Gilberto Marconi Prima Lettera Di Pietro 2000
Gilberto Marconi Prima Lettera Di Pietro 2000
PRIMA LETTERA
DI PIETRO
o
Città Nuova
In copertina:
San Pietro che legge (?).
Roma - Catacombe dei Santi Pietro e Marcellino.
Grafica di Rossana Quarta
ISBN 88-311-3771-9
7
stro testo non ha alcun carattere per cui possa essere ascritto al novero
delle lettere. In particolare manca la relazione io-tu che di solito nelle
epistole caratterizza il rapporto tra mittente e destinatario: i due sem
brano distant� né vengono rammentati ricordi comuni. La nostra sem
bra piuttosto una circolare, la cui scrittura ricalca l'andamento dei di
scorsi pastorali, caratterizzata per lo più dal genere parenetico, mani/e
stato nell'uso abbondante degli imperativz: del verbo «/are» e degli ag
gettivi eticz: dall'esegesi tipologica dell'AT, dai numerosi composti con
hypo («sotto») premesso, dall'esemplarità caratterizzata dalla frequen
za di hos («come»: 27 presenze) e dal riferimento alla condotta (ana
strophe). Una parenesi non estranea ad ambienti o situazioni liturgico
cultuali e teologicamente ben motivata, con/erma l'alta frequenza con
cui viene citato il nome di Dio (39 volte), e la sua volontà (4 volte vie
ne menzionato il sostantivo thelema avendo sempre Dio come soggetto
e 2 volte il verbo thelo, del quale una volta Dio è il soggetto e l'altra è
inserita in una citazione del Sal 34).
Il materiale cui l'Autore attinge è eterogeneo, ma abbastanza co
mune alla tradizione parenetica del primo cristianesimo: non poche ci
tazioni o allusioni all'A T, codici domestic� n/erimenti a tradizioni bat
tesimalz: inni cristologia: professioni di fede, attestazioni della tradi
zione sinottica. Il tutto redatto in un buon greco, più vicz.no alla lingua
letteraria che a quella parlata: corredato da un vocabolario abbastanza
originale - una media di 11 parole per ognuno dei cinque capitoli non
n'corrono più nel NT- il testo procede spesso per immaginz: meta/ore,
parallel� sinonimz: figure di suono, ecc.
Tra i problemi che non sempre hanno goduto di attenzione meri
ta la traduzione. Si/fatto transito non è mai indolore, dovendo per pri
mo oggettivare la comprensione del testo stesso, perciò non potevamo
delegarlo ad alcuno, ancorché più autorevole e degno, essendo la nostra
traduzione - cresciuta nel rispetto e nell'attenzione a quelle attual
mente autorizzate -la più coerente al commento che segue.
Per la bibliografia la /onte principale è stato il vol. di A. Casurel
la, Bibliography of Literature on first Peter, Leiden - New York -
Koln 1996 che con i suoi 1.573 titoli offre un panorama ampio ma non
completo. Tra i commentari più interessanti menzioniamo Pf. Achte
meier (1996) per l'ampiezza delle in/ormazion� L. Goppelt (1978) per
8
l'originalità, C.A. Bigg (1901), E.G. Selwin (1947) e C. Spicq (1966)
per l'apparato filologico, N. Brox (1979) per l'impostazione storica e R.
Fabris (1980) per le applicazioni pastorali.
G.M.
9
l PIETRO l, 1 -2
INTRODUZIONE
11
Gesù Cristo») . Infine il raddoppiamento delle azioni del Figlio
(«l'obbedienza e l'aspersione del sangue») rispetto alle precedenti
due figure, gli conferisce quella maggiore attenzione che lo Scrittore
gli destina.
COMMENTO
12
dizione che si trovano a vivere, «eletti>> da Dio e «dispersi» nel mon
do. Questi titoli condensano anche alcuni motivi ispiratori che per
corrono l'intero scritto: la dispersione si ritrova in 2, 11, all'inizio
della seconda sezione della lettera, insieme alla peregrinatio (cf. l,
17), mentre il termine «scelto» è concentrato alla fine della prima se
zione (2, 4.6.9) . Nel nostro caso eklektos («scelto, eletto») più che un
participio passato è da considerarsi tm aggettivo verbale il cui senso
ricade sul soggetto che sceglie, non sull'oggetto scelto, cioè non sul
fatto di essere eletto perché migliore rispetto ad altri, ma sulla qua
lità divina dell'elezione che non è predestinazione ma dono gratuito,.
grazia della quale partecipano i destinatari. Oltre alle quattro citazio-
ni specifiche, il tema della gratuita chiamata di Dio attraversa l'inte
ra lettera con il riproporsi del verbo «chiamare» (l, 1.15; 2 , 4.9.2 1 ; 5,
10. 13 ) . Nell'elenco dei titoli riservati ai destinatari in 2, 9 («voi siete
stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di riservato
possesso») il tema dell'elezione sembra fare l'eco all'AT. Questo nuo
vo popolo appartiene solo a Dio, è una nazione santa il cui compito,
grazie a una speciale consacrazione cultuale, l'aspersione con il san
gue all a maniera con cui era stato consacrato l'antico popolo nell'al
leanza del Sinai, lo deputa a servire esclusivamente Dio. Designato
popolo di JHWH nell'AT (Dt 7, 6) , Israele ha coscienza della pro
pria elezione tant'è che, almeno alcuni gruppi, non esitano a trasfor
marla in chiusura o segregazione, come ad esempio gli Esseni di
Qumran che si considerano il resto d'Israele, santo ed eletto dalla
grazia divina, o neli' epoca maccabaica, soprattutto sotto la minaccia
della persecuzione, a farla divenir motivo di lotta. TI NT non rifiuta
r eredità dell'elezione, ma la apre anche a una prospettiva individua
le (cf. Mt 22 , 1 - 14; Gv 10, 3; E/ l, 4; Co/ 3 , 12; l Pt 2 , 4), liberando
la dalle strette del nazionalismo in cui spesso era stata confinata dal
giudaismo. La l Pt, pur respirando aria di persecuzione - dunque
poteva risultare facile indulgere a forme di chiusura - esprime tale
purificazione separando la salvezza dall'elezione. Però non basta
quest'ultima da sola a completare l'identità del nuovo popolo di Dio.
Infatti accanto all'elezione l'Autore aggiunge una parola rara, usata
appena tre volte in tutto il NT, «disperso» (Eh 11, 13 ; l Pt l, l; 2,
11): indica uno straniero che risiede prowisoriamente in un luogo,
13
senza diritto di cittadinanza, probabilmente all a maniera delle comu
nità giudeo-cristiane sparse nel territorio dell'impero e molto prossi
mo a quanto si dice nell' AT di Abramo ( Gn 23, 4: «lo sono forestie
ro e di passaggio in mezzo a voi») e della situazione generale del
l'uomo sulla terra (Sal 39, 13 ) . Due titoli dunque abbondantemente
testimoniati dalla tradizione anticotestamentaria. L'originalità del no
stro non risiede nell'uso della scrittura quanto nell'aver affiancato
queste due qualifiche le quali, riferite a un unico personaggio, suo
nano strane, esprimono un tono conflittuale sconosciuto prima. Né il
testo permette di ipotizzare che la lettera si rivolga a due gruppi di
stinti di destinatari, gli eletti e gli stranieri, come vorrebbero il codi
ce Sinaiticus e alcune versioni siriache introducendo la congiunzione
«e» tra i due titoli.
A sottolineare maggiormente l'idea di sradicamento dei destina
tari sopraggiunge l'attribuzione a «stranieri», «della diaspora» assun
ta nell'accezione traslata di dispersione dei cristiani nel mondo. n
senso comune del vocabolo, di esilio degli Ebrei fuori della propria
terra (cf. Dt 28, 25; 30, 4; Gd 5, 19; Sa/ 147, 2 ; Is 49, 6; Ger 13 , 14;
15, 17; 4 1 , 17; Dn LXX 12, 2; 2 Mac l, 27 ) non aveva un giudizio
unanime lungo la storia d'Israele: di condanna divina all'inizio per le
deportazioni assiro-babilonesi, positivo nei confronti delle migrazio
ni volontarie che, oltre a favorire le relazioni commerciali o la fusio
ne dei popoli, salvaguardava dallo sterminio totale. Con la distruzio
ne di Gerusalemme (70 d.C.) la diaspora rimase senza capitale, e an
che l'ottimismo finì. Con Filone diventa un dato psicologico. Nel cri
stianesimo il contenuto storico resta alla base di una sua significazio
ne simbolica che ritroviamo anche nel nostro passo. Pure la lettera di
Giacomo nel prescritto si rivolge ai destinatari della diaspora: sebbe
ne il contesto culturale sia diverso dal nostro, mancano le indicazio
ni topografiche e il vocabolario della peregrinazione, permane tutta
via il valore metaforico. I capitoli conclusivi della lettera agli Ebrei,
pur non riproducendo il vocabolo «diaspora», riassumono bene il
concetto allorché i cristiani vengono definiti «pellegrini e stranieri
sulla terra» (Eh 1 1 , 13 ) mentre aspettano la città escatologica.
Alcune considerazioni sui destinatari s'impongono, dopo che il
prescritto li ha evidenziati rispetto allo stesso mittente. La prima
14
concerne raccostamento dei due termini, apparentemente contrad�
d.ittori, che li qualificano, «eletti pellegrini». Evocando la tensione
dialettica dei credenti sottolineandone l'aspetto diasporico�metafori
co, il nuovo titolo offre un terzo elemento, superiore alla somma de
gli addendi, un più di senso rispetto alla giustapposizione dei due ri�
spettivi significati attestati dai vocaboli. Questo di più è la tensione
generata dal conflitto tra la coscienza dell'elezione e la precarietà sto�
rica che si trova a vivere la comunità cristiana, tra storia profana e
storia salvifica, tra ricchezza e povertà; è la situazione d' insicuritas
più vicina al concetto metaforico di diaspora che a quello di elezio�
ne, o che per lo meno abbraccia in egual misura il significato di en
trambi i termini purché nel secondo sia manifesta la debolezza del
l'uomo che la gratuità del dono divino esprime. D'altra parte il con
cetto di eccellenza è già insito in quello di straniero: provenendo da
un altro luogo, il forestiero si trova ad abitare un paese strano nel
15
ramente o esclusivamente sociologici, ma anche in categorie teologi
che. Israele in rapporto alla propria esperienza deduce che per Dio
ogni popolo è solo residente e non padrone del luogo che abita (Dt
23 , 8) : l'essere straniero e pellegrino, che era già nella coscienza di
Abramo non cessa neanche con il possesso della terra di Canaan.
Perciò il patriarca è anche il prototipo in cui il popolo d'Israele vede
prefigurata la propria natura e non già un caso singolo dovuto e li
mitato a particolari circostanze storiche (cf. l Cr 29, 15; Sal 3 9, 13 ;
1 18, 19). Qualunque sia la posizione del credente nei confronti del
mondo, rispetto a Dio è sempre un forestiero. Questa coscienza del
la radicale estraneità ha trovato anche una sua espressione giuridico
cultuale: «il terreno non potrà essere venduto per sempre perché il
paese è mio e voi siete per me» (Lv 25, 23). Perciò lo straniero· -sarà
guardato con particolare simpatia dalla legge d'Israele. Modesta la
presenza della famiglia lessicale nel NT- appena 8 volte contano il
sostantivo concreto (paroikos) , quello astratto (paroikia) e il verbo
corrispondente (paroikein) - tuttavia sempre in forma di citazione o
allusione all'AT (At 7, 6: Gn 15, 13 ; At 7, 29: Es 2, 15 ; E/ 2, 19: Es
12 , 48; 1 Pt 2 , 1 1 : Gn 23 , 4; Sal 3 9, l; At 13 , 17: Is l, 2; Es l, 7; 3 ,
15; 1 Pt l , 17; Eb 1 1 , 9: Gn 23 , 4 ; 26, 3; 35, 12) , eccetto Le 24, 18,
unico testo in cui il verbo non viene usato secondo l'accezione tecni
ca. TI nostro Autore, in armonia col suo tempo (cf. La Lettera a Dio
gneto, 5 , 5 ; La seconda lettera di Clemente 5 , l; il saluto che introdu
ce il Martirio di Policarpo), assumendo il materiale fornitogli dalla
tradizione lo alleggerisce dei caratteri sociologici per cui lo «stranie
ro e pellegrino» di Abramo indica una vocazione prima che una con
dizione, o se si vuole la vocazione ha originato una condizione: come
dire che i cristiani sono dispersi della diaspora perché eletti; alla fe
de in Cristo si è chiamati e la vocazione impone la peregrinitas, per
cui se non si è stranieri non si è neppure cristiani. Dal punto di vista
più prettamente sociale sembra che il nostro Autore si adegui, alme
no in parte, al modello d'integrazione sociale e religiosa delle comu
nità ebraiche della diaspora ellenistica (cf. Gv 17, 15; Filone, De opi
ficio mundi, l).
I luoghi della diaspora, Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia e Bi
tinia, non creano problemi di natura storica: dal II secolo a.C. si han-
16
no notizie della presenza giudea in Asia Minore, confermate da Filo
ne il quale racconta di una diaspora nella provincia del Ponto: «Sul
la città santa mi preme di dire ciò che conviene. Questa città, come
ho già detto, è la mia patria e la capitale non solo del territorio della
Giudea ma anche della maggior parte degli altri territori a causa del
Je colonie che ha inviato, secondo le epoche, nei paesi limitrofi: Egit
to, Fenicia, Siria . . . , altre nelle regioni più lontane di Panfilia e Cilicia,
di gran parte dell'Asia fino alla Bitinia e agli estremi confini dd Pon
te» (Filone, Legatio ad Gaium, 281s.).
Sembra tuttavia difficile che l'ordine indichi un ipotetico itine
rario della lettera: è poco probabile che due regioni contigue come il
Ponto e la Bitinia, appartenenti allo stesso distretto amministrativo
imposto da Roma dai tempi di Pompeo, siano l'inizio e la fine del
viaggio.
In questo elenco di nomi più che le preoccupazioni geografiche
conta invece l'autorità petrina: segnerebbero una specie di confine
oltre il quale non si dovevano spingere i predicatori provenienti da
Gerusalemme. Questi nomi si ritrovano negli Atti degli Apostoli: dal
Ponto, dalla Cappadocia e dall 'Asia provengono alcuni di coloro che
si trovarono a Gerusalemme il giorno di Pentecoste (At 2, 9) mentre
la Galazia e la Bitinia sono legate ai viaggi missionari. Dopo aver
portato l'annuncio del vangelo in Asia, At 16, 6s. raccontano che
Paolo non entra in Bitinia: ancorché taciuto, il motivo sembra do
versi rintracciare nella presenza già sul posto di alcuni missionari.
Da queste prime indicazioni possiamo ipotizzare l'identità dei
destinatari. Sebbene la maggioranza degli studiosi opta per la prove
nienza pagana, i dati alimentano qualche dubbio. Anzitutto «diaspo
ra», benché non sia da assumere in senso storico, appartiene al voca
bolario giudaico. Poi non è inverosimile che l'indicazione di «detti
stranieri» non rispecchi anche un dato storico dei destinatari nd sen
so che, essendo giudei erano residenti, ma non cittadini, delle città
greche dove per altro era difficile ottenere la cittadinanza, e con essa
vedersi riconoscere tutti i diritti. Infine il ricordo insistente dell'e
sperienza della conversione lascia supporre che sia recente e awenu
ta contemporaneamente per tutte e cinque le regioni, probabilmente
grazie alla predicazione di missionari provenienti da Gerusalemme;
17
perciò è verosimile che questi inviati si rivolgessero soprattutto ai cit
tadini di origine giudaica o a coloro che ruotavano attorno alle sina
goghe.
Connessa al binomio «eletti dispersi» relativo ai destinatari si ha
una serie ternaria di preposizioni, molto ben articolata, riferita ad al
trettante persone divine con relativa funzione: introduce il fonda
mento («secondo la prescienza di Dio Padre») , segue la realizzazione
strumentale («mediante la santificazione dello Spirito») , conclude lo
scopo (�<per l'obbedienza e l'aspersione del sangue di Gesù Cristo»).
L'elencazione delle tre persone ha fatto supporre una formula trini
taria, sebbene diverso sia l'ordine cronologico di apparizione, codifi
cato poi nel tempo; anche la specificità delle singole persone è in ar
monia col ruolo assunto da ciascuna nella $Oria della salvezza: la
prescienza al Padre, la santificazione allo Spirito e l'aspersione del ·
sangue al Figlio.
La prescienza di cui Dio è soggetto viene espressa da un voca
bolo raro nel NT: più che un discernimento è una scelta e una deci
sione (cf. l Pt l , 20) che sottolinea la libertà di Dio il quale conosce
l'inizio e la fine del pellegrinaggio. Tuttavia predominante non è l'a
spetto determinato dal fattore preconoscitivo ma dalla precedenza
della grazia, per cui risulta estranea alla formula ogni lettura fatalisti
ca o un destino cieco che spinge verso la rassegnazione. Il dono di
grazia del Padre anticipa il cristiano nella situazione esistenziale di
«eletti pellegrini». Dunque se di preconoscenza si tratta, gli «ogget
ti» non sono tanto gli eventi quanto il popolo. L anticipazione cono
scitiva della realtà esistenziale cristiana da parte di Dio viene ad as
sumere un aspetto rassicurante e gratificante (nel senso etimologico
del termine: gratiam /acere) anche attraverso l'appellativo di Padre
dato a Dio: se da una parte il Padre conosce prima del Figlio il Figlio
stesso, dall'altra non può che scegliere il bene per il proprio Figlio,
procurandogli ciò che è bene prima che il Figlio lo sappia o sia al
mondo. In questo senso la formula petrina sembra l'eco di una tra
dizione paolina attestata da 2 Ts 2, 13: «Noi però dobbiamo rendere
sempre grazie a Dio per voi, fratelli amati dal Signore, perché Dio vi
ha scelti come primizia per la salvezza, attraverso l'opera santificatri
ce dello Spirito e la fede nella verità» (d. Rm 15, 16).
18
La realizzazione viene ottenuta mediante un'opera di santifica
zione compiuta dallo Spirito: è un'azione con doppia valenza, nega
�va, di separazione, e positiva in quanto animata da una potenza di
vina. Infatti se consideriamo l'origine della famiglia lessicale, trovia
mo attestati entrambi i valori, sebbene prevalga quello negativo. n
verbo indica il rispetto provato davanti alla divinità: nell'Iliade Crise
viene a pregare gli Atridi di rendergli sua figlia e offre in cambio un
riscatto scongiurandoli di temere Apollo, figlio di Zeus ( Omero, Ilia
de, l, 21); nell'Odzssea il sacerdote di Apollo e la sua famiglia sono
stati risparmiati per il timore religioso (Omero, Odissea, IX, 200);
con il medesimo valore si ritrova nella Tragedia in cui il sostantivo
evoca la nozione di un territorio proibito o di un luogo difeso dal ri
spetto per la divinità per cui lo stesso sostantivo viene a indicare il
tempio o i misteri, o comunque r oggetto difeso contro la violazione.
Quando però l'aggettivo qualifica una cosa o una persona, il valore
tende a farsi positivo: può indicare una persona o una cosa consa
crata alla divinità e come tale animata da un'agitazione divina. Que
sta medesima doppia valenza, con accentuazione negativa, sembra
caratterizzare anche la santità di Dio nell' AT, salvaguardata attraver
so uno spazio inviolabile, con il divieto di rappresentarlo, di scriver
ne il nome o solo di pronunciarlo e con uno schema di separazioni
riguardanti i vestiti, le azioni, le vittime sacrificali, ecc. imposto ai sa
cerdoti perché nell'offerta almeno il fumo dell'olocausto potesse rag-
giungerlo.
· ·
19
sangue del sacrificio, fa entrare il popolo in comunione con Dio vin"
colandolo a lui. V esperienza che comporta il sacrificio è vivificante e
creatrice per il popolo (il sangue è la vita) il quale viene invitato a
una risposta impegnativa, a un'obbedienza. L'alleanza sinaitica costi
tuisce nella mente del popolo ebraico un unicum storico teologico
con la pasqua. Più del ricordo di ogni altra forma sacrificale (cf. ad
esempio la pratica del taurobolio in uso nel culto misterico di Cibe
le) , il passo dell'Esodo aiuta la comprensione del nostro testo, seb
bene «obbedienza», che nella lettera ricorre tre volte, sia un vocabo
lo assai raro all'infuori di Paolo dove si affianca alla fede o ne è l'e
quivalente, senza riferirsi tuttavia all'obbedienza di Cristo.
L'aspersione, pur nel richiamo all'antico patto, non si esaurisce
nell'atto cultuale come è avvenuto per Mosè, rrursi-fa simbolo che in
terpreta il valore salvifico della morte di Gesù Cristo. In altri termi
ni l'essere straniero di Gesù è rappresentato dalla croce che salva.
Perciò ci sembra opportuno escludere un riferimento diretto di l Pt
l, 2 al battesimo; forse è possibile ipotizzare un'allusione. Ma in pri
mo piano, nel saluto della lettera, compare a nostro avviso un'inter
pretazione storico-salvifica della croce di Cristo alla luce dell'Esodo:
il sangue di Cristo ci fa entrare nella comunione dell'alleanza. Que
sta realtà è già presente nella storia.
Come è uso nelle lettere, conclude il prescritto il saluto dal to
no e dalla formulazione abbastanza consueti nell' epistolarità neote
stamentaria. Viene sostituito il «salve» greco usato anche agli inizi
della Chiesa (A t 15 , 23 ) con «grazia e pace». È una formula costante
dei saluti paolini (l Ts l, l ) sebbene 1-2 Pt e Gd e la letteratura epi
stolare del periodo la precisano con una forma verbale di abbondan
za ( ottativo), come troviamo già nella lettera di N abucodonosor ri
20
di Dio concepito quasi come un oggetto, la pace invece, più che ri
poso, quiete, tipico della grecità classica, ha la pregnanza escatologi
co-messianica: pienezza, felicità spirituale. Non dunque qualcosa di
soggettivo e psicologico, ma la condizione di chi vive riconciliato in
questa alleanza.
Merita infine una considerazione, per chiudere l'analisi di que
sti 2 versetti iniziali, l'originalità con cui sono stati redatti. La somi
glianza dell'indirizzo della l Pt con quello delle lettere del corpus
paolina lascia apparire una non piccola differenza: il termine «chie
sa», comune dell'epistolario dell'apostolo delle genti, è assente nel
,
nostro testo, non solo nel prescritto, ma addirittura nell intero scrit
to; addirittura sostituito nel saluto finale che trasmette i messaggi
della comunità riunita intorno all 'Autore. Con un linguaggio cifrato
si parla della «coeletta» che è in Babilonia. Al di là della possibile
identificazione di Babilonia con Roma, perché quest'assenza voluta?
Tra le varie ipotesi riscuote maggior credito quella della scelta reli
giosa. Secondo la significazione ellenistica il vocabolo «chiesa» viene
a designare l'assemblea dei cittadini della città, dunque un'associa
zione che comunque comporta anche una divisione, infatti chi si riu
nisce si separa anche da coloro che restano fuori del gruppo. ll male
del termine sarebbe dunque di far perdere di vista l'inserimento, l'in
tegrazione nella società. Sarebbe una messa in disparte per libera
scelta dei cristiani, non rispondente ai dettami dello scritto. In realtà
i cristiani sono messi in disparte, e questa situazione costituisce la lo
ro identità. L'Autore ha dunque taciuto «chiesa» perché questo com
porta i rischi di una chiusura, da una parte, e l'immersione nel poli
tico dall'altra. Se questa tesi può apparire molto ragionata, a suo fa
vore occorre notare che il testo sostituisce la nozione di assemblea
con quella di popolo di Dio, diaspora ed elezione.
21
. l PIETRO l, 3-12
3 Benedetto sia Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo il qua
le nella sua grande misericordia ci ha rigenerati per una speranza
viva mediante la resurrezione di Gesù--Cristo dai mortz� ·
22
INTRODUZIONE
23
TI confronto con la benedizione della lettera agli Efesini evi den
zia una comune insistenza sulla 1nisericordia divina (l Pt 1, 3; E/ l,
7), sull'adozione filiale (l Pt l, 3; E/ l, 5), sulla considerazione della
lode divina come tratto specifico della vita cristiana (1 Pt l, 7; E/ l,
5); celebrano entrambe anche il compimento dei tempi, tuttavia
mentre la l Pt resta fedele alle prospettive escatologiche tradizionali,
E/ contempla la realizzazione attuale del mistero; e mentre questa
contemplazione nella lettera paolina è fissata in special modo sulla
persona di Cristo, il testo petrino sembra più attento alla condotta
dei cristiani, per cui il «noi» della benedizione iniziale cede presto il
passo al «voi» dell'esortazione. Non è dunque fuori luogo ipotizzare
che 1 Pt faccia riferimento a una tradizione comune, riletta e inserita
in un contesto più prettamente parenetico.--...
Conclude l'introduzione alla pericope una nota relativa all'uso
del vocabolario, raro rispetto al resto della lettera: <<gioire», «rivela
re» e «cielo» occupano qui i due terzi delle loro presenze, «rivelazio
ne» e «credere» un terzo, «tempo» la metà, «fede» i tre quinti, «sal
vezza» i tre quarti, «gloriare» e «gloria>> rispettivamente un quarto e
un quinto, infine «prova» e «provare» hanno la loro unica attesta
zione collocata al centro del brano (v. 7) racchiusa dalle due ricor
renze del verbo «gioire» (vv. 6.8). Un lessico raro che lascia ipotizza
re tematiche originali non solo rispetto al resto dello scritto. In altri
termini l'Autore inserisce la sua nuova lettura in un contesto mne
monico ereditato (cf. E/ l , 3 ss.), manifestato attraverso la benedizio
ne ed espresso nella confessione di fede rivolta al Dio artefice della
rinascita dei cristiani alla realtà nuova caratterizzata dalla speranza
vivente, oggettivata nei beni futuri, il primo dei quali è proprio Ge
sù Cristo attraverso la cui resurrezione siamo fatti partecipi di un'e
redità che non si corrompe, né si macchia, tanto meno marcisce. Di
tale eredità non si può non gioire, anche se il presente è costituito da
sofferenze.
24
COMMENTO
25
bile ci appare l'eventuale informazione sul luogo di origine dei desti
natari, i quali proverrebbero dal mondo pagano, secondo alcuni ese
geti. Ma ciò risulta contestato dall'aggregazione al gruppo dei desti
natari dello stesso Pietro, presunto Autore della lettera. Il verbo ti
generare, denunciando un'insicurezza nei confronti del passato, vero
per i pagani come per i Giudei, propone un cambiamento in relazio
ne al futuro: infatti il verbo regge le tre finali successive (v. 3: «per
una speranza viva»; v. 4: «per un'eredità che non si consuma »; v. 5:
...
26
affatto che siano così uniti; timore e speranza sono entrambi senti
menti di un animo tenuto sospeso in una continua ansia d'aspetta
zione del futuro. E in questo modo avviene anche che la previdenza,
cioè tUlO dei maggiori beni della condizione umana, si volga per noi
in un male» (L.A. Seneca, Lettere a Luci/io, 5, 7-9) .
