
senza opposizione e viceversa; ma l’identità di A a se stesso esclude davvero il suo contrario?
Se A e B si pongono come due identici ciascuno rispetto a se stesso, si oppongono come due
contrari l’uno rispetto all’altro; e, ponendosi come due identici e opponendosi come due con-
trari, evidentemente si escludono. Eppure nella vita concreta coesistono, non l’uno di fronte o
accanto all’altro, ma l’uno nell’altro, indissolubilmente uniti. Non diciamo che A diviene B e
perciò si nega, ma che A è A e, restando A, è B; né A, che è B, è A+B, somma; è una sintesi,
qualcosa di nuovo, che è compresenza dei due contrari, che restano tali e perciò ciascuno i-
dentico a se stesso (non è l’altro); ma, proprio in quanto contrari, non si escludono, né si ne-
gano. Infatti, A è A, ma è B, è il suo contrario ed è B come B e non in quanto B si tramuti in A.
Non dico che A è ‘anche B’, perché in questo caso B sarebbe un accidente esteriore, una ‘ag-
giunta’; è A–B, essenzialmente l’una cosa e l’altra [...]. Dialettica dell’implicanza dell’iden-
tico e del contrario come del diverso, senza escludere, annullare o risolvere [...]. È la dialettica
di una filosofia dell’integralità, propria dell’essere non immobile, che è e permane essenzial-
mente essere e perciò è ‘durare’ e non ‘divenire’: durare dell’essere e nell’essere, ‘immuta-
bilmente’ ma non ‘immobilmente’ essere [...]. ‘Durare’ che non è ‘divenire’ dell’essere né es-
sere in divenire, né essere che è divenire e neppure essere che, negandosi nel non–essere, di-
viene e non è più né essere né non–essere, secondo l’illusione idealistica» (cfr. Cfr. M.F.
Sciacca, Atto ed essere, pp. 27–28).
306 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
tradizioni idealistiche ―, egli parla di una concreta implicanza non
più tra «opposti» né tra «contrari», ma piuttosto tra termini «diversi»:
e lo fa in un senso che, dato il contesto, si palesa essere quello tecnico
della logica hegeliana delle “essenzialità” [Wesenheiten].
Quella di “diversità” [Verschiedenheit] è ― hegelianamente108 ― una
relazione che intercorre tra due significati, ciascuno dei quali è già costi-
tuito come identico a sé (nella propria, sia pure astratta, indipendenza
semantica); mentre la “differenza” [Unterschied], è hegelianamente la
diversità che ogni significato realizza in se stesso109. Ora, in un tale qua-
dro è plausibile che anche la parola «contraddizione» sia usata da Sciacca
nella accezione della logica hegeliana delle essenzialità: dove, Wider-
spruch è negazione della reciproca indipendenza dei termini relati110 ―
relati, nel nostro caso, secondo diversità e non secondo opposizione.
Se è così, è ragionevole ritenere che il nostro autore, quando parla di
inerenza della contraddizione all’identità, non alluda a niente di anoma-
lo, bensì intenda evidenziare che i termini astratti che compongono la
sintesi ontologica primitiva possono fare identità con sé, solo a condi-
zione di «con–sistere» col proprio correlato: pena la contraddizione ―
questa volta aristotelicamente intesa (ed apagogicamente esclusa).
A ben vedere ― come Sciacca più adeguatamente si esprime ―,
«la dialettica dell’implicanza conferma la validità dei principi
d’identità, [e] di [non] contraddizione»111. Ma, «cogliendoli nella con-
cretezza della vita spirituale, li utilizza in modo diverso dalla dialettica
della esclusione dei contrari e da quella della loro negazione o risolu-
zione»112. In quanto, l’istanza della concretezza determina una calibra-
zione di tali principi sui soggetti quali si danno veramente: dunque, sul
concreto e sull’astratto intesi per quello che essi effettivamente sono.
108
Cfr. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erster Band. Die Objektive Logik (1812/1813),
Buch II, Abschnitt I, Kap. II, B, §1.
109
Cfr. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erster Band, Buch II, Abschnitt I, Kap. II, B, §1.
110
Cfr. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erster Band, Buch II, Abschnitt I, Kap. II, C.
111
Tanto da farne, tra l’altro, i cardini della «intelligenza morale». Infatti, nell’esperienza
morale «la luce dell’essere insegna che ogni ente è identico a se stesso e va amato per quello
che è; e che è contraddittorio volerlo per quello che non è, disforme dal suo essere. Così il
principio d’identità e quello di non–contraddizione intervengono come principi di discerni-
mento, guida sicura della volontà, disciplina interiore, che è attuazione di libertà in quanto è
libero l’atto della volontà stessa che è conforme alla verità intellettiva, cioè incontraddittorio»
(cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, p. 269).
112
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 34.
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 307
Ad esempio, l’essere iniziale non è qualcosa di concreto; tanto me-
no concreta è la sua dimensione ideale. Neppure è un che di concreto
il sentimento, se inteso come irrelato rispetto all’essere; o il reale, se
inteso come irrelato rispetto al sentimento. E neppure lo sarebbe
l’esistente cui per ipotesi non fosse data, con la relazione ad altri,
l’occasione per acquistare coscienza della propria autocoscienza.
Dunque, parlare dell’identità con sé di simili realtà astratte, è parlare
della loro esigenza di concretezza, e non di una loro quieta immanenza
in sé: quest’ultima sarebbe infatti, non autoidentità, bensì autocon-
traddizione. E il contributo dato dall’idealismo trascendentale in que-
sta direzione, resta perennemente valido ― come Sciacca sa bene. E-
gli sa però altrettanto bene che, trattare queste figure teoriche quasi
fossero i possibili soggetti autoconsistenti di un divenire o di un in-
cremento dialettico, sarebbe retoricizzare ― come lo stesso idealismo
non ha mancato, in vario modo, di fare.
In estrema sintesi, la dialettica è descrivibile platonicamente come
«via alla meta», tutta interna alla verità113. Ma essa è anche descrivibi-
le, rosminianamente, come «logica dell’‘integrazione’, di cui la logica
dell’‘esclusione’ [cioè l’apagogia] è solo un momento nella prima
contenuto»114.
7. Implicanze teologiche della dialettica
Se il concreto primitivo115 è «l’esistente spirituale, [ovvero] la per-
sona»116, ne «consegue che la metafisica è metafisica dell’uomo e non
del reale in quanto tale»; essa andrà dunque recuperata «in senso ‘spi-
ritualistico’ e non ‘naturalistico’»117. Ora, nello svolgimento delle im-
113
«Via, non al di qua della verità, ma via nella verità verso la Verità, che non sta ‘di con-
tro’ al pensiero; anzi la stessa oggettività del pensare s’indirizza, attraverso il movimento dia-
lettico dell’implicanza di pensiero e verità, alla Verità in sé, sua meta non di conquista ma di
dono e di pace nel dono e nell’assenso» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 161).
114
Cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 134.
115
O «sintesi concreta ontologica».
116
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 81.
117
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 17. In precedenza, l’autore si era espresso in ter-
mini più cauti e anche più didattici: «Se il punto di partenza è dai dati reali, si può partire da
quale che sia di essi; però ci sembra che sia opportuno muovere da quello [...] che presenta
308 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
plicanze metafisicamente estreme della dialettica dell’interiorità og-
gettiva, Sciacca segue ancora una volta Rosmini, lungo le due vie cui
il Roveretano affida in linea principale la propria ascesa a Dio: la via
“a priori pura” e quella “ideologica”118. Per quanto riguarda la prima,
l’attenzione del nostro autore sembra andare alle formulazioni più ma-
ture che di tale via Rosmini ci offre: quelle che troviamo nella Teoso-
fia; per quanto riguarda la seconda via, Sciacca guarda ancora alla
formulazione del Nuovo Saggio.
7.1. La via propriamente ontologica
Partiamo dalla via che il Roveretano chiamava «a priori pura»119. E
cominciamo col precisare che Sciacca non accetta di dirla “a priori”,
perché essa non ha un punto di partenza di tipo gnoseologico, bensì
formalmente ontologico: non va cioè ad integrare un concetto, ma
piuttosto un esistente finito120.
Ora, tale via, nella sua formulazione sciacchiana, può essere artico-
lata secondo le seguenti scansioni. 1) L’essere iniziale (ovvero «l’Idea
come essenza dell’essere») ha una sua attualità: ex–sistit, cioè, nel
senso suareziano per cui è un non–niente. 2) Eppure, esso è un che di
astratto, che non può autonomamente avere attualità; sarebbe dunque
«contraddittorio con la sua essenza» ipotizzare per esso, come assolu-
ta, una attualità non–consistente: priva, cioè, di un contenuto reale–
esistenziale che gli sia formalmente adeguato. 3) L’unico contenuto
reale–esistenziale noto, che con esso abbia formale relazione, è
l’esistente finito; che però, in quanto finito, non gli è formalmente a-
deguato121. 4) Dunque, l’esistente che va riconosciuto come integra-
una maggiore ricchezza e complessità, in quanto più l’ente da cui si parte è complesso e mag-
giore sarà la forza della dimostrazione» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 133).
118
Per una schematizzazione critica delle due vie rosminiane indicate nel testo, con ri-
guardo alla loro formulazione teosofica, si veda il capitolo precedente.
119
Cfr. A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, n. 1461; Id., Teosofia, Parte I,
Libro II, nn. 298 ss.
120
«La prova è insieme a posteriori e a priori: muove dall’essere sussistente finito, e
dunque dal reale, e insieme dal principio di verità come oggetto della mente, e dunque dall’a
priori. In breve: [...] io sono la ragione dell’esistenza di Dio» (cfr. M.F. Sciacca, Gli arieti
contro la verticale, p. 63).
121
Sciacca sviluppa questa osservazione, sostenendo che negare tale inadeguatezza significhe-
rebbe incorrere in un dilemma: «a) o si ammette che il soggetto è infinito come l’Idea che intuisce e
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 309
zione adeguata dell’essere iniziale ― anche qui, pena la contraddizio-
ne ―, è altro dall’esistente finito122.
Valgono qui due corollari123. a) Il primo, è il riguadagno della clas-
sica distinctio realis; infatti, l’Esistente originario è adeguazione di
allora il pensiero ha nel proprio soggetto la sua sussistenza adeguata per cui potenzialità ed attualità
coincidono perfettamente; in tal caso però ogni uomo sarebbe egli principio di se stesso o il creatore
della sua esistenza, Dio, e si parlerebbe di Dio e non dell’uomo; b) o che il soggetto è finito e allora
dire che esso adegua l’Idea o la potenzialità del pensare è dire che anche il pensiero è finito e che
l’Idea intuita non è la verità prima, [...] bensì un’idea qualsiasi proporzionata all’esistenza del sog-
getto in cui il pensiero inerisce» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, pp. 101–102).
122
«a) L’Idea, come quella che è l’essenza dell’essere, implica necessariamente
l’esistenza, altrimenti non sarebbe atto e sarebbe niente; e la implica non nel senso che
l’esistenza si possa dedurre dall’essenza, ma nell’altro che non c’è Idea senza esistenza e non
c’è esistenza senza Idea; b) come quella a cui è necessario esser presente a una mente, non
può essere che Idea di un esistente pensante; c) infatti, è l’oggetto interiore alla mente
dell’uomo, per cui egli è spirito, principio senziente–intellettivo–volitivo; d) ma l’uomo, sog-
getto finito, non può essere il soggetto adeguato dell’Idea e il compimento della sua esigenza;
e) dunque esiste il Soggetto infinito che la compie; f) altrimenti, in contraddizione con la sua
esigenza essenziale, mancherebbe del suo compimento; g) né il soggetto finito può essere il
principio della sua esistenza; h) dunque, esiste il Principio assoluto di ogni esistente o
l’Esistente assoluto; i) ma l’Idea appartiene all’uomo, è un elemento del suo essere, l’essenza
della sua esistenza; j) dunque, l’esigenza di compimento dell’Idea è anche esigenza di com-
pimento dell’esistente; k) d’altra parte, esistenza ed Idea formano quell’unità ontologica che è
l’uomo senza che i due elementi si adeguino: l’Idea trascende l’esistenza in ogni suo atto e
sormonta ogni sua attualizzazione; l) dunque, non è la sola esistenza finita ― come quella che
non è principio di se stessa e richiede necessariamente un principio per esistere ― né la sola
Idea infinita ― come quella che, essendo essere, esige che il suo atto sia l’esistenza ed, essen-
do infinita, esige per sua essenza il soddisfacimento della sua esigenza di compimento ― che,
separatamente, a posteriori e a priori, sono la ragione dell’esistenza di Dio, ma lo è quella
sintesi originaria ontologica che è ogni esistente come tale e lo è in quanto esistente, per il so-
lo fatto che esiste; m) gli elementi della sintesi, esistenza ed Idea, vanno presi nel loro signifi-
cato ontologico: è l’essere, come tale esistenza ed Idea, soggetto dell’oggetto ― suo lume di
verità e per cui è persona od esistente ― che attesta l’Essere per il solo fatto che egli è e ha
origine dall’esistenza dell’Essere stesso» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 125–126).
123
«Lo spirito non può essere concepito se non come atto infinito senza essere mai
nell’atto tutto l’atto ontologico; dunque esiste l’Atto assoluto o Dio, che è l’Essere nella sua
pienezza di Esistenza e di Essenza, di Attualità e Atto. Tutto il mio sentire pensare esperire
volere non può adeguare l’Idea; non posso eguagliare l’infinità dell’essenza dell’essere per
cui io sono un io. Dio, l’Altro grazie al quale posso esistere ed esisto, è il Principio di ogni e-
sistente, che come tale ha un’essenza, essere della sua esistenza, ma che, come essenza
dell’essere, sormonta per la sua infinità la finitezza dell’esistenza stessa e la lancia verso una
destinazione infinita e un compimento, esigito dalla stessa essenza dell’essere indissolubil-
mente unita alla esistenza, che solo l’Esistente infinito [...] può dargli, se lo vuole.
L’interiorità oggettiva trascende la stessa autocoscienza e ogni determinazione a partire
dall’autocoscienza in cerca dell’Essere [...] che tutta la attui [...], adeguazione compiuta di atto
e di attualità dell’atto stesso» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 127).
310 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
«essenza» («oggettività», «atto») e di «esistenza» («soggettività», «at-
tualità»); mentre l’esistente finito, non realizza in sé tale adeguazio-
ne124. b) Il secondo, è che l’interiorità oggettiva indica per l’esistente
finito la destinazione ad un compimento integrale, riguardante tutte le
dimensioni del suo esistere125; ora, sapere questo ― cioè di essere fatto
ultimamente per Dio, e non per l’ente finito (il proprio o l’altrui) ―,
significa per l’esistente finito avere «coscienza della [propria] autoco-
scienza»126.
7.2. La via dei principi
Diversamente da Rosmini, Sciacca non parla di via “ideologica”, a
ribadire il carattere pienamente ontologico dei principi e della verità di
cui essi sono principi. Egli, del resto, si rifà in proposito più diretta-
mente all’Agostino del De libero arbitrio127, che allo stesso Rosmini
― che pure non manca di citare anche su questo punto128.
Proviamo a rendere la via nella sua versione sciacchiana, schema-
tizzandola come segue. 1) I primi principi, che orientano la ragione e
sui quali è aperta l’intelligenza, sono innegabili, e quindi la loro verità
è perennemente attuale. 2) In tal senso, essi sono disomogenei rispetto
alla mente (intelligente e razionale) dell’esistente finito, che è «limita-
ta e mutevole», e quindi non può riconoscere in modo perennemente
attuale la loro (per altro perennemente attuale) verità. 3) Essi, però,
non possono cessare di essere veri: lo saranno perciò costantemente
per una mente altra da quella dell’esistente finito, ed essenzialmente
attuale come essi sono129.
124
«Nell’Essere assoluto [...] la sua Esistenza è la sua Essenza e la sua Essenza è la sua
Esistenza; nell’esistente creato [...] esistenza o soggettività e Idea o oggettività che gli è inte-
riore non s’identificano» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 80).
125
«Tendiamo all’attuazione dell’uomo intero, [...] in modo che, nella luce infinita
dell’essere intuíto, tutto l’uomo, in tutte le sue potenze e nella pienezza della sua integralità
sia coestensivo a tutto l’essere» (cfr. M.F. Sciacca, L’uomo questo “squilibrato”, p. 270).
126
Cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, p. 103.
127
Cfr. Agostino, De libero arbitrio, II, capp. X–XV; testo latino del Migne: PL 32.
128
I testi citati sono: A. Rosmini, Nuovo Saggio sull’origine delle idee, nn. 1456 ss.; Id.,
Teosofia, Parte I, Libro III, n. 797 (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 179).
129
«Se vi sono verità universalmente e necessariamente valide e se, d’altra parte, la verità
è oggetto del pensiero e non da questo creata, la Verità assoluta, o in sé, trascende l’umana
mente. Pertanto, se il soggetto pensante conosce verità assolutamente valide, esiste anche la
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 311
Anche qui, due corollari. a) In fondo, con questa via, si viene a dire
che «nella intuizione delle verità immutabili e necessarie è già implicata
l’esistenza di Dio». E, «in questo senso, si può dire che ogni qual volta
la mente è presente alla verità che è in lei e di cui la ragione fa uso, è
presente a Dio»130. b) Ogni asserto che pretenda l’incontrovertibilità,
presuppone la validità di principi fondativi perennemente validi; quindi,
se per ipotesi l’asserto dell’insipiens (che in cuor suo dice “Dio non esi-
ste”) ambisse a quello statuto, diventerebbe eo ipso autocontraddittorio,
e, come tale, dicibile sì, ma non realmente concepibile131.
Facciamo ora due osservazioni, che riguardano entrambe le vie. La
prima è che esse vivono analogicamente del medesimo nucleo argo-
mentativo. Infatti, nella seconda, la verità dei principi è intesa di per
sé come astratta, cioè come inconcepibile se non quale offerta a una
mente; nella prima, l’inizialità ontologica è intesa come astrattezza ri-
spetto ad una terminalità appropriata. È la dialettica dell’implicanza,
Verità che, in maniera eminente, le contiene tutte; dunque esiste Dio, che è il Pensiero assolu-
to o la Verità assoluta. Il pensiero umano è limitato e mutevole e perciò non può essere verità
assoluta, pur essendo capace di conoscere verità assolute; non può essere il soggetto ‘ponente’
la verità, il suo ‘supposto’ esistenziale; dunque la verità assoluta esiste come trascendente il
pensiero, ed è Dio, in cui ‘esistenza’ e ‘verità’ s’identificano. Negare che l’uomo abbia cono-
scenza di verità oggettive o che esistano tali verità, è negare il fondamento di ogni possibile
‘ragione’ dell’esistenza di Dio, negare Dio stesso» (cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva,
p. 21). Precedenti formulazioni, più didattiche, di tale via si trovano in: Id., Filosofia e metafi-
sica, pp. 161–163. In altri luoghi, la formulazione si complica con il ricorso alla questione di
una causa dei principi stessi. Leggiamo: «È contraddittorio che un essere finito e contingente
sia l’autore di qualcosa di necessario e di universale quali appunto i principi del pensiero e
dell’azione» (cfr. ibi, pp. 132–133). Tale complicazione era invece stata superata da Rosmini,
come attesta la formulazione teosofica della via in questione (cfr. A. Rosmini, Teosofia, Parte
I, Libro III, nn. 776, 795, 797, 863).
130
«Dunque pensare è pensare Dio senza che Dio sia l’oggetto diretto e immediato del
nostro pensiero» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, p. 164).
131
«Dire che il giudizio ‘Dio non esiste’ è oggettivamente valido, è una contraddizione nei
termini, in quanto se la ragione è capace di un solo giudizio oggettivamente valido, ciò basta
perché essa argomenti l’esistenza di Dio e non possa più negarla. Ha ragione S. Bonaventura
quando osserva che, anche la negazione di ogni verità, fa che sia ugualmente impensabile la ne-
gazione dell’esistenza di Dio. Infatti chi dice ‘non esiste verità’ pone come assolutamente vera
questa affermazione e dunque ammette qualcosa di oggettivamente vero. [Dunque,] l’ateo è co-
lui che pensando che Dio non esiste, in realtà non pensa: egli fa uso dei principi di verità, solo
formalmente, senza consapevolezza alcuna della loro profondità metafisica. La sua è una affer-
mazione puramente verbale; pronuncia parole che non hanno senso e di cui non si può rendere
conto, parole che può dire, ma a cui non può dare il suo assenso, in quanto non si può assentire
alla contraddizione e all’assurdo» (cfr. M.F. Sciacca, Filosofia e metafisica, pp. 177–178).
312 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
che anche qui diversamente ritorna. Ma, attraverso di essa, il tema che
ricorre è prima ancora quello della circuminsessione tra le forme
dell’essere: versione rosminiana (quindi, moderna) della convertibilità
tra i trascendentali classicamente intesi132.
Il vero nodo della riflessione di Sciacca è dunque lo stesso di quella
di Rosmini; e coincide con il tema delle forme dell’essere, cioè con il
tema dei trascendentali classicamente intesi e della loro dialettica,
quale viene alla luce nel concreto della persona.133.
Una seconda osservazione. Sciacca intende le due vie come due
formulazioni di una medesima via. In Rosmini, invece le vie restano
tematicamente distinte; senonché, esse ― almeno nella formulazione
che ricevono nella Teosofia ― vengono a convergere nel loro esito. In-
fatti, l’Ente adeguato all’essere ― cui conclude la rosminiana via “a
priori” ― è perfettamente autoconsistente (o assoluto); ma questo com-
porta da parte sua l’intelligenza di sé, e quindi l’intelligenza tout court
― quella che è invece tematicamente introdotta dalla “via ideologica”.
Infatti, l’inconsapevolezza di sé sarebbe appropriata ad un’esistenza re-
lativa (o in alio), e non ad un’esistenza veramente assoluta; in quanto,
una realtà inconsapevole di sé, se non vi fosse un altro (o meglio, altri)
cui essa fosse nota, neppure potrebbe dirsi veramente esistente134.
Un argomento, quest’ultimo, che in termini più rigorosi si può ri-
proporre come segue. L’Esistente assoluto deve conservare il carattere
132
Nel saggio Rosmini essenziale, Sciacca fa un’acuta osservazione per difendere il Rove-
retano dall’accusa neoscolastica di astrattismo e dualismo nella sua concezione dell’essere, e
scrive: «Se i critici [...] della rosminiana idea dell’essere si liberassero dai residui, certo non
avvertiti, di sensismo ― dato anche che il punto fondamentale che vogliono difendere è il le-
game ontologico tra idea e realtà, in modo da non staccare la prima dalla seconda ― trove-
rebbero nel Rosmini un loro alleato, il quale precisamente dimostra che l’idea dipende dalla
realtà, ma non da quella creata, bensì dalla Realtà assoluta, da Dio» (cfr. M.F. Sciacca, Il pen-
siero moderno, La Scuola, Brescia 1949, p. 190).
133
Non si può dimenticare, al riguardo, che anche Tommaso, nel De veritate, semantizza
almeno i trascendentali verum e il bonum proprio in relazione alle dimensioni della persona
(cfr. Tommaso d’Aquino, De veritate, q. I, a. 1).
134
«Colui che non vive e non esiste a se stesso [...] non è: sarà qualche altra cosa, ma lui
non è: poiché, che cosa sarebbe questo lui, che non sa niente affatto del proprio esistere, e del
proprio vivere? Si supponga pure che ci sia l’esistere, che ci sia il vivere; ma il lui non c’è; è
un vivere e un esistere senza subietto, senza uno che veramente viva e veramente esista.
L’esistenza dunque perfetta, come pure la vita perfetta esige l’intelligenza, poiché solamente
il principio che sa di esistere e di vivere, è colui che vive ed esiste veramente» (cfr. A. Rosmi-
ni, Teosofia, Parte I, Libro III, n. 745).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 313
della automanifestatività, che è proprio dell’essere iniziale (nella sua
idealità); ora, se tale automanifestatività non fosse destinata origina-
riamente a Lui stesso, essa farebbe originario riferimento ad altro da
Lui, cioè ad altro dall’Assoluto. Ma che, originariamente, l’Assoluto
sia in relazione ad altro da sé, è ipotesi autocontraddittoria135.
8. L’esistente finito come creatura
«L’essere non è riducibile alla sola idea, né al solo reale o al fe-
nomeno, né alla sola attività morale» ― scrive Sciacca. «L’essere è
‘irriducibile’, ‘indomabile’, perché è sempre e soltanto ‘perso-
na’»136. Ora, che la persona sia la configurazione appropriata
dell’esistente ― e quindi ultimamente dell’essere ―, vale anche, in
modo analogico ed eminente, per l’Esistente originario. E, ad accer-
tare questo, vale classicamente ― ma anche per il nostro autore ―
la via argomentativa che passa attraverso il riconoscimento della li-
bera creazione del finito.
Il carattere creato dell’ente finito risulta dalla necessità di non rin-
negare la perfezione dell’Esistente originario, chiamato da Sciacca an-
che «Essere infinito»137. Se infatti la relazione tra l’Essere infinito e
l’ente finito venisse intesa in senso non creazionistico ― ovvero nel
senso simmetrico che ritroviamo, in versione antico–medievale, nella
relazione causa–effetto, o che ritroviamo, in versione moderna, nella
relazione organicistica ―, il primo non potrebbe più esser tenuto fer-
mo nella sua pienezza ontologica138.
135
Anche Sciacca osserva che «solo Dio è l’Essere in sé, perché solo Egli si concepisce
esistente prescindendo da una mente a Lui esterna» (cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, p. 61).
136
Cfr. M.F. Sciacca, Atto ed essere, pp. 18–19.
137
«Infinito in senso proprio è solo l’Essere, l’Infinito. Quel che impropriamente diciamo
tale, propriamente è indefinito, illimitato ecc., cioè una partecipazione finita dell’Infinito; né il
finito è una diminuzione dell’Infinito, né l’Infinito un crescere del finito; meno ancora il finito
è una parte dell’Infinito: tra l’uno e l’altro corre una differenza essenziale e massima. (Cfr.
Rosmini, Teosofia, 726)» (cfr. M.F: Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, vol. 36 delle O-
pere complete di Michele F. Sciacca, Marzorati, Milano 1972, p. 64).
138
«Per salvare l’Essere è necessario concepirlo in Sé–Principio di Sé senza il mondo e
questo non come un insieme di determinazioni necessarie dell’Essere, ma come un altro esse-
re, creato dall’Essere stesso» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 22).
314 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
In quel caso, infatti, l’Essere infinito risulterebbe «compromesso ir-
reparabilmente» con il finito139; e, con ciò, si ritroverebbe ad essere
«contraddittoriamente immutabile e mutabile»140. Si rivelerebbe così
«della stessa sostanza» di quel mondo che, a seconda dei casi, da esso
emanerebbe, o in esso sarebbe implicato. Nella prospettiva di una re-
lazione simmetrica ― conclude Sciacca ―, «l’Essere e il mondo ‘si
mangiano’ reciprocamente e il Nulla li divora entrambi, lasciando co-
me residuo [...] la pura ‘relazione’ elevata a principio e sostitutiva
dell’essere»141.
Ma ― ed è questa l’insistenza originale del nostro autore ―, anche
il finito risulterebbe tradito da una configurazione metafisica di tipo
non creazionistico. In quel caso, infatti, esso dovrebbe venir inteso
come il risultato di «una caduta dell’Essere» infinito142, e quindi come
una sorta di realizzazione depotenziata o inautentica dell’essere; e al-
lora, in qualche modo, come «non–essere»143: ciò che accade nel mo-
dello emanazionistico. Oppure dovrebbe venir inteso come un elemen-
to astratto dello stesso Essere infinito144: ciò che accade nel modello
organicistico.
A ben vedere, le metafisiche non creazioniste sono segnate, in vario
modo, da una rappresentazione falsamente dialettica (e, più precisa-
mente, bipolare) dell’assoluto: l’assoluto non coinciderebbe con un
139
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 22.
140
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, pp. 47–48.
141
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 23.
142
Nelle metafisiche non creazioniste è sempre implicitamente o esplicitamente presente
il mito gnostico di una caduta originaria da cui il mondo in cui viviamo prenderebbe origine
(cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 24).
143
«Nel pensiero greco [...] il mondo, il finito [...] è una caduta dell’Essere stesso, un de-
potenziamento [...]. Così intesa la relazione tra l’Essere e gli esseri, l’alterità tra l’Essere–
Causa prima e il mondo–effetto non può non esser posta che nei termini di Essere e di non–
essere: il finito è ciò che non è l’Essere [...]; non è un essere ‘nuovo’ con tutto l’essere che gli
compete e in sé autonomo, è per una perdita, sulla materia preesistente, dell’Essere che,
d’altra parte, è necessitato a generarlo, a emanarlo, a fabbricarlo, cioè a ‘perdersi’ in esso»
(cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 21).
144
«Sì, lo Hegel afferma che ogni ente è se stesso ed ha una sua sostanza, ma propriamen-
te ogni ente, non solo è in relazione ad altri o dialettico, ma è soltanto e tutto in questo suo es-
sere–in–relazione. Consegue che non sono gli enti o il sistema del reale o del mondo, è solo il
sistema o la totalità delle relazioni, il sistema della ‘logica del mondo’, con cui Hegel identifi-
ca l’Essere o Dio e dove vanificano l’Essere e gli enti» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica
e trinitaria, p. 51).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 315
unico principio, ma col fronteggiarsi di due principi cooriginari (a se-
conda dei casi: Demiurgo–chora, Motore–materia, Uno–necessità, es-
sere–nulla)145; e la sintesi appropriata di una simile dialettica starebbe
nell’esistenza del «Nulla» (cioè nell’autocontraddizione stessa).
Al contrario, ammettere la creazione come produzione totale del fi-
nito da parte di un Principio unico, vuol dire riconoscere il carattere
proprio ― e non falsamente dialettico ― dell’assoluto; vale a dire la
sua autentica assolutezza, ovvero il suo non dover subire alcuna spinta
o attrazione ad operare ad extra, venendosi così a trovare originaria-
mente coinvolto nella relazione con qualcosa d’altro da Sé146.
Più precisamente, l’unica originaria relazione ad extra che, in pro-
spettiva creazionistica, è lecito riconoscere al Principio, è ― secondo
il nostro autore ― quella verso il «Nulla»147: termine col quale va qui
145
«L’Essere a cui si contrappone la materia risulta necessariamente in rapporto dialettico
con quest’ultima, rapporto di Principio a Principio (dualismo metafisico), e necessariamente
limitato nella sua azione ‘di fare essere il mondo’ da qualcosa che non è l’Essere ed è il Non–
Essere in un senso diverso da come si dice che il finito fatto è non–essere» (cfr. M.F. Sciacca,
Ontologia triadica e trinitaria, pp. 21–22).
146
«Solo essa instaura a livello metafisico–ontologico la dialettica Essere–esseri tagliando
fuori il Nulla che pur permane come limitazione degli enti finiti, dialettica dove i termini non
si ‘risolvono’ e ‘dissolvono’ in passaggi puramente concettuali o logici, e dove il Nulla e gli
esseri sono in modo diverso dialettici rispetto al Principio, che, in Sé–Principio di Sé, non è
dialettico né dialettizzabile, pena la riduzione della metafisica e dell’ontologia a un assurdo
discorso sul Nulla» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 24).
147
«Prima della creazione è l’Essere e, fuori dell’Essere, quel che non è l’Essere; ma non
essendo alcun essere oltre all’Essere, ciò che non è l’Essere è il Nulla, pensabile soltanto ne-
gativamente, appunto come ciò che non è l’Essere, e che non è, ed è solo relativamente
all’Essere senza che l’Essere sia relativamente al Nulla. [...] Il Nulla, pensabile in relazione
all’Essere, non è principio né categoria opposta all’Essere; non è al pari dell’Essere come
quello in cui quest’ultimo si annulla dando luogo per la contraddizione al divenire; non è me-
no dell’Essere e neanche lo stremato suo affievolimento; è soltanto in opposizione all’Essere,
il solo che è e fuori del quale, non essendo altro essere, è il Nulla. In principio, il Principio in
Sé–da Sé o l’Essere e nient’altro o il Nulla: questa e solo questa la condizione che rende pos-
sibile la creazione in senso proprio, cioè il dare essere ad esseri altri dall’Essere e, come altri
da Lui, creati dall’Essere–dal–Nulla; perciò finiti, contingenti, mutevoli e relativi, con tutti i
limiti che vengono loro dal non essere principio di se stessi e dall’essere creati ex nihilo.
L’atto creativo annulla il Nulla creando ― ne vince la negatività attraverso la creazione con-
tinua, pur permanendo il Nulla il negativo relativo all’Essere ―, non nel senso che gli dà
l’essere, ma nell’altro che dal Nulla crea o fa essere quel che non era [...]. Il creato, in quanto
tale, non è senza il Nulla, ma non è per il Nulla, è per l’Essere, suo Principio e Fine; però il
Nulla, sempre relativamente all’Essere, è senza il creato, e infatti è prima della creazione co-
me ciò che non è l’Essere; e ancora relativamente a quest’ultimo è eterno; perciò l’Essere è
creazione continua» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 19).
316 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
intesa, non un’autocontraddittoria entificazione del negativo, bensì la
stessa impossibilità (lo stesso autoannullarsi, dunque) di una alterità
fronteggiante il Principio. Esso viene a corrispondere dunque ― sia
pure indirettamente, e attraverso un giro insolito di considerazioni ―
al nihil di cui parla la classica formula: productio ex nihilo.
La relazione «Essere–Nulla» è appunto detta da Sciacca «il primo
dialettico metafisico»148: «dialettico rispetto al Nulla, implicito nell’atto
creativo, che non sarebbe propriamente tale se prima della creazione
fosse qualcosa altro dall’Essere»149. E la formula classica parla appunto
di una productio rei, che avviene ex nihilo sui et subjecti150.
Inteso in questo senso, il discorso di Sciacca risulta pertinente ed
acuto. L’enfasi meontologica che esso contiene, del resto, è dovuta al-
la attenzione che rivolge allo status della creatura, la quale viene a tro-
varsi appunto al crocevia tra il proprio radicamento ontologico e la
familiarità col «nulla»; da intendersi, quest’ultima, nel preciso senso
che ciò che la creatura ha di proprio ― se considerata nella sua auto-
nomia rispetto all’atto creatore ― è precisamente nulla151: quel nulla
che si trova, quindi, come limite asintotico della pretesa di assolutezza
della creatura. Asintotico, diciamo, perché propriamente irraggiungi-
bile, e solo approssimabile per le vie della «dissolutezza»152, cioè del
disordine morale con cui l’esistente finito può cercare di sottrarsi al
proprio radicamento creaturale ― rimanendo condannato per altro alla
parassitarietà nei confronti dell’essere e del suo ordine intrinseco153.
148
Da cui viene «il primo dialettico ontologico: Essere assoluto creante dal Nulla–essere
relativo creato» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 80).
149
«Solo il principio della creatio ex nihilo, da un lato, fa che l’Essere sia trascendente,
infinito, eterno, immutabile in senso proprio, assoluto o sciolto [...]; dall’altro, che l’essere
creato finito sia un essere altro dall’Essere e perciò con un suo essere» (cfr. M.F. Sciacca, On-
tologia triadica e trinitaria, p. 20).
150
Dove il sui è riferito alla res creanda.
151
«L’ente finito esiste come relativo e perciò [...] pensarlo non in relazione, non è dargli
l’autosufficienza, ma negargli il suo essere, annientarlo» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadi-
ca e trinitaria, p. 62).
152
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 121.
153
«Il suo sbocco non è l’affermazione del ‘Nulla è’, che afferma ancora l’essere anche se
contraddittoriamente, inclusa nella conclusione tutto è nihil, ma la vanificazione nell’‘invano’,
nel nihil dello stesso Nulla: quel che ha fatto, il nientificare, è per niente; l’ad aliquid del Ni-
hilum è nihil, ‘invano’. È l’absurdum, conclusione di chi si è fatto surdus, ‘non disposto’ al
suo essere e all’Essere e perciò ‘ripugnante’ all’uno e all’altro» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia
triadica e trinitaria, p. 118).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 317
La produzione ex nihilo è libera. Il riferimento esplicito di Sciacca
è qui ad Agostino: «Ubi nulla indigentia, nulla necessitas; ubi nullus
defectus, nulla indigentia. Nullus autem defectus in Deo: nulla ergo
necessitas»154. Ma, sullo sfondo, resta anche un implicito riferimento
alla tradizione scotista: quella secondo cui una produzione non libera
coinvolgerebbe il Creatore nel divenire del creato155.
Se la creazione è libera, il Principio creatore è Persona156. Ora, la li-
bertà della persona originaria dice che essa non va pensata come «cau-
sa». Quella di causa, infatti, è una categoria cosmologica che implica
la reciprocità simmetrica dei relati (non c’è effetto senza causa, ma
neppure causa senza effetto). Dunque, la causa non sarebbe tale senza
il suo effetto; mentre il Principio rimane tale anche senza il mondo da
esso principiato157.
Si può notare, di passaggio, che questa posizione teorica è reperibi-
le anche nella migliore tradizione scolastica; per la quale «habitudo ad
causam non est de ratione entis simpliciter»158, e quindi “causa” non è
un nome dell’essere, né uno dei nomi di Dio ― al cui significato non
appartiene infatti di produrre (né se stesso né il mondo).
Se il Principio creatore è libero, il creato è contingente: essendo la
contingenza, propriamente intesa, il correlato oggettivo della libertà159.
Dire che il finito è contingente, significa riconoscere che esso non è
un «accidente» del Principio, qualcosa che a quest’ultimo accada; ma
è piuttosto il frutto di una generosità gratuita160. Ora, la gratuità non è
l’atteggiamento proprio di un padrone (pronto a trasformarsi dialetti-
camente in servo), bensì quello di un amico. E, al riguardo, Sciacca
opportunamente annota che «‘Onnipotente’, non è ‘potente’: la Poten-
154
Cfr. Agostino, De diversis quaestionibus, 83, q. 22 (citato in: M.F. Sciacca, Ontologia
triadica e trinitaria, p. 48).
155
Si pensi, emblematicamente, ad un’opera un tempo attribuita allo stesso Scoto: cfr.
(Vitale del Forno?), De rerum principio, IV, 1, 1.
156
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 47.
157
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, pp. 66–68.
158
Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, a. 1, ad 1um.
159
Sciacca mostra appunto di avere, della contingenza, una nozione appropriata (cfr. M.F.
Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, pp. 61 ss.).
160
«Se il finito è della stessa sostanza divina e una sua emanazione necessaria, esso entra
nella costituzione dell’Essere infinito: si perdono l’Essere e il finito, che del primo è
un’apparenza, un semplice ‘accidente’, l’accidere o il ‘cadere’ della sostanza stessa» (cfr.
M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 71).
318 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
za è ‘imperialista’; solo l’Onnipotente è l’Amico»161. Solo l’onni-
potenza, infatti, esclude l’indigenza, e introduce la possibilità della as-
soluta gratuità dell’iniziativa.
La relazione di analogia tra il Creatore e la creatura, non è una in-
venzione fantasiosa dei filosofi, ma è qualcosa che risulta posto da
Dio con la creazione stessa. La stessa dottrina rosminiana (da Sciacca
accolta)162 che interpreta l’essere iniziale come il frutto, ultimamente,
di una «astrazione divina», non è altro che un tentativo di dar conto di
come sia possibile ciò che in effetti è possibile: e cioè, risalire, lungo
il filo di una qualche univocità ontologica iniziale163, a ricostruire
l’analogia che sussiste tra l’esistente finito e l’Essere infinito.
Dunque, “contingente” è il nome metafisico dell’ente finito. Lo sta-
tuto del finito, però, non va frainteso: il finito «non ha e non è solo
quello che non gli è dovuto, e se l’avesse cesserebbe di essere l’essere
che è». Si può parlare dunque, non solo di una positività, ma anche di
una «perfezione» del finito164.
Più precisamente, l’atto creatore costituisce la creatura proprio nel
limitarla. E ciò accade in due sensi: da un lato, la determinata realtà
finita (A), per essere se stessa, non potrà essere insieme anche la realtà
finita diversa da sé (B, C, o altro ancora); d’altra parte, tale realtà non
potrà neppure coincidere con lo stesso Essere infinito165. Dunque, il
limite le è, in più sensi, essenziale. Liberarsi del proprio limite equi-
varrebbe allora, per la realtà finita, a liberarsi di sé: annullarsi, al limi-
te; di fatto, perdersi166. Del resto, la dissolutezza esistenziale che trop-
161
Cfr. M.F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, p. 70.
162
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 89.
163
«Cessa l’univocità e c’è solo analogia, però tale relazione analogica è possibile in
quanto si fonda sulla univocità della predicazione della pura esistenza» (cfr. M.F. Sciacca,
Ontologia triadica e trinitaria, p. 61). Il modello di una tale univocità è Scoto: a questo ri-
guardo, si veda, del presente volume, il cap. 4 della Parte Terza (in particolare, la nota 87).
164
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 63. L’atto creatore, «limitando il
finito [non] lo priva di qualcosa, in quanto l’atto del limitare non nega e non priva, cioè non
toglie niente di ciò che al finito stesso è necessario e dovuto per natura» (cfr. ibi, p. 64).
165
«Due le forme dialettiche di limitazione: a) degli enti tra loro: a ogni ente è necessaria
l’unità, dunque ogni ente esclude gli altri con cui è in relazione, che sono altrettanti suoi limi-
ti, ma solo così è l’ente che è e non un altro; b) di ogni ente finito che, in quanto tale, esclude
l’identità con l’Essere infinito con cui è in relazione ontologica» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia
triadica e trinitaria, p. 64).
166
«Se l’uomo si potesse liberare dei suoi limiti, da cui nasce il problema di Dio [...], non divente-
rebbe Dio, ma annienterebbe se stesso» (cfr. M.F. Sciacca, Gli arieti contro la verticale, p. 62).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 319
pe volte segna la vita dell’esistente finito, nasce proprio dall’incom-
prensione, se non dall’odio, nei confronti del limite: quell’odio cui la
tradizione gnostica ha dato nei secoli voce teorica.
Sciacca dà poi del limite una audace interpretazione metafisica. «Il
non–essere cacciato nel Nulla entra nell’atto creativo ex nihilo come
limite dell’essere creato ― il salto ontologico tra l’Essere che è in Sé–
da Sé e l’essere che è dall’Essere ―, cioè entra positivamente, giacché
il finito è per [e non nonostante] i suoi limiti»167. Più precisamente, il
limite è tutto il non–essere che è consentito dalla essenziale positività
dell’originario168: tant`è vero che il non–essere del limite si costituisce
sempre come un “altro”, cioè come un che di positivo. La privazione,
invece, è da mettere su di un diverso conto; che non è più, almeno
formalmente, quello riconducibile all’atto creatore169.
Non è difficile cogliere, nella analisi che Sciacca riserva al finito, una
sorta di alternativa radicale alla dialettica hegeliana del Dasein170. La Be-
stimmung del finito171 ― sembra dirci il nostro autore ― non si compie in
dimensione «orizzontale», e cioè nella risoluzione sua nell’infinito qual è
teorizzata dall’idealismo hegeliano; ma è orientata piuttosto in dimensio-
ne «verticale», in direzione di un compimento ultramondano. Non si può
certo negare la relazionalità reciproca dei finiti, e Sciacca la riconosce
pienamente; ma neppure si può negare l’inadeguatezza dei finiti ― sia
pure assunti a complesso ― rispetto all’essere iniziale; né le conseguenze
metafisiche che da tale inadeguatezza derivano.
167
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 47.
168
Cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, p. 48.
169
Su questa questione cfr. M.F. Sciacca, Ontologia triadica e trinitaria, cap. III. «Con la
creazione ha inizio il mondo, non il male: [...] creare è dare l’essere, perciò ‘creare il male’ è
espressione senza senso in quanto significa dare essere a ciò che è negazione di essere. Né vi
è alcunché, non la materia né un principio eterno del male, contrario all’Essere: prima della
creazione è solo l’Essere creante e quel che non è l’Essere, il Nulla. L’essere o è sommamente
ed è l’Essere, o è un essere altro dall’Essere ed è creato da Lui. Il male procede dagli esseri in-
telligenti finiti creati buoni da Dio e, in quanto intelligenti, liberi; non è niente di positivo, ma
privazione di essere: ‘amissio boni, male nomen accepit’» (cfr. ibi, pp. 81–82).
170
Potremmo indicarla come la dialettica di “determinatezza” [Bestimmtheit], “limite”
[Grenze] e “infinità” [Unendlichkeit] (cfr. G.W.F. Hegel, Enziklopädie der philosophischen
Wissenschaften im Grundrisse [1830], in Gesammelte Werke, hrsg. von der Rheinisch–
Westfälischen Akademie der Wissenschaften. Band 20, unter Mitarbeit von U. Rameil hrsg.
von W. Bonsiepen ― H. Christian Lucas, F. Meiner, Hamburg 1992, Erster Teil, §§ 89–95.
171
Cfr. G.W.F. Hegel, Enziklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse
(1830), Erster Teil, § 95.
320 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
Il non–essere come costitutivo del finito ― e, in quanto tale, non
confondibile col nulla172 ― è il corrispettivo della hegeliana negazione
interna al finito173. Senonché, in riferimento al finito esistente (cioè al
finito propriamente detto, che è l’uomo), tale negazione interna acqui-
sta l’aspetto, positivo quant’altri mai, della disequazione tra «autoco-
scienza» e «interiorità oggettiva»: l’aspetto di quella che Sciacca
chiama la «coscienza dell’autocoscienza»174.
9. Conclusione
La metafisica creazionistica, decisivo approfondimento della «fi-
losofia dell’integralità», tutela ― come abbiamo visto ― almeno tre
verità di sommo rilievo: il carattere assoluto dell’Essere infinito, e
quindi la sua trascendenza rispetto all’ente finito; la relativa ma au-
tentica positività di quest’ultimo; il carattere ultimamente personale
di entrambi.
Ma, la creazione non è qualcosa che si compia indipendentemente
dall’iniziativa della creatura libera. Sciacca usa il termine rosminiano
«inoggettivazione» per indicare la capacità, propria dell’esistente fini-
to, di assecondare creativamente la gravitazione universale del senso:
corrispondenza analogica umana, questa, della creazione divina175.
Neppure si può dimenticare che la metafisica della creazione si
fonda su quegli stessi presupposti elementari, ed elencticamente ri-
scattabili, che rendono possibile l’esercizio del dubbio. Così si può di-
re che, i principi che consentono di decifrare lo scenario permanente
delle verità ultime, sono gli stessi che consentono anche il ragionevole
172
Cioè, con quello che Hegel chiama das abstrakte Nichts (cfr. G.W.F. Hegel, Enziklo-
pädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse [1830], Erster Teil, § 91).
173
Cfr. G.W.F. Hegel, Enziklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse
(1830), Erster Teil, § 91.
174
Cfr. M.F. Sciacca, L’interiorità oggettiva, pp. 103–104.
175
«Nel procedere inoggettivandosi [...] l’uomo, in analogia con l’Essere creante, è crea-
tivo [...]. Non è passivo rispetto alla totalità, ma sta in relazione dinamica con essa, la com-
prende in modo creativo [...]. L’inoggettivazione è la responsabilità creativa dell’uomo, il suo
impegno permanente, la missione del rinnovare e dell’innovare che, l’opposto del distruggere
e del deformare, coincide con il conservare per rinnovare» (cfr. M.F. Sciacca, Ontologia tria-
dica e trinitaria, p. 148).
Capitolo II: Metafisica e antropologia in Sciacca e in Rosmini 321
esercizio della dubitazione ― e questo, in duplice opposizione al
dogmatismo degli scettici di ieri e di oggi.
Si potrebbe dire, in conclusione, che la metafisica della creazione
custodisca in sé la sintesi autentica della «cultura occidentale», e an-
che il miglior antidoto contro le degenerazioni «occidentalistiche» di
questa; oltre che lo stimolo permanente a che essa non abdichi alla
propria insostituibile responsabilità verso le sorti del mondo intero176.
176
Per lo sviluppo di questi temi nel pensiero sciacchiano, ci si può riferire indicativamen-
te a testi quali: M.F. Sciacca, L’ora di Cristo (1953), Marzorati, Milano 1973 (in seguito rie-
ditato come vol. 37 delle Opere Complete di Michele F. Sciacca); Id., L’oscuramento
dell’intelligenza, Marzorati, Milano 1970 (in seguito rieditato come vol. 32 delle Opere Com-
plete di Michele F. Sciacca).
322 Parte quarta: studi sull’ontologia della persona
PARTE QUINTA
STUDI SU ETICA E UNIVERSALITÀ
323
324 Parte quinta: studi su etica e universalità
CAPITOLO I
LO SCHEMATISMO NELL’ETICA KANTIANA
1. Una premessa
Lo schematismo risulta essere una chiave di lettura, centrale e uni-
ficante, che meglio di altre sa dare accesso al discorso critico di Kant1.
Più in particolare, non è difficile riconoscere come, il motivo ispi-
ratore della Prima Critica stia nella proposta galileiana di leggere la
natura in relazione a modelli geometrici (prototipi degli schemi), e di
operare su di essi per formulare le leggi della natura fisica in un lin-
guaggio omogeneo alle categorie intellettuali, che possa trovare con-
ferma o smentita nella «sensata esperienza»2. Infatti, è solo in riferi-
mento al tentativo, galileiano prima e newtoniano poi, di interpretare i
1
Indichiamo i criteri secondo i quali verranno citate, nel presente capitolo, le opere kan-
tiane. A ognuna corrisponderà una sigla, che verrà seguita ― nell'ambito della citazione ― da
indicazioni corrispondenti alla traduzione italiana utilizzata. I testi citati riporteranno normal-
mente, entro parentesi quadra, quelle espressioni del testo tedesco corrispondente, che si riter-
rà opportuno richiamare all’attenzione.
2
Non si può evitare in proposito il riferimento al celebre brano della Prefazione alla se-
conda edizione della Prima Critica, in cui Kant fa esplicito riferimento a Galileo e implicito
riferimento alla riconduzione che questi faceva del moto naturalmente accelerato alla figura di
un triangolo rettangolo, su cui operare matematicamente per «porre domande» alla natura in
termini, appunto, matematici, e reperirne le risposte attraverso esperienze appositamente pro-
gettate e opportunamente replicate. Cfr. Kritik der reinen Vernunft (1787) ― d’ora in poi:
KrV ―; trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo–Radice, pp. 18–19. Per quanto riguarda il rife-
rimento a Galileo, si veda: G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due
nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali (1638), a cura di E. Giusti, Ei-
naudi, Torino 1990, «Giornata Terza», pp. 183 ss.
325
326 Parte quinta: studi su etica e universalità
fenomeni fisici attraverso regole che valgano nelle modellizzazioni
geometriche di questi, che acquistano senso compiuto le celebri pagi-
ne da Kant dedicate allo «schematismo dei concetti puri dell’intellet-
to» nella Critica della ragion pura3.
Se non che, già nella medesima opera ― dove si parla di «dottrina
trascendentale del metodo» ―, il nostro autore sembra suggerire la
possibilità di una considerazione dello schema che non sia limitata
all’ámbito teoretico, ma che si allarghi piuttosto ad abbracciare ogni
ámbito del sapere, purché questo intenda strutturarsi non solo «tecni-
camente» (cioè, secondo un filo conduttore ultimamente accidentale),
ma anche «architettonicamente», cioè secondo un filo conduttore che
svolga l’essenza del tema considerato4.
Non per caso, dunque, si può osservare che, anche in opere come la
Critica del giudizio e La religione nei limiti della semplice ragione, lo
schematismo funziona come segreto centro di unificazione del discor-
so, sia pure inteso ― lo schematismo ― in un senso «analogico» o
«riflettente»; in quanto gli schemi, questa volta, non sono più assunti
come fattori determinanti, bensì solo come fattori interpretanti, cioè
3
Quelle pagine sono troppo note per dover essere qui esposte, col rischio poi di sbilancia-
re indebitamente l’economia complessiva del presente scritto. Ci pare opportuno, però, ri-
chiamare almeno la definizione che in esse Kant propone dello schema, introducendola attra-
verso una rilevante connotazione negativa. «Lo schema» ― afferma Kant ― «è sempre, in se
stesso, soltanto un prodotto della immaginazione; ma, poiché la sintesi di questa mira, non a
una singola intuizione, sibbene solo all’unità nella determinazione della sensibilità, lo schema
è da distinguere dall’immagine. [...] Ora io chiamo schema di un concetto la rappresentazione
di procedimento generale onde l’immaginazione porge a esso concetto la sua immagine
[Bild]». Per esempio, «al concetto di triangolo in generale nessuna immagine di esso sarebbe
mai adeguata. Essa infatti non adeguerebbe quella generalità del concetto, per cui esso vale
tanto pel rettangolo quanto per l’isoscele ecc.; ma resterebbe sempre limitata solo a una parte
di questa sfera. Lo schema del triangolo non può esistere mai altrove che nel pensiero, e signi-
fica una regola della sintesi della immaginazione [bedeutet eine Regel der Synthesis der Bil-
dungskraft] rispetto a figure pure nello spazio» (cfr. KrV, Analitica trascendentale, Libro II,
cap. I, p. 165).
4
«L’idea per l'esecuzione ha bisogno d’uno schema, ossia d’una molteplicità essenziale e
d’un ordine delle parti determinati a priori dal principio del fine. Lo schema, che non è abboz-
zato secondo un’idea, cioè giusta il fine principale della ragione, ma empiricamente, secondo
scopi che si presentano accidentalmente, dà un’unità tecnica; ma quello, che non sorge se non
da una idea, fonda un’unità architettonica [...]; il cui schema deve contenere, in conformità
dell’idea, cioè a priori, il quadro (monogramma) e la divisione del tutto nelle sue membra, e
deve distinguere questo, con certezza e secondo principi, da tutti gli altri» (cfr. KrV, Dottrina
trascendentale del metodo, cap. III, p. 630).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 327
che intervengono a leggere un’esperienza che già si è costituita: e che
è, precisamente, quella che ha come contenuto il mondo della natura
(come nel caso del «bello» e del «fine», di cui tratta la Terza Critica),
oppure quella che ha come contenuto la vita morale (come nel caso
delle «rappresentazioni religiose», cui è dedicata l’opera del 1793).
2. Lo schematismo nell’etica
Lo schematismo, però, gioca un ruolo decisivo ― presso Kant ―
anche nel costituirsi dell’etica5. Si pensi in proposito alla seconda se-
zione della Fondazione della metafisica dei costumi. Qui, l’imperativo
morale6 viene presentato come «legge necessaria per tutti gli esseri ra-
zionali», appartenente alla «volontà di un essere razionale in genera-
le»7: una legge mediante la quale, «la natura razionale»8 si presenta a
5
Eloquente, al riguardo, è l’analogia che qualcuno ha rilevato, in Kant, tra il modo di
«costruire» le figure della matematica e quello di «costruire» le figure dell’etica: «Così, nel
singolo triangolo–token vi è il triangolo–type, così come nella singola promessa–token vi è
la promessa–type, e nella massima conforme alla legge morale vi è la forma della legge
morale. In questo senso, il paradigma epistemologico della matematica ‘considera il con-
cetto in concreto, e pur nondimeno non empiricamente’: nel token v’è il type, nell'ente v’è
l’essenza» (cfr. G. Azzoni, Filosofia dell’atto giuridico in lmmanuel Kant, CEDAM, Pado-
va 1998, pp. 46–52).
6
Non è certo nostro intendimento soffermarci sulle differenti formulazioni che
l’imperativo riceve nelle pagine della Fondazione, né tanto meno ricostruire il dibattito critico
che intorno a questa varietà di formulazioni si è sviluppato. Ci limitiamo a richiamare la più
completa rassegna delle differenti formulazioni dell’imperativo nella Fondazione ― quella
offerta a suo tempo da H.J. Paton (cfr. The Categorical Imperative. A Study in Kant’s Moral
Philosophy, The University of Chicago Press, Chicago 1948, Book III, ch. XIII, § 1) e ripresa
di recente in modo analitico da A. Pirni (cfr. Il “regno dei fini” in Kant. Morale, religione,
politica in collegamento sistematico, Il Melangolo, Genova 2000, cap. 1) ―, e a indicare nella
prima (I) delle cinque formule indicate da Paton, quella che meglio esprime il senso dell’etica
kantiana. Essa suona così: «agisci soltanto secondo quella massima per mezzo della quale
puoi insieme volere che essa divenga una legge universale [allgemeines Gesetz]» (cfr. Grun-
dlegung zur Metaphysik der Sitten [1785] ― d’ora in poi: G–; trad. it. di F. Gonnelli, sez. II,
p. 75). Tale formula assorbe in sé anche quella elencata da Paton come la Ia ― «agisci come
se la massima della tua azione dovesse diventare per mezzo della tua volontà una legge uni-
versale della natura [allgemeines Naturgesetz]»; la quale semplicemente mette in evidenza
come il termine «natura» indichi, presso Kant, «l’esistenza delle cose in quanto è determinata
secondo leggi universali» (cfr. ibi, p. 75).
7
Wille eines vernünftigen Wesens überhaupt (cfr. G, sez. II, p. 87).
8
Die vernünftige Natur.
328 Parte quinta: studi su etica e universalità
se stessa come «fine in sé»9, e come autrice di una «legislazione uni-
versale»10, che presiede a un «regno dei fini» [Reich der Zwecke]11.
Ora, nell’etica kantiana l’equivalente dello schema è l’immagine
pura di una comunità universale e operante degli esseri razionali; la
quale ancora non coincide con il «regno dei fini», che di quella è
piuttosto l’attuazione in forma ideale. Più precisamente,
l’imperativo mi dice di agire così che il principio che guida la mia
azione possa essere assunto, in modo consistente, dall’universo de-
gli esseri di natura razionale. Ma tale universo razionale non esiste
empiricamente: è piuttosto una «idea pratica». E, per poter interve-
nire efficacemente a regolare la «massima» dell’azione, tale idea
pratica deve funzionare, appunto, come uno «schema», che possa
assumere sotto di sé «i casi dell’esperienza»12. In altre parole,
quell’ideale che è il «regno dei fini» deve essere reso omogeneo
all’esperienza morale concreta, attraverso una schematizzazione:
quella offerta da una comunità universale e operante di esseri ra-
zionali. Quest’ultimo è quindi il modello che agisce nelle celebri
esemplificazioni applicative dell’imperativo, che troviamo anzitutto
9
Zweck an sich selbst (cfr. G, sez. II, p. 91).
10
Allgemeine Gesetzgebung (cfr. G, sez. II, p. 99).
11
«Il concetto secondo il quale ogni essere razionale deve considerarsi come universal-
mente legislatore per mezzo di tutte le massime della sua volontà, per giudicare se stesso e le
sue azioni da questo punto di vista, conduce ad un concetto [Begriff], molto fecondo, che ne
consegue, ossia quello di un regno dei fini. Ma io intendo, per regno, l’unione sistematica di
diversi esseri razionali attraverso leggi comuni. Ora, poiché le leggi determinano i fini in base
alla validità universale di questi ultimi, se si astrae dalle differenze personali degli esseri ra-
zionali e da ogni contenuto dei loro fini privati, può essere pensata una totalità di tutti i fini in
una connessione sistematica, ossia un regno dei fini, che sia possibile secondo i principi sud-
detti. Infatti gli esseri razionali stanno tutti sotto la legge secondo cui ognuno di essi deve trat-
tare se stesso e ogni altro mai semplicemente come mezzo, bensì sempre insieme come fine in
sé. Con ciò, però, sorge una unione sistematica di esseri razionali attraverso leggi oggettive
comuni, ossia un regno, il quale, poiché queste leggi hanno appunto per scopo il rapporto di
questi esseri tra loro come fini e mezzi, può chiamarsi un regno dei fini (che certo è solo un
ideale [ein Ideal]» (cfr. G, sez. II, pp. 99–101).
12
Kant si esprime al riguardo, nel modo più chiaro, nella Metafisica dei costumi, dove
leggiamo: «Come si richiede un passaggio che conduca dalla metafisica della natura alla fisica
per mezzo di sue regole particolari, così si domanda con ragione alla metafisica dei costumi di
fornirci un passaggio analogo, vale a dire di schematizzare in qualche modo i principi puri del
dovere applicandoli ai casi dell’esperienza [durch Anwendung reiner Pflichtprincipien auf
Fälle der Erfahrung jene gleichsam zu schematisiren], per averli pronti per l’uso morale pra-
tico che se ne deve fare» (cfr. Die Metaphysik der Sitten [1797] ― d’ora in poi: Met –; trad. it.
di G. Vidari, riveduta da N. Merker, Dottrina degli elementi dell'etica, § 45, p. 343).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 329
nella Fondazione ― ma anche, più tardi, nelle sezioni di etica spe-
ciale con le quali si conclude la Metafisica dei costumi.
È lo stesso Kant a istituire, in modo esplicito, un parallelo analogico
tra l’universale validità legislativa dell’imperativo proprio della volontà, e
l’universale validità legislativa delle leggi proprie della natura fisica13; e
quindi tra la produzione di azioni possibili (o non internamente contrad-
dittorie) che l’imperativo consente, e l’esistenza di «cose secondo leggi
universali»: espressione, quest’ultima, che corrisponde a quella ― con-
sueta nella Prima Critica e nei Prolegomeni ― di «oggetti dell’esperien-
za»14. Ora, se la capacità dell’imperativo di dar forma all’azione dell’uo-
mo è analoga alla capacità delle leggi della natura15 di dar forma agli og-
getti dell’esperienza, ne risulta anche un’analoga esigenza di mediazione
schematica tra l’elemento puramente formale (o legale) e l’elemento me-
ramente materiale, che concorrono ― nel modello critico kantiano ― a
comporre il concreto dell’esperienza (fisica o morale che essa sia).
Non a caso, nella Critica della ragion pratica, dopo aver parlato
esplicitamente di «materia» [Materie] e di «forma» [Form] nell’ambi-
to della vita pratica, Kant introduce come esempio di mediazione tra le
due dimensioni il celebre caso del «deposito», che ― come gli analo-
ghi casi descritti nella Fondazione, e dei quali diremo nel seguito ―
corrisponde a una schematizzazione di tipo, appunto, pratico16.
13
«È assolutamente buona quella volontà che non possa essere cattiva, quindi quella la cui
massima non possa mai, quando viene elevata a legge universale, contraddire se stessa [sich
selbst niemals widerstreiten kann]. Questo principio è dunque anche la sua legge suprema: agisci
sempre secondo quella massima la cui universalità, come legge, tu possa anche volere; questa è
l’unica condizione sotto la quale una volontà non può mai essere in contrasto con se stessa [unter
der ein Wìlle niemals mit sich selbst im Widerstreite sein kann], e un tale imperativo è categori-
co. Poiché la validità della volontà, come legge universale per azioni possibili, ha analogia [Ana-
logie] con la connessione universale dell’esistenza delle cose secondo leggi universali, che costi-
tuisce ciò che è formale della natura; in generale, allora l’imperativo categorico può essere e-
spresso anche così: ‘agisci secondo massime che possano insieme avere ad oggetto se stesse in
quanto leggi universali della natura’» (cfr. G, sez. II, p. 109).
14
Cfr. KrV, Analitica trascendentale, Lib. I, cap. II, sez. II, p. 176. Cfr. anche Prolegome-
na zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können (1783), in
Kant's gesammelte Schriften, Band IV; trad. it. di P. Carabellese, riveduta da R. Assunto e H.
Hohenegger, col titolo: Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come
scienza, Laterza, Roma – Bari 1996, § 16, p. 99.
15
Si pensi qui agli «assiomi dell’intuizione», alle «anticipazioni della percezione», alle «analo-
gie dell’esperienza» e ai «postulati del pensiero empirico», di cui Kant parla nella Prima Critica.
16
«Quale forma nella massima si adatti alla legislazione universale, quale no, questo lo
può distinguere, senza bisogno d’istruzione, l’intelletto più comune» ― scrive Kant ―; e pro-
330 Parte quinta: studi su etica e universalità
Lo schema della comunità universale e operante, per come emerge
dai test di universalizzazione17, è dunque un’immagine generativa o
un’immagine–regola, che può confermare o meno la moralità della
massima in questione ― rendendo in tal modo accessibile la legge
morale a chi, per conoscere, ha bisogno dell’«intuizione» [An-
schauung]18. Il regno dei fini, invece, è un ideale di perfezione nou-
menica19, che viene concepito (originariamnente o spontaneamente)
cede con l’ipotesi di uno stile di vita che, proponendosi il guadagno purchessia, preveda anche
la massima di non restituire i beni di cui si sia depositari, e che nessuno possa documentata-
mente rivendicare. «Io vedo subito che un tal principio come legge, distruggerebbe se stesso,
perché farebbe sì che non vi sarebbe più alcun deposito [lch werde sofort gewahr, daß ein sol-
ches Prinzip als Gesetz sich selbst vernichten würde, weil es machen würde, daß es gar kein
Depositum gäbe]. Una legge pratica, che io riconosca per tale, deve rendersi atta alla legisla-
zione universale; questa è una proposizione identica, e quindi chiara per sé. Ora, se io dico
che la mia volontà è soggetta a una legge pratica, non posso addurre la mia inclinazione [Nei-
gung] (per esempio, nel caso presente la mia cupidigia) come motivo determinante [als Be-
stimmungsgrund] di essa, conveniente a una legge pratica universale; perché
quest’inclinazione, ben lungi da poter essere atta a una legislazione universale, deve piuttosto
distruggere se stessa nella forma di una legge universale [muß sie vielmehr in der Form eines
allgemeinen Gesetzes sich selbst aufreiben]» (cfr. Kritik der praktischen Vernunft [1788] ―
d’ora in poi: KpV –; trad. it. di F. Capra, riveduta da E. Garin, Analitica della ragion pura pra-
tica, cap. I, § 4, scolio, p. 57).
17
Con l’espressione «test di universalizzazione» si usa indicare quella che,
nell’elencazione di Paton, è la formulazione Ia dell'imperativo kantiano (si veda la precedente
nota 6). Sull’uso dell’espressione “test di universalizzazione” cfr. Pirni, Il “regno dei fini” in
Kant, p. 24.
18
«Se si vuole anche procurare accessibilità [Eingang] alla legge morale, è assai utile far
passare una stessa azione attraverso i tre concetti sopra indicati, e con ciò avvicinarla, per
quanto sia possibile, all’intuizione [Anschauung]». E i tre concetti in questione sono: la «for-
ma» universale della legge; la «materia» finalistica della medesima (dove il fine adeguato per
ogni massima d'azione è das vernünftige Wesen, cioè la persona); e la «determinazione com-
pleta» di tutte le massime, secondo la formula per cui esse «devono accordarsi con un possibi-
le regno dei fini, come fosse un regno della natura» (cfr. G, sez. II, p. 107).
19
L’«ideale» [ldeal] è, per Kant, «l’idea non semplicemente in concreto, ma in individuo,
cioè come una cosa particolare o addirittura determinata soltanto mediante l’idea». Per esem-
pio: «La virtù e con essa la sapienza umana, in tutta la loro purezza, sono idee. Ma il sapiente
è un ideale, cioè un uomo, che esiste solo nel pensiero, ma corrisponde pienamente all’idea
della sapienza. Come l’idea dà la regola, così l’ideale [...] serve di modello alla perfetta de-
terminazione della copia; e noi non abbiamo altro criterio per giudicare le nostre azioni che la
condotta di questo uomo divino in noi, col quale noi possiamo paragonarci, giudicarci, e così,
migliorarci, quantunque non ci sia possibile mai raggiungerlo. Questi ideali, sebbene non si
possa loro attribuire realtà oggettiva (esistenza), non sono perciò da considerare per chimere,
anzi offrono un criterio alla ragione, che ha bisogno del concetto di quel che nel suo genere è
perfetto, per apprezzare alla sua stregua e misurare il grado e il difetto dell’imperfetto. Ma vo-
ler realizzare l’ideale in un esempio [Beispiel], cioè nel fenomeno, come, poniamo, il saggio
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 331
dal pensiero puro. Come ideale della ragione, esso supera i limiti
dell’immagine, ovvero non è realmente captabile in essa, per quanto
«pura» questa possa essere a sua volta.
3. L’«idea pratica»20
Lo schema, nella filosofia pratica di Kant, compare sovente sotto la
denominazione di «idea pratica»21
in un romanzo, è impraticabile, e oltracciò ha in sé un che di assurdo e di poco edificante, in
quanto i limiti naturali, che derogano continuamente alla perfezione dell’idea, rendono in tale
tentativo impossibile ogni illusione, e però perfin sospetto il bene che è nell’idea, e simile a
una semplice finzione. Così è dell’ideale della ragione, che deve sempre esser fondato su con-
cetti determinati e servire di regola e di modello, sia per attenervisi sia per giudicare». Nel
prosieguo, l’autore ha anche cura di distinguere gli ideali dai prodotti dell’immaginazione,
cioè, in generale, dagli schemi. (Cfr. KrV, Dialettica trascendentale, Lib. II, cap. III, sez. I, pp.
452– 453).
20
Presso Kant, l’uso del termine «idea» è polisenso, e va al di là delle ben note «idee della
ragione», alle quali è dedicata la «Dialettica» della Prima Critica. Si pensi, al riguardo, non
solo all’idea pratica ― di cui ora diremo ―, ma anche all’«idea estetica» [ästhetische Idee],
di cui parla la Critica del giudizio. L’idea estetica ― diversamente dall’idea della ragione ―
è una sorta di schema non–determinante, in analogia con quel che è l’idea pratica. Leggiamo:
«Si possono chiamare idee queste rappresentazioni dell’immaginazione; sia perché esse ten-
dono, almeno, a qualcosa che sta al di là dei limiti dell’esperienza, e cercano così di appros-
simarsi a un’esibizione dei concetti della ragione (delle idee intellettuali), ciò che dà loro u-
n'apparenza di realtà oggettiva; e sia perché, ciò che è capitale, nessun concetto [empirico]
può esser loro completamente adeguato (in quanto intuizioni interne)» (cfr. Kritik der Urteil-
skraft [1790] ― d'ora in poi: KU –; trad. it. di A Gargiulo, riveduta da V. Verra, § 49, pp. 305
e 311). Le idee estetiche si distinguono dalle idee della ragione, in quanto, le prime «sono ri-
ferite ad una intuizione secondo un principio puramente soggettivo»; queste ultime, invece,
«sono riferite ad un concetto secondo un principio oggettivo» (cfr. ibi, § 57, Nota I, p. 363).
21
Di difficile decifrazione, appare una nota della Fondazione, nella quale il nostro autore
introduce una duplice considerazione del «regno dei fini»: dal punto di vista teleologico, esso
è inteso come un’«idea teoretica»; dal punto di vista morale, esso è inteso come un’«idea pra-
tica». «La teleologia considera la natura come un regno dei fini, la morale considera un possi-
bile regno dei fini come un regno della natura. Nel primo caso il regno dei fini è un’idea teo-
retica [eine theoretische Idee] per la spiegazione di ciò che esiste. Nel secondo è un’idea pra-
tica [eine praktische Idee], secondo cui ciò che non esiste può invece diventare reale attraver-
so il nostro fare ed omettere, e appunto così da attuarlo in modo conforme a quest’idea» (cfr.
G, sez. II, p. 107). Rileviamo che, in entrambi i casi, «l’idea» in questione non corrisponde
all’idea pura, come appropriato oggetto della ragione. Piuttosto, in entrambi i casi «idea»
sembra indicare un’accezione analogica di schema. In particolare, l’«idea pratica» significa
qui la traduzione dell’ideale in una forma per quanto possibile intuitiva, ovvero omogenea alle
leggi dell’intuizione. In tal modo, l’espressione «regno dei fini» diviene ambivalente, desi-
gnando sia l’ideale sia la traduzione schematica a esso corrispondente.
332 Parte quinta: studi su etica e universalità
A illustrazione di questa figura, conviene considerare alcuni passi
della Critica della ragion pura. In particolare, nella Dottrina trascen-
dentale del metodo, essa viene suscitata proprio in riferimento a un
«mondo morale», i cui connotati corrispondono al già citato «regno
dei fini»22. L’idea pratica rappresenta, in quelle pagine, lo schema che
dà appoggio all’immaginazione, per consentirle così di progettare la
realizzazione di qualcosa che appartenga al regno dei fini23.
Ne La religione entro i limiti della semplice ragione, tra l’«ideale»
[das Ideal] ― della «perfezione morale»24 o dell’«umanità»25 ― e gli
«esempi dell’esperienza» [die Beispiele der Erfahrung], sta, come
mediatrice, l’«idea» [die Idee] ovvero il «modello» [Urbild] apriorico,
e comunque pratico e imitabile, di quell’ideale26. L’idea, intesa come
22
«Dico “mondo morale” il mondo conforme a tutte le leggi morali. Questo mondo così
vien pensato soltanto come mondo intelligibile, poiché in esso si astrae da tutte le condizioni e
anche da tutti gli ostacoli della moralità a esso inerente. Come tale, è dunque una semplice i-
dea [Idee], ma nondimeno pratica [praktische], la quale realmente può e deve avere il suo in-
flusso sul mondo sensibile, per renderlo, quanto è possibile, conforme a quest’idea» (cfr. KrV,
Dottrina trascendentale del metodo, cap. II, sez. II, p. 614). E ancora: «Questo sistema, della
moralità che ricompensa se stessa, non è se non una idea, la cui realizzazione» ― l’ipotesi che
si possa realizzare, dice che si tratta di un’idea pratica ― «riposa sulla condizione, che cia-
scuno faccia quello che deve, cioè che tutti gli atti degli esseri ragionevoli abbian luogo come
se derivassero da una superiore volontà, che comprendesse in sé o sotto di sé ogni privato ar-
bitrio» (cfr. ibi, p. 615). Nello stesso contesto, Kant riconduce il proprio «mondo morale» al
leibniziano «regno della grazia», accentuando con ciò l’assimilabilità del primo al «regno dei
fini» (cfr. ibi, p. 617).
23
Va comunque rilevato che, in quel contesto, il nostro autore usa il termine «idea» ― e
anche il sintagma «idea pratica» ― in accezioni diverse tra loro, e non sempre ben controllate.
Vi parla, infatti, di «idea pratica», anche per indicare l’«ideale del Sommo Bene» (cfr. ibi, pp.
616–618).
24
Cfr. Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft (1793) ― d’ora in poi:
Rel ―, in lmmanuel Kant. Werke in sechs Bänden, hrsg von W. Weischedel, Band IV, Wie-
sbaden 1956; trad. it. di V. Cicero, col titolo: La religione entro i limiti della semplice ragio-
ne, Rusconi, Milano 1996, cap. II, p. 159.
25
Cfr. Rel, cap. II, p. 169.
26
Secondo l’impianto illuministico de La religione entro i limiti della semplice ragione,
l’«ideale della perfezione morale» [das Ideal der moralischen Vollkommenheit] viene reso ac-
cessibile all’umana imitazione attraverso un «modello» [Urbild], ovvero un’«idea» [Idee] ―
l’«idea personificata del Principio buono» o idea del «Figlio di Dio» ―, il cui significato non
è però di tipo teorico, bensì pratico. In particolare, «l’ideale dell’umanità gradita a Dio [das
Ideal der Gott wohlgefälligen Menschheit] noi possiamo pensarlo unicamente in virtù
dell’idea di un uomo [Idee eines Menschen] che sia disposto [...] a compiere da solo tutti
quanti i doveri umani e, ad un tempo, a diffondere il Bene con l’insegnamento e con
l’esempio» (cfr. Rel, cap. II, pp. 157–159). Ora, «dal punto di vista pratico [in praktischer Be-
ziehung], questa idea ha la sua realtà completamente entro se stessa. La sua sede è infatti nella
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 333
modello avente funzione pratica, presiede a quello che il nostro autore
chiama «schematismo dell’analogia» [Schematism der Analogie], e
che egli distingue dallo «schematismo della determinazione dell’og-
getto» [Schematism der Objektsbestimmung]. L’idea, così intesa, e-
quivale dunque a uno schema, ma di valore pratico piuttosto che teore-
tico27: tant’è vero, che Kant le riconosce un potere, non di tipo deter-
minante, ma piuttosto di tipo analogante. Infatti, «schematizzare»
[schematisieren] nel senso ora indicato, vuol dire «rendere accessibile
un concetto mediante l’analogia con qualcosa di sensibile»; avendo
comunque cura di evitare quello che nella Seconda Critica è detto
«misticismo», e cioè il vizio di «concludere per analogia che ciò che
spetta al sensibile vada necessariamente attribuito anche al soprasen-
sibile (ampliando così il concetto)»28.
nostra ragione moralmente legislatrice. Noi dobbiamo conformarci a tale idea, ed è perciò ne-
cessario che si dia per noi la possibilità di farlo. [...] Non è in nostro potere, infatti, concepire
come la semplice idea di una conformità alla legge in generale possa costituire, per l’arbitrio,
un movente più potente rispetto a tutti gli altri moventi immaginabili derivanti dalla conside-
razione di eventuali vantaggi: ciò non può essere dimostrato né dalla ragione, né mediante il
ricorso a esempi tratti dall’esperienza [Beispiele der Erfahrung]. Per fare dell’idea di un uomo
moralmente gradito a Dio il modello [Vorbild] per la nostra condotta, dunque, non c’è affatto
bisogno di esempi empirici [Beispiele der Erfahrung]: tale idea si trova già, come tale, nella
nostra ragione» (cfr. ibi, pp. 161– 163). Senonché, «ogni uomo dovrebbe giustamente offrire
in sé un esempio di questa idea, il cui modello resta sempre e soltanto nella ragione. Nessun
esempio dell’esperienza esterna è invece adeguato a tale idea» (cfr. ibi, p. 164). Insomma,
l’insistenza kantiana è sull’inadeguatezza dell’«esempio» [Beispiel] empirico, rispetto al
«modello» [Urbild] apriorico. Se l’obiettivo della vita pratica ― secondo il nostro autore ― è
l’approssimazione del comportamento umano all’ideale della perfezione, tale approssimazio-
ne è resa possibile dall’applicazione pratica [praktische Anwendung] di un’idea–modello, rap-
presentativa di quella perfezione, ai tentativi umani (cfr. ibi, p. 165) ― e mai, semplicemente,
dalla fruizione di un esempio che, per quanto nobile, sarà comunque esterno al soggetto mora-
le. In tale aprioricità risiede la objektive Realität dell’idea in questione (cfr. ibi, p. 161).
