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Post Busta Superstes Epitaffi Metrici A

Il documento analizza l'epigrafia funeraria cristiana a Milano, iniziata da Ambrogio nel IV secolo, e la sua evoluzione fino all'epoca carolingia. Viene evidenziata la continuità stilistica e l'importanza delle sillogi manoscritte nel preservare questo patrimonio poetico. Infine, si descrivono le principali sillogi epigrafiche, tra cui la Silloge circumpadana et subalpina, che raccoglie iscrizioni funerarie e monumentali dal IV al VIII secolo.

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Post Busta Superstes Epitaffi Metrici A

Il documento analizza l'epigrafia funeraria cristiana a Milano, iniziata da Ambrogio nel IV secolo, e la sua evoluzione fino all'epoca carolingia. Viene evidenziata la continuità stilistica e l'importanza delle sillogi manoscritte nel preservare questo patrimonio poetico. Infine, si descrivono le principali sillogi epigrafiche, tra cui la Silloge circumpadana et subalpina, che raccoglie iscrizioni funerarie e monumentali dal IV al VIII secolo.

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Sommario

Prefazione 2

Silloge circumpadana et subalpina 4

Silloge “alciatina” 11

Criteri di edizione 26

Testi 27

1
Prefazione

L’epigrafia funeraria cristiana in versi a Milano ha un illustre iniziatore: il più antico


epitaffio metrico, databile al 377-378, è quello dedicato da Ambrogio al fratello Satiro.
Se la tradizione che lo vuole autore non ha conferme, essa indica tuttavia il punto di
partenza della grande epigrafia milanese, emula e degna concorrente di quella della
Roma di papa Damaso.
Le sue prime attestazioni sono legate al nome e all’epoca di Ambrogio: si devono alla
sua opera la progressiva cristianizzazione dello spazio urbano mediante la costruzione
di nuove basiliche e la promozione del culto dei martiri, con la conseguente sepoltura di
defunti eccellenti presso le loro reliquie. In questo contesto si situano la comparsa sia
dei primi epitaffi metrici sia dell’epigrafia monumentale cristiana, che ha ugualmente il
suo fondatore in Ambrogio, che compose le iscrizioni dedicatorie per il fonte
battesimale di Santa Tecla e per la Basilica di San Nazaro. Queste iscrizioni del tardo
sec. IV e del principio del V operano un’attiva rielaborazione dei modelli classici
piegandoli alle esigenze espressive e ideologiche della fede cristiana: lasceranno
un’eredità che sarà coltivata lungo tutti i secoli successivi fino all’età carolingia e oltre.
Una fiorente attività epigrafica si manifesta con continuità nel sec. V e ha un secondo
importante capitolo sotto l’episcopato di Lorenzo I († 512), quando Ennodio, su
commissione del vescovo, compone alcuni epigrammi che vengono inscritti sotto i
ritratti dei suoi predecessori nella basilica di San Nazaro, e altri carmi dedicatori per i
numerosi edifici restaurati o rinnovati per ordine di Lorenzo. L’epigrafia funeraria
conosce numerose testimonianze databili tra V e VI secolo e l’alto livello stilistico dei
componimenti denuncia la continuità di modelli e un mai spento rapporto con i classici.
Nel sec. VII, in seguito all’invasione longobarda, le iscrizioni si fanno più rare e
nessuna epigrafe di carattere funerario è attribuibile con certezza a tale secolo. Non si
può da questo dedurre che l’epigrafia sia scomparsa con l’arrivo dei Longobardi: solo
una piccola parte del patrimonio epigrafico milanese è sopravvissuta ai guasti della
storia e nella selezione di ciò che è giunto fino a noi bisogna tenere conto
dell’importanza del fattore del pregio letterario. Infatti il primo epitaffio che esce dalle
tenebre dei secc. VII e VIII, quello del vescovo Natale († 751), e le altre rare

2
testimonianze epigrafiche di tale secolo, appaiono linguisticamente e stilisticamente
assai inferiori rispetto a quelle dell’epoca tardoantica.
Tuttavia l’eredità della poesia funeraria dei secoli IV ex., V e VI potrà essere raccolta
dai poeti carolingi grazie alla sua sopravvivenza e diffusione attraverso sillogi
manoscritte.
Infatti, al volgere del sec. VIII, un colto pellegrino, probabilmente un franco, raccolse in
una silloge urbana complessiva le iscrizioni presenti sui sepolcri e sui monumenti
cittadini, sul modello di quanto era avvenuto per Roma nel sec. VII, con la silloge
generale delle iscrizioni delle chiese urbane e dei cimiteri suburbani, e nel sec. VIII, con
la raccolta delle iscrizioni della basilica di San Pietro e degli oratori adiacenti.
Lo scopo di queste sillogi era anche devozionale, e per questo motivo erano provviste di
note cronologiche e spesso legate a un itinerario della città (la cui esistenza per la
silloge milanese non è provata).
Di questa antica silloge sopravvivono un apografo parziale contenuto nel ms. Vat. Pal.
Lat. 833, formata nel sec. IX, e una serie di componimenti riconducibili a una silloge il
cui archetipo, non più esistente, risale forse al sec. XI, ed è testimoniata dalle opere di
Goffredo da Bussero, Andrea Alciato e Giovanni Battista Fontana. Entrambe queste
sillogi, anche se trasmesse da manoscritti di epoche differenti, risalgono alla fine del
sec. VIII e sono da ricondurre alla medesima grande raccolta. La forma in cui si
presentano, senza note cronologiche e organizzate secondo criteri metrico-stilistici o
tematici, deriva dal fatto che nei sec. IX e X le grandi sillogi complete, perduta la
funzione devozionale, divennero modelli poetici.

Queste due sillogi conservano la maggior parte delle iscrizioni milanesi comprese tra i
secc. IV e VIII. Di un solo epitaffio, quello di Cervia Abundantia, sopravvive la lapide
originale; mentre quella di Manlia Daedalia è una copia successiva. Viene ad integrare
il corpus trasmesso dalle due raccolte antiche la silloge composta nel sec. XVI
dall’umanista Andrea Alciato.
Il corpus di epitaffi metrici cristiani compresi tra sec. IV e VIII si costituisce così di
sedici componimenti, risalenti principalmente ai sec. IV, V e VI.
Lo scopo del presente studio è di raccogliere questo patrimonio di poesia funeraria
anteriore all’età carolingia e studiarne la tradizione, la struttura e le fonti.

3
Sylloge circumpadana et subalpina

Un antico gruppo di dieci carmi milanesi, tra cui figurano sette epitaffi, è
testimoniato dalla Silloge circumpadana et subalpina1, contenuta nel codice
Vaticano Palatino 833.
Il manoscritto, membranaceo in-ottavo, è un codice composito, formato da due
nuclei distinti accorpati nel secolo XV.
Il primo occupa i ff. 1r-25v e contiene il martirologio di Beda, con necrologio,
trascritto da mano del IX o X sec (ff. 1r-24v); un Rhytmus de assumptione beatae
Mariae virginis con note musicali (f. 25r) e una Concordia mensium (f. 25v), di
altra mano; un’Antiphona de s. Iohanne Evangelista, di altra mano (f. 25v).
Il secondo manoscritto, composto di otto fascicoli, occupa i ff. 26r-82v. Nella
parte superiore del f. 26r, che era la prima pagina, vuota, una mano del sec. XV ha
scritto Epithavia (sic) sanctorum ad Laurissam; nel verso, anch’esso vuoto, una
mano del sec. X ha trascritto un Rhytmus de Iohanne Baptista; la seconda pagina
del manoscritto, che conteneva il titolo originale, è andata perduta. Tra le pagine
27r e 82v è contenuta una raccolta epigrafica, una volta indicata con il nome
complessivo di Silloge Palatina, che il De Rossi ha dimostrato essere un corpus
composto da quattro distinte sillogi compilate utilizzando diverse fonti
manoscritte, e scritto da varie mani. Distinse un primo copista responsabile, a suo
parere nel sec. IX o X, in realtà nel sec. IX, della trascrizione dei ff. 27r-54r, che
contenevano le prime tre raccolte epigrafiche; una seconda mano, dello stesso
periodo, che inserì alcuni carmi in appendice alla silloge III (ff. 54r-55v); una
terza, simile alla precedente, che copiò la quarta silloge (ff. 55v-82r); infine una
mano del sec. X che aggiunse degli inni cristiani negli ultimi fogli del codice
(82v- 83v). Il De Rossi credette che tutte appartenessero a copisti del monastero

1
G. B. DE ROSSI, Inscriptiones christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, II/1, Romae 1888,
36-37 (d’ora in poi ICUR); H. S. STEVENSON, Codices Palatini Latini Bibliothecae Vaticanae, I, Romae
1886, 292; B. BISCHOFF, Die Abtei Lorsch im Spiegel ihrer Handschriften, Lorsch 1989, 42, 114-115; A.
SILVAGNI, Nuovo ordinamento delle sillogi epigrafiche di Roma anteriori al sec XI, Roma 1921 (estratto
da Disserazioni della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, vol. XV); C. VIRCILLO FRANKLIN,
The Epigraphic Syllogae of BAV, Palatinus latinus 833, In Roma, magistra mundi. Itineraria culturae
medievalis. Mélanges offert au Père L.E. Boyle à l’occasion de son 75e anniversaire, Louvain-La-Neuve
1998, 975-990.

4
di Lorsch, opinione smentita dall’indagine paleografica di B. Bischoff2 che
riconobbe nella prima mano un copista della Francia nordorientale, nelle altre
monaci lauresamensi.

La Sylloge prima inscriptionum christianarum urbis Romae confecta saeculo


nono3 (ff. 27r-35r) raccoglie alcune iscrizioni di basiliche romane urbane a partire
da San Pietro, ed è caratterizzata dalla grande accuratezza delle rubricature, che
recano precise indicazioni topografiche e storiche, scritte in capitale come anche
le prime lettere di ogni componimento. Essa fu compilata nel sec. IX e riflette
l’osservazione diretta di un testimone che visitò Roma, a giudicare dagli estremi
cronologici suggeriti dalle iscrizioni, tra gli anni 821 e 8464. Alla fine (ff. 35rv),
separate da due linee bianche, sono aggiunte dalla stessa mano due iscrizioni
pagane in prosa5; esse furono inserite per riempire lo spazio di una pagina e
mezzo lasciato vuoto in modo da far cominciare sul recto del foglio successivo la
silloge seguente (prassi adottata in tutte e tre le sillogi)6.
7
La Sylloge II (ff. 36r-41r, l. 1) possiede la titolatura originale dello scriba
Epitaphia apostolicorum in ecclesia beati Petri e contiene tredici epitaffi metrici
di pontefici romani presenti nella basilica di San Pietro, accompagnati da
numerazione in cifre romane e con note storiche e topografiche in gran parte
mancanti. Sono presenti gli epitaffi di tutti i papi compresi tra 498 e 686, ad
eccezione di Giovanni I († 526) e Gregorio Magno († 604). Il De Rossi credette
che il compilatore trascrivesse qui una silloge formatasi attorno al 686-87, di cui
possedeva un esemplare mutilo e mancante dei due suddetti epitaffi8; tuttavia è
anche possibile pensare che il compilatore cercasse di raccogliere una collezione
monografica dedicata esclusivamente agli epitaffi dei papi in San Pietro (e questo
ne è l’unico esempio superstite), traendoli da varie fonti9. Chiude la serie
l’epitaffio (ff. 40v-41r, linea 1) di una donna siciliana, Helpis, che è
2
BISCHOFF, Die Abtei, 42.
3
ICUR II 1, 142-153.
4
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 978-979; SILVAGNI, Nuovo ordinamento, 48 invece
crede compilazione scolastica del sec. IX su materiali preesistenti.
5
ICUR II 1, 38 nn.1-2.
6
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 983.
7
ICUR II 1, 124-130
8
ICUR II 1, 124-125.
9
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 981-982; SILVAGNI, Nuovo ordinamento, 44.

5
evidentemente fuori posto in questa raccolta come conferma anche l’assenza del
numero romano progressivo. Lo aggiunse il copista stesso una volta terminata la
trascrizione dell’intera parte da lui copiata (sillogi I-III): infatti l’ultimo verso di
questo epitaffio occupa la prima riga del f. 41 che era stata lasciata libera per
apporvi in seguito il titolo della terza raccolta. È probabile che nelle intenzioni del
copista tutte e tre le sillogi dovessero essere provviste di titolo, come avviene per
la seconda, dal momento che anche al f. 27, al principio della prima raccolta, sono
lasciate libere due righe10.
La silloge III, nota come Silloge circumpadana et subalpina11 (ff. 41r-54 r),
contiene trentasei iscrizioni funerarie e monumentali provenienti da alcune città
dell’Italia del Nord (Milano, Pavia, Piacenza, Vercelli, Ivrea), comprese tra la fine
del sec. IV e il 778 d. C. Le note storiche e topografiche sono in gran parte
mancanti. All’ultimo epitaffio, appartenente alla città di Ivrea, seguono, separati
da un breve spazio, tre titoli pagani (ff. 53v-54 r)12.
Nelle pagine successive (ff. 54r-55r), in origine vuote, la mano di un monaco
lauresemense aggiunse alcuni epigrammi provenienti dalla basilica vaticana e
copiati da altre sillogi di iscrizioni urbane13.
La Silloge quarta14 (ff. 55v-82 r), copiata da un mano di Lorsch attribuibile agli
anni 830-83515, contiene 104 iscrizioni cristiane provenienti da basiliche e
cimiteri di Roma e, in minor misura, Spoleto e Ravenna, e infine alcune iscrizioni
pagane. Le note sono in gran parte mancanti, così come i titoli, per quanto una
linea bianca lasciata prima di ogni componimento denunci la volontà di apporli in
seguito16. Il De Rossi la giudicò una copia di una silloge formata a Roma nel sec.
VII, da cui fu tratta anche la silloge Centulense17.
Infine negli ultimi fogli (82v-83v) una mano del sec. X ha trascritto alcuni inni in
onore dei santi martiri Cecilia, Nazaro, Vincenzo e Sebastiano.

10
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 983-984.
11
ICUR II 1, 159-173.
12
ICUR II 1, 39 nn. 3-5.
13
ICUR II 1, 158; cfr. M. PETOLETTI, Appunti sulla conoscenza di epigrafi classiche nel Medioevo,
«Aevum», 76 (2002), 59-73.
14
ICUR II 1, 95-118.
15
BISCHOFF, Die Abtei, 42.
16
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 986.
17
ICUR II 1, 72-94.

6
Il De Rossi ritenne che il nucleo di questo corpus, radunato a Lorsch nel sec. IX o
X, fosse costituito dalle prime tre sillogi, in particolare la prima, frutto
dell’osservazione diretta dei monumenti romani da parte di un visitatore del sec.
IX. Esse furono copiate da almeno due codici o schede che contenevano
epigrammi cristiani e pagani frammisti: lo desume dall’appendice di titoli pagani
che seguono la prima e la terza silloge (f. 35r e ff. 53v-54r) e dalla corruttela che
hanno subito le lezioni di alcuni componimenti. La Silloge IV fu quindi aggiunta
in un secondo momento per completare la collezione18.
Il Silvagni, nel nuovo ordinamento che predispose per le sillogi romane anteriori
al sec. XI, negò recisamente l’esistenza di sillogi antiche composte di epigrafi
cristiane e pagane frammiste. Inoltre, basandosi sulla constatazione che i carmi
presenti nella Silloge IV non vengono ripetuti nelle altre (ad eccezione di
un’iscrizione della facciata di San Pietro, il cui testo però è frammentario nella
Silloge IV, al n. 2, e completo nella I, n. 2), concluse che fu proprio la presenza di
tale silloge nella biblioteca di Lorsch a determinare la decisione di radunare il
corpus. In un secondo momento, per non chiare ragioni, si sarebbe deciso di
trascrivere la Silloge IV alla fine dello stesso codice19.
C. Vircillo Franklin ha chiarito le fasi della formazione del Corpus
Laureshamense, appoggiando le sue considerazioni sull’analisi paleografica del
testo operata da B. Bischoff e su alcuni rilievi di carattere codicologico.
Il codice, nelle parti relative alle sillogi, fu scritto da due mani: la prima, che
trascrisse le sillogi I-III, non è di Lorsch ma originaria dell’area della Francia
Nordorientale-Lotaringia; la seconda, che trascrisse solo la quarta silloge,
appartiene a un monaco di Lorsch ed è databile al periodo tra 830 e 835 d. C20.
Inoltre i fascicoli V-VIII, che ospitano quasi interamente la quarta silloge (il V
inizia al f. 56 mentre la silloge al f. 55v), sono formati con una pergamena di
qualità ben inferiore rispetto ai fascicoli I-IV21.
Queste ragioni inducono a pensare che la parte originale del codex, costituita dalle
sillogi I-III contenute nei primi quattro quaderni, sia stata copiata in uno

18
ICUR II 1, 37, par. 4.
19
A. SILVAGNI, Studio critico sopra le due sillogi medievali di iscrizioni cristiane milanesi, «Rivista di
archeologia cristiana», 15 (1938), 213-223.
20
BISCHOFF, Die Abtei, 42
21
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 987-988.

7
scriptorium del Nord-Est della Francia e sia giunta a Lorsch dopo l’anno 821, che
è il termine postquem per la redazione della prima silloge e, per estensione, della
trascrizione del corpus formato dalle prime tre raccolte. Qui, sempre nel sec. IX,
si decise di aggiungere al codice la quarta silloge, che forse era pervenuta a
Lorsch insieme a tale manoscritto, e si predisposero i fascicoli necessari22.
È possibile stabilire con maggiore precisione l’epoca dell’arrivo del codice a
Lorsch e dell’aggiunta della quarta silloge controllando gli indici della biblioteca
del monastero: nel Catalogo I (ms. Vat. Pal. 1877 f. 79), risalente all’830 ca., esso
non viene elencato; tuttavia il suo arrivo non dovette tardare molto se in un
poscritto allo stesso catalogo troviamo una sicura indicazione del manoscritto già
completo (Epitaphia seu ceteri versus in quaternionibus VIII). Con la stessa
dicitura lo troviamo ormai inserito nel Catalogo III (ms. Vat. Pal. 1877 f. 32),
databile tra 850 e 87523.

Chiarita l’origine del nucleo fondamentale del Corpus Laureshamense, passiamo


ora a descrivere più diffusamente la silloge III, che è, insieme a quella vista
dall’Alciato, l’unico testimone antico dell’epigrafia cristiana di Milano.

La Sylloge III circumpadana et subalpina è composta da trentasei epigrammi


provenienti da Milano (nn. 1-10), Pavia (nn. 11-23 e 26-29), Piacenza (nn. 24-25),
Vercelli (nn. 30-35), Ivrea (n. 36), composti dal sec. IV alla tarda età longobarda.
Seguono l’ultima iscrizione, l’unica proveniente da Ivrea, tre epigrammi pagani,
separati da un breve intervallo: il De Rossi rifiuta l’attribuzione a Ivrea ma non sa
localizzarli24.
Le note storiche sono del tutto assenti; sono rare le indicazioni topografiche; i
carmi sono sempre introdotti dalla rubrica EPYT(APHIUM) o IT(EM) VERSUS
che indica se si tratti di componimenti di carattere funerario o di iscrizioni di altro
tipo; ai nn. 24 e 26 una nota alla sinistra del testo indica se i versi sono metrici o
ritmici: RITHM(ICUM), METR(ICUM); quattro epigrammi del gruppo milanese

22
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 988.
23
ICUR II 1, 36; BISCHOFF, Die Abtei, 91; VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 988-989.
24
ICUR II 1, 37 par. 4; 39 nn. 1-2, 160 par. 2.

8
sono introdotti dai lemmi VERSUS AMBROSII (n. 2), ITEM AMBROSII (n. 3),
EPYT AMBROSIANUM (n. 4), ITEM AMBROSIAN(UM) (n. 5)25.
A causa della frequente assenza dell’indicazione del luogo, sempre presente
invece nella silloge prima urbana, il De Rossi ritenne che l’autore non avesse
copiato le iscrizioni direttamente dalla pietra ma si fosse servito di uno o più
codici26.
Se questo può valere per quanto riguarda il gruppo milanese e le iscrizioni di
Piacenza, Vercelli e Ivrea, numerosi indizi suggeriscono che il compilatore della
silloge abbia trascritto in prima persona le epigrafi presenti a Pavia o che
perlomeno avesse strette connessioni con la città per la conoscenza che dimostra
dei suoi monumenti. Il gruppo epigrafico pavese è infatti il più consistente, con
diciassette iscrizioni, la maggior parte delle quali provviste di note topografiche; a
questo stesso gruppo appartengono le iscrizioni più recenti della raccolta (n. 26,
del 710; nn. 21-23, comprese tra 729 e 741; n. 12, del 744; n. 17, composta prima
del 774; n. 11, del 778), che consentono di datarne la redazione tra il 778 e l’830-
835 (epoca in cui le sillogi I-III giunsero a Lorsch)27.
Se l’ignoto compilatore della silloge III ebbe strette relazioni con l’ambiente
pavese di questi anni, non è tuttavia semplice dargli un nome e un volto, poiché
furono numerosi i dotti pellegrini in rapporti con tale città, rimasta capitale del
Regno anche negli anni successivi alla conquista franca.
Si possono al proposito citare i nomi di Dungal, che risiedette a Pavia almeno
dall’825 in qualità di maestro della scuola carolingia e qui scrisse i Responsa
contra perversas Claudii Taurinensii episcopi sententias, ove è riportato
l’epitaffio di Satiro (n. 5), che non è noto attraverso altre fonti letterarie o
epigrafiche28; e quello di Angilberto di St. Riquier († 814), poeta e autore di
iscrizioni, che per qualche anno a partire dal 781 visse presso la corte di Pavia al
seguito di Pipino re d’Italia29.

25
ICUR II 1, 159-169 par. 1-2.
26
ICUR II 1, 160 par. 2.
27
ICUR II 1, 160 par. 3.
28
M. FERRARI, In Papiam conveniant ad Dungalum, «Italia medievale e umanistica» 15 (1972), 51-52;
M. FERRARI, Centri di trasmissione: Monza, Pavia, Milano, Bobbio, in La cultura antica nell’Occidente
latino dal VII all’XI secolo, Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXII,
Spoleto 1975, 312-313; M. FERRARI, Dungal, in DBI 42 (1993), 11-14.
29
VIRCILLO FRANKLIN, The Epigraphic Syllogae, 985-986.

9
Per quanto riguarda le epigrafi milanesi è invece molto probabile che il curatore
della silloge si sia servito di una fonte manoscritta: lo fanno pensare l’antichità dei
componimenti, tutti ascrivibili ai sec. IV-VI, rispetto all’epoca di composizione
della silloge, e la mancanza, ad eccezione dei primi tre carmi, delle note
topografiche. È probabile che questa fonte fosse una riduzione antologica ad uso
delle scuole caroline della più ampia silloge epigrafica milanese redatta nel sec.
VIII; sembra confermarlo la preoccupazione letteraria che traspare dai lemmi che
indicano Ambrogio come autore di quattro degli epigrammi30.
Le epigrafi del gruppo milanese sono le seguenti:

1. Prisca redivivis consurgunt culmina templis; titolo: IN CIVITATE


MEDIOLANIUM / IN ECCLESIA S(AN)C(T)AE TECLE; f. 41r.
2. Octachorum sanctos templum surrexit in usus; titolo: VERSUS AMBROSII
AD FONT(EM) EIUSD(EM) ECCL(ESIAE); ff. 41rv.
3. Condidit Ambrosius templum dominoque sacravit; titolo: IT(EM) AMBROSII
IN ECCLESIA S(AN)C(T)I / NAZARI MARTYRIS; ff. 41v- 42r.
4. Martyris ad frontem recubant quae membra sepulchro; titolo:
EPYT(APHIUM) AMBROSIANUM; f. 42r.
5. Uranio Satyro supremum frater honorem; titolo, prima omesso, poi aggiunto
dalla stessa mano: ITEM AMBROSIAN(UM); f. 42r.
6. Inlustris meriti recubat hoc marmore tectus; titolo: EPYT(APHIUM); f. 42v.
7. Sanctorum exuviis penitus confine sepulchro; titolo: EPYT(APHIUM); f. 42v.
8. Ingenii legumque potens Constantius atra; titolo: EPYT(APHIUM); f. 43r.
9. Hic positis membris purus perrexit ad aethram; titolo: EPYT(APHIUM); ff.
43rv.
10. Sacra Diogeniae clauduntur membra sepulchro; titolo: EPYT(APHIUM); f.
43v.

30
SILVAGNI, Studio critico, 109 e P. TOMEA, Ambrogio e i suoi fratelli. Note di agiografia milanese
altomedievale, «Filologia mediolatina», 5 (1998), 228 n. 183.

10
Silloge “alciatina”

Andrea Alciato (1492-1550), giureconsulto milanese, storico e letterato, raccolse


a partire dal 1508 le epigrafi visibili a Milano e nei suoi dintorni, costituendo il
primo esempio in Italia di una raccolta epigrafica urbana. Tale raccolta è per noi
di sommo interesse a motivo dell’attenzione che l’autore riservò, cosa insolita per
gli umanisti del suo tempo, alle iscrizioni cristiane, che incluse in gran numero31.
La prima fase dell’attività di epigrafista dell’Alciato è testimoniata da collectanea
che ci sono noti soltanto attraverso apografi conservati in manoscritti o sillogi di
altri, quali G. Choler e M. Valerio32.
In un secondo momento egli ritornò sul lavoro giovanile arricchendolo di nuove
iscrizioni e di tale più ampia raccolta possiamo identificare due successive
recensioni: nella prima, tramandata da numerosi codici, le iscrizioni urbane sono
mescolate a quelle della regione circostante; la seconda è invece divisa in due libri
in cui sono ripartite le epigrafi della città e quelle dell’agro, e tra i quali è inserita
un’appendice di venti iscrizioni cristiane che l’Alciato dice di aver tratto da un
antichissimo codice33.
Esclusa quest’appendice, tutte le iscrizioni inserite dall’umanista nel suo corpus
sono tratte dalla diretta osservazione dei monumenti cittadini. È opportuno perciò
notare la presenza nella prima recensione di sette iscrizioni metriche cristiane che
egli potè certamente vedere ancora incise nelle chiese della città (come
confermano anche le note ai carmi nell’appendice del codice dresdense; ma fa
eccezione quella di Santa Marcellina).
Queste iscrizioni sono:

1. Qua sinuata cavo consurgunt…


2. Hic cubat aeterni Hludovicus…
3. Marcellina tuos…

31
Sull’attività epigrafica dell’Alciato: R. WEISS, La scoperta dell’antichità classica, Padova 1989, 177-
178; D. BIANCHI, L’opera letteraria e storica di andrea Alciato, «Archivio storico lombardo» 20 (1913),
47-57; SILVAGNI, Studio critico, 110-111; G. BILLANOVICH, Il Petrarca e i retori latini minori, «Italia
medievale e umansitica», 5 (1962), 157-158.
32
SILVAGNI, Studio critico, 111.
33
ICUR II 1, 174 par. 1; SILVAGNI, ibidem.

11
4. Martyris ad frontem…
5. Lux patriae sublime decus…
6. Rustica perpetuae…
7. Cervia quae in fidei…

La seconda e più completa raccolta, divisa in due libri, è tramandata da un codice


(ms. Dresdense F. 82, b) in buona parte autografo, emendato e fornito di
commentario dallo stesso autore, che porta il titolo di Monumentorum veterumque
inscriptionum, quae cum Mediolani tum in eius agro adhuc extant, collectanea, A.
Alciato auctore.
Esso misura 180 x 200 mm. e consta di 169 carte per il primo volume e 118 per il
secondo, separati tra loro da cinque carte bianche; proviene dalla biblioteca
Petzoldiana di Milano ed è ora conservato presso la Sächsische Landesbibliothek
di Dresda34.
A partire dal f. 150r del manoscritto, alla fine del primo volume, dedicato alle
iscrizioni urbane, l’Alciato aggiunge di sua mano venti epigrammi cristiani che, in
una nota prefativa (f. 149v), dice essere alcuni ancora superstiti ma rovinati, altri
ancora perduti, e di averli tutti tratti da un codice molto antico:

Libet [tredecim, cancellato] XX subsequentia sanctitate insignum virorum


epitaphia subijcere, quorum aliqua adhuc extant sed semifracta, aliqua vero
Saturni edacitate consumpta in humanis esse desierunt. Et in primis celebre est
hoc divi Ambosij carmen [… ]. Mihi integrum habere ex antiquissimo codice
contigit, unde et alia sequentia desumpsi. Certissime argumento aeternitati plus
conferre tenuissimas membranas quam praedura marmora.

Queste iscrizioni occupano i successivi venti fogli del codice (ff. 150r-169r): sul
recto dei fogli si trova, inserita in una cornice, la copia delle iscrizioni; affiancato
ad essa, nella pagina precedente, quindi sul verso delle carte, un commento di
carattere storico-antiquario, che informa anche sulla collocazione di alcune di esse
(nn. 13-20).

34
ICUR II 1, 174; SILVAGNI, Studio critico, 111 n. 2.

12
Le venti epigrafi che l’Alciato pretese aver tratto dall’antiquissimus codex sono le
seguenti35:

1. Condidit Ambrosius templum… (f. 150r).


2. Cuicunque aetheria qui regnet… (f. 151r).
3. Forma pudicitiae iuveni… (f. 152r).
4. Tigridis extremae potator… (f. 153r).
5. Suffusus mino perque omnia… (f. 154r).
6. Lazarus ut diri premeret… (f. 155r).
7. Deposuit corpus tumulo… (f. 156r).
8. Qui vicit trabeas solio… (f. 157r).
9. Virtutum signis pollens… (f. 158r).
10. Virtute officio meritis… (f. 159r).
11. Marmore Natalis tegitur… (f. 160r).
12. Eximium haec Celsi corpus… (f. 161r).
13. Qui nemo ut melius… (f. 162r).
14. Qua sinuata cavo consurgunt… (f. 163r).
15. Marcellina tuos cum vita… (f. 164r).
16. Martyris ad frontem… (f. 165r).
17. Lux patriae sublime decus… (f. 166r).
18. Rustica perpetuae… (f. 167r).
19. Hic cubat aeterni Hluduvicus…(f. 168r).
20. Cervia quae in fidei… (f. 169r).

Se l’Alciato ebbe l’indubbio merito di salvare nei suoi codici il prezioso


patrimonio dell’epigrafia cristiana milanese tardoantica ed altomedievale, tuttavia
il suo limite fu quello di non esserne sempre un testimone fedele. La decisione,
d’altronde, di raccogliere le sparse epigrafi della sua città non fu mossa da un
interesse di carattere filologico ma piuttosto storico-antiquario e letterario.
L’opportunità offertagli dalla scoperta di un codice le cui iscrizioni erano tutte
riferibili ai vescovi milanesi lo spinse a disporre i testi secondo l’ordine

35
CIL V 2, 618; ICUR II 1, 177-183.

13
cronologico della successione dei vari episcopati, a scapito della serie originale
quale si presentava nell’antica silloge (ordine che risulta impossibile ricostruire).
Nello stesso orizzonte d’intenti si colloca la scelta di aggiungere in calce agli
elogi ennodiani le note cronologiche, di cui erano sprovvisti; le espresse però in
forma moderna (Anno publicae Salutis, con data secondo l’era dionisiana), così
che per noi è facile riconoscere quando siano una sua aggiunta o quando trascritte
realmente dal marmo (come per l’epitaffio di Aurelio, n. 7)36.
Il gusto classicista proprio dell’umanesimo lo portò inoltre a intervenire
direttamente sui testi là dove il dettato gli appariva rozzo oppure scorretto sotto il
profilo della metrica. I suoi interventi spaziano dall’inversione di alcune parole
nel verso, al mutamento del lessico stesso secondo il gusto ‘moderno’,
all’omissione di versi di difficile comprensione, fino alla vera e propria
invenzione ex novo dei versi37.
Un terzo genere di interpolazioni è costituito dalla falsificazione propriamente
detta: l’Alciato non esitò a inventare o a riscrivere completamente alcuni carmi,
motivato dalla volontà di procurarsi prove credibili per dimostrare la storicità di
alcuni avvenimenti di cui era convinto assertore o per motivi di orgoglio
famigliare. Quest’ultimo è il caso dell’epitaffio di Arialdo, santo martire del sec.
XI, il cui l’epitaffio originale è conservato in un codice della Biblioteca
Ambrosiana (ms. Ambr. H 89 inf.), che Alciato pretendeva essere un antenato
della propria famiglia38. Al fine di includere questo carme di sua invenzione tra
quelli appartenenti all’antico codice, egli non esitò a modifcare la serie e a
mentire sulle sue fonti, attribuendo al sopraddetto codice venti iscrizioni anziché
le tredici che vi aveva trovato. Altri due falsi, non inclusi nel codice dresdense,
sono il carme di Protasio per il fonte di San Barnaba (n. I)39 e quello di Mirocle in

36
ICUR II 1, 176 par. 4.
37
Per un panorama generale sulle falsificazioni alciatine: F. SAVIO, Giovanni Battista Fontana o Fonteio,
scrittore milanese del sec. XVI, «Archivio Storico Lombardo», 32 (1905), 367-375; per un confronto
puntuale tra le versioni alciatine, quelle del Liber notitiae e Fontana, e quelle tramandate dai codici di
Ennodio o da altri testimoni: SILVAGNI, Studio critico, 254-268.
38
ICUR II 1, 176 par. 4; SAVIO, Giovanni Battista Fontana, 367-369; SILVAGNI, Studio critico, 120.
39
CIL V 2, 623 n. 14; ICUR II 1, 183 n. 21.

14
onore di Anatelone (n. II)40. Furono composti dall’Alciato per confermare
l’apostolato di Barnaba a Milano, tesi di cui era un convinto assertore41.

Giovanni Battista Fontana (ca. 1546-1580) imparentato con l’illustre famiglia


milanese dei de’ Conti, visse a Roma sotto la protezione del cardinal Francesco
Alciato, nipote ed erede dell’umanista. Su invito dell’arcivescovo e cardinale
Carlo Borromeo attese a una Historica Mediolanensium archiepiscoporum series,
che doveva trattare degli arcivescovi milanesi da San Barnaba allo stesso Carlo
Borromeo, ordinati alfabeticamente42.
L’opera tuttavia non venne portata a termine e ne resta soltanto il materiale
preparatorio, contenuto in un manoscritto solo parzialmente autografo conservato
presso la biblioteca Ambrosiana (V 35 sup.). L’importanza di questa
compilazione, per il resto composta con materiale di scarso interesse per noi
perché già noto attraverso le fonti originali, consiste nella presenza di alcune
iscrizioni milanesi, tra cui ritroviamo le venti presenti in appendice al codice
dresdense.
Il Fontana poteva infatti disporre attraverso il cardinal Cesi, per cui aveva
composto una storia della sua famiglia, di un manoscritto autografo dell’Alciato
probabilmente identico al dresdense, da cui trasse, riportandole sotto i singoli
vescovi, le venti iscrizioni e, in forma riassunta, il relativo commentario43.
L’opera del Fontana ebbe il pregio, per quanto riguarda le iscrizioni, del critico
vaglio delle fonti: infatti ai carmi copiati dall’Alciato premise la nota ex A. Alciato
antiquario, e ad alcuni essi affiancò o varianti isolate o il testo integrale, in forma
alquanto differente da quello offertoci dal manoscritto dresdense44.
Egli disponeva infatti, come dice nelle sue stesse note, e in forma più estesa nella
nota apposta al carme per il vescovo Eustorgio I, di una antiqua membrana
auctoris qui descripsit vitam Pontificum, et proemium et eam epistulam de

40
CIL V 2, 623 n. 15; ICUR II 1, 182 n. 22.
41
SAVIO, Giovanni Battista Fontana, 369-371; SILVAGNI, Studio critico, 120-121.
42
Un profilo della vita e dell’opera di Fontana è in: SAVIO, Giovanni Battista Fontana, 343-375; a cui si
aggiunga P. TOMEA, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel medioevo. La leggenda di
San Barnaba, Milano 1993, 162-169.
43
SAVIO, Giovanni Battista Fontana, 358-362; SILVAGNI, Studio critico, 111-112.
44
Le annotazioni del Fontana sono trascritte integralmente e discusse in SAVIO, Giovanni Battista
Fontana, 362-367; SILVAGNI, Studio critico, 115; P. TOMEA, Tradizione, 166-167.

15
Mediolanensibus, quae sub nomine D. Ambrosii cum eius epistulis implexa
circumfertur45; questa antiqua membrana, altrimenti indicata come vetus codex, o
semplicemente dalla sigla v.c., doveva contenere dieci testi, di cui si servì
collaziondandoli con la versione alciatina46.
Questi sono:

1. Condidit Ambrosius templum… (f. 6v = Alciato, n. 1).


2. Qua sinuata cavo consurgunt… (ff. 6v-7r = Alciato, n. 14).
3. Quamvis aeteria regnet… (f. 20r = Alciato, n. 2).
4. Virtutum signis pollens… (ff. 28v-29r = Alciato, n. 9).
5. Lazarus ut diri premeret… (f. 47r = Alciato, n. 6).
6. Coenobium claustrum… (f. 51r = Alciato, n. 12).
7. Marolus extremae potator… (f. 56v = Alciato, n. 4).
8. Virtute officio meritis… (f. 65rv = Alciato, n. 10).
9. Qui vicit trabeas… (f. 92rv = Alciato, n. 8).
10. Forma pudicitiae iuvenis… (f. 109v = Alciato, n. 3).

All’elogio del vescovo Glicerio presente nel codice dell’Alciato (trascritto al f.


36r) premise un diverso componimento (f. 35v), identificabile con il vero e
proprio epitaffio di tale vescovo, tratto secondo quanto dice la nota ex vetusto
libro Volfgangi Latii Viennensis Caesarii historici, ex sepulchris
Mediolanensibus47; affiancò inoltre alla trascrizione alciatina del carme di
Ennodio un componimento, intitolato Versus S. Glycerii, corrispondente alla
versione originale dell’elogio ennodiano (f. 36rv). È perciò probabile che,
mancando nell’antiqua membrana l’elogio di San Glicerio, il Fontana confrontò
la versione alciatina con due codici ennodiani che aveva a disposizione: un
esemplare allora presente alla bibilioteca vaticana e uno appartenente un
Volfrangius (sic) che è probabilmente la stesso menzionato a proposito

45
TOMEA, Tradizione, 3: nel primo incunabolo del Libellus de situ, stampato nel 1491 da A. Zaroto da
Parma, compariva l’erronea attribuzione ad Ambrogio dell’opera, come ricorda il De Rossi in ICUR II 1,
174, 2.
46
SILVAGNI, Studio critico, 253; TOMEA, Tradizione, 168: precisa che, a stretto rigore critico, le note del
Fontana indicano come provenienti dall’antiquissima membrana solo le iscrizioni di Marolo, Senatore,
Magno e Eustorgio.
47
CIL V 2, 620 n. 5; ICUR II 1, 179 n. 5a.