L'atteggiamento volontaristico di estrema forza morale mal si
adatta alla teoria dell a debolezza sottesa alla nostra lettera. L' AT, pur
mantenendo ancora l'ambiguità alla speranza che ogni volta deve es
sere qualificata, la considera profondamente imparentata alla fiducia,
per cui il giusto può farvi affidamento per il proprio futuro: «Sappi
che tale è la sapienza per te: se l'acquisti avrai un avvenire e la tua
speranza non sarà stroncata» (Prv 24, 14; cf. 26, 12; Gb 1 1 , 8) . Nella
l Pt è una «realtà» che pone le fondamenta su altrettanta stabilità;
probabilmente in relazione all'eredità e alla salvezza che indicano og
gettività, la speranza è da prendere non soggettivamente in quanto
indica la virtù del cristiano, l'atteggiamento tensivo verso i beni futu
ri, la virtù teologale della speranza, ma oggettivamente in quanto
cioè i beni eterni sono essi stessi la speranza oggettivata. Il contesto
del v. 3 �rebbe quindi che il Padre attraverso il Figlio risorto ci ha
rigenerati per destinarci ai beni futuri sperati, e il Cristo stesso è il
primo di questi beni. Per dirlo l'Autore crea l'espressione «speranza
vivente», in opposizione alla speranza degli empi che perisce. In ma
niera più precisa il participio <<vivente» è in stretto rapporto alla re
surrezione di Cristo, sia grammaticalmente che semanticamente per
l'importanza soteriologica data a questo mistero in tutta l'epistola ( 1 ,
2 1 ; 3 , 2 1) . Invece di una disposizione d'animo la speranza viene a de
signare l'oggetto, o piuttosto la persona sperata, Gesù Cristo divenu
to con la resurrezione la pietra vivente (2, 4s.). In questo senso la
speranza stessa è vita e sorgente di vita. Questo valore fattivo del
participio <<Vivente» è presente anche in Gv 6, 50s.: Gesù è pane vi
vo non solo perché ha la vita ma soprattutto perché la comunica;
pertanto chi mangia quel pane non muore, ma vivrà in eterno.
TI secondo motivo della rigenerazione è «un'eredità che non si
consuma, non si macchia, non marcisce». Mentre nel linguaggio giu
ridico l'eredità designa una proprietà acquisita mediante successio
ne, per lo più dopo la morte del testatore, in quello anticotestamen-
27
tario in genere è venuta a significare il dono ddla terra; concetto ri
preso dal primo evangelista nella terza beatitudine che associa l'ere
dità alla speranza attraverso l'uso del futuro: «Beati i miti perché ere
diteranno la terra» (Mt 5 , 5) . Nel nostro versetto viene designata me
diante tre aggettivi negativi e relativamente · rari: «incorruttibile», «in
contaminata», «immarcescibile». Tutti e tre questi attributi vengono
usati nel libro della Sapienza per qualificare realtà spirituali: l'eredità
cioè non appartiene alla nostra storia, le attribuzioni la sottraggono
agli occhi e alle mani del mondo. Infatti il testo la colloca molto più
in alto delle nostre esperienze quotidiane, dice che è «conservata nei
cieli per voi». L'uso del plurale «nei cieli» probabilmente cela il sen
so figurato della sede divina; infatti il soggetto che già conserva e
continua a farlo con attenta sollecitudine �icurezza anche per il fu
turo (questo il senso del verbo al perfetto) � · lo stesso Padre celeste
che rigenera.
Da questa prospettiva si comprende meglio anche il valore ne
gativo delle qualifiche applicate all'eredità: non si tratta di una ne
gatività assoluta, ma relativa alla storia attuale, come la santità, per
cui dell'eredità e della speranza si deve gioire (vv. 6-8) poiché la va
lenza negativa del presente è il segno della positività del futuro, altro
rispetto all'oggi, come la terra rispetto al cielo. Proprio qui si gioca
il paradosso di cui vive tutta la lettera: un presente da superare ma
dal quale non si può fuggire, neanche nelle sue contraddizioni;
un'attesa escatologica da vivere, da interpretare storicamente con i
canoni di questa stessa storia che deve essere superata. Dio, che cu
stodisce l'eredità in cielo, in terra ne guarda e protegge costante
mente i destinatari, come una sentinella sul campo affinché il nemi
co non la sorprenda, offre riparo sicuro a chi cerca scan1po dal pro
prio persecutore.
fl verbo «CUStodire» insieme all'accezione militare che significa
la difesa di una città da una guarnigione, mantiene anche quella reli
giosa di trovare rifugio in un tempio in ragione del diritto d'asilo. E
la custodia divina non conosce soste, recita il participio presente.
Perciò affidarsi a Dio permette di celebrare la vittoria su ogni forza
del male perché la potenza divina monta la guardia contro le minac
ce di Satana (5, 8). TI contesto simile a quello di 5, 6-9 aiuta a defini-
28
re la fede non come adesione intellettuale ma confidenza e affida
mento. Dio getta lo sguardo vigilante su quelli che hanno scaricato
su di lui tutte le loro preoccupazioni (5 , 7) . La vigilanza è necessaria
anche ai credenti in considerazione dei tempi ultimi in cui siamo
giunti. Il problema non è il quando ma la qualità del tempo ultimo,
opportuno per la realizzazione delle attese. Infatti il carattere dina
mico dei beni sfugge ad ogni costrizione temporale inglobando il
passato (l, 20) , il presente (3 , 2 1 ) e il futuro (4, 18). In questo senso
l'escatologia riempie l'esistenza del cristiano; nella sua vita si giocano
le possibilità ultime. Ancora un paradosso espresso questa volta dal
convivere del tempo che corre e di quello ultimo, di gioia e sofferen
za. n tempo della fine è pure quello della salvezza, terzo e ultimo
motivo della custodia del Padre, che fa l'eco ai due precedenti, alla
speranza e all'eredità, e che più di una beatitudine individuale va
considerata come la perfezione escatologica del mondo. Lungi dal
l' essere una possibilità futura, la salvezza è una realtà «pronta», im
minente, «prossima a rivelarsi nel tempo ultimo». Probabilmente
un'informazione storica nasconde il verbo della rivelazione che l'Au
tore preferisce a quello della parusia «perché i destinatari non hanno
visto il Signore. . . pur sempre presente nella loro mente, quantunque
celato». Certo è che la triplice ripetizione (w. 5 .7. 12) del verbo del
l' apocalisse (il vocabolo greco in italiano va tradotto con «rivelare»)
conferisce una dinamica escatologica all'intero testo che ci racconta
la rivelazione del mistero della salvezza al quale i destinatari sono in
trodotti «mediante la fede», anch'essa dunque con una risonanza
escatologica.
La seconda parte (vv. 6-8) della pericope, sviluppata in forma
parenetica, è introdotta da una clausola relativa che, pur con qualche
problema, ne fa una consecutiva dell'intera sezione precedente: del
fatto che la rivelazione è pronta e vicina i destinatari sono certi e
perciò se ne rallegrano. Il significato primo del verbo, forse perché
popolare e scherzoso, denuncia un eccesso di gioia («gioire folle
mente»), mitigato dalla letteratura classica per la quale oltre a indi
care uno stato d'animo gioioso e la fierezza manifestata dal contegno
della persona, assume anche un aspetto religioso della gioia per il
culto celebrato alla divinità in giorno di festa. La versione greca dei
29
LXX pur muovendo da quest'ultima accezione allarga nello spazio e
nel tempo la valenza religiosa del verbo per cui anche fuori del culto
esprime la gioia per Dio ma soprattutto nel culto qualifica la gioia
degli ultimi tempi (cf. Sa/ 95, l ls.; 96, 12 ; 125 , 5s.; ls 12 , 6; 25, 9) .
Stesso valore escatologico assume negli scritti rabbinici e nel NT do
ve ricorre 1 1 volte (3 in 1 Pt) e manifesta i sentimenti di una comu
nità consapevole di vivere il tempo finale, quello della salvezza. Con
una tale coscienza neanche le difficoltà del presente riescono ad ap
pannare la gioia che la chiesa è chiamata a esprimere. Di quali prove
si tratta? Non sembrano quelle comuni della vita quotidiana, per cui
dovrebbero trovare il loro motivo d'essere nel fatto che i destinatari
sono cristiani. Se qualche esegeta ha pensato a persecuzioni ufficiali
oggi la maggioranza le esclude per vari motivi, 5bt perché la gioia nel
le prove sembra un motivo tipico del genere parènetico (Cc l , 2s.) ,
sia perché gli stessi destinatari vengono invitati alla sottomissione ( o
alla collaborazione, dipende dalla interpretazione del verbo) alle isti
tuzioni civili (2, "13ss.), sia infine perché risulta molto difficile poter
determinare storicamente a quale persecuzione il testo faccia rifeci
mento. Senza tuttavia negare che 1 Pt qui e in seguito alluda anche a
umiliazioni concrete di vario genere (3 , 12 . 16s.; 4, 14) , quali insulti,
diffamazioni o quant'altro possa essere espresso da un ambiente osti
le. A escludere una persecuzione ufficializzata contribuisce pure l'e
spressione «anche se ora dovete essere un po' afflitti» che attenua la
portata delle prove: qualora si trattasse di reale persecuzione risulte
rebbe quanto meno curioso parlare di un po' di afflizione per chi ri
schia la vita, sebbene un «po'» sembra una restrizione più tempora
le che qualitativa, non indica cioè la pochezza in rapporto alla qua
lità della prova ma la brevità della sua durata, come conferma l'altro
avverbio temporale «ora» che segue immediatamente e al quale è
collegato; il presente è il tempo della prova che non si può evitare,
ma l'oggi è breve e di poco conto rispetto al domani.
n contesto invece, a partire dal prescritto, lascia ipotizzare un
altro genere di prova, dovuta non a cause esterne ma · alle compo
nenti stesse dell'identità del destinatario. Infatti se il cristiano è tale
in quanto vive il conflitto tra l'elezione divina e la peregrinatio stori
ca, la prova è costitutiva del suo stesso essere cristiano, della conflit-
30
tualità che lo anima. In questa prospettiva non fa meraviglia che la
catechesi della chiesa primitiva, ereditando questo tema dall' AT (cf.
Sir 2 , 1 - 16; Sap 3, 1 -9; 5, 15s.), pur in contesti e situazioni diverse (cf.
Mt 5, l ls.; Le 6, 22s.; Rm · 5 , 3ss.; Gc l, 2-4), parli della stessa realtà:
in ogni caso ha il medesimo destinatario cristiano. Perciò stesso le
prove sono considerate una necessità: derivano dal fatto che si è cri
stiani e non da una fatalità; sono imprescindibili per l'identità stessa
del cristiano. Esse determinano la fede così come il fuoco stabilisce
ciò che è oro e ciò che non lo è, sostiene il v. 7 che introduce una pri
ma classica motivazione delle sofferenze attraverso una comparazio
ne posta su due piani e risolta da un ragionamento a fortiori: «Perché
la genuinità della vostra fede, molto più preziosa dell'oro che desti
nato a perire mediante il fuoco tuttavia viene provato, tomi a lode e
gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo». Come l'oro è ta
le solo in quanto è provato dal fuoco, è il fuoco cioè che ne garanti
sce l'identità, che mostra ciò che è oro e ciò che oro non è, eppure
l'oro è destinato a scomparire, a maggior ragione deve avvenire per
la fede: sono le prove che la determinano. Se poi le prove non sono
le persecuzioni (sarebbe fede solo quella passata attraverso le prove
cruente) , né quelle volute o mandate da Dio alle quali il nostro testo
non fa allusione sebbene conosciute sia dall'AT (cf. Es 15, 25 ; Dt 6,
16; 1 3 , 3 ; 33 , 8; Gdt 8, 25s. ; Sap l, 2; 3 , 5 ) che dal NT (Mt 6, 13 ; 26,
4 1s.; l Cor 1 0, 13; Gc l, 13 ), ma come s'è già notato il fatto di vive
re la conflittualità della storia senza fughe di alcun genere, allora il
crogiolo che separa la fede da ciò che fede non è sarà la storia, l'a
derenza al quotidiano. La storia è la misura della fede e non vicever
sa; per cui il cristiano, che è tale perché vive la lacerazione tra l' ele
zione e la storia, se disattende l'incarnazione, per quanto lacerante e
faticosa possa essere, rinuncia a se stesso e alla fede, unica che tor
nerà a sua lode alla fine dei tempi quando Cristo sarà definitivamen
te svelato al mondo. La fede garantirà al cristiano una ricompensa
escatologica talmente ampia che l'Autore ha dovuto impegnare una
triade rara e ridondante (<<lode, gloria e onore»: cf. Rm 2, 7; l Tm l ,
17; Eh 2 , 9) per produrne il peso. Tanta ricompensa gli sarà conces
sa il giorno in cui verrà manifestato Cristo, che ora paradossalmente
ama senza aver subito la seduzione della sua vita terrestre. Con que-
31
sta espressione solenne che accentua la presenza di Cristo nella co
munità si apre il v. 8 in cui compare un ulteriore paradosso: i desti
natari amano Cristo senza averlo veduto; la fede sta all'origine del lo
ro amore. Il riferimento al passato, all'evento storico di Gesù, porta
a scoprire nei destinatari una seconda o addirittura una terza gene
32
ficazione, di «scopo» e di «cessazione», che qui trova la sua concilia
zione. Il contesto escatologico del brano preferirebbe la seconda: la
fede cioè ha un termine temporale in quanto storica e misurata sulla
storia, mentre lo scopo è l'amore (v. 8), non la salvezza che è un do
no di Dio il quale ci ha rigenerati. Tuttavia coincide con il valore
temporale anche quello finale, infatti la fede conclude il proprio per
corso davanti alla salvezza che ne è la meta ultima, quella che i de
stinatari stanno ottenendo, la «salvezza delle vostre anime»: una fra
se s.tereotipa della catechesi cristiana (cf. Mt 16, 25; Le 2 1 , 19; Gc l ,
2 1 ; 5, 20;) il cui valore è da ricercare nella mentalità ebraica secondo
la quale l'anima indica la vita nel senso più ampio e completo del ter
mine. La salvezza delle anime risulta essere in qualche modo dunque
un primo traguardo della fede, connesso con l'annuncio dei profeti e
innestatosi in una tensione più escatologica che apocalittica. Come
dire che ha una valenza positiva già fin d'ora e alla quale si può guar
dare con fiducia. Infatti nel nostro testo la fede mantiene un duplice
rapporto con la salvezza: presente perché chi resiste nella fede ha già
parte alla salvezza, futuro perché offre la garanzia della destinazione
salvifica definitiva.
Su questa salvezza scrutarono i profeti. Il futuro da questo mo
mento (v. 10) non coinvolge più solo il presente ma anche il passato.
Una memoria esposta come teologia storica fondata sul Cristo croci
fisso e glorioso su cui i profeti, uomini di spirito e di cuore, hanno ri
flettuto e parlato interpretando ciò che Dio chiedeva loro di tra
smettere. La persona del profeta è caratterizzata da due verbi com
posti in greco («indagare» e «scrutare») che esprimono la ricerca in
tutta la sua interezza; nonostante i contenuti di entrambi siano mol
to simili, la loro unione offre maggiore intensità semantica. Entram
bi hanno un'accezione religiosa: i profeti sono stati anzitutto coloro
che hanno frugato per portare alla luce ciò che era nascosto. Di qui
la seconda caratteristica: sono stati anche matematici, hanno avuto il
senso dei calcoli e dei segni; essi hanno valutato le congetture e le
cronologie, hanno cercato di sapere quale sarebbe stato il tempo del
la salvezza e come tali non possono non essere stati pure interpreti
della storia, per cui sembra appropriata anche la sfumatura d'investi
gazione intellettuale offerta dal primo verbo e non sempre ricono-
33
sciuta dagli esegeti. Lo sforzo dei profeti è stato quello di parlare le
parole di Dio sul suo stesso dono prima che questo si fosse realizza
to: in tal senso la loro profezia è stata anche p redizione, han tentato
di far vedere in maniera più o meno precisa quel che sarebbe acca
duto. A questo proposito è illuminante il testo di Eh 12, 27 che, pro
ponendosi come esegesi di Ag 2, 6 («ancora una volta io scuoterò il
cielo e la terra»), offre un'interpretazione della profezia: «La parola
"ancora una volta" sta a indicare che le cose che possono essere scos
se son destinate a passare, in quanto cose create, perché rimangano
quelle che sono incrollabili>>. L'intelligenza dei profeti - il riferimen
to è rivolto non solo ai veggenti apocalittici come in Daniele e nei
profeti della fine dei tempi, ma a tutti quelli che hanno annunciato la
liberazione e preparato l' awento del vangelo - ha lavorato per inda
gare questo chiaro-scuro di realtà messianiche. In quest'attività pro
fetica di ricerca s'insinua l'azione dello Spirito (v. 1 1 ) la cui rivelazio
ne ha la leggerezza di un cenno (edelou «accennava») . Naturalmente
alla leggerezza dello Spirito nel manifestare, risponde la sensibilità
dei profeti nel cogliere quell'ammiccamento.
La terza caratteristica di questi scrutatori è costituita dall'inten
sa speranza da cui sono stati animati: alle sofferenze sapevano sareb
be seguita la gloria. ll nostro Autore non esita a riferire la profezia
anticotestamentaria alla passione di Cristo intesa in tutto il suo com
plesso, sembra dire l'uso del plurale («sofferenze»). Anche la com
posizione stilistica e grammaticale della frase, che descrive plastica
mente l'abbattersi dei patimenti sul Cristo, serve ad accentuare il co
raggio della speranza preannunciata. Spiegare la croce, questo gran
de enigma che risuona come interrogativo drammatico nelle parole
della madre di Gesù (Le 2, 48) e come «scandalo per i giudei e stol
tezza per i pagani» ( l Cor l , 23 ) , era certo compito non facile della
predicazione apostolica, avendo ancora vivo il ricordo dei fatti. Seb
bene dunque la chiesa abbia dall'inizio cercato nella profezia le pro
ve per facilitare la comprensione della passione di Cristo, nel nostro
caso l'intimo rapporto in cui sono state poste «sofferenze» e «glo
rie», lascia supporre che le seconde costituiscano la risposta adegua
ta alle prime, e i profeti hanno avuto la lucidità e il coraggio suffi
cienti di annunciare e le une e le altre. Attraverso le figure dei profe-
34
ti dunque emerge una visione storico-teologica del mistero pasquale
ove la memoria viene considerata fonte essenziale per focalizzare sia
l'aspetto patematico che quello escatologico. .
Diverso risulta l'atteggiamento della letteratura apocalittica che
accentua maggiormente la tensione e i limiti della predicazione apo
stolica sebbene adotti le medesime tematiche quali la salvezza profe
tizzata, l'indagine dei profeti, la coscienza di vivere prima del compi
mento e la situazione tutta particolare di coloro che prendono parte
alla fine sottolineata dal motivo degli angeli. Espressioni di siffatta
cultura li abbiamo nella letteratura qumranica e nel libro di Enoch:
«E Dio· disse ad Abacuc di scrivere le cose che accadranno alla ge
nerazione ultima, ma non gli ha fatto conoscere il tempo del compi
mento. E ciò che disse: "Perché si possa leggere speditamente" si in
terpreta in riferimento al maestro di giustizia al quale Dio ha fatto
conoscere tutti i misteri delle parole dei suoi servi, i profeti. C'è an
cora, infatti, una visione per il tempo stabilito, parla della fine e non
mentirà»( l Qp Ab VII, 1 -6) ; «Ed Enoch, uomo giusto i cui occhi
erano stati aperti dal Signore e vedeva una visione santa nei cieli,
parlò e disse: "Questo è quel che gli angeli mi hanno mostrato; io
ascoltai tutto da essi e tutto io conobbi, io che vedo non per questa
generazione, ma per quella che verrà, per le generazioni lontane"»
(Enoch l, 2).
n v. 12 chiude il brano offrendo l'ultimo tocco all'annuncio
profetico qualificato come servizio. Il verbo, usato all'imperfetto per
estendere l'annuncio, tecnico della chiesa primitiva anche per indica
re il ministero degli angeli (cf. Mt 4 , 1 1 ; Eh l, 14) e dei profeti (cf.
Ap 10, 7), qui viene utilizzato nei due gruppi che ritornano per un
confronto. I profeti sono stati i narratori delle vicende raccontate, gli
angeli ne sono i lettori instancabili per il loro desiderio di vedere ol
tre. n verbo adoperato infatti indica <<inchinarsi» per osservare, e de
scrive il movimento di Pietro e della Maddalena che si curvano sulla
tomba vuota ( Gv 20, 5 . 1 1 ) o lo sforzo tensivo di chi legge tra le righe
per cogliere ciò che non è palesemente manifesto, come sembra
esprimere Gc l , 25 (in l Enoch 9, l il medesimo verbo indica la cu
riosità degli angeli che guardano dal cielo gli eventi che si svolgono
sulla terra). Da quest'immagine l'angelo appare meno trionfante, più
35
desideroso di conoscenze e di ulteriori rivelazioni. Se il contesto ge
nerale è quello della peregrinatio, anche l'angelo, come il cristiano, è
un po' viaggiatore meravigliato, sorpreso nel suo stesso splendore:
entrambi si nutrono di domande e condividono la ricerca del miste
ro che li entusiama ancora. Sono così meravigliose le opere compiu
te da Dio che anche gli angeli sono interessati alla redenzione, a sot
tolineare la novità e la magnificenza del tempo della chiesa. Ciò che
i profeti hanno annunciato senza poter vedere realizzato e di cui gli
angeli sono curiosi ammiratori, i cristiani oggi vivono. Nonostante
siano stranieri e pellegrini: l'indirizzo diretto «a voi>> sottolineato co
me non mai li chiama in causa nella loro attualità.
36
l PIETRO l, 13 -2 1
INTRODUZIONE
37
tivo (eccetto i due «gioite» dei vv. 6.8) , il nostro brano è retto da tre
imperativi (v. 13: «sperate»; v. 15: «diventate»; v. 17 : «comportate
vi») , coadiuvati da altrettanti participi con funzione di imperativo (v.
13 : «cinti», «vigilanti»; v. 14: «non conformati») e da un futuro pure
con valore di comando (v. 16: «sarete») . L'importanza degli impera
tivi è rimarcata anche dal fatto di · appartenere alle famiglie lessicali
più importanti: la speranza, presente all'inizio e alla fine del brano,
costituisce un'inclusione che pone al centro la quadruplice presenza
della santità espressa con il chiasmo (vv. 15-16) e manifestata nella vi
ta intesa come cammino. La condotta, appunto, oltre ad essere evo
cata in ogni forma diretta o indiretta di imperativo, è presente con la
radice che gli è propria tre volte (vv. 15 . 17. 18) , la seconda delle qua
li è posizionata al centro della figura retorica. In quanto conduzione
non può non manifestare le dimensioni dinamica e temporale, la pri
ma indicata nella triplice presenza della condotta, dall'allusione all'e
sodo degli Ebrei (v. 13 ), dal pellegrinaggio dei destinatari (v. 17) e
dalla direzione verso l'alto (vv. 13 . 15.17. 1 8) che si conclude in Dio
con un'espressione dinamica in greco (einai eis) . La dimensione sto
rica, pur essendo spiegata nell'intera pericope, nel chiasmo raccoglie
le sue linee: considerato che gli imperativi esprimono i doveri dei cri
stiani, nel presente in cui sono impegnati c'è anche un passato («sta
scritto») al quale far riferimento e soprattutto un futuro («sarete»)
cui mirare («ad immagine del Santo che vi ha chiamati diventate san
ti anche voi in tutta la vostra condotta; poiché sta scritto: voi sarete
santi perché io sono santo»). TI futuro, che qui ha la forza e il valore
di un comando, si dimostra essere l'imperativo del presente: ecco al
lora si comprende l'inclusione fondata sulla speranza. La speranza, e
dunque il futuro, si gioca nel presente poiché è parte integrante del
la fede. Nella prospettiva della storia delle tradizioni una nota parti
colare merita il v. 2 1 : sembra possibile infatti che le ultime parole
della pericope appartengano a una tradizione conosciuta nella chiesa
delle origini. Se costituissero parte di un precedente inno non sap
piamo dire, certo è che qui vengono riassunte e commentate; il pa
rallelo con Eh 10, 22s. dove pure si trovano i temi della pienezza di
fede e della confessione della speranza potrebbe suonare come una
conferma: «Accostiamoci con cuore sincero nella pienezza della fe-
38
de, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato
con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della no
stra speranza, perché è fedele colui che ha promesso».
CoMMENTO
39
la l Pt si sia servito di un verbo raro anziché di quello comune, po
trebbe essere indizio del valore particolare affidato nel testo alla sfu
matura verticale: non per caso nella pericope ricorre tre volte il vo
cabolario della condotta (il sostantivo ai vv. 15 .18 e il verbo al v. 17)
la cui scrizione greca è introdotta dalla stessa particella premessa. n
richiamo verso l'alto è stato probabilmente considerato più consono
all 'immagine della mente per la sua elevazione alla realtà futura al cui
possesso pieno il cristiano deve aspirare. Nella perifrasi «cinti i fian
chi della vostra mente» quest'ultima viene personificata come fosse
.un pellegrino, o un esule in procinto di ritornare o pronto a partire,
che, legando la cinta ai fianchi, alza il lembo della veste in modo ta
le da non toccare a terra, evitando di sporcarsi e permettendo di
camminare più speditamente. Nell'ambiente culturale cui fa riferi
mento il nostro scritto non c'è separazione tra il cuore e la mente e
la disposizione alla partenza, oltre ad essere una scelta voluta, ri
sponde anche a un atteggiamento culturale preciso, di chi vive la
propria esistenza con una certa leggerezza, cosciente di non poter
mettere le radici in un territorio o in uno stato, pronto a partire al se
gnale convenuto, dunque sempre vigile. Questo senso dinamico vie
ne espresso, unitamente a quello dell'azione, anche dalle due forme
di imperativi che seguono, indiretta la prima, diretta la seconda.
n richiamo alla vigilanza, più che un invito alla sobrietà morale,
in conformità a quanto si affermava per i profeti, è la richiesta della
continua attenzione (participio presente) all'oggetto della speranza,
considerata runico necessario. Parallelamente i destinatari devono
assumere un atteggiamento nuovo rispetto al comportamento che
durava fino a quel momento. n cambiamento è imprescindibile, de
vono iniziare a sperare (elpisate è un imperativo aoristo ingressivo) , a
orientarsi verso la grazia escatologica che viene loro incontro e che
potranno definitivamente e durevolmente ottenere nella manifesta
zione futura di Cristo. n valore semantico della grazia, l O volte pre
sente nella l Pt, qui è molto vago. Tuttavia se relazionata al partici
pio presente «conferita», che è lo spiegamento o il modo dell'azione,
non una referenza cronologica, può indicare i doni di Cristo ai fede
li, cioè la salvezza.
Le esortazioni continuano in forma negativa (v. 14), non prima
40
di aver applicato un titolo adeguato ai destinatari che vengono qua
lificati come «figli di obbedienza», forma propria delle lingue semiti
che per indicare quelli che hanno fatto dell'obbedienza il principio
direttivo della loro vita: i cristiani, la cui condizione è rappresentata
dall'obbedienza, sono invitati a non lasciarsi conformare alle passio
ni del tempo trascorso, quando i destinatari si trovavano nell'igno
ranza; quasi che le passioni fossero i vasai che modellano le proprie
creature o le forme che l'artigiano copia per produrne altre. Il mo
dello da evitare sono le passioni del tempo trascorso. Qui come al
trove nella lettera (4 volte) l'Autore sfrutta, del vocabolo «passioni»,
il cui senso morale era d'uso corrente presso i filosofi itineranti, la
portata negativa di peccato e, impiegandolo sempre al plurale, stig
matizza non un vizio determinato ma il comportamento generale. Da
questo e da altri passi ( 1 , 18; 2, 9s. 25 ; 4, 3s.) alcuni esegeti hanno
tratto motivo per identificare nei cristiani venuti dal mondo pagano
i destinatari dello scritto. A nostro· avviso il genere parenetico e la
portata etica delle raccomandazioni fanno sì che «ignoranza» non
debba identificarsi con una negligenza delle Scritture anticotesta
mentarie - ciò sarebbe stato attribuito in maniera specifica al paga
nesimo - o alla non -conoscenza razionale del messaggio del Cristo -
in questo caso era possibile che neanche gli Ebrei, soprattutto se fuo
ri della Palestina, potessero aver sentito parlare del N azzareno - ma
con il rifiuto della salvezza da lui portata e del comportamento non
adeguato alla speranza che questa aveva suscitato. Siffatta interpreta
zione della «ignoranza» lascia spazio ad ogni ipotesi perché applica
bile a qualsiasi gruppo, Ebrei compresi.
