Semiotica PDF
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SEMIOTICA E SEGNO
La parola “semiotica” deriva da una parola greca “semeion” che vuol dire segno; è la disciplina che studia i
segni e il modo in cui questi producono un senso. A sua volta il significato è studiato da una disciplina
trasversale che è la semantica.
Il segno è, in generale, qualcosa che rimanda a qualcos’altro (qualcosa di presente che rimanda a qualcosa
di assente. Per esempio, se vedo il fumo (presente) penserò al fuoco (assente) (Pag. 4 ↓). Tale definizione è
da conferire a Sant’Agostino che la scrisse nella sua opera “De magistro”.
Lo studio del segno affonda le sue radici nell’antichità e tra i nomi più importanti bisogna ricordare Platone,
Aristotele, gli stoici e gli Epicurei.
La riflessione sul segno esploderà con gli empiristi inglesi Francis Bacon e John Locke con i quali si parlerà
per la prima volta di semiotica come vera e propria branca della filosofia, insieme all’etica e alla logica; da
evidenziare il contributo di Cartesio e Leibniz.
L’inizio della semiotica contemporanea è da far risalire a Peirce e a De Saussure.
Secondo Saussure, il segno ha due facce: Il significante, che è il veicolo, e il significato che è un contenuto
mentale.
Peirce, invece, con la sua semiotica inferenziale, aggiunge una terza diramazione e dà i seguenti termini
seguiti dalle loro definizioni:
IL TESTO
Nella semiotica, il testo, termine generalmente riferito a una fonte scritta, viene ampliato per identificare
qualsiasi oggetto semiotico dotato di una particolare struttura e mirato a ottenere degli scopi comunicativi.
LA COMUNICAZIONE
Il termine comunicazione deriva da “cum” (con) e “munus” (compito, incarico), quindi compiere il proprio
incarico insieme ad altri, ma indica anche un passaggio fisico di qualcosa da un punto A ad un punto B.
Un’altra importante definizione è quella che afferma che la comunicazione è la “trasmissione di un
<<oggetto cognitivo>> (un significato, una sensazione) da una fonte (umana o non umana, intenzionale o
non intenzionale) ad un qualche soggetto che diviene destinatario”.
*Si parlava di comunicazione già nell’antichità: Cicerone e Quintiliano prendono in considerazione la
comunicazione partecipativa, argomento che si ricollega al pensiero retorico di Aristotele.
Tale pensiero dà origine a 3 tipi di discorsi:
OPINION LEADERS
Nella “opinion leaders”, invece, il messaggio parte dalla fonte, passa da un mediatore che manipolerà il
messaggio attraverso una semplificazione o un adattamento dell’informazione in base al ricevente, per poi
arrivare a destinazione presso il ricevente.
In questo caso si avranno quindi un flusso a due livelli e i riceventi dimostrano attività nella partecipazione.
Entrambe le teorie sopra citate funzionavano in una società dove i mass media erano poco sviluppati e la
comunicazione interpersonale era più importante; pertanto, adesso risultano modelli obsoleti per la
società odierna. Oggi è la televisione ad avere il dominio della comunicazione facendo a meno degli
opinion leaders e utilizzando la comunicazione interpersonale per commentare riguardo al contenuto dei
messaggi veicolati dai mass media (opinion-sharing).
La dimensione semantica (cioè del significato) non viene presa in considerazione dai due scienziati a causa
della destinazione e l’utilizzo iniziale del modello.
Colui che lo adattò alla linguistica e allo studio del linguaggio fu il russo Roman Jackobson che negli anni ’60
lo prese come base per la formulazione per la sua teoria delle funzioni del linguaggio, la quale suppone che
il linguaggio possa essere considerato come uno strumento formato da 6 componenti:
1. Emittente
2. Ricevente
3. Canale
4. Codice
5. Messaggio
6. Contesto.
Un referente per interpretare un testo o un atto comunicativo cerca di ricostruire il significato partendo
dalla superficie espressiva e, nel farlo, può seguire 3 procedimenti:
• INTENTIO AUCTORIS: Ricostruire l’intenzione comunicativa dell’autore del testo che egli ha di
fronte.
• INTENTO OPERIS: Costruire il senso sulla base dei codici e delle convenzioni del senso,
indipendentemente da quello che l’autore aveva intenzione di dire/trascrivere.
• INTENTIO LECTORIS: Il destinatario interpreta il testo in base ai propri sistemi di significazione, alle
proprie aspettative e funzioni
FERDINAND DE SAUSSURE E IL SEGNO
Ferdinand de Saussure si occupò per la prima volta in maniera formale del segno.
Gli elementi minimi del processo comunicativo sono gli stessi segni che si uniscono insieme per formare i
testi.
Quando trattiamo i segni si possono prendere in considerazione due modelli fondamentali: quello
equivalenziale (Saussure) e quello inferenziale (Peirce, PRESENZA- ASSENZA Pag. 1 ↑ e pag. 8 ↓) (Dà
origine a un modello logico-filosofico).
Il primo indica il segno come il legame tra significante (l’immagine acustica, ovvero la parola che
pronunciamo) e significato (l’immagine mentale, ovvero l’immagine che ci viene in mente quando
pronunciamo o sentiamo una parola) (per esempio, alla parola “uomo”, nella nostra mente si forma
l’immagine stessa dell’uomo, e quindi si ha un’equivalenza) e dà origine al modello dello strutturalismo
linguistico europeo. Il modello di Saussure rimane ancorato all’ambito linguistico e verbale, mentre
l’americano va oltre.
L’opera di Saussure su cui ci baseremo la nostra analisi è “Corso di linguistica generale” pubblicato postumo
nel 1916 grazie an un lavoro certosino dei suoi allievi.
Oggi qualcuno sospetta che quel libro non è propriamente attribuibile al linguista ginevrino a causa delle
numerose modifiche esterne che esso ha subito, ma contiene comunque le basi e gli aspetti fondamentali
del suo pensiero e dei suoi studi.
Riassumendo, il segno è un’entità bifacciale, le cui facce sono il significante (immagine acustica) e il
significato (concetto o immagine mentale) legate da una relazione di equivalenza. Esso ha 2 caratteri
fondamentali:
ARBITRARIETÀ: afferma che il segno non ha nessuna motivazione di relazione tra le due entità (significato e
significante), ma dipende da una (tacita) convenzione tra i parlanti di una stessa lingua. Lo dimostra il fatto
che lingue diverse impiegano significanti diversi per comunicare una stessa immagine (albero, arbor, tree,
…). Ma in contrasto a tutto ciò si pongono le onomatopee e le esclamazioni che sembrano aderire alla
fisiologia. Però le onomatopee sono nettamente minori numericamente rispetto all’intero vocabolario e poi
sono convenzionali alla nazionalità di appartenenza (“cra cra” per l’italiano, “kero kero” per il giapponese).
Per Saussure la lingua è una macchina convenzionalizzante.
• LINEARITÀ: afferma che il significante si sviluppa secondo una linea del tempo. I segni si susseguono
uno dopo l’altro seguendo una linea dritta; infatti è impossibile che due suoni differenti possano
essere pronunciati contemporaneamente.
• “La lingua (langue) è un sistema di segni esprimenti delle idee e pertanto confrontabile con
la scrittura, con l’alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, le forme di cortesia. Essa è la più
importante tra i sistemi. Si può quindi concepire una scienza che studia la vita dei segni nel
quadro della vita sociale.” (F. de Saussure, citazione presente sul manuale).
In sostanza, la lingua associa l’immagine acustica (significante) all’immagine mentale
(significato).
“Noi la chiameremo <<semiologia>> dal greco <<semeion>> che vuol dire <<segno>>. Essa
potrebbe dirci in cosa consistono i segni. Poiché essa non esiste ancora, non possiamo dire
cosa sarà, però possiamo essere certi che questa scienza esiste, ha il diritto di esistere, e di
questa scienza la linguistica è una piccola parte.” (Ferdinand de Saussure, “Corso di
linguistica generale”).
La linguistica, quindi, è un sottoinsieme della semiotica.
• Il linguaggio è la capacità di costruire ed usare sistemi linguistici. Esso è un congegno
ideativo, un congegno di modellazione ed è qualcosa di biologico (deriva dalla natura) che
si esprime attraverso la lingua; infatti qualsiasi forma vivente, in un modo o nell’altro,
comunica, e la tecnica peculiare dell’uomo è proprio il linguaggio che per Saussure è
“multiforme ed eteroclito”.
La lingua deriva dal linguaggio e, secondo il linguista, può essere rappresentata attraverso un contenitore
virtuale attraverso la quale noi associamo dei concetti a delle immagini acustiche (in questo contenitore
sono depositate tutte le regole grammaticali o altre leggi linguistiche di cui non siamo consapevoli di
utilizzare, ma da cui noi attingiamo quando comunichiamo); l’immagine acustica è la parola che esprimiamo
dentro di noi che si può rappresentare bene dalla lettura endofasica (quando leggiamo dentro di noi).
• L’esecuzione linguistica per Saussure è la parole che consiste nell’accesso alla lingua.
Da qui ne viene fuori il modello chiamato circuito della parole che è il primo modello
esplicito del processo della comunicazione.
“Il punto di partenza del circuito è nel cervello di uno dei due individui (per esempio A), in cui i concetti si
trovano associati nella rappresentazione dei segni linguistici. Supponiamo che un dato concetto faccia
scattare nel cervello una corrispondente immagine acustica; questo è un fenomeno tutto psichico, seguito
da un processo fisiologico, perché è il cervello che trasmette agli organi della fonazione una un impulso. Poi
le onde sonore si trasmettono dalla bocca di A all’orecchio di B e il processo diventerà qui fisico con
l’emanazione sonora. Successivamente, il percorso appena spiegato si svolgerà in B in maniera inversa.” (F.
de Saussure).
“Preso in sé stesso, il pensiero è una nebulosa in cui niente è necessariamente illimitato, tutto sfuma in
tutto, non vi sono idee prestabilite, niente è distinto prima dell’apparizione della lingua.” (F. de Saussure).
La lingua, quindi, funziona come una “forbice” che taglia sia la massa amorfa del pensiero, sia la massa
amorfa dei suoni e mette insieme queste porzioni per creare degli abbinamenti che sono arbitrari.
IL REFERENTE
Il referente è un fatto concreto, un oggetto esterno che fa parte del mondo e questa nozione è stata
introdotta nel 1923 nel libro “Il significato del significato” da due studiosi Ogden e Richards.
Il triangolo di Saussure spiega come significante, significato e referente siano strettamente collegati tra
loro. In particolare, il significato essendo posto al vertice indica come il legame tra referente e significante
passi prima dal significato.
Il lato tratteggiato simboleggia che noi NON possiamo avere un accesso diretto, ma esso deve essere
mediato dal pensiero. Il nostro accesso al mondo e la conoscenza delle sue cose sono sempre di natura
linguistica.
IL SEGNO SECONDO CHARLES PEIRCE
Il segno, secondo Peirce, risponde all’inferenza (ASSENZA-PRESENZA).
L’interprete è colui che interpreta, l’interpretante è lo strumento che porta l’idea del messaggio e illumina
l’oggetto da un particolare punto di vista, mai nella totalità (può essere una reazione emotiva, la
formazione di un concetto inteso come “abito”, cioè come diposizione regolare ad agire). Alcuni esempi di
interpretanti possono essere una foto, la definizione di un dizionario, un disegno, ecc. Essi sono illimitati e
quindi Peirce parla di semiosi illimitata.
L’oggetto immediato è quello che abbiamo davanti, l’oggetto dinamico è un’entità concettuale (una
rappresentazione mentale) e costituisce il modo in cui l’oggetto immediato viene dato e conosciuto
attraverso la mediazione dei segni che mettono in risalto volta per volta certe proprietà. Esso ci sfuggirà
sempre, ossia il noumeno kantiano oppure ancora il referente di Obden-Richards. L’oggetto immediato è
interno al segno, l’interpretante è esterno.
SEGNI, SIMBOLI ED ENTITÀ
➢ ICONA: un segno che somiglia all’oggetto. In questo gruppo sono inseriti i grafici, i diagrammi e le
metafore;
➢ INDICI: il segno in questo caso “indica” e rappresenta attraverso la fisicità (un’impronta sulla sabbia,
una bandiera che si muove, la firma e la fotografia);
➢ SIMBOLO: un segno legato all’oggetto solo arbitrariamente o convenzionalmente. Il suo carattere
rappresentativo consiste nel suo essere una regola (parole, libri, segni convenzionali).
Nella realtà queste entità sono collegate e ibridate, cioè una singola entità può essere
contemporaneamente tutti tipi di segno.
IL VALORE DI UN SEGNO
Il valore di un segno si dà sempre in riferimento ad altri segni, nel senso che il significato di una parola è
cogliibile solo in relazione ad altre parole; tale nozione dimostra che i sistemi semiotici sono delle strutture:
questi sistemi sono costruiti dalla totalità (è il tutto che spiega le singole parti e non il contrario).
La linguistica strutturale afferma che esistono due assi: il paradigmatico (asse verticale) e il sintagmatico
(asse orizzontale): per la prima dimensione il significato di un segno è dato dal fatto che essa può essere
scambiato con un’altra entità di diversa natura. Per la dimensione sintagmatica invece lo scambio è
equivalente e mettiamo in relazione in significante (una parola) con un significato (un’idea). (Il discorso
verrà ripreso con Hjelmselv a pag. 14 ↓)
Il valore, quindi, ha un carattere differenziale e l’identità del segno è data per differenza (come detto prima
↑). Riassumendo, una caratteristica fondamentale del segno è di essere quello che gli altri non sono (per
esempio una mela NON può essere una pera o un’arancia e per tale differenza afferma la sua identità).
In semiotica la forma ha la priorità sulla sostanza, perché si pone in primo piano la funzione dell’oggetto
piuttosto che la materia di cui è fatto.
Un esempio molto intuitivo dato da Saussure è quello degli scacchi: nel caso in cui non avessi a disposizione
la pedina del cavallo, posso sostituirla con qualsiasi altra cosa che svolgerà la sua funzione, cioè spostarsi
sulla scacchiera con il suo tipico movimento a L.
HJELMSLEV
Ha raffinato il sistema di Saussure ed è stato un’esponente della scuola di Copenaghen e fautore della
glossematica: egli voleva fare della semiotica una scienza esatta.
Egli traccia 5 tratti fondamentali dei sistemi linguistici, su cui egli focalizza maggiormente la sua attenzione
rispetto a Saussure:
1. ESPRESSIONE E CONTENUTO
Egli ha insistito sul fatto che il linguaggio è organizzato secondo una funzione che si stabilisce tra due punti, i
quali sono l’ESPRESSIONE e il CONTENUTO. Essi sostituiscono rispettivamente il significante e il significato
saussuriani.
La materia è un substrato amorfo su cui poi si stagliano e si sviluppano l’espressione e il contenuto.
Riprendendo il discorso delle dimensioni paradigmatiche (già trattate a pag. 10 e 11 ↑), con Hjelmselv gli
assi del linguaggio prenderanno il nome di “processo” e “sistema” e assolveranno rispettivamente le stesse
funzioni delle dimensioni precedentemente citate. In più, utilizzando termini propri del gergo filosofico, il
processo assumerà la forma dell’“et et”, cioè “una cosa insieme ad un’altra” e gli elementi saranno “in
presentia”, indicando quindi “inclusione”; il sistema, d’altra parte, avrà la forma dell’“out out”, ovvero “una
cosa OPPURE l’altra” mettendo in gioco l’“esclusione” e gli elementi scartarti restano “in absentia”.
3. LA COMMUTAZIONE
Un altro elemento della semiotica di Hjelmslev è la commutazione: essa ci indica se siamo davanti a un
segno nuovo o a una variante e tale prova serve a riconoscere e distinguere gli elementi varianti da quelli
invarianti della comunicazione e consiste in una prova empirica.
Serve a verificare se la variazione su un piano porta lo stesso risultato sull’altro piano.
4. LA NON CONFORMITÀ
La non conformità NON comporta un fenomeno di isomorfismo (stessa forma): ciò vuol dire che NON
presenta una corrispondenza punto a punto tra gli elementi appartenenti al piano dell’espressione con
quelli del piano del contenuto.
(Es: s/o/n/o (espressione scomposta in elementi minimi) = sul piano dell’espressione otteniamo quattro
fonemi, mentre sul piano del contenuto ne otteniamo altri come, “prima persona singolare” “presente”,
ecc).
Per i sistemi simbolici, invece, vale il discorso contrario: hanno la non commutabilità e la conformità.