27
Quest’accezione del termine «idea» ricorre anche quando Kant parla della possibilità
che l’unità universale nel riconoscere le verità della religione naturale, si concili con la libertà
dei singoli uomini. «Si tratta» ― egli afferma ― «di un’idea razionale che è impossibile raf-
figurare in un’intuizione che le sia perfettamente adeguata. Essa, tuttavia, in quanto è un prin-
cipio regolativo pratico [als praktisches regulatives Prinzip], ha quella realtà oggettiva suffi-
ciente a influenzare il raggiungimento del fine dell’unità della religione razionale pura» (cfr.
Rel, cap. III, p. 291).
28
«Una tale conclusione andrebbe infatti contro ogni analogia, perché allora si avrebbe il ca-
so di un’analogia che, dalla nostra necessità di ricorrere a uno schema [Schema] per renderci
comprensibile un concetto, pretende di ricavare la conseguenza che questo schema spetti neces-
sariamente anche all’oggetto stesso come suo predicato. Per esempio, io non posso dire: così
come la causa di una pianta mi diviene comprensibile solo mediante l’analogia di un artigiano in
334 Parte quinta: studi su etica e universalità
In altre parole, uno schematismo dell’analogia è inteso da Kant
come un accostamento che rende proporzionato un concetto puro ―
per esempio, l’ideale morale ― rispetto a un’immagine altrettanto pu-
ra ― per esempio, l’idea pratica corrispondente: e ciò affinché
l’esperienza possa approssimarsi all’ideale, realizzandone almeno del-
le esemplificazioni significative. In questo quadro, lo schema è l’idea
pratica, ovvero il modello operante, che rende presente in modo im-
maginario l’ideale puro, concepito dalla ragione; in modo che l’azione
umana possa conformarsi al modello, per traguardare grazie a quello
l’ideale. Il che non significa ― avverte Kant ― che quanto appartiene
al modello (o idea pratica o schema pratico), possa tout court venire
riconosciuto come proprio dell’ideale, ovvero che il modello sia ter-
mine adeguato della realizzabilità di questo; bensì significa che
l’ideale non sarebbe realmente perseguibile, se non lo si riconducesse
(senza la pretesa di ridurlo) nei termini di una figura dell’imma-
ginazione, che sia, in quanto tale, riproducibile, cioè imitabile
nell’esperienza pratica.
Nell’opera in questione, il nostro autore introduce uno schematismo
dell’analogia, non solo a riguardo della figura del Figlio di Dio ― da lui
inteso illuministicamente29 come modello dell’ideale della perfezione
morale30 ―, ma anche a riguardo di altre figure: principalmente, quella
della Chiesa. Se non che, nel trattare di quest’altro caso nei termini il-
luministici che gli sono consueti, Kant sembra concedersi qualche oscil-
lazione semantica rispetto al discorso precedente31. Nel nuovo caso ―
relazione alla sua opera, cioè solo attribuendo a quella causa un’intelligenza, allora, per analogia,
la causa stessa deve necessariamente avere l’intelligenza. In altri termini, non posso dire che
l’attribuzione dell’intelligenza, oltre a essere la condizione della mia comprensione, è anche la
possibilità di essere essa stessa causa. In realtà, tra il rapporto [Verhältnis] di uno schema con il
suo concetto e il rapporto dello schema del concetto con la cosa [Sache] stessa non c’è nessuna
analogia, ma un salto formidabile (metábasis eis állo ghénos) che ci fa cadere in pieno antropo-
morfismo, come ho dimostrato in altra sede» (cfr. Rel, cap. II, pp. 167–169).
29
Secondo il senso di «illuminismo» [Aufklärung] dallo stesso Kant illustrato nell’opera
in questione (cfr. Rel, cap. IV, p. 409).
30
Non a caso, Kant parla dell’«ideale [Ideal] del Figlio di Dio» (cfr. Rel, cap. II, pp. 193–195).
31
Leggiamo infatti: «L’idea sublime di una comunità etica non è mai pienamente attuabile, e
nelle mani dell’uomo essa si rimpicciolisce così tanto da ridursi a un’istituzione che, pur raffigu-
randone in modo puro soltanto la forma [Form], è tuttavia molto limitata, per quanto riguarda i
mezzi idonei a costituire un tale tutto, dalle condizioni della natura etica dell’uomo. [...]
L’augurio di tutti gli uomini di buona volontà è dunque: ‘venga il regno di Dio e sia fatta la sua
volontà su tutta la terra’. Ma che cosa devono fare perché si avveri questo loro augurio? Una
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 335
quello della Chiesa ― l’ideale («ideale di un tutto che abbraccia tutti gli
uomini»)32 sembra coincidere con lo stesso regno dei fini di cui si parla
nella Fondazione; e la sua idealità sembra consistere in una radicale in-
disponibilità al progetto umano: non è, cioè, nelle mani degli uomini la
realizzazione di una tale comunità, cui pure essi aspirano inevitabilmen-
te33. Lo schema (o idea pratica) corrispondente è invece rappresentato
dalla «chiesa invisibile»34, che è l’immagine pura di un’«unione univer-
sale» degli uomini, realizzata sulla base della «religione naturale»35. In
riferimento a tale schema si formerebbe poi la «chiesa visibile», in cui
l’elemento puramente morale deve coniugarsi con «ordinamenti statuta-
ri»36. Dunque, la sequenza vedrebbe, nell’ordine: l’ideale del Regno di
Dio (illuministicamente inteso)37, l’idea schematica della chiesa invisi-
bile o pura, e la realtà empirica delle chiese visibili o statutarie38. A tratti
però, in questo contesto di discorso, il termine «idea» sembra diventare
ambivalente, in quanto, oltre al modello pratico di un agire che deve es-
sere riferito all’«ideale», esso viene a indicare l’ideale stesso39.
comunità etica fondata sulla legislazione morale divina è una chiesa, la quale, non essendo og-
getto di un’esperienza possibile, si chiama chiesa invisibile (l’idea [Idee] semplice dell'unione di
tutti i giusti sotto il diretto governo, universale e morale, di Dio: tale idea funge da modello [Ur-
bild] per ogni altra chiesa istituita da uomini). La chiesa visibile è invece l’unione reale degli
uomini in un tutto che concorda con questo ideale [Ideal]» (cfr. Rel, cap. III, p. 241).
32
Cfr. Rel, cap. III, p. 231.
33
Ripresentando, con altre parole, la figura del regno dei fini, Kant spiega che «l’idea di un
tale tutto, in quanto idea di una repubblica universale retta da leggi della virtù, è un’idea comple-
tamente differente da tutte le leggi morali (le quali riguardano cose che sappiamo in nostro pote-
re), vale a dire: è l’idea di un agire orientato verso un tutto di cui però ignoriamo se, in quanto ta-
le, sia anche in nostro potere [in unserer Gewalt stehe]» (cfr. Rel, cap. III, p. 235).
34
Genericamente parlando, «ogni società parziale è una raffigurazione [Vorstellung] o uno
schema [Schema]» della «comunità etica» (cfr. Rel, cap. III, pp. 231–233); ma è solo con l’«idea di
un popolo di Dio» ― cioè di una “chiesa invisibile” o archetipica ―, che la comunità etica ideale
diviene accessibile come termine regolativo dell’operare umano, che produrrà, da parte sua, espe-
rienze di “chiesa visibile”, quali semplici approssimazioni dell’ideale (cfr. ibi, p. 241).
35
Cfr. Rel, cap. IV, p. 361.
36
Cfr. Rel, cap. IV, pp. 361–363.
37
Inteso cioè come un semplice «regno morale (conoscibile soltanto dalla ragione)» (cfr.
Rel, cap. III, p. 321).
38
«Ora, una religione razionale pura, in quanto fede religiosa pubblica, ammette unica-
mente l’idea semplice [die bloße Idee] della chiesa (cioè, l’idea di una chiesa invisibile); per
contro, solo la chiesa visibile, essendo fondata su statuti, ha bisogno ed è suscettibile di essere
organizzata dagli uomini» (cfr. Rel, cap. IV, p. 349).
39
Cfr. Rel, cap. III, pp. 235 e 241. Ma si pensi anche alla pagina che l’autore dedica alla
comunione eucaristica, dove presenta l’«idea di una comunità etica universale» [Idee einer
336 Parte quinta: studi su etica e universalità
Ma si può dire che, in generale, tutte le figure della Rivelazione cri-
stiana siano trattate da Kant come schemi analogici di idealità pure. Il
loro carattere schematico, del resto, sarebbe garantito dalla temporalità
(materia di ogni schema kantianamente inteso) che segna quelle figu-
re, e le distingue ― secondo il nostro autore ― dal contenuto pura-
mente ideale cui esse alludono40. Particolarmente significativo, in pro-
posito, è il caso della fine dei tempi, che prevede il dissolversi della
stessa «forma della chiesa», in favore dell’instaurazione piena del re-
gno di Dio. Ora, per il nostro autore la «raffigurazione» [Vorstellung]
escatologica fornitaci dalla Rivelazione, pur dandosi nella forma di
narrazione storica, non indica però «una perfezione empirica, quasi
potessimo averla sotto gli occhi, bensì una perfezione sulla quale o-
rientare il nostro sguardo al di là di noi [hinaussehen] per progredire
costantemente e avvicinarci al massimo bene possibile sulla terra»41:
indica, insomma, un centro di orientamento che media tra loro ― co-
me fa un falso scopo, per chi prenda la mira ― l’ideale e l’empirico.
Un altro luogo kantiano in cui opera uno schematismo dell’idea in
senso pratico è il testo Per la pace perpetua. Qui vengono evocate in
funzione di schema alcune figure della filosofia del diritto. Senza en-
trare nel merito, richiamiamo solo le espressioni usate in proposito
dall’autore. Si tratta, per esempio, dell’«idea del contratto origina-
rio»42, che dovrebbe fare da sfondo regolativo all’opera del legislatore,
guidandola a stabilire come legge solo ciò che potrebbe essere voluto
da ogni cittadino43. Il contratto originario, più precisamente, non è in-
weltbürgerlichen moralischen Gemeimschaft] (cfr. Rel, cap. IV, p. 455): qui, a quanto pare,
«idea» diventa sinonimo di «ideale».
40
Si pensi a come Kant enfatizza il carattere temporale che il peccato originale assume
nella Rivelazione biblica, per ascriverlo ― da parte sua ―, non alla natura autentica del con-
tenuto rivelato, ma piuttosto al «metodo rappresentativo [Vorstellungsart] di cui si serve la
Scrittura» (cfr. Rel, cap. I, p. 121).
41
Cfr. Rel, cap. III, p. 319.
42
«Ogni legislazione giuridica di un popolo deve necessariamente fondarsi sull’idea del
contratto originario [Idee des ursprünglichen Vertrags]». Cfr. Zum ewigen Frieden (1795) ―
d’ora in poi: ZeF ―, in Immanuel Kants kleinere Schriften zur Geschichtsphilosophie, Ethik
und Politik, hrsg von K. Vorländer, Leipzig 1913; trad. it. di V. Cicero, col titolo: Per la pace
perpetua, Rusconi, Milano 1997, sez. II, p. 69.
43
Annota altrove il nostro autore: «Questo contratto [...] non è affatto necessario presup-
porlo come un fatto [...]. Questo contratto è invece una semplice idea della ragione, avente pe-
rò una sua indubbia realtà (pratica): quella cioè di obbligare ogni legislatore a far leggi come
se esse avessero potuto derivare dalla comune volontà di tutto un popolo e di considerare ogni
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 337
teso da Kant come un fatto istitutivo, e neppure come un puro ideale,
ma piuttosto come un punto d’appoggio per l’immaginazione del legi-
slatore, che renda possibile l’approssimarsi sempre difettivo della
prassi legislativa alla figura ― questa sì ideale ― del regno dei fini44.
Si pensi anche al «modello ideale [Muster] del diritto di natura»45,
che il nostro autore considera come un punto di riferimento aprioristi-
co della ragione, in funzione pratico–regolativa. E si pensi infine
all’«idea di federazione»46, che fa da centro regolativo dell’intero
scritto sulla pace: si tratta di una figura che Kant sfrutta, intendendola,
non come un «ideale», ma piuttosto come uno schema, secondo cui
dovrebbe orientarsi la condotta politica degli Stati.
4. L’esperimento mentale nell’etica kantiana
Nell’ambito dell’etica kantiana, lo schema della comunità univer-
sale fa da base a un certo genere di esperimento mentale47.
L’esperimento consiste in questo: si universalizza la massima
dell’azione, e si prova a immaginare che cosa accadrebbe nel caso in
cui quella massima venisse adottata universalmente da parte dei
membri della comunità etica; in altre parole, se ne verificano le con-
seguenze «per la vita»48. Ma, quel che resta impensato nel discorso
suddito, in quanto vuole essere cittadino, come se egli avesse dato il suo concorso a una tale
volontà» (cfr. Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht
für die Praxis [1793] ― d’ora in poi: ÜdG ―, in Immanuel Kants kleinere Schriften zur Ge-
schichtsphilosophie, Ethik und Politik; trad. it. di N. Merker, col titolo: Sul detto comune: «ciò
può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi», in: Kant, Stato di diritto e società civi-
le, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1995, pp. 159–160).
44
«Nell’attuazione di questa idea [in der Ausführung jener Idee] (cioè, nella prassi)
l’unico inizio dello stato giuridico può essere quello che avviene mediante la forza [...]. E ciò
lascia già prevedere che nell’esperienza reale [in der wirklichen Erfahrung] si verificheranno
senz'altro forti deviazioni da quell’idea (cioè, dalla teoria)» (cfr. ZeF, Appendice, p. 125).
45
Cfr. ZeF, Appendice, pp. 127 e 141.
46
Cfr. ZeF, sez. II, pp. 85–89.
47
L’espressione è ripetutamente usata, a proposito di Kant, da T. W. Adorno (cfr. Negati-
ve Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1966; trad. it. di C.A. Donolo, col titolo: Dialettica
negativa, Einaudi, Torino 1970, pp. 200–202). La stessa espressione viene usata, al medesimo
proposito, anche da Onora O’Neill in: Universal Laws and Ends–in–Themselves, «The Mo-
nist», LXXII (1989), p. 48.
48
Cfr. O. O’Neill, Universal Laws and Ends–in–Themselves, p. 348.
338 Parte quinta: studi su etica e universalità
kantiano è come si svolga il test dell’universalizzazione: se esso av-
venga o no totalmente a priori.
Per approfondire la questione, si potrebbe prendere come riferi-
mento paradigmatico l’esperimento mentale galileiano di tipo confuta-
torio, la cui struttura è la seguente. Per confutare una tesi fisica consi-
derata erronea, si costruisce una situazione immaginaria, nella quale
mettere alla prova la tesi. Si tenta, cioè, di immaginare come dovrebbe
svolgersi un certo fenomeno fisico (per esempio, la caduta di un grave
in certe condizioni), qualora il fenomeno dovesse sottostare alla legge
contenuta nella tesi in questione. A questo punto, il risultato può esse-
re di due specie: o si rileva che il comportamento fisico che nella si-
tuazione immaginaria è stato dedotto in conformità alla tesi in que-
stione, è in qualche modo autocontraddittorio49; oppure, si confronta il
comportamento dedotto, con quello che il corpo effettivamente tiene
in situazioni dello stesso genere di quella immaginata, e si trova che il
primo è opposto, o comunque difforme, rispetto al secondo50. Nel pri-
mo caso, l’esperimento è tutto interno alla situazione stabilita dall’im-
maginazione; nel secondo caso, invece, esso si articola in un confronto
tra il referto immaginario e il referto reale.
Ora, il test kantiano ha luogo anch’esso allo scopo di confutare una tesi:
quella dell’universalizzabilità di una certa massima; e si svolge anch’esso
nell’ambito immaginario (di quella immaginazione pura, su cui Kant insi-
ste). Quanto ai suoi esiti, essi sono della prima specie sopra indicata: esso
infatti evidenzia un’inconsistenza tutta interna alla situazione immaginaria
― sia pure secondo le varianti che vedremo. Di certo, comunque,
l’inconsistenza viene introdotta e mediata dalla interpretazione ― per così
dire ― schematica, secondo cui viene letta la massima in discussione.
Il nostro autore, però, sembra preoccupato di enfatizzare la diffe-
renza che specifica lo schematismo operante in sede etica, da quello
49
Come esempio di questo modo galileiano di procedere, si può considerare
l’esperimento mentale (del foro praticato attraverso la terra, tra gli antipodi) con cui Salviati
riconduce a contraddizione la tesi aristotelica dell’orientamento del moto dei corpi verso i ri-
spettivi “luoghi naturali” (cfr. G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo To-
lemaico e Copernicano [1632], a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 1970, Giornata Seconda,
pp. 286–288).
50
Come esempio di quest’altro modo galileiano di procedere, si può considerare
l’esperimento mentale (delle frecce) con cui Sagredo confuta la tesi aristotelica secondo la
quale «il mezzo conferisce il moto al proietto» (cfr. ibi, pp. 188–189).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 339
che opera in sede teoretica. E, com’è noto, nella Critica della ragion
pratica egli parla del primo come di una «tipica del giudizio puro pra-
tico» [Typik der reinen praktischen Urteilskraft]51.
La differenza in questione si mostra prima facie come una difficol-
tà: infatti, perché si possa dare l’applicazione di una legge a un caso
dell’esperienza, occorre che vi sia una certa omogeneità tra la legge e
il materiale cui essa deve dar forma. Ora, questo si verifica ― secondo
il nostro autore ― nel caso delle leggi che presiedono all’universo fi-
sico, in quanto l’intuizione sensibile ha anch’essa (almeno nel sistema
kantiano) i propri elementi a priori, ed essi (spazio e tempo) consen-
tono all’immaginazione pura di interpretare schematicamente i feno-
meni; nel caso invece della legge morale, che è radicalmente disomo-
genea rispetto a ogni elemento della natura fisica, «non si può trovare
qualcosa di corrispondente [ad essa] in nessuna intuizione sensibile»52.
Insomma, nella vita pratica non c’è un corrispettivo di quelle intuizio-
ni teoretiche pure, che sono ― per Kant ― spazio e tempo: quindi,
51
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, Della tipica del giudizio puro pratico, p. 147.
52
«Per decidere se un’azione, a noi possibile nel mondo sensibile, sia o no il caso soggetto
alla regola, si richiede un giudizio pratico mediante il quale, quel che in una regola fu detto in
modo universale (in abstracto), venga applicato in concreto a un’azione. Ma siccome una regola
pratica della ragion pura riguarda in primo luogo, come pratica, l’esistenza di un oggetto [O-
bjekt], e in secondo luogo, come regola pratica della ragion pura, implica la necessità rispetto
all’esistenza dell’azione, e quindi è una legge pratica e non una legge naturale mediante motivi
determinanti empirici, ma una legge della libertà, secondo la quale la volontà dev’essere deter-
minabile indipendentemente da ogni elemento empirico; e siccome tutti i casi che avvengono
possono appartenere ad azioni possibili, ma soltanto empiriche, cioè all’esperienza e alla natura;
così pare assurdo voler trovare nel mondo sensibile un caso che, mentre come tale è sempre sol-
tanto soggetto alla legge naturale, pure ammetta l’applicazione a se stesso di una legge della li-
bertà, ed al quale possa essere applicata l’idea soprasensibile del moralmente buono, che in esso
dev’essere manifestata in concreto. Il giudizio della ragion pura pratica è dunque soggetto alle
stesse difficoltà di quello della ragion pura teoretica; il quale ultimo però possedeva un mezzo
per trarsi da questa difficoltà; se, cioè, rispetto all’uso teoretico si trattava d’intuizioni a cui pote-
vano esser applicati i concetti puri dell’intelletto, tuttavia tali intuizioni potevano esser date a
priori, e quindi, per quel che riguarda la connessione del molteplice in esse, conformi a priori
(come schemi [Schemate]) ai concetti puri dell’intelletto. Il moralmente buono, invece è, quanto
all’oggetto, qualcosa di soprasensibile per cui, dunque, non si può trovare qualcosa di corrispon-
dente in nessuna intuizione sensibile [in keiner sinnlichen Anschauung etwas Korrispondieren-
des gefunden werden kann]; e perciò il giudizio sotto le leggi della ragion pura pratica sembra
esser soggetto a difficoltà speciali, che consistono in questo, che una legge della libertà dev’esser
applicata ad azioni come ad eventi che accadono nel mondo sensibile, e che quindi, come tali,
appartengono alla natura» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. II, Della tipica del
giudizio puro pratico, pp. 147–149).
340 Parte quinta: studi su etica e universalità
manca il supporto opportuno a un’eventuale interpretazione schemati-
ca dell’atto morale da parte dell’immaginazione pura.
Ciò non toglie, però, che la legge morale possa essere considerata
sub specie legis naturae: e, così intesa, essa è per Kant un «tipo»
[Typus] della legge morale considerata invece nella sua purezza. Ora, il
«tipo» che agisce nella ragion pratica è certamente il corrispettivo dello
«schema» che agisce nella ragion teoretica53: un corrispettivo non più a
carattere «determinante», ma piuttosto «riflettente» ― per rimanere
all’interno del vocabolario kantiano. Prova ne è che l’esito della tradu-
zione dell’imperativo morale nei termini di un test di universalizzazione
non appare a Kant (almeno nel contesto ora considerato) come l’ele-
mento determinante [der Bestimmungsgrund] per decidere della morali-
tà di una massima; tale traduzione è vista, piuttosto, come l’assunzione
sperimentale della legge morale nei termini di una legge di natura: ter-
mini che sono ― kantianamente ― l’universalità e la necessità. In altre
parole, la legge morale, conservando il proprio soggetto e il proprio og-
getto specifico (cioè l’agire libero della persona), viene trattata come se
fosse una legge di natura, per poter diventare un criterio applicabile nei
casi empirici, cioè nelle scelte quotidiane54.
53
«Come la deduzione delle strutture del discorso conoscitivo si completava solo con lo
schematismo, cioè con la mediazione operata dalla immaginazione trascendentale tra la forma
logica e il dato sensibile ad essa eterogeneo, così anche nella sfera pratica Kant parla, in ana-
logia del tutto estrinseca con quella teoretica, di schema, o come subito corregge, poiché rico-
nosce che il termine è improprio, di tipo. Il problema è quello della possibilità
dell’applicazione in concreto, in un’azione, di quello che era stato detto in universale, in a-
stratto, nella legge pratica, ma si trasforma ben presto in quello della possibilità della coesi-
stenza tra la legge della natura e la legge della libertà, che viene affermata distinguendo anco-
ra una volta i due domini. Tuttavia l’aver tralasciato di approfondire il problema autentico,
che il concetto di tipo individua, costituisce uno dei più gravi limiti dell'analisi kantiana sulla
morale» (cfr. M.R Puddu, L’indagine trascendentale nel discorso etico, in Aa.Vv., Ricerche
sul trascendentale kantiano, a cura di A. Rigobello, Antenore, Padova 1973, p. 59).
54
«Ma nondimeno qui si apre di nuovo una prospettiva favorevole per il giudizio puro
pratico. Nella sussunzione di un’azione possibile per me nel mondo sensibile sotto una legge
pura pratica, non si tratta della possibilità dell’azione come di un evento nel mondo sensibile;
questa possibilità infatti è di pertinenza del giudizio intorno all’uso teoretico della ragione se-
condo la legge di causalità, che è un concetto puro dell’intelletto, per cui essa ha uno schema
nell’intuizione sensibile. La causalità fisica, ossia la condizione in base alla quale questa pos-
sibilità ha luogo, appartiene ai concetti della natura, il cui schema è tracciato dall’imma-
ginazione trascendentale. Ma qui non si tratta dello schema di un caso secondo leggi, ma dello
schema (se qui è propria questa parola) di una legge, perché la determinazione della volontà
(non l’azione relativamente al suo risultato) solo mediante la legge, senza un altro motivo de-
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 341
Questa «tipica» [Typik] dei concetti morali ― secondo il nostro au-
tore ―, non solo è qualcosa di lecito, per rendere più familiare la com-
prensione della legge morale, ma è anche qualcosa di indispensabile,
se si vuol giudicare dei comportamenti concreti55. Essa rappresenta il
terminante, lega il concetto della causalità a condizioni affatto diverse da quelle che costitui-
scono la connessione della natura. Alla legge naturale, come legge a cui sono soggetti gli og-
getti dell’intuizione sensibile come tali, deve corrispondere uno schema, cioè un procedimen-
to universale della immaginazione (per manifestare a priori ai sensi il concetto puro
dell’intelletto che la legge determina). Ma alla legge della libertà [...] non può esser sottoposta
nessuna intuizione, e quindi nessuno schema per la sua applicazione in concreto. Quindi la
legge morale non ha nessun’altra facoltà conoscitiva che ne medi l'applicazione agli oggetti
della natura, fuorché l’intelletto [Verstand] (non l’immaginazione [Einbildungskraft]), il quale
a un’idea della ragione non può sottoporre uno schema della sensibilità, ma una legge, tale pe-
rò che possa essere manifestata in concreto negli oggetti dei sensi, e quindi una legge natura-
le, ma solo quanto alla forma, come legge del giudizio; e questa legge noi la possiamo chia-
mare perciò il tipo della legge morale [Typus des Sittengesetzes]. La regola del giudizio [die
Regel der Urteilskraft] sotto le leggi della ragion pura pratica è questa: domanda a te stesso se
l’azione che tu hai in mente, la potresti considerare possibile mediante la tua volontà, se essa
dovesse accadere secondo una legge della natura, della quale tu stesso fossi una parte. [...]
Così si dice: se ciascuno, quando credesse di fare il suo vantaggio, si permettesse di truffare;
se si credesse in diritto di abbreviarsi la vita, appena gliene venisse un disgusto completo; se
guardasse con indifferenza completa la miseria altrui; tu, appartenendo a un tale ordine di co-
se, ti troveresti bene in esso, col consenso della tua volontà? Ora ciascuno sa bene che, se egli
di nascosto si permettesse una truffa, non per questo tutti farebbero lo stesso; o se egli senza
accorgersene fosse freddo di cuore, tali non sarebbero senz’altro tutti verso di lui; quindi, que-
sto paragone [Vergleichung] delle massime delle sue azioni con una legge universale della na-
tura, non è neanche il motivo determinante della sua volontà. Ma la legge è però un tipo
[Typus] del giudizio delle azioni secondo principi morali. Se la massima delle azioni non è ta-
le da reggere al confronto [die Probe anhalten] con la forma di una legge naturale in generale,
essa è moralmente impossibile. Così giudica anche l’intelletto più comune, poiché la legge na-
turale è sempre alla base di tutti i suoi giudizi più consueti, anche di quelli empirici. Esso l’ha
dunque sempre alla mano; ma nei casi in cui dev’esser giudicata la causalità della libertà, fa di
quella legge naturale semplicemente il tipo di una legge della libertà, perché se non avesse
sotto mano qualcosa capace di servirgli d’esempio nel caso empirico [zum Beispiele im Erfa-
hrungsfalle], non potrebbe procurare alla legge di una ragion pura pratica l’uso
nell’applicazione» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. II, Della tipica del giu-
dizio puro pratico, pp. 149–151).
55
«Dunque, è anche lecito usare la natura del mondo sensibile come tipo di una natura in-
telligibile [es ist erlaubt, die Natur der Sinnenwelt als Typus einer intelligibelen Natur zu
brauchen], purché non vi si trasportino le intuizioni [Anschauungen] e ciò che da esse dipen-
de, ma vi si riferisca semplicemente la forma della conformità alla legge in genere. [...] Del
resto, siccome [...] la ragion pura pratica [...] è giustificata e anzi obbligata a servirsi della na-
tura come di tipo del giudizio; così la presente osservazione serve a impedire che venga anno-
verato fra i concetti stessi ciò che serve semplicemente alla tipica dei concetti [Typik der Be-
griffe]» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. II, Della tipica del giudizio puro
pratico, p. 153).
342 Parte quinta: studi su etica e universalità
“giusto mezzo” razionale tra due errori tra loro contrari, che Kant
chiama «empirismo» e «misticismo» (della ragion pratica).
Qui per «empirismo» si intende l’identificazione surrettizia della
tipica del giudizio con la stessa legge che determina i concetti di bene
e male morali; mentre per «misticismo» si intende l’identificazione,
pure surrettizia, della tipica del giudizio con uno schematismo deter-
minante rispetto all’oggetto56. Empirismo sarebbe, dunque, ridurre le
ragioni dell’imperativo morale alla semplice logica del test di univer-
salizzazione, facendo della legge morale un calcolo consequenzialisti-
co; quando invece le ragioni che impongono l’imperativo all’attenzio-
ne della persona risiedono ― secondo la nota insistenza kantiana ―
non nella capacità che esso avrebbe di conservare la vita e la convi-
venza umane, bensì nella stessa apriorità di cui quello gode in quanto
«fatto della ragione». Misticismo sarebbe, invece, trattare ciò che
semplicemente è un «simbolo», [Symbol] (altrove si parlava di Idea
pratica o di schema in senso analogico), come se fosse uno «schema»
[Schema] vero e proprio57: dove la differenza sta, a quanto pare, nel
carattere riflettente del primo, e determinante del secondo, in relazione
alla facoltà del giudizio. Misticismo sarebbe, nel caso che ci interessa,
trattare la figura ― utile, ma non teoreticamente rilevante ― della
comunità universale, cooperante secondo una certa massima, come se
56
Virgilio Melchiorre intende giustamente come un’incongruenza l’esclusione kan-
tiana dell’«immaginazione» dalla «tipica» della ragion pratica; e vede nel rifiuto kantia-
no di «empirismo» e «misticismo» un tentativo di articolare quella esclusione: tentativo
che finisce per andare in parte oltre le intenzioni stesse dell’autore. Leggiamo al riguar-
do: «Può qui sorprendere il carattere fortemente intellettuale di questa analogia:
l’applicazione della legge morale può essere mediata ― come abbiamo inteso ― solo
dall’intelletto, non dall’immaginazione. Ma il riferimento al mondo sensibile, che anche
qui rendeva necessaria la mediazione analogica, può esser dato prescindendo da una
qualche funzione immaginativa? Kant per il momento non sembra avvertire la difficoltà:
ciò che ora lo preoccupa è tenersi a distanza da ogni forma di empirismo etico e per que-
sto deve tener fermo il carattere intellettuale della mediazione. Va, però, anche notato
che Kant non pensa solo all’empirismo: l’immaginazione può assumere una funzione
mediatrice anche in un ambito del tutto opposto, qual è quello del misticismo. In partico-
lare viene qui citata la figura del “regno di Dio”, che per altro verrà poi ripresa nella
stessa ricerca kantiana. Tuttavia Kant si tiene per ora a distanza anche da questa forma di
mediazione, sebbene non la rifiuti del tutto in modo perentorio» (cfr. V. Melchiorre,
Analogia e analisi trascendentale, Pubblicazioni dell’ISU, Milano 1988, pp. 129–130).
57
Si tratta dell’atteggiamento di cui Kant parla nella citazione riportata nella nostra
nota 28.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 343
fosse una struttura a priori, cui debba inevitabilmente conformarsi la
nostra esperienza morale per essere autenticamente tale58.
La tipica del giudizio morale rappresenta la regola di mediazione
tra «natura soprasensibile» e «natura sensibile». La prima delle due
nature, è quella libera, che si determina autonomamente secondo la
legge morale59; la seconda, invece, è la natura eteronoma, i cui oggetti
sono determinati dalle leggi fisiche60. All’uomo, che Kant descrive
come appartenente a entrambe le nature, occorre poter tradurre le i-
stanze della natura libera o «archetipa» [urbildliche Natur] in modelli
di comportamento riferibili immaginativamente alla prassi, che è sem-
pre, in quanto tale, anche transitiva: quindi, in qualche modo efficace
sulla natura fisica. Ora, la tipica del giudizio, cioè la predisposizione
dello scenario delle relazioni effettuali secondo il test dell’universaliz-
zazione ― e quindi, «come se mediante la nostra volontà dovesse aver
origine un ordine naturale»61 ―, equivale alla produzione di una «na-
tura ectipa» [nachgebildete Natur], cioè ipoteticamente segnata dagli
effetti dell’adozione di una certa massima62. L’«idea» [Idee] di una ta-
58
La tipica del giudizio ― spiega Kant ― «ci preserva dall’empirismo [Empirismus] del-
la ragion pratica, il quale pone i concetti pratici del bene e del male semplicemente nelle con-
seguenze dell’esperienza [Erfahrungsfolgen] (nella così detta felicità); e benché la felicità e le
infinite conseguenze utili di una volontà determinata mediante l’amor proprio, se l’amor pro-
prio nello stesso tempo si faccia legge universale della natura, possano senza dubbio servire
come tipo affatto conveniente del moralmente buono, pure non sono identiche con questo. La
stessa tipica preserva anche dal misticismo [Mystizismus] della ragion pratica, il quale di ciò
che serviva soltanto come simbolo [Symbol] fa uno schema [Schema] cioè sottopone
all’applicazione dei concetti morali istituzioni reali eppure non sensibili (di un regno invisibi-
le di Dio), e vaga nel trascendente. All’uso dei concetti morali è adatto solo il razionalismo
[Rationalismus] del giudizio, il quale della natura sensibile non prende nient’altro se non ciò
che anche la ragion pura per sé può pensare, cioè la conformità alla legge, e nella natura so-
prasensibile non introduce se non ciò che al contrario si può manifestar realmente mediante le
azioni nel mondo sensibile secondo la regola formale di una legge naturale in genere» (cfr.
KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. II, Della tipica del giudizio puro pratico, pp.
153–155).
59
Kant, nello stesso contesto che stiamo considerando, la descrive come «una natura che è
soggetta a una volontà» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, p. 95).
60
Kant la descrive come «una natura a cui la volontà è soggetta» (cfr. KpV, Analitica del-
la ragion pura pratica, cap. I, p. 95).
61
Als ob durch unseren Willen zugleich eine Naturordnung entspringen müßte (cfr. KpV,
Analitica della ragion pura pratica, cap. I, p. 95).
62
«Questa legge deve procurare al mondo dei sensi, come a una natura sensibile (per
quanto riguarda gli esseri razionali), la forma di un mondo dell’intelletto, cioè di una natura
soprasensibile, senza però recar danno al suo meccanismo. […] Si potrebbe chiamare archeti-
344 Parte quinta: studi su etica e universalità
le natura fornisce il «modello» [Muster] cui commisurare ogni scelta
dell’uomo: quando il contenuto di quest’ultima risultasse incompatibi-
le con la conservazione di un «ordine naturale permanente» [bleibende
Naturordnung], ciò segnalerebbe che essa è da rigettare63.
Com’è noto, la riflessione intorno alla peculiarità di uno schematismo di
genere diverso da quello determinante od oggettivante, introdotto nella
Prima Critica, ritorna nella Critica del giudizio64. Al paragrafo 59 di
quest’opera Kant propone alcune distinzioni che sarà opportuno tenere pre-
senti65. In primo luogo, lo «schema» [Schema] non è un «esempio» [Bei-
pa [urbildliche] quella natura (natura archetypa), che noi conosciamo solamente nella ragio-
ne; e questa invece che contiene l’effetto possibile dell’idea della prima come motivo deter-
minante della volontà [die mögliche Wirkung der Idee der ersteren als Bestimmungsgrundes
des Willens enthält], si potrebbe chiamare ectipa [nachgebildete] (natura ectypa). Poiché in-
vero la legge morale ci trasporta in modo ideale in una natura in cui la ragion pura, se fosse
accompagnata dal potere fisico conveniente, produrrebbe il sommo bene; e determina la no-
stra volontà a dar forma al mondo sensibile, come a un insieme di esseri razionali» (cfr. KpV,
Analitica della ragion pura pratica, cap. I, pp. 93–95).
63
«Se la massima seguendo la quale io ho intenzione di dare una testimonianza, viene e-
saminata mediante la ragion pratica, io, guardo sempre com’essa sarebbe, se valesse quale
legge universale della natura. È chiaro che, in questo modo, essa costringerebbe ciascuno alla
sincerità. Poiché non è compatibile con l’universalità di una legge naturale far valere come
prove delle testimonianze false di proposito. Così la massima che io prendo riguardo alla libe-
ra disposizione della mia vita, vien determinata appena mi domando come essa dovrebbe es-
sere, perché una natura si conservi secondo una legge di questa massima. Evidentemente in
una natura simile nessuno potrebbe por fine arbitrariamente alla sua vita, poiché una tale si-
tuazione non costituirebbe un ordine naturale permanente [bleibende Naturordnung], e così in
tutti gli altri casi. [...] Mediante la ragione, noi siamo consci di una legge, alla quale sono sog-
gette tutte le nostre massime, come se mediante la nostra volontà dovesse aver origine un or-
dine naturale. Quindi questa legge dev’essere l’idea di una natura non data empiricamente,
eppur possibile mediante la libertà, perciò soprasensibile, alla quale noi diamo realtà oggetti-
va, almeno nel rispetto pratico» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, p. 95).
64
Per esempio, a proposito, del giudizio intorno al «bello» (cfr. KU, § 9, p. 103) o intorno
al «sublime», che presuppongono «lo sforzo dell’immaginazione per considerare la natura
come uno schema per le idee» (cfr. ibi, § 29, p. 201).
65
«Per provare la realtà dei nostri concetti son necessarie sempre le intuizioni. Se i concetti so-
no empirici, le intuizioni si chiamano esempi [Beispiele]; e si chiamano schemi [Schemate], quando
i concetti sono concetti puri dell’intelletto. Ma si esige l’impossibile quando si vuol veder provata la
realtà oggettiva dei concetti della ragione, cioè delle idee [...]; poiché non si può assolutamente dare
alcuna intuizione ad esse adeguata. L’ipotiposi [Hypotypose] (esibizione [Darstellung], subiectio
sub adspectum), in quanto è qualche cosa di sensibile, è duplice; schematica [schematisch], quando
l’intuizione corrispondente ad un concetto dell’intelletto è data a priori; simbolica [symbolisch],
quando ad un concetto che può esser pensato solo dalla ragione, e a cui non può essere adeguata al-
cuna intuizione sensibile, vien sottoposta un’intuizione, nei cui confronti il procedimento del Giu-
dizio [Urtheilskraft] è soltanto analogo [analogisch] a quello dello schematismo; vale a dire che si
accorda con questo soltanto secondo la regola del procedimento, non secondo l’intuizione stessa, e
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 345
spiel]: questo infatti, è una intuizione [Anschauung] che riempie un concet-
to empirico; quello è una intuizione corrispondente a un concetto puro.
Lo schema non è comunque l’unico possibile «tipo» corrispondente
a concetti (e lo schematismo non è l’unica possibile «ipotiposi», ovve-
ro non è l’unica possibile corrispondenza tra concetti puri e immagi-
ni): il «simbolo» è un altro tipo possibile, tale da offrire un’esibizione
solo indiretta del concetto. In particolare, i concetti propri della ragio-
ne (o idee pure), che non possono avere schemi adeguati, sopportano
invece una corrispondenza simbolica. Né lo schematismo né il simbo-
lismo sono poi corrispondenze estrinseche, in quanto sia lo schema
che il simbolo sono autentiche «intuizioni» ― rispettivamente, «diret-
ta» e «indiretta» (o analogica) ― dei corrispondenti concetti, e non
mere designazioni convenzionali di essi. Le intuizioni dirette ― se-
condo Kant ― sono quelle che vanno a costituire l’oggetto dell’espe-
rienza; le intuizioni indirette, invece, sono quelle che istituiscono
un’«analogia»: termine col quale si intende, qui, la rappresentazione
quindi soltanto secondo la forma della riflessione, non secondo il contenuto. A torto e con uno stra-
volgimento di senso i logici moderni accolgono l'uso della parola ‘simbolico’ per designare un mo-
do di rappresentare opposto a quello intuitivo; perché il simbolico non è che una specie del modo
intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbo-
lico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (exhibitiones): non sono caratterismi [Charakteri-
smen], cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti, che non contengo-
no nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto [...]. Tutte le intuizioni che sono sottoposte a
concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del con-
cetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una a-
nalogia (per la quale ci serviamo anche di intuizioni empiriche), in cui il Giudizio compie un dop-
pio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in
secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto
del tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo. È in tal modo che si rappresenta uno stato
monarchico come un corpo animato quando esso sia governato da leggi popolari sue, e invece co-
me una semplice macchina (una specie di mulino a braccia), quando sia dominato da un’unica asso-
luta volontà; in tutti e due i casi la rappresentazione è soltanto simbolica. Non c’è, è vero, alcuna
somiglianza tra uno stato dispotico e un mulino a braccia; ma l’analogia sta tra le regole con le qua-
li riflettiamo sulle due cose e la loro causalità. [...] La nostra lingua è piena di queste esibizioni indi-
rette, fondate sulla analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma
soltanto un simbolo per la riflessione. Tali sono le parole ‘fondamento’ (appoggio, base), ‘dipende-
re’ (essere tenuto dall’alto), ‘derivare’ da qualche cosa (invece di seguire), ‘sostanza’ (il sostegno
degli accidenti, come dice Locke), ed innumerevoli altre ipotiposi non schematiche, ma simboliche,
ed altre espressioni che designano concetti, non mediante intuizioni dirette, ma soltanto secondo
l’analogia con queste, cioè col trasferimento della riflessione su di un oggetto dell’intuizione ad un
concetto del tutto diverso, al quale forse non potrà mai corrispondere direttamente un’intuizione»
(cfr. KU, § 59, pp. 381–385).
346 Parte quinta: studi su etica e universalità
metaforica di un contenuto concettuale, altrimenti destinato all’irrap-
presentabilità e inesprimibilità assolute66.
Ora, non è facile mettere in relazione l’«ipotiposi» simbolica, con-
siderata nella Terza Critica, con la «tipica» della ragion pratica. In o-
gni caso, se la legge morale, quando è sperimentalmente considerata
come legge di una natura possibile, è detta da Kant «tipo» della legge
morale propriamente detta, e se ― come abbiamo visto ― il tipo è da
lui ricondotto a una specie di «simbolo», è lecito ritenere che la «tipi-
ca» sia una specie del genere «ipotiposi simbolica»67. Altra specie del
medesimo genere è quell’«analogia» di cui Kant parla nel contesto
della Terza Critica, e che è riconducibile in realtà alla metafora.
Dunque, la tipica della ragion pratica ha relazione simbolica col
proprio referente originario (che è la legge morale), ma non in quanto
essa sia «foro» metaforico di quel «tema», come invece accade
nell’altra relazione simbolica, quella di analogia (almeno per il modo
in cui essa è considerata nella Terza Critica). In altre parole, gli espe-
rimenti mentali di universalizzazione sono in qualche modo simboli
della legge morale, ma non ne sono metafore. La relazione che li lega
al loro referente originario è simbolica ― per stare al vocabolario kan-
tiano ―, ma lo è in senso applicativo: un po’ come una coniugazione
può dirsi simbolica rispetto a un paradigma verbale. Ora, la legge mo-
rale sarebbe destinata, non all’invalidità, ma piuttosto a una latenza
pratica ― a una mancata incidenza sulla vita delle persone ―, se non
fosse possibile coniugarla secondo le differenti materie pratiche: come
avviene, appunto, grazie al test di universalizzazione68.
66
Come abbiamo visto alla nota precedente, Kant, in effetti, fa al riguardo esempi di me-
tafore ‘lessicalizzate’, le quali vanno a dar espressione a contenuti semantici che altrimenti
non sarebbero esprimibili.
67
Come questa è specie del più ampio genere «ipotiposi».
68
Ed è in tal senso, ma solo in questo, che si potrebbe parlare della tipica pratica come di
una metafora dell’imperativo categorico: un po’ come accade a quei contenuti che, in assenza
di una corrispondente espressione traslata (“foro” metaforico), sarebbero condannati a rimane-
re “temi” inespressi.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 347
5. I due tipi di esperimento etico in Kant69
Gli esempi del test di universalizzazione offertici da Kant nella
Fondazione sono di due tipi ― come lo stesso autore ci segnala70. Il
primo tipo è quello che sfrutta l’autocontraddizione che si sviluppa
all’interno del modello (o, in senso lato, schema) della comunità uni-
versale: autocontraddizione, questa, da qualcuno detta «eidologica»71
(dove, l’eidos in questione è il modello stesso). Il secondo tipo è quel-
lo che sfrutta l’autocontraddizione che si sviluppa all’interno del vole-
re: autocontraddizione che si potrà dire «buletica»72.
Negli esperimenti del primo tipo, quel che risulta inconcepibile è ―
detto in termini classici ― l’obiectum actionis, cioè il contenuto della
ipotetica scelta; negli esperimenti del secondo tipo, quel che risulta in-
concepibile è invece ― esprimendosi ancora una volta in termini classi-
ci ― l’intenzione che anima l’ipotetica scelta (avente quest’ultima co-
me contenuto un oggetto che potrà risultare, a sua volta, concepibile o
69
Com’è noto, i due tipi di esperimento etico ― che chiameremo, rispettivamente, eido-
logico e buletico ―, e le loro duplici articolazioni, vanno a disegnare, negli intenti di Kant, le
diverse tipologie di «dovere», che saranno riprese casisticamente nella Seconda Parte della
Metafisica dei costumi. Al primo tipo eidologico, corrispondono i «doveri perfetti verso noi
stessi»; al secondo tipo eidologico, corrispondono i «doveri perfetti verso gli altri»; al primo
tipo buletico, corrispondono i «doveri di virtù verso se stessi»; al secondo tipo buletico, corri-
spondono i «doveri di virtù verso gli altri» (cfr., in primo luogo: G, sez. II, p. 75; in secondo
luogo: Met, Dottrina degli elementi dell’etica).
70
«È necessario poter volere che una massima delle nostre azioni divenga una legge uni-
versale [man muß wollen können, daß eine Maxime unserer Handlung ein allgemeines Gesetz
werde]: questo è il canone in generale del giudizio morale sulla massima. Alcune azioni sono
cosiffatte che la loro massima non può in nessun caso essere pensata senza contraddizione
come legge universale della natura [ihre Maxime ohne Widerspruch nicht einmal als allge-
meines Naturgesetz gedacht werden kann]; ancor meno, si può volere che essa debba diventa-
re tale. In altre azioni, non si incontra certo questa intrinseca impossibilità [innere Unmögli-
chkeit], ma è tuttavia impossibile volere [es ist doch unmöglich, zu wollen] che la loro massi-
ma venga elevata alla universalità di una legge della natura, perché una tale volontà si con-
traddirebbe [ein solcher Wille sich selbst widersprechen würde]. Si vede facilmente che la
prima massima è contraria al dovere rigoroso o stretto (inderogabile), la seconda solo al dove-
re largo (meritorio)» (cfr. G, sez II, p. 81).
71
Il termine compare in: L.A. De Caro, Deontica in Gerhard Ledig, «Rivista internazio-
nale di filosofia del diritto», LXXIII (1996), pp. 89–108.
72
Il termine è proposto da G. Azzoni (cfr. Filosofia dell’atto giuridico in lmmanuel Kant,
cap. I). Il testo di Azzoni contiene, tra l’altro, una rassegna molto ricca e analitica della lette-
ratura critica riguardante il ruolo della non–contraddizione nel pensiero etico di Kant.
348 Parte quinta: studi su etica e universalità
inconcepibile)73. Più precisamente, se «intenzione» è la volontà del fine
ultimo, considerata in quanto si declina nelle scelte particolari; la con-
traddizione buletica è allora descrivibile in termini classici come con-
traddizione tra la «volontà del fine» propriamente detta e l’«inten-
zione», cioè la traduzione di quella in una scelta particolare.
Stando al primo caso, quando l’obiectum venisse considerato nella
sua inconsistenza rispetto al modello, allora l’agente non potrebbe
neppure propriamente volerlo: non potrebbe volerlo, almeno, all’inter-
no del modello74. Così, a Kant sembra che il primo tipo di inconcepibi-
lità rientri, a ben vedere, nel secondo: cioè, che l’autocontraddizione
eidologica sia, a fortiori, anche un’autocontraddizione buletica.
Negli esperimenti del primo tipo, Kant progetta immaginativamen-
te un obiectum inconcepibile sotto certe condizioni: in particolare, egli
immagina una comunità etica in cui venga universalizzata la massima
di suicidarsi, quando ci si trovasse in condizioni di grave disagio75,
oppure la massima di non mantenere le promesse76 (per esempio, la
promessa di restituire i prestiti)77; e «vede» [sieht] che una tale comu-
73
Per una più accurata calibrazione di queste figure classiche, rinviamo al precedente ca-
pitolo: Tommaso: libertas differentiae.
74
Non può volerlo, cioè, come comportamento universalmente praticato.
75
«Qui si vede subito che una natura la cui legge fosse quella di distruggere la vita per
mezzo dello stesso sentire la cui destinazione è quella di spingere al suo promuovimento, con-
traddirebbe se stessa e dunque non sussisterebbe come natura [ihr selbst widersprechen und
also nicht als Natur bestehen würde]; quindi quella massima sarebbe impossibile da mante-
nersi come legge universale della natura [als allgemeines Naturgesetz] e, di conseguenza,
confliggerebbe del tutto con il supremo principio di ogni dovere» (cfr. G, sez II, p. 77).
76
«Certo potrei volere la menzogna, ma non potrei affatto volere una legge universale che
comandasse di mentire [ein allgemeines Gesetz zu lügen gar nicht wollen könne]; secondo una
tale legge, infatti, non si darebbe assolutamente alcuna promessa [würde es eigentlich gar kein
Versprechen geben], perché sarebbe vano dichiarare la mia volontà riguardo alle mie future
azioni ad altri che pure non credono a questa dichiarazione o che, se avventatamente lo faces-
sero, mi ripagherebbero con egual moneta; e quindi la mia massima, appena fosse resa legge
universale, non potrebbe non distruggersi da sé [meine Maxime, so bald sie zum allgemeinen
Gesetze gemacht würde, sich selbst zerstören miisse]» (cfr. G, sez. I, p. 35).
77
«Posto che decidesse così, la massima della sua azione suonerebbe: quando credo
di essere in strettezze di denaro, ne voglio prendere in prestito, e promettere di restituirlo
anche se so che ciò non accadrà mai. [...] Ma sorge qui la domanda: come andrebbe se la
mia massima divenisse una legge universale? Qui vedo subito che essa non potrebbe va-
lere mai da legge universale della natura e accordarsi con se stessa, ma che invece do-
vrebbe necessariamente contraddirsi [da sehe ich nun sogleich, daß sie niemals als al-
lgemeines Naturgesetz gelten und mit sich selbst zusammenstimmen könne, sondern sich
nothwendig widersprechen müsse]. Infatti, [...] renderebbe impossibile il promettere stes-
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 349
nità si distruggerebbe progressivamente da sé, oppure cesserebbe di
essere comunità, per diventare un luogo di conflitto sistematico78.
Negli esperimenti del secondo tipo, Kant non rileva un’autocon-
traddittorietà (o inconsistenza) nel modello, ma la rileva piuttosto nel
volere di colui che opera secondo certe massime: per esempio, quella
di non coltivare le proprie doti naturali79, o quella di non aiutare chi è
nel bisogno80. Costui non può scegliere quelle massime, senza entrare
in contraddizione con la volontà stessa: più precisamente, con
l’originario orientamento di questa.
Kant, però, aggiunge che, chi sceglie di agire secondo una massima
non–universalizzabile, in realtà non si propone di universalizzare
quest’ultima, ma semplicemente invoca per sé un’eccezione alla nor-
ma. Con questa considerazione il nostro autore evita di fare, autocon-
traddittoriamente, dell’autocontraddizione un possibile oggetto tema-
tico della volontà; in quanto ― come il nostro autore precisa ― ciò
che viene effettivamente scelto, non è l’improponibile universalizza-
zione della massima in questione, bensì una deroga all’universalizza-
zione della sua contraddittoria; la quale nondimeno resta, anche dal
punto di vista del trasgressore, come qualcosa da universalizzare ne-
so e il fine che con esso si potrebbe ottenere, poiché nessuno crederebbe a ciò che gli
viene promesso» (cfr. G, sez. II, p. 77).
78
Il caso del “deposito” ― esposto nella Seconda Critica, e a noi già noto ― sembra ap-
partenere al gruppo dei casi di autocontraddizione eidologica.
79
«Secondo una tale legge universale, una natura potrebbe pur sussistere [da sieht er nun,
daß zwar eine Natur nach einem solchen allgemeinen Gesetze immer noch bestehen könne],
sebbene l’uomo lascerebbe arrugginire i suoi talenti [...]; ma è impossibile che egli possa vo-
lere che questa diventi una legge universale della natura [allein er kann unmöglich wollen,
daß dieses ein allgemeines Naturgesetz werde] o che una tale legge sia posta in noi attraverso
un istinto naturale. Infatti, in quanto essere razionale, egli vuole necessariamente che tutte le
facoltà in lui vengano sviluppate» (cfr. G, sez. II, p. 79).
80
«Ora, se un tale modo di pensare diventasse una legge universale della natura, il genere
umano potrebbe certo sussistere [nun könnte allerdings, wenn eine solche Denkungsart ein al-
lgemeines Naturgesetz würde, das menschliche Geschlecht gar wohl bestehen] [...]. Ma anche
se è possibile che una legge universale della natura potesse sussistere secondo una tale mas-
sima, è tuttavia impossibile volere che un tale principio valga ovunque come legge della natu-
ra [so ist es doch unmöglich, zu wollen, daß ein solches Princip als Naturgesetz allenthalben
gelte]. Infatti una volontà che si decidesse per questo principio contraddirebbe se stessa [wür-
de sich selbst widerstreiten], in quanto potrebbero pur darsi vari casi nei quali costui abbia bi-
sogno dell’amore e della compartecipazione di altri, e nei quali, con una tale legge della natu-
ra sorta dalla propria volontà, si priverebbe di ogni speranza dell’aiuto che egli si augura»
(cfr. G, sez. II, pp. 79–81).
350 Parte quinta: studi su etica e universalità
cessariamente ― pena, come sappiamo, il realizzarsi in un modo o
nell’altro dell’autocontraddizione. Col che, il carico dell’autocontrad-
dittorietà si sposta, dal volere come tale, alla scelta particolare: nel
senso che, un contenuto in qualche modo autocontraddittorio (o eido-
logicamente o buleticamente), può essere scelto, ma non tematicamen-
te voluto.
Insomma, la scelta immorale è ― per Kant ― quella che, deflet-
tendo dalla volontà nella sua purezza (la quale non smette di universa-
lizzare ciò che non può non essere idealmente universalizzato), finisce
per attribuire di fatto al principio universale «una mera validità gene-
rale» [eine bloße Gemeingültigkeit]81. Si potrebbe appunto dire, in
termini paradossali e non più kantiani, che il male morale consista nel-
la scelta di ciò che non è possibile volere, e che, perché estraneo
all’oggetto proprio della volontà in quanto tale, non è possibile pro-
porre a tutti come condivisibile.
6. Autocontraddizione buletica e referenzialità del volere
Approfondiamo ora il caso dell’autocontraddizione buletica. In ge-
nerale, perché si possa parlare di autocontraddizione, occorre che vi
siano due poli tra loro contraddittori e inerenti al medesimo. Nel caso
dell’autocontraddizione buletica i due poli sono: l’intenzione contenu-
ta in una certa massima e l’orientamento costitutivo della volontà. Se-
81
«Se noi prestiamo attenzione a noi stessi in ogni trasgressione di un dovere, troviamo
che in realtà non vogliamo che la nostra massima debba diventare una legge universale, per-
ché ciò ci è impossibile, bensì vogliamo, piuttosto, che il contrario di essa debba restare una
legge universale; solo che ci prendiamo la libertà, per noi, di fare una eccezione a vantaggio
della nostra inclinazione. Di conseguenza, se soppesassimo tutto da un solo ed unico punto di
vista, quello della ragione, troveremmo una contraddizione nella nostra volontà [so würden
wir einen Widerspruch in unserm eigenen Willen antreffen], ossia che un certo principio sa-
rebbe oggettivamente necessario in quanto legge universale, e tuttavia soggettivamente non
dovrebbe valere in modo universale, bensì dovrebbe ammettere eccezioni. Poiché però noi
consideriamo la nostra azione una volta dal punto di vista di una volontà interamente confor-
me alla ragione, e poi però consideriamo la stessa azione dal punto di vista di una volontà af-
fetta dall’inclinazione, in realtà non v’è alcuna contraddizione, ma invece una resistenza
dell’inclinazione contro il precetto della ragione, così che l’universalità del principio viene
trasformata in una mera validità generale, in base alla quale il principio pratico della ragione
deve incontrarsi con la massima a mezza strada» (cfr. G, sez. II, pp. 81–83).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 351
condo Kant, infatti, la volontà ha un orientamento costitutivo che le dà
forma: quello alla razionalità e quindi alla condivisibilità universale
delle scelte.
Ora, la massima «pigra» e quella «egoista» sono ammesse dal no-
stro autore come universalizzabili; in che senso, allora, contraddicono
la forma della volontà? Nel senso ― così crediamo ― che esse, pur
essendo universalizzabili senza pregiudizio della sussistenza del gene-
re umano, non lo sono come comportamenti adeguati alla dignità della
persona, e quindi al costituirsi del regno dei fini. In altri termini, con-
siderato che la massima «egoista» risulta eidologicamente universaliz-
zabile senza autocontraddizione (sia pure sotto certe condizioni)82, e
così anche la massima «pigra»83 (la cui universalizzazione darebbe
luogo, tutt’al più, a una situazione di sopravvivenza senza progresso),
se si desidera comprendere in che senso sia impossibile volerle in
forma universalizzata, occorre esplicitare il discorso di Kant, fino a
condurlo al di là dei termini di quell’angusto «formalismo» in cui, al-
meno a tratti, esso ha voluto costringersi.
A ben vedere, la celebre diffidenza kantiana nei confronti della re-
ferenzialità del volere, non va intesa come diffidenza verso la referen-
zialità tout court, bensì verso le configurazioni empiriche di essa. Non
è un caso che la diffidenza in questione venga meno, di fatto, quando
Kant introduce un referente adeguato alla volontà: quello costituito
dalla persona. E, anche là dove il nostro autore invita a intendere il ri-
spetto per la persona come un rispetto che va, in realtà, indirizzato alla
legge morale84, la sua affermazione non deve essere enfatizzata in sen-
so esasperatamente formalistico. A ben vedere, infatti, il senso auten-
tico della legge morale consiste proprio nel salvaguardare la purezza
82
E cioè, limitatamente a soggetti adulti e sufficientemente autonomi.
83
Purché intesa, anche questa, in un senso non drastico.
84
L’espressione forse più grave del formalismo etico kantiano, è quella contenuta in una
nota della Sezione I della Grundlegung. Dove leggiamo: «L’oggetto del rispetto è esclusiva-
mente la legge, e precisamente quella legge che imponiamo a noi stessi e tuttavia come in sé
necessaria. [...] Ogni rispetto [Achtung] per una persona non è propriamente che rispetto per la
legge, di cui tale persona ci offre l'esempio [Beispiel]. Poiché noi consideriamo come dovere
anche l’ampliamento dei nostri talenti, in una persona fornita di talento ravvisiamo per così
dire l’esempio di una legge (il divenire simile a tale persona con l’esercizio), e ciò costituisce
il nostro rispetto. Ogni cosiddetto interesse morale consiste esclusivamente nel rispetto per la
legge» (cfr. G, sez. I, p. 33).
352 Parte quinta: studi su etica e universalità
del rispetto per la persona: per la persona in quanto è tale, e non in
quanto è questa o quella persona particolare (più o meno ricca di doti
o di virtù).
Alla persona, e in particolare a quella umana, considerata come
membro ― suddito, ma insieme legislatore85 ― del regno dei fini,
Kant dedica pagine rimaste giustamente famose, nella seconda sezione
della Fondazione. Parlando di «regno dei fini», il nostro autore indica
quella natura di secondo grado (o noumenica), di cui la legge morale è
legislazione appropriata; mentre i «fini» in questione sono le persone
stesse86 (tra cui l’uomo in quanto è capace di libertà): persone, che
l’osservanza della legge morale è in grado di porre in armonia tra loro
e con colui che al loro regno presiede, cioè il Creatore.
La persona umana è, per Kant, il soggetto capace di dar luogo
all’esperienza, conferendole forma a partire da un altrove, e dunque
superandola: ovvero, non rimanendo prigioniera di quel gioco di ante-
cedenze e conseguenze costanti, in cui essa ― l’esperienza ― si arti-
cola. Ora, ciò che conferisce «dignità» [Wurde] alla persona e ne fa un
fine in se stesso ― così da giustificare il «rispetto» [Achtung] che le è
dovuto incondizionatamente ―, è sì, per Kant, la capacità di essere
radicalmente indipendente dall’empirico; se non che, tale capacità si
fonda nel carattere trascendentale87 che qualifica il pensiero della per-
sona e la sua «facoltà di desiderare» [Begehrungsvermögen]88: caratte-
re per il quale, quest’ultima può essere adeguata solo dal «sommo be-
ne» [das höchste Gut], ovvero dalla «totalità incondizionata dell’og-
getto della ragion pura pratica»89. Ma, il sommo bene altro non è che
85
Con tale duplice indicazione, Kant intende dire che la persona umana non è autrice del-
la legge morale: la trova dentro di sé, senza poterne disporre. D’altra parte, se la persona u-
mana fosse in grado di darsi una legge di comportamento, non potrebbe che volerne una iden-
tica a quella con cui di fatto si trova a fare i conti: essendo, questa, la legge che esprime il
punto di vista proprio della persona, cioè quello razionale.
86
Nella seconda sezione della Grundlegung, Kant insiste nell’affermare che «ogni natura
razionale è fine in se stessa [Zweck an sich selbst]».
87
Qui, usiamo l’aggettivo «trascendentale» nel senso di «intrascendibile»: in un senso che
non è, dunque, quello specificamente kantiano. L’intrascendibilità del pensare e del desiderare
sono comunque obiettivamente riconosciute e valorizzate nella filosofia di Kant: di qui la le-
gittimità della nostra scelta.
88
Cfr. KpV, Dialettica della ragion pura pratica, cap. II, p. 243.
89
Cfr. KpV, Dialettica della ragion pura pratica, cap. I, p. 237.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 353
l’incontro reale90, ovvero la relazione beatificante, della persona uma-
na con la Persona originaria che presiede al regno dei fini91.
Considerata in questo modo, ovvero nel suo senso integrale, la vo-
lontà kantiana risulta allora, non autoreferenziale, bensì orientata a un
referente ideale, radicalmente diverso da un qualunque referente di tipo
empirico, e tale da esigere, come condizione necessaria (benché insuffi-
ciente) del perseguimento di quello, il perfezionamento delle «facoltà»
del soggetto volente; tanto che un comportamento che non coltivasse
quell’intenzione, risulterebbe tollerabile razionalmente solo come ecce-
zione, ma non sarebbe coerentemente assumibile come una regola.
Così, la formulazione personalista dell’imperativo ― «agisci in mo-
do da trattare l’umanità [die Menschheit brauchen], sia nella tua perso-
na che in quella di ogni altro, sempre come fine [Zweck] e mai sempli-
cemente come mezzo [Mittel]»92 ― appare, non come un’introduzione
peregrina, rispetto alla linea principale dell’etica kantiana, bensì come
la migliore esplicitazione delle ragioni che la animano.
Si potrebbe ipotizzare, almeno quanto alla massima «egoista», che
essa non possa essere voluta in universale, in quanto sarebbe impossi-
bile volere che altri la applichi a noi. Ma non è questa la ragione: è
Kant stesso a dircelo, sia pure indirettamente93. In realtà, quella mas-
sima non può essere voluta come norma, perché in tal modo non si po-
trebbe realizzare il regno dei fini (o perfectio noumenon), e in tal mo-
do risulterebbe contraddetta la tensione perfezionistica della volontà.
Scrive al riguardo Kant: «Io devo cercare di promuovere la felicità al-
90
Che per esser tale, cioè autentico incontro tra persone dotate di dignità, dovrà essere
(anche) meritato.
91
Cfr. KpV, Dialettica della ragion pura pratica, cap. II, pp. 243 ss.
92
Si tratta della II, stando alla scansione di Paton. Tale formulazione si precisa ulterior-
mente nella seguente: «agisci come se tu, tramite le tue massime, fossi sempre un membro le-
gislatore nell’universale regno dei fini». Quest’ultima è la IIIa nella scansione di Paton. En-
trambe le formule appartengono alla seconda Sezione della Fondazione.
93
Si pensi a quella nota della Fondazione, in cui Kant prende le distanze dalla possibilità
di fondare l’etica sulla base della «regola aurea». Leggiamo: «Non si pensi che il triviale quod
tibi non vis fieri ecc. possa servire qui da filo conduttore o da principio. Infatti esso è soltanto
derivato, e con varie limitazioni, da quel principio [che è la formulazione personalista
dell’imperativo]; esso non può essere una legge universale, poiché non contiene il fondamento
dei doveri verso se stessi, né dei doveri di benevolenza verso gli altri (infatti alcuni consenti-
rebbero volentieri che altri non dovessero beneficarli, se solo fossero dispensati dal mostrar
loro benevolenza), né, infine, dei doveri obbligatori verso altri; infatti il criminale, in base a
quel detto, potrebbe argomentare contro il giudice che lo punisce, ecc.» (cfr. G, sez II, p. 93).
354 Parte quinta: studi su etica e universalità
trui, non in quanto sia interessato in qualche modo alla sua esistenza
(per inclinazione immediata o per un qualche sentimento di compia-
cimento, indirettamente attraverso la ragione), bensì soltanto perché la
massima che esclude quella felicità non può essere concepita, in uno
stesso e identico volere, come legge universale [nicht in einem und
demselben wollen, als allgemeinen Gesetz, begriffen werden kann]»94.
In quel modo, infatti, si verrebbe a costringere la volontà entro limiti
referenziali che non le sono adeguati: volere meno che la perfezione
stessa, propria e altrui (volere meno che il regno dei fini)95.
Nella consapevolezza che la formulazione personalista dell’impera-
tivo rappresenta un’esplicitazione coerente, ma lessicalmente assai di-
scontinua, rispetto alla formulazione primigenia dell’imperativo mora-
le, Kant avverte l’esigenza di ripercorrere, in relazione a essa, i quattro
casi di coscienza paradigmatici, da lui già illustrati96. In tal modo, egli
94
Cfr. G, sez. II. p. 117.
95
Espressioni come quelle sopra citate ci aiutano a considerare nella giusta luce il cosid-
detto formalismo kantiano. In proposito è molto esplicito Sergio Cotta quando afferma che «la
kantiana esigenza per l’io di elevare la propria massima soggettiva alla oggettività della legge
universale non dipende più da una formale necessità logica di non–contraddirsi, bensì dalla
esigenza di non contraddire la propria natura di uomo» (cfr. S. Cotta, Diritto e morale, in Id.,
Diritto, persona, mondo umano, Giappichelli, Torino 1989, p. 282).
96
«In primo luogo, secondo il concetto del dovere necessario verso se stessi, colui che va
meditando il suicidio si domanderà se la sua azione possa accordarsi con l’idea dell’umanità
come fine in se stesso [mit der Idee der Menscheit als Zwecks an sich selbst zusammen beste-
hen könne]. Se costui, per sfuggire ad uno stato penoso, distrugge se stesso, allora si serve di
una persona semplicemente come un mezzo per la conservazione di uno stato sopportabile si-
no alla fine della vita. Ma l’uomo non è una cosa, quindi non è qualcosa che possa essere a-
doperato come semplice mezzo, bensì deve essere considerato in tutte le sue azioni sempre
come fine in se stesso. [...] In secondo luogo, per ciò che riguarda il dovere necessario ovvero
obbligatorio verso altri, chi ha in animo di fare ad altri una falsa promessa, vedrà subito che
vuole usare un altro uomo come semplice mezzo, senza che questi contenga insieme in sé il
fine. Colui, infatti, che con una tale promessa io voglio usare per i miei scopi, è impossibile
che si possa comportare verso quel fine a mio modo, che vi si possa accordare [einstimmen] e
dunque che possa contenere egli stesso il fine di questa azione. Questo contrasto con il princi-
pio degli altri uomini risalta ancor più chiaramente [fällt dieser Widerstreit gegen das Princip
anderer Menschen in die Augen] se si adducono esempi di attentati alla libertà e alla proprietà
d’altri. Infatti qui si evidenzia chiaramente che colui il quale violi i diritti degli uomini si pro-
pone di usare la persona d’altri semplicemente come mezzo [...]. In terzo luogo, riguardo al
dovere contingente (meritorio) verso se stessi, non è abbastanza che l’azione non contrasti
[nicht widerstreite] con l'umanità nella nostra persona come fine in se stesso: è anche necessa-
rio che essa vi si accordi [sie muß zusammenstimmen]. Ora, nell’umanità stanno disposizioni
alla più grande perfezione, che appartengono al fine della natura riguardo all’umanità nel no-
stro soggetto; il trascurarle potrebbe ben andare assieme alla conservazione dell’umanità co-
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 355
riguadagna i quattro risultati già ottenuti; ma lo fa in un modo nuovo.
Il criterio non è più offerto, ora, dalla non–contraddizione, o viceversa
dalla contraddizione, che sarebbe interna alla massima, nell’ipotesi di
una sua estensione universale; ma piuttosto dall’«accordo» [Überein-
stimmung], oppure dal «contrasto» [Widerstreit], che la massima rea-
lizza nei riguardi dell’«idea dell’umanità come fine in se stesso».
Non è facile capire che cosa sia per Kant quest’ultima «idea».
Stando alle indicazioni della Prima Critica, essa dovrebbe coincidere
con un «archetipo» [Urbild], vale a dire con l’«ideale regolativo» del-
la perfezione umana97: ideale che, pur non coincidendo con il regno
dei fini98, sembra esserne comunque un elemento analitico. Stando in-
vece più prudentemente al contesto immediato, sembra che l’«idea di
umanità» sia una «creatura dell’immaginazione», che fa da rappresen-
tazione schematica all’idea di «persona». Infatti, quella di persona è
― nella concezione di Kant ― l’idea pura di una realtà noumenica99,
di cui l’individuo umano è portatore, ma non certo portatore origina-
rio, né tanto meno unico.
me fine in sé, ma non al promuovimento di questo fine. In quarto luogo, riguardo al dovere
meritorio verso altri, il fine naturale che tutti gli uomini hanno è la propria felicità. Ora,
l’umanità potrebbe ben sussistere, se nessuno contribuisse in qualcosa alla felicità degli altri, e
neppure sottraesse a quest’ultima, deliberatamente, alcunché; ma è tuttavia solo un accordo
negativo, e non positivo, con l’umanità come fine in se stesso, quello per cui ciascuno, per
quanto sta a lui, non tenti di promuovere i fini degli altri. Infatti i fini del soggetto che è fine
in sé, se tale rappresentazione [Vorstellung] deve produrre in me tutti i suoi effetti, hanno da
essere per quanto possibile anche i miei» (cfr. G, sez. II, pp. 91–95).
97
«L’umanità in tutta la sua perfezione comprende non soltanto l’estensione di tutte le
proprietà essenziali appartenenti a questa natura, che costituiscono il nostro concetto di essa,
fino alla perfetta congruenza con i loro scopi, che sarebbe la nostra idea della perfetta umani-
tà, ma anche tutto ciò che, al di là di questo concetto, appartiene alla completa determinazione
dell’idea; perché di tutti i predicati opposti soltanto uno può convenire all’idea dell’uomo per-
fetto. Ciò che per noi è un ideale, era per Platone un’idea dell’intelletto divino, era un oggetto
singolo nell’intuizione pura di esso, il più perfetto di ogni specie di esseri possibili e
l’esemplare di tutte le copie nel fenomeno. Ma senza salir così alto, noi dobbiamo riconoscere
che l’umana ragione non possiede soltanto idee, ma anche ideali, che non hanno bensì, come
gli ideali platonici, una potenza creativa, ma ne hanno tuttavia una pratica (come principi re-
golativi) e sono a base della possibilità della perfezione di certe azioni» (cfr. KrV, Dialettica
trascendentale, Lib. II, cap. II, sez. I, p. 452).
98
Che coinvolge tutti gli esseri razionali: quindi va, almeno ipoteticamente, anche al di là
dell’ambito umano.
99
Nel vocabolario di Kant, «persona»» è l’«essere razionale», in quanto membro «legislatore»
del regno dei fini (cfr. G, sez. II, p. 111); cioè, in quanto soggetto capace di immedesimarsi con il
punto di vista della ragion pura pratica (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell'etica, § 11, p. 294).
356 Parte quinta: studi su etica e universalità
L’idea pura non può venire impiegata direttamente nell’espe-
rimento mentale, cui le massime devono essere sottoposte; occorre che
prima venga ricondotta in termini omogenei all’immaginazione: quel-
li, appunto, di un’«umanità considerata come fine in sé»100. Quindi,
l’idea teorica di «persona» e l’idea pratica di «umanità» stanno rispet-
tivamente tra loro, nel testo kantiano, come «fondamento» [Grund] e
«rappresentazione» [Vorstellung] di un medesimo «principio pratico»
[praktisches Princip]: quello espresso dall’imperativo categorico101.
7. Presupposti dello schematismo etico
Dunque, la volontà diverrebbe autocontraddittoria, se assumesse, co-
me regola universale uno stile di azione che, una volta assunto come tale,
dovesse rendere impossibile il costituirsi di qualcosa come un regno dei
fini. Diverrebbe autocontraddittoria, in quanto, il costituirsi del regno dei
fini ― e quindi, implicitamente, di ciò senza cui esso sarebbe inconsi-
stente ―, è l’ideale regolativo del volere di ogni «essere razionale»102.
100
Pietro Piovani ha visto in questo schematismo etico kantiano la radice, da un lato, di uno
spersonalizzante «dovere di tutti» (o dovere «dell’umanità»), diverso dal «dovere di ogni uomo»;
dall’altro, l’omaggio tardivo all’«universalismo giusnaturalistico». «Il mio dovere, così, più che
coincidere, al culmine, con il dovere di tutti, è il dovere dell’umanità: perciò non è il mio personale
dovere quello che io pongo come norma alla mia azione, ma è un astratto dovere di un’umanità u-
niversalistica, in cui si riaffaccia l’universalismo giusnaturalistico. Paradossalmente, per tener fede
alla formula «sii persona», l’uomo kantiano deve spersonalizzarsi» (cfr. P. Piovani, Giusnaturali-
smo ed etica moderna, Laterza, Bari 1961, p. 150). E ancora: «Bisogna pur ritenere che l'omaggio a
Kant celi anche una condiscendenza verso il residuo giusnaturalistico presente in Kant, che, univer-
salizzando le azioni nella schematica universalità della legge dell’umanità, sottrae sì alle azioni ric-
chezza di personalità, ma non crea problemi né per loro né per la loro morale: così il sacrificio di
quella ricchezza ha per corrispettivo una tranquillità conseguita» (cfr. ibi, pp. 158–159).
101
«Se, quindi, sì deve dare un principio pratico supremo e, riguardo alla volontà umana,
un imperativo categorico, allora ha da essere tale che, dalla rappresentazione di ciò che è ne-
cessariamente un fine per ciascuno, perché è fine in se stesso, costituisca un principio oggetti-
vo della volontà, dunque possa servire da legge pratica universale. Il fondamento di questo
principio è: la natura razionale esiste come fine in sé. Così, necessariamente, l’uomo si rap-
presenta la propria esistenza; e in tal misura questo è quindi un principio soggettivo delle a-
zioni umane. Così, però, anche ogni altro essere razionale sì rappresenta la propria esistenza,
in conseguenza del medesimo fondamento razionale che vale anche per me; dunque esso è in-
sieme un principio oggettivo, dal quale devono poter essere dedotte, in quanto supremo fon-
damento pratico, tutte le leggi della volontà» (cfr. G, sez. II, p. 91).