Dopo gli enunciati negativi il v. 15, introdotto da un• avversativa
(«ma») che accentua la differenza tra lo stile di vita sconfessato e la
condotta cristiana, ricorda ai destinatari il proposito divino su cui si
fonda una parenesi positiva: «ma come colui che vi ha chiamato è
santo, anche voi diventate santi in tutta la condotta>>. I vv. 15-16 co
stituiscono il centro della pericope . rappresentato dal chiasmo di cui
al v. 15 si ha la prima metà. La definizione dei destinatari come elet
ti pellegrini, posta nell'introduzione, qui sembra ripresentata dall'a
zione di Dio «che vi ha chiamati» e dalla conduzione etica della vita
degli stessi cristiani, appunto la «condotta» che costituisce il centro
41
del chiasmo. Importante il vocabolo lo è anche per tutta la lettera,
infatti contiene circa la metà delle ricorrenze dell'intero NT ove
spesso serve ad indicare la condotta morale.
La santità è un comando, dice il verbo all'imperativo, che ha
Dio come modello e animatore. Questa prescrizione alla consacra
zione totale ed esclusiva che comporta un aspetto morale il quale for
se salva il testo dai tentacoli dell'apocalittica, pone un problema: è
possibile conciliare santità e condotta, separazione dalla storia e in
serimento in essa? O forse non si esprime qui ancora una volta quel
paradosso, quella tensione dialettica ritrovata al v. l, richiamato ab
bastanza chiaramente, come già s'è detto, tra la complessità del vis
suto storico che interpella il cristiano da una parte e la sua coscienza
di appartenere a Dio dall'altra? La richiesta alla comunità di vivere
questa tensione tra immanenza e trascendenza è motivata da un co·
mandamento divino del passato, codificato nel libro del Levitico:
«Sarete santi perché io sono santo» (Lv 1 1 , 44; cf. 19, 2; 20, 7s. ). Può
sembrare strano un comando espresso al futuro, però il NT in alcu
ni casi si adegua all'uso linguistico dell ' AT che impiegava l'indicativo
futuro al posto dell'imperativo o del congiuntivo nel linguaggio giu·
ridico (cf. Mt 5, 2 1 ; 5 , 28.33.43s.): come a livello grammaticale il fu
turo ebraico è un modo dell'imperativo, così sul piano semantico si
potrebbe affermare che per il nostro testo il futuro è l'imperativo
della nuova comunità, un futuro fondato sul passato e che si gioca
nei conflitti della storia.
TI concetto di santità qui come altrove nella l Pt ( 1, 2 ; 2, 5.9; 3 ,
5. 15) affonda le sue radici nell'AT. La santità di Dio si manifesta nel
la sua alterità: separato perché altro. Anche i cristiani vengono invi·
tati a questa forma di separazione il cui senso è espresso nell'intera
pericope ( vv. 13- 17) come invito ad esprimere del nuovo. In altre pa
role se bisogna vivere da santi in quanto separati, separazione non è
che un elemento di un nuovo e già usato paradosso: infatti la vita del
cristiano è rappresentata ancora come percorso (v. 15 ) in cui s'in
contrano i fratelli ( 1 , 22: la fratellanza costituisce un impegno) , e la
stessa alterità non impedisce all'Autore sacro di chiamare Dio con
una categoria certo tra le più unitive, quella di padre. D'altra parte la
santità del cristiano è un dono legato all'elezione di Dio (cf. l , l) che
42
non può scindersi dal pellegrinaggio rappresentato qui dalla forma
imperativa del futuro che include un aspetto dinamico animatore di
ogni istante della vita intesa come percorso, conduzione, condotta
appunto. Ulteriore conferma di questa interpretazione viene dalla
maggiore ampiezza che il concetto assume in l Pt rispetto al suo pa
rallelo matteano: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è
nei cieli». Infatti la diversità dei concetti, morale il secondo, religio
so-cultuale il primo trasferito nella sfera morale, conferisce una mag
giore portata al messaggio liberandolo dalle secche del moralismo e
cogliendo invece il comportamento all'interno di tutto l'essere e l'e
sistere dell'uomo.
Dal v. 17 inizia un brano grammaticalmente unito fino al v. 2 1
che sottolinea un aspetto fondamentale del vivere cristiano: il rap
porto filiale con Dio. L'espressione iniziale più che un'eventualità
sottolinea un fatto: «Poiché chiamate Padre ... colui che giudica sen
za riguardi personali secondo l'opera di ciascuno ... ». I cristiani pre
gando invocano Dio col nome di Padre: difficilmente si può pensare
che i destinatari non colgano l'allusione alla preghiera insegnata da
Gesù. Al ruolo di padre viene aggiunto anche quello di giudice: due
aspetti che la nostra cultura difficilmente riesce ad associare, ma che
il mondo ebraico del tempo (pure quello greco, latino, ecc.) trova
spontaneo coniugare: perché padre, Dio è giudice imparziale che
soppesa la totalità della nostra azione. n riferimento sembra spinger
si al giudizio finale, inquadrando il brano in un contesto escatologi
co. Ma poiché la parenesi impone un impegno nella storia, il futuro
si propone come criterio per determinare il presente: il futuro sta
dunque prima e dopo il presente. Di qui l'ingiunzione «comportate
vi con timore nel tempo del vostro pellegrinaggio». n timore religio
so è il secondo aspetto del vivere cristiano caratterizzato dalla condi
zione particolare di chi pensa e vive la propria vita come cammino
perché risiede in un paese straniero senza diritto di cittadinanza. Su
questa precarietà storica in cui vivono, i cristiani si giocano il futuro.
Il senso escatologico di questo versetto va colto anche nella sua in
terpretazione alla luce di l, 7 in cui pure vengono confrontati pre
sente e futuro, beni escatologici e tribolazioni della vita.
Attraverso un parallelismo antitetico, che oppone il modo usua-
43
le di acquisire la liberazione a quello realizzato da Cristo, vengono
costruiti i w. 18 e 19. Dal v. 18 al presente e al futuro in questa loro
reciproca relazione si affianca il passato: r espressione «sapendo che»
con cui viene introdotto il versetto è una formula con la quale spes
so si fa riferimento a un dato della tradizione, specialmente nella pa
renesi neotestamentaria nella quale non è difficile incontrare il ri
chiamo alla memoria (Rm 5 , 3 ; 6, 9; l Cor 15, 58; 2 Cor 4, 14 ; 5 , 6;
E/ 6, 8; Co/ 3, 24). Il richiamo è rivolto a un principio soprannatura
le, indiscusso, atto a orientare e a determinare la condotta, quindi
anche questo è un imperativo per il presente. Infatti alcune traduzio
ni rendono il participio con l'imperativo corrispondente: «sappiate
che non a prezzo di cose corruttibili come l'argento o l'oro foste ri
scattati». La frase risulta composta con un vocabolario eterogeneo:
mentre «oro e argento» sono categorie che appartengono al linguag
gio commerciale, il verbo «riscattare» ricorda la liberazione degli
schiavi, infatti il sostantivo corrispondente indica il prezzo del riscat
to da pagare per affrancare uno schiavo o un prigioniero. Lo scopo
di tanto prezzo è la liberazione dal modo di condurre la vita, appun
to la «condotta» dei padri, definita inutile, vana perché senza signifi
cato, essendo priva della salvezza.
A questo modo comune di ottenere la liberazione attraverso un
costo economico si oppone il modo realizzato da Cristo. La differen
za comincia dal linguaggio, ancora mutato rispetto a quello prece
dente: viene adottato quello sacrificate. Si dice che il Cristo è il prez
zo pagato per ottenere la liberazione di cui sopra; in questo caso
però le categorie sembrano più vicine alla concezione anticotesta
mentaria secondo cui i figli di Sion sono riscattati senza denaro ri
spetto alla liberazione degli schiavi i quali invece avevano un costo
(d. Is 52, 3 ) . Infatti Cristo si è imposto come prezzo attraverso il suo
sangue, prezioso perché rappresenta la vita, intoccabile poiché ap
partiene al Signore. In quanto prezzo del riscatto Cristo è paragona
to a un agnello che tuttavia non sembra quello pasquale perché qui
la 1 Pt non cita il libro dell'Esodo; probabi1mente gli si può avvici
nare l'agnello di Is 53 , 7: «Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la
sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta
di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca». Forse l'immagine
44
di Cristo agnello era fortemente assimilata nella comunità e verso di
essa convergono diversi temi. Dell'agnello viene detto che è senza di
fetti: assenza imprescindibile delle vittime sacrificati dell'AT (cf. Es
29, l ; Lv 22, 17ss.; Ez 43 , 22s.) la cui allusione, se lascia trasparire un
uditorio competente, pone altresì in risalto il valore redentivo della
morte di Gesù. Essa rende effettivo e storico un processo di libera
zione che strappa i credenti dal loro passato di alienazione religiosa
descritto come mancanza di senso. n sangue prezioso, in quanto ba
se della libertà, è fondamento della speranza e al tempo stesso della
precarietà storica del cristiano, nonché segno del suo valore agli oc
chi di Dio.
Continuando il riferimento a Cristo agnello, il v. 20 dice che «fu
preconosciuto». La struttura dell'azione di Dio, sottinteso dalla for
ma passiva del verbo, che abbraccia a un tempo il passato («prima
della fondazione del mondo») e il futuro («negli ultimi tempi») è
sempre identica. Ciò che in Cristo si è definitivamente manifestato
rivelando così l'inizio della fine dei . tempi è una decisione presa da
Dio già prima dei tempi. Mettendo l'accento su questa opposizione
cronologica, la formulazione sobria risulta limitata da due proposi
zioni participiali corrispondenti: potrebbe essere la citazione di un
credo o di un articolo di fede, meno di una catechesi o di un inno li
turgico primitivo. n vocabolario in effetti è arcaico e tradizionale: di
Cristo si dice che fu «preconosciuto», stesso verbo e medesimo si
gnificato incontrati nei discorsi petrini riportati dagli Atti (cf. At 2,
23 ; 4, 28) . Per significare che questa conoscenza è eterna, l'Autore
rinforza il verbo che già indica la conoscenza come progettazione
con volontà di attuazione, mediante la formula semitica «prima della
fondazione del mondo» che significa prima dell'inizio della storia,
dell'inizio del tempo (cf. Le 1 1 , 50; Eb 4, 3). Conosciuto da Dio all'i
nizio, manifestato per gli uomini alla fine. Se Crist� si è rivelato si
gnifica dunque che i tempi ultimi sono giunti: sono quelli dell'azione
e della crisi, della sofferenza e della speranza; sono gli ultimi perché
sono quelli efficaci per costruire il futuro se legati al passato. L' Au
tore, come già espresso all'inizio del v. 18, non vuole annunciare una
novità: tutti sanno che la vita cristiana ha un valore inestimabile co
me risultato del mistero di Cristo che anche se ha dimensioni cosmi-
45
che e supera la storia, è tutto per noi, piccola, dispersa, scoraggiata
comunità. Perciò l'invito a conclusione della pericope a rivolgere la
propria fiducia in Dio il quale ha risuscitato Cristo dai morti. Se è ve
ro che nel presente si gioca la speranza, e quindi il futuro, il motivo
va cercato nel suo essere parte integrante della fede i cui requisiti
storici la rendono pronta a realizzarsi là dove esplodono i conflitti e
accade di riconciliarsi, dove si nasce e si muore. Tutta la lettera è un
richiamo a vivere la fede nella ferialità della storia, e soprattutto nel�
la storia di chi non fa storia. Che la speranza sia costitutiva della fe
de lo si deduce dal senso predicativo di «speranza» in questo v. 2 1 :
«in modo che la vostra fede sia anche speranza i n Dio». Che poi non
sia una realtà illusoria, ma fondata su qualcosa di molto reale lo di
mostra il fatto che per dirlo la 1 Pt ha creato l'espressione «una spe
ranza vivente» che viene a designare la persona sperata, Gesù Cristo
divenuto la base dell'intero edificio costituito dalle pietre vive (2,
4s. ) . Dunque il participio «vivente», grazie all a resurrezione di Gesù
cui si riferisce, conferisce una particolare importanza soteriologica
alla speranza in tutta la lettera ( l , 2 1 ; 3 , 2 1 ) : con la speranza che si
realizza nella storia di ogni uomo, accade anche la salvezza.
La doppia presenza in quest'ultimo versetto del vocabolario
della fede e la discussa relazione con la speranza invitano a un sup
plemento di riflessione. Qui non abbiamo più la fede in relazione al
le prove ( 1 , 7), soggetta dunque al giudizio della storia della quale a
sua volta offre un'interpretazione nuova, ma sembra prevalere l'eco
del senso fiduciale di chi confida nella potenza vigile di Dio ( l, 5 ; 5,
9) per essere introdotto al mistero della salvezza: «mentre state otte
nendo il termine della vostra fede, la salvezza delle anime» ( l , 9). Là
il problema era costituito dal valore semantico di telos, «scopo» e/o
«conclusione», e noi li abbiamo accettati entrambi come possibili e
non alternativi: la fede, in quanto si esprime nella storia, ha una con
clusione cronologica alla quale siamo giunti; al termine di questo
cammino stiamo ottenendo la salvezza (il fine) . Da questa prospetti
va la fede indirizza già verso il futuro, per cui la speranza è parte di
sé. In tal modo crediamo possa essere risolto l'enigma della frase che
tuttavia l'Autore lascia ambigua: «e voi per opera sua credete in Dio
·
che l'ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria hoste ten pistin
46
hymon kai elpida einai ei's theon» ( l , 2 1) . Infatti si possono intende
re «fede» e «speranza» come soggetti coordinati del verbo essere e
tradurre «in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano fisse
in Dio» oppure leggere la speranza in senso predicativo e avere l'in
terpretazione che abbiamo preferito «in modo che la vostra fede sia
anche speranza in Dio».
47
l PIETRO l , 22-25
INTRODUZIONE
48
con l'obbedienza alla verità proprio per amarsi sinceramente come
fratelli; il secondo è dovuto alla previa e gratuita iniziativa di Dio che
ha rigenerato i destinatari mediante il vangelo. Infatti il secondo par
ticipio, con valore causale (v. 23 : «essendo stati rigenerati»), indica
donde p romana quel dovere espresso dal comando circa l'amore re
ciproco: nasce dal fatto che i destinatari sono stati rigenerati dalla
parola divina. Questa stessa parola viene ripetuta alla fine, dopo la
citazione di Is 40, 6-8, introdotta da un'ulteriore causale: quasi un'e
co al participio che l'aveva anticipata.
COMMENTO
49
passato e il presente espressa nell'immagine dell'opposizione tra pa
dri e figli (v. 18) . Pur nella sottomissione che l'ubbidienza richiede,
la grazia della rigenerazione passa per la capacità d'amare espressa
dall'imperativo come motivo centrale della pericope, incorniciato e
motivato da due participi sinonimi (v. 22a: «santificati»; v. 23a: «n
generati») che ricordano i vv. 2 e 3 . L'amore reciproco e fraterno che
deve caratterizzare la comunità dei destinatari è lo scopo della santi
ficazione. Insistente è la preoccupazione che l'amore sia sincero, li
bero da finzioni o ipocrisie, sgorghi da un cuore puro, ma anche che
sia intenso e duri.
n v. 23 fonda dottrinalmente l'esortazione precedente e rispon
de a un'obiezione latente: come è possibile amare il prossimo con ta
le fervore? Se umanamente sembra impossibile, e la protesta di N i
codemo dà voce a tutte le contestazioni ( Gv 3 , 4), i cristiani non pos
sono dimenticare che sono rinati a una vita nuova, sono stati «rige
nerati non da seme corruttibile ma immortale, mediante la parola di
Dio viva ed eterna».
L'espressione è ambigua, infatti i participi <<Vivente» ed «eter
no» possono essere riferiti sia a «parola» che a «Dio», entrambi ma
schili in greco. Pur se è biblicamente attestato il concetto del Dio vi
vente (cf. Dt 5, 25 ; 2 Re 19, 4; Sa/ 42 , 3 ; 2 Mac 7, 33 ; 15 , 14; Mt 16,
16; 26, 63 ; At 14, 15; Rm 9, 26) oggi gli esegeti preferiscono riferire
il participio alla «parola» per diversi motivi. Anzitutto perché l' azio
ne di Dio è indicata indirettamente dal passivo teologico «rigenera
ti>>, mentre l'espressione introdotta dalla preposizione dia spiega la
modalità dell'azione presentandone la causa strumentale. È normale
allora che i participi qualifichino il sostantivo sul quale la preposi
zione attiva l'attenzione, e cioè la parola. n secondo motivo concer
ne l'ordine delle parole: se i participi si fossero riferiti a Dio avrem
mo dovuto avere o dia theou zontos kai menontos oppure dia logou
zontos kai menontos theou. Un terzo motivo viene offerto dal v. 25
ove lo stesso verbo menein («dimorare») è riportato avendo come
soggetto rema («parola»). L'ultima motivazione è deducibile dalla
struttura della frase che si propone come un parallelo dove si corri
spondono due sostantivi che la tradizione neotestamentaria coniuga
e sovrappone, il seme e la parola, e poiché i primi due aggettivi si ri-
50
feriscono al primo sostantivo, la logica vuole che i due participi suc
cessivi siano riferibili al secondo.
L'azione fecondatrice della paternità di Dio espressa dal passivo
teologico («rigenerati») si realizza attraverso la propria parola. L'i
dentificazione del seme con la parola appartiene alla tradizione neo
testamentaria (cf. Mt 1 3 , 1-23 ; Mc 4, 1-20; Le 8, 4-15 ; Gc l , 2 1 ), però
nel nostro caso l'Autore offre una versione particolare che si avvici
na al paradosso: mentre nel NT si ricorda che il seme se non cade in
terra e non muore non porta frutto ( Gv 12, 24), qui viene accentua
to che non è corruttibile ma immortale, e poi nell'identificazione con
la parola si dice che questa è viva ed eterna, dunque o non è un se
me oppure non è destinato a portare frutto. I versetti che seguono,
illustrando, con la citazione di Is 40, 6-8, l'opposizione corruttibi
lità/immortalità, già preannunciano una soluzione: l'esempio, assun
to da un materiale preesistente, viene adattato a esprimere l'eternità
della parola, sebbene il seme esprima la portata contraria del mes
saggio che deve veicolare. Un gioco che esalta il criterio espressivo
principale dell'intero scritto, il paradosso, col quale forse nel caso
specifico si viene a designare un seme che ha già percorso il suo tem
po di morte e ora ha dato una vita senza più tramonto, e cioè il Cri
sto risorto, parola del Padre.
La citazione isaiana, della quale si era servito anche Gc l, l Os.
per illustrare la caducità delle ricchezze di questo mondo, è uno dei
testi di riferimento della parenesi neotestamentaria. Nel nostro caso
ha lo scopo di qualificare la parola di Dio, infatti la congiunzione
causale che la introduce offre il sostegno autoritativo a quanto pre
cedentemente esposto. In altri termini questi due versetti conferma
no la natura incorruttibile e immortale della Parola di Dio che ha ci
generato i cristiani. Poiché il confronto si gioca tra la parola divina e
l'esistenza umana, è naturale conferire anche alla parola la personifi
cazione, si tratterebbe della Parola fatta persona, cioè dello stesso
Cristo risorto, mentre molto distante sembra risuonare il richiamo al
l' attività creatrice della parola così com'è narrata dalla Genesi: «In
principio Dio creò il cielo e la terra ... Dio disse: "Sia la luce! ". E la
luce fu... Dio disse: "Sia il firmamento in mezzo alle acque ... ". Dio
disse: "Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luo-
51
go e appaia l'asciutto ... ". Dio disse: "La terra produca germogli, er
be che producono seme ... ". Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento
del cielo per distinguere il giorno dalla notte . "» (Gn l , lss.).
. .
52
l PIETRO 2 , 1-3
INTRODUZIONE
53
senza degli imperativi diretti e indiretti e la lista dei vizi non trovano
riscontro nei versetti che seguono. Questi a loro volta vantano una
serie di citazioni bibliche estranea ai precedenti.
Il testo è introdotto da un discorso parenetico esposto attraver
so un participio con funzione di comando («deposta») cui segue un
elenco di vizi, tipico della parenesi neotestamentaria (cf. Rm l, 29-
3 1 ; 2 Cor 12, 20; E/ 4, 3 1 ; Co/ 3 , 8) . Dopo l'invito negativo a lascia
re, quello positivo (v. 2) è aperto da una comparazione («come bam
bini ... ») alla quale fa seguito un imperativo vero e proprio («brama
te») e lo scopo dell'azione («per crescere»). Chiude la pericope una
condizionale con funzione causale (v. 3 : «dal momento che avete gu
stato») .
COMMENTO
54
Che meraviglia! Siete stati nudi davanti agli occhi di tutti e non vi
siete arrossiti. Portavate veramente ·l'immagine del primo uomo
Adamo che nel paradiso era nudo e non si vergognava» (Cirillo di
Gerusalemme, Catechesi mystagogica 2, 2 ; cf. Ippolito, Tradizione
apostolica , 2 1 ).
Come per un vestito ormai logoro e senza più possibilità di es
sere recuperato, ci si deve spogliare definitivamente di uno stile di vi
ta caratterizzato dal peccato per assumerne uno nuovo. Infatti nel ca
talogo dei peccati, redatto secondo uno schema convenzionale del
l'etica contemporanea allo scritto (cf. l QS 4, 9- 1 1 ; 10, 2 1 -24), i pri
mi due vizi, «malizia» e «frode» indicano condotte generiche da cui
derivano i singoli peccati. Poiché la genericità dei vizi non lascia spa
zio a deduzioni plausibili sui problemi reali che potevano affliggere
la comunità dei destinatari, sembra ovvio che l'Autore punti sulla ri
chiesta di un cambiamento radicale di mentalità rispetto alla situa
zione precedente, ulteriormente awalorato sia dalla presenza dell'ag
gettivo distributivo «ogni» caratteristico degli inizi di molti cataloghi
di vizi (cf. Sir 7, 1 -3 ; Sap 14, 27 ; E/ 4, 3 1 ; Col 3, 8; Gc l , 2 1 ) , sia dal
valore di imperativo conferito al -participio: entrambi connotano una
rottura col passato.
In quanto male in assoluto, la «malizia», che potrebbe rappre
sentare il nome collettivo del peccato, è la potenza che distrugge la
convivenza attraverso la volontà di nuocere al prossimo, mentre
<<l'inganno» indica ogni forma di falsità messa in atto per affermare
se stessi. Le ipocrisie, analoghe alla menzogna, sono le manifestazio
ni della doppiezza del cuore di chi finge nella vita come se stesse sul
la scena di un teatro. Le «gelosie», strettamente imparentate con le
invidie che connotano l'atteggiamento dei fratelli nei confronti di
Giuseppe, dividono la comunità suscitando discordie e rivalità (cf.
Mc 10, 4 1 ; Le 22, 24; Fil l , 15 ) , come la maldicenza condannata
aspramente dai rabbini (il Midrash Teh. al Sal 12, 3 recita: «La ca
lunnia è più grave dei tre misfatti che vengono detti gravi, cioè ido
latria, lussuria e spargimento di sangue») e che Giacomo paragona a
un giudizio improprio sull a bocca dell'uomo nei confronti di un fra
tello : «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli. Chi sparla del fratello
o giudica il fratello, parla contro la legge o giudica la legge. E se tu
55
giudichi la legge non sei più uno che osserva la legge, ma uno che la
giudica» (Cc 4, 1 1 ).
Al primo comando di togliere, segue un ordine opposto, che
chiede di assumere. Attraverso l'immagine dei bambini appena nati i
cristiani rigenerati sono invitati a bramare il latte interpretato imma
gine della parola di Dio. ll verbo «bramare» è impiegato per la cer
va che allatta vicino ai corsi d'acqua (cf. Sa/ 42 , l) e per l'anima as
salita dal desiderio di Dio da cui prende le sue delizie: «lo mi con
sumo nel desiderio l dei tuoi precetti in ogni tempo»; «Desidero la
tua salvezza, Signore l e la tua legge è tutta la mia gioia» (Sal 1 1 9,
20. 1 ì4). n desiderio appassionato dei cristiani deve avere la forza
dell'istinto con cui un neonato cerca il latte della madre o una cerva
il corso d'acqua.
ll latte bramato s'inquadra nel contesto di credenze secondo le
quali è apportatore di salvezza. Cibo sacro insieme al miele nel culto
delle religioni misteriche e nella mitologia. In Egitto l'uso del latte di
Iside rende immortale il faraone. Nel culto di Dionisio l'iniziazione
ultima avveniva con un battesimo di latte. Nella descrizione dei mi
steri frigi Sallustio si esprime in questi termini: «Noi celebriamo una
festa. .. ci asteniamo dal pane e dal cibo solido e contaminato... Di
giuniamo. . . poi ci nutriamo di latte, perché noi siamo dei neonati.
Facciamo festa e ci incoroniamo. Ora possiamo camminare con gli
dei» (De deis 4). Anche nella chiesa dei primi secoli era in auge l'uso
di offrire ai neo-battezzati una bevanda composta di latte e miele:
«Come le nutrici alimentano col latte i bambini neonati, così anch'io
vi alimento col latte di Cristo, con la parola, infondendovi un ali
mento spirituale. Così dunque il latte perfetto è un perfetto alimento
che conduce a una vita che non ha termine. Perciò anche nel riposo
si promette questo stesso cibo: latte e miele» (Clemente Alessandri
no, Paedagogus l , 6; cf. 45 , l ; cf. Tertulliano, Adversus Marcionem 4,
2 1 ; De Corona militum 3 ; Canone di lppolito 19, 144; Costituzione ec
clesiastica egizia 46).
Se queste testimonianze di epoca tardiva non offrono una ga
ranzia sul tipo di pratica esistente nel I s�colo dell'era volgare, è pur
vero che per la mentalità biblica il latte costituiva un alimento com
pleto e indispensabile (cf. Sir 39, 26), immagine di ciò che vi era di
56
meglio (cf. Es 3 , 8; 13 , 5; Ct 4, 1 1 ) e della salvezza escatologica: «In
quel giorno le montagne stilleranno vino nuovo e latte scorrerà per le
colline; in tutti i ruscelli di Giuda scorreranno le acque. Una fonte
zampillerà dalla casa del Signore e irrigherà la valle di Sittim» ( Gl 4,
18; cf. 55 , l ; Is 60, 16) . Ciò non esclude che possa essere stato inter
pretato come metafora della parola di Dio di cui ne riassume le ca
ratteristiche.
Ipotesi confermata dal primo attributo che al latte viene confe
rito, logikos in greco, da molte edizioni tradotto con «spirituale» ma
a nostro avviso da rendere letteralmente con «logico». Clemente di
Alessandria, che nel c. 6 del Pedagogo fa una specie di trattato sul lat
te e più in generale sull'alimentazione del fanciullo, per parlare di ci
bo spirituale usa l'aggettivo pneumatikos: «Vi catechizzai in Cristo
con cibo semplice, vero, naturale, spirituale (trophe[i] te[i] pneuma
tike[i]) . Infatti tale è la sostanza del latte ... » (Pedagogus l , 6). La ver
sione «spirituale» indica la trasposizione sul piano religioso dell'im
magine del latte che racchiude i migliori nutrimenti terreni (cf. Rm
12, l ) . Ciò soprattutto se si legge il vocabolo nel contesto della ter
minologia misterica in cui il vero sacrificio è solo quello spirituale.