Quindi per il linguista danese i segni e i simboli sono due cose diverse, a differenza della visione di Peirce.
5. RELAZIONI TRA LE PARTI
All’interno di una funzione segnica, sono presenti più relazione, ossia di:
Le lingue sono migliaia, ma i fonemi sono tra i 20 e i 40 in tutte gli idiomi e le cui combinazioni danno
origine a milioni di parole diverse che, a loro volta, formano un numero infinito di frasi, ossia un numero
infinito di mondi, che possono essere diversi dal nostro, che non esistono, che possono essere migliori.
ROLAND BARTHES
Ha indagato su fenomeni semiotici nel suo libro “I miti di oggi”.
DENOTAZIONE Secondo Hjelmslev, è la relazione che si stabilisce tra i due piani di una semiotica, cioè
la relazione che rimanda dall’espressione al contenuto di un segno e lo rappresenta con la seguente
formula:
Analizzando questa pubblicità francese, vediamo che viene posta in risalto la pasta del marchio “Panzani”;
sul piano della denotazione, quello che possiamo notare è che, nell’immagine, sono presenti elementi
come i pacchi di pasta, pomodori, un sacchetto di rete, formaggio, tutti elementi che, ribadiamo, su questo
piano NON hanno significati particolari, rimandano solo alla loro funzione peculiare.
Se invece ci spostiamo sul piano connotativo, l’intera immagine e la relazione degli elementi presenti,
danno origine a immagini e significati ulteriori e supplementari, come per esempio il concetto di italianità
dato dai pomodori, dai colori tipici della nostra bandiera (il verde e il bianco del logo e il rosso che si impone
sullo sfondo) o anche dal nome stesso del marchio che rimanda a un cognome tipico italiano. Oppure nella
nostra mente si potrebbe formare l’immagine della freschezza, del buon cibo, caratteristiche tipiche della
nostra penisola.
CHARLES MORRIS
Nel suo libro “Lineamento di una teoria dei segni”, Charles Morris sostiene che la semiotica può essere
divisa in 3 grandi dimensioni, ossia la:
Alla domanda “È possibile scomporre i significati fino ad arrivare a degli elementi minimi?”, si può
rispondere con 3 diversi approcci:
FREGE
Frege distingue 3 elementi: senso, riferimento e segno. Quest’ultimo fa riferimento agli oggetti
extralinguistici passando attraverso la mediazione di entità, ossia il senso. Il senso, a sua volta, indica il
modo attraverso cui il riferimento è dato.
Vi sono poi espressioni che hanno lo stesso riferimento, ma senso diverso. Per esempio, le espressioni “La
stella della sera” e “La stella del mattino” fanno riferimento alla stessa identità (ovvero il Pianeta Venere),
ma non hanno lo stesso senso.
Senso e riferimento sono nozioni oggettive da cui va distinta una nozione di ordine psicologico che Frege
designa con il termine “rappresentazione”; quest’ultima è un’immagine interna che si è creata nella mente
del soggetto in esame sulla base di impressioni e sensibilità personali. Inoltre, la rappresentazione può
essere influenzata da sentimenti e ricordi del soggetto stesso.
Quindi, riassumendo, il senso è oggettivo e può essere in possesso di molte persone contemporaneamente,
mentre la rappresentazione è totalmente soggettiva e varia da persona a persona.
LA SEMANTICA STRUTTURALISTICA
La semantica strutturalista è tipica di Saussure e Hjelmslev. In questa prospettiva lo studio del significato è
caratterizzato da due aspetti fondamentali: da una parte la semantica è vista come completamente
autonoma rispetto ad ogni elemento che non sia interno al sistema linguistico (antireferenzialismo)
(significato interno alla lingua); d’altra parte essa manifesta una differenza specifica rispetto alla dimensione
psicologica.
Saussure aveva inaugurato questa prospettiva facendo della lingua un’entità autosufficiente definendola
appunto forma e assegnando alla sostanza tutti i fattori che la legano ai dati materiali, referenziali e
psicologici.
Hjelmslev aveva sviluppato ed evoluto il concetto dell’autonomia con il suo “principio di immanenza”, il
quale afferma che l’oggetto deve essere “isolato” dal suo interesse scientifico considerandolo come una
struttura autosufficiente, nella quale gli elementi di costanza vanno cercati all’interno del sistema.
Hjelmslev afferma che ci sono anche nel campo del significato degli elementi minimi che sono le figure da
cui poi si generano tutti i termini.
A tale ipotesi e studio sono state avanzate delle critiche come la considerazione dei primitivi semantici che
appaiono chiusi e che i primitivi stessi non sono tali.
TEST DI LABOV
I significati sono sempre sfumati, NON sono definibili una volta per tutte e in uno studio del ‘73 prende dei
termini di un determinato campo semantico (tazza, scodella, ciotola, piatto) e apre la questione e il
problema di assegnare tali termini a determinati oggetti.
Labov escogitò un test empirico in cui venivano mostrati ai soggetti delle rappresentazioni variamente
deformate di quegli oggetti (vedere figura in basso ↓).
Egli dimostrò che, man mano che ci si allontana dalle rappresentazioni standard, si entra in un terreno di
vaghezza in cui un determinato oggetto può essere definito utilizzando i termini sopra citati in maniera del
tutto libera e personale.
• Conoscenze dizionariali relative alla struttura della lingua. Sono relativamente stabili e hanno
un numero di aspetti limitato;
Esempio: prendendo in considerazione il lessema “gatto”, faremo riferimento alle definizioni
dizionariali di “animale domestico, felino, mammifero”.
• Conoscenze enciclopediche relative al mondo extralinguistico; sono meno stabili e più fluide.
Sono caratterizzate da un numero illimitati di aspetti.
Esempio: con lo stesso lessema precedente, vengono considerate proprietà più ampie e lontane
dalle definizioni oggettive e penseremo a un “corpo agile e flessuoso”, oppure a “un pelo morbido
e folto” o ancora all’”avere lunghi baffi” e via dicendo.
In particolare, per Eco l’enciclopedia è concepita come un’immensa rete con nodi multipli, acentrica e
strutturata come un rizoma (facendo un prestito dal gergo della botanica), dove ciascun elemento può
entrare in contatto con qualsiasi altro attraverso percorsi che si allungano e si accorciano a seconda dei
contenuti d’uso. L’enciclopedia è l’insieme registrato di tutte le interpretazioni concepibili oggettivamente,
all’interno del quale convivono anche interpretazioni tra loro contraddittorie e incompatibili.
Per questa ragione l’enciclopedia rimane, per Eco, sostanzialmente un postulato, in quanto non è
descrivibile nella sua interezza, data la sua complessità.
L’enciclopedia è un postulato semiotico nel senso che non può essere descrivibile nella sua totalità.
Inoltre, data la sua vastità, l’Enciclopedia è conosciuta e posseduta in modi diversi dai suoi utenti, che
hanno dunque una competenza enciclopedica inevitabilmente parziale. Tuttavia, per comunicare è
necessario condividere, almeno in parte, le competenze enciclopediche del proprio interlocutore.
Secondo la studiosa l’analisi delle categorie può essere realizzata in relazioni a due dimensioni:
• VERTICALE esamina le relazioni di inclusione che si stabiliscono tra le categorie. Vengono presi
in esame 3 livelli:
1. Sovraordinato (esempio: mobilio);
2. Di base (Sedia, tavolo). Più importante perché fornisce il massimo dell’informazione e
richiede il minimo sforzo cognitivo. Corrispondono alle parole più comunemente usate;
3. Subordinato (sedia da cucina e sedia a dondolo)
• ORIZZONTALE concerne l’organizzazione di ogni categoria dal proprio interno. Qui interviene
la nozione di “prototipo”.
Questa prima versione è stata definita come “teoria standard del prototipo”. Il “prototipo”, quindi,
costituisce l’esemplare linguistico che meglio rappresenta una categoria possedendo la maggior parte delle
caratteristiche peculiari della stessa categoria presa in esame. Essi funzionano come dei “punti focali” e la
categoria vi si sviluppa intorno. Più un oggetto si assomiglia al prototipo più l’appartenenza sarà alta; i
confini tra le diverse categoria NON sono netti, ma sfumati.
PRAGMATICA
Il termine “pragmatica” deriva da Charles Morris che la individua come una delle 3 componenti
fondamentali del segno insieme alla semantica e alla sintassi.
Con la pragmatica viene abolita la distinzione tra il dire e il fare, lo stesso dire diventa fare. Tuttavia, occorre
fare due distinzioni:
1. Differenza tra la dimensione della frase e quella dell’enunciato: la frase è un’entità linguistica
astratta = type. L’enunciato consiste nella realizzazione concreta della prima in un contesto dato =
token. Nell’enunciato, a sua volta, si possono distinguere due diverse entità:
• La prima entità è costituita dal materiale linguistico, che rimane identico in tutte le sue molteplici
manifestazioni si parla di frase. Se alla frase stessa sono collegati più segmenti linguistici si
parlerà di testo.
• • La seconda entità è costituita dalle diverse realizzazioni della frase, ogni qual volta uniche,
caratterizzate da specifiche coordinate spaziali e temporali;
2. Tre diversi significati della nozione di “realizzazione”:
• Si riferisce alla cosa realizzata a seguito di una certa operazione linguistica
(enunciazione/discorso);
• Si riferisce all’azione stessa o all’evento, grazie al quale qualcosa accade in relazione all’enunciato.
In linguistica prende il nome di “enunciazione”.
• Riferimento al processo di produzione che portato a dei risultati. In termini linguistici parleremo
di “attività linguistica” = processo che ha condotto colui che parla a dire quello che ha detto.
Comprende sia gli atti locutivi sia quelli perlocutivi.
ATTI LOCUTIVI, PERLOCUTIVI E ILLOCUTIVI
L’attività linguistica comporta tre tipi di atti:
L’ESPLICITO E L’IMPLICITO
Il significato letterale è un significato legato per convenzione al significante. È una concezione secolare che
passa da Platone a Locke fino a Saussure. Il significato della frase viene spesso inteso come un significato
convenzionale, ossia il significato che la frase assume indipendentemente dal contesto in cui viene usata e
indipendentemente da coordinate spazio-temporali specifiche. Il significato coincide con le condizioni che
devono verificarsi affinché la frase possa essere considera vera.
Secondo lo studioso Grice il significato letterale si sovrappone al significato referenziale, ovvero ciò che una
frase dice va in contrapposizione con ciò che è inteso dalla frase.
Quindi ciò che è inteso, ciò che viene implicato deriva dall’ipotesi sugli stati mentali del parlante e può
essere complessivamente definito come significato ricavato per inferenza.
L’INFERENZA rappresenta l’ipotesi sugli stati mentali del parlante e comprende due sottoclassi di
significato inferenziale:
• Inferenze fatte sulla base delle REGOLE LOGICHE e LINGUISTICHE senza ricorre al contesto enunciativo.
Questa sottoclasse comprende a sua volta:
➢ Implicature convenzionali
➢ Presupposizioni
➢ Implicazioni
• Inferenze fatte sull’inserimento dell’enunciato all’interno di un contesto dato che comporta informazioni
sul parlante e informazioni sulle coordinate spazio e temporali. Queste inferenze vengono chiamate
implicature conversazionali; esse sono legate al senso di un certo enunciato (non si basano su una struttura
linguistica ma si basano sul senso dell’enunciato).
1. Massima della QUANTITÀ: si riferisce alla quantità di informazioni che deve essere fornita. Dà un
contribuito tanto informativo quanto richiesto (non dare un contributo più informativo di quanto sia
richiesto);
2. Massima della QUALITÀ: dare un contributo che sia vero, quindi non dire ciò che ritieni falso e non dire
ciò di cui non hai prove;
4. Massima del MODO: riguarda il modo di dire le cose. Si deve essere chiari. Evita l’ambiguità e l’oscurità.
Richiede di essere breve e ordinati nell’esposizione.
Le massime sono regole che solitamente caratterizzano la conversazione, non sono norme da seguire.
Se il locutore infrange una o più massime volontariamente e lo fa capire al suo interlocutore, allora vuole
comunicargli qualche informazione in più. Tali informazioni supplementari sono le implicature
conversazionali. In questo senso le massime permettono di capire gli impliciti del discorso, perché
stabilendo una regolarità ideale all’interno di una conversazione, la loro infrazione produce effetti di tipo
retorico come nel caso delle metafore, iperbole, ironia che sfruttano la massima della Qualità.
Queste massime valgono sia per la comunicazione verbale che non verbale; inoltre, è difficile stabilire i limiti
delle massime.
COMUNICAZIONE NON VERBALE
Con l’espressione “comunicazione non verbale” s’intende un ampio e diversificato insieme di pratiche che
NON si avvalgono dell’uso della parola, ma che mirano a trasmettere, condividere e costruire significati che
si realizzano a prescindere dall’uso delle parole. Tuttavia, questi sistemi non verbali non sono indipendenti
dal parlato, anzi spesso lo accompagnano specificando o rafforzandolo, difficilmente sono autonomi,
sebbene ci siano delle eccezioni: la PROSSEMICA e la CINESICA.
La differenza principale che intercorre tra comunicazione verbale e non verbale è che la prima è più
flessibile grazie alla doppia articolazione e all’arbitrarietà, di cui la non verbale è sprovvista, ma al loro
posto troviamo invece la motivazione e l’iconicità.
• Segnali immediatamente percepibili aspetto esteriore, segnali statici non mutabili nel corso
dell’interazione comunicativa, ma modificabili a lungo termine:
➢ Conformità fisica: forme corporee e lineamenti del viso. Forniscono informazioni
sull’età, genere, gruppo etnico, stato di salute. Sono difficilmente controllabili e
modificabili (ripresa del tema a pag. 29 ↓);
• PROSSEMICA disciplina che riguarda l’organizzazione dello spazio tra gli attori di una
conversazione, in base al loro rapporto e ruolo sociale.
Hall aveva osservato che il confine dell’individuo non coincide con quello del suo corpo, ma attorno
a lui si crea una sorta di bolla invisibile che gli permette di mantenere una certa distanza con il suo
interlocutore a seconda del tipo di rapporto che hanno. Hall individua 4 tipi di distanza
interpersonale:
➢ Distanza intima (0-45 cm): tra partner, è possibile sentire l’odore e il calore:
➢ Distanza personale (45-120 cm): tipica delle relazioni amicali;
➢ Distanza sociale (120-360 cm): nelle relazioni formali dove non c’è contatto fisico;
➢ Distanza pubblica (oltre 360 cm): tipo tra insegnante e alunni dove c’è solo il canale visivo e
uditivo.
Talvolta la distanza dipende anche dal contesto: per esempio nel caso di due sconosciuti che in ascensore
devono stare vicini perché lo spazio impedisce di avere la giusta distanza: si parla di distanza simbolica.
Distinguiamo anche la nozione di territorio domestico e territorio pubblico. Nel primo ci sentiamo a nostro
agio e abbiamo la sensazione di libertà, nel secondo non possiamo rivendicare il possesso territoriale.
• APTICA il sistema aptico riguarda il contatto corporeo tra gli individui. Da una parte può
esprimere l’esigenza di affetto, dall’altra una violazione dello spazio personale.
Nel periodo neonatale è la forma di comunicazione più importante, mentre crescendo si perde
l’esigenza di contatti corporei interpersonali.
Distinguiamo poi i:
➢ Contatti reciproci: tipici delle relazioni amorose oppure delle relazioni amicali, come
stringersi la mano;
➢ Contatti individuali: quando si ha un rapporto di gerarchia tra i due individui, un rapporto
asimmetrico.
Esistono poi zone del corpo accessibili a tutti come braccia, spalle e schiena, e zone accessibili solo tra chi ha
una relazione intima con l’individuo. Queste zone variano da cultura a cultura perciò distinguiamo le culture
del contatto dalle culture del non contatto.
• CINESICA analisi dei movimenti del corpo (braccia, gambe, busto). Spesso gli interlocutori in
un’interazione tendono ad imitarsi a vicenda nel comportamento gestuale e posturale; questa si
chiama sincronia interattiva ed è un comportamento tipico dell’interazione umana.
I gesti sono movimenti collocati in una sorta di semiosfera di fronte al parlante che segue precise
coordinate. Essi sono gli elementi della comunicazione non verbale più legati alla dimensione del discorso
verbale, infatti spesso accompagnano il parlato. Sono però fortemente legati alla dimensione culturale
perciò variano.
Esistono 3 distinzioni per capire come il senso viene abbinato ad un gesto.
1. Tipo di informazione: può essere idiosincratica quando l’associazione tra gesto e significato può
essere colta solo da una persona che ti conosce, oppure condivisa quando l’interpretazione del
gesto è comune.
