A. Lazzari, Il Concetto Di Genere Letterario
A. Lazzari, Il Concetto Di Genere Letterario
Introduzione
Semplice e inafferrabile al contempo, il concetto di genere letterario è una delle categorie più
antiche della storia del pensiero sulla letteratura.
Di origine latina (da genus, -eris), simile a sua volta alle voci greche γένος (genere, stirpe) e
γίγνομαι (nascere), il termine “genere” ha origine nell’ambito delle scienze naturali. Dalla
biologia passa ben presto al linguaggio filosofico, giuridico e di altre discipline per indicare
un insieme di elementi che, da una parte, comprende in sé più specie mentre, dall’altra,
rappresenta ciò che è comune alle stesse specie. È proprio quest’ambiguità di significato, che
si riscontra anche in letteratura, a creare tutta una serie di problemi definitori.
La locuzione “genere letterario” è infatti un’etichetta utile a identificare e quindi raggruppare
opere letterarie con caratteristiche comuni; ma comuni secondo quale criterio, quale sistema?
Ovvero: esistono caratteristiche intrinseche, condivise da più opere, che le possano
identificare a priori come appartenenti allo stesso genere? E, se sì, caratteristiche di che tipo?
Formali? Stilistiche?
Le terminologie sono cambiate a seconda delle epoche e delle culture, ma la mania
classificatoria di critici, storici della letteratura ed editori è parsa spesso irrefrenabile: ogni
“genere” è stato a sua volta suddiviso in sottogeneri e sotto-sottogeneri. Basti pensare a
quante forme di romanzo esistono o sono esistite: rosa, giallo, storico, di formazione, di
fantascienza, cavalleresco, picaresco etc. Inoltre, fenomeno contrario, caratteristiche simili
presenti in più “generi” fanno raggruppare opere diverse in sorta di categorie sovrageneriche,
talora chiamate “specie” o “modi”, come il fantastico o il realismo.
Eppure, un comune dizionario italiano può dare uno spunto. Per il Devoto-Oli (1987),
“genere” è “ciascuna delle varie forme di espressione artistica [in questo caso leggi
“letteraria”], secondo i canoni della tradizione”. Tradizione, parola fondamentale. Moltissime
opere appartengono a un determinato genere letterario perché sono “nate” all’interno di quel
genere, oppure perché a un certo momento della loro fortuna critica lì sono state inserite (da
commentatori, teorici, editori etc. In duemilaquattrocento anni di riflessioni sulla letteratura,
infatti, gli inevitabili cambiamenti culturali hanno anche apportato notevoli trasformazioni
semantiche, terminologiche e classificatorie. Vediamone alcune, sia dal punto di vista storico
sia dal punto di vista dello stato attuale della teoria.
1. La prospettiva storica
La consapevolezza che non tutti i “racconti” hanno le stesse caratteristiche è nata in Grecia tra
il VI e il V secolo a.C., quando alcuni filosofi cominciarono a esaminare le forme poetiche
allora esistenti (l’epica, la drammatica, ma anche la lirica) per comprendere il loro
funzionamento. Seguendo lo stesso destino dello studio della grammatica o della retorica,
però, una pratica nata come semplice fenomeno descrittivo si è trasformata in breve tempo in
un fenomeno prescrittivo: le regole ricavate dai testi già scritti sono divenute ben presto
“norma” per quelli ancora da scrivere.
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1.1. La Grecia classica: Platone e Aristotele
La più antica di queste descrizioni, e una delle più celebri, è quella fatta da Platone (c. 428-
348 a.C.) nel terzo libro de La Repubblica (387-367 a.C.). In un dialogo con Adimanto,
Socrate, maestro dello stesso Platone, analizza l’inizio dell’Iliade di Omero e distingue due
“modi di dizione”:
un tipo di “narrazione semplice” (in greco διήγησις, diègesis), in cui il poeta parla in
prima persona senza far credere che una persona diversa da lui stia prendendo la
parola; e
una forma di “imitazione” (μίμησις, mìmesis), nella quale l’autore “annulla la sua
personalità” e dà la parola a un personaggio che in qualche modo gli fa da portavoce.
Sulla base di questa duplice distinzione, il filosofo distingue tre “forme di poesia e mitologia”,
ovvero:
nella poesia e nella narrazione di miti c'è un genere che si basa completamente
sull'imitazione, ossia, come tu dici, la tragedia e la commedia, un altro genere in cui il
poeta stesso riferisce i fatti (e questo lo puoi trovare soprattutto nei ditirambi), e infine
un terzo genere che ricorre a entrambe le forme e si trova nella poesia epica e in molti
altri componimenti.
Per Platone, attraverso la voce di Socrate, solo la seconda forma è “pura” e non ingannevole,
perché il poeta non finge di essere nessun altro; e solo questa è adatta all’educazione dei
guardiani della repubblica, perché essi non dovrebbero mai avere a che fare con inganni o
duplicità. In realtà, infatti, il fine dell’analisi de La Repubblica non è estetico ma politico,
ovvero morale ed etico. Qui, il filosofo non sta facendo teoria letteraria, sia pure ante litteram,
ma sta “progettando” il suo Stato perfetto, dove non c’è posto per finzione o doppiezza. E, in
tale Stato, solo la “narrazione semplice” che tratti di argomenti o personaggi elevati può
essere consentita, perché attraverso di essa si può apprendere il giusto comportamento. La
famosa condanna platonica dell’arte e della poesia è dunque parte di un progetto assai più
vasto che appartiene comunque a una dimensione ideale.
