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AT THE
UNIVERSITY OF
TORONTO PRESS
^
ARCHIVIO STORICO LOMBARDO
f
Conto corrente colla Posta - 30 Giugno 1922 - Pubblicazione trimestraie
ARCHIVIO STORICO
LOMBARDO
GIORNALE
DELLA
SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
SERIE QUINTA
Vot.^
ANNO XLIX - PARTE PRIMA
498735
MILANO
SBDB LIBRERIA
DELLA SOCIETÀ FRATELLI BOCCA
Castello Sfoi'zefico Corso Vitt. Em., 21
Faso. 1-ir 1922 Anno XLIX
La proprietà letteraria è riservata agli autori dei singoli scritti.
96
A?
Pier Grosolano e il suo epitafio
ioL nome di Pier Grosolano noi richiamiamo alla mente
un dotto arcivescovo di Milano eh' ebbe vita fortu-
nosa tra la fine del secolo XI e il principio del se-
colo XII (1). Egli governò la chiesa milanese i dieci
anni che scorrono dal 1102 al 1112, avendo per predecessore
Anselmo de Buis e per successore Giordano da Clivio (2). Ma in
questo breve periodo di tempo furono così varie e così strane
le vicende della sua vita che non dispiacerà vederle qui ricor-
date brevemente, tanto piìi che riguardano una delle epoche
(1) Il suo nome fa scritto variamente: Grosolanus, G-risolanus,
Grysolanus e persino Arixolanus, Cfr. Migne, Patr. Gr. CXXVII, 910*
e Patr. lat. CLXII, 1066, 1067. F. Argelati (Bibl. script, med. tom.
I, pars altera, pag. 712. Mediolani, 1745), lo dice « celeberrimae Comi-
tissae « Mathildi sanguine junctus ».
(2) Per la biografia del nostro cfr. Landolfo di san paolo ossia
Landolfo luniore, Historia Mediolanensis (in Berum Italicarum Scrip"
tores. Tom. V; Baronids, Annales JEcclesiastici, a a. 1116-1117. Giu-i —
LINI, Memorie della città e della campagna di Milano nei secoli bassi,
parte IV, lib. XXX, anno 1102 (pp. 466 e sgg. fino a pag. 41 della
^arte V). — Fedele Savio, ne « Gli antichi vescovi d'Italia dalle origini
al 1300 descritti per regioni. La Lombardia, parte I, Milano, Firenze,
libr. Ed. Fior. 1913, pp. 461-472 » aggiunge, con molta diligenza, notziei
a quelle del Giulini, del Muratori, {Annali d'Italia^ Lucca, 1763,
tomo VI) e del Tiraboschi, {Storia d. leti. ital. tom. Ili, 324-29, Mo-
dena, 1787). Il « Catalogus Archiepiscoporum mediolanensium usque ad
annum 1355 » (in Mon. Germ. Hist. voi. X, Scrip. voi- Vili, pp. 101-110),
come ne avvertono gli editori W. Wattembach e L. C. Bethman, è
steso, per il periodo che ci riguarda, da mano contemporanea la quale
tenne ad informarci che « Grosolanus hanc sedem a. 9 et m. 4 pertur-
« bavlt ».
Arch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. I-Il. 1
2 OMBEO MASNOVO
più interessanti della Storia Lombarda (1). Attorno a Pier Gro-
8olano documenti scarseggiano e le testimonianze, non molto
i
numerose, sono talvolta in contraddizione l'una con l'altra. Chi
però ba la pazienza iV indugiarsi a raccoglierle e coordinarle
può riuscire a ritrarre con qualche vivezza, dagli elementi di-
sgregati che sono a sua disposizione, la figura di lui, la quale
spicca tra le innumerevoli che si muovono nella penombra di
quel mondo, non ancora ben conosciuto (2).
Dove il Grosolano sia nato e dove abbia atteso agli studi,
ninno sa dirci. Alcuni lo ritennero greco o italo-greco (3). Il
Muratori congettura che fosse di patria calabrese (4). Il Giulini
invece ritiene che fosse nativo di Lombardia (5). Dello stesso
parere è il Savio che lo dice insubro, cioè dell'alta Italia (6).
Se poi domandiamo dove visse fino alla sua elevazione al
vescovado di> Savona, ossia sino al suo ingresso nella storia,
ninno sa darci una risposta che soddisfaccia la nostra legittima
curiosità. Forse trascorse la giovinezza e la virilità in qualche
monastero, poiché pare fosse monaco vallombrosano (7). Dal rozzo
(1) Sulle origini del comune
Milano Cfr. l'Introduzione del re-
di
cente volume di Cesare Manaresi, Gli atti del Comune di Milano fino
alVanno MCOXVl, Milano, 1919, dove il passaggio del governo comu-
nale dalle mani dell'Arcivescovo a quelle dei Consoli ossia del popolò è
studiato con dottrina e acume.
• (2) loH. Trithemius, De scriptoribus ecclesiasticis, in Fahricii Bi-
blioteca Ecclesiastica, T. 397 scrive: « Crisolanus, vir in divinis scrip-
« turis eruditissimus et in secuiaribus literis doctus, graeca et latina
« eloquentia insignis, edidit quaedam magnae auctoritatis opuscula,
« quibus nomen suum ad notitiam posteritatis cum gloria transmisit,
< de quibus ad manus nostras nuUum pervenit. Fertur eius de Spiritu
€ Sancto contra graecos lib. 1, de Sancta Trinitate lib. 1. Epistolae,
< sermones, et alii ». Questo
diversi tractatus qui mihi incogniti sunt
brano del Tritemio è riprodotto alla lettera dal Baronio, negli Annali
Ucclesiasticij al termine dell'anno 1116.
(3) Ferrari, Storia delle rivoluzioni d'Italia, Milano, Treves, 1870,
pag. 395 Achille Ratti, La Chiesa Ambrosiana- in « Conferenze di
y
•« Storia Milanese tenute per cura del Circolo Filologico milanese nel
« marzo e nell'aprile 1896, ». Milano, Bocca, 1897, pag. 183.
(4) Muratori, Annali d'Italia, a. 1102.
(5) Giulini, Memorie, IV, 435.
(6) Savio, op. cit. pag. 471.
(7) Cfr. Landolfo di S. Paolo, cap. 27.— (Fertz. M. G. I, XX). —
PuRiCELLi, Ambrosiana, n. 248. — Soldani, Questioni Vallombr osane, 11^
parte, pag. 351.
PIEK GROSOLANO E IL SUO EPITAFIO 3
saio monacale gli sarebbe anzi derivato, secondo il Pellegrini,
il nome di Grossolano (1). Secondo
popolo lo il Ratti invece il
avrebbe chiamato così « per sue maniere o per il suo modo
le
« di vestire, o piuttosto per una umoristica trasformazione del
« nome straniero » (2).
La prima volta che Landolfo Juniore parla di lui, ce lo
presenta in un bosco, tra Acqui e Savona, dove fu trovato dai
messi spediti da Anselmo, arcivescovo di Milano, che desideroso
di partecipare alla prima Crociata, andava cercando l'uomo che
potesse fargli degnamente da Vicario dell'Archidiocesi milanese
per tutta la durata della sua assenza (3).
(1) Carlo Pellegrini, Fonti e Memorie Storiche di 8. Ariàldo —
Milano, tip. Faverio, 1902, pag. 36 (estr. dall' J.rcfe»v. Stor, Lomh., anno
XXVII (1900) fase. 28; a. XXVIII, 31? a. XXIX, 33) scrive: « I vallom-
€ brosani vestivano vesti formate da lane di diversi colori, non tinte,
« sicché ne riusciva un colore grigio... Nell'undecimo secolo i monaci
« si distinguevano dai secolari solo per la rozzezza dell'abito ». Fu nel
XIII® secolo, col moltiplicarsi cioè degli ordini religiosi, che si sentì la
necessità di adottare panni di diversi colori.
Secondo il Casalis invece (Dizionario geografico storico degli stati
tardi, III, 191) il Grosolano avrebbe appartenuto alla regola di S. Ago-
stino.
(2) Ratti, loc. cit.^ ove l'insigne autore mostra ritenere che il vero
nome del Nostro fosse Crisolao.
(3) Landolfo luniore, loc. cit. cap. III. Il Savio osserva (op. eit.
pag. 472) « che a Ferrania^ luogo posto nel territorio di Cairo Monte-
« notte, tra Acqui e Savona, non v'erano a quel tempo i vallombrosani,
€ né sembra vi fossero in seguito ». E allora in che qualità poteva es-
servi Grosolano? Da un documento in data 21 gennaio 1090 pubblicato
dal MoRiONDO {Monumenta Aquensia, Torino 1790, Voi. II, col. 311) e
ricordato dal Savio {loc. cit.) Grosolano vi apparirebbe prevosto della
Chiesa dei Beati Apostoli Pietro e Paolo. Qualunque sia il valore di
questo documento, è certo che nel 1099 doveva già essersi ritirato a
vita eremitica se i legati milanesi lo trovarono in «n bosco dei dintorni.
Dove forse vennero indirizzati dai cittadini Savonesi, ai quali doveva
esser nota la sapienza e la santità dell'eremita. Non mancano però auto-
revoli scrittori, come il Della Chiesa e il Mabillon, a sostenere, contro
il Savio, che ad amministrare da principio la parrocchia di Ferrania
furono chiamati verso la fine del secolo XI i benedettini. Il Casalis
parla invece di canonici agostiniani, in numero di sei, che avevano
come preposto Pier Grosolano (Casalis, op. cit. pag. 291).
(»M1£R(> MASN(»V<
ha partenza di Anselmo avvenne li di ì'ó Settembre 1100 (1);
È lecito pensare che da qualche tempo il Groaolano si tro-
vasse in Milano se già vi era stato nominato Vescovo di Sa-
vona e dichiarato Vicario Generale (2).
Dotto, facile oratore, affabile e modestissimo nel vestire,
pio, abilissimo nell'esercizio delle sue funzioni, seppe cattivarsi
in breve le simpatie dei milanesi.
La nuova dignità non aveva dato alla testa di Grosolano che
continuava a indossare il rozzo saio del monaco e a condurre lo
stesso tenor di vita con gran compiacenza del popolo che co-
minciava a ritenerlo in odore di santità.
Ma appena PArcivescovo Anselmo morì in Costantinopoli
(30 settembre llOlj per ferita riportata combattendo contro
gli infedeli presso Marsivan, Grosolano, assodata la notizia della
morte, mostrando vivo desiderio di volersene ritornare a Savona,
radunò alla sua presenza ecclesiastici, nobili e popolo affinchè
procedessero alla nomina del nuovo arcivescovo. sentire i suoi A
nemici, egli avrebbe adoperato tutti i mezzi per farsi eleggere
air alta carica, alla quale veniva infatti elevato per accla-
mazione. Lo aspettavano grossi guai. Il famoso prete Li-
prando, quello stesso cui il partito dei concubinarii, al tempo di
S. Arialdo, aveva mozzato le orecchie e il naso (3), onde Gre-
(1) Savio, op. cit. pag. 458. Anselmo fu arcivescovo di Milano dal
1097 al 1101.
(2) Savio, op. cit. pag. 458. — Ferdinando Ughelli (Italia Sacra,
Venezia 1719, IV, 735) afferma che Grosolano fu consacrato vescovo di
Savona nel 1098, Com' è noto « Savonensis Praesul Mediolanensi Ar-
< chiepiscopo semper subjectus fuit, pag. 731 ». La diocesi di Savona
terminava ad oriente a Genova, ad occidente ad Albenga, a settentrione
ad Alba e ad Aqui (Ughelli, Italia Sacra, IV, 731).
(3i Su questa lotta dei patavini contro i concubinari oltre la confe-
renza già citata del Ratti, v. il volume di Carlo Pellegrini, « 1 santi
Arialdo ed Erlemhaldo », storia di Milano nella seconda metà del
secolo XI con carta topografica delPepoca Milano, Palma, 1897; v. lo
,
studio « Gli eroi della Fataria > di F. Meda, nel libro « Nella storia
e nella vita, Firenze, 1914); i capi II e III della « Storia della vita
milanese, Milano, Cogliati 1909 di Ettore Verga ». V. anche Fr. No-
tati, le passim; e Capkcelatro, Storia di San Pier Damiani
origini,
e del suo tempo,Firenze, Barbera, 1862. Il Sismondi ha creduto di
vedere nient'altro che un pettegolezzo di sacrestia in queste lotte che
segnano il principio della emancipazione delle città lombarde. {Eistoire
des répub. ital. du moyen age, Bruxelles, 1838, I, 241).
PlEK GROSOLANO K IL SUO EPITAFIO 5
gorio VII, saputa la cosa, gli scrisse per consolarlo chiamandolo
martire del Signore (1), insorse subito ad accusarlo di simonia
dal pergamo (2). L'ac-
della chiesa di S. Paolo, dov'era prevosto
cusa fu portata a Roma, ove accorsero l'accusato e l'accusatore.
Pasquale II assolse Grosolano e lo rimandò alla sua archidiocesi.
Se non che Grosolano impedito dal partito di Liprando di
rientrare in Milano (3), si sarebbe deciso, nel mese di aprile del
Ilio, come afferma Landolfo di S. Paolo, ad un viaggio in Terra
Santa e a Costantinopoli. Qui essendo vive le controversie de'
Latini co' Greci « ei cimentossi coi più dotti uomini che allora
« fossero in Grecia », come scrive il Tiraboschi, il quale è del
parere che Grosolano fosse attratto alla capitale dell' Oriente
il
dal talento « di far pompa del suo sapere (4) ».
Dello stesso avviso o quasi è il Giulini il quale aggiunge
che « in questa occasione si fece molto onore ed è probabile
« che allora i Greci, secondo il costume della lor Nazione, gli
« cangiassero il nome, e che invece di Grosolano lo chiamassero
« Crisolao, come poi fu chiamato quel prelato nel suo epitafìo (5) ».
Il Baronio invece (Ann. Eccl. ad annum 1116, v. VII) suppose
che Grosolano si recasse a Costantinopoli come legato del papa.
Conoscendo il suo valore come [grecista e teologo e sapendolo
(1) Savio, op. cit. pag. 436.
Era una delle più cospicue parrocchie della città. Trova vasi sul
(2)
corso di Porta Orientale (oggi Corso Vitt. Emanuele II) a poca distanza
da Piazza del Duomo, vicino al forno delle Grucce (Pristin di scansc)
di manzoniana memoria. Circa le chiese milanesi d'allora v, Giulini,
III, 38 e VII 84 Savio, op. cit, Indice, alla lettera « Milano ecclesia-
j
€ stica ». È utile confrontare anche Ignazio Cantù, Milano nei tempi
antico, di mezzo e moderno, Passeggiate storiche. Milsuio, Eedaelli. 1855^
pag. 104. SulV organizzazione della Chiesa Milanese di questo periodo,
V. Katti, op. cit., pag. 187 e sgg.Carlo Pellegrini, i Santi Arialdo
;
ed JErlembaldo ; P. Kehr, Eegesta Fontificum Bomanorum - Italia Fon-
tijiciaf Voi. VI, parte l, Lombardia^ p. 16 e sgg.
(3) La grande maggioranza del popolo fu naturalmente con Liprando.
Osserva acutamente il Ratti a pag. 175 del poderoso studio già citato :
« Né vuol essere dimenticato o perduto di vista,
al proposito nostro
< che il popolo aveva una ragione sua propria per sostenere come fece
< la pataria. Egli non faceva che continuare la lotta già ingaggiata
€ contro la nobiltà e dal suo prevalere contro di questa, non dalla sua
j
« fusione con la medesima, è, a dire il vero, sorto il regime comunale ».
(4) Tiraboschi, op. cit. pag. 327.
(5) Giulini, op. cit. V, 16.
6 OMBRO MASNOVO
molto addentro aelle controversie tra la chiesa Greca e Latina,
Pasquale II lo avrebbe eletto nel 1112 a suo rappresentante
per trattare l' unione delle due chiese coir imperatore Alessio
Commeno che a quel tempo cercava l'amicizia di Koma.
Il Giulini dubita di questo incarico papale perchè Landolfo
di S. Paolo tace il motivo della partenza di Grosolano. 11 Savio,
invece, e molto a ragione, osserva, che il silenzio di Landolfo e
di poco valore, perchè essendo nemico di Grosolano, doveva
volontieri tacere una circostanza cosi onorifica per lui. È tut-
« tavia alquanto trattenuto dall'ammettere la legazione di Gro-
« solano vedendo il poco favore che poi gli diede il papa nella
« contesa, in cui, due anni dopo, egli si trovò impigliato con
« Giordano da Clivio, sorto a contendergli la dignità arcive-
« scovile (1) ».
In realtà chi consideri superficialmente le vicende della
lotta tra Enrico V e Pasquale II, e la prigionia da quest'ultimo
subita nel 1111, per opera dell'Imperatore tedesco, (l'umiliazione
che l'impero aveva avuto a Canossa era così vendicata) stenta
a credere che il papa mandasse suo legato in Oriente, V anno
dopo, un vescovo che s'era dichiarato per l'Imperatore.
Chi peraltro ricorda che all'imperatore appena disceso in
Italia avevano giurato fedeltà, nel 1110, e la stessa contessa
Matilde, pur con qualche riserva, e rappresentanti delle città
i
lombarde, convenuti a Eoncaglia^ poco dopo l' incendio di No-
vara, non si meraviglia delle dichiarazioni di fedeltà fatte da
Grosolano, le quali molto probabilmente sono dello stesso anno.
Poteva l'arcivescovo di Milano mettersi contro il suo popolo (2) ?
(1) Savio, op. cit. Credo prezzo dell'opera riportare
pag. 468-469.
dal Savio anche le sei^uenti informazioni « A Costantinopoli, Grosolano
:
« trattò collo stesso Imperatore Alessio dei punti controversi tra le due
« chiese, e forse allora compose il suo trattato sulla processione dello
« Spirito Santo, che fu trovato dal Baroni© nella Vallicelliana, col titolo :
« Crysolani episcopi Mediolanensium oratio ad imperatorem Aleiium
« Commenum » e da lui riferito tradotto in latino all'anno 1116.
« Questo trattato fu dai greci tenuto in tanta considerazione, che
« parecchi dei più eruditi tra loro scrissero per confutarlo, come Eu-
< strazio, metropolita di Nicea, Giovanni Furne, monaco di Montegone,
« e Niccolò di Modone ». Circa Landolfo iuniore il Sismondi (op. cit,
pag. 242) scrisse che egli ci lasciò non la storia della sua patria ma
quella delle sue vessazioni.
(2) Qui occorre un breve commento. A differenza delle città che
ad Enrico V° avevano ©S'erto doni preziosi e pagato tributi, Milano.
PIER GROSOLANO E IL SUO EPITAFIO 7
Se non che a sentire il Gregorovius, il papa quelPanno non
avrebbe mandato in Oriente ambasciatori di sorta. E la verità
sarebbe questa.
L'imperatore Alessio Commeno, lieto che il suo impero si
fosse consolidato per mezzo delle crociate, (le quali colla fonda-
zione del regno di Gerusalemme e di altri stati avevano eretto
un baluardo contro i Turchi) aveva mandato a Eoma ambascia-
tori coli' incarico di sfruttare l'irritazione esistente contro En-
rico Y e di tastare il terreno per il ristabilimento degli antichi
diritti di sull'Italia. Mirava cioè l'imperatore a farsi
Bisanzio
conferire corona secondo il diritto antico. Ohe accoglienze
la
ebbe a Eoma l'ambasciata imperiale? Tanto buone che, scrive
il Gregorovius, i romani vollero dare un segno di protesta po-
litica contro Enrico, mandando effettivamente a Bisanzio, con
grande magnificenza, un' ambasceria, affine di trattarvi pro-
prio della desiderata incoronazione però il papa non avrebbe
:
preso parte a quest'atto; soltanto la nobiltà romana, ancora in-
dipendente e dominatrice, avrebbe colto questa opportunità per
far mostra pomposa di sé (1).
Ma il pontefice non era forse rimasto estraneo affatto a questa
ambasceria se, come avverte lo stesso Gregorovius, l'abate di
Farfa, parlando appunto in una sua lettera di questa legazione,
mette in guardia Enrico contro le astuzie papali. Ad ogni modo
Pasquale II dovette a sua volta sfruttare il favore delle circo-
stanze politiche, e ritentando l'unione dei greci scismatici alla
chiesa latina può bene aver inviato a Costantinopoli l'arcive-
nel Ilio, dava uno splendido esempio di ribellione all'autorità impe-
riale, rifiutandosi a quelFomaggio che altre città si erano affrettate a
prestare. A buon diritto pertanto il poeta Donizone x)oteva esaltare
villano che
Non servivit ei : nummum neque contulit aeris.
Ma, va ricordato che, con questa linea di condotta, il comune mi-
lanese mirava solo a salvare i privilegi conseguiti, non si rifiutava di
riconoscere l'autorità dell'imperatore. Col quale au«:i si alleò nella guerra
contro Pasquale Ilo (cfr. Cusani, Storia di Milano^ I, 119) che, essendo
senza difesa, fu costretto a quell'accordo di Sutri che tutti conoscono.
(1) F. Gregorovius, Storia della città di Boma nel Medio Evo,
Venezia, Antonelli 1873, Voi. IV, libr. 8^, cap. P parag. 4"^. Il tempo
all'ambasciata fu nel maggio dell'anno 1112. Pietro Diac. IV, 46. Dello
stesso parere è il Rohrbacher in Storia Universale della Chiesa Cattolica,
Milano, Turati 1848, voi. XV, 65-66.
8 OMERO MASNOVO
SCOVO di Milano, con missione puramente religiosa (1). La se-
parazione tra le due chiese non era sopratutto mantenuta da
controversie dogmatiche!
La polemica aveva un pe-
latina proprio in quell'anno 1112
riodo di reviviscenza. Poiché non è dubbio che Grosolano di-
il
sputasse di teologia, alla presenza dello stesso Imperatore, col
famoso monaco Giovanni Phurne (2), si può ammettere che
se non fece parte «Ielle legazioni precedenti, egli siasi unito ai
deputati inviati dall'abate di Montecassino^ col quale l'Impera-
tore era in ottimi rapporti, sì che gli inviava frequenti donativi
in onore di S. Benedetto (3).
Che se proprio non si volesse accettare per provata la parte-
cipazione di Grosolano ad una delle tre legazioni accennate, poiché
la sua andata a Costantinopoli è certa, convien ammettere che
vi si lasciasse condurre o da considerazioni religiose o da ra-
gioni di studio o dal desiderio d'incontrarsi coi dotti orientali,
per poter discutere con loro di filosofia e teologia, quale rap-
presentante della coltura occidentale, o da tutti questi motivi
assieme. Chi ignora quanto la passione per la vita errante e l'a-
more per le avventure fossero sentiti dagli studiosi di questo secolo?
1 monaci sopratutto sono sempre pronti a disertare il proprio con-
vento per correre^a sentire un maestro che incomincia a farsi noto.
Li incoraggia a mettersi in via la professione stessa che
hanno abbracciato, « la facilità che loro ne deriva, nota il No-
« vati, di trasmigrare incessantemente di paese in paese, senza
« preoccupazione alcuna di provvedere alle necessità della vita
« (conventi ne sorgono dappertutto e dappertutto v'è un tozzo
« di pane ed un letto di paglia) 1' assoluta
; indipendenza da^
« quei vincoli mondani soliti a ritenere troppe volte prigioni
€ ne' loro inestricabili lacci i chierici secolari (4) ».
Questi viaggi d'istruzione contribuiscono la loro parte a
quel fervore di vita spirituale che,- nei secoli XI e XII, prepara
le nuove direzioni del pensiero italiano.
(1) E. Brììck,Storia Ecclesiastica, Bergamo, tip. S. Alessandro,
1902, pag. 475. Giovanni Montelatici, Storia della letteratura bisantina^
Milano, Hoepli, 1916, pp. 246-247. Karl Krdmbacher, Gesehichte der
Byeantinischen Litteratur, Miinchen, 1897, pag. 85. L'argomento discusso
a Costantinopoli dice la missione di Grosolano.
(2) Argelati, loc, cit. pag. 712..
(3) Gbegorovius, loc. cit.
(4) NovATi, le origini, pag. 322.
PIER GROSOLANO E IL SUO BPITAFIO 9
Ad Ogni modo chi ricorda le direttive politiche dell'impera-
Commeni in generale, deve con-
tore Alessio in particolare e dei
venire che una eventuale missione religioso -politica di Groso-
lano era destinata all'insuccesso. L'imperatore Alessio conservò
sempre, anche in mezzo alle circostanze più difficili, un sentimento
esagerato della sua dignità personale. Sognando la restaurazione
dell' Impero Universale e il conseguente ricupero di tutte le
terre perdute in oriente e in occidente, aveva abbassato i cro-
ciati a strumento della sua ambizione e non volle considerarli
mai come degli alleati liberatori, ma soltanto come degli ausi-
liari da licenziare, senza compenso alcuno di terre, a impresa
finita. Di qui il mancato accordo tra greci e latini e l'esito a
tutti noto delle crociate (1). Bi qui anche l' impossibilità di un
accordo con Roma.
Durante la sua assenza, Grosolano fu deposto dagli avver-
sari, i quali elessero ad arcivescovo di Milano, il 1^ Gennaio 1112,
Giordano da Olivio, che avevano fatto venire di Francia, dove
trovavasi per studio. Giova ricordare però, se si vuol dare a
questa deposizione il suo giusto valore, che non pochi vescovi
furono contrari alla elezione di Giordano. Tra i quali Azzone
di Acqui, di cui esiste una lettera all'imperatore Enrico Y, ri-
ferita dal Muratori (Annali, ad. ann. 1112) e integralmente dal-
l'Eccard (Script. Medii Aevi, II, 266) dove si fanno i più grandi
elogi dell'ingegno e dell'eloquenza di Grosolano e della sua opera
in difesa degli interessi imperiali, mentre Giordano è dipinto con-
trario ai diritti dell'imperatore.
Di qui il Giulini ed altri, supponendo che Grosolano abbia
compiuto qualche atto più del necessari») favorevole al partito
di Enrico V, tentano spiegare come mai il papa si mostrasse
favorevole a Giordano, mentre pochi anni innanzi era stato fa-
vorevole a Grosolano.
Ma la spiegazione, come già si è visto, non regge ad un
esame sereno degli avvenimenti. Meraviglia che un parente della
contessa Matilde abbia fatto politica imperiale? Ma se la stessa
contessa Matilde (1044-1115) aveva giurato fedeltà all'imperatore,
contro tutti, fuorché contro il Papa? Si può pensare che Groso-
lano spingesse il suo imperialismo fin a mettersi contro il papa
e contro la sua consanguinea? Con ogni probabilità Grosolano,
poiché i tempi accennavano a mutare, si ricordò che è del saggio
(1) Sulla politica dei Comneni cfr. Kugler, Storia delle Crociate, ..
Milano, Vallardi. 1887, pp. 47-48 e pp. 566-567.
10 OMERO MASNOVO
adattarsi ai iQm[n quovì: la politica e appunto l'arte di appro-
fittare delle circostanze. E che aveva fatto Pasquale II, col-
I
Taccordo di Sutri, se non adattarsi alle circostanze?
Mj» Grosolano non sarebbe stato quell'uomo d'ingegno che
era se non avesse saputo dar al suo pensiero quell'espressione
che conveniva alla delicatezza del momento e all' importanza
degli uomini in lotta.
*
Giuseppe Ferrari nella sua « Storia delle rivoluzioni d'Italia »
trattando de « la guerra della investitura nelle città » scrive
questa bella pagina che illumina la politica estera delle città
lombarde di quest'epoca e spiega la loro graduale emancipazione
completa dal papa e dall'imperatore. « Quando Cesare trionfa,
« le città lombarde diventano pontificie per ricondurre il papa
« al campo di battaglia quando il papa trionfa, Roma e le città
;
« della nazione si fanno imperiali per moderare il loro capo le-
« gittimo, si schermiscono tutte manovrando in senso inverso
« delle vittorie pontificie o imperiali, rialzano continuamente
« quello dei due poteri che cade, raffrenano sempre il vincitore
« col vinto.. . »,
Cosi oscillando tra il papa e l' imperatore e adoperando
abilmente l'uno contro l'altro, a seconda delle circostanze, rie-
scono a liberarsi della tutela dell'uno e dell'altro.
Cos'era avvenuto nel 1092, al momento delle grandi vittorie
imperiali ?
« Precisamente perchè l'imperatore trionfa troppo, continua
« il Ferrari, e forse perchè i grandi insuperbiti diventano pro-
« vocatori, il popolo segue la contessa Matilde, la celebra come
€ una santa, e sforza l'arcivescovo retrivo a rivolgersi e a pie-
« garsi nella direzione del vento....
« Il concilio di Piacenza e quello di Olermont, il viaggio del
« papa che passa due volte da Milano, l'esplosione della cro-
« ciata agitano gli animi per modo che, alla morte di Arnolfo,
« l'imperatore non gli può dare un successore, l'elezione cade in
« balìa della città agitata, e i nobili sconfìtti sono ridotti a dare
« essi stessi al popolo Anselmo lY, uomo dabbene, sordo, in-
« capace e devoto alla contessa....
suo segretario Grossolano gli succede, egli pure pa-
« Il
« pista, né si parla di nomine imperiali e costui poteva cre- ;
« dersi rassicurato per sempre dalla vittoria pontificia e dal.
< fracasso della crociata...
PIER GROSOLANO E IL SUO EPITAFIO 11
« Ma SUO torto era appunto di essere eccessivamente
il
« vittorioso bisognava che Milano si sottraesse alla propaganda
;
« della contessa come si era tolta alPinfluenza dell' imperatore
« ed egli doveva attendersi o qualche scherzo della fortuna o
« che si voglia dire qualche burla politica ».
La burla che gli capitò è nota. Or come non potè ritornare
in Milano e fu costretto a rifugiarsi in Roma (1), mentre da[
papa era stato a^olto da ogni accusa? La nomina del monaco
Grosolano a vicario diocesano era stata facile, prima di tutto
perchè i benedettini erano potenti a Milano, dove officiavano le
chiese di Sant' Ambrogio, S. Vittore, S. Vincenzo in Prato,
San Simpliciano, S. Celso, S. Dionigi (2) in secondo luogo ;
perchè, nobile e imparentato con la contessa Matilde, anche
se alla sua scelta non contribuirono ragioni politiche, doveva
essere bene accetto agli ecclesiastici nobili che allora a Milano
facevano la pioggia e il ciel sereno. Gli ordinari della Metropo-
litana sopratutto, che provenivano dalla prima nobiltà, si oppo-
nevano a che le alte cariche fossero aperte a tutte le classi. Se
non che costoro ricchi per censo paterno e per lasciti ad essi
<<
elargiti »... sfoggiavano in preziosissime vesti e in distintivi lor
dignità, e tutta la cura ponevano nella maestà delle cerimonie
imponenti, nessuna nella intemerata probità della vita (3). Come
pertanto s'accorsero di non poter trarre dalla loro Grosolano (4)
presero a combatterlo, anche perchè era favorevole all'unione
della chiesa milanese alla romana e pure il popolo, a poco a
;
poco, dovette voltarglisi contro, perchè il popolo era avverso ai
nobili e a quella parte del clero che minacciava l'indipendenza
della chiesa ambrosiana.
Perciò la elezione di Grosolano ad arcivescovo non ebbe
quella unanimità di consensi che aveva avuto la sua nomina a
(1) Savio, op. cit. pag. 471. L' Argelati (loc. cit.) lo dice morto a
Roma nel monastero di S. Saba il 6 agosto 1117 e sepolto nella chiesa
di S. Sebastiano.
(2) C. Pellegrini, I Santi Arialdo ed JErlembaldo, Milano, Palma,
1897, pag. 26.
Pellegrini, ivi, pag. 25.
(3) C.
Grosolano fu ripetutamente ma invano invitato a indossare
(4) Il
abiti più confacenti alla sua dignità e a condur vita meno severa (cfr.
GiULiNi, loc. cit.) Non a lui possono indirizzarsi le invettive di Pier
Damiani contro i monaci dimentichi dei loro voti.
Tioafio e a vescovo di Savona. La condotta che contro m mi
tennero i patarini è sintomatica.
Grosolano, come suo contemporaneo card. Bernardo degli
il
U berti, il vescovo di Parma, innal-
fido consigliere di Matilde,
zato poi all'onore degli altari, appartiene a quella categoria
di prelati colti e integerrimi che, nell' infuriare della lotta tra
Impero e Papato, cercano, a comune vantaggio, di farsi media-
tori tra due contendenti.
i
L' uno e Paltro mirano ad evitare ogni causa d' irritazione
da parte delP imperatore, ed intanto pongono ogni studio nel
migliorare le condizioni della chiesa affidata alle loro cure e ne
procurano l'unione con quella di Roma. Si possono cioè consi-
derare come dei precursori del concordato di Worms (1122), che
si sente vicino. I continui scismi hanno logorato le forze della
Chiesa, le continue ribellioni quelle dell'Impero. Si fa strada il con-
vincimento che sia interesse comune metter fine ad ogni contrasto..
Gli avversarii accusarono Grosolano anche di simonia, peg-
giorandone la già scossa posizione. Ma chi ben consideri la vita
di quest'uomo trova che la stoffa del simoniaco non c'èj e trova
anche che non doveva poi essere molto grossolano un consan-
guineo di Matilde che aveva consuetudini con papi e impera-
tori. -• Per conto mio son disposto a credere, coli' Affò (1),
alla inconsistenza delle accuse di Liprando. Come può, serena-
mente, essere accusato di simonia un parente della contessa
Matilde, che sdegna gli agi del mondo per farsi monaco?
Molto probabilmente, senza l'insistenza dei legati milanesi
a volerlo loro vicario, egli sarebbe rimasto un eremita, tutto
assorto nei suoi studi severi e nelle sue pie divozioni. Ac- —
canto ai vescovi e ai preti dimentichi di Dio, viventi vita pa-
gana, vivevano a migliaia, nel secolo di ferro, gli eremiti, in
celle romite, sparse per monti e foreste Grosolano sarebbe
rimasto uno di costoro, fra l'ammirazione del secolo. Perchè la
stessa età che vede fiorire i simoniaci e i concubinarii, ammira
accanto ad essi, Domenico di Sora, Brunone di Segni, Gual-^
berto di Vallombrosa, Guido di Pomposa, Pier Damiani. I —
monaci, sperduti nelle foreste, sembrano all'imo della piramide
sociale; ma con la loro influenza escono dalle foreste e spesso,,
all'improvviso, spiccano il volo per andare ad occupare i più alti
gradi della gerarchia sociale.
(1) Affò, Vita di 8, Bernardo degli Uberti, Parma, Carmignanij.
1788, pag. 42.
PIER GROSOLANO E IL SUO EPITAFIO 13
Quanti papi non provengono dai monasteri sperduti nelle
campagne, lontani dalle ambizioni degli uomini?
Grosolano fu uno di questi solitari che si vide improvvi-
samente sbalzato in mezzo alla società. E 1' accusa di simonia
appare avventata sol che si pensi che S. Bernardo (1) dovette certo
non trovarla fondata, se gli portò il pallio, quando fu eletto arci-
vescovo di Milano, e se si considera che la congregazione val-
lombrosana ebbe in Italia grande efficacia nel promuovere la
riforma del clero e porse amica la mano alla pataria milanese.
Se in tanta mancanza di documenti anche qui è lecito pro-
eedere per congetture, pare a me che nocque al Grosolano, as--
sente, così la sua opera per la soggezione della chiesa ambro-
siana alla chiesa romana (2) come il suo ultimo atteggiamento
favorevole all'imperatore. Avvenne, dal momento che gli assenti
han sempre torto, che potè essere dipinto al popolo come nemico
e dell'indipendenza della chiesa ambrosiana e della libertà della
città di Milano. Di fatto il successore di Grosolano, Giordano
da Clivio (1112-1120), è obbligato a deporre dal vescovado di Cre-
mona Ugo di Noceto, già arcidiacono di Parma, perchè aveva rice-
vuto quel vescovado per investitura di Enrico V (3) e poco dopo, ;
avendo, nel 1128, l'arcivescovo Anselmo deciso di recarsi a Eoma
per ricevere il pallio che i predecessori di lui avevano sempre ri-
cevuto da un legato del papa « il clero e il popolo gliene fecero
« pubblico divieto e quando l'arcivescovo, nonostante il divieto,
;
« si recò a Eoma, i Milanesi occuparono tutte le castella del-
« l' arcivescovato e non gliele resero finché, tornato senza il
« pallio, non ebbe giurato a mezzo del suo avvocato di non
« avere in nulla acconsentito alle richieste del papa che voleva
« diminuiti i diritti della Chiesa milanese (4) ». Il popolo im-
(1) Affò, op. cit.
(2) Cfr. in proposito il diligente libro del Pellegrini, già più volte
citato e le pagine chiare e vivaci del Meda, loc. cit. dove è messo in
luce l'attaccamento quasi feroce dei Patari all'indipendenza dal papa e
dall'Imperatore e l'importanza dell'opera dei Patari stessi, i quali, smi-
nuendo sempre più l'autorità dell'arcivescovo nelle pubbliche ammini-
strazioni, favorirono sorgere del comune.
il
(3) Savio, op. cit pag. 473.
(4) Manaresi, op. cit. Introduzione^ p. XXXV. Sulle lotte di Roma
<5ontro l'autonomia della Diocesi di Milano e dei Milanesi contro il pri-
mato di Roma, cfr. anche Gianani, 1 Comuni (1000-1300) pag. 81 e sgg.
14 OMBRO MASNOVO
« pose la sua volontà, geloso custode dell' indipendenza della
sua chiesa e del suo comune (1).
Per quel fenomeno caratteristico del secolo X° e XF, chia-
mato accentramento di popolazione diversa e tanto bene illu- I
strato dal Volpe, una fiumana di forze fresche è immigrata in
città, dalla campagna, portandovi fermento rivoluzionario, spi-
rito d'indipendenza e libertà dai vecchi vincoli. A poco a poco
riesce a imporre la sua volontà all'arcivescovo, la cui autorità
nelle cose temporali va sempre piti declinando, finché tramonta
del tutto nel 1128, quando il potere del popolo, e con esso
quello dei consoli, diviene preponderante. In quello stesso anno
il popolo, nel generale parlamento, delibera, senza intervento
dell'arcivescovo, l'incoronazione dell'imperatore Corrado, e manda
una commissione dall'arcivescovo a sollecitarlo di recarsi a Monza,
per l'incoronazione (2).
che sta per incominciare una nuova era nella
Si capisce
storia di Milano. Per Grosolano fu grave sventura esservi arci-
vescovo in questo periodo di transizione, pieno di rivoluzioni
strane e di contraddizioni apparenti che sono tentativi di chia-
rificazione. È la nuova Italia del Comune che si preannuncia^
attraverso la crisi. È tutto un lento
rinnovamento
e profondo
sociale ed economico, morale e politico che si va maturando,
in conseguenza del sopravvento che lentamente ma decisamente
le forze locali hanno preso all'ombra delle immunità vescovili.
Queste forze mettono spesso in i)ericolo la pace, ma daranno
sempre difensori alla libertà.
dell'infuriare della lotta fra le varie classi cittadine i rap-
porti economici, giuridici, politici si trasformano vincendo a poco
a poco la resistenza degli interessati a difendere il loro privilegio.
Il potere vescovile, che ha toccato l'apogeo con Ariberto, è in
piena decadenza. « È come un potente risveglio, per dirla con
« Giacinto Eomano, per cui le energie latenti accumulate lungo
« il corso del X^ secolo esplodono e si affermano con una viva-
« cita che attesta la loro intrinseca vigoria e il formarsi di una
(1) Che sotto la spinta degli avvenimenti e prò bono pacis il papa
si mostrasse favorevole a chi era stato eletto al posto di Grosolano è
cosa che facilmente si comprende. Ma non bisogna dimenticare che
Grosolano doveva essere molto caro a Roma, se si prestava a favorire
la politica papale, pel trionfo della quale era necessario l'abbassamento
dell'autorità dei vescovi non meno che l'abbassamento dell'Impero..
(2) Manaresi, ivi.
riEK GEUSOLANO E IL SUO EPlTAFlO 15
« coscienza nuova, ancor vaga e incerta, ma in cui guizza il
« primo lampo di italianità e appaiono i primi segni di una at-
« tività indigena e popolare che non riceve piti l'impulso dal-
« l'Impero o dalla Chiesa, ma opera per forza propria in una
« sfera sempre più larga d'interessi e di aspirazioni (1) ».
Lo spirito d'indipendenza del popolo milanese di fronte alla
Chiesa romana è già stato illustrato. Il papato a sua volta,
per evitare l'inasprirsi della lotta, riconosce ad arcivescovo di
Milano il rivale di quel Grosolano, pure dianzi favorito. Il po-
polo canta vittoria perchè Giordano da Clivi o era il suo candidato.
Se poi vogliamo spiegarci ben nota condotta di Milano
la
di fronte all'Impero occorrerà prima por mente alla politica im-
periale verso le città italiane. L'Impero, premuto da forze con-
trarie, è costretto a procedere sopra una via su cui l'equilibrio
è difficile. « Esso osserva acutamente il Volpe, tener
deve,
« conto di chi ha
potenza e si è acquistata una solida posi-
la
« zione di fatto, ma non può voltare le spalle a chi possiede
« precedenti titoli di diritto.... Vi è qualche città dove abbiam
« l'impressione che il sovrano giuochi per un secolo all'altalena :
« or si accosta al Vescovo, orai Comune, avversi fra loro (2) ».
È dunque la difficile politica dell'equilibrio. Le città adotteranno,
nel loro interesse, questa stessa politica del pendolo.
non contenti di avere disputato intorno alle vicende
I posteri
del Nostro, disputarono anche intorno al suo nome.
Pier Grosolano è veramente Grosolano f
II nome Pietro risulta da antichi codici greci contenenti il
« De processione Spiritus Sancti > di Grosolano. Questo opu-
scolo fu pubblicato dapprima nella versione latina di Federico
Mezio dal Baronio (che giudicò erroneamente trattarsi di un
(1) G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia, p. 779.
(2) G. Volpe, Fer la storia delle giurisdizioni vescovili della costi-
tuzione comunale e dei rapporti tra Stato e Chiesa nelle città medie-
vali^ in Studi storici, Mi piace riportare anche le seguenti
1913, pag. 103.
parole del Solmi « Quella massa amorfa che, nei rozzi e lontani tempi
:
« carolingi, aveva appena acclamato alle deliberazioni dei grandi, che,
« più tardi, alPepoca dei re d'Italia e degli imperatori della Casa Sas-
« sone, era stata quasi dimenticata dalle assemblee e lasciata, tra le
10 OMEKr- MASNOVO
frani aieiii<;; in-^n Annali KccUmastici sotto l'anno 1116. Alla
traduzione latina del Mezio aggiunse il testo (rreco Leo AI-
latius (1).
La lezione Grossolano, adottata da alcuni, quasi fosse so-
prannome dispregiativo, merita appena di venire accennata,
sebbene sia cara ancbe al Muratori. AnnaliIl quale negli «
d'Italia » scrive: « Crisolao, chiamato Grossolano dal popolo, a
« cui quel nome greco dovette parere alquanto straniero. Egli
« era vescovo di Savona, uomo assai dotto, sapea predicare al
« popolo e nell'esteriore affettava grande mortificazione, sommo I
« sprezzo del mondo, usando vesti grosse e plebee, e cibi vili
« dopo molta astinenza....
« Probabilmente Grossolano era qualche calabrese che sapea
« bene il suo conto, ed anche fu intendente della greca fa-
« velia (2) ».
Di Grossolano o anche Grosolano come soprannome popolare
nessuno scrittore antico ci fa parola: nemmeno Landolfo juniore
nella sua « Historia Mediolanensis », contemporaneo e tanto
< mura da cui trasse con la ricchezza. Le
cittadine, alle opere solerti,
« virtù rinnovatrici che più tardi aveva seguito il proprio vescovo o
-,
< il proprio feudatario a far mostra delle armi rilucenti al 8oie«. ca-
€ piva ormai di intrecciare le salde maglie di una nuova, possente or-
« ganizzazione ». Solmi, Le diete imperiali di Boncaglia. Parma, R. Dep.
di storia patria, 1910, pag. 67.
(1) L. Allatius, Graecia Orthodoxa, tom.
I, pag. 379 e seg.
Il MiGNK riprodusse greco e la versione nella Patrologia
il testo
latina^ voi 162 e nella Patrologia Graeca, CXXVII, 911. Il titolo pre-
ciso dell'opuscolo suona così : IlsTpou sTrco-y-dirou MeSioXavojv, tzoòc tòv
BaatXsa x'jptov 'AXe^cov tòv Rou-vrivov 'k6'^o<; (Tuvt(7Tc5v tò ay.rops'JsaOai: tò
irveujxa xò aytov ix tou Harpò^, òiloIoì^ xai Ix tou utotJ, e cioè : e Discorso
< di Pietro Vescovo dei Milanesi all'Imperatore e Signore Alessio Com-
« neno per dimostrare che lo Spirito Santo procede dal Padre e simil-
« mente dal Figliuolo ». È taciuto pertanto il nome di Grosolano e l'au-
tore è detto semplicemente < Pietro Vescovo milanese ».
Per la attività letteraria del nostro si veda: F. Argelati, Bihlio-
theca scriptorum mediolanensium^ tomi primi, pars altera, pag. 712, Me-
diolani, 1745 che cita dal Tritemio, loco citato. Krumbacher, Geschichte
;
der byzantinischen Litteratur. Munchen 1897, pag. 85: Hurter, Nomen-
clator Voi. IV, 10 sotto la voce Petrus Chrjsolanus.
(2) Muratori, Ann. d'ital. Lucca, 1763, tom. VI, p. 288, ove anche
si legge dell'appoggio datogli, nella lunga lotta che ebbe a sostenere
contro il prete Liprando, dalla contessa Matilde e dal card. Bernardo,
abbate di Vallombrosa e Vicario di papa Pasquale in Lombardia, resi-
PIER GROSOLANO E IL SUO EPITAFIO, 17
ostile a Grosoiano. Penso che la lezione Grossolano non abbia
diritto a verun credito, e sia una corruttela di qualche ama-
nuense o di qualche editore.
Il Ghronicon di Ehkheardo, contemporaneo del Nostro e pra-
tico delle cose italiane, legge sempre Grrosulanus (1), similmente
^annalista sassone (2). Le varianti riportate in nota danno Gro-
solanus, mai Grossolanus. Si aggiunga che il « Oatalogus Ar-
« chiepiscoporum Mediolanensium », edito da L. Bethmann C
e da W. Wattembach, su di una pergamena del capitolo della
metropolitana milanese (3), legge Grosolanus. Ora i nomi degli
arcivescovi del secolo XII sono scritti su questa pergamena da
mano contemporanea. Anzi legge Grosolanus anche l'edizione
fattane in E. I. S. tomo lY, 141 (4). Kon va taciuto che il Pu-
ricelli allega documenti dove Grosolanus pone la propria firma
insieme con quella di altri personaggi (5).
Quand'anche non si potesse rimanere perfettamente tran-
quilli circa l'autenticità di questi documenti allegati dal Puri-
celli, resterebbe sempre il fatto grandemente significativo che
l'antichissimo falsario conobbe la lezione Grosulanus, ma punto
l'altra Grossolanus. D'altra parte, Grosulanus o Grossolanus, l'e-
ventuale falsario non poteva certo porre sulla penna di Grosso-
lano, chinato alla firma, un nome di scherno.
Di fronte a tutto ciò la lezione Grossolanus perde ogni va-
lore, nonostante sia usato dagli editori della Historia Mediola-
dente presso la contessa Matilde. A spiegazione del favore di detto
cardinale, « alcuni van sospettando, (non so se con valevole fondamento)
« dice il Muratori, che Grosoiano fosse prima al pari di Bernardo Car-
< dinaie, Monaco Vallombrosano ».
Circa il favore del card. Bernardo e della contessa Matilde v. anche
GiULiNi, op. cit. parte IV, pp. 471-473.
(1) Edito con suprema diligenza dal Wacht di su codici ben colla-
zionati del sec. XII in « Monumenta Germaniae historica », 8criptorum,,
tom. VI. Il Ohronicon di Ehkheardo fu attribuito fin quasi a ieri al così
detto Urspergensis (ctr. la Prefazione in questo stesso tom. VI).
(2) Ibidem.
(3) Mon. Germ. Hist., Scriptorum tom. VIIL
(4) Nelle Antiquitates Medii Evi, tom. Ili, pag. 919, B, il Muratori
scrive « Grosulanus, ut habet Landulfus a Sto. Paulo », cioè appunto
:
il luniore.
(5) loHANNis PuRiCELLi,... Ambrosianae Mediolani Basilicae... Monu-
mentorum singularis Descripfio. Ed. novissima, Lugduni Batavorum,
pag. 220.
Arch. Stor. Lornb., Anno XLIX, Fase. I-II. 2
18 OMBEO MASNOVO
nensis di Landolfo Juuiore in H. 1. S. (1), i quali editori noi>
ebbero modo di adoperare le cautele critiche degli editori tedesch»
surricordati.
Per documenti, anzi, non solo viene scartata la le-
i citati
ma torna legittimata la lezione Orosolano, libera
zione Grossolano
ormai da una esse sovrabbondante e impertinente e da ogni
significato dispregiativo.
Grosolano è dunque la buona lezione. Ma perchè allora
questo povero Grosolano lo dicono anche Crisolao e Crisolano?'
Il Muratori, come s'è visto, sta per Crisolao similmente il ; I
Hurter. Invece il Tritemio, il Baronio e il Krumbaker stanna
per Crisolano. Il Giulini ci riferisce così l'epitafio dedicatogli in^
Roma:
Insubrius Patriae Chrysolaus gentis alumnus
Ambrosiae praesul Kelligionis eram
RomaDa lasso prò te non itala tantum
Lustrata est omnis Parrhasis ora mihi.
Invida mors meritum nihil est quod tollis honorem,
Pensata aeternis sunt mea damna bonis (2).
Fermiamoci un momento sul curioso epitafìo.
Si rileva a prima vista che noi dovremmo essere innanzi »
tre distaci in buona regola e invece non ci siamo. Basta questo
a convincerci che l'epitafio noi lo abbiamo dinanzi agli occhi in
uno stato di corruzione. Convinzione che mette radici sempre
piii profonde ad ogni inutile tentativo di cavarne una traduzione
comunque plausibile.
(1) Tom. V. Landulphi jumorìs Mistoria Mediolanensis ab anna-
•
MXCV usque ad annum MCXXXVII. L'edizione fu curata da Gius. An-
tonio Sassi (Saxius). L'edizione in corso dei R. I. S. non ci ha dato
ancora VHistoria Mediolanensis di Landolfo luniore.
GiULiNi {op. cit. voi. Ili, pag. 68 e seg.) e anche il Pdricelli
(2) Il
pp. 251-252) derivano quest'epitafio dalle annotazioni del Fon-
{op. cit.
tana ad un catalogo degli Arcivescovi milanesi. II Fontana a sua volta,
ci fa sapere che lo derida dalla collezione di iscrizioni fatte dall' Apiano:
« Inscriptiones Sacrosanctae VetiLstatis non illae quidem Bomanae sed
« totius fere orbis summo maximis impensis terra mariquie
studio ac
« conquisitae feliciter incipiunt •», V. Jìaccolta del Fontana (fol. 20,
verso, nel. cod. Ambrosiano, V, 35 sup.) che trasse l'epitafio « Ex indice
« librorum impresso ultimo: Romae in S. Sebastiani ex Appia ex libro
« epitaphiorum Card. Varalii >. Anche I'Argelati (loc. cit.) riporta l'e-
pitafio che dice di avere desunto ex Appiani Epitaphiis.
PIER GROSOLANO E IL SUO EPITAFIO 19
Si può restituire l'epitafìo allo stato genuino! La via mi-
gliore sarebbe certamente quella di ricorrere alla chiesa romana
che l'ospitò, o sia essa S. Saba o sia S. Sebastiano (1). Sfortu-
natamente ne Puna ne Paltra chiesa ha oggi una sola parola da
dirci. Il Forcella, che raccoglie tutte le iscrizioni delle chiese
romane dal secolo XI a quasi tutto XIX, non dà l'epi-
il sec.
tafìo nessuno de' suoi quattordici grossi volumi (2), segno
in
manifesto che il tempo molto ha distrutto anche a Eoma da
quando venne compilandosi la raccolta di Apiano, alla quale at-
tinse a' suoi dì il Fontana, da cui dipendono il Giulini e gli
altri. Ma come mai il Forcella che, oltre a togliere direttamente
dalle chiese e dagli altri edifìci, si giova dei precedenti racco-
glitori, non trovò in Apiano l'epitafìo in discorso?
A dir vero anche l'Apiano da me consultato, ch'è l'edizione
di Ingolstadt del 1534, ignora l'epitafìo di Grosolano (3). Ciò
non pertanto io non intendo contraddire alla veridicità del Fon-
tana; il quale potè usare edizioni sfuggite a me e al Forcella,
o più probabilmente qualche edizione con aggiunte manoscritte.
Che simili aggiunte costumassero lo prova la stessa edizione che
io ho tra mano.
Preclusa la via della critica esterna, ci aiuta alla restitu-
zione del testo originale la critica interna (4). Vediamo dunque
di restituire per questa via i tre distici originali, sì che gli esa-
metri ei pentametri non zoppichino e il senso corra.
Nel primo distico 1' esametro è male in gambe. Fino a
Cryso, inclusivamente, tutto procede bene; sono tre dattili.
Anche il « gentis alumnus » ci dà il dattilo e lo spondeo
(1) Vogliono alcuni (Giulini, op. cit. a. 1117, Savio, op. cit. pag. 471)
che Grosolano, morto il 6 agosto 1117, sia stato sepolto nel monastero di
monaci greci in San Saba, posto sul monte Aventino.
(2) Vincenzo Forcella, Inscrizioni delle chiese e d^ altri edifici di
Boma dal secolo XI fino ai giorni nostri, 1869-1884. Roma.
(3) Petrus Appianus, Inscriptiones sacrosantae veiustatis totius fere
orbis undique conquisitae^ Ingolstadii, 1534.
Della legittimità dell'epitafio alcuni hanno già dubitato. Il Giu-
(4)
lini per es., il quale però (op. cit. voi. Ili, libro XXXI, anno 1117) si
limita a dire « Veramente quell'epitaflo non sente molto dello stile di
:
« que' tempi ». Ma si ferma qui e lascia sub judice la questione, ben
lontano dal pensare che gli esametri fossero sbagliati. Sulla manìa per
gli esametri, propria di quel secolo, e sull'uso seguito nella loro com-
posizione, cfr. G. GlESEBRECHT, De Utterarum studiis apud Italos primis
meda aevi saeculis. Berolini, 1845, pp. 20-25.
20 OVtKIiO MASNOVi
(o trocheo) Occorrerebbe per esametro un altro dattilo o
tìiiali. i
un Ma la sillaba che resta disponibile in Cryso-
altro spondeo.
laus, cioè lau8, non basta a darci né un dattilo né uno spondeo.
Provvisoriamente leggiamo l'esametro così :
Insubrins Patriae Chiysolanae j^entis aluoinus.
Ecco che Tesametro torna: non così il senso. Ma la gramnSS"
tica ci avverte subito dicambiare il genitivo patriae nell'ablativo
patria. Possiamo cosi leggere il primo distico nel modo che aegue :
Insubrius patria Chr.^^solanae gentis Alumnus.
Ambrosiae Praesul Relligionis eram.
Qui verso e senso corrono. E il senso è « Io, insubro di :
«patria, alunno della gente Orisolana, sono stato presule della
« Chiesa (Religione) Ambrosiana ». È yero che nelPepitafio ver-
rebbe così a scomparire il nome del trapassato. Ma è legittimo
pensare che l'epigrafista potè credere di averlo indicato egual-
mente in modo chiaro, alla stessa maniera che nell'opuscolo
« De processione Spiritus Sancti », come già è stato rilevato,
era stato taciuto il nome dell'autore. Segno è che per quel
tempo, dovette essere ritenuta piiì. che sufficiente per il ricono-
scimento di Grrosolano la sola indicazione di « Presule della
« Chiesa Milanese ». D'altra parte chi può dire che noi siamo
davanti ad una epigrafe intera? E l'interpretazione « Crysolanae »
per « Chrisolaus » appare ancora più legittima se si pensa che Gro-
solano non si chiamò né si firmò mai Crisolao. li^ome che molto
probabilmente ebbe origine dall'errore che or correggiamo, più
che non sia stato dato al nostro dai Greci. Quando infatti i
greci avrebbero chiamato il nostro Crisolao? I^on certo prima
della sua andata a Costantinopoli.
E allora come può essere « che il popolo milanese alle cui
« orecchie per avventura riusciva duro quel nome (Crisolao),
« chiamasselo Grossolano (1) » se, per le note ragioni, Grosolano,
dopo la sua partenza per l'oriente, non potè più far ritorno in
diocesi? Il Giulini invece (2) e il Tiraboschi (3), pensano che
veramente si chiamasse Grossolano « benché poi per una cotal
(1) Muratori, Annali, a. 1102.
(2) Giulini, op, cit. pag. 434.
Tiraboschi, Storia d. Lett. Modena, 1787, HI, 324-329. Anche
(3)
il il nostro col nome di
Morcelli chiama Crisolao {Operum EpigrapM-
eorum, IV, 178).
PIER GROSOLANO E IL SUO EPITAFIO 21
« affettazione di grecheggiare si cambiasse il nome in quello di
« Crisolao Ma, ripetiamo, se tanto Grosolano teneva a quel nome
».
derivato dal greco come avviene che non si firma mai Crisolao?
Passiamo al secondo distico:
Romana lasso prò te non itala tantum
Lustrata est omnis Parrhasis ora mihi.
Anche qui l'esametro non è scevro di difficoltà. Faremo no-
minativo quel < romana »? Allora non c^è ne senso né verso.
Basta provarsi a tradurre per convincersi che non c'è senso.
Non c'è verso perchè l'a finale del nominativo « romana » è
breve, mentre, o stia nell'esametro a cominciare un dattilo o stia
a cominciare uno spondeo, dovrebbe essere lungo.
Faremo ablativo quel « romana » ? In tal caso l'esametro
si regge : ma non per questo ci guadagna il senso. Con chi con-
cordare quel « romana »? A
chi riferire quel « prò te »? Pro-
viamoci a trasformare l'esametro così:
Romane, inlasso prò te non itala tantum
Lustrata est omnis Parrhasis ora mihi.
Ognun vede che i piedi dell'esametro sono ora in perfetta
pegola. E il senso? Chi non ode in questo distico, sopratutto in
quel « mihi inlasso » tutto il fato dell' uomo, povero vian-
dante stanco, che riposa finalmente nel sepolcro? Al romano,
glorioso della sua antica fede e della sede papale, che si ferma
iin momento dinnanzi al tumulo, egli racconta quel che ha fatto
appunto per la fede e per la sede papale. Oh romano, per te io
trascorsi senza posa non soltanto l'itala ma pure la greca con-
trada. Dopo tanta aspra fatica ecco sopravvenire la morte invi-
diosa a privarlo della meritata ricompensa terrena. Solo grande
conforto, il pensiero della mercede celeste. Di qui il djstico
danno che tu mi arrechi, o morte invidiosa, è di gran
finale. Il
lunga compensato dai beni eterni a cui mi avvìi.
Invida mors meritum nihil est quod tollis honorem
Pensata aeternis sunt mea damna bonis.
Grosolano, veramente insubro, stato arcivescovo di Milano
e poi deposto, andato a Costantinopoli e tornatone dopo aver
disputato con onore sulla processione dello Spirito Santo dal
Padre e dal Figliuolo davanti all'Imperatore Alessio Conmeno,
non poteva dettare per sé, omai morituro, diverso epitafio se :
altri lo dettò, fu certo un amico fedele.
Vero è che il Fontana dà l'epitafio come appartenente alla
HL' ('MERO MASNOVO
Chiesa di S. Sebastiano, mentre Grosolano, secondo testimonianze
contemporanee, morì nel convento di S. Saba e in S. Saba fa
sepolto: ma ciò ostacoli contro V autenticità del-
non crea
l'epitafìo quando che la salma di Grosolano potè es-
si ritletta
sere trasportata dalla Chiesa di S. Saba a quella di S. Sebastiano.
Alla peggio lo scambio di S. Sebastiano con S. Saba, per parte
del Fontana, trova un'equa e plausibile spiegazione nella somi-
glianza delle sillabe iniziali dei due nomi; talché il malaccorto
Fontana potè pensare di trovarsi innanzi ad un'abbreviazione o
ad una trasformazione di Sebastiano. I
Ma e quel « Crysolanae gentis alumnus » non ci fa pensare
proprio niente intorno al nostro Grosolano, quasi contemporaneo
di S. Pier Damiani, consanguineo della contessa Matilde di Ca-
nossa, e nel 1102 insediato Vescovo di Milano da quell'ascoltato
consigliere di Matilde che fu il card. Bernardo degli Uberti,
prossimo omai - e sarà nel 1106 - a diventare vescovo di Parma?
Chi è insomma questa Crysolana gens!
Al casato non si allude di certo. Per le considerazioni fatte
"
sopra, il casato è Grosolanus. Di piti la voce Crysolanus, di
sapor greco, non può indicare il casato insubro (insubrius patria)
di questo consanguineo di Matilde. D'altra parte a qual prò
grecizzare, sia pur dentro la greca chiesa di S. Saba, Grosolanus
in Crysolanus, mentre l'epitafìo rivolge la parola al visitatore
romano? Allora è da pensare che la Crysolana gens ci richiami
ad una cittadinanza, in mezzo alla quale Grosolano fu allevato.
Similmente nei versi proemiali del racconto « De Paulino et
Polla » la venusina gens è la cittadinanza di Venosa (1).
(1) F. Gabotto, Storia delV Italia Occidentale nel Medio Evo (395-
1313) I, 601 e segg., fa opportune considerazioni sulla evoluzione del-
l'onomastica nell'Italia occidentale di questo periodo. Sotto l'azione di
nuovi fattori delia vita e dello spirito, non in antitesi ma indipenden-
temente dal cristianesimo (la cui grande influenza sulla trasformazione
della onomastica è nota) sorge una nuova categoria di nomi che è espres-
sione di amore e di orgoglio cittadino. Si incomincia a sentire e si diffonde
l'orgoglio di chiamarsi torinese a Torino, astigiano ad Asti, piacentino a
Piacenza ecc. È indubitato che Grosolano dovette tener molto a passare
anche in vita per alunno crisolano se, morto, volle ricordata sulla sua
tomba questa sua qualità. Per qual ragione ? Per dirci che aveva attinto
alle più pure fonti del sapere d'allora. Non obbediscono agli stessi mo-
tivi sentimentali coloro che oggi s'affrettano a far noto che hanno
perfezionato all'estero i loro studi? Bei tempi quelli di Grosolano^
quando il perfezionamento si poteva fare in Italia!
PIER GEOSQLANO E IL SUO EPiTAFlO 23
Hoc acceptet opus Fridericus Caesar et illud
Maj estate juvet atque favore suo
Cujus ad intuitum venusinae gentis alumnus
ludex Richardus tale peregìt opus (1).
Adunque l'insubro Grosolaao come ci indica la terra che vide
la sua infanzia e la chiesa retta dalla sua virilità, così anche ci
indica la gente o cittadinanza in mezzo a cui trascorse la sua
adolescenza studiosa. Ohi è pertanto questa gens Orysolana?
Quest'aurea gente chi è?
Se penso che nel sec. XII, come canta Donizone (2), Parma
conservava ancora, anzi metteva a nuovo il suo bel nome di
Orysopoli o città d'oro, datole dai greci nel secolo YI (3) se ;
(1) G. A. Cesareo, La poesia italiana sotto gli Svevi^ Catania,
Giannotta, 1894, pag. 9; —
Amari, Storia dei mussulmani di Sicilia.
Firenze, Le Monnier, III, 693, n. 2.
(2) Donizone, Vita Mathildis, 1. I, e. 10 (in R. I. S., V, 354).
Chrisopolis dudum Graecorum dicitur usu,
aurea sub lingua sonat haec urbs esse latina,
Scilicet urbs Parma, quae Grammatica manet alta:
Artes ac septem gloriose sunt ibi lectae...
Che poi Parma, anche tra il X'^ e l'XP secolo prima
ossia cent'anni
che le scuole parmensi avessero raggiunto il loro massimo splendore,
fosse chiamata Crisopoli, Io dice apertis verbis Pepitaiìo posto sulla
tomba dei due vescovi e conti di Parma, e riportato dal-
Sigefridi,
PAffò {Storia di Farma) Voi. I, pag. 275).
Magnus in angusto Sigefredus uterque sepulchro
Exiguum fieri magna cadendo notat
His tua tunc Parma valuere valentibus arma
Unde Grisopolis quae vocitaris eras
Cura gregis, pietas inopis, vigilantia mentis
Vere Pontifìces hos viguisse probant
Discite, Pastores, ad eorum vivere mores
Servavere suas qui vigilanter oves.
Adunque già coi Sigefredi « con questi valorosisi imposero un dì
« le tue pure armi, o Parma, sicché veramente Grisopoli,
eri (fosti)
quale sei chiamata ». E più a ragion sarà chiamata Crisopoli ai tempi
della contessa Matilde. Infine che questo nome Crisopolis fosse popolare
anche più tardi lo prova un rogito, in data 6 agosto 1291, del notaro
Grisopolo Capra (Affò, Mem. d. scrii, parm. I, 254, nota 3).
(3) Ireneo Affò, (Storia della città di Parma. Parma, Carmignani,
1793, tomo l, pag. Ili) scrive che Parma ebbe questa aggiunta di città
24 OMERO MA SNOVO
penso che tra il decimo primo e il decimo secondo secolo, in
Italia e in Europa, Parma teneva la palma della cultura (l),.
trovo naturale che la Crysolana gens sia la cittadinanza par-
migiana. E questo mi pare tanto piìi naturale se penso che Gro-
solano, un consanguineo di Matilde, non poteva trovare di me-
glio che recarsi per istudio a Parma, come già Pier Damiani.
A meno che non si voglia intendere per Gr isolana gena la I
popolazione di Crixolum o Orixiolum o Orixolium, nome antico
di Crissolo, comune della provincia di Cuneo, che consta di.
parecchie frazioni ricche di monti, di grotte, di foreste ecc. (2).
delPoro « fosBe che la opulenza e la fertilità de' suoi terreni le meri-
« tasse tale appellazione o pure che l'imperiale erario pe' militari sti-
« pendi qui custodito città dell'uro dir la facesse ». Bazzi e Benassi
(Storia di Parma^ Parma, Battei, pp. 6-7) sono dello stesso avviso. A
me pare cbe non potesse essere la fertilità dei terreni circostanti a me-
ritare a Parma tale appellativo, perchè allora tale appellativo avrebbe
dovuto esser dato a non poche altre città d'Italia. È probabile invece
che Parma meritasse dai greci il nome di Crisopoli perchè vi era custo-
dito l'oro dell'erario imperiale. Non è per una ragione identica che
Scutari d'Asia, e cioè una delle tre città che componevano e compon-
gono la città di Costantinopoli, era stata dai Greci detta Crysopolisì
Scutari fu detta Crysopolis per la circostanza che i re persiani vi ra-
dunavano il tesoro formato dalle contribuzioni levate sulla Propontide.
(Cfr. Marchi, Dizionario tecnico-etimologico e filologico. Milano, Pirola,
I, 230). Non
occorre grande ingegno per indovinare che l'oro conservato
nelle casse parmensi a disposizione dei greci, proveniva, se non tutto
in gran parte, dalle contribuzioni riscosse in Italia e viene spontaneo
pensare che i greci trapiantassero tra noi un nome cbe avevano in
casa, a portata di mano, e che non si prestava a dubbie interpretazioni.
Coll'andar del tempo il nome di Crisopoli, dato a Parma, assunse il
significato di città fiorente per gli studi, fu sinonimo di Atene d'Italia.
Epoiché sono nell'argomento mi piace rilevare un'altra analogia
tra Scutari e Parma. Etimologicamente tanto l'una quanto l'altra vo-
gliono dire « scudo ». Scutari deriva dal greco txtjtoc (lat scutum) : =
scudo. Parma dal greco Ilàpaa (lat: Parma) =
scudo. E chissà che anche
questa analogia non abbia avuto il suo peso nella determinazione dei
greci.
Per Giuseppe Pregni invece la voce Parma sarebbe composta dalle
tre parole p-ar-ma- che vorrebbero dire per armare la mano » e Parma
<<
sarebbe stata un centro di fabbricazioni di scudi, armi in genere. Cfr. il
suo opuscolo « Sulle origini della voce Parma^ Modena, Ferraguti, 1913 ».
(1) Cfr. TiRABOSCHi, Storia d. leti. ital. libro IV, cap. XI.
(2) Casalis, Dizionario geografico storico degli stati sardi. Voi. V, ,
PIER GKOSOLANO E IL SUO EPITAFIO 25
Benché sui confini della Francia, non è molto lontano da Savona
e si presta a spiegare come nelle sue vicinanze Grosolano fosse
incontrato dai messi dell'Arcivescovo di Milano.
Macome intendere ragionevolmente la parola alumnus ? Ohe
cosa Grosolano poteva avere imparato fra i monti e le foreste
il
di Orissolo? Chi volesse sostenere questa interpretazione po-
trebbe peraltro ricordare che nel medio evo la parola alumnus
era anche sinonimo di nutrito, allevato, famulo (1). In attesa
che altri documenti confermino la provenienza del Nostro dal
territorio di Cuneo è bene stabilire fin d'ora, chiaramente, la
poca attendibilità del docuniento pubblicato dal Moriondo, se-
condo cui il Grosolano apparirebbe, il 21 gennaio 1090, pre-
posto della Chiesa dei Beati apostoli Pietro e Paolo di Ferrania.
« De sinceritate huius cartae » molto si è discusso e ormai
quasi tutti concordano nelP ammetterne la falsità (2). Senza
contare che qualora nel primo verso dell'epitafio si dovesse leg-
gere Crixolanae invece di Crisolanae l'esametro non correrebbe più.
Comunque sia le scuole parmensi, sopratutto nella seconda metà
del secolo XI, erano tanto in onore da non parermi dubbio che
un uomo come Grosolano non abbia facilmente ceduto alla
tentazione di stabilirsi per qualche tempo fra le mura della ri-
dente città emiliana per ascoltare le dotte lezioni de' suoi illustri
maestri.
Affò lasciò scritto che a Parma « con tal favore si
Ireneo
« diede opera a far le buone lettere e le arti liberali fiorire,
« che in breve volger di anni le scuole di Parma chiamarono a
« sé i giovani piti svegliati del secolo (3) ».
In realtà non soltanto a Parma fiorirono le scuole, in quel
tempo, ma in tutta l' Italia settentrionale. È noto il pgiuizio
espresso dal monaco Benedetto di S. Michele alle Chiuse in-
torno alla cultura dei vari paesi da lui percorsi. « In Aquitania,
pp. 645-652. Crissolo, circondario di Saluzzo, mandamento di Paesana,
feudo dei marchesi di Savona, comprende nel suo territorio le sorgenti
del Po, ossia gran parte del Monviso.
(1) cfr. Du Gange, Glossarium mediae et infimae latinitatis.
(2) MORIONDO, Monumenta aquensia, Torino, 1790, Voi. 2°, pag. 766.
Questo passo del Moriondo sembra sfuggito all'attenzione del Savio
(op. cit. pag. 472). Secondo il Casalis {op. cit. Ili, 292) la parrocchia di
Ferrania sarebbe stata fondata il 24 febbraio 1097. V. anche Kehr,.
op. cit. voi. VI, parte 2% pag, 188 (Ferrania).
(3) I. Affò, Storia di Parma, II, 2.
lm> omero masnovo
così egli sarebbe stato solito dire, se vogliamo prestar fede ad
« Ademaro di Chabannes, Aquitania nalla sapientia est
in ;
« aliquis de Aquitanis parum didicerit
omnes sunt rustici et si ;
« grammaticam, mox putat se esse Virgilium ». E dopo aver
detto che in Francia la cultura è povera cosa « in Francia
« est sapientia, sed parum » ci fa noto che fonte di ogni dot-
trina gli sembrava invece la Longobardia ossia l'Italia Superiore,
perchè per una consuetudine invalsa, si chiamava con tal nome
tutto il vasto territorio bagnato dal Po. « In Longobardia, ubi
« ego .plus didici, est fons sapientiae (1). »
Queste parole, nota il Novati, (2) sono divenute famose e...
debbono certo tenersi in gran conto come « tipica condizione di
reali condizioni di fatto ». A sua volta V Affò, (3) accennando
appunto alle parole di Benedetto osserva che Parma, a buon
diritto, poteva arrogarsi parte di quella lode attribuita alla
Lombardia. Perchè se è vero, come giustamente ha osservato il
Kovati (loc. cit. pag. 357) che « dovunque, in quegPanni, al-
« l'ombra delle cattedrali sorgenti in seno alla città {tornate
« frequenti di popolo, nelle verdi solitudini delle campagne,
« dove i grandi monasteri dilatavano incessantemente i mansi
« ed i colti una moltitudine irrequieta di scolari s' aff'ollava di-
« nanzi alle cattedre di celebrati dottori » è pur vero che fra
questi dottori, fra questi magistri scolarum il piti illustre, non
solo in Longobardia, ma anche al di là delle Alpi, era il par-
mense Drogone, flos et Italiae decus, colui che era detto il
maestro dei maestri, magistrissimus. A sentirlo, « convenivano
a Parma da ogni parte bramosi gli uditori », come ci informa
il Nevati, il quale (4) ha studiato da pari suo la parte rappre-
sentata nella cultura italiana e nella vita parmense^ a mezzo il
secolo XI, da questo dottore famoso. Beatrice di Lorena non
aveva inviato a Parma, fino da Liegi, quel Lamberto Seniore,
che doveva poi rendere insigne, per le sue virtù e il suo sapere,
il chiostro di S. Uberto delle Ardenne? (5) Kon è questa la più
(1) MiGNE, P. L., to. CXLI, e. 107-108.
(2) Le origini, pag. 356.
(3) Storia di Parma, II, 24.
(4) NovATi, op. cit, pag. 357 e segg. ; pag. 369 e segg.
(5) NovATi, op, cit. pag, 368. Lamberto, giunto a Parma, « filosofò
4 per alcun tempo nella scuola di Drogone ». Sulla eccellenza delle
scuole di Parma cfr. pure Gr. Gtiesebrecht, De liUerarum studiis apud
1 talos primis medi aevi saecnlis, BeTolinì, 1845 pag. 14, dove sono ripor-
PIER ^ROSOLANO E IL SUO EPITAPtO 27
bella prova della reputazione di questo illustre maestro, se fin
da Liegi accorrevano sulle sponde del Parma per ascoltarlo?
A questo punto viene naturalmente fatto di domandarsi se
Grosolano imparò a Parma il suo greco. S^ impartiva dunque,
nella tanto celebre scuola di Parma del sec. XI anche V inse-
gnamento del greco?
Senza volere per ora approfondire la questione, certo è ormai
che, nel secolo XI, le condizioni intellettuali del nostro paese
furono assai migliori di quanto comunemente si creda e che,
per dirla col compianto Novati, « accanto ai latini continuarono
a mantenersi in onore gli studi greci e questo non soltanto
:
nella parte inferiore della penisola, dove la tradizione bizantina
vigoreggiava mirabilmente nella corte di Salerno, di Napoli, ne^
frequenti cenobi basiliani, ma nella media ancora e nella su-
periore Eoma, grazie sopratutto alla Schola cantorum, in Mo-
:
dena forse, certo in Milano, in Pavia, in Parma, in Verona, (1) ».
E anche ammettendo per vero quanto ha osservato il Fer-
rai, che cioè il rinascimento intellettuale avveratosi nel sec. XI
« non ebbe efficacia sufficiente a rianimare gli studi religiosi
« sui testi greci nell'alta e nella media Italia » resta pur sem-
pre, come è ricordato dallo stesso Ferrai, che « nelle dispute
« insorte tra i seguaci di S. Arialdo e i partigiani dell' arcive-
« scovo Guido da Telate, sorsero in favore dell'audace novatore
« tre diaconi, che citavano testi greci (2) ».
Perchè trovare eccezionale il fatto, pel solo motivo che
Landolfo lo accenna, e concludere senz'altro che « egli escludeva
« così che ad altri fossero dischiuse così facilmente le fonti ge-
« nuine della dottrina dei padri? » A me pare un po' forte
tate anche le lodi cantate da Donizone « barbarie quidem versibus »
Lo stadio di Giovanni Mariotti, « Memorie e Documenti per la storia
« dell'Università di Parma nel Medio Evo, Parma Battei, 1888 > è
sempre fondamentale per chiunque voglia studiare quest'argomento.
Occorre però tenere presenti le osservazioni fatte al riguardo dal
No VATI {Le origini pag. 369 e s>gg).
j
(1) Fr. Novati, L'influsso del pensiero latino sopra la civiltà italiana
del Medio Evo. Milano, Hoepli, 1899, pag. 50. Circa la cognizione del
greco nell'Italia superiore in quell'epoca vedasi la nota 88 a pag. 179.
(2) L. A. Ferrai, Il De sito urbis Mediolanensis e la Chiesa Am-
brosiana nel sec. X
in Boll. deir/«t st. it. n. 11, 1892, pag. 122. A me
basta solo pensare a quel grande avvenimento che furono le crociate,
per capire che la conoscenza del greco a quel tempo doveva essere
abbastanza diffusa.
2é OMBRO MASNOVO
ammettere che in tutta Lombardia soltanto tre diaconi sapessero
il greco. Comunque che Parma dovesse essere un centro di
grande importanza lo prova, tra Paltro, anche la quasi costante
residenza della contessa Matilde nella vicina Canossa e la no
mina, avvenuta proprio nella seconda metà di questo secolo, di
due antipapi parmensi. Cadalo, vescovo di Parma, nel 1061 era
eletto antipapa col nome di Onorio II (1361-1072), contro papa
Alessandro II (1) e poco dopo, contro papa Gregorio VII, era
eletto antipapa Guiberto Correggio di Parma che prendeva il
nome di Clemente III (lOSé-llOO).
Forse l'importanza di questa città nella vita lombarda d'al-
lora non è ancora stata messa bene in luce, così come attende
ancora il suo illustratore la cultura parmense e milanese di
questo periodo.
Come si vede da problema nasce problema. Ma non è detto
che debbano essere risolti o anche solo aftrontati tutti in una
volta.
Omero Masnovo
Cadalo era oriundo veronese, (Affò, storia di Parma, II, 49 e ^^g.)
(1)
ma se stato vescovo di Parma la storia, con ogni probabilità,
non fosse
ignorerebbe il suo nome.
Ferdinando Gonzaga e Carlo Emanuele I
(Dal trattato di Pavia alF accordo del 1624)
(Da documenti inediti dell'Archivio Gonzaga).
Capitolo I.
La questione del Monferrato e ie cause dei dissidi tra
il duca di Savoia
e il duca di Mantova dopo Pavia — La politica europea
il trattato di
nei riguardi della questione del Monferrato Atteggiamento della —
Francia e della Spagna —
L'opera di Ferdinando Gonzaga per assi-
curare l'integrità dei suoi domini nel Monferrato e per garantirne
l'incolumità —
Tentativi della repubblica veneta e del papa Paolo V
i Savoia e i Gonzaga
per stringere speciali condizioni d'accordo tra —
La questione Primo tentativo di trattative
del perdoiio ai ribelli —
dirette: i negoziati del 1618 col conte Martinengo Giudizi di Fer- —
dinando sulla politica generale —
Le trattative col marchese di
Coeuvres e quelle con D. Giulio Gambara del 1619.
A pace di Asti giugno 1615) e
il trattato di Pavia
(21
(9 ottobre a poco più di due
1617), susseguitisi
anni di distanza, recano la prova della profonda
il agitazione e della quasi convulsa incertezza, che tra-
vagliavano la politica degli stati italiani e quella delle maggiori
potenze d' Europa nei primi lustri del XVII secolo. Cinque
anni, circa, di guerre riuscivano ad accordi incompleti e poco
soddisfacenti, i quali recavano in sé il vizio organico, che li
condannava a rimanere inadempiuti, e il germe della discordia
e di lotte nuove (1).
(1) Per il trattato di Asti e gli accordi di Pavia vedi, oltre le
storie generali, gli studi piti particolari di Niccola Gabiani, Carlo Mma-
:J0 ROMOLO QUAZZA
La storia militare del conteso dominio del Monferrato è
nota ad ognuno che conosca, anche solo a grandi linee, le vi-
cende degli stati italiani, prima e durante la guerra dei tren-
tanni. Due ducati delP Italia settentrionale, 1' uno instancabile
nella sua foga guerriera, 1' altro lontano ormai dalP apice della
fortuna, si accanivano rispettivamente a pretendere e a difen-
dere terre ubertose e possenti.
Ma la contesa non era limitata ai duchi sabaudi e ai Gon-
zaga, che Spagna e Francia non allontanavano lo sgual-do da una
regione, della quale sarebbe stato essenziale per un più sicuro
dominio in Italia poter liberamente disporre.
Nella questione del Monferrato quattro possono esser con-
siderati attori principali il governo di Mantova, quello di To-
:
rino, quello di Madrid e quello di Parigi, poiché le condizioni
politiche dell'Europa intrecciavano strettamente gl'interessi delle
corone di Francia e di Spagna con quelli dei due stati italiani.
11 lavorio diplomatico, che seguì l'infruttuoso patto di Pavia,
è, in realtà, una continua gara tra le due correnti politiche, la
francese e la spagnuola. Se, all'inizio, Torino si muove esclusi-
vamente nell'orbita francese e la corte Cattolica difende i di-
ritti gonzagheschi, 1' equilibrio non è però stabile né è sicuro
l'indirizzo. Dall'una ,e dall'altra parte si faranno sforzi per at-
tirare 1' avversario, dall'una e dall'altra parte la volontà d'in-
gannare sarà l'unica base, sulla quale i vari governi regoleranno
la loro condotta ed ogni cavillo sarà accuratamente ricercato
;
per eludere le disposizioni dei trattati, a volte per diretto pro-
posito di Carlo Emanuele e di Ferdinando Gonzaga, a volte
per subdola opera istigatrice delle due maggiori potenze. Delle
quali, a dir vero, la Spagna erasi mostrata fin dal primo capi-
tolato di Asti (1 dicembre 1614) la piti interessata a conservare
a se stessa, coll'attra versare gli accordi tra Mantova e Torino,
la libertà di usare del Monferrato, percorso in tutti i sensi dalle
soldatesche e lucile passaggio per le milizie spagnuole, nella
nuele lei due trattati di Asti, Asti 1915; di L. C. Bollea, Di una
fonte inedita per la guerra della successione del Monferrato (1612-18) in
Biv. di 8t, A. Archeol. della prov, di Alessandria, anno XVIII (1909),
e Una fase militare controversa della guerra per la successione di Monfer-
rato, ivi, a. XVI ', RivoiRE, Contributo alla storia delle relazioni tra Carlo
Emanuele I e Ferdinando Gonzaga, in Boll. stor. subalp., anno IV,
n. IV- VI.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 31:
confusione e nel tumulto della guerra, dai domini genovesi alle
terre di Lombardia.
Dopo Pavia, le relazioni tra le due corti ducali attraversarono
varie fasi : esse si svolsero a volta a volta sotto il patrocinio
francese e sotto quello spagnuolo, ma ebbero pure periodi di
intense trattative dirette al fine di eliminare, coll'esclusione
dell'ingerenza straniera, ragioni piìi vaste di dissidio, difficoltà
ad arte suscitate per considerazioni di politica generale.
I due trattati di Asti rimandavano la soluzione della que-
stione del Monferrato alle decisioni del tribunale cesareo (1) f
ma nei contraenti era l'intimo proposito di non osservare af-
fatto le clausole, come provano da un lato le dilazioni e i sot-
terfugi opposti da Carlo Emanuele all'obbligo contratto di disar-
mare e dall'altro i tentativi di Ferdinando Gonzaga di liberarsi
dal pesante dominio del Monferrato, negoziandone il baratto col
governo spagnuolo, al quale don Giovanni Gonzaga, inviato ap-
positamente a trattar la questione, doveva far rilevare che la
corona Cattolica, con l'acquisto di quel territorio, avrebbe esteso
i propri diritti quasi sino alle Alpi (2).
Le pretensioni di Carlo Emanuele risalivano a circa trecento
anni innanzi. Esse derivavano dal contratto stipulato nel 1330
tra Aimone il Pacifico, conte di Savoia, ed i marchesi del Mon-
ferrato, in occasione delle nozze del primo con Iolanda (Vio-
lante), figliuola di Teodoro Paleologo. La sposa aveva portato
in dote al conte non solo ampi territori, ma anche i diritti sul
Monferrato, il quale, estinta la linea maschile di Teodoro, sa-
rebbe dovuto passare alla casa di Savoia. Centocinquant' anni
più tardi, un' altro matrimonio aveva rinnovato i patti quello- :
(1) Per i trattati di Asti e la politica di Carlo Emanuele, vedi
anche: Ricotti, 8t. della Mon. Piemontese^ voi. IV, Firenze 1865 j;
Carutti, St della diplomazia della corte di Savoiay Torino 1876, voi. 2°,
pag. 136 e seg.
(2) Per la questione del baratto del Monferrato, vedi Valerani, :
Frogetti di permuta del Monferrato col Cremonese^ in Biv. di st, arte,
archeol. della prov. di Alessandria^ 1911. Tratterò l'argomento nel mio
lavoro, Mantova e Monferrato nella politica europea alla vigiUa della
guerra di successione, di prossima pubblicazione. —
Il 21 gennaio 1618
Ferdinando scriveva a d. Giov. Ottavio Gonzaga: «V. S. aiuti quanto
« può il negotio e con la forza delle ragioni e con le premure che-
« questo è il vero modo di uscir tutti di briga!... >. F. II, 7, 2295,
Arci), di Stato di Mantova.
contratto nel duca Oarlo i il Guerriero con Bianca
14.^5 dal
di Monferrato, Guglielmo Vili Paleologo. La quale
figlia di
avrebbe dovuto avere in dote una cospicua somma, che non tu
mai pagata, ovvero, estingujBndosi col fratello suo Bonifacio
la discendenza dei Paleoioghi, avrebbe dovuto ereditare tutti
interi i domini dei marchesi del Monferrato (1).
Di fronte a queste pretensioni Ferdinando Gonzaga accam-
pava altri argomenti di non minor valore; e cioè il lodo emesso
nel 1536 da Carlo V (2), il quale, estintasi con Guglielmo IX
la linea maschile dei Paleologhi, aveva attribuito il Monferrato
a Federico Gonzaga, marito successivamente di Maria e di Mar-
gherita, figlie di Guglielmo. Per ritorsione delle pretensioni
sabaude sul Monferrato, i Gonzaga rievocavano anch'essi gli
antichi diritti loro sul marchesato di Saluzzo e sulle città di
Torino e di Mondovì. La questione era giuridicamente compli-
cata. Un lodo arbitrale di Gian Galeazzo Visconti aveva nel
1399 aggiudicate al marchese Teodoro del Monferrato le città
di Torino e di Mondovì. Inoltre V archivio ducale di Mantova
era in grado di produrre gli estratti autentici delle investiture
che i marchesi di Saluzzo dal 1358 al 1546 avevano ricevuto da
quelli del Monferrato dapprima e infine dal duca Francesco di
Mantova e dalla madre di questo, Margherita, i quali nel 1546 ave-
vano solennemente investito il marchese Gabriele, ultimo dei si-
gnori di Saluzzo. A questo argomento il duca di Savoia non sapeva
obiettare altro che il fatto d'avere la sua famiglia ricevuto dal
re di Francia il possesso del Marchesato in cambio della Bressa (3) ;
ma, dubbia essendo V autorità del re Cristianissimo su quelle
terre, i diritti dei Gonzaga non ne erano scossi ed anzi Fer-;
dinando affermava che solo le guerre civili seguite in Francia
e la morte di Enrico III avevano impedito che ne acquistassero
il possesso i duchi di Mantova, ai quali il Parlamento di Gre-
noble aveva già dato parere favorevole (4).
Pertanto, piti volte agitata e discussa, la questione si trovò
ad essere, dopo la pace di Pavia, sostanzialmente al medesimo
(1) RivoiRE, op. ciL; UssEGLio, Bianca di Monferrato, Torino 1892,
(2) P. Marchisio, L'arbitrato di Carlo Y nella causa del Monferrato,
Torino 1907.
(3) A proposito di questo cambio, vedi Raulich, 8t. di Carlo
JEman. i, Milano, 1902, voi. I.i
(4) Ferdinando a D. Giov. Ottavio Gonzaga, 21 genn. 1618 Mi- —
nute della Cane, ducale —
F. II, 7, 2295, Arch. di St. di Mantova.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 33
punto né le armi né la diplomazia l' avevano fatta avanzare
j
d^un passo. D. Pietro di Toledo, governatore spagnuolo, e il
marchese di Bethunes, rappresentante di Luigi XIII, negoziavano
a Milano sul riconoscimento delP effettivo disarmo delle milizie
savoiarde, pattuito a Pavia. Ma andie a Milano le cose non
erano chiare e l'intrigo pareva esser non solo rivolto ai danni
del Gonzaga, bensì anche a quelli della Francia, poiché, all' in-
saputa del Bethunes, D. Pietro cercava di evitare la restituzione
di Vercelli a Carlo Emanuele, offrendogli compensi nel Monfer-
rato stesso e negli stati della repubblica veneta o nel Bre-
sciano (1), e, certo per mascherare questo suo intento, segreta-
mente avvertiva Ferdinando di tener gli occhi bene aperti sul
Monferrato e specialmente sulle piazze forti di Moncalvo e
Pontestura a evitare qualche sorpresa da parte del bellicoso e
intraprendente duca gli offriva, anzi, i quindicimila scudi, che
;
il granduca di Toscana soleva sborsare durante la guerra (2).
Intanto l'8 gennaio 1618, tre mesi dopo il trattato di Pavia,
Carlo Emanuele non aveva ancora restituite le piazze occupate
e D. Pietro deteneva ancora Vercelli. KelP animo del duca di
Mantova s' insinuava sempre più il sospetto che egli fosse la
vittima designata in qualche trama secretamente intessuta tra
l'irrequieto suo avversario ed il governatore spagnuolo (3). D'altra
parte anche il Gonzaga tergiversava nell'esecuzione dei patti e
ostinatamente evitava di venire alla concessione del perdono
ai ribelli suoi sudditi, perdono che era stato oggetto di una
delle clausole dell'accordo (4). Egli non voleva però dare a Ve-
(1) Ferdinando al Priandi, 6 genn. 1618, ibidem. Il Priandi, agente
del duca di Mantova, sostituì a Parigi, nell'agosto 1618, Traiano Gui-
scardi, conte di Cerro, che fu poi gran cancelliere del Monferrato e
attore principale di tutti gli avvenimenti che si svolsero in seguito
fino al 1689, anno in cui mori.
(2) Ferdinando a D. Giov. Ottavio Gonzaga, 22 genn. 1618, ibidem.
(3) Ferdinando a D. Giov. Ottavio Gonzaga, 8 genn. 1618, ibidem.
(4) Ferdhiando a D. Giov. Ottavio Gonzaga, 12 genn. 1618, ibidem
—
Tra i sudditi ribelli passati al servizio del duca di Savoia, era il valoroso
conte Guido di San Giorgio, contro il quale era particolarmente im-
placabile lo sdegno di Ferdinando che lo fece impiccare in effigie e ne
confiscò i beni. Concesso il perdono ai ribelli, per intercessione del re
di Francia e del papa, riacquistò poi la grazia del suo antico padrone.
Non privo d'interessegfiuscirebbe lo studio delle lunghissime e curiose
pratiche che condussero Ferdinando Gonzaga a concedere il perdono
Arch. iStor. Lomb. Anno XLIX, Fase. I-IL 3
34 ROMOLO QUAZZA
nezia, alla Francia, a Savoia giustificato motivo di sospetto e
per ciò si destreggiava abilmente per eludere l'insidiosa proposta
di D. Pietro, che offriva di fornirgli un reggimento da lui li-
cenziato di Alemanni, legati alla casa d'Austria dal giuramento
già fatto, cai avrebbero dovuto serbar lede (1).
Continuavano, nel contempo, fra gli ambasciatori francesi
e D. Pietro di Toledo varie negoziazioni ed i primi vedendo
;
che le cose andavano per le lunghe, proponevano a Ferdinando
di fargli ottenere direttamente da Savoia la restituzione delle
sue terre monferrine, senza aspettare il beneplacito del capitano
spagnuolo. Ferdinando accettò con slancio il partito offertogli
e scrisse al governatore di Casale, conte di Rivara, che, appena
avesse ricevuto da Claudio Marini, rappresentante della Francia
a Torino, la comunicazione dell'accordo concluso tra il Bethunes
e Carlo Emanuele, desse disposizioni per ricevere la consegna di
Alba, S. Damiano, Montiglio, Trino e del Canavese ecc., e il
nuovo giuramento di fedeltà di quelle popolazioni.
Non potendosi evitare che la cosa fosse pubblica, egli in-
tendeva che il suo ambasciatore, conte Striggi, ne parlasse a
D. Pietro e cercasse di convincerlo dell'opportunità della resti-
tuzione. < Eifiutare il nostro, scriveva il Gonzaga, da chi ce lo
vuol dare sarebbe una pazzia e sarebbe argomentare che co-
vassimo altri pensieri.... del resto poco ci importa che D. Pietro
dissenta purché segua l'effetto.... ». La restituzione sarebbe do-
vuta avvenire il 14 marzo invece né il marchese de' Rossi né
;
il conte di Rivara, recatisi successivamente sul luogo, poterono
ricevere la consegna, ostacolata dalle trattative segrete fra il
governatore di Milano e il duca di Savoia; trattative che Fer-
dinando si affrettò a far conoscere a Luigi XIIL Ma fallite
queste negoziazioni il 22 marzo 1618, D. Pietro cercò di impe-
gnare il Gonzaga a non accettare la restituzione per altra via
e lo sollecitò a scrivere al conte di Rivara in questo senso. Il
duca di Mantova fu pronto ad aderire, ma fece immediatamente
avvertire il governatore di Casale di attenersi agli ordini da-
tigli precedentemente e di non lasciarsi « imbrogliare » da
ai ribelli; abbondantissima materia viene offerta dalle minute della
Cane, ducale del 1618. Le vicende del conte Guido di S. Giorgio sono
rievocate anche, in parte, dal Siri, Memorie recondite, Parigi 1677,
lib.IV, pag. 421 e seg.
Ferdinando al conte Striggi, 13 febbr. 1618j a D. Giov. Ottavio-
(1)
Gonisaga, 18 febbr. 1618; F, II, 7, 2295, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CABLO EMANUELE I 35
nessuno (1). Trascorsi alcuni giorni si giunse, però, al consenso
generale per la restituzione (2), in seguito alla quale il Gonzaga
scrisse in termini atti ad esprimere la sua riconoscenza ai due
sovrani, il Cattolico e il Cristianissimo (3), e diede al Consiglio
riservato di Casale gli ordini opportuni per alleviare le ro-
vine del devastato paese e per migliorarne le condizioni eco-
nomiche (4).
Da questo momento s'inizia tra la cancelleria ducale ed i
rappresentanti di Mantova nelle varie capitali una nutrita cor-
rispondenza. Al Guiscardi, che era a Parigi, vien dato con ri-
petute lettere l'ordine di sollecitare da Luigi XIII la promessa
d'impedire che il duca di Savoia faccia altri tentativi sul Mon-
ferrato, di fargli rilevare che, rassicurato sulle intenzioni sa-
baude, Ferdinando si distaccherebbe interamente dagli Spagnuoli.
Al conte Striggi a Milano si rinnova l'invito di chiedere a D. Pie-
tro denari e milizie, tanto piti che la speranza di permutare il
Monferrato con Cremona andava svanendo, affinchè in una nuova
guerra fra Spagna e Mantova possa stare tranquilla
Savoia,
« sotto il M.tà Cattolica ». A mons. Scardi
real patrocinio di S.
a Eoma si raccomanda di far conoscere a Sua Santità le tra-
giche condizioni del Monferrato e dall' imperatore, per mezzo
;
del conte Zuccone, s'invoca la cesarea protezione per le decisioni
future (5).
L' opportunità di avviare direttamente le trattative per un
accordo definitivo con Savoia erasi tuttavia già avvertita. L'am-
basciatore veneto Renier Zeno, attraversando Mantova per re-
(1) Ferdinando al conte di Rivara, 6 e 16 marzo 1618; al conte
Striggi, 7 e 24 marzo 1618; al Bonatti a Madrid, 10 marzo 1618; al
Guiscardi a Parigi, 23 marzo 1618. Lo Striggi da Milano al Cons. rieerv.
di Casale, 23 marzo 1618, ibidem.
(2) In data 5 aprile 1618 fu pubblicata a Torino, con firma di
Carlo Emanuele, la pubblica grida anniinciante che, in esecuzione dei
patti di Asti e di Pavia, ognuno sarebbe potuto tornare in libero pos-
sesso dei beni, dei quali per avventura a causa della guerra fosse stato
spogliato.
(3) Ferdinando al re di Spagna e al re di Francia, 9 aprile 1618^
ibidem.
(4) Ferdinando al Cons. riserv. di Casale, 11 aprile 1618, ibidem.
(5)Ferdinando al Guiscardi, 7 aprile 1618; al conte Striggi, 11 e 20
aprile 1618 a mone. Soardi, 24 aprile 1618
; allo Zuccone, 25 aprile ;
1618, ibidem.
36 ROMOLO QUAZZA
carsi a Torino, ne accennò al duca la convenienza e ne mostro,
a nome della repubblica, grandissima premura ; e poco dopo, i
primi giorni d'aprile del 1618, inviato presso il Gonzaga il suo
segretario, scese a proposte concrete, le quali però furono da
Ferdinando giudicate esorbitanti. Si proponeva, tra V altro, che
la principessa Maria (1), figlia del defunto duca Francesco e
di Margherita di Savoia, sposasse uno dei figli di Carlo Ema-
nuele, qualora non vi fossero figliuoli del signore di Mantova,
ai quali essa potesse essere unita (2).
I
Circa due mesi dopo, era la volta di Paolo V che al vescovo
d'Alba parlava di un eventuale matrimonio tra il principe Vit-
torio Amedeo e la principessa Eleonora (3), sorella di Fer-
dinando. Ma questi, giudicando che fosse pericoloso trattar di
parentado quando c'eran di mezzo così gravi questioni territo-
riali, dichiarò che non gli pareva opportuno soffermarsi su questo
progetto, finché non fosse consolidata la pace (4), che, special-
mente per la questione del perdono ai ribelli, minacciava d' es-
ser turbata e incaricò mons. Soardi di esporre il suo giudizio
;
anche ai cardinali Borghese, Borgia e Montalto (5).
Ma le trattative per questa questione furono difficili e la-
boriose. I « capricci » del duca di Savoia minacciarono più
volte di rompere ancora la quiete (6) e il G-onzaga, preoccu-
;
pato per la sicurezza delle sue terre, timoroso delle mene di
Carlo Emanuele e di Venezia, rinnovò il proposito di recarsi
egli stesso in Ispagna per chiarire meglio la propria condizione,
e fece consegnare al confessore di Filippo III una estesa rela-
zione della situazione politica in Italia, che egli non a torto
giudicava piena di pericoli per la corona Cattolica (7). « La
(1) Per la storia di questa principessa, vedi Intra, Maria Gonzaga-
Gonzaga^ Firenze 1897, e per quella della madre Margherita, vedi del
medesimo, Margherita di Savoia, duchessa di Mantova, Mantova, 1890.
(2) Ferdinando al Gruiscardi, 6 aprile 1618, ibidem. La proposta
mirava evidentemente ad escludere dalla successione la casa di Nevers,
la quale, mancando la discendenza diretta di Ferdinando e di Vincenzo,
era l'erede più prossima.
(3) Vedi circa la sorte di questa principessa lo studio dell'lNTRA,
Le due Eleonore Gonzaga imperatrici^ Mantova 1891.
(4) Ferdinando a mons. d'Alba, 15 giugno 1618, ibidem.
(5) Ferdinando a mons. Soardi, s. d., ibidem.
(6) Ferdinando a don Giov. Ottavio Gonzaga, 30 luglio 1618, ibidem.
(7) Ferdinando al S. Confessore di S. M.tà Catt., 1 agosto 16lè,
ibidem. Il Gonzaga, in una lettera del 4 aprile 1618, diretta al Bo-
FERDINANDO GONZAGA E CABLO EMANUELE 1 37
« debolezza mostrata da' Ministri Regi, nelle due passate oc-
« casioni contro il duca di Savoia, scriveva Ferdinando, la gran
« parte che in questa negotiatione hanno havuta i francesi, ha
M di maniera in Italia, alterato il concetto della potenza Kegia
« che un giorno, ben presto se ne vuol veder l'effetto, et Dio
« ci guardi da un Re di Francia spiritoso et armigero » (1).
La sostituzione del duca di Feria a D. Pietro di Toledo,
che non aveva fatto buona prova, parve sulle prime dover dare
buoni frutti per il ristabilimento del prestigio spagnuolo e la ;
gentilezza mostrata dal nuovo governatore durante il suo pas-
saggio a traverso il Monferrato e nei colloqui col conte Striggi,
fece sorgere buone speranze in Ferdinando (2), pel quale la si-
curezza era oramai tutta raccolta nel pensiero di permutare con
altre terre il Monferrato ovvero nel ricevere da S. M.tà Catto-
natti, suo rappresentante a Madrid, aveva già espresso il desiderio
di recarsi in Ispagna per protestare contro la doppiezza del governatore
di Milano e per aftrettare la restituzione delle sue terre del Monferrato.
« L'esperienza maestra delle cose, egli scriveva, ci ha ormai con evi-
« denti prove demostrato quanta e quale sia stata la malignità dei due
« Governatori di Milano, che nel tempo del nostro Principato sono
« stati ed hanno maneggiato i più importanti negozi che dall'ultima
< pace in qua si siano trattati in q.ta Provincia; la connivenza dei
«eprimo con Savoia et l'accordo che haveva seco fu cagione de' primi
« moti di q.ti rumori e della prima desolatione del nostro stato di
« Monferrato. La malvagità et perfida natura di quest'altro ci fa stare
< privi del nostro contro ogni dovere, non desiderando egli altro più
^ per ritener coloratamente Vercelli, che il Duca di Savoia non renda
« il Monferrato et ancorché (per quanto si dice) habbia egli gli ordini
€ precisi di concludere q.ta bened.a pace, nulladimeno non lascia pietra,
« che non muova per distruggere quello che S. M.tà con mente pia et
« religiosa cerca di edifficare... ».
(1) Scrittura da consegnare al S. Confessore di S. M.tà Catt, 1 agosto
1618, ibidem.
(2) Ferdinando a don Giov. Ottavio Gonzaga, 5 agosto 1618; e a
Traiano Guiscardi, 6 agosto 1618, ibidem. Nella lettera a D. Giov.
Ott. Gonzaga del 5 agosto il duca di Mantova non mancò di far rile-
vare che Paver affidata al re di Spagna la risoluzione della questione
dei ribelli aveva scatenate le ire di Luigi XIII e dei suoi ministri.
Lo pregava pertanto di sollecitare Filippo III a decidere in merito o :
per il castigo o almeno per il risarcimento dei danni causati durante
la sospensione delle armi, danni che salivano a più di due milioni!
38 ROMOLO QTTAZZA
lica un adeguato assegno per mantenere un forte nerbo di
truppe (1).
L* insistenza del . re Cristianissimo nel pretendere che il
duca concedesse, non oltre il 20 settembre 1618, completo per-
dono ai ribelli colla minaccia di sciogliere Carlo Emanuele
da ogni impegno, obbligò il Gonzaga a recarsi personalmente a
Milano per abboccarsi col Feria; il quale, sentito anche il parere
del marchese di Bedmar, il famigerato ambasciatore spagnolo a
Venezia, decise di scrivere al duca di Monteleone affinchè appog-
giasse presso Luigi XIII la concessione della dilazione chiesta
dal Gonzaga in attesa della risposta del re Cattolico (2). Questa
giunse finalmente il 26 settembre recata dal commissario gene-
rale Barbò e lasciò al duca libertà di perdonare o punire i ri-
belli. Le pressioni del Cristianissimo e di Paolo V erano state
tali che Ferdinando non poteva ostinarsi nella severità; e cosi
la questione dei ribelli tanto discussa si risolse col perdono, pub-
blicato con editto del 6 ottobre 1618 (3).
Ma le preoccupazioni del duca di Mantova non venivano
meno. Egli era sicuro che, cessato Pappiglio dei ribelli, altri
pretesti avrebbe trovati Carlo Emanuele per minacciare o per
invadere il Monferrato e si raccomandava air uno e air altro
;
dei due « grandi Ke » ed a S. S.tà, affinchè lo assistessero nel
(1) Ferdinando a don Giov. Ottavio Gonzaga, 13 agosto 1618, ibidem.
Il 10 agosto Ferdinando aveva scritto al Soardi, lamentando che si venti-
lassero provvedimenti per cui Padri Cappuccini del Monferrato sareb-
i
bero stati staccati dalla Casa Provinciale di Genova ed aggregati a quella
del Piemonte. Il pericolo d'avere in Monferrato frati e superiori pie-
montesi era evidente. Il Gonzaga, protestando vibratamente, affermava
che sarebbe stato costretto ad espellerli.
(2) Ferdinando a don Giov. Ottavio Gonzaga a Madrid, 13 sett. 1618 ;
e al Guiscardi a Parigi, 13 e 16 sett. 1618, ibidem.
(3) Copia di editto, 6 ottobre 1618; lett. di Ferdinando al re di
Francia, 29 sett. 1618, ibidem. La causa dei ribelli era stata rimessa
da Ferdinando al re Cattolico. I Francesi ne avevano prese le parti e
sopra tutti si era mostrato accalorato per loro il Bethunes. Specialmente
il conte di San Giorgio e il conte di Verrua erano da lui protetti. Vedi
lett. di Ferdinando al Guiscardi, 19 luglio 1618; e al re di Francia, 20
luglio 1618, ibidem. Vedi anche Siri, op. cit.^ voi. IV, pag. 534. Confronta
inoltre le lett. di Ferdinando al papa, 26 sett. 1618 a mons. d'Alba, ;
26 e 27 sett. 1618 al re di Francia, 26 sett. 1618 a don Gio. Ott. Gon-
; ;
zaga, 29 sett. 1618, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 39
caso di nuove pretensioni da parte del suo indomabile avver-
sario (1).
Il duca di Savoia, in realtà, nutriva il desiderio di pervenire
ad un accordo col Gonzaga e riteneva opportuno che si faces-
sero negoziati diretti per sfuggire al pericolo di nuove complica-
zioni. Ferdinando esitava privo d'aiuti da parte della Spagna,
;
poco in grazia del re di Francia, insidiato dall'eterno nemico,
« impegnato in un perpetuo consumo non bastando di gran
< longa le entrate de' stati... a quella giusta diffesa che si ri-
« cerca nel Monferrato », convinto che non gli sarebbero mai
offerte condizioni veramente vantaggiose, egli accettò tuttavia
le proposte fattegli dal conte Francesco Martinengo Malpaga,
gran scudiero e consigliere di Carlo Emanuele, il quale, il 14
settembre 1618, gli aveva sottoposto uno schema di trattato
avente per base le nozze della principessa Eleonora con Vittorio
Amedeo (2). Nella prima decade d'ottobre, il Martinengo avvertì
Ferdinando che era giunto da Torino un sacerdote, don Giulio
Gambara (3), latore di nuove proposizioni ed il Gonzaga ac- ;
consenti di recarsi a Goito, dove avvenne un colloquio. La so-
stanza degli accordi eventuali era sempre la medesima matri- :
monio del principe di Piemonte con Eleonora, alla quale si
sarebbe dovuto dare una dote rilevante, che, aggiunta al debito
della dote di madama Bianca e di quella della duchessa Mar-
gherita, ohe doveva venir restituita con le gioie e gli accessori!,
avrebbe portato l' importo complessivo ad una somma così co-
spicua da corrispondere al valore di buona parte delle terre del
Monferrato. Solo a questi patti sarebbe stata stipulata la ri-
nuncia alle reciproche pretensioni.
Il conte Martinengo non tralasciò, però, di far intendere
che si sarebbero potute pattuire condizioni meno gravi, qualora
(1) Lett. di Ferdinando al Gaiacardi, 29 seti. 1618; al duca di Feria,
28 sett. 1618. Interessante è pure una lettera di Ferdinando al cognato,
granduca di Toscana, che gli aveva fatto conoscere il suo parere rela-
tivamente al perdono dei ribelli. Essa reca la data del 16 sett. 1618.
F, II, 7, 2296, ibidem.
(2) Vedi Ricotti, St. della monarchia piemontese, Firenze, 1865,
voi. IV, libro IX, pag. 138 e seg.
(3) Il Ricotti, op. cil.^ non accenna alla presenza di D. Giulio Gam-
bara nelle trattative del 1618.
40 ROMOLO QUAZZA
venisse manifestata da parte del Gonzaga una sicura volontà di
giungere all'accordo (1),
Contemporaneamente si spargeva la notizia di segrete trat-
tative tra la corte torinese e quella di Parigi per accasare il
principe Vittorio Amedeo con Cristina di Francia (2).
Pochi giorni dopo il convegno di Goito, il duca di Mantova
partiva alla volta di Firenze e di Roma (8). Ed
a Firenze ap-
prendeva che Martinengo era
il ritornato a Goito per riallac-
ciare la negoziazione.Sebbene non comprendesse a tutta prima
qual mira potessero avere le nuove proposte, dato che pareva
ormai certo il matrimonio di Vittorio Amedeo con Cristina, egli
ordinò tuttavia che, se le basi offerte alla discussione fossero*
state ragionevoli, si tenesse una consulta cui avrebbero dovuto
partecipare il marchese Federico Gonzaga, il conte Chieppio e il
conte Striggi mentre egli si riservava di darne notizia per-
(4),
sonalmente al suo intimo e confidente, dottor Antonio Posse-
vino (5).
Di tutto veniva però tenuto informato il duca di Feria (6).
Da Firenze il duca passò a Roma (7), dove certamente nei
colloqui con Sua Santità toccò anche il tasto dell'accomodamento
con Savoia e disse all' ambasciatore francese Marquemont che,
se Luigi XIII avesse voluto amichevolmente trattare la questione,
egli si sarebbe rimesso alla decisione di lui (8).
A Roma Ferdinando intendeva svolgere un suo piano d'a-
(1) Lett. di Ferdinando al conte Striggi, 13 ottobre 1618, ibidem..
(2) Lett. di Ferdinando al Guiscardi, 6 ottobre 1618, ibidem.
(S) Prima di recarsi a Homa, Ferdinando desiderava che venissero
completamente soddisfatti i creditori che egli aveva in quella città. Da
Firenze diede perciò ordine il 12 novembre al conte Chieppio di procu-
rargli i 15.000 scudi romani necessari a tal fine, disponendo che, ove
occorresse, s'impegnassero al monte di Verona argenterie preziose.
(4) Lett. di Ferdinando al marchese Federico Gonzaga, 2 nov. 1618,
ibidem.
(5) Lett. di Ferdinando al conte Striggi del 20 nov. 1618, ibidem.
(6) Lett. di Ferdinando a Ercole Gonzaga del 13 nov. 1618, ibidem.
(7) Di questo viaggio a Roma parla anche il Siri, op. cit.^ libro IV,
pag. 537 e seg.
(8) Da Firenze il 23 dicembre faceva scrivere al Priandi a Parigi
che coltivasse le buone disposizioni del re e non tralasciasse di avvi-
sare se era opportuno di presentare donativi al Luynes e agli altri mi-
nistri.
FERDINANDO GONZAGA E CaELO EMANUELE I 41
zione riferentesi agli avvenimenti di Boemia. Egli vedeva chia-
ramente quale pericolo provenisse da quelli alla casa d' Austria
e nel suo pensiero associava alla decadenza di questa la deca-
denza del predominio cattolico in Germania. Anzi, con sguardo
che dobbiamo riconoscere lungimirante, intuiva il nesso della
questione germanica e boema con quella italiana. Aveva la con-
vinzione che Venezia cooperasse a soccorrere i Boemi contro
gli Absburgo e riteneva che Punico modo per evitare disordini
e guerre in Italia fosse di tar comprendere alla repubblica che
nessuno degli stati italiani le avrebbe prestato aiuto in caso di
rottura con la Spagna (1).
Lo zelo dimostrato dal Gonzaga in favore della casa d'Au-
stria e della corona Cattolica non era, a dir vero, disinteressato.
Egli si affrettò, difatti, ritornato i primi giorni di gennaio del
1619 dal viaggio, a render nota a Madrid e a Vienna l'opera
sua, mettendo in rilievo il bisogno urgente che aveva di rice-
vere aiuti pecuniari per riparare alle disastrose condizioni del-
l'erario pubblico e del tesoro ducale (2).
Il contegno del duca di Mantova dovette insospettire il se-
nato veneziano, poiché, qualche tempo dopo, il doge, rivolgendogli
istanza affinchè permettesse al conte Guido di S. Giorgio l'alie-
nazione de' suoi feudi nel Monferrato, l'ammonì d'esser sempre
« buon principe Italiano », al che Ferdinando replicò pronta-
mente, ricordando quanto egli aveva fatto per ottenere la re-
stituzione di Vercelli a Carlo Emanuele (3).
L' appello rivolto dal Gonzaga a Luigi XIII, per mezzo
dell' ambasciatore francese a Roma, non era intanto rimasto
senza eco. Il marchese di Coeuvres, destinato a sostituire il
Marquemont, passando nel marzo 1619 per Mantova consegnò
(1) Copia di lett. di Ferdinando al sig. Curtio Richena, primo
seg.rio di stato del Granduca di Toscana. Da Firenze, 31 die. 1618,
F, II, 7, 2296, ibidem. Non crediamo perciò esatto quanto dice il Siri,
op. cit, libro IV, pag. 538, il quale asserisce che Ferdinando era beo
lungi dal pensare ad una lega di principi italiani.
(2) Lett. di Ferdinando a don Giov. Ott. Gonzaga, 6 e 10 genn. 1619 ;
all'imperatore del 26 genn. 1619. F, II, 7, 2297, ibidem.
(3) Lett. di Ferdinando al Battainì, resid. di Mantova a Venezia,
20 febbr. 1619, ibidem. Il duca aggiungeva anche che non si doveva
credere che egli facesse 4( di suo pieno gusto » quello che a volte s'io-
duceva a fare per estrema necessità.
42 KOMOLO (^UAZZA
al duca lettere regie, le quali contemplavano le questioni pen-
denti con Savoia (1).
Gli argomenti principali toccati dal Ooeuvres ne' suoi col-
loqui furono tre: la restituzione della dote e delle gioie della
duchessa Margherita, raccordo col duca di Savoia, la licenza di
alienare i propri beni da concedere ai piemontesi aventi feudi
nel Monferrato, anche se fossero stati, rispetto al signore di
Mantova, sudditi ribelli.
Al primo punto Ferdinando rispose, offrendo di sostituire
I
con gioie sue quelle già convertite e confuse e di rimettersi alla
cognata per la stima degli oggetti che essa aveva portati con
sé, al momento della sua partenza dalla corte. Quanto al se-
condo, si disse disposto ad entrare in trattative; e quanto al
terzo, accettò con piacere la proposta fattagli dal Ooeuvres di
subordinarne l'attuazione alla conclusione dell'accordo (2).
(1) Il 18 marzo 1619 Ferdinando ne ringraziò il re Cristianis-
simo ed 24 marzo ne diede ragguaglio al Priandi. Risulta dal
il
Siri, op. cit., voi. V, pag. 2, che il Ooeuvres diretto a Roma si fermò
a Torino, ebbe un colloquio con Carlo Emanuele, il quale gli espresse
la sua meraviglia perchè non era stato incaricato di trattare dei suoi
interessi con Mantova, come i suoi ministri gli avevano comunicato da
Parigi. Il aggiunge che a Bologna il Coeuvres ricevette dal suo
Siri
re ordine di fare uffici sulla questione a voce o per mezzo di missione.
Luigi XIII lo avvertiva che aveva proposto al principe di Piemonte il
matrimonio di Tommaso con Maria e che questa proposta era stata
approvata dal principe e notificata a Carlo Emanuele per mezzo di un-
corriere speciale, che avrebbe dovuto spingersi fino a raggiungere il
Coeuvres in tempo per fare la stessa proposta al duca di Mantova. Il
Coeuvres mandò a Ferdinando il sig. della Piccardière: ma il Gonzaga
gli rispose che vi era troppa disparità d'età e che questo matrimonio
avrebbe fatto nascere nuove liti, perchè il duca di Savoia pretendeva che
Maria avesse e recasse diritti sul Monferrato. Il Piccardière soggiunse che
in luogo di Maria si sarebbe potuto pensare all'accasamento di Eleonora.
Ferdinando non se ne mostrò alieno, ma avvertì che non avrebbe fatto
per Tommaso le condizioni, cui si era mostrato disposto allorché si
trattava del principe di Piemonte e che non avrebbe certo pagata la
dote in stati e che non intendeva, facendosi il matrimonio, venissero
appianati tutti i dissidi fra le due case.
Vedi pure: Mémoires du marquis de Coeuvres, coli. Michaud et
.Poujoulat, Paris 1827, voi. XIX.
(2) Ferdinando a don Griov. Ottavio Gonzaga a Madrid, 25 marzo
FERDINANDO GONZAGA E OAHLO EMANUELE I 43
Le parole dell'ambasciatore incoraggianti alle trattative pa-
cifiche contrastavano però coi preparativi militari che si an-
davano facendo in Piemonte (1) sì che, preoccupato, il Gonzaga,
;
scrivendo al cognato granduca di Toscana, si lamentava d' es-
sere sempre preso di mira dal duca di Savoia, mentre pure
egli aveva mostrato ogni migliore intenzione rispetto alla resti-
tuzione della dote di Margherita e godeva il favore del re di
Francia, avendolo accontentato nella questione dei ribelli (2),
ideile disposizioni che mandava ai suoi rappresentanti a Madrid,
don Giov. Ottavio Gonzaga e Bonatti, e a Milano al Kerli, Fer-
dinando insisteva su questi pretesi preparativi minacciosi del
duca di Savoia, ma è evidente che egli di proposito aggravava
le cose ed esagerava per accrescere i propri meriti di fronte al
gabinetto di Madrid ed al governatore di Milano. Qualche parte
di verità senza dubbio c'era, poiché Carlo Emanuele mirava
probabilmente ad appoggiare con la dimostrazione della sua
forza militare i tentativi di accomodamento e ad influire, incu-
tendo timore, sulle deliberazioni delPavversario (3).
Intanto don Giulio Gambara, accompagnato dal Martinengo,
ritornò a Mantova nel giugno 1619 recando altre proposte per rac-
cordo, ma non si fece nessun passo importante sulla via delia de-
cisione, causa la « grandezza delle domande > di Carlo Emanuele (4).
1619. F, II, 7, 2297, ibidem. Nel dare notizia a Madrid delle proposte
del Coeiivres, Ferdinando insistette naturalmente sulla riserva di avere
l'approvazione delle LL. MM.tà Cesarea e Cattolica. Cfr. anche le let-
tere a mons. d'Alba, 26 marzo 1619, ibidem.
(1) Ferdinando al Nerli, 12, 14, lo aprile 1619, ibidem. Il Nerli so-
stituì nell'ultima decade di marzo del 1619 il conte Alesa. Striggi nel-
l'ambasciata a Milano presso il duca di Feria. Vedi lett. di Ferditiando
al Feria del 22 marzo 1619, ibidem.
(2) Ferdinando al Granduca, 4 maggio 1619, ibidem.
(3) Ferdinando al Cons. riservato del Monferrato, 4 e 6 maggio;
ai SS.ri Presidente Avellani e Senatore Zanacchi, 7 maggio ; al Nerli,
6 maggio 1619, ibibem.
(4) Istruz. agli inviati, 20 giugno 1619. E, XIX, I, 728, ibidem.
Il Siri, op. cit., voi. V, pag. 19 asserisce erroneamente che il Mar-
tinengo si recò a Goito due volte nel 1619 a proporre a Ferdinando il
matrimonio del principe Tommaso con Eleonora; e a pag. 26 aggiunge
che il principe di Piemonte a nome del padre si recò da Luigi XIII,
aflSnchè appoggiasse questa pratica e desse al Coeuvres ordini di con-
tinuarla col duca di Mantova. Il Ricotti, op. cit., voi. IV, pag. 145 in-
dica come negoziatore Giulio Mazarino !
44 ROMOLO gUAZZA
Vii fatto di notevole iiiiportanza era, nel frattempo, iuter-
venuto. La repubblica veneta, a voce e poi per mezzo del se-
gretario Gavazza, mandato appositamente a Mantova, aveva in-
vitato il Gonzaga a entrare nella lega stretta tra Venezia e il
duca di Savoia, promettendogli la completa sicurezza. Il
più
rifiuto ducadel di non si può spiegare
accettare la proposta
che in due modi o egli, sapendo di non poter competere con
:
la vicina repubblica per mezzi finanziari, né con Carlo Emanuele
per forze militari, temeva come più debole di essere nella lega
soffocato e costretto alla fine a rimetterci del suo ovvero, nella
;
valutazione delle probabilità nelP orizzonte politico, giudicava
esser migliori gli auspici per la corona Cattolica che per la lega
veneto- savoiarda. Certo è che della profferta fattagli e della sua^
ripulsa, egli si affrettò ad informare il governo spagnuolo, rac-
comandando al Bonatti di mettere in rilievo la prova di devo-
zione che con ciò egli aveva data alla monarchia Cattolica (1).
Non era cessato, frattanto, per lettera lo scambio di vedute
iniziato per mezzo dell' ambasciatore marchese di Coeuvres, il
quale replicava alle difficoltà messe innanzi, col dire che nessuna
negoziazione può esistere senza spine e senza intoppi ed insi-
steva affermando la possibililà di venire ad un accordo (2). Ma
nel tempo stesso scriveva privatamente a Traiano Gruiscardi,-
reduce dalla Francia e ritornato all'ufficio di consigliere di stato
in Mantova, chiedendogli se era vero che si progettava il ma-
trimonio di Eleonora col re Ferdinando e che si trattava a Mi-
lano la permuta del Monferrato poiché, se uno di questi due
;
fatti fosse risultato vero, sarebbe stato vano il proseguire i
tentativi di accomodamento (3).
(l; Ferdinando al Bonatti, 12 giugno 1619, ibidem. Per consiglia
di don Giov. Vives, Ferdinando ritornava anche a sollecitare dal re
Cattolico il consenso al suo viaggio in Ispagna per sostenere di persona
3e proprie ragioni. Riguardo alla missione di D. Giulio Gambara il duca
scriveva così: « Continuava il Duca di Savoia in proponer con varii
< mezi partiti d'accomodamento et ultimamente se non mandato da lui
« almeno di suo consenso ritornò da noi quel tale D. Giulio Gambara
« prete Bresciano suo servitore vecchio et persona clie tratta assai do-
« mesticamente con lui sempre come per lo passato, discordassimo
« adesso anchora nei principi ond'egli partì di qua con così poca spe-
« ranza d'alcun frutto che non crediamo sia più oltre per ritornare... > ,.
(2) Copia di lett. diretta dal Coeuvres al duca di Mantova, 12 luglia
1619. F, II, 7, 2298, ibidem.
(3) Lett. del Coeuvres al Guiscardi, 12 luglio 1619, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 45
Le trattative svoltesi a mezzo del Ooeuvres (1) avevano con-
dotto le questioni a questo punto : per la dote di Margherita il
Gonzaga si un interesse annuale
era dichiarato disposto a pagare
e ad accettare stima che Margherita stessa avrebbe fatto
la
degli oggetti di valore portati seco per la dote di madama ;
Bianca, si diceva pronto a pagarne il capitale, secondo il giu-
dicato di Carlo Y, in tante terre del Monferrato, purché queste
fossero stimate secondo la consueta valutazione dei feudi impe-
riali e purché col cambio reciproco di alcune terre fossero defini-
tivamente messe da parte le vicendevoli pretensioni. Egli avrebbe,
ripeteva, preferito di veder le differenze risolte dinanzi al tribu-
nale cesareo, ma non voleva mettere a repentaglio, rifiutando altri
partiti, la quiete pubblica e privata. Se si fosse giunti all'ac-
cordo fra le due case, il Gonzaga avrebbe anche concesso ai
sudditi ribelli Palienazione dei loro beni (2).
Capitolo II.
Il contraccolpo dei negoziati del Coeuvres e di D. Giulio Oambara nella
politicaspagnuola — Le trattative per il baratto del Monferrato —
Incontro di Ferdinando Gonzaga e del duca di Feria a Pavia Con- —
tegno del Gonzaga rispetto alla Francia Sua destrezza nel barca- —
menarsi tra Francia e Spagna —
L'opera di M. de Leon e la missione
del marchese Luigi Gonzaga presso la principessa Cristina -- Timori
spagnuoli — Il re Filippo III si offre mediatore — Difficile condi-
zione del Gonzaga — Rappresaglie savoiarde nel Monferrato: gli
avvenimenti di Castiglione — Proteste del duca di Mantova — Suoi
sospetti di connivenza del duca dì Feria con Savoia — Suo riavvici-
namento alla Francia — L'opera dei diplomatici savoiardi a Parigi e
dei ministri francesi a Torino — La missione del Marossan — Guer-
riglie di confine nel Monferrato — L'azione istigatrice di Carlo Ema-
nuele.
I passi Ooeuvres per condurre alP appianamento
fatti dal
delle antiche e recenti divergenze davano ombra al governo di
Madrid, il quale sollecitava vivamente Ferdinando a non prestar
orecchio a tali proposte, insinuando che esse l'avrebbero certa-
(1) Il Coeuvres, nella prima udienza avuta dal papa, gli aveva pro-
posto di concorrere coi suoi uffici a comporre tutte le contese tra i
duchi di Mantova e di Savoia. Cfr. Siri, op. cit.j voi. V, pag. 26.
(2) Risposta al Coeuvres. 1619 (s. a. i.) F, II, 7, 2298, ibidem.
40 ROMOLO QUAZZA
mente condotto ad accettar partiti per lui svantaggiosi. Bd il
Gonzaga ritenne opportuno dichiarare che si era parlato solo
di questioni d'interesse e che mai avrebbe trattato intorno alle
pretensioni territoriali senza darne particolare ragguaglio al re
Cattolico, all'imperatore e al papa (1). Per tranquillare il duca
di Feria e più chiaramente attestare la propria sincerità, Fer-
dinando inviò a Milano il conte Annibale Ohieppio (2) il quale
avrebbe anche potuto ripigliar con quel governatore la questione
del baratto ed indurlo a fornire aiuti per presidiare il Monferrato. I
L'andata del Ohieppio a Milano valse a toglier credito alle
voci correnti di accordi tra Mantova e Torino ma il fine più ;
desiderato, quello degli aiuti militari e pecuniari, non si pre-
sentava facile ad ottenere (3). Il Feria non voleva riconoscere
la possibilità che Carlo Emanuele movesse contro il Monferrata
in dispregio del capitolato di Asti e rimaneva pur sempre du-
bitoso circa le trattative svoltesi a Mantova col Martinengo e
col Coeuvres (4).
D'altra parte Ferdinando non si sentiva sicuro nella via dei
negoziati condotti all'insaputa della Spagna. Per ciò egli nel
luglio 1619 fece esporre al Feria per mezzo del Chieppio e del
Nerli i suoi disegni, che avrebbero potuto realizzarsi secondo tre
direttive: la prima era che il governo di Filippo III gli fornisse
aiuti adeguati per fronteggiare qualunque insidia avversaria; la
seconda, che esso s'inducesse alla permuta del Monferrato; la
terza, che il sovrano spagnuolo, consapevole dell'assoluta neces-
sità per il Gonzaga di essere tranquillo ne' suoi domini e desi-
deroso di liberarsi dai fastidi e dagli aggravi procuratigli dall'in-
certa situazione del Monferrato, promuovesse egli stesso tra le
due dinastie in lotta un accordo definitivo basato sulla rinuncia
delle mutue pretensioni.
governatore di Milano acconsentì a scrivere egli stesso a
Il
Madrid ed il Bonatti ne venne prontamente informato, affinchè
;
(1) Ferdinando al re Cattolico^ 1619 (s. a. i), ibidem; al Nerli, 5
luglio 1619; al Bonatti, 15 luglio 1619, ibidem.
(2) Ferdinando al duca di Feria, 15 luglio ; al marchese di Bedmar,
15 luglio 1619, ibidem.
(3)Annibale Chieppio al duca di Mantova, 21 luglio 1619, ibidem.
(4)Ferdinando al Chieppio, 22 luglio; Chieppio a Ferdinando, 23
Inglio 1619, ibidem. Il Siri, op. cit,, voi. V. pag. 34 confonde l'andata
del Chieppio a Milano con le negoziazioni svoltesi a Milano nel '20 ed
è a questo proposito disordinatissimo e inesatto.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE 1 47
svolgesse nello stesso tempo opera persuasiva alla corte (1) e
sventasse le eventuali voci malevole, tra le quali quella che il
Gonzaga fosse entrato in lega con la repubblica di Venezia (2).
Sedici giorni dopo, cioèil 15 agosto, si seppe che il re Cat-
tolico aveva richiamato presso di sé don Giov. Ottavio Gonzaga
che già si trovava a Barcellona per apprestarsi alla partenza
per l'Italia; Ferdinando, lietissimo, ne argomentò che alla corte
madrilena vi fossero verso di lui buone disposizioni (3).
Il granduca di Toscana ed il papa facevano anch' essi noto
al duca di Mantova che non ritenevano prudente che egli, ne-
goziando col Coeuvres e sotto gli auspici del Cristianissimo, di-
sgustasse il monarca spagnuolo. Ferdinando tornava ad assicu-
rare che egli aveva trattato solo le questioni dotali e faceva
scrivere al Martinengo che non vedeva nelle sue proposte alcun
punto ragionevole di partenza per trattative, dato che lo si voleva
indurre a ceder di buona voglia a Carlo Emanuele una notevole
parte del Monferrato, cioè tutto quello che le due corone non
avevano permesso che quegli conservasse (4).
Delle tre vie indicate dal Gonzaga al Feria per mezzo del
Chieppio, il gabinetto di Madrid si mostrò disposto ad accettare
la seconda, cioè quella d'intavolare trattative per il baratto del
Monferrato. Si rinnovò, dunque, più intenso il lavorìo per la per-
muta del conteso territorio ed ancora una volta il duca scrisse (5),
(1) Ferdinando al Nerli, 27 luglio; al re Cattolico, 27 luglio; al
Bonatti, 27 luglio; al Feria, 27 luglio; al Nerli, 1 agosto 1619, ibidem.
(2) Ferdinando al Bonatti, 8 agosto 1619, ibidem.
(3) Ferdinando a don Giov. Ottavio Gonzaga e al re Cattolico, 15
agosto 1619, ibidem. Si era persino ventilata l'idea di concedere al Gon-
zaga il governo del Portogallo. Il duca di Mantova non si mostiava
alieno dall' accettarlo purché le condizioni fossero onorevoli. V. lett. a
D. Giov. Ottavio Gonzaga del 15 agosto, già cit.
(4) Ferdinando al granduca di Toscana, 9 agosto; al conte Marti-
nengo, 13 agosto; al Nerli, 3 sett. 1619, ibidem.
(5) Cosi scrisse a don Giov. Ott. Gonzaga il 29 settembre 1619:
4 Ho risoluto... partirmi al Genaro prossimo in quei giorni a ponto
< benché d'inverno suole rendersi assai facile et sicura la navigatione
« et di venirmene più all'improvviso e più segretamente che potrò con
« quei regali che stimerò convenienti per guadagnar la benevolenza di
« quelli che possono con la loro autorità favorir la causa mia. Havrei
* pensiero di mettermi in arrivando alla Corte, in un Monastero et per
« fuggir gl'incontri di trattar con manco di cotesti SS.ri sarà possi-
« bile... ».
I
4^ KOMOLO QUAZZA
data rimportauza della questione, manifestando il proposito di n
carsi egli in persona in Ispagna. In cambio del Monferrato Ferdi-
nandoambiva al possesso di Cremona col Cremonese (1), ma il pen-
siero di rinunziare a Cremona era ben lontano dalla mente dei
governanti spagnuoli, quali parvero per un momento decisi a
i
troncare senz'altro i negoziati. Ma poi l'intervento di don Gio-
vanni di Vives, rappresentante della Spagna a Genova, appianò
i primi dissapori ed il duca venne invitato a soffermarsi in
Pavia, mentre vi passava diretto a Casale, per abboccarsi col
Feria. L'incontro avvenne il 14 novembre, presenti don Giovanni
di Yives e don Girolamo Pimentel; ma l'argomento principale
dei discorsi non fu il baratto, perchè subito gli Spagnuoli com-
presero che il Gonzaga non prestava orecchio alla proposta di
ricevere il Cremonese senza Cremona e che poco gli piaceva
l'idea da loro avanzata di dargli la Sardegna e neppure quella
di trovargli altri compensi nel regno di Napoli o altrove. Più
ampiamente, invece, si discusse degli aiuti di gente e di denaro
che il re Cattolico avrebbe fornito per la difesa dei luoghi for-
tificati del Monferrato, aiuti i quali erano però subordinati alla
condizione che, accettandoli, Ferdinando promettesse formalmente
di non venire ad alcuna trattativa di accomodamento con Sa-
voia (2). Per maggiormente impegnarlo, il duca di Feria richiese
che il Gonzaga dirigesse a Filippo III una lettera, dichiarando
esplicitamente in essa di non voler accettare per il momento
da Savoia nessuna proposta di negoziati e di non voler avviar
trattative con Carlo Emanuele neppure in seguito, senza darne
prima avviso al sovrano spagnuolo (3).
Così si potevano dire formalmente avviate le pratiche per il
baratto del Monferrato. Tuttavia Ferdinando voleva tenersi an-
cora aperta una via verso la Francia e il duca di Savoia; e a
tal fine aveva pensato astutamente di separare la questione ter-
Ferdinando al Nerli, 22 ottobre 1619, ibidem.
(1)
Coi propri denari Ferdinando avrebbe dovuto pagare 1800 sol-
(2)
dati ; con quelli del re Cattolico, 1200. Inoltre avrebbe dovuto scegliere
a preferenza soldati alemanni, poiché « la natione svizzera hoggidì fèl
« poco sicura di fede et di valori, et l'Italiana per lo più fugitiva et
« incerta ». Ma il duca non jie volle sapere d'introdurre nelle sue terre
altra gente straniera. Lett. di Ferdinando a don Giov. Ott. Gonzaga da
Casale, 18 nov. 1619, ibidem.
(3) La lettera fa scritta da Ferdinando a Pavia il 16 nov. 1619,
ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CABLO EMANUELE I 49
ritoriale da quella del risarcimento della dote di Margherita e
dicendosi pronto a versare questa, alla metà di ottobre 1619
aveva invitato Luigi XIII, a mezzo del Priandi, a interporsi per
stabilire di concerto col duca di Savoia l'ammontare della somma
che egli avrebbe dovuto versare alla cognata per la dote, gl'in-
teressi dotali, la sopradote e le gioie (1). Questa distinzione gli
offriva il modo di barcamenarsi fra gli uni e gli altri, poiché
agli Spagnuoìi egli la poteva prospettare come una pura e
semplice questione economica, ed a Parigi e a Torino poteva
all'occorrenza presentarla come un punto di partenza per trat-
tative di carattere politico.
Ma a far nascere nuove preoccupazioni nel Gonzaga si
sparse poco dopo la voce che gli uomini di stato spagnuoìi cer-
cavano di stringere col duca di Savoia migliori rapporti e ten-
tavano di attirarlo nell'orbita loro. Atterrito, il Gonzaga, scrisse
al licerli di adoperarsi a sconsigliare Feria e il marchese di
il
Val di Fuentes e ad affrettare le trattative per la permuta del
Monferrato e propose di mandare in Ispagua con incarico spe-
ciale il conte Striggi e il senatore Grisella (2). D'altra parte la
notizia delle pratiche intavolate per il baratto si diffondeva a
ToriQO, provocando allarme vivissimo e destando in Carlo Ema-
nuele il proposito deciso di impedirle a tutti i costi (3).
Se non che l'appoggio spagnuolo non si presentava per Fer-
dinando sotto parvenze troppo liete. Egli sentiva vivamente che
« si voleva comprar la [sua] libertà per pochi denari », impo-
nendogli condizioni e vincoli d'ogni sorta, perfino nella scelta
dei soldati che dovevano presidiare il Monferrato, tergiversando
Ferdinando al Priandi, 17 ottobre 1619, ibidem.
(1)
mezzo migliore per obbligare il duca di Savoia al timore e
(2) Il
al rispetto verao la Spagna —
insinuava Ferdinando — era di effettuare
presto lo scambio del Monferrato, il quale « entrando sin nelle viscere
« del Piemonte et sotto a Torino, [il duca di Savoia] deverà star sempre
« timoroso et con gelosia tale che non se ne potrà assicurar se non
« per via d'unirsi con quella corona, dovendo egli da sé abbracciar
« in tal caso questa risolutioue per la coutinuatione sua... »; dalla
lett. di Ferdinando al Nerli del 27 nov. 1619. Vedi anche quella allo
stesso Nerli del 30 nov. 1619, ibidem.
(3) Lett. anonima del nov. 1619, ibidem. Il Siri, op, cit, voi. V,
pag. 228 e seg. accenna alle trattative per il baratto e all'opera svolta
da Carlo Emanuele per impedirlo, ma in modo assai confuso e non ri-
spettando la cronologia.
Arch. Stor. Lomb. Anno XVIX, Fase. I-IL 4
50 KOMOLU QUAZZA
nella rimessa degli aiuti pecuniari, deludendolo nei compensi
da concedergli per il baratto. Irritato, <lunque, egli finì per scri-
vere chiaramente a don Giovanni Ottavio Gonzaga che avrebbe
cercato quanto più avrebbe potuto la protezione del re Cristia-
nissimo largamente offertagli protezione che egli stimava « unico
;
« e potente freno degl'inquieti e torbidi pensieri di Savoia (1) ».
Olaudio Marini, ministro di Francia a Torino, ebbe l'inca-
rico di ricercare i mezzi per raggiungere il desiderato riavvici-
namento delle due case. Un'occasione ottima si presentava quella :
di mandare a complimentare Cristina, sorella di Luigi XIII, an-
data sposa il 10 febbraio 1619 a Vittorio Amedeo. Gonzaga
Il
non poteva però esporsi al pericolo di un affronto e di non ve-
dere convenientemente accolta e ricambiata la speciale amba-
sciata che egli avrebbe mandata alla corte torinese a presentare
omaggio alla principessa francese; era necessario dunque che
Carlo Emanuele facesse prima capire in qualche modo che avrebbe
gradita una tale manifestazione di ossequio.
Invece l'opera del Marini non riuscì a tutta prima a supe-
rare la freddezza e l'indifl'erenza del duca di Savoia; sì che
Ferdinando fu costretto a varie riprese a render noto al Cri-
stianissimo per mezzo del Priandi, al Puisieux, al Brulart de
Leon, ambasciatore francese a Venezia, che egli non poteva
avventurarsi ad esporre il proprio decoro (2). Purché gli venisse
concessa la protezione del re di Francia, egli era pronto a man-
dare un ambasciatore alla principessa di Piemonte ma chi lo ;
avrebbe garantito da una sgarbata accoglienza o da un mancato
ricambio? (3).
(1) Ferdinando a don Giov. Ott. Gonzaga, 9 e 27 dicembre; al Nerli
del 14 die. 1619, ibidem.
•
(2) Ferdinando al Priandi, 9 genn. 1620; al re Cristianissimo, 10 genn ;
al Puisieux, 25 febbr. ; al Priandi, 10 aprile; al re Cristianissimo, 10 aprile
1620. F, II, 7, 2299. ibidem. Un inviato del Gonzaga, il Samero, si era
abboccato col Marini ad Asti; e poi, recatosi a comunicare al suo si-
gnore quanto il Marini gli aveva significato, ritornò a Torino, per farlo
partecipe delle difficoltà gravissime che ostavano all'invio di un ambascia-
tore speciale a complimentare Cristina. Vedi istruzioni al Samero. E,
XIX, 1, ibidem.
(3) Ferdinando al re di Francia, 26 febb. 1620, ibidem. Ferdinando
aveva anche pregato il Leon, ambasc. frane, a Venezia, perchè lo difen-
desse dagl'intrighi del duca di Savoia ed esprimesse a Luigi XIII la
verità.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 51
Per il momento, dunque, l'idea lu messa in disparte; male
speranze di Ferdinando nell'utilità della protezione francese non
erano spente, tanto è vero che egli, cogliendo a volo l'occasione
offertagli dall'intransigenza del governo di Madrid, risolutamente
troncò la negoziazione avviata con gli Spagnucli per la permuta
del Monferrato e diede ordine a don Giov. Ottavio Gonzaga di
tornarsene senz'altro in Italia, non omettendo di rinnovare al
promessa che non avrebbe concluso ad insaputa di
re Cattolico la
lui alcun accomodamento con Savoia e di assicurare che si era
fino allora parlato solo delle questioni dotali (1).
L'ambasciatore francese a Roma, quello veneto e Sua San-
tità medesima avevano, nel frattempo, ripigliato ad insistere
presso il Gonzaga per l' aggiustamento delle differenze con
Savoia (2). La cosa, subito conosciuta dal Feria, destò nuovo
(1) Ferdinando a don Giov. Ott. Gonzaga, 8 febb.; al Nerli, 5 febbr. e
10 apr. j al re Cattolico, 10, 14 e 15 aprile 1620, ibidem. Dalla minuta di
quest'ultima lettera stralciamo : « Si tratta ora del puro pagamento della
« dote della S. Infanta ricercato dal Re Cristianissimo, et più volte ricor-
« dato e persuaso dai ministri di S. M.tà Catt. ... Circa le differenze
« vecchie comprese nel Capitolato di Asti è stato solo promosso dal
« Marchi di Courè (sic) non bene informato forse di questi affari, di
« pagar giustamente le doti di madama Bianca, ma S. A. non volendo
« dividere l'accomodamento di tutte le differenze s'è riportato alla
« scrittura che fu già data al Seg.rio del medesimo Marchese quando
« passò a Roma partecipatone dall'hora a S. M.tà et suoi Ministri di
« cui si dà copia con q.ta al S. G. Cane. re... ».
(2) Il duca di Mantova, rispondendo in proposito al Soardi il 30
marzo 1620, rievocava le profferte precedentemente fatte al re di Francia
di restituir prontamente la dote dell'infanta sua cognata e aggiungeva:
« Di questa buona volontà siamo ancora oggidì et vogliamo che certi-
« fichiate la S tà S. et cotesti Amb.ri francesi et Veneto, contentandoci,
« come si dice, di bere grosso et di non pensar a tutti li punti di ra-
« gione coi quali potessimo difender la causa nostra volendo in tutto
« contribuir alla sodisfatione degli altri e alla comune quiete et perchè
« come dalla Jiota esibita dall'Abate Scaglia il Duca di Savoia pretende
« di q.te cento la somma di 4 mila ducatoni senza dir il come né il
« perchè direte ad essi signori che il nostro calcolo si riduce ad assai
-Kmeno et che quando Laveremo con chi trattare molto facilmente mo-
« streremo gli errori che si prendono nel calcolar q.ta partita, ripor-
* tandoci però sempre al giusto senza volere che di q.te nostre preten-
« sioni ponga difficoltà in quello che principalmente si tratta poiché
« per la parte nostra procederemo con tanta sincerità et limpidezza e
52 ROMOLO (^UAZZA
allarme nei circoli spaglinoli, dai quali, anzi, non si esitò a co-
municare al duca di Mantova, che la ragione i)rincipale, per
cui il re Cattolico aveva lasciato cadere le trattative pel baratto,
era precisamente l'insistenza di Carlo Emanuele nelFaffermare le
proprie pretensioni sul Monferrato. Lo stesso gran cancelliere di
Milano fu deputato a significare al Gonzaga che Filippo III de-
siderava il rinvio al tribunale cesareo delle questioni pendenti
tra Mantova e Torino e contava sull'impegno preso da Ferdi-
nando non accedere ad alcuna altra via di trattative (1).
di
Ma all'astuto ex-cardinale non mancava l'arte di eludere
accortamente le richieste e di render vane le minacce del gran
cancelliere spagnuolo. Ond'egli prontamente ricordò che don
Pietro di Toledo e il duca di Feria l'avevano tutti e due consi-
gliato di mantenersi in buon accordo con la corona di Francia,
poiché ciò poteva servire di freno al duca di Savoia e che j
egli, in ossequio a questo suggerimento, si era sempre compor-
« con fondamento alla mano che non s'haverà da noi per
così sicuri
« giustizia a desiderar di vantaggio, e ciò sia detto quanto al pagamento
« solamente della dote della cognata. Rispetto poi a quella di Madama
« Bianca dovete sapere che questa resta contentiosa così rispetto alla
€ quantità negandosi assolutamente in esecutione della sentenza di
« Carlo V il debito degli accessori, come quanto ai beni nei quali
* s'habbia a pagare... ». Inoltre raccomandava esplicitamente di dire al
papa e agli ambasciatori che la dote della cognata dovevasi considerare
separata da quella di madama Bianca che egli era pronto a pagare
j
la dote della cognata anche se l'accomodamento generale con i Savoia
fosse fallito, purché si fosse stabilito di comune accordo l'ammontare j
che riguardo alla dote di Bianca, Savoia non poteva né doveva decider
nulla senza le due corone, essendo materia controversa contemplata
nel capitolato di Asti; che egli non aveva mai detto né pensato di
pagar la dote di Bianca se non quando si fosse trattato di cancellare
con una generale reciproca rinuncia tutte le mutue differenze... La let-
tera terminava con le seguenti parole « È arte di Savoia di non venir
:
« mai a giusto componimento per tener sempre vive dinanzi al Re, al
« Papa, agli altri Potentati queste sue pretensioni perchè gli servono
« a seconda del mutar degli eventi a far brogli e a tener il mondo
« in una perpetua inquietudine ». Ibidem. Un rapido accenno al tenta-
tivo del papa lo troviamo anche in Barozzi e Berchet, Belaz. degli st.
europei lette al Senato dagli Amb. Veneti nel sec. XVII, Serie III,
Italia, Relaz. di Roma, Venezia, 1877, pag. 124; in Siri, op. cit., voi. V,
pag. 228 e sg.
(1) Ferdinando al Bonatti, 17 aprile 1620, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 53
rato deferentemente verso il governo di Parigi, così che un mu-
amento nella sua condotta, una ripulsa all'opera pacificatrice
lei Cristianissimo avrebbe avuto conseguenze pericolose. Si
idoperasse, dunque, il sovrano spagnuolo, affinchè Pimperatore
ivocasse a sé la questione, non per via di « giustizia litigiosa »,
ila come arbitro di un accomodamento. Se non che il gran can-
celliere sapeva bene che il duca di Savoia non aveva alcuna
confidenza nell'imperatore e che, come non lo voleva per giu-
dice, tanto meno l'avrebbe accettato come mediatore; perciò,
vinto dall'accortezza di Ferdinando, dovette lasciare Mantova
senz'avergli strappato altro che la consueta promessa di non
concludere nessun accordo senza l'approvazione di S. M.tà Cat-
tolica (1). Però il Gonzaga aveva benissimo compreso che ad
una seconda istanza, eventualmente rinnovata, egli non avrebbe
potuto resistere, dato il grande calore che il gabinetto di Madrid
metteva nella questione a fine di scongiurare l'interposizione del
sovrano francese, ititenne dunque opportuno d'informare pron-
tamente il Priandi e per mezzo suo il governo di Parigi, delle
pressioni ricevute e della difficile posizione in cui veniva a
trovarsi (2).
Tra i ministri spagnuoli in Italia il pivi accanito era l'am-
basciatore a Eoma, duca d'Alburquerque, il quale tempestava e
minacciava, convinto che Ferdinando trattasse con Savoia, e
non acquetava a nessuna delle giustificazioni e delle spiega-
si
zioni che gli forniva il Scardi, rappresentante del Gonzaga
presso la Santa Sede (3). Il vescovo era stato opportunamente
istruito con tutte le più precise notizie ed indicazioni sulle re-
ciproche pretensioni dei due duchi e svolgeva con zelo l'opera
sua presso i vari ambasciatori (4).
Il duca di Mantova pensava giustamente a porre in rilievo,
sopra tutto dinanzi a S. S.tà (5) ed ai ministri francesi in Italia,
(1) Ferdioando al Bonatti, 17 aprile 1620, cit; e al Nerli, 17 aprile
1620, ibidem.
(2)Ferdinando al Priandi, 20 aprile 1620, ibidem.
(3)Ferdinando al Nerli, 3 giugno 1620, ibidem.
(4) Il 12 maggio Ferdinando gli aveva mandato notizie precise ri-
guardo all'ammontare delle doti ed i calcoli sui pagamenti che egli
avrebbe dovuto fare a Margherita ed a Carlo Emanuele.
(5) Paolo V era alieno dall'ingerirsi nella contesa tra Mantova e
Savoia, sia per desiderio di quiete, sia per non disgustar gli Spagnuoli,
sia anche perchè temeva il malumore di Carlo Emanuele, col quale vo»
Oi ROMOLO QUAZZA
ohe restìo all'accordo era solo il duca di Savoia e di ciò eoa loro
si mostrava dolente, mentre con gli Spagnuoli ostentava di segna-
lare con gioia ogni appiglio che potesse presentarsi per indurre
il re di Francia ad abbandonare la sua opera d'intermediario.
Oosì, ad esempio, quando l'ambasciatore francese a Venezia
Leon, nel viaggio di rimpatrio, dopo otto anni di soggiorno
nella metropoli adriatica,si soffermò a Mantova e disse al duca
che aveva inutilmente atteso una relazione sulle pretensioni di
casa Savoia, da Carlo Emanuele più volte promessa, Ferdinando
si affrettò a scriverne ne desse, parte al Feria,
al Nerli, affinchè
e soggiunse che così probabilmente Luigi XIII « leverebbe la
« mano dal detto accomodamento e così il Re Oatt.co verrebbe a
« conseguir il suo intento » (1), poiché egli, Ferdinando, preferiva
che la trattazione si avesse « anzi a sdrucire che rompere » (2).
Ma le cose si svolsero in modo ben diverso da quello che
gli Spagnuoli desideravano e certo in maniera più conforme al-
l'intimo desiderio del Gonzaga. Il Leon, giunto a Torino, seppe
così bene adoperarsi presso Carlo Emanuele che questi s'indusse,
col pretesto di accompagnare una lettera imperiale, a scrivere il
7 giugno 1620 al duca di Mantova, il quale, dopo di aver risposto
con altrettanta prontezza, dispose che il marchese Luigi Gon-
zaga, suo parente, si apprestasse a partire per Torino, dove
avrebbe dovuto complimentare la principessa Cristina e presen-
tare lettere al duca di Savoia ed ai principi (3). La lettera im-
periale sopra detta concerneva il baratto del Monferrato e quella
di Carlo Emanuele era redatta in termini tali da spiegare al
Gonzaga che egli, informato delle trattative avviate con la
Spagna per il cambio di quel territorio e preoccupato per il
nocumento che ne avrebbe ritratto, aveva invocato l'intervento
dell'imperatore ed osava sperare che non si sarebbe concluso
nulla ai suoi danni, esprimendo per proprio conto le più bene-
vole intenzioni (4).
leva aver a che fare li meno possibile. Il card Borghese, poi, temeva
che il negozio richiamasse in Roma il card, di Savoia. Siri, op. cit.,
voi V, pag. 103.
Ferdinando al Nerli, 29 maggio 1620, ibidem.
(1)
Ferdinando al Nerli, 5 giugno 1620, ibidem.
(2)
(3) Monsieur de Leon a Ferdinando 8 giugno 1620, E, XIX, 3, 736, Fer-
dinando al Priandi, 12 giugno al Leon, 12 giugno 1620, F, II, 7, 2299, ibid.
}
(4) Al Nerli, 18 giugno 1620, ibidem. Lett. di Carlo Emanuele a
Ferdinando, 7 giugno 1620, E, XIX, 2, 730, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 55
Al marchese Luigi Gonzaga vennero date istruzioni pre-
cise (l) affinchè, prima di tutto, si recasse ad ossequiare ma-
dama Cristina, mostrando chiaramente che l'ambasciata era
diretta a lei, ed affinchè, nelle visite che avrebbe fatte succes-
sivamente a Carlo Emanuele, a Vittorio Amedeo, a Margherita
ed agli altri principi, manifestasse in termini generali, ma effi-
caci, labuona volontà di Ferdinando di stringere amichevoli
rapporti fra le due case e la soddisfazione sua per essersene pre-
sentata l'opportunità.
Naturalmente queste scambievoli manifestazioni di cortesia
eran destinate a suscitare tra gli Spagnuoli i commenti più ma-
levoli e le pili vibrate proteste. Ma già qualche giorno innanzi
era sorto un altro incidente. Il marchese di Coeuvres, saputo il
passo dal gran cancelliere di Milano presso Ferdinando, aveva
mandato il suo segretario a protestare energicamente presso il
duca d'Alburquerque, il quale per mezzo del duca di Feria se
ne era risentito presso il Gonzaga, quasi imputando a lui la
colpa delle doglianze dell'ambasciatore francese (2). Quando poi
si seppe dell'andata a Torino del marchese Luigi, il duca di
Mantova fu costretto a mandare al Feria una lunga serie di
giustificazioni e di chiarimenti (3), in appoggio dei quali, per
meglio dimostrare la propria devozione alla Spagna, egli avan-
zava anche la proposta di unire truppe proprie a quelle del
Feria in caso di guerra per la questione della Valtellina, proprio
in quei giorni riaperta, e perfino di assumersi egli stesso l'in-
carico di proteggere gli abitanti di quella regione, qualora
S. M.tà avesse preferito di non impegnare nella faccenda il
proprio nome (4). Avvertito però dal Battaini, residente di
(1) Ferdinando al marchese Luigi Gonzaga, per Torino, 20 giagno
1620, E, XIX, I, ibidem.
(2) Ferdinando al Nerli, 17 giugno 1620. F, II, 7, 2299, ibidem.
(3) Ferdinando al Nerli, 3 luglio 1620, ibidem.
(4) Ferdinando al Nerli, 7 e 14 agosto 1620, ibidem. Riguardo la
questione valtellinica, oltre i noti lavori generali del Siri, Nani, Carutòi,
Ricotti, Hanotaux, Levassor, Winter, Bazin, Batiffol, Ranke, Weiss»
Romanin, le relaz. degli Amb. Veneti pubblicati dal Barozzi e Berchet,
ecc., vedi i lavori particolari del Lavizzari, del Nott da Porta, dei
Quadrio, del Lehmann, di Von luvalte Fortunat, del Romegialli, del
Cantù, del Martinelli. dell'Arezio ecc., ed il mio studio Politica europea
:
nella questione valtellinica (La lega franco-veneto-savoiarda e la pace
4i Mongon) in Nuovo Arch. Veneto. Nuova Serie, voi. XLII, anno 1921.
56 ROMOLO n\],\y/A\
Mantova a Venezia, che questo gesto avrebbe potuto essere
assai male interpretato, Ferdinando s'affrettò a render noto al
doge che egli era mosso unicamente da zelo religioso e che,
qualora gli Spagnuoli avessero mostrato fini diversi da quelli
della protezione della fede, non si sarebbe mai allontanato dalla
difesa della repubblica e della comune libertà d'Italia (1).
Il timore che i due avversari
mettessero d'accordo tra si
loro, timore ravvivato dall'invio del gentiluomo mantovano a
Torino, non tardò a produrre un nuovo mutamento di direttive
nella politica spagnuola. La proposta, già avanzata dal Gonzaga
e dapprima respinta, che il re Cattolico s'interponesse egli
stesso per condurre ad un accomodamento le differenze tra Sa-
voia e Mantova, apparve al gabinetto di Madrid come il mi-
glior espediente per scongiurare soluzioni non rispondenti agl'in-
teressi spagnuoli. La novella decisione di Filippo III fu signi-
ficata al signore di Mantova dal commissario generale del
consiglio reale di Milano, Barbò, il quale gli recò le lettere
regie al riguardo (2).
Nello stesso tempo re di Francia faceva chiedere a Fer-
il
dinando di designare luogo in cui si sarebbero potute svolgere
il
le trattative e di scegliere i ministri che vi avrebbe deputati.
La condizione del Gonzaga era difi&cilissima, poiché la du-
plice interposizione dei sovrani francese e spagnuolo pareva do-
verlo inevitabilmente condurre alla rottura con uno dei due (3)«
Il duca di Mantova si chiedeva, anzi, se la profterta del re
cattolico non fosse per avventura un artificio suscitato dal duca
di Savoia per porlo in imbarazzo, poiché si sapeva non esser
stati estranei alla decisione di Filippo III gli uffici del principe
Filiberto, figlio di Carlo Emanuele e risiedente in Madrid, dove
copriva altissime cariche (4). Questa convinzione si faceva, anzi,
(1) Al Battaino, resid. di Mantova a Venezia, 16 agosto 1620,
ibidem.