2. Tipi di comportamento non verbale: gesti informativi prodotti senza l’intenzione di trasmettere
un messaggio e quindi possono essere facilmente fraintesi; gesti comunicativi prodotti con
l’intenzione di trasmettere qualcosa; gesti interattivi quando si influenza il comportamento di
qualcun altro (pianto, riso, ecc);
3. Tipi di codifica: gesti codificati arbitrariamente che non somigliano assolutamente al referente
del gesto (salutare con la mano); gesti codificati iconicamente con qualche somiglianza a ciò
che rimandano (gesto di mangiare); gesti codificati intrinsecamente quando sono una parte del
referente stesso (pugno).
3. FILONE SOCIOLOGICO
• GOFFMAN: elabora un approccio teatrale (teoria teatrale) che indica i certi tipi di
abbigliamento/accessori come uno strumento di autorappresentazione per comunicare una certa
immagine di sé.
• BATESON: studi sulle espressioni facciali e gestuali nella schizofrenia.
• EMOZIONI PRIMARIE: felicità, sorpresa, timore, tristezza, rabbia, disgusto, interesse. Esse sono
facilmente riconosciute in base all’osservazione dei movimenti facciali e possono essere riscontrate
in tutti i membri anche appartenenti a culture differenti. Ciò che varia sono sia gli stimoli, che
possono produrre tale emozione, sia le regole socioculturali di dimostrazione di quella emozione.
Queste regole socioculturali possono essere apprese fin dall’infanzia e seguono quattro
atteggiamenti differenti:
➢ Deintensificare la dimostrazione visibile di una determinata emozione;
➢ Intensificare al massimo la dimostrazione di emozione;
➢ Non dimostrare l’emozione;
➢ Dissimulare l’emozione mostrando l’emozione opposta.
Una delle espressioni più rilevanti è il sorriso: esso permette di sostenere la vicinanza con gli altri soggetti, è
usato in situazioni di simpatia ed empatia; inoltre, è un regolatore di rapporti sociali in relazione allo status,
al genere, alla propria gestione dell’immagine, ecc. Molti dimostratori di emozioni NON sono comunicativi,
in quanto non sono prodotti con l’intenzione di trasmettere un messaggio, altri invece possono essere
anche dimostratori corporei (Es: ritirarsi come reazione a uno spavento).
• LO SGUARDO: CLEM (conjugate lateral eye movement): consiste nell’uso involontario degli occhi
durante una conversazione e segnala un’elaborazione delle informazioni, riflessioni e pensieri.
Questi CLEM possono essere usati come indizi significativi per l’analisi. Lo sguardo è capace di
produrre una grande quantità di segnali; tuttavia, bisogna distinguere tra lo sguardo propriamente
detto (quando A guarda B) e il contatto visivo (sguardo reciproco: A guarda B e viceversa).
Lo sguardo possiede tre funzioni:
➢ Funzione di CAPTAZIONE: l’occhio coglie informazioni dall’ambiente.
➢ Funzione ESPRESSIVA: è ottenuta attraverso la variazione e la frequenza degli sguardi,
trasmette indizi relativi alle emozioni. Lo sguardo oltre una certa durata (2/3 secondi) può
generare imbarazzo nella persona oggetto di fissazione oculare, percepibile anche come
segnale minaccioso.
➢ FUNZIONE VETTRICE: trasmette la sensazione del colloquio a due e fa in modo di attivare
tale interazione comunicativa, inoltre elimina le distrazioni visive.
Lo sguardo è importante per diverse dinamiche, tra cui la percezione di sé e degli altri, la richiesta di
consenso, il potere, l’intensità delle emozioni (sguardi frequenti=emozioni positive, sguardi
evitanti=emozioni negative) e la regolazione dei turni durante il corso della conversazione.
Attraverso il contatto visivo si può esprimere sicurezza, si trasmette interesse all’interlocutore, si controlla il
nervosismo e si acquisisce padronanza dell’uditorio.
Si segnalano anche delle culture della distanza, come quella anglosassone, quella nordica, quelle asiatiche e
indiane in cui ogni riduzione della distanza viene percepita come un’invasione di campo, poi ci sono anche
culture della vicinanza, come quelle mediterranee, quella araba e quella sudamericana in cui la distanza
interpersonale è ridotta.
I gesti sono quelli più legati alla sfera verbale e non sono universali come si è comunemente portati a
credere, sottolineano gli elementi del parlato.
• Ekman, psicologo statunitense, e Friesen classificano le manifestazioni gestuali in base a tre punti di
vista (teoria più accreditata):
1. L’uso;
2. L’origine;
3. La codificazione.
La seconda distinzione riguarda il tipo di comportamento non verbale rispetto a due parametri della
intenzionalità e/o produzione di conseguenze interattive. Vengono così distinti i comportamenti non
verbali:
• INFORMATIVI: pur non nascendo come gesti volontari informano il destinatario su qualcosa, il
ricevente fa un’inferenza per comprendere il significato di un certo atto. Possono portare anche a
un fraintendimento. Per Ekman e Friesen i gesti informativi escludono quelli idiosincratici, perché il
tipo d’informazione inferita da un ricevente all’emittente deve essere tale che chiunque appartenga
a quella determinata cultura deve essere in grado di fare la stessa inferenza.
• COMUNICATIVI: tutti quegli atti compiuti con l’intenzione cosciente di trasmettere un certo
significato; l’informazione che il mittente vuole trasmettere è la stessa che il destinatario
effettivamente riceve. Non sono necessariamente dei buoni trasmettitori d’informazione.
• INTERATTIVI: sono quegli atti con i quali, durante un’interazione, una persona modifica o influenza
il comportamento di uno o più persone (Es: il pianto, il diniego scuotendo la testa, ecc).
Successivamente Paul Ekman e Wallace Friesen individuano 5 categorie del comportamento gestuale, di cui
4 sono categorie propriamente gestuali, la quinta è relativa alle espressioni facciali definiti “dimostratori di
emozioni”:
• GLI EMBLEMI (GESTI SIMBOLICI): sono quegli atti non verbali che hanno una traduzione verbale
immediata; potrebbero essere sostituiti da una o più parole in una frase, senza alterare senso
dell’informazione trasmessa. (Es: passarsi la mano sotto la gola).
Sono i comportamenti non verbali più comprensibili, più codificati, meno personali e più standard.
Dipendono dalla cultura di riferimento, nell’ambito della quale si apprendono e sono prodotti da
uno sforzo intenzionato a comunicare. Hanno origine dall’apprendimento e possono essere
arbitrari, iconici o interattivi;
• ILLUSTRATORI: movimenti che sono direttamente collegati al discorso e servono ad illustrare ciò che
viene detto verbalmente. Si apprendono culturalmente attraverso l’imitazione. Essi possono essere
suddivisi in sei categorie:
1) Bacchette: movimenti che danno il tempo, accentuano o enfatizzano una particolare parola
o frase, “battono il tempo del moto del pensiero”;
2) Ideografi: movimenti che delineano una direzione del pensiero, tracciando l’itinerario di un
processo logico.
3) Deittici: che indicano un oggetto presente. Utilizzati in concomitanza o in sostituzione di
pronomi personali e dimostrativi.
4) Movimenti spaziali: descrivono una relazione spaziale. (Es: mettere le mani vicine per
esprimere intimità).
5) Cinetografi: che delineano un’azione del corpo. (Es: mano sotto la gola)
6) Pittografici: che tracciano un disegno del loro referente.
IL SILENZIO
Il silenzio è un elemento strategico del linguaggio e il suo significato varia da caso a caso. È regolato da una
serie di regole sociali che si imparano da piccoli insieme al linguaggio verbale e non verbale. Spesso viene
associato a una relazione comunicativa asimmetrica. Presenta delle variazioni culturali (culture occidentali)
basate sui turni di parole/culture orientali in cui il silenzio tra un turno e l’altro è significativo di riflessività e
ponderatezza.
COMUNICAZIONE E TECNOLOGIE
Gran parte delle nostre interazioni comunicative, oggi sono caratterizzate dalla mediazione di vari tipi di
tecnologie. Ci sono le tecnologie più tradizionali chiamate new media (fax, telefono) e le tecnologie
informatiche che fanno ricorso a internet (posta elettroniche, i social network, i blog). La presenza di queste
tecnologie modifica il nostro rapporto con l’ambiente e con coloro con cui intratteniamo relazioni
interpersonali.
La prima tecnologia che l’uomo ha inventato è stata la SCRITTURA, che consente di separare il momento
dell’elaborazione e trasmissione del messaggio da quello della ricezione, introducendo così una distanza
tra il parlante e l’ascoltatore. Le comunicazioni mediate tecnologicamente possono essere considerate delle
“protesi” che fanno un’opera di “sostituzione” della comunicazione tra due persone situate in uno stesso
spazio.
Lo sviluppo delle tecnologie ha voluto rendere sempre più perfetto il supporto di REGISTRAZIONE (Es:
stampa) e ha voluto recuperare una sorta di unità di tempo in spazi diversi e lontani, creando il TEMPO
REALE (= tempo quasi istantaneo il cui limite è fissato in due secondi e cui rappresenta la soglia massima di
attesa di una risposta. Tempo oltre il quale l’utente non percepisce più come interattiva la comunicazione),
vuole, cioè, SIMULARE IL DIALOGO UMANO.
DIFFERENZE TRA COMUNICAZIONE FACCIA A FACCIA E COMUNICAZIONE MEDIATA DA
COMPUTER
La comunicazione tecnologica tenta di riprodurre la forma più antica di comunicazione, “di Adamo e Eva”
perché ritenuta più efficace. Il modello di comunicazione faccia a faccia presenta tre tratti fondamentali:
Spesso nella comunicazione tecnologica manca l’”accessibilità fenomenologica”, cioè la serie di segni più
propriamente visivi come quelli gestuali e mimici, movimenti, cura e trattamento del corpo, vestiti. Mentre
ciò NON avviene nella comunicazione faccia a faccia in quanto essa avviene nello stesso tempo e luogo
degli interlocutori.
INTERNET
La prima forma di internet è costituita da ARPAnet nata negli ’60 per motivi militari. Esso si è evoluto fin a
tal punto da permette una GLOBALIZZAZIONE della comunicazione, una sorta di “piazza universale” in cui
tutti possono incontrarsi.
La sua struttura è basata sull’IPERTESTO, ossia un insieme infinito di pagine collegate tra loro attraverso
dei link (link=nodi), questi ultimi permettono al fruitore di seguire dei percorsi di lettura, creati in maniera
autonoma dall’utente.
Questa struttura possiede due caratteristiche innovative sul piano comunicativo:
Landow sottolinea il fatto che la tecnologia ipertestuale è capace di generare una sorta di mondo nuovo e
parallelo (struttura ipermediale).
• INTERAZIONE ASINCRONA in cui l’azione del ricevente è normalmente sfasata rispetto a quella
dell’emittente. Ridurre il tempo tra il momento della spedizione del messaggio e la sua ricezione.
Es: POSTA ELETTRONICA: produce testi che appartengono alla linea di principio del genere della
“lettera”, ma c’è una diversa scansione temporale tra il momento della spedizione e quello della
ricezione. Inoltre, le determinazioni temporali sono percepite come pratiche contemporanee
(l’adesso dell’emittente molto vicino all’adesso del destinatario): questo fattore rende i testi dell’e-
mail molto vicini alla comunicazione faccia a faccia. Le differenze tra posta elettronica e
comunicazione faccia a faccia sono due:
➢ La non compresenza fisica dei partecipanti all’interazione. Ciò porta all’assenza degli
elementi metacomunicativi (sentimenti) ma anche all’incomprensibilità.
➢ La reciproca non accessibilità fenomenologica. Ciò rende più liberi i turni della
conversazione.
LINGUAGGIO DIGITALE
Con l’avvento e la diffusione di massa di dispositivi elettronici, questi device fanno ormai parte in maniera
essenziale e necessaria della nostra vita quotidiana sotto, possiamo dire, tutti gli aspetti: dallo studio, al
lavoro, dalla vita privata al divertimento, ecc.
Per questo, a pari passo con la loro diffusione, si è sviluppato un linguaggio tecnologico, un vero e proprio
lessico che prevede un dizionario e delle norme non scritte che regolano la nostra vita sul web e la
convivenza con gli altri utenti. Per questo motivo, dovremo parlare di:
• GERGHI DI RETE costituiscono forme di linguaggi settoriali, impiegati soprattutto nelle chat
line, essi sono usati da gruppi di persone tra i 15 e i 30 anni. È formato da parole ed espressioni
grafiche come le emoticon, le quali permettono di rappresentare le espressioni mimiche nella
comunicazione scritta. Esso si bassa sulla lingua inglese, quindi è internazionale;
• NICKNAME soprannomi con cui gli utenti si presentano nel canale. In questo modo il soggetto
si crea un’identità personale virtuale conferendosi le caratteristiche con le quali vuole apparire agli
occhi degli atri, che non sempre corrispondono a quelle del mondo reale. Ognuno propone di sé
l’immagine che desidera. Esso costituisce spesso il pretesto per avviare una conversazione.
Importante è essere coerenti con la storia del personaggio che si propone.
• NETIQUETTE l’espressione significa “galateo di rete” e indica una serie di principi di buon
comportamento. Esso è talmente naturale da dare l’impressione che sia sempre esistito. In questo
galateo esistono regole che mirano a inibire quei comportamenti che potrebbero produrre un
sovraccarico sulla rete. (Es: non inviare file grossi in orari di punta per non intasare il “canale”).
Questi suggerimenti mirano a evitare il rumore, ovvero il disturbo del canale di comunicazione. Ci
sono norme che riguardano una logica della conversazione alla Grice secondo i quattro principi
della quantità, della qualità, della relazione e del modo (vedere pag. 22 ↑).
2. L’utente può determinare la parte dei propri collegamenti all’interno del cyberspazio stimolando la
nascita di un proprio network.
• WIKI WEB: “wiki” (dall’hawaiano=veloce), indica quei particolari siti dotati della possibilità di
mettere in grado il fruitore di intervenire velocemente modificando i contenuti predisposti dal
creatore della pagina. Sono spazi per la costruzione sociale della conoscenza. (Es: Wikipedia)
• BLOG: le persone si presentano in rete con la propria personalità e favoriscono l’integrazione del
“gruppo”. Sono una sorta di diario personale rivolto a molti lettori che possono commentare. Usato
molto nel settore giornalistico.
• SOCIAL NETWORK: l’espressione indica quelle tecnologie e pratiche che vengono adottate dagli
utenti della rete per una comunicazione orizzontale che permetta di condividere contenuti testuali,
immagini, video e audio.
È un luogo in cui la comunicazione many to many si realizza ampiamente, trasforma le persone da
fruitori di contenuti ipermediali ad autori.
Questo nuovo spazio sociale raccoglie in sé alcune caratteristiche delle reti sociali tradizionali
assieme alle caratteristiche del web (Es: amici virtuali). Inoltre, hanno trasformato il rapporto tra
soggetto e tecnologie dato che con i social network internet è stato integrato con gli altri media.
Essi sono uno strumento di espressione per raccontare le proprie esperienze e le proprie storie.
SEMIOTICA DEL DESIGN
La semiotica contemporanea si trova sia alla base che al crocevia delle scienze e affonda le sue radici nella
capacità diagnostica dell’essere umano di cui il design è una realizzazione.
Di design in Italia si inizia a parlare sin dagli anni ’50 del secolo scorso. In particolare, nel 1954, cominciano
le pubblicazioni di “Stile e industria”, una rivista fondata da Alberto Rosselli a Milano. Nel primo numero
dell’editoriale, Rosselli esplicita la differenza tra un artefatto meramente tecnico e un artefatto progettato
secondo un’”idea di design”: i prodotti industriali non sono più vincolati esclusivamente alle leggi della
tecnica e dell’economia, ma divengono “forme”, acquistano linee e caratteristiche estetiche che prima non
possedevano. Siamo, dunque, di fronte a una cesura – logica e cronologica - tra un “prima” e un “dopo”. Se
fino a quel momento, infatti, la produzione economica era prevalentemente determinata da ragioni legate
al valore dell’uso e di scambio di un artefatto (criteri economici), ora si comincia a comprendere
l’insufficienza di tali criteri per valutarne la qualità: occorre ricercare la “qualità tecnica” ponendo
attenzione alla forma propria del design (criterio estetico).
Sempre nello stesso anno e sempre a Milano, si colloca un altro importante evento, ovvero la celebrazione
del primo Congresso Internazionale dell’Industrial Design a cui parteciparono storici dell’arte, teorici del
design e il filosofo Enzo Paci.
