Riassunto Corso Di Diritto Pubblico Di Augusto Barbera Carlo Fusaro Capitoli 1 15 Compress Cropped
Riassunto Corso Di Diritto Pubblico Di Augusto Barbera Carlo Fusaro Capitoli 1 15 Compress Cropped
Le regole costituiscono il diritto di una determinata organizzazione: considerate nel loro insieme
formano, appunto un ordinamento giuridico. Le regole del diritto appartengono al mondo del “dover
essere” (prescrittive), che le distingue da tutte le altre del mondo dell’“essere” (descrittive,
espressive). Nei moderni ordinamenti le regole giuridiche si distinguono perché sono inerenti a una
certa organizzazione sociale e sono finalizzate alla sua sopravvivenza e al suo sviluppo. Regolano
direttamente i rapporti fra i soggetti di un’organizzazione sociale, definiscono i confini dei rispettivi
interessi. Assicurano cioè la vita normale di quell’organizzazione. Servono a regolare le azioni
rilevanti per la vita di una specifica organizzazione sociale. Perciò, accanto ai doveri, tutelano anche
i diritti dei consociati.
Siamo in presenza di norme giuridiche allorché si instaura un rapporto fra duo o più soggetti, che
sulla base di una regola comune (diritto oggettivo), imposta da altri (eteronoma) o dalle parti
(autonoma), dà luogo a vincoli reciproci. Tali vincolideterminano in capo ad alcuni situazioni
giuridche favorevoli o di vantaggio (diritti in senso soggettivo), in capo ad altri determinano il sorgere
di corrispondenti situazioni giuridiche non favorevoli o di svantaggio (doveri o obblighi). Il diritto
non è monopolio di alcuna organizzazione, ma inerisce a qualunque organizzazione: questa è la teoria
della pluralità degli ordinamenti giuridici. Ci si occupa qui del diritto dello stato, una comunità
caratterizzata dalla politicità che non solo si regge su proprie regole, ma, anzi, aspira a stabilire regole,
divieti o vincoli per tutte le altre organizzazioni giuridiche con cui entra in vario mondo in rapporto.
Secondo i fautori delle teorie normative (Kelsen), l’ordinamento è costituito dal complesso delle
norme vigenti in un determinato spazio territoriale, visto come un qualcosa a sé, isolato dalla società
e da studiarsi secondo regole proprie (“dottrina pura del diritto”).
Secondo i fautori delle teorie istituzionaliste (Romano, Hauriou), un ordinamento è il complesso delle
norme che scaturiscono da una determinata organizzazione sociale. Le norme sono il prodotto di fatti
normativi intervenuti in un certo momento della storia. Per esempio il common law, dove dalla la
regolarità dei comportamenti prevalenti, accertati e verificati dalle corti di giustizia, scaturisce la gran
parte delle norme. Ma ciò vale anche per gli altri orginamenti, nei quali invece è prevalente il peso
delle norme scritte (civil law).
Per dirla con una formula sintetica, secondo le teorie normative, una società ha un ordinamento.
Secondo le teorie istituzionaliste, invece, una societò organizzata è un ordinamento. La prima
impostazione fa da base all’autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni sociali. Cioè, le
discipline giuridiche dovrebbero basarsi sul diritto positivo, o diritto posto: prescrizioni normative
riconosciute valide nell’ordinamento considerato, gli unici dati rilevabili con il metodo della scienza
giuridica. Ma qual è il fondamento su cui si regge un orginamento giuridico?
L’ordinamento giuridico è l’insieme di più elementi accomunati dal fatto di essere tutti espressione
di una determinata organizzazione sociale e coordinati fra loro secondo criteri sistematici.
Ogni ordinamento è un sistema, quindi si intende che presume se stesso come unitario (ha principio
fondante), necessariamente coerente (non ha contraddizioni tra norme) e completo (non ha vuoti
normativi). Il suo essere sistema è il prodotto sia di consapevole volontà del legislatore, sia
dell’attività degli interpreti. È ordinato attorno ad un progetto razionalmente posto (sistemi ideali) o
insito nel sistema stesso (sistemi reali). L’interprete del diritto deve presupporre che il diritto
costituisca un sistema, così contribuendo a far sé che lo divenfa effettivamente. Le varie norme non
sono solo parti di un tutto, ma un insieme di elementi, ciascuno con una prorpia funzione, coordinata
con la funzione degli altri. Quindi sono possibili interpretazioni letterali, così come interpretazione
logico-sistematiche, come anche analogiche. La dottrina moderna è solita distinguere disposizione da
norma. La prima è una mera formulazione linguistica, potenzialmente suscettibile di diverse
interpretazioni, che danno risultato a diverse norme. Quindi da un’unica disposizione si possono
ricavare due diversi significati, cioè due diverse norme.
Alla base dell’ordinamento vi è un progetto costituente che si può ritrovare consacrato in atti
costitutivi, statuti, tavole di fondazione e altri documenti consimili. Per l’ordinamento statale si parla
per lo più di costituzione. Può essere scritta o non scritta, e nel primo caso, rigida (richiede
procedimento di revisione aggravato) o flessibile (modificabile o derogabile con legge ordinaria).
Tutte le costituzioni hanno una forma di stato, un elenco dei diritti e dei doveri dei cittadini, un forma
di governo, un sistema di fonti del diritto. Ogni ordinamento statale ha un suo assetto costituzionale,
ma non c’è un solo tipo di costituzionalismo e di costituzioni. In alcuni casi, come il Regno Unito,
non esistono leggi costituzionali in senso formale, ma principi fondanti o norme sui pubblici poteri.
Ordinamenti statali che non hanno una costituzione ma possiedono un nucleo di norme che
costituiscono l’ordinamento costituzionale di quel paese. Si può quindi dire che ogni ordinamento
statale ha un proprio diritto costituzionale.
L’ordinamento costituzionale è il complesso delle norme fondamentali, scritte o non scritte, che
danno forma all’ordinamento giuridico e rappresentanto, per così dire, il codice genetico che
determina l’identità dell’ordinamento stesso, vale a dire il suo ordine costituzionale. Il diritto
costituzionale, per il tramite degli inviolabili “principi supremi dell’ordinamento”, ha la duplice
funzione di assicurare l’identità dell’ordinamento giuridico, nel suo complesso, e il suo ulteriore
sviluppo. È quindi vero, in sintesi che:
A. La costituzione come documento scritto non esaurisce affatto tutto ciò che attiene agli
elementi di fondo dell’ordinamento. Non comprende infatti leggi costituzionali, consuetudini
costituzionali, norme materilamente costituzionali (preleggi o leggi elettorali)
B. La costituzione contiene disposizioni che disciplinano, al contrario, aspetti che, per quanto
rilevanti, difficilmente potrebbero essere considerati tali da caratterizzare l’ordinamento
C. La costituzione può contenere norme non più effettivamente in vigore.
In breve: l’ordinamento costituzionale di un paese non si identifica con le sole norme formalmente
costituzionali e, viceversa, le norme di costituzione non esauriscono i contenuti di un ordinamento
costituzionale. Quindi si può avere revisione totale della costituzione senza che si verifichi
mutamento dell’ordine costituzionale.
Si può di conseguenza ancora fare una distinzione tra organi costituzionali e organi di rilevanza
costituzionale. Solo i primi concorrono a delineare il volto stesso dell’ordinamento costituzionale;
mentre i secondi, pur previsti dalla costituzione, non possono dirsi necessari. Il concetto di
ordinamento costituzionale aiuta anche a fini pratici:
a. Permette di meglio interpretare le norme costituzionali vigenti, tenendo conto di ciò che
caratterizza l’ordinamento nel suo complesso, al di là del documento scritto
b. Permette di individuare i limiti al potere di revisione costituzionale. Essendo il potere di
revisione non un potere costituente, ma costituito, non può contraddire le basi stesse della
propria legittimazione, contenute nel nucleo dell’ordinamento
c. Permette di stabilire se una carta costituzionale è in vigore oppure no. Se il divario tra
l’ordinamento costituzionale e il documento costituzionale è eccessivo, si deve dubitare che
il secondo sia ancora in vigore.
I normativisti tendono a identificare la costituzione con le norme espresse dal documento
costituzionale; gli istituzionalisti con la decisione politica che fonda l’ordinamento costituzionale.
Secondo i primi, dunque, la costituzione coincide con il contenuto del documento. Vedono nel diritto
un sistema di tipo piramidale che al vertice ha una norma suprema, norma generale sulla produzione
del diritto, in base alla quale, a cascata, si costruisce l’intero ordinamento. Norma fondamentale valida
perché è presupposta valida. Non è il prodotto arbitrario dell’immaginazione giuridica, ma
determinata dal principio di effettività. La costituzione kelseniana è quindi tautologica.
Gli istituzionalisti, tra cui Carl Schmitt, affermano invece che la vera costituzione è la “decisione
fondamentale” con cui il potere costituente determina, attorno a determinati valori e interessi, la forma
dell’“unità politica”. Si può anche applicare una distinzione tra costituzione in senso materiale e
costituzione in senso formale. La prima consiste ne “i fini e i valori su cui convergono le forze
politiche prevalenti”, su cui poggia la costituzione in senso formale, che ne è in qualche modo il
“precipitato”. La costituzione materiale è ciò che sostiene l’intero ordinamento. Attenzione: le forze
politiche prevalenti sono tutte quelle che condividono fini e valori fondamentali.
Se la disputa sul fondamento dell’ordinamento è di grande interesse teorico, dal punto di vista degli
operatori del diritto essa appare di minore rilevanza. È dunque preferibile limitarsi a distinguere tra
costituzione e ordinamento costituzionale. La prima è la corta costituzione, il secondo è il complesso
dei principi e delle norme (formalmente e materialmente) costituzionali legati insieme da un progetto
costituente che li percorre dando loro senso e capacità espansiva. Il diritto costituzionale costituisce
perciò il nucleo dell’ordinamento.
La distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, cioè tra ciò che è affidato all’autonomia dei privati
che regolano da soli i propri rapporti attraverso liberi contratti, e ciò che è per l’ordinamento così
essenziale da affidarlo al potere pubblico, poggia sulla maggiore o minore immediatezza del nesso
tra determinati rapporti e gli interessi che si vogliono tutelare. In ogni caso lo Stato non è del tutto
assente e disinteressato: si limita solo a definire il quadro generale all’interno del quale i rapporti
privatistici si sviluppano. Tutto è quindi “pubblico”, cioè che cambia è il grado di immediatezza del
collegamento con l’interesse generale, in un confine mobile.
Diritto pubblico – Lo Stato
Fra tutti gli ordinamenti giuridici costruiti nel corso della storia, ha assunto particolare rilievo, dal
XVI secolo in poi, lo stato. Alcuni ordinamenti territoriali si organizzano attorno a un princeps, un
feudatario che per forza militare, economica o strategica assume posizioni di preminenza rispetto ad
altri. Attraverso questo processo, che si svolge su più piani collegati fra loro, si unificano e
nazionalizzano i vari ordinamenti giuridici particolari; si rendono autonomi territori e istituzioni dal
patrimonio personale del principe; si formano una burocrazia e un esercito stabili.
Lo stato moderno è caratterizzato da più elementi, ma due sono quelli più importanti.
1. La politicità, che indica che l’ordinamento statale assume fra le proprie finalità la cura, almeno
potenzialmente, di tutti gli interessi generali che riguardano una determinata collettività
stanziata su un determinato territorio.
2. La sovranità, vale a dire la sua supremazione rispetto a ogni altro potere costituito al suo
interno e la sua indipendenza rispetto a poteri esterni. Ci possono infatti essere determinati
enti che possono essere politici ma non sovrani.
Uno stato può definirsi tale se riesce a conseguire, sopra un determinato territorio, il monopolio della
forza: se è in grado di agire tendenzialmente senza resistenza al proprio interno e senza interferenze
all’esterno. Ciò, in forma diretta grazie all’uso della forza legale, in forma indiretta ponendosi come
unico soggetto in grado di legittimare altri soggetti all’uso della forza.
Si può parlare quindi di una stato quando una popolazione, sottomettendosi a un potere politico, dà
vita a un ordinamento in grado di soddisfare i suoi interessi generali. Una popolazione che diviene
popolo, insieme di persone legate dal fatto di condividere tutte un’uguale cittadinanza, con
eguaglianza di diritti e doveri di fronte al governo sovrano cui si assoggettano. Devono anche essere
presenti tutti e tre questi elementi:
i. Popolo
ii. Territorio
iii. Governo sovrano
Caratteristice dell’ordinamento statale sono dunque la politicità e la sovranità, concetti legati tra loro:
non si possono infatti perseguire fini generali se non si dispone della forza e delle risorse che possano
rendere ciò effettivamente possibile, cioè se non si è sovrani. Collegato è il concetto di costituzione:
la sovranità è un potere non costituito ma costituente, e in essa trova legittimazione la costituzione
dello stato. solo gli stati sovrani possono darsi (possedere) una costituzione. Sono una comunità
politica. Nell’ordinamento italiano la sovranità è considerata appartenente al popolo, quindi si hanno
due aspetti fondamentali: il popolo è la fonte di legittimazione di ogni potere statale; il popolo, o
meglio, il corpo elettorale, è il titolare dei poteri sovrani.
Nel tempo l’esercizio del potere sovrano incontra limiti crescenti. Limiti di fatto, derivanti dallo
sviluppo delle tecnologie informatiche e dai processi di globalizzazione, che rendono difficile il
controllo. Limiti giuridici, derivanti dall’evoluzione dell’ordinamento internazionale.
Questo schema classico sembra contraddetto dallo stato federale. Si tratta di un ordinamento
complesso in cui la sovranità è distribuita a due livelli di governo, quello dello stato federeale e quello
degli stati federati, ciascuno con una propria costituzione. In realtà, il processo di unificazione dà vita
a un nuovo stato: vi è un solo popolo, un solo potere costituente, una sola constituzione, un solo stato.
Diverso il caso della confederazione di stati, che non dà vita a una nuova entità statale, ma a un’unione
fra stati indipendenti e sovrani, attraverso strutture comuni di cooperazione, disciplinata dal diritto
internazionale e priva di costituzione.
Le funzioni della comunità statale, quindi il modo come in concreto si atteggiano gli elementi della
politicità e sovranità, stanno alla base delle diverse dottrine dello stato, le quali si riflettono sulle
forme di stato succedutesi in epoca moderna.
a. Secondo il costituzionalismo di matrice liberale (Locke), esistono tre diritti fondamentali: alla
vita, alla libertà e alla proprietà.
Di conseguenza si ha anche il diritto di difendersi, e per farlo in modo più efficace gli uomini
trasferiscono per contratto tali diritto a un’autorità sovrana (dottrine contrattualistiche), con la
possibilità di revoca. Lo stato ha quindi compiti delimitati alla tutela dei diritti naturali dei cittadini,
nello sviluppo di una condizione positiva che deve solo essere migliorata. Altre teorie (Hobbes),
vedono nello stato di natura una condizione di grave conflitto, e per uscirne si delega al sovrano il
potere di disporre di se stessi, e lo stato non ha obblighi verso i sudditi.
b. Altri dottrine (Hegel), vedono lo stato come realtà spirituale, in cui la totalità precede le parti
e non è strumenti di tutela dei diritti.
Si tratta delle dottrine statolatre: lo stato non è la somma di volontà individuali ed è del tutto separato
dalla società. È il popolo che riceve identità dallo stato, non viceversa, e deve identificarsi con esso.
c. Uno stato così concepito si attribuisce una missione derivante da valori a loro volta pensati
come assoluti.
È lo stato etico, dove si ha un capo, un partito unico, basato su precise gerarchie e una ricomposizione
organicistica della società.
d. In alternativa (Marx), il principale fattore di civilizzazione non è lo stato, ma la società civile.
Non c’è valore dell’individui al di fori dei rapporti sociali, al di fuori della collocazione di classe. Lo
stato è solo una macchiana, uno strumento attraverso cui una classe esercita il proprio dominio sulle
altre.
Se le forme di governo riguardano il modo come si distribuisce il potere politico fra i vari organi dello
stato, le forme di stato riguardano il modo in cui si atteggia il rapporto fra i cittadini e il potere
politico, vale a dire il rapporto fra governanti e governati, nonché i fini ultimi che si pone
l’ordinamento. Quindi abbiamo:
i. Stato assoluto, che si caratterizza per la legittimazione del sovrano direttamente da Dio;
l’accentramento del potere in capo al sovrano; la rigida divisione in classi sociali e il
riconoscimento all’aristocrazia di una condizione particolare.
Dal suo superamento si arriva allo:
ii. Stato liberale, contrassegnato da una base sociale ristretta, poiché il diritto di voto è
riservato a coloro i quali possiedono un determinato censo o determinate capacità (stato
monoclasse).
Ma riconosce a tutti i cittadini i diritti di proprietà e di libertà, che vengono garantiti da regole di
diritto generali e astratte (stato di diritto)
iii. Stato liberaldemocratico, nasce dall’estenzione del suffragio ai ceti esclusi.
Ciò porta non solo al riconoscimento dei diritti politici a tutti i cittadini maggiorenni, ma favorisce
l’organizzazione dei cittadini in partiti politici e in sindacati al fine di meglio rappresentare e tutelare
i ceti più deboli (stato pluriclasse).
iv. Stato sociale, dopo le crisi del ’29, si arriva a un sempre più accentuato intervento dello
stato nell’economia e al riconoscimento giuridico anche di specifici diritti sociali.
Il fine dello stato è garantire importanti prestazioni sociali.
v. Stato costituzionale, dato che la disomogeneità dell base sociale degli ordinamenti
precedenti e la ricerca di forme di coesione e integrazione sociale meglio garantite
inducono a fissare in costituzioni rigide la tutela dei diritti civili, politici e sociali.
vi. Stato fascista, che si ispira ad una concezione autoritaria dello stato propria delle dottrine
statolatre
vii. Stato socialista, sul versante opposto, ispirato alla concezione delle lotta di classe
viii. Stato confessionale, ordinamenti che non accettano il principio della separazione della
sfera religiosa da quella civile.
Il potere statale si fonda su basi religiose e sulla correlativa attribuzione di efficacia giuridica ai
precetti religiosi.
Diritto pubblico – L’ordinamento internazionale
La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici pone un problema generale di rapporti tra diversi
ordinamenti giuridici. Rapporti che possono essere anche tra ordinamenti che parimenti rivendicano
la loro natura sovrana.
Il diritto internazionale è, per l’appunto, l’ordinamento della comunità degli stati. Sua caratteristica
specifica è quella di avere una base sociale costituita non da persone fisiche, da esseri umani, ma
esclusivamente da stati, cioè da entità collettive. Quindi non c’è un ente che si pone in posizione
sovraordinaria. Non ha un organo legislativo che produce norme che abbiano come destinatari tutti i
soggetti che ne fanno parte. Le norme di diritto internazionale generale sono di formazione
consuetudinaria e obbligano tutti i soggetti dell’ordinamento. Le norme di diritto internazionale
particolare nascono dai trattati e accordi fra stati. La protezione degli interessi dei soggetti
dell’ordinamento è in larga misura affidata all’istituto dell’autotutela.
Per quanto riguarda i rapporti tra ordinamento giuridico internazionale e ordinamento italiano, si
hanno due diverse posizioni possibili:
La concezione monista tende a ridurre a unità ordinamento internazionale e ordinamento statale,
naturalmente indicando quale dei due considera derivato rispetto all’altro, così che l’originario ha il
primato. La concezione dualista vede ordinamenti indipendenti e separati, ciascuno dei quali compie
automaticamente el proprie valutazioni giuridiche.
Sono diverse le modalità mediante le quali lo stato contrae obblighi di diritto internazionale. I trattati
richiedono, successivamente alla firma, la ratifica. Gli altri accordi no. La ratifica è l’istituto
giuridico mediante il quale un soggetto (in questo caso lo stato) fa propri gli effetti di un negozio (di
un accordo) concluso con terzi dal proprio rappresentante. È un atto del Presidente della Repubblica,
che in alcuni casi particolari deve essere autorizzato con legge del Parlamento (legge di
autorizzazione).
Lo Stato opera su due piani separati e distinti: come soggetto di diritto internazionale, una volta
ratificato un trattato, si obbliga nei confronti degli altri stati contraenti a introdurre una certa
normativa interna, adattando così il prorpio ordinamento; come soggetto di diritto pubblico, sul piano
interno, resta tuttavia padrone di fare ciò, di conformarsi oppure no. L’adattamento può avere luogo
in forme diverse. Le prime due si applicano agli obblighi internazionali di origine pattizia, la terza
solo agli obblighi di origine consuetudinaria.
i. Il ricorso a procedimenti ordinaria di produzione giuridica. Cioè una legge che contiene
le modifiche dell’ordinamento interno funzionali all’adattamento.
ii. Il ricorso a un procedimento speciale. Cioè una legge che dispone l’adattamento
dell’ordinamento interno ai vincoli internazionali attraverso l’ordine di esecuzione. Per il
contenuto quindi si rinvia al trattato stesso. Si tratta sempre dell’ambito di fonti di rango
legislativo primario.
iii. Meccanismo peculiare in base al quale non vi è necessità di alcun apposito atto statale per
adattare l’ordinamento interno alle norme internazionali, in quanto l’adattamento è
previsto in forma automatica. Quindi è immediato, diretto, completo e continuo.
Necessario è che l’ordinamento interno lo preveda.
Quali sono le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, cioè dall’intero ordinamento
giuridico internazionale e non dai soli firmatari di questo o quell’accordo? Abbiamo per esempio
l’uguale sovranità degli stati, l’estensione delle acque territoriali e la piattaforma continentale,
l’immunità degli agenti diplomatici. Uno sopra tutti è la protezioni dei diritti umani, sulla base di
concezioni fondate sull’idea che ciascun essere umano in quanto tale sia titolare di un patrimonio di
diritti che gli stati hanno il dovere giuridico di tutelare. Sotto il profilo sostanziale, il diritto che
riguarda i rapporti fra stati tende a far emergere sempre più la soggettività dei cittadini e dei popoli.
Si hanno per esempio la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), o i Patti internazionali
relativi ai diritti civili e politici e ai diritti economici sociali e culturali (1966). Sotto il profilo
processuale, sono previste procedure destinate ad assicurare l’osservanza da parte segli stati dei
precetti riguardanti la tutela dei diritti umani sopra richiamati. Si tratta dei tribunali penali
internazionali. O la Corte penale internazionale, un tribunale permanente che esercita la sua
giurisdizione sulle persone fisiche che si siano macchiate dei più gravi crimini di portata
internazionale: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. La sua giurisdizione è
complementare alle componenti giurisdizionali nazionali (cioè quando non vogliono o non possono
agire). C’è anche la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Se della soggettività di diritto internazionale delle singole persone ancora si discute, è invece
considerato pacifico che di essa dispongano le organizzazioni internazionali, che raccolgono più stati
i quali si sono dati degli scopi comuni. Come l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che rilancia il
progetto fallito della Società delle Nazioni. È composta da: Assemblea generale; Consiglio di
sicurezza (15 membri, di cui 5 permanenti, che godono di una sorta di potere di veto); il Segretario
generale (l’organo esecutivo); il Consiglio economico e sociale (promuove e coordina iniziative
economiche e sociali dell’Onu); la Corte internazionale di giustizia (funzioni di arbitrato fra gli stati
membri e di consulenza degli organi Onu). Alla base dell’Onu c’è l’idea che l’uso della forza sia
centralizzato, cioè affidato al solo Consiglio di sicurezza: i singoli stati non possono farvi ricorso,
salvo il caso di attacco armato dal quale difendersi o dal quale difendere uno stato aggredito e a solo
titolo temporaneo. L’Italia fu ammessa all’Onu il 14 dicembre 1955, fatto coerente con il dettato
costituzionale: guerra ripudiata (art. 11) e promozione delle organizzazioni internazionali rivolte allo
scopo di assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni.
Esistono organizzazioni internazionali regionali, gruppi di stati uniti allo scopo del mantenimento
della pace in determinate aree sotto forma di alleanza nei confronti di stati non membri. Lo è
l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico. Il principio cardine della Nato è l’obbligo per
ciascun paese alleato di prestare assistenza in caso di attacco contro uno stato membro.
Altra è il Consiglio d’Europa, con la finalità di promuovere e difendere i principi democratici, dello
stato di diritto e del rispetto dei diritti dell’uomo, tutelati attraverso la già citata Cedu.
Oppure l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Ocse).
Altra cosa ancora il G7, G8 e G20, puramente una serie di periodici incontri.
Diritto pubblico – L’ordinamento dell’Unione europea
L’Unione europea nacque il 1° novembre 1993 a seguito dell’entrata in vigore del Trattato
sull’Unione europea (Maastricht). È al tempo stesso un’unione di stati e un’unione di popoli. Il
processo di unione:
Trattato di Parigi del 1951, che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca).
Infatti, dopo la Seconda guerra mondiale era nata una strategia politica volta a dare basi solide alla
riconciliazione tra Francia e Germania. Quindi mettere in comune le principali risorse dell’epoca.
Tra gli stessi Paesi della Ceca si forma l’Euratom e la Comunità economia europea (Cee), in seguito
al Trattato di Roma del 1957. Si punta ad un’area di libero scambio con tariffe doganali esterne
comuni, attuare una politica comune per agricoltura e trasporti, istituire un Fondo sociale europeo e
una Banca europea degli investimenti. Si prevede anche che le istituzioni della Comunità fossero
dotate di un potere normativo di tipo legislativo. Le stesse istituzioni assolvevano a funzioni analoghe
di tre diversi trattati. Nel 1965 si arriva alla totale fusione degli organi istituzionali.
Col tempo, la Comunità economica si occupa di sempre più numerose materie. Dal 1970 la Comunità
si è dotata di un sistema di risorse proprie che ne garantiscono l’autonomia finanziaria. Dal 1979 il
Parlamento europeo è direttamente eletto, sono aumentate le decisioni che vengono assunte dal
Consiglio a maggioranza qualificata. Nasce nel 1974 l’organo di indirizzo politico, il Consiglio
europeo.
Nel 1986 venne firmato l’Atto unico europeo, che fissò l’obiettivo del mercato unico interno, rafforzò
il ruolo del Parlamento europeo, ma anche la capacità del Consiglio di decidere. Viene introdotta la
cooperazione in politica esterna.
Nel 1992 fu firmato il Trattato di Maastricht che modifica il Trattato della Cee (ora Comunità europea,
Tce), ponendo le basi della moneta unica; ma aggiunge anche il Trattato sull’Unione europea (Tue).
Quest ultimo dà via a una struttura organizzativa peculiare, definita a “tre pilastri”.
a. Preesistenti tre Comunità (Ce, Ceca, Euratom), disciplinate dai rispettivi trattati
b. Politica estera e di sicurezza comune
c. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale
Per il momento, dentro l’Unione, tutto ciò che era ricompreso nel primo pilastro è gestito secondo le
norme del diritto comunitario. Invece, il resto sarebbe stato affidato alla cooperazione
intergovernativa tra stati, con il coinvolgimento degli organi comunitari, secondo le regole del diritto
internazionale.
Questa struttura viene superata dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007. Nasce un unico soggetto
dotato di personalità giuridica internazionale, che è appunto l’Unione europea. Il Tue viene
modificato ma mantiene la sua denominazione. Il Tce invece diventa Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (Tfue). Scomparsa la comunità, risulta superata l’espressione “diritto
comunitario”, e si deve propriamente parlare di diritto dell’Unione europea.
Nel dicembre 2001 si inizia a prendere atto della necessità di adeguare assetto organizzativo e
funzionamento dell’Ue al notevole allargamento di essa già deciso. Rendere le istituzioni più
efficienti e trasparenti, di semplificare e avvicinarle ai cittadini. Si ipotizza che la riforma dei trattati
avrebbe potuto portare ad un unico testo costituzionale dell’Unione. Quindi si costituisce un organo
speciale con il compito di predisporre una proposta al riguardo: la Convenzione sul futuro dell’Unione
europea, con larga rappresentatività. Il suo prodotto è il Progetto di Trattato che istituisce una
Costituzione per l’Europa. Firmato nel 2005, viene ratificato da 22 stati su 25, tranne i due fondatori
Francia e Paesi Bassi. Quindi la Costituzione per l’Europa deve essere abbandonata. Si percorre a
questo punto la via tradizionale: una conferenza intergovernativa che sfocia nella firma del Trattato
di Lisbona, il cui processo di ratifica si conclude nel 2009.
Il successivo assetto dell’Unione è molto simile a quello delineato dall’abbandonato trattato
costituzionale, rinunciando però a tutta la simbologia “federalista” da cui esso era caratterizzato. Per
esempio il Trattato di Lisbona modifica e non abroga i trattati preesistenti. Mentre il trattato
costituzionale proclamava il primato del diritto dell’Unione, cioè la prevalenza delle norme Ue su
quelle nazionali; ora tutto ciò viene abbandonato. Quindi la sostanza del trattato costituzionale resta
quasi integra, ma ne è cambiata la forma.
L’ordinamento dell’Ue si fonda prima di tutto sui trattati, che costituiscono nella forma vigente le
forme originarie del diritto dell’Unione. Il complesso di norme adottate sulla base di essi da parte
dell’istituzioni dell’Ue sono le fonti derivate e devono essere compatibili coi trattati sia sottoil profilo
formale che sotto quello sostanziale. Insieme costituiscono il sistema della fonti dell’Unione.
I trattati sono il Tue e il Tfue. In essi si ritrovano i valori, obiettivi e principi dell’Unione, tra cui i
principali il rispetto della dignità umana; la pace e il benessere tra popoli; il rispetto dell’eguaglianza
degli stati membri e della loro identità nazionale; il riconoscimento dei diritti, libertà e principi sanciti
nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione; il buon funzionamento dell’Unione e delle sue
istituzioni; il principi di attribuzione, sussidiarietà e di proporzionalità.
Il principio di attribuzione riguarda il riparto di competenze fra Unione e stati membri. L’Union
eesercita solo le competenze che gli stati hanno a essa attribuito coi trattati, mentre tutto il resto resta
agli stati. si tratta di competenze esclusive, competenze concorrenti (agli Stati solo se l’Unione non
si è impegnata al riguardo), competenze di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione
degli stati.
L’Unione esercita le competenze che le spettano applicando i principi di sussidiarietà e di
proporzionalità. Il primo significa che l’Unione interviene solo se e in quanto i suoi obiettivi non
possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli stati e possono essere meglio conseguiti
dall’Unione. Il secondo significa che l’azione dell’Unione non deve andare al di là di quanto
necessario al conseguimento dell’obiettivo. Spetta ai parlamenti nazionali il compito di vigilare sul
rispetto del principio di sussidiarietà.
La cittadinanza europea non sostituisce, ma si aggiunge a quella nazionale ed è riconosciuta di diritto
a tutti i cittadini di uno stato membro. Conferisce il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel
territorio degli stati membri; l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni comunali ed europee nello
stato in cui si risiede; il diritto alla tutela da parte delle autorità diplomatiche di un qualsiasi stato
membro quando quello di cui è cittadino non ha rappresentanza. Inoltre il diritto di iniziativa, cioè la
richiesta alla Commissione, da parte di almeno un milione di cittadini che appartengano a una
pluralità di stati, perché essa presenti una “proposta appropriata” su una materia per la quale è
competente l’Unione.
Bisogna aggiungere la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000), che ha stesso valore
giuridico dei trattati, abbandonando però la distinzione tra diritti civili e politici da una parte, e diritti
economici e sociali dall’altra. Li elenca invece raggruppati secondo questa successione: diritti
attinenti la dignità della persona; le libertà; l’eguaglianza; la solidarietà; la cittadinanza; la giustizia.
Tutti i diritti sono riconosciuti a ogni persona senza distinzione alcuna.
Ciò di cui l’Unione si occupa è disciplinato nel Tfue, cioè le politiche dell’Unione. Fa eccezione la
competenza in materia di politica estera e di sicurezza comune (Pesc), che è soggetta alle norme e
alle procedure specificate nel Tue. Oggi sono ricomprese alcune competenze nuove (eg. energia,
turismo) o che in precedenza non erano affidate tanto alle sitituzioni comunitarie quanto alla
cooperazione intergovernativa. Fra queste ultime la cooperazione giudiziaria in materia penale e la
cooperazione di polizia, cioè tutto ciò che riguarda la sicurezza interna attraverso il riconoscimento
reciproco delle decisioni giudiziarie, il ravvicinamento delle norme penali. È inoltre prevista
l’istituzione di una procura europea, per perseguire gli autori di reali lesivi degli interessi finanziari
dell’Unione ed eventualmente di altri reati.
I trattati prevedono però la possibilità di instaurare una cooperazione rafforzata fra gli stati membri,
con la partecipazione di non meno di nove stati, se il Consiglio l’autorizza con decisione
all’unanimità: si tratta dello strumento che serve a permettere a una parte degli stati forme di
integrazione maggiori rispetto agli altri in determinati settori di non esclusiva competenza
dell’Unione.
Per quanto riguarda la revisione dei trattati, il Tue prevede una procedura ordinaria e una procedura
semplificata:
a. La procedura ordinaria attribuisce a qualsiasi stato, al Parlamento europeo e alla Commissione
l’iniziativa, da presentare al Consiglio che a sua volta la trasmette al Consiglio europeo.
Questo si pronuncia a maggioranza semplice e convoca una convenzione, formata da
rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei capi di stato o di governo, dal Parlamento europeo
e della Commissione. La convenzione non vota, ma adotta per consenso una raccomandazione
che sottopone a una conferenza dei rappresentnati dei governi degli stati membri. Questi
pronuncia come qualsiasi conferenza internazionale (all’unanimità). Le modifiche
eventualmente decise entrano in vigore solo dopo essere state ratificate da tutti gli stati
membri.
b. Se le modifiche proposte riguardano esclusivamente la parte terza del Tfue (politiche
dell’Unione) è possibile una procedura semplificata che evita sia la convenzione sia la
conferenza intergovernativa, ma il Consiglio europeo deve esprimersi all’unanimità e gli stati
devono comunque tutti approvare la revisione.
Gli strumenti giuridici che le istituzioni dell’Unione utilizzano per esercitare le loro competenze sono
disciplinati nel titolo I della parte VI del Tfue. Sono gli atti giuridici dell’Unione, cioè che nel suo
complesso costituisce il diritto derivato. Sono:
i. Regolamenti
Si tratta di vere e proprie “leggi”, atti normativi di portata generale obbligatori in tutti i loro elementi,
direttamente applicabili in tutti gli stati membri. Non vi è alcuna necessità di recepimento
ii. Direttive
Atti che vincolano uno o più o, nella maggior parte dei casi, tutti gli stati membri in vista di un
risultato che essi devono raggiungere, entro un certo termine, facendo ricorso agli strumenti giuridici
di diritto interno più opportuni e adatti allo scopo. Lo stato assume un obbligo di adempiere in modo
analogo a quanto accade per l’adattamento agli obblighi di diritti internazionale. La Corte di giustizia
ha stabilito che in determinate circostanze sono direttamente efficaci (autoapplicative)
iii. Decisioni
Atti obbligatori in tutti i loro elementi, ma solo per i destinatari se da esse designati. Possono avere o
non avere portata generale, e nel secondo caso disciplinano casi concreti e sono rivolte a destinatari
specificamente individuati.
iv. Raccomandazioni e pareri
Atti non vincolanti che hanno valenza di indirizzo politico e non fanno sorgere diritti né obblighi nei
destinatari.
Altri distinzione che può essere fatta è tra atti legislativi (tutti quelli adottati mediante procedura
legislativa); atti delegati (di portata generale che un atto legislativo può delegare la Commissione ad
adottare per integrare o modificare propri elementi non essenziali) e atti di esecuzione (previsti da un
atto legislatvio quando la necessità di condizioni esecutive uniformi suggerisce che non siano gli stati
ad adottare tutte le misure necessarie per l’attuazione degli atti dell’Unione, ma sia la Commissione).
Esistono anche fonti non scritte, cioè i principi generali del diritto dell’Unione europea, fra i quali
emergono i diritti fondamentali garantiti dalla Cedu. Si possono anche concludere accordi
internazionali con paesi terzi o organizzazioni internazionali.
L’Italia è parte, con un ruolo che è stato sempre propulsivo, dell’ordinamento dell’Unione europea:
come tale ha assunto una serie di obblighi, impegnandosi ad adottare “ogni misura di carattere
generale e particolare” per assicurarne l’esecuzione. Gli obblighi di cui sopra sono specificati nei
trattati tante volte richiamati, sottoscritti e ratificati dall’Italia secondo il procedimento dell’arti. 80
della Costituzione, cioè con la forma giuridica della legge ordinaria. I trattati e la giurisprudenza della
Corte di giustizia stabiliscono che non solo lo Stato, ma tutte le persone fisiche e giuridiche sono
dirette destinatarie del diritto dell’Unione, che determina nei loro confronti situazioni giuridiche di
vantaggio (diritti) e di svantaggio (doveri). Negli ambiti riguardo ai quali lo Stato ha rinunciato alle
sue competenze a favore di quelle dell’Unione, la disciplina dell’Unione prevale sul diritto interno.
Ma quale natura si deve attribuire all’ordinamento dell’Unione europea? I trattati sono atti di diritto
internazionale di durata illimitata. Il Trattato costituisce la carta costituzionale di una comunità di
diritto, e come tale essa tende a interpretarlo. I trattati danno vita a un complesso diritto derivato,
sicchè l’ordinamento dell’Unione possiede autonomi meccanismi per la produzione di norme. Esiste
una cittadinanza europea, che ha contenuto relativamente limitato e integrativo. Si sta lentamente
sviluppando un sistema partitico europeo, disciplinato da norme dell’Unione relative allo statuto e al
finanziamento, che hanno il preciso fine di far diventare le elezioni al Parlmento europeo una
competizione fra partiti europei e non nazionali. Gli organi legislativi dell’Unione, da una parte
rappresentanto i governi degli stati, dall’altra i cittadini e i popoli dell’Unione. Vi sono organi che
hanno l’obbligo giuridico di agire nel solo interesse dell’unione. Importanti ambiti decisionali sono
tuttora soggetti a decisioni prese all’unanimità, ma tutto il resto è soggetto a decisioni prese a
maggioranza qualificata, che è calcolata non solo sulla base del numero degli stati, ma anche sulla
base del numero di cittadini che rappresentano (doppia maggioranza). L’Unione gode di autonomia
finanziaria, cioè il suo bilancio è finanziato integralmente tramite risorse proprie. È prevista la
possibilità della sospesione dei diritti di uno stato membro in caso di violazione dei valori
fondamentali dell’Unione. È aperta l’adesione di altri stati europei, purchè rispettosi dei suoi stessi
valori, ed è regolato anche il recesso.
Sin dai primi anni di vita delle Comunità europee si era parlato di esse come comunità sovranazionali,
in una dimensione del diritto pubblico a cavallo fra diritto interno e internazionale. Di fronte alla
grande evoluzione dell’integrazione europea, si è parlato di ordinamento pre-federativo, con
riferimento al suo carattere di ordinamento in trasformazione. Più di recente si è parlato di federazione
di stati nazione, con cui si tenta di conciliare sia gli sviluppi in senso federale sia la difesa delle
identità nazionali. In ogni caso, l’Unione governe l’insieme di un territorio che non è suo, non ha una
competenza delle competenze (principio di attribuzione), non è dotata di alcun apparato in grado di
esercitare un potere coercitivo sugli stati e anzi per l’esercizio del suo potere esecutivo deve passare
per il tramite necessario dell’apparato e delle autorità degli stati. L’insieme dei suoi cittadini non può
considerarsi un unico popolo, quindi si mette in dubbio che l’Unione costituisca già oggi una vera e
propria comunità politica.
Diritto pubblico – Le fonti del diritto
Ciascun ordinamento giuridico stabilisce le regole affinchè determinate norme possano essere
riconosciute come appartenenti all’ordinamento stesso. Si chiamano fonti del diritto i fatti o gli atti
che l’ordinamento giuridico abilita a produrre norme giuridiche. Requisiti delle norme giuridiche
sono, di regola, la generalità (essere cioè riferite a una pluralità indistinta di soggetti) e l’astrattezza
(il prevedere una regola ripetibile nel tempo a prescindere dal caso concreto).
Chiamiamo fonti di produzione del diritto quei fatti o atti ai quali l’ordinamento attribuisce la capacità
di produrre imperativi che esso riconosce come propri. Chiamiamo fatti sulla produzione quelle
norme che disciplinano i modi di produzione del diritto oggettivo, individuando i soggetti titolari di
potere normativo, i procedimenti di formazione, gli atti prodotti. Nell’ordinamento italiano, sono fotni
di produzione gli atti normativi posti nel rispetto delle norme sulla produzione dell’ordinamento
italiano.
Quando l’ordinamento riconosce direttamente al corpo sociale la capacità di produrre norme in via,
per così dire, autonoma, seza che vi provvedano istituzioni a ciò espressamente deputate, e dunque
senza che siano seguite procedure particolari né che le norme stesse siano frutto di una ben
individuabile ed espressa volotà, si parla di fonti fatto, comportamenti umani assunti come fatti
oggettivi. Quando la norma è prodotta da un soggetto istituzionale portatore di una precisa volontà e
nel rispetto delle procedure previste dalle fonti sulla produzione, si parla di fonti atto, dove ciò che
conta è la volontà del soggetto istituzionale espressa secondo un procedimento di produzione del
diritto prestabilito. Si hanno anche le fonti di cognizione, ossia atti che non hanno natura normativa,
ma svolgono unicamente la funzione di far conoscere il diritto oggettivo.
Con riferimento alle sole fonti, l’ordinamento prevede la loro pubblicazione in forma ufficiale,
l’applicazione del principio iura novit curia e quello del ignorantia legis non excusat.
Nello stato liberale ottocentesco, i processi di produzione normativa spettavano ai due soggetti titolari
del potere sovrano, il re e il parlamento. Fonte primaria era la legge del parlamento, mentre al governo
del re era riversato un potere normativo più limitato, in forma di regolamento, cioè una fonte
secondaria. L’avvento dello stato liberaldemocratico coincide con la costituzione rigida quale atto
supremo dell’ordinamento giuridico, superiore a ogni altra fonte, in primis alla legge ordinaria. Si
crea così un ordine gerarchico tra Costituzione, leggi costituzionali, leggi ordinarie e atti equiparati,
regolamenti dell’esecutivo. Si individuano processi di produzione del diritto a competenza riservata,
attribuendo a soggetti determinati, in specifici ambiti, il potere normativo. Ciò si verifica in ragione
del pluralismo istituzionale, dell’apertura all’ordinamento internazionale, del pluralismo sociale.
La Costituzione, oltre a essere essa stessa una fonte del diritto, è la massima fonte sulle fonti, nel
senso che essa legittima tutti i processi di produzione del diritto. Individua le fonti dle diritto e
disciplina i modi di produzione. Non stabilisce direttamente tutti i processi di produzione del diritto,
ma solo quelli che permettono di produrre norme di rango costituzionale e norme di rango primario.
Per quanto riguarda gli atti primari, il sistema delle fonti del diritto è un sistema chiuso. Ciò implica
che: non sono configurabili atti fonte primari al di là di quelli espressamente previsti dalla
Costituzione. La Costituzione si limita a stabilire la disciplina essenziale per quanto riguarda la
disciplina di formazione dei rispettivi atti, all’interno della quale possono essere fissate regole
ulteriori. Norme sulla produzioen sono contenute anche in altri atti fonte, che hanno funzione
integrativa. Inoltre, ciascun atto normativo non può disporre di una forza amggiore di quella che la
Costituzione a esso attribuisce.
Agli atti fonte primari va riconosciuta forza di legge, nel prevedere la competenza delal Corte
costituzionale a giudicare della legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge.
Ma non facendo riferimento al contenuto di ciascun atto, besì alla sua forma. La forza o efficacia
formale di un atto fonte comprende due profili: profilo attivo, cioè la capacità di innovare al diritto
oggettivo subordinatamente alla Costituzione intesa come fonte suprema, abrogando o modificando
atti fonte equiparati o subordinati. Profilo passivo, cioè la capacità di resistere all’abrogazione o
modifica da parte di atti fonte che non siano dotati della medesima forza, in quanto espressione del
medesimo processo di produzione normativa.
Il concetto di forza di legge, implicando che a una certa forma corrisponda una certa forza attiva e
passiva, presuppone che il sistema delle fonti sia ordinato gerarchicamente, di modo che l’atto
gerarchicamente superiore prevalga sull’atto gerarchicamente inferiore.
Per tutto il resto, ossia per gli atti secondari, il sistema delle fonti del diritto è invece un sistema
aperto. L’individuazione degli atti fonte secondari è lasciata alla disponibilità dei soggetti titolari di
potere normativo primario, sia pure nel rispetto dei limiti costituzionali, tra cui soprattutto il principio
di legalità, in base la quale tutti gli atti secondari devono essere deliberati sulla base di una previa
norma di legge.
Ogni ordinamento è un sistema. La pluralità delle fonti del diritto richiede che siano predeterminati i
criteri attraverso i quali l’ordinamento possa mantenere le caratteristiche di unità, coerenza e
completezza. Unità significa che tutte le norme possono farsi risalire, in ultimo, al potere costituente.
Coerenza significa che l’ordinamento, in quanto sistema, non tollera contraddizioni tra le parti che lo
compongono. Cioè antinomie, contrasti tra nome che conducono al fatto che l’osservanza dell’una
comporta necessariamente l’inosservanza dell’altra. Completezza significa assenza di lacune o vuoti
normativi, ossia casi non previsti dal diritto positivo.
I criteri per ordinare le norme giuridiche prodotto dalle fonti del diritto, e per risolvere i contrasti tra
norme, si traggono dalla Costituzione e da alcune disposizioni delle preleggi al codice civile. La
risoluzione delle antinomie è un’operazione essenzialmente pratica, essendo svolta non tanto in sede
di produzion del diritto, quanto in sede di sua appicazione, a opera dell’interprete.
a. Il criterio cronologico
Regola la successione degli atti normativi nel tempo in caso di contrasto tra norme stabilite da fonti
aventi il medesimo rango gerarchico e la medesima competenza, ossia fonti equiparate. In questo
caso, prevale e deve essere applicata la norma posta successivamente nel tempo (lex posterior derogat
priori). Si tratta di abrogazione. Gli atti normativi entrano in vigore e iniziano a produrre la propria
efficacia, diventando obbligatori per tutti e suscettibili di applicazione in concreto. Valgono di norma
solo per il futuro, non hanno cioè, di regola, efficacia retroattiva. Il divieto di efficacia retroattiva è
derogabile secondo lo stesso criterio cronologico, a dire il vero. La retroattività della legge non è però
mai assoluta, riguardando solo i rapporti pendenti e non quelli esauriti. Il limite alla retroattività si
giustifica con l’esigenza di garantire i diritti quesiti, cioè le situazione che non possono essere messe
in discussione da una legge successiva, e di garantire perciò la certezza del diritto. Il divieto di
retroattività è assoluto e inderogabile per le leggi in materia penale, salvo che per le leggi più
favorevoli al reo.
Gli atti normativi dunque, cessano di essere efficaci a seguito dell’abrogazione da parte di successivi
atti equiparati. L’effetto abrogativo non elimina la norma precedente, bersì circoscrive nel tempo la
sua efficacia, limitandola ai fatti sorti dalla data di entrata in vigore a quella della sua abrogazione.
Distinta è la deroga, quando si mantiene una disciplina, ma se ne circoscrive l’efficacia nel tempo,
nello spazio e nei destinatari. L’abrogazione può essere di tre tipi:
Espressa, cioè disposta direttamente dal legislatore quando nel testo di una legge vengono indicate le
disposizioni preesistenti specificamente abrogate.
Per incompatibilità (tacita), cioè non disposta dal legislatore, ma accertata per via interpretativa
quando l’interpete rileva il contrasto tra due norme dal contenuto incompatibile.
Per nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da una legge anteriore, per cui la nuova
disciplina si sostituisce alla precedente
b. Il criterio gerarchico
Quando l’antinomia concerne norme poste da fonti non equiparate, non si può fare ricorso al criterio
cronologico, ma si applica quello gerarchico: il conflitto fra norme aventi una diversa posizione
gerarchica va risolto nel senso che prevale la norma posta dalla fonte superiore o sovraordinata. La
norma sottordinata non si considera abrogata, ma è invalida, viziata per non aver rispettato l’ordine
gerarchico della fonti. Come tale deve essere eliminata dall’ordinamento giuridico mediante
l’annullamento a opera dei competenti organi giurisdizionali. L’invalidità determina l’eliminazione
dall’ordinamento dell’atto e la caducazione di ogni sua efficacia, non solo quella pro futuro, ma anche
quella prodotta nel passato: non solo ex nunc, ma anche ex tunc (efficacia retroattiva)
c. Il criterio dell competenza
Quando le fonti sono ordinate dalla Costituzione secondo differente competenza, riferita o alla
dimensione territoriale nell’ambito della quale l’atto fonte è destinato a operare, o alla materia ovvero
al particolare oggetto disciplinato. In questi casi opera il criterio di competenza e le antinomie devono
essere risolte dando applicazione alla norma posta dalla fonte competente a disciplinare la fattispecie
concreta. È un rapporto tra norma valida e invalida, dove la seconda deve essere eliminata
dall’ordinamento mediante annullamento.
L’applicazione del diritto presuppone un’attività interpretativa, che partendo dal testo degli atti
normativi, mira alla ricostruzione del loro significato. I criteri che regolano l’interpetazione del diritto
sono quelli indicati dall’art. 12 delle preleggi.
i. Interpretazione letterale/testuale; secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse
ii. Interpretazione teleologica; secondo il fine o l’intenzione del legislatore, nel doppio
significato di scopo soggettivo perseuito dal legislatore al tempo in chi ha posto una
determinata disciplina, scopo oggettivo ricavato dal tenore dell’atto normativo
iii. Interpretazione logico-sistematica; secondo la connessione tra le diverse disposizioni
all’interno dell’atto normativo considerato, collocate nel contesto dell’ordinamento
complessivo
Si può anche far riferimento all’interpretazione analogica come rimedio per colmare lacuno o vuoti
normativi rilevanti che richiedono una soluzione giuridica. Lo strumento dell’analogia consiste
nell’applicare a un caso non previsto una disciplina prevista per casi simili. Quando la lacuna può
essere colmata rinviando alla disciplina dettata per un caso simile o per materie analoghe, si ha la
analogia legis. Quando invece mancano anche norme che regolano casi simili, la lacuna può essere
colmata facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento giuridico, ricavabili per via
interpretativa dal complesso delle norme giuridiche vigenti, e si ha analogia iuris.
L’art. 14 delle preleggi stabilisce il divieto di analogia per le leggi penali e per le leggi speciali. Per
le disposizioni della Costituzione che prevedono diritti fondamentali vale il criterio di stretta
interpretazione: l’interprete non può attribuire alle disposizioni costituzionali un significato in alcun
modo restrittivo o lesivo dei diritti fondamentali da esse previsti (favor libertatis).
Dall’attività di interpretazione vista fino a questo punto va nettamente tenuta distinta l’interpretazione
autentica, ossia l’interpretazione effettuata con legge la legislatore stesso, con riferimento a un
precedente testo legislativo di dubbio significato. Queste sono naturalmente leggi retroattive, dato
che il significato stabilito dal legislatore riguarda disposizioni già in vigore: dal momento dell’netrata
in vigore della legge di interpretazione autentica, l’interprete qualsiasia deve applicare la legge
secondo il senso prescritto dal legislatore. Teoria è quindi che l’interpretazione autentica non sia
interpretazione del diritto ma produzione di nuovo diritto. La Corte costituzionale propende invece
per la natura solo interpretativa di queste leggi.
La Costituzione e le fonti costituzionali
La Costituzione è l’atto supremo dell’ordinamento in quanto posta dal potere costituente: di fronte
alla Costituzione, allora, tutti gli altri atti fonte sono subordinati in quanto prodotti da poteri costituiti,
ossia previsti e disciplinati dalla Costituzione stessa. Le fonti di rango costituzionale sono di due tipi,
non si differenziano per il procedimento di formazione ma per il contenuto:
a. Leggi di revisione costituzionale: oggetto la modificazione, mediante emendamento, aggiunta
o soppressione, di parti del testo della Costituzione
b. Leggi costituzionali: sia quelle espressamente richiamate da singole disposizioni della
Costituzione, per intergrare la disciplina di determinate materie, sia quelle che, tenuto conto
dell’importanza della materia, il Parlamento decide di deliberare nelle forme dell’art.138.
Affiancano il testo della Costituzione, pur non facendone parte
Il procedimento di formazione di queste leggi è detto procedimento aggravato: la prima lettura si
svolge secondo le regole previste per qualunque procedimento legislativo. La seconda lettura, a
distanza non inferiore ai 3 mesi, richiede maggioranze qualificate. Se il progetto di legge
costituzionale viene approvato a maggioranza assoluta, viene pubblicato a scopo notiziale. Da questa
data decorrono 3 mesi entro cui un quinto dei componenti di una camera o cinque consigli regionali
o 500mila elettori possono richiedere che la legge approvata sia sottoposta a referendum
costituzionale. La legge costituzionale è promulgata solo se, nella consultazione popolare, è stata
approvata dalla maggioranza dei voti validi. Se invece il progetto è stato approvato a maggioranza
dei 2/3 dei componenti di ciascuna camera, non è consentito richiedere referendum, e la legge
costituzionale viene senz’altro promulgata e pubblicata.
Esistono limiti alla revisione costituzionale, che segnano il confine tra modificazioni della
Costituzione (legittime) e mutamento della Costituzione (illegittimo). L’unico limite espresso è
nell’art.139, cioè la forma repubblicana. Ci sono anche limiti impliciti, dipendenti dalle scelte
fondamentali consacrate nella Costituzione repubblicana, cioè i principi supremi dell’ordinamento
costituzionale, che danno identità all’ordinamento costituzionale, le cui modifiche darebbero luogo
non a revisione, ma appunto a mutamento costituzionale. Limite logico è lo stesso art.138: non si può
raggirare la garanzia della rigidità. Esiste un tipo di legge costituzionale rinforzata (art.132), per la
fusione di regioni, ovvero la creazione di una regione nuova.
Le fonti dell’Unione europea
Centrale è il fondamento costituzionale dell’assunzione da parte del nostro ordinamento degli
obblighi derivanti dal diritto dell’Ue, a cui va collegata la questione dei rapporti tra fonti dell’Unione
e fonti nazionali. Il dirtto dell’Unione europea si applica in parte direttamente (regolamenti), in parte
previo adeguamento dell’ordinamento interno (direttive); e lo si fa disapplicando (non applicando) il
diritto italiano eventualmente incompatibile. Ciò in forza del primato del diritto dell’Unione.
La nostra Costituzione prevede un sistema chiuso di fonti. In goni caso, la Corte costituzionale
interpreta che l’art.11 sarebbe sufficiente a consentire di stipulare trattati con cui ci si obbliga a
limitazioni di sovranità. Solo nel 2001 si ha una nuova formulazione dell’art.117, con un riferimento
a “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Gli unici limiti, o cosidedtti controlimiti, stabilit
dalla Corte costituzionale, sono quelli del rispetto dei principi supremi e dei diritti inviolabili della
Carta.
Il contrasto tra diritto dell’Ue e diritto interno viene risolto sulla base del principio di necessaria
applicazione del regolamento dell’Unione da parte del giudice comune, anche se in contrasto con
disposizioni legislative nazionali precedenti o successive. Ciò non implica che il diritto interno
eventualmente contrastante debba considerarsi come abrogato oppure invalido. Partendo dal
presupposto che l’ordinamento dell’Unione e quello italiano sono ordinamenti separati anche se
coordinati, la Corte costituzionale considera il diritto interno sempplicemente non applicabile. Gli atti
fonte interniu, così, vedono sospesa la propria efficacia formale finché in una certa materia permane
il regolamento dell’Ue. Tutto ciò vale per i regolamenti.
Per le direttive, dovendo essere recepite con atto normativo interno, avranno nel sistema delle fonti
la collocazione che è propria dell’atto di recepimento. La Costituzione riconosce alle regioni il potere
di attuare immediatamente le direttive. L’art.117 prevede un potere sostitutivo statale in caso di
inadempienza delle regioni.
La legge ordinaria dello Stato
La legge ordinaria dello Stato è fonte a competenza generale: può disciplinare qualsiasi oggetto fatto
salvo quanto è disciplinato direttamente dalla Costituzione stessa o da questa riservato a fonti diverse
dalla legge. Il Titolo V elenca espressamente sia materie di competenza “esclusiva” dello Stato, sia
materie di competenza “concorrente” tra Stato e regioni, lascinado tutte quelle non elencate alla
competenza residuale della legge regionale. La legge può essere definita come l’atto fonte abilitato a
produrre norme primarie e dotato di forza di legge. Alla legge la Costituzione affida importanti
materie mediante le riserve di legge: tale istituto designa i casi in cui disposizioni costituzionali
attribuiscono la disciplina di una determinata materia alla sola legge, sottraendola così alla
disponibilità di atti fonte a essa subordinati, tra cui soprattutto i regolamenti dell’esecutivo. Ciò è
contraddistinto da due aspetti: negativo, cioè il divieto di interventi da parte di atti diversi dalla legge;
positivo, l’obbligo per la legge di intervenire nella materia riservata, sicché la legge non può spogliarsi
di tale compito a favore di altri atti fonte.
Ci sono vari tipi di riserve di legge:
a. Riserve assolute; l’intera disciplina della materia è riservata alla legge, salvo solamente
regolamenti di stretta esecuzione
b. Riserve relative; alla legge spetta la disciplina essenziale o di principio della materia in modo
da circoscrivere adeguatamente la discrezionalità dell’esecutivo nel dettare, mediante
regolamento, la disciplina ulteriore di dettaglio
c. Riserve rinforzate; quando la Costituzione stabilisce che l’intervento legislativo debba
avvenire secondo certe procedure, oppure che esso debba avvere certi contenuti
costituzionalmente prestabiliti
Le leggi hanno come contenuto norme generali e astratte destinate ad alimentare, innovandolo,
l’ordinamento giuridico. Vi sono casi in cui si verifica una dissociazione tra la forma (la legge) e is
uoi contenuti. È il caso, ad esempio, delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati
internazionali, o la legge di bilancio (fino al 2012). Per questo genere di leggi (che non innovano) si
parla di leggi in senso (solo) formale. Frequente è anche il caso di atti la cui forma è la legge ma il
cui contenuto, anziché norme generali e astratte, sono veri e propri atti amministrativi. Il contenuto
nonn è il prevedere comportamenti da permettere o vietare, ma il provvedere immediatamente alla
cura di un determinato interesse. Sono le leggi provvedimento, la cui ammissibilità è stata
riconosciuta dalla Costituzione sulla base del presupposto che non esiste nel nostro ordinamento una
riserva di amministrazione a favore del governo, ma di queste deve essere comunque valutata la
legittimità costituzionale relativamente al loro specifico contenuto.
Leggi provvedimento devono ritenersi escluse in tutti i casi in cui la Costituzione richiede
specificamente leggi generali.
Atti normativi del governo equiparati a legge
La Costituzione, in deroga al principio di separazione dei poteri, attribuisce poteri normativi di rango
primario al governo, che può adottare decreti legislativi e decreti legge, che hanno la medesima forza
della legge ordinaria. La potestà primaria del governo non è però né autonoma né ordinaria, in quanto
la Costituzione richiede sempre l’intervento del Parlmaneto in funzione di garanzia del legittimo
esercizio del potere governativo. Il procedimento di delegazione legislativa è un procedimento duale
di produzione del diritto.
Decreti legislativi (fig. pag. 103)
La legge di delegazione ha la funzione di conferire al governo il potere di adottare atti aventi forza di
legge. Essa deve contenere l’individuazione dell’oggetto della delega chiaramente definito, stabilire
i principi (norme generali che regolano la materia) e i criteri direttivi (regole procedurali per
l’esercizio in concreto del potere normativo delegato), indicare il termine entro il quale la delega può
(non deve) essere esercitata.
Il decreto legislativo è l’atto che il governo adotta in attuazione della legge di delegazione, deliberato
dal Consiglio dei ministri ed emanato dal presidente della Repubblica. Prima di esercitare la delega,
il governo deve acquisire il parere delle competenti commissioni parlamentari o di apposite
commissioni bicamerali. Talvolta la legge di delegazione attribuisce al governo la facoltà di adottare,
entro un termine successivo, decreti autocorrettivi, cioè modificativi e integrativi dei decreti
legislativi. Esistono limiti impliciti alle materie che il Parlamento può delegare al governo: tutti quegli
atti che presuppongono l’alterità politica, ossia la necessaria distinzione dei ruoli tra Parlamento e
governo. La delega legislativa è diventato un procedimento a costante compartecipazione
Parlamento-governo.
Decreti legge (fig. pag. 105)
Il governo, quando ricorrano determinati presupposti, può adottare decreti legge. Essi sono
provvedimenti provvisori con forza equiparata alla legge ordinaria, deliberati dal Consiglio dei
ministri ed emanati dal presidente della Repubblica. Sono misure concrete immediatamente
applicabili (provvedimenti appunto). Sono i decreti legge, che possono essere adottati solo in casi
straordinari di necessità e urgenza, cioè eventi imprevisti, ma anche situazioni che, non potendo essere
risolte mediante il procedimento legislativo parlamentare, richiedono a giudizio del governo
interventi rapidi. Devono essere presentati alle Camere per la conversione los tesso giorni in cui sono
adottati. Hanno durata di 60 gionri, cioè efficacia provvisoria, e se non convertiti in legge la perdono
fin dall’inizio (decadenza ex tunc).
Appena adottato dal governo, il decreto diventa oggetto di un apposito disegno di legge di
conversione e in questa forma presentato alla Camera o al Senato. Si presenta un progetto di un solo
articolo il cui contenuto è appunto la conversione in legge del decreto. La legge di conversione è
l’atto mediante il quale il Parlamento si riappropria della funzione legislativa eccezionalmente
esercitata dal governo. Conversione, perché il titolare di un potere sostituisce l’atto fonte adottato da
un altro potere che non ne è titolare: ciò si fa con una legge ordinaria, dando luogo a novazione della
fonte. Le Camere sono libere di apportare modifiche al testo del decreto legge, emendamenti che
hanno efficacia pro futuro.
Insieme alla legge di conversione è pubblicato anche il testo coordinato del decreto legge, integrato
cioè con le modificazione introdotte dal Parlamento. Qualora il decreto legge decada perché non
convertito in legge, il Parlamento può adottare una legge regolatrice dei rapporti e delle situazioni
che in fatto si sono determinate nel periodo di provvisoria vigenza dell’atto normativo del governo.
Le fonti legislative “specializzate”
Non costituiscono una categoria scientifica autonoma: sotto questa denominazione includiamo a fini
espositivi fonti tra loro diverse, che nulla hanno in comune se non l’atipicità rispetto a tutte le altre
fonti primarie (fonti atipiche). Sono caratterizzate da procedimenti di formazione particolari;
dissociazione tra forma e forza dell’atto, nel senso che, pur appartenendo a un determinato tipo di
fonte del diritto, hanno una forza attiva o passiva rinforzata; sono chiamate a disciplinare determinate
materie. Abbiamo per esempio le leggi di esecuzione dei Patti Lateranensi; le leggi che disciplinano
i rapporti fra lo Stato e le altre confessioni religiose; le leggi di amnistia e indulto; le leggi che
staccano una provincia o un comune da una regione per aggregarli ad un’altra; le leggi che
attribuiscono “forme e condizioni particolari di autonomia” alle regioni ordinarie; i decreti legislativi
di attuazione degli statuti delle regioni speciali; la legge di attuazione del principio dell’equilibrio di
bilancio.
Le fonti espressione di autonomia degli organi costituzionali
Regolamenti parlamentari
I regolamenti parlamentari sono atti fonte di rango primario a competenza materiale riservata (riserva
di legge parlamentare), in quanto attuano direttamente la Costituzione. Sono fonti del diritto non solo
perché disciplinano l’organizzazione e le funzioni spettanti alle Camere, ma anche perché regolano i
rapporti di esse con altri organi e contengono norme che incidono su altri soggetti. Si prevede la loro
adozione a maggioranza assoluta, così come anche quella di regolamenti parlamentari speciali che
disciplinano l’organizzazione e il funzionamento di particolari organi delle Camere. Altri ancora sono
i regolamenti di organizzazione, che disciplinano la gestione amministrativa degli apparati dei due
rami del Parlamento. Essi sono gerarchicamente subordinati al regolamento dell’assemblea. La
giurisprudenza costituzionale fa dunque discendere dal principio di autonomia parlamentare
l’insindacabilità degli interna corporis acta, cioè degli atti interni considerati tradizionalmente di
competenza esclusiva di ciascuna camera.
Regolamenti degli altri organi costituzionali
Sono previsioni legislative che riconoscono tale potestà ad altri organi.
La Corte costituzionale può adottare regolamento che disciplini l’esercizio delle sue funzioni. La
presidenza della Repubblica ha la possibilità di adottare regolamenti interni, ma solo in relazione
all’organizzazione e funzionamento del’apparato amministrativo servente, e non al più complessivo
esercizio delle funzioni presidenziali. Altri ancora sono i regolamenti interni all’istituzione governo:
in questo caso gli atti di regolamentazione organizzativa hanno natura secondaria, anche alla luce
dell’esplicita riserva di legge in materia di organizzazione e funzionamento del governo. Per la
presidenza del Consiglio, si ha una generale autonomia organizzativa, contabile e di bilancio.
Le fonti regolamento
I regolamenti sono fonti secondarie del diritto, ossia subordinate a quelle primarie. Regolamenti che
non vanno confusi con altri atti normativi che hanno il medesimo nomen iuris: sono fonti subordinate,
quindi tutt’altra cosa rispetto ai regolamenti dell’Unione europea o ai regolamenti parlamentari. Le
fonti secondarie non costituiscono un sistema chiuso, ma la potestà regolamentare, per essre
legittimamente esercitata, deve trovare fondamento, ancorché generale, in una norma di legge che
attribuisca al titolare il relativo potere (principio di legalità). Il contrasto tra norma di regolamento e
norma di legge deve essere risolto dal giudice ordinario in base al principio di preferenza della legge
con disapplicazione del regolamento. Spetta al giudice amministrativo, invece, dichiarare l’invalidità
del regolamento contrario alla legge e annullarlo con sentenza.
Regolamenti dell’esecutivo
Da distinguere tra:
-)Regolamenti governativi, approvati dal Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di stato
che deve pronunciarsi entro 90 giorni dalla richiesta, e sono emanati con la forma del “decreto del
presidente della Repubblica”. Sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti. Sono
regolamenti d’esecuzione, di attuazione e integrazione, indipendenti, di organizzazione, di
delegificazione.
-)Regolamenti ministeriali e interministeriali, che necessitano di apposita disposizione legislativa che
autorizzi l’esercizio del potere regolamentare. I regolamenti ministeriali sono adottati nelle materie
di competenza di un ministro o di autorità sottordinate al ministro; i regolamenti interministeriali sono
adottati in materie di competenza di più ministri. Entrambi sono sempre subordinati ai regolamenti
del governo, e devono essre comunicati al presidente del Consiglio prima della loro emanazione.
Regolamenti di altre autorità
L’ordinamento contempla l’attribuzione di un potere regolamentare ad altre autorità e alle autorità
amministrative indipendenti. Questo potere è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, i
regolamenti non possono dettare norme contrarie a quelle contenute nei regolamenti del governo,
oltre che essere conformi alla legge.
Le fonti del diritto regionale
Statuti ordinari
I suoi contenuti e la procedura aggravata fanno dello statuto regionale un atto fonte a competenza
specializzata e sovraordinato rispetto alla legge regionale. Spetta pertanto alla Corte costituzionale
valutare la conformità della legge regionale rispetto alle disposizioni dello stauto, potendosi
configurare in questo caso un’ipotesi di incostituzionalità derivata.
Legge regionale
È approvata nelle forme e nei modi previsti da ciascuno statuto regionale. L’art.117, dopo aver
individuato le materie di competenza esclusiva della legge dello Stato, provvede a elencare le materie
di competenza concorrente tra lo Stato e le regioni, stabilendo infine che alle regioni spetta la potestà
legislativa residuale, cioè quella “in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato”. Per quanto riguarda la potestà legislativa concorrente, “nelle materie di
legislazione concorrente spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei
principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Per l’individuazione dei principi
fondamentali non è necessaria una legge statale ad hoc.
Regolamenti regionali
La potestà regolamentare “spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle
regioni”, mentre per tutte le altre spetta alle regioni. Il consiglio regionale “esercita le potestà
legislative attribuite alla regione”, mentre il presidente della giunta “promulga le leggi ed emana i
regolamenti regionali”. Il potere regolamentare può essere attribuito alla giunta o al consiglio,
secondo forme e modalità stabilite dallo statuto di ciascuna regione. I regolamenti regionali sono
subordinati sia alla legge statale sia a quella regionale.
Statuti speciali
Le regioni a statuto speciale dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i
rispettivi statuti adottati con legge costituzionale. Il procedimento è quello dell’art.138, con due
differenze introdotte nel 2001: quando la revisione dello statuto speciale è d’iniziativa del governo o
del Parlamento, il progetto di legge costituzionale deve essere comunicato all’assemblea regionale,
la quale ha due mesi di tempo per esprimere un proprio parere; non si fa comunque luogo a
referendum.
Le fonti degli enti locali
Abbiamo gli Statuti, cioè l’atto fondamentale dell’organizzazione dell’ente locale. È previsto un
procedimento aggravato di approvazione. Lo statuo del comune è deliberato dal consiglio comunale
a maggioranza dei due terzi dei componenti. Lo statuto della provincia è adottato dall’assemblea dei
sindaci su proposta del consiglio provinciale.
I regolamenti. Ogni ente locale dispone di potestà regolamentare “in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni” che gli sono attribuite. La potestà spetta la
consiglio delle ente locale. Lo statuto dell’ente locale incontra come limite solo la legge dello Stato,
quindi non è fonte primaria. I regolamenti locali incontrano limiti nella legge sia statale che regionale,
ciò in base al principio secondo cui l’organizzazione statutaria dell’ente locale si collega alla legge
statale senza l’intermediazione della legge regionale, mentre i regolamenti locali devono rispettare
anche le prescrizioni della legge regionale competente in materia.
Le fonti espressione di autonomia collettiva
Anche se espressione dell’autonomia dei privati, sono direttamente previste dalla Costituzione. Con
il presupposto che esse abbiano come contenuto norme generali e astratte, anche se riferite
adeterminate categorie sociali; siano abilitate a produrre atti a efficacia erga omnes; siano assistite,
per l’osservanza dei loro precetti, da apparati dello Stato; abbiano il trattamento proprio delle fonti
del diritto. Un esempio sono i contratti collettivi di lavoro, destinati a disciplinare il rapporto di lavoro
fra datori di lavoro e lavoratori. Ciò stabilisce una riserva di competenza ai sindacati registyrati e
dotati di personalità giuridica per i contratti collettivi così stipulati, ferma restando la possibilità per
la fonte legislativa di stabilire i principi inderogabili entro cui deve svolgersi l’autonomia contrattuale.
Le fonti “esterne” riconosciute
Le fonti appartenenti a un altro e distinto ordinamento cui il nostro, in casi o per oggetti specifici,
faccia rinvio, sulla base di determinati criteri di collegamento tra l’ordinamento interno e altri
ordinamenti, attribuendo così a fonti normative esterne l’attitudine a produrre norme giuridiche
nell’ordinamento giuridico interno. Ciò è possibile solo in quanto l’ordinamento giuridico riconosca,
e quindi legittimi, fonti esterne ovvero fonti di un altro ordinamento giurdicio. Si ha il rinvio mobile
(rinvio alla fonte) quando si rinvia a tutte le norme che la fonte richiamata è in grado di produrre nel
tempo. È invece il rinvio fisso (rinvio alla disposizione) quando avviene nei confronti di una
determinata disciplina storicamente individuabile, senza che le vicende che la riguardino assumano
rilievo nell’ordinamento interno.
Altro caso è l’adattamento automatico alle norme generalmente riconosciute dall’ordinamento
giuridico internazionale, che è rinvio mobile. Costituisce invece rinvio fisso l’ordine di esecuzione
attraverso il quale vonegono recepite nell’ordinamento interno le norme contenute in trattati e accordi
internazionali.
Le norme interne di riconoscimento sono vere e proprie fonti sulla produzione, così come le fonti
esterne richiamate sono vere e proprie fonti di produzione. Norme interne che valgono come fonti
sulla produzione di questo tipo sono le norme di diritto internazionale privato. Non tutte le norme
straniere richiamate, peraltro, possono essere applicata: limiti sussistono quando nel caso di specie
insistono norme italiane di necessaria applicazione, così come quando gli effetti dell’applicazione
delle legge straniera sono contrari all’ordine pubblico.
Le fonti fatto
La fonte fatto per eccellenza è la consuetudine, la quale consta di due elementi necessari:
comportamento ripetuto nel tempo (elemento materiale); la convinzione, da parte del corpo sociale,
che ripetere quel comportamento sia giuridicamente dovuto (elemento soggettivo). Ove questa
convinzione non vi fosse, saremmo di fronte ad una semplice prassi.
Le norme consuetudinarie, nei rapporti di diritto privato, sono subordinate gerarchicamente alle fonti
atto. Le consuetudini, per essere valide, devono essere o conformi alle norme giuridiche poste da fonti
atto (secundum legem), o al di fuori di qualsiasi norma (praeter legem). Sono vietate, e perciò
invalide, le consuetudini in contrasto con previe disposizioni normative di fonti atto (contra legem).
Le fonti fatto in materia costituzionale integrano le norme costituzionali scritte. Sono le consuetudini
costituzionali, hanno rango costituzionale in considerazione dei soggetti e dei comportamenti che
esse disciplinano. Tra le fonti fatto vengono ricomprese da taluno anche le convezioni costituzionali,
che rappresentano il tentativo di trasposizione nel nostro ordinamento di una categoria del diritto
anglosassone che ha caratteristiche del tutto simili alle consuetudini costituzionali. Diverse sono le
norme di correttezza costituzionale, che nel loro insieme costituiscono quello che si potrebbe definire
il “galateo” dei rapporti fra organi costituzionali, senza avere natura giuridica.
Le fonti di cognizione e i testi unici
Sono fonti di congnizione quegli atti, non aventi forza normativa (a differenza delle fonti di
produzione), i quali sono volto esclusivamente a rendere conoscibile il diritto oggettivo. Non si tratta
di fonti in senso proprio. Si può distinguere quelle che hanno valore legale (Gazzetta Ufficiale) da
quelle che hanno valore meramente conoscitivo.
La pubblicazione degli atti normativi
Tutt gli atti normativi, nessuno escluso, devono essere necessariamente pubblicati nelle forme
previste dalla legge. Gli atti normativi statali sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica. Gli atti normativi regionali sono pubblicati nel Bollettino Ufficiale di ciascuna regione.
Gli atti normativi locali sono pubblicati mediante affissione all’albo pretorio dell’ente locale. Esiste
una precisa disciplina per quanto riguarda le formule per la promulgazione delle leggi costituzionali
e delle leggi ordinarie dello Stato e per l’emanazione dei decreti legislativi.
Viene disciplinata anche la denominazione attribuita agli atti normativi. L’atto normativo che la
Costituzione all’art.70 attribuisce alle Camere viene promulgato col nome appunto di legge dal
presidente della Repubblica e pubblicato come tale. Lo stesso vale per le leggi costituzionali. Invece
gli atti normativi del governo, quale che sia la loro natura, sono emanati sempre con decreto del
presidente della Repubblica, ma vengono poi indicati con nomi dicersi che corrispondono alla loro
diversa natura.
Testi unici e riordino normativo
Possono avere natura di fonti di cognizione oppure di vere e proprie fonti di produzione i testi unici,
ossia i testi che raccolgono atti normativi preesistenti che, sebbene posti in tempi diversi, disciplinano
una medesima materia, unificando e coordinando le norme giuridiche prodotte da quegli atti destinati
al riodino della legislazione vigente. È necessario distingue, però, fra testi unici compilativi e testi
unici normativi. I primi sono atti di natura amministrativa e hanno come fine esclusivamente quello
di agevolare la conoscenza del diritto esistente in una certa materia; i secondi hanno natura di atti di
produzione del diritto. Quindi, in questo secondo caso, il testo unico non si limita a raccogliere in un
unico atto le norme vigenti, ma provvede ad armonizzare la legislazione, modificando
sostanzialmente la disciplina positiva. Un testo unico normativo, dalla sua entrata in vigore, diventa
l’unica fonte delle norme in esso contemplate. I testi unici normativi sono deliberati dal governo nella
forma di decreti legislativi sulla base di una legge di delegazione del Parlamento. I testi unici
compilativi sono deliberati dal governo, ma sulla base di una mera autorizzazione.
Diritto pubblico – I diritti fondamentali
La formazione dello stato moderno è stata accompagnata da una serie di dichiarazioni dei diritti. Il
primo organico riconoscimento delle libertà fondamentali viene considerato la Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino, rafforzata dal valore giuridico che a essa derivò dall’inserimento
nella Costituzione francese del 3 settembre 1791.
Il pensiero filosofico giusnaturalistico del XVI e XVII secolo si fece interprete fino a tutta la prima
metà dell’Ottocento la borghesia, applicando i principi del liberalismo classico. Si affermarono così
i diritti civili, quelle libertà fondate sulla rivendicazione per l’individuo di una sfera propria, in cui
potesse essere del tutto autonomo e indipendente rispetto allo stato (libertà personale, di domicilio,
economiche, di manifestazione del pensiero, religiosa, diritto di proprietà). La prima generazione di
diritti ad affermarsi fu proprio quella rappresentata dalle libertà dallo stato, o libertà negative.
Solo con l’emergere dalla seconda metà dell’Ottocento delle rivendicazioni proletarie le libertà civili
si rafforzarono e iniziò la lenta ma progressiva affermazione dei diritti di partecipazione alla vita dello
stato, i diritti politici, le libertà nello stato, o libertà positive. Diritto di voto, di associazione in partiti
e sindacati. L’affermarsi della seconda generazione di diritti coincise con l’evoluzione dello stato
liberale in stato liberaldemocratico.
Nella prima metà del Novecento, dopo la Prima guerra mondiale e la crisi economica degli anni
Trenta, c’è un sempre maggiore intervento statale con il fine di riequilibrare le disparità sociali e
rendere accessibili alla collettività intera le libertà attraverso lo stato, ovvero i diritti sociali, definiti
di terza generazione: il diritto all’istruzione, alla salute, alla previdenza sociale, al lavoro,
all’abitazione.
Lo sviluppo culturale, economico e soprattutto tecnologico della società ha portato alla ribalta nuove
domande di tutela individuali e collettive, portando l’individuo a reclamare forme di garanzia sempre
più effettive e sofisticate. Sono i “nuovi diritti”, di quarta generazione, che riguardano la dignità
dell’uomo in un’accezione particolarmente ampia.
Nel linguaggio corrente si utilizzano indifferentemente espressioni come libertà costituzionali, diritti
umani, diritti della persona, libertà pubbliche. Si può però usare l’espressione onnicomprensiva di
diritti fondamentali, con la quale si indicano i diritti civili, politici, sociali, nonché i diritti di ultima
generazione, che rappresentano il fondamento stesso dell’assetto costituzionale della Repubblica.
L’espressione diritti umani è invece riservata ai diritti che l’ordinamento internazionale si sforza di
riconoscere a tutti i popolo e a tutte le persone.
Al fine di tutelare i diritti fondamentali sono state utilizzate le categorie e tecniche che la scienza
giuridica aveva elaborato per il diritto di proprietà, ma non sempre riescono a cogliere la complessità
dei diritti sociali, o dei diritti di nuova generazione, le forme di tutela necessarie per garantire le libertà
fondamentali. Da qui la necessità di assicurare ai diritti fondamentali una più complessa tutela
attraverso specifiche e variegate “istituzioni per la garanzia delle libertà”, cioè le diverse autorità
garanti, istituite allo scopo di realizzare più efficaci mezzi di tutela dei diritti dei cittadini.
Sono soggetti di diritto coloro che godono della capacità giuridica, coincidente con l’attitudine a
essere titolari di situazioni giuridiche. Il nostro ordinamento riconosce come soggetti di diritto sia le
persone fiische che le persone giuridiche. La capacità giuridica si acquista, per quanto concerne le
prime, al momento della nascita. Mentre la capacità di agire, cioè di esercitare effettivamente i diritti
di cui si è titolari o di assumere obblighi, si acquista di norma con la maggiore età.
Abbiamo situazioni giuridiche favorevoli e situazioni giuridiche non favorevoli. Fra le prime, il potere
giudiziario è una situazione potenziale e astratta che consiste nella possibilità di ottenere determinati
effetti giuridici. Il diritto soggettivo, invece, è una situazione a tutela di un interesse attuale e concreto.
Il titolare esercita il diritto soggettivo in via diretta e immediata: l’ordinamento giuridico gli riconosce
non solo determinate facoltà, ma anche la pretesa di condizionare il comportamento degli altri
soggetti.
I diritti si dividono a loro volta in assoluti, cioè che abbligano tutti i soggetti dell’ordinamento a non
intralciarne il godimento (quindi anche i diritti fondamentali); relaviti, i diritti la cui soddisfazione
dipende da un comportamento prescritto a un soggetto determinato.
L’interesse legittimo designa una situazione soggettiva di vantaggio in cui il titolare gode di poteri
strumentali in vista del potere del proprio interesse. Mentre chi è portatore di un diritto soggettivo
può farlo valere direttamente e immediatamente, chi è portatore di un interesse legittimo ha bisogno
che esso coincida con uno specifico interesse pubblico.
Le tipiche situazioni giuridiche non favorevoli sono:
a. Obblighi, comportamenti che un soggetto deve tenere per rispettare un diritto altrui
b. Doveri, comportamenti dovuti indipendentemente dall’esistenza di un corrispettivo diritto
altrui, in funzione di uno specifico interesse
c. Soggezioni, situazioni di chi è soggetto a un potere giuridico.
La dicotomia situazioni giuridiche favorevoli-situazioni giuridiche non favorevoli non esaurisce tutte
le figure soggettive: l’ordinamento riconosce anche pretese da esercitare nell’interesse altrui.
Il Novecento è stato caratterizzato dall’internazionalizzazione della tutela dei diritti umani, attraverso
al loro positivizzazione e la loro giurisdizionalizzazione. Ai tratti ricognitivi di diritti umani si
collegano due discusse problematiche:
A. L’azionabilità dei diritti in essi previsti nell’ordinamento interno
Tali trattati sono vigenti solo sul piano internazionale, e quindi attivabili solo nei rapporti tra stati per
far valere eventuali inadempimenti, o devono ritenersi direttamente efficaci, e conseguentemente
suscettibili di tutela giurisdizionale anche nell’ordinamento interno? La Corte di Cassazione ha
assunto in merito un atteggiamento oscillante, concludendo infine con il riconoscimento della
prevalenza e la diretta applicabilità dell’art. 6 della Cedu, nonché dell’interpretazione che di esso dà
la Corte europea dei diritti dell’uomo.
B. La loro posizione nel sistema delle fonti
Le convenzioni internazionali sui diritti, essendo recepite nell’ordinamento interno con leggi di
esecuzione, hanno formalmente il rango di una legge ordinaria, per cui in applicazione del criterio
cronologico sarebbero abrogabili da leggi successive. Ma sono invece da considerare come leggi
atipiche, aventi cioè una particolare forza passiva, in virtù del collegamento con l’art. 2 della
Costituzione.
L’Art. 117.1 inoltre dispone che la potestà legislativa dello Stato e delle regioni deve essere esercitata
nel rispetto dei “vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. Sentenze della Corte costituzionale
hanno stabilitp che le norme convenzionali, purchè considerate compatibili con le norme della nostra
Costituzione, si impongono alla legislazione nazionale. Quindi, in caso di contrasto tra norma interna
e norma convenzionale, non risolvibile dal giudice comune per via interpretativa, la Corte
costituzionale può essere chiamata a pronunciarsi sul punto, arrivando a dichiarare l’illeggittimità
costituzionale della norma interna per contrasto con quella convenzionale. Sono quindi norme
interposte.
Documento fondamentale per la tutela dei diritti fondamentali è la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu). Rilevante è il suo sistema di
tutela giurisdizionale davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa può essere adita non
soltanto dagli stati ma con ricorsi individuali, attivabili direttamente da persone fisiche,
organizzazioni non governative o gruppi di privati contro uno stato contraente, ma solo dopo che si
sono esauriti tutti i rimedi interni allo stato contro il quale si agisce.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso giuridico dei trattati. Anche in
precedenza però la Corte di giustizia si era assunta il compito di consolidare e ampliare i principi
generali del diritto comunitario, ricomprendendo in essi i diritti fondamentali comuni alle tradizioni
costituzionali degli stati membri.
Secondo l’art. 2 della Costituzione, “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. L’ordinamento
quindi tutale i diritti fondamentali, riconoscendo loro una priorità nel sistema dei valori costituzionali
che li rende inviolabili sia dai poteri pubblici sia dai privati. Hanno precise caratteristiche:
i. Assolutezza, fatti valere nei confronti di tutti
ii. Inalienabilità e indisponibilità, non possono essere trasferiti per atto di volontà di chi ne è
titolare
iii. Imprescrittibilità, non esercitarli, anche per un tempo prolungato, non comporta
l’estinzione
iv. Irrinunciabilità, non vi si può rinunciare
L’uso del termine “inviolabili”, assieme al verbo “riconoscere”, evoca concezioni giusnaturalistiche
secondo le quali i diritti non sarebbero conferiti dall’ordinamento ma da questo semplicemente
riconosciuti in quanto preesistenti a ogni istituzione politica. La dottrina prevalente però sottolinea
come la persona sia portatrice non di valori preesistenti allo stato, ma di valori tutelati da uno specifico
ordinamento giuridico, storicamente dato. “inviolabili” va interpretato come un richiamo all’assoluta
inderogabilità dei diritti fondamentali, anche in caso di revisione costituzionale. Sono riconosciuti a
tutti gli uomini in quanto tali, non ai soli cittadini.
Il riferimento alle “formazioni sociali” significa che i diritti del singolo sono tutelati anche all’interno
delle formazioni sociali; che la titolarità dei diritti inviolabili spetta anche alle formazioni sociali. Si
affermano così due principi fondamentali della Costituzione: il principio personalista, in base al quale
esiste una sfera della personalità fisica e morale di ogni uomo che non può essere lesa da alcuno. Il
principio pluralista, che, tutelando l’homme situé, ossia l’uomo nelle relazioni sociali, garantisce alle
formazioni sociali i medesimi diritti degli individui. La Corte costituzionale conseidera quella
nell’art. 2 una disposizione a fattispecie aperta che assicura tutela costituzionale a nuovi diritti
considerati come inviolabili dal corpo sociale, e perciò riconosciuti dal legislatore o dalla
giurisprundenza o da convenzioni internazionali.
I diritti della personalità, sono da individuarsi in particolare accanto ai diritti che trovano espresso
riconoscimento nella Costituzione, come il diritto alla capacità giuridica, il diritto alla cittadinanza, il
diritto al nome. Sono:
-)Il diritto alla vita e all’integrità fisica. La battaglia civile e politica pro o contro l’aborto ha messo
in evidenza il tema della titolarità e, di conseguenza, della garanzia del diritto alla vita del nascituro.
-)Il diritto all’onore, la tutela dell’integrità morale della persona, del decoro, del prestigio, della
reputazione, anche indipendentemente dalla veridicità dei comportamenti attribuiti al soggetto.
Distinto da questi è il diritto all’identità personale, il diritto a essere se stesso, intesto come rispetto
dell’imamgine di partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le
convizioni ideologiche, religiose, morali e sociali, che differenziano, e al tempo stesso qualificano,
l’individuo. È un bene in sé medesimo.
-)Il diritto alla libertà sessuale, come diritto di disporre liberalmente della propria sessualità, modo
essenziale di espressione della persona umana. Collegato è il diritto al libero orientamento sessuale,
che si aggancia all’obiettivo del “pieno sviluppo della persona umana”. Diversa ancora è l’identità di
genere, intesa come diritto a scegliere il genere sessuale di appartenenza. L’unione tra persone del
medesimo sesso è a tutti gli effetti una formazione sociale.
-)Il diritto alla riservatezza, alla segretezzza e all’intimità della vita privata, concerne una delle
richieste di protezione più acute emerse nella società contemporanea. La Costituzione non contiene
una disciplina esplicita del diritto alla riservatezza, ma anche in questo caso la sua tutela passa
attraverso il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, nonché attraverso il riconoscimento
dell’inviolabilità del domicilio e delle comunicazioni. A tal scopo è stato istituito il Garante per la
protezione dei dati personali (diritto alla privacy). Si parla anche di diritto all’autodeterminazione
informativa, ovvero il diritto di controllare la circolazione delle informazioni personali. Tra questi
rientrano i dati sensibili, cioè capaci di rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose e
politiche, lo stato di salute, le abitudini sessuali. Delicata è la questione dei limiti al diritto alla
riservatezza: la legge opera un bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e la libertà di
manifestazione del pensiero, all’informazione, di cronaca e la libertà di stampa.
La libertà personale. È la prima libertà garantita al singolo, inviolabile, senza però chiarirne il
contenuto. Dilatando il suo contenuto fino a farla coincidere con la libertà della persona, si opera una
inutile duplicazione dell’art. 2 della Costituzione. Bisogna quindi leggerla con riferimento alla misure
che sono vietate nell’art. 13.2, cioè la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale.
La libertà personale, prima di tutto, non ammette atti di coercizione fisica, siano essi posti in essere
dalla polizia o dal privato. Una seconda dimensione è quella che si fonda sul criterio della
degradazione giuridica: possono ritenersi lesive della libertà personale misure che, pur non consistenti
in forme di coercizione fisica, incidono negativamente, degradandola, sulla personalità morale e sulla
dignità della persona umana. La libertà personale non include altresì la libertà morale, cioè la libertà
dell’individuo di determinare autonomamente i propri comportamenti.
La Costituzione ammette restrizioni della libertà personale, ma nei soli casi e modi previsti dalla
legge. Il richiamo ai modi, oltre che ai casi, fa ritenere si tratti di una riserva di legge assoluta. La
materia, in altre parole, è del tutto sottratta alle fonti normative secondarie. La Costituzione nulla dice
invece sui presupposti e sugli interessi che permettono al legislatore di prevedere tali restrizioni:
questi devono essere rinvenuti nell’ordinamento costituzionale. I casi coincidono con i reati, e con i
presupposti delle “misure di sicurezza”. La Costituzione determina anche limiti sostanziali alla
penalizzazione:
-)il principio di tassatività e determinatezza del precetto penale. La condotta vietata va prevista e
formulata dal legislatore in modo chiaro, affinchè tutti abbiano la piena consapevolezza dell’illecito
da non commettere, così che chi si trova accusato possa difendersi. Ciò implica il divieto di
interpretazione analogica delle norme penali.
-)il principio della personalità della responsabilità penale. La legge non può ascrivere al soggetto il
fatto d’altri, non imputabile al soggetto stesso. Una deroga a tale principio è ammessa solo in sede
civile.
-)il principio di colpevolezza, cioè che sono punibili solo le condotte materiali collegate a un
atteggiamento soggettivo di colpevolezza nelle forme del dolo o della colpa. Con la condanna però è
accertata in modo definitivo una colpevolezza. Si pone anche il principio dell’irretroattività delle
norme penali.
-)il principio di offensività e lesività del reato. Per costituire reato, il fatto deve pregiudicare un bene
o un interesse costituzionalmente tutelato o connesso ad altri beni costituzionali.
Alla riserva di legge si aggiunge la seconda garanzia della libertà personale, la riserva di giurisdizione:
nessuna restrizione è consentita “se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria”, in genere il
giudice che procede, in limitati casi il pubblico ministero. E’ tuttavia ammessa, in casi eccezionali di
necessità e urgenza. Cioè ipotesi dell’arresto in flagranza di reato e del fermo di indiziati di reato, che
devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e convalidati dalla medesima
nelle successive quarantotto ore, pena la revoca e la perdita d’efficacia (habeas corpus). La garanzia
della riserva di giurisdizione è corredata dal requisito della motivazione del provvedimento restrittivo.
Inoltre la persona colpita da misura limitativa della libertà personale può sempre ricorrere in
cassazione per violazione della legge.
La Costituzione consente anche restrizioni alla libertà personale giustificate da esigenze di sicurezza.
Le misure di sicurezza sono anche sottoposte al principio di legalità. Le misure di sicurezza detentive
sono volte a neutralizzare la pericolosità del soggetto e svolgono perciò una funzione di difesa sociale.
Si affiancano dunque alle pene. Altra cosa sono le misure di prevenzione, tese a impedire la
commissione di reati da parte di soggetti ritenuti socialmente pericolosi, ma a prescindere da un
precedente reato. Consistono in limitazioni della libertà personale. Misure restrittive sono attualmente
previste, per esempio, nei confronti di chi appartiene a frange estremiste del tifo sportivo, o chi detiene
illecitamente sostanze stupefacenti.
Un’ulteriore forma di restrizione è la custodia cautelare. Oltre alla reclusione susseguente a condanna,
la carcerazione è prevista anche prima che la responsabilità penale sia definitivamente acclarata,
affinchè il tempo neessario alla conclusione del processo non impedisca alla funzione giurisdizionale
di conseguire gli scopi cui tende. È l’interesse pubblico che giustifica la carcerazione preventiva, che
deve comunque coniugarsi col principio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, di cui
costituisce un’eccezione. Le misure cautelari personali sono disposte, qualora ricorrano gravi indizi
di colpevolezza, in tre casi: possibile inquinamento delle prove, pericolo di fuga, rischio di
reiterazione del reato. Il giudice deve osservare i principi di adeguatezza e proprozionalità
Trattamento del detenuto e funzioni della pena. La Costituzione, nel vietare ogni violenza fisica e
morale sulle persone private della libertà personale e nell’escludere che le pene possano consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità, individua il contenuto minimo del trattamente del detenuto.
La pena ha, in primo luogo, uno scopo di prevenzione generale: deve cioè dissuadere la generalità dei
consociati dal commettere reati. Ha poi uno scopo di prevenzione speciale nei confronti del reo. Ha,
infine, la funzione di tendere alla rieducazione del condannato, sempre che vi sia la sua adesione al
processo rieducativo. Diverso è il problema della misura della pena, cioè della proporzione rispetto
al disvalore del reato commesso, che la Corte costituzionale sottopone al vaglio di ragionevolezza.
Diritto pubblico – Le forme di governo
Secondo i canoni del costituzionalismo moderno, la funzione di individuare i fini politici e tradurli in
comandi generali e astratti (leggi), eseguire tali comandi, in via amministrativa, garantire
l’applicazione in caso di controversie o contestazioni, in via giurisdizionale, è opportuno siano
attribuite a organi diversi, allo scopo di evitare quell’eccessiva concentrazione di potere che aveva
tipicamente caraterizzato lo stato assoluto. Ma una netta distinzione è davvero opportuna e possibile
solo per la funzione giurisdizionale, la cui caratteristica sta proprio nella terzietà dei soggetti che al
esercitano: senza terzietà non ci possono essere né indipendenza né imparzialità e mancano i
presupposti stessi perché si rinunci a farsi giustizia da sé. Così non è, invece, per le altre due funzioni,
legislativa ed esecutiva-amministrativa. Non si hanno esempi di separazione integrale fra gli organi
che di esse sono titolari. Guidare verso il proseguimento di determinati fini di carattere generale uan
comunità politica (indirizzo politico), comporta poter incidere sia sulla produzione dei comandi
normativi sia sulla loro successiva esecuzione. Influire in misura determinante sull’uno e sull’altro.
È ciò che fanno, per l’appunto, i governi a tutti i livelli. Le politiche pubbliche richiedono l’esercizio
coordinato sia di attività legislative sia di attività amministrative.
Il modo come, in un determinato ordinamento, viene organizzato ed esercitato il potere politico, e il
modo come si arriva a individuare i soggetti ai quali è riconosciuta, di diritto e di fatto, la capacità
di esercitare in tutte le forme lecite la funzione di indirizzo politico, è ciò che si una chiamare forma
di governo. Si possono trascurare gli aspetti funzionali e il contesto sotteso a tale assetto, ovvero il
sistema politico. Quindi, la forma di governo attiene al modo come fra gli organi di una comunità
politica organizzata si distribuisce il potere di indirizzarla verso determinati fini generali. Quindi
classificare i diversi ordinamenti, secondo tipologie che nascono dall’osservazione, in base alla
ripartizione del potere d’indirizzo politico fra gli organi costituzionali.
Le forme di governo possono essere studiate diacronicamente (nella loro evoluzione storica) e
sincronicamente (con riferimento a un momento dato).
Il modello primigenio è quello della monarchia inglese che fra Sei e Settecento, a seguito della
Gloriosa Rivoluzione, si fa, da assoluta quale anch’essa era, monarchia costituzionale. Nel corso dei
secoli si è data un ordinamento costituzionale, il quale si andò caratterizzando per il progressivo
affermarsi della supremazia del parlamento: sia come limite all’esercizio arbitrario del potere regio
sia come fonte di legittimazione della stessa dinastia. I poteri dello stato erano concepiti come
separati: nella rappresentanza elettiva; nel re con il potere politico-amministrativo. L’idea dei poteri
separati avrebbe avuto successo nella Francia rivoluzionaria della fase monarchica e in tutta l’Europa
continentale della Restaurazione. Gli americani però, ritenevano sbagliando che il governo di sua
maestà fosse del tutto separato dal parlamento, quindi delinearono in termini di separazione anche i
rapporti fra il loro preidente e il Congresso. In nessun caso il presidente poteva mandare a casa il
Congresso, e questo non poteva liberarsi del presidente, salvo l’ipotesi di messa in stato di accusa. Il
tutto in un documento solenne, la Costituzione (rigida). La separazione dei poteri è caratteristica
distintiva del governo presidenziale.
In Inghilterra la monarchia costituzionale nell’Ottocento si è evoluta verso quello che sarebbe stato
chiamato governo parlamentare nella sua versione monista, perché l’indirizzo politico dipendeva
ormai solo dal rapporto fra governo e parlamento. La versione dualista era invece quella delle origini.
Questa evoluzione è dovuta principalmente all’emersione della figura del primo ministro all’interno
del governo; all’istituto dell’impeachment, che pose le basi del rapporto fiduciario, con il tempo un
vero e proprio istituto costituzionale; l’organizzazione progressiva della Camera dei Comuni in due
parti contrapposte, fautori e avversari del governo del re, maggioranza e opposizione, che
diventeranno infine due partiti.
In Francia, con la Costituzione del 1830, si affermò un assetto che fu chiamato monarchico orleanista,
caratterizzato da un marcato dualismo: il governo rispondeva sia al re sia al parlamento, in un
equilibrio relativamente instabile. A lungo si protrasse la convinzione che il vero parlamentarismo
fosse necessariamente dualista, cioè fondato su due pilastri: la rappresentanza e la corona. Nel
continente europeo il parlamentarsimo fu dualista per un periodo di oltre mezzo secolo dopo che era
già diventanto monista nella sua patria di origine, l’Inghilterra.
Il crollo degli imperi centrali e dell’impero russo porta alla nascita di nuovi stati nazionali, i quali si
dettero tutti costituzioni nuove di zecca. È la stagione della razionalizzazione del parlamentarismo,
cioè il tentativo di disciplinare giuridicamente i rapporti fra gli organi costituzionali secondo modelli
che riecheggiassero il parlamentarismo inglese. Vi furono anche modelli costituzionali che
rilanciarono, invece il dualismo, come la Costituzione tedesca di Weimar del 1919. Era caratterizzata
dal fatto di avere sia i caratteri del governo parlamentare, sia un capo dello stato direttamento elettivo,
dotato di attribuzioni giuridiche rilevanti. Un governo semi-presidenziale ante litteram.
All’indomani della Seconda guerra mondiale si ebbero in Europa varie ondate di nuove costituzioni.
De Gaulle, in Francia dal 1958, optò per una soluzione marcatamente dualista: al vertice
dell’esecutivo si stabiliva una ripartizione d’influenza fra presidente della Repubblica e primo
ministro. È un governo semi-presidenziale, sottolineando il forte ruolo del presidente.
Le altre esperienze invece, fino al 1990 furono orientate in direzione monista: tutti i governi
parlamentari con una netta prevalenza della figura del primo ministro. L’eccezione è stata proprio
l’esperienza del governo parlamentare italiano.
Se la forma di governo attiene al modo in cui si distribuisce il potere di indirizzo politico, cioè il
potere di indirizzare l’ordinamento verso certi fini generali piuttosto che altri, dal punto di vista del
diritto ciò dipende dalle attribuzioni degli organi costituzionali e dai rapporti fra di essi, quali
disciplinati dalla costituzione e dalle leggi. In base agli aspetti strutturali e formali si è delineata una
tipologia delle forme di governo che si può definire classica/tradizionale.
Tuttavia, nel loro effettivo modo di operare, le forme di governo vengono fortemente condizionate
dal sistema partitico e dalla cultura politica che si affermano in ciascuna comunità. Non è necessario
andare al di là del dato strettamente giuridico e tenere anche conto degli aspetti dinamici delle forme
di governo, cioè della prassi, dei comportamenti concreti degli attori politico-costituzionali. Si hanno
forme di stato democratice di derivazione liberale (fig. pag. 205):
o Forma di governo presidenziale
Titolare del potere esecutivo è in prima persona il presidente. È una forma di governo a direzione
monocratica. Il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti d’America, delineato dalla
Costituzione del 1787. Il presidente è scelto direttamente dal corpo elettorale, che elegge altresì il
parlamento. Vige un regime di separazione dei poteri per cui da un lato il elgislativo non può
sfiduciare il presidnete, dall’altro in nessun caso il presidente può sciogliere le assemblee. Convivono
perciò fino alla conclusione del proprio mandato. Esiste il procedimento parlamentare di messa in
stato d’accusa, ma non si traduce in un giudizio di responsabilità di tipo politico, ma penale. Le leggi
le fa il Congresso e il presidente ha in materia poteri limitati (veto). La logica istituzionale è quella
dei pesi e contrappesi.
La principale variabile nella dinamica della forma di governo presidenziale è che si può dare il caso
del governo diviso: il presidente appartiene a un partito e una o entrambe le camere vedono in
maggioranza l’altro partito. Tuttavia la ricerca di compromessi legislativi fra presidente e Congresso
è la norma anche quando il partico cui appartiene il presidente ha nella Camere il maggior numero di
seggi: infatti, non è previsto nella teoria il governo di partito.
o Forma di governo parlamentare
L’esecutivo è considerato espressione del parlamento. Conosce molte varianti perché è fortemente
condizionata dalla prassi. L’esecutivo è in genere nominato da un organo terzo, il capo dello stato.
nomina che può presidenre dall’investitura parlamentare, precederla, seguirla. L’esecutivo dipende
dalla disponibilità del parlamento a mantenerlo in vita (sfiducia). Il governo, anche se assume i suoi
poteri senza un iniziale voto parlamentare, non può restare in carica senza il sostegno implicito del
parlamento. Per questo è prevista la possibilità di scioglimento del parlamento prima della scadenza
naturale, unico modo per evitare la paralisi del sistema.
Il capo dello stato ha funzioni prevalentemente cerimoniali, simboliche o comunque relativamente
limitate. È titolare del potere di nomina del capo del governo, o concorre, o addirittura determina
all’occorrenza, lo scioglimento del parlamento.
L’esecutivo della forme di governo parlamentari è collegiale (consiglio dei ministri), da cui però
emerge con compiti di direzione politica la figura del primo ministro. Quindi forma di governo a
direzione tendenzialmente monocratica. Dove invece la figura del primo ministro non si è affermata,
la direzione tende ad essere collegiale, e il primo ministro è solo un primus inter pares all’interno del
consiglio dei ministri.
Quella parlamentare è la forma di governo maggiormente sensibile al formato e alla meccanica del
sistema partitico. Si realizza una continuità fra partito, rappresentanza ed esecutvio che viene
chiamata anche governo di partito. Spesso il governo nasce solo a seguito di trattative post-elettorali.
o Forma di governo semi-presidenziale
Combina alcune caratteristiche della forma di governo presidenziale e di quella parlamentare,
ponendo l’accento sul ruolo del presidente. Un capo dello stato direttamente eletto dla corpo elettorale
e dotato di importanti attribuzioni di natura politica convive con un esecutivo guidato da un primo
ministro e legato all’assemblea rappresentativa da rapporto fiduciario. Il modello di riferimento è la
Francia della Quinta repubblica. Qui i poteri del presidente includono tutti quelli dei capi di stato dei
regimi parlamentari, cui si aggiungono altri incisivi poteri, soprattutto nell’ambito della politica
estera, e la stessa presidenza del consiglio dei ministri. Presidente e parlamento sono eletti dal corpo
elettorale separatamente. Il presidente ha il potere di condizionare la durata del parlamento
(scioglimento) e il parlamento ha il potere di far dimettere il governo (sfiducia), che è di nomina
presidenziale, ma dotato di attribuzioni costituzionali proprie, per cui si può dire che l’esecutivo è a
direzione non monocratica ma duale.
Importante è la coincidenza o meno della maggioranza espressa dal voto presidenziale con quella
parlamentare. Si può infatti verificare sia uniformità sia difformità. Nel primo caso, nella prassi si
verifica in genere una sostanziale prevalenza del presidente. Nel secondo caso si ha la coabitazione
fra un presidente e un primo ministro di partiti diversi, con la necessità di trovare giorno per giorno
un modus vivendi. L’esecutivo è comunque sempre a “due teste”, e a differenza del governo
presidenziale, c’è sempre la possibilità per l presidente di indire elezioni anticipate.
o Forma di governo direttoriale
Un organo collegiale è titolare del potere esecutivo. Il “direttorio” è al tempo stesso vertice del
governo e vertice dello stato, come il presidente nelle forme di governo presidenziali. Ma, questo
colleggio non è eletto dai cittadini direttamente, bensì dal parlamento. Ciò però non determina
l’instaurarsi di alcun rapporto fiduciario. A sua volta l’esecutivo non ha alcun potere di condizionare
il mandato parlamentare, che dura sempre fino al termine. all’interno dell’organo di governo non vi
è alcuna gerarchia, ma la rotazione della carica di presidente. La dinamica è quella della democrazia
consensuale, alla quale concorrono insieme forme politiche dagli ideali e dai programmi assai diversi,
ma tutte coinvolte nella co-gestione del governo.
La forma di governo in Italia
L’ordinamento statutario del Regno di Sardegna nacque nel 1848 con i caratteri giuridici della
monarchia costituzionale. Ma iniziò immediatamente a svilupparsi in direzione del governo
parlamentare. I presidenti del Consiglio, di nomina regia, giudicarono infatti utile avvalersi del
sostegno dell’assemblea elettiva per meglio perseguire il proprio indirizzo contro le interferenze
regie. Nei periodi di crisi la corona non mancò mai di intervenire pesantemente e scelse presidneti
del Consiglio fra i propri fedelissimi, per lo più militari, dunque anche gerarchicamente subordinati
al re. Inoltre gli spettava anche l’ultima parola nella nomina dei ministri più importanti e sempre
concorse alle scelte di politica estera e militare. Quindi, fino all’avvento del Fascismo, in Italia si
ebbe un governo parlamentare dualista.
Questa visione dualista riemerse anche in Assemblea costituente nel 1946-47. Molti volevano fare
del Presidente della Repubblica la figura di riferimento in grado di sopperire, ove necessario, alle
temute carenze del sistema partitico. Con altri poteri che non erano affatto trascurabili. All’Assemblea
costituente si fece la scelta del governo parlamentare, integrato però da strumenti giuridici che
valessero a evitare la “degenerazione del parlamentarismo”. Nella Costituzione e nella prassi la forma
di governo italiana non è riconducibile alla tipologia del governo parlamentare a direzione
monocratica. Nel periodo che va dal 1953 al 1992, mai il presidente del Consiglio fu anche leader del
partito che forniva la grandissima parte della classe dirigente politica e amministrativa. I governi
furono sempre di coalizione. Ciascun ministro rispondeva più al proprio partito e alla propria corrente
che non al presidente del Consiglio, che raramente riusciva a garantire unità di indirizzo. È quindi un
esempio di governo a direzione plurima dissociata. Governi sempre instabili, con una mancanza di
una direzione monocratica e instabilità cronica che caratterizzano tutti gli altri livelli di governo, in
un sistema integralmente affidato alla mediazione gestita dai gruppi dirigenti di partito ai vari livelli,
non senza una forte tendenza centralizzatrice.
Questo modello va in crisi nella seconda metà degli anni Settanta, e già dagli anni Ottana
governabilità e stabilità cominciarono a essere percepite come condizioni indispensabili di sviluppo,
difficilmente compatibili con il governo a direzione plurima dissociata. Nella dimostrata
indisponibilità dei partiti a rinnovare le istituzioni, si avviò un tentativo di riforma fondato sugli
strumenti giuridici che si potevano rinvenire in Costituzione, usati “ai limiti delle loro potenzialità”.
Si fece così ricorso alla strategia dei referendum popolari per costringere il parlamento dei partiti a
cambiare il sistema elettorale, cambiandolo da maggioritario in proporzionale. La logica della
competizione politica è così diventata decisamente bipolare. Una somma di ulteriori fattori hanno
concorso nel contempo a rafforzare la figura del presidente del Consiglio, come il costante raffronto
con gli altri ordinamenti simili la notro; l’esigenza di dare all’azione di governo la necessaria
continuità e stabilità d’indirizzo; la legislazione stessa sulla presidenza del Consiglio; l’accentuarsi
della personalizzazione delle campagne elettorali; nonché l’affermarsi alle elezioni, per ben tre volte,
di maggioranze guidate da un leader particolarmente influente, Silvio Berlusconi.
L’ordinamento italiano si è andato orientando verso governi di legislatura a direzione monocratica,
fondati su coalizioni formate prima del voto e dal voto poi legittimate.
Diritto pubblico – La sovranità popolare
Il nostro ordinamento conosce alcune norme di carattere generale che disciplinano l’essenziale forma
di esercizio della sovranità che è il voto (art. 48).
a. Sono elettori tutti i cittadini che hanno la maggiore età
Si ha l’identificazione tra cittadinanza ed elettorato. C’è chi sostiene una tesi minoritaria che l’art. 48
si limiterebbe a garantire con norma costituzionale il diritto di voto ai cittadini, senza che ciò ne
impedisca l’estensione, con legge ordinaria, a coloro che cittadini non sono. Già ora, per le elezioni
comunali, in attuazione del diritto Ue, la legge estende l’elettorato attivo e l’elettorato passivo a tutti
i cittadini non italiani dell’Unione europea
b. Specifiche limitazioni al diritto di voto possono essere previste, ma solo dalla legge, per chi
non ha la capacità di agire, o come pena accessoria in caso di sentenza penale definitiva
Non godono di elettorato attivo (e di conseguenza passivo) coloro che sono sottoposti a misure di
prevenzione; coloro che sono sottoposti alle misure di sicurezza previste dal codice penale, detentive
e non; coloro che sono stati condannati all’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici
c. Il voto è circondato da una serie di garanzie ed è definito “dovere civico”
La Costituzione vuole che il voto sia personale (espresso da ciascun cittadino di persona); uguale
(non è legittimo il voto plurio o multiplo, cioè l’attribuzione a specifiche categorie di cittadini di più
voti); libero (esente da qualsiasi forma di costrizione, perciò protetto dalla legge, anche nel senso che
deve essere garantita la libera formazione delle opinioni degli elettori); segreto. L’esercizio del voto
come dovere civico è il frutto del compromesso che permise di superare una delle contese più aspre
che caratterizzarono il dibattito sulla legislazione elettorale in periodo costituente. Il contrasto tra chi
concepiva il voto come un diritto dell’individuo; chi come una funzione, quindi un potere che si deve
esercitare in quanto membri della collettività, dunque un dovere. La formula “dovere civico” fu
introdotta quale invito al legislatore ordinario a provvedere, senza che ciò però costituisse un vincolo
giuridico.
d. L’esercizio del diritto di voto di chi riesede all’estero è disciplinato in forme speciali
L’unica soluzione è apparsa il voto per corrispondenza, anche se con tutte le possibili garanzie non
può assicurare interamente la personalità del suffragio.
Per quanto l’ordinamento costituzioanle italiano preveda forme di decisione popolare diretta, la nostra
resta una democrazia prevalentemente rappresentativa. Il fatto che sovrano sia considerato il popolo
comporta che, a tutti i livelli di governo in cui le scelte di natura politica devono essere compiute, la
parte del popolo cui l’ordinamento riconosce la capacità di partecipare alle decisioni collettive (corpo
elettorale) lo può fare, oltre che in forma diretta, anche e soprattutto attraverso la selezione di propri
rappresentanti, che eserciteranno, legittimati dall’investitura popolare che hanno ricevuto, le funzioni
che l’ordinamento attribuisce all’organo di cui sono chiamati a essere componenti. Si notri che
potrebbero esistere modalità di scelta diversa dall’elezione.
Nel nostro ordinamento il corpo elettorale elegge: i membri del Parlamento europeo; i deputati e i
senatori; i presidenti delle regioni e i consiglieri regionali; i sindaci e i consiglieri comunali; i
consiglieri circoscrizionali nei comuni in cui siano previste le circoscrizioni.
Il fenomeno referendario segna letteralmente la storia costituzionale e politica italiana per tre decenni.
Dal 1995 però molti falliscono, non raggiungendo il quorum. Ecco alcuni degli aspetti più
propriamente giuridici emersi attraverso una prassi così ricca:
-)la disputa ricorrente intorno all’ammissibilità delle richieste referendarie che ha inevitabilmente
trascinato la Corte costituzionale al centro di accese polemiche politiche
-)la questione dei vincoli determinati dalla decisione referendaria nei confronti del legislatore e,
quindi, il rispetto dell’esito del referendum, palesemente disatteso in alcuni casi
-)la questione della legittimità di referendum aventi natura formalmente abrogativa ma di fatto
propositiva
-)l’opportunità di aggiornare l’istituto sotto diversi profili: la successione temporale del
procedimento; il numero delle firme richieste, l’introduzione di un tetto al numero di richieste che si
possono sottoporre al voto nella stessa tornata; l’eliminazione o la riduzione del quorum strutturale.
La sua esistenza finisce infatti per attribuire un indebito vantaggio ai sostenitori del no.
I cittadini hanno a disposizione altri strumenti per concorrere a influenzare le sclete collettive,
esercitando anche così la loro sovranità. L’associazionismo a fini politici generali, al quale la nostra
Costituzione dedica una disciplina specifica, con riferimento ai partiti politici (art.49).
Il partito moderno è sorto nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e si è affermato nelle forme del partito
di massa all’inizio del Novecento. Modello fu il partito socialdemocratico redesco. I partiti
conobbero, anche in Italia, una priam fase in cui furono controllati o semplicemente tollerati come un
male inevitabile. In una seconda fase divennero strumento per impadronirsi dello stato e imporre un
indirizzo unico all’interno dell’ordinamento. La fine del fascismo comportà l’immediato ritorno al
pluralismo partitico e sui partiti politici, prima di tutto, si fondò il nuovo ordinamento costituzionale.
La natura giuridica dei partiti, nel nostro ordinamento, è del tutto peculire: espressione della società
(formazioni sociali) pur essendo semplici associazioni, di fatto ricoprono un ruolo rilevante ai fini
della funzionalità stessa dell’ordinamento costituzionale.
L’Art. 49 ha come destinatari i cittadini, ai quali riconosce il diritto “ad associarsi liberamente in
partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Secondo la
Costituzione, non sono i partiti a determinare la politica nazionale; sono i cittadini che, tutti insieme,
partecipano a questa funzione sovrana di indirizzo, avendo il diritto di avvalersi anche dello strumento
specifico della libera associazione in partiti. Il concorso alla determinazione della politica nazionale
deve avvenire con metodo democratico. L’intenzione del costituente era che con questa espressione
ci si riferisse ai rapporti fra i partiti, cioè al carattere di leale competizione per il consenso degli
elettori che la lotta politica avrebbe dovuto avere, e non all’organizzazione interna di ciascun partito.
Esso deve rispettare il metodo democratico nei rapporti esterni, ma può essere organizzato senza
selezione democratica della dirigenza e senza procedure democratiche di decisione al suo interno.
La scelta, inoltre, di non sottoporre a sindacato i fini del partito politico distingue il nostro da altri
ordinamenti, nei quali invece si è compiuta la scelta opposta, dando vita a una democrazia protetta,
nella quale, in nome della difesa della sua natura democratica, prevede anche istituti non coerenti con
i principi della democrazia liberale. Tranne casi eccezionali, gli interna corporis dei partiti sono stati
sempre tutelati, mentre alcune forme di controllo strettamente finanziario sono state introdotte quale
corrispettivo delle diverse fomre di finanziamento pubblico dell’attività dei partiti (anche sotto forma
di rimborsi elettorali). Una complessiva riforma nel senso della riduzione prima e del superamento
poi del finanziamento pubblico diretto. I partiti quindi si finanziano:
a- Attraverso forme di erogazione volontaria fiscalmente agevolata, cioè erogazioni liberali di
privati che danno diritto a detrazioni fiscali. Sempre che si tratti di partiti che abbiano ottenuto
almeno un eletto o si siano presentati alle elezioni politiche in un certo numero di
circoscrizioni (max 100mila euro all’anno)
b- Attraverso forme di contribuzione indiretta fondate sulle scelte espresse dai cittadini, che
hanno la facoltà di destinare il 2 per mille della propria imposta sul reddito a favore di un
partito rappresentanto alla Camera, al Senato o nel Parlamento europeo.
Sono stati anche rafforzati gli obblighi di rendicontazione e certificazione e i controlli, molto più
incisivi che in passato e accompagnati da sanzioni effettive, sono stati affidati a un nuovo organismo,
con sede presso la Camera dei deputati, composto da cinque magistrati: la Commissione di garanzia
degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici, con il compito anche
di controllare la conformità alla legge degli statuti dei partiti.
Altro aspetto cruciale dell’organizzazione partitica è stato a lungo il rapporto fra partito e gruppo
parlamentare. Nel nostro ordinamento i partiti politici si sono affermati prima nella società e poi nelle
istituzioni. La presa di partiti sulle istituzioni è stata nel Secondo dopoguerra fortissima, invasiva.
Non a caso si è parlato di partitocrazia, per segnalare l’eccessivo potere dei partiti e la loro tendenza
a impadronirsi delle istituzioni rappresentantive, occupando tutti i posti di potere, e duqnue, in ultima
analisi, sostituendoli a esse.
Dalla transizione degli anni Novanta è nato un sistema molto frammentato e dell’incerto
consolidamento, nel quale la legislazione elettorale ha introdotto attori nuovi, le coalizioni, cui le
forze politiche sono fortemente incentivate.
Diritto pubblico – Il Parlamento
Quale previsto dalla Costituzione del 1948, il nostro Parlamento è il diretto erede del Parlamento
dell’Italia monarchica, il quale a sua volta altro non era che il Parlamento subalpino istituito dallo
Statuto del 1848. Un parlamento bicamerale costituito di una camera sede della rappresentanza
nazionale (Camera dei deputati) e di una tutta di nomina regia (Senato). Quello statutario era stato
pensato come bicameralismo differenziato, ma anche tendenzialmente paritario, senza cioè che un
ramo dovesse prevalere sull’altro. Sin dall’inizio la forza del principio rappresentativo si fece sentire:
fu sempre alla Camera dei deputati che i governi si rivolsero per ottenere sostegno politico e con essa
sola instaurarono il rapporto fiduciario. Il bicameralismo statutario fu quindi non paritario e disuguale,
oltre che differenziato.
Durante il fascismo il Parlamento conobbe prima l’asservimento al “capo del governo” e al Pnf, poi
la soppressione della Camera dei deputati, trasformata in Camera dei fasci e delle corporazioni,
organo non più espressione del corpo elettorale ma di nomina governativa e partitica. Si rifiutava
l’idea stessa che le istituzioni rispecchiassero il pluralismo politico.
Durante l’Assemblea costituente, alcune forze politiche, convinte della necessità di rifondare lo Stato
rompendo l’accentramento politico-amministrativo che aveva caratterizzato l’Unità d’Italia,
ritenevano che una delle due camere dovesse diventare la sede di rappresentanza delle nuove
autonomie territoriali. Altri credevano invece che soltanto una camera unica potesse esserne sede. In
ogni caso, il Senato del Regno era scomparso per sempre dopo il referendum del 2 giugno 1946. Per
il resto, gli uni volevano un parlamento monocamerale, gli altri uno ancora bicamerale. Questi ultimi,
a loro volta, si dividevano su quale bicameralismo introdurre, e quali funzioni attribuire alle due
camere. Il compromesso fu raggiunto dando ragione a coloro che volevano due camere, ma con la
scelta di rendere sia la Camera dei deputati che il Senato della Repubblica espressione della sovranità
popolare. Ma se tutte dovevano ricoprire questo ruolo, come si poteva pensare di conferire loro
compiti diversi? Quindi il nostro bicamerlismo ha natura paritaria e indifferenziata, cioè è perfetto.
La natura paritaria delle due camere potrebbe essere discussa alla luce del principio democratico: il
Senato non solo ha un piccolo numero di senatori che non sono elettivi, ma soprattutto rappresenta
ben sette classi annuali di cittadini in meno. Ha quindi legittimazione, per stessa volontà costituente,
minore di quella della Camera dei deputati. Ciò può comportare anche equilibri politici diversi nelle
due Camere, con effetti sulla funzionalità della forma di governo. La Costituzione prevede anche
alcune limitate funzioni, ma non marginali, che le due Camere avrebbero dovuto assolvere insieme
riunite in seduta comune.
Il Parlamento italiano è un organo costituzionale complesso perché formato da due Camere: Camera
dei deputati (630 componenti) e Senato della Repubblica (315 componenti più un ristretto numero di
senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica). L’elezioni avviene a suffragio universale e
diretto. Quanto all’elettorato passivo, anche esso è diverso per età: 25 anni per la Camera e 40 per i
Senatori, che siano anche elettori. La legge prevede acneh casi di incompatibilità e di ineleggibilità.
Sussiste incompatibilità quando la legge vieta di detenere contemporaneamente due cariche. Tutte le
cariche o le funzioni che il parlamentare non può ricoprire nel corso del suo mandato, e deve sempre
optare per una.
Si parla di ineleggibilità quando il cittadino, in ragione della carica o dell’ufficio che ricopre al
momento della candidatura o che aveva ricoperto entro termini stabiliti dalla legge, non può essere
eletto.
Diversa è invece l’incandidabilità, non espressamente prevista dalla Costituzione, non può essere
rimossa dall’interessato e deriva dalla legge. Essa preclude la possibilità stessa di esercitare il diritto
di elettorato passivo. Vi incorre chi abbia subito una condanna definitiva a una pena detentiva di
almeno due anni per reati di particolare allarme sociale indicati dalla legge e anche per delitti non
colposi per i quali sia previsto il minimo edittale di quattro anni, e dura almeno sei anni.
I senatori a vita non sono certamente molot incisivi. Di nomina presidenziali, devono essere in tutto
cinque, ma ciascun presidente durante il proprio mandato non deve per forza nominarne altrettanti.
Ci sono poi 12 deputati e 6 senatori eletti nelle circoscrizioni estero che rappresentano i cittadini che
non risiedono in Italia.
Le Camere durano in carica 5 anni e non possono essere prorogate se non per legge nel solo caso in
cui il paese sia in stato di guerra (art. 60). Ciò va letto insieme all’art. 78, che attribuisce alle Camere
stesse il potere di deliberare lo stato di guerra.
I poteri delle Camere sono prorogati fino al momento in cui non si riuniscono le nuove Camere: e ciò
all’ovvio scopo di far sì che sia in ogni caso garantita la continuità nell’esercizio delle funzioni
parlamentari. Non si deve però pensare all’attività ordinaria (ma casi come i decreti legge). È l’istituto
della prorogatio, che serve a coprire il “vuoto” che potrebbe altrimenti verificarsi nell’esercizio di
funzioni affidate a organi per i quali l’ordinamento prevede la periodica sostituzione delle persone
fisiche che vi sono preposte. La prorogatio non va confusa con la proroga, che invece consiste nello
spostamento in avanti di un termine disposto per legge.
Le Camere, o anche soltanto una, possono essere sciolte in anticipo.
Il Parlamento in seduta comune, formato dai membri delle due Camere, si riunisce ai soli scopi già
definiti in Costituzione, funzioni che sono quasi esclusivamente elettive. Infatti, elegge, con il
concroso dei delegati regionali, il Presidente della Repubblica e assiste al suo giuramento, così come
lo può mettere in stato di accusa. Elegge un terzo dei componenti del Csm. Elegge un terzo dei
componenti della Corte costituzionale, nonché i 45 cittadini fra i quali estrarre i giudici aggregati ai
fini del giudizio d’accusa contro il Presidente della Repubblica. In seduta comune, il Parlamento è
presieduto dal presidente della Camera e anche il regolamento è il suo. È sempre il Presidente della
Camera a indire l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Tutto ciò non comporta
preminenza di una ramo del Parlamento sull’altro, ma l’equilibrio, stante il fatto che supplente del
presidente della Repubblica è il Presidente del Senato. L’organo in seduta comune vota sempre e solo
a maggioranza qualificata.
La Costituzione disciplina poi il nucleo dei diritti e dei doveri che formano lo specifico status
giuridico dei parlamentari. Non si può appartenere a entrembe le Camere. I titoli in base ai quali una
persona diventa parlamentare e il sopraggiungere nel corso del mandato di cause di incompatibilità,
ineleggibilità p incandidabilità sono giudicati dalle stesse Camere, ciascuna per i propri membri
(verifica dei poteri). Ogni parlamentare rappresenta l’intera nazione ed esercita le sue funzioni senza
rispondere ad altri che alla propria coscienza (esclusione del vincolo di mandato). Ogni parlamentare
riceve un’indennità stabilità per legge, a cui si aggiungono svariati benefici. Ogni parlamentare gode
di una serie di immunità per garantire da un lato il libero esercizio delle funzioni parlamentari,
dall’altro evitare il rischio di prevaricazioni da parte del potere giudiziario. Sono:
-)insindacabilità: per come votano e per ciò che dicono nell’esercizio delle loro funzioni i
parlamentari non possono essere in alcun modo chiamati a rispondere.
-)inviolabilità: i parlamentari non possono subire alcuna forma di limitazione della libertà personale,
di domicilio e di comunicazione, a meno che la camera di appartenenza non la autorizzi. Eccezioni
sono il caso in cui il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale l’arresto in
flagranza è obbligatorio; il caso in cui abbia subito una condanna detentiva passata in giudicato.
La domanda è come si debba interpretare l’espressione “nell’esercizio delle loro funzioni”. La
tendenza delle due Camere è sempre stata estensiva. La Corte costituzionale invece ritiene che debba
esistere un “nesso funzionale” fra attività parlamentare e cose dette o scritte fuori dalle Camere, e
questo si realizza solo quando quelle cose costituiscono la riproduzione di atti tipici o interventi
parlamentari.
Il procedimento legislativo passa attraverso diversi momenti, di cui solo i primi tre sono propriamente
parlamentari:
i. Iniziativa
Titolari dell’iniziativa legislativa sono il governo; ciascun consiglio regionale; il Cnel; il popolo
mediante proposta firmata da almeno 50mila elettori; ciascun membro del Parlamento. Mentre i
parlamentari possono presentare proposte di legge alla sola camera a cui appartengono, gli altri titolari
dell’iniziativa hanno facoltà di scelta senza limitazione alcuna.
ii. Istruttoria (assegnazione in commission e scelta del procedimento)
L’istruttoria in commissione è esplicitamente richiamata dalla Costituzione. Ogni progetto, redatto in
articoli secondo la forma tipica della legge, viene assegnato dal presidente a una delle commissioni
permanenti a seconda delle rispettive competenze per materia. Altre commissioni possono esprimere
un parere. Quello di alcune è richiesto quasi sempre e ha effetti sul procedimento. Il ruolo delle
commissioni dipende dal tipo di procedimento prescelto. Esistono tre diversi procedimenti, che
possono in parte intersecarsi tra loro:
a. Il procedimento normale, o in sede referente
Attribuisce alla commissione un compito esclusivamente istruttorio, in vista del seguito in aula. La
commissione, acquisiti i necessari elementi informativi anche sulla base delle relazioni tecniche che
può richiedere al governo, prima lo discute in via generale, poi lo esamina articolo per articolo, infine
perviene a un testo che invia all’assemblea.
b. Il procedimento misto, o in sede redigente
La commissione ha il compito di formulare un testo semi-definitivo: cioè un testo che, approvato
dalla commissione, l’aula voterà come tale senza possibilità di porporre, discutere e votare modifiche
c. Il procedimento in sede legislativa, o in sede deliberante
Se non vi si oppongono il governo, oppure 1/10 dei componenti della camera o 1/5 di quelli della
competente commissione, progetti di legge che non riguardino questioni di speciale rilevanza
generale possono essere esaminati e anche approvati in commissione, senza passare per l’assemblea.
Ciò è di fatto possibile solo quando vi è un largo consenso. La Costituzione esclude questo
procedimento per alcune materie, per le quali vi è riserva d’assemblea, mentre i regolamenti delle
Camere ne escludono altre ancora (es. la conversione dei decreti legge).
iii. Deliberativa (con la discussione in aula)
Si articola in tre momenti. Prima di tutto la discussione generale, nella quale i deputati o i senatori
dibattono appunto sulle linee generali del progettto in esame. Salvo deliberazione in contrario, si
passa alla fase dell’esame e votazione articolo per articolo, dove si discute e si vota ciascun articolo
in cui il progetto è ripartito e sugli emendamenti presentati (soppressivi, modificativi, aggiuntivi).
Seguono infine le dichiarazioni di voto finale e la votazione finale, sull’intero progetto di legge.
Se il progetto è approvato, previo coordinamento formale del testo, esso viene trasmesso con apposito
messaggio al presidente dell’altra camera. Questa dovrà approvare il progetto nella stessa identica
formulazione: qualsiasi modificazione comporta il ritorno alla camera che lo aveva approvato per
prima (navette). I regolamenti prevedono procedimenti abbreviati in seconda lettura, cioè
riesaminando soltanto ciò che è cambiato. Nel caso in cui, invece, il progetto sia già mstato approvato
nellos tesso testo dall’altra camera, allora il messaggio attestante l’approvazione conforme di
entrambe le Camere va al presidente delle Repubblica per la promulgazione e al ministro della
giustizia per la pubblicazione.
iv. Promulgazione (affidata al Presidente della Repubblica)
v. Pubblicazione
I regolamenti parlamentari disciplinano procedimenti legislativi speciali per alcuni progetti. Per
esempio disegni di legge di conversione di decreti legge; progetti di legge costituzionale; legge di
bilancio e legge di stabilità (sessione interamente dedicata); legge di delegazione europea e legge
europea (che hanno sostituito la legge comunitaria). Le leggi costituzionali sono approvate secondo
il procedimento dell’art. 138. Prevede letture alternate tra la Camera e il Senato e non letture
consecutive. Inoltre è previsto che la seconda lettura da parte di ciascuna camera abbia a oggetto il
progetto già approvato in prima lettura nel suo complesso.
Nella Costituzione italiana e l’art. 81 che detta le disposizioni in materia di bilancio (riformato nel
2012). Oltre all’annualità della legge di bilancio (e rendiconto consuntivo), si stabilisce il principio
dell’equilibrio delle entrate e delle spese e limita il ricorso all’indebitamento, che è consentito solo
per fronteggiare le conseguenze di un eventuale ciclo economico negativo e al “verificarsi di eventi
eccezionali”. È previsto che ogni nuova legge che le Camere si accingano ad approvare, la quale
comporti oneri aggiuntivi di qualsiasi genere, indichi i mezzi per farvi fronte, ossia la copertura
finanziaria che può essere soddisfatta sia con nuove entrate sia con taglio di spese prima previste. Nel
caso in cui il bilancio non sia approvato entro il 31 dicembre, il Parlamento può concedere per non
oltre quattro mesi l’esercizio provvisorio: l’autorizzazione all’esecutivo a impegnare risorse mese per
mese in misura non superiore a un dodicesimo di quelle previste dal bilancio dell’anno precedente.
L’art. 81 riserva ad apposita fonte specializzata la disciplina della legge di bilancio e delle regole per
garantire l’equilibrio tra entrate e spese.
Il ciclo annuale di bilancio è attualmente disciplinato dalla legge n.196/2009, modificata dalla legge
nr.39/2011. Leggi che provvedono ad adeguarsi alle sempre più stringenti regole dell’Unione europea
dirette a rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e di bilancio degli stati membri. Si è
quindi dato vita a un vero e proprio ciclo di bilancio coordinato Ue-Italia (vedi pag. 278), che prende
avvio, in Italia, sulla base delle “linee guida” di politica economica e di bilancio formulate in marzo
dal Consiglio Ue su proposta della Commissione. Il governo, entro il 10 aprile, sottopone alle Camere
il documento di economia e finanza, che fa il punto sulla situazione economico-finanziaria del paese
e contiene il programma di stabilità e il programma nazionale di riforma. Il governo invia poi il
documento a Bruxelles entro aprile. In seguito il governo, con riferimento all’esercizio dell’anno
precedente, predispone il rendiconto generale dello Stato, che viene presentanto entro giungo insieme
all’eventuale disegno di legge di assestamento per riportare i conti, in caso appunto di scostamenti,
in linea con le previsioni. Entro luglio, il Consiglio Ue e la Commissione si pronunciano sul
programma di stabilità e sul programma nazionale di riforma. Il governo, entro il 20 settembre,
presenta la nota di aggiornamento del documento di economia e finanza che fissa i nuovi obiettivi
programmatici e recepisce le raccomandazioni approvate in seduta europea. Entro il 15 ottobre
presenta i disegni di legge che compongono la manovra di finanza pubblica: il disegno di legge di
stabilità e il disegno di legge del bilancio di previsione. La manovra è inviata nel contempo alla
Commissione come documento programmatico di bilancio. Da ottobre a dicembre, ciascun camera
dedica una sessione apposita alla discussione e votazione della legge di stabilità e del bilancio di
previsione. Si tratta della sessione di bilancio, disciplinata dai regolamenti parlamentari. La legge di
stabilità riporta i livelli massimi di saldo netto da finanziare e del ricorso a mercato finanziario. È un
testo relativamente scarno, mentre per gli “interventi di carattere ordinamentale, organizzatorio
ovvero i rilancio e sviluppo dell’economia” ci si dovrebbe affidare a specifici disegni di legge
collegati alla manovra finanziaria. Essi vanno presentati entro il gennaio successivo, quando il ciclo
di bilancio dell’anno solare comincia nuovamente a muovere i suoi primi passi in ambito europeo.
A partire dalla legge nr.86/1989 è stato istituito un apposito strumento legislativo con cui viene
assicurato il periodico adeguamento dell’ordinamento interno agli obblighi derivanti
dall’ordinamento dell’Unione europea. Era la cossidetta legge comunitaria.
Con la legge nr.234/2012, si sono istituiti due distinti strumenti legislativi, che sostituiscono la legge
comunitaria: il disegno di legge di delegazione europea e il disegno di legge europea, che il governo
presenta alle Camere entro il mese di febbraio. La legge di delegazione europea contiene in particolare
disposizioni per il conferimento al governo di deleghe legislative per l’attuazione delle direttive
europee; disposizioni che individuano i principi fondamentali nel rispetto dei quali le reigoni
esercitano la propria potestà normativa per recepire gli atti dell’Unione. La legge europea reca invece
la modifica o l’abrogazione di disposizioni statali in contrasto con gli obblighi Ue e tutte le
disposizioni necessarie per dare attuazione agli atti dell’Unione.
Le Camere si trovano, in limitati casi, ad assolvere compiti che sono per lo più attribuiti a altri poteri
dello Stato: funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative. Attribuzioni che alle Camere sono
assegnate per garantire l’esercizio pienamente libero delle loro funzioni tipiche.
Quando ciascuna camera decide in ordine alle contestazioni relative al pocedimento elettorale, svolge
una funzione di tipo giurisdizionale. Nel solo caso delle elezioni politiche, tale oggetto è sottratto al
giudice comune, in modo da tutelare prioritariamente l’assoluta indipendenza del Parlamento.
Ciascuna camera poi esercita l’autodichia, cioè la giurisdizione domestica sui ricorsi contro i
provvedimenti in materia di personale e gli atti di amministrazione interna, riguardanti i dipendenti
delle Camere.
A parte l’autonomia amministrativa, contabile e di bilancio, ci sono alcune leggi che attribuiscono a
commissioni parlamentari bicamerali funzioni in senso lato amministrative, cioè di gestione diretta.
Dal 1971, i lavori parlamentari sono improntati al metodo della programmazione, cioè cadenzati
secondo criteri concordati dalla conferenza dei capigruppo, su proposta dle governo, della
maggioranza e dell’opposizione. Si tratta del contingentamento dei tempi, in base al quale i
procedimenti in asseblea devono concludersi entro una data prefissata: il tempo disponibile è ripartito
in quote fra governo, relatori, rappresentanti dei gruppi, eventuali parlamentari che intervengono a
titolo personale, in modo da far sì che effettivamente, il tal giorno alla tal eora, la decisione finale
venga assunta. Alla Camera però il contingentamento non si applica ai disegni di legge di conversione
di decreti leggi. Da quando esso è diventato norma, i calendari trovano per lo pià attuazione, a
vantaggio della funzionalità dell’assemblea.
La modalità di votazione: la stragrande maggioranza di esse avvengono sempre a scrutinio palese,
con o senza la registrazione di come ciascun parlamentare ha votato (che però c’è sempre nella
votazione finale). Ciò obbliga singoli e gruppi parlamentari ad assumersi apertamente le proprie
resonsabilità. L’effetto stabilizzante nei confronti dell’intero rapporto governo-parlamento è quindi
notevole, così come il rafforzamento del governo.
Chi è all’opposizione tende con frequenza a fare ricorso all’ostruzionismo: l’utilizzo esasperato di
tutte le facoltà previste dal regolamento allo scopo di ritardare o impedire che l’assemblea deliberi.
Si giustifica come volontà di resistenza estrema da parte delle minoranze quando sono in discussione
i valori più alti e le regole fondamentali della convivenza sociale e dei rapporti istituzionali.
Il Governo in Parlamento
Il parlamentarismo necessita per definizione della collaborazione fra i due soggetti del rapporto
fiduciario, ovvero, nei fatti, fra il governo e la sua maggioranza. La Costituzione conferisce al
Governo ben porche prerogative in relazione all’andamento dei lavori parlamentari: il diritto di
partecipare a qualsiasi riunione e di far udire la propria voce in qualsiasi momento; ottenere, in
qualsiasi fase del procedimento legislativo, che sia seguito quello normale; il potere di decretazione
d’urgenza, con la possibilità quindi di incidere sull’orgine del giorno delle Camere; e il governo non
ha l’obbligo giuridico di dimettersi se viene battuto da un semplice voto contrario. Sono poi proprio
i regolamenti parlamentari a disciplinare aspetti importanti del rapporto fiduciario.
La questione di fiducia consiste nell’annuncio formale fatto dal governo, nell’imminenza di una
qualsiasi votazione parlamentare, che esso la considera tanto rilevante ai fini del proprio indirizzo
che si dimetterà nel caso in cui l’assemblea si pronunci negativamente. Utilizzata senza soluzione di
continuità sin dal 1848, tanto da far ritenere che si tratti di una consuetudine costituzionale, incontrò
una disciplina piuttosto restrittiva nei regolamenti del 1971.
Il complesso delle modificazioni apportate ai regolamenti, a partire dagli anni Ottanta del secolo
scorso, ha notevolmente rafforzato la posizione del governo, assecondando negli anni più recenti i
cambiamenti del sistema elettorale e del sistema politico. Oggi il governo può, direttamente o
attraverso i gruppi di maggioranza, determinare i quattro quindi dell’agenda parlamentare, e, grazie
al contingentamento dei tempi, può contare sul fatto che tale agenda sia in linea di massima portata a
compimento; può verificare giorno per giorno la compattezza della sua maggioranza grazie al fatto
che quasi tutte le votazioni sono a scrutinio palese; può porre la questione di fiducia con minori vincoli
rispetto al passato; può meglio difendere il contenuto delle proprie proposte per le limitazioni che
sono state via via introdotte alla facoltà di proporre o votare emendamenti. Dal punto di vista della
prassi, il ricorso alla questione di fiducia nel corso dell’esame di progetti di legge si è fatto negli anni
sempre più frequente. Abbinato ai cosiddetti maxi-emendamenti (ciascuno sostitutivo non di singoli
articoli o parti di articoli, ma di decine o addirittura centinaia di articoli), l’uso della fiducia ha finito
con l’attribuire al governo una specie di voto bloccato.
In conclusione, si può dire che il governo, purché possa contare su una maggioranza non disposta a
rischiare le elezioni anticipate, ha nella questione di fiducia lo strumento per realizzare il proprio
programma legislativo.
Il Parlamento e:
A. Presidente delle Repubblica
In seduta comune lo elegge e ne ascolta il giuramento; ne riceve i messaggi; a esso trasmette le leggi
approvate per la promulgazione e ne riceve l’eventuale rinvio; i presidenti dei gruppi parlamentari
sono ascoltati dal Presidente in vista della nomina del presidente del Consiglio, così come anche in
vista dello scioglimento delle Camere stesse. Il Parlamento può mettere in stato di accusa il
Presidente, ma non può sindacarne l’attività
B. Corte costituzionale
Elegge un terzo dei giudici costituzionali; le sue leggi sono sottoposte a controllo di costituzionalità.
Il Parlamento, tramite uno o più commissari eletti fra i suoi componenti, sostiene l’accusa nei
confronti del Presidente della Repubblica davanti alla Corte in composizione intergrata.
C. Magistratura
Elegge un terzo dei componenti del Csm; può esercitare funzioni di indirizzo e di controllo sul modo
come il ministro della giustizia provvede all’organizzazione e al funzionamento dei servizi necessari
all’esercizio della giurisdizione da parte dei magistrati; ciascuna camera e chiamata a decidere sulle
eccezioni di insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle funzioni e
sulle richieste di provvedimenti restrittivi della libertà personale a carico dei propri componenti.
D. Regioni
È prevista una commissione parlamentare per le questioni regionali che viene sentita in caso di
scioglimento di un consiglio regionale o di rimozione di un presidente di regione
E. Unione europea
La produzione normativa Ue ha l’effetto sia di sottrarre ambiti di competenza agli organi nazionali,
sia di far discendere obblighi di adeguamento della normativa interna. I regolamenti parlamentari
quindi hanno previsto specifiche procedure di indirizzo e di controllo sull’attività governativa in
ambito europeo. In entrambe le Camere è istituita una commissione permanente “politiche
dell’Unione europea” con compiti relativi all’esame in sede referente della legge di delegazione
europea e della legge europea; all’esame in sede consultiva degli schemi di atti del governo attuativi
di direttive Ue e di tutti i progetti in sede politica degli atti di compatibilità con la normativa europea;
all’esame in sede politica degli atti e dei progetti di atti dell’Unione.
Il Trattato di Lisbona ha formalmente riconosciuto un ruolo per i parlamenti nazionali: secondo l’art.
12 Tue, essi contribuiscono al funzionamento dell’Unione vigilando sul rispetto del principio di
sussidiarietà.
F. Organi ausiliari e autorità indipendenti
Le Camere si avvalgono di pareri, studi e indagini del Cnel, il quale è anche titolare dell’iniziativa
legislativa. La Corte dei conti “riferisce direttamente” alle Camere sui riscontri che esegue, e presenta
relazioni annuali sulla gestione di tutti gli enti comunque sovvenzionati dallo Stato. Relazioni al
Parlamento presentano per obbligo di legge ogni anno le diverse autorità indipendenti (Autorità
garante della concorrenza e del mercato; Garante per la protezione dei dati personali). Il Parlamento
partecipa in vario modo al procedimento di nomina delle autorità.
Diritto pubblico – Il presidente della Repubblica
Ogni ordinamento statale conosce una figura istituzionale che lo rappresenta nella sua interezza e
nella sua unità. Questa figura si usa chiamare capo dello dello stato, espressione che richiama l’idea
di un soggeto che sta in posizione più alta di tutti. Fino a tempi relativamente receventi, capo dello
stato era per definizione il re. Oggi, quasi sempre capo dello stato è un organo monocratico, costituito
cioè da una sola persona. Cioè un presidente della repubblica di estrazione rappresentantiva, diretta
o indiretta che sia; oppure un monarca di estrazione ereditaria. Quelli indirettamente rappresentativi
sono espressamente, in alcuni casi, dotati di importanti attribuzioni, in quanto presidenti che sono
titolari del potere esecutivo, oppure che lo sono in relazione a certe materie. È il caso delle repubbliche
presidenziali e semi-presidenziali. In altri casi, i presidenti titolari di poteri propri della tradizione
delle monarchie costituzionali si trovano a utilizzarli talvolta quando a ciò li inducano le circostanze
politiche contingenti: è il caso di alcune repubbliche parlamentari. Per lo più invece, il ruolo
presidenziale assume le caratteristiche di mera rappresentanza tipiche oggi dei capo di stato ereditari.
Talvolta è la costituzione stessa ad affidare al presidente compiti di arbitrio o di garante del
funzionamento delle istituzioni, più spesso la prassi.
Il presidente della Repubblica viene eletto dal Parlamento in seduta comune integrato da 58 delegati
regionali (art.83). Richiesta è una maggioranza in ogni caso qualificata: nelle prime tre votazioni essa
è di due terzi del collegio, dalla quarta in poi è la maggioranza assoluta dei componenti. Unico
requisito è essere un cittadino che abbia compiuto 50 anni di età e goda dei diritti politici e civili. Va
da sé che la carica non è compatibile con nessun’altra. Non vi è limite al numero di mandati. La prassi
costituzionale dell’elezione dovrebbe garantire un grado di consensi particolarmente elevato, quindi
un’investitura a larga base politica che andasse anche al di là dei confini della maggioranza politica.
L’obbligo di una maggioranza comunque non ristretta va valutato in connessione con le singole
funzioni attribuite al presidente e, soprattutto, con il suo ruolo di vertice dello Stato e rappresentante
dell’unità nazionel. La lunga durata di carica di 7 anni lo svincola da legami politici immediati con
l’organo che lo elegge. Gode di un assegno personale e di una dotazione finanziaria, entrambi fissati
per legge. Esiste un apparato amministrativo autonomo che risponde direttamente al presidente, cioè
il segretariato generale della presidenza della Repubblica, con un segretario generale che è posto a
capo di una struttura organizzata in uffici. Per disciplinare la propria organizzazione e
amministrazione interna la presidenza esercita un potere regolamentare.
Qualora il presidente non sia in grado di adempiere temporaneamente alle sue funzioni per qualsiasi
ragione, l’esercizio di esse passa al presidente del Senato della Repubblica: è l’istituto della
supplenza. Il supplente farà bene a limitarsi ad atti di “ordinaria amministrazione”. In caso di
impedimento permanente si può anche pensare a un pieno esercizio della supplenza. È il presidente
stesso, come normalmente accade, a dichiararlo e a firmare un proprio decreto con quale affida le
funzioni al presidente del Senato. È anche possibile constatare l’impedimento d’intesa tra i presidenti
delle due Camere e il presidente del Consiglio.
Il presidente che cessa dalla carica, salvo in caso di destituzione da parte della Corte costituzionale,
diventa senatore a vita, a meno che non vi rinunzi.
Secondo la Costituzione italiana, il presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta
l’unità nazionale. È una figura che non ha funzioni di indirizzo politico, bensì funzioni di garanzia.
La figura del presidente va ricostruita sulla base delle attribuzioni giuridiche che la costituzione le
riconosce e della prassi che si è affermata dal 1948 in poi. Il testo costituzionale assenza al presidente
poteri rilevantissimi e largamente incidenti sull’esercizio sia delle funzioni esecutive, sia delle
funzioni legislative, nonché giudiziarie: ma con il corollario, per nulla marginale (art.89), in base al
quale gli atti del presidente non sono riconosciuti come validi se non controfirmati da un componente
del governo. La controfirma ministeriale è nelle origini istituto monarchico corrispettivo
dell’inviolabilità della figura del sovrano: non essendo sottoponibile a sindacato sotto alcun profilo,
i ministri, suoi più diretti collaboratori, firmando gli atti del re assumevano su di sé ogni responsabilità
giuridica.
La Costituzione fa riferimento alla necessaria controfirma dei ministri proponenti, che ne assumono
la responsabilità. Proponenti, quasi a indicare che non si tratti di atti propri del presidente. Però, nel
testo del progetto sottoposto all’Assemblea costituente c’erta scritto invece ministri competenti. Ciò
non è irrilevante: perché la stessa controfirma da parte di un ministro o del presidente del Consiglio
può assumere, in un caso, significato implicito di proposta, nell’altro, di mera assunzione di
corresponsabilità e, in qualche modo, di controllo, alla stregua di una garanzia giuridico-
costituzionale. Sta di fatto che la previsione dell’obbligo di controfirma per tutti gli atti del presidente,
nessuno escluso, ha confuso le cose, e spiega perché da oltre sessant’anni si disputa intorno al
carattere, sostanziale o meramente formale, di molto suoi poteri. Quali attribuzioni sono tali solo
perché il presidente è capo dello Stato, e dunque una serie di atti sono a lui formalmente intestati, ma
sono in realtà deliberati da altro organo costituzionale? Quali atti, pur controfirmati, devono ritenersi
suoi propri, cioè furtto di una sua discrezionale valutazione? Quali devono ritenersi frutto di un
concorso di volontà, quella sua e quella del governo? La Corte costituzionale si è espressa in merito,
affermando che la controfirma “assume un diverso valore a seconda del tipo di atti di cui rappresenta
il completamento”.
Esistono vari poteri che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica:
a. In ordine della rappresentanza esterna
Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati e dichiara lo stato di guerra
b. In ordine dell’esercizio delle funzioni parlamentari
Nomina fino a cinque senatori a vita, può inviare messaggi alle Camere, scoglierle entrambe o una di
esse
c. In ordine alla funzione legislativa
Promulga le leggi approvate dal Parlamento e, con messaggio motivato, può rinviarle. Autorizza la
presentazione alle Camere dei disegni di legge del Governo. Emana gli atti del governo aventi forza
di legge
d. In ordine alla funzione esecutiva e di governo-indirizzo
Nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri, e conduce a tal fine le consultazioni.
Autorizza la presentazione dei disegni di legge del governo. Emana i decreti legislativi e i decreti
legge. Ha il comando delle forze armate e presiede il Consiglio supremo di difesa
e. In ordine all’esercizio della sovranità popolare
Indice le elezioni delle nuove Camere e i referendum previsti dalla Costituzione
f. In ordine all’esercizio della giurisdizione costituzionale, ordinaria e amministrativa
Nomina un terzo dei giudici della Corte costituzionale, presiede il Csm, può concedere grazia e
commutare le pene.
Esistono quindi una serie di attribuzioni dirette figlie delle prerogative regie; altre che si sono
“trasformate” e che comunque assumono nel contesto repubblicano un significato diverso; altre
ancora che non esistevano nell’ordinamento statutario. Vi sono poi anche alcuni “atti” che si ritiene
il presidente possa compiere senza controfirma: dimettersi; fare dichiarazioni informali in pubbliche
occasioni (esternazioni); esercitare le funzioni di presidente degli organi collegiali Csd e Csm;
conferire l’incarico di formare il governo. Attribuzioni comunque di rilevanza molto diversificata:
i. Attribuzioni il cui esercizio è in qualche caso formalmente, in diversi casi sostanzialmente,
obbligato (il presidente deve promulgare la legge riapprovata dalle Camere dopo il rinvio);
ii. Attribuzioni che certamente riservano al presidente uno spazio di valutazione
discrezionale (come il rinvio alle Camere di una legge da esse approvata, o l’invio di
messaggi alle Camere);
iii. Attribuzioni che si possono definire di altissima valenza politica, in grado di influenzare
se non condizionare il circuito dell’indirizzo politico che in un regimen parlamentare si
snoda dal corpo elettorale al Parlamento al governo, per tornare, ogni volta che la
legislatura è scaduta o che si rende necessario anticiparne la scadenza, al corpo elettorale
Un esempio di dove possa portare l’irrisolta ambiguità del testo costituzionale in materia di
attribuzioni presidenziali è venuto dalla controversia sull’esercizio del potere di grazia e sul rispettivo
ruolo del capo dello Stato e del ministro della giustizia. La necessità della controfirma ha permesso
la ministro di bloccare il provvedimento nel caso in cui lo condividesse. La Corte costituzionale ha
quindi deviso di ritenere la grazia “una potestà decisionale del capo dello Stato quale organo super
partes”: proprio in quanto essa viene considerata “eccezionale strumento destinato a soddisfare
straordinarie esigenze di natura umanitaria”. Non spetta al ministro impedire che il procedimento di
concessione abbia corso e che il presidente adotti la sua decisione in merito. È un esempio di atto
sostanzialmente oltre che formalmente presidenziale in base alla giurisprudenza costituzionale.
Il Consiglio supremo di difesa è un organo presieduto dal capo dello Stato e composto dal presidente
del Consiglio, da cinque ministri e dal capo di stato maggiore della difesa, avente la funzione di
discutere linee generali strategiche e impiego delle forze armate. Con il tempo si è rafforzata la sua
capacità operativa e accentuata la dipendenza organizzativa e funzionale della presidenza della
Repubblica, che quindi ha una funzione evidente di indirizzo politico. Il Csd, da mero organo di
informazione e consultazione, si è evoluto in protagonista attivo e determinante della politica di
sicurezza del paese.
La Costituzione prevede trattamenti diversificati, rispetto a quelli degli altri cittadini, per coloro che,
a partire dal Presidente della Repubblica, ricoprono determinate cariche: non a titolo di personale
privilegio, ma per garantire l’autonomia e la libertà nell’assolvimento delle funzioni che a essi sono
attribuite.
L’art. 90 prevede una forma di irresponsabilità del presidente per tutti gli atti compiuti nell’esercizio
delle sue funzioni, a meno che non si sia macchiato di due reati: altro tradimento (collusione con
potenze straniere) e attentato alla Costituzione (non una qualsivoglia violazione della carta
costituzionale, ma solo quelle che siano tali da mettere a repentaglio i caratteri essenziali
dell’ordinamento). Il Parlamento in seduta comune e la Corte costituzionale rappresentano l’unico
giudice degli eventuali atti e fatti ascritti al presidente e della loro suscettibilità di integrare la
fattispecie dell’art. 90. Il procedimento per far valere la responsabilità del capo dello Stato si articol
in due fasi:
A. Di carattere politico, è la messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune,
con voto a maggioranza assoluta
Si articola a sua volta in due fasi, cioè l’istruttoria e la decisione. L’istruttoria è condotta dal comitato
parlamentare per i procedimenti d’accusa, che compie una prima serie di indagini in relazione alle
denunce. Questa attività può concludersi o con un provvedimento di archiviazione per manifesta
infondatezza delle accuse, o con una relazione da presentare al Parlamento, contenente le conclusioni
cui è giunto il comitato, favorevoli o contrarie all’accusa. Dopo l’atto d’accusa, con decisione della
Corte costituzionale, il presidente della Repubblica può essere sospeso dalla carica in via cautelare.
B. Di carattere giurisdizionale, è il giudizio della Corte costituzionale, integrata da 16
componenti estratti da un elenco di 45 nomi compilato dallo stesso Parlamento in seduta
comune ogni 9 anni, così da assicurare un giudizio che tenga comunque conto della valenza
politica di casi del genere, ma nel quale i giudici sono predeterminati.
Il giudizio della Corte costituzionale si divide in tre fasi procedimentali. La fase istruttoria, condotta
dal prtesidente della Corte, è atta a acquisire tutti gli elementi di prova ritenuti utili per la decisione.
Si apre poi il dibattimento, nel quale le parti, in contradditorio tra loro, discutono sulle risultanze
dell’istruttoria e fanno le loro richieste. La Corte si riunisce quindi in camera di consiglio per la
decisione finale, che potrà essere di assoluzione o di condanna.
In caso di condanna potranno essere applicate le pene fino alla misura massima prevista dalla
legislazione, possono essere applicate le sanzioni civili, amministrative e costituzionali
(destituzione). La sentenza così emessa è definitiva e non può essere impugnata in alcun modo, a
eccezione delle ipotesi di revisione.
La figura presidenziale conferma i suoi caratteri di ambiguità. Infatti, se si lascia da parte quella forma
di responsabilità politica diffusa che si traduce nella suscettibilità a essere criticati; è chiaro che la
nostra Costituzione prevede una sostanziale irresponsabilità politica del presidente. È invece pacifico
che il presidente risponda come ogni altro cittadino per tutte le azioni compiute fuori dell’esercizio
delle sue funzioni. L’autonomia del presidente, infatti, potrebbe essere lesa da eventuali indagini
arbitrarie e tendenziose. Si ha allora l’improcedibilità: se si tratta di piccolezze, la magistratura
attende la fine del mandato; se ci ha a che fare con un reato serio, si può configurare un impedimento
e magari l’opportunità di dimissioni.
Molto è da dire sul potere di scioglimento delle Camere. Alla Costituente se ne discusse molto. In
ultimo si decise di circondare l’istituto di una cautela significativa che si aggiunge all’obbligo di
controfirma (del presidente del Consiglio): consultare previamente i presidenti delle due Camere, il
cui parere non è però vincolante. Egli non può esercitare il potere di scioglimento negli ultimi sei
mesi di mandato (semestre bianco), limite in genere interpretato come indicazione che questo era
considerato un potere presidenziale in senso stretto.
Nella storia costituzionale lo scioglimento del parlamento è un potedre che i capi di stato ereditari, i
monarchi assoluti di un tempo e i loro successori nelle monarchi costituzionali, hanno sempre avuto.
Mentre un tempo era il re a decidere anche sostanzialmente lo scioglimento, dall’avvento del governo
parlamentare non è più così e il potere di proporre lo scioglimento è del governo e, in particolare, del
primo ministro. Il potere di convocare elezioni anticipate è un fondamentale strumento di
stabilizzazione del governo parlamentare: la sola minaccia di farvi ricorso serve più che non l’uso di
esso, perché ai parlamentari in carica non piace mai il rischio legato a nuove elezioni. È quindi uno
strumetno “politico” per eccellenza. Nei primi anni di vita della Costituzione fu considerato un potere
governativo e fu usato per fare in modo che la durata del Senato si riconducesse a quella della Camera.
Dagli anni Settanta divenne un potere usato sempre più spesso e condizionato dalla volontà dei
principali partiti. Dagli anni Novanta è parso evolvere verso un potere sostanzialmente presidenziale,
per via delle difficoltà a sperimentare prima e applicare poi il governo parlamentare di tipo
maggioritario da parte di un sistema partitico in continua evoluzione e mai veramente assestatosi.
Anche per lo scioglimento, come per le altre attribuzioni presidenziali, sussiste la regola indefettibile
che nessun atto del presidente è valido in assenza di controfirma. Ciò giustifica opinioni dottrinali
diverse e ha permesso prassi legittime, ma via via differenti. Scioglimento come potere governativo,
che presuppone un funzionamento del governo parlamentare in senso monista con salde e omogenee
maggioranze guidate da leader politici in grado di imporre di fatto lo scioglimento per l’impossibilità
di prescindere dal loro concorso per formare un qualsivoglia governo. Scioglimento come potere
presidenziale, in un’interpretazione sostanzialmente dualista della forma di governo, ritenendo che il
presidente della Repubblica possa e debba esercitare funzioni arbitrali attive al fine di garantire quel
buon funzionamento del governo parlamentare che i partiti politici non riescono ad assicurare.
Riconoscere come sostanzialmente presidenziali poteri che sono intrinsecamente di natura politica
rende più difficile permette che il capo dello Stato sia percepito come rappresentante dell’unità
nazionale. Al tempo stesso impedisce anche di attribuire al presidente del Consiglio uno strumento,
il potere di scioglimento, che tanto più con assemblee divise fra una molteplicità di gruppi può
concorrere in modo decisivo a favorire la stabilità e la funzionalità dei governi.
Diritto pubblico – Il governo della Repubblica
Secondo la tradizionale tripartizione dei poteri, il potere esecutivo spetta al governo; anzi, il governo
è il potere esecutivo. Sia in senso oggettivo, cioè con riferimento alla funzione esecutiva, sia in senso
soggettivo, cioè con riferimento all’organo o agli organi cui tale attività è affidata. La funzione
esecutiva consiste nel porre in essere attività immediate, concrete ed effettive, in attuazione di scelte
più generali e di indirizzo. Potere esecutivo vuol dire quindi, anche amministrazione: di quella statale
il governo è appunto il vertice. Amministrare significa tradurre continuativamente in decisioni
puntuali aventi ben individuati destinatari le scelte, che di regola sono generali e astratte, del
legislatore. In nome di interessi generali. La funzione esecutiva comprende un’ampia pluralità di
attività riconducibili, con maggiore o minore immediatezza, alle scelti di fondo espresse sia in fomra
legislativa si ain forma non legislativa. Il governo costituisce l’organo che più di ogni altro pomuove,
elabora e, in parte direttamente, realizza le politiche pubbliche.
In Italia da sempre l’esecutivo non è affatto meramente tale. Le sue funzioni vanno molto al di là
della semplice attuazione ed esecuzione del comando legislativo, tanto più in una forma di governo
parlamentare che si fonda sul necessario coordinamento fra i poteri titolari in prevalenza, ma non a
titolo esclusivo, di funzioni diverse. Il governo concorre all’esercizio della funzione legislativa in
posizione privilegiata, non solo perché è uno dei titolari dell’iniziativa, ma perché di fatto la gran
parte delle leggi approvate sono quelle che esso presenta e asseconda in Parlamento; inoltre, può
adottare norme legislative immediatamente vigenti, sia pure a titolo provvisorio, attraverso la
decretazione d’urgenza e co-legifera col Parlamento attraverso la delegazione legislativa. Sempre di
più il governo esercita funzioni di coordinamento generale e di indirizzo politico, sempre di più il
rapporto fiduciario che lo lega alle Camere va inteso come assenso all’indirizzo che esso propone,
legittimato dal consenso degli elettori. Inoltre, il governo è anche (e soprattutto) il vertice
dell’apparato amministrativo statale: ogni branca dell’amministrazione statale ha al suo vertive un
ministro ai cui indirizzi settoriali risponde, mentre l’intera amministrazione risponde a quelli generali
fissati dal Consiglio dei ministri e tradotti in direttive dal presidente del Consiglio. In questo quadro
il governo esercita il suo potere normativo regolamentare.
La legge conferisce all’esecutivo ampi poteri di auto-organizzazione nel senso di una maggiore
flessibilità e, ci si attende, di una maggiore capacità operativa.
Nell’ordinamento italiano (titolo III parte II) il governo, come il Parlamento, è un organo complesso,
cioè organo a sua volta costituito da altri organi. Secondo l’art.92, il governo della Repubblica è
composto da un organo collegiale e da una pluralità di organi individuali: presidente del Consiglio
dei ministri; i ministri; il Consiglio dei ministri, l’organo collegiale costituito dal primo, che lo
presiede, e dai secondi. L’art.95, letto insieme alla legislazione sul governo, cerca di risolvere nel
modo che segue la questione dei rapprorti fra gli organi che compongono il governo:
A. Il presidente del Consiglio
Ha un compito di direzione della politica generale del governo, della quale porta personale
responsabilità politica. Mantiene l’unità dell’indirizzo politico e amminitrativo (non lo determina).
Promuove e coordina a tal fine l’attività dei ministri. Il suo potere giuridico chiave è la proposta al
presidente della Repubblica dei nomi dei ministri da nominare (ma non la loro revoca). Solo su sua
iniziativa può essere posta la questione di fiducia. Controfirma ogni atto deliberato dal Consiglio
(potere di condizionamento) e presenta alle Camere i disegni di legge d’iniziativa governativa. Ha
l’alta direzione e la responsabilità generale della politica dell’informazione per la sicurezza e il potere
di apporre il segreto di stato. promuove e coordina l’azione del governo nei rapporti con il sistema
delle autonomie regionali e locali. Promuove e coordina l’azione del governo nell’Unione europea ed
è responsabile dell’attuazione degli impegni assunti in ambito europeo.
Il presidente del Consiglio ha sede in Palazzo Chigi dal 1961, dotato di struttura composta di numeros
dipartimenti, uffici e servizi, cioè la presidenza del Consiglio, che gode di autonomia contabile e di
bilancio, e organizzativa.
B. Il Consiglio dei ministri
Assume tutte le deliberazioni relative alla funzione di indirizzo politivo: determina la politica generale
del governo e dirime eventuali conflitti di competenza fra i ministri. Decide sulla poposta del
presidente del Consiglio di porre la questione di fiducia; sugli indirizzi di politica internazio nale e
europea; sulla presentazione dei disegni di legge e su tutti gli atti normativi; sulle nomine al vertice
di enti, istituti o aziende di competenza dell’amministrazione statale; sui ricorsi alla Corte
costituzionale contro una legge regionale e sui conflitti di attribuzione contro un altro potere dello
Stato o regione; sull’annullamento straordinario di atti amministrativi illegittimi.
Un regolamento adottato con decreto del presidente del Consiglio disciplina le riunioni del Consiglio
dei ministri, nonché il seguito delle iniziative legislative governative.
C. I singoli ministri
Costituiscono il vertice delle amministazioni cui sono preposti. Essi rispondono insieme
(“collegialmente”) degli atti del Consiglio dei ministri e ciascuno, individualmente, degli atti dei
rispettivi ministeri. Sono attualmente 13. Al momento della formazione del governo però possono
essere nominati altri ministri i quali non siano a capo di alcun ministero, ma esercitino funzioni
attribuite alla presidenza del Consiglio, a loro delegate dal presidente del Consiglio che ne resta il
titolare, in genere posti a capo di un apposito dipartimento. Sono questi i ministri senza portafoglio,
per la cui attività il bilancio dello Stato non prevede specifici capitoli di spesa. Essi siedono a pieno
titolo in Consiglio dei ministri al pari dei ministri di che portafoglio sono dotati.
Non esiste una precisa linea di demarcazione fra ciò che appartiene alla politica generale del governo
e ciò che ha carattere settoriale. Molto, se non tutto, finisce col dipendere dalla forza, non giuridica
ma politica, del presidente del Consiglio: dalla concreta capacità del presidente di imporre le sue
valutazioni sulel cose che sono di competenza sua e del Consiglio dei ministri e sulle cose che è
opportuno lasciare alla competenza del singolo ministro.
La legge prevede anche una serie di organi costituzionalmente non necessari che integrano la
composizione dell’organo complesso governo. Uno o più vicepresidenti del Consiglio dei ministri,
cioè ministri a cui il presidente attribuisce la funzione di supplenza in caso di assenza del presidente
stesso. I sottosegretari di stato alla presidenza del Consiglio e a ciascun ministero, con il compito di
coadiuvare il presidente o il ministro e, su sua delega, esercitare determinate funzioni che a lui
appartengono. Uno dei sottosegretati viene nominato segretario del Consiglio dei ministri ed è
responsabile del verbale, quindi è l’unico sottosegretario che partecipa alle sedute del Consiglio.
Su proposta del presidente del Consiglio, il Consiglio dei ministri può individuare non più di dieci
sottosegretari che assumono il titolo di viceministri, cui è conferita una delega su un intero settore di
competenza del ministero cui sono assegnati. La legge prevede un numero massimo di componenti
del governo in 65.
Sono inoltre previsti anche comitati interministeriali istituiti per legge in determinati settori.
Rispondono invece a scelte contingenti del presindete del Consiglio i comitati di ministri che il
presidente può istituire per svolgere compiti istruttori. È previsto inoltre il consiglio di gabinetto,
composto da ministri di particolare importanza, organo peraltro non più costituito da molti anni. Su
proposta del presidente del Consiglio, infine, il Consiglio dei ministri può deliberare la nomina di
commissari straordinari del governo, ai quali sono affidati specifici progetti o particolari funzioni di
coordinamento fra diverse amministrazioni statali.
In relazione ai titolari di cariche di governo, sono state introdotte norme volte a evitare e risolvere
eventuali conflitti di interessi, in particolare nel campo economico. La legge riconosce una generale
potere di controllo in materia all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e all’Autorità per
le garanzie nelle comunicazioni, che possono irrogare sanzioni e riferire alle Camere sull’accertata
situazione di conflitto.
La responsabilità
Il governo risponde del proprio operato a vario titolo.
Responsabilità politica, in senso tecnico-giuridico con il Parlamento: ciascuna delle due Camere può
sfiduciarlo, approvando una mozione ad hoc presentata nelle forme previste dall’art.94, cioè motivata,
presentata da almeno 1/10 dei componenti. Oppure anche negando la fiducia quando è il governo che
la sollecita, ponendo la questione di fiducia. Le Camere possono sfiduciare anche un singolo ministro.
Il governo, nel suo insieme, e ciascun suo componente, ha una responsabilità politica diffusa, cioè
ciò che fa o non fa è sottoposto al giudizio dell’opinione pubblica, senza conseguenza giuridiche. Il
governo risponde periodicamente al corpo elettorale al momento del rinnovo ordinario o anticipato
delle Camere.
Responsabilità civile e amministrativa (contabile), i componenti del governo rispondono alla stregua
di coloro che sono preposti a pubblici offici.
Responsabilità penale, occorre distinguere fra reati commessi nell’esercizio delle funzioni e tutti gli
altri reati. Per questi ultimi il presidente o i ministri sono giudicati come ogni altro cittadino. Per i
reati funzionali (o ministeriali) è prevista una disciplina speciale (art.96) che si giustifica in
considerazione del nesso tra l’eventuale reato e l’attività di governo. Quindi, le indagini preliminari
sono affidate a un collegio composto da tre magistrati (tribunale dei ministri). Ove il collegio non
disponsa l’archiviazione, gli atti sono trasmessi a uno delle Camere per l’autorizzazione a procedere.
Ove ritenza che non si tratti di reati commessi nell’esercizio delle funzioni, li rinvia al giudice
competente. L’autorizzazione è deliberata dalla camera di appartenenza. Essa può essere negata solo
ove l’assemblea reputi a maggioranza assoluta dei componenti che l’inquisito “abbia agito per la
tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un
preminente interesse pubblico”. Tale valutazione è insindacabile. Ove l’autorizzazione venga
concessa, il tribunale del capoluogo del distretto competente per territorio è giudice naturale di primo
grado. Se emerge un dissenso fra tribunale dei ministri e camera competente in ordine alla natura
ministeriale del reato perseguito, la Corte costituzionale ha stabilito che unico rimedio sia per la
camera sollevare il conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, e alla Corte spetta derimere il
contenzioso.
L’ordinamento italiano fu alle origini fortemente accentrato. Il modello era quello napoleonico,
caratterizzato dal binomio: accentramento (concentrazione del potere presso le autorità locali) e
uniformità (identico assetto per tutte le autorità locali).
Per decenni i prefetti (funzionari nominati e dipendenti dal ministero dell’interno), rappresentanti
nelle province del governo nazionale, furono le autorità chiave sul territorio: controllavano le
amministrazioni locali, garantivano l’ordine, preparavano le elezioni politiche e garantivano il
successo dei candidati governativi.
La prima legislazione comunale e provinciale fu quella del 1865, modificata nel 1915. Con il
fascismo, nel 1934 l’accentramento statalista raggiunse il suo massimo sviluppo. Non si ammetteva
neppure l’idea che, all’interno dell’orginamento, vi potessero essere ambiti, per quanto delimitati, in
grado di darsi un proprio indirizzo politico autonomo, distinto rispetto a quello statale. Infatti, gli enti
locali furono chiamati enti autarchici, nel senso che dovevano limitarsi alla cura degli interessi della
loro comunità all’interno di un unico indirizzo politico, quello dettato dal governo nazionale.
Alla Costituente, le forze politiche erano divise da concezioni istituzionali e strategie politiche
diverse. Alla fine, con espressa esclusione di ogni impostazione federalista, furono previste le regioni.
Non avrebbero dovuto essere semplici enti amministrativi dotati di autonomia, bensì con qualcosa di
più, vale a dire enti dotati di poteri legislativi. Il modello era lo stato regionale, ritenuto “intermedio”
fra lo stato accentrato e lo stato federale. Questa scelta era stata preceduta dal varo di uno statuo
speciale per la Regione Sicilia (1946). Nello stesso anno c’era stato anche l’accordo internazionale
fra Italia e Austria, che impegnava la prima a dare vita a uno statuto di autonomia per le popolazioni
dell’Alto-Adige/Südtirol. A queste due regioni si aggiunsero poi la Sardegna (1948), la Valle d’Aosta
(1948) e il Friuli Venzia Giulia (1963). In un secondo tempo fu varato il secondo statuto del Trentino-
Alto Adige (1971), che attribuì particolari condizioni di autonomia alle province di Trento e Bolzano.
Il Titolo V della Costituzione è dedicato alle regioni a statuto ordinario, mentre per le precedenti
l’art.116 rimanda ai singoli statuti speciali, approvati con legge costituzionale. L’art.5 fa riferimento
a un ordinamento saldamente unitario, “la Repubblica una e indivisibile”, formula impegnativa e
militante. Una Repubblica che “riconosce e promuove” le autonomie locali, impeganta ad attuare il
più ampio decentramento amministrativo e adeguare contenuti e modo stesso di fare le leggi
all’esigenza di distribuire il potere sul territorio.
Il costituente ripartì la Repubblica in “regioni, province e comuni”. Le regioni, definite “enti autonomi
con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”, poi a seguire province e
comuni, definiti “enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica,
che ne determinano le funzioni”. Disciplina di questi ultimi che quindi rimanda alla legge ordinaria.
La disciplina delle regioni invece era fissata direttamente in Costituzione. Enti quindi posti su piani
nettamente dversi: del resto solo alle regioni è riservata competenza legislativa. Quest’ultima fu intesa
solo concorrente e limitata a un numero ristretto di materie elencati nell’art.117. cioè materie che
competevano, per i principi fondamentali allo Stato, per tutto il resto alla regione. La regione avrebbe
dovuto legiferare, ma tenendosi all’interno del quadro tracciato dalle leggi cornice dello Stato, cui
spettava il compito di stabilire i principi fondamentali della materia. Con alcuni limiti ulteriori:
l’interesse nazionale e quello di altre regioni, oltre ovviamente al limite territoriale.
Per assicurare l’osservanza di questi limiti fu previsto il visto governativo preventivo su ogni legge
regionale, con facoltà di rinvio al consiglio regionale, che poteva poi riapprovare la legge con
maggiornaza assoluta. Tale riapprovazione dava al governo la possibilità di promuovere questioni di
legittimità davanti alla Corte costituzionale, ovvero questione di merito davanti alla Camere. In
seguito però la Corte trasformò il limite di merito dell’interesse nazionale (da farsi valere in
Parlamento, a livello politico) in un limite di legittimità (da farsi valere appunto davanti alla Corte).
In relazione all’esercizio delle funzioni amministrative, attribuite alle regioni nelle materie sulle quali
avevano competenza legislativa (parallelismo delle funzioni), si affermò un altrettanto invadente
potere statale (governativo) di indirizzo e coordinamento, che non era previsto dalla carta
costituzionale. La Costituzione del 1948 dettava tali disposizioni: le regioni avrebbero dovuto di
norma esercitare le proprie funzioni amministrative delegandole a province e comuni, o avvalendosi
dei loro uffici. Alle regioni fu riconosciuta autonomia finanziari, ma nelle forme e nei limiti stabilità
da leggi rella Repubblica, con tributi propri regionali ma anche la partecipazione a quote di tributi
dello Stato. Espresso divieto alle regioni di ostacolare la mobilità di persone e cose, di istituire dazi e
di limitare il diritto dei cittadini di lavorare dovunque. Autonomia statutaria sulla propria
organizzazione interna, peraltro limitata per molti aspetti, sotto il profilo procedurale, poiché lo
statuto doveva essere approvato con legge dello Stato; e sotto il profilo contenutistico, poiché la
Costituzione fissava una serie di vincoli a ciò che doveva essere disciplinato dallo statuto. Istituito un
commissario del governo con compiti di coordinamento fra amministrazione regionale e
amministrazione statale. Gli atti amministrativi regionali furono sottoposti a controllo di legittimità
da parte di un organo dello Stato. Prevista una serie di casi in cui il consiglio regionale poteva essere
sciolto con decreto del presidente della Repubblica su deliberazione del Consiglio dei ministri, sentita
la commissione bicamerale per le questioni regionali.
Quanto a comuni e province, la Costituzione rinvia a leggi generali della Repubblica. Quindi impone
una disciplina che ponesse tutti gli enti locali sullo stesso piano. Quindi comuni e province vennero
riconosciuti come enti autonomi. Soltanto però nel 1990 venne approvato il nuovo ordinamento degli
enti locali, dopo un periodo di rallentata attuazione di molte delle più importanti innovazioni previste
dalla Costituzione Repubblicana. Non a caso l’istituzione delle regioni ordinarie avvenne soltanto nel
1970. Il contesto politico dei primi anni Settanta favorì una grande uniformità nella predisposizione
degli statuti regionali all’insegna di un’interpretazione a tendenza assembleare della forma di
governo. Le regioni stesso, più che assolvere a funzioni di programmazione, di legislazione e di
indirizzo, diventarono pesanti enti di gestione anche amministrativa.
A partire dagli anni Novanta si sono verificate numerose trasformazioni che hanno profondamente
innovato il sistema delle autonomie regionali e locali. Nel 1990 si ha il primo ordinamento delle
autonomie locali, seguito dalla riforma elettorale comunale e provinciale (1993), che introdusse
l’elezione diretta dei sindaci e presidenti delle province. Leggi di conferimento di funzioni statali a
regioni, province e comuni, improntate al principio secondo il quale la generalità delle funzioni
amministrative era attribuita agli enti locali con la sola eccezione di quelle che devono essere
necessariamente esercitate a livello regionale. Nonché la riforma dei controlli sugli atti amministrativi
regionali e locali (1997). Le riforme della finanza regionale e locale (2000), che soppressero o
ridussero i trasferimenti dal bilancio dello Stato, sostituendoli con il gettito di nuovi tributi destinato
a regioni ed enti locali. La legge costituzionale di modifica di alcuni articoli del titolo V della
Costituzione, sulla forma di governo delle regioni ordinarie (1999), che introdusse l’elezioni diretta
del presidente della regione e rafforzò l’autonomia statutaria. La legge costituzionale (2001) che
modificò il titolo V della Costituzione nella parte relativa alle competenze Stato, regioni ed enti locali,
operando una scelta “federalista”. Le deleghe al governo per dare attuazione all’art.119 in materia di
autonomia finanziaria di regioni ed enti locali, cioè il cossiddetto federalismo fiscale, garantendo
livelli essenziali di prestazioni uniformi su tutto il territorio nazionale (2009). Il complessivo riordino
territoriale e organizzativo degli enti locali, con la legge 2014 sul riordino delle province e
l’istituzione delle città metropolitane.
L’ordinamento regionale
Piuttosto che di “ordinamento regionale” si dovrebbe parlare, più correttamente, al plurale di
“ordinamenti regionali”: infatti, dopo le riforme costituzionali, ogni regione costituisce, pur
all’interno dell’ordinamento generale della Repubblica, un ordinamento a sé, con un livello di
differenziazione che potrebbe nel tempo dilatarsi sempre di più. Differenziazione che non riguarda
solo la tradizionale distinzione fra regioni speciali e regioni ordinarie, ma anche quella delle regioni
ordinarie fra loro; né riguarda solo gli aspetti affidati allo statuto. In alcune materie legislative, infatti,
l’art.116 prevede la possibilità di attribuire a ogni regione ordinaria forme e condizioni “particolari”
di autonomia.
Le regioni sono definite nellart.114 “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i
principi fissati dalla Costituzione. L’assetto delineato quindi, al di là del linguaggio corrente, non può
definirsi federale. Siamo di fronte a enti derivati e non originari, laddove originario, e quindi sovrano,
si deve considerare solo l’ordinamento che esprime la costituzione. Nell’ordinamento italiano, invece,
le regioni nascono per decisione della Costituzione di una Repubblica che si autodefinisce “una e
indivisibile”.
L’ordinamento delle regioni a statuto ordinario
La potestà statutaria delle regioni ordinarie è stata rafforzata dalla riforma del 1999, per quanto
riguarda:
-)Contenuti: lo statuto disciplina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento della regione, nonché l’esercizio del diritto di iniziativa popolare, i referendum, le
modalità di pubblicazione di leggi e regolamenti. È il contenuto necessario dello statuto. Dubbio è se
le regioni possano disciplinare anche materie diverse da quelle espressamente previste dall’art.123
(contenuto eventuale). La Corte costituzionale ha ritenuto che disposizioni siffatte, contestate dallo
Stato in quanto eccedenti le competenze statutarie, non avessero alcun valore giuridico, costituendo
mere enunciazioni di carattere politico-culturale.
-)Procedimento: l’art.123 prevede che lo statuo sia approvato dal consiglio regionale con voto a
maggioranza assoluta, in due successive deliberazioni ad almeno due mesi di distanza la seconda
dalla prima. Il governo può impugnarlo davanti alla Corte entro 30 giorni dalla pubblicazione. Dalla
prima pubblicazione notiziale decorre il termine di tre mesi durante i quali un quinto dei componenti
del consiglio regionale o un cinquantesimo degli elettori della regione possono chiedere che lo statuo
approvato sia sottoposto a referendum. Con maggioranza di voti validi (non c’è quorum strutturale)
lo statuto viene promulgato.
-)Vincoli: accanto a quelli relativi ai suoi contenuti specifici, lo statuto deve rispettare il limite
generale indicato dall’art.123 dell’“armonia con la Costituzione”. Quindi, oltre che il rispetto di
singole disposizioni, anche dei valori costituzionali, in primis l’unità politica della Repubblica.
-)Organizzazione e funzionamento: lo statuo incontra una serie di vincoli costituzionali che fanno sì
che la forma di governo regionale debba essere disciplinata entro binari in parte già tracciati. Gli
organi regionali che non possono mancare sono: consiglio regionale, giunta, presidente della giunta,
consiglio delle autonomie locali. Le funzioni essenziali di questi organi sono indicate nell’art. 121
secondo il classico schema.
La posizione di vertice monocratico del presidente è sottolineata dal fatto che la Costituzione ne
prevede l’elezione a suffragio universale diretto (modello standard), corredata dal potere di nomina e
revoca dei membri della giunta. La giunta regionale è, duqnue, un organo collegiale con un vertice
espresso direttamente dai cittadini elettori.
Qualora i presidente eletto si dimetta o il consiglio lo sfiduci, si ritorna a votare sia per l’uno che per
l’altro (aut simul stabant aut simul cadent). Però la Costituzione permette allo statuto di compiere
anche scelte diverse (modello di deroga), ma in ogni caso impone che il consiglio abbia sempre la
potestà di sfiduciare il presidente della giunta.
La regione è competente in materia elettorale, pur nei limiti dei principi fondamentali della legge
dello Stato. La legge statale impone alla regione di dotarsi di un sistema elettorale che agevoli la
formazione di stabili maggioranze, assicurando altresì la rappresentanza delle minoranze; detta le
norme quadro sui casi di ineleggibilità e incompatibilità del presidente e degli altri componenti della
giunta e dei consiglieri regionali. Fissa in cinque anni la durata degli organi elettivi regionali.
La legge aveva inserito fra i parametri di virtuosità precisi tetti agli emolumenti e al numero dei
consiglieri. Dal rispetto di questi tetti sarebbe dipesa, per ogni regione, la collocazione fra gli enti
territoriali virtuosi, quelli obbligati a minori sacrifici per il perseguimento degli obiettivi del patto di
stabilità interno. In seguito, il legislatore statale ha trasformato le misure premiali in limiti vincolanti
per le regioni.
La ripartizione delle competenze legislative
È l’art.117 a disciplinare la ripartizione della potestà legislativa tra lo Stato e le regioni. I l testo del
2001 realizza l’inversione dell’ordine delle competenze legislative. Prima, l’articolo indicava solo le
materie di competenza legislativa regionale, partendo dal presupposto che tutte le altre, non
enumerate, fossero proprie dello Stato adesso invece sono previste: amterie di competenza statale
esclusiva; materie di competenza regionale concorrente; materie di competenza regionale residuale.
Nelle materie di legislazione concorrente, alle regioni possono essere attribuite forme e condizioni
particolari di autonomia. Ciò può avvenire in virtù di una legge dello Stato, approvata dal Parlamento
a maggioranza assoluta di componenti, sulla base di una intesa tra regione e Stato, previa iniziativa
della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di autonomia finanziaria
contenuti nell’art.119 (regionalismo differenziato). L’art.117 individua i limiti generali cui è
sottoposto l’esercizio della potestà legislativa, a prescindere quindi da chi effettivamente ne sia
titolare. I limiti sono tre: il rispetto della Costituzione; i vincoli derivanti dall’ordinamento Ue; i
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
A. La potestà legislativa esclusiva dello Stato
Le materie di competenza esclusiva sono molte e eterogenee. Alcune sono individuate secondo un
criterio oggettivo (facendo riferimento a puntiali ambiti materiali); altre secondo un criterio
teleologico (in ragione della finalità o delle funzioni da realizzare); altre secondo un criterio
difficilmente qualificabile che consente un’ampia discrezionalità al legislatore statale.
La Corte costituzionale ha interpretato dinamicamente le competenze enumerate dello Stato,
ritenendo alcune competenze del legislatore statale “idonee a investire una pluralità di materie”: si
tratta delle materie trasversali, definite in dottrina anche materie-valori o materie non materie. Sono
i “poteri impliciti” delle costituzioni federali, comunque spettanti allo stato centrale in quanto
desumibili dalle materie espressamente attribuite. In queste materie il legislatore statale può esercitare
la sua potestà di normazione al di là dei confini della materia stessa, occupando ambiti attribuiti alla
regione.
B. La potestà legislativa concorrente fra Stato e regioni
Essa deve esercitarsi nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dallo Stato: principi o
espressamente fissati da apposite leggi cornice o, in loro assenza, desunti dall’ordinamento vigente.
La nozione di principio fondamentale, secondo la Corte, “non ha e non può avere caratteri di rigidità
e di universalità”. Nella definizione del confine tra principi fondamentali e normativa di dettaglio
gioca un ruolo centrale proprio la Corte costituzionale, alla quale spetta, di volta in volta, individuare
il punto di equilibrio fra la normativa statale e quella regionale e, quindi, l’ambito effettivo delle
competenze costituzionali. Resta ferma la regola seocndo la qualo lo Stato insieme alle disposizioni
di principio può dettare anche disposizioni di dettaglio: queste ultime valgono solo in via suppletiva
(in assenza di disciplina regionale), trattandosi di norme cedevoli di fronte a disposizioni
eventualmente approvate da ciascuna regione.
Ciò vale in nome di un principio di continuità istituzionale, allorchè si tratti di leggi statali dirette ad
assicurare protezione a diritti fondamentali che, altrimenti, sarebbero irremediabilmente pregiudicati.
C. La potestà legislativa residuale delle regioni
Tutte le materie non espressamente attribuite alla legislazione dello Stato appartengono alla
competenza residuale delle regioni. La prassi ha dimostrato che l’operatività della clausola di
residualità è tutt’altro che automatica. La Corte costituzionale afferma che in alcuni casi, ancor prima
di essa, debba applicarsi il differente criterio di prevalenza: le materie innominate, prima di essere
riconosciute alle regioni, devono superare una verifica diretta ad accertare se queste non possano
essere comunque ricondotte nell’ambito delle materie espressamente previste. In mancanza di una
puntuale competenza statale si deve applicare pienamente la competenza regionale. Al di là dei casi
decisi dalla Corte, anche in questo materie però si potrebbero rinvenire ragioni che giustifichino
l’intervento normativo dello Stato. Nello stesso senso, è stata riconosciuta la competenza statale nella
disciplina della mobilità del personale regionale poiché trattasi di materia non frazionabile regione
per regione, da disciplinare unitariamente.
Alla luce della giurisprudenza costituzionale si è assistito alla formazione progressiva di un “diritto
regionale vivente”. La Corte ha svolto una complessa e originale opera di ricostruzione delle singole
materie di competenza statale e regionale e dei principi che orientano l’attività legislativa nel
riformato contesto costituzionale. Quando la legislazione sottoposta al suo sindacato lo permetteva,
la Corte ha potuto enucleare, all’interno di uno stesso corpo normativo, competenze diverse e distinte.
Nei casi in cui la sovrapposizione di amterie legislative statali e regionali nel medesimo corpo
normativo rendeva inestricabili le competenze rispettive dello Stato e delle regioni, la Corte ha
enucleato la nozione di “concorrenza di competenze”, ricorrendo al già citato criterio di prevalenza o
al canone della leale collaborazione, operanti a seconda che una materia possa essere chiaramente
attribuita alla competenza legislativa statale o a quella regionale.
La Corte costituzionale ha riconosciuto, come criterio di chiusura del sistema, il principio di
sussidiarietà, utilizzabile dallo Stato per assumere o disciplinare con propria legge funzioni
amministrative ricadenti in ambiti di competenza legislativa concorrente o residuale regionale,
ogniqualvolta si tratti di realizzare “esigenze di carattere unitario”. Per evitare che il ricorso al criterio
della sussidiarietà si trasformi in uno strumento lesivo dell’autonomia regionale, è necessario,
secondo la Corte, che la legge statale rispetti i principi di ragionevolezza (sia strettamente necessaria
a disciplinare quel genere di funzioni) e di leale collaborazione (lo Stato deve decidere insieme alle
reioni, mediante specifiche intese). Le forme di leale vollaborazione sono ampiamente richiamate
nella giurisprudenza della Corte al fine di prevenire o risolvere i conflitti di competenza. La dottrina
ha distinto fra intese forti (richiesta concorde e paritaria manifestazione di volontà dello Stato e della
regione) e intese deboli (è ritenuto sufficiente, da parte dello Stato, solo dimostrare di avere ricercato
un accordo con la regione, anche se poi, in concreto, questo non sia stato raggiunto).
Sempre secondo l’art.117, la potestà regolamentare spetta allo Stato, nelle materie di legislazione
statale esclusiva, salvo comunque la possibilità di delegarla alle regioni; alle regioni in “ogni altra
materia”. L’attribuzione alle regioni della potestà regolamentare nelle materie di competenza
concorrente crea non pochi problemi soprattutto quando si tratta di materie di particolare rilevanza
nazionale che difficilmente, per loro natura, si prestano a una disciplina diversa regione per regione.
In questo contesto, è invalsa la prassi da parte dell’amministrazione statale di disciplinare tali materie
non con atti regolamentari ma con anomali e inediti atti che si autodefiniscono “aventi natura non
regolamentare”. Inoltre, la Corte è arrivata a giustificare un esercizio del potere regolamentare
governativo ben al di là dei confini tracciati dall’art.117, facendo leva o su una lettura “teleologica”
delle competenze statali, o riesumando nella sostanza la tesi della non frazionabilità di interventi
statali in ambiti di competenza regionale. La difficoltà a individuare con previsione le materie di
competenza legislativa si ripercuote sulla definizione degli spazi di esercizio della potestà
regolamentare, rafforzando le ragioni di coloro che criticano la scelta, compiuta nel 1948 e
confermata nel 2001, di suddividere la competenza legislativa per elenchi di materie.
I rapporti con altri soggetti
-)Rapporti internazionali: le regioni possono concludere, nelle materie di loro competenza, accordi
internazionali sia con stati sia con enti sub-nazionali non italiani.
-)Rapporti con l’Ue: il Trattato di Lisbona ha espressamente riconosciuto il ruolo del “sistema delle
autonomie regionali e locali”. Nelle materie di competenza regionale, le regioni partecipa alla fase
ascendente e alla fase discendente del diritto dell’Unione: concorrono sia alla formazione sia
all’attuazione ed esecuzione degli atti dell’Unione. Le regioni possono (e devono) dare immediata
attuazione alle direttive europee.
-)Rapporti con lo Stato: oltre a quanto già detto, sono previste specifiche forme di coordinamento fra
Stato e regioni, disciplinate dalla legge statale, in alcune materie di esclusiva competenza dello Stato.
dal 1988 è attiva la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome, presso la presidenza del Consiglio dei ministri, di cui fanno parte i venti presidenti delle
regioni a statuto ordinario e speciale e i due presidenti delle province autonome, con compiti di
informazione e consultazione su tutto ciò che, in relazione alla politica generale del governo, può
incidere sulle competenze delle regioni. È il luogo centrale del negoziato fra Stato e regioni.
-)Rapporti con altre regioni: la regioni può concludere intese con altre regioni per il miglior esercizio
delle proprie funzioni e istituire a tale scopo organi interregionali comuni.
-)Rapporti con gli enti locali: è uno degli snodi cruciali dell’ordinamento, soprattutto dopo che la
riforma del 2001 ha posto su un piano per molti aspetti pardi ordinato regioni e enti locali. Regioni
con fnzioni legislative e di programmazione ed enti locali dotati della competenza amministrativa
generale. La Corte costituzionale riconosce significativi poteri al legislatore regionale in ordine a
forme associative degli enti locali e alla disciplina dei servizi pubblici locali, ritenute materie di
competenza residuale regionale. La competenza esclusiva dello Stato è limitata a legislazione
elettorale, organi di governo e individuazione delle funzioni fondamentali degli enti locali.
L’art.123 ha previsto che ogni regione di doti, in statuto, del consiglio delle autonomie locali, quale
“organo di consultazione fra le regioni e gli enti locali”, organo la cui composizione e le cui modalità
di funzionamento sono affidate all’autonomia regionale.
Il sindaco porta la responsabilità di tutta l’amministrazione del comune, oltra a esercitare numerose
funzioni che possiamo sintetizzare in: rappresenta l’ente, convoca e presiede la giunta; sovrintende
all’esercizio da parte del comune delle funzioni che esso ha ricevuto dallo Stato o alla regione; adotta
provvedimenti d’emergenza (ordinanze contingibili e urgenti) in materia di sanità e igiene pubblica;
coordina e organizza gli orari di servizi e pubblici uffici; nomina e revoca i rappresentanti del comune
in altri enti; nomina i responsabili di uffici e servizi, attribuisce incarichi dirigenzili e le collaborazioni
esterne. È anche ufficiale del governo.
Il sindaco cessa dalla carica in caso di approvazione di una mozione di sfiducia da parte del consiglio,
approvata a maggioranza assoluta per appello nominale, sulla base di una mozione motivata e firmata
da almeno due quinti dei consiglieri. In questo caso anche il consiglio è sciolto e si procede a nuove
elezioni. Ciò accade anche quando il sindaco venga a cessare per qualsiasi altra ragione. Alla
scioglimento si provvede anche quando si dimetta contestualmente la metà più uno dei consiglieri:
una sorta di via alternativa alla sfiducia. Sindaco e consiglio sono quindi eletti e vivono
contestualmente, principio che connota una forma di governo di legislatura a vertice monocratico
elettivo.
La legge prevede istituti volti a garantire che il cittadino eletto a funzioni pubbliche locali possa
disporre del tempo necessariom senza danni economici e senza svantaggi per la sua professionale
(l’ambito delle aspettative, permessi, indennità e rimborsi cui gli amministratori locali hanno diritto).
Sono anche fissati i doveri degli amministratori, che non solo devono agire in modo imparziale e
osservando il principio di buona amministrazione, ma devono rispettare la distinzione fra le funzioni
proprie e quelle dei dirigenti delle amministrazioni cui essi sono preposti. La partecipazione degli
amministratori di estrazione direttamente o indirettamente elettiva è stata esclusa dalle funzioni
gestionali o amministrative in senso stretto. La legge espressamente attribuisce ai dirigenti “tutti i
compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi”, definiti come “atti di indirizzo” da sindaco,
giunta, consiglio.
Al vertice della struttura amministrativa dei comuni vie è stato per decenni il segretario comunale,
singolare figura di funzionario che da un lato apparteneva agli organici del ministero dell’interno,
dall’altro dipendeva funzionalmente dal sindaco. Una trasformazione progressiva gli ha per un verso
posti alle dipendenza di un’agenzia autonoma, e la loro nomina è stata sottratta al governo e affidata
ai sindaci stessi, con incarico coincidente con la durata del mandato; per un altro hanno visto in molti
casi ridimensionamenti dei loro compiti a seguito dell’introduzione della diversa figura del direttore
generale, quale vertice amministrativo dell’ente incaricato di sovrintendere alla gestione, sottoposto
alle direttive del sindaco che lo nomina. Ma ciò è possibile solo nei comuni con oltre 100mila abitanti.
Così molti segretari, oltre che collaboratori con funzioni di assistenza giuridico-amministrativa degli
organi dell’ente, aventi il compito primario di far sì che gli atti e le attività dell’ente siano conformi
alla legge, allo statuto e ai regolamenti, hanno assnto altresì funzioni di vertice gestionale.
Città metropolitane e province
Fra i comuni e le regioni, prima della riforma del 1990, c’erano solo le province. Istituite
nell’Ottocento come sedi del decentramento amministrativo di uno stato fortemente centralizzato, si
svilupparono poi in enti territoriali elettivi. Dagli anni Settanta, le regioni ordinarie furono
effettivamente e finalmente istituite. Quindi periodicamente la questione dell’opportunità di
mantenere le province riemerse. La riforma del 1990 rescisse lo storico legame ente provinciale-uffici
statali, espressamente disponendo che l’istituzione della provincia non comportava più l’istituzione
dei corrispondenti uffici decentrati dello Stato. Sono enti a fini generali, come i comuni, sia pure con
funzioni diverse. Con la riforma del titolo V le province sono state considerate uno degli enti
costitutivi della Repubblica. Il Parlamento ha individuato una chiara strategia istituzionale, quella
espressa da un lato da una legge che innova e integra profondamente l’ordinamento del Tuel, dall’altro
dalla soppressione del termine “provincia” dal testo della Costituzione. L’assetto che quindi qui si
descrive si fonda sull’idea secondo la quale fra comune e regione si opportuna, ma non
costituzionalmente obbligatoria, l’istituzione di un ente territoriale che si occupi di quelle funzioni
che i comuni non sono in grado di svolgere da soli e che, al tempo stesso, non si ritiene bene affidare
alla regione.
L’ordinamento degli enti locali prevede pertanto che il territorio nazionale sia suddiviso in enti
territoriali di area vasta i cui ambiti corrispondono (al momento) con quelli delle “vecchie” province”.
Si tratta, nel rispetto dei principi di differenziazione e adeguatezza (art.118), di una pluralità di enti
con funzioni diverse, ache se con caratteristicher comuni:
i- Roma “capitale della Repubblica”
ii- Città metropolitane: coincidenti con il territorio delle privince di Torino, Milano, Venezia,
Genova, Bologna, Firenza, Napoli, Bari, Reggio Calabria
iii- Province: tutte quelle attualmente esistenti meno quelle cui sono succedute le città
metropolitane
iv- Province montane di confine, a cui sono riconosciute alcune specificità
Caratteristica comune degli enti territoriali di area vasta è che si tratta di enti i cui organi non sono di
estrazione elettiva diretta. Se sindaco metropolitano e presidente della provincia rappresentanto
l’ente, convocano e presideono il consiglio e la conferenza o assemblea dei sindaci, il consiglio
metropolitano e il consiglio provinciale sono gli organi di indirizzo e controllo, che approvano i
regolamenti, i piani e programmi e i bilanci; alla conferenza metropolitana o all’assemblea dei
sindaci, organi dotati di poteri propositivi e consultivi, spetta esprimere un parare sugli schemi di
bilancio e pronunciarsi in via definitiva sullo statuto dell’ente proposto dal consiglio, con voto
ponderato che rappresenti almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della popolazione. Sindaco
metropolitano è il sindaco del comune capoluogo; presidente della provincia è il sindaco di un comune
della provincia, eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia. Il consiglio
metropolitano e il consiglio provinciale sono eletti anch’essi dai sindaci e dai consigli dei comuni
della città metropolitana o della provincia, e i consiglieri devono a loro volta essere sindaci o
consiglieri comunali. La conferenza metropolitana è composta dal sindaco metropolitano e da tutti i
sindaci dei comuni della città metropolitana, così come l’assemblea dei sindaci è composta dai sindaci
dei comuni appartenenti alla provincia.
La strategia del legislatore si è andata orientando a favore della gestione associata, volontaria e
incentivata, o anche obbligatoria per legge, dell’esercizio delle funzioni comunali. Lo strumento più
importante a questo fine, in vista di una gestione associata di tutte quelle funzioni che i comuni di
dimensione demografica troppo piccola non sono in grado di esercitare adeguatamente, è l’unione dei
comuni. L’unione dei comuni è definita un ente locale ed è dotata anch’essa di potestà statutaria. È
sottoposta, oltre che alla legge dello Stato, anche alla disciplina legislativa della regione di
appartenenza. Il limite demografico minimo è 10mila abitanti. Suoi organi sono il presidente, la giunta
e il consiglio: tutti formati da amministratori in carica dei comuni associati, senza oneri aggiuntivi.
L’unione dei comuni è diventata, nel perseguimento di obiettivi di razionalizzazione della spesa
pubblica e di semplificazione istituzionale, l’alternativa concretamente praticata alla fusione di
comuni.
La fusione fra due o più comuni dà invece vita a un nuovo comune, la cui disciplina è quella di
qualsiasi comune. Essa è disposta dalla legge regionale, sentite le popolazioni interessate secondo
forme disciplinate dalla regione stessa. Lo statuto del comune nato dalla fusione può disporre
l’istituzione di municipi anche dotati di organi rappresentativi eletti direttamente dai cittadini, per
continuare a dare una rilevanza amministrativa alle comunità d’origine.
Strumenti per la gestione associata delle funzioni sono anche le convenzioni, che consistono in
accordi o contratti fra due o più comuni, le quali definiscono ciò che si intenden fare insieme, nonché
i reciproci obblighi e i relativi rapporti finanziari. Nel caso in cui non si tratti di gestire un servizio,
ma piuttosto di realizzare una specifica opera pubblica, allora si fa ricorso a uno speciale strumento
procedurale che si chiama accordo di programma. Promosso dall’ente più direttamente interessato, si
obbligano in questo modo i diversi soggetti a riunirsi per raggiungere insieme e contestualmente un
accordo vincolante per tutti.
Funzioni amministrative e principio di sussidiarietà
Le funzioni amministrative di comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato sono disciplinate
dall’art.118. La riforma del 2001 ha sostituito il criterio del parallelismo delle funzioni legislative e
amministrative con il principio di sussidiarietà verticale, in cui le funzioni amministrative spettano di
regola all’ente più vicino al cittadino, mentre l’intervento degli enti superiori è successivo e
sussidiario. Ciò per garantire, di volta in volta, esigenze di carattere unitario. A ciò l’art.118 affianca
i principi di adeguatezza e di differenziazione. Adeguatezza vuol dire che il livello di governo
individuato dalla legge deve essere in grado di gestire quella funzione, dovendosi altrimenti affidare
la funzione a un livello di governo, per l’appunto, più adeguato. La differenziazione, invece, esige
che il conferimento delle funzioni amministrative avvenga in modo ragionevole, disciplinando in
modo eguale situazioni eguali e in modo differente situazioni differenti. In tali casi, lo Stato o la
regione possono differenziare l’allocazione delle funzioni amministrative. Spetta alla Corte
costituzionale valutare se ci sono le ragioni che giustifichino l’attribuzione a un livello superiore di
una determinata funzione amministrativa.
È anche previsto il principio di sussidiarietà orizzontale, in forza del quale tutti gli enti territoriali che
costituiscono la Repubblica, compreso lo Stato, sono tenuti a favorire l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale. Ciò per tracciare una
linea di confine tra intervento pubblico e intervento privato: secondo alcuni nel senso che il primo
viene totalmente pretermesso dall’esistenza del secondo, secondo altri nel senso che i pubblici poteri,
nell’esercizio di funzioni pubbliche, tengono conto, ove esistente, dell’iniziativa privata.
Con la riforma costituzionale del 2001 sono state abrogate quelle disposizioni che, limitando
l’autonomia regionale e locale, prevedevano il controllo dello Stato sugli atti amministrativi delle
regioni e il controllo regionale sugli atti dei comuni e delle province. La legislazione regionale non è
più soggetta al visto preventivo del governo: una legge viene pubblicata sul Bollettino Ufficiale e il
governo può solo, entro 60 giorni dalla date di pubblicazione, promuovere una questione di legittimità
costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale. L’unica forma di controllo preventivo oggi previsto
dalla Costituzione è il controllo di legittimità costituzionale degli statuti regionali. Ma la riforma ha
atrribuito allo Stato altri importanti poteri di controllo sull’attività delle regioni e degli enti locali: si
tratta dei poteri sostitutivi, nonché controlli sugli organi delle regioni.
A. Potere sostitutivo (art.120)
Attribuito al governo nei confronti degli organi regionali e degli enti locali in una serie di casi:
mancato rispetto di norme e trattati internazionli e della normativa europea; pericolo grave per
l’incolumità e la sicurezza pubblica; tutela dell’“unità giuridica” o dell’“unità economica della
Repubblica, in riferimento particolare alla tutela dei livelli essenzili delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali.
I poteri sostitutivi sono esercitati secondo le procedure definite dalla legge statale, nel rispetto del
principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione. La tutela dell’unità giuridica ed
economica lascia spazio a valutazioni ampiamente discrezionali, per le quali non è facile prefigurare
parametri precisi. La Corte costituzionale ha ribadito che i poteri sostitutivi devono essere previsti e
disciplinati dalla legge, che deve definire i presupposti sostanzili e procedurali. La sostituzione può
prevedersi esclusivamente per il compimento di atti o attività prive di discrezionalità, obbligatorie in
ragione degli interessi unitari da salvaguardae. Il potere sostitutivo deve essere esercitato da un organo
di governo. La legge deve apprestare congrue garanzie prodecimentali per l’esercizio del potere
sostitutivo, in conformità al principio di leale collaborazione, dovendosi dunque prevedere un
procedimento nel quale l’ente sia comunque messo in grado di evitare la sostituzione (preventiva
messa in mora) e di interloquire nello stesso procedimento.
B. Controllo statale sugli organi regionali (art.126)
Consente lo scioglimento del consiglio regionale e la rimozione del presidente della regione, non per
ragion i legate al funzionamento della forma di governo, bensì come extrema ratio nel caso in cui il
consiglio o il presidente abbiamo compiuto “atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di
legge”. Oppure quando lo impongano “ragioni di sicurezza nazionale”. Scioglimento e rimozione
sono disposti con decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei
Ministri, sentita la commissione parlamentare per le questioni regionali.
C. Controllo statale sugli organi degli enti locali (artt.141-143)
Può essere determinato dal compimento di atti contrati alla Costituzione, da gravi e persistenti
violazoni di legge, da gravi motivi di ordine pubblico. Dalla non approvazione del bilancio nei termini
previsti dalla legge. Dalla mancata adozione degli strumenti urbanistici generali. Da fenomeni di
infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso.
D. Il controllo di gestione
Forme di controllo interno, a partie dal controllo di gestione secondo modalità simili a quelle delle
aziende private, volte a verificare non tanto la legittimità degli atti o la loro congruenza formale, bensì
la quantità, la qualità e il costo dei servizi effettivamente resi e delle prestazioni effetivamente fornite.
Invece il controllo esterno è affidato alla Corte dei conti, che lo esercita attraverso le sezioni regionali.
In ogni ordinamento moderno sono previste strutture formate da pubblici impiegati con specifiche
competenze professionali, il cui compito è quello di coadiuvare le istituzioni politiche, statali,
regionalio locali, nell’azione di governo; curare specifici interessi pubblici dando attuazione
all’indirizzo politico espresso dagli organi di governo, a tutti i livelli territoriali; produrre beni o
servizi a favore delle collettività amministrative. Tali strutture svolgono attività amministrativa (lex
executio), che si distingue quindi dall’attività normativa (legis latio). La prima consiste nel
provvedere con atti specifici alla cura di determinati interessi pubblici, mentre la seconda, sia primaria
sia secondaria, consiste nel prevedere casi e situazioni cui applicare norme generali e astratte. L’atto
amministrativo si esaurisce, di regola, nel momento della sua esecuzione, l’atto normativo, invece, è
suscettibile di una indefinita applicabilità e ripetitibilità. L’attività amministrativa si distingue anche
da quella giurisdizionale, perché interviene a prescindere dal verificarsi di una controversia, in
posizione di “imparzialità”, ma senza porsi come un giudice “terzo”.
Nell’esercizio di queste attività, le pubbliche amministrazioni operano come:
i. Autorità amministrative: in posizione di supremazia, utilizzando gli strumenti propri del
diritto amministrativo, vale a dire un insieme di regole speciali volte a garantire
immediatamente il perseguimento di un pubblico interesse
ii. Soggetti erogatori di servizi pubblici: attraverso gli strumenti contrattuali propri del diritto
privato (diritto comune), ponendosi cioè sullo stesso piano dei soggetti con cui vengono
in rapporto
Fra le regole speciali hanno particolare rilevanza le procedure di affidamento collegate ai contratti
pubblici: l’amministrazioner seleziona il soggetto con cui stipulare un contratto per l’acquisizione di
servizi, forniture, opere pubbliche. Prima dell’aggiudicazione, però, si svolge un articolato
procedimento amministrativo volto a garantire il miglior perseguimento dell’interesse pubblico: di
norma prevedendo una gara pubblica per la scelta della migliore offerta.
Spetta alla lege stabilire quale regime deve essere seguito, se quello proprio del diritto privato o quello
amministrativo, ma la legge può anche lasciare all’autorità amministrativa la scelta (discrezionalità
amministrativa). Si tratta o di scelte obbligate, o di scelte discrezionali.
Nell’ambito dei poteri autoritativi si distingue fra:
i. Attività discrezionale, nei casi in cui la legge lascia alla pubblica amministrazione un
margine di scelta circa la modalità di esercizio del potere
ii. Attività vincolata, in cui l’amministrazione, in presenza di determinati presupposti, deve
necessariamente adottare una determinata decisione.
La discrezionalità, in ogni caso, non impedisce che l’attività sia sindacabile in sede giurisdizionale.
Per quanto riguarda la funzione di produzione dei beni o servizi può essere svolta attraverso
amministrazione diretta; attraverso l’istituzione di appositi enti o aziende pubbliche, cioè
amministrazione per enti (servizi pubblici in senso soggettivo); attraverso la regolazione di soggetti
privati che operano sul mercato, cioè amministrazione per regole (servizi pubblici in senso oggettivo).
In alcuni casi si sceglie una strada intermedia, affidando il servizio a società di capitali cui concorrono
le stesse pubbliche amministrazioni (società miste).
Dagli inizi degli anni Novanta l’ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni è passato
dal regime speciale proprio del diritto amministrativo (pubblico impiego) a quello ordinario del
“diritto del lavoro” proprio dei lavoratori del settore privato.
Le pubbliche amministrazioni possono altresì svolgere attività normativa, nelle forme e nei modi
previsti dalla legge, per regolare l’accesso a determinati servizi, l’uso di determinati beni e altro
ancora. Agli atti delle pubbliche amministrazioni non si applicano i principi che reggono l’attività
amministrativa, ma quelli propri delle fonti del diritto.
L’espressione “pubbliche amministrazioni”, al plurale invece che al singolare, in quanto l’evoluzione
e gli sviluppi degli ultimi decenni del secolo scorso hanno spezzato l’unità monolitica della pubblica
amministrazione ereditata dallo stato liberale.
L’organizzazione per ministeri e per enti
L’unità organizzativa del’amministrazione centrale è rappresentata dai ministeri, cui è preposto un
ministro: organo individuale, capo di un dicastero e componente dell’organo collegiale di governo,
cerniera fra governo e amministrazione. A essi spettano compiti di amministrazione diretta, nonché
compiti di indirizzo e vigilanza nei confronti degli enti che operano nello stesso settore.
a. Ministero degli affari esteri
b. Ministero dell’interno
c. Ministero della giustizia
d. Ministero della difesa
e. Ministero dell’economia e delle finanze
f. Ministero dello sviluppo economico
g. Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali
h. Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare
i. Ministero delle infrastrutture e dei trasporti
j. Ministero del lavoro e delle politiche sociali
k. Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca
l. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo
m. Ministero della salute
Il modello organizzativo dei ministeri ha rappresentato per più di un secolo il modello organizzativo
su cui si è imperniata l’amministrazione italiana. Esso si basa, come suo necessario presupposto
funzionale, sul concetto di immedesimazione tra il soggetto che agisce per l’amministrazione e
l’amministrazione stessa. Ciò consente di imputare direttamente all’amministrazione di riferimento
gli atti compiuti dal soggetto agente in rapporto con altri soggetti. Egli è considerato un organo
dell’amministrazione, cioè una parte rispetto al tutto. L’organo può essere inteso sia come persona
fisica sia come centro di competenze. In ogni caso, ha bisogno di un apparato amministrativo, cioè
un’unità organizzativa a supporto dell’esercizio delle sue funzioni (ufficio).
Questo modello ès tato progressivamente ridimensionato, attraverso:
A. Il decentramento regionale e locale che ha progressivamente trasferito funzioni e risorse dal
centro agli enti regionali e locali
B. La costituzione e riorganizzazione di enti pubblici, dotati di autonoma personalità giuridica,
assai enterogenei. Essi vanno distinti dagli enti pubblici economici, che svolgono attività
produttiva in forma di impresa
C. Le privatizzazioni che hanno investito il settore delle partecipazioni statali, in particolare i più
importanti enti pubblici economici, gli istituti di credito di diritto pubblico e le casse di
risparmio. Anche alcuni settori tradizionali dell’organizzazione statale, un tempo costituiti in
aziende autonome nell’ambito di un ministero, trasformate dapprima in enti pubblici
economici, poi in società per azioni
D. La costituzione di agenzie che svolgono “attività a carattere tecnico -operativo” già esercitate
da ministeri ed enti pubblici, cioè soggetti dotati di autonomia funzionale e organizzativa,
sottoposti ai poteri ministeriali di indirizzo e vigilanza.
E. Il progressivo diffondersi delle autorità amministrative indipendenti sull’esempio del modello
anglosassone, che hanno assunto compiti di regolazione, amministrazione e controllo di interi
settori prima affidati alle direzioni generali dei ministeri o privi di regolamentazione.
Importanza particolare assumono come organi ausiliari del governo due istituti direttamente definiti
dalla Costituzione, secondo la quale (art.100) a cui la legge deve comunque assicurare
“l’indipendenza di fronte al governo”.
-)Il Consiglio di stato, organo di consulenza giuridico-amministrativa del governo e insieme organo
che svolge funzioni giurisdizionali. Può esprimersi attraverso pareri facoltativi o pareri obbligatori.
Il governo è tuttavia libero di uniformarsi o meno alle indicazioni del Consiglio.
-)La Corte dei conti, che esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo eil
controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. partecipa al controllo sulla gestione
finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, riferendo direttamente alle Camere sul
risultato del riscontro eseguito.
L’art.99 annovera tra gli organi di consulenza delle Camere e del governo anche il Consiglio
nazionale dell’economia e del lavoro, nelle materie indicate dalla legge. È dotato dell’iniziativa
legislativa.
L’organizzazione per autorità indipendenti
Le autorità indipendenti sono collocate in posizione autonoma rispetto al governo e formate da
personalità scelte con criteri che dovrebbero garantire autonomia e indipendenza di giudizio rispetto
sia agli organi politici sia agli apparati dei ministeri. Realizzano un sistema che non soltanto rompe
il carattere monolitico dell’amministrazione, ma mette in discussione il tradizionale circuito
dell’indirizzo politico. Nell’esercizio delle loro attività si collegano direttamente alla Costituzione e
alla legge saltando la mediazione parlamentare e ministeriale. Lo scopo è di assicurare in settori
individuati come particolarmente delicati la necessaria imparzialità nella ponderazione di tutti gli
interessi coinvolti.
i. Commissione nazionale per le società e la bor sa
ii. Autorità garante della concorrenza e del mercato (antitrust)
iii. Commissione di garanzia sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali
iv. Autorità per l’energia elettrica, il gas e il servizio idrico
v. Garante per la protezione dei dati personali
vi. Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
vii. Autorità garante dell’infanzia e dell’adolescenza
viii. Autorità di regolazione dei trasporti
ix. Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni
x. Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle
amministrazioni pubbliche
Le autorità sono nominate nei modi più diversi e sono organizzate e agiscono secondo moduli fra loro
non omogenei, che vanno dal controllo puntuale su atti dei soggetti alla cui vigilanza sono preposti,
alla fissazione di regole per l’attività svolta da vari soggetti, a poteri di inchiesta e all’instaurazione
di vere e proprie procedure di tipo contenzioso, con l’imposizione di sanzioni amministrative, non
lontane da quelle di tipo giurisdizionale. Contro le decisioni delle autorità è sempre ammesso il
ricorso al giudice amministrativo.
Ci si è chiesti se le autorità indipendenti siano legittimate a svolgere funzioni importanti come quelle
loro affidate senza doverne rispondere di fronte al Parlamento. È giudicato eccessivo il numero di
autorità e inopportuna l’assenza di una normazione base uguale per tutte. Sono quindi state avviate
iniziative per il loro riordino.
È stata messa in discussione l’attività di tipo normativo. Nessun problema per i “regolamenti interni”,
diverso invece qualora si tratti di attività rivolta a soggetti interni, al fine di limitarne o condizionarne
l’attività in positivo o in negativo. Atti riconducibili all’attività amministrativa o a quella normativa?
Vari elementi portano a concludere che si tratti non di provvedimenti amministrativi ma di normative
con caratteristiche di generalità e astrattezza, dirette non a “provvedere” ma a “regolare”, non a
soddisfare puntualmente un interesse specifico ma a innovare l’ordinamento giuridico attraverso atti
destinati a una applicazione ripetuta nel tempo. L’attribuzione di un potere regolamentare alle autorità
indipendenti è legittima, purchè esso sia esercitato nel rispetto del principio di legalità e del principio
della preferenza della legge.
Una forma antesignana di autorità indipendente può essere considerata la Banca d’Italia.
Principi costituzionali
Le pubbliche amministrazioni sono organizzate e agiscono secondo i seguenti principi costituzionali:
A. Principio di autonomia (art.5)
L’amministrazione è affidata agli enti regionali e locali rappresentativi delle comunità territoriali,
tendenzialmente più vicini agli interessi da soddisfare (principio di sussidiarietà)
B. Principio del decentramento (art.5)
Le funzioni amministrative svolte da organi dello Stato, non conferite alle regioni o agli enti locali,
devono essere decentrate nel territorio nazionale, o a livello burocratico, o a livello istituzionale
C. La riserva di legge (art. 97)
L’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, una riserva relativa, non assoluta: il che significa
che la legge non è tenuta a disegnare l’intera organizzazione delle pubbliche amministrazioni, ma
solo a fissare i criteri generali sulla base dei quali le pubbliche amministrazioni possono svolgere esse
stesse la necessaria attività organizzativa
D. Principio di legalità (legge)
Per quanto riguarda l’attività delle pubbliche amministrazioni, che deve mantenersi nei binari stabiliti
dalla legge o da altre normative a ciò abilitate, nonché i principi generali del diritto. Da ciò deriva che
gli atti amministrativi che siano contrari a norme di legge possono essere disapplicati (principio della
preferenza di legge), oltre che annullati dal giudice amministrativo. È un limite non solo esterno, ma
anche interno all’attività amministrativa, dato che essa deve trovare nella legge anche gli obiettivi da
raggiungere. Cioè: le pubbliche amministrazioni devono operare conformemente alla legge, non solo
nei limiti della legge.
E. Principio del buon andamento (art.97)
Impone efficacia (corrispondenza fra gli obiettivi proposti e i risultati conseguiti), efficienza (rapporto
tra i risultati e la quantità di risorse da impiegare per ottenerli), economicità (minimo impiego
possibile di risorse). Per questo fine esiste la conferenza di servizi, cioè un’unica sede nella quale
riunire le diverse amministrazioni interessate per consentire di acquisirne rapidamente il necessario
concorso in un dato procedimento. Procede per valutazione di tutti gli interessi coinvolti, in sola fase
istruttoria o con adozione di atto finale.
F. Principio di imparzialità (art.97)
Ponderazione e composizione degli interessi pubblici da soddisfare con gli interessi privati da
sacrificare, il divieto di operare discriminazioni prive di ragionevole giustificazione, obbligo di
astenersi per i pubblici amministratori o impiegati interessati al procedimento, apartiticità degli
apparati.
G. Assicurare equilibrio di bilancio e sostenibilità del debito pubblico (art.97)
H. Distinzione fra attività di governo e attività di gestione amministrativa (legge)
Non espressamente previsto dalla Costituzione, ma si collega ai principi di buon andamento e
imparzialità. Mentre l’attività di governo e di controllo politico-amministrativo è affidata agli organi
di governo politicamente responsabili, la gestione amministrativa, compresa l’adozione degli “atti
che impegnano l’amministrazione verso l’esterno”, è affidata agli apparati amministrativi. Agli
organi di governo spettano gli atti di direzione politica, che individuano gli obiettivi e indirizzano
l’amministrazione al perseguimento degli stessi; ai dirigenti e agli apparati amministrativi spetta
invece la realizzazione degli obiettivi.
I. Principio di responsabilità delle pubbliche amministrazioni e dei funzionari (art.28)
I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo
leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la
responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
J. Principio dell’accesso mediante concorso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni
(art.97), salvo i casi nei quali la legge prevede l’assunzione nominativa
K. Regime speciale dei beni pubblici (art.42)
La proprietà può essere pubblica o privata, nel caso dell’amministrazione si tratta di beni pubblici,
che vanno a formare parte del complessivo patrimonio delle amministrazioni statali, regionali e locali
sottoposto a un regime speciale. Il codice civile distingue tra demanio pubblico (beni inalienabili e
che non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi), patrimonio indisponibile (che non
possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano)
e patrimonio disponibile (beni sottoposti alle regole del diritto comune).
Procedimento amministrativo
L’attività delle pubbliche amministrazioni è formalmente articolata in una serie di atti tra loro
connessi, di competenza di una o più specifiche amministrazioni, volti al raggiungimento del fine
perseguito attraverso l’adozione di un provvedimento finale. questo è il procedimento amministrativo
e si articola in quattro fasi:
1. Fase di iniziativa: istanza del soggetto interessato al provvedimento finale oppure in
un’autonoma scelta della stessa amministrazione procedente
2. Fase istruttoria (preparatoria): l’amministrazione procedente raccoglie tutte le informazioni e
i dati necessari in vista dell’adozione dell’atto finale, anche attraverso specifici pareri di
competenza di organi consultivi. Può essere attivata la conferenza di servizi
3. Fase costitutiva (deliberativa): adozione del provvedimento finale, secondo le modalità e le
procedure previste per legge
4. Fase integrativa dell’efficacia: adottato l’atto finale (perfetto ma ancora inefficace), si
compiono tutti gli adempimenti generalmente previsti per consentirgli di dispiegare i propri
effetti giuridici.
Nel nostro ordinamento risulta accolto il principio del giusto ordinamento, che tende a garantire la
corretta formazione della volontà dell’amministrazione, che deve svolgersi in forme tipiche (principio
di tipicità), osservare determinate procedure, garantire talune forme di pubblicità e di trasparenza e
assicurare l’intervento dei soggetti coinvolti, sia quali destinatari sia quali beneficiari del
provvedimento stesso.
La disciplina generale si fonda sui principi: motivazione degli atti amministrativi; trasparenza
amministrativa; individuazione di un responsabile del procedimento; diritto di accesso agli atti per i
soggetti interessati; partecipazione dei soggetti interessati all’istruttoria; contraddittorio tra soggetti
portatori di interessi diversi; obbligo di concludere il procedimento espresso entro il termine che
l’amministrazione procedente ha l’obbligo di stabilire. Decorso inutilmente il termine per la
conclusione del procedimento, si applica di regola l’istituto del silenzio-assenso.
Atti amministrativi tipici
Agendo come autorità amministrative, le pubbliche amministrazioni producono attimi amministrativi
tipici, caratterizzati cioè da un regime particolare.
A. Atti emanati seguendo determinate procedure amministrative
Gli atti sono perfetti allorché emanati a conclusione di un procedimento, e quindi divengono efficaci
se non sottoposti a termini o condizioni. Possono tuttavia essere invalidi, vale a dire nulli o annullabili.
L’atto è nullo se manca di un elemento essenziale. È invece annullabile quando risulti “viziato”, per
incompetenza dell’autorità che ha emanato l’atto; per violazione della legge; per eccesso di potere,
qualora, pur non contrario alle prescrizioni di legge, sia stato emanato sviando dalle finalità per le
quali è stato riconosciuto a una pubblica amministrazione il potere di emanare l’atto stesso. L’eccesso
di potere riguarda il cattivo uso del potere discrezionale da parte dell’amministrazione, e può essere
rilevato innanzitutto dalla moticazione ove emergano sintomi (in via sintomatica) come per esempio
illogicità manifesta, contradditorietà interna, non giustificata violazione i prassi, etc.
B. Atti sottoposti a verifiche anche preventive sulla loro legittimità e, talvolta, sul merito
attraverso specifici controlli
C. Atti imperativi e informati al principio dell’autotutela, proprio perché assistiti dalla
presunzione della legittimità dell’atto stesso
L’imperatività indica la speciale forza di un provvedimento grazie alla quale la modifica della sfera
giuridica del destinatario dell’atto non richiede la collaborazione di questo. Spesso però può non
bastare l’emanazione del provvedimento: ed ecco l’autotutela che consente all’amministrazione di
realizzare anche con la forza le situazioni di vantaggio determinate dal proprio provvedimento, senza
l’ausilio del giudice. Si usa ricondurre al principio di autotutela anche una serie di provvedimenti di
secondo grado quali il potere dell’amministrazione di disporne a determinate condizioni:
l’annullamento di ufficio (ex tunc); la revoca (ex nunc); la ratifica; la convalida.
D. Atti giustiziabili, al pari di qualunque manifestazione del potere amministrativo.
Le ordinanze di necessità
Una tipologia particolare di atti amministrativi è costituita dalle ordinanze di necessità. Provvedimenti
volti a fronteggiare in modo tempestivo, al di fuori delle normali procedure, situazioni di emergenza
di vario tipo che coinvolgono la collettività. È la legge stessa che autorizza l’autorità amministrativa
a intervenire in determinate materie, provvedendo anche in deroga alle normative vigenti, per
determinate finalità connesse alla natura dell’emergenza. Non sempre però vengono precisare le
concrete modalità di esercizio dei poteri di ordinanza, lasciando quindi un’elevata discrezionalità
all’autorità amministrativa nella determinazione del contenuto dei provvedimenti di necessità.
Problemi delicati si pongono quando il potere di ordinanza si spinge fino alla possibilità di derogare
a norme legislative. Per esempio le ordinanze prefettizie: la Corte afferma quindi il “carattere di atti
amministrativi” di questo tipo di provvedimenti: in quanto “strettamente limitati nel tempo e
nell’ambito territoriale e vincolati ai presupposti dell’ordinamento giuridico”, essi non possono mai
porsi in contrasto con prescrizioni constituzionali che “non consentono alcuna possibilità di deroga
ad opera della legge ordinaria”. Limiti che si trovano nella legislazione più recente in materia di
ordinanze, in particolare:
-)Ordinanze di protezione civile. Una volta deliberato lo stato di emergenza dal Consiglio dei ministri,
il presidente del Consiglio, o più frequentemente un commissario straordinario appositamente
nominato, provvede all’attuazione degli interventi di emergenza “anche a mezzo di ordinanze in
deroga ad ogni di disposizione vigente”, emanate tuttavia “nel rispetto dei principi generali
dell’ordinamento giuridico”. Sono ritenute compatibili con il sistema costituzionale, trattandosi di
una deroga temporanea autorizzata dalla legge, e non di una abrogazione
-)Ordinanze di sicurezza urbana (art.54 Tuel), adottate dal sindaco con atto motivato e nel rispetto
dei principi generali dell’ordinamento “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Il sindaco esercita i poteri di ordinanza in
queste materie quale ufficiale del governo e i provvedimenti devono essre preventivamente
comunicati al prefetto. Ciò vale anche per ordinanze contingibili e urgenti in casi di emergenza
igienico-sanitaria, che sono invece adottate dal sindaco quale rappresentante della comunità locale.
Il principio di legalità porta con sé quanto prescitto dall’art.113 della Costituzione, “contro gli atti
della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi
legittimi”. A tutti è data la possibilità di ricorso presso gli organi della giustizia amministrativa o di
azione presso i giudici ordinari.
In Italia vige un sistema dualistico di giustizia amministrativa: la tutela dei cittadini contro gli atti
della pubblica amministrazione è ripartita fra il giudice ordinario e il giudice amministrativo,
competenti a seconda del tipo di situazione giuridica fatte valere. Se il soggetto colpito da un atto
amministrativo vede leso un proprio diritto soggettivo, la competenza è del giudice ordinario. Se
invece viene scalfito un interesse legittimo, la competenza è del giudice amministrativo. Ma, in base
all’art.113, ai giudici amministrativi può essere riconosciuta la giurisdizione per la tutela anche dei
diritti soggettivi.
Accanto ai rimedi giurisdizionali esistono i rimedi amministrativi, detti anche paragiurisdizionali.
Sono ricorsi che il soggetto leso può esprimere rivolgendosi alla stessa amministrazione che ha
emanato l’atto (ricorso in opposizione), o al superiore gerarchico dell’autorità che ha emanato l’atto
(ricorso gerarchico).
È anche previsto il ricorso straordinario al presidente della Repubblica, ma in realtà la decisione,
anche se formalmente assunta con decreto presidenzile, spatta al Consiglio di stato, chiamato a dare
un parere vincolante. La si percorre per due ragioni: il termine per far ricorso e doppio (120giorni) e
non è necessario farsi patrocinare da un avvocato.
Interessante è anche l’atto politico, atto che esprime una libera scelta connessa all’esercizio della
funzione di indirizzo politico del governo. La legge sclude il ricorso alla giurisdizione amministrativa
se si tratta di “atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico”. Si deve
ritenere che per determinati atti governativi, non amministrativi in senso stretto, ammette la
sindacabilità contrasterebbe con altri principi costituzionali.
Diritto pubblico – Il sistema giudiziario
Per garantire l’armonia e la pace interna di un gruppo sociale, è sempre stata prevista, nelle forme e
con i nomi più diversi, la presenza di giudici: figure preposte al compito di garantire l’osservanza
delle regole della convivenza sociale. Una moderna concezione della funzione giurisdizionale si è
affacciata solo a partire dalla formazione degli stati assoluti nel corso del XVI e XVII secolo. Fu
soprattutto a seguito di tale sviluppo che si pose con forza il problema di limitare il potere assoluto
del re e garantire i diritti inviolabili degli individui, anche attraverso il rafforzamento
dell’indipendenza e della terzietà dei giudici.
Le prime teorizzazione della separazioni dei poteri: la necessità di un’equilibrata e giusta gestione del
potere di governo avrebbe dovuto condurre alla separazione tra le diverse funzioni, quella legislativa,
quella esecutiva e quella giurisdizionale, sia al fine di un controllo e di un’influenza reciproca tra le
diverse sfere del potere, sia per evitare che un monarca assoluto e illimitato potesse compiere arbitri
a danno dei singoli.
Il problema dell’indipendenza della magistratura (esterna, cioè nei confronti degli altri poteri; interna,
cioè di ciascun magistrato rispetto ai suoi “superiori”) è stato affrontato dalle nuove costituzioni
attraverso organi di “autogoverno”, almeno in parte rappresentativi dell’ordine giudiziario, ai quali
affidare i delicati compiti prima rimessi all’esecutivo. Al governo viene lascito invece, nella maggior
parte dei casi, il compito di assicurare i mezzi per l’esercizio dell’attività giudiziaria.
La funzione giurisdizionale
Una definizione complessiva della funzione giurisdizionale deve conciliare due prospettive
essenziali: il profilo soggettivo e il profilo oggettivo.
Per il profilo soggettivo; si individua l’esercizio della funzione giurisdizionale ogni qual volta
determinate attività sono attribuite alla competenza degli appartenenti al corpo giudiziario, dando così
rilievo alla natura del soggetto cui spetta la decisione. Per il profilo oggettivo; si dà rilevanza al
carattere oggettivamente giurisdizionale dell’attività svolta, a prescindere dal fatto che chi decide
appartenga al corpo giudiziario oppure no.
Cercando di considerare insieme i due profili, si può definirla come funzione di diretta applicazione
della legge, attiva su impulso delle parti (passività del giudice), per risolvere un conflitto o una
controversia, esercitata ad opera di un soggetto terzo (terzietà del giudice), vincolato solo alla legge,
nel rispetto del principio del contradditorio fra le parte, della pubblicità del procedimento e della
motivazione delle decisioni. Il giudice deve essere passivo nel senso che non sta a lui promuovere
l’azione; deve essere terzo perché se tale non fosse sarebbe accettato dalle parti; deve essere vincolato
solo alla legge, non deve cioè ricevere istruzioni né dettare lui stesso il parametro in base al quale
decidere la controversia; il contradditorio fra le parti serve a garanzia che ciascuna possa farsi sentire
dal giudice in condizioni di parità; la pubblicità del procedimento è a garanzia della sua correttezza;
la motivazione serve a consentire forme di controllo successivo.
Diveri sono nome e ruolo delle parti in casua: attore e convenuto nel processo civile; pubblico
ministero e imputato nel processo penale; ricorrente e resistente nel processo amministrativo.
Quindi c’è differenza della funzione giurisdizionale rispetto a)alla funzione legislativa, che deve
creare le disposizioni legislative, la cui espressione tipica è la legge; b)alla funzion esecutiva-
amminsitrativa, il cui compito è dare esecuzione a norme di legge, ma non in posizione di terzietà np
con la specifica finalità di risolvere una controversia, bensì con lo scopo più generale di perseguire i
pubblici interessi, attraverso l’adozione di atti e provvedimenti amministrativi.
Espressione dell’esercizio della funzione giurisdizionale è la sentenza: l’atto processuale del giudice
col quale questi risolve la questione sottoposta alla sua attenzione. Ordinanza e decreto sono invece
gli atti del giudice che regolano lo sviluppo del procedimento.
L’organizzazione giudiziaria
Giurisdizione ordinaria (art.102)
La funzione giurisdizionale è esecritata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme
sull’ordinamento giudiziario. I giudici ordinari hanno una giurisdizione generale in materia civile e
penale. L’organizzazione della giustizia ordinaria ha una dimensione orizzontale, di diffusione sul
territorio nazionale (distretti giudiziari); e una verticale, interna a ogni singolo ufficio territoriale
nonchè tra gli uffici di un determinato distretto (giudici di primo grado e giudici di secondo grado).
Al vertice è posta la Corte di cassazione, giudice collegiale di legittimità. (vedi fig. pag.408)
A. Per le cause in materia civile sono previsti diversi gradi di impugnazione delle sentenze:
i. Giudice di pace: decide da solo e a competenza limitata a cause “minori”
ii. Tribunale: può decidere in composizione monocratica o collegiale
iii. Corte d’appello: giudice collegiale di secondo grado
B. Per i procedimenti in materia penale sono invece previsti:
i. Giudice di pace: ma solo per reati minori
ii. Tribunale: giudice di primo grado, monocratico o collegiale
iii. Corte d’appello: giudice collegiale di secondo grado
Per i reati più gravi, a tribunali e corti d’appello si affianca la corte d’assie, seguita in secondo grado
dalla corte d’assise d’appello. Sono organi collegiali, in cui a fianco di due giudici di carriera siedono
sei giudici popolari.
La distribuzione del lavoro tra i diversi giudici è attuate in base al criterio della competenza: a seconda
della tipologia del caso, è previsto che il processo si svolga presso un giudice piuttosto che un altro.
La possibilità di ricorso in cassazione contro le sentenze di appello si limita solo alle questioni di
legittimità: attenenti al rispetto della legge e delle norme di procedura che disciplinano lo svolgimento
del processo, senza coinvolgere il merito della questione controversa. Tra le funzioni della Corte di
Cassazione, fondamentale è quella di assicurare l’uniforme interpretazione della legge (funzione
nomofilattica). Decide in realtà intorno a singoli casi concreti a essa sottoposti, laddove ritenga che
il giudice di merito abbia interpretato in modo non corretto la legge, può disporre l’annullamento
della sentenza, rinviando ad altro giudice di merito, che può ripetere il processo anche solo in parte,
applicando la corretta interpretazione della legge quale individuata dalla Corte di cassazione
(sentenziata in massime, che costituiscono un precedente).
Accanto ai magistrati con funzioni giudicanti, si collocano i magistrati con funzioni requirenti: sono
i magistrati del pubblico ministero, concentrati in uffici istituiti presso i corrispondenti uffici
giudicanti: procura della Repubblica (tribunale); procura generale della Repubblica (corte d’appello);
porcura generale (Corte di cassazione).
I magistrati requirenti, che non sono dunque giudici, appartengono nel nostro ordinamento allo stesso
corpo dei magistrati giudicanti. Il loro compito è perseguire l’interesse generale della giustizia.
svolgono attività di stimolo rispetto a un giudizio in corso. Hanno l’obbligo di esercitare l’azione
penale e svolgono le indagini sulle notizie di reato per mezzo della polizia giudiziaria. Rappresentano
la pubblica accusa: nel processo sono dunque una parte e non partecipano della passività e terzietà
propria del giudice.
L’art.102 fa divieto di istituire giudici straordinari, cioè creati dopo l’accadimento del fatto
giudicante, o giudici speciali, con competenze ritagliate in base agli interessi o alle materie in
questione. Ciò si ricollega al principio dell’art.5 in base al quale “nessuno può essere distolto dal
giudice naturale precostituito per legge”, l’ufficio giudiziario individuato dalla legge sulla base di
criteri (competenza) determinati prima che la controversia insorga o che sia compiuto il reato. Ciò
non esclude la possibilità di istituire sezioni specializzate per materia, all’interno di uffici della
magistratura ordinaria.
Giurisdizioni speciali (art.103)
Previste dalla stessa Costituzione, sono:
A. Giurisdizione amministrativa
I giudici amministrativi hanno competenza per le controversie che vedono coinvolta la pubblica
amministrazione. La loro giurisdizione si estende alla tutela nei confronti della pubblica
amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti
soggettivi. Dal 2010 è in vigore un codice del processo amministrativo che raccoglie e sistematizza
l’intera materia. Nelle materie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, i
tribunali amministrativi si occupano sia della tutela degli interessi legittimi di colui che fa ricorso al
giudice, sia della tutela dei suoi diritti soggettivi, con la possibilità fra l’altro di disporre il
risarcimento del danno ingiusto eventualmente determinato da responsabilità della pubblica
amministrazione. Sono previsditi i Tribunali amministrativi regionali, le cui sentenze sono appellabili
presso il Consiglio di stato.
B. Giurisdizione contabile
I giudici contabili hanno una giurisdizione riservata in materia di “contabilità pubblica e nelle altre
specificate dalla legge”. Inoltre, giudicano sulla responsabilità amministrativa e contabile di
amministratori, impiegati e tesorieri delle amministrazioni pubbliche. La prima riguarda i danni recati
all’amministrazione, la seconda il maneggio di pubblico denaro. La Corte dei conti si articola in
sezioni giurisdizionali regionali, le cui sentenze possono essere appellate alle sezioni giurisdizionali
centrali.
C. Giurisdizione militare
In tempo di guerra, hanno la giurisdizione stabilità dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione
soltanto per i reati militari commessi dagli appartenenti alle Forze armate. Si ha un Tribunale militare
e, in secondo grado, la Corte militare d’appello.
La legislatura ordinaria prevede organi di giustizia tributaria, il cui compito è la risoluzione delle
controversie fra i contribuenti e gli organi statali, regionali e locali, preposti alla impostazione o
riscossione dei “tributi di ogni genere o specie comunque denominati”.
Garante dell’ordinato svolgersi di tutte le attribuzioni delle diverse giurisdizioni è la Corte di
cassazione. Da un lato deve dirimere i conflitti di competenza tra i diversi giudici ordinari, dall’altro
i conflitti di giurisdizione tra i giudici ordinari e i giudici speciali.
Autonomia e indipendenza della magistratura
La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (art.104);
principio rafforzato da ulteriori garanzie quali “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art.101) e
i magistrati “si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art.107).
Con tutto ciò si afferma, all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano, il principio della
separazione dei poteri e della necessaria autonomia e indipendenza della magistratura dagli altri poteri
dello Stato, specialmente dal potere esecutivo. È previsto che i magistrati siano nominati solo dopo il
superamento di un pubblico concorso che garantisca imparzialità e un grado tendenzialmente elevato
di selezioni tecnica. La nomina diretta dei magistrati onorari è prevista, ma a titolo di emera
eccezione, ad esempio i giudici di pace. È inoltre prevista la possibilità di nominare come consiglieri
di cassazione, per “meriti insigni”, professori odinari di università in materie giuridiche e avvocati
che abbiano quindici anni d’esercizio della professione alle spalle. La Costituzione prevede anche la
partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia, solo però all’interno delle corti
d’assise e delle corti d’appello, composte anche da singoli cittadini in veste di giurati. Infatti si tratta
di processi per i crimini più gravi, causa di particolare riprovazione sociale.
L’indipendenza dei magistrati è rafforzata dalla garanzia della loro inamovibilità: essi non possono
essere dispensanti o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a
decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa
stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso (art.107). Sono infatti assai ridotte le
possibilità di incidenza del ministro della giustizia: ha la facoltà di promuovere l’azione disciplinare
e una competenza generale in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla
giustizia. Tutto ciò per quando riguarda l’indipendenza esterna.
Per quanto concerne l’indipendenza interna, cioè i rapporti tra i magistrati all’interno dello stesso
ordine giudiziario. Si ha che i magistrati raggiungono il massimo del trattamento economico e del
grado in carriera prevalentemente attraverso il criterio dell’anzianità, a prescindere dall’effettivo
esercizio delle relative funzioni. Una posizione particolare è quella dei magistrati appartenenti agli
uffici del pubblico ministero, il quale “gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme
sull’ordinamento giudiziario”. Questo perché nell’ambito della magistratura requirente vi è sempre
una certa articolazione gerarchica, giustificata dagli specifici compiti delle procure. Le garanzie di
indipendenza interna del pubblico ministero, a differenza del giudice, riguardano l’ufficio nel suo
complesso e non il singolo magistrato. La fondamentale garanzia di indipendenza rappresenta il
contraltare della previsione costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ciò significa eguale
presecuzione di tutti i reati di cui il pubblico ministero sia venuto a conoscenza.
In base all’art.98, i magistrati sono una delle categorie per le quali possono essere stabilite con legge
limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici. Ciò mira a salvaguardare l’indipendente esercizio
delle sue funzioni.
Particolari garanzie di indipendenza sono assicurate agli appartenenti alle giurisdizioni specili, in
considerazione della possibile contiguità con il potere esecutivo.
Il Consiglio superiore della magistratura
Il Csm è l’organo cui spettano le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i
provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati ordinari: è l’organo dal quale dipende tutta la
carriera del magistrato (art.105). Ha composizione mista (art.104):
a. Tre componenti di diritto: Presidente della Repubblica; il primo presidente della Corte di
cassazione; procuratore generale presso la stessa
b. Componenti elettivi; due terzi eletti da tutti i magistrati ordinari (membri togati)
c. Componenti elettivi; un terzo eletto dal Parlamento in seduta comune a maggioranza sempre
qualificata (membri laici).
La presidenza dell’organo, affidata al capo dello Stato, ha uan funzione di garanzia dell’equilibrato e
imparziale svolgimento dei compiti assegnati al Cms. Esso elegge, tra i membri laici, un
vicepresidente, il quale esercita le attribuzioni affidategli dalla legge e tutte quelle che il presidente
della Repubblica gli delega (quasi tutte le sue). Il Csm opera attraverso commissioni, tra le quali è
importante la commissione per il conferimento degli incarichi direttivi e la sezioni disciplinare. Il
Csm è l’organo cui, a tutela dell’autonomia e indipendenza, ma anche della non separatezza
corporative della magistratura, la Costituzione ha attribuito la gestione delle carriere e dello stato
giuridico dei magistrati. Tali attribuzioni devono coordinarsi coi poteri del ministro della giustizia.
Egli possiede un sostanziale potere di richiesta in relazione ai provvedimenti del Csm riguardanti
carriera e stato giuridico dei magistrati, ma la competenza ad adottare i relativi provvedimenti spetta
esclusivamente al Csm. Riguardo al conferimento di incarichi direttivi alla guida degli uffici
giudiziari invece l’apposita commissione deve procedere di concerto con il ministro (senza però mai
il vincolo).
Il Csm dà pareri al ministro sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario. Ci si chiede
quindi come interpretare questa disposizione: autonoma iniziativa del Csm che si esprime su testi di
legge in discussione; pareri espressi solo su richiesta del ministro.
Quanto alla sezione disciplinare, la sua funzione è quella di decidere l’eventuale interrogazione delle
sanzioni previste dalla legge nei confronti dei singoli magistrati giudicati responsabili di
comportamenti contrari ai doveri d’ufficio. La procedura può scaturire sulla base di una richiesta del
ministro della giustizia o del procuratore generale presso la Corte di cassazione, cui spetta il potere
di promuovere l’azione disciplinare. Il procedimento disciplinare è strutturato come un processo.
I principi costituzionali del processo
Il fondamento di un sistema giudiziario autonomo e indipendente è anche in quelle disposizioni
costituzionali che dettano i principi fondamentali cui è improntata l’attività giurisdizionale nel suo
concreto svolgersi, cioè in materia di processo. L’esecizio della giurisdizione deve sempre essere
rivolto alle finalità sue proprie: la tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini; il
perseguimento dei responsabili di comportamenti delittuosi, nel rispetto dei diritti fondamentali della
persona.
L’art.124 stabilisce il gratuito patrocinio, che consiste appunto nell’assistenza legale a carico dello
Stato per coloro che non possono permettersela. L’art.24 invece la garanzia del diritto di difesa, che
è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, a prescindere dal tipo di giurisdizione. La
Corte costituzionale, in merito alla possibilità di rifiutare la difesa tecnica d’ufficio, ha ribadito con
forza non solo l’inviolabilità del diritto di difesa, ma la sua irrinunciabilità.
In questo quadro si colloca il principio del gudice naturale precostituito per legge (art.25), da cui
nessuno può essere distolto, proprio per garantire appieno la tutela giurisdizionale dei diritti del
cittadino. L’art.111 contiene i principi del giusto processo. A integrare tutto ciò (art.24), ogni processo
si deve svolgere nel contradditorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e
imparziale. Il processo penale è regolato dal principio del contradditorio nella formazione della prova.
Il giusto processo, quindi, vive della garanzia che può essere data solo dalla “parità delle armi” tra
accusa e difesa e dalla possibilità di contestazione incrociata degli elementi di prova addotti
(contraddittorio), sul presupposto di necessario non coinvolgimento personale del giudice (terzietà e
imparzialità). L’art.111 riconosce inoltre alla persona accusata di un reato alcuni diritti fondamentali,
come l’essere informato dei capi d’accusa a suo carico; disporre del tempo e delle condizioni
necessari per la preparazione della difesa; interrogare i testimoni a suo carico e a sua difesa; acquisire
ogni mezzo di prova a suo favore; essere assistito da un interprete se non comprende o non parla la
lingua usata nel processo.
La legge deve assicurare la ragionevole durata dei procedimenti giudiziari, affinchè processi troppo
lunghi non si trasformino di fatto in denegata giustizia. In caso, è previsto il diritto a un’equa
riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole.
Altro strumento (art.111) è l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali,
concretizzando così il diritto di difesa, perché la motivazione stesa dal giudice permette di controllare
il ragionamento giuridico che sta alla base della decisione: e dunque di contestarla. Eventualmente,
attraverso il ricorso ad altro giudice (impugnazione). Ciò è essenziale in un sistema di doppio grado
di giudizio, che prevede quasi sempre la possibilità di sottoporre a un giudice diverso la medesima
questione già risolta da un altro giudice. Ciò permette un approfondimento della causa e una maggiore
ponderazione del giudizio.
Considerando la particolare rilevanza del processo penale, è in quest’ottica che vanno interpretati i
principi sanciti nella prima parte della Costitutizione, come la irretroattività delle norme penali, la
responsabilità penale personale, la presunzione di non colpevolezza.
La responsabilità dei magistrati
Per garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, si sono ridotte al minimo, se non del
tutto eliminate, le “interferenze” da parte degli altri poteri dello Stato. Questa necessità non può però
portare alla creazione di un corpo di magistrati totalmente irresponsabile e dotati di una sfera di
sostanziale immunità. Il nostro ordinamento prevede infatti diverse forme di responsabilità dei
magistrati.
La responsabilità è la situazione nella quale si trova un soggetto quando può essere chiamato a
rispondere della violazione di un obbligo: la natura dell’obbligo definisce il tipo di responsabilità-
essendo legati da un rapporto di pubblico impiego con lo Stato, anche gli appartenenti all’ordine
giudiziario hanno una responsabilità di tipo disciplinare per quanto attiene la loro condotta
professionale e le eventuali violazioni dei doveri derivanti dal loro ufficio. Ciò per garantire il buon
andamento del’ufficio e l’immagine della pubblica amministrazione.
L’elenco dei comportamenti che costituiscono illecito e le norme sul procedimento disciplinare sono
stati modificati nel 2006. È stata anche introdotta una norma generale, che ha attenuto la portata della
responsabilità disciplinare, secondo la quale “l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto
è di scarsa rilevanza”.
Può giocare un ruolo in certa misura analogo il potere del Csm di trasferire un magistrato per
incompatibilità ambientale. Un provvedimento previsto quando i magistrati “per qualsisi causa anche
indipendente da loro colpa, non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena
indipendenza e imparzialità”. Cioè quando, anche senza diretta responsabilità del magistrato, si viene
a creare oggettivamente una situazione che sconsiglia la sua permanenza in una determinata sede.
La responsabilità civile si applica a tutti i magistrati, non solo quelli ordinari. Preve che chiunque
abbia subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento
giudiziario posto in essere dal magistrto con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni
ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni. Quindi
riguarda esclusivamente le ipotesi di comportamenti volontari (dolosi), o non volontari ma di
consistente gravità (colpa grave), nonché l’omissione o ritardo di atti del proprio ufficio nonostante
l’istanza di parte (diniego di giustizia).
Ci si domanda se vi possano essere anche forme di responsabilità politica in relazione all’esercizio
della funzione giurisdizionali. L’unica forma di responsabilità in senso lato politica cui i magistrati
possono essere sottoposti è la responsabilità politica diffusa, cioè il potere di critica riconosciuto
all’opinione pubblica in relazione alla condotta di chi ricopre pubbliche funzioni: non esiste, per
rispettarne l’indipendenza, un’autorità che possa sindacare le decisioni assunte dai magistrati.
Diritto pubblico – La giustizia costituzionale