Platone, da una parte, è di una modernità sconcertante. Nei pochi frammenti sopra riportati
anticipa due argomenti che, in termini assai diversi, saranno per secoli al centro delle
discussioni di poetica: la funzione didattica della poesia e i pericoli inerenti a certa letteratura
“di consumo”. Dall’altra, tuttavia, egli non percepisce come anche una narrazione semplice,
secondo la sua stessa definizione, possa essere una forma di mìmesis: la voce dell’autore,
infatti, può non corrispondere alla voce di quell’entità che oggi chiamiamo il “narratore”.
Di questo si accorgerà invece Aristotele (384-322 a.C.). Movendo proprio dal pensiero di
Platone, suo maestro, Aristotele elabora un vero e proprio sistema teorico, abbastanza
coerente, che è ancora oggi il punto di partenza di quasi tutte le riflessioni sulla letteratura.
Opera fondamentale è la Poetica che, nata probabilmente come serie di appunti per
l’insegnamento nel Liceo e diventata “testo” solo per merito di Andronico da Rodi tra il 40 e
il 20 a.C., è stata ininterrottamente per secoli la Bibbia di poeti e pensatori. Strano destino per
un’opera che per oltre mille anni è stata conosciuta soltanto per via indiretta.
Nonostante il testo che abbiamo a disposizione oggi non abbia mai avuto una sistemazione
definitiva, l’incipit della Poetica appare leggibile come una vera e propria dichiarazione
programmatica:
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Trattiamo dunque della poetica in sé e delle sue forme, quale potenzialità ciascuna
possegga e come debbano comporsi i racconti perché la poesia riesca ben fatta, e
inoltre di quante e quali parti consista, e anche, in modo simile, di tutti gli altri
argomenti che appartengono alla medesima disciplina, incominciando secondo natura
dapprincipio dei principi. L’epica, così come la poesia tragica, nonché la commedia, la
composizione di ditirambi e la maggior parte dell’auletica e della citaristica nel
complesso sono tutte imitazioni, ma si distinguono l’una dall’altra sotto tre aspetti:
nell’imitare o con mezzi diversi, o con oggetti diversi, o diversamente e non nello
stesso modo. (117)
Aristotele, intanto, comprende che tutte le forme poetiche sono mìmesis, imitazione. E
l’essere imitazione, del resto, come sottolinea più avanti (cap. 4) è proprio la caratteristica
fondamentale dell’arte (τέχνη, tèchne), in quanto prodotto dell’essere umano. L’imitare è
infatti connaturato agli uomini, li differenzia dagli animali e dà loro piacere.
Se la mìmesis è la categoria generale, al suo interno le varie forme (είδη, eide) di arte si
distinguono per tre diversi aspetti: per con che cosa si imita, per cosa si imita e per come si
imita:
per il con che cosa si imita, ovvero i mezzi, Aristotele distingue la danza (il ritmo), la
parola (il λόγος) e la musica (l’armonia), che possono essere usati sia da soli sia in
combinazione;
per il cosa si imita, ovvero l’oggetto dell’imitazione, Aristotele parla dei personaggi,
ovvero dei “caratteri” (ἤθη). E sostiene che, come le persone possono essere “serie” o
“dappoco”, a seconda dei loro vizi o virtù, anche i personaggi possono essere o migliori
o peggiori o uguali a noi. Applica quindi questa distinzione a forme da lui conosciute:
“Secondo la stessa differenza la tragedia si distingue dalla commedia; questa infatti si
propone di rappresentare persone peggiori, quella migliori che nella realtà” (cap. 2);
per il come, afferma infine: “E’ possibile infatti imitare gli stessi oggetti con gli stessi
mezzi, sia narrando, diventando qualcun altro come fa Omero o rimanendo se stesso e
non trasformandosi, sia che quelli che imitano siano tutti quanti come agenti operatori”
(cap. 3).
E prosegue quindi distinguendone gli elementi essenziali. Per i primi tre, relativi all’oggetto
dell’imitazione (le cose), riconosce:
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i “caratteri” (gli ἤθη, èthe), “gli elementi in base ai quali noi diciamo che i personaggi
hanno queste caratteristiche, queste o quelle qualità” (145);
il “pensiero” (la διάνοια, diànoia), cioè tutto ciò con cui, attraverso la parola, i
personaggi o dimostrano qualcosa o esprimono un’opinione.
Per i mezzi dell’imitazione, Aristotele indica quindi l’“elocuzione” (λέξις), cioè l’insieme
delle parole che servono a esprimere il pensiero, e il “canto” (μελοποιία). Riguardo al modo
con cui si attua la mìmesis, specifica del teatro è la “vista” (οψις), ovvero la scenografia.
L’analisi della tragedia è infine approfondita attraverso l’individuazione di sotto-tipologie:
distingue infatti tragedie a favola semplice e tragedie a favola complessa (quelle in cui sono
presenti rovesciamenti e riconoscimenti).
La fortuna delle categorie critiche individuate da Aristotele, e quindi delle forme letterarie da
lui nominate, è stata enorme, anche se spesso il fraintendimento è stato notevole. La
definizione della tragedia con le sue unità (tempo, spazio e azione), la polarizzazione tra un
livello alto e tragico e uno basso e comico, la scala gerarchica fra i generi, sono solo alcuni
dei fraintendimenti nati dalle osservazioni del filosofo greco e perpetuatisi fino all’epoca
romantica, e talora anche oltre. Del resto, in pratica, l’originale greco de La poetica è rimasto
fruibile solo per i filologi alessandrini, i retori latini e i grammatici bizantini. Successivamente
(e fino al 1500!), il pensiero aristotelico sull’arte è stato trasmesso per via indiretta da
commentatori più o meno fedeli. E, nel frattempo, tutto il sistema dei generi, e gran parte
della terminologia adottata da Aristotele, ha modificato la sua valenza originaria
trasformandosi profondamente a livello culturale, e quindi semantico. È sufficiente prendere
in considerazione alcuni dei concetti usati da Aristotele per capire quanto sia difficile tradurre
il termine originale greco in italiano moderno.