102
Filippo Gonnelli insiste su come la scaturigine della contraddizione, e quindi il baricentro
argomentativo dell’etica kantiana, non stia nella universalizzazione delle massime errate, bensì nel-
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 357
Sul carattere, non assoluto, bensì relativo103, della contraddittorietà
che lo schematismo kantiano in etica è in grado di suscitare, si è sof-
fermata, com’è noto, un’ampia e autorevole letteratura critica. Riferi-
mento classico di tale letteratura è certamente Hegel.
Nell’ambito della sua polemica verso il formalismo dell’etica kan-
tiana, Hegel afferma ― nei Lineamenti di filosofia del diritto del 1821
― che, quella che noi abbiamo chiamato schematizzazione, servirebbe
a Kant solo per rendere intuitiva la situazione morale, senza per questo
introdurre nuovi elementi di giudizio rispetto al semplice criterio for-
male della non–contraddizione104. In altre parole, Hegel ritiene che
l’essenza dell’imperativo stia nel semplice ammonimento a non con-
traddirsi, senza però che da parte kantiana venga realmente determina-
to in che senso debba essere considerata autocontraddittoria una mas-
sima105. Kant, inoltre, ci avverte che sarebbe autocontraddittorio uni-
la loro incongruenza rispetto alla presupposizione di una «natura finalizzata al bene».
L’universalizzazione di un certo comportamento è perfettamente comprensibile in base al terzo
principio [“la volontà, attraverso la propria massima, possa insieme considerare se stessa come uni-
versalmente legislatrice"], ma non certo come prova per cui dall’azione non buona verrebbe una
contraddizione logica. Questa prova potrebbe sussistere se la massima, pensata come legge, si auto-
contraddicesse. Ma questa contraddizione, in realtà, non può in nessun caso istituirsi: negli esempi
di Kant incontriamo sempre elementi ulteriori rispetto a cui la massima risulta contraddittoria, e
dunque la contraddizione si produce anche senza che il soggetto universalizzi il proprio comporta-
mento. Nel primo e nel terzo caso [della Fondazione], la contraddizione si istituirebbe nei confronti
di una natura oggettivamente finalizzata al bene: se dunque non vi fosse questa natura finalizzata al
bene, la prova dell’universalità non direbbe nulla circa la moralità o l’immoralità dell’azione; nel
quarto, il caso dell’aiuto agli altri, la contraddizione ha luogo solo rispetto al proprio futuro possibi-
le interesse ad essere aiutati, che pure deve essere presupposto e non ha nulla a che fare con
l’universalità». Quanto al caso del “prestito”, invece, Gonnelli vede nella mancata restituzione una
contraddizione rispetto a una condizione di “senso” dell’atto del prestare: l’impegno alla restituzio-
ne (cfr. F. Gonnelli, Introduzione a Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, pp. XXVII–
XXVIII). Questa, che ― secondo Gonnelli ― «non è propriamente una contraddizione logica»,
viene interpretata da Azzoni come una «contraddizione performativa» (cfr. Azzoni, Filosofia
dell’atto giuridico in lmmanuel Kant, cap. I).
103
Relativo a qualcosa di cui già si sia ammesso il valore.
104
«La ulteriore forma kantiana, la capacità di un’azione di venir rappresentata come
massima universale [die Fähigkeit einer Handlung, als allgemeine Maxime vorgestellt zu
werden], porta seco bensì una più concreta rappresentazione di una situazione, ma non contie-
ne per sé alcun ulteriore principio che quella mancanza della contraddizione e l'identità for-
male» (cfr. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts [1821], in Vorlesungen
über Rechtsphilosophie 1818–1831, a cura di K.–H. Ilting, vol. II; trad. it. di G. Marini, col ti-
tolo: Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma – Bari 1987, § 135, p. 115).
105
Afferma Hegel, con evidente riferimento all’esempio kantiano del “deposito”: «Che
non abbia luogo proprietà, contiene per sé tanto poco una contraddizione, quanto che non esi-
358 Parte quinta: studi su etica e universalità
versalizzare una massima che fosse già stata accertata come impropo-
nibile all’universalizzazione; ma il fatto è che egli non è in grado ―
così Hegel ritiene ― di giustificare realmente l’improponibilità della
massima considerata.
Si potrebbe invece osservare al riguardo che, almeno nei casi eido-
logici, l’autocontraddittorietà in questione è mediata proprio dall’espe-
rimento dell’universalizzazione: i due momenti, dunque, non risultano
separabili ― come invece Hegel sembra ritenere. Insomma, nel di-
scorso di Kant non c’è passaggio dalla (presunta) autocontraddittorie-
tà, alla non–universalizzabilità della massima; ma è piuttosto l’ipotesi
dell’universalizzazione della massima a rivelarsi improponibile, pro-
prio in quanto ipotesi autocontraddittoria.
Ritornando a Hegel, dobbiamo dire che questi sembra considerare
esclusivamente il tipo eidologico dell’autocontraddizione, e certamen-
te vede l’esito distruttivo di quest’ultimo nei confronti di una società
umana possibile; ma non ritiene, poi, che la non–esistenza di una so-
cietà di uomini (o comunque di persone) sia a sua volta qualcosa di
autocontraddittorio, da escludersi quindi in senso assoluto106. Più pre-
sta questo o quel singolo popolo, famiglia ecc., o che in genere non vivano uomini. Se peral-
tro è per sé stabilito e presupposto che proprietà e vita umana dev’essere ed esser rispettata,
allora sì è una contraddizione commettere un furto o assassinio; una contraddizione può darsi
soltanto con qualcosa che è, con un contenuto che in anticipo sta a fondamento come princi-
pio stabile. Soltanto in relazione a un tale principio un’azione è o con esso concordante, o in
contraddizione. Ma il dovere che dev’esser voluto soltanto come tale, non in virtù di un con-
tenuto, l’identità formale è appunto questo, escludere ogni contenuto e determinazione» (cfr.
G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts [1821], § 135, pp. 115–116).
106
Su questo punto, Hegel si era già soffermato, ben prima che nei Grundlinien, in un
saggio giovanile; dove, a proposito dell'esempio kantiano del “deposito”, si legge: «Ma se non
esistesse alcun deposito, che contraddizione [Widerspruch] vi sarebbe?» (cfr. G.W.F. Hegel,
Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, seine Stelle in der prakti-
schen Philosophie und sein Verhältnis zu den positiven Rechtswissenschaften [1802– 1803],
in Gesammelte Werke, hrsg. von der Rheinisch–Westfälischen Akademie der Wissenschaften,
Band 4; trad. it. di A. Negri, col titolo: Le maniere di trattare scientificamente il diritto natu-
rale, posizione di questo nella filosofia pratica e suo rapporto con le scienze giuridiche posi-
tive, in Hegel, Scritti di filosofia del diritto [1802–1803], Laterza, Bari 1962, p. 40). Anche
nella Fenomenologia leggiamo qualcosa di analogo: «In sé e per sé la proprietà non si con-
traddice [widerspricht sich nicht], in quanto è una determinatezza isolata, posta come uguale
solo a se stessa; altrettanto poco si contraddicono in sé e per sé la non–proprietà, l’assenza di
proprietari, oppure la comunanza di beni. Infatti, in tutti i casi in cui qualcosa non appartenga
a nessuno, o sia disponibile per il primo che ne prenda possesso, oppure appartenga a tutti in-
sieme, in parti uguali o a ciascuno secondo i suoi bisogni, si tratta sempre di una determina-
tezza semplice, di un pensiero che è formale allo stesso modo del pensiero contrario, la pro-
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 359
cisamente, Hegel ritiene che la situazione autocontraddittoria potrebbe
svilupparsi solo in riferimento a dei contenuti, il cui valore resti pre-
supposto rispetto all’argomentazione morale. Quest’ultima potrebbe
consistere, allora, nel rilevare la concordanza o la discordanza di un
certo comportamento rispetto alla conservazione e alla promozione di
quei contenuti: la vita umana (nel caso del suicidio), la fedeltà agli
impegni assunti (nel caso del deposito), e così via.
Il fatto è, che i contenuti in questione sono, almeno negli intendi-
menti kantiani, altrettanti presupposti della possibilità stessa di un re-
gno dei fini; quindi, non sono contenuti qualsiasi, arbitrariamente as-
sunti, e poi sostituibili sulla base di interessi o di accordi che si rive-
prietà. Certo, se la cosa senza proprietario viene considerata come un oggetto indispensabile
del bisogno, allora è necessario che essa venga presa in possesso da qualcuno; in tal caso sa-
rebbe contraddittorio stabilire per legge la libertà della cosa» (cfr. G.W.F. Hegel, Phänomeno-
logie des Geistes; trad. it. di V. Cicero, col titolo Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Mila-
no 1995, p. 577). Qui, la critica hegeliana è la stessa che abbiamo visto nei Grundlinien, e che
l’autore stesso finisce per sintetizzare nei termini seguenti: «Ci sarebbe da stupirsi se questa
tautologia ― vale a dire, il principio di contraddizione, che per la conoscenza della verità teo-
retica viene considerato semplicemente un criterio formale [formelles], cioè un criterio del tut-
to indifferente verso la verità e la non–verità ― dovesse essere qualcosa di più di un semplice
criterio formale per la conoscenza della verità pratica» (cfr. ibi, pp. 579–581). Diversa è la cri-
tica che poco più avanti, ancora nella Fenomenologia, Hegel muove esplicitamente all'esem-
pio kantiano del “deposito”. Leggiamola: «Un oggetto depositato da qualcuno presso di me è
certamente la proprietà di un altro: io riconosco che e perché è così, e nel mio comportamento
verso l’oggetto mi mantengo fermo e irremovibile. Se invece tengo per me il deposito, allora,
sulla base della tautologia che è il principio del mio esame, io non cado in nessun modo in
contraddizione [so begehe ich ganz und gar keinen Widerspruch]; io, infatti, non considero
più l’oggetto come proprietà di un altro, ed è del tutto coerente che tenga per me qualcosa che
non considero proprietà altrui. Il mutamento del punto di vista non dà luogo a nessuna con-
traddizione, perché qui non è in questione il punto di vista in quanto tale, bensì l’oggetto e il
contenuto: è questo a non doversi contraddire. Sulla falsariga di quanto avviene, per esempio,
nel caso di un mio regalo ― quando, cioè, il punto di vista per cui qualcosa è di mia proprietà
posso mutarlo, senza contraddirmi, nel punto di vista per cui questo qualcosa è proprietà di un
altro ―, nel caso di una proprietà altrui mi è certo possibile percorrere il cammino inverso.
Pertanto, non perché io non trovi qualcosa contraddittorio, esso è allora Diritto. Al contrario,
solo perché è rectum, esso è directum: solo perché è il Giusto, esso è Diritto» (cfr. ibi, pp.
585–587). L’obiezione qui portata da Hegel, sia pur convergente con la precedente, se ne di-
stingue, in quanto non è più rivolta contro l’insufficienza dell’autocontraddizione a decidere
della moralità di una massima, bensì è volta a evidenziare che, nel caso paradigmaticamente
proposto da Kant, autocontraddizione propriamente non c'è: basta che si rispetti il mutamento
dei punti di vista secondo i quali il medesimo contenuto viene assunto. Senza entrare nel me-
rito della sua adeguatezza, si può rilevare che quest’ultima critica è meno radicale di quella
precedente: qui, infatti, si contesta che il criterio dell’autocontraddizione funzioni nel caso
specifico; là, invece, si contestava alla radice l’efficacia del criterio in quanto tale.
360 Parte quinta: studi su etica e universalità
lassero accidentalmente mutati. In tal senso, non sembra obiettivamen-
te fondata l’accusa di “utilitarismo” surrettizio, mossa a Kant, sulla
scorta delle critiche hegeliane, da parte di importanti autori del secolo
scorso. A loro avviso, Kant avrebbe preso, come punto di riferimento
per i suoi esperimenti di universalizzazione, un assetto sociale acriti-
camente desunto dal contesto storico vigente, e inevitabilmente confi-
gurato secondo gli interessi empirici in esso consolidati107.
Le critiche ora richiamate sono però interessanti, in quanto indica-
no una tendenza conformistica presente nell’etica kantiana, e in parti-
colare negli esperimenti di universalizzazione: essi, infatti, non vanno
a delineare il contenuto delle massime, ma piuttosto vanno a vagliare
massime già formulate, i cui contenuti, vengono da fonti evidentemen-
te empiriche. Così, negli esperimenti etici kantiani ― sembrano voler
dire le critiche in questione ―, più che a un’unilaterale subordinazio-
ne della «materia» morale alla «forma», assistiamo semmai al rischio
di un’assolutizzazione della materia: questa, infatti, si configura come
un che di già dato, rispetto al quale la forma finisce per funzionare
semplicemente da filtro. E poco importa che le massime considerate
nei casi ben noti siano studiate per risultare improponibili; perché, an-
che nel caso in cui Kant avesse fatto l’esempio di massime proponibili
all’universalizzazione, le avrebbe dovute assumere con metodo empi-
rico, essendo inefficace il metodo dell’universalizzazione a formare o
a correggere concretamente l’agire morale, e limitandosi esso piutto-
sto ad approvare o a respingere massime d’azione già formulate al di
qua di una preoccupazione specificamente morale.
107
Benedetto Croce, riferendosi al solito esempio del deposito, scriveva: «Ed ecco come,
non sapendo in virtù del principio etico vero dirimere la controversia, e volendo pur dare
qualche significato a quella formula vuota, accada di riempirla col solo principio che si pos-
segga, e che è il principio Utilitario, e si assegni la ragione del rispetto pel deposito nella con-
venienza, per esempio che l’individuo ha di osservare, pel suo stesso vantaggio, il rispetto agli
impegni, senza del quale (si soggiunge) non si concluderebbe più nessun negozio e il mondo
degli affari languirebbe» (cfr. B. Croce, Filosofia della pratica. Economia ed etica [1909],
Laterza, Bari 1963, pp. 299–300). La critica si fa ancora più esplicita in Galvano Della Volpe:
«Si pensi all’apprezzamento utilitario, economico, delle ‘conseguenze’ della violazione della
tanto rigida legge morale, nell’esempio del deposito affidatomi: che così non ci sarebbe più
deposito al mondo, non ci sarebbe più proprietà sicura» (cfr. G. Della Volpe, Rosseau e Marx
e altri saggi di critica materialistica [1956], Editori Riuniti, Roma 1964, p. 30). A ben vede-
re, già J. Stuart Mill, nelle prime pagine del suo Utilitarianism (1861), aveva indicato in una
sorta di consequenzialismo il criterio occulto dell’etica kantiana.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 361
In realtà, il discorso kantiano sconta l’ambiguità che è propria dello
schematismo cui, almeno provvisoriamente, esso si affida. Infatti, se il
referente ultimo della volontà kantiana è non meno del regno dei fini,
il luogo del test che rileva autocontraddizione eidologica è invece ―
come sappiamo ― una rappresentazione «tipica» di quello; e il modo
di configurarsi di quest’ultima sarà inevitabilmente debitore di una
qualche esperienza storica. Del resto, lo schematismo etico, o «tipica»
della ragion pratica, non ha ― secondo Kant ― la stessa purezza a-
priorica dello schematismo teoretico: infatti, come si ricorderà, il pri-
mo non viene prodotto nell’ambiente asettico di un tempo e di uno
spazio puri, ma deve piuttosto accontentarsi di una genesi, almeno in
parte, riproduttiva»108, e quindi storicamente segnata.
Occorre comunque rilevare, che le critiche in questione non posso-
no riguardare la specie buletica dell’autocontraddizione, la quale non
fa riferimento a particolari modelli di società, ma piuttosto alla struttu-
ra del volere in quanto tale. Nei casi buletici, più precisamente, quel
che è presupposto perché si possa parlare di autocontraddizione, è,
non un qualche elemento riconducibile al contingente sviluppo delle
relazioni umane, bensì l’orientamento strutturale della volontà della
persona. Kant, del resto, distingue costantemente tra la funzione rego-
lativa dell’ideale (regolativa, nel nostro caso, dell’orientamento della
volontà), e le precarie, ancorché inevitabili, costruzioni immaginative
che approssimano l’ideale, per renderlo incoativamente perseguibile
nella prassi109.
108
L’allusione è, naturalmente, alla distinzione introdotta nella Critica della ragion pura
― e conservata nel passaggio dalla Prima alla Seconda Edizione ― tra «immaginazione pro-
duttiva» e «riproduttiva»: quest’ultima, «sottoposta unicamente a leggi empiriche» (cfr. KrV,
Analitica trascendentale, Lib. I, cap. II, sez. II, § 24, pp. 145–146).
109
«L’ideale della ragione [...] deve sempre esser fondato su concetti determinati e servire
di regola e di modello, sia per attenervisi sia per giudicare. Ben altrimenti è delle creature
dell’immaginazione, su cui nessuno può spiegarsi e dare un concetto intelligibile, quasi mo-
nogrammi, che non sono se non tratti staccati, invero non determinati secondo nessuna pretesa
regola, i quali costituiscono più un disegno ondeggiante in mezzo ad esperienze diverse che
un’immagine determinata, di quelli che pittori e fisionomisti pretendono di avere nella loro te-
sta, e che devono avere un fantasma incomunicabile dei loro prodotti o magari de’ loro giudi-
zi» (cfr. KrV, Dialettica trascendentale, Lib. II, cap. III, sez. I, p. 453).
362 Parte quinta: studi su etica e universalità
8. Sulla qualità del desiderio
La specie buletica della contraddizione è più interessante di quella
eidologica. Ci aiuta a comprenderlo, quello che potremmo chiamare
“il paradosso di Lacan”; che, appunto, risulta eidologicamente compa-
tibile o sostenibile, mentre non lo è buleticamente.
Per «paradosso di Lacan» intendiamo il provocatorio esperimento
― proposto da Jacques Lacan ― di applicare il test kantiano di uni-
versalizzazione a una massima difficilmente difendibile dal punto di
vista morale, come quella sadiana di «godere senza limiti del corpo al-
trui»110. Non senza qualche espediente artificioso, Lacan cerca di far
vedere che la massima sadiana, nonostante la sua «infamia», potrebbe
essere riconosciuta per «una regola accettabile come universale in mo-
rale», possedendo i due requisiti kantianamente richiesti per esserlo: è,
infatti, libera da ogni influenza «patologica» (in quanto non si giustifi-
ca sulla base della compassione o dell’interesse per altri, e, a ben ve-
dere, neppure per se stessi); risolve, inoltre, la propria sostanza nella
propria forma: non proponendo altro contenuto di valore, al di fuori
della coerente estendibilità in «generale», se non in universale, della
propria indicazione. Poco importa, poi, che la massima sadiana esclu-
da programmaticamente la «reciprocità» (che Lacan qui sembra inten-
dere nel senso implicato nella regola aurea): essa non esclude, con ciò,
l’«a buon rendere» [charge de revanche]; col che l’autore sembra so-
stenere che l’universalità richiesta da Kant, per essere rigorosamente
formalistica, deve poter fare a meno anche di quel residuale criterio
contenutistico che è la reciprocità riconoscente111; per accontentarsi, se
del caso, di una reciprocità irriconoscente ― se così si può intendere
lo spirito di vendetta generalizzato112.
La provocazione di Lacan non riesce ― a nostro avviso ― a mo-
strare che La philosophie dans le boudoir sia l’inveramento della Cri-
tica della ragion pratica113; ha però ugualmente una funzione euristi-
110
Cfr. J. Lacan, Kant avec Sade, in Id., Écrits (1950), Éditions du Seuil, Paris 1966, pp.
768–769.
111
Riconoscente ― intendiamo ― la qualità personale dell’interlocutore (con quel che ne
consegue).
112
Cfr. J. Lacan, Kant avec Sade, pp. 769–770.
113
Cfr. ibi, pp. 765–766.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 363
ca, in quanto mette in evidenza una questione che non deve rimanere
impensata: la questione della qualità del desiderio. L’audace tesi laca-
niana, che presiede al paradosso, è che l’imperativo kantiano altro non
sia che la più coerente e sistematica idealizzazione del «principio di
piacere» ― tanto più coerente, quanto più indifferente al dolore procu-
rato ad altri114; e che la volontà che si impone per la via dell’imperati-
vo, altro non sia che la spinta del Superio, inteso come tirannia insen-
sata dell’inconscio115. Il formalismo, poi, sarebbe niente più che un a-
libi, inconsapevolmente offerto da Kant all’insensatezza radicale del
proprio progetto, per dotare quest’ultimo delle apparenze della razio-
nalità ― come il «paradosso» si incarica di verificare.
Se non che, se si può ammettere, sia pure con molta indulgenza,
che la massima sadiana riesca a superare la prova dell’universalizza-
zione dal punto di vista più superficiale ― che è quello «eidologi-
co»116 ―, si deve comunque escludere che essa possa risultare «buleti-
camente» compatibile: poche massime, come quella sadiana, risultano
infatti incompatibili con il perseguimento di qualcosa come un regno
dei fini.
114
Dove «altrui» comprende anche, indirettamente, sé in quanto oggetto del godimento di
altri (cfr. J. Lacan, Kant avec Sade, p. 770).
115
Scrive Lacan: «Il principio del piacere è la legge del bene che è il wohl, diciamo il
ben–essere. Nella pratica, esso sottometterebbe il soggetto allo stesso concatenamento feno-
menico che determina i suoi oggetti. L’obiezione che gli rivolge Kant è [...] intrinseca. Nessun
fenomeno può avvalersi di un rapporto costante col piacere. Nessuna legge dunque può essere
enunciata circa un tale bene, che possa definire come volontà il soggetto che la introducesse
nella propria pratica. La ricerca del bene sarebbe dunque un vicolo cieco, se questo, das Gut,
il bene, che è l’oggetto della legge morale, non rinascesse. Esso ci è indicato dall’esperienza
che noi facciamo di sentire al di dentro di noi stessi dei comandamenti, il cui imperativo si
presenta come categorico, ovvero incondizionale». Nel tentativo di salvare l’autonomia della
sfera morale, Kant dunque introduce l’«imperativo categorico» come la sola legge in grado di
dedurre il bene. «Notiamo che questo bene» ― osserva però Lacan ― «non è supposto come
il Bene, se non per il fatto di farsi avanti [...] verso e contro ogni oggetto che volesse condi-
zionarlo [...], per imporsi come superiore grazie al suo valore universale» (cfr. J. Lacan, Kant
avec Sade, p. 766). E proprio per questo suo carattere puramente negativo, il formalismo kan-
tiano, che ― secondo Lacan ― assegna al bene come unico criterio l’universalizzabilità, si
rivela compatibile con il perfetto immoralismo, di cui Sade è campione. Il paradosso sadiano
smaschera ― secondo Lacan ― il vizio di origine dell’etica kantiana: essa farebbe coincidere
l’autenticità del soggetto con un imperativo morale, che sembra piuttosto l’idealizzazione del
Superio, inteso lacanianamente come tiranno insensato (cfr. J. Lacan, Fonctions de la Psy-
chanalyse en criminologie, in Id., Écrits, p. 137).
116
Del resto, il prototipo di test di universalizzazione che Lacan ha in mente, è quello del
«deposito» (cfr. J. Lacan, Kant avec Sade, p. 767).
364 Parte quinta: studi su etica e universalità
Più in generale, nel discorso kantiano la qualità del desiderio è la-
sciata in ombra, quando si discute secondo il punto di vista eidologico;
viene invece in primo piano, quando si passa al punto di vista buletico.
Da questo secondo punto di vista, in prima approssimazione, si evi-
denzia che l’intenzione implicata in una certa massima può risultare
incompatibile con la natura stessa del volere117. Qui, dunque, la qualità
autocontraddittoria della posizione morale del soggetto non è di per sé
mediata dalla dilatazione universalistica, ma piuttosto dal confronto
del contenuto della massima con l’oggetto proprio del volere come ta-
le; anche se poi, come conseguenza notevole di tale incompatibilità,
non si potrà voler universalizzare la posizione in questione, nel senso
che non la si potrà volere come norma per il proprio agire, ma solo
tollerare come provvisoria eccezione o deroga ― pena un ulteriore
configurarsi autocontraddittorio della volontà118.
117
Dobbiamo a Christine Korsgaard un’interessante disamina del test kantiano di universalizza-
zione, e, in particolare, dell’autocontraddizione da noi detta buletica. La Korsgaard distingue tra con-
tradiction in conception (eidologica) e contradiction in the will (buletica), e offre tre possibili interpre-
tazioni del procedimento kantiano: «logica», «teleologica» e «pratica». Secondo la prima, «c’è qualco-
sa come una impossibilità logica nella universalizzazione della massima, ovvero nel sistema di natura
in cui la massima sia una legge naturale». Stando alla seconda, «sarebbe contraddittorio volere la mas-
sima in questione come una legge per un sistema di natura teleologicamente concepito». Seguendo la
terza interpretazione, «la contraddizione implicata nella universalizzazione di una massima immorale
sta nel fatto che l’agente sarebbe incapace di agire secondo la massima in un mondo in cui questa fos-
se universalizzata così da realizzare il suo proprio intento». Ora, la Korsgaard propende per la terza in-
terpretazione, che a suo avviso consentirebbe, tra l'altro, di dar correttamente conto delle differenze tra
i due tipi di autocontraddizione che emergono dal test kantiano. Vediamo in che senso: «Se un intento
[purpose] frustrato è una contraddizione pratica, dobbiamo intendere la contraddizione nel test buleti-
co in questo modo: dobbiamo trovare qualche intento che appartenga essenzialmente alla volontà, e
nel mondo in cui fossero legge universale delle massime che falliscono questo tipo di test, tali intenti
essenziali risulteranno vanificati, perché i mezzi per soddisfarli saranno indisponibili. Esempi di intenti
che si potrebbero pensare come essenziali alla volontà sono la sua generale efficacia nel perseguire i
propri scopi [ends], e la sua libertà di adottare e perseguire nuovi scopi. Gli argomenti a favore
dell’autosviluppo e dell’aiuto reciproco saranno allora che, senza lo sviluppo delle potenzialità e delle
doti umane e senza le risorse della mutua cooperazione, l’efficacia e la libertà della volontà sarebbero
vanificate. [...] La differenza tra i due test non risiederà nell’uso di un differente genere di contraddi-
zione [...]. Eppure una differenza ci sarà. L’intento frustrato nel caso della massima che fallisce il test
eidologico è quello che sta nella massima stessa, e così la contraddizione si può dire che stia [in questo
caso] nella massima universalizzata. L’intento vanificato nel caso della contraddizione che si ottiene
nel test buletico non sta nella massima, ma è qualcosa che è essenziale alla volontà» (cfr. Ch.M. Kor-
sgaard, Creating the Kingdom of Ends, Cambridge University Press, Cambridge ― New York ―
Melbourne 1996, pp. 77–97).
118
Annota Kant: «Il delinquente può commettere il suo delitto o prendendo per massima
una regola considerata come oggettiva (come universalmente valida), o soltanto facendo
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 365
Il confronto con la provocazione di Lacan ci ha spinto a usare la
parola “desiderio” al posto della parola “volontà”. Ma, in che senso il
vocabolario di Kant è in grado di sopportare questa torsione? È lo
stesso Kant a spiegarcelo, quando parla del Wille come di una specifi-
cazione del Begehrungsvermögen, cioè della capacità di desiderare119.
Più precisamente, la volontà sarebbe il desiderio, non inteso generi-
camente, ma in quanto esso «è determinato ad agire solo mediante
concetti, cioè secondo la rappresentazione di un fine»120.
Secondo la precedente definizione ― così ci sembra di capire ―,
desiderio e volontà stanno tra loro come una capacità generica sta a
una propria espressione specifica e intensiva. La volontà, poi, si speci-
fica grazie a tre fattori: essa è desiderio che agisce per conseguire il
proprio oggetto; essa può sopportare come propria regola solo una
legge razionale (e non il semplice gioco degli impulsi); la legge razio-
nale della volontà (che si esprime nelle note formulazioni imperative),
è razionale, non in quanto sia priva di referente, ma, al contrario, in
quanto è orientata a un referente adeguato alla razionalità121. Il deside-
un’eccezione alla regola (dispensandosene occasionalmente). In quest’ultimo caso egli non fa
che deviare dalla legge; egli può nello stesso tempo, mentre la commette, detestare la sua tra-
sgressione e, senza rifiutare formalmente obbedienza alla legge, può semplicemente volerla
eludere [umgehen]. Ma nel primo caso egli rigetta l’autorità della legge stessa, di cui però non
può negare la validità di fronte alla propria ragione, e assumere per regola di agire contraria-
mente alla legge; la sua massima è dunque contro la legge non soltanto per difetto (negative),
ma direttamente (contrarie) o, come si dice, diametralmente, come contraddizione [als Wider-
spruch]. Per quanto noi possiamo immaginare, è impossibile agli uomini commettere un simi-
le delitto ispirato a una (gratuita) malignità formale; tuttavia in un sistema di morale non si
può tralasciare questo caso (non fosse che come una semplice idea del male estremo)» (cfr.
Met, Il diritto pubblico, § 49, A, p. 152).
119
La capacità di desiderare e quella di conoscere [Erkenntnis– und Begehrungsvermögen]
sono presentate da Kant come cooriginarie «facoltà dell’animo» (cfr. KpV, Prefazione, p. 21).
120
«La facoltà di desiderare [Begehrungsvermögen], in quanto può esser determinata ad
agire solo mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo [Vorstellung ei-
nes Zwecks], sarebbe la volontà [Wille]» (cfr. KU, § 10, p. 107).
121
Sulla specificità della volontà rispetto al desiderio, è opportuno tenere in vista le se-
guenti annotazioni di Carmelo Vigna. «‘Desiderare qualcosa’ non è lo stesso che ‘volere
qualcosa’. [...] Si può, infatti, desiderare qualcosa senza volerlo. Non vale però la reciproca;
giacché non si può volere qualcosa senza averlo previamente desiderato. Questa osservazione
ci porta rapidamente al nocciolo della differenza. Ossia: la volontà è una forma intenzionale
interna alla vita del desiderio. Specifica, però, la natura del desiderio, perché importa una de-
cisione operativa rispetto all'oggetto desiderato. Chi vuole qualcosa, decide non solo di tende-
re a quella cosa, ma decide pure contestualmente, anche se a volte solo implicitamente, una
serie più o meno complessa di ‘pratiche’, ossia di azioni per conseguire il proprio intento.
366 Parte quinta: studi su etica e universalità
rio, d’altra parte, kantianamente ricomprende e supera la volontà. Si
potrebbe dire ― richiamando anche un noto passo della Seconda Cri-
tica ― che, se il desiderio ha «il bene intero e perfetto come oggetto»,
la volontà ha come oggetto specifico una dimensione costitutiva, ma
non esclusiva, di questo: e precisamente la «virtù» [Tugend]122, di cui
la «santità» [Heiligkeit] rappresenta, per Kant, il corrispondente «pro-
totipo» [Urbild] o «idea pratica»123. Come a dire che l’esser degno del-
la felicità, è quanto la volontà persegue (anche attraverso le proprie
strategie analogicamente schematiche); nella consapevolezza, però,
che l’esser felice non è in mano sua. La volontà, dunque, è la tensione
verso una condizione necessaria, ancorché insufficiente, del realizzarsi
dell’oggetto proprio del desiderio.
Più precisamente, se il «sommo bene» viene inteso astrattamente, e
non come inclusivo della moralità quale condizione del suo possibile
perseguimento, allora esso può considerarsi «oggetto» adeguato, ma
Questo significa che la volontà, in atto, cioè come decisione, è anche una scelta [...]. Ma la
volontà, rispetto al desiderio, vanta soprattutto dell’altro, che ne fa una sorta di mistero. La
volontà può, infatti, volere di volere e non volere di volere. Essa possiede, in altri termini, una
riflessività, che al desiderio, in quanto tale, è ignota. [...] Il desiderio, in quanto tale, non può
dire di no all’oggetto conveniente. Dall’oggetto è come ‘calamitato’. Il desiderio come volere
può esercitare, invece, in maniera trascendentale tanto la positività quanto la negatività e
quindi può dire di no senza limite alcuno» (cfr. C. Vigna, Il desiderio e il suo altro, in Aa.Vv.,
L’enigma del desiderio, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 49–50).
122
«Nell’Analitica si è dimostrato che la virtù (come merito di essere felice) è la condi-
zione suprema di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile [wünschenswert], quindi
anche di ogni nostra ricerca della felicità; e quindi è il bene supremo [das oberste Gut]. Ma
non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà di desiderare [das
ganze und vollendete Gut, als Gegenstand des Begehrungsvermögens] degli esseri razionali
finiti: poiché per questo bene si richiede anche la felicità, e invero non semplicemente agli oc-
chi interessati della persona che fa di se stessa lo scopo, ma anche al giudizio di una ragione
disinteressata che considera la virtù in genere nel mondo come fine in sé» (cfr. KpV, Dialetti-
ca della ragion pura pratica, cap. II, p. 243).
123
«Nell’intelligenza affatto sufficiente a se stessa il libero arbitrio vien rappresentato a
ragione come non capace di nessuna massima che nello stesso tempo non possa essere una
legge oggettiva; e il concetto della santità, che perciò le conviene, non la pone invero al di so-
pra di tutte le leggi pratiche, ma al di sopra di tutte le leggi praticamente restrittive, e quindi al
di sopra dell’obbligo e del dovere. Questa santità della volontà è nondimeno un’idea pratica,
la quale deve necessariamente servire di prototipo. Avvicinarsi all’infinito ad essa è l’unica
cosa che appartenga a tutti gli esseri razionali e finiti; e questa idea tiene loro sempre e giu-
stamente davanti agli occhi la legge morale pura, che perciò si chiama anch’essa santa» (cfr.
KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 7, scolio II, pp. 69–71).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 367
non «motivo» determinante della «volontà pura»124; se invece viene in-
teso come inclusivo della moralità, allora esso può considerarsi insie-
me oggetto adeguato e motivo determinante della volontà stessa125. Se
non che, una volontà intesa in questo modo ― e cioè secondo la coor-
dinata formale, ma anche secondo quella referenziale ―, risulta indi-
scernibile rispetto al desiderio nella sua espressione integrale: quella
propria di un «essere razionale finito».
A ben vedere, ciò che Kant rubrica come «facoltà del desiderare», è
la referenzialità dell’appetizione: referenzialità che egli connota come
«eteronomia», solo quando l’oggetto in questione non risulti adeguato
alla formalità trascendentale126 di cui quell’appetizione è capace127.
«Volontà» è appunto la formalità trascendentale, che segna l’appe-
tizione, in quanto è propria di un essere razionale128. Non si tratta dun-
que, neppure nella prospettiva kantiana, di contrapporre desiderio e
volontà129; bensì di riconoscere nella volontà la forma specificamente
124
«Il sommo bene può sempre essere l’intero oggetto [der ganze Gegenstand] di una ragion
pura pratica, cioè di una volontà pura; tuttavia non perciò esso è da ritenersi il motivo determinante
[der Bestimmungsgrund] di questa volontà, e soltanto la legge morale dev’essere considerata come
il motivo» (cfr. KpV, Dialettica della ragion pura pratica, cap. I, pp. 239–241).
125
«Se nel concetto del sommo bene è già inclusa la legge morale come condizione su-
prema [als oberste Bedingung], allora il sommo bene non è semplicemente oggetto [Objekt],
ma il suo concetto, e la rappresentazione dell'esistenza possibile di esso mediante la nostra ra-
gion pratica sono anche nello stesso tempo il motivo determinante [Bestimmungsgrund] della
volontà pura» (cfr. KpV, Dialettica della ragion pura pratica, cap. I, p. 241).
126
Anche qui, il nostro uso dell’aggettivo «trascendentale» non corrisponde all’uso quasi–
tecnico che ne fa il Kant “critico”.
127
«Ora è bensì innegabile che ogni volere deve anche avere un oggetto, e quindi una ma-
teria [Materie]; ma non perciò questa è il motivo determinante e la condizione della massima;
perché se lo fosse, non si potrebbe esporre nella forma [Form] universalmente legislativa,
perché allora l’aspettazione dell’esistenza dell’oggetto sarebbe la causa determinante del libe-
ro arbitrio, e la dipendenza della facoltà di desiderare dall’esistenza di una cosa [die Abhängi-
gkeit des Begehrungsvermögens von der Existenz irgend einer Sache] dovrebbe essere posta a
base del volere, la quale dipendenza può sempre soltanto esser cercata nelle condizioni empi-
riche, e quindi non può mai fornire la base di una regola necessaria e universale» (cfr. KpV,
Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 8, scolio I, p. 73).
128
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 1, p. 39.
129
Nel pensiero di Kant ― osserva opportunamente Paul Ricoeur ― «si può almeno con-
cepire un modo di determinazione soggettiva, che non porterebbe il marchio dell’antagonismo
tra ragione e desiderio. Nessuna riprovazione sarebbe allora connessa alla messa fuori circuito
dell’inclinazione: essa sarebbe squalificata soltanto dalla sua empiricità» (cfr. P. Ricoeur, Soi–
même comme un autre [1990]; trad. it. di D. Iannotta, col titolo: Sé come un altro, Jaca Book,
Milano 1993, Studio VIII, p. 306).
368 Parte quinta: studi su etica e universalità
razionale che il desiderio deve assumere, per non ridursi a configurare
il proprio oggetto come semplice risposta ai «bisogni», che gli fanno
da «materia»130, e che lo spingono immediatamente verso l’empirico131.
È in questo senso, allora, che la «felicità» ― intesa appunto come
semplice soddisfazione dei bisogni particolari ― non può fare da
«motivo determinante» nella formulazione delle massime d’azione132.
La Begierde zur Glückseligkeit («brama di felicità»), a sua volta,
non va intesa come ciò che sarebbe proprio del desiderio, astrazion
fatta dalla volontà; ma piuttosto come la forma ridotta che il desiderio
assume, quando a esso non si coniughi la rettitudine della volontà,
cioè quando il soggetto desiderante trascuri le condizioni etiche del
perseguimento del «bene intero e perfetto». La Begierde, insomma, si
rivela come una velleitaria scorciatoia alla felicità, che non intende
passare attraverso la via stretta della virtù e dell’attesa paziente di ciò
che non dipende in modo sufficiente dalla virtù stessa133. Se non che,
una felicità così intesa, non potrà configurarsi se non nei termini equi-
voci di una soddisfazione puramente empirica134. Una tale felicità non
potrà quindi avere i connotati di quella felicità autentica, che è dimen-
130
È in questione, infatti, il desiderio di un soggetto, la cui appetizione si radica
nell’animalità.
131
«La contentezza per la propria intera esistenza, non è già un possesso originario e una
beatitudine, che supporrebbe una coscienza di autosufficienza e indipendenza, ma un proble-
ma che a quest’essere è imposto mediante la sua stessa natura finita; perché esso ha dei biso-
gni [es bedürftig ist], e questi bisogni riguardano la materia della sua facoltà di desiderare [die
Materie seines Begehrungsvermögens] , cioè qualcosa che si riferisce a un sentimento sogget-
tivo di piacere o dispiacere, che sta alla base, e così è determinato ciò di cui esso abbisogna
per la contentezza del suo stato. Ma appunto perché questo motivo determinante materiale
può esser conosciuto solo empiricamente dal soggetto, è impossibile considerare questo pro-
blema come una legge, perché questa come oggettiva dovrebbe contenere in tutti i casi e per
tutti gli esseri razionali lo stesso motivo determinante della volontà. Poiché sebbene il concet-
to della felicità sia dappertutto a base della relazione pratica degli oggetti con la facoltà di de-
siderare, pure esso è solo il carattere comune dei motivi determinanti soggettivi, e non deter-
mina niente in modo specifico, mentre solo di ciò si tratta in questo problema pratico, il quale
senza quella determinazione specifica non può essere risolto» (cfr. KpV, Analitica della ragion
pura pratica, cap. I, § 3, scolio II p. 51).
132
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 8, scolio I, p. 73
133
«Per materia della facoltà di desiderare [Begehrungsvermögen] intendo un oggetto, la
cui realtà è desiderata. Se il desiderio [Begierde] di questo oggetto precede la legge pratica, ed
è la condizione per cui facciamo di essa un principio, io dico: che allora questo principio è
sempre empirico» (cfr. KpV; Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 2, p. 41).
134
“Equivoci”, diciamo, in quanto presupponenti nell’uomo una natura puramente empirica.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 369
sione astratta del «sommo bene», e che il nostro autore pone come og-
getto necessariamente implicato dal «desiderio di ogni essere raziona-
le finito»135.
È chiaro che, se la felicità in questione è quella inautentica, o empi-
ricamente configurata, essa costituirà, non un luogo di convergenza o
di riconoscimento reciproco, ma piuttosto una potenziale occasione di
discordia per le volontà dei singoli. Infatti, se l’oggetto ultimamente
perseguito viene identificato con un obiettivo empirico, quanto più vi
sarà condivisione degli obiettivi, tanto più sarà facile la contesa per
poterli raggiungere senza la minaccia dei concorrenti136.
Se la Begierde è il volto che il desiderio assume, quando si rivolge
in modo totalizzante a un oggetto non adeguato alla volontà razionale,
e quindi corrisponde al desiderio in quanto «patologicamente» deter-
minato137, il Wunsch sembra essere, nel vocabolario kantiano,
l’appetizione di tipo genericamente naturale (quale può essere ricono-
sciuta, secondo proprie specificazioni, anche agli «esseri irraziona-
135
«Esser felici è necessariamente il desiderio [Verlangen] di ogni essere razionale ma fi-
nito, e perciò un motivo determinante inevitabile della sua facoltà di desiderare [Begehrun-
gsvermögen]» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 3, scolio II, p. 51).
136
«È cosa strana che, siccome il desiderio di felicità [Begierde zur Glückseligkeit], quin-
di la massima mediante la quale ognuno si pone la felicità a motivo determinante della sua vo-
lontà, è universale, così possa essere venuto in mente a uomini di criterio di spacciar questa
massima per una legge pratica universale. Poiché, laddove negli altri casi una legge universale
della natura fa tutto concorde [alles einstimmig macht], qui, se si volesse dare alla massima
l’universalità di una legge, ne seguirebbe proprio l’opposto della concordia [Einstimmung]: il
più grave conflitto e l’intera distruzione della massima stessa e del suo scopo. Poiché in quel
caso il volere di tutti non ha un solo e medesimo oggetto, ma ognuno ha il suo (il proprio be-
nessere), il quale può bensì anche accordarsi accidentalmente con le intenzioni che altri rivol-
gono parimenti a se stessi, ma è del tutto insufficiente a far una legge, perché le eccezioni che
all’occasione si ha il diritto di fare, sono infinite, e non possono punto esser contenute in mo-
do determinato in una regola universale. In questo modo risulta un’armonia, la quale è simile
a quella che una certa satira rappresenta a proposito della concordia di due sposi che si rovi-
nano: ‘O mirabile armonia, quello che lui vuole, vuole anche lei’, ecc.; o è simile anche a ciò
che si racconta dell’impegno preso dal re Francesco I verso l’imperatore Carlo V: ciò che mio
fratello Carlo vuole (Milano), lo voglio anch’io. I motivi determinati empirici non sono atti a
nessuna legislazione universale esterna, ma neanche a una legislazione universale interna;
poiché a base dell’inclinazione questi pone un soggetto, ma un altro, un soggetto tutto diverso,
e anche in ciascun soggetto è ora un’inclinazione, ora un’altra che ha l’influsso maggiore. È
assolutamente impossibile trovare una legge che regga tutte le inclinazioni sotto questa condi-
zione, cioè in concordia [Einstimmung] universale» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pra-
tica, cap. I, § 4, scolio, pp. 57–59).
137
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. III, pp. 161–163.
370 Parte quinta: studi su etica e universalità
li»)138. Il secondo caso, è probabilmente quello che lo stesso autore in-
dica parlando di una «facoltà di desiderare inferiore» [unteres Bege-
hrungsvermögen] ― ma meglio sarebbe dire «generica» ―, che an-
drebbe distinta da una «facoltà di desiderare superiore» [oberes Bege-
hrungsvermögen]139: identificabile, quest’ultima, con il desiderio o-
rientato da quella sua specifica modalità che è la volontà, ovvero il de-
siderio determinato secondo ragione140.
9. Una concezione ambivalente della relazione interpersonale
Ciò che obiettivamente emerge dal testo kantiano è comunque che
la custodia esercitata dalla volontà sul desiderio porta quest’ultimo a
riconoscere come referente a sé appropriato la persona: la persona in
quanto tale, di cui l’unica realizzazione pienamente adeguata è quella
divina. L’ideale del sommo bene è la figura che rappresenta, appunto,
la relazione felicitante con la Persona assoluta: relazione che, per esse-
re veramente tale, deve realizzare la condizione (necessaria, ancorché
insufficiente) della virtù. Del resto, la virtù kantianamente consiste
nella promozione di quel che è proprio, non di un singolo portatore
della struttura personale, ma piuttosto della persona in quanto tale, e
quindi di ciò che necessariamente appartiene alla persona in universa-
le. Rispettare tutto ciò significa porre, per quanto sta in noi, la possibi-
lità di incontrare l’oggetto proprio del desiderio.
Ora, nel testo kantiano l’implicazione di un’alterità personale è in-
dicata come condizione di possibilità, non del darsi della legge mora-
le, ma solo della piena «intuibilità» di essa141. Ciò non toglie che la
struttura e l’orientamento della legge morale presuppongano semanti-
camente (nel senso della Voraussetzung) l’esistenza di una comunità
interpersonale, effettivamente dotata di quella «natura razionale» cui
138
Cfr. KpV, Dialettica della ragion pura pratica, cap. II, pp. 273 e 287. È questo il deside-
rio che, in quanto umano, potrà dirsi «patologicamente determinabile» [pathologisch bestim-
mbares] (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. III, p. 163).
139
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 3.
140
«Soltanto la ragione, in quanto determina per se stessa la volontà (non in servigio delle
inclinazioni), è una vera facoltà superiore di desiderare, a cui è subordinata quella patologica-
mente determinabile» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 3, scolio I, p. 49).
141
Cfr. Met, Conclusione di tutta l’etica, p. 368.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 371
Kant continuamente fa riferimento: quindi, senza l’effettiva alterità
d’altri, l’imperativo kantiano sarebbe una struttura antifrastica.
Eppure, nell’etica kantiana, altri non sembra essere mai realmente
attinto, se non in forma schematica: ovvero, come prodotto dell’imma-
ginazione trascendentale, sotto cui organizzare sperimentalmente
un’alterità semplicemente empirica (e, come tale, non ancora dotata di
«dignità»). In fondo, la distinzione kantiana tra homo phäenomenon e
homo noumenon corrisponde, anche in dimensione intersoggettiva, al-
la distinzione tra un materiale empirico e un ideale della ragione, che
lo schema della comunità universale operante ― l’idea pratica di «u-
manità» ― deve accordare tra loro142.
A rigore, l’imperativo kantiano deve essere inteso così: tratta gli al-
tri animali razionali (e te stesso, come uno tra loro) “come se” essi
fossero (e tu fossi) persona, cioè homo noumenon. All’interno del dua-
142
Sull’aporeticità del dualismo antropologico kantiano ha insistito opportunamente, pur
in una prospettiva che guarda al materialismo storico, Galvano Della Volpe. «Secondo Kant»
― egli scrive ―, «l’uomo, ‘in quanto essere morale’ o ‘persona’, è ‘homo noumenon’, appar-
tiene cioè al sovrasensibile, al mondo intelligibile o puramente razionale: e in questo senso è
‘ente razionale’ e ‘io vero’, ché l’uomo come semplice animal rationale non è invece che
l’‘homo phaenomenon’, l’uomo fenomenico o l’individuo empirico, economico. Per ciò il be-
ne morale non può essere costituito che dalla ‘rappresentazione della legge in se stessa’, il che
ha luogo, appunto, in un ‘ente razionale’ (puro), in quanto in esso ‘solo tale legge e non un ef-
fetto sperato dall’azione è la determinante del volere’: ossia in quanto la volontà è determinata
dalla ‘rappresentazione immediata della legge’, dall’universale puro. [...] Di conseguenza, la
formula più semplice dell’‘imperativo categorico’ [...] suona nelle parole famose così: ‘Agisci
unicamente secondo la massima che puoi volere ad un tempo che divenga legge universale’.
Esempio: della massima d’azione, che prescriva la non restituzione di un deposito affidatomi
senza prova ch’altri possa esibire, non può esser fatta una ‘legge pratica universale’, perché
un tale principio d’azione ‘come legge’ distruggerebbe se stesso, in quanto ‘farebbe sì che non
vi sarebbe affatto alcun deposito’, cioè alcuna proprietà. Parimente si dica per una ‘falsa pro-
messa’ e così via. La debolezza di questo moralismo kantiano, di questo purismo etico, non
risiede veramente dove l’ha vista la tradizione etica postkantiana, romantica e sedicente stori-
co–dialettica, da Schiller a Croce. Non risiede in un rigorismo morale, in un astrattismo che
sacrificherebbe l’individuo, la passione, il ‘concreto’ edonistico. In questo, se mai, sta il suo
merito storico [...]. Bensì la sua debolezza vera risiede in un diverso astrattismo, condiviso
dagli stessi romantici e idealisti, dagli stessi suoi critici tradizionali: l’astrattismo dell’interio-
riorità originaria del valore, della persona originaria, metastorica. L’astrattismo di chi, conce-
pendo il costituirsi dell’individuo come persona per una investitura extrastorica del valore, in-
tende separare la persona umana e la sua dignità e i correlativi diritti dal valore o universale
che solo la può realmente investire persona, dal valore o universale storico consistente nel ge-
nere o universale umano, cui appartiene l’individuo, e specificamente consistente nella comu-
nità o società non metaforica o mistica degli interessi umani» (cfr. G. Della Volpe, Rousseau
e Marx e altri saggi di critica materialistica, pp. 26–28).
372 Parte quinta: studi su etica e universalità
lismo antropologico, del resto, un’alterità, intesa come discontinuità
reale, ha senso solo tra persona e persona, e non tra persona e animale
razionale: infatti quest’ultimo, nell’ipotesi dualistica, appartiene senza
residui all’ambito empirico che la persona costituisce intorno agli assi
portanti delle proprie strutture a priori.
Dunque, il soggetto morale kantiano, sebbene orientato all’alterità
personale come a ciò che dà senso alla sua appetizione, sembra con-
dannato ad avere a che fare effettivamente solo con se stesso, usando
l’altro da sé come il semplice materiale attraverso cui ritornare sulla
coerenza del proprio volere: appunto, «facendo astrazione da ogni e-
lemento empirico [von allem Empirischen]»143, e quindi dai «rapporti
empirici»144.
E persino il rapporto educativo sembra essere, per Kant, un’occa-
sione di incontro dell’educando con l’«idea di umanità» e con la «leg-
ge morale» di cui quella è schema; ma non sembra essere l’occasione
di un incontro dell’educando con la persona del «maestro» (ridotto,
quest’ultimo, al ruolo di vivente «prova della possibilità di agire con-
formemente al dovere»)145.
Sembra che in questa prospettiva non ci sia realmente spazio per al-
tri, bensì solo per una generica alterità che funziona come materiale da
offrire alla forma pura dell’imperativo, e da schematizzare attraverso
un modello immaginativo puro146. In tal senso, si può dire che l’espe-
143
Cfr. ZeF, Appendice, p. 149.
144
Salvo il rischio di ricadere poi acriticamente, per i motivi che sappiamo, in modelli di
rapporto dettati dalla consuetudine sociale o dal senso comune storicamente segnato.
145
«Il mezzo sperimentale (tecnico) per coltivare la virtù è il buon esempio dato dal mae-
stro stesso (cioè l’avere egli una condotta esemplare), esempio che è di ammonimento agli al-
tri; perché l’imitazione è per l'uomo ancora incolto il primo impulso che determina la sua vo-
lontà ad accogliere le massime, che egli in seguito farà sue. [...] Il buon esempio non deve
servire come modello, ma soltanto come dimostrazione e prova della possibilità di agire con-
formemente al dovere. Non è dunque il paragone con qualsiasi altro uomo (come costui è) ma
soltanto il paragone con l’idea (dell’umanità), cioè come egli dovrebbe essere, è quindi soltan-
to il paragone con la legge che deve fornire al maestro l’infallibile criterio su cui orientare la
sua opera educativa» (cfr. Met, Dottrina del metodo dell'etica, § 52, pp. 358–359).
146
Ricoeur opportunamente sottolinea la discontinuità, rilevabile nel testo kantiano, tra
«idea di umanità» e «idea delle persone». «L’idea di umanità, in quanto termine singolo, vie-
ne introdotta sul prolungamento dell’universalità astratta che regola il principio di autonomia,
senza accezione di persone; di rimando, l’idea delle persone come fini in sé, richiede che si
tenga conto della pluralità delle persone, senza, tuttavia, che si possa condurre questa idea fi-
no a quella di alterità. Ora, nell’argomentazione esplicita di Kant, tutto mira a privilegiare la
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 373
rienza morale venga tradotta da Kant in mero esperimento morale.
Non dobbiamo allora meravigliarci che, quando Kant giunge al dun-
que ― cioè arriva a porsi il problema di un’alternativa in cui siano in
gioco, da un lato, il rispetto dello schema dell’umanità universale, e,
dall’altro, il rispetto della singolarità personale ―, finisca per privile-
giare il primo a discapito del secondo.
Verifica di questa conclusione, cioè della tendenziale riduzione del-
la persona a principio disincarnato rispetto alla singolarità dell’indi-
viduo umano, si trova nell’articolo Sul preteso diritto di mentire per
amore degli uomini. Qui, com’è noto, il nostro autore ― riprendendo
un tema diversamente svolto da Agostino147 ― nega che sarebbe lecito
mentire all’assassino che ci domandasse se un nostro amico, da lui
perseguitato, si sia rifugiato in casa nostra148. E un’analoga imposta-
zione troviamo, riguardo al caso del deposito, nel saggio Sul detto co-
continuità, che l’idea di umanità assicura, con il principio di autonomia, a scapito della di-
scontinuità inconfessata che segna l’improvvisa introduzione dell’idea di fine in sé e delle
persone come fini in se stesse. [...] Introdotta come termine mediatore fra le diversità delle
persone, la nozione di umanità ha come effetto di attenuare, fino al punto di estrometterla,
l’alterità che sta alla radice di questa stessa diversità e che viene a drammatizzare la relazione
dissimmetrica di potere di una volontà su di un'altra, cui fa fronte la Regola d’Oro. [...] Ora,
l’umanità considerata non nel senso estensivo o enumerativo della somma degli umani, ma
nel senso comprensivo o di principio di ciò che rende degni di rispetto, non è altro che
l’universalità considerata dal punto di vista della pluralità delle persone: ciò che Kant chiama
‘oggetto’ o ‘materia’» (cfr. Ricoeur, Soi–même comme un autre, Studio VIII, pp. 323–324).
Se non che, la formulazione personalista dell’imperativo è in grado ― secondo Ricoeur ― di
riequilibrare il quadro. Infatti, «qui, la nozione di persona in quanto fine in sé viene ad equili-
brare quella di umanità, nella misura in cui essa introduce nella formulazione stessa
dell’imperativo la distinzione fra la ‘tua persona’ e la ‘persona di ogni altro’. Soltanto con la
persona viene la pluralità» (cfr. ibi, p. 325). Kant non ha avvertenza ― secondo Ricoeur ―
della tensione da lui stesso suscitata tra l’«universalismo» dell’idea di umanità e il «plurali-
smo» dell’idea di persona. «La possibilità di un conflitto sorge tuttavia dal momento che
l’alterità delle persone, inerente all’idea stessa di pluralità umana, si rivela, in certe circostan-
ze degne di nota, come incoordinabile con l’universalità delle regole che sottendono all’idea
di umanità; il rispetto tende, allora, a scindersi in rispetto della legge e rispetto delle persone.
La saggezza pratica, in queste condizioni, può consistere nel conferire priorità al rispetto delle
persone, nel nome stesso della sollecitudine verso le persone nella loro insostituibile singolari-
tà: quella che ― a giudizio di Ricoeur ― «fa di ciascuna di esse un’eccezione» (cfr. ibi, Stu-
dio IX, pp. 369–373).
147
Cfr. Agostino, De Mendacio, 5; testo latino del Migne: PL 40.
148
Cfr. Über ein vermeintes Recht aus Menschenliebe zu lügen (1797), in Kant's gesam-
melte Schriften, Band VIII; trad. it. di G. Solari, col titolo: Sopra un preteso diritto di mentir
per amore dell’umanità, in Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura
di G. Solari ― G. Vidari, UTET, Torino 1965, pp. 359–365.
374 Parte quinta: studi su etica e universalità
mune: ciò può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi; dove
l’obbligo alla restituzione ― contrariamente alla più equilibrata indi-
cazione di Platone149 ― viene astrattamente assolutizzato, pur nella
ragionevole certezza che il restituire vada ad assecondare intenti evi-
dentemente contrari al bene delle persone150.
Dunque, se da una parte Kant è consapevole che la tensione teleo-
logica porta il desiderio verso la persona, riconosciuta come fine in sé;
d’altra parte, l’esigenza di conformazione allo schema sembra vietare
che, del riconoscimento in questione, venga investita la singolarità
personale ― stante l’inevitabile compromissione di questa con il
mondo empirico.
In realtà, non mancano affatto nel testo kantiano anche indicazioni
di segno diverso da quello fin qui rilevato. Basterebbe, al riguardo, ri-
percorrere le pagine della Metafisica dei costumi dedicate alla «Dot-
trina degli elementi dell’etica». Qui, in più occasioni, la persona e la
relazione interpersonale vengono presentate come realtà effettivamen-
te esistenti e incontrabili, e non come idee regolative; non solo, ma la
concreta persona viene indicata, almeno in un luogo, come «il sogget-
to che obbliga»151.
Non si tratta di una sottigliezza trascurabile. Infatti, una cosa è rite-
nere meritevole di rispetto la persona in astratto, cioè la «personalità»
[Persönlichkeit] ― di cui il singolo uomo può essere portatore ―; al-
tra cosa è ritenere meritevole di rispetto la persona concreta, che il
singolo uomo è. Se «personalità» è la qualità personale di cui l’uomo
è portatore, in quanto è «dotato di libertà»152 ― e perciò di «dignità»153
―, in quanto esercita il giudizio della coscienza e vive moralmente154,
non sarebbe difficile concludere che il fine in sé, enfatizzato dall’etica
149
Cfr. Platone, Repubblica, I, 331c–332a.
150
Cfr. ÜdG, pp. 150–151.
151
«Il soggetto che costringe (che obbliga) deve prima di tutto essere una persona, e in se-
condo luogo questa persona deve esserci data come un oggetto d’esperienza, perché l'uomo
deve concorrere al fine della di lei volontà, ciò che è soltanto possibile nel rapporto reciproco
di due esseri esistenti (perché un puro ente di pensiero non può essere causa di un qualsiasi ef-
fetto che accada secondo fini). Ora tutta la nostra esperienza non ci fa conoscere altro essere
capace di obbligazione (attiva o passiva) se non l’uomo» (cfr. Met, Dottrina degli elementi
dell’etica, § 16, p. 303).
152
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 3, p. 273.
153
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 38, p. 334.
154
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 9, p. 288.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 375
kantiana, risieda appunto qui: nella personalità, anziché nella persona
individua. In questo caso, il rispetto dovrebbe limitarsi a investire
l’uomo, in tanto in quanto esso fosse riconosciuto come persona.
Nell’altro caso, l’incondizionatezza del rispetto riguarderebbe l’uomo
stesso in quanto tale. Del resto, questa investitura dell’umano in quan-
to tale con i tratti del personale, è esplicitamente compiuta da Kant,
almeno in qualche occasione155.
Ancora in favore della seconda ipotesi, si può ricordare che gli svi-
luppi dell’etica speciale kantiana fanno costante appello al «dovere
verso se stessi e verso gli altri», cioè a un dovere che, considerato in
relazione alla persona concreta (propria e altrui) come soggetto obbli-
gante, può dirsi responsabilità156. I contorni di tale responsabilità ven-
gono addirittura a precisarsi nel dovere di far propri «i fini» (leciti) gli
uni degli altri157: cosa, quest’ultima, che risulta diversa dalla semplice
assunzione della persona come «fine in sé», in quanto prevede la com-
misurazione con le particolarità dei singoli soggetti. Infatti, dove si
parla al plurale di «fini», e ci si preoccupa di connotarli come leciti, si
155
«L’umanità in se stessa è una dignità, poiché l’uomo non può essere trattato da nessu-
no come un semplice mezzo, ma deve sempre essere trattato nello stesso tempo come un fine;
e precisamente in ciò consiste la sua dignità (la sua personalità) » (cfr. Met, Dottrina degli e-
lementi dell’etica, § 38, pp. 333–334).
156
Si pensi emblematicamente ai due casi con i quali, rispettivamente, si apre e si chiude
la «Dottrina degli elementi dell’etica»: il caso della conservazione di sé, e quello delle pratica
delle virtù omiletiche. «Il suicidio è un delitto (omicidio). Veramente lo si potrebbe anche
considerare come una trasgressione del nostro dovere verso gli altri uomini (degli sposi l’uno
verso l’altro, dei genitori verso i figli, dei sudditi verso la loro autorità di governo o verso i lo-
ro concittadini, finalmente anche come una trasgressione del dovere verso Dio nel senso che
l’uomo abbandona così, senza esservi comandato, il posto che gli è stato affidato in questo
mondo), ma qui si tratta soltanto di stabilire se [...] sia una violazione del dovere verso noi
stessi» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 6, p. 278). «È un dovere tanto verso se
stessi che verso gli altri immettere nella circolazione sociale le proprie perfezioni etiche, non
isolarsi, e infine non dimenticare, pur costruendosi un punto centrale fisso dei propri principi,
che il circolo che uno traccia attorno a se stesso va considerato anche come una parte di un
circolo più grande che abbraccia tutto, vale a dire del circolo dei sentimenti cosmopolitici; più
che proporsi come scopo la felicità del mondo, è un dovere coltivare soltanto i mezzi che vi
conducono indirettamente, cioè la gentilezza nelle relazioni sociali, l’affabilità, l’amore e il ri-
spetto reciproco» (cfr. ibi, § 48, p. 351).
157
«Il dovere dell’amore del prossimo può essere, dunque, anche espresso come dovere di
far propri i fini degli altri (in quanto questi non siano immorali); il dovere del rispetto dei miei
simili è contenuto nella massima che proibisce di abbassare chiunque al rango di puro mezzo
per i miei fini (proibisce cioè di esigere che altri debba rinnegare se stesso per farsi servo di
fini miei)» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 25, p. 317).
376 Parte quinta: studi su etica e universalità
pensa a fini progettati dai singoli ― a fini di fatto ―, piuttosto che al-
la finalità che caratterizza una natura (nel nostro caso, quella persona-
le) considerata in sé e per sé.
Quando l’assunzione dei rispettivi fini è reciproca, ed è accompa-
gnata dal reciproco rispetto, Kant parla di «amicizia» [Freundschaft],
presentandola come la sintesi stessa degli elementi dell’etica158. È
nell’amicizia, del resto, che diventa possibile superare la «prigione
della solitudine», cui le relazioni anonime sembrerebbero condannare
l’uomo, che è viceversa «destinato alla socialità»159. Resta comunque
il fatto che una tale amicizia, moralmente orientata, è detta essere, dal-
lo stesso Kant, «una semplice idea, sia pure praticamente necessa-
ria»160: dunque, una «idea pratica» ― nel senso schematico che già
conosciamo161.
In ogni caso, le espressioni che abbiamo richiamato poco fa, sem-
brano nel complesso incoraggiare una lettura autenticamente persona-
lista della filosofia pratica di Kant. In tal senso, c’è chi ha sostenuto,
158
«L'amicizia è l’unione di due persone legate da un uguale reciproco amore e rispetto
[Vereinigung zweier Personen durch gleiche wechselseitige Liebe und Achtung]. Si compren-
de facilmente che essa è un ideale di simpatia e di benevolenza tra uomini uniti da una volontà
moralmente buona, e che [...] rende l’uomo degno di essere felice, e che quindi il cercare
l’amicizia è un dovere per gli uomini stessi. Ma che l’amicizia sia una mera idea [eine bloße
Idee] (però praticamente necessaria [praktischnothwendige]) la quale, sebbene impossibile da
realizzare in modo compiuto, è però imposta dalla ragione come un dovere, se non comune
certo onorifico, al quale bisogna tendere (come a un massimo dei buoni sentimenti degli uo-
mini gli uni verso gli altri), è una cosa che si scorge facilmente» (cfr. Met, Dottrina degli ele-
menti dell’etica, § 46, p. 345).
159
«L’amicizia morale è la fiducia assoluta che due persone si dimostrano l’una verso
l’altra, comunicandosi reciprocamente tutti i loro più segreti pensieri e sentimenti, nella misu-
ra in cui ciò si può conciliare con il loro vicendevole rispetto. L’uomo è un essere destinato
alla socialità, e coltivando il proprio stato sociale egli sente potente e vivo il bisogno di e-
spandersi agli altri [...]. Se egli trova dunque un uomo d’intelletto e di buona indole, a cui [...]
egli possa aprire il proprio cuore con piena fiducia, e con il quale egli si trova in assoluto ac-
cordo circa il modo di giudicare le cose, allora gli è concesso di manifestare liberamente i suoi
pensieri, allora egli non è più tutto solo con le sue idee come in una prigione, ma gode al con-
trario di una libertà della quale invece egli si vede privato nelle sue relazioni con la grande
folla, dove è costretto a rinchiudersi in se stesso» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica,
§ 47, pp. 348–349).
160
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 46, p. 345.
161
Ma anche su questo giudizio Kant oscilla; tanto che, poche pagine dopo, leggiamo:
«Eppure questa amicizia puramente morale non è soltanto un ideale, questo cigno nero si mo-
stra realmente di quando in quando in tutta la sua perfezione» (cfr. Met, Dottrina degli ele-
menti dell’etica, § 47, p. 349).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 377
anzitutto, che il regno dei fini sia «il trascendentale fatto persona o,
più precisamente, il trascendentale espresso come rapporto interperso-
nale»162; e, in secondo luogo, che ― per Kant ― «la persona sia la ra-
zionalità vivente in una coscienza individuale»163. Così, la «dignità» e
il «rispetto» andrebbero a investire originariamente la singola indivi-
dualità personale164. Non solo, ma il «rispetto» ― caso unico di un
«sentimento a priori» ― costituirebbe un’originaria apertura del sog-
getto morale all’intersoggettività165.
Ora, una simile lettura della filosofia pratica di Kant, non solo è si-
curamente autorizzata da un certo numero di testi ― da noi stessi, per
altro, già in parte richiamati ―, ma può, anzi, essere ulteriormente ra-
dicalizzata. Basti pensare a come ― già nella Fondazione, ma ancor
162
Cfr. G. Dotto, Il regno dei fini come trascendentale interpersonale, in Aa. Vv., Ricer-
che sul trascendentale kantiano, p. 139. «La nozione di trascendentalità ha avuto un suo chia-
rimento alla luce della metafisica dei costumi, nella quale la dottrina del Reich der Zwecke ha
indicato una possibile linea di sviluppo. Il trascendentale è passato da ‘struttura–unione siste-
matica delle condizioni’ a ‘struttura–unione sistematica di finalità’. Si è avuta così
l’indicazione di un nuovo tipo di universalità, il cui luogo speculativo è la persona e il rappor-
to interpersonale» (cfr. ibi, p. 146).
163
Cfr. G. Dotto, Il regno dei fini come trascendentale interpersonale, p. 142. «Il concetto
di ‘unione sistematica’, con cui Kant ha indicato il Reich der Zwecke, non si riferisce affatto
ad una comunità astratta e vuota, costituita da esseri puramente razionali. Il Reich der Zwecke
è un ordinamento interpersonale. Ciò che rende persona è la razionalità, ma la razionalità da
sola non è persona. La persona è la razionalità vivente in una coscienza individuale. Si è potu-
ta delucidare la nozione di persona osservandone la rilevanza al livello del ‘rispetto’, un ri-
spetto suscitato dalla consapevolezza di essere alla presenza di una coscienza informata dalla
legge razionale» (cfr. ibi, p. 142).
164
«Che senso ha l’individualità del singolo pensante? Forse quello di pura empiria, da
isolare dalla purezza della conoscenza trascendentale?» (cfr. ibi, p. 139).
165
«Questo sentimento a–priori costituisce un’unità soggettiva: le persone lo portano ori-
ginariamente con sé e possono così inserirsi nell’ordine morale comune. [...] Ed è proprio il
rispetto ad essere il primo elemento della reciprocità delle persone [...]. L’opposizione
all’egoismo ed il suo superamento avviene in virtù di questo sentimento che lega profonda-
mente l’uomo agli altri uomini. [...] La persona, fine in sé, non può non suscitare il rispetto,
permette un’esperienza del trascendentale naturalmente allargata ad una vita interpersonale.
L’unione sistematica viene a configurarsi appunto come rispetto trascendentale. L’esperienza
del trascendentale è un dato fenomenologico che può dar luogo ad una connotazione di psico-
logia purificata. Sono nozioni estranee alla tematizzazione kantiana e per le quali Kant non
aveva gli strumenti delucidativi. Rimangono tuttavia non solo come indicazioni suggestive,
ma pure come spunti fecondi per un ripensamento teoretico. [...] Ci sembra, in conclusione,
che Kant non possa fare a meno di porsi a livello della concretezza personale, e, a questo li-
vello, egli attinge una teoreticità in cui è impegnata la razionalità in atto, unita ad un senti-
mento che si impone universalmente e che è dunque necessario» (cfr. ibi, pp. 143–146).
378 Parte quinta: studi su etica e universalità
più palesemente nella Metafisica ― la formulazione personalista
dell’imperativo possa offrire la suggestione dell’etica kantiana come
di un’etica della reciprocità riconoscente166. Infatti, il quadro che im-
mediatamente se ne ottiene è quello di una relazione tra soggetti uma-
ni in cui ciascuno ha la persona ― propria e altrui ― a fine del pro-
prio agire167, così che l’ideale regolativo della relazione interpersonale
si rivela essere ― anche per Kant ― quello del riconoscimento «chia-
smatico»168 (che corrisponde poi, con le dovute precisazioni, alla figu-
ra del «regno dei fini»). L’ideale regolativo, di un’estensione univer-
sale del riconoscimento reciproco, è ciò su cui insiste il «desiderio»;
mentre la volontà propriamente detta è chiamata a fare i conti con la
complessità delle situazioni, con la loro varietà di prossimità e di ur-
genze pratiche169.
In ogni caso, la complessa fenomenologia della relazione intersog-
gettiva, che l’autore ci offre nella «Dottrina degli elementi dell’etica»,
dà alla lettura personalista del pensiero kantiano la più ampia giustifi-
166
O dell’«amore reciproco» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 24, p. 316).
167
«Per ciò che concerne la materia, la dottrina della virtù non deve essere considerata uni-
camente come una dottrina del dovere in generale, ma anche come una teleologia: l’uomo è ob-
bligato infatti a concepire se stesso e a concepire inoltre tutti gli altri uomini come un suo pro-
prio fine; questo si usa chiamare il dovere dell’amore di sé e il dovere dell’amore del prossimo;
le quali espressioni, però, sono considerate qui in significato improprio, perché se l’amare non
può essere direttamente un dovere, lo è invece l’agire in modo da prendere se stessi e gli altri
uomini come fine» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, XVIII, p. 264).
168
Sul «chiasma» che si realizza, quando due soggettività si offrono reciprocamente la signo-
ria, mentre si dichiarano l’una finalizzata all’altra, si veda: C. Vigna, Etica del desiderio umano, in
Aa. Vv., Introduzione all’etica, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 153.
169
«Ma uno può interessarmi più da vicino di un altro, e colui che mi tocca più da vicino
in fatto di benevolenza sono io stesso. Ora, come può ciò accordarsi con la formula ‘Ama il
tuo prossimo come te stesso’? Se v’è chi mi è più vicino (nel dovere della benevolenza) di un
altro, se verso costui io sono dunque obbligato a una maggior benevolenza che verso gli altri,
pur restando io costantemente più vicino a me stesso (anche dal punto di vista del dovere) di
ogni altro, io allora, a quanto pare, non posso dire senza contraddizione che ‘debbo amare o-
gni uomo come me stesso’, perché la misura dell’amore di sé non ammette nessuna differenza
nel grado. Si scorge subito che qui non si intende solamente la benevolenza limitata al deside-
rio, la quale propriamente è soltanto un mero compiacimento per il benessere altrui senza che
vi si debba contribuire, ma si tratta di quella benevolenza attiva e pratica che consiste nel pro-
porsi per fine il benessere e la salute degli altri (ciò che si chiama beneficenza). Nel desiderio,
infatti, posso essere benevolo verso tutti in pari grado; all’atto del fare pratico però, senza vio-
lare l’universalità della massima, il grado può essere molto diverso, secondo la differenza del-
le persone amate (di cui una m’interessa più da vicino di un’altra)» (cfr. Met, Dottrina degli
elementi dell’etica, § 28, pp. 319–320).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 379
cazione. Si tratterà, semmai, di valutare se ciò corrisponda alla ideale
linea di sviluppo del pensiero etico kantiano, o non, piuttosto, a una
sua (per altro felice) incoerenza.
10. Note conclusive
10.1. Ricapitolazione
È tempo, ormai, di avviare a conclusione la nostra indagine. Il per-
corso che abbiamo seguito, ci ha portato a mettere in luce come qual-
che analogato dello schematismo trascendentale operi in ogni ámbito
della filosofia kantiana; e, in particolare, nell’etica. Qui, l’equivalente
dello schematismo della ragion pura è la «tipica» della ragion pratica
(cioè, la riconduzione sperimentale della legge morale a legge di una
natura possibile), e l’equivalente dello schema è l’immagine pura di
una comunità universale e operante degli esseri razionali.
Quest’ultima serve a rendere omogeneo all’esperienza morale ef-
fettiva, l’ideale del regno dei fini; il che accade attraverso l’esperimen-
to mentale dell’universalizzazione delle massime. L’analisi degli espe-
rimenti mentali prodotti da Kant, ci ha portato a distinguere tra una ti-
pologia eidologica, in cui viene suscitata l’ipotesi di una contraddizio-
ne interna al mondo (esso stesso ipotetico) che si genera dall’universa-
lizzazione immaginaria di una certa massima; e una tipologia buletica,
in cui viene suscitata l’ipotesi di una contraddizione interna all’atto
stesso del volere una certa massima e, a maggior ragione, del volere
l’universalizzazione di questa. Ora, portando a fondo l’analisi della ti-
pologia buletica dell’esperimento mentale kantiano, abbiamo visto
come la formulazione personalista dell’imperativo rappresenti l’espli-
citazione di una dimensione referenziale, che implicitamente si trova
anche nelle altre formulazioni del medesimo.
Abbiamo anche potuto constatare come né le obiezioni hegeliane
né il paradosso di Lacan colpiscano di fatto la tipologia buletica
dell’esperimento mentale kantiano; e come, invece, questa abbia il
merito di mettere in luce la questione decisiva di una filosofia morale:
quella che riguarda la qualità del volere e del desiderare, e la reciproca
connessione di queste due figure.
380 Parte quinta: studi su etica e universalità
Così pure abbiamo constatato come la cura che il volere è chiamato
a esercitare sul desiderare, abbia di mira il riconoscimento esplicito e
pratico, da parte di quest’ultimo, della persona quale proprio referente
adeguato. Resta però intatta, a questo punto, l’ambivalenza che tro-
viamo inscritta in tutto il percorso etico kantiano: quella che oscilla tra
il prevalere della tensione teleologica e il prevalere del conformismo
schematico. La posta in gioca è che, della dignità personale ― con il
rispetto incondizionato a essa dovuto ―, venga o meno realmente in-
vestito l’individuo umano in quanto tale, e non soltanto un’astratta
«personalità», ai cui tratti ideali i singoli uomini possano offrire occa-
sionali punti di appoggio “materiale”.
10.2. Desiderio e volontà
Come abbiamo visto, per Kant desiderio e volontà sono nell’uomo
distinguibili, ma non separabili. E le due figure non si distinguono per
la portata empirica della prima, e trascendentale della seconda: quasi
fossero due modi alternativi di atteggiarsi ― uno contrastante e l’altro
assecondante la ragione ―, posti dalla medesima facoltà di appetizio-
ne. Si tratta piuttosto di due aspetti complementari di una medesima
facoltà di appetizione: entrambi a vocazione trascendentale, ed en-
trambi tentati di rinchiudersi nell’empirico170.