Paci introduce qui per la prima volta tematiche semiotiche in riferimento al design e sostenne che “si ha
design quando si ha <<produzione di senso>>. Diversamente si è di fronte e mera applicazione tecnologica.”
Il designer, perciò, assolve ad un ruolo sociale: media tra l’arte e la società, interpretando la funzione e il
“significato” del prodotto che la forma che egli crea può potenzialmente avere per gli uomini.
Si può, quindi, parlare di “funzione semiotica” e il lavoro semiotico del designer consiste nell’”inventare”,
nel senso di un’invenzione di “segni mediatori”, di nuovi “interpretanti” (vedere pag. 9 per la definizione di
“interpretante” ↑).
Ma perché il design è attività semiotica? Il professore Zingale risponde a questa domanda attraverso il
concetto peirceano di “abduzione”. L’abduzione, a differenza dell’induzione e della deduzione, è
un’inferenza che perviene sempre ad una conclusione possibile ma non certa: perviene ad un may-be, un
poter essere. Inoltre, a differenza dell’induzione, che cerca di enumerare i fatti per giungere ad una teoria,
l’abduzione cerca un’ipotesi che spieghi i fatti che sollecitino la mente: è una sorte di “scommessa” di
spiegazione dei fatti. È un ragionamento che permette di prefigurare un “assente possibile”.
Ebbene, tutti gli artefatti, prima di essere progettati, sono assenti e possibili, e se siamo in grado di pensarli
è solo per via logico-abduttiva. L’abduzione, quindi, è lo strumento della progettualità del designer e il suo è
un lavoro di interpretazione, dove questo ultimo termine viene preso con la sua accezione peirceana, ossia
essa è una traduzione, una proiezione, uno sguardo in avanti.
Conseguentemente, almeno per Zingale, la semiotica del design si occuperà del lavoro semiotico/mentale.
NATURALMENTE ARTIFICIALI
Emanuele Dell’Atti
NON FARE DEFINIZIONE DI: semiotica, capacità semiotica, metaoperatività e trascendenza.
APPROFONDIRE:
• L’emergenza del linguaggio (Cap. 1, paragrafo 1), la svolta linguistica (Cap. 1, paragrafo 2) l’umwelt
(Cap. 1, paragrafo 3), semiosi (Cap. 1, paragrafo 4), neotenia (Cap. 1, paragrafo 6)
• Lavoro linguistico (Cap. 2, paragrafo 2), alienazione linguistica e comunicazione (Cap. 2, paragrafo
4), disalienazione linguistica (Cap. 2, paragrafo 5), segni e valori (Cap. 2, paragrafo 6).
• Tutto capitolo 3
• Crescita (Cap. 4, paragrafo 1), decrescita (Cap. 4, paragrafo 2), elogio dell’infunzionale (Cap. 4,
paragrafo 3), una nuova direzione (Cap. 4, paragrafo 6)
• Progresso vs conservazione (Cap. 5, paragrafo 1), utopia (Cap. 5, paragrafo 2).
INTRODUZIONE
In questo lavoro proveremo a porre in dialogo due dimensioni della teoria dei segni: quella teoretica e
quella etico-politica.
Per Umberto Eco, la semiotica è la forma contemporanea della filosofia: in questa accezione la semiotica è
chiamata a prendere posizione rispetto al tempo presente, interessandosi di dimensioni ecologiche,
ambientali, della vita e dovrebbe farlo naturalmente. Essa dovrebbe rivelare la natura critica dell’attuale
forma antropo-sociale, non solo nella sua accezione kantiana (scientifica), ma anche in quella marxiana,
come analisi dei meccanismi socio-ideologici che innervano il modo di produzione capitalistica,
emancipandosi, così, da quell’immagine stereotipata che la dipinge come una scienza avalutativa.
Questo è un movimento circolare che attraversa questo lavoro, che parte da considerazioni generali sulla
natura linguistica dell’animale umano, si immerge nelle acque torbide del nostro tempo, ne riemerge per
guadagnare una veduta d’insieme, sistemica, che possa indicare una nuova rotta alla storia di Homo
sapiens, dal momento che si decide oggi il futuro della semiosi – cioè dei processi comunicativi e coevolutivi
del vivente – sul nostro pianeta.
Ne verrà fuori una proposta di “posizionamento” (politica) chiara, per quanto intrinsecamente problematica
e rivedibile, per un tempo – il nostro – che inibisce e arresta sul nascere qualsivoglia deviazione di pensiero
rispetto all’ideologia dominante della mercificazione globale e del profitto, in cui non sembra più avere
diritto di dimora la “battaglia delle idee” e in cui lo spazio del dibattito pubblico, più che nella salutare
dissonanza delle prospettive, si manifesta nella consonanza (parola unica che esprime un pensiero unico)
delle voci che esprimono e veicolano un pensiero unico: quello della forma di vita neoliberale e del suo
correlato operativo, cioè il sistema di produzione capitalistico.
In occasione di un’intervista rilasciata a margine del Primo Congresso dell’Associazione Internazionale di
Semiotica, tenutosi a Milano nel 1974, Roland Barthes segnalava come nella semiotica convivano due
aspetti: un aspetto “tecnico” e uno con “valenza politica”. Il primo ci permette di capire i meccanismi di
produzione del senso, il secondo è teso a smascherare le pretese di “naturalizzazione” (“green economy”,
la quale consiste nella riconversione dell’ottica capitalistica in ambito verde) operate in seno alla società
capitalista, la quale tende a presentare come obiettive realtà che invece sono costruite con particolare
intenzione ideologica. E sottolineando la necessità di lottare affinché la semiotica intesa come “riflessione
radicale” sulla società prevalga sull’aspetto e sui “rischi tecnocratici”, lo studioso francese concludeva
affermando che la scienza dei segni “non può essere concepita, non può essere praticata, non può essere
oggetto di lavoro, se non si ha nel proprio intimo una visione schiettamente utopica di quello che sarà la
società futura”.
Anche un altro “maestro dei segni”, l’italiano Ferruccio Rossi-Landi evidenziava come “una semiotica cui
manchi il sostegno di una dottrina delle ideologie rimane, malgrado il suo proporsi quale scienza generale
dei segni, una scienza specialistica e staccata dalla prassi” ed evidenziava come un’interpretazione storico-
materialistica dell’ominazione porta ad affermare la totale plasticità dell’uomo e la possibilità di una
progettazione rivoluzionaria volta alla costruzione di una società nuova, mai esistita in precedenza. Nel
tempo del conformismo valoriale, nell’eterno presente della forma di vita neoliberale, allora, seguiremo le
suggestioni di Roland Barthes e le indicazioni “eretiche” di Rossi-Landi: far coabitare e interagire l’analisi
semiotica con una prassi tesa alla trasformazione dell’esistente.
OBIETTIVI
Nel corso di questo lavoro proveremo, in primo luogo (cap. 1), a delineare i tratti specie-specifici
dell’animale umano riconducendoli alla sua natura linguistica, così come ridefinita poco sopra: uomo e
linguaggio, infatti, sono termini “coestensivi”, dal momento che “non è possibile fornire una definizione di
uno […] senza coinvolgere l’altro”. E dal momento che il linguaggio è una dimensione non statica, meta-
stabile e potenziale, Homo sapiens si rivelerà come una specie mai definita una volta per tutte, ma “un
campo di tensioni dialettiche”. In secondo luogo (cap. 2), prenderemo in carico le valenze e i risvolti
“pratico-assiologici” di quanto sostenuto in sede teorica, ritagliando e delineando un territorio di confine tra
la scienza dei segni e l’etica – la semioetica e segnalandone l’imprescindibilità in un’epoca che manifesta
sempre più i suoi tratti (auto)distruttivi: nel tempo dell’Antropocene, infatti, lo spesso strato di semiosi
umana che caratterizza la semiobiosfera ha assunto caratteri massimamente distruttivi in termini sociali e
ambientali e l’unica via d’uscita sembra passare proprio dalla capacità semiotica come facoltà progettante e
istituente un nuovo accordo inter-specifico, un “patto con la Terra”: quello che, con Michel Serres (1990),
chiameremo “contratto naturale”.
Un contratto che si fondi su un’ecologia “post-cartesiana” e “storico-materialistica” e che metta a tema una
precisa critica del modo di produzione capitalistico.
Dopo aver discusso del mito moderno della “crescita” economica, avanzeremo una proposta che si fonda su
un leitmotiv radicalmente anti-utilitarista e che si àncora, più che in modellistiche econometriche che
elencano i vantaggi e l’“utilità” di un paradigma della “decrescita”, nel concetto batailliano di dépense e –
più in generale – nella logica dell’infunzionale (cap. 4). Infine (cap. 5), sulla scorta di alcune lungimiranti
analisi rossilandiane, proveremo a capire qual è la fisionomia dell’odierna ideologia dominante e quali
possibili rotte possano condurci fuori dalla distruttività del Capitalocene.
CAPITOLO 1: L’AMBIENTE SEMIOTICO
Le capacità linguistico-simboliche del primate umano germinano da funzioni (neuronali) e strutture
(anatomiche) specifiche, si radicano, cioè, su un determinato “corpo” che dal punto di vista biologico-
evolutivo si pone in sostanziale continuità con gli altri grandi primati, ma sul piano “mentale” costituisce
una nuova linea evolutiva. Biologicamente “non siamo che una nuova specie di grandi scimmie.
Mentalmente, invece, siamo un nuovo phylum di organismi” (Deacon, 1997).
2. LA SVOLTA LINGUISTICA
La specie umana ad un determinato (benché indeterminabile) tratto del suo processo evolutivo, avrebbe
spiccato un salto verso una nuova dimensione mentale: la “dimensione simbolica”. La soglia, varcando la
quale Homo sapiens avrebbe prodotto questo salto qualitativo, pertanto, è quella del linguaggio; e la
barriera evolutiva che – sino ad oggi – non ha permesso agli animali non umani di sviluppare il linguaggio è
l’accesso al “riferimento simbolico”.
Non si sta ovviamente sostenendo che l’animale umano sia l’unico animale comunicante. La comunicazione,
infatti, come notoriamente sostiene Thomas Sebeok, è una prerogativa di tutto il vivente, essendo la
condizione necessaria per la vita sul nostro pianeta. Parlando del linguaggio come facoltà specie-specifica
dell’animale umano, non si intende, dunque, attribuire la capacità comunicativa al solo Homo sapiens. Tutti
gli esseri viventi sono “esseri comunicanti”, dai procarioti all’uomo, pena la sopravvivenza degli stessi (cfr.
Sebeok 1991, 1998). Tuttavia, nonostante le innegabili prodezze comunicative di cui sono attori – si pensi
alle numerose descrizioni della comunicazione animale a partire dal celebre studio sulla danza delle api di
Karl von Frisch fino ai più recenti studi di zoosemiotica ed etologia cognitiva - gli animali non umani usano
un sistema segnaletico (più o meno complesso) dicotomico: si attiva in presenza dell’oggetto, è inibito in
sua assenza. Nel linguaggio umano, al contrario, nella sua specificazione verbale, ogni enunciato è riducibile
a degli elementi che si combinano tra loro secondo regole definite, “cosicché – come scriveva Benveniste
(2009: 33) – un numero anche minimo di morfemi permette una considerevole quantità di combinazioni”. Il
messaggio di un’ape, inoltre, “non può essere riprodotto da un’altra che non abbia visto anch’essa le cose
annunciate dalla prima” (ibid.). Ma soprattutto, puntualizzava il linguista francese, “il messaggio delle api
non si presta all’analisi”.
Dall’“infinità discreta” (Chomsky) tipica delle lingue storico-naturali – che qui estendiamo al semiotico –
discende tuttavia la specificità dell’umano: essa, oltre che consentire all’uomo di pensare in assenza degli
oggetti, permette di assemblare combinazioni di segni (oltre al verbale, si pensi ai segni dell’arte) a cui non
corrisponde nulla di effettivamente esistente. Ciò dischiude delle potenzialità combinatorie illimitate, che si
staccano dall’aderenza alla nuda fattualità. Sorge così lo spazio del possibile, che è, in definitiva, lo spazio
proprio del linguaggio-logos. La facoltà di linguaggio, pertanto, non ci rinchiude in un ambiente
determinato e immodificabile. Al contrario, dischiude possibilità molteplici e impreviste, al punto che Homo
sapiens può essere definito come l’animale del possibile.
In questo senso, la cosiddetta “svolta linguistica” non è semplicemente un indirizzo che la filosofia ha
assunto nel corso del Novecento: l’operazione di considerare l’animalità umana come inscritta nel linguaggio
è una questione biologica. Ha a che fare, cioè, con la costituzione materiale di un animale che, essendo
l’animale del linguaggio, coincide con la “svolta linguistica”.
Il corpo è il luogo da cui sorge il linguaggio, il quale è una attività di modellazione specifica dell’Homo
Sapiens. Questa funzione linguaggio deriva dalle possibilità biologiche di alcuni vincoli strutturali, sia a
livello periferico (apparato fonatorio) che centrale (cervello).
A livello periferico, le componenti fonologiche sono il risultato, come ci ha dimostrato Darwin, di un lungo
processo evolutivo.
Esistono diverse ipotesi che cercano di spiegare che il fine dell’abbassamento della laringe in Homo Sapiens
sia stato per il vantaggio della fitness (per la sopravvivenza); solo in un secondo momento è stato adattato e
utilizzato per il linguaggio e la comunicazione (exaptation).
L’exaptation descrive un processo adattativo che si riconduce a delle possibilità strutturali previste in una
forma (esempio classico delle ali degli uccelli, sviluppatesi prima per la termoregolazione e poi expatate per
il volo).
Ma la vera e propria struttura che ci permette di parlare è il cervello, anch’esso coinvolta nella exapation
prima citata.
La tappa principale di questa grande scoperta fu l’identificazione dell’area di Broca; Paul Broca, neurologo e
neurochirurgo francese, fu il primo a individuare la corrispondenza tra un’area celebrale e la componente
articolatoria. Prima, però, l’area di Broca, permetteva all’uomo di compiere movimenti muscolatori fini.
L’area di Wernicke, invece, è deputata alla decodifica e alla comprensione del messaggio.
3. UMWELT
Ogni forma di vita ritaglia il proprio ambiente secondo le strutture percettive: per il cane, ad esempio, lo
spazio assume innanzitutto una configurazione olfattiva; i luoghi sorvolati dalla mosca risentono della
particolare morfologia di occhi composti da migliaia di elementi, ognuno dotato di cristallino proprio. Ogni
specie animale ha la propria Umwelt (mondo ambiente), nozione messa a punto dal biologo estone Jakob
von Uexküll (1864-1944) nel primo decennio del Novecento.
Ogni vivente, infatti, tesse intorno a sé una rete di relazioni con alcune delle proprietà specifiche degli
oggetti che lo circondano. Non esiste, perciò, un “unico mondo” in cui sarebbero inseriti tutti gli esseri
viventi, come siamo ingenuamente portati a credere da un punto di vista antropocentrico (in sintesi: anti-
antropocentrismo).
Qual è, dunque, alla luce di queste considerazioni, la differenza tra ambiente umano e ambienti animali? La
risposta di Uexküll si basa sulla distinzione tra “ambiente” e “dintorni” ed è in controtendenza rispetto alla
più nota posizione di Heidegger.
Partiamo dal filosofo tedesco. Heidegger, opera una distinzione qualitativa tra ambiente e mondo. La sua
proposta, perciò, è quella di differenziare i due termini che per Uexküll vanno considerati come sinonimi,
così da riservare la nozione di “mondo” (Welt) alla descrizione della sola condizione umana. L’animale –
secondo Heidegger – vive “stordito” nel suo ambiente, catturato dal ciclo funzionale tipico dell’istinto,
avente funzioni di base (fisiologiche) organizzate rigidamente.”
Secondo Heidegger, insomma, l’animale non umano, sebbene abbia un ambiente, “è povero di mondo”, così
che tra la condizione animale e quella umana non esisterebbe una mera distanza quantitativa, quanto
proprio un “abisso”.
4. SEMIOSI
L’umano, come scriveva Emilio Garrorni, “non è una semplice complicazione, risolubile in termini
quantitativi […] del comportamento animale non umano” (Garroni 2010), non è l’esito evolutivo di “sensi
più ricettivi, di interazioni più ricche con l’ambiente, di associazioni più numerose e stabili, di una maggiore e
più differenziata quantità di informazioni e di operazioni” (ibid.). Ciò potrebbe anche darsi, sebbene non “in
ogni senso”: l’uomo, infatti, “manca di sensi che hanno altri animali, oppure ha soglie percettive più
anguste, e così via” (ibid.). Ad ogni modo sarebbe insufficiente per spiegare la specificità del
comportamento umano, che è “non tanto qualcosa di ‘più’, quanto qualcosa di ‘diverso’”.