La parola μίμησις, ad esempio, aveva in greco, e quindi anche in Aristotele, un significato
ambiguo: se da una parte indicava effettivamente una riproduzione poetica della realtà
empirica, una “imitazione” appunto, dall’altra aveva un’accezione negativa come
“simulazione” (Lanza 1987: 57-58) . Tradurre μίμησις con “imitazione” dunque rende solo in
parte il significato originario. Stranamente, il termine moderno che più si avvicina al
significato originario di μίμησις è l’inglese fiction. Fiction, infatti, attraverso l’inglese medio
fictioun, deriva dal verbo latino fingere aveva un duplice significato: “far finta”, “simulare”,
ma anche “plasmare”, “creare” – il fictor, in latino, era lo scultore. Ma anche fiction è un
termine difficilmente traducibile in italiano. A parte il problema dell’adozione del termine
inglese in ambito televisivo e cinematografico, con un notevole distorcimento del significato
originale, tradurre fiction con “finzione” metterebbe troppo l’accento sulla falsità del
processo, mentre il più neutro “narrazione” non rende l’idea di una riproduzione creativa
“plasmata” sulla realtà (Carosso 1992: viii).
Anche il termine ἦθος (èthos - pl. ἤθη, èthe) è molto lontano dal moderno concetto di
“personaggio”. L’èthos greco era il carattere, l’indole, ma anche il modo di comportarsi (la
radice è la stessa di “etica”). Ancora una volta il termine semanticamente più equivalente è
l’inglese “character”, contemporaneamente “carattere” (personalità) e “personaggio
finzionale”. Il nostro “personaggio” proviene invece dal latino “persona” (a sua volta di
derivazione etrusca), ovvero, in origine, la maschera che portavano gli attori teatrali. Niente a
che fare con la dimensione caratteriale ed etica degli esseri umani rappresentati sulla scena o
nelle narrazioni.
Altra difficoltà è la traduzione della parola μυθος, mythos. In greco mythos significava parola,
detto, dialogo, racconto, diceria, consiglio, ma anche favola, racconto favoloso, leggenda (da
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cui il moderno “mito”). Per comprendere la traduzione di mythos con “favola”, occorre
specificare che il termine “favola” è qui inteso nel senso di “materiale narrativo di base su cui
è costruito l’intreccio”, nella definizione di fabula data dai formalisti russi all’inizio del 1900
e che ampliava notevolmente il significato della fabula latina (storia, discorso, diceria,
favola…).
Per comprendere meglio la concezione “poetica” degli antichi greci, tuttavia, occorre prendere
in considerazione i termini che indicavano l’arte stessa e l’artista, il poeta. “Arte” in greco era
τέχνη, tèchne, termine che è all’origine della moderna tecnica. A sua volta “poeta” (ποιητής,
poietes) deriva dal verbo ποιέω (poièo: faccio, fabbrico, costruisco) e indicava sia l’artista sia
l’operaio. La dimensione quasi soprannaturale che oggi connettiamo con la capacità di
creazione artistica aveva dunque nella Grecia classica una connotazione molto più umana. Il
poeta, l’artista, non era un individuo fuori dall’ordinario, preda del demone della sua genialità
creativa - concezione per noi di derivazione romantica - ma un ben più umile artigiano che
usava le proprie competenze tecniche per riprodurre esempi di realtà. Probabilmente, è stata
proprio la consapevolezza della componente “tecnica” della produzione poetica a permettere
ad Aristotele un’analisi sistematica ma aperta, sia pure incompiuta e talora contraddittoria,
delle forme letterarie allora esistenti. E, d’altra parte, l’approccio sistematico combinato con
le aperture teoriche ha fatto sì che un testo frammentario e incompiuto come la Poetica sia
stato letto e interpretato da culture diverse, adattato a sistemi letterari diversi e sia ancora
oggi, nonostante tutto, perfettamente attuale.
1.2. L’Ellenismo
Il sistema aristotelico, tuttavia, si è imposto immediatamente come sistema prescrittivo. Per
secoli, nessuna poetica è riuscita a superare le categorie definite da Aristotele. Caso esemplare
è quello dei filologi alessandrini. Nonostante la costruzione empirica di un sistema
classificatorio che ha avuto grandissima importanza per il canone greco e la sua trasmissione
(gran parte dei testi greci oggi conosciuti ci sono pervenuti attraverso le scelte operate dai
responsabili della biblioteca di Alessandria), gli alessandrini non riconobbero come genere
letterario neppure il romanzo greco e latino. Aristotele non si era occupato di opere in prosa e
gli alessandrini non avevano una base teorica per definirle, ne parlarono dunque
indifferentemente come δρᾶμα (dràma, dramma) o διήγημα (dièghema, racconto o
resoconto).
Cicerone (106-43 a.C.), seguace delle idee platoniche, trattò dell’oratoria in varie opere
filosofiche (de Oratore, Orator, Brutus, de Invenzione…), e nel De Optimo genere oratorum
quasi casualmente fornì un primo elenco dei genera poetarum dell’epoca:
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Oratorum genera esse dicuntur tamquam poetarum; id secus est, nam alterum est
multiplex. Poematis enim tragici, comici, epici, melici, etiam ac dithyrambici, quod
magis est tractatum a Graecis quam a Latinis, suum cuiusque est, diversum a reliquis.
Itaque et in tragoedia comicum vitiosum est et in comoedia turpe tragicum; et in
ceteris suus est cuique certus sonus et quaedam intellegentibus nota vox. (I, 1)
Cicerone cita dunque come generi la poesia tragica, comica, epica, melica e ditirambica, tutte
forme chiaramente più greche che latine. Secondo Cicerone, inoltre, la retorica era superiore
come genere alla poesia perché arte perfetta e indivisibile, mentre la seconda era suddivisa in
molte forme. Ecco che comincia il problema di quale forma è considerabile genere e quale
sotto-genere.
Comunque, Cicerone ha in special modo contribuito a quella che diventerà la “teoria dei
generi letterari” con le sue osservazioni sullo stile e con l’elaborazione della celebre
concinnitas, l’eleganza formale creata attraverso la simmetria delle varie parti del discorso, di
cui egli sarà maestro fino al Rinascimento e oltre, e con l’affermazione, che tanta forza avrà
dopo di lui, della necessità di adattare lo stile a ogni singola occasione oratoria o poetica.
A Roma prese anche vita una disputa tra i fanatici della letteratura arcaica e quelli di una
poesia nuova, una vera e propria “querelle tra antichi e moderni” ante litteram. Tra gli altri,
Orazio (65-8 a.C.) riuscì a dare alternativamente voce all’una e all’altra fazione: nell’Epistola
ad Augusto, infatti, egli difese l’arte e la poesia del suo tempo (poesia letta, non recitata
com’era invece più anticamente), mentre definì il teatro come un genere già superato. Nella
celeberrima Ars Poetica, invece, invertì i termini e, rifacendosi naturalmente ad Aristotele,
rimise sul podio il teatro, genere mimetico per eccellenza, accanto all’epica, che egli
comunque considerava la forma poetica (il termine “letteraria” era ancora al di là da venire)
caratteristica della sua epoca. Sempre nell’Ars poetica Orazio arrivò a distinguere due tipi di
azione, una “azione rappresentata” (quella teatrale) e un’azione “descritta” a parole (quella
tipica dell’epica). Proprio con Orazio, dunque, la distinzione tra mimesis e diegesis cominciò
a farsi più complessa.
Per Quintiliano (35-96 d.C. circa), il problema dei generi, sempre oratori, fece da sfondo a un
tema che successivamente darà luogo a innumerevoli discussioni, quello della trattazione
degli stili. Distinti in subtile, grande e medium, a ognuno di essi era legata una funzione
retorica specifica: il primo insegna, il secondo commuove, il terzo porta diletto (Institutio
oratoria, XII, LVIII). L’influenza di Quintiliano sulle poetiche successive alla sua è stata
notevole. E’ soprattutto dalla sua Institutio che l’idea che l’oratoria faccia parte dei generi
poetici passa poi al Rinascimento, quello italiano in particolare.
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lo stile “umile” (humilis), il più adatto alla dottrina e all’esegesi cristiana, doveva essere
disadorno ma non incolto e sciatto;
il “medio” (mediocris), che faceva uso di figure retoriche, poteva essere usato per
l’ammaestramento e l’esortazione;
l’“elevato” (gravis) poteva fare a meno delle figure retoriche ed era utile per incitare gli
uomini all’azione.
A partire dal IV/V secolo d.C., infatti, si verificò uno spostamento nel punto di partenza per
l’elaborazione dei sistemi: la categoria dello stile diventò man mano più importante di quella
della forma o del rapporto soggetto/oggetto.
Tutta la tradizione latina presenta vari elenchi di generi, ma è stato in particolare il
grammatico Diomede (tardo IV secolo d.C.) a elaborare un sistema di generi e sotto-generi,
assai complesso, fondato da una parte sulla tripartizione di tradizione platonico-aristotelica
ma adattato alle “specie” di poesia culturalmente identificabili. Nel III libro della sua Ars
grammatica, dedicato alla poetica, Diomede ha tracciato infatti uno schema articolato su due
livelli, genera e species. Al livello dei genera ha sviluppato la tripartizione platonico-
aristotelica identificando:
1) un genere attivo o imitativo (activum, imitativum): “in cui i personaggi soli agiscono,
senza che intervenga mai il poeta”;
2) uno narrativo o espositivo (enarrativum, enuntiativum): “in cui il poeta in persona
propria parla senza che intervenga mai alcun personaggio”;
3) un genere comune o misto (commune, mixtum): “in cui il poeta parla in persona
propria e dei personaggi prendono la parola”.
E’ da Diomede che il sistema dei generi passa ai pensatori medievali, primo tra tutti Giovanni
di Garlandia (circa 1190-1270). Nella sua Poetria, l’analisi era articolata secondo 4 punti di
vista:
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2) secondo il modo di esposizione (quicumque loquitur: riprende la tripartizione di
Diomede vera e propria);
3) secondo il grado di realtà del racconto (tre species narrationis: res gesta o historia,
res ficta o fabula, res ficta quae tamen fieri potuit o argomentum);
4) secondo i sentimenti espressi nella poesia (de differenzia carminum: genera tragica,
comica, satyrica, mimica).
In effetti, nel corso del Medioevo hanno convissuto due tendenze apparentemente opposte.