La distinzione autentica tra essi si potrà piuttosto riconoscere nei
motivi seguenti. Anzitutto, se il desiderio [Begehrung o Verlangen] è
la tendenza a un obiectum che sia soddisfacente per un essere raziona-
le finito, la volontà [Wille] è lo stesso desiderio che diventa prassi, e
che cerca il conseguimento di quell’obiectum: una capacità pratica (la
170
Particolarmente attento alla tensione tra formalismo e teleologia, che attraversa la filoso-
fia morale kantiana, è Paul Ricoeur. Questi, nell’Ottavo Studio di Soi–même comme un autre, af-
ferma che «la volontà nella morale kantiana prende il posto che il desiderio razionale occupava
nell’etica aristotelica; il desiderio si riconosce dalla sua prospettiva, la volontà dal suo rapporto
alla legge; essa è il luogo della questione: ‘Cosa debbo fare?’. In un vocabolario a noi più vicino,
potremmo dire che il volere si esprime in atti di discorso che dipendono dalla famiglia degli im-
perativi, mentre le espressioni verbali del desiderio ― ivi compresa la felicità ― sono atti di di-
scorso di tipo ottativo» (cfr. P. Ricoeur, Soi–même comme un autre, Studio VIII, p. 304). Il ten-
tativo di Ricoeur sembra quello di «resistere» all’«accusa classica di rigorismo, secondo cui
Kant riterrebbe il desiderio come intrinsecamente ostile alla razionalità»: resistenza difficile, dal
momento che Kant sembra stipare, un po’ alla rinfusa, nella «facoltà di desiderare» gli elementi
vari che si oppongono alla purezza della ragion pratica (cfr. ibi, p. 308).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 381
volontà), che si innesta in una struttura finalistica (il desiderio). In se-
condo luogo, se il desiderio è materialmente referenziale, ovvero ter-
mina in una oggettualità che non gli è determinatamente nota, la vo-
lontà si occupa di come praticamente dare corso alla tensione perma-
nente del desiderio, in modo che questa non fallisca il proprio obietti-
vo ― che pure rimane imperscrutabile nei suoi connotati ultimi.
Il punto è che entrambe le figure, e non solo una delle due, hanno
da salvare la loro portata trascendentale. Del resto, se il desiderio non
avesse anch’esso originariamente una struttura trascendentale, non po-
trebbe neppure essere educato alla trascendentalità da parte della vo-
lontà. Le due figure ― come abbiamo anticipato ― andrebbero dun-
que intese come due dimensioni, l’una teleologica (il desiderio) e
l’altra pratica (la volontà), di una medesima struttura appetente. La vo-
lontà, in quanto «pura», cioè in linea con la razionalità, avrà cura che
il desiderio non si attesti su oggetti inadeguati alle esigenze che il per-
seguimento della felicità comporta per un essere razionale; ma reci-
procamente ― ed è questo l’aspetto che Kant considera solo implici-
tamente ―, anche il desiderio, nella sua intenzionalità originaria, do-
vrà impedire che la volontà si conformi a massime che, pur senza ge-
nerare mondi inconsistenti (autocontraddizioni eidologiche), sviluppi-
no comunque contenuti indesiderabili, nel preciso senso di inadeguati
alla portata autentica del Begehrungsvermögen.
In fondo, l’autocontraddizione buletica, di cui dicevamo, è proprio
l’incompatibilità tra i contenuti che la volontà del soggetto riesce coe-
rentemente a progettare, da una parte, e, dall’altra, il contenuto che la
dimensione desiderante della medesima volontà ha inevitabilmente
presente come proprio termine adeguato171: quello che viene indicato
171
Giampaolo Azzoni, nella sua approfondita analisi dei due tipi di autocontraddizione
suscitati da Kant, sostiene che sia illuminante considerare l’analogia che c’è tra il modo in cui
l’autore tratta la costruzione del sapere matematico e il modo in cui egli tratta la costruzione
della filosofia pratica. In particolare, si potrebbe considerare in parallelo la costruzione di un
oggetto matematico, come il ‘triangolo’, e la costruzione di un oggetto morale, come la ‘pro-
messa’. «Così, sulla celebre tesi kantiana secondo cui le proposizioni propriamente matemati-
che sono sempre sintetiche a priori, può modellarsi la tesi per cui anche le proposizioni sulle
condizioni di coerenza pragmatica sono sintetiche a priori». Se non che, «l’autocon-
traddittorietà eidetica e l’autocontraddittorietà buletica sono relative a condizioni di coerenza
pragmatica espresse da due tipi diversi di proposizioni sintetiche a priori. [...] La differenza
tra i due tipi di proposizioni sintetiche a priori può essere terminologicamente marcata facen-
do riferimento ad un paradigma di Amedeo G. Conte: regole noetiche e regole dianoetiche. Le
382 Parte quinta: studi su etica e universalità
come «sommo bene» o come «regno dei fini». Si può dire che il tipo
buletico mette in evidenza come, progetti che sarebbero universalizza-
bili dal punto di vista astratto di un puro homo phänomenon, non lo
siano più dal punto di vista concreto: quello dell’homo noumenon.
L’inconveniente è che, nel discorso kantiano, agisce un modello
antropologico di tipo dualistico, in cui homo phänomenon e homo
noumenon finiscono per essere relati tra loro, non più come l’astratto
rispetto al concreto, bensì come due realtà relativamente autonome
l’una dall’altra. Così l’autore finisce surrettiziamente per ascrivere la
«facoltà desiderante» al livello dell’homo phänomenon o animal ra-
tionale, e la «volontà pura» al livello dell’homo noumenon o persona.
In effetti, se in Kant è chiara l’implicazione materiale tra l’esser uomo
e l’esser persona, appare invece problematico il modo in cui l’uomo
realizza il proprio esser persona: più precisamente, «persona» non
sembra dire ― per Kant ― il tutto dell’uomo (com’era invece nella fi-
losofia scolastica)172.
regole noetiche sono le regole ‘esplicitanti la costituzione di un atto o istituto’, mentre le rego-
le dianoetiche sono le regole ‘implicitate dalla costituzione di un atto o istituto’. [...] La mia
tesi (che vuole essere una ricostruzione fedele del pensiero di Kant) è che
l’autocontraddittorietà eidetica sia relativa a proposizioni sintetico–noetiche e che
l’autocontraddittorietà buletica sia relativa a proposizioni sintetico–dianoetiche» (cfr. G. Az-
zoni, Filosofia dell’atto giuridico in lmmanuel Kant, cap. III).
172
La questione diventa esplicita in un testo come la Metafisica dei costumi, dove il duali-
smo antropologico kantiano ― tra homo phänomenon e homo noumenon ― viene teorizzato
nel modo più chiaro. Leggiamo in proposito: «L’uomo considerato nel sistema della natura
(homo phänomenon, animal rationale) è un essere di mediocre importanza e ha, come tutti gli
altri animali che il suolo produce, un valore comune volgare (pretium vulgare). Persino il fat-
to che egli si eleva al disopra di essi per l’intelletto e può proporre a se stesso dei fini, gli dà
unicamente un valore esterno relativo alla sua utilità (pretium usus), onde un uomo è preferi-
bile a un altro, vale a dire gli conferisce, secondo il punto di vista animale ovvero come cosa,
un prezzo analogo a quello d’una merce, dove anzi egli ha un valore perfino inferiore al mez-
zo generale di scambio, cioè al denaro, il cui valore è per questa ragione considerato come
eminente (pretium eminens). Ma l’uomo considerato come persona, vale a dire come soggetto
di una ragione moralmente pratica, è elevato al disopra di ogni prezzo, perché come tale (ho-
mo noumenon) egli dev’essere riguardato non come un mezzo per raggiungere i fini degli altri
e nemmeno i suoi propri, ma come un fine in sé; vale a dire egli possiede una dignità (un va-
lore interiore assoluto), per mezzo della quale costringe al rispetto di se stesso tutte le altre
creature ragionevoli del mondo, ed è questa dignità che gli permette di misurarsi con ognuna
di loro e di stimarsi loro uguale» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 11, p. 294).
Quel che appare problematico in questo dualismo ― che distingue la persona, che è
nell’uomo, dall’animale razionale ―, è come la persona, che non è considerata come il tutto
dell’uomo, possa coinvolgere nella propria dignità l’animale razionale.
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 383
Se non che, è solo riconoscendo che l’animal rationale è il modo
umano di essere persona, che si può anche comprendere come la stes-
sa dimensione del desiderio, in cui Kant considera materialmente
compresi i bisogni legati all’animalità del soggetto appetente, sia pe-
netrata dalla razionalità come dalla sua forma specifica. Del resto, solo
in un quadro come questo può collocarsi coerentemente una fonda-
mentale intuizione sulla quale Kant pure si attesta: quella per cui la
prassi della volontà razionale, non combatte il desiderio in quanto tale,
ma solo le configurazioni inautentiche di questo.
10.3. Due concezioni del desiderio
La filosofia morale tout court ― non solo quella kantiana ― si trova
da sempre di fronte a un’alternativa, di cui quella tra modello teleologico
e modello deontologico è solo l’epifenomeno. L’alternativa profonda è
quella tra due differenti concezioni del desiderio: integrale l’una, parziale
l’altra. La prima è quella che riconosce il desiderio come tensione aperta
a un referente trascendentale, e, in tal senso, anche come indirizzo che o-
rienta ultimamente la prassi volontaria; la quale potrà dirsi razionale, pro-
prio in quanto coerente con tale orientamento radicale. Ed è superfluo di-
re che, rispetto al desiderio così inteso, ogni schema di obiectum pratico
risulta, non solo inadeguato, ma anche radicalmente sproporzionato.
La seconda concezione è quella che riduce il desiderio nei termini
di una tensione al dovere, od obbligazione, che ― rimossa la conside-
razione del termine obbligante ―, rischia di ritrovarsi nelle secche
dell’autoreferenzialità: quelle di un volere che abbia a oggetto se stes-
so. Per evitarle, si può fare ricorso a strategie di coerenza; le quali, pe-
rò, hanno senso in tanto in quanto reintroducono surrettiziamente, co-
me referente di coerenza, quello che è anche, e prima ancora, il refe-
rente del desiderio adeguatamente inteso: ricadendo così di fatto ―
ma solo per fedeltà alla loro logica interna ― nel modello precedente.
In altre parole, il senso del dovere non può che risultare strutturalmen-
te secondario rispetto all’orientamento inevitabile del desiderio, confi-
gurandosi come avvertenza degli impegni che la fedeltà pratica a que-
sto di volta in volta comporta.
L’alternativa in questione può essere considerata anche in termini
più radicali. La prima concezione è propria di chi regola sulla capacità
384 Parte quinta: studi su etica e universalità
trascendentale del pensiero qualunque modello di moralità che l’im-
maginazione sia in grado di produrre; la seconda è propria di chi piega
la capacità trascendentale del pensiero su qualche modello di moralità
prodotto dall’immaginazione. Nella prima prospettiva, l’esperienza
morale viene interpretata come tensione finalistica, aperta oltre ogni
schema: in quanto, chi coltiva una tensione finalistica a latitudine tra-
scendentale, la asseconda senza poter prevedere dove questa lo con-
durrà. Nella seconda prospettiva, invece, l’esperienza morale viene in-
terpretata, più semplicemente, come conformazione a un modello.
Nella prima, si tende oltre ogni modello schematico (pur riconoscen-
done la necessità pedagogica); nella seconda, ci si conforma a un mo-
dello schematico, rimanendo preda in tal modo della sfera empirica,
rispetto alla quale lo schema ― “produttivo” o “riproduttivo” che sia
― è sempre omogeneo173.
Le due concezioni ― lo si è ben capito ― sono quelle che si con-
frontano anche dall’interno dell’etica kantiana, che risulta quindi co-
stantemente combattuta, anche in senso lessicale, tra una configura-
zione «finalistica» e una «conformistica» del volere; senza sapersi ri-
solvere effettivamente per nessuna delle due.
10.4. La radice dualistica dello schematismo
In realtà, lo stesso Kant avverte la tensione interna al proprio di-
scorso, e non manca ― nell’«Introduzione alla dottrina della virtù»
― di suggerirne un’interpretazione conciliatrice, secondo la quale
l’agire virtuoso andrebbe inteso come il frutto di una coniugazione
ilemorfica di «fine» [Zweck] e «dovere» [Pflicht], nei rispettivi ruo-
li di «materia» e di «forma»174. Non è infatti autocontraddittorio ―
173
Quando è in gioco lo schematismo teoretico prevale l’aspetto che Kant chiama «pro-
duttivo»; quando è in gioco una “tipica” pratica è presumibilmente più forte l’elemento «ri-
produttivo», con i rischi di conformismo che ciò comporta.
174
«’Fine’ è un oggetto dell’arbitrio (di un essere ragionevole), la rappresentazione
del quale determina la volontà a una certa azione che realizzi l’oggetto medesimo. Ora io
[...] non potrò mai essere costretto ad avere un fine: io solo posso proporre a me stesso
qualche cosa come fine. Ma se sono obbligato a propormi per fine qualche cosa che rien-
tri nel concetto della ragion pratica, e quindi a dare come principio di determinazione
della mia volontà, oltre a un principio formale, anche un principio materiale, un fine che
possa essere opposto a quello delle tendenze della sensibilità, allora si avrebbe un con-
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 385
egli osserva ― «proporre a se stessi un fine che sia nello stesso
tempo un dovere»175.
Ciò di cui Kant è in cerca è dunque una «teleologia morale» ―
cioè un finalismo a rilevanza etica ― che non sia riducibile a una «te-
leologia tecnica». Più precisamente, egli cerca di capire se l’uomo sia
rappresentabile, non soltanto come luogo di finalità genericamente na-
turali (comuni a ogni altro vivente), ma anche come soggetto di finali-
tà libere: se sia cioè individuabile un finalismo proprio della libertà
umana. Ma un tale finalismo sembra poi, ai suoi occhi, identificabile
con il dovere stesso, nella sua forma imperativa176.
Quel che Kant intende sostenere non è che il fine dell’agire umano
sia ultimamente quello di obbedire all’imperativo categorico: egli ri-
tiene, piuttosto, che la legge, con la sua qualità categoricamente impe-
rativa, sia il momento formale di una struttura ― l’agire virtuoso ―
più complessa, la cui materia è costituita dalla stima per la realtà per-
sonale (propria e altrui)177. Quando infatti il nostro autore si domanda
cetto di un fine che è in se stesso un dovere» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della
virtù, I, p. 229).
175
«Perché allora la costrizione viene da me, e ciò si concilia benissimo con la libertà».
Sarebbe invece autocontraddittorio un fine che venisse eteroimposto come tale (cfr. Met, In-
troduzione alla dottrina della virtù, I, p. 230).
176
«Ogni azione ha dunque un proprio fine, e siccome nessuno può avere un fine senza
costituirsi da sé a fine l’oggetto del proprio arbitrio, così l’avere nelle proprie azioni uno sco-
po qualunque è un atto della libertà del soggetto che agisce, e non un effetto della natura. Sic-
come però quest’atto che determina un fine è un principio pratico, che prescrive non già i
mezzi, ma il fine stesso, così esso è un imperativo categorico della ragion pura pratica, cioè un
imperativo tale che unisce a un concetto del dovere quello di uno scopo in generale. Deve es-
servi ora un fine di questo genere e un imperativo categorico che vi corrisponda. Se infatti vi
sono delle azioni libere, devono esservi pure dei fini ai quali quelle tendono come al loro og-
getto. Tra questi fini ve ne debbono essere alcuni, che sono nello stesso tempo dei doveri. Se
non vi fossero infatti dei fini di questa specie, e non potendo esservi delle azioni senza scopo,
tutti i fini avrebbero per la ragione pratica soltanto il valore di mezzi per raggiungere altri fini,
e un imperativo categorico sarebbe impossibile; il che vanificherebbe ogni dottrina della mo-
rale. Non si tratta qui dunque degli scopi che l’uomo si propone secondo gli impulsi della sua
natura sensibile, ma degli oggetti del libero arbitrio esercitantesi secondo le proprie leggi, e
che l’uomo deve proporsi come fini. I primi costituiscono una specie di teleologia tecnica
(soggettiva), che si può chiamare propriamente pragmatica, [...] i secondi compongono la te-
leologia morale (oggettiva)» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, III, p. 234).
177
«Per ciò che concerne la ‘materia’, la dottrina della virtù non deve essere considerata uni-
camente come una dottrina del dovere in generale, ma anche come una ‘teleologia’: l’uomo è
obbligato infatti a concepire se stesso e a concepire inoltre tutti gli altri uomini come un suo pro-
prio fine; questo si usa chiamare il dovere dell’amore di sé e il dovere dell’amore del prossimo;
386 Parte quinta: studi su etica e universalità
«quali siano i fini che sono nello stesso tempo doveri», risponde indi-
cando la «propria perfezione» e la «felicità altrui». E questo, non nel
senso che, in quanto contenuti di un’inevitabile tendenza, essi vadano
assunti anche come doveri ― il che, a suo avviso, sarebbe autocon-
traddittorio178 ―; ma piuttosto nel senso che il tema del dovere sarà
quello di «proporsi come fine» [sich zum Zwecke machen], ovvero
come «materia delle nostre azioni», quei contenuti179. Che, poi, i con-
tenuti che il dovere impone come fini, siano proprio quelli indicati ―
la «coltivazione» [Cultur] della persona, in sé e negli altri ―, sembra
doversi intendere come qualcosa di già acquisito attraverso la conside-
razione dell’imperativo nella sua formulazione personalista180.
Dunque, fini eticamente rilevanti, in quanto contenuti del dovere;
non viceversa. Il fine, kantianamente, non può costituire criterio nor-
mativo, bensì solo materia da normare ― secondo i criteri di cui già
abbiamo discusso. E questo perché ― secondo il nostro autore ― di-
segnare l’etica seguendo il filo conduttore della dinamica dei fini si-
gnificherebbe procedere a tentoni, inseguendo la cecità del generico
desiderio; mentre è proprio quest’ultimo ad aver bisogno di essere
condotto per mano dalla chiaroveggenza della ragion pura pratica181.
Ciò non toglie, comunque, che la ragion pratica sia costretta ad appli-
le quali espressioni, però, sono considerate qui in significato improprio, perché se l’amare non
può essere direttamente un dovere, lo è invece l’agire in modo da prendere se stessi e gli altri
uomini come fine» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, XVIII, p. 264).
178
«Non si può qui invertire il rapporto dei termini, vale a dire considerare come dei fini,
che sarebbero in sé dei doveri per la stessa persona, la felicità propria da una parte, e la perfe-
zione altrui dall’altra» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, IV, p. 235).
179
Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, IX, p. 246.
180
Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, V, pp. 236–238; VIII, pp. 242–245.
181
«Il rapporto del fine con il dovere si può concepire in due modi: o, partendo dal fine,
cercare la massima dell’azione conforme al dovere; o al contrario, partendo dalla massima,
cercare il fine che è nello stesso tempo un dovere. La dottrina del diritto segue la prima via.
[...] L’etica invece segue una via opposta. Essa non può partire dai fini che l’uomo si propone
e stabilire in seguito quali massime egli deve seguire, cioè quale è il suo dovere, perché tali
fini non sarebbero per le massime che dei principi empirici, da cui non potrebbe scaturire nes-
sun concetto del dovere, avendo questo (il dovere categorico) la sua radice unicamente nella
ragione pura; se le massime, dunque, dovessero venir dedotte da questi fini (che sono tutti in-
teressati), non si potrebbe più parlare propriamente di concetto del dovere. È quindi il concet-
to del dovere quello che nell’etica dovrà guidarci a dei fini, e che fonderà su principi morali le
massime da seguire relativamente ai fini che dobbiamo proporci. [...] Soltanto un fine che è
nello stesso tempo un dovere può essere chiamato ‘dovere di virtù’ [Tugendpflicht]» (cfr. Met,
Introduzione alla dottrina della virtù, II, pp. 231– 232).
Capitolo I: Lo schematismo nell’etica kantiana 387
care il vaglio dell’imperativo, e del suo test di universalizzazione, a un
materiale che è quello indicato dal desiderio182.
Andando oltre il dettato di Kant, ma non oltre il suo disegno teorico,
si può azzardare che l’unico contenuto che la ragion pratica sia in grado
di proporre «architettonicamente» (e non «tecnicamente») alla cura del
soggetto, sia appunto il contenuto a portata trascendentale: e cioè, la
persona ― rispetto alla quale, ogni altro contenuto entra in discussione
come funzionale o meno. Per questo, gli unici fini doverosi sono, per
Kant, le varie forme di custodia e di coltivazione della persona.
Ora, quel che appare persuasivo del disegno kantiano è la ricerca di
un finalismo a rilevanza etica; il quale, naturalmente, non potrà essere
fondato in nessuno dei fini di fatto assunti dal soggetto. Persuasiva
appare anche l’identificazione del termine adeguato di tale finalismo
con la persona. Non persuasivo è invece il cortocircuito in cui il di-
scorso kantiano incorre, quando identifica nel dovere la causa formale
del finalismo: per cui, fine di diritto sarebbe ciò che è doveroso rap-
presentarsi come tale. Siamo qui in quelle secche dell’autoreferenziali-
tà, di cui parlavamo nel paragrafo precedente. Dove, infatti, il dovere
trova le proprie ragioni, se non nella coerenza con la tensione del de-
siderio, di cui la ragion pura pratica è il livello consapevole?
Era lo stesso Kant a spiegare, altrove, come la ragion pura pratica
sia il desiderio stesso, in quanto capace di riconoscere concettualmen-
te ― nella persona ― il proprio fine183, ovvero il proprio referente ar-
chitettonico.
In ogni caso, l’ambivalenza che siamo costretti a rilevare nella ana-
lisi kantiana della relazione tra dovere e fine (ovvero, tra volontà e de-
siderio), è a sua volta una proiezione del dualismo che segna l’antro-
182
«L’imperativo che ordina: ‘tu devi proporti come fine questo o quello (per esempio la
felicità degli altri)’, si riferisce alla materia dell’arbitrio (a un oggetto). Ora, siccome non è
possibile una libera azione senza che l’agente si proponga nello stesso tempo uno scopo (co-
me materia dell’arbitrio), così quando c’è un fine che è nello stesso tempo un dovere, la mas-
sima delle azioni, considerate come mezzi per raggiungere il fine, non deve contenere altra
condizione fuorché quella di esser atta a una possibile legislazione universale: il fine che è
nello stesso tempo un dovere, può imporre alla stregua di legge il seguire questa massima,
mentre per la massima stessa è già sufficiente che essa possa accordarsi con una legislazione
universale. Le massime delle azioni infatti possono essere arbitrarie, e sono limitate dalla sola
condizione di convenire a una legislazione universale, considerata come principio formale
delle azioni» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, VI, pp. 239–240).
183
Cfr. KU, § 10, p.107
388 Parte quinta: studi su etica e universalità
pologia di questo autore. Di lì viene infatti la costante tentazione kan-
tiana di ridurre la portata del desiderio entro coordinate semplicemente
empiriche, scollando tra loro desiderio e volontà, quasi elementi reci-
procamente eterogenei.
Del resto, il centro intorno al quale la nostra indagine sullo schema-
tismo etico si è trovata a gravitare inesorabilmente, è proprio il duali-
smo antropologico. E non a caso. Che cos’è, infatti, lo schematismo
etico, se non il tentativo di mediare ― nella vita pratica ― tra ciò che
si colloca a livello trascendentale (l’imperativo che vale per la perso-
na), e ciò che invece ha collocazione empirica (l’animale razionale la
cui azione va regolata)? E da dove nasce l’esigenza di una tale media-
zione, se non dalla precedente assunzione di un diffalco originario,
nell’uomo, tra i due livelli: quello empirico e quello trascendentale?
CAPITOLO II
KANT E LA REGOLA AUREA
Kant si è occupato pochissimo del nostro tema, almeno in modo di-
retto. Eppure è abituale che il suo nome sia tra quelli più citati, là dove
si parla della Regola Aurea1. Evidentemente questo accade a causa
dell’aria di famiglia che accomuna la Regola e le formulazioni kantia-
ne dell’imperativo morale. Ora, per verificare l’attendibilità di que-
st’aria di famiglia, procederemo anzitutto ad una ricognizione dei testi
che il nostro autore ha dedicato alla filosofia pratica.
1
È notevole, ad esempio, che quello di Kant sia uno dei pochissimi nomi che compaiono nel
testo sulla Regola d’Oro curato da Marcus Singer per una delle più autorevoli enciclopedie filo-
sofiche di lingua inglese (cfr. M.G. Singer, «Golden Rule», in The Encyclopedia of Philosophy,
P. Edwards editor, Macmillan Publishing Co., Inc. & The Free Press and Collier Macmillan
Publishers, New York ― London 1967, vol. III, p. 366). Osservazione analoga si può fare per
l’omonima voce curata da James Petrik per una più recente enciclopedia specializzata. Qui leg-
giamo che «fu la preoccupazione per il problema dei desideri corrotti che condusse Immanuel
Kant a distinguere il suo proprio principio morale primo, l’imperativo categorico, dalla Regola
Aurea. [...] La differenza tra la Regola Aurea e l’imperativo categorico è basata, secondo Kant,
sul fatto che una persona [stando alla Regola] può comunque trattare gli altri come se essi condi-
videssero i suoi voleri, corrotti o altro che fossero; mentre non è possibile volere consistentemen-
te l’universalizzazione di un comportamento corrotto. Per illustrare la differenza tra i due princi-
pi, Kant fa notare che molti individui acconsentirebbero volentieri a non ricevere alcuna assi-
stenza dagli altri e ad essere in tal modo ― in accordo con la Regola Aurea ― sollevati dal do-
vere di assistere gli altri. Volere che una tale mutua negligenza fosse universale, sarebbe comun-
que irrazionale, ciò comporterebbe volere che nessun essere umano prestasse mai assistenza agli
altri: una linea di condotta che minerebbe la stessa sopravvivenza del genere umano. In questo
senso, dice Kant, l’imperativo categorico esclude quelle intenzioni corrotte che la Regola Aurea
consente di mantenere» (cfr. J. Petrik, «Golden Rule», in International Encyclopedia of Ethics,
J.K. Roth editor, Fitzroy Deoborn Publishers, London ― Chicago 1995, pp. 354–355).
389
390 Parte quinta: studi su etica e universalità
1. La Regola Aurea nei testi kantiani
1.1. L’Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e
della morale2
In questo saggio del periodo cosiddetto pre–critico (e precisamente
del 1764), Kant si muove nell’orbita dell’intuizionismo, proprio del-
l’etica del moral sense; e parla di quelle regole d’azione che sono da
noi «rappresentate immediatamente come buone», senza che la loro
bontà sia ulteriormente giustificabile per riconduzione a evidenze pre-
cedenti. La capacità che queste tipologie d’azione hanno di vincolarci
moralmente ― egli aggiunge ―, «è un indimostrabile principio mate-
riale [materialer] della normatività». Come esempio di autoevidenza
morale di specie “materiale” egli propone la seguente regola: «ama
colui che ti ama». Si tratta di «una proposizione pratica che pur stando
sotto la suprema regola formale e affermativa della normatività» ―
«fa’ la cosa più perfetta che sia possibile per tuo mezzo» ―, «vi sta
però immediatamente», cioè senza bisogno che il suo nesso con la re-
gola suprema debba essere messo in evidenza dimostrativamente3.
Ora, la regola della ”restituzione d’amore” ― come potremmo
chiamarla ― non coincide certo né con la Regola Aurea né con il
Comandamento dell’Amore. Essa ci rivela, però, come Kant avesse in
mente che l’applicazione più ovvia della legge morale suprema alle re-
lazioni interpersonali, fosse una norma della reciprocità nell’amore.
La differenza evidente tra la Regola Aurea e la norma in questione ―
che pure troviamo nell’Antico Testamento4, ma che Gesù cita come
insufficiente, e anche ambigua (in quanto può essere intesa in senso
2
Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der
Moral, in Kant’s gesammelte Schriften, hrsg von der Königlich Preußischen Akademie der
Wissenschaften, Band II; trad. it. di P. Carabellese ― R. Hohenemser ― R. Assunto, col tito-
lo: Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, in Kant,
Scritti precritici, a cura di A. Pupi, Laterza, Roma – Bari 1982.
3
Cfr. Indagine sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale, pp.
245–246.
4
Il riferimento è a Siracide 12,4–7: «dà al buono e non aiutare il peccatore». Questo pas-
so, per altro, non è citato da Kant in Die Religion, e nemmeno risulta tra quelli sottolineati nel
volume della Bibbia che era di sua proprietà.
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 391
esclusivo ed escludente)5 ―, sta evidentemente nella inversione della
dinamica morale che in questa si registra. Nella restituzione d’amore,
infatti, si propone una reciprocità di rimando rispetto ad una iniziativa
altrui, e la si propone in un circolo che è estraneo ad una prospettiva
universale, quale è invece quella evocata dalla Regola Aurea, che,
senza restrizione alcuna, si riferisce a “gli uomini”.
1.2. La Fondazione della metafisica dei costumi
L’unica citazione esplicita che Kant fa della Regola Aurea, è con-
tenuta in una nota della Grundlegung. Da quest’opera, dunque, parti-
remo per compiere, quanto al nostro tema, una ricognizione dei testi
kantiani del periodo “critico”.
1.2.1. La Regola Aurea è, di per sé, principio di una morale popolare
Una «filosofia morale popolare»6, con la sua comprensibile preoccu-
pazione di accessibilità al largo pubblico, deve seguire, e non precedere
― secondo Kant ―, la istituzione di una «metafisica dei costumi»7. Con
l’espressione «filosofia morale popolare» si intendeva, ai tempi di Kant,
la proposta di conformare il comportamento degli uomini a qualche e-
sempio [Beispiel] morale, considerato come un modello [Muster]; in mo-
do analogo a quanto sottinteso dalle parabole evangeliche. Se non che,
per capire che un modello morale è veramente degno di questo nome, bi-
sogna possedere un criterio, rispetto al quale sia possibile valutare il mo-
dello in questione; e questa è anche la condizione che ci consente di capi-
re che il Vangelo propone una vita morale razionalmente soddisfacente8.
Ciò che caratterizza il principio morale è, non solo la forma impe-
rativa, che di per sé è comune anche alle regole della abilità e a quelle
5
Cfr. Matteo 5,43–44. Il brano non risulta citato in Die Religion, né sottolineato nella
Bibbia personale di Kant.
6
Cfr. Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785) ― d’ora in poi: G –; trad. it. di F.
Gonnelli, sez. II, p. 43. «Filosofia morale popolare» è la traduzione di Gonnelli. Kant parla di
populäre sittliche Weltweisheit (letteralmente: «sapienza popolare sul mondo, relativa ai co-
stumi»). Il riferimento kantiano è alla Popularphilosophie degli illuministi berlinesi, il cui e-
sponente principale era Christoph Friedrich Nicolai.
7
Cfr. G, sez. II, p. 49.
8
Cfr., G, sez. II, p. 47.
392 Parte quinta: studi su etica e universalità
della prudenza, bensì la categoricità, là dove le regole di abilità e di
prudenza risultano inevitabilmente ipotetiche. Negli imperativi della
abilità [Geschicklichkeit], il fine è un risultato già noto, quindi qualco-
sa di dato; in quelli della prudenza [Klugheit]9, il fine è qualcosa di so-
lamente possibile, e coincide ultimamente con la felicità10: felicità che
Kant intende ― almeno in questo contesto ― come un ideale
dell’immaginazione di ogni essere razionale in quanto umano, e non
come un ideale della ragione, cioè come qualcosa che sia condivisibile
da ogni essere razionale in quanto tale11. L’imperativo categorico, in-
vece, si fonda non su di un fine soggettivo (o «movente»), ma su di un
fine oggettivo (o «motivo»). Dire fine oggettivo equivale a dire «fine
in se stesso», cioè, concretamente, equivale a parlare di «persona»12.
L’affermazione universale della persona è il fine proprio della ragion
pratica (o volontà), cioè della natura razionale in quanto tale; invece, il
perseguimento della felicità è il fine proprio della natura razionale in
quanto umana, cioè in quanto orientata ad un soddisfacimento confi-
gurato secondo le esigenze dell’immaginazione, più che secondo quel-
le della ragione13.
9
«Prudenza» indica qui l’abilità nella scelta dei passi opportuni per raggiungere la felicità
― e non per raggiungere uno scopo di carattere meramente accessorio.
10
«L’imperativo ipotetico che rappresenti la necessità pratica dell’azione come mezzo per
il promuovimento della felicità, è assertorio. Non lo si deve presentare semplicemente come
necessario per uno scopo incerto, soltanto possibile, bensì come necessario per uno scopo che
si può presupporre con certezza e a priori in ogni uomo, perché esso appartiene alla sua es-
senza. Ora, l’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio massimo benessere si può chiamare
prudenza nell’accezione più stretta» (Cfr. G, sez. II, p. 63).
11
«La felicità non è un ideale [Ideal] della ragione bensì dell’immaginazione [Einbildun-
gskraft], che riposa soltanto su fondamenti empirici, dai quali si attende invano che debbano
determinare un’azione con cui verrebbe raggiunta la totalità di una serie in realtà illimitata di
conseguenze» (cfr. G, sez. II, pp. 69–71).
12
«Il fondamento soggettivo del desiderare è il movente [der subjective Grund des Bege-
hrens ist die Triebfeder], il fondamento oggettivo della volontà è il motivo [der objective des
Wollens der Bewegungsgrund]; di qui la differenza tra fini soggettivi, che riposano su moven-
ti, e fini oggettivi, che fanno capo a motivi validi per ogni essere razionale. [...] Posto però che
si desse qualcosa la cui esistenza in se stessa avesse un valore assoluto, qualcosa che, in quan-
to fine in se stesso, potesse essere un fondamento di determinate leggi, allora in esso, e in esso
soltanto, starebbe il fondamento di un possibile imperativo categorico, ovvero di una legge
pratica» (cfr. G, sez. II, p. 89; e ancora: ibi, sez. II, p. 91).
13
«Non farsi venire in mente di voler dedurre [ableiten] la realtà di questo principio dalla
particolare qualità della natura umana. Il dovere, infatti, deve essere necessità pratico–
incondizionata dell’azione; esso deve dunque valere per ogni essere razionale (i soli esseri a
cui in generale possa rivolgersi un imperativo) e solo perciò deve essere una legge anche per
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 393
Kant nella Vorrede afferma che la metafisica dei costumi ha di mi-
ra le regole [Regeln] della volontà pura ― conoscibili interamente a
priori ―, e non le «condizioni [Bedingungen] del volere umano in ge-
nerale [überhaupt]», che sono condizioni rilevabili empiricamente e
catalogabili da una «psicologia» (sia pur di carattere filosofico)14. E
con ciò, a ben vedere, egli dice ancora una volta che il luogo fondativo
della morale pura è l’analisi che mette a tema la volontà in quanto tale,
e non la volontà in quanto umanamente configurata15.
1.2.2. La Regola Aurea deve essere ricondotta all’imperativo16
La Regola Aurea, che Kant cita in forma negativa, è da lui qualifi-
cata come qualcosa di «triviale»17: cioè di adeguato, tutt’al più, alla fi-
ogni volontà umana. Ciò che invece viene dedotto dalla particolare disposizione naturale
dell’umanità [aus der besondern Naturanlage der Menschheit], da certi sentimenti e tendenze
[Gefühle und Hänge], e persino da un particolare orientamento che fosse proprio della ragione
umana e che non dovrebbe valere necessariamente per la volontà di ogni essere razionale, può
darci certo una massima [Maxime], ma non una legge [Gesetz]: un principio soggettivo, in ba-
se al quale abbiamo tendenza e inclinazione [Neigung] a poter agire, ma non un principio og-
gettivo, secondo il quale saremmo comandati ad agire, anche se ogni nostra tendenza, inclina-
zione e indirizzo naturale gli fosse avverso» (cfr. G, sez. II, p. 83).
14
Il riferimento è a Christian Wolff.
15
Parlando della «filosofia pratica universale» di Wolff, Kant scrive: «Proprio perché do-
veva essere una filosofia pratica universale, essa non prendeva in esame alcuna volontà di
specie particolare, ad esempio tale che, senza alcun motivo empirico, fosse interamente de-
terminata da principi a priori e che si potrebbe chiamare una volontà pura, bensì il volere in
generale, con tutte le azioni e condizioni che gli si connettono in questo significato generico, e
che si distingue perciò da una metafisica dei costumi allo stesso modo in cui la logica genera-
le si distingue dalla filosofia trascendentale, la prima delle quali tratta le operazioni e le regole
del pensiero in generale, la seconda, invece, le particolari operazioni e regole del pensiero pu-
ro, ossia di quello attraverso cui gli oggetti vengono conosciuti interamente a priori. Infatti, la
metafisica dei costumi deve ricercare l’idea e i principi di una volontà pura possibile, non le
azioni e condizioni del volere umano in generale, che in gran parte sono prodotte dalla psico-
logia» (cfr. G, Prefazione, pp. 9–11).
16
Allo stesso riguardo ― forse in modo un po’ semplicistico ― alcuni autori sostengono
che l’imperativo kantiano sia una chiarificazione dello «scopo razionale» della Regola Aurea; e
che, reciprocamente, la Regola nella sua formulazione evangelica fornisca la base spirituale per
applicare correttamente l’imperativo. (Cfr. S.B. Thomas, Jesus and Kant, in «Mind», LXXIX
[1970], p. 199). Come invece vedremo, dal testo kantiano emerge una prospettiva differente.
17
Jeffrey Wattles ha osservato che la breve annotazione kantiana sull’argomento ― relegata
oltretutto in una nota a pie’ di pagina ― «ha quasi completamente ridotto al silenzio una prece-
dente e vigorosa tradizione europea di riflessione sulla Regola Aurea, che durava da centocin-
quant’anni» (cfr. J. Wattles, Levels of Meaning in the Golden Rule, «Journal of Religious E-
394 Parte quinta: studi su etica e universalità
losofia morale popolare di cui sopra si accennava18. Quando Kant dice
che essa non può fungere da «filo conduttore o principio», nel regolare
le relazioni morali, vuol dire che tale regola non è qualcosa che si col-
lochi a priori, non appartiene cioè alla forma della ragion pratica; e
quindi non è elemento di una metafisica (intesa nel senso kantiano
della parola). La Regola Aurea, anzi, può solo essere «derivata» ― e
non senza alcune «limitazioni» ― dal principio morale propriamente
inteso: principio che, in questo contesto, Kant sta considerando nella
sua versione personalista. Analizziamo ora i diversi punti sopra ac-
cennati: (1) la Regola non è principio; (2) essa è derivabile dal princi-
pio; (3) con delle limitazioni.
Anzitutto, la Regola Aurea non è principio perché non è qualcosa
che si imponga a priori, cioè non appartiene alla ragione in quanto tale,
bensì alla ragione in quanto umana. Più precisamente, essa ha senso in
relazione alle diverse inclinazioni umane, sintetizzabili nella inclinazio-
ne alla felicità [Glückseligkeit]: felicità che qui ― secondo quanto già si
accennava ― Kant assimila al soddisfacimento del «caro sé». Ma, il
suo esser relativa alla tendenza alla felicità19, comporta anche il suo es-
thics», XV [1987], pp. 106–129). Rainer W. Trapp sostiene qualcosa di simile, per l’ambiente
tedesco: «All’inizio del mio discorso» ― egli scrive ― «ho ricordato l’influenza del succinto e
aspro giudizio di Kant sulla Regola Aurea, che letteralmente ha spazzato via, in Germania, la
Regola Aurea dall’ambito degli argomenti etici seriamente trattabili. Esso si basa, tra l’altro,
sull’intuizione che delle volontà individuali non sottoposte a restrizione, siano esse rispettiva-
mente quella dell’agente o del destinatario della sua beneficenza, non possono essere un suffi-
ciente criterio di scelta morale (perché altrimenti “un criminale potrebbe far obiezione contro il
giudice che gli impone una punizione”). Questa insinuazione, giusta o meno che sia, prova allo
stesso tempo che la critica summenzionata di Kant alla Regola Aurea è formulata in modo in-
gannevole. Essendo falsificabile da numerosi esempi di genere simile a quello offerto dallo stes-
so Kant, la Regola Aurea risulta essere quasi “trivialmente vera”. Così, già a questo punto è di-
venuto evidente che la Regola Aurea non può pretendere di essere un criterio morale generale,
applicabile in qualunque situazione di scelta riguardante due persone» (cfr. R.W. Trapp, The
Golden Rule, «Grazer Philosophische Studien», LIV [1998], pp. 154–155).
18
«Non si pensi che il triviale [triviale] quod tibi non vis fieri ecc. possa servire qui da fi-
lo conduttore o da principio [Richtschnur oder Princip]. Infatti esso è soltanto derivato [abge-
leitet], e con varie limitazioni, da quel principio; esso non può essere una legge universale,
poiché non contiene il fondamento dei doveri [der Grund der Pflichten] verso se stessi, né dei
doveri di benevolenza verso gli altri (infatti alcuni consentirebbero volentieri che altri non do-
vessero beneficarli, se solo fossero dispensati dal mostrar loro benevolenza), né, infine, dei
doveri obbligatori verso altri; infatti il criminale, in base a quel detto, potrebbe argomentare
contro il giudice che lo punisce, ecc.» (cfr. G, sez. II, p. 93).
19
«Il principio [Princip] della propria felicità è quello da respingersi più d’ogni altro»
(cfr. G, sez. II, p. 119).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 395
ser relativa alle configurazioni empiriche e molteplici che l’oggetto di
tale tendenza di fatto finisce per assumere: ognuno ha infatti una propria
immagine di felicità. È per questo che la Regola Aurea, assunta nella
sua “trivialità”, rimane esposta a banali inconvenienti, di cui il nostro
autore propone due esempi, riguardanti rispettivamente il campo dei
doveri larghi e quello dei doveri stretti verso altri. Stando al primo e-
sempio, un egoista pigro potrebbe rinunciare volentieri ad essere aiuta-
to, pur di non dover aiutare altri a sua volta; mentre, stando al secondo
esempio, un imputato, anche se colpevole, potrebbe invocare la Regola
per non essere condannato dal proprio giudice20.
Eppure la Regola d’Oro è ― secondo Kant ― derivabile dall’impe-
rativo morale21. Infatti, se vengono calibrati trascendentalmente il sog-
getto della Regola e la sua volontà, allora ciò che tale soggetto non po-
20
La Regola Aurea nella versione “triviale” che ne dà Kant, corrisponde ― a ben vedere
― a quella che Gensler ha chiamato “Regola Aurea Letterale” (LR): «Se tu vuoi che x faccia
qualcosa a te, allora fa’ questa stessa cosa a x». Ciò che rende equivoca una tale formulazione
― secondo Gensler ―, è, anzitutto, la sua genericità: essa non precisa che, affinché possa
sensatamente essere perseguita la reciprocità richiesta dalla Regola, occorre che i due interlo-
cutori ipotizzino di trovarsi, quanto all’azione in oggetto, in situazioni tra loro simili (secondo
la formula corretta: «Tratta gli altri solo come tu consenti di esser trattato nella stessa situa-
zione»). Ma, alla «clausola della stessa situazione» va aggiunta una ulteriore precisazione.
Come Gensler spiega, la buona enunciazione della Regola è quella che prevede la seguente
domanda: «Voglio io ora che questa cosa venga fatta a me nella stessa situazione?» ― e non
invece quest’altra domanda: «Se fossi nella stessa situazione, vorrei io allora che la stessa co-
sa venisse fatta a me?». Nel primo caso, l’immedesimazione che mi è richiesta: (1) ha come
soggetto me, nel mio attuale grado di consapevolezza; (2) e ha come oggetto il mio interlocu-
tore, nella sua specifica situazione. Nel secondo caso, l’immedesimazione che mi è richiesta:
(1a) ha come soggetto me, nell’ipotetico grado di consapevolezza proprio del mio interlocuto-
re; (2a) e ha come oggetto il mio interlocutore, nella sua specifica situazione. (Cfr. H.J.
Gensler, Ethics, Routledge, London–New York 1998, cap. 8). Ora ― applicando le clausole
di Gensler all’esempio giudiziario di Kant ― è chiaro che il giudice, una volta immedesima-
tosi con la condizione dell’imputato colpevole, conservando però il proprio attuale grado di
consapevolezza, non potrebbe rinunciare, sulla base di semplici ragioni di comodo, a commi-
nare la giusta condanna. Il paradossale caso evocato da Kant, nasce invece dalla ipotesi che
l’agente della Regola Aurea vada ad immedesimarsi, non solo con la condizione obiettiva
dell’interlocutore, ma anche con la soggettiva consapevolezza che questi presumibilmente ha
di quali siano i suoi attuali interessi. Venendo invece all’esempio dell’egoista pigro, sembra
che lì sia rispettata la seconda clausola di Gensler, ma non più la prima: infatti, l’egoista pigro
tratta l’interlocutore secondo il proprio attuale stato di consapevolezza, ma evita di immede-
simarsi realmente con la condizione attuale di quello.
21
Qui, il verbo usato da Kant è ab–leiten ― ist aus jenem abgeleitet ―, che propriamente
significa “deviare”; ma, in abbinamento con aus, vuol dire “dedurre”, “tirar conclusioni”; e, in
abbinamento con von, “derivare”.
396 Parte quinta: studi su etica e universalità
trà volere che altri faccia a lui, trattando la sua persona come semplice
mezzo, neppure lui potrà volerlo fare ad altri. Occorre intendere ― se
ben comprendiamo ― il “quel che vorresti/non vorresti” (della formu-
lazione originaria della Regola) come un “quel che solo potresti vole-
re/non volere”; e ciò, secondo l’importante indicazione kantiana per cui
«è necessario poter volere [man muss wollen können] che una massima
delle nostre azioni divenga una legge universale»22. A questo punto, la
Regola è intesa come una applicazione dell’imperativo morale. Appli-
cazione, nel senso che, accettare una convivenza in cui ognuno non cer-
casse ― per quanto sta in lui ― di promuovere la felicità di ogni altro,
comporterebbe una contraddizione buletica23. Naturalmente, questo non
implica ― secondo Kant ― che io debba essere «interessato all’esisten-
za dell’altro per inclinazione o sentimento»; in quanto l’unico interesse
valido, qui, è l’interesse puro per il Regno dei fini24.
La Regola Aurea, però, è derivabile dall’imperativo, solo accettan-
do delle limitazioni. Essa, infatti, sia pur intesa come applicazione del
principio, nel proprio potere determinante non comprende l’ambito dei
doveri verso se stessi (né quelli stretti né quelli larghi). Il comando
22
Cfr. G, sez. II, p. 81.
23
Sulla distinzione tra contraddizione “buletica” ed “eidologica” nell’etica kantiana, si
veda: G. Azzoni, Filosofia dell’atto giuridico in Immanuel Kant, CEDAM, Padova 1998.
24
«Ora, poiché le leggi determinano i fini in base alla validità universale di questi ultimi,
se si astrae dalle differenze personali degli esseri razionali e da ogni contenuto dei loro fini
privati [wenn man von dem persönlichen Unterschiede vernünftiger Wesen, imgleichen allem
Inhalte ihrer Privatzwecke abstrahirt], può essere pensata una totalità di tutti i fini (tanto degli
esseri razionali come fini in sé, quanto dei fini propri che ognuno può porsi) in una connes-
sione sistematica, ossia un regno dei fini, che sia possibile secondo i principi suddetti» (cfr. G,
sez. II, p. 101). In precedenza troviamo: «L’oggetto del rispetto è esclusivamente la legge, e
precisamente quella legge che imponiamo a noi stessi e tuttavia come in sé necessaria. [...]
Ogni rispetto per una persona non è propriamente che rispetto per la legge, di cui tale persona
ci offre l’esempio. [...] Ogni cosiddetto interesse [Interesse] morale consiste esclusivamente
nel rispetto per la legge» (cfr. G, sez. I, p. 33). E ancora: «Io devo cercare di promuovere la
felicità altrui, non in quanto sia interessato in qualche modo alla sua esistenza (per inclinazio-
ne immediata o per un qualche sentimento di compiacimento, indirettamente attraverso la ra-
gione), bensì soltanto perché la massima che esclude quella felicità non può essere concepita,
in uno stesso e identico volere, come legge universale» (cfr. G, sez. II, p. 117). Nel vocabola-
rio di Kant, un «interesse puro» equivale al «rispetto», che è per Kant un «sentimento a prio-
ri» ovvero un sentimento di tipo non «patologico». Al riguardo, si consideri anche il brano se-
guente: «L’idea di un puro mondo intelligibile come totalità di tutte le intelligenze, al quale
noi stessi in quanto esseri razionali apparteniamo, rimane sempre un’idea utile e lecita a van-
taggio di una fede razionale, [...] così da produrre in noi [...] un vigoroso interesse [Interesse]
per la legge morale» (cfr. G, sez. III, pp. 161–163).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 397
della Regola Aurea riguarda, insomma, l’agire interpersonale, ma non
quello intrapersonale. In sintesi: la Regola non è una formulazione di-
versa del principio, ma solo una applicazione parziale di questo, me-
diata ― come s’è visto ― da una preliminare purificazione25.
1.2.3. La differente condizione del Comandamento dell’Amore
Nella Grundlegung, Kant suggerisce che il Comandamento dell’a-
more del prossimo vada inteso come qualcosa di diverso, e di superio-
re, rispetto alla Regola Aurea. Il Comandamento, infatti, già di suo ―
quindi, senza bisogno di purificazioni ― introduce l’amore non come
una «inclinazione» propria della sensibilità26, bensì come un «amore
pratico», che è espressione della volontà. Lo prova il fatto stesso che
esso comandi l’amore ― verso un prossimo che comprende anche il
nemico ―, indicandolo come un dovere incondizionato: il che non a-
vrebbe senso, se l’amore in questione fosse quello d’inclinazione27.
25
Ecco come Gensler commenta il passo kantiano in questione: «Kant in una nota a pie’
di pagina ha usato l’esempio (malformulato) [del giudice] per obiettare alla Regola Aurea. E-
gli aveva altre tre obiezioni alla Regola: (1) La Regola Aurea è tratta per deduzione dalla
Legge di Universalizzabilità, e non è invece un principio di base. Ma nemmeno la Legge di
Universalizzabilità è un principio di base (dal momento che è derivabile dagli assiomi di ‘uni-
versalizzabilità’, di ‘prescrivibilità’ e di ‘razionalità’); e un teorema non ha necessariamente
meno valore di un assioma. (2) La Regola Aurea non copre l’area dei doveri verso se stessi,
al contrario della Legge di Universalizzabilità. Questo lo ammetto [...]. (3) La Regola Aurea
non contiene il principio dei doveri di benevolenza verso gli altri, dal momento che uno po-
trebbe accettare volentieri che gli altri non lo aiutino, pur di essere esonerato dal mostrar lo-
ro benevolenza. La Legge di Universalizzabilità ha lo stesso limite, senonché entrambe porta-
no alla benevolenza se noi assumiamo certi desideri che ― credo ― sarebbe razionale avere.
(Kant stesso qualche volta fa appello a desideri razionali). Ricordiamo che, per evitare la be-
nevolenza verso quelli che sono deboli e molto bisognosi di aiuto, dovremmo consentire
all’idea che gli altri non ci facciano del bene in situazioni, immaginarie o future, in cui siamo
noi ad essere deboli e molto bisognosi di aiuto» (cfr. H.J. Gensler, Formal Ethics, Routledge,
London ― New York 1996, p. 146). Sullo stesso tema, cfr. H.U. Hoche, The Golden Rule:
New Aspects of an Old Principle, in: Contemporary German Philosophy, D.E. Christensen
editor, Pennsylvania State University Press, London and University Park 1982, pp. 69–90.
26
Kant parla, al riguardo, di amore «patologico» (nel senso di “passivo”), contrapponen-
dolo all’amore «spontaneo» (nel senso di “attivo”).
27
«È senza dubbio così che vanno intesi anche i passi della Scrittura in cui si comanda di
amare il prossimo, anche il nostro nemico. Difatti l’amore come inclinazione non può essere
comandato, ma fare il bene per dovere, quando nessuna inclinazione spinge a ciò, anzi, quan-
do vi resista un’avversione naturale e incontenibile, è amore pratico e non patologico [ist pra-
ktische und nicht pathologische Liebe], che risiede nella volontà e non nella tendenza della
398 Parte quinta: studi su etica e universalità
Dunque, comandare l’amore (e comandarlo universalmente e senza
condizioni), vuol dire già purificarlo. Il Comandamento dell’Amore,
insomma, si autopurifica performativamente.
Potremmo osservare che il Comandamento, non solo ha apertura
universale, ma anche ― ed è quel che a Kant importa ― ha forma tra-
scendentale. In esso, infatti, l’io è chiamato in causa come io trascen-
dentale, cioè come quell’io che è capace di desituarsi rispetto all’im-
mediato privilegiamento rivolto al «caro sé» [das liebe Selbst]28, giun-
gendo a curare gli altri io come se stesso, e se stesso come un altro io.
Quindi, il Comandamento dell’Amore ― nella interpretazione kantia-
na ― sarebbe una certa formulazione della legge morale, mentre la
Regola d’Oro sarebbe, di quest’ultima, soltanto una applicazione par-
ziale; ovvero, il Comandamento si collocherebbe già in quel territorio
che la Regola, da sola, non può raggiungere.
Inoltre il Comandamento riesce a coniugare il fondamento «ogget-
tivo» dell’agire, che è la forma universale della legge, col fondamento
«soggettivo», che è il fine che l’agire si propone. In altre parole, esso
coniuga tra loro il motivo e il movente adeguati all’agire razionale29; il
che corrisponde alla coniugazione della prima con la seconda formu-
lazione che Kant dà all’imperativo morale30.
sensibilità [im Hange der Empfindung], in principi dell’azione e non in svenevole partecipa-
zione; e il primo solo può essere comandato» (cfr. G, sez. I, p. 29).
28
«Io voglio concedere, per filantropia, che ancora la gran parte delle nostre azioni sia
conforme al dovere; ma se si guarda più da presso a ciò che gli uomini hanno per la testa, ci si
imbatte dappertutto nel caro sé, che sempre rispunta, e sul quale, anziché sul rigoroso coman-
do del dovere, che il più delle volte esigerebbe una negazione di se stessi, si fondano i loro
scopi» (cfr. G, sez. II, p. 45). Già nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime,
Kant scriveva: «La maggior parte degli uomini è composta di gente che davanti a sé ha fisso il
proprio carissimo io come solo punto di riferimento nel proprio operare, e che cerca di far gi-
rare tutto intorno al proprio utile come intorno ad un asse» (cfr. Kant, Beobachtungen über
das Gefühl des Schönen und Erhabenen [1764], cap. II, in Kant’s gesammelte Schriften, cit.,
Band II; trad. it. di P. Carabellese ― R. Hohenemser ― R. Assunto, col titolo: Sul sentimento
del bello e del sublime, in Kant, Scritti precritici, pp. 313–314).
29
Adeguati, e quindi, non accidentali.
30
Leggiamo al riguardo che «il fondamento di ogni legislazione pratica sta oggettivamen-
te nella regola [objectiv in der Regel] e nella forma dell’universalità che la rende in grado di
essere una legge, soggettivamente, invece, sta nel fine [subjectiv im Zwecke], e il soggetto di
tutti i fini è però ogni essere razionale, come fine in se stesso» (cfr. G, sez. II, p. 95).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 399
1.3. La Critica della Ragion Pratica
Nella Seconda Critica ― dove comunque la Regola Aurea non è
mai citata ― troviamo elementi che suffragano la validità dell’ipotesi
sopra avanzata: quella secondo cui Kant intenderebbe tale regola, una
volta che la si fosse calibrata in senso trascendentale, come una parti-
colare e limitata applicazione dell’imperativo morale. Ma troviamo
anche ― come vedremo più avanti ― l’apertura ad un’altra ipotesi in-
terpretativa.
1.3.1. La Regola Aurea e la tavola delle categorie pratiche
Preliminarmente ci si potrebbe chiedere quale collocazione Kant
darebbe alle azioni conformi alla Regola Aurea, seguendo quella «ta-
vola delle categorie della libertà»31 che troviamo nella Analitica dei
concetti morali. Stando a questa tavola32, le azioni conformi alla Rego-
la si potrebbero collocare o nella seconda o nella terza delle categorie
della «quantità» ― a seconda che intendiamo la Regola stessa come
qualcosa che è destinato a rimanere al livello sapienziale (dove ci si
basa precettisticamente sulla inclinazione alla felicità, in cui conver-
gono gli esseri razionali in quanto umani), oppure che la intendiamo
come purificata nel senso sopra detto ― e, con ciò, assimilata
31
Più precisamente: «Tavola delle categorie della libertà in relazione ai concetti del bene
e del male».
32
La tavola delle categorie della libertà indica quattro punti di vista possibili sull’azione
libera, cioè sulla azione umana compiuta consapevolmente e con criterio: ovvero, in riferi-
mento a regole. Dal punto di vista della «quantità» un’azione libera può essere «soggettiva»
(cioè, obbediente a massime semplicemente individuali); «oggettiva» (cioè, obbediente a pre-
cetti [Vorschriften] condivisi da «una specie di esseri razionali in quanto essi convengono in
certe inclinazioni»); oppure propriamente legale (cioè, obbediente a principi pratici a priori).
Dal punto di vista della «qualità», essa può risultare «precettiva» (cioè, orientata a fare);
«proibitiva» (cioè, orientata a non fare); o «eccettiva» (cioè, orientata a porre eccezioni). Dal
punto di vista della «relazione», essa può essere rivolta alla «personalità» di una persona
(cioè, riguardare quel che alla persona è dovuto in quanto tale); può essere rivolta alla «condi-
zione» [Zustand] in cui si trova una persona (cioè riguardare quel che ad essa è dovuto per la
situazione in cui è); oppure può essere rivolta ― reciprocamente ― da una persona alla con-
dizione dell’altra. Dal punto di vista della «modalità», essa può risultare «lecita o illecita»;
«doverosa o proibita»; «doverosa in senso perfetto o imperfetto». (Cfr. Kritik der praktischen
Vernunft [1788] ― d’ora in poi: KpV –; trad. it. di F. Capra, riveduta da E. Garin, Analitica
della ragion pura pratica, cap.II, p. 145).
400 Parte quinta: studi su etica e universalità
all’imperativo. Si potrebbero poi collocare sia nella prima che nella
seconda delle categorie della «qualità» ― a seconda che la Regola
venga intesa nella sua versione, rispettivamente, positiva o negativa.
Quanto alle categorie della «relazione», potremmo farle rientrare nella
seconda, se la Regola viene considerata come vigente in condizioni
storiche, oppure nella terza, se la si riferisce ad un ideale Regno dei fi-
ni. Infine, dal punto di vista della «modalità», la Regola Aurea interes-
sa azioni di dovere sia perfetto [vollkommene] che imperfetto [unvol-
lkommene Pflicht]; in quanto l’ambito di azioni che essa implicita-
mente promuove, risulta non preventivamente delimitabile, ma piutto-
sto aperto quanto lo è la tensione all’ideale.
1.3.2. La forma grammaticale della Regola Aurea
La Regola Aurea è certamente un imperativo. Si tratta appunto di
capire in che senso lo sia. Come sappiamo, Kant distingue tra impera-
tivi ipotetici e imperativi assoluti33. Un imperativo assoluto può poi ri-
velarsi autentico, cioè adeguato alla forma della volontà razionale in
quanto tale34, oppure no: nel primo caso ― secondo Kant ―, esso sarà
anche un «imperativo categorico», ovvero una «legge» (Gesetz)35. I-
noltre, l’«imperativo ipotetico» (o «precetto») comprende, come pro-
prio caso speciale, quello dell’imperativo «condizionato dal persegui-
mento di un effetto o fine desiderato». Ebbene, rispetto a tale quadro,
la Regola d’Oro come si colloca?36.
Prima facie essa si presenta come un imperativo ipotetico, dove la
parte propriamente imperativa è quella che, in una formula come quel-
la che in Appendice indichiamo con la sigla (p4), sta a destra del se-
gno di derivazione. In realtà, occorre considerare che la parte della
formula che sta a sinistra del segno di derivazione, non svolge pro-
priamente il ruolo di un antecedente condizionale, ma va piuttosto in-
33
Ovvero, a priori.
34
Ovvero «praticamente giusto» [praktisch richtig].
35
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap.I, § 1, scolio, p. 39.
36
«Le massime sono bensì principi [Grundsätze], ma non imperativi [Imperativen]. Ma
gli stessi imperativi, se son condizionati, cioè se determinano la volontà non semplicemente
come volontà, ma soltanto relativamente a un effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipote-
tici, sono bensì precetti [Vorschriften] pratici, ma non leggi» (cfr. KpV, Analitica della ragion
pura pratica, cap. I, § 1, scolio, p. 37).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 401
tesa quale matrice di un tipo di comportamento che viene comunque
proposto come da seguire senz’altro. Per questo, occorre trovare per la
Regola Aurea una formulazione di tipo non ipotetico.
Si tratta dunque di un imperativo assoluto, almeno per quanto ri-
guarda la forma. Ma si tratta anche di un imperativo giusto, e quindi
categorico? Per Kant lo è, o meglio lo diventa, a condizione che venga
purificato; cioè, a condizione che l’io che ne è protagonista venga in-
teso in senso trascendentale; e che, di conseguenza, il volere dell’io
venga riferito alla propria e altrui Persönlichkeit, anziché all’acciden-
tale Zustand in cui questa si trova collocata.
1.3.3. Il legame della Regola Aurea con il mondo dei bisogni
In effetti, la Regola Aurea parte da un materiale empirico (quel che
vorrei o non vorrei mi venisse fatto da altri); parte dunque da ― pre-
sunti o reali ― «bisogni», che hanno un loro focus imaginarius di
soddisfacimento nella felicità, ma che si configurano accidentalmente
e variamente, a seconda del «soggettivo sentimento di piacere e di-
spiacere» di chi ne è portatore. La Regola, dunque, ha senso per la vo-
lontà in quanto umana, ma non per la volontà in quanto pura ragion
pratica. Il risultato della oggettivizzazione di una legge che fosse solo
soggettivamente necessaria, sarebbe il caos potenzialmente conflittua-
le di una accidentalità interagente con tutte le altre37. Infatti, una «in-
clinazione», se elevata a criterio di una legislazione pratica universale,
«deve estenuare se stessa [sich selbst aufreiben] nella forma di una
legge universale»38. E qui Kant paga il prezzo della sua concezione ri-
duttiva delle inclinazioni naturali, e, più in generale, della sua riduzio-
ne della antropologia filosofica a mera «antropologia pragmatica».
37
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 3, scolio II, p. 51.
38
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 4, scolio, p. 57. «Perciò è cosa
strana che, siccome il desiderio della felicità, quindi la massima mediante la quale ognuno si
pone la felicità a motivo determinante della sua volontà, è universale, così possa esser venuto
in mente a uomini di criterio di spacciar questa massima per una legge pratica universale.
Poiché [...] qui, se si volesse dare alla massima l’universalità di una legge, ne seguirebbe pro-
prio l’opposto della concordia: il più grave conflitto [Widerstreit] e l’intera distruzione [Ver-
nichtung] della massima stessa e del suo scopo. Poiché in quel caso il volere di tutti non ha un
solo e medesimo oggetto, ma ognuno ha il suo (il proprio benessere), il quale può bensì anche
accordarsi accidentalmente con le intenzioni che altri rivolgono parimenti a se stessi, ma è del
tutto insufficiente a far una legge» (cfr. ibi, cap. I, § 4, scolio, pp. 57–59).
402 Parte quinta: studi su etica e universalità
Ma la Regola può essere, per così dire, purificata. E ciò accade, se
la si interpreta come il risultato della «limitazione» [Einschränkung]
che una certa «materia» [Materie] morale ― il bisogno di essere feli-
ci, essenziale agli esseri razionali finiti ― subisce ad opera della
«forma» [Form] propria della volontà razionale come tale: forma che
coincide con il criterio dell’universalità. Kant infatti sostiene ― nella
Analitica dei principi della ragion pura pratica ― che una «massima
soggettiva» può diventare «legge oggettiva», quando accetta di far re-
golare o limitare il proprio contenuto dalla forma dell’universalità. Nel
caso della Regola Aurea, la materia sarebbe ― proviamo a interpreta-
re ― l’inevitabile ricerca per via negativa e positiva della felicità per
se stessi, mentre la forma sarebbe l’imparzialità, o universalità esten-
siva di applicazione, di tale ricerca. Da tale universalizzazione «sorge»
[entspringt]39 l’obbligazione verso la felicità altrui40.
Una purificazione della Regola potrebbe rientrare nel programma
kantiano che vuole la riconduzione, da parte della ragion pratica, della
ricerca individuale della felicità ― o «egoismo» [Selbstsucht] ―
all’«amore razionale di sé» [vernünftige Selbstliebe]. Ora, la tendenza
a fare dell’egoismo il principio operativo della volontà (almeno come
criterio di massime occasionali), è chiamata da Kant «amor proprio»
[Selbstliebe o Eigenliebe]; e la convinzione di poter elevare l’amor
39
Il verbo entspringen indica quella spontaneità sorgiva che è ― per Kant ― il contrario
della patologicità.
40
«La materia della massima può bensì rimanere, ma non dev’esser la condizione di essa,
perché altrimenti questa non varrebbe come legge. Dunque, la semplice forma [Form] di una
legge, che limita la materia [welche die Materie einschränkt], dev’essere nello stesso tempo
un motivo per raggiungere questa materia alla volontà, ma non per presupporla. La materia
sia, per es., la mia propria felicità. Questa materia, se io l’attribuisco a ciascuno (come infatti
posso fare negli esseri finiti), può diventare una legge pratica oggettiva solo quando compren-
do in essa la felicità degli altri. Dunque, la legge di promuovere la felicità degli altri non deri-
va dalla supposizione [Voraussetzung] che questo sia un oggetto per il libero arbitrio di cia-
scuno, ma semplicemente da ciò, che la forma dell’universalità, di cui la ragione ha bisogno
come di condizione per dare a una massima dell’amor proprio il valore oggettivo di una legge,
diventa il motivo determinante della volontà; e quindi non fu l’oggetto (la felicità degli altri) il
motivo determinante della volontà pura, ma la semplice forma legislatrice, per cui io limitai la
mia massima fondata sull’inclinazione, per procurarle l’universalità di una legge, e così farla
atta alla ragion pura pratica. Soltanto da questa limitazione, e non dall’aggiunta di un motivo
esterno, poté allora derivare il concetto dell’obbligo di estendere la massima del mio amor
proprio anche alla felicità degli altri» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 8,
scolio I, p. 75).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 403
proprio a principio della legge morale, è per Kant la «presunzione»
[Eigendünkel o arrogantia]41. Il «rispetto», al contrario, è quel pecu-
liare sentimento42 che la legge morale suscita in noi, quando essa ope-
ra in contrasto con l’egoismo43.
Kant ritiene che un essere razionale possa volere la felicità altrui,
anche indipendentemente da un obbligo morale; ma ritiene anche che
questa benevolenza non possa essere «motivo determinante» [Bestim-
mungsgrund] delle massime di questo essere razionale. Infatti, se la
benevolenza fosse un che di autonomamente determinante, dovremmo
supporre in chi la prova un vero e proprio bisogno della felicità altrui,
il che può essere vero per gli uomini, ma non per gli esseri razionali in
quanto tali (ad esempio, non è vero per Dio)44. Ora, il criterio morale
41
«Tutte le inclinazioni insieme (che possono anche venire ridotte in un sistema tollerabi-
le, e la soddisfazione delle quali in questo caso si chiama felicità) costituiscono l’egoismo
[Selbstsuche] (solipsismus). Questo è, o l’egoismo dell’amore di sé, di una benevolenza verso
se stesso (philautia) che supera tutto, o l’egoismo della compiacenza di se stesso (arrogantia).
Quello si chiama particolarmente amor proprio [Eigenliebe], questo presunzione [Eigendün-
kel]. La ragion pura pratica reca semplicemente danno all’amor proprio, costringendolo sol-
tanto, come naturale e desto in noi ancor prima della legge morale, ad accordarsi con tale leg-
ge; esso viene allora chiamato amor razionale di sé. [...] Ma noi troviamo la nostra natura,
come esseri sensibili, così fatta che la materia della facoltà di desiderare (oggetti
dell’inclinazione, sia della speranza o del timore) s’impone anzitutto, e il nostro io patologi-
camente determinabile, benché sia del tutto inadatto mediante le sue massime a una legisla-
zione universale, tuttavia, come se costituisse tutto il nostro io, s’è sforzato di far valere le sue
pretese come prime e originali. Questa tendenza a far di se stesso, secondo i motivi determi-
nanti soggettivi del proprio libero arbitrio, il motivo determinante oggettivo [objektiver Be-
stimmungsgrund] della volontà in generale, si può chiamare amor proprio, il quale, se si fa
legislativo e principio pratico incondizionato, si può chiamare presunzione» (cfr. KpV, Anali-
tica della ragion pura pratica, cap. III, pp. 159–163).
42
Peculiare, perché ― secondo Kant ― è un sentimento presente in noi “a priori”.
43
«Il rispetto alla legge morale è un sentimento che vien prodotto mediante un principio
intellettuale; e questo sentimento è il solo che noi conosciamo affatto a priori, e di cui pos-
siamo vedere la necessità» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. III, p. 161).
44
«Ogni materia delle regole pratiche [alle Materie praktischer Regeln] si fonda sempre
su condizioni soggettive, le quali non procurano loro, per esseri razionali, nessun’altra univer-
salità se non l’universalità condizionata (nel caso che io desideri questa o quella cosa, che co-
sa debba fare per effettuarla), e si riferiscono tutte al principio della felicità propria [Prinzip
der eigenen Glückseligkeit]. Ora è bensì innegabile, che ogni volere deve anche avere un og-
getto [Gegenstand], e quindi una materia [Materie]; ma non perciò questa è il motivo deter-
minante e la condizione della massima; perché se lo fosse, non si potrebbe esporre nella forma
universalmente legislativa, perché allora l’aspettazione dell’esistenza dell’oggetto sarebbe la
causa determinante del libero arbitrio, e la dipendenza della facoltà di desiderare
dall’esistenza di una cosa dovrebbe esser posta a base del volere, la quale dipendenza può
sempre soltanto esser cercata nelle condizioni empiriche, e quindi non può mai fornire la base
404 Parte quinta: studi su etica e universalità
per l’uomo è dato da ciò che è proprio della volontà razionale come ta-
le, e quindi da ciò che vale a priori. Moralmente occorre prescindere,
quindi, da quel che vale soltanto sotto quelle «condizioni accidentali e
soggettive, che distinguono un essere razionale da un altro»: condizio-
ni tra le quali, appunto, va annoverato il desiderio di un che di empiri-
co o di immaginario, come fine da raggiungere45.
La tendenza alla felicità non può essere il filo conduttore di una le-
gislazione morale, perché quella, se intesa nel senso riduttivo che sap-
piamo, ha un fine empirico, anziché definito a priori; e quindi può
tutt’al più dar luogo a «regole generali» ― generalizzatrici, appunto,
dell’esperienza ―, «ma non universali» [generelle, aber niemals uni-
verselle Regeln]. Assumere la tendenza alla felicità come criterio, si-
gnificherebbe allora presupporre alla legge morale un fatto empirico
come sua condizione. Il che potrebbe valere per una regola della «abi-
lità»46, oppure della «prudenza»: dunque, per un consiglio; ma non per
un comando47. Fare della propria felicità il criterio determinante
dell’agire, è piuttosto ― per Kant ― il contrario del principio della
moralità48.
1.3.4. Il Comandamento dell’Amore come schematizzazione del-
l’imperativo
Diverso, anzi opposto, è il caso del Comandamento dell’Amore.
Kant lo interpreta infatti come l’esatto contrario del «principio della
propria felicità», da lui formulato così: «ama il prossimo tuo per amo-
re di te stesso»49. Il Comandamento infatti, comandando l’amore, an-
che lo purifica, volgendolo nel senso dell’«amore pratico» ― che con-
di una regola necessaria e universale. Così la felicità [Glückseligkeit] di altri esseri potrà esser
l’oggetto della volontà di un essere razionale. Ma, se essa fosse il motivo determinante della
massima, si dovrebbe supporre che del benessere [Wohlsein] degli altri, non soltanto sentiamo
un piacere naturale, ma anche un bisogno, come lo richiede il sentimento simpatico negli uo-
mini. Ma questo bisogno io non lo posso supporre in ogni essere razionale (niente affatto in
Dio)» (cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 8, scolio I, pp. 73–75).
45
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 1, scolio, p. 39.
46
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 3, scolio II, p. 51.
47
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 8, scolio II, p. 79.
48
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 8, scolio I, p. 75.
49
Il principio dell’amore di sé non può essere spacciato per una legge pratica (cfr. KpV,
Analitica della ragion pura pratica, cap. I, § 3 scolio II, p. 53).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 405
siste nel praticare volentieri i doveri, stretti o larghi, verso la persona
―, anziché dell’amore «patologico», che è dominato dalle spinte pas-
sionali. Del resto, l’affetto di tipo patologico che possiamo provare per
gli uomini, non potrebbe essere motivo di un agire moralmente buono,
in quanto non avrebbe un radicamento a priori50; ma neppure sarebbe
un valido «movente» [Triebfeder]: infatti, il movente adeguato
dell’agire umano è solo quel «rispetto» [Achtung] per il dovere, che è
tale da abbattere ogni amor proprio e ogni presunzione51.
A precisazione di quanto già sostenuto nella Grundlegung, nella
Seconda Critica Kant afferma che il Comandamento dell’Amore, co-
me del resto «tutti i precetti [Vorschriften] del Vangelo», presenta
l’intenzione morale come un ideale di santità irraggiungibile da parte
della creatura. Eppure, la sua funzione è quella di offrire un «esempla-
re» [Urbild] cui progressivamente avvicinarsi. Alla lettera il Coman-
damento è inadempibile per l’uomo, perché amare ad oltranza ― e
quindi praticare volentieri il dovere senza eccezioni ―, non è di fatto
possibile, in quanto le inclinazioni entrano normalmente e prepoten-
temente in contrasto con il contenuto del dovere52.
Ora, le precedenti considerazioni aprono ― per le indicazioni e-
vangeliche, e quindi a suo modo anche per la Regola d’Oro ― il pos-
sibile ruolo di «tipi» della legge morale propriamente detta. Infatti, se-
condo Kant, «la dottrina morale del Vangelo» presenta «la purezza del
principio morale», ma anche «la proporzione di esso ai limiti degli es-
seri finiti»53. Si può annotare, al riguardo, che mentre lo statuto della
felicità come ideale della immaginazione ― accennato nella Grundle-
gung ― resta vincolato a configurazioni empiriche o immaginarie in
senso riproduttivo, e mentre la vera idealità razionale è quella del Be-
ne supremo; il modello delle regole evangeliche sembra pensato da
50
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. III, p. 179.
51
«Il fanatismo morale è questo passare i limiti che la ragion pura pratica pone
all’umanità, per cui essa vieta di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni confor-
mi al dovere, cioè il movente morale di esse, in qualche cosa che non sia la legge stessa, e
l’intenzione [Gesinnung], che per essa vien recata nelle massime, altrove che nel rispetto per
questa legge, e quindi comanda di fare del pensiero del dovere, che abbatte ogni presunzione e
così pure il vano amor di sé, il principio di vita supremo di ogni moralità nell’uomo» (cfr.
KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. III, p. 187).
52
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. III, pp. 181–183.
53
Cfr. KpV, Analitica della ragion pura pratica, cap. III, p. 189.
406 Parte quinta: studi su etica e universalità
Kant come qualcosa che si colloca in un luogo intermedio tra i due
precedenti, in funzione mediatrice tra essi: più precisamente, come
qualcosa di prodotto da una immaginazione trascendentale, e quindi
come uno schema di genere pratico54.
1.4. La metafisica dei costumi
La premessa fondamentale di quest’opera è che, sia nel campo del
diritto che in quello dell’etica speciale (o etica delle virtù), è lecito
considerare solo il rapporto che l’uomo intrattiene con altri uomini
(cioè con altri soggetti cui lo legano diritti e doveri); mentre non è le-
cito considerare il rapporto che l’uomo intrattiene con altri esseri che
non abbiano né diritti né doveri nei suoi confronti (e che siano, per
questo, incapaci di obbligarlo), quali gli animali; o quello con chi ―
ed è il caso del Creatore ― fosse nella condizione di poter avere dirit-
ti, ma non doveri verso di lui55.
I rapporti dell’uomo verso l’uomo ― e quindi anche i doveri in essi
implicati ―, si articolano, poi, in quelli rivolti a sé e quelli rivolti agli
altri56. I doveri implicati in tali rapporti si articolano, a loro volta, in
«stretti» (o perfetti) e «larghi» (o imperfetti): questi ultimi ― quelli
non determinatamente obbliganti ― sono i doveri di virtù57. Bene, la
Regola d’Oro viene considerata preferenzialmente nell’ambito appli-
cativo di questi ultimi; e a maggior ragione ciò dovrebbe valere per il
Comandamento dell’Amore.