Discontinuità nella continuità, è questa l’“opposizione partecipativa” (cfr. Caputo 2006, 2010a, 2010b) che
probabilmente meglio descrive il rapporto tra le varie forme di vita. “Portiamo all’interno di noi stessi il
mondo fisico, il mondo chimico, il mondo vivente, e nello stesso tempo ne siamo separati dal nostro pensiero
[…], dalla nostra cultura” (Morin 1999), qui diciamo dal possesso della “capacità semiotica”.
5. METAOPERATIVITA’
La capacità semiotica consente all’animale umano di produrre il proprio mondo, ma anche di inventarne e
ipotizzarne degli altri; consente la creazione artistica, la riflessione filosofica, l’indagine scientifica, ma anche
la produzione di miti e utopie: consente la metalinguisticità riflessiva, che si innesta su una più generale
capacità metaoperativa. Per cogliere meglio il concetto di “metaoperatività” ci serviamo delle parole di
Emilio Garroni:
“Il vedere dell’animale umano è […] per un verso simile al modo di vedere, per esempio, dei primati non-
umani. Percepiscono entrambi oggetti naturali o artificiali, una pietra o un martello, in vista dell’uso che ne
faranno, ma per altro verso con la non improbabile e non insignificante differenza di principio che questi
oggetti sono per i primati non-umani oggetti disponibili in un ambito ristretto di operazioni. Tale limitazione
dell’uso strumentale di un oggetto deve essere compresa, ci pare, come una conseguenza della loro specifica
operatività, mancante di una interna metaoperatività. Per esempio: la loro capacità di usare un oggetto
come strumento volto a uno scopo determinato e presente, ma non anche la capacità di usare uno
strumento per produrre uno strumento in vista di scopi possibili”.
6. NEOTENIA
La neotenia, è “la persistenza di tratti giovanili anche in soggetti adulti, dovuta a un ritardamento nello
sviluppo somatico” (Gould 1977).
Il carattere “generico” e “lacunoso”, privo, quindi, di istinti specializzati, dell’animale umano, “la dynamis
che gli è consustanziale”, hanno radici nella sua congenita incompiutezza: Homo sapiens è “un parto
prematuro” (Portmann 1965) e una specie cronicamente infantile.
L’uomo, così, in quanto animale neotenico, rappresenta una forma di vita instabile, bisognosa di un
apprendimento ininterrotto teso a compensare e mitigare una sorta di “infanzia cronica”, il cui correlato è
un cronico inadattamento.
Il celebre etologo Konrad Lorenz, pur non incline in tutto e per tutto a riservare il tratto neotenico al solo
animale umano, ammette:
“Una cosa in particolare distingue il comportamento esplorativo di qualunque animale da quello dell’uomo:
esso si manifesta solo nel corso di una breve fase di sviluppo dell’animale. Tutto ciò che il corvo acquisisce
nella sua prima fase di vita tramite la sperimentazione attiva, così simile a quella umana, si fissa subito in
addestramenti sempre meno modificabili e adattabili tanto da non distinguersi quasi più da comportamenti
istintivi. […] Nell’uomo il comportamento esplorativo perdura invece fino alla vecchiaia: l’uomo è, e rimane,
un essere in divenire.”
Radicata nel tratto biologico della neotenia, quindi, l’instabilità dell’animale umano non viene mai meno nel
corso della sua esistenza, e la sua facoltà di linguaggio può essere descritta come un “afasico poter-dire”
(Virno 2003).
7. NATURA E CULTURA
L’uomo è quell’animale il cui tratto biologico distintivo è la cultura. La natura umana, infatti, si inscrive in
una dinamica coevolutiva che si gioca tra due poli: da un lato i “corpi”, dall’altro i “fatti sociali”. Corpi e fatti
sociali evolvono insieme, influenzandosi e presupponendosi gli uni con gli altri: non possiamo prescindere
dal dato biologico, ma, d’altra parte, non possiamo considerare l’animale umano da un punto di vista “a-
culturale”. La specie umana, infatti, vive in un mondo fatto naturalmente di linguaggio, quindi di istituzioni,
scienza, tecnica, artefatti, rivelandosi, in definitiva, come una specie naturalmente artificiale: è solo
attraverso l’artificio, infatti, che l’uomo dispiega la propria natura.
Le posizioni che tradizionalmente ambiscono a definire dal punto di vista biologico-evolutivo l’animale
umano sono riconducibili essenzialmente a due paradigmi: quello della “psicologia evoluzionistica” e quello
dell’“antropologia filosofica”. Il primo approccio, che si rifà agli studi del sociobiologo statunitense Edward
Wilson, sostiene che ogni specie, compresa quella umana, non può prefissarsi uno scopo che vada “al di là
degli imperativi creati dalla sua storia genetica” (Wilson 1978). Il secondo paradigma, invece, è quello
sostenuto dal filosofo e antropologo tedesco Arnold Gehlen, il quale descrive l’animale umano come una
specie priva di una natura specifica, svincolato, quindi, da ogni determinismo genetico. Nell’impostazione
“fissista” di Wilson, la storia evolutiva di una specie vincola e indirizza le linee di sviluppo future di quella
specie stessa, al punto che la cultura sarebbe “tenuta al laccio” dai geni. Per Wilson, infatti, la mente umana
è l’esito di adattamenti ad ambienti passati, così che risulta già fissata nel passato evolutivo della nostra
specie.
Per il paradigma della psicologia evolutiva, dunque, la mente dell’animale umano è adattata ad affrontare
un mondo che non c’è più. Il mondo attuale, quindi, non sarebbe il mondo di Homo sapiens e “la vita
naturale [sarebbe] alle nostre spalle” (Cimatti 2011).
Al contrario, sostiene Gehlen, l’uomo non possiede una natura biologica determinata. È “privo di istinti” ed
è caratterizzato, fondamentalmente, da una serie di “carenze” (Gehlen 1940). L’animale umano, dunque,
sarebbe un essere irrimediabilmente “inadeguato”, contraddistinto da una “sprovvedutezza biologica”
unica. Ma proprio per tale ragione, non essendo fornito, cioè, di un ambiente predefinito, l’animale umano
è costretto a costruirsene uno attraverso il lavoro. Se osserviamo il mondo umano reale e non quello
“mitico”, infatti, non troveremo mai un essere umano “nudo” nel senso radicale del termine: anche l’umano
più primitivo, infatti, “ha sempre con sé almeno un’arma […], un contenitore per l’acqua, una sporta per il
cibo e così via”.
Di fronte a queste due prospettive antitetiche, quella per cui propendiamo non è riducibile né all’una né
all’altra: la dotazione biologica umana, infatti, non è limitata dagli istinti (come sostiene Wilson), ma d’altra
parte non è vero che l’animale umano sia privo di una dotazione biologica (come vuole Gehlen). Questa
dotazione, infatti, esiste e coincide con la facoltà di linguaggio (qui ridefinita come “capacità semiotica”),
che è una facoltà naturale (derivata da determinati cablaggi neuronali e da una certa conformazione
anatomica), ma allo stesso tempo è una facoltà produttrice di una sorta di “natura seconda”, identificabile
con i prodotti del mondo culturale, cioè con i fatti sociali e gli artefatti tecnici. Una dimensione
naturalmente artificiale.
CAPITOLO: 2 SEMIO(E)TICA
1. UN MONDO CAPOVOLTO
Nell’animale umano, corpi e fatti sociali, natura e artificio, evolvono insieme, influenzandosi e
presupponendosi l’un l’altro. Ma cosa succede nella fase odierna del capitalismo avanzato? La merce e il
denaro, da “fatti sociali” quali sono (in quanto prodotto del lavoro), diventano “entità astratte”,
indisponibili al controllo umano, distorcendo, di fatto, la dinamica coevolutiva secondo cui l’umano si
adatta ai fatti sociali e viceversa.
Ma c’è di più. Come già insegnava Karl Marx, in questo “mondo alla rovescia”, i fatti sociali, trasformati in
cose, dettano agli esseri umani come vivere. Accade, infatti, che il nostro tempo rimuova il carattere
“sociale” e “attribuito” della merce e del denaro, che si presentano, al contrario, come fenomeni “naturali”
e “immediati”. Nel tempo del capitalismo avanzato, dunque, i fatti sociali diventano “cose”, inattaccabili e
immodificabili: enti che si tirano fuori dalla relazione coevolutiva.
Siamo davanti a ciò che Marx, come è noto, chiamava “feticismo delle merci”. Per capire di cosa si tratta –
scriveva il filosofo tedesco – “dobbiamo immetterci nelle nebulose regioni del mondo religioso”, dove “i
prodotti della testa umana sembrano essere dotati di una vita propria” (Marx 1867). Come nella religione i
prodotti del pensiero umano prendono vita propria e vengono venerati come entità superiori, così accade
nel mondo delle merci, dove i prodotti umani si trasfigurano in entità indipendenti e del tutto autonome,
alle quali gli individui si subordinano. Detto altrimenti, i fatti sociali, trasformati in cose, dettano agli esseri
umani come vivere.
Ogni merce incorpora lavoro umano, più o meno faticoso, più o meno sfruttato, più o meno retribuito: la
merce allora non è una cosa, come un qualunque oggetto naturale, un sasso o un filo d’erba, che c’è perché
c’è, perché l’ambiente terrestre è fatto così. La merce non è una cosa in questo senso. Eppure la merce si
presenta al consumatore esattamente così, come un’entità naturale, come un’entità che c’è sempre stata,
che appare di per sé (Cimatti 2011).
Dicendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali, gli economisti fanno
intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive
conformemente alle leggi di natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti
dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società” (Marx 1947).
Il mondo del capitale, dunque, si mostra come un mondo “capovolto”, in cui “le cose fanno la parte degli
uomini, e gli uomini quella delle cose” (Weil 1951) e in cui la dimensione economica si rende indisponibile
alla valutazione umana. Ma se Homo sapiens è un animale potenziale, progettante e creativo, quello attuale
allora non è esattamente un mondo che ne esalta le potenzialità biologiche ma, al contrario, ne disinnesca
le dimensioni più caratterizzanti. Quanto detto, tuttavia, non vuole portarci verso la conclusione fuorviante
di giudicare il modo di produzione capitalistico come “innaturale”: se c’è, come ogni artefatto umano, è
naturale che ci sia. Come abbiamo più volte affermato, infatti, Homo sapiens è una specie “naturalmente
artificiale”, quindi ogni suo “artefatto” è l’esito della sua stessa biologia. Ciò, tuttavia, non consente di
giustificarne la sua distruttività, anzi impone di tematizzarla, onde frenare la sua dinamica annientatrice e
rovesciarla. La natura, per Homo sapiens, è sempre una natura “manipolata”, perciò antropizzata, e non si
danno innovazioni tecniche “più naturali” di altre: la domesticazione del fuoco o l’invenzione della ruota
non sono “più naturali” delle applicazioni dell’energia nucleare. Tutte, infatti, soggiacciono alla stessa bio-
logica, quella di un animale che – da sempre – si colloca in una dimensione naturalmente artificiale: la bio-
logica (la logica della vita dell’animale umano) dell’animale umano, in quanto semio-logica (capacità del
linguaggio), è una tecno-logica.
Il modo di produzione capitalistico, sebbene esito della (naturale) progettazione genera una forma sociale
che, attraverso pratiche di sfruttamento e logiche di dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura,
inibisce e disattiva le potenzialità generative – come la cooperazione, l’eguaglianza, la pace – dell’animale
umano. Fino a tendere, perversamente, all’annientamento della vita stessa.
2. IL LAVORO LINGUISTICO
Il linguaggio, inteso come congegno di modellazione specie-specifico dell’animale umano, non è in grado di
produrre un unico mondo: grazie ad esso, infatti, l’animale umano ha la possibilità di produrre più mondi.
Ma l’odierna forma sociale sfrutta il lavoro linguistico (Rossi-Landi 1968) per riprodurre e accrescere sé
stessa, asservendolo al modo di produzione capitalistico e deprivandolo, così, delle sue potenzialità creative
ed emancipative: “ingaggiare il lavoro linguistico per la riproduzione di questo stesso sistema di produzione
[…] significa operare con lo strumento meno disponibile alla ripetizione, alla conservazione dell’essere delle
cose così come sono” (Ponzio, Petrilli 2000).
Il modo di produzione capitalistico, oggi, sfrutta l’intelligenza umana. Quando incentiva gli “investimenti
immateriali”, quando valorizza le “risorse umane”, quando esalta il “capitale umano”, l’attuale forma sociale,
infatti, si riferisce esattamente all’impiego del lavoro linguistico ai fini della competitività e degli incrementi
di profitto aziendali (Ponzio 2008). Il capitale, in definitiva, “estrae valore” dal lavoro linguistico,
espropriando e trasformando in merce la disponibilità biologica più propria dell’umano.
La formazione, nell’attuale fase della forma sociale capitalistica, diventa allora un fattore cruciale dello
sviluppo produttivo. L’intelligenza umana diventa una risorsa determinante non solo nell’ambito della
ricerca scientifica funzionale allo sviluppo tecnologico, ma anche per il funzionamento stesso delle
macchine che vengono prodotte: oggi più che mai è necessaria una quota sempre maggiore di lavoro
linguistico non solo nella produzione di macchine ma anche nel loro uso. L’automazione e le “macchine
intelligenti”, infatti, sollecitano e sfidano continuamente l’intelligenza umana in prestazioni che, a differenza
di quanto accadeva in una fase precedente del capitalismo, non sono sempre ripetitive, ma “richiedono
rielaborazione, reimpostazione e rinnovamento delle proprie competenze intellettuali”.
Da qui discendono tutti i programmi di formazione funzionali allo sviluppo tecnologico. Da qui discende una
nuova destinazione per la scuola: formare lavoratori “competenti” – non più cittadini pensanti – che siano
tecnicamente abili in ambiti settoriali. La scuola, infatti, nell’attuale forma antropo-sociale, deve farsi luogo,
non di acquisizione e rielaborazione critica dei saperi, ma di “addestramento” alla risoluzione “flessibile”
dei problemi: solo così si possono produrre lavoratori capaci di adattamento alle esigenze sempre cangianti
del mercato del lavoro, portatori di “skills” trasversali, abili nel “problem solving” e in grado di
implementare un’attitudine a lavorare in “team” in modo efficiente. Nella visione che piega la scuola alla
forma mentis produttivistica, da cui mutua goffamente metodo e lessico, lo studente, più che un cittadino
pensante, deve diventare un cittadino “competente” (cioè: pronto a competere) e l’attitudine critico-
problematizzante deve cedere il posto alle abilità pragmatiche, frammentarie e funzionali alla catena di
montaggio sociale (Dell’Atti 2021). Funzionalizzare il lavoro linguistico con l’unico fine della competitività. Il
sapere, insomma, non deve tendere più al concetto, “alla felicità della conoscenza”, ma “allo sfruttamento
del lavoro altrui, al capitale” (Horkheimer, Adorno 1944). Un sapere “funzionale”.
Il progresso tecnologico, cioè, potrebbe creare le condizioni per il “salto” ad un’epoca nuova, una società
libera dall’obbligo del lavoro che possa generare nuove forme di realizzazione per l’uomo. Tuttavia, tutto
dipende da chi possiede la proprietà dei mezzi e il controllo della produzione: se il progresso tecnologico
viene orientato al profitto dalle classi dominanti, perciò, l’utopia, pur se tecnicamente possibile, resta
inafferrabile.
6. SEGNI E VALORI
Proseguendo sulla strada sin qui tracciata, scopriamo come la semiotica, oltre ad occuparsi della “vita dei
segni”, cioè delle condizioni di possibilità del significare, assume su di sé il compito di interessarsi anche dei
“segni della vita”, cioè degli intrichi segnici costitutivi dell’umano e, più in generale, del vivente nella sua
globalità. La semiotica, così, manifesta la sua natura etica divenendo semioetica (Ponzio, Petrilli 2003),
mettendo in risalto le sue antiche radici semeiotiche, cioè legate a quella pratica medica che si pone in
ascolto dei sintomi e scruta i segni delle patologie. Allo stesso modo della semeiotica medica, la semiotica,
infatti, ha il compito di analizzare i segni e i sintomi delle disfunzioni della semiobiosfera: è oggi, infatti,
nell’era del Capitalocene, che si decide “del perdurare, sul pianeta terra, della semiosi”, cioè della vita, di cui
l’uomo “in quanto animale semiotico […] è l’unico animale responsabile” (Caputo, Ponzio, Petrilli).