Nonostante i tentativi di “ristrutturazione” del sistema, le auctoritates rimanevano quelle
classiche (Virgilio soprattutto) e la normativa letteraria rifletteva ampiamente Orazio e
Quintiliano, soprattutto per quanto riguardava il principio dell’essenzialità della concordanza
tra argomento ed espressione linguistica. Normativa a parte, tuttavia, lo scarto tra principi
teorici ed effettiva applicazione pratica si faceva sempre più ampio e proliferavano
numerosissimi generi nuovi. Soltanto fra i generi minori, Hans Robert Jauss (1987) ricorda il
proverbio, la parabola, l’allegoria, la favola, l’exemplum, la leggenda, la fiaba, il fabliau, la
novella. Alcuni erano generi antichi rivisitati in chiave medievale (la favola, ad esempio), altri
erano totalmente nuovi (la novella, appunto). Tutte queste forme letterarie erano inoltre di
tradizione orale e popolare ed erano quindi difficilmente classificabili secondo canoni classici.
Del resto, la stessa correlazione tra scelta degli stili e materia trattata si era già spezzata con
Agostino. La dottrina cristiana, per principio, parla sempre di argomenti grandi ed elevati, ma
essa doveva essere compresa da un pubblico molto vasto e incolto e uno stile elevato non era
sufficientemente comunicativo. Le Sacre Scritture stesse presentavano uno stile humilis,
fondato tuttavia su una fusione tra sfera dell’elevato e quella dell’umile, senza disdegnare
neppure il ricorso alle figure retoriche, previste dallo stile medio, che potevano rendere più
piacevole il discorso.
In effetti, lo stile elevato di concezione classica, grande e appassionato, in cui il ricorso alle
figure retoriche non distoglieva l’attenzione dalla sublimità del discorso, era andato perduto
già nel primo Medioevo. Del resto, come scrive Eric Auerbach (1960: 162-213), “la società
sulla quale si fondavano la tradizione letteraria antica e, praticamente, la vita letteraria, si
dissolveva… La letteratura di impronta antica perdeva il suo pubblico e la sua funzione. Essa
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perdeva anche le possibilità tecniche di diffondersi […]. A partire dall’età merovingia in
Gallia e dall’età longobarda in Italia non c’è più pubblico colto”.
Le uniche eccezioni a questa tendenza sono le Chansons de geste (primi esempi verso 1100),
scritte in uno stile epico elevato che ricalca fortemente modelli antichi o biblici, sia pure con
una certa mescolanza di elementi grotteschi e farseschi. Lo stile della Chanson de geste non
ha comunque avuto molta influenza sul resto della letteratura medievale.
7. Ma occorre discutere quali siano queste cose di massima portata. E per prima cosa
nell'ambito dell'utile (utile): qui, se consideriamo attentamente lo scopo di tutti quelli
che ricercano 1'utilità, troveremo che non si tratta di null'altro che della salvezza. In
secondo luogo per ciò che costituisce il piacere (delectabile): e qui affermiamo che
fornisce il grado massimo del piacere ciò che dà piacere in quanto è 1'oggetto più
prezioso dei nostri appetiti; che è l'amore fisico. In terzo luogo, per 1'onesto
(honestum): e qui nessuno dubita che si tratti della virtù. Perciò queste tre, vale a dire
salvezza, amore a virtù, si rivelano quelle realtà auguste che si devono trattare nei
modi più alti, o cioè tali si rivelano gli argomenti che hanno più stretta relazione con
esse, come la prodezza nelle armi, 1'amore ardente e la retta volontà.
Gli argomenti di “massima portata” erano dunque l’utile, perché l’uomo è essere vegetativo; il
delectabile, perchè essere animale; e l’honestum, perchè essere razionale. Per quanto riguarda
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l’inventio (la scelta degli argomenti), i temi massimamente poetici erano allora la “prodezza
d’armi” (armorum probitas), la “fiamma d’amore” (amoris accensio) e la “dirittura di
volontà” (directio voluntatis), che corrispondevano alla ricerca della salvezza, dell’amoroso
godimento e delle virtù. Anche per Dante, alla scelta dell’argomento doveva corrispondere la
scelta adeguata dello stile. A tal fine egli si rifaceva ancora una volta all’Ars poetica di Orazio
(chiamata nel Medioevo Poetria).
Al posto della tripartizione scolastica degli stili (grandiloquus, mediocris e humilis), Dante si
riferiva ai tre genere letterari della tragedia, commedia ed elegia, i primi due concepiti anche
nel Medioevo italiano come generi esclusivamente poetici: “Per tragediam superiorem stilum
inducimus, per comediam inferiorem, per elegiam stilum intelligimus miserorum” (IV, 5). Il
genere tragico doveva quindi narrare vicende di uomini illustri, cominciare e finire
luttuosamente ed essere scritto in stile elevato (in questo caso in volgare illustre); il comico
prevedeva le vicende di uomini privati, cominciava tristemente, si concludeva con un lieto
fine ed era scritto in stile medio o umile. Infine l’elegia obbligava a scegliere lo stile umile.
Anche il livello lessicale doveva adeguarsi allo stile e all’argomento prescelti e, in particolare
per lo stile tragico, si dovevano adoperare parole nobili, forti e armoniose, né rozze, né
puerili, né “femminee”.
Ma, nonostante tutte le teorizzazioni del De Vulgari eloquentia, proprio Dante decostruisce
nella Commedia le rigide convenzioni del suo tempo e, intrecciando innumerevoli stili e
registri, crea una tale polifonia di voci da risultare innovatore unico. E’ stata proprio la sua
grandezza, tuttavia, a impedire a Dante di divenire maestro, ossia a dar vita a un nuovo
genere: i suoi successori lo considerarono quasi immediatamente un modello irraggiungibile.
La Commedia, pur avendo per titolo il nome di un genere, è opera talmente singolare nella
letteratura di tutti i tempi da trascendere, come spesso accade ai capolavori, ogni etichetta e
definizione di comodo.