16
dell’epitaffio del vescovo, ovvero il bibliotecario viennese Wolfgang Lazius (†
1565) e che presentava quindi nel suo volume entrambi i testi, l’elogio e
l’iscrizione funebre48.
Nell’opera del Fontana si trova inoltre al f. 18v. un componimento dedicato al
mitico fonte dove San Barnaba avrebbe battezzato i primi cristiani (n. I)49, che
copiò, secondo quanto dice la nota, da un volumen Saxonicum visto in Germania.
Benché questo carme manchi nella serie del codice dresdense, sappiamo che era
presente nelle collezioni dell’Alciato, grazie alla testimonianza del Bescapé50.
Il manoscritto a disposizione del Fontana fu acutamente identificato dal De
Rossi51 nel Libellus de situ civitatis Mediolani, edito già da L. A. Muratori con il
titolo di Vitae pontificum Mediolanensium e da L. Biraghi con quello di Datiana
Historia, e trasmesso, in forma completa o più spesso frammentaria, da diciassette
manoscritti e due incunaboli52. Si tratta di un’opera composta tra la fine del X e
l’inizio del XI secolo, appartenente al genere letterario dei gesta episcoporum.
Narra le vite dei primi sei vescovi milanesi e si interrompe, restando incompiuta,
prima della morte del vescovo Materno. Alle Vitae sono premesse un’epistola
dedicatoria, una descrizione della città di Milano e del luogo su cui essa sorge e il
racconto dell’arrivo dell’apostolo Barnaba in città53. Il De Rossi ritenne che
l’antico codice posseduto dal Fontana fosse da identificare con il ms. Ambr. 133
inf. del sec. XI: esso conteneva infatti il Libellus de situ con le parti prefatorie; dal
momento che il codice era mutilo lo studioso concluse che la silloge doveva
trovarsi nella parte di testo caduta. Credendo che l’Alciato avesse veduto il
medesimo codice, il De Rossi stabilì che la silloge era stata composta in relazione
al Libellus de situ, quindi nel sec. XI. Tutti gli studiosi successivi, fino al Silvagni,
acconsentirono a tale datazione e alla relazione della silloge con il De situ. In
realtà il manoscritto contenente la silloge e le Vitae posseduto dal Fontana, ora

48
SAVIO, Giovanni Battista Fontana, 364-365; C. URLACHER-BECHT, Les épigrammes d’Ennode de
Pavie dans les sylloges chrétiennes médiévales de Milan, in corso di pubblicazione.
49
Cfr. nn. 11 e 13.
50
C. BESCAPÉ, Brevis Historia provincia Mediolanensis, Milano 1628, 54; IDEM, De metropoli
Mediolanensi, Milano 1628, 11.
51
ICUR II 1, 174 par. 2.
52
L’elenco completo si trova in: TOMEA, Tradizione, 21-33.
53
Sul Libellus de situ si vedano: J-C. PICARD, Le souvenir des évêques: sépultures, liste épiscopales et
culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Rome 1988, 450-459; TOMEA, Tradizione,
19-33, 418-419.

17
perduto, non può essere identificato con il manoscritto conservato in
Ambrosiana54.

Il Liber notitiae sanctorum Mediolani, è un’opera agiografica contenuta in un


manoscritto dell’inizio del sec. XIV conservato a Milano presso la Biblioteca
Capitolare del Capitolo Metropolitano (2-E-2-08)55. La tradizione lo attribuiva al
sacerdote e scrittore milanese Goffredo da Bussero. U. Monneret de Villard, che
con M. Magistretti attese all’edizione del manoscritto capitolare, cercò di
dimostrare che esso fosse una compilazione fatta a partire dalle opere dello stesso
Goffredo ma ora gli studiosi reputano che lo scritto in nostro possesso sia
sostanzialmente riconducibile alla sua paternità56. Il Liber è una grande raccolta di
notizie riguardanti i santi venerati nella diocesi milanese, ordinati
alfabeticamente: è fornito un ragguaglio sulla vita e sulle opere dei personaggi
spesso compilato sulla base delle varie tradizioni agiografiche esistenti al sec.
XIII e talvolta estremamente generico (come, tra quelli che ci riguardano, nel caso
di Magno); segue un elenco delle chiese e degli altari ad essi dedicati disseminati
nella città e nell’agro milanese, di cui alcune volte si danno informazioni
riguardanti la fondazione; inoltre sono elencate le reliquie presenti nelle varie
località ed è indicato il giorno in cui il santo è festeggiato nella diocesi.
Tra le informazioni biografiche l’autore del Liber riporta talora inni ed iscrizioni
che poté trovare nelle sue fonti. Tra queste fonti vi è certamente una silloge di
iscrizioni che fa capo alla stessa tradizione degli antichi codici veduti dal Fontana
e dall’Alciato. Troviamo infatti, nei rispettivi luoghi:

1. Virtutum signis pollens… (f. 124 = Alciato, n. 9).


2. Quamvis etherie regnet… (f. 201 = Alciato, n. 2).
3. Lazarus ut diri premeret… (f. 222 = Alciato, n. 6).
4. Condidit Ambroxius templum… (f. 222 = Alciato, n. 1).

54
SAVIO, Giovanni Battista Fontana., 373-374; TOMEA, Tradizione, 165.
55
Liber Notitiae Sanctorum Mediolani. Manoscritto della Biblioteca Capitolare di Milano, a c. di M.
MAGISTRETTI, U. MONNERET DE VILLARD, Milano 1917; per una bibliografia aggiornata sulle questioni
riguardanti il Liber: P. TOMEA, San Giorgio in Crimea. Per una nuova edizione del Liber notitiae
sanctorum Mediolani, «Aevum», 27 (1999), 423-427.
56
MONNERET DE VILLARD, in Liber notitiae, XXIII-XXVIII; per una bibliografia sulla questione e sulle
diverse posizioni: TOMEA, Tradizione, 106 n. 112.

18
5. Qua sinuata cavo consurgunt… (f. 222 = Alciato, n. 14).
6. Marolus extreme potator… (f. 279 = Alciato, n. 4).
7. Virtutem offitio meritis… (f. 280 = Alciato, n. 10).
8. Qui vicit trabeas solitum… (f. 385 = Alciato, n. 8).
9. Forma pudicitie iuvenis… (f. 422 = Alciato, n. 3).

L’importanza del Liber notitiae per la questione della silloge antica non fu
rilevata finché non la mise in luce Ugo Monneret de Villard nell’introduzione
all’edizione critica del testo.

Il primo a occuparsi della Silloge alciatina fu il Mommsen che pubblicò la


collezione contenuta nell’appendice del manoscritto dresdense57. Egli ritenne che
soltanto i primi tredici componimenti fossero da ascrivere all’antiquissimus
codex, concordemente all’informazione di prima mano data dall’Alciato e
notando che gli altri sette erano presenti anche nelle prime redazioni delle sue
raccolte58; li pubblicò quindi separatamente, nei rispettivi luoghi. Mise in
relazione la silloge con le iscrizioni presenti nell’opera del Fontana, notando che
quest’ultimo poteva disporre sia degli esemplari alciatini così com’erano nel
codice dresdense sia di un antico codice simile a quello posseduto dall’Alciato.
Pubblicò i testi del Fontana a fianco di quelli dell’Alciato e sulle grandi differenze
intercorrenti tra le due lezioni non volle esprimersi59. Inoltre credette,
erroneamente, che appartenessero all’antica silloge anche due componimenti (nn.
I, II) che l’Alciato non trascrisse nell’appendice al dresdense ma che Carlo
Bescapé e Cesare Baronio riportarono da codici alciatini che avevano a
disposizione60. Si ingannò anche, non potendo consultare il manoscritto

57
CIL V 2, 618-623.
58
CIL V 2, 618: «Nam primo, ut dictum est, de tredecim sequentibus scripsit, deinde ex tredecim fecit
viginti. At cum ex viginti sequentibus sola tredecim primo loco posita primum compareant in Alciati libro
Dresdensi, contra septem postrema adsint item in Alciati exemplis ante factis, sequitur ut tredecim tantum
quae leguntur continua f. 146-158 ex antiquissimo quem dicit codice Alciatus exceperit».
59
Ibidem: «Nos Alciatinis Fontaniana apposuimus, cum utrque recensio ita differret, ut aliter diversitas
satis explanari nequiret. De ipsa hac sylloge carminum christianorum Mediolanensium iudicent talium
litterarum periti, quibus me adnumerari probe non scio».
60
Ibidem: «Sed non omnia, quae in antiquo libro invenit, carmina antiquiora Alciatus in librum
Dresdensem rettulit. Nam primum Caesar Baronius a. 1589 ex scripto commentario Andreae Alciati […]

19
dell’Ambrosiana, riguardo alla silloge posseduta dal Fontana: credette che le tre
fonti da cui trasse le iscrizioni, l’antiqua membrana o vetus codex, il vetustum
librum Wolfgangi Latii, il volumen Saxonicum (da cui Fontana trasse il n. I),
fossero il medesimo codice; e che da questo mancassero gli epigrammi n. 1, 7, 11,
13, II61.

Il De Rossi riprodusse nel giusto ordine tutta la serie alciatina e ne mise in luce
falsificazioni62, valorizzando la trascrizione del Fontana. Tuttavia rimase incerto
sull’esatta composizone della collezione contenuta nell’antica membrana: dei
primi tredici componimenti della serie ritenne che solo dodici (nn. 1-6, 8-13)
erano contenuti nell’antiquissimus codex, escludendo l’epitaffio di Arialdo (n. 13)
evidente falsificazione dell’Alciato; riguardo invece agli altri sette (14-20)
ipotizzò con molte riserve che l’Alciato li avesse aggiunti in un secondo
momento, trascrivendoli sempre dal codice antico63. Escluse infine che i nn. I e II
fossero presenti nel codice visto dall’Alciato64.
Per quanto riguarda il Fontana, lo studioso riuscì a identificare il libro di cui si era
servito grazie alla sopracitata nota al carme di Eustorgio, in cui lo storico
dichiarava la propria fonte, ovvero un antico codice che, oltre alla silloge,
conteneva delle Vitae Pontificum accompagnate dal proemio e da una lettera
erroneamente attribuita ad Ambrogio65. Si trattava di uno dei manoscritti
contenenti il Libellus de situ civitatis Mediolani, che il De Rossi identificò con il
ms. Ambros. C 133 inf., redatto nel sec. XI. Quest’ultimo tuttavia non è lo stesso

carmen n. 15 [= II], quod cum absit a libro Dresdensi, evidenter ex eodem corpore desumptum est.
Deinde Carolus Basilicapetri a. 1628 epigramma n. 14 [= I] omnino reliquis simile attulit ex Alciato».
61
Ibidem: «Eundem librum ubivis intellegi apparet […] Ex eo libro quae refert Fontana epigrammata
decem, sunt ipsa Alciatina n. 2, 3, 4, 5, 6, 8, 9, 10, 12, 14, ut quinque tantum n. 1, 7, 11, 13, 15 [=II] aut a
libro Vindobonensi aufuerint aut certe a Fontana inde non afferantur». Non avendo a disposizione il
manoscritto del Fontana non poteva sapere che esso conteneva anche i nn. 1 e 14.
62
ICUR II 1, 164-173.
63
ICUR II 1, 174 par. 1: «Tredecim inde primo epitaphia se excepisse testatur: quibus alia septem postea
subiunxit, utrum ex illo ipso codice an aliunde desumpta, equidem nescio. Epigrammata certe 14, 16-20
iam e lapidibus Alciato innotuerant; elogium Marcellinae sororis Ambrosii (n. 15) plures veteres codices
servabant. Verum epitaphia 17, 18, 19 e sylloge manu scripta, potius quam e lapidibus, Alciatus videtur
excepisse. Quare incertus haereo; et titulis 14-20 notam (?) appinxi dubitans, utrum illos in vetere codice
inscriptionum Mediolanensium Alciatus repperit, necne».
64
ICUR II 1, 177 par. 6: «Epigrammata 21, 22, ex hac sylloge meo iudicio eicienda, extremo loco posui,
ne quid deesset, quod ad eam videri posset pertinere: insignium carminum originem incertam et ab
antiquioribus syllogis alienam in subiectis commentariis declaravi».
65
ICUR II 1, 174 par. 2.

20
codice di cui si servì il Fontana, come pensava il De Rossi, che errava inoltre
identificando questo stesso con l’antiquissimus codex conosciuto dall’Alciato66. A
suo parere, il Fontana tolse dalla silloge ivi reperita nove epigrammi (nn. 2-6, 8-
10, 12), mentre per gli altri tre (1, 7, 11), accordò fiducia alla lezione dell’Alciato
che, vivendo a Milano, aveva potuto confrontarli con le epigrafi ancora esistenti
nelle chiese della città67. Lo stesso codice ambrosiano fu utilizzato, secondo De
Rossi, nel sec. XI da Landolfo Seniore, che nella sua Cronaca cita una annosam
descriptionem situs identificabile con il Libellus e riporta il carme per la
dedicazione di San Nazaro con le stesse varianti della lezione alciatina68.
Concluse, sulla scorta di queste indicazioni e forte dell’inclusione nella silloge del
titolo di Landolfo II (n. 12), vescovo tra 979 e il 997, che la redazione di questa e
la sua unione alle Vitae risalissero necessariamente al sec. XI.
Infine escluse che il vetustus liber Wolfgangi Latii, da cui il Fontana aveva tratto
l’epitaffio originale del vescovo Glicerio, fosse lo stesso codice indicato con la
diciture antiqua membrana e vetus codex, e ritenne si trattasse di un esemplare più
completo della silloge unita alle Vitae; riguardo al volumen Saxonicum non giunse
a conclusioni certe69.

Finalmente, con il Savio, si provvide a un esame diretto del manocritto del


Fontana e venne accertata la presenza dei carmi nn. 1 e 14 tra quelli tratti
dall’antico codice. Egli ebbe inoltre il merito di dimostrare con dovizia di
argomenti le falsificazioni dell’Alciato per quanto riguarda i carmi n. 13, I, II;
tuttavia estese indebitamente il ragionamento all’epitaffio di Natale. Inoltre,

66
ICUR II 1, 175: «Sylloge epigrammatum Christianorum Mediolanensium sive praemissa proemio sive
tamquam appendix subiecta erat vitis praesulum illius ecclesiae in vetere codice ad basilicam
Ambrosianam pertinente; quae item Alciati antiquissimus esse opinor».
67
ICUR II 1, 175 par. 3: «novem ex ipsa antiqua membrana, tres (1, 7, 11) ex Alciati antiquario, i. e.
collectaneis epigraphicis, nec sine causa: Horum trium epigrammatum archtypi lapides extabant : quare
Fontana Romae degens ea ex Alciatinis potius exemplis ad fidem lapidum, ut rebatur, exactis, quam e
vetere membrana censuit describenda». Anche il De Rossi, come il Mommsen, non avendo consultato il
mansocritto del Fontana non sapeva che vi presenziassero anche i nn. 1 e 14 e che invece il n. 5
mancasse.
68
ICUR II 1, 177, nota 1; inferisce inoltre (ibidem p. 175 par. 3), sulla scorta della trascrizione di
Landolfo, che aggiunge al carme un verso ad esso alieno (Tertia sed media mors impedit edita cuncta),
che la silloge contenesse altri carmi che sia l’Alciato sia il Fontana omisero di trascrivere volendosi
limitare a quelli riguardanti i vescovi di Milano.
69
ICUR II 1, 175 par. 2.

21
identificando il liber Latii con il vetus codex, ritenne che nel manoscritto veduto
dal Fontana comparisse anche l’elogio ennodiano di Glicerio (n. 5) 70.
Un successivo passo in avanti fu fatto grazie all’edizione del Liber notitiae
sanctorum da parte di U. Monneret De Villard e M. Magistretti. Fu messa in luce
la stretta relazione intercorrente tra le iscrizioni presenti nel Liber e quelle del
vetus codex del Fontana: le lezioni dei carmi hanno infatti molte affinità e la
selezione delle iscrizioni è pressoché identica, se si esclude l’assenza, nel Liber,
del titolo di Landolfo, che il Monneret giustificò con una lacuna dovuta alla
negligenza del copista71.

Tutti gli studiosi presi finora in considerazione, tuttavia, nei diversi ordinamenti
che proposero per la silloge, si ingannarono su due questioni di sostanziale
importanza: in primo luogo sostennero senza critica dimostrazione l’identità dei
codici posseduti da Alciato, Fontana e Goffredo da Bussero; in secondo luogo,
forti della presenza in tutti gli autori del carme n. 12, databile alla fine del sec. X,
non dubitarono del fatto che la silloge fosse stata redatta nel sec. XI, in
connessione con il Libellus de situ.

A. Silvagni mise a frutto alcune acquisizioni fatte dai predecessori e le arrichì


grazie all’analisi diretta dei codici e a un minuto confronto tra le lezioni dei testi
trasmessi dai vari testimoni della silloge antica72.
In primo luogo chiarì il modo di operare dell’Alciato nei confronti della silloge di
cui disponeva. L’umanista entrò in possesso dell’antiquissimus codex prima di
attendere alla seconda recensione dei suoi Monumenta. Nella prima parte del
codice dresdense incluse le iscrizioni cristiane già presenti nella prima recensione
della sua opera ma ne escluse le iscrizioni metriche, fatta eccezione per quella di
Cervia Abudantia (f. 36) e per l’iscrizione dedicatoria di Serena (f. 9).
Quest’ultima era certamente compresa nell’antica silloge a sua disposizione, dal
momento che figurava anche nei codici utilizzati da Goffredo da Bussero e
Fontana; tuttavia Alciato la escluse con il deliberato proposito di inserire in sua

70
SAVIO, Giovanni Battista Fontana, 343-375.
71
MONNERET DE VILLARD, in Liber notitiae, XXXIX-XL.
72
SILVAGNI, Studio critico, 249-279.

22
vece il carme falsificato di Arialdo in modo che la supposta provenienza da un
così venerando testimone ne garantisse la storicità. Si accinse quindi a trascrivere
in appendice al codice dresdense dodici dei carmi (nn. 1-12) della silloge con
l’aggiunta di quello di Arialdo (n. 13), disponendoli in ordine cronologico. Nelle
nota prefativa indicò essere in numero di tredici i componimenti tratti dall’antica
membrana; tuttavia in un secondo momento decise di aggiungere di seguito tutte
le iscrizioni metriche da lui trascritte nella prima redazione dei suoi Monumenta,
comprese quella di Serena e Abundantia, così mutò l’indicazione del numero dei
componimenti da tredecim in XX. In tal modo, accreditava l’idea che nella silloge
fosse contenuto l’intero patrimonio allora noto delle antiche iscrizioni cristiane di
Milano, ivi compresa quella del preteso antenato Arialdo73.
Il suo modo di procedere, oltre che dalla correzione nella nota, è confermato dal
fatto che i componimenti aggiunti in seguito (nn. 14-20) non rispettano l’ordine
cronologico74 secondo il quale si succedono i primi tredici. L’antica membrana
veduta dall’Alciato era quindi composta di tredici carmi, ovvero i nn. 1-12 e 14.
Meno completi furono gli esemplari che ebbero a disposizione Goffredo da
Bussero e Fontana.
L’antiqua membrana posseduta dal Fontana conteneva, come sopra abbiamo
precisato, solamente dieci iscrizioni; la fonte a disposizione di Goffredo da
Bussero ne conteneva invece nove, le stesse che sono trasmesse anche dal Fontana
ad eccezione dell’iscrizione sulla fondazione del monastero di San Celso (n. 12),
se si rifiuta la congettura non dimostrata del Monneret che essa sia caduta a causa
della negligenza dell’amanuense75.
La definizione dell’esatto numero di iscrizioni presenti in quantità differente
nell’opera dei tre autori ci consente, con il Silvagni, di identificare come tre
apografi distinti di una stessa silloge i codici posseduti dagli stessi.
Questa ipotesi è definitivamente dimostrata dal Sivagni attraverso il serrato
confronto delle varianti tra i testi di Alciato, Fontana e Goffredo, e di questi con il
testo originale delle epigrafi quale ci è trasmesso, a seconda dei casi, dalla lapide

73
SILVAGNI, Studio critico, 250-253.
74
ICUR II 1, 175 par. 3.
75
SILVAGNI, Studio critico, 253-254.

23
ancora esistente (n. 2), dai manoscritti di Ennodio (nn. 3-6, 8), dalla fedele
trascrizione del Castelli (nn. 7, 11)76.
I risultati del confronto portano Silvagni a tali conclusioni: gli apografi del
Fontana (B1) e di Goffredo (B2) erano molo simili (vi è perfetta uniformità nelle
lacune) ma non identici (per alcune varianti che in Goffredo appaiono più simili al
testo originale); l’apografo a disposizione dell’Alciato (A), in stato molto
lacunoso, aveva un antenato in comune con gli altri due, come dimostra la
presenza in esso delle varianti caratteristiche di B1 e B2, tuttavia nelle varianti
discordi si avvicina più alla lezioni di B1. Questo dimostra che i tre apografi
avevano un antenato comune (x), da cui derivarono due tradizioni distinte, una
testimoniato dal codice dell’Alciato, l’altra da quelli di Fontana e Goffredo da
Bussero77.
L’archetipo comune era tuttavia sprovvisto delle note cronologiche e
topografiche, che erano parte integrante delle antiche raccolte di iscrizioni; perciò
esso doveva essere il risultato di una riduzione antologica a partire dall’antica
silloge milanese completa.
Esso è dunque un apografo della silloge originale copiato nel sec. XI, come
suggeriscono l’epigrafe più recente (n. 12), datata al 998 ca., e l’unione con il ms.
Ambr. C 133 inf., databile allo stesso secolo. Se si esamina la distibuzione
cronologica delle iscrizioni presenti in questo apografo, si osserva che tutte,
eccetto quella di Landolfo, sono comprese tra il sec. IV e l’anno 783 (n. 2), in una
serie in cui ogni secolo è rappresentato. Mancano completamente epigrafi dei
secc. IX e X, benché la continuità dell’epigrafia milanese in tale periodo sia
ampiamente testimoniata, anche da lapidi tuttora esistenti.
L’unica spiegazione possibile è che l’iscrizione riguardante la fondazione del
monastero di San Celso sia un’aggiunta posteriore, risalente all’età in cui
l’apografo x fu copiato78. Fatta questa dovuta esclusione, si può prendere come
termine post quem per la redazione della silloge alciatina la fine del sec. IX: in tal

76
SILVAGNI, Studio critico, 254-269.
77
SILVAGNI, Studio critico, 269-270.
78
SILVAGNI, Studio critico, 271: avanza l’ipotesi che il responsabile sia un monaco dello stesso
monastero di San Celso. Si può estendere il discorso anche all’iscrizione di Natale, che commemora la
fondazione della canonica, sempre nel sec. XI.

24
modo questa raccolta si trova ad essere contemporanea alla composizione della
silloge palatina.
Sempre al sec. XI va fatta risalire l’unione della silloge al Libellus de situ: data la
parziale affinità tematica dello scritto con la raccolta, l’anonimo trascrittore
del’apografo giunto al Fontana nel sec. XVI ritenne opportuno unirli nel
medesimo manoscritto79.

79
SILVAGNI, Studio critico, 272 è probabile che anche i codici veduti da Landolfo Seniore e Goffredo da
Bussero fossero uniti alle Vitae.

25
Criteri di edizione

I componimenti sono presentati in ordine cronologico; molte datazioni sono ipotetiche e


saranno poste tra parentesi tonde nel titolo.

L’edizione dei testi è stabilita criticamente in base alla diretta osservazione delle fonti
manoscritte.

Nell’apparato critico è segnalata prima la lezione adottata nell’edizione, di seguito,


dopo parentesi quadra, le varianti, seguite dalla sigla del manoscritto di origine; gli
interventi di correzione sono segnalati con la sigla corr. seguita dal nome dell’editore
cui si deve la correzione.

Le interpolazioni dell’Alciato, quando di modesta entità, sono incluse nell’apparato; i


carmi ampiamente rimaneggiati sono invece presentati inegralmente di seguito
all’apparato critico.

L’ultima sezione dell’apparato è riservata alle fonti poetiche, suddivise per verso e
disposte in ordine cronologico; si fanno precedere dalla sigla cfr. le citazioni di autori
successivi alla presunta epoca del componimento.

26
1. Epitaffio di Satiro, 377-378 ca.

Uranio Satyro supremum frater honorem


Martyris ad laevam detulit Ambrosius.
Haec meriti merces, ut sacri sanguinis humor
Finitimas penetrans alluat exuvias.

Il fratello Ambrogio ha tributato a Uranio Satiro il supremo onore di riposare alla


sinistra del martire. Questa è la ricompensa dei suoi meriti: che il liquido del sangue
santo, penetrando, purifichi le vicine spoglie.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833 f. 42r [= P].
Milano, Biblioteca Ambrosiana, B 102 sup. f. 56v-57r (Dung. adv. Cl. Taur) [= D].

Ed. CIL V 2, 617 n. 5; ICUR II 1, 163 n. 5; FORCELLA-SELETTI80, p. 9 n. 10 (ex P).


Ed. Zanna81, 242 (ex D).

2 laevam D ] levam P; 3 humor D ] umor P; 4 alluat D ] adluat P.

1. Supremum honorem: Verg. Aen. 11, 75: Harum unam iuveni supremum maestus honorem;
ibidem 61: Mille viros qui supremum comitentur honorem; Stat. Theb. 6, 925: Dignari et tumulo
supremum hunc addere honorem. 2. Martyris ad laevam: martyr incipit frequente in Damas. e
Paol. Nol; carm. epigr. 1434, 1: Martyris ad frontem recubent quae membra sepulchro. 3. Haec
meriti merces: Ovid. epist. 2, 56: Debuit haec meriti summa fuisse mei; carm. epigr. 779, 2:
Mercedem meritis: sedis cui proxima sanctis; sacri sanguinis: Verg. Aen. 3, 67: Sanguinis et
sacri pateras animamque sepulcro; Ambr. hymn. 10, 3: Quo diluit sanguis sacer; Ovid. fast. 1,
472: Nobilior sacrae sanguine matris erat; Prud. c. Symm. 2, 667: Iuppiter ut sacro iustorum
sanguine tincta; umor: finale frequente in Verg. Georg; Tert. adv. Marc. 2, 192: Corporis
exanimi sanguis manavit et humor 4. Finitimas: Verg. Aen. 7, 549: Finitimas in bella feram
rumoribus urbes; Stat. Theb. 3, 386: Finitimas adhibere manus, iamque ire sed altus; penetrans:
Iuvenc. evang. 3, 41: Et facile iniusti penetrans habitacula cordis; adluat exuvias: Ambr. hymn.
10, 3-4: Quo diluit sanguis sacer / Probrosa mundi crimina; ibidem 18-20: Ut abluat mundi luem
/ Peccata tollat omnium / Carnis vitia mundans caro.

San Satiro confessore, fratello minore di Marcellina e di poco più grande di Ambrogio,
nacque dopo il 330. Dopo avere trascorso i primi anni a Treviri, si formò a Roma
insieme al fratello e intraprese una brillante carriera politica che abbandonò al momento
dell’elezione di Ambrogio al soglio episcopale (a. 374). Infatti lasciò la provincia
d’oriente di cui era prefetto per trasferirsi a Milano, ove ebbe il compito di amministrare
80
Iscrizioni cristiane in Milano anteriori al IX secolo, a. c. di V. FORCELLA- E. SELETTI, Codogno 1897
(d’ora in poi FORCELLA-SELETTI).
81
Dungali Responsa contra Claudium Taurinensem, a c. di P. ZANNA, Firenze 2002.

27
il patrimonio familiare, rimasto indiviso, e collaborò con il fratello specialmente
nell’erezione di nuove chiese82. Morì nel 377 o nel 378 e fu sepolto nella cappella di S.
Vittore in Ciel d’Oro presso le spoglie del martire eponimo, stando alla testimonianza di
Dungal, che riporta l’epitaffio nei Responsa contra perversas Claudii Taurinensii
episcopi sententias e dell’Itinerarium Salisburgense della seconda metà del sec. VII
(ms. Vindobonensis 795, f. 186) 83. Ambrogio tenne due discorsi in suo onore84, uno in
occasione del funerale, l’altro sette giorni dopo la deposizione, che rappresentano la
principale fonte di informazioni riguardo al personaggio. La Vita a lui dedicata risale
invece al sec. IX, quando il culto del santo era ormai affermato85.
La venerazione per i fratelli di Ambrogio dovette sorgere infatti in epoca piuttosto tarda,
a partire dalla fine del sec. VIII e lungo tutto il sec. IX, in corrispondenza di un periodo
di fervore religioso e rinnovata devozione nei confronti del santo Padre della Chiesa,
determinato in duplice maniera dalla penetrazione franca nella società e nella chiesa
milanese. Da un lato fu sostenuto dall’opera di alcuni vescovi di origine franca, come
Pietro, che nel 789 fondò il monastero annesso alla basilica ambrosiana, e Angilberto II
(† 859), responsabile della ricognizione delle reliquie di Ambrogio e dei martiri
Gervasio e Protasio e della loro nuova sistemazione nell’altare d’oro di Volvino.
Dall’altro lato la rivendicazione del patronato ambrosiano servì per riaffermare il
prestigio metropolitico dell’arcidiocesi contro le pretese autonomistiche della
suffraganea diocesi di Pavia e contro gli indirizzi unificatori in campo liturgico della
politica carolingia86.
L’importanza crescente della figura di Ambrogio e della basilica a lui dedicata è
testimoniata dal fatto che nove degli undici vescovi succedutisi tra Pietro (sec. VIII ex.)
ed Andrea († 906) scelsero questa come luogo della loro sepoltura. Anselmo II († 896)

82
AA. SS. Sept., V, 485-508; F. SAVIO, Gli antichi vescovi d’Italia dalle origini al 1300. La Lombardia.
I, Milano, Firenze 1913, 890-920 (d’ora in poi SAVIO, Milano); A. RIMOLDI, Satyrus, in Bibliotheca
sanctorum, XI, Roma 1961-1970, 664-66 (d’ora in poi BS); C. PASINI, Satiro, in Dizionario della Chiesa
ambrosiana, V, a c. di A. MAJO, Milano 1987-1993, 3232-3234 (d’ora in poi DCA).
83
Per il testo e la datazione dell’Itinerarium: J-C. PICARD, Le souvenir des évêques: sépultures, listes
épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Roma 1988, 19-24; mette in
dubbio e offre bibliografia: P. TOMEA, Ambrogio e i suoi fratelli. Note di agiografia milanese
altomedievale, «Filologia mediolatina», 5 (1998), 230-231.
84
Ambrosii De excessu fratris, in CSEL LXXIII, 207-51.
85
TOMEA, Ambrogio, 210-32.
86
A. AMBROSIONI, Contributo alla storia della festa di san Satiro a Milano. A proposito di due
documenti dell’Archivio di S. Ambrogio, in Milano, papato e impero in età medievale. Raccolta di studi, a
c. di M. P. ALBERZONI e A. LUCIONI, Milano 2003, 57-67.

28
fu inumato, secondo quanto dice la lista episcopale, presso l’altare di Santa Marcellina.
Inoltre in quest’epoca si provvide a vari interventi di risistemazione della basilica e dei
corpi santi ivi conservati, tra cui probabilmente anche quello di San Satiro. Fu forse in
questa occasione che fu tolta la lapide con l’iscrizione funeraria87.
Per quanto riguarda il culto di Satiro, che non compare nei più antichi santorali e libri
liturgici della chiesa milanese, copiati attorno al IX-X sec.88, la prima sicura attestazione
è il testamento di Ansperto, dell’879, con il quale l’arcivescovo fondava la chiesa di San
Satiro in urbe con annesso xenodochio affidandone la gestione al monastero di
Sant’Ambrogio89. È facile immaginare che proprio il monastero, fin dalla sua
fondazione, si facesse promotore del culto di Ambrogio e di tutte le memorie
ambrosiane; così l’affidamento della chiesa di San Satiro da parte di Ansperto può
essere interpretato come un riconoscimento dell’attività svolta dai monaci a favore del
culto di Satiro, delle cui reliquie erano forse i custodi (se si identifica con San Vittore in
Ciel d’Oro la cella concessa ai monaci per la preghiera privata nel testamento di Pietro
del 789)90.
Il culto del santo appare ormai affermato nel 1022 quando l’arciprete degli ordinari
Pietro, nel suo testamento, dispone dei suoi beni in Novate in favore della chiesa Beati
Christi cofessoris Satyri quae est constructa foris et iusta ecclesia Sancti Ambrosii ubi
eius sanctum quiescit corpus: San Vittore in Ciel d’Oro, anche in conseguenza alla
fondazione nel 1004 del monastero di San Vittore ad corpus che iniziò subito a
rivendicare il possesso del corpo del martire, ha ormai mutato nome in San Satiro91.

L’epitaffio di Satiro è tramandato dalla Silloge Circumpadana sotto la titolatura ITEM


EPYT(APHIUM) AMBROSIANUM e tutta la tradizione, a partire da Dungal, consente
con questa attribuzione. Nonostante manchino prove determinanti riguardo alla paternità
ambrosiana, tuttavia, data la sicura antichità del carme92, non è improbabile che

87
PICARD, Le souvenir, 92-98.
88
TOMEA, Ambrogio, 210-211.
89
TOMEA, Ambrogio, 211: «quantunque il documento sia stato riconosciuto falso, la veridicità delle sue
affermazioni sulla costruzione della chiesa e dello xenodochio trovano conferma rispettivamente nel già
citato epitafio del presule e in un altro testamento, della cui genuinità non si ha motivo di dubitare, da lui
rogato l’11 novembre 879».
90
AMBROSIONI, Contributo, 62-63.
91
AMBROSIONI, Contributo, 63-66.
92
TOMEA, Ambrogio, 214: «Per quanto concerne, invece, il titulus relativo alla sepoltura di Satiro, la sua
antichità –ancorché non vi siano a mio giudizio argomenti che ne comprovino con sicurezza la paternità

29
Ambrogio stesso si occupasse personalmente dell’iscrizione funeraria, che era il
coronamento del processo di commemorazione funebre. Infatti il vescovo si era
incaricato in prima persona di redigere e pronuniciare davanti ai fedeli l’elogio funebre
nei due discorsi De excessu fratris e aveva predisposto per il fratello la sepoltura
privilegiata ad martyrem, come informa lo stesso epitaffio.
L’analisi testuale può sorreggere questa ipotesi rivelando dietro l’epitaffio il profilo di
un autore colto, conoscitore della letteratura e della metrica classiche, che fa mostra di
grande capacità di sintesi concettuale nel sapiente utilizzo della forma tetrastica; e a
costituire quasi la prova defintiva della paternità ambrosiana sono alcuni echi lessicali e
ideologici dell’opera di Ambrogio e la presenza del suo nome nel componimento, che
negli epitaffi in genere rivela l’identità del committente e spesso dell’autore.
La metrica è impeccabile così come l’aderenza della sintassi alla struttura del distico. La
salda formazione classica e la maestria del versificatore sono palesate dalla regolarità
delle cesure semiquinarie, della presenza del dattilo al quinto piede, delle clausole in
dieresi bucolica. La prosodia non è ancora inquinata dal sopraggiungere di
trasformazioni linguistiche: il nesso di muta con liquida è infatti ancora scomposto
secondo la corretta sillabazione latina (sup-re-mum, v. 1; sac-ri, v. 3).
Il primo distico è incorniciato, agli estremi, dai nomi dei fratelli: il primo, quello del
defunto Uranius Satyrus, indicato con i duo nomina, occupa tutto il primo emistichio
dell’esametro; il secondo, quello del dedicatario Ambrosius, è rilevato da due accenti,
dalla posizione finale e dalla tensione grammaticale che si crea per la presenza di frater
al v. 1 e per l’anticipazione del verbo detulit rispetto al suo soggetto. Al centro, tra il
secondo emistichio dell’esametro e il primo del pentametro, è dichiarato il “supremo
onore” di Satiro, cioè quello di essere deposto alla sinistra del martire: supremum
honorem è un nesso che, con la stessa posizione nel verso, si ritrova in Virgilio (Aen.
11, 75); martyris ad laevam è un attacco che richiama direttamente l’epigrafia
damasiana e la pratica delle inumazioni ad martyres sorta a Roma sotto questo
pontefice; una formula analoga (martyris ad frontem) è ripetuta nell’epitaffio di Manlia

ambrosiana- parrebbe confinarlo in una sorta di limbo: una fase presitorica rispetto allo sviluppo del
culto. Infatti, che nell’iscrizione non figuri alcun elemento allusivo alla santità di Satrio non significa
soltanto che l’epigrafe fu evidentemente incisa prima che gli venisse tributata qualsiasi forma di
venerazione pubblica, ma esige al contempo che essa rimonti ad anni prossimi al suo decesso, essendo
poco verosimile che a distanza di secoli ci si curasse di scrivere ex novo l’epitaffio per un defunto che
seppur reso illustre, nel nostro caso, dalla consanguineità con Ambrogio, non fosse accreditato del
peculiare ossequio religioso di cui godevano i santi».