Queste indicazioni preliminari rivelano che l’attenzione del testo in
questione va, non tanto alla deduzione trascendentale della legge mo-
rale, quanto alla applicazione di quest’ultima alle relazioni interuma-
ne, la cui cifra distintiva è quella della reciprocità ― simmetrica o a-
simmetrica che essa sia.
54
Sulla questione dello schematismo nell’etica kantiana, si veda il capitolo precedente del
presente volume.
55
Cfr. Die Metaphysik der Sitten (1797) ― d’ora in poi: Met –; trad. it. di G. Vidari, rive-
duta da N. Merker, Suddivisione della dottrina del diritto, p. 49. Si veda anche: ibi, Principi
metafisici della dottrina delle virtù, Conclusione, p. 373; e § 16, p. 303. Per Kant, anche le
forme di attenzione al mondo inanimato e alla vita animale sono esplicazioni del dovere
dell’uomo nei confronti di se stesso (cfr. ibi, § 17, pp. 304–305).
56
Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, XIX, p. 267.
57
Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, VII, p. 240.
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 407
1.4.1. Interpretazione della Regola Aurea e del Comandamento
dell’Amore
Più volte Kant, nel corso dell’opera, si riferisce alla Regola Aurea e al
Comandamento dell’Amore; e lo fa allo scopo di tradurre l’imperativo in
termini eloquenti per l’immaginazione. Nella Dottrina degli elementi
dell’etica, trattando dei «doveri di virtù verso gli altri», Kant parla della
«benevolenza» ― che, se viene prescritta, diventa «filantropia pratica»
―; e afferma che «la massima della benevolenza è dovere di ogni uomo
verso gli altri, siano o non siano degni d’amore; l’etica ce l’impone in
nome di questa legge della perfezione: ‘ama il tuo prossimo come te stes-
so’». Infatti, le massime concepite dalla ragion pura non possono essere
egoistiche; e questo, perché se «io pretendo la benevolenza degli altri
verso di me, debbo essere anch’io benevolo verso tutti gli altri».
Ma ― prosegue il nostro autore ―, considerato che «senza di me
tutti gli altri non sono tutti gli uomini, e quindi la massima non avreb-
be il carattere universale di una legge che è per altro necessario per
stabilire l’obbligazione, la legge del dovere della benevolenza com-
prenderà me pure come oggetto di questa benevolenza prescritta dalla
ragion pratica. Ciò non vuol dire che io sia costretto per questo ad a-
mare [lieben] me stesso (poiché [...] non vi può essere nessuna obbli-
gazione a questo riguardo); ma la ragione legislatrice, la quale nella
sua idea dell’umanità in generale comprende tutta la specie (e quindi
anche me), questa ragione, essendo universalmente legislatrice, com-
prende nel dovere della benevolenza reciproca [wechselseitiges Wo-
hlwollen], basato sul principio dell’uguaglianza [Princip der Glei-
chheit], tanto me quanto gli altri; essa mi permette, dunque, di voler
bene a me stesso, alla condizione però che io voglia bene anche a tutti
gli altri, perché soltanto a questa condizione la mia massima (della be-
neficenza) si qualifica a legislazione universale, sulla quale si fonda
ogni legge del dovere»58.
Al riguardo, osserviamo quanto segue.
1. Kant sembra introdurre la Regola Aurea come corollario del Co-
mandamento dell’Amore: corollario che (a) traduce la filantropia in
58
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 27, pp. 318–319.
408 Parte quinta: studi su etica e universalità
benevolenza (e ultimamente in beneficenza), (b) traendo la seconda
dalla prima per analisi, in quanto l’amore filantropico ha, tra i re-
quisiti analitici della propria autenticità, la benevolenza.
2. Egli formula la Regola nel modo seguente:
(r1): |– tBx; dove t ⊃ x, e B (“essere benevolente”) è una relazione
non riflessiva, che quindi esige un relato diverso dal referente.
Tale formulazione della Regola risulta analoga ad una formulazio-
ne del Comandamento che proponiamo in Appendice:
(c2): |– tAx; dove t ⊃ x.
3. Si può dire che ― secondo il Kant della Metaphysik ― nella Rego-
la si abbia l’unica autentica attuazione del Comandamento. In tale
attuazione, il soggetto non parte dall’amore di sé, e non si espone
così al rischio di ridurlo ad «amor proprio», amando gli altri in fun-
zione dell’amore di sé59; ma piuttosto egli purifica l’amore di sé
nella benevolenza rivolta ad ogni essere razionale bisognoso di cu-
ra, ritornando ― attraverso l’«ogni» [jeder], cioè la forma
dell’universalità distributiva ― a se stesso come altri, senza ledere
quindi l’imparzialità o uguaglianza richieste dalla ragion pura di
fronte alla uguale dignità personale.
Ricordiamo che Kant insiste sul fatto che «l’amare non può essere
direttamente un dovere»; a meno che non lo si traduca nell’«agire in
modo da prendere se stessi e gli altri uomini come fine»60. Il che, a sua
volta, finisce per ridursi a una equivoca posizione sentimentale, se non
comporta il prendersi cura, per quanto possibile, dei progetti di vita (i
“fini”) propri e altrui.
59
Secondo quello che nella Seconda Critica era detto «principio dell’amor proprio».
60
«L’uomo è obbligato a concepire se stesso e a concepire inoltre tutti gli altri uomini come
un suo proprio fine; questo si usa chiamare il dovere dell’amore di sé e il dovere dell’amore del
prossimo; le quali espressioni, però, sono considerate qui in significato improprio, perché se
l’amare non può essere direttamente un dovere, lo è invece l’agire in modo da prendere se stessi
e gli altri uomini come fine» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, XVIII, p. 264).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 409
Si può aggiungere che, se l’attuazione del Comandamento del-
l’Amore si traduce in semplice filantropia [Menschenliebe] o benevo-
lenza di desiderio, si espone con ciò ad una «contraddizione». Infatti,
mentre la filantropia esige di amare tutti imparzialmente, nella realtà
empiricamente segnata da varie forme di prossimità, sono inevitabili
predilezioni e privilegiamenti. Ora, nella traduzione dell’amore in be-
nevolenza pratica o beneficenza (insomma, nel passaggio dal semplice
Wohlwollen al Wohltun)61, tali privilegiamenti sono ampiamente pre-
visti e scontati62, e la contraddizione non si presenta più.
Più in generale ― secondo Kant ―, l’amore filantropico appartiene
alla sfera del sentimento e non a quella della volontà. Quando è in
questione l’amore filantropico, non è possibile amare perché lo si vuo-
le o lo si deve. Ma, se un «dovere d’amore» ― quando l’amore sia
quello filantropico ― sarebbe un non–senso, lo stesso non vale per il
dovere di operare per amore: infatti, amare il prossimo come se stessi
non vuol dire amare prima sentimentalmente, per poi beneficiare; ben-
sì, vuol dire amare beneficiando. Dunque, l’amore comandato può es-
sere solo quello della benevolenza–beneficente; mentre la filantropia,
se adeguatamente intesa, non è che una virtuosa disposizione d’animo
― la quale per altro può veramente fiorire solo attraverso l’esercizio
dell’amore beneficente63.
61
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 25, pp. 316–317.
62
«‘Ama il tuo prossimo (il tuo simile) come te stesso’? Se v’è chi è più vicino (nel dove-
re della benevolenza) di un altro, se verso costui io sono dunque obbligato a una maggior be-
nevolenza che verso gli altri, pur restando io costantemente più vicino a me stesso (anche dal
punto di vista del dovere) di ogni altro, io allora, a quanto pare, non posso dire senza contrad-
dizione [ohne mir selbst zu widersprechen] che ‘debbo amare ogni uomo come me stesso’,
perché la misura dell’amore di sé non ammette nessuna differenza nel grado. Si scorge subito,
che qui non si intende solamente la benevolenza limitata al desiderio [des Wunsches], la quale
propriamente è soltanto un mero compiacimento per il benessere altrui senza che vi si debba
contribuire, ma si tratta di quella benevolenza [Wohlwollen] attiva e pratica che consiste nel
proporsi per fine il benessere e la salute degli altri (ciò che si chiama beneficenza [Wo-
hlthun]). Nel desiderio, infatti, posso essere benevolo verso tutti i pari grado; all’atto del fare
pratico però, senza violare l’universalità della massima, il grado può essere molto diverso, se-
condo la differenza delle persone amate (di cui una m’interessa più da vicino di un’altra)»
(cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 28, pp. 319–320).
63
«L’amore appartiene al sentimento, non alla volontà [Liebe ist eine Sache der Empfin-
dung, nicht des Wollens]: io non posso amare perché voglio, ancor meno, però, perché debbo
(io non posso essere costretto all’amore); un dovere di amare è, dunque, un non–senso [ist ei-
ne Pflicht zu lieben ein Unding]. La benevolenza (amor benevolentiae), in quanto è un fare
[ein Thun], può invece essere sottomessa alla legge del dovere. [...] Quando dunque si dice:
410 Parte quinta: studi su etica e universalità
A ben vedere, la benevolenza (sia quella di desiderio che quella pra-
tica), e il suo risvolto negativo (la discrezione), corrispondono, rispetti-
vamente, alle due versioni ― positiva e negativa ― della Regola Aure-
a. Osserva Kant, che «il dovere dell’amore del prossimo può essere an-
che espresso come dovere di far propri i fini degli altri (in quanto questi
non siano immorali); il dovere del rispetto dei miei simili è [invece]
contenuto nella massima che proibisce di abbassare chiunque al rango
di puro mezzo per i miei fini (proibisce cioè di esigere che altri debba
rinnegare se stesso per farsi servo dei fini miei)»64. Non si può del resto
negare che l’imperativo, specie nella sua versione personalista, ricalchi
― secondo le note preoccupazioni trascendentaliste ― il modulo del
Comandamento dell’Amore e della Regola d’Oro65.
1.4.2. Il bisogno come contenuto di un obbligo
Ma, anche nella Introduzione alla dottrina della virtù, sia pure in
modo meno esplicito, Kant introduce una certa formulazione della
Regola d’Oro. Leggiamo: «Come l’amore di noi stessi non può essere
separato dal bisogno di essere amati (e averne aiuto in caso di necessi-
tà), così noi facciamo di noi stessi un fine per gli altri; ma questa mas-
sima non può ricevere un carattere obbligatorio se non dalla qualità
che la rende atta a diventare una legge universale, vale a dire dalla vo-
lontà di considerare anche gli altri come dei fini per noi. È così che la
felicità degli altri può essere considerata come un fine il quale è nello
stesso tempo un dovere»66.
Analizziamo le affermazioni precedenti, premettendo che l’amore
che qui è in gioco, è quello di benevolenza–beneficenza. Ora, schema-
tizzando otteniamo:
Tu devi amare [lieben] il tuo prossimo come te stesso, questo non significa già: tu devi amarlo
immediatamente (dapprima) e per mezzo di questo amore (dopo) beneficiarlo, ma significa
invece: fa del bene al tuo prossimo, e questa beneficenza determinerà in te la filantropia
[Menschenliebe] (in quanto abitudine dell’inclinazione alla beneficenza in generale)» (cfr.
Met, Introduzione alla dottrina della virtù, XII, C, pp. 253–254).
64
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 25, p. 317.
65
«L’umanità in se stessa è una dignità, poiché l’uomo non può essere trattato da nessuno (cioè
né da un altro, e neppure da lui stesso) come un semplice mezzo, ma deve sempre essere trattato
nello stesso tempo come un fine» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 38, pp. 333–334).
66
Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, VIII, 2, p. 244.
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 411
(r2): tAt → Bist(xAt) (“il fatto che tu ti ami, implica che tu hai bi-
sogno che x ami te”).
Ma, solo l’obbligo dell’amore reciproco universale può produrre,
per particolarizzazione, l’obbligo che x ami te:
(r3): O(xAx) |– O(xAt).
Quindi, il contenuto del tuo bisogno ― xAt ― diventa contenuto di
un obbligo (per te e per altri), solo se si assume il precedente obbligo
dell’amore reciproco universale ― O(xAx) ―, in cui tu risulti coin-
volto attivamente, prima che passivamente. In tal modo, la Regola è
vista ancora una volta quale corollario del Comandamento del-
l’Amore.
1.4.3. Applicazioni della dinamica del ritorno mediato su di sé
Il matrimonio ― che Kant comunque considera come realtà con-
trattuale67, cioè per come esso si configura nella sfera del diritto68 ―, è
presentato quale luogo di una dinamica del tipo ora descritto69:
l’amore a noi stessi ha bisogno, per realizzarsi, di passare attraverso
l’amore rivolto a noi da altri. Infatti, nel matrimonio ― secondo Kant
― cedere il proprio corpo in uso al coniuge, è condizione per essere
trattati in quel senso felicitante l’aspirazione al quale è implicata
nell’amore a sé. Comunque, il diritto a tale trattamento (e quindi al ri-
67
Il matrimonio è definito da Kant come «l’unione di due persone di sesso diverso per il
possesso reciproco delle loro facoltà sessuali durante tutta la loro vita» (cfr. Met, La dottrina
del diritto, Parte I, § 24, p. 96).
68
In particolare, del «diritto privato, personale di natura reale».
69
«L’uso naturale che un sesso fa dell’organo sessuale dell’altro è un godimento, per il
quale una delle due parti si abbandona all’altra. In questo atto l’uomo riduce se stesso a una
cosa, il che è contrario al diritto dell’umanità che risiede nella sua propria persona. Questo di-
ritto ora è possibile alla sola condizione che, mentre una delle due persone è acquistata
dall’altra, proprio come una cosa, questa a sua volta acquisti reciprocamente l’altra; così essa
ritrova di nuovo se stessa, e ristabilisce la propria personalità. Ma l’acquisto di un membro
dell’uomo è nello stesso tempo l’acquisto di tutta la persona, perché la persona è un’unità as-
soluta; in conseguenza l’abbandono e l’accettazione di un sesso al godimento dell’altro non
solo è ammissibile soltanto sotto la condizione del matrimonio, ma è anche unicamente possi-
bile solo a questa condizione» (cfr. Met, La dottrina del diritto, Parte I, § 25, p. 96).
412 Parte quinta: studi su etica e universalità
torno su di sé: tAt) è acquisito attraverso la disponibilità a fare la mos-
sa reciproca verso l’altro.
È appena il caso di rilevare che la dinamica qui descritta non è af-
fatto analoga a quella hegeliana del riconoscimento. Nel contratto kan-
tiano, infatti, quel che si chiede e si offre non è il riconoscimento della
Persönlichkeit (che, anzi, nella relazione matrimoniale si tratterà di
non compromettere, curando che si realizzi reciprocità); ma piuttosto
la felicità fisica, e quella parte di essa che Kant chiama «godimento».
Un altro caso, questa volta di rilievo esplicitamente etico, in cui si
realizza la dinamica del ritorno mediato su di sé, è quello dell’«amici-
zia pragmatica» [pragmatische Freundschaft]. Essa, «che si fa carico,
sebbene per amore, dei fini degli altri uomini, non può avere» la pu-
rezza e la perfezione della «amicizia morale» [moralische Freun-
dschaft], che è comunicazione totale e reciproca di pensieri e senti-
menti (per quanto sia consentito dal rispetto tra le persone). Tuttavia,
la prima è il modo concreto in cui la seconda si realizza nell’esperien-
za, accettandone i limiti.
Ora, l’amicizia pragmatica si distingue dall’amore puro (quello fi-
lantropico), in quanto essa implica una reciprocità tra uguali, che
quest’ultimo non prevede: infatti, l’amore puro tende a realizzarsi, in
genere, come una reciprocità senza «uguaglianza» [Gleichheit]70. Si
può dire, al riguardo, che l’amicizia pragmatica, che Kant pensa come
qualcosa di tendenzialmente universale, sia la autentica realizzazione
del quadro indicato dalle formule (r2) ed (r3). Infatti, un amore in cui
chi ama riconosce di muoversi nel bisogno, tende non solo alla reci-
70
«Un amico degli uomini [Menschenfreund] in generale (vale a dire un amico di tutta la
specie), è colui che prende parte sensibile al bene di tutti gli uomini (condividendo la loro
gioia), e [...] significa qualche cosa di ancora più intimo e stretto che [...] semplice amante de-
gli uomini [Menschenliebende] (filantropo). Infatti la prima [espressione] contiene anche la
rappresentazione e la giusta considerazione dell’uguaglianza [Gleichheit] tra gli uomini, vale
a dire l’idea che nel momento in cui obblighiamo gli altri con i nostri benefici, pure noi stessi
contraiamo delle obbligazioni, come se noi ci rappresentassimo quali fratelli riuniti sotto un
padre comune, che vuole la felicità di tutti. Il rapporto del protettore quale benefattore, con il
protetto, quale obbligato alla riconoscenza, è infatti un rapporto d’amore reciproco [Wechsel-
liebe], ma non d’amicizia, perché il rispetto, che essi si devono reciprocamente, non è uguale
[gleich] dalle due parti. Il dovere della benevolenza verso gli uomini esercitata in qualità
d’amico e la giusta considerazione di questo dovere, servono a preservare gli uomini
dall’orgoglio, a cui si abbandonano di solito i fortunati che posseggono i mezzi d’essere bene-
fici» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 47, pp. 349–350).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 413
procità, ma alla reciprocità nell’uguaglianza, quale è indicata dalla re-
lazione simmetrica: xAx71.
Il contrario della virtù dell’amicizia morale, è il vizio della «super-
bia», che «esige dagli altri un rispetto, che poi a loro rifiuta», esigendo
«ch’essi si occupino unicamente della nostra importanza»72. Il contra-
rio della disposizione all’amicizia pragmatica, sembra invece il vizio
dell’«egoismo», per cui non si aiutano gli altri che siano nel bisogno
― meritando in tal modo da loro un trattamento analogo al momento
opportuno73.
1.4.4. Le aporie della Regola Aurea: paternalismo e complicità
Nella Metaphysik, Kant affronta anche le due aporie contrapposte
cui sembra esporsi a tutta prima la Regola d’Oro: quella del paternali-
smo e quella della complicità. Le aporie nascono dalla considerazione
per cui, da un lato, fare agli altri ciò che si vorrebbe per sé da loro, e-
spone al rischio di proiettare paternalisticamente su di essi le proprie
propensioni soggettive; ma, dall’altro, cercare di evitare questo sco-
glio, facendosi carico dei fini soggettivi degli altri, vuol dire esporsi al
rischio della complicità rispetto a fini eventualmente immorali o co-
munque sconvenienti.
Quanto al paternalismo, Kant osserva che «ciò che serve a pro-
muovere e ad accrescere la [...] felicità [degli altri uomini], deve esse-
re lasciato al loro proprio giudizio»74; occorre evitare, insomma, di te-
nere sotto tutela chi non sia minorenne o minorato. Scrive il nostro au-
tore: «Colui che utilizza il potere conferitogli dalla legge del suo paese
per privare alcuno (per esempio un servo della gleba) della libertà di
essere felice a modo suo, può colui, dico, essere considerato benefat-
tore di quest’ultimo perché prende cura paternamente di lui, ma se-
71
L’amicizia è uno sviluppo della virtù della «simpatia morale»: «volontà di reciproca
comunicazione dei propri sentimenti» (diversa dalla semplice disposizione estetica alla com-
passione). Anche qui siamo di fronte ad un dovere largo, legato alla considerazione
dell’uomo, non semplicemente come «essere ragionevole» [vernünftiges Wesen], ma piuttosto
come «animale provvisto di ragione» [mit Vernunft begabtes Thier] (cfr. Met, Dottrina degli
elementi dell’etica, § 34, p. 326).
72
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 42, p. 337.
73
Cfr. Met, Dottrina degli elemnenti dell’etica, § 30, p. 321.
74
Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, V, B, p. 238.
414 Parte quinta: studi su etica e universalità
condo le sue proprie idee sulla felicità? [...] Io non posso beneficiare
nessuno secondo il mio proprio concetto della felicità (tranne i bimbi
minorenni o individui minorati e pazzi), mentre lo posso soltanto se-
condo le idee di colui che voglio beneficiare; ma non sono affatto be-
nefico nei suoi riguardi se un dono io glielo impongo»75.
Quanto alla complicità, Kant esclude che si possano fare propri dei
fini che fossero illeciti (nel linguaggio kantiano: «moralmente impos-
sibili» ovvero «contrari all’obbligazione»76); e ammette anche che si
possa rifiutare il proprio appoggio a progetti che, pur leciti (ovvero
«moralmente possibili»), non risultino condivisibili dal punto di vista
tecnico o anche prudenziale77. In proposito, nei Frammenti di un cate-
chismo morale, Kant esemplifica l’incongruità, e in certi casi
l’immoralità, in cui si incorrerebbe, se si assecondassero acriticamente
i progetti di felicità dei singoli individui78.
In generale, il superamento della duplice aporia coincide con la ca-
librazione trascendentale del soggetto del volere, il quale, operando su
di un piano inevitabilmente empirico, dovrà: (1) selezionare il lecito
rispetto all’illecito; (2) selezionare, nell’ambito del lecito, il prudente
e il tecnicamente congruente; (3) astenendosi poi, nell’ambito del leci-
to–prudente–congruente, dal privilegiare l’empiricità accidentale delle
proprie propensioni rispetto a quella altrui (essendo le propensioni,
75
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 31, pp. 322–323.
76
Per queste definizioni, cfr. Met, Introduzione alla metafisica dei costumi, IV, pp. 23–25.
77
«Mi compete però anche, salvo il caso in cui si abbia il diritto di esigerlo da me come
cosa a loro dovuta, di rifiutare quel che essi possono giudicare utile a questo scopo, ma a cui
io non attribuisco lo stesso valore» (Met, Introduzione alla dottrina della virtù, V, B, p. 238).
78
«MAESTRO: Si chiama felicità [...] un benessere costante, una vita di soddisfazioni,
una perfetta contentezza del proprio stato. Se tu avessi ora nelle tue mani tutte le felicità, le
vorresti tutte per te solo, o ne faresti parte ai tuoi simili? SCOLARO: Io ne farei parte agli al-
tri, per rendere anche loro felici e contenti. MAESTRO: Ciò prova che tu hai un cuore assai
buono; lasciami ora vedere se hai un intelletto altrettanto retto. Procureresti tu al pigro dei sof-
fici guanciali, affinché egli possa trascorrere la vita in un dolce far niente, o daresti
all’ubriacone vino in abbondanza, [...] e daresti all’ingannatore astuto una figura e dei modi
affascinanti, perché egli riesca a ingannare meglio gli altri, o all’uomo violento ardire e forza
per riuscire a vincere facilmente gli altri uomini? Questi sono appunto i mezzi che ognuno di
essi desidera, per essere felice a modo suo. SCOLARO: No, questo non lo farei. MAESTRO:
Vedi dunque, che, se anche tu tenessi tutte le felicità nelle tue mani e fossi inoltre animato
dalla migliore volontà, non le largiresti a ognuno secondo i suoi desideri, ma cominceresti con
l’indagare sino a qual punto egli ne è degno» (cfr. Met, Dottrina del metodo dell’etica, § 52,
Annotazione, pp. 359–360).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 415
fatti salvi i criteri ora accennati, pari tra loro in dignità). In altre paro-
le, per Kant un imperativo quale “devi proporti come fine la felicità di
x” (dove x comprende anche te), è originariamente una «materia
dell’arbitrio» che andrà sottoposta alle esigenze di un’etica trascen-
dentale79. Lo stesso vale per un imperativo quale “devi proporti come
fine la tua perfezione”80. Occorre, insomma, che la teleologia sia, non
evacuata, ma piuttosto informata dalla deontologia trascendentale.
Senonché, quando la materia del dovere è teleologica ― come nei
due casi precedenti ―, si è di fronte ad obbligazioni di tipo largo, tali
cioè da indicare un cammino di approssimazione, in cui la massima in
questione rappresenta un ideale regolativo, anziché un principio rigi-
damente determinante. In altre parole, tale cammino non ha una meta
prefigurabile81. Infatti, come nel coltivare la propria perfezione ― do-
vere largo verso se stessi ― non si sa bene dove si arriverà; analoga-
mente, nel coltivare la felicità altrui ― dovere largo verso altri ― si
potrà andare incontro anche a gravi sacrifici personali, privi (almeno
nell’immediato) di contraccambio: tutto dipende dal limite fino al qua-
le arriva a spingersi la nostra libera iniziativa82. Nei casi di tipo largo,
l’imperativo va a regolare, non la singola azione, ma la massima che
la produce: e il criterio della consistente universalizzazione vale per la
massima, non certo per ogni singola determinazione pratica che questa
produca (quale potrebbe essere, ad esempio, il dare tutti i propri beni
ai poveri ― pur nella ricerca di una qualche reciprocità nel dono).
79
Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, VI, p. 239.
80
Sarebbe invece contraddittorio proporsi come fine la felicità propria ― che è gia un fi-
ne che si impone da sé ―, o la perfezione altrui ― che spetta per definizione all’agire morale
altrui. (Cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, IV, p. 235).
81
«Non vi è nessun principio razionale che prescriva in modo determinato sin dove si debba
spingere questo lavoro [...]. Qui non vi è dunque nessuna legge della ragione per le azioni, ma uni-
camente per la massima delle azioni» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, VIII, p. 243).
82
«Se debbo fare agli altri il sacrificio di una parte del mio benessere senza nessuna spe-
ranza di contraccambio [Wiedervergeltung], poiché questo è un dovere, è però impossibile de-
terminare esattamente sin dove questo sacrificio debba spingersi. Molto dipende qui da ciò
che ognuno avverte come proprio vero bisogno, secondo il suo speciale modo di sentire, ma
occorre lasciare a ciascuno la cura di determinarlo. Il sacrificare la propria felicità, i propri ve-
ri bisogni, per procurare la felicità altrui diverrebbe una massima in se stessa contraddittoria
[an sich selbst widerstreitende], se la si erigesse a legge universale. Questo è dunque soltanto
un dovere largo, il quale ci lascia la facoltà di fare di più o di meno, senza che si possa esat-
tamente delimitarne l’estensione. La legge vale soltanto per le massime, non per azioni deter-
minate» (cfr. Met, Introduzione alla dottrina della virtù, VIII, 2, pp. 244–245).
416 Parte quinta: studi su etica e universalità
1.4.5. La reciprocità
La reciprocità [Wechselseitigkeit] che Kant ha di mira, è di tipo sim-
metrico: tale simmetricità è, però, un ideale regolativo. Di fatto,
l’iniziativa morale spetta al singolo agente; il che dispone inevitabilmente
il campo morale in senso asimmetrico. È chiaro, comunque, che
l’iniziativa chiama alla reciprocità: una reciprocità che, partendo dalla a-
simmetricità dell’iniziativa del «primo», non potrà che realizzarsi redu-
plicando inversamente l’asimmetricità, nel senso che va questa volta dal
secondo al primo83. La «riconoscenza» ― che Kant presenta come un
dovere di virtù, e non soltanto come una massima di prudenza ― è ap-
punto un’obbligazione evocata dall’iniziativa benefica del «primo» [der
Erste] ― dove “primi” possono essere, rispetto a noi, anche gli antenati84
―, e che induce nel beneficato un movimento di tipo “largo”, che porta
alla filantropia85, nella sua forma pratica e non meramente sentimentale.
83
Secondo quella forma chiasmatica che troviamo esplicitata, nella forma più rigorosa,
negli scritti di Carmelo Vigna. Si veda, ad esempio: Etica del desiderio umano, in Aa.Vv., In-
troduzione all’etica, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 153.
84
«La riconoscenza [Dankbarkeit] deve essere considerata anche in particolare come un do-
vere santo, vale a dire come un dovere tale, la cui violazione può distruggere nel suo principio
stesso l’impulso morale che ci spinge alla beneficenza. Infatti si chiama santo quell’oggetto mo-
rale, riguardo al quale nessun atto potrebbe cancellare completamente l’obbligazione contratta
(in cui l’obbligato continua a restare obbligato). [...] Non è possibile sdebitarsi con alcun com-
penso di un beneficio ricevuto, perché il beneficiato non riuscirà mai ad annullare al benefattore
il merito di esser stato questi il primo a manifestare all’altro la sua benevolenza. Ma anche senza
nessun atto esterno (di beneficenza), persino la semplice benevolenza di cuore verso il benefatto-
re è già una sorta di riconoscenza. Una intenzione di questo genere si chiama gratitudine [Er-
kenntlichkeit]» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 32, p. 324).
85
Cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 33, p. 325. «Era un modo sublime di rap-
presentarsi il saggio, quale se lo immaginavano gli Stoici, quello di fargli dire: ‘Io mi auguro
un amico, non per essere soccorso io stesso nella povertà, nella malattia, nella prigionia, ma
per poter dare assistenza a lui, e salvare così un uomo’; eppure questo medesimo saggio dice-
va a se stesso, quando non riusciva a salvare l’amico: Che me ne importa? Cioè egli rigettava
ogni sentimento di compassione [Mitleidenschaft]. Quando infatti un altro soffre, e io mi la-
scio contagiare (per mezzo dell’immaginazione) dal suo dolore, senza poterlo in alcun modo
alleviare, ottengo il risultato che si è in due a soffrire, quantunque il male propriamente (nella
natura) non colpisca che uno solo. Ma non è possibile che vi sia un dovere il quale consista
nel moltiplicare i mali del mondo, e quindi non può neppure esistere un dovere di far del bene
per compassione; tanto più che questa sarebbe una specie di beneficenza offensiva, esprimen-
do essa una benevolenza riferita a un indegno e che si chiama pietà, e la quale nei reciproci
rapporti fra gli uomini, i quali non possono vantarsi di essere degni della felicità, non dovreb-
be neppure esistere» (cfr. Met, Dottrina degli elementi dell’etica, § 34, pp. 326–327).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 417
1.5. La religione nei limiti della semplice ragione
1.5.1. Il Comandamento dell’Amore nel progetto demitizzante di
Kant
Ne La religione nei limiti della semplice ragione il progetto de-
mitizzante di Kant trova nel Comandamento dell’Amore, purificato
nel senso detto, un efficace punto di innesto. Così, il succo di mora-
le naturale, che il nostro autore pretende di spremere dalla rivela-
zione cristiana, sarebbe sintetizzabile nei termini seguenti: «ama
ciascuno come te stesso, cioè fagli del bene per benevolenza imme-
diata, non per motivi egoistici». Il Comandamento, qui, viene inte-
so come una applicazione86 della «regola universale che abbraccia
tutti i rapporti morali, interni ed esterni, degli uomini». Questa, a
sua volta, coincide con il comandamento dell’amore a Dio, ripropo-
sto da Kant nella forma di comandamento di stima della legge mo-
rale: «Fa’ il tuo dovere avendo come unico movente il suo valore
immediato, cioè ama Dio (il Legislatore di tutti i doveri) al di sopra
di ogni cosa».
L’amore comandato in entrambi i casi, è naturalmente un amore
fattivo, e non subdolo e ipocrita: Kant lo sottolinea con fitti riferimenti
al cosiddetto Vangelo della Legge: quello secondo Matteo. Egli, però,
non cita mai Matteo 7,12 (cioè il brano della Regola d’Oro), pur ci-
tando passi limitrofi, quali: Mt 7,13 (“entrate per la porta stretta”); Mt
7,16 (“dai loro frutti li riconoscerete”); Mt 7,21 (“non chiunque mi di-
ce: Signore Signore...”)87. Nella Religion non viene neppure citato Lu-
ca 6,31 (l’altra occorrenza evangelica della Regola d’Oro), né passi ad
esso limitrofi. Neppure sono citati letteralmente i brani evangelici che
riportano il Comandamento dell’Amore, vale a dire: Matteo 22,34–40,
Marco 12,28–31 e Luca 10,25–28.
86
Ovvero una «regola particolare che riguarda i rapporti esterni tra gli uomini conside-
randoli come dovere universale» (cfr. Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Ver-
nunft [1793] ― d’ora in poi: Rel –; trad. it. di V. Cicero, cap. IV, sez. I, p. 367.
87
Cfr. Rel, cap. IV, sez. I, p. 367.
418 Parte quinta: studi su etica e universalità
1.5.2. Una nota sulla Bibbia di Kant
Com’è noto, è stata esaminata dagli studiosi anche la Bibbia perso-
nale di Kant88. Ebbene, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, il
nostro autore sottolinea nel proprio libro Matteo 7,13, ma non il ver-
setto precedente: quello che riporta appunto la Regola d’Oro. Né sot-
tolinea l’occorrenza lucana di questa. Neppure troviamo sottolineati i
passi evangelici in cui Gesù proclama il Comandamento dell’Amore.
Quanto all’Antico Testamento, tra i pochissimi passi sottolineati e
annotati nel volume di Kant, non ci sono né quello che propone il
Comandamento dell’Amore: Levitico 19,1889; né quello che propone la
versione veterotestamentaria della Regola d’Oro: Tobia 4,1590. Del re-
sto, questi ultimi brani non vengono citati dal nostro autore neppure
nel testo della Religion.
2. Considerazioni critiche
2.1. Il tentativo di Kant
2.1.1. In sintesi
Il progetto di Kant è quello di condurre la Regola Aurea dal livello
del “vuoi/vorresti” a quello del “solo puoi/potresti volere”: profilato,
quest’ultimo, sulle esigenze intrinseche della ragion pratica. Il nostro
autore intende dunque proporre ― mediante la calibrazione trascen-
dentale del volere ― una Regola in forma purificata (demitizzata o ra-
zionalizzata), cioè ricondotta ad essere applicazione dell’imperativo
categorico. L’imperativo categorico è infatti ― secondo Kant ― la
chiave per riscattare filosoficamente la Regola stessa91.
88
Le informazioni al riguardo sono contenute nel Nachlaß: cfr. Reflexionen zur Religi-
onsphilosophie; Bemerkungen Kants in seines Bibel (nichtdatiertes), in Kant’s gesammelte
Schriften, Band XIX, pp. 651–654.
89
«Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il
tuo prossimo come te stesso».
90
«Non fare a nessuno ciò che non piace a te».
91
Questa indicazione kantiana viene variamente ripresa dalla gran parte degli autori che in-
tendono conferire alla Regola d’Oro la cittadinanza filosofica. Leggiamo ad esempio in Trapp:
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 419
Tale progetto viene sviluppato nella Metafisica dei costumi: in par-
ticolare, nella Dottrina degli elementi dell’etica. Qui Kant propone
una morale speciale, in cui il Comandamento dell’Amore o «legge
della perfezione» (da lui trattato come il principio ispiratore della Re-
gola Aurea in versione positiva) trova un largo spazio. Nei paragrafi
26–28 l’amore di sé, cui il Comandamento si riferisce, viene interpre-
tato da Kant come amore che va indirizzato a se stessi in quanto porta-
tori della universale Persönlichkeit, anziché in quanto soggetti empiri-
camente configurati. Così purificato nel suo intendimento, cioè ricon-
dotto alla logica dell’imperativo, il Comandamento dell’Amore viene
poi declinato, nei paragrafi successivi, secondo una precettistica più
dettagliata di cui abbiamo considerato alcuni sviluppi.
Ma, per giungere a riconciliarsi in tal modo con l’implesso di Co-
mandamento e Regola, Kant aveva dovuto superare precedenti stadi di
riflessione. Nella Grundlegung, infatti, l’imperativo categorico veniva
«Lasciando ancora da parte, qui, le fondamentali obiezioni che vanno rivolte contro tutte le ver-
sioni della Regola Aurea, si può concedere una certa superiorità teoretica alle versioni che inclu-
dono la legge di universalizzazione, rispetto alle loro alternative meno raffinate. Infatti, nel basa-
re una proibizione (obbligazione) riguardante un tipo di atto FC, non solo sul volere contingente
di una singola persona, ma anche sulla sua intuizione che, se FC fosse permesso (non obbligato-
rio) a lei stessa, quello risulterebbe anche permesso (non obbligatorio) per chiunque altro, quelle
versioni includono esplicitamente l’attraente idea della eguaglianza di diritti e di doveri morali
in circostanze simili. Nonostante questo, un basilare elemento di universalizzazione è già conte-
nuto nelle più rozze versioni della Regola Aurea, nascondendosi proprio dietro le variabili ed
implicite assunzioni che a) ciò che tu vorresti/non–vorresti venisse fatto a te in C, chiunque altro
in C vorrebbe/non–vorrebbe venisse fatto a lui, e che b) i voleri di chiunque sarebbero ugual-
mente rispettati» (cfr. R.W. Trapp, The Golden Rule, p. 147). E, nello stesso senso, l’autore sug-
gerisce, per evitare i più evidenti inconvenienti, di «aggiungere alla versione usuale della Regola
Aurea ‘Fa’ (non fare) agli altri ciò che tu vorresti (non vorresti) che loro facessero a te!’ qualcosa
come ‘...ciò che tu vorresti (non vorresti) che loro facessero a te secondo una prospettiva morale
(neutrale, imparziale, generale, collettiva...)’» (cfr. ibi, p. 161). Secondo Trapp, la Regola nella
sua versione «triviale» soffre del radicale difetto di implicare (ed essere implicata da) quello che
egli chiama il «postulato del desiderare (=PW), che stabilisce che il desiderio meramente con-
tingente di una persona che qualcosa sia fatto o meno a lei, implichi una obbligazione morale
che ciò debba o non debba essere fatto». Quando scrive queste righe, Trapp ha già proposto nelle
pagine precedenti (cfr. ibi, pp. 149–151) la dimostrazione di un teorema per cui, «dati i fatti del
caso (=FP) e il principio di universalizzabilità (=U), ogni versione della Regola Aurea era mo-
strata essere logicamente equivalente alla corrispondente versione di un postulato del desiderare
(=PW)». Ora, «essendo FP e U irreprensibili, è PW che manifesta la deficienza centrale che ri-
siede nella Regola Aurea». In conclusione, «la semplice lezione che si deve trarre da ciò, è quel-
la che, dal tempo di Kant in poi [...] è stata sottolineata da diversi autori: Delle preferenze non
sottoposte a limitazione, siano quelle dell’agente o dell’altra persona, non possono in generale
servire come una ragione sufficientemente accettabile per una scelta morale» (cfr. ibi, p. 160).
420 Parte quinta: studi su etica e universalità
presentato, almeno a tratti, come l’alternativa propriamente morale al-
la Regola Aurea; e questa invece, almeno nella sua accezione ingenua,
poteva essere tutt’al più assunta come un semplice consiglio di pru-
denza empirica. Nella Critica della ragion pratica, poi, l’accento
sembrava essere posto sulla equivoca ipotesi di una Regola Aurea
meccanicamente elevata a principio morale: nel qual caso, la forma
dell’universalità sarebbe stata inconsistentemente assunta ― secondo
un’inconsistenza di tipo buletico ― da una Regola trasformatasi inav-
vertitamente nel principio di un amore di sé di tipo egoistico.
2.1.2. Validità e limiti del tentativo
Ora, secondo Kant, una riformulazione filosofica della Regola Au-
rea deve andare, in primo luogo, oltre la particolarità etica; e, in se-
condo luogo, oltre la stessa sfera dell’eticità. La prima è una istanza di
universalizzabilità; la seconda, di epistemicità. In altre parole, una ri-
considerazione filosofica della Regola deve pagare il prezzo della a-
strazione da un qualche determinato contesto etico che la sostanzii; e
deve cercare nuovo sostegno in un plesso antropologico–morale, non
più semplicemente vissuto per connaturalità, bensì distillato trascen-
dentalmente. Passare, insomma, da una eticità condivisa, ad un quadro
antropologico–morale criticamente introdotto.
Ora, sia l’istanza di universalizzabilità sia quella di epistemicità so-
no proprie del punto di vista filosofico; e si traducono nella indagine
sulla fisiologicità dell’etico in questione, cioè nella ricerca di quelle
elementari costanti antropologico–morali cui nessuna eticità può sot-
trarsi, se vuole evitare l’autoestenuazione, cioè la propria tendenziale
riduzione a termini meramente etologici92.
Dunque, l’esigenza di purificazione nasce dalla attenzione critica
alla qualità del volere. Al riguardo, Kant ha ragione nel distinguere tra
le esigenze di un volere accidentale e quelle di un volere calibrato nel
senso del “non poter non volere”. Infatti il volere ha una propria strut-
tura, in riferimento alla quale non ogni preteso atto di volere potrà dir-
92
Nel caso di Habermas, dove l’imperativo diventa la regola di universalizzazione,
l’antropologia trascendentale ricompare nella forma delle costanti imprescindibili sulle quali
tale regola si struttura. Su questo punto, rinviamo al prossimo capitolo del presente volume.
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 421
si autenticamente (ovvero coerentemente) configurato. Si consideri, in
proposito, che il nucleo stesso dell’etica kantiana consiste ― a ben
vedere ― nella considerazione per cui occorre essere coerenti con la
struttura del volere93.
Kant collega il tema della qualità del volere a quello della calibra-
zione del soggetto del volere stesso; la quale presuppone ciò che noi
― a differenza di Kant ― chiameremmo una “antropologia trascen-
dentale”. Secondo tale calibrazione, il soggetto viene purificato, cioè
considerato non in quanto umano, ma in quanto semplicemente razio-
nale. Ora, l’inconveniente di questa purificazione sta nel fatto che, col
pretesto di evitare una configurazione empiristica della volontà del
soggetto, essa finisce ― come giustamente denunciato da Ricoeur94 ―
per dis–individuare tale soggetto, riducendolo a semplice punto di ap-
plicazione di uno schema95.
Naturalmente, ciò che qui si intende mettere in questione non è l’o-
perare della astrazione universalizzatrice, che è inevitabile e che non
può non prescindere dalle singolarità individuali; ma piuttosto, il man-
cato coglimento dell’oggetto eidetico da astrarre, che ― nel caso del-
l’uomo ― è un che di uno e di unico. Più precisamente, l’animale ra-
zionale che Kant riconosce in ciascuno di noi, è da lui considerato come
di per sé privo della natura personale, a causa della inevitabile compro-
missione con il mondo empirico. Della natura personale esso sarebbe
invece portatore semplicemente occasionale. In realtà, l’animale razio-
nale ― cioè, il soggetto dei bisogni ― è già di suo una singolarità per-
sonale, il che comporta che le modalità del bisogno siano già riconosci-
bili come adeguate modalità del volere, e che l’individualità umana co-
me tale sia già riconoscibile come il luogo della dignità da onorare.
Ciò non toglie, naturalmente, che la Regola d’Oro eserciti una sug-
gestione evidente sull’impianto dell’etica kantiana, la quale sembra in-
seguirne gli elementi formali della reciprocità e dell’universalità, per di-
93
A ben vedere, la ragion pura pratica è il desiderio stesso, in quanto capace di riconoscere
concettualmente ― nella persona ― il proprio fine, ovvero il proprio referente architettonico (cfr.
Kant, Kritik der Urteilskraft [1790]; trad. it. di A. Gargiulo, riveduta da V. Verra, § 10, p. 107).
94
Cfr. P. Ricoeur, Soi même comme un autre, Studio VIII.
95
«Là dove Kant aveva innalzato il rispetto per la legge morale al di sopra del rispetto per
la persona, Ricoeur tiene fede alla Regola Aurea come a quella che ha diritto di priorità» (cfr.
J. Wattles, The Golden Rule, Oxford University Press, New York – Oxford 1996, p. 151).
422 Parte quinta: studi su etica e universalità
stillarli poi in senso trascendentale; perdendo però di vista qualcosa di
decisivo: il tratto della individualità personale, ovvero della «ecceziona-
lità di ogni persona» ― come ancora Ricoeur direbbe96. Del resto, con-
siderare la persona umana come avulsa dall’animale razionale, significa
appunto perdere l’irripetibile singolarità del suo accento. Kant, su que-
sto punto, è preda di una suggestione stoica, secondo cui dell’altro uo-
mo, in fin dei conti, deve importarci solo in quanto egli è per noi
un’occasione per vivere secondo l’imperativo (l’imperativo che ci im-
pone di trattarlo come persona); dopo di che, la sorte di lui come indivi-
duo singolare ci dovrebbe essere ultimamente indifferente97.
2.1.3. Una ulteriore possibile interpretazione
Resta aperta la possibilità di intendere la Regola d’Oro, purificata
in senso trascendentale, come un semplice schema pratico: quindi, non
come una applicazione dell’imperativo, bensì come un appoggio im-
maginativo, funzionale ad una applicazione dell’imperativo stesso nel
mondo dei rapporti empirici. Si pensi a come il termine Urbild (mo-
dello), che Kant usa per indicare la funzione del Comandamento
dell’Amore (ma, più in generale, dei precetti evangelici, eloquenti per
l’immaginazione), sia da lui anche usato ― nella Religion ― per indi-
care la figura del Figlio di Dio intesa come frutto di uno «schemati-
smo dell’analogia». La funzione di un tale schematismo di tipo non
determinante (cioè, non ampliante il concetto), è appunto quella ―
spiega Kant ― di «rendere accessibile un concetto mediante
l’analogia con qualcosa di sensibile»98.
96
L’etica habermassiana, con l’introduzione della Beratungssituation, sembra in qualche
modo andare nella direzione che onora il concreto ― secondo l’indicazione stessa di Ricoeur.
97
Una verifica della tendenziale riduzione della persona a principio disincarnato rispetto alla
singolarità dell’individuo umano, si trova nell’articolo Sul preteso diritto di mentire per amore de-
gli uomini. Qui Kant nega che sarebbe lecito mentire all’assassino che ci domandasse se un nostro
amico, da lui perseguitato, si sia rifugiato in casa nostra. (Cfr. Über ein vermeints Recht aus Men-
schenliebe zu lügen [1797]; trad. it. di G. Solari, pp. 359–365). E un’analoga impostazione trovia-
mo, riguardo al caso del deposito, nel saggio Sul detto comune: ciò può essere giusto in teoria, ma
non vale per la prassi; dove l’obbligo alla restituzione viene astrattamente assolutizzato, pur nella
ragionevole certezza che il restituire vada ad assecondare intenti evidentemente contrari al bene del-
le persone. (Cfr. Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für
die Praxis [1793]; trad. it. di N. Merker, pp. 150–151).
98
Cfr. Rel, cap. II, sez. I, pp. 167–168.
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 423
2.2. Si può mantenere alla Regola Aurea una valenza filosofica non
kantiana?
2.2.1. La Regola Aurea come regola dell’eticità in quanto tale
Già a prima vista, la Regola Aurea non sembra riducibile all’impe-
rativo kantiano, pur avendone la forma sintattica. È chiaro anche che i
soggetti che immediatamente essa mette in gioco, e per i quali essa ha
senso, devono condividere un qualche orizzonte culturale–religioso99.
Gesù stesso la formula all’interno di un contesto ― quello del “Di-
scorso della montagna” ―, che va ben al di là della Regola, e nel qua-
le Egli si rivolge a quelli che già hanno iniziato a seguirlo. In altre pa-
role, è chiaro che la Regola, nel Vangelo, riceve una calibrazione, ap-
punto, di segno evangelico.
Essa è originariamente una regola della eticità, che trova la propria
specificazione all’interno di ogni ethos particolare. Ma, proprio per
questa sua capacità di declinarsi variamente in ogni ethos, essa appare
propria della eticità in quanto tale. Ora, la prima ipotesi da considera-
re, è che essa vada presa sul serio anzitutto così, nella sua “terrosità”
etica. Si tratta, insomma, di verificare se essa non abbia già in sé gli
anticorpi per resistere alle aporie da lei stessa suscitate, e per educare
in tal modo il singolo ― come sembra essere nella sua intentio pro-
fundior ― a capire se stesso, non prima (ovvero a priori), ma proprio
all’interno della sua relazione con altri; consentendogli dunque di ma-
turare come persona nel vivo dell’azione, e dall’interno di quelle pre-
comprensioni, di quel temperamento e di quella storia, che gli sono
propri. Potremmo dire che, secondo Kant, per essere in grado di appli-
care la Regola d’Oro devo già sapere chi sono; secondo il Vangelo,
invece, io applico la Regola proprio per capire chi sono, che cosa vo-
glio realmente per me e per gli altri uomini: per educarmi, insomma,
alla vita di relazione.
Ma, in che senso ciò può avvenire? Nel senso che la Regola, se è as-
sunta dal soggetto in modo autentico e non strategico ― condizione che
99
Opportunamente, Gensler chiede ― per evitare implicazioni assurde ― di non «isola-
re» la Regola da quegli altri fattori che ne rendono sensata l’applicazione (cfr. H.J. Gensler,
Ethics, p. 112).
424 Parte quinta: studi su etica e universalità
vale, del resto, per verificare le ricadute di ogni regola di vita, sia essa sa-
pienziale o filosofica ―, fa scattare una dinamica fisiologica di riequili-
brio tra l’entità della aspettativa rivolta ad altri e la sostenibilità dei reci-
proci impegni, che in quella aspettativa sono idealmente implicati100. Lo
stesso dicasi per la qualità della aspettativa, che inevitabilmente incontra
la resistenza di altri, se viene unilateralmente calibrata101.
Un caso particolare di riequilibrio fisiologico innescato dalla Rego-
la, riguarda la sua capacità di farci ritornare su nostre eventuali appli-
cazioni imprudenti di essa. Ad esempio: io, che vorrei che gli altri mi
lasciassero piena libertà d’espressione e di movimento, a mia volta
contribuisco a far sì che queste libertà vengano lasciate agli altri; ma
accade che alcuni dei beneficiari di tali libertà ne approfittino strategi-
camente, per giungere in qualche modo a togliere a me e ad altri come
me, proprio le libertà in questione. Ora, ciò che l’esempio insegna, è
di applicare la Regola d’Oro prudentemente, cioè tenendo in conto an-
che le possibili ricadute che la sua applicazione nei casi determinati
potrà avere sulla vita di chi la pratica. Ma questa prudenza non va in-
tesa come una deroga alla Regola stessa, bensì come una più coerente
applicazione di essa; visto che, comunque, si tratta di partire da quel
che vorremmo ci venisse fatto ― se in prima o in seconda battuta, po-
co importa. Questa considerazione prudenziale ci educa a capire ―
stando al caso esemplificato ― che la libertà di espressione e di mo-
vimento è qualcosa di desiderabile, ma non come un bene assoluto che
debba essere affermato senza riguardo ad alcun contenuto che vada
poi a sostanziarlo102.
100
Facciamo un esempio: Tizio vorrebbe farsi mantenere dalla società; ma, di fronte
all’impegno implicito di contribuire da parte sua a che la società mantenga chiunque ne faccia
richiesta, modera la propria posizione, chiedendo semplicemente per sé forme di sostegno
previdenziali. Un altro esempio: Tizio non vuole che gli amici gli facciano mancare l’aiuto nel
bisogno; ma l’obbligo morale che ne contrae lo induce a moderare la soglia di bisogno che
andrà considerata come esigente l’aiuto.
101
Facciamo un esempio. Tizio vorrebbe rude franchezza dagli altri, e da parte sua li tratta
senz’altro in tal senso. Ma, così facendo, incontra resistenze e reazioni di rifiuto, che gli fanno
prendere atto della irrealisticità del suo agire, e della opportunità di renderlo più graduale e discreto.
102
La Regola d’Oro non ha necessariamente ad oggetto i rapporti tra un io e un tu, o tra
un io e l’umanità; ma, genericamente, regola i rapporti io–altri, secondo tutte le loro possibili
flessioni: tra le quali, quella socio–politica. Ad esempio, la democrazia moderna si può consi-
derare come l’assunzione della Regola d’Oro ― nella sua autoregolatività etica ― da parte di
una intera società. Ma, la democrazia, per quanto educativa in se stessa, non è sostitutiva della
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 425
2.2.2. Aporie
Il paternalismo era già emerso come una delle ricadute inaccettabili di
una configurazione non immediatamente trascendentale del soggetto. Ora,
la Regola d’Oro ricomprende in sé come proprio caso applicativo notevole
(o meta–applicativo), la considerazione per cui io non vorrei che altri si so-
stituisse a me nel valutare ciò che è buono per me (aiutarmi sì, sostituirmi
no). Quindi, un paternalismo rigido non può essere giustificato dalla Rego-
la d’Oro; esso è anzi escluso dalla Regola come propria possibile flessione
applicativa. Ecco dunque verificato che la Regola stessa ha in sé le condi-
zioni della propria autoregolazione in direzione trascendentale.
Ma, tale autoregolazione risulta forse, a sua volta, aporetica? No, in
quanto essa non si configura come un applicare la Regola prima di a-
verla regolata ― e dunque irregolarmente. Invece, quel che l’autore-
golazione attesta, è che la Regola, una volta adottata, è in grado di cor-
reggere le proprie applicazioni in modo tale da evitare indebite conse-
guenze. Va però considerato che per parlare di autoregolazione della
Regola Aurea, occorre avere presente un ideale regolativo in riferi-
mento al quale essa possa dirsi, appunto virtuosamente anziché vizio-
samente, capace di ritorno sulle proprie determinazioni: occorre cioè
potersi riferire ad una antropologia minimale, che dalla Regola stessa
possa dirsi promossa o frustrata103.
Quanto alla aporia della complicità ― per cui io potrei favorire o
non ostacolare piani di vita altrui, che anche ritenessi aberranti, nella
speranza di essere a mia volta favorito o non–ostacolato nel persegui-
mento dei miei piani (giusti o meno che essi siano) ―, qui il potere
autoregolatore della Regola d’Oro non sembra da solo in grado di pre-
venire errori irrimediabili.
Per quanto riguarda invece l’aporia più generale, e più generalmente
evocata, vale a dire quella della accidentalità ― foriera di conflitti o pa-
moralità (che nasce da un approfondimento del senso stesso della Regola d’Oro); e senza una
diffusa moralità, essa non si istituisce, né può a lungo mantenersi.
103
L’intercettazione habermassiana della Regola d’Oro è appunto orientata, per evitare il
paternalismo, al consolidarsi di una “situazione dibattimentale” [Beratungssituation] autore-
golativa, che prevede il procedere per tentativi e correzioni. Secondo Habermas, non si tratta
di disindividualizzare l’io, ma propriamente di trascendentalizzarlo: quello che va considerato
― secondo Habermas ―, non è un io–standard, bensì l’universalita degli io empirici, inter-
pellati tendenzialmente senza eccezioni.
426 Parte quinta: studi su etica e universalità
radossalmente di accordi ― cui l’applicazione della Regola potrebbe
dar luogo, va osservato che l’io che essa mette in questione non è un io
malato, ma piuttosto un io psichicamente sano, con la sua possibile va-
rietà di preferenze. Quindi, un io che per ipotesi fosse masochista, non
potrebbe essere soggetto adeguato per la Regola d’Oro. Lo stesso dicasi
di un io patologicamente votato alla irresponsabilità; o comunque pato-
logicamente in cerca di tutela. Del resto, ogni prospettiva morale impli-
ca di riferirsi ad un soggetto non psichicamente malato, e non può che
prevedere significativi adattamenti di fronte alle eventuali patologie.
C’è poi il caso delle relazioni complesse, dove il mio agire investe
a titolo differente persone con interessi tra loro, almeno empiricamen-
te, confliggenti ― come si verifica nel caso del «mentire per amore
degli uomini». Qui, la immedesimazione dell’agente con l’interlocuto-
re non potrà che essere incrociata: io, che non voglio mi si menta, do-
vrei non mentire all’assassino; ma, io, che neppure voglio mi si de-
nunci a chi vuole uccidermi, non dovrei denunciare l’ospite. Ora, la
Regola d’Oro è in grado di autoregolarsi nel caso di un incrocio tra in-
teressi di più interlocutori del medesimo agente, che siano tra loro
confliggenti? No, se non aprendosi a ulteriori contributi ― siano essi
sapienziali o schiettamente filosofici104.
2.2.3. Inevitabilità dell’approfondimento trascendentale, tanto per la
Regola che per il Comandamento
La Regola d’Oro e il Comandamento dell’Amore, nella loro acce-
zione sapienziale, contengono già implicitamente una calibrazione
non–egoistica del soggetto cui fanno riferimento: un soggetto che vie-
104
Su questo punto, Marcus Singer osserva: «Se A vuole che tu faccia x, e B vuole che tu fac-
cia y, e x e y sono incompatibili l’uno con l’altro, la Regola non di meno ti chiede di fare entrambi.
La Regola, perciò, conduce a esiti impossibili» (cfr. M.G. Singer, The Golden Rule, «Philosophy»,
XXXVIII [1963], p. 296). Commenta Rainer Trapp: «Qui le richieste incompatibili non hanno ori-
gine dalla reciproca applicazione della Regola Aurea da parte delle due persone coinvolte in una
certa relazione, ma dalla duplice applicazione della Regola da parte dello stesso agente C in riferi-
mento a qualche persona A e a qualche terza persona B. Così la situazione, coinvolgendo solo un
agente e due sue relazioni verso due differenti destinatari di beneficenza, è strutturalmente più
complessa di quella cui ho fatto riferimento [in precedenza]»; e cioè quella che si realizza nelle si-
tuazioni coinvolgenti due persone, in cui la Regola produce, dalle due parti, richieste che risultano
tra loro incompatibili. (Cfr. R.W. Trapp, The Golden Rule, p. 157).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 427
ne sì riconosciuto nella propria inerzialità centripeta, ma che è anche
chiamato a decentrarsi progressivamente105, commisurando le proprie
disponibilità sulle proprie aspettative, e le proprie aspettative sulle
proprie disponibilità. Ed è appunto il gioco consentito a tale calibra-
zione, ciò che la riflessione filosofica deve esplicitare.
Ora, una traduzione propriamente filosofico–morale della Regola
Aurea ― che vada però in un senso diverso da quello di Kant ― è
possibile; e produrrebbe un approfondimento, non certo una evacua-
zione, della autoregolazione di cui essa è gia “eticamente” capace.
L’approfondimento, come abbiamo accennato, è reso indispensabile
dalle forme di incompatibilità etica che ogni società, prima o poi, pre-
senta. Tale approfondimento porta ad evidenza come quel che l’uomo
vuole costantemente ricevere, sia il riconoscimento della propria indi-
vidualità personale; e quel che egli vuole costantemente non–ricevere
o evitare, sia il corrispondente mancato riconoscimento: tale è il volto
non accidentale (o non meramente fisico) della ricerca della felicità.
Abbiamo visto come Kant cerchi di soddisfare due istanze ― quel-
la di universalizzare e quella di profilare moralmente la Regola d’Oro
―, riconducendole ad una sola: quella di calibrare trascendentalmente
il soggetto. Sia l’intenzione che la direzione kantiane sono condivisi-
bili; si tratta però di ri–determinare i modi e gli esiti dell’operazione.
Qual è, a ben vedere, la chiave della ― già considerata ― capacità au-
toregolativa della Regola Aurea? La stessa che Kant, a causa del dua-
lismo antropologico in cui si muove, è portato a ritenere eteroregolati-
va: e cioè, l’interrogazione sulla intenzionalità del volere (“che cosa
voglio io veramente?”). Dobbiamo sapere dove va il volere, per teo-
rizzare la Regola in termini filosofici: dobbiamo sapere che cosa strut-
turalmente vogliamo, e che cosa non possiamo strutturalmente vole-
re106. L’autentico approfondimento filosofico della Regola sta proprio
nella esplicitazione di questa chiave autoregolativa, che per altro è già
operante di suo sul piano semplicemente etico.
105
«La Regola Aurea [...] ci impegna a ragionare, invece di imporci una risposta. Essa
combatte la centratura su di sé [self–centeredness]» (cfr. H.J. Gensler, Ethics, p. 113).
106
Occorrerà tener presente, al riguardo, che l’oggetto del volere è un che di pratico, non
una res ma un pragma ― questo per Kant non meno che per Tommaso d’Aquino –; e che vi
sono contenuti d’azione possibili a esser scelti, ma non ad esser propriamente voluti ― anche
questo per Kant, non meno che per i classici.
428 Parte quinta: studi su etica e universalità
Invece, il dualismo antropologico impedisce a Kant di considerare
l’originario orientamento del volere della persona come qualcosa che
già si manifesta all’interno dei bisogni dell’animale razionale; e lo in-
duce piuttosto a pensare che tali bisogni, che offrono poi i contenuti de-
terminati su cui immediatamente la Regola Aurea si gioca, siano ― al-
meno rispetto alla persona umana ― un che di meramente accidentale,
che non va tanto illuminato e corretto, quanto controllato e coartato.
In realtà, ciò che l’uomo vuole è il riconoscimento di sé, animale ra-
zionale, come persona. Non il riconoscimento astratto del suo esser por-
tatore occasionale della dignità di persona. La differenza tra la presente
prospettiva e quella di Kant sta qui: la felicità vera risiede nell’essere ri-
conosciuti concretamente, e quindi secondo la propria realtà corporale,
psichica, spirituale ― comunque segnata dalle dinamiche del bisogno.
La dignità dell’uomo, infatti, vive nel bisogno, e non al di fuori di esso.
È a partire da questa consapevolezza che si può trascendentalizzare la
Regola Aurea senza decettivi astrattismi. I bisogni sono il tracciato della
beneficenza, che dà sostanza alla relazione; e, in tal senso, essi sono la
declinazione, per altro mai adeguatamente espressiva, del desiderio (di
cui il volere è il momento propriamente pratico).
2.3. Regola aurea e Comandamento dell’amore
La Regola Aurea indica sia l’inevitabile reciprocità sia l’inevitabile a-
simmetricità delle relazioni umane, e invita a stare in tale reciprocità a-
simmetrica da protagonisti, cioè prendendo l’iniziativa. La Regola, alme-
no nella formulazione del Vangelo secondo Matteo, è aperta perfettiva-
mente a “tutto” (“tutto quello che volete che...”): quindi a ogni contenuto
del rapporto, piuttosto che a un contenuto selezionato e isolato dagli altri.
Essa indica, cioè, la cura della qualità complessiva del rapporto. Il pro-
blema fondamentale di chi sta alla Regola Aurea, è allora la determina-
zione di quello che egli vuole complessivamente dagli altri, pur nella va-
rietà dei modi e delle occasioni relazionali. È un tema trascendentale
quello che essa mette in gioco: il tema del riconoscimento.
Ma la logica del riconoscimento è quella descritta nel Comanda-
mento dell’Amore, secondo il quale, l’altro uomo è un altro me stesso.
Ecco dunque che la Regola d’Oro diventa il risvolto nel facere, di ciò
che il Comandamento dell’Amore indica sul piano dell’agere. La pri-
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 429
ma, che è veicolo al riconoscimento fattivo di altri, vede operante al
suo fondo ― come motore ― il secondo107. Del resto, la coniugazione
di Regola e Comandamento è già presente nel Nuovo Testamento, do-
ve l’amore è giudicato essere inautentico, là dove manchi delle opere
che gli sono relative.
3. Appendice: Per un’adeguata formulazione della Regola
3.1. Nota sulla Regola Aurea nella sua duplice formulazione
La formulazione positiva della Regola Aurea ― quella che compare
nel Vangelo ― e la sua formulazione negativa ― quella più tradizio-
107
«La Regola Aurea e ‘Ama il tuo prossimo’ sono più complementari che equivalenti.
L’amore è il motivo più alto per seguire la Regola Aurea. [...] La Regola Aurea, a sua volta, of-
fre una via opportuna per rendere operativa l’idea alquanto vaga di ‘amore per il prossimo’» (cfr.
H.J. Gensler, Ethics, p. 113). In un suo scritto più sistematico, Gensler distinguerà tra due co-
mandamenti dell’amore: (LN) ‘Ama il tuo prossimo’ (o anche: ‘Fa’ del bene agli altri’), e (LA)
‘Ama il tuo prossimo come te stesso’; e riserverà le osservazioni da noi citate qui sopra, al solo
LN, aggiungendo che «la Regola Aurea ha una frase (‘quel che tu vuoi sia fatto a te’) dove LN
ha una sola parola (‘bene’)»: dunque, «la Regola Aurea provvede un metodo per scoprire che
cos’è questo ‘bene’ che tu devi fare a un altro». Quanto a LA, esso risulta invece ― precisa
Gensler ― «concettualmente vicinissimo alla Regola Aurea, dal momento che entrambi model-
lano il nostro approccio agli altri a partire dalla nostra cura per noi stessi». Oltretutto, i due co-
mandi «sono intimi anche nella Bibbia, dal momento che il Vangelo di Matteo (7,12 e 22,37–40)
afferma che ciascuna delle due norme riassume in sé ‘la legge e i profeti’». In fondo ― secondo
Gensler ―, LA potrebbe essere tradotto in ‘Tratta gli altri come tu tratti te stesso’; se non che,
«non possiamo prendere questo alla lettera, giusto come non possiamo prendere alla lettera
l’espressione usuale della Regola Aurea. Ma l’idea che sta dietro la Regola Aurea può essere e-
spressa in modo chiaro e letterale ― come G1 [‘non combinare il fare A a x col non consentire
all’idea che A sia fatto a te in una situazione del tutto simile’]. Non saprei come fare la stessa co-
sa per LA. Devo trattare letteralmente gli altri come tratto me stesso? [...] Suggerirei di guardare
a G1 se vogliamo un modo chiaro, letterale, plausibile per modellare il nostro comportamento
verso gli altri a partire dal nostro riguardo per noi stessi; per amare gli altri come te stesso, allora,
devi trattarli solo nei modi in cui tu vuoi essere trattato nella stessa situazione». Più in generale,
la Regola Aurea ― nella forma che Gensler chiama G1 ― offre la possibilità di tradurre in ter-
mini chiari ed operativi «l’intuizione che sta dietro» a un certo numero di principi pratici, sia fi-
losofici che sapienziali. Tra questi, Gensler mette anche l’imperativo kantiano, nella sua formu-
lazione personalista. «La formula di Kant distingue nettamente le persone dalle cose. [...] Noi
dobbiamo trattare le persone come fini in se stesse, come degne di rispetto e di considerazione
per loro proprio diritto. Trattare le persone come fini può essere visto come un trattarle solo nei
modi in cui noi stessi acconsentiamo a essere trattati in circostanze simili». (Cfr. H.J. Gensler,
Formal Ethics, pp. 125–129).
430 Parte quinta: studi su etica e universalità
nale ― sono, dal punto di vista logico, equivalenti tra loro; a patto che
di entrambe si accetti una trasposizione grammaticalmente rigorosa: co-
sa del resto inevitabile, per chi tenti di intercettare nel linguaggio della
filosofia morale l’originaria intonazione sapienziale della Regola. Natu-
ralmente, accertare l’equivalenza logica, che a noi è funzionale per trat-
tare sensatamente della cosa in modo univoco ― che si tratti di Kant o
del Vangelo ―, non significa negare ogni differenza tra le due formula-
zioni; non significa cioè escludere che l’eventuale preferenza per la
formulazione negativa, o viceversa per quella positiva, abbia un senso
recondito, che potrebbe anche risultare non trascurabile108. Da parte no-
stra, però, ciò che ora metteremo in primo piano non sarà la potenziale
differenza, bensì la formale convergenza tra le due formulazioni.
3.1.1. Una precisazione preliminare
La versione negativa della Regola Aurea è a volte espressa con la se-
guente formula: (n1) “ciò che non vuoi che gli uomini facciano a te, nep-
pure tu fallo a loro”. Ora, tale formula va riformulata nel modo seguente:
(n2) “ciò che vuoi che gli uomini non facciano a te, neppure tu fallo a lo-
ro”. Infatti, se accettassimo semplicemente la (n1) avremmo, a rigore,
una situazione ambigua; in quanto, nella genericità del “non volere che”,
è sì compresa la possibilità del “volere che non”, ma è compresa anche la
possibilità di altri, diversi atteggiamenti109. Insomma, il “non volere che”
è un atteggiamento generico, di cui il “volere che non” (l’intentio exclu-
dendi) è solo una delle possibili configurazioni specifiche.
Più in generale, la negazione di un predicato è evidentemente più
generica della negazione dell’oggetto di quel predicato (e non è dun-
que riducibile a quest’ultima)110. Per questo, il “non volere che” e il
108
Per analogia, si consideri come la litote non sia semplicemente una affermazione trave-
stita, bensì abbia implicazioni espressive non trascurabili sul piano del significato.
109
Ad esempio, se dico “non voglio che tu vada in posta”, posso intendere che “voglio
che tu non ci vada”; ma anche qualcosa d’altro; e cioè, posso intendere che “non è questo ― il
tuo andare in posta ― ciò cui io miro; ma se tu ci volessi andare, io non avrei niente in contra-
rio (anzi, mi faresti un favore)”. Altro esempio: “Non voglio che mi inviti a pranzo”; ma, se
insisti accetto. Infatti, non ho detto che “voglio non essere invitato a pranzo”.
110
Dire ― ad esempio ― “non opero le appendiciti”, non significa necessariamente che
allora “opero le non–appendiciti” (cioè, casi diversi dall’appendicite). Può essere sempli-
cemente che io non operi affatto. È chiaro, comunque, che nel linguaggio ordinario il con-
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 431
“volere che non” non sono reciprocamente sostituibili. Naturalmente,
questo vale, a patto che non si dia per acquisito che il “non volere
che” vada inteso come equivalente al “voler evitare che” (risultando in
tal modo equivalente al suddetto “volere che non”).
3.1.2. Equivalenza formale della versione positiva e di quella negativa111
Se dunque riconduciamo (n1) a (n2), otteniamo una formulazione
negativa della Regola Aurea, tale da esprimere univocamente
un’intenzione morale: intenzione che, se lasciata alla formulazione
(n1), risulterebbe invece ambigua. Ora, (n2) ha una struttura gramma-
ticale equivalente a quella che appartiene alla Regola in versione posi-
tiva: (p1) “ciò che vuoi che gli uomini facciano a te, anche tu fallo a
loro”. Si considerino, infatti, la seguente espressione semi–formale e
volutamente provvisoria di (p1), e la sua traduzione nei termini di
(n2); formule che chiameremo rispettivamente (p2) e (n3):
(p2): Vt (x Fπ t) |– O (t Fπ x)
(“dal fatto che tu vuoi che x faccia π a te, deriva che sei tenuto a fa-
re tu π a x”);
testo è normalmente in grado di specificare quello che intendiamo dire, quando usiamo si-
mili espressioni.
111
L’autore che forse più di ogni altro si è occupato della formalizzazione della Regola
Aurea ― Rainer W. Trapp ―, lascia aperta la questione. Egli formula le due versioni nei ter-
mini che ora citeremo, dove W è il predicato del volere; F indica un generico contenuto
d’azione; C indica le condizioni di quel contenuto d’azione; O è l’operatore d’obbligazione e
P quello di permissione. Formulazione negativa (GR¯1): ∧F ∧C ∧x ∧y ≠ x ∧z ≠ x [¬W(x,FC
yx) → ¬P(FC xz)]; Formulazione Positiva (GR+1): ∧F ∧C ∧x ∧y ≠ x ∧z ≠ x [W(x,FC yx) →
O(FC xz)]. Scrive dunque Trapp: «Da un punto di vista logico, GR¯1 e GR+1 vengono
all’incirca a significare la stessa esigenza. Sfruttando 1) l’equivalenza deontica di ‘¬P(FC
xz)’ e ‘O(¬FC xz)’ nel conseguente di GR¯1, 2) la possibilità di rimpiazzare F con non–F o-
vunque nella formula, e 3) postulando che chiunque non voglia che accada FC yx voglia con
ciò che accada non–FC yx, e viceversa; uno potrebbe anche provare che entrambe le versioni
sono logicamente equivalenti. Dal momento che una delle due implicazioni postulate in 3)
può essere messa in questione, in ogni modo ― in considerazione dei casi in cui il non–voler
p non implichi automaticamente il volere non–p, ma semplicemente esprima indifferenza tra p
e non–p ― non pretendo l’equivalenza in questione e lascio così la distinzione tra versione
positiva e negativa della Regola Aurea» (cfr. R.W. Trapp, The Golden Rule, pp. 141–142). È
chiaro che ― come il nostro testo evidenzia ― l’equivalenza tra versione negativa e versione
positiva della Regola ha, quale previa condizione, una formulazione negativa non generica
(nei termini di Trapp: ¬Wp), bensì specifica (nei termini di Trapp: W¬p).
432 Parte quinta: studi su etica e universalità
(n3): Vt ¬(x ¬Fπ t) |– O ¬(t ¬Fπ x)
(“dal fatto che tu vuoi evitare che x non faccia π a te, deriva che sei
tenuto a evitare di non fare tu π a x”).
La liceità della traduzione, e con essa la fondatezza dell’equi-
valenza suddetta, è verificata dal fatto che (n3) è riconducibile a (p2)
attraverso delle semplici trasformazioni di carattere puramente nota-
zionale, come quelle evidenziate in (n4):
(n4): Vt ¬[¬Fπ (x, t)] |– O ¬[¬Fπ (t, x)].
In (n4) è messa in evidenza l’elisione tra negazioni, e la conseguen-
te semplificazione, che si può operare sia nell’antecedente che nel
conseguente112. Semplificando, da (n4) si ottiene:
(p3): Vt [Fπ (x, t)] |– O [Fπ (t, x)];
ovvero, ripristinando lo stile notazionale originario:
(p2): Vt (x Fπ t) |– O (t Fπ x).
Si osservi come, nel caso di (n4), prescindendo dal segno di doppia
negazione che precede il contenuto della volizione (e quindi, dell’ob-
bligazione), la forma grammaticale sia la stessa rispetto a (p3), e quin-
di rispetto a (p2). Dunque, se la formulazione negativa della Regola
Aurea viene sottratta all’ambiguità, essa diventa formalmente equiva-
lente alla formulazione positiva.
Facciamo un esempio. Sia Fπ ≡ “riconoscere il diritto di parola”. Si
avrà, positivamente: “dal fatto che tu vuoi che chiunque riconosca il
diritto di parola a te, deriva che sei tenuto a riconoscere tu il diritto di
parola a chiunque”. Negativamente: “dal fatto che tu vuoi che chiun-
que non manchi di riconoscere il diritto di parola a te, deriva che sei
112
Le due elisioni sono meramente computistiche, in quanto si danno l’una alla sinistra e
l’altra alla destra del segno di derivazione. Niente a che vedere, qui, con la regola della doppia
negazione classica.
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 433
tenuto a non mancare tu di riconoscere il diritto di parola a chiunque”.
Diverso, e non equivalente, sarebbe ― come già sappiamo ― il caso
in cui volessimo proporre, al posto di (n3), una formula come la se-
guente:
(n5): non–Vt (x ¬Fπ t) |– O ¬ (t ¬Fπ x)
che, riferita all’esempio precedente, suonerà: “dal fatto che tu non
vuoi che chiunque non riconosca il diritto di parola a te, deriva che sei
tenuto a non mancare tu di riconoscere il diritto di parola a chiunque”.
In questo caso, non si ha l’equivalenza con (p2): infatti, nella premes-
sa, la prima negazione non va ad interagire logicamente con la secon-
da negazione: quindi non la elide; le due non hanno infatti lo stesso
contenuto, in quanto la prima si riferisce all’espressione predicativa
Vt, e la seconda si riferisce alla relazione Fπ.
3.2. Nota sulla grammatica della Regola Aurea in generale
3.2.1. La Regola Aurea ha una forma imperativa/esortativa, non ipotetica
Occorre comunque ricordare che la Regola Aurea non è tanto un
enunciato deontico, quanto un enunciato imperativo, o meglio, esorta-
tivo113. Dunque non sembra opportuno, per esprimerla, usare operatori
113
Gensler si mostra, al riguardo, assai liberale: sembra prediligere una formulazione im-
perativa della Regola [an imperative format], ma ammette la possibilità di altre quattro fomu-
lazioni: una deontica («tu devi non fare...»); una basata sul concetto di virtù («la coerenza è
una virtù ― e comprende l’essere disposti a non...»); un’altra descrittiva («non è coerente per
te fare...»); e infine una imperativo–ipotetica («se vuoi essere coerente, allora devi non fa-
re...»). (Cfr. H.J. Gensler, Formal Ethics, p. 101). La formulazione imperativa viene poi sim-
bolizzata da Gensler ― seguendo il linguaggio della logica imperativa di H. Neri–Castañeda
― nei termini seguenti: (G1) ~(u:Aux • ~u:(∃F)(F*Aux • (x)(FAxu ⊃ MAxu))). La (G1) si
dovrebbe leggere così: «Non accettare l’imperativo di fare A ad x senza anche accettare il
permissivo ‘L’azione A può esser fatta a me in una situazione del tutto simile’». Il permissivo
è analizzato come ‘Per qualche universale proprietà F, F è la descrizione completa in termini
universali del mio fare A ad x, e, in ogni situazione attuale o ipotetica, se il fare A di qualcuno
a me è F, allora questa persona può fare A a me’». Per comprendere la formula precedente,
occorre tener presente il senso di alcune scelte simboliche: 1) la sottolineatura segnala ovvia-
mente l’imperatività, e la lettera sottolineata indica il soggetto di essa; 2) “F*A” indica in F
“la descrizione completa dell’atto A in termini universali”; 3) il simbolo significa “in ogni
caso attuale o ipotetico”; 4) M è l’operatore modale della permissione.
