LA CAPPELLA SISTINA
Tutto inizia nel 1471, quando il ligure Francesco della Rovere viene eletto al
soglio pontificio con il nome di Sisto IV. È un uomo astuto, ambizioso e colto,
amante dei libri e dell'arte, tanto che durante il suo pontificato Roma
diventa il polo d’attrazione dei più importanti intellettuali dell’epoca.
È lui infatti che arricchisce la biblioteca vaticana di preziosi classici e che la
rende accessibile agli umanisti, è lui che crea il primo nucleo di quelli che
saranno poi i musei capitolini ed è al suo nome che è legata la più grande
impresa artistica del Rinascimento italiano. Papa Sisto inizia a costruire la
sua Magna Capella nella seconda metà degli anni Settanta. Anche se i
documenti non ci aiutano a stabilire con precisione la data d’inizio dei lavori e il
nome dell’architetto, la maggior parte degli studi fa riferimento al 1477 e sul
fiorentino Baccio Pontelli.
Le dimensioni sono grandiose: 40 m di lunghezza, oltre 13 di larghezza,
quasi 21 al sommo della volta. Alcuni studiosi hanno ravvisato una
impressionante similitudine con le misure e le proporzioni del
leggendario tempio di Salomone a Gerusalemme. Evidentemente Sisto IV
non intende essere da meno. Vista da fuori la Cappella Sistina assomiglia
a una fortezza, solida e austera, con finestre alte e strette e nessun parato
decorativo. Tanto è semplice l’esterno quanto ricca e preziosa la decorazione
interna.
Sisto IV chiama a sé i più grandi talenti del tempo, tutti pittori toscani e umbri
che gravitano nell’ambito di Lorenzo de’ Medici.
Per il soffitto sceglie un cielo stellato di gusto un po’ medievale, sul
tipo di quello che Giotto ci ha lasciato nella Cappella degli Scrovegni a Padova
(ma quattro volte più grande!), negli spazi tra le finestre i ritratti a figura
intera dei papi che lo hanno preceduto, sulla parete d’altare l’Assunzione
al cielo della Vergine Maria, sulle pareti lunghe e sul lato opposto all’altare
scene della vita di Mosè e di Cristo. La decorazione originale della volta e della
parete d’altare non esiste più ma, a testimonianza del gusto e della
raffinatezza della cultura figurativa sistina, restano sui lati lunghi i grandi
riquadri con le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento e dei
rispettivi protagonisti.
Cristo e Mosè, il messia e il suo precursore, si guardano e si parlano dalle due
pareti, ogni episodio che riguarda l’uno, richiama l’altro sull’opposto lato. Sisto
IV muore nel 1484, certamente soddisfatto della sua impresa. Non passano
però molti anni che un altro Della Rovere, Giuliano, sale al soglio di Pietro. Nel
1503 è eletto papa Giulio II, nipote di Sisto, come lui ambizioso e come lui
desideroso di lasciare nella storia un’impronta indelebile. Quel cielo stellato
esprime un gusto un po’ antiquato e ormai ci troviamo
nel Rinascimento maturo: non solo prospettiva e proporzione, è esploso
anche l’interesse per i soggetti mitologici, per la figura nuda, gli artisti sono
diventati degli intellettuali, si dibatte sulla preminenza delle arti e c’è un certo
ombroso fiorentino che proclama la superiorità della scultura. Anche se poi non
disdegna di praticare anche un po’ la pittura, l’architettura e la poesia.
Si tratta naturalmente di Michelangelo Buonarroti, giovane talento allevato nei
giardini di Lorenzo il Magnifico. Michelangelo ha già dato prova di sé
lasciando in Vaticano una commovente Pietà e a Firenze alcuni dipinti nelle
case di ricchi mercanti. Ecco dunque l’uomo giusto per Giulio II, quello
che può rinnovare il “vecchio soffitto” della Sistina e nello stesso
tempo progettare una grandiosa tomba da collocare proprio sotto alla
cupola di San Pietro. Michelangelo Buonarroti accetta nel 1508
l’incarico di eseguire sulla volta nove scene tratte dalla Genesi,
insieme alle figure di profeti, sibille e antenati di Cristo.
Le difficoltà non sono poche. La superficie è vastissima e Michelangelo rifiuta
l’aiuto di collaboratori. La curvatura della volta comporta problemi di
distorsione ottica. L’altezza determina costi molto elevati per i ponteggi. Infine
il papa ha molta fretta che l’opera sia portata a termine.
L’artista, rivelando tutta la sua genialità, riesce a concludere gli affreschi nel
1511 impiegando meno di quattro anni. Le figure sono numerose e di
piccole dimensioni. Man mano che l’opera avanza l’artista procede a
una semplificazione, le figure diventano più grandi e meno numerose.
Prende confidenza con le grandi dimensioni e ha sempre meno bisogno di
cartoni preparatori. Inoltre egli stesso progetta e mette a punto un
ingegnoso ponteggio mobile che accorcia i tempi e riduce enormemente i
costi. Dal punto di vista figurativo tutta la volta è un inno al corpo
umano, alla sua forza, bellezza, capacità espressiva. Ogni tipo di torsione
viene sperimentato, ogni muscolo messo in evidenza come in una
rappresentazione scultorea. Il nudo è indagato in tutte le sue forme. Il
paesaggio naturale e lo sfondo architettonico passano del tutto in secondo
piano.
I colori sono accesi, brillanti e cangianti.