30
Daedalia, attribuito ugualmente ad Ambrogio nella silloge. È ammirevole la concisione
del dettato, per la quale ogni unità di senso compiuto è inclusa nella misura
dell’emistichio e i nessi sono improntati a un’estrema sintesi concettuale (l’espressione
supremum honorem ad laevam martyris, che sottintende “di essere deposto”).
La stesso principio di condensazione semantica informa il secondo distico: il verbo
della principale è sottointeso (haec est merces meriti: ut...) e il sintagma assillabante
meriti merces è un’allusione da sola sufficiente a illustrare la vita di Satiro e a
giustificarne la sepoltura presso il santo martire. Ed è viceversa la stessa sepoltura in
tale luogo privilegiato a testimoniare la santità della vita del defunto. In tal modo la
commemorazione funebre si sviluppa in un rapporto circolare rispetto al luogo della
sepoltura.
La purificazione del corpo terreno di Satiro è l’esito di questo rapporto di stretta
vicinanza tra le spoglie di questi e quelle del martire; contiguità che è espressa da un
tessuto semantico organizzato quasi in crescendo (ad laevam, v. 2; finitimas, penetrans,
v. 4).
L’intercessione avviene attraverso un vero e proprio contatto fisico: il liquido benefico
del sangue del martire (sacri sanguinis allitterante; sanguinis umor in dieresi bucolica),
penetrando nel sepolcro “lava” (alluat, v. 4) le spoglie di Satiro. Analoghi composti di
luo (diluit, abluat), e non sembra casuale, sono utilizzati da Ambrogio (ma si tenga
presente che l’attribuzione non è sicura) nell’inno Hic est dies verus Dei, dedicato alla
Pasqua, per descrivere la natura del sacrificio di Cristo che attraverso il suo sangue ha
lavato i peccati del mondo (Ambr. hymn. 10, 1-4 : Hic est dies verus Dei / Sancto
serenus lumine / Quo diluit sanguis sacer / Probrosa mundi crimina; ibidem 18-29: Ut
abluat mundi luem / Peccata tollat omnium) e della carne (ibidem 20: Carnis vitia
mundans caro). Questo, per analogia, diventa il fondamento teologico della potenza
d’intercessione del martire, autentica imago Christi, e del suo sanguis sacer (locuzione
che ricorre nell’inno e nell’epitaffio).

31
2. Epitaffio di Manlia Daedalia, sec. IV ex. – V in.

Martyris ad frontem recubent quae membra sepulchro,


Ut, lector, noscas est operae pretium.
Clara genus, censu pollens et mater egentum,
Virgo sacrata Deo Manlia Daedalia,
5 Quae, mortale nihil mortali in pectore volvens,
Quo peteret caelum semper amavit iter.
Sexaginta annos vicino limite tangens,
Rettulit ad Christum celsa per astra gradum.
Haec, germana, tibi, Theodorus, frater et heres,
10 Quae relegant olim saecla futura dedi.

Vale la pena che tu conosca, o lettore, quali membra riposino nel sepolcro di fronte al
martire. Illustre per stirpe, potente per censo e madre dei bisognosi, vergine consacrata a
Dio, Manlia Daedalia, che giammai meditando pensieri mortali nel petto mortale, amò
sempre la via per la quale si giunge al paradiso. Avendo raggiunto quasi i sessant’anni,
rivolse i suoi passi a Cristo, attraverso le stelle sublimi. Per te, sorella, io, Teodoro,
fratello ed erede, ho posto queste parole che un giorno i secoli futuri rileggeranno.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833 f. 42v [= P].
Dresden, Sächsische Landesbibliothek, ms. F 82 b, f. 165r (Alciato) [= A].
Lapide marmorea conservata nello scurolo di San Satiro; dimensioni m. 0,82 x 1, 10 x 0,04;
altezza lettere mm. 19-24 [= L].

Ed. CIL V 2, 686 n. 6240 (ex P, A); ICUR II 1, 163 n. 4 (ex P); FORCELLA-SELETTI, 12 n. 13
(ex L).

1 recubent A, L ] recubant P; sepulchro P ] sepulcro A L; 2 operae A, L ] opere P; pretium P, L


] precium A; 3 egentum P, A ] egentun L; 4 Manlia A, L ] Mantlia P; 8 rettulit L ] retulit P, A.;
Christum ex XPM P, XRM A, L.

1. Martyris: incipit frequente in Damas. e Paul. Nol; carm. epigr. 1421, 2: Martyris ad laevam
detulit Ambrosius; recubent: Verg. ecl. 1, 1: Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi;
Damas. carm. 3, 1: Tityre, tu fido recubans sub tegmine Christi; Ambr. dist. 2, 1: Aspice
Iohannem recubantem in pectore Christi; membra sepulcro: Verg. Aen. 10, 558: Condet humi
patrioque onerabit membra sepulcro; Tert. adv. Marc. 3, 170: Cuius post obitum iam condita
membra sepulchro. 2. Ut lector noscas: Lucr. rer. nat. 2, 402: Ut facile agnoscas e levibus atque
rotundis; Lucr. rer. nat. 2, 1007: Ut noscas referre eadem ad primordia rerum; Lucr. rer. nat. 5,
290: Ut noscas splendore novo res semper egere; Paul. Nol. carm. 21, 827: ut noscas, dederisne
aliquid Felicis honori; Iuvenc. evang. 4, 123: Haec dignus tantum poterit cognoscere lector; est
operae pretium: Hor. sat. 2, 4, 63: Est operae pretium duplicis pernoscere iuris; Mart. epigr. 7,
37, 2: Est operae pretium discere theta novum; Prud. apoth. 1, 952: Est operae pretium nebulosi
dogmatis umbra; Hor. epist. 2, 1, 229: Sed tamen est operae pretium cognoscere, qualis. 3.
Clara genus: Sil. Ital. Pun. 2, 557: Clara genus Daunique trahens a sanguine nomen; carm.

32
epigr. 680, 2: Clara genus et pulcra gena sed plena pudoris. 4. Sacrata deo: Mart. epigr. 9, 16,
2: Pergameo posuit dona sacrata deo; Damas. carm. 10, 1: Hoc tumulo sacrata deo nunc
membra quiescunt. 5. Mortale mortali: Ovid. met. 2, 56: Sors tua mortalis; non est mortale
quod optas; mortali pectore: Verg. Aen. 3, 56: Vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis;
Verg. Aen. 4, 412: Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis; Ovid. met. 4, 201: Transit et
obscurus mortalia pectora terres; Ovid. met. 6, 472: Pro superi, quantum mortalia pectora
caecae; in pectore volvens: Verg. Aen. 4, 563: Ille dolos dirumque nefas in pectore versat;
Lucan. Phars. 8, 622: Seque probat moriens atque haec in pectore volvit. 6. Ovid. ars 2, 37:
Restat iter caeli: caelo temptabimus ire; Ovid. met. 2, 730: Vertit iter caeloque petit terrena
relicto; Prop. eleg. 3, 14, 32: Invenias: caecum versat amator iter; 7. Sexaginta annos: Iuv. sat.
2, 17: Sexaginta annos fonteio consule natus; vicino limite: Verg. ecl. 1, 53: Hinc tibi quae
semper vicino ab limite saepes. 8. Rettulit gradus: Verg. Aen. 6, 128: Sed revocare gradum
superasque evadere ad auras; Ovid. fast. 2, 502: Rettuit ille gradus, horrueruntquae comae. 9.
Haec germana tibi: Verg. Aen. 5, 412: Haec germanus Eryx quondam tuus arma gerebat; Stat.
Theb. 3, 380: Hunc, germane, tibi iugulum et tibi, maxime Tydeu; Damas. carm. 10, 9: Te,
germana soror nostri tunc testis amori. 10. Quae relegant olim: Prud. perist. 10, 1133:
Relegendus olim sempiterno iudici; carm. epigr. 1382, 12: Ut relegant cuncti: tam bene clarus
eras; Auson. parent. 15, 12: Quaeque futura olim gaudia nosse datur; carm. epigr. 1366, 6:
Ignara ut non sint saecla futura sui; dedi: finale frequente in Ovid.

L’epitaffio di Manlia Daedalia è trasmesso da tre fonti indipendenti l’una dall’altra: una
lapide ancora presente nella basilica di Sant’Ambrogio all’interno dello scurolo di San
Satiro, la silloge contenuta nel codice palatino e i codici alciatini, ove nel manoscritto
dresdense è posto tra i venti carmi tolti ex antiquissimo codice.
Il Silvagni ha dimostrato che alla silloge antica appartenevano soltanto tredici dei carmi
riportati dall’Alciato e che a questo nucleo egli aggiunse gli altri epigrammi cristiani già
presenti nella prima stesura della sua opera, tra cui quello di Manlia Daedalia. Precede il
carme una nota (f. 164v), che appariva anche nel codice Braidense, in cui indica che
iuxta Gervasii Oribasiique martyrum sedem adest et Manliae Daedaliae conditorium
cum hoc non ineleganti epigrammate quod quamvis vetustum non sit, non tamen
praetermittendum censui. L’Alciato ha quindi tratto l’epigramma dalla lapide in
Sant’Ambrogio, e presumibilmente questa è la sua unica fonte.
Occorre perciò chiedersi se la lapide veduta dall’Alciato sia la medesima di quella
tuttora presente nella cripta di San Satiro, e interrogarsi sull’autorità di questa terza
fonte. Uno studio di A. Silvagni93 ha messo in discussione la convinzione, condivisa
fino ad allora da tutti gli studiosi, che la lapide fosse quella originale, risalente alla fine
del IV secolo. Alcuni caratteri esteriori la differenziano decisamente dall’uso epigrafico
di quell’epoca: le dimensioni della lapide eccedono rispetto al campo di scrittura (spazio

93
SILVAGNI, Studio critico, 274-279.

33
vuoto di 60 cm. sopra il testo e di 18 cm. sotto), fatto piuttosto inusuale nell’antichità; la
mise en page epigrafica adotta l’uso moderno di distinguere i due versi del distico con il
rientro del pentametro; nonostante la solennità dell’iscrizione e l’importanza del
personaggio, la scrittura è piuttosto rozza e irregolare, e appare una faticosa imitazione
di una grafia più antica. Per quanto riguarda i caratteri esteriori, l’assenza delle note
cronologiche di morte e deposizione della defunta, essenziali nelle epigrafi sepolcrali
specialmente poetiche, denuncia indubitabilmente che tale lapide è una copia che è stata
trascritta o da una silloge manoscritta antologica, perciò sprovvista di note
cronologiche, o dal marmo originale, ridotto in stato frammentario e mancante della
parte finale con le note. Il Silvagni propende per questa ipotesi osservando lo zelo e la
difficoltà con cui il lapicida sembra imitare un originale antico; la sostituzione deve
essere avvenuta nel «sec. XVII o meglio al sec. XVIII in cui maggiormente invalse la
moda in Italia di raccogliere iscrizioni cristiane per formare piccoli musei, dando
occasione a copie di epigrafi antiche e anche a falsificazioni». Ne conseguirebbe che
l’Alciato non avrebbe visto la lapide attualmente esistente ma quella originale già mutila
della parte con le note cronologiche. La concordanza di alcune lezioni tra il marmo e la
versione alciatina si spiegherà allora ipotizzando che, a causa del suo stato
frammentario, nel ricopiare la lapide fu tenuto presente anche l’apografo alciatino
(indicativa l’abbreviazione XRM, v. 8, presente, tra gli antichi autori, solo nell’Alciato).
Seguendo le considerazioni del Silvagni la tradizione dell’epitaffio di Manlia Daedalia
si può così riassumere: dalla lapide originale x, esistente almeno fino all’età moderna, è
stato copiato prima dell’VIII secolo il testo presente nella silloge del cod. Palatino (P);
in seguito, sempre dall’originale, la versione alciatina (A), con la quale x, ormai
frammentario, è stato integrato per trarre l’apografo presente sull’attuale lapide (L).
Tuttavia non esistono documenti né prove paleografiche a supportare l’opinione del
Silvagni sull’epoca della copia, che potrebbe risalire anche a una delle numerose
risistemazioni della basilica avvenute nel medioevo o al primo Rinascimento. In questo
caso quella dell’Alciato sarebbe una copia della lapide tuttora esistente; infatti quando si
riferisce all’epigramma con l’espressione quamvis vetustum non sit, sembra alludere alla

34
recenziorità della lapide. Il Sartori inclina a pensare che essa fu copiata in età
umanistica94.
Le lezioni dei due rami della tradizione differiscono soltanto graficamente, ad eccezione
del v. 1 (recubant A, P, recubent L,) e del v. 8 (retulit P A, rettulit L), ma a causa della
dipendenza di A da L o, come ritiene il Silvagni, della contaminazione tra le due è
impossibile determinare in senso lachmaniano l’affidabilità di una lezione rispetto
all’altra. Mi sono quindi attenuto a criteri di correttezza grammaticale, data l’altezza
cronologica e la qualità dell’opera: al v. 1 ho quindi preferito il congiuntivo recubent
dovuto all’attrazione modale di noscas, al v. 8 rettulit poiché la vocale aperta breve di
retulit mal si concilierebbe con la metrica.

Il carme è stato composto alla fine del sec. IV: la defunta è sorella di Manlio Teodoro95,
patrizio milanese dalla lunga carriera politica, esponente di spicco della recente nobiltà
brocratica in acesa. Teodoro nel 399 ottenne il consolato e in questa occasione
Claudiano scrisse un panegirico in suo onore96. È lui il dedicatario dal momento che la
sorella non ebbe figli, essendo una vergine consacrata. Non conosciamo la data della
deposizione di Daedalia, ma possiamo prendere come termine post quem il 386, anno
dell’invenzione dei corpi dei martiri Gervaso e Protaso.
Il patrono milanese è da lunga tradizione ritenuto l’autore del componimento.
Innanzitutto nella silloge palatina l’epitaffio è preceduto dal titolo EPYT(APHIUM)
AMBROSIANUM, così come i carmi 2 e 3 di cui è probabile la paternità ambrosiana. La
testimonia anche la buona latinità dello scritto, che si serve di modelli classici ma è
capace di elaborare nuove espressioni (mater egentum, virgo sacrata deo, etc.) che
avranno fortuna nella poesia funeraria del sec. VI e poi in età carolina. Tale fortuna
potrebbe indicare l’autorevolezza di cui godeva l’autore di questo carme e suggerire che
l’attribuzione ambrosiana fosse opinione condivisa nell’alto medioevo (così da confluire
nell’indicazione della silloge del sec. VIII). Inoltre l’estrazione sociale del committente
94
A. SARTORI, Di alcuni “Ambrosiana epigrammata”: iscrizioni rinnovate nella tradizione milanese, in
Milano capitale dell’impero romano (286-402 d. C), a c. di G. SENA CHIESA, Milano 1990, 82.
95
Per Manlia Daedalia vedi: Prosopographie chrétienne du Bas-Empire, 2, Italie (313-604), vol. I, a c. di
C. PIETRI, L. PIETRI, Rome 1999, 528; per Manlio Teodoro vedi: Prosopographie chrétienne du Bas-
Empire, 2, Italie (313-604), vol. II, a c. di C. PIETRI, L. PIETRI, Rome 2000, 2167-2168; su Daedalia e
Teodoro è molto importante, per la ricca bibliografia: E. GAGETTI, La teca di Manlia Daedalia. La
devozione di una nobildonna mediolanense, in Il tesoro di San Nazaro: antichi argenti liturgici dalla
basilica di San Nazaro al Museo diocesano di Milano, a c. di G. SENA CHIESA, Milano 2009, 73-96.
96
Claud. pan. Dict. Manlio Teodoro, in MGH Auctores antiquissimi, X, 181.

35
permette di pensare, con il De Rossi97, che Ambrogio stesso abbia redatto il carme su
sua richiesta come, sempre nel sec. IV, faceva Damaso a Roma; del resto il personale
interessamento del vescovo è già presupposto dalla concessione del privilegio della
sepoltura ad martyres.
La sepoltura ad martyres è riservata da Ambrogio al fratello Satiro e la defunta
condivide con Marcellina sorella del santo la condizione di vergine consacrata: questi
sono altri elementi che ci permettono di avvicinare ad Ambrogio la figura di Daedalia e
di collocare la stesura dell’epitaffio all’epoca del suo episcopato, senza che questo lo
identifichi con sicurezza come autore. Anzi possono essere stati gli elementi sopra
indicati a contribuire a una più tarda attribuzione ambrosiana.
Una differente ipotesi sull’identità dell’autore dell’epitaffio è stata avanzata da E.
Gagetti98, che propone di identificarlo con il fratello Teodoro. La presenza del nome
nella dedica, accompagnato dal verbo dedi, potrebbe identificare non solo il
committente del titolo ma anche l’autore stesso. Inoltre sappiamo grazie all’elogio di
Claudiano che egli si dedicò a studi letterari e filosofici e scrisse opere di carattere
filosofico, cosmologico e grammaticale (quest’ultima è giunta fino a noi99); è possibile
quindi che si fosse occupato in prima persona della stesura dell’epitaffio.

La prima notizia sulla collocazione del sepolcro (conditorium) e del titolo (cum
hoc…epigrammate) è quella sopracitata dell’Alciato (1492-1550): le membra di
Daedalia riposavano quindi nello stesso sacello ove erano conservate le reliquie di
Gervaso e Protaso, accanto a uno dei due martiri, e questa dovette essere la sistemazione
originale del tumulo
Il secondo a indicare la collocazione del titolo è Francesco Ciceri († 1594-96), che lo
vede nel peristilio del monastero ambrosiano; egli non fa menzione però del sepolcro, di
cui da allora non si hanno più notizie. La lapide subisce in seguito altre sistemazioni
(testimoniate dal Puricelli e dall’Allegranza) in occasione delle quali avvenne forse la
ricopiatura su nuova lapide, fino a quella definitiva nello scurolo di San Satiro, attestata
per la prima volta dal Caffi100.

97
ICUR II 1, 160 par. 2.
98
GAGETTI, La teca , 84-86.
99
Malli Teodorii Liber de metris, in Grammatici latini, VI, a c. di H. KEIL, Hildesheim 1981, 585-601.
100
CIL V 2, 686 n. 6240.

36
Merita di essere ricordato il ritovamento, avvenuto nel 1578, di un reliquiario argenteo
di forma ellittica, sul quale, suddivisa tra le due valve che lo compongono, è incisa la
scritta DEDALIA VIVAS / IN CRISTO101. Esso fu rinvenuto sotto l’episcopato di
Carlo Borromeo dentro la capsella contenente le reliquie degli apostoli posta da
Ambrogio all’interno dell’altare maggiore della basilica aposotolorum in occasione
della sua consacrazione nel 386102. La teca di Dedalia contiene delle reliquie ex ossibus,
rare nell’Occidente cristiano: fu utilizzato come reliquiario personale e poi donato ad
Ambrogio per la dedicazione della basilica. Se l’iscrizione si riferisce a Manlia
Daedalia, la teca potrebbe essere un dono fattole in occasione della sua consacrazione
verginale103.
Carlo Bescapé (1550-1615), che aveva assistito e redatto il resoconto della ricognizione
delle reliquie, propose di identificare l’originale collocazione del sepolcro di Manlia
Daedalia in un sarcofago posto alla sinistra della tomba del martire Nazaro, che
conteneva le ossa di due individui sconosciuti104.

L’alto profilo del compositore si rivela nella raffinatezza retorica del carme (che
privilegia le figure sintattiche e di significato rispetto alla pesantezza di allitterazioni e
omoteleuti), per la sapienza metrica nella costruzione del verso, per la familiarità con la
letteratura di età classica.
I distici sono chiusi, ciascuno è depositario di un’unità sintattica e semantica che si
distende in entrambi i versi, perlopiù secondo l’organizzazione subordinata-principale (
vv. 1-2, 5-6, 7-8). Gli esametri sono strutturati sempre con cesura pentemimere (eccetto
il v. 3, che si può leggere anche con tritemimere ed eftemimere) e dieresi bucolica che
inquadra la clausola finale composta di bisillabo e trisillabo o viceversa. L’unità
semantica dei distici corrisponde alla strutture base dell’epitaffio: l’indicazione della
sepoltura (vv. 1-2), la presentazione del defunto di cui si illustra la condizione (vv. 3-4),
la vita (vv. 5-6) e l’età (vv. 7-8), la dedica del committente (vv. 9-10). Questa
organizzazione perfetta è movimentata da una tensione retorica che risponde al doppio
intento di glorificare la vita santa della defunta giustificandone la sepoltura presso il

101
CIL V 2, 683 n. 6211.
102
Il tesoro di San Nazaro, a c. di SENA CHIESA.
103
GAGETTI, La teca, 73-83.
104
C. BESCAPÉ, De metropoli Mediolanensi, Milano 1628, 4.

37
martire e allo stesso tempo di manifestare l’importanza della sua famiglia e del fratello
che dedica la lapide.
L’intercessione del martire, che nell’epigramma di Satiro è esplicitato dalla “realistica”
notazione del secondo distico, qui è suggerita dall’incipit che menziona subito la
presenza delle spoglie del martire e pospone al quarto verso il nome della defunta,
affidando metatestualmente al carme stesso il compito di spiegarne la vicinanza. Questo
primo distico, il cui attacco Martyris ad frontem ricorda il secondo verso dell’epitaffio
di Satiro e richiama i contemporanei epigrammi damasiani, ha una struttura sintattica
complessa che procede inversamente dalle subordinate verso la principale e mette in
campo tutti gli attori della commemorazione attivata dall’epitaffio: i corpi del martire e
della defunta (v. 1), il lettore, evocato direttamente con l’apostrofe, e il carme stesso (v.
2). A questi elementi si aggiungerà nell’ultimo distico il dedicatario dell’opera, il
fratello Teodoro. Il forte afflato retorico del primo distico si chiude nell’epigrammatica
sentenziosità dell’ultimo emistichio, tramato di modelli classici.
Il secondo distico procede all’identificazione della defunta: il v. 3, scandisce nei tre
segmenti ritagliati dalla doppia cesura tre caratteristiche fondamentali nell’elogio di tali
personaggi: la nobile stirpe (clara genus, con accusativo alla greca), la ricchezza (censu
pollens) generosità (l’originale espressione mater egentum, inquadrata dalla dieresi). E.
Gagetti105 propone acutamente una lettura puntuale di queste espressioni: l’epiteto clara
riferito alla stirpe potrebbe alludere al rango, proprio della gerarchia senatoria, di vir
clarissimus (erano in ordine, crescente: vir perfectissimus, clarissumus, spectabilis,
inlustris), che la donna ereditava dalla famiglia o, qualora coniugata, dal marito.
Tuttavia, nel panegirico in onore di Manlio Teodoro, Claudiano non fa menzione della
nobiltà dei suoi natali. Sembra che l’autore, forse Teodoro stesso, attribuendo l’epiteto
di clara a Daedalia voglia riflettere sulla famiglia il titolo di clarissima. Inoltre la
studiosa propone di leggere gli attributi censu pollens e mater egentum secondo un
rapporto di causa-effetto: il censo le consentiva di essere madre dei poveri, la grande
ricchezza trovava giusto impiego nella carità verso i bisognosi. Il v. 4 comunica
finalmente il nome della defunta, qualificandola prima come vergine consacrata a Dio.
Il terzo distico ne rievoca la vita secondo formule elogistiche, comuni alla poesia
damasiana, che saranno largamente utilizzate dall’epigrafia funeraria dei secoli

105
GAGETTI, La teca , 84.

38
seguenti: il disprezzo delle cose mortali, affidato al preziosissimo v. 5 che contiene il
poliptoto di mortalis forse ispirato da Ovidio e si chiude in dieresi con una clausola
tratta da Lucano; la costanza nel perseguire la via della santità. Il nesso mortali pectore
e la costruzione di in pectore con verbo in clausola finale ricordano inoltre espressioni
utilizzate da Virgilio nel quarto libro dell’Eneide (Verg. Aen. 4, 412, 563) per descrivere
il tormento di Didone abbandonata: un riferimento non casuale (e che ritoveremo, con
una citazione esplicita, nel carme di Marcellina) poiché Daedalia, vergine consacrata, ha
rinunciato all’amore terreno e ai suoi patimenti preferendo la dedizione totale a Dio, che
conduce alla salvezza.
Qui, come anche al v. 8 e in tanta parte della poesia funeraria cristiana, la vita è descritta
come un percorso diretto verso il cielo, utilizzando un lessico che afferisce al campo
semantico del movimento (peteret, caelum, v. 6; limite tangens, v. 7; rettulit gradum, v.
8). La struttura del distico è ancora una volta intricata dall’anastrofe: prima il participio
congiunto, poi la subordinata (introdotta da quo, che riprende quae del verso precedente
con anafora e poliptoto), infine la principale.
Segue la menzione degli anni vissuti e la conseguente salita al cielo. Vi è un
parallelismo tra questo distico e il precedente: i secondi emisitchi dei vv. 5 e 7 hanno la
stessa struttura grammaticale (attributo, complemento in ablativo, participio presente
nominativo), i vv. 6 e 8 si richiamano per l’omoteleuto di –um (caelum, v. 6; christum,
gradum, v. 8) e la prossimità semantica (caelum e peteret iter al v. 6, sono richiamati
rispettivamente da celsa astra e rettulit gradum al v. 8). Il significato è chiaro e fonda
logicamente la certezza della salvezza di Daedalia: dal momento che essa già in vita ha
sempre disprezzato le cose mortali (v. 5) e si è incamminata sulla strada della salvezza
(v. 6), così raggiunto il momento della morte (v. 7), ritorna, o meglio compie il suo
percorso, verso Cristo. I vv. 5 e 7 contengono citazioni di Ovidio (ars 2, 37: Restat iter
caeli: caelo temptabimus ire, con allusione al mitico Dedalo, omonimo della defunta) e
Virgilio (Aen. 6, 128), che sono state identificate come tracce del neoplatonismo
cristiano che aveva in Manlio Teodoro un autorevole esponente106.
Il componimento si chiude con la dedica in prima persona del committente. In questo
distico ritornano quasi tutti gli elementi presenti nel primo: la defunta, apostrofata in
seconda persona; il lettore, non solo quello presente evocato al v. 2 ma quelli di tutti i

106
GAGETTI, La teca , 86.

39
secoli futuri; il carme stesso, che ora si lega indissolubilmente alla figura del suo
dedicatario. La struttura sintattica si fa di nuovo intricata, il nome di Teodoro
incastonato tra la cesura e la dieresi, l’ultimo pentametro solennemente sentenzioso: è
affidato così a questo epigramma il ricordo della pia Daedalia nei secoli futuri e insieme
ad esso il prestigio della sua stirpe.

40
3. Epitaffio di Marcellina, sec. IV ex. – V in.

Marcellina, tuos cum vita resolveret artus,


Sprevisti patriis corpus sociare sepulcris,
Dum pia fraterni speras consortia somni
Sanctorumque cupis cara requiescere terra.
5 Nil longinqua domus casto decerpsit amori,
Affectus nec morte perit. Nam munere leti
Rursus tacta, soror, fraternae redderis aulae,
Quamvis magna pio suspiret Roma dolore,
Tertia quod sacri patitur iam damna sepulcri.
10 Nec tamen angustam sedem quis dixerit aulae!
Corporis haec domus est. Nam te, pia virgo, supernum
Accipit imperium placidaeque ad munera vitae
Aeternae Christus pretium tibi destinat aulae,
Praemia dans castis intactae matris honorem.
15 Te, Iuli, medius transcendit, fervide, cursus,
Et te, virgo, tuus transvexit ad aethera sponsus.

Marcellina, allorché la vita si stava sciogliendo dai lacci delle tue membra, non ti curasti
di congiungere le spoglie ai sepolcri dei genitori, giacché speri di essere santamente
unita al sonno eterno dei tuoi fratelli e brami di riposare nella cara terra di quei santi. Il
fatto che abitassi lontano non sminuì per nulla il casto amore né a causa della loro morte
venne meno l’affetto. Al contrario, colpita dal dono della morte, sei restituita alla
dimora fraterna, benché la grande Roma sospiri di devoto dolore poiché subisce per la
terza volta la privazione di un venerabile sepolcro. Eppure nessuno potrebbe chiamare
angusto l’edificio di questo tempio. Questa è la dimora del corpo. Infatti il regno celeste
ti accoglie, o pia vergine, e Cristo, che concede in premio ai casti l’onore riservato
all’intatta sua madre, in cambio del dono della tua mite vita, ti riserva la ricompensa di
essere accolta nell’eterna reggia. Torrido mese di Luglio, metà del tuo corso era già
trascorso e il tuo sposo, o vergine, ti ha innalzato ai cieli.

Montpellier, Bibl. de la Faculté de Médecine, H 233, ff. 128rv, sec. IX ⅓ [= M].


Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio di San Pietro, A 4 (olim C), f. 147v,
sec. XI² [= P].
Dresden, Sächsische Landesbibliothek, F 82 b, f. 164r (Alciato) [= A].

Ed. C. BARONIO, Annales Ecclesiastici, V, Lucca 1739, 557 (ex P); AA. SS. Iul. T. IV 233EF (ex P);
G. P. PURICELLI, Ambrosianae Mediolani Basilicae monumenta, Milano 1645, 174; CIL V 2, 623 n.
16 (ex A); ICUR II 1, 181 n. 15; FORCELLA-SELETTI, 11 n. 12 (ex A).

1 resolveret P, A ] resolverit M; 3 dum M, A ] cum P; 6 affectus P, A ] ad effectus M; munere leti ]


muneri laeti M, munere laeti P, munere lethi A; 7 facta corr. De Rossi ] tacta M, P, victa A, iuncta
corr. Puricelli; soror P, A ] sorore M; fraternae P, A ] paterne M; aulae M, P ] umbrae A; 9 sacri M,
A ] sacris P; sepulcri M ] sepulchri A, sepulchris P; 10 nec M, A ] haec in AA.SS., nec in Baronio P;

41
angustam A ] anguste M, angustae P; quis P, A ] qui M; 11 corporis P, A ] corpore, -is in interlinea
M; 12 accipit P, A ] ac-, -cipe- in interlinea, -que M; placidaeque ad munera vitae ] placiteque ad
munera vite M, placideque ad munera vitae P, placidae post munera mortis A; 13 pretium P ]
praemium M, precium A; destinat P, A ] destinat M; 14 intactae P, A ] intacte M; honorem A ]
honore M, P; 15-16 om. M; 15 Te iuli medius P ] Te medius iuli A.

1. Resolveret artus: Verg. Aen. 4, 695: Quae luctantem animam nexosque resolveret artus; Ambr.
hymn. 5, 5-6: Artus solutus ut quies / Reddat laboris usui. 2. Sprevisti: Verg. Aen. 4, 678-679: Quid
primum deserta querar? Comitemne sororem / Sprevisti moriens? Eadem me ad fata vocasses;
patriis sepulcris: Verg. Aen. 10, 558: Condet humi patrioque onerabit membra sepulcro; Hor. sat. 2,
3, 196: Per quem tot iuvenes patrio caruere sepulcro; Lucan. Phars. 2, 732: Non quia te superi patrio
caruere sepulcro. 3. Consortia somni: Paul. Nol. carm. 18, 74: Tenderet aeterni merita ad consortia
regni; Paul. Nol. carm. 21, 527: Quos et in aeternae tibimet consortia vitae; Paul. Nol. carm. 27, 134:
Corpore ne toto trahar in consortia mortis; Claud. rapt. Pros. 2, 368: Et gener, unanimi consortia
discite somni. 4. Sanctorum: Damas. carm. 42, 1: Sanctorum, quicumque legis, venerare
sepulchrum. 5. Longinqua domus: Paul. Nol. carm. 27, 554: Longinquas liquere domus, sprevere
pruinas; casto amori: Ambr. hymn. 5, 15: Te diligat castus amor; Paul. Nol. carm. 25, 1: Concordes
animae casto sociantur amore; cfr. Ovid. epist. 1, 23: Sed bene consuluit casto deus aequus amori. 6.
Morte perit: Iuv. sat. 8, 85: Dignus morte perit, cenet licet ostrea centum; Paul. Nol. carm. 31, 327:
Vita ego sum; qui me credet, nec morte peremptus; munere leti: Catull. carm. 101, 3: Ut te postremo
donarem munere mortis. 7. Fraternae aulae: Prud. apoth. 1, 829: Hospita et ipsa recens fraterna
sedit in aula. 8. Magna Roma: Hor. sat. 1, 5, 1: Egressum magna me accipit Aricia Roma; Mart.
epigr. 12, 68, 5-6: Otium me somnusque iuvant, quae magna negavit / Roma mihi: redeo, si vigilatur
et hic; Claud. carm. 6, 16: Audet magna suo mittere Roma Deo. 9. Sacri sepulcri: Prud. perist. 2,
541-544: Vix fama nota est abditis / Quam plena sanctis Roma sit / Quam dives urbanum solum /
Sacris sepulcris floreat; damna sepulcri: Lucan. Phars. 8, 750: Cedis et ipsa rogo paterisque haec
damna sepulcri. 10. Angustam sedem: Verg. Aen. 3, 687: Ecce autem Boreas angusta ab sede Pelori.
11. Haec domus est: Verg. Aen. 7, 122: Hic domus, haec patria est. Genitor mihi talia namque; Prud.
c. Symm. 2, 254-255: Haec domus apta mihi est, haec me pulcherrima sedes / Accipit, aeterno
caelestique hospite digna; pia virgo: Paul. Nol. carm. 6, 151: Salve, o mater, ait, domini, salve, pia
virgo; Prud. perist. 3, 56: Non aliter pia virgo viam. 12. Accipit: Prud. c. Symm. 2, 255: vedi sopra;
placidae vitae: Auson. prof. 20, 14: Et placidae vitae congrua meta fuit; Lucr. rer. nat. 5, 1154: Nec
facile est placidam ac pacatam degere vitam; munera vitae: Mart. epigr. 3, 6, 5: Magna licet dederit
iucundae munera vitae; Paul. Nol. carm. 32, 227: Hoc facit, ut rata sint venturae munera vitae;
Auson. pasch. 11: Finem animae donas aeternae munere vitae; Iuvenc. evang. 4, 455: Donec regna
patris melioris munere vitae. 13. Aeternae aulae: Prud. perist. 14, 62: Caelestis aulae, mox alius
datur; Prud. psych. 1, 876: Consilium regni celsa disponit ab aula; destinet aulam: Stat. Theb. 2,
110: Quis neget, inque tua senium sibi destinat aula. 14. Christus praemia dans: Damas. carm. 13,
8: Ostendit Christus, reddit qui praemia vitae; matris honorem: Hil. Pict. Macc. 349: Si te cum mei
tangit, si matris honorem; Claud. carm. min. 31, 23: Nec sprevit regina deum, nec matris honore. 15.
Iuvenc. evang. 4, 687: Iam medium cursus lucis conscenderat orbem. 16. Transvexit ad aethera:
Damas. carm. 2, 11: Mira fides rerum: subito trans aethera vectus.

Marcellina107, sorella maggiore di Satiro ed Ambrogio, nacque nel 339 o nel 340 nelle
Gallie, dove il padre esercitava la carica di prefetto del pretorio. Dopo la morte di lui, si
trasferì a Roma con la madre e i due fratelli. Qui, nella basilica di San Pietro, prese i
voti verginali attraverso la cerimonia della velatio, presieduta da papa Liberio, come

107
AA. SS. Iulii, IV, 231-238; A. RIMOLDI, Marcellina, in BS, VIII, 646-648; C. PASINI, Marcellina, in
DCA, III, 1876-1881.

42
riferisce lo stesso Ambrogio108: era il giorno di Natale, forse dell’anno 353 (sicuramente
prima del 356, anno dell’esilio del papa). In seguito visse a Roma nella casa famigliare
e in un anno imprecisato si trasferì seguendo i fratelli a Milano, dove morì il 17 Luglio
400.
Fu legata da profondo affetto per i fratelli; Ambrogio la stimò molto per la sua
irreprensibile professione di verginità e le dedicò il trattato De virginibus, composto nel
377. Inoltre intrattenne con lei un rapporto epistolare di cui sopravvivono soltanto tre
lettere di Ambrogio, che testimoniano alcuni eventi capitali della sua attività pastorale:
il conflitto con gli ariani riguardo alla basilica portiana109, l’inventio delle reliquie dei
martiri Gervasio e Protasio110, l’incendio della sinagoga di Callinico111.
Fu sepolta presso le spoglie dei fratelli nella basilica di Sant’Ambrogio, come
testimonia l’epitaffio (vv. 2) e come suggerisce il suo culto, che si sviluppa a partire dal
sec. IX nella stessa basilica112.
Qui infatti è testimoniata l’esistenza di un altare a lei dedicato, che doveva sorgere in
prossimità della sua tomba, e presso il quale trovarono sepoltura gli arcivescovi
Anselmo II († 896) e Landolfo I († 899)113.
Nello stesso periodo, o nel sec. X, fu redatta, forse nell’ambito del monstero di
Sant’Ambrogio, una Vita dedicata alla santa, compilata sulla base degli scritti
ambrosiani De excessu fratris e De virginibus114. Qui è attestata per la prima volta la

108
Ambr. De virginibus, a c. di O. FALLER, Bonn 1933, 69.
109
Ambr. Ep. 20 in CSEL 82, X, 3, 108-125.
110
Ambr. Ep. 22 in CSEL 82, X, 3, 126-140.
111
Ambr. Ep. 41 in CSEL 82, X, 3, 145-161.
112
TOMEA, Ambrogio, 201-05; P. TOMEA, Sull’iconografia del ciborio di S. Ambrogio a Milano in
TOMEA, Tradizione, 566-567: la sua festa si trova ricordata nella liturgia milanese, oltre che da alcuni
sacramentarî, già nel martirologio di Oxford, ms. Bodl. Can. Misc. 560 e dal calendario di Valtravaglia
del ms. Cap. Metr. II E 2 30, mentre il martirologio del ‘Beroldo’, ms. Ambr. I 152 inf., precisa pure che
essa si celebrava in S. Ambrogio; inoltre il culto è attestato dalle litanie maggiori della Chiesa milanese
dove Marcellina figura tra i santi che venivano invocati nella stazione di S. Ambrogio già nell’elenco del
ms. Egerton 3763, redatto sotto il pontificato di Arnolfo II (†1018), o al più tardi, sotto quello di Ariberto
I († 1045).
113
PICARD, Le souvenir, 97 e 627; A. AMBROSIONI, Sant’Ambrogio alla fine del XII secolo. Contributo
alla conoscenza di Milano medioevale in Milano, papato e impero, 108; TOMEA, Sull’iconografia, 566: il
Liber notitiae, nelle rubriche relative a s. Savina e s. Siro (coll. 363A, 366B) accenna a un altare milanese
di s. Marcellina di cui non indica però l’esatta ubicazione; ne danno notizia alcune fonti a proposito della
sepoltura degli arcivescovi Anselmo II e Landolfo I. Landolfo, infatti, è detto sepolto in S. Ambrogio
presso l’altare s. Marcelline dalla Cronaca archiepiscopale del 1318 dalla Cronaca archiepiscopale del
1339 e da una cronaca, sempre del XIV secolo, citata dal Puricelli; Anselmo II, oltre che dalle cronache
del 1318 e del 1339, dal catalogo episcopale del ‘Beroldo nuovo’, e da quelli, assai più antichi, del ms.
Ambr. C 133 inf. e dal codice di Bamberga.
114
TOMEA, Ambrogio, 201-210.

43
tradizione che attribuisce a Simpliciano, che ne avrebbe celebrato le esequie, la
composizione del titolo funebre per Marcellina115.

Il marmo originale non si è conservato ma il testo è stato tramandato da tre manoscritti:


presenta dunque una tradizione insolitamente vasta rispetto agli altri titoli metrici
milanesi.
Il testimone più antico è un codice conservato presso la biblioteca dell’Università di
Montpellier, segnalato per la prima volta dallo Scaligero nell’indice all’opera del
Grutero116. È un manoscritto di area retica con glosse di origine nord-italiana,
ascrivibile, secondo l’analisi paleografica di B. Bischoff, al primo terzo del sec. IX117.
Nel codice sono contenuti testi canonistici e l’epitaffio precede l’epistola e il credo
inviati dal vescovo milanese Mansueto all’imperatore d’Oriente in occasione del
concilio di Costantinopoli del 681. M. Ferrari, studiando il fenomeno della diffusione di
questi scritti in appendice alla Concordia Canonum di Cresconio, ne individua il centro
di irradiazione nella Lombardia degli anni tra 800 e 860. In questo contesto, ritiene che
si possa collegare la redazione del codice ora a Montpellier intorno alla basilica di
Sant’Ambrogio e ne sarebbe prova la presenza dell’epitaffio di Marcellina; nota inoltre
che influssi della scrittura retica (regione in gran parte suffraganea della metropoli
milanese fino all’inizio del sec. IX), ancora nella seconda metà del sec. IX, sono
ampiamente diffusi in Lombardia, almeno fino a Monza118.
Il secondo manoscritto è conservato presso l’Archivio Capitolare di San Pietro, nella
Bibilioteca Apostolica Vaticana: è un leggendario redatto nella seconda metà del sec. XI
a Roma ad uso della basilica vaticana e tramanda l’epitaffio in appendice alla Vita S.
Marcellinae (ff. 143r-147v), redatta a Milano circa un secolo prima. È segnalato dal De
Rossi nel suo commentario119.

115
Vita S. Marcellinae, in AA. SS. Iulii, IV, 238A.
116
CIL V 2, 623 n. 16; ICUR II 1, 182 n. 15: «Scaliger ad Gruterum adntotat se repperisse hoc
epitaphium in vetere “codice Pithoeani breviationis canonum Ferrandi”: Pithoeani codicis lectio a
Scaligero recensita non est, quod ab Alcatina vix, opinor, differebat».
117
B. BISCHOFF, Katalog der festländischen Handschriften des neunten Jahrhunderts, Wiesbaden 2004,
204-205.
118
M. FERRARI, Il nome di Mansueto arcivescovo di Milano (c. 672-681), «Aevum», 82 (2008), 285-86.
119
ICUR II 1, 182 n. 15: «Baronius […] e ms. basilicae Vaticanae, id est e codice lectionario manu
saeculi fere XI signato littera C f. 147, ubi vitam S. Marcellinae epitaphium eius concludit»; TOMEA,
Ambrogio, 190 n. 87; cfr. anche A. PONCELET, Catalogus codicum hagiographicorum Latinorum
bibliothecarum Romanarum praeter quam vaticanae, Bruxellis 1909, 10-15; P. TOMEA, L’agiografia

44
Infine il testo fu trascritto nel sec. XVI nella raccolta epigrafica dell’Alciato, sia nella
prima redazione che in appendice al codice dresdense, tra i pretesi venti
dell’antiquissimus codex. Egli in realtà non lo trovò in questo codice e nemmeno lo vide
inciso sulla lapide, che alla sua epoca era già scomparsa, ma lo trasse da una fonte
manoscritta e lo sottopose in alcuni punti ai consueti rimaneggiamenti.

Il codice di Montpellier presenta alcune varianti fonetiche dovute all’oscillazione tra e e


i (resolverit, v. 1; muneri, v. 6) e alcuni probabili errori di trascrizione (ad effectus per
affectus, o più probabilmente adfectus, v. 6; sorore, paterne, v. 7; qui, v. 10; accipe, v.
12; praemium, causato dalla presenza di praemia al verso successivo, destinet, v. 13).
La coincidenza di alcune lezioni tra il codice di San Pietro e il Montepessulano (tacta,
aulae, v. 7; angustae, v. 10; placidaeque ad munera vitae, v. 12; honore, v. 14) sembra
denunciare i rimaneggiamenti dell’Alciato, tuttavia è bene tenere presente che egli
poteva avere a disposizione un esemplare ugualmente antico. Si possono ipotizzare
come suoi interventi: aulae per umbrae (v. 7), onde evitare la ripetizione con aulae del
v. 10; placidaeque ad munera vitae (v. 12) dal significato non chiaro, sostituito con post
munera mortis, suggerito dalla simile locuzione del v. 6 (munere leti). Angustam (v. 10)
e honorem (v. 14) grammaticalmente corretti, sembrano invece indicare la lezione
originale, corrotta negli apografi della basilica di San Pietro di Montpellier. Al v. 7
entrambi i codici antichi hanno tacta: il rursus che precede è stato interpretato da vari
autori come avverbio iterativo ma se si intende in senso avversativo (rispetto alla frase
precedente, vedi traduzione) non occorre ricorrere ad alcun emendamento. L’Alciato,
leggendo probabilemente anch’egli tacta sul suo codice, non comprendendo il senso
corresse in victa; a sua volta il Puricelli, a partire dal testo dell’Alciato corresse in
iuncta; De Rossi propose facta120.

Il carme, sorretto da una robusta ispirazione poetica, inserisce le strutture basilari del
genere funerario (identità e vita della defunta; luogo di sepoltura; ascensione alla gloria
celeste) in un tessuto narrativo: i primi versi (1-7) descrivono l’affetto di Marcellina per
i fratelli e la volontà di essere sepolta presso le loro spoglie; il tema del conflitto tra la

milanese nei sec XI e XII. Linee di tendenza e problemi, I, in Atti del 11° Congresso internazionale di
studi sull’alto medioevo. Milano, 26-30 ottobre 1987, II, Spoleto 1989, 640.

45
tomba avita e l’aula in cui sono inumati Ambrogio e Satiro diventa ai vv. 8-10 un più
ampio confronto tra la magna Roma, che patisce la privazione delle illustri reliquie dei
tre fratelli, e la sede ambrosiana, ugualmente degna di ospitarle; questa tuttavia è
soltanto la dimora del corpo terreno poiché l’anima, in virtù della castità di Marcellina,
già gode della gloria celeste (vv. 11-14); il carme si conclude con una doppia apostrofe
che allude alla data della morte e all’assunzione al cielo della defunta, vergine sposa di
Cristo (vv. 15-16). Il componimento si rivolge direttamente alla defunta che è sempre
evocata alla seconda persona.

La struttura metrica, di soli esametri, è regolare e degna della buona latinità dell’inizio
del sec. V: la cesura (tritemimere, eccetto al v. 6) è sempre rispettata, le cadenze finali
corrette, con dattilo in quinta sede e frequente dieresi bucolica (vv. 6-16).

L’autore rielabora modelli antichi armonizzandoli con il pensiero cristiano e con i suoi
primi cantori, che fioriscono tra la fine del sec. III e il principio del IV, soprattutto
Prudenzio († 413) e Paolino di Nola († 431). La poesia pagana non è solo ispiratrice di
alcune fonti poetiche ma anche di una maniera classica di costruire il verso in rapporto
alla metrica: è costante, ad esempio, la scomposizione dei sintagmi di aggettivo e
sostantivo nei punti chiave del verso, ossia ponendo il primo in corrispondenza della
cesura e il secondo in ultima posizione (tuos artus, v. 1; patriis sepulcris, v. 2; fraterni
somni, v. 3; pio dolore, v. 8; sacri sepulcri, v. 9; tuus sponsus, v. 16).
I primi due versi sono costruiti su precise memorie virgiliane, che vengono liberamente
ricontestualizzate: l’ispirazione offerta dal quarto libro dell’Eneide, il libro dell’amore
passionale e disperato, è purificata attraverso il castus amor (Ambr. hymn. 5, 15) della
religione cristiana che si realizza nella duplice direzione del puro affetto di Marcellina
per i fratelli e del santo amore della vergine per lo sposo celeste. La clausola del v. 1,
resolveret artus, che esprime con grande delicatezza l’abbandono da parte di Marcellina
del corpo mortale, è ripresa da Aen. 4, 695 dove è utilizzata per indicare l’azione di
Iride, inviata dall’Olimpo per sciogliere i legami corporali dell’anima di Didone che
ancora si dibatte nel dolore; d’altra parte l’immagine degli artus soluti figura anche in
un inno di Ambrogio, ad indicare il rilasciarsi delle membra nel sonno (Ambr. hymn. 5,
5). Sprevisti (v. 2), verbo che appare troppo forte per il contesto (perciò da intendere in

46
accezione attenuata: “non hai voluto”, come suggerisce giustamente G. Cuscito121), è di
nuovo un suggerimento virgiliano (Verg. Aen. 4, 678-679: …Comitemne sororem /
Sprevisti moriens?...): così si rivolge Anna alla sorella Didone, che decide di morire non
curandosi dell’affetto della sorella. Ciò di cui non si cura invece la santa è di unire le
membra ai patriis sepulcris, altra risonanza classica (Lucan. Phars. 2, 732; Hor. sat. 2,
3, 196; Verg. Aen. 10, 558).
Nei primi quattro versi il tessuto fonico è percorso dall’allitterazione di r e s. Il lessico è
teso a sottolineare il forte legame affettivo che unisce Marcellina ai fratelli: consortia, v.
3; cupis, cara terra, v. 4; casto amori, v. 5.
Questo amore, casto (come in Paul. Nol. carm. 25, 1: Concordes animae casto
sociantur amore; Ambr. hymn. 5, 15), non viene sminuito dalla longinqua domus (v. 5),
cioè, per metonimia, dal fatto che essa abitasse lontano dai fratelli; né dalla morte che in
questo contesto diventa un dono (munere leti, v. 6), permettendole di ricongiungersi alla
fraterna aula (v. 7).
La menzione della basilica ambrosiana, che ospita le spoglie dei tre santi, diventa
occasione per metterla a paragone con la magnificenza di Roma (vv. 8-10), connotata
lessicalmente come capitale imperiale (magna Roma: Hor. sat. 1, 5, 1; Mart. epigr. 12,
68, 5-6; Claud. carm. 6, 16 ) e cristiana, secondo quanto dice Prudenzio: Vix fama nota
est abditis / Quam plena sanctis Roma sit / Quam dives urbanum solum / Sacris
sepulcris floreat (Prud. perist. 2, 541-544). Qui, personificata, sospira di dolore per la
privazione dei sacra sepulcra dei tre fratelli, che riposando nella sede ambrosiana ne
esaltano l’importanza. Il dolore di Roma è detto pio perché dettato dal desiderio di poter
venerare quei santi. I damna sepulcri sono un ricordo di Lucano (8, 750), forse inserito
consapevolmente: infatti nel libro ottavo del Bellum civile, Cordo, compagno di
sventura di Pompeo, sottrae dei tizzoni dalla pira di uno sconosciuto e, rivolgendosi a
questi, gli chiede di perdonarlo di questo furto, damna sepulcri, poiché serve al nobile
scopo di cremare i resti mortali di Pompeo.
Il v. 10 conclude il confronto proclamando la dignità dell’aula milanese. G. Cuscito122
ritiene che sedes aulae significhi qui “residenza imperiale” e alluda perciò non alla

121
G. CUSCITO, Epitaffi metrici di donne illustri dal cimitero ad martyres di Milano in Miscellanea
Aemilio Marin sexagenario dicata, «Kačić. Acta Provinciae SS. Redemptoris ordinis Fratrum Minorum
in Croatia», 41-43 (2009-2011), 295-313 (d’ora in poi CUSCITO, Donne illustri).
122
CUSCITO, Donne illustri.

47
basilica ma alla città di Milano, che fu residenza imperiale fino al 402, impostando il
confronto tra le due capitali anche sul piano politico. A mio parere, invece, aula indica
precisamente la basilica ambrosiana, come avviene anche al v. 7, ove la medesima
parola ricorre in posizione finale, e come specifica il verso successivo: corporis haec
domus est, questa (haec, si riferisce ad aula) è la dimora del corpo, ovvero il luogo dove
esso è sepolto. Tuttavia, l’aula (aulae, v. 13, ancora in posizione finale) cui Marcellina è
destinata, è quella eterna, la reggia celeste di Dio, secondo un’espressione cara a
Prudenzio (caelestis aulae, Prud. perist. 14, 62; celsa aula, Prud. psych. 1, 876).
I vv. 11-14, appunto, dichiarano la salvezza di Marcellina, partecipe, in virtù della sua
verginità, della gloria celeste riservata all’immacolata madre del Signore (intactae
matris honorem, v. 14). Per la prima volta, al v. 11, essa è chiamata esplicitamente
virgo. Al v. 12, se si accetta la lezione placideque ad munera vitae (piuttosto che la
lectio facilior post munera mortis che ricalca piattamente la clausola del v. 6, e che
credo un intervento dell’Alciato), la verginità viene rappresentata come l’offerta della
propria vita a Cristo, sposo celeste, che come ricompensa offre la salvezza nell’eterno
regno.
L’epitaffio si conclude con una doppia apostrofe (vv. 15-16), costruita secondo il
parallelismo dei membri (te Iuli / te virgo; medius cursus / tuus sponsus; transcendit /
transvexit), che chiude pateticamente il carme e ha inoltre la funzione di indicare la data
di morte della defunta. Il torrido mese di luglio, cui è rivolta la prima apostrofe, ha
ormai superato la metà del suo corso (Marcellina muore infatti, secondo la tradizione, il
17 Luglio), quando la vergine, cui è rivolta la seconda123, è innalzata al cielo dallo sposo
celeste.
Occore tuttavia notare che questi due versi mancano nel testimone più antico della
tradizione, il codice di Montpellier, e M. Petoletti, inclina a ritenere che siano
un’aggiunta successiva, come sembrano confermare anche l’artificiosità della
costruzione e l’estraneità dei versi rispetto al resto del componimento. Se non è soltanto
un errore di copiatura, la loro assenza nel codice del sec. IX e la presenza in quello di

123
CUSCITO, Donne illustri: segnala la possibilità che i due te possano «introdurre un’apostrofe alla sola
Marcellina in connessione con il tibi del v. 13», in tal caso «l’avverbio fervĭdē contrasterebbe
metricamente con le norme della prosodia che qui richiedono un dattilo, a meno di non proporre òa
congettura fervĭdă in riferimento a Marcellina, che poco sopra è detta pia virgo: il fervide degli auctores
potrebbe essere allora un malinteso con riferimento al caldo luglio e una banalizzazione del contesto non
più controllato sull’archetipo».

48
San Pietro, del sec. XI, e nel testimone veduto dall’Alciato, simile per lezioni a quello di
San Pietro, potrebbe suggerire che l’aggiunta non sia estranea alla redazione della Vita
nei secc. IXex.-X.

49
4. Epitaffio di Marina, (sec. IV ex. – V in.)

Sanctorum exuviis penitus confine sepulchrum


Promeruit sacro digna Marina solo.
Ter decies bis terque simul transegerat annos,
Cum petit aetherias, numine iussa, vias.
5 Vitae summa brevis sed castae gloria famae
Temporis angusti continuabit opes.

Marina, degna del sacro suolo, meritò una sepoltura prossima alle spoglie dei santi. Non
appena superò i sessantatrè anni, allora, comandata da un dio, si diresse per le vie
celesti. Breve è la somma dei giorni ma la gloria di una fama di castità perpetuerà le
opere compiute in un tempo angusto.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833 f. 42v [= P].

Ed. CIL V 2, 617 n. 7; ICUR II 1, 163 n. 7; FORCELLA-SELETTI, 96 n. 105.

1 sepulchrum ] sepulchro P, corr. Mom.; 4 numine ] nomine P, corr. Mom.; vias ] vivas P, corr.
Grut.; 5 castae ] caste P, corr. Mom.; 6. temporis ] tempore P, corr. Mom.; continuabit ]
continuavit P, corr. Mom.

1. Damas. carm. 12, 2: Corpora sanctorum retinent veneranda sepulcra; Damas. carm. 7, 7:
Composuit tumulum sanctorum limina adornans; carm. ep. 773, 2: Qui meruit sanctorum sociari
sepulcrum. 2. Carm. ep. 2097, 10: Promeruit summo mente placere Deo. 3. Ter decies: Auson.
griph. 90: Ter decies habeat deciesque novenos; transegerat annos: Cypr. Gall. gen. 785:
Iamque quater denos illic transegerat annos. 4. Petit aetherias vias: Damas. carm. 23, 5:
Aetherias petiere domos regnaque piorum; Damas. carm. 26,5: Aetherios petiere sinus regnaque
piorum; Damas. carm. 43,5: Aetheriam petiere domum regnaque piorum; numine iussa: Iuvenc.
evang. 1, 219: Et cultus cessere Dei; quae numine iussa; ibidem 264: Quam bonus Hieremias
divino numine iussus; ibidem 313: Esaias vates cecinit quod numine iussus. 5. Vitae summa
brevis: Horat. carm. 1, 4, 15: Vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam; Paul. Nol.
carm. 31, 598: Tempore vita brevis, sed pietate potens; cfr. Ven. Fort. carm. 4, 14, 1: Vita brevis
hominum, sed non brevis illa piorum; gloria famae: Mart. spect. 15, 1: Summa tuae, Melagre,
fuit quae gloria famae; Iuvenc. evang. 2, 685: Alternae in vobis captaur gloria fame; carm. ep.
1249, 3: Quem numquam cupidae possedit gloria famae. 6. Horat. carm. 1, 11, 6-7: Tyrrenum!
Sapias, vina liques et spatio brevi / spem longam reseces; temporis angusti: Lucan. Phars. 1,
98: Temporis angusti mansit concordia discors; Tert. adv. Marc. 5, 74: Temporis angusti
cernens instantia multa; Victorin. Christ. 1, 122: Temporis angusti paulum tellure moratus;
continuabit opes: carm. ep. 1436, 8: Vinceret ut mortem, perpetuavit opus.

L’epitaffio di Marina è noto solo attraverso la silloge di Lorsch e nulla si può dire di
questa defunta se non ciò che è dichiarato dal carme: essa visse 36 anni e fu sepolta

50
presso le spoglie di santi che restano ignoti, nonostante la non dimostrata identificazione
in Nabore e Felice effetuata dal Biraghi124. Condusse una vita casta e questo riferimento
può alludere a una sua eventuale professione di verginità che giustificherebbe il
privilegio dell’inumazione ad sanctos.
Il breve epitaffio in suo onore, nella concisione del dettato e nell’essenzialità delle sue
parti rivela una sapiente costruzione formale, edificata con il materiale della grande
tradizione epigrafica damasiana e con il recupero dialettico di alcune fonti classiche.
Lo stile, le fonti poetiche e la collocazione presso il sepolcro dei santi collegano
saldamente questo epitaffio alla serie rappresentata da quelli in onore di Satiro, Manlia
Daedalia e Marcellina, e permettono di datarne la composizione tra la fine del IV e
l’inizio del V secolo.
Il componimento è organizzato in tre distici: il primo enuncia il nome della defunta e il
luogo della sepoltura, il secondo rievoca il suo percorso terreno e il terzo la proietta
nella gloria eterna della salvezza.
Il primo esametro è interamente dedicato alla stretta vicinanza tra il sepolcro e le spoglie
dei santi, che vengono direttamente accostati posticipando al secondo verso verbo e
soggetto della frase; l’idea di prossimità è accentuata grazie alla cesura pentemimere
che rileva l’avverbio penitus e individua i due elementi agli estremi del verso.
L’eccezionalità di questa sepoltura è giustificata dai meriti di Marina: al secondo verso
abbiamo finalmente il verbo reggente promeruit, sottolineato dalla posizione iniziale e
dalla doppia accentazione; poi il soggetto con l’attributo, incorniciati dal complemento
di digna le cui due componenti (sacro e solo) sono assonanti e poste classicamente
nell’ultima sede degli emistichi.
Il secondo distico esaurisce in un verso la descrizione della vita terrena di Marina e la
raccorda su un piano di stretta contiguità temporale (simul…cum…) con la sua ascesa
alle sfere celesti. L’esametro enumera gli anni vissuti e li fa precipitare veloci grazie al
ritmo scandito dalla doppia cesura e dalle allitterazioni di t e s; il numero degli anni è
espresso con una perifrasi fatta di somme e moltiplicazioni, come è frequente
nell’epigrafia medievale e più in generale nella poesia, specialmente per ragioni
metriche, ma qui non si può escludere che l’artificio sia volto anche ad estrapolare dagli

124
BIRAGHI, Sarcofago dei Santi Nabore e Felice, Milano 1867, 44.

51
anni della defunta la cifra simbolica tre, con allusione alla Trinità e all’età di Cristo (ter
decies bis terque). Se Marina supera (transegerat) i sessantatrè anni, questo movimento
non si arresta con la morte ma prosegue (petit, un altro verbo di movimento) lungo le
vie della salvezza: questo pentametro è costruito come quello precedente con verbo
all’inizio, sintagma complemento smembrato alla fine dei due emistichi
(aetherias…vias) e sintagma soggetto (numine iussa) rilevato dopo la cesura; le
immagini sono mutuate da Damaso e Giovenco.
L’ultimo distico conclude sentenziosamente l’epitaffio in un serrato dialogo con i
classici dove il senso di precarietà dell’esistenza umana e il dolore per la morte sono
superati dalla certezza cristiana nel valore di una vita santa e nella resurrezione. Il primo
emistichio dell’esametro è calcato sull’Od. 1, 4 di Orazio, che recita: Vitae summa
brevis spem nos vetat inchoare longam; il secondo emistichio ribalta l’assunto oraziano
dell’impossibilità di una speranza che vada oltre i termini del tempo angusto della vita
(lo spatio brevi della celeberrima Od. 1, 11, qui filtrato attraverso un verso molto
oraziano di Lucano: Temporis angusti mansit concordia discors), e afferma l’eternità
della gloria guadagnata con una fama di castità (riprendendo ancora i classici).
La struttura del distico è altresì molto ricercata: nell’esametro l’opposizione semantica
dei due sintagmi (vitae summa brevis e castae gloria famae) è sottolineata dalla cesura
seguita da sed e ha come contrappunto il parziale parallelismo della costruzione
grammaticale (genitivo+nominativo), variato al terzo membro; inoltre vi è una
polarizzazione semantica che interessa entrambi i versi, ove nei primi emistichi sono
raggruppati i vocaboli del “tempo breve”, nei secondi i termini della gloria cristiana.

52
5. Epitaffio di Aegregia, (sec. V), frammentario

bonae-columba-cantharus-columba-memoriae
corolla

Scire volens lector qui sit in funere fletus,


Carmina si relegas discere cunta potes:
Aegregia coniunx nimium dilecta marito.
Bustus membra tenet, mens caeli perget in astra.
5 Superstem tenuit saecul[o] [sin]e crime[ne vitam]

O lettore che vuoi conoscere chi sia stato pianto nel lutto, se leggerai il carme potrai
apprendere ogni cosa: essa fu Aegregia, moglie troppo amata dal marito. Il sepolcro
contiene le membra, l’anima si dirige alle stelle. Condusse senza peccato nel secolo i
giorni che trascorse in vita.

Milano, Biblioteca Trivulziana, olim Triv. n. 811, f. 20 (Ciceri) [= C].

Ed. CIL V, 6295 (ex C); FORCELLA-SELETTI, 120 n. 126 (ex C); CUSCITO, Mediolanum125, 91-
92 n. 83 (ex C).

2 potes ] potest C, corr. Mommsen; 5 sine crimene vitam addit Buecheler.

1. Scire volens: Ovid. met. 14, 317: Cur hanc ferret avem, currenti et scire volenti; Prosp. epigr.
59, 1: Scire volens, in qua rerum sis parte locandus; funere fletus: Enn. var. 17: Nemo me
lacrimis decoret nec funera fletu; Auson. parent. 9, 1: Hactenus ut caros, ita iusto funere fletos.
2. Carm. epigr. 1449, 1-2: Hoc qui scire cupis iaceant quae membra sepulchro / Disces, dum
relegas hos modo versiculos; carmina si relegas: Mart. epigr. 1, 4, 6: Illa fronte precor carmina
nostra legas; Auson. praef. 5, 12: Qui sua non edit carmina nostra legat. 3. Aegregia coniunx:
Verg. Aen. 6, 523: Egregia interea coniunx arma omnia tectis; Anth. Lat. 15, 85: Egregia interea
coniunx in limine primo; dilecta marito: carm. epigr. 753, 1: Hic iacet Heraclius nimium
dilectus amicus; carm. epigr. 385, 2: Has colui semper nostro dilecta marito; carm. epigr. 1645,
1: Hoc iaceo tumulo caro dilecta marito; Claud. carm. 7, 96: O nimium dilecte Deo, cui fundit
ab antris. 4. Ovid. trist. 3, 8, 31: Is mea membra tenet, nec viribus allevor ullis; ep. Arsacii:
Membra solo posuit, caeli perrexit ad astra. 5. Verg. Aen. 4, 550: Non licuit thalami expers sine
crimine vitam; carm. epigr. 1645, 4: …a sine criinine vitae; Ps. Cypr. resurr. 257: Et coluit
sanctam semper sine crimine vitam; ibidem 394: Conservate novam iam iam sine crimine vitam;
Prosp. prou. 73: Quod si quis iustus castam et sine crimine vitam.

125
Inscriptiones christianae Italiae septimo saeculo antiquiores. Nova series, vol. XII. Regio XI.
Mediolanum I, a. c. di G. CUSCITO, Bari 2009 (d’ora in poi CUSCITO, Mediolanum).

53
Questo titolo funebre, offerto probabilmente dal marito per la moglie il cui nome era
forse Aegregia, fu copiato da Francesco Ciceri († 1596)126 nel solo manoscritto
trivulziano, ora perduto, da una lapide in stato frammentario. Forcella e Seletti attestano
che nella parte superiore della lapide, secondo la copia del Ciceri, era inciso «un vaso
guardato da due colombe ed ornato per di sotto da un ramo adorno di foglie»127.
La metrica del carme presenta diverse irregolarità, a parire dalla stessa scelta della
misura dei versi: quattro esametri (vv. 1, 3-5) e un solo pentametro (v. 2). Al v. 1 la i di
sit, che nella catena fonosintattica dovrebbe legarsi alla consonante iniziale della sillaba
successiva (sĭ-tīn) e formare perciò sillaba breve, si allunga in arsi, giustificata dalla
possibilità in questa sede di cesura eftemimere. Al v. 3 la a finale di Aegregia, che è la
desinenza del nominativo e dovrebbe perciò avere quantità breve, subusce allungamento
in arsi (Ae-gre-gi-a). Si nota, nello stesso verso, come il trattamento della semivocale i
oscilli a seconda delle esigenze della metrica: in coniunx è considerata come una
consonante e non fa posizione; subito dopo, nella parola nimium, è computata come
vocale breve. Irregolarità ancora più evidenti mostra il v. 5: il verso incomincia con una
sillaba breve, sŭ-pēr-stēm, che va considerata lunga; al terzo piede, invece, è considerata
come corta la prima sillaba di saeculo, cioè un dittongo, fatto molto inusuale.
Anche la lingua indica la distanza che si è venuta a creare rispetto al latino classico: al
v. 2 troviamo cunta per cuncta, con caduta della consonante che non sappiamo se
dovuta a fattori meccanici o linguistici; probabilmente dovuto all’errore del lapicida è
invece possum declinato alla terza persona anziché alla seconda, come richiederebbe il
senso della frase; bustus ha subito metaplasmo di genere, trasformandosi da neutro in
maschile; in crimene, al v. 5, la seconda sillaba ha subito il consueto passaggio da i a e.
Superstem è invece una forma sincopata per il classico superstitem, che è attestata come
variante poetica anche in età classica.
Nonostante queste imperfezioni, il livello retorico del componimento è molto elevato:
inizia con un distico elegiaco (vv. 1-2) che si rivolge direttamente al lettore mediante
l’apostrofe, nobilitato dalla citazione di Prospero d’Aquitania (epigr. 59, 1) nell’incipit
e di Ausonio nella clausola finale funere fletus (parent. 9, 1; epitaffio peraltro dedicato

126
Cfr. R. RICCIARDI, Ciceri, Francesco, in DBI, XXV, Roma 1981, 383-386; M. FERRARI, Dalle antiche
biblioteche domenicane a Milano: codici superstiti nell’Ambrosiana, in Ricerche storiche sulla Chiesa
Ambrosiana, VIII, Milano 1979, 170-197; A. PAREDI, M. RODELLA, Le raccolte manoscritte e i primi
fondi librari, in Storia dell’Ambrosiana. Il Seicento, Milano 1992, 45-88.
127
FORCELLA-SELETTI, 120.

54
da Ausonio alla moglie). Al v. 3 si risponde alla richiesta del lettore di sapere l’identità
del defunto: ciò, considerando anche la posizione iniziale della parola Aegregia, rende
plausibile l’ipotesi che essa indichi il nome della defunta. Il v. 4 contiene la topica
opposizione tra la sorte del corpo e quella dell’anima, espressa con il termine mens, più
filosofico ed elevato rispetto ad anima128. Il v. 5 esprime la condotta in vita della
defunta appropriandosi di un’espressione virgiliana che ebbe molta fortuna nei carmina
epigraphica (Aen. 4, 550)129. Probabilmente seguiva un verso indicante gli anni di vita
della defunta.
E. Consolino130 rileva l’assenza di caratteristiche specificamente cristiane nel carme,
suggerendo che possa trattarsi di un titolo pagano; credo che possano smentire questa
ipotesi le esplicite citazioni di poeti cristiani al v. 1.

128
CUSCITO, Mediolanum, 92.
129
Ibidem.
130
F. E. CONSOLINO, L’appello al lettore nel’epitaffio della tarda latinità, «Maia», 28 (1976), 136.

55
6. Epitaffio di Cervia Abundantia, (sec. V)

Hedera-b(onae)-columba-dei manus-christogramma-dei manus-columba-m(emoriae)-


hedera

Cervia, quae idem vixit Abundantia saeclo,


Ter denos aevo binosque quater attulit annos,
Laeta, doli expers, culpa procul, insons, honesta.
Astrigeram scandit alma viam caeloque recepta
5 Hic vitae metas hic inania membra reliquit.

Deposita die pridie nonas Ianuarias.

Cervia che in vita ebbe anche il nome di Abundantia, compì nel secolo tre volte anni
dieci e quattro volte anni due, lieta, immune da falsità, lontana dalla colpa, innocente,
onesta. Benefica, ha asceso la via delle stelle e, accolta in cielo, ha deposto qui i termini
della vita qui le spoglie inerti.
Deposta il giorno precedente le none di Gennaio.

Sarcofago a cassa di cm. 69 x 192,5 x 47 in serizzo della Brianza [=L]131.


Commentariorum Cyriaci Anconitani nova fragmenta notis illustrata, ed. A. OLIVIERI, Pisauri
1763, 31 n. 58.
Dresden, Sächsische Landesbibliothek, F 82 b, f. 36 e f. 169r (Alciato) [= A].

Ed. CIL V 2, 6202 (ex A); FORCELLA-SELETTI, 146 n. 147 (ex L); Cuscito 2009, 70 (ex L).

1 Cervia quae idem vixit Abundantia saeclo L ] Cervia quae in fidei vixit fundamine saeclo A; 3
doli L ] dolique A; insons L ] impigra A; 4 scandit L ] secat A; 5 hic A ] et L.

2. Attulit annos: Arator. apost. 2, 910: Exspectata tribus fructum non attulit annis. 4.
Astrigeram: Mart. Cap. nupt. 8, 808, 1: Astrigerae iam sedis iter cursumque polorum; Mart.
Cap. nupt. 2, 185, 32: Astrigerumque sacro sub nomine noscere caelo; scandit viam: Prosp.
epigr. 103, 8: Sublimem ignito scandit amore viam; caeloque recepta: Ovid. epist. 19, 35:
Flavaque Laodice caeloque recepta Celaeno; Manil. astr. 4, 57: Ille etiam caelo genitus
caeloque receptus. 4. Vitae metas: Ovid. trist. 1, 9, 1: Detur inoffenso vitae tibi tangere metam;
inania membra: Sedul. carm. pasch. 3, 154: Auditu vacuus, solo per inania membra; carm.
epigr. 512, 10: At venit postrema dies, ut spiritus inania membra reliquat; anafora hic frequente
in carm. epigr.

Cervia Abundantia visse 38 anni e fu deposta il 4 di Gennaio di un anno sconosciuto. Il


suo epitaffio è inciso su un sarcofago di serizzo ancora esistente. L’arca è ornata da

131
Fotografia disponibile in FORCELLA-SELETTI, Iscrizioni, 146; CUSCITO, Mediolanum, 70.

56
un’incisione a solco che rappresenta, sulle anse della tabella contenente lo specchio
epigrafico, i busti degli apostoli Pietro e Paolo, affrontati simmetricamente e con
davanti agli occhi le lettere apocalittiche A e Ω, e dietro la testa due stelle «quasi per
visualizzare la migrazione ad astra dell’anima della defunta, così com’è immaginata nel
suo epitaffio132».
L’iscrizione è in un’elegante capitale quadrata di 4-5 cm., che sembra imitare i caratteri
filocaliani133; lo specchio epigrafico è ribassato mediante una cornice; «al centro della
prima riga si trova il cristogramma, asse di tutta la composizione; ai lati si dispongono
simmetricamente le mani del Signore che sembrano consegnare ai due apostoli la legge
divina, due colombe col ramoscello d’ulivo nel becco, simbolo della pace, le lettere BM
e due foglie d’edera come riempitivo».
Gli studiosi non sono concordi sulla datazione del sarcofago, alcuni attribuendolo al sec.
IV (Rebecchi, Brandeburg), altri al sec. V (Silvagni).
L’analisi dell’epitaffio fa propendere per questa seconda ipotesi, in ragione delle
numerose imprecisioni metriche e della probabile conoscenza di alcuni poeti cristiani
della prima metà del sec. V.

La prima testimonianza sulla collocazione dell’arca è data da Ciriaco d’Ancona134 che


nel 1442 la vide presso San Vittore al Corpo e copiò l’iscrizione. Nello stesso luogo lo
vide l’Alciato che nel manoscritto dresdense lo trascrive due volte, al f. 36 e al f. 165,
fornendone in entrambi i casi una versione in legitimos numeros restituta.
Gli Olivetani trasportarono in seguito la cassa in un altro monastero dell’ordine, quello
dei santi Angelo e Niccolò in Villanova Lodigiana, dove fu utilizzato come contenitore
d’olio. Quando il monastero fu soppresso, passò in mano di privati e attualmente si
trova a Vincigliate presso Fiesole in proprietà della famiglia Graetz.

La metrica è piuttosto approssimativa: tra quae e idem, al v. 1, c’è iato, e lo stesso


avviene per doli expers al v. 3; numerose sono le sillabe lunghe computate come brevi
(aBUNdantia, v. 1; inSONS, v. 3; SCANdit, v. 4; HIc, v. 5); al v. 2 il quarto piede ha una

132
CUSCITO, Mediolanum, 71.
133
CUSCITO, Mediolanum, ibidem.
134
Cfr. Ciriaco d’Ancona e la cultura antiquaria dell’Umanesimo: Atti del Convegno internazionale di
studio, Ancona 6-9 febbraio 1992, a c. di G. PACI, S. SCONOCCHIA, Reggio Emilia 1998; J. COLIN,
Cyriaque d’Ancône: le voyageur, le marchand, l’umaniste, Paris 1981.

57
sillaba in eccesso (bi-NOS-QUE QUA-TE-rat). Se il poeta non esita a subordinare,
all’interno del verso, la metrica alle esigenze espressive (come la volontà di menzionare
il secondo nome al v. 3, forse di citare Prospero al v. 4, l’anafora al v. 5), riserva più
attenzione alle cadenze finali, che sono tutte corrette eccetto al v. 3.

L’iscrizione sintetizza in cinque esametri tutto ciò che occorre sapere della vita di
Cervia Abundantia: il nome (v. 1), l’età (v. 2), i costumi (v. 3), l’assunzione in paradiso
contrapposta alla deposizione delle membra nel sepolcro (vv. 4-5).
Nonostante le imprecisioni metriche che abbiamo sopra rilevato, lo stile del carme è
elevato e il tono aulico.
Questo appare evidente già nel primo verso ove l’identità della defunta è indicata,
inusualmente per gli epitaffi cristiani, mediante i duo nomina, espressi attraverso
un’articolata circonlocuzione che occupa tutto il verso.
Segue la menzione degli anni di vita, computati secondo le consuete formule
perifrastiche che sono disposte nel verso con un certo gusto della simmetria: le coppie
numeriche di cardinale e distributivo si dispongono chiasticamente (ter denos e binos
quater) con al centro la parola aevo, e le loro terminazioni, accentate, formano
omoteleuto. La clausola attulit annos, variante rispetto a quelle più frequenti con vivere
o complere, è forse ispirata da Aratore.
Il v. 3 affida all’enumeratio la descrizione morale della defunta, attribuendole qualità
che la identificano come donna virtuosa ma allo stesso tempo come vera cristiana: doli
expers sembra infatti richiamare l’invocazione di Gesù a Nataniele presente nel Vangelo
di Giovanni (Io 1, 47: Ecce vere Israhelita in quo dolus non est); culpa procul evoca
un’espressione riferita a Davide nel primo libro di Samuele (1Sam 19, 5: David qui est
absque culpa); insons è attestato nel libro dell’Esodo (Ex 20, 7 e 23, 7). L’attributo di
honesta sembra invece più in linea con il ritratto della matrona romana e si riferisce alla
sua nobile estrazione; laeta intende una benevola disposizione d’animo avuta in vita,
oppure, alla luce dei versi successivi, la beatitudine per la certezza della salvezza.
Questo elenco di virtù si colloca infatti al centro del componimento, quasi come tramite
tra la vita terrena di Cervia, evocata nei primi due versi, e la vita eterna di cui è
dichiarata partecipe negli ultimi due.

58
Astriger, che apre il v. 4, è parola ricercata e forma un inedito nesso con viam, per
indicare la via che conduce al paradiso (indicato nei poeti cristiani come astrigera aula:
Cypr. Gall. Exod. 559, idem Ios. 403, Alc. Avit. carm. 1, 325; astrigera sedes: Cypr.
Gall. num. 5; astrigera arx: Paul. Petric. Mart. 6, 229). L’espressione scandere viam è
suggerita forse da un verso di Prospero di Aquitania († post 455): Prosp. epigr. 103, 8:
Sublimem ignito scandit amore viam); la clausola caeloque recepta è ovidiana (Ovid.
epist. 19, 35).
Il v. 5, che conclude il carme con l’indicazione del sepolcro, ha un tono solenne,
scandito dall’iterazione di hic e impreziosito dalle locuzioni vitae metas, tratta da
Ovidio (trist. 1, 9, 1: Detur inoffenso vitae tibi tangere metam) e inania membra,
presente in Sedulio (carm. pasch. 3, 154: Auditu vacuus, solo per inania membra).

59
7. Epitaffio di Osio, (sec. V)

Lux patriae, sublime decus, pater Osius urbis


Mundo flente iacens conditur hoc tumulo.
Hunc Mediolani populus nunc lugeat omnis
Noverit ut tanti pignus obisse viri.
5 Communis, placidus, hilaris, iucundus, honestus,
Moribus his urbem fecerat esse suam.
Celsa domus proavusque potens venetae arbiter orae
Sed meritis mentis vicerat iste genus.
Privatae comes atque rei provectus in altum
10 Sacrarum meruit sumere iura comes
Patricium culmen gradibus conscendit honoris
Crevit et ex tanto praesule census, honor.
Domnica sed coniux retinet commune sepulcrum:
Iuncta toris quondam iungitur et tumulis.

Luce della patria, sublime decoro, padre della città, Osio, che giace mentre il mondo
intero si addolora, è sepolto in questo tumulo. Ora lo pianga tutto il popolo di Milano
poiché ha appreso che è perduta la tutela di un così grande uomo. Socievole, pacifico,
gioviale, allegro, onesto, con tali costumi fece sua la città. Fu di casata eccelsa, il
bisavolo fu potente governatore del litorale veneto, ma con i meriti dell’intelletto egli ha
superato le proprie origini. Meritò di assumere l’incarico di conte del patrimonio privato
e, salito ai massimi gradi, quello di conte delle sacre elargizioni. Ascese attraverso i
gradi degli onori alla sommità della dignità patrizia e grazie a un’incarico così
prestigioso si accrebbero il censo e l’onore. La moglie Domnica ha con lui comune
sepoltura: un tempo unita nel talamo, nel tumulo è ora giunta.

Dresden, Sächsische Landesbibliothek, F 82 b, f. 166r (Alciato) [= A].


Vindiciae nobilitatis, fonte non identificata le cui varianti sono edite da Forcella-Seletti [= V].

Ed. CIL V 6253 (A); ICUR II 1, 182 n. 17 (A); FORCELLA-SELETTI, 76 n. 81 (A, V).

6 fecerat esse suam A ] fecerat ipse suam V; 7 proavusque A ] proavique V; 13 Domnica sed
coniux retinet A ] Domnica et coniunx sustinet V; 14 et tumulis A ] et tumulo V.

1. Opt. Porf. carm. 19, 9-10: Alme pater patriae, nobis te, maxime Caesar / Ausoniae decus, o
lux pia Romulidum; lux patriae: Alc. Avit. carm. app. 15, 2: Praecellens lumen patriae, lux
orbis et aulae; sublime decus: Claud. carm. 10, 41: Successi, sublime decus torrentis Hiberi;
carm. epigr. 1356, 7: Cumque foret sublime decus splendorque parentum; pater urbis: Verg.
Aen. 8, 134: Dardanus, Iliacae primus pater urbis et auctor; Stat. silv. 1, 4, 95: Nate, Iovi. Rogat
hoc Latiae pater inclitus urbis. 2. Carm. epigr. 1412, 2: Mortis sorte iacens conditur his tumulis;
mundo flente iacens: carm. epigr. 397, 3: Hanc pater et mater maesti flevere iacentem;
conditur hoc tumulo: Auson. epitaph. 5, 1: Conditur hoc tumulo Laerta natus Ulixes. 3. Carm.

60
epigr. 526, 10: Hunc flevit populus pius, hunc miseri ingemuere parentes; Ovid. met. 10, 135:
Hoc petit superis, ut tempore lugeat omni. 4. Luc. Phars. 8, 111: Semper erit tanti pignus
servasse mariti; tanti viri: Ovid. met. 5, 192: A tanto cecidisse viro. Pars ultima vocis; viri finale
molto frequente in Ovidio. 5. Carm. epigr. 77, 3: Dum vixi, hilaris iocundus amicis; carm.
epigr. 1409: Communis sapiens humilis moderatus honestus; carm. epigr. 1408, 3-4: Inlustris
sapiens humilis moderatus honestus / Communis gratus, plus bonitate pius. 6. Moribus his:
Prop. eleg. 3, 12, 16: Moribus his alia coniuge dignus eras; cfr. Alc. Avit. carm. app. 19, 7:
Moribus his vivens decessit tempore fixo; fecerat esse suam: Ovid. am. 1, 7, 44: Caecaque me
praedam fecerat ira suam. 7. Celsa domus: Hil. Pict. gen. 72: Multaque praeterea celsae domus
ornamenta; carm. epigr. 1434, 3: Clara genus, censu pollens et mater egentum; cfr. Ven. Fort.
carm. 1, 9, 12: Ut modo celsa domus staret honore dei. 8. cfr. Arator ad. Parth. 3-4: A proavis
atavisque potens, tu stemmata vincis / Moribus, et meritis cedit origo tuis; Alc. Avit. carm. app.
21, 7-8: Stemmate sublimes quamquam, sed moribus ortum / Vicerunt probi nobilitate sua; cfr.
Ven. Fort. carm. 9, 1, 104: Doctrinae studio vincis et omne genus. 9. Provectus in altum: carm.
epigr. 302, 2: Cingula virtutum culmen provectus in altum; Plaut Mil. 117: Ubi sumu’ provecti
in altum fit quod di volunt. 10. Meruit sumere: Paul. Nol. carm. 19, 341: Compensavit ei,
meruit quae sumere Pauli; sumere iura: Ovid. ars 3, 492: Armaque in armatos sumere iura
sinunt; Claud. carm. 20, 555-6: Sed tamen eunuchi, necdum sibi publica iura / sumere nec totas
audebat vertere leges. 11. Patricium culmen: cfr. Alc. Avit. carm. app. 21, 19: Patricium te
culmen habet, tu rector in orbe es; honoris: cfr. Alc. Avit. carm. app. 15, 6: In qua magnorum
praecessit culmen honorum. 12. Tanto praesule: carm. epigr. 1371, 17-18: Praesule sub tanto
florens eccesia mater / Crevit muneribus, crevit et officiis; cfr. Alc. Avit. carm. 5, 475: Sic
impune rapi? Quo numine praesule tanto; census honor: Ovid. fast. 1, 217: In pretio pretium
nunc est: dat census honores. 13. Commune sepulcrum: Hor. sat. 1, 8, 10: Hoc miserae plebi
stabat commune sepucrum; Auson. epitaph. 24, 3: Hectoris et patris simul est commune
sepulcrum; Auson. epitaph. 38, 1: Me sibi et uxori et natis commune sepulcrum; cfr. Alc. Avit.
carm. app. 21: Coniugii dulcis hoc est commune sepulcrum;; Lucr. Hor. 14. Auson. parent. 2, 8:
Viva torum quondam, functa fovet tumulum; iuncta toris: Ovid. fast. 3, 511: Tu mihi iuncta
toro mihi iuncta vocabula sumes; Luc. Phars. 2, 329: Quondam virgo toris melioris iuncta
marito; iungitur et tumulo: Paul. Petric. Mart. 2, 185: Iunguntur tumulo, sed mens et sidera
transit; cfr. Alc. Avit. carm. app. 17, 1: iungitur hic tumulo fratris germanus et almo.

Alciato copiò l’epitaffio dal marmo e nella seconda redazione dei suoi Monumenta lo
aggiunse in appendice ai carmi tratti dalla silloge antica; nell’estesa nota, dopo una
dissertazione erudita sulle istituzioni romane del comes sacrarum largitionum e del
comes rei privatae, dice che vi è in Francisci aedis vestibulo parieti inserta una tavola
marmorea con un non rude titolo in onore di Osio, che ricoprì entrambe queste cariche.
Afferma inoltre, non sappiamo su quale fondamento, che la moglie Domnica, tumulata
nello stesso sepolcro, appartenesse alla famiglia dell’imperatore Valente. Infine segnala
l’inusuale abbreviatura LMI idest Mediolani, che doveva essere un errore di trascrizione
presente sulla pietra e fu da lui fedelmente ricopiata135.

135
Ms. Dresd F 82 b, f. 165v.

61
Il De Rossi, riflettendo su questa abbreviatura difficilmente attribuibile all’alta cultura
epigrafica tardo-antica, muove il sospetto che la lapide vista dall’Alciato fosse una
copia più tarda dell’originale136.
Osio137 è conosciuto solo attraverso il suo epitaffio: egli ebbe una brillante carriera nel
campo dell’amministrazione: ricoprì infatti le cariche di comes rei privatae e di comes
sacrarum largitionum. Salendo tutti i gradi del cursus honorum guadagnò il titolo di
patricius, accrescendo il proprio prestigio e il censo. Il termine ante quem per datare la
sua morte è la caduta dell’Impero d’Occidente ma l’assenza di notizie al suo riguardo
lascia aperta la possibilità (che potrebbe essere confermata da alcuni passi riferibili ad
autori cristiani del sec. VI; specialmente a Alc. Avit. carm. app. 21) di pensare che la
sua carriera si sia svolta durante il breve periodo della restaurazione giustinianea.

Dell’elogio funebre di Osio colpisce in primo luogo il carattere schiettamente gentilizio,


determinato dai topici riferimenti al cordoglio popolare per la sua morte e alla nobiltà
della casata, che ritroveremo in un iscrizione milanese forse risalente al sec. VI (n. 13),
dove forse già influisce il modello degli epitaffi nobiliari di Ennodio e Venanzio
Fortunato. Qui invece la costruzione dell’elogio, specialmente nella precisa
rievocazione del cursus honorum (vv. 9-12), sembra richiamarsi direttamente al
modello dell’epigrafia senatoria classica.
Inoltre è interessante notare l’assoluta mancanza di una connotazione in senso cristiano
dell’elogio, che evita anche la convenzionale menzione della fede nella sopravvivenza
dopo la morte e che persino nell’elenco delle qualità del defunto (Communis, placidus,
hilaris, iocundus, honestus, v. 5) sembra richiamarsi più che alle virtù cardinali della
religione cristiana a quel senso di umana e laica convivialità che ritroviamo
nell’epitaffio in prosa dell’orefice Lucifero, uno degli ultimi testimoni del clima della
Milano romana che sarà travolta dall’invasione dei Longobardi (fabolarum socius,
laetitiae semper amicus, qui merito viventem recessit, elares, iocundus, moderatus
honestus)138.

136
ICUR II 1, 182 n. 17.
137
The Prosopography of Later Roman Empire, Vol. 2: 395-527, a c. di J. R. MARTINDALE, Cambridge
1980, 572.
138
Il testo accompagnato da riproduzione fotografica si trova in U. MONNERET DE VILLARD, Catalogo
delle iscrizioni cristiane anteriori al sec. XI, Milano 1915, 28-29.

62
Tuttavia non si può negare il carattere cristiano dell’epitaffio che si compone di diverse
citazioni tratte dai poeti della nuova religione, e che era destinato al funzionario di un
Impero da secoli ormai ufficialmente cattolico.
Già a partire dall’incipit infatti è richiamata la figura dello stesso imperatore Costantino,
quale è delineata in un elogio di Optaziano Porfirio (carm. 15, 9-10: pater patriae, nobis
te, maxime Caesar / Ausoniae decus, o lux pia Romulidum). Questo modello, con gli
epiteti di luce, onore e padre della patria attribuiti ad Osio e qui ripartiti dalle due cesure
(tritemimmere ed eftemimere), è variato e rielaborato grazie a espressioni che derivano
diretamente dalla poesia classica e tardo antica (sublime decus: Claud. carm. 10, 41:
Successi, sublime decus torrentis Hiberi; pater urbis: Verg. Aen. 8, 134: Dardanus,
Iliacae primus pater urbis et auctor; Stat. silv. 1, 4, 95: Nate, Iovi. Rogat hoc Latiae
pater inclitus urbis) e forse da quella cristiana (lux patriae: Alc. Avit. carm. app. 15, 2:
Praecellens lumen patriae, lux orbis et aulae).
La notizia della morte di Osio è motivo di cordoglio per il mondo intero (mundo flente,
v. 2), e in special modo per il popolo di Milano (v. 3) che perde non solo il più illustre
dei suoi cittadini (lux patriae, sublime decus, v. 1) ma anche una garanzia per la
sicurezza della patria (pignus tanti viri, v. 3, espressione che tradisce echi lucanei e
ovidiani). La morte di Osio è un lutto che assume una dimensione pubblica e ciò è ben
reso in questi due distici introduttivi, che coagulano in una compatta unità annuncio
della morte, elogio e planctus.
Nei successivi quattro versi è approfondito il ritratto di Osio seguendo le due direttrici
della descrizione dei costumi e del ricordo della casata, che si confrontano
dialetticamente.
Ai vv. 5-6 il ritratto morale del defunto è affidato all’espediente tipico dell’accumulatio,
che privilegia, come abbiamo detto, le qualità di umanità, socievolezza, onestà proprie
della classe senatoria; ed è infatti in virtù di queste qualità che ha guadagnato l’amore
dei cittadini e la posizione di pater urbis.
Segue nel distico successivo la menzione della casata (celsa domus, v. 7) e dell’avo più
illustre, che fu governatore delle Venezie. Osio tuttavia, secondo un altro topos
elogistico (v. 8), il cui precedente più stretto sembra trovarsi nell’elogio di Aratore per
Partenio (ad. Parth. 3-4: A proavis atavisque potens, tu stemmata vincis / Moribus, et
meritis cedit origo tuis; ma topos presente anche in Alc. Avit. carm. app. 21, 7-8),

63
grazie ai meriti dell’intelletto (meritis mentis in assillabazione e omoteleuto) riuscì a
superare la sua stessa stirpe e a guadagnare posizioni ancora più prestigiose. Il v. 8
prepara dunque la descrizione del cursus honorum di Osio, che occupa i due distici
successivi.
Egli fu comes rei privatae e in seguito fu promosso alla dignità di comes sacrarum
largitionum (v. 9-10); così, avendo scalato tutti i gradi della pubblica amministrazione
(gradibus honoris), ottenne il supremo onore del titolo di patrizio e grazie a una carica
così illustre aumentarono il censo e l’onore (v. 11-12). È opportuno notare al v. 9 la
clausola finale provectus in altum, che si ritrova identica nell’epitaffio di un tale
Giovino, magister militum (carm. epigr. 302, 2: Cingula virtutum culmen provectus in
altum).
Il carme si chiude con il ricordo della moglie, unita un tempo a Osio nel talamo nuziale
e ora a lui congiunta nel sepolcro. Il distico prende spunto dall’epitaffio di Ausonio per
la madre Aemilia Aeonia, anch’essa sepolta insieme marito (Auson. parent. 2, 7-8:
Aeternum placidos manes complexa mariti / Viva torum quondam, functa fovet
tumulum), e lo rielabora attraverso espressioni tratte da altri epitaffi di Ausonio
(commune sepulcrum, v. 11: Auson. epitaph. 24, 3: Hectoris et patris simul est
commune sepulcrum; Auson. epitaph. 38, 1: Me sibi et uxori et natis commune
sepulcrum) e da Ovidio (iuncta toris, v. 12: Ovid. fast. 3, 511: Tu mihi iuncta toro mihi
iuncta vocabula sumes). Il poeta inoltre impreziosisce l’opposizione del v. 14, suggerita
da Ausonio, attraverso la disposizione parallela dei membri che dà rilievo al poliptoto di
iungo (iuncta, iungitur) e all’allitterazione tra torìs e tumulìs.

64
8. Epitaffio del vescovo Glicerio, 440.

Glycerius forma, vultuque animoque suavi


Dulce sapit praesul, dulcia cuncta loquens.
Mansuetus laetusque bonusque, benignus, honestus,
Stabilis et clarus, magnus opumque dator.
5 Non illi species, non vires, non genus altum
At potius pietas grata fuit populi.
Haec dedit auxilium hesperiis libiaeque petenti
Creditaque invicta est dextra manus fidei.
Haec prope Nazarium patris alma sede fruentis
10 Composuit templo corpus apostolico.

Depositus XII kalendas octobres.

Il vescovo Glicerio è dolce nell’aspetto, nel volto e nell’animo soave, parlando sempre
con dolcezza. Mansueto, lieto, buono, benigno, onesto, stabile e illustre, magnanimo
elargitore di ricchezze. Non il suo aspetto, non le forze, non la nobile stirpe ma piuttosto
la sua pietà fu gradita al popolo. Essa diede soccorso all’Occidente e alla Libia che
chiedeva aiuto, e l’invitta mano destra si affidò alla fede. Essa depose presso Nazaro,
nel tempio apostolico, le spoglie di questo padre che già gode della dimora celeste.
Fu deposto il dodicesimo giorno prima delle calende di Ottobre.

Milano, Biblioteca Ambrosiana, V 35 sup., f. 35v [= F].

Ed. CIL V 2, 620 n. 5; ICUR II 1, 179 n. 5a.

6 at potius pietas ] ut pos pietas F, corr. De Rossi; 7 hac in margine; 8 quae in margine; 9 alma ]
alme F, corr. De Rossi.

1. Vultuque animoque: Ovid. met. 7, 133: Demisere metu vultumque animumque Pelasgi; Paul.
Nol. carm. 22, 46: Contemnas, quam summa manus vultuque animoque. 2. Dulce sapit: Mart.
epigr. 12, 21, 3: Tam rarum, tam dulce sapis; Paul. Nol. carm. 26, 353: Dulce sapit, sanum
spirat placidumque profatur; dulcia loquens: Hor. carm. 1, 22, 24: Dulce loquentem; Claud.
carm. 17, 19: Iam tum canities animi, iam dulce loquendi; Tert. adv. Marc. 5, 81: quarpropter
vocis tam dulcia cuncta profundit. 3. Paul. Petric. Mart. 3, 414-417: Mansuetus, patiens, iustus,
pius, integer, aequus, / Mitis, confidens, humilis, sine felle benignus, / Instructus, comis, facilis,
placabilis, acer, / Antistes sanctus, doctor bonus, hospes amandus. 4. Paul. Petric. Mart. 1, 113:
Quae dedimus vel qui dedimus, donumque datorem; 5. Non illi species: Mar. Victor. aleth. 2,
186: Non illam species, non illam corpora rerum; genus altum: Verg. Aen. 4, 230: Italiam
regeret, genus alto a saguine Teucri; ibidem 5, 45: Dardanidae magni, genus alto a sanguine
divum; ibidem 6, 500: Deiphobe armipotens, genus alto a sanguine Teucri; 6. Grata pietas:
Ovid. fast. 3, 78: Dicitur haec pietas grata fuisse deo; ibidem 3, 78: Dividere: haec populo copia
grata fuit. 7. Dedit auxilium: Verg. ecl. 1, 44: Hic mihi responsum primus dedit ille petenti;
Lucan. Phars. 9, 890-91: Vix miseris serum tanto lassata periclo / Auxilium Fortuna dedit. Gens

65
unica terras; Stat. Theb. 10, 73: Fors dedit auxilii. Videt alto ex aethere clusa. 8. Invicta manus:
Mart. epigr. 9, 1, 10: Invicta quiquid condit manus, caeli est; Ovid. epiced. Drusii 382: Gessit et
invicta prospera bella manu; dextra manus: Iuvenc. evang. 1, 528: Et si dextra manus mentem
per devia ducit; Avien. Arat. 243: Nam qua dextra manus sinuoso affigitur angui; Prosp. epigr.
49, 4: Sed fidei invictae gaudia vera iuvant; Prosp. epigr. 71, 2: Invictam suis ingenerare fides;
9. Paul. Nol. carm. 31, 451: Si desiderium est Celsi sine fine fruendi; Ps. Cypr. ad senat. 68:
Hinc sincera fides aeterna sede fruetur. 10. Composuit corpus: carm. epigr. 782, 9: Composuit
corpus, caelum cum laeta petivit; carm. epigr. 1359, 1: Deposuit corpus tumulo sed laude
perennis; apostolico templo: Ambr. carm.: Condidit Ambrosius templum dominoque dicavit /
Nomine apostolico, munere, reliquiis; Damas. carm. 57, 4: Sedis apostolicae voluit concedere
honorem; Damas. carm. 72, 5: Auxit apostolicae geminato sedis honorem; Damas. carm. 82, 4:
Natus qui antistes sedis apostolicae; Damas. carm. 92, 1: Praesul apostolicae sedis venerabilis
omni; Paol. Nol. carm. 13, 30 e 14, 88: Nunc et apostolici terrarum est prima sepulchri; Paul.
Nol. carm. 10, 298: Quem patris aeterni solio dextraque sedentem

Glicerio139 fu il ventesimo vescovo di Milano, morì il 15 di Settembre dell’anno 440 e


fu deposto nella Basilica di San Nazaro o Basilica degli Apostoli il giorno 20 Settembre,
in cui la chiesa milanese gli dedica le celebrazioni. È possibile stabilire con tale
esattezza la data della sua morte grazie a due frammenti di un’iscrizione funeraria in
prosa ritrovata nel contrafforte romanico situato nel mezzo della navata, nel lato Sud.
Essa recita: Hic requ[iescit in pace] beatae mem(oriae) / Glyceriu[s episcopus qui
e]xcessit / XVII k(a)l(endas) oc[tobres, depositus XII kalendas] octob(res) / [consulatu
Domni Valentiniani Augusti et A]natoli V(iri) C(larissimi)140. Questo dato si accorda
con la data di deposizione offerta dall’epitaffio in versi del vescovo: Depositus XII
kalendas octobres.
Le due iscrizioni dovevano essere collocate in due punti diversi della chiesa: è probabile
che quella in versi fosse affissa al muro della basilica, quella in prosa presso la sepoltura
del vescovo. L’epitaffio afferma che essa si trovava prope Nazarium: ciò non rende
necessario ritenere che essa fosse situata esattamente nell’abside fatto costruire da
Ambrogio per ospitare le spoglie del martire, e, nel sec. XIII, il Liber notitiae testimonia
che le reliquie di Glicerio e degli altri tre vescovi inumati nella stessa basilica si
trovavano presso l’altare degli apostoli141. Non volendo addentrarci in questioni
archeologiche che non competono al presente lavoro, ci limitiamo a notare che la
basilica subì nel 1071 o 1075 un devastante incendio che ne rese necessaria la

139
SAVIO, Milano, 162-165.
140
PICARD, Le souvenir, 54 n. 1; A. FERRUA, San Glicerio vescovo di Milano, «La Civiltà cattolica»,
155/I (1964), 30-37.
141
Liber notitiae, 270: «De sancto Marolo est festum ad altaris apostolorum dexteram in ecclesia sancti
Nazarii ubi iacet cum sancto Clicerio».

66
ricostruzione e che è possibile quindi che la sepoltura dei vescovi abbia subito una
ricollocazione142.
Glicerio è il terzo vescovo inumato nella basilica nazariana, in cui Ambrogio stesso,
prima dell’invenzione dei corpi dei martiri Gervasio e Protasio, intendeva essere
seppellito. Lo precedettero Venerio, morto dopo il 405, e Marolo, e dopo di lui vi fu
sepolto, prima del 451, Lazzaro. Dunque tutti i vescovi della prima metà del sec. V, con
l’eccezione di Martiniano, furono inumati in questa chiesa, che assume il ruolo di luogo
ufficiale di sepoltura episcopale. Il Picard associa questa preponderanza al fiorire del
culto degli apostoli che si sviluppa in Italia tra la fine del sec. IV e l’inizio del V,
minimizzando il potere di attrazione esercitato dalla presenza delle reliquie del martire
Nazaro; a riprova aggiunge che il culto dei martiri milanesi va, nello stesso periodo,
eclissandosi143. Tuttavia gli ultimi due versi dell’epitaffio di Glicerio costituiscono
un’evidente prova della venerazione di cui ancora gode il maritre contitolare della
basilica e una valida testimonianza, l’ultima per quanto riguarda gli epitaffi da noi
considerati, dell’onore in cui è ancora tenuto il privilegio dell’inumazione ad martyres.
Se molto sappiamo sulla morte e sulla sepoltura di Glicerio, poche notizie si hanno della
sua vita. Già meno di un secolo dopo, quando Ennodio, su incarico di Lorenzo I, dovrà
scrivere un carme in suo onore per la serie di elogia da affiancare ai ritratti episcopali
presenti nella basilica nazariana, non fornirà che generiche indicazioni. Se si eccettua la
menzione della brevità del suo episcopato, le sue fonti sembrano essere soltanto il
ritratto stesso del vescovo e forse l’epitaffio del sec. V144.
Il De Rossi cercò di illuminarne la vita attraverso le notizie contenute nell’epitaffio145:
mettendo i vv. 7-8 in relazione con un’iscrizione africana che si riferisce alla tutela cui
fu sottoposto l’imperatore Valentiniano III146, ipotizzò che utrum ante episcopatum an

142
PICARD, Le souvenir, 55-57, ritenendo che dopo la ricostruzione romanica della basilica l’altare degli
apostoli mantenne la stessa collocazione e che l’iscrizione in prosa di Glicerio fosse visibile fino all’epoca
dell’incendio, considera attendibile la memoria tramandata dal Liber notitiae.
143
PICARD, Le souvenir, 58.
144
Cfr. vv. 7-8 del suo elogio (CIL V 2, 620 n. 5: Indeptus sceptrum tribuit quod testis imago / Purpura
quem meritis prodidit imperio); secondo De Rossi (ICUR II 1, 179 n. 5a) essi raccolgono l’oscuro
suggerimento dei vv. 7-8 del nostro componimento. Invece secondo D. DE RIENZO, Gli epigrammi di
Magno Felice Ennodio, Napoli 2005, 66, Ennodio identifica metaforicamente il vescovo con l’imperatore
d’Oriente Glicerio secondo il procedimento di identificazione di due personaggi attraverso il nome, cui
più volte ricorre, come nel caso del vescovo Lorenzo I sovente assimilato al martire del sec. III.
145
ICUR II, 1 179 n. 5a.
146
CIL VIII n. 8481.

67
in ipso episcopatu Glycerius Valentiniani III sub Gallae Placidiae tutela regnantis
rector quodammodo fuerit.

L’epitaffio non compare negli apografi parziali della silloge antica, dedicati ai vescovi
milanesi, trasmessi dai codici di Alciato, Fontana e del Liber notitiae; forse non fu
inserito nella selezione a causa della concorrenza dell’elogio ennodiano. È tramandato
esclusivamente dal manoscritto del Fontana, che nella nota dice di averlo tratto ex
vetusto libro Volfgangi Latii Viennensis Caesarii historici, ex sepulchris
Mediolanensibus, di cui nulla sappiamo147.

La metrica, sempre corretta nelle cadenze finali, con quinto piede regolarmente
dattilico, presenta tuttavia qualche piccola imperfezione: si riscontra la consueta
oscillazione nella lettura dello iato (es. su-a-vi, v. 2; man-sue-tus, v. 3); la sillaba
iniziale di stăbilis, al v. 3, è computata come lunga; il nesso di muta con liquida, com’è
normale a quest’altezza cronologica, non è scomposto tra le silabe (pa-tris, v. 9); la
cesura alla maniera classica è rispettata solo in alcuni esametri (vv. 1, 5, 9).

Il carme declina le strutture tipiche del genere funerario in chiave elogistica, come si
addice all’epitaffio di un vescovo: inciso sulla pietra e veduto da tutti i fedeli nella
basilica fondata da Ambrogio con le reliquie degli apostoli, che nella prima metà del
sec. V si configura come il mausoleo dei vescovi di Milano, fedeli testimoni dell’eredità
ambrosiana, esso non deve solo commemorare la vita del defunto pontefice, enumerarne
le imprese e dichiararne la sepoltura, ma illustrare alla comunità un modello di virtù
pastorali e di vita santa. La descrizione del carattere e dei costumi si sviluppa lungo i
primi tre distici, culminando nell’attribuzione al defunto della qualità fondamentale del
cristiano, la pietà, ovvero la fede in Dio, che diventa, personificata, protagonista della
vita e della morte del vescovo, essendo presentata come esecutrice dell’unica azione
concreta che di lui viene ricordata (vv. 7-8) e autrice della stessa sepoltura del corpo nel
tempio apostolico (vv. 9-10), segno visibile della guadagnata salvezza dell’anima
(patris alma sede fruentis, v. 9). La personificazione della pietà, che agisce attraverso la
persona del vescovo Glicerio, è strumento retorico per esprimere il fiducioso

147
Su Wolfgang Latius: M. MAYR, Wolfgang Latius als Geschichschreiher Österreichs, Wien 1894.

68
assegnamento a Dio che è virtù cardinale del vero fedele. La tensione stilistica del
componimento risiede nella varietà con cui è sviluppata questa materia elogistica, che
prima è strutturata sul gioco etimologico innescato dall’anfibologia del nome (figura
cara ai poeti cristiani, specialmente, nel secolo successivo, ad Ennodio),
successivamente è affidata all’enumeratio e infine risolta nel priamel che indica nella
pietas il nucleo centrale della santità del vescovo.
La convenzionale enunciazione del nome del defunto diviene occasione per un primo,
celebrativo, ritratto, poiché in esso è contenuto un omen che si realizza nelle sue doti
fisiche, umane e pastorali. Il gioco etimologico tra il graecum nomen di Glicerio e la
dulcedo che lo caratterizza, è rafforzato dal poliptoto tra l’avverbio dulce e l’aggettivo
dulcis in posizione forte (prima sede degli emistichi del pentametro). La prima
occorrenza dulce, descrive l’intera persona del vescovo, con una connotazione forte e di
grande concretezza: Glicerio “ha dolce sapore” (dulce sapit, in posizione iniziale, come
in Paol. Nol. carm. 26, 353), ovvero la dolcezza avvolge per intero il suo aspetto
esteriore e il suo animo, vultuque animoque, utilizzando un felice nesso di Paolino da
Nola (Paul. Nol. carm. 22, 46), che struttura secondo la cadenza dell’omoteleuto il
ritmo del secondo emistichio del v. 1. La seconda occorrenza, dulcia, caratterizza
invece l’agire del pontefice e, nello specifico, l’azione più pertinente ai doveri di un
pastore ovvero la predicazione. D’altronde la dulcedo dell’eloquio, la capacità di
ammaestrare il popolo attraverso discorsi semplici e benevoli è prerogativa tipicamente
ambrosiana, secondo quanto testimoniano i sermoni del Dottore e secondo quanto egli
stesso prescrive ai sacerdoti nel De officis ministrorum: Accedat tamen suavis sermo, ut
conciliet sibi affectum audientium (Off. I, 47)148. Il dettato del v. 2 è ulteriormente
addolcito dalla allitterazione di l accompagnata da u.
Il secondo distico prosegue l’elogio nelle forme più convenzionali dell’enumeratio:
l’esametro è scandito dalle terminazioni maschili della prima declinazione e
dall’omoteleuto in arsi di laetùsque bonùsque; nel pentametro vi è di nuovo omoteleuto
tra clarus e magnus ma il ritmo è variato grazie agli aggettivi di terza declinazione posti

148
L. PIZZOLATO, Ambrogio e la retorica: le finalità del discorso, in Nec timeo mori. Atti del Congresso
internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte, a c. di L. PIZZOLATO, M. RIZZI,
Milano 1997, 258. La descrizione delle qualità che secondo Ambrogio devono caratterizzare la
predicazione del buon sacerdote si possono leggere in Off. 1, 22-23. La rappresentazione di Ambrogio
come pastore dal dolce eloquio è tradizione già affermata, se già nel sec. V Cassiodoro lo descrive come
lactei sermonis emanator, cum gravitate acutus, inviolenta persausione dulcissimus (Inst. I, 20).

69
alle estreme sedi del verso. Il formulario delle virtù si rifà direttamente al modello
biblico: i mansueti sono i figli prediletti del Signore, a cui Egli rivolge il suo messaggio
(Is 61, 1), la cui preghiera è gradita a Dio (Iud 9, 16), che il Signore guida, sostiene ed
esalta (Ps 25[24], 9; Ps 149, 4; Ps 147[146], 6), che, a differenza degli empi, saranno
giudicati secondo equità e con Grazia (Is 11, 4; Pro 3, 34); ma soprattutto la
mansuetudine, ovvero un contegno improntato a umiltà e dolcezza, è qualità propria del
sacerdote, secondo quanto indicato da Paolo nelle lettere di argomento pastorale (1Tim
6, 11: Tu autem, o homo Dei, haec fuge; sectare vero iustitiam pietatem fidem caritatem
patientiam mansuetudinem; 2Tim 2, 24: servum autem Domini non oportet litigare sed
mansuetum esse ad omnes docibilem patientem; Tit 3, 2: Neminem balsphemare, non
litigiosos esse, modestos omnes, ostendentes mansuetudinem ad omnes homines).
Modello per eccellenza di mansuetudine è Cristo stesso: Dicite filiae Sion: Ecce rex
tuus venit tibi mansuetus et sedens super asinam et pullum filim subiugalis (Mt 21, 5).
Seguono le lodi tipiche del ritratto encomiastico cristiano: Glicerio è detto laetus (che è
felicità propria del cristiano fiducioso nella Resurrezione: Ps 69[68], 33: Videntes
mansueti laetabuntur, qui quaeritis Deum vivet anima vestra), bonus, benignus,
honestus (che qui ha il significato di “giusto”, non di “nobile”: il genus altum, sarà
evocato in chiave negativa al v. 5).
Più raro è invece l’attributo di stabilis, al v. 4, che indica la fermezza di propositi che
deriva a Glicerio dalla certezza della fede in Cristo: Cor mundum crea mihi et spiritus
stabilem renova in visceribus meis (Ps 51[50], 12); permanetis in fide fundati et stabiles
et inmobiles ab spe evangelii (Col 1, 23). Opumque dator allude alla carità verso i
poveri, tema tipico negli epitaffi ma anche elemento caratterizzante della spiritualità
ambrosiana. Proprio in virtù di tali doti evangeliche Glicerio può essere chiamato
illustre (clarus) e grande (magnus).
Il terzo distico raggiunge l’acme della tensione retorica dell’elogio chiarendo, attraverso
la figura del priamel (v. 5), enfatizzato dall’anafora di non, qual è la virtù principale del
vescovo: la pietà, concetto che assomma in sé tutte le qualità evangeliche sopra
elencate. Non il dolce aspetto evocato al v. 1, non la potenza (al cui proposito si può di
nuovo ricordare Iud 9, 16: neque in equorum viribus voluntas tua […] sed humilium et
mansuetorum tibi semper placuit deprecatio), non la nobile stirpe (genus altum è
variazione sull’espressione virgiliana genus alto a sanguine: Aen. 4, 230 e 5, 45 e 6,

70
500). Il modello della poesia classica convive con un formulario prevalentemente
cristiano: il v. 6 tradisce una chiara ispirazione ovidiana (Ovid. fast. 3, 78: Dicitur haec
pietas grata fuisse deo).
La pietà personificata, come dicevamo sopra, è il soggetto degli ultimi due distici,
espresso da haec in anafora (vv. 7 e 9). Essa soccorre l’Impero bisognoso di aiuto,
indicato con invicta manus, espressione tratta probabilmente da un epigramma di
Marziale in lode alla casata imperiale. Il poeta cristiano, però, ribalta con grande
sottigliezza il senso del verso (Mart. epigr. 9, 1, 10: Invicta quiquid condit manus, caeli
est): mentre in Marziale qualunque cosa l’invitta mano dell’imperatore edifichi, essa è
degna del cielo, che è come dire che l’imperatore è pari a un dio, qui il potere temporale
dichiara la propria debolezza chiedendo l’aiuto di una mano più potente, quella della
fede, nella persona del vescovo Glicerio.
La pietà del pontefice gli vale l’onore di riposare le membra nella basilica di San
Nazaro e di vivere al contempo (questo il significato del participio presente) nell’eterna
sede divina; dimora celeste (patris alma sede fruentis, v. 9) e dimora terrestre (templo
apostolico, v. 10) convivono nello stesso distico.
Il carme si chiude con un ricordo e un’associazione ad Ambrogio, che sancisce la
rappresentazione di Glicerio come perfetto esempio di vescovo milanese, autentico
erede del Santo: egli infatti ha meritato di essere sepolto nel templum che Ambrogio ha
fondato, consacrandolo con il nome degli apostoli e il dono delle loro reliquie: Condidit
Ambrosius templum dominoque dicavit / Nomine apostolico, munere, reliquiis.

71
9. Epitaffio di Aurelio, vescovo di Riditio, 475

Deposuit corpus tumulo sed laude perennis


Aurelius, penetrans regna beata poli,
Qui mortem vicit meritis mundumque relinquens
Immensum Christi possidet imperium.
5 Cuius ut agnoscas sanctae praeconia vitae
Consortis, lector, respice fata viri.
Ambo pari lucis clauserunt tempore metam
Membraque Dionysio iunxit amica papae.
Prompta sacerdotis lacrymas mens iuvit orantis:
10 Hanc ideo tabulam obtulit Eusebia.

Aurelius civitatis Riditionis episcopus


hac die positus quo etiam pontifex sanctus
confessorque Dionysius post consolatum
domni nostri divi Leonis Iunioris.

Depose il corpo nel sepolcro ma immortale per lode, Aurelio, che penetra i beati regni
celesti, ha vinto la morte grazie ai suoi meriti e lasciando il mondo entra in possesso
dell’immenso regno di Cristo. Affinché tu conosca l’elogio della sua santa vita, o
lettore, rammenta la sorte dell’uomo che ebbe uguale destino: nella stessa data entrambi
toccarono la meta della loro vita, perciò un’amica del pontefice congiunse le sue
membra a Dionisio. La mente solerte del sacerdote venne in soccorso alle lacrime
dell’orante: per tale motivo Eusebia ha offerto questa lapide.
Aurelio, vescovo della città di Riditio, fu deposto lo stesso giorno del santo pontefice
confessore Dioniso nell’anno dopo il consolato di Leone Iuniore.

Milano, Biblioteca del Capitolo Metropolitano, II E 48, f. 109 (Quodlibet, Castelli149) [= C];
unde Biblioteca Trivulziana, olim Triv. 604 f. 138 (Valeri) [= V].
Dresden, Sächsische Landesbibliothek, F 82 b, f. 156r (Alciato) [= A]; unde Milano, Biblioteca
Ambrosiana, V 35 sup., f. 26v (Fontana).

Ed. AA. SS. Novembris IV, 129 (ex C); CIL V 2 6183a (ex V); ICUR I, 381 (ex V); FORCELLA-
SELETTI, 161 n. 160 (ex V); CIL V 2, 620 n. 7 (ex A).