Rinnegata la verità del sacrificio cruento, indegno della divinità, la
religione misterica riconosce unicamente quello orale della preghie
ra; e, ancora più spiritualizzato, il sacrificio del pensiero inespresso,
quello dell'immersione mistica. Solo questo è conforme al logos inte
so in tutta la sua ricchezza di parola-pensiero-ragione-spirito. In tal
caso «logico» è sinonimo di «spirituale». Ma l'impiego della stoa in
cui l'aggettivo viene a significare «appartenente al logos» (cf. Filone,
De migratione Abrahami 185 ; Epitteto l , 16.2 1 ) sembra più coerente
all'uso del nostro passo che lo riferisce appunto alla parola di Dio.
Di tanto latte si dice essere «logico» nel senso che è una parola che
illumina la vita, ne rende comprensibile il senso, ne illustra il signifi
cato, ne evidenzia il filo nascosto, il progetto divino, che collega i sin
goli dettagli come tanti particolari all'unico universale. La vita di cia
scuno, in altri termini, ha la sua logica nel contesto dei valori che Dio
vi ha seminato.
L'altro qualificativo dice del latte essere di buona qualità, il con
trario del secondo peccato della lista: è un alimento non adulterato,
57
schietto, fa crescere colui che nutre. La formula greca con cui viene
espressa la crescita evidenzia che Dio ne è l'autore, il latte costituisce
il mezzo il quale, di origine anch'esso celeste perché è la parola divi
na, non può non avere una finalità celeste, e cioè la salvezza. Prati
camente c'è omogeneità tra l'alimento e la vita, la santificazione sul
la terra e l'esistenza nel cielo. Parodiando un detto popolare possia
mo riassumere il concetto in questi termini: «dimmi cosa mangi e ti
dirò chi sei, o chi diventerai».
Conclude il ragionamento e con esso la pericope una condizio
nale di natura causale: «dato che avete gustato come è buono il Si
gnore». La frase, assunta dal v. 9 del Sa/ 34, anzitutto indica un dato
di fatto, i destinatari hanno davvero gustato la bontà del Signore: il
tempo aoristo del verbo che abbiamo tradotto con «avete gustato»
suggerisce il riferimento a una specifica esperienza che ha permesso
ai cristiani un incontro con il Signore; poi la scelta della citazione
permette all'Autore di restare nell'ambito semantico della metafora
tant'è che il verbo «gustare» si propone come risposta alla brama del
versetto precedente, aprendo una prospettiva per il futuro: devono
continuare a nutrirsi della sua parola. L'omissione di un secondo ver
bo riportato dal Salmo, «vedere», concentra tutta la sua attenzione
sul gusto. L'oggetto gustato (e gustoso) non è solo la bontà ma l'ec
cellenza del Signore, infatti l'aggettivo adottato (chrestos), oltre a ri
chiamare foneticamente la persona cui è applicato ( Christos), viene
adoperato nel doppio senso di delizioso e nutriente (cf. Le 5, 39:
«Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché di
ce: il vecchio è squisito») .
Un'ultima nota merita il passaggio della citazione dal Salmo al
la prima lettera di Pietro: applicando al Figlio il titolo che il salmista
aveva rivolto a Dio, il nostro Autore non fa che ribadire la propria
idea maestra dell'alimentazione mediante l'insegnamento della paro
la divina in vista della crescita. Il problema da dirimere è di quale p a
rola si tratta, del vangelo o di Cristo parola del Padre: che il riferi
mento si estenda anche al nutrimento eucaristico non sembra da
escludere sebbene non sia palese. Certo è che l'uso del vocabolario
alimentare impone ai cristiani un coinvolgimento reale, anche il più
concreto, nelle loro relazioni con Cristo.
58
l PIETRO 2, 4-10
INTRODUZIONE
59
non comune accumulo di metafore diverse e un lessico di prove
nienza anticotestamentaria viene esposto un pensiero originale, spe
cifico del NT ed estremamente denso, sebbene non manchi l'ipotesi
su una possibile dipendenza dalla concezione qumranica della co
munità intesa come popolo del tempio o da Filone: «Dopo la neo
menia viene una quarta festa, la festa del felice passaggio che gli
Ebrei chiamano Pasqua nella loro lingua ancestrale. In quest'occa
sione tutti offrono in sacrificio molte miriadi di vittime da mezzo
giorno fino a sera, il popolo intero, giovani e vecchi, essendo investi
to in questo giorno, di qualità sacerdotale. n resto del tempo infatti
sono i sacerdoti a compiere i sacrifici pubblici o privati, conforme
mente alla prescrizione delle leggi; mentre allora è la nazione intera
che sacrifica e officia in tutta legittimità, con mani pure... Ogni dimo
ra in questa circostanza riveste la dignità o la maestà di un tempio; la
vittima, dopo la sua immolazione è preparata per il festino rituale;
tutti i commensali si sono santificati con aspersioni purificatrici poi
ché si trovano n non come in altri banchetti, per soddisfare il loro
ventre con vini e nutrimenti ma per osservare un costume ancestrale,
con preghiere e inni» (Filone, De specialibus legibus 2, 145 . 148; cf.
De decalogo 159) .
Israele però non è solo il guardiano del tempio o della legge ma
anche una nazione sacerdotale. Né il testo poteva sfuggire a Lutero
nella polemica contro il sacerdozio ministeriale, infatti l'applicazione
dd vocabolario sacerdotale a tutti i cristiani (2 , 5.9) e non solo a Cri
sto come nella lettera agli Ebrei, è specifica della nostra pericope.
Queste difficoltà contrastano con la chiarezza del ragionamento con
cui i destinatari vengono invitati a trovare in Cristo il modello teolo
gico cui conformarsi.
Dopo aver garantito attraverso un pronome relativo l'unione
con la breve pericope precedente (v. 4: «al quale» riferito al Signore),
la nostra propone due titoli esposti ai w. 4 5 e sviluppati attraverso
.
60
traduzioni italiane ne mutino il significato) che ha in entrambi i casi
Dio per soggetto (v. 6a: «pongo»; v. 8b: «furono destinati») , sembra
no organizzati in forma di parallelismo antitetico ( w. 6-7 a. 7b-8). Al
la citazione di Is 2 8, 16 (v. 6) fa seguito un'applicazione (v. 7a) che ne
riprende il vocabolario («credere», «prezioso/onore») garantendo
l'unità dei w. 6-7a. Anche i vv. 7b-8 sono uniti: si compongono di
un'affermazione scritturistica (Sa/ 1 18, 22 ; Is 8, 14) preceduta e se
guita da una glossa d'applicazione in cui ritorna il carattere dei refe
tenti («increduli»). La forte opposizione tra credenti e increduli aiu
ta a scoprire in questi tre versetti l'antitesi tra una possibilità positi
va (w. 6-7a) e una negativa (vv. 7b-8), polarità che ha il suo equiva
lente formale nell'antitesi (men . . . de) dei vv. 4-5 .
I due versetti conclusivi (w. 9-10) sono costruiti in maniera ab
bastanza lineare: l'Autore esordisce con la seconda parte di un ' anti
tesi che vede opposti coloro che non credono ai destinatari cred�nti
i quali iniziano il versetto enfaticamente attraverso il pronome perso
nale («voi») e vengono definiti tramite quattro titoli esposti in forma
di paralldo («stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo
che Dio si è acquistato») ; all 'ultimo titolo si aggiunge la motivazione.
n v. 10 riprende il pronome iniziale del versetto precedente attraver
so il relativo che introduce un doppio confronto antitetico tra il pre
sente dei cristiani e il loro passato (<<Voi un tempo non popolo ora in
vece popolo di Dio, voi un tempo esclusi dalla misericordia, ora in
vece avete ottenuto misericordia») .
COI\1MENTO
61
blica evoca il materiale da costruzione palestinese (d. Mt 7, 2 4 s. ) . Le
più grosse servivano da fondamenta o da pietra d'angolo per rinfor
zare le sezioni dei muri. La pietra è anche simbolo d'inerzia e di mor
te. Nella prima tentazione è palese l'opposizione tra la pietra morta e
il pane che offre la possibilità di vivere (cf. Le 4, 3 ), così come «far
sorgere figli di Abramo da queste pietre» (Mt 3 , 9) per Giovanni Bat
tista è la dimostrazione ultima dell'impossibilità umana e della po
tenza divina: l'esempio potrebbe essere paragonato alla risurrezione
dei morti; prima di far risorgere Lazzaro Gesù chiede che venga tol
ta la pietra dal sepolcro, nonostante le rimostranze della sorella del
morto ( Gv 1 1 , 3 8-40) ; rimossa, la mattina di pasqua, è anche la pie
tra che doveva ostruire la tomba di Gesù (Mc 16, 3 s . parr.); nella pa
rabola del seminatore le pietre sostituendosi alla terra fanno morire
le giovani piante (Mc 4, 5s.); dai profeti in avanti le tavole di pietra si
oppongono ai cuori di carne, vivi (cf. Ger 3 1 , 3 1 -34; Ez 1 1 , 19; 2 Cor
3 , 3 .7), per cui essere pietrificato significa restare immobile (d. Is 50,
7). E se l'uomo porta l'immagine della divinità (Gn l, 27 ) neanche
questa può essere di pietra, sostiene Paolo davanti all'Areopago (At
17, 29) . Tanto forte è l'opposizione tra i due termini connessi quan
to più radicale è la portata semantica di ciascuno. E se insistente è la
tradizione a indicare nella pietra la morte, non meno chiaro è l' attri
buto che ne esprime la vita. Come nell' AT indicava la virtù di Dio
(cf. Gs 3 , 1 0; Sa/ 42 , 3; Mc 12, 27 ) nel NT definisce la qualità assolu
ta del Cristo (cf. Gv l , 4), in particolar modo in Giovanni «la resur
rezione e la vita» sono sinonimi (cf. Gv 1 1 , 25 ) e il titolo di «Viven
te» è il nome proprio di colui che è tornato alla vita dopo aver espe
rito la morte.
La metafora della «pietra viva» è dunque una contraddizione in
termini perché i due vocaboli sono semanticamente antitetici: la pie
tra si oppone alla vita. Proprio per questa sua paradossalità è «scar
tata», dopo un attento esame attraverso il quale viene giudicata buo
na a nulla, sostiene il verbo costruito nella forma del perfetto con il
valore presente a indicare che anche dopo la resurrezione Gesù Cri
sto rimane colui che è scartato perché non vale niente: lo scandalo
che ha provocato non è stato cancellato dalla sua resurrezione. Per
ciò la fede in Cristo non si regge sulla propria genialità morale o re-
62
ligiosa e neppure sui suoi effetti nella storia dell'umanità, ma si pone
dinanzi allo scandalo della croce.
La pietra è stata scartata non solo dai costruttori che sono gli
esperti del mestiere, ma qui si dice semplicemente e più generica
mente dagli uomini, cioè da tutti. Però il giudizio che gli uomini ne
traggono è radicalmente diverso da quello ottenuto al cospetto di
Dio per il quale è una pietra «scelta e preziosa». Sono due aggettivi
tratti da Is 28, 16: oltre a richiamare un carattere dei destinatari ( 1 ,
l ) il primo evoca l'eletto di Le 9 , 35 , attributo con cui il Padre chia
ma Gesù dinanzi a Pietro e compagni il giorno della trasfigurazione
e che a sua volta rinvia a quello conferitogli nel battesimo (Le 3 , 22),
lo stesso titolo del servo sofferente di Is 42, l ricordato pure da Mt
12, 1 8; il secondo invece richiama i grandi massi estratti dalle cave
per servire da fondamento alla casa di JHWH: «Tutte queste costru
zioni erano di pietre pregiate, squadrate secondo misura, segate con
la sega sul lato interno ed esterno, dalle fondamenta ai cornicioni e al
di fuori fino al cortile maggiore. Le fondamenta erano di pietre pre
giate, pietre grandi dieci e otto cubiti. Al di sopra erano pietre pre
giate, squadrate a misura e legno di cedro » ( l Re 7 , - 9- 12 ; cf. 5, 3 1;
. . .
Ap 2 1 , 19).
Come awiene tra il modello e la copia, i cristiani, conferma il v.
5 , assumono la stessa immagine di Cristo, ne vivono l'identica
contraddizione e vengono impiegati nella medesima costruzione di
un edificio spirituale. Nella formulazione greca si ripete il termine
«casa» sia nella costruzione del verbo composto che nel sostantivo
immediatamente successivo. Dunque sta particolarmente a cuore
all'Autore questo vocabolo che nel contesto viene a significare il
tempio, sebbene l'accezione sia sconosciuta al NT. Infatti la costru
zione di un edificio spirituale, il sacerdozio santo e l'offerta di sacri
fici spirituali graditi a Dio costituiscono i tre scopi della somiglianza
con Cristo posti in crescendo (climax) secondo una precisa logica
cultuale.
Se dunque i cristiani in forza della somiglianza con Cristo sono
chiamati ad essere l'edificio spirituale, è il caso di chiedersi quale
funzione svolge il tempio. Esso è dimora non della divinità bensì del
la sua immagine, del simulacro che della divinità rappresenta il sim-
63
bolo, per cui anche lo spazio interno assume una funzione simbolica.
Di qui il valore singolare del rapporto tra funzione e forma. Il tem
pio, le cui pietre sono tenute insieme unicamente dal cemento dello
spirito, perciò spirituale, rilegge la creazione dell_'uomo fatto a im
magine di Dio in termini di metafora: l'ordine delle pietre rappre
senta un progetto che è la stessa immagine divina nella sua comple
tezza.
Oltre ad essere tempio, i destinatari costituiscono anche la co
munità dei sacerdoti caratterizzata da una funzione e un'attività spe
cifica, quella di offrire sacrifici spirituali. Se dunque la profezia del
l'Esodo e di Isaia (cf. v. 9) sono divenute realtà, se cioè i cristiani co
stituiscono un corpo sacerdotale, cosa sono questi sacrifici spirituali
che devono offrire? Anzitutto sono da escludere atteggiamenti litur
gici o cultuali o azioni puramente mentali. Un a risposta positiva a
nostro avviso può muovere solo dalla definizione del modello dei cri
stiani. Se Cristo è definito con l'espressione paradossale pietra viva
ed esperisce la situazione altrettanto paradossale di chi è, e continua
ad essere anche dopo la resurrezione, scartata dai costruttori come
dalle persone comuni mentre viene scelta da Dio come pietra fonda
mentale della costruzione, questa pietra viva è e continua ad essere il
paradosso della storia, non solo dei costruttori ma di ogni uomo. La
morte e la vita (pietra viva) unite in Cristo costituiscono una conflit
tualità permanente. E poiché i cristiani hanno per modello il Cristo,
essendo anch'essi impiegati come pietre vive, sono ed esprimono
quello stesso paradosso che Cristo è e continua ad essere. Sono in
sieme eletti e pellegrini, vivono tra passato e futuro, devono essere
sottomessi e contemporaneamente comportarsi da persone libere (2,
13 . 16) ; dunque una conflittualità vissuta come essere stesso del cri
stiano. Stonati nel coro della storia sono paradossi per se stessi e per
gli altri. La paradossalità di Gesù Cristo prende forma di sacrificio
del popolo sacerdotale cristiano attraverso la conflittualità storica
vissuta come essere del cristiano e come paradosso per i non creden
ti, e quindi come proclamazione di Dio stesso e del suo operato.
Questo, che costituisce l'insieme della vita cristiana, viene offerto a
Dio.
Siffatta costruzione teologica ove la cristologia si propone come
64
fondamento della ecclesiologia non può dirsi creazione del nostro
Autore, se non nel senso che ha dedotto in qualche modo le idee di
Cristo pietra viva e del sacerdozio del popolo cristiano dalla Sacra
Scrittura. Questo si viene ad affermare attraverso le molte citazioni
anticotestamentarie dei versetti successivi (w. 6- 10) introdotti dal
l'insolita formula «Si legge infatti nella Scrittura». TI contenuto è l'e
spressione di Is 28, 16 riportata anche da Rm 9, 33: «Ecco io pongo
in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa) e chi crede in essa non
resterà confuso». Nel libro del profeta con questa espressione Dio
afferma il suo intervento salvifico, unico: un nuovo tempio in Sion,
di cui egli stesso pone le fondamenta. La pietra base porta un'iscri
zione che dice il senso della costruzione: chi si appoggia, chi crede e
confida secondo l'insegnamento di Is 7 , 9 non vacill a . Applicando a
Cristo questo versetto, sebbene con qualche variante rispetto alla
LXX, la l Pt presuppone che ci sia chiara l'immagine della pietra an
golare e il suo significato. In realtà le interpretazioni si sono divise
ipotizzando sia la pietra di fondazione, sia la pietra terminale o chia
ve di volta che corona l'edifico (cf. Ger 5 1 , 26) , sia infine l'estremità
dell'angolo della costruzione. Secondo le prime due accezioni i cri
stiani sarebbero dipendenti dal Signore la cui resurrezione fonda e
corona l'opera salvifica; nella terza invece l'immagine evocherebbe la
coesione dei credenti al corpo di Cristo. Rispetto al testo isaiano, sia
ebraico che greco, la l Pt ha eliminato il «fondamento», per cui l' ac
cento non cade più sulla posizione esatta della pietra rispetto all'edi
ficio ma sul prezzo e sulla scelta operata da Dio (cf. v. 4). In ogni mo
do Cristo è la pietra più importante tra tante altre, la sua posizione è
costitutiva dell'edificio.
Ad esaltarne ulteriormente la qualità, non più solo rispetto alla
costruzione ma anche in sé, ritornano i due attributi precedentemen
te incontrati, «scelta e preziosa». Il fatto di essere scelta - e perciò
stesso preziosa - dall'io narrante del testo profetico che s'identifica
con JHWH, mentre dai costruttori umani è stata scartata (v. 7), mo
stra come per il nostro Autore le scelte del costruttore divino si pon
gano in alternativa a quelle umane. Questa polarità viene offerta na
turalmente anche a tutti gli uomini attraverso il passaggio dalla me
tafora alla realtà: la stabilità della pietra sulla quale è caduta la scelta
65
divina, e dunque dell'intera casa che regge, è fonte di sicurezza per
chi crede.
Ai credenti Dio offre lo stesso onore accordato alla pietra (v. 6)
definita scelta e preziosa: scelta come gli stessi cristiani a loro volta
preziosi per Dio quanto il Figlio. Ai credenti si oppongono in ma
niera frontale coloro che non credono e che costituiscono un corpo
unico al quale è riservato un giudizio ben diverso, desunto dal Sal
1 1 8 , 22 e da Is 8, 14. La diversità di giudizio tra l'uomo, anche il più
competente, e Dio viene espressa in quest'ultimo salmo dell'Hallel
pasquale attraverso l'immagine della pietra angolare che illustra il
mutamento del destino del salvato. Sulla scia dell'interpretazione tar
do-giudaica che applica a David e al Messia l'immagine, nel NT vie
ne riferita a Cristo: «Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, co
struttori, è diventata testata d'angolo» (At 4, 1 1; cf. Mt 2 1 , 42) .
Nella seconda citazione (v. 8: Is 8 , 1 4 ; cf. Rm 9 , 3 3 ) , come nel
la precedente, il peso della santità e dunque della separazione e del
la distanza tra Dio e l'uomo si sente tutto. Non solo è completa
mente diverso il giudizio e la concezione della giustizia che lo sostie
ne, ma il giudizio divino diventa di ostacolo e d'inciampo all'uomo.
Questa pietra il giudizio divino pesa come una mattonata - ha un
-
duplice effetto: nessuno può incontrarsi con essa senza che qualcosa
cambi. n lithos si trasforma in petra, segno di contraddizione a pro
posito del quale l'umanità si divide in due campi. Da una parte quel
li che v'inciampano perché non credono. n verbo «inciampare» fa
parte del linguaggio tecnico del NT: Gesù aveva prescritto di cam
minare di giorno per non urtare ostacoli (cf. Mt 4, 6; 7, 27; 13 , 2 1 ;
Gv 1 1 , 9s. ) . Dunque un confronto-scontro con conseguenze negati
ve per l'uomo che in qualche modo si fa male. L'inciampare è deter
minato dal fatto di essere increduli: il verbo greco corrispondente e
i suoi derivati significano la disubbidienza nell 'ordine della fede,
dunque una scelta voluta, l'incredulità, la mancanza di fiducia nei
confronti della parola.
� questo - scrive l'Autore - sono stati destinati». A cosa si ri
ferisca «questo» è il problema più dibattuto del passo. Per risponde
re occorre anzitutto conoscere il valore del verbo «destinare» (cf. v.
6) : la versione greca significa «porre», «disporre», «preparare», e fa
66
parte di un vocabolario primitivo per esprimere la vocazione di una
persona, il ruolo che Dio gli destina (d. Gv 15 , 16; At 13 , 47 ; l Ts 5 ,
9; l Tm l , 12; 2 , 7 ; 2 Tm l , 1 1 ) ; corrisponde dunql:le alla prescienza
divina ( 1 , 2 .20) che sta per realizzarsi. Questa destinazione potrebbe
riferirsi sia al verbo «disubbidire» che a «inciampare», sempre di
ostacolo e di ribellione alla parola. Poiché il primo è un participio di
pendente dal secondo, si deve supporre di essere destinati a inciam
pare più che a disubbidire, decisione questa molto più personale.
Sulla sponda opposta a coloro che inciampano nella Parola si
trovano i destinatari per i quali è onore essere qualificati con i titoli
che seguono, contenuti forse nella strofa di un inno della prima co
munità cristiana, strofa ritmata da quattro titoli tratti dalla combina
zione di due passi anticotestamentari, entrambi di carattere profeti
co, Es 19, 5s. e Is 43 , 20s., il secondo dei quali annunciava un esodo
più bello del primo. Sostituisce il futuro dei testi ispiratori il nostro
Autore con una realtà di fatto, che, sebbene raccontata senza verbi,
appoggia il senso del presente nel versetto successivo ove l'opposi
zione accentua il contrasto tra il passato e il presente dei destinatari
(«voi un tempo ... ora invece») . Quanto le antiche Scritture avevano
profetizzato, ora si è realizzato, e cioè la nuova comunità è stirpe
eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo destinato alla salvezza.
Comune ai quattro titoli s'impone il senso collettivo che viene a
qualificare l'intera comunità, non solo una porzione di essa. E seb
bene i titoli usino vocaboli diversi ed evochino differenti situazioni,
fatte salve le sfumature, è possibile interpretarli come varianti della
medesima vocazione cristiana di cui vengono colti la scelta divina,
appunto l'elezione, la messa in disparte espressa con il sacerdozio e
la santità e infine la destinazione salvifica.
Dell'ultimo titolo è controversa l'interpretazione: alla nostra
versione spesso viene preferito «popolo di riservato possesso (di
Dio)». In questo caso il significato degli attributi appare più omoge
neo. Tuttavia l'analisi della formula (eis peripoiesin) lascia emergere
alcuni aspetti da non sottovalutare. Anzitutto la particella che prece
de il sostantivo costituisce la differenza principale della versione pe
trina rispetto ai passi anticotestamentari donde il nostro Autore pre
sumibilmente ha tratto il materiale (cf. Es 19, 6; Is 43 , 20s.). Questa
67
preposizione, molto frequente in 1 Pt - 42 presenze, il 2,5 °/o del vo
cabolario petrino, che costituisce la densità più elevata degli scritti
neotestamentari - si è imposta nella lettera dall'inizio ( l , 3 -5) al qua
le conferisce uno slancio dinamico in quanto unito all'idea di spe
ranza e di salvezza. Stesso dinamismo che apporta alla nostra perico
pe, collocata in due espressioni simmetriche, al principio e alla fine
(vv. 2.9) , associata al vocabolario della salvezza, qualifica la relazione
dei fedeli con Cristo e con Dio. Aver definito il senso dell a preposi
zione è molto importante per il valore del sostantivo che può signifi
care sia «salvato» che «acquistato». Assume la seconda accezione per
chi lo riferisce alla versione ebraica di Es 1 9, 5 senza tener conto del
la preposizione, mentre nella versione greca e in Is 43 , 2 1 indica la
salvezza non l'acquisizione. Se i passi anticotestamentari non oppon
gono resistenza all'adozione del senso di salvezza, ancor meno quelli
del NT. D'altronde il senso dinamico della preposizione creerebbe
difficoltà al sostantivo tradotto con acquisizione, infatti come conci
liare la prospettiva di essere acquistati da Dio con il contesto che af
ferma i cristiani già essere popolo di Dio? Quella stessa direzione
verso la salvezza indicata ali' inizio della lettera ( l , 5), la ritroviamo
dunque che apre e chiude la nostra pericope (vv. 2.9). Dopo che la
valenza dinamica della preposizione ha determinato il valore seman
tico del sostantivo, un'altra locuzione dinamica, nel prosieguo della
frase, interpreta la salvezza come liberazione dalle tenebre per una
convocazione verso l'ammirabile luce divina.
La quadruplice titolazione dei destinatari, ritmata sul modello
innico, sembra avere uno scopo pressoché liturgico, forse di una li
turgia che occupa la vita intera, compresi gli aspetti più feriali e ruti
nari: infatti tale è il retroterra del verbo «proclamare>>, impegnato
quasi esclusivamente nel salterio; è sinonimo di «magnificare» il cui
oggetto è rappresentato nel nostro caso dalle opere che rivelano Dio,
quelle di potenza come quelle più comuni, supposto che ne possa fa
re di comuni. Sono i segni della presenza di Dio nella storia degli uo
mini, orme a volte così poco profonde e tanto delicate delle quali ap
pena il profeta riesce a cogliere la presenza: «Dopo il terremoto ci fu
un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mor
morio di un vento leggero. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il
68
mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, sentì
una voce che gli diceva: ''Che fai qui Elia? ,» ( 1 Re 19, 12s.).
Segni «di colui che vi ha chiamato»: la ripetizione del verbo al
l'inizio e alla fine del v. 9 permette che venga attraversato per intero
dal tema della chiamata di cui si dice il luogo di provenienza e quel
lo di destinazione; i due costituiscono altrettanti poli opposti come la
luce e la tenebra il cui contrasto non ha un'accezione solo morale. La
preferenza della luce vjene ulteriormente evidenziata con la qualifica
- manca alla tenebra - di «mirabile» che riunisce lo stupore di chi
osserva e la capacità di meravigliare della luce in sé: è un attributo
della divinità che attraverso il miraculum suscita la maraviglia nel
l' uomo, provoca una relazione visiva in cui chi viene convocato non
solo gode della luce ma attraverso di essa ha la possibilità di un ve
dere ulteriore. Il ritorno della medesima espressione in l Clem («per
esso la nostra mente stolta e oscurata rifiorisce alla sua ammirabile
luce») e nei misteri dionisiaci («orrore, tremore, sudore, sgomento;
ma ne derivò una luce mirabile») hanno fatto ipotizzare infiltrazioni
di speculazioni mistiche in ambienti cristiani di cui l Pt 2, 9 sarebbe
una testimonianza.
Seguendo l'immagine luce-tenebra la sezione si conclude con la
contrapposizione tra ciò che erano i destinatari prima dell'elezione e
quel che sono diventati dopo l'intervento di Dio. Il passato è carat
terizzato dalla negatività, il presente invece è una realtà positiva resa
tale dalla convocazione divina che, unica, è capace di rendere popo
lo un gruppo di persone: verità religiosa usata a volte, purtroppo, an
che come cauzione sociale contro la ragione.
Sebbene i vocaboli siano sinonimi, nell'A.T solo Israele è «po
polo», gli altri sono «genti», titolo che nel NT viene riferito ai cri
stiani provenienti dal mondo pagano (cf. At 15, 14; Rm 9, 25s.; Tt 2,
14; Ap 18, 4). Dio aveva fatto imporre il nome di «Non-popolo-mio»
a un figlio di Osea per indicare che la nazione eletta veniva ripudia
ta dallo sposo. Però promette anche di togliere questo nome e chia
mare Israele «Popolo-mio». Allo stesso modo il nome di una figlia
del profeta «Non-amata» diventa «Amata» ( Os l, 6 2, 3 )
- .