434 Parte quinta: studi su etica e universalità
deontici114. Allo scopo, si potrebbe piuttosto proporre, almeno provvi-
soriamente, una formula come la seguente:
(p4) Vt (x Fπ t) |– (t Fπ x);
dove la sottolineatura indica l’imperatività (riferendola a chi ne è
soggetto).
Senonché, a ben vedere, non siamo di fronte ad un imperativo ipo-
tetico, esprimibile nei termini seguenti: “se vuoi che gli uomini fac-
ciano/non–facciano questo a te, allora fallo/non–farlo tu a loro (per
primo)”. Se così fosse, la Regola avrebbe il senso strategico–
preventivo di una captatio benevolentiae. Del resto, al di là del prov-
visorio e funzionale trattamento semi–formale che le abbiamo riserva-
to in precedenza, la Regola Aurea non patisce propriamente la struttu-
ra grammaticale “se..., allora...”115.
114
È invece usuale che il trattamento formale della Regola passi attraverso l’uso di opera-
tori deontici. Tipico il caso di Trapp, che formula la Regola, e vi opera, basandosi su di una
«estensione logico–deontica del Calcolo di Gentzen della deduzione naturale (CND)» (cfr.
R.W. Trapp, The Golden Rule, pp. 140–152).
115
Indicazioni sul carattere imperativo (non ipotetico) della Regola d’Oro, si trovano anche in:
H.J. Gensler, Ethical Consistency Principles, «The Philosophical Quarterly», vol. 35, n. 139
(1985). Secondo Gensler, la Regola ― come altri principi analoghi ― può essere formulata in mo-
do felice o infelice. La cattiva formulazione è impostata su di un “se..., allora”; «mentre la buona
formulazione è la negazione di una congiunzione». Ora, «la cattiva formulazione è una mescolanza
di indicativo e imperativo, mentre la buona formulazione è un puro imperativo (che proibisce una
certa combinazione)» (cfr. ivi, p. 159). Più precisamente, «la buona formulazione della Regola Au-
rea è: ‘Non combinare queste due cose: (a) agire per fare A a x, e (b) non consentire all’idea che x
faccia A a te in circostanze simili’». La buona formulazione avrebbe la capacità ― secondo Gen-
sler ― di evitare le controesemplificazioni cui la cattiva formulazione non saprebbe sottrarsi: vale a
dire l’avallo ad azioni cattive (quali aiutare l’amico ladro a derubare qualcuno) o autocontradditto-
rie (quali l’aiutare e insieme non aiutare l’amico ladro ― immedesimandosi, da un lato, con
l’esigenza del ladro di essere aiutato, e dall’altro, con l’esigenza del derubando di non essere deru-
bato). La buona formulazione, infatti, non ordina azioni determinate, ma semplicemente si limita a
proibire una certa combinazione d’azioni: ad esempio, (a) mancare di aiutare x a rubare, e (b) non
consentire all’idea che x manchi di aiutare noi a rubare in circostanze simili. (Cfr. ibi, pp. 158 e
165). A ben vedere, il tentativo di Gensler è quello di ricondurre la Regola Aurea ― e con essa altri
principi di rilevanza morale ― a regola di «consistenza» [consistency], ovvero di interna coerenza
di un qualsiasi progetto d’azione. La matrice della Regola sarebbe il “Principio di razionalità”, che
Gensler formula così: «Se A, o di per sé o in congiunzione con altri principi formali, implica anali-
ticamente [entails] B, allora tu devi non combinare l’accettazione di A con la non accettazione di
B». Da tale principio si otterrebbe la derivazione della Regola, in combinazione con quest’altro
principio: «Se fosse giusto per me fare A a x, allora nella situazione reciproca [reversed] sarebbe
giusto per x fare A a me». (Cfr. ibi, pp. 167–170).
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 435
Per salvare la Regola dalla lettura condizionale, cui le provvisorie
formulazioni precedenti potevano dare adito, proviamo allora a rie-
sprimerla in modo che il simbolo di derivazione, che dà una intona-
zione potenzialmente ipotetica alla lettura della formula, venga arre-
trato all’inizio di questa, indicando, col non aver niente alla propria
sinistra, il carattere principiale della indicazione in essa contenuta. La
sua principialità imperativa/esortativa ci dice, comunque, che la Rego-
la Aurea non è alcunché che si proponga come formalmente derivabile
da premesse. E ciò contrasta ― come abbiamo visto ― con la consi-
derazione che essa riceve nel discorso kantiano: Kant infatti sostiene,
sia pure a tratti e implicitamente, che la Regola sia derivabile da verità
più primitive.
In ogni caso, per esprimere il carattere principiale che la Regola ―
al di là della interpretazione kantiana ― sembra poter rivendicare per
sé, si potrebbe scrivere:
(p5): |– Vt (x Fπ t) ↔ (t Fπ x);
indicando, con ciò, la duplice implicazione tra il tuo volere che x
faccia a te π, e l’esortazione a fare tu π a x. In (p5) il simbolo della
doppia implicazione va ad escludere che il soggetto sia esortato a fare
π a x, anche in casi nei quali non si dia che egli voglia che x faccia al-
trettanto a lui. Dunque, la doppia implicazione, a differenza della im-
plicazione semplice ― in cui ciò sarebbe previsto come possibile ―,
esclude l’intenzione oblativa a perdere, che in effetti non appartiene al
senso della Regola Aurea.
Senonché, la formula precedente si esporrebbe anche alla seguente
lettura: “fa’ tu π a x, se e solo se tu vuoi che x faccia altrettanto a te”; o
anche: “se e solo se tu vuoi che x faccia π a te, fa’ tu altrettanto a x”:
lettura ancora una volta, sia pure a suo modo, condizionale. Di nuovo,
dunque, la Regola andrà riformulata per evitare l’equivoco.
3.2.2.Verso una formulazione autentica della Regola Aurea
Al riguardo, occorre considerare che la Regola Aurea è un impera-
tivo il cui oggetto è complesso; o, più precisamente, non è determinato
436 Parte quinta: studi su etica e universalità
in senso contenutistico, bensì funzionale. Tale oggetto, insomma, non
ci è indicato direttamente (come un che di determinato), ma piuttosto
ci è indicato come il range di valori che soddisfano una funzione che
conosciamo. Essa potrebbe venire riformulata come segue: “π è ciò
che tu farai a x in funzione di ciò che vuoi che x faccia a te”.
Dunque:
(p6): Fπt; dove: π = F(t, x) {Vt [F(x, t)]};
ovvero, π è l’indicatore del range di valori che ci interessano.
In (p6), l’imperativo coinvolge una variabile dipendente, i cui
valori sono definiti da una funzione complessa. In essa F(t, x) è
l’elemento funzionale, mentre l’elemento argomentale, destinato a
determinare i contenuti dell’imperativo, coincide, a sua volta, con
una funzione. Ora, l’elemento funzionale di quest’ultima funzione è
dato dal “volere di t” e il suo elemento argomentale è la “relazione
di fare qualcosa a qualcuno” che va da x a t (cioè, la relazione bina-
ria che ha come referente un qualunque uomo, x, e come relato un
generico tu, ed è definita da F ≡ “fare qualcosa a qualcuno”). Con-
siderato che nella funzione indicata entro parentesi graffe la stessa
variabile indipendente è costituita da una relazione tra incognite,
quindi da una funzione proposizionale (diadica), la Regola Aurea
risulta essere un imperativo il cui oggetto è una funzione duplice-
mente complessa. Nel linguaggio dei Principia Mathematica, pos-
siamo parlare di una funzione di “terzo ordine”, destinata, nel no-
stro caso, a fornire i contenuti proposizionali ad un imperativo.
È degno di nota rilevare che, da quanto sin qui detto, la Regola Aurea
non entra direttamente ― cioè logicamente ― in contrasto con la ghi-
gliottina di Hume; il che consente di discuterne senza l’onere di mettere
in questione il dogma che segna la filosofia morale contemporanea.
3.3. Nota sulla formulazione del Comandamento dell’amore al prossimo
Qual è la grammatica del Comandamento dell’amore del prossimo?
Potremmo ripetere in proposito quanto già detto sulla Regola Aurea: si
tratta di una struttura imperativa, di tipo non ipotetico. Dunque, sareb-
be inadeguata al suo riguardo la seguente formulazione:
Capitolo II: Kant e la Regola aurea 437
(c1): |– tAt ↔ tAx
(ovvero: “se e solo se tu ami te stesso, allora ama chiunque!”).
Una diversa ipotesi, che anche Kant da parte sua sottoscriverebbe, è
la seguente:
(c2): |– tAx; dove t ⊃ x
(ovvero: “ama x!; dove x comprende anche te”).
In questa formulazione, l’originalità e l’autenticità dell’impo-
stazione del Comandamento dell’Amore verrebbe còlta, per quanto è
possibile ad una formula. Si tratta di questo: l’amore a sé non è scin-
dibile dalla relazione ad altri; nel senso che non è possibile affermare
affettivamente sé, senza insieme affermare altri.
438 Parte quinta: studi su etica e universalità
CAPITOLO III
L’ETICA DEL DISCORSO IN HABERMAS:
UN’ANALISI DI STRUTTURA
La vicenda intellettuale di Jürgen Habermas si inserisce nella tradi-
zione della vera e propria Scuola di Frankoforte: quella che si lega ―
per intenderci ― all’Institut für Sozialforschung. Così, gli anni Ses-
santa del Novecento vedono il nostro autore significativamente legato
a Theodor W. Adorno. Ma anche dopo i primi anni Settanta, che se-
gnano da parte di Habermas un “mutamento di paradigma”1 rispetto
alla tradizionale impostazione della scuola frankofortese, i temi della
Dialektik der Aufklärung di Horkheimer e Adorno rimangono salda-
mente al centro della sua attenzione2.
1
Cfr. Emilio Agazzi, Introduzione all’edizione italiana, in: J. Habermas, Etica del discor-
so, trad. it. di E. Agazzi, Laterza, Roma–Bari 1989, pp. XVI–XVII.
2
Si pensi, in modo emblematico, a: J. Habermas, Die Verschlingung von Mythos und Auf-
klärung. Bemerkungen zur Dialektik der Aufklärung ― nach einer erneuten Lektüre, in K.H.
Bohrer (a cura di), Mythos und Moderne, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1983. Questo te-
sto costituisce anche la base del capitolo 5 di: J. Habermas, Der philosophische Diskurs der
Moderne. Zwölf Vorlesungen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1985. Quest’ultimo volume
verrà da noi citato, nel prosieguo, secondo la traduzione italiana: Id., Il discorso filosofico del-
la modernità, trad. it. di Emilio Agazzi, Laterza, Roma–Bari 1987.
439
440 Parte quinta: studi su etica e universalità
1. Le radici dell’etica del discorso
1.1. La questione dell’illuminismo
Proviamo appunto a richiamare per sommi capi lo sviluppo della
“dialettica dell’illuminismo”, così come è stato individuato dai franko-
fortesi3. (a) L’“illuminismo” ― secondo Horkheimer e Adorno ― è,
al di là di referenti storici determinati, la rinuncia da parte del pensiero
a pensare veramente, cioè a considerare criticamente se stesso. (b)
L’esito di questa inconsapevole rinuncia è il soggiacere del pensiero a
una oscura volontà di potenza, che lo costringe a una sorta di “divisio-
ne del lavoro”: questa consiste in una articolazione tra “sapere” [Wis-
sen] e “fede” [Glaube], in cui la fede riconduce ogni cosa a incognita
di un’equazione che il sapere si incarica di risolvere4. (c) Un pensiero
così ridotto, risulta strumentale, anziché critico: obbedisce cioè a scopi
di cui neppure è consapevole, ma che piuttosto registra come inelutta-
bili, anche quando questi finiscono per condurre la società alla barba-
rie che fa violenza al mondo naturale e all’uomo. Ciò nonostante il
pensiero conserva la possibilità di farsi “riflessivo”, anamnesticamente
autocritico, e di opporsi così al dominio che la ragione strumentale
(ovvero la tecnica, guidata dal solo criterio del proprio indiscriminato
sviluppo) tende ad esercitare sulla natura: quella esteriore e quella in-
teriore all’uomo.
Habermas sa che i celebri appunti, ora sommariamente richiamati,
tengono sullo sfondo una meditazione su Hegel, cioè sul primo filoso-
fo “della” modernità5; il quale aveva svolto, nella Fenomenologia del-
lo spirito, una critica all’illuminismo che risulta, a ben vedere, anche
più articolata e penetrante di quella dei frankofortesi.
3
Ci riferiamo, naturalmente, agli appunti intitolati Begriff der Aufklärung, che compaiono
in: M. Horkheimer und Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, Querido Verlag N.V., Am-
sterdam 1947.
4
Qui (cfr. M. Horkheimer und Th. W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, pp. 31 ss.), il ri-
ferimento sia pur implicito è alla coppia “intellezione pura” e “fede”, quale è descritta nella
Fenomenologia dello spirito hegeliana.
5
Dove il genitivo va inteso, ovviamente, in senso oggettivo. Al riguardo, si veda: J. Ha-
bermas, Il discorso filosofico della modernità, p. 45.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 441
Hegel, nello svolgimento della triade fenomenologica di Bildung,
Aufklärung e Schrecken6, individua nella cultura moderna il momento
in cui avviene la rottura della “sostanza etica” antico–medievale (si-
tuazione da lui indicata come die Welt des sich entfremdeten Geistes).
(α) La Bildung è, appunto, questo atto di autoestraniamento dello spi-
rito, attraverso cui esso si divide in “coscienza reale” [wirkliches Be-
wusstsein] e “coscienza pura” [reines Bewusstsein], rispettivamente cor-
rispondenti alla ragione e alla esperienza religiosa7: la prima, dotata di
un linguaggio concettuale, che la abilita a quella mediazione tra le co-
scienze che è la verificazione intersoggettiva8; la seconda, prefigurata
come “coscienza estraniata” [entfremdetes Bewußtsein] o “fuga dal
mondo della realtà”9. La coscienza pura, a sua volta, si articola in due
lati: quello della “fede” [Glauben], intesa come coscienza che si rap-
presenta l’“essenza assoluta”; e quello della “intellezione pura” [reine
Einsicht], intesa come autocoscienza che pensa concettualmente il me-
desimo contenuto della fede. (β) L’Aufklärung è la stessa “intellezione
pura”, che riassorbe in sé, entro i limiti della capacità di accertamento
raziocinante, il contenuto della fede (la quale, a sua volta, si sente fa-
talmente attratta da tale riassorbimento). Esiti del “rischiaramento” so-
no: la riconduzione del contenuto della coscienza credente al semplice
6
Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, VI. Der Geist, B. Der sich entfremdete
Geist; trad. it. di V. Cicero, col titolo: Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano 1999,
pp. 653–799.
7
Verrebbe da dire, più semplicemente, “fede”. In realtà, Hegel distingue nella “coscienza
pura” due momenti opposti: appunto, la “fede”, e la “intellezione pura”.
8
Per Hegel die Sprache è «l’esistenza del puro Sé in quanto Sé. Nel linguaggio, la vera e
propria singolarità essente–per–sé dell’autocoscienza emerge nell’esistenza ed è per gli altri
[für andre]. Oltre al linguaggio, non c’è altro luogo in cui l’Io esista come Io puro. In ogni al-
tra estrinsecazione, l’Io è immerso in una realtà e in una figura da cui può ritrarsi in qualsiasi
istante: rispetto alla propria azione e alla fisionomia della propria espressione, l’Io è riflesso
entro se stesso, e lascia esanime questa esistenza imperfetta in cui si ritrova, di volta in volta,
troppo e troppo poco. Il linguaggio, invece, contiene l’Io nella sua purezza. Solo il linguaggio
enuncia Io, l’Io stesso. Questa esistenza dell’Io è, in quanto esistenza, un’oggettività [Gegen-
ständlichkeit] che ha in se stessa la propria vera natura. Io è questo Io particolare e, insieme,
Io universale» (cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, p. 683). Dunque, il linguag-
gio è, nella fenomenologia hegeliana, “l’esistenza oggettiva dell’io”, cioè il luogo in cui la
singolarità acquista autocoscienza, comunicando con altri. Tanto che, rispetto al linguaggio,
l’io non è in grado di arretrare.
9
Annota comunque Hegel, che «quando la religione entra in scena come la fede del mon-
do della cultura [der Glauben der Welt der Bildung], essa non sorge ancora quale è in sé e per
sé» (cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, p. 711).
442 Parte quinta: studi su etica e universalità
riconoscimento dell’esistenza di un Ente Supremo, e la interpretazione
― e tendenziale riproduzione ― di ogni realtà (compreso l’uomo) alla
luce di una categoria dell’“utile”, che prescinde da quelle di “buono” e
“cattivo”. L’utile [das Nützliche] è il vero, ridotto nei limiti della capa-
cità di accertamento di cui l’uomo dispone sulla realtà. In un tale quadro
la fede rimane come “illuminismo insoddisfatto”, cioè come inquieta
apertura ad altro, rispetto all’accertabile. (γ) Quel che non si rivela come
utile ― segnatamente le particolarità individuali e lo stesso Ente Su-
premo, se inteso come realmente esistente ― viene fatto “dileguare” dal
terrore [Schrecken], cioè dall’affermarsi finalmente esplicito, nella for-
ma di “volontà generale”, di quel potere che aveva arbitrariamente po-
sto la iniziale rottura della sostanza etica. L’unità dello spirito (l’unità
tra volontà universale e volontà singolare) viene qui astrattamente recu-
perata nella dittatura esercitata sui molti da un sé singolare: dittatura per
difendersi dalla quale, la libertà degli individui si rifugia nel territorio
del Gewissen, ovvero della interiorità coscienziale.
Ora, l’illuminismo, per come Hegel lo considera, non è altro che
una Aufhebung operata coi criteri dell’intelletto, anziché dalla ragione:
nel segno, dunque, della semplice negazione, e non della ricomprensi-
va negazione della negazione. La contestazione hegeliana dell’illumi-
nismo, non mira quindi ad una rinuncia alla ragione, ma semmai ad un
superamento razionale dell’unilateralità dell’intelletto. Intendimento
analogo, questo, a quello che troveremo in Habermas.
1.2. L’etica del discorso in Hegel
La superiorità della analisi hegeliana dell’illuminismo, rispetto a quel-
la frankofortese, sta proprio nella indicazione che l’autore della Fenome-
nologia offre in direzione del superamento razionale di cui ora si parlava.
Protagonista del superamento della unilateralità intellettualistica propria
dell’illuminismo è, nel disegno ideale hegeliano, la coscienza morale.
Il lavoro del Gewissen, per come Hegel lo descrive nelle pagine
della Fenomenologia dedicate alla Moralität10, è linguistico11. E, ben-
10
Le quali seguono, nell’economia dell’opera, quelle dedicate alla Bildung (a loro volta
successive a quelle dedicate alla Sittlichkeit).
11
Ci riferiamo alle pagine dedicate al Gewissen, che precedono immediatamente quelle
dedicate a die schöne Seele (cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, pp. 863–869).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 443
ché il debito non venga normalmente notato, non si può ignorare
quanto le pagine hegeliane dedicate alla linguisticità del Gewissen,
contengano della futura Diskursethik habermassiana: soprattutto se si
considera che in entrambi gli autori un’etica del discorso costituisce il
superamento ideale della dialettica dell’illuminismo.
In particolare, il linguaggio è descritto da Hegel come l’autoco-
scienza essente per altri: cioè, come l’esser–universalmente–compren-
sibile dell’autocoscienza (per sé e per altri); esso è dunque “il medio”
[Mitte] tra autocoscienze autonome che vengono a riconoscersi come
tali. Se è vero che il dovere morale è tale solo nella “convinzione” [Ü-
berzeugung] ― perché è la convinzione che dà valore all’azione ―, è
vero anche che la convinzione è tale se viene enunciata [ausgespro-
chen]; dunque «la convinzione è effettiva [wirkliche] nel linguaggio».
Secondo Hegel, il problema morale non è quello di stabilire se quel
che si fa sia o no realmente il dovere; infatti il dovere è la conformità
alla coscienza universale [allgemeines Bewusstsein], e il Gewissen è
già questa conformità (ovvero è già autentico superamento della scis-
sione tra il punto di vista particolare e quello universale). Il “giusto”
[das Rechte], di cui la morale è in cerca, è la convinzione del Sé certo
di se stesso: l’unico dovere per il Sé, è di sapere questo, e di esprimere
la propria convinzione; infatti «l’enunciazione di questa asserzione
rimuove in se stessa la forma della propria particolarità, e riconosce
con questo l’universalità necessaria del Sé». Insomma, l’agente che sa
esprimere la convinzione con cui agisce, sa cogliersi come «sapere e
volere universale che riconosce gli altri ed è uguale agli altri: anche gli
altri infatti sono questo puro saper–si e voler–si, e a loro volta essi ri-
conoscono il puro volersi e sapersi della coscienza».
Comunque, il Sé si rivela conforme al punto di vista universale,
«non nel contenuto dell’azione», ma solo nella forma di essa; e perché
questa forma sia posta come reale, occorre che sia espressa linguisti-
camente: «La forma reale dell’azione è il Sé che, in quanto tale, è rea-
le nel linguaggio, il Sé che si dichiara come il vero e che, appunto in
questa dichiarazione, riconosce [anerkennt] tutti i Sé e viene da essi
riconosciuto».
In altre parole, l’indicazione hegeliana sembra essere la seguente.
La moralità non sta nel tentare di adeguarsi alla coscienza universale
intendendola come un che di trascendente, ma sta piuttosto nel realiz-
444 Parte quinta: studi su etica e universalità
zarla in se stessi; il che accade quando si agisce con convinzione. Ciò
a sua volta è possibile solo a patto di saper esprimere a sé e ad altri le
ragioni del proprio agire, favorendo in tal modo un reciproco e univer-
sale riconoscimento, mediato dal linguaggio.
1.3. La questione della modernità
Secondo Habermas, nessuno può criticare la modernità illuministi-
ca, se non à la Hegel; e cioè dal di dentro (riflessivamente) rispetto al-
la condizione in cui la modernità stessa ci ha collocati. I fattori che i-
stituiscono la condizione propria della modernità sono: la disgregazio-
ne delle figure della “sostanza etica”12 (disgregazione in relazione alla
quale, Habermas giudica anacronistico il comunitarismo); la separa-
zione tra norme e valori, teorizzata esemplarmente da Weber13 (in re-
lazione alla quale, Habermas non ritiene proponibile il recupero di una
morale aristotelica della “vita buona”); infine, la conquista di una ra-
zionalità scientifica avalutativa14, anche questa teorizzata da Weber (la
quale, secondo Habermas, metterebbe fuori gioco la normatività della
natura, e con essa un’etica della legge naturale).
Ora, non possiamo, con un colpo di bacchetta magica, collocarci
“post” in relazione alla modernità ― quasi in posizione etnologica ri-
spetto ad essa ―, quando, in realtà, ancora non abbiamo risolto i pro-
blemi da essa posti15. La decisione di andare ad abitare in un’altra casa
― per dir così ―, non ci esime dall’obbligo di pagare i debiti di quel-
la in cui tuttora abitiamo.
Per questa ragione, non appare autorizzata alcuna deriva irraziona-
listica, che prenda a pretesto la critica all’intellettualismo. E, circa la
tentazione irrazionalistica, si pensi a quanto essa abbia affascinato gli
12
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, pp. 86–87. Cfr. anche: Id., Mo-
ralbewußtsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1983; trad. it.
di Emilio Agazzi, col titolo: Etica del discorso, p. 120.
13
Cfr. J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Bd. I. Handlungsrationalität
und gesellschaftliche Rationalisierung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1981, cap.2, § 2.1.
Il testo verrà da noi citato secondo la traduzione italiana: Id., Teoria dell’agire comunicativo,
vol. I. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, trad. it. di P. Rinaudo, Il Mulino,
Bologna 1986. Cfr. anche: Id., Etica del discorso, pp. 119–120.
14
Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, cap. 2, §§ 2–3.
15
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, p. 60.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 445
stessi Horkheimer e Adorno, i quali legano l’alternativa “sì–no”, che
segna i primi principi, alla ideo–logica propria di una società divisa in
classi16; o prima ancora si pensi a Nietzsche, che riconduce radical-
mente le alternative “vero–falso” o “buono–cattivo” a mere questioni
di “preferenze”, da intendersi come “pretese di potere”17.
Secondo Habermas, la strada da percorrere per superare l’illumini-
smo, è decisamente un’altra: e cioè quella che porta a «riabilitare un
concetto comprensivo di ragione [pur] senza ricorrere all’idea di tota-
lità»; e, al riguardo, egli precisa di intendere per “razionalità” la «di-
sposizione di soggetti, capaci di parlare e di agire, ad acquistare ed
impiegare un sapere fallibile»18. In ogni caso ― egli osserva ―, si può
denunciare la follia e la catastrofe, come accade nelle ricostruzioni
dialettiche dell’illuminismo, solo se si fa almeno implicito riferimento
ad un ideale regolativo di “conciliazione universale”19, ovvero di ra-
zionalità compiuta20.
Nel campo della razionalità pratica, in particolare, la direzione verso
cui realisticamente avviarsi, è ― per Habermas ― il recupero di una e-
ticità, che risulti purificata secondo il “punto di vista morale”: il quale
sembra corrispondere, hegelianamente, a quella Moralität o moralische
Weltanschauung, che non a caso l’autore della Fenomenologia pone
come esito della dialettica dell’illuminismo. Habermas, con Hegel, non
intende certo respingere la modernità con i guadagni che le sono propri
(tra i quali: la sovranità dello stato, le distinzioni formali di competenze
nel diritto pubblico, le libertà individuali,)21; né crede possibile si possa
ingenuamente rimuovere l’illuminismo storicamente noto, che mette in
reciproca opposizione quei fattori che la Bildung moderna ha sempli-
16
È vero, comunque, che Horkheimer e Adorno non volevano uscire dalla aporia ― più
precisamente, dalla contraddizione performativa ― in cui si erano collocati: quella di denun-
ciare l’andare in sé totalitario dell’illuminismo, impiegando gli stessi strumenti propri
dell’illuminismo (cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, pp. 69, 122–123).
17
La polemica contro Nietzsche, che riduce le “pretese di validità” a preferenze arbitrarie,
è condotta ad esempio in: J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, pp. 126–7.
18
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, p. 315.
19
Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. I., cap. 4, p. 507.
20
O, più modestamente, si può denunciare la “contraddizione” delle altrui posizioni teori-
che, «soltanto alla luce di esigenze di coerenza» (cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della
modernità, p. 191).
21
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, p. 86.
446 Parte quinta: studi su etica e universalità
cemente distinto22 (e che rappresenta, in tal senso, il momento della ne-
gazione, all’interno della più ampia dialettica della modernità): esso do-
vrà piuttosto venire sinteticamente ricompreso all’interno di un “illumi-
nismo più radicale”23. Si tratta infatti, per entrambi gli autori, non di ar-
retrare rispetto ad una modernità che rappresenterebbe un “troppo di ra-
gione”, ma semmai di avanzare rispetto al “troppo poco di ragione”24, in
essa riscontrabile ― e che potrà essere rappresentato, di volta in volta,
da un intelletto che si riveli incapace di riflettere razionalmente su di
sé25; o da una ragione che finisca per trascurare il momento intellettivo
(o raziocinativo) che le è essenziale.
Il soggetto adeguato di un lavoro come questo ― consistente nella
ricomprensione razionale dell’illuminismo ―, resta, agli occhi di Ha-
bermas, l’“Europa”: sempre che questa sappia liberarsi dall’incanto del-
le «coazioni sistemiche autoimpostesi». L’Europa, del resto, è il luogo
in cui ha avuto origine lo stato nazionale moderno, che già Hegel teo-
rizzava come risultato maturo del processo illuministico, e che ancora
resta, in attesa del costituirsi di formazioni socio–culturali più ampie, il
luogo tipico della integrazione tra la singolarità e l’universalità26.
22
Quali possono essere, ad esempio: “fatti” e “norme”; “eticità” e “moralità”; e così via.
23
«Per questo Hegel e i suoi discepoli devono porre la loro speranza in una dialettica
dell’illuminismo nella quale la ragione possa fungere da equivalente della potenza unificatrice
della religione» (cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, p. 87).
24
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, p. 312.
25
Secondo Habermas, nessuno può permettersi il lusso di prendere congedo dalla moder-
nità, senza essersi preoccupato di correggere l’approccio intellettualistico da cui essa prende
avvio. In che consiste l’intellettualismo se non nella dimenticanza del carattere riflessivo del
conoscere umano? Il carattere riflessivo del conoscere è quello per cui siamo costretti a sapere
qualcosa, prima di sapere se questo qualcosa sia vero: ad essere, insomma, nella fede, prima
di poter ― e proprio per poter ― arrivare ad essere nell’episteme. In Erkenntnis und Interes-
se, il nostro autore valorizza lo Hegel delle Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie
(cfr. ed. H. Glockner, vol. III, pp. 555 ss.) come critico della “critica della conoscenza”: quella
critica che ignora che il conoscere è un essere già “imbarcati” (escludente cominciamenti as-
soluti), e che ignora inoltre i propri “presupposti impliciti”. Non a caso, nella Fenomenologia,
il punto di vista originario viene da Hegel guadagnato proprio riflessivamente, nella consape-
volezza che il sapere accade inevitabilmente a partire da qualche condizione. (Cfr. J. Haber-
mas, Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1968; trad. it. di G.E. Ru-
sconi, col titolo: Conoscenza e interesse, Laterza, Roma–Bari 1990, cap. I).
26
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, pp. 364–6. Secondo il nostro au-
tore, solo quando si sarà realizzata una “società civile” su scala planetaria, lo stato nazionale po-
trà dirsi superato, e avrà senso parlare di uno stato sovrannazionale (cfr. J. Habermas, The Euro-
pean Nation State. Its Achievement and Limitations, «Ratio Juris», IX [1996], pp. 125–137).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 447
Più in generale, l’Europa è custode dei “contenuti normativi” della
modernità27, dove “normativi” significa imprescindibili: tali, cioè, da
non poter più essere ignorati, una volta rivelatisi all’intelligenza. Tali
contenuti si compendiano nella idea della soggettività, rispetto alla qua-
le non è più possibile arretrare ― se non a patto di operare una rimo-
zione (nel senso psicoanalitico dell’espressione). In relazione a tale ide-
a, si tratterà piuttosto di avanzare, portandola fino in fondo, verso uno
sviluppo che non sia più segnato dall’ipoteca monologistica28; e che
possa risultare, in questo senso, non tanto alternativo, quanto ulteriore
rispetto ai guadagni ― non rinnegabili, se autentici ― dell’illuminismo.
Ci aveva provato a suo tempo il marxismo, con una filosofia della
prassi, in cui per “prassi” si intendeva il “lavoro”. Il marxismo vedeva
nel lavoro l’elemento di mediazione ― tra uomo e uomo, e tra uomini e
natura ― all’interno del Gattungswesen; esso era giunto però ad arenar-
si in una riduttiva interpretazione economicistica di quella realtà, espo-
nendosi in tal modo a gravi, e ben note, difficoltà analitiche. Invece,
l’elemento di mediazione interumana che Habermas individua, è tale sì
da ricomprendere in sé il momento del lavoro, ma anche da abbracciare
ogni altro aspetto della vita relazionale29: si tratta dell’“agire comunica-
tivo” [kommunikatives Handeln], che sembra offrire il contesto etica-
mente più comprensivo, da cui poter ricavare delle costanti che siano ri-
conoscibili come moralmente normative anche nell’epoca attuale30.
1.4. Modernità e diritto naturale
Nelle Tanner Lectures del 1986 ― pubblicate col titolo Recht und
Moral31 ― la modernità è vagliata dal punto di vista del rapporto tra mo-
rale e diritto. Tale rapporto interessa l’etica del discorso, in quanto questa
27
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, cap. 12.
28
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, pp. 336–7.
29
Su questo punto, si veda: J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Excursus
sull’obsolescenza del paradigma della produzione.
30
Il nostro autore pensa all’“agire comunicativo” come ad una sorta di succedaneo post–
metafisico dello spirito oggettivo hegeliano (cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della mo-
dernità, pp. 317–8).
31
Il testo Recht und Moral ― pubblicato in appendice all’edizione tedesca di Faktizität
und Geltung ―, è tradotto in italiano all’interno del volume: J. Habermas, Morale, diritto, po-
litica, trad. it. di L. Ceppa, Edizioni di Comunità, Torino 2001.
448 Parte quinta: studi su etica e universalità
ha ― tra gli altri ― lo scopo di fare in modo che una procedura legislati-
va e una procedura giudiziaria possano trovare giustificazione razionale.
La normatività del soggetto, di cui la modernità si fa interprete e-
minente, si esprime nel modo più chiaro ― e anche tendenzialmente
non monologistico ― nella tradizione del giusnaturalismo. All’interno
di questa, Habermas individua tre distinte fasi, che hanno comunque
tra loro in comune almeno due punti fermi: la precedenza del diritto
tout court rispetto al potere politico costituito, e la “indisponibilità”
del primo, rispetto alle determinazioni del diritto positivo.
La prima fase corrisponde ad un giusnaturalismo a sfondo metafisi-
co–religioso (“diritto naturale cristiano”), che ha in Tommaso d’Aqui-
no il suo antesignano. La seconda, corrisponde al giusnaturalismo
“moderno”, contrattualistico e procedurale, che ha in Hobbes (caposti-
pite di una morale utilitaristica) e in Kant (emblema di una morale de-
ontologica) le sue varianti estreme. «In questa tradizione moderna, i
termini “ragione” e “natura” non si riferiscono più a contenuti metafi-
sici; essi indicano piuttosto i presupposti che rendono possibile un cer-
to tipo di accordo, rivendicante a sé forza legittimante»32. Una terza
fase, nella storia della elaborazione dei fondamenti naturali del diritto,
è quella che deve fare i conti con l’affermarsi ― con l’autolegisla-
zione repubblicana ― di una autonoma consistenza del diritto positi-
vo, in campo legislativo e giudiziario33. Ebbene, in questa nuova fase,
a noi contemporanea, l’etica del discorso resta come l’unica versione
possibile del giusnaturalismo34, se si vuole che l’idea di “stato di dirit-
to” non sfoci nel positivismo giuridico (sia pure inteso quest’ultimo in
versione democratica); ciò che finirebbe in realtà per delegittimare il
potere politico stesso35.
32
Cfr. J. Habermas, Morale, diritto e politica, p. 15.
33
Qui, il riferimento centrale di Habermas è alla costituzione della Repubblica di Weimar
(cfr. J. Habermas, Morale, diritto, politica, pp. 69–70).
34
La vocazione della Diskursethik a introdurre una “teoria discorsiva del diritto”, costitui-
sce il motivo centrale di uno dei testi principali del nostro autore: J. Habermas, Faktizität und
Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhr-
kamp Verlag, Frankfurt a.M. 1992. Il testo verrà da noi citato nella sua versione italiana: Id.,
Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, trad. it. di L.
Ceppa, Guerini e Associati, Milano 1996 (cfr. p. 15). La giustificazione di norme morali con-
duce a un Einverständnis; la giustificazione di norme giuridiche, conduce piuttosto ad una Ve-
reinbarung (cfr. ibi, p. 187).
35
Cfr. J. Habermas, Morale, diritto, politica, pp. 70–71.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 449
Insomma, con l’etica del discorso dovrebbe apparire che la condi-
zione di post–eticità non comporta necessariamente il relativismo eti-
co, ma può invece condurre al riconoscimento di un’etica universali-
stica; e che la condizione di post–convenzionalità non comporta ne-
cessariamente il convenzionalismo, ma può invece condurre alla ricer-
ca dell’intesa razionale argomentata. Infatti, nella condizione attuale,
«da un lato, i fondamenti morali del diritto positivo non sono più spie-
gabili nei termini di un soprastante diritto naturale. Dall’altro lato, pe-
rò essi non sono neppure liquidabili sic et simpliciter ― rinunciando a
qualsiasi equivalente ―, pena la sottrazione al diritto del suo intrinse-
co, sostanziale momento di indisponibilità [Unverfügbarkeit]»36. Si
tratta, insomma, di mantenere «quella tensione di fattualità e validità
che caratterizza con tutta evidenza [anche] il diritto moderno»37.
L’indisponibilità del diritto si manifesta chiaramente nel caso ― da
sempre giusnaturalisticamente previsto ― della resistenza legittima al
potere, e in quello della disobbedienza civile. L’“autonomia del dirit-
to”, rettamente intesa, non consiste infatti in una rigida autoreferenzia-
lità sistemica: anzi, essa propriamente si realizza ponendo le condizio-
ni procedurali dell’attuarsi del punto di vista della moralità, che sono
insieme le condizioni della costante rivedibilità delle modalità istituti-
ve del diritto stesso. L’autentica autonomia del diritto non potrà che
risultare, in tal senso, solidale con la prassi democratica38.
In proposito, occorre prendere atto che l’ideale “universalità se-
mantica”, perseguita dai filosofi come criterio fondativo di norme, non
è certo identica alla “universalità procedurale”, quale si può faticosa-
mente inseguire nel campo della formazione dell’opinione pubblica,
della attività politica e della prassi legislativa e giudiziaria. Per questa
ragione, chi da Kant in poi propone l’universalizzabilità come criterio
giusnaturalistico di legittimazione per le leggi, non sarà esonerato da
un duplice compito ulteriore. Il primo compito, sarà quello di illustrare
come una imparziale universalizzabilità “semantica” possa trovare
condizioni procedurali di verifica: vale a dire, come concretamente si
36
Cfr. J. Habermas, Morale, diritto, politica, p. 70.
37
«Se obbligassimo il diritto ad articolare semplicemente “ordinamenti concreti” già pre-
supposti, come accade nel modello istituzionalistico, noi verremmo ad assimilare la legittimità
alla positività di un’eticità imitativamente sostanziale» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, p. 182).
38
Cfr. J. Habermas, Morale, diritto, politica, pp. 75–76.
450 Parte quinta: studi su etica e universalità
possa formare una opinione pubblica non strategicamente manipolata,
bensì razionalmente motivata; e come, questa, possa dar vita ad orga-
nismi legislativi che ne siano effettivamente rappresentativi, e che rea-
lizzino al loro interno procedure orientate al consenso razionale, ma
anche una legislazione capace di ricadere poi ― secondo una circola-
rità virtuosa ― sugli stessi meccanismi di formazione della pubblica
opinione39. Il secondo compito, sarà quello di illustrare come si possa
39
Questo tema viene sviluppato nel corpo di Faktizität und Geltung: in particolare nei pa-
ragrafi 4.3.1; 4.3.2 e 7.1.2 (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 201–221; 352–357). Qui, leg-
giamo: «Tradotto in termini di teoria discorsiva, il principio della sovranità popolare afferma
che ogni potere politico nasce dal potere comunicativo dei cittadini. Il suo esercizio si orienta
― traendone legittimazione ― a quelle leggi che gli stessi cittadini si sono dati nella forma-
zione discorsivamente strutturata dell’opinione e della volontà. Questa prassi ― se la conside-
riamo come un processo per risolvere problemi ― deve la sua forza legittimante a un proce-
dimento democratico che garantisce un trattamento ragionevole delle questioni politiche.
L’accettabilità razionale dei risultati raggiunti secondo procedura deriva dall’istituzionalizza-
zione d’una rete di forme comunicative le quali ― ‘idealiter’ ― garantiscono che questioni,
temi e contributi d’una certa rilevanza possono non solo ‘farsi sentire’ ma anche essere elabo-
rati, in discorsi e trattative, sulla base delle informazioni più attendibili e delle ragioni più per-
tinenti. Questa istituzionalizzazione giuridica di determinati procedimenti e condizioni comu-
nicative serve non soltanto a rendere possibile l’esercizio effettivo di uguali libertà comunica-
tive, ma anche a renderlo stabile e durevole ai fini di un uso pragmatico, etico e morale della
ragion pratica (nonché ai fini di un equo bilanciamento d’interessi)» (cfr. ibi, pp. 202–203). E
ancora: «Dalla logica dei discorsi deriva inoltre il principio del pluralismo politico, nonché la
necessità d’integrare la formazione parlamentare dell’opinione e della volontà con una forma-
zione informale dell’opinione aperta a tutti i cittadini; quest’ultima deve realizzarsi nella sfera
pubblica politica con l’aiuto dei partiti politici. Dopo Kant furono soprattutto John Stuart Mill
e John Dewey a studiare il principio della pubblicità e il ruolo che un’informata opinione
pubblica dovrebbe avere nel controllo del parlamento. Solo il principio dell’assicurazione di
sfere pubbliche autonome nonché il principio della concorrenza tra partiti diversi esauriscono,
insieme al principio parlamentare, il contenuto del principio di sovranità popolare. Occorre
così dare una strutturazione discorsiva a pubbliche arene, in cui circuiti comunicativi anoni-
mamente addentellati si stacchino dal piano concreto delle interazioni semplici. La formazio-
ne ‘informale’ dell’opinione ― cui spetta preparare e influenzare la formazione della volontà
politica ― è sollevata dagli obblighi istituzionali che caratterizzano le procedure consultive
delle assemblee programmate per deliberare» (cfr. ibi, pp. 203–204). E, più avanti, leggiamo:
«La teoria del discorso punta sull’intersoggettività di grado superiore caratterizzante i processi
d’intesa che si compiono nelle procedure democratiche oppure nella rete comunicativa delle
sfere pubbliche politiche. All’interno e all’esterno del complesso parlamentare queste comu-
nicazioni senza soggetto formano arene in cui può prender piede una formazione più o meno
razionale dell’opinione e della volontà circa materie rilevanti per l’intera società e bisognose
di disciplina. Il flusso di comunicazione che s’instaura tra pubblico formarsi dell’opinione,
decisioni elettorali istituzionalizzate e deliberazioni legislative serve a garantire che la genera-
zione d’influsso pubblicistico e di potere comunicativo si trasformi ― attraverso la funzione
legislativa ― in un potere amministrativamente esercitabile. [...] I procedimenti e i presuppo-
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 451
passare dalla approvazione di una legge, alla sua equa applicazione in
casi determinati40.
2. Esposizione e analisi dell’etica del discorso
2.1. La Diskursethik nella sua prima versione organica (1983).
Nella raccolta Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln si
trovano i saggi che danno tematica fondazione all’etica del discorso in
versione habermassiana. In essi giunge ad espressione sintetica un in-
sieme di spunti già annunciatisi in ordine sparso nei precedenti scritti
del nostro autore. Prendiamo in particolare il saggio intitolato Diskur-
shetik. Notizien zu einem Begründungsprogramm [Etica del discorso.
Appunti per un programma di fondazione], e diamone un resoconto
schematico.
2.1.1. Intendimenti
Il primo intendimento dell’etica del discorso è quello di mostrare in
che senso non sia insuperabile l’esito “negativistico” che la dialettica
dell’illuminismo assume nella sua versione frankofortese41. Insomma,
sti comunicativi per la formazione democratica dell’opinione e della volontà funzionano come
la chiusa idraulica [Schleuse] più importante per razionalizzare discorsivamente le decisioni di
un governo e di un’amministrazione vincolati a ‘diritto e legge’» (cfr. ibi, pp. 353–355).
Com’è noto, il nostro autore ha da sempre dedicato una particolare attenzione ai processi di
formazione della pubblica opinione, e alla loro storia: cfr. J. Habermas, Strukturwandel der
Öffentlichkeit, H. Luchterhand Verlag, Neuwied 1962; trad. it. di A. Illuminati ― F. Masini
― W. Perretta, col titolo: Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma–Bari 1988.
40
Se infatti nella “giustificazione” [Begründung] conta che cosa tutti liberamente possano
volere ad un certo proposito, nell’ “applicazione” [Anwendung] ci si chiederà anche quali sia-
no i fattori rilevanti della situazione in oggetto (cfr. J. Habermas, Morale, diritto, politica, pp.
72–74). Anche questo tema viene sviluppato nel corpo di Faktizität und Geltung (cfr. J. Ha-
bermas, Fatti e norme, pp. 204–207; 272–273).
41
Il nostro autore già negava l’insuperabilità di quell’esito negativistico, in: J. Habermas,
Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, cap. 1; e, con specifico riferimento alle vicende della
Scuola di Frankoforte, in: Id., Theorie des kommunikativen Handelns. Bd. II. Zur Kritik der
funktionalistischen Vernunft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1981 (cfr. la traduzione italia-
na di P. Rinaudo, col titolo: Teoria dell’agire comunicativo, vol. II. Critica della ragione fun-
zionalistica, Il Mulino, Bologna 1986, cap. 8). Sullo stesso tema, si veda anche: Id., Dialektik
452 Parte quinta: studi su etica e universalità
al contrario di chi pensa che la via dell’illuminismo sia come tale de-
stinata ad un esito aporetico42, Habermas ritiene che a quella via non ci
siano alternative disponibili, e che per questo essa debba venir percor-
sa fino in fondo, e oltre; mostrando come i suoi limiti le derivino, non
da un esercizio troppo sistematico della razionalità, bensì da una in-
terpretazione riduttiva di quest’ultima.
Inoltre, attraverso la proposta di un’etica del discorso il nostro au-
tore intende mostrare ― con Strawson, e contro i teorici dell’emotivi-
smo43 ― come l’esperienza morale, esigendo di essere sostenuta da
ragioni, sia irriducibile ad una semplice esperienza emozionale44. Ma
intende anche mostrare che essa è irriducibile a un’esperienza prefe-
renziale ― come vorrebbe il “prescrittivismo” ―: esige infatti delle
ragioni che giustifichino, non solo i mezzi, ma anche i fini determinati
che l’agire si propone45.
Ciò non toglie che le ragioni richieste da una giustificazione morale
non siano dello stesso genere di quelle richieste da una giustificazione te-
oretica. In altre parole, il predicato della “bontà morale” (o “giustezza”)
di una norma non è assimilabile a quello della “verità” di una asserzione.
Infatti, sebbene le espressioni “è bene p” ed “è vero q” siano grammati-
calmente simili ― in quanto entrambe consistono in un’attribuzione pre-
dicativa46 ―, la giustificazione che si deve far valere nei due casi è diver-
der Rationalisierung. Jürgen Habermas im Gespräch mit Axel Honneth, Eberhard Knödler–
Bunte und Arno Widmann, «Aesthetik und Kommunikation», 45/46 (1981), pp. 132 ss.
42
Ed è questo ― secondo il nostro autore ― il punto di vista dei Communitarians, per i qua-
li la rottura della sostanza etica non sarebbe qualcosa da superare dall’interno, ma piuttosto qual-
cosa rispetto a cui sarebbe opportuno arretrare (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 49).
43
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 51–57.
44
Semmai, le emozioni staranno alle giustificazioni morali, come le percezioni stanno alle
spiegazioni teoriche dei fatti (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 57). Più in generale, la
polemica anti–emotivistica, era già stata condotta dal nostro autore in: J. Habermas, Wahrhei-
tstheorien, in H. Fahrenbach (a cura di), Wirchlichkeit und Reflexion, Neske, Pfüllingen 1973,
pp. 211–265.
45
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 56.
46
L’assimilazione tra i due tipi di enunciato è certamente facilitata da una concezione intui-
zionistica del “bene”, come quella teorizzata da G.E. Moore, che giunge a trattare in modo ana-
logo predicati quali “buono” e “giallo”. «Siccome il tentativo intuizionistico di assicurarsi le ve-
rità morali è fallito già perché gli enunciati normativi non sono verificabili o falsificabili, cioè
non si possono verificare secondo le stesse regole di gioco che sono proprie degli enunciati de-
scrittivi, l’alternativa fra i presupposti dati che si offriva era quella di rifiutare in blocco la capa-
cità di verità delle questioni pratiche» (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 59 ss.).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 453
sa. Lo si capisce se si supera la semplice “analisi semantica” delle due
espressioni, e si giunge a considerare anche la loro dimensione “pragma-
tica”, e quindi la differente pretesa di validità che esse sollevano47.
2.1.2. Dal principio D al principio U
Ed ecco come Habermas tenta di introdurre norme giuste. Nell’agire
comunicativo48, e in modo intensivo quando l’agire sia esplicitamente
47
Osserverà il nostro autore ― ancora in Faktizität und Geltung ―, che «la giustezza dei
giudizi normativi non può essere spiegata nel senso di una teoria della verità come ‘corrispon-
denza’, giacché i diritti sono un costrutto sociale che non si lascia ipostatizzare in dati di fatto.
Giustezza significa accettabilità razionale, fondata su buone ragioni. Un giudizio è valido quan-
do sono soddisfatte le sue condizioni di validità. Ma se queste siano o no soddisfatte lo possiamo
sapere non attraverso la percezione diretta di evidenze empiriche ― o l’intuizione ideale di certi
‘dati di fatto’ ―, ma soltanto in maniera discorsiva, ossia attraverso una motivazione prodotta da
argomenti» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 269–270). È comunque costante nel pensiero di
Habermas il tentativo di ricomprendere sotto un’unica regola analogica, le differenti forme della
giustificazione argomentativa ― come soddisfacimento di condizioni di validità ―; evitando di
assegnare alla giustificazione della asserzione di fatti, uno statuto privilegiato rispetto alla giusti-
ficazione di proposizioni normative. Una competente ricostruzione di questo aspetto del pensiero
habermassiano si trova in: R. Alexy, Theorie der juristischen Argumentation, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt a.M. 1978 (cfr. la traduzione italiana di M. La Torre, col titolo: Teoria
dell’argomentazione giuridica, Giuffrè, Milano 1998, cap. II).
48
Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, cap. 3. Da questo testo pos-
siamo ricavare alcune nozioni, che è necessario tener presenti per comprendere l’etica del di-
scorso habermassiana. «Intesa [Verständigung] è un processo di convergenza tra soggetti ca-
paci di linguaggio e di azione». «Un’intesa raggiunta comunicativamente ha un fondamento
razionale: non può essere imposta da nessuna parte». Essa «si fonda su convincimenti comuni.
L’atto linguistico dell’uno riesce soltanto se l’altro accetta l’offerta in esso contenuta pren-
dendo posizione (sia pur implicitamente) con un sì o un no su pretese di validità, criticabili in
linea di principio. Sia Ego che avanza con la sua espressione una istanza di validità, sia Alter
che la riconosce o la respinge, poggiano le proprie decisioni su ragioni potenziali» (cfr. ibi,
pp. 395–396). «Faccio dunque rientrare nell’agire comunicativo [kommunikatives Handeln]
quelle interazioni linguisticamente mediate nelle quali tutti i partecipanti perseguono con le
proprie azioni linguistiche fini illocutivi e soltanto quelli. Per contro considero come agire
strategico [strategisches Handeln] mediato attraverso il linguaggio quelle interazioni nelle
quali almeno uno dei partecipanti con le sue azioni linguistiche vuole produrre presso un in-
terlocutore effetti perlocutivi» (cfr. ibi, pp. 404–5). «Sono costitutive dell’agire comunicativo
soltanto quelle azioni linguistiche con le quali il parlante avanza pretese di validità [Gülti-
gkeit] criticabili» (cfr. ibi, p. 417). La teoria dell’agire comunicativo si può sintetizzare nei
seguenti punti: (a) L’agire orientato all’intesa è diverso dall’agire strategico; (b) l’intesa è un
meccanismo di coordinamento delle azioni; (c) l’intesa è comunicativa, per questo richiede
l’assunzione intercambiabile dei ruoli legati alla Prima, alla Seconda e alla Terza persona; (d)
questo, all’interno del comune “mondo della vita”; (e) riferendosi al mondo, i comunicanti
sollevano pretese di validità in ordine a: verità, giustezza dell’azione linguistica, veracità.
454 Parte quinta: studi su etica e universalità
linguistico (e segnatamente quando questo sia argomentativo), gli agen-
ti sollevano pretese normative, cioè “pretese di validità” [Geltungsan-
sprüchen] ― più precisamente, di “verità” [Wahrheit], di “giustezza”
[Richtigkeit] e di “veracità” [Wahrhaftigkeit] ― sul mondo: rispettiva-
mente, sul mondo oggettuale, su quello sociale e su quello interiore49. In
altre parole, il nostro autore, riflettendo su ciò che è in azione nell’agire
comunicativo ― cioè nel comportamento orientato all’intesa con
l’altro, anziché alla strumentalizzazione di lui ―, nota che in esso, pro-
prio al fine di comunicare, è inevitabile sottintendere un impegno su
come stiano le cose: nel mondo (verità), tra i comunicanti (giustezza)50,
ma anche nell’intimo di chi comunica (veracità)51.
49
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 66. Su questo tema, Habermas si era già diffusamente
soffermato in alcuni testi precedenti. Leggiamo ad esempio: «Nei nessi di agire comunicativo le a-
zioni linguistiche possono essere sempre respinte sotto ognuno dei tre aspetti: sotto l’aspetto della
giustezza che il parlante rivendica per la sua azione, facendo riferimento ad un contesto normativo;
sotto l’aspetto della veridicità che il parlante rivendica per l’espressione delle esperienze soggettive a
lui accessibili in maniera privilegiata; infine sotto l’aspetto della verità che il parlante rivendica con la
sua espressione per un’enunciazione (ovvero per i presupposti di esistenza del contenuto di un enun-
ciato)» (cfr. Id., Teoria dell’agire comunicativo, vol. I, p. 419). Lo stesso tema viene anche appro-
fondito in testi successivi, dove Habermas indica il compito di una “svolta pragmatica della semanti-
ca della verità”, secondo la quale le condizioni di validità dell’atto di discorso non dovrebbero più i-
dentificarsi esclusivamente con quelle dell’elemento proposizionale. Il primo passo in tale direzione
sta nel riconoscere che «ogni azione linguistica può essere nel suo insieme criticata in qualsiasi mo-
mento come non valida, sotto tre aspetti: come non vera in riferimento ad un’asserzione fatta (oppure
alle presupposizioni di esistenza del contenuto proposizionale); come non giusta in riferimento ai
contesti normativi esistenti (oppure alla legittimità delle norme presupposte); e come non veridica in
riferimento all’intenzione del parlante». Il secondo passo sta poi nel riconoscere che «noi compren-
diamo un’azione linguistica, quando riconosciamo il tipo di motivi che un parlante potrebbe addurre
per convincere un ascoltatore del fatto che egli, nella situazione data, ha il diritto di pretendere la va-
lidità del proprio enunciato; detto in breve, quando noi sappiamo ciò che lo rende accettabile» (cfr.
Id., Nachmetaphysisches Denken, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1988; trad. it. di M. Calloni, col
titolo: Il pensiero post–metafisico, Laterza, Roma–Bari 1991, pp. 76–78). L’ideale sviluppo delle
precedenti considerazioni, sta nella seguente ammissione: «il concetto di argomento è, già di per sé,
di natura pragmatica: che una ragione sia “buona” lo si vede solo a partire dal ruolo che essa gioca
nell’argomentazione, cioè a partire dal contributo che essa offre ― secondo le regole del gioco ar-
gomentativo ― per dirimere la questione se una certa pretesa di validità controversa debba essere
accettata oppure respinta» (cfr. Id., Fatti e norme, p. 271).
50
Con questo termine, l’autore fa riferimento al necessario rispetto di quelle competenze illo-
cutorie (ovvero pragmatiche), che pertengono alla riuscita dell’atto di discorso nella sua interezza.
Ad esempio, un inferiore in grado non può “dare ordini” ad un suo superiore, senza violare l’ordine
delle competenze illocutorie; analogamente, un parlante non può “constatare” un fatto di cui non è
testimone diretto; né può “promettere” qualcosa che non sia per nulla in suo potere realizzare.
51
In testi precedenti, il nostro autore aveva parlato di quattro ― e non tre ― pretese di
validità, riguardanti: la comprensibilità dell’enunciazione, la verità del suo elemento proposi-
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 455
Tali pretese di validità sono essenziali al mondo sociale, che è ap-
punto costituito di norme52; e distinguono tale mondo da quello della
natura, che è costituito invece di fatti53. Fatti e norme, poi, differiscono
tra loro almeno per due ragioni: anzitutto, un fatto [Tatsache] resta ta-
le anche se non ha osservatori, mentre una norma [Norm] non è tale in
mancanza di agenti che, sia pur in forma patologica, la riconoscano;
inoltre, un fatto sussistente è un fatto vero; mentre una norma sussi-
stente, cioè socialmente valida, non necessariamente è valida anche in
senso morale, ovvero degna d’essere riconosciuta come vincolante54.
I tre tipi di pretese in questione, vengono fatti corrispondere rispet-
tivamente alle tre dimensioni del linguaggio, che Habermas, con rife-
rimento alquanto libero alla teoria austiniana degli atti del discorso55,
zionale, la correttezza o l’adeguatezza del suo elemento performativo, e la sincerità del sog-
getto parlante; e ― con l’eccezione della pretesa di comprensibilità, che appartiene al lin-
guaggio in quanto tale ― aveva fatto corrispondere ciascuna di queste pretese, ad un determi-
nato tipo di illocuzione: la pretesa di verità, alle constatazioni; la pretesa di correttezza, ai co-
mandi, alle raccomandazioni e alle promesse; quella di sincerità, all’espressione di intenzioni
e opinioni. Di queste pretese, solo quella di verità e quella di correttezza erano considerate ―
da Habermas ― soggette a giustificazione discorsiva. (Cfr. J. Habermas, Wahrheitstheorien,
pp. 220 ss.). Tale giustificazione avrebbe dovuto passare ― secondo la primitiva proposta ha-
bermassiana ― attraverso l’ideale e fondata approvazione da parte di tutti i soggetti: «Il senso
della verità non è che venga in genere raggiunto un consenso, piuttosto: che in ogni tempo e
luogo, se solo si intrattiene un discorso, possa essere raggiunto un consenso in condizioni che
lo rendano un consenso fondato» (cfr. ibi, pp. 239 ss.).
52
E che Habermas accosta al “sapere di sfondo” ― olistico, e indisponibile ad un ragio-
nevole esercizio del dubbio ― di cui parla l’ultimo Wittgenstein (cfr. J. Habermas, Teoria
dell’agire comunicativo, vol. I, p. 455); ma anche alla figura ben nota della Lebenswelt (cfr.
ivi, vol. I, cap. 1, § 2.4; vol. II, cap. 6; Id., Il pensiero post–metafisico, cap. 4, pp. 85 ss.).
53
Il linguaggio appartiene in certo senso anche al mondo animale, ma «l’uso comunicati-
vo di un linguaggio proposizionalmente articolato è peculiare alla nostra forma di vita socio-
culturale» (cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, p. 313).
54
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 69.
55
Com’è noto, Austin giunge a considerare “locutorio”, “illocutorio” e “perlocutorio” come tre
dimensioni che attraversano ogni atto discorsivo (cfr. J.L. Austin, How to do Things with Words
[1962], edited by J.O. Urmson and M. Sbisà, Oxford University Press, 1984, pp. 133 ss.). Sicura-
mente, rispetto al modello austiniano, Habermas tende a enfatizzare il ruolo della illocuzione. Per il
nostro autore, la “componente illocutiva” integra tra loro la componente proposizionale e quella e-
spressiva nell’atto di discorso. Analizzando la funzione della illocuzione nell’atto di discorso, se ne
possono individuare due aspetti. Anzitutto, essa è l’elemento per cui il parlante compie propriamen-
te una “azione” linguistica: nel senso che, nel suo dire, egli agisce comunicativamente in un certo
modo. In secondo luogo, l’illocuzione solleva una “pretesa di validità criticabile”, e costituisce in
tal senso l’offerta di una “intesa razionalmente motivata con l’ascoltatore”. Essa non esprime «sol-
tanto il carattere di azione in generale, bensì l’esigenza di un parlante che l’ascoltatore debba accet-
tare una proposizione in quanto vera o in quanto veridica». (cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire co-
456 Parte quinta: studi su etica e universalità
individua come: “proposizionale”, “illocutiva” ed “espressiva”56 ― ri-
conducibili rispettivamente ad una logica della terza, della seconda e
della prima persona57. Si può osservare che le diverse componenti
dell’atto di discorso sono in comunicazione tra loro58. Ad esempio, la
componente illocutiva (noi diremo “illocutoria”) e quella espressiva
sono traducibili in senso proposizionale; inoltre, la componente illocu-
municativo, vol. II, cap. 5, pp. 637 ss.). Più avanti, Habermas afferma che «le componenti illocutive
esprimono il fatto che il parlante avanza esplicitamente una pretesa di verità proposizionale, di giu-
stezza normativa o di veridicità soggettiva e sotto quali aspetti egli lo fa» (cfr. ibi, p. 643); in tal
modo, però, egli finisce per enfatizzare eccessivamente il ruolo della dimensione illocutoria, fino ad
attribuirle anche ciò che sembra essere proprio delle altre due dimensioni. Nel prosieguo del nostro
testo, cercheremo invece di dare una interpretazione più equilibrata alla proposta di Habermas, fa-
cendo corrispondere ― come ci sembra emergere dal complesso dei suoi testi ― la pretesa di veri-
tà alla dimensione proposizionale, e quella di veridicità (o veracità) alla dimensione espressiva.
56
Secondo il nostro autore, la considerazione “analitica” dell’atto di discorso «trascura
l’integrazione della componente illocutiva con quella espressiva. [...] Questo duplice significato
non balza agli occhi poiché nelle azioni linguistiche constative e regolative le intenzioni del parlan-
te non sono espresse esplicitamente. Ciò è possibile, malgrado l’assimilazione di convincimenti e
obblighi ad esperienze emotive, poiché l’atto dell’espressione di per sé conta come auto–
rappresentazione, vale a dire come un indicatore sufficiente dell’intenzione del parlante di esternare
un’esperienza. Per la stessa ragione le azioni linguistiche espressive possono essere normalmente
compiute senza componenti illocutive. Soltanto in casi di enfasi particolare questa componente vie-
ne resa linguisticamente esplicita, ad esempio nelle situazioni in cui il parlante esprime solenne-
mente o insistentemente desideri o sentimenti, oppure nei contesti in cui il parlante manifesta, rive-
la, confessa ecc. ad un ascoltatore sorpreso o sospettoso i suoi pensieri o sentimenti sino a quel
momento nascosti» (cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, pp. 636–637).
57
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, pp. 314–5. Al riguardo si veda
anche: Id., Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, cap. 5, § 2.3.
58
Al riguardo, Habermas osserva che, nelle relazioni tra le componenti dell’atto di discorso,
sono riscontrabili delle “asimmetrie”. Premesso che anche le componenti non proposizionali sono
proiettabili ― per così dire ― in una forma proposizionale (sia pure non assertiva), e premesso che
il nostro autore le considera sempre in forma già proposizionalmente esplicitata, si riscontra co-
munque quanto segue. (a) In primo luogo, è rilevabile una «asimmetria consistente nel fatto che il
contenuto semantico di una qualsiasi componente illocutiva o espressiva dell’atto linguistico può
essere espresso con l’ausilio di una proposizione descrittiva. Invece non tutte le proposizioni asser-
tive possono essere trasformate in proposizioni di modalità diversa aventi lo stesso significato». Ad
esempio, “ti prometto che p”, può essere trasformata in “egli gli promette che p”: insomma, «tutto
quanto si può dire in generale, può essere detto anche in forma assertiva»; mentre, “la palla è rossa”
non può essere trasformato in una equivalente proposizione di modalità non assertiva. (b) In secon-
do luogo, è rilevabile una asimmetria riguardante la relazione tra la componente “illocutiva” e la
sua correlata propositional attitude. Infatti, «con l’affermazione p il parlante esprime normalmente
di credere p; con la promessa q esprime di sentirsi obbligato per il futuro a q; con la richiesta di
scusa per r egli manifesta di pentirsi di r». Ora, se dalle attitudini effettivamente espresse è possibi-
le risalire agli atti illocutivi corrispondenti, non si può invece procedere in senso inverso: cioè, non
ci è dato sapere «che il parlante pensi, ovvero senta anche di fatto quel che esprime» (cfr. J. Ha-
bermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, cap. 5, pp. 632–636).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 457
toria implica ― nel senso di Moore ― certe intenzioni (l’affermazio-
ne implica la credenza, la promessa il senso di obbligazione, lo scu-
sarsi il pentimento): con ciò, l’illocuzione implica anche, di volta in
volta, certe espressioni, ovvero determinati atteggiamenti comunicati-
vi. E tutto questo comporta che, non solo le singole componenti, ma
anche l’intero atto di discorso, visto nel suo complesso multidimen-
sionale, possa essere valutato quale congruente o incongruente59.
Ora, gli elementi che risultano, non accidentalmente, bensì struttu-
ralmente implicati nelle dimensioni proposizionale, illocutiva ed e-
spressiva del discorso, sono il nucleo vincolante sul quale si istituisce
la Diskursethik. I loro contenuti, positivamente determinati, coincido-
no con quei presupposti normativi (PPN) ― di cui tra poco diremo ―,
dai quali prenderà forma il principio habermassiano di universalizza-
zione (U). Naturalmente, quel che interessa ad Habermas non è la de-
terminata materia di queste dimensioni del discorso, ma la forma che
esse presentano costantemente. In particolare, il proposizionale come
tale ha una forma (cui appartiene, per fare un esempio eminente, il
principio di non contraddizione); l’illocutorio come tale ha delle co-
stanti (quali: l’implicazione tra asserzione e sincerità, tra promessa e
impegno a mantenere la parola, e così via); l’espressivo come tale ha
pure le sue costanti (chi parla o chi scrive, si rivolge potenzialmente a
un uditorio senza limiti; a ciascun membro di tale uditorio, egli rico-
nosce capacità di comprendere, e quindi diritto a obiettare secondo ra-
gioni; e così via).
L’atteggiamento comunicativo, reso possibile da queste costanti,
vale anche in foro interno, in quanto Ego anticipa le possibili obiezio-
ni di Alter, e si muove da sé le critiche prevedibili, esigendo risposte
adeguate: del resto, la filosofia da Socrate in poi è eminentemente dia-
logo, reale o idealizzato che sia, tra un proponente e un opponente (se
si eccettuano, naturalmente, le derive autoreferenzialistiche e narcisi-
stiche di certi interpreti del postmodernismo)60. Come Habermas so-
stiene, questo «autorapporto riflesso fonda la responsabilità di un atto-
re», cioè di un agente comunicativo; così che la imputabilità/respon-
59
Per una considerazione approfondita di questo tema, ci permettiamo di rinviare a: P.
Pagani, Contraddizione performativa e ontologia.
60
Cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Excursus sul livellamento della
differenza specifica tra filosofia e letteratura.
458 Parte quinta: studi su etica e universalità
sabilità di questi si estende inevitabilmente anche ai suoi atti cognitivi
ed espressivi61 ― sia pure operati in foro interno.
Ora, se il rispetto delle costanti in questione rende possibile quella e-
lementare forma di reciprocità riconoscente che è l’atteggiamento comu-
nicativo, questo non comporta però ― nemmeno dal punto di vista del
nostro autore ―, che qualunque norma trovasse di fatto l’accordo degli
agenti comunicativi interessati, risulterebbe per ciò stesso moralmente
giustificata. Occorre invece allo scopo un vero e proprio principio di giu-
stificazione delle norme, tale da svolgere un ruolo analogo a quello svolto
dal “principio di induzione” nel discorso scientifico–sperimentale62.
L’autore parla anche, al riguardo, di un “principio–ponte” [Brückenprin-
zip], che colleghi le esperienze dei singoli con una regola di comporta-
mento universalmente condivisibile63. Il prototipo adeguato di un simile
principio sembra essere ad Habermas l’imperativo kantiano.
Egli lo traduce nel “principio di universalizzazione” (U) delle mas-
sime (o norma fondamentale)64, e ne dà la seguente formulazione: af-
finché una massima sia legittima, occorre «che le conseguenze e gli
effetti secondari derivanti (presumibilmente) di volta in volta dalla sua
universale osservanza per quel che riguarda la soddisfazione di cia-
scun singolo, possano venire accettate da tutti gli interessati (e possa-
no essere preferite alle conseguenze delle note possibilità alternative
di regolamentazione)»65. Insomma, una massima deve meritare il rico-
61
Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, cap. 5, § 2.3.
62
Nel senso ― così ci pare di capire ― che dovrebbe consentire di interpretare
l’esperienza morale del singolo come caso che rientra in una legislazione universale.
63
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 71.
64
Tale da far passare le massime a norme. “Massima” indica un progetto di comportamento anco-
ra sub judice: “norma” indica un progetto di comportamento riconosciuto come universalizzabile.
65
Un antenato del principio U era stato già formulato dal nostro autore una decina d’anni prima,
nei termini seguenti: «La formazione della volontà può dirsi ‘razionale’, in quanto le proprietà formali
del discorso e della situazione deliberativa garantiscono a sufficienza che possa darsi un consenso sol-
tanto su interessi adeguatamente interpretati e suscettibili di generalizzazione, e per questi intendo bi-
sogni che possano essere condivisi comunicativamente». Già in questa sede il nostro autore sosteneva
che il principio di universalizzazione fosse «l’unico principio in cui si manifesta la ragion pratica» (cfr.
J. Habermas, Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1973, pp.
148 ss.). Robert Alexy ripropone la primitiva formulazione del principio di universalizzazione haber-
massiano nei termini seguenti: «le conseguenze di una norma per il soddisfacimento dei bisogni di
chiunque devono poter essere accettate da tutti». E così la commenta: «Il discorso in quanto legittimo,
[secondo Habermas] è legato alle interpretazioni di volta in volta dominanti dei bisogni. Quali bisogni
vengano ritenuti capaci di generalizzazione dipende dalle convinzioni morali dei parlanti originatesi
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 459
noscimento da parte di tutti gli interessati: non solo di alcuni, sia pure
assumenti, questi alcuni, il ruolo ideale di “chiunque”66. Essa deve, in
altre parole, risultare coerente con un atteggiamento idealmente co-
municativo, come quello indicato dalle costanti di cui si diceva.
U non va confuso con il “principio dell’etica del discorso” (D) ― o
meta–norma67 ―, che recita così: «possono pretendere validità soltanto
quelle norme che trovano (o possono trovare) il consenso di tutti i sogget-
ti coinvolti quali partecipanti a un discorso pratico»68. Quest’ultimo prin-
cipio va piuttosto considerato come la sintesi programmatica dell’intera
Diskursethik. Non a caso, esso sarà ripreso ― in Faktizität und Geltung
― come principio generico, dal quale nascerebbero, per specificazione,
sia il “principio morale” (U), sia il “principio democratico”. Nel primo
caso ― cioè in U ―, il consenso richiesto in funzione fondativa è, alme-
no idealmente, quello dell’intera umanità (e qui, la procedura per ottener-
lo non potrà che essere una qualche approssimazione ad una struttura
comunicativa ideale, come quella che le costanti normative della comuni-
cazione indicano); nel secondo caso, il consenso fondativo richiesto sarà
― più modestamente ― quello della comunità politica di appartenenza
(secondo le procedure di fatto in essa consolidate)69.
individualmente e socialmente» (cfr. R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, p. 106). Alexy,
poi, ha cura di mettere la precedente formulazione habermassiana in parallelo con analoghe formula-
zioni di W.K. Frankena, R.M. Hare e M.G. Singer (cfr. ibi, pp. 92–93).
66
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 73–74. Qui Habermas intende distinguere la
procedura della Diskursethik da quella ipotizzata da Rawls nel suo A Theory of Justice: «Se-
condo Rawls, infatti, la considerazione imparziale di tutti gli interessi coinvolti sarebbe assi-
curata in quanto colui che esprime un giudizio morale si trasferisce in una fittizia condizione
originaria, che esclude differenziali di potere, garantisce eguali libertà per tutti e lascia cia-
scuno nell’ignoranza circa quelle posizioni che assumerebbe in un ordinamento sociale futuro,
comunque organizzato. Al pari di Kant, anche Rawls operazionalizza la posizione dell’impar-
zialità in modo tale che ciascun singolo individuo possa intraprendere da solo il tentativo di
giustificare le norme fondamentali» (cfr. ibi, p. 75).
67
Spiega Habermas, che D «è la tesi finale che il filosofo tenta di fondare nella sua qualità
di teorico della morale» (cfr. Etica del discorso, p. 104).
68
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 103.
69
In Faktizität und Geltung, il nostro autore fornisce alcuni chiarimenti sul principio D, chiaman-
dolo “principio di discorso”, e riformulandolo come segue: «Sono valide soltanto le norme d’azione
che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali». D, anzitutto, si
colloca al di qua della distinzione tra morale e diritto, riferendosi genericamente ad ogni norma
d’azione. Quanto ai termini che vi compaiono, leggiamo che «‘potenziali interessati’ sono [...] tutti co-
loro i cui interessi siano coinvolti dai prevedibili effetti d’una prassi generale regolata dalla norma in
questione». Mentre, «si chiamerà ‘discorso razionale’ qualsiasi tentativo d’intesa circa problematiche
460 Parte quinta: studi su etica e universalità
Il principio di universalizzazione si distingue dall’imperativo categori-
co in versione kantiana, in quanto quest’ultimo prevede che la massima
sia sottoposta ad esperimento mentale monologico e venga, se trovata ad
universalizzazione consistente, imposta agli altri con una decisione unila-
terale. Stando ad U, invece, la massima deve venire da ciascuno ridiscus-
sa e riformulata nella sua pretesa di universalità, insieme a tutti gli altri
agenti comunicativi. Infatti, le massime non sono altro che le risposte che
diamo ai vari nostri “bisogni”; e tali risposte vanno intese hegelianamente
come realtà culturali e sociali70, definibili, non in modo privato, bensì in-
tersoggettivamente71; così da identificarsi idealmente con le norme di
comportamento che possiamo derivare a partire da U72.
pretese di validità, purché avvenga in base a condizioni comunicative tali che consentano ― dentro
uno spazio pubblico costituito da obbligazioni illocutive ― di mettere liberamente sotto processo temi
e contributi, informazioni e ragioni» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 131–132). «Il principio mo-
rale deriva dalla specificazione del principio universale di discorso per norme giustificabili unicamente
nella prospettiva di una paritaria considerazione degli interessi. Il principio democratico nasce invece
dalla corrispondente specificazione del principio di discorso per norme che si presentano in forma giu-
ridica e si giustificano tramite ragioni pragmatiche, etico–politiche e morali». Nel caso morale, il si-
stema di riferimento è l’umanità stessa, idealmente intesa come appello a ciascun uomo; nel caso giu-
ridico, il sistema di riferimento, invece, «è costituito dalla forma di vita della collettività politica assun-
ta come ‘la nostra’». La distinzione tra principio morale e principio democratico non sta nella perti-
nenza del primo alla sfera privata, e del secondo alla sfera pubblica; piuttosto sta, fondamentalmente,
in questo: «mentre il principio morale opera sul piano della costituzione interna d’un determinato gio-
co argomentativo, il principio democratico si riferisce invece al piano dell’istituzionalizzazione esterna
di una paritaria partecipazione politica a quella formazione discorsiva dell’opinione e della volontà che
si realizza in forme comunicative a loro volta giuridicamente tutelate» (cfr. ibi, pp. 131–135).
70
Cfr. G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821), §§ 188 ss.
71
Qui si inserisce una polemica con Ernst Tugendhat (cfr. E. Tugendhat, Vorlesungen zur Ein-
führung in die sprachanalytische Philosophie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1976): la giustifi-
cazione di una norma non è questione solo semantica, bensì essenzialmente pragmatica, implicante
una discussione reale. Per Habermas, “giusto” non vuol dire “egualmente buono per ciascuno”, ma
piuttosto “ritenuto comunemente valido” (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 78–83).
72
«La descrizione in base alla quale ciascuno percepisce i suoi propri interessi deve necessa-
riamente anche restare accessibile alla critica da parte di altri. I bisogni vengono interpretati alla
luce di valori culturali [Bedürfnisse werden im Lichte kultureller Werte interpretiert]; e siccome
questi valori sono sempre parte costitutiva di una tradizione intersoggettivamente condivisa, la
revisione di quei valori che interpretano i bisogni non può essere qualcosa di cui i singoli di-
spongono monologicamente» (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 76). Che l’interpretazione
dei bisogni sia un fenomeno che riguarda l’intera società, e che il senso delle norme morali sia
quello di regolare le possibilità di soddisfacimento dei bisogni stessi, è una duplice tesi che Ha-
bermas enfatizza fin dagli scritti degli anni Settanta ― in spirito di continuità con la tradizione
hegelo–marxista (cfr. J. Habermas, Wahrheitstheorien, pp. 251–254).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 461
In un testo di pochi anni successivo a quello ora in questione ― e
che avremo modo di esaminare tra non molto ―, Habermas affermerà,
in spirito hegeliano, che le stesse «interpretazioni dei bisogni non sono
il dato ultimo, ma dipendono da linguaggi valutativi e tradizioni, che
vengono intersoggettivamente divisi e non sono proprietà privata di
nessuno. Perciò anche la revisione critico–linguistica del vocabolario
alla cui luce noi interpretiamo i nostri bisogni è una faccenda pubbli-
ca, all’occorrenza da trattare per via discorsiva»73. Il che indica come,
nella prospettiva habermassiana, un’autentica valutazione del bene fi-
nisca per ricondurre quest’ultimo all’orizzonte del giusto.