Orientando lo studio dei segni in chiave semioetica, la semiotica si pone in maniera critica di fronte alla
avalutatività delle scienze, risultando, così, una scienza “critica” in un doppio senso: kantiano, come ricerca
delle sue condizioni di possibilità e indagine sui suoi limiti, e marxiano, orientata cioè a decostruire i
processi di produzione di senso “attraverso l’evidenziazione di segni e di rapporti di comunicazione dove
sembra non ci siano che ‘fatti’, ‘cose’ e ‘rapporti fra cose’, come fa Marx nella critica della merce” (Ponzio,
Petrilli 2008).
Comprendere l’attuale fase della comunicazione-produzione globalizzata significa rendersi conto dei rischi
effettivi che questa comporta, non ultimo quello della fine stessa della comunicazione, cioè della semiosi,
cioè della vita sul nostro pianeta, “in considerazione dell’enorme potenziale distruttivo di cui dispone
l’attuale forma sociale di produzione”: armi totali, sostanze inquinanti e letali, guerre preventive, intelligenti
ma permanenti, che continuano a mettere in serio pericolo l’intera semiobiosfera.
Stiamo, per la prima volta, incidendo sul tempo grande della geologia, così che mai un presente è stato
tanto carico di responsabilità nei confronti della semiosi nella sua globalità: È il nostro presente il “futuro
anteriore della semiotica” perché riteniamo che si decide oggi il futuro della semiotica, non solo come
scienza, ma anche come capacità umana specie-specifica di usare i segni per riflettere sui segni e
comportarsi di conseguenza. Il problema non è di ordine semplicemente teorico poiché si tratta della
semiotica anche come semeiotica, come sintomatologia ai fini di ascoltare e prendersi cura. Perché è oggi
[…] che si decide della vita dei segni e dei segni della vita, del perdurare, sul pianeta terra, della semiosi
(Caputo, Ponzio, Petrilli 2006).
Della semiosi, della vita, in quanto animale semiotico, l’essere umano è l’unico animale responsabile. E “più
di ogni altro essere umano lo è chi per professione si occupa dello studio dei segni, il semiotico”, che assume
su di sé il compito di “promuovere lo sviluppo della consapevolezza riguardo al lavoro linguistico e a quello
non linguistico attraverso la conoscenza e il controllo dei programmi, delle programmazioni e delle
progettazioni dell’erogazione dell’uno e dell’altro tipo di lavoro” (Ponzio 2008). Contribuendo, in questo
modo, al necessario processo di disalienazione linguistica.
CAPITOLO 3 – CAPITALOCENE
Lo spesso strato di semiosi umana che oggi caratterizza la semiobiosfera fa di quella che Paul Crutzen
denominò “Antropocene” un’era potenzialmente catastrofica. A differenza di tutte le epoche geologiche
precedenti, infatti, l’Antropocene è caratterizzato dal forte impatto dell’uomo sull’ambiente: “siamo capaci
di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme.”
1. IL CONTRATTO NATURALE
È tempo allora di istituire un nuovo “contratto”, che travalichi il perimetro hobbesiano del patto tra uomini e
che funga, invece, da accordo inter-specifico. Un “patto con la Terra” che il filosofo francese Hobbes
chiama “contratto naturale”. Occorre infatti “porre le cose al centro e noi alla periferia di esse, o meglio
ancora le cose dappertutto e noi dentro di esse”, poiché a forza di dominare la Natura, oggi la Natura
minaccia di dominarci: “Qui si biforca la storia”, scrive Serres: o la morte o la simbiosi (Serres 1990).
D’altra parte, la Terra esiste da un tempo incommensurabilmente più vasto del breve intervallo della
presenza di Homo sapiens e “potrebbe oggi esistere senza di noi, […] facendo a meno di ogni nostro
possibile discendente, mentre noi non possiamo esistere senza di essa”. È fondamentale, allora, per
un’etica del futuro che non resti vano moralismo, che si abbandoni ogni antropocentrismo e ci si ri-conosca
nella nostra natura di esseri viventi inseriti in sistemi più complessi, dalla sopravvivenza dei quali dipende la
nostra stessa sopravvivenza. Per farlo, continua Serres, occorre “aggiungere al contratto esclusivamente
sociale la stipulazione di un contratto naturale di simbiosi e reciprocità”, in cui il nostro rapporto con le cose
non è più di dominio. Il contratto naturale – che deve essere scritto dal punto di vista del mondo e non più
dell’uomo – è un “contratto di simbiosi”: il simbionte, infatti, “ammette il diritto dell’ospite, mentre il
parassita – nostro status attuale – condanna a morte colui che saccheggia e abita senza rendersi conto che a
termine condanna se stesso a scomparire”.
Il diritto di dominio e di proprietà si riducono al parassitismo, in cui si prende tutto e non si dà nulla; il
diritto di simbiosi si definisce invece per reciprocità: “tanto la natura dà all’uomo, tanto il secondo deve
rendere alla prima, divenuta soggetto di diritto”. La natura, infatti, è un insieme di forze, legami e
interazioni in cui ciascuna delle parti in simbiosi deve la vita all’altra, pena la morte: una piena convergenza
con il paradigma biosemiotico secondo cui la vita si dà solo dove c’è scambio, comunicazione, semiosi:
l’umano è solo un nodo di un’unica e gigantesca rete semiosica, di un unico corpo simbiotico.
2. ANTROPOCENE O CAPITALECENE?
Il concetto di Antropocene, pur fornendo importanti risorse esplicative circa l’impatto dell’uomo sulla
natura, ha in sé un rischio: quello di riferirsi ad un Anthropos generico e astratto, concepito come un tutto
indifferenziato, avulso dai contesti e dalle dinamiche socio-politiche. Esso, infatti, anziché chiarire, potrebbe
portarci ad un misconoscimento delle cause materiali che ci hanno condotto all’odierna situazione di
pericolo per la salute del pianeta. Il concetto di Antropocene, cioè, risulta miope – perché generico –
rispetto alla responsabilità di un preciso sistema economico, di uno specifico modo di produzione
predatorio, vale a dire il sistema capitalistico. Usato al di fuori dell’ambito geologico, pertanto, il concetto di
Antropocene ci fa addirittura correre il rischio di mistificare la realtà, individuando come causa eziologica
della patologia un generico Uomo, una generica Società. I cambiamenti climatici non sono il risultato
dell’azione umana in astratto bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale e dei
rapporti di forza tra le classi. Il cambiamento climatico, più che astrattamente antropogenico, pertanto, è
capitalogenico.
Appare chiaro, quindi, che il concetto di Antropocene “deve essere politicizzato” (Barbero, Leonardi 2017):
il disastro che ci circonda, infatti, non può essere attribuito all’umanità in quanto tale, dato che la sua
grande maggioranza non ha avuto un ruolo storico determinante nell’aumento delle emissioni di gas a
effetto serra, anzi, si tratta proprio della parte che sta pagando e continuerà a pagarne i danni: i problemi
ambientali sono tra le manifestazioni più evidenti della diseguaglianza sociale ed economica su scala
globale. Esso è la risultante di una configurazione di dominio e di potere che ha una precisa matrice storico-
culturale.
3. I LIMITI DELL’ECOLOGISMO
Il termine Antropocene, ridotto a significante vuoto, è diventato virale e “facile da usare – rileva Harawey –
per gli intellettuali delle classi e delle regioni ricche”, anche perché con esso viene depotenziata sul nascere
qualsiasi critica sistemica al capitalismo, operando uno “spostamento” in direzione di un generico uomo e
prospettando, semmai, più che rotture rivoluzionarie, blandi e spesso inefficaci (quando non interessati: si
vedano le ombre del profitto che si addensano sulla green economy) tentativi di addomesticamento del
modello di sviluppo. Chi opera questo spostamento avvilisce e stronca la nostra capacità di immaginare e
prenderci cura di altri mondi.
Bisogna allora “erompere dall’Antropocene e schizzare in un altro racconto”, ma per farlo, riteniamo, non è
sufficiente promuovere “esperienze collettive dal basso capaci di inventare nuove pratiche di
immaginazione” e prospettare forme reticolari e spontanee che prendano in carico il progetto di
trasformazione dell’esistente. Per quanto ricca, suggestiva e immaginifica, la sua proposta – a cui
rimandiamo – ci appare in ultima analisi infeconda, dal momento che non riesce ad individuare un piano di
intervento politico strutturato che, in quanto tale, non può rimanere sul piano di una mera orizzontalità
spontanea – dove peraltro, come accade sovente nelle forme orizzontali, incombe sempre l’insidia del
“principio dell’auctoritas” (Preterossi, Guzzi 2022) – ma deve prendersi l’onere di un’elaborazione che
coniughi teoria e prassi rivoluzionarie.
Il problema del cambiamento climatico, benché noto fin dal XIX secolo, è diventato un problema pubblico
solo a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, dal momento in cui, cioè, la razionalità neoliberale ha
permesso di scorgere una strategia di sviluppo vantaggiosa per il capitale coinvolto in una “crisi di
riproduzione”. Da quando le élites globali hanno intuito che la loro sopravvivenza (cioè: i loro profitti) passa
necessariamente dalla “riconversione ecologica”, infatti, sono mutate le priorità, le parole d’ordine e i temi
all’ordine del giorno: “emergenza climatica”, “sostenibilità ambientale”, “transizione ecologica”, “green
economy”. Non stupisce, allora, la mobilitazione su scala planetaria di ricercatori, dipartimenti universitari,
think-thanks, persino movimenti ecologisti, finanziati, promossi o quantomeno ben accetti al capitale. Con
l’ausilio indispensabile del potere mediatico che imbastisce le narrazioni necessarie affinché passi il
messaggio gradito alla classe dominante.
Di fronte a tutto questo, il movimento ecologista rischia di sabotare sé stesso con i numeri: la sua insistenza
nel considerare il cambiamento climatico come “sfida ingegneristica” guidata da una “scienza neutrale”,
l’ostinazione per i modelli predittivi della statistica che ci dicono cosa accadrà se adotteremo o meno tale
comportamento – come se il mondo fosse un gigantesco foglio di calcolo – lo hanno portato
completamente fuori strada. Per queste ragioni, se non vogliamo limitarci a ricercare – come non pochi
sedicenti “ambientalisti” sostengono – nuove strategie tecnico-procedurali per estrarre valore dalla natura,
pur se in modo “differenziato”, se cioè abbiamo davvero a cuore la salute del pianeta e non un indefinito
“progresso”, è indispensabile ripensare la crisi ecologica rintracciandone le cause nel modo di produzione
capitalistico.
Il concetto di Capitalocene – scrive Moore – “contesta il modello […] dell’Antropocene alla moda” (Moore
2017), riferimento del pensiero green sin dagli anni ’70 del secolo scorso. L’ecologismo alla moda, infatti,
nega “la diseguaglianza e la violenza multi-specie del capitalismo” e suggerisce che “dei problemi creati dal
capitale sono in realtà responsabili tutti gli esseri umani”, consigliando, o spesso imponendo,
comportamenti virtuosi al singolo cittadino: raccolta corretta dei rifiuti, sostituzione dei veicoli inquinanti,
risparmio energetico, buone pratiche ecologiche. Oscurando del tutto le cause reali del problema, inscritte
nei rapporti di forza tra classi e nella diseguaglianza tra esse.
Il pensiero cartesiano produceva oggetti “chiari e distinti” e al tempo stesso isolati dal loro ambiente. Con
l’età dei lumi, poi, “il pensiero si reifica in un processo automatico” (Horkheimer, Adorno 1944: 33) teso al
dominio sulla natura e il procedimento matematico assurge a rituale del pensiero. Il pensiero, a partire dalla
matrice illuministica, si trasforma in “strumento” per manipolare la natura e si accantona “l’esigenza classica
di pensare il pensiero perché essa lo distrae dall’imperativo di guidare la prassi”.
Il pensiero dialettico, al contrario, senza negare le differenze tra uomo e natura, mostra come non ci sia
l’uno senza l’altra: c’è qualcosa di un elemento dentro l’altro, visto che l’uno esiste attraverso l’altro.
Rimarcare i legami di interazione tra i due poli ci porta a individuare relazioni di ricorsività tra di essi. Si
tratta di un rapporto di “mutua generazione”, nel senso, apparentemente paradossale, che ciascun termine
è causa ed effetto dell’altro. Occorre rimettere in discussione, così, la vecchia opposizione tra “natura” e
“artificio”, di modo che Homo sapiens possa apparire come “prodotto e condizione” della natura al tempo
stesso.
In verità, se ciascun polo (natura/uomo) è spinto ad avvicinarsi al suo altro è perché è già esso stesso, per
così dire, “sdoppiato”. Ogni termine, infatti, “è la sua propria mediazione, l’esistenza di un divenire e anche
di un’autodistruzione che dà l’altro” (Merleau-Ponty 1964: 124). È lo sviluppo stesso della 67 vita che ha
prodotto (naturalmente) il processo di ominazione che retroagisce (artificialmente) sulla vita. Autonomo in
quanto sistema autoregolato, l’animale umano è al tempo stesso integralmente dipendente dal suo melieu
naturale per assicurarsi l’energia di cui ha bisogno.
Bisogna “forgiare una visione radicale”, scrive Moore, che assuma come proprie premesse “la totalità
organica della vita, la biosfera, la produzione e la riproduzione”, perché un’ecologia che non sappia fare
questo, “che non sappia parlare del precariato e dell’insicurezza sociale […] è votata al fallimento”.
1. CRESCITA
La crescita è una “logica che scaturisce da meccanismi strutturali completamente impermeabili ai valori”. La
crescita, con la sua intrinseca visione utilitaristica, in altre parole, è un “dispositivo” che taglia di traverso le
mutevoli cornici valoriali della società, persino quelle che si ispirano alla decrescita. La tensione alla crescita
illimitata – scrive Romano – è un “effetto dei connotati strutturali di fondo della società moderna, ossia della
rottura della coesione delle totalità comunitarie pre-moderne”. È il risultato del processo di
“individualizzazione” e di una struttura sociale “orizzontalista”. L’individuo, in età moderna, una volta
smarrita la dimensione comunitaria, diviene ossessionato dal problema della sopravvivenza e, in una
società atomizzata, regredisce allo stato animale, in cui ritorna cruciale l’acquisizione di risorse. L’ossessione
per la crescita perpetua, dunque, non deriva da una reale scarsità di risorse disponibili, ma “è una sorta di
effetto ottico indotto dalla condizione di individualizzazione”. L’individuo ora è “braccato da uno stato
permanente di emergenza per la vita”, perciò è portato ad accumulare indefinitamente risorse, anche
qualora queste fossero più che sufficienti per vivere: “la quantità dei beni detenuti dall’homo crescens in un
dato momento è del tutto irrilevante”, poiché “l’ansia di accumulazione deriva […] dalla condizione
istituzionale nella quale egli opera”.
Questo spiega chiaramente che la tensione alla crescita non è un “istinto” o una “condizione naturale”, ma
un’attitudine correlata ad una specifica strutturazione dei rapporti tra individuo e società.
Il soggetto individualizzato di età moderna, separandosi dall’alveo comunitario, è costretto a rispondere in
modo adattivo ad una serie di ingiunzioni esterne dovute alla competizione: ora le sue possibilità di
sopravvivenza dipendono dalla capacità di inserirsi “proattivamente” nel nuovo contesto competitivo.
Attorno al nuovo soggetto si costituisce inoltre uno specifico involucro istituzionale: il “regime neutralitario”
declinato all’interno di un “paradigma orizzontalista” (cfr. Romano 2019). Nell’orizzontalismo, spiega
Romano, “l’ordine non emana da cabine di regia centrali, ma è il risultato ex post della dinamica delle
interazioni tra gli attori sociali” (Romano 2023). Gli individui, così, devono essere liberi di agire e interagire
sulla base delle loro preferenze individuali. Solo così la società nel suo complesso sarà più felice.
Il mercato che si auto-regola, come è noto, è il paradigma che più fedelmente traduce l’orizzontalismo. Esso
è un regime in cui “non è l’economia ad essere incorporata nelle relazioni sociali, ma sono le relazioni sociali
ad essere incorporate nel sistema economico” (Polanyi 2001).