69
l PIETRO 2, 1 1- 17
premiare i buoni.
1 5 Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi
chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti.
16 Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà
INTRODUZIONE
Dopo l'immagine della casa divina edificata con i rifiuti dei co
struttori umani e le cui liturgie sono costituite dalla paradossalità sa
crificale della vita stessa, la sezione parenetica invita ad un'azione
coerente con una serie di pericopi destinate a gruppi diversi attra
verso cui si sviluppa una forma letteraria abbastanza comune nel
quadro della catechesi primitiva, il codice di comportamento o tavo-
70
le domestiche: rappresentano un topos della parenesi cristiana e co
tne tali non potevano non attirare l'attenzione degli studiosi. La ri
71
to commesso, e non v'è parzialità per nessuno. Voi, padroni, date ai
vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un
padrone in cielo» (Co/ 3 , 1 8 - 4, l ; cf. Rm 13 , 1 -7; E/ 5, 2 1 - 6, 9; l
Tm 2, 8- 1 5 ; 5 , 3 -8; 6, 1 2 ; Tt 2, 1 - 10) . Naturalmente tra gli studiosi
-
72
pello, l'imperativo, l'ampliamento dell'imperativo, e infine la motiva
zione i cui contenuti costituiscono la differenza più evidente rispetto
ai paralleli paolini. L'organizzazione complessiva prevede dunque
che il codice petrino venga preceduto dal richiamo generale a un
comportamento obbediente ma libero nei confronti delle istituzioni
(2, 1 1 - 17) cui seguono due elenchi di doveri: il primo (2, 1 8 - 3 , 12)
si rivolge agli schiavi (2, 1 8-25), alle mogli (3 , 1 -6) e ai mariti (3 , 7),
il secondo (5 , 1- 1 1 ) s'indirizza agli anziani (5, 1-4) e ai giovani (5 ,
5a') ; entrambi gli elenchi terminano con un appello a tutti (3 , 8-12; 5 ,
5b- 1 1 ) .
L'architettura del richiamo generale, introduttivo al codice, pre
vede due versetti iw. 1 1 s.) negativo il primo, positivo il secondo, nei
quali, dopo aver richiamato l'identità dei destinatari, si chiede ri
spettivamente l'abbandono di uno stile di vita e la proposta di un al
tro, naturalmente diverso. Segue il corpo della pericope incorniciato
ai vv. 13 e 17 dal ripetersi degli unici imperativi della pericope («Sia
te sottomessi» al v. 13 ; «onorate ... amate... temete ... onorate ... » al v.
17) e di alcuni vocaboli (Pase[i] anthropine[i], basilei al v. 13 ; pantas,
ton basilea al v. 17). All'interno una serie di motivazioni spingono il
discorso verso le parti esterne, ove appunto sono collocati gli impe
rativi.
COMMENTO
73
l, lO; 16, 5). Nel nostro caso regge tutte le prescrizioni successive, la
prima delle quali è negativa e chiede di «astenersi dai desideri della
carne». L'espressione apparteneva già all'insegnamento etico delle
scuole filosofiche del mondo greco romano (cf. Platone, Pedone 83b;
Aristotile, Etica Nicomachea II, 2, 35; Filone, Legum allegoriae II,
106) , la ritroviamo nella letteratura paolina (cf. Rm 1 3 , 14; Gal 5,
16. 17.24; E/ 2, 3) e qualcosa di analogo anche nella prima lettera di
Giovanni ( l Gv 2, 15s.) e nella Didachè l , 4 («Astenetevi dai deside
ri della carne. Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu por
gigli anche l'altra e sarai perfetto; se uno ti costringe ad accompa
gnarlo per un miglio, tu prosegui con lui per due. Se uno porta via il
tuo mantello, dagli anche la tunica. Se uno ti prende ciò che è tuo,
non ridomandarlo, perché non ne hai la facoltà») .
Naturalmente nella parenesi cristiana rispetto all'etica filosofica
greca il comando assume ben altra motivazione. Qui i concetti di de
siderio e di carne sono palesemente negativi; opposti ad anima non
necessariamente rispecchiano una mentalità dualista che l'Autore per
·altro non ha mai mostrato: la carne viene assunta come strumento e
luogo del peccato inteso nell'accezione più vasta e generica possibi
le, secondo la tradizione biblica che, lungi dal considerare l'anima
prigioniera del corpo o da esso separata, prevede unità di spirito e
carne, di istinti negativi e positivi nel complesso di tutta la persona.
Il secondo monito, positivo, è altrettanto generico e riguarda il com
portamento irreprensibile da · mantenere tra i pagani. La traduzione
letterale della qualifica conferita alla condotta richiesta è «bella»; la
sostituzione di un attributo etico, quale poteva essere «buona», con
uno estetico lascia immaginare che la preoccupazione dello scrittore
sacro sia stata pure di natura visiva, e cioè il comportamento oltre ad
essere buono in sé doveva apparire tale anche all 'esterno per avere
una sua persuasività tra i pagani; e questa doppia valenza viene con
cessa ali' aggettivo «buono» dalla lingua greca.
n motivo dell'atteggiamento impeccabile dei cristiani è la pro
posta di un modello etico ai pagani che pure li calunniano. Il verbo
(cf. 2, l ; 3 , 6) qui è sinonimo di bestemmiare: l'uso malvagio della
lingua nei riguardi dell'uomo ha la stessa valenza peccaminosa di
quando è rivolta verso Dio: calunniare l'uomo e bestemmiare Dio
74
per il nostro Autore sono sullo stesso piano. Nel caso specifico le ac
cuse immotivate dei pagani rivolte ai cristiani di essere malfattori e
criminali (cf. 2, 14; 4, 15 ; Gv 18, 29s.) sono bestemmie che si levano
contro Dio ma che le stesse opere buone dei destinatari sono capaci
di mutare in lodi a Dio «nel giorno della visita». L'espressione finale,
tratta da Is l O, 3 ha diviso gli esegeti: alcuni, seguendo il contesto
originario della citazione (cf. Sir 18, 20; Ger 6, 15 ; 1 0, 15), vi hanno
letto il giorno del giudizio finale di Cristo, quando anche i pagani ri
conosceranno la bontà dell'agire cristiano e il giudizio di condanna
che subiranno sarà una manifestazione della gloria che tutti devono
tributare a Dio. Altri credono che la formula riprenda il tema anti
cotestamentario della visita di JHWH che viene a portare la sua gra
zia anche ai gentili (cf. Sap 3 , 7 ; 4, 15; Is 23 , 16). La soluzione non
crediamo stia nella possibilità di conciliare le due ipotesi, per altro
difficile da realizzare perché una è negativa e l'altra positiva, ma nel
l' esaltazione del modello etico che si ritrova nel rapporto delle mogli
con i propri mariti (3 , l s.) e più in generale nell'accumulo della pre
posizione comparativa: su 1669 parole le 27 ricorrenze di «come»
(hos) costituiscono una delle più altre frequenze rispetto a tutti gli al
tri libri del NT.
A conclusione dei due versetti introduttori vorremmo ricordare
come le richieste generiche siano anticipate dalla memoria dell'iden
tità delle persone che vengono esortate, e poiché i versetti aprono
l'intera pericope, «in quanto stranieri e pellegrini» presiedono a tut
to il brano e non solo alle esortazioni iniziali. I due titoli che si tro
vano uniti solo in Gn 23 , 4 ove vengono attribuiti a Mosè, e nel Sal
39, 13 , richiamano ancora una volta la condizione itinerante del cri
stiano. La peregrinatio impone un codice di comportamento che,
sebbene contenga pure regole generiche, tuttavia sarà caratterizzato
dall'impegno nella storia e allo stesso tempo dalla libertà da essa.
Una storia, già si accennava, prodiga di sofferenze nei loro riguardi.
Sebbene sia difficile accettare l'ipotesi di persecuzioni ufficiali ordi
nate dall'autorità romana, non mancano testimonianze della poca
simpatia che circondava i cristiani non solo da parte del popolo: Ta
cito ad esempio definisce la religione cristiana una «setta che prati
cava una superstizione nuova e dannosa» (Annales 15 , 44; cf. Plinio
75
il Giovane, Epistulae X, 96, 2). Perciò la situazione dei destinatari è
caratterizzata dalla discriminazione: ostilità proveniente dal loro am
biente sociale piuttosto che persecuzioni metodiche da parte dell' au
torità centrale. Mentre la società è tollerante per principio verso
qualsiasi diversità considerata nel suo carattere etnico specifico, i cri
stiani non possono vantare questo lasciapassare perché in genere non
fanno parte di un popolo straniero ma sono concittadini, conoscenti,
parenti, cosicché la diversità appare come ribellione contro l'armonia
costituita.
A differenza della situazione descritta dalla letteratura paolina e
dagli Atti degli Apostoli ove il conflitto con la società e le autorità
era di carattere locale e personale, in l Pt è di principio poiché i cri
stiani sono conflittuali per natura. Ora proprio questa specificità ren
de particolarmente interessante il rapporto con le istituzioni delle so
cietà in cui si trovano stranieri. Vedremo proprio nel corpo della pe
ricope che stiamo analizzando che la loro peregrinatio non è emigra
zione dalla storia e dalla società, come avveniva per gli Esseni di
Qumran, né codina sottomissione per aggraziarsi le simpatie delle
autorità, ma responsabilità intesa come inserimento nelle istituzioni
umane che continuano la creazione divina.
È il Signore a non volere la latitanza dall'impegno civile e socia
le: ne va la creazione dell'universo. Infatti la sottomissione alle istitu
zioni nel v. 13 è introdotta dall'imperativo la cui composizione ha su
scitato una possibilità interpretativa non poco suggestiva: al signifi
cato di «sottomettere» in cui si darebbe valore primario alla particel
la premessa (hypo = sotto) , il Goppelt ha preferito quello di «ordi
nare», ipotizzando non solo una rivincita della famiglia verbale sull a
preposizione ma anche uno scenario storico in cui la seconda inter
pretazione risulterebbe più adeguata della prima e maggiormente ri
spondente alle esigenze della comunità. Infatti in origine la direttiva.
era rivolta non contro la ribellione ma contro la latitanza, perciò il
monito invita i destinatari a inserirsi nelle istituzioni esistenti. A dif
ferenza del pensiero tardo-antico, sostiene Goppelt, influenzato for
se da quello stoico, nella l Pt, meno ancora che in Paolo, l'invito ad
assoggettarsi non muove dall'immagine dell'ordinamento della so
cietà storicamente necessario o addirittura da un ordinamento ideale
76
motivato dal cosmo (si pensi all'apologo di Menenio Agrippa dello
stato costituito da corpo e membra) , ma dalla concezione che il cri
stianesimo è vincolato dalle forme storiche di vita date volta per vol
ta ed è responsabile in esse. L'inserimento nelle istituzioni e l'ubbi
dienza alle leggi che governa la storia trovano dunque la motivazione
nell'esigenza incarnatoria del cristianesimo stesso, non in spinte
ideologiche, né in esigenze prammatiche di chi ha colto nella sotto
missione un puro fatto di convenienza per aggraziarsi il favore delle
autorità in una situazione di ostilità sociale.
Destinatari dell'ubbidienza e dell'inserimento del cristiano sono
tutte le istituzioni umane; benché fondate da uomini e misurate sul
tempo, hanno una valenza creaturale, continuano cioè la creazione
divina nella storia: questo sembra il senso del sostantivo «istituzione»
il cui verbo greco d'origine è usato per l'attività creatrice di Dio.
Pure la motivazione s'inquadra bene nel contesto: «a causa del
Signore». È il Signore a non volere per i suoi fedeli la fuga dalla sto
ria, la latitanza dall'impegno civile e sociale; ne va quel modello di
uomo definito dallo stesso Cristo, pietra viva, e con esso il progetto
divino della creazione nuova. A questo primo motivo ne seguiranno
altri tre.
Vengono ulteriormente precisate anche le istituzioni umane alle
quali i cristiani debbono ubbidienza: i re e i governatori. Sebbene il
titolo di re appartenga per antonomasia all'imperatore, il plurale la
scia intendere che il riferimento sia ai sovrani nazionali i quali dove
vano sottostare all'alta sovranità di Roma, come quelli di Egitto, Si
ria, Palestina, Pergamo. I governatori invece sono i funzionari impe
riali che nelle provincie amministrano la giustizia civile. Al di là del
la distinzione di queste due tipologie amministrative che lascia inten
Jere un inserimento dei cristiani sia culturale che civile e politico, è
sorprendente come già, al tempo della l Pt la teologia fosse giunta ad
un grado così elevato di maturità da distinguere il piano religioso da
quello civile, per cui se nel primo è previsto il perdono, nel secondo,
pure buono per se stesso, è richiesta un'amministrazione imparziale
e legale della giustizia.
La seconda motivazione, esposta al v. 15 , fa l'eco alla preceden
te: concerne la volontà di Dio. n cristiano sa che ubbidendo all' au-
77
torità, inserendosi nel tessuto sociale, realizza il volere divino, ulte
riormente spiegato con la frase «facendo il bene riducete al silenzio
l'ignoranza degli uomini stolti». I due verbi sono tipicamente petrini:
il primo, assunto dagli scritti ebraici del tardo giudaismo - nella Mi
shna e nei testi di Qumran infatti questo uso è limitato a regole e isti
tuzioni generiche come qui - significa «comportarsi rettamente», e
nel contesto specifico la condotta retta acquisisce la sfumatura di a t
teggiamento responsabile, soprattutto in considerazione del v. 1 9 in
cui la «coscienza» arricchisce di una valenza critica il comportamen
to del cristiano. Il secondo verbo significa «ridurre al silenzio», «far
tacere», «mettere la museruola» e ha per oggetto l'ignoranza · degli
stolti. In questa definizione dei pagani traspare oltre a un giudizio
negativo anche una certa indulgenza: infatti se per un verso l'igno
ranza deresponsabilizza in certo qual modo i pagani, sdrammatizzan
do così i rapporti con i cristiani, dall'altro probabilmente l'Autore si
rende conto delle reali difficoltà a capire i cristiani nelle loro para
dossalità.
Ne è esempio il v. 16 in cui si dice che nel rapporto con le isti
tuzioni ubbidienza e libertà si coniugano come fosse normale. Pro
babilmente ha influito in questa paradossale combinazione l'eredità
neotestamentaria secondo cui la libertà, lungi dalla concezione stoica
che la identificava con il dominio di sé, è ubbidienza al progetto di
vino espresso in Cristo e nel suo annuncio. Sebbene il destinatario
dell'ubbidienza nel caso specifico non sia Dio, le motivazioni che la
sorreggono permettono di rendergli in forma implicita un atto di pa
ri sottomissione; infatti i cristiani gestiscono la loro presenza ubbi
cliente nei riguardi delle istituzioni perché liberi dalle stesse e dagli
uomini, perfino dalle autorità, prigionieri solo di Dio. Questo modo
di concepire il rapporto con Dio è totalmente estraneo alla religiosità
greca secondo cui «a chiunque si serva, chi serve non può star bene»
(Platone, Gorgia 491 ). Se dunque la libertà è il fondamento e il mo
do di attuarsi dell'obbedienza, viene esclusa ogni forma di sottomis
sione non critica agli uomini.
Pur senza dire esplicitamente che anche le autorità politiche so
no sottomesse a quella divina, affermando che solo di Dio si deve es
sere servi e liberi nei confronti degli altri, si viene a confermare che
78
il re o l'imperatore è alla stregua delle altre persone sia nei confronti
di Dio che del prossimo, per cui merita onore e rispetto come tutte
le altre persone. È quanto recita l'ultimo versetto della pericope, ben
costruito con quattro membri disposti polarmente a due a due:
«onorate tutti, amate la fraternità, temete Dio, onorate il re». Le va
rie combinazioni hanno offerto non pochi suggerimenti a speculazio
ni di diversi generi: ad esempio il passaggio dai sostantivi generici a
quelli specifici, dall'imperativo aoristo al presente, dalla sottolineatu
ra civile a quella religiosa, ecc. In questa sede ci limitiamo a mostra
re l'ordine dei verbi con relativo oggetto: all 'inizio e alla fine ritorna
lo stesso verbo («onorate») che, pur nella diversità di ruoli, unisce i
personaggi nella eguale dignità («tutti», «re») , al centro invece sono
collocati Dio e la fraternità (il vocabolo preferito dalla 1 Pt in vece di
«fratelli») con verbi diversi, molto specifici nel determinare il carat
tere di padre e di fratelli dei cristiani. n riscontro semantico se mo
stra un progresso del discorso verso il centro dove amare e temere
hanno certamente qualcosa di più che non onorare, evidenzia altresì
che l'onore dovuto al re non è diverso in niente rispetto a quello do
vuto a tutti gli uomini.
79
l PIETRO 2, 18-25
bocca,
23 oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minac
INTRODUZIONE
80
doveri, in particolare sono assenti i padroni vicino agli schiavi che il
nostro Autore sposta dall'ultima posizione occupata nei codici paoli�
ni alla prima: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne
con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non
servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come ser
vi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servi
zio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sape
te infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore se
condo quello che avrà fatto di bene» (E/ 6, 5-8; cf. Col 3 , 22�25 ) .
n brano s i apre con un invito generale (v. 1 8) caratterizzato da
alcuni elementi specifici del codice domestico: il destinatario prepo
sto e il participio con funzione d'imperativo ad anticipare la richie
sta di rispetto. Segue la prima motivazione di carattere sapienziale
contenuta in due versetti (vv. 19�20) uniti dal vocabolario della sof�
ferenza, di cui due volte ricorre il verbo, e della grazia posta all'ini
zio e alla fine con la stessa formula («questo è una grazia») . n pro
nome della medesima formulazione, unitamente alla congiunzione
dimostrativa «infatti», introduce anche la terza sezione ( vv. 19 . 2 1 :
«questo infatti») costituendo un segnale d'inizio e allo stesso tempo
un legame tra le due parti. Al v. 2 1 la motivazione cristologica aper�
ta dalla formula di fede «Cristo soffrì per voi» precede un ipotetico
antico inno della comunità che conserva la struttura essenziale svi
luppata secondo un ordine preciso dettato dai personaggi. Lo svi
luppo letterario sarebbe segnato dalla triplice ripetizione dd relati
vo, riferito a Cristo, che scandisce altrettante sequenze tematiche
ispirate al canto del servo sofferente: il v. 22 si riferirebbe a Is 53 , 9
(«Gli diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, seb
bene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua
bocca») , il v. 23 a Is 53 , 7 («Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì
la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora
muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca») , e il v. 24 a
Is 53 , 4 («Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è ad
dossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da
Dio e umiliato») . Sebbene l'ipotesi sia stata spesso contestata a favo
re di un più semplice uso di passi anticotestamentari di cui è costel
lato l'intero scritto, non sono pochi gli studiosi a sostenere che l'ori-
81
gine del materiale confluito nei vv. 22-24 appartenga alla tradizione.
Infatti dal v. 22 improvviso sopraggiunge un cambio di pronome
personale (dalla seconda persona plurale alla terza singolare) e di ge
nere letterario che dà la stura a uno sviluppo teologico di gran lun
ga superiore al contesto; altrettanto repentino al v. 25 è il ritorno al
discorso diretto rivolto ai domestici.
COMMENTO
82
la costruzione della casa spirituale (2, 5) in qualità di pietre vive qua
le appunto è Cristo. Questo ruolo della casa che mette al coperto tut
ti quelli che la costituiscono, appartiene al vocabolario delle istitu
zioni (cf. Eh 3 , 4-6) . È più difficile invece accettare l'interpretazione
secondo cui i servi di casa costituirebbero l'immagine più appropria
ta per designare tutti i cristiani oppressi dall'impero romano: se così
fosse non si spiegherebbero le categorie delle mogli e dei mariti che
seguono. Né si può addurre la motivazione che tutti i cristiani sono
chiamati «schiavi di Dio» in 2, 1 6 perché ll il vocabolo muta, non più
domestici (oiketai) ma schiavi (douloi) .
La sottomissione dei domestici anche ai padroni impossibili è
legata alla coscienza critica vincolata a Dio, dunque non supina ac
cettazione ma giudizio sugli avvenimenti che muove dall a fede nella
sofferenza di Cristo. ll nostro Autore parla di coscienza in modo si
mile a come fa Paolo per il quale in primo luogo, in conformità alla
concezione tradizionale ellenistico-giudaica, è un'istanza che reagi
sce al comportamento delruomo giudicando: «A me però, poco im
porta di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io
neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole
di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il
Signore» (l Cor 4, 4; cf. Rm 2, 15; 2 Cor 4 , 2; 5, 1 1 ; Gv 3 , 1 9-22) .
Questa concezione della coscienza intesa come giudizio sugli avveni
menti che porta oltre, era stata adottata dalla rappresentazione elle
nistica popolare della cattiva coscienza da cui sembra derivare l'uso
neotestamentario dato che il vocabolo è quasi sconosciuto nell' AT.
Però Paolo sviluppa il concetto affidando alla coscienza non solo il
giudizio sul passato ma la decisione su ciò che deve avvenire: è l'io
pensante e giudicante della fede il quale esamina ciò che è volontà di
Dio nella situazione data volta per volta (cf. Rm 12, 2; 14, l ; l Cor
8, l O) . In forza di questa coscienza critica, viene superato anche il
conflitto tra servi e i padroni più duri, ancora una volta attraverso
un paradosso: accettare la sofferenza ingiusta come grazia, come di
mostrazione di amore di colui per il quale essi sono espressione del
la chiamata (v. 2 1 ) .
Lungi dunque dall'istillare negli schiavi un atteggiamento rivo
luzionario, l'Autore percorre una strada non meno efficace, consape-
83
vole della novità apportata alla vita dell'uomo da Cristo. Questa via
della sofferenza si identifica con la sequela, per cui chi la percorre
viene coinvolto nel cammino di Gesù per mezzo dell'obbedienza al
la fede: la teologia della sofferenza non può che rimandare alla cri
stologia. La sofferenza ingiusta, non meritata, permette allo schiavo
di identificare la sua sorte con la passione di Cristo presentata nel
suo duplice aspetto redentrice ed esemplare: non solo patì per loro
ma ha lasciato un modello da seguire. Su quarantadue impieghi del
verbo «soffrire» nel NT, la l Pt ne conta dodici, tre dei quali riferiti
a Cristo (2 , 2 1 .23 ; 4, l) e nove alle persone di casa (2, 1 9.20; 3 ,
14. 17 . 1 8; 4, 1 . 15. 16. 19; 5 , 10). È singolare che i riferimenti a Cristo
si trovino negli steisi brani di quelli alle persone di casa, e il verbo,
pur muovendosi nell'ambito della sofferenza - ma non significa mai
«morire» - designi quella subita ingiustamente e che in qualche mo
do agisce sulla salvezza. La sofferenza che viene senza essere stata
meritata, permette allo schiavo d'identificare la propria situazione
con quella del Calvario, della quale nel versetto successivo viene ri
chiamato un vocabolo («schiaffeggiati») che probabilmente collega
le sofferenze degli schiavi con la passione del Nazzareno, forse nella
tradizione più antica, quella conservataci nel vangelo di Marco: «Al
lora alcuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a
schiaffeggiarlo e a dirgli: "Indovina". I servi intanto lo percuoteva
no» (Mc 14, 65 ; cf. anche l Pt 2, 22) .
La struttura chiastica incrociando i termini d i questi due verset
ti (w. 1 9-20) illustra quasi graficamente la contraddizione (apparen
te) significata: sopportare la sofferenza ingiusta viene letto come gra
zia. Lo stesso v. 20, costruito con un'antitesi, evidenzia come davan
ti a Dio si ottenga grazia rispondendo alle offese non con il male ma
con il bene.
D medesimo concetto, ma con diversa motivazione, era presen
te nel pensiero greco ed ellenistico: «lo sostengo, Callicle, che l'esse
re ingiustamente preso a schiaffi non è la cosa più vergognosa che ci
sia, né l'aver tagliato il corpo e la borsa, ma che più brutto, più mal
vagio è battermi, ferirmi, derubarmi ingiustamente, che cioè deru
barmi, ridurmi in schiavitù, violare il mio domicilio, fare, insomma,
violenza contro di me e contro le mie cose, è più brutto, è peggiore
84
per chi commette tali ingiustizie che per me che le subisco» (Plato
ne, Gorgia 509); «È più terribile commettere ingiustizia che subirla»
(filone, De ]osepho 20) .
Allo stesso modo nel periodo classico si erano levate voci di
protesta, soprattutto dall'ambito della satira, contro le grida di
matrone adirate e di comprensione verso i lamenti delle loro serve: in
Giovenale (Satirae VI, 486s.) l'elegante dama punisce con una
nerbata l'infelice Psecas che le acconcia i capelli, per un ricciolo
sfuggente troppo alto. In Marziale (Epigramma/a II, 66) Lalage, per
un ricciolo mal riuscito (unus de toto peccaverat orbe comarum
anulus) cui uno spillo non ben fissato toglieva il garbo, colpisce con
lo specchio rivelatore del difetto, la pettinatrice Plecusa, che ne cade
vittima.
Nello scritto petrino però il problema è diverso: si chiede di
sopportare pur sapendo di essere nel giusto, di vivere questa totale
debolezza discriminatoria come vocazione. Infatti il v. 2 1 esordisce
con la volontà di essere una spiegazione: «a questo infatti siete stati
chiamati», e motiva la vocazione con la sofferenza di Cristo che «patì
per voi, !asciandovi un esempio perché ne seguiate le orme». L'allit
terazione in y con cui iniziano le prime cinque parole (hyper hymon
hymin hypolimpanon hypogrammon) ricorda da vicino gli artifici re
torici di un oratore che possiede bene la lingua greca.
Il collegamento tra Cristo e gli schiavi è mutuato da una forma
causale («poiché anche») e dalla destinazione precisa («per voi») .
Più che un esempio, dunque, il dolore di Gesù è il fondamento e la
motivazione della sequela cristiana. Infatti la sofferenza del N azzare
no viene presentata sotto due aspetti, nella sua portata redentrice
(«patì per voi») e nella sua esemplarità («!asciandovi un modello») . Il
vocabolo è di non semplice interpretazione: nel NT non ricorre più
ed è raro nella classicità. La più antica citazione la si ritrova in 2 Mac
2, 28 dove il termine indica che l'Autore darà semplicemente un rias
sunto dei libri di Giasone. Secondo Clemente di Alessandria il voca
bolo indicava il modello delle lettere alfabetiche che il maestro la
sciava agli alunni da ricopiare affinché imparassero a leggere e a scri
vere (Stromata V, 8, 49, 1 ) . Analogamente il verbo corrispondente in
Platone indica la traccia delle linee fatta dal maestro per guidare gli
85
allievi nell'apprendimento della scrittura: «Come i maestri di gram
matica ai ragazzi che non sono ancora abili nello scrivere le lettere,
pongono la tavoletta dopo avervi accennato le lettere con lo stilo ob
bligandoli quindi a scrivere seguendo questa traccia ... » (Protagora
326 d) . n verbo, al di fuori del campo strettamente pedagogico, si
gnifica «dare un esempio, mostrare, descrivere, significare . .».
.
86
ricompensa riceverete dal Signore l'eredità. Setvite a Cristo Signore»
(Co/ 3 , 22s.; cf. E/ 6, 5s.); «Antigono di Socho ricevette la tradizione
da Simeone il Giusto. Egli era solito dire: "Non siate come quei ser
vi che prestano il loro servizio verso il padrone, con l'intenzione di
riceverne ricompensa; ma siate come quei servi che prestano verso il
padrone il loro servizio, senza l'intenzione di riceverne ricompensa; e
sia su di voi il timor di Dio"» (Pirqe Aboth l , 3 ); «Non dimenticare
gli schiavi ... servano con più zelo al fine di ottenere da Dio una mi
gliore libertà» (Ignazio di Antiochia, Lettera a Policarpo 4, 3 ); «Ma
voi schiavi sarete sottomessi ai vostri signori come a un'immagine di
Dio, con rispetto e timore» (Didachè 4, 1 1 ).
La 1 Pt procede in maniera inversa: la gerarchia abituale viene
sconvolta poiché le donne e gli schiavi, con le loro sofferenze, sono
le immagini del Cristo in croce interpretato alla luce di Is 53 , 1 -9 e di
una ipotetica professione di fede già formulata dalla tradizione cri
stiana. In questo capovolgimento gerarchico va colto il primato pa
radossale della debolezza sulla forza come indica la figura del servo
sofferente che ha ispirato l'antico inno.
Dal v. 22 sono descritte le orme da seguire, o, fuori metafora, è
presentata la figura di Cristo della cui passione restano alcuni aspet
ti particolari . Anzitutto l'innocenza: «egli non commise peccato né si
trovò inganno nella sua bocca»; gli è estraneo il dolos, il discorso che
inganna, in contrasto con la qualità della parola rigeneratrice che è
senza inganno (adolos) come attestato all'inizio del capitolo (2, 1).
Ancora oggi il vocabolario giuridico usa il termine greco: il dolo, co
me colpa commessa con coscienza.
Il secondo aspetto della passione a venir ricordato è la pazienza
espressa nel silenzio davanti alle accuse: «oltraggiato non rispondeva
con oltraggi, soffrendo non minacciava» (v. 23 ). Queste parole, re
datte forse con il contributo indiretto di Is 53 , 7 né suona estranea
-
87
Per vedere concretizzata l'idea di esemplarità affermata al v. 2 1 ,
in questo v. 2 3 l'Autore compie un piccolo prodigio: la sua ricerca
scritturistica fondandosi su una delle regole principali deIl' esegesi
del tempo, il principio dell'analogia, coniuga il proprio lavoro con il
messaggio che questo deve veicolare. In altre parole come un testo si
comprende e si spiega con un altro per analogia, allo stesso modo il
cammino del cristiano non può non essere analogo a quello di Gesù.
Attraverso un prestito diretto da Is 53 , 12 che il nostro Autore
adatta per esprimere il significato redentivo della morte di Gesù, il v.
24 dice che Cristo «ha portato i nostri peccati sul suo corpo sulla
croce». n destinatario subisce un ampliamento: si passa per un istan
te dal «voi» degli schiavi al generico <<noi» al quale fa parte l'Autore
insiemé ad ogni potenziale lettore; ciò tuttavia non per identificare
gli schiavi con tutti i cristiani ma probabilmente per iscrivere se stes
so nella lista dei peccatori; infatti dal v. 25 , allorché si parla di ciò che
è più proprio agli originari destinatari, delle piaghe, ritorna alla se
conda persona plurale.
Il verbo «portare» corrisponde in ebraico a un vocabolo di na
tura cultuale, usato per i sacerdoti che portano una vittin1a sull'alta
re per offrirla in sacrificio al fine di espiare i peccati del popolo (cf.
Lv 14, 1 9-20; l Mac 4, 53 ; Eh 7, 27 ; 9, 28) . In forza dell'aspetto cul
tuale del verbo anche «corpo» e «legno» (o croce) assumono la stes
sa sfumatura divenendo rispettivamente l'offerta e l'altare. Sebbene
manchi una formulazione esplicita del sacerdozio di Cristo come av
viene nella lettera agli Ebrei, tuttavia il soggetto che porta e l'offerta
che viene portata si identificano nella stessa persona, per cui qui Ge
sù compare allo stesso tempo con le due funzioni di sacerdote e vit
tima sacrificate.
Lo scopo di questa sacerdotalità completa, in cui l'offerente è
anche offerta, viene esposto nella seconda parte del versetto intro
dotta dalla preposizione finale che costituisce un'evoluzione rispetto
all'idea di riconciliazione: la morte di Gesù noti solo ha riconciliato i
peccatori ma ha liberato e redento dalla schiavitù del peccato «per
ché vivessimo per la giustizia». n dativo di fine indica il termine del
la vita: è l'ordine del regno che deve regnare nella comunità.
La terza parte della frase riprende le ultime parole di Is 53 , 5 :
88
«dalle sue piaghe siete stati guariti». Il sostantivo, che ricorda i lividi
lasciati sulla pelle degli schiavi dalle fruste dei padroni richiamando
la consonanza tra la pelle degli uni e quella dell'altro, è al singolare
(collettivo) a indicare · che tutto il corpo di Cristo era diventato una
piaga, capace di guarire le nostre.
n v. 25 chiude la pericope e il capitolo passando dall'immagine
del medico malato che guarisce a quella del pastore che raduna le
.pecore, alla stregua di ls 53 , 5-6. Nel nostro brano il transito propo
ne una chiarificazione: la guarigione dei peccati viene spiegata come
un tornare a Cristo pastore e sorvegliante delle anime. Questo ver
setto finale sebbene risenta dell'eco di altri passi, forse più dei pre
cedenti, mostra la mano dell'Autore: le immagini pastorali ad esem
pio le ritroviamo impiegate diverse volte nel corso dello scritto (2 ,
10; 5 , 2 .4; cf. l , 12; 3 , 2 1 ). Introduce una formula che richiama la si
tuazione precedente dei cristiani («eravate come pecore erranti»)
dalla quale non è possibile trarre alcuna conclusione certa sulla pro
venienza pagana dei destinatari perché l'erranza delle pecore, dovu
ta all'assenza del pastore, identificato dall'Autore con la persona di
Cristo, è una situazione che accomuna ebrei e pagani. Ma agli occhi
di chi scrive le responsabilità sono molto diverse: i primi l'hanno ri
fiutato, i secondi non l'hanno conosciuto. È difficile dire se la con
trapposizione tra il passato e il presente sia caricata anche di una cer
ta responsabilità dei destinatari; certo è che sembra difficile esclude
re i giudeo-cristiani dal novero di coloro che ascoltano o leggono
queste parole. Pure il verbo usato per la novità del presente, «ritor
nare», suppone un previo allontanamento da quello stesso luogo che
ora viene abitato di nuovo. Fondamentalmente l'azione espressa è
quella della riconciliazione con colui dal quale si era separati ed è
utilizzata per coloro che dal peccato ritornano a Dio. Anche del «fi
gliol prodigo» si dice qualcosa di simile, ma il vocabolario è diverso
e gli atteggiamenti più attentamente analizzati. Non c'è la semplice
costatazione di una precedente distanza come qui, ma la volontà del
figlio di allontanarsi dalla casa del padre e la presa di coscienza, suc
cessivamente, che quella separazione dal tetto paterno aveva traccia
to un solco anche nel cuore del protagonista, l'aveva separato da se
stesso. Infatti lo scrittore sente la necessità di sottolineare che il gio-
89
vane, prima di ritornare dal padre, «rientrò in se stesso» (Le 15,
1 1ss. ). Nel nostro caso la persona verso cui sono tornati è Cristo de
finito col titolo di pastore. Se nella letteratura antica il custode delle
pecore ha assunto il senso traslato di sovrano dei popoli (cf. Ger 3 ,
15 ; Ez 34, 1 1 s.; 37, 24; Is 40, 1 1 , ecc.) e analogamente pure il verbo
«pascere» fu usato come sinonimo di «governare» (2 Sam 5 , 2), qui
la cura pastorale sembra avere connotati religiosi. Strettamente colle
gato con pastore, Cristo viene chiamato anche «episcopo», «sorve
gliante», titolo che forse già nell'organizzazione della chiesa delle ori
gini indicava una mansione ecclesiastica ufficiale (At 20, 28; d. Fil l ,
l ) ; come dire che Cristo h a fondato le mansioni ecclesiali e i ministri
che vi si adoperano compiono l'unica sua opera.
Concludendo l'analisi di questo inno possiamo dire che i vv. 22-
25 hanno mostrato un testo radicato per la stia quasi totalità nell' AT
e allo stesso tempo così intessuto con la narrazione storica della pas
sione di Cristo che sembra essere da una parte il risultato della tra
dizione ecclesiale, una professione di fede già formulata, dalr altra la
rilettura delle Scritture sacre - non come argomento o prova - sem
bra fa� diventar vangelo il testo isaiano stesso.
90
l PIETRO 3 , 1 -6
INTRODUZIONE
91
scosta dell'uomo con la fedeltà del cuore (ricolmo) di mitezza e di
pace dello spirito» suggellato dal marchio di garanzia <<ciò è prezio
so davanti a Dio». Questa organizzazione sembra confermata dal
piano semantico: se le donne cui si rivolge il testo hanno come mo
dello <de sante donne di una volta che speravano in Dio», la santità
non può che sancirla Dio il cui giudizio è collocato appunto al cen
tro del brano. n modo di procedere per antitesi oppone la parola al
la condotta (w. 1-2) e soprattutto l'esterno all'interno (w. 3 -4). Gli
ultimi due versetti riproducono i modelli, caratteristici della parene
si petrina. Questa organizzazione lascia intravedere più che l'impe
gno missionario delle donne nei matrimoni misti, che tuttavia non si
vuoi escludere, l'invito alla santità che si esprime praticamente (tan
to da essere considerata un'opera buona) nella serenità e nella fe
deltà dei rapporti. D'altra parte neanche il contesto - né quello im
mediato né quello dell'intera lettera - invita mai alla missionarietà;
per cui volerlo leggere come preminente in questo passo sembra pre
testuoso. La presenza di una tale realtà, incontestahile nei primi due
versetti, va inquadrata nella più ampia situazione conflittuale in cui il
cristiano si trova a vivere. Di qui la necessità di un comportamento
integerrimo, di una condotta «pura».
COMMENTO
Come ai servi (2, 18), così anche alle donne viene chiesta la sot
tomissione. Lasciano intuire lo stesso discorso diretto del brano pre
cedente l'identica formula iniziale (i destinatari al nominativo con ar
ticolo seguiti dal participio del verbo «sottomettere» con valore di
imperativo) e l'avverbio della comparazione «ugualmente» che intro
duce il brano; elementi appartenenti al genere catalogico. Tuttavia se
per i servi di casa non viene stabilito il grado di sottomissione, per
ciò si presume totale, per le mogli la richiesta sembra limitata al ri
spetto del loro ruolo sociale il quale prevedeva che la donna fosse
soggetta al marito nell'ambito delle relazioni familiari; al coniuge in-
92
vece per la donna si chiede la libertà di professare la propria fede re
ligiosa. Questa apertura offriva spazi di libertà ad una moglie che la
struttura gerarchica familiare confinava in una posizione subordina
ta rispetto al marito, però allo stesso tempo apriva anche la reale pos
sibilità di vivere la vita con un uomo non cristiano prefigurando
un'esistenza verosimilmente conflittuale. Non poche testimonianze
indicano come tale subalternità sia generalizzata: alle espressioni di
E/ 5 , 22 e Co/ 3 , 18 («Le mogli siano sottomesse ai mariti>>) fanno eco
le convinzioni di Plutarco, dello Pseudo Callistene e di Giuseppe
Flavio: «Quando le donne stanno sottomesse ai mariti sono lodate,
quando invece vogliono comandare, diventano piuttosto il disonore
di quelli che sono comandati» (Plutarco, Conjugalia praecepta 3 3 ) ;
Alessandro dice a sua madre: «è conveniente che la donna stia sotto
messa al marito» (Ps. Callistene I, 22, 4); «La donna - dice - è infe
riore all'uomo in tutto. Perciò deve ubbidire, non al fine di essere
umiliata, ma di essere guidata. Dio infatti ha dato autorità all'uomo»
(G. Flavio, Contra Apionem 2, 20 1 ) .
S e in un siffatto contesto s i vedeva realizzato l'ideale d i vita del
cristiano che la parenesi petrina ipotizzava come inserimento nelle
strutture date, veniva anche aperta la porta alle prime forme di apo
logetica la cui eco vibra nella motivazione della condotta esemplare
delle spose al fine di convertire i mariti (cf. Tt 2, 3 -5 ) . Con un com
portamento appropriato, che in contesto di matrimç>ni misti impone
la scelta di ciò che è essenziale anche in relazione alle proprie con
vinzioni religiose, la moglie avrebbe la possibilità di modificare l' at
teggiamento refrattario del marito verso la fede. Se lo scopo della te
stimonianza è dunque quello di «guadagnare» il proprio sposo alla
fede, di raggiungerlo cioè nella sua coscienza (cf. Mt 18, 15) e di con
vertirlo, il comportamento della donna che guadagna il marito è
«senza parola>>. Più che la sfiducia nelle possibilità dialogiche l'invi
to va inquadrato nello schen1a socio-familiare e letto in relazione alla
sottomissione iniziale: mentre sono soggetti passivi dei mariti (v. la)
diventano oggetti attivi degli stessi (v. l h) attraverso la passività del
la parola e l'attività della condotta.
n paradosso esplode nella contraddizione tra l'inizio e la fine
del v.: nello stesso momento in cui le mogli sono sottomesse ai mari-
93
ti, questi uomini, attraverso la condotta silenziosa delle donne, nel ri
spetto cioè della sottomissione, sono guadagnati alla fede delle mo
gli. È evidente il ruolo centrale della conduzione della vita che, nel
rispetto delle regole del gioco, è capace di mutare il rapporto di for
za; nell'ambito dell'ubbidienza a un contesto storico-sociale riesce a
garantire la libertà dei figli di Dio, quella libertà già invocata prece
dentemente: in questo modo, pur nelle conflittualità e nelle regole
della storia, il cristiano appartiene anche totalmente a Dio.
La condotta delle mogli al v. 2 provoca la reazione dei mariti ai
quali si aprono gli occhi, la vedono, la prendono in considerazione e
di n risalgono alla fede: un procedimento a ritroso dalla causa all' ef
fetto che descrive in maniera alquanto ingenua la conversione dei
mariti. Due sono le qualifiche del comportamento delle donne: ti
morosa e pura. n timore da cui la donna si lascia guidare non è quel
lo del marito ma quello verso Dio (cf. 2, 17), vincolante per ogni cri
stiano; la purezza non ha un'accezione meramente fisica, ma più ge
nericamente religiosa, sebbene il contesto matrimoniale non escluda
(ma neanche enfatizzi) la castità, intesa nel senso più ampio di essen
zialità. Infatti nel versetto successivo viene esplicitamente condanna
to un atteggiamento estetizzante che nel contesto in cui s'inserisce
equivale alla parvenza ingannevole improntata per sedurre. n motivo
viene offerto dall'ornamento delle donne alle quali l'Autore chiede
di non fare mostra «di capelli intrecciati e di collane d'oro o di sfog
gio di anelli». Dal punto di vista stilistico la serie di espressioni al ge
nitivo dà l'impressione immediata della laboriosità della cosmesi
femminile i cui artifici si esprimono appunto nei capelli, negli anelli
e nelle collane.
li monito petrino rientra in una concezione comunemente ac
cettata nell'antichità per cui la cosmesi è una specie di bugia che in
ganna gli occhi altrui mostrando un aspetto diverso e migliore della
realtà. I delatori di quest'arte della contraffazione e dell'inganno li
troviamo un po' ovunque, ad Atene come a Roma, prima e dopo Cri
sto. Platone nel Gorgia (465b) definisce la cosmesi come «pratica vi
ziosa, fraudolenta, ignobile, indegna di un uomo libero, che per via
di trucchi, di colori, di lisciature e d'abbigliamenti, inganna così, che
la gente, rivestendosi di una bellezza che non le appartiene, trascura
94
quella che le è propria e che è procurata dalla ginnastica». Nell'Eco
nomicus (10, 2-8) Iscomaco racconta a Socrate come è riuscito a dis
suadere la moglie dall'uso dei cosmetici: «Un giorno la vidi tutta im
piastrata di biacca, per sembrare più bianca di quanto fosse real
mente, e di ocra, per acquistare un colorito più roseo di quello natu
rale, e con dei sandali alti, per sembrare di statura superiore alla sua.
Dimmi, moglie, le chiesi, come socio dei beni mi riterresti più degno
del tuo amore se ti mostrassi quello che ho davvero, senza vantarmi
di possedere più beni di quanti ne abbia, e senza nasconderne alcu
no, o se cercassi di ingannarti, dicendoti di avere più di quel che ho,
e se mi prendessi gioco di te, mostrandoti denaro falso e collane di
legno dorato e infine, se ti facessi passare stoffe mal tinte per tessuti
di vera porpora? (. .. ) . Ebbene anch'io, credimi, disse Iscomaco, pre
ferisco il tuo colorito alla biacca e all'ocra; gli dei hanno fatto i cavalli
la cosa più bella per i cavalli, i buoi per i buoi, le pecore per le pe
core: così anche gli uomini ritengono che nulla è più piacevole del
corpo umano senza artifici. Questi inganni potrebbero forse illudere
gli estranei, che non ne hanno prova, ma quando delle persone vivo
no sempre insieme, si lasciano necessariamente cogliere in fallo se
cercano d'ingannarsi l'un l'altra. O si viene sorpresi nell'atto di al
zarsi dal letto, prima di essere preparati, oppure si è smascherati dal
sudore o messi alla prova dalle lacrime, o si appare di colpo quali si
è davvero, all'uscita del bagno». Naturalmente l'accusa rivolta alla
cosmesi di alterare la realtà esibendo agli occhi altrui una bellezza
inesistente, di mentire cioè attraverso forme di mascheramento, tra
scina con sé anche la condanna della teatralità che la maschera rap
presenta, la sua funzione nella messa in scena del piacere, e dunque
l'assimilazione della cosmesi alla pratica della seduzione: «Dio vi ha
dato un volto e voi ne fabbricate un altro» suona l'accusa di Amleto
nel dramma omonimo di W. Shakespeare.
In quanto arte cortigiana, la cura del proprio aspetto, soprattut
to se aiutata dal trucco, appartiene alla strategia della seduzione alla
stregua di qualsiasi tecnica mercenaria, tutt'altro che disinteressata e
gratuita. Naturalmente la commedia che meglio di ogni altra forma
letteraria mette a nudo la vita quotidiana non poteva non rivelarne
l'aspetto comico. Brillante risulta Antifane nel rappresentare i mo-
95
menti di questo rituale: «Di nuovo va, torna sui suoi passi, va, viene,
è qui, si lava, si awicina, si friziona, si pettina, fa un passo, s'imbel
letta, si lava, si guarda, si veste, si profuma, si fa bella, s'impomata ... »
(fr. 148) . Molto meno scherzose sono le riflessioni della stoa e di al
tre discipline filosofiche per le quali la natura è la norma di un com
portamento etico: «Non basta cospargersi di profumo - sostiene
L.A. Seneca, Epistolae 86, 13 se non lo si rinnova due o tre volte al
-
96
eccentrico o per lo meno di vistoso possa esserci nel comportamen
to. Particolare interesse suscita il rapporto cuore-spirito che, insieme,
sottolineano maggiormente l'interiorità in cui viene colta la persona
caratterizzata da tre qualità molto silenziose, poco appariscenti, ma
altrettanto essenziali quali la fedeltà, la mitezza e la calma.
A un simile atteggiamento viene conferito, con il richiamo al
giudizio di Dio, il criterio della preziosità. Non è un tocco di religio
sità a un discorso che potremmo definire tranquillamente profano. È
piuttosto in questa legittima profanità che Dio coglie la preziosità dei
comportamenti il cui modello è rappresentato dalle donne del passa
to entrate nella sfera della santità che costituisce il fine ultimo del
comportamento secondo la prospettiva dell'Autore. Le espressioni
elogiative del v. 5 non sembrano dirette in maniera specifica a singo
le persone storiche o ad eventi particolari; viene fatto uso piuttosto
di uno schema astratto di santità legato a modelli comportamentali
di cui ne ricorda, forse in maniera velatamente nostalgica (cf. «una
v�lta») , il tempo passato. Ciò non toglie che anche in passato ci fos
sero stati modelli; si pensi alle quattro grandi madri del popolo elet
to: Sara, Rebecca, Lia e Rachele. La virtù di queste donne sante con
sisteva in una sottomissione costante e volontaria (cf. il participio
presente medio hypotassomenai) ai propri mariti.
L'esempio che l'Autore ritiene più emblematico di siffatto at
teggiamento è quello di Sara che riconosceva in Abramo il suo si
gnore e maestro (Gn 1 8, 12). La sottomissione di Sara è durata l'in
tera vita coniugale, precisa il nostro con il participio presente del
verbo «chiamare» che nel mondo semitico equivale ad «essere» (cf.
Mt 5 , 9) : Sara non solo ha chiamato signore per tutta la vita il pro
prio marito, ma questi ha esercitato realmente il potere sulla moglie.
Se si considera che JHWH aveva cambiato il nome di Sarai in Sarah
perché principessa «diverrà di nazioni, re di popoli nasceranno da
essa» ( Gn 17, 15) , si nota che questa sua nobiltà di origine divina
rende maggiormente rimarchevole la sua dipendenza nei riguardi
dello sposo. Se il modello offerto da Sara dal punto di vista religioso
potrebbe essere discutibile per il suo scetticismo dinanzi alla possibi
le maternità, qui viene idealizzato come esempio morale.
Essere figlie di quelle antenate si manifesta in due atteggiamen-
97
ti già esposti: le spose, come gli schiavi e come, più in generale, tut
ti, devono coniugare la partecipazione ubbidiente agli ordinamenti
nelle strutture date, compresa quella familiare in cui la sottomissione
si traduce nella fedeltà e nella dolcezza dei rapporti, mantenendo
però sempre quella libertà che qualifica il cristiano. A ragione è sta
to sostenuto che uno dei fili conduttori del codice domestico petrino
è la liberazione dal timore umano.
98
l PIETRO 3 , 7
INTRODUZIONE
99
giata all'interno della coppia; e la lettera riflette questa disparità di
condizione.
Stilisticamente l'unica frase di cui si compone l'ammonimento è
costruita intorno a tre participi e W1 verbo principale al futuro. I pri
mi due participi esprimono la norma genera]e del comportamento
(«convivendo», «rendendo onore») perciò sono inviti rivolti ai mari
ti, il terzo offre la motivazione («compartecipando») alle raccoman
dazioni precedenti ed hanno le mogli per soggetto come l'ultimo il
quale indica lo scopo finale («non saranno impedite») .
COMMENTO
100
Johanan: (è meglio andare dietro a) un leone che dietro a una donna;
meglio dietro una donna che dietro un idolo pagano; meglio dietro
un idolo pagano che dietro (cioè senza entrarvi) alla sinagoga in cui
si dice la preghiera pubblica». La Mishna 3 , 3 afferma che «le don
ne, gli schiavi e i fanciulli sono dispensati dalla recitazione dello sh e
ma e dei tephillin».
È vero pure che al senso dell'espressione ha contribuito più tar
di anche la sensibilità greca secondo cui il corpo è il vaso dell'anima.
Però nel nostro caso il sostantivo è riferito alla donna la quale nem
meno nell'ambiente greco incontrava grande considerazione sociale
se si riten�va opportuno vietarle di dedicarsi alle attività maschili. Se
dunque non è possibile assolutizzare il senso spregiativo del termine
«vaso» per definire la moglie perché può rientrare nel novero delle
espressioni comuni, resta tuttavia la portata negativa che l'Autore
contribuisce ad evidenziare con l'idea altrettanto negativa della fragi
lità espressa dall'attributo al comparativo: «più fragile», riferito non
solo alla debolezza fisica (cf. Mt 25 , 43 ; At 5, 15s.) o a quella morale
e spirituale (cf. Rm 5, 6; l Cor 8, 7-1 1 ) ma più genericamente a una
situazione complessiva, non esclusa quella conoscitiva considerata
nel senso più ampio. Ad esempio il rapporto tra la conoscenza dei
mariti e il vaso con cui sono definite le mogli lascia ipotizzare anche
un riferimento, sia pur implicito, ai rapporti sessuali gestiti appunto
dal partner maschile considerato come colui che conosce.
Conclude la parte degli ammonimenti il secondo invito, espres
so in una frase molto più breve rispetto al primo; si esaurisce nel par
ticipio seguito dal sostantivo: «rendete(le) onore». Chiedendo per le
mogli lo stesso onore che in precedenza (2 , 17) era stato invocato per
il re e per tutti, l'Autore recupera una maggiore uguaglianza e di
gnità che crescerà ancor più nel terzo participio (<<le quali comparte
cipano») per quella donna che nel monito precedente era stata trat
tata come un oggetto. Questo cambiamento non deve essere consi·
derato una contraddizione ma un processo di evoluzione che muove
dalla situazione storica imprescindibile e che trova la motivazione
nella comune partecipazione dell'uomo e della donna «alla grazia
della vita». L'espressione greca non è tra le più semplici: può indica
re la grazia come dono vivente e vivificante, la grazia cioè sarebbe un
101
dono divino alla quale partecipano entrambi i coniugi in egual misu
ra; oppure i due sostantivi si devono intendere come sinonimi per
cui il secondo esplicita il primo: la grazia consisterebbe nella vita di
cui insieme sono gli artefici. Mentre nella prima interpretazione vie
ne sottolineata la comune partecipazione al dono di Dio e dunque la
sottomissione di entrambi a un'autorità che li sovrasta e che li bene
fica, nella seconda risulta accentuata la vita che insieme donano, la
loro maggiore autonomia e il ruolo attivo che dividono nel generare.
Lo scopo di tutto è manifestato dal futuro di un verbo molto
forte per esprimere un impedimento assoluto con un'accezione an
che giuridica (cf. Rm 15, 22 ; Ga/ 5 , 7): la preghiera di entrambi i co
niugi non deve trovare ostacoli.
Dopo la serie di ammonimenti etici che compone un codice di
comportamento è interessante e originale la conclusione spirituale;
quasi a dire quanto la vita, e nel caso specifico il menage matrimo
niale, abbia come scopo ultimo quello di rendere possibile la comu
nione con Dio.
102
1 PIETRO 3 , 8- 12
s Infine siate tutti concordz: partecipi delle gioie e dei dolori degli
• altrz: animati da a/letto fraterno, misericordiosz: umilz:·
9 non rendete male per male, o (né) ingiuria per ingiuria, ma, al
INTRODUZIONE
103
Sulla lunghezza della pericope non condividiamo la scelta co
munemente accettata di porre la cesura al v. 12 , alla quale tuttavia
anche noi ci adattiamo. È nostro convincimento che il testo si pro
lunghi fino al v. 17 grazie a una buona continuità lessicale - giusti
(v. 1 2 ) , giustizia (v. 14); parlar con inganno (v. 1 0: lalein dolon),
parlar male (v. 16: katalalein); benedizione (v. 9: eulogia) , risposta
(v. 15: apologia) - manifestata nella dialettica «bene - male» e in
terrotta al v. 18 allorché inizia un brano nuovo nel quale, improvvi
sa, diminuisce anche l'alta frequenza delle particelle avversative
presente nel nostro, a conferma stilisti ca dell'opposizione lessi cale
(nei vv. 8-17 si contano 6 de, 3 me, 2 alla, 2 apo sostituti del geniti
vo di separazione, l me de, mentre nei cinque versetti successivi ab
biamo l de e l alla) .
Di questo conflitto si nutre l'intera pericope nella quale è arduo
cogliere il centro. Invece sembra ipotizzabile una divisione in tre se
zioni distinte tra loro: la prima (vv. 8-9) è caratterizzata da cinque ag
gettivi retti dall'imperativo del verbo «essere» inespresso in seconda
persona plurale; la seconda sezione (vv. 10- 12) è una citazione bibli
ca che fa uso di cinque imperativi aoristi alla terza persona singolare;
l'ultima (w. 13 - 17) adopera una varietà di verbi e di persone, con
preferenza per il congiuntivo aoristo e la seconda persona plurale. n
collegamento tra la prima e la seconda parte è garantito dalla confer
ma («infatti») scritturistica ai moniti precedenti. Non meno forte
sembra quello tra la seconda e la terza dove la congiunzione «e» uni
sce lo stesso vocabolo posto alla fine della citazione e all'inizio della
nuova serie di raccomandazioni.