2.1.3. Come si ottiene U
La forza della regola U sta nel fatto che la usiamo, solo che accet-
tiamo di argomentare. In altre parole, ogni richiesta, ogni ipotesi ― ma
anche ogni contestazione scettica ― di una fondazione delle norme mo-
rali, deve sfruttare quei presupposti pragmatici (ma, meglio sarebbe dire
semiotici), dai cui contenuti proiettati proposizionalmente è possibile
derivare U. Dunque, chiunque si affidi in generale all’argomentazione,
deve sottintendere la validità di U. Apel74, al riguardo, parla di «presup-
posti dotati di contenuto normativo» (PPN), che sarebbero propri della
argomentazione in generale75 ― e non specificamente di quella a conte-
nuto morale. Dal punto di vista apeliano, che qui Habermas condivide,
si può dire che: PPN → U; ovvero: ¬(PPN ∧ ¬U).
I PPN ― secondo una tavola proposta da Robert Alexy76 ― si di-
stribuiscono su tre livelli: “logico semantico” (1.1. non–contraddizione,
73
Cfr. J. Habermas, Erläuterung zur Diskursethik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M.
1991; trad. it. di V. Tota, col titolo: Teoria della morale, Laterza, Roma–Bari 1994, p. 210.
74
Ma in questa direzione va anche un gruppo di autori inglesi, tra i quali si segnala R.S.
Peters, il quale opportunamente distingue tra il caso della evidenziazione di presupposti tra-
scendental–pragmatici e quello di una argomentazione ad hominem (cfr. R.S. Peters, Ethics
and Education [1966], London 1974, pp. 114 ss.).
75
«Su questo livello si trovano, ad esempio, quelle regole di una logica minimale, che sono sta-
te discusse nella scuola di Popper [...]. Per ragioni di semplicità mi atterrò qui al catalogo dei pre-
supposti dell’argomentazione elaborato da R. Alexy» (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 97).
76
Cfr. R. Alexy, Eine Theorie des praktischen Diskurses, in W. Ölmüller (a cura di),
Normenbegründung, Normendurchsetzung, Paderborn 1978. In modo più disteso, Alexy ha
proposto la sua tavola dei presupposti in: Id., Teoria dell’argomentazione giuridica, cap. IV.
462 Parte quinta: studi su etica e universalità
1.2. universale predicabilità dei significati universali, 1.3. univocità dei
significati77); “procedurale” (2.1. impegno alla veracità, 2.2. impegno a
recuperare argomentativamente i presupposti assunti nell’argomentare);
“processuale” (3.1. diritto di ogni soggetto che ne sia capace, a prendere
parte a Diskurse; 3.2. diritto di ognuno a problematizzare ogni afferma-
Qui, egli distingue tre tipi di regole. Le “regole fondamentali” comprendono quelle che Ha-
bermas chiama “logico–semantiche”, con l’aggiunta della prima delle regole che Habermas
chiama “procedurali”. Le “regole di ragione” corrispondono a quelle che Habermas chiama
“processuali”, e a quella “procedurale” da lui indicata come 2.2. Infine, le “regole dell’onere
dell’argomentazione”, sembrano altrettante specificazioni della regola indicata da Habermas
come 2.2. Riportiamo questa ultima serie di Alexy: «(3.1) Chi intende trattare una persona A
diversamente da una persona B è tenuto a darne una giustificazione»; «(3.2) Chi critica una
proposizione o una norma che non è oggetto di discussione deve addurre una ragione per ciò»;
«(3.3) Chi ha prodotto un argomento è tenuto a presentare ulteriori argomenti soltanto in pre-
senza di un argomento contrario»; «(3.4) Chi introduce nel discorso un’affermazione o
un’enunciazione relativa alle proprie opinioni, e ai propri desideri o bisogni, e questa non si
riferisce come argomento ad un’enunciazione precedente, deve motivare su richiesta la ragio-
ne per la quale introduce questa affermazione o espressione» (cfr. ibi, pp. 155–157). Alexy
aggiunge alla sua tavola anche altri tipi di regole, che però vanno oltre la portata dei PPN ha-
bermassiani. Anzi, quelle che Alexy chiama “regole di giustificazione”, altro non sono che
differenti versioni del “principio di universalizzabilità”: quella di Hare, quella di Habermas e
quella di Baier. Leggiamo al riguardo: «Hare ottiene un postulato dal seguente tenore: (5.1.1)
‘Chiunque deve poter accettare le conseguenze della regola, presupposta in una proposizione
normativa da lui affermata, per il soddisfacimento degli interessi di ogni singola persona, an-
che nell’ipotetico caso di trovarsi lui nella situazione di questa persona’. In breve: Ognuno
deve poter acconsentire alle conseguenze per ciascuno delle regole da lui presupposte o af-
fermate. Il principio di universalizzabilità di Habermas si ricava immediatamente dalla strut-
tura del discorso determinata dalle regole di ragione. Se tutti deliberano con pari diritti su
questioni pratiche, possono trovare un consenso generale solo quelle proposizioni normative e
quelle regole che ognuno può accettare. In (5.1.1) vengono prese le mosse dalle idee normati-
ve dei singoli parlanti. Il principio di universalizzabilità di Habermas si riferisce alle conce-
zioni comuni che devono essere prodotte nel discorso. Deve essere formulato come segue:
(5.1.2) ‘Le conseguenze di ogni regola per il soddisfacimento degli interessi di chiunque de-
vono poter essere accettate da tutti’. In breve: Ognuno deve poter approvare ogni regola.
(5.1.2) possiede lo stesso carattere ideale delle regole di ragione. Il principio di Baier può es-
sere fondato dai postulati di pubblicità e sincerità che valgono nel discorso [...]: (5.1.3) ‘Ogni
regola deve poter essere insegnata pubblicamente a tutti’» (cfr. ibi, pp. 160–161).
77
Al riguardo, in Faktizität und Geltung, il nostro autore osserverà che, per quanto il
fraintendimento sembri essere la regola nella comunicazione linguistica, resta vero comunque
che «anche i fraintendimenti potranno essere riconosciuti come tali solo dopo l’esaudimento
di questa condizione»: e cioè, che si presupponga, «in base a un linguaggio comune di attri-
buire significati identici alle locuzioni impiegate» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, p. 28).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 463
zione e ad affermare ogni punto di vista e a esternare ogni bisogno; 3.3.
diritto a non vedersi impediti i due diritti ora citati)78.
E non si tratta di assunzioni convenzionali, bensì di “presupposti
inevitabili” [unausweichliche Präsuppositionen]79. In Wahrheitstheo-
rien, il nostro autore li presentava come gli elementi di una “situazio-
ne linguistica ideale”, da intendersi, né come una realtà empirica né
come una costruzione artificiale, bensì come una “inevitabile” assun-
zione reciproca dei parlanti80. In chiusura di un saggio del 1988 ―
78
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 97–100. Habermas aveva già offerto una indi-
cazione in merito, descrivendo ― in un testo di qualche anno prima ― la “situazione lingui-
stica ideale”. I requisiti indicati per tale situazione ideale sono i seguenti: «1. Tutti i potenziali
partecipanti ad un discorso devono avere le medesime opportunità di porre in essere atti lin-
guistici comunicativi, in modo da poter iniziare discorsi in ogni momento e da continuarli con
discorsi e repliche, domande e risposte. 2. Tutti i partecipanti al discorso devono avere le stes-
se opportunità di formulare interpretazioni, asserzioni, raccomandazioni, chiarimenti e giusti-
ficazioni, e di problematizzare, giustificare, o confutare la loro pretesa di validità, in modo
che nessuna opinione preconcetta rimanga a lungo esclusa dalla tematizzazione e dalla critica.
3. Al discorso sono ammessi solo parlanti che come attori abbiano le stesse opportunità di
porre in essere atti linguistici rappresentativi, cioè di dare espressione ai loro sentimenti ed al-
le loro opinioni e intenzioni [...]. 4. Al discorso sono ammessi solo parlanti che come attori
abbiano le stesse opportunità di porre in essere atti linguistici regolativi, cioè di comandare e
di disubbidire, di permettere e di vietare, di prestare e di richiedere promesse, di rendere conto
o di pretendere un rendiconto, etc.» (cfr. J. Habermas, Wahrheitstheorien, pp. 255–256). Il
primo requisito citato, equivale evidentemente al presupposto da noi indicato nel testo come
3.1; il secondo, equivale al presupposto da noi indicato come 3.2; mentre il terzo e il quarto
sembrano condensabili nel presupposto da noi indicato come 3.3. Secondo Alexy queste tre
regole, con le loro possibili articolazioni, «definiscono le condizioni più importanti per la ra-
zionalità dei discorsi. Esse devono perciò dirsi ‘regole di ragione’». Egli osserva che esse so-
no già sufficienti al conseguimento di elementari risultati. «Infatti non è possibile conciliare
con esse il fatto che una persona, anche con il suo consenso, mantenga a lungo uno status pri-
vo di diritti, ad esempio quello di schiavo. Ciascuno deve avere in ogni momento il diritto di
poter richiedere la verifica discorsiva di qualsiasi norma. Una norma che escluda questo non è
ammissibile. Essa è discorsivamente impossibile. Il fatto che la teoria del discorso possa fon-
dare l’inammissibilità di tali norme non è un contributo privo d’importanza» (cfr. R. Alexy,
Teoria dell’argomentazione giuridica, pp. 104–105).
79
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 100. L’evidenziazione di simili presupposti e-
quivale ― per Habermas ― a una “fondazione trascendental–pragmatica” [transzendental-
pragmatische Begründung] (cfr. ibi, p. 108); dove “trascendentale” vuol dire: riguardante
«competenze [...] che siano tanto generali da non poter essere sostituite da equivalenti funzio-
nali» (cfr. ibi, p. 93).
80
Cfr. J. Habermas, Wahrheitstheorien, p. 258. «Appartiene alla struttura di un possibile
discorso il fatto che nell’esecuzione di un atto linguistico ci si comporti in modo controfattua-
le, come se la situazione linguistica ideale non fosse meramente immaginaria, bensì reale ―
ed è proprio ciò che chiamiamo presunzione. Il fondamento normativo della comprensione
linguistica è dunque del pari: anticipato, ma in quanto fondamento anticipato anche efficace»
464 Parte quinta: studi su etica e universalità
Volkssouveränität als Verfahren [Sovranità popolare come procedu-
ra] ―, Habermas qualifica tali elementi addirittura come “trascenden-
ti”, nel preciso senso che essi «non si lasciano mai mettere a tacere»81.
Ora, applicare U significa trovare universalizzabile solo la massima
che non contraddica qualcuno dei PPN ― cioè qualcuna delle condi-
zioni della propria razionale sostenibilità ―, e che, in tal senso, non ca-
da in autocontraddizione performativa. (La contraddizione pratica evo-
cata da Kant come criterio negativo nel campo della fondazione morale,
è infatti recuperata da Habermas come contraddizione performativa, e
quindi pragmatica)82. Un esempio: la menzogna contraddice l’impegno
di veracità, quindi non è un possibile strumento argomentativo; per que-
sto, è esclusa da U, e relegata in un comportamento puramente “strate-
gico” e non propriamente comunicativo. Un altro esempio: l’esclusione
arbitraria di alcuni interlocutori dalla discussione, contravviene a un
presupposto procedurale, quindi non può essere condizione per far ap-
provare una norma: per questo è esclusa in forza di U83.
Nel modo detto, U non viene “dedotta” in senso logico–propo-
sizionale, bensì introdotta tramite una deduzione “trascendental–
pragmatica”84: si giunge cioè a riconoscere che il rispetto di U è con-
(cfr. Id., Vorbereitende Bemerkungen zu einer Theorie der kommunikativen kompetenz, in J.
Habermas ― N. Luhmann, Theorie der Gesellschaft oder Sozialtechnologie ― Was leistet die
Systemforschung?, Frankfurt a.M. 1971, p. 140). Sullo stesso tema, si veda anche: J. Haber-
mas, Historischer Materialismus und die Entwicklung normativer Strukturen, in Id., Zur Re-
konstruktion des historischen Materialismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1976, p. 11.
81
Tale saggio è pubblicato in appendice al già citato volume Faktizität und Geltung. La sua
traduzione italiana è invece contenuta in: J. Habermas, Morale, diritto, politica (cfr. p. 102).
82
La contraddizione giocava in Kant in due possibili modi: o nel senso della assunzione
di una massima, il cui contenuto ― universalizzato ― risulterebbe autocontraddittorio (auto-
contraddizione eidologica), o nel senso della assunzione di una massima a intenzione incom-
patibile con la portata trascendentale del volere (autocontraddizione buletica). In entrambi i
casi, dobbiamo parlare di autocontraddizione pratica. In Habermas, la contraddizione gioca
variamente, ma fondamentalmente in un unico senso: come contraddizione tra l’assunzione di
una massima, e qualcuna delle condizioni di assumibilità razionale della medesima ― dun-
que, come autocontraddizione pragmatica.
83
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 100–101. Occorreranno poi disposizioni istitu-
zionali, atte ad approssimare il Diskurs effettivo a quello ideale.
84
L’espressione apeliana è ripresa da Habermas, ma solo con l’avvertenza che essa non do-
vrà indicare alcunché di apriori, cioè di sottratto alla verifica empirica. Negli anni Settanta egli
aveva anche avanzato la proposta di parlare, anziché di “pragmatica trascendentale”, di “pragma-
tica universale” (cfr. J. Habermas, Was heißt Universalpragmatik?, in: K.O. Apel [a cura di],
Sprachpragmatik und Philosophie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1976, pp. 198 ss.).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 465
dizione indispensabile perché una norma riceva un consenso raziona-
le, e sia liberamente accettata. U è ― secondo il nostro autore ―
l’unico principio morale. Non è dunque una norma accanto ad altre: al
contrario, è a partire da esso, che si argomenta sulle norme morali.
U incorre forse in uno dei tre bracci del trilemma anticognitivista di
Fries? Su questo punto, il nostro autore ritiene valida la risposta nega-
tiva a suo tempo fornita da Apel85; come pure, egli condivide il pre-
supposto di questa: e cioè, il riconoscimento di una originaria dimen-
sione pragmatica, propria della argomentazione in quanto tale. Non
per niente, il discorso sin qui suggerito da Habermas si serve, nei suoi
due snodi più delicati, proprio del potere fondativo della riconduzione
ad autocontraddizione performativa: quando si tratta di evidenziare
l’irrinunciabilità dei PPN, e quando si tratta di derivare da U norme
che gli siano conformi.
85
Il trilemma è ― secondo Apel ― una antica e nota difficoltà, che in tempi recenti è sta-
ta rimessa in luce da Popper e da Albert. Essa comunque ha occasione di scattare solo se si
accetta il presupposto che “fondare” equivalga a “dedurre in un quadro assiomatico”. Non
scatta, invece, se fondare può anche voler dire operare una riflessione trascendentale sulle
condizioni di possibilità e di validità di ogni argomentazione. Tali condizioni di possibilità
non sono oggetto di una possibile dimostrazione; ma questo non ha un senso aporetico: piut-
tosto indica in esse delle Einsichten, messe in luce dalla riflessione trascendentale. È
l’astrazione dalla dimensione pragmatica del linguaggio, cui ci abituano la filosofia analitica e
la logica formale, a renderci difficile il pensare a presupposti che non siano meramente propo-
sizionali (vuoi come assunzioni assiomatiche, vuoi come gerarchie meta–linguistiche). Ma ―
secondo Apel ―, sono proprio i teoremi di Gödel e la teoria dei tipi di Russell, con i loro di-
vieti all’autoriflessività, a risultare paradossalmente testimoni di una “competenza riflessiva”
che non è possibile eliminare dal linguaggio: in altre parole, «il sapere autoriflessivo del sog-
getto trascendental–pragmatico dell’argomentazione, si esprime proprio nella determinazione
della non–oggettivabilità delle condizioni soggettive di possibilità dell’argomentazione in un
modello sintattico–semantico». Si tratta allora di essere coerenti con questa ammissione, e di
recuperare l’imprescindibilità del fattore pragmatico: vale a dire, la necessità di un “interpre-
tante” (nel senso di Peirce: “disposizione a rispondere a un segno” da parte di un “interpre-
te”), che colleghi l’elemento sintattico dei segni con l’elemento semantico degli oggetti. Ora,
la consapevolezza della dimensione pragmatica del discorso, è ciò che consente la rilevazione
di quelle contraddizioni performative sulle quali si fonda direttamente l’accertamento dei
PPN, e indirettamente quello di U. (Cfr. K.O. Apel, Das Apriori der Kommunikationsgemein-
schaft und die Grundlagen der Ethik, § 2.3, in: Id., Transformation der Philosophie, Bd. II,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1973). Per quanto riguarda il nostro autore, si veda: J. Ha-
bermas, Etica del discorso, pp. 89 ss. Sulla dimensione pragmatica del linguaggio, e sulla por-
tata fondativa della contraddizione performativa, rinviamo a: P. Pagani, Contraddizione per-
formativa e ontologia.
466 Parte quinta: studi su etica e universalità
Se non che, nella teoria di Habermas, diversamente che in quella di
Apel, la riconduzione a contraddizione performativa non assume un
valore propriamente fondativo, nel senso che la petitio tollendi in cui
― secondo Lenk e secondo Apel ― incorre il negatore degli elemen-
tari presupposti dell’argomentazione, dimostrerebbe sì la non–
refutabilità di tali presupposti, ma non fonderebbe per questo la loro
necessaria validità. In altre parole, che un presupposto dell’argomenta-
zione non sia superabile nelle condizioni a noi note, non dice ancora,
di per sé, che esso non sia superabile in assoluto (o che non sia, addi-
rittura, da superare). La mancanza di alternative coerentemente prati-
cabili, insomma, non sembra al nostro autore un effettivo inveramento
dell’ideale della deduzione trascendentale86.
Non solo, ma, per pretendere qualcosa come una fondazione ultima
― secondo Habermas ―, occorrerebbe muoversi ancora nell’oriz-
zonte di una “filosofia della coscienza”, nella pretesa di poter risalire
una volta per tutte (fichtianamente) dagli “elementi fattuali” a quelli
“genetici” della pratica discorsiva. Invece, considerati all’interno del
nuovo paradigma pragmatico–linguistico ― che Apel più di altri ha
contribuito a diffondere ―, i passi fondativi di U risultano inseriti in
una sorta di divisione (intellettuale) del lavoro, che li rende relativa-
mente indipendenti l’uno dall’altro, e li affida ad un confronto tra co-
scienze differenti, ognuna delle quali autorizzata a ridiscutere la sensa-
tezza dell’intero percorso, o almeno di qualche suo momento87.
In realtà, la diffidenza habermassiana verso la possibilità di una Le-
tzbegründung nasce ― a nostro avviso ― dalla posizione gnoseologi-
stica che questo autore dà per scontata: quella per cui le ragioni del
pensiero (in questo caso, del pensiero linguisticamente organizzato)
sarebbero radicalmente altre dalle ragioni dell’essere; di modo che, il
86
Su questo punto, Habermas rinvia a: G. Schönrich, Kategorien und Transzendentale
Argumentation, Frankfurt a.M. 1981, pp. 196 ss.
87
«Apel, benché parli di un “residuo dogmatismo metafisico” di Fichte, fonda, se vedo
bene, la pretesa della pragmatica trascendentale alla fondazione ultima proprio su quella iden-
tificazione fra verità degli asserti ed esperienza vissuta della certezza cui si può metter mano
soltanto nella riesecuzione riflessiva di un atto antecedentemente eseguito in modo intuitivo,
cioè soltanto nelle condizioni della filosofia della coscienza [Bewußtseinsphilosophie]. Quan-
do ci muoviamo invece sul livello analitico della pragmatica linguistica, questa identificazio-
ne ci è vietata. Il che risulta chiaro quando separiamo ed eseguiamo distintamente, l’uno dopo
l’altro, [...] i passi della fondazione» (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 107).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 467
fattore che risultasse privo di alternative concepibili, non sarebbe per
ciò stesso privo di alternative possibili ― e quindi inevitabile tout
court, ovvero necessario88.
2.1.4. Ripresa
Il procedimento seguito dal nostro autore, può essere ricostruito
come segue. (1) Individuazione di U come principio etico conforme al
programma indicato in D. (2) Individuazione dei PPN, attraverso i se-
guenti passaggi: (a) evidenziazione dei presupposti argomentativi in
cui chiunque, anche lo scettico, conviene se solo argomenta; (b) for-
mulazione di questi, fatta in modo che lo scettico vi si possa ricono-
scere; (c) rilevamento, per reductio a contraddizione performativa,
della mancanza di alternative ad essi89. (3) Esplicitazione dei PPN in
regole del discorso (secondo la tabella di Alexy). (4) Ai precedenti tre
punti dovrebbe ― per indicazione dell’autore ― seguirne un quarto,
tanto decisivo, quanto disatteso nel testo in questione: la “dimostra-
zione” che tra le regole tratte dai PPN, da un lato, e U, dall’altro, «esi-
88
Su questo tema si veda il capitolo 9 della Parte Terza del presente volume.
89
Tale mancanza di alternative va verificata nei singoli casi: in altre parole, è soggetta a
fallibilità. Ma la filosofia ― secondo il nostro autore ― non deve aver paura di assumere uno
statuto quasi–empirico: cosa che, anzi, le consente ― per omogeneità con le scienze umane
― di entrare nella grande divisione del lavoro scientifica. Leggiamo in proposito:
«L’affermazione che non vi è nessuna alternativa a un dato presupposto [Voraussetzung], che
esso fa piuttosto parte di quello strato di presupposti che sono inevitabili [unausweichliche],
cioè universali e necessari, ha lo status di un’assunzione; al pari di un’ipotesi di legge,
dev’essere verificato in base a casi particolari. [...] La certezza [Gewißheit] con cui pratichia-
mo il nostro sapere di regole non si trasferisce alla verità [Wahrheit] delle proposte di rico-
struzioni di presupposti ipoteticamente universali; perché non possiamo mettere in discussio-
ne tali proposte in nessun altro modo diverso da quello con cui, ad esempio, un logico o un
linguista mette in discussione le sue descrizioni teoretiche. Senza dubbio, se neghiamo alla
fondazione trascendental–pragmatica il carattere di una fondazione ultima [Letzbegründung],
non ne deriva alcun danno. Piuttosto, l’etica del discorso si inserisce nella cerchia di quelle
scienze ricostruttive che hanno a che fare con i fondamenti razionali del conoscere, del parlare
e dell’agire. Se rinunciamo decisamente al fondamentalismo della filosofia trascendentale tra-
dizionale, otteniamo nuove possibilità di verifica per l’etica del discorso: che può [...] essere
inserita in teorie dello sviluppo della coscienza morale e giuridica, tanto sul piano
dell’evoluzione socio–culturale quanto su quello dell’onto–genesi, e venir in tal modo resa
accessibile a una verifica indiretta» (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 108).
468 Parte quinta: studi su etica e universalità
ste un rapporto di implicazione materiale [materiale Implikation] in
connessione con l’idea della giustificazione di norme»90.
Insomma, se sono giustificati i PPN, allora ― ecco l’implicazione
materiale ― lo è U; ma i PPN sono giustificati per reductio a contraddi-
zione performativa; ergo, è giustificato U. Ma come si giustifica a sua
volta la maggiore di un tale modus ponens? Habermas afferma, al riguar-
do, che questo compito richiede l’impiego dell’argomento “trascenden-
tal–pragmatico”, cioè l’introduzione critica della tesi seguente (che chia-
meremo T): «chiunque si affidi ai presupposti comunicativi universali e
necessari del discorso argomentativo e sappia che cosa vuol dire giustifi-
care una norma d’azione, deve implicitamente sottintendere [implizit un-
terstellen muß] la validità del principio di universalizzazione»91.
In altre parole, l’argomento trascendental–pragmatico dice che
l’esercizio dei PPN ha come implicazione di senso il riconoscimento del-
la validità di U. Quindi, esercitare i PPN implica (nel senso dell’inglese
to imply) accettare U. Senonché, il nostro autore lascia sub judice la fon-
dabilità di T: egli afferma, cioè, che è possibile giustificare che i PPN im-
plicano materialmente U, «se si può mostrare che» T è vera. Così, lo
schema vuoto dell’implicazione materiale viene riempito da una implica-
zione di senso; che però è fatta valere solo come un’ipotesi.
In una successiva versione della Diskursethik, Habermas cercherà
di rimediare all’evidente impasse fondativa, parlando di “abduzione”:
nel senso che lo schema dell’implicazione materiale ― che lega i PPN
ad U ― sarebbe da interpretare, non più come un’ipotetica implica-
zione di senso, bensì come l’indicatore di una inferenza abduttiva. Ma
di questo parleremo in dettaglio al momento opportuno.
2.1.5. Corollari di un’etica del discorso
Lo scettico potrà negare (à la Nice o à la Foucault) la “moralità” [Mo-
ralität], ma non l’ “eticità” [Sittlichkeit] dei rapporti vitali; cioè non potrà
rifiutare mai del tutto ― qualunque considerazione ne abbia ― la prassi
comunicativa quotidiana, in cui comunque egli permane, restandovi im-
90
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 107. Poche pagine prima, troviamo che «si deve
mostrare come il principio di universalizzazione che funge da regola argomentativa sia impli-
cato [impliziert wird] dai presupposti dell’argomentazione in genere» (cfr. ibi, p. 97).
91
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 97.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 469
plicato almeno per via dei sì e dei no con cui deve ― esplicitamente o
implicitamente ― rispondere ad altri92. Del resto, cercare di sottrarsi
all’agire comunicativo, sarebbe per lo scettico l’estrema soluzione, sì, ma
autodistruttiva: coerentemente perseguita, essa lo condurrebbe infatti a
«cercare rifugio nel suicidio o in una grave malattia mentale»93.
L’agire comunicativo è dunque tale che, chi vi è implicato, non può
respingere arbitrariamente le offerte discorsive, ma può solo negarne
la validità, e quindi rifiutarle in base a ragioni: l’offerta di atti lingui-
stici risulta perciò vincolante, non solo per chi la avanza, ma anche per
chi la riceve. Infatti, accettare tale offerta, cioè risponderle in qualche
modo, “presuppone” la comprensione della criticabilità di essa ― e
dunque è possibile solo in nome di ragioni 94. Ma, trovarsi implicati
nell’agire comunicativo, significa eo ipso trovarsi a riconoscere ― sia
pur tacitamente ― quei presupposti normativi da cui U prende forma.
L’etica del discorso è un’etica deontologica: essa non riguarda
92
Anche l’agire strategico è possibile, naturalmente; ma solo in un senso “parassitario” ri-
spetto all’agire comunicativo, nel cui alveo esso è destinato a realizzarsi ― senza che ciò
conduca comunque all’eliminazione della differenza qualitativa tra questi due modi dell’agire
(cfr. J. Habermas, Il pensiero post–metafisico, pp. 68; 112 ss.). Gli individui, insomma, «non
hanno la possibilità di optare per una uscita a lungo termine dai contesti dell’agire orientato
verso l’intesa, che significherebbe il ritrarsi nell’isolamento monadico dell’agire strategico ―
o nella schizofrenia e nel suicidio». Si tratta di una via che si rivela dunque, almeno per qual-
che aspetto, “autodistruttiva” [selbstdestruktiv] (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 109–
114). In altri termini, un agire che fosse puramente strategico, non sarebbe realmente possibi-
le, considerato che l’uomo è un essere che può vivere solo in società: infatti ― come classi-
camente ammoniva Platone ― ogni genere di socialità, ancorché deviante, implica il rispetto
di qualche forma elementare di reciprocità (cfr. Platone, Repubblica, I, 351e–352d). Questo
punto ― cioè l’inevitabile implicazione dell’agire orientato all’intesa nello stesso agire strate-
gico ―, è sostenuto anche negli scritti meno recenti di Habermas. Così leggiamo: «Per quanto
il carattere intersoggettivo della reciproca intesa possa essere sfigurato [deformed], il disegno
di una situazione linguistica ideale è necessariamente implicato [implied] nella struttura di un
linguaggio potenziale; poiché ogni linguaggio, persino quello dell’inganno premeditato, è o-
rientato verso l’idea di verità» (cfr. J. Habermas, Towards a Theory of Communicative Com-
petence, in «Recent Sociology», a cura di H.P. Dreitzel, vol. 2, New York ― London 1970, p.
144).
93
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 111. Su questo tema, il nostro autore si era già
espresso in: Id., Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, p. 155.
94
«L’effetto vincolante delle forze illocutive ha luogo ironicamente per il fatto che i par-
tecipanti all’interazione possono dire di ‘no’ alle offerte di atti linguistici. Il carattere critico di
questo dire–di–no distingue siffatta presa di posizione da una reazione che poggi sul mero ar-
bitrio. L’ascoltatore può essere ‘vincolato’ dalle offerte di atti linguistici poiché non le può re-
spingere a piacere, bensì le può soltanto negare, vale a dire rifiutare in base a ragioni» (cfr. J.
Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, pp. 644–645).
470 Parte quinta: studi su etica e universalità
questioni di preferenza tra valori ― che non potrebbero, del resto,
essere decise razionalmente, secondo Habermas. In altri termini, U
può essere applicato a questioni di “giustizia” [Gerechtigkeit] (ov-
vero ad asserti normativi), ma non a questioni di “bene” o di “vita
buona” [gutes Leben] (ovvero ad asserti valutativi). Sullo sfondo di
un’etica deontologica così intesa, sta il “razionalismo occidentale”
teorizzato da Weber95 ― che può essere interpretato come l’esito
estremo della dialettica dell’illuminismo. A partire da esso, il mon-
do della vita viene scisso in sfere: ad esempio, “norme” da una par-
te e “valori” dall’altra; le prime, giustificabili ovvero razionalmente
decidibili (secondo un’etica moralizzabile), le seconde non giustifi-
cabili, ma accessibili solo dall’interno di un certo gruppo o stile di
vita (secondo un’etica non–moralizzabile). In questa distinzione ―
secondo Habermas ― consiste “il punto di vista morale” [der mo-
ralische Gesichtspunkt]96.
Non è difficile ipotizzare che una morale ricondotta a ragioni uni-
versalistiche, possa perdere molta della sua persuasività motrice: la
norma morale sottratta alle sue ragioni contestuali risulta infatti poco
motivante, per chi è chiamato a seguirla. Né questi potrà fare a meno
di una prudenza di tipo applicativo: infatti, una norma ottenuta in rife-
rimento a U, non sarà in grado di regolare di per sé le proprie singole
declinazioni97.
2.1.6. Giustizia e bene secondo l’etica del discorso
Nel saggio Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln [Co-
scienza morale e agire comunicativo] ― che dà il titolo all’intera rac-
colta che stiamo considerando in linea principale ― gli ultimi temi ora
menzionati, vengono sviluppati in relazione alle indicazioni dello psi-
cologo americano Lawrence Kohlberg98.
95
Tema al quale Habermas dedica analitica attenzione in: Teoria dell’agire comunicativo,
vol. I, cap. 2.
96
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 120. Con l’espressione der moralische Gesi-
chtspunkt, Habermas rende a calco l’analoga espressione di lingua inglese (cfr. K. Baier, The
Moral Point of View, Cornell UP, Ithaca 1958).
97
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 116.
98
Il saggio è contenuto nel volume: J. Habermas, Moralbewußtsein und kommunikatives
Handeln, cit.; ed è quindi tradotto in: Id., Etica del discorso.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 471
Il principio U ― già lo sappiamo ― esprime un criterio normativo
di tipo cognitivistico, universalistico e formalistico. Ma esso interpreta
queste tre istanze nel senso di un radicale “proceduralismo”, tale da
escludere programmaticamente dal proprio orizzonte formalistico ogni
surrettizio privilegiamento di valori99. Più precisamente, U esprime
un’etica della “giustezza normativa” [normative Richtigkeit], ovvero
della “giustizia” [Gerechtigkeit] ― anziché un’etica “materiata” [ma-
teriale].
Paradossalmente, gli unici elementi di valore che la Diskursethik
riconosce, sono i custodi della possibilità del consenso–dissenso sui
valori, e cioè gli stessi PPN. Essi rappresentano ― come sappiamo ―
le forme riflesse dell’agire comunicativo, il quale è già orientato da
parte sua all’intesa e alla reciprocità del riconoscimento100. Ora, il
momento chiave della Diskursethik, vale a dire la deduzione trascen-
dental–pragmatica dei PPN, è interpretabile come una riconduzione
della effettiva pratica discorsiva, a quelle strutture comunicative che
ne costituiscono altrettante condizioni imprescindibili. Tale ricondu-
zione viene operata considerando che una qualunque disputa verbale,
fosse pure orientata semplicemente al successo, deve comunque valer-
si di argomenti, e perseguire quindi un successo “senza coazione”, che
passi cioè attraverso l’espressione discorsiva di ragioni (ovvero, che
segua implicitamente i criteri indicati nei PPN)101.
L’assunzione che Habermas riprende da Kohlberg, è che vi sia un
isomorfismo tra ontogenesi e filogenesi della coscienza morale, e che
l’etica del discorso abbia senso all’interno di uno stadio post–
99
«L’etica del discorso si distingue da altre etiche cognitivistiche, universalistiche e for-
malistiche, quindi anche dalla teoria della giustizia di Rawls, soltanto per via di questo proce-
duralismo. D rende consapevoli che U esprime semplicemente il contenuto normativo di un
procedimento della formazione discorsiva della volontà, e deve perciò essere accuratamente
distinto dai contenuti dell’argomentazione. [...] Il principio dell’etica del discorso vieta di pri-
vilegiare determinati contenuti normativi (per esempio, determinati principi della giustizia di-
stributiva) in nome di un’autorità filosofica, e di prescriverli una volta per tutte dal punto di
vista della teoria morale. Una teoria normativa, come ad esempio la teoria della giustizia di
Rawls, quando si inoltra sul terreno dei contenuti, vale soltanto come un contributo, sia pure
particolarmente competente, a un discorso pratico, ma non fa parte della fondazione di quel
‘punto di vista morale’, che caratterizza i discorsi pratici in genere» (cfr. J. Habermas, Etica
del discorso, pp. 129–130).
100
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 139.
101
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 172.
472 Parte quinta: studi su etica e universalità
convenzionale di tale (presunta) genesi: quello in cui gli agenti sono in
grado di mettere tra parentesi la comune appartenenza a tradizioni e a
concrete comunità. Nell’agire orientato verso l’intesa [verständigun-
gsorientiertes Handeln o Verständigungshandeln] ― che è l’unico o-
rizzonte comune che resista in una situazione post–convenzionale ―,
vige una implicita reciprocità tra gli agenti, che consiste dei seguenti
fattori: complementarietà dei ruoli sociali, controllata dalla autorità;
simmetria ideale di diritti e doveri, controllata dall’interesse degli a-
genti stessi; reciproche aspettative di comportamento, legate ai rispet-
tivi ruoli sociali; potenziale scambio di ruoli nel ragionamento discor-
sivo [diskursive Rede]102.
Si tratta dello sviluppo di una posizione a suo tempo sostenuta da
Durkheim: e cioè che nel Recht è già implicita una Moralität103. Così,
Kohlberg fa derivare progressi, in ordine all’idea di “giustizia”, dalla
evoluzione dello stadio di interazione sociale raggiunto dal soggetto.
Ad esempio, è nello stadio “convenzionale”, che “giustizia” significa
“vita buona”104. Mentre, è solo in quello stadio evolutivo da Kohlberg
detto “post–convenzionale”, che l’idea di giustizia si autonomizza ri-
spetto alla conformità a ruoli o a norme sedimentate105.
Dal “punto di vista morale” le questioni vengono affrontate anzitut-
to come questioni di giustizia106. Le acquisizioni morali, de–
contestualizzate a partire dalla imparzialità che caratterizza quel punto
di vista, dovranno comunque essere poi applicate alle situazioni speci-
fiche, e radicate in una qualche motivazione che risulti rilevante per le
preferenze degli agenti concreti. Il “punto di vista morale” distingue
dunque tra questioni della “autodeterminazione” [Selbstbestimmung]
― relative alla giustizia ― e questioni della “autorealizzazione” [Sel-
bstverwirklichung] ― relative alla preferenza per determinate forme
102
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 172–175.
103
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 178; ma prima ancora, si veda: Id., Teoria
dell’agire comunicativo, vol. II, cap. 5, § 3. Per quanto riguarda l’autore chiamato in causa, si
veda: É. Durkheim, De la division du travail social (1893), Alcan, Paris 1922; trad. it. di F. Ai-
roldi Namer, col titolo: La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1962.
104
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 178.
105
Anche se si recupera qui l’aspetto di verità dello stadio “pre–convenzionale”: che la giu-
stizia si realizza nella reciprocità di un Diskurs (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, p. 179).
106
Qui inizia ― secondo Habermas ― un’ “etica della responsabilità” (cfr. J. Habermas,
Etica del discorso, pp. 190–191).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 473
di vita. È convinzione di Habermas che le questioni del secondo tipo
si pongano legittimamente, solo una volta risolte quelle del primo ti-
po; e che le prime riassorbano in sé le seconde, nella misura in cui
queste ultime corrispondono ad autentici problemi morali107.
2.2. Precisazioni sulla Diskursethik (1991)
Alcuni sviluppi della precedente proposta sono contenuti nel volu-
me Erläuterung zur Diskursethik, tradotto in italiano col titolo: Teoria
della morale.
2.2.1. Una posizione “globale”
Nello scritto del ’91 l’autore ribadisce la propria posizione a favore del
cognitivismo, e contro il pregiudizio che la morale si fondi semplicemente
sulla introiezione di divieti e obblighi premuti dall’esterno108. L’etica del
discorso, in particolare, raccoglie l’indicazione di G.H. Mead, secondo cui,
chi giudica moralmente deve trasferirsi nella situazione di tutti gli interes-
sati all’azione considerata; ma trasforma quella che per Mead è ancora una
“assunzione ideale di ruoli” da parte di soggetti privati, in una autentica
procedura109 di carattere pubblico e intersoggettivo [Diskurs]110 ― sia pure
aperta, quest’ultima, a far proprio il punto di vista di una “comunità ideale
di comunicazione”111, che vada oltre le forme di vita concrete da cui, co-
107
Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, pp. 191–195.
108
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 148.
109
Secondo il nostro autore, in una condizione da lui ritenuta “post–metafisica”,
l’alternativa alla scappatoia irrazionalistica, risiede in un uso procedurale della razionalità.
«Le prestazioni della conoscenza possono essere ormai solo convalidate sulla base della ra-
zionalità procedurale [verfahrenrational], cioè mediante procedure [Prozeduren], che sono in
definitiva quelle dell’argomentazione» (cfr. J. Habermas, Il pensiero post–metafisico, p. 41).
110
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 10.
111
Il riferimento prossimo è, naturalmente, alla apeliana Kommunikationsgemeinschaft.
Ma non manca un riferimento remoto a Hegel: «L’universale concreto di Hegel, purificandosi
da ogni elemento di sostanzialità, si sublima in struttura comunicativa» (cfr. J. Habermas, Fat-
ti e norme, p. 272). A proposito del carattere “ideale” e quindi “controfattuale” di tale comu-
nità, il nostro autore annota, in altro contesto, che «il riferimento all’uditorio ideale ― ossia
alla virtuale ‘comunità della comunicazione’ idealmente inclusiva e oltrepassante i limiti
d’ogni comunità esistente ― svincola le prese di posizione sì/no degli interessati dalla violen-
za pregiudizievole di giochi linguistici e forme di vita ereditati in maniera meramente conven-
zionale. Con ciò vediamo entrare, nella concezione della politica deliberativa sviluppata dalla
474 Parte quinta: studi su etica e universalità
munque, i PPN si devono “astrarre e dis–intrecciare” [entschränken]112 in
senso “ricostruttivo”113. Sapersi parte di una tale comunità, significa assu-
mere una posizione “globale”, che sta in relazione con le altre, avendo la
capacità di riconoscerle, di vincere in tal modo il fondamentalismo e di
guadagnare il punto di vista proprio della morale114.
Commentando Kohlberg, Habermas ammette inoltre che è
all’interno delle comunità ― socializzanti e insieme individualizzanti
― di appartenenza, che i soggetti imparano a comunicare; per questo,
non è possibile volere “giustizia” per i singoli individui, senza volere
anche “solidarietà”, cioè promozione del benessere per le comunità
nelle quali essi si formano e diventano capaci di autonomia morale115.
2.2.2. Il tentativo di superare Kant
Il nostro autore, poi, si sofferma sui motivi che segnano ― a suo
avviso ― la superiorità dell’etica del discorso rispetto all’etica kantia-
na: motivi che si potrebbero compendiare nella pretesa, per la Diskur-
sethik, di una maggiore aderenza alle concrete condizioni in cui si
svolge la vita etica, con le sue esigenze normative. Anzitutto, la Di-
skursethik non assume le premesse metafisiche di Kant: in particolare,
non assume la distinzione tra regno dei fini e regno della natura, che
finisce per collocare l’elaborazione della norma al di fuori delle con-
crete condizioni storiche e sociali, che invece segnano la pratica di-
scorsiva116. Né intende assumere, in generale, altre premesse metafisi-
che: in particolare non accetta che «un concetto di persona dotato di
contenuto normativo si possa fondare antropologicamente»117.
teoria del discorso, un momento trascendente, che non può fare a meno di suscitare qualche
riserva empirica» (cfr. ibi, p. 340).
112
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, cap. 1 (in particolare, p. 14).
113
Ricostruttivo, s’intende, della dinamica di una comunicazione ideale (cfr. J. Habermas,
Teoria della morale, p. 129).
114
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 227. Ma all’orizzonte, come naturale svilup-
po di tale posizione ― si chiede il nostro autore ―, non sta anche il riconoscimento nei con-
fronti degli animali, o addirittura degli ecosistemi? (cfr. ibi, cap. 6, § 13).
115
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 71. “Negativi” sono detti i doveri di giusti-
zia, “positivi” quelli di solidarietà.
116
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, pp. 17, 162.
117
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 134. Nonostante questa presa di posizione, il
nostro autore usa, nel medesimo contesto, anche espressioni che lascerebbero intendere diver-
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 475
In secondo luogo, il nostro autore ottiene il principio U a partire dai
PPN, ed evita così di presentarlo come un Faktum der Vernunft. I PPN,
se rispettati esplicitamente, qualificano l’agire come comunicativo e ar-
gomentativo, anziché strategico. Essi «non obbligano ad agire razio-
nalmente; ma rendono possibile la prassi che i partecipanti intendono
come argomentazione». U, ma prima ancora i PPN, non sono dedotti
trascendentalmente, nel senso assoluto118 che Kant annette a tale espres-
sione; ma sono accettati in quanto privi di alternative, ovvero in un sen-
so aposterioristico, che ― come sappiamo ― il nostro autore qualifica
come trascendentalmente “debole”. Al riguardo, Habermas parla di una
irrecusabilità fattuale delle costanti di una certa forma di vita; col che
― egli osserva ―, «non possiamo escludere a priori che questa cambi.
Ma questo cambiamento resta una vana alternativa dato che noi non ci
possiamo nemmeno immaginare una trasformazione fondamentale della
nostra forma di vita senza science fiction che cambi gli esseri umani in
zoombies». Agli effetti pratici, dunque, ci basta anche il trascendentali-
smo debole della Diskursethik, che in ogni caso non appare legato a
sfondi di vita particolari. Del resto ― leggiamo ―, «una fondazione ul-
tima dell’etica non è né possibile né necessaria»119.
Ma soprattutto, la Diskursethik rompe col monologismo kantiano
― quello legato ad un’unica “coscienza trascendentale” ―, e reinter-
preta piuttosto l’imperativo categorico alla luce della teoria hegeliana
del riconoscimento tra coscienze differenti. «Se l’orizzonte della do-
manda ― che cosa devo fare? ― si sposta dalla prima persona singo-
lare alla prima plurale, cambia qualcosa di più del semplice forum del-
samente. Così leggiamo che «il rispetto di una persona in quanto persona non tollera grada-
zione alcuna: una persona noi la rispettiamo in quanto tale per la sua capacità di agire auto-
nomamente, cioè, di orientare il suo agire secondo le pretese di validità normative; ora, la ri-
spettiamo unicamente per la prestazione o qualità che la rende persona. E tale capacità costitu-
tiva nessuno la può possedere in misura maggiore o minore; anzi, essa caratterizza le persone
in assoluto. Noi rispettiamo qualcuno come persona [...] perché per principio, è in grado ―
testimoniandolo con il suo comportamento ― ‘di essere un membro di una comunità’, cioè di
ottemperare assolutamente alle norme della convivenza» (cfr. ibi, p. 155). Certo, espressioni
come queste non dicono una concezione sostanzialista della persona ― non a caso, Habermas,
anziché di sostanza personale, parla di “substrato fisico della persona” (cfr. ibi, p. 181) –; è
più difficile sostenere, però, che esse non sottintendano una determinata visione filosofico–
antropologica dell’uomo come soggetto essenzialmente comunicativo.
118
Ma, meglio sarebbe dire “genetico”.
119
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, pp. 201–202.
476 Parte quinta: studi su etica e universalità
la riflessione»120. In tal senso, l’etica del discorso va anche oltre
l’“egocentrismo” della regola aurea (che sarebbe espressione di un al-
tro tipo di monologismo, questa volta di tipo empirico); perché calibra
il giusto non più su quel che sembra bene a me, ma su quel che sembra
bene ad ognuno. L’universalizzazione autentica, infatti, deve essere
calibrata, non su quel che è desiderabile per un singolo ― sia pure te-
so a immedesimarsi con chiunque ―, ma su quel che è effettivamente
desiderabile per ognuno.
Con ciò, si va oltre la prospettiva giusprivatistica, propria del diritto
naturale razionale à la Hobbes (che ad Habermas sembra operante an-
che nella rawlsiana teoria della giustizia). Leggiamo al riguardo, che
«nessuna norma si può fondare ed applicare privatim, nel monologo
solitario dell’anima con se stessa, sia che si tratti di diritti e doveri ne-
gativi sia che si tratti di diritti e doveri positivi»121. Diversamente che
in altre prospettive (segnatamente quella di Rawls), secondo la Di-
skursethik non c’è da mimare “virtualmente” nella “immaginazione”
del singolo l’applicazione di una massima: qui si lavora, sia pur se-
condo approssimazione, in foro esterno122.
Il principio U vuol essere una originale versione dell’imperativo kan-
tiano: potremmo dire, una sua particolare lettura in chiave buletica. Di
U il nostro autore dà ― nel testo del 1991 ― una formulazione più sin-
120
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 119.
121
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 177. Qui, naturalmente, il riferimento è alla no-
ta sentenza di Wittgenstein, secondo la quale, non è possibile che un singolo possa apprendere e
seguire da sé solo una qualunque regola (cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen,
Basil Blackwell, Oxford 1953, I, § 199). Com’è noto, questo aforisma di Wittgenstein era stato
valorizzato ― tra gli altri ― da Apel, per introdurre la tesi del carattere strutturalmente pubblico
del linguaggio (cfr. K.O. Apel, Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft und die Grundla-
gen der Ethik, § 2.3.2). Habermas stesso ha svolto distesamente, in sede opportuna, il tema wit-
tgensteiniano. Leggiamo al riguardo: «A non può essere sicuro di seguire in generale una regola
se non sorge una situazione nella quale egli sottopone il proprio comportamento ad una critica
fondamentalmente consensuale da parte di B. [...] La competenza di giudizio da parte di B pre-
suppone dal canto suo la competenza di una regola poiché B può effettuare la verifica richiesta
soltanto se è in grado di dimostrare ad A il suo errore e di determinare, all’occorrenza, un con-
senso sulla corretta applicazione della regola. B assume allora il ruolo di A e gli fa vedere in che
cosa ha sbagliato. In questo caso A assume il ruolo di giudice che dal canto suo deve avere ora la
possibilità di giustificare il proprio comportamento originario dimostrando che l’applicazione
della regola è errata. Senza siffatta possibilità di critica reciproca e di un ammaestramento reci-
proco tale da portare ad una intesa, non sarebbe garantita l’identità delle regole» (cfr. J. Haber-
mas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, pp. 569–570).
122
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, pp. 10, 56–58, 62.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 477
tetica delle precedenti, secondo la quale «sono valide quelle norme che
tutti [gli interessati] potrebbero volere»123. Ma, quale sia il volere di
questi “tutti”, è qualcosa che va verificato empiricamente, o che va piut-
tosto ricavato dalla analisi di quella che si ritiene essere la natura umana
in senso essenziale e normativo? Per Habermas il modello fondativo da
lui teorizzato ― e in seguito indicato come Beratungssituation ―, non
corrisponde né all’uno né all’altro dei due corni dell’alternativa124:
l’universalità che esso comporta non vuol essere qualcosa di empirico, e
neppure di metafisico; ma corrisponde piuttosto all’ideale regolativo
implicato in una procedura, appunto, di tipo dibattimentale125.
La Diskursethik rompe anche con quel genere di formalismo (fiat
iustitia et pereat mundus) che assolutizza le “intenzioni”, e prescinde
totalmente dalle “conseguenze” dell’agire. Queste sono invece esplici-
tamente considerate in U, che riconosce come accettabile un compor-
tamento, quando siano accettabili da parte degli interessati le conse-
guenze che prevedibilmente ne discendono126. Anzi, al riguardo, si può
dire che U sia un “test di universalizzazione” che, al contrario di quel-
lo kantiano, vuole ― attraverso, appunto, l’esperimento dell’univer-
salizzazione ― non solo illustrare, ma propriamente fondare la mora-
lità di una massima d’azione (sia pure con le precisazioni anti–
monologistiche che si sono fatte).
Inoltre, quella di Habermas non è un’etica che astragga da inclina-
zioni e bisogni, come fa invece quella kantiana. Quest’ultima, confon-
dendo l’“autonomia morale” con il “distacco dai motivi empirici”, fi-
nisce per perdere ogni presa motivante, ed operare così, non tanto una
123
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 54. Invece in Rawls «l’orientamento che
Kant grazie alla legge morale aveva inserito nella ragion pratica e quindi nei moventi dei sog-
getti autonomamente agenti, emerge ora soltanto come risultato, in base al gioco combinato
dell’egoismo razionale con le condizioni della posizione originaria dotate di contenuto norma-
tivo nelle quali questo egoismo razionale opera» (cfr. ibi, p. 55).
124
Alternativa nella quale ― ad avviso del nostro autore ― incorrerebbe Rawls, oscillan-
do tra l’assunzione di un contrattualismo giusprivatistico ― motivato dai semplici “egoismi
razionali” ―, e il ricorso a «un concetto di persona dotato di contenuto normativo» ― una
volta considerata l’insufficienza degli egoismi combinati, a indurre i contraenti a trasferirsi
idealmente nello “stato originario”. (Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, pp. 55–57).
125
Così ci sembra di poter esprimere il senso complessivo del secondo paragrafo del cap.
3 del testo che stiamo considerando.
126
Tenendo presente la classica scansione analitica dell’azione umana, quella che comun-
que rimane ignorata, è la considerazione dell’obiectum actionis.
478 Parte quinta: studi su etica e universalità
opportuna distinzione, quanto una vera e propria separazione della
prospettiva del giusto da quella del bene127.
L’errore kantiano risulta comunque speculare a quello che Haber-
mas rimprovera a certo neoaristotelismo post–metafisico: errore,
quest’ultimo, che consisterebbe nel coltivare piuttosto una valutazione
dei beni che prescinda dal punto di vista della giustizia128. Certo, le
questioni propriamente “etiche”, relative cioè alla determinazione di
ciò che è bene, non sono necessariamente egocentriche o etnocentri-
che: anch’esse, infatti, sono determinabili sulla base di ragioni; ma, ta-
li ragioni restano comunque apprezzabili solo in ambito soggettivo o
etnico. Quando i soggetti o i gruppi interagiscono, nascono i conflitti,
ed è solo allora che si aprono le questioni di giustizia. Per esemplifica-
re: la questione del “divorzio” e quella dell’“aborto” sono ritenute da
Habermas due tipici casi in cui è in gioco la determinazione del bene
(riguardo ad essi si tratterà dunque, attraverso “leali compromessi”129,
di rendere compossibili prassi differenti)130; la questione della “violen-
127
In seguito alla quale i beni–moventi sono messi tutti, indifferentemente, nel medesimo
“calderone” soggettivistico (cfr. J. Habermas, Teoria della morale, pp. 84, 141).
128
Secondo il nostro autore, la phrónesis teorizzata dai neoaristotelici come capacità di
discernimento del comportamento buono, va posta di fronte ad un’alternativa: o accetta di di-
ventare una forma di proceduralismo, o è destinata a scadere a semplice recezione del senso
comune sociologicamente inteso (cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 91).
129
La figura del “compromesso” [Kompromiß] si differenzia da quella dell’“intesa” [Ver-
ständigung], in quanto il primo è un accordo di fatto, che ha di mira la realizzazione di una tre-
gua (pur lasciando latente il conflitto tra interessi già stabiliti e contrapposti); mentre la seconda
coincide con un accordo di diritto, che ha di mira il raggiungimento, se non della pace perpetua,
almeno di una procedura che assicuri una permanente tensione verso la giustizia (e quindi, verso
la prevenzione dei conflitti). Comunque, anche il compromesso è una figura che appartiene legit-
timamente al discorso pratico. Leggiamo al riguardo che, «finché sono in gioco esclusivamente
interessi particolari, la formazione pratica della volontà deve assumere la forma del compromes-
so» (cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 10). Sul tema, si veda anche: Id., Legitimation-
sprobleme im Spätkapitalismus, pp. 154 ss. A ben vedere, comunque, il compromesso non può
mai essere assoluto; nel senso che è destinato a sottintendere anch’esso un agire orientato
all’intesa argomentativa: «Nel discorso pratico, i soggetti coinvolti tentano di cominciare a com-
prendere un interesse comune; nelle trattative svolte in vista di un compromesso, essi tentano in-
vece di produrre un accomodamento fra interessi particolari in conflitto. Certo, anche i compro-
messi sottostanno a condizioni limitanti, giacché si deve supporre che un compromesso equo
possa aver luogo soltanto tramite la partecipazione paritetica di tutte le persone interessate. Ma
tali principi della formazione di compromessi dovrebbero venir anch’essi giustificati in discorsi
pratici, di modo che questi non sottostiano a loro volta alla stessa istanza dell’accomodamento
fra interessi concorrenti» (cfr. Id., Etica del discorso, pp. 81–82).
130
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, pp. 93, 172.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 479
za ai minori”, è invece da lui ritenuta come un tipico caso morale: un
caso, insomma, in cui è in gioco il riconoscimento della giustizia131.
La Diskursethik, neppure astrae dalla considerazione di quel pro-
gresso (o regresso) storico, che inevitabilmente riguarda l’appren-
dimento delle norme morali. Ad esempio, Habermas osserva che
l’applicazione selettiva (cioè limitata ad alcuni soggetti soltanto) di
una norma a portata universale, si rivela a poco a poco insostenibile;
per cui, una introduzione anche inizialmente parziale delle sue proce-
dure, conduce presto o tardi ad una estensione delle medesime anche
ai casi precedentemente non previsti132.
2.3. Ulteriori sviluppi dell’etica del discorso (1996)
Nella raccolta Die Einbeziehung des Anderen [L’inclusione
dell’altro], col saggio Wie vernünftig ist die Autorität des Sollens?
[Quanto è ragionevole l’autorità del dover–essere?], Habermas ci of-
fre una ancor più recente versione dell’etica del discorso, riproponen-
do il nocciolo di questa, e sviluppandone nuovi corollari ― specie in
relazione al binomio bene–giustizia133.
2.3.1. Qualche premessa
In una società multiculturale, in cui le visioni integrali della realtà
(a sfondo metafisico) non godono più di facile consenso, il “punto di
vista morale” deve ricostruire in senso “intramondano” un orizzonte
intersoggettivamente condiviso, che sia tale, cioè condiviso, in modo
131
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 93. Non è chiara la ragione della differente
ascrizione dei due casi: sembra che risulti rilevante l’unanimità di giudizio che investe (alme-
no all’apparenza) il caso della violenza ai minori, rispetto alle controversie che investono in-
vece la questione dell’aborto. Ma se veramente fosse così, allora l’intesa sarebbe ritenuta pos-
sibile solo in presenza di una unanimità di consensi: cioè, solo dove sarebbe superfluo cercar-
la. In ogni caso, anche il riconoscimento di ciò che è bene, avviene all’interno di una pratica
discorsiva; il che finisce per fluidificare i confini tra i due ambiti: quello del bene e quello del-
la giustizia (cfr. Id., Teoria della morale, p. 210).
132
Cfr. J. Habermas, Teoria della morale, p. 41.
133
Cfr. J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Suhr-
kamp Verlag, Frankfurt a.M. 1996. Il testo verrà da noi citato nella sua versione italiana: Id.,
L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, trad. it. di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1998.
480 Parte quinta: studi su etica e universalità
almeno idealmente “universale”134. In questa situazione post–meta-
fisica non vi è la possibilità di giustificare qualcosa come “oggettiva-
mente desiderabile”. Infatti, è diventato problematico parlare di un
“essere normativo”, che possa assimilare tra loro in modo inequivoca-
bile il “giusto” (il comportamento adeguato) e il “bene” (la natura o il
valore cui il comportamento sarebbe chiamato ad adeguarsi)135. La re-
altà originaria e fondativa che può venir presa in considerazione in
modo aproblematico ― secondo Habermas ― non è più dunque un ta-
le essere, ma piuttosto qualcosa di molto più modesto, com’è la condi-
zione discorsiva in cui gli uomini indubitabilmente si trovano136.
Altre strade, più comuni, seguite nel tentativo di recuperare la fon-
dazione della norma morale in una condizione ritenuta post–metafisica
― l’intuizionismo dei valori, l’utilitarismo, il razionalismo critico, il
funzionalismo morale che invoca il recupero di tradizioni religiose in
funzione etica ―, non sembrano ad Habermas convincenti137. Neppure
lo convincono le due tradizionali versioni etiche dell’empirismo: la
scuola del moral sense (che sembra fare appello ad un orizzonte co-
munitario di tipo particolaristico), e il contrattualismo (che teorizza sì
134
Scriveva il nostro autore in altro luogo, riprendendo di fatto un tradizionale topos illu-
ministico: «Io non penso che noi, in quanto europei, possiamo comprendere seriamente con-
cetti quali quelli di moralità e di eticità, persona ed individualità, libertà ed emancipazione,
senza appropriarci della sostanza del pensiero di origine giudaico–cristiano, che riguarda la
storia della salvezza. Altri trovano, partendo da altre tradizioni, la via per la pletora del pieno
significato di quei concetti che strutturano la nostra autocomprensione. Ma senza una media-
zione socializzatrice e senza una trasformazione filosofica di una fra le grandi religioni mon-
diali, tale potenziale semantico potrebbe un giorno diventare inaccessibile. Ogni generazione
deve quindi aprirsi a tale potenziale, se si vuole evitare la disgregazione di quel resto di auto-
comprensione condivisa intersoggettivamente, che rende possibili reciproci rapporti umani»
(cfr. J. Habermas, Il pensiero post–metafisico, p. 19). La religione è giudicata dal nostro auto-
re come un fattore imprescindibile dell’esperienza umana ― almeno fino a che il punto di vi-
sta morale non si sarà tradotto in una nuova eticità (cfr. ibi, p. 55).
135
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 19–25.
136
«In questa nuova situazione, la filosofia morale viene a dipendere da un livello po-
stmetafisico di fondazione. Ciò significa anzitutto che essa a) sul piano metodologico deve ri-
nunciare al punto di vista divino; b) sul piano dei contenuti non può più ricorrere a nessun
“ordine della creazione” o “storia della salvezza”; c) sul piano teorico–strategico non può più
servirsi di concetti metafisico–sostanziali che precedano il differenziarsi logico degli enuncia-
ti illocutivi. Ancorché privata di tutte queste risorse, la filosofia morale deve giustificare il
senso cognitivo di validità intrinseco ai giudizi e alle prese di posizione morali» (cfr. J. Ha-
bermas, L’inclusione dell’altro, p. 23).
137
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 23–25.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 481
la giustizia, pretendendo di fondarla però sugli interessi dei singoli).
Nessuna di queste due impostazioni sa risalire a ragioni che siano più
che semplicemente “prudenziali”, cioè a ragioni realmente “epistemi-
che”. In particolare, la pretesa del contrattualismo, che a fondare l’ob-
bligazione sia sufficiente l’interesse di parte, sembra falsificata dalla
figura, sempre attuale oltre che possibile a darsi, del free rider138.
La posizione di un autore come Ernst Tugendhat è più profonda ―
secondo Habermas ―, rispetto a quelle fin qui rapidamente indicate.
A giudizio di Tugendhat, dopo il (preteso) tramonto di religione e me-
tafisica, il “bene” va definito in relazione a tutti i membri di una col-
lettività non delimitabile: come a dire che «ora è il contenuto a doversi
adattare alla forma»139. L’imperativo kantiano viene così reintrodotto a
partire da una condizione orizzontale e simmetrica, in cui il criterio
definitorio della norma buona è la ragionevole accettabilità da parte di
tutti gli interessati. Questi, affidandosi alla prassi cooperativa d’intesa,
accettano implicitamente il presupposto di una simmetrica ed eguale
considerazione degli interessi in gioco ― che restano però quelli che
ciascuno individualmente si propone di fatto140.
2.3.2. Per un’etica epistemica
Per Habermas, invece, la preoccupazione fondamentale è proprio
quella di non ridurre la ragion pratica a un qualcosa che sia strumenta-
le rispetto a scopi pre–definiti, ovvero non criticamente individuati141.
A tal fine, occorre intendere diversamente «la costellazione di ragione
e volontà, e di conseguenza anche il concetto di libertà soggettiva»: la
libertà, invece di legare l’arbitrio a massime prudenziali, propriamente
«si esprimerà nell’autosvincolarsi della volontà a partire da una cono-
scenza intuitiva [Einsicht]» ― di tipo però epistemico. E va osservato
che quest’ultima figura non è un ossimoro: infatti, col termine Einsi-
138
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 25–29.
139
Cfr. E. Tugendhat, Vorlesungen über Ethik, Frankfurt a.M. 1993, pp. 87 ss.
140
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 36–37.
141
Al concetto di “razionalità strumentale” ― com’è noto ―, Habermas dedica ampie ri-
flessioni, in riferimento all’opera di Max Weber (cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comuni-
cativo, vol. I, cap. 2). E altrettanta attenzione egli dedica alla riduzione della ragione a mera
razionalità strumentale, come passaggio interno alla dialettica dell’illuminismo ― con esplici-
to e insistito riferimento a Horkheimer e Adorno (cfr. ibi, cap. 4, § 2.3.).
482 Parte quinta: studi su etica e universalità
chten, il nostro autore indica conoscenze il cui contenuto preteoretico
sia confermabile riflessivamente ― attraverso la riduzione a contrad-
dizione performativa, delle rispettive negazioni.
Il cambiamento sopra auspicato, è possibile solo se si impara a di-
stinguere tra “orientamenti di valore” (su cui verte la questione etica) e
“obblighi” (su cui verte la questione morale). Le questioni etiche si
pongono nella prospettiva della prima persona, singolare o plurale142:
in esse ognuno è chiamato a ridiscutere il proprio progetto di vita alla
luce di «ciò che per noi è oggettivamente valido». Ma, se i valori at-
traggono, sono poi le norme ― e, attraverso di esse, il punto di vista
della terza persona ― a obbligare gli uomini143.
Il problema è quello di riconoscere la “priorità assoluta del giusto
sul bene”, che si traduce nella categoricità dei doveri morali. Per ope-
rare una simile rivoluzione copernicana, che è poi lo sfondo meta–
etico ― corrispondente a D ― entro cui acquista senso il principio U,
occorre che gli obblighi, e la stessa giustizia, non siano più considerati
(aristotelicamente) all’interno del “punto di vista etico” [ethischer Ge-
sichtspunkt], vale a dire come il contenuto di altrettante virtù. Occorre
insomma una “concezione eticamente neutrale della giustizia” [etisch
neutrales Gerechtigkeitskonzept]144.
2.3.3. La priorità del giusto sul bene
Senza una simile concezione della giustizia, non sarebbe possibile
stabilire regole di convivenza che siano pluralistiche (e quindi capaci
di tutelare sia le maggioranze che le minoranze), e che siano realmente
multiculturali (e quindi capaci di regolare, per esempio, questioni co-
me quella dei flussi migratori, con le loro problematiche conseguen-
ze). Simili regole, infatti, implicano il riconoscimento della pari digni-
tà giuridica delle diverse visioni del mondo145.
Per perseguire lo stesso scopo, partendo però dal punto di vista ari-
stotelico, occorrerebbe stabilire «un progetto globale di bene collettivo
142
A seconda che si tratti della questione dell’esistenza individuale, o della questione
dell’ethos comunitario.
143
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 41.
144
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 41.
145
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p.41.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 483
universalmente vincolante, in grado di fondare la solidarietà di tutti gli
uomini» ― quelli di oggi come quelli di domani. Senonché, il progetto
neoaristotelico ― secondo il nostro autore ― va incontro a un esito di-
lemmatico: o esso si dà contenuti “sostanziali”146, e allora assume
l’aspetto “paternalistico” di chi vuole spiegare agli altri quale sia il loro
bene; oppure vi rinuncia, e allora smette di essere se stesso, cioè proget-
to di bene, per diventare più semplicemente progetto di giustizia.
Più in generale ― secondo il nostro autore ―, «ogni determinazio-
ne formale del bene, che voglia distinguersi dalla morale in senso kan-
tiano, è autocontraddittoria». Infatti, essa si rivelerebbe per ciò stesso
non più puramente formale, bensì sostanziale; e per questo anche lega-
ta ad una certa antropologia; e non c’è antropologia ― secondo Ha-
bermas ― che non sia destinata a rivelarsi solidale a contesti storico–
locali147. Se i “progetti di vita particolari” sono l’asse verticale, quello
della “imparzialità” tra di essi è invece l’asse orizzontale di una teoria
della morale; che appunto si conserva autenticamente tale, se sa con-
siderare l’interesse di ognuno, in modo distinto dall’interesse di un
gruppo etico particolare148.
Ma concepire il “giusto” come quel che è “ugualmente bene per
tutti” [für alle gleichermaßen Gute]149, significa, non negare, ma piut-
tosto dilatare la prospettiva del bene. Il sacrificio che per il bene ne
nasce, è compensato dal fatto che il giusto finisce per ricomprendere
in sé quella eminente forma del bene che è la solidarietà universale:
infatti, secondo giustizia «ciascuno è responsabile anche per l’altro»;
non solo, ma lo è «anche per l’estraneo». La giustizia è una solidarietà
dilatata oltre la comunità d’appartenenza. Se infatti è nella comunità
che si impara la legge del “riconoscimento reciproco”, che è il nucleo
della solidarietà; è anche vero che la violazione cui questa legge è e-
sposta, invoca l’intervento di una “istanza” che sia ulteriore alla co-
munità stessa. Questa istanza non coinciderà con un’altra comunità
concreta, ma piuttosto con quella ever wider community di cui già par-
146
Nel senso hegeliano dell’espressione.
147
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 42.
148
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 42.
149
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 43. Il nostro autore impiega qui una for-
mula di Tugendhat, di cui diremo meglio tra poco.
484 Parte quinta: studi su etica e universalità
lava G.H. Mead150: si tratta di quella “comunità morale” che è imma-
nente alla “comunità concreta”, come il suo sé migliore151.
150
«L’individuo si volge, per così dire, da una comunità ristretta e limitata ad una più am-
pia, cioè più ampia nel senso logico di avere dei diritti non così ristretti. Il soggetto da una si-
tuazione caratterizzata da convenzioni immutabili, si rivolge ad una comunità in cui i diritti
saranno riconosciuti pubblicamente, e fa appello ad altri nell’ipotesi che vi sia un gruppo di
altri organizzati che risponda al suo appello, anche nel caso fosse rivolto alla posterità. In quel
caso v’è l’atteggiamento dell’Io contrapposto al Me» (cfr. G.H. Mead, Mind, Self and Society
[1934], The University of Chicago Press, Chicago 1967; trad. it. di R. Tettucci, col titolo:
Mente, Sé e Società, Giunti e Barbera, Firenze 1966, p. 210). E ancora: «L’unico modo in cui
possiamo reagire alla disapprovazione dell’intera comunità è quello di proporre un tipo più e-
levato di comunità, che in un certo senso abbia più consensi di quella che ci troviamo di fron-
te. Una persona può arrivare al punto da andare contro al mondo intero; può resistere da sola
in netto contrasto con esso. Ma per far questo deve parlare a se stessa con la voce della ragio-
ne. Deve comprendere le voci del passato e del futuro. Questo è l’unico modo in cui la voce
del sé può assumere un valore maggiore di quello della comunità. Come regola, si suppone
che questa voce generale della comunità si identifichi con la più ampia comunità del passato e
del futuro» (cfr. ibi, p. 182).
151
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 42–43. Qui, il riferimento sembra essere
a: G.H. Mead, Mente, Sé e Società, p. 373. Mead, con la propria community of universal di-
scourse, generalizzava quella che, in Peirce, era la figura di una indefinite community of inve-
stigators (cfr. Ch.S. Peirce, Collected Papers, vol. V, §§ 311, 316, 331, 354–357); e prepara-
va così le riflessioni di Apel intorno ad una illimitata Kommunikationsgemeinschaft (cfr. K.O.
Apel, Die Kommunikationsgemeinschaft als transzendentale Voraussetzung der Sozialwissen-
schaften, § 1, in: Id., Transformation der Philosophie, Bd. II). Sullo stesso tema, troviamo in-
teressanti considerazioni dello stesso Habermas, in Faktizität und Geltung: «Con questa spie-
gazione pragmatico–linguistica dell’idea di verità noi tocchiamo un rapporto fattualità/validità
che è costitutivo della prassi dell’intesa e dunque rilevante anche per la realtà sociale in quan-
to tale. [...] Ora l’idealità delle pretese di verità ci chiede di spiegare come possa accadere che
le richieste d’un riconoscimento intersoggettivo o di un’accettazione fattuale, pur essendo sol-
levate ‘qui e ora’, vadano sempre ‘al di là’ dei criteri che in ogni particolare comunità inter-
pretativa determinano le prese di posizione sì/no. Solo questo momento trascendente di in-
condizionatezza distingue le pratiche giustificative orientate alla verità dalle altre pratiche o-
rientate soltanto alla convenzione sociale. Riferendosi a una comunità illimitata della comuni-
cazione, Peirce può rimpiazzare il momento eterno dell’incondizionatezza con l’idea di un
processo interpretativo aperto ma finalizzato, il quale trascenda dall’interno i confini dello
spazio sociale e del tempo storico a partire dalla prospettiva di un’esistenza finita, localizzata
nel mondo. [...] Questa proiezione trasferisce la tensione di fattualità e validità dentro gli stes-
si presupposti della comunicazione. Anche se questi presupposti hanno un contenuto ideale
che solo per approssimazione può essere esaudito, tutti gli interessati dovranno di fatto accet-
tarli ogni volta che vorranno affermare (o contestare) in generale la verità di un enunciato».
Senonché, «la tensione di fattualità e validità che Peirce ha scoperto negli inaggirabili [nicht–
hintergehbare] presupposti argomentativi della prassi scientifica, noi la possiamo anche ritro-
vare non solo nei presupposti comunicativi dei diversi modelli di argomentazione, ma anche
nei presupposti pragmatici dei singoli atti linguistici» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp.
24–25). Un altro riferimento insistito del nostro autore in proposito (cfr., ad esempio: Id., Teo-
ria dell’agire comunicativo, vol. II, cap. 5, § 2.3), è quello alla teoria di Durkheim ― dipen-
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 485
Quindi, Habermas contesta che la giustizia consista nella conforma-
zione a quel “contenuto” che è il bene; e che solo il bene sia la materia
cui si riferisce il rispetto morale152. L’impostazione qui contestata è
quella di tipo neoaristotelico, la quale ― secondo il nostro autore ― in-
tenderebbe la morale come la tutela negativa di un etico pre–definito, e
definito ultimamente in modo privato. Ma se si vorrà salvare ― pur
nell’orizzonte neoaristotelico in questione ― l’istanza della terza per-
sona, non si potrà ritenere come noto a priori che cosa sia il bene per
ciascun determinato individuo; dunque, occorrerà accedere, per coeren-
za, ad una prospettiva radicalmente autodefinitoria, come quella del li-
beralismo estremo, secondo la quale ognuno è autorizzato a definire
quale sia il bene per sé. Un neoaristotelismo avveduto, ovvero non pa-
ternalistico ― così sembra voler dire Habermas ―, non saprebbe allora
differenziarsi dal liberalismo estremo, che teorizza la pertinenza del
“principio di autonomia” quanto alla definizione del bene.
In realtà, l’autentico sviluppo dell’istanza della terza persona, è
quello in cui «il bene [...] viene sussunto nel giusto [im Gerechten
aufgehoben wird]», per acquisire «la stessa forma di una eticità inter-
soggettivamente condivisa»153, all’interno di una comunità non più
empiricamente connotata154. Solo in questa prospettiva, infatti, è pos-
dente da Peirce ― circa il “regno della verità” come regno del “pensiero impersonale e collet-
tivo” (cfr. É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Alcan, Paris 1912; trad.
it. di C. Cividali, col titolo: Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità,
Milano 1967, pp. 476–477).
152
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 43.
153
A giudizio del nostro autore, l’intersoggettività di cui vanno in cerca invano i fenome-
nologi (dalla Quinta delle Meditazioni cartesiane di Husserl, alla Parte Terza de L’essere e il
nulla di Sartre), è invece introdotta felicemente da altri autori. Tra questi, George Herbert
Mead. La differenza di approccio starebbe nel fatto che Mead «riduce l’istanza dell’Io della
filosofia della coscienza ad un “Me”, cioè ad un Sé che sorge solo nei contesti interattivi sotto
gli occhi di un Alter Ego ― trasponendo in tal modo tutti i concetti filosofici fondamentali
dalla base della coscienza a quella del linguaggio» (cfr. J. Habermas, Il pensiero post–
metafisico, pp. 196–7).
154
«Solo gli stessi interessati possono ogni volta spiegarsi l’un l’altro ― con consultazio-
ni [Beratungen] pratiche svolte dalla prospettiva dei partecipanti ― che cosa sia in egual mi-
sura bene per tutti. Ciò che dal punto di vista morale importa come ‘bene’ si mostra in ogni
singolo caso nell’allargata ‘prospettiva–del–noi’ caratterizzante una comunità che non esclude
nessuno. Il bene che troviamo alla fine sussunto nel giusto è la stessa forma generale di una
eticità intersoggettivamente condivisa, la struttura esclusivamente formale di un’appartenenza
comunitaria che si è spogliata delle restrizioni etiche di ogni comunità esclusiva» (cfr. J. Ha-
bermas, L’inclusione dell’altro, p. 44).
486 Parte quinta: studi su etica e universalità
sibile salvare un interesse che non sia meramente di parte ― e destina-
to come tale al compromesso con l’interesse altrui ―, ma che sia in-
vece proprio di un “noi”, inteso come il nucleo più profondo di cia-
scun io. Siamo di fronte ad un corrispettivo post–metafisico del-
l’ideale kantiano del “regno dei fini”: figura, questa, non di ispirazione
contrattuale, e quindi giusprivatistica155; ma attinta piuttosto a un mo-
dello di pertinenza del diritto pubblico, com’è quello dell’autolegisla-
zione repubblicana156.
2.3.4. Dall’imperativo kantiano al principio D
Il nucleo della morale kantiana è che «una legge è moralmente va-
lida quando, nella prospettiva di chiunque, potrebbe essere accettata
da tutti». Per Kant, è solo assumendo questo punto di vista che «vo-
lontà e ragione si compenetrano interamente», e la volontà diventa li-
bera. L’etico è quel che determina la volontà in riferimento ad espe-
rienze contingenti; l’obbligo morale emancipa invece la volontà
dall’etico, identificandola con la ragion pratica157.
Nel kantiano regno dei fini, ogni membro è suddito, ma anche legi-
slatore: dunque, la comunità pratica, non deve essere intesa solo come
oggetto, ma anche come soggetto dell’impresa legislatrice. Ora, in
quel regno ognuno è realmente legislatore, solo se è in accordo con
ciascun altro, cioè se considera ciascun altro come co–legislatore. Ma
― interviene Habermas ―, affinché ciascuno non proietti sugli altri i
propri punti di vista, occorrerà pure che ci si ascolti a vicenda. Solo
così, si potrà superare l’ipoteca monologistica ed egocentrica che gra-
va sul test di universalizzazione: e ciò, rimanendo in piena coerenza
155
Cioè, propria del diritto privato, almeno per come esso era inteso all’interno
dell’Ancien Régime.