2. DECRESCITA
La crescita è il leitmotiv delle società a capitalismo avanzato. A ben vedere, però, essa è il sintomo, non la
malattia. Il sintomo di una specifica forma di vita legata al modo di produzione capitalistico, “l’esponente
operativo di uno specifico regime antropologico, economico, sociale, politico e istituzionale”.
Il progetto di decrescita, tuttavia, non rappresenta, a ben vedere, una reale alternativa all’ideologia della
crescita, ma si pone in sostanziale continuità con essa. Anche la decrescita, infatti, più che emanciparsi dalla
logica utilitaristica, “reclama un’antropologia politica marcata inequivocabilmente dall’utilitarismo”.
Tutte le alternative ispirate alla decrescita, infatti, più che promuovere lotte per fuoriuscire dall’attuale
modo di produzione e dai suoi rapporti di forza, auspicano un cambiamento legato a “stili di vita sobri” e a
forme di “moderazione economica”. L’obiettivo dell’antiutilitarismo della decrescita è quello di ripristinare la
ragione contro il razionalismo, vale a dire una (presunta) “modernità buona” – quella delle origini – contro
la “modernità cattiva” contemporanea, “nella convinzione che le due non siano consustanziali, ma che la
seconda sia un esito del golpe bianco realizzato dal nefasto ‘utilitarismo’”.
Non si tratta di riposo in sé e per sé, cioè di una giornata in cui non si devono compiere sforzi, né fisici né
mentali, bensì di riposo nel senso del ristabilimento della completa armonia tra gli esseri umani e tra questi
e la natura. Nulla deve essere distrutto, nulla costruito: lo Shabbat è un giorno di tregua nella lotta che
l’umanità conduce col mondo (Fromm 1976).
L’ideo-logica della forma sociale odierna spinge a “tesaurizzare denaro e oggetti materiali, nonché
sentimenti, gesti, parole, energie”. Durante il Sabato, al contrario, “si vive come se non si avesse nulla”
perseguendo il solo fine di essere. Ciò non porta all’inoperosità e non implica il non possesso di nulla, ma è
un auspicio a non essere “legati, connessi, incatenati a ciò che possediamo e a ciò che abbiamo”. Liberarsi
“dalla modalità esistenziale […] dell’avere, per approdare alla pienezza dell’essere”.
6. UNA NUOVA DIREZIONE
Nelle società occidentali la ragione è divenuta un semplice accessorio dell’apparato economico, un
“utensile universale per la fabbricazione di tutti gli altri” (Horkheimer, Adorno 1944). Essa, neutrale verso i
fini, è “l’organo del calcolo”. Di conseguenza la natura diventa una “realtà senza valore”, viene “sterilizzata
assiologicamente” e trasformata in un “grande deposito di mezzi e strumenti, di cose indifferenti, di cause
efficienti prive di forma, di trasferimenti anonimi di energia, un insieme di enti ‘numeriformi’ e predisposti al
calcolo”.
L’attuale forma economica, così, si presenta come una “potenza dissolutiva, un acido, un accelerante,
qualcosa che libera energia e movimento finché si può applicare a una massa strutturata, ma che col venir
meno di questa massa […] inizia a divorare se stessa”. La pulsione all’accrescimento illimitato di potere e
controllo sul mondo-ambiente, infatti, produce “esternalità massive” con conseguenti squilibri ecologici
che finiscono per ridurre la prevedibilità degli eventi e – paradossalmente – il nostro stesso controllo sulla
natura.
Il sistema economico, istituzionale e ideologico cui ha dato forma ciò che Zhok chiama “ragione liberale”,
insomma, si caratterizza per l’annullamento del limite: “ogni appello alla proporzione, all’equilibrio, alla
giusta forma viene […] infranta dalla ragione liberale”, che si dispiega e si declina in termini di
accumulazione illimitata, dominio illimitato, godimento illimitato, fagocitando anche la dimensione etica.
È esattamente il limite, allora, ciò che deve essere reintrodotto nel sistema, pena il collasso: quel “limite
pitagorico” che costituiva la cifra del pensiero greco finalizzato al governo della polis “secondo misura” e
orientato ad un rapporto subordinato nei confronti della physis.
Nel pitagorismo, infatti, “il katechein, cioè l’impedimento della dissoluzione sociale derivata
dall’accumulazione delle ricchezze e dallo scontro fratricida fra ricchi e poveri, si determina come calcolo
numerico delle proporzioni del metron”. L’uomo, scrive Costanzo Preve, “in quanto animale che possiede il
linguaggio, la ragione e la capacità di calcolo geometrico (zoon logon echon), […] può fissarsi dei nomoi che
regolino la convivenza comunitaria”, intervenendo sulla adikia (ingiustizia) e “onorando il finito”.
Oggi, nell’era del dileguamento della misura, per recuperare il valore del limite e per “onorare il finito”,
occorre in primo luogo contrastare e rigettare, come si è detto, l’esigenza di una crescita infinita, ma essere
allo stesso tempo ben consapevoli del fatto che questa evenienza non possa realizzarsi entro le condizioni
del modello di sviluppo capitalistico: il movimento del capitale, infatti, come insegnava Marx, è “senza
misura” per definizione. Un sistema post-capitalistico, al contrario, deve assumere di poter funzionare in
maniera omeostatica, senza l’ossessione della crescita e del profitto: la competizione economica, insomma,
“non può essere qualcosa da cui dipendano vita e morte” (Zhok 2020).
Frenare la crescita non comporta, quindi, la nostalgia per un improbabile e salvifico stato di natura, per una
purezza da ricercare in un passato incontaminato e per una (innaturale) ostilità nei confronti della tecnica: la
bio-logica dell’animale umano, come abbiamo visto, è una tecno-logica. È del tutto illusorio, infatti, pensare
che si possa ritornare all’ “immediatezza del corpo”: non c’è più nulla di “originario”, se mai c’è stato, nel
corpo umano, in quanto corpo “già preso” (Cimatti 2018) in quell’estraniante dispositivo biolinguistico che
lo emancipa dal contatto diretto con la natura.
Frenare la crescita, perciò, non ha a che fare col desiderio (ingenuo) di recuperare la bontà di un mitico
stato naturale. Significa soltanto, a nostro avviso, ripensare tecnica, crescita e sviluppo entro una più ampia
trama biotica, quella del vivente nella sua globalità, da cui dipendono i destini stessi di Homo sapiens,
essendo la natura l’insieme delle condizioni della stessa natura umana o, come scrive Serres, “l’albero che le
dà alloggio” (Serres 1990).
Ma per uscire da uno stato di cose distruttivo quale il nostro, non è affatto sufficiente protestare contro le
storture di un modello di sviluppo che, dopotutto, non smettiamo di considerare come l’unico possibile: così
facendo, infatti, creiamo solo “l’illusione di una ‘resistenza’ ai processi dissolutivi” (Zhok 2020), ma senza
deviare di un grado “la rotta dei processi liberali, fornendovi anzi copertura”.
Il sistema capitalistico, infatti, “può essere raffigurato come un’automobile potente, dotata di acceleratore,
ma sprovvista sia di un freno sia di un volante”. Per evitare che l’automobile vada a schiantarsi, ci sarebbe
bisogno “sia di un impianto frenante che di uno sterzo”. Un impianto frenante in grado di governare la
tendenza all’accelerazione continua, uno sterzo per poter orientare la prospettiva etico-politica e conferire
una nuova direzione alla storia a venire.
1. PROGRESSO VS CONSERVAZIONE
Ferruccio Rossi-Landi distingueva due tipi fondamentali di ideologia (cfr. cap. 2, paragrafo 3): quella
reazionaria o conservatrice e quella rivoluzionaria o progressista. “Ideologia” è da intendersi in un duplice
modo: uno, per così dire, negativo (ideologia come “falsa coscienza” e falsa rappresentazione della realtà),
l’altro propositivo (ideologia come visione del mondo e progettazione sociale). Anche il pensiero
rivoluzionario, ammetteva il filosofo italiano, è ideologico nella duplice accezione ricordata. Tuttavia, egli ne
giustificava la superiorità rispetto all’ideologia conservatrice evidenziando come, mentre quest’ultima fonda
il proprio discorso su un oggetto extra-storico e perpetua una pratica sociale statica e malata, le
progettazioni innovatrici e rivoluzionarie, al contrario, mirano a sanare la pratica sociale e fondano il
proprio discorso su un oggetto infra-storico, proiettato nel futuro. Qualsiasi discorso ideologico ha la
caratteristica sostanziale di privilegiare sé stesso, dichiarandosi come un discorso più fondato degli altri, e
ciò riguarda sia le ideologie conservatrici che le ideologie progressiste o rivoluzionarie. Ma le ideologie
rivoluzionarie, al contrario di quelle conservatrici che si dicono non-ideologiche o extra-storiche
ammettono che il proprio discorso è ideologico come ogni altro; anzi, lavorano per rendere consapevoli gli
uomini di questo principio generale. L’ideologia rivoluzionaria, inoltre, parla al futuro e, all’opposto di quella
conservatrice, rende da subito chiara la progettazione sociale tesa a modificare l’esistente. L’ideologia
rivoluzionaria è sempre, in qualche misura, una meta-ideologia, un’ideologia disvelante e auto-disvelante.
L’ideologia conservatrice, al contrario, sottrae il proprio discorso al condizionamento storico-sociale e
presenta la realtà come una dimensione (a-temporale) in cui gli uomini non possono mai operare come
soggetti della storia. Una realtà immobilizzata, de-dialettizzata. Essa può persino concedere modificazioni
parziali del presente, ma a condizione che i rapporti di forza e di dominio rimangano immutati.
L’importante, insomma, è impedire trasformazioni dalle quali potrebbero scaturire pratiche sociali
radicalmente nuove.
Rossi-Landi, in questo modo, ci offre un’analisi lucida e attualissima delle strategie ideologiche conservatrici,
descrivendo la peculiarità del capitalismo odierno di saper inglobare, mutando pelle, le istanze della
progettazione progressista al fine di preservarsi: si pensi, tra le altre cose, alla green economy, che non
costituisce affatto un’inversione del paradigma economico dominante, ma una nuova opportunità per lo
stesso. L’ideologia dominante, infatti, sa adeguarsi continuamente alle esigenze del presente, fagocitando a
proprio vantaggio anche le istanze trasformatrici: “Il sistema può digerire tutto perché non ha principi oltre a
quello fisiologico della propria sopravvivenza” (Rossi-Landi 1969).
Ciò ci obbliga a dover rivedere la dicotomia progresso/conservazione. Nel progressismo come inteso e
praticato oggi, infatti, è racchiusa l’idea che abbia valore tutto ciò che rappresenta il cambiamento,
l’innovazione, e l’abbattimento del passato. Una visione che non ha riferimenti valoriali eccetto un vago
“cambiamento”, una vaga “innovazione”, indentificati con il bene. Il progressismo, così, da ideologia
emancipativa, diviene isomorfo ad una ideo-logica distruttiva. Un’ideo-logica trasversale che ha spinto
campi politici nominalmente opposti ad abbracciare la medesima visione del mondo, quella neoliberale,
riassumibile nel dogma del mercato e della crescita illimitata. Non evidenziando più divergenze nella lettura
dei fenomeni sociali, infatti, essi adottano “agende” – non più “progettazioni” – sempre più sovrapponibili.
Queste considerazioni, presenti in nuce già nelle osservazioni di Rossi-Landi, devono essere tematizzate,
oggi ancor più di ieri, per decifrare e disvelare la natura “classista” di quanto viene presentato come
progresso, innovazione, inclusione, diritti, emancipazione. È il “cambiamento per la conservazione”, infatti,
come segnalava il filosofo italiano, la cifra del nuovo capitalismo. Una trasformazione, infatti, è positiva se
abbatte forme di dominio oppressive, se si identifica, quindi, con il progresso sociale. Viceversa è distruttiva
se, come accade oggi, abbatte conquiste sociali ed ecosistemi.
Per determinare una modalità di intervento adeguata, dunque, occorre individuare nuovi strumenti teorici
che sappiano decifrare il presente e sappiano rinunciare, quando è il caso, alle vecchie categorie
interpretative. Nel contesto odierno, infatti, “i nostri vecchi argomenti laici, illuministi, razionalisti, non sono
solo spuntati e inutili, ma anzi fanno il gioco del potere” (Pasolini 1975). Occorre, al contrario, sfidare il
“nemico” là dove attualmente si trova e “non nelle sue posizioni che esso ha abbandonato avanzando per la
sua strada”.
Per abitare ciò che, in ogni caso, resta ontologicamente “inabitabile”, perciò, occorre oggi uno sforzo di
elaborazione teorica ancora più faticoso che in passato. Uno sforzo che sappia tenere bene in conto la
natura ideologica e mistificante della forma sociale odierna e del suo correlato operativo, cioè il modo di
produzione capitalistico. Che sappia riconoscere le insidie che si annidano in ciò che viene presentato come
opportunità e innovazione. Che sveli e denunci il “dinamismo”, la “rapidità”, il “cambiamento”, le “riforme”
che il potere oggi brandisce per mascherare la staticità sociale, la conservazione dei privilegi e la sua natura
“totalitaria”. Che possa essere un antidoto all’incantamento collettivo, al “deplorevole conformismo di chi è
dalla parte della ragione” (Pasolini 1975), alla limitazione di fatto della libertà in spazi sempre più ristretti e
all’idea che l’Occidente sia una sorta di patria universale, modello di civiltà per tutti gli abitanti del pianeta.
Che sappia riconoscere e denunciare le soluzioni “tecnico-procedurali” come forme surrettizie e arbitrarie di
ideologia: qualunque tecnica, infatti, è già dentro una visione del mondo. Che sappia conservare ciò che le
democrazie del welfare hanno saputo generare nello scorso secolo a seguito di dure lotte sociali, che sappia
difendere gli equilibri ambientali, che sappia evocare scenari di eguaglianza. Con la consapevolezza, quindi,
che dietro l’ideologia del progresso può celarsi la difesa dello status quo e, viceversa, dietro la
conservazione – se inquadrata in una cornice emancipativa – può soffiare un vento di autentico progresso
sociale.
2. UTOPIA
Dal momento che proporre opzioni meramente tecnico-procedurali, non mosse dall’idea regolativa di un
mutamento sistemico, si rivela inutile o del tutto controproducente, la nostra unica speranza,
probabilmente, “risiede nella formidabile attrazione esercitata da una nuova visione” (Fromm 1976) che
abbia “in sé l’energia cogente di una forte motivazione”. Ecco perché “la meta ‘utopistica’ appare oggi più
realistica che non il ‘realismo’ dei leader politici”.
L’attuale torsione “emergenzialista” del capitalismo, tuttavia, rappresenta una fase poco propizia perché si
propaghi uno spirito del tempo volto al pensiero utopico, capace di rimettere in moto un lavoro linguistico
disalienante e liberamente progettante. La cifra del nostro presente, infatti, sono le preoccupazioni – reali e
indotte – per la “nuda vita”, per la mera sopravvivenza, che certo non spingono al cambiamento ma
inducono, piuttosto, ad una ricerca di stabilità privata. Le manifestazioni del dissenso, così, pur non
mancando, finiscono per essere incanalate in quella medesima logica individualistica da cui pure vorrebbero
emanciparsi: non si è capaci, al momento, di uno sguardo di insieme, sistemico e mediato, ma sempre e
solo frammentario ed immediato. Siamo così esattamente agli antipodi della celebre lezione gramsciana
condensata nella nota formula che esorta all’istruzione, all’agitazione e all’organizzazione.
La prima mossa da fare, allora, sarebbe intanto quella di recuperare una visione teorica d’insieme. Da qui
riattivare, nelle forme oggi realisticamente possibili, la categoria del conflitto a sostegno di quella ampia
maggioranza che non beneficia dei privilegi dell’economia di mercato e che paga il prezzo dello sviluppo in
termini materiali, psicologici, esistenziali.
Consapevoli che il paradigma socioeconomico egemone non si supera dall’oggi al domani, anche a causa
della concentrazione imponente del potere materiale e mediatico nelle mani della classe dominante, si
rende necessaria una sorta di lunga marcia nel deserto che sottragga poco alla volta gli ambiti strategici
della riproduzione sociale agli artigli del mercato. Non è infatti realistico immaginare una fuoriuscita totale e
istantanea dal modo di produzione capitalistico. Più realizzabile, invece, appare il ripristino di quel sistema
di “economia mista” già sperimentato in Europa, come abbiamo visto, nel “trentennio glorioso” successivo
al secondo conflitto mondiale e ben rappresentato in alcuni passaggi fondamentali della Costituzione
italiana, mettendo in sicurezza quei beni collettivi come il lavoro, l’ambiente, la sanità e l’istruzione, i quali
se lasciati in balia dei meccanismi della competizione generano distruzione.