La scelta di mantenere distinta l'analisi delle prime due parti ri
spetto alla terza non rinnega la nostra convinzione circa l'unità della
pericope, né va letta come una concessione per chi esprime opinioni
diverse; più semplicemente vuoi essere un atto di rispetto nei con
fronti di molte versioni autorizzate.
104
COMMENTO
1 05
sto») . TI significato muove da un originario valore medico ove indica
«sanità di viscere» e attraverso il passaggio nell'ambiente biblico nel
quale decisivo è stato l'influsso semitico secondo cui nelle viscere era
posta la sede dei sentimenti, assume il senso di compassione e di mi
sericordia. Neanche il vocabolario corrente ha dimenticato questa
derivazione quando vuoi esprimere i sentimenti più profondi: si pen
si ad esempio all'espressione «odio viscerale». L'ultima virtù in ar
monia con la rarità delle precedenti non si ritrova più in tutto il NT:
derivata dal concetto di povertà di cui usa il vocabolario (tapeinoph
rones è composto di tapeinos, povero, e phronein, pensare), rappre
senta un esempio del capovolgimento dei valori operato dal cristia
nesimo, espressione della paradossalità su cui si muove tutta la lette
ra. Adoperato nella letteratura ellenistica con il significato di «pusil
lanime», oppure detto di chi nutre bassi sentimenti, il termine nel
greco biblico indica il sentimento di modestia che sgorga dalla co
scienza dei propri limiti. A differenza di Paolo che pone l'umiltà in
rapporto all'unità della chiesa al suo interno (cf. Rm 12, 16; E/ 4, 1 -
3 ; Fil 2 , 14) , la l Pt la considera in relazione a tutti gli uomini asse
gnandole una funzione sociale valevole anche fuori dei confini della
chiesa: i cristiani in relazione agli altri uomini non hanno nulla di cui
vantarsi.
.
All ' esortazione positiva espressa dalla quintuplice aggettivazio
ne imperativale fanno seguito altri inviti i cui contenuti dovrebbero
diventare costume nella comunità (v. 9) : il primo di segno negativo al
quale se ne oppone un altro positivo seguito a sua volta dalla moti
vazione del comportamento richiesto e dallo scopo ultimo. Perciò
non siamo lontani dal vero se attribuiamo valore complessivamente
positivo anche alla seconda grande esortazione, sebbene abbia uno
sviluppo antitetico. È un modo di procedere, forse influenzato dallo
stile della diatriba, adottato dalla catechesi parenetica orale che me
glio di altri esprime la conflittualità che la comunità cristiana vive nei
confronti dell'ambiente esterno e forse anche internamente (cf. Gc 3 ,
1s.). La logica del paradosso e della debolezza al posto della vendet
ta e della rappresaglia paludata da giustizia è la stessa praticata da
Gesù alla quale i cristiani sono chiamati, come l'Autore si esprimeva
già in precedenza. In 2 , 2 1 e qui viene ripetuta la medesima frase per
106
ricordare ai cristiani che sono stati chiamati a ciò che in entrambi i
casi viene espresso con il vocabolario dell'ingiuria: al v. 23 applicato
a Gesù che «ingiuriato non ingiuriava», nel nostro passo ai cristiani i
quali non possono rendere «ingiuria per ingiuria». Il comportamen
to dei cristiani deve essere conforme a quello del Maestro.
L'invito negativo mette in parallelo il male con r oltraggio («non
rendete male per male o [né] oltraggio per oltraggio») , tenuti distin
ti dalla congiunzione disgiuntiva «O», mentre il comando positivo
oppone all'ingiuria la benedizione («ma al contrario benedite») : que
sto scontro insistito ed enfatizzato (cf. la presenza della doppia op
pQsizione «al contrario», tounantion, e «ma», de) sul comportamen
to della lingua lascia supporre la presenza di calunnie nei confronti
della comunità da parte di non credenti oppure di liti e di conse
guenti ingiurie tra gli stessi cristiani, comunque sembra certo il rife
rimento a una conflittualità reale espressa soprattutto sul piano ver
bale.
N on poche sono le attestazioni di calunnie riportate dalla lette
ratura dell'epoca: Svetonio (Nero 16) definisce i cristiani che sotto
Nerone sono puniti di morte «seguaci di una nuova e malefica setta»;
Tacito (Annales 15 , 44) ricordandoci come Nerone per scagionarsi
dalle pubbliche voci che lo denunciavano autore dell'incendio di Ro
ma «inventò i colpevoli e sottopose a raffinatissime pene quelli che il
popolo chiamava cristiani e che erano invisi per le loro nefandezze»;
Plinio il Giovane, (Epistulae 10, 96) nel chiedere lumi all'imperatore,
denuncia di non aver «mai partecipato a inchieste sui cristiani: non
so pertanto quali fatti e in quale misura si debbano punire o perse
guire . . . se viene punito il solo nome (di cristiano) , anche se manca
no atti delittuosi, o i delitti connessi a quel nome»; Marco Aurelio
(Ricordi 1 1 , 3) rintraccia nell'atteggiamento cristiano una forma di
ostentazione: «E questa prontezza (a morire) , affinché possa dirsi
proveniente da giudizio, non deve esser prodotto di uno sforzo per
vicace di volontà, come fanno i cristiani; ma deve provenire da retta
ragione e accompagnarsi a profonda gravità, se vuole, per riuscire a
infondere persuasione in altri, deve rifuggire da ogni posa e da ogni
ostentazione»; Luciano di Samosata (Alexander 3 8) accomuna nel
suo riso il cristiano all ' ateo e all'epicureo: Alessandro, imbroglione
107
del Ponto «stabilì ancora alcuni misteri con processioni e preci, e al
tre cerimonie che du ravano tre giorni. Nel primo se ne faceva il ban
do, come in Atene, con queste parole: "Se un ateo, un cristiano, un
epicureo viene a spiare i misteri, fugga via: i credenti nel nostro dio
li celibrino con buon augurio" . Poi cominciava la processione. Egli
andava innanzi e diceva: "Fuori i cristiani ! " . E la moltitudine rispon
deva: "Fuori gli epicurei ! "».
Il fatto che l'Autore senta il bisogno di ribadire un principio
come quello del perdono ampiamente ripetuto e illustrato nella pre
dicazione gesuana ed apostolica, può significare che i destinatari tro
vano difficoltà a praticarlo costantemente. Qui tuttavia viene fatto un
passo avanti: non si considera il perdono semplicemente nella sua ac
cezione passiva di non rendere il male ottenuto ma in quella attiva di
ridare il contrario; nel caso specifico si concretizza nella benedizione
sulla stessa persona che aveva calunniato. n verbo «benedire», dal
profano " parlar bene di qualcuno" registrato nella letteratura greca
ed ellenistica, nella LXX e nel NT passa a significare l'invocazione
della grazia divina (cf. Mt 5 , 44; Le 6, 28) : è quanto rendono i cri
stiani a chi fa loro del male o li calunniano, siano essi non credenti o
fratelli, perché hanno in Cristo il modello. E poiché agli oltraggi ri
spendono con la benedizione, essi riceveranno in eredità la stessa
benedizione che hanno donato.
Oltre ad essere conseguenza del comportamento il testo preve
de che la benedizione che i cristiani sono chiamati a ereditare possa
esserne anche la causa: «siete stati chiamati a ereditare la benedizio
ne; quindi anche voi dovete benedire». Se da questa seconda possi
bile interpretazione sembra messo in ombra il modello di Cristo e
leggermente scollate le due parti del versetto, risulta però evidenzia
ta la prospettiva salvifica finale, formulata in termini di benedizione,
che diventa il fondamento e la ragione per un agire dei cristiani ispi
rato all'amore. Era convinzione già dall'antichità che la benedizione
si trasmettesse per eredità, e poiché nel nostro caso dietro di essa si
nasconde la salvezza, il nostro Autore lega il comportamento dei suoi
destinatari alla salvezza ereditata, con tutta la gratuità che comporta
il concetto di eredità. Come dire che . la salvezza precede l'impegno
storico, non ne è la conseguenza, tuttavia lo invoca.
108
Queste ultime considerazioni nell'evocare concetti paolini, im
pongono la considerazione delle origini e delle tradizioni cui hanno
attinto questi primi due versetti. Gli esegeti sembrano orientati a far
li derivare più o meno direttamente da una tradizione omiletico-pa
renetica che può aver dato origine anche a Rm 12, 9- 1 9 (lo strettissi
mo contatto lessicale è il segno principale) e sul cui sfondo si muove
la più antica tradizione evangelica del discorso del monte. Dunque
un riferimento profondamente gesuano' che, garantendo l' autorevo
lezza dell'Autore, si propone come correttivo all'interpretazione ra
dicale della giustificazione paolina.
I vv. 10- 12 adducono la citazione del Sa/ 34, 13 -17a per spiega
re e confermare quanto è stato detto. Come uno dei poveri d'Israele,
il salmista, con un canto autobiografico, si abbandona fiduciosamen
te a Dio da cui si sente amato, e ne celebra la giustizia come model
lo e fonte del comportamento dell'uomo. Il passo del salmo nella
versione ebraica inizia con un interrogativo retorico (v. 13 ) di chiara
matrice sapienziale cui segue la risposta (vv. 14- 15 ), pure tradiziona
le, commentata da un carme omiletico in due strofe (vv. 16- 1 9.20-
22). La trasformazione dell'interrogativo in una frase affermativo
condizionale e lo slittamento degli imperativi della risposta (vv. 14-
15) dalla seconda alla terza persona («chi vuoi amare la vita e vedere
giorni felici trattenga la sua lingua dal male ... eviti il male, faccia il
bene, cerchi la pace e la segua») non pregiudica la sostanziale
conformità all'antico testo biblico di cui viene riconosciuta l'autorità
che, mentre spiega le parole della l Pt, si offre come ulteriore moti
vazione all'agire cristiano. Se l'utilizzo del salmo propone una so
stanziale continuità spirituale tra i due Testamenti, non si può mi
sconosceme anche l'interpretazione cristiana che sembra concretiz
zarsi in maniera palese attraverso la forma negativa deli' omissione,
espressa nel taglio del v. 17 di cui è trascritta la prin1a parte e taciu
ta la seconda che concerne il giudizio divino contro i malvagi «per
cancellarne daDa terra il ricordo» (v. 17b) : lo spirito del perdono
evangelico ha l'origine in Dio stesso. Questo uso creativo della me
moria appartiene al nostro come a tutti gli scrittori neotestamentari
che alla necessità di cogliere il passato affiancano la prospettiva futu
ra in relazione alle esigenze del presente.
109
La citazione biblica, la più lunga della 1 Pt, impone anche un
rapporto tra i destinatari della lettera con quelli del salmo desiderosi
di amare la vita e vedere giorni buoni, giorni di festa. Le condizioni
iniziali per veder realizzato questo desiderio sono concentrate nell'u
so della lingua come primo strumento del male. Infatti il testo am
monisce di separare, tenere lontana la lingua dal male come se i due
elementi fossero naturalmente uniti. Le «labbra» della frase successi
va è un'espressione che riprende e sottolinea il medesimo concetto.
È quasi un luogo comune dei salmisti parlare dei pericoli legati all'u
so della lingua (cf. Sa/ 5, 9s.; 10. 12. 15 .34.35 .62.73 . 139). In un conte
sto quasi generalizzato di supplica, la parola che si pone altri scopi, e
tutto il vocabolario simbolico ad essa inerente (lingua, bocca, labbra,
gola... ), strurnenti della comunicazione umana fondamentale in una
struttura culturale fondamentalmente orale, è sinonimo di malizia,
menzogna, arroganza, calunnia, denunce, inganni. .. Spesso è il com
pendio di tutte le relazioni umane definite nel loro aspetto più nega
tivo, come rifiuto della parola di verità espressa nell'alleanza. In un
contesto invece più pedagogico, i libri del Siracide e dei Proverbi,
più coscienti dell'importanza sociale dell'uso della lingua, della pre
ziosità di ciò che sgorga dalle labbra per essere consunte, mettono in
guardia dall'abuso di parole. Tuttavia al di là degli schemi in cui si
possono raggruppare questi testi, c'è profonda convinzione nei sa
pienti che il troppo parlare arrechi danno poiché «la lingua è la rovi
na dell'uomo» (Sir 5, 1 1 - 13 ). Di qui la 1 Pt, e più in generale tutta la
letteratura parenetica del NT quando parla della lingua, trae mate
riale, sebbene poi gil:Jngano anche a risultati differenti (cf. Gc l , 19-
27 ; 3 , 1 - 12 ; 4, 1 1-12).
La seconda e la terza sono clausole generiche, perciò molto co
muni. La seconda concerne la fuga dal male e il compimento del be
ne (cf. Sa/ 37, 27; Prv 3 , 7; 13 , 19; 16, 6. 17; Gb 28, 28; Am 5, 14- 15;
Mie 6, 8), mentre la terza riguarda l'invito alla ricerca della pace,
considerata sempre più nella sua valenza attiva (cf. Prv 2 1 , 2 1 ; Is 5 1 ,
l ; Mt 5 , 9) .
La citazione del salmo si conclude con la motivazione del com
portamento richiesto e con il conseguente passaggio dal discorso eti
co a quello teologico: nella versione anticotestamentaria, sia greca
1 10
che ebraica, in quattro versetti (vv. 16-19) altrettante volte viene ri
petuto il nome di JHWH che scandisce ogni distico. Nel testo petri
no il numero si dimezza pur restando una presenza avvolgente, sia
positivamente, in qualità di amico, nei confronti dei giusti dei quali
si rivela il soccorritore, sia negativamente come nemico contro colo
ro che fanno il male. In altri termini Dio è il referente della comuni
cazione di tutti coi quali intrattiene un rapporto adeguato con l'or
gano o la parte del corpo appropriati: gli occhi e le orecchie, rispet
tivamente simboli dell'amore, della premura e della disponibilità al
l' ascolto, sono rivolti ai giusti, mentre il volto nella sua intierezza, ca
p_ace di manifestare tutta l'ira divina, contro i peccatori.
A conclusione di questi ultimi tre versetti una certa insoddisfa
zione impone un atteggiamento critico nei confronti della funzione
ermeneutica che assume la citazione anticotestamentaria nelle inten
zioni del testo; in realtà essa si pone al di sotto delle possibilità teo
logiche delle precedenti parole petrine che pure vorrebbe spiegare.
Resta tuttavia lo sforzo di una rilettura cristiana del salmo insieme al
lo spirito di continuità con la precedente parola divina, nonché il bi
sogno di autorevolezza che caratterizza la parenesi apostolica e la let
teratura pseudoepigrafica.
111
l PIETRO 3 , 13 - 17
INTRODUZIONE
1 12
COMMENTO
1 13
esprimere ciò che è meramente pensato, per ciò viene improntata
una forma del verbo rara nel greco del NT, l' ottativo potenziale. La
frase comunque non è del tutto chiara né manca di suggestione per
il modo come è formulata: infatti l'uso del presente evidenzia la si
multaneità temporale delle persecuzioni e la bontà della sofferenza
di cui sono vittima i cristiani mentre la costruzione «se anche dovete
soffrire» mette in rilievo il carattere ipotetico della considerazione.
Tuttavia l'ipotesi non doveva sembrare irrealizzabile se dopo la cau
tela con cui viene espressa la possibilità della sofferen za l'invito con
tinua con un'altra avversativa seguita da due negazioni con i verbi e
il sostantivo appartenenti al medesimo gruppo semantico della pau
ra: «ma per la paura di loro non vi spaventate né vi turbate». Insie
me a phobos e a phobein si ha il verbo tarassein la cui radice significa
«strappare dallo stato di equilibrio e portare in un vortice, mettere in
disordine, turbare». Nel NT ricorre diciassette volte con il senso let
terale di «scuotere» (cf. Gv 5, 4.7) o traslato di «provocare un intimo
turbamento» (cf. At 17 , 8. 13 ) . Il passivo, come nel nostro caso, ren
de un turbamento psicologico inteso generalmente in senso negativo
di «spaventarsi» (cf. Mt 14, 26; Mc 6, 5; Le l , 12; 24, 38) . Da ciò cre
diamo poter dedurre che la comunità nutrisse una reale paura «di lo
ro» identificati facilmente nei persecutori. Più difficile è conoscere se
il pronome di terza persona abbia valore soggettivo o oggettivo, cioè
se i cristiani non debbono aver paura del timore che essi diffondono,
o non debbono lasciarsi spaventare dal timore che possono provare
per loro. Ciò tuttavia non impone di pensare alle persecuzioni istitu
zionali già in atto; se così fosse, difficilmente si potrebbero spiegare
gli inviti alla sottomissione nei confronti delle istituzioni: «State sot
tomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re co
me sovrano, sia ai governanti come ai suoi inviati per punire i mal
fattori e premiare i buoni ... Onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio,
onorate il re» (2 , 13 - 17).
Ai comandi negativi seguono quelli positivi posti al centro della
sezione (v. 15) , alla paura per i persecutori viene risposto invitando i
destinatari a riconoscere e adorare il Signore nella vita che conduco
no giorno per giorno: il cuore infatti rappresenta l'esistenza persona
le dell'uomo, la sua essenza. n plurale generico <<loro» è sostituito dal
1 14
singolare specifico «il Signore Gesù Cristo» mentre l'adorazione op
ponendosi alla paura assume anche la sfumatura di affidamento, di
serena fiducia nel Signore col quale quotidianamente il cristiano si
rapporta. Filtrato da questo riconoscimento fiducioso, lo stesso vo
cabolo che nel v. 14 indicava la paura, al v. 16 diventerà «rispetto».
E se il contesto persecutorio impone all 'Autore l'uso del termine
«apologia», alla luce di questa interpretazione non va inteso nel sen
so preciso di difesa davanti ai tribunali ma in quello più generico di
risposta: i cristiani «sono pronti sempre a rispondere a chiunque do
mandi ragione» della loro speranza. Se nulla fino a questo momento
velia lettera induceva a pensare a una persecuzione vera e propria,
ora, oltre all'invito alla sottomissione che, comunque lo si legga, non
lascia ipotizzare un tempo di persecuzione istituzionalizzata, qui il
carattere universale dell'avverbio «sempre» e dell'indefinito «chiun
que» rende maggiormente generico il monito inquadrando la situa
zione dei primi cristiani in un clima di ostilità generalizzata. I pagani
devono trovare per lo meno singolare che i cristiani non partecipino
alle orge popolari, ai sacrifici dovuti agli dei e alle feste civiche. Di
versamente dalle sette che coltivavano l'esoterismo, la 1 Pt dà una
consegna positiva: ogni cristiano in ogni circostanza deve essere ca
pace di giustificare, di rendere credibile . e ragionevole la speranza
che lo anima. La prontezza con la quale è chiamato a rispondere è un
imperativo morale. La vita cristiana dunque viene considerata nella
prospettiva di una speranza ragionevole, logica, non campata per
aria, che ha le proprie radici anzitutto dentro ciascuno dei credenti,
nella propria fede individuale e quindi anche all'interno della comu
nità intera: il pronome en hymin può avere doppio valore, significa
re «fra voi» indicando la comunità o «in voi» con riferimento alle
singole persone; sebbene riteniamo più pertinente la seconda ipotesi
reputiamo altresì possibile la presenza di entrambe poiché la secon
da non nega la prima ma la accetta come propria conseguenza. In al
tre parole la speranza ragionevole, che è l'essenza stessa della fede,
rappresenta la prospettiva originale del cristiano rispetto al pagano.
Ciononostante il credente presenta questa sua peculiarità, senza
presunzioni di sorta, «con umiltà e rispetto, con piena coscienza»: il
v. 16, cioè, della risposta cristiana indica il modo. Il primo sostantivo
1 15
ne dice l'umiltà e la dolcezza: il vocabolo nel greco profano è l'op
posto dell'irascibilità, come esplicitamente espresso nella lettera di
Giacomo ( Gc l , 19s.), e consiste nell'essere conciliante, indulgente e
ben disposto. La versione greca dell' AT alla docilità aggiunge anche
la connotazione della debolezza che resta nel NT: si pensi alla mitez
za e all'umiltà con cui il Nazzareno si presenta (cf. Mt 1 1 , 29) o alla
regalità mansueta e pacifica di Gesù che entra a Gerusalemme caval
cando un'asina o ai miti della terza beatitudine (Mt 5, 5). La secon
da caratteristica, sebbene espressa con lo stesso termine della paura
di cui abbiamo detto già al versetto precedente, qui assume una con
notazione chiaramente diversa. Il vocabolo presenta un'oscillazione
semantica quanto meno interessante: all'inizio s'invitano i destinatari
a non temere i nemici ai quali però si deve rispondere con dolcezza
e timore. Se nel primo caso si tratta della paura che suscita il perse
cutore, nella seconda ricorrenza oltre al comune significato di rispet
to dovuto a tutti, e richiamato precedentemente (cf. 2, 17), sembra
difficile poter spingere le interpretazioni.
Lo scopo di questo atteggiamento è quello di poter controba t
tere con «la buona condotta in Cristo» le calunnie di cui vengono
fatti oggetto i cristiani. Come dire che la ragionevolezza della spe
ranza passa attraverso l'azione di Cristo. Questa formula di sapore
paolina - non si trova prima di Paolo, il quale la utilizza centoses
santaquattro volte, spesso in Gv e tre volte nel nostro scritto (3 , 1 6;
5,10. 14) - che richiama la menzione precedente di Gesù riconosciu
to come Signore, indica quanto l'azione dei cristiani sia da ritenersi
1 16
cotomia «fare il bene l fare il male» espressa pure al v. 1 1 , con l'evi
dente preferenza per la prima soluzione, anche se questa comporta la
sofferenza: è meglio patire un torto piuttosto che farlo. Esposto in
maniera simile anche in 2, 20 è un principio conosciuto pure dall'e
tica profana (cf. Platone, Gorgia 508c; M.T. Cicerone, Tusculanae 5,
56) , però qui viene esposta come volontà divina. Questo trasferi
mento dal profano al divino impone anche una considerazione sulla
concezione che l'Autore ha dell'ispirazione: leggendo la sapienza
umana del passato dentro il contesto cristiano, non ha fatto altro che
pensare la storia come espressione attuale della volontà di Dio, rea
llzzazione del progetto creaturale. Si ha la sensazione che il testo si
spinga dunque ben oltre il semplice dialogo, per quanto coraggioso e
aperto possa essere, con l'ambiente profano e la cultura che lo rap
presenta.
1 17
l PIETRO 3 , 18-22
1s Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto
per gli ingiust� per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne,
ma reso vivo nello spirito.
19 E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che
attendevano in prigione;
2 o essi un tempo non avevano ubbidito quando la magnanimità di
INTRODUZIONE
1 18
«bene/male») è assente. È altrettanto difficile capire dove termina:
molti esegeti pensano alla fine del c. 3 (v. 22) , ma in 4, l oltre alla
presenza della consecutiva iniziale («dunque») a favorire una certa
continuità, vengono ripresi gli stessi vocaboli di 3, 1 8; né si può pen
sare a un'inclusione che faccia terminare il brano perché 4, 2 apre
con una finale che rinvia al versetto precedente, mentre 4 , 6 ripren
de l'opposizione «carne - spirito» già incontrata in 3 , 18 e 4 , l e in
nessun altro passo della lettera; in particolare la ripetizione di una
frase molto simile in 3, 18 e 4, 6 lascia aperta la possibilità di un'in
clusione (3 , 1 8: «messo a morte nella carne ma reso vivo nello spiri
to»; 4 , 6: «perché siano giudicati secondo gli uomini nella carne, ma
vivano secondo Dio nello spirito») . Da questi dati si potrebbe ipo
tizzare una motivazione teologica racchiusa in 3 , 1 8 4, la che pre
-
1 19
espresso da due prospettive diverse. Lungi dall'essere annullato lo
spessore teologico della nostra pericope, esso funziona sia per quan
to precede che per ciò che segue: per il primo funziona da motiva
zione teologica, per il secondo da giudizio teologico (cf. 4, 6).
Dopo l'organizzazione generale, altro problema importante è
quello relativo alla formazione della pericope. Infatti già a una prima
lettura è facile notare una certa discontinuità tra i vv. 18.22 e 19-2 1 :
i due esterni sono caratterizzati dall'andamento ritmico e dalla corri
spondenza simmetrica di forme particolari assenti nei versetti centra
li. Ancora: mentre Cristo è il soggetto dei vv. 18- 19a.22, nei vv. 19b-
21 i soggetti variano e il tema dominante è scandito dal vocabolario
della salvezza. Parallelamente alla discontinuità si affaccia anche una
coerenza redazionale fondata sulla presenza delle proposizioni relati
ve che saldano le sottosezioni (vv. 19a.20b.2 1a.22.) e sulla tematica
sviluppata per contrasto. Quest'ambiguità ha favorito diverse inter
pretazioni, anche se oggi la più accreditata sembra essere quella che
vede i due versetti esterni appartenenti alla tradizione con dotte po
stille dell'Autore al centro. Quale che ne sia la genesi o la ipotetica
forma originaria, per altro molto difficile da stabilire, sembra abba
stanza chiara la sua appartenenza alla tradizione liturgica, forse a un
formulario che l'Autore ha usato come contributo per il suo scopo,
alla stregua, dal punto di vista formale, delle citazioni scritturistiche.
COMT\,IENTO
120
zione di Cristo, unica nel tempo, con una portata salvifica esauriente
per tutti gli uomini. Nessuno in seguito potrà ripeterla per conto
proprio. La morte di Cristo «per i peccati» richiama il sacrificio «per
il peccato» di Lv 5, 7; 6, 23 ; 14, 1 9, ecc. n plurale del nostro testo
serve probabilmente a indicare l'universalità dell'espiazione. Dall'an
tica affermazione l'Autore trae un'idea nuova: il giusto è morto per
gli ingiusti. A questa, la finale aggiunge un'ulteriore interpretazione:
questa morte, unica, ha riaperto l'accesso a Dio. Il verbo «ritornare»
ha un valore anzitutto liturgico-cultuale, tant'è che nei LXX il verbo
indica la presentazione cultuale a JHWH: il culto conduce sia gli uo
mini che gli animali a Dio. Un altro significato, questa volta di natu
ra forense, intende il Cristo che conduce l'uomo davanti al giudice
per giustificarlo (cf. Rm 8, 33 s.). Nel nostro caso le due valenze non
sembrano contraddirsi.
Segue, alla fine di questo v. 18, un paralldismo antitetico: «mes
so a morte nella carne ma reso vivo nello spirito». Sebbene i termini
siano presi in prestito, l'Autore ripropone con una formula originale
il credo antico che proclamava la morte e resurrezione di Cristo (cf.
Rm l , 3 -4; d. l Tm 3 , 16). I due participi aoristi passivi <<messo a
morte» e «reso vivo» si corrispondono reciprocamente e antitetica
mente (men . . . de), e precisano in quale condizione umana e divina il
Cristo ha compiuto la redenzione. Il secondo participio accentua in
modo arcaico l'opera di Dio e delinea la resurrezione di Gesù con un
termine generalmente inu�itato, il che significa che la lettera impiega
formulazioni antiche. n problema sta nella interpretazione dei due
dativi «nella carne . . . ·nello spirito» che possono intendersi o in senso
causale, e allora Cristo sarebbe messo a morte a causa della carne e
vivificato in virtù dello spirito, o awerbiale, nel quale caso verrebbe
ro a dire che Cristo fu n1esso a morte nella sfera della carne e vivifi
cato in quella dello spirito. Forse ancor più interessante è l'ipotesi
dei dativi non omogenei, resi tali dall'antitesi: il valore avverbiale si
adatta bene alla carne mentre lo spirito è meglio spiegarlo con il da
tivo di causa. La carne allora non sarebbe un principio attivo, ma
quello della caducità che l'uomo ha in comune con tutto il creato;
per cui la precarietà dell'uomo verrebbe contrapposta alla potenza
divina, entrambe presenti nel Cristo.