156
Cioè, propria del diritto pubblico del nuovo regime, successivo alla Rivoluzione Fran-
cese. Presso Mead la “repubblica degli esseri razionali” è intesa in senso “sociale”, ed è ide-
almente comprensiva anche degli uomini del passato e del futuro. Essa costituisce una sorta di
corte d’appello morale, cui riferirsi idealmente per poter sfidare le inerzie della comunità ef-
fettuale in cui si vive. (Cfr. G.H. Mead, Mente, Sé e Società, p.182).
157
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 45–46. Al contrario, l’agente strategico
perde il mondo delle relazioni, e la sua “autonomia” diventa “libertà arbitraria”, “solitudine di
un soggetto senza vincoli”, che fa solo scelte basate su preferenze soggettive (cfr. J. Haber-
mas, Il pensiero post–metafisico, p. 228).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 487
con le ragioni di quest’ultimo158, e recuperando più in generale
quell’intuizione politica di segno repubblicano, che presiedeva al mo-
dello della filosofia pratica di Kant. A maggior ragione oggi, in una
società multiculturale, quel che occorre è recuperare “una situazione
consultivo–dibattimentale” [Beratungssituation]159, in cui ciascuno
cerchi di assumere il punto di vista proprio di ciascun altro. Ovvero,
quel che occorre, è far evolvere l’imperativo kantiano nel principio D.
2.3.5. Rimedi al formalismo
Il deficit motivazionale che si verifica con l’assunzione del punto di
vista morale, e con la messa in parentesi di una metafisica della crea-
zione e del diritto naturale, va in qualche modo curato. Non sono in-
fatti ragioni di tipo epistemico, quelle che muovono ultimamente
l’uomo ad agire. Su questo tema che già conosciamo, Habermas non
svolge, nel testo che stiamo analizzando, considerazioni originali.
Piuttosto, egli rinvia al precedente Faktizität und Geltung (1992), do-
ve dalla debolezza motivazionale della moralische Einsicht ― dibat-
timentalmente acquisita ― viene fatta derivare la necessità che l’agire
morale sia incentivato da un “diritto coercitivo e positivo”160.
Quanto all’altro deficit, quello fondazionale, anch’esso derivante
dalla assunzione del punto di vista morale ― in quanto «la validità
normativa degli enunciati morali non può più essere assimilata alla [né
dedotta dalla] validità veritativa di enunciati descrittivi»161 ―, vi si ri-
media considerando che sia la pretesa di verità di un enunciato descrit-
tivo sia la pretesa di giustezza di un enunciato normativo–morale, pos-
sono essere considerate, secondo “il concetto pragmatico di fondazio-
ne” [das pragmatische Begründungskonzept], come casi di pretesa di
“validità” [Gültigkeit], riscattabili con procedure differenti, e riferenti-
si l’una al mondo oggettivo l’altra al mondo sociale. Mentre il primo
dei due mondi è descrivibile dal punto di vista dell’ “osservatore”, il
secondo è accessibile solo dal punto di vista del “partecipante”. Nel
primo caso, «il consenso discorsivo conferma che sono soddisfatti i
158
Almeno, nelle intenzioni di Habermas.
159
O situazione di “discorso razionale”.
160
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 49.
161
Si tratta del duplice divieto in cui consiste la “ghigliottina di Hume”.
488 Parte quinta: studi su etica e universalità
requisiti di verità, interpretati come requisiti di affermabilità»; nel se-
condo caso, «il consenso discorsivo giustifica la meritevole accettabi-
lità della norma»162.
L’aspetto della morale che non è sottoposto a dibattimento e a con-
senso, è lo stesso “punto di vista morale”: esso non è disponibile, ma
piuttosto a noi si impone [sich uns aufdrängt]. Questo comunque non
significa che «esista un ordinamento morale precostituito». Precosti-
tuite ― cioè, precedenti ogni nostra decisione ― sono però le strutture
e procedure argomentative, che servono a scoprire–produrre le norme
giuste163.
2.3.6. La “inclusione dell’altro”
L’etica del discorso «giustifica i contenuti di una morale del pari ri-
spetto e della solidale responsabilità verso chiunque»: insomma, essa
si incarica di rivisitare dal punto di vista morale, e così di salvare, il
nocciolo dell’eredità religiosa ― una volta cessato nei più un assenso
sostanziale ad essa164. Da questo angolo di visuale, il principio U appa-
re come un criterio per l’accertamento riflessivo di una «residuale so-
stanza normativa che nelle società post–tradizionali è rimasta nell’a-
gire orientato all’intesa e nelle forme dell’argomentazione»165.
Più precisamente, col cosiddetto punto di vista morale si prende at-
to di un minimo comun denominatore che appartiene a tutti: quello per
cui ciascuno «condivide una qualche forma di vita comunicativa,
strutturata dall’intesa linguistica»166. Ognuna di queste forme di vita è
piena di “presupposizioni reciproche”167, legate all’agire comunicati-
162
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 50–52. Fondamentale, al riguardo, risulta
il riferimento di Habermas alla tradizione del pragmatismo americano: «Mead ha insistito sul
fatto che per ogni tipo di autoriferimento, anche per quello epistemico, è inevitabile ― e per
questo, fondamentale ― la relazione ad una seconda persona» (cfr. J. Habermas, Il pensiero
post–metafisico, p. 225).
163
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 53.
164
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 53.
165
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 60.
166
Il nostro autore finisce qui per riproporre a suo modo uno dei più noti luoghi comuni illumi-
nistici: quello di una religione naturale, ricondotta entro i limiti di accertabilità del raziocinio.
167
L’io guadagna se stesso ― secondo Mead ― attraverso il riconoscimento da parte
dell’altro; ma anche attraverso il fallimento e la frustrazione: io evidentemente non coincido
con quella realtà oggettuale che non mi obbedisce. In Mead, il nostro autore vede la riproposi-
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 489
vo; e di “rapporti di riconoscimento reciproci”, legati a quelle che he-
gelianamente sono le sfere dell’eticità. Ora, il punto di vista morale
non è altro che una nuova e più realistica versione del kantiano punto
di vista del rispetto morale [Achtung]. Esso prende atto che gli uomini,
sì, “in quanto persone” sono tutti uguali; ma considera anche che “in
quanto individui” essi sono tutti diversi, e formano la loro individuali-
tà in differenti strutture comunitarie. Il punto di vista morale si propo-
ne allora di «collegare giustizia e solidarietà», cioè di coniugare la
considerazione per le differenze (e le appartenenze particolari) con
quella per la appartenenza comune. Esso, in tal senso, diviene anche il
punto di vista di un “universalismo sensibile–alle–differenze” [diffe-
renzempfindlicher Universalismus], ovvero il punto di vista della “in-
clusione dell’altro” [Einbeziehung des Anderen]168.
L’agire comunicativo va considerato riflessivamente nelle sue co-
stanti, cui si impegnano inevitabilmente ― e in modo esplicito ― tutti
coloro che accettano la Beratungssituation. Il principio D teorizza
precisamente questa possibilità di tradurre in chiave discorsiva il pun-
to di vista morale, sostenendo che l’«approvazione [Zustimmung] pro-
dotta in condizioni discorsive equivale a un consenso [Einverständnis]
motivato da ragioni epistemiche» ― e non a un mero “accordo” [Ve-
reinbarung], concepito in prospettiva egocentrica. Comunque D non
dice ancora come si debba fondare una norma, ma solo a quali requisi-
ti questa dovrebbe soddisfare se fosse fondabile169.
Il principio U è, appunto, la proposta di un criterio fondativo. Esso
presenta, rispetto a proposte alternative, i seguenti vantaggi: non e-
margina gli interessi e i valori sostenuti dai singoli interlocutori; uni-
versalizza una assunzione reciproca di prospettive, costantemente ri-
vedibile; ha il suo senso epistemico nel perseguimento dell’ideale re-
golativo di una “libera e collettiva accettazione” della norma170.
zione del tema hegeliano del riconoscimento tra autocoscienze, mediata però da categorie psi-
cologiche e sociologiche. (Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. II, cap. 5;
Id., Il pensiero post–metafisico, cap. 8).
168
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 53–55.
169
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 56.
170
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 57.
490 Parte quinta: studi su etica e universalità
2.3.7. Ancora sulla fondazione di U
Habermas non ignora che U potrebbe anche essere inteso come e-
spressione di un “pregiudizio etnocentrico” ― in particolare, eurocen-
trico ―, dipendente da una particolare concezione del bene; né ignora
che tale obiezione potrebbe valere anche se si rilevasse che una qual-
che prassi dibattimentale dei problemi appartiene a tutte le culture171.
Per rispondere ad essa in modo appropriato occorre introdurre in
senso “immanente”, cioè riflessivamente o dall’interno della prassi ar-
gomentativa ― nella fattispecie, dall’interno della disputa ora accen-
nata ―, il “punto di vista morale”172. In particolare, chiunque, e in
qualunque modo, obietti all’etica del discorso, entra per ciò stesso in
relazione con chi la sostiene, e non può che farlo tramite i ben noti
presupposti dell’argomentazione; mostrando, in tal modo, che anche
per lui ― per l’obiettante ― vale implicitamente il principio U, che da
quei presupposti è ricavabile per “abduzione”173.
In concreto, se è vero che l’etica del discorso è un brevetto occi-
dentale, è pur legittimo che l’Occidente dia le proprie risposte alle sfi-
de planetarie. Certo, dovrà farlo senza pretendere che tali risposte sia-
no le migliori o le uniche possibili: anzi, dovrà farsi aiutare da altre
voci a riconoscere i propri limiti. Se non che, proprio nell’eventuale
accadere di un simile procedimento ― in cui A attende da B l’occasio-
171
Si veda, al riguardo, quanto sostenuto da Charles Taylor, sulla pretesa di considerare
come “culturalmente neutre” certe acquisizioni che fanno da sfondo all’etica del discorso.
Culturalmente neutra non sembra essere, in primo luogo, la distinzione tra ordine politico e
ordine religioso; che è invece ― secondo Taylor ― una “filiazione organica del cristianesi-
mo”, per nulla scontata in altri contesti religiosi (come, ad esempio, presso l’Islam). (Cfr. Ch.
Taylor, The Politics of Recognition, Princeton University Press, 1992, V). Ma si veda, a ri-
guardo della presunta neutralità culturale dell’etica del discorso, anche l’obiezione di T.A.
McCarthy, il quale osserva che lo stesso proceduralismo non è mai qualcosa di puramente
formale, ma veicola anch’esso un contenuto “sostanziale”. In altre parole: non possiamo esse-
re d’accordo su ciò che è giusto senza essere in qualche modo d’accordo su ciò che è bene.
Eppure, l’etica del discorso è concepita da Habermas per trattare precisamente situazioni in
cui manchi un accordo sul bene: essa, dunque, in tanto in quanto funzionasse, risulterebbe an-
che superflua. (Cfr. T.A. McCarthy, Practical Discourse: On the Relation of Morality to Poli-
tics, in: Id., Ideals and Illusions: On Reconstruction and Deconstruction in Contemporary
Critical Theory, MIT Press, Cambridge Mass. 1991, pp. 191–192).
172
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 57–58.
173
Che U venga abdotto a partire dai PPN, è detto in: J. Habermas, L’inclusione
dell’altro, pp. 56–57.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 491
ne di un’autocritica, e B cerca di muovere obiezioni pertinenti alla
proposta di A ―, verrebbe a realizzarsi in modo esemplare quella
prassi discorsiva, e più precisamente argomentativa, in cui sono impli-
citi i fondamenti della Diskursethik174.
La prassi argomentativa presenta, in particolare, almeno quattro re-
quisiti fondamentali, per riuscire razionalmente convincente: (a) nes-
suno deve essere escluso, se può portare un contributo rilevante; (b) a
tutti si dà una pari opportunità di produrre contributi; (c) è essenziale
la veridicità dei partecipanti; (d) si devono evitare costrizioni estrinse-
che all’assenso175.
Questa, del 1996, è evidentemente una versione semplificata di
quei PPN, di cui già sappiamo; e la cui precedente formulazione Ha-
bermas aveva ereditato da Apel e da Alexy. Ma, anche nel nuovo con-
testo, il criterio che identifica i requisiti generali dell’argomentazione,
è la possibilità di ridurre a contraddizione performativa l’atto della lo-
ro negazione176.
I PPN ― spiega Habermas ― non sono di per sé normativi in sen-
so propriamente morale; altrimenti varrebbe l’accusa di “circolarità”
mossa al nostro autore da Tugendhat177. Essi sono, è vero, diritti e do-
veri: ma propri dell’argomentazione. Quella da loro esercitata è una
“costrizione trascendentale”, non ancora una “obbligatorietà morale”.
Quest’ultima appartiene invece alle norme su cui si argomenta ― nel
caso, naturalmente, che esse risultino compatibili con U.
È piuttosto U, che «diventa ricavabile dal contenuto normativo dei
requisiti inevitabili dell’argomentazione in collegamento con un con-
cetto di fondazione normativa»178. E qui ― notiamo ―, l’“implica-
zione materiale”, di cui si parlava nel saggio del 1983, si è trasformata
in una generica “ricavabilità”; che si determina poi ― come già accen-
nato ―, non più in una implicazione di senso (implicature), ma piutto-
sto in una abduzione.
174
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cap. 8, § 3; in particolare, pp. 231–232.
175
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 58.
176
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 60.
177
Ad esempio, nelle citate Vorlesungen über Ethik.
178
«Sich U aus dem normativen Gehalt von Argumentationsvoraussetzungen in Verbin-
dung mit einem Begriff von Normenbegründung plausibel machen läßt» (cfr. J. Habermas,
L’inclusione dell’altro, p. 59).
492 Parte quinta: studi su etica e universalità
2.4. Questioni di attualità
La riflessione di Habermas è attenta da sempre alle questioni socia-
li che premono l’Occidente, dall’interno e dall’esterno. Si può anzi di-
re che il nostro autore abbia inteso suggerire, con la sua etica del di-
scorso, una sorta di manuale di sopravvivenza per le odierne società
europee e americane. Lo testimoniano soprattutto gli interventi occa-
sionali, da lui tenuti nel corso degli anni Novanta sui temi del giorno
(diritti delle minoranze, immigrazione, fondamentalismo culturale,
globalizzazione dei mercati): interventi che, meno impegnati sul piano
teorico rispetto agli studi da noi fin qui analizzati, diventano però
l’ideale documentazione di come potrebbero trovare applicazione con-
creta i criteri della Diskursethik.
Ad esempio, in Kampf um Anerkennung im demokratischen Re-
chtsstaat179 Habermas rileva che la “lotta per il riconoscimento”180 di
diritti non è mai qualcosa di puramente individualistico, come vorreb-
be il modello giusprivatistico del liberalismo. Infatti, «ogni persona va
riconosciuta anche come membro di una comunità che è integrata in-
torno ad una certa concezione del bene»181. E il nostro autore conviene
in questo con Charles Taylor, che propone di tutelare i gruppi cultura-
li, intesi come autentici soggetti di diritto182.
Se non che, quello che va perseguito ― secondo Habermas ― non
è tanto la sostituzione di un “liberalismo 1°”, che tuteli semplicemente
i diritti individuali, con una sua versione ampliata: un “liberalismo
2°”, che tuteli anche i diritti comunitari. Occorre piuttosto un appro-
fondimento e una ridiscussione del modello liberale in sé considera-
to183, ovvero ― se ben comprendiamo ― va individuato un criterio di
accertamento della natura e del contenuto di quei diritti che il liberali-
179
Il testo è originariamente pubblicato in: J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen.
Da parte nostra, faremo riferimento alla sua più recente edizione italiana: Id., Lotta di ricono-
scimento nello stato democratico di diritto, trad. it. di L. Ceppa, in: J. Habermas ― Ch. Ta-
ylor, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 2001.
180
Con questa espressione, il nostro autore fa riferimento al noto testo di Axel Honneth:
Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt a.M. 1992.
181
Cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, p. 93.
182
Cfr. Ch. Taylor, The Politics of Recognition, IV.
183
Cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, §§ 1, 3.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 493
smo si propone di difendere. E questo è precisamente l’intento perse-
guito da una Diskursethik. Occorre, più precisamente, tener conto che
l’affermarsi dei diritti consiste inevitabilmente in un lungo processo
storico–dibattimentale, che passa attraverso le lotte per il riconosci-
mento184. Quindi, come va detto di no a un liberalismo semplicemente
individualistico, così occorre respingere anche il miraggio di un assi-
stenzialismo paternalistico, che pretenda di sostituirsi una volta per
tutte alle lotte in questione.
Il ripensamento del modello liberale, conduce Habermas a teorizzare
un proceduralismo, che dovrebbe rendere tra loro solidali l’“autonomia
privata” e l’“autonomia pubblica”185: cioè l’autodeterminazione che e-
sercitiamo in quanto singoli e quella che esercitiamo in quanto comuni-
tà sociale. Infatti, se ciascuno deve far valere la propria preferenza nel
pubblico confronto argomentativo, si deve allora realizzare tra le diver-
se posizioni (esponenti le diverse preferenze) un “comune orizzonte in-
184
Tra le lotte per il riconoscimento, il nostro autore dedica una certa attenzione a quella del
femminismo (cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, pp.
70–71). In particolare, Habermas si sofferma sulle critiche mosse da certo femminismo norda-
mericano sia al modello dello stato liberale sia a quello dello stato sociale, che pretenderebbero
entrambi di introdurre la parità di trattamento sociale tra i sessi, “distribuendo” ― in modi diver-
si ― diritti comunque già prefigurati sul modello di vita maschile. In entrambi i modelli si fini-
rebbe così per ignorare «la voce delle uniche persone che potrebbero senz’altro dire quali ragioni
siano volta per volta rilevanti ai fini della parità (o disparità) di trattamento» (cfr. J. Habermas,
Fatti e norme, p. 497; e, più in generale, pp. 496–506).
185
Questo tema viene illustrato nel modo più completo in Faktizität und Geltung. «Nella
lettura che la teoria del discorso fa del sistema dei diritti, il diritto positivo deve sempre scin-
dere l’autonomia delle persone giuridiche nel rapporto complementare di autonomia privata e
autonomia pubblica. Solo così i destinatari del diritto statuito possono anche intendersi come
gli autori della statuizione. Le due facce dell’autonomia sono elementi interdipendenti, ognu-
no dei quali rinvia al suo rispettivo complemento. Questa struttura di ‘rimando reciproco’ co-
stituisce un criterio intuitivo per stabilire se una certa regola favorisce oppure compromette
l’autonomia. Secondo tale criterio i cittadini, nell’esercizio della loro autonomia pubblica, do-
vranno badare a tracciare i confini della loro autonomia privata in maniera tale che
quest’ultima qualifichi abbastanza le persone private per il loro ruolo di cittadini. [...]
L’intuizione normativa che autonomia privata e autonomia pubblica siano l’una condizione
dell’altra offre al dibattito pubblico i criteri necessari per stabilire ogni volta i presupposti fat-
tuali dell’eguaglianza giuridica. Con questi criteri possiamo anche capire quando una regola
funziona da discriminazione giuridico–formale oppure da forma paternalistica dello Stato so-
ciale. Un programma giuridico sarà discriminante se si dimostra insensibile al fatto che le di-
seguaglianze fattuali producono, come loro effetto secondario, una restrizione dell’esercizio
di libertà egualmente distribuite. Esso sarà invece paternalistico se si dimostra insensibile ver-
so le restrizioni di libertà che sono prodotte, come suo effetto secondario, dalla compensazio-
ne statale di quelle diseguaglianze» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 493–494).
494 Parte quinta: studi su etica e universalità
terpretativo”, all’interno del quale il confronto sia possibile. In altre pa-
role, l’universalismo proceduralista non equivale all’omologazione del-
le differenze, ma piuttosto ad un loro venire alla luce nel confronto re-
ciproco. Esse andranno poi valorizzate il più possibile, senza però che le
si enfatizzi in modo da snaturarle186. L’elemento che deve far problema
in questo modello ― secondo Habermas ―, non è la neutralità (che an-
zi ne è l’ideale regolativo), quanto piuttosto i residui di eticità che vi si
potrebbero insinuare: ad esempio, eventuali privilegi politicamente ac-
cordati, in modo surrettizio, a certe confessioni religiose, oppure a certe
tipologie di unione familiare187.
Il “multiculturalismo” è ― a giudizio del nostro autore ― la condi-
zione di vita che rende sempre più evidente la ragionevolezza del mo-
dello proceduralistico. Quando le differenze etniche e culturali si in-
trecciano sempre di più tra loro, diventa obsoleto il tentativo di sepa-
rarle secondo criteri federalistici (come Charles Taylor proporrebbe di
fare nella situazione canadese). Del resto, alle culture non si può tra-
sferire il punto di vista ecologico, che consiglia la tutela dei biotipi per
evitare loro l’estinzione: le forme di vita che si chiudono in se stesse
sono infatti vittime poi di una sorta di inesorabile entropia. Si pensi, in
proposito, ai fondamentalismi culturali e religiosi, che sono sintomi ―
tipicamente moderni ― di una tale entropia. In particolare, essi espri-
mono quell’irrigidimento delle “sostanzialità etiche” decadute, che le
rende incapaci di concepirsi in “ragionevole disaccordo” rispetto a vi-
sioni del mondo ad esse alternative188.
Uno dei fattori che determinano il “multiculturalismo”, è l’immi-
grazione. L’immigrazione cambia inesorabilmente le società che ne
sono destinatarie; e rischia di cambiarle fino al punto di intervenire,
presto o tardi, sui loro stessi criteri d’accoglienza e di politica multi-
culturale. Secondo Habermas, uno stato democratico di diritto deve
comunque imperniare la propria politica di accoglienza su due punti.
Anzitutto, deve chiedere all’immigrato, non un’ “assimilazione etica”,
186
Secondo il nostro autore, la storia ha mostrato a sufficienza come la creazione di nuove
autonomie politiche, normalmente cambi i connotati delle nazionalità interessate, e porti a
nuove forme di centralismo intollerante (cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato
democratico di diritto, p. 85).
187
Cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, p. 84.
188
Cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, pp. 89–93.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 495
ma sicuramente una “integrazione all’autonomia civica e pratica” (in
concreto: l’accettazione, da parte sua, dei principi costituzionali della
comunità ospitante); il che comporta l’esclusione, dall’accoglienza,
degli esponenti di culture programmaticamente fondamentalistiche.
Inoltre, deve accogliere, non solo chi cerchi “asilo politico”, ma anche
chi cerchi lavoro. E deve farlo, non riferendosi unilateralmente alle
quote di ingresso richieste dall’economia, ma piuttosto seguendo «cri-
teri accettabili da parte di tutti gli interessati»189.
Al riguardo, il caso della Germania è giudicato da Habermas parti-
colarmente problematico, perché la nazionalità tedesca si fonda, se-
condo un criterio di origine romantica, non sul territorio ma sull’etnia.
Ciò fa sì che venga automatizzata la nazionalizzazione degli stranieri
di etnia tedesca, e vengano invece opposte molte difficoltà alla nazio-
nalizzazione degli altri immigrati, anche qualora essi siano residenti in
Germania da più generazioni190.
In saggi recenti, pubblicati alla fine degli anni Novanta, Habermas
vede nella globalizzazione dei mercati un altro fattore che urge verso
l’applicazione internazionale di una procedura come quella delineata
nella Diskursethik: ciò che segnerebbe l’avvento di qualcosa come una
“politica interna mondiale”191.
“Globalizzazione” significa che oggi sono gli stati ad essere inseriti
nei mercati, e non più viceversa. Questo comporta per essi nuove dif-
ficoltà, quali: una vistosa perdita di controllo sulle dinamiche dell’eco-
nomia; un crescente disimpegno dal campo della iniziativa imprendi-
toriale; e, in conseguenza di tutto ciò, il rischio che si indebolisca il ri-
conoscimento popolare della loro legittimazione a decidere192.
189
Cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, § 5.
190
L’autocomprensione nazionale tedesca, a partire dal secondo dopoguerra, sembra co-
munque orientata verso la realizzazione di una comune identità, non più etnica, ma piuttosto
civica (cfr. J. Habermas, Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, § 6).
191
Cfr. J. Habermas, Der europäische Nationalstaat unter dem Druck der Globalisierung,
«Blätter für deutsche und internationale Politik», XLIV (1999). Il saggio è pubblicato in ita-
liano ― col titolo Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione ― all’interno
del volume: Id., La costellazione postnazionale, trad. it. di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1999
(cfr. p. 122). Sul senso di una “politica interna mondiale”, si veda anche: Id., Die postnationa-
le Konstellation. Politische Essays, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1998, Die postnationale
Konstellation und die Zukunft der Democratie, § 5. Anche di questo testo si trova la traduzio-
ne italiana in: Id., La costellazione postnazionale.
192
Cfr. J. Habermas, Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione, § 1.
496 Parte quinta: studi su etica e universalità
Ora, di fronte a questa nuova realtà si scontrano due posizioni. Da
una parte, sta l’ottimismo neoliberale, che vede di buon occhio le
nuove opportunità di mercificazione della forza–lavoro, che la globa-
lizzazione dei mercati offre; e auspica la trasformazione dei cittadini
in semplici “impresari del proprio capitale umano”. Dalla parte oppo-
sta, sta il “partito della territorialità”, che, in nome della tutela delle
specificità regionali, si oppone aprioristicamente a ogni novità. Ma
sembra praticabile anche una “terza via”: quella che, riconosciuta
l’ineluttabilità del fenomeno in questione, sia orientata a limitarne le
conseguenze nefaste con nuove politiche sociali, volte in particolare
alla riqualificazione e alla formazione permanente dei lavoratori193.
La speranza, per chi scegliesse quest’ultima via, starebbe nella cre-
scita di istituzioni sovrannazionali: prima fra tutte, l’Unione Europea.
Per essa, Habermas auspica una progressiva legittimazione a governa-
re il mercato in senso correttivo e redistributivo, e a gestire il credito
pubblico e la protezione sociale, ad un livello, appunto, superiore a
quello nazionale. Certo, una simile forza politica potrebbe venire alla
Unione Europea, solo da una integrazione tra i popoli che essa com-
prende, tendente a fare di essi un’unica nazione. Ma non è forse stori-
camente accertato che le nazioni possono formarsi anche tramite le
costituzioni? Di qui l’importanza che Habermas assegna al tentativo di
arrivare a una Costituzione Europea194.
2.5. Alcune critiche di Ernst Tugendhat alla Diskursethik di Habermas
In Probleme der Ethik195 Ernst Tugendhat ― di fatto riconosciuto
da Habermas come uno tra i suoi interlocutori privilegiati ― formula
alcune critiche alle primitive versioni dell’etica del discorso196. Nel ri-
193
Cfr. J. Habermas, Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione, § 2.
194
Cfr. J. Habermas, Lo stato nazionale europeo sotto il peso della globalizzazione, § 3.
Sul tema della Costituzione europea, si veda: Id., Remarks on Dieter Grimm’s “Does Europe
Need a Constitution?”, «European Law Journal», I (1995), pp. 303–307.
195
L’edizione originaria del testo è: E. Tugendhat, Probleme der Ethik, Ph. Reclam jr.,
Stuttgart 1984. Il volume verrà da noi citato nella edizione italiana: Id., Problemi di etica,
trad. it. di A.M. Marietti, Einaudi, Torino 1987.
196
E lo fa sullo sfondo di una perplessità in ordine alla possibilità di considerare il lin-
guaggio in un senso che sia trascendental–pragmatico. A suo avviso, è un errore ritenere che
la dimensione pragmatica appartenga al linguaggio in quanto tale: essa apparterrebbe alle a-
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 497
ferirne brevemente, ci soffermeremo su una di esse, che ci sembra par-
ticolarmente pertinente, tanto che avremo occasione di riprenderla nel-
le nostre osservazioni conclusive.
Riguardo al carattere fondativo dell’intesa su norme morali, occor-
re ― come riconosce lo stesso Habermas ― che si tratti, non di
un’intesa purchessia, bensì di un «accordo qualificato da argomen-
ti»197. Ma allora ― osserva Tugendhat ―, sono le valide ragioni
[Gründe] a essere il fondamento [Grundlage] della norma, e non
l’accordo in se stesso. Dunque, anche nel caso delle norme morali, ci
può essere accordo in quanto tutti convengono nella fondazione ap-
propriata ― in analogia con quanto accade quando ci si accorda in
campo scientifico198.
Venendo poi al merito della fondazione habermassiana di U, essa si
impernia ― come sappiamo ― sulla considerazione dei PPN. Se non
che, i PPN ― per come Tugendhat li interpreta ―, non costituiscono
criteri immanenti all’argomentazione, ma piuttosto norme tese a evita-
re una distorsione di questa, dovuta al prevalere di eventuali “fattori
pragmatici extra–argomentativi”. I PPN non sarebbero dunque pre-
supposti inevitabili dell’argomentare: piuttosto sarebbero già norme
etiche, nel senso di una tradizionale etica avente a suo oggetto specifi-
co, appunto, l’argomentazione199.
Relativizzata in tal modo la presunta radice della Diskursethik, do-
vrebbe risultare chiaro che quest’ultima non è qualcosa di particolar-
mente originale, quanto piuttosto una ripresa del tradizionale criterio
kantiano dell’universalizzazione; il quale, a sua volta, non fa altro che
teorizzare la previa assunzione del punto di vista dell’imparzialità (o
simmetricità) di contro al particolarismo degli interessi. Analoga assun-
zione è, appunto, riscontrabile nel principio di universalizzazione ha-
zioni linguistiche specificamente “comunicative”, e non alle azioni linguistiche tout court
(non, ad esempio, all’agire linguistico del pensatore “monologico”). Dunque ― secondo Tu-
gendhat ―, sarà semmai la moralità, e non il linguaggio, ad avere un’ “essenza comunicati-
va”. Senonché, se si riconoscesse questa verità, «la tesi di Habermas secondo cui la compren-
sione e fondazione delle proposizioni morali ha una natura comunicativa, si spunterebbe» (cfr.
E. Tugendhat, Problemi di etica, pp. 84–86).
197
Qui il riferimento immediato di Tugendhat sembra essere a: J. Habermas, Wahrhei-
tstheorien, p. 239.
198
Cfr. E. Tugendhat, Problemi di etica, pp. 89 ss.
199
Cfr. E. Tugendhat, Problemi di etica, p. 90.
498 Parte quinta: studi su etica e universalità
bermassiano. In base ad esso, i partecipanti alla fondazione della norma
«non possono far valere semplicemente i loro interessi, ma nel loro “di-
scorso” devono già partire dall’idea dell’imparzialità», la quale, dunque,
non sarà «il risultato di tale “discorso”, ma il suo presupposto». Quindi
― conclude Tugendhat ―, «la comunicazione che Habermas ha in
mente presuppone l’imparzialità, e non la può fondare»200.
Ma, “imparziale” vuol dire “ugualmente buono per tutti”; e che il
predicato rilevante per fondare la norma sia appunto questo201, viene
assunto di fatto nella Diskursethik come qualcosa di semplicemente
presupposto. Così, occorrerebbe, da parte di Habermas, riscattare il
presupposto dell’imparzialità; ma come lo si potrà fare, se non argo-
mentativamente? Se non che, una simile argomentazione comporte-
rebbe di diritto ― come ogni altra, nella teoria habermassiana ―
l’esercizio, appunto, dell’atteggiamento di imparzialità da parte degli
argomentanti: con la conseguenza del circolo vizioso202.
Habermas, inoltre, intende correggere Kant, sostituendo il test mo-
nologico di universalizzazione con la prassi comunicativa. Ma se ogni
comunicante dovrà comunque argomentare in foro interno, e proprio lì
― tra sé e sé ― dovrà cercare di realizzare l’auspicata situazione do-
tata di simmetricità; che differenza ci sarà in realtà tra questo, e il pro-
cedimento di Kant? Habermas ritiene che la differenza stia nel fatto
che, comunicando, ci si informa sugli effettivi interessi di tutti i sog-
getti coinvolti, e si è così in grado di evitare la proiezione paternalisti-
ca del proprio punto di vista su quello altrui; e questo, in riferimento
alla sottintesa norma (A) ― che anche Tugendhat accetta ―, per cui
non bisogna privare nessuno della propria responsabilità: norma che
sembrerebbe discendere da D.
Ora, A non è altro che il principio di autonomia; e, a ben vedere,
esso non dipende da D: semmai è D a poter essere interpretato come
un potenziale corollario di A, nella forma di “principio dell’autonomia
200
Cfr. E. Tugendhat, Problemi di etica, pp. 91–92.
201
E si tratta ― fa osservare Tugendhat ― di un criterio di fondazione di tipo “semanti-
co”; il quale, dunque, precederebbe, nell’ordine epistemico, ogni eventuale ulteriore criterio
“pragmatico” (cfr. E. Tugendhat, Problemi di etica, p. 92).
202
Cfr. E. Tugendhat, Problemi di etica, p. 92. Secondo Habermas, invece, «l’idea
dell’imparzialità è radicata nelle strutture dell’argomentazione stessa, e non ha bisogno di es-
servi importata dall’esterno come un contenuto normativo addizionale» (cfr. J. Habermas, E-
tica del discorso, p. 85).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 499
collettiva”. Del resto, la precedenza della logica dell’autonomia su
quella dell’intesa comunicativa (espressa da U) sembra a Tugendhat
essere assicurata dal fatto che il principio D (ma prima ancora A) non
è frutto dell’etica del discorso ― che anzi da esso dovrebbe venir in-
trodotta –; ma piuttosto è frutto di una fondazione morale di tipo mo-
nologico203.
Tugendhat condivide comunque con Habermas molte cose. Anzi-
tutto, la persuasione che si debbano trovare nuove strategie fondative
di norme, ora che ogni «convinzione provinciale relativa a verità supe-
riori» è caduta. Inoltre, egli ritiene che proprio in un momento storico
come questo, diventi «visibile la situazione interumana originaria»,
che è situazione comunicativa di istanze reciproche, soddisfacibili so-
lo con criteri di reciprocità. E ritiene pure che la “morale di minima”,
di cui i filosofi sono in cerca, se «presuppone una certa idea della na-
tura dell’uomo», non lo fa se non entro certi limiti: ora, infatti, per na-
tura non si intenderebbe più una verità superiore, bensì una serie di
«aspetti della concezione di sé, che sono ammessi da tutti». Questo
non toglie ― precisa Tugendhat ― che vi possano essere teorie vere
sull’uomo: qui si è però in cerca di teorie giustificabili in un modo che
arrivi ad essere condiviso, e che parta a tale scopo da premesse sem-
plicemente “orizzontali”204.
203
«Questa norma che deriva dal principio della morale razionale in un senso più stretto, e
che ordina di considerare ogni persona come un essere autonomo che decide di se stesso ― e
quindi vieta di prescriverle che cosa sia bene per sé ―, ha anche la conseguenza che, dovunque
occorra decidere di una norma sociale, e in particolare di una norma giuridica, l’introduzione di
tale norma è moralmente giustificata solo se è frutto di una deliberazione collettiva di cui tutti gli
interessati siano ugualmente partecipi. Lo si può chiamare il principio dell’autonomia collettiva
o dell’autodeterminazione collettiva; ciò che vieta questo principio è di privare il collettivo della
sua autonomia e responsabilità. Secondo questa norma è moralmente falso se, una persona o un
gruppo fanno appello alla propria superiore saggezza morale per decidere quali norme giuridiche
debbano valere, senza interpellare gli altri interessati. Questo pare dunque il motivo per cui i
problemi morali e specialmente i problemi della morale politica debbano essere necessariamente
fondati su un ‘discorso’ di tutti gli interessati. Contrariamente all’opinione di Habermas, il moti-
vo non sta nella natura, nell’essenza comunicativa del processo della fondazione morale; vero è
l’inverso: una regola che deriva dal processo di fondazione morale, il quale come tale può essere
compiuto anche dal pensiero solitario, prescrive che siano moralmente fondate solo quelle norme
giuridiche che siano introdotte sulla base di un accordo di tutti gli interessati» (cfr. E. Tugendhat,
Problemi di etica, pp. 94–95).
204
Cfr. E. Tugendhat, Problemi di etica, pp. 97–100.
500 Parte quinta: studi su etica e universalità
Per Tugendhat il vantaggio dell’etica kantiana sta precisamente nel
suo tendenziale disimpegno dalla metafisica. In tanto in quanto, però,
conserva ancora una intonazione superiore (principiale), essa andrà
laicizzata, col ricondurla ad un accordo tra uomini sui loro interessi di
minima. Si fa questo, riconducendo le norme morali al seguente predi-
cato di fondazione: “ugualmente buono per tutti”; infatti, «è ugual-
mente fondato per tutti volere norme fondate in tal modo». Per quanto
“semanticamente”, anziché “pragmaticamente” impostato, anche que-
sto ― spiega Tugendhat ― è un procedimento di fondazione “comu-
nicativo”: se voglio persuadere un altro della bontà della mia proposta
devo offrirgli ragioni che lo riguardino205.
3. Linee di approfondimento
3.1. Una nota su abduzione e induzione
Habermas propone, con il principio D, un paradigma206 meta–etico,
col quale cerca di introdurre il “punto di vista morale”, legandolo alla
normatività che è implicita nella pratica discorsiva: in un senso, cioè,
originale e tale da superare effettivamente i divieti (per altro, da lui a-
criticamente accettati) della “ghigliottina di Hume”. Si può dire che,
per il nostro autore, il fattore normativo del nostro agire non stia nella
natura umana classicamente intesa, bensì in quello che hegelianamente
si direbbe lo “spirito oggettivo”: cioè, in quella sorta di natura di se-
condo grado che la libertà dell’uomo sa dare a se stessa207, e di cui la
pratica discorsiva costituirebbe il medium relazionale.
Quello che il nostro autore presenta come principio D, costituisce
anzitutto un adattamento dell’imperativo kantiano ad una concezione
205
Cfr. E. Tugendhat, Problemi di etica, pp. 98–99.
206
Qui, il termine è usato nel senso di Kuhn: un paradigma è costituito dalle coordinate
che sono condivise, come non–problematiche, dai membri di una comunità scientifica; e, in-
versamente, una comunità scientifica consiste di coloro che condividono un certo paradigma
(cfr. T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, The University Chicago Press, Chi-
cago 1962; trad. it. di A. Carugo, col titolo: La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einau-
di, Torino 1978, pp. 29–30, 43–44, 57–59).
207
Ad esempio, la stessa modernità ― col divieto posto dalla “ghigliottina di Hume” ―
diventa per Habermas fattore normativo.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 501
non–monologica della coscienza (e della coscienza morale, in particola-
re). Inoltre, nella sua versione più recente, D viene a dire che
l’approvazione discorsiva proceduralmente corretta equivale ad un con-
senso epistemico: cioè, risulta ― sia pur fallibilmente ― fondativa.
Il principio U, invece, è una ipotesi di legge morale fondamentale,
introdotta ― come dice l’autore ― in modo abduttivo. Ora, l’abduzio-
ne è un procedimento a suo tempo teorizzato da Ch.S. Peirce in termi-
ni che liberamente potremmo rendere così: ci sono dei fatti di cui è
nota la verità (nota, indipendentemente dalla verità della conclusione
abdotta); ora, questi fatti vengono interpretati come “icone” della con-
clusione abdotta208, la quale starebbe ad essi come il modello che
schematicamente li ricomprende in sé, traducendoli in veri e propri
“simboli”209, cioè in occorrenze visibili del modello latente210. In que-
sta teoria, sarebbe poi compito di un procedimento “induttivo”211, sta-
bilire che cosa debba trovarsi verificato, affinché la conclusione ab-
dotta possa risultare ― oltre che suggestiva ― anche vera212. Anzi, il
fine di una buona ipotesi esplicativa (o abduzione), è appunto quello
di essere passibile di verifica sperimentale213.
In termini più analitici, Peirce giunge a esprimere l’abduzione co-
me una struttura di tipo sillogistico, in cui, osservando un “risultato”
(cioè, un certo dato) alla luce di una “regola” possibile, si arriva ad in-
208
Cfr. Ch.S. Peirce, Collected Papers, vol. II, §§ 96–97, 634–636; vol. V, §§ 189–191.
Gli esempi più significativi di abduzione (ovvero di “assunzione di ipotesi”) portati da Peirce,
riguardano gli studi di Keplero e di Boyle. La celebre abduzione kepleriana è quella riguar-
dante le orbite dei pianeti: risultato di abduzione è la forma ellittica, in relazione ad alcune po-
sizioni occupate da Marte rispetto al Sole. L’abduzione di Boyle (cfr. ibi, vol. II, § 639) è
quella riguardante il modello rappresentativo dei gas: dalla inversa proporzionalità tra volume
e pressione dei gas, si abduce che questi siano composti di minuscole particelle solide e dotate
di elevata energia cinetica. Ma un esempio ancora migliore di abduzione ci viene ― a nostro
avviso ― da Galileo: risultato di abduzione è lo schema triangolare che Galileo introduce, per
interpretare cinematicamente il moto di caduta dei gravi.
209
Classicamente si direbbe: accidenti propri.
210
Sulla distinzione tra “icona” e “simbolo” si veda: Ch.S. Peirce, Collected Papers, vol.
II, §§ 247–249.
211
Ma meglio sarebbe dire “deduttivo–induttivo”.
212
Nel caso di Keplero, saranno certe posizioni del pianeta in certi momenti dell’anno; nel
caso di Galileo, saranno certe leggi matematiche ricavate dalla analisi del triangolo che si ipo-
tizza isomorfo al moto in questione. Peirce parla, al riguardo, di “previsioni virtuali” (cfr.
Ch.S. Peirce, Collected Papers, vol. II, §§ 96–97), o di «previsioni che conseguono
all’assunzione dell’ipotesi» (cfr. ibi, vol. II, § 634).
213
Cfr. Ch.S. Peirce, Collected Papers, vol. V, § 197.
502 Parte quinta: studi su etica e universalità
terpretare quello come un “caso” particolare di questa. L’abduzione ―
così illustrata ― risulterebbe come un’inversione del procedimento
sillogistico propriamente detto. In essa, infatti, si procederebbe a ritro-
so, partendo dal confronto tra il conseguente (o conclusione) e
l’implicazione (ovvero premessa maggiore) di cui l’antecedente (o
premessa minore) è caso, per arrivare a porre l’antecedente stesso. Ad
esempio: «per tutti i corpi in movimento, il fatto che un dato corpo si
muova descrivendo un’orbita ellittica, comporta che quel corpo passi
per date posizioni geometricamente determinate così–e–così; ma Mar-
te passa per date posizioni geometricamente determinate così–e–così;
dunque Marte si muove descrivendo un’orbita ellittica»214. In realtà,
questa lettura dell’abduzione ― che pure alcuni testi di Peirce autoriz-
zano215 ―, non ci sembra la più utile a capire il senso di questo tipo di
inferenza: presa alla lettera, essa farebbe dell’abduzione una scom-
messa ultimamente fallace216.
Ben altra ci sembra in realtà la logica interpretativa ed esplicativa
che agisce nei grandi esempi di indagine scientifica cui Peirce fa rife-
rimento (l’indagine di Keplero sulle orbite dei pianeti, e quella di Bo-
yle sul comportamento dei gas). In essi la mossa abduttiva consiste
nella istituzione di un ipotetico isomorfismo tra una certa realtà fisica
e un modello schematico di essa: operando su quest’ultimo, si com-
piono deduzioni (o “previsioni virtuali”) che sono altrettante interro-
gazioni poste alla realtà fisica stessa, ovvero occasioni di verifica os-
servativa o sperimentale della attendibilità del modello stesso. Tale
verifica, a sua volta, è quella che Peirce chiama “induzione”. L’indu-
zione muove dal punto di arrivo dell’abduzione, in direzione della
conferma della “regola”, cioè dello schematismo latente, che è candi-
dato a ricomprendere in sé i dati in oggetto, come propri casi217.
L’abduzione interessa Peirce per l’elemento euristico che essa intro-
duce nell’indagine. Ora, c’è chi ― sulla base del testo di questo autore
214
Cfr. M.A. Bonfantini, Introduzione: Peirce e l’abduzione, in: Ch.S. Peirce, Le leggi
dell’ipotesi. Antologia dai Collected Papers, a cura di M.A. Bonfantini – R. Grazia – G. Proni
– M. Ferraresi, Bompiani, Milano 1984, p. 22.
215
Cfr. Ch.S. Peirce, Collected Papers, vol. II, § 623.
216
Fondata, appunto, sulla fallace presunzione della convertibilità totale della universale
affermativa.
217
Cfr. Ch.S. Peirce, Collected Papers, vol. II, §§ 640 ss.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 503
― ha tentato di classificare i diversi tipi di abduzione in riferimento,
appunto, al grado di originalità da essi introdotto218; e, sulla base di tale
classificazione, si può dire che abduzioni come quelle degli scienziati
sopra citati siano tali da “inventare” ― e non semplicemente “selezio-
nare” ― la regola attraverso cui ricondurre il “risultato” a “caso”. Più
precisamente, la loro carica inventiva consisterebbe nel collegare in mo-
do originale elementi semantici per altro già disponibili nell’enciclo-
pedia del sapere, istituendo tra essi l’isomorfismo di cui si diceva219.
Habermas, da parte sua, mette U in relazione isomorfica con i pre-
supposti normativi dell’argomentazione. I PPN sarebbero, in qualche
modo, i “fatti” da cui U viene abdotta. A loro volta, essi risultano veri
― indipendentemente da U ―, in quanto vengono confermati riflessi-
vamente, mediante la riduzione a contraddizione performativa delle ri-
spettive negazioni.
Ma il nostro autore sostiene anche (nel saggio del 1983, senza per
altro rinnegarlo in quello del 1996) che tra i due fattori vi sia ― più
genericamente ― implicazione materiale, nel senso che: PPN → U. In
tal modo, però, egli si contraddice, in quanto per l’implicazione mate-
riale dovrebbe valere: ¬(PPN ∧ ¬U), ovvero che i PPN non potrebbe-
ro essere veri non essendo vera U; mentre, in generale, una conclusio-
ne abduttiva potrebbe ― per definizione ― essere falsa, pur essendo
vero che si verificano i fatti iconici ad essa corrispondenti220.
Quanto invece alla evidenziazione dei PPN, la si può intendere
come una riconduzione della pratica discorsiva di fatto, ad un agire
218
«Primo tipo di abduzione ― la legge–mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal
risultato è data in modo obbligante e automatico o semiautomatico; Secondo tipo di abduzione
― la legge–mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato viene reperita per sele-
zione nell’ambito dell’enciclopedia disponibile; Terzo tipo di abduzione ― la legge–
mediazione cui ricorrere per inferire il caso dal risultato viene costituita ex novo, inventata.
Entro il terzo tipo di abduzione si distinguono tre sottotipi, a seconda della modalità di costi-
tuzione della legge di mediazione. Avremo così: Primo sottotipo ― la legge–mediazione è
una mera estensione ad altro campo semantico di una forma di implicazione già presente
nell’enciclopedia disponibile; Secondo sottotipo ― la legge–mediazione connette ex novo
due (insiemi di) elementi già presenti nell’universo semantico dell’enciclopedia disponibile;
Terzo sottotipo ― la legge–mediazione introduce a suo antecedente logico un termine fatti-
zio» (cfr. M.A. Bonfantini, Introduzione: Peirce e l’abduzione, p. 25).
219
Stando alla classificazione precedente, si tratterebbe del Secondo sottotipo del Terzo
tipo di abduzione.
220
Dunque, potrebbe darsi che: PPN ∧ ¬U.
504 Parte quinta: studi su etica e universalità
comunicativo di diritto: riconduzione che avviene tramite reductio a
contraddizione performativa delle rispettive negazioni di quei principi.
L’agire comunicativo [kommunikatives Handeln] si rivela in tal modo
essere l’ideale regolativo immanente, appunto, alla pratica discorsiva
[Diskurs].
Ora, il valore trascendental–pragmatico dei PPN, trasferito propo-
sizionalmente nelle regole della tabella di Alexy, è attualmente iconi-
co, e potenzialmente simbolico, di una struttura ― come le cose e i
fenomeni di natura triangolare, lo sono del triangolo. La struttura in
questione sarebbe ― nel disegno habermassiano ― quella espressa
dal principio U.
In altri termini, è fisiologico che i parlanti si rapportino secondo
una reciprocità di riconoscimento; e il linguaggio appare, a ben ve-
dere, come lo stesso diritto [Recht] da sempre operante, nel quale è
implicita quella Moralität di cui l’età contemporanea è in cerca. Si
tratta però di enucleare dal linguaggio gli elementi che propriamen-
te appartengono al diritto (i PPN), e di spremerne ― o abdurne ―
la forma morale, ovvero la terzietà, che li qualifica. È così che si
ottiene, appunto, il principio U, che è il fattore che risulta moral-
mente normativo rispetto alle relazioni. Agisce, al riguardo,
l’attrazione di Apel: infatti, Habermas sostituisce il medium hege-
liano del contratto, e quello marxiano del lavoro, con il medium
linguistico; che era stato teorizzato appunto da Apel ― ma che in
fondo, già per Hegel, costituiva la radice dello stesso medium con-
trattuale221.
221
Introducendo la figura del contratto ― nella Enciclopedia ―, Hegel afferma che
«l’interiorità della volontà, sia di colui che cede la proprietà sia di colui che l’accoglie, appar-
tiene qui al regno della rappresentazione, e in tale regno la parola è atto e cosa [das Wort ist
Tat und Sache]». In proposito, Hegel rinvia ad un precedente paragrafo dell’opera, nel quale
si legge: «Il nome è la cosa quale è data e ha validità nel regno della rappresentazione. Nel
nome, la memoria riproduttiva ha e conosce la cosa [...]. Il nome, in quanto esistenza del con-
tenuto nell’intelligenza, è l’esteriorità dell’intelligenza entro se stessa, e l’interiorizzazione del
nome, in quanto ricordo dell’intuizione prodotta dall’intelligenza, è a un tempo
l’esteriorizzazione in cui essa si pone all’interno di se stessa» (cfr. G.W.F. Hegel, Enziklopä-
die der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), §§ 462 e 493; trad. it. di V.
Cicero, col titolo: Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), Rusconi, Mila-
no 1996). Sul linguaggio come radice della mediazione contrattuale, si veda anche: Hegel,
Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 78.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 505
Secondo Habermas, è sostenibile dunque il seguente modus ponens:
se valgono i PPN, allora vale U; ma i PPN valgono (per reductio a
contraddizione performativa delle rispettive negazioni); ergo vale U.
Ma, come sempre, il problema di un modus ponens sta nella giusti-
ficazione della sua premessa maggiore.
Il nostro autore ― come abbiamo visto ― la introduce abduttiva-
mente. Ma in che senso? Nel senso ― così ci pare di capire ― che e-
gli individua in U la forma dei PPN. Essi, infatti, sono “trascendenta-
li” (in quanto valgono per ogni soggetto, e in relazione ad ogni ogget-
to) e sono “simmetrici” (in quanto valgono per un soggetto in relazio-
ne all’altro, e viceversa): insomma, realizzano già in se stessi quelle
proprietà fondamentali che caratterizzano U.
Si potrebbe inoltre osservare che l’abduzione che porta ad U, ha un
contenuto euristico, che è omologo rispetto a quello delle abduzioni in
precedenza considerate. Infatti, non si può considerare tale principio
come un che di assolutamente inedito rispetto all’enciclopedia dispo-
nibile ― quanto piuttosto come una variante dialogica dell’imperativo
kantiano ―; nuovo è invece l’isomorfismo che Habermas intuisce es-
serci tra il principio morale e i presupposti dell’argomentazione.
Ma, se dovessimo applicare ad U fino in fondo la logica
dell’abduzione, dovremmo anche cercare per esso un’opportuna veri-
fica induttiva. In altre parole, occorrerebbe indicare quali siano, non i
“fatti”, bensì ― dato il contenuto normativo, anziché descrittivo, di U
― le “norme”, che dovrebbero venir trovate valide, affinché U possa
essere ritenuto valido a sua volta. Nella fattispecie, la verifica potreb-
be consistere nella capacità, da parte di U, di produrre norme ricono-
scibili e soddisfacenti per tutti, coniate sulla regola seguente: è univer-
salizzabile (con reciproco consenso) solo la massima che non contrad-
dica performativamente qualcuno dei PPN.
In particolare, secondo Habermas, tramite U è possibile giustificare
almeno alcuni dei diritti dell’uomo indicati nell’omonima dichiarazio-
ne del 1948: in particolare, i cosiddetti “diritti politici”222, ovvero quel-
222
Un riferimento in tal senso troviamo in: J. Habermas, L’inclusione dell’altro, p. 57. Il
tema viene comunque sviluppato al cap. 8 del medesimo volume. Secondo il nostro autore, se
uno Stato vuole essere legittimo, deve fondarsi sulla pratica discorsiva, che è la via attraverso
la quale giunge ad espressione la “sovranità popolare”. Il problematico rapporto fra “sovranità
popolare” e “diritti umani” ― cioè, fra tradizione repubblicana e tradizione liberale ―, va poi
506 Parte quinta: studi su etica e universalità
li che regolano l’accesso dei cittadini alla gestione della cosa pubblica
e che prevedono la possibilità, da parte loro, di formarsi liberamente
una opinione da far valere in quella sede.
A confermare induttivamente il principio U non basta comunque che
esso, oltre a non condurre a norme “controintuitive”, conduca alla con-
ferma (potenzialmente selettiva) di norme già per altra via accettate,
come sono i diritti dell’uomo223. Esso dovrà anche rivelarsi a sua volta
autenticamente euristico, cioè produttivo di norme pratiche valide, ben-
ché non ancora codificate. Ed è una tale ipotesi di lavoro, ad animare ―
impostato nel modo seguente: «i diritti umani istituzionalizzano i presupposti comunicativi
che sono indispensabili a una ragionevole formazione della volontà politica». Naturalmente,
questi saranno i cosiddetti “diritti politici”, che non potranno ragionevolmente venir contrap-
posti alla sovranità popolare, quasi fossero estrinseci ad una autentica formazione di questa.
Diverso è il caso dei “diritti di libertà” ― «tutelanti l’autonomia privata a livello sociale» ―, i
quali «hanno con tutta evidenza un valore intrinseco [nel senso] che non sono riducibili al loro
valore strumentale in funzione di una formazione democratica della volontà». Le due catego-
rie di diritti ― quelli di partecipazione e quelli di libertà ― stanno tra loro come l’ “autono-
mia pubblica” sta all’ “autonomia privata”: certamente la prima presuppone la seconda; ma ―
osserva Habermas ―, vale anche il reciproco, in quanto la formulazione stessa delle libertà
individuali come diritti sanciti, comporta precisamente il previo accesso alla sfera pubblica
(cfr. ibi, pp. 218–221). Il tema della giustificazione dei diritti umani fondamentali, a partire
dalla Diskursethik, era già stato introdotto in Faktizität und Geltung. Qui, il nostro autore in-
dica la Diskursethik come processo di formazione dell’opinione e della volontà, la cui forza
legittimante starebbe nella capacità di «giungere a convinzioni liberamente e singolarmente
condivise da tutti»; mentre nelle filosofie coscienzialiste l’armonizzazione di ragione e volon-
tà era riservata ad un io singolare (l’Io trascendentale di Kant, oppure la volontà generale di
Rousseau). «Se la volontà ragionevole può formarsi soltanto nel soggetto individuale, allora
l’autonomia morale di questo singolo individuo deve anticipare e ricomprendere in sé
l’autonomia politica dell’unificata volontà di tutti, al fine di garantire l’autonomia privata di
ciascuno nei termini del diritto naturale. Se per converso la volontà ragionevole può formarsi
soltanto nel macrosoggetto d’un popolo o d’una nazione, allora l’autonomia politica va intesa
come la cosciente realizzazione della sostanza etica da parte d’una comunità particolare. (In
quest’ultimo caso, l’autonomia privata è difesa dalla soverchiante forza dell’autonomia politi-
ca soltanto dalla forma non–discriminante che caratterizza le leggi universali)». La superiorità
della Diskursethik, rispetto ai due modelli ora richiamati, starebbe nella sua preoccupazione di
istituzionalizzare le procedure che possono consentire una produzione giuridica legittima, e
quindi la coniugazione positiva di “sovranità popolare” e “diritti umani”. Nei due modelli
precedenti, invece, i due fattori sembrano destinati a limitarsi estrinsecamente l’uno con
l’altro ― o nel senso che la sovranità popolare, mediante la produzione giuridica, dovrà limi-
tare l’esercizio dei diritti (Kant); o nel senso che i diritti dovranno limitare la sovranità popo-
lare, almeno avanzando l’istanza della imparzialità (Rousseau). (Cfr. Id., Fatti e norme, pp.
127–128).
223
Non è sempre chiaro il dettato di Habermas in proposito. In Faktizität und Geltung, e-
gli parla del sistema dei diritti come di una derivazione da D (cfr. J. Habermas, Fatti e norme,
p. 147) ― senza citare la mediazione di U.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 507
così ci sembra ― il recente impegno habermassiano a fare della teoria
discorsiva il luogo di rifondazione di una filosofia del diritto224.
3.2. La Diskursethik come latens processus della prassi democratica
Resta però un problema. Se per verificare le previsioni virtuali in
campo fisico, si progettano osservazioni ed esperimenti, quale tipo di
verifica sarà pertinente per le norme coniate sul principio U? È infatti
evidente che non è la semplice conformità ad U la ragione che può
giustificare le norme, se la giustificazione di queste deve condurre in-
duttivamente alla giustificazione di U ― assunto fin qui in chiave ab-
duttiva, e quindi ultimamente ipotetica. In altre parole: se U è qualco-
sa di abdotto, esso rappresenta un latens processus della dinamica mo-
rale, da cui derivare ipotesi normative in attesa di verifica (osservativa
o sperimentale). Ora, è chiaro che tale verifica non potrà a sua volta
coincidere con l’accertamento della conformità ad U ― così come la
verifica che l’orbita dei pianeti sia ellittica, non può coincidere con la
semplice considerazione della plausibilità dell’ipotesi che lo sia.
A ben vedere, è lo stesso Habermas a fornirci una chiave di solu-
zione al problema, quando ci suggerisce come esempio di norme deri-
vate da U e verificabili nella loro validità ― così da consolidare U in
senso induttivo ―, i diritti politici dell’uomo225. Ora, la validità di tali
diritti è verificabile, o facendo riferimento all’antropologia che essi
224
Impegno di cui Faktizität und Geltung è il risultato per ora più cospicuo.
225
I diritti politici coincidono con le meta–regole istitutive dello stesso “sistema dei dirit-
ti”, e costituiscono ― a giudizio del nostro autore ― quell’ambito di legalità, all’interno del
quale acquista senso la stessa legittimità. Di essi, il nostro autore fornisce una sorta di rico-
struzione genetica nel cap. 3 di Faktizität und Geltung: ad essi è infatti possibile risalire come
a quelle condizioni che, «stabilendo lo statuto dei soggetti giuridici, danno origine allo stesso
codice giuridico». Habermas li articola in quattro categorie: «(1) Diritti fondamentali derivan-
ti dallo sviluppo politicamente autonomo del diritto alla maggior misura possibile di pari li-
bertà individuali»; «(2) Diritti fondamentali derivanti dallo sviluppo politicamente autonomo
dello status di membro associato nell’ambito d’una volontaria consociazione giuridica»; «(3)
Diritti fondamentali derivanti dalla azionabilità dei diritti e dallo sviluppo politicamente auto-
nomo della tutela giurisdizionale individuale»; «(4) Diritti fondamentali a pari opportunità di
partecipazione ai processi formativi dell’opinione e della volontà: processi in cui i cittadini
esercitano la loro autonomia politica e attraverso cui producono diritto legittimo» (cfr. J. Ha-
bermas, Fatti e norme, pp. 148–149). Al paradosso per cui «la legittimità nasce dalla legali-
tà», è dedicato ― a ben vedere ― l’intero cap. 3 di Faktizität und Geltung.
508 Parte quinta: studi su etica e universalità
presuppongono, oppure facendo riferimento alla prassi democratica226,
di cui essi sono presupposto: in ogni caso, appoggiandosi ad una i-
stanza che non appartiene propriamente alla Diskursethik. Abbiamo
anche ipotizzato che da U si debbano poter derivare norme originali,
cioè non ancora codificate. Ma anche in questo caso, l’alternativa pre-
cedente si ripropone: una alternativa, questa, che si ripresenterà in
termini più generali e secondo tutta la sua portata, nel paragrafo se-
guente del nostro testo.
Ora, essendoci noto il disimpegno habermassiano nei riguardi di una
esplicita antropologia filosofica, dobbiamo concludere che il punto di
verifica delle norme compatibili con U sia la loro funzionalità o meno,
rispetto alla prassi democratica ― tacitamente assunta, quest’ultima,
come un riferimento di valore assoluto227. In tal senso, sembra lecito
supporre che la Diskursethik si proponga, appunto, di evidenziare sem-
plicemente il latens processus di tale prassi228, affidando a questa il
compito di selezionare come accettabili o meno le derivazioni da U. In
altre parole, la validazione dei diritti politici ― per stare al caso citato
―, starebbe nella verifica della loro funzione fisiologica di membrana
rispetto allo sviluppo di quella cellula (“il sistema dei diritti”), che ha
come suo “nucleo” il “principio democratico”229.
In che modo, però, la teoria di Habermas potrà evitare a questo
punto l’obiezione di conformismo, ovvero di cedimento ad una coa-
zione sistemica autoimpostasi? E non si tratterebbe di un’obiezione da
poco, dal momento che il senso complessivo della proposta habermas-
siana consiste proprio nel tentativo di emancipare il punto di vista mo-
rale da quello semplicemente etico; mentre l’immagine del sistema
democratico, nella prospettiva che si è andata ora delineando, non rie-
sce a sollevarsi al di sopra di quella di un riferimento etico, senz’altro
rilevante e comprensivo, ma pur sempre particolare.
226
Meglio sarebbe dire “liberal–democratica”; ma, per brevità, diremo semplicemente
“democratica” ― come di norma fa lo stesso Habermas.
227
Taylor direbbe: un “iperbene”.
228
Ovvero, quella «procedura ideale della consultazione e della deliberazione», che anima
e regola internamente il «procedimento democratico», mantenendo permeabili le «sfere pub-
bliche proceduralmente disciplinate» alle sempre nuove istanze provenienti dagli «elementi
informali della sfera pubblica generale» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 363–365).
229
«Il principio democratico può presentarsi solo come nucleo di un sistema di diritti»
(cfr. J. Habermas, Fatti e norme, p. 147).
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 509
Ebbene, Habermas invoca per il sistema democratico, almeno nella
sua forma ideale, un carattere neutrale e normativo. La neutralità ri-
siederebbe nella precedenza assegnata ― in tale sistema ― al giusto
rispetto al bene230: in tal senso, la democrazia si configura come il si-
stema politico che fa proprio il “punto di vista morale”. Il suo caratte-
re normativo risiederebbe, poi, nella mancanza di alternative ad esso,
che non siano la scomunica reciproca tra gruppi o la repressione vio-
lenta da parte del più forte231. Questa duplice annotazione, però, non
evita il cortocircuito epistemico.
Infatti, anche dando per scontata l’attendibilità del quadro ora indi-
cato, occorrerebbe pur sempre dar ragione della indesiderabilità delle
situazioni alternative al sistema democratico. Né avrebbe senso esclu-
derle in nome della Diskursethik ― come vie incompatibili con i pre-
supposti della situazione comunicativa ideale –; e questo, dal momen-
to che è proprio il nucleo della Diskursethik, ovvero il principio U, ad
attendere la propria conferma induttiva da quel banco di prova che è la
prassi democratica; e tale prassi viene indicata come punto fermo, da
Habermas, proprio per la sua conclamata mancanza di alternative de-
siderabili.
3.3. Una indicazione
La Diskursethik è uno dei diversi tentativi esperiti per recuperare in
spirito kantiano una fonte normativa, dopo che la ghigliottina di Hume
ha presuntivamente messo fuori gioco, da questo punto di vista, il ruo-
lo della natura umana. Senonché, la radice della normatività classica-
mente riconosciuta alla natura umana, risiede nell’essere tale natura
informata dalla trascendentalità: in particolare, dalla trascendentalità
del desiderio, che attraversa le pulsioni rendendole bisogni propria-
mente umani. Del resto, la radice della culturalità dei bisogni
dell’uomo e delle risposte ad essi adeguate ― culturalità tanto enfatiz-
zata da Habermas ―, sta proprio qui: nel loro essere bisogni in cui
l’uomo chiede che sia riconosciuta la sua trascendentalità desiderante.
Ora, questa radice attraversa e supera la multiculturalità, evitando le
230
Cfr. J. Habermas, Fatti e norme, p. 366.
231
Cfr. J. Habermas, Fatti e norme, p. 368.
510 Parte quinta: studi su etica e universalità
secche del “multiculturalismo”: e ciò dovrebbe essere chiaro anche a
chi, come Habermas, vede nell’agire comunicativo un comportamento
che qualifica, non questa o quella cultura particolare, ma piuttosto
l’umano in quanto tale.
A ben vedere, la contraddizione specifica che lo stesso Kant inten-
de evitare nel suo test di universalizzazione, è quella di tipo buletico:
contraddizione rispetto alla qualità trascendentale della volontà. Quin-
di, già il trascendentalismo kantiano ― cui Habermas a suo modo si
rifà ― non segue una impostazione meramente procedurale, ma piut-
tosto fa riferimento, sia pur tra mille aporie, ad una antropologia tra-
scendentale232.
Quando il trascendentalismo, viceversa, non facendo riferimento a
una tale antropologia, cerca una coerenza di tipo meramente procedu-
rale, finisce di fatto per adagiarsi sul “principio di autonomia”. Tu-
gendhat non ha torto, quando afferma che D esprime un principio del-
la “autonomia collettiva” (fondato in senso monologico), che altro non
sarebbe se non una interpretazione cooperativistica del principio di au-
tonomia tout court; e non sembra aver torto, anche quando afferma
che l’apparato procedurale non servirebbe ad Habermas, se non per
salvaguardare in modo raffinato proprio l’autonomia in parola.
Sviluppando questa osservazione, si potrebbe ipotizzare che la po-
sizione habermassiana finisca per risultare oggettivamente assimilabi-
le ad un utilitarismo delle regole; convergendo ultimamente con quella
tradizione moralistica che teorizza una composizione armonica di pro-
getti di vita autonomamente formulati. In tal senso, la posizione del
nostro autore realizzerebbe un modello ― sia pure più fine di altri ―
del compromesso relazionale, anziché un modello del consenso pie-
namente inteso. In un tale modello, l’autonomia collettiva sarebbe
semplicemente l’accordo a trattare, secondo convenienti procedure, la
compatibilità tra beni ― ovvero progetti di vita ―, concepiti da cia-
scuno, secondo la propria autonomia privata233.
232
Su questo punto rinviamo al capitolo 1 della Parte Quinta del presente volume.
233
«Agli occhi d’un attore che decide in base alla sua libertà soggettiva non ha nessuna
importanza che le ragioni per lui decisive siano accettabili anche dagli altri. [...] Perciò
l’autonomia privata del soggetto giuridico è sostanzialmente interpretabile come la libertà ne-
gativa di chi abbandona lo spazio pubblico delle obbligazioni illocutive, per ritirarsi su una
posizione di vicendevole osservazione e di reciproco condizionamento. L’ambito
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 511
È certo, però, che Habermas ― il quale sembra escludere che il
criterio dell’autonomia privata abbia competenza assoluta a decidere
nel campo stesso della definizione del bene234 ―, è alla ricerca di al-
tro: egli vorrebbe che la procedura stessa della formazione del con-
senso andasse a dare una forma ― consensual–argomentativa, cioè
razionale ― all’azione; che essa, insomma, umanizzasse l’agire stes-
so dei singoli. Se non andiamo d’accordo su niente ― sembra sugge-
rire Habermas ―, ebbene vediamo di andar d’accordo almeno nel di-
scuterne; e questo ci educherà anche a trovare contenuti (cioè, pro-
getti di bene) che siano comunemente accettabili da esseri razionali,
cioè da persone. In tal senso, la situazione dibattimentale sembra ―
al nostro autore ― capace di incidere sulla stessa definizione del be-
ne, la quale non potrà mai essere intesa come un fenomeno radical-
mente privato235.
Certo, l’“autonomia privata” è considerata da Habermas come
qualcosa da cui né la morale né il diritto possono prescindere. Essa
però è rifiutata dal nostro autore come punto di partenza, e per la
morale e per il diritto. Nel caso della morale, infatti, assumere tale
autonomia come un fattore fondativo, equivarrebbe ad assolutizzare
autocontraddittoriamente l’agire strategico rispetto a quello comuni-
cativo. Nel secondo caso, poi, per poter invocare l’esercizio dell’au-
tonomia privata come un diritto, occorre essersi già collocati nella
dell’autonomia privata è dunque quello in cui il soggetto giuridico non deve rendere conto a
nessuno, l’ambito cioè in cui non gli si chiede di esibire ragioni pubblicamente accettabili per
i suoi piani d’azione. Le libertà d’azione individuali ci autorizzano ad abbandonare la sfera
dell’agire comunicativo e a rifiutarne le obbligazioni illocutive; esse fondano così una sfera
privata in cui ci liberiamo dal peso di libertà comunicative vicendevolmente concesse e prete-
se» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 145–146).
234
Proprio nel dialogo con Tugendhat, il nostro autore scrive: «È evidente che la dignità
di una persona non si può ridurre al valore che essa conferisce alla sua vita; talvolta, noi ri-
schiamo la vita per non perdere il rispetto di noi stessi. Il sé del rispetto di sé dipende, in real-
tà, da uno status estremamente vulnerabile della persona, che però, si educa soltanto nei rap-
porti di reciproco riconoscimento. Le relazioni non–condizionali di mutuo rispetto, che le per-
sone in quanto persone agenti responsabilmente hanno le une con le altre, sono cooriginarie
con il fenomeno del rispetto di sé ― della coscienza, quindi di meritare il rispetto altrui» (cfr.
J. Habermas, Teoria della morale, p. 155).
235
Si pensi, ad esempio, al prudente ma sicuro recupero della figura del “bene comune”,
quale è rilevabile in Faktizität und Geltung (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 105, 156).
Tale figura sembra comunque identificabile, dato il contesto, con la stessa prassi liberal–
democratica.
512 Parte quinta: studi su etica e universalità
prospettiva della autonomia pubblica, entro la quale, soltanto, ha
senso parlare di diritti236.
Si tratta però di capire a che cosa il nostro autore può effettivamen-
te fare riferimento, quando propone qualcosa di diverso dal contratto
tra autonomie private. A ben vedere, quando egli auspica il collocarsi
di ciascuno dal punto di vista di chiunque ― in senso dinamico e ri-
vedibile ―, che cosa indica, se non il tentativo di collocarsi dal punto
di vista della persona come tale? E la “indisponibilità” del punto di vi-
sta morale ― da lui propugnata ― che cosa indica, se non la “indi-
sponibilità” della persona stessa, intesa come principio normativo237?
Portato a coerenza, il trascendentalismo piega inevitabilmente ver-
so il recupero del senso normativo della persona, che è il vero presup-
posto imprescindibile dell’agire comunicativo. Già per Kant, del resto,
assumere il punto di vista universale, significa pensarsi come membro
legislatore, oltre che suddito, del regno dei fini o delle persone; ovvero
concepire le proprie massime dal punto di vista di una persona che
cerca il riconoscimento da parte degli altri ― e quindi anche da parte
di se stessa ―, come persona. E, quando Habermas reagisce alla accu-
sa di eurocentrismo238, lo fa sapendo bene ― con Hegel239 ― che
l’Occidente cristiano, sia pur tra mille incoerenze, ha indotto il resto
del mondo a riconoscere nell’uomo quella figura della persona, che sta
al centro delle stesse invocazioni e rivendicazioni che oggi, nei con-
sessi internazionali, si odono sempre più spesso provenire dai Paesi
del Terzo mondo.
Del resto, se i PPN indicano altrettanti lati dell’agire comunicativo,
questo a sua volta esprime quegli aspetti della persona, che rientrano
236
«In quanto soggetti giuridici, essi [i cittadini] giungono all’autonomia solo a patto
d’intendersi e di agire anche come autori di quei diritti cui, come destinatari, vogliono sotto-
mettersi. Naturalmente, in quanto soggetti giuridici, essi non sono più liberi di scegliersi un
medium qualsiasi per realizzare la loro autonomia. Non possono più, in altre parole, disporre
liberamente di quale linguaggio vogliano servirsi. Essendo soggetti giuridici, il codice giuridi-
co si presenta come l’unico linguaggio prestabilito in cui possono esprimere la loro autono-
mia» (cfr. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 152–153).
237
L’indisponibilità in questione, è quella che ― secondo lo stesso Habermas ― autoriz-
zerebbe l’espulsione da un paese democratico dell’immigrato che non accettasse
l’integrazione civile; e autorizzerebbe pure la censura nei suoi confronti, qualora questi inci-
tasse altri a fare altrettanto.
238
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, pp. 57 ss.
239
Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), § 482.
Capitolo III: L’etica del discorso in Habermas: un’analisi di struttura 513
nella sfera hegelianamente descritta come “spirito oggettivo”. Lo spi-
rito oggettivo è la necessità umana di stare in reciproca e stabile azio-
ne comunicativa. Sottrarsi a questa necessità, significherebbe morire,
almeno come persone, cioè ridursi hómoios phytõ. Ora, i PPN indica-
no appunto quei lati della persona umana che resistono ― come testi-
moniato dalla contraddizione performativa ― alla ipotesi della loro
messa in parentesi240. E, per questo, essi assumono quel ruolo normati-
vo, che dà sostanza al principio U. Del resto, il free rider che agisce in
modo tendenzialmente strategico, che cosa fa, se non separarsi dalle
condizioni che lo rendono persona, e in tal modo ― se davvero è coe-
rente nella ingiustizia ― autodistruggersi per qualche aspetto241?
Insomma, ciò rispetto a cui non si può in alcun modo arretrare, sarà
sì un fatto, ma di tipo normativo: non un fatto nel senso della mera fat-
ticità ― come il nostro autore sa bene. Ora, l’esistenza di simili fatti
normativi ― che costituiscono quella che potremmo chiamare la me-
tafisica sottintesa nel discorso habermassiano ― non può non portare
ad una rivisitazione critica del dogma della scissione tra giusto e be-
ne242, e al conseguente recupero di una classica ovvietà: intendere il
giusto come il riconoscimento del bene, cioè, concretamente, come il
riconoscimento dovuto alla persona stessa, e alle forme “fisiologiche”
della relazione intersoggettiva, di cui la persona vive.
240
Come già sappiamo, la contraddizione performativa, in Habermas, è il succedaneo ―
pragmatico ― della contraddizione pratica evocata da Kant nella Grundlegung (secondo la
variante eidologica e quella buletica).
241
Per uno sviluppo di questo tema rinviamo al capitolo 1 della Parte Terza del presente
volume.
242
Significativa, al riguardo, la critica mossa da Taylor al proceduralismo: i proceduralisti
con la loro teoria cercano di «rendere giustizia agli iperbeni che li motivano, anche se loro
non sono in grado di riconoscerli» (cfr. Ch. Taylor, Sources of the Self, Harvard University
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1993, pp. 119–121). A. MacIntyre (cfr. Whose Justice? Which Rationality?, University of Nô-
tre Dame Press, Nôtre Dame Indiana 1988) paragona il cosmopolitismo ― che si esprime nel
punto di vista della giustizia ― ad una lingua veicolare mondiale, avente la pretesa di tradurre
tutte le altre: in realtà essa esercita una coazione di senso sulle lingue storiche, vietando ai
parlanti di realizzare le fusioni d’orizzonte che, sole, facendo toccare con mano le situazioni
di intraducibilità, potrebbero ampliare il loro sguardo (cfr. ibi, p. 384). Senonché, Habermas
dice d’avere in mente appunto la prospettiva del confronto, e non quella di un’omologazione
su base aprioristica (cfr. J. Habermas, Teoria della morale, cap. 12).
514 Parte quinta: studi su etica e universalità
L’alternativa a quest’ultima linea di interpretazione e di sviluppo
del trascendentalismo, sembra invece quella polemicamente indicata
da Tugendhat, e paventata da Habermas: la contrattazione tra punti di
interesse privati, ovvero l’“autonomia” concordata.
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532 I testi citati
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phie, Ginevra 1904, pp. 833–854.
AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche
Area 02 – Scienze fisiche
Area 03 – Scienze chimiche
Area 04 – Scienze della terra
Area 05 – Scienze biologiche
Area 06 – Scienze mediche
Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 – Ingegneria civile e Architettura
Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche
Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 – Scienze giuridiche
Area 13 – Scienze economiche e statistiche
Area 14 – Scienze politiche e sociali
Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su
www.aracneeditrice.it
Finito di stampare nel mese di novembre del 2011
dalla « Ermes. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »
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per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma