Articolo Della Rivista Le Regioni - Fascicoli 5 e 6 2023
Articolo Della Rivista Le Regioni - Fascicoli 5 e 6 2023
Sommario:
1. Premessa. − 1.1. La necessità di una nuova legge urbanistica e di un nuovo piano. − 1.2. L’esigenza di ridurre i
maggiori oneri amministrativi per gli interventi sul patrimonio edilizio esistente. − 1.3. La riduzione del costo degli
interventi di rigenerazione attraverso la disciplina del contributo di costruzione.
2. La nuova legge urbanistica per il riuso e la rigenerazione urbana. − 2.1. La disciplina transitoria. 2.1.1. La
progressiva riduzione del consumo di suolo. − 2.2. I nuovi compiti della pianificazione generale e di quella attuativa. −
2.3. I contenuti strutturali e strategici del PUG. − 2.4. La disciplina del territorio urbanizzato. − 2.5. Le forme di
incentivazione degli interventi di rigenerazione. − 2.5.1. il regime speciale degli interventi di rigenerazione. − 2.5.2. Gli
strumenti ausiliari per favorire la rigenerazione. − 2.6. Le prescrizioni volte a limitare l’espansione urbana. − 2.6.1. Il
consumo di suolo a saldo zero. − 2.6.2. La disciplina legislativa delle nuove urbanizzazioni e per il territorio rurale. –
2.6.3. Il divieto di attribuzione di potenzialità edificatoria e l’obbligo di una cartografia ideogrammatica.
3. La disciplina edilizia e del contributo di costruzione funzionale al recupero dell’edificato. − 3.1. La legittimità e
le forme di regolarizzazione del patrimonio edilizio. − 3.1.1. Lo stato legittimo degli edifici. − 3.1.2. Le tolleranze
costruttive. − 3.1.3. Abusi di minima entità e parziali difformità ante 1977. − 3.1.4. L’accertamento di conformità. – 3.1.5.
La c.d. sanatoria giurisprudenziale. − 3.1.6. Difformità edilizia e discipline settoriali per la tutela paesaggistica e la
sicurezza sismica. − 3.1.7. Gli accordi per l’esecuzione delle sanzioni ripristinatorie. − 3.2. Le categorie di intervento e i
titoli edilizi – 3.3. La riforma del contributo di costruzione attuativa dei principi della nuova legge urbanistica.
1. Premessa
Il presente lavoro intende illustrare le innovazioni normative assunte dalla regione Emilia-Romagna
in materia di governo del territorio per orientare nettamente le politiche urbanistiche verso il riuso e
la rigenerazione dei tessuti urbani esistenti, in luogo della progressiva espansione edilizia e
dispersione insediativa che continua a contrassegnare l’esperienza amministrativa regionale, e per
eliminare, o quantomeno ridurre, i maggiori oneri amministrativi ed economici che caratterizzano gli
interventi sul patrimonio edilizio esistente rispetto alle nuove costruzioni. Quest’approccio, orientato
alla ricostruzione e ad una prima valutazione di un ordinamento positivo che affronta in maniera
organica le tematiche appena citate, non si occupa, di conseguenza, della ricostruzione del vasto
dibattito dottrinario e giurisprudenziale che investe la tematica.
Nel 2015, all’inizio della decima legislatura, un’indagine sulle previsioni della pianificazione
urbanistica vigente evidenziava che i piani offrivano limitatissime opportunità insediative attraverso
interventi di trasformazione dei tessuti urbani esistenti e piuttosto presentavano una ampia
disponibilità di aree potenzialmente urbanizzabili, suscettibili di una progressiva trasformazione al
manifestarsi delle nuove esigenze di mercato. La rilevazione evidenziava che il 10% del territorio
regionale era già stato urbanizzato (in termini assoluti, 2.280 km2 sui 22.510 km² del territorio
regionale), con una significativa dispersione insediativa, a causa della quale il 23% degli insediamenti
non era concentrato in aggregati urbani; ma soprattutto segnalava che i piani vigenti prevedevano una
potenziale espansione urbanistica pari a ulteriori 250 km².
Certamente i piani urbanistici evidenziavano la completa assimilazione della profonda innovazione
culturale apportata dal Piano Territoriale Paesistico Regionale del 1993, grazie alla quale era divenuta
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patrimonio comune l’idea che il governo del territorio dovesse perseguire innanzitutto la tutela dei
valori ambientali, paesaggistici, culturali e storico testimoniali del territorio. Ormai nessun piano
disattendeva il principio che la conoscenza e la salvaguardia del territorio costituissero il primo
obiettivo strategico delle politiche urbanistiche. La legislazione regionale già da decenni si
caratterizzava per la definizione di una disciplina particolareggiata del centro storico, che tuttavia
aveva visto lo sviluppo di piani di recupero, volti al restauro e risanamento conservativo e al riuso del
patrimonio edilizio di valore storico culturale e testimoniale, e solo più sporadicamente di interventi
di riqualificazione di più ampi ambiti degradati e manufatti produttivi dismessi. I comuni della
regione potevano inoltre vantare un’ampia esperienza di programmi di riqualificazione urbana, in
attuazione della L.R. n. 19 del 1998, che aveva consentito di approvare, anche in variante alla
pianificazione urbanistica vigente, interventi complessi per il recupero e la valorizzazione
principalmente di singoli complessi immobiliari, costituiti da importanti stabilimenti produttivi
dismessi, da edifici e servizi pubblici non più adeguati alle destinazioni originarie, e solo in pochi
casi da più ampi contesti urbani. Ma a fronte di tutto questo, i piani urbanistici generali del 2015
ancora non si discostavano dal modello di urbanistica tradizionale, che assegnava loro principalmente
il compito di regolare l’espansione insediativa.
A fondamento della nuova legge urbanistica regionale del 2017 vi è stato dunque un vaglio critico
dell’esperienza pianificatoria che caratterizzava l’intero territorio regionale, frutto della
sovrapposizione della L.R. n. 47 del 1978, aggiornata da ultimo nel 1995, e della L.R. n. 20 del 2000.
Quest’ultima, pur avendo posto al centro del processo di pianificazione, tra le finalità generali della
legge, l’esigenza di assicurare la sostenibilità ambientale e territoriale delle scelte insediative ( 1) ed
avendo prescritto un consumo prudente del suolo, da consentire solo come extrema ratio (2), nel suo
impianto complessivo non aveva supportato queste indicazioni di principio con strumenti e
meccanismi tecnici vincolanti che ne assicurassero l’applicazione. Emblematica la previsione dell’art.
30 di questa legge, che regolava il Piano Operativo Comunale (POC) e che, specialmente dopo la
novella del 2009, dava grande risalto agli interventi di rigenerazione urbana, affermando una
preferenza per gli stessi, dettandone un’ampia e articolata disciplina giustapposta a quella degli
interventi in espansione, ma senza far seguire a questa scelta alcuna effettiva modifica dei contenuti
e della concezione stessa del processo di pianificazione e non prevedendo alcun limite alla possibilità
di continuare a dare attuazione agli interventi che comportassero consumo di suolo (3). La legge
(1) In particolare, l’art. 2, comma 1, lettere c-bis) e d.), della L.R. n. 20 del 2000 richiede ai piani, tra gli obiettivi
generali, di “salvaguardare le zone ad alto valore ambientale, biologico, paesaggistico, e storico” e di “ridurre la
pressione degli insediamenti sui sistemi naturali e ambientali anche attraverso opportuni interventi di riduzione e
mitigazione degli impatti”.
(2) L’art. 2, comma 1, lettera f.), della L.R. n. 20 del 2000 consente di “prevedere il consumo di nuovo territorio solo
quando non sussistano alternative derivanti dalla sostituzione dei tessuti insediativi esistenti ovvero dalla loro
riorganizzazione e riqualificazione”.
(3) La L.R. n. 20 del 2000 è stata integralmente aggiornata con la L.R. 6 luglio 2009, n. 6, enfaticamente intitolata
“Governo e riqualificazione solidale del territorio” che, a differenza del c.d. “piano casa” (approvato con l’intesa sancita
il 1° aprile 2009 tra Stato, regioni e enti locali) cui dava attuazione, si fondava sulla idea che gli interventi di qualificazione
edilizia dovessero costituire oggetto di previsioni urbanistiche e non essere ammessi una tantum attraverso previsioni di
legge derogatorie dei piani. Essa disciplinava, conseguentemente, la possibilità per i comuni di approvare una apposita
variante specifica, per programmare e incentivare questi interventi. Questa legge segna, dunque, il passaggio
nell’esperienza urbanistica regionale dalla previsione di singoli interventi di rigenerazione urbana, regolamentati da una
disciplina speciale e cofinanziati con risorse pubbliche, secondo quanto previsto dalla L.R. n. 19 del 2008, ad una
disciplina generale del piano urbanistico, che persegua la qualificazione dell’intero patrimonio edilizio, attraverso
incentivi dimensionali costituiti, di norma, da un premio volumetrico fino al 20% dell’esistente.
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urbanistica n. 20 del 2000, manteneva comunque, una certa ambiguità sin dall’affermazione dei criteri
cui informare la pianificazione, stabilendo che il suo primo obiettivo era “promuovere un ordinato
‘sviluppo’ del territorio, dei tessuti urbani e del sistema produttivo” (art. 2, comma 1, lettera a.) e che
i processi di riqualificazione urbana dovessero avere la finalità solo di “promuovere il miglioramento
della qualità ambientale, architettonica e sociale del territorio urbano” (art. 2, comma 1 lettera e.).
Soprattutto la legge urbanistica regionale continuava ad essere fondata su tre scelte di impianto che
finivano per ridurre la portata dei principi di sostenibilità ambientale e riduzione del consumo di suolo
propugnati in via generale. Permaneva la concezione già presente nella prima legge urbanistica
regionale (la L.R. n. 47 del 1978) (4) che i valori paesaggistici e ambientali fossero riferite
esclusivamente a taluni ambiti del territorio extraurbano, per questo da salvaguardare preservandoli
dai processi di trasformazione urbana, e non dovessero coinvolgere l’intero territorio comunale,
compresi i centri urbani. In secondo luogo, le politiche urbanistiche relative al territorio urbanizzato
erano in concreto informate ad un prudente processo di manutenzione dei tessuti esistenti, per
mantenere l’efficienza dei servizi e delle dotazioni esistenti, cercandosi tutt’al più, ove possibile, di
migliorare la qualità degli edifici esistenti e di recuperare, attraverso limitati interventi di
riqualificazione, ambiti urbani marginali o degradati e immobili dismessi. A conferma di tale
impostazione la legge del 2000 stabiliva una classificazione tripartita del territorio comunale, in
urbanizzato, urbanizzabile e rurale (art. 28, comma 2, lett. e), e questa netta distinzione costituiva
l’elemento strutturale cardine dal quale discendeva la regolamentazione urbanistica di tali ambiti, in
quanto il primo era vocato, come abbiamo appena visto, principalmente a politiche conservative
dell’edificato esistente; il terzo era diretto a individuare sia le aree a valenza ambientale e
paesaggistica sia quelle da riservare alla produzione agricola, da salvaguardare dallo sviluppo urbano,
ma, a cuscinetto tra esse, il piano doveva individuare le “aree suscettibili di urbanizzazione”, cioè le
aree non urbanizzate, rispetto alle quali non sussistevano fattori impeditivi o fortemente limitanti
della trasformazione urbana, del tutto equiparabili alle tradizionali aree di espansione perimetrate dal
PRG.
A conferma della ambivalenza della L.R. n. 20 del 2000, che – si ripete - aveva introdotto importanti
obiettivi di sostenibilità ambientale e di stretta coerenza tra le caratteristiche del territorio e delle
scelte urbanistiche, ma manteneva un’ampia continuità con gli usuali schemi pianificatori, le norme
dell’Allegato alla legge (relative alle definizioni degli ambiti ed elementi del territorio e alle politiche
da promuovere per ciascuno di essi) prevedevano che il Piano Strutturale Comunale (PSC), con
riguardo alle aree suscettibili di urbanizzazione, perimetrasse i diversi ambiti di possibile sviluppo
urbano, con le relative destinazioni di zona e le caratteristiche insediative ammissibili
(preferibilmente da determinare in termini di limiti massimi di sostenibilità ambientale delle
trasformazioni), finendo per attribuire a queste aree una potenzialità edificatoria a tempo
indeterminato, in modo del tutto analogo a quanto era chiamato a fare esplicitamente il precedente
PRG.
La legge 20 predicava che le previsioni insediative del PSC dovessero essere comunque strategiche,
e tuttavia nella prassi applicativa si coglievano pochissimi esempi di PSC realmente non
(4) Si veda a tal riguardo l’art. 33 della L.R. n. 47 del 1978 che, se può certamente considerarsi una meritoria
anticipazione della c.d. legge Galasso nell’individuazione delle aree di interesse paesaggistico vincolate ope legis (L. 8
agosto 1985, n. 431), presenta il limite di concentrare solo in taluni ambiti d’eccellenza il valore ambientale e
paesaggistico del territorio da salvaguardare.
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conformativi, che presentavano cartografie ideogrammatiche e normative che non disciplinavano le
trasformazioni potenzialmente ammissibili; mentre erano ben più numerosi i casi di piani strutturali
che individuavano una dettagliata disciplina urbanistica, la cui operatività era solo subordinata
all’inserimento delle singole aree nelle previsioni del POC. Questa sola circostanza mostra in maniera
evidente le ragioni per le quali il POC è stato vissuto in concreto come un fattore di appesantimento
del processo di pianificazione, risultando sostanzialmente svuotato della funzione conformativa
attribuitagli dalla legge, svolta quasi completamente dallo stesso PSC, e per questo portato ad
aggravare la fase esecutiva della pianificazione generale, conferita dalla legge ai Piani Urbanistici
Attuativi (PUA) (cui spettava il compito di dettare la puntuale definizione del progetto urbano e della
disciplina di dettaglio delle significative trasformazioni territoriali). Il POC avrebbe potuto mantenere
unicamente la funzione programmatoria delle trasformazioni, dovendo individuare quelle attuabili
nei successivi cinque anni, ma i comuni, con poche eccezioni, non erano in grado di svolgere questa
attività, con la qualità e periodicità che la legge richiedeva, in quanto presupponeva una loro capacità
di conoscere e pianificare, attraverso una complessiva concertazione con il sistema economico, scelte
abitualmente rimesse al mercato e all’iniziativa dei singoli operatori. Sintomo della palese difficoltà
a svolgere questa funzione di programmazione immaginata dalla legge n. 20 è il fatto che
frequentemente i comuni la eludevano ricorrendo alla speciale possibilità prevista dalla legge di
approvare, con un’unica procedura, “POC stralcio con il valore di PUA”, sviando il primo strumento
dalla sua finalità originaria (5). In sintesi, il POC è stato vissuto soprattutto come un adempimento
obbligatorio, di cui non si coglieva la rispondenza ad una effettiva esigenza di interesse generale e,
quindi, prevalentemente come uno strumento che rallentava il processo pianificatorio.
Viepiù, la previsione che la conformazione delle aree urbanizzabili e l’effettiva possibilità di
procedere alla loro trasformazione fosse subordinata necessariamente ai POC faceva sì che nella L.R.
n. 20 del 2000 le aree suscettibili di urbanizzazione perimetrate dal PSC, attesa la funzione strutturale
di questo piano e la natura atemporale delle sue previsioni, non dovessero essere commisurate, nel
loro dimensionamento complessivo, ai fabbisogni insediativi previsti per l’arco temporale di validità
del piano, ma dovessero estendersi a tutti gli ambiti astrattamente urbanizzabili, cioè a tutti quegli
ambiti nei quali il piano non individuasse la significativa presenza di fattori impeditivi o fortemente
limitanti la loro trasformazione insediativa. In tal modo, la pianificazione voluta dalla L.R. n. 20 del
2000 è finita addirittura per ampliare gli ambiti di potenziale edificabilità rispetto anche al precedente
PRG, che comunque, secondo quanto previsto dalla legge n. 47 del 1978, doveva individuare solo le
aree edificabili necessarie per soddisfare il fabbisogno decennale di riferimento.
(5) L’obiettivo sotteso a questo istituto era quello di semplificare il processo attuativo, consentendo al POC, pur sempre
diretto a regolare il complesso delle trasformazioni del territorio comunale da attuare nei successivi cinque anni, di
anticipare l’approvazione di singoli comparti di trasformazione, di cui fosse già disponibile la completa progettazione,
che presentassero carattere di urgenza o che rispondessero ad un interesse pubblico, ecc. Insomma, un meccanismo del
tutto analogo a quello previsto per i piani generali, laddove si prevedeva che il PSC potesse avere anche il valore e gli
effetti di un piano settoriale o tematico di competenza comunale e che il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale
(PTCP) potesse assolvere anche alla funzione pianificatoria di uno o più comuni (articoli 20 e 21). I comuni, invece, si
sono avvalsi frequentemente di questo istituto di semplificazione, sulla base di un POC “stralcio”, cioè di un piano avente
il medesimo ambito di efficacia del PUA che si intendeva attivare, e così privato di ogni funzione programmatoria
generale. In tal modo, l’obiettivo del ricorso al POC con valore di PUA era unicamente quello di consentire l’immediata
approvazione dello strumento attuativo, assolvendo contemporaneamente al vincolo di legge che subordinava i rilevanti
interventi di trasformazione territoriale alla loro previsione nel POC, e dunque – dal punto di vista procedurale –
all’avvenuta approvazione dello stesso.
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L’effetto distorsivo di questa previsione della L.R. n. 20 del 2000, fortemente espansiva degli ambiti
urbanizzabili e dunque delle aree extraurbane potenzialmente suscettibili di trasformazione
insediativa, ebbe la sua consacrazione nel 2006 con l’approvazione di una disposizione statale volta
al “recupero di base imponibile”, che, ai fini solo fiscali, qualificava come edificabili gli ambiti del
territorio extra urbano cui il piano generale avesse riconosciuto una potenzialità edificatoria,
quand’anche subordinata all’approvazione di ulteriori strumenti di pianificazione e al rilascio dei
titoli abilitativi (6). Il pagamento di tali imposte di natura patrimoniale, quali aree edificabili, portò
infatti a rafforzare l’idea che tutte le aree suscettibili di urbanizzazione avessero assunto di fatto tale
qualifica anche ai fini urbanistici. A poco rilevavano le petizioni di principio inserite nel 2009 in
apertura dell’art. 28 della L.R. n. 20 del 2000, che disciplinava i contenuti del PSC, secondo cui
questo piano “non attribui[va] in nessun caso potestà edificatoria alle aree né conferi[va] alle stesse
una potenzialità edificatoria, subordinata all’approvazione del POC, ed [aveva] efficacia
conformativa del diritto di proprietà limitatamente all’apposizione dei vincoli e condizioni non aventi
natura espropriativa”, di natura ambientale, paesaggistica o storico culturale, specialmente laddove,
in concreto, le norme di piano prevedessero già per gli ambiti di espansione una disciplina urbanistica
di dettaglio sufficientemente articolata circa le trasformazioni edilizie ammissibili.
L’impianto della legge urbanistica del 2000, infine, non si era allontanato dalla concezione
tradizionale secondo cui gli ambiti consolidati fossero suscettibili solo di interventi volti al
mantenimento (o tutt’al più al miglioramento) della funzionalità del patrimonio edilizio esistente e
stabiliva, di conseguenza, che le trasformazioni del territorio urbanizzato fossero disciplinate
unicamente attraverso regole generali sugli interventi edilizi. Per questa ragione si prevedeva
l’approvazione – assieme al PSC e al POC - del Regolamento Urbanistico ed Edilizio (RUE), cioè di
uno strumento generale privo di cartografia, che riuniva in sé sia la regolamentazione degli interventi
diretti nel territorio urbanizzato e in quello rurale, sia i contenuti del regolamento edilizio comunale,
e che veniva approvato attraverso le procedure dei regolamenti comunali. Anche la sua successiva
riforma con l’introduzione di strumenti più spiccatamente pianificatori quali gli elaborati cartografici
di piano e di una procedura approvativa equivalente agli strumenti attuativi, non ha innovato
significativamente la funzione del RUE, per così dire, manutentiva dei tessuti urbani esistenti, in
quanto tali innovazioni erano dirette piuttosto a ricercare una maggiore, e a volte eccessiva,
differenziazione degli interventi di qualificazione edilizia ammissibili (quanto agli usi, alle tipologie
di intervento, agli indici, ecc.), cui magari si accompagnavano talune indicazioni circa le dotazioni e
le infrastrutture di cui i tessuti consolidati necessitavano, ma che ben difficilmente potevano essere
realizzate nell’ambito degli interventi edilizi prevalentemente conservativi che il RUE disciplinava.
(6) L’art. 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale,
per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all'evasione fiscale), convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce infatti che ai fini fiscali
“un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale
adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo.”. Come era prevedibile gli uffici tributari, estesero all’intero territorio suscettibile di urbanizzazione la
qualifica di aree potenzialmente edificabili, per di più ricorrendo solo parzialmente a quei coefficienti di abbattimento
progressivo dell’imposta, auspicati già dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, con la sentenza 28 settembre 2006,
25506, affinché si tenesse conto “di quanto sia effettiva e prossima la utilizzabilità a scopo edificatorio del suolo, e di
quanto possano incidere gli ulteriori eventuali oneri di urbanizzazione”. Si vedano anche le ordinanze nn. 41, 266 e 394
del 2008 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
di tale norma ove fosse applicata secondo il prudenziale suggerimento della Corte di Cassazione, con una adeguata
differenziazione tra le aree potenzialmente edificabili.
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1.1. La necessità di una nuova legge urbanistica e di un nuovo piano.
A tre lustri dall’approvazione della L.R. n. 20, il permanente orientamento all’espansione urbana delle
previsioni dei piani urbanistici, nonostante l’oggettiva riduzione della pressione insediativa di tipo
residenziale espressa dal mercato, rendeva evidente l’inadeguatezza di un ulteriore aggiornamento
della legge urbanistica, come era già avvenuto con la L.R. n. 6 del 2009. Era palese, infatti, che la
legge urbanistica del 2000, pur avendo introdotto principi e obiettivi generali fortemente innovativi
in termini di sostenibilità delle previsioni di piano, non era stata in grado di rimuovere il principale
fattore della crescente pressione umana sull’ambiente, a causa della scarsa “effettività” delle sue
previsioni.
A ciò si aggiungeva che la disciplina transitoria della L.R. n. 20, che non poneva limiti perentori alla
possibilità di continuare a dare attuazione alla pianificazione previgente, aveva fatto sì che numerosi
comuni, alcuni anche capoluogo, continuassero ad essere dotati di PRG e che un numero ancora più
elevato di essi, anche dopo l’approvazione degli strumenti a valenza generale previsti dalla nuova
legge (PSC e RUE), considerassero ancora vigenti le previsioni del vecchio piano urbanistico,
continuando a dare esecuzione alle ampie previsioni in espansione che lo stesso presentava, nel
presupposto che le previsioni di PSC non potessero essere considerate efficaci ed attuabili in carenza
di POC. Inoltre, tutti i comuni, indipendentemente dal piano di cui erano dotati, potevano avvalersi
delle procedure speciali in variante, introdotte dalla nuova legge urbanistica o dalle normative
settoriali (accordi di programma, varianti speciali per l’insediamento e l’ampliamento degli impianti
industriali e artigianali, VIA in variante, ecc.), che consentivano di soddisfare le esigenze insediative
straordinarie che non trovavano soluzione nelle previsioni del piano vigente.
Occorreva dunque dotarsi di una nuova legge urbanistica che, senza contraddire ed anzi rafforzando
le scelte generali di sostenibilità ambientale e territoriale e di prudente consumo di suolo, ponesse
rimedio alle palesi contraddizioni della L.R. n. 20, collocando finalmente al centro della disciplina
urbanistica unicamente gli interventi nel territorio urbanizzato di riuso e di rigenerazione urbana e
rendendo coerenti con tali obiettivi generali i singoli istituti in cui si articola la disciplina urbanistica.
Per assicurare l’effettività di questa nuova normativa, in tutto il territorio regionale ed entro tempi
ragionevoli, era altresì necessario prevedere l’obbligo dell’approvazione di un nuovo strumento
urbanistico, IL PUG, che sostituisse necessariamente la pluralità di piani e di discipline urbanistiche,
frutto della precedente compresenza di strumenti approvati in epoche e con normative di riferimento
profondamente differenti, tutte comunque orientate a regolare l’espansione urbana e non capaci di
impedire la dispersione insediativa nel territorio extraurbano. Da ciò la particolare rilevanza di una
disciplina transitoria che fissasse termini perentori per l’assunzione e approvazione del nuovo piano
e che - a differenza del passato - sanzionasse l’inattività comunale con importanti effetti decadenziali
delle previsioni in espansione.
Nello stesso periodo previsto per l’elaborazione e approvazione del nuovo piano, la legge ha
consentito di continuare a dare attuazione a una parte delle previsioni dei piani previgenti. Non si è
ritenuto infatti socialmente sostenibile procedere ad un immediato blocco dell’operatività dei piani
vigenti, e dunque del potenziale consumo di suolo che gli stessi immancabilmente prevedevano, dopo
che una costante politica urbanistica aveva confermato, anche per decenni, la potenziale edificabilità
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conferita alle aree extraurbane, facendo insorgere nella generalità degli operatori una aspettativa sulla
loro definitiva acquisizione. Inutile dire che la possibilità, nel corso del periodo transitorio, di
continuare a portare avanti l’attuazione di taluni contenuti dei vecchi piani e l’ampia attività
gestionale che essa richiedeva, di riconsiderazione delle posizioni pendenti e di negoziazione con gli
operatori potenzialmente interessati, hanno finito per ritardare l’avvio dell’iter approvativo dei PUG
negli anni scorsi. I comuni si sono inevitabilmente concentrati maggiormente nella chiusura dei
processi urbanistici già in corso, in applicazione alla consolidata disciplina dei vecchi piani, piuttosto
che nel ripensamento critico delle politiche territoriali richiesto dalla nuova legge, con le poche
eccezioni dei comuni che avevano già avviato un percorso di rinnovamento dei propri strumenti
urbanistici o che, per diverse ragioni, non intendevano o non potevano proseguire nell’attuazione
delle precedenti previsioni.
In ogni caso, dal 1° gennaio 2024, si potrà considerare definitivamente chiusa l’esperienza urbanistica
precedente, permanentemente diretta all’espansione urbana, in quanto da quella data, sempre a norma
della disciplina transitoria della nuova legge urbanistica, nei comuni ancora dotati dei piani approvati
con la legislazione previgente (PRG o PSC, POC e RUE), si potranno attuare solo le previsioni
relative al territorio urbanizzato che presentino i caratteri degli interventi di riuso e rigenerazione
urbana come definiti dalla nuova legge.
1.2. L’esigenza di ridurre i maggiori oneri amministrativi per gli interventi sul patrimonio
edilizio esistente.
Il secondo ordine di considerazioni alla base delle recenti innovazioni legislative regionali in campo
edilizio, si incentra sul fatto che gli interventi di recupero e di rigenerazione urbana sono
maggiormente gravosi rispetto all’urbanizzazione di aree libere, a causa, da una parte, delle difficoltà
di ordine normativo ad intervenire sui tessuti urbani esistenti, dall’altra, della maggiore onerosità dei
medesimi interventi, sia dal punto di vista strettamente economico, sia per quanto riguarda gli oneri
amministrativi che gravano sugli operatori.
Sotto il primo profilo, è apparso infatti evidente che anche la disciplina edilizia vigente era orientata
a favorire la realizzazione di nuove costruzioni in aree libere, nelle quali era più agevole osservare
scrupolosamente le prescrizioni tecniche e normative vigenti, dirette ad orientare la progettazione di
qualità delle costruzioni; complesse problematiche emergevano invece dalla pretesa di dare
applicazione alla stessa disciplina nel caso di interventi sull’esistente, a causa innanzitutto dei limiti
posti alle modalità di intervento, ovvero della prudenza con la quale il legislatore statale e soprattutto
la giurisprudenza ammettevano che gli interventi di recupero comportassero significative
trasformazioni del manufatto edilizio. Essi muovevano da un palese favor per la conservazione
dell’attuali caratteristiche dei tessuti urbani, anche quando non fossero presenti specifici valori
culturali o storico testimoniali da salvaguardare: si pensi solo alla resistenza prima legislativa e poi
giurisprudenziale a riconoscere che gli interventi di ristrutturazione edilizia ricostruttiva (cioè con
demolizione e ricostruzione) potessero comportare anche modifiche significative della sagoma, dei
prospetti, delle caratteristiche planivolumetriche, funzionali e dei volumi degli edifici. In secondo
luogo, i processi di rigenerazione urbana incontravano l’irragionevole limite di dover osservare
disposizioni sul dimensionamento e la collocazione spaziale dell’edificato (per es. altezza massima e
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distanze tra i fabbricati) e sui requisiti tecnici richiesti ai fini dell’agibilità che, non solo erano state
approvate successivamente all’epoca di realizzazione degli immobili, ma si pretendeva regolassero
anche gli interventi sull’esistente, pur essendo state pensate prevalentemente per le nuove costruzioni.
Un altro ordine di problemi si ricollegava alla vetustà degli edifici esistenti e alle vicende che li
avevano interessati, al fatto cioè che l’attuale stato di fatto degli stessi era frequentemente il prodotto
di una pluralità di interventi di trasformazione edilizia e di adattamento al mutare delle esigenze di
utilizzo, cui avevano corrisposto pratiche amministrative abilitative, che agli occhi degli attuali
operatori, potevano risultare incomplete, con elaborati tecnici inadeguati nella rappresentazione
progettuale dell’intervento ammesso e dell’opera realizzata. Ipotesi tipica di tale disallineamento era
la constatazione che, nel corso dei lavori attuativi di un titolo edilizio legittimamente rilasciato,
potevano essere state realizzate delle varianti che non erano state considerate rilevanti e che, di
conseguenza, erano state tollerate dall’amministrazione comunale nelle correlate certificazioni di
agibilità o ai fini del rilascio dei successivi titoli edilizi. Insomma, una vasta serie di problematiche
nascenti dalla rigida applicazione della normativa oggi vigente che finivano per essere riscontrate
nella quasi totalità degli immobili, compromettendo o ritardando fortemente i processi abilitativi degli
interventi di trasformazione, ma anche la stessa certezza delle posizioni giuridiche e celerità e stabilità
della circolazione dei beni, contraddicendo l’affidamento che gli attuali titolari del bene immobile
potevano avere sulla legittimità della sua costruzione. Si era pervenuti ad una situazione per la quale
praticamente ogni trasferimento immobiliare, così come ogni intervento edilizio, dovevano essere
preceduti dalla presentazione di una pratica edilizia per la regolarizzazione dell’immobile, sempreché
consentita dalla legge.
Da tutto ciò è derivata la piena consapevolezza della strettissima interconnessione tra normativa
urbanistica ed edilizia, laddove si intendesse promuovere una diffusa trasformazione del patrimonio
esistente, in quanto che la disciplina edilizia era in grado di condizionare profondamente o addirittura
impedire l’attuazione delle previsioni urbanistiche. Questa consapevolezza non solo ha comportato
la particolare cura della nuova legge urbanistica regionale nel favorire la gestione attraverso titoli
edilizi dell’attuazione di buona parte delle previsioni di piano, bensì ha promosso, ben prima del
2017, la predisposizione di rilevanti innovazioni legislative regionali specificamente indirizzate alla
semplificazione degli interventi sul patrimonio edilizio esistente, aventi il precipuo scopo di
rimuovere i maggiori oneri amministrativi che gravavano su questi interventi, nella consapevolezza
che gli stessi costituivano uno dei motivi principali che facevano propendere gli operatori economici
nettamente a favore della realizzazione di nuove costruzioni in luogo degli interventi sull’esistente.
La legislazione regionale era già caratterizzata da importanti fattori di semplificazione e accelerazione
di tutti i procedimenti edilizi, grazie alla valorizzazione della funzione di asseverazione conferita, sin
dalla L.R. n. 33 del 1990, ai professionisti e attraverso la sistematica applicazione degli istituti di
semplificazione previsti dalla L. n. 241 del 1990. Inoltre, già dal 2008 era stata attivata, prima con
riferimento alla disciplina sismica e subito dopo a quella edilizia, la standardizzazione delle procedure
amministrative, cui corrispondeva l’univoca determinazione della disciplina da osservare nella
progettazione degli interventi, attraverso la modulistica regionale unificata. Il principale motore di
questo rapido processo di uniformazione si può individuare nell’introduzione dell’istituto degli atti
di coordinamento tecnico regionali (7), cioè di atti regolamentari della Giunta regionale, predisposti
(7) Gli atti di coordinamento tecnico regionali sono disciplinati dall’art. 12 della L.R. n. 15 del 2013 (Semplificazione
della disciplina edilizia); analoga funzione era svolta in precedenza dagli atti di indirizzo e coordinamento previsti dall’art.
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attraverso il confronto con una ampia rappresentanza di tutte le componenti del settore (enti locali,
operatori economici e professionisti) ed approvati d’intesa con il Consiglio delle Autonomie Locali,
cui la legge, in ragione di questa piena condivisione dei loro contenuti, conferisce la possibilità di
essere automaticamente efficaci su tutto il territorio regionale, senza la necessità di un apposito atto
di recepimento comunale e prevalendo sulle eventuali normative locali difformi. Grazie ad un ripetuto
ricorso a questo strumento di concertazione, si sono poste le basi per una uniforme interpretazione e
applicazione della disciplina regionale, nonché per stabilire un linguaggio comune, attraverso la
definizione dei parametri urbanistici e edilizi. Inoltre, questa propensione a fare sistema ha portato
alla regolare emanazione di circolari illustrative delle innovazioni normative anche statali, la quale
ha favorito la loro immediata e uniforme applicazione su tutto il territorio regionale, assieme alla
produzione da parte delle strutture regionali di pareri giuridici, resi disponibili sul sito web
istituzionale dell’ente. L’utilizzo di questi strumenti ha fatto sì che, nell’arco temporale di dieci anni,
si sia passati da una disciplina edilizia parcellizzata, nella quale ogni realtà comunale si dotava di
fatto di una propria regolamentazione della materia (stabilendo autonomamente la definizione e la
modalità di calcolo dei parametri urbanistici ed edilizi, articolando le categorie di intervento,
applicando la disciplina sovraordinata solo a seguito del suo formale recepimento e con tutte le
modifiche testuali, le prassi interpretative e applicative ritenute necessarie per adattarla alle “esigenze
locali”), ad un sistema uniforme e omogeneo che trova nella regione e nei processi di concertazione
che ne contraddistinguono l’azione il preciso punto di riferimento. Questo sistema, accompagnato dal
c.d. “principio di non duplicazione della normativa sovraordinata”, cioè del divieto di riprodurre negli
strumenti urbanistici e nel regolamento edilizio la disciplina legislativa, regolamentare e dei piani
sovraordinati (8) (divenuto poi principio generale statale, grazie al c.d. regolamento edilizio tipo), ha
fatto sì che le innovazioni normative degli ultimi anni, massimamente dirette a promuovere gli
interventi edilizi sull’esistente, hanno potuto trovare immediata e uniforme applicazione su tutto il
territorio regionale, non essendo soggette a scelte discrezionali del Comune circa il loro recepimento.
Ciò è avvenuto anche per la nuova disciplina regionale del contributo di costruzione e per le stesse
riforme statali e regionali in campo edilizio quali, per esempio, le numerose modifiche alle definizioni
delle categorie di intervento e dei relativi regimi amministrativi (in particolare della ristrutturazione
edilizia), per il glossario delle opere edilizie e per il regolamento edilizio tipo.
Accanto a questi fattori di semplificazione della disciplina edilizia nel suo complesso, la legislazione
regionale si è caratterizzata, sin dall’approvazione delle due leggi di recepimento del T.U. per
l’edilizia (la L.R. n. 31 del 2002 e la L.R. 23 del 2004 relative, rispettivamente, alla disciplina dei
titoli edilizi e al sistema sanzionatorio delle opere abusive), per un ampio apparato normativo
specificamente orientato a favorire il recupero del patrimonio edilizio esistente, che esamineremo
analiticamente nella terza parte di questo lavoro e che è stato consolidato e ampliato a seguito
dell’approvazione della c.d. legge Madia (7 agosto 2015, n. 124), dei decreti e accordi attuativi della
stessa e del Decreto Semplificazione (D.L. n. 76 del 2020, convertito con modificazioni dalla L. n.
120 del 2020), in quanto questi provvedimenti legislativi statali hanno recepito nel T.U. dell’edilizia
(DPR n. 380 del 2001) buona parte dei principi innovativi presenti nella legislazione della regione ed
4 della L.R. n. 19 del 2008 (Norme per la riduzione del rischio sismico). Questa esperienza degli atti di coordinamento
tecnico è stata estesa anche alla disciplina urbanistica, per la quale lo sviluppo interpretativo e applicativo degli istituti
più innovativi della L.R. n. 24 del 2017 è stato accompagnato dall’assunzione di tali provvedimenti, ai sensi dell’art. 49
della stessa legge.
(8) Il principio è analiticamente sviluppato dall’art. 48 della L.R. n. 24 del 2017.
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hanno stabilito ulteriori innovazioni immediatamente sviluppate dal legislatore regionale, agevolato
dal fatto che le strutture regionali competenti avevano partecipato attivamente alla loro elaborazione.
Se dunque è indubbio che sussistono taluni fattori oggettivi che ostacolano i processi di riuso e di
rigenerazione urbana, sui quali l’ordinamento regionale può incidere solo in parte (9), si può tuttavia
sottolineare che la legge edilizia regionale ha cercato di assolvere allo specifico compito di ridurre
significativamente almeno gli oneri amministrativi che gravavano sugli interventi di recupero, dovuti
innanzitutto alla necessità di verificare, preliminarmente, la legittimità dell’edificio e di procedere
all’eventuale regolarizzazione dello stesso, ma anche alla complessa qualificazione giuridica degli
interventi edilizi che si intendono realizzare, cui consegue l’individuazione del titolo abilitativo
richiesto, o meglio, del regime amministrativo cui sono sottoposti.
1.3. La riduzione del costo degli interventi di rigenerazione attraverso la disciplina del
contributo di costruzione.
L’ulteriore modalità, con la quale la regione ha cercato di agevolare gli interventi di rigenerazione,
piuttosto che quelli che comportano consumo di suolo, ha riguardato il contributo di costruzione
dovuto per il rilascio o la presentazione dei necessari titoli edilizi. La forte riduzione dell’onerosità
dei titoli edilizi per gli interventi nel territorio urbanizzato costituisce una delle più importanti
innovazioni introdotte dalla nuova legge urbanistica del 2017. Fino a quel momento, la legislazione
regionale si era limitata a ricalcare le forme di esenzione e di riduzione del contributo stabilite dalla
disciplina statale (art. 17, comma 3, DPR n. 380 del 2001), ammettendo solo che i singoli comuni
potessero approvare ulteriori ipotesi di riduzione del contributo per incentivare la qualità dei
manufatti edilizi, cioè qualora possedessero requisiti tecnici più elevati rispetto agli standard minimi
richiesti dalla legge, soprattutto in termini di efficienza energetica, di sostenibilità ambientale dei
materiali utilizzati, ecc. In particolare, era stato utilizzato questo volano per promuovere lo sviluppo
dei c.d. “requisiti volontari” delle opere edilizie, integrativi di quelli obbligatori (denominati
“cogenti”), definiti nell’ambito del regolamento edilizio tipo approvato dalla regione nel 1995 (10).
Nel corso dell’elaborazione della nuova legge urbanistica, si è invece deciso di coniugare la
necessaria rielaborazione della disciplina del contributo di costruzione, non aggiornata da quasi venti
anni, con una stretta funzionalizzazione della stessa al perseguimento dell’obiettivo generale di
promuovere la rigenerazione urbana. In particolare, occorreva regolamentare il contributo
(9) Si considerino, a tal riguardo, innanzitutto la polverizzazione della proprietà immobiliare, la maggiore onerosità
economica degli interventi sull’esistente, gravati dai costi di demolizione e spesso anche di bonifica, e gli elevati valori
immobiliari, non riferiti alla qualità dei manufatti ma legati piuttosto all’aspettativa di una rendita di posizione che grava
sulle aree collocate in ambiti strategici del tessuto urbano.
(10) Il regolamento edilizio tipo fu approvato con delibera di Giunta regionale n. 593 del 28/02/1995, in attuazione
dell’art. 2 legge regionale 26 aprile 1990, n. 33, recante “Norme in materia di regolamenti edilizi comunali”, una legge
fortemente innovativa e anticipatoria di esigenze che risultano ancora attuali e non del tutto realizzate, avendo lo scopo
“di garantire livelli di qualità reale delle opere edilizie e renderle fruibili a tutti i cittadini ai sensi della Legge 9 gennaio
1989, n. 13 … attraverso: a) la formulazione di normative comunali tendenzialmente uniformi e tali da rendere accessibile
agli utenti l'informazione sui livelli di qualità delle opere edilizie e facilitare il compito degli operatori del processo
edilizio; b) l'obbligatorietà della formulazione di tali normative mediante prescrizioni esigenziali-prestazionali, che
propongano più obiettivi da raggiungere che risultati da imitare, rendendo più flessibile la progettazione e sostanziali i
controlli; c) la responsabilizzazione degli operatori pubblici, professionali e produttivi mediante l'esplicitazione dei
compiti e dei controlli nelle diverse fasi del processo edilizio” (art. 1, comma 2).
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straordinario, introdotto dal legislatore statale nel 2014 (11), il quale prevedeva il versamento al
comune di significative somme di denaro, corrispondenti ad almeno il 50 per cento dell’aumento del
valore di mercato delle aree dovuto alle varianti specifiche di cui le stesse beneficiavano, sia grazie
all’attribuzione di una nuova capacità edificatoria, sia attraverso il riconoscimento dell’ammissibilità
di destinazioni d’uso economicamente più rilevanti. Inoltre, la regione non aveva provveduto
all’aggiornamento delle tabelle parametriche per il calcolo degli oneri di urbanizzazione, in ragione
del fatto che le stesse comunque non si discostavano in modo significativo dalla media delle altre
Regioni e che, per quanto riguardava i più significativi interventi subordinati a pianificazione
attuativa, il forte sviluppo dei processi negoziali (grazie all’introduzione degli accordi procedimentali
di cui all’art. 18 della L.R. n. 20 del 2000 ma anche attraverso i tradizionali margini di negoziazione
esercitati in sede di stipula delle convenzioni urbanistiche) e la frequente prassi di introdurre a livello
locale contributi di sostenibilità ambientale, aggiuntivi rispetto al contributo di costruzione, avevano
di fatto ampiamente compensato il mancato aggiornamento tabellare, sostituendolo con una onerosità
più equa in quanto direttamente riferita alla rilevanza delle singole trasformazioni. Il nuovo intervento
regionale sulle modalità di calcolo del contributo di costruzione richiedeva, inoltre, di rideterminare,
su più solide basi economico estimative, anche le restanti quote del contributo di costruzione, riferite
in precedenza a parametri ormai desueti da numerosi anni, non apparendo ragionevole procedere al
semplice aggiornamento Istat dei valori unitari antecedenti. Fu dunque deciso, con apposite previsioni
legislative, che si sarebbe proceduto alla ridefinizione della disciplina sul contributo di costruzione
… con la nuova legge regionale in materia di governo del territorio” (12), cui sarebbe seguita
l’approvazione della delibera assembleare, contenente la normativa di dettaglio.
Non è qui il caso di anticipare né i fondamentali principi affermati dalla nuova legge urbanistica in
materia di contributo di costruzione né le conseguenti previsioni della deliberazione dell’assemblea
legislativa con la quale è stata rinnovata la disciplina di dettaglio dello stesso, che saranno richiamati
sinteticamente al successivo paragrafo 3.3. È sufficiente sottolineare che le importanti misure
economico finanziarie che ne sono derivate, accompagnate da una particolare cura nell’assicurare la
corretta e uniforme applicazione della complessa disciplina che regola il contributo di costruzione in
tutti i comuni, hanno fatto sì che già al termine del primo anno del periodo transitorio della L.R. n.
24 del 2017, in vista dell’approvazione dei nuovi piani urbanistici, l’ordinamento regionale fosse già
pronto a riconoscere un regime contributivo decisamente favorevole per gli interventi di
rigenerazione urbana e, di converso, a stabilire una onerosità nettamente maggiore rispetto ai valori
precedenti per gli interventi in espansione.
Dall’esame della disciplina urbanistica, edilizia e del contributo di costruzione regionale emerge,
dunque, un quadro ordinamentale omogeneo, con il quale la regione ha inteso attivare tutte le leve
normative a propria disposizione per promuovere politiche urbanistiche orientate al riuso e alla
rigenerazione urbana. Nei paragrafi successivi procederemo a esaminare più dettagliatamente le
principali misure che connotano la normativa regionale fin qui tratteggiata.
(11) Il contributo straordinario, previsto alla lettera d-ter) del comma 4 del DPR n. 380 del 2001, è stato introdotto
dall’art. 17 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n.
164.
(12) Si vedano in tal senso l’art. 34, comma 3, della L.R. n. 9 del 2015 – legge comunitaria per il 2015 – e l’art. 10
della L.R. n. 7 del 2016 - legge di assestamento del bilancio regionale – come modificata dall’art. 39 della L.R. n. 25 del
2017.
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2. La nuova legge urbanistica per il riuso e la rigenerazione urbana
Dopo aver esaminato in premessa le ragioni che hanno portato all’approvazione della L.R. n. 24 del
2017, in questo paragrafo sono illustrate le innovazioni messe in campo da questa legge per
promuovere una pianificazione urbanistica decisamente orientata al riuso e alla rigenerazione urbana
e che consenta un limitato consumo di suolo, unicamente quando risulti indispensabile per la
realizzazione di opere e insediamenti strategici per lo sviluppo della comunità regionale e sempreché
non sussistano alternative localizzative nel territorio urbanizzato.
Come si è accennato, questo obiettivo appariva, sin dall’avvio dell’elaborazione del nuovo testo
normativo, estremamente ambizioso, in quanto presupponeva una radicale modifica della stessa
tecnica urbanistica tradizionale, sicuramente efficace nella regolazione dell’espansione insediativa.
Si trattava di sostituire le usuali politiche di governo del territorio, ancora profondamente radicate nel
nostro ordinamento nonostante le acquisizioni generali della L.R. n. 20 del 2000, non soltanto per
ridurre drasticamente il consumo di suolo ma anche per aumentare l’attrattività e la vivibilità dei
tessuti esistenti, accrescendone i servizi e le infrastrutture urbane e aumentando le funzioni strategiche
ivi insediate, ma anche migliorandone la qualità ambientale e la resilienza al cambiamento climatico.
Tali obiettivi richiedono, infatti, un complessivo processo di qualificazione del patrimonio edilizio
esistente, attraverso il miglioramento dei requisiti energetici e di sicurezza degli edifici, ma anche
una ripianificazione delle aree degradate o dismesse che porti a più radicali interventi di sostituzione
dei tessuti urbani che presentano una scarsa qualità architettonica e funzionale.
Ciò che consente di comprendere lo sforzo innovativo espresso dalla L.R. n. 24 è che il legislatore
del 2017, sulla base dei modesti risultati raggiunti nell’esperienza applicativa della L.R. n. 20 del
2000, ha acquisito la consapevolezza che gli obiettivi generali che si prefiggeva richiedessero una
radicale inversione di tendenza dei processi di pianificazione, e che dunque occorresse assumere un
impianto normativo che non lasciasse margini per la prosecuzione della prassi previgente. A tale
scopo occorreva, non solo ribadire la necessità di un uso prudente del suolo, in quanto risorsa
ambientale da preservare nell’ambito della valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale delle
scelte di piano, bensì porre al centro dell’intero processo di pianificazione il principio del “consumo
di suolo a saldo zero”, con un rigore che non ammettesse la prosecuzione delle politiche espansive e
vietasse la dispersione insediativa. Ma di conseguenza, bisognava ripensare l’intera disciplina
urbanistica intorno a questa acquisizione, e fare in modo che essa, in nessuna delle sue previsioni,
risultasse dissonante o comunque consentisse di disattendere tale principio. Alla base di questo
diverso approccio al rapporto dialettico tra rigenerazione e consumo di suolo vi è, dunque, la
convinzione che solo attraverso un effettivo e radicale cambiamento dei contenuti e della forma stessa
dei piani urbanistici sia possibile interrompere quella sorta di moto inerziale grazie al quale il vecchio
modello di urbanistica fondato sull’attribuzione a tempo indeterminato di aspettative edificatorie ha
potuto continuare a perpetuarsi anche dopo l’approvazione della L.R. n. 20 del 2000 e la sua riforma
del 2009, piegando ai consueti contenuti, non soltanto i piani generali e attuativi , ma persino - come
vedremo - gli strumenti più genuinamente innovativi come gli accordi procedimentali con i privati
(ex art. 18).
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La legge del 2017 persegue questo risultato rimarcando la necessità di una nuova tecnica
pianificatoria, fondata unicamente sulla regolazione degli interventi di qualificazione del patrimonio
edilizio esistente immediatamente attuabili e sulla pianificazione di più complessi processi di
sostituzione e addensamento degli ambiti urbani dismessi o di scarsa qualità, gli uni e gli altri da
incentivare con apposite misure premiali; e, nel contempo, sul divieto della pianificazione,
cartografica e normativa, delle nuove urbanizzazioni anche nei pochi casi in cui le stesse sono
considerate ammissibili dalla legge, e comunque sulla loro disincentivazione (in quanto i nuovi
insediamenti, sono comunque subordinati al pagamento di un contributo di costruzione molto più
oneroso e alla realizzazione di ampie e complete dotazioni e infrastrutture territoriali).
Accanto a ciò, la legge stabilisce precise prescrizioni generali, direttamente operanti in tutto il
territorio regionale, a protezione delle aree non urbanizzate. Oltre a rimarcare l’obbligo di una
specifica dimostrazione dell’assenza di ragionevoli alternative che non comportino consumo di suolo,
che è ora oggetto di un vero e proprio obbligo di motivazione delle scelte di piano, viene comunque
posto, come abbiamo già accennato, un limite quantitativo al consumo di suolo (pari al 3% del
territorio urbanizzato esistente alla data di entrata in vigore della legge), con pochi tassativi casi di
deroga allo stesso. Entro tale limite, sono ammessi solo insediamenti strategici per la comunità locale,
escludendosi espressamente nuovi insediamenti residenziali a libero mercato.
L’ulteriore barriera al proseguimento del consumo di suolo è volta a impedire che i piani continuino
a costituire quello che è il presupposto delle politiche urbanistiche espansive, vietandosi
espressamente che i PUG possano individuare e regolare il territorio extra urbano, attraverso
specifiche indicazioni cartografiche cui si leghi una disciplina che riconosca, a tempo indeterminato,
potenzialità edificatorie, anche solo attraverso l’astratta indicazione delle destinazioni d’uso
ammissibili e dei limiti massimi di trasformazioni edilizie ambientalmente sostenibili, come avveniva
con la L.R. n. 20 del 2000. Al contrario, gli eventuali nuovi insediamenti in espansione ammessi
dalla legge trovano nella stessa legge e non nel piano urbanistico un’ampia regolazione delle loro
necessarie caratteristiche, in termini di dotazioni territoriali, infrastrutture e servizi, accessibilità
ciclopedonale e attraverso i servizi pubblici locali, ecc., dovendosi il PUG limitare a stabilire per esse
gli eventuali obiettivi di qualità urbana ed ecologico ambientale, ulteriori rispetto al già elevato
standard richiesto dalla legge, che appaiano necessari in ragione delle carenze pregresse ovvero delle
specifiche caratteristiche del territorio.
Nel determinare questa nuova visione della pianificazione urbanistica, la L.R. n. 24 del 2017 utilizza
una tecnica legislativa non usuale per la materia del governo del territorio, nella quale, in precedenza,
la legge regionale indicava il modello di pianificazione auspicato, nella consapevolezza che i comuni
e le province erano poi portati a reinterpretarlo e adattarlo alle proprie esigenze, con ampi margini di
autonomia che di fatto gli venivano riconosciuti. La nuova legge, invece, oltre a contenere una
puntuale descrizione dei contenuti del PUG, dedicando a ciascun elemento territoriale un apposito
articolo, rafforza i punti cardine della nuova urbanistica che intende perseguire, con l’introduzione di
veri e propri obblighi e divieti, riferiti ai contenuti del piano comunale, ma anche alla stessa
configurazione degli elaborati di piano, con il palese intento di assicurare che, anche grazie a tali
prescrizioni, le singole amministrazioni si attengano ai principi e obiettivi generali fissati dalla legge.
Ciò ha infatti l’effetto palese di stabilire vere e proprie cause di illegittimità dei piani per violazione
di legge: sia una cartografia di PUG che contenga l’individuazione delle aree idonee per nuovi
insediamenti extraurbani che una normativa di piano conformativa dello jus aedificandi di tali aree,
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non soltanto contrastano con disposizioni generali sulle caratteristiche e l’efficacia del piano, e con
norme di dettaglio che illustrano minuziosamente i contenuti delle previsioni del nuovo piano voluto
nella L.R. n. 24, ma risultano anche palesemente in contrasto con espressi divieti posti a conferma di
tali disposizioni di legge (13). Laddove si pretende che i piani generali presentino necessariamente
contenuti strategici non conformativi, si prescrive che, conseguentemente, la relativa cartografia
debba essere ideogrammatica cioè non abbia l’efficacia identificativa di specifiche aree del territorio,
ma risulti meramente indicativa di areali di riferimento e si specifica, a scanso di equivoci, che la
modifica dei suoi perimetri in sede attuativa non costituisca comunque variante al piano generale (14).
Per rafforzare ulteriormente le scelte fondative della nuova legge è stato introdotto il c.d. “principio
di competenza” dei piani, con il quale si stabilisce l’inefficacia delle eventuali previsioni di piano che
esulino dai compiti pianificatori che gli sono attribuiti. L’art. 24, non solo afferma il principio –
apparentemente ovvio - secondo cui ciascun piano deve limitarsi a disciplinare solo gli oggetti e i
profili attribuiti dalla legge alla sua competenza, con ciò affermando un criterio generale che già può
essere considerato causa di illegittimità delle previsioni di piano che lo disattendessero, ma stabilisce
altresì che le previsioni pianificatorie eccedenti i limiti assegnati a ciascun piano non sono comunque
idonee a produrre effetti. Qualora il piano si sia spinto a disciplinare tematismi che esulano dalla sua
competenza e ciò sia causa di una antinomia tra le previsioni di più strumenti, non opera, come in
passato, il tradizionale principio gerarchico, per il quale il piano sovraordinato deve comunque essere
osservato fino alla sua variazione; bensì si stabilisce, in applicazione del principio di competenza,
che, in ogni caso, prevalga quanto stabilito dal piano “cui la regolazione di quella materia o di quella
tematica è conferita dalla legge , senza la necessità di modificare le previsioni dei piani che esulano
dalle loro competenze” (art. 24, comma 2).
L’introduzione del principio di competenza ha trovato origine dall’esigenza di evitare che eventuali
previsioni normative e cartografiche del PUG (relative, per esempio, a nuove previsioni insediative
in espansione o alla disciplina urbanistica di dettaglio di significative trasformazioni di addensamento
e sostituzione urbana), pur esulando dalle competenze pianificatorie di questo strumento, potesse
comunque comportare il riconoscimento della edificabilità anche potenziale di tali aree, grazie
comunque all’esecutività delle sue previsioni. L’art. 24 della legge urbanistica precisa, infatti, che le
eventuali indicazioni localizzative di nuove previsioni e la definizione di indici e parametri urbanistici
ed edilizi stabiliti dal PUG assumono unicamente la funzione di “riferimenti di massima circa
l’assetto insediativo …la cui puntuale definizione e specificazione è di competenza esclusiva della
pianificazione attuativa” (art. 24, comma 2, lett. b). Ma sin dalle sue prime applicazioni questo
principio si è dimostrato anche un potente strumento di regolazione e di semplificazione del rapporto
(13) Quanto al primo divieto di una rappresentazione cartografica delle aree potenzialmente edificabili, si veda
l’articolo 35, comma 6, primo periodo (“gli elaborati [di piano] non contengono in nessun caso una rappresentazione
cartografica delle aree idonee ai nuovi insediamenti”); in merito al divieto espresso di assumere una normativa
conformativa del diritto edificatorio si consideri l’articolo 25, comma 1, (“il PUG e gli strumenti di pianificazione
territoriale [regionali e d’area vasta] non attribuiscono in nessun caso potestà edificatoria alle aree libere né conferiscono
alle stesse potenzialità edificatorie o aspettative giuridicamente tutelate di analogo contenuto”) e l’art. 33, comma 5:
(“…il PUG non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale…”)
(14) Anche questo principio, non solo viene stabilito in modo univoco da una disposizione generale, l’art. 24, comma
2, lett. a), ( “la cartografia relativa ai contenuti strategici … deve avere carattere ideogrammatico…”), ma viene ribadito
sia per il piano comunale che per quelli d’area vasta, della Città metropolitana di Bologna e delle Province, nelle apposite
disposizioni che descrivono i contenuti di ciascun piano (rispettivamente dall’art. 35, comma 6, e dagli articoli 41, comma
4 e 42, comma 4).
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tra i piani dei diversi livelli territoriali e tra quelli dello stesso ente aventi differenti funzioni, e dunque
uno strumento per superare in sede applicativa le eventuali sovrapposizioni tra le previsioni dei
diversi piani, evitando che tali contraddizioni debbano essere risolte in via giurisdizionale ovvero
attraverso l’altrettanto oneroso ricorso a procedimenti di variante ai piani, non essendo applicabile
nel campo della pianificazione urbanistica il ricorso allo strumento dell’autotutela (15).
L’altra esigenza fondamentale che risultò evidente al legislatore del 2017 fu che, per assicurare
l’effettività della nuova disciplina sulla tutela e l’uso del territorio, occorresse rimuovere la
paradossale situazione che si era venuta a creare a causa della non perentorietà della disciplina
transitoria della L.R. n. 20 del 2000, che aveva avuto una applicazione parziale in quasi tutti i comuni,
con un recepimento avvenuto a macchie di leopardo e con una tempistica estremamente dilatata.
Il legislatore del 2000, pur avendo stabilito un termine entro il quale vi era l’obbligo di approvare i
nuovi strumenti di pianificazione (16), ammetteva per un lungo periodo dall’entrata in vigore della
legge (per 5 anni) che si potessero approvare significative varianti al PRG; ma soprattutto consentiva
di continuare ad aggiornare e a dare piena attuazione alle previsioni di PRG fino all’approvazione di
tutti e tre i nuovi piani urbanistici (PSC, RUE e POC) (17). I comuni potevano così procedere, senza
limiti di tempo, all’adozione e approvazione sia di varianti specifiche al PRG, col solo limite che non
comportassero un significativo aumento dei dimensionamenti di piano e non interessassero aree
tutelate, sia di piani attuativi. Tale previsione ha fatto sì che ancora nel 2015 potessero essere
legittimamente compresenti una pluralità di regimi urbanistici, profondamente disomogenei tra loro.
Assieme ai pochi comuni dotati di tutti i nuovi strumenti urbanistici, vi erano numerosi comuni, anche
capoluogo, ancora dotati soltanto di PRG, le cui ampie previsioni insediative in espansione non
incentivavano l’approvazione della strumentazione prevista sin dal 2020. Si rilevava poi un ampio
numero di comuni privi di POC che continuavano a dare applicazione al PRG, in attuazione della
disposizione transitoria sopra citata, nonostante che le previsioni di quest’ultimo, magari molto
risalenti nel tempo, risultassero incoerenti non solo con i criteri di sostenibilità ambientale e
territoriale della legge ma anche con quanto stabilito dallo stesso PSC, ritenuto non efficace in carenza
del piano operativo.
(15) Si supera così in radice una criticità che rendeva particolarmente gravosa la c.d. “pianificazione a cascata”, fondata
su un rapporto gerarchico tra piani, per il quale i piani sovraordinati o generali, anche nel caso in cui non fossero in grado
o non intendessero regolare compiutamente una tematica, potevano comunque stabilire indirizzi vincolanti per la
pianificazione di maggior dettaglio. Tale meccanismo era causa, da una parte, di una eccessiva vastità e complessità dei
piani, in quanto finiva per comportare che tutti i livelli pianificatori si dovessero occupare delle medesime tematiche,
riproducendo, specificando e integrando quanto disposto dal piano sovraordinato; dall’altra, comportava frequentemente
la compresenza di prescrizioni di piano, stabilite dai diversi livelli pianificatori, tra loro non coordinate e addirittura
antitetiche.
(16) Ai sensi dell’art. 43, comma 4, della L.R. n. 20 del 2000, l’obbligo di dotarsi dei nuovi strumenti di pianificazione
era correlato alla scadenza del termine decennale di validità del PRG di cui il comune era dotato, ma non era prevista
alcuna sanzione in caso di sua violazione.
(17) La disciplina transitoria della L.R. n. 20 del 2000 prevedeva solo la facoltà di adottare insieme tutti e tre i piani
(scelta per altro assunta da un numero trascurabile di comuni); e solo con la novella del 2009 (L.R. n. 6) fu introdotto
l’obbligo di approvare contemporaneamente sia PSC che il RUE (art. 43, comma 3).
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Fu dunque evidente che, con la nuova legge urbanistica occorresse prevedere una disciplina
transitoria che traghettasse l’intero sistema regionale da tale situazione ad un unico regime
urbanistico, definendo un periodo transitorio di non breve durata ma perentorio, entro il quale i
comuni dovessero provvedere contemporaneamente a chiudere i processi urbanistici in corso e
predisporre il nuovo strumento di pianificazione comunale. Allo scadere di tale periodo, gli strumenti
di pianificazione approvati in conformità alle legislazioni previgenti (LR. n. 47 del 1978 e L.R. n. 20
del 2000) dovevano perdere la loro validità, o perché decaduti a seguito dell’approvazione del nuovo
piano urbanistico o perché dichiarati inefficaci dalla legge, quantomeno relativamente a tutte le
previsioni che contrastavano con l’obiettivo di promuovere unicamente gli interventi di riuso e di
rigenerazione urbana. Da ciò la rilevanza strategica della disciplina transitoria della nuova legge e la
conseguente scelta di collocarla in apertura della stessa, tra i principi fondamentali, in quanto decisiva
per regolare il passaggio, entro tempi contenuti e perentori, dall’attuale caos pianificatorio e
normativo al nuovo piano urbanistico generale fondato sui principi innovativi stabiliti dalla legge.
Gli articoli 3 e 4 della L.R. n. 24 stabiliscono, in particolare, che il periodo transitorio si articola in
due fasi, corrispondenti all’attività di elaborazione e di approvazione del piano. Una prima fase, di
tre anni dalla data di entrata in vigore della legge (che andava dunque dal 1° gennaio 2018 al 1°
gennaio 2021), prorogata poi di un anno a causa della pandemia da COVID-19 (e dunque conclusasi
il 1° gennaio 2022), entro la quale i comuni erano tenuti a predisporre ed avviare formalmente l’iter
approvativo del PUG, con l’assunzione della proposta di piano secondo le modalità stabilite dall’art.
45, comma 2,. Nel corso della seconda fase, della durata di due anni dalla scadenza della prima (e che
dunque si concluderà il 1° gennaio 2024), i comuni devono provvedere alla approvazione del piano.
La mancata osservanza di tali termini perentori è sanzionata con la perdita di efficacia delle previsioni
in espansione del piano vigente, cioè con il medesimo risultato che la legge intende perseguire
attraverso l’approvazione del nuovo piano, avente ad oggetto esclusivamente il territorio urbanizzato.
Parallelamente alla predisposizione e approvazione del PUG, la disciplina transitoria della L.R. n. 24
consente ai comuni di continuare a dare attuazione ai piani formati in base alla disciplina previgente,
potendosi non solo completare l’iter amministrativo dei piani attuativi in corso alla data di entrata in
vigore della legge, ma anche avviare nuovi procedimenti attuativi secondo la disciplina urbanistica
previgente. Anzi, si introduce una procedura speciale semplificata che permette ai comuni di
selezionare talune previsioni del piano vigente cui dare attuazione con modalità semplificate, purché
rispondano all’interesse della comunità locale e i privati si impegnino alla loro completa attuazione
entro termini ravvicinati e comunque nel corso della validità del piano attuativo (18).
(18) i commi 1, 2 e 3 dell’art. 4, prevedono infatti che il comune possa dare attuazione a parte delle previsioni contenute
nei piani vigenti attraverso un procedimento speciale che vede: la pubblicazione di un apposito bando, con la
specificazione dei criteri di priorità, dei requisiti e limiti in base ai quali l’amministrazione intende selezionare gli
interventi da autorizzare; la presentazione di manifestazioni di interesse da parte dei privati e l’assunzione da parte del
Consiglio comunale di una delibera di indirizzo che individua gli Accordi Operativi (AO) di cui è consentita la
presentazione entro la conclusione della prima fase del periodo transitorio (entro il 1° gennaio 2022) e da approvare nei
due anni successivi. Questa delibera consiliare assolve, in buona sostanza, alla funzione del POC di individuazione delle
trasformazioni ammissibili nell’arco temporale di riferimento. La norma transitoria utilizza il nuovo strumento attuativo,
l’AO, non tanto per il contenuto negoziale che lo caratterizza, dato che la scelta degli interventi ammissibili presuppone
un efficace confronto con i soggetti interessati, quanto piuttosto per la circostanza che l’AO integra, oltre ai contenuti
regolatori della trasformazione (progetto urbano e disciplina urbanistica di dettaglio), la documentazione che consente di
verificare sia la sostenibilità ambientale e territoriale dell’intervento sia la sua sostenibilità economico finanziaria (cioè
una puntuale rappresentazione del piano economico dell’intervento, con la dimostrazione che l’intervento risponde ad
una precisa esigenza di mercato e che l’operatore possiede i requisiti tecnico professionali e le disponibilità finanziarie
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Da sottolineare che, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della L.R. n. 24, il comune, nel promuovere questo
procedimento speciale, doveva tener conto di tutte le situazioni nelle quali un privato potesse vantare
nei confronti dell’amministrazione una posizione giuridica differenziata e qualificata, tra cui
l’avvenuta stipula di un accordo procedimentale (ai sensi dell’art. 18 della L.R. n. 20), la precedente
selezione dell’intervento con una procedura ad evidenza pubblica ai fini della formazione del POC,
ma anche la semplice circostanza che si trattasse di “previsioni nel PSC confermative di zonizzazioni
edificatorie stabilite dal PRG previgente”, in altre parole, che nel passato si fosse consolidata quella
situazione di attribuzione a tempo indeterminato di potestà edificatorie, confermata nonostante il
mutare delle leggi e delle caratteristiche dello strumento urbanistico. Emerge dunque evidente, da una
parte, la consapevolezza nel legislatore regionale che in tutte queste situazioni si è creato nei privati
un affidamento sull’avvenuta acquisizione dello jus aedificandi, con l’elevata probabilità che la nuova
legge comporti l’insorgenza di un’ampia conflittualità sociale, prim’ancora di un elevatissimo
contenzioso, visto il vasto numero di queste posizioni giuridiche in tutta la regione; dall’altra, la sua
ricerca di un percorso procedurale all’interno del quale incanalare quelle aspettative, qualora
risultassero rispondenti all’interesse generale e presentassero i requisiti di concretezza e attualità,
prevedendone la decadenza solo al termine di un processo valutativo delle rinnovate dichiarazioni di
interesse dei privati. Tale percorso, metteva la legge regionale al riparo anche da un possibile
contenzioso costituzionale, motivato dalla irragionevolezza e non proporzionalità di una norma che
stabilisse una moratoria a tempo indeterminato dell’attuazione dei piani vigenti fino all’approvazione
dei nuovi strumenti urbanistici ovvero, addirittura, l’immediata decadenza delle precedenti previsioni
legislative, contenzioso che si è generato rispetto a successive previsioni di altra regione, che hanno
eccessivamente inciso sulle prerogative pianificatorie dei comuni (19).
I procedimenti attuativi avviati nel corso del periodo transitorio erano soggetti alle medesime
scadenze temporali stabilite per l’elaborazione e approvazione del PUG sopra ricordate, essendo
richiesto il formale avvio del procedimento approvativo (con il deposito della proposta di piano da
“necessarie per la completa attuazione del programma di interventi o degli stralci funzionali in cui lo stesso
eventualmente si articola”-art. 38, comma 3, lett. c); ma soprattutto perché l’AO deve presentare i contenuti tipici della
convenzione urbanistica e un cronoprogramma degli interventi, cioè indicare gli impegni assunti dall’operatore circa i
tempi di realizzazione dell’intervento e le opere pubbliche che si obbliga a realizzare. Si può anzi osservare che l’obiettivo
della immediata e completa attuazione degli interventi, propugnata dalla disciplina transitoria della L.R. n. 24, costituisce
anche una caratteristica peculiare della nuova disciplina dell’attuazione dei piani, prescritta proprio per superare l’usuale
prassi urbanistica dell’attribuzione di diritti edificatori a tempo indeterminato, anche a seguito dell’approvazione dello
strumento attuativo che frequentemente vedeva tempi di esecuzione estremamente dilatati.
(19) Si veda a tal riguardo la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 2019, con la quale è stata dichiarata
illegittima una previsione della regione Lombardia che stabiliva una moratoria a tempo indeterminato delle funzioni
pianificatorie comunali, quand’anche di carattere riduttivo del consumo di suolo, in attesa della approvazione di una
strumentazione pianificatoria regionale che ponesse limite allo stesso. Analogamente, la Corte costituzionale ha
dichiarato, con la sentenza n. 202 del 2021, l’incostituzionalità di una disposizione sempre della regione Lombardia che,
nel prevedere misure incentivanti per gli interventi di recupero edilizio, non faceva “residuare in capo ai Comuni alcun
reale spazio di decisione, con l’effetto di farli illegittimamente scadere a meri esecutori di una scelta pianificatoria
regionale”. Entrambe le pronunce muovono dal costante orientamento della Consulta secondo cui quella attinente alla
pianificazione urbanistica rappresenta una funzione comunale che non può essere oltre misura compressa o vanificata dal
legislatore regionale, il quale può piuttosto modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali
che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali, secondo il principio di
sussidiarietà verticale. In questi casi, di conseguenza, il vaglio di costituzionalità delle leggi regionali non si limita alla
verifica in astratto della legittimità dello scopo perseguito ma deve valutare in concreto la necessità e l’adeguatezza della
previsione normativa e il corretto bilanciamento degli interessi coinvolti, così da accertare se la sottrazione di potere ai
Comuni costituisca effettivamente «il minimo mezzo utile per perseguire gli scopi del legislatore regionale» (Corte cost.
n. 179 del 2019).
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parte dei privati ovvero l’adozione dello strumento per i piani di iniziativa pubblica), entro il termine
perentorio di conclusione della prima fase del periodo transitorio, e l’approvazione del piano e la
stipula della relativa convenzione entro i due anni successivi cioè entro il termine di conclusione del
periodo transitorio. Per i piani attuativi avviati prima dell’approvazione della legge si prevedeva un
unico termine (da ultimo prorogato al 1° gennaio 2023) entro il quale i medesimi piani dovevano
essere approvati e convenzionati.
Per i comuni che non hanno assunto tempestivamente la proposta di PUG e per quelli che non
provvederanno alla sua approvazione entro il termine di conclusione del periodo transitorio, la legge
stabilisce una sanzione limitativa della possibilità di dare attuazione ai piani redatti in conformità alle
leggi precedenti, dovendosi considerare decadute ope legis tutte le previsioni che non risultino in
corso di attuazione, se relative al territorio suscettibile di urbanizzazione, e dunque tutte le previsioni
di piano attributive di potenzialità edificatorie in espansione. Questo effetto decadenziale non si
estende invece agli interventi effettuabili per intervento diretto (cioè previa presentazione del titolo
edilizio) nonché alle previsioni di piano che riguardino il territorio urbanizzato che presentino le
caratteristiche degli interventi di riuso e di rigenerazione urbana, come descritti dall’art. 7, comma 4,
della L.R. n. 24. L’effetto decadenziale delle previsioni in espansione non opera nei riguardi dei
comuni che, osservando la tempistica stabilita dalla legge, abbiano avviato formalmente l’iter
approvativo del PUG entro la prima fase del periodo transitorio e lo completino entro la seconda fase.
In questi comuni si realizza così di fatto l’allungamento del periodo transitorio, rimesso però alla
valutazione discrezionale dell’amministrazione comunale (20).
Sempre in considerazione della circostanza che i nuovi strumenti urbanistici, in ottemperanza alla
nuova legge, sono destinati a stabilire discipline antitetiche a quelle dei piani previgenti, quantomeno
per quanto riguarda il territorio extraurbano, la L.R. n. 24 prescrive che il PUG, adottato e approvato,
debba far salva espressamente la possibilità di completare l’iter approvativo degli strumenti attuativi
avviato secondo la disciplina transitoria appena ricordata e di dare completa attuazione agli stessi, ivi
compresi i titoli edilizi da rilasciare o presentare per la loro esecuzione. In assenza di tale norma,
come abbiamo appena osservato, l’applicazione del meccanismo di salvaguardia sospenderebbe l’iter
amministrativo di tutti gli strumenti esecutivi e dei titoli edilizi che trovassero fonte nel piano generale
previgente; e dopo l’approvazione del piano, secondo le regole generali, sarebbero fatti salvi solo i
titoli edilizi già rilasciati e per i quali siano stati iniziati i lavori (art. 15, comma 4, del DPR n. 380
del 2001). In tal modo, si caducherebbero gli effetti della disciplina transitoria e si realizzerebbero i
presupposti per un palese vizio dei PUG per eccesso di potere, per la palese contraddittorietà degli
(20) A tal riguardo occorre considerare che, secondo la disciplina delle c.d. “misure di salvaguardia”, dopo l’adozione
da parte del Consiglio comunale, non si possono più assumere strumenti urbanistici attuativi e rilasciare titoli abilitativi
che siano in contrasto con le previsioni del piano in corso di approvazione (art. 12, comma 3, DPR n. 380 del 2001 e art.
27 L.R. n. 24). Pertanto, dal momento che il PUG è chiamato dalla nuova legge urbanistica a stabilire una disciplina
antitetica rispetto a quella che caratterizzava i piani precedenti, l’applicazione della salvaguardia comporterebbe, in modo
pressoché sistematico, un effetto decadenziale del tutto analogo a quello appena descritto, bloccando ogni possibilità di
avviare nuovi strumenti attuativi che comportino consumo di suolo. Tuttavia, secondo l’innovativo procedimento previsto
dalla L.R. n. 24 per l’approvazione di tutti gli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, l’avvio dell’iter
approvativo del piano avviene attraverso l’assunzione della proposta di piano da parte della Giunta comunale e non
comporta, di norma, l’applicazione della disciplina di salvaguardia; se l’amministrazione comunale intende applicare
immediatamente la salvaguardia occorre che l’assunzione della proposta di piano sia deliberata dal Consiglio comunale.
Ne consegue che, per i comuni che abbiano provveduto all’assunzione del PUG con atto di Giunta, risulta a tutti gli effetti
prorogato il periodo transitorio entro il quale gli stessi hanno la possibilità di continuare ad attuare tutte le previsioni del
piano vigente, fino all’adozione del piano da parte dell’organo consiliare e comunque non oltre il 1° gennaio 2024, cioè
fino al termine massimo previsto per il completamento dell’iter approvativo del PUG.
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atti assunti nella fase transitoria dall’amministrazione comunale che, dopo aver consentito l’avvio del
procedimento diretto all’attuazione di talune previsioni dei piani precedenti, ne precluderebbe
l’attuazione con l’assunzione del PUG. Insomma, in carenza di tale disposizione si sarebbe realizzata
una situazione talmente problematica da costituire un forte disincentivo all’avvio dell’iter
approvativo dei PUG (21).
Si noterà che la scelta operata dal legislatore circa gli effetti della conclusione del periodo transitorio
della legge regionale del 2017 è opposta rispetto a quanto stabilito dalla L.R. n. 20 del 2000 che,
consentendo di dare attuazione alle previsioni di PRG a tempo indeterminato, fino all’approvazione
dei tre strumenti pianificatori, non ha reso prioritaria la predisposizione e approvazione della nuova
strumentazione per i numerosi comuni che avevano aggiornato di recente il proprio piano o che
trovavano comunque in esso ampie potenzialità edificatorie da attuare. All’opposto, la disciplina
transitoria della legge urbanistica del 2017 ha consentito di continuare a modificare i piani vigenti e
a dare attuazione agli stessi solo per lo stesso periodo nel quale i comuni erano tenuti a predisporre il
nuovo piano, precludendo la prosecuzione delle politiche di espansione urbana alla scadenza di tale
termine. Inoltre, per evitare che l’esecuzione dei piani attuativi si possa prolungare a tempo
indeterminato, con l’effetto di dilatare in via di fatto la validità delle previsioni dei piani antecedenti
alla nuova legge, la disciplina transitoria prescrive altresì che tutte le convenzioni urbanistiche
(comprese quelle dei piani attuativi approvati ante L.R. n. 24) debbano stabilire termini perentori per
la presentazione dei titoli edilizi, assicurando in tal modo l’immediata e completa realizzazione degli
interventi disciplinati dal piano attuativo. Anche la mancata presentazione dei titoli edilizi secondo
questo cronoprogramma è sanzionata con la decadenza dello strumento attuativo, evidentemente per
le parti non ancora realizzate.
Si osserva che, per i piani attuativi approvati e convenzionati nel corso del periodo transitorio e anche
prima dell’entrata in vigore della legge, non appaia ammissibile la possibilità di una proroga della
validità della convenzione urbanistica, secondo la prassi comunemente seguita in passato in caso di
incompleta esecuzione degli interventi (22), in quanto essa contrasterebbe con l’intero impianto della
disciplina transitoria fin qui descritto e con l’espressa previsione dell’art. 4, comma 5, ultimo periodo,
secondo cui i termini per la presentazione dei titoli edilizi devono assicurare l’immediato avvio della
(21) È ipotizzabile che i comuni, secondo la prassi frequentemente seguita nei piani previgenti, tendano ad estendere
l’ambito di applicazione di questa disposizione anche a talune previsioni in espansione non ancora attuate, stabilendo che
tali ambiti continuino ad essere regolati dalla disciplina previgente con l’evidente obiettivo di evitare ogni possibile
contenzioso: inutile dire come questa previsione risulterebbe palesemente in contrasto con le finalità della norma
transitoria della L.R. n. 24, avente proprio l’obiettivo di una completa e definitiva decadenza delle previsioni in espansione
che non siano effettivamente in corso di realizzazione, al termine delle due fasi del periodo transitorio più volte ricordato.
(22) La giurisprudenza è concorde nel ritenere illegittima la proroga dei piani attuativi e delle relative convenzioni
laddove la realizzazione degli interventi non sia stata neppure avviata (si veda, tra le tante pronunce in tal senso, la
sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 5 luglio 2013 n. 5807): ciò non ostante, anche nella regione Emilia-Romagna,
nella comune convinzione della definitività dell’attribuzione dei diritti edificatori (per la teoria dei c.d. “diritti acquisiti”),
la prassi era nel senso di ammettere la proroga anche in questi casi, così come si ammetteva che il convenzionamento dei
piani attuativi avvenisse dopo molto tempo dalla loro approvazione e si riconosceva la possibilità di più proroghe dei
tempi di esecuzione degli interventi avviati, andandosi ben oltre la validità decennale dei piani attuativi. Non era poi
infrequente che le proroghe, assunte con una mera delibera consiliare, venissero deliberate anche successivamente alla
scadenza di validità del piano e della tardiva convenzione! Insomma, una prassi non proprio commendevole, legata
unicamente alla concezione dei “diritti acquisiti”.
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esecuzione “dell’intero intervento”, sanzionando il non rispetto di tale condizione con la decadenza
delle corrispondenti previsioni della convenzione stessa (23).
È palese dunque l’obiettivo del legislatore regionale di stabilire una data certa, il 1° gennaio 2024,
oltre la quale sarà interdetta ogni attività pianificatoria volta a proseguire l’avvio dell’attuazione dei
piani urbanistici generali approvati con la legislazione previgente, sia in quei comuni che nel
frattempo avranno approvato il nuovo piano urbanistico, sia in quelli rimasti inattivi, nei confronti
dei quali troverà applicazione l’espressa statuizione di legge della decadenza delle previsioni dei piani
formati secondo le legislazioni previgenti che comportino consumo di suolo (24).
Tuttavia, dopo il 1° gennaio 2024, non si interromperà il progressivo consumo di suolo pianificato
dai piani urbanistici approvati negli anni passati, in quanto proseguirà, così come è avvenuto nel
periodo transitorio, l’attività edilizia volta alla costruzione degli insediamenti in espansione
disciplinati dagli strumenti attuativi approvati e convenzionati prima dell’entrata in vigore della legge
o nel corso del periodo transitorio secondo le regole sopra richiamate. A differenza del passato,
l’esecuzione di questi piani dovrà svolgersi entro i tempi celeri e perentori per la presentazione dei
titoli edilizi che, secondo la disciplina transitoria, devono essere individuati in convenzione (anche
modificando le convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore della legge). Sarà dunque al termine
di validità di queste convenzioni che si potrà rilevare un netto arresto del consumo di suolo, anticipato
dalla progressiva riduzione dello stesso via via che giungeranno a scadenza i piani attuativi
convenzionati.
Al termine del periodo transitorio, sarà piuttosto immediatamente percepibile, il taglio netto delle
previsioni urbanistiche in espansione, cioè delle potenzialità edificatorie, attribuite a tempo
indeterminato dai piani previgenti, che saranno definitivamente decadute, per effetto del
riallineamento di tutti gli strumenti urbanistici comunali della regione alla sola regolazione del
territorio urbanizzato voluto dalla legge (25).
(23) Per questa ragione appariva auspicabile che i comuni, nel corso del periodo transitorio, prescrivessero che
l’esecuzione dei nuovi insediamenti dovesse avvenire per lotti funzionali autonomi, in modo che la mancata completa
esecuzione dell’uno risultasse preclusiva della urbanizzazione delle restanti parti del nuovo insediamento.
(24) Più in particolare, al termine di ciascuna delle due fasi del periodo transitorio, in caso di mancata predisposizione
e approvazione del PUG, così come in caso di non tempestiva presentazione e convenzionamento degli strumenti attuativi,
le aree in espansione acquisiscono la qualifica di aree parzialmente pianificate (c.d. “aree bianche”) nelle quali, in attesa
dell’approvazione del nuovo piano, l’art. 8 della L.R. n. 15 del 2013 consente unicamente gli interventi di recupero
dell’eventuale patrimonio edilizio esistente, secondo quanto previsto dal piano vigente (e dunque interventi di
manutenzione, restauro, ristrutturazione e demolizione, escludendosi ogni nuova costruzione).
(25) Secondo uno studio (“Consumo di suolo e rigenerazione urbana: un primo bilancio della L.R. n. 24/2017”),
presentato il 28 novembre 2023, che è stato predisposto dalla regione in collaborazione con le Università di Parma e
Bologna e con l’Istituto sui Trasporti e la logistica e che ha coinvolto 226 dei 330 comuni, per effetto della conclusione
della prima fase del periodo transitorio definito dalla L.R. n. 24 del 2017, in questi comuni risultano decadute previsioni
in espansione per 15.274 ettari, pari al 69,7% dei 21.922 previsti nei piani vigenti (una proiezione dei dati disponibili
all’intero territorio regionale porta a ipotizzare un effetto decadenziale per 18.580 ettari sui 26.666). Prima dell’entrata
in vigore della L.R. n. 24 del 2017, nei 226 comuni risultano convenzionate previsioni insediative per 2.715 ettari. Nel
corso della medesima fase è stato avviato l’iter approvativo di piani attuativi in espansione per 2.724 ettari, di cui, al 30
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Ma era possibile introdurre una disciplina che stabilisse l’immediata interruzione di tutti i
procedimenti in corso, come auspicato dai critici del gradualismo scelto dal legislatore regionale (26)?
A tal riguardo, occorre considerare innanzitutto che, di norma, le scelte operate dai piani urbanistici
giungono a concreta esecuzione dopo numerosi anni, sia perché l’attuazione di un nuovo
insediamento edilizio richiede una complessa attività preparatoria per l’individuazione e
contrattualizzazione della pluralità di soggetti coinvolti (sistema bancario, imprese di costruzioni,
agenzie immobiliari, ecc.) sia perché la realizzazione delle opere di urbanizzazione e dei nuovi
insediamenti richiede un periodo non breve di costruzione delle opere. Il consumo di suolo che si
registra ad una certa data è dunque l’esito di una attività di pianificazione generale e attuativa che
frequentemente ha mosso i primi passi uno o più lustri prima. pertanto, non vi è dubbio che una
moratoria che bloccasse questi processi quando siano entrati in fase esecutiva avrebbe degli impatti
economici e sociali davvero rilevanti per tutti gli operatori coinvolti a vario titolo in tale attività.
Ma prim’ancora di tener conto della lunghezza della fase realizzativa delle opere, bisogna tener conto
che fino ad oggi la pianificazione urbanistica tradizionale, anche nella nostra regione, tendeva in
maniera pressoché sistematica ad avallare quella che era diventata una vera e propria teoria dei così
detti “diritti acquisiti”, non solo confermando nei nuovi piani le previsioni attributive di potestà
edificatorie stabilite dagli strumenti urbanistici generali previgenti, ma anche prolungando gli effetti
dei piani attuativi, grazie alla proroga dei termini di efficacia degli stessi e delle relative convenzioni
urbanistiche, disposta con semplice deliberazione consiliare, assunta, in taluni casi, persino dopo la
loro scadenza. La stessa stipula delle convenzioni frequentemente avveniva dopo diversi anni dalla
approvazione del piano attuativo. Certo già in passato si sarebbe potuto contestare a tale concezione
che già la c.d. legge Ponte n. 765 del 1967 aveva espressamente previsto che l’entrata in vigore di
una disciplina urbanistica incompatibile comportasse la decadenza, sia dei titoli edilizi rilasciati,
qualora non fossero stati ancora avviati i lavori, sia, a fortiori, di tutti gli strumenti urbanistici che
avessero solo pianificato l’intervento (27). Ma ai comuni era ben chiaro che il ricorso a questa
disposizione avrebbe comportato non solo l’elevata probabilità di un sistematico contenzioso da parte
degli interessati, che per effetto della decadenza avrebbero visto scemare il rilevante valore
economico delle aree, ma soprattutto sarebbe stato causa di una forte opposizione all’approvazione
stessa dei piani che avessero inteso introdurre previsioni urbanistiche contrastanti con le precedenti,
rendendo burrascoso l’iter approvativo dei nuovi strumenti. Per tali ragioni i nuovi piani comunali,
giugno 2023, sono state approvate e convenzionate previsioni in espansione per 1.209 ettari (pari al 44% di quelle
avviate).
(26) Si consideri per esempio il progetto di legge regionale di iniziativa popolare n. 5990, presentato il 17 novembre
2022 (“Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati”), nel quale si dichiara la necessità
di interrompere l’espansione insediativa, in quanto la salvaguardia del suolo permeabile viene considerata un interesse
pubblico prevalente su ogni altra esigenza di ordine economico e sociale. Paradossalmente, tuttavia, il PDL non delinea
le modalità di realizzazione di tale obiettivo, semplicemente demandando alla regione di adeguare entro 180 giorni “le
proprie disposizioni legislative e regolamentari” per il raggiungimento dello stesso (articolo 3, comma 2). Si rinvia cioè
ad una successiva legge regionale la concreta realizzazione di questo risultato, come potrebbe avvenire nel caso di una
legge statale che si limitasse a definire i principi fondamentali di un istituto giuridico conferendo interamente alla regione
l’approvazione della relativa disciplina di dettaglio. Inoltre, in palese contraddizione con questa impostazione, gli articoli
successivi si limitano a modificare l’attuale disciplina della L.R. n. 24, per rendere più gravosa l’approvazione di nuove
previsioni in espansione.
(27) Il principio che la normativa sopravvenuta comporta la decadenza dei titoli edilizi rilasciati che siano in contrasto
con essa, salvo che i lavori siano già iniziati e siano completati entro il termine di efficacia del titolo stesso (senza la
possibilità di proroga), era sancito dall’art. 31, penultimo comma, della L. n. 1150 del 1942 come sostituito dall’art. 10
della legge 6 agosto 1967, n. 765; ora è previsto dall’art. 15, comma 4, del T.U. edilizia (DPR n. 380 del 2001).
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pur non rinunciando a introdurre ulteriori previsioni insediative in espansione rispondenti ai nuovi
fabbisogni rilevati, nella maggior parte dei casi hanno anche salvaguardato la possibilità di dare
attuazione alle precedenti previsioni in espansione, attraverso norme transitorie di piano che, spesso,
richiamavano persino le modalità procedurali previgenti, nonostante la mutata normativa di
riferimento, per consentire la pacifica conclusione dei processi urbanistici già avviati, non rendendo
necessaria neppure la rielaborazione o integrazione degli strumenti attuativi e, meno che mai, il
riavvio del loro iter approvativo (28).
In questo contesto, era immaginabile che si potesse introdurre una disciplina che stabilisse
l’immediata moratoria di tutti i procedimenti in corso? In astratto la risposta avrebbe potuto essere
favorevole, ma nell’assoluta consapevolezza che ciò avrebbe fatto sorgere forti resistenze
all’approvazione della stessa legge e un immancabile contenzioso anche costituzionale. A tal riguardo
si può solo evidenziare che negli anni immediatamente precedenti erano stati avanzati in Parlamento
numerosi progetti di legge per la riduzione del consumo di suolo, molti dei quali prevedevano una
moratoria dell’edificazione in espansione, in attesa della esecuzione di un complesso meccanismo di
distribuzione di quote di consumo ammissibile, senza che le stesse maggioranze politiche che le
avevano presentate fossero riuscite a completarne l’iter approvativo (29). A ciò si aggiunga che queste
proposte perseguivano unicamente la drastica riduzione del consumo di suolo senza intervenire
significativamente sulla principale causa di questo fenomeno, costituita dall’orientamento
dell’urbanistica, anche nelle sue concezioni più innovative (30), a regolare l’espansione urbana e non
la rigenerazione dei tessuti esistenti.
La scelta del legislatore regionale è stata piuttosto di attivare un processo di medio periodo che, grazie
ad una modifica dell’impianto stesso della disciplina urbanistica, produrrà questo risultato
progressivamente, come del resto richiede l’Unione europea, che fissa al 2050 l’obiettivo del
consumo netto di suolo pari a zero (31). Rispetto a questa tempistica, anzi, la L.R. n. 24 disciplina un
(28) Non vi è dubbio che questo atteggiamento è alla base anche della prassi applicativa della disciplina transitoria
della L.R. n. 20 del 2000, che ha spinto numerosi comuni a continuare ad attuare il previgente PRG, nonostante l’avvenuta
approvazione di una legge regionale per molti profili incompatibile con le precedenti previsioni (in quanto prescriveva
una valutazione di sostenibilità ambientale e territoriale delle significative trasformazioni del territorio e richiedeva più
ampie e rilevanti dotazioni pubbliche per i nuovi insediamenti), e persino quando si fossero dotati di un piano generale,
il PSC, adeguato ai dettami della nuova legge.
(29) Si consideri che in particolare dal 2012 al 2016, ai fini del contenimento del consumo di suolo, sono state
presentate dieci proposte di legge da buona parte delle forze politiche presenti in Parlamento (due del Partito Democratico,
due di Sinistra Ecologia e Libertà, due del Partito della Libertà, due del Movimento 5 Stelle ed una di Scelta Civica) che
hanno alimentato un ampio dibattito sul tema ma non sono pervenute all’approvazione finale delle due Camere.
(30) Anche i metodi di perequazione urbanistica sviluppatasi nei decenni scorsi in alcune realtà regionali tendono a
comportare un maggiore consumo di suolo e poco si attagliano agli interventi di riuso e rigenerazione urbana.
(31) Al momento dell’approvazione della L.R. n. 24 del 2017, il settimo programma generale d’azione dell’Unione in
materia di ambiente fino al 2020 (“Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta”), adottato con la Decisione n.
1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013, fissava l’obiettivo del “consumo netto di
suolo pari a zero” entro il 2050. In precedenza, la Comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo al
Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, n. 571 del 20.9.2011 (“Tabella di marcia
verso un’Europa efficiente nell'impiego delle risorse”) poneva l’analogo obiettivo di arrivare a quota zero di “occupazione
dei terreni” entro il 2050. Ad oggi, la Comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo al Consiglio,
al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni n. 699 del 17 novembre 2021 (“Strategia dell'UE
per il suolo fino al 2030”), nel richiamare il medesimo obiettivo al 2050 richiede di adottare, da subito, nella pianificazione
territoriale una “Gerarchia del consumo di suolo” che preveda, in ordine di priorità decrescente, di: a) evitare il consumo
e l’impermeabilizzazione del suolo; b) riutilizzare le aree già consumate e impermeabilizzate; c) se non si possono evitare
il consumo o l’impermeabilizzazione del suolo né il riutilizzo dei terreni allora, consumare o impermeabilizzare aree già
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percorso più breve, che pone al 1° gennaio 2024 il limite temporale per la pianificazione degli
interventi di trasformazione del territorio extraurbano e vede al massimo nei dieci anni successivi
l’esecuzione degli interventi di nuova urbanizzazione disciplinati dai piani attuativi approvati e
convenzionati entro la medesima data. Assieme alla esecuzione di queste convenzioni urbanistiche,
è ammessa soltanto una crescita del consumo riferita ad una ulteriore quota pari al tre percento
delle aree già urbanizzate al 1° gennaio 2018 e la possibilità del ricorso al meccanismo del “consumo
di suolo a saldo zero”, cioè della realizzazione di nuovi insediamenti in espansione solo qualora siano
accompagnati dalla contemporanea “desigillazione” di aree già urbanizzate e dalla loro definitiva
destinazione ad usi che ne mantengano la permeabilità.
Tuttavia, non perseguendo la legge urbanistica unicamente la tutela del suolo, ma anche l’attrattività
e competitività del territorio regionale, è previsto che taluni interventi, qualificati dalla legge di
rilevante interesse generale, possano, non soltanto beneficiare di procedure speciali di localizzazione
in variante alla pianificazione, ma anche comportare consumo di suolo, in misura non conteggiata
entro il limite del tre percento, purché si dimostri l’oggettiva carenza di ragionevoli alternative in
termini di riutilizzo di ambiti già urbanizzati (art. 6, comma 5, L.R. n. 24). Si tratta di interventi
essenziali per lo sviluppo regionale, come le opere pubbliche e di interesse pubblico, i nuovi
insediamenti produttivi che adottino tecnologie avanzate (come l’intelligenza artificiale, la robotica,
la biotecnologia, ecc.), lo sviluppo e la trasformazione delle attività economiche già insediate.
Tuttavia, anche per queste attività economiche, di nuovo insediamento o in ampliamento
dell’esistente, la legge prevede che si possa concordare, in sede di stipula della convenzione
urbanistica, che le trasformazioni in espansione siano in tutto o in parte compensate dalla
realizzazione di interventi di desigillazione di aree urbanizzate da destinare a funzioni che assicurino
la conservazione della permeabilità dei suoli (e dunque a verde pubblico o privato, a bosco urbano
ecc.), incentivando il ricorso a tali soluzioni compensative facoltative con la possibilità di scomputare
dal contributo di costruzione dovuto per l’intervento l’intero valore delle opere di rinaturalizzazione
(art. 6, comma 6, L.R. n. 24).
La L.R. n. 24 ha riformato radicalmente il ruolo e la funzione degli strumenti urbanistici, non solo
per semplificare la tripartizione del piano generale in PSC, POC e RUE (32), operata dalla legge
urbanistica del 2000 secondo un modello di pianificazione che si era dimostrato troppo complesso
da gestire e da governare, nella differenziazione della funzione dei diversi piani, persino per i comuni
medi e grandi (33); ma anche per superare il ruolo secondario, quasi accessorio, riservato dalla
degradate; d) se avviene un consumo di suolo, applicare misure di mitigazione e compensazione per ridurre al minimo la
perdita di servizi ecosistemici.
(32) Nella concezione della L.R. n. 20 del 2000 il PSC era il piano delle scelte strategiche e strutturali, il POC il piano
attributivo del diritto edificatorio e di programmazione delle trasformazioni significative da attuare nei successivi cinque
anni, il RUE il regolamento che disciplinava gli "interventi diretti”, cioè le trasformazioni subordinate alla sola
presentazione del titolo abilitativo edilizio.
(33) Si pensi alla comune difficoltà a dotarsi del POC e a provvedere al suo periodico aggiornamento, ma anche alla
circostanza che ben raramente i PSC si sono mantenuti entro i confini indicati dalla legge , non tanto rispetto alla funzione
di piano strutturale (cioè alla ricostruzione del quadro conoscitivo e diagnostico del territorio comunale, alla
classificazione del territorio e alla individuazione della destinazione urbanistica dei diversi ambiti e degli obiettivi di
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pianificazione urbanistica tradizionale sia alla pianificazione attuativa sia alla disciplina edilizia e al
regime amministrativo dei titoli abilitativi richiesti per la concreta realizzazione degli interventi
pianificati.
La nuova concezione della pianificazione urbanistica si articola in due momenti nettamente distinti
tra loro: da una parte il piano generale, il PUG, il cui oggetto principale è la disciplina del sistema
insediativo esistente, che ha il compito di stabilire gli obiettivi strategici di interesse pubblico, e per
questo non negoziabili, cui devono risultare conformi gli interventi attuativi (definendo le tutele, i
parametri di sostenibilità ambientale e territoriale, le scelte generali circa la qualità urbana ed
ecologico ambientale del territorio comunale che si intende realizzare, ecc.); dall’altra, gli strumenti
attuativi, costituiti primariamente da un atto negoziale (34), l’Accordo Operativo (AO), con il quale
stabilire, in conformità alla legislazione e alle prescrizioni del PUG, l’effettiva regolamentazione
delle trasformazioni ammissibili.
Questa impostazione valorizza dunque la funzione pianificatoria della fase attuativa, riconoscendo
che essa costituisce il vero momento di composizione tra gli interessi territoriali di cui è portatore il
comune, come fissati nel PUG, e gli interessi economici dell’operatore privato che concretamente
realizza gli interventi. La netta distinzione di funzione dei due momenti pianificatori è tale che, come
abbiamo visto, per il principio di competenza, il PUG non può estendere le proprie previsioni agli
ambiti riservati allo strumento attuativo, allo stesso tempo lo strumento attuativo non può apportare
variante al piano comunale generale. Si supera, in tal modo, un altro istituto particolarmente
consolidato della disciplina urbanistica precedente e ampiamente praticato, il piano attuativo in
variante: palese manifestazione della disconosciuta natura negoziale degli strumenti attuativi, in
quanto era la modalità con la quale il soggetto attuatore poteva richiedere modifiche alla disciplina
urbanistica di dettaglio astrattamente determinate dal piano generale, avviando di fatto una
contrattazione con l’amministrazione comunale che si svolgeva in modo non trasparente (35).
sostenibilità ambientale e territoriale da perseguire, alla definizione delle tutele e alla individuazione della principale rete
delle infrastrutture, dotazioni e servizi esistenti o da programmare) quanto piuttosto rispetto alla prerogativa di piano
strategico, solo di inquadramento generale delle significative trasformazioni ammissibili, esondando nel riconoscimento
di potenzialità edificatorie a tempo indeterminato, non raramente anche con l’approvazione di schede progetto, indici
massimi, destinazioni d’uso ammissibili, ecc.
(34) Nella sua tendenza a valorizzare e rendere trasparente il momento negoziale che è centrale nella fase attuativa,
l’impianto originario del progetto della nuova legge urbanistica prevedeva unicamente l’Accordo Operativo, quale
strumento attuativo della pianificazione urbanistica, anche in considerazione dell’assoluta eccezionalità nella precedente
esperienza di reali piani attuativi di iniziativa pubblica. Nella fase approvativa della proposta di legge, fu tuttavia
introdotto anche l’istituto del Piano Attuativo di Iniziativa pubblica (PAIP), pensato “in particolare per gli ambiti che
presentano un particolare valore sotto il profilo paesaggistico, ambientale architettonico, storico artistico e
testimoniale” o , all’opposto, per intervenire in ambiti “caratterizzati da una significativa carenza di tali fattori identitari”
e dalla particolare carenza di dotazioni infrastrutture e servizi o da “significative criticità ambientali” (art. 38, comma
17). A causa della peculiarità di tali strumenti e della limitatissima rilevanza degli stessi nei processi di rigenerazione
urbana, in questo lavoro si fa esclusivo riferimento agli AO, quale modello generale di strumento urbanistico attuativo.
(35) L’esame della prassi urbanistica, invariata sia in vigenza della L.R. n. 47 del 1978 che della L.R. n. 20 del 2000,
evidenzia che le previsioni di piano, dovendo ricercare per la loro concreta fattibilità il punto di equilibrio tra l’interesse
generale e le spinte degli operatori economici, erano frequentemente frutto di due negoziazioni, per di più portate avanti
con due soggetti privati differenti: la prima, con il titolare dell’area, all’atto dell’attribuzione alle aree dell’edificabilità
potenziale con il piano generale o con una variante specifica alle sue previsioni; la seconda, con l’operatore disposto a
portare ad esecuzione la previsione di piano, al momento della presentazione del piano attuativo. Il legislatore del 2000
aveva cercato, con l’introduzione degli accordi procedimentali di cui all’art. 18, di rendere trasparente tale attività
negoziale, in modo che fossero conoscibili e sindacabili nel corso del procedimento approvativo del piano, gli specifici
impegni presi dall’amministrazione a favore del privato, così come gli obblighi assunti da quest’ultimo, che la legge
specificava dovessero essere ulteriori rispetto a quelli richiesti ordinariamente per l’intervento. Tuttavia, l’esperienza
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Riconoscendo che l’iniziativa per l’avvio della fase attuativa non può che essere del privato - con la
presentazione della proposta di AO ovvero del titolo edilizio in caso di intervento diretto - e che la
regolamentazione dell’effettiva trasformazione che si va a realizzare derivi necessariamente
dall’equilibrio tra le esigenze pubbliche e private, la nuova legge urbanistica, non solo rinuncia
all’idea di una programmazione dirigistica del processo attuativo, di cui era espressione il POC, ma
supera anche l’approccio assolutistico che assegnava al Piano (o meglio al suo autore) il compito di
stabilire quale fosse l’unica soluzione che meglio rispondesse all’interesse generale e di definirne
dettagliatamente i contenuti; approccio fortemente sostenuto, in via teorica, dagli urbanisti classici, a
compendio del primato del piano nel governo del territorio, ma sistematicamente disatteso dalla
prassi, con l’ampio ricorso sia alle varianti specifiche al piano generale sia ai piani attuativi in
variante, per adattare le astratte previsioni alle concrete necessità operative (36).
Dal momento che l’intera disciplina della nuova legge urbanistica è incentrata sul diverso regime
giuridico del territorio urbanizzato rispetto all’extraurbano, il principale compito attribuito al PUG
circa la conoscenza e l’individuazione delle “invarianze strutturali” del proprio territorio (cioè di
quegli elementi che connotano in modo determinante il territorio e di conseguenza vincolano le
politiche urbanistiche attuabili), è costituito dalla definizione del perimetro del Territorio Urbanizzato
(TU). Allo scopo di garantire l’omogeneità delle determinazioni comunali, l’art. 32 specifica i criteri
da seguire per questa attività, indicando in modo estremamente dettagliato quali tipologie di aree
ricomprendere nel perimetro del territorio urbanizzato (comma 2) (37), ma anche, al negativo, quali
applicativa ha evidenziato un utilizzo di tali accordi prevalentemente in sede di definizione dei contenuti del POC, ossia
come modalità di acquisizione di un’aspettativa giuridicamente qualificata circa l’attribuzione di un diritto edificatorio e,
al contrario, uno scarso ricorso agli stessi ai fini della determinazione dei contenuti dei piani attuativi, con l’effetto che
non si è ridotto il ricorso alle varianti al piano attuativo. Da tutto ciò la scelta del legislatore del 2017, da una parte, di
riconoscere la natura necessariamente negoziale del momento in cui si procede alla concreta definizione della disciplina
urbanistica di dettaglio che regolerà l’attuazione di un comparto, con l’introduzione degli Accordi Operativi; dall’altra,
di separare con nettezza la funzione strategica del PUG (a sua volta privato completamente da ogni funzione attributiva
a tempo indeterminato di potenzialità edificatoria) da quella dello strumento attuativo, separazione rimarcata per il primo
dal principio di competenza, per il secondo dall’espresso divieto di apportare variante al piano generale. In tale contesto
è risultata inevitabilmente ridimensionata la rilevanza degli accordi procedimentali, ammessi solo come forma qualificata
di partecipazione al processo di formazione del piano, cioè nel corso della fase che va dalla pubblicazione della proposta
del piano alla sua adozione.
(36) Anche questo pilastro dell’urbanistica tradizionale è disatteso dalla legislazione statale e regionale più recente che,
alla regolazione del territorio esclusivamente attraverso un processo top down - che preveda l’approvazione di atti di
pianificazione, aventi via via un maggior dettaglio regolativo, fino alla progettazione dell’intervento - affiancano percorsi
in senso opposto, in cui la contestuale valutazione di coerenza con le politiche territoriali e di sostenibilità di un progetto
e l’approvazione dello stesso, con il coinvolgimento di tutte le autorità che esercitano funzioni di governo del territorio,
consente di localizzare l’intervento, conformando ai suoi contenuti l’intera filiera degli strumenti di pianificazione. Anzi,
si può osservare che la L.R. n. 24 del 2017 assieme ad altre leggi settoriali coeve, assoggetta a procedimenti con queste
caratteristiche le opere aventi i più rilevanti impattanti sul territorio, quali le opere pubbliche e di interesse pubblico, i
nuovi impianti produttivi e gli ampliamenti degli stessi, prendendo spunto dalla ormai ampia esperienza amministrativa
della nostra regione nel ricorso a strumenti negoziali e a procedure fondate sulla conferenza di servizi.
(37) Fanno parte del TU le aree edificate delle diverse destinazioni funzionali, comprensive degli eventuali lotti liberi
residui di precedenti urbanizzazioni e delle aree per dotazioni, infrastrutture, attrezzature e servizi pubblici (tra cui i parchi
urbani), nonché le aree per le quali si sia consolidata la loro destinazione alla trasformazione edilizia grazie al
convenzionamento di un piano attuativo (che come abbiamo visto al precedente paragrafo deve assicurare l’immediata e
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ambiti occorre considerare comunque esterni a tale perimetro (comma 3). Tra le aree che
necessariamente non devono essere ricomprese nel TU sono indicati sostanzialmente tutti quegli
ambiti permeabili non occupati dagli interventi di urbanizzazione, tra cui l’intero territorio rurale,
compresi i cunei verdi ancora presenti tra più aree urbanizzate, e le aree permeabili interamente
ricomprese all’interno del perimetro dell’edificato, purché non dotate di infrastrutture per
l’urbanizzazione, quando cioè non si configurino come lotti residui di precedenti urbanizzazioni. A
differenza della prassi precedente, che frequentemente ricomprendeva nel TU ampi stralci delle aree
periurbane, è palese l’obiettivo della legge di richiedere una corretta lettura della trama urbana
esistente, per salvaguardare il più possibile sia il territorio extraurbano, sia le aree libere ormai
ricomprese nel perimetro dell’aggregato edilizio, che la legge vorrebbe prioritariamente destinate a
fornire servizi ecosistemici all’abitato, e per la cui trasformazione edificatoria si introduce un obbligo
di motivazione rafforzato, richiedendo la dimostrazione della presenza, nelle aree adiacenti, di
dotazioni ecologiche e ambientali che garantiscano un adeguato livello di qualità ambientale dei
tessuti urbani (art. 9, comma 1, lett. b). Il PUG di prima generazione è chiamato anche a certificare,
nel quadro conoscitivo, quale sia stata la perimetrazione del TU alla data di entrata in vigore della
legge (al 1° gennaio 2018), allo scopo stabilire la superficie delle aree urbanizzate rispetto alle quali
calcolare il limite massimo del 3% di ulteriore consumo di suolo ammesso fino al 2050. Cosicché,
per effetto della disciplina transitoria che, come già rilevato, ha previsto una parziale prosecuzione
dell’attuazione dei piani precedenti, il comune può trovarsi già nella necessità di definire e
disciplinare una diversa e più ampia perimetrazione che ricomprenda gli ambiti che siano stati
urbanizzati nel frattempo.
Si noti che non è ammesso che il PUG si possa occupare, né sotto il profilo conoscitivo né per quello
regolatorio, degli ambiti agricoli e di quelli di valore ambientale e paesaggistico collocati al di fuori
del territorio urbanizzato. Si tratta di una novità di non poco conto se si considera che l’elaborazione
del quadro conoscitivo di tali ambiti del territorio comunale aveva costituito una delle attività
maggiormente onerose in vigenza della L.R. n. 20 del 2000, specialmente per i tanti piccoli comuni
di collina e montagna, titolari di vasti territori, di sicuro valore paesaggistico e ambientale ma del
tutto prive di effettive prospettive di trasformazione urbana. Confidando sull’adeguatezza
dell’attività di pianificazione di tali ambiti conferita ai livelli territoriali di area vasta e regionali,
attraverso i loro piani generali e settoriali, la nuova legge urbanistica richiede ai comuni,
nell’osservanza del principio di competenza, di conformarsi ai contenuti conoscitivi e regolatori della
pianificazione sovraordinata. Anche questa previsione, naturalmente, concorre all’obiettivo della
legge di evitare che, specificando e integrando quanto previsto dalla pianificazione territoriale
secondo il modello della pianificazione a cascata, i PUG tornino a definire specifici limiti e condizioni
di edificabilità delle aree in espansione.
Sempre assolvendo alla sua funzione di piano strutturale, il PUG deve individuare la perimetrazione
del centro storico e dei borghi storici presenti nel territorio rurale, ambiti per i quali la legge richiede
politiche che ne perseguano ad un tempo la salvaguardia e la rivitalizzazione. Rispetto a questi
contenuti, la L.R. n. 24 si colloca in piena continuità con le precedenti leggi regionali con un’unica
accentuazione, ancora una volta riferita agli strumenti attuativi richiesti: i PUG devono definire una
disciplina di dettaglio in modo che, con la semplice presentazione del titolo edilizio, si possa
completa attuazione delle sue previsioni) o al rilascio di un titolo edilizio (per gli interventi attuabili per intervento diretto,
anche convenzionato).
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provvedere al restauro e alla valorizzazione del patrimonio edilizio esistente, ma anche alla
demolizione dei manufatti incongrui e, in generale, al “miglioramento della qualità urbanistica ed
edilizia dei tessuti urbani” storici; mentre è demandato agli accordi operativi la definizione dei
progetti urbani di significativa trasformazione, diretti a modificare la trama viaria ed edilizia, ad
apportare rilevanti modificazioni alle destinazioni d’uso in atto di tipo residenziale, artigianale e
commerciale di vicinato - per il pericolo che tali cambi d’uso favoriscano processi di gentrificazione
- o a rendere edificabili aree e spazi liberi destinati ad usi urbani collettivi o aree pertinenziali di
complessi insediativi storici (art. 32, comma 7).
Quale terzo sistema di invarianze strutturali di competenza comunale, la nuova legge urbanistica
individua il patrimonio edilizio di particolare interesse storico-architettonico, culturale o testimoniale,
non assoggettato a tutela ai sensi della parte seconda del Codice dei beni culturali e del paesaggio
(D.Lgs. n. 42 del 2004) ma, sempre nell’ottica di un’ampia semplificazione dei PUG, unifica questi
beni in un’unica categoria, nella considerazione che il piano debba dotarsi di una disciplina di tutela
e valorizzazione di ciascun edificio tutelato. Anche in questo caso, infatti, per assicurare l’immediata
attuabilità degli interventi di recupero e la certezza delle posizioni giuridiche, si richiede al piano di
provvedere alla puntuale individuazione degli edifici che presentano tali caratteristiche in tutto il
territorio comunale, alla determinazione degli interventi edilizi ammissibili e alla specificazione
“[de]gli elementi architettonici o tipologici da salvaguardare… nonché [del]le destinazioni d’uso
compatibili con la struttura e la tipologia dell’edificio e con il contesto ambientale” (art. 32, comma
8). La legge richiede dunque un utilizzo più ponderato dei vincoli di tutela posti dal piano, per
assicurare che trovino il loro fondamento dalle analisi dei tessuti urbani esistenti e che, di
conseguenza, siano in grado di stabilire un preciso parametro di riferimento per la presentazione dei
titoli abilitativi edilizi necessari per il loro recupero (38).
Accanto all’analisi e alla regolamentazione degli elementi strutturali che connotano il territorio
urbanizzato ed aventi per questo natura conformativa, il PUG è chiamato a definire la Strategia per
la Qualità Urbana ed Ecologico-Ambientale (SQUEA), costituente il nucleo essenziale del nuovo
piano urbanistico, diretto a accrescere le dotazioni pubbliche e i servizi presenti negli ambiti
consolidati delle città e ad elevare la qualità ambientale degli stessi (art. 34) (39). Con un approccio
decisamente pragmatico, la legge specifica che questo elaborato progettuale del piano si deve
occupare, da una parte, dei livelli qualitativi e quantitativi delle opere di urbanizzazione, delle
infrastrutture per la mobilità, delle reti tecnologiche e dei servizi pubblici, comprensivi degli alloggi
(38) Le due leggi urbanistiche precedenti, in modo del tutto analogo tra loro, richiedevano al piano di svolgere il
censimento di questo patrimonio in tutto il territorio comunale, distinguendolo in due categorie (“edifici di interesse
architettonico culturale” ed “edifici storico testimoniali”), e di definire gli interventi ammissibili, ma non stabilivano
espressamente che tale disciplina di piano dovesse giungere ad un’analisi e valutazione del singolo edificio tutelato.
L’effetto di tutto ciò è che numerosi piani comunali presentano elenchi di edifici tutelati, individuati anche solo per il loro
periodo di costruzione o per taluni aspetti tipologici, ma senza una puntuale definizione delle caratteristiche ed elementi
architettonici da salvaguardare, con l’effetto di rendere ogni intervento volto al loro recupero più gravoso e dagli esiti
incerti, in quanto rimesso alla valutazione discrezionale di ammissibilità della Commissione per la Qualità Architettonica
ed il Paesaggio (già Commissione edilizia).
(39) Per uniformare i contenuti delle SQUEA, la legge prevede che la regione fornisca indirizzi vincolanti ai comuni
circa lo standard minimo di dotazioni territoriali, infrastrutture e servizi pubblici, attraverso un apposito atto di
coordinamento tecnico. Si tratta di una sorta di Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) nel campo della qualità urbana
ed ecologico ambientale da assicurare su tutto il territorio regionale, sia pure differenziati per il territorio urbanizzato e i
nuovi insediamenti (art. 9, comma 1). Questo atto di coordinamento tecnico è stato approvato con la delibera di Giunta
regionale n. 110 del 28 gennaio 2021.
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di edilizia residenziale sociale da realizzare; dall’altra, della qualità ambientale delle aree urbanizzate,
perseguendo la riduzione della pressione che queste esercitano sull’ambiente naturale, l’adattamento
al cambiamento climatico, il miglioramento della salubrità dell’ambiente urbano, attraverso una
duplice strumentazione: le dotazioni ecologiche e ambientali (già previste dalla L.R. n. 20 del 2000)
e le misure di compensazione e di riequilibrio ambientale e territoriale, cui possono essere subordinati
gli interventi di significativa trasformazione (articoli 20 e 21). La SQUEA deve avere contenuto
strategico (e non prescrittivo), e fondarsi sulla definizione di obiettivi generali e di scelte sulle
prospettive di sviluppo della comunità locale; ma ha anche il compito di tradurre tali indicazioni in
una disciplina di assetto del territorio, valutando lo stato delle dotazioni pubbliche esistenti e la qualità
ecologica del territorio, forniti dal quadro conoscitivo. Essa, dunque, giunge a stabilire i requisiti e le
condizioni di sostenibilità da soddisfare nei diversi areali omogenei determinati attraverso le analisi
del piano, potendo definire anche indicazioni di massima circa la collocazione delle dotazioni
pubbliche e delle misure ambientali, laddove la loro necessità sia desunta dalla valutazione delle
carenze riscontrate nelle diverse aree urbanizzate. Le previsioni della SQUEA costituiscono in tal
modo il principale parametro di riferimento, “necessario e vincolante”, per la definizione del
contenuto effettivo dello jus aedificandi demandato ai piani attuativi, stabilendo gli oneri alla cui
realizzazione sono subordinati gli interventi sia di riuso e di rigenerazione urbana sia di nuova
urbanizzazione, in termini di dotazioni pubbliche e private, infrastrutture e servizi pubblici, (art. 34,
comma 4 e 5). Allo stesso modo, la SQUEA indirizza l’utilizzo dei proventi del contributo di
costruzione e delle monetizzazioni (40) e soprattutto i contenuti degli atti di programmazione delle
opere pubbliche comunali, ordinandoli secondo criteri di priorità e rilevanza. Coerentemente con
l’impianto generale della legge, questi compiti assegnati alla SQUEA sono riferiti alla disciplina del
territorio urbanizzato, mentre per i nuovi insediamenti essa deve limitarsi ad indicazioni di larga
massima, circa gli standard pubblici da soddisfare dei nuovi insediamenti, ove risulti necessario
integrare la dettagliata disciplina stabilita dalla legge (vedi successivo paragrafo 2.6.2.).
Il comma 1 dell’art. 33, relativo al territorio urbanizzato, si apre con la statuizione che “oggetto
principale del PUG è la disciplina dell’assetto fisico e funzionale del sistema insediativo esistente”,
cui segue una sintetica descrizione dell’intero processo pianificatorio che ciascun comune è chiamato
a svolgere con riguardo all’edificato (41):
(40) La legge prevede la costituzione di un fondo vincolato, in cui confluiscano i proventi del contributo di costruzione,
delle monetizzazioni e delle sanzioni edilizie, destinato alla realizzazione unicamente di opere pubbliche riconducibili
all’attività di manutenzione o sostituzione delle opere di urbanizzazione e all’esercizio della funzione di controllo delle
trasformazioni del territorio.
(41) La disposizione prosegue dettando anche la perfetta sintesi della funzione pianificatoria del PUG: “1. Oggetto
principale del PUG è la disciplina dell’assetto fisico e funzionale del sistema insediativo esistente, di cui analizza e valuta
le caratteristiche urbanistiche ed edilizie, ambientali e storico-culturali, allo scopo di individuare e regolamentare gli
interventi idonei al riuso e alla rigenerazione del territorio urbanizzato …”.
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- innanzitutto, un’analisi e valutazione delle caratteristiche urbanistiche ed edilizie, ambientali e
storico-culturali dei tessuti urbani, cioè la definizione di un quadro conoscitivo e diagnostico degli
ambiti urbanizzati (42), che costituiscono il campo d’azione degli interventi di rigenerazione;
- l’individuazione, attraverso una cartografia “ideogrammatica” (V. successivo paragrafo 2.6.3.), di
uno “schema di assetto del territorio urbanizzato”, con l’individuazione degli areali che
presentano caratteristiche omogenee e che richiedono per questo il medesimo trattamento;
- la definizione della disciplina da osservare in ciascun ambito omogeneo, costituita, da una parte,
dalla individuazione degli obiettivi generali di miglioramento della qualità urbana e ambientale da
perseguire, con la eventuale determinazione delle dotazioni territoriali, infrastrutture e servizi
pubblici ritenuti necessari; dall’altra, dalla definizione della “gamma degli usi e delle
trasformazioni ammissibili, stabilendo per ciascuno di essi i requisiti e le condizioni cui è
subordinato l’intervento…” (art. 33, comma 3).
La nuova legge richiede al PUG di ampliare il più possibile le opportunità per gli interventi di riuso
e rigenerazione messe a disposizione degli operatori (43), riservando in tal modo al privato anche la
decisione in merito al tipo di intervento da attuare. La potente leva cui il piano può ricorrere per
orientare le scelte degli operatori è costituita piuttosto dalle forme di incentivazione riconosciute dal
PUG per promuovere i diversi interventi (V. successivo paragrafo 2.5.).
Per gli interventi ascrivibili alla qualificazione del patrimonio edilizio esistente, che vanno dalla
manutenzione straordinaria alla ristrutturazione urbanistica, il PUG svolge il compito, che la
precedente legge assegnava al RUE, di regolare compiutamente gli interventi ammissibili, in modo
che gli stessi possano essere attuati con la semplice presentazione di un titolo abilitativo edilizio (c.d.
“interventi diretti”). Questa funzione, di stabilire la “disciplina urbanistica di dettaglio” degli
interventi ammissibili e di individuare puntualmente gli immobili cui la stessa si applichi, attraverso
una “univoca rappresentazione cartografica degli immobili interessati”, è rimarcata come un vero e
proprio contenuto obbligatorio del piano e con una analitica indicazione delle possibili previsioni (art.
33, comma 4). Infatti, la medesima disposizione presenta una elencazione di tutti gli interventi diretti
da disciplinare “compiutamente”, con l’ulteriore sottolineatura dell’esigenza della massima
semplificazione procedurale degli interventi di recupero e valorizzazione del patrimonio edilizio
esistente, affermata già in via generale dall’art. 26, comma 1, lettera b) (44).
Coerentemente, la completa illustrazione della disciplina del territorio urbanizzato si conclude
sottolineando che, anche per gli interventi di addensamento e sostituzione urbana (gli unici all’interno
del territorio urbanizzato che sono subordinati all’approvazione di uno strumento attuativo), il PUG
(42) Tale delimitazione delle indagini conoscitive di competenza comunale è ribadito dall’art. 22, comma 6, relativo
al quadro conoscitivo, che assegna ai comuni lo svolgimento di una “approfondita analisi dei tessuti urbani esistenti ,
redigendo, tra l’altro, il censimento degli edifici che presentino una scarsa qualità edilizia, non soddisfacendo
innanzitutto i requisiti minimi di efficienza energetica e sicurezza sismica, e delle aree dismesse, non utilizzate o
abbandonate e di quelle degradate”.
(43) A scanso di equivoci, il comma 3 appena citato ripete l’elenco completo degli interventi di rigenerazione urbana,
che va dalla semplice manutenzione del singolo edificio agli interventi di addensamento e sostituzione di tessuti urbani.
(44) Si specifica in particolare che devono essere subordinati alla sola presentazione del titolo edilizio gli interventi
volti ad attuare le politiche di recupero e rifunzionalizzazione del centro storico, gli interventi di recupero degli edifici
tutelati dal piano, gli interventi di qualificazione edilizia del territorio urbanizzato, ivi compresi quelli di ristrutturazione
urbanistica e quelli da realizzare attraverso la specifica modalità di intervento della costruzione e successiva demolizione,
che esamineremo al successivo paragrafo 2.5.2.
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può dettare solo indicazioni strategiche, scelte generali e criteri localizzativi di massima delle
dotazioni, infrastrutture e servizi ritenuti indispensabili anche a causa di carenze pregresse, la cui
specificazione, integrazione e adattamento al caso concreto competono all’AO, senza che ciò
comporti variante al piano generale (art. 33, comma 5, che richiama l’art. 24, commi 1 e 2, relativo
al principio di competenza).
Gli articoli che vanno dal 7 al 17 costituiscono certamente il contenuto più innovativo della L.R. n.
24. Essi presentano un ricco pacchetto di disposizioni volte, come recita il Capo che li raccoglie, alla
“Promozione del riuso e della rigenerazione urbana”, distinto in due parti, l’una rispondente
all’esigenza di stabilire un regime più favorevole per gli interventi nel T.U. rispetto a quelli in
espansione; l’altra che introduce taluni istituti per agevolare l’elaborazione del piano e per la sua
attuazione, ma anche per promuovere l’attivazione dei processi di rigenerazione urbana o per elevare
il livello qualitativo della progettazione di questi interventi.
Pur essendo pienamente pertinente all’oggetto di questo lavoro, l’illustrazione e valutazione di
ciascuna disposizione risulterebbe particolarmente ampia e articolata. Si procederà pertanto ad una
sintetica descrizione degli stessi, soffermandosi sugli aspetti innovativi della stessa tecnica
urbanistica oltre che della legislazione regionale in materia che li caratterizza.
(45) Si pensi solo alla elevata quota di immobili realizzati fino agli anni più recenti non curandone specificamente
l’isolamento termico e alla circostanza che la stragrande maggioranza del patrimonio edilizio regionale è stato realizzato
in epoca antecedente alla classificazione sismica dei comuni.
(46) L’art. 7, comma 2, avvia nel modo seguente la definizione degli interventi di riuso e di rigenerazione urbana: “Gli
interventi di riuso e di rigenerazione urbana riguardano spazi ed edifici, sia pubblici che privati, da qualificare anche
attraverso interventi di demolizione e ricostruzione, nuova costruzione e densificazione, e prevedono…”; mentre il
comma 4, lett. a), della stessa disposizione annovera tra gli interventi di “qualificazione edilizia” innanzitutto quelli di
demolizione e ricostruzione e solo in subordine gli “interventi conservativi” che consentono solo “di realizzare
miglioramenti dell’efficienza energetica, della sicurezza sismica e degli altri requisiti tecnici richiesti dalla normativa
vigente ai fini dell’agibilità”.
(47) Decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, recante “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge n. 765 del 1967.”.
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duplice esigenza di evitare che la rigenerazione urbana costituisca essa stessa causa di un ulteriore
consumo di suolo, sia all’interno del perimetro del TU che all’esterno di esso, e che la carenza
all’interno del territorio urbanizzato di aree da cedere al comune, in prossimità dell’intervento cui
ineriscono, possa risultare preclusiva dell’attuazione dei medesimi interventi (come avveniva in
passato in ragione dell’inderogabilità delle quote di aree pubbliche, da reperire sia laddove si
realizzassero nuovi insediamenti sia quando si intervenisse sull’esistente). Si consideri, tuttavia, che
questa deroga può essere disposta con riguardo a specifiche situazioni favorevoli presenti nell’ambito
di intervento, in quanto devono essere osservate due garanzie di ordine generale: per la prima, già
presente nella L.R. n. 20 del 2000, il PUG deve assicurare il mantenimento dell’attuale quantità
complessiva di aree con vincolo di destinazione per opere pubbliche, acquisite dal comune nel
territorio urbanizzato; la seconda richiede che, affinché in un determinato areale del territorio
urbanizzato si possa prevedere una cessione ridotta di aree per standard (48), si debba dimostrare che
i fabbisogni “minimi” di attrezzature e spazi collettivi pregressi e quelli generati dall’intervento siano
pienamente soddisfatti grazie alle dotazioni già presenti nel medesimo ambito o in aree contermini
ovvero attraverso il ricorso al meccanismo dei c.d. standard a distanza (49) (art. 9, comma 1, lettere a)
e d), della L.R. n. 24).
Le aree pubbliche destinate a servizi, se acquisite dal comune ma attualmente non utilizzate, possono
essere conferite ai privati in diritto di superficie, ove risultino “indispensabili per realizzare interventi
di riuso e di rigenerazione urbana”, o meglio, per attuare una ristrutturazione urbanistica o un
programma di sostituzione o addensamento urbano (art. 7, comma 4, lett. b) e c) (50), ovvero per la
costruzione di alloggi di Edilizia Residenziale Sociale (ERS), sempre previa verifica dell’adeguatezza
delle dotazioni pubbliche esistenti (art. 9, comma 1, lett. a).
Quanto alle dotazioni minime di parcheggi pubblici e pertinenziali, la legge introduce due previsioni
speciali: l’una che fa comunque salvo il soddisfacimento degli standard minimi di tali dotazioni,
l’altra rispondente invece ad una diversa concezione dell’abitare, che eleva la qualità ambientale degli
insediamenti proprio riducendo la circolazione dei veicoli privati. Più in dettaglio, si introduce la
possibilità per il PUG di diminuire la quota dei parcheggi pubblici prevedendo la sua compensazione
con l’aumento proporzionale dei parcheggi pertinenziali, ovvero grazie alla previsione del
rafforzamento delle forme di mobilità sostenibile con appositi percorsi ciclo pedonali o con il
miglioramento dei trasporti pubblici. Con la seconda previsione, si consente di ripensare
(48) Per esigenze equitative la legge precisa che in questo caso l’intervento contribuirà alla realizzazione e al
mantenimento del sistema delle dotazioni e servizi pubblici secondo quanto previsto dal piano e che si procederà alla
monetizzazione della restante quota di aree dovute. A differenza della L.R. n. 20 del 2000, dunque, si ammette la
monetizzazione solo nel territorio urbanizzato e negli ambiti espressamente indicati dal piano urbanistico, anche in
ragione del presupposto che quest’ultimo, dovendo procedere ad un’analitica valutazione del territorio urbanizzato, sarà
in grado di specificare in dettaglio i casi in cui sarà necessario ricorrere a tale alternativa, rispetto al reperimento di aree
da cedere per gli standard.
(49) La legge riprende dunque l’istituto dello standard a distanza introdotto dalla legge urbanistica del 2000, ma
stabilendo due importanti requisiti: la sua utilizzabilità solo nel caso di interventi nel territorio urbanizzato e la necessità
che vi sia una stretta connessione fisica o funzionale tra l’area di intervento e quella dove si realizzano concretamente le
dotazioni dovute. Queste ultime devono essere collocate quantomeno in aree agevolmente accessibili dall’ambito di
intervento, con percorsi ciclo pedonali protetti e con l’appositi servizi di trasporto pubblico. È evidente la sollecitazione
ai comuni a non ammettere la cessione di aree e la realizzazione in particolare di dotazioni di verde e parcheggi pubblici
in ambiti marginali non adeguatamente fruibili dai cittadini.
(50) In tal modo queste aree possono costituire il volano per la realizzazione di interventi di costruzione e successiva
demolizione, ai sensi dell’art. 13 (V. successivo paragrafo 2.5.2.).
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l’accessibilità degli ambiti da rigenerare, ma anche delle nuove urbanizzazioni, escludendo o
fortemente limitando l’utilizzo di autovetture private: in tali contesti il piano potrà pienamente
derogare agli standard di parcheggi pubblici e privati richiesti. Si dovrà trattare, anche in tal caso, di
contesti urbani ad elevata accessibilità sostenibile nei quali, con apposite clausole previste dalla
convenzione urbanistica da trascrivere nei registri immobiliari, si venga a costituire una vera e propria
servitù, con la quale i titolari degli immobili e i loro aventi causa si impegnino a rispettare le
limitazioni all’uso di autovetture per la propria mobilità (art. 9, comma 1, lett. e).
L’art. 9, comma 1, lett. c), afferma inoltre il principio generale secondo cui gli interventi di
rigenerazione urbana non sono tenuti all’osservanza dei limiti di densità edilizia e di altezza massima
degli edifici stabiliti dagli articoli 7 e 8 del D.I. n. 1444 del 1968, sempre in ragione del fatto che gli
stessi possono condizionare grandemente gli interventi di rigenerazione. Il superamento del tabù del
ricorso diffuso alla demolizione e trasformazione dei fabbricati di scarso valore architettonico ed
edilizio e la possibilità di derogare ai limiti di densità, altezza e distanza tra gli edifici, costituiscono,
infatti, il presupposto stesso di uno sviluppo urbano che non si basi sul consumo di suolo, il quale
non può non prevedere il rinnovo del patrimonio edilizio, forme di addensamento urbano e una
sistematica crescita in altezza delle nostre città.
Questo principio è ripreso ed esteso anche ai limiti di distanza tra gli edifici (di cui all’art. 9 del D.I.
cit.) dall’art. 10 della legge urbanistica regionale, con riferimento sia agli interventi nel territorio
urbanizzato di demolizione e ricostruzione – non importa se qualificati, dal punto di vista edilizio,
come nuova costruzione o come ristrutturazione edilizia o urbanistica – sia agli interventi di
accorpamento di edifici contigui, sia ad ogni altra trasformazione edilizia dichiarata di interesse
pubblico dalla legislazione statale e regionale (51). Per tutti questi casi, si specifica che la ricostruzione
possa avvenire nello stesso sedime dell’edificio originario, o solo aumentando la distanza dagli edifici
fronte stanti, e che gli eventuali incentivi volumetrici possano essere realizzati attraverso una
soprelevazione dell’edificio, sempre in deroga a detti limiti di distanza (52), altezza e densità degli
edifici. In tal modo l’art. 10 della L.R. n. 24 riprende quanto era già previsto dalla L.R. n. 20 del 2000,
a seguito della novella del 2009 (L.R. n. 6 del 2009) che aveva introdotto, in alternativa al c.d. “piano
casa” voluto dalla legislazione statale, la facoltà per i comuni di approvare varianti specifiche al piano
urbanistico per stabilire misure di incentivazione degli interventi di qualificazione del patrimonio
edilizio anche in deroga al DI n. 1444 del 1968. Trattandosi di una disposizione già operante in base
alla legge previgente, il comma 3 prevede che la stessa sia immediatamente applicabile anche in
assenza di PUG e che anzi prevalga su eventuali disposizioni dei piani vigenti che stabiliscano limiti
di densità, di distanza e altezza degli edifici con essa incompatibili. Le medesime disposizioni sono
state successivamente recepite dal legislatore statale, all’art. 2-bis, comma 1-ter, del DPR n. 380 del
(51) Questo esplicito riferimento all’accorpamento di edifici e ad altre significative trasformazioni di interesse
pubblico, deriva specificamente dalla volontà di promuovere anche un ampio processo di riconversione delle strutture
alberghiere e recettive della Riviera romagnola, propugnato dalla pianificazione dei tre livelli territoriali di pianificazione
di quell’ambito, ma reso quantomai problematico dalla difficoltà di rispettare, anche ad esito delle trasformazioni, gli
standard minimi ampiamente disattesi dall’attuale assetto insediativo.
(52) A tal riguardo si ricorda che il legislatore statale, con norma di interpretazione autentica, ha mitigato l’impatto
dell’art. 9 del D.I. n. 1444 del 1968 sul patrimonio edilizio esistente, chiarendo che i limiti di distanza di cui ai commi
secondo e terzo del citato art. 9 ( distanze tra i fabbricati tra i quali siano interposte strade e la prescrizione che la distanza
tra edifici non può essere inferiore all’altezza massima degli edifici fronte stanti) si considerano riferiti esclusivamente
agli edifici di nuova costruzione da realizzare nelle aree di espansione.
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2001, per effetto del “decreto semplificazioni” (D.L. n. 76 del 2020) che, per tutti i casi di interventi
di demolizione e ricostruzione e per le eventuali soprelevazioni realizzate grazie agli incentivi
volumetrici, pone l’unico limite delle distanze legittimamente preesistenti. Il testo statale specifica
che la medesima disciplina opera anche nei centri storici solo laddove non si intervenga per intervento
diretto e la demolizione e ricostruzione sia quindi regolata da un piano attuativo - nel rispetto,
ovviamente, dell’eventuale disciplina di tutela del patrimonio edilizio. Nel recepire questa previsione
sopravvenuta, che risultava limitativa rispetto ai contenuti della L.R. n. 24 appena esaminati, la L.R.
n. 14 del 2020 (introducendo l’art. 10-bis della L.R. n. 15 del 2013 in materia edilizia) ha specificato
che il vincolo dello strumento attuativo opera solo per i comuni nei quali il piano urbanistico generale
abbia omesso di stabilire la disciplina particolareggiata del centro storico. Quest’ultima, infatti,
soddisfa pienamente l’esigenza sottesa alla norma statale, costituendo una regolamentazione degli usi
e delle trasformazioni ammissibili nel centro storico e con un livello di dettaglio del tutto equivalente
a quello dei piani attuativi. La norma regionale, per altro, non rappresenta un aggravio per il
pianificatore comunale, in quanto la disciplina particolareggiata del centro storico costituisce – come
abbiamo visto - una costante della pianificazione nella nostra regione, prevista già dalla L.R. n. 47
del 1978 e confermata dalle leggi urbanistiche del 2000 e del 2017 quale componente strutturale del
piano.
A differenza del regime speciale illustrato al punto precedente, che opera automaticamente e non può
essere disatteso dal piano comunale, il riconoscimento di incentivi urbanistici agli interventi di riuso
e di rigenerazione è rimesso, in tutti i casi, ad una determinazione discrezionale del piano comunale.
A tal riguardo, si osserva che la L.R. n. 24 disciplina due sole forme di incentivi urbanistici,
l’attribuzione di volumetrie premiali e di edificabilità aggiuntiva: la prima utilizzabile direttamente
nell’immobile su cui si interviene, con una apposita soprelevazione o con un ampliamento fuori
sagoma; mentre l’altra consente l’assegnazione di diritti edificatori aggiuntivi, che possono essere
alienati dal titolare o conferiti direttamente ad altri soggetti dalla convenzione urbanistica, allo scopo
di essere realizzati in ambiti territoriali diversi da quelli in cui sono stati riconosciuti. Tuttavia, si
attribuisce al piano comunale la facoltà di individuare e regolamentare ulteriori forme di
incentivazione urbanistica, laddove gli interventi di rigenerazione presentino caratteristiche
qualitative più elevate rispetto agli standard minimi richiesti dalla normativa vigente. La legge
sottolinea comunque che l’attribuzione di premialità urbanistiche aggiuntive è sempre subordinata
alla previa verifica della sostenibilità ambientale e territoriale del maggior carico insediativo che
l’incentivo comporta.
Più in dettaglio, l’art. 8, comma 1, lettera c), stabilisce che il PUG possa conferire agli interventi di
addensamento o sostituzione urbana diritti edificatori e altre premialità aggiuntive rispetto –
evidentemente – all’edificato già presente nell’area interessata. Ulteriori quote aggiuntive, cumulabili
con la precedente, possono essere riconosciute, in sede di stipula dell’AO, a compensazione
dell’impegno del privato di realizzare alloggi di edilizia residenziale sociale ovvero altre opere
pubbliche in misura superiore a quanto richiesto dal PUG (art. 8, comma 1, lett. e). Parallelamente,
la lettera d) dell’art. 8 consente l’attribuzione sempre di diritti edificatori aggiuntivi per gli interventi
attuabili direttamente con la presentazione del titolo edilizio richiesto dalla legge (cioè degli interventi
di qualificazione edilizia e di ristrutturazione urbanistica), in ragione e in proporzione ai livelli di
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efficienza energetica, sicurezza antisismica e sostenibilità ambientale, raggiunti dall’edificio oggetto
dell’intervento, qualora risultino nettamente migliorativi rispetto alla condizione originaria. A tale
scopo, la legge promuove l’adesione a protocolli energetico-ambientali di certificazione nazionali e
internazionali, da parte dei singoli comuni o tramite convenzioni operate dalla regione, al fine di
“garantire una qualità progressivamente crescente degli insediamenti urbani” (art. 7, comma 3).
Inoltre, il piano comunale può stabilire altre forme di incentivazione riferite a differenti profili di
qualità degli insediamenti o dei manufatti edilizi che derivino, precisa la legge a titolo meramente
esemplificativo, dal rispetto di requisiti tecnici più elevati rispetto allo standard di legge nell’ambito
di aree ecologicamente attrezzate, dall’applicazione dei disciplinari di bioarchitettura e dalla
realizzazione di interventi di social housing, cioè di modalità abitative innovative destinate anche a
contrastare le forme di discriminazione e di disagio sociale delle categorie più deboli di popolazione.
Per questi diritti edificatori aggiuntivi si stabilisce una disciplina essenziale che ne agevoli una diffusa
applicazione e che, ad un tempo, eviti l’insorgere delle problematiche presenti nelle Regioni in cui si
è fatto ricorso a detti strumenti nell’ambito dei meccanismi di perequazione urbanistica. Si prevedono
infatti due sole modalità di utilizzo degli stessi: il loro trasferimento, anche a seguito di alienazione a
terzi, su altre aree del territorio urbanizzato appositamente individuate dallo stesso PUG (art. 8,
comma 2); la loro diretta attribuzione agli operatori che realizzano gli interventi edilizi di
qualificazione, a condizione che essi si impegnino, a pena di decadenza, ad utilizzare tali diritti entro
un termine non superiore a tre anni e sempre in aree del TU delimitate dal piano. Quest’attribuzione
a terzi dei benefici della rigenerazione urbana, oltre a richiede l’assenso dei proprietari degli
immobili, deve essere regolata dalla convenzione urbanistica o dalle corrispondenti previsioni
dell’AO che disciplinano l’intervento di rigenerazione urbana e deve essere trascritta nei registri
immobiliari (art. 8, comma 3). Inoltre, l’utilizzo dei diritti edificatori aggiuntivi in altre aree
individuate dal piano può avvenire solo attraverso la presentazione di un AO.
Semplificazioni procedurali
Infine, l’art. 11 della legge n. 24 introduce, sempre a favore solo degli interventi di rigenerazione
urbana, talune semplificazioni di ordine procedurale che si aggiungono a quelle che saranno
evidenziate nel corso dell’esposizione della disciplina edilizia diretta a promuovere il recupero del
patrimonio edilizio esistente. I primi due commi attengono alla tematica della valutazione ambientale
di piani e programmi e presentano sostanzialmente una natura interpretativa della disciplina
applicabile agli interventi di addensamento o sostituzione urbana e alla ristrutturazione urbanistica.
Quanto ai primi si specifica che non necessitano di una autonoma valutazione, laddove risultino
meramente attuativi delle previsioni del PUG (53), in applicazione del principio di non duplicazione
della valutazione ambientale di cui all’art. 4, paragrafo 3, della Direttiva VAS (54). In merito alla
ristrutturazione urbanistica, si sottolinea che, interessando l’uso di piccole aree attraverso il rilascio
di un titolo edilizio, è attuabile senza la necessità di una valutazione ambientale strategica, secondo
quanto stabilito dall’art. 3, paragrafo 3, della medesima direttiva. Si introduce, inoltre, un’ipotesi
(53) Si noterà che la disposizione non pare collimare con quanto previsto dall’art. 33, comma 5, laddove si esclude
anche per gli interventi di riuso e rigenerazione urbana subordinati ad AO, che il PUG possa attribuire alle aree interessate
una capacità edificatoria, anche potenziale, e che possa regolamentare nel dettaglio i contenuti dei piani attuativi, come
invece presuppone la norma in commento.
(54) Direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio “Concernente la valutazione degli effetti di
determinati piani e programmi sull’ambiente” adottata il 27 giugno 2001.
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speciale di SCIA sostitutiva del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 23 del t. u. dell’edilizia, a
favore degli interventi di nuova costruzione attuativi degli AO nel territorio urbanizzato, nonché una
importante semplificazione circa l’accertamento della legittimità urbanistica degli edifici da demolire
e ricostruire, che sarà esaminata successivamente nel paragrafo 3.1.1. in quanto ripresa e meglio
esplicitata dalla successiva legislazione edilizia.
Ma la disposizione più significativa dell’art. 11, che potrebbe risultare particolarmente utile per
favorire l’attuazione degli interventi di rigenerazione, consiste nel riconoscimento della possibilità
per i proprietari, che rappresentino (solo) la maggioranza assoluta del valore degli immobili in base
all’imponibile catastale, di costituirsi in consorzio per presentare al comune l’AO attuativo di un
intervento di rigenerazione urbana e di acquisire la disponibilità di tutti gli immobili interessati,
promuovendo l’avvio di una procedura espropriativa delle aree e delle costruzioni dei proprietari non
aderenti al consorzio. La legge regionale ha infatti previsto che sia possibile ricorrere alla speciale
procedura espropriativa a favore di privati, prevista dall’art. 27, comma 5, della legge 1° agosto 2002,
n. 166, nei casi in cui, oltre all’interesse generale alla rigenerazione urbana, l’intervento presenti un
particolare interesse pubblico comportando la riduzione della pericolosità sismica dell’edificio, come
nel caso dei fabbricati costruiti prima della classificazione sismica del comune, degli edifici di cui sia
stata accertata l’elevata vulnerabilità sismica attraverso una verifica di sicurezza e di quelli collocati
in zone geologicamente instabili o comunque soggette ad un elevato grado di pericolosità sismica
locale (55).
Occorre da ultimo sottolineare come le disposizioni che introducono le diverse forme di agevolazione
degli interventi di riuso e rigenerazione urbana descritte in questo paragrafo, ribadiscono più volte
che tale regime di favore non si estende agli interventi in espansione e richiamano la disciplina
ordinaria che trova applicazione per questi ultimi, rimarcando così, non solo il diverso trattamento
voluto dalla legge per i due processi urbanistici ma anche, implicitamente, l’obbligatorietà della
introduzione di tali differenti discipline nei nuovi piani (56).
(55) Il Ministero delle Infrastrutture, con la circolare 29 gennaio 2003, n. 879, ha infatti ritenuto che questa
disposizione, introdotta per favorire l’attuazione dei “programmi di riabilitazione urbana” previsti e finanziati dall’art.
27 della L. n. 166 del 2002, abbia portata generale e possa trovare applicazione per ogni tipologia di piano attuativo.
(56) Si specifica, in particolare, che per gli interventi in aree permeabili extraurbane: non opera l’esenzione dal
contributo straordinario e che agli stessi interventi si applichi la disciplina ordinaria per il calcolo del contributo di
costruzione; possono essere riconosciuti diritti edificatori aggiuntivi solo per compensare lo specifico impegno assunto
dal privato di realizzare alloggi di ERS in una quota superiore a quella prevista per la generalità degli interventi (art. 8,
comma 1, lettera. a), e comma 4); non trovano applicazione tutte le semplificazioni procedurali appena richiamate,
essendo gli interventi subordinati ad AO da attuare con permesso di costruire (“… è sempre richiesta la predisposizione
di accordi operativi o di piani attuativi di iniziativa pubblica ai sensi dell’art. 38, da attuare con permesso di costruire”).
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demolizione e ricostruzione dell’edificio, la sistemazione del tessuto urbano in cui lo stesso si
inserisce, anche apportando modifiche del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale (57). La
L.R. n. 24 prevede che la convenzione urbanistica possa disciplinare una differente sequenza nella
esecuzione delle opere progettate, consistente nella realizzazione innanzitutto del nuovo edificio
privato, comprensivo degli eventuali incentivi volumetrici riconosciuti dal piano e della sistemazione
degli spazi urbani ad esso pertinenti, e nella successiva esecuzione della demolizione del manufatto
originario. Questa modalità operativa dà soluzione per uno dei più rilevanti fattori che ostacolano gli
interventi di riuso e di rigenerazione, costituito dal fatto che gli immobili su cui intervenire sono
ancora utilizzati e pertanto, se di seguisse l’ordinaria sequenza della demolizione e successiva
ricostruzione, occorrerebbe anche reperire un fabbricato nel quale trasferire temporaneamente le
attività in essere per non interromperle per tutto il periodo di svolgimento dei lavori. La soluzione
introdotta dalla legge, invece, garantisce la continuità dell’utilizzo dell’immobile originario e il
trasferimento nel nuovo edificio solo al termine della sua costruzione. L’utilizzo coordinato di questo
strumento per più interventi può attivare una sorta di “effetto domino” che richiede il reperimento di
una sola area libera (per la prima nuova costruzione), in quanto il sedime dell’edificio demolito può
essere utilizzata per una successiva operazione.
Evidentemente questa speciale modalità operativa presuppone la disponibilità di un diverso sedime
nel quale collocare il nuovo edificio. Per sopperire a tale esigenza, la legge prevede che il comune
possa mettere a disposizione le aree libere di sua proprietà, comprese quelle facenti parte del
patrimonio indisponibile perché cedute per la realizzazione di dotazioni territoriali (V. precedente
paragrafo 2.5.1.), ma anche che il nuovo immobile, anche residenziale, possa essere realizzato in
espansione in deroga al divieto di nuovi insediamenti residenziali in espansione (V. successivo
paragrafo 2.6.1.).
(57) Così recita la definizione di questo intervento di cui alla lettera h) dell’allegato alla L.R. n. 15 del 2013.
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massimo il ricorso a tale strumento, fino al punto da ammettere gli interventi di addensamento e di
sostituzione urbana solo in ambiti nei quali i privati accettassero questa forma di convenzionamento.
Si attiverebbe così una negoziazione analoga a quella ammessa dall’art. 18 dalla L.R. n. 20 del 2000,
che consentiva di stipulare accordi procedurali in merito ai contenuti discrezionali del piano, a fronte
dell’impegno dei privati a realizzare dotazioni territoriali o altri risultati rispondenti all’interesse
generale, aggiuntivi rispetto agli obblighi di legge.
Le opere incongrue
Per fornire al comune un ulteriore strumento per assicurare la realizzazione dei progetti di
trasformazione dei tessuti urbani, la legge dà efficacia generale in campo urbanistico all’istituto delle
“opere incongrue”, già introdotto dalla legge n. 16 del 2002, che statuiva la pubblica utilità degli
interventi volti a rimuovere o trasformare taluni manufatti edilizi, collocati in prossimità di edifici
storico-artistici o in ambiti di particolare qualità architettonica e paesaggistica ma confliggenti con il
valore dei luoghi. Lo scopo della norma era quello di costituire il presupposto giuridico per poter
assoggettare le opere incongrue alle procedure espropriative e, prima ancora, per indurre i privati
proprietari ad aderire al programma di opere di qualificazione del sito che li vedeva coinvolti.
La L.R. n. 24 ora prevede che il piano urbanistico possa qualificare come opere incongrue edifici del
territorio urbanizzato incompatibili con il contesto territoriale in cui si collocano, definendo gli
obiettivi di miglioramento del tessuto urbano che si intendono perseguire con la demolizione o la
significativa trasformazione degli stessi, anche fornendo specifici indirizzi progettuali sulle opere da
realizzare. Tale previsione comporta l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio, attivabile
qualora il privato non aderisca spontaneamente alla trasformazione prevista dal PUG. La norma
sottolinea che deve essere favorita l’esecuzione spontanea della previsione di piano, anche in questo
caso, attraverso la previsione di premialità urbanistiche e che si possano stipulare accordi di cessione
bonaria dell’immobile, usufruendo delle forme di compensazione previste dall’art. 23 della legge
regionale sugli espropri (58).
(58) Quest’ultima disposizione prevede una sorta di permuta, con l’attribuzione di diritti edificatori in aree messe a
disposizione dal comune o di proprietà del soggetto interessato, a condizione che dette aree siano già considerate
edificabili dal piano: nel contesto della nuova legge urbanistica questi incrementi di edificabilità possono essere
riconosciuti in ambiti del territorio urbanizzato, preferibilmente in quelli individuati dal piano per la localizzazione dei
diritti edificatori premiali.
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definizione delle scelte generali di piano che nella fase attuativa di elaborazione dei contenuti degli
strumenti attuativi, per elevare la qualità dei luoghi urbani, attraverso il confronto con coloro che
risiedono nelle vicinanze o che comunque ne usufruiscono per motivi di lavoro, di studio, ecc.
L’aspetto rilevante e innovativo di questa disciplina regionale consiste nel fatto che si intende
incentivare l’utilizzo di tali metodologie anche da parte dei privati nell’ambito della elaborazione
degli AO, ammettendo la possibilità di scomputare dal contributo di costruzione fino al 50 per cento
dei costi sostenuti per lo svolgimento dell’una o dell’altra modalità di progettazione (59). Mentre per
i comuni che attivino questi istituti per l’elaborazione del piano generale o del piano attuativo di
iniziativa pubblica è prevista l’erogazione di contributi regionali, attraverso appositi bandi.
Usi temporanei
L’art. 16 della L.R. n. 24 (recepito nell’art. 23-quater del testo unico dell’edilizia in sede di
conversione del decreto semplificazione del 2020) non attiene al processo di pianificazione, generale
o attuativa, ma si riferisce ad un momento antecedente, in qualche modo preliminare ad un intervento
di rigenerazione urbana, in cui il comune, per attivare un processo che porti al recupero non solo
urbanistico, ma anche sociale e culturale di taluni ambiti del proprio territorio, individua alcuni edifici
(o altri manufatti di particolare rilevanza) dismessi o in via di dismissione (quali caserme, mercati
coperti, teatri, ecc.), consentendo il loro utilizzo temporaneo per usi diversi da quelli per i quali erano
stati realizzati e ponendoli al centro di un progetto innovativo di attrattività urbana. Sono infatti
numerose le esperienze nazionali ed europee in cui questi percorsi riescono ad essere il volano per
stimolare la rivitalizzazione di interi quartieri degradati, trasformando questi fabbricati in centri di
aggregazione dai quali scaturiscono nuove funzioni urbane. La particolare rilevanza anche urbanistica
di queste iniziative consiste nel fatto che esse portano anche al recupero degli immobili e delle parti
di città interessate, in quanto catalizzano su di essi interessi sociali e anche economici che ne attivano
la valorizzazione urbanistica. Che non si tratti di un ordinario processo urbanistico si ricava dal fatto
che, secondo la legge, l’uso temporaneo non comporta il mutamento della destinazione d’uso e non
richiede, in quanto tale, il rilascio di alcun titolo abilitativo edilizio (necessario invece per realizzare
le eventuali opere indispensabili per acquisire quei requisiti igienico sanitari e di sicurezza richiesti
per le attività consentite). La differenza rispetto ad una mera deroga agli usi ammessi dalla
pianificazione (60) consiste nel fatto che questo istituto può trovare applicazione per immobili con
uno spiccato carattere identitario, per la loro storia o funzione originaria o per il luogo dove sono
collocati, e può essere attivato dal comune per un tempo definito, sulla base di un progetto di rilevante
interesse pubblico, con l’approvazione di un’apposita disciplina regolamentare e la definizione della
convenzione tipo, che dettino lo speciale regime cui l’immobile è sottoposto.
(59) Si noti che si tratta della prima e unica ipotesi di scomputo totale dal contributo di costruzione, mentre per tutte le
opere di urbanizzazione è ammesso lo scomputo solo rispetto agli oneri di urbanizzazione e alle quote D ed S, mentre è
sempre esclusa ogni possibilità di scomputo sia del costo di costruzione che del contributo straordinario, aventi natura
parafiscale.
(60) Si evidenzia che attraverso il permesso di costruire in deroga è possibile procedere al mutamento funzionale verso
usi non previsti dal piano; in tali ipotesi, tuttavia, trovano applicazioni i limiti e condizioni cui è subordinato il rilascio di
questo speciale titolo edilizio e occorre rispettare i requisiti di ordine urbanistico ed edilizio che la legge o il piano
stabiliscono per il nuovo uso, tutte tematiche da cui prescinde l’uso temporaneo.
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2.6. Le prescrizioni volte a limitare l’espansione urbana.
Per evitare che il nuovo strumento urbanistico comunale, pur arricchendosi di un’accurata
pianificazione del territorio urbanizzato che incentivi gli interventi di riuso e di rigenerazione,
continui tuttavia a prevedere opportunità di sviluppo insediativo, la L.R. n. 24 ha introdotto
un’articolata disciplina, con innovative prescrizioni che ruotano intorno al principio del “consumo di
suolo a saldo zero”. Queste disposizioni utilizzano diverse strumentazioni, tutte convergenti verso il
medesimo risultato: la definizione di criteri generali che lasciano strettissimi margini di
discrezionalità nella loro applicazione. Così la legge definisce limiti quantitativi inderogabili,
prescrizioni immediatamente efficaci nella regolazione delle trasformazioni e veri e propri divieti e
obblighi circa i contenuti e la forma stessa degli elaborati del PUG e dell’AO. Ne deriva la necessità
di ricorrere ad una tecnica urbanistica innovativa per la gestione dei nuovi insediamenti extraurbani
ancora ammissibili.
In questo paragrafo è illustrato questo apparato normativo, per dare evidenza alla sua organicità e
coerenza, limitandosi a pochi cenni laddove si richiamino disposizioni esaminate in precedenza.
In considerazione della tipica dinamicità dei processi urbani, la legge non ha inteso
cristallizzare il perimetro del territorio urbanizzato alla data della propria entrata in vigore (cui
eventualmente aggiungere, come vedremo, l’ulteriore quota di insediamenti in espansione
consentita), bensì ha immaginato un meccanismo flessibile, fondato sul bilancio complessivo di aree
che vengono trasformate, le une nel segno dell’impermeabilizzazione per effetto della realizzazione
di nuovi insediamenti, le altre con la desigillazione di precedenti urbanizzazioni. Per questo, al
comma 1 dell’art. 5, si dichiara il primario obiettivo di governo del territorio del “consumo di suolo
a saldo zero”, da raggiungere entro il 2050, e si definisce, al successivo comma 5, il consumo di suolo
come il saldo tra le aree delle quali la pianificazione urbanistica attuativa programmi la
trasformazione insediativa al difuori del perimetro del territorio urbanizzato e le aree, collocate
all’interno del territorio urbanizzato, delle quali il medesimo strumento di pianificazione preveda un
intervento di rinaturazione. Quest’ultime aree possono essere cedute al comune, con destinazioni che
preservino stabilmente la permeabilità dei suoli (parchi urbani, verde pubblico attrezzato, ma anche
dotazioni ecologico ambientali, foresta urbana, ecc.), ovvero essere mantenute nella titolarità dei
privati, essendo soggette alla disciplina vincolistica del verde privato o andando a far parte del
territorio rurale.
Si conferma poi il principio generale, che era già presente nella L.R. n. 20 del 2000, secondo cui il
consumo di suolo è consentito come extrema ratio, solo nei casi in cui non sussistano ragionevoli
alternative, in termini di riuso e di rigenerazione di aree già urbanizzate. Tuttavia, la L.R. n. 24,
ricercando la massima effettività delle proprie previsioni, specifica che la dimostrazione di questa
circostanza costituisce un preciso obbligo di motivazione delle scelte di piano, derogando sul punto
alla tradizionale ampia discrezionalità dell’urbanistica ancora riconosciuta unanimemente dalla
giurisprudenza. Negli elaborati relativi alla valutazione della sostenibilità ambientale e territoriale
delle previsioni pianificatorie (documento di VALsat), sia del PUG che degli strumenti attuativi,
devono essere individuate e valutate le possibili alternative localizzative, analizzando in particolare
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l’esistenza e la praticabilità di quelle che non comportino consumo di suolo, e l’atto deliberativo di
approvazione del piano (61) deve dimostrare, “con specifiche e puntuali motivazioni”, la necessità di
prevedere l’utilizzo di suolo inedificato in mancanza di alternative, secondo un parametro di
“ragionevolezza” (62).
Inoltre, la legge urbanistica opera un’importante scelta di campo stabilendo, alla luce della costante
decrescita della popolazione residente, che le nuove urbanizzazioni, in ogni caso, non possono avere
ad oggetto edifici di edilizia residenziale a libero mercato, ma solo abitazioni che rispondano a un
rilevante interesse pubblico, cioè gli alloggi di edilizia residenziale sociale, destinati a essere posti in
locazione per un lungo periodo o ceduti in proprietà a prezzi calmierati, e gli alloggi che consentano
di attivare “la rigenerazione urbana di parti significative del territorio urbanizzato” (63). Le nuove
urbanizzazione possono derivare, pertanto, dalla realizzazione di opere pubbliche o di interesse
pubblico (64) e di insediamenti funzionali all’esercizio di attività economiche che il piano consideri
strategiche per lo sviluppo del territorio (art. 5, comma 2) (65).
Consapevole, tuttavia, che la sola affermazione di tali criteri generali rischierebbe di non riuscire a
far da argine al tradizionale orientamento dell’urbanistica a prevedere e regolare primariamente
politiche espansive, la nuova legge urbanistica stabilisce comunque un limite quantitativo massimo
di ulteriore consumo di suolo ammissibile fino al 2050, pari al 3% della superficie del territorio
urbanizzato esistente alla data sua entrata in vigore (e dunque al 1° gennaio 2018), al netto del
(61) Questa necessaria motivazione delle scelte di piano deve collocarsi nella c.d. “dichiarazione di sintesi”, cioè
nell’apposito elaborato che “illustra in che modo le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano o programma
e come si è tenuto conto … del documento di VALsat … dei pareri espressi [dalle autorità ambientali e dai soggetti esperti
in materia ambientale ] e dei risultati delle consultazioni …, nonché le ragioni per le quali è stato scelto il piano o il
programma adottato, alla luce delle alternative possibili che erano state individuate” (art. 9, paragrafo 1, lettera b) della
Direttiva Vas 2001/42/CE, recepita dall’art. 18, comma 5, della L.R. n. 24 del 2017). La legge urbanistica, per enfatizzare
che l’intero processo di elaborazione del piano deve essere fondato sulla valutazione degli effetti ambientali e territoriali
delle sue previsioni, specifica inoltre che la dichiarazione di sintesi deve far parte sia del piano adottato (con “una prima
elaborazione” dello stesso) che della deliberazione approvativa del piano (art. 46, comma 1, secondo periodo, e comma
7, lettera b).
(62) Vi è dunque un certo margine di flessibilità nella definizione delle possibili alternative, che non può certo
coincidere con la sfera per così dire soggettiva delle aree nella disponibilità del soggetto, sin troppe volte rivendicata dagli
operatori, bensì deve essere riferito, secondo i canoni urbanistici, innanzitutto all’analisi delle previsioni del piano vigenti
ed in particolare alla destinazione funzionale attribuita ai diversi ambiti, ai parametri edificatori che li caratterizzano, alla
loro accessibilità, all’adeguatezza delle dotazioni e dei servizi richiesti per il nuovo insediamento, alla compatibilità con
gli usi presenti nelle aree adiacenti, ecc.
(63) Si richiama il fatto, già trattato al precedente paragrafo 2.5.2., che per sopperire all’esigenza abitativa degli attuali
occupanti degli immobili nel corso del periodo di realizzazione degli interventi, l’art. 13 prevede anche una particolare
tipologia di intervento, la costruzione e successiva demolizione, che evita la necessità di reperire “alloggi parcheggio”
che assolvano a tale funzione. Ebbene, il comma 4, secondo periodo, di questa disposizione specifica che – secondo le
regole generali – i nuovi alloggi (da costruire prima della demolizione di quelli da sostituire) si possono realizzare in
ambito extraurbano solo nel caso in cui non sia possibile reperire aree libere nel territorio urbanizzato utilizzabili per la
collocazione del nuovo edificio.
(64) In particolare, la legge si riferisce alle opere private dichiarate dalla normativa vigente di interesse generale, tra
cui rientrano principalmente le opere dei concessionari di pubblici servizi e le reti e attrezzature tecnologiche dichiarate
dalla legge di pubblica utilità; non già alle opere che il Consiglio comunale dichiari di interesse pubblico, perché
rispondenti ad un fabbisogno locale, come invece è consentito ai fini del rilascio dei permessi di costruire in deroga alle
previsioni di piano.
(65) Si noti come questo requisito sia coerente con l’ulteriore importante innovazione della legge che richiede per gli
strumenti attuativi l’allegazione di una relazione che consenta di verificare la fattibilità economico finanziaria
dell’intervento e la sua effettiva rispondenza alle esigenze del mercato e di valutare gli effetti positivi, in termini di
attrattività e competitività del territorio, che la stessa comporta.
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consumo di suolo che derivi dall’attuazione dei piani attuativi vigenti o da quelli approvati e
convenzionati nel corso della fase transitoria di elaborazione del PUG (66).
Non trattandosi, come abbiamo visto, di una disposizione diretta unicamente a preservare il suolo
permeabile quale risorsa ambientale, ma di una norma urbanistica, avente il primario obiettivo di
promuovere politiche di sviluppo sostenibile basate sul riuso e la rigenerazione del territorio
urbanizzato, tale limite incontra un elenco tassativo di deroghe, cioè di opere e insediamenti che si
possono realizzare nel territorio extraurbano senza computarle nella quota del 3% di consumo di suolo
ammissibile, ma sempre previa valutazione che non sussistano ragionevoli alternative localizzative
che non determinino consumo di suolo:
- le opere pubbliche di rilievo sovracomunale e quelle private qualificate dalla legge di interesse
pubblico;
- i nuovi insediamenti produttivi selezionati e finanziati attraverso i bandi della c.d. legge regionale
sull’attrattività (L.R. n. 14 del 2014), in quanto relativi ad imprese che si caratterizzino per
l’elevata internazionalizzazione, per i livelli di ricerca, l’utilizzo di tecnologie avanzate, per la
capacità di innovazione, la sostenibilità ambientale e sociale;
- gli insediamenti produttivi di interesse statale individuati attraverso lo speciale procedimento di
cui al DPR n. 194 del 2016;
- i nuovi insediamenti che risultino indispensabili per lo sviluppo e la trasformazione di attività
economiche già insediate nel territorio regionale (67).
Non sono inoltre conteggiati nel consumo di suolo ammissibile i parchi urbani e le dotazioni
ecologiche e ambientali, in quanto caratterizzati proprio dallo stabile mantenimento della
permeabilità dei suoli e dai servizi ecosistemici che assicurano alle aree urbanizzate, nonché le opere
funzionali alla conduzione delle aziende agricole realizzate nel territorio extraurbano.
I nuovi insediamenti comunque realizzabili nel territorio extraurbano devono soddisfare un ulteriore
requisito localizzativo avente, anche in questo caso, efficacia prescrittiva: essi non devono ampliare
la dispersione insediativa, cioè la disordinata diffusione dei nuovi insediamenti nel territorio rurale,
dovendo piuttosto concorrere al ridisegno dei margini urbani, collocandosi in aree contigue al
perimetro del territorio urbanizzato (art. 5, comma 4). Questa disposizione è ribadita anche per le
nuove costruzioni indispensabili per lo svolgimento dell’attività agricola, che devono essere collocate
all’interno o in adiacenza ai centri aziendali, con l’unica eccezione degli impianti zootecnici qualora
(66) Questa disposizione fa tesoro dell’esperienza positiva che ha caratterizzato la L.R. n. 6 del 1995 che ha posto un
limite analogo alle varianti specifiche ai PRG. Nella gestione di questo limite è stato utilizzato, per altro, pur in assenza
di un’esplicita previsione di legge, il meccanismo del “saldo zero” illustrato in precedenza, o meglio, la possibilità di
compensare nuove previsioni con la cancellazione di precedenti.
(67) La legge regionale riconosce in modo univoco che questi interventi di ampliamento, ristrutturazione o nuova
costruzione di fabbricati produttivi presentino un interesse generale, stabilendo all’art. 53 che essi possano beneficiare
della stessa procedura speciale di localizzazione in variante alla pianificazione prevista per le opere pubbliche e di
interesse pubblico. L’ampissimo ricorso a tale procedimento speciale conferma la piena condivisione di tale scelta del
legislatore da parte delle amministrazioni locali, ben disponibili a favorire lo sviluppo delle attività economiche insediate
nel proprio territorio. Si tratta del resto della prosecuzione della esperienza amministrativa avviata nel 2009 a seguito
dell’introduzione di una analoga disposizione nella L.R. n. 20 del 2000, l’art. A-14-bis, diretta ad agevolare le imprese
emiliano romagnole che intendessero investire nello sviluppo della propria attività economica nonostante la crisi
economica mondiale in atto, e che ha visto una immediata risposta favorevole da parte delle amministrazioni comunali.
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le normative di polizia veterinaria ne prescrivano una collocazione isolata rispetto alle altre attività
agricole.
(68) Gli interventi in espansione sono assoggettati al pagamento del contributo straordinario e dell’intero ammontare
del contributo di costruzione, non beneficiano degli incentivi urbanistici salvo quelli compensativi della maggior quota
di alloggi ERS realizzata, non usufruiscono di alcuna deroga ai limiti di densità edilizia, di altezza e distanza tra gli edifici
stabiliti dal D.I. n. 1444 del 1968 e non si avvalgono delle semplificazioni procedurali stabilite dall’art. 11 della legge
regionale.
(69) È appena il caso di evidenziare che, a fronte dell’ampia gamma di opere pubbliche che sono prescritte della legge
e che possono essere richieste dal piano comunale per assicurare la funzionalità e la sostenibilità dei nuovi insediamenti,
la L.R. n. 24 esclude categoricamente che il comune, sia pure nell’ambito della negoziazione sottesa all’approvazione
degli accordi operativi, possa richiedere il pagamento di “alcun corrispettivo monetario … per la previsione urbanistica
degli insediamenti e la loro attivazione”, oltre a quanto dovuto a titolo di contributo di costruzione (art. 38, comma 5).
La legge si riferisce a quegli oneri finanziari compensativi che frequentemente erano richiesti in caso di realizzazione di
importanti insediamenti, ma che non trovano giustificazione se non nell’esigenza delle amministrazioni locali di reperire
risorse per il loro bilancio, e che costituivano un rilevante fattore distorsivo del governo del territorio, assieme alla
possibilità di utilizzo del contributo di costruzione per le spese generali dell’ente, pratica anch’essa esclusa dalla nuova
legge urbanistica.
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fattori che impediscono o condizionano gli eventuali sviluppi insediativi, quali: le tutele e i servizi
ecosistemici svolti dai suoli in ragione delle risorse ambientali che li caratterizzano; gli aspetti
morfologici o geologici che rendono le aree incompatibili con le trasformazioni insediative; le
situazioni di rischio industriale e naturale, compresa la pericolosità sismica locale dei diversi siti, le
reti infrastrutturali esistenti e le aree vincolate quali corridoi di fattibilità di quelle pianificate.
Secondo il principio di competenza, la legge precisa tuttavia che questi elementi strutturali del
territorio extraurbano non devono derivare da una attività conoscitiva e (men che meno) essere
oggetto dei contenuti pianificatori del piano, bensì essere desunti dalla pianificazione generale di area
vasta o regionale, o dalle pianificazioni settoriali di tutela (art. 35, comma 5) (70).
Assieme a tale griglia di aree non vocate alla localizzazione di nuovi insediamenti, il PUG può anche
individuare le aree, contermini al territorio urbanizzato, che beneficiano delle opportunità di sviluppo
insediativo derivanti dalle dotazioni, dai servizi pubblici e dalle infrastrutture esistenti o in corso di
realizzazione. Per evitare che ciò possa costituire un vulnus al divieto di attribuzione di potenzialità
edificatorie, la legge precisa che tali ambiti devono essere rappresentati attraverso una cartografia
ideogrammatica priva di ogni valore precettivo, affinché non possa qualificarsi “in nessun caso” come
una rappresentazione delle aree idonee ai nuovi insediamenti (art. 35, comma 6) (71).
Si evidenzia dunque un’importante peculiarità della L.R. n. 24 che, escludendo che il PUG possa
stabilire una disciplina degli ambiti di espansione e non prevedendo la necessità per il comune di
dotarsi di uno strumento che programmi e coordini l’attuazione delle previsioni del medesimo piano
generale, ha di fatto operato una sorta di liberalizzazione della presentazione dei piani attuativi in
espansione, sia pure nei limiti e alle condizioni appena richiamati. Il privato, che possa dimostrare
che il PUG non preveda interventi di riuso e di trasformazione del territorio urbanizzato che possano
soddisfare le sue esigenze insediative, è abilitato a presentare una proposta di accordo operativo in
un ambito contermine al perimetro del territorio urbanizzato, (purché il suo piano attuativo osservi i
requisiti e le condizioni stabilite per i nuovi insediamenti dalla legge e dalla SQUEA). In tal modo,
la legge rinuncia ad ogni programmazione della preziosa quota del 3% di consumo di suolo
ammissibile, nella consapevolezza del probabile esaurimento della stessa già nel primo periodo di
applicazione della legge, in attesa che l’intero settore economico si orienti gradualmente verso il riuso
e la rigenerazione urbana.
Quanto al territorio rurale, si confermano i due principi cardine che governano questi ambiti sin dalla
legge regionale n. 6 del 1995 (di aggiornamento della legge urbanistica n. 47 del 1978): in zona
agricola è ammessa unicamente la realizzazione di nuove costruzioni se indispensabili per la
(70) Si consideri a tal riguardo che l’art. 22, specificamente dedicato ai sistemi territoriali e ai tematismi che devono
essere rappresentati e valutati dai piani urbanistici e territoriali (c.d. “quadro conoscitivo”), assegna al PUG il compito di
svolgere un analitico studio solo dei tessuti urbanizzati e del patrimonio edilizio esistente. Quanto alle modalità di
reperimento dei restanti dati e delle informazioni necessari per la predisposizione del piano, si sottolinea che i comuni
debbano muovere dall’utilizzo degli apparati conoscitivi del territorio posseduti e messi a disposizione da città
metropolitana, province e regione, e che possano procedere “solo alle integrazioni e agli approfondimenti necessari per
le tematiche di competenza dei propri strumenti di pianificazione”.
(71) Appare tuttavia evidente che il mercato immobiliare non potrà non cogliere questa indicazione di piano e
riconoscere un valore economico maggiore a queste aree nelle quali, in ragione dei fattori favorevoli riconosciuti dal
piano, gli operatori hanno la facoltà di presentare i necessari AO, con il solo onere di dimostrare di essere portatori di una
esigenza insediativa non altrimenti soddisfacibile nel territorio urbanizzato e di rispettare il limite massimo di consumo
di suolo consentito. Di conseguenza, quest’eventuale cartografia ideogrammatica potrà forse costituire il presupposto per
l’applicazione della disciplina statale che, ai soli fini fiscali, considera edificabili, e non rurali, le aree cui il piano
urbanistico generale riconosca una potenzialità edificatoria (V. precedente paragrafo 1. ed in particolare la nota 6).
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conduzione delle attività delle aziende agricole; tutto il patrimonio edilizio dismesso da queste ultime
può essere riutilizzato per funzioni coerenti con le loro caratteristiche architettoniche e funzionali, ma
con il vincolo di non poter edificare nuovi fabbricati aziendali in sostituzione di quelli che si è ceduto
a terzi. Inoltre, in coerenza con i principi che animano la nuova legge, si introducono varie
accentuazioni: anche per le imprese agricole la realizzazione di una nuova costruzione è consentita
solo se si dimostri che non sussista la possibilità del recupero del patrimonio rurale esistente; la
nozione di recupero ricomprende innanzitutto gli interventi di demolizione e ricostruzione e
comunque i nuovi manufatti devono essere realizzati all’interno dei centri aziendali o in ambiti
contermini ad esso, per evitare la realizzazione di edifici isolati che favoriscano la dispersione
insediativa. La realizzazione di significative trasformazioni edilizie è comunque subordinata alla
presentazione di un apposito elaborato tecnico, il Programma di Riconversione o Ammodernamento
dell’attività agricola (PRA), asseverato da un tecnico abilitato esperto nel settore agricolo, che
dimostri la necessità dei nuovi manufatti edilizi per lo sviluppo di una attività produttiva coerente con
le dimensioni e le caratteristiche dell’azienda stessa (72).
Per promuovere il recupero di suolo permeabile rimuovendo i fabbricati dismessi presenti nel
territorio rurale, è stata introdotta innanzitutto una modalità particolare per il recupero dei piccoli
manufatti, più o meno precari, disseminati nelle aree agricole: il PUG può consentire il recupero dei
volumi realizzati legittimamente, aventi funzione accessoria catastalmente riconosciuta, quali
depositi attrezzi, piccoli ricoveri per animali, magazzini, ecc., con un intervento unitario che preveda
la loro demolizione e l’ampliamento dell’edificio principale ovvero la realizzazione di un fabbricato
autonomo avente la medesima destinazione d’uso accessoria o una di quelle eventualmente ammesse
dal Piano, a condizione che contemporaneamente si proceda anche alla rimozione di tutte le tettoie,
baracche e di ogni altra struttura precaria presente nel fondo, di cui non è ammesso comunque il
recupero volumetrico (art. 36, comma 5, lett. c). Inoltre, è prevista la possibilità della desigillazione
di importanti quote di suolo coltivabile, attraverso la demolizione dei rilevanti allevamenti intensivi
dismessi e la rinaturazione dell’area di sedime e di pertinenza, consentendo la realizzazione nel
territorio urbanizzato, o in aree contigue allo stesso, di nuove edificazioni anche residenziali, aventi
una superficie fondiaria che corrisponda solo ad una limitata quota di quella originaria, di norma del
dieci percento, che può crescere fino alla percentuale del venti, qualora siano necessarie anche opere
di bonifica del sito o di rimozione di amianto o di altri materiali pericolosi, e fino al cinquanta
percento qualora si tratti di edifici così impattanti dal punto di vista paesaggistico o ambientale da
essere classificati dal piano come “incongrui” (art. 36, comma 5, lett. e).
(72) Il PRA consiste in una relazione asseverata da un tecnico abilitato e costituisce una rilevante semplificazione
rispetto al precedente Piano di Sviluppo Aziendale (PSA), la cui approvazione richiedeva un procedimento analogo a
quello dei piani attuativi. L’obbligo della presentazione dei PRA in luogo del tradizionale PSA era già stato previsto dalla
L.R. n. 20 del 2000 ma, sempre in ragione della non prescrittività di quella legge, anche questa innovazione era stata
sostanzialmente disattesa dalla maggior parte dei comuni che avevano continuato ad utilizzare il vecchio metodo si
approvazione delle edificazioni in zona agricola: l’attribuzione al territorio rurale di un indice edificatorio generale,
comprensivo dell’edificato esistente, alla cui deroga si procedeva attraverso l’approvazione in consiglio comunale del
PSA. Il necessario passaggio alla nuova disciplina è ora sancito da un atto di coordinamento tecnico (approvato con
delibera della Giunta regionale n. 623 del 29 aprile 2019, integrata dalla delibera n. 713 del 13 maggio 2019), vincolante
ai sensi dell’art. 49 della L.R. n. 24, che ha definito i contenuti del PRA e, più in generale, la disciplina di dettaglio che
regola la realizzazione nel territorio rurale sia dei fabbricati produttivi che delle abitazioni per gli imprenditori agricoli.
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2.6.3. Il divieto di attribuzione di potenzialità edificatoria e l’obbligo di una cartografia
ideogrammatica
Per completare la disamina delle previsioni con le quali la nuova legge urbanistica persegue
l’obiettivo di orientare i nuovi piani unicamente al riuso e alla rigenerazione urbana, appare opportuno
richiamare le specifiche prescrizioni che stabiliscono quali debbano essere la natura e l’efficacia delle
diverse previsioni di piano e la forma che le stesse devono assumere di conseguenza. La legge
afferma, anche in questo campo una serie di principi generali, che vengono poi richiamati nei
principali casi in cui devono trovare applicazione. Così, al Capo IV delle disposizioni generali sul
governo del territorio, gli articoli 25 e 26 chiariscono quale debba essere l’efficacia conformativa
delle principali categorie di previsioni di piano; mentre l’art. 24, riprendendo i medesimi contenuti
pianificatori, ne conferisce la titolarità ai diversi strumenti, alla luce del principio di competenza, e
stabilisce la natura cedevole delle previsioni che esulino dalle prerogative di ciascun piano (V.
precedente paragrafo 2.).
In particolare, l’art. 25 si apre con l’enfatica affermazione che, fatti salvi gli interventi nel TU attuabili
per intervento diretto, il PUG e gli strumenti sovracomunali (d’area vasta o regionali) non
attribuiscono “in nessun caso potestà edificatorie alle aree libere né conferiscono alle stesse
potenzialità edificatorie o aspettative giuridicamente tutelate di analogo contenuto”.
Conseguentemente, nei tre commi successivi si indicano i profili rispetto ai quali i medesimi piani
possono risultare conformativi del diritto di proprietà (c.d. conformazione “del territorio”):
- laddove disciplinino le modalità di tutela e valorizzazione, in campo ambientale, paesaggistico e
culturale, ovvero quando individuino ambiti gravati da limiti o divieti all’edificazione per le
caratteristiche morfologiche o geologiche, o per la presenza di rischi ambientali o industriali
(comma 2, lettere a), b) e c);
- stabilendo corridoi di fattibilità di opere pubbliche, quali ambiti destinati a tempo indeterminato
ad assicurare la realizzabilità di opere pubbliche o di interesse pubblico prevalentemente lineari,
quali strade, ferrovie, reti energetiche, ecc. (comma 2, lettera d);
- quando definiscano requisiti o condizioni di sostenibilità ambientale o infrastrutturale cui è
subordinata, a tempo indeterminato, l’attuabilità di talune trasformazioni del territorio (comma 3);
- ove pongano un vincolo urbanistico di natura espropriativa (comma 5) (73).
Passando a regolamentare anche la forma di queste previsioni, la medesima disposizione specifica
che il piano deve provvedere ad una precisa individuazione delle aree gravate dalle prescrizioni e dai
vincoli sopra elencati, limitatamente ai profili per i quali ha efficacia conformativa, e richiede, di
conseguenza, una cartografia di dettaglio, puntualmente rappresentativa delle aree interessate
(comma 4).
(73) Una delle peculiarità della nuova legge urbanistica è di aver previsto che l’apposizione dei vincoli espropriativi e
la dichiarazione di pubblica utilità delle opere può avvenire indifferentemente attraverso il piano urbanistico generale, gli
strumenti attuativi e le procedure speciali in variante (tra cui innanzitutto gli accordi di programma e il procedimento
unico), purché tali previsioni presentino i requisiti e gli elaborati tecnici richiesti dalla disciplina in materia di espropri
statale e regionale. In tal modo, la legge ha ampliato notevolmente la flessibilità del sistema, che in precedenza assegnava
solo al POC e alle procedure speciali in variante la possibilità di apporre vincoli preordinati all’esproprio.
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Similmente, l’art. 26, comma 1, definisce in via generale - alla lettera b) – in quali casi le previsioni
del PUG possono essere conformative del diritto di edificare (“limitatamente alla disciplina degli
interventi attuabili per intervento diretto, di qualificazione edilizia, di ristrutturazione urbanistica e
di recupero e valorizzazione del patrimonio edilizio tutelato dal piano, ivi compreso il riconoscimento
di incentivi urbanistici per promuovere l'attuazione dei medesimi interventi ai sensi dell'articolo 8,
comma 1”), sottolineando che, nelle restanti ipotesi in cui è obbligatoria l’approvazione di uno
strumento attuativo, l’attribuzione dei diritti edificatori compete unicamente agli stessi, che
stabiliscono il progetto urbano della trasformazione, gli usi ammissibili, gli indici e i parametri edilizi
e le modalità di attuazione, ma anche gli oneri che gravano sull’intervento, in termini di dotazioni
territoriali, infrastrutture e servizi pubblici (art. 26, lettera a) (74).
Dopo di che, l’art. 24 specifica, a contrario, quale prima esplicazione del principio di competenza,
che le eventuali previsioni del PUG che esulino dalla funzione conformativa del territorio e che non
regolino interventi diretti - previsioni che la legge denomina “contenuti strategici” o “componente
strategica” del piano - non possono stabilire una disciplina urbanistica di dettaglio, costituendo un
ogni caso solo riferimenti di massima per i piani attuativi (art. 24, comma 2, lettera b) e che la relativa
cartografia deve risultare solo “ideogrammatica”, destinata ad essere sostituita da quella puntuale e
dettagliata del piano attuativo, senza che ciò costituisca variante al piano generale (art. 24, comma 2,
lettera a).
A fronte di tanta enfasi presente nel dettato normativo, non può che ribadirsi che la violazione di
questi principi costituisce palesemente una causa di illegittimità del PUG, e che (anche quando tale
vizio del piano non sia stato accertato dal giudice) la legge regionale prevede, per effetto del principio
di competenza, una sostanziale inidoneità delle medesime disposizioni a condizionare le scelte del
piano attuativo circa la disciplina urbanistica di dettaglio. L’AO è tenuto ad osservare le disposizioni
conformative del territorio, stabilite dal PUG, dalla pianificazione territoriale e dai piani di tutela, ma
ha riconosciuto dalla legge un ampio margine di discrezionalità nell’attuazione delle restanti
previsioni dei medesimi piani, che hanno necessariamente natura strategica.
In premessa abbiamo evidenziato la particolare rilevanza della disciplina edilizia per la concreta
attuabilità degli interventi di qualificazione del patrimonio esistente, in quanto essa può impedire o
rendere più lunghi e complessi i processi di recupero, a causa della necessità di verificare anche la
legittimità urbanistica degli immobili su cui si interviene e della maggiore difficoltà a valutare sia le
prestazioni tecniche che essi presentano attualmente, sia i risultati che potranno essere conseguiti
attraverso le opere che si intende realizzare.
Consapevole di questa problematica, la nuova legge urbanistica rimarca innanzitutto la necessità che
i PUG perseguano la massima semplificazione nella scelta delle procedure attuative e, come
esaminato nel capitolo precedente, prescrive che siano soggette al solo titolo edilizio tutte le opere
di qualificazione edilizia, di rivitalizzazione e rifunzionalizzazione del centro storico e di recupero
(74) Grazie a questa ampia esplicazione, la disposizione chiarisce anche cosa si intenda per “definizione della disciplina
urbanistica di dettaglio”, nozione che la legge in più passaggi utilizza per richiamare la funzione degli AO.
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del patrimonio edilizio tutelato e che occorra solo il rilascio di un permesso di costruire convenzionato
per la ristrutturazione urbanistica di interi isolati. Inoltre, la L.R. n. 24 subordina alla presentazione
di una SCIA anche gli interventi di nuova costruzione nel territorio urbanizzato, attuativi di AO di
addensamento e sostituzione urbana.
L’assoluta necessità di dotarsi di una disciplina tesa a favorire il più possibile gli interventi di recupero
e qualificazione del patrimonio immobiliare, ha costituito negli ultimi dieci anni il principale punto
di riferimento anche delle riforme della legislazione edilizia, tutte orientate primariamente alla
semplificazione normativa e procedurale degli interventi sull’esistente. Se dunque, come segnalato in
premessa, nelle leggi edilizie della regione (L.R. n. 15 del 2013 e n. 23 del 2004) si riscontrano
numerosi principi e istituti innovativi volti ad assicurare la certezza delle posizioni giuridiche e la
celerità e semplicità dei procedimenti, riferibili a tutte le tipologie di interventi edilizi, compresa
dunque la nuova costruzione, vi sono numerose disposizioni specificamente dirette ad affrontare le
problematiche che si incontrano intervenendo sul patrimonio edilizio esistente, e che è opportuno
esaminare in questo capitolo.
A differenza della normativa urbanistica, che non trova nella recente legislazione statale alcun valido
riferimento (ed è anzi necessitata a confrontarsi con normative che echeggiano concezioni ormai
vetuste), la disciplina edilizia presenta un rapporto dialettico con la stessa in quanto, se alcune
innovazioni rimangono delle peculiarità del sistema legislativo emiliano-romagnolo, altre sono state
poi recepite dalla legislazione statale che le ha trasformate in principi fondamentali della materia,
altre ancora sono state sviluppate dalla legge regionale in recepimento delle innovazioni operate dalla
c.d. Legge Madia e dai provvedimenti attuativi della stessa e, soprattutto, dal decreto semplificazioni
n. 76 del 2020, anche grazie alla collaborazione tra i due livelli istituzionali che ha caratterizzato
l’elaborazione dei testi statali. Nei paragrafi che seguono esamineremo dunque le disposizioni che
favoriscono gli interventi di riuso e rigenerazione urbana, specificando il contesto legislativo dal
quale traggono origine.
Le principali tematiche che investono gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, sulle quali è
intervenuto con numerose innovazioni il legislatore regionale, sono quelle riconducibili allo “stato
legittimo”, cioè alla legittimità dell’attuale stato di fatto dell’edificio sul quale si intende intervenire,
e alla disciplina amministrativa tesa alla regolarizzazione delle eventuali difformità tra quanto
autorizzato dai titoli edilizi, che nel tempo ne hanno consentito la costruzione e la trasformazione, e
le sue attuali caratteristiche, difformità frequentemente rilevate dal tecnico abilitato in occasione della
presentazione di un nuovo titolo edilizio o della stipula di atti di trasferimento della proprietà o di
costituzione di altri diritti reali. Un eventuale difetto di tale stato legittimo risulta infatti preclusivo
del rilascio o della presentazione di un titolo abilitativo e della circolazione dei beni immobili.
La rilevanza di queste problematiche è apparsa evidente negli anni scorsi anche in occasione di
interventi edilizi sul patrimonio esistente che beneficiavano di finanziamenti pubblici, così come dei
processi di riparazione o ricostruzione degli immobili danneggiati o distrutti da eventi catastrofici
(terremoti e alluvioni), che sono stati fortemente rallentati o impediti dalla difficoltà per i
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professionisti di attestare lo stato legittimo dell’immobile e dalla conseguente necessità di procedere
preliminarmente alla regolarizzazione delle difformità riscontrate (75).
Come vedremo nei paragrafi successivi, su tali tematiche la disciplina regionale è stata anticipatoria
di previsioni poi recepite a livello statale (come nel caso delle tolleranze costruttive), ma anche
estremamente sensibile nel fare proprie e sviluppare le più avanzate indicazioni della giurisprudenza
e della dottrina in materia. Al riguardo, si pensi per esempio alla c.d. sanatoria giurisprudenziale,
introdotta in recepimento delle argomentazioni espresse dal Consiglio di Stato nel parere sulla bozza
di T.U. edilizia, ed alla disciplina sulla sanatoria paesaggistica per gli abusi commessi prima
dell’introduzione dell’obbligo di ripristino e sulla necessità del parere di compatibilità paesaggistica
per gli illeciti edilizi commessi prima dell’apposizione del vincolo, con la quale sono state fatte
proprie le posizioni espresse dall’Ufficio Legislativo del Ministero competente.
Questa particolare attenzione, certamente dovuta all’assiduo confronto con i professionisti e gli
operatori del settore ed all’ascolto delle problematiche da essi incontrate nella pratica quotidiana, ha
portato ad una rivisitazione critica dell’intera normativa edilizia, dando quanto più possibile
rilevanza: alla circostanza che, in determinate ipotesi, considerato anche il tempo trascorso dalla
realizzazione dell’abuso, manca un interesse pubblico, concreto ed attuale, al ripristino; alle esigenze
di certezza e stabilità delle posizioni giuridiche; alla tutela dell’affidamento dei privati sulla
legittimità degli atti amministrativi, specialmente se risalenti nel tempo; al principio di economia, che
impone di non sanzionare con il necessario ripristino quelle attività che oggi sarebbero comunque
consentite.
Questa sensibilità del legislatore regionale non ha comportato l’approvazione di una disciplina
permissiva, derogatoria dei principi fondamentali della materia; al contrario, anche nella normativa
di riforma si riscontra un assoluto rigore nel perseguimento della qualità dei manufatti edilizi e nella
chiara individuazione sia delle normative tecniche e pianificatorie da osservare, sia dei compiti di
certificazione ed attestazione della legittimità degli interventi posti in capo ai professionisti, sia dei
controlli che devono essere svolti dalle amministrazioni competenti. Anzi, la legge regionale supera
il sistema dei meri controlli cartacei dei progetti presentati, ma pretende che, al termine dei lavori, i
tecnici comunali svolgano una verifica ispettiva delle opere realizzate, per constatarne la piena
conformità al progetto approvato ed ai requisiti cui è subordinata l’agibilità. La legge sanziona, con
il massimo rigore, chi oggi svolga attività edilizia abusiva, rendendo più agevole l’attuazione degli
interventi coattivi di ripristino dello stato dei luoghi e stabilendo modalità semplificate di calcolo
delle sanzioni pecuniarie, dall’ammontare realmente afflittivo (in quanto legato al doppio del reale
(75) A tal riguardo basti ricordare che, a seguito del terremoto che ha colpito i territori delle regioni Lazio, Marche,
Umbria e Abruzzo il 24 agosto 2016, è stato necessario stabilire una speciale modalità di accertamento dello stato
legittimo, per consentire la presentazione delle pratiche edilizie per la ricostruzione privata, che risultava fortemente
rallentata da questa criticità (Vedi art. 10, comma 6, del DL n. 76 del 2020 di integrazione dell’art. 12, comma 2, del
decreto legge n. 189 del 2016). Anche per il così detto "superbonus 110%” si era registrato un blocco della iniziale
presentazione delle pratiche, superato solo dopo l’approvazione di una disciplina speciale che, in luogo dell’ordinaria
asseverazione dello stato legittimo, ha richiesto unicamente l’attestazione o degli estremi del titolo abilitativo che ha
previsto la costruzione dell'immobile oggetto d'intervento o la sua sanatoria o del fatto che la costruzione è stata
completata in data antecedente al 1° settembre 1967, rimanendo comunque impregiudicata ogni valutazione circa la
legittimità o meno dell'immobile. È stato inoltre necessario sottolineare che, l’eventuale presenza nell’immobile di abusi
edilizi, realizzati in precedenza, non comportava la decadenza dal Superbonus ai sensi dell'articolo 49 del DPR n. 380 del
2001 (Vedi commi 13-ter e 13-quater dell’art. 119 del D.L. n. 30 del 2020, inseriti dall’art. 33, comma 1, lett. c), del D.L.
n. 77 del 2021, convertito con modificazioni dalla L. n. 108 del 2021).
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valore di mercato degli immobili, desumibile in via speditiva dai dati dell’Osservatorio del Mercato
Immobiliare (OMI) dell’Agenzia delle Entrate, pubblicati sul web).
Si può osservare come la previsione legislativa, da una parte, di precise casistiche di difformità
suscettibili di regolarizzazione e, dall’altra, di un apparato sanzionatorio che persegue con particolare
rigore le restanti ipotesi di opere abusive, abbia portato a stabilire nella modulistica unificata edilizia
l’obbligo dell’attestazione dello stato legittimo, prima dell’introduzione di questo istituto nella
legislazione statale e regionale. Inoltre, la contemporanea esigenza di semplificare e accelerare la
presentazione delle pratiche che interessino il patrimonio esistente, ha portato a prevedere che con la
medesima istanza edilizia si possa sia regolarizzare le difformità presenti nell’edificio ove consentito
dalla legge - potendo così dichiarare nel medesimo atto lo stato legittimo dell’immobile - sia
richiedere l’abilitazione per il nuovo intervento. Più in particolare, il professionista, laddove abbia
accertato delle difformità tra lo stato di fatto dell’immobile ed i titoli abilitativi disponibili, nel
presentare una CILA o una SCIA o nel richiedere il rilascio di un permesso di costruire, può anche
dichiarare che sussistono i presupposti e le condizioni previste dalla legge per la loro regolarizzazione,
e di conseguenza attestare lo stato legittimo dell’immobile; l’amministrazione comunale, da parte
sua, verifica preliminarmente la sanabilità delle difformità accertate e, in caso di valutazione positiva,
istruisce il titolo edilizio. Tale sistema evidentemente presuppone un significativo affidamento da
parte dell’ordinamento regionale sul ruolo primario dei tecnici abilitati nella certificazione dello stato
di fatto e di diritto degli immobili e nell’accertamento della legittimità degli interventi, come
proclamato con la giusta enfasi dall’art. 1, comma 3, della L.R. n. 15 del 2013, in quanto costituisce
l’imprescindibile presupposto di numerosi istituti di semplificazione della disciplina edilizia. A tal
riguardo si consideri che tale ruolo è il frutto della ormai lunga esperienza amministrativa di questa
regione, nella quale i professionisti sono chiamati ad attestare la legittimità delle pratiche presentate
sin dalla L.R. n. 33 del 1990, ben prima dunque dall’introduzione del silenzio assenso nel permesso
di costruire (76) o dei titoli edilizi abilitati con dichiarazioni degli interessati asseverate dal tecnico
abilitato (77).
Non è un caso che a questa sistematica e rigorosa verifica di tutti gli immobili sottoposti a intervento
edilizio, e alla particolare attenzione per il ruolo del tecnico abilitato abbia corrisposto un’ altrettanto
puntuale attenzione nella verifica della legittimità urbanistica degli immobili, ai fini della stipula
degli atti pubblici di trasferimento dei beni immobili, grazie alla sottoscrizione di apposti protocolli
di intesa tra gli Ordini e Collegi professionali ed i Consigli notarili, in merito alla redazione di una
apposita “Relazione tecnica integrata urbanistica ed edilizia e di conformità catastale”, che
(76) Il silenzio assenso sulla domanda di permesso di costruire in Emilia-Romagna è stato introdotto con la L.R. n. 31
del 2002 (art. 13, comma 10) proprio nella considerazione che l’attestazione del professionista abilitato costituisse una
sufficiente garanzia per l’applicazione dell’istituto. Nella legislazione statale, sia l’asseverazione del professionista
abilitato (della “conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e
alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia”), sia il silenzio assenso, in carenza
di vincoli ambientali paesaggistici e culturali sull’immobile (nel qual caso operava il silenzio rifiuto) sono stati recepiti
solo dieci anni dopo (con l’art. 5, comma 2, lettera a), punto 3), del D.L. n. 70 del 2011).
(77) La Denuncia di Inizio Attività (DIA) è stata introdotta nel 2001 dagli articoli 22 e 23 del T.U. edilizia.
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valorizzano appieno gli effetti favorevoli che derivano dalla legislazione regionale in campo edilizio
(78).
Da sottolineare, inoltre, che la disciplina regionale presta particolare attenzione anche all’esigenza
che gli immobili oggetto di sanatoria presentino comunque i requisiti igienico sanitari, di sicurezza,
di efficienza energetica, di non creazione di barriere architettoniche, prescritti all’epoca di
realizzazione delle opere abusive, richiedendo cioè gli stessi livelli qualitativi previsti per gli
immobili realizzati in conformità al titolo edilizio, e stabilisce che, qualora le opere risultino carenti
di tali requisiti, la sanatoria possa essere subordinata alla avvenuta realizzazione dei lavori necessari
per rendere l’immobile conforme alla disciplina oggi vigente in materia.
Infine, occorre segnalare la più recente innovazione legislativa che ha previsto il possibile utilizzo di
strumenti negoziali per assicurare l’esecuzione dei provvedimenti sanzionatori di demolizione, totale
o parziale, dei manufatti abusivi. È evidente come questa previsione normativa sia frutto dell’ampia
esperienza amministrativa della regione nell’utilizzo degli strumenti negoziali in materia di governo
del territorio e, più nello specifico, della consapevolezza del legislatore regionale che, anche in queste
tematiche, l’effettivo conseguimento dell’interesse pubblico è senz’altro favorito dal coinvolgimento
dei privati chiamati a dare concreta attuazione ai provvedimenti, purché ciò avvenga nella piena
trasparenza dei contenuti dell’accordo ed avendo a riferimento un quadro normativo che definisca in
maniera univoca i limiti e le condizioni che vincolano l’esercizio della discrezionalità negoziale.
Questa previsione nasce infatti dalla constatazione della notevole difficoltà incontrata dai comuni –
così come dalle autorità chiamate ad intervenire in via surrogatoria – nell’esecuzione coattiva dei
provvedimenti di ripristino (79), che porta le amministrazioni ad assecondare il più possibile le istanze
di proroga dei termini e di sospensione dei provvedimenti esecutivi, ancor più quando pervengano da
privati che comunque si dimostrino seriamente intenzionati ad ottemperare all’ordine di demolizione.
Vi è dunque un’ampia casistica nella quale la stipula di un accordo tra il comune ed il privato
responsabile dell’abuso può risultare utile per entrambe le parti, assicurando al primo l’effettiva
esecuzione del ripristino, nei tempi e con le modalità concordate, e al secondo la possibilità di giovarsi
di una tempistica più lunga e certa, compatibile con le sue esigenze (abitative o d’impresa). Sempre
nell’ottica di semplificare le procedure amministrative, la legge regionale a tutto ciò aggiunge
l’ulteriore vantaggio per il privato di poter realizzare, oltre agli interventi demolitori necessari per la
regolarizzazione dell’immobile, gli interventi edilizi ammessi dalla pianificazione. Il ricorso a questo
strumento può così risultare di particolare interesse per i privati nel caso in cui gli immobili abusivi
siano attualmente utilizzati, a fini abitativi o lavorativi, in quanto consente di superare situazioni di
(78) Si noti che alla sottoscrizione di questi protocolli, per esempio a quello di Bologna del 12 luglio 2017, sono
intervenuti anche i rappresentanti degli Sportelli unici per l’edilizia e delle agenzie di intermediazione immobiliare, dando
evidenza alla rilevanza trasversale di questo strumento e della normativa che ne ha favorito lo sviluppo.
(79) Questa fase conclusiva del procedimento sanzionatorio, che le disposizioni di legge descrivono, in modo troppo
sbrigativo, con espressioni estremamente sintetiche (una per tutte: l’opera è demolita “a spese” dei responsabili
dell’abuso: art. 31, comma 5, DPR n. 380 del 2001) comporta in realtà un iter amministrativo complesso, in quanto
richiede il reperimento e la programmazione di risorse economiche significative, lo svolgimento di procedure di gara per
individuare la ditta esecutrice dei lavori, la necessità di trovare una sistemazione alternativa agli occupanti, specialmente
se nuclei familiari con minori o persone ammalate, la ricerca di soluzioni per evitare l’interruzione delle attività lavorative
svolte nel fabbricato produttivo abusivo, ecc.
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illegalità, magari risalenti nel tempo, e di poter attivare gli interventi di riuso e qualificazione nel
pieno rispetto della disciplina vigente (80).
Si può dunque osservare come ciascuno degli strumenti normativi che passeremo in rassegna sia
funzionale all’obiettivo di riammettere ai processi di qualificazione edilizia una quota di immobili
che, altrimenti, risulterebbe esclusa dagli stessi o comunque vi potrebbe accedere con difficoltà, solo
a seguito dello svolgimento di complesse procedure di regolarizzazione, dagli oneri amministrativi
spesso non proporzionati alla gravità e rilevanza delle difformità e dagli esiti incerti.
(80) Si pensi al caso in cui un’attività produttiva si svolga in un manufatto che presenta talune parziali difformità e
l’impresa abbia la necessità di ampliare o trasformare il proprio stabilimento per esigenze di sviluppo produttivo.
(81) La precisazione legislativa della piena equipollenza della sanatoria rispetto ai titoli abilitativi è stata salutata con
favore dai commentatori, apprezzando la volontà del legislatore di superare definitivamente quell’orientamento
giurisprudenziale, talora riemergente, che considerava legittimo che la legge o la pianificazione urbanistica potessero
attribuire discipline di trasformazione differenti e limitate per i fabbricati interessati da condono edilizio o da altra
sanatoria (si vedano da ultimo TAR Campania, Napoli, n. 4457 /2019, riprendendo la pronuncia del Consiglio di Stato
Consiglio di Stato, sezione V, 1 ottobre 2002 n. 5117), nonostante che la stessa Corte Costituzionale, con le sentenze n.
529 del 1995 e n. 238 del 2000, avesse considerato illegittime le previsioni legislative regionali che prevedessero questi
regimi differenziati, trattandosi di una irragionevole discriminazione nei confronti dei proprietari di fabbricati condonati
rispetto ai titolari di fabbricati non condonati, e che questi principi erano stati ripresi ed estesi alle previsioni pianificatorie
e regolamentari comunali dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5358/2016.
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Il secondo fattore che concorre alla determinazione dello stato legittimo è costituito dall’integrale
corresponsione della sanzione pecuniaria, nei casi in cui la stessa sia prevista dalla legge in luogo
della demolizione. L’art. 21, comma 01, della L.R. n. 23 del 2004, dedicato a tale tipologia di
sanzione, specifica infatti con particolare enfasi che il pagamento di queste sanzioni “comporta, ai
soli fini edilizi, la piena regolarizzazione degli interventi sanzionati, producendo i medesimi effetti
amministrativi che derivano dai titoli edilizi in sanatoria”. La previsione regionale muove
evidentemente dalla natura ripristinatoria e non afflittiva delle sanzioni pecuniarie alternative alla
demolizione, in quanto mirano a costituire una sorta di compensazione della situazione antecedente,
risarcendo per equivalente, anziché in forma specifica, l’interesse pubblico leso dall’opera abusiva in
contrasto con la disciplina urbanistica e edilizia di riferimento (82).
Diviene pertanto particolarmente rilevante individuare i casi di sanzione pecuniaria di natura
ripristinatoria cui fa riferimento la legge regionale. Ha sicuramente tale funzione la sanzione prevista
in caso di parziali difformità rispetto al permesso di costruire rilasciato e di ristrutturazione realizzata
in assenza o difformità dal titolo edilizio (art. 15, L.R. n. 23 del 2004) qualora, a seguito dell’ordine
di demolizione, il privato dimostri l’impossibilità della rimozione delle opere abusive, a causa del
pregiudizio strutturale e funzionale che sarebbe arrecato alle parti residue dell’immobile. In presenza
di tali circostanze è irrogata una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento del valore venale
dell’immobile conseguente alla realizzazione delle opere, calcolato – come abbiamo visto - con
riferimento ai più aggiornati parametri del mercato immobiliare. Una sanzione pecuniaria
ripristinatoria è altresì prevista dal legislatore regionale anche per gli interventi edilizi di minore
rilevanza rispetto alla ristrutturazione ove realizzati abusivamente, evidentemente ritenendo che
l’elevato ammontare della sanzione sia già sufficiente a disincentivare la realizzazione di questi abusi
e, ove commessi, risponda ad un criterio di proporzionalità. Ciò è previsto, purché non ineriscano ad
immobili vincolati, per gli interventi edilizi soggetti a SCIA diversi dalla ristrutturazione, e per tutti
gli interventi subordinati a CILA realizzati in violazione della disciplina urbanistica e edilizia. In
queste ipotesi, la legge prevede direttamente l’irrogazione di una sanzione pecuniaria (laddove il
privato non ottemperi spontaneamente alla demolizione delle opere realizzate illecitamente a seguito
dell’accertamento dell’abuso e all’ordine di ripristino) (83).
(82) Nonostante talune pronunce che sporadicamente hanno riconoscono che la fiscalizzazione costituirebbe
“un’ipotesi particolare di sanatoria” (Si veda da ultimo Consiglio di Stato n. 1476 /2017 e in precedenza n. 5158/2013 e
n. 1026/1996 e, più di recente il TAR Liguria n. 589/2020 il quale precisa che “pur non dando luogo ad una sanatoria
…, svolge una funzione di sostanziale regolarizzazione delle opere”), l’orientamento giurisprudenziale prevalente era nel
senso che la mancata esecuzione del ripristino non fosse idonea a rimuovere il carattere antigiuridico delle opere, in
considerazione della natura permanente dell’illecito edilizio, pervenendosi a seguito del pagamento della sanzione
pecuniaria solo ad una sorta di “tolleranza” che l’ordinamento ammette in via di eccezione (in questi termini si esprimeva
il Cons. Stato n. 5412/2011, confermato più recentemente da Cons. Stato, n. 2799/2018; dalla Cass. Pen. n. 28747/2018;
dal TAR Campania, Napoli, n. 3552/2019). Questa posizione giurisprudenziale aveva l’effetto di porre l’immobile, a
tempo indeterminato, in una sorta di limbo nel quale era escluso che potesse avvalersi di ogni opportunità di
trasformazione o di ampliamento riconosciuta dal piano o dalla legge. Si coglie dunque l’assoluta rilevanza della
previsione legislativa regionale che rimuove uno dei principali vincoli normativi impeditivi degli interventi di
qualificazione del patrimonio edilizio esistente.
(83) La natura risarcitoria per equivalente dell’interesse pubblico violato, propria di queste sanzioni è evidenziata dal
fatto che, per il calcolo della somma dovuta, si applica la medesima modalità prevista per gli abusi più gravi appena
richiamati, essendo anch’essa parametrata all’effettivo valore venale delle opere. Permane poi un rapporto di alternatività
rispetto al ripristino nel fatto che la demolizione costituisce la modalità con la quale il privato può, sia pure
spontaneamente, evitare l’irrogazione della sanzione pecuniaria.
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È evidente la differenza con altre ipotesi sanzionatorie previste dalla disciplina edilizia, aventi invece
natura afflittiva, e che non sono alternative alla demolizione dell’abuso, ma puniscono la mancata
esecuzione di taluni adempimenti amministrativi dovuti, per il solo fatto della violazione del relativo
obbligo di legge. Si tratta innanzitutto dei c.d. “abusi formali”, ovvero delle opere edilizie realizzate
in violazione solo dell’obbligo di munirsi del titolo abilitativo prima dell’avvio dei lavori: in tali casi,
a seguito dell’accertamento che le opere realizzate risultano comunque conformi alla disciplina
urbanistica ed edilizia, viene sanzionato unicamente il comportamento potenzialmente lesivo del
soggetto, con una sanzione afflittiva che presenta una diversa modalità di calcolo della somma dovuta,
stabilita in misura fissa (come nel caso degli interventi realizzati in assenza di CILA o qualora la
stessa sia trasmessa nel corso dei lavori: V. art. 16, comma 1, L.R. n. 23 del 2004) o parametrata a
fattori diversi dal valore venale delle opere abusive, quali il contributo di costruzione dovuto (come
nel caso delle parziali difformità realizzate ante 1977 o delle opere soggette a SCIA o a PdC conformi
alle norme urbanistiche ed edilizie: art. 17, comma 2, e 17-bis L.R. n. 23 del 2004) (84). Si noti che,
in queste ipotesi, il procedimento sanzionatorio comporta comunque la presentazione o il rilascio di
un titolo edilizio, che la legge qualifica (impropriamente) in sanatoria, che concorre anch’esso alla
definizione dello stato legittimo dell’immobile.
Oltre a queste univoche indicazioni sugli atti amministrativi che costituiscono il parametro per la
verifica di legittimità dell’immobile preesistente, l’art. 9-bis del DPR n. 380 del 2001, al comma 1-
bis, ha stabilito una importante semplificazione dell’onere probatorio che grava sul privato in caso di
una pluralità di titoli abilitativi e dà soluzione ad un diffuso problema, per così dire pratico, che gli
operatori incontrano frequentemente laddove si intervenga sull’esistente e che, precedentemente,
finiva per bloccare o comunque ostacolare gli interventi di recupero: cosa considerare per verificare
la legittimità degli immobili costruiti prima che la legge stabilisse l’obbligo di acquisire un titolo
abilitativo edilizio (obbligo che sussiste dal 1942 per gli interventi nei centri urbani e dal 1967 per le
costruzioni rurali), e nel caso in cui questo titolo sia stato smarrito e sussista solo un principio di prova
del suo rilascio. Quanto al primo aspetto, il primo periodo del nuovo comma stabilisce che nel caso
di interventi edilizi che abbiano interessato l’intero immobile o unità immobiliare, comportandone di
conseguenza una complessiva trasformazione fisica e funzionale, il privato possa limitarsi ad
utilizzare come parametro per la verifica di legittimità il titolo originario che ha legittimato la
costruzione dell’immobile, e quello che ha abilitato l’ultimo intervento di trasformazione complessiva
dell’immobile, omettendo ogni riferimento agli eventuali titoli edilizi rilasciati nel periodo
intermedio, in quanto le opere edilizie che ne sono conseguite sono state modificate dalla successiva
trasformazione. Non si tratta di poca cosa, in quanto con un approccio certamente formalistico in
passato si richiedeva di acquisire e valutare anche questi interventi intermedi, nonostante l’evidente
difficoltà a ricostruire la corrispondente situazione di fatto ormai modificata per effetto di un
successivo intervento di trasformazione dell’intero manufatto.
(84) Emblematico, per cogliere la differente natura delle sanzioni, quanto previsto dall’art. 16-bis della L.R. n. 23 del
2004, che disciplina le diverse tipologie di sanzioni relative agli interventi costituenti attività edilizia libera (categoria
comprensiva della CILA), prevedendo: una sanzione afflittiva in misura fissa, di 1000 €, per la mancata presentazione
della CILA o la difformità da essa laddove le opere realizzate siano conformi alla disciplina vigente (c.d. abuso formale);
la riduzione ad un terzo della medesima sanzione afflittiva qualora la CILA sia presentata nel corso dei lavori (commi 1
e 2); una sanzione sempre afflittiva in misura fissa, di 500 €, per le mancate comunicazioni amministrative prescritte per
due ipotesi di attività totalmente liberalizzate (comma 3); una sanzione ripristinatoria, pari al doppio dell’aumento di
valore venale dell’immobile, per tutti gli interventi costituenti attività edilizia libera realizzati in violazione della
disciplina vigente (comma 4); una sanzione ripristinatoria ridotta, in caso di abusi di minima rilevanza (comma 4-bis).
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Il secondo periodo del comma 1-bis dell’art. 9-bis del DPR n. 380 del 2001 facilita l’onere della prova
del privato in entrambe le situazioni sopra descritte, stabilendo che la legittimità urbanistica
dell’immobile possa desumersi in via indiretta, attraverso le informazioni catastali di primo impianto
(che risalgono nella regione agli anni a cavallo del secondo conflitto mondiale) o comunque attraverso
l’accatastamento avvenuto dopo l’intervento di cui si sia smarrito il titolo, nonché con ogni altra
documentazione probante, quali riprese fotografiche, estratti cartografici, documenti di archivio e
ogni altro atto, pubblico e privato, idoneo a dimostrare l’effettiva consistenza dell’immobile
autorizzato.
Ad integrazione di queste previsioni, e sempre con l’intento di semplificare la verifica della legittimità
urbanistica dell’immobile, è intervenuto l’art. 10-bis, comma 5, della L.R. n. 15 del 2013 (85),
riducendo l’onere probatorio che grava sui privati (ed i conseguenti accertamenti comunali) nei casi
di interventi che prevedano la totale demolizione e ricostruzione dell’edificio. La disciplina regionale
stabilisce in particolare che in tali ipotesi la verifica si debba limitare alla legittimità dei parametri
urbanistici e edilizi che dovranno essere rispettati in sede di ricostruzione, omettendo di valutare ogni
altro aspetto relativo all’attuale stato di fatto dell’immobile, in quanto la demolizione necessariamente
determina una sorta di ripristino di ogni eventuale difformità. Perciò il professionista abilitato,
muovendo dalla preventiva individuazione, in base alla disciplina vigente, dei requisiti della nuova
costruzione che derivano dalle caratteristiche dell’edificio originario (dalla sua altezza massima, dal
suo volume complessivo, dalla superficie massima, da taluni aspetti planivolumetrici che devono
essere mantenuti, ecc.) è chiamato a verificare la legittimità solo dei medesimi profili, in modo che
costituiscano il legittimo presupposto della nuova costruzione (86).
(85) Questa previsione era già stata introdotta dalla nuova legge urbanistica regionale (all’art. 11, comma 6, della L.R.
n. 24 del 2017), limitatamente agli edifici collocati nel territorio rurale, nell’ambito delle semplificazioni procedurali a
favore degli interventi di riuso e di rigenerazione urbana che abbiamo esaminato al precedente paragrafo 2.5.1., ed è stata
generalizzata, a favore di tutto il patrimonio edilizio, dalla legge regionale n. 14 del 2000, in occasione del recepimento
del decreto semplificazioni.
(86) Nella disposizione regionale è specificato che questa ipotesi di semplificazione dell’onere probatorio non trova
applicazione nel caso di immobili soggetti a tutela ai sensi del Codice dei Beni culturali e del paesaggio e nei casi in cui
l’edificio sia interessato da interventi edilizi realizzati in assenza del titolo abilitativo richiesto, in totale difformità dallo
stesso ovvero con variazioni essenziali. Appare evidente l’ultroneità di tali limitazioni imposte al legislatore regionale dal
Governo, pena l’impugnazione dinanzi alla Corte costituzionale del provvedimento. È evidente infatti che non vi sono
ragioni per sostenere la necessità di queste eccezioni alla semplificazione voluta dal legislatore regionale, in quanto, in
caso di edificio vincolato (del quale comunque si ammetta la completa demolizione e ricostruzione), sarebbe la disciplina
vincolistica e la relativa autorizzazione a stabilire quali parametri ed elementi architettonici considerare rilevanti ai fini
della loro ricostruzione, non essendo comunque necessario procedere alla regolarizzazione di eventuali difformità, prima
della demolizione dell’edificio. Lo stesso dicasi per i casi di “totale” difformità e per le ipotesi ad essa equiparate in cui
la natura abusiva delle opere risulterebbero comunque imprescindibili ai fini dell’accertamento delle caratteristiche
dell’edificio da ricostruire: se per esempio l’ultimo piano dell’immobile è frutto di un abuso, non sanato né sanabile, ne
deriverà comunque che l’edificio da ricostruire non potrà avvalersi dell’altezza, del volume e della superficie
corrispondenti al piano abusivo, senza la necessità per questo di dover estendere la verifica della legittimità dello stato di
fatto all’intero immobile prima della sua demolizione.
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vanno dichiarate dal professionista nell’ambito della presentazione di un nuovo titolo abilitativo
edilizio. L’avvenuto accertamento da parte del Comune che queste difformità presentano le
caratteristiche che ne escludono l’illiceità fa sì che tali tolleranze costruttive possano rientrare tra i
parametri di verifica dello stato legittimo dell’immobile su cui si intende intervenire (87).
Alla base dell’istituto delle tolleranze vi è dunque una considerazione generale circa la mancanza di
un interesse pubblico al perseguimento di tali difformità, per le differenti ragioni sottese alle singole
fattispecie (88). Così, nel caso della “tolleranza del 2%” si riscontra un’effettiva difformità che, in
astratto, costituirebbe un abuso edilizio, ma che non viene perseguito perché di trascurabile rilevanza,
essendo oggettivamente riconducibile a quel margine di errore di esecuzione che frequentemente si
riscontra nelle opere edilizie. Nel caso delle “tolleranze di cantiere” il legislatore ha valutato che non
sussista il presupposto stesso per considerare l’attività come abusiva, in quanto le difformità, di
modesta entità, non costituiscono violazione di alcuno dei parametri e delle norme cui è subordinata
l’attività edilizia. A questa nozione sono ricondotti dalla legge anche la correzione in cantiere di
evidenti errori di progettazione, nonché l’erronea rappresentazione dello stato di fatto o di progetto o
delle opere realizzate (89). La terza fattispecie intende evitare che vengano considerate oggi come
(87) Si tratta di una progressiva elaborazione del legislatore regionale, successivamente recepita da quello statale: con
la L.R. n. 6 del 2009 fu introdotta la tolleranza del 2%, generalizzando quanto previsto dall’art. 49 del DPR n. 380 del
2001 (secondo cui il divieto di beneficiare delle agevolazioni fiscali per gli interventi che presentino abusi edilizi non si
applica alle difformità aventi tale consistenza). Le restanti fattispecie sono state inserite dalla novella del 2017 (L.R. n.
12 di quell’anno). La tolleranza del 2% è stata recepita a livello statale dall'art. 5, comma 2, lettera a), del decreto-legge
n. 70 del 2011, collocandola nel contesto della disciplina delle parziali difformità dal permesso di costruire (comma 2-ter
all'art. 34 del T.U. edilizia); il decreto-legge n. 76 del 2020 ha recepito anche le tolleranze di cantiere, sia pure con forti
limitazioni e condizioni, che ne hanno fortemente depotenziato l’efficacia. Quest’ultima disposizione ha comunque il
merito di aver riconosciuto l’autonomia e la rilevanza sistematica dell’istituto delle tolleranze costruttive, avendo dedicato
ad esse una apposita disposizione, l’art. 34-bis del T.U. edilizia, che ora ne raccoglie l’intera disciplina (compresa la
tolleranza del 2%., ora riferita a tutti gli interventi edilizi).
(88) Per una analitica disamina delle diverse fattispecie previste dall’art. 19-bis si rimanda alla circolare illustrativa n.
410371 del 5 giugno 2018 e ai numerosi pareri espressi dalle strutture regionali su tale istituto e disponibili sul sito
istituzionale della Regione. Ai fini della presente trattazione è utile sintetizzare i tratti essenziali delle diverse fattispecie:
a) “tolleranza del 2%”: si riferisce al mancato rispetto, entro la percentuale del due percento, dei parametri urbanistico
edilizi che regolano la collocazione, il dimensionamento massimo e altre caratteristiche planivolumetriche
dell’immobile, stabilite dalla legge e dal piano;
b) “tolleranze di cantiere”: raccoglie tutte quelle ipotesi in cui le difformità rispetto al progetto approvato non assumono
rilevanza, in quanto non costituiscono violazione né della disciplina urbanistica ed edilizia, né delle discipline di
settore che incidono sull’attività edilizia;
c) “difformità tollerate ai fini del rilascio dell’agibilità”: difformità non considerate rilevanti ai fini del rilascio
dell’agibilità e nell’ambito delle verifiche ispettive finalizzate allo stesso;
d) “difformità accertate nell’ambito di altro procedimento edilizio”: difformità accertate ma non contestate quali abusi
edilizi nell’ambito di un precedente procedimento edilizio.
(89) Si noti come questa seconda ipotesi di tolleranza assume, per così dire, una funzione sistematica, in quanto
chiarisce che non sono comunque riconducibili alla nozione di abuso edilizio le difformità che non incidono sui limiti
(minimi o massimi), sui requisiti, ecc. stabiliti dalla normativa vigente. La definizione di abuso è infatti strettamente
legata alla violazione di una regola al cui rispetto è subordinata l’attività edilizia o comunque all’idea dell’acquisizione
da parte del soggetto di un quid pluris, di una qualche prerogativa che il titolo abilitativo o la legge non gli riconoscono.
Infatti, le sanzioni ripristinatorie fanno riferimento alla “demolizione” di un manufatto in qualche maniera accrescitivo
delle prerogative del privato, la cui rimozione consente il “ripristino dello stato dei luoghi” (art. 12, comma 8, L.R. n. 23
del 2004); così come le sanzioni pecuniarie (ripristinatorie) sono correlate al “valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite” (art. 19, comma 1) o allo “aumento” del valore venale dell’immobile conseguente alla
realizzazione dell’abuso (articoli 14, comma 2, 15, comma 2, 16, comma 1, e 16-bis, comma 4). Ciò chiarito, la nozione
di tolleranza di cantiere risulta chiarificatrice anche dell’ambito di applicazione della tolleranza del 2%, in quanto
quest’ultima si può riferire soltanto a “incrementi” di volume, superficie, altezza, a “riduzioni” della distanza minima,
ecc. in violazione della normativa o del titolo; mentre eventuali difformità che non ledano tali parametri (una distanza dal
confine “maggiore” di quella di progetto e di quella prescritta dalla legge, un volume “minore” rispetto a quello massimo
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abusive quelle difformità che l’amministrazione comunale ha valutato non significative all’epoca di
costruzione dell’immobile o di una sua successiva trasformazione, “tollerandole” ai fini del rilascio
dell’agibilità. La legge si riferisce quindi all’ipotesi in cui un edificio o un’unità immobiliare siano
dotati del certificato di agibilità rilasciato previo sopralluogo dei tecnici incaricati, che non abbiano
contestato dette difformità. Al riscontro di questo duplice presupposto il legislatore regionale ha
quindi inteso dare prevalenza all’esigenza di certezza delle posizioni giuridiche e alla “tutela
dell’affidamento dei privati” circa la legittimità del certificato di abitabilità, conseguito, per di più, a
seguito di una verifica tecnica che ha avuto esito favorevole nonostante la presenza di difformità. Un
affidamento fondato dunque sia su un provvedimento dell’amministrazione comunale, che su una
effettiva valutazione favorevole delle strutture comunali all’epoca del suo rilascio. Infine, la quarta
fattispecie si riferisce ad una ipotesi in qualche modo analoga alla precedente, sostanziandosi nel caso
in cui l’amministrazione comunale abbia espressamente accertato le difformità nell’ambito di un
procedimento edilizio e, tuttavia, non le abbia contestate attivando il procedimento sanzionatorio o
comunque non abbia dato rilevanza alle stesse, concludendo il procedimento in modo favorevole agli
interessati. Anche in questo caso, emergono da una parte il differente criterio di giudizio seguito
dall’amministrazione comunale nel passato rispetto alle difformità edilizie, dall’altra, un rafforzato
affidamento che tali espliciti procedimenti positivamente conclusi hanno generato negli interessati e
nei loro aventi causa. Rispetto a queste due ultime situazioni naturalmente la legge fa salva la
possibilità per l’amministrazione di assumere un provvedimento di annullamento degli atti su cui si
fonda l’affidamento dei privati in via di autotutela, ove ricorrano i requisiti e le condizioni previste
dall’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990.
Il legislatore statale e regionale sottolineano inoltre che le tolleranze costruttive non sono oggetto di
specifici procedimenti di accertamento, ma sono semplicemente asseverate dal tecnico incaricato
nell’ambito dell’attestazione della legittimità urbanistica dell’immobile, in occasione della
presentazione di una nuova pratica edilizia o della stipula degli atti di trasferimento della proprietà,
della costituzione di un diritto reale e della costituzione o scioglimento di una comunione. Nel primo
caso l’asseverazione e la relativa documentazione probatoria sono allegati alla modulistica edilizia
unificata; nel secondo – specifica sempre la legge – sono riportati in un’apposita dichiarazione
asseverata allegata ai medesimi atti pubblici (art. 34-bis, comma 3, DPR n. 380 del 2001 e art. 19-bis,
comma 1-quater, L.R. n. 23 del 2004).
La legge regionale 14 del 2020 ha individuato, limitatamente agli interventi edilizi soggetti a SCIA o
a CILA, e dunque solo per quelli che interessano principalmente il patrimonio edilizio esistente, una
fattispecie di abuso edilizio di minima rilevanza, soggetto per questo ad una sanzione pecuniaria
ridotta, comunque non inferiore a 516 euro, che ricorre qualora siano trascorsi almeno 10 anni dalla
realizzazione dell’abuso e le opere risultino conformi alle normative di settore e non abbiano
comportato una modifica dei principali parametri ed elementi architettonici cui faccia riferimento la
disciplina edilizia (e di conseguenza il titolo abilitativo edilizio) o meglio e più nello specifico, non
consentito, ecc.), anche in misura superiore al 2%, non si devono considerare abusive, perché non risultano lesive di un
apprezzabile interesse pubblico a valenza territoriale.
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abbiano aumentato la superficie utile, trasformato la superficie accessoria in utile, alterato la sagoma
o i prospetti, comportato mutamento della destinazione d’uso urbanisticamente rilevante e con
aumento di carico urbanistico. Per questi casi, per ridurre anche l’onere ammnistrativo posto in capo
agli (attuali) interessati, si specifica che l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione
ridotta è “comprovata” con atto sostitutivo di notorietà corredato da semplici schemi progettuali,
sottoponendo in tal modo tali fattispecie alla sola verifica a campione delle auto-dichiarazioni, in
luogo dell’obbligo di accertamento degli abusi che grava sulle strutture comunali per tutti i casi di
illecito edilizio.
Appare utile menzionare questa previsione immediatamente dopo la disciplina sulle tolleranze, in
quanto è evidente che tutti i requisiti sopra riportati, ad esclusione di quello temporale, coincidono,
in buona sostanza, con le caratteristiche della c.d. “tolleranza di cantiere”. Si può dunque sostenere
che questa forma di sanzione assolva alla funzione di clausola di chiusura dell’ordinamento, trovando
applicazione nei casi in cui sia dubbio (o non condiviso tra il professionista incaricato e la struttura
comunale) se le opere difformi dal titolo edilizio rientrino o meno in tale fattispecie. L’unica diversa
ipotesi applicativa della disposizione attiene infatti al caso, ancor più residuale, in cui la
pianificazione vigente all’epoca di realizzazione delle opere stabiliva una o più prescrizioni che non
attenevano a detti parametri o a normative settoriali e che queste disposizioni siano state violate in
sede di esecuzione dei lavori. È palese come il legislatore abbia inteso esplicitare, anche in questo
caso, il disconoscimento dell’esistenza di un interesse pubblico a sanzionare le difformità di minima
rilevanza consistenti in opere interne all’immobile, ormai storicizzate essendo trascorsi più di dieci
anni dalla realizzazione.
Analoga valutazione aveva portato all’approvazione di una disposizione, l’art. 26, comma 4, della
L.R. n. 23 del 2004, che, recependo quanto stabilito da numerosi regolamenti edilizi comunali,
prevedeva una sorta di prescrizione (“si ritengono sanat[i]”) degli abusi consistenti in parziali
difformità realizzate nel corso dell’esecuzione di un titolo edilizio rilasciato antecedentemente
all’entrata in vigore della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (avvenuta il 30 gennaio 1977), purché
risultassero osservati i soli requisiti igienico sanitari e di sicurezza. Ma questa disposizione è stata
dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 49 del 2006, contestandosi che
essa costituiva una forma di sanatoria ope legis, la cui previsione esulava dalle competenze del
legislatore regionale essendo l’edilizia (o meglio il governo del territorio di cui è parte) una materia
a legislazione concorrente e che la norma, non prevedendo né il pagamento di una sanzione pecuniaria
né il rilascio di un titolo abilitativo (in sanatoria), violava principi fondamentali in materia di sanatoria
rinvenibili nella disciplina del condono edilizio.
La Regione ha recepito le indicazioni della Consulta nell’art. 17-bis della L.R. n. 23 del 2004
(introdotto dall’art. 46 della L.R. n. 15 del 2013), riferito alle parziali difformità eseguite nel corso
dei lavori di esecuzione di un titolo rilasciato prima dell’entrata in vigore della legge n. 10 del 1077.
Si è così introdotto un procedimento speciale sanzionatorio che prevede la presentazione di una SCIA
in sanatoria ed il pagamento, in alternativa alla demolizione, di una sanzione pecuniaria parametrata
non al valore venale delle opere ma al contributo di costruzione dovuto per le opere realizzate, con
una maggiorazione (90). Si noti come l’ammontare della sanzione che il legislatore ha applicato a
(90) Più esattamente l’art. 17, coma 3, della L.R. n. 23 del 2004 prevede, per gli interventi di nuova costruzione e di
ristrutturazione, il pagamento di una sanzione pecuniaria pari al doppio del contributo di costruzione, ovvero pari al
contributo stesso nei casi di interventi esentati dallo stesso, per un ammontare comunque non inferiore a 2.000 euro; per
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questa tipologia di abusi è lo stesso di quello individuato - come vedremo ai paragrafi successivi - per
la sanzione pecuniaria prevista per la fattispecie impropriamente denominata “sanatoria
giurisprudenziale” e per l’oblazione dovuta in caso di accertamento di conformità, allo scopo di
prevenire ogni possibile contenzioso che possa derivare dall’applicazione dell’una o dell’altra tra
queste speciali forme di regolarizzazione degli immobili.
Questa previsione nasce, oltre che dalla valutazione che il lungo periodo di tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso (ad oggi di almeno 46 anni) ha fatto scemare l’interesse pubblico a
perseguire tali illeciti, soprattutto dalla considerazione che queste difformità parziali costituiscono,
nella maggior parte dei casi, delle varianti in corso d’opera non sanate al termine dei lavori, soprattutto
a causa del fatto che, fino all’approvazione della L. n. 10 del 1977, non era prevista una disciplina
che ne regolasse compiutamente la realizzazione (91). Coerentemente, si subordina questa
regolarizzazione alla presentazione di una SCIA in sanatoria, in quanto costituisce il titolo edilizio
richiesto per tutte le varianti in corso d’opera, in caso di interventi soggetti a permesso di costruire o
a SCIA. La disposizione risulta di ampia applicazione in quanto pone esclusivamente il requisito delle
parziali difformità, escludendo che possa trovare applicazione solo in caso di opere realizzate in
assenza di titolo edilizio o in totale difformità da esso (92). Tuttavia, l’art. 17-bis ribadisce la mera
efficacia edilizia della sanzione e della conseguente regolarizzazione, facendo salva l’applicazione
delle eventuali discipline sanzionatorie di settore che incidono sull’attività edilizia (vedi successivo
paragrafo 3.1.6.).
Ai fini dell’applicazione di questa sanzione non viene richiesta la conformità ai requisiti tecnici delle
opere edilizie, ma al comma 1-bis si prevede la facoltà per l’interessato di subordinare l’efficacia
della SCIA in sanatoria alla previa attuazione dei lavori che consentano di acquisire l’agibilità
dell’immobile (93). Anche questa disposizione va quindi senz’altro inquadrata nell’obiettivo generale
perseguito dal legislatore regionale di favorire quanto più possibile la qualificazione del patrimonio
edilizio esistente, consentendo al privato di regolarizzare l’immobile ma anche di migliorarne le
prestazioni tecniche (in termini di sicurezza, igiene, salubrità efficienza energetica e di superamento
e non creazione di barriere architettoniche) e di acquisire la relativa certificazione.
gli altri interventi edilizi di recupero (restauro, manutenzione ordinaria e straordinaria) è dovuto il contributo previsto per
gli interventi di ristrutturazione edilizia, per un ammontare comunque non inferiore a 1000 euro; nei restanti casi la
sanzione è pari ad una somma che va da 1000 a 5000 euro da calcolare in considerazione dell’aumento di valore
dell’immobile.
(91) l’art. 15, dodicesimo comma, della L. n. 10 del 1977 stabiliva infatti che “Non si precede alla demolizione ovvero
all'applicazione della sanzione di cui al comma precedente [prevista per le parziali difformità, e pari al “doppio del valore
della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione”, ] nel caso di realizzazione di varianti, purché esse non
siano in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e non modifichino la sagoma, le superfici utili e la destinazione
d'uso delle costruzioni per le quali è stata rilasciata la concessione. Le varianti dovranno comunque essere approvate
prima del rilascio del certificato di abitabilità.”.
(92) In via interpretativa la regione ha anche precisato che questa disposizione opera anche in presenza di parziali
difformità che secondo la normativa oggi vigente costituiscono variazioni essenziali, in quanto anche questa nozione è
stata introdotta dalla medesima L. n. 10 del 1977.
(93) Si evidenzia che la presentazione della Segnalazione Certificata di conformità Edilizia e di Agibilità (SCEA) non
è obbligatoria nei casi di sanatoria (e dopo la presentazione di una CILA) ma gli interessati hanno la facoltà di presentarla
per aggiornare la certificazione di agibilità di cui l’immobile sia già dotato o per acquisirla grazie ai lavori realizzati.
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L’articolo 17 della L.R. n. 23 del 2004 riunisce in un’unica disposizione due fattispecie aventi natura
giuridica differente, ma accomunate dalla medesima disciplina ed efficacia ai fini edilizi:
l’accertamento di conformità, che costituisce l’unica ipotesi di sanatoria, in senso proprio, prevista
dalla legge regionale (comma 1) in conformità agli articoli 36 e 37 TU edilizia, e la c.d. “sanatoria
giurisprudenziale” (comma 2), che rappresenta, come vedremo, un’ ulteriore ipotesi di
regolarizzazione di un abuso edilizio per la quale, sempre in ragione della carenza di un interesse
pubblico al ripristino, il legislatore regionale ha previsto il pagamento di una sanzione pecuniaria (il
cui ammontare equivale a quella prevista per gli abusi in corso d’opera ante 1977 appena esaminati,
e all’oblazione stabilita per l’accertamento di conformità).
L’accertamento di conformità può essere attivato dall’interessato sia per gli interventi soggetti a
permesso di costruire che per quelli sottoposti a SCIA, realizzati in assenza o in difformità del titolo
edilizio, qualora l’abuso sia soltanto formale, in quanto le opere risultino comunque conformi alla
disciplina che regola l’attività edilizia. Ma, a differenza di quanto previsto nella disciplina statale
dell’istituto (94), nel comma 4 dell’art. 17 della L.R. n. 23 del 2004 si specifica che, mentre gli
interventi abusivi devono risultare conformi alla “disciplina urbanistica” vigente sia al momento in
cui le opere sono state realizzate che al momento della sanatoria (c.d. doppia conformità), quanto
invece alla disciplina relativa ai requisiti tecnici, le opere edilizie devono essere conformi alle norme
vigenti al momento della loro realizzazione (95). Questa specificazione deriva dalla sostanziale
impossibilità di esigere la conformità delle opere (che di norma vengono sanate a diversi anni di
distanza dalla loro realizzazione, per le sopravvenute esigenze di circolazione del bene o di
trasformazione dello stesso) alle normative tecniche sopravvenute: richiedere che un edificio
realizzato, per esempio, nel 2004 in conformità alle norme tecniche per le costruzioni allora vigenti,
possa essere sanato solo se risulti conforme anche alle Norme Tecniche per le Costruzioni (NTC)
oggi vigenti, significherebbe disconoscere che, nel frattempo, quella disciplina tecnica è
completamente mutata nei fondamenti teorici e tecnologici, portando all’approvazione nel 2008 di
NTC profondamente innovative rispetto alle precedenti e al loro aggiornamento del 2018. Analoghe
constatazioni si possono avere circa le caratteristiche degli impianti tecnologici e per la sicurezza così
come per i requisiti energetici e per ogni normativa tecnica da osservare nell’attività edilizia. Sulla
base di questa considerazione, il legislatore regionale ha ritenuto adeguato esigere, per la sanatoria di
un immobile interessato soltanto da un abuso formale (96), che lo stesso presenti i requisiti tecnici
dell’epoca di realizzazione, in modo da risultare sotto questo profilo del tutto equivalente agli
immobili coevi muniti di un regolare titolo edilizio. Appare evidente, del resto, che ogni diversa
previsione, che non tenesse conto del celere mutamento delle normative tecniche, impedirebbe di
(94) Gli articoli 36 e 37 del DPR n. 380 del 2001 prevedono la doppia conformità delle opere alla disciplina urbanistica
e edilizia vigenti, sia al momento di realizzazione dell’abuso sia al momento della sanatoria.
(95) Questa sottolineatura è presente anche nella legge regionale sismica che all’art. 22, comma 1, secondo cui la
richiesta o la presentazione dei titoli in sanatoria è subordinata, se le opere realizzate comportano modifiche alle parti
strutturali dell'edificio, “all'asseverazione del professionista che le medesime opere rispettano la normativa tecnica per
le costruzioni vigente al momento della loro realizzazione”.
(96) Nel caso di abuso formale si contesta unicamente l’assenza del titolo edilizio che, se fosse stato richiesto all’epoca
dell’intervento, avrebbe dovuto essere rilasciato, presentando l’intervento tutti i requisiti stabiliti dalla disciplina vigente
all’epoca della sua realizzazione.
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fatto ogni sanatoria o, peggio, incoraggerebbe al ricorso ad attestazioni di conformità poco
scrupolose.
Inoltre, il comma 2-bis prevede anche per l’accertamento di conformità (e per la così detta sanatoria
giurisprudenziale) la possibilità di subordinare la sanatoria alla realizzazione delle opere
indispensabili per acquisire l’agibilità dell’immobile, cui si è fatto cenno al precedente paragrafo 3.1.
Come abbiamo accennato in precedenza, in vista dell’approvazione del T.U. dell’edilizia, il Consiglio
di Stato ipotizzava nel suo parere sulla proposta normativa di introdurre la possibilità di regolarizzare
anche i manufatti edilizi che, pur risultando in contrasto con la disciplina vigente all’epoca della sua
realizzazione, fossero conformi alla disciplina vigente al momento della sanatoria, in quanto appariva
manifestamente irragionevole dover ordinare la demolizione di un’opera che avrebbe potuto essere
autorizzata stante la disciplina vigente (97). Questa proposta, non accolta dal legislatore delegato, è
stata fatta propria dalla regione e introdotta all’art. 17, comma 2, della L.R. n. 23 del 2004. La
disposizione è univoca nello specificare che il permesso di costruire o la SCIA, richiesto o presentata
per la regolarizzazione di queste opere abusive, comportino una regolarizzazione “ai soli fini
amministrativi” e che siano “fatti salvi gli effetti penali dell’illecito”. Aldilà dell’incertezza lessicale
presente nel testo normativo (98), anche in questo caso si è dunque in presenza di un regime
sanzionatorio speciale, che consente la regolarizzazione amministrativa di una tipologia di abusi
edilizi attraverso la presentazione di un titolo edilizio ed il versamento di una sanzione pecuniaria
alternativa al ripristino, e non di una sanatoria in senso stretto, nella consapevolezza che la
determinazione delle ipotesi e dei principi fondamentali di quest’ultima esulano dalle competenze
legislative regionali.
3.1.6. Difformità edilizia e discipline settoriali per la tutela paesaggistica e la sicurezza sismica
Il legislatore regionale sottolinea più volte che le disposizioni sulla tolleranza costruttiva e quelle che
prevedono l’applicazione di sanzioni pecuniarie sostitutive della demolizione operano solo in campo
edilizio e non si applicano alle discipline settoriali (tra cui innanzitutto la normativa antisismica e le
norme di tutela paesaggistica, ambientale e culturale e le discipline tecniche che presiedono alla
(97) Il Consiglio di Stato, Adunanza Generale 29 marzo 2001, n. 5212001, aveva testualmente osservato che, "pur non
potendosi in astratto contestare la necessità del duplice accertamento della conformità, nella prassi l'applicazione del
principio viene disattesa, ritenendosi illogico ordinare la demolizione di un quid, che allo stato attuale risulta conforme
alla disciplina urbanistica vigente e che pertanto potrebbe legittimamente ottenere, a demolizione avvenuta, una nuova
concessione. Al riguardo valuti l'amministrazione se non sia opportuno, in casi del genere, pretendere una forma di
sanatoria che, ferma restando la sanzione penale per l'illecito commesso, sia subordinata ad una oblazione maggiore
rispetto a quella che si richiede per la duplice conformità.".
(98) Il comma 3, relativo alla quantificazione della somma dovuta, specifica erroneamente che, sia la sanatoria in senso
stretto di cui al comma 1 che la regolarizzazione di cui al comma 2, sono subordinate al pagamento di una somma di
denaro “a titolo di oblazione”, in palese contraddizione con quanto specificato dallo stesso comma 2 circa l’inidoneità di
questa ipotesi di regolarizzazione a comportare l’estinzione del reato.
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definizione dei requisiti inderogabili delle opere edilizie). Ne consegue che per le difformità sanabili
ai fini edilizi trovano comunque applicazione le eventuali sanzioni poste a presidio di tali discipline
settoriali o che quantomeno occorre attuare le eventuali ulteriori procedure di regolarizzazione
previste dalle medesime normative, affinché la sanatoria edilizia possa produrre i suoi effetti. Per tale
ragione si viene a prospettare, nella migliore delle ipotesi, un significativo aggravio del procedimento
amministrativo che deve svilupparsi attraverso una fase preliminare di sanatoria settoriale o di
applicazione della sanzione non ripristinatoria, ove previste, cui segue la regolarizzazione edilizia;
ma frequentemente si rilevano situazioni che possono precludere o fortemente limitare il recupero del
patrimonio edilizio esistente. Si pensi solo al fatto che dopo la classificazione sismica dell’intero
territorio regionale, avvenuta nel 2005, praticamente ogni pratica edilizia, ivi comprese quelle in
sanatoria, devono essere accompagnate da una verifica della idoneità antisismica, oltre che statica,
dell’intervento. Analoga considerazione si deve esprimere per poco più della metà del territorio
regionale soggetto a vincolo paesaggistico.
La legge regionale ha tuttavia cercato di definire, nei limiti delle proprie competenze, modalità
operative che comunque consentissero, con la massima semplificazione possibile, di coniugare la
salvaguardia degli interessi pubblici sottesi a tali normative settoriali con il recupero del patrimonio
edilizio esistente, senza che ciò comportasse alcuna deroga alle prerogative delle amministrazioni
preposte alla tutela dei vincoli o alla necessità di una adeguata valutazione delle opere da
regolarizzare.
Innanzitutto, si è intervenuto sul regime delle “variazioni essenziali” cioè degli abusi che ai sensi
dell’art. 14-bis della L.R. n. 23 del 2004 sono equiparati alla assenza o alla totale difformità dal titolo
edilizio (e per questo soggetti alla sanzione demolitoria) qualora comportino violazione della
normativa sismica e delle discipline di tutela (99). Si è così chiarito che non si è in presenza di
variazioni essenziali qualora la difformità sia solo edilizia, in quanto sulla stessa sia stata acquisita
l’autorizzazione o l’atto di assenso comunque denominato dell’amministrazione competente, in
conformità alla normativa vigente. In tale ipotesi, infatti, rileva soltanto la difformità tra titolo edilizio
e opere realizzate in corso d’opera, mentre risulta assolto quanto previsto dalle normative settoriali
(art. 14-bis, comma 2, L.R. n. 23 del 2004).
Inoltre, con riferimento al vincolo paesaggistico, si è specificato che non costituiscono variazioni
essenziali i lavori realizzati in un immobile vincolato, qualora rientrino tra i casi di interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica e quando ne sia accertata la compatibilità ai sensi dell’art. 167 del
Codice dei beni culturali e del Paesaggio (art. 14-bis, comma 1, lett. f), secondo periodo, L.R. n. 23
del 2004). Analogamente, l’art. 17, comma 4-bis, della stessa L.R. n. 23 del 2004 specifica che
l’accertamento di compatibilità paesaggistica consente di attivare anche l’accertamento di conformità
e le ulteriori speciali fattispecie di regolarizzazione degli abusi previste dalla disciplina edilizia
(ovvero la sanatoria giurisprudenziale e la regolarizzazione delle parziali difformità ante 1977
esaminate ai paragrafi precedenti).
Tra le forme di regolarizzazione degli abusi paesaggistici, deve poi essere annoverato il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ammesso dalla migliore giurisprudenza amministrativa
(99) L’art. 14-bis, comma 1, lettere e) e f), della L.R. n. 23 del 2004 stabilisce infatti che costituisce variazione
essenziale ogni intervento difforme dal titolo edilizio, che comporti violazione “delle norme tecniche per le costruzioni
in materia di edilizia antisismica”, o che riguardi “immobili ricadenti in aree naturali protette” o soggetti “a particolari
prescrizioni per ragioni ambientali, paesaggistiche archeologiche, storico-architettoniche”.
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e disciplinato espressamente dall’art. 70, comma 5, della legge urbanistica regionale, per
promuoverne l’utilizzo sempre allo scopo di favorire la rigenerazione del patrimonio edilizio
esistente. È noto infatti che, per effetto delle modifiche apportate dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 157,
l’art. 146, comma 4, del medesimo Codice dei beni culturali e del Paesaggio prevede un divieto
espresso di rilascio in sanatoria dell’autorizzazione paesaggistica e, di conseguenza, l’obbligo di
disporre il ripristino di tutti gli interventi realizzati in assenza o difformità dalla stessa. Poiché prima
dell’entrata in vigore di tale novella era pacificamente consentito richiedere il rilascio delle
autorizzazioni in sanatoria (100), parte della giurisprudenza e l’Ufficio legislativo del Mibact (101), nel
rispetto del principio di irretroattività della disciplina sanzionatoria sfavorevole per gli interessati, si
sono pronunciati a favore della possibilità di continuare a richiedere il rilascio dell’autorizzazione in
sanatoria per gli abusi paesaggistici commessi prima dell’entrata in vigore della modifica (avvenuta
il 12 maggio 2006). Detta interpretazione è stata codificata dal legislatore regionale con la citata
disposizione, che in una prima fase ha visto una decisa resistenza alla sua applicazione da parte di
talune strutture territoriali del Ministero competente, superata a seguito della sentenza del TAR
Bologna n. 525 del 28 maggio 2021 che ha sancito in modo perentorio e ampiamente argomentato,
“la piena configurabilità (e legittimità) di un rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria”
per gli interventi eseguiti prima del 12 maggio 2006, secondo quanto disposto dalla disposizione
regionale.
Al medesimo scopo di promuovere corretti processi di regolarizzazione del patrimonio edilizio, l’art.
17, comma 4-bis, terzo periodo, della L.R. n. 23 del 2004 - sempre in recepimento dell’orientamento
giurisprudenziale prevalente e del parere dell’Ufficio legislativo del MIBACT (102) - specifica la
procedura da seguire per la sanatoria edilizia in caso di vincolo paesaggistico sopravvenuto, cioè
qualora il vincolo sia stato apposto in data successiva alla realizzazione delle opere abusive. In tale
ipotesi, nonostante che l’abuso non costituisca anche un illecito paesaggistico (in quanto all’epoca
della sua realizzazione l’immobile non era soggetto a tutela ai sensi della parte terza del D.Lgs. n. 42
del 2004), appare infatti comunque indispensabile acquisire l’assenso delle amministrazioni preposte
alla tutela del vincolo ai fini dell’ammissibilità della sanatoria edilizia. Tale determinazione è
acquisita con le modalità previste per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, di cui all’art. 146
del Codice dei beni culturali e del paesaggio. La disposizione regionale specifica che questa procedura
trova applicazione nei procedimenti di accertamento di conformità e per le altre ipotesi di
regolarizzazione previste dagli articoli 17 e 17-bis (ovvero in caso di sanatoria giurisprudenziale e di
regolarizzazione delle parziali difformità ante 1977), ma, si ritiene, che ciò vada esteso anche alle
altre ipotesi in cui si provveda all’applicazione di una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione,
in quanto anche in questi casi emerge la necessità di verificare la compatibilità del mantenimento
delle attuali caratteristiche dell’immobile con le esigenze di tutela paesaggistica.
(100) Si vedano sul punto le sentenze del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 5373 del 9 ottobre 2000 e n. 5851 del 31 ottobre
2000, il cui orientamento è stato ribadito, in sede consultiva, dall’Adunanza Generale n. 4 dell'11 aprile 2002 e confermato
da numerose successive pronunce.
(101) In tal senso si sono espressi il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sez. VI, n. 1917 del 2007, n. 3483 del
2007 e n. 3140 del 2009 e l’Ufficio Legislativo del MIBACT con il parere n. 12627 del 22 luglio 2013.
(102) Si veda il parere 16 dicembre 2015 dell’Ufficio legislativo del Mibact, con ampia disamina della giurisprudenza
sul punto.
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Emblematica di questo approccio della legislazione regionale, è la previsione, sin dal 2002 (103), della
possibilità di richiedere il rilascio dell’autorizzazione sismica in sanatoria. In caso di interventi
strutturali realizzati senza il necessario titolo abilitativo sismico preventivo, questa procedura
consente infatti, da una parte, di verificare la rispondenza delle opere alla normativa tecnica per le
costruzioni, e dunque di garantire che le stesse non costituiscano un pericolo per l’incolumità
pubblica; dall’altra, di regolarizzare il patrimonio edilizio esistente con le opportune opere. Più in
dettaglio, il combinato disposto dell’art. 11, comma 2, lett. b), e dell’art. 22 della L.R. n. 19 del 2008
stabilisce che questa autorizzazione postuma ha ad oggetto la verifica che le opere realizzate sono
comunque conformi alla normativa tecnica delle costruzioni vigente all’epoca dell’abuso ovvero, in
caso contrario, consente di richiedere l’autorizzazione per lo svolgimento dei lavori strutturali
indispensabili per la messa in sicurezza dell’edificio. Questo procedimento amministrativo quindi, da
una parte, permette la celere verifica della idoneità sismica dell’edificio o la sua messa in sicurezza,
che costituisce l’interesse primario perseguito dal T.U. dell’edilizia; ma dall’altra, ferma restando
l’applicazione delle sanzioni penali previste per i responsabili dell’abuso sismico, consente al privato
di conseguire la regolarizzazione delle opere realizzate in carenza del titolo sismico, se presentino il
medesimo livello di sicurezza che era prescritto all’epoca di realizzazione ovvero, in carenza di tale
presupposto, attraverso i lavori di miglioramento strutturale rispondenti alla normativa tecnica delle
costruzioni oggi vigente.
Ebbene, se si considera che dal 1984 un terzo dei comuni della regione è classificato a rischio sismico
e che tale vincolo è stato esteso nel 2005 all’intero territorio regionale, con l’effetto che ogni
intervento edilizio deve essere accompagnato da un procedimento che ne verifichi l’idoneità
strutturale, si comprende come l’autorizzazione sismica in sanatoria prevista dalla legge regionale
costituisca anch’essa un ausilio imprescindibile per l’attivazione dei processi di regolarizzazione
degli abusi edilizi e, dunque, ai fini della qualificazione del patrimonio edilizio esistente.
L’art. 22-bis della L.R. n. 23 del 2004, per gli abusi più gravi nei quali l’ordinamento prescrive la
demolizione, riconosce la possibilità di ricorrere ad uno strumento negoziale per regolare la spontanea
esecuzione delle sanzioni ripristinatorie. Per un evidente principio di proporzionalità, questo istituto
è ammesso solo nei casi che richiedano opere demolitorie “rilevanti o che presentino particolari
difficoltà tecnico esecutive”, nel caso di abusi edilizi che costituiscano violazione anche di discipline
settoriali e quando le opere da rimuovere siano attualmente utilizzate a fini abitativi o produttivi ( e
dunque l’utilizzo di uno strumento negoziale derivi dalla necessità di coniugare l’interesse alla
rimozione delle opere abusive con l’attenzione alle esigenze abitative o di continuità dell’attività
economica degli attuali occupanti).
La legge specifica che la proposta di accordo debba essere avanzata dal privato prima della
conclusione del procedimento sanzionatorio e, dunque, prima che sia ingiunta la demolizione delle
opere abusive. Questa peculiarità potrebbe apparire, ad un primo approccio, particolarmente severa e
(103) L’autorizzazione sismica in sanatoria è stata introdotta in particolare dall’art. 36 della legge regionale n. 31 del
2002 per i progetti presentati a seguito di accertamento di violazioni delle norme tecniche antisismiche.
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destinata a ridurre sensibilmente l’ambito di applicazione della norma, in quanto presuppone, da parte
del privato, l’implicito riconoscimento della propria responsabilità e la fattiva dimostrazione della
disponibilità a rimuovere le opere abusive, fino al punto da fare venir meno la necessità stessa
dell’atto di conclusione del procedimento sanzionatorio, sostituito dallo strumento negoziale.
Tuttavia, occorre considerare che la fattispecie concreta cui si riferisce questa disposizione è data
principalmente da abusi edilizi risalenti nel tempo, che fanno ormai parte della morfologia urbana
senza che le strutture comunali che vigilano sull’attività edilizia ne contestino la legittimità e che, di
conseguenza, sono principalmente oggetto di auto-denuncia da parte degli stessi interessati, per
attivare un processo di trasformazione o di alienazione dei relativi immobili. Inoltre, quand’anche
ricorresse il caso di un accertamento d’ufficio delle opere abusive, la complessità degli accertamenti
di fatto e di diritto, svolti dall’amministrazione in contraddittorio con gli interessati, è tale che il
ricorso all’accordo ed i termini dello stesso costituiscono molto probabilmente essi stessi l’esito di
un’istruttoria condivisa tra l’attuale titolare dell’immobile e l’ufficio procedente.
Il primo aspetto che rende particolarmente rilevante questo istituto è la capacità di prevenire il
contenzioso che, quasi sistematicamente, l’amministrazione comunale deve affrontare dopo
l’assunzione degli ordini di demolizione, fornendo la ragionevole certezza dell’effettiva esecuzione
del ripristino da parte del privato, secondo i tempi e le modalità convenute, ovvero la possibilità
concreta di provvedervi a spese dell’inadempiente, grazie alle idonee garanzie fideiussorie, per una
somma pari ai costi di demolizione, che costituiscono un contenuto necessario dell’accordo.
Visto con gli occhi del privato interessato, l’accordo presenta l’indiscusso vantaggio di poter
programmare con adeguato margine temporale le operazioni di demolizione, ma anche di potere
attuare, contestualmente ai ripristini, quelle opere di trasformazione dell’immobile che il PUG
ammette nell’ambito dei processi di riuso e di rigenerazione pianificati. La norma, sempre per
agevolare gli interventi di rigenerazione che questo sistema di regolarizzazione può attivare, consente
di fare ricorso anche all’istituto della costruzione e successiva demolizione di cui all’art. 13 della L.R.
n. 24 del 2017, in caso di edifici attualmente utilizzati a fini abitativi o per l’esercizio di impresa,
prevedendo che l’accordo possa consentire prima la realizzazione del nuovo edificio, comprensivo
anche degli eventuali incentivi urbanistici riconosciuti dal piano, cui segua la demolizione delle opere
abusive, così da non interrompere l’utilizzo dell’immobile fino al momento del completamento del
nuovo edificio. Anche qui, la convergenza dell’interesse pubblico con quello del privato, per i profili
non confliggenti, costituisce la modalità preferita dal legislatore regionale per garantire il
raggiungimento dei propri obiettivi generali.
Infine, da sottolineare che questo strumento negoziale può divenire una modalità procedurale
estremamente semplificata per la contestuale valutazione delle opere abusive e dei ripristini necessari
da parte di tutte le amministrazioni preposte al presidio degli interessi pubblici a valenza territoriale
violati. La disposizione regionale prevede infatti che queste amministrazioni siano chiamate ad
esprimersi sulla proposta di accordo, potendo subordinare il proprio assenso alla realizzazione di
modifiche delle opere e degli impegni negoziali oggetto della proposta avanzata dal privato. La
norma, a seguito della pressante richiesta del Ministero interessato, esclude che l’accordo possa essere
stipulato nel caso di immobili tutelati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Questa esclusione
limita fortemente il campo di applicazione della disposizione in ragione, evidentemente, di una male
intesa primazia dei valori paesaggistici o culturali sottesi ai suddetti vincoli, quando invece l’accordo
avrebbe potuto essere lo strumento per gestire, con un adeguato grado di flessibilità, quelle situazioni
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nelle quali, a fronte dell’obbligo di ripristino che deriva proprio dalla rigidità delle attuali previsioni
del Codice (che non ammette in nessun caso il rilascio di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria),
sussista una valutazione favorevole delle amministrazioni preposte alla gestione del vincolo rispetto
alla sistemazione finale proposta, in quanto avrebbe potuto evitare di procedere prima alla completa
demolizione del manufatto abusivo, dopo alla richiesta della necessaria autorizzazione e infine alla
costruzione delle opere assentite.
Un ulteriore modalità per favorire lo sviluppo degli interventi sull’esistente è costituita dalla modifica
della definizione normativa delle categorie di intervento, allo scopo di ampliare il novero delle
trasformazioni fisiche e funzionali assoggettate ad un regime amministrativo meno oneroso. Si
consideri infatti che: ciascuna categoria di intervento (manutenzione ordinaria, manutenzione
straordinaria, restauro, ristrutturazione e nuova costruzione) è sottoposta ad un regime amministrativo
via via più gravoso, in quanto si va dall’attività edilizia libera, alla comunicazione di inizio lavori
asseverata (CILA), alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) fino al permesso di costruire;
la qualificazione giuridica degli interventi concreti che il privato intende realizzare avviene attraverso
un meccanismo complesso di confronto delle caratteristiche del progetto proposto con le definizioni
delle diverse categorie di intervento, ciascuna contraddistinta da una complessità crescente di opere
ad essa riconducibili ma anche da limiti e condizioni alla sua ammissibilità; che l’eventuale presenza
di anche una sola opera o effetto non rientranti nella definizione normativa della categoria di
intervento cui appaiono riferibili, nel loro complesso, le opere che si intende realizzare, comporta che
queste ultime debbano essere ricondotte alla categoria di intervento più complessa, e così, via via,
fino alla nuova costruzione (104). Appare evidente, quindi, come ogni intervento normativo che ampli
il novero delle trasformazioni riconducibili a ciascuna categoria di intervento, sottraendole a quelle
più onerose, agevoli in modo significativo la realizzazione degli interventi sul patrimonio edilizio
esistente, semplificando il regime amministrativo cui quell’intervento è soggetto.
Dal momento che la definizione delle categorie di intervento e l’individuazione dei titoli edilizi
richiesti costituiscono principi fondamentali della materia riservati alla legge statale, in quanto l’intera
disciplina edilizia si fonda su questa griglia normativa (105), queste evoluzioni sono state il frutto di
innovazioni legislative statali, che sono state operate quasi sempre con decretazioni d’urgenza, in
modo episodico e disorganico, spesso tornando più volte a modificare la stessa disciplina in un breve
lasso di tempo. Frequentemente, le aperture nel segno della liberalizzazione di un intervento o della
(104) L’art. 3, comma 1, lettera e), del DPR n. 380 del 2001 qualifica come nuova costruzione, oltre che gli interventi
attinenti alla costruzione di un manufatto edilizio e all’ampliamento fuori sagoma di un edificio esistente, anche gli
interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio “non rientranti nelle categorie” d’intervento descritte alle
lettere precedenti della medesima disposizione. In realtà, come abbiamo evidenziato nel testo, questo criterio
interpretativo viene applicato in maniera progressiva, per ciascuna categoria di intervento edilizio, attraendo l’ipotesi che
presenti anche solo una caratteristica non perfettamente rispondente ai requisiti e ai limiti stabiliti dalla definizione
normativa di ciascun intervento nella categoria immediatamente superiore, con l’effetto che solo gli interventi non
perfettamente rispondenti alla definizione di ristrutturazione edilizia sono qualificati di nuova costruzione.
(105) La Corte costituzionale si è espressa più volte in tal senso: si veda per tutte la sentenza n. 309 del 23 novembre
2011 con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione della regione Lombardia che introduceva una
definizione di ristrutturazione edilizia difforme da quella stabilita dall’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001.
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semplificazione procedurale sono state accompagnate dalla specificazione di requisiti e condizioni,
spesso destinate a limitare fortemente l’efficacia della riforma. La Regione, oltre a collaborare
attivamente nella predisposizione dei testi normativi, ha provveduto al loro immediato recepimento
legislativo, utilizzando tutti i margini interpretativi ed applicativi che le sono stati riconosciuti, per
ampliare gli effetti favorevoli al recupero dell’esistente e per assicurare l’immediata e completa
applicazione in tutto il territorio regionale delle novelle statali, anche attraverso l’emanazione di
circolari illustrative e pareri giuridici.
La sintetica illustrazione che segue, circa le principali modifiche apportate alla definizione degli
interventi di manutenzione straordinaria e di ristrutturazione edilizia ricostruttiva e alla disciplina del
mutamento della destinazione d’uso, rende palese la rilevanza di questa disciplina edilizia per
l’effettivo e quanto più possibile generalizzato processo di riuso e rigenerazione urbana.
(106) Questa modifica alla definizione dell’intervento di manutenzione straordinaria è stata apportata dal D.L. n. 133
del 2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014. Si sarà notata la contraddittorietà del prevedere che la
MS in genere può comportare il cambio d’uso senza aumento di carico, mentre per la sottofattispecie del frazionamento
o accorpamento non è ammesso alcun mutamento d’uso. Ma siamo di fronte ad uno di quei numerosi casi in cui, ad una
apertura legislativa nel segno della liberalizzazione, si accompagnano limiti e condizioni che ne riducono fortemente la
portata.
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opere necessarie per realizzarli presentassero i caratteri della MS, e stabilendo che la Giunta
regionale, con apposita delibera definisse gli elementi distintivi di questa speciale tipologia di
intervento. Quest’ultimo provvedimento (107) aveva ammesso che i frazionamenti potessero apportare
modifiche ai prospetti ove si trattasse di “opere volte ad apportare le modifiche nel sistema di
aperture dell’edificio necessarie a garantire i requisiti tecnici e funzionali delle nuove unità
immobiliari”, in considerazione del fatto che il mantenimento dei requisiti di agibilità dell’immobile
e la possibilità di realizzare un ingresso autonomo fossero imprescindibili ove si ammettesse il
frazionamento con un intervento di MS. Di conseguenza, la riforma statale del 2014, riconducendo il
frazionamento all’intervento di MS ma con i limiti appena evidenziati, in Emilia-Romagna comportò
un arretramento rispetto alla disciplina regionale approvata l’anno prima. Finalmente, la possibilità
di apportare le modifiche ai prospetti “necessarie per mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio
ovvero per l’accesso allo stesso” è stata fatta propria dal legislatore statale con il decreto
semplificazioni del 2020, ma a condizione che tali modifiche non pregiudichino il decoro
architettonico dell’edificio, l’intervento sia conforme alle previsioni del piano urbanistico e del
regolamento edilizio e non interessi immobili vincolati ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 (108).
(107) Ci si riferisce alla delibera di Giunta regionale n. 75 del 27 gennaio 2014, recante “Atto di coordinamento tecnico
regionale ai sensi dell’art. 12 LR 15/2013, per la definizione delle tipologie di intervento edilizio comportanti il
frazionamento di unità immobiliari, esonerate dal contributo di costruzione (art. 32, comma 1, lettera g), e per
l’individuazione dei casi di frazionamento dei fabbricati produttivi in deroga a limiti fissati dagli strumenti urbanistici
(art. 55, comma 5)”.
(108) Anche queste condizioni di legge evidenziano in modo esemplare la titubanza con cui frequentemente le
semplificazioni normative sono introdotte dal legislatore statale e le difficoltà applicative che ne derivano per gli operatori.
Infatti, si può osservare: rispetto alla prima condizione (“non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio”) che
manchi l’amministrazione competente a svolgere tale valutazione e il procedimento con il quale attuarla, essendo pacifico
che essa non sia nelle corde dello sportello unico che esamina la pratica edilizia; che la seconda condizione (la conformità
alla disciplina urbanistica ed edilizia) sia una sottolineatura inutile in quanto è sottesa ad ogni intervento edilizio; che la
terza condizione (che esclude che si possano modificare i prospetti degli edifici vincolati) comporti una grave e
irragionevole limitazione dell’ambito di applicazione della disposizione, in quanto ogni modifica significativa degli
immobili vincolati ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio è soggetta a autorizzazione, e non vi è ragione di
escludere a priori che talune modifiche dei prospetti potrebbero essere valutate positivamente, qualora non comportassero
alcuna compromissione dell’aspetto esteriore dell’immobile, come nel caso, per esempio, di apertura di una finestra in un
cortile interno o in un cavedio o comunque in una parete non visibile dalla strada o da altro luogo pubblico.
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planivolumetriche e tipologiche e che ammettesse incrementi volumetrici per promuovere interventi
di rigenerazione urbana nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli
strumenti urbanistici comunali, assieme alle innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti
tecnologici e per l’efficientamento energetico; dall’altra, imponeva il vincolo della fedele
ricostruzione in due ipotesi: sia per (tutti) gli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni
culturali e del paesaggio; sia nei centri storici e negli ambiti extraurbani ad essi equiparati (per
esempio nei borghi storici), facendo salve, in quest’ultimo caso le eventuali difformi previsioni
legislative e degli strumenti urbanistici.
Era evidente l’irragionevolezza dell’obbligo della fedele ricostruzione per tutti gli immobili vincolati,
anche nel caso di edifici privi di un valore intrinseco, soggetti a tutela solo in ragione della loro
collocazione in ambiti territoriali di valore paesaggistico. A questa eccessiva rigidità hanno posto
rimedio l’art. 14, comma 1-ter, della legge n. 91 del 2022 che ha escluso dal vincolo della fedele
ricostruzione le aree vincolate paesaggisticamente ope legis (c.d. aree Galasso) e gli immobili
collocati in aree vincolate, quali i complessi di notevole interesse pubblico, compresi i centri storici
e le bellezze panoramiche, di cui rispettivamente all’art. 142 e all’art. 136, lettere c) e d), del Codice
(109).
Ma in Emilia -Romagna anche la seconda ipotesi, in cui si imponeva il vincolo della fedele
ricostruzione per l’intero centro storico e per i nuclei extraurbani ad esso equiparati, è stata superata
facendo leva sulla clausola di salvaguardia della eventuale normativa regionale difforme presente nel
decreto semplificazione. La legge di recepimento del decreto semplificazioni (L.R. n. 14 del 2020)
ha così stabilito che il vincolo della fedele ricostruzione operi solo nel caso in cui il piano urbanistico
non abbia stabilito la disciplina particolareggiata degli interventi e usi ammissibili nel centro storico
o non abbia individuato gli edifici storico artistici o testimoniali meritevoli di tutela: tale disciplina
di piano individua infatti le trasformazioni e gli usi compatibili con le caratteristiche meritevoli di
tutela dei tessuti urbani storici e di ciascun edificio tutelato dal piano e, di conseguenza, rende
superflua una norma di salvaguardia complessiva come quella stabilita a livello statale.
(109) Anche questa recente innovazione normativa non tiene conto delle possibili esigenze di delocalizzazione che
possono gravare sugli edifici nei quali è stato confermato il vincolo della fedele ricostruzione, a causa per esempio di
situazioni di rischio naturale (dovuto a frane attive o al pericolo di valanghe o all’elevato rischio sismico o di alluvione,
ecc.) o industriale; ma soprattutto non è stata accolta l’obiezione generale secondo cui per tutti gli immobili vincolati dal
Codice è comunque prevista una imprescindibile procedura autorizzativa che consente di valutare caso per caso
l’ammissibilità o meno delle trasformazioni progettate.
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distinzioni delle destinazioni d’uso, diffusamente utilizzate dagli strumenti urbanistici per definire gli
usi ammessi nei diversi ambiti.
La disposizione fa salve le differenti previsioni delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici
comunali attuativi delle stesse, ed ha così consentito alla regione di adattare questa disciplina alla
propria esperienza ammnistrativa. L’art. 28 della L.R. n. 15 del 2013 ha quindi recepito la radicale
semplificazione delle categorie funzionali, ma distinguendo la funzione produttiva (industriale,
artigianale e commerciale all’ingrosso) da quella direzionale (uffici e servizi), in quanto
tradizionalmente la pianificazione considera tali usi in maniera del tutto differente e gli stessi sono
assoggettati ad un diverso contributo di costruzione.
Quanto alla rilevanza urbanistica del mutamento d’uso, la disposizione regionale specifica, inoltre,
che la pianificazione urbanistica, nei centri storici e in taluni ambiti del territorio comunale
specificamente definiti dal piano stesso, possa selezionare gli usi ammessi e quelli non consentiti
anche all’interno della medesima categoria funzionale. Conseguentemente diviene urbanisticamente
rilevante ogni mutamento che avvenga in tali ambiti, mentre si conferma l’irrilevanza dei restanti
mutamenti d’uso all’interno della stessa categoria funzionale laddove manchi questa specifica
disciplina di piano. Inoltre, la disposizione regionale evidenzia che i passaggi all’interno della stessa
categoria funzionale possano assumere rilevanza anche laddove la disciplina di settore attribuisca
differenti carichi urbanistici ai diversi usi e, di conseguenza, subordini il mutamento d’uso al
reperimento di dotazioni territoriali e pertinenziali o a diversi requisiti di accessibilità, con l’effetto
che tale modifica funzionale è subordinata ad un titolo abilitativo edilizio e alla verifica del rispetto
di queste condizioni di ammissibilità. Emblematica in tal senso la funzione commerciale, per la quale
la normativa di settore stabilisce la liberalizzazione dei negozi di vicinato, ma per le restanti ulteriori
tipologie di strutture di vendita, prescrive (oltre ad una adeguata pianificazione urbanistica o di area
vasta per la loro localizzazione) il rispetto di differenti standard di accessibilità e il reperimento di
dotazioni pubbliche e private differenziate. Lo stesso dicasi per le numerose tipologie di strutture
ricettive, ciascuna delle quali è subordinata a differenti requisiti e condizioni imprescindibili.
(110) Per una esemplificazione di questa eccessiva complessità del dettato normativo, si veda l’art. 7-bis, comma 5, del
D.Lgs. n. 28 del 2011 (come sostituito dall’art. 9 del D.L. n. 17 del 2022), il quale stabilisce i casi in cui la realizzazione
di un impianto fotovoltaico sul tetto di un edificio costituisce manutenzione ordinaria, cioè una attività edilizia libera, ma
nel contempo fissa un complesso apparato di eccezioni e di deroghe alle eccezioni, che rende la disposizione di
difficilissima interpretazione e applicazione, con il rischio di gravi conseguenze per gli operatori, dal momento che questi
interventi, interessando la sagoma e i prospetti anche di edifici vincolati, nel caso in cui non siano considerati
perfettamente conformi alle ipotesi liberalizzate, assumono rilevanza penale, rientrando tra i casi di RE pesante, soggetta
a permesso di costruire.
(111) Si noti come la fattispecie appena descritta corrisponde – grazie ad una lettura a contrario di quanto previsto
dall’art. 3, comma 1, lettera d), sesto periodo, del DPR n. 380 del 2001 - alle ipotesi di ristrutturazione con demolizione
e ricostruzione di edifici tutelati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio per le quali non sia previsto il vincolo della
fedele ricostruzione.
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Il permesso di costruire in deroga esteso agli interventi di rigenerazione urbana in genere
Un ulteriore strumento normativo che amplia la gamma delle opportunità messe a disposizione degli
operatori che procedono al recupero del patrimonio edilizio esistente è costituito dalla possibilità di
presentare l’istanza di permesso di costruire in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici (112).
L’art. 20, commi 2-bis e 3, della L.R. n. 15 del 2013 stabilisce infatti che questo istituto si possa
applicare all’insieme degli interventi di riuso e rigenerazione urbana (113), tra cui quelli di
ristrutturazione edilizia (comma 2), qualificando espressamente tutti questi interventi di interesse
pubblico (comma 3). Attraverso la presentazione di una domanda di permesso di costruire (in luogo
della SCIA), l’operatore può così: richiedere che l’immobile recuperato assuma una destinazione
d’uso diversa da quelle ammesse dal piano, proporre un incremento della volumetria o della superficie
preesistente, potendo anche superare l’indice di edificabilità riferito al lotto di pertinenza, derogare
all’altezza massima e alle distanze tra fabbricati e dai confini stabiliti dal piano.
La disciplina generale sui permessi in deroga pone dei precisi limiti a questo istituto: il rispetto delle
norme igienico sanitarie, di accessibilità e di sicurezza degli edifici e l’osservanza dei limiti
inderogabili stabiliti dalle disposizioni statali e regionali, tra cui innanzitutto quelli stabiliti dal D.I.
n. 1444 del 1968; ma come abbiamo visto al paragrafo 2.5.1. i limiti di densità, altezza e distanze
stabiliti da questa disposizione statale sono anch’essi derogabili in caso di interventi di riuso e di
rigenerazione urbana.
Si noti inoltre che, l’art. 20, comma 1, della L.R. n. 15 del 2003 sottopone, di norma, la domanda di
permesso in deroga al Consiglio comunale affinché valuti se sussiste un interesse pubblico alla
realizzazione dell’intervento proposto; tuttavia, per gli interventi di riuso e di rigenerazione urbana è
la stessa disposizione di legge a dichiarare l’interesse pubblico alla loro realizzazione, rendendo il
parere consiliare confinato alla valutazione del quantum della deroga richiesta.
Appare evidente che l’approvazione dei PUG, interamente orientati a regolare gli interventi di riuso
e di rigenerazione urbana, porterà a ridimensionare la portata derogatoria di tale strumento, il quale
svolge dunque una funzione anticipatoria degli incentivi urbanistici e del regime speciale (anche in
deroga ai limiti minimi stabiliti dal D.I. n. 1444 del 1968) che il nuovo piano urbanistico può stabilire
per promuovere detti interventi (114).
(112) La deroga, nel rispetto delle norme igienico sanitarie, di accessibilità e di sicurezza degli edifici e nell’osservanza
delle disposizioni statali e regionali che stabiliscano requisiti minimi inderogabili degli edifici, può riguardare le
destinazioni d’uso ammissibili, la densità edilizia, l’altezza massima e la distanza minima tra i fabbricati e dai confini
stabiliti dal piano urbanistico. Prima della riforma in esame, essa era ammessa solo per gli edifici pubblici e per quelli
privati qualificati di interesse pubblico dal Consiglio comunale con apposita deliberazione.
(113) La previsione era già presente nel testo originario dell’art. 20 della L.R. n. 15 del 2013, con questa ampia portata
riferita a tutte le tipologie di interventi edilizi funzionali al riuso e alla rigenerazione urbana. Essa è stata recepita nella
legislazione statale dal decreto semplificazioni del 2020 ma limitandola ai soli interventi di ristrutturazione edilizia, che
abbiano come finalità la rigenerazione urbana, il contenimento del consumo di suolo e il “recupero sociale e urbano
dell’insediamento” (art. 14, comma 1-bis, DPR n. 380 del 2001).
(114) Questa particolare funzione del permesso in deroga è sottolineata dal comma 3 dell’art. 20 laddove chiarisce che
questo istituto, nelle more dell’approvazione del PUG, può essere applicato in special modo nei Comuni che non abbiano
approvato l’apposita variante prevista dall’art. 7-ter della L.R. n. 20 del 2000, volta a promuovere e incentivare (quelli
che allora si chiamavano) gli interventi di riqualificazione urbana e di qualificazione del patrimonio edilizio esistente.
Quest’ultima disposizione – anticipatoria della L.R. n. 24 del 2017 - richiedeva ai Comuni di approvare, attraverso una
procedura semplificata, una variante urbanistica che riconoscesse incentivi urbanistici per promuovere la realizzazione di
interventi di recupero e, nelle more della sua approvazione, consentiva appunto il rilascio di permessi di costruire in
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Il recupero a fini abitativi dei sottotetti
Nell’aprile del 1998, nel corso della predisposizione della legge sulla rigenerazione urbana, poi
approvata all’inizio del luglio seguente, la regione ha stabilito una disciplina speciale per il recupero
a fini abitativi dei sottotetti (la L.R. 6 aprile 1998, n. 11), aggiornata poi nel 2014 (con la L.R. n. 5
del 2014). L’obiettivo dichiarato di questa normativa è di contenere il consumo di suolo, attraverso
l’utilizzo abitativo di tali volumi esistenti e, indirettamente, di ridurre i consumi energetici degli
edifici grazie all’efficientamento energetico dei locali del sottotetto. Questo intervento può riguardare
solo gli edifici, collocati nel territorio urbanizzato e in quello urbanizzabile, aventi destinazione
residenziale per almeno il 25% della superficie utile e che siano regolarmente accatastati alla data del
31 dicembre 2013 (data di avvio della predisposizione della novella sopra ricordata). Appare
opportuno richiamare in sintesi il contenuto di questa legge regionale per evidenziare, insieme alla
sua assoluta attualità, la coerenza delle soluzioni normative perseguite dal legislatore regionale negli
ultimi venticinque anni: la ricerca di un punto di equilibrio tra l’interesse pubblico al recupero e alla
rigenerazione urbana e l’osservanza del nucleo essenziale di requisiti di qualità e sicurezza degli
edifici comunque imprescindibile; la necessaria flessibilità degli standard pubblici e privati laddove
si intervenga sull’esistente, ma solo a seguito di una valutazione della loro sostenibilità territoriale;
la salvaguardia del valore paesaggistico e culturale del patrimonio edilizio esistente.
Il primo aspetto rilevante di questa disciplina è che l’intervento di recupero abitativo debba rispettare
le prescrizioni igienico-sanitarie richieste per l’agibilità degli immobili residenziali, fissando
parametri differenti dagli ordinari solo per due aspetti: l’altezza media dei locali adibiti ad abitazione
(che può essere di m. 2,40 invece che di m. 2,70), il rapporto illuminante delle aperture in falda (che
può essere di 1/16 della superficie utile invece che di 1/8). Per il resto, si sottolinea la necessaria
osservanza degli ordinari requisiti di rendimento energetico degli edifici e la verifica della idoneità
statica e antisismica del solaio del sottotetto, se il recupero avvenga senza opere, e dell’intera struttura
edilizia e dell’eventuale aggregato strutturale, se siano previsti lavori.
Particolare attenzione è posta anche per il rispetto delle caratteristiche tipologiche e morfologiche
degli immobili, ammettendosi limitate modifiche edilizie dirette a conseguire i requisiti igienico
sanitari appena evidenziati. Talune modifiche, meno impattanti, sono ammesse direttamente dalla
legge (l’abbassamento dell’ultimo solaio per raggiungere l’altezza utile minima, ma senza modifiche
del prospetto, la realizzazione di aperture in falda per garantire il rapporto illuminante e
l'inspessimento verso l'esterno delle falde di copertura); altre innovazioni che incidono maggiormente
sull’aspetto esteriore dell’edificio possono essere consentite dal regolamento edilizio (115), ed in
particolare la modifica della forma del tetto e dunque della pendenza delle falde (cioè dell’altezza del
colmo, per un massimo di m. 1 e della linea di gronda al massimo di m. 0,50). Anche in questo caso,
atteso l’interesse pubblico riconosciuto alla realizzazione di questi interventi, si consente che queste
limitate modifiche della copertura possano essere realizzate in deroga alle distanze dai confini e dai
deroga, che assolvevano di fatto alla medesima funzione della variante attraverso l’esame caso per caso delle istanze
avanzate dai singoli soggetti.
(115) La L.R. n. 11 del 1998 conferiva al RUE il compito di definire gli interventi edilizi ammissibili per il recupero
dei sottotetti, ma dopo l’entrata in vigore della L.R. n. 24 del 2017 si deve intendere che questa funzione debba essere
svolta dal regolamento edilizio.
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fabbricati. Il regolamento edilizio può porre, al contrario, limitazioni agli interventi di recupero
abitativo dei sottotetti, che vanno dall’esclusione della loro stessa ammissibilità per alcune tipologie
edilizie, all’individuazione delle modifiche ammissibili e alla definizione di ogni altra condizione che
renda l’intervento compatibile con le caratteristiche tipologiche e morfologiche dell’edificio e con
l’esigenza di tutelarne il valore paesistico e storico artistico. Anche in questo caso, le modifiche delle
caratteristiche del tetto nei centri storici non sono ammesse se il comune non ha provveduto ad una
disciplina particolareggiata degli interventi ammissibili.
L’intervento è classificato dalla legge di ristrutturazione edilizia con aumento di carico,
indipendentemente dalla presenza e consistenza di opere edilizie e, anche in questo caso, è soggetto
a SCIA. Quanto alle dotazioni pubbliche, la legge prevede varie forme di flessibilità che favoriscono
la realizzazione degli interventi: sin dal suo testo originario del 1998 è stata ammessa la
monetizzazione delle aree da adibire a parcheggi pubblici e a verde pubblico, mentre la novella del
2014 ha esteso questa possibilità anche ai parcheggi pertinenziali, ma solo previa delibera consiliare
che individui gli ambiti del territorio comunale dove ciò sia consentito (evidentemente alla luce
dell’adeguatezza dei parcheggi pubblici già esistenti) e ove sia dimostrata l'impossibilità della loro
realizzazione per la mancata disponibilità di spazi idonei.
3.3. La riforma del contributo di costruzione attuativa dei principi della nuova legge
urbanistica.
Come si evidenziava in premessa, il terzo pilastro su cui si fonda la disciplina regionale per
promuovere gli interventi di riuso e di rigenerazione urbana è costituito dalla nuova disciplina del
contributo di costruzione, approvata con la Deliberazione dell’Assemblea legislativa (DAL) 20
dicembre 2018, n. 186 in attuazione dei principi stabiliti dalla nuova legge urbanistica. Quest’ultima,
infatti, proprio come prime forme di incentivazione degli interventi di riuso e rigenerazione urbana,
indica tre misure dirette a ridurre drasticamente il contributo di costruzione per gli interventi nel
territorio urbanizzato, rispetto a quanto dovuto per gli interventi in espansione (art. 8, comma 1, lettere
a) e b), della L.R. n. 24 del 2017).
Si prevede innanzitutto che a tutti gli interventi edilizi onerosi riconducibili alla nozione di
rigenerazione urbana, come definiti ed ampiamente esemplificati dall’art. 7 della L.R. n. 24 del 2017
(e che vanno dalla manutenzione straordinaria alla nuova costruzione, nei casi di addensamento e
sostituzione urbana) si debba applicare una riduzione del contributo di costruzione del trentacinque
per cento e che i comuni possano prevedere ulteriori riduzioni fino al suo completo azzeramento,
anche con riferimento a talune specifiche categorie funzionali che intendano incentivare in modo
particolare. Questa disposizione regionale recepisce quanto previsto comma 4-bis dell’art. 17 del testo
unico per l’edilizia, introdotto dal decreto-legge n. 133 del 2014, ma rendendone univoco il campo di
applicazione (116).
(116) Il comma 4-bis dell’art. 17 del T.U. edilizia (introdotto dall’art. 17, comma 1, lettera h), punto 2, del D.L. n. 133 del
2014) nel suo testo originario presentava una formulazione impropria, che rendeva inapplicabile l’incentivo, nonostante
l’obbligo per i comuni di provvedere, nei 90 giorni successivi all’entrata in vigore della disposizione, a darvi attuazione
anche in assenza del recepimento regionale. Si prevedeva infatti che la riduzione (del 20% del contributo) non si riferisse
all’ammontare dovuto per tali interventi secondo le regole ordinarie, ma dovesse essere parametrata al “contributo
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Il medesimo favor per gli interventi di rigenerazione è al centro anche del meccanismo di calcolo
degli oneri di urbanizzazione, stabilito dalla DAL n. 186 del 2018, fondato su valori unitari
nettamente differenti a seconda che l’intervento sia realizzato in territorio urbanizzato ovvero in aree
esterne allo stesso, equiparando oltretutto al territorio extraurbano le aree permeabili ricomprese
all’interno del perimetro del territorio urbanizzato, cioè le aree agricole intercluse dallo sviluppo
urbano. In tal modo, gli oneri di urbanizzazione dovuti per gli interventi nel tessuto urbano risultano
significativamente inferiori a quelli richiesti per i nuovi insediamenti extraurbani e per le aree agricole
intercluse. Ciò risponde certamente ad una motivazione tecnica, in quanto è ragionevole prevedere
che gli interventi in espansione debbano concorrere ai maggiori costi di realizzazione delle nuove
urbanizzazioni che comportano, mentre gli interventi di recupero sono chiamati a contribuire solo
alla manutenzione delle dotazioni e delle infrastrutture esistenti (avendo per altro provveduto alla loro
realizzazione all’atto dell’urbanizzazione delle aree). Ma non si può disconoscere che questa
differenziazione risponda soprattutto alla volontà di introdurre un regime più favorevole alla
rigenerazione, se appena si considera che, a fronte dell’astratta possibilità di un aggiornamento
indifferenziato del 76% delle tabelle parametriche del 1998, in ragione dell’aumento medio del costo
dei materiali edilizi desumibile dalle rilevazioni ISTAT, la DAL n. 186 del 2018 ha preferito
prevedere sostanzialmente il raddoppio dei valori unitari degli oneri di urbanizzazione dovuti per gli
interventi fuori dal TU e nelle aree permeabili interne allo stesso, a fronte di un aumento solo del 20%
per gli interventi nel territorio urbanizzato. Se poi si considera l’effetto cumulativo di tale
parametrazione con la riduzione del 35% complessivo del contributo di costruzione sopra richiamata,
si rileva, una riduzione degli oneri di urbanizzazione dovuti nel T.U. del 22%, rispetto ai valori del
1998 (riduzione che può risultare ulteriore ove i comuni si avvalgano della possibilità di aumentare
la percentuale di riduzione del contributo di costruzione); a fronte, come abbiamo visto, del raddoppio
di quei valori laddove si attuino interventi di nuova urbanizzazione, per tutte le destinazioni funzionali
ammesse in espansione.
Il secondo principio generale, stabilito dalla legge urbanistica e puntualmente sviluppato nella DAL
n. 186 del 20018, è destinato ad operare nei comuni che si siano dotati di PUG (e che dunque abbiano
attivato prioritariamente politiche di regolazione e incentivazione degli interventi di riuso e
rigenerazione urbana), prevedendo che il contributo straordinario (CS) sia dovuto solo per gli
interventi in espansione comunque ammessi dal piano urbanistico, esentando invece dal suo
pagamento gli interventi di rigenerazione urbana. Questa previsione, di particolare rilevanza vista
l’entità delle somme dovute per questa quota del contributo di costruzione (pari alla metà
dell’aumento di valore dell’area conseguente al suo passaggio dalla destinazione agricola a quella
dell’insediamento che si intende realizzare), oltre che al generale obiettivo di incentivare una
tipologia di interventi e disincentivare gli altri, risponde alla specifica esigenza di evitare l’effetto
previsto per le nuove costruzioni”, introducendo una sorta di differente modalità di calcolo che portava, paradossalmente,
ad una maggiore onerosità dell’intervento. Per di più, la legge di conversione, la n. 164 del 2014, aveva limitato
l’applicabilità della riduzione ai “casi non interessati da varianti urbanistiche, deroghe o cambi di destinazione d'uso
comportanti maggior valore rispetto alla destinazione originaria”, cioè proprio ai casi in cui non fossero state
riconosciute quelle misure di incentivazione che risultano imprescindibili per attivare i processi di rigenerazione. La
disposizione è stata poi modificata dal decreto-legge n. 76 del 2020, estendendone l’ambito di applicazione agli interventi
di rigenerazione urbana (“Al fine di agevolare gli interventi di rigenerazione urbana, di decarbonizzazione,
efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo, di ristrutturazione, nonché
di recupero e riuso degli immobili dismessi o in via di dismissione…”), correggendo le modalità di calcolo della riduzione,
eliminando la condizione escludente appena menzionata e consentendo ai comuni di deliberare ulteriori riduzioni del
contributo di costruzione, fino alla completa esenzione dallo stesso.
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distorsivo che deriverebbe, nel contesto della legge urbanistica regionale, dall’applicazione della
disciplina statale del contributo straordinario anche all’interno del territorio urbanizzato. Il CS è
dovuto, secondo la disciplina statale, in caso di variante al piano o di altro provvedimento speciale
che conferiscano al titolare di un immobile una specifica plusvalenza che la pianificazione urbanistica
generale non riconosca alla generalità delle situazioni analoghe. Pertanto, nel contesto normativo
regionale, proprio la necessità di incentivare i processi di rigenerazione con il conferimento di
premialità volumetriche o di diritti edificatori aggiuntivi, che costituisce uno dei contenuti precipui
delle politiche urbanistiche volute dalla L.R. n. 24 del 2017, comporterebbe che il CS troverebbe
applicazione in special modo proprio per gli interventi incentivati nel TU, piuttosto che per gli
interventi in espansione che - sempre in ragione della medesima disciplina regionale - non necessitano
di un’apposita variante urbanistica per la loro realizzazione, trovando i criteri generali di
ammissibilità nella legge e nella disciplina strategica generale stabilita dal PUG e la disciplina
urbanistica di dettaglio nello strumento attuativo (non in variante al piano generale).
La terza importante forma di incentivazione economica degli interventi di riuso e rigenerazione
urbana attiene ai mutamenti di destinazione d’uso degli immobili, dei quali si sancisce la gratuità nel
caso in cui non comportino un maggior carico urbanistico, qualora cioè non siano funzionali a una
trasformazione insediativa che richieda una maggiore quantità di dotazione di servizi e infrastrutture
pubbliche (alla cui realizzazione l’operatore è invece chiamato a concorrere con il contributo di
costruzione). Anche questa previsione è stata tramutata dalla DAL n. 186 del 2018 in un fattore
strategico per la rigenerazione urbana, in quanto, in precedenza, l’onerosità dei cambi d’uso, assieme
all’eccessiva statuizione nei piani di requisiti e condizioni per la loro ammissibilità, ostacolava non
poco i processi volti ad attribuire nuove funzionalità ai tessuti urbani esistenti.
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