2 Aurelius penetrans regna beata poli C ] Aurelius coeli regna beata petit A; 6 fata C ] et acta A;
8 membraque C ] membra A; 9 iuvit C ] invit V; Prompta sacerdotis lachrymas mens iuvit
orantis C ] Prompta sacerdotis mens ut iuvet exoranteis A; 10 obtulit C ] detulit; 11 hac die C ]
hic eo die A; sanctus C ] sanctissimus A; 12 domni nostri divi C ] domin divi A.

149
Cfr. M. MAGISTRETTI, Del Quodlibet di F. Castelli e del preposto Giovanni Pietro Visconti di Mafiolo,
entrambi Ordinari della Chiesa milanese (saec. XVI), «Archivio Storico Lombardo», 45 (1918), 1-30.

72
1. Deposuit corpus tumulo: Damas. carm. 85, 9: Hoc posuit corpus tumulo mortalia linquens;
Ovid. met. 11, 649: Deposuitque caput stratoque recondidit alto; laude perennis: Verg. Aen. 9,
79: Dicite. Prisca fides facto, sed fama perennis; Prud. apoth. 1, 563: Haec nos in domini virtute
et laude perenni; carm. epigr. 1408, 7: Nil tibi mors nocuit, cum hic vivis laude perenni / Et
Christi in regno; Anth. Lat. 609, 5: Sed vitae brevitas pensatur laude perenni; cfr. Alc. Avit.
carm. 4, 191: Angelicus sine fine chorus, qui laude perenni; cfr. Ven. Fort. carm. 2, 10, 26: Hic
quoque gesturum laude perennis erit. 2. cfr. Paul. Diac. carm. 2, 108: Regna poli penetrat
simplicitate placens; penetrans: Iuvenc. evang. 3, 41: Et facile iniusti penetrans habitacula
cordis; ep. Md. 1: Finitimas penetrans adluat exuvias; Paul. Nol. carm. 10, 173: Secreta ignitus
penetrans celestia sensus; cfr. Tit. metr. I, 2,2: Cuius caelum penetrans anima cum angelis
gaudet; cfr. Ven. Fort. carm. 10, 9, 26: Nubila quo penetrans surgit acuta silex; regna beata
poli: Ovid. epist. 12, 24: Intrasti patriae regna beata meae; Sedul. hymn. 1, 40: Iesus dispensat
regna beata Patris; cfr. Ven. Fort. carm. 8, 4, 32: Atque tibi caelis regna beata pares; cfr. Alcuin.
carm. 43, 34 e 45, 14 e 69, 176: Regna beata poli. 3. Qui mortem vicit meritis: Ennod. carm. 2,
2: Numquam morte perit meritis post busta superstes; mundumque relinquens: Damas. carm.
85, 9; Paul. Petric. Mart. 4, 343: Mens opulenta deo voluit, terrena relinquens; carm. ep. 782,
11: Sed Christum festina petit mundumque reliquit. 4. Imperium Christi: Iuvenc. evang. 2, 98:
Imperio Christi paret gaudetque secutus; Prud. apoth. 1, 653: Imperio Christi; video calcatus
eundem. 5. Ut agnoscas: Victorin. Christ. 118: Infer, ut agnoscas, digitum, clavosque revulsus;
cfr. Alcuin. carm. 3, 33, 10: Lector, ut agnoscas qualis et ipse fuit; praeconia vitae: Lucan.
Phars. 4, 813: Digna damus, iuvenis, meritae preconia vitae; Auson. parent. 19, 5: Inviolata
tuens castae praeconia vitae; carm. ep. 709, 1: Flaviani antistis resonant preconia vitae. 6. cfr.
Alc. Avit. carm. app. 14, 8: Consortemque tene, casta corona, virum; fata viri: Verg. Aen. 1,
546: Quem si fata virum servant, si vescitur aura; Lucan. Phars. 2, 240: Fata virum casusque
urbis cunctisque timentes; Anth. Lat. 184, 11: Monstrant fata viri vario miracula caso. 7. Lucis
metam: Ovid. trist. 1, 9, 1: Detur innofenso vitae tibi tangere metam; Sen. Herc. O. 45: Intraque
nostras substitit metas dies; Auson. ad filium 17: Sic lux prima abiit, sic altera meta diei; Mar.
Victor. aleth. 1, 60: Mox post terga fuit. Nomen sic meta diei; Nemes. Ecl. 1, 45: Circulus
innocuae clauserunt tempora vitae; cfr. Ven. Fort. carm. 4, 26, 43: Ambo pares animo voto spe
moribus actu. 8. Ovid. met. 6, 408: Membra ferunt iunxisse deos, aliisque repertis; Ovid. Ibis
366: Membraque Pisaeae sustinuere foris; Claud. carm. 2, 2: Membraque Cirrhaeo fudit anela
iugo; Prud. perist. 11, 16: Utpote quos propriae iunxit amicitiae.

San Aurelio150 fu un vescovo dalmata che morì a Milano nel 475 d. C., nello stesso
giorno in cui più di un secolo prima era stato deposto il vescovo milanese Dionigi.
Dovette fuggire dalla sua sede episcopale, Riditio, identificata dal Delehaye in una
località della regione di Šibenik, sulla costa dalmata, forse a causa delle incursioni di
popolazioni barbariche piuttosto che per ragioni religiose come il suo omologo
milanese151.

150
AA. SS. Nov., IV, 128-142; SAVIO, Milano, 120-122; H. DELEHAYE, Note sur une inscription
chrétienne de Milan, in IDEM., Mélanges d’hagiographie greque et latine, Bruxelles 1966, 341-346; A.
RIMOLDI, Aurelio, in BS, II, 612 e DCA, I, 301.
151
DELEHAYE, Note sur une inscription, 343-344.

73
È celebrato dalla chiesa milanese il 9 Novembre e non il 25 Maggio che è la data
stabilita per la commemorazione di San Dionigi. Questa data non si riferisce al giorno
del decesso del santo, morto in esilio in Armenia, ma, a parere del Savio e del Delehaye,
al giorno del ritorno delle sue spoglie a Milano e della sua solenne deposizione. Dal
momento che era la data di deposizione ad essere presa d’abitudine come riferimento, si
può stabilire che la morte di Aurelio fosse avvenuta proprio il 25 Maggio. La data del 9
Novembre fu quindi probabilmente stabilita onde evitare la coincidenza tra le due
festività, ma non conosciamo il motivo della scelta di tale giorno152.

Il dettato oscuro dell’iscrizione e l’incapacità dei molti a leggere le date seondo il


calendario romano fecero in modo che la pietà popolare legasse più strettamente i
destini di questi due santi vescovi, rendendo Aurelio e Dionigi contemporanei e
identificando il primo con un vescovo dell’Armenia, regione ove fu esiliato il presule
milanese153. Secondo la leggenda, Aurelio, fedele all’ortodossia nicena, accolse a
braccia aperte l’esule e dopo la di lui morte fu responsabile della traslazione della salma
a Milano, essendo vescovo Ambrogio. La supposta provenienza orientale di Aurelio,
corroborata dalla sua devozione per Dionigi e dall’inumazione nella basilica presso le
sue spoglie, fu creduta anche dal Savio, che identificò la civitas Riditionis con la città
armena di Reschdouni. Questa leggenda tuttavia è tarda ed ha la sua prima attestazione
in una Vita S. Aurelii154 redatta ad Hirsau dopo l’830 per valorizzare il santo milanese:
infatti in quell’anno il vescovo Angilberto II aveva concesso al vescovo Notingo di
Vercelli il corpo del santo, che questi trasferì nel monastero di Hirsau, fondato sulle
terre di suo padre155. Il racconto della Vita è analogo a quello, narrato da Floro di Lione
nel suo Martirologio (redatto prima dell’837), della traslazione delle reliquie di Dionigi
dalla Cappadocia da parte del vescovo Basilio di Cesarea al tempo di Sant’Ambrogio.
Questo episodio, così come quello della Vita di Hirsau, trova la sua origine in un debole
spunto del Martirologio geronimiano, su cui Floro stesso o un ignoto autore a cui egli si
ispira ricamò tale leggenda156.

152
DELEHAYE, Note sur une inscription, 346.
153
DELEHAYE, Note sur une inscription, 342.
154
AA. SS. Nov., IV, 134-137.
155
PICARD, Le souvenir, 630.
156
PICARD, Le souvenir, 608 n. 104.

74
Nonostante la notizia della traslazione delle reliquie da parte di Angilberto II, le
ritroviamo menzionate come fossero ancora presenti a Milano nel 1023 in un atto
dell’arcivescovo Ariberto, e in occasione di due diverse traslazioni nel 1538 e nel 1575:
è perciò probabile che solo una parte delle spoglie di Aurelio raggiunse la Germania157.
In relazione alla leggenda sopracitata, è interessante notare come il culto riservato a
Milano ad Aurelio nasca proprio grazie alla presenza del suo titolo sepolcrale158.

L’epitaffio di Aurelio si trovava, come testimonia l’Alciato, in un sacello sotterraneo


della basilica di San Dionigi e andò perduto o distrutto dopo che nel 1549 furono
demolite la tribuna e la cripta, o, ancor prima, in occasione del saccheggio che la colpì
nel 1528.
Trascrisse fedelmente il carme dal marmo con le relative note cronolgiche il Castelli nel
codice del Quodlibet, mentre l’Alciato ne offre una versione da lui stesso interpolata ai
vv. 2, 6, 9 e 10.
Secondo le considerazioni del Silvagni questo carme era presente tra i tredici
appartenenti all’antiquissimus codex posseduto dall’Alciato, benchè esso non compaia
nel Liber notitiae, che pur dedica un paragrafo alla memoria sancti aurilii, né nei codici
del Fontana, che trascrive soltanto la versione alciatina. Probabilmente questo epitaffio
mancava nell’apografo B da cui derivarono i codici posseduti da Goffredo da Bussero e
dal Fontana. Il giureconsulto milanese trascrisse dal codice il carme privo delle note
cronologiche (mancavano infatti nell’antica silloge, come era normale nelle raccolte
antologiche), che non aggiunse ex ingenio come per gli epitaffi ennodiani dei vescovi
milanesi ma potè copiare dalla lapide, ai suoi tempi ancora esistente in San Dionigi (le
trascrisse con lezione leggermente differente da quella del Castelli).
Queste note indicano che Aurelio fu deposto nello stesso giorno del vescovo Dioniso
(forse il 9/11) nell’anno dopo il consolato di Leone Iuniore, il 475. L’epitaffio, inciso su
tavola marmorea, fu commissionato dalla pia donna Eusebia poiché il vescovo ne aveva
esaudito le preghiere. Se la formula del v. 9, può far pensare ad un’intercessione post
mortem da parte di Aurelio, l’espressione amica papae, con cui Eusebia designa se
stessa, potrebbe suggerire che essa avesse conosciuto il pontefice in vita e appunto per
questo abbia indirizzato a lui, morto, le sue preghiere. Il carme, in ogni caso, è coevo
157
A. RIMOLDI, Aurelio, in BS, II, 612.
158
H. DELEHAYE, Sanctus. Essai sur le culte des saints dans l’antiquité, Bruxelles 1927, 153.

75
alla morte di Aurelio, e lo conferma la sua buona latinità, attribuibile per qualità dello
stile e fonti utilzzate alla fine del sec. V.
Si può dunque pensare che la composizione dell’epitaffio sia contestuale alla sepoltura
di Aurelio, di cui si incaricò Eusebia stessa.

Il carme inizia con il consueto annuncio della morte e della sepoltura, che già nel primo
verso sono superate grazie alla certezza della Resurrezione. Aurelio, il cui nome,
secondo un frequente artificio, è posposto all’inizio del secondo verso, ha deposto le sue
spoglie mortali nel sepolcro (l’incipit è modulato su un verso di Damaso: Hoc posuit
corpus tumulo mortalia linquens) ma reso immortale dai propri meriti (laude perennis,
dopo dieresi bucolica; clausola presente in Prudenzio, Avito di Vienne e in un carme
epigrafico su cui torneremo), si avvia verso i regni celesti (regna beata poli, altra felice
clausola, forse creata sulla base di un verso di Ovidio e Sedulio, e in seguito largamente
sfruttata da Alcuino). Al v. 2, penetrans, un participio che rende l’idea della
contemporaneità tra la morte di Aurelio e la sua ascesa al cielo, richiama per
allitterazione perennis del v. 1.
Il secondo distico sviluppa e chiarisce i concetti del precedente. Il v. 3, lungo per la
prevalenza dei dattili, e scandito dalle cesure tritemimere ed eftemimere e
dall’allitterazione della nasale, riprende il concetto espresso al v. 1 da laude perennis: la
morte è sconfitta dai meriti del defunto; questo tema peraltro sarà caro ad Ennodio, che
lo svilupperà in varie forme. La clausola finale mundumque relinquens potrebbe essere
stata suggerita dallo stesso verso damasiano che ha fornito lo spunto per l’incipit. Al v.
4 i regna beata poli sono divenuti immensum imperium Christi, e quello che era un
movimento introduttivo (penetrans) è divenuto stabile possesso (possidet). Espressioni
simili si trovano nell’epitaffio di un certo Probo, romano, console nel 513 (che sembra
tragga l’ispirazione per un verso anche dall’epitaffio di Osio). A questo proposito ne
presentiamo i vv. 7-10: Nil tibi mors nocuit, cum hic vivis laude perenni / Et Christi in
regno dum sine fine manes / Haec tibi quae cecini, non sunt praeconia falsa: / Pro
meritis fama est testis ubique tua.
I due distici successivi ricordano la vita del defunto ma non in modo diretto, mediante
un’accumulazione elogistica, bensì mettendo in relazione la sua vicenda terrena con
quella del vescovo Dionigi, lasciando sottointeso il comune destino dell’esilio. Aurelio,

76
ricalcandone la vita e morendo nello stesso giorno, diventa così una sorta di doppio del
venerato vescovo milanese.
Il terzo distico si rivolge direttamente al lettore e inusualmente lo esorta (respice) a
conoscere la vita di Aurelio non leggendo ciò che è scritto nell’epitaffio (come nei titoli
di Manlia Daedalia o in Scire volens) ma riportando alla mente la vicenda del vescovo
Dionigi (il cui nome però non è ancora esplicitato), che ogni milanese conosceva. Sotto
il profilo retorico il distico è impreziosito dal polipototo del relativo in posizione
anaforica (qui, v. 3; cuius, v. 5); dalla clausola finale del v. 5, ripresa da Lucano (Digna
damus, iuvenis, meritae preconia vitae) o forse da Ausonio (Inviolata tuens castae
praeconia vitae); dal rilievo che la posizione iniziale e il doppio accento metrico
conferiscono alla parola consortis, depositaria dell’identificazione tra Aurelio e Dioniso;
dalla classicheggiante clausola finale del v. 6 fata viri.
Se il terzo distico ricorda la vita di Aurelio, il quarto ne ricorda la morte e la sepoltura,
entrambe ancora una volta nel segno dell’analogia con Dionigi. Il v. 7 è costruito
ricercatamente secondo il parallelismo dei due emistichi: ambo, pari, lucis si riferiscono
rispettivamente a clauserunt, tempore, metam del secondo emistichio. La fine della vita
è espressa nella bella formula meta lucis, che è forse una variatio su meta diei, che ha
due occorrenze in Ausonio; un’espressione analoga, vitae metas, si trova anche
nell’epigrafe di Cervia Abundantia. La clausola tempore metam è in dieresi bucolica. Il
v. 8 rivela finalmente il nome dell’uomo che fu compagno in sorte ad Aurelio; il
secondo emistichio introduce la figura della dedicataria del titolo e del sepolcro.
È opportuno richiamare qui l’interpretazione del Picard, secondo cui l’espressione iunxit
membra Dyonisio eviterebbe appositamente di menzionare le spoglie di Dionigi poiché
esse non erano mai state ricondotte in patria e presso la chiesa vi era soltanto il
cenotafio del santo. Tralasciando la questione della sepoltura di Dionigi, che esula dal
presente lavoro, si può anche ammettere la lettura del Picard, pur tenendo presente che
la presenza della salma del vescovo può essere semplicemente sottintesa. Quanto poi
all’affermazione dello stesso studioso «qu’Eusebia a préféré addresser ses prières et ses
larmes à Aurelius dont son destin fait une sorte de double de Dyonisius, double qui a
l’avantage d’être concretèment présent dans son corps, siège de la puissance
d’intercession», essa ci appare teoricamente corretta ma in contraddizione con quanto
afferma l’iscrizione. Infatti è Eusebia stessa che, dopo che Aurelio esaudì le sue

77
preghiere, ne predispose la sepoltura presso la tomba o cenotafio di Dionigi (iunxit
amica papae); prima di ciò i due santi non erano tumulati insieme e non si può quindi
pensare a una concorrenza tra i loro poteri di intercessione. Il testo potrebbe anzi
suggerire, ma non ve ne è la certezza, che il beneficio di Aurelio risalga a quando lui era
ancora in vita.
Il carme si conclude con la dedica della tabula, indicando con questo termine la lapide
contenente l’epitaffio (è attestato in altre iscrizioni funerarie: carm epigr. 121, 2 e 724,
1). Il v. 9, piuttosto intricato a causa, credo, di esigenze metriche, indica il motivo
dell’offerta; il v. 10 il nome dell’offerente, inquadrato da due accenti in posizione finale.

78
10. Epitaffio di Rustica, 513

bonae memoriae

Rustica perpetuae non te Sors pallida vitae


Sustulit interitum nec tibi morte dedit.
Purior aetherias graderis sine carne per arces:
Nam vitam castae funera nobilitant.
5 Quod mirum: viduata tibi sat constitit aetas,
Coniugis ad natum cum bene ductus amor.

Hic requiescit in pace Rustica religiosa femina,


Quae vixit in saeculo annos plus minus LX.
Deposita die III Eidus ianuarii, Probo viro claro consule.

Rustica, la pallida sorte non ti ha rapito alla vita eterna né con la morte ti ha annientata.
Più pura, avanzi senza il peso della carne per le rocche eteree. I funerali infatti
nobilitano la vita di una donna casta. Che cosa mirabile: l’età nella vedovanza fu per te
assai lunga, mentre l’amore per il coniuge venne giustamente rivolto verso il figlio.
Qui riposa in pace Rustica, religiosa femina, che visse nel secolo anni circa sessanta. Fu
deposta tre giorni prima le Idi di Gennaio, essendo console Probo, vir clarus.

Dresden, Sächsische Landesbibliothek, F 82 b, f. 167r, (Alciato) [= A]; unde Milano, Biblioteca


Nazionale Braidense, AH.XI.5, f. 48 (Anonimo Laudense) [= L].
Ennodi epigrammatum codices [= E].

Ed. CIL V 2, 6206 (ex A); ICUR II 1, 182 n. 18; FORCELLA-SELETTI, 28 n. 28 (ex A); Vogel
462 (ex E); DE RIENZO, Gli epigrammi, 41-42 (ex E).

tit. add. in L; 5 nam A ] sic E; 6 sat A ] sit E, cum corr. VOGEL; 7 cum A, E ] sit corr.
VOGEL; not. add. in L.

2. Sors pallida: Ennod. carm. 1, 16, 8: Sors inde luget pallida; Ennod. carm. 2, 85, 3: Te
reparante redit, patitur sors pallida letum; perpetuae vitae: Damas. carm. 72, 1: Sumite
perpetuam sancto de gurgite vitam 3. morte dedit: Verg. Aen. 4, 696: Nam quia nec fato matura
nec morte peribat; Ovid. fast. 1, 439: Morte dedit poenas auctor clamoris, et haec est; Paol. Nol.
carm. 31, 177: Vitam ex morte dedi, mortem moriendo subegi. 4. Purior aetherias: Ovid. ars 3,
55: Sensimus acceptis numen quoque: purior aether; aetherias arces: Verg. app. culex 42:
Igneus aetherias iam Sol penetrabat in arces; Ovid. met. 15, 858: Aetheriamque suis cingens
amplexibus arces; Ovid. trist. 5, 3, 19: Ipse quoque aetherias meritis invectus es arces; Val. Fl.
Argon. 2, 444: Et sol aetherias medius conscenderat arces; Ennod. carm. 2, 95, 7: Spiritus
aetheria congaudet lucidus arce; sine carne: Paul. Petric. Mart. 6, 3: Lege obitus, carnisque tuae
sine carne superstes. 5. Sic vitam: Ovid. Ibis 64: Sic vitae series tota sit atra tuae; Prosp. ingrat.
1, 507: Sic vitam aeternam acquiri potuisse, vacante; Props. epigr. 82, 12: Sic vitae merito

79
proximus est similis. 7. Coniugis ad natum: Ovid. Epiced. Drusi 425: Coniugis et nati meritum
pervenit ad omnis, / Coniugis et nati, Livia, sospes ope es.

Rustica, pia vedova, morì all’età di sessant’anni il primo di gennaio dell’anno 513,
essendo console in Occidente Flavio Probo.
Il suo epitaffio fu veduto nel sec. XVI da Andrea Alciato nella chiesa di San Francesco
Grande, l’antica basilica naboriana, e fu da lui inserito nella prima redazione dei
Monumenta. In seguito lo aggiunse in appendice al manoscritto dresdense, tra le venti
epigrafi che dice aver tratto dall’antiquissimus codex, con una nota recitante Rusticae
quoque castissima foemina insignis tumulus eleganti hoc epigrammate adiecto, a nobis
repertus hic adscribendus fuit, vel ea potissimum causa quod ab hisdem aedituis (la
predetta basilica, donde aveva tratto anche il precedente epitaffio di Osio) tam male
habitum offendimus ut alieno loco imposita mensa ineptum quoddam sepulchrum
contegeret, necessariumque fuerit vetustam hanc inscriptionem a recentibus naenijs
separare ne earum contagione et ista sordescerent. (f. 166v).
Tutti gli autori successivi (Anonimo Laudense, Fleetwood, Allegranza, Burmann,
Meyer) che hanno offerto l’edizione dell’iscrizione dipendono dall’esemplare alciatino,
compreso probabilmente il Sirmond († 1651)159. Questi è l’ultimo ad attestare la
presenza della lapide nella basilica (Superest adhuc Mediolani in lapide quae nunc est
insertus est ecclesiae S. Francisci), che in seguito andò perduta.
Egli, editore di Ennodio, recensisce il carme tra gli epigrammi del poeta. Infatti una
seconda tradizione dell’epitaffio di Rustica è trasmessa dal corpus ennodiano, che è
stato collazionato dal Vogel per la moderna edizione. Le divergenze con la lezione
alciatina, che occorrono in tutti i codici, sono limitate al v. 5 ove nam è sostituito da sic,
e al v. 6 che nei codici dà sit anziché sat e che il Vogel corregge in cum, ipotizzando,
per offrire una lettura plausibile del verso, che fosse avvenuta un’inversione tra sit del v.
6 e cum del v. 7. Non possiamo dire se le varianti presenti nel corpus ennodiano siano
dovute a una diversa redazione dell’autore o agli errori dei copisti; tuttavia la similarità
al v. 6 (sat A, sit E) e la coincidenza al v. 7 (cum A E) tra le lezioni dei codici e della
trascrizione dell’Alciato sembra negare l’attendibilità della congettura del Vogel. Essa,
se si tiene fede alla copia alciatina, non è necessaria in quanto sat non pone problemi e

159
SIRMOND, Ennodii epigrammata, Parigi 1611.

80
cum al v. 7 regge una proposizione subordinata il cui predicato è ductus accompagnato
da un sottinteso sit o esset.
L’esiguità delle varianti rispetto ai manoscritti di Ennodio e la generale correttezza con
cui Alciato copiò le iscrizioni già presenti nella prima redazione dei Monumenta e nel
codice dresdense poste in appendice alla silloge antica, testimoniano a favore della
fedeltà della sua trascrizione. Ne sembrerebbe un’ulteriore conferma il fatto che chi
aggiunse le note cronologiche e la formula bonae memoriae alla copia dell’Alciato
esibita dal codice dell’Anonimo Laudense, e vide quindi la lapide, non apportò nessuna
variante al testo del carme. La mano è posteriore a quella dell’anonimo redattore del
manoscritto, del sec. XVI, e informa di avere letto le note in candido lapide160.
Queste note non furono trascritte dall’Alciato: forse non le vide perchè furono ritrovate
e unite al carme solo successivamente; o forse evitò consapevolmente di riportarle
ritendendole posteriori rispetto all’iscrizione, come lui stesso, a parere del De Rossi,
sembra dichiarare nel suo commentario quando dice necessariumque fuerit vetustam
hanc inscriptionem a recentibus naenijs separare.
La genuinità della nota è confermata dal formulario utilizzato (l’espressione requiescit
in pace, tipica degli epitaffi cristiani dei primi secoli, gli epiteti religiosa femina e vir
clarus, la formule bonae memoriae e plus minus) e dallo stile della datazione, che indica
il giorno della deposizione secondo il calendario romano (die III eid Ianuarii, cioè il
primo di gennaio) e l’anno secondo la data consolare (probo viro claro consule).

L’attribuzione del carme ad Ennodio, ampiamente attestata dalla tradizione manoscritta,


è corroborata dall’epoca del componimento, dalla sua qualità stilistica e metrica e da
notevoli affinità tematiche ed espressive con l’opera del poeta.
Il componimento è in distici elegiaci privi di irregolarità; i primi due esametri hanno
cesura semiquinaria mentre l’ultimo è scandito da doppia cesura; tutti sono dotati di
dieresi bucolica. È sfruttata la possibilità di computare sia come lunga che come breve
la quantità della seconda sillaba di tibi (tĭbĭ, al v. 3 e tĭbī al v. 6).
Nei primi due distici è espressa la fede nella sopravvivenza dopo la morte, guadagnata
da Rustica grazie a una vita casta. Il tema dell’impotenza della morte, personificata, nei
confronti del giusto è caro ad Ennodio che lo sviluppa in innumerevoli varianti, e in
160
C. URLACHER-BECHT, Les epigramme d’Ennode de Pavie dans les sylloges chrétiennes médiévales de
Milan, in corso di pubblicazione.

81
particolare lo ritroviamo in alcuni epitaffi dedicati a vergini come Melissa e Dalmazia
(carm. 2, 6; carm. 2, 148), pie vedove come appunto Rustica o Eufemia (carm. 2, 130),
caste mogli come Mellesa (carm. 2, 117)161. L’espressione Sors pallida, forse ispirata
da Orazio, è utilizzata da Ennodio anche nel carme in onore del vescovo Geronzio
(carm. 2, 85, 3: Te reparante redit, patitur sors pallida letum) e nell’inno Iam Christus
ascendit polum (carm. 1, 16, 8: Sors inde luget pallida). Il primo verso ha un respiro
ampio, che guadagna slancio grazie alla sospensione creata dall’enjambement, che
posticipa il verbo al verso successivo, e grazie e ai richiami fonici che si creano tra
alcuni vocaboli (perpetuae-pallida; sors-sustulit); segue il ritmo scandito del
pentametro, marcato dall’allitterazione di t che lo percorre per intero.
L’esametro seguente è caratterizzato di nuovo da un ampio movimento determinato dal
ritmo esametrico e dalla preponderanza di vocali aperte (a, e) e di consonanti sibilanti e
liquide (s e r). Il nesso iniziale purior aetherias sembra suggerito da Ovidio (ars 3, 55),
mentre l’espressione aetherias arces per designare le sfere celesti, qui intese come
paradiso, è presente in Ovidio (met. 15, 858; trist. 5, 3, 19) , Virgilio (app. culex 42) e
Valerio Flacco (Argon. 2, 444), ed è utilizzata anche altrove da Ennodio (carm. 2, 95,
7).
L’espressione funera nobilitant vitam castae, al v. 5, può significare che «”i funerali
rendono gloriosa la vita della donna casta, cioè costei, da ignota e inosservata che era
nella sua vita, viene a essere da tutti celebrata per la sua virtù»162. Tuttavia ritengo che
qui il verbo nobilitare non sia utilizzato nell’accezione di “rendere celebre”, ma in
quella di “rendere nobile, eccellente” (così anche in Ennod. carm. 2, 56, 4 e 2, 114, 2),
da mettere in relazione con il verso precedente: la morte ha elevato di grado la virtù
terrena di Rustica perché l’ha resa più pura sgravandola del peso della carne (purior,
sine carne, v. 4).
Nell’ultimo distico il poeta ammira meravigliato (l’interiezione Quod mirum, che
sottintende un est) Rustica perché nella lunga vedovanza è stata capace di riversare sul
figlio l’amore per il marito defunto. Il motivo dell’educazione e della cura della
progenie si ritrova nell’epitaffio per la vedova Eufemia (carm. 2, 130, 7-8: Haec
thalamis fecunda fuit, viduata pudori: / Exemplis natam fecit amare Deum) e insieme a

161
DE RIENZO, Gli epigrammi, 36-48.
162
CUSCITO, Donne illustri.

82
quello della castità completa il ritratto della donna esprimendo le qualità principali in
cui si realizzano i compiti di una bona vidua (una di queste era inoltre la carità ai
bisognosi, qui non menzionata).

83
11. Epitaffio di Costanzo, (sec. VI)

Ingenii legumque potens Constantius atra


Mortis sorte iacens conditur his tumulis.
Hinc gemat hunc Probitas, tristis suspiret Honestas
Et comitis funus plangat amica Fides.
5 Quis per bella fori totiens de iure triumphum
Retulit et saevos perculit ore reos?
Ornavit proprio semper fulgore togatus
Eloquio mores, moribus eloquium.
Non multum, Mors dira, noces in funere iusti,
10 Nil tua tela gravant: possidet astra pius.

Potente per ingegno e conoscenza della legge, Costanzo, soggiacendo al fosco destino
della morte, è sepolto in questo tumulo. D’ora in poi si dolga per lui la probità, triste
sospiri l’onestà e l’amica fede pianga la scomparsa del compagno. Chi tante volte nelle
schermaglie del foro riportò il trionfo con le armi del diritto e annientò con le parole
spietati colpevoli? Vestito sempre dello splendore della toga, abbellì con l’eloquio i
costumi e con i costumi l’eloquio. Non puoi, morte crudele, nuocere molto alla salma
del giusto, non lo vessano i tuoi dardi: l’uomo pio possiede le stelle.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833 f. 43r [= P].

Ed. CIL V 2, 617 n. 8; ICUR II 1, 164 n. 8; FORCELLA-SELETTI, 186 n. 180.

1. Ingenii potens: Claud. carm. 8, 5: Cernis ut armorum proceres legumque potentes; cfr. Ven.
Fort. carm. 6, 1A, 38: Ingenio vultu nobilitate potens; cfr. Ven. Fort. carm. 8, 1, 16:
Ingeniumque potens ultima Thule colit; legumque potens: Claud. carm. 8, 5: Cernis ut armorum
proceres legumque potentes; atra mortis sorte: Sen. Oed. 164: Mors atra avidos oris hiatus;
Iuvenc. evang. 2, 651-652: Iudicumque illi non est, sed migrat ab atra / morte. 2. sorte iacens:
Mart. epigr. 10, 71, 4: Nulli sorte iacent candidiore senes; carm.ep. 1413, 2: Mundo flente
iacens, conditur hoc tumulo. 3. Carm. ep. 526, 10: Hunc flevit populus pius, hunc miseri
ingemuere parentes, carm. ep. 1173, 1: Flet domus et cari lugent sine fine parentes. 4. cfr. Ven.
Fort. carm. 10, 18, 8: Atque boni comitis crescat honore fides; amica fides: Cypr. Gall. Ios. 313:
Mansit amica fides; sed ius commune negatum est; cfr. Ven. Fort. Mart. 4, 589: Cuius amica
fides tantum tibi contulit arcis. 5-6. Ovid. Pont. 4, 6, 29-30: Ut qui, quid valeas ignoret Marte
forensi / Posse tuo peragi vix putet ore reos; ibidem 35-36: Hostibus eveniat, quam sis violentus
in armis / Sentire et linguae tela subire tuae; bella fori: Ovid. trist. 3, 12, 18: Cedunt verbosi
garrula bella fori; de iure triumphum retulit: Drac. laud. Dei 3, 451: Poscit ab igne neces,
hostis sua iure triumpho; Ovid. trist. 4, 2, 71: Is quoque iam serum refert veteremque
triumphum; Ovid. Pont. 2, 1, 63: Hunc quoque carminibus referam fortasse triumphum; rettulit
iniziale: Ovidio, Fortunato, altri; saevos perculit ore reos: Ov. met. 4, 628: Grandine militia
perculit arma sua; Claud. carm. 8, 90: Damnat voce reos, petiit quos Marte tyrannos; Prisc.
Anast. 1, 78: Viribus Augustus sic saevos perculit hostes. 7-8: cfr. Ven. Fort. carm. 1, 15, 105-
106: Moribus ingenio meritorum luce coruscans / Ornavit sexum mens pretiosa suum; Seren.

84
med. 1038: Qui veteri claras expressit more togatas. 9. Ennod. carm. 2, 2, 1-2: Numquam morte
perit meritis post busta superstes, / Funera sublimem non capiunt animam; Ennod. carm. 2, 117,
9-10: Nil mihi decessit, maneo post busta superstes / Felices numquam mors nocitura petit; cfr.
Ven. Fort. carm. 6, 5, 325: Errasti, mors dura , nimis: cum tollere matrem; carm. ep. 1408, 7:
Nil tibi mors nocuit, cum hic vivis laude perenni; carm. ep. 1440, 7: Sed tibi nil potuit mors
haec tam saeva nocere. 10. Nil tua tela gravant: Ovid. Am. 2, 1, 19: Iuppiter, ignoscas: nil me
tua tela iuvabant; Damas. carm. 99, 5: Nil gravat hoc tumulo sanctorum pessimus hostis; Ennod.
carm. 2, 110, 4: Quod meritis constat proelia nulla gravant; cfr. Ven. Fort. carm. 4, 26, 79:
Felices quos nulla gravant de morte secunda; possidet astra pius: Merob. carm. 1, 6: Lucida ceu
summi possidet astra poli; carm epigr. 1345, 6: Proxima sed Christo sidera celsa tenet.

Costanzo, avvocato di chiara fama, è tradizionalmente identificato nel destinatario di


alcune epistole di Ennodio († 521)163; la stile e le citazioni presenti nell’epitaffio
concorrono a collocarne la composizione all’inizio del sec. VI.
L’epitaffio è animato da un potente afflato retorico che con solennità e varietà di accenti
evoca la vita del personaggio, identificata totalmente con la sua brillante e integerrima
attività forense. Il carme, sviluppandosi in distici sintatticamente chiusi, recupera le
forme dell’oratoria alternando la logica della dimostrazione, il docere et probare, al
movere et flectere tramite le immagini e i toni del discorso, senza rinunciare a delectare
con le figure di suono e i richiami colti.
Lo schema è tradizionale: nel primo distico sono indicati il nome del defunto e il
sepolcro, cui si aggiunge, nel secondo, il motivo del planctus; i versi centrali ne
ricordano la vita e i meriti; il distico conclusivo ne proclama la salvezza dalla morte
ribaltando la situazione iniziale.
Sono però i toni a determinare il carattere di arringa dell’epitaffio: esso inizia con il
presente immobile che indica la sepoltura; prosegue innalzando il livello retorico a toni
patetici con la personificazione e il congiuntivo esortativo del secondo distico;
raggiunge l’acme nell’interrogazione retorica dei vv. 5-6 e la perentoria affermazione
dei vv. 7-8 ; trae le conclusioni, giungendo a confutare l’autorità della morte sull’uomo
pio, con accenti che passano dall’apostrofe rivolta alla morte stessa alla sententia finale.
L’andatura cadenzata e solenne del primo verso, impressa dalle cesure tritemimere ed
eftemimimere e dall’allitterazione in nasale e gutturale, si sfuma nell’enjambement
finale ove atra si riferisce a sorte del verso successivo, e prosegue nel pentametro, ove,
in sede di cesura, iacèns corrisponde grammaticalmente e metricamente a potèns del v.

163
M. F. ENNODII Epistulae, a c. di S. GIOANNI, Parigi 2010: II, 17, 19-20; IV, 13.

85
1 e conditur richiama Constantius per assilabazione; il distico è suggellato
dall’omoteleuto in arsi hìs tumulìs. In posizione chiave e enfatizzato dal suono
paronomastico, il sintagma atra mortis sorte ha un’eco classica e introduce una
caratterizzazione forte della morte e del lutto che culmineranno nella scena del pianto
allegorico e nell’apostrofe finale. Il confronto tra il corollario lessicale di questi concetti
(atra, v. 1; mortis sorte, tumulis, v. 2; gemat, tristis, suspiret, v. 3; funus, plangat, v. 4;
Mors dira, noces, funere, v. 9; tela, gravant, v. 10) e il gruppo semantico della giustizia
e della pietà (legum, v.1; Probitas, Honestas, v. 3; amica Fides, v. 4; de iure, v. 5; pius,
v. 10) rivela il nucleo ideologico dell’elogio di Costanzo: il giusto, colui che persegue la
verità e smaschera i malvagi, ed è coerente nella condotta di vita, vince la malvagità
della stessa morte.
Nel secondo distico abbiamo il motivo, topico nei carmi funerari, del pianto per la
morte del personaggio ma qui, anziché i parenti gli amici e la patria, a condolersi sono
le stesse virtù, personificate, che costituiscono i fondamenti della giustizia: la
rettitudine, il senso dell’onore, la fiducia, che hanno perso con Costanzo il loro
paladino. L’ampia ossatura dattilica del terzo verso è scandita dalla paronomasia di hinc
e hunc, entrambi accentati, dall’allitterazione in t e s del secondo emistichio,
dall’omoteleuto tra i due emistichi. I soggetti Probitas e Honestas sono posposti al
verbo per occupare le sedi chiave del verso, e lo stesso avviene con plangat e Fides nel
pentametro; questo è strutturato su un parallelismo che è sia semantico (tra comitis e
amica) che fonico (tra funùs e fidès).
Il terzo distico, in forma di interrogazione retorica, presenta attraverso una metafora
militare (bella fori, triumphum, v. 5; perculit, v. 6) l’immagine di Costanzo vincitore e
giustiziere del foro ed è costruito sulla falsariga dell’elogio che Ovidio nelle Epistole
dal Ponto fa dell’amico oratore Bruto (Ovid. Pont. 4, 6, 29-30: Ut qui, quid valeas
ignoret Marte forensi / Posse tuo peragi vix putet ore reos; ibidem 35-36: Hostibus
eveniat, quam sis violentus in armis / Sentire et linguae tela subire tuae), non citando
direttamente il brano ma ricostruendolo tramite l’utilizzo di sintagmi e cola provenienti
da altri luoghi dello stesso autore (bella fori, triumphum finale, retulit iniziale, perculit,
ore reos). Bisogna inoltre notare il parallelismo fonico tra i due emistichi del v. 6
(Rètulit èt saevòs pèrculit òre reòs), caratterizzata da assonanza, allitterazione e
omoteleuto.