Un sistema post-capitalistico che riavvii i processi coevolutivi e simbiotici del vivente, perciò, non può essere
l’esito di un utopismo meramente verbale, di uno sterile opinionismo à la page che si tinge di verde, di un
movimentismo che oblitera il conflitto di classe o di un vago appello alla “democrazia”, oggi divenuta un
significante vuoto, una parola-ombrello, un passe-partout ad uso e consumo di qualsiasi gruppo di interesse
o – per dirla in termini semiotici – “una parola fortemente apprezzativa, non chiara dal punto di vista
designativo”.
La fuoriuscita dal Capitalocene, infatti, richiede l’esercizio della democrazia reale da parte dei popoli,
dimensione che trova la sua massima espressione nei contesti nazionali in cui è effettivamente praticabile il
procedimento e il controllo democratico, mentre evapora e svanisce quando si immagina di ritrovarla ad
un livello planetario. La dimensione nazionale, infatti, facendo sì che il conflitto sociale possa essere
mediato dal conflitto democratico, risulta essere uno strumento indispensabile per attuare il
“compromesso keynesiano” volto a “presidiare le forme di redistribuzione della ricchezza, sottraendole al
libero incontro di domanda e offerta” (Somma 2021).
SEMIOTICA ITALIANA – COSIMO CAPUTO
DOMANDA TIPICA D’ESAME: Qual è il patto costitutivo della semiotica italiana? – È l’unione dell’approccio
descrittivo e scientifico del linguaggio con l’approccio filosofico e teorico i quali devono essere
inevitabilmente intrecciati tra loro, pena la mancanza di completezza dello studia della lingua e del
linguaggio.
1. SEMIOTICA GENERALE
Con il lavoro di Pagliaro, Lucidi e soprattutto De Mauro la linguistica italiana assume un nuovo assetto
epistemologico: viene traghettata nella “forma linguistica” o nella “(forma) semiotica” del linguaggio e
delle lingue. In questo mutamento di prospettiva la lingua è un’istituzione aperta e mobile: il sincronismo
viene connesso alla storia, alla cultura, alla società, immettendo così la dimensione storica in quella
prettamente teorica e astratta.
In questo quadro matura una nozione di “forma”, in cui – come scrive Pagliaro – “si conciliano
dialetticamente la parola, cioè l’atto linguistico, e la lingua, in quanto il primo non può compiersi se non
nella seconda”.
Con queste parole di Pagliaro si delinea una crescita epistemologica della linguistica italiana del primo ‘900
che comincia a respirare con due polmoni: quello della linguistica storica e quello della linguistica
strutturale.
La semiotica generale deve essere trasversale ed essa – sostiene Eco – “si propone come la forma più
matura di una filosofia del linguaggio”.
Il Saussure di De Mauro assumeva i tratti di una complessiva idea di lingua e di quel che deve essere il
“profilo del moderno linguista”. Se oggi Saussure è Saussure lo si deve a De Mauro e al suo lavoro di
traduzione e commento del “Corso di linguistica generale”, opera dello stesso Sassure.
Il linguista non è più (solo) filologo, ma deve porsi in ascolto della sociologia, della psicologia, della logica
perché la complessità della materia linguistica richiede l’apporto di discipline diverse insieme alle sue
competenze specifiche del teorico del linguaggio, di colui, cioè, che mira a conoscere il linguaggio e le lingue
dall’interno. “Non di sola linguistica vive la conoscenza del linguaggio” (Opera di Tullio de Mauro).
Quello che interessa maggiormente lo studioso è il “logos semantikòs”, una disciplina che De Mauro
definisce “una semantica semiotica”. Lo snodo essenziale è l’indeterminatezza del significato; il significato
è sempre indeterminato, vago, perché la condizione principe delle lingue è l’arbitrarietà.
Le lingue sono oggetti culturali e non oggetti naturali (forme con sostanza) oppure oggetto logici (forme
senza sostanza). L’arbitrarietà non deriva da nessuna ragione avulsa dalla storia, ma è la “modalità con cui
ciò che nell’uomo è eredità biologica […] si incontra con la contingenza storica. È la forma secondo cui la
natura si fa storia” (De Mauro).
I limiti materiali dell’arbitrarietà del segno comportano la presa in carico del non semiotico e del non
linguistico, il che vuol dire che la produzione dei segni coinvolge anche fenomeni biologici, fisici, fisiologici,
sociali, ecc.
La forma “rimane indipendente dalla scelta della sostanza” dice Hjelmslev. Il rapporto tra forma e sostanza è
“totalmente arbitrario”.
In Italia Eco e Garroni si avvalevano del metodo strutturale per affrontare questioni riguardanti il linguaggio
dell’architettura, del cinema, della comunicazione visiva. Questa presa di posizione risale a un libro di
Garroni di qualche anno prima, “Semiotica ed estetica”, in cui Garroni scrive che il suo è un tentativo di “un
approccio propriamente semiotico” all’opera d’arte o al messaggio artistico.
Il punto di vista privilegiato da Garroni è Hjelmslev. E mentre Eco coniuga la teoria hjelmesleviana con la
semiotica di Peirce, Garroni ne avvia una puntuale lettura diventando così il primo grande interprete italiano
del linguista danese in Italia.
Quella che Garroni porta avanti nei suoi studi la si può definire un’estetica semiotica, ossia un’estetica che
continua ad essere una parte della filosofia e che utilizza strumenti semiotici e linguistici, per il suo
prosieguo potremmo parlare di una semiotica estetica, ovvero di una semiotica del sentire, che riporta a
una condizione non intellettualistica o all’adesione del soggetto al suo stesso fare esperienza della vita, al
suo sentirsi con gli altri e al suo sentire l’altro.
3.4. LA CREATIVITA’
L’animale non umano opera fisicamente, reagisce, non risponde, non prende posizione, non astrae, si
muove in base a relazioni segnaletiche, non in base a relazioni segniche e a metarelazioni o segni di segni.
L’animale umano, al contrario risponde, prende posizione in base a certi scopi, pregiudizi, astrae, ha
rapporti “meta-fisici”, produce segni di segni, simboli. È questa la peculiarità del logos umano: la condizione
trascendentale che rende possibili le varie modalità di rapporto con il mondo: arte, mito, religione, filosofia,
ecc.
Tra estetica (intesa come momento non conoscitivo del conoscere) e conoscenza, o tra conoscere e sentire
esiste un nesso originario, profondo, non avventizio: si tratta della materialità semiotica che qualsiasi forma
di conoscenza è sempre connotata, a partire dalla sua “scrittura” o forma espressiva.
Nell’ottica cassireniana “il problema della creatività si pone non più in generale, ma entro l’orizzonte
dell’attività umana simbolica o semiotica”; si pone, più in profondità, in relazione a una componente
metaoperativa.
La metaoperatività può esprimersi anche in modo autonomo dall’operare meramente fisico-strumentale.
“L’uomo si riconosce tale proprio in questo liberarsi dall’assillo di scopi immediati in senso forte: in ciò che
Kant chiama <<disineteresse>>, <<finalità senza scopo>>, legata ad un principio soggettivo ed estetico”.
L’operare umano nel suo complesso, nella sua praticità e nella sua teoricità, è dunque legato al concetto
kantiano di “libertà”, cioè ad un principio di cui possiamo avere coscienza solo estetica e soggettiva, nella
forma di un “sentimento” quale principio non intellettuale della manifestazione del “molteplice”.
L’estetica si occupa non solo di opere d’arte, ma anche degli altri aspetti del nostro fare esperienza, della
nostra presa immaginativa e percettiva del mondo: diventa per Garroni una “filosofia non speciale”.
Questa semiotica è la semiotica del sentire e del sostrato bio-socio-antropologico del significato: una
semiotica del sensibile, che tematizza la tensione tra la forma e la materia.
Rossi-Landi è stato un pensatore scomodo e in controtendenza nel contesto filosofico italiano del Secondo
dopoguerra, il che è stato motivo del suo isolamento e dell’ostilità dell’accademia. Ma Rossi-Landi è stato in
quegli anni uno dei protagonisti dell’apertura della filosofia italiana alle filosofie straniere delle stagioni
delle traduzioni.
4.2. IL CONTESTO DELLA FILOSOFIA ITALIANA DEL SECONDO NOVECENTO
A partire dal 1945 il processo di ricostruzione economica e sociale del Paese s’intreccia con la ricostruzione
culturale che vede la formazione di una nuova coscienza del ruolo dell’intellettuale nella società.
In un ambiente culturale definito “neoilluministico”, nel ’48 si costruisce a Torino il “Centro di Studi
Metodologici” per iniziativa di Ludovico Geymonat.
Per Rossi-Landi, il filosofo Vailati è un punto di riferimento costante e, insieme ad Abbagnano, Ceccato,
Enriques e prima ancora Giovan Battista Vico, è l’esponente di una via italiana alla filosofia, alla semiotica e
alla filosofia del linguaggio in grado di dialogare proficuamente con le filosofie straniere e con autori come
Peice, Morris e Wittgenstein.
È ciò che distacca la mente (semiosi) umana da quella non umana, e che nel seguito della sua ricerca Rossi-
Landi chiama “capacità di lavoro”. Questo lavoro semiotico, individuale e sociale, non è la proiezione della
mente umana in quanto data a sé, è, al contrario, la sua natura, ovvero la mente umana è al lavoro, è
l’effetto del lavoro semiotico e del suo carattere antropogenico.
Non solo le tre dimensioni della semiotica (sintattica, semantica e pragmatica) sono inscindibili ma anche il
significato (ciò che è fatto segno) non può essere localizzato in qualche posto fisso del processo semiotico;
esso va localizzato dentro questo processo, preso nella sua interezza.
“Significato” commenta Rossi-Landi “è quasi un sinonimo di semiosi”. Non ci sono segni soltanto sintattici, o
semantici, o pragmatici “perché ogni segno è per definizione tutte e tre le cose – non si ha segno se non si ha
semiosi, cioè compresenza delle tre dimensioni”.
Non si tratta, cioè, di sovraimporre la semiotica ad altre discipline, bensì di vedere quelle porzioni di vita che
si possono descrivere “come segniche per intero – in modo da distinguerne poi il residuo non segnico, come
tale oggetto di altre discipline o di altri interessi”.
Rossi-Landi non propone nessuna separazione fra le discipline e al contempo nessun pansemioticismo
(tutto è segno).
“Il mercato economico” – scrive – “è sia segnico che non segnico. Le merci sono messaggi o segni, ma
prodotte, scambiate e consumate per fini non segnici”.
Il semiotico italiano reimposta i rapporti fra struttura e sovrastruttura con l’introduzione tra questi due poli
di un elemento mediatore, quello dei sistemi segnici, possibile soltanto nella realtà del neocapitalismo, che
va studiato come una semiotica più che come economica. Rossi-Landi fonda la semioeconomia. La
produzione e la riproduzione sociale hanno carattere semiotico: ogni organizzazione e ogni costruzione
umana (economica, istituzionale, rituale, ecc.) è di natura segnica.
Rossi-Landi è uno dei pochi a comprendere l’incipiente società della comunicazione fondata sullo scambio di
merci-segni e non solo di oggetti strumentali, una società che crea, distrugge e manipola i significati e il
senso. Si prospetta una semiotica generale che equivale a una teoria generale del sociale.
Quando si parla di progettazione sociale si sta parlando necessariamente di ideologia: la semiotica diventa
studio dei segni dell’ideologia e delle loro forme di comunicazione-produzione, ossia dell’ideo-logica delle
forme sociali.
Rossi-Landi ridefinisce la classe dominante in termini semiotici e non più economici, sussumendo
l’economico nel semiotico. La classe dominante non è più la classe che detiene il controllo dei mezzi di
produzione economica e strumentale, ma “la classe che possiede il controllo dell’emissione e circolazione dei
messaggi verbali e non-verbali costitutivi di una data comunità”.
La classe dominante esercita il controllo dei programmi e delle programmazioni funzionali alla
programmazione suprema dell’ideologia in cui si esprime la progettazione sociale, che tende a farsi passare
come non-ideologica.
Diversamente dall’analogia, l’omologia riconosce un’unità originaria che si manifesta in sostanze diverse e
opera a priori. Questa unità originaria è il lavoro in quanto “capacità semiotica” costruttiva e decostruttiva.
Ponzio nel 1971 inizia la collaborazione alla rivista “Ideologie”, diretta da Ferruccio Rossi-Landi e nel ’79
diviene redattore capo della nuova rivista “Scienze Umane”.
5.3. I TRATTI CARATTERIZZANTI
Si tratta di un dialogo volto a superare gli steccati disciplinari, per una semiotica che guarda ai margini della
disciplina, una semiotica globale contrapposta alla parrocchialità della semiotica di origine linguistica,
verbocentrica e strutturalistica: il modello interpretativo e inferenziale del segno del paradigma peirceano
contrapposto al modello saussuriano.
Il principio della non-indifferenza, dell’apertura costitutiva delle identità, loro malgrado, porta a
considerare la polifonicità della semiosi, il plurilinguismo dialogico delle lingue. La visione polifonica
afferma le categorie della coesistenza, dell’interazione e la pluralità dei piani della realtà sociale, storica,
culturale. Da qui sorge l’attenzione alla pluralità delle sostanze e delle forme espressive, o alla materialità
del significante che diviene esteticamente e semioticamente rilevante.
Il tratto più caratteristico della componente barese della Scuola è da individuarsi nella pluralità delle
prospettive di ricerca: qualsiasi aspetto semiotico è suscettibile di studio.
Ed ecco l’interesse per la semiotica del testo, della semiotica della letteratura, per la semiotica della
musica.
Dalla musica proviene il segno più resistente, più refrattario alla traduzione verbale: il segno della musica si
sottrae alla semiotica glottocentrica, sicché il modello di segno sui cui deve basarsi la semiotica generale
non può essere il modello del segno verbale.
Dall’interesse per la plurivocità sorge l’interesse per la semiotica della traduzione di cui si è lungo occupata
Susan Petrilli.
Il segno è esso stesso traduzione; come si è detto, il significato di un segno sussiste nel rapporto con un
altro segno in funzione di interpretante. E ciò vale non solo nella traduzione fra lingue diverse (traduzione
interlinguistica), ma anche nella traduzione che continuamente operiamo nella comprensione nell’ambito
di una stessa lingua e tra sistemi segnici diversi, traduzione endolinguistica e intersemiotica,
rispettivamente.
È erroneo pensare che la traduzione consista nell’esprimere uno “stesso significato”. È nella traduzione che i
significanti si chiariscono, con il conseguente approfondimento della coscienza linguistica, e il senso si
testualizza, pur rimanendo sempre eccedente, Non si dà quindi effabilità totale. Le lingue traducono
lasciando spazi non tradotti ma traducibili con altri mezzi espressivi.
Tradurre è portare in una lingua gli occhi di un’altra lingua; si entra in quello che Ponzio chiama il paradosso
della traduzione, che consiste nel fatto che il testo deve restare lo stesso, mentre diventa altro, mentre,
cioè, è riorganizzato nella semiotica di un’altra lingua, o in un’altra semiotica (non verbale). Il testo tradotto
è lo stesso altro, al contempo identico e diverso.
In questa prospettiva il lavoro sui segni è un lavoro critico, detotalizzante, demistificante. Ne deriva una
sociosemiotica critica che mira a individuare le radici materiali della produzione e riproduzione sociale del
senso e smascherarne il carattere ideologizzato, il che immette nella semiotica dell’ideologia e della critica
marxiana dell’economia politica proiettata sul linguaggio e sulla semiotica attraverso l’opera di Ferruccio
Rossi-Landi sulla base delle cui riflessioni Augusto Ponzio elabora la nozione di “comunicazione-
produzione”. Il campo semiotico viene così ampliato fino a includere la critica marxiana delle merci che
nella fase odierna dell’economia diventano segni, mentre i segni diventano merci.
La legge di partecipazione non crea suddivisioni o dicotomie, rapporti gerarchici di subordinazione, ma crea
dimensioni, inclusioni. Il segno è dunque una “dimensione”: la dimensione sigma, nella sua doppia
articolazione semiosica (materiale) e semiotica (formale).
Il campo semantico di “linguistica” viene allargato; “linguistica” non vuol dire soltanto studio delle lingue
verbali, vuol dire anche teoria del linguaggio inteso sia come capacità specie-specifica dell’umano di
modellazione del mondo sia come “linguaggio-mondo”.
“Linguistica e semiotica” vale qui come “linguistica è semiotica” e “semiotica è linguistica”.