1.6. Il Rinascimento
Occorre attendere il Rinascimento, in particolar modo quello italiano, perché gli antichi generi
siano riscoperti in modo filologicamente più corretto (anche se la fruizione degli stessi
rimaneva fondamentalmente diversa). Del resto, fino a gran parte del ‘500, furono ancora i
classici, soprattutto i latini, a fare da fonti e auctoritates primarie per sempre nuove
rielaborazioni di sistemi di generi: Orazio e Virgilio per Marco Gerolamo Vida (De arte
poetica, 1527), Aristotele e Diomede per Giulio Cesare Scaligero (Poetices libri septem,
pubblicata postuma nel 1561) e altri.
Data cruciale per la teoria dei generi – e per molti letterati – fu il 1508, anno in cui venne
stampato per la prima volta il testo originale della Poetica di Aristotele (dal ‘300 se ne
conosceva una traduzione in latino che però non era riuscita ad attirare l’attenzione). Nel
1570, inoltre, Lodovico Castelvetro pubblicò la sua Poetica d’Aristotele volgarizzata e sposta,
un finissimo commento al testo aristotelico fatto però con l’intenzione esplicita di costruire su
di esso una nuova poetica, più moderna e confacente alla letteratura del XVI secolo. Da quel
momento nacque un vero e proprio dibattito sulla teoria dell’arte, soprattutto su generi
particolari, ad esempio la tragedia, per la quale, a causa di un celebre fraintendimento di
Aristotele, furono fissate le “famigerate” unità di tempo, luogo ed azione. Fu inoltre dato il
via a un’ennesima querelle sulla legittimità dei generi nuovi: il poema romanzesco, la
tragicommedia e il dramma pastorale, ma anche il sonetto, furono di volta in volta accettati o
rifiutati dai commentatori e critici dell’epoca.
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In realtà, alcuni scrittori e teorici, come Giovan Battista Giraldi Cinzio (nel Discorso intorno
al comporre dei romanzi, 1549), sottolinearono sin dalla metà del ‘500 la convenzionalità
delle norme che regolavano il concetto di genere e concepirono immediatamente la
connessione di tali norme ad una certa staticità del modo di fruire del destinatario e del suo
sistema di attese. Proprio Giraldi Cinzio, tuttavia, cercò pure di definire il genere nuovo
dell’Orlando Furioso in base a canoni tradizionali aristotelici.
Del 1563 è l’Arte poetica del Minturno (Antonio Sebastiani), in cui l’autore – in maniera assai
empirica ma funzionale – si dedicò a un’opera di catalogazione e descrizione dei generi
letterari effettivamente esistenti all’epoca. In quest’opera alla suddivisione platonico-
aristotelica della poesia (drammatica e epica) venne aggiunta la lirica, espressione soggettiva
dell’io poetico, che finalmente entrò a far parte ufficiale del sistema normativo della
letteratura. Dimenticata in parte l’ars retorica, nacque così una nuova tripartizione della
letteratura in lirica, epica e drammatica (e finalmente il teatro fu nuovamente considerato
come tale), che resisterà fino a Hegel.
Costrizioni critiche e reazioni alle stesse continuarono ad alternarsi. Il Tasso (1544-1595)
stesso, dopo aver scritto la Gerusalemme Liberata secondo regole nuove, fu pesantemente
attaccato per la sua originalità. Le polemiche dettero quindi il via a un lungo e penoso
travaglio letterario e religioso, che lo portarono a riscrivere la Gerusalemme come
Conquistata. Altra grande e lunga discussione fu quella che accompagnò l’uscita del Pastor
Fido del Guarini, una tragicommedia, in cui elementi appartenenti al tragico si mescolavano
con quelli appartenenti al comico. Di nuovo, rifiutata dai letterati ortodossi come genere non
previsto dagli antichi, fu invece accettata da quelli più innovatori.
La voce più forte contro l’aristotelismo fu comunque quella di Giordano Bruno (1548-1600),
che, alla fine del ‘500, proclamò l’assoluta libertà del poeta e dell’uomo nei confronti delle
regole esterne ricavate dalla Poetica. Per Bruno la voce poetica doveva essere originale e non
cadere in facili imitazioni che fossero dei classici o dei padri della letteratura italiana (ad es.
Petrarca).
Roger Ascham (c. 1515-1568) riprese come fonte Quintiliano e propose quattro grandi classi
poetiche: poesia, storia, filosofia, oratoria. Ognuna era a sua volta suddivisa in sottoclassi, a
loro volta ordinate gerarchicamente. Della poesia, ad esempio, era la tragedia la forma
considerata più importante.
Philip Sidney (1554-1586) riprese dallo Scaligero la suddivisione dei poeti in tre gruppi:
religiosi, filosofici e “veri” poeti. Tra questi ultimi: gli epici, i lirici, i tragici, i comici, etc. Gli
eroici (o epici) erano i più grandi.
Più interessante e originale l’analisi di Thomas Hobbes (1588-1679). Per Hobbs, i vari tipi di
poesia corrispondevano ai luoghi naturali: la poesia eroica era rappresentativa della corte,
quella comica della città e quella pastorale, naturalmente, della campagna. La poesia cortese
era l’epica o la tragedia, la poesia cittadina, la satira o la commedia, la poesia della campagna
era quella bucolica o la commedia pastorale. L’epica rimaneva comunque la più nobile e
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importante delle forme poetiche. Da queste osservazioni si sviluppò un lungo dibattito sul
rapporto tra natura e cultura.