86
Il quarto distico suggella l’elogio proclamando la coerenza tra parole e costumi di
Costanzo, fusi in uno dal preziosissimo v. 6 che incardina il poliptoto di eloquium e
mores in un chiasmo e un parallelismo grammaticale. Significativa è la scelta lessicale
del participio in proprio semper fulgore togatus al v. 5, che specifica il generico fulgore,
ovvero intende che Costanzo fosse sempre, anche nella vita privata, rivestito delle
luminose qualità che manifestava nel foro.
Il carme si conclude con l’apostrofe alla Mors dira. Gli ultimi due versi sono scanditi da
un’incalzante tessuto fonico: il v. 9 è caratterizzato da doppia cesura e dalla ripetuta
allitterazione in nasale; il v. 10 dal nesso tua tela e dall’allitterazione di p e s. Vengono
così enfaticamente sancite l’impotenza della morte nei confronti dell’uomo giusto
(rielaborando motivi presenti in Ennodio) e l’identificazione finale di giustizia e pietà.

87
12. Epitaffio del vescovo Magno, sec. VI

Virtute, officio, meritis et nomine Magnus


Forma quidem, speculum, lux et imago Dei;
Claruit insignis ditatus munere Divi,
Viribus ex totis semper amando deum.
5 Non laetis umquam extolli nec tristibus isce
Confringi novit, spes cui certa Dei.
Ferre manum fessis, nudos vestire paratus
Captarumque gravi solvere colla iugo,
Sustinuit magni promissa praemia regni
10 Devincens hostis tela magna sui.

Per il suo valore, i suoi uffici, i meriti e per il nome stesso, Magno fu impronta,
specchio, luce e immagine di Dio; insigne rifulse arricchito dalla grazia del Signore,
amandolo sempre con tutte le forze. Egli, che possedeva la sicura speranza di Dio, non
seppe mai insuperbirsi per gli eventi lieti né abbattersi per i luttuosi. Risoluto nel
prestare aiuto ai deboli, nel vestire gli ignudi e nel liberare il collo dei prigionieri da un
duro giogo, fu degno dei premi promessi del gran regno debellando i potenti dardi del
suo nemico.

Milano, Biblioteca del Capitolo Metropolitano, II E 2 8 (Goffredo) [= G].


Milano, Biblioteca Ambrosiana, V 35 sup., f. 65rv (Fontana) [= F].

Ed. MONNERET, Liber notitiae, 272B (G); CIL V 2, 621 n. 10 (F, A); ICUR II 1, 180 n. 10.

1 officio F ] offitio G; 3 ditatus F ] ditatur G; Divi F ] clivo G; 4 deum F ] bonum G; 5 laetis F. ]


letis G; umquam G ] unquam F; 6 novit F ] vovit G; Dei F ] Deus G; 7 manum F ] manuum G; 9
sustinuit G ] substinuit F; magni F ] magna G; praemia corr. ] premia F, G; tela F ] tella G; 11
additum in G Regnante domino nostro ihesu christo.

Dresden, Sächsische Landesbibliothek, F 82 b, f. 159r (Alciato) [= A]; unde Milano, Biblioteca


Ambrosiana, V 35 sup., f. 65r (Fontana).

Ed. CIL V 2, 620 n. 10.

Virtute officio meritis et nomine Magnus


Coelestis specimen vitae, et imago fuit.
Non laetis unquam attolli nec tristibus ullis
Confringi potuit spes cui certa Dei.
Ferre manum fessis, nudos vestire paratus
Captorumque gravi solvere colla iugo,
Obtinuit magni promissa palatia regni
Devincens hostis taedia magna sui.
Anno Salutis DXXXVI Kalendae

88
Novembris

1. Meritis et nomine Magnus: Lucan. Phars. 8, 549: Pellite, si meruit tam claro nomine
Magnus; cfr. Coripp. Iust. 1, 22: Nec non magnanimus, meritis et nomine Magnus. 2. Prosp.
epigr. 69, 14: Sit forma et speculum, lux et imago Dei. 3. Claruit insignis: Carm. ep. 1395, 7:
Claruit insignis regno gratusque minister; ditatus munere: carm. ep. 709, 5: Industria sensuum
ditatus munere amplo; Ambr. nat. rer. 61: A simili tanto ditatur munere terra; munere Divi:
Prop. eleg. 2, 3, 25: Haec tibi contulerunt caelestia munera divi; cfr. Ven. Fort. carm. 10, 6, 95:
Martinum illustrem meritis, qui munere divo. 4. Prosp. epigr. 69, 11-12: Noverit ergo Deum
sapiens, totisque medullis / Diligat, inque ipso se quoque amator amet; Mt. 22, 37: Diliges
Dominum Deum tuum in toto corde tuo et in tota anima tua et in tota mente tua; viribus ex totis:
Orient. comm. 1, 317: Viribus et totis et totis nitere votis; Hymn. Christ. 63, 3: Viribus totis
Domino canamus; semper amando Deum: Ennod. epist. 5, 7, 10: Dum docet exemplis semper
amare Deum; Paul. Nol. carm. 22, 32: Incipies et amando Deum redamabere Christo. 5. Anth.
Lat. 716, 2: Non laeta extollant animum, non tristia frangant; idem versus Alcuin. carm. 62,
101; nec tristibus: Claud. carm. 26, 117: Consilio momenta regens, nec tristibus impar. 6. Spes
cui certa dei: Cypr. Gall. exod. 691: Spes mihi certa Dei, cuius protectio semper; Mar. Victor.
Aleth. 2, 302: Spes fit certa Dei . Datur en quae pectoris aegris; Ovid. trist. 5, 8, 22: Non est
placandi spes mihi nulla dei; Ennod. carm. 2, 15, 2: Spes ut certa piis hospitibus veniat. 7-8. Mt.
25, 34-36: Tunc dicet rex his qui a dextris eius erunt: venite, benedicti Patris mei, possidete
paratum vobis regnum a constitutione mundi: esurivi enim et dedistis mihi manducare, sitivi et
dedistis mihi bibere, hospes eram et collexistis me, nudos et operuistis me, infirmus et visitastis
me, in carcerem eram et venistis ad me; Prosp. epigr. 79, 5-8: Maior cura boni est, fratrum
relevare laborem / Et ferre optatum tristibus auxilium / Pascere ieiunos, nudos vestire, ligatos /
solvere, discordes conciliare sibi; Prosp. epigr. 101, 8: Captaque servili subdere colla iugo; cfr.
Ven. Fort. carm. 9, 9, 18-19: Nudos veste tegis captivo vincula solvens / Deposito reddens
libera colla iugo; ferre manum fessis: Verg. Aen. 5, 403: Ferre manum duroque intendere
brachia tergo; Lucan. Phars. 1, 147: Ferre manum, et numquam temerando parcere ferro; cfr.
Arator apost. 1, 330: Ad Christi vis ferre manum neque cernere quantum; Paul. Nol. carm. 18,
256: Te requiem fessis deus afflictisque levamen; Coripp; Ven. Fort. carm. 6, 3, 19: Pauperibus
fessis tua dextera seminat escas; nudos vestire: Damas. carm. 33, 6: Haec mihi cura fuit, nudos
vestire petentes; gravi iugo: Sen. Octavia 839: Malis domanda est et gravi semper iugo; solvere
colla: Verg. georg. 2, 542: Et iam tempus equum fumantia solvere colla; colla iugo: clausola
finale molto frequente, presente in Prop., Ovid., Claud., Prud., Paul. Nol., Prosp., Ven. Fort.. 9.
Promissa praemia regni: Cypr. Gall. num. 318: At Iudea phalanx promissa ad praemia tendens;
Auson. Caes. 80: Umbra tamen brevis imperii, quia praemia regni; Syll. Elnon. 1, 32: In gremiis
patrum caelestis praemia regni. 10. Damas. carm. 86A, 1-2: Intonuit metuenda dies, surrexit in
hostem / Impia tela mali vincere cum properat.

San Magno164 fu il 25° vescovo di Milano e visse nella prima metà del sec. VI. Nelle
liste episcopali gli vengono assegnati trent’anni di pontificato, che bisogna certamente
ridurre poiché il predecessore Eustorgio II si insediò nel 510/512 mentre il successore
Dateo era già vescovo dal 535/536. Poche notizie si hanno del suo episcopato e il suo
epitaffio fornisce informazioni perlopiù vaghe e improntate su convenzionali stilemi

164
Liber notitiae 271D-272ABC; AA. SS. Nov. III, 60-61; SAVIO, Milano, 221-24; A. RIMOLDI,
Magno in BS, VIII, 546; A. MAJO, Magno, in DCI, 1844.

89
elogistici. Al v. 8 è menzionata la sua intercessione per la liberazione di alcuni
prigionieri, che fu messa in relazione con una lettera che Avito di Vienne indirizzò ad
un vescovo italiano lodandone la carità verso i prigionieri di guerra. L’identificazione di
tale vescovo con Magno è però sostenuta solo dal Sirmond († 1651) e non sappiamo su
quali basi; il Peiper, editore delle opere di Avito, sostiene che il destinatario sia invece
Massimo vescovo di Pavia165.
L’appartenenza di Magno alla famiglia milanese dei Trincheri, risalente a un anonimo
biografo dei vescovi del sec. XIII e testimoniata anche dall’Alciato (famaque est ex
Tincheria gente ortum fuisse), è priva di fondamento166.
Notizie più fondate sono invece quelle che riguardano il suo luogo di sepoltura, da
identificarsi nella basilica di Sant’Eustorgio: ciò è testimoniato dall’Itinerarium
Mediolani della fine del sec. VIII ove il vescovo è citato tra gli altri santi inumati in tale
chiesa (sanctus storius confessor et sanctus magnus confessor et sancta eugenia
confessor). Anche se ignoriamo il motivo della scelta della basilica di Sant’Eustorgio
per la propria sepoltura, dopo che i tre predecessori avevano prediletto la chiesa di San
Lorenzo, è interessante constatare che Magno fu il primo dei vescovi milanesi a porre le
proprie spoglie sotto la protezione di uno dei santi vescovi predecessori. Il suo nome
ricompare poi soltanto nelle litanie del sec. XI.

Il titolo in suo onore è pervenuto solo attraverso la tradizione che fa capo all’antica
silloge milanese: è presente infatti nel Liber notitiae di Goffredo da Bussero, che lo
riporta senza nessuna indicazione sulla sua collocazione o composizione nel paragrafo
dedicato alla memoria di Magno (pur dicendolo sepolto a Sant’Eustorgio: forse il titolo
è già scomparso), nell’antiquissimus codex dell’Alciato, che vi aggiunge una nota
cronologica nello stile del sec. XVI; nella vetus membrana del Fontana. La
composizione del titolo è contemporanea o non di molto successiva alla deposizione del
vescovo, e sembrano comporovarlo le numerose citazioni di poeti cristiani dei sec. V e
VI.

Questa iscrizione non è organizzata secondo le consuete forme della poesia funeraria
che prevedono, suddivise più o meno regolarmente nei vari distici, la menzione della
165
SAVIO, Milano, 222.
166
SAVIO, Milano, 223-24.

90
sepoltura, gli anni di vita o di governo, la dedica, la salita al cielo del defunto. Pur
essendo presenti alcuni di questi elementi, l’epitaffio di Magno ha una struttura più
libera e narrativa, conformemente al modello di epitaffio vescovile che abbiamo
ravvisato nel carme per il vescovo Glicerio.
È soprattutto notevole l’assenza dell’annuncio della deposizione, solitamente occupante
il primo distico, essenziale in testi che avevano la funzione, oltre a quella di
commemorare il defunto, soprattutto di annunciarne il lutto.
Appare perciò plausibile avanzare l’ipotesi, sulla scorta anche dell’analisi delle fonti
poetiche, tra le quali alcune forse appartengono alla seconda metà del sec. VI, che il
carme in onore di Magno non sia un epitaffio in senso stretto, ovvero scritto
contemporaneamente alla morte del personaggio come parte integrante della
commemorazione funeraria e dell’elaborazione del lutto, ma una memoria posta qualche
tempo dopo la morte di Magno, forse per volere di uno dei successori, presso il suo
sepolcro; il che le varrebbe comunque il carattere di iscrizione funeraria.
Tuttavia si può prescindere da questa ipotesi mettendo in relazione l’eccezionalità del
presente carme con il recente modello degli elogi dei vescovi redatti da Ennodio per la
basilica di San Nazaro.
La conoscenza di tali componimenti è palesata già nel primo distico, ove la figura di
Magno è introdotta da un’accumulatio elogistica tipica in Ennodio. Inoltre, nonostante
gli ablativi del v. 1 siano collegati grammaticalmente ai nominativi del v. 2, sorge
un’ambiguità originata dal nome del pontefice: leggendo il primo verso essi sembrano
riferiti come complemento di limitazione al nome Magnus, che, secondo un
procedimento tipico in Ennodio (ad es. carm. 2, 95), assume la doppia valenza di nome
e aggetivo indicante una qualità morale.
Questo primo distico è costruito sul parallelismo dei membri tra esametro e pentametro,
e non mi sembra forzato intendere in maniera puntuale questo paragone istituito tra
Magno e l’Altissimo: egli nella sua virtù (virtute) rivela l’aspetto (forma) di Dio, nel suo
ufficio pastorale (officio) ne rispecchia (speculum) la funzione di Padre dei fedeli,
tramite i suoi meriti (meritis) ne fa rifulgere la luce (lux) sulla terra, il suo nome
(nomine) è immagine veritiera (imago) del Signore poiché ne rappresenta la grandezza.
Il secondo emistichio del primo verso potrebbe essere una prova per la datazione del
carme alla seconda metà del sec. VI, poiché lo ritroviamo identico nel Panegyricus in

91
laudem Iustini Augusti di Corippo, redatto tra 565 e 578 (Coripp. Iust. 1, 22: Nec non
magnanimus, meritis et nomine Magnus). Tuttavia l’ignoto poeta potrebbe anche essersi
ispirato a un verso molto simile di Lucano (Phars. 8, 549: Pellite, si meruit tam claro
nomine Magnus).
Il secondo verso è ripreso ad litteram, salvo un adattamento grammaticale, da un
epigramma di Prospero d’Aquitania (Prosp. epigr. 69, 14: Sit forma et speculum, lux et
imago Dei), che contiene un’esortazione morale rivolta al sapiente. L’elogio di Magno è
quindi modellato sulla figura del sapiente quale è delineato da Prospero in questo
epigramma, e ne abbiamo la conferma al v. 4 (virbus ex totis semper amando deum) che
sembra rifarsi ad un verso dello stesso carme (ibidem 11-12: Noverit ergo Deum
sapiens, totisque medullis / Diligat), oltre che al comandamento evangelico di Mt 22,
37.
I due distici successivi proseguono l’elogio in forme convenzionali: Magno rifulse
arricchito della grazia di Dio (v. 3, costruito con stilemi tipici dei carmina epigraphica),
amò il Signore con tutte le sue forze (v. 4, ove il primo emistichio è ispirato da
Prospero, il secondo forse da un emistichio ennodiano), mai si insuperbì nella letizia né
abbattè nelle avversità (vv. 5-6, e non pare un riferimento all’incertezza dei tempi
vissuti dal presule ma un altro topos epigrafico: Anth. Lat. 716, 2), poiché possedeva la
certezza della fede in Dio (v. 6, tratto da un poeta cristiano del sec. V, Mario Vittore o
più probabilmente Cipriano Gallo). Si noti il poliptoto in epifora della parola Deus,
ripetuta nei primi tre pentametri (dei, v. 2; deum, v. 4; deus, v. 6); al v. 3, sempre in
posizione finale, si ha la variazione divi.
Nel quarto distico le lodi di Magno sembrano farsi meno generiche per riferirsi alla sua
concreta attività pastorale: tuttavia nel delineare le opere di misericordia del vescovo, è
tenuto esplicitamente presente il modello evangelico quale è delineato in Mt 25, 35-36:
esurivi enim et dedistis mihi manducare, sitivi et dedistis mihi bibere, hospes eram et
collexistis me, nudos et operuistis me, infirmus et visitastis me, in carcerem eram et
venistis ad me. Lo zelo del pontefice viene comunicato attraverso l’accumulazione
verbale: infatti nei due versi occorrono tre infiniti, tutti dipendenti da paratus. Anche
qui il tessuto lessicale è ordito su citazioni di poeti classici e cristiani: ferre manum (v.
7) è espressione presente in Virgilio e Lucano, e ad essa nell’emistichio è aggiunto
fessis, che forma allitterzione; nudos vestire è si trova in Damaso; solvere colla in

92
Virgilio; colla iugo è una clausola finale attestata in innumerevoli poeti classici e
cristiani.
L’ispirazione del distico però proviene ancora una volta dall’opera di Prospero di
Aquitania, che il nostro autore doveva avere ben presente e che ben si prestava
all’intento elogistico per i suoi numerosi ritratti di virtù: Maior cura boni est, fratrum
relevare laborem / Et ferre optatum tristibus auxilium / Pascere ieiunos, nudos vestire,
ligatos / solvere, discordes conciliare sibi (Prosp. epigr. 79, 5-8) e, per la struttura del v.
6, Captaque servili subdere colla iugo (Prosp. epigr. 101, 8). È evidente come il poeta
abbia preso spunto dai versi degli epigrammi di Prospero e li abbia poi rielaborati
attraverso sintagmi che gli erano familiari grazie alla sua istruzione scolastica.
Il distico finale dichiara che Magno, vincendo la morte, ha meritato il premio della vita
eterna. I due versi hanno la medesima struttura grammaticale (verbo-attributo del
complemento indiretto-complemento oggetto e suo attributo-complemento indiretto).
Nell’esametro i promissa praemia formano un nesso allitterante; il pentametro è
sostenuto retoricamente da una metafora militare (devincens, hostis, tela). In entrambi i
versi ricorre, in diverso contesto e con diverso caso grammaticale, l’aggettivo magnus,
che richiama il nome del vescovo e ne sigilla circolarmente l’epitaffio.

93
13. Epitaffio di ignoto, (sec. VI)

Hic positis membris purus perrexit ad aethram,


Omnibus, heu, flendus civibus et patriae.
Quem generosa domus longo sibi credidit aevo
Mansurum columen, tristia non metuens:
5 More suo ludens homines Fors perdita semper
Monstratas rapuit spes properante die.
Vix vitae quinis lustris compleverat aevum,
Cum suprema dies intulit exitium.
Quattuor hic annis vixit cum coniuge sancta,
10 Mox ratus est melius vivere, Christe, tibi.
Utilior cunctis sententia nata secunda:
Nam Cristus vitam dat sine fine suis.

Deposte qui le membra, puro si diresse all’etere: ogni cittadino e la patria stessa lo
devono piangere. La nobile casa, non temendo eventi luttuosi, credette che sarebbe
rimasto suo sostegno per lungo tempo ma la Sorte sempre rovinosa, celiando gli uomini
come sua usanza, rapì le speranze mostrate in un batter di ciglio. A malapena aveva
colmato l’età della sua vita di cinque lustri, quando il giorno supremo lo condusse alla
fine. Egli visse quattro anni con la coniuge santa ma presto si convinse fosse meglio
vivere per te, o Cristo. Fu più utile a tutti la decisione nata per seconda: infatti Cristo
concede una vita senza fine ai suoi.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833 ff. 43rv [= P].

Ed. CIL V 2, 617 n. 10; ICUR II 1, 164 n. 9; FORCELLA-SELETTI, 194 n. 188.

2 patriae ] patrie P, corr. Mommsen; 7 vitae ] vitam P, corr. Mommsen.

1. Carm. epigr. 778, 6: Membra solo posuit caeli perrexit ad astra; Lact. Phoen. 159: Sed
postquam puri pervenit ad aetheris auras; aethra: in posizione finale frequente in Iuvenc.,
Avien., Coripp. 2. Omnibus heu flendus: Prop. eleg. 4, 3, 17: Omnibus heu portis pendent mea
noxia vota; Paul. Pell. euch. 283: Omnibus heu! nimium blandis magnisque refertae; civibus et
patrie: Ven. Fort. carm. 5, 8, 8: Civibus et patriae te revocasse diem. 3. Generosa domus: Verg.
Aen. 10, 141: Maeonie generose domo, ubi pinguia culta; Ovid. fast. 2, 225: Quo ruitis,
generosa domus? Male creditis hostis; sibi credidit: Prud. apoth. 1, 1023: Qui non indignum
quondam sibi credidit ipsum. 4. Mansurum columen: Ovid. met. 15, 621: Postibus insculpunt,
longum mansura per aevum; Opt. Porf. carm. 2, 24: Eximium columen veterum virtute fideque;
Ennod. carm. 1, 8, 4: Mansurum dabitur pollicis ore sophos; Alc. Avit. carm. app. 6, 1:
Sceptrorum columen, terrae decus et iubar orbis; Ven. Fort. carm. 1, 15, 91: Ecclesiae columen,
per tempora longa gubernes; tristia non metuens: Stat. Theb. 8, 490: Et non hoc metuens
inopino limine vita; Drac. laud. Dei. 3, 463: Non iram metuens clari post bella senatus; Ennod.
Reth. 10: Nil dubium metuens ars mihi regna dedit; Coripp. Ioh. 4, 144: Non mortem metuens

94
iter irremeabile transit. 5. More suo ludens: Coripp. Iust. 4, 92: More suo currens totum
compleverat orbem; Fors: Luc. Phars. 4, 503: Abscidit nostrae multum Fors invida laudi;
frequente in Anth. lat. e Coripp. 6. Monstratas: Manil. astr. 1, 740: Monstratas liquisse vias
orbemque recentem; rapuit spes: Lucan. Phars. 6, 29: Hic avidam belli rapuit spes improba
mentem; properante die: Ven. Fort. carm. 4, 25, 8: Hic properante die Theodechilde iacet; Ven.
Fort. carm. 4, 17, 4: Festinante die raptus ab orbe iacet; Ven. Fort. carm. 9, 4, 10: Accelerante
die sors inimica tulit. 7. Carm.ep. 1245, 1: Bis denos vitae qui vix compleverat annos; carm.ep.
1314, 2: Quae iam vix vitae impleverat annos; vix vitae: Mart. epigr. 1, 15, 4: Et enumerat
paucos vix tua vita dies; Coripp. Iust. 2, 376: Vix nobis vitae constant alimenta diurnae. 8.
Suprema dies: Luc. Phars. 10, 41: Occurrit suprema dies, naturaque solum; Alc. Avit. carm.
app. 21, 14: Cum dedit hanc sedem morte suprema dies; Alc. Avit. carm. app. 12, 19: Haec
suprema dies, caelesti in limite prima; intulit exitium: Ovid. met. 6, 383: Rettulit exitium, Satyri
reminiscitur alter; Lux. anth. 335, 4: Signatum veluti contulit exitium; Ennod. carm. 1, 2, 20:
Dum lacerat Christus; perculit exitium. 9. Carm. ep. 640, 1: Nomine quae Solida vixit cum
coniuge sanctae; carm. ep. 469, 5: Florentine decus cum coniuge sancta pudica; carm. ep. 512,
8: Vitam; cum potui, gratam habui cum coniuge sanctam. 10. Paul. Nol. carm. 32, 3: Sed nihil
inveni melius quam credere Christo; vivere, Christe, tibi: Paul. Nol. carm. 10, 284: Mentis ut
errorem credat sic vivere Christo; Paul. Nol. carm. 31, 499: His monitis sanctam discamus
vivere Christi; Paul. Nol. carm. 21, 848: Hos tu, Christe, tibi, praesta uberate perenni; 11.
Ennod. carm. 1, 9, 85: Una fuit cunctis sententia fixa catervis. 12. Paul. Nol. carm. 31, 446:
Christe, tuis vitam qui sine fine dabis; Sedul. hymn. 1, 72: Ad vitam Christum suscitat ecce
genus.

Di questo elegante epitaffio, il nono componimento tra quelli riportati dalla silloge del
codice palatino, rimane ignoto il protagonista, il cui nome era forse inscritto sul tumulo
che l’anonimo compilatore della raccolta non ha potuto vedere. Conosciamo dai versi
stessi che egli era il rampollo di una nobile casata, e pare di capire dai vv. 3-4 che ne
avesse già assunto la guida; visse fino all’età di venticinque anni e fu sposato per
quattro.
Problematica è l’interpretazione dei vv. 9-12: il testo dice che dopo quattro anni di
matrimonio egli decise di vivere con Cristo (vivere, Christe, tibi, v. 10), espressione che
echeggia la formula epigrafica vivere in Christo, che aveva il significato di “essere
risorto in Cristo”. Credo però che qui l’autore non voglia significare che il matrimonio è
stato interrotto dalla morte del nostro personaggio: in primo luogo la differenza
grammaticale tra le espressioni vivere Christo e vivere in Christo non è riducibile a puri
motivi metrici o stilistici, l’una intendendo un vivere dedicato a Cristo, l’altra il
continuare a vivere dopo la morte nel suo mistico corpo; inoltre il sintagma vivere,
Christe, tibi è posto in evidente parallelismo con vivere cum coniuge sancta del verso
precedente (come avviene anche nell’epitaffio di Diogenia: quae viduata viro vixit
amica Deo, v. 2), ponendo a mio parere una contrapposizione tra due stadi della vita
terrena del defunto, il vivere come sposo nei confronti della moglie, prima, e il vivere in

95
castità come a sposo a Cristo, poi; infine i termini ratus (v. 10) e sententia (v. 11),
escludono del tutto la sopraddetta interpretazione in quanto presuppongono un’attiva
decisione del nostro personaggio in questo mutamento di condizione.
In base a tali considerazioni si possono proporre due differenti letture: o entrambi i
coniugi decisero di vivere in castità, decisione forse coincisa con il ritiro della moglie in
un monastero (potrebbe confermare tale interpretazione utilior cunctis sententia al v. 11,
ove cunctis si riferisca ai due sposi); oppure, ipotesi che mi sembra più probabile, il
nostro decise, dopo la morte della moglie, sottintesa dal v. 9, di vivere i suoi restanti
giorni in castità, in maniera analoga alle bonae viduae.

Il testo non apporta nessuna indicazione cronologica né alcuna notizia utile a definire
l’epoca del componimento. La presenza di stilemi mutuati da Venanzio Fortunato e, in
misura minore, Corippo può suggerire una datazione alla seconda metà del sec. VI;
occorre tuttavia cautela nel servirsi delle citazioni di Fortunato per datare il carme dal
momento che egli, nella sua lunga attività di scrittore di epitaffi, attinse largamente a un
patrimonio ormai consolidato di carmina epigraphica. Due citazioni in particolare ci
fornirebbero alcuni termini post quem per la datazione dell’epitaffio: al v. 2 troviamo
l’emistichio civibus et patrie, utilizzato da Fortunato nell’epigramma per il ritorno a
Tours dell’arcivescovo Gregorio (Ven. Fort. carm. 5, 8); l’espressione properante die è
invece tolta dall’epitaffio dello stesso autore per la regina franca Teodechilde (Ven.
Fort. carm. 4, 25), deceduta attorno all’anno 576. Non mi sembra opportuno spostare la
datazione del carme oltre gli ultimi tre decenni del sec. VI, inoltrandolo così nel pieno
della dominazione longobarda, poiché il livello dello stile e della lingua sono ancora
elevati e ancora vitale è il legame con la letteratura classica. Inoltre è largamente
testimoniata l’influenza di poeti cristiani del IV-V sec. come Paolino di Nola e del V-VI
sec. come Ennodio († 521) e Avito di Vienne († 518).

La struttura del carme si articola sulle unità tipiche della poesia sepolcrale ma le dilata
caratterizzandole in senso gentilizio. La tradizionale indicazione del sepolcro si salda,
nel primo distico, al tema del planctus, affermando quindi la rilevanza pubblica
dell’evento costituito dalla morte del personaggio; la rievocazione della vita del defunto

96
(vv. 3-10) è ampiamente sviluppata e vi si inseriscono la menzione della famiglia e della
sua posizione all’interno di essa, oltre a quella degli anni di vita e della durata del suo
matrimonio, affidando così la lode del personaggio più alla sua caratterizzazione sociale
che a stereotipi motivi elogistici. Questa stessa sezione è retoricamente nobilitata da
liriche notazioni di sapore classico (vv. 5-6), dagli echi paganeggianti; il carattere
cristiano dell’epigramma è reso esplicito d’altronde soltanto ai vv. 9-12, mentre tutta la
parte precedente attesta il largo riutilizzo, negli epitaffi dedicati a personaggi di nobile
lignaggio, di stilemi classici improntati a una visione pagana della vita e della morte.
Venanzio Fortunato, con la sua vasta produzione epigrafica per la nobiltà franca,
potrebbe essere un modello privilegiato; non è da trascurare inoltre la presenza, più a
livello ideologico che di citazioni letterali, di Ennodio, nei cui epitaffi emerge una
«concezione del valore della discendenza come indicatore della buona inclinazione a
compiere sublimi gesti in vita»167. Si veda ad esempio l’affinità tematica dei vv. 3-6 con
alcuni versi dell’epitaffio di Omobono (Ennod. carm. 2, 1): Spes domus inmensae
modico contecta sepulchro est, v. 3; Non expectatis mors venit ordinibus, v. 6; Quem
subito ex oculis sors inimica tulit, v. 16.

L’incipit recupera due moduli tipici dei carmina epigraphica, la depositio delle membra
nel sepolcro e l’ascesa al paradiso, saldandoli in un unico verso di grande dinamismo: la
sepoltura e la salita al cielo sono visti come un unico movimento, la salvezza viene
presentata come una certezza e il moto ascensionale è scandito dall’allitterazione in
inizio di parola di p e dall’omoteleuto presente nel primo emisitichio (positìs membrìs).
Il lessico è quello tipico del formulario epigrafico: il trapasso all’aldilà espresso con
verbi di movimento (perrexit), l’idea di leggerezza legata a quella di purezza dell’anima
(purus, in relazione al quale vale la pena di ricordare l’epitaffio ennodiano per Rustica:
Purior aetherias graderis sine carne per arces, Ennod. carm. 2, 5, 3), l’identificazione
del paradiso con la sfera più alta del cielo (aethram). Al v. 2 il tema del planctus
introduce come dicevamo la rilevanza pubblica del personaggio e acquista sentenziosa
solennità con il gerundivo (flendus) del primo emistichio e il calco da Fortunato nel
secondo (civibus et patrie).

167
DI RIENZO, Gli epigrammi, 31.

97
Il secondo distico è costruito secondo un raffinato e libero intreccio di fonti ovidiane e
formule della poesia funeraria cristiana. L’espressione generosa domus
(personificazione ottenuta mediante sineddoche), tolta dai Fasti, funge da soggetto a
una frase che si articola in tutto il distico e la cui immagine originaria è tratta da un
emistichio delle Metamorfosi (met. 15, 621: Postibus insculpunt, longum mansura per
aevum) che viene scorporato tra esametro e pentametro per aderire alla sintassi: al v. 3
longum aevum diventa dativo ma mantiene la posizione classica, altrove presente in
Ovidio (am. 1, 13, 35; met. 3, 445 e 15, 306), che vuole l’aggettivo dopo cesura
semiquinaria e il sostantivo nell’ultimo piede; al v. 4 mansura è declinato all’accusativo
maschile e acquisisce rilievo grazie alla posizione iniziale e al doppio accento metrico.
Il participio futuro mansurus è peraltro frequentemente attestato nella poesia funeraria
di Venanzio Fortunato (carm. 1, 12, 11; 3, 9, 105; 8, 3, 261; 9, 11, 7) e in molti anonimi
carmina epigraphica (carm. 327, 4; 580, 1; 878, 5; 900, 15; 960, 7; 1086, 5). A
completare il primo emistichio del pentametro e con esso la proposizione vi è columen,
altro vocabolo tolto a un poeta cristiano, forse Venanzio Fortunato o Avito di Vienne; il
secondo è forse ispirato da un emistichio della Iohannis di Corippo.
Segue il terzo distico, anch’esso tramato di espressioni tratte da poeti classici e cristiani:
Corippo suggerisce l’attacco (More suo ludens, v. 5); da Lucano forse proviene la
caratterizzazione lessicale del destino crudele che deruba le speranze della vita (Fors, v.
5; rapuit spes, v. 6); di Venanzio Fortunato è ripreso ad litteram un’intero emistichio
(properante die, v. 6). Temi cari alla poesia pagana come l’esecrazione della sorte e
della brevità della vita sono qui recuperati per esprimere il dolore per una morte
prematura e per l’infrangersi delle speranze della casata. La Fors è personificata e
caratterizzata in senso espressionistico: il sintagma More suo ludens homines ne
sottolinea la malizia, i vocaboli perdita e rapuit l’impeto rapinoso e travolgente.
Concetto, questo, ribadito dall’espressione dies properans (formule analoghe, come
accelerante die e festinante die, sono utilizzate da Venanzio Fortunato in epitaffi di
giovani morti anzitempo), ripresa dall’epitaffio di Teodechilde (Ven. Fort. carm. 4, 25),
che presenta ulteriori affinità con il componimento in questione: le speranze furate
(Multorumque tamen spes cito rapta fuit, v. 2), il compianto della cittadinanza (Plebs
ageret lacrimis hanc superesse sibi, v. 4).

98
Il quarto distico enuncia gli anni vissuti e ricorda il momento della morte: al v. 7,
tipicamente epigrafico, risalta l’assillabazione tra vix e vitam; il v. 8 è solenne per la
concisione e l’utilizzo di espressioni poetiche (suprema dies, intulit exitium) che non
sappiamo se mutuate da autori classici o cristiani. Segue l’enunciazione degli anni di
matrimonio al v. 9, secondo le formule comuni del patrimonio epigrafico.
I vv. 10-12, dei quali ho tentato sopra di fornire un’interpretazione, fondano la certezza
nella salvezza del defunto anticipata nel primo verso, dal momento che Cristo concede
una vita senza fine a chi decide di votarsi interamente a lui. Il dettato è plasmato su
espressioni di Paolino di Nola (per il v. 10: carm. 32, 3; carm. 10, 284; carm. 31, 499;
carm. 21, 848; per il v. 12: carm. 31, 446) ed Ennodio (per il v. 11: carm. 1, 9, 85;
mentre il nesso allitterante sententia nata secunda non ha nessuna attestazione). Il
gruppo lessicale vivere/vita, che in questi versi ricorre tre volte, è oggetto di un graduale
approfondimento semantico: vixit al v. 9 (analogamente a vitam del v. 6) indica il vivere
nel secolo, che attraverso la sententia nata secunda si trasforma in un vivere dedicato a
Cristo (v. 10), che concederà al defunto l’accesso alla vita eterna (vitam sine fine, v. 12)
che Cristo riserva ai suoi fedeli.

99
14. Epitaffio di Diogenia, (sec. VI)

Sacra Diogeniae clauduntur membra sepulchro,


Quae viduata viro vixit amica Deo.
Hanc post lustra decem recipis, dulcissime coniunx;
Depositam Christus quam tibi reddit, habes.
5 Laeta suis lacrimis, ieiuno corpore pasta,
Prodiga pauperibus, nam sibi parca nimis;
Nec satis ista putans eadem post fata reliquit:
Vinceret ut mortem, perpetuavit opus.

Sono chiuse nel sepolcro le sacre spoglie di Diogenia, che privata del marito visse
amica a Dio. Dolcissimo coniuge, dopo cinquant’anni la riprendi; abbi colei che Cristo
ti restituisce, sepolta insieme a te. Si compiaceva delle proprie lacrime, nutriva il corpo
con il digiuno, era prodiga con i poveri e con se stessa troppo parca; né ritenendo che
ciò fosse abbastanza, dispose le medesime cose dopo il suo trapasso: perpetuò l’opera
affinché vincesse la morte.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833 f. 43v [= P].

Ed. CIL V 2, 617 n. 10; ICUR II 1, 164 n. 10; FORCELLA-SELETTI, 187 n. 180.

3 decem ] decim P, corr. Grut.; dulcissimae ] dulcissime P, corr. Grut.

1. Sacra membra: Damas. carm. 10, 1: Hoc tumulo sacrata Deo nunc membra quiescunt; Ven.
Fort. carm. 1, 8, 14: Quo sacra membra iacent, stagnea tecta dedit; Ven. Fort. carm. 4, 5, 5-6:
Hic sacra pontificum toto radiantia mundo / Membra sepulchra tegunt, spiritus astra colit;
clauduntur membra sepulchro: Alc. Avit. carm. app. 13, 5: Pontificis summi hoc clauduntur
membra sepulcro; carm. epigr. 397, 4: Parvaque marmoreo clauserunt membra sepulcro. 2.
Viduata viro: Mart. epigr. 9, 30, 6: Visa sibi est rapto bis viduata viro; Drac. Orest. 431:
Incolumi viduata viro de paelice Glauce; amica deo: Prop. eleg. 1, 18, 20: Fagus et Arcadio
pinus amica deo. 3. Post lustra decem: Auson. Caes. 19: Augustus post lustra decem sex
proprogat annos; dulcissime coniunx: Verg. Aen. 8, 377: Artis opisque tuae, nec te, carissime
coniunx; Ovid. met. 11, 727: Ad Caeyca manus: “sic, o carissime coniunx”; carm. epigr. 542, 4:
Has tibi fundo doles lacrimas, dulcissime coniunx; carm. epigr. 1139, 1: Servavi thalamum
genio, dulcissime coniunx; carm. epigr. 1338, 1: Suscipe me sociam tumulis dulcissime
coniunx. 4. quam tibi reddit: Mart. epigr. 10, 43, 2: Plus nulli, Phileros, quam tibi reddit ager;
Ven. Fort. carm. 3, 13, 36: Nil tibi reddit inops, reddit amore deus; habes finale frequente in
Ovidio, Marziale, Venanzio Fortunato. 5. Laeta suis lacrimis: lacrimis nella stessa posizione è
frequente in Tibullo e Ovidio, inoltre si vedano: Sedul. carm. pasch. 4, 81: Munda suis lacimis
redit et detersa capillis; Ven. Fort. carm. 3, 13, 22: Pastoris lacrimis laetificantur oves; Ven.
Fort. carm. 8, 3, 222: Scripta suis lacrimis pagina lecta fuit; Ovid. Met. 4, 263: Rore mero
lacrimisque suis ieiuna pavit; ieiuno corpore pasta: Alc. Avit. carm. 2, 170-171: Non, ut rere,
Deus nobis ieiunia suasit / Nec prohibet largo curari corpora pastu; Ven. Fort. carm. 8, 5, 9: Et
corpus crucias, animam ieiuna pascunt. 6. Prodiga pauperibus: Ven. Fort. carm. 2, 11, 12:
Templorum cultrix, prodiga pauperibus; nam sibi parca nimis: Alc. Avit. carm. app. 19, 2:

100
Prompta peregrinis, parca, modesta, sibi; Ven. Fort. carm. 1, 17, 1: Munera parva nimis, pia,
suscipe quaeso libenter; Ven. Fort. carm. 4, 9, 37: Haec tibi parva nimis, cum tu merearis
opima. 7. Post fata reliquit: Luc. Phars. 8, 749: Da veniam; si quid sensus post fata relictum;
Mart. Epigr. 9, 82, 3: Nam tu dum metuis ne quid post fata relinquas; carm. epigr. 729, 5: …et
superos post fata reliquit. 8. Vinceret ut mortem: Damas. carm. 2, 23: Credentes docuit possent
quo vincere mortem; Damas. carm. 84, 8: Tartaream solus potuit qui vincere mortem;
perpetuavit opus: Ennod. carm. 2, 56, 4: Constit, ut blandum nobilitaret opus; Ven. Fort. carm.
3, 23, 7-8: Tempore presenti victum largiris egenis, / Unde futura dies centuplicabit opus.