(2) Ferdinando al re Cattolico, 17 sett. -, a Madama Ser.ma moglie
del duca di Mantova, 18 set.; a don Griov. Ott. Gonzaga, 18 sett. 1620,
ibidem.
(3) don Giov. Ott. Gonzaga, 18 sett., cit.
L^tt. a
Ferdinando al Battaino, 18 sett. 1620, ibidem. Per notizie sul
(4)
principe Filiberto, vedi Cibrario, Le istituz. della Monarchia di Savoia,
La Lumia, Studi di st. siciliana, Palermo, 1870 Amore, Filiberto, vi- ;
ceré di Sicilia, Catania 1876; Claretta, Il princ. Em. Filiberto alla
corte di Spagna, Torino 1872.,
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE 1 57
in lui sempre più profonda a mano a mano che vi rifletteva
maggiormente. Senza alcun dubbio, Carlo Emanuele era stato
l'istigatore della proposta spagnuola ed era stato mosso dalla
speranza che Ferdinando, sapendo che vi era in Madrid Filiberto
con una numerosa fazione a lui favorevole, ricusasse di accettare
l'offerta della corona Cattolica e portasse così grave danno a sé
stesso. V'era un solo mezzo per distornare un così grande peri-
colo ed era di accogliere senz'altro l'invito di Filippo III (1).
Non ci voleva méto della finezza diplomatica del Gonzaga
e della sua pronta ed acuta dialettica per far fronte ad una si-
tuazione tanto delicata. Egli intravedeva la ragione per la quale
la Spagna tentava di accaparrarsi il duca di Savoia, di cui te-
meva l'azione durante i moti di Yaltellina (2), e sul finire del
settembre 1620 arditamente faceva comprendere al Barbò stesso
e al Feria, per mezzo del [N^erli, che il giuoco non gli sfuggiva (3)
e che intendeva mandare messi all'imperatore per sollecitarlo a
intervenire nella faccenda. Poco dopo si diffondeva la voce che
<Jarlo Emanuele meditava qualche nuovo colpo contro il Mon-
ferrato (4) e in seguito a ciò Ferdinando si affrettava a disporre
per la difesa delle piazzeforti e per la distribuzione dei rin-
forzi (5).
Le voci sparsesi non erano infondate. Difatti, pochi giorni
dopo, alcuni ufficiali di giustizia piemontesi con l'assistenza di
(1) Ferdinando al Priandi, 18 sett. 1620, ibidem.
(2) Per la questione della Valtellina, Ferdinando scriveva al Priandi
affinchè, a suo nome, persuadesse il governo francese a non turbare colle
armi la quiete d'Italia, ma a tentare piuttosto la via di una composi-
zione amichevole, dato che per molti indizi si comprendeva che i mi-
nistri spagnnoli in Italia avevano sorpassato di molto gli ordini regi
ed avrebbero probabilmente voluto ritrarsi, se la loro riputazione l'a-
vesse consentito. Vedi lett. di Ferdin. al Priandi, 24 sett. 1620. La re-
pubblica veneta mandò a Mantova il segretario Busenello, invocando
che il duca aprisse gli occhi sugli artifici spagnuoli. Da parte sua il
duca li consigliò a indurre i Grigioni ad accontentare per quanto ri-
guardava la religione i Valtellinesi e a vivere in armonia col papa,
poiché il granduca di Toscana e gli altri principi l'avrebbero sempre
seguito. Vedi lett. al Battaino, 24 sett. 1620. F, II, 7, 2300, ibidem.
i3) Ferdinando al Nerli, 22 sett. 1620; al d'Aragona a Roma, 24
sett. 1620, ibidem.
4) Ferdinando al Battaino, 18 nov. 1620, ibidem.
(5) Ferdinando al Cliieppio, 30 nov. 1620, ibidem.
BOMnL^. (-GUAZZA
iei>arti di cavalleria e di liiuu-n.i; piombavano nel ieutio uni-
ferrino di (Castiglione, traendo prigione il conte del luogo: tiii'<
ciò senza Fombra della ragione ed anche senza alcun i)rete8to ej
contro lo spirito e la lettera del capitolato di Asti.
Immediatamente il Gonzaga diede
notizia dell'avvenuto al
Claudio Marini, ne scrisse alinvocò direttamente la]
Priandi,
protezione del re Cristianissimo (1) e il giorno dopo ne avvertì]
l'imperatore, il re Cattolico e diede istruzioni in proposito alj
conte Zuccone, suo rappresentante a Vienna, e al Bonatti, suo
agente a Madrid (2).
Egli sra però sempre convinto che gli Spagnuoli intendes-
sero acquistarsi l'appoggio del duca di Savoia a spese sue e
raccomandava perciò al Battaino a Venezia di avvertire l'amba-
sciatore francese, M. de Villiers, e qualcuno dei segretari della,
repubblica, affinchè vedessero a quali indegne arti ricorreva
Madrid (3;. Tra tante promesse e lusinghe alle quali mal corri-
spondevano i fatti, Ferdinando comprendeva che egli poteva
fidare solo nelle proprie forze, e perciò il 4 gennaio 1621 ordinò
al marchese Guerrieri ed al Consiglio riservato del Monferrato
che venissero sollecitamente approntati tutti i mezzi di difesa
necessari tanto nel caso che si venisse ad una guerra per la Valtel-
lina, quanto in quello in cui, sedati i moti in questa regione, il
duca di Savoia fosse libero di volgere in altra direzione le sue
milizie (4).
L'incontro dei duca di Feria col principe Filiberto, che rap-
presentava nella casa di Savoia la corrente spiccatamente spa-
gnuola (5), avvenuto in quei giorni ad Alessandria, persuase
(1) Nell'eventualità di nuove guerre in Italia, Ferdinando, fin dal
2 ottobre, aveva scritto a Luigi XIII, affinchè ordinasse al maresciallo Le-
sdiguières d'impedire che si danneggiassero i suoi stati. Vedi pure le mi-
nute di lett. al Priandi, ai Marini, a Luigi XIII del 15 dicembre 1620, ibidem.
(2) In data 17 dicembre 1620, ibidem.
(3) Ferdinando dicembre 1620, ibidem.
al Battaino, 23
(4) Ferdinando genn. 1621; al marchese Guerrieri e al
al Nerli, 4
Cons. riservato del Monferrato, 16 genn. 1Ò21, F, II, 7, 2301, ibidem.
Ferdinando non tralasciava di dare ordini a Pier Capponi, fiorentino,
di fornirgli 70 mila libre di salnitro di polvere e 1500 corsaletti, inten-
sificando i preparativi per la difesa del Monferrato. Vedi lett. a Pier
Capponi, 2 ottobre 1620, ibidem.
(5) I principi Tommaso e Vittorio Amedeo rappresentavano invece
la corrente francese.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE ! 59
sempre più profondamente il Gonzaga, che la Spagna cercava
« di comprar Savoia a costo del Monferrato » (1) e lo indusse a
rispondere in modo dilatorio all'invito di mandare deputati in
Ispagna per trattare del famoso accomodamento (2).
Per naturale reazione, piìi stretti si fecero allora i rapporti
del duca di Mantova con la Francia ed il lavorìo di quanti
amici egli contava alla corte borbonica divenne intenso. La
cancelleria ducale aveva immediatamente avvertito il Priandi,
l'agente mantovano a Parigi, dei fatti accaduti a Castiglione
e questi aveva prontamente interessato della cosa il duca Carlo
di Nevers, cugino presunto erede di Ferdinando, ove que-
e
sti ed il fratello suo, Vincenzo, non avessero tìgli. Il Priandi
corse in Piccardia, dove si trovava il re il Nevers ne appoggiò
;
l'opera con lettere e colloqui coi principali ministri, offrendo in
caso di guerra il suo braccio e quello dei cavalieri tutti della
Milizia Cristiana, ordine di recente istituito (3).
Dopo avere per alcuni giorni seguito il sovrano a Calais, a
Boulogne, a Andres, il Priandi potè finalmente abboccarsi con
lui ad Abbéville e ne ebbe la promessa che si sarebbe intro-
messo per mantener la pace tra le due case. Il Lujnes e il
Puisieux confermarono la buona volontà regia e quest'ultimo
ordinò all'ambasciatore di Savoia di comunicare subito al suo
signore le intenzioni del sovrano, e scrisse al Lesdiguières e a
Claudio Marini, affinchè operassero nel medesimo senso (4).
(1) La proposta fatta dai duca di Savoia, per mezzo del gran can-
celliere di Milano^ di rimettere in libertà il conte di Castiglione, purché
gli fosse permesso di punire coloro che andavano ad ammazzare i sud-
diti piemontesi, confermò i sospetti del Gonzaga, il quale rifiutò di ac-
consentire, dicendo che egli poteva con miglior fondamento pretendere
che sifacesse giustizia contro coloro che erano penetrati nei suoi ter-
ritori con evidente violazione della legge. Vedi lett. di Ferdinando al
Nerli, 22 e 24 genn. 1621, ibidem.
(2) Ferdinando al Nerli, 27 genn. 1621, ibidem.
(3) Si erano offerti di accorrere in difesa del Monferrato minacciato
il duca di Lorena, cognato di Ferdinando, e i cavalieri del distretto
occidentale della Milizia Cristiana, ordine religioso-militare da poco
fondato dal duca di Nevers, cugino del duca di Mantova.
(4j Alcuni gentiluomini, tra cui il conte Masciantonio Scoto d'Agaz-
zano, si affrettarono ad offrire al Gonzaga i loro servigi. Il duca di
Nevers offrì anche i cinque galeoni dell'ordine della Milizia Cristiana,
i quali avrebbero potuto assalire, in caso di guerra, il porto di Villa-
franca. Vedi lett. del Priandi a Ferdinando, 9 genn. 1621. E, XV, 3, 673.
00 ROMOLO QUA ZZA
Ma rinterposizione francesenon ebbe da principio alcun
effetto, forseanche per la freddezza del Marini. Il conte di Ca-
stiglione era sempre tenuto prigione, il duca di Savoia mandava
a tutti i potentati d'Italia una relazione completamente svisata
dei fatti di Monferrato. Ferdinando si raccomandava, dunque,
affinchè venisse inviato presso Carlo Emanuele qualche perso-
naggio francese di riconosciuta autorità, per esempio il Brulart
de Leon, che già una volta aveva mostrato di saper influire
sull'animo di quel principe (1).
A Parigi l'ambasciatore di Savoia aflermava che la restitu-
zione dei prigionieri era già avvenuta nelle mani del segretario
spagnuolo e che, se il Marini l'avesse chiesta per il primo, sa-
rebbe stata concessa a lui ; ed i ministri francesi dimostravano
di credervi o forse, nel loro intimo, riputavano inopportuno do-
lersene troppo vivamente col duca di Savoia, in un momento
in cui gli Spagnuoli tanto si adoperavano per staccarlo dalla
Francia (2). Il Marini, poi, particolarmente protetto dalla prin-
cipessa di Piemonte, pensionato a dieci ducati al giorno da
Carlo Emanuele, non era il più adatto a muovere lagnanze la ;
sua parzialità per Savoia era nota anche ai ministri di Luigi XIII,
che non prestavano troppa fede alle sue relazioni, le quali non-
dimeno riuscivano sempre in certo modo nocive agl'interessi del
Gonzaga. Il Priandi intuiva che la corte francese non sarebbe
stata malcontenta se all'accomodamento delle loro differenze i
due duchi fossero giunti con la mediazione del re Cattolico, a
condizione che non si parlasse di permuta del Monferrato (3).
Il solerte ministro di Mantova si adoperava invece a tutta possa^
a^nchè si mandasse a Torino un apposito ambasciatore per am-
monire il duca di Savoia. Ma il Ijuynes e il Puisieux non erano
a ciò favorevoli (4) e il Priandi dovette insistere a lungo
presso il re in persona, il quale, pregatone caldamente dal
Nevers, si decise finalmente a deputare in Piemonte uno spe-
ciale inviato. Il connestabile Luynes e il maresciallo di Cadenet,
ambedue favoriti del re, proposero allora per questo incarico il
(1) Ferdinando al Priandi, 28 genn. e 13 febbr.j a Madama Ser.ma
di Lorena, 28 genn.; al duca di Nevere, 28 genn.; a Luigi XIII, 28^
genn. 1621; F, II, 7, 2301.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 16 e 22 genn. 1621. E, XV, 3, 673.
iS) Il Priandi a Ferdinando 3 febbr. 1621 il Priandi al Magni, a
:
febbr. 1621. Ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinando 12 febb. 1621, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 61
sig. di Marossan, mentre il Nevers ed il Priandi avrebbero pre-
ferito Leon. Il Marossan, uomo scaltro e buon parlatore, ma
il
« non grande di nascita », s'impegnò ad appoggiare con fervore
la causa del Gonzaga (1).
Nel frattempo Ferdinando non trascurava di informare degli
avvenimenti gli altri sovrani ed a quelli, coi quali era in rela-
zione di stretta amicizia e di parentela, manifestava chiaramente
la sua convinzione, che la Spagna avesse offerto a Carlo Ema-
nuele vantaggiosissimi patti. Al granduca di Toscana, ad esempio,
egli fece sapere il 15 febbraio 1621 di aver avuto notizia dal
Marini che il duca di Savoia stava per staccarsi definitivamente
dalla politica francese. Ora, se, avendo per nuora la sorella di
Luigi XIII, egli giungeva a tanto, non era difficile comprendere
che i compensi offertigli dovevano esserti vistosissimi (2).
Al gabinetto di Madrid il Gonzaga giudicava, poi, che con-
venisse far conoscere l'oftensivo procedere del Feria, il quale i
primi di marzo deteneva ancora in una fortezza spagnuola il
conte di Castiglione, consegnatogli dal duca di Savoia, e istigato
da questo, pretendeva per liberarlo che Ferdinando promettesse
di punirlo (3).
Quindici giorni dopo il Castiglione venne finalmente libe-
rato (4).
il partito favorevole al Gonzaga andava
Intanto, in Francia,
preparando il terreno, affinchè venissero date al Marossan le
opportune istruzioni per tutelare a Torino gl'interessi del duca.
L'ambasciatore di Savoia contrapponeva un'opera assidua per
ottenere il fine contrario e si valeva dell'ascendente che egli
godeva su madama di Puisieux, colla quale largheggiava in
doni. Il Marini, da parte sua, inviava spesso al Puisieux « di-
verse gentilezze d'Italia » e così se lo conservava amico. Era
Priandi a Ferdinando 19 e 27 febbr. e 5 marzo 1621, ibidem.
(1) II
Il signor di Marossan era una creatura del Lxiynes.Di una precedente
missione da lui compiuta in Italia parla il Richeueu, nei suoi Mémoires
par la société de l'Histoire de France, voi. 3°, pag. 180 e seg., Paris,
1912. Si trattava allora di servire ad un disegno del Luynes, il quale
aspirava a farsi dare dalla Santa Sede la contea d'Avignone.
(2) Ferdinando al cav. Andrea Gioii, 15 febbr. allo Zuccone, 19j
febbr.; all'imperatore, 19 febbr. 1621. F,ll, 7, 2301.
(3) Ferdinando al Nerli, 19 febbr. } al Priandi, 19 febbr.; al Bonatti,
22 febbr. 1621, ibidem.
(4) Ferdinando al Priandi, 19 marzo 1621^ ibidem.
Ù2 BOMOLO (^VAZZK
quindi opportuno ohe Ferdinando ricorresse allo stesso mezzo
e che per, cattivarsi l'onnipotente favorito Luynes, gli mandasse
regali e opere d'arte.
Per risolvere pacitìcamente la questione della Valtellina,
nella quale le armi spagnuole avevano sostenuto gli abitanti
cattolici di questa regione, mentre la Francia, alleata dei Gri-
gioni, era impegnata a ricondurre sotto il dominio di questi i «
sudditi ribelli, era andato nel frattempo a Madrid il conte di
Bassompierre. A questo fu mandato incarico di trattare pure
della questione riguardante i Savoia e i Gonzaga e di far osservare
che Luigi XIII, come non aveva avuto mai intenzione di esclu-
dere dalle trattative per un accomodamento dei due avversari il
re Cattolico, così non intendeva di esserne ora escluso egli me-
desimo, tanto piti che era stato il primo a promuoverle (1).
Nel marzo 1621 il Priandi venne informato che Pambascia-
tore di Savoia ed il Marini, colPappoggio del Lesdiguières, fa-
cevano di tutto per mandare a monte la missione del Marossan.
Ma questi riuscì, invece, a farne accrescere rim])ortanza e a
farsi dare incarichi speciali per Firenze e per Roma (2).
Nello stesso tempo era avvenuto un episodio che aveva dato
alla corte francese il modo di valutare la suscettibilità della casa
di Savoia. Pur avendo già il cardinal Maurizio il titolo di Pro-
tettore di Francia, era stato nominato comprotettore il cardinal
Bentivoglio, nunzio a Parigi. Questo fatto aveva suscitato in
Carlo Emanuele e nel figlio Maurizio lo sdegno piti vivo ed
aveva dato luogo a violente proteste. Essi pretendevano che il
titolo del Bentivoglio venisse mutato in quello di Vice-protet-
tore e minacciavano, in caso diverso, di rimandare il brevetto»
Spargevano la voce che il cardinal Ludovisi avesse accettata la
carica di Protettore di Savoia e dicevano di non volere acche-
tarsi sino a soddisfazione ottenuta. Intanto, in luogo del Benti-
voglio, veniva mandato come nunzio il fiorentino mons. Corsini»
Il marchese di Coeuvres, accusato di avere troppo apertamente
parteggiato per il cardinal di Savoia, stava per essere richia-
mato; ed alle proteste del governo di Torino, si finiva per ri-
spondere che Maurizio era libero, se credeva, di rimandare il
brevetto, ma che era opportuno ci pensasse prima due volte.
Il Bassompierre era, frattanto, riuscito a stipulare a Madrid
un accordo per la Valtellina; ma la corte francese era ancora
(1) Il Priandi a Ferdinando, 16 marzo 1621. E, XV, 3, 673.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 23 marzo 1621, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 63'
divisa in due grandi correnti: ì'iina favorevole alla guerra contro
gli Ugonotti e quindi disposta a transazione nella questione
della Valtellina; l'altra, partigiana della lotta contro la Spagna
e quindi desiderosa di pace all'interno (1).
I due partiti discutevano accanitamente e gl'intrighi alla
corte erano continui, le lazioni innumerevoli. Carlo Emanuele
mostrava, per parte sua, projìositi sempre più bellicosi, racco-
glieva soldati e li ammassava in vicinanza dei confini del Mon-
ferrato. Ferdinando ne muoveva lagnanze presso tutti i governi,
ne scriveva all'imperatore, al papa, alla repubblica veneta, seb-
bene da molte parti gli venisse segnalato che quei provvedimenti
militari, piti che a minacciarlo direttamente, miravano a disto-
gliere dalla Valtellina le milizie del duca di Feria (2).
Gregorio XV
promise al Gonzaga di far appoggiare la sua
causa presso l'imperatore dal nunzio Carafta che stava per par-
tire di passaggio per Mantova questo gli confermò' di lì a pochi
;
giorni di aver ricevuto tale incarico (3).
Ferdinando si preoccupava anche dei mutamenti che si sa-
rebbero potuti determinare alla corte di Madrid per la morte di
Filippo III, avvenuta il 31 marzo 1621. La fazione del principe
Filiberto avrebbe trovato presso il nuovo re terreno ancor piti
favorevole? Ad ogni modo era prudente che il Bonatti cercasse
con ogni zelo di neutralizzare l'effetto di eventuali tendenziose
informazioni da parte di quel principe (4).
Era in realtà necessaria molta accortezza per evitare che la
missione del Marossan, congedatosi dalla corte il 18 aprile 1621,
apparisse un vero e proprio vincolo fra il Gonzaga e la Francia (5).
(1) Il Priandi a Ferdinando, 7 e 16 aprile 1621, ibidem.
(2) Ferdinando al Nerli, 16 aprile; al Priandi, 18 aprile; all'Arra-
gona a Roma, 19 aprile; al Battaini, 20 aprile 1621. F, II, 7, 2301.
(3) Si trattava d'indurre l'imperatore ad avocare la causa dinanzi
1 tribunale cesareo. Vedi lett. di Ferdinando al Bonatti del 6 e 9
Jiiaggio 1621, ibidem.
Ferdinando al Bonatti, 23 aprile 1621, ibidem.
(4)
Il Priandi raccomandò a Ferdinando di coglier l'occasione della
(5)
venuta del Marossan per inviare doni al connestabile Luynes, il quale
aveva « cominciato un bellissimo Gabinetto a Lesigny, et come curio-
^ sissimo ch'egli è va ricovrando da tutte le parti molte cose rare
tanto in materia di pitture, come di cristalli ed altro ». Alle duchesse
ii Luynes e diChaunes avrebbe potuto inviare un paio di bellissime
'iinee, die sarebbero state assai gradite. « Per il Re ci vorrebbono degli
G4 KoMOLo C^UAZZA
L'inviato arrivò a i primi del mese di
Mantova maggio ed ap-
parentemente si a presentar
limitò condoglianze per la morte
del granduca di Toscana, fratello della duchessa Caterina.
Subito da ogni parte cominciò a spargersi la notizia di se-
grete trattative, « voce falsa uscita da bocca maligna », come la
chiama Ferdinando, il quale, temendone giustamente i malefici
effetti, dette incarico al Nerli ed al Bonatti, rispettivamente a
Milano e a Madrid, di smentirla nel modo più risoluto (1). Da
lungo tempo il Feria svolgeva opera assidua contro il Gonzaga
a fine di cattivarsi il duca di Savoia e togliersi ogni intoppo per
maneggiar a suo modo la questione della Valtellina, che egli, in
contrasto con la volontà del suo sovrano, non voleva saperne d|
abbandonare (2), specialmente in un momento in cui il goverm
francese, impegnato nella lotta contro gli Ugonotti, non sarebì)é
stato in grado di condurre vigorosamente una guerra all'ex
sterno (3).
Quanto
alla situazione politica del duca di Savoia, il
Marossau, di ritorno in Francia, affermava che non era troppo,
lieta, poiché l'irrequieto principe, a forza di agitarsi in un senso
e nell'altro, aveva finito per alienarsi gli animi tanto in Francia
quanto in Spagna (4). Rispetto a quest'ultima potenza, la cosa
era aggravata dalla scoperta fatta dagl'Imperiali tra le carte del
principe di Anhalt, di alcune scritture, nelle quali Carlo Emanuele
manifestava suo « maltalento » verso la casa d'Austria (5).
il
Ai il Monferrato e il Piemonte avvenivano, in-
confini tra
tanto, certo ad istigazione del duca di Savoia, gravi incidenti
tra gli abitanti dei paesi di Borgo d'Alice e di Mazze, sudditi
piemontesi, e quelli di Brianze e di Eondizzone, sudditi di Fer-
dinando. I primi asportavano una notevole quantità di fieno da
un terreno che avrebbero dovuto godere in comune; i secondi
per rappresaglia ne bruciavano una quantità rilevante; ed a ciò
« arcobugi, pistoletti o altre armi di stravagante bellezza et anche
« degli uccelli buoni e rari ». Vedi lett. del Priandi a Ferdinando del
18 aprile 1621. E, XV, 3, 673.
(1) Ferdinando al Bonatti, 10 maggio; al Nerli, 28 maggio 1621.
F, II, 7, 2301.
(2) Ferdinando al Bonatti, 15 giugno 1621, ibidem.
(3) Il Priandi a Ferdinando, 28 maggio, 4, 11, 14 e 26 giugno 1621.
E, XV, 3, 673.
(4) Il Priandi a Ferdinando 16 luglio 1621, ibidem.
(5) Il Priandi a Ferdinando 23 luglio 1621, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE 1 65
i Piemontesi rispondevano con violenze a mano armata. La pro-
vocazione era grave e tale da meritar che il Gonzaga preten-
desse dall'avversario un'adeguata soddisfazione. Tuttavia egli,
desideroso di non turbare la quiete, diceva che avrebbe lasciato
i suoi sudditi sbrigar da soli la questione, sperando che questa
potesse limitarsi ad una lite privata. Se però Savoia avesse as-
solutamente voluto tramutarla in pubblica, egli non sarebbe stato
disposto a tollerar ingiurie (1).
I magistrati di Casale avevano subito scritto al Marini a
Torino ed avevano informato, protestando, il presidente Manni.
Il Feria si mostrò offeso che fossero ricorsi ad un ambasciatore
di Francia (2). Eppure, ribattè Ferdinando, era necessario far
conoscere la verità a tutti i potentati d'Italia e ai ministri delle
due corone, affinchè potessero essere avvisati in caso di nuove
turbolenze da parte del duca di Savoia e difatti egli aveva in-
;
formato nello stesso tempo la repubblica veneta (3), il re
Luigi XIII (4), l'imperatore (5), supplicando quest'ultimo di
avocare a sé stesso il possesso dei luoghi goduti in comune e
di deputare qualche personaggio eminente, ad esempio il sena-
tore Papirio Cattaneo di Milano, a risolvere la controversia. Pru-
dentemente egli chiedeva però al Feria di assicurargli prote-
zione, qualora divenisse impossibile d'impedire la rottura (6), ed
altrettanto faceva chiedere al re di Francia, che il Priandi andò
sollecitamente ad informare raggiungendolo nei luoghi stessi
ch'erano teatro di lotte sanguinose con gli Ugonotti (7).
Una battaglia terribile si combatteva in quei giorni sotto
Montalbano valorosamente difesa dall'assalto dell'esercito regio,
che vedeva ivi arrestata la propria marcia vittoriosa. La nobiltà
francese perdeva in quell'assedio molti fra i suoi piìi valorosi
combattenti; tra i morti era il duca du Maine, congiunto del
iSTevers lo stesso Marossan era caduto vittima in quelle cruenti
;
giornate.
(1) Ferdinando al Bonatti, 18 luglio ; all'Arragoiia, 20 luglio 1621.
P, li, 7, 2301.
(2) Ferdinando al Bonatti, 18 luglio, cit.
(3) Ferdinando al Battaini, 20 e 21 luglio 1621, ibidem.
(4) Ferdinando al Priandi, 20 luglio 1621, ibidem.
(5) Ferdinando allo Zuccone, 21 luglio 1621, ibidem.
(6) Ferdinando al Battaini, 22 luglio ; al Nerli, 27 luglio e 6 set-
tembre 1621, ibidem.
(7) Il Priandi a Ferdinando, 13 e 16 agosto 1621. E, XV, 3, 673.
Arch. Stor. Lomb. Anno XVIX, Fase. l-U. 5
tiO K /Molo <,jUAZZA
Luigi XllI accolse con benevolenza l'esposizione fattagli dal
Priandi dei nuovi soprusi commessi dal duca di Savoia e pro-
mise di far appoggiare dal Marini la proposta di affidare a co-
muni delegati la questione dei luoghi contenziosi. Ormai la corte
francese sapeva che Carlo Emanuele sfuggiva tutti i mezzi atti
a procurar la conservazione della pace. Egli si adoprava ora
attivamente per ottenere il consenso ad una spedizione contro
Ginevra (1). Aveva guadagnato al suo disegno il papa, il quale
aveva inviato in Francia il padre Tobia, barnabita, sperando
che questi riuscisse ad indurre il re ad abbandonare la prote-
zione di Ginevra e a permettere l'impresa del duca di Savoia,
o almeno a far sì che in quella città venisse ristabilito il ve-
scovo e la religione cattolica (2). Le sollecitazioni del padre
Tobia, quelle del nunzio, del padre Arnoux e dell'ambasciatore
di Savoia non raggiunsero lo scopo; ma non era nemmeno da
supporre che Carlo Emanuele, indispettito con la Francia per
la questione del Comprotettorato cardinalizio, e sicuro che
Luigi XIII, impegnato nella guerra contro gli Ugonotti, non
avrebbe potuto far nulla contro di lui, abbandonasse senz'altro
l'idea. Forse lo stesso principe di Piemonte sarebbe venuto a
perorare la causa (3).
Quanto all'accordo con i Gonzaga, il duca di Savoia trovava
comodo di tornare a dolersi pel mancato pagamento della dote
e delle gioie di Margherita e, con uno dei consueti, artifizi, in-
stava presso il sovrano francese affinchè s'intromettesse a ter-
minar le differenze senza l'intervento dell'imperatore. Intanto
l'amicizia del papa con la casa sabauda poteva essere un altro
argomento di preoccupazione per il duca di Mantova, al quale
il Priandi raccomandava di non trascurar
gli uffici del granduca
di Toscana e del duca di Lorena (4).
Una nuova sopraffazione commessa in Monferrato da un
vassallo piemontose, il conte di Montù, signore di Borgo d'A-
(1) Il Priandi a Ferdinando, 3, 8 e 16 sett. 1621, ibidem.
(2) La prima ancora che dalla Francia, era stata notificata
notizia,
da Torino a Mantova dal vescovo di Savona, Pier Francesco. Vedi In-
formazioni segrete da Torino, 15 agosto 1621. E, XIX, 3, 736. Vedi
pure lett. del Priandi a Ferdinando, 25 sett. 1621, E, XV, 3, 673.
Cfr. anche Ricotti, op. cit.^ voi. IV, lib. IX, pag. 168-169; Carutti,
op. cit.j pag. 234.
(3) Il Priandi a Ferdinando, 3 e 9 ottobre 1621, ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinando^ 22 ottobre 1621, ibidem.
FERDINAI^DO GONZAGA E CARLO EMANUELE 1 67
lice, venne^ in quel mentre, a dimostrare che Panimosità del
duca di Savoia non era spenta e che l'opera sua istigatrice non
aveva tregua.
Il conte di Montù, penetrando a mano armata in luoghi
spettanti incontestabilmente al Gonzaga, aveva ivi compiuto
ruberie di numeroso bestiame ed aveva poi ripetute le sue in-
cursioni con intere compagnie di cavalleria. L'impresa era stata
ispirata e solleicitata da Carlo Emanuele: ciò risultava a Mantova
in modo indubitabile (1) .Eppure il duca sapeva che la potestà sui
luoghi contestati era stata avocata a sé dall'imperatore, che aveva
accolta la proposta fattagli da Ferdinando ed aveva delegato il
senato di Milano a dare il suo giudizio sulla questione. Il fatto
costituiva, dunque, una manifesta offesa all'autorità stessa di
S. M.tà Cesarea (2).
L'aver accettato che l'autorità imperiale si riservasse il
giudizio della questione e l'aver accolta la proposta avanzata
dal duca di Savoia presso il re Cristianissimo di far risolvere la
controversia da delegati delle due parti in lite, costituiva d'al-
tronde nella condotta del Gonzaga una contradizione evidente,
della quale il duca di Feria si affrettò a meravigliarsi. Ma Fer-
dinando fu pronto a ribattere che egli non intendeva partirsi
dall'osservanza delle disposizioni cesaree e che alla proposta di
nominare delegati comuni aveva fatto da principio buon viso per
non sembrar renitente a qualunque partito che potesse condurre
alla pace (3). .
(1) Il fatto accadeva durante l'assenza di Ferdinando dal governo.
L'annunzio ai vari ministri mantovani venne dunque dato à nome della
duchessa Caterina. Vedi lett. di Caterina al Bonatti, al Nerli, al Bat—
taini, 13 sett. j al Priandi, al Ghepardi a Vienna, 15 sett. 1621. F, II,
7, 2301.
(2) Ferdinando all'imperatore, 22 sett. 1621, ibidem.
(3) Nello scrivere al Nerli, 4 ottobre 1621, Ferdinando soggiungeva,
però, a norma « Quando tra i delegati per la parte di
del suo inviato :
« Savoia si stravaganze vogliamo poter sempre insistere
desse nelle
* nell'esecutione della mente Imperiale ». Vedi pure lett. del Marini al
Villiers, amb. di Francia a Venezia, del 27 sett. e 4 ottobre 1621. E,
XIX, 3, 736. Tra le notizie interessanti contenute in questa lettera è
che la Francia non consentiva al duca di Savoia di far Pimpresa contro
Ginevra, volendo mostrare al mondo che essa non faceva guerra di re-
iigione, ma solo muoveva contro i ribelli. Se l'avesse permessa, tutti i
protestanti suoi alleati si sarebbero gettati contro di lei.
68 ItoMO! '"^''7A
Capitolo III.
Il contegno del duca di Feria nelle contese tra Gonzaga e i Savoia.
i
—
La missione del Cortans presso il Feria. —
La missione del conte
Arconati a Mantova. —
Le trattative di Milano del 1621-22. Mu- —
tamenti alla corte francese. — L'opera del Bardelloni e del Nerli,
rappresentanti del Gonzaga a Milano. — Proposte di Ferdinando. —
Suoi provvedimenti per prepararsi alla difesa. —
Il contegno dei de-
legati di Carlo Emanuele a Milano. —
La missione di Traiano Gui-
scardi in Francia. — Fallimento dei negoziati di Milano.
L'animosità del duca di Feria contro Ferdinando s'era già
rivelata in tutti gli avvenimenti che ponevano di fronte il Gon-
zaga e duca di Savoia. Nella prigionia del conte di Castiglione,
il
nei fatti di Bianzè e di Borgo d'Alice, a proposito delle incur-
sioni del conte di Montìi, al tempo della missione del Marossan,
nelle negoziazioni di Milano e di Madrid egli aveva sempre
di sotto mano agito in danno del duca di Mantova, dipingendolo
al re Cattolico come nemico e come partigiano di Francia. Questo
atteggiamento ostile del governatore di Milano risaliva al 1620,
quando, riaccesasi la questione della Valtellina, il capitano spa-
gnuolo aveva concepito il disegno di cattivarsi il duca di Sa-
voia per esser libero di perseverar nella sua impresa; e d'allora
in poi egli aveva sempre ottemperato a questo proposito, ser-
vendosi del Monferrato come « dell'esca » e senza per nulla
tener conto né degl'interessi né delle ragioni del Gonzaga (i).
In Piemonte e nella Savoia continuavano, intanto, le leve mili-
tari (2). Carlo Emanuele tornava a ripetere che voleva aver l'im-
mediata restituzione della dote di Margherita (3).
Mentre il duca di Feria si trovava in Valtellina (4), si recò
presso di lui, con incarico speciale del duca di Savoia, il mar-
chese di Cortans, chiedendo che Ferdinando desse prontamente
soddisfazione del suo debito e proponendo che dall'una parte e
dall'altra si mandasse un giureconsulto a Milano per risolvere le
(1) Lunga scrittura recante la data del 15 ottobre 1631. F, II, 7,
2301.
(2) Priandi a Ferdinando, 29 ottobre e 5 nov. 1621. E, XV, 3, 673.
(3) Claudio Marini al Villiers, 12 ott. 1621. E, XIX, 3, 736.
(4) Saputa la partenza del Feria per Como e per la Valtellina, Fer-
dinando gli aveva scritto, mettendosi a disposizione di lui. Vedi lett.
di Ferdinando al Feria, 16 ott. 1621, F, II, 7, 2301.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE 69
questioni controverse. Forse Carlo Emanuele sperava di ottener
dal patrocinio del Feria condizioni più vantaggiose, ovvero con-
tava di trovar l'avversario così sprovveduto di mezzi nell'immi-
nenza delle grandi spese che avrebbe dovuto sostenere per le
nozze della sorella Eleonora con l'imperatore, da essere indotto
a cedere territori in luogo di denaro o supponeva di trovar un
pretesto per invadere lo stato ambito. Ferdinando lo deluse in
tutti quanti questi disegni o speranze; poiché rispose immedia-
tamente di esser pronto a pagare il denaro liquido della dote e
a mandare nel termine di pochissimi giorni a Milano ministri suoi
che negoziassero « l'illiquido ». Ohe cosa sarebbero riuscite a
risolvere queste nuove trattative? C'era poco da sperare, non
essendovi mai stata da parte del duca di Savoia alcuna perse-
veranza nei vari tentativi promossi. Ad ogni modo, Ferdinando
con la sua pronta accettazione, riteneva giustamente di mettersi
dalla parte della ragione (1).
Claudio Marini aveva avvertito il Gonzaga che il marchese
di Cortans nella sua missione presso il Feria aveva avuto anche
l'incarico di informarlo che, se entro due mesi non si fosse giunti
all'accomodamento, Carlo Emanuele si sarebbe ritenuto libero d'a-
gire contro il Monferrato. Era questa un'altra prova del suo mal-
volere, prova che il Gonzaga si affrettò a segnalare al Yillìers
a Venezia e al Priandi in Francia, affinchè ne rendessero consa-
pevole Luigi XIII (2). Questi, per mezzo del Puisieux, promise
ancora una volta Qhe avrebbe sollecitato il Marini in favore di
Ferdinando, e che avrebbe dato ordini al Lesdiguières per im-
pedire ogni novità nel Monferrato, manifestando la sua appro-
vazione all'idea di una conferenza amichevole che ponesse ter-
mine a tutte le lotte (3).
(1) Ferdinando al Battaini, 16 nov. 1621. ibidem.
(2) Ferdinando al Priandi, 19 nov. 1621, ibidem.
(3) Lett. del Priandi a Ferdinando del 28 nov., 8, 15, 22, 29 dicembre
1621. Riportiamo la seguente lettera del Puisieux al Priandi in data
13 dicembre 1621. E, XV, 3, 673. « Le Roy est mani de voir la
« continuation de vos riottes et differens sur les coiifins du Piedmont
< et Montferrat par les attentats continuels des Savoyards, Nous en
«' escrirons de bon ancre a M.r Marini, et renouvellerons volontiers les
* ordres donnez cy devant a M.r le Mar.al Lesdignières pour contenir
« M.r le due de Savoye de rien entreprendre sur le dit Montferrat, ni
« tenter aucune nouveauté qui puisse alterer la paix publique. Et si
« Ton pourroit une bonne fois decider tous ces differens par une con-
« ferance amiable, certes ce sei oit bien le meilleur, a quoy je ne doubte
Ti» nOMoLO QtJAZZA
Alla line di novembre del 1621 giunse a Mantova, mandato
dal Feria il conte Luigi Arconati con incarico d^indagare i pro-
positi del duca riguardo alle pretensioni sabaude. Anche in
questo caso la prontezza di Ferdinando seppe eludere gli arti-
fizi del Feria divenuto ormai manifesto partigiano di Carlo
Emanuele e deciso a rifiutare, qualora non approdassero le trat-
tative, ogni aiuto militare al Gonzaga contro il suo avversario (1).
Il cavalier Bardelloni fu deputato dal duca di Mantova a
rappresentarlo insieme col Nerli, residente ordinario a Milano,
nelle trattative (2). Contemporaneamente fu scritto al Bonatti
per esprimere la fiducia diFerdinando nell'imparzialità di S. M.tà
Cattolica e per metter in guardia contro le tendenziose relazioni
del governatore di Milano (3).
Nel frattempo, dopo lunghe trattative, erasi portato a com-
pimento un disegno da molto tempo accarezzato dal Gonzaga:
il matrimonio della sorella di lui, Eleonora, con l'imperatore
Ferdinando li (4). Vivo fu il dispetto della corte sabauda, la quale
pareva, d'altronde, essersi già allontanata dall'idea dei negoziati
da condurre a Milano coi rappresentanti del duca di Mantova (5).
« point que M.r le due de Mantoue ne se portasi bien volontiers de son
< coste, et nous j ferons exorter autant que nous pourrons Mona.r de
« Savoye, et à faire rendre et restituer les bestiaux et aiitres clioses
« prises par voix de faict pour tesmoigner sa bonne justice, et ce que
< S. A. de Mantoiie a dissimulé en cela jusques ìtfy a esté prudemment
« fait, car possible eussent ils destre qu'elle s'en fust aigry d'advantage
« pour porter les clioses à une ropture qu' il fault eviter en toutes
« fa^ons. J'adiousteray a ceste l.re la reddition de Montbeurt en l'obeis-
« sance du Roy ceiix de dedaus ayant enfìn recouru a la misericorde
« de S. M. et s'estans remis entierement a sa mercy et discretion dont
€ elle a use avec sa bonté accostumée leur donnant la vie se contentant
« de laisser au x)illage des soldats la d.e ville, apres en avoir fait sortir
« les femmes pour eviter les violemens... etc... ».
(1) Ferdinando al duca di Feria, 29 nov.; al Battaini, 30 no v. 1621,
F, II, 7, 2301. Il Ricotti, op. cit., pag. 173, con evidente inesattezza
afferma che il Feria era poco benevolo verso Carlo Emanuele.
(2) Ferdinando al Nerli; al duca di Feria, 30 nov. 1621, ibidem.
(3^ Ferdinando al Bonatti, 2 die. 1621, ibidem.
(4) Ferdinando a don Giov. Ott. Gonzaga, 4 genn. al Priandi, 5
;
genn. ; al papa, 6 genn. 1622. F, II, 7, 2302.
(5) Ferdinando al Nerli, 11 genn. 1622, ibidem. Il dispetto aveva
la causa particolare nel fallimento delle trattative iniziate per le nozze
dell'imperatore con una delle infanti di Savoia.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 71
Questi, infatti, da quasi due mesi attendevano invano l'arrivo
dei delegati della parte avversa. Impazienti, invocavano d'essere
ricbiamati; ma Ferdinando
ordinava loro di rimettersi al volere
del duca di Feria, affinchè nessuno potesse mai accusarlo di tie-
pidezza nel desiderio di pervenire alPaccomodamento (1). La
malafede era palese nel modo di procedere di Carlo Emanuele,
il quale « non vergognandosi di dire » che non poteva piìi sperar
giustizia dal tribunale cesareo dopo il legame di parentela stretto
dall'imperatore con la casa Gonzaga, affermava di essere costretto
a ricorrere alla forza per conseguire ciò che era suo e adunava
soldati in vicinanza del Monferrato con evidente proposito ag-
gressivo.
Ferdinando, al cui orecchio andava giungendo da più parti
l'avviso di un nuovo riavvicinamento del duca di Savoia alla
corona di Francia, invocò, sebben con non molta fiducia, l'inter-
vento in suo favore del re Luigi XIII (2); ma nello stesso tempo
si rivolse a Madrid, proponendo in modo assai più particolareg-
giato del consueto il piano di difesa possibile e perfino avan-
zando la proposta che gli venissero forniti i mezzi per impedire,
col l'aiuto del duca di Kevers, il quale avrebbe trattenuti i soldati
nella Champagne, di cui aveva il governo, che Carlo Emanuele
potesse far leve in Francia (3).
La condotta del Gonzaga e la sollecitudine colla quale aveva
aderito alla proposta del convegno di Milano erano state approvate
alla corte francese tanto dalle regine, quanto dal re. La famiglia
reale si era anche mostrata lietissima delle nozze imperiali di Eleo-
nora. La morte del Luynes aveva portato grandi cambiamenti. Si
diceva che il re « quasi uscito dal lungo sonno », a cui il favo-
rito l'aveva costretto, intendesse restituire alla madre ogni con-
fidenza e conferirle l'onore di essere a capo del consiglio; e
molti non senza timorepensavano all'autorità del vescovo di
Lugon e lo desideravano cardinale, nella vana speranza di vederlo
allontanato. La guerra contro gli Ugonotti, sia per la consueta
mezzi finanziari, era so-
stasi invernale, sia per la scarsità dei
spesa; e i due per la guerra e per la pace, s'agi-
soliti partiti,
tavano coi più complicati raggiri. Il 28 gennaio, Luigi XIII
aveva fatto in Parigi il suo solenne ingresso, il primo dopo
(1) Ferdinando al Nerli, 20 genn. 1622, ibidem.
(2) Ferdinando al Priandi, 30 genn. 1622, ibidem.
(3) Ferdinando al Bonatti, 31 genn. 1622, ibidem.
Ti» ttOMOLO QUAZZà
gl'importanti avveuimenti militari dell'anno trascorso. Molta in-
certezza era negli animi intorno all'andamento che le vicende
avrebbero assunto. Pochi giorni dopo, questo stato di dubbiezza-
fu bruscamente risolto con la notizia che un consiglio segreto,
cui avevano partecipato il re, la regina madre, il duca Gastone,^
il Condè, il cancelliere Sillery, il guardasigilli, il presidente
Janin, aveva deciso la ripresa della guerra contro gli Ugonotti
e la costituzione di un esercito di 80,000 uomini, dei quali 10.000
avrebbero dovuto esser mantenuti dalla città di Parigi e i ri-
manenti dalle altre diciassette città principali in ragione di quat-
tromila per ognuna (1).
Tutta subbuglio; pareva che fosse proposito
la corte era in
del re di rinnovare veramente tutto l'ambiente mutavano i tito- ;
lari delle varie cariche, perfino nella casa della regina regnante
si sostituivano le soprai ntenden ti e le dame d'^atour. 1 principi
si disputavano gl'incarichi nei tre corpi d'esercito che si anda-
vano allestendo (2).. Tutti erano,, insomma, tanto occupati ed
ingolfati nelle cose proprie ohe le fuggevoli udienze concesse al
j
Priandi e le risposte troppo sbrigative dei ministri non potevano
dare nessun serio affidamento (3). Il padre barnabita Tobia,
che ancora si trovava alla corte, continuava, intanto, aiutato
efficacemente dal nunzio, a sollecitar instancabilmente il con-
senso alla spedizione di Ginevra. Carlo Emanuele sperava che,
essendo le armi francesi impegnate all'interno, non si sarebbe
pensato a distornarlo da quell'impresa; ed alcuni illustri perso-
naggi del regno, fra i quali il cardinale di Retz e lo Schomberg,
mostravano di essergli favorevoli, mentre il maresciallo Lesdi-
guières continuava ad esortare il re a far la pace cogli Ugonotti
e a diriger la guerra fuori dei confini all'impresa di Valtellina,
e volendo per questa procurarsi Faiuto sabaudo, riputava oppor-
tuno sconsigliare l'azione su Ginevra. In ogni modo era fàcile
prevedere che la pace interna in Francia avrebbe condotto ad
accender la guerra in Valtellina, oltre che per le ragioni politiche
di più vasta portata, per gli incitamenti di un partito che vo-
leva guerre ad ogni costo (4).
(1) Il Priandi al Magni, 6 genn. ; al dùca Ferdinando, 7, 14, 24,
31 genn. e 5 febbraio 1622. Cfr. anche la lett. del Rossi alla cancell.
du-caie, 16 febbr. 1622, E, XV, 3, 673.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 15 febbr. 1622, ibidem.
(3) Il Priandi a Ferdinando, 24 febbr. 1622, ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinando, 2 marzo 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CAELO EMA^^UELE I 73
I primi giorni di marzo del 1622 si sparse la voce che il
duca di Savoia, « levata affatto la maschera
avesse fatto passar »,
le sue milizie al di là delle Alpi, accingendosi all'impresa di
Ginevra, e che avesse intenzione di abboccarsi a Lione col re,
quando egli .fosse passato per questa città dirigendosi verso la
bassa Liuguadoca (1).
E
mentre si notava con stupore che Luigi XIII aveva con-
cesso agli Spagnuoli d'inviare per via di terra su territorio fran-
cese tutti i denari destinati in Fiandra ad alimentare la guerra
contro gli Olandesi, si confermava la voce di un imminente in-
contro del re col duca di Savoia, col principe e la principessa
di Piemonte a Lione
La negoziazione di Milano, frattanto, era arenata per l'as-
senza dei rappresentanti di Carlo Emanuele (2). Il duca di
Feria fece chiedere a Ferdinando quale fosse l'animo suo riguardo
alle proposte fattegli dal Martinengo; ed il Gonzaga confermò
ancora una volta che egli era pronto sempre ad accedere a quello
cui già nel 1618 e nel 1619 aveva consentito, cioè di pagare la
dote e le gioie della cognata Margherita ed anche il capitale
dotale di madama Bianca, dispostissimo a < lasciarsi ingannare »
di un centinaio di migliaia di scudi purché si venisse finalmente
alla rinuncia delle pretensioni. Conveniva davvero al Feria, ag-
giungeva Ferdinando, promuover efficacemente la concordia,
perchè così meglio si sarebbero persuasi gli animi che « le armi
« mosse nella Valtellina [erano state] a mero sollevamento de' Cat-
« tolici et per interesse di religione et non per altri fini poli-
« tici (3) ». Così l'astuto principe al momento opportuno rinfre-
scava al governatore di Milano la memoria dei molti appunti
che venivano fatti alla linea di condotta da lui seguita.
L'ambasciatore francese a Venezia, signor di Villiers, segna-
lava in quei giorni al duca di Mantova l'invito rivolto dal go-
verno francese alla repubblica di versare denari per accrescere
il numero di milizie del Lesdiguières e Ferdinando, cui i costumi
;
politici d'allora, o meglio d'ogni tempo, non imponevano certo
né la discrezione né la lealtà, ne dava sollecito avviso al Feria (4)..
Questi, conosciuto il matrimonio di Eleonora con l'imperatore,
(1) 11 Priandi a Ferdinando, 14 marzo 1622, ibidem.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 26 marzo 1622, ibidem.
(3) Ferdinando al Nerii, 11 e 19 febbr. 1622. F, II, 7, 2302.
(4) Ferdinando al Nerli, 22 febbr. ;
ibidem.
7 I ROMOLO QUAZZA
non aveva mancato di sollevare la difficoltà che da esso sarebbe
nata alFapplicazione delle condizioni proposte dal Martinengo,
poiché eran basate sulle nozze di quella principessa col principe
ereditario di Savoia. Si preludeva così all'idea di sostituire nelle
trattative al nome di Vittorio Amedeo, già unito con Cristina,
quello di Filiberto o di Tommaso, e a quello di Eleonora, quello]
di Maria, unica figlia superstite del defunto Francesco e dil
Margherita di Savoia (1).
Dopo così lunga e vana attesa da parte dei ministri manto-^
vani, nei primi giorni di marzo del 1622 si cominciò a sparger
la voce dell'imminente arrivo degl'inviati torinesi. Il Bardelloni,
che insieme col Nerli doveva rappresentare il Gonzaga, era in-
tento a studiare le particolarità dell'accordo eventuale e l'am-
montare del debito che il suo signore avrebbe dovuto riconoscere
e quindi soddisfare con la consegna di sue terre. Ascendevano le
somme da lui ammesse a centomila scudi d'oro per la restituzione
della dote di Margherita; a quarantamila circa per interessi do-
tali arretrati, a sedici mila corrispondenti alla donazione fattale
al tempo delle nozze, a trentottomila circa per le gioie; piìi ot-
tantamila ducati che si affermava costituissero l'importo della
dote di Madama Bianca. Le questioni controverse erano, fin dal
tempo della negoziazione Martinengo, gl'interessi sulla dote di
madama Bianca, che Ferdinando non riconosceva come dovuti, e la
il suo
valutazione dei territori coi quali egli intendeva soddisfare
debito. Certo il duca adoperava a far apparire sempre
di Savoia si
maggiori le sue pretensioni, sperando di riuscire a strappare
all'avversario l'ambito possesso del Canavese, che quegli era
però risoluto di rifiutare a qualunque costo (2). Conveniva
poi, secondo il Gonzaga, dacché si era in trattative, molti-
plicar le proposte ed offrire i più svariati partiti in modo da
rendere più tarda ed incerta la risoluzione e veder frattanto
l'andamento della politica generale (3).
Sarebbe stato ad esempio opportuno tentar di mescolar
le trattatyre coi rappresentanti di Savoia e le antiche proposte
di baratto di territori avviate con la Spagna; ed offrire, in at-
tuazione di questo piano, al duca di Savoia le ventidue terre del
(1) Ferdinando al Nerli, 23 febbr. 1622, ibidem.
(2) Il Bardelloni alla cane, due, 2 marzo; Ferdinando al Nerli e al
delloni, 4 marzo 1622, ibidem.
(3) Ferdinando al Nerli, 4 marzo 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E OARLO EMANUELE 1 75
Oanavese che sono verso Torino fra il Po e la Dora, con Castiglione
al di là del Po, S. Eaffaele e qualche altro paese contiguo e con
jueste cessioni tacitare ogni sua pretensione. Carlo Emanuele
avrebbe poi dovuto dare a sua volta al Gonzaga il contado di
Oneglia e del Maro, da unirsi al Monferrato per mezzo del feudo
di Zuccarello. Ai re Cattolico si sarebbe data per unirla allo
stato di Milano tutta la parte del Monferrato che si trova tra
il Po e il Tanaro, con la cittadella di Casale, e la parte che
dalla Dora giunge sino al confine del Vercellese e del Milanese
con Trino, piazza che, convenientemente fortificata dalle truppe
regie, avrebbe potuto diventar superiore alla stessa fortezza di
Vercelli. Filippo IV avrebbe dovuto, per parte sua dare al Gon-
zaga tutte le t^rre necessarie ad integrare il congiungimento di
quella parte del Monferrato che gli rimarrebbe oltre Tanaro
con i suddetti contadi di Oneglia e del Maro, e quelle ancora
dell'Alessandrino, che più fossero convenute al duca di Mantova;
e poi Correggio, Sabbioneta, Castiglione, Medoie, Bozzolo, ed
una parte del Cremonese, contigua al Mantovano, senza parlar
della città di Cremona, cui, questa volta, il duca di Mantova
dichiarava a priori di rinunciare. Con un così vasto progetto,
Ferdinando poteva bene sperare di complicar le cose e di man-
dare in lungo la negoziazione egli confidava, per ottenerne P ef-
;
letto desiderato, nella prudenza del IS'erli, al quale con partico-
lare lettera commetteva il delicato incarico (1).
Intanto la notizia di una lega tra Francia, Savoia e Venezia
e dell'imminente discesa in Italia di un esercito francese per il
ricupero della Valtellina necessitavano da parte del Gonzaga i
più solleciti ed accurati preparativi per la difesa del Monferrato,
poiché probabilmente Carlo Emanuele, col pretesto di distogliere
dalla Valtellina le truppe del re Cattolico, avrebbe approfittato
dell'occasione per invadere il desiderato territorio. IS^on solo egli
aveva già 12 mila uomini pronti in Piemonte, ma altri seimila
Lorenesi erano raccolti nella Savoia. Ferdinando ordinò una
leva di quattromila uomini nel Monferrato e scrisse al Nevers (2)
informandolo della propria intenzione d'andare egli stesso a
presenziare l'opera di difesa ed in certo modo ricordandogli le
promesse, altre volte fatte, di aiuto. Nel tempo stesso fu scritto
(1) Ferdinando al Nerli, 4 marzo 1622, cit.
(2) Ferdinand»» al Nerli, 6 marzo al duca di Nevers, 12 marzo: al
j
Battaini, 13 marzo; al Parma, 13 marzo 1622, ibidem.
a don Giov. Ottavio Gonzaga, che in quel momento rappresen-
tava a Madrid gl'interessi di Mantova in luogo del Bonatti ca-
duto in disgrazia di Filippo IV, affinchè cercasse di ottenere
dal gabinetto spagnuolo un assegno mensile di quindicimila scudij
d'oro, coi quali Ferdinando avrebbe potuto provvedere da sé aij
soldati necessari alla difesa del Monferrato, senza impegnare 1<
milizie del Feria intente a difendere la Valtellina e a provve-
dere alla sicurezza dello stato di Milano (1). Si cercò pure di
ottenere dalla corte imperiale il consenso a ritardare il paga-
mento della dote di Eleonora onde avere maggior somma di de-
naro disponibile (2); ed al Priandi fu rinnovato l'incarico di
supplicare Luigi XIII e sopra tutto la regina madre, affinchè
con ordini precisi al Lesdiguières e mòniti severi al duca di
Savoia vietassero di molestare le terre gonzaghesche (3).
Le voci di un'imminente azione in Valtellina e quindi di
rottura fra le due corone non avevano però in Francia alcuna
conferma. Il Priandi, in risposta alle lettere del Gonzaga ed
anche in seguito a quella da questo inviata al Nevers per mezzo
del capitano di Mouchy, dichiarò che tutta la corte, il governo,
l'esercito erano impegnati nella guerra contro gli Ugonotti e che
non v'era nessun indizio di rottura dichiarata tra Francia e
Spagna. V'erano in realtà vivissime sollecitazioni da parte dei
Veneziani e del Lesdiguières, il quale aveva mandato un vero e
proprio piano d'attacco della Valtellina, j^roponendo di unirsi
alle truppe di Savoia, mentre gli Svizzeri assalirebbero dalla
parte dei Grigioni ed i Veneziani dalla parte di Bormio. Ma il
re aveva chiaramente risposto che egli non era in grado di rom-
perla con la Spagna e che doveva prima ridurre all'obbedienza
i ribelli. Però il Lesdiguières, per propria iniziativa e sollecitato
da Carlo Emanuele e dalla repubblica, avrebbe forse passato i
monti e sarebbe disceso in Piemonte. Il cardinale di Retz e il
Puisieux, onnipotente negli affari esteri, il Condè, padrone degli
affari interni, lo Schomberg, che da solo maneggiava le finanze,-
tutti assicuravano il Priandi che avrebbero impedito al duca di
Savoia di tentare qualunque « novità » in Piemonte.
Nonostante queste buone disposizioni e queste benevole pro-
messe, risultava al ministro mantovano che il Puisieux aveva
(1) Ferdinando a don Giov. Ottavio Gonzaga, 14 marzo 1622, ibidem »-
(2) Ferdinando allo Zuccone, 18 marzo 1622, ibidem.
(3) Ferdinando al Priandi, 21 marzo 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 77
manifestato al Nevers il suo malcontento per le trattative di
3Iilano, dove erano finalmente giunti i delegati x)iemontesi (1).
Grande fu lo stupore del Bardelloni e del Nerli, quando gl'in-
viati di Carlo Emanuele invece di fare proposte o di stendere
per iscritto le pretensioni sabaude, cercarono di dare a intendere
che ai Mantovani toccasse fare le offerte, essendo essi stati
mandati a Milano ad istanza del Gonzaga (2) Lo stesso gran !
cancelliere di Milano ed il duca di Feria erano meravigliati;
ma quest'ultimo, invece di rendere pubblica tale evidente man-
canza di fede, si limitava a rimproverare segretamente i rap-
presentanti savoiardi « come si fa a figlioli picioli (sic) che si
« ammoniscono acciò non sieno tenuti cativi (sic) et ripresi da
« altri ».
Il primo passo dei delegati di Carlo Emanuele fu di preten-
dere che venissero posti in discussione anche gl'interessi della
dote di madama Bianca, punto che dalla negoziazione avviata
col Martinengo era stato escluso. Subito il Bardelloni ed il Kerli,
confermati in ciò dalle istruzioni di Ferdinando, ribatterono che
tali interessi non erano dovuti non trattandosi di dote liquida,
e che, ad ogni modo, la questione era pendente dinanzi al foro
cesareo (3).
Mentre le trattative così si trascinavano a Milano, il Priandi
e il Nevers a Parigi si adoperavano a cercare il mezzo migliore
per influire sull'animo del Lesdiguières ed il l^evers deliberava
;
di mandargli in missione speciale un gentiluomo, M. de Cha-
Priandi a Ferdinando, 8 aprile 1622, E, XY, 3, 673.
(1) Il
(2) « Insomma
costoro hanno il cancaro addosso! » esclamava stiz-
zito il Bardelloni. Vedi lett. del Bardelloni al Chieppio, 22 marzo; di
Ferdinando al Bardelloni e al Nerli, 28 marzo; del Bardelloni al Prato,
consigliere, e al Chieppio, 4 aprile 1622. F, II, 7, 2302.
(3) Lett. del Bardelloni a Ferdinando, 13 aprile; di Ferdinando al
Bardelloni e al Nerli, 16 aprile 1622, ibidem. Da Vienna Federico Gon-
zaga, informato, confermò che le pretese dèi Savoiardi erano giudicate
esorbitanti. Vedi lett. di Federico Gonzaga allo Strlggi, 13 aprile 1622; il
medesimo duca Ferdinando, 7 maggio 1622, E, II, 3, 493. Una lettera
al
del 12 aprile anonima da Lione (forse di Giorgio Eossi, che spesso for-
niva informazioni) avvertiva risultare in modo indubitato che Carlo
Emanuele si sarebbe mostrato arrendevole nell'argomento della dote,
ma avrebbe in ultimo chiesto di estendere le trattative alle pretensioni
generali e in caso di rifiuto avrebbe dichiarato non potersi far l'ac-
cordo neanche sul primo punto dinanzi al Feria. E, XV, 3, 673.
78 ROMOLO SGUAZZA
8teaurenault, a tìae «li raccomandargli le sorti del Monfer-|
rato (1).
L'ambasciatore di Savoia presso la corte francese andava
dicendo che Ferdinando assoldava milizie con denaro spagnuolo.
Il Nevers contrapponeva alle voci « maligne » un'opera di per-
suasione e di difesa; pure, ad incuorarlo maggiormente, sarebbe
stato opportuno che il duca di Mantova gli scrivesse diretta-
mente, smentendo le tendenziose asserzioni, secondo le quali
egli avrebbe avuto intenzione di escluderlo dalla successione di
Mantova e del Monferrato (2).
Giustiniano Priandi era convinto che la debolezza interna
della Francia e le acerbe lotte civili non avrebbero permesso al
governo di dichiarare guerra alla Spagna, sebbene il partito fa-
cente capo al Lesdiguières, il duca di Savoia e la repubblica
veneta lo sollecitassero gagliardamente a prendere una risoluzione
estrema (3). Lo stesso ambasciatore cattolico in Francia aveva
rassicurato il duca di Feria riguardo alle intenzioni del sovrano
francese; onde il governo spagnuolo pur non tralasciando le mi-
sure consigliate dalla prudenza, quali il tentativo di una tregua
cogli Olandesi e l'armamento di una forte flotta in Ispagna, po-
teva tuttavia soprassedere nei ^preparativi di guerra in Lom-
bardia (4).
Nel frattempo, perdurando in Italia la voce del probabile
incontro a Lione del Cristianissimo col duca di Savoia, Ferdi-
nando aveva deliberato, nel timore che ivi si prendessero deci-
sioni contrarie a' suoi interessi, di eleggere un inviato speciale,
ilquale dovesse trasferirsi in quella città per difendere e so-
stenere la sua causa contro l'estremo sforzo che sarebbe stato
tentato da Carlo Emanuele. Fu scelto per questa missione im-
portante e delicata il gran cancelliere del Monferrato, Traiano
Guiscardi, già altre volte stato alla corte francese, ove contava
aderenze e simpatie e godeva profonda stima. Nel far nota questa
deliberazione al Feria, Ferdinando aggiungeva, per fargli tran-
gugiare l'amara pillola, che gli avrebbe comunicate le notizie
(1) Il Priandi a Ferdinando, 16 aprile 1622; il Nevers allo stesso,
22 aprile 1622; M. de Chasteanrenault allo stesso, 9 maggio 1622,
ibidem.
(2) IlPriandi a Ferdinando, 19 aprile 1622, ibidem.
(3) Il al Magni, 26 aprile ; altra a Ferdinando, pure del
Priandi '26
aprile 1622, ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinando, 4 e 9 maggio 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 79
eventualmente raccolte dal suo inviato sui disegni militari
francesi (1).
L'intento di Ferdinando, quale risulta dalla lettera inviata da
li in data 25 aprile 1622 al Guiscardi, si basava sul proposito
attribuito a Carlo Emanuele di mirare all'impresa di Ginevra.
Il duca pensava che assai difficilmente il re vi avrebbe accon-
sentito; ma qualora le insistenze savoiarde fossero riuscite a
strappargli l'adesione, un accorto il Gui-
negoziatore, quale era
-cardi, avrebbe potuto almeno ottenere che Luigi XIII ponesse
come condizione la rinunzia alle pretensioni sul Monferrato,
garantendo così la pace in Italia (2).
Intanto la negoziazione di Milano era sempre arenata intorno
al punto degli interessi decorsi sulla dote di madama Bianca, e
pareva che i delegati di Carlo Emanuele (3), dimentichi assolu-
tamente della sovranità cesarea, non fossero stati mandati a trat-
tare che quella sola questione (4). Neppure le pratiche iniziate
a Madrid da don Giov. Ottavio Gonzaga per ottenere un sussidio
mensile per il mantenimento delle truppe sembravano ben av-
viate, poiché, come Ferdinando bene intuiva, la mancanza di
^ gelosia dell'armi francesi » in Yaltellina, non spingeva il go-
verno spagnuolo a rapide decisioni (5). Eppure il pericolo era
grave; e la cancelleria ducale di Mantova lavorava febbrilmente,
moltiplicando in tutti i sensi l'attività diplomatica. Per influire
sulla corte spagnuola si ricorreva all'imperatore (6). La pazienza
(1) Ferdinando Ferdinando
al Nerli, 22 aprile 1622. F, II, 7, 2302;
alla regina di Francia, 16 aprile Tra gl'incarichi del Guiscardi
1622.
era anche quello di appoggiare il Nevers nella causa col principe di
Joinville, a proposito della lite nata nel 1621 tra il Nevers e il fratello
di quest'ultimo, cardinal di Guisa, e continuata dopo la morte di que-
st'ultimo in battaglia, a proposito dell'assegnazione dell'abbazia della
Charité, che Nevers chiedeva per il figlio, duca di Rethel.
il
(2) Ferdinando al Guiscardi, 25 aprile 1622. F, II, 7, 2302.
(3) Tra questi erano il presidente Salamanca e il senatore Trotti.
(4) li Bardelloni ai Chieppio; il medesimo a Ferdinando, 23 aprile
1622, ibidem.
(5) Il capitano Mouchy, mandato dal Nevers, aveva riferito che con
80.000 scudi si sarebbe potuta fare la diversione già proposta da lui. Vedi
lett. di Ferdinando a don. Giov. Ottavio Gonzaga, 25 aprile 1622, ibidem.
Ferdinando ordinava al Cons. riserv. del Monferrato di prendere tutti
i possibili provvedimenti per la difesa. Vedi lett. di Ferdinando al
Cons. riserv. del Monferrato, 26 aprile 1622, ibidem.
(6) Ferdinando allo Zuccone, 27 aprile 1622, ibidem.
so KOMOLO QUAZZA.
del Nerli e del Bardelloni era messa a dura prova in Milano,
poiché i savoiardi dopo molte tergiversazioni avevano finito col
dire che o si trattava degl'interessi della dote di madama Bianca
o se ne sarebbero andati, rompendo le trattative. E ogni volta
Ferdinando era costretto a ripetere la storia dei negoziati del
Martinengo, del Coeuvres e delle proposte mandategli a mezzo
dell' Arconati, ed i suoi delegati dovevano non solo discutere
coi Savoiardi, ma altresì persuadere il Feria ed il gran cancel-
liere di Milano (1). Quale induzione poteva farsi da cosi grande
insistenza degl'inviati di Carlo Emanuele nel pretendere la di-
scussione degl'interessi dotali di madama Bianca? Certamente
il duca di Savoia, vedendo che dalla dote di Margherita non
poteva sperare nessun acquisto territoriale poiché si era pronti
a pagargliela in contanti, cercava questo nuovo appiglio per
conseguire il suo intento (2), che era l'accrescimento de' suoi'
domini. Ma il Gonzaga era ben deciso a non cedere su questo
punto, quantunque il Feria mostrasse apertamente di dolersi di
tale ripulsa (3). Egli non aveva mai detto di voler separare il
negoziato dalla dote di madama Bianca dal trattato di generale
accomodamento; e col conte Arconati, mandatogli dal Feria, si
era chiaramente espresso in tal senso, affermando di esser
disposto a riprendere la negoziazione avviata col Martinengo,
non per discuterla e modificarla, ma per eseguirla. Se i delegati
savoiardi, che pur conoscevano queste premesse, avevano cre-
duto di fare un tentativo per ingarbugliare la questione e, non
essendo questo riuscito, avevano deciso di andarsene re infecta,
ciò non poteva attribuirsi a colpa di Ferdinando, il quale fin
dal tempo del Martinengo aveva mostrata la sua buona volontà,
accettando patti, la cui esecuzione era stata impedita solo dal-
l'opera del conte di Yerrua, ambasciatore di Savoia a Parigi,
nemico acerrimo del Martinengo e negoziatore del matrimonio
di Vittorio Amedeo con Cristina (4).
(1) Ferdinando al Nerli, 28 aprile il Bardelloni a Ferdinando, 5
j
maggio Ferdinando al Bardelloni e al Nerli, 6 maggio 1622, ibidem.
j
(2) li cons. Magni al Nerli, 7 e 13 maggio 1622, ibidem.
(3j Ferdinando si trovava a Venezia; in luogo suo scrivevano al
Nerli e al Bardelloni i consiglieri Magni e Chieppio, 15 maggio 1622,
e la stessa duchessa Caterina, 17 maggio 1622, ibidem.
(4) Ferdinando al Bardelloni e al Nerli, 20 maggio; il medesimo al
Nerli, 20 maggio 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 81
Capitolo IV.
Impressioni francesi per la missione del Guiscardi. - Le fazioni alla corte
francese e il duca di Savoia. — La missione del Guiscardi e il go-
verno di Madrid. — L'opera del Guiscardi in Francia. — I prepara-
tivi il convegno di Lione.
per —
La mediazione di Filippo IV. In- —
vito aFerdinando di recarsi a Lione. -- Suo motivato rifiuto. —
Proposta di condurre trattative a Vienna da parte del conte Eggenberg.
— L'incontro di Avignone e l'azione di Carlo Emanuele I contro il
Gonzaga. — Luigi XIII accetta di patrocinare le trattative. — L'opera
mediatrice del Puisieux e del Leon. — Contegno del duca di Savoia.
— Partenza del Guiscardi dalla Francia. Schermaglie diplomatiche
tra Carlo Emanuele e Ferdinando intorno alle condizioni dell'even-
tuale accordo. — Il duca Nevers propone di affidare la questione
di
all'autorità del papa. — Disgrazia dei ministri Puisieux e Sillery e
fallimento delle trattative in Francia.
Il fallimento delle trattative di Milano ad«iensava sul Mon-
ferrato il pericolo di una nuova bufera.
Savoia rin- Il duca di
novava la minaccia di ricorrere alle armi per risolvere la que-
stione; e si faceva ancor piti impellente per Ferdinando la
necessità di mantenersi in buone relazioni colle due corone, cui
egli, a mezzo del Priandi e del marchese don Giov. Ottavio
Gonzaga, non si stancava di far appello (1).
La necessità d'impedire al suo avversario di trarre profitto
della rottura dei negoziati di Milano, donde i delegati savoiardi
erano senz'altro partiti, era per lui tanto maggiore in quanto si
avvicina \ra il tempo della falciatura del fieno e più facilmente
Carlo Emanuele avrebbe potuto trovare appiglio per intervenire
nelle solite contese tra gli abitanti dei paesi di confine (2).
Riguardo alla Francia Ferdinando sperava molto nella mis-
Ferdinando al Priandi, 20 maggio; il medesimo a don Giov.
(1)
Ott. Gonzaga, 20 maggio 1622, ibidem. Secondo il Ricotti, op. cit., pag.
173, il congresso di Milano « non produsse altro risultato che di corn-
aiprovare la difficoltà di accordarsi. Tuttavia lasciò l'addentellato a
« segrete trattative per ammogliare il principe Filiberto, che era allora
« viceré di Sicilia, con una principessa di Mantova ». Veramente non
possiamo trovare tra i negoziati di Milano del 1622 e quelli di Torino
e Mantova del 1624 altro nesso che quello di una serie di tentativi volti
al medesimo fine.
(2) Ferdinando a don Giov. Ott. Gonzaga, 29 maggio 1622, ibidem.
Ardi. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. I-II. 6
«li KOMOLO C^UAZZA
sioue del Guiscardi, uomo accorto e prudente, il cui compii
non era, per altro, scevro di difficoltà, poiché il duca di Savoia]
8i sarebbe certamente valso per iutìuire sull'animo del re del-
l'opera persuasiva e delle preghiere di Cristina e si sarebbe
giovato della compiacente amicizia del Lesdiguières (1).
La notizia dell'omaggio che Ferdinando si apprestava a ren-j
dere a Luigi XIII qualora si fosse recato a Lione, inviandogli
il Guiscardi, lece ottima impressione in Francia j il Priaudi e il
Nevers la giudicarono mossa avvedutissima (2). Egli avrebbe po-
tuto giovare assai al Gonzaga con l'opera diplomatica ma ancor ;
pili efficace sarebbe stata la sua presenza, se avesse avuto il
sussidio di ricchi doni, mezzo cui l'ambasciatore di Savoia ri-
correva spessissimo e di cui solo coloro che erano pratici della
corte francese potevano valutar l'importanza (3).
Il Lesdiguières, i Veneziani, gli Svizzeri, Carlo Emanuele
insistevano affinchè Luigi XIII si decidesse a intervenire con le
armi per la questione della Valtellina. Ma il sovrano resisteva
alle pressioni, volendo prima ridurre all'obbedienza gli Ugonotti.
Però l'ambasciatore spagnuolo, prevedendo che il sovrano sarebbe
stato fatto segno a un vero e proprio assalto, qualora avvenisse
il convegno di Lione, si adoperava in tutti i modi ad allontanare
l'eventualità di una decisione in tal senso, dichiarando che un
intervento in Valtellina, in qualunque modo attuato, sarebbe
stato considerato in Ispagna come atto ostile e avrebbe con-
dotto alla rottura (4).
Tra il maresciallo Lesdiguières e il duca di Savoia vi era
un frequentissimo scambio di corrieri, che si supponeva riguar-
(1) Ferdinando al Guiscardi, 20 aprile 1622, ibidem. Il Guiscardi aveva
chiesto di andar a riverire Cristina prima di partire per la Francia, ma
il Gonzaga non lo ritenne opportuno, non essendo stata ricambiata mai
l'ambasciata mandatale nel 1620. Pure giudicò che non fosse il momento
di mandare i doni che già aveva preparati per la famiglia reale di
Francia.
(2) Lett. del Priandi a Ferdinando e del medesimo al Magni, 16
maggio 1627. E, XV, 3, 673.
(3) Lett. delPriandi a Ferdinando, 24, 27, 31 maggio; del mede-
simo alMagni, 31 maggio 1622, ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinando, 3 giugno 1622, ibidem. Il padre Tobia, ri-
masto in Francia, stava per fondarvi, col consenso reale, un convento
di barnabiti, i quali, a giudizio del Priandi, sarebbero stati « tante*
creature di Savoia che si professa loro protettore particolare >.
FERDINANDO GONZAGA E CABLO EMANUELE 1 85
dassero la questione valtellinica, per la soluzione della quale la
repubblica veneta faceva le più calde istanze. Il re si avvici-
nava a Tolosa; era dunque opportuno che il Guiscardi si met-
tesse in cammino per poter ossequiare Luigi XIII quando si
fosse recato nel Delfinato (1). La sua presenza era necessaria
per cancellare l'impressione, nata dalle trattative di Milano e
confermata dalle voci dei più malevoli, che il Gonzaga si fosse
gettato « entre les bras des Espagnols », come il Puisieux me-
desimo scriveva al Priandi (2); di persona il Guiscardi avrebbe
potuto meglio sorvegliare l'opera degli ambasciatori spagnuolo
e savoiardo, i quali s'erano messi a seguire la corte nei rapidi e
disagiatissimi viaggi che faceva nella bassa Linguadoca (3).
Era intanto giunta in Francia la notizia delle nuove minacce
di Carlo Emanuele ai confini del Monferrato.
Il ministro di
Mantova e il duca di Nevers
consultarono immediatamente
si
sul modo di eludere la minacciata invasione savoiarda ed invia-
rono subito al re, al principe di Oondè, al cardinale di Retz, al
Puisieux lunghe e particolareggiate relazioni, caldi e vibrati di-
spacci affinchè S. M.tà Cristianissima pigliasse a cuore la pro-
tezione di Ferdinando (4).
Le condizioni dell'esercito regio, nonostante le vittorie, erano
tristissime; discordie tra un reggimento e l'altro, oltre che tra
i capi, malattie, carestia, tutto contribuiva a far nascere una
spaventosa confusione le gelosie di corte con i continui intrighi
;
completavano il quadro (5). La questione della Valtellina era
sempre in sospeso, non volendo il re scostarsi dal trattato di
Madrid, negoziato dal Bassompierre nel 1621 (6).
Nel frattempo il duca di Savoia, sempre pronto a tirar l'acqua
al suo mulino, diflondeva ovunque scritture e manifesti, nei quali
accusava il Gonzaga di esser stato causa della rottura delle trat-
ti) Il Priandi a Ferdinando, 7 e 10 giugno 1622, ibidem.
Puisieux al Priandi, 31 maggio 1622, ibidem.
(2)
(3) Il Priandi alla duchessa Caterina, 10 giugno 1622; altra del
medesimo al Chieppio, 13 giugno 1622, ibidem.
(4) Il Nevers si dichiarava prontissimo a fare una diversione in
Savoia purché gli venissero inviati ottantamila scudi, coi quali avrebbe
provveduto alle milizie, essendo egli esaustissimo nelle finanze per le
guerre recenti e per il numero dei figli. Vedi lett. del Priandi a Ferdi-
nando del 16 giugno 1622, ibidem.
(5) Il Priandi a Ferdinando e al Chieppio, 17 giugno 1622, ibidem.
(6) Il Priandi a Ferdinando, 21, 24, 28 giugno 1622, ibidem.
84 ROMOLO C^IIAZZA
Milano col uoii aver voluto discutere della dote di uia-
tati ve di
dama Bianca, mentre questo era uno degli argomenti sui quali
avrebbe dovuto vertere la negoziazione, secondo 1 patti stabiliti
in precedenza a mezzo del conte Arconati.
La rei)lica di Ferdinando a quest' accusa s' imperniava sul-
l'afférmazione che egli aveva consentito a trattare solo della
liquidazione della dote di Margherita, mentre gli altri punti
controversi s'intendevano rimessi, per il capitolato di Asti, al
giudizio del tribunale imperiale. Su questa linea di difesa avrebbe
dovuto basarsi il Guiscardi per agire vigorosamente alla corte
francese, facendo anche rilevare che il duca di Mantova mal si
sarebbe adattato a condurre a compimento le trattative di Milano,
le quali escludevano il re di Francia (1).
Già cominciavano gli atti di ostilità al confine del Monfer-
rato, non ancora apertamente ordinati da Carlo Emanuele, ma
senz'alcun dubbio istigati da lui. Si ripetevano le incursioni del
^
conte di Montù a Rondizzone a tagliar grano, col fine evidei;ite
di esaurire la pazienza dell'avversario e d'indurlo ad iniziare la
guerra; ma Ferdinando rinnovava il proposito di « schermir
« l'arte con l'arte (2) ». E la stessa frase ripeteva riguardo al
duca di Feria, il quale, desideroso di apparire arbitro delle con-
tese tra Mantova e Torino e di allontanare, perdurando i nego-
ziati in Milano, il pericolo d'un assalto savoiardo in Valtellina,
aveva proposto di riallacciare le trattative. Ma accettando, ribat-
teva il Gonzaga, egli avrebbe data una tacita conferma alle as-
serzioni contenute nel manifesto di Carlo Emanuele, poiché sa-
rebbe apparso desideroso di riparare e quindi ne sarebbe andato
;
del suo decoro (3).
Assurdo era quanto il duca di Savoia andava ripetendo:
non potersi egli fidare delle decisioni del tribunale cesareo per
(1) Ferdinando al Guiscardi, 24 giugno 1622. F, II, 7, 2302. La
notizia della rottura dei negoziati Milano fu subito comunicata
di
all'imperatore. Vedi lett. dello Zuccone a Ferdinando, 24 giugno e 12
luglio 1622. E, II, 3, 493.
(2) Ferdinando al Battaini, 28 giugno 1622, ibidem. Scrisse pure
ai Cantoni svizzeri affinchè vietassero le leve che il duca di Savoia
andava facendo nel loro territorio. (Ferdinando ai Cantoni svizzeri, 28
giugno 1622); e si raccomandò all'imperatore per ottener di riman-
dare il pagamento di una parte ancora dovuta della dote di Eleonora.
Vedi lett. di Ferdinando allo Zuccone, 29 giugno 1622, ibidem.
(3) Ferdinando al Nerli, 29 giugno 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 85
la parentela stretta tra l'imperatore e la casa Gonzaga ; poiché
ia giustizia, fatta in nome di S. M.tà Cesarea, era amministrata
per mezzo di consigli, di delegati, di tribunali, i quali piti volte
avevano dato prova della loro imparzialità. E poi, se la parentela
ivesse tanto influito da alterar la giustizia e la verità delle cose,
il Gonzaga non avrebbe dovuto fidarsi neppure delPimparzialità
lei Cristianissimo, per esser egli cognato del principe di Pie-
monte, né del defunto re Filippo III, essendo questi pure cognato
del duca di Savoia.
S'iniziava poi il lavorìo di giustificazione della missione del
Guiscardi, necessario rispetto alla parte spagnuola. il Nerli a
Milano presso quel governatore e il Bonatti a Madrid avrebbero
lovuto esporre le ragioni che avevano indotto Ferdinando a
rendere questo provvedimento, ragioni che si potevano riassu-
tiere brevemente così: necessità d'impedire che il duca di Sa-
voia ottenesse da Laigi XIII il beneplacito all'invasione del
Monferrato, beneplacito a conseguire il quale Carlo Emanuele,
dopo la rottura dei negoziati di Milano e la pubblicazione del
manifesto, aveva deputato il proprio ambasciatore (1).
ideila triste congiuntura il duca di Mantova aveva più volte
espresso il desiderio di recarsi personalmente a Vienna per in-
durre l'imperatore ad assumere efficacemente la difesa dei suoi
interessi. Ma, prima di pronunciarsi in proposito, Ferdinando
desiderava attendere l'esito della dieta convocata a Eatisbona.
Comunque lo Zuccone riuscì a persu.adere l'Eggenberg e a strap-
pare formale promessa che l'imperatore non solo si sarebbe intei-
posto presso il Feria con lettere, ma che avrebbe inviato il conte
Sforza di Portio a Milano per trattare e parlare col goverliatore
in favore del duca e per ricercare eventualmente una via che
conducesse ad un accordo definitivo colla casa di Savoia (2).
Anche al papa, che lo esortava ad aver cura della pubblica
tranquillità, il Gonzaga faceva la storia delle trattative e con-
fermava la sua aspirazione ad una giusta pace (3).
Da parte degli Spagnuoli il malumore era però così evi-
dente, che il duca di Mantova venne nella determinazione di
mandare ambasciatore a Madrid, con lo speciale incarico d'illu-
(1) Ferdinando al Nerli, 15 giugno; il medesimo al Bonatti, 18
luglio 1622, ibidem.
(2) Lo Zuccone a Ferdinando, 23 luglio 1622. ìù, II, 3, 493.
(3) Ferdinando a Sua Santità, 21 luglio 1622. F, II, 7, 2302.
H<5 ROMOLO t^UAZZA
minare quella corte intorno ai negoziati di Milano, il (ronsip^liere
di stato Francesco Nerli (Ij.
Il ^ran cancelliere Guiscardi^ prima di partire per Lione,
aveva mandato al Priandi il capitano Quartiero per informarsi
esattamente delle voci che correvano in Paranoia riguardo ai ne-
goziati di Milano e per rintracciare possibilmente la copia di
certe scritture del Feria e dell'Arconati, che i delegati savoiardi
si vantavano di aver avute a conferma delle loro asserzioni. Le
relazioni mandate da Torino ai ministri francesi attestavano che
gli animi colà erano inclini alle decisioni estreme e che il Mon-
ferrato era per conseguenza in serio pericolo. Si attendeva la
risposta del re ai dispacci mandati dal Priandi e dal Nevers,
il quale non sarebbe stato malcontento che al manifesto di Carlo
Emanuele si fosse data una replica « fatta da buona penna » (2).
Egli si diceva sempre pronto a operare, in caso di necessità, la
già proposta diversione in Savoia, oppure offriva di scendere
egli stesso nel Monferrato; la sua presenza si sarebbe sempre
potuta giustificare dinanzi agli Spagnuoli con la stretta paren-
tela per la quale il Gonzaga non poteva respingere l'offerta di
un suo aiuto (3).
Intanto si veniva a sapere che Luigi XIII aveva rinviata
al convegno di Lione la soluzione delle questioni riguardanti la
Valtellina (4) e tutti gli aff'ari esteri, che a Lione S. M.tà Cri-
stianissima aveva invitato Carlo Emanuele col principe e la
principessa di Piemonte, presso i quali era stato precedente-
mente mandato in missione il signor di Chandebonne. Il Lesdi-
guières si era fatto cattolico ed aveva ricevuto la spada di Con-
nestabile di Francia e le insegne di cavaliere del Santo Spirito ;
il che aveva fortemente scosso il partito ugonotto. Il Guiscardi
partì alla volta di Lione ed il Priandi s'incamminò ad incon-
trarlo (5).
Il 25 luglio 1622 l'ambasciatore di Mantova aveva raggiunta
la mèta e attendeva le lettere reali per sapere dove avrebbe
potuto recarsi ad ossequiare il sovrano che si trovava ancora in
(1) Ferdinando a don Baldassarre de Zuiiiga; al re Catt.co: al Bo-
natti, 26 luglio 1622, ibidem.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 1 luglio 1622. E, XV, 3, 673.
(3) Il Priandi a Ferdinando, 7 luglio 1622, ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinando, 14 luglio 1622, ibidem.
(5) Il Priandi a Ferdinando e al Magni, 23 luglio 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 87
Linguadoca (1). Il Priandi, che si era trattenuto qualche giorno
a Pougnes a riverire la regina madre e a distribuire risposte
scritte al manifesto del duca di Savoia, lo raggiunse l'8 agosto (2).
Le risposte inviate dal Pnisieux al duca di Fé ver s provavano,
intanto, che non era per nulla disperata la situazione del duca
di Mantova, al quale la corona francese continuava ad assicurar
protezione (3;.
Il Priandi si affrettò a raggiungere la corte al campo per sol-
lecitar la concessione dell'udienza reale al Guiscardi. Ma essendo
il re in continuo moto all'assedio ora di una piazza ora di un'altra,
si Puisieux assunse l'incarico di comunicare ai due rappresen-
si
tanti di Mantova
il giorno in cui S. M.tà, fissata a Beaucaire o
ad Arles la propria residenza, avrebbe potuto riceverli. Il Priandi
es il Gruiscardi si trasportarono dunque ad Avignone, donde il
primo faceva frequenti viaggi al campo a rendersi conto dello
«tato delle cose ed a raccogliere notizie. Gli veniva confermato
da ogni parte che il re mostrava grande desiderio che tra le due
case rivali si venisse ad un accomodamento; e che il duca di
Savoia, dopo gli uffici del re e del connestabile, aveva promesso
di non molestare il Monferrato. Gli veniva pure assicurato che
il sovrano avrebbe veduto volentieri Ferdinando a Lione, .qua-
lora quivi dovesse aver luogo il convegno, ancora incerto per le
sorti instabili dellaguerra interna. Il Connestabile e i Veneziani
continuavano nelle loro istanze intorno alla Valtellina; nuovi
favori si largivano al cardinale di Savoia per compensarlo della
eomprotezione concessa al Bentivoglio. Moriva il cardinale di
Retz e decadeva il prestigio del principe di Condè, il quale,
d'accordo col nunzio e con lo Schomberg, faceva di tutto per
attraversare la <jonchisioTie della pace cogli Ugonotti trattata
dal Connestabile con l'aiuto del Pnisieux (4).
(1) Il Guiscardi a Ferdinando, 25 luglio 1622, lo stesso al Magni,
25 luglio e al Chieppio, 3 agosto 1622, ibidem.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 8 agosto 1622, ibidem. Tanto il
Priandi quanto il Guiscardi insistevano che fosse loro inviato denaro,
necessarissimo in viaggi dispendiosi malsicuri, lunghissimi, quali
,
quelli che essi eran stati costretti a fare. Il Priandi, scrivendo al
Chieppio lo stesso giorno 8 agosto, insisteva, poi, nuovamente per la
spedizione di donativi, chiedendo, anche a nome della regina madre, il
ritratto dell'imperatrice.
(3) Il Guiscardi a Ferdinando e al Magni, 3 agosto 1622, ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinando, 24 agosto 1622 : il Guiscardi al mede-
simo, 20 a<::osto 1622, ibidem.
S8 ROMOLO C^ITAZZA
lutante uoa nuova difficoltà era sorta ad intralciare i piani
di Ferdinando e a mettere alla prova la sua destrezza Filippo IV]
:
con lettera dell'I! luglio gli aveva proposto di ripigliare egli in)
persona le trattative di accomodamento con Savoia e lo aveva in-
vitato a mandare a Madrid ministri investiti di sufficiente auto-j
rità per poter discutere e risolvere la questione. Un rifiuto al-^
l'offerta del re Cattolico sarebbe stato senza dubbio considerate
come un'ingiuria avrebbe servito ottimamente ai disegni deij
;^
Savoia, togliendo in caso di guerra al Monferrato l'ai)poggio
delle truppe spagnuole. L'accettare, d'altra parte, poteva costi-
tuire una prova di eccessivo ossequio verso la corona di Spagna e
dar ragione di malcontento al sovrano francese (1). Bisognava
dunque trovare la maniera di evitare ogni scoglio, mandando le
cose per le lunghe e cercando innanzi tutto di guadagnar tempo.
Ferdinando diede quindi ordine al Bonatti di condursi in
modo da obbligare il governo spagnuolo ad ottenere da Torino
formale promessa di inviar delegati prima d'impegnarsi egli
stesso con una precisa risposta. Probabilmente sarebbesi sco-
perto così l'artificio di Carlo Emanuele, che avrebbe lasciato
cadere questo tentativo, come aveva fatto per quello svoltosi
sotto il patrocinio di Filippo III e per quello di Milano.
Ma la cosa venne anche maggiormente complicata dall'invito
rivolto a Ferdinando di recarsi a Lione come poteva egli porsi
;
apertamente sotto la protezione del Cristianissimo in un convegno
ove con tutta probabilità si sarebbe deliberata l'impresa di Val-
tellina e quindi la rottura con la Spagna, senza essere esposto
all'ira di questa? Si affrettò dunque a comunicare al Villiers,
ambasciatore di Francia a Venezia, che per il momento le sue
pessime condizioni di salute (aveva avuto una risipola alla faccia
e poi una flussione in un occhio con minaccia di perder la vista)
gli vietavano d'impegnarsi formalmente a prender parte al con-
vegno (2).
Gonzaga, il quale
Difficilissima era, invero, la condizione del
addossava buona parte della colpa al duca di Feria, alle sue re-
lazioni malevole, all'amicizia da lui misteriosamente stretta col
duca di Savoia,, alle finzioni sue continue, colle quali cercava di
(1) Ferdinando 5 agosto 1622, F, II, 7, 2303. Vedi,
al Guiscardi,
anche le raede&imo allo Zuccone, 5 agosto e al Bonatti 8
lett. del :
agosto 1622, ibidem.
(2) Ferdinando al Battaini, 10 agosto 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 89
trarre inganno Ferdinando, prima incitandolo a raccoglier
in
soldati per presidiare il Monferrato e poi facendogli aspettare o
negandogli il permesso di transito a traverso il Milanese. Il duca
di Mantova raccomandava caldamente al Nerli, appena fosse ar-
rivato in corte di informare S. M.tà ed i ministri di questo stato
di cose e di procurar di trarne il maggior profitto x>ossibile (1).
Un'altra proposta di trattative veniva contemporaneamente
avanzata dal conte di Eggenberg al conte Zuccone, rappresen-
tante del Gonzaga a Vienna. Essa mirava a sottoporre la que-
stione al giudizio pronunciato in comune dall'imperatore, da
S. S.tà e dai due sovrani di Francia e di Spagna. Ma anche di
questa esibizione, la quale era fatta, del resto, in modo assai
impreciso, duca di Mantova riuscì a liberarsi f2).
il
Intanto il Guiscardi non aveva ancora j)otuto ottenere udienza
dal re, accampato sotto Montpellier, di cui s'annunziava duris-
simo l'assedio (3). La corte era alloggiata con grandissimo disagio
in cascine sparse intorno a questa città, il re aveva allontanato
da se tutti gli ambasciatori e ministri stranieri, alcuni dei quali
si erano stabiliti ad Avignone, altri eran dispersi qua e là. Il
ritardo era certamente spiacevole per l'andamento delle questioni
che interessavano il Gonzaga; ma nondimeno questi non doveva
turbarsene troppo, essendo stata data dal Puisieux l'assicura-
zione che il duca di Savoia non avrebbe fatto alcun tentativo
contro il Monferrato.
(1) Ferdinando al Nerli, 29 agosto 1622, ibidem. •
(2) Lo Zuccone a Ferdinando, 23 luglio, già cit., 20, 27 agosto
21 sett. 1622. E, II, 3, 493. L'imperatore aveva pensato, come sappiamo,
di mandare a Milano a questo fine il conte Sforza Portio, ma il progetto
andò a vuoto. Fu necessario spiegare all'Eggenberg i veri termini della
questione e le ragioni per le quali il Gonzaga non poteva consentire
a trattare degl'interessi dotali di madama Bianca separatamente, senza
contemplar le reciproche generali rinimce. Vedi lett. di Ferdinando allo
Zuccone, 7 sett. 1622, F, II, 7, 2303. Il conte Zuccone doveva far rile-
vare a S. M.tà Cesarea che, essendo il papa manifestamente amico di
Savoia ed avendo anzi il nipote di lui il titolo dichiarato di Protettore
loro, essendo il re di Francia cognato di Vittorio Amedeo e il re di
Spagna interessato a cattivarsi il favore del duca di Savoia per di-
stoglierlo dalla Valtellina, Ferdinando non avrebbe potuto fidare che
nella giustizia del solo imperatore onde gli riusciva più utile, se mai,
;
rimettersi alla giurisdizione ordinaria del tribunale cesareo.
3) li Priandi a Ferdinando, 6 sett. 1622, E, XV, 3, 673.
'j90 ROMOLO QtJAZZA
Ad Avignone si fermò qualche giorno il Oonnestabile, presso
il qualeGuiscardi ripetè i consueti uffici, ottenendone la più
il
benevola risi)OSta. La regina madre stava per recarsi a Lione,
dove era intenzione del Guiscardi raggiungerla per pregarla di
.patrocinare la causa del Gonzaga presso la regina di Spagna,
sua figlia (l). Quanto alla venuta di Ferdinando in Francia, i\
fedele ministro la giudicava opportunissima e credeva che se ne
-sarebbe potuto trarre grande profìtto (2).
Continuava, senza speranza di prossima vittoria, l'assedio
-di Montpellier ed il re poneva scarsa attenzione agli affari stra-
nieri, tutto assorto com'era nelle faccende interne; si diceva che
forse, vedendo molto lontana la soluzione militare, il sovrano
avrebbe porto ascolto a nuove proposte di pace cogli Ugo-
notti (3).
Difatti, nell'ottobre, per opera particolare del Connestabile,
la pace fu conclusa ed il principe di Condè contrariato nei suoi
desideri, tolto il campo da Montpellier, si dispose a compiere un
viaggio in Italia col pretesto di sciogliere un voto fatto alla ma-
donna di Loreto. Egli intendeva visitare in incognito le corti
d'Italia e si sarebbe perciò recato anche a Mantova. Si fece
dare lettere di presentazione dal Guiscardi, il quale si affrettò
ad avvertire il duca che, per render grato il soggiorno a quel
principe, gli si sarebbero dovuti offrire spettacoli teatrali, com-
medie, favole cantate ed altre simili rappresentazioni (4).
Tolto l'assedio di Montpellier e ridonata la pace al regno,
il Guiscardi fu prontamente ricevuto dal re e dai ministri, an-
cora al campo. Luigi XIII espresse di nuovo il desiderio di ve-
dere Ferdinando a Lione e di rappacificarlo con Carlo Emanuele.
L'opinione del fedele ed esperto gentiluomo era però mutata
jiguardo all'opportunità clie il suo signore si mettesse in viaggio,
riputando ora egli che le difficoltà insite nelle trattative, la
moltitudine delle questioni che il re avrebbe dovuto in quei
giorni considerare e la brevità del suo soggiorno in Lione gli
avrebbero probabilmente impedito di condurre a buon punto il
suo disegno.
E affinchè Ferdinando fosse in grado di giudicare con maggior
(1) Il Guiscardi a Ferdinando. 6 sett. 1622, ibidem.
(2) Il Gruiscardi al Chieppio e al Magni, 6 sett. 1622, ibidem.
(3) Il Gniscardi a Ferdinando, 7 sett. 1622, ibidem.
(4) Il Guiscardi a Ferdinando, 14 ottobre 1622, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA K CARLO EMANUELE 1 91
sicurezza, il Guiscardi gli espose tutto quello che aveva potuto
cavar fuori dai ministri sui loro intendimenti e sul modo col
quale consideravan la questione. Innanzi tutto, essi non tene-
vano iu alcun conto né le pretensioni vantate dal duca di Sa-
voia sul Monferrato né quelle che il Gonzaga aftermava di avere
sul marchesato di Saluzzo e su Torino, riputando le une e ìe
altre « moneta vecchia ». Kello stesso tempo eran convinti che
Carlo Emanuele non si sarebbe indotto facilmente a rinunciarvi
e giudicavano che sarebbe stato assurdo pretendere tale rinuncia
dal duca di Mantova; per questo essi stimavano che, raggiunto
l'accordo sopra gli altri punti, il papa, l'imperatore e i due sovrani
di Francia e di Spagna dovessero deliberare di intervenire contro
colui che per il primo avesse rotta la pace. Quanto alla dote di
madama Bianca, i ministri francesi ritenevano che fosse dove-
roso da parte di Ferdinando il pagarne il capitale con un po'
d'interesse insieme con la dote di Margherita e che non potendo
egli fare il pagamento in denari, dovesse eseguirlo in terre.
Queste condizioni differivano dunque da quelle che il Gonzaga
aveva già accordate al marchese di Ooeuvres solo nelF aver al-
lora limitato il pagamento della dote di madama Bianca al ca-
pitale; ma in quella congiuntura si era presupposta una reciproca
rinuncia a tutte le sarebbe voluta
pretensioni, la quale ora si
escludere. Non era dunque, una volta pagata la dote di Marghe-
rita, un ricondurre le cose al capitolato di Asti, che riguardava
la dote di madama Bianca e di cui il re di Francia e di Spagna
^rano mallevadori?
Il gran cancelliere del Monferrato si era affrettato a ricor-
dare al re Cristianissimo ed ai ministri le varie invasioni e le
violenze commesse dal duca di Savoia sul territorio monferrino
e a far loro rilevare che era necessario innanzi tutto toglier
ogni ragione di contestazione ai confini per evitare che sorges-
sero contese tra gli abitanti dell'uno e dell'altro stato. Consi-
gliava egli, dunque, che si caldeggiasse l'elezione di delegati i
quali risolvessero sul luogo le differenze. Quanto al restituire a
Margherita donazione fattale al
la tempo delle nozze, il Gui-
scardi riteneva che si dovesse applicare la legge ordinaria, se-
condo la quale, essendovi figli, tale restituzione non le toccava,
ma solo le spettava l'usufrutto, vita naturai durante.
Ad informare pienamente Ferdinando dell'andamento delle
cose e di ciò che secondo le previsioni più accreditate sarebbe stato
discusso nel convegno di Lione, il Guiscardi mandò a Mantova
92 EOMOLO (GUAZZA
lo stesso PriaiKii (1). Dopo il colloquio avuto (la lui col Puisieux,
questi aveva interrogato l'ambasciatore di Savoia e confermata
all'ambasciatore del Gonzaga l'opportunità che il duca prendesse
parte al convegno di Lione o almeno investisse il suo rappresen-
tante di autorità sufficiente per poter discutere e concludere le
trattative. Il Guiscardi, scrivendo a Mantova, raccomandava
perciò che Priandi venisse al piìi presto mandato indietro con
il
(U), promettendosi egli di trarre il mas-
le istruzioni più precise
simo utile da ogni congiuntura, purché gli venissero conferiti a
tempo opportuno pieni poteri (3).
Partito appena il Priandi, il gran cancelliere si trasferì a
Lione, dove giunse 23 ottobre. Ivi si trovavano già la regina
il
madre e la regina Anna, che il Guiscardi si proponeva d'andar
subito a riverire ; era atteso l'arrivo del duca di Nevers, il quale
godeva in quel momento il jjieno favore reale, essendo stata ap-
provata la condotta da lui tenuta al temi)o del passaggio del
conte Ernesto di Mansteld nella Champagne, che egli gover-
nava (4j.
Alle ripetute sollecitazioni francesi a recarsi a Lione, Ferdi-
nando aveva risposto nuovamente che le sue coudizioni di sa-
lute non glielo jjermettevaho, avendo egli avuto la febbre ter-
zana, la quale lo aveva indebolito al punto da essere costretto
a mandare in sua vece in Monferrato la duchessa, mentre per
molte ragioni sarebbe stato necessario che egli stesso vi si re-
casse personalmente (5).
Intanto un'imprudente asserzione del principe di Condè,
ospite del duca minacciava di porre nuovamente in
di Feria,
pericolo la situazione di Ferdinando. Quel principe, leggero e
vanitoso per natura e desideroso di attribuirsi una parte nel
maneggio di una questione importante, aveva detto al governa-
tore di Milano che il Gonzaga aveva supplicato il re di Francia
di promuovere un accomodamento fra lui e Carlo Emanuele. È fa-
cile immaginare l'impressione che tali parole potevano suscitare
nel momento stesso in cui Madrid avBva chiesto di avocare a sé la
(1) IlGuiscardi a FerdinaDdo, 17 ottobre 1622, ibidem.
(2) IlPuisieux al Guiscardi, 10 ottobre 1622^ ibidem.
(3) Il Guiscardi al Magni, 17 ottobre 1622; il medesimo allo Striggi,
17 ottobre 1622, ibidem.
(4) 11 Guiscardi a Ferdinando, 25 ottobre 1622, ibidem.
(5) Ferdinando al Guiscardi, 24 ottobre 1622. F, II, 7, 2303.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 93
pratica e Ferdinando aveva inviato al Nerli l'indicazione di patti,
accettati i quali avrebbe potuto consentire all'accordo con Sa-
voia (1). Un fatto però poteva smentire recisamente che al Condè
fosse affidata la missione che egli si attribuiva : la venuta, cioè,
in Italia, del appositamente deputato ad invitare il
Priandi,
duca di convegno di Lione (2). E Ferdinando, mentre
Mantova al
scrivendo in Francia prendeva la sua vacillante salute come
giustificazione del non aver accettato l'invito di Luigi XIII,
scrivendo a Milano e in Spagna faceva rilevare che, pur es-
sendo già convalescente, non pensava affatto ad aderire alla
richiesta (3).
L'arrivo del re di Francia a Lione subì un considerevole ri-
tardo. Si sparse voce che l'incontro fosse rimandato d'un
la
mese e che si fosse mutato il luogo del convegno. Si affermò
che il duca di Savoia si sarebbe abboccato con Luigi XIII a
Marsiglia, dove il sovrano si dirigeva e che solo Vittorio Amedeo
e la moglie probabilmente si sarebbero spinti fino a Lione ad
ossequiar le regine (4). In conseguenza di queste mutate deci-
sioni il Guiscardi, come pure il Kevers, si posero in viaggio
per Marsiglia (5). L'incontro invece avvenne poi il 32 novembre
1622 ad Avignone, dove il duca di Savoia cercò ogni mezzo per
accaparrarsi il favore del Cristianissimo e per mettere in cattiva
luce il Gonzaga, onde il Guiscardi fu obbligato a sostenere una
lunghissima discussione coi ministri francesi per giustificare il
contegno tenuto dal suo signore nelle trattative di Milano (6).
Nondimeno Carlo Emanuele dichiarava a tutti di desiderare vi-
vamente la conclusione di un accordo e perciò il Guiscardi
aspettava con impazienza il ritorno del Priandi, il quale doveva
portargli l'autorizzazione ducale a trattare con pieni poteri la
(1) Ferdinando al Nerli, 24 ottobre 1622, ibidem.
(2) Ferdinando a Ercole Gonzaga a Milano, 4 nov. 1622, ibidem.
(3) Contemporaneamente Ferdinando inviava al Feria il seg.rio di
itato, Faccipecora, per ripetere a voce le sue giustificazioni. Vedi lett.
di Ferdinando al Feria, 11 nov. 1622; al Nerli, 5 die. 1622; al Gui-
scardi, 13 nov. 1622, ibidem.
(4) IIGuiscardi a Ferdinando, 4 nov. 1622. E, XV, 3, 673.
(5) IlNevers aveva perduto, in seguito a breve malattia, il figlio
primogenito. Vedi lett. del Nevers al duca di Mantova, 5 nov. 1622, e
del Guiscardi al Magni, 5 nov. 1622, ibidem.
C6) Il Guiscardi a Ferdinando, 22 nov. 1622, ibidem.
94 ROMOLO (GUAZZA
faccenda (1). Il gran cancelliere era riuscito a superare il gra-
vissimo scoglio deiratteggiamento di Ferdinando rispetto alla
Spagna ; ma raccomandava che non si desse più motivo di mal-
contento ai Francesi suscettibili e facilmente irritabili, sopra tutto
nelPimminenza di avvenimenti militari in Italia, ai quali il re,
essendo armato e avendo conseguita la pace all'interno, pareva
volgesse il pensiero.
L'assenza del Gonzaga dal convegno e il non aver egli ancora
mandato al suo rappresentante una procura sufficiente erano ar-
gomenti che il duca di Savoia accortamente prospettava come
prove di mancanza di buona volontà da parte del suo avversario.
Col re, coi ministri, col duca di I^evers egli sollevava vivissime
proteste, dichiarando che Ferdinando deteneva illegalmente i
beni della figlia e della nipote, sfuggendo ogni accordo^ e che
a lui, mancando ora il mezzo della giustizia imperiale, poiché
l'imperatore era imparentato con una delle parti in lite, non
rimanevano che le armi per salvar la propria riputazione.
L'opera destramente svolta dal gran cancelliere del Monfer-
rato, vecchio diplomatico ed esperto conoscitore della corte fran-
cese, valse tuttavia a strappare la promessa che il, principe di
Piemonte, il quale si sarebbe recato a Lione, avrebbe avuto dal
padre piena facoltà di trattare e che così, giungendo intanto
dall'Italia la procura al Guiscardi, si sarebbe potuto discutere
l'accomodamento. Come punto di partenza, anzi a base dei ne-
goziati si sarebbe dovuto prendere secondo l'ambasciatore del
Gonzaga il trattato Martinengo; e a suo giudizio, nella procura
ducale si sarebbe potuta limitare ad essa la sua facoltà (2).
L'attesa procura, impegno formale da parte di Ferdinando
di riconoscere e di eseguire tutto quello che fosse per esser con-
cluso dal Guiscardi, venne affidata al Priandi, in viaggio di ri-
torno per la Francia (3); ma sul modo di servirsene recava più
precise istruzioni una lunga lettera,%nella quale Ferdinando, di-
chiarandosi disposto ad accettare il trattato Martinengo, ricor-
dava al suo ministro che egli era impegnato con la Spagna e che
(1) Il Guiscardi al Magni, 23 nov. 1622, ibidem. Per i negoziati di
Avignone e di Lione, vedi Siri, op. cit, voi. V, pag. 429 e seg. Me- ;
moires du Card, de Eichelieu, d'aprèa les manuscrits originaux pour
la société de l'Histoire de France, Paris 1912. tomo 3°, pag. 262 e seg.
(2) Il Guiscardi a Ferdinando, 24 nov. 1622, ibidem.
(3) La lettera di procura al Guiscardi porta la data del 6 dicembre
1622. F, II, 7, 2303.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 95'
zion poteva togliere senz'altro dalle mani di Filippo IV la pratica
che questi aveva avocata a se. Egli proponeva, dunque, all'ac-
corgimento del diplomatico, che lo rappresentava, questo piano:
indurre il re Cristianissimo ad accettare il partito di trattare
personalmente l'accordo con Savoia sulla base dei patti che il
Guiscardi stesso gli avrebbe comunicati, il che avrebbe tolta
senz'altro Ferdinando dalla difìacile situazione in cui si tro-
vava (1). Appena si fosse giunti alla conclusione, il duca di
Mantova dichiarava che avrebbe senz'altro abbandonato ogni
riguardo verso gli Spagnuoli.
Il Guiscardi, tornato con la corte a Lione, attendeva con
viva impazienza 1' arrivo del Priandi e temeva le conseguenze
lei ritardo. Affettuosissimo era stato l'incontro del re colle re-
cane, le quali aspettavano la principessa di Piemonte. Non si
sapeva ancora con certezza quale fosse la decisione presa nel
convegno di Avignone riguardo alla Valtellina ma si presagiva :
che ne sarebbe nata la guerra (2).
Il duca di Savoia, non trascurando alcun mezzo per togliere
partigiani al suo avversario, s'era anche adoprato a diffonder
la voce che Ferdinando intendesse sposare la nipote Maria
all'arciduca Leopoldo o ad un principe spagnuolo sperava così ;
di destare la gelosia del duca di Nevers e diceva che egli avrebbe
sempre approvato invece il matrimonio di quella principessa
col primogenito del I^evers, duca di Eethel. Per fortuna il Gui-
scardi potè recisamente smentire tali asserzioni e rassicurare il
Nevers.
Per il 13 dicembre si aspettavano a Lione il principe di
Piemonte e la consorte, il cui soggiorno in quella città sarebbe
stato breve. Si diceva che il principe di Piemonte recasse con
se la copia del trattato Martinengo, onde il Guiscardi invocava
che anche a lui ne venisse mandata una comunicazione esatta (3).
Ma il Priandi non arrivò in tempo ed il gran cancelliere fu ob-
bligato a seguire la corte a Parigi, con molto suo cruccio e :
per sé stesso, esposto ai rigori del verno e costretto a trascinare
(1) Ferdinando al Guiscardi, 7 e 13 die. 1622, ibidem.
(2) L'amb. di Spagna, recatosi dalla regina madre per ottenere che
s'intromettesse a distornare la guerra, n'ebbe questa risposta ; « Tenendo
il re di Spagna la promessa fatta a Bassompìerre, troncherebbe ogni
occasione alle novità ». Vedi lett. del Guiscardi al duca del 7 die. 1622.
E, XV, 3, 673.
(3) Il Guiscardi al cons. Magni, 12 die. 1622, ibidem.
96 ROMOLO QUA ZZA
ancora in lungo una faccenda che sarebbe potuta risolvere a
si
suo giut izio molto prima; e per sorti del Monferrato, che
le
egli, svanendo raccomodamento, temeva di veder di nuovo teatro
della guerra (1).
Da Lione erano ormai partiti tutti. Il principe di Piemonte
aveva donato al re quindici cavalli bellissimi e superbamente
guerniti e alla regina madre molti oggetti preziosi. Questa aveva
avuto dal figlio facoltà di spendere sino a 50.000 scudi per
la strenna della principessa Cristina. Quanto alle questioni
politiche, a Lione si era conclusa lega fra la Francia, Venezia e
Savoia, che avrebbero dovuto agire concordi nella questione della
Valtellina, e si era stabilita la misura dei singoli contributi, ob-
bligandosi Venezia a fornire denaro per assoldar le milizie da
lei dovute (2;.
In previsione di gravi eventi, il Guiscardi riteneva neces-
sario che si togliesse innanzi tutto al duca di Savoia la possibilità
di lamentarsi per la mancata restituzione della dote di Mar-
gherita coiì si sarebbe mostrato di seguire il consiglio dato al
;
riguardo da Luigi XIII (3).
Il Priandi raggiunse il Gruiscardi durante il viaggio e lo
informò pienamente della volontà e degl'intenti del d^ica e. si ;
apprestarono ad agire insieme alla corte, che, ritornata a Parigi,
era di nuovo tutta presa dagl'intrighi e dalla sfrenata ricerca
delle cariche e poco si occupava degli affari esteri (4). Il can-
celliere di Sillery aveva ricevuto i sigilli, così che egli e il figlio
potevan dire d' avere quasi tutto il governo in mano. Essi si
erano avvicinati al partito della regina madre e avevan fatto
dare la carica di sopraintendente delle finanze al marchese de
la Vieuville. Si badava ad allontanare dalla corte tutti i parti-
giani del Oondè, il quale aveva tentato invano da Eoma di farsi
affidare il negozio della Valtellina, che la regina madre e i vecchi
ministri desideravano veder risolto pacificamente, mentre il Oon-
nestabile spingeva alla guerra (5).
A trattare la pratica coi ministri di Mantova erano stati
(1) IlGuiscardi al cons. Magni^ 21 die. 1622, ibidem.
(2)Vedi Traités publies de la Boyale Maison de Savoye, voi. I.
(3) Il Guiscardi al Magni, 28 die. 1622, ibidem.
(4) Il Guiscardi a Ferdinando e al Magni, 13 geun. 1623; il Priandi
a Ferdinando, 21 genn. 1623, ibidem.
(5) Il Priandi a Ferdinando, 28 genn. 1623, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE 1 97
designati il Puisieux e il Leon argomentazioni del
(1); e le
JPriandi e del Gniscardi ed anche la stima di cui ambedue erano
circondati parevano influire favorevolmente sull'andamento delle
-negoziazioni, per V esito delle quali cresceva Pinteresse quanto
più si faceva minacciosa la situazione rispetto alla Valtellina (2).
Il Guiscardi stava fermo sulla base di quanto era stato proposto
al tempo del Ooeuvres e sperava di non dovere allontanarsi dai
patti di quel trattato (3). Ad ogni modo la distanza e gli altri
^ari, che tenevano sospesi gli animi, facevano sì che le cose
procedessero con molta lentezza; onde il Guiscardi, bisognoso
di cure per la malferma salute, proponeva che lo si richiamasse
e offriva di licenziarsi in modo che né Sua Maestà né i ministri
potessero insospettirsi. Egli riteneva che, anche condiscendendo
il duca di Savoia al partito proposto, sarebbe stato necessario,
per venire alla conclusione, che il re mandasse un suo ministro
in Italia (4). Ad ogni modo a lui era riuscito di persuadere
Luigi XIII ad accettare il piano di Ferdinando e tanto il so-
vrano quanto il ministro Puisieux avevano riconosciuto che era
indispensabile il segreto ed avevano promesso che si sarebbero
sempre recisamente opposti a qualunque tentativo del duca
d'invadere il Monferrato (5). La benevolenza del re andava sino
a ventilare l'idea df ristabilire a Mantova un ministro francese
residente, come si era fatto nel 1612 (6) egli si mostrava pie-
;
namente sodo is fatto dell'atteggiamento e della condotta del Gon-
zaga e non nascondeva il suo stupore per l'indugio nel rispon-
dere dell' ambasciatore di Savoia, al quale egli aveva parlato
dell'accomodamento (7). Questo ritardo, prolungandosi di molto
oltre il preveduto, giovava naturalmente assai a consolidare la
tesi del duca di Mantova, poiché veniva quasi a dare la con-
ferma della lealtà di quest'ultimo e degli artifizi dell'avversa-
rio (8;. Il duca di Nevers affermava che Carlo Emanuele con-
(1) Il Priandi al Magni, 28 geiin. 1623, ibidem.
(2) Il Priandi al Magni, 8 febbr. 1623, ibidem.
(3) Il Guiscardi al Magni, 15 febbr. 1623, ibidem.
(4) Il Guiscardi al Magni, 27 febbraio e 1 marzo ; il medesimo al
Marliani e al conte Striggi, 27 febbr. 1623, ibidem.
(5) Il Guiscardi alla duchessa Caterina, 2 marzo 1623 il Guiscardi ;
a Ferdinando, 2 marzo 1623, ibidem.
(6) Il Guiscardi al Magni, 7 marzo 1623, ibidem.
(7) Il Guiscardi al Magni, 17 marzo 1623, ibidem.
(8) Il Guiscardi a Ferdinando, 16 marzo; al Magni, 18 e 24 marzo
1623, ibidem.
Àrch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. l-II. 7
98 ROMUl.O (^UAZZA
tinuava ad assoidare cavalli e tanti col pretesto della Valtel-
lina, ma in realtà coiriutenzione di assalire nel mese d'aprile il^
Monferrato onde il Guiscardi prudentemente ne mandò V av-
;
viso al governatore marchese Guerrieri, sebbene re e ministri
avessero dichiarato che a loro risultava essere il duca di Savoia
volto a tutt'altro disegno (1).
Le cose, dopo esser giunte ad un punto molto pericoloso,,
erano assai migliorate e sembravano avviate a buon fine per la
casa ducale di Mantova. Il convegno di Lione non aveva por-
tato alcun danno alla causa di questa, sebbene il Guiscardi non
avesse ricevuta in tempo la procura né, a detta del Guiscardi,
;
si doveva dar valore ad uno degli articoli della lega stretta fra
Venezia, Savoia e Francia, secondo il quale i collegati avreb-
bero dovuto conciliare le controversie esistenti fra le famiglie
regnanti di Mantova e di Torino, poiché la pratica era affidata
esclusivamente al re Cristianissimo e quella più lata espressione
serviva solo a dare qualche* maggiore soddisfazione a Carlo Ema-
nuele e ad onorare la repubblica (2). La questione della Val-
tellina, affidata a Sua Santità, non cessava per questo di occu-
pare le cancellerie europee e da molti si presagiva che essa
avrebbe fornito la causa occasionale al duello decisivo fra la
Francia e la Spagna, sempre in latente antagonismo (3).
Per tutto il mese di marzo, aprile, e per buona metà del
mese di maggio continuò sulla questione delle trattative da
parte di Savoia il più completo silenzio. Finalmente il Puisieux,
tornato alla carica, ebbe dall' ambasciatore del duca di Savoia
l'assicurazione che Carlo Emanuele era dispostissimo a compia-
cere al desiderio del sovrano francese e che gli si ^ponessero
pure le proposte della parte avversa Questa volta era troppo
!
manifesta l'intenzione di ricondurre le cose ad un punto lontano
e lo stesso ministro francese capì che vi era a Torino un deli-
berato proposito di complicar sempre ed allontanare possibili
accordi il che per contraccolpo giovò a Ferdinando (4).
;
Guiscardi a Ferdinando, 31 marzo 1623, ibidem.
(1) Il
Guiscardi al Magni, 31 marzo 1623, ibidem. Il Guiscardi era
(2) Il
ben convinto di aver salvato con l'opera sua il suo signore da gra-
vissime pene e si rammaricava che i suoi meriti non venissero posti suffi-
cientemente in luce. Vedi sua lett. al Magni, 15 e 29 aprile 1623, ibidem.
(3) Il Priandi al Magni, 3 marzo a Ferdinando, 3, 9, 16, 30 marzo
:
;
8 e 21 aprile 1623, ibidem.
(4) Il Guiscardi al Magni, 6, 13, 20 maggio 1623, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 90
La presenza del Guiscardi divenendo ormai una spesa inu-
tile, poiché a quanto restava da fare bastava il Priandi, gli fu
concesso di riprendere la via della patria (1). Ormai tutta l'at-
tenzione si raccoglieva sulla questione valtellinica, poiché il de-
posito di quella regione nelle mani papa non pareva prov-
del
vedimento sufficiente ad assicurare una soluzione pacifica (2).
Intanto duca di Savoia continuava nel silenzio riguardo alle
il
trattative col Gonzaga, mentre non trascurava di mandar doni
e vini squisitissimi ai ministri e ai favoriti del re.
Ma, partito appena il Guiscardi, l'ambasciatore di Savoa si
destò dal lungo sonno e cominciò a protestare, dicendo che il ri-
chiamo del gran cancelliere provava pienamente che il Gonzaga non
agiva lealmente e non aveva sincera volontà di venire ad accordi.
Per fortuna il Puisieux, ben disposto verso quest'ultimo, ribattè
in modo altrettanto vivace ed affermando che il re aveva ormai
presa la controversia nelle sue mani, dispose che essa venisse
particolarmente esaminata dal sig. di Leon (3). Questi ebbe nei
primi giorni di luglio un lungo colloquio coli' ambasciatore di
Savoia, il quale si dimostrò altrettanto irremovibile nel preten-
dere l'esecuzione delle condizioni stabilite col Martinengo quanto
il Guiscardi s'era mostrato risoluto dopo le istruzioni ducali
su quelle presentate al Coeuvres; e sostenne che queste ul-
time erano incomplete ed imprecise. Il Leon chiese dunque al
Priandi d'indicargli in modo esatto a quale somma ammontavano
la dote di Margherita (capitale e interessi a decorrere dalla
morte del duca Francesco), le gioie da essa portate, detratte
quelle che aveva con sé al momento della partenza dalla corte
mantovana, la sopradote e il capitale dotale di madama Bianca.
Inoltre egli voleva sapere esattamente quali terre Ferdinando
intendesse dare al duca di Savoia in pagamento e quali in cambio
e a quanto ne calcolasse il reddito. Conosciuto lo stato delle cose,
avrebbe potuto più efficacemente adoperarsi per raggiunger
l'accordo (4).
Guiscardi allo Striggi, 31 maggio 1623, ibidem.
(1) Il
Priandi a Ferdinando, 5 e 17 maggio, 1 giugno 1623, ibidem. Per
(2) Il
questa fase della questione valtellinica vedi Arbzio, La politica della
Santa Sede rispetto alla Valtellina dal concordato d'Avignone alla morte
di Gregorio XV, Cagliari 1899.
(3) Il al duca Ferdinando, 7 luglio 1623, ibidem.
Priandi
(4)Copia di lett. di M. de Leon al Priandi, 12 luglio 1623 e lett.
del Priandi a Ferdinando, 14 luglio 1623, ibidem.
100 ROMOLO QUA ZZA
Mentre si attendeva da Mantova la risposta precisa intorni
a questi vari punti, la situazione europea si faceva sempre più
buia e minacciosa. Moriva Gregorio XV
diventava ogni dì pii!i
;
aggrovigliata la rete degl'interessi contrastanti tra la Spagna
e la Francia; e le doppiezze nelle trattative pe
lungaggini e le
matrimonio con l'infanta spagnuola erano
del principe di Galles
indizio di un nuovo orientamento nella politica europea (1).
Luigi XIII si mostrava assai impaziente di condurre a buoa
fine l'accordo fra le due case avversarie. Egli giudicava oppor-
tuno che Ferdinando riducesse tutte quante le sue concessioni
ad una determinata somma da darsi in denaro e in terre e ri-
teneva che si dovesse poi considerar come avvenuta la rinuncia
alle reciproche pretensioni. Il duca di Nevers fu incaricato di
ripetere al Priandi questo ragionamento e di raccomandarglieli
caldamente (2).
Rispondendo, il Gonzaga dichiarò che la dote effettivamente
versata al tempo delle nozze di Margherita era di 75.000 scudi
d'oro ; se altri 25.000 erano stati pure consegnati, egli s
sarebbe rimesso alle scritture che gli sarebbero state mostrate
Quanto agli interessi della dote, egli non doveva pagarne, md
anzi era creditore di quelli dovuti per la parte di dote non pa-
gata a tempo debito. Le gioie erano valutate da alcuni 50, da
altri 40.000 scudi; anche per questo si sarebbe rimesso alle af-
fermazioni della parte avversa. La sopradote si era costituiti
solo per il caso in cui dal matrimonio non fossero nati figliuoli ed ;
essendo invece sopra vissuta la principessa Maria, non doveva essei
liquidata. Per le terre da permutare, Ferdinando, prima d'impe-
gnarsi, voleva sapere quali gli sarebbero state offerte in cambi<
da Carlo Emanuele e quanto a quelle da dare in pagamento
;
«gli indicava Yolpiano, San Damiano o Castiglione o altre vicini
e le avrebbe calcolate in ragione dell'uno per cento, cioè con
grande discrezione, poiché i feudi liberi in Italia si valutavano
molto di più. Il trattato del Coeuvres, nel quale il Gonzaga si
riservava di ottener l'approvazione del re di Spagna, poteva,
giudizio di lui, esser utilmente condotto innanzi dal Oristianis-
(1) Il Priandi a Ferdinando, 21 luglio, 5 e 11 agosto 1623,
ibidem. Per il fallito progetto di nozze del principe di Galles, vedi
G-ARDiNER, Prince Gharles and the 8panish marriage, London 1869 <
L. Arezio, L^asione diplomatica del Vaticano nella questione del matri-
monio spagnuolo di Carlo Stuart, principe di Galles, Palermo 1896.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 29 luglio 1623, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 101
Simo, quale poi avrebbe potuto con tutta facilità richiedere
il
direttamente ed ottenere l'assenso di S. M.tà Cattolica. Dove-
vansi però tenere gli occhi ben aperti, ammoniva il duca di
Mantova, sul modo di comportarsi e sugl'intendimenti di Carlo
pjmanuele, il quale aveva già svelato a Madrid tutto il negozio
ondotto in Francia ed aveva probabilmente in fondo all' animo
)i proponimento di presentare vari partiti all'uno e all'altro so-
vrano, e di non condurne nessuno a compimento (1).
Il duca di Savoia aveva infatti scritto al Puisieux ed al
Leon, che confidenzialmente mostrarono
sue lettere al
le
Priandi, raccomandando loro i propri interessi o meglio quelli
della principessa di Piemonte, sorella del re. Egli si doleva che
lo si andasse trattenendo con la speranza di un accordo, impe-
lendogli di giovarsi delle armi per sostenere le proprie ragioni ;
ed esponeva le sue pretensioni, riducendole in cifre, e segnando
somme esorbitanti come ammontare del suo credito. Egli calcolava
a dote di Madama Bianca tra capitale, interessi, aumento del va-
ore delle antiche monete, 900.000 scudi d'oro; quella dell'infanta
margherita, 300.000 scudi d'oro, cioè centomila per la parte di
lote pagata, 50.000 per la sopradote e il resto per gì' interessi :
]e valutava 50.000 scudi, ed in pagamento di tutto questo
gioie, le
lebito pretendeva almeno il Canavese.
Il Priandi fece per contro note le concessioni cui s'induceva
Ferdinando, ed i ministri francesi le trovarono giuste, tranne
per quello che si riferiva al pagamento degl'interessi della dote
di Margherita, che essi stimavano doversi versare (detratti,
s' intende, quelli computati sulla parte di dote non versata) a
partire dalla data della morte del duca Francesco e traune per
la valutazione delle terre, le quali essi riputavano avere valore
inferiore a quello che Ferdinando asseriva.
Il Puisieux e il Leon ammisero che, data, l'enorme difte-
renza nel computo, poca speranza si poteva nutrire nella pos-
sibilità di un accomodamento al che il Priandi replicò che,
;
non riuscendo il tentativo del re Cristianissimo, il suo signore
sarebbe stato sempre pronto a liquidare il debito della dote
della duchessa vedova, rimettendo il resto al foro cesareo (2).
(1) Ferdinando al Priandi, 23 agosto 1623. F, II, 7, 2306. La risposta
era impazientemente attesa in Francia. Vedi lett. del Priandi a Fer-
dinando, 18 e 25 agosto, 15 sett. 1623. E, XV, 3, 673.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 5 ottobre 1623, ibidem.
]02 ROMOLO QUA ZZA
L'ambasciatore di Savoia aveva dichiarato che le coedizioni
pretese da Carlo Emanuele erano Ferdinando
le stesse cui già
aveva condisceso al tempo dei negoziati del Martinengo. Il mi-
nistro di Mantova chiese dunque l'invio di una copia del detto
trattato e chiese anche che gli si mandassero molte dozzine di
copie della risposta che si era replicata ad una pubblicazione
delle i)reten8Ìoni di Carlo Emanuele sul Monferrato.
duca sabaudo ne aveva distribuito un grandissimo numero
Il
di esemplari, riuscendo a destare molta impressione nei circoli
di corte, onde era necessario poter subito smentire le afferma-
zioni con una replica esauriente.
Il signor di Leon, che professava verso il Gonzaga un
ossequio particolare, avvertì il Priandi che il governo fran-
cese, il quale faceva di tutto per calmare e frenare gli spiriti
inquieti di Carlo Emanuele, non sarebbe forse riuscito a lungo
nel suo intento e che era perciò prudente che si pensasse alla
<iifesa del Monferrato. Aggiunse che non sarebbe stato trascu-
rato alcuno sforzo per ridurre a propositi pacifici l'indomito
duca e sollecitò il Priandi a richiedere a Mantova quali fossero
le estreme concessioni che ivi si era disposti a fare. Il Priandi
si recò subito a S. Germano
dove si trovava il re indi si
, ;
diresse a Monceaux, dove era Maria de' Medici per rinnovare
preghiere e ufi&ci (1). La regina madre, la quale a parole si mo-
strava assai benevola per il nipote Ferdinando, andava d' altra
parte unendosi sempre piìi intimamente coi Savoia. Si andava
sussurrando a corte, forse non senza fondamento, che si era
formato un partito tra la regina madre medesima, Savoia, Soissons,
Vendóme, Espernon e Bellegarde, partito che incuteva grande
timore ai ministri. L'unione dei detti principi era comprovata
dai continui ricchissimi doni che essi si scambiavano (2).
Svanito, almeno per il momento, il pericolo di una guerra
per la Valtellina, avendo le due corone scelta la via delle trat-
tative, si compieva in Italia il disarmo delle milizie spagnuole e
venete. Conveniva ora che anche il duca di Savoia congedasse
il suo esercito. Il Priandi s'adoprava ad ottenere dal governo
francese che a ciò obbligasse Carlo Emanuele, al quale era ve-
nuto a mancare il pretesto della Valtellina per tenere il suo
esercito su piede di guerra (3).
(1) Idem.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 12 ott. 1623, ibidem.
(3) Il Priandi a Ferdinando, 20 ott. 1623, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 103
Intanto Nevers si apprestava ad intraprendere
il duca di
in durante il quale avrebbe visitato il Gon-
viaggio in Italia,
zaga e gli avrebbe portato una lettera di pugno del re riguar-
dante l'accomodamento con Savoia (1). Conosciuta poi, col ri-
torno del ìfevers, la deliberazione definitiva di Ferdinando, il
Cristianissimo avrebbe nuovamente interrogato Carlo Emanuele
e se questi non si fosse ridotto a un partito ragionevole, gli
avrebbe offerto il pagamento della dote di Margherita ed il
rinvio di tutte le altre questioni al tribunale imperiale, secondo
il trattato di Asti. In ogni governo francese avrebbe
evento il
assicurata al duca di Mantova
completa protezione. In
la più
attesa di tutto ciò, era stato rinnovato a Torino l'ordine di di-
sarmare e questo cominciava ad essere, almeno in parte, ese-
guito (2).
I primi di dicembre del 1623, giunse al Priandi la copia in-
vocata del trattato Martinengo, ch'egli potè far vedere al sovrano,
il quale si mostrò soddisfatto di constatare la lealtà con cui si
era condotto Ferdinando a suo riguardo (3). Pochi giorni dopo,
in seguito alle informazioni mandate dal Kevers, egli fece scri-
vere al Marini a Torino, affinchè stringesse il duca di Savoia a
<iare una definitiva Se
risposta
(4). non che la posizione del
Puisieux e del Sillery a corte andava facendosi precaria essi ;
iìedevano il luogo nel favore reale al Thoyrax e al La Vieuville,
ed anche il Condè pareva riguadagnar terreno con lui, poi, era
;
facile rinascesse l'idea di una spedizione contro i Eoccellesi, nel
qual caso la pratica riguardante gli accordi tra Savoia e Man-
tova sarebbe stata certamente messa a dormire (5).
Frattanto si faceva strada un altro progetto, dovuto al Ke-
vers. il quale aveva scritto al Puisieux proponendo di rimetter
la questione all'autorità del pontefice, con l'intervento degli
ambasciatori delle due corone. Così, a suo giudizio, si sarebbe
evitato di destar la gelosia degli Spagnuoli. Il Priandi, recatosi
subito a parlare coi ministri, appena il Leon gli ebbe comunicata
questa proposta del Nevers, capì dalle risposte del Barat, se-
gretario del Puisieux, che il governo francese, convinto della
difficoltà di indurre Carlo Emanuele ad un accordo, sarebbe
(1) Il Priandi a Ferdinando. 27 ott. 1623, ibidem.
(2) Il Priandi a Ferdinando, 11 nov. 1623, ibidem.
(3) Il Priandi a Ferdinando, 8 die. 1623, ibidem.
(4) Il Priandi a Ferdinan"do, 27 die. 1623, ibidem.
(5) Il Priandi a Ferdinando, 5 genn. 1624. E, XV, 3, 674.
104 ROMOLO QUAZZA
stato intimamente lieto di rimettere ad altri il difficile incarico (1).
1) Pui8ieux manifestò chiaramente che il progetto «lei
stesso
Nevers non gli riusciva <liscaro. In caso tosse veramente tra-
sferita a Eoma la somma dei negoziati, bisognava tener d'occhio,
ammoniva il Priandi, l'ambasciatore francese Sillery, uomo ma-
Jigno e poco benevolo verso la casa Gonzaga (2).
Il 4 febbraio 1624, il Piiisieux e il cancelliere di Sillery
perdevano definitivamente la buona grazia reale ed erano co-
stretti a rimettere le loro cariche ; lo stesso Leon era ridotto
ad avere poco credito onde le trattative per l'accordo tra Savoia
;
e Mantova potevano dirsi definitivamente arenate in Francia (3).
Capitolo V.
Le trattative dirette del 1624 fra Carlo Emanuele I e Ferdinando Gonzaga
— L'accordo del 6 maggio e la mancata sua esecuzione.
Ma al contrario esse s'eran avviate in Italia per una tase
che offriva maggiori speranze, per il mezzo cioè, degli accordi
diretti fra le due case interessate. Dopo una preparazione di-
plomatica laboriosa e lunghi colloqui del Balciano di Torino e
del Crova, residente di Mantova iu quella città, i nuovi nego-
ziati si erano iniziati contemporaneamente nella città gonzaghesca,
dove Carlo Emanuele aveva mandato il cavaliere Pasero, e
nella capitale piemontese, dove Ferdinando aveva destinato il
gentiluomo Giulio Cesare Faccipecora Pavesi. Essi erano par-
titi da una base alquanto diversa da quella presa in considera-
zione in Francia, poiché non si trattava più di discutere 1' ese-
cuzione dei soli patti economici contemplati nel trattato Marti-
nengo, ma di sostituire al progetto ormai inattuabile delle nozze
di Eleonora con Vittorio Amedeo un duplice sposalizio, quello
di un principe di Savoia con la principessa Maria Gonzaga e
quello di una delle infanti di Savoia con il principe Vincenzo,
del quale si stava discutendo a Roma la causa per lo sciogli-
mento del suo matrimonio con Isabella di Bozzolo (4).
(1) Il PriaDdi a FerdiDando, 26 genn. 1624, ibidem;
(2) Il Priandi a Ferdinando, 3 febbr. 1624, ibidem.
(3) Il Priandi a Ferdinando, 8 febbr. 1624, ibidem.
(4) Riguardo alla famosa principessa e alle vicende del suo matri-
monio con Vincenzo Gonzaga, vedi Intra, Isabella Gonzaga di Bos—
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 105
All'una e all'altra delle due famiglie ducali stava somma-
mente a cuore che le corone di Francia e di Spagna e gli altri
potentati ignorassero l'esistenza delle trattative dirette almeno
tìntanto che non fossero bene avviate. Straordinaria fa dunque
la cura con la quale si nascose il soggiorno del Faccipecora
a Torino ; nessuna precauzione fu trascurata, affinchè non ve-
nisse svelato il mistero della sua missione.
Il giorno 6 gennaio 1624 erano contemporaneamente partiti,
]'uno da Torino, l'altro da Milano, il Pasero e il Faccipecora.
Questi per l^ovara e Moncalvo raggiunse Trino, dove s'incontrò
con Teodoro Orova, agente di Mantova a Torino e tramite di
tutta la negoziazione. A
traverso Casale e il Monferrato il Orova
da molti giorni aveva trasmesso le vicendevoli proposte e forse
il suo misterioso andirivieni non era sfuggito agli abitanti della
regione, i quali dicevansi parlassero liberamente delle trattative,
specie a Casale e ad Asti (1).
La condizione, la cui attuazione era piìi caldamente desi-
derata dal duca di Savoia, era il duplice matrimonio, poiché
forse egli sperava di potere presto o tardi, estinguendosi la linea
di Ferdinando e di Vincenzo, destinati presumibilmente a non
avere prole legittima, strappare il riconoscimento del diritto
della principessa Maria a ereditare il Monferrato. Secondo il
Crova era opportuno lasciare che la casa di Savoia coltivasse
questa illusione, poiché così si sarebbe più facilmente indotta
ad accettare gli altri patti dell'accordo (2). Il Faccipecora entrò,
sotto finto nome, a Torino il 13 gennaio e si trattenne in una
osteria appartata finché un aiutante di camera del principe
Vittorio Amedeo, il capitano Gaschetti, non lo rilevò di là per
condurlo, sul far della notte, senza carrozze e senza torce nelle
stanze del principe Tommaso, dove rimase col Crova. Il Ga-
schetti, avvisato poi il principe, ritornò, recando ai due ospiti
la buona sera e chiedendo per parte di lui se occorreva loro
qualche cosa disse al Orova che poteva andare a trovare Vit-
;
torio Amedeo l'indomani. Due soli servitori, uno scalco ed un
zolOf Mantova 1856; G. Errante, Jl processo per V annullamento del
matrimonio tra Vincenzo 11 duca di Mantova e Donna Isabella Gonzaga^
di Novellara, in Arch. Stor. lomb. serie V, fase. IV, anno 1916.
(1) Faccipecora allo Strjggi da Milano, 6 genn. da Trino, 9 e 10
;
genn. 1624. E, XIX, 3, 736.
(2) Faccipecora a Ferdinando, 10 genn. 1624, ibidem.
106 ROMOr/) QUAZZA
valletto camera, furono adibiti al servizio del geutiluonì^
di
inantovano, il quale la mattina seguente venne condotto alla
funzione nella vicina chiesa di San Giovanni, con preghiera di
andarvi gli altri giorni da solo o alla prima o all'ultima messa,
per esser meno osservato. Il servizio di tavola era modestissimo:
« di piatti scoperti col tovagliolo schietto senza panettiera e di
dare da bere col tondo » (1). Tutto si faceva con tale aria di
mistero che il Faccipecora, dandone notizia al gran cancelliere
di Mantova, Alessandro Striggi, commentava argutamente pa-
rergli di stare, come gli apostoli, ianuis clausis (2).
Il 14 gennaio il Oro va
si recò dal principe il quale si mostrò
Faccipecora e disse che questi poteva andare
lieto dell'invio del
a Rivoli per trattare col duca, se vi era urgenza oppure, se ;
era disposto ad attendere due giorni, avrebbe potuto vedere
Carlo Emanuele nella stessa Torino. L'atteggiamento di Vittorio
Amedeo era cortesissimo ; ma
subito apparve uno dei pericoli
della negoziazione : comunicata al Crova dal principe
la notizia,
medesimo, che donna Isabella, la moglie di D, Vincenzo, che
veniva processata a Roma, era stata liberata. Vittorio Amedeo
dichiarava che per lui e per il duca non vi era cosa che desse
fastidio maggiore di questo fatto, parendo loro che ne andasse
di mezzo la riputazione e la coscienza, a trattar di dar moglie
ad un ammogliato. A che cosa mirava questo discorso ? Eppure
già era stato chiaramente definito che non si poteva trattar di
un matrimonio senza l'altro (3).
Il progetto di matrimonio di Maria con un principe di Sg.-
voia (e Filiberto sembrava il prescelto) preoccupava il duca di
Nevers, cui pareva fossero da ciò minacciati i suoi diritti alla
successione. La sterilità della duchessa Caterina, consorte di
Ferdinando, l'improbabilità che venisse ottenuto lo scioglimento
del vincolo che univa il principe Vincenzo ad Isabella, facevano si
che il duca di Nevers, cugino di Ferdinando (era figlio di Luigi
o Lodovico Gonzaga) fosse l'erede piti prossimo del trono gon-
zaghesco. Si attribuiva al duca, in conseguenza di questo timore,
(1) Faccipecora a Ferdinando da Torino, 14 genn. 1624, ibidem.
(2) Il Faccipecora chiedeva che gli si mandasse esatto conto di
quanto era stato negoziato da don Giulio Gambara e dal Martinengo,
poiché gli si affermava che si voleva stare in tutto al trattato di que-
st'ultimo, solo sostituendo il nome di Maria a quello di Eleonora. Vedi
lett. del Faccipecora allo Striggi. 14 genn. 1624, ibidem.
(3) Faccipecora a Ferdinando, 14 genn. 1624, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANITELE I 107
uaa duplice opera a Roma, volta ad impedire che la Sacra liota
:
annullasse il matrimonio di Vincenzo a Torino, per prendere
;
accordi speciali con la casa di Savoia. Il Faccipecora segnalava,
infatti, la presenza nella capitale piemontese dell'abate Cenami,
mandatovi qualche settimana prima dal ^evers, mentre questi
era in Roma ^1).
Avendo Carlo Emanuele deciso di prolungare il suo soggiorno
nel Faccipecora fu invitato a recarsi colà
castello di Rivoli, il
in compagnia del Crova. Il capitano Gaschetti andò a prenderli
e li condusse in vettura tino alla Madonna del Carmine, donde
un camera del duca li accompagnò nelle stanze di lui,
valletto di
passando per una via fuori mano. Il duca era a desinare fu ;
dunque apparecchiato anche per l'inviato di Mantova che venne
servito lautamente Poi il Crotti, gentiluomo al seguito di Carlo
.
Emanuele, si recò a prendere il Faccipecora e lo condusse nella
camera, ove il duca si trovava. Questi si scoperse e fece tre
passi innanzi, poi invitò due volte il suo interlocutore a co-
prirsi. Vi fu allora uno scambio di complimenti con cortesia
più espansivci del consueto e con reciproche manifestazioni di
buon volere. Poi si passò all'esame delle condizioni dell'eventuale
accordo, a proposito delle quali il duca non tralasciò di tiriire
ancora in ballo gl'interessi della dote di ma<lama Bianca indi 5
si accennò alla questione dei matrimoni, per la quale, essend.o
sopraggiunta la notizia delhi liberazione di donna Isabella, si
deliberò di soprassedere aspettando nuove istruzioni da Mantova.
In attesa del ritorno del duca a Torino, il Faccipecora avrebbe
potuto trattare col principe di Piemonte (2).
Non tornò ad ogni modo difficile al gentiluomo mantovano
capire che il duplice matrimonio era la cosa che più stava a
cuore a Carlo Emanuele, pensando egli forse di tramandare alht
sua posterità più fondate pretensioni sul Monferrato (3). In attesa
di lettere da Mantova, duca e principe raccomanda viino la
massima cautela per evitar che la corrispondenza cadesse nelle
mani degli Spiìgnuoli e la dimora del Faccipecora era sorvegliata
per evitare che altri potessero andare a trattare con lui (4).
Faccipecora
(1; a Ferdinando, 14 genn., eie.
Faccipecora
(2) a Ferdinando, 16 genn. 1624, ibidena.
(3) Faccipecora allo Strlggi, 17 genn. 1624, ibidem.
(4) Faccipecora allo Striggi, 19 genn.: e al duca Ferdinando, 19
genn. 1624, ibidem.
108 ROMOHJ QUAZZA
Solo il 24 gennuio il principe Vittorio Amedeo avvertì il
Fiiccipecora che l'avrebbe ricevuto la mattina stessa di ritorno
dalla messa ; difatti, poco tlopo lo fece chiamare. Egli aspettava
rinviato del Gonzaga nella galleria annessa alle stanze nelle
quali questi era stato alloggiato; si mostrò gentilissimo e di-
sposto a l'acilitare per parte sua il raggiujigimento dell'accordo.
Il Faccipecora gli comunicò d'aver ricevuto missive di Ferdi-
nando, il quale, lietissimo del tono amichevole delle lettere reca-
tegli dal Pasero, era d' altro canto preoccupato perchè pareva
che non si volesse da parte di Savoia semplicemente accettare
il trattato Martinengo, ma modificarlo in qualche punto. Vittorio
Amedeo disse che non sapeva come il Gonzaga interpretasse il
trattato Martinengo, specie dopo che il matrimonio di Eleo-
nora e il suo impedivano V attuazione di una delle condizioni.
A sua volta il gentiluomo mantovano pregò il principe di signi-
ficargli quale iosse l'interpretazione che il duca suo padre dava
al trattato e venuti a parlare della sostanza del detto trattato,
;
il Faccipecora confermò che il suo signore aveva prestato orecchio
alla proposta dei due matrimoni, pensando che fossero il mezzo
più atto a condurre in buon porto i negoziati. Subito il principe
sabaudo osservò, sorridendo, che era alquanto strano trattare
delle nozze di Vincenzo, tanto piii che ormai si sapeva Isabella
uscita trionfante da Castel S. Angelo in compagnia della co-
gnata del papa. In ogni modo egli avrebbe nuovamente inter-
rogato il padre a proposito del trattato Martinengo e ne avrebbe
poi riferito il parere all'inviato mantovano.
Tra quello che aveva detto il duca a Kivoli e quello che Vit-
torio Amedeo gli aveva significato, il Faccipecora notava esservi
una difierenza importante, poiché il primo si era soffermato a
parlare degl'interessi della dote di madama Bianca, mentre il
secondo si era limitato a menzionare il capitale (1). Vittorio
Amedeo era particolarmente incaricato di trattare la questione ;
però il 28 fu tenuto un colloquio al quale partecipò anche il
duca (2). In questo colloquio venne letto al Faccipecora il testo
Faccipecora a Ferdinando e allo Striggi, 24 genn. 1624, ibidem.
(1)
Balciano avevra fatto sapere al Faccipecora che la cosa più
(2) Il
importante era combinare i matrimoni ; quanto al resto l'accordo sa-
rebbe stato facile. Conveniva dunque che Ferdinando proponesse da
sé qualche cosa intorno al principe Vincenzo, poiché dalla parte di
Savoia non volevano mostrarsi troppo desiderosi di concludere le nozze
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 109
delle proposte fatte dal Martinengo nel 1G18 e nel 1619 ed il
tenore delle risposte di Ferdinando ; e persistendo l'inviato del
Gonzaga nel ripetere che il suo signore era disposto alPaccordo
sulla base delle condizioni stabilite in quel tempo, Carlo Ema-
nuele disse che per decidere dell' ammontare degl' interessi
della dote di madama Bianca avrebbero potuto affidarsi al pa-
rere della Sacra Rota o del Senato di Milano. Ancora una volta
fu rimesso in campo il caso del principe D. Vincenzo, che pareva
non destinato a liberarsi dal vincolo matrimoniale. Si chiese
al Facci pecora se aveva istruzioni in proposito da Ferdinando,
mancando le quali sarebbe stato necessario rimandare la discus-
sione, poiché lo stesso Carlo Emanuele riconosceva che il G-on-
zaga non avrebbe mai acconsentito alle nozze della nipote Maria
con Filiberto, se non si fosse concluso anche l'altro matrimonio.
Il Faccipecora comprendeva benissimo che senza i matrimoni
non si sarebbe riusciti a nulla, mentre, convenendo in quelli,
le altre difficoltà si sarebbero cippianate, essendo chiaro che il
duca di Savoia non avrebbe persistito a lungo in richieste esor-
bitanti ed avrebbe pure accondisceso ad accomodamenti in ma-
teria di permuta di terre (1).
Se non che le lettere ducali, pervenute poco dopo al Fac-
cipecora, recavano che non vi era piti modo di proseguire le
trattative, mancando il fondamento principale per i matrimoni,
cioè lo scioglimento del vincolo matrimoniale del principe Vin-
cenzo, nella cui causa era voce comune che la casa Savoia avesse
parteggiato per donna Isabella (2), ed essendo lontane da
quanto era stato concertato col Crova le proposte recate dal
Pasero. La decisione definitiva circa il proseguire, o non, i ne-
goziati stava nelle mani da parte di
di Ferdinando, essendovi
Carlo Emanuele e di Vittorio Amedeo manifestamente il desi-
derio di raggiungere l'accordo. Il Balciano, il quale col residente
di Mantova, Crova, aveva da principio avviato il nuovo tenta-
tivo di accordi, suggeriva al medesimo d'indurre il Gonzaga a
spiegare presso Isabella un'opera di persuasione a fine d'indurla
dell'infanta con lui.Come sposo- di Maria non si sapeva ancora se sa-
rebbe stato designato il principe Filiberto o Tomnaaso. Il senatore
Benzi ripeteva che si sarebbe scelto il primo. Vedi lett. del Faccipecora
a Ferdinando, 26 genn. 1624, ibidem.
(1) Faccipecora a Ferdinando, 28 geuu. 1624, ibidem.
(2) Faccipecora allo Striggi, 30 genn. 1624, ibidem.
110 KO-MOLO (^UAZZA
a lasciar proseguire i giudizi pendenti riguardo all' affinità e al
domicilio (che erano due degli appigli pei quali si cercava di
far riconoscere non valido il matrimonio), in considerazione della
necessità di assicurare con la pacifica successione negli stati
mantovani la pace d'Italia ed anche in vista dell'impossibilità
per lei di ristabilire una pacifica convivenza con D. Vincenzo.
Il Balciano sosteneva che si sarebbe potuto anche ottenere
l'appoggio arcivescovo di Ilodi, influentissimo suU' animo
dell'
di Isabella,promettendogli 1' esaltazione al cardinalato. E tutti
questi discorsi venivano ripetuti al Crova con tale insistenza
e con così ripetute affermazioni da parte del Balciano d' essere
proposte partite personalmente da lui, che i due rappresentanti
<U Miintova convennero nel riputarli ispirati dalla famiglia du-
cale (1).
Grotti disse al Crova essersi il duca meravigliato assai
11
che Ferdinando avesse trovato diverse da quanto era stato
concordato le domande presentategli a mezzo del Pasero poiché ;
nelle trattative fatte col Crova egli aveva acconsentito a fon«larsi
sul trattato Martinengo, ma aveva anche avvertito che sarebbe
stato necessario mettersi d'accordo sui punti in quello non ben
precisati (2).
Al suggerimento di trovare un mezzo per poter trattare
senza scrupolo di coscienza del matrimonio di D. Vincenzo,
Ferdinando corrispose prontamente, proponendo che si stabilisse
per r attuazione degli sposalizi un termine di otto anni, e in-
tegrando la designazione del principe suo fratello come sposo
di una delle infanti di Savoia con un'altra piìi lata, ossia con
quella di colui che entro il detto termine fosse stato scelto dal
Gonzaga a Emanuele, i principi Amedeo e
successore. Carlo
Tommaso mostrarono approvare e di gradire assai tale proposta
di
fatta dal duca di Mantova al Pasero, quantunque il primo tro-
vasse che il termine di otto anni era un po' troppo esteso e che
anche meno sarebbe bastato. Al che il Faccipecora replicò che.
{!) FacciiJecora allo Striggi e a Ferdinando, 1 e 2 febbr. 1624,
ibidem.
Faccipecora a Ferdinando, 5 febb. ; a Ferdinando e allo Striggi
(2)
7 febbi. 1624, ibidem. Intantoil nunzio e il segretario dell'ambasciatore
d'Inghilterra avevano scoperta la presenza in città del Faccipecora e
l'andata a Mantova del Pasero. 11 duca aveva fatto dir loro che l'uno
e l'altro erano di passaggio.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE 1 111
liberato D. Vincenzo dal « viluppo con D. Isabella »^ le nozze
si sarebbero potute celebrare immediatamente.
Su gli altri punti le difficoltà che rimanevano da superare
erano tre 1. che il debito per la dote di madama Bianca era
:
computato da Ferdinando duecentomila scudi, mentre da parte di
Savoia lo si calcolava 300.000; 2. che Carlo Emanuele consentiva
a lare la rinuncia alle proprie pretensioni territoriali per la linea
di Eer«]inando e per quella di D. Vincenzo^ ma non per quella
di un altro eventuale successore; 3. che il duca di Savoia pre-
tendeva che, in caso si estinguesse la linea di Ferdinando e di
Vincenzo, venissero date a lui le terre del Monferrato al di là
del Tanaro. Infine egli proponeva come opportuno provvedimento
che si facesse subito il pagamento delle doti per i due matrimoni
stabiliti, in modo che ognuno potesse essere convinto che essi
si consideravano veramente come attuati. Carlo Emanuele avrebbe
pagato in contanti la dote della figlia, mentre quella di Maria
avrebbe potuto essere data in terre (1).
11 18 febbraio venne spedita al Pasero l'istruzione definitiva,
prima benevolmente mostrata al Faccipecora. In essa s'insisteva
sui 300.000 scudi di madama Bianca, si proponeva che si sta-
bilissero i matrimoni e che si pagassero subito le doti in ragione
di trecentomila scudi l'una che si riducesse il termine per
;
l'effettuazione di quelli; che, mancando le tre linee di cui si
era fatta menzione nella scrittura, si facesse da parte della casa
Gonzaga la rinuncia alle terre al di là del Tanaro, con dichia-
razione che nel suddetto caso tutto o parte dello stato dovesse
passare ai figli Maria (2),
della principessa
Carlo Emanuele desiderava anche sapere quale sarebbe stato
1' ai)pannaggio del principe Vincenzo a Filiberto si sarebbero
;
dati Oneglia e Maro con lemadre di lui riscuo-
rendite che la
teva a Napoli, ascendenti a 40.000 ducatoni.
Il nome del principe Filiberto era stato fatto dal duca di
Mantova, mentre a Torino si era incerti se designare lui o il
fratello Tommaso. Avendo il matrimonio dell'uno e dell'altro lo
scopo di assicurare la discendenza della dinastia sabauda, poiché
non erano ancor nati figli dall'unione di Vittorio Amedeo con
Cristina di Francia, Filiberto come secondogenito era comune-
mente designato per tali nozze. Ma dispiaceva assai alla famiglia
(1) Faccipecora a Ferdinaudo, 15 febbr. 1624, ibidem.
(2) Faccipecora a Ferdinando, 18 febbr. 1624, ibidem.
1 rj ROMOLO Q (TAZZA
regnante Torino penit*re Ih cmur* del Priorato e del Gene-
di
ralato Mare, di cui Filiberto godeva in Ispagna le ricche
del
entrate. E si riteneva che Tommaso, pensionano di Francia e
conosciuto come servitore devoto di (questa corona, non avrebbe
potuto succedergli. Il principe Filiberto ancora non era stato
informato degl'impegni che si stavano per prendere in suo nome;
però il padre aftermava che dall'ossequio del figlio si riprometteva
piena accondiscendenza. Sperava pure la corte torinese che,
una volta stabilita ogni cosa, Ferdinando sarebbe stato inter-
mediario per la conclusione di un matrimonio tra l'infanta
Caterina e l'arciduca, in modo da riavvicinare casa Savoia con
la famiglia imperiale (1).
La negoziazione di Torino era stata comunicata a Luigi XIII
'fin dal 23 febbraio, ed egli se ne era mostrato lietissimo, dichia-
rando che avrebbe sempre fatto quanto fosse in poter suo per
mantener 1' accordo tra le due case italiane (2) nondimeno si ;
riteneva che il duca di Nevers, il quale verso la fine di febbraio
si trovava a Mantova, avrebbe fatto sorgere delle difficoltà, te-
mendo di essere con danneggiato ne' suoi diritti (3).
tal trattato
.Alla corte sabauda, poi, manifestavano il dubbio che gii Spa-
gnuoli, venuti a conoscenza delle trattative, cercassero d'influire su
Ferdinando per indurlo a non trarle a termine, e connettevano
con questa supposizione l'andata a Mantova di D. Giovanni
Ottavio Gonzaga. Ma se Carlo Emanuele si ostinava a ribadire
la pretensione dei trecentomila scudi, del pagamento immediato
delle nuove doti e della rinuncia in favore di Maria, riguardo
a-lla quale veniva replicato che il Gonzaga non poteva trascurare
i diritti delle proprie sorelle (4), il duca di Mantova si mostrava
pili risoluto ancora nel non cedere, sì che Vittorio Amedeo ne
fu profondamente turbato (5).
Dopo un nuovo colloquio col padre, il principe di Piemonte
comunicò al Faccipecora che gli era riuscito di persuaderlo a
mettere da banda la rinuncia, ma che non aveva potuto indurlo
ad abbandonare la pretensione dei trecentomila scudi e quella
dell'immediato pagamento delle doti e poiché l'inviato di Fer-
;
(1) Faccipecora a Ferdinando. 19 febbr. 1624, ibidem.
(2) Priandi a Ferdinando, 23 febbr. e 1 marzo 1624, E, XV, 3, 674.
(3) Faccipecora a Ferdinando, 25, 28 febbr., 5 marzo 1624. E,
XIX, 3, 736.
(4) Una era l'imperatrice Eleonora; Paltra, la ducliessa di Lorena.
(5) Faccipecora allo Striggi e a Ferdinando, 6 mar/.o 1624, ibidem.
FERDINANDO GONZA.GA E CARLO EMANUELE I 113
dinando ribatteva che non sperava più di trarre quest'ultimo a
nuove concessioni^ Vittorio Amedeo insistè e pregò con gio-
vialità anche maggiore della consueta, affinchè promettesse di
scriverne nuovamente a Mantova (1). Ed aggiunse anzi per
maggiore incoraggiamento che, se Ferdinando avesse ceduto su
uno di questi punti, egli si sarebbe assunto l'impegno di in-
durre il padre a cedere sull'altro. Così di tante pretensioni si
eran ridotti ad una sola la quale offriva, è vero, ancora alcune
difficoltà, poiché il pagamento immediato delle doti poteva far
nascere molti imbrogli nel caso in cui, rotto il trattato per morte
per altro, si dovesse venire alla restituzione, e l'altro partito
portava un maggior aggravio di centomila scudi (2). Ad abban-
donare la pretensione della rinuncia a favore dei figli della
principessa Maria Carlo Emanuele era giunto dopo un consiglio
tenuto fra i suoi ministri, i quali avevano assodato che tale
rinuncia non recava vantaggio superiore a quello che si sarebbe
avuto mantenendo le riserve della casa di Savoia dopo estinte le
tre linee contemplate nel trattato (3).
In attesa della risposta di Ferdinando la curiosità era
,
vivissima alla corte torinese. Alcuni ritenevano che il Gonzaga,
minacciato dagli Spagnuoli, non avrebbe piii dato seguito ai
negoziati altri stimavano ch'essi erano troppo inoltrati per
;
poterli rompere altri infine credevano che il re di Francia non
j
avrebbe dato il suo consenso, se all'accordo non avesse preso
parte l'ambasciatore francese, Bethunes, che era stato destinato
a Roma e doveva passare per Torino e per Mantova (4).
Il Bethunes aveva in realtà avuto a Parigi l' incarico, in
seguito a sollecitazione del duca di Savoia, di proporre al duca
di Mantova il matrimonio di Maria con Tommaso ma per non
;
disgustare il duca di ì^evers si era dato a intendere ad alcuni
amici di quest' ultimo che, in luogo del principe sabaudo, sarebbe
stato proposto il duca di Kethel, primogenito del Nevers. Pro-
babilmente il Bethunes aveva avuto ordine di sollecitare questo
secondo progetto se non avesse trovato terreno favorevole pei il
primo (5).
(1) Faccipecora a Ferdinando, 7 marzo 1624, ibidem.
(2) Faccipecora allo Striggi, 11 marzo 1624, ibidem.
(3) Faccipecora a Ferdinando, 11 marzo 1624, ibidem.
(4) Faccipecora a Ferdinando, 23 marzo 1624, ibidem.
(5) Priandi a Ferdinando, 3 maggio 1624. E, XV, 3, 674.
J.rch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. I-II.
114 ROMOLO QUAZZA
Il duca di Mantova aveva intanto risposto, acconsentendo
a computare trecentomila scudi la dote di madama Bianca e
riservandosi di pagarne in contanti centomila. Fello stesso tempo
aveva fatto presente che, prima di concludere qualsiasi cosa,
era necessario domandare il beneplacito imperiale, tanto più che
v'era la esplicita proibizione d'innovare qualunque cosa rispetto
al Monferrato senza interrogare prima S. M.tà Cesarea, proibi-
zione che era stata invocata quattro anni innanzi dallo stesso
Carlo Emanuele. Ma questi replicò che si trattava allora d' im-
pedire che avvenisse la permuta del Monferrato col Cremonese,
cosa che poteva romper la pace d'Italia, mentre ora, trattandosi
di un componimento amichevole, si poteva stringer senz'altro
l'accordo, con la sola riserva dell'assenso dell'imperatore (1).
Il dover scrivere a Vienna per chiedere il beneplacito ce-
sareo preoccupava assai il duca e il principe, forse anche perchè
temevano di non aver risposta per gli antichi dissapori con la
corte imperiale.
Ormai le condizioni del patto, così come le intendeva Fer-
dinando, venivano ad essere le seguenti, oltre a quelle riguar-
danti i vari pagamenti 1. rinuncia da parte della principessa
:
Maria a' suoi diritti alla successione del Monferrato e da parte
del duca di Savoia ad ogni sua pretensione in confronto della
linea di Ferdinando, di quella diVincenzo e di quella di colui che
sarebbe stato chiamato a succedere in mancanza di figli di que-
st'ultimo 2. si dovesse considerar concluso l' accomodamento
;
comprese le suddette rinunce, quando il matrimonio per morte
o per altra ragione non fosse potuto avvenire 3. preventivo con-
;
senso dell'imperatore.
Vittorio Amedeo e Carlo Emanuele fecero tutto il possibile
per strappare qualche nuova concessione a Ferdinando ma, so- ;
pra tutto nel primo, era vivo il timore che tutte le trattative
potessero andare a monte e il desiderio d' impedirlo. Gli Spa-
gnuoli avevano sparsa in tutte le corti la notizia della rottura
dei negoziati le gazzette dicevano che D. Giovanni Ottavio
;
Gonzaga era stato mandato dal duca di Feria appositamente a
Mantova; onde il principe desiderava di dare a tutte le dicerie
una pronta smentita (2). Ma forse tutte le difficoltà non erano
superate neppure rispetto al principe Filiberto, cui si era scritto
(1) Faccipecora a Ferdinando, 27 marzo 1624. E, XIX, 3, 736.
(2) Faccipecora a Ferdinando, 29 e 31 marzo, ibidem.
FERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 115
per conoscerne la volontà. Svanito il progetto di nozze dell'in-
fanta Maria di Spagna col principe di Galles, aspirava egli
forse a quella principessa, tanto più che, non avendo Vit-
torio Amedeo ancora avuto figliuoli, poteva credersi destinato
alla successione negli stati paterni? (1) Ad ogni modo, sentiti
i loro ministri, Carlo Emanuele e il principe di Piemonte chia-
marono il Faccipecora ad ascoltar la lettura del trattato che
stavano per mandare al Pasero. In due cose esso parve ancora
differire da quello che Ferdinando intendeva esso fissava due
:
sole ragioni che potessero rendere impossibile il matrimonio
della principessa Maria: la morte o la monacazione; e riguardo
al beneplacito da chiedere all'imperatore, specificava che, quan-
tunque l'ordine imperiale, provocato dalle trattative per la per-
muta del Monferrato, non impedisse alle due case di Savoia e
Gonzaga di accordarsi amichevolmente tra loro, pure esse non
volevano trattare piti oltre senza la partecipazione di S. M.tà
Cesarea, intendendo con ciò fare atto di riverenza (2).
In un successivo colloquio, cui presero parte il duca, il
principe e l'inviato di Mantova, altre difficoltà si delinearono :
innanzi tutto fu dalla parte di Savoia premesso che nell'accordo
generale non si dovesse accennare al matrimonio del principe
Vincenzo con una delle infanti di Savoia, ma che se ne dovesse
fare una scrittura a parte, affinchè gli Spagnoli non lo venissero
a sapere tanto facilmente poi venne chiesto che alla designa-
;
zione del principe Filiberto si aggiungesse anche quella di un
altro dei principi sabaudi, pure avvertendo che il governo di Ma-
drid, dovendo la principessa Maria entrare in casa Savoia, avrebbe
più volontieri accondisceso alla scelta di Filiberto che era no-
oriamente di parte spagnuola (3).
Fu infine deciso che la scrittura verrebbe mandata al Pasero ;
così^ sentito il parere di Ferdinando, si sarebbe fatta a Mantova
la stesura del capitolato (4).
Si attese dunque con ansia il ritorno del messo Arbaudi
mandato al Pasero ; egli arrivò a Torino il 19 aprile e subito
(1) Faccipecora allo Striggi, 2 aprile 1624, ibidem.
(2) Faccipecora a Ferdinando, 2 aprile 1624, ibidem.
(3) Faccipecora a Ferdinando, 8 aprile 1624. Ibidem. In realtà
a Madrid si ammetteva che si potesse trattare solo per il principe Fi-
liberto, escludendo Tommaso. Vedi lett. del Nerli a Ferdinando, 8
aprile 1624, E, XIV, 3, 616.
(4) Faccipecora allo Striggi, 8 e 9 aprile 1624, E, XIX, 3, 736.
11() ROMOLO QUAZZA
Vittorio Amedeo e Tommiiso si trasferirono a Rivoli, dove il duca
di Savoia si era recato da qualche giorno.
Fu osservato che dopo il ritorno delP Arbaudi, il principe di Pie-
monte si mostrava assai pensieroso (1). La sua preoccupazione di-
pendeva dal tatto che Ferdinando insisteva nella designazione del
principe Filiberto, mentre il padre e il fratello non erano sicuri ch'e-
gli fosse <lispo8to a contrarre matrimonio e temevano che con le
sue nozze le ricche entrate del Priorato e del Generalato del
mare, a lui conferite dalla corona di Spagna, uscissero dalla
fVimiglia e dipendeva anche dalP essersi Ferdinando riservato
;
la scelta delle terre che darebbe in pagamento e dalPaver fatta
una valutazione molto elevata dei redditi «li Volpiano e di altri
luoghi contemplati nel trattato (2). A proposito di questi punti
il Faccipecora dovette sostenere una discussione vivacissima ;
Carlo Emanuele e Vittorio Amedeo insistettero in modo da far
proprio dubitare che la negoziazione, già condotta in porto,
potesse naufragare. Finalmente dopo parecchie consultazioni tra
padre e figlio, Carlo Emanuele stesso comunicò al Faccipecora
che poteva senz'altro copiare Pultima scrittura mandatagli da
Ferdinando, la quale egli avrebbe sottoscritta, desiderando di
veder stabilita la quiete fra le due case e fra i due popoli, e
desiderando sopra tutto, per propria consolazione, i matrimoni
« come che sia proprio dei vecchi di desiderare dei figlioli ».
Egli offri,va inoltre di adoperarsi per la dissoluzione del matri-
monio del principe Vincenzo, abbandonando la protezione della
casa di Bozzolo (3). Era infatti presumibile che Carlo Emanuele,
desideroso di abbreviare il termine di otto anni per V effettua-
zione del matrimonio della figlia, si adoperasse in modo da fa-
cilitare lo scioglimento del vincolo che inceppava la libertà del
principe Vincenzo ; e già si annunziava la partenza per Eoma
di un cavaliere di Malta di casa Balbiani, con incarico speciale
al riguardo. Intanto, mentre si stavano ricopiando e confrontando
i due trattati, nuovi incidenti avvenivano a Castagneto e a Gua-
rene fra sudditi del duca di Savoia e sudditi del duca di Man-
tova, dei quali i due principi prontamente promisero scambie-
vole riparazione (4).
(1) Faccipecora allo Striggi, 13, 15^ 16, 20, 25 aprile ; e a Ferdi-
nando, 22 aprile 1624, ibidem.
(2) Faccipecora a Ferdinando, 25 aprile 1624, ibidem.
(3) Faccipecora a Ferdinando e allo Striggi, 27 aprile 1624, ibidem.
(4) Faccipecora a Ferdinando, 30 aprile e 3 maggio 1624, ibidem.
PERDINANDO GONZAGA E CARLO EMANUELE I 117
La consegna definitiva dei trattati ebbe però a subire un
certo ritardo e solo il 6 maggio ne avvenne lo scambio (1).
Gli accordi, la cui stipulazione era stata tanto laboriosa, non
erano però destinati ad essere tradotti in atto. La natura stessa si
iiggiunse alle difficoltà politiche, poiché, appena tre mesi dopo
la sottoscrizione il principe Filiberto morì colpito
del trattato,
dalla peste in Sicilia, dove era viceré. Fallito in seguito il ten-
tativo di sostituire all'estinto il fratello Maurizio che avrebbe
rinunciato alla porpora per sposare Maria, confermata P impos-
sibilità di ottenere PannuUamento del matrimonio del principe
Vincenzo con Isabella di Bozzolo, contro il quale troppi intrighi
ìi retroscena collaboravano, il fondamento delle duplici nozze
venne a mancare all'accordo del 6 maggio, rinnovando l'intran-
sigenza reciproca dei due duchi intorno agli altri argomenti.
La situazione politica europea, decisamente orientatasi alla lotta
fra gl'interessi spagnuoli e quelli francesi, spingeva Ferdinando
a non esporsi allo sdegno della Spagna, col giustificare il so-
spetto di una sua adesione alla lega strettasi fra Savoia, Francia
e Venezia; ed egli era costretto, per evitare di pronunciarsi in
lavore dell'una o dell'altra corona, a lasciar nuovamente dilaniare
il Monferrato da milizie di ogni nazionalità.
Vane riuscirono tutte le schermaglie e tutte le arti del
Gonzaga per sottrarsi alle conseguenze del grandioso duello su-
scitato dal Eichelieu fra le due tradizionali nemiche.
Il celebre ministro « impadronitosi della volontà dei popoli e
« del re », aveva subito assunto un atteggiamento più energico
nella questione valtellinica, si era stretto piti intimamente con
(1) Faccipecora Ferdinaudo, 7 maggio 1624
a ibidem. Sotto-
,
scritto l'accordo, si la questione della comunicazione da
presentò
darne alle corti. Carlo Emanuele desiderava di darne 1' annunzio alla
repubblica veneta, alla quale si sentiva particolarmente obbligato, ma
poi consentì ad aspettare per la partecipazione ufficiale il beneplacito
cesareo. Il Nani, DelVhistoria della Bep. Veneta^ Venezia, 1720, libro V,
pag. 284 asserisce che i Veneziani ebbero parte nella preparazione dei
negoziati e riferisce con esattezza le condizioni finali dell' accordo. Un
rapido accenno si trova anche nel Cardtti, op. cit.^ pag. 247. Nel mio
studio di prossima pubblicazione Mantova e Monferrato nella politica
europea alla vigilia della guerra di successione, trattando le varie fasi
della questione della successione gonzaghesca, riprendo l'argomento,
oggetto di questo saggio, esaminandone gli effetti e considerando in
modo particolare Timpressione clie l'accordo nel '24 suscitò nelle corti
straniere.
118
POlandii, aveva favorite
ROMOLO QUA ZZA
le
I
nozze della sorella di Luigi XIII
col principe di Galles, premuto su Urbano Vili e caldeggiata
la pace fra le case di Mantova e di Savoia. Venezia, promo-
trice di una lega tra principi italiani in difesa di interessi co-
mani, aveva unito la sua voce per facilitare le trattative. L'ac-
cordo del maggio 1624 doveva coronare grandi sforzi e segnare
un nuovo indirizzo nella politica degli stati (Fltalia incalcolabili
;
furono, quindi, le conseguenze per la mancata sua esecuzione.
Le relazioni tra Ferdinando Gonzaga e Carlo Emanuele I,
episodio tutt^dtro che trascurabile nel quadro politico europeo,
ebbero, adunque, nei sette anni di sosta in Italia tra gli avveni-
menti guerreschi chiusisi nel 1617 e quelli riaccesisi nel '25,
uno svolgimento complesso, che nelle varie fasi risente in modo
sensibilissimo l'influsso dell'indirizzo i^olitico predominante nel
momento.
Dallo studio di esse si rileva l'importanza che le corti stra-
niere attribuivano alla conservazione della pace nell'alta Italia
rispetto alla politica generale risulta chiaro il collegamento
;
delle questioni particolari con quelle più vaste; molti maneggi
diplomatici vengono illuminati ed in singolare risalto appaiono
le figure di due principi, Carlo Emanuele di Savoia e Ferdinando
Gonzaga, il primo, forte nelle armi e nella diplomazia, e il se-
condo per fine accorgimento non inferiore, nessuno dei quali
potè conseguire la méta cui aspirava, poiché al duca di Man-
tova non fu dato di preservare i suoi domini dalle rovine della
guerra ed il duca di Savoia non potè, neppure in seguito, assi-
curarsi i territori tanto desiderati.
Romolo Qfazza.
VARIETÀ
Un passo di Galvano Fiamma
e il monastero di Torba.
N quei capitoli che fanno seguito al Chronlcon majus di
Galvano Fiamma e che, ritenuti a torto come un'opera
per sé stante, furono come tali pubblicati nella raccolta
muratoriana (1) si legge una curiosa leggenda. La ri-
ferisco senz'altro, sulla scorta del ms. ambrosiano (2), notando
sotto le lievi discrepanze del testo a stampa.
(1) Col titolo: Opusctilum de rebus gestis ab Azone, Luchino, et Jo-
hanne Vicecomitibus ab a. MCCCXXVIII usque ad a. MCCCXLII, in
R. /. 5. XII, 991 segg. Al Sassi non era sfuggita però la continuità so-
stanziale dell'opera, solo materialmente interrotta dalla lunga lacuna che
precede: continuità dimostrata ora in modo definitivo dagli studi di L.
A. Ferrai, Le cronache di Galvano Fiamma e le fonti della Galvagnana
(in Boll. d. Ist. Stor. Hai. n. 10 pp. 93-128) e di L. Grazioli, Di alcune
fonti storiche ed usate da fra Galvano Fiamma, in Riv. di Scienze
citate
storiche, IV (1907). Nella lettera-prefazione al Muratori, doverosa riserva
a quanto il M. stesso aveva scritto che cioè questo Opusculum, a diffe-
renza del Manipulus florum, ci offre « vera tantum ac certa >. il Sassi
stesso cita come esempio di fole senza costrutto la leggenda che qui si
prende in esame, « sómnia dice — —
adornata ad contexendos Roma-
nenses libros ».
(2) Cod. Ambros. A. 275 inf. È un grosso ms. pergamenaceo die
contiene la Politia novella, ìa. Cronica extravagans, il Cronicon majus e
(e. 234r e segg.) il così detto Opusculum^ di mano di un Pietro Ghioldi
che si sottoscrive a e 233^ col. 1 e e. 257^ col. 2, e che è lo stesso tra-
scrittore del cod. braidense della Galvagnana (AE. X. 10), cfr. J. Ohiron,
Bibliografia lombarda , Milano 1884, pag. 48.
120 Gll)tìEl»l»K HOTONDl
(c. 247r Eodeni anno sub castro seprij in monasterio
col. 2)
de torbeth stante quodam vento terribili quedam magna
arbor divinitus est evulsa radicitus sub qua inventa fuit
sepultura ex marmore multe pulcritudinis. in hoc sepulcro
5 iacebat rex galdanus de turbeth rex longombardorum (sic)
in cuius capite erat corona ex auro, in qua erant tres
lapides pretiosi, scil. carbunculus pretij. M. florenorum.
Et unus adamans pretij. IT. florenor. et unus achates
pretij. V. e
habebat unum pomum
florenor. In manu sinistra
10 aureum, a latere erat unus habens dentem in azie ensis,
satis magnum qui fuerat tristantis (e. 247v col. 1) de
lyonos, cum quo interfecerat lamorath dyrlanth. Unde —
in pomo hensis sic erat scriptum
Cel est le spee de meser tristant
15 Un il ocist lamoroyt de yrlant.
In manu sinistra habebat scripturam continentem hos versi-
culos
Ze su Galdi de turbigez
Roy de lombars incoronez
20 Soles altres barons aprexiez
Zo che vos veez en portez
Por deo vos pri no me robez.
L 2 flante 1. 3 subque 1. 5 Longobardorum 1. 10 acie
1. 12 Durlanth K 13 ensis 1. 14 l'espée 1. 18 Zesu . Saldi 1.20
aprexiés 1. 21 emportés.
Donde abbia tratto Galvano la fantastica storiella, sarà certo
malagevole né del resto vorrò io qui affrontare, neppure
il dire,
per incidenza e per un caso singolo, la questione tanto complessa
ed oscura delle fonti galvagnane. Il fatto, preso in sé, non offre
veramente nulla di singolare, perchè simili meravigliose scoperte
non sono rare nelle leggende medievali, per chi non voglia risa-
lire anche più addietro e ricordare, per esempio, la storiella di
Gige, notissima attraverso la tradizione di Platone e di Cicerone (1).
Sono ben note le leggende della scoperta della tomba di Fallante (2)
(1) Plat. r. p. II, 359; Cic. de off . 3, 9, 38.
Guglielmo da Malmesbury, De gestis regum angiorum, (Pertz,
(2)
M. G. M. SS. X, pag. 472), R. Higden, Polychronlcon VI, 21. Cfr. Qraf,
Roma, etc cap. III. Novati, ^influsso del pensiero latino sopra la civiltà
italiana del Medio Evo^ 107-8 e anche J. Pascoli, Carmina, Bonomia,
MCMXIV, pag. 429 sgg. e 460 sg.
UN PASSO DI GALVANO FLaMMA ECC. 121
e di re Artù (1) ;
più vicina alla nostra, perchè non vi manca
il particolare delia scritta posta nella mano del cadavere ad in-
dicare l'essere suo, quella di Fehus, quale ricompare, dopo altri
anche nel Girone cortese dell'Alamanni (2). Tante volte
rifacimenti,
qualche ritrovamento effettivo, come possiam ben credere sia stato,
per citare un caso particolarmente vicino di luogo al nostro,
quello della presunta regina Maniconda fondatrice dell'antico mo-
nastero di Cairate (3), avrà dato facilmente la spinta ad inventarne
di più fantastici e di più meravigliosi. Tra i fervori del primo
medio evo per la scoperta dei corpi dei santi e dei martìri e gli
entusiasmi umanistici per la ricerca e la presunta scoperta del se-
polcro di qualche grande dell'antichità (4), anche il periodo di
mezzo, inebriato delle fantasie leggendarie cavalleresche, doveva
pur cedere ad un istinto tanto naturale. Quello che però può
(1) V. Giraldi Cambrensis, Speculiim ecclesiae li, VIII-IX e De prin-
cipis instructione I, X (G. C. opera in Rer. Brit. M. Aevi Script. 21, v.
IV, 47-50 e Vili, 127), donde Ranolfo Hiqdeìì,, Polychronicon V, 6 (nella
medesima raccolta, voJ. V, 332) ed Enrico di Knyghton in Historiae An-
glicanae Scriptores X, Lendini, MDCLII, t. II, col. 2397, e, in termini
uguali, Giovanni Brompton, ibid. I. 1152.
2) Per l'antico testo in prosa v. // Febusso e Breusso poema ora per
la prima volta pubbl. Firenze, Piatti, 1847, p. CXVI, segg. per la reda- :
zione in versi ibid. pag. 8 segg. V. pure Girone il Cortese romanzo cavalle-
resco di Rustico o Rusticiano da Pisa, ed. Tassi, Firenze, 1855 pag. 381
seg.; Alamanni, Girone il cortese, XII, 99 segg. dove pure, come nei
testi precedenti, si descrive la scoperta del cadavere di Febus e della
damigella e si riporta la lunga scritta. Qui propriamente non si tratta
di una vera sepultura però, (com'è invece nell'imitazione che ne fece
I'Ariosto per la tómba di Merlino) che i due cadaveri son trovati
adagiati, come dormenti, su ricco letto, proprio come si sarebbe tro-
vato Artù « in strato recubantem », ma questo vivo,
regii apparatus
e non morto, e colle ferite che ogni anno sì rinnovavano, giusta la nota
leggenda di Gervasio di Tilbury, Otia Imperialia, XII {Scriptores rerum
Brunsvic illustrationi inservientes etc. cura G. G. Leibnitii, Hanoverae
.
MDCCVIl, pag. 921), riportata anche, tradotta, presso I. La Lumia, Storia
della Sicilia sotto Guglielmo il buono, Firenze, Le Mounier 1867, p. 249.
(3)Tristani Calchi Mediol. Historiae patriae II. X\, Med. MDCXXVII,
1. IV, pag. 94:.... inventumque nuper ibi cadaver est, cum veteres ruinae
purgarentur, aurea veste, aureisque fibulìs, et cingulo circumdatum ».
(4) E tipico r entusiasmo suscitato dalla scoperta di una tomba ro-
mana nel 1485, ricordata nt\ Diario dell'lNFESSURA e da altri, cfr. I. Bur-
ckhardt, La civiltà del rinascimento in Italia, trad. Valbusa, nuova ed.
I, 215.
122 «1 Li 8 h: l'I' E ROTONDI
parer sicuro quanto alla derivazione della leggenda che cMnteressa,
è che Galvano debba aver attinto a un testo francese. I versi
riportati sono in francese, né Galvano se li sarebbe certo inventati,
e la derivazione francese può ben spiegare anche qualche partico-
larità non trascurabile del testo latino (1). Di più, doveva essere
— io credo —
un testo in prosa. Data la grande semplicità di
stile e la speciale natura dei metri preferiti in tali racconti ro-
manzeschi francesi, dovrebbe pur esser facile il ricostruire attra-
verso la prosa di Galvano qualche cosa della struttura ritmica
deiroriginale, qualora dei versi e non della prosa vi stessero a
base: di più, la forma metrica diversa dei due brevi tratti ripor-
tati da Galvano persuade in modo anche più convincente che
anche nel testo originale essi solo fossero in versi e il resto in
prosa (2). Più c'interessa e ci sorprende questo racconto per l'a-
dattamento che Galvano ne fece, e senza che se ne veda il perchè,
a luoghi e a tempi tanto vicini a lui. L'evento è infatti riferito da
lui all'anno 1339 e ad un paese, quale ch'esso sia, come vedremo,
molto vicino.
(1) Quel dente incastonato in azie della spada, ad esempio, è una
cosa troppo singolare per non pensare che Galvano abbia frainteso il
testo che aveva davanti, intendendo per punta la parola che forse si-
gnificava il pomo della spada, v. Godefrov, Dictionnaire de r ancienne
langue frangaise, VI, 273 (pont,... punt,.... poing, puing.... ecc.). Allora
la cosa diviene spiegabilissima, dato l'uso di incastonare nell'impugnatura
della spada reliquie o altro. Nel pomo di Durendal v'era un dente di
S. Pietro, delsangue di S. Basilio, dei capelli di S. Dionigi e una re-
liquia del vestito della Vergine {Ch. de Roland^ 2344 segg.) e anche la
spada di Carlomagno era ornata di preziose reliquie, come la punta della
lancia che trafisse Cristo {Ch. de Roland^ 2505). V. per altri rimandi al
Gay don (1307-9) e al Mainet (327), L. Gautier, La Chevalerie ^ Paris
1895, pag. 707 n. Che Galvano potesse valersi anche di fonti straniere
non ha nulla di strano tra le fonti del Chronicon majus non ricorda
:
lui stesso come esistente apud archipresbìterum ecclesie majoris anche un
misterioso liber provintialis ?
(2) Non sarà forse inopportuno ricordare a questo proposito come
anche nel testo in proposito del Girone di Rusticiano la scritta, che sta
fra le mani del cadavere di Febus si chiude con dei versi « Amor, :
frate di morte, duro assalto mi fece; suo frate atando morte alla fin mi
disfece » (ediz. cit. pag. 383), e così pure quella della Damigella: « Il
principio è di pianto, il mezzo canto, e il fin ritorna in pianto » (ibid.
pag. 385). Nel testo più antico invece le due scritte son tutte in prosa,
fino alla fine, v. // Febusso e Breusso, ed. cit. pag. CXIX e CXXIH.
UN PASSO DI GALVANO FLAMMA ECC. 123
Come che sia, la singolare leggenda non ebbe nella tradizione
nostra che un'eco ben scarsa, e i più gravi scrittori di storia mi-
lanese non si degnarono di raccoglierla. Fu accolta bensì in quella
cronaca ben nota agli studiosi della nostra storia col titolo di
Flos florum e che, conosciuta da tempo attraverso il manoscritto
braidense (1) e l'apografo trivulziano, dovuto al raccoglitore se-
centesco G. B. Bianchini (2), e attribuita a lungo, per una cu-
riosa serie di Ambrogio Bossi, sarebbe ora da at-
malintesi, ad
tribuirsi, un codice nuovo, scoperto da P. Torelli
sulla fede di
neir Archivio di Mantova, a un Pier Paolo da Vimercate (3;. Il
compilatore del Flos florum non fece del resto, com'era suo co-
stume, che riportare tal quale il testo di Galvano (4). E più
tardi, nel seicento, la nostra leggenda ricompare nelle memorie
Dell'origine e maraviglie della città di Milano di G. F. Besta (5),
(1) Cod. AG. IX, 35, V. I. Ghiron, Bibliografia Lombarda, pag. 29.
Proviene dal convento di S. Cosma e Damiano, donato a questo dalla
famiglia Della Chiesa, come il cod. pure braidense AF. X. 36 del Mani-
pulus florum (Ghiron, o. c. 47-48) e un cod. di Gaudenzio Merula
(cod. AF. X, 11).
(2) Cod. Trivulz. 1369, v. G. Porro, Catalogo dei codd. mss. della
Trivulziana, Torino, MDCCCLXXXIV, pag. 43.Il cod. apparteneva un
tempo alla biblioteca dei Cistercensi dì S. Ambrogio, dove lo vide TAr-
GELATi {Bibl. Script. Med. II. II, 1960-1).
(3) Arch. di Mantova, sez. Gonzaga, cod. D. XIII. v. P. Torelli,
La cronaca milanese « Flos florum > in Arch, MuratorianOy I, 89-120.
(4) Noterò qui le lievi varianti tra il testo di Galvano e quello del
Flos florum, secondo il cod. di Brera (AG, IX, 35, e. 21 b ).
Galvano Flos florum
.... est evulsa.... inventa fuit.... .... evulsa fuit.... fuit inventa...
multe pulcritudinis.... rex longom- mire pulcritudinis.... rex longobar-
bardorum.... pretii.... et unus ada- dorum.... valoris... adamas valoris....
mans pretii.... habens dentem in {manca habens in acie
et unus)....
azie... de lyonos.... interfecerat la- dentem.... de lyones.... lamorath de
morath dyrlanth... Un il ocist la- xilanth interfecerat.... unde il ocisse
moroyt de yrlant hos versiculos... lamorath de xilant.... istos versus....
Ze su.... altres.... aprexiez deo Za qui... autres.... aprisiez.... dio....
Codd. Trivulz. 180-183, v. Porro, o. c. pag. 30. Una copia poco
(5)
fedele della prima parte è nel cod. Ambrosiano P. 258 sup., del quale
solo mi son potuto servire. Sul Besta, v. Picinelli, Ateneo, etc. p. 240;
Argelati, Bibl. script, med. h II, 148; Mazzuchelli, Scritt. d'Italia, II,
li, 1086.
Ji GIUSEPPE KOTONDI
che primo, e per poco, non unico, (1) intravvide, benché in forma
molto equivoca, il riferimento topografico a cui deve aver pensato
Galvano (2). E dopo che la raccolta del Muratori ebbe reso di
pubblica ragione il testo di Galvano (3), lo ricordarono, per
l'accenno che v' era a Tristano, W. Scott e il Francisque Michel
nelle loro opere sulla leggenda del mitico eroe brettone (4).
Quello che a noi ora interessa qui è il vedere a qual monastero
pensasse Galvano nel suo così bizzarro adattamento, giacché quel
nome di Torbeth è un'evidente alterazione che non corrisponde
ad alcuna località lombarda nota e ben magro soccorso, quan-
d'anche non del tutto fallace, si potrebbe cavare dal Turblgez del
testo francese (5). La questione fu già risolta, prima ancora che
(1) Solo ora vengo a conoscenza di un articoletto dal titolo Tombe
medioevalì a Torba ed il re Galdio in Riv. archeol. della
(Castelseprio)
provincia e antica diocesi di Como 1904 pag. 139-142. Vi si ricorda, rife-
rendosi alla Piccola Cronaca degli Annali Gravedonesi dello Stampa, la
storiella della presunta scoperta. L'a., che mostra di non conoscere che il
testo di Galvano fosse già da tempo noto per le stampe, cita poi, non
senza intenzione, la Cronica dì Filippo da Castelseprio, per noi perduta;
Non mette conto qui di pensarci come a fonte non tanto per la data, :
che Galvano potrebbe aver ammodernato di sua testa, quanto perchè il
riferimento a Castelseprio è fittizio, ed è indubbiamente una trovata di
Galvano, tratto in errore da quel nome di Torbeth. Quanto allo Stampa,
poi, penso debba aver attinto al Crescenzi non certo direttamente a Galvano.
:
(2) Il cod. ambrosiano citato riporta il nostro episodio (e. 52v-53r),
riferendolo al « già detto monasterio di Turbìgo, anticamente chiamato
Torbeth con che siamo completamente fuori di strada, come vedremo
»,
Se non che, quel « già detto » ci richiama a quanto è riferito poco prima
(e. 52r) che cioè sulla riva dell'Olona « si trovava anche il già detto ca-
stello di Turbino (v. più avanti, per questo nome, la citazione di B. Ca-
stiglioni), dove spianata la sua rocca vi fu fatto un monasterio di vergini »
Qui invece si parla manifestamente del monastero di Torba.
(3) Veramente la prima menzione a stampa della leggenda che ci
interessa si trova presso Gio. Pietro de' Crescenzi, Anfiteatro romano,
etc. p.te prima, pag. 312, dove, parlando della discendenza dei conti
d'Angera, deduce dai versi francesi che cita, « che in Angiera que' primi
Conti si dicessero Re, & che anticamente parlassero quasi alla francese » !
(4) W. Scott, Sir Tristrem, ed. 1819 pag. 298; Michel, Tristan,
lì, 163-4. Tolgo la citazione dal libro del Graf citato più avanti.
(5) Ad altri il ricercare quale nome geografico si nasconda sotto
queste denominazioni. A me preme qui solo di chiarire a quale località
nostra abbia adattato Galvano quella leggenda, tratto in inganno dalla
somiglianza casuale del nome del paese.
UN PASSO DI GALVANO FLAMMA ECC. 125
posta, da qualche studioso recente che s'occupò del nostro testo,
ma risolta erroneamente. Il De Castro, citando, senza riportarla,
la leggenda di Galvano, la riferisce, senza neppure accennare alla
possibilità di spiegazioni diverse, a Turbigo (1), e così pure, sulle
orme di lui, il Graf, che ne discorre nel suo saggio <- Di alcun
rimessiticcio italiano di leggenda brettone » (2). Ora, il riferimento
a Turbigo dev'essere senz'altro scartato. Anzi tutto, non si con-
viene a Turbigo quella designazione di Galvano sub castro Seprii^
che corrisponde invece appuntino al monastero di cui faremo
parola più avanti, e in secondo luogo, fatto di per se stesso de-
cisivo, quando Galvano scriveva non esisteva, per quanto io sappia,
alcun monastero in Turbigo. Solo tre secoli più tardi, infatti, vi
sorgeva un convento degli Agostiniani Scalzi sotto il titolo dei
SS. Cosma e Damiano, quando cioè, nel 1635, un Piatti, fratello
ed esecutore testamentario del cardinal Flaminio Piatti, morto
nel 1613 in Roma (3), otteneva dall' arcivescovo di Milano la li-
cenza di edificare detto convento (4). Non ad altro monastero
poteva quindi il Fiamma pensare che al Monastero di Torba, posto
sulla riva destra dell'Olona, alle falde proprio della ripa su cui
sorgevano un tempo le mura di Castelseprio, e ancora se ne ve-
dono dispersi nella boscaglia i miserabili avanzi. Del qual mo-
nastero, che ebbe più secoli di vita, raccoglieremo qui le poche
notizie storiche che ci fu possibile rintracciare.
Nulla possiamo dire sull'origine prima di questo monastero,
né sappiamo se sia da accettare senz' altro la testimonianza di
Bonaventura Castiglione, che ne parla come di un castello in po-
1) G. De Castro, La storia nella poesia popolare milanese^ in
A. S. L. 1877, pag. 513-4.
(2) A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Torino
1892, II, 353 segg.
(3) CiACONio, Vitae, et res gestae Pontif. romanor. et S. R, E, Car-
dinalium, etc. IV, 233-4. — Moroni, Dizionario di erudizione storico-ec-
clesiastica, V. LUI, pag. 313.
(4) Arch. di Stato di Milano, Fondo di relig. cari. 2035. Una ec-
clesia sancti Damiani è bensì già ricordata nei Liber notitiae
sanctorum Mediolani, col. 87 A. Il convento è ricordato dal Bombognini,
Antiquario della Diocesi di Milano,^ Milano, Pirotta, 1828, pag. 133.
Ì2ÌJ GIUSEPPE ROTONDI
poi a monastero (1). La
sizione avanzata di Castelseprio, ridotto
menzione più antica clie ne abbiamo ci riporta a mezzo il secolo
undecimo. In un atto di donazione del 22 dicembre 1049 delF ar-
civescovo Guido da Velate alle monache di S. Maria del monte
di Varese si parla fra proprietari confinanti coi terreni donati
i
anche del monastero di Torba « secundo campo jacet ad 1. ubi :
die. Ciscalina da munte S. Marie de Monasterio qui die. Turba,
:
de alia parte aliquantum in via, etc. » (2). Turba, quindi, o Torba, !
e non Castrum Turbinis come pretendeva ricostruire il Castiglione,
è il nome autentico ed originario (3). L'atto piti antico che si
riferisca espressamente a Torba
un contratto di vendita del
è
18 luglio 1204, che cortesemente mi fu da altri additato, e che
può esser notevole per l'accenno contenutovi a conversi e converse m
simultaneamente esistenti nel monastero. « Cartam vendicionis ad m
« proprium fecerunt domina aderaxia habatisa eclexie sancte marie
« de turba et domina richelda et domina tarssilla et domina mariana
'< et domina ferbonia et domina aica et domina illana et cosina et
« domina nova et domina maria monache et solores ipsius domine
« aderaxie. et nova et Garitia et Garitia (sic) et berta et iohannes
« et bonus et otto et albertus converse et conversi iam scripte
« eclexie per consensum ottonis rimperti avocatus ipsius eclexie.
(1) B. Castiglioni, Galhrum Insubrum antiquae sedes, Mediolani,
VII Idib. Aprii. MDXXXXI, pag. 20-21 : « In fluminis vero ripa tertium
« quoque Castrum fuerat quadrato lapide structum turbinis titulo in coe-
« nobitarum Virginum usus pios conversum. Arce demum eversa nomen
« tantum turbinis retinuit ». E continua riportando l'iscrizione romana di
Calfurnìa (v. avanti) ed un'altra. Anzi, secondo l'autore di certi articoletti
su Castelseprio comparsi nel Corriere delle Prealpi, a. Vili (1917) n. 362,
Castel Seprio verrebbe addirittura da Castrum Superius, in opposizione
a un Castrum Inferius, che doveva sorgere a Torba.
(2) L'atto sì conserva originale nel Museo Diplomatico dell'Archivio
di Stato in Milano (n. 676). Vedrà la luce nel regesto dì S. Maria del
Monte per cura del prof. C. Manaresi, a cui devo la cortese comuni-
cazione.
(3) Quanto alla potrebbe facilmente pensare all'agg.
sua origine, si
turbìdus e simili, data la fiume Olona. Una località detta la
vicinanza al
Turbida si trovava a Milano, poco fuori di Porta Vercellina, ed era
così detta forse, suppone il Puricelli, per le acque torbide d'un corso
d'acqua che vi passava. Vi sorgeva una chiesetta dì S. Pietro e Paolo,
riedificata da Erìberto da Pasilvano, monaco dì S. Ambrogio.
nel 1141
I. P. Puricelli, Ambrosianae Mediolani Basilicae ac Monasteriì hodie
Cistiertiensis monumenta, Mediolani MDCXLV, pag. 656-7.
UN PASSO DI GALVANO FLAMMA ECC. 127
In domino anselmo preposìto eclexie sancti bartholomeì sita in
<
nemore et a parte et ultiritate {sic) ipsius eclexie. Nominative
<
de decem petiis terre reiacentibus in loco efondo tradate
<c et .
< in eius territorio et tenebantur per rabetum et per protaxium
.
f et per prandinum et per ottobellum omnes de loco tradate... ecc. ;>.
Le terre furono cedute ad Anselmo per 1. 22 e s. 13 « qui fuerunt
dati ugoni murinario de sedimine uno et de petiis tribus de terra
«
« in territorio de turba, a parte eclexie sancte marie de turba .
«f ibi estimante confortus et Guilielmus de caminada, liberi estima-
< quod meliorem accipietis quam datis ».
tores, qui estimaverunt .
Torba da Ottone Giudice « de callionate ».
L'atto fu steso a
Più tardi (1) ne troviamo cenno nel Liber notitiae sati-
ziorum Mediolani, dove tuttavia s'incorre in qualche equivoco
che può lasciare perples^. Raccogliendo infatti le notizie che
sparsamente son date su Torba, parrebbe doversene ricavare
vi
che in quel paese v'era a quel tempo una chiesa di S. Maria con
an altare dedicato a S. Calocero e la chiesa del monastero dedi-
cata a S. Biagio, con un altare dedicato a S. Pietro e uno a S. Qui-
rico (2). Ora, siccome l'atto sopra citato parla chiaramente di
(1) Il nome di Torba compare bensì sporadicamente e per via di
citazioni indirette (com'è, del resto, la prima del 1049) in atti di questo
periodo o più recenti, di provenienze diverse. Così è ricordato il mona-
tero di Torba, come proprietario confinante, in una consegna dì beni
'atta da un Maìnerio Brocco e Azone suo figlio a Ottone, canonico di
:;. Bartolomeo al Bosco, del 15 gennaio 1203 (ASM, F.R. Capit. Milano,
:art. 170) in un contratto di vendita alle monache di Luvinate del 3 maggio
1233; poi in un contratto di permuta del 21 ottobre 1281 poi in un altro ;
contratto, pure di permuta, tra le chiese di S. Giovanni e Eusebio di
Casciago e ì fratelli Bacilerij dì Luvinate del 4 settembre 1306; poi nel
estamento di Minetto Bacilerio del 9 luglio 1345 (cart. 314) e ancora in
m elenco dì beni di spettanza del monastero di Luvinate del 18 gen-
naio 1348 e, più tardi, in atti del 1463.
(2) Liber notitiae sanctoram Mediolani, manoscritto della Bibl. Capi-
lolare di Milano, ed. a cura di M. Magistretti e U. Monneret de
ViLLARD, Milano. MDCCCCXVII col. 54 D è ricordata una chiesa di
S. Biagio « in monasterìo de turba . plebis de castro seprio » ; col. 196 B :
'
de castro seprio
in plebe loco torba altare sancti kalocori (sic), in
. .
V ecclesia sancte marie » col. 256 B « ad torbam ecclesia sancte
: :
marie » col. 291 D: < ad torbam in monasterìo
<
; altare sancti petri »; .
col. 326 D « in plebe castroseprio
: ad torbam altare sancti quinci .
. .
•'
in ecclesìa santi blasii ». La falsa denominazione passò anche nel Giu-
iNi, Memorie, etc. nuova ed. IV, 722, che non conosce del monastero di
Torba altra menzione più antica di questa, e nel Bombognini, o. c. pag. 125.
1
128 GIUSEPPE ROTONDI
un monastero di S. Maria, e tale è pure la designazione concorde
di tutta la tradizione fDosteriore, non si può pensare ad altro che
ad una non Tunica, del compilatore del Liber notiUe,
svista, certo
Quale fosse poi, verso la metà del trecento, l'estensione o almeno
il valore approssimativo dei suoi possessi, si può indirettamente
desumere da un contratto di locazione conservatoci del 12 marzo
1357 in cui le monache del monastero di Torba, del quale era
allora badessa una Agnese da Castiglione, investono a titolo di
locazione Guarnerio Castiglione, prevosto di Biasca, e Obizzo Ca-
stiglione suo fratello, canonico di Castelseprio (1), di tutti i loro
beni « salvo et reservato vino seu ficto vini quod habent et habere
debent et solite sunt habere in loco et territorio de lognate et
de barasso » per un canone annuo di 124 moggia di mistura e
L. 84 di terzuoli e 24 capponi (2). Dall'ammontare dell'affitto si
potrebbe ricostruire per via di congettura il valore complessivo
dei beni del monastero. Il quale è pur ricordato, verso la fine
di quel secolo stesso, nella Notitla cleri medlolanenslSj edita dal
Magistretti, dove il Monastero di Torba è tassato per L. 20, s. 10,
d. 8 (3).
La sua storia, che finora non ci ha ricordato nessun avve-
nimento esteriore di qualche importanza, si fa più fortunosa nel
secolo successivo, che fu anche l'ultimo della sua vita. Nel 1426
infatti le monache, con a capo Beltramina da Velate (4), che
n'era allora badessa, deliberarono di lasciare il loro antico con-
vento per aggregarsi a quello dello stesso ordine (erano bene-i
dettine) di S. Antonino di Luvinate. Le ragioni, o forse i pre-
testi, che le guidavano a questa deliberazione erano il trovarsi il
monastero di Torba in condizioni ben tristi « propter bellorum
turbines » che per lungo tempo avevano travagliato i paesi del
(1) Figli di un Guidone, pronipote alia sua volta, secondo il |Litta,
Famiglie celebri italiane, Fam. Castigiioni, di Alberto o Albertaccio che
fu uno dei rappresentanti della nobiltà nel trattare la pace di S. Ambrogio
.colla Motta ne\ 1258.
ASM. F. R. cart. 265 (Tradate, S. Sepolcro).
(2)
Magistretti, Notitia cleri mediolanensis de anno 1398 circa ipsias
(3)
ìmmunitatem, in A. S. L., XIV (1900), pag. 263.
(4) Il suo nome, come badessa, compare già in atti di alcuni anni
prima. Così, in un contratto d'investitura del 30 marzo 1417 (ASM. F. R,
cart. 265, Tradate, S. Sepolcro), in un altro atto di investitura delT 11
dicembre 1419 (ibid.), e in un contratto d'affitto del 25 aprile 1421 (id.
cart. 264, Tradate, S. Sepolcro).
UN PASSO DI GALVANO FLAMMA ECC. 129
territorio e della diocesi milanese: i fondi e le case erano ridotti
.a mal partito, le rendite così stremate da bastare a fatica al ne-
cessario sostentamento: il monastero com'era « in
poi, situato
« loco valde solitario vz. in valle castriseprij inter nemora, in quo
« loco nullus habitat » esponeva le monache a pericoli gravi,
tanto ch'era bisognato « eas ad civitatem Medioiani aut burgum
« Varixij reducere non sine magno ipsarum et dicti monasterii
« dispendio et jactura » tanto che ancor adesso « subjacent ma-
gnis debitis Le monache di S. Antonino dal canto loro erano
».
disposte ad accoglier con loro le consorelle, purché il monastero
di Torba, soppressa la dignità di badessa, fosse ufficialmente sog-
getto ed unito a quello di Luvinate. Deliberata l'unione, si scelsero
in una successiva adunanza alcuni « honorabiles et prudentes viros »
che come loro procuratori ottenessero da Martino V la necessaria
licenza (1). L'unione si effettuò e di quel periodo ci rimangono al-
cuni atti uno del 1436, con cui le monache dei due monasteri di
:
Torba e di Luvinate « simul unitorum et coniunctorum per bulas {sic)
papales » concedono a un G. B. Castiglione di poter derivare una
roggia attraverso un prato Grasso di proprietà delle monache per dar
acqua al suo mulino, potendo le monache servirsi dell' acqua per
l'irrigazione dei prati (2) ; un atto di investitura del 1445 della
badessa Orsini Bossi a nome del capitolo del monastero di S. Maria
di Torba « nunc uniti cum monasterio aliax {sic) appellato Sancti
< Antonini de Loygnate » (3) ; uno finalmente del 1452 con cui
le monache già dì Torba, ignorando la precisa entità ed impor-
tanza dei beni posseduti nel territoriodi Mozzate, fanno eseguire
da persone a ciò deputate un'accurata verifica ed una pubblica
notifica dei beni ivi posseduti (4). Ma l'unione non doveva du-
(1) V. gli atti del 27, 28, 29 Settembre e del 1 Ottobre 1426 (que-
st'ultima riunione si tenne, non a Torba, ma nella chiesa di S. Antonino
di Luvinate) in ASM. F. R. cart. 267, Tradate, S. Sepolcro.
(2) Atto del 26 marzo 1436, ASM, F. R. cart. 265, Tradate, S. Sepolcro.
(3) Atto del 4 novembre 1445 (ibid. cart. 267, Tradate, S. Sepolcro).
(4) Atto del 21 settembre 1452 (ibid. cart. 265, Tradate, S. Sepolcro;.
Anche in qualche atto relativo al convento di Luvinate, è parola del-
Tunione: cito un contratto di affitto del 29 agosto 1448 e un atto di
procura del 10 marzo 1455 (ibid. cart. 313, Varese, S. Antonino). Il mo-
nastero di Luvinate era pur esso antico (« non se n'ha l'origine tanto
era antico » è notato in alcune notizie sulla Origine del V. Monastero
di S.t Antonino in Varese aggiunte a un regesto dell'archivio di questo
monastero compilato nel 1771 ; ASM. F. R. cart. 321). Fu poi trasportato
Arch. JStor. Lomb. Auno XLIX, Fase. l-II. 9
130 GIUSEPPE EOTONDI
rare a lungo. Francesco Sforza stesso credette ^i dover intervenire
presso il Papa, informandolo della condotta scandalosa di quelle
claustrali e pregandolo di ricostituire il monastero di Torba, po-
nendovi al governo una persona acconcia. E il Papa - era allora ^|
Callisto III — scriveva all' arcivescovo di Milano Gabriele Sforza,
che s'informasse della cosa e provvedesse alla ricostituzione del
monastero di Torba com'era prima dell' unione, ripristinandovi
l'autorità di badessa, nella persona di Giovanna Sessa, monaca al-
lora nel monastero di S. Quirico di Cavarla, qualora gli risultasse
idonea a ciò. Se non che l'arcivescovo provvide bensì alla scis-
sione dei due monasteri, ma esitava a reintegrare nel monastero
nuovamente ricostituito la dignità di badessa, del che la badessa
già designata fece rimostranza
al Papa. Il quale incaricò questa
volta vescovo di Como Antonio Pusterla di sincerarsi delle
il
pratiche fatte conducendole debitamente a termine (31 gennaio
1456) (1). La nuova abbadessa potè così entrare in carica, e vi
a Varese nel convento di S. Antonino, li trasporto era stato proposto sin
dal 1567, ma si effettuò nel 1571. Ne
cenno in un libro di me-
è fatto
morie del monastero di S. Antonino dì Varese « Notta come in giorno :
< de lunedì che fu ali 27 del mese dagosto lano 1571 furono condute tutte
« le nostre Monache del locho et Mon.ro di loynate al locho et Mont.ro
« (sic) di Varese acompagnate dal Molto R.do Mons. Jeronimo di Arabia
« vicario generale dello lU.mo et Rmo cardinalle Boromeo Arcivescho de
< Milo sopra tutti lì Mon.ri delle Moniche et ancora dal Molto R.do
« Mons. Molino vicario foraneo di Varese et de molti altre gintille ho-
« mini. Nel quale Mon.ro siamo et restimo per gratia et bontà del S.
« Iddio tute ben consolate et il numero et nome de dette Monache sono
« le infrascritte, vz » (seguono i nomi) A:^M. F. R. cart. 313, Varese,
S. Antonino.
(1) Tutto ciò si ricava da un atto di procura dell' 11 marzo 1457
(ASM. E. R. cart. 267, Tradate, S. Sepolcro) in cui Giovannina Sessa,
monaca professa monastero di S. Quirico di Cavana (un altro antico
del
monastero che fu poi soppresso nel 1568, v. ASM. F. R,
di benedettine,
cart. 2309. N'era allora badessa una Franceschina de Bossi), nomina alcuni
suoi procuratori per presentare al vescovo di Como la lettera pontificia.
In essa Callisto IH ricordava come Martino V « ex certis tunc expressis
« causis » aveva concesso l'unione dei due monasteri di Torba e di Lu-
vinate, e continua: « prò parte dillecti filli Nobilis Viri Francisfortie ducis
« Mlan. nobis exposito quod prefatum monasterium de Torba quasi ad
« profanos usus redactum erat et quod utriusque monasteriorum moniales
« vitam minus laudabilem ducebant ac etiam inhonestam in religionis ob-
« probrium pernitìosumque exeniplum et scandalum plurimorum quodque
UN PASSO DI GALVANO FLAMMA ECC. 131
rimase fino alla morte. Anche del periodo del suo governo ab-
biamo alcuni atti, privi però tutti d'importanza storica (1). Morta
là Sessa, certo dopo i primi d'agosto del 1473 (2), le monache
di Torba chiamarono a succederle Caterina Castiglioni, monaca
professa nel monastero di Oroni. Una bolla di Paolo II incarica
il vescovo titolare di Elenopoli di investire della carica la nuova
eletta (3). La storia del monastero ormai volge al suo termine.
Pochi anni più tardi, succeduta alla Castiglioni in qualità di ba-
dessa Margherita Pusterla, uno zio paterno di questa, Bertetto
o Ubertetto Pusterla (4), donava alle monache di Torba una
< cause propter quas idem predecessor ad concedendam unionem pre-
« dictam condescenderat minus vere nec suffitientes extiterant nobisque
€ prò parte ipsius ducis supplicato ut unionem ipsam dissolvere ac prefato
« monasterio de Torba de persona ydonea ac alias super hys opportune
* providere paterna diligentia curaremus » ecc., com'è ricordato nel testo.
(1) Uno è del maggio 1462 (ASM. F. R. cart. 265, Tradate, S. Sepolcro),
altro del 27 gennaio 1472 (ibid.), altri del 23 marzo 1465, del 10 agosto 1467,
del 6 agosto 1470, del 5 agosto 1473 (Cart. 266, Tradate, S. Sepolcro).
(2) Del 5 agosto 1473 (v. nota precedente) è una ricevuta della Sessa
a un Luigi Castiglioni.
(3) v. la bolla originale di Paolo II del 28 settembre 1470 (ASM.
F. R. cart. 267, Tradate, S. Sepolcro). Rileverò in essa una frase che ac-
cenna alle condizioni economiche del monastero di Torba in quel torno
di tempo cuius fructus redditus et proventus centum et viginti flore-
: «
« nor. de camera secundum communem extimationem.... valorem
auri
« non excedunt ». Abbiamo di questo periodo di reggenza della Casti-
glioni un confesso del 21 marzo 1476 (cart. 265, Tradate, S. Sepolcro),
altro del 20 maggio 1480 (ibid.) un'investitura del 14 giugno 1474
(cart. 267, Tradate, S. Sepolcro), e un contratto d'affitto del 26 giugno
1477 (cart. 264, Tradate, S. Sepolcro;.
(4) Secondo il Litta, Famiglie celebri italiane^ fam. Pusterla, Uberto
Pusterla sarebbe fratello di Margherita, come Antonio (y 1457) e Martino
(f 1460), vescovi entrambi di Como: nell'atto, invece, dell'8 novembre 1482,
a cui è meglio da credere, il doriatore è detto « patruus » della badessa.
Quanto ai rapporti della famiglia Pusterla con Torba, non sarà inutile ricor-
dare che un ramo di detta famiglia fu nel 1648 investito del feudo di Torba
(v. Elenchus familiarum in Mediolani dominio feudis, jurisdictionibus, ti-
tulisque insignium, colligente I. C. D. I. Benalio, Mediolani, etc. MDCCXIV,
pag. 48 ; Casanova, Dizionario feudale delle provinole componenti
cfr. E.
l'antico stato di Milano alV epoca della cessazione del sistema feudale, Fi-
renze, Civelli, MCMIV. pag. 97) ramo che, insignito poi del titolo co-
;
mitale, s'estinse sui primi dell'ottocento con un Alessandro Pusterla, te-
nente al servizio imperiale. (Luta, o. c).
332 OIUSKPPK ROTONDI
casa in Tradate, vicino alla chiesa di S. Sepolcro, perchè vi si
potessero trasferire (1). E il vicario generale Romano da Barni
a nome dell'arcivescovo di Milano (Stefano Nardini), sapendo
dall'esposizione fattagli dalle monache che « ex eo — così scrive
loro — quod dictum monasterium vetustate colapsum est et ineptum
« et in loco solitario et in vale padulosa (sic) situm et propterea
« saluti anime et corporis v e s t r u m omnium redditur contrarium
< adeo quod prò maiori parte temporis modo una modo alia ve-
« strum plurimum laboratis infirmitatibus » e che Bertetto Pu-
sterla, desideroso di provvedere alla salute della badessa sua ni-
pote e delle altre suore, offriva loro in Tradate, dov' egli e suoi i
fratelli possedevano, una casa di circa 4 pertiche « ubi dicitur
< ad domum sancti sepulcri », ben costrutta, cinta di muro, e
posta in luogo e clima salubre, e di poter servirsi della chiesa di
S. Sepolcro qualora ottenessero licenza di abbandonare il loro
monastero, concede loro facoltà di abitare a Tradate e di servirsi
della chiesa di S. Sepolcro (2). il trasporto s' effettuò, non senza
uno strascico abbastanza lungo di pratiche per ottenere tutte le
debite autorizzazioni e conferme di privilegi (3). Il monastero di
S. Sepolcro di Tradate divenne così la nuova sede delle monache
di Torba, conservando spesso, nell'uso comune, il nome del mo-
(1) L'atto di donazione è del 10 maggio 1481 (ASM. F. R. cart.
267, Tradate, S. Sepolcro). Altri atti riferentisi alla medesima badessa Pu
sterla sono del 31 luglio 1480 (ìbid.) e del 6 febbr.1481 (ibid.). Continuò
in carica, anche dopo il trasporto del monastero a Tradate, fino alla morte
quando le successe una Lucia Malacrida (v. atto del 15 aprile 1520. ibid.).
(2) Atto dell'8 Nov. 1482 (ASM. F. R. cart. 267, Tradate, S. Sepolcro).
(3) Del 7 luglio 1509 è un atto con cui Francesco cardinale di Pavia
e legato a latere per V Italia dì Giulio II concede alla badessa Pusterla
quanto questa aveva domandato che cioè la traslazione già concessa
:
dall'arcivescovo di Milano avesse V autorevole conferma della S. Sede ;
che d'ora innanzi le monache dovessero restar sempre a Tradate né fos-
sero gravate d' altri oneri e, infine, che vacando per sua morte o per
qualunque motivo la carica di badessa, si provvedesse, secondo l'uso,
alla elezione della nuova badessa, che non avrebbe d'ora in poi dovuto
restare in carica che tre anni. V. pure Tatto del 4 febbraio 1510 (Pre-
sentazione, intimazione e pubblicazione delle lettere apostoliche concer-
nenti il Torba a Tradate). E ancora nel 1542
trasporto del monastero dì
sì ha la conferma inviata da Antonio Pucci, cardinale del titolo dei
SS. Quattro Coronati di ogni e qualunque privilegio tanto ecclesiastico
che secolare già goduto e solito a godersi dai monaci e dalle monache
dell'ordine benedettino della Congregazione di Montecassino e di S. Giu-
stina (ASM. F, R. cart. 267, Tradate, S. Sepolcro).
UN PASSO DI GALVANO FJLAMMA ECC. 133
nastero antico (1). Non c'interessa ormai seguire le vicende della
nuova casa, di cui si conservano memorie fino alla sua soppres-
sione nel 1799 (2). Il monastero antico dì Torba rimase pro-
(1) Il nome
nuovo monastero è designato in forma molto varia:
del
Tion. di S. M.
Torba « constructum apud ecclesiam sancti sepulcri loci
di
^ de tradate » come in un atto del 1484 (ASM. F. R. cart. 264, Tradate,
S. Sepolcro); mon. « S. Marie de Turba vulgariter nuncupatum sit. in
oco de tradate ^ come in un atto del 1491 (ibid.) e in altri posteriori
p. es. del 1527, ibid. cart. 267);con maggior precisione, « mon.
o,
D.nae Sanctae Mariae de Turba alias, et nunc S.ti Sepulchri loci de
Tradate » (atto del 1561, ibid. cart. 265 ; altro del 1565, ibid. cart. 264) ;
iia spesso non compare con altra designazione che l'antica di mona-
stero di Maria « de torba >> o « de turba, ». Talvolta i due nomi,
S.
il vecchio e il nuovo, sono accoppiati, come in un atto del 20 maggio
1528 (« mon. sancti sepulcri de tradate mon. sancte Marie de Turba »
ibid. cart. 266) taraltra compare il nome in forma alterata, come in
;
una lettera del 1727 dov'è chiamato « monastero di S. Maria Torbia
del Borgo di Tradate » (ibid. cart. 265), quando pure non compaia
in forma affatto errata come in un breve di scomunica di Paolo III
contro gli usurpatori dei beni dei monastero di Tradate, ove si parla di
un monastero « sancti Spiritus (sic) et sancte Marie de Turba Terre
Tradate » (breve del 13 marzo 1543, ibid. cart. 265). L'estensore del
breve si mostra anche nel resto poco informato, perchè aggiunge al
nome del monastero « sancti Benedicti vel alterius ordinis ». Piuttosto, per
la sopravvivenza del monastero di Torba, sarà interessante ricordare come
esso sia ricordato pure nell'elenco delle case religiose compilato nel 1564 in
occasione dell'erezione del Seminario. Fra i « Monasteria Monialium » è
ricordato il « Monasterio de Torba », tassato per L. 45, S. 13, D. 3, v. M. Ma-
GisTRETTi, Liber Semìnarii Medìolanensis, ossìa Catalogus totius cleri civi-
tatis et dioecesis mediolanensis cum taxa a singulis solvenda prò sustenta-
tione Seminarii inibì erigendi in A. S. L. a. XLIII, (1916) p. 1, pag. 131.
(2) Ecco ad esempio l'elenco, non completo del resto, delle badesse
che vi si succedettero quale potei ricavare da una corsa pure frettolosa
a quegli atti meno antichi, coU'indicazione della data degli atti in cui 1
loro nomi compaiono. Fino al 1520 Margherita Pusterla, già badessa di
Torba; 1520-1521 Lucia Malacrida; 1527 Cecilia Pusterla; 1536 Ersilia
Pusterla; .... Maura Colonna; 1554 Arcangela de Arzonico; 1558 Maura
Colonna; 1561 Arcangela de Arzonico; 1565 Francesca da Gallarate;
1585 Ippolita da Legnano; 1587 Colomba de Arzonico; 1597 Maria Madd.
Pusterla; 1601 Angela Michela Settala; 1620 Ottavia Camilla Trotti; 1624
Anna Camilla Castiglioni 1626 Angela Pusterla
; 1635 Angela Pusterla ; ;
1643 Claudia M. Castiglioni 1656 Giovanna Francesca Pusterla 1661
; ;
Giuseppa M.a Cuttica; 1662 Giovanna Isabella Trotta; 1666 Giuseppa
M.a Cuttica; 1668 Giovanna Isabella Trotti; 1679 Giuseppa M.a Cuttica;
1691 Gioseffa Cotica ^rieletta); 1694 Camilla Castiglioni; 1700 Gioseffa
134 amsEPPE B()T(»NDI
prietà e dipendenza del nuovo, e volto presto ad usi colonici (1}
venne perdendo dell'antico anche la forma. Solo la cappella, della
quale resta ben conservata la porta laterale di settentrione in
stile romanico (presso la quale si trova murata una lapide ro-
mana (2) e, forse, la vecchia torre quadrata
serbano ancora
l'aspetto dell' edificio primitivo : nel resto è una rozza abitazione
colonica (lo chiamano però ancora // Monastero) addossata alle
prime falde del declivio che forma il lato destro della valle dell'Olona
e a poca distanza da questo fiume, tra prati e campi ombreggiati
da grandi alberi che fanno pensare alla « magna arbor dell'in- >^
genua storiella di frate Galvano (3).
Giuseppe Rotondi
M. Cottica; 1707 Rosa M. Cottica; 1719 Maria Cater. Visconti; 1735 Al-
fonsa M. Castiglioni; 1738 Rosalinda Castiglioni 1740 Alfonsa M. Ca- ;
stiglioni ; 1747 Francesca Fortunata Piantanida ; 1749-50 Francesca Ma-
rianna Corbetta; 1754 Angela Giovanna Corner; 1762 id.; 1767-1768 An-
tonia Teresa Bellani 1777 Francesca Gerolama Pusterla 1780 Antonia
; ;
Teresa Bellani 1786 id. 1792 e 1796-98 Laura Margherita Dugnana.
; ;
(1^ In un elenco di beni del monastero di S. Sepolcro di Tradate
del 1718 è notato, fra quelli posseduti a Torba, sotto il titolo: « Ortagli
{sic), ò Giardini, e siti di case », « compreso la chiesa altre volte mona-
stero > (ASM. F. R. cart. 265 Tradate, S. Sepolcro). E in un contratto
d'affitto del 1753posseduti a Torba a certi Cazzani, pure dì
di beni
Torba, figura una da Massaro, d.ta al Mon.ro Vecchio » che nella
« casa
consegna è così descrìtta: « Casa detta al Monast. Vechio {sic) con-
sist.te in Stanze Inf.ri n. 8 compreso Cucina. Stalla etc Sup.ri n. 2, con
Cassina & Corte, Orto, e Chiesa detta del Monastero Vecchio » (ibid.).
-
(2) CALPHVR NIAE I |
CARISSl |
MAE FÉ i |
(C. /. Z.., V. 5617;
già ricordata dal Castiglioni, o. c. pag. 21),
(3) Il poco che ne resta bastò tuttavia perchè la mala erba del ro-
manzo storico vi si abbarbicasse. C'è un vacuo romanzetto di un M. B.
Agnese da Castiglione o la disfatta di Castel Seprìo, storia milanese del
secolo XIII, Milano, Pozzoli 1857, in 2 voli. Vi si dice di Agnese da Ca-
stiglione ritirata nel monastero di Torba, e di là tratta, in modo dram-
matico, da Rubro scudiero di Roggero del Baggio travestito da frate
domenicano. Inutile dire che quanto vi si dice della chiesa colle « inve-
triate delle lunghe finestre a sesto acuto del coro, attraversate da raggio
di luna » (voi. I, pag. 201) non è che fantasia: appartiene al solito ba-
gaglio di descrizioni pittoresche a cui ricorrevano con piacere gli scrit-
tori di romanzetti di quel genere per mascherare col fantastico della
sceneggiatura la miserabile e irrimediabile povertà del contenuto : come
quella zimarra da turco di cui si servì il Marchionn dell'immortale ca-
polavoro portiano, nella serata memoranda della Cannobiana, « per posse
scónd con la pelanda i sciabel ».
Il « Liber notitie Sanctorum Mediolani »
(Appunti Topografici) (1)
L principale illustratore di quest'opera preziosa, Ugo
Monneret de Villard, neirultima nota apposta al suo
dtligentissimo studio storico-critico premesso al Llber,
avverte coscienziosamente che la carta della Diocesi
di Milano, allegata alla pubblicazione, deve servire « come base
di studio tutto affatto provvisorio (2).
Questi appunti, ben lontani dal voler presentarsi come un ten-
tativo di studio organico o come una, anche troppo tardiva, re-
censione, vorrebbero, non criticare un lavoro così coscienzioso ed
illuminato, ma recare, se possibile, qualche sussidio, specialmente
topografico, che potrà riuscire non del tutto inutile in una even-
tuale ristampa dell'opera (3).
Ho rivolto la mia attenzione a quei
tratti del territorio ber-
gamasco, che sino all'autunno del 1784 furono soggetti alla giuri-
sdizione ecclesiastica di Milano. Purtroppo, il trattamento, fatto a
queste parrocchie già milanesi, non è molto lusinghiero. Valle
Averara, Val Torta, Val Taleggio, Val San Martino, la Pieve di
Verdello o non sono ricordate e segnate sulla carta entro con- i
fini della diocesi milanese o sono miseramente mutilate.
(1) « Liber notitie sanctorum Mediolani» ms. della Biblioteca Capito-
lare di Milano, edito a cura dì Marco Maqistretti e Ugo Monneret de
Villard, Milano, MDCCCCVII.
(2) Liber etc. pag. LIV, nota (7).
(3) Non
intendo entrare affatto nel merito della questione, se compi-
latore del Liber sia o non sia Goffredo da Busserò, trattata variamente,
fra gli altri, e dal Monneret nel suo studio introduttivo all'edizione del
Liber e dal Mazzi in questo stesso Archivio Storico Lombardo.
].% MARIO KRNKH'J<» TAGLlABUK
Non è che di esse manchino notizie nel Liber : queste notizie
furono stranamente manomesse o noncurate nel disegnare la carta
« La Diocesi di Milano nel 1300 secondo il Liber Sanctorum Me
diolani i>, o nel redigere l'indice topografico. Io non intendo af-
fatto ricostruire la giurisdizioneecclesiastica dei distretti berga-
maschi su accennati, sulla fine del sec. XIII ma solo far risaltare ;
nel loro giusto valore le notizie che il Liber ci fornisce, rettifi-
care qualche attribuzione, colmare qualche lacuna.
A) Valle Averara, Val Torta, Val Taleggio.
Appartennero sempre alla Pieve di Primaluna o della Valsas-
sina, anche dopo che, nel sec. XV, passarono politicamente al do-
minio veneto.
La carta le ignora completamente, facendo coincidere, in quel
non piccolo tratto di N-E, confini della diocesi di Milano nel
i
sec. XIII, con quelli attuali (1): ma non le ignorava il compilatore
del Liber (2). Non so spiegarmi come l'illustre e diligentissimo
autore abbia dimenticato queste mentre ricorda e illustra altri
valli,
rami staccatisi in tempi diversi dal grande albero (Canobìo e la
sua valle, le chiese novaresi della pieve di Angera, le Valli Tici-
nesi). Ma la mutilazione cartografica portò l'autore, non solo a di-
menticare qualche località (ad es. Peghera di Val Taleggio), ma
anche a dei veri errori di topografia: così ad es. nel cuore della
Valsassina, lungo il torrente Pioverna, troviamo segnata Valtorta
ed a N-N-W di Indovero un Monte Aurera (Monte Averara), che
nessuno mai ha pensato o penserà di collocarvi.
Riportati confini sino a comprendere (v. carta annessa al pre-
i
sente studio) la conca di Taleggio (con le valli minori che vi im-
mettono, dalla Forcella di Bura verso Val Brembilla, a Sud, all'or-
rida e, fino o pochi anni fa, impervia gola del T. Enna, e su a
N. sino ai passi verso Val Torta), la valle del T. Stabina e l'alta
valle del Brembo occidentale da Olmo in su, fino alla cresta delle
A. Orobie, cioè sino ai confini con la Valtellina; si sarebbe po-
tuto trovare il posto ove giustamente segnare:
(1) Così nella valle dell'Enna, il confine passa subito ad E. di Vede-
seta (Vandexea), anche attualmente dipendente, attraverso la pieve, di
Valsassina, dalla diocesi dì Milano.
(2) Non le ignorava nemmeno il Oiuiini {Memorie ecc. voi. Vili
pag. 411). E valle Averara è segnata anche nella caria annessa all'opera.
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Sijrnont
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secondo
^^ Ugo Monnerer àe VìWoró
F(efti f icati
I
IL « LIBBR NOTITIE SANCTORTJM MEDIOLANI » 137
1) Val Torta con la sua chiesa di S. Maria (col. 256. C) nel
centro principale, e l'altra di S. Giovanni Battista (col. 164. D) nella,
frazione Rava.
2) Peghera ( = Pegera) in Val Taleggio con la chiesa di
S. Giacomo Maggiore o Zebedeo (col. 172. C).
3) Averara ( =
Aurera, che riproduce meravigliosamente
la pronuncia locale, mentre la grafia ordinaria de' documenti dei
sec. XIII e XIV è Averaria) con la chiesa di S. Brigida (col. 57. B)
(ora nel comune omonimo indipendente da Averara e matrice della
non vasta pieve): ed anche il Monte Averara ( Mons. Aurera) =
con la chiesa dei SS. Simone e Giuda (col. 342. D).
Nel territorio ambrosiano dell'alta Valle Brembana o Valle
Averara, non esiste una chiesa dedicata a questi Santi Apostoli:
né se ne ha memoria (1). Ma non è certo una congettura arri-
schiata il pensare il Monte Averara.... nella Valle Averara. Della
chiesa, come si disse, sarebbe persa anche la memoria ma, tra
si ;
la Valle Averara e Valleve (Brembo di Foppolo) è l'alto passo
(m. 2027) di S. Simone: verosimilmente la chiesa dei SS. Simone
e Giuda era situata, senon proprio sul passo, nelle vicinanze, sui
fianchi della costa che chiude ad est la Valle Averara (2).
(1) Debbo esser grato di questa notizia alla cortesia del Rev. Parroco
di Val Torta, Don Stefano Gervasoni, diligente ed appassionato illustra-
tore e ricostruttore delle vicende specialmente religiose di quelle aspre
vallate.
(2) Il Rev. Don Gervasoni assicura che il passo dì S. Simone « non
appartenne mai al territorio del primitivo Comune e Parrocchia di Ade-
rara, masibbene a Piazzatorre ed a Valleve, in diocesi sempre di Ber-
gamo ».Veramente, anche oggidì, secondo le carte al 25.000 dell'I. G. M.,.
il confine del comune di Mezzoldo il più orientale —
dei sei comuni
formatisi, nel periodo napoleonico, dallo smembramento dell'unico ed
originario comune di Averara, —
corre sul passo di S. Simone: confini i
dei tre comuni Mezzoldo, Piazzatorre e Valleve si incontrano sulla vetta
di M. Cavallo, circa mezzo chilometro a S-E del passo. A Valleve poi,
almeno a quanto ebbe a riferirmi un degno sacerdote che vi è stato
parroco per parecchi anni, sino a non molto tempo fa qualche vecchio
poteva mostrare, proprio al Passo, le rovine di una cappella dedicata
appunto a S. Simone, cappella lasciata cadere in rovina. Non intendo con
ciò collocare senz'altro al Passo S, Simone la chiesa che il Liber commenta.
Sul passo, o sulla strada di accesso (da Owest) al passo, poco importa :
questo si può con tutta probabilità asserire, che la chiesa dei SS. Simone
e Giuda si trovava sui fianchi occidentali di questa montagna.
Il Rev. Don Gervasoni mi faceva giustamente osservare che il vicino
i;>S MAKIO ERNESTO TAGLIABUE
Non è Tunica chiesa ricordata dal Liber ed ora intierameute
scomparsa: avrò occasione, nell'ultima parte di questi appunti, dì
accennare ad altre chiese che subirono ugual sorte.
Prima di lasciare questa regione, vorrei far notare che nella
pieve di Dervio si dovrebbe segnare a N-E di Sueglio, il Monte
Piza con la chiesa di S. Sefirio o Sfirio. Il Liber (col. 372. C) nota:
die quinto decimo ante kl. septembris obiit venerabilis confessor se-
firius. Hic jacet in monte piza ptebis dervii ». La Chiesa, diffu-
.
samente ricordata dall'Arrigoni (Ij, esiste tuttora, appena sotto la
vetta del M. Legnoncino, sul lato N-E, in parrocchia di Monte
Introzzo (2).
B) Valle San Martino.
Ecclesiasticamente era divisa in due parti, dipendenti, l'una
(la così detta Bassa Valle, quella e S-E) dalla pieve di Brivio, l'altra
(l'alta Valle, quella a N-W) dalla pieve di Cariate. Ora, e cioè dal
1784, le due partì formano le due distinte vicarie di Caprino e di
Calolzìo.
Le notizie date dal Liber sono incredibilmente scarse. Docu-
menti anteriori e coevi ci danno assai più ricche notizie sulle chiese
della Valle (3) : ma il Monneret de Villard ha voluto, non solo mu-
tilare la* valle nel disegnare la carta, ma ridurre ancor più le già
grame notizie del Liber.
passo di S. Marco non un oratorio de-
fu così chiamato, perchè vi fosse
dicato al Santo Evangelista, ma
dominio veneto: a vaile
per ricordare il
del passo abbiamo la Ca' San Marco. L'esempio però non infirma affatto
la supposizione da me affacciata: donde sarebbe venuto il nome al Passo
di S. Simone?
Giuseppe Arrigoni « Notìzie storiche della Valsassina » 2^ ediz.
(1)
Lecco 1889.
(2) In qualche pubblicazione moderna, di carattere ecclesiastico semi-
ufficiale, S. Sefirio ha finito per diventare... S. Siro.
(3) In un documento del 1264 riferito dal Dozic, e che più innanzi
avremo occasione di nuovamente ricordare, sono enumerate le seguenti
chiese di Val S. Martino: in Brivio pergamense, ecclesia S. Ambrosi, ecclesia
S. Martini, ecclesia S. Marie de Bixono — in Caprino, ecclesia S. Blasii —
in Celano, ecclesia S. Marie —
in Cixano, ecclesia S. Zeni — in Odiaco,
ecclesia S. Georgii —
in Villaxola, ecclesia de Villaxola (S. Stefano). Di
tutte queste chiese nemmeno una è ricordata nel Liber: forse, se non vi
fosse la lacuna delle chiese ed altari dedicati a S. Ambrogio, vi sarebbe
la prima. (Giovanni Dozio « Brivio e la sua Pieve », Milano, 1858 pag. 68).
IL « LIBER NOTITIB SANOTORUM MEDIOLANI » 139
Ha mutilato la valle, sottraendole la gola o stretta di Pontida
sino a Cerchiera, con la catena di M. Canto (non completamente
spettante alla Valle), e la Valle del Sommacchio con buon tratto
della catena dell' Albenza: ha tolto quindi alla valle centri impor-
tanti, quali Caprino, il capoluogo della valle stessa, e Pontida.
Ha ridotto le notizie del Lìber. Non segna infatti :
1) Lavello —
ora misero gruppo di case coloniche addos-
sate alla chiesa e sorte per lo più entro il chiostro cinquecentesco
già dei Serviti; ma nel medio evo era castello non privo di im-
portanza (1) —
con la chiesa di S. Maria (col. 257. B) sulla riva
sinistra dell'Adda, là dove questa, dopo il così detto lago di Olgi-
nate, riprende ancora una volta l'aspetto dì fiume (2).
2) Eretta —
che domina anche attualmente, con la sua chiesa
di S. Gregorio (151. B), chissà dopo quanti rifacimenti, la stretta
e non lunga valle, un tempo (e ancora nel sec. XVIII) chiamata
appunto Bretta o Beretta, nella quale scorre il torrente Sonna. Il
villaggio, frazione del comune di Cisano, ma con parrocchia auto-
noma, ora si chiama San Gregorio (3).
3) Pontida —
e qui l'omissione è aggravata da una er-
rata interpretazione e attribuzione nell'indice corografico. Il Liber
(col. 172. C) dice: in Ponila monasterii . ecclesia sancii jacobi Ze-
bedei. L'indice fa seguire Ponila da (Incino?) e questo, perchè, nel-
l'elenco delle chiese ed altari dedicati a S. Giacomo Zebedeo o
(1) Marius Lupus « Codex Dìploniaticus Civitatis et Ecclesiae Ber-
gomensis » Tomo II, pag. 622.
(2) Questa chiesa divenne, poi, il santuario quasi ufficialmente spe-
ciale della Valle San Martino: ebbe particolare importanza verso la fine
del sec. XV e sui primi del XVI poi decadde. Forse a tale decadimento
:
non fu estraneo, anche, il sorgere e fiorire del non lontano santuario di
S. Gerolamo Miani, così popolarmente noto e frequentato anche oggi, e
l'esser divenuta Somasca la culla di una nuova congregazione di Chierici
Regolari, che doveva ben presto raggiungere una fama ed uno sviluppo
notevolissimi.
(3) Credo che parrocchie di S. Gottardo, S. Antonio, S.
le attuali
Michele pochi anni or sono fu smembrata quella di Sogno)
(dalla quale
e di S. Gregorio formassero una volta l'unico comune della Bretta. Vedi
ad es. gli Statuti della Valle S. Martino (riveduti nel 1435 e stampati con
traduzione dal Dottor Carlo Sozzi, in Bergamo, 1756) pag. 117, 118, 190
ecc. —
Sulla fine del secolo XVI l'unico comune appare già suddiviso in
piccole comunità (Giovanni da Lezze « Relazione ecc. > ms. W . VII. F.
presso la Biblioteca Civica di Bergamo pag. 297 e segg.), che furono poi
variamente raggruppate con la riforma napoleonica del 1807.
140 MARIO KRNBSTO TAGLIABUE
Maggiore, l'indicazione su segue subito altra indicazione
riferita
riguardante un altare di S. Giacomo
in Ganzo, pieve di Incino.
Qui non vi può essere esitazione: Ponila è Pontida, che, qual prio-
rato cluniacense, era giurisdizionalniente extra-plebe. Dove del resto
trovare un monastero di S. Giacomo
pur vasta plebe di In-
nella
cino? (1) dove e come identificare un Ponila in tale pieve, quando
non si voglia, poco seriamente, pensare a.... Ponte Lambro? Ponila
non è grafia né strana, né nuova: la leggiamo nel Giulini (2) e
replicatamente nel Lupi (3); già il Dozio, riferendo questo passo
del Llbeff l'aveva identificata senza esitare con Pontida (4).
Non intendo qui sollevare la questione, se Pontida apparte-
nesse in quei secoli (XI-XIII) alla diocesi di Milano oppure a quella
di Bergamo; questione accennata dal Lupi (5), toccata dal Ron-
chetti (6), Mazzi (7), affermativamente per Bergamo,
trattata dal
ma non peranco risolta. È mia intenzione di riprenderla in esame
e farla oggetto di uno studio speciale, inquadrandola in altro più
ampio, che abbracci, se non tutta la Valle San Martino, almeno le
terre limitrofe a Pontida, dentro e fuori valle. Mi limito ora a no-
tare che Pontida ha fatto sempre parte della Val San Martino (8)
(1) Cfr. Venanzio Meroni « La Pieve di Incino » Milano, 1902.
(2)Giorgio Giulini « Memorie ecc. » voi. IV, pag. 269, 298, 534. I!
Giulini segnò Ponila anche sulla carta da lui annessa alle Memorie.
(3) M. Lupus, op. e voi. cit. pag. 783 e pag. 837.
(41 G. Dozio, op. cit. pag. 69.
(5) M. Lupus, op. cit. tomo I. pag. 287 « Ponildensl vico, qui (gale-
quid lllustres allqui auciores scrlpserlni) semper In nostra full dloecesl, ut
suls locls Ha demonstrabitur, ut de eo amblgl non posslt... » e in tomo II,
pag. 756 « Plura.» habemus In Cathedralls archlvo Instrumenta et docu-
menta saecull duodecimi et consequentlum, In qulbus dlsertls verbls Mona-
sterlum Ipsum Bergomatls Dloecesls dlcltur, quae In hoc codice proferentur ».
Vero è che nessuno dei documenti del sec. XII (col quale si chiude il
secondo e postumo tomo del Codice Diplomatico) pubblicati dal Lupi
contiene tali indicazioni.
Giuseppe Ronchetti « Memorie storiche della Città e Chiesa di
(6)
Bergamo », Bergamo, 1817. Tomo II, pag. 225, tomo III, pag. 34-35 e
pag. 236.
(7) Angelo Mazzi « Corografia Bergomense Bergamo, 1880, pag. 217.
y>
{8) Su questo punto l'accordo fra gli storici è unanime. Non occorre
tener conto del brevissimo periodo (dal giugno 1422 all'ottobre 1443), nel
quale Pontida con altri comuni limitrofi, Gromfaleggio, Valmora, Canto
(tutti, tranne quest'ultimo, dipendenti allora spiritualmente da Pontida),
fu aggregato al distretto di Almenno S. Salvatore (cfr. Angelini « Som-
IL « LIBER NOTITIE SANOTOEUM MBDIOLANI » 141
ed a richiamare un documento di poco anteriore alla compilazione
del Liber (è del 1264) e riferito dal Dozio: riguarda alcuni beni,
terre e decime che il Capitolo Metropolitano di Milano possedeva
appunto « in locis et terrltoriis et burgls de cellana et caprino , grom-
falegio, biirligo, cixano, odiaco, pontida, villa et brivio ultra
aduam archiepiscopatus mediolani et distr ictus pergami (1).
Per questa valle occorre dunque spostare assai verso S-E i
confini della pieve di Brivio e segnare nella carta le tre località:
Lavello, Eretta, Pontia. (v. carta annessa).
Il Liber ricorda Calvigo =
Carvico (chiesa di San Martino,
col. 247.D) e la carta lo segna a S-E di Villa (d'Adda). Non sa-
prei neppure io come meglio identificare tale località: ma credo
opportuno far presente che Carvico non fece mai parte della valle
San Martino, ma sempre della squadra detta dell'Isola, e non co-
nosco altra memoria all'infuori di questa dataci dal Liber, che lo
dica appartenente alla diocesi di Milano (2).
C) Pieve di Pontirolo.
Con minor possiamo tracciare i confini di questa
precisione
allora vastissima S. ad oriente dell'Adda:
pieve, verso E. e verso
molto meno possiamo rispondere a tutti i punti interrogativi che
intralciano il lavoro di identificazione topografica, specialmente per
quella parte della pieve che si trovava (e in parte si trova tuttora)
in territorio bergamasco (3).
mario delle Ducali » ms. ^. III. 3 della Bibl. Civica di Bergamo, pag. 36
e pag. 45 — cfr. Donato Calvi « Effemeridi sacro-profane » Bergamo,
1675. Tomo II, pag. 424 e tomo III, pag. 249).
(1) Dozio, op. cit. pag. 66. Nel mese di agosto di tale anno il Cano-
nico Ordinario Ariberto di Arsago, a nome del suo Capitolo Metropoli-
tano si reca in Val San Martino a riconoscere e dare in affitto le terre e
possessioni e decime che il Capitolo vi possedeva nelle varie località su
ricordate. Forse non sarà inutile far presente che di queste località ben
seisarebbero fuori dei confini assegnati dal Monne ret alla diocesi di Mi-
lano nel sec. XUI.
(2) Non pochi documenti del sec. XII pubblicati dal Lupi (Cod. Dipi,
tomo II) non lasciano dubbi sulla appartenenza di questa località alia dio-
cesi di Bergamo.
(3) L'antica pieve di Pontirolo, abbracciava i territori delle attuali
pievi di Trezzo (sulla destra dell'Adda) di Treviglio, entrambe della dio-
cesi milanese, e di Verdello, ora diocesi di Bergamo.
142 MARIO ERNESTO TAGLIA BUE
Qui pure abbiamo delle errate attribuzioni nell'indice corogra-
per fortuna non consacrate nella carta, ed abbiamo, in numero
fico,
anche più notevole, delle inesplicabili dimenticanze nella carta stessa.
1) Mazio (col. 394. A) non si trova nella pieve di Ponti-
rolo: è sicuramente il Mazzo (ora Milanese) nella pieve di Trenno.
Il Llber dice: « In plebe tretio . loco mazio ecclesia santi Victor is ».
La dicitura « tretio >> o « trecio » è facilmente correggibile in
« treno » -=- Trenno, capopieve anche oggigiorno presso Milano.
L'errore dell'amanuense non voglio pensare ad una svista o —
lapsus di lettura, specialmente in un punto che dall'illustre autore
è stato fatto oggetto di una speciale trattazione, consacrata nel-
l'indice (1) — sarebbe quindi assai più agevole a spiegarsi, che se
avesse scritto un « tretio » invece di un « pontirolo ». Nell'elenco
delle chiese dedicate a S. Vittore, Mazio si trova fra la pieve di
Desio e quella di Segrate: la pieve di Pontirolo, col luogo di
Brembate = Brambate si trova esplicitamente ricordata più sotto,
quasi alla fine dell'elenco (col. 394 C).
2) Questo errore generò logicamente l'altro (l'indice mette
un ? dopo il nome), che Lorentegio Lorenteggio fosse pure nella =
pieve di perchè nell'elenco segue immediatamente il
Pontirolo,
Mazio. Questo Lorenteggio, non è la piccola località, tuttora esì-
stente, vicino a Cesano Boscone, quindi nella pieve e parrocchia,
anzi, di Cesano, ove appunto lo nomina ma non lo segna la carta :
Lorentegiiim era in pieve di Trenno (2).
3) Porta = Porto è certamente l'odierno Porto d'Adda, spet-
tante alla pieve di Trezzo (3): ma, fra le quattro chiese che l'in-
dice gli attribuisce (4), non gli appartiene quella di San Pietro.
(1) cfr. Prefazione pag. LIO. — v. Indice (col. 451) ove è detto: Mazio
{Pontirolo, erroneamente Trezzo).
(2) Secondo il Liber, così interpretato, Lorenteggio apparteneva alla
pieve di Trenno (la carta lo mette entro i confini della pieve di Cisano).
Un documento dell'aprile 1005 riferito dal Giulini ricorda Lorenteglum =
Lorenteggio, in pieve di Trenno (Giulini, op. cit. voi. Ili, pag. 498, voi. IX*
pag. 116). Bisogna quindi anche in questo punto modificare e correggere
i confini delia pieve di Trenno, o meglio cancellare da quella di Cesano
Loreniegiuin per segnarlo entro la pieve di Trenno.
(3) È superfluo richiamare che verso la fine del sec. XVI, soppressa
la pieve dì Pontirolo, ne furono erette due: quella di Verdello (berga-
masca) e quellia di Trezzo (milanese).
(4) Ecclesia sancii ioannis apostoli, col. 174 . D; ecclesia sane te mafie
col. 256 . D ; ecclesia sancii quirlci, col. 327 . C ; ecclesia sancii petriy
col. 292 . B.
IL « LIBEB NOTITIE SANCTORUM MEDIOLANl » 143
(col. 292 B). Le chiese dedicate a di Ponti- S. Pietro nella pieve
rolo sono elencate in fine a
che siamo nella
col. 294 D (si noti
sesta ed ultima regione della diocesi): qui invece siamo in pieve
di Arcisate, presso Ligurno e si deve pensare a Porto sul lago di
Lugano (rodierno Porto Ceresio), ove ancora nella frazione, deno-
minata appunto S. Pietro, oltre il torrente Bolletto, si conservano
vestigia della chiesa e del campanile (1).
4) Verderio va compreso nella pieve di Brivio, non in quella
di Pontirolo alla quale non appartenne mai. E qui noto, che, se-
condo l'interpretazione deWauiore, Verderio non figurerebbe affatto
nel Liber e quindi non dovrebbe, logicamente, comparire nella
carta ;
poiché l'autore fa coincidere il Verdellum de subtus col Ver-
dellominore ( Verdellino), pure= segnato sulla carta semplice-
mente con Verdellum.
Leggiamo nel Liber (col. 280. C) : in plebe pontirolo, loco ver-
dellominore ecclesia sancii nazarii. Qui si tratta veramente di
.
Verdello minore o Verdellino, che venera ancora S. Nazaro come
suo principale patrono. A col. 128 B: Item apud adaam in ver-
dellum de subtus ecclesia sancii floriani maioris. Dozio ebbe già Il
ad osservare che qui si tratta di Verderio Superiore (2). A Ver-
dello e a Verdellino non fu mai memoria di una chiesa dedicata a
S. Fiorano, mentre a S. Fiorano è tuttora dedicata la parrocchiale
del villaggio brianteo il Dozio proponeva quindi di leggere « de
:
Ebbi questa notizia dairattiiale Parroco di Porto Ceresio, il Rev.
(1)
Don Cesare Bartoli. La chiesa (un tempo in parrocchia
di Besano, secondo
il BoMBOGNiNi: Antiquario della Diocesi di Milano « Milano 1792, pag. 109:
ne fu staccata nei primi decenni de! sec. XVIII dal Cardinale Erba con ;
Besano, anzi, sino al 1608, aveva fatto parte della parrocchia di Cuasso al
Piano) sorgeva proprio sulla riva del lago uno spaventoso straripamento :
delle acque nel 1528 rovesciò e rase al suolo chiesa, campanile e cano-
nica. Dì questa chiesa ebbe a trattare anche il Sormani (Nic. Sormani
« Topografia della Pieve di gasate » Milano 1728 pag. 19 e seg.). Egli
anzi, dopo averla ricordata quale antica matrice delle ville circostanti
(cosa non molto verosimile né storicamente, né topograficamente), riferisce
parte di uno strumento del 1478 riguardante un chiericato « S. Petri de
Porta Mediol. Diocesis ». La chiesa era giè^ sin da quell'anno in cattive
condizioni (« conductor.... recooperiri faciat dictam ecclesiam ne aqua
tectum penetrare possit ») ed in località boscosa ed infestata da paludi
« .... de petia terrae, Boschi, Paludis circa dictam ecclesiam... ») Lo strari-
pamento quindi del 1528 non avrebbe che affrettata e completata l'opera
di distruzione lentamente progressiva di precedenti alluvioni.
(2) Dozio, op. cit. pag. 187.
•Il MAEIO ERNESTO TAGMABUE
saprà » invece che « de subtus >, o «de subter » (com'egli lesse).
Quella specificazione topografica « apud aduam » può valere e vale
per Verderio, che dista appunto dall'Adda circa due chilometri: ma
non si potrebbe ragionevolmente riferire a nessuno dei due Ver-
dello, che dall'Adda, oltre che lontani assai, sono separati anche dal
corso del Brembo (1). Della grafia Verdellum per Verderlum non
è a meravigliarsi: la disinvoltura con la quale nomi locali sono i
trattati dal compilatore del Liher (2) ci lascia tranquilli e non ci
fa punto dubitare sulla identificazione e correzione proposta, benché,
già in documenti anteriori si possa leggere Vedererlo (anno 998) o
Verderio (a. 1135 e a. 1149) (3).
Il Liber, a col. 294 C, ha: in plebe gizano loco verdello ec- .
clesia sancii petri. Nella pieve di Cesano, alla fine del sec. XIV,
troviamo ancora una Capella S. Petri de Verderio (4): non è qui
dunque il caso di pensare a Verdello con la sua parrocchiale di
S. Pietro. Possiamo tutt'al più rilevare una delle non infrequenti
— e non delle più gravi —
dimenticanze del compilatore del
Liber (5).
Il cartogrofo ha dimenticato alcune località Grezzano ( -= Gre- :
zago ecclesia Sancii Martini
. col. 248 B; Ciserano ( loco
. . =
Caxirano ecclesia sancii marci, col. 225
. D) Levate ( loco la- . ;
=
vate altare sancii iacobi Zebedei
. col. 172 C); Pontirolo Nuovo . .
-= Burgo novo (circa due chilometri ad E di Pontirolo vecchio o
Canonica d'Adda) ripetutamente ricordato {altare sancii alexandri,
col. 12, A; ecclesia sancte marie, col. 256 D; ecclesia sancii mi- .
chaelis, col. 217 C, la chiesa attualmente parrocchiale di Ponti-
.
rolo). Credo bene notare che un documento del 1307, che dovremo
più oltre riprendere in esame, parla già di Pontirolo nuovo (6).
(1) Quasi con la medesima frase il Liber indica Colnago (Pieve di
Pontirolo) che dista pure dall'Adda poco più di due chilometri: Colnago
prope Abduam, col. 12 . A)
(2) cfr. Prefazione pag. LH.
(3) Dozio, op. cit. pag. 189.
(4) Marco Maoistretti « Notitla cleri etc. 1398 » in A. S. L. serie
III, voi. XIV (a. 1900) pag. 42.
(5) Documenti bergamaschi della fine del sec. XIII (quasi coevi quindi
alla compilazione del Liber) ci ricordano il beneficio 5. Petri de Verdello
Plebatus PotitiroU. (cfr. atto del febbraio 1283 di Aliprando Visconti, or-
dinario del Duomo e Vicario Generale Ottone, e lettera del-
deirArciv.
l'arcivescovo (?) Guido, in data 11 giugno 1293, in M. Lupus « Excerpta
ex actis Notar ior uni Bergami » ms. A . v. 8 in Bibl. Civica di Bergamo.
(6) G. Ronchetti, op. cit. tomo IV, pag. 49.
IL « LIBER NOTITIE SANCTORUM MEDIOLANI » '145
Naturalmente, anche per la pieve di Pontirolo l'elenco delle chiese
è incompleto.
Di due altre località della pieve di Pontirolo è menzione nel
Liber : Burgo Lidani . ecclesia sancii nicholai, col. 284. D ; e Sai-
lianense . ecclesia sancii michaeliSy Col. 218. B; ed entrambe non
sono segnate sulla carta.
Io non come identificare la prima con la odierna topo-
saprei
nomastica: mi limito soltanto a far presente che a col. 260. C.
troviamo ricordato un altare di S. Maria nella chiesa di S. Nicola
in Vaprio, mentre il Liber non ricorda poi questa chiesa fra altre
(S. Pietro, col. 294 D; S. Paolo, col. 299 .A; S. Colombano,
.
col. 95 B S. Carpoforo col. 90 B) esistenti in Vaprio. A Porto
. ; . .
d'Adda, proprio in basso, presso il fiume, esiste tuttora una chiesa
dedicata a S. Nicolò, della quale pure non è memoria nel Liber (1).
Per Taltra località « Sallianense » oserei affacciare una iden-
tificazione o, almeno, un avvicinamento. Il Mazzi, ricavandola
nella grafia « Salienense » dal documento pubblicato dal Lupi (2),
ebbe ad esporre l'opinione che tale località si trovasse forse non
molto discosto da Oslo sotto e da Verdellino, perchè di tali
villaggi sono le altre persone citate nel documento, accanto al-
V Andreverius de vico Salienense (3). Non si può certo pensare a
Sabbio, che pure venera Michele quale patrono parrocchiale (4):
S.
in uno piìi di un secolo al Liber - la
stesso documento, posteriore
Noiiiia Cleri del 1398 - sono distintamente ricordate le due loca-
(1) Con queste indicazioni io non intendo nemmeno affacciare delle
ipotesi: ho inteso soltanto presentare del materiali, a così dire, per even-
tuali supposizioni e soluzioni.
(2) Lupus, op. cit., tomo I, pag. 1053 « andreverius de vico Salie^
nense » Il documento è dell'anno 896.
(3) A. Mazzi, op. cit., pag. 390-391.
(4) Sabbio, per quanto non ricordato nel Liber, come tante altre lo-
calità, apparteneva alla Pieve di Lupus op. cit. tomo I,
Pontirolo (cfr.
pag. 267). La Pieve di Pontirolo cominciava a settentrione con Sabbio e
Sforzatica Andrea. Quest'ultimo villaggio ci è ricordato anche nel
S.
Liber per la chiesa di S. Maria (col. 256 D). Un documento del 1335 .
dell'Archivio della Cattedrale di Bergamo (Agli ardi « Notariorum excerpta »
ms. A . III. 5 (1) in Bibliot. Civ. di Bergamo, dagli atti di Pievano del
Brolo) ci ricorda la chiesa di S. Andrea di Sforzatica ( Sforzatica) e =
quella di S. Giorgio di Dalmine {:=z De Alniine) entrambe « dioecesis
mediolane nsis » È un atto col quale l'Arcivescovo Aicardo Antiniani di
Milano conferisce al chierico Monteferrato de Clementi una prebenda in
dette chiese, se vacante, o appena si renderà vacante, cfr. anche pag. 14
n. (1) verso la fine. Le due chiese formavauo unum corpus.
Arch. Stor. Lomb, Anno XVIX, Fase. I-II. 10
146 MAEIO KUNKSTO TAGLIABUE
lità (1). Ma si potrebbe forse pensare, a località non lontana e
non del tutto estranea a Sabbio: questo Sallianense o Salianese
non deriverebbe, attraverso ad un ipotetico Sabllanense, da Sa-
bianum o Sablianum? (2).
La pieve di Pontirolo comprendeva entro suoi confini anche i
Fara: ma questa terra non era nella sua giurisdizione. Il Liber
non la ricorda, nemmeno per la sua chiesa parrocchiale di S. Ales-
sandro. Apparteneva essa da secoli —
nonostante alcuni brevi pe-
riodi di turbato possesso (3) —
al vescovo di Bergamo, il quale vi
esercitava anche giurisdizione temporale, come ci attestano, fra
altri, numerosi documenti del sec. XIV. Una carta del 24 marzo
1309 (4) ricorda che l'Arcivescovo di Milano, Cassone della Torre,
per mezzo del suo nuncio e procuratore Pietro Meda, chiede al Ve-
scovo di Bergamo « quod licentiam faciendi quandam rozziam seu
alveiim per terras ecclesie S. Alexandri de Fara ripe A due per-
gamensis dioecesis et inde ducendi aquam infra locum de Fara
versus meridiem de flamine Adue derivandam ad opus terrarum
ecclesie mediolanensis ad mensam archiepiscopalem concessam bone
memorie domino Ottoni archiepiscopo mediai, per capitulum ecclesie
praedicte auctoritate ordinaria confirmaret. Quodque ipsi domino
archiepiscopo licentiam eandem concederei faciendi dictum alveum
etiam per terras Episcopii pergamensis positas in territorio pre-
dicti loci de Fara... ». Oltre la giurisdizione spirituale, il vescovo
di Bergamo nella corte di Fara possedeva delle terre. La giuri-
sdizione temporale non fu sempre pacifica, nemmeno per parte
degli abitanti di Fara, che una volta, per avere osato negare di
prestare il giuramento di fedeltà e d'omaggio, furono dal Vescovo
Signore colpiti di scomunica (5).
(1) op. cit., pag. 269.
Quasi ugualmente distante da Verdellino e Osio Sotto, ma da Sud,
(2)
è il villaggio di Arcene, pure con parrocchiale dal titolo di S. Michele:
ma non so come si possa da un Arzene o Arcinne giungere ad un Sallia-
nense o Salianense. E forse in questo Sallianense non avranno nulla a ve-
dere né Sabbio né Arcene, ma qualche fondo « fundus » del quale è scom-
parso, con la memoria, anche il nome.
(3) cfr. Giovanni Maironi da Ponte « Dizionario Odesporico » Ber-
gamo 1819-20, voi. II. pag. 84-85.
(4) Agliardi, op. ms. cit.
(5) Li assolse poi il 18 settembre 1315. L'atto fu compiuto « in claustro
ecclesìe S. Alexandri de loco Fare etc . in preseniia notarli domini domini
presbiteri Alcherii de Concesa Archipreshiteriy presbit . Bertrami de Con-
cesa et Petri Ambroxonum eanonicorum ipsius eclesie » L'8 gennaio del-
IL « LIBBB NOTITIE SANCTORUM MEDIOLANI » 147
Ben più singolare era il caso della giurisdizione che il vescovo
Bergamo —
in un certo momento, (nel 1307) esercitò sulla —
Chiesa di S. Michele in Pontirolo Nuovo in quell'anno infatti, con
:
itto in data 9 ottobre del cancelliere vescovile Bartolomeo Ossa,
conferiva ad un suo nipote Salvino de' Carpioni il beneficio di
iella chiesa « .... eius dioecesis .... caias collatio et institiitio ad
)sum dominum episcopum immediate noscitar pertinere... » (1) Il
iber ricorda la chiesa di S. Michele (col. 217 G). Quando sia
issata e ritornata, sotto la giurisdizione dell'Arcivescovo di Mi-
Ino, non si ha memoria.
Ma è la sola pieve di Pontirolo a presentarci di queste giu-
ìsdizioni di altri ordinari entro i confini della pieve: e questo
tato di cose non era ignorato dal compilatore del Liber, se nel
[assunto finale per pievi ebbe a scrivere fcol. 410 C.) « Prepositus
pontirolo sine exemptis et illis alterius episcopatus habet ecclesias
AHI cum aitar iae LXVIII ». La frase segnata la troviamo soltanto
)er questa pieve. I dati numerici — e questo vale anche per tutte
pievi — non hanno valore assoluto possono aiutare
e non ci
iè è possibile controllarli anche per quanto ed si riferisce a chiese
altari ricordati nello stesso Liber (2). Abbiamo veduto più sopra
il caso dì Levate, di cui il compilatore non ricorda la chiesa, della
quale in altra parte elenca un altare: spesse volte tralascia l'ac-
cenno di chiese certamente esistenti ai suoi tempi (3) manca :
qualche elenco per intero, ad esempio quello importantissimo e
non certo breve delle chiese dedicate a S. Ambrogio. Pontirolo,
per tanta parte nel contado bergamasco —
per quanto sino all'ot-
tobre 1784 unita a Milano anche per le parrocchie passate sino
dal 1428 al dominio veneto —
gravitò sempre un poco verso Ber-
l'anno seguente il Vescovo di Bergamo * ad qttem, temporalis iurìsdictio
et distr iettohominum et communis loci territorii et curie de Fara ripe Adue
pergamensis dioecesis tam in civilibus quam in criminalihus pertinere dino-
scitur... » vi nomina quale suo Vicario il Primicerio di Lallio (Agliardi
op. ms. cit.)
(1) G. Ronchetti op. cit. tom. IV. pag. 249-49. cfr. anche M. Lupus
« Excerpta etc. » op. cit.
(2) Non sono sempre esatte nemmeno le somme riassuntive che chiu-
dono l'elenco delle chiese e degh altari dedicati a ciascun santo.
(3) Vedansi a pag. 3 n. 7 le chiese esistenti nel 1264 nella bassa Valle
San Martino e tutte ignorate dal compilatore del Liber.
148 MARIO ERNESTO TAOLIABUE
gamo (1): il suo prevosto godette anzi nel sec. XIV —e per quanto
tempo non saprei (2) — di una giurisdizione spirituale e temporale
nell'ambito della pieve — in ternporallbus et spiritualibus in plebe
sua iudex ordinarius (3) quale non — si ha memoria avessero in
quei tempi capi delle altre pievi.
i
(1) Nel ms. A Ili . 5 più volte citato della Biblioteca Civica di Ber-
. .
gamo - ed anche in A. v. 8 - troviamo cenni frequenti di ordinazioni
di chierici milanesi, compiute dal Vescovo di Bergamo, sempre in seguito
a regolari lettere dimissorie dell'ordinario di Milano. Nel 1302, 24 gennaio,
li Prevosto di Pontirolo, Bergamo, membro di
Obìzzone d'Arsago, è a
una commissione composta tutta di eccle-
giudicatrice, in causa d'appello,
siastici bergamaschi. Nel 1364 abbiamo persino una causa di annullamento
di matrimonio fra due abitanti di Verdello per mancato consenso, deferita
dal Prevosto di Pontirolo al Vescovo di Bergamo, invece che all'Arcive-
scovo di Milano. Io penso che questa confusione di giurisdizione nel
campo ecclesiastico avvenisse per la unione e quasi confusione dei due
poteri in un territorio che temporalmente dipendeva in parte da Bergamo
ed in parte da Milano. Non erano però certamente estranee anche ragioni
di materiale comodità - per qualche caso almeno. Milano era lontana di :
Bergamo invece sì era quasi alle porte. Così nel 1332 l'Arcivescovo di
Milano, Aicardo, affidava al bergamasco parroco di Ghisalba, Simone de
Mozzi, il dirimere una controversia relativa al clero delle chiese « 5. Andree
de Sforzatica et Georgii de Almine que unum corpus existunt plebatus plebis
Pontiroli Diocesis Mediolani ».
(2) Questa autorità ci appare solo verso la metà del secolo. Così,
mentre nei primi decenni le dimissorie erano emanate dall'ordinario di
Milano, dopo la metà, anche quando si tratta di ordini maggiori e non dì
semplice tonsura, vengono rilasciate dal Prevosto di Pontirolo. Come e
perchè sia sorta è difficile a dirsi: arrischierei quasi l'ipotesi che inizial-
mente sia stata un'autorità tutta personale, concessa ad un Giulio Visconti,
prevosto dì Pontirolo nel 1358 e negli anni dì poi, e quindi dai succes-
sori del Visconti, conservata e continuata come inerente ex iure o ex pri-
vilegio alla dignità. Certo la esercitava ancora nel 1375 e nel 1378 il pre-
vosto Bruno di Bulgaro (Agliardi op. ms. cit ). Si ricordi che verso il
1320 vi era stato prevosto Giovanni Visconti, il figlio del grande Matteo,
il futuro signore ed Arcivescovo dì Milano. Giovanni dovette aver molto
cara questa sua canonica e pieve, perchè la volle ricordare e privilegiare
nel suo testamento del 5 marzo 1353, istituendo nella chiesa di Pontirolo
una cappellania perpetua sotto il titolo di S. Ambrogio (cfr. Notitia cit.
pag. 269) e destinando a tale chiesa un'offerta annua di lire 10 dì terzoli,
per il giorno di S. Giovanni (quale stabiliva anche per Monza, Corbetta
e Varese) (cfr. Giulini op. cit. voi. IX, pag. 571 e segg.).
(3) Così sì esprim.eva il prevosto Visconti già nelle dimissorie rilasciate
il12 maggio 1358 per la tonsura ad Ambrosiolo Sangio dì Alberto del
borgo di Trezzo. (Agliardi op. ms. cit.).
i
IL « LIBER NOTITIE SANCTORUM MEDIOLANI » 149
Concludendo questa nota anche troppo diffusa, andrebbe can-
:ellato Arcene dalla carta, perchè di questo villaggio non ho tro-
ato cenno nel Liber\ andrebbero invece aggiunti Borgo nuovo,
Levate, Grezzano, Caxirano, Sallianense, Borgo Liduni. Ove questa
località sia precisamente da segnarsi non saprei indicare: ma in
questa stessa pieve vedo segnato, ad di Cornate e Colnago, W
quel Fugatla {ecclesia S. Marie col 256 D) che non so come .
identificare. I confini della pieve, se non si vogliono e non si pos-
sono definitivamente tracciare verso E e verso S, si possono però
sicuramente segnare verso N (fra l'Adda e il Brembo e sulla si-
nistra di quest'ultimo fiume) ed iniziarne la linea ed anche la di-
rezione verso S. Va poi modificato il confine settentrionale a destra
dell'Adda, così da comprendere Verderio nella pieve di Brivio.
D) Pievi diverse
Credo non poche osservazioni riguar-
inutile esporre alcune
danti altre pievi della Milano e precisamente alcune
diocesi di
della Regione Prima, così come mi vennero fatte casualmente e
saltuariamente varranno esse pure a colmare qualche lacuna della
:
carta, a correggere qualche nota dell'indice.
Il Liber ricorda a col. 344 C. {in plebe mezana). ^ Ad poniem
lavicium ecclesia sancii stephani ». La chiesa è scomparsa comple-
tamente anche nella memoria ma la località rimane, per quanto
:
ora disabitata e quasi deserta (Ponte Laveggio) e sulla carta an-
drebbe segnata fra Centenate e Sesona (1).
A col. 279. A leggiamo: in plebe soma . loco monte sardo .
ecclesia sancii nazarii. Il luogo, già ricordato nel testamento del
suddiacono Alberto da Somma del 18 ottobre 1188 (2), fu identifi-
cato dal Melzi (3) e recentemente dal Bellini (4) trovasi ad ovest :
di Somma, sovra una piccola altura che domina la valle del tor-
(1) La chiesa di S. Nazario, data dal Liber come esìstente in Cente-
nate (pieve d'Arsago) è pure scomparsa: tuttavia la località, (ancora abi-
tata) fu giustamente segnata nella carta (col. 279 . C).
(2) G. OiULiiNi op. cit. tomo IV pag. 559. .
(3) Lodovico Melzi « Storia di Somma Lombardo » Milano, 1880-
pag. 203.
(4) Prof. Doti. Angelo Bellini « Alcuni cenni di storia e diarie ri-
guardanti Somma Lombardo ed adiacenze ». Milano, 1919 pagg. 14-26.
150 MAUIO ERNKSTO TAGLIABUB
rente Strona e la strada che da Somma mena a Golasecca e Coe-
rezza. Vi scorgono ancora ruderi considerevoli e pittoreschi
si
(di un ospizio, secondo la attendibilissima ipotesi del Bellini, non
di un castello): ma della chiesa nessuna traccia, come nessuna
memoria.
Alla vicina pieve di Arsago è stata attribuita una località che
non vi è mai esistita, e ciò per un evidente e grossolano errore
del compilatore: è Cavassi -= Caasso. Scrisse infatti il compila-
tore, a col. 93 D; in plebe Arzago seprii loco caaassi ecclesia
. .
sancte Cristine Invece di Arzago seprii bisogna leggere Arzisate,
.
Di un Cuassi o Cavassi ( =
Cuasso) nella vasta ed antichissima
pieve di Arsago, né in quelle limitrofe, non si ha alcun cenno, né
storico, né topografico: non si ha neppure memoria di chiese de-
dicate a Santa Cristina. Invece a Cuasso al Piano l'antica parroc-
chiale (tuttora esistente, quantunque ridotta a chiesa secondaria)
era ed è intitolata appunto ai SS. Carpoforo e Cristina.
Questa errata indicazione portò naturalmente ad attribuire alla
pieve di Arsago anche la chiesa di S. Michele di caaassi (col. 217 A)
ed a dubitare nell'attribuire alla pieve di Arcisate (nell'indice leg-
giamo; Cavaxi (Arcisate?) la chiesa di S. Dionisio (col. 101 C): .
due chiese sicuramente di Cuasso in pieve di Arcisate. La prima
è ricordata dopo altre due chiese della pieve (Uxeria Useria e =
devio) la seconda, dopo altra della medesima pieve (Bexasgio
;
=
Bisaschio) (1). Non sarà inutile aggiungere che una chiesa dedicata
a S. Michele esiste anche oggidì nella parrocchia di Cavagnano,
smembratasi solo nel 1904 da quella di Cuasso al Monte.
Alla pieve di Arcisate, oltre questo duplice Caasso, va asse-
gnata anche la chiesa di S. Nicola sul Monte S. Elia (col. 284 C), .
che l'indice attribuisce a quella di Porlezza. Credo anzi si tratti,
più che di una chiesa, di un semplice altare dedicato a S. Nicola :
la chiesa era, come attualmente, dedicata a S. Elia e da essa prese
nome il monte (lo sperone S-W. di M. Orsa) ed un altare era in ;
essa dedicato a S. Nicola. A questo altare, come abbiamo dal Liber,
si celebrava ogni anno la festa di S. Omobono : item festam illias
(Sancti Homoboni) ad altare santi nicholai in ecclesia sancii elye
apat arzisate (col. 280 B). .
Per la pieve di Arsago, v'é ancora da notare che ad essa, se-
condo il Liber, appartenevano Besnate (in plebe artiago seprii .
loco besenate . ecclesia sancti martini . col. 246 . B) e Bassano
(1) Nella carta trovo scritto, non so perchè, Besuzzo o Bezuzzo.
IL « LIBER NOTITIE SÀNCTORUM MEDIOLANI » 151
( = Buzano . ecclesia sancte marie . col. 255 . C) che ora, e non
solo da ora, spettano a quella di Gallarate. A Castelnovate, della
medesima pieve Arsago il compilatore assegna nientemeno che
di
otto Chiunque conosce la località e ne sa un po-
chiese (1).
chino le vicende storiche, assai modeste e secondarie, non può far
a meno di meravigliarsi di un così gran numero di chiese, spro-
porzionato ed all'importanza del luogo ed a quanto oggi rimane:
una sola chiesa, la parrocchiale di S. Stefano La Notitia Cleri (2) !
ricorda invece soltanto la cappella di S. Naborre. Anche in questo
punto bisognerà vagliare e sfrondare assai la liberalità del com-
pilatore verso Castelnovate, fatta, forse, a danno di qualche altra
pieve di Mezzana, nella carta è stato tolto Caldaie
località. Alla =
Caudate per includerlo in quella di Arsago. Anche nel Liber Cai-
date segue subito il Capo- pieve Mezzana (Caudate ecclesia sancii .
ichannis baptisie, col. 164 . A).
Chiuderò finalmente questi appunti col rilevare nella carta, in
pieve di Brebbia l'omissione di Beverina {ecclesia sancii andree,
col. 3 B) a N. di Besozzo, e ben distinta da Cocquio nominato
.
subito dopo per una chiesa dallo stesso titolo.
Ho corredato con una cartina le osservazioni contenute in A)
e B), come quelle che riguardano le più considerevoli variazioni
territoriali.
(1) Eccone l'elenco: S. Alessandro (col. 11 D), S. Antonino (col. 13 D), . .
S. Eusebio (col. 118 D), S. Giov. Batt. (col. 164
. B), S. Michele .
(col. 218 D), S. Naborre (òol. 282
. D), S. Stefano (col. 344 D), S. Vit-
. .
tore (col. 393 C). .
Nel GiuLiNi (op. cit. voi. IX. pag. 122) Castelnovate è ricordato come
appartenente alla pieve di Somma: invece il villaggio ha sempre fatto e
fa tuttora parte della pieve di Arsago.
(2) op. cit. pag. 54. Credo superfluo avvertire che la Notitia Cleri è
un documento finanziario-amministrativo del governo di Gian Galeazzo
Visconti è una tabella, diremmo noi, delle aliquote spettanti a ciascun
:
beneficiato nella ripartizione di taglie o carichi straordinari imposti al
clero del ducato milanese. Tali oneri non erano suddivisi su tutti — sia
pure proporzionalmente al reddito ~ i beneficiati : ne erano esclusi o
esonerati — come usavasi nelle taglie di carattere generale — coloro il
cui reddito risultava inferiore ad un minimo determinato volta per volta
dairamministrazione centrale. Non si può quindi pretendere che nella
Notitia siano ricordate tutte le cappelle della diocesi milanese: quanto
essa ci dice ha valore dimostrativo-positivo : ma il suo silenzio non può
tuttavia avere valore dimostrativo-negativo.
152 MARIO ERNESTO TAGLIABUB
Ed a proposito di carta, v'è da lamentare ch'essa nella topo-
nomastica non rispecchi, meglio che non abbia fatto, la grafia del
Liber, o almeno non segua un criterio unico nella trascrizione dei
nomi locali (1).
Mario Ernesto Tagliabue
(1) Oltre quelli qua e là sul presente studio, noto qualche
occorsi
esempio relativo che furono particolarmente ricordate. La carta
alle pievi
su Vergiate (odierna grafia) il Liber ha Vareglate: Coureno =
Corzeno
(si osservi che il Liber dà anche Coureno, ma per la località della pieve
di Seveso, l'odierno Copreno): Gropello — Cropello o Crepella.
La carta segna inVal San Martino: ad Villani: e questo va per l'in-
dicazione {eccl. S. Marie) col. 256. D del Liber. Ma questa a col. 3 . D,
ci dà anche Vila (eccl. S. Andree). La carta doveva darci Vila ( = Villa
d'Adda) e poco discosto non più ad Villani, ma la chiesa di Santa
Maria.
Antichi alberghi in un'antica via di Milano
ELLA seconda metà del secolo XV viveva in Milano un
tedesco, certo Bernardo di Norimberga, figlio di An-
tonio, il quale esercitava il commercio.
Abitava nel sestiere di Porta Romana, parrocchia-
di San Giovanni Laterano, o, come chiamavasi allora Itolano, e
trafficava nei più svariati articoli, ma sopratutto in quelli di pro-
duzione tedesca. E così, dopo aver fattoil negoziante di tegole e
materiali da costruzione, si mise a smerciare drappi di lana, pellic-
cerie, ottoni lavorati e, curioso articolo, sonagli in argento per
sparvieri. Vendeva inoltre materie coloranti, il che prova come, sin
d'allora, i una prerogativa dell'industria tedesca.
colori fossero
Gli Bernardo di Norimberga dovevano prosperare
affari di
molto bene, perchè nel 1478 egli acquistò da Donato de Carugo
un vasto edificio situato nei pressi della chiesa di San Giovanni
Laterano, composto di varie camere, sei botteghe, solaio, cantine,
corte, pozzo ed altre pertinenze, il tutto confinante con le
orto,
proprietà di Bartolomeo de Grumello, Vincenzo de Vicomercato e
Ludovico Visconti (1). Un documento di due anni più tardi ci
attesta che questo stabile è l'albergo dei Tre Re.
Con atto 27 luglio 1480 (2) infatti il nostro tedesco, diventato
albergatore, investe il signor Bernardino Airoldi di Robiate, figlio
di Cristoforo, abitante nelle cascinelle di Porta Orientale, di quel
suo possesso. Nel documento troviamo maggiori particolari sul-
(1) Arch. Notarile di Milano. Notaio Brenna Pietro. Atto 9 novembre
del 1478.
(2) Ivi. Notaio Bossi Bernardino.
154 VITTORIO AE!AMI
l'edificio, elle risulta composto di botteghe, stalle, dieci vani
sotterranei, dieci camere ed altre otto che non danno verso il
giardino, altre otto ai piani superiori e tre a* pian terreno, cortile,
pozzo, vani nel cortile, un grande portone ed altre pertinenze.
Fra confinanti troviamo nominato oltre al Vincenzo de Vi-
i
comercato sopradetto anche Antonio Maria San Severino.
Nello strumento è detto che il locatore si obbliga a far porre
in occasione della prossima festa di San Michele sulla porta
grande dell'edificio una targa, ossia l'insegna dei Tre Re, all' ese-
cuzione della quale attendeva il pittore Gottardo Scotti (1).
Non bisogna però credere che il citato documento costi-
tuisca l'atto di fondazione dell'albergo. L'albergo, o più precisa-
mente r osteria come la chiamavano allora, esisteva già, perchè
ci è rimasta notizia che essendo venuti a Milano nel 1476 e nel
1477 degli ambasciatori svizzeri, essi presero alloggio appunto nel-
l'osteria dei Tre Re.
Giovanni Itolano, pre-
In quella stessa località parrocchia di S.
cisamente all'angolo che la via dei Tre Alberghi fa con la via del
Cappello, esisteva un'altra osteria della quale si hanno notizie
molto più antiche. Era l'osteria del Cappello Rosso la cui esi-
stenza è accertata sin dal 1301 (2).
Senza dubbio in quelle adiacenze esisteva il palazzo che fu
corte dei Visconti, come
documento citato del 9 no-
risulta dal
vembre 1478 che ricorda fra le coerenze un Visconti; ed è anche
non improbabile che lo stesso edificio dell' osteria dei Tre Re fa-
cesse parte della Corte Viscontea (3). .
*
* *
L'osteria dei Tre^ Re era in quel tempo tra primi alberghi della
i
città. Nel 1492 il duca di Milano vi fece ospitare gli ambasciatori
(1) L'esposizione dell'insegna costituiva un obbligo per i proprietari
di osteria. Difatti in un decreto del 26 settembre 1386 del duca di Milano
si legge:
« ... quod omiies hospites et hospitatriceo Civitatis et Dioecesìs Me-
diolani teneantur et debeant tenere insìgniam foris ad eorum hospitia, et
quod non audeant, nec praesumant aliquem hospitare in eorum hospitijs,
nec dare alicui cibum, nec potum, nisi prius habuerit foris illam insi-
gniani, quam tenore debuerit, sub poena praedicta.
(2) E. Motta. Albergatori milanesi nei secoli XIV e XV. In Archivio
Storico Lombardo. 1889-1895-1899.
(3) Cfr. Giornale storico della letteratura italiana. IX. 1887. pag. 412.
ANTICHI ALEP^ROHI IN Un' ANTICA VIA DI MILANO 155
veneti Giorgio Contarini e Polo Pisani, reduci da una visita al-
l' imperatore Federico di Germania. I due ambasciatori devono
avere riportato un buon ricordo di quel loro alloggio, perchè si
legge in una cronaca: grande e comodo 1' albergo, gli ap-
<-
partamenti degli ambasciatori ornati di tappeti ; Ietti sfarzosi e
oggetti d'arte. Essendo sera vi furono
da servitori con ricevuti
candele di cera bianca. A tavola nell'albergo furono onorati dal
suono dei trombettieri e dei pifferi ducali nonché del rullo dei
tamburi della marchesa di Mantova allora in soggiorno a Milano » (1).
Nel 1512 alloggiò all'osteria dei Tre Re il barone Rinaldo
Daele signore di Villeneuve, maggiordomo del re di Francia,
inviato oratore all' iniperatore Massimiliano, e nel 1515 Giovan
Paolo Gradenigo provveditore degli Stradiotti.
Il Barrili nei viaggi di S. V. Imperiali, poeta e diplomatico
genovese, racconta che alloggiandovi questi nel 1609, ebbe a do-
lersi di certe bestioline che gli turbarono i sonni; ciò però che
non lo dissuase dal ritornarvi nel 1623 (2).
Nell'anno 1604 troviamo che l'osteria dei Tre Re era esercita
da Gio. Battista Rusca, e che vi alloggiarono i notabili Grigioni
venuti a Milano per prestare giuramento di fedeltà a Filippo- II.
Dal mandato di pagamento si rileva come 1' alloggio di quei di-
gnitari fosse costato la bellezza di lire novemila ! Senza contare
le altre spese, fra le quali vi è un conto di Lire millequattrocento
per canditi e confetture « regalati alli SS. ambasciatori de' Sviz-
zeri alle hosterie dove erano alloggiati dalli 12 giugno che ven-
nero qui sino alle 13 luglio presente » (3).
Lo stato ospitava con molta larghezza, ma poi era piuttosto
restio nel pagare Avendo Giov. Battista Rusca fatto so-
i conti.
cietà con Cristoforo de Azio e Giacomo Ceprario per l'esercizio
della predetta osteria, venne convenuto con atto notarile di di-
videre i crediti.
È curioso notare come crediti maggiori fossero verso la Ca-
i
mera ducale; ed infatti se ne ha uno di L. 7124 per cibarie
fornite per ordine della medesima agli ambasciatori svizzeri fin
del 24 settembre 1604, un altro verso la stessa di L. 10,307 per
altre spese di cibarie fatte per gli Svizzeri, e pòi un terzo di L. 606
I (1; Simonsfeld. Ein Venetlanischer Reisebericht iiber Siiddentochland
die Ostschweiz und Oberitalieu aus den.Jhare 14Q2 in Zeiischrift far kul-
turgeschichte //, 278. Nota bibliografica di E. Motta.
(2) E. Motta. Archivio Storico Lombardo 1898 Pag. 374.
(3) ASM. Potenze estere. Svizzera. Grigioni. Cart. 143.
156 VITTORIO ADAMI
ancora verso la stessa Camera per alloggiamento di cavalleggeri
della Guardia di Sua Eccellenza il Governatore.
Questo atto notarile venne rogato « in camera superiori ap-
pellata Santo Ambrosio posita in suprascripto hospitio Trium
Regum... ».
Nel 1623, alli 2ó di dicembre, Baldassare Migliavacca oste
dei Tre Re invoca gli siano pagati due mandati, uno di L. 1377
per spese fatte nella sua osteria dal capitano svizzero Giacomo
Lucer e dai suoi due servitori dal 15 gennaio 1622 29 maggio al
1622, e l'altro di lire 1341 per spese fatte del capitano Hippolito
d'Appenzel pure svizzero, con un servitore, dal 24 febbraio di
detto anno al 24 del mese di agosto.
Questi alloggi di personaggi svizzeri si succedevano con fre-
quenza straordinaria, e non di rado si trattava non di individui
isolati, ma di intiere compagnie.
Così nel 1621 all'albergo dei Tre Re prende alloggio il 9 di-
cembre e vi rimane fino al 12 febbraio 1622 una comitiva di 54 sviz-
zeri e 44 cavalli consumando 1172 pasti di 1^ classe, 930 di 2% 755
stallatici e 3586 misure di avena (1).
L'insegna dei Tre Re è forse la più antica insegna d'albergo
che si conosca. Generalmente si crede che l'albergo sia stato così
denominato per avere alloggiato tre principi o sovrani, ma la
ragione non è questa. I tre re sono i tre magi della Sacra Scrit-
tura; e difatti in un altro rogito del notaio Brenna, in data 22 feb-
braio 1481, col quale Bernardo de Norimberga cede l'albergo a
Giovanni de Venzago detto de la Fontana si legge: de signo slgnato
iti tatuila que expr imitar et intitulata est hospitiam triam mago rum.
Ma vi è poi per Milano una particolare ragione perchè fos-
sero ricordati Re Magi in quest'insegna d'albergo.
i
La storia ci dice che a Milano, nella chiesa di Sant'Eustorgìo,
erano sepolti corpi dei tre santi Re Magi, Gaspare, Melchiorre e
i
Baldassarre, che Federico Barbarossa nel 1163 aveva fatto traspor-
tare da Milano a Colonia.
Da Milano pare che il sacro convoglio prendesse la via di
Como per sostare poi a Grandate. Difatti a Como esisteva anti-
camente una via detta dei Tre Re e nella stessa via un albergo
(]) ASM. Potenze estere - Svizzera - Grigioni. Cari. 143.
ANTICHI ALBERGHI IN UN' ANTICA VIA DI MILANO 157
omonimo. Ed a Grandate esiste tutt'ora la chiesa della Pausa San-
ctorum nella quale sostarono appunto i corpi dei tre santi (1).
Quest' insegna del resto era molto diffusa anticamente. Nei
secoli XV e XVI, infatti, oltre che a Milano e a Como, troviamo
i tre Re a Venezia, Novara, Vercelli, Pavia, Alessandria, Casale,
Viterbo, Siena, Roma, Napoli, Bellinzona, Airolo, Berna, Basilea e,
piti tardi, in moltissime altre città d'Italia e d'Europa.
Il marchese Francesco Trivulzio, ad esempio, il nipote del
grande maresciallo di Francia e signore della Mesolcina, il 24 aprile
1549 in stupha hospitii Trium Regum » in Bellinzona firmava
«r
una convenzione coi Mesolcinesi relativa ad alcune libertà da elar-
girsi alla valle (2).
* *
Che Tre Re fosse tra quelle che godevano maggior
l'osteria dei
reputazione lo prova il fatto che ad essa venne affidato il servizio
di recapito della posta per la Germania.
Prima del 1518 non esisteva per i privati un regolare servizio
di posta le lettere andavano e venivano col mezzo di pedoni, ca-
:
vallanti e mulattieri senza alcuna garanzia o regolarità. Fu nel
1518 che Simone Tassis, generale della corte di Carlo V, incominciò
ad assumere la privativa delle spedizioni delle lettere dei privati.
Pili tardi, mediante una grida che fece pubblicare l'anno 1556,
tentò di accaparrare il servizio postale fra l'Italia e la Germania.
Ma la Camera dei mercanti di Milano, desiderando di mantenere il
suo antico privilegio di spedire suoi messaggeri ovunque libe-
i
ramente, mosse lite al predetto Tassis. La lite fu lunga e durò fino
al 1561 terminando con una sentenza del Senato di Milano favore-
vole ai mercanti.
Per la corrispondenza diretta in Isvizzera ed in Germania
mercanti milanesi si valevano anche dei cavallanti o messaggeri
provenienti da Coirà e da Lindo; onde poi la posta della Ger-
mania fu chiamata a Milano posta o corriere di Lindo, e conservò
tal nome per moltissimi anni ancora.
Il privilegio dei mercanti milanesi nel servizio postale durò
sino all'anno 1730 in cui, con ordine in data 8 novembre del
Governo, venne stabilita l'incorporazione della posta di Lindo nel
(1) NiNGUARDA, Visite pastorali. Voi. II. Pg. 163 e 164. Nota di Santo
Monti.
(2) Bollettino Storico Svizzera Italiana, anno 1912.
158 VITTORIO ADAMI
regio ufficio di Milano. E così fino a quell'anno Posteria dei
Tre Re rimase sede del recapito postale per la corrispondenza
con la Germania.
A proposito di questo recapito postale racconta il Cremo-
sano (1) che nell'agosto del 1667 si presentarono alFosteria sud-
detta certi Labane francese e Lovati detto il Mazzasette di Galla-
rate con un grosso scatolone che dissero di voler consegnare
per spedirlo in Germania. Ma due messeri, che erano due as-
i
sassini, erano entrati nell'albergo col proposito di far sparire, in-
troducendolo a forza in un condotto, il tronco di un corpo umano
appartenente al cadavere del banchiere Marzorati che essi avevano
ucciso per derubarlo. L'operazione però non andò bene, perchè
essendo l'apertura del condotto alquanto stretta, essi dovettero
per allargarla rompere la muratura; il che fece sì che famigliari i
dell'osteria scoprissero il delitto. I due assassini furono presi e
condannati ad essere^ attanagliati ed arrostiti vivi.
Nel 1720 il conte Giacomo Antonio Annoni, che era in quel
tempo proprietario dell'osteria dei Tre Re, ebbe divergenza col Go-
verno per la cassetta delle lettere che era stata fatta togliere dal
suo albergo e collocata invece in quello del Pozzo.
Il conte Annoni in un suo memoriale espone di avere, per
antica concessione, il diritto di tenere esposta nella sua osteria
una cassetta per la raccolta delle lettere dirette nella Svizzera,
di ricevere le vetture provenienti da quei paesi e di avere sempre
dato alloggio a principi ed ambasciatori di tutto il corpo germa-
nico, tanto che la sua osteria è anche chiamata col nome di
osteria dei Tedeschi. Ritiene quindi col trasporto della cassetta
delle lettere all'osteria del Pozzo pregiudicati i propri diritti e
quelli di Caterina Saronni, sua dipendente incaricata di racco-
gliere e spedire le lettere per la Svizzera.
Contro questo memoriale il tenente delle regie poste di Mi-
lano in una lunga relazione al Governo nega al conte Annoni il
diritto di esercitare il servizio postale, essendo questo una regalia
di esclusiva spettanza del sovrano. Egli spiega come tutte le lettere
per Lugano e per gli altri paesi della Svizzera fossero affidate a
corrieri mantenuti dal governo di Zurigo i quali compivano un ser-
vizio puntuale e regolare arrivando e ripartendo con le lettere il
martedì e il sabato. Questi corrieri ricevevano dall'ufficio postale
di Milano tutte le lettere, tranne quelle dirette al solo borgo di
(1) Motta, Bollett. Stor. Svizzera Ital.^ anno 1912.
I
Lugano
ANTICHI ALBERGHI IN Un' ANTICA YIA DI MILANO
e consegnate nel giorno *di mercoledì le quali invece erano
16U
spedite per conto dell'albergo dei Tre Re.
Ora siccome la raccolta delle lettere per la Svizzera si faceva
al detto albergo mediante una delle quali era
due cassette, su
scritto: lettere per tutto il paese svizzero e Lugano, e sull'altra:
lettere per Lugano; la Caterina Saronni, per avere maggior utile
toglieva le lettere dalla prima cassetta e le metteva nella seconda
defraudando il cantone di Zurigo delle spese di posta. A questa
defraudazione era consenziente lo stesso oste dei Tre Re, anzi si
facevano violenze agli avventori affinchè non mettessero le lettere
nella cassetta per la Svizzera, mentre poi corrieri svizzeri che al- i
loggiavano in detta osteria erano stati minacciati dalla Saronni
perchè non parlassero (1).
Qualche tempo dopo vediamo tutti i servizi per la Svizzera
affidati all'ufficio postale governativo; tuttavia il corriere così
detto di Lindo continua ad avere il suo recapito all'albergo dei
Tre Re.
Difatti nel calendario ad uso del foro, per il 1796 leggiamo queste
indicazioni: il corriere di Lindo con le lettere di Chiavenna, Val-
tellina ecc. arriva alla domenica mattina, alloggia all'albergo dei
Tre Re e riparte al martedì, giovedì e sabbato. Il messaggero e
pedone di Crema, Marcellino Fumagalli, ha il suo recapito anche
all'albergo dei Tre Re.
Anche Giovanni Visconti Venosta nei suoi « Ricordi di gioventù »
parlando del nonno, che aveva fatto gli studi a Roma in un col-
legio dei gesuiti e vi era rimasto parecchi anni ritornando in fa-
miglia ogni anno per le vacanze, dice : « Il viaggio dalla Valtellina
a Roma in quei tempi, e cioè intorno al 1770, non era un affar da
poco. Si faceva la Valtellina a cavallo e il lago di Como in barca,
poi a Milano c'era un vetturale all'albergo dei Tre Re che con un
legno a quattro cavalli conduceva a Roma impiegandovi circa due
settimane ».
Nel 1848 all'albergo dei Tre Re, che ormai ha perduto la sua
antica importanza, non hanno più il recapito che corrieri della i
provincia. Ne ne riparte giornalmente il cavallante di
arriva e
Crema, certo Giuseppe Simonetta conosciuto col nome di Ga-
briello. Il martedì vi giungono corrieri di Intra e ne ripartono
i
il giovedì.
(1) Archivio di Stato di Milano, Governo, parte antica, Finanze,
cart. 965.
160 VITTORIO IDAMI
*
* *
Nel Registro di Provisione dell'anno 1550 alla data del 18 ot-
tobre leggiamo che il Vicario intima ad alcuni osti, sotto la pena
di scudi 50non adoperare certe misure proibite. Fra
di no- i
minati vi è certo M. Alberto oste dellì Tre Re.
Ma quest'albergo rimane poco tempo in mani plebee. Nell'anno
1649 dal libro delle tasse rileviamo che in Porta Romana, Parrocchia
San Giovanni Ittolano, « si ritrovavano descritti sotto il nome
delli heredi del conte Giovanni Angel* Annoni l'hosteria delli
Tre Re con quattro botteghe; una delle quali l'anilo 1635 fu mu-
rata ed incorporata con la suddetta hostaria » (1).
Nel 1699 l'osteria passa conte Giovanni Andrea Annoni, e
al
nel 1716 ne sono comproprietari il conte Giacomo Annoni e la
contessa sua moglie donna Bianca Visconti Borromeo Biglia.
Quella del conte Annoni non era la sola famiglia nobile mila-
nese che usufruisse del privilegio di tenere osterie.
Nel 1437, ai 26 giugno, il conte Marco Taverna compra
l'osteria di Trezano con la ragione dei dazi sul pane, vino e carne
al minuto.
Con decreto 29 dicembre 1479 la duchessa Bona concede
facoltà al nobile Giovanni Antonio Lattuada di tenere aperta un'o-
steria aCaronno. La stessa duchessa l'il marzo 1480 accorda ai
frati dell'ordine di San Gerolamo del monastero di San
eremiti
Sigismondo a Cremona il privilegio di aprire un'osteria a Fissirengo
Cremonese (2).
Ed ancora in tempi molto vicini ai nostri, e cioè nel 1752, ve-
diamo che la contessa Antonia Solari di Barbon possiede l'osteria
detta di San Pietro Martire.
Il conte Giacomo Annoni e la contessa Bianca sua consorte
ebbero una lunga lite per la questione del dazio sul vino, poiché
è da sapersi che a quei tempi le famiglie nobili milanesi non di-
sdegnavano di far denari mediante la vendita del vino al mi-
nuto, e spesso e volentieri cercavano di passarla franca col dazio.
Il conte Giuseppe Mandelli, il marchese Innocenzo Isimbardi,
il conte Barnaba Barbò, il marchese Antonio Lonati, il conte Mel-
chiorre Andreotti, il conte Giacomo dal Verme e l'abbate Sforza
(1) Archivio storico civico. Milano, Famiglie- Annoni.
(2) A. S, M , Registro ducale. N. 53.
ANTICHI ALBERGHI IN UN'ANTICA VIA DI MILANO 161
Crivelli il 9 ottobre 1743, presentano un'istanza alla real giunta
di Governo per essere autorizzati a vendere vino al minuto.
Il permesso non è accordato, ma quei signori mon se ne danno
per inteso e fanno vendere il vino dai loro famigliari.
Ecco un curioso elenco delle « case nelle quali si vende abu-
sivamente vino al minuto in pregiudizio del dazio » (1).
Cantina di S. E. il conte Don Cipriano Stampa,
Cantina del conte Antonio Belgìoioso,
Servitore di casa Monticelli,
Portinaio del marchese Febo,
Staffiere della signora marchesa Origona,
Il cantinaro del signor marchese Magenta,
il portinaio del conte Caimo,
Il portinaio del conte Dal- Verme,
Il servitore dei signor marchese Covino.
Il cocchiere della signora marchesa Donna Bianca Visconti a
San Giovanni la Conca,
Unservitore in casa del signor marchese Corbetta.
Questo elenco faceva parte di una formale denuncia al Governo ;
ma si vede che nessuno si dava pensiero di far cessare Tabuso,
perchè le denuncie del genere si ripetono senza tregua negli anni
che seguono.
Nel 1754 è l'Università degli ostieri che formula quest'altra
denuncia: (2).
« Abbenchè paresse che nelle presentanee circostanze e pub-
blice notorietà delli sfrenati abusi che chiunque ha occhio veder
deve introdursi in questa città e soborghi col vendersi vino a mi-
nuto indistamente, sì nelle case e siti che esigono rispetto, come
eziandio nelle case d'ogni pezzente che niente babbi da temere
le pene pecuniarie, ciò non ostante hanno voluto l'abbate e sindici
dell'Università delli Osti di questa Città e Corpi Santi servitori
umilissimi delle SS.^^ LL. III.'"^ in nome delli osti componenti la
medesima Università e per le respettive giurisdizioni anche in ese-
cuzione del gravoso patto posto nell'ultime investiture con gran
loro spese dare le giuridiche prove nauti l'egregio Signor Giudice
de' Dazii e nelli atti del notaio Signor Giuseppe Masera.
Dalle giuridiche informazioni prese risultar deve che si vende
(1) Archivio storico civico di Milano, Materie, Vino, 940.
(2) L'Università degli ostieri è un'antichissima jistituzione di Milano
e trovasi menzionata nei più antichi statuti milanesi.
Àrch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. I-II. 11
162 VITTORIO ADAMI
pubblicamente o chi che sia ed in quelle siti con tavole da ma-
gnare e giochi di carte e boccie e vino a minuto.
Nella casa del Dazio grande vicina a scalini del Domo di
questa città.
Nel pristino detto delle Scansce
Nella casa Orrigona vicina a San Giovanni alle quattro facce
Nella casa Borromea nelle contrada Rugabella.
Nella casa Annona sopra il corso di Porta Romana.
Nella casa della S.'''' marchesa D. Bianca Visconti.
Nel pristino dei Bossi.
Nel pristino di Sant'Antonio.
In casa Maggenta passato S. Alessandro.
Nel pristino di Ponte Vetro.
Nella casa delli RR. Padri di S. Antonio.
Nelle cantine delli RR. PP. di S. Francesco.
Il tenente Fasolino.
Sposa Lucia la Postara vicino airOlmetto.
Monache di Sant' Orsola e la loro fattora.
Li fanti nel Strecciolo detto de' Tegnoni
Nella corte ove stanno li sbirri.
Una tedesca sotto al voltone vicino al seminario.
Una tedesca sul cantone della Spica.
Nelle case nove a San Primo.
Il Tessitore che abita di rimpetto all'osteria del Biscionello.
L'Infermiere dell'Ufficio del S. Gap.» di Giustizia. (1).
Benché verso la fine del XVIII secolo fossero sorti in Milano
altri alberghi migliori dei Tre Re, questo continuò, per parecchi
anni ancora, ad avere una distintissima clientela.
Nel 1783 vi ebbe ospitalità l'allora celebre maestro Sarti quando
venne a mettere in iscena la sua opera Idelide.
Il 6 gennaio 1797 anche il landscriba Beroldinger coi landfogti
di Lugano e Mendrisio, venuti a Milano per avere udienza da
Bonaparte, sostano all'albergo dei Tre Re. Il Beroldinger nelle
sue memorie così ricorda quell'udienza: « II 7 all'ora fissata
venne il signor Haller nell'osteria dei Tre Re a prenderci ed in;
(1) Archivio Civico, Milano, Materie, Vino, cari. 940.
ANTICHI ALBERGHI IN UN' ANTICA VIA DI MILANO 163
due carrozze andammo al palazzo del duca Serbelloni dove allog-
giava il suddetto generale Bonaparte e dopo aver fatto buonissima
anticamera fummo tutti ammessi all'udienza ». (1).
Nel 1797 ai Tre Re alloggiarono molti funzionari addetti al-
l'esercito francese, come intendenti, commissari, direttori di ospe-
dali, e così via.
Nel 1803, dopo avere abdicato in favore del fratello Vittorio
Emanuele, vi prese stanza per due settimane Carlo Emanuele di Sar-
degna con numeroso seguito, il quale, dice la cronaca, « vi fece
tanto chiasso che non si sapeva più in che mondo si fosse >. (2).
Fu in quest'albergo il giureconsulto francese Albisson quando
venne a Milano per prendere parte alla compilazione del codice
napoleonico. Vi fu pure l'illustre medico Siro Borda ricercatissimo
per i suoi consulti. E vi fu il pittore Fabre, l'amico della contessa
d'Albany, che vi ebbe un diverbio animatissimo con Ugo Foscolo.
Nel 1814 vi alloggiarono Giorgio Stanley, Cary, Pierrepont,
Montagù, notabilità inglesi, il barone Schubart Gran Croce di Da-
nimarca, ciambellano a quella Corte ed una compagnia di gesuiti
irlandesi fra quali Robert, Saint Légér, Aimer Callo, Bartolomeo
i
Edmond, Carlo Pealey e Giacomo Rabler.
Nel 1817 infine troviamo all'albergo dei Tre Re Francesco
Merli, un marchigiano che congiurava contro il governo papale.
Furono questi gli ultimi anni di splendore dell'antico albergo ;
dopo il 1820 esso incominciò a decadere rapidamente, ed in poco
tempo divenne una vera osteria nel senso moderno della parola.
Non abbiamo ancora parlato di un terzo albergo che sorgeva
nella contrada dei Tre Re: l'albergo Reale.
Questo che esisteva già nella prima metà del secolo XVIII era
situato al Numero 4107 della Contrada dei Tre Re, nella casa che
è stata di proprietà Gagnola situata al N. 17 dell'attuale via Tre
Alberghi.
Ora, perchè e quando la contrada dei Tre Re cambiò la sua
antica denominazione in quella di Tre Alberghi?
Questo cambiamento di nome è dovuto alla Rivoluzione fran-
cese ed al conseguente avvento della Repubblica cisalpina. Dopo
(1) Bollettino Storico della Svizzera italiana. Voi. XII: La famiglia
Beroldingen. Pag. 225.
(2) // Pungolo del 17 gennaio 1878.
UH VITTORIO ADAMr
aver dichiarato una guerra tanto accanita al principio ed alle forme
monarchiche, era logico che quell'insegna dei Tre Re desse ombra
ai patrioti cisalpini e perciò in data 12 fiorile dell'anno IX, che
corrisponde al 2 maggio dell'anno 1801, il dicastero centrale di
polizia della Repubblica Cisalpina, intimava al sovraintendente del
dipartimento dell'Olona di fare immediatamente cambiare la deno--
minazione di contrada dei Tre Re in quella dei Tre Alberghi.
Si tentò di fare scomparire anche l'insegna dell'osteria, ma al
l'atto pratico essa continuò a chiamarsi sempre l'osteria dei Tre
Re. Così pure la strada per quanto portasse il nuovo nome di
contrada dei Tre alberghi si continuò per moltissimi anni ancora
a chiamarla nell'antico modo. Tanto che in quasi tutte le guide di
Milano stampate nella prima metà del secolo XIX troviamo ancora
la via dei Tre Re e l'albergo dei Tre Re.
Intanto l'albergo Reale aveva acquistato una grande reputa-
zione. Nella guida per i forestieri dell'anno 1844 vi si trova che
l'albergo Reale è fra primissimi della città « con tavola rotonda
i
alle 4 e V2 ^ bagni pei soli alloggiati ». Ed in un'altra guida
del 1859; « grandi signori devono andare agli alberghi di pri-
i
missiitio ordine a la Villa ed al Reale ».
Ma un altro ottimo albergo era intanto stato aperto al Nu-
mero 4106 della via dei Tre Re; l'albergo d'Europa. Troviamo
il nome del suo proprietario nei registri della polizia fra le per-
sone sospette in linea politica. Il 4 agosto 1819 il consigliere aulico
Raabe direttore generale della Polizia scrive di lui al Conte Stras-
soldo in questi termini: « Marchand Pietro è nativo di Versailles,
conta 61 vedovo senza prole. Egli trovasi in questa città
di età, è
da 24 anni e ne ottenne anche la cittadinanza. Dopo di avere fatto
il trattore per molto tempo aprì un albergo nella contrada dei
Tre Re sotto la denominazione di albergo d'Europa. Sarebbe assai
difficile il poter determinare le relazioni che tiene il Marchand per
le sue qualità di albergatore che lo porta ad avere rapporti con
infinite persone, egli però mai richiamò l'attenzione della politica
autorità. Ora però sarà sottoposto ad una speciale sorveglianza
inerentemente ai venerati ordini di V. S. ». (1).
Forse questi sospetti traevano origine dalle cariche eminenti
coperte da personaggi che alloggiavano nell'albergo. A questo pro-
posito, sempre nei rapporti della polizia leggiamo sotto la data
del 30 maggio 1814: « ler l'altro notte il signor Duca Moncalli
(1) ASM., Atti segreti. Anno 1819. Cart. 24.
ANTICHI ALBERGHI IN Un' ANTICA VIA DI MILANO 165
generale siciliano alloggiato all'albergo dell'Europa in contrada dei
Tre Re, ebbe seco certa Rosina abitante in contrada della Sala.
Questa donna che fu congedata ieri mattina con la mercede di
lire 35, ha confidato che durante la notte il predetto generale le
fece molte domande sulle vicende ultimamente seguite in Milano
e le disse che i Siciliani faranno guerra al re Murat, che tutto
la
già è pronto per lo sbarco di centomila uomini siciliani nel regno
di Napoli ».
L'Albergo d'Europa si trasferì poi sul Corso Vittorio Ema-
nuele dove lo troviamo già nel 1866 proprietà di Davide Marcionni.
Dopo l'albergo d'Europa scomparvero dalla via Tre Alberghi
anche gli altri antichi alberghi. 11 giornale « Il Pungolo del ^^
17 gennaio 1878 pubblicava: « Questa informe e vastissima ca-
saccia che si vede a metà della via dei Tre Re era cento anni fa
uno dei piìi grandiosi alberghi della nostra città, e a quanto di-
cono, quella lurida casaccia sarà quanto prima demolita ».
E così fu. Dopo esservi rimasta qualche tempo l'impresa Nani
di omnibus e vetture subentrò la società di trasporti Gondrand.
Dopo qualche tempo il caseggiato venne abbattuto e sulla sua area
sorsero i magazzini Vittoria.
Altri ristoranti ed osterie furono aperte nella via Tre Alberghi,
ma le vecchie insegne non furono più richiamate.
Le insegne di uno stabilimento e di bagni ed una drogheria
ricordano oggi, nella stessa via, l'antica denominazione dei Tre Re.
Vittorio Adami.
ha eattedPa di Diritto manieipale e ppovineiale
nelle Scuole palatine
e la soppressione delle Canobbiane.
veramente triste il dover riconoscere che la scarsità di
documenti intorno alle antiche scuole superiori in Mi-
lano ci impedisca di avere il quadro della coltura
milanese nei secoli scorsi. Quel poco che rimane non
basta ad attestare la vitalità della coltura superiore a Milano.
Sappiamo che alle Palatine nel cinquecento si insegnava Istituti Ci-
vili ossia Diritto, arte oratoria latina e greca, con tre lettori. Ma i
metodi d'insegnamento, programmi, tutto ci è ignoto tranne quel
i ;
poco che ci hanno tramandato scrittori come il Sassi, il Lattuada,
il Sitoni (1). Nel 1554, in seguito al testamento di Paolo da Can-
(1) Saxius, de studiis mediolanensium Mediolani 1721, pag. 124; Lat-
tuada, Descritione di Milano, Milano 1737, Voi. V, p. 186; Avv. Sitoni,
Lettera scritta al Medico filosofo, Bartolomeo Corti e da questo fatta ;
stampare nel fine delle sue Notizie storiche intorno ai medici e scrittori
medesimi. Milano, 1718. Il Sitoni racconta poi come a Milano si formasse
uno studio generale al tempo della Repubblica Ambrosiana. Morto senza
legittima prole Filippo Maria Visconti nel 1447, i pavesi non ne vollero
sapere della sovranità della repubblica milanese e parve poco sicuro l'ac-
cesso in quell'università degli studenti milanesi e alleati. I capitani della
repubblica curarono allora la fondazione di un'altra Università a Milano.
Venne dato l'incarico a sei gentiluomini di formare il catalogo dei lettori
secondo le diverse classi di scienze e dì fissare i salari. Il ruolo dì questi
insegnanti venne pubblicato dal Sitoni. Pare esistesse una vera Università
completa dalla teologia alla giurisprudenza, dalla medicina alla matematica.
LA CATTEDRA DI DIRITTO MUNICIPALE ECC. 167
nobio, gentiluomo milanese, si istituirono due cattedre di logica
e di che formarono le scuole Canobiane. Tutta Talta
filosofia, '
coltura milanese era in queste cinque cattedre, poste sotto la
protezione del venerando collegio dei nobili giureconsulti. Poche
altre cose sappiamo sappiamo ad es. che
; lettori delle Canob- i
biane avevano il godimento gratuito di una casa (1): che nel
1642, attese le grandi spese, per bilanciare le entrate bisognava
ridurre lo stipendio ai lettori (2) che lettori delle Palatine ave-
: i
vano Fesenzione dai dazi, esenzione che pesava assai al Comune
di Milano e se ne interessa infatti la congregazione di patrimonio
« che con tanto zelo si degna d'andar continuando al possibile
« ristoro del grave sbilancio della città » (anche allora si faceva
;
economia sul personale) lettori avanzano memoriali di pro-
: i
testa, osservando che V esenzione integra lo stipendio e S. E. il ;
Governatore (siamo nel 1664) pensa di lavarsene le mani e di ad-
dossar la noia al Senato (3). Il tema dell'esenzione dai dazi mu-
nicipali (Dazi sul vino, sulla carne e sulla macina) è ripreso nel
1767 per abusi che vi si incrostano sopra come una
via degli
muffa dannosa. L'esenzione che andava per modo di dire fino ai
parenti in Adamo, fu ridotta a sei bocche annuali rispetto ai let-
tori secolari e a due rispetto ai regolari.
Per tornare al nostro assunto ricorderemo un tentativo fatto
nel 1587 di trasformare le cattedre canobbiane in altrettante di
leggi civili, ritenendo che le letture di filosofia fossero inutili ed
(1) ASM., Studi, Scuole, Milano, Piatti, Grassi e Canobbiane. Cart. 334.
Relazione o transunto cronologico di documenti riguardanti il patrimonio
delle scuole canobbiane. 1608 agosto 26. Relazione Scaramuzza Visconti
sull'apertura di Via Rastrelli verso Via Larga.
(2)ASM., cart. citata, relazione cit. 1642, giugno 2.
ASM., Studi, Scuole Palatine Milano, cart. 331. Memoriale della
(3)
Congregazione di Patrimonio della Città di Milano. Lettori Palatini. « Ha
considerato la Congregazione di patrimonio che mentre nei tempi passati
queste letture nella palatina venivano esercite quasi sempre e da persone
religiose o da altre che non havevano molte facoltà, non riceveva il
pubblico danno considerabile nelle sue rendite, come di presente succede
per la molta copia dei beni e numerose famiglie che alcuni dei moderni
lettori tengono, onde riflettendo che la medesima Congregazione alla somma
attentione che con tanto zelo si degna d' andar continuando al possibile
ristoro del grave sbilancio della città, ha stimato suo preciso debito il
portare all'È. V. questa notizia per ricevere quegli ordini che più stimerà
che convengono al beneficio e soglievo di questo Publico ».
ALESSANDRO VISCONTI
«
infruttuose. Il buon senso pratico lombardo ripugnava alle astru-
serie filosofiche ;
giacché, specialmente in quel tempo, la filosofia
scolasticanon faceva buona prova di fronte ai primi tentativi del
metodo sperimentale. E per avere facilmente la trasformazione, l'Ar-
civescovo si era impegnato di ottenere da S. Santità la dispensa
necessaria cambiare lo scopo alla volontà del testatore.
per è C
in propositoun verbale del Capitolo dell' Ospedal maggiore —
esecutore della volontà di Paolo da Cannobio — suH' argomento ;
verbale conservato nel Volume delle ordinazioni del Yen. Capitolo
dell' Osp,Maggiore di Milano 1587 Agosto 17 (1).
La proposta non ebbe alcun seguito e le cose rimasero così,
fino al rinnovamento degli studi per opera di Maria Teresa.
Con dispaccio 30 Maggio 1753 al Governatore Pallavicino, l'Im-
peratrice deliberò di istituire nelle Palatine una nuova cattedra dljus
Municipale e Provinciale « che era mancante ed insieme necessaria
« nelle Scuole Palatine con il fisso annuo stipendio alla medesima
« di L. 600... volendo noi che questa servir debba a insegnare
« metodicamente e spiegare le leggi provinciali e municipali ».
A questa cattedra si mise l'Avv. Don Orazio Bianchi già lettore
(1) AOM. Volume g delle ordinazioni del veri. Capitolo dell'Ospedale
Maggiore Milano 1587 maggio 5 al 1589 Dicembre 22.
di
1587 Agosto 17 Lunedì. Ill.mi Magnifici DD. D. Ludovicus Piola :
V. Prior; Rev. D.... Rev. D. ... D. Hercules Abdua; D. Antonius Maria
; ;
Alifer D. Carolus Archintus D. Jacobus Ant. Arconatus
; ; D. Hercules ;
Vicecomes D. Ludovicus Piola D. lo. Bapt. Puteobonellus D. Annibal
; ; ;
Brippius D. Franciscus Bartol. Cruceius D. Gaieaz Vicecomes In Pre-
; : ;
sentia Ill.m Reg. Due. Locum Tenentis.
Haec ordinatio cadit sub die 14 presentis mensis. Proposto nel Ven.
Capitolo lì racordi dati per Mons. Ill.mo et Rev.mo Arcivescovo nostro
de Milano sopra il commutar le letture canobbiane istituite dal già fu
Sig. Paolo Cannobbio in altre lecture de legi civili, come che queste siano
più utile et più fructuose al publico di quella per molte et efficaci ra-
gioni addotte et così essere la mente et volontà de S. S. Ill.ma per be-
neficio pubblico offerendosi da se stesso esso Ill.mo Sig. di ottenere da
S. Santità opportuna dispensa per tale effetto. Però detti Ill.mi
ogni
Sigg^ri havuto, sopra questo, longo discorso et matura consideratione,
sono venuti in parere che di ciò se rimetano alla conscientia di esso
Monsignore Ill.mo con che in nome deli' Hospitale, non si faccia alcuna
scritura, né altro in suo nome, ma ciò sia in arbitrio di esso Mons. Ill.mo
da se stesso farne quello che gli pare, al quale non che gli farà alchùn
contrasto in nome dell*Hospitale, intendendosi né avanti, né dopo, di
non fare alchuna scriptura in nome dì esso Hospitale.
LA CATTEDRA DI DIRITTO MUNICIPALE ECC. 169
di greco. « il Senato — contìnua il dispaccio — a cui dalle leggi
« provinciali è affidata la direzione dei pubblici studi » aveva
l'incarico di predisporre il programma d'insegnamento. Con lo
stesso dispaccio si dava
formare un nuovo al Senato il compito di
« piano per la miglior direzione della Università di Pavia e di
>
dare ragguagli compilati sullo stato in cui si trovavano le Pala-
tine (1).
Più tardi, in conseguenza dei nuovo sistema stabilito dal Se-
nato « e clementissimamente approvato da S. M. Imperiale, alla
cattedra di ius municipale si aggiunse quella di pratica criminale,
il 5 ottobre 17Ó3 si bandiva infatti ii concorso alle' due cattedre
e se ne esponeva brevemente il programma. « La cattedra di
« Gius provinciale e municipale al quale effetto chi sarà per :
« concorrere medesima, dovrà preventivamente comunicare
alla
« l'idea e il metodo con il quale pensa di trattare ed insegnare
« la ragion nostra provinciale e la particolare degli statuti della
« città e luoghi insigni di questo Stato ».
« Quella di pratica criminale unitamente ad una facile istru-
« zione di formare processi i secondo le regole generali e parti-
« colari di questo Stato ».
Con lo stesso bando si provvedeva a nuove cattedre nella
Università di Pavia e cioè alla Teologia dogmatica e alia Storia
ecclesiastica, alla Sacra scrittura e lingue orientali (ebraico, caldeo,
siriaco, greco) ; canonico
alla Pratica criminale, ai paratitii di gius
e istituzioni Medicina pratica, alla Chirurgia e anatomia,
; alla
alla Botanica, alla Logica e metafisica e alla Matematica (2).
Sull'andamento delle Palatine così riorganizzate, ci rimane
una relazione dei lettore anziano Giuseppe Croce ai Governo, dalla
quale desumiamo che nel frattempo le cattedre salirono a sei.
« Per quanto riguarda lo stato attuale delle Palatine.... pre-
« sentemente erette in cinque letture (non compresa quella di
« pratica criminale tuttora vacante;, cioè l'una di gius provinciale e
« municipale^ V altra di eloquenza greca e latina, la terza di ma-
« tematica, la quarta di medicina teorico-pratica e la quinta di
(1) ASM., Palatine^ cart. 333 ut dispaccio 30 maggio 1753. In detto
dispaccio fin d'allora si stabiliva che : « Rispetto ai Milanesi, niuno sia
« ammesso alla laurea dottorale nella nostra Università di Pavia se non
« avrà frequentato tal scuola di giurisprudenza provinciale e municipale per
« l'anno intero ». Cfr. Vittani in Annuario Arch. distato^ 1912, p. 155 e segg.
(2) ASM., Palatine^ cart. 331 cit. Avviso di concorso a stampa 5 ot-
tobre 1763.
*
170 ALESSANDRO VISC^ONTI
« istituzioni imperiali, coperte da cinque professori destinati in
« cinque successive ore della mattina e ne' giorni prescritti sul
« metodo dell'Università di Pavia a servire chiunque o per propria
« inclinazione o per comando di parecchi senza distinzione d'abi-
« lità e condizione arbitrariamente interviene ad ascoltarli ». Il Croce
consigliava poi di far valere lo studio presso le Palatine per gli
effetti conseguimento delle lauree a Pavia, da attestarsi però
del
con un rigoroso esame e non prò forma come spesso avviene (1).
Intanto nel 1769 si istituì anche la cattedra di scienze camerali ;
e qui merita la pena di notare come il marchese Beccaria facesse
la sua, ormai celebre, prolusione e prendesse possesso della cat-
tedra, prima di aver ottenuto la sovrana nomina. C'è, a questo
proposito, una lettera del Kaunitz al Conte di Firmian dove il
ministro imperiale scrive testualmente: « Ora però che il detto
« professore ha fatto già il pubblico ingresso nella sua lettura
« con aver promulgata in tale occasione l'orazione inaugurale, di
« cui V. E. mi favorì, con pregiata sua d'ufficio de' 10 scaduto,
« due esemplari, ho creduto di non poter più oltre diferire, ad
« implorare da S. M., sull'erezione della detta nuova cattedra, e
« sulla nomina del Marchese Beccaria, la positiva sovrana sua ap-
« provazione (2) ». Al Beccaria tale cattedra fruttava L. 3000 annue.
Ma il Governo non trascurava la questione tuttora insoluta
della trasformazione delle scuole Canobbiane, che ormai non ri-
spondevano (lo diceva il Governo ne-
stesso) ai bisogni e alle
cessità della coltura milanese. II Collegio dei giureconsulti, ancor
vivo; ma ormai sul declinare, teneva immensamente al diritto
di nominare professori delle Palatine e delle Canobbiane e
i
di questo e altri diritti, che, nella sua ombrosità di vecchio,
vedeva, o gli parea veder, menomati dal governo, fece oggetto
di un lungo memoriale a cui rispose il governo stesso con
un dispaccio 2 Settembre 1776. Il Dispaccio annovera, fra le
prove di benevolenza, la nomina di alcuni membri del Collegio
alle nuove cattedre palatine « nulla di meno perchè resti mag-
;
« giormente animato il di lui zelo a promuovere il bene del reale
« pubblico servizio, vogliamo che gli sia conservata la prerogativa
« della nomina, non già alle antiche cattedre di Logica e di Mo-
« rale, come di minore utilità e importanza al servizio della patria
« e non compatibili né col nuovo sistema di codesto studio pub-
ASM., cart. cit. Relazione del lettore Giuseppe Croce, 24 mar. l776.
(1)
ASM., cart. cit. Lettera del principe di Kautnitz al Conte di
(2)
Firmian 30 gennaio 1769. Vedi appendice.
LA CATTEDRA DI DIRITTO MUNICIPALE ECC. 171
« biico,né col bene della nostra Università di Pavia ma bensì a ;
< due nuove legali e praticlie in codeste scuole Palatine la qual :
« nomina dovrà farsi col metodo delle terne » (1). Intanto pro-
cedevano gli studi per ia trasformazione delle letture Canobbìane.
Il Collegio dei giureconsulti scriveva al Ministro Plenipotenziario
alcune proposte sulle due scienze legali da sostituire alle due letture
Canobbiane « compatibili con le altre provviste di Letture Regie
« in queste Scuole Palatine e nell'Università di Pavia ». Ecco i
riflessi di quel vetusto Collegio : « La prima (cattedra) sarebbe
« quella di gius publico prattico che abbracciasse quella parte di
« questa scienza che si chiama gius convenzionale interno ed esterno,
« l'uno cioè che riguarda l'interna constituzione pubblica del
« paese, V altro le pubbliche convenzioni con i paesi limitrofi....
« scienza che sì potrebbe distinguere dall'altra di gius publico
« che si insegna dal lettore regio in Palatine, quando questa ab-
« bracciasse soltanto l'universale diritto delle genti e de' principi
« originari a cui resta appoggiato. L'altra scienza.... sarebbe quella
« del Diritto feudale che non è stata provveduta nella classe dei
« lettori palatini o nell'università di Pavia » (2).Codeste osserva-
zioni di una modernità si direbbe ora — — vivace e ardita ven-
gono proprio da quest'istituto antico e aristocratico che l'Austria
si preparava ad abolire per completare il suo programma di disgre-
gamento della nostra autonomia.
Da quanto appare dal memoriale dei Collegio, si vede che
parte dei professori era di nomina regia, mentre per due la pro-
posta veniva fatta mediante una terna dal Collegio dei Giure-
consulti.
Intanto fra il Kaunitz a Vienna e il governatore, si era av-
viato un regolare carteggio su queste scuole e specialmente
sulla questione della soppressione delle Canobbiane. « Con-
« vengo pienamente con V. A. nel giudicare opportunissima e
« ben adattata la sostituzione delle Cattedre d' istituti civili e di
« giurisprudenza pratica criminale alle antiche canobbiane di Etica
« e di Dialettica, maggiore utilità che se ne può
non solo per la
« sperare da queste recenti, quanto ancora perchè appunto esse
« sono attualmente coperte da due individui del Collegio (s'intende
« il Collegio dei Giurecons.) quali sono il Croce e il Lampu-
il) ASM., cart. cit. R. Dispaccio 2 Settembre 1770.
(2) ASM., cart. cit. Lettera del Collegio dei giureconsulti 8 ot-
tobre 1770.
172 ALESSANDRO VISOONTI
« gnani (1;. Si venne così al R. Dispaccio 3 Dicembre 1770 che
incorporava i proventi della eredità Canobbio nella Cassa studi e isti-
tuiva nuove cattedre anche con non lieve peso de! R. no-
di scienze <.<
« stro Erario » per farne buoni ministri e buoni cittadini. Dichia-
rava poi il 'Dispaccio in via di massima « 1. che alle preture, :
« vicariati e giudicature tanto regie che civiche non venga da
« qui innanzi ammesso alcuno il quale non abbia per certo de-
« terminato tempo frequentato una o due cattedre di studio le-
« gale pratico in codesta città che siano della sua competenza.
« II. Che lo stesso obbligo relativamente allo studio di Economia
« pubblica abbiano ad avere coloro che aspirano a cariche came-
« rali e di finanza e d' Economia publica eccettuati però nelle
« entrambi classi suddette quelli che si trovano già attualmente
« impiegati nel R. publico servizio : -benché si acquisteranno essi
« un titolo di particolare merito da valutarsi caeteris parlbus nel
« loro concorso con altri competitori se, nonostante l'attuale loro
« impiego, vorranno frequentare per modo di esercizio accademico
« ie lezioni dei professori che trattano le su accennate scienze. —
« III. Finalmente che non possa né debba essere accettato ne' ri-
« spettivi collegi dei Notari, degli Ingegneri e Agrimensori, né
« per altro ammesso all' esercizio di queste cose, chi non abbia
« egualmente frequentato le lezioni pubbliche relative alle mede-
« sime ». Il Governo si riserbava di stabilire con precisione le
cattedre da frequentare, se questa legge potesse essere estesa a
tutto lo Stato e quali cariche legali e giudiziarie dovessero cadere
sotto tale obbligo di frequenza (2).
Altro dispaccio di pochi giorni appresso (25 gennaio 1771)
sanciva: I. di dichiarare a favore del collegio dei Nobili Giuri-
speriti di Milano la prerogativa di nominare per terna i suoi in-
dividui alle cattedre di Istituzioni di Gius Civile e di Giurispru-
denza pratica criminale nelle Scuole Palatine accordandogli anche
la competenza per una delle altre due del Gius municipale e della
giurisprudenza pratica civile che sarà la prima a rendersi vacante.
II. di autorizzare il Governatore a ritenere non meno ogni pro-
vento della eredità Canobbio a profitto della cassa degli studi,
che a passare alle trattative, compere e incorporazioni di case
contigue alle Scuole canobbiane per adattarvi e stabilirvi il collo
(1) ASM., Studi, Scuole Miiano eie. cari. 334. Minuta di lettera di-
retta al Principe Kautniz. 13 ottobre 1770.
(2) ASM., Studi etc. cart. cìt. Dispaccio 3 dicembre 1770.
LA CATTEDRA DI DIRITTO MCTNICIPALE ECC. 173
camento tanto della Biblioteca di S. A. R. quanto dello Studio
accademico (1).
La questione delia eredità Paolo da Canobbio era ormai di
risolta : la sorte documenti sui quali
delle
I Palatine assicurata.
abbiamo ricostruito tale momento caratteristico delle vicende dell'alta
coltura milanese, sono frammentari sono spunti, sprazzi di luce. :
Poco chiara risulta la parte avuta dall'elemento locale in questa
riforma. Il il primo piano di riforma
Senato, pare abbia predisposto
come 30 Maggio 1753. Bella attività e sim-
risulta dal dispaccio
patica ha attestato il venerando e aristocratico Collegio dei giu-
reconsulti ma noi avremmo voluto trovar di piti, specialmente
;
trattandosi di una età così a noi vicina. Utilissime sarebbero
state le relazioni periodiche, fatte dal piìi anziano dei lettori, al
Governo. Ho trovato solo quella del Croce del 1766. Non vi era
un Preside delle scuole, ma il più anziano dei professori era in-
caricato di comunicare gli ordini, Ma a chi interessava aver tali
scuole fiorenti ? Ai cittadini milanesi o al Governo? Credo a tutti
e due, ma con finalità diverse. Appare già qui — celato e non
apparente — il dissidio tra governanti e governati, che ingigantirà
dopo la restaurazione del 1814.
L' elemento rinnovamento delle co-
locale voleva davvero il
scienze dei ma il Governo aveva
cittadini e della loro coltura;
altri scopi. Esso mirava a formare in tutte le varie nazioni che
componevano l'Impero, degli impiegati devoti e una classe media
fedele. Capiva che bisognava ormai cattivarsi la classe media
la più intelligente, la più individualista la vera ribelle. Per questo :
scopo coltura sì ma non troppo. Il Kautniz in un poscritto a una
:
lettera 17 Febbr. 1772, parlando della cattedra di pandette scri-
veva : « una precedente mia ho
D'altra parte *in
«già fatte all'È. V. diverse riflessioni sull'av-
«vantaggio e disavvantaggio d'aver dei pro-
«fessori troppo eruditi, perchè formano gli
e allievi non al foro, ma alla cattedra e al ga-
«binetto, come anche in q u e s t e U n v e r s t à au- i i
« striache di Germania ne abbiamo avuto più
«di un esempio particolare di persone di tale
«calibro, poste nei corpi dei giudici senza che
(1) ASM., Patatine cart. 331, Disp. 25 genn. 1771. Veggansi anche
le istruzioni date nel 1771 a S. A. R. l'Arciduca Ferdinando e. XLIII in
Sandonà, // Regno Lombardo Veneto, Milano 1912 p. 28.
174 ALESSANDRO VISCONTI
*la riuscita abbia corrisposto al loro metodo
«letterario ». (1). Peccato che non si trovi più l'altra let-
tera a cui allude in questo passo Kautniz perchè sarebbe inte-
il :
ressante conoscere il pensiero dell'alta burocrazia sulla scienza che
non abbia immediati scopi pratici.
I locali delle Scuole palatine erano, come ognuno sa, presso
la loggia degli Osii nel fabbricato costruito da Vincenzo Seregni.
La loggia degli Osii serviva agli scolari per passeggiarvi in attesa
dei professori. Poi la loggia venne occupata in parte dal libraio
Tosi con regolare concessione del 1694 ;
poi si vi collocò anche un
parrucchiere che esponeva e fabbricava lì la sua merce. I lettori
protestarono contro l'ardire del fabbricante di parrucche. Se ne
interessòil Vicario di provvisione che concluse, come si legge
che un verbale della seduta nel 1706, di concedere al parrucchiere
Gatti una locazione per 5 anni con obbligo di tener pulita la
loggia e di lasciare il passo agli studenti che frequentavano le
lezioni (2). Ricordiamo pure che la Congregazione del ducato si
radunava, dal 1595, in poi, nelle scuole palatine dell'Arengheria in
piazza Mercanti per procedere alla elezione dei sindaci generali (3).
Quando le cattedre erano tre, bastava una sola aula ma con il ;
rinnovamento degli studi nella seconda metà del 700, le sale fu-
rono aumentate a tre e anche queste non erano sufficienti. Lo
desumiamo da una minuta di lettera diretta al Kaunitz dove si dice :
« Sono anch'io del parere di V. A. che dovendosi riguardare queste
« Scuole palatine nel piede di uno studio veramente accademico e
« spogliato da qualunque aria pedantesca, si potrebbe risparmiare
« l'assegnazione alle medesime di una sede unita e congiunta per
« la frequentazione dei scolari, ma se poi considero le distanze
« delle domestiche abitazioni dei lettori, l'impotenza quanto ad
« alcuni di avere sufficiente comodo e finalmente la ritrosia in
« taluno degli uditori a frequentare le private case dei lettori, trovo
« necessario a scanso di molti inconvenienti, la destinazione di
« qualche congrua sede a queste cattedre.
« Parmi inoltre d'aver ragione di temere che continuando a
« star sepolte nei domestici tetti de' lettori le scuole, venga a per-
(1) ASM., Palatine cart. cit. Proscritto alla lettera 17 febbraio 1772
del Kautnitz
(2) ASM., Palatine cart. cit. Locali delle scuole Palatine.
(3) Verga E., La congregazione del ducato, in qntsi^ ArchiviOy 1895,
p. 188-89.
LA CATTEDRA DI DIRITTO MUNICIPALE ECC. 175
« dersi di queste la memoria e non abbiano le pròv\nste professorie
« a ridursi a semplici pensioni (1) >.
Sono queste le vicende delle Scuole Palatine negli ultimi tempi
della loro vita ; vicende, come dissi, frammentarie e incomplete
per la incomprensibile scarsità di documenti che non consentono
una ricostruzione organica della vetusta istituzione. Valenti eru-
diti vi insegnarono. Basti ricordare Enrico Puteano (Heinrich van
de Putte) fiammingo, che professò eloquenza nel 1600 mentre ;
Ludovico Settala insegnava morale nei primi del XVII secolo alle
Canobbiane e ne approfittava arditamente per trattare anche di
politica, ritenendola parte della morale. Piti tardi Carlo M. Maggi
fu decoro e lustro delle Palatine (2). E ancora nel sec. XVIH,
Parini, Beccaria, Longo (3). Sul tronco delle Palatine si inne-
starono le scuole speciali di alta legislazione nei principi del XXI
secolo e a queste si lega il nome e la figura severa e ammonitrice
di Giandomenico Romagnosi (4).
Alessandro Visconti.
(1) ASM., Stadi, Scuole cit. cart. 334. Minuta cit 13 ottobre 1770.
(2) Sul Puteano e su Ludovico Settala vedi G. Fogolari. // Museo
Settata^ in qvLesV Archivio 1900, II, p. 64-65. A Milano, benché non vi
fosse una scuola universitaria, non mancava quella vita intellettuale
che sorge dal continuo convivere degli studiosi fra loro. Chi si porrà a
scrivere la storia della coltura in questa città dovrà studiare con cura il
periodo alla fine del sec. XVÌ, durante il quale si va formando quell'am-
biente che darà vita ad una istituzione tanto importante nella storia della
civiltà e che è uno dei più bei vanti di Milano : la Biblioteca ambrosiana.
Pel Maggi. Vedi Cipollini A., Carlo M. Maggi sopraintendente all' Uni-
versità di Pavia, in quest'Archivio, 1900, II, p. 313.
(3) E. Landry e Sofia R a vasi, Un
milanese a Roma. Lettere di
Alfonso Longo fase 31, anno 38, p. 103. L'abate
in quest'Archivio 1911,
Longo nel 1769 aveva insegnato jus pubblico e particolarmente ecclesia-
stico ed è celebre la prolusione ardimentosa che gli procurò l'inimicizia
del papa e del clero. Nel 1773 insegnò economia pubblica nella cattedra
lasciata vacante da C. Beccaria. Vedi anche carteggio Verri, voi. Ili,
pp. 189, 203, 206.
(4) ASM., Scuole speciali di giurisprudenza ed eloquenza, cart. 900 e
Ri)MAGNOsi, opere riordinate ed illustrate da A. de Giorgi, Milano 1845,
Scritti di Diritto filosofico e positivo. Necessità delle scuole speciali di
Milano e particolarmente di quelle di pubblica amministrazione p. 1237 e seg.
170 A LESSANO Ito V1S(J<'NTI
DOCUMENTI
Lettera dei Kaunitz a! Firmian sulla nomina di C. Beccaria a
professore nelle Palatine
(ASM. Studi, Scuole Palatine cart. 331)
lll.mo ed Ecc.mo Sig.re
In seguito di quanto io significai a V. E. con mia riservata del 17 ot-
tobre dell'anno scorso, e delle intelligenze fra noi passate in rapporto tanto
all'erezione in codeste scuole palatine d'una nuova cattedra per la lettura
delle scienze camerali ed economiche, quanto alla destinazione dal M.se
Beccaria per cominciare a coprirla anche in pendenza della formale so-
vrana nomina, sono rimasto in attenzione di ricevere il piano che io pregai
all'È. V. di voler commettere al medesimo di stendere circa il metodo e
princìpi con cui intendeva di trattare tali materie onde poterne informare
regolarmente S. M. e poi emanare il correlativo Reale Dispaccio per l'isti-
tuzione di detta cattedra.
Ora però, che il detto professore ha fatto già il pubblico ingresso
nella sua lettura con aver pronunziata in tale occasione l'orazione inau-
gurale, di cui V. E. mi favorì con pregiata sua di officio de' 10 scaduto
due esemplari, ho creduto di non poter più oltre deferire, ad implorare
da S. M. sull'erezione della nuova Cattedra, e sulla nomina del M.se Bec-
caria la positiva sovrana sua Approvazione. Si è compiaciuta la M. Sua
di pienamente conformarsi al da me consultatole in tal assunto, e di por-
tare altresì il soldo dello stesso M.se Beccaria ad annue L. 3000, giacché
è parso anche alla medesima molto tenue quello di sole L. 2000, pro-
posto dalla R. Deputazione degli Studi.
Tutto ciò pili ampiamente riscontrerà V. E. nel qui accluso reale Re-
scritto diretto al Serenissimo Amministratore, al quale ho fatto porre una
retrodata onde non risultasse dagli atti la deformità di avere la M. Sua
istituita la nuova cattedra dì tali scienze dopo il possesso già presone
pubblicamente dal Professore.
Nella stessa Reale Carta osserverà l'È. V. di non aver io fatto spie-
gare il Fondo, dal quale dovrà corrispondere il soldo al M.se Bec-
si
caria, attesa l'incertezza, in cui sono tuttavìa della consistenza di quello
destinato per la dotazione de' studi attendendo tuttavia di sapere, se si sia
realizzato, o no quello, che come Ella mi significò in una sua riservata
del 17 Luglio pross. pass, si lusingava potesse essere probabilmente dispo-
nibile a tale effetto.
Su questo articolo adunque mi riporto alla conosciuta sagacità di V. E,
la quale saprà disporre convenevolmente ciò che troverà più praticabile
compatibilmente colla strettezza del fondo suddetto.
In attenzione adunque degli ftlteriori suoi riscontri in tal particolare
mi fo ad incaricare l'È. V. perchè voglia far presentare a S. Altez2;a Ser.
I
LA CATTEDRA DI DIRITTO MUNICIPALE EOO. 177
la suaccennata Reale Carta, e tutte queste circostanze per la conveniente
di lui notizia e frattanto, che io disporrò la spedizione del reale Diploma
;
d'instituzione della predetta nuova cattedra e di sovrana nomina alla me-
desima del M.se Beccaria, passo a confermarmi col solito distinto rispetto.
Di V. E.
Vienna, 30 gennaio 1769.
Dev. Obbl. servo
Kaunitz Rittbbrg
A S. E. il sig. Ministro
Plenipot. C.te di Firmian, Milano.
IL
Pianta attuale delle Scuole Palatine ed orto officinale di Brera
Milano
in
(senza data: certo dopo il 1770),
(ASM. Studi, Scuole Palatine cart. 331)
Facoltà Teologica.
Cattedra Professore
^ , .,. , ( Proposto Don Gio: B. Bossi L. 2000
Teologia dogmatica
] ^^^^ ^^^ ^^^.^^ P^^.^. ^^ ^000
Facoltà Legale
Istituzioni di Jus Civile: Abate Don Gaspare Lanceilotto Birago L. 2000
Diritto provinciale e municipale: Avv.to Don Antonio Silva . . L. 2000
Giurisprudenza Criminale: D.r Don Cesare Lampugnani. . . . L. 2000
Arte Notarile: D.r Don Vincenzo d'Adda L. 2000
Facoltà Filosofica
Logica e Metafisica: Prete Francesco Soave L. 1160
Matematica sublime, meccanica e algebra: Ab. Don Paolo Frisi L. 2000
Fisica sperimentale: Don Marsilio Landrianì . L. 2000
Macchinista: Mario Saruggia L. 780
Anatomia nell'ospedale: D.r Don Guglielmo Patrini L. 900
Cattedra Medico chirurgica e chimica nell'ospedale: D.r Don
Pietro Moscati L. 2000
Aggiunto al prof, di Chimica: Paolo Sangiorgio L. 1300
Professore di Storia Naturale nella scuole dì S. Alessandro:
Prete Ermenegildo Pini L. 1000
Bidello delle Scuole Palatine: Francesco Andreoli L. 500
Orto Botanico Officinale
Botanico: Prete Fulgenzio Wittmann L. 1160
Giardiniere: Francesco Pratesi L. 700
Inserviente : Dionigi de Amicis L. 270
ArcK Stor. Lomb., Auno XLIX, Fase. I-II 12
BIBLIOGRAFIA
Giuseppe Pahini. —
Le Opere Il Giorno e le Odi. comaientati a cura
:
di Egidio Bellorini, in « Biblioteca Classica Italiana » (Firenze,.
Società Anon. Edit. Francesco Perrella, 1921).
Non è questa una
delle solite ristampe del Giorno e delle Odi
pariniane, comene sono fatte tante nell'ultimo ventennio sul
se
testo costituito già dal Reina per il poema e su quello datoci dal Sal-
veraglio per gli altri componimenti. Anche il Bellorini ripubblica le
miglioii poesie del Parini per la scuola oltreccbè per le persone colte ;.
ma egli non si contenta di fare quello che bau fatto i suoi predeces-
sori, in un campo in cui non è stata detta l'ultima parola, e dopo un
lungo studio di tutta l'opera e della vita del poeta di Bosisio, dopo
un maturo esame di tutte le questioni storiche, letterarie e bibliogra-
fiche che si connettono con la stampa del Giorno e delle Odi presenta
un'edizione di essi ora semplicemente diversa dalle altre, ora affatto
nuova. Non è quindi fuori di proposito che, trattandosi di un impor-
tante lavoro sulPattività poetica del grande Lombardo, esso sia segna-
lato ai lettori di questo Archivio, che si occupa di tutto ciò che riguarda
la storia e la coltura della Lombardia e dove più volte s' è parlato di
lui come uomo e come poeta.
Gli studiosi del Parini sanno già che il Bellorini aveva dedicato
le sue cure a questo autore fino dal 1913, quando pubblicò nella rac-
colta degli Scrittori d^ Italia il primo volume delle sue Frose, a cui
segni, due anni dopo, il s^econdo (1). Nello stesso anno 1915 inseriva e
illustrava in questo Archivio alcuni Frammenti e documenti pariniani ine-
diti (2) e affidava agli Atti del B. Istituto Veneto dì scienze, lettere ed arti
una nota col modesto nome di « appunti » Intorno al testo del « Giorno »,
(1) Cfr. i voli. 55 e 71 della cit. raccolta (Bari, Laterza).
(2) Cfr. VA, S. L. del 1915, Anno XLII, fase. I-II, parte I.
BIBLIOGRAFIA 179
in cui esponeva il risultato dell'esame daini fatto sulle carte pariniane,
cedute intanto dal dott. Bellotti all'Ambrosiana, per la nuova edizione del
poema che veniva preparando per la suaccennata raccolta (1). Poco dopo,
gli stessi Atti ospitavano dei « nuovi appunti » del Bellorini Intorno al
testo del «Mattino », in cui egli correggeva, previa una più accurata inda-
gine, una sua affermazione contenuta nella nota precedente (2). Ma,
mentre si occupava del poema, egli non perdeva di vista la restante pro-
duzione poetica del gran Lombardo, ed ecco che quasi contemporanea-
mente pubblicava negli Atti della H. Accademia di scienze^ lettere ed
arti di Padova una notevole memoria su non pochi Versi inediti di Giu-
seppe Parini (3). Nel 1918 scriveva uno studio sintetico su La vita e le
opere di Giuseppe Parini per la Biblioteca degli studenti del Giusti di
Livorno (4). E nel 1920 tornava su un argomento non ancora esaurito
con Alcuni versi inediti di G, P. (5), che devono servire, cogli altri,
a completare due volumi di poesie pariniane promessi dal Bellorini
i
stesso. Ma prima ancora di dare alle stampe codesti due volumi degli
Scrittori dUtalia, egli ha voluto affermarsi con questa ristampa del
Giorno e delle Odi, che dopo tanta preparazione non può passare inos-
servata, perchè da essa si può presumere quale sarà il testo del poema
e delle 19 liriche, che egli consacrerà nella raccolta maggiore e con
quali criteri sarà stato formato.
Parliamo anzitutto del nuovo testo del Giorno, che ora, dopo tante
discussioni, ci presenta il Bellorini. È noto che questo poema, stam-
pato in parte dall'autore e lasciato poi incompleto da lui nei suoi ma-
noscritti, ristampato dal Reina con molte varianti e con le parti ancora
inedite, ha avuto da allora a ieri numerose altre edizioni, ricalcate
sulle prime due, non l'edizione definitiva che solo il Parini ci avrebbe
potuto dare, e neanche una buona edizione critica. L'aveva promessa,
molti anni or sono, il Salveraglio ; ma la disgrazia ha voluto che quella
promessa non sia stata ancora mantenuta. Il Beitana poi aveva indi-
cato la soluzione migliore del problema dicendo giustamente doversi
sciegliere tra le numerose varianti del Giorno quelle che rappresentino
le ultime vob>ntà dell'autore e su di esse fondare il nuovo testo (6).
Ed ora il Bellorini, pur non avendo potuto seguire la via tracciata dal
Bertana come avrebbe voluto, (7) è risalito dall'esame delle varianti
(1) Cfr. gli Atti citt.,Anno accad. 1914-1915, Tomo LXXIV, parte 2.
(2) Cfr. gli Atti Anno accad. 1915-1916, Tomo LXXV, parte 2.
citt.,
(3) Cfr. gii Atti citt, voi. XXXII, dispensa IIL
(4) Cfr. la raccolta cit., voi. 400.
(5) Cfr. gli Atti citt , voi. XXXVL
(6) Cfr. suo studio su II primo centenario di Giuseppe Parini in
il
« Giornale Storico d. letter. ital. », anno XIII (1900), voi. 36, p. 136, e la
nota cit, del Bellorini Intorno al testo del « Giorno », p. 4 dell'estratto.
(7) Cfr. i suoi « appunti > del 1915, dove dimostra appunto di es-
•ersi messo a principio su quella via.
180 BIBLIOOKAFIA
edite dal Reina allo studio minuto degli autografi pariniani ed ha ot-
tenuto una lezione alquanto diversa da (inella fin qui conosciuta (1).
Già negli « appunti » del 1915 egli aveva concluso che i sei auto-
grafi del Mattino sono tutti posteriori alla stampa del 1763 e alle cor-
rezioni marginali fatte dal di quella, ma che
Parini su un esemplare
non si può con certezza quando ciascuno sia stato redatto; tut-
dire
tavia riteneva che quello da lui indicato col n. 1 fosse il più recente
e il più attendibile. Il Valmaggi espose alcuni dubbi sulla V>ontà del
metodo indicato dal Bellorini per una edizione critica della prima parte
del Giorno (2). Ma questi persistè nella sua idea: solo, poco dopo, e pre-
cisamente nei nuovi appunti Intorno al testo del « Mattino *, dichia-
:
rava onestamente che, in seguito ad altri studi fatti sulle carte pari-
niane e sulle annotazioni del Reina, il manoscritto n. 1 gli appariva
come il più antico. Inoltre già prima esso gli era sembrato anche prefe-
ribile a tutti gli altri, perchè « è il solo che ci dia il Mattino tutto or-
« ganicamente riveduto e rifuso dall'autore il che non è un vantaggio
:
« da trascurare in un'opera d'arte », (3) ed ora per questo soltanto il
Bellorini ha creduto di dover attenersi all'autografo n. 1, come dice
nelV Avvertenza che precede al testo poetico pariniano (4). E vi ha pre-
posto in corsivo come elementi necessari dell'opera la dedicatoria alla
Moda e i versi 1-32 che contengono la protasi del poema e mancano
ma che si trovano già nella stampa del 1763 e
in tutti gli autografìa,
furono anche riveduti dall'autore; inoltre, in un'Appendice al Mattino^
ha riportato due brani di questa prima parte del Giorno, che si leggono
soltanto nelle stampe più antiche (5). Ora tutto questo non so se finirà
per piacere al Bertana e al Valmaggi; ma a me sembra che, nella im-
possibilità di determinare l'età rispettiva dei mss. pariniani, il Bello-
(1) L'indole di questa Eivista non permette di far qui un elenco
di tutte le differenti lezioni, che presenta la nuova edizione del Giorno.
(2) Cfr. la Eassegna di studi pariniani in « Giorn. Stor. d. letter.
ital. », voi. LXVIII (1916), pagg. 210-214.
(3) Cfr. gli « appunti » del 1915, in Atti citt., pag. 11 dell'estratto.
(4) Noto però una piccola contraddizione del Bellorini tra quello che
scrisse nei « nuovi appunti » e ciò che ora afferma nell'annotazione
a p. 10 di questo volume, dove torna a quanto aveva sostenuto nel
1915 e già disdetto Panno dopo, che cioè il ms. 1 ci offre « una le-
zione più recente » a meno che questa espressione non sia messa in
:
relazione con la frase « a quella dell'edizione del 1763 », che segue
poco dopo, ma che si riferisce più direttamente e più correttamente a
un altro aggettivo intermedio, il « preferibile ». Forse si tratta soltanto
d'una contraddizione apparente, che però si sarebbe potuta evitare so-
stituendo al comparativo composto « più recente » il semplice « po-
steriore ».
(5) Cfr. le pagg. 81-83 del volume.
BIBLIOGRAFIA 181
rini, volendo darci del Mattino un testo meno capriccioso di quelli fi-
nora pubblicati, (1) abbia fatto quanto di meglio si potesse tentare da
un critico serio e coscenzioso come lui.
Per la seconda parte del poema pariniano egli iia seguito l'unico
autografo dell'Ambrosiana, prendendone anche il titolo di Meriggio e
sostituendolo al tradizionale Meszogioryio. Infattiil ms. è posteriore non
solo alla prima stampa ma
anche a certe note marginali che
del 1765,
il Parini ci lasciò e che il Reina, riproducendo il testo pubblicato dal-
l'autore, registrò con tutte le varianti da lui osservate tra le due le-
zioni. Invece per il Vespro il Bellorini si è attenuto generalmente al
testo che il Reina aveva desunto dall'unico autografo esistente, e se
n'è scostato soltanto nel tener conto di alcune correzioni che risalgono
anch'esse all'autore; ma non
ha potuto neppur lui colmare la lacuna
che si avverte dopi» il dove il poeta avrebbe dovuto descrivere
v. 349,
la visita alla nobile puerpera e parlare dell'educazione da darsi al
neonato.
E veniamo alla Notte^ con la quale, dice il Bellorini, rinascono le
diificoltà, perchè di essa ci restano ben sette redazioni autografe di-
verse, e non si può stabilire quale di esse sia la più recente o, meglio,
quella che rappresenti l'ultima volontà dell'autore. Egli illustra nel-
r Avvertenza, come nella memoria del 1915, ciascuno di questi mano-
scritti; ma non s'è accorto, a quanto pare, di aver dato numeri di-
versi, per i versi che contengono gli ultimi sei, (2) e il lettore, che non
abbia tempo di ricorrere all'Ambrosiana, giustamente si domanda: Quale
delle due numerazioni è esatta Avendo scelto fra essi il n.'^ 7 come quello
*?
che « ci dà la Notte in una forma più ampia e meno incompiuta degli
« altri manoscritti », (3) il Bellorini ci offre così per esso anche una
(1; È risaputo che gli editori del Giorno finora o hanno riprodotto
in tutto e per tutto il testo fissato dal Reina, o ne hanno formato degli
altri scegliendo a loro piacere le varianti pubblicate dal Reina stesso.
Lo dice anche il Bellorini a pag. 7 della sua Avvertenza.
(2) Negli «appunti » del 1916 il B. aveva detto: < Il manoscritto 3
« s'arresta dopo soli 118 versi; il manoscritto 4 dopo soli 127; il ma-
< noscritto 2 dopo 147; il manoscritto 6 dopo 535; il manoscritto 5
dopo 564; e finalmente il manoscritto 7 dopo 681 ». (Cfr. la pag. 14
lell'estratto). ì^^eW Avvertenza del 1921 il B. dice Il ms. 2 si arresta al :
148 della « presente edizione, il ms. 3 al v. 119, il ms. 4 al v. 128,
ms. 5 al V. 856 {% il ms. 6 al v. 528, e il ms. 7 al v. 673. Né Ver-
fata corrige che si legge infine in un cartellino volante, ci avverte che
questa numerazione sia incorso qualche errore. Una differenza si
iotaanche nel numero dei versi relativi agli autografi dei Mattino;
ma per questo il B. nel 1915 (cfr. la pag 8 deirestratto) prendeva come
termine di paragone l'edizione vulgata; quindi si tratta d'una differenza
apparente.
(3) Cfr. la cit. Avvertenza, pag. 10.
182 BIBLIOGRAFIA
specie di « controllo » del numero dei versi che realmente la compon-
gono; ma per quale mezzo abbiamo, in questa stampa^ di ve-
gli altri
rificare se sia esatta la numerazione del 1915 o quella di oggi? Lo stesso
avviene anche per tre frammenti autografi della Notte uniti al pano-
scritto n° 7, (1) che opportunamente il Bellorini pubblica in una lunga
appendice insieme con altre sei serie di versi edite e inedite, desunte
dal manoscritto n*' 1. Probabilmente si tratta di conteggi errati la prima
volta, verificati e corretti la seconda; ma il chiaro editore non lo dice
in alcun luogo; e, del resto, è facile che anche la stampa abbia contri-
buito non poco a formare qualcuna di queste discordanze numeriche (2j.
A parte quanto ho detto intorno ai mss. della Notte, è certo che
il Bellorini ci ha dato di essa una lezione contenente molte e notevoli
varianti rispetto a quella del Reina, il quale si era valso di quasi tutti
gli autografi pariniani riuscendo a fare un vero mosaico (3). Veramente
il nuovo testo di questa quarta parte del Giorno è, come il preparatore
avea già previsto nel 1915, d'aspetto piti frammentario di quello del
Reina: ma in compenso rispecchia con maggior fedeltà lo stato nel quale il
poeta lasciò l'opera sua e, pur non rappresentando forse le ultime sue
intenzioni, è sempre meno lontano da queste che non il testo finora
ristampato tante volte. E bene ha fatto il Bellorini a pubblicare fedel-
mente in un'alfra appendice tutti gli appunti pariniani per il Vespro
e per la Notte tratti dal ms. n° 1 di questa e da quattro foglietti volanti
uniti ad esso, la cui importanza già riconosciuta dal Carducci e da altri
critici sta tutta nel fatto che ci mostrano il disegno generale dell'opera,
l'ordine progressivo delle parti voluto dall'autore ed anche in qual
modo egli pensava di colmare le lacuue che purtroppo vi sono rimaste.
Non parla però della fine della Notte né neW Avvertenza né a pagg. 213
del volume, dove si chiude il testo di questa parte; ne aveva già di-
scusso nel volumetto citato su La vita e le opere di Giuseppe Favini (4)
(1)Nel 1915 il B., dopo aver indicati i tre frammenti coi numeri 7^,
72, e scrìveva: « Quanto a 7^, ci dà solo i vv. 588-681, 7^ i vv. 588-
7=^,
« 601 e 7^ i vv. 503-535 >*. (Cfr. la stessa pagina dell'estratto). Oggi
il B. si esprime così: « A quest'ultimo uianoscrìtto (il 7°) vanno poi
« uniti tre fogli staccati (7^, 7^, 7^), che comprendono rispettivamente
i vv. 580-673, 580-593 e 495-527 ». (Cfr. la cit. Avvertenza^ pag. 9).
(2) Per es., è chiaro che il ms. u° 5 non possa avere propriamente
865 versi contro 564, se è vero, come non ne dubito, quello che afferma
ilB., che cioè solo il ms. n° 7 ci dà la Notte nella forma più ampia. Qui
si evidentemente d'uno spostamento di cifre: 856 invece di 568.
tratta
(3) Anche qui gli « appunti » del 1915 (pag. 14 dell'estratto) non
si accordano con V Avvertenza del 1921 (pagg. 9-10).
(4) Cfr. op. cit., pagg. 18-19. Ma noto che neanche lì l'autore fa cenno
dell'opinione di coloro che credono la Notte terminata col. v, « a che poi
prosteso il cieco vulgo adora », cioè coll'ultimo verso del frammento Vili
BIBLIOGRAFIA 183
ed ora non ha creduto necessario di ritornarvi su, sebbene un rimando
almeno dei lettore a quelle pagine non sarebbe qui stato fuori di luogo.
Così il nuovo testo del Giorno pubblicato dal Bellorini, a prescin-
dere dalle accennate appendici, risulta di vv. 1198 pel Mattino, di vv. 1178
pel Meriggio, di vv. 510 per il Vespro, di vv. 673 per la Notte in tutto, :
di vv. 3559, mentre le altre edizioni, se non per ognuna delle quattro
parti, pel complesso ci danno numeri variabili, ma sempre maggiori (1).
Questo è il frutto del rigoroso esame dei mss. pariniani fatto dal nostro
editore, e questa diventerà la base delle future edizioni del Giorno ed
anche degli studi critici a cui esso darà luogo nel tempo avvenire. A
facilitare codesti studi il Bellorini registra pagina per pagina, verso per'
verso, parola per parola le numerose varianti daini notate negli auto-
grafi e nelle prime stampe : ciò che fa del suo lavoro un'edizione vera-
mente critica. Un largo corredo di note dichiarative, ma non ingom-
della sua edizione, accodato al VII. Non è solo il Borgognoni a soste-
nere che con quel verso il Giorno sia sostanzialmente finito (cfr. di-
scorso premesso alla sua edizione del Giorno. Verona, Tedeschi, 1892) ;
ma già parecchi anni prinaa l'anonimo editore di II Giorno di G, P,
con una prefazione didattica e nuovi commenti ad uso della gioventù
(Milano, Zanetti, 1865) nella nota al v. 816 della Notte, che è l'ultima^
aveva scritto parole che non vedo ricordate da alcuno e che credo op-
portuno qui riferire: « Con questo verso dice x —
ha termine il fi- —
« losofico poema del Giorno. Ci hanno molti che reputano la Notte non
« affatto compiuta, e per ciò usano nelle loro edizioni di porre in se-
« guito due linee di punti. Forse quest'opinione è in loro giustificata
« dalla circostanza che Parini non dichiarò di aver ultimato il suo
« canto, né vi appose la parola Fine ». (Chi scrive non conosceva cer-
tamente gli appunti autografi del Parini, che già il Carducci prese poi
in considerazione e che ora il Bellorini pubblica per intero in questo
volume, come ho detto di 80}»ra). « A noi pare che il poema sia per-
« fettamente ultimato. Dal verso 804 ove dice Umili cose ecc. fino al-
:
« l'ultimo: il cieco vulgo adora, l'autore riassume in pochi detti quanto
« ha vergato in tutti quattro i canti e se vi è sentenza che sia scritta
;
« senza significato ironico, è l'ultima. Può essa riassumersi nel con-
« cetto seguente Io tracciai la vita de^ pari tuoi
: quella vita che a ',
« voi dà cotanta gloria e splendore, a cui il volgo, cieco di mente, si
« prostra e adoni. Noi abbiamo assistito alla conversazione e ai giuoco
-« che produsse molto innanzi la notte. Stanco il signore si getta nel-
« Vaureo suo cocchio, e rompendo le tenebre si riconduce all'alto suo
€ palagio dove l'abbiamo trovato ». (Cfr. op. cit pag. 173). ,
(1) Per es., l'anonimo del 1865 ci dà un Giorno costituito di 3606
versi, il Natali ne pubblica un altro di 3787 versi, l'Albini un altro
di 3753 versi, il Ferretti un altro 4i 3603 versi ecc.
1H4 BIBLIOGRAFIA
braiiti, rende poi particolarmente facile la lettura del poema pariDÌari»
Il tutti coloro che l'affrontano per la prima volta.
Lo stesso sistema, quasi, ha tenuto l'editore per le 19 Odi,, che egli
ripubblica nell'ordine dato loro dal Salveraglio fin dal 1882, (1) ma coi
titoli e nella lezione stabiliti dal Reina fino dal 1802 (2). ^^ Non posso
« dubitare — Bellorini per giustificare la hua scelta
dice il che e —
« quelli e Reina derivasse dal volume, nel quale il Parini
questa il
« stesso avea raccolto le odi che disegnava di stampare, volume che per
« buona fortuna venne alle mani del vecchio editore allorché credevasi
« fatalmente smarrito (3) ». Si comprende quindi che egli ha cercato in
questo modo di avvicinarsi all'ultima intenzione dell'autore per cièche
riguarda il testo e il titolo di ciascuna delle Odi pariniane. Ma sembra
che il Bellorini sia stato indotto a seguire, in questa parte del suo la-
voro, il Reina piuttostochè il Salveraglio anche da altre ragioni, che
promette di esporre in più opportuna sede (4), la quale non può essere
che la ristampa completa delle poesie del Parini nella raccolta degli
Scrittori d'altana.
I titoli, nell'edizione del Reina, erano i più semplici e per la loro
semplicità erano diventati, dirò così, popolari. A questi il Saveraglio
ne aveva sostituiti altri piuttosto lunghi, ma meno noti. Già al Natali
era sembrata pedantesca questa sostituzione (5) ; e neanche il Bellorini
l'ha potuta accogliere nella sua ristampa, forse per la stessa ragione.
Ma in lui più che altro deve avere influito in questa questione partico-
lare la forza della tradizione j parlando di propo-
infatti egli nel 1918,
sito delle avrebbe sempre citate « coi
Odi del Parini, dichiarava che le
« titoli assegnati loro nelFedizione del Reina del 1802, perchè sono
« ormai tradizionali e perchè ecc. (6) >. La tradizione ha certamente
(1) Ma
Salveraglio aveva incluso fra le Odi anche 11 brindisi e
il
Le nozze; ma
il B. le esclude dal novero delle vere e proprie Odi^
come le hanno già escluse parecchi altri editori moderni, tra cui ri-
cordo il Natali che invece le comprese fra le poesie del Parini Minore.
(2) Naturalmente il B. ha dovuto correggere qualche svista del
Reina.
(3) Cfr. V Avvertenza cit., pag. 12.
nota 1 a pag. 12 della stessa Avvertenza.
(4) Cfr. la
C5) Cfr. la prefazione alle Poesie di G. P. con introduzione e com-
mento di Giulio Natali (F. Vallardi, Milano, 1905), pagg. 34-35, in
cui si domanda giustamente: < Che sugo c'è, per esempio, a sostituire
« il titolo 11 Bisogno, breve e che dice subito il contenuto dell'ode,.
* con l'altro, interminabile, « Al signor Wirtz pretore per la repubblica
« Elvetica? »
(6) Cfr. il cit. volumetto su La vita e le opere di G. P., cap. IX,
pagg. 46-47, nota. In questa lunga annotazione il B. riferisce i 19 titoli,
nella doppia forma, di seguito ; ma o lui o lo stampatore ha dimenti-
cato il IV che è proprio II Bisogno {Al signor Wirtz ecc.).
BlBLlOGltAFlA 185
grande valore in tuttociò che riguarda la ristampa delle o^jere antiche ;
ed io non so perchè ora il Bellorini, ritornando alla redazione reiniana
dei titoli di queste Odi famose, non abbia accennato affatto a quel mo-
tivo, a cui pochi anni or sono aveva dato il primo posto (1).
Quanto poi al nuovo testo dei medesimi componimenti, esso, per
fortuna, non si scosta molto da quello del Salveraglio e non dà, mi
pare, luogo a interpretazioni diverse del pensiero pariniano.
Di diverso dal sistema seguito nella illustrazione del Giorno tro-
viamo in quella delle Odi il cenno storico letterario che precede ognuna
dì esse (2). Già altri editori avevano fatto qualcosa di simile^ come il
Bertoldi, il Natali ecc.; ma il Bellorini sopprime in questo cenno il
sommario dell'ode, che altri ha creduto d'introdurvi e che, data la bre-
vità del componimento, non è necessario, e si limita a fare un'illu-
strazione puramente esterna e a riferire e discutere qualche giudizio di
critici autorevoli come il il Carducci, lo Scherillo ecc. Im-
Desanctis,
portanti riescono soprattutto cenni che precedono La caduta, La tem-
i
pesta, Il pericolo, La gratitudine, Il messaggio, e nei quali il Bellorini,
conoscitore profondo della vita e dell'arte pariniana, ha avuto modo di
esporre idee personali e nuove vedute, basate su fatti non tutti ugual-
mente noti.
Ed ora concludo il mio già troppo lungo discorso. Se mi sono in-
dugiato tanto nel parlare di una ristampa delle opere principali del
Parini, l'ho fatto soprattutto perchè, dopo averla attentamente esami-
nata, mi è parso che il Bellorini, l'abbia curata con tale amore, da
assomigliare in questo al Keina e al Salveraglio, che, come è a tutti
noto, avevano finora il merito principale come editori di scritti pari-
niani. Se qualche osservazione è possibile fare al paziente suo lavoro
(ed io amichevolmente glie ne ho fatte più d'una senza per questo pre-
tendere di erigermi a suo giudice e censore), è certo però che nessuno
\
(1) Veramente a pag. 11 déìV Avvertenza ecc. egli dice che il Sal-
veraglio diede dei titoli nuovi « in sostituzione di quelli, ormai tradi-
zionali, del tambarelli, dei Reina e del Bernardoui »; masi dimentica
poi di questa tradizione nella pagina seguente, dove parla della oppor-
tunità di ritornare ai vecchi titoli.
(2) Almeno per ragioni di uniformità il B. avrebbe dovuto far lo
stesso anche nella illustrazione del poema. È vero che della storia di
questi egli ha già parlato in parte neìV Avvertenza ma restano ancora
-,
molte altre cose da dire sugli intendimenti dell'autore, sul valore della
sua satira, sul classicismo e sull'arte pariniana ecc.: tutte cose di cui
il B. s'è occupato nel cit. volumetto su La vita e le opere di G. P.,
ma che qui poteva riassumere in una notizia storica, di cui si sente la
mancanza. In essa avrebbe potuto anche raccogliere il contenuto di al-
cune note puramente storiche e quindi alleggerire il commento del
Giorno.
186 BIBLIOGRAFIA
meglio (li lui poteva attendere alla riatanipa e illustrazione critica dt^
Giorno e delle Odi d<'l grande poeta lombardo. Egli ha assolto il suo
compito con tde serietà e bontà di metodo, che gli studiosi certament'
accoglieranno questo frutto delle sue fatiche con la maggiore simpatia
possibile.
Ma se in questo volume è tanto lodevole l'opera del Bellorini, non
si può dire assunse l'incarico di stamparlo.
lo atesso di quella di chi si
Il libro lascia molto a desiderare per qualità di carta, per chiarezza e
bontà di caratteri, per correttezza di parole (1). Sotto questo aspetto
non si è reso un buon servizio alla grande arte pariniaria.
Enrico Filippini.
Natale Grimaldi, La signoria di Barnaba Visconti e di Regina della
Scala Reggio (1371-1385) contributo alla storia delle Signorie
in
Italiane. —
Un voi. in 8^, pp. XXV -285. Cooperativa fra lavor. ti*
pografi, Reggio Emilia, 1921.
Sono quattordici anni di Storia reggiana dal 1371 al 1385 dall'inizio
cioè della dominazione viscontea in Reggio, sino alla morte di Bar-
nabò Visconti. Reggio fu venduta da Feltrino Gonzaga nel 1371 ai
Signori Visconti che la tennero per 33 anni, fino cioè al 1404. L'A. si è
prefisso lo scopo di illustrare l'importanza e il significato dell'acquisto
di Reggio, mettendo in relazione il fatto dell'acquisto con la politica di
espansione viscontea nella direzione sud-est dello Stato Lombardo, di-
retta alla graduale conquista dell'Emilia e della Romagna. L'A. ha pure
avuto il lodevole intento di conoscere il motivo che spingeva i Visconti
ad aspirare possesso di Reggio e del distretto, che cosa significasse per
al
loro il possesso del suo distretto e quali intenti si prefiggessero dopo
la sua occupazione. La seconda parte dell'opera considera le condizioni
interne del distretto reggiano nella seconda metà del sec. XIV e parti-
colarmente il meccanismo amministrativo e finanziario esercitato in
(1) Io ho notato i seguenti errori ili stampa. A pag. 6, riga 4 :
della sua mente per nella sua mente; a pag. 52, v. 2: di perde; a pag.
51 e 52 in nota, Filanzio per Filausio; a pag. 93, v. 9 da vostr^avi per
da' vostr^ avi; a pag. 132, v. 12: al barbato figliuoli per al barbato
figliuol ; a pag. 146, v. 18: folle per follv superstizion; a
superistizion
pag. 165, V. penultima vìgile altri,
13: plaudi ipei paludi; a pag. 302,
altri per .altri: a pag. 354, v. 4: Quale per Quale; a pag. 356^ v. 13:
trisli per tristi; a pag. 381, in mezzo; conscia recti per conscia recti; a
pag. 429, nella nota al v. 77: Guinione per Giunone. Ma non è detto
che in queste 432 pagine non si trovino altri errori di stampa. E VFr-
rata-corrige che si legge in un cartellino attaccato all'ultima carta del
volume ne registra soltanto due!
BIBLIOGRAFIA 187
Reggio dalla Signoria milanese. Sotto questo aspetto, la Signoria dei
Visconti — in confronto con quella dei G-onzaga — fu buona. Anzi non
esita l'A. a ritenere che il rifiorimento di Reggio, anche nel campo della
coltura e dell' umanesimo, fu di non poco agevolato dall'opera saggia
e prudente della signoria viscontea che, mediante un meccanismo am-
ministrativo e finanziario accortissimo, ed impiegati esperti e famosi a
trattare di materia finanziaria ed economica, risollevò la vita nella città
e in campagna ad una altezza, che poco o nulla aveva da invidiare al be-
nessere del periodo comunale. Ciò per opera sopratutto del governo di
Gian Galeazzo, ma buoni e sicuri indizi sono già rilevabili sotto il governo
di Bernabò e di Regina della Scala. Altro argomento di grande interesse
è quello dei rapporti fra la Signoria e la feudalità e delP opera svolta
da quella per domare il feudalesimo. Sono, come si vede, primi passi i
dello Stato moderno che tende ad adergersi sovrano sopra tutti gii
avanzi e frammenti di sovranità territoriali, siano essi feudi o comunità.
Il lavoro è ben disegnato ed anche cond«»tto con metodo. Parti-
colarmente interessante per la storia della Signoria storia da rifare —
o, meglio, da fare —
è la parte data alla costituzione interna, alle
condizioni economiche e sociali e alle finanze. Si tratta di un interes-
sante momento della storia del diritto pubblico signorile perchè assi- ;
stiamo al trapasso dall'autonomia comunale, ormai cristalizzata in forme
inadatte ai nuovi bisogni sociali, alla forma più organica e complessa
dell'ordinamento giuridico e amministrativo dell'autonomia. Il Comune
mancava di speditezza e di agilità : faceva i bilanci approssimativi
— mirobile dictu come qualche comune moderno in nome di ben
altri principi non teneva conto delle spese e
; delle entrate straor-
dinarie. Splendido esempio di disinvoltura da additare ad alcuni
odierni amministratori che, ignorando la storia, credono di far
civici
del futurismo amministrativo. La signoria si presenta invece con ca-
ratteri di rigida e precisa amministrazione.
Appare nel sec. XIV il racionator il ragioniere — funzionario —
della Signoria che tiene i libri delle entrate e delle spese: il referendario
e altri che controllano il comune, oramai ridotto a funzioni più mo-
deste, data la sua incapacità. E non avviene questa lotta di svecchia-
mento e di riordinamento senza grandi contrasti tra la vecchia auto-
rità municipale e la signoria coi suoi organismi più perfetti e con
l'inevitabile burocrazia. L' A. ha visto bene questi punti e nota giu-
stamente che la forma d'amministrazione viscontea s'avvicina a quella
dello Stato moderno.
Costituzionalmente però lo Stato isente ancora del periodo feudale
non lontano. Lo Stato - costituzionalmente —
è ancora patrimoniale :
è cosa del principe e lo si vede da certe influenze di diritto privato
che appaion in questa materia di diritto pubblico. L^ A. tenta di spie-
garsi giuridicamente la delegazione che Bernabò fa a sua moglie Re-
gina della ."^'cala della sovranità su Reggio. Ma secondo me non è una
delega di poteri ma una specie di cessione di sovranità qualche cosa
j :
188 BIBLIOGRAFIA
insomma fra il feudo (diritto pubblico) e il mandato (dir. privato;. È
una soluzione intermedia fra il vecchio e il nuovo diritto pubblico e
un avviamento verso il diritto moderno costituzionale. 8u questo punto
si dovrebbero ampliare le indagini e si avrebbero conclusioni molto
interessanti per la storia giuridica.
Altro argomento pure di interesse vitale, è quello delle condizioni
economiche e sociali. Triste situazione ereditano i Visconti: disagiata
la città, immiserite le campagne, impotenti i sudditi a far fronte alle
esorbitanti gravezze. Ed ecco che diminuiscono le comunità rurali, di-
minuisce la media borghesia nelle città. Fatto economico che l'A. avrebbe
potuto meglio lumeggiare perchè è caratteristico in tutti
;
tempi e in
i
tutti i quando l'economìa pubblica è depressa la sparizione o
regimi, :
soltanto la decadenza della classe media vuol dire ristagno negli affari,
fine del benessere, scadimento della coltura. Il fenomeno in misura piti
grandiosa —
direi quasi mondiale —
appare ora nella sua tragica realtà.
Innegabilmente i Visconti avevano una singolare attitudine ammi-
nistrativa che altri signori —
feudatari di razza —
non avevano. Essi
possedevano una mentalità spiccatamente borghese e lombarda, e che
mantenevano anche attraverso il fasto dell'alto grado. Del resto non è
un male: noi lombardi siamo tutti un po'... borghesi.
Coi Visconti si inizia la trasformazione della città e del contado e
già dopo pochi anni se ne vedono i benefici effetti. Basta citare il ri-
fiorimento dello studio legale di Reggio. Barnabò fu molto severo nel
fronteggiare la peste del 1373 e l'A. citando un passo della cronaca del
Gazzata, e fidandosene, osserva che il Visconti prese provvedimenti
feroci ed intunani. Ma bisogna pensare all'ignoranza del cronista e del-
l'opinione pubblica del suo tempo; e dopo di ciò si vede che, dati i
mezzi d'allora, Barnabò fu energico nel combatter la peste; perchè faceva
distruggere le case degli appestati modo spiccio, è vero, per isolare il
:
morbo; tanto piti che non pare che pagasse i danni Il cronista aggiunge
!
che nelle demolizioni ammazzasse morti e vivi; ma qui c'è della esage-
razione e l'A. doveva accettarla con beneficio d'inventario perchè in ;
contraddizione con la cura per il benessere generale dimostrata in altre
occasioni e durante la stessa pestilenza con decreti giustamente severi.
L'A. stesso aggiunge che nel 1382-84 vi fu un'altra pestilenza, ma per
i mezzi energici di profilassi a tempo adottati, essa non si manifestò,
E dunque, dove è l'inu-
nel distretto, che tardi e in proporzioni ridotte.
manità? Anche il capitolo sul meccanismo finanziario, messo in rap-
porto con le condizioni economiche, è interessante. La cura dell'appro-
yigionamento era allora una funzione dello Stato e a Reggio si tenevano
funzionari della Signoria che controllavano i bisogni della città e del
distretto, ne avvertivano la camera di Milano e questa acquistava il
grano occorrente. Provvedimento saggio, dice l'autore, poiché toglieva
nella plebe il malcontento pei lineari ma se era politico non era già
:
economico.
In complesso l'A. dimostra di aver veduto e d'aver saputo bene
BIBLIOaRAPIA 189
adoperare i documenti e anche ha manifestato d'avere una certa idea gene-
rale sulla Signoria e la sua azione storica avrei voluto che vi avesse in-
:
sistitocon osservazioni più ampie l'occasione si offriva specialmente
:
parlando di amministrazione e di ambiente economico-sociale.
Una osservazione piuttosto grave fa nascere il dubbio che parte della
bibliografia citata sia di seconda mano, almeno in qualche punto, e fran-
camente mi ha fatto impressione. A p. XXI l'A. cita molti libri e mono-
grafìe alcani dei quali sono fondamentali, ma torse si è dimenticato di in-
dicare esattamente l'autore facendo nascere il dubbio che non li abbia
letti. Ad esempio attribuisce al Biscaro la monografìa sugli statuti mi-
lanesi del see. XiFed è invece del Ferorelli {Arch. Star. Lomb. Voi. XVI,
a. 38, 1911) e pure al Biscaro due lavori sul Magistrato camerale e
sul magistrato di sanità che viceversa sono miei! E per essere con-
vinti che l'A. non ha visto questi lavori, basta vedere come cita
V Archivio Storico Lombardo ora coU'indicazione del volume ora con
: ;
quello dell'anno, ora indicando la pagina, ora omettendola. E poi non
gli passo — trattandosi di roba mia —
il titolo del magistato camerale.
Il mio Magistrato camerale e la sua competenza amministrativa e giudi-
ziaria^ mi si trasforma nientemeno che in Magistrato camerale e la sua
competenza amministrativa e giuridica (sic.) presso i Visconti (? !) Arch.
Stor. Lomb. anno XXXIII dove confonde fascicolo con anno; perchè
l'anno è 37 Scrivere competenza giuridica per giudiziaria sarebbe un po'
!
ardito per un giurista.
Scorrendo la bibliografìa citata, si potrebbero notare molti piccoli
nei, che sono poco chiari. Perchè citare l'opera indicando l'editore, o il
luogo di stampa e la data, cosa corretta ed encomiabile: e in certi altri
casi omettere qualsiasi indicazione? il libro si legge perchè serve e
lo si cita o non serve, e allora meglio non leggerlo e non gonfìare le
;
bibliografìe.
Io con questo non voglio andare ultra petita come dicono gli av-
vocati — ed io qui forse faccioVadvocatus diaboli — ma non voglio,
dal piccolo neo, malignare su tutto il lavoro tanto più che l'A. cita
j
esattamente i libri che realmente ha letto. È bene x^erò che stia in guardia
per l'avvenire ; poiché un conto è far libri quando si ha qualche cosa
da dire e un conto è fare della titolografìa mentre dall'insieme mi
;
pare che l'A. sia uno studioso serio e sarebbe un peccato rovinare uno
studio ben fatto con sviste di poco conto che lo danneggiano molto.
Alessandro Visconti.
APPUNTI E NOTIZIE
^% Morte e sepoltura di Nicodemo Tranchedini da Pontremoli.
— Nicodemo Tranchedini da Pontremoli per valore intrinseco e
(1)
per meriti personali acquistati con azione solerte e sagace, lungamente
evolta nell'interesse della politica di conquista e di governo degli Sforza
fu uno dei diplomatici pili accreditati del suo tempo (2;.
La fama derivatagli dall'opera diplomatica, onde' vigile e costante
accompagnò l'ascesa fortunosa e fortunata degli Sforza e il loro rapido
e prospero consolidarsi, è uscita vittoriosa dalle prove quanto mai
ardue succedutesi ininterrottamente per un lungo periodo d'anni nel-
l'ambito destinato alla sua sfera d'azione anzi col tempo s'è andato
;
consolidando sì da apparire in una luce sempre più chiara e più luminosa.
Gli furono affidati a più riprese delicati ed onorifici incarichi, di-
simpegnati sempre con rara perizia ed abilità fu ambasciatore, tesoriere,
:
consigliere segreto, senatore, commissario ed ottenne per sé, per la
famiglia e per gli amici i più segnalati favori (3).
In perfetto contrasto con il costume e il carattere dei tempi, nei quali
il servizio trovava spesso nella mercede, che solleticava l'estro dei
poeti e la lode dei cortigiani, la più vera se non l'unica ragione d'es-
sere, egli rimase fino agli ultimi giorni di sua vita costantemente fedele
(1) Così è indicato nella maggior parte dei documenti che lo riguar-
dano. Nella tradizione pontremolese questa famiglia è denominata uni-
camente Trincadini.
(2) Gerini, Memorie storiche (Villustri scrittori e di uomini insigni
delVantica e moderna Lnnigiana Di Nicodemo Trincadini distinto per-
:
sonaggio e scrittore. Massa, MDCCCXXIX^ Voi. II. pp 235-237 nostro ;
opuscolo: Nicodemo Trincadini nella storia del sec. XF, p. 8 e sgg..
Ricci, Savona, 1910 e P. Ferrari, alcune notizie intorno a Nicodemo
Trincadini in Lunigiana, A. II, N. 3, Maggio-Giugno 1911.
(3) P. Ferrari, 1. e.
APPUNTI E NOTIZIE 191
a' suoi Signori. Verso di essi provò profoiidaraente il senso della più
viva e devota gratitudine, la quale instiilò sempre nell'animo dei fa-
miliari anche in quelle ore austere e solenni, che con cuore fermo e
con mente serena dedicò al pensiero della tomba.
Nell'anno 1473 « indictione sexta die xviii mensis Junij » fu steso
il suo testamento per mano del notaio Giovanni Maria del fu Antonio
dei Villani di Pon tremoli Pontremuli in Vicinia Sancti Co-
« in terra
« lumbani in domo versus flumen
ipsius testatoris supra salla inferiori
« viridis ». Esso è un documento umano di nobile sentire, a noi già
noto attraverso un sobrio e fedele riassunto che il Dott. Cav. Piero
Ferrari, il fortunato possessore di due codici tranchediniani di gran
valore (1), ne ha fatto con alto senso di convenienza e di opportunità ;
per benigna concessione sua ne pubblicheremo quelle parti che offrono
un particolare addentellato con il problema, ancora insoluto, della
tomba. Ricollegheremo i due estremi della questione con documenti,
che tra l'altro stabiliranno esattamente il giorno della sua morte.
Oltre 8 anni passarono dal testamento alla morte, poiché egli si
spegneva lentamente di febbre quartana a Milano, in Parrocchia di
S. Maria Podone il 14 Dicembre 1481 (2) e non si ha notizia che in questo
;
(1) I due Codici tranchediniani sono VExemplum e il Quolibetum.
Il particolare interesse e il valore storico di questi due codici sono già
stati messi in rilievo, oltreché dal Ferrari stesso (alcune notizie ecc.
in Lunigiana, a. II, 1911, N. 2, 3, 4, Una biblioteca pontremolese del
see. XV in Giornale storico della Lunigiana, A. IV, 1912, fase. I, e
inventari di oggetti appartenenti a Nicodemo Trincadini ibid. a. VI.
1914, fase. II), anche da A. Colombo {Luigi da Busnate e le sue no-
tizie storiche sulla casa Sforza in Bollett. Soc. Pavese di Storia Patria,
A. XX, 1920) e Parodi {Nicodemo Tranchedini
specialmente da P.
genealoyista Sforza in questo Archivio A. XLVII fase. 3: e
degli
Un memoriale ignorato di Nicodemo Tranchedini da PontremoU, arti
grafiche, B. Nicora, Abbiategrasso, 1921). Il testamento fa parte à&\-
VExemplum ed occupa i fogli da 173 al 179 verso. All'amico caris-
simo P. Ferrari rendiamo pubbliche grazie per la cortese e gentile ge-
nerosità ond'egli ha voluto porre a nostra disposizione i due preziosi
Codici veramente ricchi di notizie interessanti la figura e l'opera del
diplomatico pontremolese.
(2) Nel Quolibetum (f. 42 verso) Sforza Trincadini, discendente di
Nicodemo Cronicae Pontremulenses e di Memorie di-
e autore delle «
verse: il cui manoscritto è conservato presso il Senatore Camillo Cimati
di Pontrenioli (v. Ubaldo Mazzini, in Giornale Storico della Lunigiana^
A. 1919, fase. II, Giovanni Sforza, in Memorie e documenti per
servire alla storia di Pontremoli. Firenze, Tipografìa Franceschini,
11)1» APPUNTI li NOTI ZI K
.lungo intervallo <ii fc«mp«> 1« .sue dispoHizioni tosnamen carie abbiano
subito ulteriori modificazioni. Nulla ha in esse dimenticato è evident-e ;
in lui la preoccupazione di contemplare tutti i casi di possibile succes-
sione e di itriprirner« alla hiki ultima volontà un carattere strettamente
1904, P, I, Ferrari Sforza Trineadini in Lunigiana
pp. 95-96 e P.
A. Ili, N. Luglio 1912), fìssa come giorno della sua morte il 15
II,
Dicembre. « 1481 die sabati, 15 Decembris, d. Nicodemus, fìlius d.
« Johannis de Tranchedinis, comes Palatinus, eqnes auratus, Senator et
< Consiliarius Consili secreti Sfortiarum Ducuni Mediolani, in porta
<
«.Vercollina, parrochia Sanctae Mariae Podonis Mediolani, agens annum
« septuagesimum, ex febre quartana continua moUifìcatione membrorum,
^ naturae concessit ». Nelle surricordate cronache egli ripete il necro-
logio con parole quasi identiche « 1481 decimo octavo kalend. januar.
« Nicodemus Trauchedinus agens annum septuagesimum ex febre quar-
« tana continua moUifìcatione membrorum naturae concessit Mediolani
« in Porta Vercellina in parrochia Sanctae Mariae Pedonis ». Circa il
giorno della morte però preferiamo seguire quella del 14 indicata dal
documento col quale i maestri delle entrate l'annunziano al Duca, ap-
pena avvenuta. « lU.me priuceps et ex.me domine noster singularissime.
« Per sequire lordine che havemo de la vostra Signoria avisamo quella
corno el Magnifìco Messer Nicodemo de Pontremulo Consiliero de
<ic
« vostra Sig.ria e passato de questa vita presente a la quale se ric-
« comandiamo. Datum Mediolani die xiiij decembris 1481
< Eiusdem dominationis vestre Fedelissimi servi Magistri intratarum.
(a tergo) Ill.mo principi et ex.mo domino domino singularissimo
domino Duci Mediolani.
In manibus Magnifìci B. Chalchi (A. S. M. Milano, Famiglie,
Busta 188).
La data del 14 Dicembre deve dunque ritenersi la più sicura,
l'altra, quella di Sforza Trineadini, desunta probabilmente dal docu-
mento ufficiale della morte di Nicodemo, andato poi smarrito, poiché
non è più reperibile né tra le carte di sanità del 1481, uè nel necrologio
del tribunale di sanità, ora conservato nell'Arch. di Stato di Milano,
con tutta probabilità non rappresenta che il giorno della denuncia, avve-
nuta senza dubbio il giorno successivo. -A sostegno di questa interpreta-
zione riporteremo parte della lettera che Francesco, il fìglio di Nicodemo,
scriveva in data 16 a Bartolomeo Calco per ringraziare le autorità interve-
nute ufficialmente alle esequie ad ai funebri di suo padre: « Magnifice mi
« domine Bartolomeo. Quantunque beri io habia regratiato li Reverendi
< et Magnifìci Senatori et altri Magistrati quali de ordinatione de li
« vostri II. Sig.re et soi Governatori se dignarono venire ad honorare
« le esequie er, funebre de mio Patre et etiam che jo pregassi el nostro
< D. lohanne Giappano che volesse lui ancora regratiare de parte de mia
APPUNTI E NOTIZIE 193
9 compiutamente giuridico .
nei rispetti e nelP interesse della moglie,
dei figlioli legittimi e naturali e degli Enti in esso ricordati.
Il suo spirito è pervaso diffusamente da un equilibrio impertur-
babile anche al pensiero della grave età (1), che non tutti hanno la
fortuna di toccare « animadvertens se iam ad id etatis pervenisse,
;
« ad quod pars hominum potior non attingit seque mentis et intellectus
.<ac etiam corporis vigore sincera pariter integritate pollere ». In
questo stato d'animo ha cura di scegliere il luogo dove riposare in
pace « post anime discessionem a corpore » ed elegge Poniremoli, la
cittadina in Lunigiana che gli ha dato i natali e con umile rassegna-
zione chiede di esser sepolto nella chiesa di S. Francesco « vult corpus
* suum seppelliri apud et in ecclesia seraphici saiicti francisci apud
« terram Pontremuii ubi iam dicti corporis sui ellegit sepulturam sub
« capella maiori quam ibidem constituit cui capelle legavit et legat
€ omnes quos habet in sacris exceptis duobus breviariis
libros suos,
« et aijis quibusdam libellis in quibus descripta sunt offitia Beate vir-
« ginis Marie sancte crucis Mortuorum Sancti hieronimi et alie devo-
« tissime orationes ultra duas planetas plebiale de serico in colore
« cremessito et camixium unum lineum et duos calices cum patenis
« suis quos sibi in preseutiarum consignavit ». Senonchè questa deci-
sione contrasta col proposito da lui stesso affermato il 13 luglio del-
l'anno precedente, alla distanza di circa 11 mesi, quando in una let-
tera a Galeazzo Maria Sforza dichiarava recisamente e solennemente
che era sua ferma intenzione di « essere sotterrato presso alle ossa »
dei suoi Signori per trovarsi con loro il giorno del Giudizio univer-
sale (2). Verso di loro esce spesso, anche nel testamento, in aperte
« Matre et de noi soi Fieli la ExceUentia et Signoria de essi Governa-
« tori de tanto honore quanto se sono dignate fare verso esso mio
« patre etc. » (A. S. M., Milano, ibid.). Se dunque il giorno 15 si
celebrano gli uffici funebri in memoria di Nicodemo, si deve giusta-
mente arguire che il suo trapasso da questa vita sia avvenuto almeno
ilgiorno precedente, il 14, sia pure nelle ultime ore della giornata.
(1) Nel 1473 Nicodemo contava già 62 anni, essendo nato' in Pon-
tremoli circa il 1411 da Giovanni e da Giovanna Fondeva lucchese
< Johannes Primogenitus suprascripti I.(urÌ8) C.(o7isulti) Bernabei....
« habuit ex Johanna de Fondeva Lucensi eius uxore infrascriptos filios,
« Antonium Bartholomeum, Nicodemum^ Joannem Jacobum, Constan-
« tiam, ea prima occubuit, et alios filios (v. Quolibetum f. 31 e 31 verso).
(2) La parte per noi più interessante della lettera è la chiusa
la quale servirà anche a togliere qualsiasi ingrata impressione si possa
ricevere dal leggere il principio della stessa lettera ove con grande
dolore, ma con pari serenità giudica ingiusto il trattamento che gli
usa ilduca ed enumera i lunghi servigi da lui resi alla sua famiglia.
-«.... Imo sto fermo nel proposito ve ho dicto qualche fiate de vivere
Arch. Stor. Lomb., Anno XLIX, Fase. I-II 13
194 APPUNTI E NOTIZIE
manifestazioni di affetto. Più sotto infatti, mentre da essi invoca bene-
volenza e protezione per i suoi, a questi raccomanda vivamente che
la devozione agli Sforza nella famiglia assurga a significato di vera e
propria tradizione. « Voluitque et vult dictus testator quod cum multa
< et supra etiam merita sua sibi collata fuisse beneficia recognoseat
« orbi illustrissimis principibus et excellentissimis D. Francisco Sfortia
« ducibus Mediolani dominis suis Cum quibus vitam fere omnem suam
« degit usque ad hanc senilem etatem quod filij et descendentes sui
« sub paterne obedientie vinculo predictis dominis et eorum legiptime
« succesaoribus perpetua sint devotione subiecti fidelesque quos etiam
« testator ipse ipsorum Dominorum celsitudini bus et clementie reco-
« mendat ».
Le sue parole non dovevano cadere inascoltate, poiché il figlio
Francesco segui fedelmente le orme paterne. Iniziò la carriera presso
gli Sforza da semplice amanuense sotto la diretta dipendenza di Cicco
Simonetta (1); ma in seguito s'acquistò buona reputazione e seppe
farsi convenientemente apprezzare nello stesso servizio, cui il padre
per lunghi anni aveva dedicato attività, energia e tesori inestimabili
di saggezza e di prudenza.
Sono dunque inoppugnabili i sentimenti espressi di affettuosa ri-
cor oscenza agli Sforza, come sorge palese la contradizione dei due
documenti per ciò che si riferisce alla sepoltura e oscuro e fitto per-
mane il velo che avvolge la sua tomba. Non abbiamo mancato di
fare ricerche in proposito, ma purtroppo siamo tuttora privi del
documento informatore, dell'elemento chiarificatore, che valga ad
illuminarci su questo punto. La tomba di Nicodemo Tranchedini è
«et morire ad li vostri servitij et essere sotterrato presso alle ossa de
« vostri predecessori ad finche quando sonera la tromba del judicio io-
« gli possa seguire et cosi voy del canto de la come ho facto de qua
« et trovarme con questa gloria chio non habi maij servito altri che li
« vostri et vostra Cel.ne ala quale jterum et semper me recommando
« et cum la quale me ingegnerò con quella più modestia me sarà pos-
« sibilo serare un di meglio lanimo mio semotis arbitris.
Datum Mediolani die XIII julii 1472 Servulus Nicodemus
(A. S. M., Famiglia Tranchedini).
All'amico P. Parodi per la trascrizione di questo documento e del
precedente rinnovo qui i più sentiti ringraziamenti.
(1) La notizia è desunta dal Keg. Ducale N. 196, f. CXJ in
A. S. M.: « omissis. Preterea assumpsimus in scribam nostrum penes
« Cichnm Secretarium nostrum Franciscum de Tranchedinis filium di-
Nicodemi cum raensuale provisione tìorenorum
« lecti Secretarij nostri
€ Novem addictum computum soldorum tiiginta duorum prò singùlo
* floreno a die primo presentis mensis februarij ad nostrum usque be-
« neplacitum ecc. Mediolani XXIIj feb. 146i ».
APPUNTI E NOTIZIE 196
ancora sconosciuta agli studiosi e alla pietà de' suoi lontani am-
miratori tuttavia con la scorta di ricerche da noi compiute ulti-
;
mamente a Pontremoli, possiamo già semplificare la questione, esclu-
dendo formalmente che ivi possano celarsi le sue ossa. Ci induce
a formulare questo giudizio un'argomentazione d'indubbio valore pro-
batorio. Per quante indagini si siano fatte presso i Cronisti Pontremo-
lesi che pure nelle loro Cronache hanno larghi accenni alla sua
(1),
vita, all'opera sua ed alla sua morte, non abbiamo trovato traccia al-
cuna della traslazione della salma da Milano a Pontremoli. Ricerche
ugualmente infruttuose furono da noi compiute nei due codici già ricor-
dati, dove i discendenti non avrebbero mancato di annotare un episodio,
che d'altra parte avrebbe sicuramente avuto una non indifferente riper-
cussione neir ambiente cittadino. Neil' Exemplum troviamo soltanto
1' « lustrumento del Patronato nostro per la Capeila majore in San
« Francesco de pontremulo » (2), ma non vi appare nessuna aggiunta
(1) V. Ser Gio: Rolando Villani, notaio 1510-1580 Annali di Pon-
tremoli; Anonimo Cronaca di Pontremoli ; Sforza Trincadini 2572-1652
Cronicae Pontremulenses e Memorie divere; Bernardino Campi morto
nel 1716 Memorie storiche di Apua oggi Pontremoli e Annali di Pon-
tremoli in latino, di cui P. Perrari possiede copia manoscritta.
(2) Bxemplum f. 126 e sgg. « In nomine domini yhesu christi amen.
:
« Anno dominice Incarnationis MIIIFLX Indictione octavo die X quarto
« aprilis Convocato et congregato generali Consilio Communis et terre
« pontremuli Sono Campane et voce preconia prout moris est in palatio
« dicti communis de mandato spectabilis domini Francisci Antonii de
« tortis de papia vicari] et locum tenentis Magnifici domini Comissarij
« et potestatis comunis et terre pontremuli prò nonnuUis peragendis
« comunis negociis ad dictum eorum spectantibus ubi sufSciens numerus
« videlicet de tribus due partes interhierunt qnibus omnibus de Consilio
« stantibus et sedentibus presentate fuerunt per Ser Andream de Se-
« raptis de pontremulo littere Spectabilis viri domini Nicodemi de
« tranchedinis dicentes in effectu quod contentatur facere Capellam
4C maiorem ecclesie sancti francisci de pontremulo Laudabilem et pul-
« cram suis propriis sumptibas: sed quod intendit et vult si placet
« dominus de Consilio fieri patronus diete Capelle maioris: et concedi
« sibi per dictum Consilium suisque heredibns jus patronatus qui omnes
« de Consilio convocati et congregati ut supra interrogati quid eis vi-
« detur de dieta requisitione domini Nicodemi fiendum Dixerunt una-
:
« nimiter et concorditer sicque deliberaverunt ipsum dominum Nico-
li: demum suosque heredes legiptime descendentes per lineam masculinam
« patronum et patronos diete Capelle absentem ipsum tanquam presen-
< tem, et stbi suisque heredibus ut supra jus dederunt patronatus omni
« modo via jure et forma quibus melius et validius fieri potest et Ro-
196 APPUNTI E NOTiZlR
posteriore, né alcuna nota in margine, che ci apra uno spiraglio di
luce in proposito. Sisto IV con apposito breve muniva di sacre indul-
genze la Cappella maggiore dei Trancliedini, costruita in San Francesco
di Poncremoli, della quale è cenno nel testamento (l)j ma, se esiste la
cappella dei Tranchedini, nulla assolutamente si è potuto rintracciare,
non un segno, non un documento qualsiasi, da cui trarre la più lon-
tana speranza di un futuro rinvenimento della sepoltura di Nicodemo
in Pontremoli.
A questo punto il nostro pensiero si rivolge a Milano, ove del resto
gli eredi di Nicodemo si erano già definitivamente trasferiti negli ul-
timi anni che precedettero la sua morte (2): qui dunque, più che al-
trove, pensiamo che debbano essere indirizzate^attente e pazienti ricerche.
Enrico Lazzeroni.
« gaverunt me
notariam ut de predicr,Ì8 publicum conficerem jnstru-
« mentum ad laudem et ditamen sapientie.
« Actum Pontremuli in paiatio comuni s in dicto Consilio in pre-
« sentia Spectabilis domini fraacisci Anton ij vicari et locumtenentis i
« antedicti presentibus Ser Geronimo <ie Beimesserijs domino Berna-
« bove de henreghinis et toto Consilio ut supra Johanne Rossino de
« parma Joanne petro parasachini (para^achi) de pontremulo et An-
« tonio Januensi testibus notis et rogatis.
« Ego autedictus Ludovicus de Borborinis de pontremulo cancel-
« larius et notarius ad reformationes comunis pontremuli spetialiter
€ deputa tus predictis omnibus interfui rogatus publicavi scripsi et
« subscripsi appositis meis signo et nomine consueti s ».
(1) V. P. Bologna Artisti e cose d'Arte e di storia pontremolese
Firenze, 1898, p. 55. L'accenno del breve per le indulgenze alla Cap-
pella dei Tranchedini lo rileviamo dall'opuscolo di Manfredo Giuliani
Epigrafi della chiesa di 8. Francesco di Pontremoli, estratto dal Gior-
nale Storico Lunigiana^ A. VII, fase. III. « Cappella S. Fran-
della
ge cisci per diiectum fìlium Nicodemum de Tranchedinis oppidi Pontre-
< muli Lunensis dioc. in ecclesia eiusdem sancti extra muros dieta oppidi
« constructa et edificata ». Per altro la data del Febbraio 1471 sotto la
quale viene riportato il breve papale non può essere esatta, poiché il
Cardinale di S. Pietro in Vincoli, Francesco della Rovere, venne eletto
papa soltanto il 9 agosto di quell'anno.
(2) Il figlio Francesco da un pezzo, come abbiamo visto, risiedeva
in Milano, dove nel 1474 lo raggiungeva anche la madre Allegrezza. A
Pontremoli non rimaneva più nessuno della famiglia, neppur Lumesina,
che, per la morte del primo marito Oliviero Malaspina di Mulazzo, ab-
bandonata la casa paterna, era passata a seconde nozze col Dott. An-
tonio Trovamalo di Pavia, Consigliere del Marchese di Monferrato
(V. P. Ferrari, 1. e).
APPUNTI E NOTIZIE 197
i
^% Sonetti ignoti del Volta. —
De' saggi poetici che del Volta
si conoscono, i più notabili sono postumi un poemetto scientifico la-
:
tino, un capitolo bernesco contro i cicisbei, e un poemetto in terzine
celebrante l'ascensione del De Saussure al Monte Bianco e furono -,
tratti dalle carte dell'autore. Ma non tutti si conoscono quelli che
pubblicò lui. Maurizio Monti, suo concittadino e discepolo e amico, ci
attesta (1) che negli anni intorno al 1770 il Volta collaborò a raccolte
comensi di rime, oltre che per monacazioni, per nozze. Ma versi nuziali
del Volta non se ne sono esumati, e quelli rimessi in luce, tutti appar-
tenenti a raccolte per vestizioni religiose, si riducono a un'anacreontica,
tre sonetti italiani, e uno francese
Ai tre sonetti italiani ne aggiungo due ora io (2).
Zanino Volta nella Biografia del suo glorioso avo (3) inserì come
inedito un sonetto pastorale di lui per monaca che incomincia L'altrHer
su^ primi mattutini albori^ senza dire l'anno in cui esso fa scritto, né
donde egli lo traesse. Or questo inedito non è, poiché fa parte della
raccolta di rime uscita in Como nel 1768 monacandosi Donna Gioseffa
Lucini Passalacqua dove segue appunto altri due sonetti del Volta non
;
mai fin qui ristampati. Eccoli tutti e tre.
Allor che Febo in far a noi ritorno
Esce dal Gange fuora, e d'alma luce
Cosparge il nuovo già nascente giorno,
Cui l'Aurora foriera riconduce,
Veggio d'augei festosa schiera intorno
Agli indorati obbietti, in cui traluce
Parte de' rai ond'è suo carro adorno,
Specchiarsi, e salutar degli astri il duce :
Sol fra la turba dell'alato stuolo
Aquila generosa al gran pianeta
Fissa lo sguardo, e ver' lui s'erge a volo.
Vergin, tu se', ch'oltra mortai pensiero,
L'ale spiegando a più sublime meta,
T'innalzi a contemplar i rai del Vero.
(1) 8toria di Como, voi. II, p, 2,", pag. 613.
(2) Veramente già fin dal 1904 li segnalai in un mio libro (Pel
centenario alfieriano^ Como, Omarini, p. 109.
(3) Milano, Civelli, 1875, p. 73.
198 APPUNTI E NOTIZIR
Ben hai di doppio acoiar ricinto il cuore,
Nobil donzella, se gli strali ardenti
Di quell'invitto nume ancor non senti,
Ch'è de' mortali e degli Iddii signore.
Se di tua verde età nel più bel fiore
I dolci affetti troppo ad arder lenti
Dormonti in cuor sepolti, o son già spenti
Quando fìa mai eh' in te s'avvivi amore?
Sì parla il mondo forsennato e rio.
Cui soltanto l'amor profano, e noto
Sol de' poeti è il favoloso dioj
Ma ahi foUp ardir! Non è d'amor già vuoto.
Vergine, il tuo bel cor, sì lo ferie
Quel divo Arcier ch'è al mondo cieco ignoto.
L'altr'ier su i primi mattutini albori
Che campi piovon rugiadose stille,
a'
Sul margine d'un rio giaceasi Fille,
Fille l'amor di ninfe e di pastori:
Ella con lattea man tessea di fiori,
Che a gara a lei s'offriano a mille a mille,
Vaghe ghirlande; indi al bel crin partille
E al vel ch'ondeggiar fean Favonio e Clori.
Ma visto un bianco giglio in orto ameno.
Sparse i bei serti e in preda dielli al rio,
Si quel le piacque, e amò fregiarne il seno;
. Poi disse: o tra li fiori il più gentile,
Qual fai ne l'alma germogliar desio.
D'essere a te per bel candor simile! (1)
Questi, secondo l'ordine dato dal raccoglitore ai componimenti,
sono preceduti da sei sonetti di Giambattista Giovio; ed è curioso che
nel quinto di essi riscontrasi la medesima concezione e figurazione del
primo dei sonetti voltiani.
AUor che di rugiada mattutina
Umida il lembo, e sparsa il crin di fiori.
Tratta da spumeggianti corridori
L'Aurora sorge dall'eoa marina,
(1) Il testo offerto da Zanino Volta reca due varianti leggiere (nel
V. 3 sedeasi, nel v. 12 B disse), e questa, infelicissima, del v. 11: 8ì
quel le piacque che fea guerra al seno.
APPUNTI E NOTIZIE 199
A leiplaude e garrisce e umil s'iDchina
Il basso vulgo degli augei canori:
I lumi sol dell'aquila regina
Desian slSdar del sol gli alti splendori.
Dolce il veder la bassa turba intanto
Scherzare, amoreggiar; e quella altera
Immobil starsi al gran pianeta accanto :
Noi Siam la turba, e tu l'altera sei,
Che voli ardita alla celeste sfera,
E del Vero ne' rai ti specchi e bei.
Chi sa? è fortuito l'incontro? o i due giovani amici patrizi qui
vengono in accademica gara di poesia sur un motivo obbligato e pre-
stabilito d'accordo?
Subito dopo tien dietro a loro con due sonetti un poeta non pa-
trizio, da poco salito in fama per aver perseguito con « lunga beffa»
i vizi del patriziato, un poeta già maturo, che per l'età poteva loro
esser maestro, e ch'essi ammiravano. E piace veder vicini così, quasi
non sine mimine Divum, Alessandro Volta e Giuseppe Parini le due :
maggiori glorie moderne delia provincia di Como.
I due sonetti (1) del Parini per la Passalacqua sono conosciuti. Tra
le cose pariniane inedite li produsse il Cantù (2), che ne indicò altresì
l'occasione, non però la data. Ora questa possiam precisare: 1768.
I collaboratori che indi nella raccolta si succedono, non sono tutti
del tutto dimenticati: c'è Domenico Soresi, uno de' Trasformati, e de*
migliori, già compagno del Parini nella polemica col padre Bandiera;
c'è Francesco Maria Manara, professore a Pavia nell'università e segre-
tario di quella antica accademia degli Affidati, e Lorenzo Scagliosi,
pure professore colà, che l'anno innanzi era stato eletto principe degli
Affidati, titolo e ufficio onde furono insigniti di poi e il Bertola e il
Mascheroni e il Volta stesso: col principato del quale, durato pel
triennio 1793-95, l'accademia ebbe fine (3).
Ettore Brambilla.
(1) Cominciano Nave che sciogli, Fien di contrasto.
(2) e la Lombardia nel sec. passato, Milano, G. Gnocchi,
L^ab. Parini
1854, p. 533.
(3) Cfr. A. Corbellini, in Bollettino della Società pavese di storia
patria, voi. XI (1911), p. 294 e 302.
200 APPUNTI E NOTIZIE
,*^ Ancora della takkntela e dei>la iatkia del lettbeato
Giovanni Cami-iglio. — I lettori dell' J^. 8. L. ricorderanno l'impegDo
che mi sono assunto fino dal luglio dell'anno scorso di tornare su
questo argomento in seguito alle notizie ed osservazioni pubblicate
nella stessa rivista (marzo 1921) dal Visconti (1). Ed io spero che
essi vorranno scusarmi, se ho tardato fino ad ora a mantenere la pro-
messa, pensando specialmente che ho dovuto fare nuove ricerche per
uscire possibilmente dal campo non solo dell'errore, ma anche della
probabilità e per dire qualcosa di sicuro sulla discendenza del lette-
rato lombardo del sec. XIX.
Riconosco di aver con troppa fretta afiermato nel mio precedente
studio (2) che il letterato Giovanni Campiglio fosse figlio di quel-
l'Andrea Campiglio che ebbe pur un Giovanni tra i suoi discendenti,
ma che, morendo nel 1857, non poteva più considerare come suo erede
chi lo aveva i)receduto nella tomba da più di tre anni. Giova però os-
servare che il testamento di Andrea Campiglio porta la data del 15
novembre 1847 e quindi fu redatto quando il letterato era ancora
vivo. Non è poi mia colpa se la fortuna non mi ha fatto conoscere
alcuno dei membri della famiglia del ragioniere Giovanni Campiglio,
vero figlio di Andrea, e non mi ha messo fra le mani alcun volume utile
della Guida Bernardoni affinchè io potessi evitare la confusione tra due
omonimi dallo stesso casato. Del resto, il fatto solo che io dichiaravo
« strana » la presenza d'un morto fra gli eredi di Andrea Campiglio
nel di lui testamento dimostra che non mi sentivo in verità troppo
sicuro della mia identificazione.
Il nostro fu proprio quell'Ambrogio Campiglio, che il Vi-
figlio di
sconti trovò ricordato nella Guida Bernardoni del 1848 e del 1862 e che,
secondo una notizia d'archivio, da lui riferita, morì nello stesso anno
1857, in cui cessò di vivere anche il fratello Andrea. Questa discendenza,
che lo stesso Visconti annunziò come probabile, viene ora dichiarata indi-
scutibile da un documento che ha testé rintracciato una egregia studiosa,
e precisamente dall'atto di morte di Giovanni Campiglio, che si trova
nell'Archivio Parrocchiale di S.a Maria alla Porta sotto la data del
24 aprile 1854 (3). Io potrei pubblicare questo documento, che è venuto
(1) Cfr. 1'^. 8. L., Anno XLVII, fase. IV, pagg. 589-591, e Anno
XLVIII, fase. I-II, pag. 259.
(2) Cfr. Giovanni Campiglio ed i suoi scritti editi e inediti, in A.
S. i., Anno XLVI, fase. IV.
(3) A proposito di questa data, che era già nota, mi accorgo che
il Visconti si è lasciato sfuggire un che poteva veramente ri-
errore,
sparmiarsi. Egli afferma che il nostro morì il 27 aprile 1854, mentre
la stessa Gazzetta Milana di quel giorno, l'epigrafe riferita
Ufficiale di
dal Forcella e da me ed ora il documento qui sopra accennato fissano
concordemente il 24 del detto mese ed anno come il vero giorno della
sua morte.
APPUNTI E NOTJZIE 201
a mia cognizione prinia che sapessi della scoperta fattane dalla Sig.na
Dea Sgarbi di Suzzara: ma non voglio prevenire la stampa, che ne
farà presto una memoria speciale sul Campiglio la medesima stu-
in
diosa; (1) mi limito a dar qui la notizia pura e semplice e^
e per ciò
ad indicare la fonte donde è stata attinta.
Stabilita la vera discendenza del letterato Giovanni Campiglio, ho
fatto subito ricerca di qualche atto notarile e soprattutto del testamento
di Ambrogio suo padre, che, essendo un negoziante di formaggi in
Milano, dovette lasciare, morendo, una discreta sostanza. Ma mentre
mi era riuscito così facile nel 1919 di rintracciare in questo Archivio
notarile il testamento di Andrea Campiglio, non posso dire lo stesso
delle indagini fattevi di quanto riguarda il fratello. L'egregio archivista
dott. Bonomini, che ringrazio qui pubblicamente, non ha trovato nep-
pure l'indicazione del testamento suddetto nell'Indice, che possiede
l'Archivio, di tutti i documenti simili ricevuti da notai milanesi dal
1808 in poi. Fra sette testatori e testatrici registrati in quell'Indice
copioso col cognome Campiglio non appare affatto il padre del nostro
scrittore (2). E così resta ignorato un documento che ci avrebbe potuto
fornire altri elementi importanti sulla famiglia di lui e sulle sue rela-
zioni col padre, con cui visse per parecchi anni e da cui si separò,non
sappiamo ancora perchè, prima che lo cogliesse la morte.
Ma il Visconti non si è limitato nel suo « appunto » a parlare
della paternità del nostro ha anche affermato in una nota, contraria-
:
mente a quanto avevo sostenuto io nel mio studio, che Giovanni Cam-
piglio non nacque a Milano, ma in qualche paese dell'alta Lombardia,
donde venne il padre a esercitare il suo commercio. A questo propo-
sito devo anzitutto dichiarare che prima di stampare quello scritto e
dopo di aver cercato invano l'atto di nascita dello scrittore lombardo
pensai a lungo se egli non avesse potuto veder la luce fuori di questa
città. Esclusa come sua patria Monza, dove altri l'aveva fatto nascere,
credetti per qualche tempo che fosse venuto al mondo in uno dei tanti
paesi del Varesotto occidentale; e a ciò m'induceva l'attestazione d'un
amico, che ricordava d'aver visto, parecchi anni or sono, nei dintorni di
(1) La sig.na Sgarbi, fino dall'anno scorso, si è posta ad esaminare
più minutamente i manoscritti campigliani dell'Ambrosiana, che io
già elencai ed illustrai sommariamente nel mio precedente lavoro ; cosi
è stata tratta a far qualche ricerca sui punti oscuri della vita del Cam-
piglio.
nominato archivista mi consigliava d'indagare prima chi po-
(2) Il
teva essere
il notaio di famiglia. Io ho pensato che potesse essere
quello stesso di cui si servì il fratello Andrea, cioè Tommaso Grossi.
Ma il Grossi morì il 10 gennaio 1853; e quindi se, come pare, Ambrogio
Campiglio non testò e non consegnò a lui il suo testamento prima di
questa data, non potè neanche valersi dell'opera sua dal 1853 al 1857.
202 APPUNTI B NOTIZIE
Ternate una lapide commemorativa delPautore della Figlia del Ghibel-
lino. Ma le ricerche fatte a tale scopo in quella plaga nel 1919 non ap-
prodarono a nulla, ed io dovetti convincermi che il mio amico aveva
preso un equivoco manifesto. Quando poi il Visconti pubblicò il suo
« appunto », la mia convinzione dell'origine milanese del nostro Cam-
piglio non fu punto scossa, sebbene mi nmncasse ancora la prova do-
cumentata di quanto avevo asserito. Feci tuttavia qualche altro ten-
tativo per vedere quanta ragione avesse il mio contradittore di soste-
nere il suo assunto, ma invano (1). Così la mia convinzione si è venuta
rafforzando, e <lall'altro canto mi pare che gli argomenti del Visconti
non siano molto solidi.
Egli ritiene infatti che Giovanni Campiglio sia stato condotto an-
cora bambino a Milano dal padre: altrimenti non si potrebbe spiegare
— egli afferma —la mancanza qui, a Milano, di dati sulla origine di
lui. Ma per dir questo ha il Visconti cercato le testimonianze relative
in tutti gli archivi parrocchiali milanesi, che sono tanti? In verità
sembra che egli si sia contentato di aggiungere alle mie inutili ricerche
in cinque parrocchie quelle da lui compiute con esito uguale in San
Giorgio al Palazzo, dove non ha rinvenuto neppure una traccia di tutto
il ramo di Ambrogio Campiglio. Questo sarebbe potuto bastare, se si
avesse la certezza che, alla sua venuta in Milano, Ambrogio Campiglio
si era domiciliato con la famiglia in quella Via dei Piatti (n. 3952), in
cui lo troviamo fino dal 1829, da quando cioè il figlio metteva sulla
copertina dei suoi libri stampati lo stesso indirizzo, che aveva il padre
nel 1848 e nel 1862, secondo la Guida Bernardoni. Ma chi dice al Vi-
sconti che prima del 1829 la famiglia di Ambrogio Campiglio abitasse
proprio in Via dei Piatti? Chi gli dice che, appena venuto a Milano,
questo negoziante non sia andato ad abitare in un'altra via e sottc» la
giurisdizione d'una Parrocchia diversa dalle sei, di cui finora si sono
consultati senza frutto i registri? Certo il Visconti non ha pensato che
affermare la precedenza della nascita di Giovanni Campiglio alla venuta
del padre a Milano, è affatto gratuito, se non si stabilisce prima in quale
anno quest'ultimo prese domicilio nella capitale lombarda, mentre si sa
che il letterato, dì cui ci occupiamo, nacque intorno al 1804 (2).
Io credo insomma che, continuando le ricerche negli archivi par-
rocchiali di Milano, si troverà certamente in qualcuno di essi la fede
di nascita del letterato Giovanni Campiglio. Allora il Visconti si per-
suaderà meglio di adesso che la fretta ha giuocato anche a lui un tiro
poco piacevole.
Enrico Filippini.
(1) Conservo, per chi le volesse consultare, le risposte ad alcune
mie lettere dirette a persone, che potevano essere bene informate
della cosa.
(2) Cfr. l'epigrafe mortuaria, già riferita dal Forcella e dal sotto-
scritto, in cui è detto che il Campiglio mori nel 1854 « di anni 50 ».
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
ASSEMBLEA GENBEALE ORDINARIA
15 gennaio 1922
Presidenza del Presidente Conte Senatore EMANUELE GREPPI
Alle 14.30, trascorsa un'ora da quella indicata nell'avviso di con-
vocazione, la seduta è dichiarata valida ed aperta.
Del Consiglio di Presidenza sono presenti il Presidente Conte Sen.
E. Greppi, i Vice Presidenti Prof. G. Bognetti e Conte A. Giulini, 1
Consiglieri Conte A. Casati, Prof. G. Gallavresi, Dr. E. Verga, Dr. G.
Vittani, il Segretario Prof. G. Seregni, il Vice Segretario Prof. A. Vi-
sconti.
Sono rappresentati per delegazione la Banca Commerciale Italiana,
la Nob. Signora Giuseppina Buttafava Valentin i, la Sig. Prof. Giulia
Cavallari Cantalamessa, la Nob. Donna Jenny Litta Modignani, i Si-
gnori Barone Giuseppe Bagatti Valsecchi, Conte Dionigi Barattieri,
Sacerdote Rinaldo Beretta, Attilio Briccbi, March. Pietro Brayda di
Soleto, Nob. Gerolamo Calvi, Nob Felice Coileoni, Padre Denys Buon ner,
Sacerdote Paolo Guerrini, Prof. Enrico Lazzaroni, Conte Teodoro Lecbi,
Sacerdote Carlo Locatelli, Dr. Giergio Nicodemi, Conte LuigiParavi-
cini, Piero Parodi,March. Andrea Ponti, Ing. Luigi Riva-Cusani, Sa-
cerdote Carlo Santamaria, Conte G. L. Sola, Prof. Attilio Stefini, Comm.
Ferdinando Uboldi, Avv. Carlo Ercole Verga.
È approvato il verbale della precedente assemblea.
Il Presidente dà anzitutto notizia della scomparsa, avvenuta nella
scorsa notte, del Nob. Avv. Comm. Stefano Labus, ultimo dei Soci
fondatori, che ieri stesso scriveva, scusandosi di non potere, ammalato
qual era, intervenire all'odierna adunanza, e mandando delegazione
per esservi rappresentato. Ne commemora i grandi meriti verso la città,
e verso la Società Storica Lombarda, a cui era affezionati ssimo. Ri-
corda quindi (Allegato A) altri cari estinti Mons. Marco Magistretti,
:
Contessa Antonietta Martini Landriani, Ing. Enrico Mina. Comm. Giu-
seppe Marietti.
204 ATTI DELLA SOCIETÀ STOBIOA LOMBARDA
Il compianto CoiiBigliere Mons. Dott. Marco Magistretti è pure
commemorato dal Socio Mone. Prof. Emilio Galli (Allegato B), del che
il Presidente gli rende grazie a nome di tutti i presenti.
Il Sen. Greppi procede quindi a comunicazioni diverse sulle cose
sociali. Nel 1923 la Società compirà il cinquantesimo anno della sua
vita, e la Presidenza intende che tale giubileo sia degnamente celebrato.
Per l'aprile si spera possa vedere la luce la prima parte del primo
volume del carteggio Verri, e frattanto è pure in corso la stampa del-
l'indice dell'Archivio Storico (ultima serie), grazie anche alla solerzia
del collega Dott. Giovanni Vittani. Il Comune di Milano ci ha con-
fermata la concessione dell'uso dei locali in Castello a tutto il 1924.
La Sovraintendenza ai Monumenti di Lombardia ha accolto le proposte
dejila Società circa i cimelii manzoniani. Il nostro Sodalizio è stato
invitato dal Ministero della Pubblica Istruzione a concorrere con invio
di pubblicazioni alla ricostruzione della Biblioteca di Vienna j al che
si aderirà inviando l'Archivio Storico Lombardo.
Gallavresi aggiunge qualche notizia a quanto è stato detto circa i
cimelii manzoniani, facendo notare, che non solo sotto l'aspetto giu-
ridico, bensì anche sotto l' aspetto morale e culturale si è raggiunto
lo scopo, che la Società nostra ed altri enti si proponevano.
Il Vice Presidente Bognetti illustra il Preventivo 1922, che posto
ai voti è approvato.
Sipassa quindi alle nomine per le cariche sociali. Fungono da
scrutatori l'Avv. Ambrogio Crippa e il Dott. Alberico Squassi.
Eisultano rieletti a Presidente il Nob. Sen. Emanuele Greppi, a
Vice Presidente il Conte Alessandro Giulini ed il Prof. Giovanni Bo-
gnetti, a Consigliere il Nob. Guido Cagnola, Viene pure nominato a
Consigliere per nuova elezione il Prof. Gioacchino Volpe.
A Revisori del Bilancio 1921 si nominano i signori Conte Carlo
Ottavio Cornaggia, Nob. Antonio Parrocchetti Dott. Giovanni Vergani.
,
Vengono accolti a nuovi Soci la Biblioteca Ambrosiana (socio per-
petuo), la Contessa Emilia Rossi Martini ed i Signori Avv. Ermene-
gildo Ajelli, Prof. Dott. Angelo Bellini, Conte Carlo Caccia Dominioni,
Padre Alano Carlo Carlini, Prof. Achille Dina, Prof. Dott. Omero Ma-
snovo, Dott. Egidio Meazza, Prof. Dott. Fortunato Rizzi, Luigi Sironi,
Dott. Mario Tagliabue.
Il Presidente
EMANUELE GREPPI
Il Segretario
G. Sekegni
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 205
ALLEGATO A).
Il necrologio dei soci nostri defunti, pia, ma dolorosa consuetudine
delle nostre assemblee, comprende oggi pur troppo un caro e venerato
nostro collega della Presidenza, Mone. Marco Magistretti.
La sua dottrina lo aveva designato per molti anni, anche nelle
funzioni proprie al suo ministero, ad un ufficio che ha strette relazioni
colla coltura storica, la direzione cioè del cerimoniale ecclesiastico
nelle funzioni solenni, le cui prescrizioni, specialmente nel rito am-
brosiano^ hanno grandissimo interesse, perchè si connettono ad usanze
antichissime le quali conservano le tradizioni del rito originario della
Chiesa Cattolica.
E d' altra parte egli stesso, come cultore e scrittore di storia, pre-
diligeva argomenti religiosi, suo studio Sulle vesti ecclesia-
quali il :
stiche in Milano, e l'edizione del Liher notitiae sanctorum Mediolani ;
ciò che non gli impedì di trattare valentemente anche argomenti
nx)n religiosi, come la Storia del Palazzo della Società del Giardino e
la recente edizione delle opere del nostro sommo poeta vernacolo,
Carlo Porta.
Ma di lui speriamo voglia oggi stesso dire altri meglio di me. Noi
però della Presidenza non possiamo dimenticare, che egli attese con
grande attività al riordinamento della nostra biblioteca. e che egli pro-
curò alla Società il dono di un prezioso archivio, importantissimo per
l'epoca della repubblica cisalpina e della repubblica italiana, perchè
comprende le carte del ministro Micheroux, inviato di Napoli a Venezia
e a Milano ed agente politico molto notevole anche nelle vicende della
patria sua.
Tutti
i soci poi, anzi tutti i cittadini milanesi gli debbono essere
grati per le cure da lui prodigate nell' ultimo anno di vita alla grande
nostra Biblioteca Ambrosiana, al cui ampliamento si dedicava con ma-
raviglioso fervore.
Al ricordo di questo venerato ecclesiastico, dobbiamo far seguire
quello di una donna insigne per intelligenza e per virtù, la Contessa
Antonietta Martini Landriani,
Degnamente la commemora in un giornale cittadino un nostro
collega della presidenza e non saprei usar parole migliori che stral-
ciandone un breve periodo « Sorella del Landriani ferito alla carica
:
« di Balaclava, moglie di quel brillante ufficiale che fu Alberto Martini,
€ cognata dell'Enrico Martini che per ben due volte superò durante le
« cinque giornate lemura di Milano vigilate dagli Austriaci, la giovane
« signora fu fra le più intransigenti antesignane di quella dittatura
< mondana delle dame liberali che resero irrespirabile 1' atmosfera del
« mondo milanese ai rari fautori che l'Austria serbava nelle fila della
€ aristocrazia ».
Con maggiore venerazione ancora ricorderò, insieme all'amico, come
nei suoi vecchi anni essa fosse specialmente apprezzata da Monsignor
206 ATTI DBLLa società STOttlOA LOMBARDA
Geremia Bonomelli, il quale ravvivava nella di Lei delicata anima
femminile la stessa fiamma che ardeva nella sua grande anima apostolica.
Atri due socii simpatizzanti con noi per la coltura della mente
dobbiamo pure rimpiangere. L'uno, Vingeynere Enrico Mina di Monza
aveva inteso la storia specialmente nei suoi documenti monumentali,
attratto dal Duomo della sua città, al cui restauro aveva dedicato le
sue cure; l'altro, Giuseppe Marietti, ultimo socio che abbiamo perduto,
aveva larga coltura, prontezza di 'parola, vastità di pensiero nella
politica e nella pubblica amministrazione. Coprì cariche importanti
nella provincia e nelle istituzioni di pubblica beneficenza, ma i iuoi
ragionamenti d'uomo maturo erano ancora improntati alla genialità
del giovane fondatore di un cenacolo letterario sorto nel 1883 con un
proprio giornale settimanale,le FenombrCy diretto da Domenico Oliva^
ove coi Marietti collaboravano Marco Praga, A. Cipollini, Italo Ron-
chetti e il Bermani.
A Lui e agli altri che" abbiamo perduto il nostro mesto saluto.
Allegato B).
Commemorazione di Mons. Cav. Doti. MARCO MAGISTRETTI^
Socio e Consigliere della Società Storica Lombarda.
MilanOy 15 gennaio 1922.
È con v§ro rammarico che prendo la parola davanti a Voi, Egregi
Colleghi, per commemorare il compianto nostro Consocio, Mons. Marco
Magistretti, non solamente per la cara amica persona perduta e per la
grave iattura che i nostri studi milanesi soffrono, ma anche perchè altri
fra Voi, in mio luogo, ne sarebbe stato assai più degno e autorevole
illustratore. So p. es. che il chiar.mo nostro Consocio Ing. Ugo Mon-
neret (legato all'illustre Estinto di particolare amicizia, anche per con-
suetudine di studi e lavori in comune) sta preparando una completa
biografìa e bibliografia di Mons. Magistretti; di modo che, spero, più
facilmente ora mi perdonerete le inevitabili lacune che per avventura
riscontrerete nella mia breve commemorazione.
Quando lo scorso novembre (1921) ci giunse la triste notizia che in
quella notte di domenica del 20, in casa del parroco di S. Giovanni
alla Castagna sopra Lecco, dove si era recato nel pomeriggio di quel
medesimo giorno per un po' di riposo, erasi spento improvvisamente
il nostro Mons. Magistretti, provammo una angosciata meraviglia Da
qualche anno, è vero, la sua salute erasi fatta cagionevole; ma la fibra
ancora robusta, l'aitante e prosperosa figura, il lavoro indefesso al quale
ancora sapeva attendere come negli anni più fiorenti della sua sempre
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 207
giovanile età, ci lasciavano sperare che per molti e molti anni ancora
noi Lo avremmo riveduto dove dal 1896 era
qui, in questa nostra sede,
ascritto Socio e, dal maggio Con-
1916, ripetutamente era stato eletto
sigliere della Società ; o nella Biblioteca Capitolare (che dal dicembre
del 1919 era stata affidata alla sua direzione; oppure all'Ambrosiana,
-,
di cui era sempre stato uno dei più assidui frequentatori e della quale
con lo scorso anno (1921) era stato nominato Presidente del Consiglio
di Amministrazione. Non par vero di non incontrarci pili in quell'alta
e simpatica sua figura, accalorata in dotte discussioni inframmezzate
da arguzie e da epigrammi che la sua naturale vivacità di spirito sa-
peva a ogni tratto condirvi; o pazientemente, per ore ed ore, ricurva su
pergamene e codici antichi che invano a Lui tentavan di nascondere i
loro segreti Gli è certo che Mons. Magi stretti, almeno per la nostra
!
generazione che l'ha conosciuto di persona e apprezzato, rimarrà una
delle memorie su cui di preferenza s'indugierà il ricordevole pensiero;
ma sarà anche un nome destinato a sopravvivere a noi Suoi amici
e ammiratori, avendo Egli lasciato dietro alla sua affliggente scomparsa
la parte migliore di sé, voglio dire il ricordo di esimie virtù sacerdo-
tali congiunto a numerosi importantissimi scritti, ai quali oramai è as-
sicurata una imperitura rinomanza nel campo delle storiche e liturgiche
discipline. Ben provvide per tanto la nostra On. Presidenza (sé non
nella scelta dell'oratore) a volere commemorato, in questa solenne As-
semblea Generale della Società Storica Lombarda, l'illustre Estinto che
così bene, vivente, l'ha onorata.
Mons. Marco Magistretti (la cui famiglia era oriunda dalia Svizzera
Ticinese,ma che da tre generazioni erasi trapiantata in Milano) nacque
appunto in Milano da Carlo Magistretti e da Ernesta Besia il 19 luglio
del 1862, in parrocchia di S. Babila. Si direi»be che egli tenesse
come trasfusa nel suo sangue un po' di quella fierezza alpigiana e re-
pubblicana della originaria Elvezia, ammorbidita però ed ingentilita dalla
ambrosiana bonomia e piacevolezza! Era il quinto —
e fu l'ultimo —
rampollo della sua distinta famiglia, della quale sopravvivono ancora la
sorella sig.ra Maria e i due fratelli professori Fiero ed JEmilio^ orna-
mento l'uno delle arti, l'altro delle lettere. Marco, avviatosi alla car-
riera ecclesiastica, dimostiò fin da giovine chierico una spiccata in-
clinazione per gli studi di erudizione storico-ecclesiastica; così che,
ordinato sacerdote il 20 dicembre del 1884, fu dal nostro Arcivescovo
di santa memoria Mons. Calabiana (al quale era carissimo) destinato
come Cappellano Corale e Vice Cerimoniere della Metropolitana. Epperò
nel giugno del 1890 succedeva a Mons. Consonni come Prefetto e Maestro
delle sacre Cerimonie: carica che poi egli tenne fino all'agosto del 1905
quando — laureatosi oramai in S. Teologia; insignito di molte onorifi-
cenze dalla Santa Sede; nominato Socio Corrispondente della R. De-
208 ATTI DKLLA SOCUKTÀ STORICA LOMBARDA
putazione sovra gli Studi di Storia Patria (1901) —
S. Em. il compianto
Card. Arciv. Andrea Ferrari lo aggregava come Canonico Ordinario allo
stesso Capitolo Maggiore della Metropolitana.
Mons. Magistretti non si era intanto accontentato di essere un sem-
plice esperto e un pragmatico professionista delle liturgiche cerimonie ;
ma, spinto dalla naturale inclinazione, favorito dall'esuberante ingegno,
incoraggiato e diretto da quella guida sapiente, maestro dei maestri,
che fu il dottissimo Mons. Antonio Ceriani, Prefetto della Biblioteca
Ambrosiana, Egli divenne l'acuto indagatore, lo studioso analizzatore,
il critico erudito e ricostruttore di quegli antichi Riti, dei quali il Su-
periore Ecclesiastico l'aveva fatto Gran Cerimoniere.
In quella stessa preziosa Biblioteca Ambrosiana trovava pure il
Magistretti un collega e compagno giovane Dottore Achille
di studi nel
Ratti, che poi come prefetto succedette al Ceriani e che ora insi- —
gnito della Saera Porpora — onora come Arcivescovo e Pastore la nostra
Diocesi Ambrosiana (1).
Per tutto ciò, di lieve si comprende come non dovesse tardare
Mons. Magistretti a prodursi in rilevanti lavori esegetico-critici sul
Culto Milanese (che è poi l'antichissimo rito della Chiesa d'Occidente)
e che fecero ben presto di Lui un vero maestro di incontestata auto-
revolezza, non solamente da noi, ma presso quanti dotti stranieri, —
specialmente d'Inghilterra e dì Germania — che si interessano di que-
stioni della antica liturgia cristiana.
Basterà questo saggio bibliografico delle opere e scritti principali
da Lui editi nei 24 anni della sua carriera di professionista e di studioso.
Cominciò nel 1887 con la pubblicazióne delle Cerimonie della Messa
Privata (Milano, Cogliati, 1887) di cui nel 1911 si faceva la terza edizione.
Nel 1888 seguirono i Biti e Cerimonie per la solenne Dedicazione di
una Chiesa, esposta e dichiarata ai fedeli (Milano, Cogliati, 1888) : nel-
l'anno seguente (1889) se ne fece la 2* edizione. Nel 1892 pubblicò Ap-
punti di Archeologia musicale : il Canto Ambrosiano nel secolo XII
(Milano. 1892), Intanto egli veniva preparando la pubblicazione di un
importantissimo Codice Ambrosiano fìhe poi vide la luce nel 1894, e
cioè il Beroldus, sive Ecclesiae Amhrosianae Mediolanensis Calendarium
et Ordines saec. XII (Milano, Pogliani, 1894). Nel 1895, in occasione del
XIII Congresso Eucaristico tenutosi in Milano, diede alle stampe (Co-
gliati, 1895) i Cenni storici sul Bito Ambrosiano^ ù, cui tenne dietro nel
medesimo anno Cerimonie per la Consacrazione dei Vescovi. Altri due
lavori videro la luce nel seguente anno 1896: Begole di alcuni capi ne-
(1) Ora che correggo le bozze di questa commemorazione, il già
Card. Arciv. di Milano Achille Ratti, trovasi elevato alla papale dignità
col nome di Pio XI. Ad multos annos !
J
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 20^
eessarii epiù frequenti per V osservanza delle Sacre Cerimonie e Canto
Fermo Ambrosiano^ stampati d'ordine del Cardinal Federico Borromeo,
y. Edizione con Note (Milano, Cogliati, 1896), e il Piccolo Cerimoniale per
alcune Funzioni nelle Chiese Parrocch. della Diocesi di Hito Ambrosiano.
L'anno 1897, XV Centenario della morte di S. Ambrogio, fu oltre-
modo fecondo e importante notiamo II Bito Ambrosiano (Milano, San
:
Giuseppe, 1897), conferenza letta la sera del 4 febbraio nella Cappella
Arcivescovile il primo volume di un'opera ardimentosa e insigne che il
j
Magistretti volle intitolata « Monumenta Veteris lÀturgiae Ambrosianae »,
(e fu il Pontificale in usum Ecc. MedioL et ex codieibus saecc. IX-XV
(Milano, Hoepli, 1897), con prefazione di Mons. Ceriani) ; e Delle Testi
Ecclesiastiche in Milano (monografìa XP della raccolta Ambrosiana^
Milano, Cogliati, 1897), contributo notevole non solo per la storia del
vestiario sacro e liturgico della Chiesa Milanese nel secolo IV, ma per
quella del costume in genere. Nel 1905 se ne faceva una 2^ edizione. Nel
1898, Una corrispondenza Ambrosiana del secolo XII (nel periodico
della Facoltà Teologica di Milano, la Scuola Cattolica) : nel 1899, l'eru-
ditissimo lavoro sulla Liturgia della Chiesa Milanese nel secolo JF (Mi-
lano, S. Giuseppe, 1899), ossia note illustrative della Conferenza san-
tambrosiana sul Bito, del 1897).
Del 1900 è la Notitia Cleri Mediolanensis de anno 1398 circa ipsius
immunitatem del 1902, Della nuova edizione tipica del Messale Ambro-
;
siano (in •« Scuola Cattolica » di Milano), e del 1904 (nel medesimo pe-
riodico) Il Dogma dell'Immacolata nella Liturgia Ambrosiana. Nel 1905
videro la luce il secondo e terzo volume (Milano Hoepli, 1905) dei Mo- ;
numenta Veteris Liturgiae Ambros. e cioè il Manuale Ambrosianum ex
codice saec. XI olim Canonicae Vallis Travaliae. Seguirono poi, nel 1909
Due Inventarii del Duomo di Milano del secolo XV
(in Archivio Sto-
rico Lomb.); — nel 1910, Di due edizioni sconosciute del Rituale del
Sacramenti secondo Ù, Bito Ambrosiano (Milano, Hoepli); nel 1913, —
in collaborazione col Dott. Achille Katti, (sullodato nostro Card. Arci-
vescovo) l'edizione del Missale Ambrosianum Duplex dell'Ab. Mons. Ce-
riani; —
nel 1916, il Liber Seminarti Mediolanensis (in Arch. Star, Lomb.
e nel 1917 il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani (noto più comune-
mente come di Goffredo da Busserò) che, in collaborazione con Ugo
Monneret, redasse su un Codice della Biblioteca Capitolare del Duomo.
G'à fin da quando Mons. Batti aveva lasciato l'Ambrosiana per la
Vaticana affidava questi a Mons. Magistretti gli studi e le schedo già av-
viate per la edizione del primo volume degli Ada Ecclesiae Mediola-
nensis. Il Magistretti, studioso serio e bene allenato a siffatti lavori,
dava piena sicurezza di un degno compimento dell'opera monumentale,
trent'anni prima coraggiosamente iniziata dal Ratti; ma la morte colse
il nostro Monsignore in pieno lavoro. Ora i manoscritti (assieme alla
sua personale ricca biblioteca) sono stati legati in dono alla Biblio-
teca Capitolare del Duomo, e speriamo che tanto tesoro di studi non
rimanga frustrato.
drch. Star. Lomb, Anno XLIX, Fase. I-II. 14
210 ATTI DELLA SOOlKTÀ STOttlOA LOMBARDA
Il Mrtgi stretti non si com'era naturale, nei suoi Htudi al
limitò,
campo strettamente ma, come ne fanno fede altri suoi la-
liturgico ;
vori, si estese ad altri argomenti. Mi limiterò a citare il 8. Pietro al
Monte di Givate ed il Corpo di S. (Jalocero (in A. S. L. del 1896) —
Vln Memoria dell'Ah. Luigi Tosti di Monte Gassino (nel med. A. S. L.
del 1897) —
gli Appunti per la storia deW Abbazia di Givate (nel med.
A, 8. Jj. del 1898) —
il Leonardo 8pinola, il suo Palazzo in Milano e le
principali trasformazioni edilizie di esso (in < Il Palazzo Spinola e la 8o
cietà del Giardino in Milano » Milano 1919) e finalmente le cure i)re-
;
state da Lui, in collaborazione col prof. Carlo Reale e col dott. Ettore
Verga Direttore del nostro Archivio Storico Civico, per la illustrazione
del testo delle « Poesie milanesi di Carlo Porta » (Milano, Mondadori,
1921) edite per cura della stessa Società del Giardino che, come si legge
nella prefazione, meritamente proclamava il nostro Magistretti suo sto-
riografo^ studioso e diligente indagatore di memorie cittadine. Infatti Mons.
Magistretti non si rese soltanto favorevolmente noto nella ristretta e
arcigna cerchia degli eraditi di professione; ma —
notissimo già a tutto
il clero della Diocesi —
seppe crearsi attorno larghe aderenze e sim-
patie nel laicato cittadino d'ogni tendenza e partito^ per l'animo suo
aperto, franco e liberale. Incapace di rancori, sensibilissimo alla ami-
cizia, dignitoso e bonario a un tempo, Egli riusci ad essere una delle
più spiccate personalità della nostra società milanese carattere forte ;
e originale che a tutta prima sembrava sconcertare per l'indipendenza
di giudizi! su uomini e cose, ma che, conosciuto nella intimità, rive-
lava tosto una grande bontà, generosità e nobiltà d'animo che finivano
per renderne simpaticissima la compagnia. Bastava guardarlo negli occhi,
quando più la parola pareva acre o pungente, per rilevare tosto, sotto
l'impeto delle forme, una sostanza tutta di lealtà e cordialità, di retti-
tudine e serenità che cementavano e rendevano più salde le amicizie.
Si aggiunga la specchiata onestà che Lo guidò sempre in tutte le varie
amministrazioni pubbliche alle quali venne chiamato a prender parte,
come la Fabbrica del Duomo, e la Chiesa di S. Bernardino alle Ossa
di R. Patronato. Ultimamente era stato nominato Prefetto del Collegio
dei Conservatori dellaAmbrosiana carica che assorbì veramente l'ope-
:
rosità degli ultimi mesi della sua vita, ideando Egli, con vero entu-
siasmo e senno pratico, restauri e riforme tecniche ed edilizie che l'il-
lustre Consocio Mons. (xrammatica, attuale degnissimo Prefetto di quella
insigne Biblioteca cittadina, sta con fervore iniziando e attuando. Così
il nome di Mons. Magistretti, come è legato al riordinamento dell'Ar-
chivio Capitolare Metropolitano e a quello dell'Archivio Arcimboldi di
Casa Sola, lo sarà anche —
se la generosità di Milano non mancherà —
alla gloriosa istituzione di Federico Borromeo, per il nuovo lustro che
l'attende.
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 211
Ma, Egregi Consoci, per quanto io mi sappia di parlare in una
o'
sede esclusiva di stiidi, a persone studiose e di un esimio studioso di
storiche discipline quale fu veramente il compianto nostro Mons. Ma-
gistretti, non posso chiudere questa mia breve affrettata commemora-
zione senza fare un cenno almeno delle sacerdotali virtii di Lui, che —
non meno dell'alto suo ingegno —
lo raccomandano alla nostra rive-
rente memoria. Troppo di vero ha la sentenza del Giusti, « avere il
mondo maggior bisogno d^ uomini buoni che di gente d^ ingegno », perchè
io non trovi che^ anche sotto di questo riguardo del Sacerdote pio,
buono, virtuoso, può gloriarsi il nostro Sodalizio d'averlo avuto per
tanti anni Socio e Consigliere; —
e che, senza di questo aspetto, la
figura di Lui che qui intendiamo di rievocare onorando, non sarebbe
né intera né perfetta. Ma qui duolmi, o Colleghi, di non potere, senza
incorrere la taccia di inopportunità o di indiscrezione, comunicarvi
quanto da private informazioni e dal carteggio di Lui e dalla desolata
Famiglia mi risultò del suo zelo sacerdotale, della intemerata e virtuosa
sua vita, della esemplare pietà e devozione. Dovrei incominciare dalla
accorata lettera di condoglianza del nostro veneratissimo Cardinale
Arcivescovo al Capitolo Metropolitano, per scendere alle commoventi
pagine di tante oscure persone alle quali il Magistretti fu luce e guida
nelle vie del bene, direzione e conforto nelle morali ascensioni dello
spirito col ministero della sacerdotale ed efficace sua parola. È il caso
di ripetere con Dante:
E se il mondo sapesse il cuor ch'egli ebbe
... assai lo loda e più lo loderebbe.
Mi basterà accennarvi queste significativo episodio. Frugando tra
le carte di Monsignore, ho trovato un foglietto a stampa, recante do-
dici Bicordi Spirituali del Ven. P. Ludovico da Ponte 8. I. certa- —
mente, un ricordo di quelle periodiche esercitazioni spirituali alle quali
da buon sacerdote il Magistretti non mancava mai di intervenire. Or-
bene di queste massime religiose una sola, la dodicesima, porta di sua
mano in margine un nervoso segno di croce in matita rossa, come se
particolarmente Egli l'avesse scelta quasi a sua impresa e ad essa in-
tendesse di conformare la propria vita. Quella massima dice cosi:
« Dio fa conoscere ed esalta chi umilmente desidera di nascondersi :
invece nasconde ed abbassa chi vanamente vuol mostrarsi ».
Quella massima e quel rosso segno di croce é tutta una rivelazione:
da li può ricevere la sua più vera e simpatica luce la figura di questo
Monsignore che la maggior parte delle persone non conosceva che per
un dotto e studioso di Lui, Prelato Domestico di S. Santità e Cava-
;
liere della Corona d'Italia, che in apparenza sì vedeva portare attorno
con le insegne della sua dignità l'alta e imperiosa sua aitante persona
^ri ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
o che con rude alterezza di parola pareva talvolta disorientare i suoi
interlocutori. Sì, è in questa luce interiore di umile e celata bontà che
si appalesa il vero Monsignor Magistretti, che da essa traeva la saldezza
di sua fede, la pietà del suo animo, l'ardore del suo zelo sacerdotale
per le più oscure ignorate opere del suo ministero, alle quali quotidia-
namente non disdegnava di consacrarsi, serenamente interrompendo le
dotte occupazioni dei prediletti suoi studi.
Riepilogava pertanto con molta verità l'elogio che si può fare di
Lui, l'iscrizione mortuaria dettata in sua memoria e che qui mi piace
di ricordavi :
SACERDOTE DI VIVA FEDK — DI PIETÀ ROBUSTA
PROFUSA NELLA DIREZIONE DELLE ANIME
CUORE PATERNO — ILLUMINATO SKN80 DELLA VITA.
AMBROSIANAMENTE ORGOGLIOSO DBL SUO DUOMO
ILLUSTRÒ CON i*ONDEROSE — ERUDITE PUBBLICAZIONI
l'antichità e le BELLEZZE DEL RITO.
FIGLIO DEVOTO DELLA SUA MILANO
LA MULTIFORME — INTRAPPRENDENTE ATTIVITÀ
CON DIVORANTE ARDORE DEDICÒ
AL CULTO DELLE PATRIE ISTITUZIONI.
SENSIBILISSIMO ALL' AMICIZIA
LA RUDE FRANCHEZZA DI PAROLA
MITIGAVA POI CON TBNKRISSIME EFFUSIONI DI APPETTO.
RAPITO DA IMPROVVISO MALORE
NON IMPREPARATO ALL'iNCONTRO DI DIO
....Sì, « non impreparato all'incontro di Dio »; ma anche non impre-
parato (per quanto con nostro dolore !) all'abbandono della terra, alla
quale aveva saputo legare, con sì buon uso dell'ingegno e dei tempo,
tanta eredità di ottimi studi e di sacerdotale bontà, in imperitura ri-
cordanza !
Emilio Galli.
Elenco delle Opere pervenute alla Biblioteca Sociale
I. Semestre 1922
Adami Vittorio, La misura di un arco di meridiano affidata da Napoleone
a Barnaba Orioni. Milano, 1921, Tipog. de « L'Universo » di Firenze.
(d. d. s. a.).
Annoni a., L'opera della sopraintendenza ai monumenti della Romagna per
il VL Centenario Dantesco dal 14 gennaio 1920 al 14 settembre 1921.
Milano, 1921, Sestetti e Tumminelli. (d. d. s. a.).
Atti del Comune Annata 1916-1917. P. I e IL Milano,
di Milano. 1921.
Tip. Stucchi-Ceretti e C. (d. d. Comune^.
BoNVESiNO DALLA RiVA, Lc meraviglie di Milano. Traduzione dal testo
latino, introduzione e commenti del D. Ettore Verga. Milano, 1921,
Tip. Cogliati. (d. d. s. Editore).
Bricchi Attilio, Medici Milanesi in tempo di Dominazione Spagnuola,
Milano, 1922. Tip. Ostinelli, Como. (d. d. s. a.).
Bustico Guido, Dantisti e dantofili in Novara, 1921. Novara, 1921. Tip.
Cattaneo, (d. d. a.).
— La censura teatrale a Novara durante il periodo napoleonico. Roma,
1921. Tip. U. Pinnarò. (d. d. a.).
— Vorigine degli asili infantili di Novara e Vopera di Carlo NegronL
Novara, 1922, Tip. Gaddì. (d. d. Biblioteca Dantesca Negroni).
Capretti Flaviano, La chiesa di S. Giuseppe in Brescia e il suo Triduo
dei Defunti. Brescia, 1922, « Brixia Sacra ».
Carotti G., Leonardo da Vinci, pittore, scultore, architetto. Torino, 1921,
Tip. Celanzo. (d. d. s. a.).
Colombo Alessandro, La battaglia al Ticino e le vicende di un municipio
romano. Milano, 1921, Vallardi. (d. d. s. a.).
Ehrenfreund Edilio, La ferrovia del Moncenisio (1871-1921). Torino,
Tip. Botta, (d. d. Ministero L. P.).
OiuLiNi Alessandro, Figurine milanesi nelle memorie Casanoviane, Milano,
1921, Tip. S. Giuseppe, (d. d. s. a.).
214 ELENCO DELLE OPEBK PEEYBNUTE EOO.
OiULiNi Alessandro, Una voce daWesìgUo. (Dal Carteggio inedito di Luigi
Porro Lamberto ngiii) Milano, Da < La Lombardia nel Risorgimento
Italiano, » Anno Vl-Vll. (d. d. s. a.).
GuERRiNi Paolo, La nobile famìglia bresciana di Pontoglio. Pavia, 1921,
Tip. Artigianelli, (d. d. s. a.).
— Leitere inedite del P. Lodovico Pavoni. Pavia, 1921, Tip. Artigianelli.
d. d. s. a.).
— S. Andrea di Barbaine e le Parrochie di Livemmo^ Avenone e Belprato
in Valle Sabbia. Brescia, 1921. « Brixia Sacra » (d. d. s. a.).
— 5. Rocco. Appunti critici attorno a una devozione popolare. Monza, 1921,
Tip. Sociale, (d d. s. a.).
Istituti {Gli) pareggiati del Collegio Convitto di Celana nel Sesto centenario
di Dante Alighieri. Brivio, 1921, Tip. Pozzoni. (d. d. sac. Merisio).
MoNNERET DE ViLLARD Ugo, Un monumento romano di tipo egizio del
Museo Archeologico di Milano. Milano, 1921, Estr. da « Aegyptus »
IL 3-4. (d. d. s. a.).
Monti Antonio, Videa federalistica nel risorgimento italiano. Saggio sto-
rico. Bari, 1922, G Laterza, (d. d. s. a).
MiÌLLER Carlo, Un volontario intrese {Giulio Mailer) caduto nella prima
guerra per V indipendenza italiana nel 1848. Intra, 1922, Tip. Almasio.
(d. d. s. a.).
(Muratori L. A.) Alcune lettere inedite dì L. A, Muratori a Cesare Ricasoli.
Firenze, 1921, Tip. Barbera, (d. d. a.).
Ottolini Angelo, Pietro Verri e i suoi tempi. R. Sandron, 1921. Collezione
settecentesca, (d. d. s. a.).
Paladino Giuseppe, La Missione del Prìncipe di Cariati a Vienna nel
1820. Roma, 1921, Tip. Pinnarò. (d. d. a.).
— Nuove lettere di Giuseppe Mazzini. Estr. « Il Risorgimento Italiano »,
Voi. XIV, N. 25-26. (d. d. a.).
Parini Giuseppe, // Giorno e le Odi commentati a cura di Egidio Bel-
lorini. Firenze, F. Perrella. (d. d. a.).
Pasquini Oreste, Un Martire del 1821. Adeodato Rossi. Schio, 1922,
Tip. Marzari. (d. d. a.).
Porta Carlo, Poesie milanesi. Edizione fatta sotto gli auspici! delia
« Società del Giardino ». Milano, 1921, Mondadori, (d. d. s. Ettore
Verga).
PuTELLi Raffaello, // duca Vincenzo I Gonzaga e l'interdetto di Paolo V
a Venezia. Venezia, 1913, Ist. Veneto di Arti Grafiche (d. d. s. a.).
Quazza Romolo, Politica europea nella questione valtellìnica. {La Lega
franco-veneto-savoiarda e la pace di Mongon\ Venezia, 1921, Tip.
Ferrari, (d. d. a.).
Ricordi di Ravenna medioevale per il sesto centenario della morte di
Dante. Ravenna, 1921, S. T. E. R. (d. d. s. Muratori a mezzo
M. Scherillo).
Rizzi Fortunato, Intorno a un codice parmense delle Rime di G. Guidìc-
doni. Firenze, 1920. L. S. Olschki. (d. d. a.).
ELENCO DBLLB OPERE PERVENUTE EOO. 215
RuFFiNi Guido, Un contributo agli studi della congiura estense di Ciro
Menotti. Aquila, 1921, Tip. Vecchioni, (d. d. a.)
ScHiAPARELLi LuiGi, La scritturu latina neWetà romana. {Note apologetiche).
« Auxilia ad res Italicas Medii Aevi exquirendas in usum scholarura
instructa et collecta ». N. 1. Como, 1921, Tip. Ostinelli. (d. d. s.
Editore).
Sbgarizzi Arnaldo, Le « Relazioni » di Venezia dei rappresentanti esteri.
Venezia, 1921, Tip. Ferrari, (d. d. a.).
Visconti Alessandro, U
Iniziativa deW Istituto Lombardo nel progetto di
riforma degli studi nel 1848. (Estr. dai Rendiconti Istituto Lomb.
Voi. LV, a. 1922. d. d. s. a.).
Weil (Commandant), Ancóne au lendemain da rappel de nos troupes {Di-
cembre 1838). Bologna, 1922, Stab. Poi. Riuniti, (d. d. s. a.).
— Guizot et VEntente Cordiale. Paris, 1921, Felix Alcan. (d. d. s. a.).
— Le roman d^une princesse. Les aventures et les Mariages de Louise
Charlotte de Bourbon. {1803-1858). Thiers, 1922, Imp. Favyé. (d. d. s. a.).
— Saint Jean de Latran. La chapelle de Sainte Petronille et les privilèges
de la France. Paris, 1921. (d. d. s. a.).
ZwEiFEL Marguerite, Untersuchung iiber die Bedeutungsentwicklung von
Langobardus —
Lombardas. Halle, 1921, Nìemeyer. (d. d. a.).
Alessandro Bottigelli, gerente responsabile.
Prera. Tip. Pont ed Arcìv. San Giuseppe — Milano, Via S. Calocero, 9.
I
ARCHIVIO STORICO LOMBARDO
ARCHIVIO STORICO
LOMBARDO
GIORNALE
DELLA
SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
subii: quinta
ANNO XLIX — PAKTE SECOiJBA
MILANO
SEDE LIBRERIA
DELLA SOCIETÀ FRATELLI BOCCA
Castello Sforzesco Corso Vitt. Em., 21
Fasc. lli-IV 1922 Anno XLIX
La proprietà letteraria è riservata agli autori dei singoli scritti
Due ricordi toponomastici
di Milano langobarda e franca
La « via Scaldasole »
e 1 pretesi comitati rurali » del milanese
RA le vie, che si distaccano lateralmente dal corso Tici-
nese, merita un cenno speciale quella che va sotto
il nome di « Scaldasole » o, come si diceva una
volta nella sua forma completa, « S. Pietro in Scal-
dasole ». Di questo toponimico che, come si vedrà, è un
chiaro ricordo della Milano langobarda, il sac. Paolo Eotta
ha dato la seguente spiegazione: « Si chiama così questa via
per una antica chiesuola qui esistente detta di Scaldasole,
forse dal caldo suolo o sole, causa l'esposizione a sud della via
stessa » (1). Non ho bisogno di far rilevare la insussistenza di
(1) P. Rotta, Milano vecchia, ossia spiegazione di alcuni nomi ed
epiteti applicati a vecchie vie ed a costruzioni della città, p. 29. Milano,
1895. E dello stesso: Passeggiate storiche, ossia le chiese di Milano
dalla loro origine fino al presente^ p. 86. Milano, 1891. Felice Ve- —
nosta {Milano e le sue vie, II, 90. Milano, 1867) è di parere diverso, e
ritiene che l'appellativo di « Scaldasole » sia venuto a questa chiesa,
ricordata in una carta del 1152, da una famiglia portante appunto quel
nome e fondatrice della chiesa stessa. Ho apjjena bisogno di far osser-
vare essere più probabile che tale famiglia abbia preso la propria de-
nominazione, se non dal luogo ove abitava, dall'ufficio coperto in antico
da uno dei suoi membri, e cioè da quello di « sculdascio », precisa-
mente come i « De Capitani o « Cattanei », i « Della Porta », i
>.
« Del Giudice », i « Valvassori i « Visconti », i « Gonfalonieri » o
,
« Alfieri », i « Castoldi » o « Gastaldi », etc.
Arch. Stor. Lomh. Anno XLIX, Fase. III-IV. 15
1318 ALESSANDRO COLOMBO
tale etimologia, sebbene condizionata alla parola « torse », 8ia«
perchè tutte le altre strade, orientate allo stesso modo e ve —
ne sono pnreccliie lungo il suddetto corso, —
meriterebbero la-
identica qualifica, sia perchè in molte località si è trovato tale
toponimico, e ad esso conviene dare un altro significato. Ricordo,
per tutti, lo « Scaldasole » vigevanese e quello abbiatense, ormai
scomparsi dall'uso comune e che ancora in documenti del se-
colo XIV ritornano con la formula « ubi dicitur » (1), non che
il borgo della Lomellina tuttavia chiamato « Scaldasole » presso
Sannazzaro de' Burgcmdi. Fra le diverse spiegazioni, che ven-
nero date di questo nome, la più verosimile, ed anche la più.
logica, mi sembra sia quella che si attacca allo « sculdascio »
langobardo, partendo da un diminuitivo * aculdassiolus donde, at-
traverso a forme intermedie ^smildassòlo e *sculda8sòl, si sarebbe
giunto per un processo di falsa etimologia a Scaldasole (2). Tale
è appunto anche l'origine dello « Scaldasole » milanese; e poiché
lo « sculdascio » o « centenaro » langobardo (3) ci richiama il
(1) Cfr.mio lav. La battaglia al Ticino e le vicende di un muni-
:
cipio romano, pp. 67, 76, 88-90 e n. 2 a p. 89. Milano, 1921.
(2) Cfr. M. ZuccHi, Lomello con un cenno sul periodo delle origini,.
in Mise. St. It, S. Ili, T. IX (Torino, 1903), pp. 24-5, e opere ivi
citt. — Che effettivamente si tratti di falsa etimologia, o meglio di
corruzione popolare della forma più antica « *sculdassioliim », donde
un autentico « scu[l]dazolum », è provato dai seguenti passi di due
carte pagensi del 21 febbraio 1278 riguardanti rinnovo di locazione di
un terreno in Garbagnate, proprio della canonica di S. Ambrogio, a
certo Ugo Manio fu Martino di Settimo Milanese: « Nominatiue de
« pecia vna prati Et terre laboratiue... jacentium in territorio loci de
« Grarbagniate marcido quod dicitur pratum scudazollum... »; e «... det
€ et soluat Arnoldo de lacessa recipiente nomine et adpartem canoni-
< corum de Sancto Ambrosio libras decem terciolorum ex fleto prete-
« rito... prati jacentis in territorio loci de garbagniate ubi dicitur ad
€ scudazolum... » (ASM, Pergamene - S. Ambrogio, N. 306).
(3) Tale nome, in forma diminutiva, sarebbe a mio giudizio ricor-
dato in un'altra chiesa di Milano, da tempo scomparsa: S. Stefano in
Centenariolo, che, posta nel « suburbiam », dava il titolo alla regione
poi via detta ab antico di « Kugabella » (cfr. M. Magistretti, Notitiae
Cleri Mediolanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem, in questo
Arch., XXVII-1900, II, p. 32 « Capella Sancti Stefani ad Centenayrollum
:
in Bugabella »), e quindi non in omaggio a re Luigi XII di Francia e
quale ricordo di una frase da lui pronunciata quando fu ospite, nel 1507,
del maresciallo G. G. Trivulzio {Belle rue\ Cfr. Venosta, op.cit.y II, 87f
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 219
« vicario » Iranco, ed entrambi ci riportano a due suddivisioni
territoriali delPalto Medievo, la « pieve » e la « corte », pla-
smatesi secondo alcuni sul « pago » romano, è bene che la que-
stione, la quale tocca eziandio uno de' periodi più oscuri di
storia milanese, sia sviscerata in tutti i suoi punti e, possibil-
mente, risolta.
È noto che Milano fu « colonia » e « municipium »; si di-
sputa nel modo e nel tempo, ma certo non come vorrebbero il
Mommsen e altri (1). È noto pure che il municipio nell'epoca
imperiale, costituito nella sua essenza da una « città » e dall'an-
nesso « territorio », era amministrativamente suddiviso in « pagi »,
ed ognuno di questi a sua volta in « vici », i quali pertanto po-
tevano essere sia urhani che rurali. La città col « suburbium »
costituiva da sola il « pago urbano », il territorio invece era
formato dall'aggregazione de' « pagi rurali »; solo Roma e forse
qualche altra città, per la loro speciale originaria costituzione,
aveano nell'ambito cittadino più pagi urbani distinti, che nei
tempi imperiali diedero poi origine alle « regiones » e in quelli
medievali alle « porte » (2). Quanto infine ai vici, vari di nu-
dove si aggiunge che la stessa chiesa venne eretta in sostituzione di
altra, situata poco lungi da S. Giovanni in Conca e sotto il titolo di
S. Stefano alla Forta [Eomana] o in Centenariolo. Cfr. Giulini, Mem.
spettanti alla storia della Città e Campagna di Milano, III, 216 e IV,
726. Milano, 1855. Il Kotta {Passeggiate etc, p. 56) vuole che essa abbia
avuto tale nome « forse perchè aggregata ai Capitolo delle cento ferule »
{8ic\ cfr. perciò Magistrktti, op. cit., p. 16 n. 2).
(1) CIL, Y, 2^, 624. Il M. vuole che Milano sia stata decorata prima
del titolo di « municipio » e poscia di quello di « colonia », e che
quest'ultimo abbia più che altro avuto un significato onorifico. Non
diversamente opina il De Marchi (Le antiche epigrafi di Milano^ pp. 206-7
e 211-3. Milano, 1917), pur ammettendo l'esistenza di im « quartiere
romano », costrutto secondo le regole della castrametatio^ nei dintorni
della piazza S. Sepolcro e dell'Ambrosiana {op. cit., 302-4). Quanto ai
Galli {Corso di Storia Milanese, pp. 63-5, 79-81 e 90-2. Milano, 1920),
I,
egli non fa che diluire le opinioni del De Marchi (specie per il « quar-
tiere romano ») e del Mommsen. Cfr., sul più probabile senso delle
parole « municipium » e « colonia » nei riguardi di Milano, il mio lav.,
che farà seguito al presente: Milano preromana e romana e una nuova
teoria sulle origini della città.
(2) Cfr. B. Baudi di Vesmk, Vorigine romana del comitato lango-
bardo e franco, in Boll Stor.-Bihl. Sub., VIII-1903, p. 324 e n. 2 a
p. 321 (in fine)j F. Gabotto, Le origini « signorili » del comune, in
2-50 ALESSANDRO COLOMBO
mero nella città e nel territorio, godevano di una propria vita
autonoma con speciali magistrature e assemblee (vicìnie)j ed
essi si potrebbero in certo (lual modo paragonare, nel primo caso,
alle « contrade » o « quartieri », nel secondo alle « frazioni » o
« fattorie». Una teoria, rimessa fuori dal Gabotto e dal Vesme
nei primi anni del presente secolo, e da loro corroborata con
nuovi e importanti argomenti, vuole che la « diocesi » (antico ve-
scovado) e il « comitato » franco (succeduto alla giudiciaria lango-
barda) si siano plasmati sul « municipio » romano, e che per con-
seguenza le divisioni e suddivisioni di quest'ultimo ritornino in
modo identico in quelle de' due primi : così la « corte », la quale
non sarebbe altro che l'antica sculdascia o centena, e la « pieve »
ricorderebbero il pago, il « titolo » o « cappellania »
il « vico » e
lo stesso vico romano Tale teoria fu già combattuta nella sua
(1).
parte conclusiva, ossia nelle deduzioni circa le origini signorili
del « comune italico », dal Volpe (2); ed ultimamente è stata
impugnata anche nella sua parte, diremo così, fondamentale da 1
Yaccari (3). Infatti, pur non negandosi che il principio ammesso
dal Gabotto e dal Yesme riguardo alla identità tra municipio,
diocesi e comitato riposi sopra un fondamento vero, si vuole
che la coincidenza fra « curtis » e « plebs » rappresenti, più
che una regola generale di ordinamento territoriale, un fenomeno
occasionale e sporadico causato dallo sviluppo economico e ter-
Boll. cit., pp. 129-32 ; G. Mengozzi, La città italiana nelValto medio evo.
Il periodo langohardo-franco, passim, Roma, 1914; e dello stesso, Il co-
mune rurale nel territorio lomhardo-tosco, in Studi Senesi, XXXI, fase. 4-5.
oltre le già citate opere del Gabotto e del Vesme, ancora
(1) Cfr.,
del primo: Intorno alle vere origini comunali, in Arch. Stor, Ital.,
a. 1905 I municipi romani dell'Italia occidentale alla morte di Teodosio
;
il Grande, pp. 245-6. Pinerolo, 1907 (voi. XXXII della Bibl. Soc. Stor.
Subalp.)', e Storia dell'Italia Occid. nel Medio Evo (395-1313), I, 1^,
pp. 33-5 (voi. LXI della B. S. S. S.). Pinerolo, 1911. Cfr. pure, specie
per i precursori di tale teoria, Mengozzi, La città italiana etc. cit.,
p. 79 sgg. non che « Liher Notitiae Sanctorum Mediolani » edito a cura
;
di M. Magistretti e Ugo Monneret de Villard, p. XLVII {prefazione
di Monneret de Villard). Milano, 1917.
(2) G. Volpe, Una nuova teoria sull'origine del Comune, in Ardi.
Stor. Ital., a. 1904 e dello stesso: Questioni fondamentali sull'origine
j
e svolgimento de'' Comuni italiani, in Arch. cit., a. 1904.
(3) P. Vaccari, La territorialità come base delV ordinamento giuri-
dico del contado (Italia superiore e media), in Boll. Soc. Pav. St.
Patr., XX-1920, p. 195 sgg.
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 221
ritoriale della corte; la quale quindi, meglio che la direttacon-
tinuazione della sculdascia o centena — di questa, appunto, si
avrebbero pochissime traccie nei documenti —, deve ritenersi
una nuova unità economica e giuridica creatasi in seguito al
frazionamento giuridico della costituzione comitale antica o, come
si dice più impropriamente, allo « sfacelo » del comitato per la
politica degli imperatori di casa sassone. E come prova che la
corte non può essere presa quale base per una regolare divisione
del comitato, si cita il fatto dei vario sviluppo della corte stessa,
per cui in una medesima regione si sono avute, in alcuni luoghi,
corti con una sfera territoriale notevolissima e più ampia di
quella della pieve e, in altri, corti comprese entro la sfera ter-
ritoriale del pago e della pieve. Ed anche per quest' ultima si
osserva che neppur essa potè, in qualche modo, influire sulla
ulteriore costituzione di nuove unità territoriali; perchè, quan-
tunque sia una suddivisione territoriale della diocesi o, se si
vuole, del comitato, non ebbe mai un vero contenuto giuridico,
ma esercitò solo degli atti di pura amministrazione e di tutela (1).
La per quanto sottile e confortata da
critica del Yaccari,
prove non indifferenti, si presta ad essere facilmente demolita.
Anzitutto ha poco valore P attestazione de' diversi aspetti che
presenta lo sviluppo della corte; giacché, oltre a quello dei
« pagi attributi », non manca P esempio di comitati che hanno
assorbito più di un municipio e, per conseguenza, più di una
diocesi (2). Né vuoisi in secondo luogo dimenticare che la
« curtis », continuando in parte le forme del latifondo romano
ed allargando, come bene osserva il Solmi (3), « la sua premi-
nenza amministrativa ed economica anche sui fondi minori dei
liberi e sulle terre comuni date al pascolo ed al bosco, viene
(1) Vaccari, op. ciU, pp. 205-8 e 197-8.
(2) Cfr. Gabotto, Le origini etc, p. 129; e 1 Municipi etc, pp. 247,
272-4, 277, 284, 304 e 308 n. 1. — Sul significato della parola « attri-
butus > ecco quanto scrive il Forcellini {Totius latinitatis Lexicon,
I, p. 468) : « Attributi dicuntur populi aut urbes, quae proprium forum
non habent, sed alteri urbi adiunctae sunt, ut inde iura petant, eoque
accedant ad tributa solvenda, et alia subeunda munìa publìce imposita »;
e cita quindi le testimonianze di Plinio (w. h., Ili, 20, 133 e 138) e di
Livio (I, 43, 9 e 13). Cfr. anche Vesme, op. cit., pp. 322-3; E. De
Ruggiero, I>iz. epigr. di antichità romana, I, pp. 112-3. Roma, 1894.
(3) A. Solmi, Storia del Diritto Italiano, p. 123. Milano, 1918
(2" ediz.).
221' ALK8SANDUO COLOMHO
talvolta a corrispoudere alla circoscrizione dell'antico pago e al
distretto ecclesiastico della jùeve ». Ora coincidenza pre-
tale
suppone un rapporto fra le maggiori suddivisioni del comitato e
della giudiciaria; e poiché è noto che questa avea come sua
principale divisione la sculdascia, la corte non può essere se
non la maggiore circoscrizione territoriale del comitato, prevalsa
in seguito e sostituitasi al comitato stesso. Infine è bene tener
presente la differenza tra « curtis » come tenuta rurale e « curtis »
come sede del giudice minore o vicario. Nella prima, infatti, è
facile riconoscere la « corte » compresa nella sfera del territorio
pagense o plebano; mentre la seconda, che continua in effetto la
sculdascia o centena, andò sempre piìi allargandosi tanto da di-
venire, insieme col suo castrum, uno de' fattori principali della
formazione terriera del « comune ».
Ritornando ora al punto di partenza, cioè a Milano, è chiaro
che, come « municipio », esso ebbe la sua « città » e il suo
« territorio ». I confini della prima sono facili a determinarsi :
la cerchia delle mura massimianee, con la unita zona de' « mille
passus », che segnò il limite del centro urbano fino all'età del
Barbarossa (1). Ho detto che, al pari di Eoma, forse altre città eb-
bero piti pagi urbani distinti fra queste è certamente da compren-
:
dersi la metropoli insubrica (2). Basta perciò pensare all'importanza
cui essa assurse dopo il riordinamento dato all'impero da Diocle-
ziano, per cui l'antico borgo insubre-gallico, già accresciuto con la
deduzione di una « colonia » (3), venne scelto come capitale
dell'occidente e detto in seguito « rivale di Roma » : secunda
Roma. E poiché è noto che sei sono le vecchie porte della città
medievale: orientale, romana, ticinese, vercellina, comasina e
(1) Cfr. E. Verga, Catalogo ragionato della raccolta cartografica e
saggio storico sulla cartografia milanese, p. 4 e n. 3. Milano, 1911. E ii;
modo speciale E. GtAlli, op. cit., p. 95 sgg. non che A. Ceruti.
: -,
Sulle antiche mura milanesi di Massimiano, in Mise. Stor. Ital., VII
(Torino, 1869), p. 789. E sulla questione de' Mille Fassus, Mengozzi,
op. cit., pp. 10-23.
(2) Il Vesme mentre avanza il dubbio per Lucca e
{op. e loc. citi.),
Milano, così riguardo ai « pagi urbani » sostituiti poi dalle
scrive
« regiones » e dalle « portae » « Queste Portae sono ricordate a Lucca
:
nell'ottavo secolo: sono in numero di quattro e corrispondono alle
quattro pievi in cui è divisa la città ». Cfr. pure, della stessa op.. la
n. 4 a p. 336; non che Mengozzi, op. cit.^ p. 275.
(3) Cfr. mio cit. lav., di prossima pubblicazione Milano preromana :
e romana etc.
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 223
'nuova; sei dovettero pur essere le regioni dell'epoca imperiale,
pagi urììani del municipio e \q pievi nell'ambito cittadino
•e sei i
della antica diocesi (1). Le regioni erano senza dubbio indicate
col numero ordinale progressivo: yrima, secunda, tertia etc, a
cominciare dalla porta Orientale (2); non si può dire con sicu-
rezza quali fossero i nomi de' singoli pagi, quantunque le mag-
giori probabilità facciano propendere per la rispondenza con
quelli delle rispettive porte (3). Quanto infine alle pievi, noi
riteniamo che siano le seguenti : S. Maria Maggiore
(poi Metro-
politana), S. Giovanni in Conca (ora chiesa Valdese), S. Maria
al Circo (soppressa), S. Pietro alla Porta o « ad Liuti » (poi sotto
il titolo de' SS. Pietro e Lino ed ora soppressa), S. Tommaso
in Terramara, S. Maria in Solariolo (poi S. Fedele) (4).
(1) Cfr., per le porte e le corrispondenti regioni della vecchia Mi-
lano, GiULiNi, op, I, pp. 23-4; II, pp. 277-8 e 589-90; III, p. 330.
cit.,
:Non condivido l'opinione del Monneret de Villard (Liber Notitiae etc,
loc. cit.) che le « porte » milanesi abbiano avuto un « valore puramente
militare ».
(2) Già detta « Porta Argentea » (donde il popolare « Arienza », e
con aferesi dell'^ « Rienza » e « Renza »), non è che il prolungamento
dell'antica «Porta Pretoria», la quale di regola era rivolta ad oriente.
Ancor oggi nella enumerazione delle porte di Milano, tanto per la cir-
coscrizione ecclesiastica che per quella civile, si suole cominciare dal-
l'Orientale (P. Venezia).
(3) Il Giuliui (op. cit., II, pp. 277 e 590), vuole che le « regioni »
abbiano avuto la stessa denominazione delle « porte » se così è, come ;
non v'ha dubbio, è lecito di conseguenza pensare che la medesima
identità sia, in linea generale, esistita fra le « regioni » stesse ed i cor-
rispondenti « pagi » cittadini.
(4) Com'è facile comprendersi, la ricerca delle primitive pievi mi-
lanesi è così importante, che meriterebbe qualche cosa di più di una
^semplice nota. Riserbandomi di fare ciò ad epoca e in sede piii oppor-
tuna (in un lavoro dal titolo Le « pievi » dell'antica diocesi milanese),
:
qui mi limito ad esporre alcune mie idee al riguardo, tanto piii
che nessuno, che io mi sappia, si è finora occupato ex professo dello
interessante problema. È bene anzitutto premettere che la questione
della organizzazione della Chiesa ha nulla a che vedere con la data
•della diffusione del Cristianesimo in questi paesi. Benché sia ormai
universalmente ammesso che S. Barnaba non venne a Milano, e quindi
la chiesa milanese non ebbe origine apostolica, non si può negare che
il Vangelo abbia avuto quivi i suoi primi seguaci nelPetà stessa degli
apostoli od immediatamente successiva, sia perchè gli evangelizzatori
fper recarsi nelle Gallie dovevano di necessità passare per la Cisalpina
224 ALESSANDRO COLOMBO
Più difficili a fissarsi sono i limiti del territorio od « agro »•
e la Liguria, sia perchè Milano, quale capitale dell' irapero>non poteva
non essere da parte degli evangelizzatori
fatta segno di particolare cura
medesimi. E subito vi dovette essere fondata una « comunità » o « chiesa »
cristiana, la quale già nel principio del II secolo funzionava con un
proprio « vescovo », succeduto al semplice « presbitero », ed avea la
sua « domus > e il suo « cimitero ». La primordiale organizzazione
della chiesa milanese non fu, quindi, diversa da quella delie chiese
sorte negli altri municipi anche di minore importanza della metropoli
insubrica. E poiché, nella età precostantiniana, non si può ancora par-
lare di vere « chiese •» nel senso odierno della parola, cioè di edifici
pubblici destinati unicamente al culto liturgico in comune j è vano ri-
cercare nella primitiva società cristiana una vera e propria gerarchia,
sia pure in forma embrionale. Non così dopo il famoso editto del 13
marzo 313. E come all'antica ed unica ecclesia domestica (domus), na-
scosta per lo più nel centro della città o situata in luogo solitario
della campagna, si sostituì il « tempio » aperto al pubblico e ad esso
fecero quindi corona altri minori, o costruiti come il primo su aree
santificate e consacrate da qualche memoria di martiri e confessori, o
sorti al posto di vecchi templi pagani convenientemente modificati; la
Chiesa, non appena venne in forma ufficiale riconosciuta ente giuridico,
si diede un ordinamento simile a quello civile, ed ogni municipio di-
venne sede d'una « diocesi » (o « parochia » in senso antico), ogni pago
di una chiesa battesimale poscia
« pieve », ogni vico di una « cappel-
lania » o «e In quei primi tempi, però, non sembra che ogni
titolo ».
diocesi abbia avuto il suo « vescovo ». Secondo ogni probabilità, questi
avrebbe allora retto più diocesi a mezzo de' suoi « archipresbiteri » ;
e così, la diocesi continuava ad essere un tutto unico col mu-
mentre
nicipio, vero e proprio « vescovado » finì per comprendere gran
il
parte di una provincia o regione. Più tardi, a partire dal V secolo e
nel seguente, il numero de' vescovadi andò sempre più aumentando,
cosicché nell'epoca gotica si ebbe quasi una perfetta rispondenza tra
vescovado e diocesi; perduto infine molte di queste il loro vescovo al
tempo dell'imperversare dell'arianesimo, si fissarono in modo pressoché
definitivo le circoscrizioni de' nuovi vescovadi, che a lor volta si rag-
grupparono in più ampie circoscrizioni {aroivescovadi e sediprimaziali),
tutte sotto la diretta dipendenza di Roma (sede ecumenica), già da tempo
affermatasi ecclesiasticamente e politicamente sia x)er la ininterrotta
tradizione apostolica che per la solenne maestà dell'impero. Le antiche
diocesi, cosi scomparse o meglio assorbite da più vaste se non sempre
omogenee circoscrizioni, si trasformarono in una o più pievi; e queste
sono per certo da porsi fra le ultime create in ordine di tempo. Ve- —
nendo ora caso specifico di Milano, è facile comprendere come essa,
al
per la notevole importanza avuta nella età imperiale, da semplice < ve-
DUE RICORDI TOPONOMASTICI Di MILANO ECC. 225
milanese. Il Mommsen ritiene ch'essi siano segnati a nord
scovado » siaben presto assurta al grado di sede « arcivescovile » e
« primaziale » ; ed anche quando, trent'anni dopo la distruzione fattane
dal goto Uraia, all'avvicinarsi de' Langobardi la chiesa milanese si
rifugiò a Genova rimanendovi per circa un secolo, l'arcivescovo con-
servò sempre la sua alta dignità di « primate », ed anzi, per tutto il
tempo che rimase nella capitale ligure, funzionò pure da vescovo di
quest'ultima città (G. Poggi, Genova preromana, romana e medievale,
p. 301. Genova, 1914). Si fa questione, fra gli studiosi di sacra archeo-
logia, del luogo dove sarebbe sorta in Milano la prima basilica cri-
stiana; e benché tutti siano ormai d'accordo nel collocarla fuori delle
mura della città imperiale, permane il dubbio tra le due zone ugual-
mente care e sacre per gli assertori della nuova fede, porta Ticinese e
porta Vercellina. Il Galli {op. cit., pp. 286-9) ritiene che la basilica
vetus fosse situatapoco lungi dalla via Ticinese, nello stesso luogo
dove prima sorgeva la domus PMlippi (già ecclesia domestica) né molto ;
discosta da essa, ma più vicina alle mura, si trovava la basilica Por-
ziana (S. Lorenzo), la seconda in ordine di tempo delle tre antiche
chiese preambrosiane, mentre l'ultima, quella che S. Ambrogio chia-
mava basilica nova od anche chiesa maggiore, era posta entro le mura
e presso a poco ove oggi é il Duomo. Di opinione diversa é il Pagani
(Di chi è il Duomo di Milano?, in 11 Secolo, 19-22 gennaio 1901), che
colloca la « domus » poscia « basilica » di Filippo o Lisippo Oldano
vicino all'angolo sud-ovest della caserma di S. Francesco, verso san-
t'Ambrogio, e la Porziana, ossia secondo lui la « basilica vecchia »^
quivi vicino, nel luogo ove ora è S. Vittore Grande. Il Merisi (Milano
al tempo di Massimiano e di Costantino, pp. 31-6. Milano, 1913) é in-
vece per la chiesa di S. Vincenzo in Prato, e il Savio {Gli antichi
Vescovi d'Italia - La Lombardia, P, pp. 876-80. Firenze, 1913) per
quella de' SS. Nabore e Felice, identificando pur egli la « Porziana »
con S. Vittore e riteneudo S. Tecla la « basilica nova ». Comunque
però voglia risolversi la questione della piti antica basilica extramurana,
è certo che col trionfo del cristianesimo si sentì la necessità di aprire
al pubblico una chiesa anche nel centro dell'abitato, e questa divenne
ben tosto la principale o matrice, sia essa sorta coi titolo di S. Tecla
o di S. Maria Maggiore. Ma se si pensa che le primitive chiese cristiane
furono sempre dedicate o al Redentore o alla Vergine o alla Trinità a
ai» Battista o al Protomartire o a uno dei dodici Apostoli, è logico
ammettere che la cattedrale milanese abbia, fin dalle origini, avuta
come sua titolare la Madonna. E quivi fu pure trasportato il fonte
battesimale, che secondo la tradizione, durante 1' epoca delle persecu-
zioni, si trovava fuori porta Ticinese (il così detto /on<e di S. Barnaba),
Né quella di S. Maria Maggiore (o di S. Tecla, secondo altri) fu la
sola chiesa battesimale nell'ambito della città. Come in Roma, sul prin-
220 ALESSANDRO C()L()MB()
dai termini d'lt;ilia nel imito (compreso Ini i laghi Maggiore e
di Lugano maggior parte della Brianza, ad est dall' Adda,
e con l;i
ad ovest dal Ticino e a sud da una linea non ancora bene pre-
cipio del secolo IV, sono noverate 25 sedi parrocchiali (o ^neri) coi ri-
spettivi compartimenti o circoscrizioni (cfr. Dio Rossi, Eoma sotterranea
cristiana, I, pp. 204-6. Roma, 1864; III, pp. 518-22. Roma, 1877) j così
a Milano, non che a Lucca e forse anche a Firenze, ebbero jùìi
si
ecclesiae baptismales o plebes urbane, le quali pertanto sarebbero pres-
soché coeve a quelle rurali (secoli V e VI), mentre nella maggior parte
delle città (ex-municipia) la suddivisione ecclesiastica in pievi si deve
porre verso il secolo XI, ossia ai primi albori delComune. È noto in-
fatti che, col diffondersi del Cristianesimo nelle campagne, il governo
della diocesi si svolse in una serie di unità minori, le pievi, rette da
amministravano in luogo del vescovo i
preti con privilegi speciali, che
sacramenti e particolarmente il battesimo nella comunità del contado:
vari concilii del secolo VI ne regolarono via via la condizione giuri-
dica; e, cresciute sempre più di numero, nell'età carolingica e in quella
successiva divennero un elemento essenziale della costituzione religiosa,
una forma di partizione diocesana sotto l'immediata dipendenza del
vescovo, che a sua volta vi mandava ad amministrare un plebanus o
archipresbyter o custos A. Beccaria, Fer una raccolta delle iscri-
(cfr.
zioni medievali italiane, V, T. XLIII, disp. 1"
in Ardi. Stor. Ital., S.
dell'a. 1909, e opere ivi citt.). Tali unità minori finirono naturalmente
per coincidere con i pagi, come già la maggiore avea corrisposto al
municipio; e poiché, in Milano, erano sei i pagi urbani, sei dovettero
non sappiamo
l)ure essere le pievi cittadine. Il Galli {op, cit., p. 322),
con qual fondamento, afferma che al tempo di S. Ambrogio « cinque
soltanto » furono le basiliche o chiese della città, a ciascuna delh-
quali erano addetti due « presbiteri », chiamati poscia « decumani >
(secolo VIII); ma dove e quali fossero non dice. Certo, se si potesse
provare la rispondenza fra « pieve » e « chiesa decumana », la ricerca
delle primitive ecclesiae baptismales, non solo urbane ma anche (in
parte) rurali, sarebbe di molto facilitata. Tuttavia dati alcuni elementi
di fatto, primi fra tutti il titolo e Fubicazione, noi crediamo doversi
litenere quelle indicate nel testo quali chiese più antiche. Per notizie
sulle medesime il lettore può rivolgersi, oltre alle già citate Passeggiate
storiche del Rotta, alle opere classiche, di cui si parlerà in appresso,
del Torre, del Sormani e del Lattuada, e in modo speciale al Lib^i'
Notitiae più volte menzionato. Quanto all' origine e sviluppo della
« pieve » e alla ricca bibliografia al riguardo, cfr. Mengozzi, op. cit.j
p. 153 sgg., e in particolare le pp. 178-84 per i « decomani » milanesi
,
(= hebdomadarii) e le pp. 189-94 per gli « ordinarii » e « ordinarii
cardinales ». Cfr. pure Magistretti, Notitia Cleri Mediolani etc, cit.,
passim.
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 227
-cisata al di sotto delle stazioni ad Nonum e ad Decimum, la
prima sulla strada da Milano a Lodi, la seconda sull'altra da Mi-
lano a Pavia (1). E tra i non pochi « vici », di cui è certa Pap-
partenenza a Milano, osserva che quelli ricordati dalle iscrizioni
sarebbero Sebuino ad Angera, Sibrio oggi Castel Seprio, Montu-
nazio ad Albizzate e Modiciazio a Monza; ai quali si potrebbero
aggiungere, secondo gli Itinerarii, le due « stazioni » summen-
tovate e il luogo di Argentea sulla strada da Milano a Bergamo,
presso a poco dóve ora trovasi Gorgonzola, non che gli altri
«resi noti da « titoli » urbani, ma di incerta ubicazione, Venerius,
Bardomagus e Corogennatium (2), e gran parte de' nomi termi-
nanti in -ate, che devono « ad originem antiquissimam proba»
biliter revocari ». Come si vede l'illustre storico tedesco, mentre
^assegna al municipio di Milano una estensione inaggiore di
quella che dovette in realtà avere, ne fa contermini i municipi
di Como, Bergamo, Lodi, Pavia, Lomello e Novara. Ho detto :
estensione maggiore; ma devo aggiungere anche: non sempre
esatta identificazione topografica. Infatti quei « Sebuini », che
si vorrebbero localizzare ad Angera, è ormai provato che de-
vonsi ricercare altrove, e piti precisamente presso Vigevano, e
attribuire a un altro municipio che non è fra .quelli detti di
sopra (3). Quanto a Sibrmm, vi sono forti motivi per ritenerlo
una « civitas », e quindi capo esso pure di un municipio e di
un comitato proprio (4); e lo stesso dicasi della Brianza, che
con Lecco, Erba, Cantù etc. doveva costituire il municipio di
Liciniforo, mentovato da Plinio, unitamente a Como e Bergamo,
CIL, V, 2^, p. 635.
(1)
De Marchi {op. cit., p. 219 n. 2), senza negare che tali titoli,
(2) Il
« benché trovati in città, potrebbero riferirsi a dei villaggi circonvi-
cini », non esclude che possano anche indicare « contrade cittadine
organizzate quasi a comunità, molto più che nel titolo 5870 si tratta
di una concessione di area fatta ah possessoribus vici per un ricordo
onorifico posto dal collegio de' mulattieri di Porta Vercellina e Giovia ».
Si avrebbe quindi avuto un ordinamento presso a poco uguale a quello
de' vici di Roma antica.
(3) Cfr. C. DiONisOTTi, Illustr. stor. - corogr. della regione su-
balpina, p. 212. Torino, 1898; F. Gabotto, I municipi romani etc,
p. 317 n. 1; e mio cit. lav. La battaglia al Ticino etc, p. 40 n. 1
(in fine).
(4) Gabotto-, op, cit., pp. 243, 304 e 318; e dello stesso, Storia
idelVltalia Occid. etc, I, p. 6 n. 1.
228 ALKSSANDRO COLOMBO
fra le genti «li (1). Volendo pertanto meglio deli-
stirpe orobia
mitare Pagro milanese, municipi già menzionati si devono
ai
aggiungere, come conlinanti, quelli di Viccolonne (poi comitato
di Bulgaria), di Seprio e di Liciniforo (poi comitato di Lecco) (2).
Ridotto così a più ragionevoli proporzioni, è bene ricercare di
esso gli antichi pagi; e mentre il noto <k Scaldasole » dà modo
di identificarne uno, non è impossibile rintracciarne qualche altro,
allorché si tenga presente che parecchi dei così detti « comitati
rurali » vogliono essere considerati alla stregua di pure e sem-
plici « corti », assurte col tempo e per ragioni in prevalenza
economiche a maggiore importanza. Tali, ad esempio, la « Mar-
tesana » e la « Bazana ».
(1) Cfr. C. GiAMBELLi, Il « Licini forum •» e gli ^ Orumbovii »
(Orohii). Milano, 1897.
(2) Fra i comitati di Lodi, Bergamo e Cremona, e il così detto
comitato rurale (?) di Bazana, il Giulini nella sua Carta corografica del
Milanese nel Medio Evo {op. cit., VII, p. 307) pone quelli di Treviglio
(Ghiara d' Adda) e dell' Isola Fulcheria (Crema). Il Fiamma (Manip,
Fior,, in B. I. SS., XI, 624) narra sotto l'anno 1061 che i Milanesi
distrussero una città fra Treviglio e Crema, detta Feraso, alleata coi
Pavesi ed i cui avanzi, al dir del Giulini stesso {op. cit., II, p. 408),
si troverebbero presso l'odierna terra di Palasio, nella Ghiara d'Adda j
tale distruzione, invece, dall'Alberti {Descrittione della Italia, p. 363r.
Vinegia, 1553) e dal Moriggia {Hist. delV antichità di Milano, p. 310.
Venezia, 1592) sarebbe anticipata di oltre un secolo (a. 950c.) e dovuta
a questioni di indole religiosa. Ad estirpare infatti la così detta eresia
degli Antropomorsiti, che allora allignava in quella città non che sede
di diocesi, l'arcivescovo di Milano Adelmanno, unito ai vescovi di Cre-
mona e di Piacenza, mosse guerra a Peraso; e l'Alberti aggiunge che
i tre prelati si divisero quindi il territorio della diocesi stessa, toccando
a Milano Treviglio, Vallate e l'isola Fulcheria, a Cremona Caravaggio
e il rimanente a Piacenza. Il Giulini {op. e loc, cit.) osserva che Peraso
(da lui chiamato Parasio) non fu mai città e tanto meno vescovado,
ma tutto al più capo di contado (il rurale, di cui si parlerà più avanti)
e di pieve; tuttavia è bene notare che non molto lungi di qui dovea
trovarsi la città di Acerra ricordata da Polibio (hist., II, 34, 4-5). Ac-
cenno, e non risolvo per ora né discuto: 1 due comitati medievali, e
più precisamente quello di Treviglio, non ricorderebbero per avventura
un municipio romano erede di Acerra? la città e la diocesi di Peraso
avrebbero qualche base effettiva di esistenza, e non sarebbero quindi
una pura e semplice invenzione del Fiamma e dell* Alberti ? Cfr. M. Ben-
venuti, Dell'isola Fulcheria e dèlia città di Parasio o Parasso, in questo
Arch., I, 1-1874, pp. 297-314; e Savio, op. e voi. citi., pp. 364 e 419-20.
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 229
Ezio Eiboldi (1), basandosi sul Giulini e sulla inter-
Il prof.
pretazione da lui data di un passo del capitolare carolingico
del 6 febbraio 806 (2), ritiene che le città italiane abbiano avuto,
oltre al centro urbano coi sobborghi (corpi santi) e il dipendente
territorio (agro), anche alcuni proprii « contadi », i quali, per
non essere derivati da un contado « cittadino », si dovrebbero
chiamare « rurali ». Così nella « campagna » di Milano, poco
dopo la conquista franca, sarebbero stati inclusi i territori di
Martesana, di Bazana, di Seprio, di Bulgaria o Burgaria, di
Stazzona e di Lecco. E ricercate di questi le origini e tratteg-
giate le principali vicende fino alla pace di Oo&tanza (1185), con-
clude coll'ammettere che i due primi devono più propriamente
considerarsi parte del comitato « maggiore » di Milano, mentre
gli altri quattro non sarebbero che i comitati « minori » o ru-
rali compresi in una delle seguenti « due categorie... la prima
« dei contadi minori antichi, la seconda di contadi derivati in
« parte dal rifugiarsi sia dei conti cittadini, che degli altri
« conti in centri minori, per sfuggire al governo comunale 'pre-
« valente » (3). Ma tanto le premesse che le conclusioni non
sono accettabili. Anzitutto il Eiboldi, come prima il Giulini, non
ha bene osservato a quali città d'Italia si riferiva Garlomagno,
nel suo famoso capitolare dell'806. Converrà pertanto riportare
integralmente il passo che interessa, nell' edizione dataci dai
Mon. Germ, Mst, (4):
«Italiam vero, quae et Langobardia dicitur, et Baiovariam,...
et de Alamannia partem quae in australi ripa Danubii fluminis
est, et de ipso fonte Danubii currente limite usque ad Hrenum
fluvium... et inde per Hrenum fluvium cursum versus usque ad
Alpes: quicquid intra hos terminos fuerit... Pippino dilecto
filio nostro.
Karolo et Hluduwico viventibus Pippinus debitum
« Si vero
humanae compleverit, Karolus et Hluduwicus dividant
sortis
inter se regnum quod ille habuit, et haec divisio tali modo fìat,
(1) E. RiBOLDi, I Contadi Burali del Milanese (secoli IX-XII), in
questo Arch.^ XXXI-1904, pp. 15-74 e 240-302.
(2) Giulini, op. cit., I, p. 73. — Dal modo come il Rib. riporta le
parole del doc. carolingico risulta che egli si è limitato alla sola cita-
zione giuliniana.
(3) RiBOLDi, op. cit., p. 282.
(4) Capitularia Begtim Francorum, I, 2^, p. 126, n. 45. Hannoverae,
1881.
230 ALESSANDRO COLOMBO
Ut ab iugressu Italiae per Augustaui civitiiteni iiccipiat Karolus-
Eboreiam, Vercellas, Papiam et inde per Padurn fluvium ter-
mino currente usque ad tìnes Kegensium et ipsam Hegiam et
Civitatem Novam
atqiie Mutinam usque ad terminos sancti Petri.
Has cum suburbanis et territoriis suis atque comitatibus
civitates
quae ad ipsas pertinent et quicquid inde Komjim pergenti ad laevam
respicit, de regno quod Pippinus habuit, una cum ducatu Spo-
letano, banc portionem sicut praediximus accipiat Karolus;
quicquid autem a praedictis civitatibiis vel comitatibus Romani
euuti ad dextram iacet de praedicto regno, id est portionem
quae remansit de; regione Transpadana una cum ducatu Tuscano
usque ad mare australe et usque ad Provinciam, Ludovicus ad
augmentum sui regni sortiatur.
« Quod si caeteris superstitibus Hluduwicus fuerit defunctus,
eam partem Burgundiae quam regno eius adiunximus cum Pro-
vincia et Septimania sive Gallia usque ad Hispaniam Pippinus
accipiat, Karolus vero Aquitaniam atque Wasconiam ».
Come si vede Carlomagno, provveduto alla divisione del-
l'impero fra i suoi tre figli legittimi Ludovico, Carlo e Pippino^
contempla anzitutto il caso in cui quest'ultimo premuoia ai fra-
telli ;e del di lui regno fa allora una nuova ripartizione, secondo
una linea che a cominciare dalle porte d'Italia va fino a Reggio
Emilia, e di qui ai confini dello stato della Chiesa, in modo
che tocchino a Carlo le città di Aosta, Ivrea, Vercelli, Pavia,
Reggio, Cittanova con Modena (1) e tutto il paese a sinistra
Attualmente Cittanova è frazione del comune di Modena, con
(1)
circa 1000 abit.,sulla via Emilia e a poco più di 7 chilometri dal suo
capoluogo. Ma nel secolo VITI aveva titolo di città, e cbiamavasi più
propriamente « Città Geminiana ». Costrutta da' Modenesi stessi, al-
lorché nei secoli VII ed Vili avevano dovuto abbandonare la loro
patria rovinata dalle incursioni barbariclie e dalle inondazioni dei vi-
cini torrenti, venne nel 712 munita di fortificazioni da re Liutprando,.
e nel 774 ceduta dal nipote suo Ildebrando a Giovanni di Modena.
Sulla fine del IX secolo, essendo Modena stata restaurata e ricinta di
nuov^ mura dal vescovo Leodoino, Cittanova andò a poco a poco spo-
polandosi, finché si ridusse allo stato di semplice villaggio. Cfr. A.
Amati, Dizion. corogr. delVltalia, II, p. 1123. Milano, Vallardi, s. a. e ;
sulla origine di tale città, Muratori, Bissertaz. sopra le Antich. Ital.^ I,
p. 207. Milano, 1751. —Non v'ha dubbio che la località nominata dal
capitolare carolingico sia l'odierna frazione modenese di Cittanova, la
quale allora costituiva il capoluogo dell'intera regione e formava, per
cosi dire, un tutto unico con Modena stessa, come ne fa fede il modo-
stesso con cui è menzionata « Civitatem Novam atque Mutinam ».
:
DUE RlCOKDl TOPUNOMASTIOI DI MlLAxNO ECO. 231
della suddetta linea compreso il ducato di Spoleto, mentre a
Ludovico vien lasciato quanto si trova a destra della linea
stessa compreso il ducato di Toscana. Riferendosi quindi in
modo esclusivo alle succitate città (has civitatesj^ l'imperatore
vuole che esse passino a Carlo « cum suburbanis et territoriis
suis atque comitatibus quae ad ipsas pertinent » il che è :
qualche cosa di diverso da quello che affermano il Giulini e il
Eiboldi (1). Infatti il capitolare non ricorda punto tutte le città
d'Italiiì, ma solo le principali — e nella fattispecie le più vicine
alla già mentovata linea divisoria — (2), ossia quelle che, se
non pivi capoluoghi di « ducati » (3), erano quanto meno sedi
(1) Il Mengozzi {op, cit, p. 84), citando il diploma carolino a pro-
posito del suhiirhium^ lo dice « base di ogni ricerca e punto di partenza
di ogni indagine » per la città langobarda-franca ; ma poi non fa al-
cuna distinzione fra Tuttavia osserva giusta-
le singole città italiane.
mente (pp. 104 e 107-8) che, mentre il sobborgo ed il territorio (o cam-
panea), pur essendo fra loro distinti, sono « proprii » della città, il co-
mitato che a questa appartiene ha con essa un vincolo molto « più
tenue » e meno « intimo ».
(2) Non sono quindi
ricordate Torino e Milano, quantunque la
prima fosse sede marca (e nell'epoca langobardica di ducato), e la
di
seconda continuasse nominalmente ad avere il titolo arcivescovile,
benché decaduta dall'antica sua grandezza dopo la bufera gotica, e fosse
stata residenza di un duca langobardo. Cfr. perciò quanto verrà esposto
nella seconda parte del presente studio.
(3) Come è una leggenda ritenere che Carlomagno sia stato « isti-
tutore de' comitati in Italia », così è falso credere che egli abbia quivi
abolito i ducati. Riserbandomi a trattare piit diffusamente la questione
nella parte seconda del presente lavoro, ecco quanto scrive, riguardo
ai duchi carolingici, il Vesme (op. cit., p. 367): « Carlomagno... pose
« ])\ire titolo di Duchi i Missi Camerae colle identiche
in Italia col
« mansioni, che già avevano negli altri suoi stati. Il Duca carolingio
« perciò, che a un tempo era Conte di uno o più de' Comitati posti
« nel suo Circolo o Ducato, non era in realtà il capo dei Conti da lui
* sorvegliati e non aveva autorità civile, politica, militare e giudiziaria,
« se non in quanto fosse, e là solamente dove era, conte; ciò ci dà la
« ragione per cui nei primi tempi carolini, tempi in cui era precipua
« prerogativa del potere il capitanare e il giudicare, i Duchi preferi-
« scano nelle loro carte intitolarsi Conti piuttostochè Duchi, e ci spiega
« perchè l'esistenza di cotesti duchi e la divisione d'Italia nei grandi
« circoli ducali non contraddica affatto l'affermazione degli scrittori
« contemporanei, che narrano dell'abolizione dei ducati fatta da Car-
« lomagno, perchè il Duca langobardo ed il Duca franco altro di co-
« mane non avevano che il nome ».
232 ALESSANDRO COLOMBO
di chiese « primaziali » (Vercelli) o di « marche » (Ivrea) o,
<5ome Pavia, la capitale del regno. In tal caso resta assai sem-
plificata la interpretazione del noto passo:i capoluoghi con i loro
sobborghi e territori e comitati compresi nella propria circoscri-
zione o sfera d'influenza, sia per il rispetto civile che militare o
religioso. E che simile dipendenza di vari comitati da una città
capoluogo (una specie di circolo amministrativo od ecclesiastico)
non infirmasse per nulla la loro autonomia politico-militare, è
dimostrato da quanto si legge più avanti: « quicquid autem a
praedictis civitatibus vel comitatibus... », dove la congiunzione
avversativa è abbastanza di per se eloquente e tale da non
lasciar equivoci.
Ma v'ha di più. Il Riboldi, che pure cita i lavori del Yesme
€ di Nicolò Colombo
(1), continuando a porre, sulla falsariga del
Giulini, i comitati di Bulgaria e di Stazzona nella campagna
milanese, mostra di non aver capito nulla di quanto hanno
scritto i suddetti due autori: inquantochè essi li collocano nel
ducato d'Italia JS^eustria, e più precisamente nella marca d'Ivrea;
ed io stesso ho a sufficienza dimostrato, quanto alla Bulgaria,
che tale contado è la diretta continuazione di un municipio ro-
mano, di cui si perdettero ben presto le traccie visibili (2). Ed
anche per Stazzona, come per Seprio, il Gabotto ha potuto
far risaltare la perfetta analogia con due corrispondenti muni-
cipi romani (3) quanto infine a Lecco, se è vero che esso ri-
;
corda in qualche modo il pliniano Licini forum (4), non sarebbe
difficile riconoscere in esso un vero e proprio contado citta-
Del Vesme ricorda solo il pregevole studio La famiglia di Mi-
(1)
lane conte di Verona, in N. Arcli. Ven., XI-1896, 2^ ma a lui fa dire ;
cose che non ha mai sognato di dire. Cita quindi, a p. 279, Pop. del
prof. N. Colombo, Alla ricerca delle origini del nome di Vigevano
(Novara, 1899); ma, anziché per la identificazione del comitato bulga-
riense, unicamente per la potenza e i possessi che ivi avevano 1 discen-
denti di Ingone.
(2) Cfr. La battaglia al Ticino etc, cit., e. II e sgg.
(3j 1 municipi romani etc, pp. 304-8, e in modo speciale la n. 2 a
p. 305 e la n. 1 a p. 308.
(4) Plin. n. h., III, 17, 124: « Orobiorum stirpis esse Comum atque
Bergomum et Licini Forum aliquot circa populos auctor est Cato, sed
originem gentis ignorare se fa te tur, quam docet Cornelius Alexander
ortam a Graecia interpretatione etiam nominis vitam in montibus de-
gentium ».
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 233
-dino Rimarrebbero pertanto, come probabili parti del milanese,
(1).
la Martesana e la Bazana ma queste, piti che contadi rurali, sono
5
da considerarsi quali pagi e corti del vero e proprio municipio
comitato di Milano, e cioè due pagi e corti « rurali ». Ne sono
ì soli. Lo « Scaldasole » fuori l'antica Porta Ticinese ci dà modo
di identificarne un terzo; n'è v'ha dubbio che esso, nell'epoca
romana, fosse chiamato « pagus Yigentinus » (2) e che, divenuta
pieve nella età cristiana, abbia avuto la sua chiesa battesimale
in quel S. Pietro, che documenti dei secoli XII e XIII contrad-
distinguono con l'appellativo di « Scaldasole » (3). Tale pieve,
(1) Il Gabotto, nel passo cit. della sua Storia delVlt. Occ, mentre
pensa a un Castrum Martis {Martesana f) per Leucum, dice che questo
municipio, al pari di Sibrium o Seprium, Bellinzona, etc, e forse
anche Insula Fulcheria, era già costituito all' epoca di Teodosio I
il Grande.
(2) Sulla probabile origine di questo toponimico cfr. mio lav. Il
:
« Campo Marzio » di Vicenza e un cenno sulle origini della città^ in
Athenaeum, IX- 1921, p. 117 n. 3. La forma data da' documenti e dagli
autori antichi {Vingiantinum e Viglentinum) si deve quindi, più che
altro, ritenere una erronea ricostruzione notarile e letteraria della voce
popolare, di cui bene non si comprese il significato. — Un quarto
« pago » si potrebbe benissimo identificare in quel Turriglas o Tor-
riglas (Torriggia), ricordato in due doc. del 765 e 781 (ASM, Mus.
Dipi., I,- 11 e 19) come « vicino alle mura di Milano,... là dove troviamo
l'insigne basilica di S. Ambrogio, la piazza di S. Ambrogio e tutte le sue
adiacenze », se, a differenza della cit. chiesa di S. Stefano in Centena-
riolo^ si dimostrasse che tale luogo non faceva parte del « suburbium » ;
ad ogni modo, sua « pieve » non potea essere la già parrocchiale ed ora
semplice chiesa di S. Pietro in Gamminadella nella via omonima. Cfr-
C. M. Rota, Il paese ove fu sepolto 8. Ambrogio. Gorla P, 1921.
(3) Narra il Giulini (op. cit., Ili, 389-90) che nel gennaio 1152, in
Milano, l'arcivescovo Uberto decise una grave lite sorta tra il prevosto
di S. Lorenzo, Guifredo, e quello di S. Eustorgio, Gallerà o Gallizio,
circa i diritti che entrambi vantavano sulle chiede di S. Pietro (Scal-
dasole) e di S. Stefano, poste nelle vicinanze di S. Eustorgio, nonché
sulla decima di alcune terre ivi presso. Tali chiese sono ancora ricor-
date nella bolla di Milone, arcivescovo di Milano, al prevosto Guido e
ai fratelli della chiesa di S. Eustorgio, in data 13 marzo 1194 (ASM,
Pergamene - S. Eustorgio, N. 397); e poiché in essa si ha la conferma,
da parte di detto Milone, della unione dell'Ospedale di S. Eustorgio
e delle chiese « beati Petrj et... santj Stephanj » sotto la soprastanza
della basilica eustorgiana, già fatta dagli arcivescovi Robaldo, Uberto
•e B. Galdino, è chiaro che la decisione del secondo, del 1152, non ebbe
Arch, Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. III-IV. 16
L*:U ALESSANDRO Co LOMBO
costituita nel principio del secolo V, mutò i)iìi tiirdi di sede e-
di nome (S. Eustorgio) (1); ma di già i Langobardi avevano'
conquistato il i)ae8e e ])08to vicino alla vecchin chiesa di Sau-
Pietro la residenza di uno sculdascio o giudice minore (2).
2. — Il « Cordusio » e gli antichi duchi di Milano
Un altro toponiraico di sicura marca langobardica è il*
« Cordusio » ; e questa volta, in base anche ai documenti del-
l'epoca, gli storici milanesi sono concordi sulla origine e signi-
mai un Aero valore, e le liti continuarono come per l'addietro. - San
Pietro « scoldasolis » o « scoldasollis » è pure ricordata in una perg.
della Trivulziana del 24 dicembre 1184 (ed. da C. Manarj:si, Gli Atti
del Comune di Milano, p. 212. Milano, 1919), ed in tre perg. dell'Ambro-
siana, rispettivamente del 14 dicembre 1261 (n. 1885), 11 febbraio 1293
(n. 2143) e 13 2173); non che nel cit. Liber Notitiae
marzo 1295 (n.
Sanctorum JHediolani, da cui risulta che detta chiesa avea tre altari: di
S. Pietro (titolare, p. 295, dove si dà pure una curiosa etimologia di
« scoldasolem »), di S. Maria (p. 264) e di S. Leonardo (pp. 215 e 232)»
Per notizie sulla chiesa ed annessa « scuola Marena » cfr. C. Torre,
Il ritratto di Milano, pp. 97-8. Milano, 1674.
(1) La comune tradizione vuole che la basilica di S. Eustorgio sia
stata fondata dall'8° che avrebbe ponti-
vescovo milanese Eustorgio I,
M. Caffi,.
ficato dal 315 al 331, salendo quindi all'onore degli altari (cfr.
Della chiesa di S. Eustorgio in Milano, pp. V-VI. Milano, 1861) ma j
essa non ha base storica. Il Galli (op. cit., p. 290 n. 1), dopo aver os-
servato che siifatta credenza trae origine dall'anonimo autore della vita
di S. Eustorgio I (vissuto però parecchi secoli dopo), il quale confusa
le gesta dei due omonimi arcivescovi milanesi, S. Eustorgio I vissuto
nel IV secolo e S. Eustorgio II vissuto nel VI, così aggiunge « Il fatto :
€ stesso che S. Eustorgio I riposa in quella basilica è anzi una prova
« che essa non venne eretta da lui, dovendo essere quella località nel
« secolo IV un cimitero; poiché... non cominciò che con S. Ambrogio
« l'uso di seppellire i nostri Vescovi in una chiesa. Sulla tomba del
« Santo certamente venne eretta una cappella cimiteriale, che diede
« poi argomento alla posteriore edificazione di una Basilica, che da
« quel sacro possesso prese quindi il nome (Basilica Eustorgiana) ».
(2) Sullo « sculdascio » giudice rurale, mentre lo « scabino » sarebbe
quello di città, cfr. Muratori, Dissertaz. etc, citt., I, pp. 94-5; F. Bru-
netti, Cod. Dipi. Tose, pp. 316-8. Firenze, 1806. E per la identità
I,
Ira « sculdascio » e « centenaro », da alcuni negata. Muratori, op.
cit., I, 522; Brunetti, op. cit., I, 318-20.
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 235
Acato SUO eurtis o curia ducis (1), ossia la residenza di colui
:
che veniva subito dopo il re, comandante supremo dell' esercito
e del popolo, e che con vocabolo prettamente romano si chia-
mava « duca ».
Com'è noto,
sotto gli ultimi imperatori d'Occidente in ogni
municipio, accanto al giudice ed al conte, era un capo militare
incaricato di raccogliere e condurre, in caso di chiamata, i
contingenti municipali ai prefetti della provincia. Tali capi mili^
tari municipali, detti senza dubbio « duces » come quelli che
presiedevano alle forze armate permanenti di tutta la provincia (2),
erano de' semplici ufficiali in sott'orciine ed essi si ^devono ;
appunto considerare, come gli antenati diretti de' ducili, che
trovansi presso i Goti, i Langobardi, i Franchi, i Borgognoni,
ossia tutti i popoli barbarici entrati nell'impero, i quali, perchè
stanziatisi nelle varie province come « ospiti » e « federati »
del popolo romano, si ritenevano solo incaricati della difesa
militare delle terre a loro affidate, e quindi si sostituirono au-
tomaticamente agli antichi « duces » prendendone eziandio il
nome, che dopo tutto era sempre sinonimo di governatore e di
capo. Ma
tale sostituzione non avvenne, si può dire, in modo
eguale. Essendo i barbari in genere, e in particolare i Lango-
bardi, poco numerosi e le funzioni di governo presso di loro
d'esclusivo diritto de' membri della stirpe reale, accadde che
non tutte le città ebbero un duca, ma solo le piti importanti e,
fra queste, tutte le sedi del prefetto provinciale e quelle che,
per la loro posizione, avevano uno speciale valore strategica.
(1) Oltre i già ricordati Giulini (I, 243-4), Venosta (I, 52) e Rotta
(Milano vecchia etc, p. 48^, cfr. in modo speciale: Torre, op. city
244-5; S. Latuada, Bescriz. di Mil.^ V, 128 (Milano, 1737); N. Sormani,
Giornate de' Passeggi stor.-topogr.-crit. nella Città e Dioc. di Mil.,
Ili, 123-4 (Milano, 1752); A. Fumagalli, Delle antich. longob. mila-
nesi, I, 145 e 148-9 (Milano, 1792) e Cod, Dipi SanfAmbr., 378 note
(Milano, 1805); P. Verri, 8t. di Mil. I, 93 e 196 (Milano, 1824); C. db^
Rosmini, DelVlst. di Mil., I, 49-50 (Milano, 1820); M. Benvenuti, Mi-
lano quaVera com'è, 190-2 (Milano, 1871); C. RoMUSSi, Mil. nei suoi
e
monumenti, 236 (Milano, 1893) ; Il Cordusio e il nuovo Palazzo per
I,
sede delle Assicurazioni generali in Milano^ in III. Ltal., a. 1899, n. 41
(con una veduta del C. nel 1600, da un quadro di proprietà Borromeo);
Milano nel 1905 (voi. ed. a cura dell' Amm. Municip. per il Congr. X
Internaz. di Navigaz. interna), p. 13 del « Riassunto Storico ».
Lia (2) Cfr. E. DE Ruggiero, op. cit., II, 3^, p. 2078 sgg. e particolar- ;
mente Muratori, op. cit., I, 34 sgg.
2'M) ALESSANDRI» COLOMBO
Tali duchi pertanto, ridotti di numero ma accresciuti di potenza,
ebbero sotto di sé i capi delle singole città comprese nel loro
circolo o « ducato » —
i così detti giudici o conti mentre — ,
per la città dove risiedevano riunirono, non di rado, la duplice
funzione di duca-conte (1).
Data la esplicita testimonianza di Paolo Diacono, lo storico
ufficiale de' Langobardi, è possibile conoscere non solo il nu-
mero de' ducati da essi stabiliti nell'alta e media Italiji nell'età
immediatamente successiva alla conquista, ma anche, per alcuni,
ilnome del capoluogo e del primo suo titolare fra questi, è :
senza dubbio da porsi Milano (2). È vero che tale città era di
molto decaduta dopo la distruzione fattane da Uraia nel 539 :
Vesme, L'origine romana etc, pp. 363-7.
(1)
(2)Pauli Ilisf. langob.^ II, 32 (ediz. Muratori, H. I. SS.^ p. 426:
ediz. Waitz, M. G. h., Script, rer. lang.^ p. 90). Cfr., pel duca dì Populonia
Gumari, Gregorii I Dialogar. Ub., Ili, 11, in M. G. /*., Script, cit., 532. —
I ducati^ che Paolo Diacono ricorda nel corso della sua opera, sono
complessivamente quindici; e cioè, in ordine alfabetico: Asti (duca
Gunduald, germano di Teodolinda, IV, 20), Benevento (duchi Zotto^
III, 33, Arichis, IV, 18, J.«o, IV, 44, Bodoald, IV, 46, Grimuald, IV,
46, Romualdo IV, 51 e V, 7, Grimuald II, VI, 2, Gisulfus, V, 2, Bo-
muald II, VI, 39, Gregorius^ VI, 55, Godescalcus, VI, 56, Gisulfus II,
VI, 58), BERdAMO (duchi Wallari, II, 32, Gaidulfus, IV, 3 e 13, Bottarif,
VI, 18-20), Brescia (duchi Alichis, II, 32,Alahis, V, 36, Gaiduald,
VI, 50), Ceneda Cividale del Friuli (duchi
(duca Ursus, VI, 24),
Gra-
Gisulfus, nipote di re Alboino, II, 9 e 32, Taso e Cacco, IV, 38,
sulfus, IV, 39, Ago, IV, 50 e V, 17, Lupus, V, 17, Wechtan, V, 23,
Laudari, V, 24, Bodoald, V, 24, Ansfrit, VI, 3, Ferdulfus. VI, 24,
Corvnlus, VI, 25, Pemmo, VI, 26, Batchis, VI, 51 e 52, Aistulfus, VI,
56), Isola San Giulio [d'Orta] (Duca Mimulfus, IV, 3), Pavia (duca
Zaban, II, 32 e III, 8), Perugia (duchi Maurissio, IV, 8, Agatho, VI,
54), Spoleto (duchi Faroald, III, 13, Ariulfus, IV, 16, Theudelapius,
IV, 16, Atto, IV, 50, Transamundus, V, 16, W achilapus, VI, 30, Fa-
roald II, VI, 30 e 44, Transamundus IJ, VI, 44 e 55, Hildericus, VI,
55, Agiprandus, VI, 57), Torino (duchi Agilulf, III, 30 e 35, Garipald,
IV, 51, Baginpertus, VI, 18), Trento (duchi Foin. II, 32, Gaidoaldus,
IV, 10, Alahis, V, 36), Treviso (duca Ulfari, IV, 3), Verona (duchi
Zangrulf, IV, 13, Giselpert, II, 28), Vicenza, (duca Peredeo, VI, 54).
A questi si deve aggiungere, per le ragioni che si diranno in appresso,
Milano; non che i seguenti duchi, di cui è ignota la città: Amo e Ba-
dano (III, 8), altro Peredeo, Botcari e Walcari (VI, 54).
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 237
ma rimase pur sempre la sede d'un metropolita (1); ed anche
quando, nel settembre 569, l'arcivescovo Onorato si rifugiò col.
clero e parte della popolazione a Genova (2), egli continuò a
considerarsi arcivescovo milanese, e così i di lui successori sino
al loro ritorno in vero ancora che alcune
patria nel 641. È
città, come Pavia e Monza, godettero in quei tempi maggiore
riputazione ma non tardò Milano a riprendere il suo posto (3) ;
:
(1) Circa l'importanza di Milano come centro di circoscrizione eccle-
siastica, cfr. L. M. Hartmann, Geschichte Italiens in M. J.., II, 264.
Leipzig, 1900.
(2) Paolo Diac, Alboin igitur Li^uriam introiens,
op. eit, II, 25: «
indictione ingrediente tertia, tertio Nonas Septembris, sub temporibus
Honorati archiepiscopi Mediolanium ingressua est.... Honoratus vero
archiepiscopus Mediolanium deserens, ad Genuensem urbem contugit ».
Cfr. Savio, op. e voi. citt.^ p. 242 e n. 2. — Dell'arcivescovo S. Ono-
rato e della sua fuga a Geuova paria pure G. Fiamma, Manip. Fior.,
cap. LXIV, in B.I.88., XI, 581-2, e Cronica maior, cap. 480, in Mise.
St. IL, VII (Torino, 1869; ed. Ceruti), p. 512.
(3) Pavia, infatti, era divenuta la capitale del regno, e a Monza
si custodiva la cosi detta corona ferrea. Cfr., per la prima: A. Crivel-
Lucci, Se Pavia sia stata scelta a capitale del regno longobardo, in Studi
Stòrici, 1-1892, p. 86 sgg. —
G. Romano, Perchè Pavia divenne la sede
de' Be Longobardi, in Boll. Soc. Pav. di Stor. Patr., 1-1901, p. 1 sgg. j
per la seconda, oltre l'art, succit. del Romano, L. Beltrami, La tomba
della regina Teodolinda nella basilica di S. Giovanni in Monza, in questo
Arch., I, XVI-1889, p. 665 sgg. —
C. Agdilhon, Bi alcuni luoghi deW an-
tica corte di Monza etc, e Scoperte archeologiche nell'antica corte di
Monza, in Arch. cit., XVII-1890, pp. 245 e 754 — P. Villari, Le invasioni
barbariche in Italia, p. 299. Milano, 1901 (Collezione Storica Villari). —
Ciò non toglie però che Milano si sia rifatta, in tempo relativa-
mente breve, dalla tremenda distruzione di Uraia. Il Verri {op. cit., I,
pp. 90-102) ritiene, contro la comune opinione degli storici locali, che
« i nomi di Uraia e di Vitige sono i più funesti che possa rammemo-
rare la nostra storia », imperocché per essi Milano fu annientata in
modo che per cinque interi secoli non potè risorgere »; e dopo aver
«
combattuto il preteso diploma di Teodosio II a S. Ambrogio, per il
quale si inibiva a qualunque sovrano il soggiorno entro le mura di
questa città (diploma sostenuto, fra gli altri, dal Puricelli, dal Sassi e
dal Grazioli, e negato pure dal Fumagalli per il semplice fatto che
« egli è questo un potente anacronismo, certo essendo clie S. Ambrogio
terminato già avea il corso di sua vita, quando il suo cominciava Teo-
dosio II, poiché quegli morì l'anno 397 e questi nacque l'anno 401 » -
op. e voi citt., p. 149), e tentato di dimostrare come nessun fatto im-
238 ALESSANDRO COLOMIU)
e dil'atti mentre nell'elenco delle ])rovince d' Italiu, lasciato
dallo stesso Paolo Diacono, essii compare come uno dei centri
portante avvenne in Milano durante la dinastia de' Langobardi, cosi
conclude: « per ispiejjare come mai Milano fosse dimenticata per
< cinque secoli dopo di Vitige ;come Pavia, Verona, Monza divenissen)
« la residenza de' Principi, piuttosto che Milano; riportiamoci alla ra-
« gione vera, confermata da ogni fatto, e che finora nessuno ha avuto
« l'animo di pronunziare, cioè, che non vi sarebbe stato in Milano luogo
€ per alloggiarvi i Sovrani, né cosa alcuna conveniente ad una Corte.
« Milano non cominciò a risorgere se non dappoiché, riparate le mura,
« gli abitatori poterono domiciliarvi tranquilli ». Il che sarebbe avve-
nuto, secondo il V., sotto l'arcivescovo Ansperto da Biassono {op. cit.,
I, pp. 108-11). Senza voler negare le disastrose conseguenze della di-
struzione di Milano fatta da Uraia, é evidente, in tutto il ragionamento
dello storico cesareo, la preoccupazione di difendere i suoi padroni ; e
però, pur di attenuare in qualche modo l'opera non meno nefasta del-
Vimperatore tedesco Federico Barbarossa, non esita a caricare le tinte
sul goto Uraia e il suo sovrano Vitige, e a presentarci una Milano de-
solata e sparuta per tutto il periodo langobardico-franco come sola
conseguenza della spietata crudeltà di quei due barbari! Ma i fatti, per
fortuna, sono andati ben diversamente. Anzitutto non solo Milano, ma
altre città d'Italia, specie quelle della Toscana, della Liguria e dell'E-
milia, risentirono i dolorosi effetti della guerra greco-gotica ;e per
avere una idea dello squallore e della desolazione de' nostri paesi in
quei tempi, basta leggere quanto scrive al riguardo lo storico contem-
poraneo Procopio (De hello gothico, II, 17 e 20; cf. Villari, op. cit.,
pp. 206-8). In secondo luogo noi sappiamo che Milano venne in parte
restaurata nel 568 da Narsete (cfr. Marii Avbnticen. Chronica, in M. G. /t,,
Auct, Ant, XI, 238) e sebbene dal lato politico essa sia rimasta per
;
qualche tempo una città di second' ordine (cfr. Romano, op. cit.^ p. 7),
conservò sempre la sua importanza storica, come é provato da alcuni
passi di Paolo Diacono. Infatti Agilulfo, dopo aver assunta la dignità
regia in seguito alle sue nozze con Teodolinda, venne acclamato re da
un'assemblea di capi langobardi tenuta « aput Mediolanum » nel maggio
591 (Paolo Diac, III, 35); ed a Milano (« Mediolanum ») il re degli
Unni inviò legati per trattar di pace con lo stesso Agilulfo (IV, 12), il
quale pure da Milano (« Mediolanio »), nel luglio 603, partiva per l'as-
sedio di Cremona (IV, 28). Ancora. Nel luglio 604 Adaloaldo, figlio di
Agilulfo, veniva ancor bambino acclamato re « super Langobardos aput
Mediolanum in circo » alla presenza del padre e de' legati del re de'
Franchi Teudeperto, la cui figlia gli era appunto promessa in sposa
(IV, 30); e nella pretesa divisione del regno fra i figli di Ariperto, 661,
Perctarito pose la propria sede « in civitate Mediolanensi » (IV, 51). Né
vale sottilizzare, come fanno il Fumagalli {op. cit., I, p. 150) e il Verri
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 239
^principalidella Liguria (1), l'esistenza ivi di un duca lango-
bardo è non solo provata dal ricordo del nome locale « Cordusio »,
ma da un passo contenuto in alcuni codici paolini della « Hi-
storia Langobardoram ». È prezzo dell'opera risolvere in qualche
modo la tanto dibattuta questione.
Fra
i 107 mss. registrati dal Waitz nella sua edizione del
1878 ed ai quali si devono aggiungere altri, anche di antica
età, venuti alla luce in seguito e piìi o meno largamente de-
scritti (2), merita speciale riguardo il Sangallese 635, membr.,
del sec. YIII-IX. Il Waitz, che con molta diligenza lo stadio
in Berlino, dice che esso è « omnium qui integri extant anti-
•quissimus ideoque magni faciendus » (3). Scritto da piìi mani,
nelP Italia settentrionale e forse in Milano stessa, dopo la
metà del sec. IX passò al monastero benedettino di San Gallo,
ed ora si trova nella biblioteca della stessa città. Detto codice,
al capo 32 del libro lì, dove appunto si parla del decennio
di interregno, porta aggiunto di altra manoy dopo le parole
« Zaban Ticenum », quanto segue: Alboni Mediolanum ; e tale
(op. e loc. aput » o « ad Mediolanum » di Paolo Diacono
citt), sull' «
« del diploma il Grosso dell'881, per inferire che questi allu-
di Carlo
dono non alla città ma ai suoi dintorni; giacché né Paolo Diacono né
l'estensore del diploma carolino conoscevano tutti i lenocini dell'arte
ciceroniana, né può ritenersi posto ne' pressi di Milano il « circo »,
che noi sappiamo essersi trovato enù^o la cinta delle mura massimianee
(cfr. De Marchi, op. cit., pp. 291-5; Galli, op. ciL, pp. 126-31). Contro
la teoria del V. insorge pure il Ronaussi {op. ci7., I, 237, 243 e 248),
chiamandola una « ostinazione inutile » e sostenendo che Milano fu
sempre la « metropoli storica » del nord-Italia.
(1) Paolo Diac, op. cit., II, 15: «... Secunda provincia Liguria a
legendis, id est colligendis, ieguminibus, quorum satis ferax est, no-
minatur. In qua Mediolanum est et Ticinus, quae alio nomine Papia
iippellatur. Haec usque ad Gallorum fines extenditur ». E nel Catalogo
delle province stesse, contenuto in un cod. madrileno edito dal Waitz
in « Appendice » all'opera di Paolo {M. G. h.^ Script, rer. lang., p. 188),
•cosìsi legge: « Secunda provincia Liguria; in qua est Mediolanum,
Ticinum, quae alio nomine Papia appellatur. Haec usque ad Lango-
bardorum fines protenditur ». Cfr. anche Sppujnee-Menke, Hist. Han-
datlas, tav. n. 21. Gotha, 1865.
(2) Cfr. C. Cipolla, Note biblio grafiche circa l'odierna condizione
degli studi critici sul testo delle opere di Paolo Diacono, pp. 17-25. Ve-
nezia, 1901. — Per i cdd. descritti dal W., vedi M. G. h.^ Script, rer.
lang., p. 28 sgg.
(3) M. G. K, Script, cit., p. 35 (n. 52).
litO ALESSANDRO COLOMBO
aggiunta, a detta del \V., si trova pure cou lievi varianti deb
nome del duca e delle città nei codd. Monzese 135 (57), Vati-
cano 710 (56), Vaticano 8339 Vaticano- Palatino 927 (63) (1).
(60) e
A questi va unito il Braidense AG, XI. 32 (64), che il W. cita
con la vecchia segnatura AN. XIV. 29 e attribuisce al principio
del sec. XVI (2). In esso il nome del duca milanese compare
sotto altra
(3) forma
e poiché il più volte ricordato editore
)
tedesco non lo enumera fra quelli che recano la nota aggiunta,
è bene, di quanto si dovrà dire
anche per migliore intelligenza
in seguito, passo che interessa, giusta
riprodurre per intero il
la dizione data dal suddetto cod. e tenendo presente che ivi-
il capitolo 32 ha invece il n. 31.
« post cuius mortem [di Clefi] longobardi per annos decem
« regem non habentes sub ducibus fuerunt, vnusquisque enim
(1) il/. G. h., Seript. cit., pp. 36-7. Secondo il W., nei cdd. Monzese 135-
e Vaticano 3339 leggerebbe « Alloni », e in quello Vaticano 710'
si
« Mediolanium », mentre il Vaticano- Palatino 927 sarebbe identico,
X^er l'aggiunta, al Sangallese 635. Secondo il Muratori invece {op. e loc.
citt), giusta l'edizione curata da Orazio Bianchi sui cdd. Milanese- Am-
brosiano C, 72, inf. (W. 21) e Monzese 135^ quest'ultimo porterebbe
< Alboin Mediolanum », mentre il primo non reca affatto tale aggiunta.
« Alboinus Mediolanum » si legge infine nella ediz. Lindenbrogiana
del 1611 (Amburgo; cfr. W., p. 44).
(2) M, G. h.j Script, city p. 37. —
Cod. cart. in 4° picc, fine sec. XV
o princ. sec. XVI, coperto in pelle nera, senza numerazione di fogli..
Ine. « in chiisti nomine, longobardorum Istoria incipit, et hec sunt
:
capitala. ». Uxpl. « ... in presentia missi domini. Imperatoris Et populi
:
cum iuramento. quale dominus Eugenius pape sponte, prò coserua-
cione (sic) omnium factum habet per scriptum ». Notisi che nel cod.
di Brera, dopo il capo 58 del 1. VI (cap. 59 del cod.) e le parole
« Pacem custodiens », con le quali terminano generalmente tutti i
cdd. paolini della Bist. Langohard.y seguono altri nove capitoli^ ove si
narra come cessò il dominio langobardico sotto Carlomagno, e varie
cose si aggiungono da anonimo continuatore intorno agli imperatori
Ludovico e Lotario f cosicché si contano cap. 67. Infine è riferita la-
formula del giuramento di fedeltà ai suddetti sovrani e quella pel
modo di eleggere il Sommo Pontefice prescritta da Eugenio li. Cfr.
Catalogo de' Manoscritti della Bihl. di Brera^ voi. Ili, p. 117 e per la ;
continuazione della « Historia » di Paolo il cod. Vaticano-Palatino 927.
(3) « Alboin », precisamente come nel Monzese 135 e nella cit.
ediz. Lindenbrogiana, non che in De Rosmini, op. e loc. citt. Il Verri —
e il Venosta (locc. citt.) ci parlano invece di un « Albino », e il Romana
{Dominazioni barbariche, p. 382, n.. 4. Milano, 1909) di un « Abbone »c-
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 241
« ducum suam ciuitatem obtinebat, Zaban ticinum, Alboin me-
« diolanum, Wilari bergamum, Alahis brissiam, Eoin Tridentum,
< Gisulphus forum Julij. Sed et alij extra hos in suis vrbibus
« triginta duces fuerunt ».
Come si vede, i mss. paolini che risultano derivati dal San-
gallese 635 sono concordi nelP ammettere nell'Italia langobardica,
al momento dell'interregno, trentasei ducati (1) ; e tale numero è
(1) Mentre il Verri (op. 93) accenna solo a « trenta... piccoli
cit., I,
tiranni, che col titolo di Duca appropriarono una parte del Kegno »;
si
il Giulini (op. cit., I, p. 12 n.) e il De Rosmini {loc. cit.) sono decisa-
meute per i 36 ducati, anzi il primo ne dà come certi nell'Italia Austria
undici (Cividale del Friuli, Treviso, Ceneda, Vicenza, Verona, Trento,
Bergamo, Brescia, Parma, Piacenza e Reggio), nella Neustria sei (Mi-
lano, Pavia, S. Giulio d'Orta, Ivrea, Torino e Asti - incerti Vercelli,
Lomello, Acqui, Alba, Auriate, Bredulo), nella Tuscia nove (Lucca,
Chiusi, Firenze, Populonia, Perugia, Fermo, Rimini, Spoleto, Benevento
- incerti Siena, Camerino ed Imola). Anche il Villari (op. cit., p. 261)
è x^er i trentasei ducati, e in nota ne ricorda 25, tra cui quelli di Bre-
scello e di Istria, non compresi nell'elenco del Giulini, omettendo
Brescia, Populonia e Perugia. Il Romano (Dominazioni etc, pp. 238 e 270)
è indeciso fra i 35 e i 36; e mentre la prima volta dice che Paolo Dia-
cono li « fa ascendere a 35 », la seconda scrive: « Si crede general-
mente che i Duchi fossero in origine trentasei ». E in nota alla cit.
p. 382 dà, come certi, gli stessi elencati dal Giulini, ad eccezione per
la Neustria di Milano e Pavia, di cui così aggiunge « D'un Duca di
:
Milano, Abbone, non si fa cenno che in qualche codice della Historia
Langobardorum, e Pavia non ebbe Duca che al tempo dell' interregno.
Sembra che Pavia, Milano e Monza costituissero un distretto a parte
dipendente direttamente dal re ». Niun dubbio sul numero de' ducati
langobardi - 36 - sollevano il Vesme (op. c»< p. 365) e il Gabotto; e
,
quest'ultimo, mentre nell'opera / municipi etc, p. 274 n. 1, a proposito
del ducato (poscia gastaldato) di Lomello, scrive che « un esame più
accurato delle fonti permette di determinare tiiW i ducati langobardi
e di riconoscere come tali piìi luoghi a cui non si è mai pensato »,
ii?lla Belazione suWoperato della 8oc. Slorica Sub. dopo il Congresso
di iS'o'ara - 1913-15, in Boll. Stor.-Bihl. Sub., XX-1916, p. X, accen-
nando al lavoro preparatorio per il suo secondo libro della Storia del-
Vltalia Occid. nel M. E., che riguarderà L'Italia Occid, e i Langobardi,
così aggiunge: « Un corso biennale suìVHistoria Langobardorum di
« Paolo Diacono, da me tenuto negli anni scolastici 1913-14 e 1914-15
« come professore ordinario di storia moderna nella R. Università di
« Genova, è stato al riguardo una preparazione sistematica, e tra i
« nuovi risultati posso fin d'ora annunziare la determinazione di tutti
242 ALKaSAM)H() COLOMBO
« Storicamente » e « logicamente » più esatto, perchè ci dà modo
di ripartire inmodo uniforme i ducati stessi (dodici) in ciascuna
delle tre maggiori divisioni territoriali, che fin dai primi tempi
della loro conquista i Langobardi avevano senza dubbio istituite,
plasmandole sulle preesistenti maggiori circoscrizioni civili (la
provincia romana, detta pure ducato, e il tema bizantino) ed ec-
clesiastiche (Varchidiocesi), e che nell'età carolina sono note più
comunemente coi nomi di Austrasia, Neustria e Tuscia (1;. Né
vale l'obiezione, che le parole « Alboni (o AUoni o Alboin) Medio-
lanum (o Mediolanium) » siano dovute ad altra mano e che esst?
manchino nella grande maggioranza de' codd. paolini anzitutto ;
perchè, come del resto attesta il Waitz, il Sangallese 635 non ri-
sulta scritto da una sola persona, e poi perchè tanto questo che
i modo speciale il Monzese 135 e il Braidense
suoi derivati, e in
AG. XI. sono stati manifestamente redatti in Milano, e
32 j
quindi da chi poteva meglio essere edotto della storia partico-
lare di questa città. Ancora. Fra i duchi, che nell'epoca della
maggiore potenza langobardica esercitarono una decisa prepon-
deranza in Italia, appare quello di Milano (2) e senza voler ;
dare soverchio peso alla narrazione puramente fantastica di Gal-
vano Fiamma, il quale parla di un duca Perideo (?) vissuto du-
rante l'interregno e signore non solo di tutte le città, « quae sunt
a Mediolano usque ad Gallorum fìnes et... positae inter Padum
-et mare », ma re eziandio di questa regione (3), è certo che al
« i trentasei ducati del momento delV inter regno... ». La morte immatura
(24 novembre 1918) ha impedito al G. di metter mano al promesso
2° libro della sua Storia delVIt. Occ.
(1) Cfr. Gabotto, Le origini signorili etc. citt., p. 128-9 j Vesme,
op. cit.^ p. 368. Merita che si riportino, al riguardo, le precise parole
del Giulini (op. e loc. citt.): « I Capi della nazione longobarda si di-
visero paese conquistato in 36 ducati, probabilmente 12 in ciascuna
il
delle tre grandi divisioni del regno, Austria ad oriente, Neustria ad
occidente d'Adda e Trebbia, Tuscia a mezzodì ».
(2) Vesme, op. e loc. citt.
(3) Manip. ìlor., cap. LXV {E. I. SS., XI, 582-4). Il fantastico
racconto del Fiamma è in gran parte seguito dal Corio, Storia di Mi-
lano., I, pp. 47-50. Milano, 1856. Di tale parere non è il padre Leandro
Alberti {op. cit.^ pag. 381 r.): « Essendo stato ucciso Clefi da i suoi,
« il secondo anno da che era stato coronato Re, crearono i Longobardi
« trenta Duchi, non volendo più Re, secondo Paolo Diacono. Dei quali
« quattro ne furono maggiori, cioè quel di Roma, di Narni, di Spoleto,
« e di Benenento, come scriue Merula nel I. libro. Onde i Milanesi fé-
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 243
pari de' suoi colleghi di Benevento, di Spoleto, del Friuli e di
Lucca, specie nel periodo fortunoso da Ariperto I a Liutprando,
653-712, il duca di Milano, come capo di una delle quattro mag-
giori province del regno langobardico —
la provincia corrispon-
dente al ducato beneventano fu sempre considerata autonoma —
godette di molta autorità e potenza. Vero duca maggiore^ come
<« cero loro Duca Perideo, cosi dice Corio, ma secondo Paolo Diacono
« nel 2. libro, fu Alom, ch'era un de i trenta Duchi, creati da i Lon-
« gobardi ». Per i 30 duchi è pure il Fiamma sua Cronica
nella già cit.
maior, cap. 483 (ediz. Ceruti, p. 514), opera che cronologicamente pre-
cede il Manip. Fior. (cfr. L. A. Ferrai, Le cronache di G. Fiamma e
le fonti della Galvagnana^ in Btill. ist. stor. ital.^ n. 10, a. 1891, p. 93
sgg.) e che, insieme con altre dello stesso a. {Politia Novella, Cronica
extravagans e Opusculum), è contenuta nel cod. ambr. A. 275. inf., della
fine del sec. XIV e identico al braid. AE. X. 10 (cfr. F. Novati, Bon-
vicini de Bippa de magnalibus urbis Mediolani, in Bull. ist. cit., n. 20,
a. 1898, p. 42 n. 2). Qui, però, il nome del Duca è diverso. Citando
Paolo Diacono, il F. dice che durante l'interregno governò il ducato
milanese certo Aliotte o Aliono (cfr. VAlloni dei cdd. Monzese 135 e
Vaticano 3339); e fondandosi sul leggendario racconto del cronista
Daniele aggiunge che egli era figlio di Milone, re di Milano all'epoca
dell'esarca Longino, e da Alboino re ridotto al grado di conte dopo la
presa della città (cfr., per i singoli passi della Cronica maior, capp. 479,
480, 483 e 508, l'ediz. Ceruti, pp. 510, 511, 514 e 526; e per la Chro-
nica Danielis, G. Biscaro, / maggiori de' Visconti signori di Milano, in
questo Ardi., XXXVIII - 1911, II,' pp. 7-11). Tale Milone, quale membro
della famiglia dei conti d'Angera, sarebbe appunto, secondo i panegiristi
viscontei, il capostipite della dinastia dei Visconti, signori e poscia duchi
di Milano. Di un « Alione » parla pure il Corio (op. cit., I, p. 23), ma
lo fa signore di Angera intorno al 493 e padre di tre figliuoli. Galvano,
Cosma ed Andrea, dal primo dei quali sarebbe nato il famoso Pe-
rideo del Manipulus Fior uni, ritenuto egli pure uno degli antenati
"della casa Visconti. Il Bossi {Chronica, ad annos. Milano, Zaroto, 1492),
mentre è per il duca Perideo, eletto dopo la morte di Alboino e
restauratore del libero reggimento dogale, sorto in Milano nell'età
post-ambrosiana ed abbattuto ivi con la conquista langobardica, parla
di un duca Ilduino fiorito sotto l'imperatore Giustiniano e padre di
un Azone, che gli successe nel dominio, e dopo una valorosa e lunga
resistenza contro Alboino, che lo assediò nella propria città (568), do-
vette cercarescampo nella fuga, per cui « hinc Mediolanensium ducum
imperium terminatum ad Longobardos translatum est ». Sui « conti
d'Angera » sopra citati, e la polemica sollevata nella seconda metà del
secolo XVIII circa la loro effettiva esistenza e parentela con la casa
Viscontea, cfr. Sormani, op. cit., II, pp. 216-24.
244 ALESSANDRO COLOMBO
afferma per alcuni il Muratori, egli era nel campo politico ciò-
clie, ed aveva sotto di se
nel religioso, Varcivescovo o primate,
i duchi minori posti nella sua giurisdizione (Italia Neu8tria\
allo stesso modo che il romano prefetto provinciale de' militi i
già ricordati « duces » municipali, e per i rispettivi loro circoli
i duchi di Spoleto {Emilia)^ del Friuli (Italia Austria) e di
Lucca (Tuscia) (1).
Ma, più che le deduzioni storiche e le analogie, vale per il
caso specifico di Milano il ricordo tenace del « Cordusio », ri-
masto a un nome locale della città. La tradizione, corroborata
questa volta dalla prova de' documenti e dal racconto de' cro-
(1) MuRAT. Antiq. Ital. Med. Aevi, I, 149 (Diss. V): «... ad Lan-
€ gobardos venio. Sub istis, uti et sub Francis, aliisve Germaniae Re-
« gibus, iu usu pariter fuit appellatio ac Dignitas Ducum; eorumque
« numus militiae erat, utpote qui ad tutelam Regni praessent militibus,
« in iinibus potissimum Regni eiusdem. Duplicis autem generis fuere,.
« uti etiam innui in Antiquit. Estensib. Cap. 5. videlicet Minores^ quibus
« una Civitas regenda ac defendenda tradebatur; et Maiores, quorum
< imiDerio suberant plures Civitates, seu integra Provincia ». Lo stesso
concetto ritorna nella già cit. sua opera postuma Dissertazioni sopra
le Antichità Italiane, edita dal nipote proposto Gian Francesco Soli-Mu-
ratori nel 1751; e fra i « Duchi Maggiori » dei tempi langobardici egli
crede che « non più che due... si contassero allora nel Regno d'Italia,
cioè quei di Benevento e Spoleti » {Dissert. citt., I, p. 38). Quanto ai
duchi del Friuli e di Lucca, Ta., contrariamente a quanto avea altre
volte creduto, ritiene che i primi « non altra signoria godessero, che
« quella del loro di Giulio, Città che oggidì si chiama Cividal di
« Friuli, e delle Terre e Castella da essa dipendenti » (iD., ibid.), ed
i secondi « reggessero la sola Città di Lucca, perchè solamente negli
« Strumenti di quella Città si truova il loro nome » (ii>., p. 42). Esiste
bensì un « ducato di Toscana »; ma questo non compare che nel se-
colo IX, e forse ne ebbe per primo il governo Bonifacio II, da cui
discendono Adalberto I e Adalberto II, capostipiti della casa d'Este,
l'ultimo de' quali negli antichi documenti è ora nominato conte, perchè
governatore di Lucca, ed ora duca o marchese, perchè sovraintendente
alla Toscana tutta. E Lucca divideva insieme con Pisa l'onore di essere
la capitale del ducato. Altri « ducati maggiori », ma non compresi nel
regno, erano quelli di Napoli e di Venezia. La teoria del Muratori, giu-
stificata dal Brunetti {Cod. Dipi. Tose, cit., I, pp. 306-7) e posta in
dubbio da alcuni, è stata ripresa e rimessa in valore in questi ultimi
tempi dal Vesme (òp. cit., p. 368 e n. 3), il quale appunto fra i cosh
detti « duchi maggiori », oltre quello di Benevento, comprende i quattro-
seguenti di Spoleto, del Friuli, di Lucca e di Milano.
:
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 245
nisti, vuole che presso l'attuale piazza Cordusio (già Glittica)
sorgesse il palazzo dei governatori barbarici, essendo divenuto
affatto inservibile quello che fu la sede di non pochi imperatori
romani, da Massimiano Erculeo ad Onorio (1). Landolfo il
Vecchio, parlando delle lotte che portarono all'avvento del co-
mune milanese, si richiama a un'epoca, da lui non bene preci-
sata, in cui « Duces.... hanc urbem animi scientia, corporis vir-
tute regere ac tutare solebant », ed aggiunge che questi, « prout
« eorum dignitas atque nobilitas exigebat, per tempora in palatiis
« juxta Ucclesiam Sancii Protaxii morantes, quidquid honestum
« erat Civitati curiose procurabant, et quod incaute fractum
« studiose ac sapienter consolidabant, et quod jniuste actum
« in aliquo continuo per aliquam causam emendare et satisfacere
« injuriantem procurabant: praesidium erant orphanis, adjuto-
« rium tribulatis, viduis subsidium, parvulis nutrimentum, lex
« erant injustis, justitia perfidis timorque latronibus ». E tale
provvido e illuminato governo si rifletteva sul benessere e la
felicità di tutte le classi sociali « omnes enim mercatores et
:
« rustici, aratores et bebulci secure propria negotia agentes vieti
« tabant, singula sua curantes, Ecclesiarum et Clericorum ho-
« noribus soUiciti, prosperantibus universis, in pace vivebant.
« Non erat dignitas neque i)arentum munitio, quem aliquem
« ad versus alter um injuste agentem emendare, aut secundum
« Ducum imperium renitentem defendere ac liberare curaret.
« Enim praeter tempora, in quibus Regum bellis aut inimicorum
« catervis longe lateque dispersi strenuissime ac decenter insi-
<(1) S'intende quello che era situato i^resso l'odierna chiesa di San
Giorgio ad Palatium^ certo il solo palazzo imperiale di Milano. Cfr.
De Marchi, op.
cit., p. 238 e 307; e in modo speciale Galli, op.
cit, pp. Errano quindi il Grazioli e il Giulini: il primo {De
151-9.
praeclaris Mediolani aedificiis etc, cap. Vili, n. 3 e 4, p. 92 sgg.
Mediol., 1735) perchè vorrebbe annoverare nientemeno che quattro pa-
lazzi imperiali, due dentro e due fuori delle mura; il secondo {op. cit.,
I, pp. 554-9, e più particolarm. Pop. post., ed. a cura del Comune,
Delle antiche mura di Milano, cap. II, pp. 47-57. Milano, 1916: voi. II)
perchè ritiene che siano stati due, quello detto di Traiano o di Massi-
miano, entro le mura e presso la suddetta chiesa di S. Giorgio al Pa-
lazzo, e quello nelle vicinanze della basilica ambrosiana, fuori delle
mura ed il cui ricordo archeologico sarebbe dato dalla nota colonna
romana di marmo bianco, che ancor oggi si ammira a sinistra dell'atrio
della basilica stessa.
246 ALESSANDRO COLOMBO
« stebaut, paceiu et gaiuliuiii himiiliter ac devote fruebantur » (1).
A parce motivo punimente retorico del ricordo d'un tempo
il
ormai lontano, è bene sottermarsi sulla frase « in palatiis juxta
« Ecclesiam Sancti Protaxii » e veder quali sono i palazzi che,
secondo Landolfo, avrebbero servito di dimora ai « duchi ». E
qui ci viene in aiuto il già citato Fiamma il quale, copiando
;
in modo manifesto Landolfo, ma senza nominarlo, ed inventando-
di sana pianta un « duca » di Milano eletto a guisa del « doge »
di Venezia subito dopo la morte di S. Ambrogio, così scrive r
« Dux autem ille, quicunque fuisset, prout eius dignitas atque
« praeclara nobilitas exigebat, ceteris temporibus anni habitabat
« in Palatiis juxta Ecclesiam Sancti Protasii ad Monackos, ubi
« usque hodie Curia Ducis, si ve vulgo Cordusium dici tur. Iste
« Dux jurabat servare infrascripta Statuta videlicet Quod
: :
« honestum erat Comunitatibus Yillarum, Civibus et Oivitati
« curiose procurabat injurias acriter puniebat
; turbationes ;
« Oivium totaliter sedabat. Praesidium erat Orphanis, tribulatis
« solatium, viduis subsidium, parvulis defensio, injustis lex,
« justitia perfidis timorque latronibus. Omnisque mercator sive
« rnsticus sive bubulcus, quo volebat, poterat ire securus.
« Bcclesiarum et clericorum honores integre servabat centra ;
« hostes erat solicitus. Propter quae quasi Deus a populo
« adorabatur, sic quod Oivitas Mediolani summa pace sum-
« moque gaudio fruebatur » (2). Non diversamente scrive il
cronista quattrocentesco Donato Bossi « Sublato demum ro-
:
« manorum imperio, post iam extinctum divum Ambrosium prò
« magistratibus romanis suos creaverunt, qui prò cuiusque electi
« dignitate ac meritis cum uita, ut Venetiis modo fieri uidemus,
« terminabantur. Precipui autem erant dux Burgarie, Seprii
« Comes, Marchio Martesane. Officium ducis erat ius communi-
« tatibus statuere ad hunc hereditates eorum qui sine heredibus
;
« decessissent deueniebant, censum ex singulis qui nascebantur
« capiebat, ex cibariis que aduehebantur aliisque prouentibus
« statutam portionem. Gertis anni temporibus, prout eius di-
< gnitas nobilitasque poscebat, in palatio iuxta templum diui
« Protasii, quod curia ducis dicebatur, nunc corrupto uocahuU
« Cordusium dicitur, habitabat in ipsa creatione se urbis sta-
;
(1) Landulphi Mediol. Usi., II, 26, in E. 1. S8., pp. 86-7. Cfr.
anche Giulini, Memorie etc, II, pp. 267-8.
(2) Manip. Fior., cap. XLII (E. L SS. XI, 571).
DUK BICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 247
« tuta seruaturiim iurabat, iuria civium, oppidanoruin eorumque
« qui pagos uillasque incolebant summo^ stadio procurabat. Fac-
ctiones motusque ciuiles, priuatas insuper discordias turba
<^<
« tionesque cuiuscumque generis ex lege prò uiribus sedabat }
« uiduis, pupillis atque aliis humilioribus imbecillioribusque,
« quam ut ius suum tueri possent, singulare presidium erat ;
« templorum clericorumque ac sanctarum legum reverentiam,
« itinerum super omnia tutelam summa obseruatioue curabat ;
« quibus rebus incredibile est quantum et ipse uenerationis
« et urbs incrementi capiebat » (1).
Eiepilogando {palazzi posti « juxta Ecclesiam (o templum)
:
Sancti (o divi) » Protaxii —
P odierna chiesa di S. Pro taso
ad Monachos nella via omonima —
sono dal Fiamma e dal
Bossi identificati con la « Curia Ducis », che i documenti
chiamano di preferenza « Curtis Ducis » o « Curtis Ducati »
od anche semplicemente « Curtis Mediolanensis » (2), e che
(1) Bossi, Chronica cit., a. 391. Notisi però che S. Ambrogio morì
il 4 aprile -397. — Il Torre (op. e loc. citt.), mentre si riporta al rac-
conto bossiano e ne cita passo relativo alle funzioni esercitate da
il
questo preteso duca post-ambrosiano (o post-teodosiano, come vorrebbe
correggere l'a.), racconto che noi sappiamo inspirato da Landolfo e dal
Fiamma, raccoglie una curiosa leggenda sull'origine del nome « Cor-
« duce, che altro non vuo' egli dire che Curia Ducis », ma senza darvi
alcun peso: « Diconsi altre fauole ancora,... che abitando forse quivi
« qualche fauorita Dama de' Duchi, o Visconti o Sforzeschi, dicessesi
« Corduce, quasi facendo noto essere questi il loco, oue stanzaua il
« cuore del Duca ». Cfr. M. Benvenuti, op. cit.^ p. 191.
(2) Il Muratori, tanto nella Antiquitates Italicae (loc. cit.) che nelle
Dissertazioni (voi. cit., pp. 36 e 81), correggendo l'etimologia da lui
data del « Cordusio » milanese nel cap. VI delle Antichità Estensi, dice
che non da « Curia Ducis », come avea creduto fondandosi sul Fiamma,
ma da « Curtis » o « CortisDucis » tale nome è derivato e a prova j
del nuovo asserto cita diversi documenti: uno di Verona del 921, uno
di Asti dell'880, tre di Lucca dell'857, 1038 e 1055, uno di Torino del-
l'827 e uno di Milano del 918, nei quali appare evidente la dizione
« Curtis Ducis » o « Ducati » o « Ducalis » o « Domni Ducis ». Il
Fumagalli (op. cit., I, 148) riporta per Milano altri documenti che
confermano l'opinione muratoriana, rispettivamente del gennaio 865,
maggio 900 e settembre 901, editi il primo nel Codice Diplom. San-
V Ambrosiano dello stesso a. (Milano, 1805; p. 375), non che dal Giu-
lini (op. cit., VII, p. 14), e gli altri due dal Muratori nelle citate Antiq,
Ital. M. Aevi (I, 717-8). Per la « Curtem ducis^ » è pure il Sormani
{op. cit., Ili, 123). Quanto alla * curtis ducis » torinese, situata presso
248 ALESSANDUO COLOMBO
noi sappiamo aver avuto pure vicina la chiesa, oggi scom-
parsa, di S. Oi[>riauo, contraddistinta appunto col titolo « de
curte ducis » (1). Non possiamo dire qual fede meriti l'afferma-
la Porta Palatina e la odierna parrocchia della Trinità (già di S. Pietro
chiamata talvolta, come la milanese, « palatium », cfr.
in curte ducis), e
T. Rossi e F. Gahotto, Storia di Torino, I, p. 37. Torino, 1914 (voi.
LXXXII della Bibl. Soc. Stor. Sub).
(1) Il Giulini (III, 305-6) riporta il principio di un atto di perumta
del 27 giugno 1142, che si trova in orig. in ASM, Pergamene — S. Sim-
pliciano, cart. 513, in cui uno de' contraenti, Viviano, è detto « P/e-
sbiter ecclesie sancti Ciprianl constructe iritra hanc ciuitatem prope
curtem ducis E
che tale chiesa fosse appunto chiamata « de curte-
».
ducis » risulta dal seguente altro atto di permuta del 1^ febbraio 1192,
esistente in ASM, Pergamene — S. Protaso ad Monachos^ cart. 509 :
« (S. Anno dorainice incarnacionis millesimo centesimo nona-
T.)
« gesimo secundo. Primo die mensis februarii Indicione decima. Comu-
« tauerunt inter se presbiter lohannes officialis ecclesie sancti cipriani
« de curteducis de ciuitate mediolani presente et consentiente lohanoe
.
« qui dicitur de fenegroe suo aduocato electo in hoc negotio. Et ex
« altera parte lohannes et Manninus fratres fìlii quondam bellini qui
« dictus fuit de mariuonibus de loco vineate [ Vignate, pieve di Gor-
« gonzola] dedere aatem ipsi lohannes et Manninus fratres eidem .
« presbytero lohanni ad partem ipsius ecclesie sancti cipriani in causa
« comutationis adhabendum Nominatine vineam vnam qnam ipsi
.
« fratres habere videbantur interritorio ipsins loci ibi ubi dicitur ad .
« suirate et est pertice quinqne et tabule sedecim.... Actum in infra-
« scripta ciuitate incauonica ipsius ecclesie sancti cipriani....
« (S. T). Ego rogerius qui dicor palliarius notarius sacri palacii
« tvadidi et scripsi ».
Nel cit. doc. del 1142 figurano
i vicini « de curte ducis e che vi > ;
fosse pure Milano sotto questo nome è provato da due
una famiglia in
carte del 1125 e del 1195. La prima, edita dall'Ughelli {Italia Sacra,
IV, pp. 904-6 Roma, 1652) e dal Muratori {Antiq. It. M. Aevi, V,
.
p, 1027),contiene la sentenza dell' arcivescovo Olrico nella controversia
fra Arderico, vescovo di Lodi, e Pietro, vescovo di Tortona, per il
possesso dei due monasteri di Precipiano e di Savignonej e fra i testi
presenti figuraun « Ungarus de Curtedoxi ». La seconda, inedita in
ASM, Pergamene —
S, Caterina alla Chiusa, cart. 387, è un atto di ven-
dita che certo Pietro « qui dicitur de montenario rugacesi, de loco
plautello », fa a un Giovanni « qui dicitur zendadarius de curte ducis »,
cittadino milanese. Il Giulini {pp. cit.. Ili, 154), richiamandosi al doc.
del dicembre 1125, così osserva a proposito del suddetto teste « Quel- :
l'Ungaro, che qui è soprannominato de Cortedoxi, in altri luoghi trovasi
chiamato più correttamente de Curte Ducis. La sua famiglia prese il
DUK RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 249
azione del padre Angelo Fumagalli, che « lo spazio dal mede-
simo palazzo occupato esser doveva ristretto anzi che no » (1),
a tanto meno prestar fede alla lusinghiera descrizione che di
esso fa il Torre (2j; ma è certo che aveva sul fronte un vasto
portico o loggia (3). E come vi era una strada d'accesso detta
cognome da quel sito dov'era l'antica corte del duca, o conte di Mi-
lano, qual sito prima fu detto de Curie Ducis, poi come qui vediamo
il
de Cortedoxi, e così a poco a poco sempre più corrompendosi quel
vocabolo si addomandò, com'oggidì si addomanda, del Corduso ». In
due documenti del 1117 e 1140, editi dal Manaresi (G^Zi J.^^t <2eZ Co-
altri
mune etc,
citt,, pp. 4 e 11), sono ancora ricordati i « De Carte
ducis »: lo stesso « Ungaro », console nel 1117; e certo « Sozo »,
teste in una sentenza pronunciata dal console Arderico Cagainosa il 21
-agosto 1140.
(1) FuMA(rALLi, Antich. Longob. etc, I, 149.
(2) Torre, op. e loc. citt.: ergeuasi contiguo alla
« Il Palagio....
i< Chiesa di S. Protasio ad Monachosj anzi vogliono che lo stesso sito
della Chiesa fosse quel d'esso j vedeuansi in lui ampie stanze per
« Giudici, vaste Sale per ricettar Caualieri all'vdienze, addobbate Ca-
< mere per riposi, segreti Gabinetti per gli negoziati più occulti, Pre-
« torij, Torri, Prigioni, e per le delizie del Prencipe Padrone Giardini,
^< Passeggi, Fonti dalle più ingegnose mani con strutte. Terminando in
questo Luogo di tutta la Città gli affari, a lui faceuano capo ad
|< ogn'ora le genti, ed interrogate doue s'inuiassero, vdiuansi rispon-
de dere, alla Corte del Duca.... Queste grandezze di Fabbriche ora sono
tutte suanite, altro non si trouando adesso che aperte Botteghe, e
trafficanti Cittadini, ed alcune Pitture sulle pareti, degne d'essere os-
seruate... ». E qui ne ricorda tre, di età però non troppo antica, e
jioè una Vergine col Bambino
Giuseppe del Morazzone, una
e S.
[scena della Via Crucis di Gian Mauro
della Rovere detto il Fiam-
.menghino, e l'Adorazione de' Magi del Barabini. Cfr. anche Sormanf,
'op. cit.j III, p. 124.
Quivi appunto si tenevano i placiti e si pronunciavano le sen-
(3)
tenze; e dalla voce teutonica latinizzata « laubia » è derivato il lomb.
« lòbia », con senso alquanto diverso dal tose. « loggia ». Cfr. oltre i
già citati placiti del gennaio 865 (conte Alberico), maggio 900 e set-
tembre 901 (conte Sigefredo), aprile 918 (conte Berengario), quello del-
l'agosto 892 (conte Manfredo d'Orléans), edito dal Giulini (VII, 30) ed
esistente in orig., come i predetti, in ASM, Museo Diplomatico, ad annos.
— Un avanzo di dev'essere la colonna con capitello in
tale « portico »
marmo, già esistente nel primo cortile della ex-casa Giovio in piazza
Galline 6, e quindi donata al Museo Archeologico — ove ora si trova —
dalla Società fondiaria milanese rilevataria della casa stessa. Il Carotti
'(Relazione sulle antichità entrate nel Museo patrio di Archeologia in Milano,
Ardi. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fa8c. III-IV 17
250 ALESSANDRO <»L0MBO
<( (ie curte duce » (1), così non mancava, specie i)er le adunanze-
ed i giudizi!, Tantistante piazza con un nome pressoché iden-
tico : l'una e 1' altra i veri antenati topografici delle moderne
« via » e « piazza (^ordusio » (2).
ìd questo Arch., XXV-1898, II, pp. 357-99) dà una descrizione partico-
lareggiata de' due preziosi cimeli, e ritiene che il capitello, singolaris-
eimo, di stile bisantino od italo-bisantiuo, risaiga al periodo tra l'VIII.
e l'XI secolo 5 e quindi conclude (p. 364) « Gioverà ricordare che nello
:
spazio tra la chiesa di S. Protaso e il Corso Dante, nel quale quindi
resta compresa la piazza delle Galline e la casa in discorso, sorgeva-
l'antica Curia (sic) IJucis, che lasciò la denominazione sua al piazzale
detto il Cordusio... Potrebbe quindi darsi che questa colonna ed un'altra
rimasta incorporata nella stessa casa della Società fondiaria abbiano
appartenuto a quell'edificio, celebre per le ricordanze che ne lasciarono
gli storici, ma del tutto scomparso fin nelle vestigia delle fondazioni ».
(1) Il Fumagalli {op. e loc. citt.) ricorda al riguardo una carta chia-
ravallese del 1203; ma questa non fu dame rinvenutane nella raccolta
delle Pergamene di detto Monastero dell'Archivio di Stato di Milano,
né nel Cartulario Bonomi della Biblioteca Braidense (AE. XV. 23). In-
vece, in un atto pagense del 6 marzo 1217 (Cartulario Bonomi cit.,
voi. IV, p. 488, n. 141), rogato in Milano « in ecclesia beate Marie
Yemalis », fra i testi presenti alla vendita, fatta dal milanese Boc-
cassio de Orto al Monastero di Chiaravalle di terre e diritti da lui
posseduti in Consonno, figura un « ser Bonoldus filius ser Alberti Bo-
noldi de centrata Curtis ducis ». Ancora. Il Fiamma, nella sua Cronica
extravagans (cod. ambr. cit., cap. 24; ediz. Ceruti cit., p. 452),. parlando
del Broletto e delle sue sei porte, cosi scrive: « Secunda porta dicitur
« porta cumana sìue porta curie ducis quia ad curiam ducis directe
.
« aspicit ». Cfr. pure Giulini, op. cit, IV, p. 313. Nella vecchia con- —
trada del Cordusio, sulla fronte della casa segnata col n. 1, esisteva,,
prima del 1890, un bassorilievo in gesso di una Madonna col Bambino,,
ora al Museo Archeologico. Il Carotti, nella solita Belazione annuale,
pubblicata in questo Arch. XVIII-1891, pp. 415-53, così scrive al ri-
guardo (p. 449): « Questi calchi, vecchi di parecchie decine d'anni, sono
talvolta sostituzioni di sculture preesistenti ed asportate, epperciò me-
ritano sempre osservazione ».
(2) Il dott. E. Verga, nel già ricordato Catalogo ragionato della-
Baccolta Cartografica etc, riporta i facsimili delle principali « piante
di Milano » esistenti nell'Archivio Storico Civico milanese; e, tra queste,,
meritano speciale riguardo la prospettica di Marc' Antonio Barateri
del 1629, dedicata al card. Federico Borromeo (p. 52,) e le due plani-
metriche di Marc'Antonio Dal Re del 1734 (p, 56) e del Pinchetti
del ISOI (p. 60). Nella prima infatti gli edifici e le località più no-
tevoli sono contrassegnati da 256 numeri rimandanti ;% una leggenda,
DUE RICORDI TOPONOMASTICI Di MlLANO ECC. 251
Resta così i)rovato che il palatium o curtis del duca, occu-
pante presso a poco il sedime dell'attuale sede del « Credito
Italiano », sorse nella età langobardica, e piti precisamente
(tirante l'interregno, per opera del primo duca milanese cono-
sciuto, Alboin o Albone o Allone. Ho detto primo duca e mi :
;
spiego. Senza voler dare soverchio peso alla tradizione raccolta dai
tre cronisti medievali Landolfo il Vecchio, Galvano Fiamma e Do-
nato Bossi, e variamente manipolata dalla loro fervida fantasia.
è certo che, col passaggio dal principato all'impero, molte delle
antiche istituzioni municipali romane si trasformarono o decad-
dero, prima fra tutte la « curia », essendosi al concetto in pre-
valenza autonomistico dell'età repubblicana sostituito quello
progressivament?e accentratore e dispotico dell'età imperiale. A
ciò si aggiunga l' aggravarsi, per cause molteplici, della crisi
economica, la quale, capovolgendo tutto il precedente sistema
finanziario, portò specie nelle città il depauperamento della classe
de^ liberi proprietarii, e per conseguenza il graduale trapassa
dell'amministrazione municipale dalle mani dei « curiales » in
quelle del « curator », del « defensor » e, al di sopra di loro,
(U un commissario imperiale o praefectus, prima temporaneo e
la quale è un elenco prezioso di quest'epoca e mentre la confraternita
;
di S. Cipriano e la parrocchia di S. Protaso sono rispettivamente se-
gnate coi nn. 138 e 139, nel mezzo del luogo rispondente alla piazza
Cordusio figura una di quelle croci innalzate da S. Carlo durante la
peste del 1576, ed oramai quasi completamente scomparse. La pianta
Dal Re, la prima fra quelle a stampa che ci tramandi Pantica deno-
minazione delle vie di Milano, colloca ai loro posti rispettivi moltissimi
nomi di edifici pubblici e privati, sacri e profani, strade, piazze, etc;
e cosi sono chiaramente indicate l'antica via e piazza Cordusio, non
che 1^, piazza davanti a S. Cipriano e la via S. Protaso. Lo stesso è nella
pianta Pinchetti quale ha pure grande importanza, perchè, sopra un
j la
suo esemplare a stampa, fu disegnato a mano un intero piano regolatore
della città, approvato da Napoleone Buonaparte nel 1807 (p. 62). —
Una « Curia Ducis », non però la nostra, è disegnata di prospetto
nelle vicinanze dell'episcopio in due « Piante di Milano » contenute
in due codd. della Cosmografia di Tolomeo del sec. XV, l' Urbinate 277
del 1472 e il Vaticano 6699 del 1469: è la splendida residenza fabbri-
cat^asipiù tardi da Azzone Visconti, la quale, come scrive il Verga
(op. cit.^ p.15), « avrà naturalmente assunto il titolo di ducale dopo
il 1395, quando lo ebbe Giangaleazzo ». Cfr., per la riproduzione e illu-
strazione delle due « piante », A. Ratti (ora S. S. Pio XI), Due piante
iconografiche di Milano da codici manoscritti vaticani del secolo XV»^
Milano, 1902.
L'.)L' ALKSSANDEO COLOMBO
raro come l'odierno commissario regio, poi via via più frequente
fino a diventare generale e perpetuo, con Tannessa distinzione
della « comitiva secundi ordinis » (equestre) poco dopo hi
morte di Teodosio (1). Un fatto simile trasformazione pro- —
gressiva del « municipium » in vera e propria « praefectura »
— dev'essere avvenuto anche a Milano durante il IV secolo, e
cioè prima che questa città cessasse di essere la capitale del-
l'impero in Occidente (2). E poiché molti di tali prefetti o conti,
che surrogarono più spesso il magistrato de' Duoviri o Quattuorviri
riducendo la « curia » alle pure funzioni di un consiglio privato,
finirono per comportarsi e considerarsi come autonomi, sia nel
periodo dello sfacelo imperiale che in quello anteriore alla in-
vasione langobardica —
esempi classici, il dominio di Siagrio
tra l'alta Senna e la Mosella, e la provincia delle Alpi Cozie
sotto Sisige (3) ; è spiegabile la leggenda, raccolta dai tre cro-
nisti anzidetti non che dal Corio, di un « duca » o re di Mi-
lano fiorito nell'età susseguente a S. Ambrogio, ed a cui meglio
Gabotto, Storia delVItalia Occid. etc, cit., pp. 23, 376
(1) Cfr.
n. 2, ; Vesme, op. cit, 330-1. Il Mengozzi (op.
379-81 e note relative
cit, p. 56 8gg.), mentre non accetta l'opinione del Declareuil, essere cioè
là decadenza dell'impero posteriore di un secolo a quanto si ritiene co-
munemente, combatte pure la opposta teoria del Vesme, specie nei ri-
guardi del Comes (che egli ritiene ufficiale dello stato e non municipale)
e del defensor (istituito, secondo lui, dagli imperatori come rappresen-
tante e tutore della plebe e nominato dai magistrati della città, e quindi
non di origine antica, a somiglianza de' romani tribuni della plebe, e
<jon carattere essenzialmente pubblico).
(2) Dopo la morte di Teodosio I, avvenuta in Milano il 17 gen-
naio del 395, la corte imperiale rimane costantemente in questa città
sino alla fine del 398, ad eccezione di una gita fatta a Padova nel
settembre 397 ; ma col 398 le assenze da detta città si fanno più lunghe
« frequenti. Così, nel gennaio dello stesso anno, Onorio va per la
prima volta a Ravenna e vi ritorna nel febbraio del 400, ed ancora
;
nell'agosto e nell'ottobre, dopo essere stato assediato in Aquileia da
Alarico ed esser venuto con lui a patti, certo non molto onorevoli.
Nella seconda e più grave invasione alariciana del 401 troviamo l'im-
peratore e la sua corte a Milano ; ma è per l'ultima volta. Nel marzo
402, quando Stilicone, giunto con l'esercito di soccorso in Italia, può
assicurare ad Onorio il viaggio a Ravenna, egli trasporta quivi l^ sua
residenza, divenuta ormai definitiva non ostante il breve ritorno a
Milano nel 408. Cfr., per tutto questo, Gabotto, op. cit., passim.
(3) Gabotto, op. cit., p. 524 e Dissert. Xi (pp. 680-99).
''
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 253
spetterebbe la qualifica di « prefetto » o « conte municipale ».
Infatti nel 514, ossia in epoca piti tarda ma sempre anteriore
al dominio langobardico, si trova ricordato come « conte di
Milano » un Petzia (1), lo stesso forse che condusse la campagna
di Sirmio contro i Gepidi nel 504-505 (2), e succeduto nella ca-
rica al « conte » Gattila[ne], reso noto da una lapide milanese
del 512 (3). Ancora. 'Nel 539, quando Milano fu presa e distrutta
da Uraia, fra le persone barbaramente tru(5idate nelle chiese e
fin presso gli altari compaiono i « senatores » o decurioni (4) :
fra questi va senza dubbio compreso il « Comes », innominato.
Dopo Alboin o Albone o Allone (Alione) non si fa piti
cenno, in modo espresso, di alcun altro duca milanese dell'età
langobardica tuttavia io credo che almeno due, Perctarito e Pe-
;
redeo, si debbano rivendicare alla nostra città. Ed ecco perchè.
N^arra Paolo Diacono, sotto l'anno 661 : «... Aripert postquam
« a pud Ticinum per annos novem Langobardos rexerat diem
« obiens, regnum duobus flliis suis adhuc aduliscentibus Per-
« ctarit et Godeperto regendum reliquit. Et Godepert quidem
« Ticini sedem regni habuit, Perctarit vero in civitate Medio-
« lanensi. Inter quos fratres, facientibus malignis hominibus.
(1) Aiict. hautiiense, 331 (in M. G. h., Auctores antiquiss.^ IX, 1*) :
€ 514 Senatore v. e. consule. 1. Theudoricus rex Mediolanium veniens
Petiam comitem interfecit VII id. lun. ». Per il tempo in cui avTenne
la congiura di Petzia, da ascriversi certamente fra il 510 e il 514, cfr.
jGabotto, op. cit.f pp. 419-20, e opere citate nelle note.
(2) Romano, Dominaz. etc, pp. 157-8 (è chiamato Fitzia)-, Gabotto,
[403, e opere citt. in nota.
(3) V, Forcella e E. Seletti, Iscrizioni cristiane in Milano ante~
Mori al IX secolo, p. 173, n. 170. Codogno, 1897. — Il marmo (0,88
X 0,56), scoperto nel 1783 nei pressi dell'arcivescovado, si trova ora
[infisso nella parete sinistra sul principio della scala nel palazzo del
dove appunto l'hanno ricopiato i succitati autori,
[principe Trivulzio, di
dandone una edizione più esatta, dal lato paleografico, di quanto non
"abbiano fatto, per non citare che gli ultimi, il De Rossi {Inscr, Christ.,
I, 428) ed il Mommsen {CIL, V, 2'', n. 6176). —
Sulla identificazione
del padre di Agata (alla quale appunto è dedicata la lapide sepolcrale
milanese) con Adila « conte di Siracusa », cfr. Gabotto, 420.
(4) Mar[i Avent. Chron., 235 (con errore di data) « a. 538 lohanne. :
Ind. I. Hoc cons. Mediolanue (sic) a Gotis et Burgundionibus effracta
est ibique senatores et sacerdote» cum reliquis populis etian in ipsa
sacrosancta loca interfecti sunt, ita ut sanguine eorum ipsa aìtaria
cruentata sint ». Cfr, Gabotto, 23 n. 3 e 517.
-."il ALKSSANDKO COLOMBO
« discordiae et odioruin fomes surrexit in taatum, ut alter alterius
« regnuni invadere conaretur » (li. Più che hi divisione del regno
air uso franco tra i lìgli di Ariperto I, cosa affatto insolita
nella monarchia langobarda, e quindi gravemente sospetta, tanto
è vero che non ne fanno cenno VOrUjo e la Cronaca Gotana (2) ;
è bene considerare il fatto che Perctarito, primogenito, pone la
sua residenza in Milano e Godeperto, fratello minore, in Pavia.
Ora, se si dovesse accogliere ad occhi chiusi il racconto di
Paolo, riuscirebbe inesplicabile perchè al primo nato non sia
toccata Pavia, la capitale del regno ; e però vi è chi pensa che
la pretesa divisione non sia se non l'effetto di gravi dissidi in-
terni scoppiati alla morte di re Ariperto, per i quali, allonta-
nato Perctarito dalla sua sede naturale, ne usurpò il posto il
fratello Godeperto (3). Io invece credo che, oltre alla solita as-
sociazione al trono del primogenito, come fece Agilulfo per il
figlio Adaloaldo, si debba vedere nella suddetta divisione anzi-
tutto una vera e propria investitura del ducato di Milano a un
membro famiglia reale, e quindi forse un tentativo da
della
parte duca Perctarito, riconosciuto re dopo la morte del
del
padre, di trasportare a Milano stessa la capitale. Certo tale
tentativo, non disgiunto dalle solite lotte religiose, si sarebbe
.
appunto ribellato il partito a lui avverso e Godeperto ne di- ;
venne, per così dire, il momentaneo esponente. Intervenuto in-
fine nella lotta il duca
Benevento Grimoaldo, ariano, in seguito
di
ad invito dello stesso Godeperto (ciò che fa sospettare che fosse
egli pure ariano), questi si liberò ben tosto del pericoloso alleato,
(1) Paolo Diac, op. cit., IV, 51.
(2) M. G. h., Script, infatti, quanto si
rer. langob., 6 e 10. Ecco,
legge nella Origo gentis Langohardorum, 7 Et regnavit Rotbari annos : «
decem et septem. Et post ipsum regnavit Aripert annos novem. Et post
ipsum regnavit Grrimoald. Eo tempore exivit Constantinus imperator de
Constantinopolim, et venit in partes Campaniae, et regressus est in Si-
eilia, et occisus est a suis. [Et regnavit Grimoald annos novem et post ;
ipsum regnavit Berthari] ». E nella Uistoria Langohardorum Codicis
Gothani Rodoald regnavit menses sex. Aribertus regnavit annis 9.
: « ...
Grimwald annos 9. Berthari regnavit annis 10 et 7. Cunibert regìiavit
annis 13. Liupert regnavit annos duos. Aribert regnavit annos 12.
Ansprado regnavit menses tres ... > Notisi che il racconto di Paolo,—
accettato generalmente anche dai moderni storici, è stato con buone
ragioni messo in dubbio da F. Bkrtolini, I barbari, pp. 176-7. Milano,
Vallardi, s. a.
(3) Romano, op. cit.j 3Q7.
DUE RICORDI TOl'ONOMASTlCl DI MILANO KCC. 255
uccidendolo di propria mano, e costrinse due volte il rivale a cer-
car scampo nella fuga ; ma non per questo Perctarito rinunciò
alla speranza di riavere e il trono e i suoi beni. Infatti nel
671, venuto a morte Grimoaldo, l'esule duca e re, chiamato dal
partito bavarese o cattolico, fece ritorno in patria ed ebbe fa-
cilmente ragione del piccolo Garibaldo, che il padre Grimoaldo
aveva di già associato nel regno.
Tre distinti personaggi sono da Paolo Diacono ricordati col
nome di Peredeo un famigliare della regina Rosemunda, e
:
complice dell' uccisione di Alboino (1) un duca di Vicenza, ;
morto a Ravenna, poco dopo la conquista da lui fatta di questa
<5ittà in unione col nipote del re Liutprando, nella successiva
ripresa della città stessa da parte de' Bizantini aiutati da' Ve-
neziani (2) ; e un altro duca, di cui non si nomina il luogo, difen-
sore di Bologna in un fallito attacco de' Bizantini guidati da
Agatone di Perugia (3). Si discute da qualcuno sull'anno in cui
avvenne il tentativo suddetto, e se quest'ultimo Peredeo sia lo
stesso duca vicentino (4); ma, evidentemente, qui ci troviamo
di fronte a due duchi diversi, benché coevi. E poiché una vec-
chia tradizione milanese vuole che un Peredeo sia stato duca
della città, e due documenti pagensi del 774 e 789 accennano a
un Peresendo figlio « quondam Peridei de loco Rogialo » (5), è
(1) Paolo Diac, II, 28 e 30.
(2) I©., VI, 54.
(3) Id., ibid.
(4) Il Muratori (Annali, ad a. 741) è incerto fra il 7289 e il 741 ;
il Monticolo {Le spedizioni di Liutprando nelV Esarcato e la lettera di
•Gregorio 111 al doge Orso, in Arch. soc. rom. di st. pat., XV-1892) è
per il 784, accettato anche dal Romano {op. cit., 345} e per il 740 il :
Pinton (Longobardi e Veneziani a Ravenna. Roma, 1893). Per la identità
de' due Peredei paolini, e quindi per la precedenza storica della im-
presa di Bologna rispetto a quella di Ravenna, sembra sia il Betbmann;
infatti, nelle sue annotazioni alla Hist, Langob., egli propone di cor-
reggere « insequenti » in « praecedenti », aggiungendo e ut ex men- :
tione Peredei patet » (W., p. 184).
(5) ASM, Museo Diplomatico, cart. I, nn. 15 e 21. Il primo, in —
data 2 agosto 774, riguarda una vendita di fondi in Campione d' Intelai
fatta da Peresendo a Totone fu Arochi al prezzo di soldi d'oro 50
(edd. Fdmaoalli, Cod. diplomi. SanVAmbr., p. 46 M. h. p., XIII, p. ;
103, n. 53) il secondo, del 10 luglio 789, contiene una cessione di di-
:
ritto dello stesso Peresendo al cugino Todone, per un servo ucciso
(edd. Fuma(;alli, p. 64 M. h. p., XIII, p. 118, n. 63).
;
256 ALESSANDRO COLOMBO
lecito il dubbio che il secondo J*eredeo i)aolino sia stato due»
di Milano, e cbe in omaggio appunto a lui le ])iìi ragguardevoli
famiglie langobarde del paese lo abbiano ricordato nel nome
de' loro rampolli : così, e non altrimenti, si deve interpretare
il Peredeo padre di Peresentlo, fiorito verso la metàdel sec. Vili.
Alessandro ('olombo
APPENDICE
Catalogo de' duchi, marchesi e conti dì Milano (1).
Epoca gotico-bizantina.
Gattila {o Adila), conte municipale, 51 2c.
Petzia, conte id., t 514.
Epoca langobardica.
Alboin (o Albone o Allone), duca, 569....
Perctarito, duca, 661....
Peredeo, duca (?), 737c.
Epoca franca.
Marino^ vice-domino, 777 (2).
(1) Il presente catalogo è basato in linea generale, ed a partir©
dal duca Guarino, sui risultati raccolti dal marchese Francesco Guasco
DI Bisio nel suo Dizionario Feudale degli Antichi Stati Sardi e della
Lombardia^ p. 1002 sgg., alla voce < Milano » (voi. LV della Bibl. Soc.
Star. Stibalp. —
Pinerolo, 1911) ad esso pertanto mi riferisco per quei
;
punti, ove manca per ora prova documentaria.
la
(2) Testamento di Totone fu Arete (o Arocbi), « de loco qui voca-
tur Campilionis finis Sepriensis », a favore della chiesa di S. Ambrogio
in Milano, in data 8 maggio 777. È certamente la stessa persona ri-
cordata nel già cit. Fonti A. Orig.,
atto di vendita del 2 agosto 774. :
perg., in ASM, Museo B. Ed. Muratori, Ant, Ital. M. Aevi,
Dijpl,^ I, 18.
II, 1029. C. Ed. Fumagalli, op. cit., p. 5. D. Ed. M. h. p., XIII, p. 107,.
n. 56. — Cfr. Giulini, Mem. etc, I, 20.
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 257
Gausurio, gastaldo, 822 (1).
Ariberto, luogotenente, 822 (1).
Leone, conte, av. 829 (2).
Guarino, duca d'Italia Neustria, 830c. (3).
Leone, predetto, conte.
Giovanni, conte, 843 (4).
Gunzone, vice-domino, 844 (4).
Alberico, conte, 845c. (5).
Adalgiso, duca, f. di Suppone d. di Spoleto, 846.
Alberico, predetto, conte.
(1)Laba, moglie di Domenicone detto Camonno, abitante in Ger-
cino, dichiara di appartenere alla servitù del Monastero di S. Ambrogio
— 20 maggio 822. Fonti A. Orig., perg., in ASM, Museo Dipi, II,
:
38. B. Ed. GiULiNi, op. cit, VII, 5. C. Ed. Fumacjalli, p. 138. D. Ed-
M. h. p., XIII, p. 180, n. 98.
(2) Alpicario, conte di Allemagna, viene reinvestito di alcuni fondi,
de' quali era stato spogliato mentre era al servizio della corte impe-
riale. Placito - 840 e. Fonti : A. Orig., perg., in ASM, Museo Dipi., 11^
;58. B. Ed. Giulini, VII, 8 (lo circoscrive fra l'820 e P840). C. Ed.-
FuMAGALLi, p. 222. D. Ed. M. h. p., XIII, p. 242, n. 138.
(3) Il Guasco (op. e loc. citt.) lo dice « il primo duca d'Italia
Neustria conosciuto ».
(4) Placito sopra alcune sentenze emanate a favore del Monastero
di S. Ambrogio nella lite ad esso intentata da Teutperto ed Adalberto,,
padre e figlio, di Vimercate —
aprile 844. Fonti: A. Orig., perg., in
J*SM, Museo Dipi., II, 64. B. Ed. Muratori, op. cit., I, 467 (dice
Giovanni « conte di Seprio », mentre il Guasco, sotto l'anno 843, lo
icorda come « già conte del Seprio »). C. Ed. Fumagalli, 240. D. Ed.
M. h. p., XIII, p. 265, n. 154.
(5) Il Guasco lo fa « conte del Seprio » e figlio di Manfredo conte
d'Orléans. È come « conte di Milano », nelle due seguenti
ricordato,
carte pagensi Aggiudicazione al Monastero di S. Ambrogio di al-
: 1.
cuni beni in Bissano, sul lago di Lugano, pretesi dai fratelli Baronio,
Amelberto e Todone —
marzo 864. Fonti A. Orig., perg., in ASM,. :
Mu8. Dipi., Ili, 99. B. Ed. Fumagalli, p. 367. D. Ed. M. h. p., XIII,
p. 382^ n. 229. —
2. Aggiudicazione al Monastero suddetto di beni si-
tuati in luoghi diversi, e pretesi da Valperto fu Benedetto gennaio- —
865. Fonti: A. Orig., perg., in ASM, Mtis. Dipi., Ili, 101. B. Ed. Giu-
lini, VII, 24. C. Ed. Fumagalli, p. 375. D. Ed. M. h. p., XIII, p.
391, n. 2U.
258 ALESSANDRO COLOMBO
Uvalderlco^ vice-conte e gastaldo, 859-65 (1)
Almanco, vice-conte, f. di Uvalderico, predetto, 870 (2).
Bosone, duca, 876 (3>.
Almanco, predetto, vice-conte.
Suppone, duca, e. di Torino e f. dei d. Adalgiso, 877 (t 887c.).
Epoca de' Re d'Italia.
Corrado, marciiese di Lombardia, f. di Lamberto e. di Nantes,
888 (t 890).
Matffredo, conte, 888 (4).
Manfredo, predetto, marchese-conte, 890-96.
(1) Angilberto II, arciveacovo di Milano, aggiudicM al Monastero
di S. Ambrogio alcuni beni in Cologno, tenuti abusivamente da Lupo
de Scbiano fu Adalgiso —
17 maggio 859. —
Fonti A. Orig., perg., :
in ASM, Mxis. Dipi, III, 88. B. Ed. Giulini, Vili, 11. C. Ed. Fuma-
galli, p. 326. D. Ed. M. h. p., XIII, p. 341, n. 207. Uvalderico (o —
(Walderico) è pure ricordato nei docc. dell '864 e 865, di cui alla pre-
cedente nota.
(2) Almarico, visconte, cede al Monastero di S. Ambrogio alcuni
beni in Albiolo, Groppello e Cannobio —
aprile 870. Fonti A. Orig., :
perg., in ASM, Mus. Dipi, III, 108, B. Ed. Giulini, VII, 21. C. Ed.
Fumagalli, p. 407. D. Ed. M. h, p., XIII, p. 421, n. 247. Almarico —
è ancora ricordato in un doc. del 4 maggio 876 (A. Orig., perg., in
ASM, Mus. Dipi, IV, 120. B. Ed. Giulini, VII, 25. C. Ed. Fuma-
galli, p. 448. D. Ed. M. h. p., XIII, p. 447, n. 267), in cui Pietro
di Civesio vende alcuni beni in Cologno a Bonone di Pairana. L'ed.
di D, a proposito dell'atto dell'aprile 870, fa la seguente osservazione :
« Questo Atnalrico, che il Giulini [cfr. I, 463] congettura essere uno
degli ascendenti de' Visconti signori di Milano, doveva essere di ori-
gine Franca, perchè in questo atto sono seguiti i riti della trasmissione
usati nella legge salica ».
(3) Il Guasco ci informa che Bosone, già duca di Vienna, fu tras-
lato al ducato di Provenza nel nov. 877, e quindi elevato al grado di
« re ».
(4) Figlio del conte di Milano Alberico e già conte di Lodi, venne
decapitato nell'896. Di lui si fa menzione nel doc. dell'agosto 892
(A. Orig., perg., in ASM, Mus. Dipi, IV, 138. B. Ed. Giulini, VII,
30. C Ed. FuMA(rALLi, p. 522. D. Ed. Frisi, Memorie storiche di Monza,
II, 10. Milano, 1794. E. Ed. M. h. p., XIII, p. 591, n. 356;, in cui si
pronuncia sentenza in favore dell'abate di S. Ambrogio contro l'arci-
prete di Monza renitente alla esecuzione de' patti convenuti con atto
,
del maggio stesso anno (ASM, sede cit., IV, 137) circa il cambio delle
due basiliche di S. Eugenio in Concorrezzo e di S. Giorgio in Cologuo.
DUK RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 259
Rotcherio (o Rotgerio), vice-conte, 892 (1).
Sigifredo, marchese, 896; già e. di Piacenza, e dal settembre 900
anche e. di Milano.
Amedeo, conte, 896-900 (2).
Rotcherio, predetto, vice-conte.
Rabaldo, marchese, 91 Oc. ;
già e. di Lecco, f. del m. Corrado.
Berengario, conte, 91 Oc. (3).
Rotcherio, predetto, vice-conte.
Berengario, marchese, 922c. ; già e. d'Ivrea e m. d'Italia; deposto
da re Lotario nel 945 (4).
(1) Oltre che nel eit. doc. dell'agosto 892, si fa cenno del visconte
Eotgerio nei seguenti atti pagensi 1. Placito di giudicato del maggio
:
900, riportato nel posteriore giudicato del settembre 901 (A. Orig., perg.,
in ASM, Mus. Dipi, V, 146. B. Ed. Muratori, I, 717. C. Ed. M. h. p.,
XIII, p. 603, n. 396), in cui si dichiarano liberi alcuni abitatori della
corte di Palazzolo (notisi che quivi è menzionato il conte Sigìfredo).
2. Placito dell'aprile 918 (A. Orig., perg., in ASM, Mus. Dipi, V, 160
B. Ed.Muratori, I, 455. C. Ed. M. XIII, p. 822, n. 475), con cu
h, p.,
vengono aggiudicati al monastero di Sant'Ambrogio alcuni fóndi in
Mercal e Roborette, in Valtellina (quivi si fa menzione del conte Be-
rengario, nipote dell'imperatore omonimo).
(2) li Guasco lo dice « fratello di Anscario marchese d'Italia Neu-
stria » 5 e di esso si fa cenno in una sentenza pronunciata, il 5 ottobre
896, avanti l'arcivescovo di Milano Landolfo, e per la quale furono
aggiudicati al monastero di S. Ambrogio alcuni mansi in Limonta, pre-
tesi dall'arcivescovo di Magonza. Fonti A. Orig., perg., in ASM, Mus.
:
Dipi., IV, 142. B. Ed. Giulini, VII, 33. C. Ed. Fumagalli, p. 541. D.
Ed. M. h. p., XIII, p. 613, n. 370. —
Come il fratello Anscario (II),
trasferto poi al ducato di Spoleto (t940), Amedeo (I) fu Marchese d' I-
talia Neustria (Ivrea), e quindi, spogliato da re Ugo nel 940, ebbe nel
950 la contea di Pombia morì av. 962. Da lui appunto discende il
;
famoso re Arduino.
(3) Figlio del marchese-conte Sigifredo, già citato certo lo stesso ;
del noto placito dell'aprile 918.
(4) È il famoso Berengario II, figlio di Adalberto I e fratello de'
già citt. Anscario II e Amedeo I. Cfr. Vesme, // re Arduino e la
riscossa italica contro Ottone III ed Arrigo 1, in Studi Eporediesi
(voL Vili della Bihl. 8oc. St. Sub.), p. 1 n. 2. Pinerolo, 1900. Di-
venuto re d'Italia alla morte di Lotario (950), e fatto padrone delio
stato, tolse ad Amalrico la marca di Lombardia assegnandola al figlio
terzogenito Corrado Oonone, mentre al secondogenito Guido diecjie la
marca d'Ivrea o d'Italia, cacciandone il figlio d'Ugo, ed il primogenito
Adalberto (II) era stato associato al trono. Cfr. Ga botto. Un millennio
di storia eporediese, in Eporediensia (voi. IV della Bihl. Soc St. Sub.),
p. 17. Pinerolo, 1900.
260 ALESSANDRO COLOMBO
Gilberto, conte, 923.
Amalrico, conte, 942c.
Amalrico, predetto, marchese-conte, 945-50; quindi trasferto alla
marca d'Emilia.
Corrado Conone, marchese-conte, f. del re Berengario, 950-61 ;
quindi alla marca d'Ivrea.
Epoca degli Ottoni.
Lamberto, marchese-conte. 961-5c. ; f. di lldeprando e. di Rosselle
(Toscana).
Datone, marchese-conte, 965c. ; d'origine tedesca.
Oberto II, marchese-conte, 970c. (t 1003?); f. di Oberto 1 m. di
Toscana e Liguria (1).
Anselmo, vice-conte, 980c. ; f. di Ottone di Erosolo (2).
Epoca de' Re Franconi.
Ugo, marchese-conte, 102 le. (t 1029 ?) f. di Oberto II, predetto
; (3).
Discendenti di Anselmo, predetto, vice-conti (4).
(1) Railenda, contessa e moglie del marchese Oberto II. ratitìca la
vendita fatta de' suoi beni presso Monza a favore di Lanfredo fu Ugo,
di Agrate —
5 marzo 999. Fonti A. Orig., perg., in ASM, Mus. Dipi.,
:
X, 330. B. Ed. GiULiNi, VII, 40., C. Ed. 31. li. j)., XIII, p. 1681, n. 955.. —
Il Giulini (I, basandosi sull'autorità del Muratori {Ant. Est.y
569-71),
1^, e, VI) e sul docum. del nov. 1021, di cui più appresso, ritiene che,
al pari di Ugo e del nipote Azzo II, siano stati marchesi-conti di Mi-
lano il padre di Ugo Oberto II, l'avo Oberto I ed il bisavolo Adal-
berto, « che fiorirono nel secolo X, dopo che Berengario II, già conte di
Milano, diventò re d'Italia », e cioè quando divennero ereditarie le
dignità di marchese e di conte. Come si vede, la congettura dello sto-
riografo milanese vale solo per Oberto II, che nel 960, insieme col-
Parcivescovo Valperto di Milano e col vescovo di Como Valdo, si
era recato in Sassonia ad invitare Ottone I contro i re Berengario e
Adalberto (Romano, op. cit., p. 685).
(2) Ora Brozolo, circondario e provincia di Torino, e già nel co-
mitato di Monferrato. Cfr. Guasco, op, cit., p. 317. Secondo lo stesso —
a., da questo Anselmo sarebbero discesi i Visconti signori di Milano,
Invorio, Castelletto, Cozzo, Saronno, Pogliasco e Garbagnate, nonché i
Della Pusterla, i Da Muro, i Grasso, i Fanti, i Crivelli e i Bianchi di
Velate. Nulla di nuovo al riguardo dice il Biscaro, op. cìt. pp. 29-32, 60 e 76.
(3) Ugo, marchese-conte, sentenzia in favore dell'abate di S. Am-
brogio nella causa contro Ottone Frixio e soci, i quali occupavano beni
proprii della « cella » di S. Satiro —
novembre 1021. Fonti A. Orig.,. :
perg., in ASM, Mus. Dipi., XIII, 457. B. Ed. Giulini, VII, 49.
(4) Forse un Ottone, padre di quell'Ariprando, che alcuni riten-
gono sia il primo personaggio storico della Casa Viscónti, di cui più Sotto..
DUE RICORDI TOPONOMASTICI DI MILANO ECC. 261
Azzo II, marchese-conte, 1045c. (t 1097); nipote del m. Ugo, pre-
detto (1).
Discendenti dì Anselmo predetti, vice -conti (2).
Arcivescovo di Milano, conte, 1060c. (3).
Anselmo, n. di Ariprando (?), vice-conte, 1067c. (t av. 1109) (4).
(J) Azzo II, marchese-conte, sentenzia a favore della basilica di
S. Ambrogio per il possesso di alcuni beni in Asiliano, già del fa Ar-
derico —
novembre 1045. Fonti A. Orig., : cart., in ASM, Mus. JDipl.y
XVII, 659a. B. Ed. Muratori, IV, 9.
(2) Certo il noto Ariprando, che nel 1037, durante la lotta tra
Corrado II il Salico e Ariberto d'Intimiano, era vice-conte di questo
arcivescovo. Da alcuni è ritenuto leggendario il racconto del Fiamma
(Cron. maior, ed. Ceruti, p. 611), che figura pure nella èit. Hist. mediai.
di Landolfo Vecchio, circa famoso duello di Ariprando o Eriprando
l
il il
col nipote di re Corrado, e per conseguenza anche il personaggio. Cfr.
BiscARO, op. cit., pp. 6-7, 17 e 29. Mori, secondo alcuni, nel 2065.
(3) Secondo
Guasco, l'imperatore Ottone I concedette l'immunità
il
dal per la città e sobborghi, all'arcivescovo di Milano, e più
conte,
tardi Pimperatore Enrico IV lo riconobbe quale conte, in sostituzione
dei discendenti del marchese-conte Oberto II.
(4) Vice-conte dell'arcivescovo Guido egli si sarebbe recato, secondo
Landolfo il Vecchio, a Roma verso il 1067 per patrocinare presso papa
Alesssadro II (Anselmo da Baggio) la causa del suo signore contro
l'accusa di simonia mossagli dai patarini. Compare pure quale teste,
insieme con « Otto fìlius Ariprandi Vicecomitis », in un giudicato del
4 ottobre 1075 (cop. cart. in BA, Codice della Croce, IV, ad an.) e la ;
sua numerosa discendenza figura in un atto di promissione del 3 set-
I tembre 1109, dove però egli è già detto estinto (copia cart. in BA, Cod.
cit., V, ad an.). —
Contrariamente a quanto pensa il Giulini (op. cit.,
III, 9), essere cioè la linea di Anselmo « diversa da quella, che fu poi
sovrana della patria », sembra che Anselmo, Ariprando (II), vivente
nel 1075, e Vifredo, il quale interviene come teste nel cit. atto del 1109,
«iano derivati da un unico personaggio, di cui finora s'ignora il nome
e che potrebbe, a sua volta, essere figlio del famoso Ariprando (I) del
1037. Ad ogni modo è certo che Ottone (II) Visconti, che prese parte
coi Lombardi alla prima Crociata, fu figlio di Ariprando (II) morto
dopo il 1075 e come egli non copri mai la carica di vice-conte, così è
;
da relegarsi tra le fole la conquista del trofeo di guerra da lui fatta in
un duello con un re saraceno, presso la porta di Gerusalemme. Cfr.
BiscARO, op. cit., p. 6 ; e sulP attendibilità dell'origine crociata della
cosi detta « biscia viscontea », già insegna militare da campo del po-
polo milanese, E. Galli, Sulle origini araldiche della Biscia Viscontea,
in questo Ardi., XLVI-1919, pp. 363-81. A complemento infine dell'al-
bero genealogico presentato dal Biscaro (p. 76 cit.), credo opportuno
262 ALESSANDRO «'oT.OMBO
dare, come Raggio <ìi quanto trarr» io m aìtro mio lavoro, il eeguetite
«euza tnttavin aver ]a pretesa che pogsa essere definitivo:
Ottoni, signore di Brosolo
Anselmo (I), vice-conti, 9H0c.
Ottone (I), vice-conte, pr. sec. XI
Ariprando (I), vice-conte, l(J37c.
t 1065?
I
I I I
Ariprando (II), 1075 Anselmo (li), vice, conte ìQGlc. Wifredo, 1109
t av. 1109
j I
Ottone (II) // Crociato Ardengo (I) Arialfx) (I) . Mahchisio
I
t nil I
t av. 1109
Guido, t av. 1147 Riccardo Ardengo (II) Anselmo (III) Alberto Arialdo (II), 1152'
Ottone (III) Mazoco Guglielmo .1
GlRARDINO
.1
GAPODIOUERRA.
1179 t ^78 t av. 1170
Alloné (o Attoni^)
Il testamento
e la famiglia dell' imperatrice Angelberga
(con una tavola inedita del conte Bandi di Vesme)
Q uno degli ultimi numeri di questo medesimo « Ar-
chivio », Giuseppe Pochettino ha pubblicato
il prof.
un'ampia e diligente monografia intorno all' impera-
trice Angelberga (1). Cardine di tutta l'esposizione,
e argomento precipuo ad intendere l'animo e l'opera della fa-
mosa imperatrice, è l'opinione professata dall'Autore, che An-
gelberga fosse, per nascita, una « longobarda del nord e piti
probabilmente una longobarda emiliana » (2). Tutta l'azione
politica di lei è studiata sotto questo speciale punto di vista ;
così che il « tema » dell'antico spirito longobardo, che rivive in
Angelberga, e ne ispira la instancabile opera, costituisce ve-
ramente il tema dominante di tutto il lavoro.
Già nelle prime pagine, il matrimonio di Angelberga con
Ludovico II è presentato sotto questo medesimo aspetto. « Se,
come io penso, —
scrive l'Autore —
Angelberga era una modesta
longobarda settentrionale^ il matrimonio di Ludovico II, in origine
indiscutibilmente matrimonio d' amore, poteva anche assumere
un aspetto politico con esso infatti Ludovico II veniva ad
:
assicurarsi l'attaccamento de' Longobardi del Nord, e per ri-
percussione anche quello dei Longobardi del centro e del sud, o
(1) G. PocHETTijio^ L'impératrice Angelberga (850-890), nell'« Archi-
vio storico lombardo », serie V^ a. XLVIII, 1921, fase. 1-2, pag. 39-149.
(2) Op. cit, pag:. 47.
"264 SILVIO PI VANO
per meglio dire degli Italiaui: inoltre coi parentadi e con le
conseguenti alleanze preparava e facilitava la marcia della sua
dominazione nell'Italia meridionale, più e meglio che non lo
potesse fare con il matrimonio con una principessa dell'infida
corte bizantina » (1). Ohe se « è vero che i papi avevano sempre
cercato di impedire che i Franchi si mescolassero in Italia
con i Longobardi, per tema che ne prendessero poi anche le
idee nazionali riguardo al potere temporale dei pontefici » (2),
è anche vero che « già da parecchio tempo i Franchi avevano
cominciato a sposarsi con le famiglie longobarde, secondo i loro
interessi o secondo le loro inclinazioni » (3).
Ma, naturalmente, è sopratutto più avanti che il « tema »
dello spirito longobardo, rivivente in Angelberga, si allarga, e
vorrei dire prorompe. Neir854 scoppiano « le prime avvisaglie
di lotta fra la coppia imperiale e il papa » (4); e secondo il
Pochettino è Angelberga quella che « trascina » Ludovico li,
personalmente riluttante, ad atti di autorità, e anzi « di pre-
potenza e di violenza » contro il pontefice (5j e a traverso ;
questo suo « spirito di ostilità » rivela « la longobarda di razza ^
che vede nei papi i secolari nemici di sua gente, e la causa di-
retta della rovina del regno longobardo, oltreché la gloriosa
assertrice dei diritti imperiali in Roma » (6).
Parimenti pochi anni più innanzi, nelP864, allorché la lotta
fra l'impero e il papato riprende, ad istigazione dell'arcivescovo
di Ravenna, Giovanni. —
Ludovico II arde di sdegno contro il
pontefice, che ha perseguitati e puniti i messi di Lotario. An-
(1) Op. cit, pag. 47-48.
(2) Op. cit; pag. 48. — In nota è citato il Lapòtre, VEurope et le
Saint-Siège à V epoque carolingienne, Parigi, 1895, pag. 185.
(3) Op. citi pag. 48. Anche queste parole sono tolte dal Lapòtre,
op. cit., pag. 186.
(4) Op. cit, pag. 53.
(5) « Ludovico 11 — scrive il Pochettino — era personalmente de-
votissimo alla Santa Sede, e in ciò seguiva fedelmente le tradizioni della
famiglia carolingia; ma Angelberga lo trascinò più d'una volta contro i
papi, ecc. » {op. cit.y pag. 53). Lo stesso concetto, della personale devo-
zione di Ludovico II al pontefice, ritorna del resto anche più innanzi (pag.
68) : « È indiscutibile che a questi ed altri atti vessatóri (contro il papa)
Ludovico II fu tratto, nonostante la sua abituale pietà e la tradizionale
devozione carolingia verso la Santa Sede, dall'orgogliosa e violenta sua
moglie Angelberga, ecc. ».
(6) Op. cit., pag. 53.
IL TESTAMENTO Di ANGELBERGA 265
;gelberga, « anziché frenarle, accende ancor più le sue ire ». Lu-
dovico II sequestra i beni della Chiesa nella Pentapoli e nella
Campania, e li dà ai suoi vassalli, ed in Eoma pone due vescovi
suoi fidi « a rappresentare l'autorità imperiale ed a controllare
l'opera del papa » (1). E il Pochettino commenta « È indiscu- :
tibile che a questi e ad altri atti vessatori Ludovico II fu tratto,
nonostante la sua abituale pietà e la tradizionale devozione ca-
rolingia verso la Santa Sede, dall'orgogliosa e violenta sua mo-
glie Angelberga, che longobarda di razza^ di fronte ai pontefici,
doveva sentir risalire su dal fondo della sua anima V ostilità se-
colare della sua stir^e^ piìi forte della sua naturale devozione e
pietà, sopratutto se quella ostilità serviva agli interessi della sua
politica personale, che era tutta di ambizione e di prepotenza ».
E come allo stesso Pochettino non potè sfuggire la gravità di
queste sue affermazioni, così egli si è affrettato a soggiungere :
« Kè questa è una mia ipotesi: poiché giustamente l'opera di
Angelberga contro papa Kiccolò I è messa in vista dell'anonimo
autore del Lihellus de imperatoria potestate, che fu un longobardo
dell'età di Angelberga, e ammiratore di lei e della sua politica
antipapale, che consisteva, secondo il libellista, nel repetere an-
tiquam imperatorum dominationem in urbe Eoma > (2).
Xell' 875 Ludovico II muore. —
Angelberga, rimasta ve-
dova, non dismette i suoi sogni di grandezza e di potenza e -,
irai due candidati alla corona imperiale si schiera a favore di
Ludovico il Germanico, e contro Carlo il Calvo (3). Orbene, se-
(1) Pochettino, op. cit, pag. 67-68. L'esposizione dei fatti è tratta dal
Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, intorno al quale è ora da
vedere l'edizione critica di G. Zucchetti, nelle « Fonti per la st. d'Italia
pubblicate dall'Istit. stor. italiano », Roma, 1920. Lo Zucchetti ha bene
rilevato nella prefazione (pag. XCI-XCIII) che, in questa parte, la narra-
zione del Libellus « discorda in più luoghi dal dettagliato rapporto del
Liber poniificalis (II, 155-58); il quale però riceve conferma dagli atti de[
Sinodo romano deir861 papa ». (Si vedano anche più
e dalle lettere del
innanzi, nella stessa edizione dello Zucchetti, le pagg. 201-3, nelle note).
(2) Che autore del Libellus « possa essere stato in realtà un longo-
bardo » ha riconosciuto anche lo Zucchetti, « sebbene le ragioni che si
mettono innanzi non siano anche qui troppo convincenti » {op. cit, pag.
LXXXII). Ma per l'età del Libellus egli ha ritenuto « di non doversi
scostare dalia vecchia opinione che ne fissava l'origine verso la metà del
secolo X » {op. cit, pag. LXX-LXXIX. —
Contro quindi la tesi del Po-
•chettino, che vorrebbe l'autore « dell'età di Angelberga »>
(3) Pochettino, op, cit., pag. 102.
4^rch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. III-IV 18
260 SILVIO PIVAKO
coiido il 8uo spirito loiigobarclo quello che
Pocbettiiio, è aiicora il
detta questa sua decisione. « Pare a me egli scrive che dalla— —
sua auiina di longobarda sorgesse in quel momento, in cui erano
rotti i suoi vincoli coi Franchi, il ricordo che dalla Francia
erano venuti i distruttori della razza e della potenza longobarda,
la quale era uscita un tempo dalle selve di quel suolo germa-
nico su cui allora dominava Ludovico il Germanico e che con ;
quel ricordo affermasse l'odio di
si lei contro chi della Francia-
era adesso signore » (1).
Infine, anche nell'ultima fase della vita di Angelberga, que-
sti sentimenti ancora lampeggerebbero. Omai l'impero carolingio
è disciolto, Angelberga è per Berengario, e contro Guido.
e
Guido prevale; ma Angelberga non gli si accosta; né, per
quanto sappiamo, alcun diploma di conferma invoca da lui. Già
in passato « non era mai stato buon sangue » fra Angelberga
e gli Spoletani ma, secondo il Pochettino, sarebbe sopratutto
;
da tener presente che moglie di Guido era là longobarda Agel-
<^
trude, figlia di quell'Adelchi, principe di Benevento, che diciotto
anni prima aveva osato ribellarsi a Ludovico II e ad Angelberga,.
ed assalirli e tenerli prigionieri per varie settimane ». Ond'egli
commenta « Come potevamo andare d'accordo e non odiarsi
:
quelle due longobarde, che ai vecchi rancori di razza esistiti tra
i Longobardi del nord e quelli del sud avevano aggiunte nuove
ragioni di odio e amarezze di ricordi personali? » (2).
queste citazioni, che traggo dal lavoro del Pochettino,.
]S[è
sono le sole che si possano addurre. Sono, io credo, le piìi
significative, per l'accesa vivacità dei contrasti. Ma in campo
pili sereno potrei ricordare la rievocazione che il Pochettino ha
fatta della solenne visita del giugno 866 di Ludovico II e An-
gelberga a Montecassino (3), e della festosa accoglienza fatta ad
entrambi dall'abate Bertario, indubbiamente un longobardo (4).
Anche al riguardo il Pochettino ha scritto « Bertario potè :
così conoscere da vicino l'imperatrice Angelberga, che già co-
nosceva per fama e così crebbe in lui l'ammirazione per lei, e
:
nel suo cuore di longobardo dovette forse fremere l'orgoglio di
vedere una della sua razza posta così in alto, e tenere il sublime
(1) Op. cìt.j pag. 103.
(2) Op. cit, pag. 147.
(3) Op. pag. 80; Bòhmef-Mììhlbacher, Die Regesten des Kaiser-
cit,
reichs unter den Karolingern, 2^ ediz., n. 1233 e, pag. 505.
(4) Mon, Germ. HisL, Poétae latini aevi carolini, IH, pag. 389, n. 2.
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 26T
SUO posto con tanta dignità e i)otenza ». In coerenza con la
quale sua tesi il Pochettino ha anche soggiunto « Ammettendo :
questo, trovano piò. legittima spiegazione i versi che Bertario
coDjpose per Angelberga, che il monaco Leone dice mira faeundia
comcriptij e il monaco Pietro dichiara versus mirificosy ma che
noi non conosciamo » (1).
È dunque tutta una rappresentazione del pensiero, delle
opere, e anche di particolari aneddoti, della vita di Angelberga^
fatta a traverso la sua aftermata appartenenza alla stirpe dei
Longobardi. Ed io mi rendo perfettamente conto come il tema,
così impostato, abbia potuto sedurre l'intelletto del Pochettino.
In fondo, a traverso la donna, sarebbe tutta una stirpe che si
ridesta. Nel conflitto formidabile che in quegli anni si accende
fra l'impero e il papato, sarebbe « l'antico spirito antipapale dei
Longobardi » quello che opera su Ludovico II, a traverso An-
gelberga, supposta figlia della loro indomita razza. E anche nel
tramonto di Angelberga, che pure è pieno di .tanta comune
tristezza, sarebbero ancora « vecchi rancori di razza » quelli che
si combattono, fra i Longobardi del nord e quelli de) sud,
rancori impersonati in due donne, imperatrici entrambe, l'una
da pochi anni vedova di Ludovico II, V altra allora allora salita
sul trono imperiale con Guido.
Per verità, conviene anche dire che in questa rappresen-
ftazione di Angelberga come « longobarda » il Pochettino era
stato preceduto dal Lapòtre (2), dal Romano (3), e da altri
studiosi, ai quali egli stesso rinvia (4) ma dove questi avevano
;
formulata una semplice ipotesi, e non ne avevano poi tratta
(1)Pochettino, op. cit.^ pag. 80; Poetae latini cit., Ili, pag. 390-91.
(2)LkvÒTRE^ V
Europe et le Saint-Siège cit., pag. 205: «...une lemme,
peut-etre une Lombarde d'origine, l'impératrice Engel barge... ». In nota
è aggiunto: «Mais à coup sur d'une faniille solidement implantée en
Italie etc. ».
(3) G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia, pag. 489: «... En-
gelberga, probabilmente longobarda, certo dì famiglia fortemente impian-
tata in Italia ecc. ». In nota è citato il Lapòtre, nel luogo ricordato nella
nota precedente.
(4) Pochettino, op. cit., pag. 44 detterà e).
268 SILVIO PIVANO
nessuna particohire conseguenza (1), il Pochettino invece di
questa ipotesi ha fatto il cardine della sua trattazione e nel- ;
l'esame delle maggiori questioni del secolo IX, delle quali An-
gelberga fu parte, ha introdotto questo nuovo coefficente di
valutazione e d' indagine, rappresentato appunto dal « coeffi-
ciente di razza > ; e l'antico spirito dei Longobardi ha visto
rivivente ad ogni passo in Angelberga, nelle opere e fìnanco nei
sentimenti di lei onde l'augusta donna gli è apparsa « or-
;
gogliosa e superba, avida di ricchezze e violenta » (2), fatta
per dominare « il mutevole cuore di soldato e di Franco » del
marito imperatore (3), così da dirigerne « tutta 1' azione poli-
tica, e così da sospingerlo a quelle forme violente di lotta contro
il pontefice, da cui 1' abituale pietà e la tradizionale devozione
carolingia verso la Santa Sede » lo avrebbero altrimenti tenuto
lontano (4). Un quadro, come ognun vede, di innegabile forza, e
anche di suggestività profonda, se alla ricostruzione tentata dal
Pochettino fossero effettivamente per corrispondere i fatti.
Senonchè duole di dover dire che tutto questo edificio, co-
struito da lui, e presentato nelle sue pagine con tanto calore e
colore, è impostato su ben fragile base. E questo per la sem-
plice, ma perentoria ragione, che Angelberga non fu « longo-
barda », com'egli ha supposto, ma « franco-salica »; non di
modesta ed oscura famiglia, ma di potente e nobile stirpe da
parecchi anni impiantata in Italia; non fu particolarmente
superba, ne orgogliosa, né violenta, più di tante altre donne
che la precedettero o la seguirono sul soglio imperiale; non
ebbe dall'anonimo autore del Libellus de imperatoria potestate
in urbe Eoma il tributo di ammirazione che il Pochettino ha
supposto, né a lei si riferiscono le parole del Libellus che
egli ha riportate (5) e se, venuto meno l' impero carolingio,
;
(1) Soltanto il Romano aveva dato significato politico al matrimonio
di Ludovico II con Angelberga, supposta longobarda: « L'unione di Lu-
dovico con la longobarda Engelberga mostra chiaramente come egli in-
tendesse di seguire una politica italiana, e mirasse in primo luògo a con-
solidare i suoi interessi italiani ecc. » (op «7., pag. 489).
(2) Pochettino, op. ciL, pag. 39, 40, 45, 51 ecc.
(3) Op. cìt, pag. 51.
(4) Vedi sopra pag. 264, n. 5.
(5) Le parole del Libellus, che, sopra ho ricordate (pag. 265), non
sono difattì riferite dal libellista all'imperatrice Angelberga, ma agli
«strenui viri eìus urbis (Romae), scìentes antiquam imperatorum consue-
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 269
seguì le parti di Berengario, contro Guido, non fu per alcun
odio o rancore di razza contro la longobarda Ageltrude, moglie
di Guido ma perchè moglie di Berengario era la suppònide Ber-
;
tilla, appartenente quindi, come Angelberga, a quella stessa in-
trepida stirpe, che nei primi decenni del secolo IX aveva avuto
inizio in Italia da uq primo conte Suppone (814-824), e che
nelle persone dei tre fratelli di Bertilla, cognati del re, dava
ora i piti strenui campioni alle schiere berengariane (1).
]S^è queste affermazioni che faccio sono del resto nuovissime,
così che il Pochettino non avesse potuto conoscerle. Che infatti
Angelberga dovesse essere, per nascita, una franco-salica, e più
precisamente una supponide, era stato acutamente già intravisto
— così almeno mi sembra (2) —
dal Malaguzzi- Valeri, nei suoi
lodati studi intorno ai Suppònidi (1894), anche se nelle sue pa-
gine ne manca la dichiarazione precisa (3). E venne detto poi, in
forma aperta, dal Gabotto, nella « vera genealogia dei Sup-
pònidi », da lui pubblicata nel 1916, come risultato degli studi,
suoi e del Vesme, intorno a questa illustre famiglia (4). Alla
« genealogia » così pubblicata dal Gabotto, manca, è vero, il
conforto di una illustrazione adeguata (5). La quale si trova
tudinem et intimantes Caesari ». Questi, e non Angelberga, « suggerebant
illi (all'imperatore) repetere antlquam imperatorum dominationem » {Mon.
Germ. Hist, Script, III, pag. 721; storia d'It., ediz. Zuc-
Fonti per la
chetti cit., pag. 200). Né il«Libellus» contiene, che
alcun'altra parola
esprima l'asserita ammirazione del suo autore per Angelberga, per la sua
pretesa « politica antipapale ».
(1) Intorno a questi tre fratelli di Bertilla (i « tria fulmina belli
Subponide », che ì Gesta di Berengario ricordano), vedi I. Malaguzzi-
Valeri, / Suppònidi, Noie di storia signorile italiana dei secoli IX e
X, Modena, 1894, pag. 14-18. — Ora appunto le pagine che seguono mo-
streranno che fu supponide anche Angelberga, e anzi, secondo il Vesme,
sorella del padre di Bertilla e cioè del ben noto conte Suppone (III).
(2) Vedi più innanzi pag. 272-73.
(3) 1. Malaguzzi-Valeri, / Suppònidi cit, pag. 26-29.
(4) F. Gabotto, in nota alla sua recensione a Guido Mengozzi,
// comune rurale nel territorio lombardo-tosco, nel « Bollett. stor. bibliogr.
subalpino XX, 1916, pag. 245 n. 2.
>,
(5) Gabotto si è limitato a premettervi queste brevi parole (pag.
Il
245, n. 2): « Ecco qual'è la vera genealogia dei Suppònidi nelle sue
linee fondamentali. I rami di Ranieri I e di Egifredo saranno svolti più lar-
gamente (forse con qualche divergenza) in monografie dell'amico B. Baudi
di Vesme ».
270 SILVIO PIVA NO
invece in due manoscritti inediti del conte di Veame, che il Po
chettino doveva naturalmente itrnorare (1). Inoltre le soluzioni
proposte in questi manoscritti dal Vesme si distaccano in ta-
luni punti, anche essenziali, da quelle del Gabotto, e seguono
una via che per varie ragioni mi sembra più diritta e sicura (2).
In ogni modo, però, e a prescindere da questi particolari di-
battiti —
che potranno avere più innanzi il loro opportuno svi-
luppo —
la tesi dell'appartenenza di Angelberga alla stirpe sup-
ponide poteva riguardarsi già come scientificamente impostata,
a quel modo che mi sembra oggi possibile di darne la dimo-
strazione sicura, in modo da respingere ogni altra supposizione
od ipotesi, comunque formulata a tale riguardo.
A me è caro di dire che questa dimostrazione sicura ha ca-
rattere essenzialmente « giuridico ». Sono difatti alcune dispo-
sizioni di diritto privato germanico, riguardanti l'intervento dei
parenti, e meglio « l'assenso dei parenti » alle alienazioni degli
immobili, quelle che consentono di dare alle accennate genea-
logie del Gabotto e del Vesme il conforto di una granitica base ;
« pongono fuor di ogni dubbio l'appartenenza di Angelberga ai
Suppònidi, e quindi la sua nazionalità franco-salica, facendo ca-
dere nel nulla ogni ipotesi diversa o contraria, e segnatamente
quella che essa fosse, come si è supposto, una longobarda.
Le brevi pagine che seguono mirano appunto alla dimostra-
zione della tesi qui dichiarata; e siccome ho detto che una prima
intuizione della tesi medesima appare già nei ricordati studi del
Malaguzzi-Yaleri, sviluppata poi nei due citati manoscritti del
Vesme, così da queste fonti la mia esposizione prende le mosse,
e segnatamente dalla illustrazione in entrambe contenuta del
(1) I due manoscritti del Vesme sono passati, dopo la sua morte
(1919), alla Biblioteca della Società storica subalpina di Torino, che li
acquistò (insieme con parecchi altri) dalla Famiglia. Uno di essi, che per
identificazione chiamerò I, ha il titolo: Tre famiglie comitali dell'Alta
Italia. Appunti per lo studio della successione comitale aW epoca caro-
lingica. I Suppònidi-, e pagine 50, numerate. L'altro mano-
consta di
scritto (II) ha il Suppònidi; incomincia la numerazione con la
titolo: /
pagina 39 e la termina con la pag. 102; ed ha in epigrafe il numero ro-
mano IP, che suppone un precedente numero T, ora mancante. Entrambi
i manoscritti risalgono al 1895. (Per maggiori notizie cfr. il mio studio :
// comitato di Parma e la marca lombardo-emiliana, nel voi. XXH del-
l' <i Arch. stor. per le province parmensi », pag. IO, n. 3).
(2) Vedi più innanzi pag. 292-93.
IL TESTAiHENTO DI ANGKLBKRGA 271
~« testamento » deirimperatrice Aagelberga, fatto in Brescia nel
marzo 877.
Questo è il prezioso
infattidocumento, dove la questione
Angelberga può dirsi implicitamente conte-
della genealogia di
nuta, e io credo anche implicitamente risolta. Il Pochettino, che
nel suo studio su l'augusta donna si è in più luoghi doluto che
-« nessuna luce » venisse in proposito dai documenti « nessuno —
di essi », a suo credere, ci aiuterebbe « nemmeno a conoscere
le origini e la condizione sociale » di lei (1), non si è accorto —
che proprio il « testamento » di Angelberga, che egli ebbe in
sua mano, gli forniva tutte le informazioni che potevano essere
necessarie al bisogno. Vediamolo infatti.
Con Angelberga, in Brescia, come ho
tale suo testamento
• detto, e nel marzo 877, disponeva, com'è noto, la fondazione
del monastero di S. Sisto di Piacenza, e lo dotava con una
quantità ingente di beni (2). Questo ella faceva, secondo l'uso
dei tempi, per la salute dell'anima del marito imperatore e della
^8ua propria, nonché della loro unica figlia (Ermengarda), e dei
comuni parenti (3). Nell'inizio del documento l'augusta donna
ha cura di far conoscere che questa potestà di disporre di tutti
i suoi beni le era stata espressamente riconosciuta dal marito
imperatore, nonché dallo zio ed « equivoco > di lui (Ludovico il
Germanico), e dai pontefici Adriano II e Giovanni Vili (4).
.Perciò, appoggiata a questa duplice autorità, imperiale ed apo-
(1) Pochettino, op. ciL, pag. 41-42. Parimenti a pag. 45: « Non un
documento accenna ai suoi parenti... Ne tace persino nel testamento, che
pur fece in tarda età, quando più non era imperatrice, ma umile donna
di convento, e spoglia ormai degli orgogli di un tempo >».
(2) La migliore edizione del « testamento » in Renassi, Cod. diplom.
varmense, I, Parma, 1910, pag. 146-57.
(3) Si tratta dunque di una di quelle « donazioni o giudicati per
l'anima » il cui vario contenuto è stato da ultimo studiato dal Ferrari,
Ricerche sul dir. ereditario in Occid. neWalto medio evo con speciale
riguardo alV Italia, Padova. 1914, pag. 156 e sgg. Nell'uso comune, può
tuttavia conservarsi il nome di « testamento » dell'imperatrice Angelberga,
col quale il documento è conosciuto (l'imperatrice stessa lo chiama « pa-
gina testamenti mei »; per quanto sia ben noto che queste designazioni
hanno negli atti medioevali un valore molto relativo [cfr. Ferrari, op. cit.,
,pag. 157]).
(4) Ediz. Benassi cìt, pag. 147.
272 SILVIO PI VANO
stolica, e col consenso dei suoi propinqui e parenti, essa addiviene'
alla solenne fondazione clie lio ricordata (1). Ai piedi del do-
ciiinento segfnono le lirme deinumerosi personagj^i presenti al-
l'importantissimo atto. Si trattava del « testamento » dell'im-
peratrice vedova di Ludovico II. Non deve quindi sorprendere
se questi personaggi che firmano sono in numero di ben 27, e
fra di essi l'arcivescovo di Milano, Ansperto, i due messi im-
periali, Ugo e 'Kiccardo, i due vescovi Antonio (dì Brescia) e
Guibodo (di Parma), l'arcidiacono Anselmo, e un forte gruppo di
conti e di « vassi » (2).
Ora appunto il Malaguzzi-Valeri ba acutamente fermata l'at-
tenzione sopra una di queste firme, e cioè quella di un conte
Suppone, e più ancora su le dichiarazioni che l'accompagnano,
che sono le seguenti: « Signum f manus Supponi comitis qui
ad omnia suprascripta consensit et ad conjirmandum manunv
posuit » (3); ed ha osservato che « la soscrizione di Su])pone »
non figura quindi nella carta « coinè quella di un semplice teste^
ma colle più chiare espressioni di approvazione e di ratifica,
proprie ad un intervento che era legalmente necessario, o quasi,
a rendere valido l'atto di ultima volontà di Angelberga » (4).
Egli ha anche soggiunto che bisognava « non perdere di vista
i vincoli di parentela di Angelberga collo stesso Suppone II » ;
—
ha ricordato che è a Suppone II che il pontefice Giovanni Vili
ebbe più tardi a ricorrere per la difesa dei beni di Angelberga,
e come a lui, così ai conti Egilredo, Eripaldo, Berardo e Co-
tifredo (5) ;
—
ne ha conchiuso che « probabilmente » questi
conti dovevano trovarsi nello stesso caso di Suppone, « ed
esercitare una specie
di autorità tutoria, quale in certi casi il
delegava ai prossimiori » (6).
diritto salico
Ora io non dico che in queste parole vi sia la risoluzione
del problema genealogico riguardante Angelberga dico che : —
ve n'è però indubbiamente la intuizione profonda. Il Malaguzzi
(1) Ediz. cit., pag. 148: « Unde nunc, impe-
ut credo, inspirante Dee,
riali et apostolica auctoritate subfulta, deliberavi una cum consensu pro^
pincorum et parentum meorum haedificare aecclesiam etc. ».
(2) Ediz. Renassi cit., pag. 155-56.
(3) Ediz. cit., pag. 155.
(4) Malaouzzi-Valeri, / Supponidl cit., pag. 26.
I.
(5) I. Malaguzzi- Valeri, op. cit.y pag. 26-27; Jaffé, Regesta ponti-
ficum romanorum, T ediz., I, pag. 413, n. 3299.
(6) 1. Malaguzzi-Valeri, op. cit., pag. 27.
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 273
noQ ha penetrata vera ragione dell'intervento di Suppone al
la
« testamento Iia posto quest'intervento in relazione con
», uè
le parole stesse di Angelberga, che ho ricordate, di compiere-
cioè l'atto « una cum consensu propmcorum et parentum meo-
rum » (1). pur avendo conosciuta e ricordata la
Parimenti,
« parentela » di Angelberga con Suppone, egli non ha appro-
fondita la questione, essenziale per il problema genealogico, se
si trattasse di parentela paterna o materna anzi la questione stessa
;
sembra avere studiosamente evitata (2). E così ancora, poco piti
innanzi, nell'ampio quadro della genealogia supponide, che com-
pendia il frutto delle sue pazienti ricerche, il Malaguzzi non si
è attentato, nemmeno in via di ipotesi, di collocare Angelberga
in alcuno dei rami della potente famiglia (3).- Tuttavia il pre-
ciso richiamo che egli ha fatto al diritto salico^ come fondamen-
tale a spiegare il comportamento di Suppone, e l'attenzione
che egli ha portata su la firma « di approvazione e di ratifica »
apposta da Suppone al « testamento », mostrano che egli ebbe la
chiara intuizione della via a traverso la quale il problema pro-
posto avrebbe finito coU'esser risolto, anche se gli è mancata
la necessaria informazione giuridica per addivenire alla sua so-
luzione.
Su la via aperta dal Malaguzzi -Valeri è proceduto, come
ho detto, il conte di Vesme, nei due manoscritti inediti che ho
sopra citati. Per verità conviene dir subito che anche il Vesme
non ha approfondita la questione giuridica che il Malaguzzi
aveva lasciata in sospeso (e cioè la vera ragione dell' « assenso »
prestato da Suppone al « testamento »). Anzi talune osserva-
(1) Vedi sopra pag. 272, n. 1.
(2) I. Malaguzzi- Valeri, op. dt.f pag. 26-2Q. —
A pag. 26 l'A. parla
semplicemente di vincoli di parentela » fra Angelberga e Suppone. Pari-
«^
menti a pag. 27 «... la parentela che lo legava (Suppone) alla vedova di
:
Ludovico II ». E già prima, alla pag. 10, seguendo il Mììhlbacher, Re-
gesten cit., n. 1208 a, il Malaguzzi si era limitato a tradurre per « pa-
rente dell'imperatrice Angelberga » il « consobrinus iixorls eius » degli
Atti del IV Concilio costantinopolitano (Mansi, Condì, nova collectio, XVI,
158). Più esattamente invece il Dììmmler, ricordato dallo stesso Mala-
guzzi, aveva già tradotto « consobrinus » per « cugino » (E. Dììm-
mler, Gesch. d. ostrfrànk. Reiches, U, 2** ediz., Lipsia, 1887, pag. 251:
«... der Graf Suppo, ein Vetter der Kaiserin Engelberga »). Per tutta—
quanto sopra, vedi del resto più innanzi, pag. 292.
(3) I. Malaguzzi- Valeri, op. cit.^ pag. 39-40.
274 SILVIO PIVANO
zioni fatte da lui al riguardo urtauo coutro i priricipii che mo-
streremo fra breve foudameutali in materia, e uou possono
quindi essere accolte (1). Tuttavia sorretto da un mirabile ,
intuito genealogico -- o se si vuol meglio da una mirabile co-
noscenza dei complessi problemi genealogici di quell'età il —
Vesme è riuscito ugualmente, i)er quanto credo, alla risoluzione
del problema proposto, a traverso il procedimento che segue.
Dopo alcuni primi passi incerti, di cui i due manoscritti
conservano entrambi la traccia (2), il Vesme ha osservato che
a consentire e confermare il testamento di Angelberga, non in-
terviene soltanto il conte Suppone, ma intervengono anche due
altri conti, Egifredo e Ardengo, per ciascuno dei quali è ripetuta
ai piedi del documento la formola « .... qui ad omnia supra- :
scripta consensit et ad confirmandum manum posuit » (3). In
conseguenza, e portando l'indagine oltre la persona del conte
Suppone, il Vesme si è domandato chi potessero essere questi
tre conti che « così solennemente consentivano e confermavano
il testamento ». —
In un primo momento, fondandosi « sulla ri-
petizione del nome del conte Ardengo [uno dei tre consen-
zienti] nel vescovo Ardengo, figlio del duca Suppone II >, egli
ha risposto di ravvisare in essi « tre figli del duca Adalgiso
[figlio questi del primo conte Suppone (4) ] ». In un secondo
(1) Vedi più innanzi pag. 279 ss.
(2) Mi riferisco specialmente al ms. I cit., pag. 40-41. — È però da
notare che da prima il Vesme si era valso, per il testamento di Angelberga,
della edizione del Campi, DeWhistoria eccles. di Pìacenzaj 1. 1, p. 461, che
manca della sottoscrizione del conte Ardengo, e come primo consen-
ziente ha Sigefredo in luogo di Egifredo. Donde appunto l'origine di quei
suoi « primi passi incerti », che ricordo sopra nel testo. Soltanto in se-
guito (ms. Il cit., pag. 51-52, e più specialmente nell'appendice: Varianti
e correzioni, pag. 93-95), egli fece ricorso alla più corretta e completa
edizione del Robolotti, {Cod. diploni. Langobardiae, col. 452); e potè
così accertare in tre il numero dei conti « consenzienti », e formulare le
nuove ipotesi che riferisco parimenti sopra nel testo.
(3) Ms. II cit., pag. 94; Renassi, ed. cit., p. 155.
(4) Ms. II cit., pag. 94-95. —
Per intendere questa prima conclusione
del Vesme bisogna note « leggi onomastiche medioevali »
far capo alle
formulate da lui (e illustrate specialmente nei suoi ultimi scrìtti La pace di :
Dio nel Viennese, nel « Bollett. stor. bibl. subalp. », volumi XVIII e XIX ;
e Dai Supponidi agli Obertenghi ,nello stesso « Bollettino », voi. XXII,
pag. 212 n. 1); secondo le quali leggi « il figlio primogenito avrebbe ri-
4>etuto il nome dell'avo paterno; il secondogenito il nome dell'avo ma-
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 275
momento, allargando l'esame, oltre che figli del duca Adalgiso,
egli ha detto di ritenerli anche fratelli deW imperatrice An-
gelberga, sia perchè due di essi (Suppone e Ardengo) « Panno
precedente si erano schierati nel partito francese accanitamente
combattuto dalla vedova regina », e « le lotte elettorali regie
a quei tempi erano mai sempre guidate dagli interessi dinastici
degli ottimati, aspiranti all'ereditarietà degli uffici » (l) ; sia
perchè « il Du Bouchet, che scrisse nel secolo XVII la ge-
nealogia dei re Francesi, e per conseguenza ebbe sottomano
'
molti documenti spariti poi nella bufera rivoluzionaria, afferma
€he Angelberga fosse della casa ducale di Spoleto » (2). Ora
la casa dei duchi di Spoleto « ai tempi del padre di Angelberga »
era « certamente la suppònide, e non la guidesca, venuta di
Francia lei già vivente » (3). Il Yesme ha anche detto di
terno; il terzogenito il nome del bisavo paterno o del padre; i tigli suc-
cessivi i nomi degli zìi paterni e materni alternativamente ». Ora era già
noto dalle ricerche del Malaguzzi-Valeri, / Supponidi cit, pag. 15-18,
che Suppone II ebbe sicuramente per figli i « tria fulmina belli >: Adal-
giso, Vifredo e Bosone (ricordati dai Gesta di Berengario), e inoltre
Ardenqo chierico, poi vescovo di Brescia. Perciò il Vesme, trovando fra
ì tre « consenzienti » al testamento di Angelberga un conte Ardengo. a
lato del conte Suppone, fu tratto a supporre che Ardengo e Suppone fos-
sero fratelli, e il nome del primo fosse poi rivissuto tra i figli del se-
condo. Sul qual punto vedi più avanti, pag. 292-94.
{\} Ms. 11 cit., pag. 95. Analogamente poco piìi innanzi, pag. 96-97 :
« Con questa ipotesi (che i tre conti fossero fratelli dì Angelberga) tutto
resta spiegato: i fratelli della regina {correggi: due dei fratelli della re-
gina), morte di Ludovico 11. essendovi lotta per la successione al
alla
trono tra Ludovico di Germania e Carlo di Francia, si schierano nel
partito francese, perchè il terzo fratello e la sorella son nell'altro partito,
sicuri così di restare in ogni caso a galla e conservar l'acquistato, sep-
pure non di arraffare qualche nuovo boccone nel tafferuglio: esempio
tipico della politica dei tempi ».
(2) Ms. Il cit., pag. 96. — Du Bouchet, La véritable origine de la
seconde et troisiesnie lignee de la maison rovale de France, Paris, 1646,
pag. 14: « Louis II empereur et roy d'Italie, mort l'an 876. Sa femme
Angelberge se rendit réligieuse a Pavie; elle estoit fille du Due de Spolette ».
(3) Vesme, nis. II cit., pag. 96. —
Le prime notizie della casa gui-
desca a Spoleto sono deir842, nel diploma dell'imperatore Lotario alla
chiesa di Trier, si ricorda la concessione di Mettlach fatta dal-
in cui
ex proceribus nostris Witoni Spolitanorum ducli*
l'imperatore « cuidam
(BòHMER-MiiHLBACHER, Rcg. cit. 2' cdiz., n. 1092; A. Hopmeistbr,
,
Markgrafen u, Markgrafschaften im ital. Konigreichy nelle « Mittheìl.
270 SILTIO PIVAKO
sentirsi confermato nella sua opinione dalla « elevazione » poi
avvenuta « al ducato lombardo » del conte Suppone (uno dei
tre consenzienti), < precisamente all'epoca del matrimonio so-
lenne di Hosone, già duca di Lombardia, con Ermengarda, fi-
glia unica deiriniperatore Ludovico II ». Argomento, a suo cre-
dere, assai persuasivo se si pensa che « per testimonianza sin-
crona » noi sappiamo « che Carlo il Calvo aveva lasciato a
Bosone la nomina degli ufficiali regi che potevano occorrere al
governo d'Italia » (1).
Non è mio proposito di esaminare qui partitamente il valore
di ciascuno di questi argomenti che il Vesme ha addotto a
sostegno della sua opinione. Probabilmente l' esame che ve-
nisse istituito li dimostrerebbe uno ad uno assai disputabili, e
quindi di efficacia probante assai limitata. Ma ho già detto
sopra di credere che, indipendentemente da essi, il Vesme abbia
ugualmente risolta, con mirabile intuito, la vessata questione ri-
guardante Angelberga (2), da lui collocata, senza alcuna esitanza,
nel quadro della famiglia supponide, come figlia del duca Adal-
giso, e sorella dei tre conti Suppone, Egifredo e Ardengo, con-
senzienti al suo testamento (3).
Di questi risultati del Vesme si è reso assertore il Ga-
botto nella nota « genealogica » che ho già ricordata (4),
d. Inst. fiir òsterr. Geschichtsf. », VII. Ergànzungsb., pag. 349). Prima di
Guido, fu certamente duca di Spoleto un Berengario (836-settembre 841),
e prima di Berengario, forse, un Riccardo (Hofmeister, op. cit.j pag..
348), entrambi non guideschi. Quanto ai Supponidi, i loro poteri a Spo-
leto, nella prima metà del sec. IX, sono documentati soltanto per gli anni
822-24, con Suppone I e Mauringo (Hofmeister, op. cìt., pag. 304-5), Con—
la sua affermazione il Vesme mostra quindi di credere che essi duras-
sero anche oltre questa data, in qualche discendente, oggi ignorato, di
Suppone o di Mauringo.
(1) Ms. II cit., pag. 96.
(2) Che si tratti veramente dì una vessata questione Io prova la
molteplicità delle ipotesi formolate a risolverla, e ricordate dal Pochet-
TiNO, nel suo studio citato, pag. 42-46.
(3) 11 quadro completo della genealogia supponide è dato dal Vesme
nel ms. II cit., pagg. 79-86; Io specchio particolare riguardante Angelberga
ed i tre conti suoi fratelli, nello stesso ms., pagg. 80-81. Il Vesme è per-
venuto a questi suoi risultati a traverso una serie di tentativi, di cui è
conservata la traccia, nel ms. I, alle pagine 33 e 44-47, nel ms. II, alla
pag. 68.
(4) Vedi sopra pag. 269, n. 4.
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 277
con talune modificazioni ed aggiunte, di cui ho fatta riserva
di approfondire più innanzi l'esame. Kei manoscritti e nei la-
vori a stampa del Vesme, la questione non appare invece ul-
teriormente trattata. Soltanto in un suo ultimo studio, pubbli-
cato dopo la sua morte, parlando per incidenza, e in una nota,
dei tre conti Suppone, Egifredo e Ardengo, come confermanti
il testamento di Angelberga, il Vesme ha detto dell' augusta
donna: « che in altro luogo dimostreremo essere stata loro
sorella » (1). Ma senza che si possa comprendere se il rinvio
sia fatto ai due manoscritti inediti, or ora esaminati, o ad altri
in preparazione, od anche semplicemente formati dentro al pen-
siero.
In conseguenza la questione è al punto dove i due mano-
scritti del Vesme l'hanno lasciata, premessa però sempre quella
prima felice intuizione del Malaguzzi- Valeri, che ho sopra, in
più luoghi, lodata (2). —
Io ritorno a questa prima sicura sorgente ;
e riportata a traverso di essa la questione dal campo genealogico
a quello giuridico, mi riprometto di ritrovare in questo quella
« dimostrazione » della tesi del Vesme, che ho accennata, tale
che valga a porre fuori di ogni dubbio l'appartenenza di An-
gelberga ai Suppònidi, e quindi la sua nazionalità franco-salica,
-contro ogni diversa o contraria opinione.
Nel mio pensiero, questa dimostrazione a cui mi appresto
<lella tesi del Vesme, è anche un tributo che rendo alla memoria
del caro Amico scomparso.
* »
I <3ome
della questione è
il lettore ha bene compreso,
dunque tutto nel precisare
il « punctum
il
saliens »
valore della firma
« di consenso e di conferma » apposta dai tre conti Suppone,
Egifredo e Ardengo al « testamento » della vedova imperatrice
Angelberga, fatto in Brescia nel marzo 877. I tre conti perchè—
intervengono ? E in quale veste, ed a quale titolo, essi « consen-
tono » ed « a conferma pongono la mano » ?
Il Malaguzzi-Valeri che, come abbiamo visto, studiò il pro-
blema in confronto del solo conte Suppone, ed ebbe la prima
esatta intuizione di attribuire il suo intervento e il suo con-
(1) B. DI Vesme, Dai Suppònidi agli Oberienghi cit., nel « BoUett.
stor. bibliog. subalp. >, XXII, pag. 213 n. 2.
(2) Vedi sopra pagg. 269, 272-73.
UTS SlLThJ PIVA NO
senso alla « parentela » che lo legava all' augusta sovrana,,
sviò poi da questo diritto sentiero quan<lo cre<lette di poter at-
tribuire, in pari grado, l'intervento medesimo all'essere l'atto
« celebrato a Brescia, e in favore di una fondazione di Pia
cenza, città, almeno della seconda, egli
delle quali (Suppone)
era conte » Forse <|uesto stesso suo errore trasse più tardi
(Ij.
di via anche il conte di Vesme, allora che fattosi a considerare
lo stesso problema, non solo in confronto del conte Suppone,
ma anche in confronto degli altri due conti, Egifredo e Ardengo,
disse da prima di ravvisare in Egifredo « il conte di Brescia
nel cui comitato era rogato Vatto », e in Suppone « il conte di
Piacenza, nel cui governo era situato il cenobio, dotato con quel
l'atto dalla vedova imperatrice » (2) poi parlò del solo Egi- ;
fredo come « cont^ di Brescia », ma sempre come « rappresen-
tante deW autorità regia tutoria, che in unione coi legati impe-
riali,autorizzava il rogito » (3).
Tutte (jueste opinioni, comunque formulate, sono da esclu-
dere. È ovvio, difatti, in primo luogo, di osservare che per tale
via si i)otrebbe giungere in ogni modo a spiegare soltanto l'in
tervento al testamento e il consenso di Egifredo, assai proba-
bile conte di Brescia (4), e di Suppone, assai dubbio conte di
Piacenza (5), e non anche di Ardengo mentre la posizione dei ;
(1) I. Malaguzzi-Valeri, op. cit, pag. 27 « .... [Suppone] era pre- :
cisamente il personaggio cui si addiceva dì più l'intervenire e il conva-
lidare il testamento di Angelberga, sia per la parentela che lo legava
alla vedova di Ludovico, sia perchè Vatto era celebrato a Brescia e in
favore di una fondazione di Piacenza, delle quali città, almeno della se-
conda, egli era conte » (contro la quale uhima affermazione vedi più
innanzi, in questa stessa pagina, la nota 5^).
Vesme, ms. I cìt., pag. 40.
(2) B. DI
Ms. II cit., pag. 95.
(3)
(4) Vedi il mio articolo La « historiola » apocrifa di Rodolfo notaio
:
e la serie dei conti di Brescia nel sec, IX, di prossima pubblicazione in
« Brixia sacra », Brescia, 1923.
(5) Che Suppone sia stato conte di Piacenza si è ritenuto fin qui in
base al diploma Ludovico II all'imperatrice Angelberga, in data 13
di
settembre 874 (Bòhmer-Mììhlbacher, 2*" ediz. cit, n. 1268); il quale di-
ploma, nelle edizioni del Campi e del Poggiali, a specificazione delle
concessioni fatte da Ludovico all'augusta consorte, in Piacenza, aggiunge
l'inciso : « .;.. quantum protendit a mansione Supponi ilUus comitis etc. ».
(Campi, DeWhist ecclesiast. di Piacenza cit., I, 458; Poggiali, Mem. star,
di Piacenza, II, 355). Interpretandosi in conseguenza 1'* illins comitis >
IL TESTAMENTO Di ANGELBERGA 279
tre conti è identica nel docamento. In secondo luogo — e questo
è il puntomaggiore rilevanza — nessuna ragione del loro
di
pubblico ufficio, e nessuna rappresentanza della potestà regia
tutoria, poteva portare i tre conti a « consentire » al testamento
di Angelberga. Le tonti del tempo non conoscono cpiesto « con-
senso ». (Jerto esse ci dicono che la potestà pubblica aveva cura
e protezione delle vedove, non altrimenti che delle donne in ge-
nere (1) ma questa protezione e questa cura esercitava non
;
nella forma di un « consenso ». dei conti locali ai loro atti
di disposizione; sì bene invece in altre forme e maniere che
non hanno a che fare con essa (2) e in ogni modo non interve- ;
niva se non quando in loro confronto fosse apparsa inadeguata
o mancante la ditesa dei parenti (essenzialmente agnatizia) (3) ;
mentre noi sappiamo eli e Angelberga aveva propri agnati, col con-
senso dei quali essa stessa ci dice di procedere al testamento (4).
per « illìus [civitatìs o comitatus] comitis », si è facilmente fatto di
Suppone un conte piacentino (Poggiali, op. ciL, pag. 358-61 ; Malaguzzi-
Valeri, op. cit, pag. 27-28). Ma
più recente edizione critica del Be-
la
nassi, riproducendo l'originale del diploma ludoviciano posseduto dall'Ar-
chivio di Stato di Parma, ha mostrato doversi leggere «... a mansione :
Supponi illustris comitis », anziché « illius comitis » (Cod. diplom. parmense,
1, pag. 136): con che è caduto il più valido argomento che potesse fare
di Suppone un conte di Piacenza. — Che del resto la precedente lettura
fosse quasi certamente errata, e dovesse quindi correggersi nel modo ora
accertato dal Benassi, aveva acutamente già sospettato il Vesmc nei due
mss. sopracitati (ms. 1, pag. 10-U; ms. II, pag. 49-50).
(1) Vedi, per tutti, Perule, Storia del dir. Hai., 2^ ediz.. Ili, pag.
232 sgg. ; ScHUPFER, La famiglia presso i Longobardi, nell' « Arch. giur. »,
1, 1868, p. 141 sgg. ; e // dir. privato dei popoli gernian., 2^ ediz., I, pag.
16 ss., II, pag. 248 ss. ; Solmi, La condizione privata della donna e la
giurispr. longob. neW IL merid., nell' « Arch. giurid. » cit., LXVIII, 1902,
p. 206 ss., e Storia del dir. ital., 2" ed., p. 371-74, ecc.
(2) Lo studio di queste forme, per il diritto longobardo, specialmente
per quanto XXII delle leggi di Liutprando, è stato
riguarda il cap.
fatto dal RosiN, nel ben noto studio: Die Formvorschriften filr die
Veràusserungsgeschàfte der Frauen nàch langobardischem Recht, nelle
« Untersuchungen > pubblicate dal Gìerke, Vili, Bresslau, 1880. (Vedi
anche N. Tamassia, // cap. XXII delle leggi di re Liutprando, nella
* Riv. ital. per le se. giurid. >, XXVI, 1898). Per il periodo carolingio,
rinvio allo Schupfer, // dir. privato cit., II, 2^ ediz., pag. 248 ss., e in
particolare alla pag. 305 e ai capitolari ivi citati.
(3) F. Schupfer, // dir. priv. cit, II, p. 259.
(4) Vedi sopra pag. 272 n. 1.
280 SILVIO l'I VANO
Né varrebbe, per altra via, lentwr di spiegare l'iuterveato
dei tre conti, riconnettendolo ad una supposta ragione di maggior
solennità del « testamento » poiché in tal caso essi si sareb-
;
bero limitati a presenziare l'atto, e poi a sottoscriverlo come —
l'arcivescovo <li Milano, Ansperto, e come i due vescovi Antonio
di Brescia e Guibodo di Parma (1), e non anche avrebbero —
consentito e confermato tutto quanto si era compiuto in loro
presenza.
La spiegazione quindi di questo loro consenso dovrà essere
necessariamente diversa. E diversa essa è realmente. Come ben
sanno difatti gli storici del diritto, secondo le più antiche co-
stumanze germaniche —
durate poi tenacemente nell' uso, e
penetrate fìnanco nella nostra legislazione statutaria comu-
nale (2), —
quelli che « consentono » agli atti di alienazione,
ed « a conferma pongono la mano », non sono né i conti locali,
né i giudici, né altri rappresentanti della potestà pubblica, per
una qualsiasi ragione del loro pubblico potere ma sono i « pa- ;
renti », ed essenzialmente gli « agnati », e cioè coloro ai quali
avrebbe potuto spettare una ragione successoria sui beni alie
nati; e per questa ragione appunto erano richiesti del loro
intervento e del loro « consenso », e cioè perchè l'atto potesse
(1) Tutti questi semplicemente sottoscrivono: « t Anspertus archìe-
piscopus subscripsi »; « t Antonius episcopus subscripsi » ecc. ;
Non consentono, né confermano ; e nemmeno hanno veste di testimoni,
come i due messi imperiali Ugo e Riccardo, e come la lunga serie dei
conti e dei vassi presenti (Ben^^ssi, Cod. dipi. parm. cit., pag. 155-56).
La regola, del ha carattere generale. Chi interviene richiesto per
resto,
semplice ragione di maggior solennità di un documento, presenzia e
sottoscrive ma non conferma, né consente né ha funzione di teste
; ;
Un esempio tipico è nello stesso Cod. diplom. del Benabbi, nel « testa-
mento » della vedova regina Cunegonda, del 15 giugno 835 (avvicinabile
in tutto al nostro, della vedova imperatrice Angelberga, del marzo 877) ;
al quale testamento assistono richiesti i vescovi Lamberto di Parma e
Norberto di Reggio, il conte di Parma Adalgiso, e l'arcidiacono di Parma
Eriberto. Orbene essi tutti semplicemente sottoscrivono. Non consentono,
né approvano né hanno funzione di testimoni, nella quale veste compaiono
;
altri numerosi personaggi presenti {Cod. diplom. cit., pag. 105).
(2) F. ^cu\2V¥ER,'La famiglia presso i Longob. cit., neir« Arch. giurid. »,
I, p. 19 ss.; Pertile, Storia del dir. ital. cit., IH, pag. 414 ss., 419-20; Ta-
MABSiA, Le alienaz. degli immob. e gli eredi secondo gli antichi dir. ger-^
manici e specialm. il longob., Milano, 1885, pag. 7, n. 3, pag. 257-58 ; ecc.
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 281
àu seguito rimanere « stabile ed inconvulso », contro ogni even-
tualità di un loro contrasto o reclamo (1).
L'istituto è perfettamente noto agli storici del diritto --
se non nella sua precisa definizione giuridica (2), certo nella
sua ampia rappresentazione documentale, così che non oc- —
corrono molte parole per illustrarlo. Intorno alla sua origine,
potrà farsi questione se esso debba riguardarsi quale una « pu-
rissima emanazione del diritto germanico primitivo », come ri-
tenne in un primo tempo il Tamassia (3), e come è opinione
prevalente nella nostra letteratura storico-giuridica (4) o se ;
invece, a dargli vita, non abbia concorso « anche il diritto ro-
manOp popolare fin che si vuole, ma sempre romano », come ha
sostenuto in un secondo tempo il Tamassia (5j, e come gli ar-
gomenti addotti da lui possono indurre a pensare (6). Pari-
menti, intorno al suo contenuto, potrà porsi giustamente il que-
sito se questo « assenso dei parenti », come
Tamassia ebbe a
il
chiamarlo, costituisse veramente un loro segno
« diritto », a tal
che la sua mancanza potesse far luogo airannuUamento dell' a-
(1) Allo stesso scopo miravano, com'è ben noto, le calde invocazioni
ai parenti perchè si astenessero da ogni turbativa o violenza contro la
alienazione compiuta, e la tremenda minaccia del fuoco perpetuo, e anche di
pene pecuniarie terrene, contro chiunque se ne fosse reso turbatore o
violatore. Tutti i quali punti sono stati ampiamente svolti dal Tamassia,
Le alienaz. cit., pag. 259-71.
(2) Vedi le note seguenti.
(3) Tamassia, Le alienazioni cit., pag. 258.
(4) F. ScHUPFER, La famiglia presso i Longob. cit., neir« Arch. Giu-
rid. », I, pag. 19-23, 180-81 ; Io., // dir. priv. dei pop. germanici cit., li,
La famiglia y
pag. 13; III, Possessi e dominii, pag. 84 ss. (specialmente
alle pag. 90-91), 188 ss. (specialmente alle pag. 191-93ì; Fertile, Storia
del dir. ital., Ili, pag. 414-20 ; Nani-Ruffini, Storia del dir. priv. ital.,
pag. 256-57; Solmi, Storia del dir. ital., 2* ediz,, pag. 440.
(5) N. Tamassia, La falcidia nei piti antichi docum. del medio evo,
nelle « Memorie del R. Istit. Veneto », XXVII. Venezia, 1905, pag. 40. Già
alcune pagine prima (pag. 27), discorrendo in particolare del consenso del
fratello nei documenti franco-romani e della sottoscrizione di lui agli
atti di alienazione, il Tamassia aveva rappresentato come assai difficile
« per non dire impossibile » lo spiegare questo « intervento fraterno »
col solo diritto germanico, e aveva di preferenza pensato ad un' « azione
concorrente dei due diritti (romano e germanico) ».
(6) Tamassia, La falcidia cit., pag. 26-27, 39-40.
Arch. Star. Lomb. Anno XLIX, Fase. IlI-IV 19
282 SILVIO riVANO
lienazionecompiuta (1), o se invece non si tratlasee più che
altro diuna « misura precauzionale », posta in essere dall'alie-
nante, per mantenere in perpetuo sicura, contro ogni reclamo
dei parenti, la sua alienazione (2).
Ma per quanto riguarda la sua rappresentazione nei docu-
menti, l'istituto è, come ho detto, perfettamente noto a traverso
i molteplici esempi che il Tamassia ha raccolto : di padri che
consentono alle alienazioni dei figli ; di figli che consentono alle
alienazioni dei genitori ; e come di padri e di figli, così di fra-
telli, di zii, e di nipoti (3) ; e costantemente presenta, nel corso
del suo sviluppo, i due distinti aspetti sopra cui il Tamassia ha
fermato Pesame « : la proprietà e la famiglia, e il loro punto-
di contatto, che è il vincolo che lega la proprietà alla fa-
miglia » (4).
(1) Questo sostenne, da prima, il Tamassia, appunto nel citato studio
su Le alienazioni, Milano, 1885, pag. 251 ss. Ma poi il Tamassia stesso
recedette dalla sua opinione, come appare dalla nota seguente.
(2) N. Tamassia, La falcidia cit., pag. 35-37. Giustamente il Ta- —
massia ha fatto capo, in questo secondo studio, alla considerazione del
« dispetto » e della « pochissima voglia » che i parenti avrebbero avuto,
di « ottemperare gli ordini del testatore », che non lì avesse ricordati
nelle sue disposizioni (op. cit. pag. 35) ; e quindi alla « preoccupazione »
dei disponenti, che gli eredi non fossero poi per cercare di « render vana
la loro volontà » {op. cit., pag. 36). Dalle quali premesse ha tratta la
spiegazione sia del perchè « chi disponeva per l'anima, e non aveva —
si consideri bene — eredi legittimari, spessissimo non trascurasse di la-
sciare in proprietà o in usufrutto ai congiunti una piccola parte dell'ere-
dità », sia del perchè « / congiunti (fratelli, nepoti ecc.) » fossero chia-
mati « a dare il loro consenso » alle pie donazioni {op. cit, pag. 36)..
Misura quindi essenzialmente « precauzionale », come ho detto sopra nel
testo, detcrminata dalla « preoccupazione » testé ricordata, anziché un
vero e proprio « diritto di assenso come
Tamassia aveva sostenuto
», il
nel suo primo lavoro. — Le quali cose mi sembrano essere sfuggite al
Ferrari, il quale nelle sue citate Ricerche sul dir. credit, in Occid..
pag. 107, n. 2, dopo di aver fatta adesione all'antica tesi Be-
del
seler, del Kaiser, del Lewis, del Miller su l'inesistenza nel regno longo-
bardo « di un vero Beìspruchsrecht
(diritto dì assenso) nel senso tecnico
della parola », ha detto che « la tesi opposta fu propugnata dal Tamassia Le :
alienaz. degli immob-, Milano, 1885, p. 151 (correggi 251) ss. ». Egli avrebbe
dovuto avvertire che sin dal 1905 il Tamassia aveva mutata la sua opinionec.
(3) Tamassia, Le alienazioni cit», pag. 255 n. 1.
(4) Tamassia, Le alienazioni cit., pag. 1.
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 283
Parimenti è ben noto che i « parenti » e «propinqui », in
tal modo intervenienti e « consenzienti erano essenzialmente
»,
quelli della « linea paterna v> [il « paternum genus », o la « pa-
terna generatio », come dicono le fonti (1) ]. Come questi soli
parenti erano quelli che costituivano il gruppo famigliare, essen-
zialmente agnatizio (2), e parimenti erano quelli a cui, con decisa
preferenza, sarebbe stata devoluta l'eredità del disponente, se egli
fosse morto intestato (3), così è naturale che fossero anche quelli
che erano richiesti del loro « consenso » alle alienazioni»
Contro talune poche superstiti tracce di un antichissimo < di-
ritto materno », e quindi di un'antichissima « parentela ma-
terna » (4), e all'infuori di talune particolari disposizioni in con-
trario, portate dall'uso o maturate nel costume (5), è il « diritto
paterno » quello che, presso le genti germaniche, assai presto e
decisamente prevale (6), e si rivela in tutto il campo del diritto
(1) « Paternum genus » è l'espressione usata, ad esempio, dalla legge
sassone, sia quando parla delia tutela della vedova che, in mancanza di
figli o di fratelli del defunto, vuol deferita al « proxinms paterni generis
consanguineus » (e. 42, nei M. G. //., Legum t. V, pag. 71); sia quando
dispone che la tutela delle figlie, che non hanno fratelli, debba essere af-
fidata al fratello del padre « vel proximo paterni generis » (e. 44, t. V cit,
pag. 72). —
« Paterna generatio » è invece l'espressione usata di prefe-
renza dalla Lex Anglorum et Werinorum, che quattro volte l'adopera sotto
il titolo De alodibus, nei capitoli 27, 28, 30, 34. (A lato di essa, una volta^
anche l'espressione « paternum genus », nel cap. 33, ma con significato evi-
dentemente identico. —
Che poi questo significato sia quello di parentela
della linea paterna, ha spiegato lucidamente il De Richthofen, editore
della legge, nell'ampia nota 44, pag. 126.
(2) Cfr. per tutta questa parte Tesauriente trattazione dello Schupfer,.
// dir. priv, dei pop. german. cit.. Il, pag. 11 ss. (l'intiero tit. Il: La famiglia
patriarcale).
(3) Anche per tutta questa parte rinvio allo Schupfer, // dir. priv^
dei pop. german. cit., IV, pag. 44 ss., specialmente alle pag. 71-78 (l'in-
tiero cap. I : // diritto dell'agnazione in generale).
(4) F. Schupfer, Il dir. priv. cit., I, pag. 21-22; II, pag. 3-11 : Le tracce
delle origini matriarcali; IV, pag. 55 sgg.: // dir. del sesso studiato
nelle leggi.
(5) Schupfer, op. cit, IV, pag. 53-55, 64-71.
F.
Schupfer, op. «Y., I, pag. 22: «... dell'antico matriarcato resta-
(6) F.
vano appena tracce: ... in fondo sono eccezioni che si possono contare
sulle dita, mentre oggimai il diritto paterno teneva il campo ».
284 BILVIO PIVANO
famigliare o « domestico », come anche si è usato chiamarlo (1) :
— coaclusioQe dei matrimoni (2), nella scelta dei « sa-
nelhi
cramentali » (3), nella tutela sopra le donne (4; e sopra i
minori (5), —
e in particolare nel diritto successorio, a cui poc'anzi
ho fatto richiamo, come il campo di indagine più prossimo
a quello stiamo parlando (6). La parentela materna
di cui
assai perde terreno, e il « diritto paterno », come ho
presto
detto, trionfa. E poiché parliamo del testamento di un' augusta
imperatrice, può non essere vano di ricordare che « forse furono
appunto le famiglie nobili a farlo trionfare, poiché una nobiltà
non si può assolutamente concepire che col dominio del diritto
paterno » (1).
E allora, tutte queste cose premesse, ritorniamo al testa-
mento vedova imperatrice Angelberga e le conseguenze
della ;
€he ne trarremo si renderanno per se stesse evidenti. L'augusta
(1) L'espressione « diritto domestico » è adoperata dallo Schupfer come
titolo di tutta la sezione 111 del voi. II del suo trattato, pag. 96-307.
(2) F. Schupfer, op. ciL, I, pag. 22.
(3) F. Schupfer, op. ciL, II, pag. 14-15. (Vedi ivi, fra l'altro, la calzante
•citazione della glossa di Carlo di Tocco, accolta da Biagio da Morcone :
< .... vide quod soli agnati rei sunt legitimi sacramentaies nominandi ipso
reo, non autem cognati sui, ut notat Karolus in d. 1. si quis guadiam » ; e
la ragione addotta, derivata ugualmente da Carlo (di Tocco): « . . parentes
ex parte matris coniuncti non sunt nominandi [prò sacramentalibus] cani
ad successionem non veniant, ut dicit Karolus d. 1. » (Biagio da Morcone,
De differentiis inter ius Langob. et ius Roman., a cura di G. Abignente,
Napoli, 1912, pag. 214, 351).
(4) Schupfer, op. cit, II, pag. 248 ss. — Vedi anche sopra pag. 283 n. 1.
(5) Schupfer, op. cit.y II, pag. 263 ss., 268: «... era il prossimo parente,
o meglio il parente maschio per parte di padre o di spada, che la eserci-
tava [la tutela sui minori], con la esclusione dei cognati » ; con gli oppor-
tuni riferimenti delle leggi dei Visigoti, dei Sassoni e dei Burgundi,
le quali, all'infuori di una riconosciuta precedenza a favore della madre
rimasta in vedovanza, deferivano la tutela dei minori al frater, al patruus,
o al pairui filius (Lex Visigoth., IV, 3, 3 ^ al fratello del padre « vel ;
proximo paterni generis » (Lex Saxonum, e. 44); o in genere al « proximus
parens » (Lex Burgund., LXXXV, 2).
(6) Vedi sopra pag. 283, n. 3.
(7) Schupfer, op. cit., I, pag. 22. Cfr. anche Tamassia. Le alienazioni
•cit, pag. 175.
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 285
donna è in Brescia, nel marzo 877, e alla presenza di una nu-
merosa accolta di illustri personaggi, vi detta la cospicua « do-
nazione per V anima », che sopra ho ricordata. Nell'inizio del
documento essa stessa ci dice di compiere Patto « una cum con-
sensu propincoruin et parentum meorum » (1). Ai piedi del do-
cumento troviamo le segnature di tre conti, che appunto « con-
fermano e consentono » a tutte le disposizioni di lei (2). Questi
tre conti dovranno dunque essere i suoi propinqui e parenti, e
più esattamente quei « propinqui et parentes », che poco prima
nel documento, essa stessa ha ricordati. Quanto al loro gra<lo di
parentela con l'augusta disponente, noi siamo in grado di esclu-
dere, con assoluta certezza, che potessero essere suoi figliuoli
(che per ]3rimi avrebbero « consentito », come chiamati per primi
alla successione), poiché Angelberga non lasciò figli maschi (3),^
ma un'unica femmina, Ermengard.i (« Hermingarda unica mea »),
espressamente ricordatu nel testamento (^4). In conseguenza, e
in conformità delle considerazioni sopra svolte, essi dovranno
essere i suoi parenti della linea paterna (la « parentela mea »
che poco prima nel testamento essa stessa ricorda) (5) e cioè ;
molto probabilmente i suoi fratelli forse anche gli zii paterni ; ;
con minore probabilità i suoi nipoti, figli di fratelli; corrispon-
dentemente all'ordine con cui queste varie categorie di persone
sarebbero state chiamate alla sua successione (6). E come fra
di essi compare e consente il conte Suppone, così si rende
evidente che la parentela paterna di Angelberga (e quindi la
sua famiglia di origine) non potè essere che la « suppònide >^
(1) Ediz. Benassi cit., pag. 148.
(2) Ediz. cit., pag. 155. — Ciascuna delle tre segnature è accompa-
gnata, come abbiamo già visto, dalla identica formola: «... qui ad omnia
suprascripta consensit et ad confirmandum manum posuit ».
(3) Secondo il Du
Bouchet, sopra citato, e il Pére Anselme, HisL
généal. et cronol. de la maison royale de France^ Paris, 1726, 3" ediz.,
p. 43, Ludovico e Angelberga ebbero anche due figli maschi, Ludovico
e Carlo, morti tuttavia in tenera età. Certo, al momento della redazione
del testamento, era viva la sola Ermengarda: (« Hermingarda unica
mea », come dice Angelberga stessa nel testamento: ediz. Renassi cit.,
pag. 151).
(4) Vedi la nota precedente.
(5) Ediz, Benassi cit., pag. 154: *... adiuro omnes principes terre istius
quicumqne fuerit de parentela mea
i et universos
(6) Vedi sopra pag. 283-4.
etc. >.
di schietta nazionalità franco-salica (1); conche cadono le sup-
posizioni del Lapòtre e del Kouiano^ che essa fosse, per nascita,
una « longobarda » (2), e cade tutto l'edificio laboriosamente
costruito dal Pochetrino, sulle basi dell' « antico spirito longo-
bardo » rivivente in Angelberga, ed ispirante, a traverso la sua
instancabile opera, la « violenta politica antipapale » del marito
imperatore (3).
Griunti al qual punto, potremmo anche sostare. L' ipotesi
formata dal Vesme, di Angelberga suppònide, riceve dall'esame
delle tre firme di « consenso » apposte al suo testamento, la
sua documentazione precisa ed è appunto quest' istituto del
;
« consenso dei parenti » —
di disputata origine, se vuoisi, e anche
di disputata natura (4), ma ben vivo ai suoi tempi (5), quello —
che permette di dare alla felice intuizione del Vesme quella base
sicura, che a traverso queste pagine siamo venuti cercando.
Senonchè il Vesme
è andato anche più in là ed ha preci- ;
sato che i tre furono non soltanto parenti, ma fratelli
conti
dell' imperatrice Angelberga. Inoltre egli si è fatto anche ca-
rico di una grave rimasta sin qui insoluta, e uscente
difficoltà,
dal testamento stesso di Angelberga e cioè quella rappresentata
;
dalla doppia sottoscrizione del conte Suppone al suo testa-
mento (6). Conviene che lo seguiamo anche su questo terreno ;
e i frutti che ne trarremo saranno, io credo, copiosi.
Incominciamo da questa difficoltà che, or ora, ho ricor-
data. In brevi termini, essa è la seguente. Esaminando le
(1) I. Malaguzzi-Valeri, / Sapponidi cit., pag. 7 ss
(2) Vedi sopra pag. 267, nn. 2, 3.
(3) Vedi sopra pag. 264 ss., 267.
(4) Vedi sopra pag. 281-82.
(5) Un esempio tipico, contemporaneo al testamento di Angelberga,
e territorialmente anche prossimo, è quello fornito dal noto testamento
del vescovo Garibaldo di Bergamo, del marzo 870 {Cod. diplom. Latigob,,
n. CCXLVI, col. 416). al quale testamento appunto consente il fratello di
Garibaldo, Auprando. (Nel corso del documento: «.... per consensum
et largietatem Auprandi dilecto germano meo... »; e fra le segnature:
< t Ego Auprand vassus domni imperatoris in hoc iudicato emisso a
Garibaldo episcopo germano meo ut supra, in omnibus consensi et
subscripsi »).
(6) Vbsmb, ms. I cit., pag. 5-10; ms. II. pag. 45-49.
IL TESTAME.XTO DI ANGELBBRGA 287
numerose sottoscrizioni apposte al testamento di Angelberga, di
subito appare che il gruppo delle segnature, a dir così, inter-
medie —fra 1 primi illustri personaggi che segnano per ragione
•dell'alto ufficio di cui sono investiti (1), e gli ultimi che segnano
nella veste dichiarata di testimoni (2), comprende non sol- —
tanto i « signa manus » dei tre conti Egifredo, Ardengo e Sup-
pone « confermanti e consenzienti », ma anche le sottoscrizioni
autografe di un secondo conte Suppone e di un Rainerio il ;
tutto disposto così come segue :
Sig. t manus Egifredi comitis qui ad omnia suprascripta
'consensit et ad contirmandum manum posuit.
Sig. t manus Ardengi comitis qui ad omnia suprascripta
«onsensit et ad conflrmandum manum posuit.
Sig. t manus Supponi comitis qui ad omnia suprascripta
•consensit et ad confirmandum manum posuit.
t Suppo Comes subscripsi.
t Ego Rainerius subscripsi (3).
Ora appunto il Yesme si è domandato, — e prima di lui si
erano già domandati l'Affò e il Malaguzzi-Yaleri si tratta : —
veramente, per la terza e la quarta segnatura, di due conti Sup-
pone contemporanei, sottoscriventi l'uno a ministero del no-
taio rogante (col « signum manus »), e l'altro di propria mano ;
oppure si tratta di un unico conte Suppone, due volte sottose-
gnato al testamento ?
L'Affò era stato di opinione che si trattasse effettivamente
di due conti Suppone, pur rilevando la difficoltà di « distinguerli
l'uno dall'altro » allo stato dei documenti (4). Il Malaguzzi- Va-
leri aveva invece preferito di accostarsi alla tesi opposta, e
cioè quella di un unico conte Suppone (5) con quale artificioso ;
(1) Sono, come abbiamo già visto (pag. 280), Tarcivescovo Ansperto
dì Milano, e i due vescovi Antonio di Brescia e Guibodo di Parma.
(2) Tre segnature sono tuttavia, a dir così, fuori di posto,
di testimoni
<ed incluse fra quelle primo gruppo; e sono le segnature dei due
del
messi imperiali, Ugo e Riccardo, e dell'arcidiacono e vicedomino Anselmo,
certo a ragione dell'alto ufficio di cui ciascuno di questi tre personaggi
è investito. Ma tutte le altre (complessivamente diciotto) vengono per
ultime, dopo il gruppo delle segnature intermedie che considero sopra nel
testo.
(3) Ediz. Benassi cit., pag. 155.
(4) Affò, Storia di Parma, I, pag. 169, nota (a).
(5) I. Malaguzzi-Valeri, / Supponidi cit., pag. 26-29.
28H SILVIO riVANO
ragionamento non è necessario (ìi ricordare (1). ]) Vesme ritorna^
alla tesi dell'Aftòed anche riesce a distinguere nettamente i
;
due conti Suppone contem])oranei, a traverso il ragionamento
che segue (2).
Di un primo conte Su{)pone sappiamo da una glossii ai —
Gesta di Berengario, e da un prezioso documento parmense edito
dall' Affò (3) che fu padre delhi regina Bertilla, moglie del
-
re Berengario I dei tre conti « tulmini di guerra » Adalgiso,
;
Vifredo e Bosoue, che la glossa dice appunto cognati del re;
e di Ardengo chierico, poi vescovo di Brescia (4). Di un altro^ —
conte, e anzi marchese Suppone sap))iamo che fu padre di
Unroco, quegli che nell'890 ebbe confermate da Berengario le due
corti di Felina e Malliaco, già donate nell'870, da Ludovico II,
al suo genitore (5). Ne è possibile di fondere in uno i due Sup-
(1) Essenzialmente il Malaguzzì era mosso dall'osservazione che il te-
stamento di Angelberga, datato in Brescia « mense marcio » e così senza
indicazione non aveva dovuto essere « scritto e completato
di giorno),
una stessa giornata; poiché in questo caso il notaio non
delle firme in
avrebbe mancato di segnare anche il dì della celebrazione ». Scritto in
conseguenza, e poi completato delle firme in giorni diversi, aveva potuto
il compiendo
notaio, la documentazione, « scrivere egli il signum manus
di Suppone II, anche se in quel momento questi era assente o comunque
impedito ». Suppone in seguito avrebbe firmato : né avrebbe commesso
« un'illegalità o un'assoluta superfluità » aggiungendo in tal modo ai-
Tatto la propria firma autografa. Ma contro questa, che il Malaguzzi
stesso ha definita « una congettura e non altro » {op. cit.^ pag. 29), sta
ora, oltre ad altre ovvie ragioni, la netta distinzione che il Vesme ha fatta dei
due conti Suppone contemporanei, di cui rendo conto, sopra, nel testo.
(2) B. DI Vesme, ms. L cit., pag. 5-10, 27-29; ms. II cit., pag. 45-49,
55-58, 65-67. d due mss. del Vesme non hanno carattere definitivo, e
presentano frequenti cancellature, sostituzioni e richiami. Tuttavia, il pen-
siero di lui è facilmente afferrabile a traverso le pagine citate).
i^) Gesta Berengarii imperatoris, ed. Dììmmler, Halle, 1871, pag. 101,
lib. II, versi 77-80; Affò, Storia di Parma, I, doc n. LII, p. 333. Le due —
fonti sono acutamente utilizzate dal Malaguzzi- Valeri, / Supponidi
state
cit., pag. 14-16, allo scopo appunto di stabilire la discendenza di Suppone.
(4) I. Malaguzzi-Valeri, / Supponidi cit., pag. 14-18.
(5) L. Schiaparelli, / diplomi di Berengario /, n. Vili, pag. 34 « ... Unroch :
consanguineus noster filius quondam Supponis incliti marchionis... ostendit
nobis precepta... in quibus continebatur quod iam fatus Hludovuicus ìmpe-
rator concesserat praenominato Supponi marchioni patri eiusdem Hunroch
etc ». Questo precedente diploma di Ludovico a Suppone in. Affò, Storia
di Parma cit., I, pag. 287 {Mùhlbacher, Reg. cit., 2'' ediz., n. 1243).
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 289
pone (come ha fatto il Malaguzzi), e fare quindi di Unroco un
fratello della regina Bertilla, dei tre conti Adalgiso, Vifredo e
Bosone, e di Ardengo vescovo di Brescia (1). I tre conti, difatti,
dalla ricordata glossa ai Gesta di Berengario, chiaramente risul-
tano « cognati » del re « quia soror eorum (Bertilla) coniux
:
regis erat » (2). Nel diploma invece dell'890 Unroco è detto,
non cognato, ma consanguineo di Berengario: «... Unroch cou'
sanguineiis noster » (3). Ora per quanto si voglia essere larghi
nell'interpreta:àone dei termini medioevali, questa larghezza non
potrà tuttavia giungere mai tant'oltre che « consanguineo > possa
farsi valere quanto « cognato » e in conseguenza Unroco non
;
potrà mai essere ritenuto fratello desi tre conti, cognati del re,
che sopra ho ricordati. —
L' argomento è irrefutabile. Il Vesme
del resto, preceduto da una sagace supposizione del Muratori (4),
ha descritto in un'apposita tavola il quadro genealogico della
« consanguineità » fra Berengario e Unroco, il che tronca ogni
dubbio (5).
(1) Malaguzzi-Valeri, / Supponidi cit,, pag. 30.
(2) Gesta Berengarii cit., pag. 101, glossa al verso 79.
(3) Vedi sopra pag. 288, n. 5.
(4) Acutamente il Muratori nella dissertazione VP {Antìquitates, 1,
col. 284 in fine) ha supposto che Suppone, marchese di Spoleto, avesse
sposata una figlia di Unroco, duca del Friuli, e di qui fossero appunto
provenuti e il nome stesso di Unroco, dato al figlio di lui (nome dell'avo
materno), e la ricordata « consanguineità » di quest'ultimo con Berengario:
«... Mihi potius creditur iuncta fuisse Supponi marchioni, patri Hunrochì
huius (e cioè dell'Unroco del diploma dell'890), filia Unrochi ducìs seu
marchionis Foroiuliensis... In Unrocho, Supponi filio, prò more familiarij
etiam temporibus recreatum videtur nomen avi materni >.
(5) Vesme, ms. II cit., pag. 70. Il quadro della consanguineità, limi-
tato ai soli personaggi che c'interessano, e in tutto corrispondente al-
l'ipotesi del Muratori (vedi nota precedente), è il seguente :
Unroco
duca del Friuli
I
J ,
EvERARDO, duca del Friuli figlia N. N., sposa di Suppone
marito di Gisla f di Ludov. il Pio conte e marchese di Spoleto
I I
Berengario I Unroco conte
re d'Italia destinatario del diploma di Beren-
gario I del 12 maggio 890
-290 SILVIO PrVANO
E allora, 8e Unroco e i tre conti « fulmini di guerra » non
furono dovettero necessariamente essere i loro
fratelli, diversi
genitori, quantunque aventi il medesimo nome: Suppone; donde
la dimostrazione della esistenza dei due conti Supfmrie con-
temporanei, cosi come il Vesme aveva proposto.
Superata questa prima difficoltà, le ulteriori deduzioni, cbe
sempre su le orme del Vesme si possono trarre, sono le se-
guenti. Se due sono i conti Suppone che sottoseguano; se il primo
di essi, per le ragioni genealogiche e politiche addotte dal Ve-
sme, è il « fratello » dell' imperatrice Angelberga (1), l'altro,
il secondo, dovrà essere, con ogni verosimiglianza, il « cugino »
di lei, e cioè quel conte Suppone, che sappiamo inviato da Ludo-
vico II a (Costantinopoli per un certo disegno di nozze fra le due
case imperiali (2), e che trovammo già precisamente detto « cu-
gino (consohrinus) » di Angelberga negli atti della X^ sessione <)el
IV Concilio costantinopolitano (3).
Orbene, anche questo risultato perfettamente si inquadra
entro le linee del ricordato istituto dell' « assenso dei parenti »,
in confronto del quale appunto sappiamo che per primi sottose-
gnavano e consentivano i parenti più prossimi del disponente,
e poi man mano i piìi lontani (4) in esatta corrispondenza
;
con quella speciale fisonomia o ragion d'essere dell'istituto, che
abbiamo sopra rapidamente tracciata (5).
Sempre su questa via, io vorrei anzi avanzare un'ipotesi, di
carattere essenzialmente filologico; ed è la seguente. Angelberga
ci dice, nell'inizio del documento, di compiere l'atto col consenso
dei suoi propinqui e parenti « una cum consensu propincorum-
:
et parentum meorum » (6). E certamente non si può discono-
(1) Vedi sopra pag. 274-75.
(2) Rer. Hai. Script, III, parte I, col. 266; Lapòtre, Europe et le U
Saint-Siège cit., pag. 222-23; Malaguzzi-Valeri, / Supponidi cìt, pag. 11.
Vedi sopra pag. 273 n. 2.
(3)
(4)vedano gli esempi addotti dal Tamassia, e sopra ricordati alla
Si
pag. 282, n. 3. (Ad es. in Troia, Cod. dipi, long., n. DCCXXXI, a. 759,
prima consentono i due figli, poi due generi nei Mon. fiist. Patriae,
i ;
Cod. diplom. Langob., n. DCV, a. 954, prima consente il fratello, poi
iil nipote, ecc.).
(5) Vedi sopra pag. 280 ss.
(6) Vedi sopra pag. 272, n. 1.
IL TESTAMENTO DI ANGELBERGA 291
scere che queste due voci (« propinqui » e « parentes ») siano
generalmente usate come sinonime nei documenti. Basta qua-
lunque lessico ad attestarlo. Tuttavia, nel caso concreto, dove
esse compaiono unite, è ben possibile che il notaio abbia voluto
conferire a ciascuna un significato proprio e particolare e la ;
voce « propinqui » definisca gli appartenenti a quel più ristretto
gruppo domestico, che comprende il padre, la madre ed i figli
(fratelli e sorelle),e cioè i membri della « famiglia » nel senso
pili comune questa parola e la voce « parenti » definisca
di ;
invece gli appartenenti a quel più ampio gruppo gentilizio, che
è tenuto insieme dalla discendenza da un comune antenato,
esclusi, per contrapposizione, i « propinqui »: proprio il signi-
ficato che la voce « parenti » ha anche attualmente (1).
E allora, se così è, ed io penso che sia così realmente, si
avrebbe una ulteriore riprova della tesi del Yesme. Siccome An-
gelberga non aveva figli maschi (2), la voce « propinqui » usata
per prima da lei, non potrebbe riferirsi che ai suoi « fratelli »,
e precisamente ai tre conti Egifredo, Ardengo e Suppone. Quegli
altri due, invece, che pure sottosegnano (e cioè il secondo conte
Suppone e Eainerio), e formano anch'essi parte di quel gruppo
di segnature intermedie che ho ricordato (3), sarebbero i « pa-
renti » di lei, e possiamo aggiungere, con ogni probabilità,
i suoi « cugini », come con sicurezza sappiamo per uno di essi,
e cioè per il secondo conte Suppone (4). Con che anche meglio
si intende il perchè quei tre primi - a cui sarebbe spettata la
successione di Angelberga, se essa fosse morta intestata - sotto-
segnino con le più ampie formole di consenso e di conferma,
uguali tuttavia per ciascuno di essi; e gli ultimi due sempli-
cemente sottosegnino l'atto che è stato compiuto in loro pre-
senza.
(1) La distinzione fra queste due cerchie di parentele, e cioè quella
più ristretta della famiglia, « o se più vuoisi la comunione domestica »,
e quella più larga della gente, è acutamente dallo Schupfer,
stata fatta
// dir. privato cit., I, 2" ediz., pag. 25 ed anzi posta a base di tutta la sua
;
trattazione del diritto ereditario {op. cit., IV, pag. 72-83). Io l'accolgo sopra
nel testo; e affaccio appunto l'ipotesi che alla prima cerchia corrisponda,
nel testamento di Angelberga, la voce < propinqui >. e alla seconda
invece la voce « parentes ».
(2) Vedi sopra •pag. 285, n. 3.
(3) Vedi sopra pag. 287.
(4) Vedi sopra pag. 290. n. 3.
292 SILTIO PIVaNO
* 4t
Due ultime osservazioni, ed ho finito. La prima riguarda la
genealogia supponide, ed è la seguente. Un cónte Suppone sarebbe
dunque fratello di Angelberga l'altro cugino di lei. 1 due conti
;
sarebbero quindi cugini fra di loro; e s'intende « cugini ger-
mani », non tanto per la voce « consohrinus », usata dagli atti
del IV Concilio costantinopolitano (1), quanto per le osservazioni
che sopra ho fatte in confronto di Angelberga e di Suppone (2).
11 che vuol dire che essi dovevano provenire da padri fratelli
[secondo il Vesnie dai due conti Adalgiso e ^Jauringo (3)], che
:
la ragione dei nomi lascia supporre figli entrambi del primo
e noto conte Suppone (4).
L'altra osservazione riguarda il Gabotto. Ho già ricordata
la tavola genealogica pubblicata da lui, intorno ai Suppònidi,
come risultato degli studi comuni, suoi e del Vesme, intorno a
questa illustre famiglia (5). Senonchè il Gabotto, in questa sua
tavola, non solo ha sdoppiata la figura del conte Suppone, tenuta
unita dal Malaguzzi- Valeri (6) ma ha supposto l'esistenza di
;
tre conti Suppone contemporanei e cugini germani nati quindi
da tre tìgli del primo conte Suppone) e Angelberga ha collocato ;
nel ramo terzogenito della famiglia, e cioè in quello che, a suo
credere, avrebbe avuto vica da un conte-duca Adalberto, e dopo
la morte di Mauringo avrebbe tenuta Spoleto (7). Non conosco
(1) Vedi sopra pag. 273, n. 2. - La voce « consobrìnus », da sola, non
basterebbe, a cagione del suo indeterminato valore. (Vedi per tutti E. Tap-
POLET, Die romanischen Verwandtschaftsnamen, Strassburg, 1895, pag. 115).
Noto tuttavia che anche lo Schupfer, parlando del computo dei gradi di
parentela nel diritto longobardo, ha tradotto « consobrini » per « cugini
germani ». il quale significato, nelle fonti giuridiche di questo periodo,
appare certo prevalente (F. Schupfer, op. cit., I, 2" ediz., pag. 24).
(2) Vedi sopra pag. 283-84.
(3) B. DI Vesme, ms. II cit., pag. 79-85.
(4)Per questa ulteriore supposizione occorre però ritenere che i due
conti Suppone fossero figli primogeniti di Adalgiso e Mauringo poiché :
soltanto in questo caso, secondo le leggi onomastiche proposte dal Vesme
(vedi sopra pag. 274 n. 4), essi avrebbero ripetuto il nome AtW avo paterno.
(5) Vedi sopra pag. 269 n. 4.
•
(6) Vedi sopra pag. 287, n. 5.
(7) Bollett. stor. bìbliogr. subalp. cit., XX, pag. 245-46, nella nota.
k
IL TESTAMENTO DI ANGELBEBGA. 293
•con precisione i documenti su cui il Grabotto ha potuto fondare
la sua opinione. Quelli a cui si potrebbe pensare, argomentando
da un ramo particolare dell' albero genealogico costruito da
lui (1), non mi sembrano sufficienti al bisogno. Ne rinvio la di-
mostrazione alla nota (2). Allo stato delle nostre conoscenze,
quella che si presenta attendibile è soltanto Pipotesi del Vesme,
>che si appoggia su tutti i documenti suppònidi che conosciamo,
che tesaurizza i precedenti risultati del Muratori e del Mala-
guzzi- Valeri, e a cui danno conforto le osservazioni storico-giu-
ridiche che sopra ho affacciate (3).
In ogni modo, e al disopra di tutte queste ed altre questioni,
che si potrebbero, volendo, proporre, una cosa è ben certa e :
cioè che Angelberga fu una suppònide (e quindi una franco
salica). Altrimenti, nel marzo 877, il conte Suppone non avrebbe
« consentito » in Brescia al suo « testamento ».
Silvio Pivano.
Do qui volontieri, a complemento delle cose dette, il quadro della
genealogia suppònide, quale risulta dai manoscritti del Vesme, che ho
«opra citati (specialmente dal ms. II, pag, 79-85), sfrondandolo tuttavia di
(1) 11 Gabotto fa discendere, dal ricordato Adalberto, Egifredo; da
Egifredo un primo conte Aimerico da questo primo Aimerico un secondo,
; e
che sarebbe il « gloriosus marchio de civitate Mantua» del 18 luglio 948
(Muratori, Antiqaitates, II, 173;. Ora effettivamente questo Aimerico, in
un documento del SU gennaio 954 {Cod. dipi. Padov., n. 42, pag. 61), ri-
corda un duca Adalberto come suo bisavo : « ... Adalberti ducis bisavi mei ».
Ma è qui tutto. Vedi del resto la nota seguente.
(2) Della genealogia tracciata dal Gabotto, e richiamata nella nota
precedente, appaiono difatti arbitrari due anelli il congiungimento di :
Aimerico ad Adalberto, a traverso Egifredo, e la discendenza di Adalberto
da Suppone. Ma i due documenti avanti citati (vedi nota preced.),
non contengono nulla al riguardo; e l'appartenenza di Adalberto e di
Aimerico ai Suppònidi non è dimostrata. (Per l'incertezza intorno alla
loro famiglia cfr. anche Hofmeister, Markgrafen und Markgrafsch. cit,
pag. 262). La qual cosa dovette apparire evidente, prima che ad ogni
altro, anche al Vesme, il quale dopo dì aver tracciato anch'egli, nella
sua tavola suppònide, i primi gradi della discendenza di Adalberto,
{supposto figlio di Suppone li, in base ai documenti ora accennati, can-
cellò poi tutto nel ms.. certo perchè ne vide troppo manchevole la do-
cumentazione.
(3) Vedi sopra pag. 277 ss., 284-86.
204 BJLVIO inVANO
alcuni rami che mi sembrano meno
modificando ove d'uopo, per
sicuri, e
taluni personaggi, le informazioni date da
11 lettore benevolo, che lui.
ha seguito queste mie pagine, s'accorgerà facilmente che il ramo primo-
genito (Suppone - Mauringo - Suppone 11 - Unroco) è quello che fu
I
già acutamente tracciato dal Muratori {A ntiq aitate s cit., 1, col 281-84). Del
ramo secondogenito, la discendenza del conte Suppone 111 è parimenti
quella che fu già descritta dal Malaguzzi-Valeri (/ Supponidi cit., pag.
15-19). Merito del Vesme è di avere sdoppiata in due personaggi di-
stinti la figura, prima ritenuta unica, del conte e marchese Suppone
(vedi sopra pag. 287-90), e di aver rannodato il ramo secondogenito
della famiglia al suo capostipite per il tramite di Adalgiso.
Le quali cose premesse, ecco la tavola:
Suppone I
conte palatino (814) conte di Brescia (817-22)
duca di Spoleto (822-24)
Mauringo Adalgiso
conte di Brescia (822-24) conte di Parma (835-84)
duca di Spoleto (824) duca del ducato lombardo emiliano (*)
Suppone (li) Angele ERG Suppone (III) Egifredo Ardengo
cugino di Angelberga imperatrice co. di Parma * co. di Brescia co. di...
arcimin. di Ludov. II
duca di Spoleto (871-76) consentono in Brescia al testamento
di Angelberga
(marzo 877)
Unroco
destinatario del dipi, di Berengario I
(12 maggio 890)
Bertilla Adalgiso Vifredo BOSONE Ardengo
moglie di Bereng. conte di Parma co. di Piacenza CO. di vesc. di Brescii
tria lulmina belli Subponide
dei Gesta di Berengario
(*) Intorno ad Adalgiso e intorno a Suppone III, cfr. il mio scritto citato : // comitato
di Parma e la marca lombardo-emiliana, neir " Arch. stor. per le province parmensi „ ,
XXII, 1922, pag. 11 ss.
La genesi
delle " Honorantie civitatis Papié „
|l documento, di cui riprendo qui lo studio, solo in
questi ultimi anni è stato rivendicato dalla immeritata
trascuranza che ha per secoli subita.
Prima del secolo decimosesto nessuna traccia
si trova di sua conoscenza nella seconda metà del cinquecenta
:
un celebre giureconsulto pavese (1), che accanto al diritto non
sdegnava, con spirito umanistico, lo studio della storia, ne al-
legava qualche brano. Segue ancora un secolo di silenzio ; e
alla fine del Langohar-
seicento col titolo di Institufa regalia
dorum nuovamente lo ricorda, senza precisarne la data e l'au-
tore nella sua Flavia Papia padre Romualdo Ghisoni (2). Quel
tanto ch'ei ne disse bastò perchè, dopo un'altro silenzio bise-
colare, il Robolini (3) si ritenesse autorizzato ad affermarlo an-
teriore al secolo dodicesimo Il diligente storico pavese che pur
!
sapeva di un'antica raccolta di codici d'indole storica, che in
potere del conte Luigi dal Verme di Piacenza, doveva contenerne
copia, non la potè direttamente esaminare, ma le sue indicazioni
dovevano riuscire preziose a piti recenti e fortunati indagatori.-
Isella libreria del generale Luchino Dal Verme il Moiraghi (4)
(1) Cfr. Alexander Rhaudensis, Be Analoyis, univocis et aequi-
vocis, Venezia, 1585, sub voce Gymnanium Ticinense.
(2) R. Ghisoni, Flavia Papia sacra, Ticini 1699, parte I, pagg. 28,
32, 87. I passi riferiti dal Ghisoni corrispondono al testo ora edito.
(3) Robolini, Notizie mila storia di Pavia, toI. II, pag. 200. Giu-
dicava che il documento non può essere più antico del sec. XII per il
vocabolo mansionarii adoperato per cappellani: Invece devono inten-
derei per hostiarii.
(4) P. MoiRAtìHi, Curiosità pavesi. Pavia, 1896, pag. 124.
L
290 FRANCESCO LANDOONA
trovò iufiitti uel 1890 la iniscellauea da lui segnalata : e di lì
fu tratta la edizione inserita nella seconda ristampa degli studi
del Vidari sull'agro pavese (1).
Il documento, se ne togli qualche breve cenno incidentale da
parte di storici locali (2), restò tuttavia quasi inosservato (3).
Opportunamente il Soriga (4) ne rinfrescò la conoscenza ripub-
blicandolo nel Bullettino della Società storica pavese: e questa
volta trovò finalmente la considerazione di cui era degno ! Il
Solmi (5) non solo fu tratto a curarne una nuova edizione sul
manoscritto piacentino rintracciato presso il conte ing. Luigi dal
Verme, ma pel primo rivelò la importanza veramente eccezionale
cbe il documento offre per la storia non pur di Pavia ma del
regno italico. Esso è veramente un faro luminoso fra le tenebre
che avvolsero fin qui la storia della capitale del regno insperata ;
luce ne deriva su l'ordinamento fiscale del regno in genere e in
ispecie sui redditi del p a 1 a t i u m ticinese (6).
Il Solmi è la guida preziosa che mi ha avviato verso le
ricerche, con le quali vorrei, per quanto mi è possibile, ripren-
dere in esame taluna delle questioni che egli ha già proposte,
e discutere qualche punto ch'egli ha sin qui, certo di proposito,
lasciato nell'ombra.
§2. — Completando la succinta descrizione già data dal
(1) C. ViDARi, Frammenti cronistorici dell'agro ticinese^ 2^ ed , Pavia,
1891, tomo II, pag. 318 a 328 e 399 e sgg.
(2) Cfr. R. Maiocchi e F. Quiktavalle, Liher de ìaudibus cìvitatis
Papié, Anonymi Ticinensis, in Muratori - Fiorini, Script. 2, 1903, p. 10,
n. 85 G. Romano, in Boll, pavese di Storia Patria, 1904, pag. 126;
1910, pag. 126; U. MoNNERET de Villard, in Ardi. Storico Lomh.,
1919, fase. V. p. 77 e 6«egg. ; P. Ciapessoni, nel Boll. stor. pavese a pro-
posito dei magistri monete papié, Anno 1907, pag. 172.
PoTTHAST, Bibliotheca historica M. Aevi, 2^ ediz., Berlin,
(3) Cfr.
1896; Chevalier, Bépertoire, Paris 1905.
(4) R. SÒRiGA, Per una nuova edizione delle « Honorantie cìvitatis
Papié », in Boll, pavese di Storia Patria, XIY, 1914, pag. 90 sgg.
(5) A. Solmi, Il testo delle « Honorantie cìvitatis Papié » in Arch.
Storico Lomh., fase. Ili, Ann. XLVII, pp. 177-192.
(6) Cfr. G. Romano, Pavia nella storia della navigazione fluviale,
in Boll. Pavese di Storia Patria, 1911, pag. 315; A. Solmi, Pavia e le
assemblee del regno nelVetà feudale, Pavia, 1914, pag. 7.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 297
Boni e dal Maiocchi (1) il Solmi accerta che il manoscritto; il
^uale nelle sue frequenti scorrezioni si palesa come copia non
tanto accurata di un manoscritto piti antico, rimonta al secolo
decimoquinto a quel secolo risalgono anche certe aggiunte fatte
:
nei fogli rimasti in bianco al tempo in cui le Honorantie Papié!
erano state trascritte. Da questa osservazione di carattere estrin-
seco trasse che il manoscritto, per riuscire di così diflBcile lettura,
doveva essere di qualche secolo anteriore alla trascrizione. Ma
il Solmi è andato più in là. Mentre il Soriga dall'esame del do-
cumento aveva creduto di avere innanzi, salvo poche modifìca-
aioni ed aggiunte di copisti posteriori, il testo genuino di un'o-
peretta che, indice d'una nuova coscienza civile nascente, si
proponeva l'esaltazione delle glorie pavesi, il Solmi ha pensato
che la forma attuale del libello presupponga una rielaborazione
vera e propria di uno scritto piti antico: il testo delle Hono-
rantie risulterebbe costituito da due strati aventi diversa
origine e diverso intendimento. 11 piìi antico enumerava con
scopi pratici i diritti della camera regia di Pavia il se- ;
condo, di più recente composizione, accolse in sé il primo ag-
giungendovi un proemio ed una chiusa allo scopo di esal-
tare i fasti omai tramontati della patria. Il primo sarebbe stato
redatto verso il 1020 il secondo da un anonimo scrittore della
;
seconda metà del secolo decimoquarto.
La questione concernente la data dell'ultimo rifacimento ha
l)er me importanza minore che non la questione della data, cui
può risalire lo scritto che al Solmi è apparso primigenio ma :
anche rispetto alla prima avrei qualche osservazione da fare.
Pel Solmi il libello riformato del secolo decimoquarto dovrebbe
ritenersi posteriore al De laudibus civitatis ticinensis. Nessun
riscontro letterale esiste per altro fra il testo attuale delle
Honorantie e le Laudes civitatis ticinensis:
ne certo potrebbe in base a siffatti riscontri dimostrare che
si
l'autore di queste abbia a quelle attinto. Le note su
anonimo
cui i recenti editori delle Honorantie hanno richiamata l'at-
tenzione non esplicano il secondo testo, ma vi fanno delle ag-
giunte Non pare che l'accenno ai giuristi pavesi s e i e n t i e
!
iuris secundum litteram et non secundum vir-
tutem et opera tionem expertes, sia un' ironica ec-
, (1) G. Boni e R. Maiocchi, Il Catalogo Kodolbaldiano dei Corpi
Hanti di Pavia, Pavia, 1901, pagg. 7 a 10.
*
Arch. Star. Lomb. Anno XLIX, Fase. III-IV 20
298 i^JÌAUCESca LANDOONA
ceziooe al Paseerto apparente delle Honorantie die i giudici'
di Pavia fossero maiores magisqui honorati!
D^altra parte se le L a u d e s e i v t a t i s t i e i n e n s i s-
i
ignoravano le Honorantie non può certo dirsi che debbano
per quella sola ragione essere posteriori. Non vi è, in fondo, di
comune che l'intenzione di magnificare Pavia e i suoi titoli di
nobiltà :ma a questo patrio orgoglio sarebbe ben difficile di
fissare dei limiti cronologici precisi! Nell'uno e nell'altro testo
vi è una enumerazione di chiese e i numeri dati dall' uno si
approssimano a quelli dati dall'altro. Si badi però. Le Laude s
civitàtis ticinensis enumerano cen totrenta chiese :
le Honorantie centoventisette. L'autore di queste
non avrebbe certo fatte delle riduzioni se avesse avuto sott'oc-
cbio quella più completa enumerazione Le Honorantie !
sono certo più antiche.
Se mi è parso di dover sollevare qualche dubbio sulla prio-
rità del De laudibus civitàtis ticinensis, debbo
d'altra parte confessare che fece a me
pure impressione l'ac-
cenno allo s t u d i u m generale di Pavia che si legge nel
proemiò. La designazione di generale non parrebbe essere
stata usata con senso tecnico prima del secolo decimoterzo e :
d'altra parte si crede che lo studio generale sia stato instituito
in Pavia solo sotto Galeazzo II Visconti intorno al 1362. I do-
cumenti non parlano però di una instituzione, ma di una instau-
rano: e l'Azario afferma esservi stati già prima studia in
Pavia certe de iure bene stat. Sotto il Visconti lo studio
pavese potrebbe esser diventato generale nel senso che vi si
insegnarono tutte le discipline. Limitato a qualche disciplina
avrebbe però potuto essere generale anche prima nel senso
che fosse aperto con effetti legali a tutti i sudditi dell'impero..
Né è da escludere, per ragioni che vedremo meglio più tardi,
che la designazione di generale sia interpolatizia di fronte
ad un testo più antico. Non crederei per essa rigorosamente ac-
certato che l'elogio dei fasti pavesi debba essere posteriore al 1362.
§ 3. — Non solo gli instituta regum Langobar-
dorum, ole honorancie palacii,dalui erroneamente
presentate come honorantie urbis ticinensis lo scrit-
tore trecentista si proponeva di chiarire, ma anche i r e g i i
fastes, che avrebbe voluto scolpire a perenne memoria in
bianco e saldo marmo. Scriveva certamente in quei tempi in cui
imarmi ricordati dalle Làudes urbis ticinensis chiamavan Pavia
una seconda Boma !
LA OENKSI DELLE « HONORANTIE CltlTATIS PAPIÉ » 29&
Ma Liutprando aveva da
tre secoli segnata la via
gli Nes^ !
SUDO ha fin proemio è nella sua prima parte
qui osservato che il
ricalcato su VAntapodosis III. I., dove appunto leggiamo:
« missus equidem (beatus Syrus) predicationis gratia a
beato Herm agora evangelista Marci discipulo Papiam beatis-
simus pater huiusmodi cum propheciae spiritu, praesagio ho-
noravit ;
Dilectiire gaudiis, urbs Papiae, quia veniet tibi ab externis^
montibus esultati©. Non vocaberis minima sed prior in tinitimis
civitatibus ».
Per la prima volta però la dignità di Pavia fu <ìal trecen-
tista messa a riscontro con quella di Koma, a questa ricono-
scendosi come solo titolo di superiorità il possedere il corpo dei
due apostoli.
In questa opinione, qualora si volesse attribuire alPelogiasta
trecentista l'aggiunta finale al catalogo dei re, ci potrebbe con-
fermare la notizia intorno agli elettori dell'imperatore. Esso
presenta uno stadio che appare posteriore alla redazione dello
specchio sassone, il quale accanto ai tre arcivescovi di Magonza^
Treviri e Colonia ricordava come elettori il conte palatino del
Eeno^ il duca di Sassonia, il marchese di Brandeburgo, perchè
vi comprende anche il re di Boemia. Appunto dal 1257 in poi
gli elettori appaiono sette. Ma non risulta d' altra parte la
conoscenza delle costituzioni che regolano l' elezione imperiale
nel secolo decimoquarto.
§ 4. — Il Solmi, convinto che nella forma attuale il docu-
mento non vada oltre il sec. XIV, dopo aver attribuito all'elo-
giatore trecentista il proemio fino alle parole sancii sunt (vi
sarebbe pure il § 1° fino a instituta fuere) gli attribuisce anche
la chiusa : « Ista omnia ministeria honorabilia et alia plura (?)
decet esse in papia, cum dei misericordia et sancte Marie et
sancti Syri, qui mittit (reges) cum episcopis suis in Bomam, ut
de manu pape deberent recipere unctionem et benedictionem et
consecrationem sicut in Eoma est apostolus, qui mortuos su-
;
sci tavit, ita in Papia est sanctus Syrus qui tres mortuos susci-
tavit et cecum illuminavit, quod numquam audivimus quod
aliquis de apostoli s fecisset, et alia pulcra mirabilia miracnla
fecit. In Roma est unus de sanctis quatuor doctoribus sanctus
Gregorius. In Papia est alius doctor sanctus Augustinus. Bciam
dei misericordia Episcopus fuit de papia qui fuit àpostolicus
sancti Petri in Roma qui Petrus nomine vocabatur. O gloriosa
urbs Papia, centum viginti septem ecclesiis et sedecim mona-
:KM) FRANCESCO LANDOONA
steriis doctata, que suut uocte et die bene vigillata, et ad
domiuiiin deprecata, ut semper sis salva, masculia et feminis cuiii
que in te sunt et cum bestiis et omni substantia ».
Anche questa rientra perfettamente nel campo di quella
letteratura encomiastica, che attestava, in sullo scorcio del
Medio Evo, il rifiorire delle tradizioni patriottiche nei nostri
maggiori comuni !
§ 5. - Io non escluderei che il trecentista possa aver anche
messa leggermente la mano nel contesto del documento.
Lo stesso gusto che si rivela nel proemio e specialmente
dove dice «Ex omnibus civitatibus Italie extiterunt epi-
:
scopi papié » e «Ex
omnibus ordinariis ecclesie
sancti Syri, ex omnibus clericis, qui fuerunt huius civitatis Tici-
nensis, plures, divina gracia et misericordia, sancti ffacti) sunt »,.
si rivela attraverso Pabuso dell'aggettivo o m n i s in altri pa- ,
ragrafi, come era da dubitare che dalla stessa mano derivino lo
omnes e lo omnibus del § 8; lo omnes del § 10; lo
ex omnibus bonis del § 12.
Dubito anche che si debbano mettere a carico suo gli ag-
gettivi destinati a magnificare i vari elementi pavesi o in rela-
zione con Pavia ; nel § 5 divites ; nel § 7 magni et onorahiles et
multum divites; nel § 8 nohiles et divites; nel § 9 nohiles et di-
vites; nel § 11 ex omnibus bonis; nel § 12 maiores ; nel § 15 que
sunt divites.
§ 6. — Ma egli non ha certo inteso di modificare radical-
mente il testo. Si vede ancora com' egli abbia attinto ad una
precedente scrittura che gli dava qualche impaccio nella deci-
frazione.
Specialmente è caratteristico ch'egli ha reso per Papia la
sigla pa che significa palatium. Così si ha nel § 7 un negocia-
torum papié per negociatorum ^a(latii) nel § 8 monete Papié per ;
monete pa(ì'dtn) nel § 14 facere debent in Papia per in palatio
;
;
nel § 17 negociatores papienses per palatii', nel § 13 Camerarii
papié per Camerarii palata,
§ 7. —
Più mi premono le questioni cui può dar luogo quello
che secondo il Solmi fu il nucleo primigenio dello scrittore tre-
centesco. Prendo anche qui le mosse da una sua osservazione in-
cidentale i dati che esso offre non corrispondono in tutto alle
:
condizioni in cui il palazzo pavese si trova all'aprirsi del secolo
undecimo. Ma il Solmi attribuisce queste divergenze al carattere
tendenzioso dello scritto io mi domando invece se quella non.
:
corrispondenza non possa meglip esplicarsi supponendo che
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 301
l'anonimo scrittore del terzo decennio del secolo decimo primo,
che si proponeva di elencare a scopi pratici i diritti della camera
regia di Pavia nello interesse di un nuovo indirizzo di governo,
non abbia attinto a sua volta a documenti piìi antichi. Donde
trasse la notizia di quelle honorantie che il trecentista in-
terpretò come testimonianze di onore, prendendone lo spunto
per il suo elogio, mentre indicavano feudalmente le prestazioni
dovute al palazzo?
Due ipotesi sono anche qui ammissibili ch'egli abbia at- :
tinto a documenti di diversa data ed indole [cotisUtutiones, prae-
eepta ecc.), ovvero che egli abbia già trovato innanzi a sé un
memoratorium complessivo, redatto magari in base ad una
i n q u i s i t i o sulle ragioni di palazzo.
Qualche elemento a favore della prima tesi non manca.
Un'opera di getto avrebbe usato per lo stesso ufficio la medesima
designazione si noti invece come, laddove di m a g i s t e r e a -
:
m e r a e di cui si parla nei §§ 3, 4, 5, 8, 9, 11, 15, 16, 18, si
parli di camerarius nei §§ 6, 10, 13, 14 (1).
Tal volta ci sentiamo poi quasi posti di fronte ad un docu-
mento dall'accenno a speciale clausola di esso, p. es. alla sua
corroborai io.
§ 8. — Non sarebbe
però facile il ricostruire nettamente le
linee dei singoli documenti, cui l'anonimo collettore del secolo
decimoprimo ha potuto ricorrere.
Se i §§ 7, 14, 17, 19, concernenti le vere honorantie
dovute dai ministeria pavesi potrebbero derivare da un
solo atto, non si riuscirebbe invece a ricondurre a un sol pre-
(1) Doppio sigDÌficato ha anche la parola mÌDÌstralis. Nel §3
parrebbe indicare gli agenti del camerarius o del magieter ca-
mere: i doganieri, cioè i ministri r e p iLbb li e ae . (Dipi. 0. I.
100 e 356) che sono poi tntt'uno con gli exactores (Stengel, Diplo-
maiik der deutschen Tmrnunitatsprivilegien vom 9 bis zum Ende des 11
Jahrhunderts Innsbruck 1910, 447) o con i reipnblicae admini-
stratores (Dipi. 0.1. 255), coi publici fisci iuris exactores, coi pu-
blici fisci exacteres, colle regiae exactionis persone, coi minìsteriales
(Dip. O.III. 21), colle persone rainistratorie maìores vel minores. Al-
trove ministri sono gli esercenti delle singole industrie. Così doppio
significato ha la parola mngister^ che alle volte indica il capo della
corporazione, alle volte il solo operaio provetto, il senior di front©
allo iunior.
302 FRANCESCO LANDOaNA
cetto i §§ i-6 coucenienti i r e d d i t u s e a in e r a e ; e da altro
documento parrebbero attinti i §§ 15 e 10.
Le «liffereuze stilistiche non sono spiccate, forse anche perchè
sia pur lievemente, colui che uni in un solo m e m o r a t o r u in i
i diversi elementi li adattò al ])roprio stile come indica per
esempio, il caratteristico uso di n ego t i u in « per merce » (1).
Un solo indizio potrebbe sembrare offerto dal documento;
ma forse è troppo tenue per potervi fare assegnamento. I m i -
nisteria e gli instituta regum sono distinti.
§ 9. Quale sia la parte concernente minia feria è, si è
i
già detto, facilmente constatabile. La parte precedente riguarda
gli instituta? Ma che significa questa parola ? Non pare si
possa tradurre con instituzioni: di instituzioni come or-
gani della amministrazione parlerebbe solo il proemio. Dovremmo
allora intendere, come a Pavia veramente si usava, institu-
t u m nel senso di e o n s t i t u t i o ? Dovremmo ammettere che
i primi paragrafi derivino da coustitutiones e gli altri
da altre fonti documentarie di diversa natura?
Date queste premesse torna ad ogni modo evidente la ne-
cessità di determinare a qual tempo possano risalire 1 singoli
elementi che furono piìi tardi raccolti ad unità solo così po- :
tremo con certezza determinare il momento in cui fu redatto il
documento sintetico. Solo dopo questa indagine potremo accer-
tare se il proemio si debba proprio come la chiusa, all'ultimo
manipolatore.
§ 10. — Incomincio dal § 2 già con mano maestra illustrato
dal Solmi.
Il testo del nostro memoratorium si apre con una indica-
zione di singolare interesse per la ricostruzione della vita eco-
nomico-finanziaria di Pavia, come capitale del Kegno italico.
Tra i cespiti del reddito pubblico spettanti al palatium di Pavia,
si rammentano in primo luogo le decime delle chiuse e delle
stazioni doganali di confine. In nome di un antico diritto pub-
blico, là si percepivano i dazi per l'ingresso nel Regno su le
(1) Negocium « cum eorum negociis et
è usato per merces nel § 3 :
mercancns da dubitare che dalla stessa mano è uscito il de
>. Non è
omni negocio del § 2 —
de omnibus negociis del § 2 cum eorum ne- —
gocio del § 5 de omni —
negocio del § 5 — cum magno negocio del § 6.
LA OENESI DELLE « MONORANTIE ClVlTATIS PAPIÉ ) 303
Hierci in esso importate (1) da un « missus camerarii », cioè da
un funzionario che dipendeva dal camerarius della corte regia
•di Pavia: « decima che costituiva la continuazione dell'an-
y>
tico « portorium » romano (2). A mio avviso il testo avrebbe
dovuto essere originariamente questo :
« Intrantes (3) negociatores in Kegnum solvant decimam (4)
ad clusas (5) Kegi pertinentes que sunt hec videlicet (6) prima :
est Secusia, secunda Bardo, tercia Belinzona, quarta Clavenna,
quinta Balzano, sexta Volerno, septima Trevile, octava Sanctus
Petrus de Julio via de Monte Cruce nona prope Aquilegiam, ;
decima Forum Juli, de caballis, servis, ancillis, pannis laneis
et lincia, canevatiis, stagno et spatis, misso camerarii (7). Sed
omnia sine ulla adecimatione debent dimitti Romipetis (8) que
ducuntur prò impensis eorum. Nullus homo debet ipsos Romi-
petas adecimare nec eis uUam contrarietatera facere, et si quia
f'ecerit sub anathemata sit ».
(1 ) Cfr. Arukìo Solmi, Le « Bonorantie civitatis Fapie » e le sta-
zioni doganali del Begno, in Bendiconti del B. Istituto Lomb. di Scienza
e Lettere. Serie II, Voi. LUI, Fase XII-XY, pp. 577-85.
(2) Idem, pag. 583.
(3) Nel citare i passi del testo, presento fin da questo momento l'e-
dizione critica.
(4) Suppongo aggiunto il de omni negocio, poiché se fosse stato ori-
ginario non vi era poi bisogno di una specificazione dei singoli negocia,
È lecito dubitare che anche più sotto il de omnibus negociis sia stato
pure aggiunto.
(5) et ut vias è aggiunto ? l'unica via che in seguito si ricorda è la
via di Monte Cruce.
(6) Sipotrebbe supporre che prima si indicassero genericamente le
chiuse specificazione di esse sarebbe stata aggiunta più tardi,
: la
Kiui non si ricordano le chiuse del Regno delle Alpi marittime?
(7) Omnes gentes que veniunt de ultra montes in Lombardiam debent
esse adecimate ed Et debent de omnibus negociis decimam dare ibi ad
jportam ini sembrano esplicazioni narrative aggiunte. In Lombardiam
per lo meno non è originario poiché le chiuse e le vie prima ricordate
non riguardano solo la regione lombarda propriamente detta. Quel-
Vomnes gentes non è d' altronde in rapporto con l'aggiunta Gens vero
Anglicornm et Sarorum etcì Cfr. Ugo Monneret de VTillard: Un
diploma di Ludovico il Pio e le chiuse longobarde, in Arch. 8tor.
Lomb., Fase. I-II. Ann. XLVIII, pp. 167 segg.
(8) Il Sancii Petri è superfluo, poiché i Eom^etae erano già di per
se stessi i pellegrini che si reca ?a no a visitare la tomba di S. Pietro.
Si tratta certo di nn'jiggianta posteriore.
:m)4 francksco lamjogna
>Iel documento si parla di gentett que veniunt de ultra montes
in.Lombardiam: vorrei anzitutto richiamare l'attenzione sul si-
gnificato della parola Lombardia. Qua e là nel documento
e nello stesso paragrafo nostro troveremo indizii che fanno rite-
nere da esso non contemplate né la Toscana né probabilmente
la Liguria: ma io n(m credo che qui la parola indichi solo i
territori longobardi della valle padana esclusa non solo la R o -
mania, ma anche la Tuscia, il ducato spoletauo ed i i - 1
toraria maris nonché Benevento e il Sannio cosi come in
realtà già si usava in documenti delPSGl, dell'874, dell'875, del-
rsSl. Essa indica tutta la giurisdizione del rex Langobar-
dorum. La Lombardia del § 2 come del § 1 è in fonda
la Italia del proemio. La nostra designazione che ricorre io
Widukiudo ed Tietmaro ha una patina piìi arcaica (1).
in
§ 11. — Nella indicazione
« ad clusas et ad vias ^ue sunt Regi
pertinentes videlicet prima est Secusia, secuuda Bardo, tercia Be-
linzona, quarta Clavenna, quinta Balzano, sexta Volerno, septima
Trevile, octava Sanctus Petrus de Julio, nona prope Aquilegiam,
decima Forum Julii » non pare adottato un medesimo criterio-.
Le prime stazioni ricordate sono veramente al confine e
sono propriamente chiuse (2). Ma dopo le chiuse di Valle d'A-
dige ci attenderemmo di veder ricordate quelle di Val di Piave
(con S. Pietro de Julio siamo veramente nella serie) o del
Tagliamento o del Natisone o dell'Isonzo. E invece non è così.
§ 12. —
La prima stazione doganale ricordata comunicante
con le grandi vie commerciali (3) del Monginevra e del Cenisio,
(1) Cfr. Gabotto, 1 ducati dell^ltalia carolingia, in Bs. ubalp. XIV
(1910); De Grazia, LUiso del nome Italia nel medioevo^ in BulL d. Soc^
g€ogr. it. VJII, 5, p. 347.
(2) In alcuni docunaenti la parola chiusa sembrerebbe sinonimo di
clausura-, così la elusa Famulasca di Enrico II (30) e Corrado (305). Se
la cosa è dubbia per la chiusa Gardensis, Eurico li (310), Corrado (96)»
par certa invece per la elusa de Insula Fulvese, Corrado II (63 e 86) j
cosi anche probabilmente la clusia MontebelUnensis di Ottone II (375).
I numeri tra parantesi sono i numeri ordinari dei diplomi secondo
l'edizione dei Monumenta Germaniae historica.
(3) Sulle grandi vie commerciali attraversanti le Alpi si Cfr. la
bibliografia compilata dal Monnerkt dk Villard, L^ organizzazione in-
dustriale deW Italia longobarda durante Valto medio evo, in Arch. Stor.
Lem. serie V, XLVP, p. I, pag. 77: e G. Bardelli, Le vie di com-
mereio fra Vltalia e la Francia nel medio evo, in Boll. stor. bibl. stt-
balpino^ XII, pp. 65 Bgg.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 305-
è quella di Susa (1). —
La seconda è quella di Bard^ che sulla
via della Valle d'Aosta, domina le due grandi strade verso la
Francia risalendo il Piccolo S. Bernardo e il Gran S. Bernardo.
La terza è BelUnzona che domina il passo del Lucomagno
verso lo sbocco del Ticino nel Lago Maggiore.
La quarta è Chiavenna che chiude i passi delle Alpi, a
nord verso lo Spinga e ad oriente verso il Settimo.
Vi sono qui indicazioni preziose per determinare l'età del
nostro documento. Sappiamo intatti che la porta di Bellinzona
« que publico usui deservit » fu da Arduino ceduta nel 1002 al
vescovo di Como (2). Pure la chiusa di Chiavenna fu donata nel
1002 al vescovo di Como (3).
Segue la chiusa di Balzano. La identificazione di Balzano
con Bolzano proposta dal Solmi, mi sembra più che persuasiva-
Di Bolzano facilmente si comprende la grande importanza là :
affluivano le merci che attraverso la Val Venosta e quella
d'Isarco tentavano di raggiungere la grande arteria stradale della
Val d'Adige: e le chiuse di Bolzano sono del resto ancora at-
testate dal nome Klausen Certo con loro si devono
sull' Isarco.
identificare le clausure alludono i diplomi di
sub sablone cui
Corrado II del 1027 (103) e del 1028 (115) (Sabione - Seben) (4).
§ 13. —
Ma come mai dopo Bolzano si ricordano Volerno er
Trevile f
Quando Trentino apparteneva al Eegno d'Italia fino alle
il
Alpi, e tutto Veneto orientale faceva pure parte del regno
il
italico, la valle inferiore dell'Adige e la Valle del Brenta erano
allora incluse tutte entro il confine e se pur la valle del Piave
avesse potuto offrire uno sbocco commerciale verso la Baviera,
né l'Adige inferiore né il Brenta avrebbero dovuto avere chiuse.
Evidentemente le due stazioni furono instituite quando quella
pertinenza al regno italico era stata interrotta !
Con Volargne noi siamo dentro il confine della contea ve-
li) Con la decima, esatta presso le chiuse ausane, non mi pare che
si possa confondere il clausiaticum che Ottone III avrebbe nel 998
concesso al vescovo di Torino perchè ricordandosi la vallis sturiana
;
con la vallis varaitana potrebbe risultarne che si trattasse della Stura
onde è bagnata Cuneo. (M. G. H. D. 0. Ili, n. 302).
(2) Arduini, Dipi, n. 4.
(3) Arduini, Dipi n. 3; O. I. n. 166; Enr. I, n. 75; Corr. II, n. 52..
(4) Cfr. A. R. ToNiOLo, Il Tiralo unità geografica f Libr. La Voce,-
1921.
306 t'RANCKSCO LANDOONA
ronese che liu dal l>5li era costituita iu marchia (1). i*ur che
Volerne si debba ideutilìcare con Vohirgne, ha detto egregia-
mente il Solmi. Ancora nel principio del sec. XIII Volargne e
Chiusa formavano una sola curia (2). Nò le clausae Volerni sono
d'altronde ricordate in questo solo documento. Proprio nella cro-
naca di liurcardo Uspergense (3) si ricordano :
Quaedam itinera augunta, qiiae Lombardi vocitare solent clau-
suras Volerni, ubi ex utraque parte itineris mons praeruptus, LV-
ditore tedesco le confondeva con le chiuse del Brennero!! Ma è
facilecorreggerne l'errore: passiamo olire.
Solmi ci dice che, non essendo sufficiente il solo posto di
Il
Bolzano per guardare tutti i passi dalla Germania a Pltali.s
era necessario di collocare un altro posto di dogana a Volargne,
sullo sbocco dell'Adige nella pianura, appena oltre la Chiusa
Veronese. Una chiusa a Volargne non si giustifica però se non
ammettendo che per un certo periodo il confine del Regno Ita-
lico sia stato là ritratto. E
questa ritrazione potè avvenire solo
attraverso una avulsione della marca tridentina e veronese.
Arnolfo di Baviera nel 934-935 Tridentinam ex ea parte priniam
marcam pertransiens Veronam iisque pervenit ma le parole stesse ;
di LiUTPRANDO Ani. 49, provano che la marca continuò a far
parte del Regno d'Italia. Nel 952 Ottone 1° diede al fratello
Enrico di Baviera e di Carnia la marca veronese e la aqui-
-leiese (4).
§ 14. — In quanto a Trovile il Solmi lo identifica con Treviso,
ammettendo un errore di copia del tardo manipolatore. Egli con-
sidera giustamente che Treviso, nell'alto medio evo, fu il centro
naturale di tutta la raggiera stradale relativa ai passi del Ca-
dore, alle strade della Valle Sugana, della Valle di Primiero,
della Valle del Piave e dei valichi della Carnia che, attraverso
'
Conegliano, li riallacciavano alla valle padana (5).
Il Leicht invece non crede ad un errore di trascrizione,
perchè una euria di Trevile si trovava non lungi dal luogo
(1) HoFMEiSTKR, in Mittli. d. osterr. Inst. f. G. F., VII (1907) 376.
(2) Cfr.SiMEONi, Il commercio rurale nei territorio veronege, in Nuov.
Arch. Veneto XLII, (1921) pp. 199 8gg.
(3) M.G.H., Script. XXIII, 346.
(4) CoNT. Reg., p. 166, in MGH. Script. I. 621. .
(5) Cfr. Solmi, Le stazioni doganali etc, cit, pag. 582 e Cfr. pure
fiul Commercio di Treviso nell'alto medio evo A. Lizier, Note intomo
^^4tlla storia del Comune di Treviso , Modena, 1901, pp. 23-5.
LA GENESI DBILLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ > 307
ove poi sorse Castelfranco : là s- incontravano le vie del Piave e
del Brenta.
Mh Trevile non ha mai potuto funzionare come una stazione
di confine; Treviso invece sì, se noi teniamo conto del dogado
di Venezia. L'importanza di Treviso quale centro commerciale
fu oltre che dal Lizier messa ripetutamente in luce specialmente
dallo Schulte (1).
Treviso dovette come Volargne formar parte della marca di
Verona, ma è tornata all' Italia in un momento in cui la marca del
Friuli era stata sottratta al regno d' Italia.
La ottava stazione, quella di S. Petrus de Julio, che ai giorni
nostri corrisponde a Zuiglio, ci riporta appunto nella marca Aqui-
leiese (2). Essa è la via della Oarnia, che è designata dal nostro
documento come la strada del valico di Monte Croce, nota fino
dall'antichità romana, che scendeva nelle valli della Pusterla e
della Carinzia.
La nona stazione è segnata « Prope Aquilegiam ».
La designazione prope Aquilegiam ha una vaghezza
impressionante e non a torto il Leicht ha per essa pensato che
:
il memoratorio dovesse essere anteriore alla restaurazione che
di Aquileia fece Popone (1019-1042). Quando quella frase fu
scritta Aquileia non era se non un ricordo storico mentre se- :
condo il Leicht la dogana doveva essere al ponte dell'Isonzo
presso a Farra, antico insediamento longobardo a guardia di un
passaggio importante.
Ma perchè il redattore del Memorator i u m neli' indi-
care la linea delle dogane è disceso dall'Alpi al mare per poi
risalire?Anche se sostituissimo Cormons ad Aquilegia inten-
dendolo come la Nova Aquilegia non gioverebbe: la diflicoltà
resterebbe sempre. La dogana di Aquileia fu forse interpolata
in una serie precedentemente regolare o furono invece aggiunte
le dogane di Cividale e di San Giulio di Montecroce?
La spiegazione della prima interpolazione potrebbe essere
data dal distacco della marca istriana dal regno italico che
avrebbe fatto appunto di Aquileia una città di confine.
La marca istriana si incontra separata dalla friulana fin dal
933 (3). Nel 952 fu con la marca friulana e veronese e la marca^
(1) Schulte, Gesch. d. mUtelalt. Handels, Lipsia 1900.
(2) Matkb, Die Strassenziige d. Obergailthals, Dresda 1886 j Lbicht,
in 4f«»». 8tor. forogiuUeti, VI, 1910, pp. 76-78.
(3) Cfr, Mayei?, Ital. Verfasaungsgeschichtt II, 26, n. 49.
308 FRANCESCO LANDOGNA
carentana sottoposta al duca di Baviera. Nel 072 Ottone I di-
spoueva poi di terre istriane senza l'intervento del duca di Ba-
viera, ma non erano state aj^fj^iunte all'Italia j>erchè nel 077 la
conferma delle medesime terre era fatta con l'intervento del
Duca di Carinzia. Di nuovo l'Istria fu riunita alla Baviera (più
Verona e il Friuli) nel 083--085; se ne staccò ancora nel 085-
080: e alla Baviera ritornò nel 080 e di nuovo scissa nel 005.
L'ultima stazione doganale qui ricordata è quella di Forum
Julii, allo sbocco della grande arteria stradale che, passando per
Tarvis, scendeva a Caporetto e di lì a Cividale.
Il Leicht ha scorto perciò in essa la dogana del passo di
Predil attraverso la valle del Natisone, ricordando opportuna-
mente che la denominazione di Forumiulii, sostituita nel sec. XI
dalle altre civitas foroiuliensis o di eivitas Austriae, ha un certo
sapore arcaico perchè il più recente esempio del suo uso risaliva
nei documenti finora noti all'824.
§ 15. —Assai frequentata fu anche nel medio evo la via che
dalla valle della Drava portava nella valle del Fella attraverso
la valle di Canale. Il nome di Chiusaforte rivela pure in essa
l'esistenza di chiuse Perchè non è ricordata nel nostro docu-
mento? Non è però il caso di dar troppa importanza a codesto
silenzio.
In quello non appare nemmeno la elusa de Avendone^
che pur si ricorda in un documento ottoniano del 1001?
Ed è d'altronde inutile ricercare il perchè delle omissioni:
basta trar profitto da ciò che il documento dà.
§ 16. — A me par di intravedere in esso un più antico
tracciato d'una barriera doganale, che era veramente di confine,
costituita dalla linea Susa-Bard-Bellinzona-Chiavenna- Bolzano-
fi. Oroce-Forumiulii la linea è diventata spezzata con le inclu-
:
sioni delle stazioni di Yolargne e Treviso fatta quando la marca
di Verona tornò all'Italia e con la inclusione della dogana di
Aquileia istituita quando la marca istriana fu definitivamente
sottratta al regno italico.
§ 17. —I due momenti storici salienti sono appunto per noi
il riallacciamento della marca veronese, il distacco della marca
istriana. Quando si sono essi verificati?
Al primo quesito non è facile il rispondere. Vi fu un tempo
in la marca veronese fu sottratta alla giurisdizione del
cui
Comes palatii pavese e, sottoposta ad un distinto P f a 1 z ^
graf (falsegravus), allora giudici regii proprii. Questo^
pare si sia verificato intorno al 070 e più tardi ancora per un»
LA GKNESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 309
periodo che dal 993 vaal 1017 per lo meno. Non è escluso che
inun periodo intermedio Verona sia stata ricollegata a Pavia;
ma non è neanche provato. La notizia dovrebbe se così non
fosse riferirsi a principi posteriori al 1017 o anteriori al 970.
Le sorti dell'Istria potrebbero meglio aiutarci? Dovendo
escludere che Aquileia sia stata ravvisata come stazione di con-
fine finché fu unita al Friuli cioè nel 932 e dal 983 al 985, bi-
sogna pensare ad un periodo corso fra il 972 ed il 983 o succes-
sivo al 985.
§ 18. —
Dal § 3 per ora prescindiamo. Esso dovrà essere
oggetto di particolare esame piti innanzi. E non ne parlo fin da
questo momento perchè, indipendentemente dalle altre ragioni
che potrebbero far dubitare di interpolazioni, esso stesso si ri-
chiama ad un privilegio del re italico, che deve necessariamente
essere diverso dagli altri da cui potrebbero essere derivati i
4§ 1, 2, 4, 5, 6.
Volgiamo piuttosto per ora la nostra attenzione ai § § 4-5.
Kon possono derivare da documento anteriore alP883. Infatti
per la prima volta nel patto fra Venezia e Carlo il grosso
accanto alla clausola (1): « statuimus de ripatico ut nequa-
« quam plus debeamus toUere nisi omnem quadragesimam li-
bram », cui corrisponde nel nostro § 5 la clausola: « debent dare
« ad monasterium de Sancti Martini qui dicitur foram portam
« quadragesimum soldum de omni negocio » troviamo nell'art. 30
l'altra: « et promisisti nobis cum cunctu ducato Veneticorum
« annualiter inferre de denariis papiensibus libras viginti quin-
« que » (2): nei patti precedenti di un simile tributo non vi è
traccia. Ma
diploma di Rodolfo del 924 si legge sempre:
nel
« nihil amplius eos cogamus pacti causa persolvere nisi tantum
« annualiter libras viginti quinque », e similmente nel diploma
di Ugo del 927, i veneziani figurano tenuti solo a pagare, i telo-
naria ripatica, censo di 25 lire. Il nostro documento, è quindi
certo posteriore al 927 i)0ichè si parla di un censo di cin-
quanta lire.
(1) MGH. Capp. 238, § 17.
(2) Non escludo, che i veneti avessero in Pavia uno scalo proprio ;
ma è da escludere che il quadragesimum fosse pagato a 8. Mar-
Pagavano presso
tino fuori porta per l'uso di terre di loro pertinenza.
S. Martino,non alla chiesa 25.3; 27.1; 44. 1: e oli ari a deriverà
j
piuttosto da e u r a r a che da collectaelacuraria non aveva
i
che fare con le onoranze dovute dai pescatori al palazzo.
.ilo JfRANCBSCO LANDOGNÀ
Non si può ìd ììuhU) assoluto encludere ciie hi itioditicazione
«lei tributo non sia avvenuta sotto Lotario (1)31-949), o sotto-
Berengario 11 (952-961), ma :i noi risulta per la prima volta
da un diploma di Ottone 1 del 967. E pur il pallium in aggiunta
alle 50 lire di denarìi cui act^euna il § 4 « Dux vero Veuetorum
:
cum suis V^euetis tiebet <lare omni anno de denariis Venetis,
libras quinquaginta in Palatio Papié et magistro Camere palium
unum optimum », fu imposto per la prima volta in quel patto in
cui si legge:
« Et promisit nobis cunctus ducatus Veneticorum et suc-
« cessoribus nostris prò huius pactionis foedere annualiter omni
« mense marcio persolvere libras suorum denariorum quinqua-
« giuta et pallium unum » (1;.
ir nostro testo è anche posteriore a quel patto, alle cui in-
formazioni aggiunge cbe il pagamento del tributo doveva esser
fatto nel mese di Marzo, nel quale doveva iniziarsi l'anno
finanziario.
Non basta ancora. Nell'anno 1001 Ottone III dispensò i
Veneziani dal pagamento del pallium: « Notum sit omnibus
« nostris fidelibus, praesentibus scilicet atque futuris, qualiter
« Petrus dux Veneticorum et noster compater per suum uuncium,
« Joannem videlicet diaconum nostram humiliter deprecando
,
« adiit celsitudinem, quatinus pallium et que camerarii nostri sibi
« annualiter prò censu exigebat, eidem suisque successoribus,
« perdonare ac concedere omnia, exceptis quinquaginta ìibris,.
« dignamur » (2). Dopo il 1001 il disposto del nostro documento
non avrebbe piti corrisposto alla realtà.
Arriviamo così a stabilire che il testo originale non può
essere stato composto dopo il 1001.
Nel patto ottoniano la moneta in cui le cinquanta lire si
dovevano pagare non è specificata: dal nostro documento risulta
che si pagava in denari veneti. Ciò non può evidentemente
essere avvenuto prima della istituzione di una zecca veneziana.
Ora, se pur Venezia ebbe in tempi precedenti ricorso ad una
monetazione abusiva, mi sembra tuttavia certo che nei riguardi
del regno d'Italia la moneta veneziana potè sembrare legalizzata
solo dopo il privilegio di Rodolfo del 924 in cui si legge la
clausola: « Simulque eis numorum monetam concedimus secun-
(1) M. G.H. Ott. P, pag. 483 —
Lo «teBso passo è riportato nelle
Cronache Ventsiane di Giovanni Monticolo, Voi. P, pag. 163, nota L
(2) M. G.H. Otto. Ili, pag. 830.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE OIVITATIS PAPIÉ » 311
<iain quod eoniui proviDcie duces a priscis temporibus consueto
jjaore habuerunt » clausola interessantissima da cui risulta non
;
solo che la monetazione era un monopolio regio, ma che quel
monopolio si voleva esteso al ducato veneziano. Se pure da
tempi antichissimi si era qui t'ormato indipendentemente dal
regno un consuetus mos, ora V uso era ricondotto alla
concessione regia. Ma anche qui il privilegio di Rodolfo ci offre
soltanto un termine a q u o remotissimo, da cui possiamo par-
tire per determinare Petà del nostro documento. Ma non pos-
siamo e dobbiamo per quella indicazione dei denarii veneti
venire assai più in qua ! Del privilegio di Rodolfo probabilmente
Venezia non si valse subito.
Nella iscrizione del doge Pietro Partecipazio I. (939-942) si
leggeva: «Multa Berengarius nobis privilegia fecit: Is quoque
monetam cudere posse dedit (1) »: e per quanto scarso sia
il valore di questa iscrizione recente (che forse ha confuso il
primo Parti Giaco col terzo), essa potrebbe offrire un indizio che
dai tempi di Berengario la zecca veneziana riconoscesse i suoi =
incunaboli. Siamo ricondotti al 950-959. Ma vi è altro da osser-
vare. Storici veneziani recenti hanno congetturato che il raddop-
piamento del tributo ricordato nelPSGT, fosse solo apparente (2):
prima il conteggio sarebbe stato fatto in lire pavesi, e più tardi
invece sarebbe stato fatto in lire veneziane di valore pari alla
metà delle pavesi. Il nostro documento non dà appoggio alle
loro congetture (3). Se pure il tributo è pagato in denari veneti,
questi denari dovevano essere de uncia una tam boni
de p o nd ere si eut pa pie n ses .
Di qui sorge per noi un certo imbarazzo. Il Papadopoli af-
ferma che il denaro veneziano cominciò a diminuir di peso poco
dopo il 970: nel 972 da una locazione fatta <la Rodolfo, patriarca
d'Aquileia ad Ambrosio vescovo di Bergamo, risulterebbe già
(1) Sanddo, Chron., (ed. Monticolo) I, 939.
Questa tesi fu euunciata dal Papadopoli, Sulle origini della
(2)
veneta zecca, Venezia 1882, p. 29 fu poi ripetuta dal Monticolo, Cron.
5
len. ani. I. 163 n. 1; dal Lenel, Zar àlteren yeschichte Venedigs dalle
/f. Mayek. IV G. II.
Z. e dal
Che il tributo fosse stato effettivamente raddoppiato ammetteva
(3)
invece il Fanta, Die Vertrdye der Kaiser mit Venedig bis zum 983, in
MdoIfG.F. EB. I. 78 n. 3 ed è seguito dallo Hkynen, Zur Bnstehung
:
d€8 Eapitalismus in Venedig, Stuttgart 1905 ; e dal Rretschìa ayr, (t<-
schichte von Venedig, Gotha 1905, I. 431 segg. ^
312 FRANOKSCO LANDoONA •
che argentei d e n a r i i l» o u i ni e d i o 1 a u en 8e8 q u i ri -
q u e corrispondevano a de Venecia decem. 11 danaro
veneziano non era già vaintato la metà del denaro milanese o
pavese t
Sotto Pietro Orseolo II nel 1000-1001 la lira veneziana era
vtilutata a due b i s a n t i d'oro ma se nel suo testamento si
;
parla di moneta denariorum parvo rum questa de-
signazione non i)resuppone che accanto a quella vi tosse una
moneta denariorum di maggior valore che nel 983 do-
veva ancora apparire come la normale !
Torniamo al nostro documento.
Dai patti veneziani e dalle cronache non risulta che il pallio
dovesse esser dato al ma giste r camere: ma non è neanche
escluso. Non si contesti, per ciò che nei pacta non se ne fa
parola, che i veneziani dovessero al magister camere una
libbra di pepe, una libbra di cannella, una libbra di zenzero,
nonché alla sua moglie un pettine di avorio, uno specchio ed una
parure del valore di una buona lira pavese. Nel diploma di
Ottone III del 1001 si accennano bene « q u e e a m e r a r i i
n ostri prò censu exigebant (1)». Il Lenel (2) non ha
potuto definire in che quelle prestazioni consistessero e ha dovuto
supporre, per non pensare ad esazioni arbitrarie, che si trattasse
di sportule affini a quelle che nel dodicesimo secolo si esigevano
per la cancelleria (3): il tatto che Giovanni diacono non accen-
nasse a questi diritti non doveva dir nulla, osserva egli giusta-
mente, contro la loro esistenza poiché Giovanni diacono parlava
solo dei tributi dovuti al p a 1 a t i u m né potrebbe imputarsi
lo storico veneziano di reticenze e di mendacio se badava solo
alle prestazioni dovute prò pacti federe e non a quelle che
si fossero accessoriamente instituite per altri provvedimenti.
Perché vecchio censo in moneta fu aggiunto il pallium!
al
Non sarebbe per avventura questo peso il corrispettivo di un
privilegio monopolistico accordato ai Veneziani?
Dalla inchiesta del doge Ottone Orseolo pubblicata dal
MoNTicoLO, Cronache veneziane antichissime I. 178 risulta che i
Yeneziani in nullis partibus Italiae debuissent
(1) MGH. D.O.III, D. 397.
(2) Lenel, Zur àlteren Geschichte Yenedigs, p. 302 dalle H. Z.
(3) Bresslau, Kanzleigehiihren unter Heinrich VI (1191) in Straesbur-
ger Festschrift zur Versammlung deutscher Philologen und Scliul-
mànner, p. 220 segg.
LA GENESI DELLE « HONORANTiE CIVITATIS PAPIÉ » 313
pallia portare nec venundare
nisi a Papia et
mercati sancti martini et Olivo. La versione più
semplice è quella data già dal Kretschmayr che i p a 1 1 i i non
potessero essere portati e venduti se non a Pavia e nei mercati
di S. Martino e d'Olivo. Le ultime indicazioni si riferirebbero ai
tempi in cui la vendita diventava lecita nel luogo prefisso.
L'indicazione del giorno di S. Martino non è certo senza rap-
porto col ricordo che il documento pavese pone il mercato presso
il monastero di S. Martino fori porta: l'altro giorno dovrà ne-
cessariamente identificarsi col giorno delle Palme. Dalla Vita
Geraldi comitis aureliaeensis in AS. oct. 13. VI. 309 apprendiamo
che il commercio dei pallia e dei p i g m e n t a era tatto
h a u d p r o e u 1 da Papia con gran frequenza di p a p i 1 -
1 o n e s Tra quei p a p i 1 1 o n e s stava il s e n i o r i s t e n
.
-
1 r i u m dove i negozianti ministros interrogabant
si forte domus comes (sic omnes appallabant eum) vel
pallia vel pigmentorum species emi iuberet. Chi
era codesto senior?
Codesto senior non doveva essere il comes palatii,
»ma ilmagistercamerae.
§ 19. — Yien ora la volta del § 6. Esso potrebbe, come i
precedenti, derivare da un patto corso tra il re dei Longobardi
•da unlato ed i Salernitani, Gaetani ed Amalfitani dall' altro ;
ma essendo i tre popoli ricordati insieme, bisogna supporre che
la concessione sia stata fatta in un momento in cui tutti^ e tre
seguivano una medesima politica. Questa costellazione politica si
presentò unicamente e in modo passeggero nel 982 quando nel-
l'agosto, durante la spedizione di Ottone II nell' Italia meridio-
nale, si riconobbe a principe di Salerno Mansone duca di
Amalfi (L).
Chegli Amalfitani avessero relazioni di commercio con
Pavia, importandovi le seterie recate da Bisanzio, risulta da
Liutprando (2) i ragguagli del cronista pavese tornano a ca-
:
pello con quelli che dà il nostro documento anche dall'aspetto
della cronologia.
§ ^0. - I §§ 1, 2, 4-6 che trattano <li un medesimo argo-
mento potrebbero derivare da una medesima fonte, la quale per
quel che s'è detto sin qui, è certo anteriore al 1000.
(1) Gay., Vltalie meridionale et Vempire hìjzantin, Paris 1904,
3). 339-340 5 371.
(2) LiUTPR., Leg.^ cap. 55.
Arch. Ster. Lomb. Anno XLIX, Fase. III-IV 21
-li 4 FRANCESCO LANOOGNA
Ora anche i §§ successivi concernenti i m n i s t e r i a deb-
i
bono essere oggetto di una indagine metodica come quella che-
fu sin qui fatta terremo pur qui conto di tutti i possibili indizi.
:
Anzi tutto ecco un buon termine ad quem. Nel § 8 è affer-
mato che la moneta milanese doveva essere dello stesso tipo che
la pavese Nel 1013 decem librae papiensium denariorum, vale-
!
vano già (alias -= cioè) undecim librae denariorum mediolanen-
8ium: per dare un contenuto reale a quel paragrafo bisogna
quin<li risalire oltre quella data. E probabilmente bisogna risalire
di qualche anno.
§ 21. —
Nel § 7 potrebbe poi fermare la nostra attenzione
la penale di 1000 mancusi, assai frequente nei documenti regii
1115-1117. Di mancusi in documenti carolingi tro-
italici fino al
viamo parola già sotto Lotario I e proprio nel patto con Venezia:
ma la pena di 1000 mancusi (1) appare adoperata più sovente
in diplomi di Ottone I (2). Codesti rilievi giovano piuttosto a
corroborare l'attendibilità della notizia data dal nostro docu-
mento che a precisare l'età, sebbene si possa prendere il 928
come un termine a quo,
§ 22. —
Un paragrafo d'importanza centrale nella nostra,
questione è invece il decimo.
Così come attualmente si legge il brano:
« Et omne illud aurum debent comparare, gradinam solidorum,
« duos, idest octava pars untie, idest denariorum duorum cum
« dimidio, soldi sedicim, alias undecim untie » non dà alcun
costruito. La gradina potrebbe indicare una misura di ca-
pacità connettendosi a crates o cratina = scodella ; l'idest
octava pars untie sarebbe una glossa intesa a spiegare
il peso dell'oro contenuto nella gradina in relazione all'oncia di
sedici soldi secondo il piede carolino? Ma dove cercheremo il
prezzo della gradina stessa? In quel cum dimidio soldi?
Ma a che si riferisce l'idest denariorum duorum?
E che vorrebbero significare dopo l'indicazione del prezzo le
oscure parole sexdecim alias (aliarum) undecim un-
ti e ? Queir alias undecim si potrebbe eliminare conside-
rando la clausola come una variante dovuta alla incertezza della
lettura del documento originale; non si farebbe un gran passo^
avanti.
FiCKBR
(1) —
Forsch.. I. 64 Rgg.
M. G. H. O.L 340, 464; 0. III. 193
(2) (996); 928 (biMinum imperiale^
in mille mancusoB anreoe), 337.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 315
Un solo dato fermo ricaviamo: l'uso della libbra di tredici
oncie.
Nell'epoca ottoniana alla libbra di sedici once fu risostituita
la libbra di dodici oncie. La gradina avrebbe allora do-
vuto <li ventar e di oncie ^^'/^ cioè di soldi duo cum dimi-
di o ; se restava di due soldi vuol dire che la fonte del nostro
documento risale ad una data anteriore a quella riforma.
Se l'inciso idest octava pars non può considerarsi
come una glossa, deve sicuramente riferirsi alla gradina:
però, se la gradina corrispondeva alla ottava parte dell'oncia,
non poteva mai essere uguale a due soldi, perchè due soldi
d'argento pesavano quanto un oncia.
Se l' oncia era del peso di gr. 30,59 1' ottava parte avrebbe
dovuto essere di gr. 3,85 è su per giti il peso di 3 denari d'ar-
:
gento <lato denaro come Vg^ dell'oncia pesasse gr. 1,27.
che il
Si riferiva dunque alla gradina anche l'inciso idest de-
nariorum duorum cum dimidio? Vi sarebbe diffe-
renza di mezzo denaro.
Il genitivo unzie si riferisce a soldi: può ritenersi che
soldi unzie sia usato per solidi de untia? In tal
caso con solidi undecim alias sedecim si indiche-
rebbe il prezzo della gradina?
Se ammettiamo che la lettura giusta sia undecim po-
tremo trarne che due denari e mezzo di oro erano valutati undici
soldi d'argento, cioè centotrentadue denari d'argento.
Un oncia d' oro era spesso ragguagliata ancor nel secolo
undecimo a due pondera d'argento e il pò n d u s si suol
identificare con la libbra. Esso constava quindi di 12 oncie,
secondo il calcolo romano. Un oncia d'oro avrebbe dovuto va-
lere 24 oncie d'argento. Un ottavo di oncia d'oro 3 oncie d'ar-
gento. Dato che un'oncia d'argento corrispondesse a 24 denari
avrebbe potuto corrispondere a 72 denari d'argento cioè a 6
soldi.
Anche se ammettiamo che la lira constasse di 16 oncie e
che ogni oncia constasse di 24 denari ne deriverebbe che un'oncia
d'oro era ragguagliata a 36 oncie d'argento ed un ottavo dì
oncia d'oro a 4,5 oncie d'argento cioè a 108 denari d'argento,
d'argento puro però. Calcolando sul vantaggio derivante dalla
lega necessaria per la monetazione l'oro poteva pagarsi un po^
più. Ma aggiungendo anche 7i2 ^^ vantaggio si arriverebbe a
126 denari ovvero a dieci soldi e mezzo.
La frase del § 4 « qui denarii sunt de u n e i a una tam boni
:nr» Francesco landoona
(lependere et argento siciit pjipienses » fa pensare che i denari
pavesi fossero appunto denari de ancia una cioè Vs4 della
oncia carolina. Essentlo Tonciii di gr. 30,50 avrebbero dovuto
«ssere, se di" argento puro, del peso di gr. 1,274.
Il § 8 c'insegna però, se non interpreto male la frase « ut
numquam faciant peiores denarios quam semper fecerunt de pen-
dere et argento de d uod ee i m in d e e e m » che si tolle-
rava una lega non eccedente Vi 2 dell'argento.
§ 23. —
Codesto capitolo restn sempre, per me, un enigma.
Ho cercato di spiegarlo se era possibile anche per un'altra
via, ttftiendo conto cioè di certi termini di misurazione che an-
cora si usano tra i lavoratori d'oro, i quali oggi, come un tempo,
scernono le pagliuzze d'oro le cui dimensioni variano da circa
un millimetro all'impercettibile, ponendo le sabbie aurifere, de-
purate dai ciottoli attraverso uno staccio su d'una tavola sca-
nalata inclinata di tre o quattro gradi sì che la sottile lama di
acqua sovr'essa scorrente portate via le sabbie più leggiere,
lasci nelle scanalature il materiale metallico più pesante ed agi-
tando poi a fior d'acqua il prezioso residuo nelle b a t e e con un
movimento di rotazione e di inclinazione in avanti.
alternato
Ancor oggi i lavatori stimano il valore dell'oro in soldi:
venti soldi al mucchio significano gr. 1.7 per tonnellata di sab-
bione greggio. Alla gradina si è sostituito il mucchio! Ad
ogni modo anche per questa via non si giunge a dare un'ade-
guata spiegazione all'oscuro brano. A
voler troppo insistere
sopra di esso, quando è, in realtà, sordo si può rischiare, per
soverchia tenacia, di cadere in errore?. Passiamo oltre, che v'è
altro da osservare.
Ancor più istruttivo è l'elenco dei fiumi da cui si leva
l'oro (1). Il manoscritto ne offre la serie in questo modo spro-
positato :
Et debent omne illud aurum comparare in fluminibus ubi
«
« aurum levatur que sunt hec: padus, ticinus, dorica, Sicida,
« Stura, misturla, flumen octo, amalone et amalona celo, duria,
« blavum, urba, salvus, Sesedia, Burmia, agonia, ticinus a lacu
« malori ubi intrat in Padum. Sunt etiam ista flumina abdua, :
« oglus, Mentius, Sarno, Adexe, Brenta, Trebia, et per omnia
« alia llumina debent aurum levare ».
Nessuno si è fin qui incaricato di mettere un po' d'ordine
(1) F. Elter, Studi sulla pesca delV oro in alcuni fiumi piemontesi, in
La Miniera Italiana, Ann. II, n. 8, pp. 281-291.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ» 317
in tanto guazzabuglio, cercando per lo meno di identificare i
fiumi indicati dal documento. Il flumen Octo si sarebbe potuto
facilmente ravvisare nelF Orco, l' Amalone nel Malone il Blavum
nel Belbo, il Sarvus nel Cervo, prescindendo dalle altre desi-
gnazioni che trovano un pivi ovvio ris<;ontro con le designazioni
attuali. Vi sono due nomi però che non trovano riscontro: Mi-
sturla, Amalonacelo: ma sarebbero semplici indicazioni di va-
rianti? Cosicché, leggendosi sive Sturia anziché mi sturi a (1),
e velAmalonecelo anziché et Amalonacelo, si dovesse ri-
tenere che la Stura fosse anche chiamata Sturia (2) e il Malone
Malloncello?
Il maggior guaio è dato dal fatto cheil Ticino é certamente
ricordato due volte, la prima per tutto suo percorso, la seconda
il
pel solo suo percorso inferiore e vi é il dubbio che anche la
Sesia sia stata ricordata due volte prima come Sicida e poi come
Sesedia. Non basta. Per riguardo ai fiumi dell'Austria é se-
guito un ordine regolare, poiché si segnano prima quelli alla
sinistra del Po da occidente ad Oriente e poi quelli alla destra :
pei filimi (Iella Neustria invece l'ordine non é osservato o al-
meno non é osservato a puntino. Anche lì si incominciano a
segnare i fiumi alla sinistra del Po da oriente ad occidente per
passar poi alla destra. Xé la serie é continua.
Sarebbe stata continua se fosse stata, per esempio questa:
Po, Ticino, Sesia, Dora Baltea, Orco, Malone, Stura, Dora Ri-
paria, Belvo, Bormida, Orba ma l'Orco ed il Malone sono col-
:
locati malamente dopo la Stura come se fossero ad Occidente
anziché ad Oriente e il Servo, (la Sesedia) e l'Agogna, che scor-
rono alla sinistra del Po, sono ricordati fra gli affluenti di destra.
Vi sono state delle interpolazioni dovute forse al ricupero
<la parte del regno <li diritti che fossero passati ad altri nei
contadi di I^ovara e di Vercelli?
Non ci perderemo in ipotesi poiché ci mancano elementi
ùcuri per risolvere i dubbi che ci siamo proposti e che ci dove-
|vamo proporre. Vi é qualche cosa di piti importante da osservare.
Nel § 10 del nostro documento son ricordati i diritti che la
'amera regia di Pavia aveva sui fiumi dai quali si estraeva
l'oro, e fra essi sono ricordati la Sicida e il Sarvus. Ma Ottone III.
>n un diploma dato in Roma il V Novembre del 1000, ebbe a
(1) Sipotrebbe anche leggere minor sturia tenendo presente che
accjinto allaGrande Stura vi è quella che è ora chiamata Stura di Lanzo.
Per la nota (2) si vegga la nota a pag. 331.
318 FRANCESCO LANDOGNA
concedere Jillu chiesa di S. Eusebio di Vercelli molti <liritti, fni
i quali rucquji della Sicida: « <ledimu8 et confirmaviinus Sancto
« Eusebioomnem aquam de Sicidji a fine inter Gatinarium et
« Komanianum usque duiu ipsa aqua Sicida intrat in Paduin »,
ed inoltre tutta l'acqua del Sarvus: « dedimus et confirmamus
« Sancto Eusebio totain aquam de Sarvo de Andorni usque durn
« intrat in Padum » (1).
Conferma inoltre in perpetuo « totum aurum quod inveuitur
« et elaboratur infra vercellensem episcopatum et comitatum.... »
e dispone che tutto Poro ivi trovato vada alla Camera di Ver-
celli: « Volumus enim ut, nostram cameram aurum
sicut in
« solitum redierat, ita deinceps in eternum in Kameram Sancti
« Busebi deferatur (2). >>
Questo passo serve pure a datare il nostro documento, che
se i diritti della Camera regia di Pavia eran passati a quella di
Vercelli nell'anno 1000, il nostro testo è anteriore al 1000.
Questa induzione ha un ulteriore appoggio.
Sappiamo che Arduino, con Diploma del 1002 (3), concedette
al Vescovo di Lodi tutto il reddito delPoro che si levava dal-
l' Adda: « concederemus episcopatui, ubi Andreas venerabilis
« episcopus presulatur, omnem redditum auri, quod in ripis flu-
« minis Adue levatur in toto confinio castellorum Cavenaci et
« Galgagnani, qui redditus pertinere videntur Camere nostre ».
§ 24. —
Il nostro testo nel quale è ricordata VAbdua^ deve
essere necessariamente anteriore al 1002.
Non meravigli perciò che nel nostro documento non sieno
ricordati né il Tanaro né i fiumi al di sotto di Susa. Quei fiumi
appartenevano alla marca di Savona questa è ricordata per la :
prima volta nel 1004, ma doveva essere stata istituita assai prima.
Intuiamo così attraverso il nostro documento che la unità
fiscale del regno si è già decomposta: dal punto di vista fiscale
la camera di Pavia era rimasta il centro di una parte di esso.
Non potrebbe essere in relazione con questo fatto pur la curiosa
menzione di un ducatus Italie che quasi in opposizione
al r e g n u m noi troviamo già in documenti del 900, del 928 ?
Nel 929 Adalberto d' Ivrea che si intitolava marchio in
Italia, la sua giurisdizione estendeva a tutti quei territori
(1) M. G. H. Otto ITI, pag. 812.
(2) Ibidem, pag. 814.
(3) M. a. H. Henrici IL et Arduini Diplomata, Tom. Ili, Part. I,
pag. 705.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 319
che parrebbero assunti nel concetto di d u e a t u s 1 1 a 1 i a e .
La brevissima Langohardorum notitia, usando la frase 1 1 a 1 i a m
et totam vallem padanam mostra del pari che questa
non era tutta compresa nelP Italia. Dobbiamo pensare che dal-
l'Italia fossero esclusi non solo i territorii della Eomagna, ma
tjuelli della Yenet i a , che però al tempo del nostro docu-
mento erano già stati ad essa ricondotti dall'Istria in fuori.
§ 25. — Non vorrei dire che tutto, nella forma che le Ho-
norantie hanno ora, si adatti al secolo decimo. Ma si deve
tener conto che il testo originario ha potuto subire rimaneggia-
menti e incontrare magari delle aggiunte.
L'accenno ai diritti del p a 1 a t i u m pel mundio sulle donne
si incastra malamente in mezzo ai paragrafi che riguardano vera-
mente i ministeria. Né meglio stanno fra questi i paragrafi
che riguardano i mansionarii di S. Siro e S. Michele mag-
giore che, fra parentesi, non erano affatto, come credeva il Ro-
i)olini dei capellani di quelle chiese, ma dei semplici hostiarii.
Se si levassero di mezzo i §§ 15 e 16 si ot>terrebbe una trattazione
continua e coerente: sono stati aggiunti più tardi?
Così come ora suona anche il § 7, il quale, avendo una
propria penale, potrebbe essere stato attinto da una fonte di-
versa da quella dei paragrafi successivi che hanno la loro san-
zione nel § 17. Il privilegio doveva riguardare tutti i n e g o -
e i a t ore s j) a 1 aeii non semplicemente i ministri ne-
,
gociatorum che dovrebbero ora intendersi come i capi di
una corporazione: fu mutato il testo originario quando effetti-
vamente si costituì con regime corporativo la mercanzia?
Anche nel § 8 potrebbe esser sospetto l'accenno al m i -
ni s ter monete. Ma forse fu letto minister invece di
magi s ter. Il magister monete è ben ricordato pili
sotto e in modo perfettamente attendibile!
magister monete si ricorda fin dal 949 (1) ed
Il :
^ra già distinto dai monetarii semplici (2). D' un m a -^
gister monetariorum paplensis provinc^ia^e si
parla anche in Anon. Silvin., Vita San Maiali, cap. 18 (3).
Nel § 9 la districtio è esercitata dal magister monete
eum eo m i t e ( pa1a t i i ) et e u m mag i a tro camere;
ma nel § 10 non appare più la stessa procedura. Pur nel § 9
(1) CdL. 690.
(2) CdL. 558.
(3) Sackuk, Die Cluniacenser I, 239, n. 1.
320 FRANCKSrO LANDOGNA
vi è però la frase e u ni e o n s e i o e a m e r a r che cosi i 1 i i ,
com'è collocata, parrebbe non riguardare la giurisdizione, bensì
la coniazione delle monete (l).
Ancora nella zecca di Ravenna il ni ag i s t e r monete
jSgura come investito della giurisdizione sui monetarii e
sulle loro famiglie, salvo il caso di omicidio: il podestà si po-
teva ingerire dei loro reati solo se invitato dal magister
monete o dal d o in i n u s m o n e t <• ])ropter incorreptio-
nem eorum (2).
NellV<?ic<Mm de monetis Italiae che certo riassume vecchi©
pratiche è detto, ancora nel 1311, che i monetarii (magistri
ed operarii) non dovevano rispondere sì nel civile che nel crimi-
m p r e s i d i b u.s i p e r i a 1 i s m o n e t a e .
nale se non e o r a m
Questi presidi, ne) moltiplicarsi delle zecche hanno preso natu-
ralmente il posto dei magistri monetae del tipo ori-
ginario. I reati eccepiti sono ora, oltreché l'omicidio e
il r a p t u s
Vi r n u m , la r o b a r i a s e u s e h a e h u m
g i ma non è ;
escluso che così fosse .anche prima. La tradizione appare sin-
golarmente tenace in questa materia.
La pena del falso monetario è nelle honorantie i)recisa-
mente quella determinata da Eot. 242:
« Si quis sine iussionem regis aurum figuraverit aut moneta
« confinxerit manus ei incida tur », e da Ludovico il
Pio Gap. I. 25:
« De falsa moneta iubemus ut qui eam x^ercussisse compro-
« vatus fuerit manus ei a m p u t e t u r Et qui hoc consenserit .
« si liber est 60 solidos componat, si servus 60 ictus accipiat »,
mantenuta ])oi dai loro successori.
La stessa pena ricorre nel Gap. 138. 19 e poi nel Gap. 273,
23: « sicut falsam monetam percutiens manum perdat. Et liber
homo, qui hoc consemserit, bannum nostrum, id est solidos
sexaginta, componat colonus vel servus nudus flagelletur »: 17:
;
manus ei amputetur 16 manum desteram perdat etc.
; :
Le Honorantie aggiungono la confisca ma questa pena ;
s^incontra anche in Genova nel Brev. cons. 72, e ricorre più
(1) Ho utilmente compulsato, per tutto ciò che riguarda la moneta,
gli ottimi Btndii del Monneret, La moneta in Italia durante Valto medio
evo, (1919-1921), di cui l'autore ebbe la squisita cortesia di favorirmi gli
estratti desunti dalla Rivista italiana di Numismatica.
(2) Fertile, SDÌ. VI, 129, n. 1; Fantuzzi, III, 84; M. G. H. Xe-
ges II, 518.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 321
tardi nello statuto di Parma 1265 p. 39 (omnia sua bona in
comuni pouere) e quegli statuti riproducevano certo un principio
di diritto affermato in piii antichi tempi.
Non vi è dubbio alcuno sulla veridicità di quello che le ho-
norantie a questo proposito ci insegnano.
Nella breve aggiunta diiodecim in decem è forse indicato
l'aggio che i monetarii si potevano trattenere sul mej:allo a loro
fornito per la coniazione o per il cambio, il redditus publi-
cus della moneta, il teloneum monetae, il diritto di
monetaggio che, da noi legalmente determinato non raggiunge
l'asprezza di cui ricorre notizia di Cristiano Drutmar di Gorbie
in Migne PL. OVl. 1468: «Et solent monetarii accipere argen-
tum ab aliquibus et solent denarios formare et post in integrum
reddere quod acceperunt et medietatem de in genio suo super
*acceptum ».
Solo per riguardo ai monetarii milanesi leggiamo che po-
tevano cambiare eos (denarios) per unum de-
nari um solidos (prò solido ?).
Pur la al cambio potrebbe avere anche
disposizione relativa
la, sua spiegazione nel Gap. 13 5 : :
« De moneta costituimus ut amplius non habeat in libra
pesante nisi XXII solidos et de ipsis XXII solidos ».
Quanto al cambio cfr. pure il Gap. 273: 14 « Et sine ulla
fraude et absque malo ingenio contra eos quorum argentum ad
purgandum acceperint ipsum argentum exmerent et sine fraude
tam in pensa quam in purgatione denarios concambient »; e
15: «argentum in constitutis monetis concambiare * (1).
11 documento è prezioso, perchè mostra come nel regno ita-
lico il monopolio della monetazione sia stato tenacemente di-
feso. Il Salvioli (Moneta, VI, § 4) affermava già che verso il mille
zecche dipendenti direttamente dall'imperatore non esistevano
pifi in Lombardia, essendo tutte passate ai vescovi per passar
poi dai vescovi ai cittadini: dovremo ora ammettere che, se
quel passaggio avvenne, avvenne in ogni caso dopo il 1000.
Il nostro documento non ricorda la zecca di Treviso, for-
matasi forse quando la marca veronese fu staccata dal regno.
Tanto meno riconosce la zecca di Mantova che d altronde '
sarebbe stata consentita da Ottone III al vescovo solo nel 997..
Né fa parola alcuna della zecca di Parma.
La sola zecca che funziona accanto alla pavese è quella di)
(1) Cfr. anche il Cap. 271.
322 FRANCESCO LANDOONA
Milano. Al Sol mi è parso già che l'autore delle houoraatie
si sia lasciato trascinare a gonfiare i diritti della zecca di Pavia
in confronto di quella di Milano oltre la realtà storica.
Ma è fino a quando Pavia fu la capitale
ben probabile che,
del regno, milanese sia stata considerata come una
la zecca
succursale della pavese! Il trattamento dei monetarii milanesi
non è d'altronde inferiore a quello dei pavesi: potrebbe anzi
esser stato migliore in quanto rispetto a loro non aveva alcuna
ingerenza il comes palati i.
Dal momento che l'oro era oggetto di monoi)olio, era per-
fettamente logico che accanto ai monetarii fossero conside-
rati gli auri levato r e s.
Passiamo a considerare gli altri ministeria che potremmo
chiamare pubblica se non addirittura palatina.
Vi sono dei ministeriales come i raonetieri, ed i pesca-
tori che appaiono organizzati in m a g i s t e r i a ed altri come i
nautae, i cuoiai edi saponai che quell ordinamento '
non hanno: ma questa diversità di costituzione sta i)iuttosto
a favore che contro la veridicità del documento.
I piscatores, come i monetarii hanno potuto avere an-
ch'essi il loro mag i s t e r. Confesso però di non comprendere
come in un documento relativo ai diritti del palatium si
accennasse al kalendaticum dovuto al loro magister.
Forse il calendatico era invece dovuto originariamente al ma-
gister camere? I corarii pagavano la intratura per metà
alla camera del re e per metà ai loro seniores ! Perchè
tale diversità di trattamento?
Gli oneri imposti ai. nautae potrebbero avere il loro ri-
scontro con gli oneri imposti ai gondolieriveneziani: quelli
gravanti sui saponarii richiamano alla memoria la pensio de
sapone che nel secolo ottavo era ancora dovuta al palazzo
langobardo dai saponarii di Piacenza, gièi dal Solmi ritenuta
come eccezionale.
Anche in codesti paragrafi non vi è nulla che non possa
rispondere decimo.
al secolo
Un solo punto mi rimase, confesso, per qualche tempo
dubbio: il monopolio di mestieri. Nel § 14 non sarebbe stata
aggiunta la esplicazione eo quod nullus alius sapo-
num facere debet in Papial Però anche nel § 12 ri-
corre rispetto ai corarii la stessa clausola e o q u o d nu i : 1 1
homini libeat co ria confectare e l'obbligazione ap-
pare avvalorata dalla sanzione « et qui cantra hoc fecerit com-
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ > 323
ponat in camera regis soldos centum papienses: che non avrebbe
avuto senso dopo la dissoluzione del palatium. Mi sono quindi
convinto che anche queste notizie sono genuine.
Il monopolio nelPesercizio del ministerium parrebbe
tuttavia presupporre nei ministeriales un vincolo corporativo. Bi-
sognava essere ministri.
§ 27. —
Posso ormai, se non m'illudo, concludere.
I §§ 7-14 non sono di età diversa dai §§ 1-2, 4-6. Potrebbe
dunque darsi che quei diversi elementi fossero già accertati
in unico memoratorium, che, raccogliendo i diversi dati fin
qui illustrati, sia stato composto prima del 1000 e non prima
deir883.
È ancora possibile di ricostituirne il testo? Io credo di sì.
Basterebbe risostituire la forma imperativa alla narrativa e to-
glier di mezzo tutti quei trapassi che furono aggiunti per spie-
gare l'origine dei capitoli e per giustificarne il contenuto.
L'autore del libello ha tramutata in narrativa la formulazione
dispositiva della clausola della costituzione o dei praecepta con
procedimento abbastanza semplice: ha portato all'imperfetto il
presente. Cosi il solvant del § 2 l'ha reso in solvebant, ecc. il solehant
venire multi divites cum ecrum
dabant per dent del
negocio^ ed il
§ 5 ; ti solehant venire in Papia cum magno negocio et donabant
per donet del § 6.
Inoltre il sunt edam qui del § 10, il sunt autem . . . qui ex
omnibus bonis del § 11, il sunt edam del § 12 ; il sunt edam alia
ministeria,Omnes del § 13; et fuerunt ministrales qui facebant
saponum et qui dabant del § 14; est etiam consuetudo del § 14;
est autem rete uno de auricalcho ubi
. . . del § 16. Si aggiunga . . .
la locuzione del § 7 manu Imperatoris
: receperunt semper de
preceptum cum omni onere.
§ 28. —
L'autore del libello che l'elogiasta trecentista fece
proprio fu onestissimo nei suoi procedimenti appunto perciò gli :
avvenne di presentare come vigenti dei diritti ch'erano già tra-
montati. Il Solmi, pur giudicando le informazioni del libello nel
-complesso attendibili, crede che non tutti debbano essere ac-
colte ad occhi chiusi; malgrado il fine pratico che il libello si
proponeva e la sua tendenziosità noi siamo meno scettici di
quello che il Solmi sia stato, attraverso la sua generica fiducia.
Il Solmi potè dubitare eh' egli avesse esagerata l' importanza
degli introiti del palazzo regio, ricordando redditi che da lungo
tempo non erano più in uso; noi, riportando le informazioni
•che egli dà al tempo in cui dovettero essere redatti i do-
324 FRANCESCO LANDO&NA
cuineDti tìi cui si valse, constatammo che egli Don ha esagerata
afl'atto. Le sue erano buone fonti.
Le aggiunte, che possano con sicurezza attribuirsi a lui e che
8Ìeno di sostanziale rilievo, son poche (1).
Tuttavia, a prescindere <lal § 3 e dalle notizie che ci dà intorno
ai Veneziani, sono notevoli quelli che danno la ragione del prov-
vedimento ricordato nel§ 4 propter hoc quod ad Ke-
gem Lomgobardorum pertinet e nel §20 eo quod
custodiant bene lumen imperatoris. Il primo specialmente è note-
vole poiché contiene una chiara rivendicazione di Venezia al-
l'impero occiilentale secondo quelle che a dire del Ohron. altinate
sarebbero state le direttive di Corrado Imperatore.
§ 29. —
Solmi è convinto che l'apostrofe finale del libello
Il
sia rivolta ad Enrico II. Ma l'uso del passato nei verbi che ac-
cennano all'opera di Enrico e più ancora l'accenno alla mancanza
di una prole atta a succedergli (§21 e o quod qui non
habebat filium in regalem honorem cameram
hereditasset), mi sembra ne presuppongano la morte.
A lui difficilmente avrebbe potuto rivolgersi con
il libellista
un'apostrofe critica come seguente: « Et si t'uisset prudens
la
imperator et honorabilis sicut decet imperium (et) omnia illa
precepta que facta sunt de illis ministeriis Camere omnia fé-
cisset incidere et cameram regalem in suo stato et in suo robore
permanere, sicut fuerunt ab antiquis temporibus ». Non era
la miglior via per cattivarselo!
Il libello che il trecentista ebbe sott'occhio è dunque certa-
liìente posteriore al 13 luglio 1025, anche se chi lo redasse, nar-
rando, se non gli avvenimenti di Ugo e Lotario e Berengario II,
per lo meno quelli dei tre Ottoni, abbia veramente scritto, come
giustamente pensa il Solnii, delle pjigine di vita vissuta.
Se un re fu invocato, quello dovette essere Corrado II:
il successore di Enrico II avrebbe dovuto incidere od annul-
lare le concessioni fatte dal suo predecessore che della Ca-
mera aveva dispersi i diritti attraverso una serie di concessioni
feudali Corrado è stato incoronato re d'Italia il 26 marzo 1027:
I
io penso che il nostro documento sia stato redatto su per giù
in quel tempo (2).
(1) € Et illa gens non arat, non seminat, non vindemiat. Istud cens-
Biini appellatiir pactum. Solebant venire multi divites negociatores Ve-
netornm in Papiam cuna eorum negocio >.
(2) Le ragioni addotte contro la determinazione cronologica del
LA OENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 325
Acquistii qui particolare valore il racconto che il nostro li-
bello fa al § 3, il quale è appunto nei suoi confronti una pagina
di vita vissuta.
Esso (lice « Gens vero Anglicoruni et Saxorum venerunt et
:
veniebant cum eorum negociis et mercadantiis, et videntes ad
clusas evacuari males et bulges, ira commoti, sese cum mini-
stralibus camere altercationibus imiscebant, et verbis iniuriosis
et sepius nitro mutuis vulneribus percuciebant. Rex vero An-
glicorum et Saxorum, prò secandis tantis et malis et tolendis
I^ericulis, et Eex Lomgobardorum, hoc insimul modo convene-
runt. Gens Anglicorum et Saxororum non umquam deberent
adecimari, et ob hanc causam rex Anglicorum et Saxorum ec
eorum gentes tenentur et debent mittere ad palatium in Papia
et ad cameram Eegis, omni tercio anno, quinquaginta libras
oocti argenti et duos magnos canes veltrices mirabiles, pilosos
seu velutos in cathenis, cum collariis copertiis laminis deauratis
et bolatis sive smaltatis ad arma Eegis, et duo senta optima
bocciata et duas optimas lanceas et duas optimas spatas
operatas et probatas, et magistro camere debent dare duas ma-
gnas cottas de vario minuto et duas libras cocti argenti et reci-
pere sigillum a magistro camere quod in eundo et reddeundo
nullam molestationem recipiant ».
Il Solmi l'ha posto argutamente in rapporto con una lettera
di re Canuto I (1017-1035) del 1031 (1), donde risulta che nel 1027
egli aveva ottenuto che i suoi homines tam mercatores
<][uam alii orandi grati a viatores absque omni
angaria clausurarum et teloneariorum, firma
pace Roman eant et redeant. Ma la prevenzione che
il libello pavese sia stato scritto durante la vita di Enrico II
gli ha impedito di ritenere che il patto accennato da Canuto
fosse proprio quello che si rammenta al § 3. Perchè non si sa-
rebbe parlato, anziché di un rex Anglicorum et Saxorum, di un
rex Anglicorum et Danorum?
L'accenno specifico alle angarie dei t e 1 o n a r i i torna a pen-
Solmi vauDo contro quella del Sóriga il quale reputa che l'anonimo
«stensore della H o n o r a n t i a e le abbia redatte poco prima della
distruzione che i feudatari! minori ed i cittadini di Pavia, memori del
tragico incendio del 1004, vollero compiere nel 1024.
(1) Mansi, Collectio Conctl., XIX, pag. 499. Si vedano anche Buesslau,
Jahrb d. deut. Beiches u. Konrad //", Lipsia 1879-84, II, 83; Jun(}, in
Mittheil d. Inst. f. osterr. G. F., XXV, 1904, 25.
f
326 FRANCESCO LANDOGNA
nello COD le azioni soverchiamente zelanti dei ini n i g t r a e 8 ca- 1
ni e r a r il : ma
che importa T Le seccature «ieri vanti dalle chiuse
dovevano essere state in ogni tempo in relazicme col contegno
di quei pubblici tuuzionari Altri fatti simili dovettero essere
!
avvenuti prima del 1027. Canuto potrebbe .illudere a privilegi
prececlenti ch'egli rimise in vigore.
IlSolmi poggia, è vero, anche sul fatto che Canuto non ac-
cenna corrispettivo dovuto per l'immunità assicurata ai suoi
al
sudditi ma non era mestieri che su questo insistesse se voleva
;
dar rilievo al risultato e non alle modalità con le quali questo
era stato raggiunto.
Ammettendo che il libello del pavese sia stato fatto prima
del 1024, se gli avvenimenti indicati nel § 3 dovessero riferirsi
al 1027 sarebbe necessario di riguardare il § 3 come una aggiunta ;
non volendo accogliere questa congettura non potè il Solmi
trarre dalla lettera di Canuto quanto poteva dare.
Secondo il Solmi, se il libello fosse stato scritto dopo il
1024, avrebbe dovuto ricordare la distruzione fatta del palazzo
non appena giunse la notizia della morte di Enrico II ma il :
calore con cui l'autore del libello ricorda la restaurazione del
vecchio regime non presuppone che esso sia stato sconvolto f
Tra le cause, pur non specificate di quello sconvolgimento non
potè essere quell'incendio?
Ricordarlo però, date le sue cause non era soverchiamente
opportuno; poteva servire piuttosto a scoraggiare che a pro-
muovere la restaurazione.
Wipone (1) dice chiaro e netto che i Pavesi distrussero il
palazzo dalle ime fondamenta ne quisquam regum ulterius intra
civitatem illam palatium ponere decreverunt. Era meglio non in-
sistere tanto su quegli avvenimenti presso i re successivi !
Con analogo ragionamento si sarebbe potuto del resto soste-
nere che debba essere anteriore al 1004 quando in esso non
vi sia alcuna allusione all'incendio di quell'anno.
Secondo Arnolfo, che da buon milanese potrebbe essere
stato tratto a colorir le cose secondo l'interesse della sua città,
Enrico, « quum non ad votum sibi obtemperasset uno totam
Papiam concremavit incendio » colendo così sedare Pa-
;
piae calamitates — dissensiones. Gli scrittori te-
deschi escludono lo scopo punitivo e, descrivendo l' incendio»
della città come l'epilogo tragico di una zuffa sorta fra le sol-
(1) WiPO, 6e8ta Chuon. imp., e 7 : M. G. H. Script, XI. 263.
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » 327-'
datescbe germaniche ed i cittadini, fanno merito al re di aver
pietosamente frenate le rovine incomposte e le stragi cui si erano
per vendetta abbandonati i suoi ma che Pavia non fosse in
:
realtà ben disposta verso il re tedesco emerge dal fatto concor-
demente attestato che i cittadini si rivolsero sin da principio
contro il palatium, dove aveva preso sede l'arcivescovo di
Colonia, cancelliere d'Italia.
Il nostro documento che considerava il palatium come un.
ente economico e non come un edifìcio, non aveva ragione di
insistere né su quello né sul posteriore incendio.
§ 30. — non chiedeva d'altronde la rinnovazione del
Il libello
palatium; reagiva contro la dispersione feudale di diritti della
camera regia. Avrebbe voluto ritornare al sistema di un unico feu-
do camerale attraverso l'investitura feudale del magistratus
Camere. Proprio in questo punto potrebbe esser tendenzioso
il nostro autore che forse non era senza rapporto coi feudatari
spogliatida Giovanni Filagato, vescovo di Piacenza nel 997-998..
Il Ottone III del 1001 a favore dei veneziani
precetto di
non parla di e a m e r a r i (1), ne pare che la pluralità si debba
i
spiegare tenendo conto della successione loro nel tempo. Erano
più nel medesimo tempo appunto in virtù di quella innovazione
che aveva fatto il Filigato. Ora, mentre in tanti paragrafi si
parla di e a m e r a r i u s dovremmo supporre che il nostro abbia
,
sostituito negli altri la dizione magister camere? Non si può
supporre che i paragrafi in cui si parla di camerarius sieno
anteriori a quelli in cui si parla del magister camere e
potrebbe anche darsi che il nostro autore non fosse colpevole di
nessuna alterazione intenzionale.
La tendenziosità starebbe solo nella tesi generica.
Considerato inoltre cbe molti dati del proemio hanno esatto
riscontro con dati storici da noi posseduti (2), non saremo alieni
Accanto a marcae, comitatus, plebes, poteroiìo da quel momento
(1)
costituire oggetto di feudoanche le e a m e r a e e si diede base alla
:
costruzione di un feudum carne rae ovvero canevae, il cui
elemento reale era dato non da immobili, ma da redditi in ter im-
mobilia connumerati (CF. Vili) in ac ce pt i o n e s (Vili, § 4)
che figuravano decaneva vel de carne ra soluta e (LF. II, 57).
(2) L'incoronazione nella chiesa di S. Michele Maggiore cui accenna
il proemio : « M sicut Roma coronai Imperatorem in ecclesia Saneti Petri
cum papa suo, ita Fapia cum episcopo suo coronai regem in ecclesia
sancii Michaelis mainris », è storicamente attestata per Berengario, Adal-
berto, Arduino, ed Enrico II.
328 FRANCESCO LANDOONA
<lal vedere in es80 parte dell'autica scrittura, la quale si potrebbe
<josì ricostruire :
« Eftt regale palatium in liac ci vitate Papié, ad preBentiam regia ve-
nire tenentur oinncs principes Italiae deliheracione Datura, celebraturi
conscilium. et ad beneplacituin regi» obaervaturi, quid (juid in dicto
conscilio deliberatum fuisset.
Comites debeut per totam Itaiiam, in omni loco, adliuc ante
palati.)
imperatoniiu, tenere placitumjuris. —
Missi Regia secundum
preceptum controversias per totam Italia dirimut (ovvero discuciuntur).
Judices palatini omnes insuper iudices Italie debent per senten-
ciam iudicare.
Ex omnibus civitatibus Italie veniunt Papiam studere in Jure et
leges adiscere et maiores magisque hon orati fuere Indices pa(latìi) ».
§ 31. — il L i b e 1 u s ? Il
Dove incomincia propriamente 1
Solmi con l'apostrofe
lo inizia :
< Vos omnes quibus est insitus amor, utilitas et bonor
Kegni Lombardie, audite letis et equis auimis qualiter omnia
ministeria que pertinent ad Cameram Regis et palatium et ce-
tera enim regalia Longobardorum, vetustis temporibus iustituta
fuere ».
Mentre l'apostrofe si adatta in tutto al fare del trecentista,
cbè lo scrittore del secolo undecimo aveva tutt' altro che animo
quieto e lieto considerando quello che della camera regia era
avvenuto, nel proemio si sente, sotto la forma attuale un testo
piti antico, che chiaramente e con tecnica precisione parlava
delle diete pavesi, del comes palatii, dei missatica
r e g i s , degli iudices palatii.
E dopo tutto non contrasterebbe nemmeno col sec. XI l'ac-
cenno allo studio delle leggi in Pavia.
La vita di Lanfranco di Milone Crispino lo dice « ab annis
puerilibus eruditus in scholis liberalium artium et legum secu-
larium ad sue morem patrie ». Allo studium legum aderivano
anche degli stranieri quando tra il 111 9 ed il 1124 Enrico Fran-
cigena scriveva in Pavia la sua Gemma,
Nel proemio a differenza dai § 1-19 s'incontra però quattro
volte le parole Italia e in tutte quattro indica il regnum italicum
come appunto in Liutprando (1) nel Chron. salernitanum (MGH.
Ili, 476, 554), nel Chron. novaUcìense III. 1 : nelle destructio
(1) Salsotto, Sul significato del nome Italia presso Liutprando, Mi-
lano 1905. L'Italia è contrapposta alla Romania, alla Thuscia nel (on-
cilio del 963 press-o Tagmano (MGH. IV, 774).
LA GENESI DELLE « HONORANTIE CIVITATIS PAPIÉ » ;329
Jarfensis medesimamente si parla di Italie princi/pes. Biso- —
gnerebbe che avesse adoperato fonte diversa da quella onde de-
rivarono i § 2, 4, 6. Ma io ho d'altra parte rilevato che qui
appunto si adopera la parola Lombardia in una accezione recente.
Per il Solmi fu il trecentista elogiatore di Pavia, che vo-
lendo chiarire la serie dei re e degli imperatori nominati nel
testo, (veramente nomi nel testo non se ne fanno) avrebbe ag-
giunte delle notizie storiche attinte da una cronaca assai in-
forme. Ma, a prescindere dalla chiusa Isto tempore etc,
che fu certo aggiunta nel sec. XIY, non potrebbe essere stato
quel catalogo di re (che cronaca non si può dire) una voluta
appendice del primo libello?
Non senza ragione il catalogo cessa con Ottone III.
La inscriptio suprascriptavidelicetprima, va
però posta senza dubbio a carico del manipolatore trecentista.
Né è da escludersi che abbia fatto altri ritocchi: gli errori in-
torno ai Berengarii derivano anche, probabilmente da lui. Egli
è quello che ha aggiunto il numero ordinale af re. Il catalogo
originario aveva solo riguardo al regno d'Italia: egli ebbe anche
riguardo all'impero. E a lui si debbono le aggiunte relative
alle storie degli imperatori e i giudizi sulle loro personalità.
*
* *
§ 32. — Chiudo con un ultimo rilievo.
Ilnostro documento ha una importanza capitale dal punto di
vista della storia delle corporazioni. Rispetto alla organizza-
zione dei ministeria esso non fa parola di quelle industrie
od arti che avrebbero potuto aver riguardo alla vita della città,
ma solo di quelle che hanno riguardo a monopoli regii o a regalie.
I negociatores sono senza dubbio in rapporto con
l'esercizio del mundio regio sotto cui certi negozianti si veni-
vano a porre.
Monetarii ed auri levatores sono in rapporto
colla regalia dei metalli nobili, rispetto ai quali ta specie che
non avessero rapporto col palazzo gli aurifices.
Piscatores e nautae sono in rapporto con la regalia,
sulle acque.
I sapouariiinducono a supporre che anche quella in-
un tempo di monopolio regio.
dustria aia stata
Non potremmo però dedurre dal nostro documento che
altre organizzazioni di mestiere fossero allora sconosciute.
drch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. IIl-IV 22
L
330 krakcrsco landoona
Non <ìobbiamo non si ricordino bcccarii. ferraii,.
far caso che
marmorari i.
calderai], sartores, calegarii,
Lii organizzazione più progredita appare quella dei monetarii;,
sicché in Italia, come oltre monte, questi avrebbero potuto dare
Pesempio delle altre corporazioni. Dovremmo distinguere fra i*
lavoratori della zecca monetarii e magistri monetae;.
che sopra di loro vi fosse un m i n i s t e r monete mi sembra
dubbio. Sono i magistri che nel loro complesso si fanno in-
cantatori della zecca e per il f i e t u m monetae danno ogni'
anno sedici lire di denari pavesi, dodici al palazzo e quattro al
magister camere, il quale così percepiva il quarto della
intera prestazione.
I componenti sono detti ministri nel<
la corporazione
§7, ministrales § complesso ministe-
nel 14 : il loro
ri um nei ^§ 17,18. Ministeri um indica d'altra parte il
lavoro specifico cui essi attendevano.
Non si comprende quindi come nel § 7 si parli di ministri
negociatorum e nel § 8 di un minister mone te
Papié, in tal modo come se si trattasse non di persone su-
bordinate, ma di persone preposte al m i n i s t e r i u m . Il con-
fronto del § 8 col § 9 mi fa sospettare che originariamente si
parlasse solo anche in quello: e dubito parimente che nel § 7 origi+
nariamente si parlasse solo di negociatores. Il privilegio cui
esso allude si riferiva a tutti inegociatores quali si tro- i
vasaro un dato rapporto con la
in curia. Non sono neppure per-
fettamente sicuro che nel § 14 non si parlasse semplicemente d i*
saponarii.
Dal punto di vista della loro organizzazione amministrativa»
è notevole magister appaia sovente sopraordinato ai
come il
singoli ministri. Il magister, almeno per riguardo ai mone-
tieri, apparisce fornito di un vero magistratus di fronte
ai dipendenti, magistrato pel quale deve una intratura non
indifferente al palazzo, quando l'assume.
Rispetto ai monetarii il magister è fornito di vera-
giurisdizione. Lo stesso non potremmo affermare senz '
altre
prove per gli altri magistri.
Notevole è d'altra parte che, mentre fra i monetieri tro-
viamo una pluralità di magistri e non si può dire che il
magister sia colui che sta
a capo di tutti i monetieri, questa
ipotesi torna invece a proposito per i piscatores, rispetto-
ai quali il magister funge da cassiere.
LA OENESl DELLE « HONORaNTIE ( IVITATIS PAPIÉ » 331
Due invece sembrano m a g i s t r i anche per i n a u t a e
i .
Non parrebbe ad ogni modo che magieter sia stato
nel documento nostro adoperato per indicare l'operaio provetto
in confronto dei suoi discipuli o collegantes o iu-
nior e s
FftANCBSCO LaNDOGNA.
Nota (2) a pag. SII. — Nei documenti del tèmpo la Stura si trova
infatti indicata col nome di Sturia: Cfr. Historiae Patriae Monu-
menta, Chartarum, voi. II.o, an. 902, doc. X, pag. 22 ; e doc. 90, an. 1011 :
« in toio pado usque ad Jluvium Sturie >.
VARIETÀ
Il beato Landolfo da Vergiate
I.
I natali di Landolfo
'
Opera dei Padri Bollandisti registra tra i Beati
UQ tal Landolfo dii Yareglate, che fu Vescovo di
Asti in sul principio del secolo XII (1).
Dalla breve biografia inserita in quell'opera per
merito del Padre Cistcrciense Filippo Malabaila, appare che
Landolfo sia stato oriundo di Yarigliè (castello situato sulla riva
sinistra del Tanaro non lungi da Asti),
e che egli si denominasse
« da Vareglate perchè la sua nobile famiglia aveva forse
»,
costrutto quel castello od esercitava in quella località il suo
dominio.
L' affermazione del Malabaila non può essere tuttavia ac-
colta, perchè « Yareglate » non è la denominazione antica di
« Varigliè », bensì di « Vergiate », l'ameno villaggio dell' alto
Milanese, che è posto a fianco della strada provinciale nel tratto
fra Somma Lombardo a Sesto Oalende.
Da un copioso antico incarto che si riferisce a Vergiate e
<ìheappartiene all'Archivio Storico dell'Ospedale Maggiore di
Milano mi risulta che, già nel secolo XV, Vergiate si chiamava
« Vergiatum » o « Vargiatum ». Ma in un documento dell'anno
1303 riferito dallo Spinelli (2), trovai infrascritti un « Baltesarius >
ed un « Petrus de Varigiate » e Goffredo da Busserò (3), nel
;
suo manoscritto che rimonta all'anno 1280, cita una chiesa di
S. Martino « in plebe Soma, loco Varegiate »; voce quest'ultima
(1) Acta Sanctoram, Die VII luni, auctore Ph. Malabaila.
(2) Spinelli, Ricerche intorno a Sesto Calende. 1880, pag. 216.
(3) Liber notitie sanctoruni Mediolani, edito a cura di M. Magistretti e
U. Monneret de Villard, Milano, 1907.
I
YARIETÀ 'ÒSS
che appalesa la sua origine dalla voce latina « Vareglate », con-
cordemente alla fonetica locale. Servano ad esempio i vocaboli
latini « glando » (ghianda) >
gianda^ glacies (ghiaccio) giazz, >
glarea (ghiaia) gièra^ >
Angleria Angera. >
Non sarebbe invece possibile di far derivare « Varigliè » da
« Vareglate », poiché Varigliè ha la sua logica derivazione dal
nome « Variliaeum », adoperato come apparente aggettivo, da
accoppiarsi coll'acc. fundum, castrum, ecc. (1).
D' altra parte il quale pure opina trattarsi di
Giulini, il
Vergiate e non di Varigliè, *aggiunge le seguenti assennate
considerazioni (2) :
XVII), onde
« Il Malabaila scrisse nel secolo passato (sec.
non ha autorità in (jose così antiche, senza prove e delle prove ;
egli non ne adduce alcuna che vaglia.
La più forte si è che presso ad Asti vi è un luogo detto
Varigliè, da cui crede preso il cognome della famiglia di Lan-
dolfo ma noi nel Milanese abbiamo Vergiate, che più si asso-
;
miglia a Vareglate che non la sua Variglia. Che poi quell'Ec-
clesiastico diventasse vescovo di Asti, non è prova sicura per
crederlo Astigiano ; anzi in quei tempi son frequentissimi gli
esempii dei nostri Ordinarii Milanesi promossi al Vescovado
delle città suffraganee. Non cosi il Malabaila mi troverà un
esempio solo di forastiero che fosse in quei tempi Ordinario e
Proposto di una insigne Canonica in Milano, e che come tale
venisse proposto per Arcivescovo di questa città, come fu pro-
I>osto Landolfo da Vareglate (3).
lu tal guisa io rendo alla nostra Patria la gloria di aver
prodotto un Personaggio così ragguardevole e per autorità e
per saviezza e per santità, che contro ogni diritto le era stato
involato ».
Ma che Landolfo sia veramente oriundo di Vergiate e non
ili Varigliè, si deduce anche da qualche particolare riferito dallo
stesso Malabaila e che egli ricavò dai documenti del monastero
I)avese di S. Pietro in Ciel d'oro.
(ì) Cfr. O. Flechia, Di alcune forme di nomi locali deW Italia Supe-
riore, Torino, 1871.
(2) Giulini, Storia di Milano, T. IV, pag. 499, P ediz.
(3) 11 Giulini allude che Landolfo, prima di essere vescovo
al fatto
di Asti, era Ordinario Metropolitano e Proposto della Canonica di S. Na-
zaro in Milano, e che fu anche proposto airArcivescovado, quantunque
'
in sua véce sia poi stato nominato Grossolano.
:VM VARIETÀ
Dice il Maliibaila che la famiglia di Landolfo (^ioviuetto^
uouostante che in Asti vi fossero parecchi conventi di Beuedet-
tini, risolse di affidarlo ai Benedettini pavesi di S. Pietro in Oiel
d'oro, perchè provvedessero alla sua educazione: etiam si apud
Astenses nonnulla coenohia essent Benedictini instituti, in quibus
prò more illorum temporum adolescente» nobiles in Ghristianis vir-
tutibus et scientiis instituebantur ; ne tamen domesticorum consue-
tudo in iis adipiscendis moram afferret, parentes illum ad celebre
coenobium S. Fetri in Coelo aureo apud Ticinum mandarunt,
È strano ed assai poco verosimile, che in quei tempi di pe-
nuria, con strade malegevoli e con difficili mezzi di trasporto, la
famiglia si sia indotta a mandar lontano il piccolo educando e ad
affidarlo ai Benedettini di Pavia, quando avrebbe potuto giovarsi
degli stessi Benedettini di Asti. E il Malabaila deve aver pre-
sentita una tale obiezione; poiché egli si affretta a giustificare
quella strana risoluzione dei parenti, adducendo il motivo della
vicinanza e del contatto coi famigliari, che avrebbero potuto ri-
tardare il conseguimento dei fini educativi.
Ma la giustificazione non calza, perchè il contatto amorevole
colla famiglia non è un ostacolo, bensì il naturale completamento
di una buona educazione; a meno di supporre inettitudine e
noncuranza da parte dei genitori e incorreggibilità da parte del
giovinetto; il che contrasta con tutta la vita ulteriore di Lan-
dolfo, caratterizzata sopratutto dalla docilità e mitezza d'animo.
Gratuita è adunque la motivazione del Malabaila e non ac-
cettabile il suo racconto, a meno che non si voglia sostituire
Yarigliè con Vergiate; nel qual caso il suo racconto diviene del
tutto logico e conseguente.
Infatti Vergiate dista appena alcuni chilometri da Sesto
Oalende, dove esiste ancora la frazione detta dell'Abbadia, per-
chè ivi appunto si trovava l'Abbazia dei Benedettini, fondata
intorno all'anno 860 da Liutardo de' Conti vescovo di Pavia.
Dai documenti esistenti nell'Archivio dell'Ospedale Maggiore
risulta che i Benedettini di Sesto Calende dipendevano dal ve-
scovo di Pavia, e che vi rimasero fino al 1485, quando, per la
morte dell'ultimo Abate, il convento fu convertito in Commenda
e poi passato nel 1534 all'Ospedale Maggiore, per donazione <id
Paolo III.
E si capisce facilmente come i genitori di Landolfo, appro-
fittando della vicinanza, abbiano potuto affidare il loro figliolo
ai frati benedettini di Sesto Calende; e come poscia Landolfo,
superati colà i primi studii, sia stato dai Benedettini inviato, al
TAKlJflTÀ 330
loro priucipale cenobio di S. Pietro ia ciel d'oro a Pavia, per
la continuazione degli studi teologici e per l' Ordinazione.
In tal modo Landolfo, per quanto ordinato prete a Pavia fuori
diocesi, non cessava dalFappartenere alla diocesi di Milano. Ed
ecco che si spiega anche il seguito del racconto del Mahibaila,
che cioè l'Arcivescovo Anselmo lY di Milano, al quale era ben
presto giunta la fama della dottrina e santità di Landolfo, con
ottima ispirazione lo volle aggregare al proprio greggie, istituen-
dolo Preposto della Canonica di S. Kazaro, nonché Ordinario
della Metropolitana.
Ciò non sarebbe stato possibile, se Landolfo non avesse
adempiuto alle seguenti tre condizioni: di appartenere a nobile
famiglia, di essere dotato di qualità eminenti e di essere dipen-
dente dalla Diocesi di Milano. Devono aver contribuito i suoi
nobili natali, perchè soltanto ai ^Nobili era conferita la dignità
di Ordinario della Metropolitana (1); deve aver contributo il suo
alto valore personale, perchè la carica di Proposto veniva allora
prima volta ed offerta ad altri due perso-
allora istituita [)er la
naggi eminenti, Landolfo da Baggio per la Canonica di S. Am-
brogio e Anselmo da Boiso per quella di S. Lorenzo (2); deve
aver contribuito la sua appartenenza alla Diocesi di Milano,
perchè in caso contrario il Metropolita Anselmo non lo avrebbe
potuto distogliere dalla subordinazione del Vescovo di Pavia,
che, già dal principio del secolo ottavo, non era più suffraganeo
di quello diMilano (3).
Per quanto abbiamo esposto resta dunque storicamente pro-
vato, che il li^ostro aveva tratto le sue origini da Vergiate ;
che compì i primi studii presso l'Abbazia benedettina di Sesto
Caìende: che fu inviato da quei padri benedettini a Pavia, per
esservi ordinato prete.
(1 ) Più tardi fu redatta la lista delle famiglie nobili 1 cui membri
potevano aspirare a tale dignità; in quella lista figuravano anche De- i
Daverio di Vergiate, famiglia tuttora ivi esistente.
(2) GiULiNi, loc. cit. T. IV pag. 498.
(3) Non mi sarei tanto dilungato a fornire le prove sulla vera patria
di Landolfo, se non avessi visto ripetuto l'errore del Malabaila anche in
Opere recenti così Fr. Savio, nella sua Storia degli antichi Vescovi del
:
Piemonte (Bocca, Torino, 1899, pag. 144;, scrive che lo storico Landolfo
fluniore chiama il Nostro « Landolfo da VarìgUate ». Mai nelle Storie di
:
Landolto luniore si trova una tal lezione, bensì sempre quelle di < Lari-
uiulphus de VaregLate » evidentemente anche il Savio cadde nell'errore di
;
rredere le due lezioni equipollenti.
336 VARIETÀ
li.
Landolfo Crociato e Paciere.
Noa sarà nostro coiin)ito «li quanto si conosce
riferire tutto
di Landolfo, o che si può (ìe«lurre documenti d'archivio; ci
(l;ii
limiteremo a quei tratti biografici ciie maggiormente meritano
(liessere lumeggiati, sia per l'importanza e la connessione loro
coi gnivi avvenimenti del tempo, sia per il modo acre e ten-
denzioso con cui furono talora esposti da un suo contemporaneo
e che potrebbe ingiustamente offuscare hi lama del Nostro.
Landolfo era stato da poco tempo assunto alla carica di
Preposto della Oanonicii di S. Nazaro in Milano, quando 1' Ar-
civescovo Anselmo si mise in animo, dietro sollecitazioni Al
Papa Pasquale II, di bandire una crociata per la liberazione
della Terra Santa.
Senonchè, giunta notizia che Gerusalemme era già caduta
nelle mani dei Cristiani, per non frustrare il lavoro di propa-
ganda compiuto, il Prelato cangiò l'oggetto della sua Crociata
e si propose l'acquisto del regno di Babilonia, deliberando di-
portarsi egli stesso con poderose forze in Levante.
Atale intento, egli doveva lasciare in Milano un Vicario ;.
ma non era facil cosa la scelta, perchè quasi tutti i suoi Ve-
scovi suffraganei in quel torno di tempo si erano dati allo scisma^
TrovavavSi però vacante la chiesa di Savona, ed egli mandò due
suoi sacerdoti in un bosco detto Ferrarla (forse Ferrera, tra
Acqui e Savona), dove viveva un eremita di grande dottrina,
smunto per il digiuno e abbietto nelle vesti, chiamato Grosso-
lano. Quell'uomo fu eletto vescovo dai Savonesi e, condotto a
Milano dai due sacerdoti, fu da Anselmo creato suo Vicario (1).
(1) O. Masnovo,un elaborato studio comparso neirArch. Stor.
(in
Lomb. Fase. I-II, il nome « Grossolano » non
1922) pensa ehe abbia di-
ritto a verun credito e sia una corrutela di qualche amanuense o di qualche
editore ed accetta la lezione « Grosolano ». Ciò urta tuttavia con un docu-
;
mento riportato in extenso dal Giulini, (T. IV, pag. 543-44 della P Edizione)
e conservato neirArchivìo della Chiesa Pievana dì Varese, nel quale figura la
firma « ^ Ego Grosso lanus Sagone nsis Episcopus laudando subscripsi ».
Quel documeuto è anche esaminato dal Giulini a pag. 373 dello stesso
Tomo e non so capire come il Masnovo non lo abbia ricordato, tanto
;
più che, dalla ripulsa della lezione « Grossolanus », egli deduce tutta l'ar-
gomentazione del suo studio.
VARIETÀ 337'
Frattanto l'Arcivescovo continuò a raccogliere da diverse
parti un esercito e die avviso alla più balda gioventù milanese
di prendere la croce e di peregrinare per
le città lombarde, per
i villaggi e per le castelhi, insegnando loro a cantare la can-
zone dell' « ultreja »., così denominata perchè in essa ricorreva -
spesso il grido: « Ultreja, Ultreja » (ultra-eja, orsù andiamo
oltre!) a).
Anche i nostri maggiori discesero dalle nostre colline e dalle
nostre valli, salmodiando in lunghe file precedute dalle croci e
dai sacerdoti; torse erano guidati dallo stesso Landolfo, che non
avrà mancato di esercitare tutta l'influenza personale e quella
della propria famiglia nei suoi paesi d'origine; e mano mana
che le file avanzavano verso la metropoli lombar<la, più prepo-
tente che mai si dilatava il malinconico richiamo alla crociata,
collo spettacolo di tanta fede umile e schietta del popolo cre-
dente.
Fatto sta che, nel giro di pochi mesi, ^esercito dei Lombardi
risultò ali 'incirca di cinquantamila uomini, sotto il comando del-
l'Arcivescovo di Milano, del Vescovo di Pavia, di Alberto conte
di Biandrate e di altri Signori, nonché di Landolfo da Baggio e
di Landolfo da Vergiate.
I motivi per cui il che pure era uomo
nostro Landolfo,
saggio e prudente, si con fervore ad un'impresa
sia associato
così arrischiata, sono facili ad imaginare: egli era una creatura
devota di Anselmo, per il quale nutriva sentimenti di pietà fi-
liale e vedendolo, debole e bonario, ingolfarsi in una spedizione
;
irta di difla colta e pericoli, sentiva il dovere di assisterlo con
quelle qualità di animo che egli possedeva e che all'altro manca-
vano. Forse anch'egli partecipava 'al desiderio di Papa Pasquale,
di cui fu sempre zelante ditensore e forse era convinto della
;
necessità per rinsaldare la fede vacillante tra il
dell'impresa,
pullulare di scismi, di sette, di superstizioni. Certo è che egli si
fece propagandista ed antesignano della crociata e partì con
essa da Milano addì 13 Settembre dell'anno 1099.
L'esercito prese la via di terra e giunse ai quartieri d'in-
verno nelle città della Bulgaria. Si avanzò poscia fino in Asia,
passò da Nicomedia, pervenne ad una terra denominata Goriziana;
ma abbandonato a sé stesso dal malvagio imperatore Alessio
Oomneno che se la intendeva coi nemici, torturato dalla man-
*
(1) Landolfo il Giovane , Cap. \ì: et eandem cantilenam de Ultreja Ul-
trejtty contaverunt.
338 VARIETÀ
caaza di vettovaglie, attaccato da ultimo dai Mussai iiiaoi, Huhì
uuji completa disfatta, uella quale rimasero uccisi i più e gli
altri turooo tatti pri^iouieri o dispersi.
Gli storici uoQ hanuo potuto mettersi d^accordo sulla posi-
zioue geoj^raftca della « terra Coritiana », e non è nostro com
pito discuterne le varie opinioni.
L'Arcivescovo Anselmo rimase ferito, ma potè sottrarsi colla
fuf^a e ricoverare,assieme al fido Landolfo, a Costantinopoli.
Colà Anselmo andò aggravandosi, sia per la ferita riportata,
sia per la grande tristezza della disfatta; e, assistito pietosa-
mente da Landolfo, venne a morire il 30 Settembre 1101 (1).
In tal modo finì la sciagurata intrapresa dei nostri maggiori ;
e così doveva finire, perchè le imprese, ancorché mosse da i< leale
altissimo, vogliono essere fondate su finalità raggiungibili, sul-
l'esatta conoscenza delle difficoltà inerenti e l'adeguata dispc»-
uibilità dei mezzi.
Data sepoltura onorata al suo Arcivescovo, Landolfo andò
in pellegrinaggio a Gerusalemme e poi fece ritorno in Italia.
Così è che, nell'anno 1103, lo troviamo a Koma dal Pontefice
Pasquale II, forse per dargli relazione dell'infelice spedizione,
dappoiché egli tji uno dei primi a poter tornare in Italia.
Questi particolari della vita di Landolfo sono ricavati dalla
storia del suo contemporaneo ed omonimo Landolfo il Giovane ,^
il quale, come vedremo in seguito, aveva certe ragioni di mala-
nimo verso Landolfo da Vergiate; per la qual cosa si lasciò
sfuggire qualche frase malevola verso di lui, di cui una è la
seguente (2): « Landnlphus vero de Yar agiate , qui primus in Co-
ritiana fuga fuerat, rediens a Rierosolymis, Bomam pervenit ».
L'affermazione che Landolfo fosse stato il primo nella fuga
Goriziana, ha tutto il sapore di una gratuita e maligna insinua-
zione; poiché non si butta là incidentalmente una frase, che
può tornare a grande disdoro della persona a cui si riferisce,
senza sentirsi in obbligo di circostanziare o di rettificare. Ma
sembra che lo Storico si sia trattenuto dal fare l'una e l'altra
cosa, fidando sull'effetto demolitore di quella frase malevola e
tendenziosa, senza incorrere nella responsabilità di dichiarare il
falso.
(1)Malabaila, loc. cit. « cantatemi solertiam et pradentiam expertas
:
ftiit Landulphi: qui sicuH viventi suniina inservierat assiduitate, ita a vivis
.exemplo iuxta persolvi solicite curavit i^.
(2) Landulp. luti. Gap. XIII.
VARIETÀ 339
Il suo giudizio reticente si risolve quiadi a favore del nostro
Landolfo, la cui condotta non poteva essere ascritta a pusiUa-
nimità, anche ammesso che fosse stato tra i primi a fuggire ;
poiché è evidente, che il dover suo di luogotenente dell'Arcivescovo
ferito era quello di rimanergli al fianco, di assisterlo, di portarlo
in salvo e di sostituirlo eventualmente negli incombenti di capo
della spedizione.
Appena giunto a Koma presso la Corte Pontifìcia, Landolfo
ebbe cognizione di gravissimi avvenimenti che funestarono Mi-
lano durante la sua assenza per la Crociata: Egli seppe cioè,
che quando a Milano fu nota la morte dell'Arcivescovo Anselmo
(a.1102), il Primicerio, radunati gli Ecclesiastici, i Nobili ed
ilPopolo, aveva loro proposto di nominare come Arcivescovo
Landolfo da Vergiate o Landofo da Baggio, che si sapevano
sulla via del ritorno dai Luoghi Santi. Ma una parte del Clero
e del popolo nominò senz'altro il Vicario Grossolano e questi ;
salì sopra la Cattedra arcivescovile e vi fu tenuto per legittimo
successore dello sventurato Anselmo.
Senonchè un tal prete Liprando, che durante le i)recedenti
lotte per la Giurisdizione Eomana era stato mutilato
del naso
e degli orecchi dagli eretici (e per tal ragione era assai benvo-
luto dal Clero e dal Popolo), dopo aver avuto parecchi screzii
coll'arcivescovo Grossolano, lo accusò pubblicamente di Simonia,
in tutte e tre le guise divisate dai Teologi, cioè per munus a
lingua, a manu, ah ohsequio e proi)ose di venire alla cognizione
;
del vero per mezzo del giudizio di Dio, in cui si sarebbe sco-
perta la verità o colla sua vita o colla sua morte (1).
Si compose una catasta di legna di quercia, lunga 10 braccia,
alta più di un uomo, in cui era aperto un varco largo non più
di un cubito e mezzo; e il 25 Marzo dell'anno 1103, appiccato
il fuoco alla catasta, Liprando si lanciò per quel varco infuo-
cato ed uscì sano e salvo dall'oj)posta banda.
(1) Nell'anno 1063 un Giudizio di Dio era intervenuto già a Firenze,
e ne era uscito illeso il monaco Giovanni Aldobrandino, che fu poi chia-
mato Giovanni Igneo. Alcuni anni prima dei fatti qui narrati, nel 1097, i
Crociati disputavano sotto le mura di Archas, intorno alla prodigiosa sco-
perta della lancia con cui fu aperto il costato del Salvatore ;a provarne
l'autenticità, il sacerdote Bartolomeo da Marsiglia entrò nelle fiamme di
un rogo ma uscinne così piagato dalle bruciature, che pochi giorni dopo
;
spirava, protestando sempre la propria innocenza e veracità (Y. Cokkadi,
Ann. delle Epidemie in Italia^ aWanno 1097).
340 Varietà
L'avvenimento è descritto dallo storico Landolfo Iunior»
con dovizia e precisione di |)articolari, da tradire nello stesso
tal
Storico la tema di non essere creduto; ed invero esso ba tanto
del maraviglioso, che il Verri è indotto a negarlo (1).
Ma se i particolari furono eccessivamente gonfiati, il fatto
sostanzialmente accadde: poiché Landolfo luniore non avrebbe
potuto ammanire ai suoi contemporanei una fiaba di tal genere, se
non ne fossero stati testimonii oculari. È certo però che la stessa
narrazione offertaci dallo Storico, ci offre gli elementi per rifiu-
tare tutto quanto di prodigioso vi abbia egli inserito.
Racconta egli infatti che, passato il primo stupore, la po-
polazione cominciò ad essere un poco incredula sul prodigio di
Liprando sia perchè il prete, nonostante le proteste d^essere ri-
;
masto illeso, aveva riportato offesa ad un piede e ad una mano y
sia perchè i Vescovi suffraganei non approvavano né il Giu-
dizio né il trionfo di Liprando.
Si riaperse quindi la questione e si ripeterono in città sedi-
zioni civili, combattimenti, omicidii.
Frattanto Grossolano era partito per Roma e il nostro Lan-
dolfo giungeva da Roma a Milano, coli' intento di metter la
pace tra i dissidenti, giusta il desiderio della Corte Romana.
Dal racconto di Landolfo luniore risulterebbe, che l'opera
svolta da Landolfo da Vergiate come paciere, fu subdola e
sleale; ma noi dovremo vagliare le parole dello Storico e diffi-
dare del suo giudizio, per le ragioni che esporremo in seguito.
Secondo Nostro si mostrò dapprima imparziale
lo Storico, il
e indifferente tra Grossolano e Liprando. Quando però si av-
vide che una tal condotta non faceva breccia negli animi ecci-
tati, diede a vedere di prendere anch'egli partito; e presenta-
tosi al Popolo ed al Clero, « a che dunque », diceva loro, « voi
andate moltiplicando guerre ed omicidi? Io vi prometto che-
ava n ti a Papa Pasquale, a tutta la sua Corte e ad un Concilio ,.
proverò con evidentissime ragioni e coll'autorità dei Canoni, che
Grossolano non può stare nell'ordine dei Vescovi, né in quello
dei Preti, e neppure in quello dei Chierici ».
Il Popolo ed il Clero gli prestarono tede e col consenso di
Grossolano e dei suoi seguaci, deferirono la controversia ad un
Concilio di Roma.
Fu posto tregua alle lotte intestine e, nelFanno 1105, cioè-
(1) P. Verri, Storia di Milam, Voi. I, C. VI.
VARIETÀ 341
<iue iiaaidopo dallo strepitoso G-iudizio di Dio, Laadolto da
Vergiate, Lipraado e Grossolano si presentarono al Concilio.
Il vecchio prete Liprando espose la lite ch'egli aveva avuto
<5on Grossolano; e Papa Pasquale, pur disapprovando Tesperi-
mento da lui fatto, come una violenta pretenzione al giudizio
^i Dio, nulla mosse contro di lui e lo confermò nella dignità
«d ufficio sacerdotale.
Richiese poscia a Liprando se era pronto a giurare di es-
sere stato forzato da Grossolano al Giudizio di Dio, nel qual
caso Grossolano sarebbe stato deposto; e siccome Liprando si
rifiutò a tale giuramento, che no)i sarebbe stato conforme al
vero, così Grossolano fu rimesso nella primiera sua dignità.
Durante il Concilio di Eoma, il I^ostro non disse verbo che
recasse disonore a Grossolano, né davanti al Papa, né alla di
lui Corte od al Concilio.
Da questa relazione sul Concilio, fatta dallo storico Lan-
dolfo il Giovane, si arguisce facilmente che Liprando, nono-
stante tutto lo scalpore che ne aveva menato, non riuscì a rag-
giungere la prova della sua accusa di simonia contro Grossolano;
poiché nel caso che l'avesse raggiunta, Grossolano sarebbe stato
deposto senz'altro, senza bisogno di riportare la questione al se-
condo quesito e cioè se fosse vero che Grossolano, precludendo
:
a Liprando qualsiasi altra via per comprovare la sua accusa, lo
avesse messo in condizione, anzi lo avesse forzato a ricorrere
s,\ Giudizio di Dio.
il capo d'accusa contro Grossolano,
Fallito è troppo natu-
rale che anche Landolfo da Vergiate si sia astenuto dal pro-
nunciare verbo che recasse disonore all'Arcivescovo, né davanti
^1 Papa, né alla di lui Corte od al Sinodo: « Landtilphus de
Vareglate, qui post ipsam Synodum fuit Astensis JEpiscopus^ neque
ante Papam, vel eius Curiam, vel Synodum, adversus Grossolanum
verbum ignominiosum protulit » (Land. luu. Cap. XII).
Ma qui é tutto il veleno dello Storico: perché, dopo di aver
accennato alla promessa di Landolfo di far squalificare Grosso-
lano (promessa verosimilmente condizionata, come vedremo in
seguito) ed accennato ora al suo silenzio davanti al Concilio,
buttò là l'inciso che, dopo il Concilio, Landolfo fu vescovo di
Asti. Il quale inciso tenderebbe a far supporre, che il Vesco-
vado di Asti rappresentava il turpe prezzo col quale Grossolano
aveva comprato il silenzio di Landol fo.
E il veleno di quelle frasi non fu inocuo, poiché anche uno
scrittóre della dirittura del Papebrochiò potè sospettare in se-
M2 Taeikta
guito, che veramente J^aiidollo «h» Vergiate losse feiaio corrotto
cou danaro da Grossolano (I); quasiccbè non bastasse alla cor-
ruzione il patteggiamento «lei Vescovado.
11 Malabaila (loc. cit.), volendo salvare Lan<iolfo «la Ver-
giate da tanta ignominia, cade in aperta contra<ldizione poiché, ;
dopo di aver riferito la versione dello Storico, cbe cioè Landolfo
si era impegnato col Popolo Milanese a dimostrare davanti al
Concilio l'indegnità di Grossolano come Vescovo, come prete e
financo come chierico, aggiunge poco dopo che a Koma « man-
tenne esattamente la parola data al Clero ed al Popolo di Mi-
lano, guardandosi solamente dal dire alcuna cosa che fosse a
Grossolano ignominiosa ».
O come mai si può affermare che mantenne le parole impe-
gnative summenzionate, se nulla disse di ignominioso verso Gros-
solano! Evidentemente l'una cosa esclude l'altra; e se si am-
mette che Landolfo mantenne i patti, come noi del resto non
ne dubitiamo, è duopo negare che la natura di quei patti fosse
quella voluta dallo Storico.
Il Giulini, che non muove eccezione al racconto di Lan-
dolfo il Giovane, tenta di giustificare il JS^ostro con delle con-
siderazioni tuttavia, che si risolvono in una condanna. Egli
scrive :« Chi esamina quel racconto «leve confessare che
,
nella condotta di Landolfo da Vareglate vi fu più sfoggio di
politica che di buona fede. La migliore via di scusare tale con-
dotta è quella di riguardare il fine lodevolissimo di terminare
le sanguinose guerre civili di Milano: poiché in tal guisa l'in-
ganno non riusciva dannoso, ma anzi utile di molto a chi era
rimasto ingannato ».
Secondo il Giulini adunque, il fine lodovolissimo di metter
pace tra le parti .potrebbe scusare i mezzi sleali usati: teoria
eticamente e praticamente sempre condannabile.
Ma la difesa della condotta del Nostro sgorga lampante
dalla considerazione dei personaggi implicati nella questione e
dai rapporti dello stesso Storico con uno di questi:
Dico subito, a onor del vero, che lo storico Landolfo luniore
appare di solito assai bene informato e coscienzioso. Tuttavia
è duopo riflettere, che la fonte da cui attinse i suoi convinci-
menti verso il Nostro, fu il prete Liprando, suo zio e suo pro-
ci) Papebroch. ad dien XXVII Inni, in Appendice de Venerabili Pre-
sbytero Liprando.
VARIETÀ 343
tettore; una tonte troppo impura, per non essere bacata di le-
gittima suspicione.
Lo storico Landolfo ci dipinge lo zio come un eroe, un santo, .
un titumaturgo; ma da tutti gli episodii che egli riferisce, quel-
l'uomo balza fuori come un fanaticp ed un arruffapo{)Gli, lontano
le mille miglia dalla mitezza e mansuetudine evangelica dei
veri Santi:
Quando ebbe mozzati il naso e le orecchie, quell'uomo stava
eccitando alla strage cittadini contro cittadini (a. 1075). Quando
fu invitato dall'Arcivescovo Grossolano all'obbedienza, egli tirò
fuori il Breve papale che lo diceva « martire di Cristo
per »,
sottrarsi alla giurisdizione del Superiore; e svalutò così
suo il
martirio, il cui movente e premio <loveva essere ultramondano,
presentandolo a guisa di un conto da far saldare a tempo op-
portuno ed in mondana moneta. Quando nella Chiesa di S. Am^
brogio gli fu intimato da Grossolano, che era affiancato da due
suoi fedeli, di circostanziare le accuse di simonia e di inconti-
nenza, « vedete là tre grandi diavoli » gridò, « che cercano
d'ingannarmi colla loro sapienza e col loro danaro; ma io mi
appello al Giudizio di Dio, che non inganna»; e così sfuggì
alla giusta richiesta ed al diritto di difesa dell'Arcivescovo.
Quando si accinse all'esperimento del fuoco, egli fece la parte
lei giocoliere, che ingoia stoppa e butta fuoco dalla bocca senza
scottarsi. E il risultato di quel Giudizio fu nullo, anzi nega-
tivo: riprovazione immediata <lei Vescovi Snffraganei che si
trovavano a Milano e, per quanto meno sollecitamente, incre-
dulità e riprovazione della folla. che Dio
Poiché il pretendere
sentenzii con un prodigio,misurata superbia;
è tracotanza, è
poiché confidare nel prodigio per apparire Santi davanti al po-
polo, è stupida vanità; poiché industriarsi di compiere una si-
mile prova con nessun danno o col minor danno possibile, é
ciurmeria.
Se si crede che Dio sia disposto a salvare l'incauto che tra-
volsa alle fiamme, fors'anche cogli indumenti intinti di sostanza
ignifuga, é d'uopo credere che lo salverebbe ugualmente, anche
se si soffermasse ignudo sulla pira a cantare i salmi di Daniele.
L'essere uscito dalle fiamme illeso o quasi, è la prova maggiore
della ciurmeria di Liprando: poiché frate Bartolomeo da Mar-
siglia,che con ugual presunzione ma con minore scaltrezza
tentò la prova del fuoco, ne uscì tanto malconcio da morirne
pochi giorni dopo.
E fu un uomo come Liprando l'informatore dello storico
Ui Varietà
Landolfo il Gioviiue: il quale a sua volta, sia per l'ainoie e la
riconoscenzji verso lo zio che lo proteggeva, sia per uaa in-
couscia vanità di apparire legato in parentela ad un Santo Tau-
maturgo, era indotto a credergli ciecamente e ad avversare co-
loro che lo avevano contrastato. Ora è bene riflettere che, se il
Giudìzio di Dio fu reso vano, se Liprando non potè ottenere
dal Concilio la deposizione di Grossolano, ciò fu dovuto sopra-
tutto al contegno imparziale di Landolfo da Vergiate, il quale,
davanti ad un accusatore che non comprovava le proprie ac-
cuse, non volle rendersi con lui solidale e preferì tacere. Quel
silenzio dovette essere ben amaro per Liprando!
Ed ecco spiegata la malevolenza dello Storico verso Lan-
dolfo da Vergiate malevolenza trasmessa di seconda mano, non
:
dichiarata apertamente, per non contrastare colla unanime ve-
nerazione tributata dai contemporanei a quelP Ecclesiastico, ma
celata in frasi che hanno tutto il sapore di maligne insinuazioni,
come è quella sopra citata: « qui primus fuit in Coritiana fuga » e
l'altra testé riferita « qui post ipsam Synodum fuit Astensis Epi-
:
scopus, adversus Grossulanum non verhum ignominiosum protulit ».
Se fosse vero quanto si rileva dallo spirito di una di queste
frasi, che cioè Landolfo acquistò il vescovado barattandolo con
un turpe inganno, Liprando per il primo ne avrebbe menato il
pili grande scalpore, e avrebbe bollato Landolfo di simonia, per
munus a munus ah ossequio; e i vescovi presenti al
lingua, per
Concilio e popolo Milanese ne sarebbero rimasti scandolezzati,
il
e la fama di quel Prelato sarebbe stata per sempre demolita;
poiché la macchia è di tal gravità, che non basta la vita intera
di un uomo a cancellarla.
Invece della protesta e dello scandalo, silenzio assoluto da
parte di Liprando; ed il nipote, che ne eredita il rancore, non
pure si attenta di sollevare francamente l'accusa, ma si limita
all'insidia di frasi intenzionali, espresse con tale timidezza, da
rivelarne la nessuna attendibilità.
E che lo Storico, nella narrazione di ciò che riguarda lo
zio, abbia passato il segno del verosimile, si deduce da un altro
Capitolo della sua Storia (Gap. XIV), nel quale ci vuol far cre-
dere che un Angelo gli sia venuto incontro ad annunciargli una
malattia di Liprando « mihi Angelus occurrit dicens : Presbiter
:
LiprandMS rediens a Valtellina infirmus jacet ad Monasterium
de Clivate ». Era tanto il desiderio di gabellare per un Santo
miracoloso lo zio prete, che non si peritò di incomodare anche
un celeste messaggero !
VARIETÀ 345
È evidente che, benché lo Storico Landolfo Juniore si di-
jmostri quasi sempre veritiero e coscienzioso, per quanto riflette
la bega di Liprando e il giudizio sul ì^ostro, egli fu deviato
dalle informazioni inesatte, dall'amore e dalla venerazione che
professava allo zio.
Ohe se poi ci facciamo a considerare il carattere dell'Arci-
vescovo -Grossolano, noi ci persuaderemo sempre piti che il torto
doveva essere dalla parte dell'iroso ed impulsivo Liprando.
Grossolano, quantunque « celeberrimae Comitissae Mathildi
sanguine junctus » (1), si era adattato alla vita dell'eremo, dove
forse avrebbe continuato a vivere, se non lo avessero di là tratto
gli inviati di Anselmo. Nominato Vescovo di Savona e poi Vi-
cario a Milano per il favore dei Nobili e di parte del popolo che lo
vedeva mal vestito e frugale, non cessò dal mostrare mortifica-
zione, con gran disprezzo del mondo; e il suo contemporaneo
card. Bernardo degli liberti, che fu poi innalzato agli onori degli
altari, non disdegnò di portargli il pallio di Vescovo Metropoli-
tano. Non vi ha dunque in lui l'abito del simoniaco, avido di
gloria e di potenza senza contare che nessun fatto concreto fu
;
addotto da chichessia contro di lui, che ne comprovasse l'accusa.
Per tornare al Nostro e ricostruire 1' imagine del vero,
occorre pertanto riportare l'azione di Landolfo da Vergiate a
quella di imparziale pacificatore, proponendo egli un mezzo ter-
mine che non ispiacesse a Liprando ne a Grossolano ed è assai ;
probabile che le promesse da lui fatte al Popolo Milanese, fos-
sero di carattere condizionale qualora cioè Liprando avesse por-
:
tato al Sinodo la prova delle sue accuse, egli Landolfo si impe-
gnava a dimostrare la incompatibilità di Grossolano, non solo
•come Vescovo, ma anche come Prete e come Chierico. La qual
condizione non essendosi adempiuta, Landolfo si astenne dal
pronunciare parole ignominiose contro Grossolano.
E se non bastassero le ragioni suesposte ad infirmare il giu-
dizio velato dallo Storico, valga la testimonianza del contempo-
raneo S. Bernardo, che così scriveva ai vescovi di Aquitania :
« Episcopus Landulfus astensis..., cuiiis gloria specialis et precipua
sanctitas et auctoritaSy etiam hostibus reverenda.,.. ».
Da quanto abbiamo esposto si deve quindi concludere, che
al disopra delle maligne insinuazioni dello Storico Landolfo
Juniore, la figura del Nostro riappare tutta tersa ed illibata.
(1) F. Argellati, Cfr. O. Masnovo, Pier Grosolano e il suo epitaffio
^ Arch. St. Lomb. » Fase. l-II, 1922.
Arch. Stor. Lomb., Anno XLIX, Fase. III-IV. 23
346 VARIETÀ
III.
Landolfo Vescovo di Asti.
Insediatosi Vescovado di Asti, Landolfo da Vergiate
nel
subito si grande liberalità, dimentico di sé
distinse per la sua
stesso per prodigarsi a vantaggio dei poveri e degli Istituti Ec-
clesiastici.
Predilesse i monaci Benedettini, in omaggio ai grati ricordi
della fanciullezza e della gioventìi passata con loro a Sesto Ca-
lende ed a Pavia; ad essi fece larghe donazioni ed aggregò al
loro convento di S. Anastasio le Chiese di S. Michele e S. Lo-
renzo, nonché tutti i beni che il Vescovado possedeva in Mon-
tanerio, Vulpilio e Travezole.
La sua vita semplice e caritatevole gli conciliavano gli
animi di Nobili e di Signori, che lo facevano segno di copiose
elargizioni; ed egli prendeva con una mano e distribuiva sag-^
giamente con Paltra, <love lo richiedeva il bisogno ed il vantaggio
del greggie affidatogli.
Racconta il Malabaila (loc. cit.), che nell'anno 1109 scoppiò
in Asti una terribile epidemia, la quale mietè ben ventottomila
persone. Alla cura dei malati erano stati adibiti dei medici e
chirurghi forastieri specialmente provenienti da Losanna; e
,
siccome alcuno d'essi sapeva Parte di conferire la salute sopra
tutto colla magia, così accadde che, coU'andare del tempo, pa-
recchie donne si dedicarono a poco a poco a quell'arte, nell'in-
tento di conciliar pratiche amorose e di compiere atroci venefici.
La qual cosa essendo andata all'orecchio del santo Vescovo, fu
da questi deferita al giudizio dei Magistrati cittadini, affinchè
il mal costume fosse arrestato e non rimanesse impunito. Co-
storo inquisirono le colpevoli, alcune delle quali appartenevano
alla prima nobiltà, e le condannarono ad essere bruciate vive.
Ma il santo Vescovo opinò che l'esecuzione di una tal sen-
tenza avrebbe suscitato occulti rancori nei parentadi, che poi si
sarebbero scatenati apertamente in odii e dissidii, con grandis-
simo danno della cosa publica per il che commutò la pena nella
;
detenzione perpetua tra le pareti domestiche. Egli pensava che,
qualora vi fossero state altre fattucchiere clandestine, queste
avrebbero riportato maggior terrore da una tal punizione diu-
turnamente espiata sotto ai loro occhi, che non dal supplizio
VÀBifeTÀ 347
del fuoco, assai più atroce, ma momentaneo e quin<li facile ad
essere dimenticato.
Se noi ci riportiamo a quei tempi terribili e sanguinosi, dob-
biamo ammettere che la mitezza d'animo del buon Vescovo fu
pari alla sua prudenza e saggezza. In verità, ragionando colle
idee della civiltà attuale, sembrerà eccessiva anche la pena della
})erpetua segregazione inflitta a quelle sciagurate, forse non
d'altro ree che di assurde pratiche superstiziose ed innocui scon-
giuri. Ma, in quei tempi di ignoranza, si attribuiva alla magia un
commercio abbominevole cogli spiriti infernali, che occorreva
distruggere col fuoco. Così fu fatto durante tutto il Medio Evo
ed anche i tempi a noi piìi vicini; è noto che nelle valli dei
Grigioni, coll'assenso dello stesso S. Carlo Borromeo, furono
bruciate vive alcune donne imputate di stregoneria; e con esse
anche il prevosto di Rovereto, che undici testimonii asserivano
(li aver veduto trescare coi diavoli, vestito dei paramenti e col
sacro crisma in mano! (1).
Landolfo fu per molti anni amico dell'Imperatore Enrico V^
tìglio di quell'Enrico che subì l'umiliazione di Canossa; gli fu
compagno di viaggi e sMntromise piìi volte tra lui e il Papa^
come amichevole compositore.
Ma il contrasto tra i due j)oteri si fece poi inauditamente
acuto, sconvolgendo tutto e tutti in un'orgia di odii e di ven-
dette; e quando l'Imperatore provocò lo scisma colla creazione
dell'antipapa Burdino, Landolfo ed il popolo astense resistettero
coraggiosamente contro le imposizioni imperiali. La città, stretta
d'assedio da un esercito di Enrico, fu ben presto obbligata a
capitolare, versando all'Imperatore centomila libre d'argento,,
fornendo vettovaglie e consegnando duecento ostaggi. Allorché
quei patti furono ademinuti, Pinrico, sprezzando il giuramento^
dato, fece decapitare degli ostaggi e gli altri mandò in
trenta
Germania miniere (a. 1118).
ai lavori delle
Trascorsero dodici anni di relativa quiete, quando Landolfo
si trovò impigliato in una nuova terribile lotta. Questa volta
ebbe di contro lo stesso suo diretto Superiore, l'Arcivescovo
Metropolitano Anselmo della Pusterla, che coi Milanesi parteg-
giava per l'antipapa Anacleto IL Landolfo non solo contrastò
(1) Cfr. L. Fumi, U Inquisizione e lo Stato di Milano, 1910, p. 101-123.
Ivi è accennato alle dichiarazioni del padre Carlo Bescapè, che impartì a
quei disgraziati gli ultimi conforti religiosi e diede relazione del supplizio
ai suoi Superiori, in data 8 Dicembre 1583.
I
'Ó4S VARIETÀ
agli ordini del Metropolitano, ma si impose a molte Diocesi del-
ritalia e della Francia; per il che Anselmo della Pusterla gli
fece devastare il territorio astigiano e lo costrinse a nuov^ ta-
glia. Non riuscì però a distoglierlo dalla disciplina verso il su-
premo Capo delhi Chiesa, perchè appena le soldatesche milanesi
se ne furono andate, Landolfo invitò ad Asti Papa Innocenzo II,
che si trovava esule in Francia (a. 1130J.
Giunse il Papa sollecitamente, accompagnato da quel S. Ber-
nardo aquitano, che fra tante insanie e bassezze lampeggiava
come un Arcangelo; e dopo le accoglienze oneste e liete, Lan-
dolfo li accomjjagnò fino a Piacenza, ove tutto era preparato per
un Concilio. Ma colà Landolfo prese tosto commiato e ritornò ad
Asti, temendo che durante la sua assenza l'Arcivescovo Anselmo
maturasse qualche vendetta.
^ Ritornò stanco ed emaciato dalle fatiche, dagli anni e dai
travagli. Sentiva il santo Vescovo che si avvicinava la sera della
sua vita laboriosa e, come il buon mietitore che alla fine della
giornata si apparecchia a ricevere la mercede, tutto si raccolse
nelle opere di carità e nella meditazione.
Aveva vissuto e lavorato assai, in un secolo di rilasciatezza
mondana e di esaltamento spirituale; in mezzo ad un continuo
torbido giuoco delle passioni, che intralciavano il passo e intor-
bidavano la luce della stessa Chiesa, custode della verità eterna
e guida agli uomini verso la felicità immortale.
Durante un trentennio di apostolato, ebbe la gioia di inten-
samente amare e di essere riamato con altrettanto fervore. Ma
tuttavia egli aveva motivo di versar lacrime di sangue sulla
tristizia dei suoi tempi, che lo avevano costretto per ben due
volte a contrastare il potere civile dell' Imperatore e quello ec-
clesiastico del Metropolitano; che da uomo banditore del man-
sueto Evangelio, lo avevano forzato ad essere uomo di spada;
che per tutelare la salute spirituale del Popolo a lui affidato,
ne aveva due volte provocata la rovina materiale.
Sciagure immeritate, sulle quali il suo cuore poteva versar
lagrime di sangue, ma su cui la sua coscienza non lo aveva a
rimordere, bensì a consolare.
Landolfo morì il 7 Giugno dell'anno 1134, nel trentunesimo
anno di suo Pontificato. Fu lungamente rimpianto dal l'orbata città
e dalla Diocesi e la sua salma, come quella di un Santo, fu
rinchiusa in marmorea urna e collocata sull'altare di S. Agnese,
dentro la Cattedrale.
Il giorno della sua morte fu inscritto nel Calendario degli
VARIETÀ 34^
antichi Breviari, dove, al dire del Malabaila, « ita adnotatus le-
gitur : VII Idus Junii ohiit beatae memoriae Landulphus JEpiscopus
Asfensis ».
IlMalabaila ritiene che Landolfo sia stato dichiarato santo,
oltre che beato, per il fatto che il suo corpo fu esposto alla ve-
nerazione dei fedeli in sull'altare. E in sull'altare rimase almeno
fino all'anno 1450, perchè in quell'anno l'Arciprete Matteo Ca-
tena lasciava erede dei suoi averi la Cattedrale di Asti, alla
condizione di aver sepoltura nella Cappella di S. Agnese, presso
l'urna marmorea ove riposava il corpo del Beato Landolfo Ve-
scovo (1).
A, Bellini.
(1) Ad una mia lettera in proposito, fu così risposto dalla Curia Ve-i
scovile di Asti, in data 24 Gennaio 1922 : « La cassa marmorea di Lan-^
dolfo non esiste più; non vi ha più alcuna epìgrafe, né perdura il culto
verso le reliquie ».
I De Robiano
e il loro avello in S. Lorenzo.
HI eatra nella basilica di s. Lorenzo in Milano, e volge
i suoi passi a destra, s^incontra presso
la cappella
oggi dedicata a s. Antonio di Padova, in un mae-
stoso sarcofago di stile gotico-lombardo rialzato dal
suolo su quattro robuste colonnette. Esso giace sotto un' arcata
ogivale, sormontata da un triangolo a sesto acuto, la cui pa-
rete porta un'affrescoil quale rappresenta la Vergine in trono
fradue devoti inginocchiati, che le sono raccomandati da s. Am-
brogio e da s. Lorenzo o s. Stefano, come altri interpretano
quella figura di santo. Ma ciò che più stuzzica la curiosità
del visitatore si è che il sarcofago non porta epigrafe funeraria,
ma soltanto lo stemma dei de Robiano, stemma ripetuto a co-
lori nel soprastante archivolto.
L' arma gentilizia dei de Robiano ha lo scudo triangolare
spaccato nel primo di azzurro inchiavato con tre gigli d' oro,
:
nel secondo di argento. La si riscontra pure nel prezioso codice
« Armi Antiche », della fine del quattrocento, esistente nella
Trivulziana. I de Robiano ebbero forse i tre gigli di Francia
per qualche servizio prestato ai D'Angiò.
Antica famiglia milanese era quella dei de Robiano o Robiani.
La memoria più antica che ho trovato di questa stirpe è in un
atto del giugno 1052. Vi si parla di un Olderico « de Robiano »
vivente a legge longobarda, prete dell'ordine dei Decumani e
officiale della chiesa di s. Maurilio in Milano, figlio del q. Ar-
naldo « qui fuit de loco Robiano » (l). Pure della medesima schiatta
dev'essere Prandolfo, prete dell'ordine dei Decumani e officiale
(1) Bibl. Ambros., Mas. Della Croce, voi. IIL
YARIETÀ 351
'della chiesa di s. ISTazaro, figlio del q. Lanfranco giudice detto
•de Eobiano, il quale nel 1087 ricevette in livello alcuni beni
del luogo di Bagnolo da Azzone abate di s. Vittore il contratto :
'fu sottoscritto da vari testimoni nei quali, osserva il Giulini, si
riconoscono i progenitori di alcune nobili famiglie milanesi (1).
Evidentemente i de Eobiano assunsero il cognome dal luogo
di provenienza. Nel milanese due sono i villaggi che portano
il nome di Eobiano o Eobbiano uno in pieve d' Agliate Brianza,
:
•e l'altro nella pieve di S. Giuliano. Da alcuni indizi però si
può ritenere che i de Robiano siano provenienti dal primo (2).
Infatti, da una carta pubblicata dal Mazzucchelli, e dal mede-
simo ritenuta degli ultimi anni del secolo XII, si rileva che un
Pagano « de Eobiano », insieme ad alcuni da Giussano e ad un
Lotario di Arosio e a qualcun altro, provenienti dai dintorni.
(1) GiULiNi, Memorie spettanti alla città e campagna di Milano, 2*
ediz., voi. II, p. 574.
(2) li Bombognini scrive che
Robiano era soggetto otto secoli fa
«
Bombognini, Antiquario della diocesi
all'antica famiglia Giudici ». Cfr.,
di Milano, Milano 1790, pag. 160. Di questa famiglia in Robiano non
ho trovato menzione alcuna. Ritengo pertanto verosimile che i Giudici
del Bombognini non siano altri che i nostri de Robiano taluno dei
quali esercitò l'ufficio di giudice.
È
noto poi che a Robiano furono scoperti negli ultimi anni
del secolo XVIII degli avanzi nel sottosuolo, i quali comunemente ri-
tengonsi appartenenti ad una villa romana. Cfr., Redaelli, Notizie isto-
riche della Brianza, Milano 1825, p. 105. Il mosaico, tuttora esistente,
venne studiato, con un sopraluogo, da una commissione composta di
Luigi Zerbi, Luca Beltrami e Vitaliano Rossi il 10 febbraio 1888. Nella
relazione non si dice a qual secolo possa appartenere, tuttavia la man-
canza in esso di ligure simboliche o di squisiti ornati mi fa supporre
che non sia da attribuire al periodo luminoso dell' arte romana,
bensì a quello della decadenza e probabilmente al secolo IV. Infatti
una terracotta (antefìsa) fu giudicata dai prof. Pompeo Castelfranco
opera di quel secolo antefisa che insieme ad un'ara anepigrafa e ad
;
alcune chiavi medioevali —
tutti oggetti da me raccolti e provenienti
dal sottosuolo di Robiano —
donai al museo archeologico di Milano a
mezzo dello stesso Castelfranco. Inoltre nel 1910, mentre si facevano gli
scavi^ per 1' allargamento del coro delia chiesa, ad un metro di pro-
fondità si scoperse un tratto di muro con affreschi. Chiamai per una
visita il dott. Antonio Magni di Calpuno, distinto archeologo, il quale,
giudicando dal materiale dì costruzione, lo dichiarò avanzo di un'antica
•chiesuola cristiana con abside forse del secolo VIII o IX. Ad ogni
modo il muro oogli affreschi non venne distrutto ma di nuovo interrato.
k
352 VARIETÀ
era tra ì più influenti cittadini milanesi di Porta Coniasina, :ui
quali spettava, come vicini, il diritto di inspatronato dell' ospe-
dale di 8. Simpliciano situato nei contini <iella stessn porta (!)
Un'altro indizio sarebbe che nel 1447 vi era controversia tra i
fratelli Donato e Pietro « de Kobiano >, abitanti in Milano e
tì^li del q. Giovanni, per una divisione ereditaria di beni si-
tnati nel vicino paese di Verano (2). Parimenti un Gio: Pietro
Antonio Kobbiano, milanese, nel 1558 possedeva beni nei vicini
luoghi di Giussano e di Arosio (3). D'altronde che i de Kobiano,
fossero oriundi dal luogo di Kobiano, in pieve d' Agliute, lo ri-
tenne anche il Sitoni di Scozia (4).
In quale tempo poi e per quali cause siansi trasportati ad
abitare in Milano non saprei dire.
Col secolo XIII li troviamo occupati in pubbliche cariche
cittadine. Nel 1215 fra i membri del Consiglio del Comune di
Milano, radunati a ratificare 1 patti di alleanza con Vercelli,
vi è un Guglielmo « de Kobiano » (5). Durante le lotte tra i
Torriani ed i Visconti, parecchi dei de Kobiano si schierarono
col partito j)opolare, seguaci della politica torriaua. Di
fedeli
particolare menzione in quel tempo è un Belotto « de Kobiano »y..
il quale, tra Paltro, fu il primo dei quattro personaggi milanesi
chiamati a testimoniare nel 1265 il patto dell'alleanza di Milano
con Como, Bergamo, Lodi, e Novara, costituente la gran lega
guelfa sotto l'unica podesteria di Filippo Della Torre (6).
Pili tardi invece, eun Beltrame o Beltra-
cioè nel 1321,
mino de Kobiano, con Maffiolo Cane o Cariono, è mandato am-
(1) Mazzucchelli, Osservazioni sopra il rito Ambrosiano^ Milano 18l!8.-
p. 308.
(2) ANM, rogito Brenna Pietro q. Giovanni. Il Sant'Ambrogio—
accenna alFesistenza, sul finire del secolo XIV, di un canonico e di
una cappella de Robìano in Agliate. Di ciò non ho trovato notizia. Sul
finire di quel secolo esisteva infatti in pieve d' Agliate, se non un ca-
nonico, certo una cappella de Robiano, ma essa corrisponde all'attuale
parrocchiale del luogo di Robiano.
(3) ACM, Famiglie, Robiani.
(4) ASM, Sitoni di Scozia^ cart. 68.
(5) Manaresi, Gli atti del Comune di Milano fino alVanno MCCXYÌ^
Milano, 1919.
(6) Gallavresi, La riscossa dei guelfi in Lombardia dopo il 1260
e la politica di Filippo della Torre, in questo Archivio anno 1906,.
p. 428.
YARIETÀ 353
basciatore ad Avignone da Matteo Visconti presso il papa Gio-
vanni XXII onde intercedere l'assoluzione della scomunica (1).
Nel 1340 un Filippo « de Kobiano » è ricordato fra i decurioni
milanesi (2).
Sul finire del secolo XIV il Fagnani ci rammenta un Antonio
de Kobiano, detto Antonino, eletto il 13 marzo 1390 fra i mo-
deratori del censo, e tre anni dopo fra i XII di provvisione, il
quale fu il 19 agosto 1412 esiliato da Filippo Maria Visconti.
Vi è pure un Lanzarotto, eletto il 1 giugno 1390 fra i moderatori
del censo (3). Antonio, detto Antonino, e Lanzarotto, erano
in quel tempo fra i membri più distinti della loro schiatta il :
primo in un atto del 1404 è chiamato « spectabilis et egregius
miìes D. frater », aveva il governo delle case di Noceto e di
Kesigniano, in diocesi di Parma, appartenenti all'ordine ospi-
taliero di s. Giovanni Gerosolomitano, e vi costituiva suo pro-
curatore Lorenzo de Lombardis di Parma il secondo nel 1402 ;
lo troviamo tra i quaranta principali patrizi milanesi che per
il Comune di Milano prestarono giuramento di fedeltà al nuovo
duca Gian Maria Visconti (4).
Inoltre i de Robiano appaiono in questi anni fra i rappre-
sentanti della cittadinanza milanese presso la Fabbrica del Duomo,.
Lanzarotto lo è piti volte dal 1390 al 1402, Marco nel 1402,
Giovannino nel 1419, ecc. (5).
Orbene, com'era in uso presso le più illustri famiglie cit-
tadine, alcuni de Robiano nella basilica di s. Lorenzo vollero
erigere, vicino all'altare o cappella dei Ss. Cosma e Damiano,,
la loro tomba.
Diego Sant'Ambrogio scrive che i de Robiano, quelli che si
eressero l'avello, facessero pure in quell'occasione costruire una
cappella gentilizia dedicandola a s. Antonio di Padova (6). Ciò
Giannina Biscaro, Le relazioni dei Visconti di Milano con la
(1)
Chiesa, in questo Archivio anno 1919, p. 87 Gerolamo Biscaro, Dante
;
Alighieri e i sortilegi di Matteo e Galeazzo Visconti contro papa Gio-
vanni XX ri, idem anno 1920, p. 462, 471.
(2) ASM, Sitoni di Scozia, cart. cit.
, (3) Ambrosiana, Mss. Fagnani, Famiglie.
Bibl.
(4) ANM, rogito Regni Pietro q. Ambrogio; Ioli, de Sitonis de
Scotia, Vicecomitum Burgi Batti Mar chionum, etc, Milano 1714, p. 28.
(5) Annali della Fabbrica del Duomo, voi. I e II.
(6) D. Sant' Ambrogio, // sarcofago dei De Bobiano nella basilica*
di 8. Lorenzo in L'osservatore cattolico, Milano, 14 marzo 1908.
35^ VAUiKTA
non ò esatto. Gli atti di visita di s. Carlo e di Federico lior-
romeo, ed documenti anteriori e posteriori, parlano sem-
altri
pre della cappella dei Banti Cosma e Damiano, ma non di
s. Antonio. Di una cappella a questo santo in s. Lorenzo vi si
accenna soltanto nel secolo XVIII e non prima, e tu eretta là
dove sorgeva quella dei Ss. Cosma e Damiano, caduta in ab-
bandono e mina già sul finire del secolo XVI (1).
Che de Kobiano abbiano essi fatto costruire uua cap-
poi i
pella ai Ss. Cosma e Damiano non solo non mi risulta du al-
cun documento, ma trovo che sul cadere del secolo XIII esi-
steva già un' altare dedicato a questi santi (2). Chiaramente si
ha invece che essi vi avevano annessi dei fìtti livellari per ce-
lebrazione di messe, i quali ai tempi di s. Carlo davano un
reddito di circa 70 lire imperiali. L'onere era di fondazione dei
fratelli Beltramo e Lorenzo « ex legato predecessorum suorum »
e cioè di Priucivalle ed Ambrogio (3). Così risulta da un'istru-
mento di transazione tra i patroni de Kobiano e il capitolo di
s. Lorenzo, rogato da Giovanni de Apiano 1' ultimo di aprile
dei 1448, nel quale venne concordato che il diritto di elezione
del cappellano spettasse ai patroni ma la conferma al capitolo.
Obbligo del cappellano era di celebrarvi quattro volte alla set-
timana, tra le quali tassativamente al martedì e alla domenica.
In realtà però ai tempi di S. Carlo il cappellano non vi cele-
brava che una sol volta alla settimana (4).
La cappella finì coli' essere talmente trascurata che nel
1590, oltre a non essere fornita di paramenti propri, aveva anche
l'altare minato. E poiché la corporazione dei battiloro aveva eretto
nel 1580 una cappella a s. Quirico, loro patrono, a detta cap-
(1) AAM, Farrocchia di S. Lorenzo, voi. Ili e XVI ; ASM., Gov.
p. a. Culto, cart. 400.
(2)Magistketti e Monneket, Liber notitiae sanctorum Mediolani,
col. 87. —
Di questo altare non vi è cenno nel « Notitia cleri medio-
lanensis de anno 1398 circa ipsius immunitatem » verosimilmente perchè
non vi era ancora annesso alcun legato redditizio.
(3) In un atto del 23 ottobre 1449 Beltramo, figlio del q. Ambrogio,
è detto patrono ed economo della cappella dei Ss. Cosma e Damiano.
Cfr. ANM, rogito Regni Pietro q. Ambrosolo. Di chi fossero figli
Princi valle e Ambrogio non ho trovato, e perciò non so dire in qual
grado di parentela fossero congiunti con Antonio e Lanzarotto.
(4) AAM, Farrocchia di s. Lorenzo, yoI. III.
VARIETÀ 355
pelia furono trasferiti diversi legati, e tra questi quello annesso
all'altare dei Ss. Cosma e Damiano (1).
Tralasciando vicende a cui andò soggetta la cappellania
le
dei Ss. Cosma e Damiano,
le quali non entrano nello scopo di
queste indagini, ritorno a far parola del sarcofago.
11 Rota ed altri lo dicono eretto nel 1411 (2), e il Sant' Am-
brogio, in quanto il monumento risponde in tutto allo stile
gotico dei primi anni del sec. XV, accetta tale data, a noi sol-
tanto pervenuta più per tradizione, egli dice, che per documenti
positivi. E che sia stato costruito in quell'anno o poco prima,
per quanto non consti da alcun documento, non c'è difficoltà a
convenire coi sopradetti scrittori. Certo che si potesse stabilire
uoa data sicura per Paliresco dell' arcosolio, ora assai sciupato
attraverso i ritocchi, ne verrebbe indirettamente chiarita anche
quella per il sarcofago, perchè è evidente che i due lavori de-
vono essere stati compiuti pressoché contemporaneamente. Ma
purtroppo non è così. Mentre il Malaguzzi-Valeri e il Sant'Am-
brogio lo vorrebbero opera del quattrocento, il primo perchè
vi ha riscontrato con una tavola del cremonese
delle affinità
Cristoforo de' perchè vi scorse la mano dei
Moretti, e l'altro
pittori Isacco da Imbonate e Paolo da Montorfano i quali nel
primo decennio del quattrocento lavoravano in Duomo, il Toesca
invece lo ascriverebbe alla fine del trecento perchè vi osservo
delle relazioni stilistiche coli' anonimo miniatore del codice di
Parigi e cogli affrescatori di Mocchirolo, Lentate, e Albizzate (3).
Tuttavia, pur ammettendo le predette relazioni stilistiche, mi
sembra non ripugni che il lavoro possa essere stato eseguito
anche nei primordi del quattrocento.
Degli artefici del monumento nessuna notizia invece quali ;
ordinatori il Sant'Ambrogio, per via di ipotesi, fa i nomi del
prete Marco, canonico in S. Lorenzo e nel 1402 fra i rappre-
sentanti della città presso la Fabbrica del Duomo, e di Antonino,
(1) AAM, Parrocchia di 8. Lorenzo^ voi. Ili (atto di visita del
22 marzo 1590), e voi. V (atti di visita del card. Federico Borromeo
del 1608).
(2) Rota, S. Lorenzo^ Milano 1882, p. 24 Vekcja, Nebbia e Mar-
j
zoRATi, Milano nella storia, nella vita contemporanea e nei monumenti^
Milano 1906, p. 324.
(3)Malaguzzi-Valeki, / pittori lombardi del quattrocento^ Milano
1902, p. 92 D. Sant'Ambkooio, loc. cit. Toksca, La pittura e la mi-
; }
matura nella Lombardia^ Milano 1912, p. 294.
350 VARIKTÀ
dei Xlijidi provvisione sotto Gian Galeazzo Visconti, raffigurati,
secondo lui, nell'affresco (Marco o Marcolo a destra di chi l'os-
serva e Antonio a sinistra), i quali sarebbero poi stati sepolti
nell'avello. Questo sarebbe rimasto non in tutto ultimato e cioè
8enza"'epigrafe perchè un Antonio, figlio di Antonino, era stato
esiliato con molti altri nel 1412 da Filippo Maria Visconti,,
per il sospetto di aver concorso a tramare la morte di Gian
Maria.
La' supposizione si basa su elementi in parte non esatti e
in parte non convincenti. E innanzi tutto il Fagnani, sul quale
si appoggia il Sant' Ambrogio per affermare che Antonino ebbe
un figlio chiamato Antonio, dice solamente che Antonio, detto
Antonino, tu eletto nel 1390 fra i moderatori del censo e nel
1393 tra i XII di provvisione, e piìi sotto aggiunge che Antonio
fu esiliato il 19 agosto 1412 da Filippo Maria (1), Mi sembra
ovvio trattarsi qui di una medesima persona e non già di padre
e figlio.'^E in questo mi conferma il non aver trovato che An-
tonio, detto Antonino, abbia avuto un figlio pure con tal nome.
Con ciò cadrebbe l'ipotesi che il monumento sia rimasto senza
iscrizione per l'esilio del supposto figlio di Antonio. Le ragioni
poi per dire che Marco possa essere l'altro degli ordinatori, il
Sant' Ambrogio le vede nel fatto che Marco era canonico in
8. Lorenzo, e nel 1402 fra i rappresentanti della cittadinanza
milanese presso la fabbrica del Duomo, da cui potè probabil-
mente ottenere per speciale favore il marmo di Gandoglia per
la costruzione del sepolcro. E potrebbe darsi che lo sia. Senonchè
come ho^sopra osservato, anche Lanzarotto occupò tale carica
e noQ una sol volta. E si noti che Lanzarotto era fratello di
Antonio, detto^Antonino, (2) mentre ciò non mi risulta di Marco (3)..
(1) Fagnani, loc. cit. —
Il bando di Filippo Maria comprendeva
12Q [persone, e fra queste « frater Antonius de robiano ». Con altra
ducale del 10 giugno dell' anno seguente ne graziava 59, ma il nostro
fu tra gli esclusi. Cfr., ACM, Lettere ducali, 1410-1413, fol. 157 e
fol. 169.
(2) In un atto del 24 ottobre 1388 Lanzarotto, Antonino, e Mozollo
Bono detti Francesco de Robiano, tutti abitanti
fratelli e figli del q.
in porta Lorenzo, e respingono l'eredità la-
ticinese parrocchia di s.
sciata dal loro zio paterno Beltramolo. Cfr. ASM., Pergamene, Mi-
lano, Varie. Francesco, come mi risulta da altre carte,, era figlio di un
Mozollo, e questi di un Pietro.
(3) IL prete Marco de Robiano lo trovo canonico in s. Lorenzo
negli anni 1398, 1404, UlO, ma non è detto di chi fosse figlio o fra-
VARIETÀ 357
Lanzarotto e Antonio avevano bensì un fratello canonico in
s. Ambrogio ma di nome Beltramino (1). Di più il Sitoni di
Scozia fa menzione di un « Yen. Yir D. Antonius de Itobiano
ijanonicus s.ti Laurenti Maioris Med. 1406. ex mss. cap. metrop. »,
il quale mi pare non possa essere altri che il sopradetto An-
tonio (2). Perciò che V affresco rappresenti due divoti della fa-
miglia è evidente, ma chi siano non è possibile precisare. Se
proprio si vuol ravvisare in uno di essi un canonico, questi
potrebbe essere anche Antonio e l'altro Lanzarotto.
Altrettanto difficile, coi dati che ho alla mano, è il trovare
la ragione del perchè non vi fu apposta alcuna epigrafe funera-
ria, cosa che richiedeva assai minor tempo e denaro. Se si am-
mette che Antonio e Lanzarotto abbiano voluto preparare per
loro stessi il sarcofago, la cosa è spiegabile perchè andato in
esilio Antonio anche il fratello Lanzarotto deve verosimil-
,
mente aver lasciato Milano e ridursi a Lugano, dove infatti
troviamo residente negli anni successivi la sua discendenza. Se
invece essi l'hanno eretto, tumulandovi dei loro parenti, non c'era
motivo in contrario per omettere l'epigrafe quale compimento
necessario. E il fatto riesce ancor più inspiegabile qualora altri
di quella schiatta, come ad es. Princivalle e Ambrogio, l'abbiano
fatto erigere e vi fossero stati dei tumulati, giacché sembra per
tello.Cfr. Pergamene s. Lorenzo^ e Pergamene di Chiaravalle sec. XV
in ASM.; Pergamene pagensi in Bibl. Ambrosiana. In un atto del 23
novembre 1363 tra i canonici di s. Lorenzo vi è un Marcolo ed un
Ambrogio de Robiano, mentre un Francesco de Robiano è procuratore
di Ambrogio Trezzi altro canonico. Cfr ASM., Pergamene s. Lorenzo.
,
Il Marcolo è probabilmente lo stesso che in atti posteriori è chiamato
Marco. Francesco è il padre di Lanzarotto, Antonino, e Mozollo. Di
Ambrogio nulla mi risulta. È noto poi come in quei tempi, con
grave abuso, uno stesso individuo veniva investito di più canonicati,
e che talora venivano conferiti a giovinetti laici di famiglie nobili.
Nella citata Notitia cleri mediolanensis de anno 1398 troviamo per es.,
un prete Marco de Robiano canonico a Cornate, un'altro a Casorate,
e un terzo in S. Lorenzo, i quali li ritengo una medesima persona e
cioè il nostro Marco.
Beltramino era canonico prebendato in s. Ambrogio come da
(1)
il fratello Lanzarotto era suo
atto del 5 dicembre 1387 nel quale pro-
curatore. Cfr., ASM Pergamene, capitolo di ». Ambrogio, pergamene
,
senza segnatura Bonomi.
(2) ASM., Sitoni di Scozia^ cart. cit.
358 VA HI ETÀ
lo nienostr.ino che i figli ed i parenti, i quali continuarono a vivere
in Milano, si siano dimenticati del pietoso officio di collocarvi Pi-
scrizione funeraria. La mancanza di un' epigrafe mi lascia sospet-
tare, contro l'ipotesi del sant' Ambrogio, che in esso non vi fu
sepolto alcuno. E infatti che vi siano stati in esso dei tumulati
non ho trovato, e nemmeno dalla lapidetta collocata nel 1813 lo
si può desumere (1). I de Kobiauo rimasti in Milano, avevano
la loro sepoltura scavata nel pavimento lì vicino al monumento.
Nel 1521, con testamento del 22 gennaio, un Pietro de Robiano
q. (xiovanni, allora abitante in Konchetto pieve di Cesano dove
esercitava l'impresa del sale, lasciò di essere sepolto « in sepul-
tura illorum de Rohiano constructa in ecclesia sancii Laurentii
Maioris Mediolani », e obbligò i suoi eredi a far celebrare fun-
zioni di suffragio all'anima sua per dieci anni alla cappella dei
Ss. Cosma e Damiano. Aveva in moglie una Giovanna della
patri;5ia famiglia Corio e lasciava due figlie, Antonia e Laura,
delle quali una maritata ad un Andrea Tatti. Nel testamento è
inoltre ricordato un suo fratello Lanzalotto, già morto, il quale
aveva lasciato tre figliole (2). Questa sepoltura è pure ricordata
negli atti di visita di Federico Borromeo del 1608.
Da tutto questo si vede come il mistero ravvolge tuttora
quell'avello che sia stato ordinato da Marco e da Antonio come
:
opina il Sant'Ambrogio^ oppure da Antonio e da Lanzarotto, da
una o pili persone, o da altri di quella stirpe, precisamente
non sappiamo ; come non sappiamo chi sia stato in esso tumu-
(1) Nel 1811 si fecero delle indagini, come ce lo dimostrano parecchi
atti notarili dei quali si nota che ne venne ricavata copia in quell'anno,
e fu altresì scoperchiato il sarcofago per una verifica. L' 11 di agosto
del 1813 i fabbricieri di s. Lorenzo domandarono di porre a lato della
cappella padronale dei s.ri fratelli de Robiano un' iscrizione in marmo
del tenore che accennano. Manca la supplica dei fabbricieri e il testo
deir iscrizione che si dicono restituiti ai fabbricieri col relativo per-
messo. Cfr , ASM., Goi\, p. a. Culto, cart. 1552. L'iscrizione venne in-
fattimurata e dice « Vetustuni Sacellum Cum Tumulo — Gentis De
:
Robiano Mediolanensis — CCCIV. Ab Hinc Annis Bruxellarum Incolae —
Kal. Novembr. MDCCCXI —
Rite Recognitum ». Come si vede nulla
dice che vi fossero dei tumulati. L'incarto voluminoso riguardante il
legato Robiani, esistente nell'archivio parrocchiale della basilica di
8. Lorenzo, il 4 marzo 1879 fu consegnato a certo sig. Fugazza né più'
fu restituito.
(2) ANM., rogito Cattaneo Capitani Battista q. Antonio.
VARIETÀ 359^
lato se pure vi furono in esso dei sepolti. Dati positivi potreb-
bero forse venire dall'esame delle carte di archivio della famiglia
dei conti Robiano del Belgio.
>Jon mi risulta che Antonio e Mozollo abbiano lasciato dei
discendenti. Trovo invece che la «liscendenza di Lanzarotto era,
negli anni seguenti, residente in Lugano, come si ricava da un
istrumento di transazione del 13 febbraio 1496 tra i de Robiano
e i Giussani in merito a una controversia, sorta fra di essi, per
il pagamento di certi fitti livellari spettanti alla cappellania dei
Ss. Cosma Damiano. Controversia risolta colla vendita fatta
e
in piena regola dai de Robiano ai Giussani delle proprietà
gravate. In esso sono riportati atti notarili anteriori rogati in
Lugano (1).
Qualche ramo era tuttavia rimasto in Milano, poiché oltre
Giovanni Maria studente di medicina a Pavia, Lancelotto, e
Giorgio, figli (li Antonio, i quali erano legalmente assistiti dallo
zio paterno Pietro q. Princivalle i2), dovette intervenire a mag-
gior garanzìa della composizione e dare il suo consenso un loro
agnato Antonio de Robiano q. Donato, abitante in porta Tici-
nese parrocchia di s. Maria al Circolo. Donato era a sua volta
figlio di un Giovanni (3).
(1) Bibl. Trivulziaiia, Fondo Beìgioioso. — Negli atti di visita del
Ningiiarda, vescovo di Como, il quale visitò la collegiata di s. Lorenzo
in Lugano il 31 marzo 1591, vi si dice che presso la sagrestia c^era
un altare dedicato a s. Lucia, conseciato, senza titolo, ma che « si pre-
sume che sia della casata de Torricelli et Robiani, i magiori de quali
lassorno vecchiamente certi legati acciochè gl'heredi vi facessero cele-
brare due volte la settimana, et uno pezzo fa non si celebra a d.° al-
tare, per non avere bradella, ne cancelli, non è niccia
ne ombrella ;
et è sotto una non ha icona, ma solo una tela vec-
finestra grande....
chia depinta et quasi stracciata ». Cfr., Ninguarda, Atti della visita
pastorale diocesana, parte II, p. 371, Como 1895-1898. Dall'abbandono
nel <|uale era quell'altare si deve arguire che già da tempo i De Ro-
biano erauo passati altrove. Tuttavia nel Canton Ticino esistono an-
cora, benché decadute nell'oscurità, delle famiglie Robiani, verosi-
milmente rami collaterali.
(2) Princivalle, figlio di Lanzarotto, aveva generato a sua volta
Lanzarotto, Antonio, Pietro, Giorgio, e Giovanni Donato. Cfr. ANM.,-
atto del maggio 1443 rogito Gagnola Ambrogio q. Andreolo e atto
,21 ;
del 24 luglio 1459 rogito Brenna Pietro q. Giovanni.
(3) ANM., rogito Regni Pietro q. Ambrosolo del 24 ottobre 1436.
Donato, padre di Antonio, è forse colui che nel 1481 coprì per pochi
360 VARIETÀ
Altri rami, discendcQti dai inajfgiori di Antonio e Lanza-
rotto, fiorirono inMilano nel secolo XV, dando dei personaggi
distinti. Un figlio di Ambrogio^ è più volte deputato
Lorenzo,
e dei XII presso la Fabbrica del Duomo negli anni dal 1452 al
1458, e il di lui figlio Giacomo nel 1470 è tra i 150 cittadini
« magnifici, nobiles, prudentes » eletti a prestare giuramento
il
di fedeltà al duca. Lorenzo aveva un fratello chiamato Giovanni,
e un'altro detto Beltrame era canonico in s. Ambrogio (1;. Si
distinse pure in questo secolo un Gasparino prevosto di s. Pietro
in Oorneliano.
Senoncbè, progredire del tempo, i Robiani rimasti in
col
patria poco a poco nell'oscurità, mentre quelli che
finirono a
nel secolo XVI emigrarono nel Belgio si distinsero nelle pub-
bliche cariche ed ebbero il titolo di conte, ed ancora continuano,
«crive il Sant'Ambrogio, nei due rami dei Conti Robiano d'Hou-
goumont e di Rorsbeck.
E. B E BETTA.
mesi la carica dei XII di provvisioue (Cfr., ACM. , Lettere ducali
1478-1488, fi. che nel 1439 era stato eletto da Filippo Maria
37), e
commissario nel capitanato della Martesana ad eseguire le sentenze ivi
emanate da Pacino de Consulis da Perugia, vicario della Camera Ducale,
e da Paolo Amantino capitano della Martesana, al quale ultimo era
stata commessa la cura senza buon risultato. Cfr., Vittani, Gli atti
cancellereschi viscontei, parte prima, Milano, p. 40.
(1) Beltramo risulta canonico in S. Ambrogio in atti del 1412 e
e del 1432, ed è quello che nel 1449 è detto patrono ed economo della
cappella dei Ss. Cosma e Damiano.
Un curioso documento iconografico
della peste del 1630 a Milano.
URANTE i lavori di riordinamento della vasta raccolta
di conservata a Brescia nella Pinacoteca
incisioni
Tosio e Martinengo mi venne fatto di ritrovare una
serie di quattordici piccole deliziose stampe alPaqua-
forte con soggetti varii di cacce, di battaglie, festini, ecc. ese-
guite sul gusto del Callotta, firmate da Melchiorre Gerardini, e
ignote al Bartsch, il quale, anzi, Dell'elencare i cinquantun
pezzi che erano a sua conoscenza, nel XXI volume del suo
Peintre graveur, suppose che a quelli soli si limitasse V opera
dell'interessantissimo maestro milanese. Delle incisioni, che, ori-
ginariamente formavano certo un libretto, e delle quali è ri-
masta la dedica ad un Eccellentisimo Principe, datata il 20
Maggio del 1636, una è degna di particolare attenzione. Rappre-
senta la piazza di S. Babila durante la peste del 1630, e pari
certo all' interesse artistico che è dato dalla vivace scena tutta
Et- -corsa da figurine agili e commosse è quello iconografico che
,
H' ferma l'aspetto di un caratteristico punto di Milano durante 1^
^Ltragica epidemia che è presente ancora attraverso la mirabile
^Bed incisiva evocazione del Manzoni.
^^ Nella stampa, alta min. 102 e larga mm. 162, il fondo è
dato dagli archi della Porta Orientale, il lato destro è occupato
dai palazzi che si stendono fino alla chiesa di S. Marta e di
S. Babila. Nel centro della piazza sorgono le due colonne di
S. Mona, innalzata nel 1585, e benedetta da S. Carlo Borromeo (]),
nel Carrobbio di Porta Orientale, e quella del Leone, tuttora
•esistente, che nel 1628, Carlo Francesco Serbelloni aveva fatto
(1) Carlo Torre, Il ritratto di Milano^ 1714, p. 381 ; Serviliano
Latuada, Descrizione di Milano, I, 1737. pp. 170-172 e 176-178.
Arch. Stor. Lomb., Anno XLIX, Fase. III-IV. 24
361 VARIETÀ
erigere per porvi il leone che prima si trovava sopra un basa-
mento quadrato in mattoni (1).
(1) A. Caimi, Il leone di Porta Orientale^ « Bollettino della Con-
sulta archeologica » (annesso all'Arch. stor. lomb. » 1875), pp. 43-5.
VARIETÀ 36$
Sulla sinistra si vede soltanto il fianco d' una casa con
un'osteria. Entro questo scenario s'agita la passione della peste.
Tutta la via è percorsa da otto tragici carri accompagnati da
monatti, e carichi di morti. Presso la chiesa di S. Babila c'è un
altro morto per terra. Davanti alla colonna di S. Mona un sa-
cerdote celebra la messa ascoltata divotamente da alcuni fedeli
inginocchiati. Soldati, figure varie di dolenti empiono variamente
la via.
Preso la linea di contorno, a destra, è segnata la firma del-
l'articolo Melchior Gera I. Sotto, distribuita in due linee, corre^
la leggenda:
Dal Orto il mio bel nome hebbi già in sorte
L'Oi iente additai scorg'hor l'occaso
Già fui di vita albergo lior son di morte
Campidoglio funesto. Ahi duro caso.
Il pittore, che gli antichi biografi ci dicono scolaro d'i
G. B. Crespi detto il Cerano, del quale sposò una figlia, e compia
le opere che nel 1633, morendo, quegli aveva lasciato appena
incominciate, certamente ebbe modo di vedere con i suoi occhi
ripetersi le dolorose scene che, forse nel 1630 appunto, fermò
nel lavoro del piccolo rame. Nelle poche pitture di lui rimaste
nelle chiese milanesi, forti di un raro senso coloristico sicuro e
netto che gli servì per costruire figure di un pallore livido non
privò di qualche passionale dolcezza impressionistica, noù e' è
piti ricordo della grande tragedia che gli passò accanto. E come
ne rimase in lui così non lasciò nessuna memoria, in genere,
nell'opera degli altri artisti della sua età.
Chi volesse mettere in relazione questa stampa con le de-
scrizioni mirabili della vita di quell'agitato periodo nei « Pro-
messi Sposi » potrebbe nella stessa raccolta trovarne un'altra
che si riferisce alle ruberie dei lanzichecchi nei villaggi dovè
passavano. Vi si veggono contadini che fuggono dal loro villaggio
carichi di robe, soldati che cacciano avanti buoi, altri che
stanno a un'osteria, altri che strappano di mano polli a villani,
o che rubano nelle case. B un altra ancora ve n'ha con una clas-
sica imboscata di sicarii che si gettano su viandanti, con uno-
strano sapore di gesta epica degna dell'Innominato.
G. NlCODEMl.
BIBLIOGRAFIA
Arrigo Solmi. — Il Comune nella Storia del Diritto. Estratto dalia
Enciclopedia Giuridica Italiana. Milano, Soc. Editr. Libraria 1922.
Arrigo Solmi ha scritto sul Comune italiano un volumetto prezioso.
Non è una compilazione o un riassunto di quanto fin qui si è scritto :
ma è una vera sintesi sulla complessa e intricata storia dei nostri Co-
muni. Il Solmi si muove con sicurezza e con padronanza veramente
signorile fra le fonti e fra la copiosa letteratura sull'argomento; così
che il libro riesce un armonico quadro di vita veramente vissuta. Tutti
gli elementi che compongono la società, entrano nella geniale sintesi con
tocchi sicuri. La preparazione all'avvento del comune è descritta con
una dottrina che rivela il medievalista consumato. La città, il feudo,
la chiesa e il fattore economico sono esaminati, discussi, vagliati con
rara competenza. L'organizzazione romana della società, }ion interamente
distrutta, rivive nell'organizzazione ecclesiastica così il mercato, così
:
l'organizzazione del lavoro. La città nell'età romana si presenta come
un organismo urbano, circondato da annessi immediati e non imme-
diati che s'allargano ad un determinato territorio. Essa ha la città
propriamente detta, cioè il centro murato, intorno al quale si raccol-
gono i continentia aedificia, cioè i borghi, e lo spazio più largo adia-
cente alhi città che costituisce la cerchia della campagna circostante,
cioè i mille passus. Più lontano si estende il territorio rurale, formato
-dai vici, dai castelli e dalle campagne e organizzato dal ^a^o. Gli studi
sulla struttura materiale della città e campagna e sulle conseguenze
_giuri diche nascenti da questa particolare struttura, sono relativamente
recenti, ma di una grandissima importanza come ognuno può agevol-
mente comprendere. Per la conoscenza esatta della storia dell'antico
diritto pubblico non si può ormai prescindere dallo studio della orga-
nizzazione del territorio urbano e rurale. Fondamentali su questo or-
dine d'idee sono i lavori del Mengozzi e del Vaccari (1^. L'Italia è la terra
(1) Mengozzi G.,
— Vacca Ki, La territorialità come base dell'ordinamento giuridico del
contado. Pavia 1921, di cui diamo qui in seguito la recensione.
BIBLIOGRAFIA 365
delle città:ma conia decadenza dell'Impero e con l'inv^asione dei bar-
bari magnifico fìorimento urbano va in rovina. Ma le città conti-
il
nuavano a vivere, ancbe se meno splendidamente } e i barbari trovarono
conveniente stabilire i loro comandi e la sede della giurisdizione
nelle città. Ebbero perfino una capitale Pavia.
:
Costituito il Comune, si verifica un fenomeno nuovo : la separazione
della città dalla campagna. È questa uua caratteristica della vita me-
dievale iniziata specialmente dal feudo. Il feudo si adatta ai borghi ru-
rali, ai castelli, ai territori campestri; nella città non può avere che
un limitatissimo sviluppo. Più tardi i re d'Italia e i re tedeschi comin-
ciavano a concedere ai vescovi il dominio delle città^ riservando ai
conti dominio della campagna, che perciò prende il nome di contado
il
(comitatus). Ma la novità della esposizione del Solmi è in una nuova veduta
sua sulla origine del Consolato. Dopo aver esposto e criticato le prin-
cipali dottrine e ipotesi su tali origini (Savigny, Gabotto, Mayer) il S.
giovandosi di alcune sue precedenti indagini (Il più antico documento
consolare pisano, Arch. Stor. Sardo, II, 1906) e anticipando le conclusioni
che vedranno la loro dimostrazione in uno studio di prossima pubbli-
cazione, ritiene l'origine del Consolato sia romana, e precisamente con-
temporanea a una fase della grande lotta per le investiture. Nel 1082
la Eoma di Gregorio VII era assediata da Enrico IV. Fu in quegli
anni, cioè fra il 1083 e il 1084 che i seguaci di Enrico IV riuscirono a
stringere un patto col popolo romano, promettendo a questo la resti-
tuzione della Ubertas romana, cioè la restituzione del Senato, dei con-
soli e di altre magistrature a condizione che i romani consentissero a
Enrico di entrare in Eoma per esservi incoronato imperatore. Contem-
poraneamente lo stesso Enrico IV per garantirsi nuovi seguaci, favo-
risce la istituzione dei consoli in moltecittà italiane dando il suo fa-
vore alle classi più democratiche per averle favorevoli.
I consoli a Roma furono nuovamente abbattuti dalle armi pontificie
aiutate dai Normanni fedeli al papa: per cui a Roma non troviamo più
consoli dopo il 1085 ma si conservarono e si svilupparono in altre
j
città. Dunque, secondo il Solmi, il consolato avrebbe avuto una origine
legittima, cioè ammessa e riconosciuta dall'Autorità dell'Impero: cosa
che si comprende benissimo —
dice l'Autore —
se si pensa che la vita
medievale si svolge tutta sui fondamenti della legittimità. Però mi pare
molto strano che di questa origine legittima del consolato non si parli mai
nella controversiafra Federico lei comuni anzi pare che Federico
:
jDon ne voglia sapere di consoli. Ad ogni modo si tratta di una nuova
interessante ipotesi che ci aguriamo di veder presto dimostrata dall'A.
nello studio che egli ci ha promesso.
L'A. conduce il suo racconto fino alPavvento della signoria: e dico
[racconto; poiché la lettura di questa descrizione della vita medievale
i avvince e diletta come una vera narrazione.
366 BIBLIOGRAFIA
Nella biillapte esposizione della vita sociale e del gioco delie varie
«lassi fra loro in contrasto, ^i pare che il S. si lasci un po' trascinare
da una concezione tradizionalistica — specialmente dopo noti fatti del
i
1789 - che vede dovunque e in qualunque tempo il risorgimento della
società per opera di una tipica borghesia. La società comunale si sa-
re][)be imborghesata; e da quel momento sarebbero incominciati i trionfi
« la gloria comunale. A me sembra invece che non si dovrebbe parlare
di imborghesamento; ma di aristocratizzazione delle classi non feudali.
Infatti in tutte le società la tendenza dei medi è di portarsi in alto,
non viceversa degli altri di portarsi in basso. Nelle città, che avvenne
in seguito'? Che si formò subito una nobiltà civile, un patriziato, crea-
zione italica. La democrazia è invece un brutto portato della nostra
società affaristica che fa ricordare i tempi meno brillanti — politica-
mente — di Atene. Anzitutto la fonte della nobiltà è la terra: cioè la
proprietà terriera. E noi vediamo che grandi è medi feudatari, col
principio della ereditarietà del beneficio, tendono a diventar proprietari
<'on diritti signorili. Ora anche i modesti proprietari, che in città son
bottegai, in campagna sentono dei piccoli re. È vero quel che dice lo
si
scettico Anatole Franco che ijuiconque possèUe est noble Dunque il
!
possesso fondiari ) aristocratizza, per dir cosi, i cittadini non feudatari,
i quali in fondo fanno la loro rivoluzione —
dopo i valvassori per —
essere partecipi dell'amministrazione dei beni comuni e della giurisdi-
zione, che è pur cosa loro. I professionisti, non mi paiono borghesi.
•Questa gente che sapeva le leggi, le consuetudini, che sapeva scrivere;
godeva di una grande autorità e molti notarii Dom.ni Imperatoris e
molti ludices erano di grande casato e non sdegnavano rogare atti per
i principi e gli altri dignitari. Dunque, secondo me, vedo una tendenza
dell'aristocrazia ad allargarsi per comprenderne altre fonti secondo il
detto dantesco che la nobiltà è manto che tosto raccorce; che se non
vi si appon di die in die^ lo tempo va d'intorno con le force. In fondo
si trattava pei possidenti di stringersi insieme per difendersi contro una
eventuale avanzata delle classi non possidenti, delle quali non si parla
mai, ma che dovevano dare un bel contributo alla fanteria; perchè
€oi soli i^roprietari, professionisti e commercianti non si doveva metter
insieme un grosso contingente di truppe tanto più che
: borghesi do-
i
vevano esser gente che doveva aver pronte molte scuse per non portar
il pesante targone del fante e la lancia e la spada Ma quei torbidi
!
moti ereticali e religiosi non potrebberro populorum continere aestus,
per dirla con Orazio ?
In sostanza le classi umili e povere erano fortemente inquadrate nel
feudalesimo e avevano —
se non la libertà' —
l'esistenza garantita dai
patti e da libelli. Col comune si è verificato quello che avvenne dopo
la rivoluzione, così detta, francese, che diede la libertà al capitalismo :
cioè si distrusse la vecchia organizzazione feudale, si spezzarono ceppi
i
BIBLIOGRAFIA 367
.ai servi della gleba;ma non vi si sostituì una organizzazione altret-
tanto salda; e venne a formare una massa libera si, ma esposta con-
si
tinuamente al pericolo di perire per fame e disoccupazione. La classe
umile della antica società comunale era una massa di manovra da
scagliar contro le rocche feudali; ma poi, a lotta ultimata, avanzava
.pretese e diritti dai nuovi padroni che la abbandonavano a se stessa,
mentre prima, quando era asservita, era garantita dalla cartula e dal
libellum; così che forse poteva dire che si stava meglio quando si stava
peggio. Del resto era tutta una organizzazione economica, già benissimo
messa in luce dal Vaccari, quella della Curtis e del Castrum che crol-
lava per far luogo a un'altra organizzazione economica che si chiamerà
poi comunale. E si capisce che in tale crollo le vecchie classi feudali,
^Ite e basse, andavano di mezzo.
L'opinione del Gabotto, secondo me, della origine aristocratica del
Comune, andrebbe ripresa in esame con altri e più vasti criteri che
non quelli che ne limitano il sorgere alla sola famiglia procuratoria. In
•fondo il Gabotto non sembra aver del tutto torto e l'origine del Co-
mune deve essere aristocratica più che borghese; e in questo senso sa-
rebbe interessante studiare l'ambiente sociale che preparò il Comune
come istituto giuridico.
La considerazione del Comune, dal punto di vista giuridico, ha un
carattere retrospettivo;quanto che la sua formulazione legale,
in
per così dire, avviene dopo che la sua esistenza di fatto era già
accertata :dopo cioè le grandi rivoluzioni del secolo XI, che il
S. ha messo bene in luce a pp. 67 e 68 del suo volume. Il S. poi
ammette che le tre classi esistono anche nel comune formato; ma (p. 90)
fa troppa parte alla borghesia, aperta come oggi («te), e in continuo
movimento. La realtà è che i borghesi facevano di tutto per ingen-
tilire e non c'è come il comune antico per essere una fabbrica di
gentiluomini: tanto che la letteratura del tempo derideva questi bot-
tegai che sposavano delle nobili povere e viceversa. Anche ai tempi del
Boccaccio si ingentiliva per moglie. Il denaro apriva tutte le porte
anche quelle dei castelli feudali. Ricordo d'aver illustrato alcune no-
velline assai antiche, forse della fine del XII sec, dove l'ambiente eco-
nomico-sociale di quei tempi era ben riflesso (1). A comune formato, le
tre classi non risultavano più dei tre ordini feudali di capitani, val-
vassori e cives; ma erano frammisti nobili con plebei unica distinzione :
il maggiore o minore grado di ricchezza.
Lo stesso Solmi poi riconosce (p. 104) che la costituzione comunale
era difettosa in quanto permetteva che una classe si potesse accaparrare
da sola l'autorità comunale. Il comune fu presto uno strumento di
«dominio in mano alla classe economicamente dominante. Ai vecchi
(1) Il diritto volgare e una fonte letteraria del secolo XII. 1909,
tpag. 10 dell'estr.
368 BIBLIOGRAFIA
nobili feudali si sostituì la classe dei ricclii affaristi, che tiranneggiò-
forse con maggior ferocia, i meno potenti. È la Signoria che darà l'e-
quilibrio fra le classi invano chiesto al connine.
Ma Solmi ha scritto un'opera veramente utile e interessantissima.
il
La sua profonda dottrina non inceppa la lettura, non pesa: appare cosi
ben «ligesta e fatta da lui come cosa propria, che il libro risulta perfet-
tamente equilibrato. Vorrei che fosse letto e meditato non solo dalle
persone che vivono della coltura, ma anclie da coloro ad esempio — —
che si occupano di politica e di amministrazione della cosa pubblica.
Potesse servire di preparazione a tutti coloro che ormai con troppa
leggerezza si sobbarcano il peso della vita politica impreparatissimi e ;
non pensano che la politica attuale ha le sue profonde radici e trae il
suo vital nutrimento proprio dalla Storia.
Alessandro Visconti.
P. Vacoari. La territorialità come base delV ordinamento giuri-^
dico del contado. Italia superiore e media. Pavia 1921, pp. Vili. 197.
Pietro Vaccari ha affrontato un interessante problema di storia del
diritto pubblico con una serietà e con una maturità di studi veramente
ammirabili. Io credo che questo sia uno dei più seri lavori che si siano
scritti dopo la cessazione delle ostilità; ed esce dalla mente di uno fra
i più bei combattenti della nostra guerra. E confessiamolo pure, uno
dei pochissimi che —
fra i cultori della nostra scienza giuridica ab- —
biano voluto e saputo militare non sine gloria. Il libro infatti è dedicato dal
Maggiore Vaccari, con squisito sentimento di cameratismo guerriero, alla
memoria dei suoi ufficiali del 128° e 122** fanteria caduti per la Patria a
Zagora, al Cuk, a Rovarè e alle sanguinose Grave di Papadopoli..
Il Vaccari osserva da principio che l'organizzazione del territorio in
Germania e Francia è a base essenzialmente personale; in Italia, territo-
riale. Mentre fuori d'Italia comitatus non designa più una contea ter-
ritoriale, ma tutto ciò che dipende dal conte (Francia) oppure ogni
distretto il cui signore è investito di diritti comitali, (Germania) in
Italia i diritti rcgalistici fanno capo a un determinato territorio ed il
signore ne è investito in quanto è proprietario del territorio stesso.
La circoscrizione era sede territoriale di diritti e risultava da un in-
sieme di fondi, a ciascuno dei quali era attribuita una quota ideale di
compartecipazione nell'esercizio dei diritti stessi; se noi dovessimo pre-
scindere dalla circoscrizione come sede territoriale di diritti, noi non
potremmo in alcun modo comprendere come la concessione di fondi
di mansi, traesse con sé la concessione di giurisdizione. Il possesso
di ogni quota comprendeva il diritto di compartecipazione nell'eser-
cizio delle regalie. E poiché i consorti potevano vendere la loro quota
o singole parti di essa, noi vediamo che vi sono privati investiti di
fondi, e in pari tempo dei diritti considerati come pertinenza dei fondi
stessi: nella realtà delle cose questi privati, perchè investiti dei fondi,,
BIBLIOGRAFIA 369 '
partecipano dell'attività giuridica della collettività del castrum e quindi
all'esercizio dei poteri giurisdizionali.
La concessione di una signoria sopra una determinata località non
implicava sempre necessariamente l'esercizio di fatto dei poteri di si-
gnoria; la concessione trasferiva bensì teoricamente nel signore i di-
giurisdizione, ma non toglieva sempre nell'interno della signoria
ritti di
quello stato di fatto per cui famiglia o consorzi privati esercitavano
realmente i diritti stessi in virtù della proprietà dei fondi. Così in una
località esistevano due distinte signorie : un' alta signoria costituita
giuridicamente con la concessione della località, alta signoria che si
esplica nella riscossione del fodro, e una signoria di fatto che promana
dalle proprietà dei fondi. Dove il concetto della territorialità poteva
salire sino alle più alte dignità del regno violando i diritti inalienabili
della corona, l' imperatore interveniva a contrastarla direttamente -,
come, per analogo motivo, aveva espressamente vietate le divisioni dei
ducati, delle marche e dei comitati ; mentre era ammessa la divisione
degli altri feudi, si consortes voluerint.
Tutto lo studio dell'A., nel suo profondo volume, sta nel dimo-
strare questa tesi. Egli infatti esamina il trasferimento dei poteri giu-
risdizionali ai minori organismi viventi nell'interno dell'antica circo-
scrizione comitale. Tali organismi sono la curiis e il castrum. Ciò è^
dovuto anche alla scomparsa graduale delle minori circoscrizioni aventi
un effettivo contenuto giurisdizionale (sculdasssia e centena) che coin-
cidono con le divisioni tradizionali del territorio in vicus, fundus. plehs.
E questo avvenne perchè il vincolo gerarchico fra la dignità comitale e
gli uffici del contado a poco a poco mancò quasi dovunque. Combatte
l'A. l'opinione del Gabotto, e di altri che la suddivisione del comitato
fosse regolare; in altri termini che alle cwrfes corrispondessero le pievi,
i vici ai tituU. La città stessa doveva essere una curtis o plebs divisa •
in vici urbani o tituli. Però — secondo il Vesme — curtis come tenuta
rurale e curtis come suddivisione della judiciaria e sede dello scul-
dascio non si devono confondere.
Vaccari crede invece che la coin-
Il
cidenza, che a volte si verifica, sia tutta occasionale causata dallo svi-
luppo economico e territoriale della corte. Io crederei invece che vi sia
stata una tendenza a
identificare la curtis con la pieve, e tale identifl-
Sr cazione sarebbe avverata, se rivolgimenti politici e fatti nuovi so-
si
^Lciali non avessero contrastato questo processo dirigendole forze sociali
.
^Bverso altri fini. Bisogna nella storia del diritto ^pubblico tener conto
H^ degli avvenimenti politici che, caso per caso, mutano la faccia delle cose..
^t La curtis è la base economica e giuridica del contado. Qui l'A. fa
^Buna osservazione che mi pare profonda: che cioè grandi organismi i
^^fondiari compatti resistono diftìcilmente nuove necessità
in Italia alle
HF da un' attività economica rinnovata. Resistono invece le corti
create
"^ minori a territorio unito e chiuso, corti che hanno una diffusione tutt'altra
che trascurabile anche in Italia, benché il tipo predominante sia rappre-
sentato dalla corte aperta con proprietà frazionata in località diverse. E
370 BIBLIOGRAFIA
tale fatto dimostra cLo la (li8inte<:^i'azì()ne dei grandi organiBiiii fon-
diari risponde a una tendenza verso nuove forme di organizzazione, ba-
sata non più sulla forzata di[)endenza da un centro dominante, mezzo
spesso di sfruttamento economico, ma sulla coesione spontanea intorno
a un centro che esplica funzioni ecoìiomiche utili e di interesse co-
mune fra le varie unità che ne dipendono. Esamina poi l'A. l'elemento
giuridico della districHo che è un largo potere di coazione attribuito
alle signorie immuni ed alle corti verso la fine del sec. IX e si tra-
muta vero potere di giurisdizione, specialmente quando si estende
in
a tutte le persone risiedenti in un determinato distretto, si da costi-
tuire un vero distretto territoriale con propria attività giurisdizionale.
Ed è allora che districtus acquista il significato di sfera territoriale
sulla quale una persona o un ente esercitano poteri di signoria.
Ed ecco il passaggio dai rapporti personali a reali: si forma cioè
la curia come persona investita di diritti regalistici sul distretto terri-
toriale. Avviene pure il frazionamento della curtis e del castrum se-
condo l'ordine di successione per mancanza di Diritto di primogeni-
tura: vi sono cioè condomini e titolare di questo somma di poteri è la
curia cioè il complesso di possessi e di diritti che impersona l'ele-
mento economico del castrum. In sostanza la curia è una persona giu-
ridica. Passa poi l'A. a esaminare la figura giuridica del Castrum. Qui
il Vaccari esplora un terreno pressoché sconosciuto. La formazione dei
castra sotto tutti i punti di vista, dell'arte, della strategia medievale e
del diritto, è da studiare. Egli vi riconosce tre forme a) la più semplice.
:
Il castrum sorge al centro di ville popolate di liberi alloderi, classe
abbastanza numerosa del contado. Gli alloderi hanno diritto di rifu-
giarvisi con le loro robe b) In una seconda forma noi vediamo unioni
:
di liberi, forniti qualcuno di feudo signorile, partecipanti ad una qual-
siasi estensione, di prati e di boschi, di cui si possono considerare come
veri proprietari, col signore del castello. Da questo tipo germina poi il
comune misto di consorteria signttrile e popolo, e) La terza forma è
più caratteristica. Il signore, laico o ecclesiastico, stipula con un gTui)po
di homines o con gii homines della corte un contratto per la costru-
zione di un castello oppure dà a livello un castrum.
I concessionari sono tenuti alla custodia alle riparazioni e in cambio
prenderanno dimora nel castello o nel borgo. Questo ente nuovo non
tarderà a prendere la forma di un comune. L'A. esamina allora sulla —
scorta del Gierke —
la personalità giuridica del Castrum passa. poi —
in rassegna le dottrine di Bartolo e di Paolo di Castro e ritiene che il
castrum sia. una collettività organizzata. Le forme che possono assu-
mere i rapporti fra castrum e territorio sono varie: dal tipo di orga-
nizzazione in cui una classe più o meno ristretta di abitanti è inca-
stellata e soggetta agli obblighi castrensi ed, a sua volta, ha sotto di
sé la parte restante della popolazione, al tipo in cui si è giunti ad una
estensione assai maggiore dei rapporti castrensi, fino a costituire una co-
, munita, che raggruppa ed organizza intorno al castello la generalità della
BIBLIOGRAFIA 371
•popolazione. Esamina pure PA. il carattere dei comitati di Federico P
ch.e contrapponeva come signorie personali ai comuni, mentre costi-
tuiva pure distretti di signoria con la cessione a privati di diritti co-
mitali sui propri beni. I nuovi distretti territoriali, costituiti attorno
ai castra, rappresentavano con l'alterazione dell'antica gerarchia —
—
organi coordinati in un quadro generale di ordinamento pubblico. Da
un lato la città che si andava estendendo, dall'altro il contado con signo-
rie personali e feudali, ma nel loro interno si formavano organismi terri-
toriali compatti con al centro il castrum con la bassa giurisdizione;
mentre l'alta rimaneva alle signorie personali. La città spesso rispettò
l'autonomia giurisdizionale dei castra. E si capisce che cosi dovesse es-
sere il comune subentrava, nel suo progresso verso la campagiìa, nei
:
diritti dei grandi signori cioè a dire dell'alta giustizia: non aveva po-
liticamente interesse a disgregare l'organismo castrense. Con ragioni
politiche si spiegano, secondo me, le stipulazioni che i consignori di
un castello fanno col comune il quale si vede costretto a infeudare le
:
difese dei castelli in campagna e a comportarsi come un vero signore
feudale, almeno in un primo tempo.
Studia infine l'A. l'aspetto più caratteristico delle trasformazioni
avvenute nella costituzione giuridica del borgo castellano, ma ammette
che nella varietà delle forme nella vita sociale e giuridica non man-
chino aspetti diversi. Quest'ammissione è per me preziosa in quanto
mi persuade sempre piti che voler creare dottrine e dogmi giuridici in
diritto pubblico sia molto difficile e si finisca col 'perdere di vista la
;
complessità grandiosa del fatto istorico e politico entro il quale pren-
dono consistenza — secondo il tempo e le inclinazioni degli uomini —
i fatti giuridici.
*
* »
Ed ecco dove dissento in parte dal movimento attuale, iniziato da
alcuni giuristi storici, che tende a fare la storia del diritto pubblico
con un metodo strettamente dogmatico conie se si trattasse di un isti-
tuto di diritto privato (1). Ma non nego che il tentativo sia lodevole;
e possa anche inquadrare, a larghi tratti, le idee per chi si accinga ad
affrontare problemi dell'antico giure pubblico. Ma mentre il giurista si
sforza a costringere la materia, che sfugge, in regole e in norme, perde
necessariamente di vista l'ambiente storico in cui sorse e si formava
l'organismo economico della curtis, le ragioni politiche che indussero
alla formazione di una rete di castra. Il metodo strettamente giuridico
inteso a ricostruire le norme dogmatiche di diritto pubblico prescinde
Vedi un tipico esempio nel recente voi. del Checchini Dal Co-
(1)
mune Boma al Comune moderno Cagliari 1921 e la recensione del
di -,
-Solmi in Archivio Giuridico 1922. Vedi anche A. Solmi, La storia del
Diritto Italiano, Guide Bibliografiche Roma, 1922 p. 48.
372 BIBLIOGRAFIA
dalla situazione storica dell'ambiente; così che, pel giurista, è indiffe-
rente che i documenti — purché provino la tesi — siano del X o del
XII secolo.
Sarò forse più storico che giurista; ma credo che in tema di di-
ritto pubblico, sia troppo difficile, per non dire quasi impossibile, co-
struire delle teorie generali. Così non mi persuade la concezione dell»
personalità giuridica deWa, curtis e del castrum: astrazione assai difficile
per quei tempi e anche pei nostri; tanto è vero che il Duguit sotto-
pone a una revisione critica il concetto della i>er8onal ita giuridica dello
Stato moderno (1). In fondo erano forse maggiormente nel vero i glossa
tori che concepivano realisticamente la persona giuridica nella veste di
corporazione e questa come il complesso dei suoi componenti.
In conclusione la ricostruzione del Vaccari può essere utilissima
quando si debba studiare questo periodo della storia medievale, che va
dai Berengarii ai Comuni; perchè vi si trovano fissati i capisaldi della
situazione giuridica di enti territoriali: ma converrà metter sull'avviso
lo studioso che la situazione giuridica è sempre in funzione della situa-
zione economica e politica: fattori di cui il V. non volle espressamente
tener conto, tutto compreso come era, della formulazione giuridica
degli enti territoriali dello Stato. Per me non è un lavoro completa-
mente storico; ma, certo, come tentativo di ricostruzione giuridica è
un serio lavoro condotto con rigido metodo, profonda dottrina e non
dubito che potràgiovare a ulteriori ricerche storiche.
Alessandro Visconti.
A. BiicHi. — Korrespondenzen und Akten sur Geschichte des Kardinal»
Matth. Schiner. — Band I, 1489-1515. Un volume in-8, di 600 pa-
gine con due tavole. Basilea, Rudolf Geering, 1920.
Il Prof. Alberto Biichi, mentre attende a preparare la biografia di
Matteo Schiner, cardinale di Sion, offre agli studiosi una primizia ve-
ramente preziosa, pubblicando parte per esteso, parte in sunto oppure
a mo' di regesto i documenti che a tale biografia servono di base.
La raccolta di essi era stata iniziata dal Padre Franz Jos. Joller e
condotta a buon pnnto dal parroco Ferd. Schmid. Il Biichi con nuove
indagini l'ha compiuta. Ne è frutto l'opera del cui primo volume cr
vogliamo qui occupare.
Esso ci conduce sino alla battaglia di Marignano ed alle sue imme-
diate conseguenze, cioè sino alla fine del 1515, e contiene 503 docu-
menti in varia lingua, (latina, tedesca, italiana), di cui più che la metà
inediti. Emanano questi da trentacinque fra biblioteche ed archivi
(1) DuGUiT, Manuel de JDroit constitutionnel, Paris 1918, p. 50 segg-
e più ampiamente in Tratte de Droit constitutionnel T. L Parigi 1021,^
361 segg. e p. 464 segg.
BIBTIOGRAFIA. 373
svizzeri,italiani, austriaci, inglesi, spagnuoli, francesi. Gli Archivi di
Stato di Milano, Mantova, Torino, Venezia, Firenze e l'Archivio Vati-
cano hanno fra gli altri fornito un ricco materiale. Molte le opere
adibite e citate, dai Diari del Sanuto, dalle Epistole del Bembo, dalle
Lettere del Morone sino (per additare uno fra molti esempi) ad una
notizia pubblicata da un altissimo nostro contemporaneo (1). Un se-
condo volume di quasi uguali proporzioni conterrà le lettere e gli
atti degli ultimi sette anni di vita del cardinale.
L'importanza di quest'opera, non tanto per la storia della Sviz-
zera quanto per quella di Milano, dell'Italia, dell'Europa, non ha
quasi d'uopo d'essere segnalata a chi rammenti la grande parte avuta
dal cardinale Sedunense (come lo chiamano i nostri classici) nelle epiche
lotte con le quali s' inizia 1' età moderna. Acerbo nemico della Fran-
<5ia, protettore degli Sforza, vero signore della Lombardia per un
triennio, consigliere a volte, a volte strumento di Giulio II e di Leone X,
lo Schiner (o Schinner) fu tra i primi personaggi di tutta l'agitata vita
europea del suo tempo. Fra i suoi corrispondenti appaiono pontefici,
eardinali, vescovi, nunzi, prelati accanto all'imperatore ed a minori
sovrani, a diplomatici e ministri, a capitani svizzeri e condottieri al
soldo della Lega Santa ad umanisti ed artisti.
Qui ci limiteremo ad esporre in breve quelle notizie che più di-
rettamente concernono la nostra regione.
Il 16 aprile 1499 Lodovico il Moro scrive a Cesare Guasco, suo
ambasciatore a Koma, dimostrandosi grandemente desideroso di veder
<ìonferito a Matteo Schiner il vescovato di Sion (Sitten) « quale suo
barba gli lo vole renunciare » (doc. 25, da confrontarsi pure coi suc-
cessivi 30. 31, 32, 33). Nicolao Schiner infatti, che tre anni prima aveva
ottenuto tale vescovato, non sentendosi abbastanza energico per vin-
cere la forte opposizione che trovava fra molti diocesani, era proclive
a cedere la dignità al nipote Matteo, mentre il re di Francia avrebbe
voluto fosse concessa ad un nipote del precedente vescovo, Jost von
Silenen, di cui gli era stata molestissima la destituzione. Il papa oscil-
lava fra le istanze francesi e quelle di Lodovico, ed Ascanio Sforza ;
ma infine il candidato del partito francofilo fu indotto a desistere dalle
sue aspirazioni, ed Alessandro VI si decise ad eleggere Matteo Schiner
in luogo dello zio (20 settembre 1499). Il nuovo vescovo, già ostile di
sentimento ai Francesi, non dimenticò le premure di Lodovico il Moro
(veggasi il doc. 46); né, dopo che questi fu miseramente caduto, di-
menticò la causa de' suoi figli. Per un momento parve a favore di
questi interessarsi seriamente l'imperatoie Massimiliano, contando fra
(1) Ratti A., Notice sur quelques lettres papales adressées mi Car-
dinal Matthieu Schinner. Compie rendii du IV^ Congrès Scierjtitìque In-
ternational des Catholiques, Fribourg 1898. (Sciences liistoriques;.
374 BIBMOGRAPIA
altro per arruolamenti e per appoggio sul vescovo di Sion (veggasi 1» :
lettera iniperìjile del 12 aprile 1507, doc. 90, nonché i documenti 95,
96, 97). Ma nulla per allora si fece.
Il doc. 98 è una lettera dello Schiner a quei di Lucerna (2 otto-
bre 1507) in favore dei conti di Arona, Federico e Luigi Borromeo,
che avevano subito gravi soprusi.
Ai primi di luglio del 1509, cioè un mese e mezzo circa dopo la
battaglia di Vaila, lo Schiner, scrivendo all'imperatore (doc. 113) esprime
rammarico per la mancata spedizione cesarea in Italia; cerca dissua-
derlo dell'alleanza con Luigi XII, e consiglia invece un'alleanza coi"
confederati svizzeri per la liberazione dell'Italia dai Francesi.
Mentre Venezia si risollevava, si andava disegnando l'antagonismo
fra Giulio II ed « i barbari » e le due parti si disputavano l'aiuto
j
militare degli Svizzeri e dei Vallesani. Questi ultimi contrassero lega
con Luigi XII il 12 febbraio 1510 ; ma, per opera di Giorgio Soprasasso,
un'altra fu stipulata ben presto fra il pontefice ed i confederati con
facoltà a quei del Vallese di accedervi. Lo Schiner si adopera natural-
mente per tale accessione e risolutamente si oppone all'alleanza fran-
cese (doc. 115, 116 e 118 del marzo e del maggio). Il 15 agosto (doc.
128) un segretario Sigismondo scrive da Roma al
di curia che si firma
vescovo di Sion, lasciando capire come Giulio II desideri la pronta
discesa degli Svizzeri per cacciare i Francesi da Milano nel frattempo :
Genova sarebbe assalita per mare, e Parma da un esercito papale con-
dotto dal duca d'Urbino. Ma ai confederati bisognava dire solo che il'
papa li richiedeva per difesa sua e della Santa Sede... Venuto il tenore
di questa lettera a notizia degli amici di Francia, lo Schiner sostenne
che era apocrifa ('doc. 135, 137, 139); ma è molto probabile fosse in-
fatto autentica. Come sappiamo, l'impresa di Genova fu realmente
tentata prima ancora che gli Svizzeri, « sollevati dall'autorità e pro-
messe del pontefice, instigati dal vescovo di Sion » (Guicciardini),,
scendessero in Italia, dichiarando di non volere altro che recarsi al
servizio del Santo Padre. Tuttavia la loro marcia fu osteggiata dai
Francesi, che ben capivano il pericolo, e si ridusse ad un inutile giro
per il Milanese e il Comasco. (Veggansi i doc. 129, 132, 134, 136 del-
l'autunno 1510).
Con l'addensarsi delle nubi di guerra e del pericolo di scisma', la
fortuna dell'attivo ed intelligente vescovo di Sion sale a rapidi passi.
Il 10 marzo 1511 è creato cardinale del titolo di Santa Pudenziana (1);
il 9 gennaio 1512 'con bolla papale (doc. 160), è nominato a legato del
(1) Per equivoco il Biichi nella nota 1 a pag. 131 sembra porre la.
nomina al 10 marzo 1512, contraddicendo a precedenti documenti ed.
alla nota 2 a pag. 124.
BIBLIOGRAFIA 375
pontefice presso l'imperatore ed i confederali Svizzeri nonché in Ger-
mania e in Italia per ottenere aiuti a Giulio II contro i Bentivoglio ed
Alfonso d'Este; il 6 febbraio 1512 una nuova bolla diretta al capitolo
di Novara (doc. 164) lo designa a vescovo di quella città, in luogo del
destituito cardinale Federico di San Severino.
Intanto lo Schiner era in Italia intento ad uffici diplomatici. Già
addì 21 gennaio 1512 trovavasi a Milano, onde con documento (161) già
edito dal Bazzetta e dal Gattini concedeva certa dispensa quaresimale
agli abitanti delle Anzasca e Macugnaga dietro preghiera di
valli di
Lancillotto Borromeo, conte di Arona (scacciato da Luigi XII, ma piti^
tardi, dopo la restaurazione sforzesca, governatore di Novara, Alessandria
e Domodossola). Tre giorni dopo era a Rimini, e di là, passando per
altre città della Romagna, si portò poi a Venezia, ove rimase dal 30
marzo al 21 maggio. Da quella città trattava coi confederati. Varie let-
tere di questo periodo (162, 163, 165, 166) si riferiscono agli eventi di
Bologna; una missiva del cardinale alla dieta svizzera (doc.
altri, cioè
171, 16 aprile 1512) ed un breve pontificio (doc. 173, 18 aprile) alla bat-
taglia di Ravenna. Con questo breve Giulio II faceva istanza perchè lo
Schiner provvedesse a ricondurre gii Svizzeri in campo contro i Fran-
cesi.La deliberazione d'intervento fu presa dalla dieta federale ed an-
nunciata al cardinale pochi giorni dopo (doc. 174).
Da
lettera dello Schiner al Gonzaga (doc. 179, 9 maggio) si rivela
che partenza degli Svizzeri doveva aver luogo il 6 maggio. Per il
la
Trentino essi scesero a congiungersi con l'esercito veneziano e mossero
quindi verso la Lombardia. Questi eventi sono illustrati da una lettera
del doge di Venezia (doc. 183, 21 maggio), nonché dal carteggio dello
Schiner, anima dell'impresa, coi capitani elvetici (doc. 189) e col mar-
chese di Mantova (doc. 190, 191, 192, 193). A questo egli richiedeva con
istanza funi, cavi, barche, ancore, evidentemente per la costruzione di
un ponte, mentre in pari tempo accennava a pratiche concernenti Cre-
mona (1). La presa la marcia degli Svizzeri su Pizzi-
di questa città,
ghettone e Pavia sono narrate in lettera del capitano Peter Falk alle
autorità di Friburgo (doc. 203, 19 giugno 1512). L'ingresso del cardi-
nale legato in Cremona fu un trionfo. Del popolo (narra il Falk) parte
gridava « Jullio, Jullio », altri « Ecclesia », altri « Liga », altri « Duca »;
ma San Marco era poco o punto ricordato. (« Aber Marco ward lutzel
oder gar nutzit gedacht »).
Il doc. 194, già riprodotto nei diarii del Sanuto, è una sorta di pro-
clama del cardinale Sedunense ai Milanesi, affinchè non accolgano i
Francesi in città « né in li borgi e ville de Milano » sotto pena dell'in-
terdetto. Cooperino alla cacciata degli stranieri, ed avranno pace ed
ottimo governo.
(1) L'autore rimanda qui ai riferimenti bibliografici dati da Ce.
KoHLER, Les Suisses dans le guerre» d"* Italie de 1506 à 1512, Genève
et Paris, 1897, pag. 370.
876 BIBLIOGRAFIA
Il 21 giugno lo Schiller era a Pavia, ove (doc. 204) confermava i
privilegi di alcuni monasteri « nsque ad adventum ili. mi d. duci8 Me-
dioiani *. Il dì seguente (doc. 205) nominava a luogotenente generale della
Lega Santa Guglielmo VII di Monferrato, che a sua volta creò proprio
commissario Andrea de Novellis vescovo di Alba.
Lo stato milanese si andava cosi riconquistando agli Sforza, ma
non senza incomodo delle popolazioni costrette a pagare grosse somme
ai liberatori. (1) Sulla storia di questa campagna gettano luce, oltre a
note lettere del Morone e ad atti già inseriti nei diarii del Sanuto,
documenti sin qui inediti; fra i quali (prescindendo da concessioni di
armi papali e di onori diversi ai cantoni svizzeri) meritano ricordo le
relazioni dei capitani di Basilea ai capi della loro città (doc. 208 e 211,
da Pavia, 30 giugno e 2 luglio 1512). Alle autorità di Basilea scrive
pure il 2 novembre da Lodi il legato di quella città, Lienhard Grieb
junior (doc. 277). Egli narra il viaggio degli ambasciatori svizzeri da
Lugano per Como e Barlassina a Milano. Il governatore del ducato,
Ottaviano Sforza, vescovo di Lodi, andò loro incontro, li accolse cor-
tesemente e li accompagnò all'albergo del Pozzo (« bis zur Herberg ze
dem Putzen »). Il Grieb dà poi ragguagli sulle ultime vicende di guerra,
sulle mosse del Viceré di Napoli, capitano supremo della lega in Italia,
sulle sue istanze per far ingresso in Milano insieme col duca Massimi-
liano. Il quale d'altron<le ottiene l'avito dominio da Dio dapprima, poi
dalla Confederazione (« vorab von got und dornoh von der Eidgno-
schaft »). Il resto della lettera riguarda l'incontro degli ambasciatori col
cardinale a Melegnano ed il proseguimento del viaggio alla volta di
Roma.
Già il 3 ottobre 1512 si era ui3icialmente stipulata la lega fra il
duca e i cantoni svizzeri: vi accenna lo Schiner in una lettera al bor-
gomastro e al consiglio di Basilea (doc. 278, 6 novembre, da Milano),
ove li mette pure in guardia contro le pratiche di G. G. Trivulzio e
li prega di farsi rappresentare all'ingresso di Massimiliano Sforza in
Milano ingresso che, come si sa, ebbe luogo agii ultimi di dicembre.
;
Nel gennaio il nuovo principe donava al cardinale, a cui tanto doveva,
il marchesato di Vigevano, la Sforzesca (« possessionem S forti anam »)
ed altri feudi già del Trivulzio.
Va ricordata una lettera del marchese di Mantova al cardinale
(doc. 290, del 9 febbraio 1513). Corrono voci di pratiche di pace fra
Venezia e l'imperatore; questi otterrebbe 300.000 ducati, di poi ogni
anno altri 30.000 ducati « ìh recognitione di feudo » (2) ed inoltre Ve-
(1) Vedi fra altri E. Verga, Delle concessioni fatte da M. Sforèa
alla città di Milano^ in Areh. St. Lomh., Serie III, Voi. II, 1894, pag.
331 e seguenti.
(2) Il Biichi legge « difendo », ma la correzione è ovvia.
BIBLIOGRAFIA 377
TODa col Veronese. Il Gonzaga teme quindi di perdere le terre di Asola,
lionato e Sermione, e chiede consigli sulla condotta da seguire.
Frattanto saliva al pontificato Leone X. Il 14 marzo 1518 (doc. 292)
Peter Falk scrive da Roma alle autorità di Friburgo partecipando le
flue impressioni circa il nuovo da cui è stato ricevuto in
pontefice,
udienza. Altrettanto Giulio II era collerico, altrettanto è mite il suo
successore non si è mai udita da lui una parola scortese, non vi é in
;
lui traccia di impudicizia o d'altro difetto. Magnifiche le feste per l'in-
coronazione: tutta Roma sembrava in fiamme. Leone X ha ricostituita
la guardia pontifìcia. Il cardinale di Sion è in ottime relazioni col nuovo
papa, della cui elezione è stato primo fautore: lo Schiner è quindi « do-
mine factotum » (Forse in questo il Falk s'illudeva un poco). Il cardi-
nale stesso parla 4ella parte da lui avuta nel conclave e dei meriti
•dell'eletto in una sua lettera al duca di Milano (doc. 295, 18 marzo, da
Roma); ove fra altro accenna pure ad una cava che si fa dal Ticino
< la quale è molto prejudiciale de le cose mie et destructione de la
Sforzesca » (1). Epperò prega il Duca di provvedere.
Il documento 305 a) (Roma, 31 maggio 1513), qui per la prima volta
edito per esteso, è il trattato di alleanza quinquennale « inter S. D. N.
Leonem X pontificem m. et magnificos d.nos Confederatos Alemanie
Alte > ; (cosi è qui indicata la Svizzera). Alcuni articoli riguardano Mi-
lano, alleata degli Svizzeri ad esempio la promessa, che poi non ebbe
:
seguito, di restituzione di Parma e Piacenza allo Sforza.
Il 20 giugno 1513 il cardinale scrive da Roma al capitano di Ba-
silea (doc. 306), rallegrandosi per la vittoria di Novara, e raccoman-
dando indulgenza per la sua Vigevano, oppressa con grave taglia di
guerra. Al 21 (doc. 307) esprime anche a Massimiliano Sforza i suoi
rallegramenti, nonché il desiderio di nuove imprese. L'imperatore do-
vrebbe cominciare quella di Borgogna; anche si potrebbe tentare d'in-
grandire lo stato milanese con l'acquisto di Crema e di Bergamo. Ma
aggiunge; « dubito che qui cossi leviter procedendo ymo reintegrando
scismatici, sicuti est in via, successive il favore et devotione de li
Helvetii et multi altri venerano ad callare ». Allude evidentemente alla
reintegrazione dei cardinali di San Severino e di Santa Croce nella di-
gnità, se non nei benefizi, la quale avvenne pochi giorni dopo nono-
stante l'opposizione dello Schiner medesimo e del suo collega inglese.
Il mittente conclude raccomandando allo Sforza di bruciar la lettera e
^i conferire più ampiamente col signor Altosasso (Ulrich von Hohensax).
Della stessa data sembra una lettera ad Andrea del Burgo (doc. 308),
•ove pure il cardinale consiglia di adoperare gli Svizzeri mentre sono
(1) Il Biichi cade qui in equivoco annotando: « Kastell in Mailand ».
4.rch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. III-IV 25
378 BIBLIOGRAFIA
ancora «caldini» per imprese in Borgogna o contro Veneziani; di
i
non disgustarli, ad ogni modo, per non fare il giuoco dei Francesi.
Nel settembre 1513 egli scrive reiteratamente alla dieta federale ed
agliambasciatori svizzeri, accennando (oltre che a cose milanesi) alla
caduta di Terouanne in mano degli Inglesi ed ai successi di Borgogna,
Verso la fine dello stesso mese lo Sforza, scrivendo allo Scliiner (doc.
329 e 330), accenna all'impresa di Crema, alle notizie della vittoria (di
Borgogna senza dubbio), al pagamento del soldo, alla riduzione della
taglia imposta a Vigevano. In una successiva del 3 ottobre (doc. 332)
dice Duca d'essere venuto a Milano nonostante la peste « per dare
il
forma alli dinari delli Sig.ri Helvetii » e per attendere alla « perfectione
de le cose praticliate in Casale mazore ». Della conferenza di Casal
Maggiore parlano il Morone nelle sue lettere e il Sanuto ne derivò fra :
altro la convenzione fra il cardinale di Sion (a nome pure del cardinale
Gurcense, del viceré di Napoli, del duca di Milano) ed i fratelli Adorno
per la vagheggiata espulsione dei Fregoso da Genova (doc. 334).
Il carteggio fra il duca ed il suo protettore, lo Schiner, continua
frequente. Il 12 ottobre lo Sforza accenna a « la felice nova de la glo-
riosa Victoria riportata contro Veneziani » (doc. 336); il 14 preannuncia
che il giorno 16 verrà a Vigevano « a disnare » col cardinale (doc, 337);
il 19, mentre comunica notizie venute da Roma e dalla Svizzera, an-
nuncia che P. Colonna entrerà ai servizi di Milano, che gli Spagnuoli
dovranno prendere Crema ed acquartierarvi si, che non è ancora conclusa
la pratica per il castello di Milano (il quale si arrese solo un mese pitL
tardi), che in Milano si diffonde la peste (doc. 339). Il cardinale lo
prega intanto (doc. 340) di pagare il resto del debito fatto presso l'« oste
del Puteo de Mediolano » per il capitano « de Altosaxo ».
Interessante un « sommario de lettere, dato a Vercelle alli 12 di
novembre, allo Ill.mo et Rev.mo cardinale Sedunense » (doc. 343). Vi
si danno notizie di Francia, raccolte, a quanto pare, da lettere inter-
cettate: il re Luigi, corrucciato con « Mon.re de la Tramoglia... per lo
apontamento de Duginno » (la convenzione di Digione con gli Svizzeri),
l'ha privato d'ogni ufficio il Trivulzio è giunto alla corte il 27 ottobre
:
« et afferma che venera presto in qua per compagno del duca de Bar-
bono (sic) al conquisto del ducato di Milano ». A questi disegni dell'a-
cerrimo nemico degli Sforza accenna poi il cardinale in lettera dei
primi di dicembre scritta da Milano ad amici d'oltralpe (doc. 344); il
Trivulzio, egli dice, ha in Lombardia partigiani fra i cittadini cospicui,
forse fra gli stessi dirigenti (« vilicht under denen regenten von Mey-
landt »). Ed era infatti naturale che i Milanesi cominciassero ad essere
stanchi, se non dello Sforza, Svizzeri, non facili a sa-
de' suoi alleati
ziarsi.Qualche dissapore doveva essere nato fra essi e lo stesso Duca,
a quanto sembra da una lettera quasi umile di questo (doc. 345).
Ai 30 dicembre Andrea del Burgo comunica al cardinale, ritornato
a Sion, notizie avute da Roma, altre aggiungendone sugli eventi mili-
tari e diplomatici (doc. 349). Il giorno dopo il cardinale scrive al duca.
BIBLIOGRAFIA 37^
a proposito dell'interdetto con cui era stata punita Novara
i(doc. 350)
per contribuzione imposta al clero. L'interdetto fu però presto levato,
del che il duca ringrazia lo Schiner con lettera del 5 gennaio 1514
(doc. 351). La corrispondenza del gennaio e febbraio 1514 fra il cardi-
nale, duca ed Andrea del Burgo (doc. 352, 354-358, 362, 364, 365)
il
verte sul colloquio fra lo Sforza e l'ambasciatore di Spagna, sul desi-
derio dell'imperatore di abboccarsi a Trento con lo Schiner e gli am-
basciatori degli Svizzeri, sul clero novarese, riluttante a pagar la ta-
glia senza licenza dello Schiner, sul compromesso fatto dalla Maestà
Cesarea e dai Veneziani nel pontefice, sulla temuta probabilità che
Crema resti a San Marco. Si allude pure al grave incendio del 4 Gen-
naio a Venezia, alla morte della regina di Francia, a « qualche novità
successa » tra soldatesche italiane ed elvetiche, seguita però da sollecita
riconciliazione.
Lo Schiner, tornato a Vigevano in marzo, corrispondeva pure col
cardinale inglese, Cristoforo Bainbridge arcivescovo di York, non meno
di luiavverso ai Francesi(doc. 367), e scriveva in maggio ad Enrico Vili,
pregandolo di assumere i confederati svizzeri come alleati contro la
Francia (doc. 376). Un autografo del cardinale di Sion (primi d'aprile,
doc. 368) contiene le lagnanze degli Svizzeri contro la Lega Santa per
trattative di pace tenute loro segrete, pei disegni di matrimonio fra
Renata di Francia ed un principe d'Absburgo, ecc.
Ai 9 di maggio il duca di Milano riconosce un suo debito d'oltre
17.000 fiorini renani d'oro verso il cardinale e ne promette il pagamento
(doc. 377); il giorno successivo Andrea del Burgo ed i Conservatori di
Milano scrivono nuovamente allo Schiner circa i tributi di Novara
(doc. 380)....
Ma poco dopo i rapporti fra il cardidale Sedunense e lo Sforza
sembrano turbarsi.
Infatti agli ultimi di maggio o ai primi di giugno il duca manda
allo Schiner (e in pari tempo ai confederati, verosimilmente cioè ad una
dieta tenutasi in Berna) Gaspare Gòldli di Zurigo, capitano di Lugano,
e Giov. Bartolomeo Tizzone governatore di Asti per dissuaderlo da trat-
tative di cui teme e per pregarlo a voler deporre « omne ira et mal-
concepto » (doc. 383 e 383 ', a cui si ricollegano pure il 395 e il 396 del
26 luglio). Le trattative sospette miravano ad una vasta alleanza fra
gli stati italiani, compresa Venezia, e gli Svizzeri, e si connettevano
indirettamente a certe pratiche del pontefice « de regno neapolitano ».
Lo Sforza dubitava non fosse la nuova lega contraria all'imperatore ed
al re di Spagna, e soprattutto temeva per sé. Difendeva poi quanto po-
teva Andrea del Burgo, oratore cesareo a Milano, contro cui lo Schiner
aveva concepito mal animo. Anche il Morone si adoperava per la ricon-
ciliazione (doc. 386 del 13 giugno). Il duca mandò pure a Berna, ove
si trovava il cardinale in occasione della dieta, Galeazzo Visconti. A
380 BIBLIOaRAFlA
questo lo Schiner non nascone il proprio malcontento, pur protestando
di voler essere sempre « bono patre » per lo Sforza. Pare che, in parte
almeno, la questione fosse di denaro che lo Sforza non voleva, o non
poteva, pagare. Inoltre gli Svizzeri desideravano occupare essi il ca-
stello di Milano^ e se ne capisce il perchè (doc. 397; lettere del Vi-
sconti da Berna, 29 luglio).
Ma v'era ben altro: continuava infatti a svolgersi il già accennato
lavorio diplomatico; e lo troviamo chiarito da vari documenti, fra cui
importantissima una lettera del duca all'imperatore (doc. 398, dell'Ar-
chivio di Stato di Milano, fine di luglio 1514). Lo Sforza scrive che la
nuova lega italo-elvetica si vuol concludere « tam ad tutelam et de-
fensionem ducatus Mediolani quam ad expellendas alias omnes nationes
peregrinas ex ipsa Italia ». Tutti gli stati della penisola dovrebbero
prestare « censum et annuum tributum ipsis Helvetiis >, e gli Svizzeri
aiuterebbero il pontefice sia « prò magnifico luliano eius fratre, ad ac-
quirendum regnum Neapolitanum » sia a prendersi Ferrara « si non
vellet facere que deberet ». A Venezia si promettevano Verona, Vi-
cenza, il Friuli; allo Sforza Bergamo, Brescia, Crema, Parma, Pia-
cenza, ma con l'ingrato obbligo di tenere maggiori milizie. Alla dieta
di Berna, continua il duca, il cardinale di Sion ed il nunzio papale,
Ennio Filonardi, hanno tratto molti dalla loro parte, sebbene la deci-
sione sia stata rinviata al primo agosto. È possibile anche un accordo
del papa e de' suoi amici col re di Francia, che pur fa qualche riserva
per il contado d'Asti, ma forse « de ilio acquiescet si imperator et rex
Aragonum excludantur et ipsi de Italia ». Intanto il cardinale intriga
con vari Milanesi per allontanare Andrea del Burgo ed altri amici della
Maestà Cesarea, espulsi i quali gli Svizzeri « tractabunt habere castra
^t fortilitia in manibus suis ». Si comprende come il nostro principe
temesse di novità che avrebbero aggravato la sua soggezione e i suoi
oneri finanziari verso gli Svizzeri.
Ai 30 di settembreil duca scrive al cardinale, dichiarandosi lieto
di < intender la bona dispositione verso al magnifico Mess.r Andrea de
Burgo, oratore cesareo », e manda a conferire con lui Catellano de Ca-
stello con particolari istruzioni (doc. 410). In sostanza anche lo Sforza
vorrebbe una lega, ma tale che accanto a Milano e agli Svizzeri com-
prendesse l'imperatore. Questi desidera appunto un colloquio in Tirolo
con gli Svizzeri e col duca, che condurrebbe seco Andrea e l'amba-
sciatore di Spagna in Milano. Inoltre, trattandosi « de la liga univer-
sale », il papa potrebbe desiderarla puramente difensiva; ma lo Sforza pre-
ferirebbe fosse anche offensiva per maggiore cautela contro la Francia.
Nuove istruzioni del duca a Catellano de Castello ai primi di novembre
(doc. 417) si riferiscono ancora alla necessità d'una lega universale. Si
dovrà « essere aiutati da li subditi con uno tallono, sì per satisfare
alla pensione de loro sig.ri Helvetii. comò per susti nere el stato ». La
consegna dei castelli agli Svizzeri non è « espediente » (dirà l'oratore),
perchè.... potrebbe dare sospetto agli altri principi. Catellano dovrà
BIBLIOGRAFIA 381
ancora patrocinare la causa di Andrea del Burgo ed indurre lo Schiner
all'abboccamento con l'imperatore.
All'approssimarsi d'aoa nuova dieta, che fu tenuta a Zurigo il 5 di-
cembre, il duca scrive al cardinale (doc. 418, 24 novembre), rammari-
candosi di « qualche varietà » tra gli oratori pontifici ed il cardinale
stesso da un lato, gli oratori cesarei e di Spagna dall'altro.
Di grande interesse è una lettera del 4 gennaio 1515 (doc. 424), da-
tata da Roma e scritta dal Carpi all'imperatore Massimiliano. Il papa,
vi si dice, si dà premura per porre pace fra la Maestà Cesarea e Ve-
nezia e stringere una lega per la difesa d'Italia. Ma da varie parti gli
è stato suggerito il sospetto di accordi tra imperatore, Spagna e Francia
« (Maiestatem Vestram et regem Catholicum conventuros esse cum
Gallis »). Gli ambasciatori milanesi sono mostrati meno transigenti
si
di quel che il pontefice Parma e Piacenza, ed hanno
sperasse circa
chiesto anche Brescia. Leone X sarebbe lieto se lo Sforza potesse rice-
vere quest'ultima città rinunciando a quelle ("cfr. accenni nei doc. 426
e 430) j ma osserva d'altronde che il duca, mentre ha tante pretese, non
pensa alla possibilità che il re di Francia si allei con Venezia promet-
tendole Cremona e Ghiara d'Adda (1). È sdegnato inoltre con lo Sforza
per i disordini suscitati in Genova dagli Adorno e dai Fieschi, con
Venezia per la riluttanza alla pace.
Leone X non era in tutto contento neppure del cardinale di Sion,
al quale scrivendo il 14 gennaio 1515 moveva rimprovero perchè non
voleva lasciar godere al cardinale Federico di San Severino i frutti del
chiostro di Morimondo. A questo documento (427), già pubblicato nelle
epistole del Bembo), potrebbe connettersi il 428^ una lettera cioè della
dieta federale a Giuliano dei Medici (14 marzo, Zurigo) in favore dello
Schiner contro il San Severino e Giorgio Soprasasso (Jòrg auf der Fliie)^
Una lettera dei capitani di Basilea alle autorità di Basilea (doc. 436,
da Novara, 24 maggio 1515) apre per così dire, un nuovo capitolo in
quanto contiene accenni ai preparativi di guerra di Francesco I, salito
al trono all'inizio dell'anno. Ed all'attesa invasione si riallaccia forse
il nuovo iìivio di Andrea del Burgo da parte dell'imperatore duca al
di Milano ed al cardinale di Sion (ultimi di maggio, doc. 437 e 438).
Da Milano lo Schiner scrive il 18 giugno al diica di Savoia (doc.
442) a proposito dei passi che gli Svizzeri devono occupare per preve-
nire la discesa delle milizie di Francia. Al che si allude pure nel car-
(1) Il Biichi riconosce in nota che « in Texte steht Glaream », ma
ha creduto di correggere questo nome in « Parmam > aggiungendo un
punto interrogativo. A noi « Glaream > pare assai più verosimile.
I
382 BIBLIOGRAFIA
teggio fra il cardinale di Sion ed il Bibbiena (1), onde ai rileva che il
concentramento nemico (« la maB8a ») bì fa nel Lionese, mentre « le ar-
tiglierie sono in Grenopoli (Grenoble), 24 pezze grosse con tutte le sue
provisione, et de continuo se lavora circa li monti verso monte Geneva et
collo d'Agnello » (doc. 445, 29 giugno, Milano; cfr. doc. 444, 449 ed altri
successivi). Da Moncalieri, il 3 agosto, lo Scliiner in lettera all'ambascia-
tore papale a Milano (doc. 452) si rallegra di sapere che il papa « voi
essere cum questi signori ad una fortuna », e in pari tempo chiede de-
nari per le milizie. Torna a bussare a quattrini con lettera del 10 agosto
(doc. 454), poiché gli Svizzeri sono malcontenti. La Francia a mezzo
del duca pace e « proh dolor, multi dano
di Savoia fa loro proposte di
oretza ». Contro Genova non si può far nulla per non distrarre le forze.
Sarebbe meglio che certuni, pronti a consigliare le imprese, « venessero
qua et non stasesseno in le camere... Alias sono più presto fiasche che
Consilia». Pur troppo «la Lega chomo dormentata fa le cosse sue»j
mentre occorre decidere la guerra entro quattro giorni, provvedere ai
mezzi e far venire altri Svizzeri.
Il 13 agosto Leone X nomina lo Schiner legato papale presso 1 con-
federati accanto a Giulio dei Medici (doc. 455) tre giorni dopo torna a
;
scrivergli per condolersi che i Francesi &iano riusciti a passare al di
qua delle Alpi (doc. 457). Lo esorta tuttavia in tale lettera ed in altra
del 28 agosto (doc. 460) a perseverare con fiducia, poiché la vittoria
non può tardare. Ma proprio in quel giorno si avviavano trattative di
pace tra gli Svizzeri e Francesco I a Vercelli, continuate, come è noto,
a Gallarate, sebbene turbate poi per l'arrivo di nuove milizie elvetiche.
Al 29 scrive il duca di Milano allo Schiner: « Poyche li S.ri Elvetii,
oberano a Gallarate, hano cosi concluso et cossi bisogna fare, delibe-
remo venire e Como et ibi fare, quello si poterà per la salute nostra,
pero pregamo V. R.ma S., sia contenta venire anchora lei con li fanti
Elvetii, quali si trova hav^ere seco ». E venga subito, perchè il Duca
ha bisogno della sua presenza e non ha altra compagnia per recarsi a
Como (doc. 461). Lo Schiner invece, o non avesse ricevuta la lettera,
o non curasse le preghiere del pavido Sforza, si recava il 30 agosto a
Piacenza con 3000 confederati, preparandosi alla seconda fase della
male auspicata campagna. Con lettera del 4 settembre da Casalpuster-
lengo dà ragguagli ai capitani svizzeri del castello di Milano intorno
alla ritirata delle milizie elvetiche sul Po, alla propria non inutile (« nicht
unfruchtpar ») marcia su Piacenza, alPatteso arrivo del Viceré di Na-
poli con truppe (doc. 462), e da Secugnago (5 o 6 settembre, doc. 463)
annuncia ai medesimi, che il dì seguente verrà loro incontro sino a
Lodi o Melegnano. Al 6 ed al 7 scrive loro da Lodi (doc. 464 e 466).
(1) Per questo carteggio veggasi P. Richard, Une correspondance
diplomatique de la curie Bomaine à la veille de Marignan, in Bevue
d^hist, et littér religieuses, T. IX, Paris, 1904.
BIBLIOGRAFIA 383
Il sopraggiunto Viceré tuttavìa, come risulta da lettere di lov. Fran-
cesco Bayardo e del Rozano al Marchese di Mantova (doc. 465, 467,
468) (1), non intendea, che Sviz-
rifiutava di procedere sino a Lodi, « se
zeri fossero ne
borghi di Milano per farli spalle ad unirsi con loro ».
li
Il cardinale rispose « che Spagnoli erano de anima de lepore », ma che
quanto a lui non poteva indugiare a recarsi incontro agli Svizzeri di
Milano con la gente del papa, onde da Lodi partì per Melzo; e così
fece Giovanni Gonzaga.
Ma i dissensi fra gli Svizzeri, la inettitudine di Massimiliano Sforza,
la lentezza e i dispareri dei collegati nulla promettevan di buono; ne
alla audacia dello Schiner e de' suoi seguaci arrise sui campi di Mele-
gnano la fortuna. La cronaca degli eventi dal giorno 8 settembre sino
all'eroica battaglia del 13 e del 14 ed alla successiva ritirata delle mi-
lizie elvetiche è riassunta in una lettera dei capitani di Basilea ai loro
-concittadini, mandata da Lugano il 17 (doc. 469). Della parte avuta del car-
dinale di Sion nel condurre gli Svizzeri all'infelice combattimenio mor-
morarono poi parecchi suoi concittadini (doc. 479).
Ai 20 il Bibbiena (doc. 470), assicura che il papa confida nello
Schiner e che non mancheranno denari ed uomini, purché gli Svizzeri
non abbandonino la lotta. Un po' tardi !
si fossero trattenuti a Milano
vCorse poi voce che, se gli Svizzeri
il sabato 15, Viceré sarebbe venuto a congiungersi con loro, ma che
il
essi non lo avevano voluto aspettare. Così da una lettera di Hans von
Oless (da Trento, 21 settembre, doc. 471), da cui appare altresì che a
Trento si aspettava ])er il 21 stesso o per il 22 il cardinale Sedunense
con soldati e con signori milanesi. Veniva infatti per la via di Tirano.
Fu poi ad Innsbruck, ed
il 5 ottobre era a Zurigo (doc. 473) per una
dieta che poi non ebbe luogo. Indiretto, ma grave contraccolpo della
sconfìtta di Melegnano fu per lui la perdita della diocesi di Novara re-
stituita dal papa al cardinale di San Severino con breve del 30 set-
tembre (doc. 472). Nota é l'epistola con la quale il Morene narra allo
Schiner come si sia giunti alla resa del castello di Milano, addossan-
done la colpa alle milizie svizzere, non però ai loro capi (doc. 474 del
6 ottobre).
Il re di Francia era disposto a concedere pensioni ed onori al car-
dinale di Sion, se questi si fosse voluto mettere a' suoi servizi; così
pare almeno da lettera di Giovanni Werra (doc. 475, 13 ottobre) allo
Schiner. Ma questi, tornato ad Innsbruck, faceva comprendere scrivendo
al cardinale Wolsey (doc. 478, 13 novembre) la sua non scemata osti-
lità verso la Francia ed il proposito di porre sul trono di Milano con
(1) Veramente il 468 si dimostra pel contesto anteriore al 467 di
pari data (7 settenrbre).
ìm BIBLIOGRAFIA
una naova spedizione elvetica, Francesco Sforza (1), molto migliore del<
suo « fratre Massimiliano, « qui tam impudenter sese dedit >^
abiecto »,
e cbe « nec Consilia nec recta monita audire vel bene vivere volebat ».
(È fama, raccolta dal Guicciardini, che Massimiliano dopo la resa di-
cesse, forse con maggiore verità che dignità, di « essere uscito della
servitù degli Svizzeri, degli stratii di Cesare et degli inganni degli
Spagnuoli »). Gli Svizzeri, afferma lo Schiner, desiderano la rivincita^,
ma a ciò occorrono denari. Frattanto fì protesta grato per l'amicizia
del cardinale Wolsey e del re d'Inghilterra.
Ai 24 di novembre scrive nuovamente al Wolsey da Zurigo, di-
cendo esservi speranza che gli Svizzeri respingano la pace coi Fran-
cesi, « si Anglica pecunia non defuerit » (doc. 480). Al medesimo manda
quale ambasciatore nel mese seguente Bartolomeo Tizzone (doc. 482),
mentre si tiene in corrispondenza con Richard Pace, notaio apostolico
e segretario del cardinale Bainbridge (doc. 488) e con Sir Robert Wing-
field, ambasciatore inglese alla corte imperiale. A questo in lettere
del 27 dicembre (doc. 492 e 495) parla della urgenza di soccorrere Brescia
e del convegno di Bologna fra Leone X e Francesco I (avvenuto il
giorno 11 dicembre) non senza lagnarsi della restituzione del vescovato
di Novara al Sanseverino. Il papa stesso aveva sentito la convenienza
di giustificare in lettera allo Schiner (doc. 485, da Bologna, 17 di-
cembre) il proprio riavvicinamento alla Francia, pregandolo in pari
tempo di appoggiare presso l'imperatore i suoi sforzi per una pace ge-
nerale e per una crociata contro i Turchi.
Notizie intorno alle cose di Brescia e Verona ed alla situazione di-
plomatica sul finire del 1515 si hanno in una lettera dello Schiner ad
un amico (doc. 496, del 28 dicembre). Al 30 egli scrive all'imperatore
(doc. 498) sulla necessità di denaro per guadagnarsi gli Svizzeri ed im-
pedirne l'accordo con Francia (accordo che venne poi in fatto con-
cluso al principio del 1516). Accenna pure a Galeazzo Visconti, che vive
esule nella Svizzera e si adopera per preparare la rivincita sforzesca.
Qui ha termine la prima parte della ricca e diligente pubblicazione
del Buchi.
Giovanni Seregni.
Ernst Gagliardi. — Geschichte der Schxceiz von den Anfàngen bis auf
die Gegenwart, 2 Volumi in-8, di viii-284, viii-444 pagine. Ziirich^
Rascher e Co., 1920.
Altra volta abbiamo parlato in questo periodico della prima parte
del poderoso lavoro di E. Gagliardi sulla partecipazione degli Svizzeri
alle guerre d'Italia dal 1494 in poi. Già ben noto per questo ed ante-
Indizio dei buoni rapporti dello Schiner con Frans. M. Sforza è
(1)
l'attocon cui questi gli conferma la donazione di Vigevano (doc. 483-
484, da Costanza, 17 dicembre).
BIBLIOGRAFIA 385
riori studi, egli ci dà ora una compendiosa storia della Svizzera, con-
dotta con diligenza di preparazione e serietà di propositi. La parte
anedottica é volutamente trascurata; le indagini bibliografiche conte-
nute iu giusti termini ma il lettore esperto indovina facilmente q'uanta
;
copia di sicure informazioni abbia servito di base all'autore. Questi,
dopo rapidi cenni intorno all'antichità ed all'alto medio evo, si trattiene
nel primo volume sull'origine e sui progressi della c(<nfederazione,
sulla lotta eivile degli anni 1436-1450, sulla guerra contro Carlo il Te-
merario, sul distacco dall'impero e sulle guerre d'Italia sino alla bat-
taglia di Marignano. Il secondo volume, più ampio, è dedicato alla
storia moderna, dalla riforma in poi ; onde ne sono principali argo-
menti la scissione religiosa, i conflitti e le guerre che ne seguirono
sino al trattato di Westfalia, la successiva evoluzione dei cantoni verso
Faristocrazia, l'età della rivoluzione francese, la restaurazione ed il
Sonderbund, la trasformazione infine dell' antica federazione di stati
nel moderno « stato federale ».
La storia elvetica s'intreccia con la storia lombarda in parecchi
de' suoi momenti ; ma in tre soprattutto : l'origine stessa della confe-
derazione, le guerre d'Italia da Carlo Vili a Francesco I, la controri-
forma. Riguardo al primo, il Gagliardi (seguendo anche Karl Meyer)
mette in evidenza l'influsso che le libertà comunali italiane esercitarono
sul sorgere della libertà svizzera. L' esempio di Como, dalle vallate re-
tiche e lepontine fu particolarmente efficace sui cantoni originari posti
sulla via del Gottardo ; cosicché il loro costituirsi ad autonomia si può
considerare come una ripercussione del grande moto comunale, che dalla
penisola si propagò largamente oltre le Alpi. Quanto alle guerre d' I-
talia, è noto che, mentre portarono all'apogeo la gloria militare sviz-
zera, misero per qualche tempo Milano stessa sotto il protettorato dei
cantoni elvetici. Ad esse seguì ben tosto la rivoluzione religiosa: la
reazione, la riforma cattolica venne dal mezzogiorno, e per la Svizzera
(come ben riconosce l'autore) ebbe il suo eroe in San Carlo Borromeo,
efficacemeente coadiuvato da Francesco Bonomini. Alle lotte di reli-
gione si connette poi la guerra di Valtellina, che si riannoda pure ai
gravi avvenimenti europei della prima metà del secolo XVII.
Per la Valtellina medesima e per l'odierno Canton Ticino lo stu-
dioso lombardo troverà in non poche pagine del libro notevoli riferi-
menti, sia per l'origine del dominio svizzero e grigione in quelle zone
cisalpine sia per il turbinoso periodo della rivoluzione francese
,
che ricongiunse l'alta vallata dell'Adda alle nostre provincie e poco
mancò non vi ricongiungesse i baliaggi ticinesi, Questi tuttavia rag-
giunsero finalmente, come altri paesi soggetti, la indipendenza canto-
nale.
Per tali riflessi locali e i)er altri d'indole generale, il lavoro di
Gagliardi è anche per i cultori della storia nostra un'opera di utile
consultazione.
Giovanni Sbregni.
386 BIBLIOGRAFIA
Can. Prof. Angelo Bkrenzi. —
I. Uohecco doglio — (Jenni storici —
II. liodolfo Fedrazzini di liobecco, Vescovo di Trieste. Cremona,
Tipografia Centrale, 1921.
È questa una della piccola terra cremonese fatta con
storia
buoni appoggiati a una conoscenza completa dei do-
criteri di critica,
cumenti. Poche vicende si capisce ebbe la piccola terra che seguì più
passiva che attiva le sorti fortunose ora di Cremona, ora di Brescia.
Fu uno dei teatri della lotta di Federico II contro i Comuni lombardi e
passò poi morte di Gian Galeazzo, con Cre-
ai Visconti. Sottrattasi alla
mona, alla signoria viscontea, Robecco accettò la signoria di Ugolino
Cavalcabò, nuovo signore di Cremona, ma dell'effimero dominio di
costui passò ad essere contrastata tra Cabrino Fondulo e Pandolfo Ma-
latesta. Qui il Fondulo vi accolse Giovanni XXIII che andava a Lodi a
incontrarsi coli' Imperatore Sigismondo nel 1413. Poi vennero le lotte
tra Visconti e Veneziani e il Castello di Robecco fu uno dei luoghi più
assaliti e più difesi e vede e sopporta le imprese di Michele Atten-
dalo, di Francesco Sforza e di Niccolò Piccinino. Poi Robecco è dei
Veneziani nel 1490. Vi passa Luigi XII dopo la battaglia della Ghiara-
dadda e pure vi stanzia G. G. Trivulzio e diventa un punto impor-
tante per i collegati contro i Veneziani. E ancora Francesco II Sforza
nel 1525 infeuda Robecco alla famiglia Del Maino finché la pace di C.
Cambresis la ridusse al dominio spagnuolo e della politica spagnuola e
delie susseguenti, la piccola terra subisce impotente e rassegnata ogni
vicenda.
Come si vede, piccola storia di breve terra, e per cui i gravi fatti
sommo vitori di nazioni non arrivarono che attenuati come un' eco
lontana... Ma fu una eco che malgrado la sua tenuità non mancò di
far versare dolori e lagrime come alla gran gente. L'importanza della
sua posizione sull'Oglio a fronteggiare Pontevico, fu forse P unica ori-
ginalità storica di Robecco, dalla quale derivarono tutte le sue pic-
cole avventure politiche e la sua ricchezza economica.
Segue alla storia di Robecco, la vita di Rodolfo Pedrazzini, ro-
becchese che fu vescovo di Trieste, cuius memoriae oblivio numquam
sepeliatj al dire dell'Ughelli e di cui nell'anno 1920 cadeva il VI cen-
tenario della morte. È noto come i Cremonesi della città e della
provincia migrassero facilmente nella Venezia Tridentina e in quella
Giulia e come della loro venuta, abbiano lasciato testimonianza d'opera
lodevole e duratura in ogni ramo dell'attività pubblica e privata. E il
Pedrazzini, fu appunto uno di quelli che meglio si fecero ricordare,
tanto che a lui si deve l'erezione della Cattedrale di S. Giusto. Esso
fu l'ultimo vescovo di Trieste eletto dal Capitolo, l'ultimo che battè
moneta. Morto nel 1320 fu sepolto nella cattedrale da lui eretta all'om-
bra della grande Italia antica. Uomo di forte politica e di saggia am-
ministrazione, lasciò certamente della sua cariea tenuta con fermezza
pugnace, traccie non trascurabili di vantaggi pubblici.
BIBLIOGRAFIA 387
Ripeto, cbe malgrado la pochezza degli argomenti, questo lavoro
del Berenzi è assai ben fatto, per sobrietà di narrazione e per sapiente
e provetto uso di documenti. L^ edizione è discreta.
L. V.
Pa-OLO Gderrini, Scuole e maestri bresciani del Cinquecento in Com-
mentari dell'Ateneo di Brescia per l'anno 1921. Brescia^ 1922,
pag. 73-127.
L' operosissimo nostro Consocio lesse lo scorso anno all'Ateneo di
Brescia una pregevole sua Memoria intorno alle scuole bresciane, che
per voto unanime dell'Accademia è stata integralmente pubblicata ora
nei Commentari.
Riferendosi a precedenti studi del Pertusati, di Mons. Fé d'Ostiani
e dello scrivente, che ebbero o intendimenti diversi o limitati a deter-
minati periodi di tempo, egli crede giustamente che più ampie ricerche
negli Archivi pubblici e privati ed in quelli delle Corporazioni religiose
possano offrireancora una ricca messe di notizie a chi intenda scrivere
una storia completa della cultura bresciana. Per ora egli si è limitato
« a rintracciare le piccole fonti della cultura popolare nelle oscure of-
« ficine dell'insegnamento privato, a scovare nomi ignoti e modesti di
« umili operai dell'educazione e della istruzione ». Attingendo così
alle accennate pubblicazioni, alle polizze d'estimo che si conservano
nella Queriniana all' Archivio Capitolare Comunale ha potuto met-
tere insieme un elenco di oltre 135 maestri che tra la fine del se-
colo XV e quella del XVI insegnarono grammatica, musica, e geome-
tria nelle scuole pubbliche e private di Brescia.
Veramente per queste ultime riconosce che poco si può apprendere
dalle polizze, perchè i maestri erano esenti dalle imposte; ma anche
questo privilegio non fu sempre conservato e rispettato. Non si sa a
quando risalga l'A. ne trova un primo accenno nelle polizze del 1388,
;
quando cioè un certo maestro Brixianus de Albertis de Claris venne
cancellato dall'elenco dei contribuenti appunto perchè i maestri per
decreto del Podestà, del Referendario e per provvisione degli Anziani
erano esenti da ogni onere è poi consacrato negli statuti del 1474.
;
Ma viceversa io ho trovato che nel '493 i maestri di grammatica si la-
gnavano di essere molestati dal massaro per le talie, sicché il Consiglio
riconfermava il loro diritto (Provvis. Reg. 514, e. 136 - 30 Novembre)
ed ordinava al massaro di lasciarli tranquilli. Però nel 1521, a causa
delle grandi spese che la città doveva sostenere * in multis fabricis
et reparationibus murorum et in quam plurimis aliis diversis causis »
si sottomettevano anche i professores gramaticc all'estimo, dovendo
concorrere ai nuovi oneri esenti e non esenti (Provv. 1521, 18 Dicem-
bre, Reg. 528, e. 90), onde le proteste dei maestri nel 1524, nel 1544,
accolte la prima volta e respinte la seconda, e quella del 1558 a cui,
accenna pure l'Autore.
388 BIBLIOGBÀFIA
Erano ad ogni modo coBtoro insegnanti privati ? Non risulta
dalle provvisioni mentre sappiamo che già dai primi anni del '400'
;
il Comune usava stipendiare propri maestri (1). Certo nel '400 la
città ne doveva ospitare un numero discreto il Concorreggio difatti
;
in una petizione al Consiglio, pubblicata da me (2), affermava che ve
n'erano ben venti in luogo dei quattro d'un tempo, e si capisce che^
ciò avvenisse pensando all'incremento degli studi classici che anclie in
Brescia suscitarono tanto fervore.
Non crederei quindi che si possa proprio affermare con l'A. quanto
fu già pure notato dal Pertusati che « il primo tentativo di fondare
a Brescia una vera scuola popolare debbasi ritardare fino al 1522 »,.
mentre un tipo di scuola simile esisteva già in quella tenuta dalla Cat-
tedrale per istruire nella grammatica e nella musica i chierici e i
fanciulli che dovevano cantare nel coro ed assistere alle funzioni sacre
e della quale l'A. pubblicai capitoli per la nomina dei maestri.
Ma
anche Brescia si risentì del mutamento di indirizzo negli studi
avvenuto per effetto della controriforma cattolica le scuole comunali ;
specialmente cedettero il campo a quelle religiose, e più particolar-^
mente a quelle dei Gesuiti, ed il pensiero, che non si era fatto pagano
ma che aveva ricuperato la sua libertà, fu nuovamente compresso dal-
Pautorità ecclesiastica. L'A. crede di attenuare l'influenza dei Gesuiti,
da me asserita , attribuendo invece il nuovo indirizzo alla preoc-
cupazione generale del « pericolo protestantico, che minacciava anche
in Italia la rivoluzione religiosa contro la Chiesa ». E sia pure
; ma
in ogni modo i Gesuiti ne furono l'esponente e lo strumento più
efficace . Di che natura fosse poi tale ben chiaro
indirizzo risulta
dalle costituzioni sinodali del vescovo Bollani del 1575, molto opportu-
namente pubblicate dall' A., secondo le quali i maestri dovevano fra
l'altro giurare di non insegnare nulla che non fosse conforme alla
dottrina cattolica e l'A. ci reca pure l'elenco di 53 maestri che già
;
avevano prestato tale giuramento o vi erano stati invitati.
In fine il G. pubblica l'elenco dei 135 maestri, illustrandoli con quelle
notizie biografiche e bibliografiche che ha potuto rintracciare e che
mi sembra si possano raggruppare così 1) maestri, già noti per prece-
:
denti pubblicazioni 2) maestri, dei quali ha ritrovato il nome con
;
descrizione delle condizioni economiche nelle polizze d'estimo; 3) altri
di cui può darci solo il nome con qualche altra sommaria indicazione.
Credo che non sarà discaro all'A. ed al lettore se aggiungerò per conto
mio qualche altra notizia. Tralasciando quindi di ricordare che oltre ai
maestri d^abaco Bettino da Firenze, Taddeo della Torre e Bello Moretti
(1)A. Zanelli, Brescia sotto la signoria di T. M. Visconti^ Torino, 1892..
(2) Id. id., Una supplica di Gabriele da Voncoreggio al Consiglio
generale di Brescia per Nozze Montrisor-Paradlsi, Roma, 1900.
BIBLIOGRAFIA 389
*dimatematica, elencati dall'A. io avevo già accennato alla nomina anche
di un Benedetto di Pavia in una Recensione pubblicata in questo
nostro Archivio (1), credo che, avendo egli pure compreso nell'elenco
un Benedetto da Firenze, che, secondo il Pertusati, sarebbe stato chia-
mato ad insegnare nel 1436 (2), sarebbe opportuno rammentare anche il
celebre Tommaso Seneca che nel 1432 veniva nominato insegnante
,
di grammatica per suggerimento del Vescovo (3). Il G. a proposito di
Marco Picardi afferma che questi venne a Brescia nel 1470 ma da ;
una provvisione del I486 ci risulta che abitava in città già dal 1468.
Difatti e il Picardi e Andrea de Mercando e Paolo Bosani in quell'anno
chiedevano ed ottenevano la cittadinanza, adducendo nella loro domanda
che erano a Brescia il primo da 18 anni, il secondo da 14 ed il terzo
da 20 (4). E così pure già nel 1459 erano stati assegnati alla città, perchè
creati cittadini dopo il 1448, un Nicolò Bosani ed il padre suo, un
Martino Groselli ed un Bartolomeo Regnardini. Non so poi se nel suo
studio su un umanista bagnolese a Costantinopoli 1' A. abbia ricordato
che Ubertino Pasculo tenne scuola a Brescia, come ci attesta Pandolfo
Nassino (5).
L'A. ci lascia infine intravedere il proposito di darci una storia
completa della cultura bresciana ed io l'esorto a coltivare non solo
la bellissima idea, ma a tradurla in atto, perchè pur troppo 1' unica
opera organica che ancora possediamo è quella del Quirini De brixiana
literatura, mentre siamo convinti che da uno studio ampio, documen-
tato e completo, condotto con criteri più moderni, la storia della
cultura della nostra città emergerebbe anche degna veramente di mag-
giore considerazione. L'A. la può fare e perciò speriamo che appagherà
(il comune desiderio.
Agostino Z anelli.
Romolo Quazza. — europea nella questione Valtellinica. {La
Politica
Lega Franco- Veneto- Savoiarda e la pace di Mongon). Un voi. in
So, di 104 pagine. Venezia, R. Deputazione di Storia Patria, 1921.
(Estratto dai Nuovo Archivio Veneto, Nuova Serie, Voi. XLII).
L'autore si occupa della questione di Valtellina dalla conclusione
della lega tra Francia, Venezia e Savoia (7 febbraio 1623) alla pace di
Mon9on (marzo 1626), integrando i lavori dell' Arezio e del Bazzoni (6)
(1) Zanblli, Carlo Valgulio. — Recensione. (Archivio Storico Lom-
bardo. Anno XXX, 1904. Fase. I).
Pertusati, BelV istruzione in Brescia.
(2)
—
Brescia, Apollonio 1880.
A. Zanelli, Ancora di Tommaso Pontano e Tommaso Seneca
(3)
in Giornale Storico dello letteratura italiana. Voi. XXXIII, pag. 347.
(4) Provvis. 1486, Reg. 509, cap. 43,
Archivio Comunale.
(5) Pandolfo Nassino, Cronaca. Ms.
Quer. C. I, 15, e. 227.
(6) L. Arezzo, La politica della Santa Sede rispetto alla Val-
4ellina dal concordato d'Avignone alla morte di Gregorio XF, Ca-
390 BIBLIOGEAFIA
eil meno recenti. Anziché sulle vicende militari, «nffìcien temente
altri
note, Quazza si sofferma su quelle politiche, valendosi di documenti
il
mantovani, particolarmente delle lettere di Giustiniano Priandi, ministra
del duca Ferdinando a Parigi, di Francesco Nerli ed Alessandro Striggi,
suoi reeidenti a Madrid, del Cattaneo, suo residente a Roma. Poiché il
Gonzaga, pur avendo motivi di dissidio con l'audace duca di Savoia,
si tenne estraneo alla grave vertenza, così le relazioni dei diplomatici
mantovani hanno il pregio della obbiettività.
Solo nell'autunno del 1625 il duca di Mantova sembrò lasciare il
suo contegno di spettatore, per farsi promotore, se fosse possibile,
di una pace generale. Il Gonzaga, che vedeva il Monferrato esposto
alla soldatesca rabbia degli eserciti di Francia, Spagna e Savoia, pensò
di fare un passo, come si suol dire, presso il Senato veneto per la con-
ciliazione. Ed infatti alla metà d'ottobre, dopo essere stato a Milano^
si recò personalmente a Venezia, ove null'altri che l' ambasciatore
cattolico era informato delle sue intenzioni. Questo tentativo fu male
giudicato dalla regina madre di Francia, onde il Morosini, che rappre-
sentava Venezia a Parigi, insinuò che l'opera maligna fosse dovuta all'am-
basciatore di Savoia (sempre pronto a ricercare tutto ciò che potesse
giustificare l'invasione e l'eventuale possesso del Monferrato da parte
di Carlo Emanuele), e forse in parte anche all'ambasciatore francese
a Venezia, d'AUigre, il quale, intendendo poco l'italiano, errava spesso
nell'interpretazione dei discorsi. Tuttavia il d'Herbault, interrogato
dal Priandi, dichiarò che, se la relazione fosse venuta dall' ambasciata
sabauda, né il sovrano francese né i ministri vi avrebbero prestato in-
teramente fede, conoscendo l'antica inimicizia fra le due case. Quanta
a Venezia, l'episodio valse a dimostrarne la fedeltà all'alleanza; ma il
tentativo di pace era fallito.
Ove si astragga da quest'episodio, messo in luce per la prima
volta dal Quazza, il carteggio dei diplomatici mantovani ha carattere
piti Esso c'illumina su le trattative e gli intrighi
generale che locale.
del fortunoso triennio, su tutto un lavorio a cui partecipano non solo
gli alleati e le due case d' Absburgo, ma anche i protestanti tedeschi
l'Olanda, l'Inghilterra. Mentre va decadendo l'ijaflusso pontificio nelle
grandi vertenze internazionali (anche per la condotta forse un po'"
impulsiva e incoerente di Urbano Vili), mentre la lotta che agita
la Germania accenna ad estendersi, sorge il nuovo astro del Richelieu,
e rinascono le ambizioni della monarchia francese. Le questioni di Val-
tellina, di Genova, degli Ugonotti s'intrecciano coi maggiori problemi
per nessi ora palesi, ora occulti. Le nubi si addensano per così dire in
un solo uragano.
gliari, 1899. —
A. Bazzoni, Il Card. Francesco Barberini legato in
Francia ed in Ispagna nel 1625-26. In Arch. Stor. Italiano, Serie V?-
Tomo XII (1893), pp. 335-360.
BIBLIO GRAFIA 391
La pace di Mongon, conclusa per opera della Francia all' insaputa
delle sue alleate, Savoia e Venezia, non era e non poteva essere cbe
una tregua. Quanto ai Grigioni, istigati dai Veneziani e dagli Svizzeri
protestanti, rifiutavano d'accettarla. Carlo Emanuele, punto soddisfatto,
non si conciliava con Genova. Ma le forze intanto si erano misurate:,
la Spagna aveva sentito la necessità di piegare ; la Francia aveva mo-
strato dal suo canto di valutare esattamente le forze ancora robuste
della rivale. Il duello decisivo fra i Borboni e gli Absburgo, da cui
doveva nascere con la pace di Westfalia la mentalità politica moderna,
era differito, ma non evitato.
Il lavoro del chiaro Prof. Quazza (difficile a riassumersi per la copia
e la varietà dei particolari, nonché per l'ordine cronologico rigorosa
mente seguito), se poco arreca di nuovo alla nostra storia regionale
considerata per sé medesima, è, in compenso notevole contributo
,
alla ^storia d'Europa in uno de' suoi momenti più ricchi di vitale in-
teresse.
Giovanni Seregni.
D. C. Donini. — Il Palazzo Visconti ora Carminati^ di Brignano d'^Adda.
Treviglio-Messaggi 1921.
La borgata di Brignano in provincia di Bergamo, fra Treviglio e
Caravaggio e in diocesi di Cremona, fa antico feudo dei Visconti, un
ramo cadetto dei quali prese appunto l'aggiunto nome di Brignano^
ramo che vi ebbe sempre dimora fino alla morte di Antonietta Vi-
sconti Sauli avvenuta nel 1892 e che fu l' ultima della famiglia.
Dell' antico castello, ne venne l'odierno palazzo che è uno dei più
pregevoli per arte e storia della provincia, e che è anche la maggior
curiosità locale. Ma alla morte della marchesa Antonietta il pa--
lazzo fu vuotato, si può dire, d'ogni opera d' arte rimovibile e ro-
vinato abbastanza da incurie e da devastazioni ; finché in ultimo fu
acquistato dalla famiglia Carminati che ne curò e continua a curarne
i restauri. Diviso in Palazzo Vecchio e Palazzo Nuovo contiene ancora
opere d'affreschi e tele degne d'essere notate per fasto e per eccellenza
e la pubblicazione presente, ricca di buone illustrazioni, ne è una
guida ampia e sicura, per quanto qua e là un po' enfatica nell' espo-
sizione.
L. V.
Prof. Giulio Scotti. — Marco Marini orientalista bresciano del cinque-
cento — Brescia — Brixia Sacra, 1921.
È una pubblicazione per nozze e ricorda il poliglotta Marco Marini
di Brescia, nato nel 1541 e ivi morto nel 1594. Fu dei Canonici Re-
golari di S. Salvatore in Brescia, e orientalista insigne, autore di
una grammatica della lingua ebraica pubblicata in Basilea nel 1580 e
di un Dizionario della stessa lingua. L'ana e l'altra opera sono d'altissimo
-392 BIBLIOGUAFIA
pregio, ben superiori a tutte le altre simili, clie pure dopo l'inv^uzione
delia 8tampd, cominciavaDo ad abbondare, supratutto in Italia, dove
lo studio accurato della lingua ebraica, la conoscenza più profonda dei
testi sacri, era ritenuto di utilità per contrastare le nuove esegesi bi-
bliclie dei Riformisti d'oltr'Aipe. La breve memoria è molto ben fatta.
L. V.
D.r Frigo Piadeni. — La Società del Casino di Como nel suo primo
Centenario. 1821-1921 ecc. ecc. Como, Ostinelli, 1921.
È una spigliata monografia a ricordanza della vita secolare di
questa signorile raccolta di cittadini comaschi, che appunto del Casino
si intitolò. Fu iniziata per sottoscrizione privata il 6 Dicembre 1821 con
un numero fisso di settanta soci (chi sa perchè ?) ed ogni socio doveva
pagare lire milanesi sessanta di ingresso e quaranta annue come si j
vede, dato i tempi, una bella somma.
Il sodalizio ebbe ospitalità nella &ede del Bidotto del Teatro Sociale
allora allora costruito e dove risiede ancora. Il suo scopo che era di
semplice svago attirò subito una quantità di soci ben superiori al primo
numero fissato, sì che nel 1830 si dovette ampliare alquanto le cate-
gorie di cittadini che potevano appartenervi. Infatti oltre che civili,
onesti e ben educati cittadini, come diceva la primitiva formula, furono
compresi anche giovani di studio e commessi principali di negozio. S'in-
tende che i soci dovevano astenersi da quei discorsi che potevano
dare argomento di censura e di fondata (sic) discussione. Le signore
parenti più o meno lontane dei soci potevano essere ricevute nelle
sale, senza etichetta ma però con tutta V officiosità. Il primo pre-
sidente, o conservatore come era chiamato, fu Don Antonio Guaita.
Ma lo strano si è che l'I. R. Delegazione vi volle nominare un dele-
gato politico, che primo fu il poeta vernacolo, ancora di buona fama,
Giovanni Rezzonico suo ufficio era proprio il vigilare che tutto an-
:
dasse secondo i desideri del Governo, e dar notizia a chi di dovere di
ogni iniziativa presa dalla società e sul suo andamento normale. Come
si vede, una spia bella e buona e per di più riconosciuta e accettata.
Beati tempi Al Guaita come presidente successe un Lambertenghi che
!
gli apologisti celebrarono come poeta non infelice !
Ebbe poi la carica Innocenzo Gucita, patriota fervido che scontò
coli' esilio la sua fede italica e, nota singolare, in un secolo i presi-
;
denti furono appena dieci.
Fra i segretari è da notare Cesare Cantù che durò in carica fi.no
al '32, cioè fin quando la polizia lo mandò via da Como.
Fino al 1843 non fu permesso di fumare tabacco nel Casino e il
permesso richiese laboriose pratiche sociali. Venuti poi col '48 gli anni
fortunosi d'Italia, la Società del Casino partecipò a tutti gli eventi
col l'opera e col sentimento a cui dal più al meno parteciparono le varie
Società costituite della penisola. Patrioti seri e quieti, ma ostinati,
quei comaschi non ^vennero mai meno al buon nome della loro città.
BIBLIOGRAFIA 393
'Una parte di molta evidenza rappresentò la Società negli aiuti dati
alla spedizione garibaldina di Sicilia.
Nel complesso questa pubblicazione del Piadeni è una lettura di
molto interesse, data poi la sua forma assai spigliata. Se la storia pro-
priamente detta non ne riceve molti lumi, ha in suo luogo un bel ri-
salto la pittura d'ambiente. Per quel che sia il tono della vita di una
città di provincia quale Como, trova la sua rivelazione qui.
L'edizione è assai elegante e per tipi e per le illustrazioni.
i
L. V.
A. Bricchi. — Medici milanesi durante il dominio spagnuolo (Illustra-
zioni di Lombardia, Milano 1922.
È una pubblicazione con carattere divulgativo e intenti di facile
volgarizzazione senza pretese; e perciò non si dovranno ricercar ri cose
nuove, inedite o rare ma vi si espongono con certo garbo vecchie e
;
risapute notizie sui medici e medicine a Milano nel sec. XVI e XVII.
Ritroviamo figure di medici a noi care per il ricordo manzoniano: Ales-
sandro Tadino e Ludovico Settala. È pure sommariamente tratteggiata
la strana e geniale figura di Gerolamo Cardano e, per quanto in modo
j
schematico e incompleto, è delineato il Magistrato di Sanità. Curiose
illustrazioni s'intercalano nel testo, che si presenta in bella veste ti-
pografica.
A. V.
Arch. Stor. Lomb. Anno XLIX, Fase. III-IV 26
APPUNTI E NOTIZIE
/^ Notizie sulla famiglia dell'arcivescovo Ariberto da Anti-
mi ano. —
Le notizie che gli storici (1) forniscono sulla famiglia dell'arcive-
scovo Ariberto si limitano a quelle che si leggono nel Giulini più particolar- ;
mente essi ci ripetono che egli era figlio di Gariardo e di Berlinda e che nel
1044 vivevano i pronipoti Gariardo, Lanfranco e Ariberto chierico, figli di un,
suo nipote già defunto che pure aveva nome Gariardo. Dal fatto poi che
questo nipote, ai suoi tempi, giovandosi della potenza dello zio. aveva
occupata la pieve d'Arzago ai danni di Landolfo vescovo di Cremona ri-
tenendola poscia anche sotto il successore Ubaldo, e dal fatto che Gal-
vano Fiamma nel Manipulus Florum parlando di Ariberto lo dice non già
da Antimiano ma da Arzago oltre l'Adda, è sorta tra gli storici la que-
stione non peranco risolta se egli fosse della famiglia dei Capitani d'Ar-
zago. E la più antica menzione di Ariberto gli stessi storici, sempre se-
guendo il Giulini, ce l'additano in quell'iscrizione dell'anno 1007 nella
quale si parla di Ariberto suddiacono della Chiesa Milanese e custode
della chiesa di Galliano.
Ora sono nel Codex Diplomaticus Langobardiae due documenti ai
vi
quali finora nessuno aveva posto attenzione e che invece sono assai
importanti perchè, mentre riconducono alla fine del sec. X la prima notizia
di Ariberto, allargano in modo considerevole le nostre conoscenze sulla,
famiglia di lui, rivelandoci il nome dell'avo, quello dei suoi tre fratelli,
e quello della moglie di uno dei fratelli.
(1) Giulini, Memorie ecc. 2^ ediz., II. 40, 284, 331; P. Rotondi, Ari-
berto d^Intimiano arcivescovo di Milano (daWanno 1018 al 1045) in Arch.
Stor. Italiano, 1863, pp. 54-89; H. Pabst, De Ariberto II Mediolanensi
primisque Medii Aevi motis popularibns, Berlino 1864; C. Annoni, Mo-
numenti della prima metà del sec. XI spettanti alV arcivescovo di Milano
Ariberto da Intimiano, ora collocati nel nostro Duomo, Milano, Lom-
bardi, 1872; F. Savio, Gli antichi vescovi d'Italia, La Lombardia, parte ly
Milano, Firenze 1913, p. 386-410.
APPUNTI E NOTIZIE 395
Il primo dei detti documenti, che è anche il più interessante, è quello
distinto col numero DCCCCLXIX in data 18 novembre 998 (1). Disgra-
ziatamente la lezione attraverso la quale ci è pervenuto nel codice Sicar-
diano non è troppo corretta, a giudicare dalla stampa del Codex. Ciò non
ostante il senso è ben chiaro: Girardus figlio del fu Wipaldus detto
anche Rimìzo del luogo di Antimiano e i figli di lui ÀUecheriuSy Gi-
rardus e Aribertus suddiacono danno guadia ad Odelrico vescovo della
Chiesa di Cremona e per luì al suo avvocato Adelelmo di costituirsi di-
fensori dei diritti dello stesso Odelrico e dei suoi successori nel caso che Er-
mengarday moglie di Albericus^ altro figlio dello stesso Girardus, e figlia
del fu Bovone giudice della città di Pavia, avesse a intentare
lite al ve-
scovado di Cremona perappezzamenti di terra nel luogo di « Vau-
tre
siolo » (2) di proprietà dello stesso vescovado.
Molto probabilmente la forma Girardus è una modificazione intro-
dotta dal copista del codice Sicardiano, in quanto ai suoi tempi era la forma
più in uso; ma che si tratti ad ogni modo di una stessa persona col
Garlardus che da altre fonti viene indicato come padre dell'arcivescovo Ari-
berto appare dal secondo dei detti atti, vale a dire dalla carta n. DCCCCXCI
in data 28 dicembre 1000. Si riferisce questa ad una permuta di beni si-
tuati nel Bergamasco tra Ingone custode della chiesa di S. Alessandro, di
Bergamo da una parte e Gariardus del fu Wipaldus detto Rihizo del
luogo di Antimiano dall'altra. Nessun dubbio sull'identità di questo Ga-
riardus col Girardus dell'atto precedente; ma poiché l'atto dell'anno 1000
ci è pervenuto in originale, così si può stabilire che l'esatta lezione del
nome portato dal padre del suddiacono Ariberto nell'atto del 998 avrebbe
dovuto essere Gariardus. Cade così ogni incertezza che sull'identità di per-
sona avrebbe potuto far sorgere la differenza nella forma del nome, dif-
ferenza che però è in realtà più piccola di quel che sembri, se nella pro-
nuncia del tempo Girardus era uguale, come io |3enso, a Ghirardus.
Dal documento dell'anno 1000 si apprende anche l'esatta lezione del
nome dell'avo, che fu Wipaldus detto anche Rihizo e non Rimizo, poiché
Rihizo, uguale a Rigizo, a Rigezo e simili, è nome non infrequente nelle
nostre carte dell'epoca.
Possiamo pertanto, sulla scorta dei due documenti suaccennati, sta-
bilire che Ariberto era già suddiacono nel 998, che in quell'anno era già
defunto l'avo Wipaldus detto anche Rihizo, che il padre Gariardus vi-
veva ancora nell'anno 1000, che egli ebbe tre fratelli per nome AdecheriuSy
Gariardus e Albericus viventi nel 998, e infine che il fratello Albericus
(1) Il Codex attribuisce il documento al 999, ma i dati cronologici
(«Die veneris quod est quartodecimo kalendas december anno imperii —
donni Ottoni imperatoris tertio, suprascripto d'e, indictione XII ») indi-
cano senza alcun dubbio il 18 novembre 998.
(2) Il luogo, che ricorre in altri documenti del Codex nelle forme
« Vauxiolum » e « Voxiólum », nell'indice allo stesso Cqéex viene iden-
tificato con Bozzolo.
396 APPUNTI i: No'I'IZIF,
nello stessoanno era già sposato, probabilmente da poco tempo, ad Er-
mengarda giudice Bovone di Pavia.
figlia del
Dal confronto delle notizie che già si avevano sulla famiglia di Ari-
berto con quelle che si ricavano dai due documenti surricordati non ri-
sulta chi fosse precisamente il padre di quel Oariardo nipote di Ariberto
che occupò la pieve di Arzago ; tuttavia è certo che egli ebbe per padre
uno dei tre fratelli di Ariberto menzionati nell'atto del 998, perchè a quel-
l'atto, trattandosi di rinuncia della famiglia a pretesa di diritti, dovettero
intervenire direttamente tutti i maschi della famiglia stessa che in quel
momento avevano raggiunto la maggiore età, ciò che si può ben
presumere anche per padre del detto Gariardo, se quest'ultimo, come
il
è risaputo, occupò la pieve d'Arzago durante
la lunga malattia che con-
dusse a morte il vescovo Landolfo, vale a dire prima del 1030. Che se,
per un'ipotesi, il padre di Gariardo nel 998 fosse stato ancora mino-
renne, avrebbe dovuto essere per lo meno rappresentato dal proprio padre
o dai fratelli.
Pertanto con tutti i dati vecchi e nuovi si può ricostruire il seguente
prospetto genealogico della famiglia dell'arcivescovo Ariberto:
WiPALDus qui et Rihizo
de loco Antemiano
morto prima del 998
Gariardus
998, 1000; morto prima del 1044
uxor
Berlinda
Adecherius
APPUNTI E NOTIZIE 397
^*^ L'Ospedale di S. Stefano in Brolo di Milano nel « De Magna-
LiBus » DI Bonvesino DELLA RivA. — Fra Bonvesino della Riva, accennando
nel suo De Magnalibus Urbis Mediolani (Gap. HI; 6^) agli ospe-
distin.
dali della città di Milano magnifica quello
di quella fine del secolo XIII,
di S. Stefano in Brolo (hospitalle de Brolio) siccome ricco sovra ogni altro
di beni e di redditi (possessionibas preciosis dltissìmum), per cui nessuna
miseria di indigente vi è trascurata o ne soffre repulsa (nulliiis denique
miseria ibidem indigentis repudium patitiir nec repiilsam). Ed in prova (sulla
testimonianza stessi frati e decani di quell'ospedale) reca il fatto
degli
che — 350 bambini al cui baliatico e allevamento esso normal-
oltre ai
mente attendeva —
forniva letto e vitto benigne et copiose ad una grande
quantità di poveri bisognosi ed ammalati, il cui numero talvolta, e spe-
cialmente in certe occasioni, raggiungeva e oltrepassava quello di 500 infermi
degenti a letto e di altrettanti bisognosi non costretti a letto.
Queste speciali circostanze nelle quali l'ospedale del Brolo raggiun-
geva così il massimo della sua benefica potenzialità, sono espresse da
Bonvesino con le parole « aliquando et specialiter in carastii diebus, cum
:
numerati sunt » —
sulle quali parole verte la presente nota, perchè, a mio
credere, non furono fin qui giustamente interpretate.
Già il Novati (pubblicando per la prima volta, da un ignorato codice
madrileno, l'opuscolo di Bonvesino, che si credeva perduto) a quelle pa-
role faceva seguire questa annotazione (1): «Che cosa siano i carastii
« dies confesso di non sapere-, né m'è stato d'alcun aiuto il Ducange in
« siffatta ricerca. Forse il carastii non è che il frutto d'un errore di let-
« tura? V'era evidentemente una giornata nell'anno destinata a far la
« rassegna dei poveri infermi; e che essa cadesse in Quaresima potrebbe
« lasciarlo sospettare il nome di Hospitalis sanctae Quadragesimae , dato
« talvolta all'ospedale di Brolo; cfr. Giulini, op. cit. IV, 809 » Perciò recen-
temente il traduttore del De Magnalibus (2), il chiar.mo dott. Ettore Verga,
non si peritò di rendere quella espressione bonvesiniana in italiano così:
« talora e specialmente in quaresima quando se ne fa la rassegna », accom-
pagnandovi una nota (nota 14, a pag. 11) nella quale, mentre da una
parte giustifica sulla autorità del Novati quella sua traduzione, dall'altra
però non dissimula come il timore ch'essa non sia proprio la più rispon-
dente al significato inteso da Bonvesino. Scrive infatti il Verga < Che :
« cosa questo carastii voglia dire, neppure Novati sa spiegare: si tratta
« forse di un errore del trascrittore. Il testo di Bonvesino sembra dire
« che v'era una giornata dell'anno destinata a far la rassegna dei malati,
« e che questo giorno cadesse in quaresima gli sembra di poterlo desu-
me mere dal nome di hospitale sanctae quadragesimae dato talvolta a quel-
< l'ospedale. Comunque sia, il testo lascia intendere che la rassegna si
(1) BuUettino dell'Istituto Storico Italiano, n. 20 (De Magnalibus Urbis
Mediolani): Roma, 1898 - pag. 80.
(2) Le meraviglie di Milano, in « Scrittori Milanesi » (Milano, Co-
gliati, 1921) n. 3.
S98 APPUNTI E NOTIZIE
« faceva nel tempo in cui era massimo il concorso degli infermi ». Giustis-
sima quell'ultima osservazione < Comunque sia, ecc. »; mae allora perchè
nel testo ha voluto così tassativamente accennare alla Quaresima^ anziché
tradurre più prudentemente con un p. es. « e specialmente in certe epoche? ».
Ma vediamo perchè non sia, a parer mio, ammissibile quell'accenno
al tempo quaresimale: e neppure che v^era evidentemente, come scrive il
Novati, (o // testo di Bonvesino sembra dire che v^era^ come nota il Verga),
una giornata nell'anno destinata a far la rassegna dei poveri infermi; e
cadesse in quaresima.
Senza discutere per ora se il « cum numerati sunt > va riferito al solo
« et specialiter in carastii diebus » o a tutta la frase temporale « aliquando
et specialiter in carastii diebus » ; non si comprendere come mai
riesce a
il tempo del maggior concorso di poveri bisognosi di pane e di cure
dovesse proprio coincidere con quella giornata destinata a far la rassegna,
e quindi proprio nel tempo della Quaresima. Intanto quella parola aliquando
indica, non un tempo determinato, annualmente ricorrente e normale come
può essere la Quaresima, ma delle fortuite e incerte occasioni come ap-
punto era l'intenzione dello scrivente di notare certe anormali circostanze
in cui quell'Ospedale poteva raggiungere il massimo delle sue finanziarie
potenzialità di beneficenza; precisamente per dimostrarne la superiorità
in confronto degli altri minori numerosi ospedali cittadini. Ne queir « ali-
quando » può intendersi in senso di limitazione dell' « et specialiter in
carastii diebus cum numerati sunt » quasi che non sempre accadesse in
quei giorni della rassegna annuale, ma solo perchè è piuttosto
talvolta',
quel!' « et specialiter in carastii diebus » che logicamente precisa meglio
e individua l'eventualità dell' « aliquando >, come a dire che se, talora si
raggiungeva quella cospicua cifra di poveri beneficati, ciò specialmente
accadeva « in carastii diebus ». Ora, che il « cum numerati sunt » non sia
da riferirsi soltanto all' « in carastii diebus » inteso come una determinata
epoca dell'anno (si dice la Quaresima) in cui venisse fatta regolarmente
la rassegna degli ammalati, ma a tutta la frase temporale caratterizzata
dall' « aliquando'^ — ossia (in altre parole) che lo scrivente intendesse
di alludere non ad una regolamentare rassegna annuale ad epoca fissa,
ma ad una casuale e fortuita rassegna fatta appunto in vista di quello
straordinario concorso ó\ indigenti, —
è dimostrato dal fatto che Bon-
vesino usa il « numerati sunt » e non (come ci sì aspetterebbe; un « nu-
merantur » od un « numerabantur ». Quasi egli volesse dire talora, e :
specialmente « in carastii diebus », allorquando quei frati e decani deWo-
spedale vollero contare tutti i poveri da loro soccorsi.... Partecipa pertanto
anche quella rassegna ospitaliera (cum numerati sunt) della stessa alcato-
rietà e irregolarità dell' « aliquando » ; e quindi deve essere tale anche il
significato del « carastii diebus » escludendone quella normalità che gli
verrebbe, se questa espressione dovesse significare la Quaresima.
Del resto, volendo interpretare il « cum numerati sunt », per una
normale operazione di contabilità (annuale, in Quaresima) a cui quell'o-
spedale, per regolarità di amministrazione come ci immaginiamo noi che
APPUNTI E NOTIZIE . 399
anche a quei tempi dovesse procedere, basterebbe forse questa ordinaria
procedura per servire da titolo specialissimo per distinguere una istitu-
zione, (e perchè?) — tanto da chiamarsi per ciò solo V Ospedale della Santa
^Quaresima? Ognun vede da quale tenuissimo e fragile filo fosse condotto
il Novati a spiegare con la Quaresima il « carastil diebus » ; ammessa la
quale identificazione, sorgono tutte le difficoltà e incongruenze che più
sopra ho fatto rivelare.
Bisogna pertanto abbandonare e Tidea che vi fosse nell'anno una
giornata destinata a quella rassegna ospitaliera, e che essa coincidesse col
tempo della Quaresima —
che questa non è la via buona. Occorrerà in-
dagare quali potessero essere questi giorni eccezionali di tanto concorso
per cui anche si volle tener nota, in quell'ospedale del Brolo, dei ricoverati.
E qui l'idea che più ovvia si presenta, e che spontaneamente ci è
richiamata da quella espressione latina « carastii diebus », è quella dei
« giorni di carestia » — giorni nei quali il numero dei bisognosi e degli
ammalati in città doveva essere il massimo; come veniva ad essere mas-
simo il grado di corrispondente beneficenza a cui quell'istituto del Brolo
era chiamato ad erogare. Ma possiamo ragionevolmente fare questa in-
terpretazione ?
Già la stessa materiale grafìa di « carastii >>
; sembra riprodurre la
nostra voce « carestia » ; né occorre pensare a un errore di lettura del
codice madrileno (la ben nota perizia dell'eruditissimo Novati ce lo fa
escludere); ma tutt'al più (come nota il Verga) a un errore del trascrittore
qualora trovassimo troppo strana quella forma carastii per significare
carestia. Infatti è evidenteche quel genitivo neutro di un presumibile
carastiuni, in luogo di un genitivo femminile che invece ci aspetteremmo,
non sembra compatibile in una voce latina che meglio si avvicini al no-
stro vocabolo di carestia. Ma chi ci dice che originariamente nel testo
bonvesiniano non ci fosse stato un carastie o carestie e fors'anche un
caristie? Non sappiamo forse dallo stesso Novati che, già alterato e guasto
in modo deplorevole daWimperizia e daWignavia dei copisti anteriori^ il
libro di Bonvesino ha per opera dello zotico menante cui dobbiamo il co-
dice madrileno ricevuto il colpo di grazia; così che egli non crede che si
possa esser trovato in Lombardia sul declinare del Trecento un amanuense
piti bestiale di quel Gervasio Cario? (1). Non ci incontriamo forse nel
testo collazionato criticamente su quel codice dal Novati, ad ogni pie
non scrisse
sospinto, in consimili alterazioni di vocaboli, quali certamente
il Bonvesino? Vi troviamo quidam ptr guide m; qui per que; que per qui;
ibi per ubiy ecc.; anzi di ben peggiori storpiature, come Plezia per Pot-
lezia; serius per saepius ; quod per quot; modiis per modis; et edentiam
per exibentium ; plaustra per plura ; fore per fere ; acrium per arcium ;
mutationem per imitationem; e altre simili indecenze. Possiamo pertanto,
senza alcun scrupolo diplomatico od arbitrio, sostituire a quel « carastii »
(1) Ballettino cit. Prefazione VII, pag. 56.
400 APPUNTI E NOTIZIE
quella qualunque parola latina che meglio si conformi alla voce italiana'
di carestia (carastie? carestie? caristie?) e che nello stesso tempo meno
si da quello spropositato neutro genitivo.* Sostituzione che io
discosti
chiamerei anzi restituzione probabile del testo originiario bonvesino; perchè
qualsivoglia fosse la voce da sostituire {carastia, carestia, caristia anche ;
la nostra dicitura volgare < carestia » dopo tutto non deriva dallo schietto
latino carére; esser privi, difettare, mancare?), rientrerebbe in quella ca-
tegoria di voci volgari latinizzate delle quali il latino bonvesiniano del
De Magnalibiis ci offre copiosi esempi : compatriotas (compatrioti), baiulas
(bàlie), bacche (bocche), servitores (domestici), manierei (maniere), traete
(trote), tenche (tinche), marci argentei (marchi d'argentp), niorona (gelsi),
marona (castagne), iuncata (giuncata), leuca (lega, miglio), Lamerie (lamiere),
parentella (stirpe), astncie (astuzie); e via dicendo.
Ma il Ducange non registra siffatte voci di carastia, carestia, caristia.
Pretenderemmo forse che il suo quanto pregevole e auto-
glossario, per
revolissimo, abbia proprio esaurita l'escussione di tutti testi e documenti i
medievali, perchè noi lo si debba ritenere incapace per avventura di
nuove aggiunte? E non rimase il testo bonvesiniano inesplorato al Du-
cange, siccome quello che, scomparso dalla circolazione nel secolo XV,
rimase sconosciuto tra i codici della Biblioteca Nazionale di Madrid, finché
nel 1894 il Novati a caso non ve lo discoperse? Diversamente, è presu-
mibile che il Ducange avrebbe registrata anche quella parola; a meno
che, come gli è sgraziatamente accaduto per la voce Paratici da lui letta
in una carta cremonese e che egli interpretò per nobiles (uomini nobili
[sic], invece di Corporazioni (Varti e mestieri, come suona quella parola),
non avesse avuto poi a fraintenderne il senso!.... Ma, quandoque bonus
dormitat Homerus !
Interpretando pertanto il « carastil diebus » come giorni di carestia,
restano eliminate tutte le difficoltà di quel passo bonvesiniano; venendo
a dire l'autore che tanta era la quantità di poveri sussidiati dall'Ospedale
del Brolo che talora e specialmente nei giorni di carestia (1), allorquando
vennero contati, si trovò d^aver sussidiati a un tempo perfino piìi di mille
poveri ammalati, dei quali una buona metà era costretta a letto. Così al-
meno mi parrebbe di dover interpretare quel passo.
Non resta oramai che indagare una presumibile ragione del titolo
dato a quell'ospedale di S. Stefano in Brolo di Ospedale della santa Qua-
resima; escluso, come vedemmo, che esso possa avere alcun rapporto con
(1) Delle numerose carestie che afflissero il Milanese in quei secoli,
il GiULiNi (111 e W passim) ricorda come principali: (del secolo Xll) quelle
del 1146; 1161-62; 1177: e 1183— (del secolo XIII) quelle del 1213; 1244;.
1259; 1272-74; e 1277-78 (dieci anni prima che Bonvesino scrivesse,
nel 1288, il De Magnalibus). I cronisti, dai quali desume il Giulini quelle
notizie di carestie del secolo XIII, registrano anche che furono accom-
pagnate da gravi morbi pestilenziali.
APPUI^TI E NOTIZIE 401
la pretesa annuale rassegna dei poveri ricoverati che vi si facesse ogni anno
in Quaresima.
Quell'ospedale è così chiamato in un antico registro di carte spettanti
alla famiglia Capra del 1309, dove sono nominate le « Cassine Hospitalis
Brolii qiiod appellatur Hospitalis Sane te Quadragesime » {ì). Il Giulini,
riferendo quel documento del 1309, non manca di avvertire come questa
per altro doveva essere una denominazione datagli dal volgo; essendo
che l'arcivescovo nostro Francesco da Parma, nel diploma del 10 maggio
1301 con cui provvede quel medesimo ospedale di un'area, ben circon-
stanziata nelle sue coerenze, ad uso di cimitero, non dà alcun indizio
che esso fosse così denominato; e si domanda: « Chi sa poi dove il
volgo se V abbia preso? » (IV, 809). Ecco come io risponderei a tale domanda.
Bisogna richiamare le origini e il funzionamento di questo ospedale.
Nel 1145 Goffredo da Busserò, presso la Canonica di S. Barnaba dava
origine ad un Consortium Paiipenim S. Barnabae (società di beneficenza
per i poveri infermi): il qual consorzio apriva all'uopo, lì vicino, un
ospedale presso S. Stefano in Brolo; del quale Goffredo morendo (1153)
si ricordò con cospicui lasciti (2). Il Consorzio (impropriamente detto ospe-
dale) e V Ospedale avevano ciascuno una propria amministrazione; quello,
dei Decani; questo, dei Frati (Ospitalieri); ma il 2 dicembre 1157 le due
amministrazioni si unirono in un solo Luogo Pio che si disse Ospedale
del Brolo, con sede al detto Ospedale di S. Stefano. La coesistenza delle
due amministrazioni (Consorzio dei poveri, e Ospitalieri), la mutua dipen-
denza tra di loro e il sempre crescènte ampliamento delle facoltà e dei
mezzi di beneficenza e di assistenza, diedero origine a discrepanza e irre-
golarità; per cui fu reso necessario l'intervento di quando in quando della
autorità ecclesiastica a cui era allora affidata la sorveglianza e tutela delle
Opere Pie. Così troviamo già una prima volta nel 1160 che l'are. Oberto
da Pirovano emanò, in proposito, decreti e provvedimenti; ma poi gli
sconvolgimenti della nostra città (tra il 1162 e il 1167) in causa del Bar-
barossa, resero necessario tutto un completo riordinamento di quell'ospe-
dale con un nuovo organico, o statuto, che l'arciv. S. Caldino fece stu-
diare da una apposita commissione e poi —
come arcivescovo e Legato
della S. Sede Apostolica —
egli approvò ai 22 settembre del 1168. Il testo
di tale statuto venne inciso su tre lapidi che furono collocate in vista del
pubblico, sul muro esterno di quel Luogo Pio (3); da esso, si ricava che,
(1) L'ospedale di S. Stefano in Brolo di Milano è variamente deno-
minato nelle carte e negli scritti milanesi: hospitale de Brolio ; hospitale
S. Stephani in Brolo; hospitale Guifredi (nel Liber Notitiae Sanctorum
Mediol. 52, A.); hospitalis Pauperum (decreto di Caldino arciv. del 1168).
(2) Oltre al Giulini, III, 334, 8 segg. e al Fumagalli (Le vicende di
Milano ediz. 1854, pag. 242 e 246), cfr. anche Savio, ospedale di SantaU
Barnaba ecc in A. S. L. (1915) pag. 168 e segg.
(3) Si legge nel Lattuada, Vita di S. Caldino, XIV; nel Sassi, Series
Archiepiscop. Mediol. e nel Giulini III, 682 e segg.
402 APPUNTI K NOTIZIE
riaerbando Maestro e ai Frati Ospitalieri il funzionamento e servizio
al
dell'Ospedale, non solamente spettava ai Decani del Consorzio dei Poveri
di somministrare debitamente le rendite necessarie al mantenimento degli
infermi ricoverati e dei frati, ma anche di estendere la beneficenza ai po-
veri degenti nelle loro case private. Solamente che non disponendo quel
decreto statuario del 1168 di tassative e dettagliate disposizioni per un'equa
proporzione due diverse erogazioni, gli inconvenienti non erano
tra le
eliminati e l'ospedale non funzionò sempre come era nelle intenzioni dei
compilatori di quel regolamento. Di qui la necessità di ulteriori interventi
della Autorità Diocesana con nuovi decreti, provvedimenti e accordi;
come nel 1191 (13 luglio), del nostro Arciv. Milone (Ij, e ancora nel me-
desimo anno di papa Celestino HI (2); poi nel 1197 (13 maggio), del no-
stro arciv. Filippo, e ancora del medesimo arcivescovo il 27 gennaio
1200 (3); nel 1277 e nel 1286, dell'arci v. Ottone Visconti (4).
Orbene tra le disposizioni sancite in quello Statuto fondamentale del
1168 si legge: « Tutti i beni del già detto Consorzio che ha di presente e
« che avrà in futuro, assieme a quelli dei Bambini, siano in comune con
« tutti i beni del detto ospedale per la refezione dei poveri infermi e la nu-
« trizio ne dei pupilli, in tale guisa cioè che i conversi del detto ospedale
« che sono di presente o che siano in futuro, debbano raccogliervi tutti gli
« ammalati poveri ai quali manca aiuto personale e per le cose necessarie;
« come anche i bambini esposti che avessero a' trovare per la città; e li
« abbiano a portare aWospedale e, secondo i mezzi, somministrino loro
^ cibo e vestito. Quanto poi agli altri poveri languenti che avessero in casa
« un aiuto personale, della roba stessa dell'ospedale (quando conveniente
« mente lo possano fare) devesi a loro somministrare dietro consiglio dei
« Decani: in modo tuttavia che quelli che sono fuori delV ospedale non siano
« troppo contenti; e quelli che ne sono dentro, troppo tribolati (ita tamen ut
« NON ALIIS CONSOLATIO, MANENTIBUS AUTEM IN HOSPITALI TRIBULATIO) » (5).
(1) GiULiNi, IV, 93 (dal Della Porta, Relatio luridica etc. n. 87).
(2) Kemr, Italia Pontificia, VI Liguria ecc. P. I. Lombardia pag. 105.
(3) GiuLiNi, IV, 93 e 130 (dal Della Porta op. cit n. 87 e 165).
(4) Repert. Diplom. Viscont. 15 e 40.
(5) « Omnia bona iam dicti Consortii quae nane habet et in futurum
habeat, simul atque infantium, sint communia cum bonis omnibus dicti Ho-
spitalis ac languentium pauperum refectionem et... pupillorum mitritionem.
Tali videlicet modo ut Conversi dicti Hospitalis qui nunc sunt vel prò tem-
pore faerini, omnes aegrotantes pauperes quibas ad ser-
colligere debeant
viendum personarum et rerum subsidium deest et expositos infantes quos
per urbem invenerint, et ad H
ospitale ducere et sufficiente m victuni et
vestitum prò posse tribuere. Aliis vero pauperibus languentibas subsidium
personarum habentibus de rebus ipsias Hospitalis, cum convenienter facere
potuerint, Consilio Decanoruni ministrare; ita tamen ut non aliis con-
SOLATIO, MANENTIBUS AUTEM IN HOSPITAL] TRIBULATIO».
APPUNTI E NOTIZIE 403
Ora, è appunto in quest'ultimo inciso che se non mi inganno, possiamo
noi rintracciare le origini di quel motto popolare applicato all'ospedale
del Brolo (Hospitalìs Sanctae Qiiadragesìmae).
Quel Luogo Pio (Ospedale del Brolo) dove vennero a defluire i beni
dell'antico primitivo Consorzio dei Poveri e quelli che successivamente sì
venivano accumulando in favore deìVOspedale, non difettava certamente
di mezzi finanziarli, come lo dice anche Bonvesino (possessionibus preciosis
ditissimum) ; ma da quanto abbiamo più sopra notato, si vede che le giuste
proporzioni tra la beneficenza interna ospitaliera e quella a domicilio non
erano osservate. Quell'insanabile disaccordo tra le due amministrazioni
faceva si che il Consorzio (al quale, secondo lo Statuto del 1168, spet-
tava di somministrare le rendite necessarie al funzionamento dell'Ospedale)
era portato, anche per la sua originaria fondazione, a largheggiare piut-
tosto verso i poveri a domicilio, dei quali forse direttamente si voleva
occupare, contrariamente al dispositivo dello Statuto che ne deferiva
la cura all'amministrazione dei Frati Spedalieri su semplice parere dei
Decani del Consorzio (« Consilio Decanoruni >). Un tale stato di cose, pel
quale intervenne ripetutamene l'Autorità tutoria arcivescovile, faceva sì
che quelli che entravano all'Ospedale finissero per esservi trattati meno
bene dei poveri infermi soccorsi a domicìlio; ciò che lo Statuto aveva
inteso (purtroppo invano) di deprecare: non aliis consolatio, manentibus
auteni in hospitali tribolatio! Quindi avveniva che fosse talora ben magro
e deficiente il trattamento dei ricoverati ; sì che fandare nell'Ospedale era
come andarvi a fare penitenza, a vivervi a stecchetto; e il nostro popo-
lino, sempre pronto, con la sua naturale arguzia, a trovare il motto scher-
zoso, aveva finito per chiamarlo VOspedale della Santa Quaresima Sopran-
nome popolare che poi gli restò, anche quando
conveniva forse meno gli
lale taccia (proprio come ancora oggidì è in uso nel nostro popolino di
chiamare la « Cà granda » (casa grande) il vecchio Ospedale Maggiore;
nomignolo che gli fu dato un tempo nel quale realmente, tra i pubblici
edifici cittadini, esso godeva come per eccelenza il primato per grandiosità
edilizia; soprannome popolare, che è affiorato appunto in quel citato do-
;
cumento del 1309: « Cassine Hospitalis Brolii quod appellatur Hospitalis
Sancte Quadragesime »
Naturalmente Bonvesino non fa parola; non ha egli per
di tutto ciò
iscopo di magnificare grandezze di Milano? e perciò anche, tra le isti-
le
tuzioni ospitaliere cittadine, quella dell'Ospedale del Brolo che allora era
il massimo ospedale di Milano, e le cui disponibilità finanziarie erano in
realtà, per quei tempi, considerevolissime? Ma è altrettanto certo che, se
il nostro buon frate terziario Umiliato, il quale in altri punti del suo De
Magnalibus non ha rifuggito dal notare dei motti curiosi del nostro gergo
popolare, e accanto alle lodi della nostra popolazione ha pur voluto ac-
cennare ad alcuni suoi difetti (Gap. Vili, dist. X), fosse stato più detta-
gliato e diffuso sul funzionamento di questo Ospedale; — o se quel di-
sgraziato di amanuense d'un Oervasio Cono (invece di limitarsi a scrivere,
con precisione e senza errori, soltanto il proprio nome e cognome in
KM APPUNTI E NOTIZIE
calce a quel Codice madrileno) fosse stato più accurato ed esatto nella
trascrizione del testo bonvesiniano, — avrebbero risparmiato tante
ci
gratuite ipotesi e fantasticherie quaresimali. Tra le quali non vorrei ora
che il candido lettore avesse a relegare anche questa mia nota!
Emiuo Galli.
*^ Una villa sconosciuta del Petrarca a Pagazzano. — In questo
medesimo fascicolo étW Archivio l'egregio amico
Giovanni comm. prof.
Vittani dà cortese notizia dei frammenti di copialettere visconteo che ho
avuto la ventura di scovare fra i residui, capitati a Milano, delia biblio-
teca di Cencio Pozzi e che ho ritenuto di mettere e lasciare a disposi-
zione degli studiosi presso il R. Archivio di Stato.
Della quarantina circa di lettere — taluna delle quali veramente
interessante — che i frammenti ci conservano, e che riguardano dispo-
sizioni, ordini e relazioni militari e diplomatiche di Bernabò Visconti,
darò, quanto prima, la riproduzione ed un'illustrazione il più possibile
compiuta.
Non so, però, resistere alla tentazione d' annunciare subito ai lettori
<\t\V Archivio —
mi sembra d'esserne sufficientemente giustificato — che
e
di quelle lettere una si riferisce al Petrarca e risolve più d'una questione,^
come viene a confermare la fondatezza di più d'una geniale intuizione,
relativa alla villa o, meglio, alle ville e dimore ch'egli ebbe, nei diversi
momenti della sua permanenza presso Visconti, nei dintorni di Milano.
i
Non intendo, però, nemmeno d'esaurire il limitato argomento con
questo che vuol essere e non può essere, per ora che un semplice an-
nuncio.
È più che noto come l'esistenza d'una villa del Petrarca, e precisa-
mente del famoso « Linterno » o « Inferno », sulla strada che dalla
Porta Magenta di Milano conduce a Baggio, già messa in forte dubbio,
sin dal 1845, da Angelo Bellani (1), sia stata poi dimostrata insostenibile,
anzi, in decisa contraddizione con le testimonianze stesse del Poeta, da
Carlo Romussi (2), da Diego Santambrogio (3) e, con maggiore copia
di prov« e di contestazioni, da Ambrogio Annoni (4) e da Emilio Galli (5).
Tanto il Bellani, però, quanto il Romussi, il Sant'Ambrogio e 1' An-
(1) In Rivista Europea, Milano, 1845, sem. 11, pp. 107-sgg.
(2) Petrarca a Milano (1353-1368) ; studi storici, Milano, 1874, pp.
67-sgg.
(3) La supposta villa di Linterno soggiorno del Petrarca presso Milano
nel 1357 in quesV Arch., serie III, a. XXI, 1894, pp. 450-sgg.
(4) // Petrarca in villa, nuove ricerche sulla dimora del Poeta a Ga-
regnano in F. Petrarca e la Lombardia, Milano, MDCCCCIIII, pp. 97-sgg.
(5) Le ville del Petrarca nel Milanese in quest'^rr^., serie IV, a. XXXII,
1905, pp. 359-sgg.
APPUNTI E NOTIZIE 405
noni ebbero, si può dire, presente un solo assunto : quello di dimostrare
come, infatti, dimostrarono, che la dimora espressamente indicata dal
Petrarca nelle immediate adiacenze della Certosa di Garegnano, se non
nelle dipendenze della Certosa stessa — si ricordi Vest UIC Cartusiae
domus delle Fani., X\X, 16 —, non poteva in nessun caso identificarsi
con una cascina dispersa fra borghetti di Sellanuova e Quarto Caprino,i
lontana dalla Certosa di Garegnano quanto questa è da Milano.
L'Annoni, anzi, spinse la difesa dei risultati conseguiti sino a stabi-
lire una specie di prerogativa per Garegnano e ad eccepire, di conse-
guenza, che passo delle Fam., XXI, 10 (15 ottobre 1359): « Ruri ha-
il
bito haud procul Ardue amnisripa » dovesse tradursi e intendersi, come
lo tradusse e intese pianamente il Fracassetti, per 1' indicazione d'un'al-
tra villa o dimora del Petrarca intorno a Milano, e cioè : « Io me la
passo in villa presso la riva dell'Adda » (1), dimenticando, fra l'altro, che
proprio in quei giorni, il Poeta confermava alBoccaccio {Fam. XXI!,
II, 2) d'essersi finalmente ridotto dalla città in un campestre ritiro sulle
rive dell' Adda : « Novissime... Abdue amnis ad ripam veni ». Che dire,
poi, delle testimonianze chiarissime dell' undecima del lib. XXI delle
Fam, a Neri Morando relativa alla visita fatta a Bergamo, il giorno 11
ottobre 1359, per compiacere alle insistenze dell'orafo ammiratore Enrico
Capra ? « Est hic semper in oculis Pergamum Italiae alpina urbs » :
« ho qui sempre d'innanzi Bergamo italica città subalpina »,
agli occhi
scrive il Petrarca all'amico e a Bergamo il Petrarca si reca in piacevole
;
compagnia e conversazione, muovendo dalla sua villa e percorrendo
« veramente senza avvedersene tutta quella breve e piana via » ; e da
Bergamo ritorna il Poeta accomiatandosi dall' ospite verso sera e rien-
trando nella villa sull'annottare.
Anche per questo già il Galli concludeva: « Dalla fine dunque de
settembre alla metà di ottobre del 1359 il Petrarca era in villeggiatura
sulle rive pur non essendo in grado di proporre, fra varie
dell'Adda »,
ipotesi, la vera (2) ; ma
già prima di lui il ch.mo prof. Remigio Sabbatini,
chiarendo, in appoggio a preziose testimonianze del « Virgilius » pe-
trarchesco dell' Ambrosiana e a rettifica delle deduzioni dell' Annoni,
come il Petrarca adoperasse effettivamente la forma Ardua a significare
l'Adda, aveva genialmente intuito che una fosse « la villa di Garegnano
circondata di rigagnoli », un'altra « la villa haud procul ab Ardue amnis
ripa », ammonendo autorevolmente che c'era « posto per tuti'e due,
senza violentare documenti » (3). i
(1) F. Petrarca, Lettere delle cose famigliariy ecc. volgarizzate e di-
chiarate con note da G. Fracassettif Firenze, Succ. Le Mounier, 1863-67.
V. IV, p. 359.
(2) Op. cit., p. 364.
(3; R. Sabbatini, Dal « Virgilius Petrarcae » dell'Ambrosiana in Giorn
storico della Ietterai, italiana, v. XLV (fase I), 1905, p. 169.
km; appunti e notizie
E il documento che ora trascrivo e che appartiene senza dubbio —
per le ragioni, del resto molto semplici, che a suo luogo esporrò alla —
fine del luglio o, tutt'alpiù, ai primi d'agosto del 1364, non può temere,
come mi propongo di persuadere, violenze d'artificiose o arbitrarie in-
terpretazioni tanto è semplice e chiaro, anche se posto in confronto delle
accennate anteriori testimonianze del Poeta:
Mafeo de madijs.
Volenies compiacere et prudenti viro domino Francischo
honorabili
petrarche [mandamus]quod desistas a destructione fortilizie de
tibi
pagazano syto in clarea abdue q[uia domum] nostram quam ibidem ha-
bemus concessimus domino Francischo predicto. Datuni Mediolani....
E basterà, per ora, rilevare a conclusione di questo sommario an-
nuncio :
1) che il castello di Pagazzano, già rocca e residenza viscontea (1),
facente poi parte del feudo di Brignano e Pagazzano (2), ora proprietà del
Marchese Vitaliano Crivelli e monumento nazionale, dista da Bergamo
circa diciotto chilometri ;
2) che — come ho avuto occasione io stesso d' accertare in una.
giornata di sole, sebbene non
molto limpida, di questo novembre —
Bergamo alta presenta subito dal primo piano della torre che ancora
sormonta l'ingresso della rocca, la vista magnifica delle sue mura e dei
suoi edifici ;
3) la distanza fra Pagazzano e Bergamo, seguendo l'itinerario
che
di Liteggio, Coiogno Bergamasco, Urgnano e Zanica, si può percorrere
a piedi in circa tre ore e che molto minor tempo deve aver impiegato
il Petrarca se è da presumere —
specie dopo l'infortunio ciceroniano
toccatogli o nella stessa dimora di Pagazzano, come mi pare di dover
arguire dalla decima del Lib. XXI delle Fam.. o poco prima di giun-
gervi da Milano —
che egli si sia valso di una cavalcatura o di un altro
mezzo di trasporto.
Rimane da accostare la data delle testimonianze petrarchesche del
1359 con quella della concessione ufficiale del 1364, come pure vuole es-
sere indagata la possibilità di riferimento ad altre lettere del Poeta, ma
di ciò e di altre questioni, confido di potermi occupare con la necessaria
larghezza nella promessa illustrazione.
G. Riva.
(1) Cfp. C. Casati, Treviglio di Ghiara d'Adda e suo territorio^ Mi-
lano, 1873, pp. 720-sgg. ; M. Carminati, // Circondario di Treviglio e i
suoi comuni; cenni storici^ Treviglio, Tip. Messaggi, 1892. pp. 323-325.
(2) Cfr. S. De Sitonis de Scotia, Vicecomitum. Burgi Ratti Marchio-
num, Castri Spinae^ Brignani, et Pagatiani feudatariorum genealogica
monumenta, Mediolani, Kal. aprilis MDCCXCIV, Typis Marci AntonM
Pandhuiphi Malatestae.
APPUNTI K NOTIZIE 407
^% Intorno a Nicodemo Tranchedini. Sin dal 1894 il Prof. Giu- —
seppe De Blasiis ntW Archivio Storico per le Provincie Napoletane descri-
veva brevemente un codice miscellaneo della Biblioteca della Società
Napoletana di Storia Patria avente la segnatura XXII E, 22. Questo codice
cartaceo del sec. XV contiene fra altro il Summarium de temporibus di
Matteo Palmieri, laSiimma delle quattro età del mondo, una cronachetta
(1369-1458) del cremonese Leonardo Botta. In fine del Summarium e
della Snmma si legge il nome di un Nicodemo che trascrisse il codice,
aggiungendo di sua mano note marginali al Summarium e notizie varie
alla cronachetta. 11 Parodi dalla sigla N. TR. sul margine inferiore della
prima carta e da altri indizi arguisce che il trascrittore sia il diplomatico
sforzesco Nicodemo Tranchedini e pubblica in un opuscolo d) le notizie
aggiunte alla breve cronaca del Botta, le quali vanno dal 1385 al 1458 e
sono in gran parte appunti cronologici su nascite di membri della casa
Sforza, della famiglia stessa dello scrittore, ecc. In appendice poi il Pa-
rodi ci dà la Genealogia Sforzesca del Tranchedini medesimo già edita
ntW Archivio Storico Lombardo (1920); ragguagli su di un incunabulo già
posseduto dal nostro diplomatico ed ora appartenente alla Palatina di
Parma ove porta il N. 498; (è il De temporibus di Eusebio nella redazione
latina di San Gerolamo con le addizioni di Prospero d'Aquitania e di
Matteo Palmieri, opera impressa in Milano coi tipi di Filippo Lavagna);
in fine appunti su quattro ricordanze sforzesche che si leggono nel Co-
dice Rìccardiano 1206 e che sembrano di mano di N. Tranchedini.
G. S.
^*^ I FIGLI DI Alfonso d'Aragona e di Ippolita Sforza — Achille
Dina, in uno studio assai notevole su Isabella d'Aragona alla Corte ara-
gonese (2) ha genialmente rievocato la vita intima dell'illustre famiglia
donde sortì i Gian Galeazzo Maria Sforza.
natali la sventurata consorte di
In esso studio però, data l'estensione dellargomento si accenna solo
fuggevolmente ai figli di Alfonso d'Aragona e di Ippolita Sforza quindi ;
crediamo opportuno pubblicare una breve notizia genealogica aragonese
scritta da Cicco Simonetta in un suo Diario (1 gen. 1473, 29 die. 1474)
conservato nell'Archivio di Stato di Milano (Missive n. Ili): Ed è no-
tizia assai precisa.
P. Parodi.
Papié die dominico XXJ febraary 1473
Anno domini 1467. Natus fuit III. princeps Capue videlicet die 26
Junij hora 9^ in or tu solis (3).
(1) P. Parodi, Un memoriale ignorato di Nicodemo Trinchedini da
Pontremoli, in 16, pag.ne 24. Abbiategrasso, Arti Grafiche B. Nicosa, 1921.
(2) In q\xtsi' Archivio a. XLVI
- (1919) fase. IV - pag. 593-610.
(3) Egidio Ripp.... con sua lettera data « Ex Cast.^ Capohano parte-
nope die ve«eris 26 Junij [1467] pocho avanti le nove bore » avvertiva
Bianca Maria Visconti che « hoze fra bore octo et nore ma. più appresso
408 APPUNTI E NOTIZIE
Anno domini 1470. Die secunda Odobris, fiora secando cani dintìdia
noctis nata fiiit ìll.ma Domina Isabella de Aragonia coniitissa Paf)ie. (1).
Anno domini 1472 natiis fuit Ill.us d.us Petrus de Aragonia videlicet
die ultima Martij hora 2" cani diniidia noctis.
#% Bona Sforza —
Sino ad ora nessuna genealogia sforzesca ricordò
con precisione quando e dove fosse nata Bona, figlia di Gian Galeazzo
Maria Sforza ed isabella d'Aragona, Duchi di Milano, Sappiamo però dai
documenti ufficiali che le sorelle di lei Ippolita e Bianca nacquero en-
trambe a Milano; la prima il 26 gennaio del 1493; l'altra il T^ marzo
del 1495. Il primogenito chiamato Francesco, era nato in Milano il 30
genn. del 1491 ed in quella città aveva avuto il solenne battesimo IMI
giugno del 1492. Ora nell'Archivio di Stato di Mantova trovasi una lettera
di G. G. M. Sforza data da Vigevano li 2 febbraio del 1494, e diretta al
Marchese Francesco Gonzaga, ove, tra l'altro, si nota « che hogi pocho
inante zorno la Ìll.ma Duchessa nostra consorte ce ha parturito una fiola
et se trova lei col parto in buon termino » (2). Qui dunque trattasi indub-
biamente di Bona Sforza, nata, come dimostra il documento, a Vigevano il
2 febbraio del 1494.
P. Parodi.
/^ La canzonetta « Il labirinto » restituita al suo autore. —
Recentemente in questo Archivio Angelo Ottolini (3; rimetteva in luce,
come del Parini, un'anacreontica, sul metro de L'amante universale del
Frugoni (quartine d'ottonari geminate: abbc, dece) ch'egli trovò attribuita
al cantore del Giorno nel Parnaso italiano dell'anno 1785 (4). Ed espressa
la meraviglia che alcuno non l'avesse ancora raccolta tra le poesie del
Parini, avventò, tanta fu la sua fede, questo giudizio : « Eppure è indu-
ale nove la ìll.ma et Exma Madona duchessa di Calabria figliola de vostra
ìll.ma sig. ha fiato over parturito uno bello fiolo ». Quando la partu-
rito, proseque Egidio, se gie trovato la J. M.a Lionora, la duchessa
d'Andria, la Contessa Camarlenga et molte altre done », Io, conclude l'in-
formatore ho visto lo puto e gie ho basato le mane ».
(1) Ippolita d'Aragona con sua lettera segn. Baldo e data « Ex Castro
Capuano Neapolis die 11 mensìs Octobris ante tertiam horam noctis se-
quentis MCCCCLXX » avvertiva il fratello Galeazzo Maria Sforza, « come
in questa hora havemo parturito una figliola ».
Vedi Arch. di Stato di Milano. Pat. Sovrane - Ippolita Sforza.
(2) Documento gentilmente comunicatoci dall'Ili. mo sig. Pietro Torelli,
direttore dell'Arch. di Stato di Mantova.
(3) Una canzonetta del Parini sconosciuta, a. 1921, pp. 185 sgg. (v. 5,
correggasi Su, non Si).
(4) Parnaso italiano o sia raccolta di poesie scelte di autori viventi. A
spese della Società enciclopedica di Bologna, voi. IH (1885) pp. 31-39. Le
poesie radunate in un anno venivano pubblicate nel susseguente.
APPUNTI E NOTÌZIE 409
bitato che sia sua e proprio del periodo di transizione tra il Parìni ar-
cade e il Parini del Giorno. Si leggano attentamente le strofe della se-
conda parte e si riscontrerà Tarte, la movenza del verso e l'intonazione
pariniana » (1).
Del qual giudizio non c'è da far troppa meraviglia (la gioia ingenua
della piccola scoperta va tenuta nel massimo conto come attenuante):
piuttosto c'è da meravigliarsi che nessuno sia ancora intervenuto a ri-
metter le cose a posto, togliendo quelle flaccide e cascanti quartine al
Parini per restituirle al suo vero autore, cioè all'abate Clemente Bondì (2).
Le poesia (chi il crederebbe?) fu data la prima volta alle stampe in
un opuscolo per monacazione, e precisamente in omaggio alla nobil donna
Paolina Albrizzi, quando professò la regola di S. Benedetto in San Lo-
renzo di Venezia nel 1784 (tip. Palese), col correttivo, diciamo cosi, di
altri due componimenti, di soggetto sacro questi, e cioè una parafrasi del
cantico Papale meiis, quid feci Ubi? e un cantico sull'assunzione di Maria
Vergine in cielo (3). Del quale mazzetto di versi tra il sacro e il pro-
fano l'autore dice nella dedicatoria alla monacanda « Scarsi è vero sono :
di numero, ma questi bastano alla formalità del costume e pili ancora a
non fallibile segno dell'ossequiosa mia stima. Altri di loro son sacri e di
linguaggio e di abito religioso, e per ciò sol v'appartengono altri di mo- ;
rale allegorica ed opportunissimi alle circostanze. La descrizione di un
material Laberinto, e il confronto di questo con le vicende e gli errori
dell'umana vita a voi presenta quasi un'immagine delineata ed espressa
dell'insidioso paese che abbandonate. Voi nell'atto di solcar l'onda pa-
cifica e in vista di una terra più fortunata volgerete talvolta lo sguardo
timido ai fuggitivi pericoli ch'io vi descrivo: e questo sguardo vi cre-
scerà un maggior senso di compiacenza e diletto. Deh! in questi mo-
menti almeno vi risovvenga di chi anelando allo stesso termine a cui con
vele sicure volate voi per diritto cammino, è condannato a sudare aggi-
rando per pili difficili strade e più tortuose» (4). Più tardi fu raccolta
(1) Due mosse, v. Ili, Ah mal n^ abbia chi primiero ecc. v. 183... Ma
dove I
e per qual sentier funesto tee. ricordano analoghi passaggi nel-
l'ode La salubrità delVaria del Parini: v. 25, Pera colui eh* è primo ecc.
(cfr. Ahi pera lo spietato \
Genitor che primiero, v. 7 La musica) v. 121,
Ma dove ahi corro e vago \
lontano da le belle ecc. ma sono formule de-
rivate dai classici e affatto comuni ai poeti del tempo.
(2) Pure al Reina capitò non fu unica disattenzione)
di accogliere (e
tra quelli del Parini Bondi: è il nv XI, Pel giorno nata-
un sonetto del
lizio di Maria Teresa imperatrice. Cfr. G. Carducci, Opp. XIII, p. 333.
(3j Più tardi inserì il lungo inno nell'orazione accademica sull'Assunta,
dedicata al cardinale Valenti e stampata a Parma dal Bodorii, nel 1794.
(4) Cfr. C. Bondi, Opere edite ed inedite in versi ed in prosa^ Venezia,
Adolfo Cesare, 1798 voi. I, pp. 183 sgg.
Arch. iitor. Lomb. Anno XLIX, Fase. III-IV 27
410 APPUNTI K NOTIZIE
neiredizionc delle opere fatta a Venezia da Adolfo Cesare (])». nel 1798
dove si presenta (voi. 1, sgg.) con alcune varianti
da parte del-
pp. 77
l'autore che non dispiacciono anche per quel senso di rispetto dell'arte
di cui sono testimonianza:
V. 18 a te nutre in vallo ombroso chiusi nutre in vallo ombroso
V. 46 di dipinti augelli audaci dei dipinti augei loquaci
che scherniscono loquaci che scherniscono fugaci
V. 57 Dunque inoltra : a che più tardi ? Entra dunque : a che più tardi ?
V. 65 Ma deh ! a quanti si dirama Ma deh ! in quanti si dirama
V. 74 corro a caso e spero invan erro a caso e spero invan
V. 79 Ma le tracce ho già confuse Ma le tracce alfin già perdo
già mi perdo e l'orme istesse mi confondo e l'orme istesse
V. 105 corre incauto e non^sospetta crede incauto e non sospetta
V. 113 sol per gioco e inutil uso sol per gioco a inutil uso
con tant'arte architettò. con tal arte architettò.
V. 117 ohimè! troppo al ver sembiante ohimè ! quanto al ver sembiante
V. 125 e ad ognun che il passo avanza che ad ognun che il passo avan a.
mostra il calle ingannator mostra il calle seduttor
V. 128 della tanto sospirata della tanto desiata
cerca sempre e mai trovata cerca ognor né mai trovata
^ 133 e l'istinto suo natio già s'ingolfa ed al natio
prima guida a lui si fa cieco istinto addietro va.
v^ 178 stendon l'ombre un fosco vel stendon l'ombre il fosco vel
Vani sforzi e stolte brame
pensier tristi e incerti affetti
van stringendo i mesti petti,
di mortale acuto gel.
MANCANO
Poi rimorso taciturno,
E pensieri senza frutto,
lunga noia amaro lutto
smania inquieta e cupo duol.
V. 182 si dilegua e sfuma in del si dilegua in aria a voi.
La canzonetta è anche stampata nella edizione principe, fatta sotto-
gli occhi dell'autore, a Vienna dal Degen, nel 1808; e quindi in quella di
Bassano dal Remondini, condotta su questa, e pubblicata nel 1811.
(1) Cfr. le Memorie per servire alla storia lett. e civile ^ edite dal Pa-
squali a Venezia 1799 sem. secondo p.te 2) dove (pp. 56) sgg. la can-
(a.
zonetta è appunto riportata come saggio di altro dei pregi dei versi del
Bondi « quello di presentar quasi sempre anche in mezzo alle idee galanti
qualche tratto di morale svestito di quella ruvidezza che suole indisporre
gli ascoltatoriad accoglierla. E qui è veramente dove il poeta merita
gran lode, rivolgendo l'arte sua a quella utilità, a quello scopo cui deve:
tendere giusta la sua prima istituzione ».
APPUNTI E NOTIZIE 411!
Quanto alla data di composizione essa non è certo di molto ante-
riore a quella della sua prima stampa; e appartiene ai begli anni che il
Rondi passò a Mantova « in casa Zanardi, famiglia patrizia cospicua da<
i
assai tempo estinta. Caro a tutti ivi stette per molti anni in qualità di
bibliotecario fra gli agi e le amorevolezze di generosissima ospitalità ed
amicizia» (1). Licori che
si fa rincorrere per le tortuosità del labirinto è
precisamente contessa Marianna Zanardi, moglie del co. Anselmo, nata
la
marchesa Guerrieri (2). La scena è probabilmente la villeggiatura del no-
bili signori a Palidano, frazione di Gonzaga, dove capitò al poeta l'in-
fortunio ch'egli cantò negli sciolti « L'incendio » pubblicati la prima volta
a Padova pure nel 1784.
Arnaldo Foresti.
/» Giuseppe Parini censore nella Società di Pubblica Istruzione. —
Fra le carte del C.te Lodovico Giovio, che fu poi consigliere di Stato nel
regime napoleonico e si segnalò come italico nella rivoluzione del 1814,
rinvenni alquanti documenti concernenti la partecipazione del patrizio co-
masco alla repubblica Cisalpina. Già ne trassi altre spigolature per qutsi' Ar-
chivio (3). Mi è ora venuto alle mani un foglietto a stampa che riproduco
integralmente più sotto e dal quale appare che il poeta Parini, chiamato
come è noto con Pietro Verri a comporre nel 1796 la cosidetta prima
« municipalità democratica » e presto disamorato dalle violenze della sol-
datesca francese, era stato, in quel primo anno di vita della Società di pub-
blica istruzione, che vide appunto presidente il Giovio, eletto fra censori. i
Gli furono colleghi uomini non oscuri quali Michele Daverio (4) e Mi-
chele de Blasco, cognato di Cesare Beccaria e zio di Alessandro Manzoni.
Giuseppe Gallavresi.
LIBERTÀ . EGUAGLIANZA
Dalla sala delle sessioni private
della
società di pubblica istruzione
nel palazzo nazionale (5)
22 ventoso anno V. della Republ. Frane U, ed [.
(1) Cfr. A. Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani^
Parma, voi. VII (1833) p. 495.
(2) Della bellezza di Licori vegga chi vuole tra le cantate pubblicate
dal Bodoni nel 1794 prima
la « Il ritratto », come per i sentimenti del
poeta, la quarta « L'amor unico ». Lodi delle virtù di Licori sono nel Ser-
mone su Vinutilità delle satire, pubblicato nel 1803.
(3) Anno XLVI (1919) fase IV.
(4) Storico ed archivista. Ebbe gran parte nel precedente perioda
nome Economo nella Giunta Economale istituita dal Governo Austriaco
per la riforma ecclesiastica.
(5) Cioè il palazzo reale, ove aveva dimorato l'arciduca Ferdinando-
sino alla vigilia dell'invasione francese.
41: APPU^JT1 K NOTIZIE
Cittadino
Dall'esame delle Schedole, che sono state portate dai soci
nella prossima passata sessione ordinaria del giorno 20 del cor-
rente mese per l'elezione dei membri che devono comporre i Co-
mitati VII1° e IX", è risultato essere stati eletti gl'Individui de-
scritti a piedi della presente.
L'oggetto però del suddetto Comitato VIIP, che secondo un
appuntamento della sessione straordinaria del 15 di questo mese,
dovea essere di Censura delle Autorità costituite, è stato nella
mentovata Sessione ordinaria ampliato coU'essere stato cambiato
in quello di Censura generale, essendo ciò non ostante stati ri-
tenuti per membri di esso Comitato i soci come sopra eletti per
il medesimo.
Per il prossimo futuro quìntidi 25 del corrente mese si terrà
nella suddetta sala alle ore cinque e mezzo precise una Sessione
straordinaria, nella quale sono stati invitati specialmente i due
Comitati V° e VIP a propor dei rapporti sugli oggetti di rispet-
tiva loro ispezione, cioè sulla Sussistenza e sull'Aumento delle
forze Nazionali; e per la stessa Sessione tutti i soci vengono in-
vitati a portar le schedole per l'elezione di un nuovo Segretario
per li successivi due mesi Germinale, e Floreale in luogo elei Cit-
tadino Varisco, che va a scadere da una tale incombenza col cor-
rente mese.
La Sessione ordinaria, che deve tenersi Domenica giorno 29
del corrente mese, e sarà pubblica, si terrà nel Salone del Pa-
lazzo Nazionale, ed avrà suo principio alle ore 12 precise.
il
Finalmente è stato appuntato che la Società dovrà in corpo
andare incontro al Generale in Capo, che fregiato di nuovi al-
lori deve in breve essere di ritorno in questa Città, i colpi di
cannone, che annuncieranno imminente il di lui arrivo, saranno
il segnale dell'immediata riunione de' soci nel suddetto Salone e ;
di là essi prenderanno insieme le mosse per inviarsi alla volta,
d'onde si attende l'Eroe Bonaparte.
Salute e Fratellanza
COMITATO Vili
Censura generale
Bazzi Francesco Daverio Michele BlascO Michele
Monteggia Stefano Besozzi Gio. Batista Sacchini Girolamo
Parini Giuseppe Besozzi Vincenzo Castoldi Lorenzo.
COMITATO IX
Bertololio Gio. Batista Manzotti Bernardino Foresti Telesforo
Naturani Angelo Beretta Gaetano
APPUNTI E NOTIZIJB 413
/,^ Il 250^ ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI L. A. MURATORI SÌ è Com-
memorato a Modena il 22 ottobre. Si sono, in quell'occasione, ricomposti
gli mortali, secondo le disposizioni testamentarie, nella Chiesa
avanzi
di S. Maria Pomposa dove il grande storico officiò per oltre un trentennio.
Soppressa la parrocchia di S. Maria Pomposa, le ossa del Muratori furono
trasportate in S. Agostino dove era stato sepolto Carlo Sigonio. Final-
mente, sotto gli auspici della R. deputazione di Storia Patria e degli
studiosi Sandonnini e Campori, la salma potè ritornare nell'antica sua sede;
poiché la vecchia Chiesa fu riconsacrata. La biblioteca estense si è fatta
promotrice di una mostra di manoscritti, delle opere a stampa, dei cimeli
muratoriani. È noto come l'Estense, insieme con la nostra Ambrosiana,
tornì al Muratori gran parte dei materiali per le dotte sue opere.
Domenico Fava, direttore dell'Estense, coadiuvato dal Prof. Giulio
Bertani ha composto un elegante volume con guida della mostra mura-
toriana. Lo precede un profilo dello storico modenese che si può consi-
derare — come dice T. Sorbelli (1) — il primo lavoro sintetico sul Mu-
ratori dettato con criteri critici e scientifici.
A. V.
^% L'Archivio Storico Civico di Como — È noto a quanti si occu-
parono della storia di Como come la liberalità di quel Comune nel
concedere la consultazione del proprio archivio antico fosse in pratica
elisa dalla mancanza di un inventario, che vi rendesse agevoli le ricerche.
Il nuovo bibliotecario dott. Carlo Volpati aveva fatto presente sin dal
1915 la necessità di una sistemazione; appena se ne presentò la possibi-
lità coi tempi più tranquilli, la Giunta municipale, su parere della Com-
missione della Biblioteca Civica, presso la quale è depositato l'archivio
storico, decise di dar incarico allo stesso dott. Volpati di precedere ad
una revisione generale dell'archivio e alla compilazione dell'inventario per
le parti mancanti. Nello scorso ottobre il Sindaco. l'assessore dell'istru*
zione e il sopraintendente dell'archivio di Stato di Milano, il quale era
stato informato dei lavori sin dall'inizio, faceva una verifica del lavoro
compiuto, riconoscendo che l'archivio è in condizioni da potersi utilmente
aprire al pubblico, sebbene all'inventario manchino tuttora alcuni indici,
che faranno quanto prima. La premura dell'Amministrazione di Como
si
è degna del plauso dei dotti e della gratitudine degli studiosi che hanno
ormai a comoda disposizione gli atti di quel comune sino al 1802.
G. V.
(1) in Marzocco, n. 43 (22 Ottobre) 1922. Ricordiamo pure, per Toc-
casione, una recente opera testé uscita, che studia il Muratori sotto un
nuovo aspetto fin qui quasi ignorato: Bezzi G. // pensiero sociale di Lu-
dovico Antonio Muratori^ Torino 1922.
414 APPUNTI K NOTIZIE
^,** Documenti viscontei scoperti donati all' archivio di Stato
e
i;i Milano. — Il nostro consocio Giuseppe Riva, che da
prof. cav. uff.
molti anni sioccupa della storia di Monza e a tale scopo è in continua
ricerca di documenti che la riguardano, ebbe questa estate la rarissima
fortuna di scoprire presso un modesto negozio milanese di libri antichi
sette ritagli di pergamena, che da un esame sommario gli si palesarono
tosto, come ultime reliquie di un registro di Bernabò Visconti.
erano,
Essi provenivano,con molte altre carte e persino pergamene, dalla bi-
blioteca del defunto studioso Cencio Poggi, notissimo anche in Lombardia,
sebbene nato nel Venezuela, per essere stato anche scrittore di note
storiche comasche e sino al 1902 conservatore del Museo Civico di Como.
Nessuno dei documenti, oltre quaranta, tutti verisimilmente dell* anno
1364, è rimasto intero, perchè margini e non solo margini
i — i
—
sono sforbiciati il contenuto però si può quasi sempre stabilire con
;
esattezza e completezza. Il valore della scoperta è grandissimo, e dal
perchè non pare che alcuno sia conosciuto, e dal lato docu-
lato storico,
mentario perchè sono gli unici frammenti originari noti di registri
che si siano conservati di quella cancelleria. Il prof. Riva e l'archivio
di Stato di Milano provvederanno a farli conoscere dettagliatamente,
mentre auspichiamo che ciò avvenga presto, non possiamo esimerci dal lo-
dare l'atto munifico del nostro consocio, che volle assicurare al patrimonio
storico nazionale questi documenti preziosissimi, donandoli liberamente
con altri di uguale provenienza, al maggior archivio lombardo.
G. V.
/^ Recenti pubblicazioni dell'Istituto Storico Italiano Fonti —
per la storia d'Italia: // Chronicon di Benedetto di S. Andrea del Soratte
a cura di G. Zucchetti, voi. unico, 1920. Necrologio del Liber Con- —
fratrum di S. Matteo di Palermo a cura di C. A. Qarufi, voi. unico 1922. —
Bollettino deWIstittito Storico Italiano, N. 41 (per la commemorazione del
centenario Dantesco): G. Biscaro, Dante a Ravenna — F. Torraca, //
Fiore —
R. Morqhen, Dante, il Villanie B rondano Malespini P. Fedele, —
Per la storia de W attentato d'Anagni.
Accenniamo anche ad alcune pubblicazioni dall' Istituto Storico in
corso di stampa: Fonti per la storia d'Italia: Annales Januenses a cura
di C. Imperiale di S. Angelo, voi. — / diplomi di Ugo e di Lotario a
III
-cura di Schiaparelli, voi. unico — Chronicon Vulturnense a cura di V. Fe-
derici, voi. I-II —
Le istorie dette « inedite » di Procopio di Cesarea a
•cura di D
Comparetti, voi. unico.
Regesta chartarum Italiae Regesto della Chiesa di Ravenna. Le carte
:
deW Archivio Estense, a cura di V. Federici e G. Buzzi, voi. II. — Liber
Largitorius vel notarius Monasterii Pharphensis, a cura di G. Zucchettin,
voi. II. —
Regesto di Camaldoli a cura di E. Lasinio, voi. IV.
APPUNTI E NOTIZIE 415
/* La R. Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie
e la Lombardia nella sua tornata tenutasi in Torino il 12 aprile u. s. ha eletti
membri effettivi i signori Carotti comm. prof. Giulio e Gallavresi Comm.
:
prof. Giuseppe Soci corrispondenti i signori: Calvi nob. dott. Gerolamo,
j
Galli can. prof. cav. Emilio, Manaresi cav. dott. prof. Cesare, Ottolini
prof. Angelo e Volpe prof. Gioachino.
/^ S. E. MoNS. Cesare Orsenigo, Internunzio Apostolico in Olanda,
ben noto nella nostra città nel campo colturale, di recente riceveva la
consacrazione episcopale in Roma col titolo arcivescovile di Tolemaide.
All'illustre Consocio giungano le più vive felicitazioni nostre.
./^ Il nostro Consocio On. Avv. Bortolo Bellotti occupa genial-
mente le ore, che gli lascia libere il disimpegno del mandato legislativo,
compiendo diligenti ricerche intorno al suo grande compatriota, Bartolomeo
Colleoni. Ci piace di ricordare qui alcuni suoi opuscoli in argomento:
Le origine della Cappella Colleoni in Bergamo (estratto dsiW Emporium^
v. IV, n. 323); Una infermità di Bartolomeo Colleoni, Bergamo, 1921 ;
.Bartolomeo Colleoni nella poesia (estratto dalla Nuova Antologia, 16 aprile
1921); Una franca Bartolomeo Colleoni a Francesco Sforza,
lettera di
Bergamo, 1921 nozze
Bonomi-Spingardi). Sono una promettente
(per
anticipazione della biografia del celebre condottiero bergamasco, alla
quale da anni attende con amore l'egregio parlamentare e che è vivamente
attesa.
.,% Il 1 ottobre, in età di 76 anni, moriva in Montignoso, sua patria,
il conte Giovanni Sforza, La sua attività storico^letteraria, iniziata a sol
16 anni, non ebbe mai sosta per ben sessanfanni e parve anzi rinnovarsi
quando nel 1918 lasciò la sopraintendenza degli archi vii piemontesi, dopo
di aver passato oltre cinquant'anni nell'amministrazione degli archivi di
Stato, prima a Lucca dal 1865 al 1887 e poi a Massa, dove anzi fu il
fondatore di quell'archivio di Stato e dove rimase quindici anni. Sarebbe
fuori di luogo dare qui un cenno delle sue copiosissime pubblicazioni, e
perchè la personalità illustratore della sua Lunigiana, del
dello Sforza,
Lucchese e del Modenese, e poi in genere del Risorgimento in Toscana
e Piemonte, è già di per sé notissima, e perchè in realtà si svolse si
può dire tutta fuori della storia della Lombardia, tranne un'eccezione,
la quale da sola tuttavia avrebbe reso necessario questo doloroso an-
nuncio nel nostro periodico, e cioè i numerosi scritti sul Manzoni a
cominciare dal 1875, che portarono senz'alcun dubbio il maggior contri-
buto di materiali per lo studio del grande Lombardo. Lo Sforza ebbe dei
resto largo riconoscimento pei suoi meriti; una trentina di deputazioni,
società e commissioni storiche o letterarie, si onorarono di averlo membro,
e parecchi municipi l'avevano eletto cittadino onorario ; era anche acca-
demico della Crusca.
O. V.
416 APPUNTI E NOTIZIE
^% Alberto del Vecchio, insigne figura di giurista storico, si spe-
gneva pure in questi ultimi mesi. Fu tra primi storici del diritto che,
i
con Antonio Fertile, Francesco Schupfer, Pasquale del Giudice e Cesare
Nani, contribuirono a formare la storia dei diritto come scienza indi-
pendente. Sebbene le sue opere non riguardino direttamente la Lombardia,
pure esse, col loro carattere generale, costituiscono il necessario fonda-
mento per chi voglia approfondire i problemi della nostra storia. La ri-
vendicazione dei beni mobili nell'antico germanico (Bologna 1876),
diritto
La legislazione di Federico II imperatore (Torino 1874), Le seconde nozze
del coniuge superstite (Firenze 1885), per accennare solo ad alcune fra
le sue copiosissime opere storico-giuridiche, segnano un progresso inne-
gabile nella scienza del diritto storico. Morì a Firenze, dove insegnava
ancora in quell'Istituto di studi superiori e di perfezionamento, nell'età di
73 anni.
A. V.
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
ASSEMBLEA GEI^JfBRALE OEDINARIA
del 4 Giugno 1922
Presidenza del Presidente Conte Sen. E. GREPPI
Alle ore 14, trascorsa un'ora da quella indicata nell'avviso dì con-
vocazione, l'adunanza è dichiarata valida ed aperta.
Del Consiglio di Presidenza sono presenti il Presidente Conte Sen.
E. Greppi, i Vice Presidenti Prof. G. Bognetti e Conte A. Gìulini, i
Consiglieri Nob. G. Gagnola, Conte A. Casati, Prof. E. Verga, Prof. G.
Vittani, il Segretario Prof. G. Seregni.
Sono rappresentati per delegazione a consoci la N. D. Jenny Litta
Modignani ed i Signori Conte Ing. D. Barattieri, Mons. A. Berenzi, Sac.
R. Beretta, Sac. C. A. Cardini, Conte C. O. Cornaggia, March. L. Cusani
Visconti, Mons. C. Donini, G. A. Esengrini, Ing. Cav. Uff. A. Giussani, G.
F. Gobbi, Conte Cav. T. Lechi, Prof. G. Moschetti, Conte Ing. E. Odazio,.
March. Cav. A. Ponti, Arch. G. F. Richard, Ing. L. Riva Cusani, Prof.
A. Visconti, Vice Segretario.
Si legge e si approva il verbale della precedente adunanza generale.
11 Presidente ricorda con paroladi venerazione e rimpianto i soci
scomparsi Comm. Avv. Stefano Labus, Prof. Giulio Carotti, Pl-of. Raffaello
Rutelli, Nob. Ing. Francesco Sassi de' Lavizzari, Dott. Cav. Giovanni
Vergani {Allegato A). Certo poi d'interpretare
i sentimenti di tutti membri i
un particolare omaggio a S. S. Pio XI, antico socio-
del sodalizio, tributa
e Vice Presidente della Società Storica Lombarda.
Il Presidente medesimo comunica che la stampa dell'indice dell'ar-
chivio e del Carteggio Verri procede, ma, per lentezza dei tipografi, non
come si vorrebbe
così sollecitamente
Chiede poi ed ottiene facoltà d'invertire l'ordine del giorno, antepo-
nendo la votazione dei nuovi candidati a soci e la discussione del Bi-
lancio Consuntivo 1921 alla trattazione del n. 3 « Sulla conservazione
degli Archìvi Privati ».
In seguito a votazione risultano accolti a nuovi soci il Conte Antonio
Barbiano di Belgioioso, la Biblioteca Consorziale Sagarriga Visconti Vo/pit
418 ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
di Bari, il Giuseppe Boni, il Rag. Ambrogio Brugnoni, il Prof. Gae-
Sac.
tano Cesari, Giovanni Ciccolini, il Sac. Giuseppe Croci, TOn. Mar-
il Prof.
ziale Ducos, Deputato al Parlamento, il Prof. Stefano Fermi, la Marciiesa
Maria Luisa Guerrieri Gonzaga, Piero Gussalli, l'Avv. Giovanni Labus,
ring. Ugo Lombardi, Mons. Antonio Merisi, il Nob. Vincenzo Negroni
Prati Morosini, l'Arch. Vito Rasteili, Luigi Tarantola, la Principessa Lena
Trivulzio della Somaglia, Davide Vaiani, il Sac. Giovanni Varischi.
Dopo lettura della relazione dei revisori del Bilancio Consuntivo 1921
{Allegato B\ il Prof. Bognetti dà su di esso alcuni schiarimenti.
L'Avv. Gaetano Galeone propone un voto di plauso alla Presidenza
per la sua opera amministrativa. Il Sen. Greppi ringrazia, facendo notare
come il plauso vada soprattutto diretto al Vice Presidente Prof. Bognetti.
Questi dichiara che la Società è a sua volta gratissima a quanti ne hanno
generosamente agevolato il compito, per esempio al Comm. Donzelli, che
si compiace di veder presente. Si augura poi nuove attestazioni di bene-
volo interesse da parte di privati o di enti.
Il Bilancio Consuntivo 1921 posto ai voti è approvato.
Intorno all'argomento della conservazione degli archivi privati, ed al
deplorato inconveniente della distruzione di larghi depositi concessi come
scarti alla Croce Rossa Italiana e quindi distrutti, il Presidente, richia-
mati i termini e i precedenti della questione, recentemente risollevata dal
consocio Dott. Giuseppe Bonelli, dà la parola al Consigliere prof. Gio-
vanni Vittani, incaricato di studiare il tema e di riferire in proposito.
Il Prof. Vittani legge la sua relazione sull'importante problema {Al-
. legato C), ottenendo il plauso dell'Assemblea ed i ringraziamenti del Pre-
sidente.
Intervengono nel dibattito il Comm. Donzelli, offrendo i buoni uf-
fici propri e di altri gerenti di cartiere, ed il Presidente Sen. Greppi.
L'Assemblea vota infine il seguente ordine del giorno presentato dal
Prof. Bognetti e lievemente modificato dal Comm. Vittani:
« U Assemblea^
udita la relazione del Consigliere Vittani,
invita la Presidenza a rinnovare le pratiche colV Azienda autonoma per
<la raccolta dei rifiuti d^ archivio per salvaguardare il patrimonio storico
nazionale ;
fa voti che sia illuminata, anche con propaganda personale dei soci,
la coscienza dei possessori di documenti, e che si coordinino le disposizioni
legislative Sul patrimonio archivistico con quelle riguardanti il patrimonio
artistico e monumentale;
facendo propri i concetti pratici esposti dal socio Comm. Donzelli, dà
mandato alla Presidenza di tentare accordi amichevoli colle cartiere di
^Lombardia.
Il Presidente
EMANUELE GREPPI
// Segretario
Giovanni Seregni.
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 419
ALLEGATO A)
L'ultima nostra riunione era stata turbata dall'annuncio, per\^enu-
toci proprio ai momento in cui aprivamo le porte della nostra sala,
della morte dell'ultimo nostro socio fondatore, di Stefano Labus. Lo
abMarao allora ricordato con poche e commosse parole ma ora noi ;
dobbiamo cominciare con lui, il più anziano fra i soci nostri, la mesta
teoria degli scomparsi.
La non era forse strettamente aral-
illustrazione della sua famiglia
dica, ma per la varietà d-elle
vicende e le manifestazioni dell' ingegno
la casa dei Labus rappresenta in modo particolarissimo tutta la forza
di una tradizione e di un sangue e determinò appunto un modo nuovo
di intendere e sviluppare la storia genealogica, quale fu esposto e ap-
plicato dal nostro antico presidente, Felice Calvi, nella sua pubblicazione
delle famiglie notabili milanesi; ove, per opera di Damiano Muoni,
la famiglia Labus ha preso degnissimo posto, proprio nel primo vo-
lume iniziatore dell'opera.
I Labus dunque nel principiodel secolo decimo ottavo abita-
vano e possedevano beni Pomerania, ma, vuoi per la fede serbata alla
in
religione cattolica, vuoi per altra ragione Stefano, avo del trisavo
,
dello Stefano nostro, emigrava al Montenegro ove ebbe a combatter
fiera guerra contro i Turchi. Stefano e il figlio Federico combatterono
valorosamente pel Montenegro e vi ottennero distinzioni e privilegi;
Giovanni, figlio di Federico, passava invece al servizio di Venezia, che
era del resto la naturale alleata del valoroso stato cristiano; ma final-
mente ritiravasi a Brescia ove moriva nel 1793. Un nuovo Stefano,
figlio di Giovanni, accasa vasi invece più pacificamente in Brescia, at-
tendendo al commercio; ma da lui nasceva la più grande illustrazione
Clelia famiglia, Giovanni Labus, ardente patriotta, valentissimo archeo-
logo, sommo epigrafista. Giovanni ebbe per figlio Giovanni Antonio,
valente scrittore, padre del compianto Stefano nostro, che per discen-
denza materna si allacciava altresì ai nomi che parteciparono all'ultimo
definitivo nostro risorgimento, perchè la sua genitrice fu sorella di
Antonio Giovanola segretario generale alle finanze con Camillo Cavour
e poi Ministro dei Lavori Pubblici.
II compianto nostro socio completa questa teoria di guerrieri, di
commercianti, di letterati e di artisti, portando ii suo nome, e la sua
intelligenza nell' arringo legale, e nelle cariche cittadine del nostro
Comune.
Noi vecchi ricordiamo quanta parte egli avesse nella amministra-
zione Belinzaghi per quindici anni ininterrottamente dal 1869, quando
aveva solo 27 anni, sino al 1884. Il Bellinzaghi aveva in lui piena fi-
ditcia ed il Labus gli era devotissimo, tantoché il Comune pareva im-
personarsi nelle due persone, e il Labus infattinon rimase nella am-
ministrazione comunale quando se ne ritirò l'uomo al quale egli era cosi
strettamente legato.
420 ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
Delle altre molte cariche da lui coperte ricordiaino in modo par-
oolare la preaidenza della prima generale esposizione milanese nel 1881 ;
ma per noi la sua memoria è legata ad una benemerenza speciale per
^'li studi storici colla fondazione dell'Archivio Storico Municipale, che
è andato poi assumendo tanta importanza grazie anche alla attività del
collega nostro Professor Verga.
Ma, come nella seduta di Gennaio non potemmo subito commemo-
rare Stefano Labus, così oggi non possiamo dire sufficientemente di
un altro socio nostro da quarant'anni, il Professor Giulio Carotti spa-
rito nella settimana. Egli fu per parecchi anni vice-segretario ed eco-
nomo <lella nostra Società, era ancora professore di Storia dell'Arte
all'Accademia di Brera, e testé veniva eletto membro effettivo della
Regia Deputazione di Storia Patria. La fama e gli onori doveva alle
molte opere sue di storia dell'arte. Noi speriamo in prossima occa-
sione parlare dall'autore. Ora rimpiangiamo il collega, il professore,
l'uomo onoratissimo.
Un altro insigne professore è mancato agli studii, agli amici ed
anche alla nostra Società Raffaello Futelli professore di lettere italiane
:
e di storia civile nel R. Istituto nautico di Venezia e già direttore della
Biblioteca comunale di Mantova. Mantova e Venezia egli seppe appunto
congiuDgere nei sxioi studii più celebrati, trattando di Paolo Sarpi e
dell'interdetto di Paolo Quinto contro Venezia; ma le belle pagine sul
dolore e sul patriottismo di Daniele Manin sono una degna rivelazione
del cuore dell'uomo, negli studii e anche fuori degli studii.
Due altre perdite finalmente dobbiamo lamentare fra i soci nostri
che ad altre speciali occupazioni aggiungevano l'amore della
loro
società nostra e della dottrina storica. L'uno, il nobile Ingegnere Fran-
cesco Sassi dei Laviszari di Sondrio, industriale di grande valore tec-
nico e scientifico per l'attività data alla industria del gas e alla pro-
duzione delPossigeno. Egli fu consigliere provinciale e candidato per
la Valtellina nelle elezioni politiche e noi oltre che come socio pos-
;
siamo commemorarlo come consigliere della Società Storica Valtellinese.
Con un amico si può dir di famiglia, chiudiamo queste mesta ras-
segna, col saluto cioè alla memoria del Dott. Cav. Giovanni Vergani
nostro revisore dei conti assiduo sempre alle nostre sedute, che ripo-
;
savasi coi nostri studii dall'esercizio dell'arte medica alla quale erasi per
lunghi anni dedicato.
E. Greppi.
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 421
ALLEGATO B)
Relazione dei Revisori dei Conti sul Bilancio 1921
Onorevoli Consoci^
Malgrado le anni di assestamento e
difficoltà finanziarie di questi
di rincaro in tutto quanto riguarda l'industria tipografica e libraria, la
nostra Società, sorretta da una buona ammiuistrazione, si avvia ad un
discreto equilibrio. L'avere affrontato l'aumento della quota sociale fu
certo provvida misura, che ci mise nelle condizioni di poter continuare,
sebbene ridotte di mole, le pubblicazioni dell'Archivio.
L'attività netta al 31 dicembre 1920 risultava di L. 18881,44; al
31 Dicembre 1921 risulta invece di L. 18892,89 presentando quindi un
aumento di L. 11,45.
Ma per formarsi un concetto esatto del nostro bilancio conviene
mettere in evidenza alcuni dati :
Le rendite ordinarie (L. 13499,44 nel 1920) ascesero a L. 14419,10
con un aumento di L. 910,68 sull'anno precedente.
Le spese ordinarie (L. 15253,95 nel 1920) ascesero a L. 15807,65
con un aumento di L. 544,70 sull'anno precedente quindi un disavanzo ;
di rendita di L. 1388,55 contro quello di 930 segnato nel Bilancio
Preveotivo con una differenza in più quindi di L. 458,55, il quale può
essere compensato in parte dal fatto che non si computa l'ammorta-
mento delle quote del soci perpetui ma deve ricordare all' Ammini-
;
strazione di trattenere le spese non strettamente indispensabili.
Analizzando i capitoli delle rendite e spese notiamo :
I. L' aumento dei annuali da 315 a 324, aumento notevole
Soci
quando si pensa che 6 soci passarono a vitalizi e che la mortalità co-
stituisce un coefficiente non trascurabile.
2) L'accresciuto provento della vendita di pubblicazioni sociali
che testimonia il loro pregio riconosciuto dagli studiosi.
3) La spesa sempre crescente per la stampa dell'Archivio oramai
ridotto a pochi fascicoli.
4) L'aumentata spesa da lire 64,50 a L. 460,60 per acquisto di
pubblicazioni; in gran parte dovuta al pagamento di impegni arretrati.
Quanto alle rendite e spese straordinarie notiamo :
1) Le iscrizioni a soci perpetui diedero un incremento di L. 2400.
2) Le contribuzioni quest'anno ascesero a L. 4000
straordinarie
tutte date dalla Banca popolare milanese per i buoni uffici del nostro
422 ATTI DKLLA SOCIKTÀ STORICA LOMBARDA
ottimo compianto consocio Comm. Stefano LabuB. Le rendite straor —
dinurie arrivarono quindi a L. 6400.
Il fondo per le pubblicazioni sociali, che al principio dell'anno
ascendeva a L. 20000 si ridusse a 14002 che però grazie all'accantona-
mento di L. 5000 sul bilancio 1921 risalì a L. 19002. Il che lascia un
margine sufficiente perchè si possa sperare di condurre a termine le
pubblicazioni già avviate.
Il bilancio si chiude ancora in buone condizioni. Da quanto si
è esposto risulta a merito della Presidenza e degli studiosi che mag-
giormente amano il sodalizio, se, malgrado le ferree circostanze eco-
nomiche non furono sospese le indagini storiche e scientifiche che sono
pure il vanto della nostra società.
Nella speranza che ai buoni propositi e agli sforzi generosi del
Consiglio si aggiungano fortunate cirostanze vi invitiamo ad approvare
nelle sue risultanze il bilancio consuntivo del 1921.
Per i Revisori: il Colonnello Antonio Parrocchetti
Belatore
ALLEGATO C.
L'argomento sul quale il Consiglio m'incarica di riferirvi breve-
mente formò già più volte oggetto di discussione nelle nostre assemblee,
specialmente da quando si costituì un Comitato nazionale, con operose
sottocommissioni provinciali, per raccogliere, mediante il ricavo degli
scarti d'archivio, fondi onde sopperire ai bisogni della Croce Kossa
Italiana, cresciuti d'improvviso a dismisura durante la guerra. La no-
stra Società, non conteni;a di voti che bastano solo a dare alle facili
coscienze la tranquillità di credere d^aver fatto il proprio dovere, tentò
anche un'azione diretta in seguito all'adunanza del 7 maggio 1917. Pur
troppo, se non proprio per colpa certo per fatto mio, non si ebbe al-
lora alcun sensibile risultato; dopo replicate premure dell'illustre no-
stro Presidente, il presidente del Comitato milanese, il compianto on.
Agnelli, mi scriveva il 13 gennaio 1918 invitandomi da lui per vedere
quali precauzioni fossero consigliabili ; in quei giorni io era indisposto,
e poi, nonostante reiterati tentativi, non ebbi più la fortuna di avere
il colloquio; non tacerò tuttavia di avere l'amara convinzione che ben
poco si sarebbe ottenuto. Come riferi ampiamente nei suoi annuari
(1917-1918) l'illustre mio predecessore nel Consiglio della Società e nella
direzione dell'archivio di Stato, gr. uff. Luigi Fumi, l'azione stessa da
lui con tanta autorità esperita per riuscì ad avere solo
le vie ufficiali
assicurazioni quanto vive altrettantovaghe che si sarebbe provveduto,
e gli inconvenienti si ripeterono, dando luogo a molteplici lagnanze,,
rinnovate con giusta insistenza anche nelle nostre adunanze.
ATTI DELLA. SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 423-
La grave questione è di nuovo portata qua alla discussione special-
mente in seguito premure del socio prof. Giuseppe Bonelli, di
alle
Brescia, ben noto a tutti per la tenace campagna condotta per la sal-
vaguardia dei documenti, nonostante i dispiaceri personali che gli pro-
cura. Durante la guerra le ragioni messe avanti da lui e da altri, per quanto
inoppugnabili, potevano riuscire soffocate da interessi e bisogni che
passavano sopra ad ogni più giusta considerazione in vista del supremo
scopo a cui tendevano, anche se ciò era intimamente deplorato dai più
veggenti; nessuno allora si sentiva di compiere un'azione, che, a torto
o a ragione, poteva essere accusata di diminuire i mezzi alla resistenza
e alla vittoria. Ma ora quelle anormali condizioni si devono ritenere
superate, e il dott. Bonelli si preoccupa giustamente dell'intensificazione
del Comitato degli scarti prò Croce Rossa, il quale fondò anche una
rivista apposita. Parva Favilla^ e stimola, con ogni lusinga e con inci-
tamento di premi, a mandare ad esso tutta la carta fuori uso, e tra
questa specificatamente indica anche la corrispondenza vecchia, perchè
sia macerata. La cosa parve così urgente al Consiglio di Presidenza che
non credette di attendere l'approvazione dell'assemblea prima di ten-
tare una nuova azione diretta; epperò l'illustre Presidente ai primi di
marzo del corrente anno- si rivolse con lettera all^On. Amedeo Sandrini,
presidente dell'Azienda Autonoma dei rifiuti d'archivio a favore della
Croce Rossa, facendogli presente la necessità di adottare salvaguardie
del patrimonio storico-letterario nazionale: e perchè il passo potesse
avere un risultato pronto, propose anche una soluzione, e cioè che i»
vari comitati dell'azienda avvertissero per lettera gli archivi di Stato
della circoscrizione dei vari fondi loro offerti; gli archivi, nei casi di
dubbio veramente fondato, avrebbero fatto presente la necessità di una
revisione ai comitati medesimi; è sicuro che i donatori stessi, posti
sull'avviso dell' importanza eventuale di quanto inconsciamente stanno
per mandare al macero, permetterebbero l'esame delle carte o quanto
meno le ritirerebbero inutile dire che, facendosi l'esame da funzionari
;
d'archivio, vi è la massima sicurezza di discrezione e segreto, e che •
l'archivio stesso potrebbe conservare i documenti notevoli, quando i
donatori lo credano. La risposta venne con cortese sollecitudine, ma
non riuscì, almeno a mio avviso personale, soddisfacente. L'On. Presi-
dente dell'Azienda autonoma, pur promettendo che non avrebbe man-
cato di esercitare quella vigilanza che è nel comune desiderio e di dare
istruzioni a complemento di quelle impartite sin dall'inizio della raccolta, .
osservava che in pratica la proposta della nostra Presidenza era impos-
sibile, perchè la spesa delle eventuali ispezioni supererebbe il ricavato
dallo scarto, come l'azienda è costretta a rilevare quando si tratta degli
scarti delle amministi azioni statali.
Su quest'ultimo argomento non è il caso di intrattenerci, perchè il
Groverno emanò anche in questi ultimissimi tempi energiche disposizioni,
affinchè si proceda rigorosamente secondo le provvide disposizioni re-
golamentari, nonostante le troppe vive insistenze in contrario dell'A
424 ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
zienda a prò della Croce Rossa ^ è da ritenere quindi che danni non
avvengano. D'altra parte il Governo dona tutta la carta all'Azienda ed
è giusto che le spese gravino sul ricavo, tanto più che per esperienza
posso dire che le ispezioni sono ben lungi dal superarlo.
Ma non crederei maggiormente fondata l'obbiezione anche trattan-
dosi di archivi privati, prima di tutto perchè ben rari sarebbero casii
di ispezioni, e anche questi quasi tutti nelle città sede d'archivio, quindi
senza spesa per alcuno, e poi perchè non è detto che le eventuali spese
debbano proprio gravare sull'Azienda; nel nostro caso l'intervento dello
Stato avviene nell'interesse dello Stato stesso su cose virtualmente già
acquisite dall'Azienda, e quindi potrebbe anche darsi che lo Stato veda
l'opportunità di provvedere coi suoi mezzi. Sottopongo quindi a voi la
domanda se non convenga insistere nella proposta, formandone oggetto
di trattative anche col Ministero dell'Interno, tutore del patrimonio ar-
chivistico nazionale; tanto più che, se debbo credere al citato bollettino
dell'Azienda, la raccolta di carta in favore della Croce Rossa non do-
vrebbe essere ridotta quasi a zero, come scrive l'on. Sandrini, e che
non sappiamo quali siano le famose provvidenze prese sin dall'inizio
della guerra, più volte genericamente annunciate all'uno e all'altro, ma
di cui non si videro mai i frutti, se pure non sono tali quelle dispersioni
che tante volte furono deplorale. I giornali hanno a suo tempo annunciato
che a succedere all'on. Agnelli nella presidenza del Comitato milanese fu
chiamato l'On. Meda^ la soda cultura di lui e l'amore efficace che mi
dimostrò per gli archivi in varie occasioni danno affidamento che si
potrà avere in lui un alleato e un cooperatore.
Ma il dott. Bonelli non si limita a porre il problema in questa
parte, pure gravissima, ma negativa; egli è, non a torto, convinto che
né le considerazioni sui bisogni della guerra prima e sulle opere bene-
fiche nuove iniziate dalla Croce Rossa poi, né gli allettamenti dei vari
comitati avrebbero così tristi effetti, se fosse più diffusa nel popolo, e
specialmente nei possessori di documenti, la convinzione della loro im-
portanza oggi o in avvenire. Per questo egli incita ad una azione, che
non solo neutralizzi e controbatta, in ciò che può riuscire dannoso,
quella dell'azienda, ma propaghi positivamente la necessaria considera-
zione per le carte a tal'azione egli chiama le società come enti, le
j
quali però non possono molto in un'opera di lenta e intima persuasione,
ma più ancora i soci stessi, perchè con articoli su giornali, con confe-
renze, con la propaganda personale in alto e in basso scuotano l'apatia
universale. Sono certo di interpretare i sentimenti di tutto il nostro
Consiglio di Presidenza invitandovi a fare vostro il voto del socio dott.
Bonelli, che è davvero opportuno; un movimento d'opinione pubblica
varrebbe certamente ben più di coattive disposizioni di legge, che gli
interessati cercherebbero di eludere, quando non ne riconoscessero l'im-
portanza; tale aziono preparerebbe anzi il terreno più adatto per far
sorgere la più efficace legislazione.
Più volte studiosi isolati o dotti in congressi hanno sollevato la
ATTI DBLLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA 425
-questione della tutela del patrimonio storico-letterario che si trova
negli archivi privati lungo sarebbe enumerare i vari progetti farò
; ;
tuttavia un'eccezione, per ragioni di famiglia... nostra, per quello sot-
toposto, or sono due anni, al Ministero competente dal socio conte
Dionigi Barattieri di S. Pietro la parte sostanziale consiste nel deman-
j
dare alle Commissioni Araldiche Regionali un conipito un po' analogo
a quello delle Commissioni e degli Ispettori delle Belle Arti. Senza en-
trare nei particolari, penso che le Commissioni Araldiche come tali
hanno funzioni assolutamente disformi da quella ora proposta e man-
cano di quelle precise ramificazioni nei singoli centri che sono indispen-
sabili nel caso attuale; il loro contributo potrebbe consistere — e non
è poco — nel fornire ai nuovi uffici buona parte dei competenti, poiché
esse ne comprendono davvero un numero ragguardevole. Checché ne
sia, sinora tutti 1 tentativi rimasero senza frutto, appunto perchè l'opi-
nione pubblica non è sufficientemente p;reparata; i più tra i privati ve-
dono nell'assoggettamento a norme tutelari una menomazione del loro
diritto di proiirietà, quando pure non vi temano il prodromo di una lon-
tana confisca. Sebbene sin dal 1897 si sia avuto un progettò che contem-
plava il sequestro nel caso di minacciata distruzione di documenti storici
da parte del proprietario, pure, allo stato attuale della legislazione, l'in-
tervento energico dello Stato negli archivi privati si ha solo quando i do-
cumenti presso i privati siano originariamente atti di Stato, possano es-
sere venduti o siano per essere esportati. Su quest'ultimo caso la nostra
assemblea (29 maggio 1921) ebbe già occasione di emettere lo scorso anno
il voto, che avvenga il coordinamento tra la legge del 1909 sulle anti-
chità e belle arti e il decreto-legge 7 marzo 1920 che affida ai soprain-
tendenti degli archivi la relativa competenza per gli archivi ; ragioni
più che tutto formali proibirono sinora che il vostro voto potesse avere
quell'attuazione che parrebbe logica e che servirebbe anche a sciogliere
i dubbi legali sulla facoltà di apporre il vincolo di legge per la vendita,
anche nel paese, di documenti riconosciuti di eccezionale valore. Fuori
di contestazione in piena attività è invece esercitato il diritto di
prelazione da parte degli archivi di Stato quando i documenti, di qua-
lunque natura, siano in vendita oppure se ne chieda l'esportazione.
Trattandosi in fine di atti di Stato, la nostra legislazione ne afferma
la demanialità, in conseguenza della quale lo Stato li rivendica quando
siano in vendita, oppure si trovino in casa di funzionari dello Stato
alla loro morte.
Non essendo negli altri casi maturo, come dissi, un intervento
d'impero, lo Stato ha cercato di favorire altrimenti la conservazione
degli archivi privati, assumendosene esso stesso tutte le spese di ordi-
namento, inventariazione, conservazione e servizio a favore dei pro-
prietari; per le disposizioni vigenti, questi possono donare le loro carte
agli archivi di Stato, che si assumono tutti i suddetti obblighi, oltre
quello di tenere riservati gli atti di interesse privato immediato per
il donatore. È una liberalità illuminata e generosa, ma essa è superata
Arch. Stor. Lomb., Anno XLIX, Fase. III-IV. 28
426 ATTI DBLLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
dalla nostra legielazioiie «tessa, e con questo esenjpio, che può essercf
invidiato da altre nazioni, mi piace chiudere quasi a fugare l'im-
di
pressione di essere stato di proposito lamentoso; l'Italia infatti offre tutte^
quelle condizioni non solo al donatore dei propri atti, ma anche a chi
semplicemente li deposita presso gli archivi di Stato, unico patto che,,
alla restituzione, sia assicurata la conservazione nel
regno e la vigilanza
da parte dell'archivio competente; più liberali di così certo non si po-
trebbe essere, e gli esempi di doni e depositi anche presso il nostro-
archivio di Stato, - è tutt'ora in corso quello dei principi Castel barco Al-
bani, - sono prova di quanto tale liberalità cominci ad essere apprezzata.
I nostri soci hanno in essa un valido argomento contro la pigra,
inerzia o l'asserita incapacità in cui si urta generalmente quando si
vuole indurre qualcuno a tenere in conto i propri atti, e sono certo che^
se ne varranno in quella viva azione di propaganda personale, che In^
nostra società da loro si attende.
Gr. V ITT. A NI
31 maggio 1922.
ELENCO DEI SOCI (*)
DKLLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
(Ottobre 1922)
Patrono
S. M. IL RE.
Presidenza
Greppi conte senatore Emanuele . Presidente
GiuLiNi conte comm. Alessandro Vice- Presidente
BoGNETTi prof. comm. Giovanni
Gagnola nob. cav. Guido Consigliere
Gallavresi dott. prof. comm. Giuseppe
Verga dott. cav. uff. Ettore
Casati conte dott. cav. Alessandro
Vittani prof. comm. Giovanni
Volpe prof. Gioachino .
Seregni prof. cav. Giovanni Segretario
Visconti prof. dott. Alessandro .
Vice-Segretario
(*) I segnati con asterisco sono soci fondatori.
Il numero in fianco al nome del socio indica l'anno d'iscrizione alla società.
428 KLBNOO DKI SOCI
S. S. PIO XI
S. M. IL RE VITTORIO EMANUELE III
S. M. LA REGINA ELENA
S. M. LA REGINA MADRE MARGHERITA
-rrDOcra^^
Soci Benemeriti
Casati conte dott. AlessKndro . 1916 Milano, via SondnOy 2
GriTelIi Serbellonl dach. Antonietta 1921 LuiNO, {Como)
Donzelli comm. Beniamino. . . 1921 MiLA.NO, via Serbato 14
Il Credito Italiano 1921 > piazza Cordusio
La Banca Commerciale Italiana 1921 piazza della Scala
La Banca Popolare 1919 via S, Paolo ^ 12
La Cassa di Risparmio delle P. L 1921 via Monte di Pietà
Lattea prof. gr. uff. Elia . . . 1897 via P, Umberto, 28
Martinengo Cesaresco cont. Evelina 1913 Salò, (Brescia)
Silvestri Valentini Eva 1916 Milano, Corso Venezia, 16
Soci Perpetui
Biblioteca Ambrosiana 1921 Milano, piazza della Rosa 2
Bognetti prof. comm. Giovanni .... 1900 » via Bossi, 2
Briosohi ing. Francesco di Emilio . . . 1917 » » Senato, 38
Gagnola on. nob. cav. Guido .... 1896 » » Cusani, 5
Casati Negroni cont. Luisa 1913 » » Soncino, 2
Chimeili Luciano 1921 » » Monte di Pietà, 18
Cusani Visconti sen. march. Lorenzo . . 1921 Chignolo Po
Dall'Acqua cap. dott. Carlo 1917 Milano, via S. Agnese, 5
Da Porto S>ilv»tore 1921 » » Kramer, SI
De Herra nob. cav. Cesare 1892 » » Gesù, 7
De Marchi dott. comm. Marco .... 1903 » » Borgonuovo, 23
Dozzio dott. Stefano 1910 » » Bigli, 10
Gallavresi prof. comm. Giuseppe . . . 1900 » » Manforte, 55
Galli Emilio 1913 » » Mascheroni, 5
Greppi conte avv. Emanuele, senatore. . 1882 » » Sani' Antonio, 12
Hortis dott. Attilio, senatore 1874 Trieste.
La Deputazione Provinciale 1920 Brescia.
» » 1921 Mantova.
» » 1920 Pavia.
Origoni nob. ing. comm. Luigi .... 1920 Milano, Foro Bonaparte, 45
Ostinelli dott. Giuseppe 1903 > ma Brera, 19
Pestalozza nob. prof. comm. Uberto . . 1904 » » Borgonuovo^ 19
Ponti march, dott. Andrea 1920 » » Bigli, 11
ELENCO DEI SOCI 429
Sabatini dott. Gaetano 1921 Pbscocostanzo (Aquila)
Sormani Andreani conte Pietro, senatore
del Regno 1914 Milano, Corso Vittoria, 2
Stefini prof. dott. Attilio 1912 Celana, (Bergamo)
Stopparli sac. dott. Giovanni Maria . . 1915 S. Pietro Martire, (Seveso)
Vistalli sac. Francesco 1913 Chiuduno, (Bergamo)
Weill-Scbott avv. comm. Gustavo . . . 1921 Milano, via Monforte, 44
SOCI ANNUALI
[Acquati rag. Guido . . . . . . . 1919 Milano, Corso Magenta, 56
Adami col. Vittorio . . . . . . . 1913 » via P. Umberto, 1
Adamoli ing. Giulio, senatore .... 1888 Besozzo, (Varese)
Aeschlimann E U. ........ 1921 Milano, via XX Seti. 2.
Ijelli ayv. Ermenegildo 1921 » via Q, Sella 2
lelli m.° cav. Giovanni ..... 1895 Lodi, Biblioteca comunale
jroldi di Rebbiate barone cav. Paolo . 1908 Milano, via Alb. da Giussano, S
Ibertoni conte Alberto 1909 » » Vivaio, 11
Jbertoni conte Emerico 1909 » » Vivaio^ 11
[bertoni nob. Muzio Luigi 1900 » » Vivaio. 11
lemagna conte Alberto ...... 1909 » via Moscova, 18
lemanni prof. sac. Emilio 1912 Celana, (Bergamo) Coli. Par^g»
'Anderloni dott. cav Emilio 1903 Milano, via &. Orsola, 6
Annoni arch. prof. comm. Ambrogio . , 1901 » Bastioni Magenta, 2
Annoni conte ing. Federico 1912 » via Boschetti, 6
Archivio di Stato 1912 Brescia
Avancini pmf. cav. Ava,ncinio .... 1920 Milano, via Vigentina, 17
Bagatti-Valsecchi barone comm. Giuseppe 1882 » » Gesù, 5
Barateli! cav. Giuseppe 1916 Varese, via Cavour, 7
Barattieri di S. Pietro conte Dionigi . . 1919 Piacenza, via Taverna, 70
Barbiano di ^e'gioioso con. arch. Alberico 1908 Milano, via Passione 4
Baslini on. aw. gr. uff. Antonio . . . 1908 » via Monte di Pietà, T
Bassani avv. Ugo 1912 » » Manzoni, 39
Bassi generale nob. Guido 1906 » > >Spiga, 42
Bay ing. Francesco 1910 » » S. Spirito, 22
Belinzaghi Bianca 1905 » » Cernaia, 5
Bellini prof. dr. Angelo . ... . . 1922 » » M.te Napoleone, 23 A,
Belotti on. comm. avv. Bortolo .... 1921 » » G. Verdi. 6
Benaglio on. conte avT. Giacinto . . . 1909 Bergamo alta, P.ta Dipinta, 33
Berenzi prof. mons. Angelo 1898 Cremona, Liceo Vescovile
Beretta sac. Rinaldo ....... 1910 ROBBIANO DI G1U88ANO
Bertani Felice. 1921 Milano, via M, Camperio, .9^
BertareUi dott. cav. uff. Achille . . . 1910 > » S. Barnaba, 1&
Bertarelli dott. comm. Ambrogio . . . 1906 » > S. Orsola, 1
AM) ELKNOO DEI SOCI
Bertoni Giovanni liattiata 1913 Brbsoia, via Ceaare Arici, 7
BesoMi-Visconti conte Ottavio .... 1921 Milano, TrihwnaLe Militare
Bettoni conto Federico, senatore .... 1920 Brescia, via Marsala, 17
Bianchi nob. cav. uff. Angelo Domfnico . 1909 Varesk, piazza della Motta^ 6
Bianchi ing. Guido 1900 Milano, i^oro Bonaparte, 63
Biandrà di Reaglie nob. Massimo . . . 1920 » via Circo, 7
Biblioteca Comunale 1912 Bergamo, piazza Garibaldi, 6
Biblioteca Comunale 1906 Verona
Biblioteca Comunale 1919 Como
Bibiioteca Cons. Sagarriga Visconti Volpi 1922 Bari
Biraghi cay. Carlo 1920 Milano, via Monte Napoleone, 26
Biscaro dott. comm. Gerolamo 1904 Roma, piazza S. Cosimato, 40
Bonardi avv. comm. Carlo dep. al Pari. 1912 Brescia
Bonelli dott. Giuseppe 1901 » R. Archivio di Stato
Bonetti cav. ten. col. Carlo 1907 Cremona, via S. Bissolati, 1
Boni sac. Giuseppe, Vicario 1922 Soresina
Borghi ing. comm. Fedele 1901 Milano, via Conservatorio, 7
Borromeo d'Adda conte comm. Febo . . 1900 » > J.. Manzoni, 41
Borromeo conte Guido 1902 » piazza Borromeo, 10
Borromeo contessa Elisa 1874 » » Borromeo, 10
Boschetti conte Anton Ferrante . . . 1920 » via S. Spirito, 14
Bottini prof. Pietro 1897 » > Q. Sella, 4
Brayda di Soleto march. Pietro .... 1920 S. Maria Capua Vbtere (Napoli)
Bricchi Attilio 1920 Milano, corso Vittoria, 10
Brivio nob Annibale 1917 » via Olmetto, 17
Bruschetti comm. Ampellio 1906 » » Clerici, 4
Brusconi arch. prof. comm. Augusto . . 1911 » > Gotto, 5
Buenner Pr. Denys (O. S. B.) . . . . 1921 Chiari
Buttafava-Valentiui nob. Giuseppina . . 1904 Bellagio
Caccia Dominioni conte Carlo .... 1922 Nerviano (Milano)
Cagnoni comm. Gian Franco .... 1901 Milano, via Cusani, 16
Cairo comm. uff. Giovanni 1919 » > Bellini, 19
Calderini dott. prof. Aristide .... 1908 » » L, Palazzi, 10
Calvi nob. dott. Gerolamo 1894 » > Leopardi, 2
Canevali prof. cav. Fortunato . . . . 1913 Breno
Capasso prof. comm. Gaetano, preside del
K. Liceo Manzoni 1902 Milano, via Fratelli Ruffini, 11
Cappelli dott. Adriano, direttore del H.
Archivio di Stato . 1892 Parma
Capretti comm. Flaviano 1913 Brescia, via A. Tagliaferri
Carlini P. Alano Carlo 1922 Milano, via Sassi, 1
Carezzi ing. Luigi 1902 » via Cernuschi, 4
Casana Taverna contessa Costanza . . 1919 Torino, via Maria vittoria, 4
Casati conte Giorgio 1921 Milano, via S. Damiano, 28
Castelbarco Albani conte Costanzo . . 1909 > » A. Appiani, 7
Castelbarco Albani principessa Maria . 1904 » > Principe Umberto, 6
ELENCO DEI SOCI 431
Castelli dott Francesco IQIQ Milano, via Meravigli, 12
CavalUri Cantalamessa prof.sa Giulia . . 1912 Torino, Villa della Regina
Cavallazzi arch. Antonio 1911 Milano, corso Botnana, 86
Cesari prof. Gaetano 1922 » B. Conservatorio O. Verdi
•Gian dott. prof. comm. Vittorio .... 1900 Torino, via Berchety 2
Giccolini prof. Giovanni. 1922 Trento, R. Archivio di Stato
Cicogna conte Mario 1902 Milano, corso P. Bomana, 6
Circolo Filologico Milanese ..... 1904 » via Clerici, 10
Circolo Unione 1919 » > Bomagnosiy 4
Cifrici ma. Carlo 1904 » » Broggi, 10
Cochiii Enrico, f^x-deputato alla Camera
Francese 1904 Parigi, Quai d'Orsay^ 23
•Colleoni nub. dott. Felice 1921 Bergamo, via S, Giacomo, 18
'Colombo prof. cav. Alessandro .... 1903 Milano, B. Istituto Tecnico
Comi iiig. comm. Ettort», senatore . . . 1903 » corso Magenta, 65
CoTua^giit-Medici Castiglioni conte Carlo
Otirtvi(» 1899 » via Cappuccio, 21
Coni march. Gaspare 1909 Taino (Comp)
•Crespi Mario 1904 Milano^ via Manzoni, 10
Grippa Hvv. comm. Ambrogio .... 1917 » » JPontaccio, 18
•Croci sac. Giuseppe, prop. parr. di S.
Gioachino 1922 » » G. Galilei
D'Ancona prof. Paolo 1915 » » XX Settembre, 35
Da Como aw. Ugo, senatore .... 1916 Brescia, corso Balestro, 50
Da Pome uob. comm. Cesare 1919 Brescia, via Tagliaferri, 43
Decio dott. cav. Carlo 1900 Milano, via Passarella, 10
De Francisci prof. P. E 1903 » > S. Maria Valle, 7
Del Bo cav. Orazio . 1920 » » Meravigli, 12
'Della Croce nob. aw. Ambrogio . . . 1909 Vigevano
Della Croce nob. cav. Beno, arch. di Stato 1908 Milano^ corso Buenos Ayres, 17
De S-moni ing. comm. Giovanni . . . 1888 » » Carducci, 32
Deputazione Provinciale 1920 Bergamo
Deputazione Provinciale 1920 Milano
DiuM prof. Achille 1922 Livorno, B. Liceo
Donini prevosto Cesare 1910 Brignano d'Adda (Bergamo)
Drei dott. don Giovanni 1920 Parma, B. Archivio di Stato
Ducos on. comm. aw. Marziale, deputato 1922 BrkscIa, via C. Cattaneo
Dagnani ing. Gaspare 1919 Milano, via Oriani, 1
Esengriui Gan Andrea 1912 » > Bigli, i9
Fabri aw. comm Ca-Io, senatore . . . 1920 Piacenza, via Poggiali, 29
Facchi Gaetano 1901 Milano, via Burini, 18
Fermi prof. Stefana 1922 > corso Cristoforo Colombo^ 7
Ferorelli dott. Nicola 1912 » » Bellotti, 5
•Ffoulque.s Jocelyn Coustance 1906 Londra W, Pelham Cresoent, 11
JFilippini nob. cav. dutt. Enrico .... 1919 Milano, via Ariosto, 26
"Filippini Giovanni 1921 Brbsgia, via Solferino, 16
432 KLKNOO DBl SOCI
Finii dott. Vittorio, flirettore della Biblio-
teca Governatìra 1917 Cremona
Fiorani dott. Pier Lui^'i 1909 Milano, via Rovello, 1
Fogolari dott. comm. Gino 1900 Venezia, RB. Gallerie
Folifino dctt. prof. Cesare 1900 PoRTOORiARo ( Venezia)
Fontana ing. comm. Vincenzo .... 1905 Torino, piazza Vitt. Veneto, 12
Fornasini comtn, avv. Gaetano .... 1910 Brescia, via Fratelli Lombardi, 4'
Fossati prof. Felice . 1903 Lodi, via XX Settembre, 27
Friedmann Codafi prof. Teresita ... 1906 Milano, via Sta Radegondn, 11
FrJsiani-Parisetti conte Gottardo . . . 1016 » piazza S. Ambrogio, 2
Fumi cooim. Luigi 1908 Orvieto
Gabba avv.' oomm. Bassano 1882 Bergamo, via F. Nulli bO
Gaggi avv. cav. Giovanni . ; . . . . 1917 Milano, via Bianca Maria, 9
Gaggia S. E. Mons. Giacinto,' vesccJvo di
Brescfa ... . . . . . . . 19^10 Brescia
Galeone cav. ufi. avv. Gaetano . . . '1921 Milano, via Amedei, 3
Gallarati nob. cav. Giuseppe, arch.: di Stato 1886 •» » Manforte, 19
Galiarati Scotti duca dott. Tommaso . . 1904 » •» A. Manzoni, 30
Galletti prof. comm. Alfredo . . . , . 1916 Bologna, R, Università
Galli mone; prof. Emilio ...... 190L Milano, via Manin, 23
Galli dott. sac. Giuseppe 1906 » Collegio S. Carlo, corto P.
Magenta
Garovaglio Adele ved. Rognoni ' . . . 1908 » via Pantano, 13
Gasdi* Vincenzo» Eduardo . . . . . . 1921 Bergamo, R. Prefettura
Gatti dott. cómm. Francesco ... . . 1889 Milano, piazza P. Ferrari, 10-
Ghezzi mons. cav. Giovanni . . . , . 1918 » Canonica S, Ambrogio
Giachi arch. comm. Giovanni . . . . 1879 » via S. Raffaele, 3
Giorgi di Vistarono conte Carlo . . . . 1908 Rocca de" Giorgi [prov. di Pavia))
Giulini conte comm. Alessandro . . . 1893 Milano, corso Magenta, 30
Giulini conte Giuseppe . v . . . . . 1913 » via Manforte, 16
Giussani ing. cav. uff. Antonio . •
.
.' . 1902 Como, piazza Roma, 7
Giissenti avv, comm. Fabio . . . . . 1908 Brescia, via S.ta Chiara
Gobbi prof. cav. Francesco . . . . . 1921 Milano, via Stella, 39
Grassi avv. cav. Virgilio . . . . . . 1908 » » Clerici^ 7
Greppi nob. Enrico . .... . . . 1907 » » S. Antonio^ 12
Greppi ntib. Lorenzo ....... 1874 » » S. Antonio, 12
Guastalla Bruno Lido .... . . . 1917 » » Monforte, 30
Guerrieri Gonzaga march.^ Maria Luisa . 1922 SusTiNENTE {Mantovà)
Guerrini càv.
sac. dott. .... Pigolo 1909 Brescia, via Grazie, 15
Gussalli Piero . ..... . . . . -
1921 Milano, via Borghetto, 5
Hoepli gr. utf. dott. Ulrico ... . . 1900 Milano, via XX Settembre, 2
Jacini nob. cotnm. Stefano, deputato . . 1904 » » Lauro ^ 3
Johnson comm. Fèdffico . . ... . 1905 », Corso P. Nuova, Hy
Labus avv. càv. uff. Giovanni . . . . 1921 » via S. Andrea^ 8
Lanzoni Giuseppe .
'. . . . ; , . 1894 Mantova
Lattes dott' prof. Alèssand'ro .' . . . 1900 Genova, R, Univerèità
ELENCO DEI SOCI 433^'
Lazzeroni prof. Enrico ....... 1Q21 Chiari, via Marengo^ 9
Lechi conte dott. cav. Teodoro .... 1912 Brescia, corso Vittorio Eman., 4B'
Levati comm. dott. Eugenio 1918 Milano, ma S. Damiano, 14
Litta Modignani N. D. lennj .... 1921 » » Burini^ Ih
Locateli! mous. Carlo, prop. di S. Stefano 1908 » » Signora, 1
Locatelli sac. prof. Giuseppe 1909 Bergamo, Biblioteca Civica
Locati arch. prof. Sebastiano . . . . 1918 Milano, vìa Prìncipe Umberto, 7
Lombardi ing. Ugo 1922 » » F. Monti, 28
Ltiling ing. Emilio 1908 » » corso Venezia, 62
Luzio oomm. Alessandro, direttore del R.
Archivio di Stato 1900 Torino
Magnaguti conte Enrico 1910 Faenza
Magni dott. cav. Antonio 1900 Milano, via Annunciata, 19
Majnoni d'Intignano march, arcb. Achille 1902 » Palazzo Reale
Majnoni d'Intignano nob. Gerolamo . . 1900 » j^azza Mentana, 3
Majocchi mors. prof. Rodolfo .... 1896 Como, via Dante, 9
Mauaresi cav. dott. Cesare 1916 Milano, via Senato, 10
Mangiagalli prof. comm. Luigi, senatore
del Regno 1902 » » Asole, 4
Mannati Vigoni nob. Teresa . . . . . 1915 » » Fatebenefralelli, 21
Manziana oav. uff. Carlo 1916 Brescia, via Trieste, 50
Maraini avv. comm. Clemente .... 1907 Roma, Villino Maraini, via de Bossi -
Marietti dott. Antonio 1895 Milano, lia Manforte, 15
Maroni avv. Rodolfo 1910 » via S. Maurilio, 24
Atasnovo p-ol". dott. Ornerò 1922 » viale Bomana, 34
Mattoj Edoardo 1908 » corso Porta Nuova, 17
Mazzi prof. cav. Angelo 1901 Bergamo, via Pignolo, 119
Meazza dott. Egidio 1922 Milano, via S. Maria Beltrade, 1
Medici di Marignano march. Gian Angelo 1912 » » Manin, 21 a
Meli Lupi di Soragna nob. Antonio . . 1906 » » A. Manzoni, 40
Melzi (i'Eril nob. Benigno 1908 » » Pantano^ 3
Meraviglia-Mant»»gazza march, ing. Saule 1906 » » Fatebenejratelli, 21
Meris) mons. Antonio 1922 » Palazzo Arcivescovile
Mezzanotte ing. Paolo 1910 » » Borromei, 1
Mezzi avv. comm. Filippo 1020 » » Brera, 16
Mira prof. Gi«jvanni 1914 » » Moscova, 16
Modorati Luigi 1918 Monza
Molteni saj. dott. Giuseppe 1912 Sereono, Scuola Tecnica Comunale'
Mondolfo prof. dott. Ugo Guido .... 1921 Milano, viale Bianca Maria, 25
Monxieret de Villard arch. prof. Ugo . . 1909 » via Goito, 5
Monteverdi dott. Angelo 1909 Cremona, via Cadolini, 2
Monti barone cav. dott. Alessandro . . 1921 Brescia, via C. Cattaneo, 53
Monti dott. cav. Antonio 1920 Milano, Castello Sforzesco
De Montholon-Fè d'Ostiani cont.sa Paolina 1909 Brescia, corso Carlo Alberto, 54
Monticelli Obizzi march. Luigi .... 1909 Milano, corso Venezia, 14
Moretti irof. arcb. comm. Gaetano . . 1892 » Bastioni Manforte, 15
434 JHJLBNCO DEI SOCI
Moschetti tiott. 0uiijc;ird«> 191Q Crkmona, R. Istituto Tecnico
Moller Carlo 1902 Intra
Murteo Storico-Artintico del Verbano . . 1911 Pallanza
Myliu» comm. Giorjfi-) 1905 Milano, via Montebelln. 32
NavH 'ng. aroh. ci»mm. Cesar", senati re
del Regno. . 1900 » ma S. Eufemia 19
Negri Vincenzo 1908 » » S. Antonio, 20
Negroni Trati Mor^tsim nob. Vincenzo. . 1922 » > SerheLluni^ 5
Nici>demi dott. cav. uff. Giorgio .... 1914 Brescia, » Martinengo da Barco, I
Nogara dott. ooinm. Bartolomeo . . . 1896 Roma, via V. Colonna, iO, ivt. 12
Oberziner prof. Giovnnni 1903 Milano, via Manin, 3
Ceca avv. Luigi 1907 Limbi atk. Villa Savina
Odazio di Castf'l d'Uoln Fasara conte iug.
Erìiesto 1896 Milano, corso Porta Nuova, i)
Ode&calchi uoh sac. Luigi 1909 » via Bazzoni, 2
Oltoliua dott. Luigi 1921 Asso
Orombelli noi). Marco . 1910 Milano, via Burini, 17
Orsenigo S. E. comn». dott. Cesare arci-
vescovo di Toleinaide 1917 » vicolo S. Fedele, 4
-Ottolini prof. Angelo 1918 » piazza XXII Marzo, 3
Padalli conte Giulio, deputato .... 1906 Erba, Villa Amalia
Padulli nobile ing. comm. Giuseppe . . 1916 Milano, vìa S. Marta 10
Paleari on. avv. Giovanni deputato , 1903 » » Boccaccio, 4
Paravicini couie cav. uff. ing. Luigi . . 1916 Morbegno
Parodi Piero 1921 Abbiategrasso via C. Cantù^ 9
Parrocchetti nob. Antonio 1909 Milano, Bastioni Monforte, 3
Pastori Angelo 1920 > via Bossi, 1
Pecchiai Pio 1916 > Ospedale Maggiore
Pellegrini dott. sac. Carlo 1898 » Can. di S. Calimero
, Pereg«lli avv. Eugenio 1909 > via Piatti, 9
Pietrasanta prof. cav. Pagano .... 1890 » » Boccaccio, 25
Pini avv. nob. Innocenzo 1921 » » Pietro Verri, 9
Pio di Savoia principe Giovanni . . . 1884 > > Borgonuovo, 11
Pirelli comm. ing. G. B., senat. del Regno 1903 » > Ponte Seveso, 19
Porro prof. avv. E. A 1909 » » Solferino, 22
Premoli padre Orazio 1905 Roma, via Chiavari, 6
Prinetti conte Emanuele 1906 Milano, via Manzoni, 43
Pnor cav. U. H 1906 Varese, Villa Litta
Putelii prof. dott. sac. Romolo .... 1916 Breno, {Val Camonica)
Radice Fossati cav. ing. Carlo .... 1907 Milano, via Cappuccio, 13
Radice Fossati dott. Luigi 1919 » corso Vittoria, 12
. Ragnoli Rusy : . . . 1920 Brescia, via Dante
Rapazzini ing. Guido 1910 Milano, viale Bianca Maria, 35
Rastelli arcb. Vito 1922 Cremona, via F. Robolotti, 9
Regazzoni Giuseppe Max 1907 Milano, via Manzoni, 31
s Ricci dott. comm. Corrado 1902 Roma, piazza Venezia, 11
ELENCO DEI SOOl 435
Ricci prof. dott. Serafino 1898 Milano, via Statuto, 25
Rigogliosi sac. Carlo prev. di S. Lorenzo 1911 » Canonica di S. Lorenzo
Richard arch. Giuli»» F 1905 » corso Venezia, 52
Riva CusHni ing. Luigi . 1921 > via Bigli^ 12
Riva prof. cav. uff. Giuseppe 1898 » Bastioni Romana, 52
Rizzi prof. dr. Fortunato 1922 Parma, R. Istituto Tecnico
Rivetti sac. Luigi 1913 Chiari, Biblioteca Morcelliana
Rocca prof. sac. Luigi 1900 Milano, corso Magenta, 5
Rodolfo ing. Emilio 1921 » via Lanzone. 4
RoUone prof. chv. Luigi 1897 » ' ia Boccaccio, 33
Rossi sac. prof. Davide 1901 GoRLA Minore, Collegio Rotondi
Rossi dott. prof. nomm. Vittorio . . . 1894 Roma, via Mecenate, 19
Rossi Martini cont. Emilia. . . . . . 1922 San Bernardino presso Crema.
Raffini ing. Guido 1920 Brescia, via Monsuello, 18
Rusconi sac. dott. Pietro 1904 Milano, corso Italia, 37
Sala comm. G. B 1920 Castello sopra Lecco
Santamaria sac. Carlo ....... 1916 Milano, via Vigna, 1
Sanvisenti dott. prof. Bernardo .... 1900 » corso Venezia, 62
Scaravaglio Alessandro 1907 » corso P. Romana, 9
Scotti prof. Giulio 1918 » via Passione.^ 8
Segre prof. Arturo 1902 Torino, via Donati, 12
Sepulcri prof. dott. Alessandro .... 1902 Milano, via Borgonuovo, 25
Seregni prof. cav. Giovanni 1897 » » Borgonuovo, 9
Sertoli Sal)s eonte ng. Cesare .... 1918 » » via S.t Andrea, 11
Signori ing. comtu. Ettore 1901 Cremona, via Guido Grandi^ 1
Silvestri cumni. Giovanni 1901 Milano^ corso Venezia^ 16
SilvtìStii Volpi Bianca Maria 1904 Milano, corso Venezia, 16
Simeoni prof. Luigi 1901 Modena, R, Liceo Muratori
Sina sac. Alessandro 1912 Costa Volpino (prov. di Bergamo)
Sioli Lf'guani Conti Gigina 1909 Milano, Hòtol du Pare
Sironi Luigi 1922 (tAllarate, piazza Giovine Italia, 2C
Sola conte Gian Lodovico .
•
. . . . 1909 Milano^ corso Venezia, 22
Società del Giardino 1909 > via )S. Paolo, 10
Società Artisti e Patriottica 1921 » > G. Verdi, 4
Solmi prof, coxnu). Arrigo 1914 » » Tasso, 15
Squassi dott. Alberico 1915 » via Porlezza, 2
Strada Marco 1921 » Banca Commerciale
Tacconi avv, cav. Giuseppe 1921 » » Geirh, 8
Tagliabue dott. Mario 1922 Cblana {Bergamo)
Talamoni mona. cav. uft\ prof. Luigi . 1901 Monza Seminario Arcivescovile
Tallacchini avv. Vittorio 1906 Milano, piazza P. Ferrari, 10
Tarantola Luigi 1922 » via Grigna, 24
Tarsi» noi». Paolo 1906 » » ò'. Paolo, 1
Trivulzio principe Luigi Alberico . . 1900 » piazza S. Alessandro, 4
Trivulzio della Somagl'a princ. Lena . . 1922
Uboldi comm. Ferdinando ...... 1909 » corso P. Romana, 82
430 KLENOO DBl SOCI
Vaiarli Davide 1922 Cremona, lyia Bella Chiopella
Venirli oav. Antonio 1897 Milano, via 8, Maurilio, 21
Venturini ilotr. Luigi 1917 » » Borgonuovo, 26
Verga dott. cav. uff. Ettore 1895 » corso Italia, 46
Verga avv. Carlo Ercole 1920 » via Donizetti, 36
Varischi sac. Giovanni 1922 Cremona, piazza S. Michele
Vicenzi prof. cav. Carlo 1919 Milano, via B, Bo$eovich, 8
Vigano prof. dott. cav. Luigi .... 1919 Milano via Olmetto, 3
Vigoni nob. Giulio, senatore del Regno . 1874 » » Fatebenefratellif 21
Vimercati Sanseverino conte Gaddo . . 1906 Vajano Crbm. (j). Cremona)
Visconti dott, prof. Alessandro .... 1908 MiLANOj via Carroccio, 5
Visconti march. Roberto 1912 » » Borgonuovo, 5
ViscontiModrone conte comm. Giuseppe . 1902 » » Cerva, 44
Visconti Modrone conte comm. Guido
Carlo 1904 Firenze, via RuceUai, 4
Visconti di Saliceto conte Alfonso . . . 1904 Cernusco sul Naviglio
Vismara Gian Luigi 1919 Milano, via B. Cavalieri, 4
Vismara cav. Vittorio ....... 1919 » piazza Castello, 25
Vittani dott. prof. comm. Giovanni . . 1992 » ma Senato 10
Volpe prof. dott. Gioachino 1906 » » Manin, 3
Volta nob. avv. cav. Zanino .... 1878 Pavia
Vouwiller cav. Alberto 1909 Milano, » Beretta, 8
Weil comandante M. H 1905 Parigi, rue Rabelais, 3
Zacchi arch. cav. Adolfo 1912 Milano, via Carducci, 12
Zadei Guido 1918 Brescia, via Dante, 9
Zanelli dott. prof. Agostino ... 1900 Roma, via Cavour. 150
Elenco delle Opere pervenute alla Biblioteca Sociale
IL Semestre 1922
Barni Luigi, Note archeologiche sulle origini di Vigevano con illustrazioni
deWautore. Mortara, 1922. Tip. Monchietti. (d. d. a.).
Beyer, Mascara con mosaico de turquesas. Dictamenes periciales. Mexico,
1922. Imprenta del Museo Nacional de arquelogia ecc. (d. d. Diret-
tore del Museo).
BÒHM Carlo, Gli Archivi parrocchiali. Cenni sul modo di ordinarli. Trento.
1912. Tip. Comitato Diocesano, (d. d. s. Ciccoiini).
BoNELLi Giuseppe, Documenti della famiglia Emili. Verona, 1923. La Ti-
pografia Veronese (d. d. s. a.)
Boselli Paolo, Commemorazione di Marco Magistretti. Torino, 1922.
Tip. Coli. Artigianelli (d. d. s. a.).
Brayda Pietro, // titolo di Eminenza ai Cardinali ed i Duchi di Savoia.
(Tre documenti inediti del 1630), Bene Vagienna 1922, Tip. Vissio.
(d. jd. a.).
BusTico Guido, Saggio di una bibliografia di Giuseppe Regaldi. No-
vara. « La Tipografica » 1922. (d. d. a).
BuzzETTi Pietro, Le Chiese nel territorio dell'antico comune in Valle San
Giacomo. Como, Tip. A. Volta, 1922. (d. d. a,L
Cavazzocca Mazzanti V., Rossini a Verona durante il Congresso del 1822.
Verona, 1922. La Tipografia Veronese, (d. d. a.).
CiccOLiNi Giovanni, Commemorando Bernardo desio. Rovereto 1914,
Tip. Tomasi (d. d. s. a.).
— Contributo alla storia delle industrie di Val Lagarina fra il 1806 e il
1818. Rovereto, 1913. Tip. Grandi, (d. d. s. a.).
— Desiderio Reich. Necrologia. Rovereto, 1913. Tip. Grandi, (d. d. S. a.).
— Guida illustrata della valle di Rabbi e delle sue acque minerali. Male,
1922. Tip. « Solandra ». (d. d. s. a.).
— // santo anacoreta anauniese. Trento. 1911. Tip. del Comitato Dioce-
sano, (d. d. s. a.).
— Le opere di Desiderio Reich. Studio crìtico. Trento, 1913. Tip. Comitato
Diocesano, (d. d. s. a.).
438 ELENCO DELLE OVKUE PERVENUTE ECC.
CiccoLiNi Giovanni, Le origini della nobil famiglia dei Bertelli illustrate
da un secentista. Trento. 1909. Tip. del Comitato Diocesano, (d. d.
s. a.),
— Recensione di Depeder Gio. Batta. Ai miei compatriotti di Bresimo.
:
Ragionamenti familiari sulle cose del paese. Rovereto, 1913. (d. d. s. a.).
Convento (II) delle Dame vergini della Vettabbia in Milano. (R. Soprin-
tendenza ai Monumenti della Lombardia). Milano, 1922. Sestetti e
Tumminelli. (d. d. s. Annoni).
Da Como Ugo, Albe bresciane di redenzioni sociali alla fine del secala
XVIII. Prolusione alla Scuola superiore di stadi sociali. Brescia, 1922.
Tip. Ist. F. di M. I. (d. d. s. a.).
Ferorelli Nicola, U Ufficio degli Statuti del Comune di Milano detto
Panigarola. Pavia, 1922. Tip. Cooperativa, (d. d. s. a.).
Galbiati Giovanni, Diritto e scienza canonica^ storia e filologia nel Liber
Diurnus Romanorum Pontificum. (Da un codice dell* Ambrosiana).
Treviglio, 1922. Tip. Card. Ferrari, (d. d. a.).
Oasdìa Vincenzo Eduardo, Sapìa di Siena. Faenza, 1921. Tip. Lega.
(d. d. s. a.).
Giani Luigi, // Capitano Gianmaria Scotti e la 3. comp. della Legione ci-
vica di Bergamo nella spedizione nel Trentino nel 1848. Forlì, 1922.
Tip. Valbonesi. (d. d. a.).
GiORCELLi Giuseppe, Documenti storici del Monferrato. (XXX). La scomu-
nica del Conte Nemours di Frassinello Monf. (15 giugno 1713). Sue
conseguenze ed assoluzione. Secolo XVIII. Casale Monf. 1922. Unione
Tipogr. Popolare (d. d. a.).
Giubileo {Nel) Parrocchiale di Don Ercole Franzoni. Crederà^ 27 agosto
1922. Crema. Tip. « Coltura Popolare ». (d. d. sac. A. Cambiè).
GuERRiNi Paolo, Guglielmo da Brescia e il Collegio Bresciano in Bologna.
Parma. 1922. Tip. Fresching, (d. d. s. a.).
— // Collegio Lambertino dei Bresciani» Venezia, 1922. Tip. Ferrari.
(d. d. s. a.).
— La Cappella musicale del Duomo di Salò. Estr. « Rivista Musicale Ita-
liana. 1922. (d. d. s. a.),
— Scuole e Maestri bresciani cCel cinquecento. Brescia. 1922. S. Tip. Ist.
Figli di M. (d. d. s. a.).
Istituto « Ferrini » dei Palinsesti — Perugi G. L., Nuovo metodo scienti-
fico per la riproduzione dei palinsesti. Conferenza. Roma, 1922. Tip^
Ferri, (d. d. Istituto).
— Saggio di Anastasiografia col metodo di Giuseppe L.. Perugi. Roma,.
1922. S. Poligr. per PAmm. della Guerra, (d. d. Istituto).
Mèregalli Luigi. La Basilica Ambrosiana. (Dati e date), Milano. Società
Editr. Opera Card. Ferrari. 1922. (d. d. a.).
ELENCO DELLE OPEKE PERVENUTE ECC. 43^
Olivero Eugenio, Uantica Pieve di San Pietro in Pianezza. Ricerche
storico artistiche. Torino, 1922. F.Ili Bocca, (d. d. a.).
Parodi Piero, Un memoriale ignorato di Nicodemo Tranchedini da Pon-
tremoli. Abbiategrasso, 1921. Tip. Nìcora. (d. d. s. a.).
Pfau J.
— Die Madonna von Loretto. Kunstgeschichtliche Untersuchung-
Zùrich, 1922. Oreli Fùssli. (d. d. a.).
Questione (La) dei Vittore e Satiro. Deduzione del Rmo Capitolo Am-
brosiano circa il possesso dei corpi dei SS. Vittore M. Mauritano e
Satiro Confessore fratello di S Ambrogio, nell'appello contro la
sentenza del Tribunale Ecclesiastico di Milano emanata il giorno
16 Luglio 1910. Milano, 1911. Tip. S. Giuseppe, ^d. d. s. Parodi).
Rossi Case Luigi, Bassa Lombardia. Milano, 1902. Albrighi Segati e C.
(d. d. s. Parodi).
So LAZZI Siro, Studi sul concorso dei creditori nel diritto romano. Roma,
1922. Tip. della R. Acc. Naz. dei Lincei, (d. d. a.).
Solmi Arrigo, // Comune nella storia del diritto. Milano, 1922, S. Editrice
Libraria, (d. d. Editore).
Rizzi Fortunato, Disgrazie postume di Messer Francesco. Note sull'an-
tipetrarchismo nel Rinascimento. Milano, 1922. Tip. Bertarelli (d. d. a.).
Sorbelli Albano, // primo abbozzo della « Mia prigionia di Spielberg »
di Piero Maroncelli. Bologna, 1922. Zanichelli, (d. d. a.).
Sorbelli A., La Biblioteca Comunale deW Archiginnasio nell'anno 1921.^
Relazione del Bibliotecario. Bologna, 1922. Tip. Azzoguidi. (d. d. a.).
Soriga Renato, Le società segrete e i moti del '21 iu Piemonte. Torino,.
1922. F.Ui Bocca, (d. d. a.).
Weil (CommandantJ, An lendemain de l'évasion de Ham. Paris, 1922.-
Extr. « La Revue de Paris ». (d. d. s. a.).
— Le carlisme de Charles-Alberi. La tendresse fraternelle du Re Bomba..
Madrid. 1922. Tip. Moderna, (d. d. s. a.).
Alessandro Bottigelli, gerente responsabile.
Prem. Tip. Pont ed Arciv. San Giuseppe — Milano, Via S. Calocero, 9.
INDICE
MEMORIE
Omero Masnovo. — Pier Grosolano e il suo epitaffio . . Pag. 1
Romolo Quazza. — Ferdinando Gonzaga e Carlo Emanuele I
(Dal trattato di Pavia all'accordo del 1624 da documenti
inediti dell'Archivio Gonzaga) » 29
Alessandro Colombo. — Due ricordi toponomastici di Milano
langobarda e franca » 217
Silvio Pivano. — Il testamento e la famiglia dell' imperatrice
Angelberga (con una tavola inedita del conte Bandi di
Vesme) » 263
Francesco Landogna. — La Genesi delle « Honorantie civitatis
Papié » » 295
VARIETÀ
Giuseppe Rotondi. — Un passo di Galvano Fiamma e il mo-
nastero di Torba Pag. 119
Mario Ernesto Tagliabue. — Il liber notitie sanctorum Medio-
lani (appunti topografici) » 135
Vittorio Adami. — Antichi alberghi in una antica via di Milano » 153
Alessandro Visconti. — La cattedra di diritto municipale nelle
Scuole palatine e la soppressione delle Canobbiane » 166
...»
. .
A. Bellini. — Il beato Landolfo da Vergiate . 332
R. Beretta. — I de Robiano e il loro avello in S. Lorenzo . » 350
G. Nicodemi. — Un curioso documento iconografico della
peste del 1630 a Milano » 361
Arch, JStor. Lomb., Anno XLIX, Fase. IlI-lV. 29
442 INDIOB
BIBLIOGRAFIA
E. Filippini. — Giuseppe Parini. Le opere: giorno e odi Il le Pag. 178
A. Visconti. — Natale Grimaldi. La signoria di Barnabò Visconti
e di Regina della Scala in Reggio » 186
A. Visconti. — Arrigo Solmi. Il Comune nella storia del diritto » 364
A. Visconti. — P. Vaccari. La'territorialità come base delPor-
din<imento giuridico » 368
G. Seregni. — A. Bachi. Korrespondenzen und Akten zur
Geschichte des Kardinals Matth. Schiner. Bd. I . . . » 372
G. Seregni. — Ernst Gagliardi. Geschichte der Schweiz von den
Anfàngen bis auf die Gegenwart » 384
L. V. — Angelo Berenzi. I. Robecco d'Oglio. Cenni storici. —
II. Rodolfo Pedrazzini di Robecco, Vescovo di Trieste . » 386
A. Zanelli. — Paolo Guerrini. Scuole e maestri bresciani
del '500 » 387
G. Seregni. — Romolo Quazza. Politica europea nella questione
Valtellinica » 389
L. V. — D. C. DoninL II palazzo Visconti, ora Carminati, di
Brignano d'Adda » 391
L. V. — Giulio Scotti. Marco Marini orientalista Bresciano
del '500 ;^ 391
L. V. — Frico Piadeni. La società del Casino di Como nel suo
primo centenario » 392
A. V. — A. Bricchi. Medici Milanesi durante il dominio spagnolo » 393
APPUNTI E NOTIZIE
Appunti : Morte e sepoltura di Nicodemo Tranchedini da Pon-
tremoli (E. Lazzeroni). — Sonetti ignoti del Volta (E.
Brambilla). — Ancora della parentela e della patria del
letterato Giovanni Campiglio (E. Filippini) .... Pag. 190
Appunti: Notizie sulla famiglia dell'Arcivescovo Ariberto da
Antimiano (C. Manaresi). — L'ospedale di S. Stefano in
Brolo di Milano nel « De Magnatibus » di Bonvesino della
Riva (E. Galli). — Una villa sconosciuta del Petrarca a
Pagazzano (G. Riva). — Intorno a Nicodemo Tranchedini
(G. S.). — I figli di Alfonso d'Aragona e di Ippolita Sforza
(P. Parodi). — Bona Sforza (P. Parodi). — La canzonetta
INDICE 443
il Labirinto restituita al suo autore (A. Foresti). — Giuseppe
Parini censore nella Società di Pubblica Istruzione (G. Gal-
LAVRESi) Pag 394
Notizie: Il 250*^ anniversario della nascita di L. A. Muratori
(A. V.). — L'Archivio Storico civico di Como (G. V.). —
Documenti Viscontei scoperti e donati all'Archivio di Stato
di Milano (G. V.). — Recenti pubblicazioni dell'Istituto
Storico Italiano. — Membri effettivi e soci corrispondenti
della R. Deputazione di Storia Patria. — Nomina del con-
socio Mons. Orsenigo ad Arcivescovo di Tolemaide. —
Pubblicazioni su Bartolomeo Colltoni. — Necrologio di
Giovanni Sforza (G. V.). — Necrologio di Alberto del
Vecchio (A. V.) » 413
ATTI DELLA SOCIETÀ STORICA LOMBARDA
Assemblea generale ordinaria 15 gennaio 1922 .... Pag. 201
Necrologio dei soci defunti (M. Magistretti, A. Martini Lan-
driani, E. Mina, G. Marietti) » 205
Commemorazione di Mons. Marco Magistretti .... » 206
Opere pervenute alla biblioteca sociale nel primo semestre 1922 » 213
Assemblea generale ordinaria del 4 giugno 1922 ...» 417
Necrologio dei soci defunti (S. Labus, G. Carotti, R. Putelli,
F. Sassi, G. Vergani) » 419
Relazione dei Revisori dei conti sul bilancio 1921 . . . » 421
Relazione del Consigliere G. Vittani sulla dispersione di ar-
chivi privati » 422
Elenco dei Soci . . » 427
Opere pervenute alla biblioteca sociale nel secondo gem^stre 1922 » 437
DlPBL/iniU dtlUl.i^C-V/ \V \^^l
DG Archivio fitorioo lombardo
651
A7
anno 4-9
PLEASE DO NOT REMOVE
CARDS OR SLIPS FROM THIS POCKET
UNIVERSITY OF TORONTO LIBRARY