Milton (1608-1679) stesso entrò nel dibattito sui generi e, basandosi su commentari classici e
del Rinascimento italiano, accettò la divisione in lirica, epica e dramma. Genere superiore: la
tragedia.
In Francia, qualche anno dopo, Nicolas Boileau-Despréaux (1636-1711) prese in
considerazione i generi minori (idillio, elegia, ode, sonetto, epigramma, rondeau, ballata,
satira e vaudeville), ma come forme separate dai generi maggiori (tragedia, epica e
commedia). L’epica rimaneva il genere più importante.
Dryden (1631-1700) e Pope (1688- 1744) seguirono pienamente la tradizione indicata anche
da Milton: lirica, epica e dramma, ma con l’epica al vertice.
Finalmente, Samuel Johnson (1688-1784) si oppose all’imitazione di modelli letterari stabiliti
preferendo “new or irregular poetic forms” (forme poetiche nuove o non regolari). Anche per
Johnson, tuttavia, il genere più elevato rimase pur sempre quello epico.
Eppure, nonostante tutte le pretese di classicismo, proprio tra ‘500 e ‘700 si ebbe un
grandissimo processo di contaminazione tra generi letterari. Il pubblico aumentava (la
pubblicazione di opere pure) e diventava sempre più esigente. Nuove forme si sviluppavano,
ad esempio il teatro shakespeariano, e inducevano i teorici a rielaborare i vecchi codici.
Nonostante tutto, ancora nel ‘700, alcuni studiosi consideravano i generi esistenti come forme
reali e incorruttibili, e non storiche. Paradossalmente, proprio in quel momento, nacque e si
sviluppo il più prolifico tra i generi nuovi, il romanzo moderno (quello che in inglese è
chiamato novel). Da una parte, quindi, si continuava a discutere nei termini di Aristotele e
Orazio, dall’altra – alla fin fine – si accettavano i nuovi generi in base alle nuove norme del
“gusto” e a patto che si rispettasse l’elevatezza dello stile. Il fine della letteratura – e
sicuramente era importante il fatto che se ne vedesse un fine – era quello di creare effetti
emotivi che potessero “agire sul lettore”, arricchendolo non solo di conoscenza, ma
soprattutto di virtù.
In realtà, queste due tendenze erano già in nuce nel ‘700 tedesco. Da una parte Lessing (1729-
1781) rifiutò le regole meccanicistiche delle varie classificazioni (“il genio trascende tutte le
regole”, 1765 ca.), non aveva senso quindi difendere la purezza dei generi. Dall’altra Herder
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(1744-1803) fu probabilmente il primo a interpretare la teoria dei generi come un sistema
organico, in continua evoluzione e perenne cambiamento. Herder suggerì pure che la
letteratura dovesse essere fondata su criteri nazionali e introdusse metodi comparativi per
studiare le letterature nazionali. La ricerca di leggi generali che ricorressero nelle varie
letterature nazionali e lo studio dei contatti e degli scambi culturali che avessero prodotto
progressive contaminazioni fra forme diverse dettero il via alla “letteratura comparata” (il
termine “letteratura” sostituì appunto “poesia” – e “poetica” – solo alla fine del ‘700).
Nel corso dell’800, insomma, il concetto di genere perse l’antica accezione di somma di
regole fisse e immutabili, nonché la caratteristica di forma sovra-storica e immutabile, per
acquisire una dimensione storica e sovra-nazionale. In pratica, da categoria prescrittiva, quale
era diventata dopo Aristotele, ritornò ad essere lo strumento descrittivo che era stato in
origine, capace di analizzare i mutamenti diacronici e trans-nazionali delle varie forme
letterarie. E gli studiosi cominciarono ad apprezzare il valore di un’opera all’interno di una
tradizione, la quale a sua volta era da considerare all’interno di una determinata cultura in
contatto con altre culture. Non più alcun giudizio assoluto di un testo, quindi, ma una
valutazione relativa al tempo, al luogo e al contesto della scrittura.
Tornando all’ambito positivista, nel 1889 all’Ecòle Normale Supérieure di Parigi, Ferdinand
Brunetière (1849-1906) tenne una serie di lezioni in cui provò ad applicare il darwinismo allo
studio dei generi letterari. Le sue lezioni furono poi pubblicate nel 1892 con il titolo
L’Evolution des genres dans l’histoire de la littérature francaise. Introduction. L’évolution de
la critique depuis la Rénaissance jusque à nos jours (1892).
In pratica, il teorico francese cercò di spiegare attraverso tesi evoluzionistiche il procedimento
genetico che ha prodotto la moltiplicazione e differenziazione dei generi, considerando il
singolo genere letterario come un individuo appartenente a una determinata specie
(ovviamente poetica). In particolare, secondo Brunetière, era il principio della “divergenza dei
caratteri” ad aver modificato la condizione di unità, semplicità e omogeneità dei generi
primitivi nella molteplicità, complessità ed eterogeneità del sistema moderno. Il successo o la
decadenza di un genere era pure influenzato dalle caratteristiche della razza, dell’ambiente
(insieme di condizioni sociali, politiche e geografiche) e dell’individualità dello stesso autore.
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Da Platone a Croce, la parabola del concetto di genere apparentemente si chiude: partiti dalla
sua elaborazione si arriva alla sua completa distruzione, almeno da un punto di vista teorico.