L’epitaffio di Diogenia la descrive come una pia vedova che dopo la morte del marito
condusse una vita casta, sobria e dedicata alla carità verso i bisognosi. Il linguaggio con
cui è delineata questa figura sembra talora mutato dalla poesia funeraria di Venanzio
Fortunato e Avito di Vienne e potrebbe perciò far pensare che l’epitaffio sia stato
composto nella seconda metà del sec. VI; tuttavia i poeti cristiani del tardo sec. VI
citavano a loro volta anche fonti epigrafiche e non sono quindi un valido indicatore
cronologico. Sono ancora presenti l’ispirazione della poesia classica e damasiana e non
sembra possibile, in ogni caso, spostare la datazione del carme oltre gli ultimi decenni
del sec. VI.
Le immagini risultano meno espressive rispetto ai componimenti precedenti, l’elogio
più convenzionale e la struttura dei distici meno articolata. Ciascun distico infatti, pur
costituendo, un’unità autonoma di senso, è composto di due frasi giustapposte, una per
ogni verso, laddove negli esempi precedenti si organizzava in una più armoniosa unità
sintattica.
Tuttavia la perizia dell’autore si manifesta nella concisione del dettato e specialmente in
quei versi che sono tratti o esemplati su altre fonti poetiche.
Ciò appare fin dal primo esametro, ove l’autore, recuperando un’espressione di
Fortunato (sacra membra, ma in Damaso, carm. 10, 1: sacrata membra) e un emistichio
di Avito di Vienne (clauduntur membra sepulchro), li coniuga in un verso di classica
compostezza: il verbo è al centro incorniciato tra cesura e dieresi bucolica; il soggetto
sacra membra è diviso nei due emistichi; il nome della defunta, doppiamente accentato,
precede la cesura. Il tradizionale richiamo deittico alla presenza della sepoltura viene
integrato da un sintetico ritratto di Diogenia. Il v. 2, recisamente epigrammatico,
costruito con materiale classico (un emistichio di Marziale e uno di Properzio) e fondato
sul parallelismo dei membri (viduata viro // amica Deo) e sull’assilabazione del gruppo
vi, riassume l’intera vita della defunta e la designa come figura ideale: la pia vedova,

101
che dopo la morte del marito vive come sposa a Dio adempiendo agli obblighi della
penitenza e della misericordia.
Segue, al secondo distico, l’apostrofe al coniuge, che dopo il lungo distacco è esortato a
riabbracciare la compagna (e ciò pare suggerire la sua tumulazione nello stesso sepolcro
del marito): i congiuntivi esortativi sono sottolineati dall’accento finale e dalla
posizione (dopo cesura recipis, v. 3; finale habes, v. 4), l’apostrofe dulcissime coniunx,
in posizione finale, ha risonanze virgiliane e ovidiane. È interessante notare depositam,
all’inizio del v. 4, scandito dal doppio accento, che richiama direttamente la formula
depositus che ricorre frequentemente nell’epigrafia funeraria non metrica.
Il terzo distico tesse l’elogio di Diogenia in forma sintetica (è enunciata una qualità per
ogni emistichio) e convenzionale, valendosi di sintagmi ripresi da poeti cristiani come
Sedulio, Avito e Fortunato; il quarto estende il suo zelo di carità oltre la morte,
alludendo a sue disposizioni testamentarie a favore dei poveri (pauperibus alendis
pecuniam in testamento legasse vel ptochium instituisse, De Rossi). Il v. 5 è
caratterizzato dall’allitterazione di s e t e dal sintagma post fata, di sapore classico,
tipica dell’epigrafia funeraria anche pagana; il v. 6, che recupera l’espressione
damasiana vincere mortem, è costruito parallelamente, con la subordinata nel primo
emistichio e la principale nel secondo.

102
15. Epitaffio di Arsacio, (sec. VI)

Inlustris meritis recubat hoc marmore tectus,


Ecclesiae legisque memor semperque dicatus,
Arsacius, domino reddens laudabile munus
In fide catholica credens consistere vitam.
5 Pauperibus donavit opes, mortalia linquens.
Membra solo posuit, caeli perrexit ad astra.
Ter denos geminans transcendit cursibus annos.
Aeternum laetus rediens redivivus in aevum,
Praemia pro meritis capiet sub iudice iusto.

Protetto da questo marmo riposa, illustre per i suoi meriti, memore della chiesa e delle
leggi e sempre devoto, Arsacio, che rende a Dio un lodevole dono credendo che la vita
consista nella fede cattolica. Abbandonando le cose terrene, donò le sue ricchezze ai
poveri; pose nella terra le spoglie e si diresse alle stelle del cielo. Doppiando il numero
di trent’anni, li superò a grandi passi. E quando, lieto, tornerà risorto alla vita eterna,
coglierà i premi per i suoi meriti dal Giudice giusto.

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Pal. lat. 833 f. 42v [= P].

Ed. CIL V 2, 617 n. 6; ICUR II 1, 163 n. 6; FORCELLA-SELETTI, 180 n. 175.

1 meritis ] meriti P, corr.; 4 vitam ] vita P, corr. Mom.

1. Inlustris meritis: Agrest. carm. 2: Illustri meritis venerandae laudis Avito; Ven. Fort. carm.
10, 6, 2: Egregium meritis, nobilis arcis apex; ibidem 95: Martinum illustrem meritis, qui
munere divo; recubat: Ven. Fort. carm. 4, 9, 3 e 4, 10, 5: Hoc recubant tumulo venerandi
membra Leonti; Ven. Fort. carm. 4, 14, 5: Ex quibus hic recubans meritis Praesidius almis; Ven.
Fort. carm. 9, 4, 3: Hoc igitur tumulo recubans Chlodbercthus habetur; marmore tectus: Ovid.
met. 14, 260: Excipiunt famulae perque atria marmore tecta. 2. Ecclesiae memor: carm. epigr.
2191: Cristianeque legis cultor meritoque beatus; Ven. Fort. carm. 2, 11, 19: Ecclesiae fultor,
laus regum, pastor egentum; Ven. Fort. carm. 4, 3, 10: Ecclesiae cultor, nobilitatis honor;
semper dicatus: Paul. Nol. carm. 21, 851: Influe pectoribus semper tibi, Christe, dicatis. 3.
Domino reddens munus: Damas. carm. 34, 3: Servatum Christo reddens de corpore munus;
laudabile munus: Paul. Nol. carm. 21, 578: Sancta revelavit. Paucis venerabile munus; carm.
ep. 748, 20: Ingressae templum domini venerabile munus. 4. Fide catholica: Prud. perist. 11,
24: Munere ditatum catholicae fidei; Ven. Fort. carm. 2, 11, 11: Chatolicae fidei splendor,
pietate coruscans; credens consistere vitam: Lucr. rer. nat. 6, 11: Et, proquam possent, vitam
consistere tutam; Coripp. Ioh. 5, 163: Ultima fata suam credens concludere vitam. 5.
Pauperibus donavit opes: Damas. carm. 77, 4: Pauperibus larga distribuere manu; Alc. Avit.
carm. 6, 305: Pauperibus largo dispensans plurima dono; Alc. Avit. carm. app. 9, 12:
Pauperibusque dedit caelica regna petens; mortalia linquens: Damas. carm. 85, 9: Hoc posuit
corpus tumulo mortalia linquens. 6. Membra solo posuit: Ovid. met. 6, 246: Membra solo
posuere; simul suprema iacentes; caeli perrexit ad astra: carm. ep. 569, 6: Non tamen ad Manes
sed caeli ad sidera pergis; carm. ep. 1392, 4: Spiritus astra petit, corpus in urna iacet; carm. ep.

103
1422, 1: Hic positis membris purus perrexit ad aethram; carm. ep. 1433, 4: Bustus membra
tenet, mens caeli perget ad astra; Cypr. Gall. num. 701: Has dominus struxit celsaque erexit ad
astra. 7. Ter denos geminans: Alc. Avit. carm. app. 15, 13: Ter denos tribuens geminos
superaddidit annos; transcendit annos: Damas. carm. 33, 13: Octoginta Leo transcendit
episcopus annos; cursibus annos: Ovid. fast. 3, 43: Quo minus emeritis exiret cursibus annus;
Cypr. Gall. num. 98: Offerat, expliciti bidentes cursibus anni; Alc. Avit. carm. app. 17, 5:
Abstulit hunc decimus mundanis cursibus annus. 8. Aeternum aevum: Ovid. met. 1, 663:
Aeternum nostros luctus extendit in aevum; Ps. Cypr. resurr. 45: Aeternumque manens
semperque futurus in aevum; aeternum laetus: Anth. Lat. 904, 3: Vivat et aeternum laetus bona
tempora ducat; redivivus: Paul. Nol. carm. 27, 59: Aeternum celebrans redivivo corpore regem.
9. Ovid. trist. 4, 2, 12: Munera det meritis, saepe datum, deis; Avian. fab. 7, 16: Munera pro
meritis si cupis ista dari?; Iuvenc. evang. 2, 635-636: Verborum meritis veniet sub iudice poena,
/ Verborum meritis dabitur sub iudice vita; pro meritis: carm. ep. 681, 10: Et bene pro meritis
gaudet sibi praemia reddi; sub iudice iusto: Drac. Orest. 902: Percutienda fuit res maxima
iudice iusto; carm. ep. 543, 5: Delati, stagis tamen hoc sub iudice iusto.

L’unica testimonianza coeva sulla vita di Arsacio è quella del suo epitaffio, che ne fa
l’elogio in forme convenzionali, descrivendolo come un uomo devoto, rispettoso della
legge e della chiesa, ortodosso, generoso verso i poveri, che morì all’età di sessant’anni.
Tuttavia le formule del v. 2, specialmente l’espressione dicatus, sono state interpretate,
credo forzatamente, come un riferimento alla condizione ecclesiastica; inoltre la sua
ortodossia rispetto alla fides catholica (v. 4) è stata messa in relazione con l’arianesimo
dei Longobardi presenti a Milano168.
Arsacio fu sepolto nella basilica di Santo Stefano in Brolo, come testimonia il Liber
notitiae, e in tale chiesa, almeno dal sec. XI, durante la processione del secondo giorno
delle Litanie, era invocato dopo San Martiniano e Sant’Ausano, vescovi nel V e nel VI
sec. Forse fu questa associazione a radicare nei milanesi l’opinione che egli fosse stato
vescovo della città169.
Arsacio, fin dal sec. VIII, era venerato come prete e confessore presso Illmünster in
Baviera, ove erano state traslate le sue spoglie –o parte di esse- ad opera di un certo
Eio170. Goffredo da Bussero testimonia che recentemente rispetto a quando scriveva,
quindi verso la fine del sec. XIII, i tedeschi giunsero a Milano al fine di raccogliere
informazioni a proposito del santo poiché la Vita di lui che possedevano era andata

168
SAVIO, Milano, 160-161; G. P. BOGNETTI, S. Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa
dei Longobardi, in G. P. BOGNETTI, G. CHIERICI, A. DE CAPITANI D’ARZAGO, S. Maria di Castelseprio,
Milano 1948, 222-223.
169
BOGNETTI, S. Maria, 221.
170
P. MORIN, Chi è Sant’Arsazio onorato a Milano e in Baviera, «Ambrosius», 13 (1937), 203-07. Lo
studioso propone, sulla base della sola omonimia, di identificare Arsacio con il primicerio di Onorio,
confinato a Milano dall’imperatore attorno al 409.

104
distrutta in un incendio. L’esito di questa ricerca fu la redazione della Vita S. Arsatii di
Ingolstadt, un testo agiografico formato raccordando con diversi anacronismi e
incongruenze le vaghe notizie reperite a Milano su Arsacio171.
Il Bognetti crede di poter leggere in filigrana alla leggenda la delicata situazione creatasi
a Milano dopo il ritorno del clero ordinario: Arsacio sarebbe stato un membro di quel
gruppo di missionari orientali inviati da Roma nell’Italia del Nord a combattere
l’arianesimo dei Longobardi e dei quali resta una testimonianza in alcuni epitaffi pavesi
in esametri raccolti nella silloge di Lorsch. Ne sarebbe una conferma la sua sepoltura
nella chiesa di Santo Stefano, cui è legata la leggenda antiariana della rota sanguinis
fidelium e che è situata nel Brolo, che doveva essere l’area della città con più alta
concentrazione di ariani della città, ospitando forse gli accampamenti degli arimanni172.
Un’ipotesi affascinante che non ha ancora trovato nessuna conferma. Niente si può
inferire sulla base del solo epitaffio: considerando lo stile, le fonti, la forte presenza di
modelli classici (specialmente Ovidio) e dell’epigrafia damasiana, possiamo concordare
con il De Rossi nell’affermare che «carminis stilus Langobardicae aetatis barbariem
haud sapit».

L’epitaffio in onore di Arsacio è di soli esametri e la struttura sintattica coincide


puntualmente con la misura del verso: ogni esametro costituisce una frase di senso
compiuto, giustapposta alla precedente. La regolarità della composizione è arricchita da
una tensione metrica e stilistica originata dalla varietà delle forme dell’esametro (cesure
pentemimeri o tritemimeri con eftemimeri, dieresi bucoliche), dalla presenza di figure
retoriche e di suono (come gli omoteleuti tra illustrìs meritìs al v. 1, o tra le ultime
sillabe dei primi tre esametri), dal tessuto di citazioni e soprattutto dal sapiente utilizzo
dei topoi della tradizione sepolcrale.
Il carme inizia convenzionalmente con l’indicazione del luogo di sepoltura e prosegue
con la presentazione della vita del defunto, il cui nome è esplicitato solo all’inizio del
terzo verso, rilevato dalla doppia accentazione e accostato significativamente a Domino.
Fino al quinto verso abbiamo l’elogio della vita di Arsazio, incentrato sulla sua
devozione alla Chiesa e all’ortodossia cattolica, a cui si aggiunge il topico motivo del
disprezzo dei beni terreni e della beneficenza verso i poveri.
171
AA. SS. Maii, VI, 61.
172
BOGNETTI, S. Maria, 222-224.

105
Il sesto verso, con immagine frequente nella tradizione epigrafica (già a partire da
Damaso: carm. 12, 2-3: Corpora sanctorum retinent veneranda sepulcra, / Sublimes
animas rapuit sibi regia caeli), funge da nodo centrale poiché, riprendendo il motivo
iniziale della sepoltura (Membra solo posuit), alla luce dei suoi meriti proietta il defunto
nell’eternità della ricompensa celeste. I due termini dell’opposizione solo e caeli sono
marcati dall’accento e all’inerzia delle spoglie terrene (posuit, che riprende recubat del
v. 1) si contrappone semanticamente il moto verso il cielo introdotto da perrexit, che
prosegue nei versi successivi: i sessant’anni di vita sono superati (transcendit, v. 7) a
grandi passi (cursibus) e l’anima ritorna (rediens, v.8) nell’aeternum aevum (abbiamo
già rilevato l’utilizzo dei verbi di movimento a proposito degli epitaffi di Manlia
Daedalia e di Rustica).
Qui egli raccoglierà il frutto dei suoi meriti, ovvero la salvezza. L’ultimo verso,
attraverso il motivo dei meriti (meritis al v. 1 e al v. 9, nella stessa posizione metrica)
riprende e completa il primo inquadrando tutto il carme in una composizione ad anello:
Arsazio ora riposa (recubat, v. 1, al presente) in attesa del Giudizio, illustre per i meriti
compiuti in vita (rievocata al passato: donavit, v. 5; transcendit, v. 7), e in virtù di questi
stessi meriti quel giorno riceverà (capiet, v. 9, al futuro) i premi celesti dal Giudice
Giusto.
Questo accurata organizzazione di motivi canonizzati è impreziosita da allitterazioni e
assillabazioni (catholica credens consistere, v. 4; rediens redivivus, v. 8; praemia pro
meritis, iudice iusto, v. 9) e dall’utilizzo di fonti classiche e cristiane. Queste offrono
ispirazione per alcune scelte lessicali o addirittura per l’architettura dell’intero verso
(Damas. carm. 34, 3 al v. 3; Iuvenc. evang. 2, 635 al v. 9); altre volte la citazione è
letterale e occupa una sezione metricamente individuata del testo (Ovid. met. 14, 260, in
dieresi bucolica al v. 1; Damas. carm. 85, 9, dopo cesura al v. 5; Ovid. fast. 3, 43, prima
di cesura al v. 7; Ovid. met. 6, 246, in dieresi bucolica al v. 9).

106
16. Epitaffio del vescovo Natale, 751.

Marmore conclusum tegitur venerabile corpus


Natalis praesul qui fuit urbe bonus.
Grandis honor patrum nam fuerat pastor et almus,
Nobilitate vixit rexit ovesque pater.
5 Condidit hanc aulam Christo praestante iuvamen,
Res dedit et recte plurima dona quoque;
Unde queant vigiles domino servire per aeva
Proque suis culpis possit habere preces.
Ecclesiam rexit bis septem mensibus, annos
10 Sexies atque decem quoque duobus habens.

Obiit autem anno Incarnationis dominicae DCCLI


pridie Idus maii Indictione quarta.

Racchiusa dalla pietra è custodita la venerabile salma di Natale, che fu un vescovo


benevolo nei confonti dell’urbe. Grande onore degli avi, egli fu un pastore benefico,
visse con decoro e come un padre governò il gregge. Fondò questa basilica con l’aiuto
di Cristo, la dotò di sostanze e anche di molti doni in misura conveniente, cosicchè degli
officianti vigili di giorno e di notte possano servire il Signore per l’eternità e che egli
possa avere preghiere ad intercessione delle sue colpe. Governò la chiesa due volte sette
mesi, morendo all’età di settantadue anni.
Morì nell’anno 751 dall’incarnazione del Signore, il giorno precedente le idi di Maggio,
nell’indizione quarta.

Milano, Biblioteca del Capitolo Metropolitano, II E 48, f. 49 (Visconti) [= V].


Milano, Biblioteca del Capitolo Metropolitano, II E 48, f. 105 (Castelli) [= C].

Ed. L. A. MURATORI, Novus thesaurus veterum inscriptionum, Milano 1739-42, 1915 n. 4 (ex
C); FORCELLA-SELETTI, 178 n. 173 (ex C);

4 pater V ] pastor C; 6 res ] rex V, C, corr.; 11 DCCLXI V, eraso e corr. in DCCLXIII da altra
mano ] DCCLXIII C.

Dresden, Sächsische Landesbibliothek, F 82 b, f. 160r (Alciato); unde Milano, Biblioteca


Ambrosiana, V 35 sup., f. 71 (Fontana).

Ed. CIL V 2, 622 n. 11.

Marmore Natalis tegitur venerabile corpus


Praesule quo sacris est suus auctus honos
Grande decus vatum spes et solamen egenis,
Nobilium quod dux et pater urbis erat
Condidit hanc superis populisque faventibus aulam

107
Aedeque constructa plurima dona dedit
Unde queant vigiles domino servire per aevum
Proque suis culpis possit habere preces
Pontificum in solio bis septem mensibus egit
Lustra fere totidem vixit et hic situs est.
Publicae salutis anno DCCL

1. Marmore conclusum: Damas. carm. 79, 10: Marmore concludens arcam cineresque beatos;
venerabile corpus: Paul. Nol. carm. 21, 642: Pax, eadem in terra teneat venerabile corpus;
Coripp. Iust. 3, 4: Ni patris primum sanctum et venerabile corpus; cfr. carm. Nyn. 7: Fulgere
perpetuo cunctis venerabile corpus; Cand. Fuld. aegil. 17, 50: Idem praesul iens tolli venerabile
corpus; 2. Natalis praesul: Alcuin. carm. 1, 79: Gregorius praesul, toto venerabilis orbi; Alcuin.
carm. 88, 8, 3: Egregius praesul toto praeclarus in orbe; Alcuin. carm. 110, 17, 1: Martinus
praesul, toto venerabilis orbe; Carm. Nyn. 62: Quae tibi digna canam praesul venerandus in
orbe; urbe bonus: Ven. Fort. carm. 10, 11, 20: Exhibet atque cibos pastor in urbe bonus;
Alcuin. carm. 90, 25, 2: Romana quondam praesul in urbe pius. 3. Grandis honor patrum: Ven.
Fort. carm. 3, 22A, 8: Spes peregrinorum, ductor honorque patrum; Alcuin. carm. 88, 8, 10:
Crevit honor patris, crevit et iste locus; cfr. Walahfr. Wett. visio 870: Grandis honor capitis,
maior sapientia mentis; cfr. Epitaph. var. II 6, 3: Grandis honor regni, cui vita monastica cordi;
pastor et almus: Alcuin. carm. 99, 1, 5: Ecclesiae fuerat magnus nam pastor et ille; Alcuin.
carm. 89, 13, 3: Pontificalis apex, Petrus successor et almus. 4. Tit. metr. I, 1, 2, 18-19: Praefuit
ecclesiae, rexit ovile dei / Iste sacras domini condens amabiliter aulas; cfr. Bonif. carm. 7, 29-
30: Praesul oves domini multos sine sorde per annos / Rexit et aeterne carpsit iter patriae. 5.
Alcuin. carm. 109, 1, 3: Protegat hanc aulam, Christo donante, per aevum; condidit hanc
aulam: carm. epigr. 906, 1: Condidit Ambrosius templum dominoque sacravit; carm. epigr.
420, 21: Condidit hanc sedem coniunx maerensque diemque; carm. epigr. 300, 2: Hanc
Constantinus victor tibi condidit aulam; Tit. Metr. III B 10, 2: Condidit hanc aulam Silvestri
chrismate sacra; carm. var. I 37, 6: Condidit hanc aulam laetus per saecla manendam; Christo
praestante iuvamen: Damas. carm. 42, 4: Pro reditu cleri Christo praestante triumphans;
Damas. carm. 84, 3: Numine divino multum Christoque iuvantem; carm. epigr. 1560a, 4:
Surgatis pariter Christo praestante beati; cfr. Transl. Merc. 33: Sed populo reliquo monachis
praestante iuvamen. 6. Plurima dona: Drac. laud. Dei 3, 472: Plurima dona Dei, laudis mala
femina summae; cfr. Fard. carm. 1, 10: Rex sibi praecelsus plurima dona dedit. 8. Proque suis
culpis: Alcuin. carm. 109, 11, 9: Proque tuis culpis lacrimas effunde calentes; habere preces:
Ovid. ars 3, 806: Ille suas nolet pondus habere preces; cfr. Theodulf. carm. 28, 700: Flensque
suas pondus non habuisse preces. 9. Ecclesiam rexit: Ven. Fort. carm. 4, 4, 29: Sic pater
ecclesiam regit in quinquennia quinque; Beda Cuthb. 1, 502: Ecclesiam gemino qui rexit
episcopus anno; Alcuin. carm. 88, 8, 2: Qui sibi sacratam hanc regit ecclesiam

Natale173 fu il 43° vescovo di Milano, morì a 72 anni (Sexies atque decem quoque
duobus habens, v. 10) dopo aver retto la diocesi per quattordici mesi (Ecclesiam rexit
bis septem cursibus annis, v. 9). La data della sua morte, oggetto di lungo dibattito, è
ormai fissata con sicurezza al 14 maggio 751. La fonte più antica per quanto riguarda il

173
AA. SS. Maii III, 241; A. RIMOLDI, Natale, BS II, 473-74; G. COLOMBO, Natale, DCA IV, 2440-2441.

108
giorno è il catalogo di Bamberga, del sec. XI174; l’anno della morte è invece
testimoniato dall’epitaffio del presule, risalente come vedremo al sec. VIII o al sec. XII
e pervenuto attraverso trascrizioni cinquecentesche, e dal Liber notitiae del sec. XIII.
Due trascrizioni dell’epigrafe sono contenute nel codice capitolare del Quodlibet di
Francesco Castelli: la prima fu redatta del preposto Giovanni Pietro Visconti prima del
1528-30, la seconda dal Castelli dopo il 1538. Entrambe presentano una nota
cronologica che recita: Obiit autem anno incarnationis dominicae DCCLXIIII pridie
idus maij indictione quarta, ove nella prima trascrizione la data del 764 è corretta da
altra mano su una scrittura precedente che, grazie all’ingrandimento fotografico, si può
stabilire con relativa sicurezza recitasse «d c c l j»; nella seconda trascrizione la nota
cronologica con data 764 è aggiunta successivamente dalla medesima mano, che si
esclude possa essere quella del Castelli. Evidentemente la nota cronologica non era più
leggibile chiaramente.
La data del 751 è confortata dalla coincidenza con la quarta indizione e da alcune fonti
precedenti al Quodlibet175. Il pontificato di Natale deve perciò essere collocato tra il 13
marzo 750 e il 13 maggio 751.
Egli fu inumato nella basilica di San Giorgio al Palazzo, di cui secondo l’epitaffio fu il
fondatore. La tradizione posteriore non è concorde su questo punto: secondo il Liber
notitiae egli fondò non solo la chiesa ma anche la canonica, istituita in realtà solo tra
1090 e 1094 (Item anno domini DCCL nathalis archiepiscopus mediolani fecit
canonicam sancti georgii in palatio. Ubi idem archiepiscopus iacet176); invece un
calendario, sempre del XIII sec., contenuto nel ms. Ambr. A 2 inf., lo cita come un
semplice benefattore della chiesa (3 idus Maiarum, Sancti Natalis archiepiscopi
Mediolani qui dotavit istam ecclesiam). In ogni caso non ci sono ragioni sufficienti per
dubitare della notizia fornita dall’epitaffio.
La prima testimonianza diretta circa l’epitaffio di Natale è quella fornita nella prima
metà del sec. XVI dal segretario ducale Agostino Paravicino alla fine della «Vita di San

174
«XLIII. Natalis episcopus sedit mensibus XIIII obiit pridie Id. Mag., sepultus est ad Sanctum
Georgium»; concordano completamente con questa notizia gli altri tre cataloghi antichi (E 24, C 133 e
Beroldo Nuovo).
175
E. CATTANEO, L’arcivescovo di Milano Natale, «Ambrosius», suppl. al n. 5(1968), 1-5; G. COLOMBO,
L’epitaffio di San Natale in S. Giorgio al Palazzo di Milano, in «Ricerche storiche sulla chiesa
ambrosiana», VII (1977), 26-27; P. TOMEA, San Giorgio in Crimea. Per una nuova edizione del Liber
notitiae sanctorum Mediolani, «Aevum», 27 (1999), 447-448 n. 108.
176
Liber notitiae, 142A.

109
Natale Marinone arcivescovo di Milano XLVI», che trascrisse i versi dicendoli inseriti
in una colonna della chiesa177. Questa informazione è precisata da un documento del
1522, riportato dal canonico G. A. Sassi, da cui risulta che il sepolcro di Natale si
trovasse in medio dictae ecclesiae: l’epigrafe doveva dunque essere incisa o incassata in
una delle colonne della navata centrale. La sua scomparsa risale probabilmente al
restauro della basilica, avvenuto sotto il pontificato di Carlo Borromeo178.
Il testo fu copiato dal marmo dal Paravicino, poi, come detto sopra, dal Visconti e dal
Castelli nel codice del Quodlibet.
Lo ritroviamo inoltre, vistosamente rimaneggiato, nel manoscritto dresdense
dell’Alciato, tra i tredici carmi riportati dall’antico codice a sua disposizione. Egli non
vide la lapide, alla sua epoca ancora esistente in San Giorgio (Natalis episcopi tumulus
hoc inscripto epigrammate in divi Georgii aede etiamnunc extat); infatti mentre per
l’epitaffio di Aurelio riportò la nota cronologica originale letta nell’iscrizione a San
Dionigi, qui la aggiunse ex ingenio utilizzando la stessa formula (Publicae salutis anno
DCCL), scorretta per l’antichità, che già aggiunse agli elogi ennodiani dei vescovi, che
erano sprovvisti di nota cronologica.
L’epitaffio è presente nel ramo della tradizione giunto all’Alciato ma non in quello
rappresentato da Fontana, che nel codice ambrosiano trascrisse solo la versione
alciatina, e da Goffredo da Bussero. Abbiamo già detto che questi ultimi disponevano di
una silloge meno ricca; tuttavia si può anche pensare che l’epitaffio di Natale non fosse
incluso nella silloge antica predisposta nel sec. VIII ma sia stato in seguito aggiunto a
uno degli apografi che a partire dal sec. XI ne conservarono soltanto alcune parti.
Un fatto che rende difficile attribuire l’iscrizione al sec. VIII è la presenza, al v. 7, di un
riferimento al collegio canonicale, che in tale basilica fu istituito soltanto tra il 1090 e il
1094. Il Colombo avanza l’ipotesi che l’epitaffio sia stato posto presso la tomba in
occasione dei restauri che interessarono la basilica all’inizio del sec. XII (fu riconsacrata
il 15 gennaio 1129), in seguito all’istituizione della canonica. È possibile anche che in
questa circostanza sia stato rimaneggiato «un ipotetico precedente ormai consunto
ripetendone i concetti e copiando fedelmente l’obiit autem», magari per far risalire ab
antiquo la fondazione della canonica, fatto creduto peraltro nel sec. XIII da Goffredo da
Bussero; poi un canonico di San Giorgio, responsabile della trascrizione della silloge
177
Arch. St. Arc. C. M., sez. XIV, vol. 153, 21.
178
COLOMBO, L’epitaffio, 28-29.

110
così come giunse all’Alciato nel sec. XVI, copiò questo epitaffio in fondo alla serie (allo
stesso modo di quanto accadde, a parere del Silvagni per l’iscrizione di San Celso) o
forse lo sostituì alla versione originale, già presente nella silloge.
Non è facile sciogliere il nodo di tale questione e testimonia quanti dubbi, nonostante
l’accurata ricostruzione del Silvagni, ancora gravino sulla composizione dell’antica
silloge e dei suoi apografi.

In ogni caso non si può dubitare del fatto che l’Alciato vide l’epitaffio nell’antichissimo
codice, copiato nel sec. XI o forse nel XII. Ciò significa che ebbe a disposizione una
trascrizione molto più antica di quelle di Visconti e Castelli, che avevano copiato da
un’iscrizione ormai molto consumata, come testimonia la vicenda della nota
cronologica. La lezione, al v. 6 del codice antico, doveva essere res e non rex,
altrimenti non si spiega il rimaneggiamento dell’Alciato aedeque constructa plurima
dona dedit, che elimina la ridonanza tra res e dona e non fa nessuna menzione di un
sovrano.
Il Bognetti, accettando la lezione rex, tende a identificare Liutprando nel sovrano che
beneficiò la chiesa e suggerisce che essa potesse sorgere all’interno o in prossimità di
quello che era il palazzo dei re longobardi, e già era stato palatium dell’imperatore
romano179. La fondazione di una chiesa intitolata a San Giorgio, che dopo la battaglia di
Cornate sull’Adda era divenuto il santo protettore della dinastia regnante, e la sepoltura
del vescovo in un santuario urbano di recente fondazione (primo caso del genere dopo
quelli dubbi di Giovanni il Buono e Teodoro)180, indicano certamente una convergenza
politica tra l’Arcidiocesi milanese e la monarchia longobarda, dopo che essa aveva
definitivamente abbandonato l’ipoteca dell’arianesimo181. Tuttavia è possibile che,
essendo il marmo rovinato e la lezione poco comprensibile, siano stati proprio questi
elementi a suggerire ai trascrittori di integrare la parola con x anziché con s. La lezione
res, del resto, è preferibile dal punto di vista grammaticale e semantico: in primo luogo
il terzo distico appare compatto nel descrivere le operazioni legate alla fondazione della
basilica; inoltre i congiuntivi dei vv. 7-8 dipendono dalla principale dei vv. 5-6, di cui

179
G. P. BOGNETTI, L’età longobarda, in Storia di Milano, Treccani degli Alfieri, vol. II, Milano 1954,
271-272.
180
PICARD, Le souvenir, 81-92.
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Anche se è tarda e priva di fondamento la notizia dell’attività antiariana di Natale, che secondo la
tradizione scrisse anche un sermo per la loro conversione: CATTANEO, L’arcivescovo, 5-8.

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Natale è il soggetto. Se si leggesse, al v. 6, una coordinata con soggetto rex, colui per
l’anima del quale i monaci pregano sarebbe lui e non Natale, che invece è chiaramente il
soggetto della frase.

Il carme è piuttosto rozzo sul piano stilistico: i versi paiono giustapposti l’uno all’altro e
quasi indipendenti, anche all’interno del distico; il lessico e gli stilemi retorici poveri
nella loro ispirazione poetica che raramente si rifà a modelli classici o della poesia
cristiana tardo-antica ma perlopiù raccorda alcune formule convenzionali degli epitaffi
vescovili (es. v. 2 nam fuerat pastor et almus); la regolarità prosodica viene spesso a
mancare (fuerat, v. 3; vixit, v. 4; ecclesiam, v. 9; sexies e duobus, v. 10) ed è talora
ottenuta grazie all’uso disinvolto di zeppe metriche (come gli avverbi nam al v. 3 o
recte e quoque al v. 6).
La struttura, tradizionalmente, prevede nel primo distico l’indicazione del sepolcro, il
nome e la condizione del defunto; il secondo distico ne elogia le qualità pastorali; i vv.
5-8 narrano la sua opera più rilevante, ossia la fondazione della basilica di San Giorgio
al Palazzo e quella, dubbia, della canonica; l’ultimo distico indica gli anni di governo
pontificale e di vita.
L’incipit è costruito con un emistichio damasiano (Marmore conclusum) raccordato
all’espressione venerabile corpus, presente in Paolino di Nola e Corippo. Secondo un
consueto procedimento, al primo verso è suggerita l’immagine del sepolcro e del corpo
senza vita del defunto, mentre il nome è posticipato all’inizio del secondo verso,
accompagnato dalla qualifica. Nel secondo emistichio si precisa una prima qualità del
pontefice, la sua benevolenza nei confronti della città, formulata secondo un’espressione
di Fortunato (Exhibet atque cibos pastor in urbe bonus).
Il secondo distico elogia in forme convenzionali la nobiltà di nascita e di costumi di
Natale e la sua sollicitudine pastorale. Questi due nuclei concettuali sono
rispettivamente ripartiti nella prima e nella seconda metà dei due emistichi: grandis
honor patrum del v. 3 è in rapporto a nobilitate vixit del v. 4; nam fuerat pastor et almus
(si veda: Alcuin. carm. 99, 1 ,5: Ecclesiae fuerat magnus nam pastor et ille; Alcuin.
carm. 89, 13, 3: Pontificalis apex, Petrus successor et almus) è sviluppato nel verso
successivo in rexit ovesque patris. Sotto il profilo retorico si può segnalare la
costruzione approssimativamente chiastica del v. 4, e il poliptoto di pater, che non pare

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derivare da finezza retorica quanto da piattezza lessicale. Pater, riportato dal Visconti è
preferibile alla lezione pastor data dal Castelli, che è dovuta a un errore di posticipo a
una facile integrazione di una parola ormai illegibbile sul marmo.
L’attacco solenne del v. 5 (Condidit hanc aulam, marcato dalla cesura), che potrebbe
per il comune contesto milanese echeggiare il carme ambrosiano per la dedicazione di
San Nazaro (ma si possono citare altre fonti al proposito), introduce l’opera più
importante del pontificato di Natale, la fondazione di San Giorgio, avvenuta com’è
normale Christo praestante iuvamen. Il v. 6, di contro è appesantito dagli avverbi recte
(allitterante con res) e quoque.
L’emistichio successivo è legato al precedente anche sintatticamente: Natale diede le
sostanze perché dei chierici servissero in eterno al Signore e lo pregassero per la sua
anima. Il v. 8 è costruito con una citazione di Alcuino nel primo emistichio (Proque tuis
culpis lacrimas effunde calentes) e di Ovidio, unica fonte classica (Ille suas nolet
pondus habere preces). Infine, espresso nelle tipiche formule analitiche, la menzione
degli anni di episcopato e l’età della morte.

In seguito a tali considerazioni stilistiche, dovendomi pronunciare sull’epoca di


composizione del carme, propenderei per accettare la datazione al sec. VIII, qualche
tempo dopo la morte dell’arcivescovo Natale. In primo luogo la rozzezza del
componimento, che Silvagni mette in relazione all’altrettanto rozzo carme di Tommaso
per il restauro di San Calimero, ben si adatta alla cultura del tardo sec. VIII che a
Milano, per quanto in ripresa, esce dalle lunghe tenebre della dominazione longobarda;
a maggior ragione se consideriamo il fatto che questo è il primo epitaffio che giunge a
noi dopo il silenzio del sec. VII.
L’analisi delle fonti poetiche non porta a individuarne alcuna posteriore al sec. VIII che
possa essere stata determinante nella composizione dei versi, mentre le citazioni più
significative sono tratte dalle opere di Alcuino, evidentemente un contemporaneo del
poeta, che avrebbe scritto qualche anno dopo la morte del vescovo
Rimane il problema dei vv. 7-8, e anche se sarebbe pretestuoso volerne sostenere la
posteriorità in base a ragioni stilistiche (l’unica citazione classica, la correttezza
metrica), quella dell’interpolazione rimane l’ipotesi più plausibile.

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