In realtà, questa lunga storia, con tutte le osservazioni, definizioni e sistematizzazioni
succedutesi nel corso di duemilatrecento anni, non è stata altro che la base per la rifondazione
della nozione di genere letterario in senso moderno. Nel ‘900, infatti, le discipline
umanistiche hanno tentato di darsi le basi teoriche per una ristrutturazione in senso
scientifico: non solo osservazioni aprioristiche ma analisi dei fenomeni. Nello studio della
letteratura, alle categorie filosofiche, da sempre presenti, si sono aggiunti principi derivanti da
studi sociologici, semiotici, linguistici, antropologici etc. E il concetto di genere è tornato di
nuovo al centro delle speculazioni sul sistema letterario e artistico.
Nella loro Teoria della letteratura (ed. or. 1942), i comparatisti Wellek e Warren, trattando de
“I generi letterari” (1956: 313-331) si oppongono direttamente a Croce chiedendosi se
effettivamente la letteratura sia “una serie di singole opere poetiche, drammatiche e narrative
che condividono un nome comune”. E, citando N.H. Pearson, rispondono:
Simile alla precedente è la seguente definizione di Maria Corti (1976: 151-181) nei suoi
Principi della comunicazione letteraria, “Generi letterari e codificazioni”:
Il testo, salvo casi eccezionali, non vive isolato nella letteratura, ma proprio per la sua
funzione segnica appartiene con altri segni a un insieme, cioè a un genere letterario, il
quale perciò si configura come il luogo dove un’opera entra in una complessa rete di
relazioni con altre opere. (151)
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Abbiamo già detto che il nostro scrittore si mette a scrivere un romanzo (ma sarebbe lo stesso
se fosse un poeta e decidesse di scrivere una poesia). Molto probabilmente non sarà un
romanzo qualsiasi, ma un romanzo giallo, o d’amore, o d’avventura: le categorie sono tante e
sicuramente una o l’altra farà al suo caso, e non è neppure detto che debba essere una scelta
consapevole. Mentre scrive dovrà costruire dei personaggi, un intreccio, un tempo e uno
spazio e, inevitabilmente, dovrà seguire le regole del genere che ha scelto. Se vuole mettere
una fata che parla cinese, che combatte contro i gladiatori nella Firenze rinascimentale e che
alla fine scappa con Marco Polo su un’astronave aliena può anche farlo, ma dovrà
necessariamente giustificare le sue scelte e, bene o male, ricadrà in un genere o nell’altro. Se è
uno scrittore mediocre si limiterà a scopiazzare ciò che è stato fatto prima di lui, se è bravo
riscriverà le regole, se è geniale rifonderà il genere, il tutto consapevolmente o meno.
Passiamo all’editore. Anche lui avrà bisogno di sapere che genere di romanzo ha scritto il suo
scrittore, per inserirlo in una determinata collana, per far scrivere il risvolto di copertina, per
distribuirlo. Lo stesso discorso è valido per il libraio e persino per il lettore, che, sempre nella
maggior parte dei casi, avrà determinati gusti e aspettative, o magari conoscerà l’autore e
quindi il modo in cui scrive etc.
Ma scrittore, editore, libraio o bibliotecario, lettore hanno tutte queste competenze, di nuovo
implicite o esplicite, perché hanno dietro una storia “culturale”: spesso, ma non solo, una
storia di letture stratificate. Lo scrittore avrà imparato a leggere prima di scrivere, avrà
imparato le regole per scrivere da chi ha scritto prima di lui, avrà scelto, in qualche momento
della sua vita e per un qualsiasi motivo, che gli si confaceva di più scrivere quel tipo di storie
che erano etichettate come romanzi gialli piuttosto che racconti di fantascienza o poesie
d’amore. Ugualmente, dietro alle scelte dell’editore ci saranno capacità imprenditoriali,
conoscenza del mercato letterario, gusti del pubblico e persino gusto personale. E il pubblico,
la somma dei lettori, sarà stato condizionato da innumerevoli fattori interni ed esterni, a
partire da ciò che è stato costretto a leggere a scuola fino all’ultima campagna pubblicitaria
della nota casa editrice.
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luogo da cui far partire lo “scarto”, ovvero la differenza rispetto alla norma
(formalismo russo);
sintomo di una cultura e dello status sociale che lo produce (marxismo e sociologia
della letteratura: tiene conto solo del processo di produzione);
fenomeno sociale di comunicazione artistica (tiene conto dell’intero processo di
produzione-ricezione);
concetto con un carattere prevalentemente strumentale (Fubini cita Amerigo Castro:
“Un vero creatore usa il genere […] come condizione o strumento, ma la realtà che
riversa è quella creata, inventata da lui, non quella trasportata da un alluvione di topici
[…] Il genere sarà una condizione, una via d’accesso, nulla più”, 1956: 148);
programma (teoria della ricezione: appartiene alla competenza degli emittenti, ovvero
degli autori);
codice che presiede alla codifica e decodifica dell’opera (Eco, 1979).
Definizioni contraddittorie? No, soltanto parziali. In realtà, ancora oggi il dibattito sul
concetto di genere è aperto. Molto è stato detto e molto è stato compreso, per lo meno per
quanto riguarda il processo di comunicazione letteraria e il ruolo che il genere gioca in esso,
ma tanto è ancora da dire. Che il genere come categoria esista è dimostrato dal fatto che la
impieghiamo quotidianamente, che tipo di categoria sia è molto più difficile da definire. Certo
non è una categoria chiusa, dogmatica, prescrittiva e astorica, e forse, come sosteneva Croce,
neppure una categoria estetica. Sicuramente però, i generi, e usiamo il plurale stavolta, sono
categorie fenomeniche, sistemi aperti in continuo cambiamento e in contatto tra loro,
comunque utili agli scambi comunicativi tra i vari soggetti che partecipano al processo di
comunicazione letteraria: autori, editori, bibliotecari, librai e lettori.
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