12 1
La salvezza recata dall'evento-Cristo pur restando nella storia
supera i limiti del tempo e dello spazio nella visione dei vv. 19-2 1 col
legati al precedente mediante un relativo di non facile interpretazio
ne: riferirlo al sostantivo che precede immediatamente sembra la so
luzione più plausibile. Ciò significa che Cristo, vivificato nello spiri
to, si recò dagli spiriti incarcerati le cui identità hanno creato non
pochi problemi. Sebbene si abbia una ridda di ipotesi, è opportuno
in questa sede ridurle alle due essenziali: per una si tratta delle ani
me degli uomini, per l'altra sono invece gli angeli. Alcune precisa
zioni filologiche possono aiutarci a mettere i primi passi. Nel NT per
indicare le anime degli uomini non viene mai usato il vocabolo «spi
riti» in termini assoluti; invece è adoperato per gli «angeli», le «po
tenze celesti» e più in generale per gli esseri spirituali. D'altra parte
se «spiriti» fosse riferito alle anime dei morti si porrebbe come legit
tima la domanda del perché Cristo abbia annunciato qualcosa solo ai
contemporanei di Noè (vv. 20-2 1 ) . Neanche il verbo usato è «discen
dere» come se avesse fatto una discesa agli inferi, ma una forma par
ticipiale di «andare» come nell'ultimo versetto del c. 3 ove è palese
la sottomissione degli angeli e delle potenze: «il quale (Gesù Cristo)
è alla destra di Dio dopo essere andato in cielo e aver ottenuto la so
vranità sugli angeli, i Principati e le Potenze». Al v. 19 il luogo dove
è andato non viene espresso, ma poiché si parla della stessa persona
e si usa lo stesso verbo (modo e tempo) del v. 22 ove viene esplicita
mente indicato il cielo come luogo di destinazione, si può supporre
la medesima meta anche nel nostro versetto. Se si accetta anche al v.
19 l'ascesa al cielo si comprende meglio la prigionia degli spiriti e la
loro relazione con il diluvio (vv. 20-2 1 ) perché in sintonia con le con
cezioni diffuse neli' ambiente della l Pt e documentate dal libro di
Enoch secondo cui gli angeli ribelli hanno corrotto gli uomini rive
lando loro segreti divini allorché si sono uniti alle figlie degli uomini:
«Ed ora di' agli angeli vigilanti che prima stavano in cielo e ti hanno
mandato a pregare in pro' loro: "Voi stavate in cielo e le cose miste
riose non vi erano state rese manifeste. Avete appreso un segreto
abominevole e, nella durezza del vostro cuore, lo avete raccontato al
le donne e, per questo segreto, donne e uomini fanno aumentare la
cattiveria sulla terra. Per voi dunque non vi sarà pace"» (16, 3 ) Que-
.
122
sto testo della metà del I secolo a.C. riprende il passo di Gn 6, 1-4
cui segue immediatamente il racconto della punizione divina espres
sa nel diluvio. Facile perciò è risultato al nostro Autore il collega
mento dell'allusione enochica attraverso Noè, al battesimo. Gli spiri
ti «prigionieri» del tempo di Noè sono dunque quegli angeli che si
sono ribellati alla volontà divina e hanno introdotto il peccato nel
mondo. Mentre in carcere, in un cielo intermedio, essi attendono il
giudizio, Cristo sale per incentrarli.
La concezione cosmologica sottesa a questo racconto, comune
al tempo della 1 Pt, viene ripresa per porla come sfondo descrittivo
di un'affermazione teologica, la vittoria di Cristo su tutte le potenze
del male: «Ascolta, dunque ciò che ti dico dei cieli che ti sono stati
mostrati. Quello più basso, per questo ti appare triste, perché vede
tutte le ingiustizie degli uomini. Esso tiene pronti fuoco, neve e
ghiaccio per il giorno del giudizio che sarà nella giustizia di Dio. In
esso infatti ci sono tutti gli spiriti delle punizioni, per fare vendetta
degli uomini. Nel secondo ci sono le potenze degli accampamenti, gli
angeli schierati a battaglia per il giorno del giudizio, per far vendetta
degli spiriti dell'inganno e di Beliar. Al di sopra di loro stanno i san
ti. Nella sede poi più alta di tutte c'è la grande gloria che è al di so
pra di ogni santità. Nel cielo sotto di esso ci sono gli arcangeli, che
prestano il loro servizio e placano il Signore per tutti i peccati di
ignoranza dei giusti. Offrono al Signore un aroma profumato, un sa
crificio spirituale e incruento. Nel cielo sotto ci sono gli angeli che
portano le risposte agli angeli del volto del Signore. In quello ancora
sotto ci sono i troni e le potenze, in esso si inneggia incessantemente
a Dio» (Testamento di Levi 3 , 1-8; cf. 2 Enoch 7, 1 -3 ; 10, l ; Ascen
sione di Isaia 9- 1 1 ) .
n messaggio recato, su cui pure s i è molto discusso, è dunque la
proclamazione del giudizio di condanna agli spiriti ribelli; non l'an
nuncio del vangelo di Cristo, ma la sua vittoria, e quindi la condan
na del male e di coloro che lo perseguono. Sebbene il verbo «an
nunciare» quando viene formulato senza complemento oggetto come
nel nostro caso possa indicare la proclamazione del messaggio della
salvezza (d. Mt 1 1 , l ; Mc l , 38s.; 3, 14; l Cor 9, 27 ) , qui la regola
sembra quanto meno relativizzata dal parallelo del v. 22 in cui il pas-
123
so viene ripetuto nei suoi termini essenziali e il Cristo è presentato
nella veste di giudice. La proclamazione del suo trionfo «espresso
con le immagini dell'epoca, di sapore mitico, serve a fondare la spe
ranza e la fiducia dei cristiani in mezzo alle prove di un mondo osti
le e ribelle a Dio. Essi sono chiamati per mezzo della perseveranza a
condividere la vittoria di Cristo già completa e definitiva anche su
quelle potenze spirituali che stanno all'origine della ribellione degli
uomini i quali rifiutano la magnanimità e la pazienza di Dio prima
del giudizio definitivo» (Fabris, 244-245 ).
L'originalità di questo testo sta nell'aver colto nel diluvio un'im
magine del battesimo. Già simbolo del giudizio divino (cf. Mt 24,
38s.; Le 1 7 , 2 6s . ; 2 Pt 3 , 6) , come Noè lo è dei giusti scampati alla
condanna, queste tipologie si erano sviluppate nel giudaismo e nel
l'AT. Giuseppe Flavio ce ne offre una sintesi: «Molti angeli di Dio si
unirono a donne e generarono figli orgogliosi, disprezzanti ogni
virtù, pieni di fiducia nella propria potenza; le stesse cose che i Gre
ci attribuiscono ai giganti sono tramandate a proposito di costoro.
Noè era fortemente indignato della loro condotta, non vedeva di
buon occhio i loro convegni, li esortava a cambiare i loro ragiona
menti e le loro azioni . . . Dio amava Noè a motivo della sua giustizia e
condannò quelli, non solo per la loro malizia, ma anche perché volle
perdere tutto il genere umano e iniziarne un altro nuovo, immune da
malizia, e accorciare gli anni della vita umana, riducendola dai tanti
che vivevano prima a soli centoventi anni; e così sommerse l'arida
terra nel mare» (Antichità giudaiche l , 3 , 1s.; cf. Eb 1 1 , 7; 2 Pt 2 , 5).
Come a i flutti distruttori si oppone l'umile legno dell'arca (cf.
Sap 10, 4 ) , l'alleanza stipulata con Noè diventa la salvezza del popo
lo in esilio (cf. Is 54 , 9s. ) . Ora questo stesso diluvio si ripropone co
me simbolo del giudizio ultimo di Dio per la condanna o la salvezza
delle quali è importante notare la contemporaneità, espressa dall' av
verbio «un tempo» e dal genitivo assoluto «mentre veniva costruita
l'arca». La medesima acqua che aveva punito gli empi con la morte
ora dà scampo grazie all'arca nella quale trova rifugio un numero esi
guo di persone. La famiglia di Noè nell'interpretazione del nostro
Autore, e nell'immaginario dei suoi destinatari, è la sparuta comunità
dei cristiani alla quale viene annunciata la salvezza definitiva. Protet-
124
ta nell'arca, dall'acqua del diluvio, sebbene piccola, la nuova comu
nità contiene in sé la pienezza e la realizzazione prefigurate nello
stesso numero dei propri componenti ( 8 = 7 + l ) , cifra pasquale per
eccellenza sottolineata dalla menzione della resurrezione di Cristo.
Grammaticalmente il greco di'hydatos si può intendere sia in senso
locale, cioè «passando attraverso l'acqua», sia strumentale «median
te l'acqua». La prima spiegazione si richiama a una leggenda della
Mishna secondo cui Noè sarebbe rimasto in terra per esortare a en
trare nell'arca fino a quando l'acqua lo raggiunse alle ginocchia, allo
ra soltanto anche lui avrebbe raggiunto l'arca. L'interpretazione stru
mentale, certamente meno erudita, è quella più accreditata dagli stu
diosi e forse da preferire.
n battesimo assurge a particolare interpretazione tipologica:
viene chiamato «antitipo» nel senso che unisce il modello e l'opposi
zione, l'immagine del quadro davanti all'artista che ne fa una copia e
la reinterpretazione che produce una realtà per contrasto alla figura.
Non rende ragione alla complessità del testo parlare di semplice
spiegazione tipologica, che mutua le proprie possibilità dalla fede bi
blica, assai comune nel tardo giudaismo: ciò che è avvenuto una vol
ta è immagine e tipo dell'evento attuale. Qui invece i rapporti s'in
vertono, non l'antico è tipo del nuovo ma il nuovo prefigura il vec
chio; la salvezza operata dali' acqua del diluvio corrisponde al piano
divino la cui spiegazione ultima è l'evento Cristo. La storia dell' AT
cioè è stata scritta da Dio avendo presente il NT e ·non viceversa: l'o
ri�inale è da ricercarsi qui (cf. 5, l 0- 1 1) . Come dire che il passato
nella categoria teologica è possibile leggerlo e comprenderlo solo con
l'originale in mano, cioè con il presente nel quale viene colto l'inizio
del futuro salvifico. E il presente «salva», congiunto all' awerbio
temporale «ora» (v. 2 1 ) , sancisce l'incontro tra la salvezza introdotta
nella storia dall' accadimento storico di Cristo e l'evento escatologico.
In questo lasso di tempo che corre tra le due estremità, i cristiani gio
cano la loro salvezza nel battesimo che «non è rimozione della spor
cizia della carne>> (v. 2 1 ), di impurità esterne le quali, come aweniva
per i riti di abluzione giudaici, bastava un bagno d'acqua per cancel
larle; qui il battesimo è inteso come mutamento interiore in cui inte
ragiscono azione divina e risposta umana.
125
Ha fatto problema agli studiosi «l'impegno di salvezza rivolta a
Dio da parte di una buona coscienza»: nonostante possa avere anche
valore soggettivo, di impegno che proviene da una coscienza integra,
il parallelismo con «spogliarsi delle sozzure della carne» orienta la
preferenza verso il senso oggettivo di «impegno di salvezza rivolta a
Dio per ottenere un retta coscienza>>.
Altro dilemma è stato quello posto dalla traduzione di un voca
bolo che non ricorre più nel NT, mentre nella grecità classica ed el
lenistica significa normalmente «domanda» ma allo stesso tempo è
affermato nel lessico giuridico come «impegno». Queste due solu
zioni si ritrovano anche nei commentari: per alcuni che ne desumo
no il senso dal pensiero giuridico-contrattuale significa «impegno»
identificando così il battesimo come un impegno. Altri traducono
con «domanda» e intendono il battesimo come una preghiera. Tutta
via l'accezione legale sembra prevalere per l'uso quasi tecnico del
verbo nei contratti, nelle due citazioni anticotestamentarie in cui ri
corre (Sir 33 , 3 ; Dn 4, 7), nei papiri fin dal l70 a.C.; allo stesso tem
po mai nel NT il battesimo è stato considerato una preghiera, invece
ha sempre richiesto un impegno. Più esattamente il termine greco
corrisponde alla stipulatio dei latini: l'impegno reso sotto forma di ri
sposta alla questione posta dall'altra parte. Un significato del genere
si armonizza con la concezione della coscienza che si trova al v. 16.
Contestualmente all 'impegno umano c'è l'azione di Dio per
mezzo della risurrezione di Cristo il cui richiamo serve a porre al
centro la persona attraverso cui passa il giudizio definitivo sulla sal
vezza (v. 22). In una situazione storica difficile per i cristiani è moti
vo di non poco sollievo sapere che Gesù Cristo è il padrone del mon
do come confermano le espressioni quali «alla destra», «salito al cie
lo», o la sottomissione di angeli, principati e potenze. Tuttavia l' at
tenzione ultima, più che alle affermazioni della grandezza del Signo
re, è rivolta alla sofferenza di Cristo come indica l'inizio del c. 4 e
quelle stesse espressioni, del nostro versetto, che ormai formavano
un corpo unico con l'annuncio della risurrezione di Cristo. Questo
126
risorto, ma anche perché il suo andare al cielo è modello dei cristia
ni. «Andare al cielo» sembra rinviare al precedente aspetto dell'a
scensione piuttosto che spiegare un aspetto del tema della destra. In
fatti la costruzione - il participio poreutheis con eis seguito da accu
sativo - fa riconoscere un movimento precedente lo stato stabile del
la presenza attuale alla destra di Dio (in 3 , 19 serviva ad esprimere
una successione di avvenimenti). Ora il contesto parenetico favorisce
l'applicazione di questo movimento non solo a Cristo ma anche ai
cristiani: il primo è modello dei secondi nella sofferenza e nella glo
ria. Il v. 22 esprime dunque in una linea parenetica il tema della de
stra di Dio come in Col 3 , l in cui, a differenza del nostro versetto,
veniva esplicitata la dimensione di simbolo e l'alto era la direzione
verso cui volgere: «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose
di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio».
.
127
l PIETRO 4, 1 -6
1 Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi de
gli stessi sentimentz:· perché chi ha sol/erto nella carne ha rotto col
peccato,
2 per non servire (più) alle passioni degli uominz: ma alla volontà
vi e i mortz:·
6 per questo infatti anche ai morti è stata annunciata la buona
INTRODUZIONE
128
mento al giudizio ultimo, esplicitamente (4, 5 .7 . 13s.; 5 , 1 .4.6) o im
plicitamente (4, 9. 14; 5 , 10) , con il vocabolario adeguato, assente
prima.
Il nostro brano, aperto e concluso dalla «carne» (�. 1 . 1 .2.6),
sembra organizzato in due momenti segnati dal cambio di personag
gi: il primo (w. 1-3 ) direttamente indirizzato ai destinatari in forma
di ammonimento, con il verbo reggente all'imperativo («armatevi»),
il secondo invece (vv. 4�6) passa dalla seconda alla terza persona
(«trovano strano ... renderanno ragione») individuata in un non pre
cisato antagonista («quelli») comparso improvvisamente ma facil
mente identificabile nell'ambiente circostante ostile. La continuità
delle due parti è stringente: alla condotta raccomandata ai cristiani
segue la reazione dell'ambiente che sebbene li discrimini, dovrà ren
dere conto nel giudizio definitivo. Perciò anche questa seconda par
te può essere letta indirettamente come un invito ad aver coraggio
perché appunto il giudizio finale renderà ragione a chi non si è
conformato ai dettami del modo comune di vivere.
n discorso inizia con tre paralleli concatenati e conclusi da
un'indicazione che lungi dall'essere meramente temporale offre una
chiave ermeneutica, non l'unica, a un vocabolo importante («la car
ne») che ricorre 3 volte nei primi due versetti. TI primo parallelo re
laziona la sofferenza di Cristo con i sentimenti dei destinatari («Poi
ché dunque Cristo ha sofferto nella carne l anche voi armatevi dello
stesso sentimento»), il secondo ne spiega il motivo («perché chi ha
sofferto nella carne l ha rotto con il peccato»), il terzo ne indica lo
scopo («per non servire alle passioni degli uomini l ma alla volontà
di Dio»). Conclude la prima parte l'indicazione del tempo della sof
ferenza («il tempo che gli rimane nella carne») e la lista dei vizi da
abbandonare.
La seconda parte si sviluppa in tre movimenti: anzitutto spiega
con il passato le reazioni dell'ambiente circostante dinanzi a un simi
le atteggiamento dei cristiani; poi anticipa il futuro giudizio che non
risparmierà i loro connazionali; infine viene data ragione dell'annun
cio rivolto anche ai morti.
129
COMMENTO
130
donando quelle dell'iniquità. Tuttavia a differenza di Rm nella l Pt
non viene esplicitato un rimando al battesimo anche se l'evento bat
tesimale è stato ricordato poco prima ( l Pt 3 , 2 1 ) .
D senso causale dei due dativi («carne») contribuisce a rafforza
re l'idea che la condizione di sofferenza sia necessaria per rompere
definitivamente col peccato. Infatti se, come già accennato nell'intro
duzione, il secondo parallelo pone un rapporto di causalità tra sof
frire nella carne e rompere con il peccato, è ipotizzabile che l'Auto
re pensi la sofferenza con funzione catartica, come elemento contra
rio al peccato. La carne dunque assumerebbe lo stesso valore del
campo in uno scontro tra due opposte fazioni. Delle quattro presen
ze nei sei versetti della pericope, sempre al dativo, mai si relaziona
direttamente con il peccato, come avviene in alcuni testi paolini ove
i due sostantivi quasi s'identificano. Il contesto petrino che suggeri
sce un significato più neutrale, fa da sfondo a un avvenimento posi
tivo: un cambiamento di vita.
Altro problema che questo primo versetto propone è costituito
dall'identità di «chi ha sofferto nella carne» e quindi «ha rotto defi
nitivamente col peccato»: alcuni esegeti hanno preferito lasciare l'e
spressione ambigua, che meglio si concilierebbe con il contesto esor
tativo della lettera, per indicare sia Cristo che l'uomo. In tal modo
colgono sia il dono del primo sia l'impegno del secondo. Cristo at
traverso la sua solidarietà ha liberato la condizione umana dalla col
pa; a sua volta il cristiano è chiamato a impegnarsi per rompere con
il peccato per addivenire a quella libertà cui aspira. Ma la portata pa
renetica dell'espressione si coglie anche nel modello offerto da «co
lui che ha sofferto nella carne»: il modello è Cristo e il testo lo indi
ca non solo in maniera enfatica all'inizio del versetto ma anche attra
verso il rapporto che corre tra la sofferenza di Cristo e la volontà di
Dio che troveremo al v. 2 con un'allusione non troppo oscura alla
preghiera del monte degli Ulivi (Le 22 , 3 9-46), dove pure la soffe
renza del Figlio è motivo imprescindibile per compiere la volontà del
Padre.
Dinanzi a tanto modello e alla volontà divina che ha voluto un
simile atteggiamento i destinatari non possono che assumere un im
pegno adeguato, il cui scopo è quello di cambiar padrone: «per non
13 1
servire alle passioni ma alla volontà di Dio», recita il v. 2 dopo la pre
posizione finale che lo introduce. La frase si sviluppa per opposizio
ne: ciò a cui il cristiano deve sottrarsi si scontra con la realtà cui è ne
cessario che aderisca. La parte negativa da evitare è costituita dalla
cattiveria dell'uomo espressa nelle «passioni» esemplificate poi (v. 3 )
nell'elenco dei vizi con i quali si descrive la vita della società pagana,
quella positiva dall'adesione alla volontà di Dio qui identificata in
una vita senza peccato. L'adeguamento al volere divino è da vivere,
non è una confessione di fede ma un atteggiamento che i cristiani so
no chiamati a manifestare nella loro vita e sulla propria pelle. Per
esprimere questo concetto l'Autore usa per la terza volta il termine
«carne» nella sua accezione positiva di terra: nella condizione della
carne, cioè sulla terra si operano queste scelte, è qui che si gioca la
salvezza nel «tempo che gli rimane da vivere nella carne». Quest'ul
tima espressione ipotizzando una fine non imminente, conferma la
speranza cui l'Autore ha più volte richiamato nel corso dello scritto.
Tuttavia non è una fiducia incondizionata nell'uomo, sembra
precisare lo scrittore sacro. Infatti non si può non notare come emer
ga una visione radicale la quale coglie nel solo rapporto di fede il
motivo di una vita retta. L'accentuazione delle passioni indistinta
mente in tutti coloro che non sono battezzati lascia intuire che le pa
role non siano da prendere alla lettera quanto a partire dal progetto,
infatti anche lo stoicismo e l'epicureismo invitano a una vita etica
ineccepibile, ed è poco probabile che l'Autore non ne sia venuto a
conoscenza; d'altra parte il battesimo non salvaguardava i cristiani
dai peccati individuali. Allora l'atteggiamento radicale si giustifica
solo a partire dallo scopo che muove il comportamento.
Il futuro con le sue prospettive nuove si oppone al tempo tra
scorso del quale s'invoca la fine al v. 3 . n tempo passato viene carat
terizzato dalla soddisfazione della volontà dei gentili contrapposto al
tempo presente nel quale invece s'impone l'ubbidienza alla volontà
di Dio (v. 2 ) . Ai gentili piace «sprofondare fino al collo» in dissolu
tezze, passioni, ecc. Il verbo che letteralmente significa «compiere un
tragitto, allontanarsi ... », qui usato al participio perfetto evoca l'impe
gno faticoso per giungere a tanta destinazione. L'elenco dei vizi rit
mato in forma incalzante senza congiunzione serve sia a non dare
132
troppa importanza ai singoli elementi sia ad offrire l'idea della vastità
del vizio (cf. Ga/ 5 , 19-2 1 .22-23 ; 2 Tm 3 , 2-5 ) . Solo l'ultimo della se
rie, l'idolatria, è munito della congiunzione resa necessaria dalla pre
senza dell'aggettivo che la precede e che indica il suo essere contra
ria alla legge divina. Qualche studioso invece ha ipotizzato, proprio
a causa di «illecite idolatrie», che l'intero elenco fosse composto di
disordini tipici connessi con le riunioni-orge cultuali in onore di Dio
niso, a loro volta mescolate con le tendenze sowersive antiromane.
Infatti alcuni vocaboli particolarmente legati al vino, all'allegria, al
banchetto . - oinophlygia, composto del verbo phlyein, «bollire» e
. .
133
listicamente l'accento del versetto cade su questo participio presente
di continuità senza complemento che abbiamo tradotto con un indi
cativo e che si estende ad ogni forma denigratoria. Ciò è confermato
anche a livello semantico perché il participio ripete un'affermazione
importante all'inizio di questa grande sezione parenetica (2, 12) e
perché è l'elemento in più del confronto tra i vv. 3 e 4.
Se questo atteggiamento di emarginazione può essere letto co
me reazione psicologica dinanzi a chi rompe il cerchio del conformi
smo, il modello biblico della persecuzione del giusto (cf. Sap 2, 14-
16) e la sua rappresentazione definitiva nella figura di Cristo offre
una chiave ermeneutica religiosa insostituibile; come d'altra parte
l'uscita dal peccato non può non essere anche una presa di distanza
dalla sicurezza garantita dall'adeguarsi al comportamento della mag
gioranza.
Dinanzi alla emarginazione i destinatari non reagiscono con la
chiusura o con la fuga dalla storia, né con una società alternativa,
tantomeno con la vendetta, ma confidano nel giudizio divino. E co
me i cristiani rendono conto della loro speranza ai pagani, nel giudi
zio saranno questi a dover rendere ragione del loro comportamento
a Cristo dal quale tutte le persone, quelle morte come quelle viventi,
dovranno essere inevitabilmente giudicate (v. 5 ) . L'espressione «ren
dere ragione» suggerisce un obbligo difficile che non possono non
assolvere, un conto da rendere a Cristo giudice supremo, in confor
mità con il NT che gli affida la mansione stereotipa di «giudicare i vi
vi e i morti» (cf. At 10, 42; Rm 14, 9; 2 Tm 4 , 1 ;) , formula con la qua
le viene indicata l'universalità del giudizio finale e che con la stessa
valenza semantica entrerà nella confessione di fede. La prontezza che
gli si attribuisce esprime l'originalità della giurisdizione di Cristo: più
che una sfumatura temporale viene sottolineata la sua risoluzione,
dunque il carattere inevitabile di questa giustizia. n fatto che il giu
dizio venga annunciato come «pronto» rende più credibile e concre
ta la speranza che la comunità dei destinatari è chiamata a nutrire.
Qui viene posta in primo piano la correlazione tra etica ed escatolo
gia, e dunque il significato di <<Vivi» e «morti» non è spirituale (vivi o
morti per il peccato), ma reale e fisico.
Alla universalità del giudizio di Cristo il v. 6 aggiunge la moti-
134
vazione: «per questo infatti anche ai morti fu recato l'annuncio, per
ché giudicati secondo gli uomini nella carne, vivano secondo Dio
nello spirito». Piuttosto che una spiegazione a 3 , 19-20, allorché si ri
feriva della discesa di Cristo agli inferi per condannare gli spiriti di
coloro che non avevano creduto al tempo di Noè, il nostro testo par
la dell'annuncio della salvezza recato ai morti, senza spiegare troppo,
per cui gli studiosi si sono spesso accapigliati sulla persona, il tempo
e il modo dell'annuncio. Più accreditate sembrano le interpretazioni
classiche secondo cui l'annuncio della salvezza sarebbe stato portato
dallo stesso Cristo risorto ai morti i quali, sebbene abbiano perduto
la vita secondo la prospettiva storica, sono vivi per Dio grazie alla
salvezza annunciata loro. Infatti il confronto dei verbi «giudicare» e
<<vivere» («perché siano giudicati secondo la carne. .. ma vivano se
condo lo spirito») più che una reale opposizione, sembra avere il va
lore di una frase consecutiva: «sebbene siano giudicati nella carne,
vivono nello spirito». Con ciò la morte che regna su quegli uomini ri
sulta essere un giudizio comune a tutto il genere umano mentre la vi
ta nello spirito è il frutto dell'annuncio del vangelo.
Tuttavia al di là delle modalità di un tale annuncio, l'interesse
parenetico del brano impone di considerare centrali la giustizia di un
tale giudice al quale non sfugge nessuno e l'efficacia di siffatta predi
cazione che raggiunge anche gli ambiti umanamente irraggiungibili.
Lo scopo sembra quello di incoraggiare i cristiani nella situazione di
difficoltà che si trovano a vivere: dinanzi alla emarginazione e forse a
qualche dubbio sulla forza di penetrazione del vangelo.
135
l PIETRO 4, 7-1 1
INTRODUZIONE
136
che offre la possibilità di concludere lo scritto al v. 1 1 . E qualche ese
geta ci ha creduto. Però sarebbero pochi gli esempi che avrebbero
preceduto (la lettera ai Romani) e seguito (la seconda lettera di Pie
tro e la lettera di Giuda) il nostro caso, infatti solo queste tre lettere
nel NT terminano con una dossologia. Anche la non buona compo
sizione dell'intera 1 Pt potrebbe contribuire all'ipotesi di una mal
collocazione della dossologia e non farci stupire più di tanto del fat
to che l'Autore ritorni su temi già trattati. Infine, poiché lo scopo è
quello d'incoraggiare, ridare speranza e futuro ai cristiani che vivono
in una situazione storica particolare, precedente alla persecuzione
vera e propria i cui segni già s'intravedono, è normale che rinforzi le
sue esortazioni alla fedeltà piuttosto che esprimere concetti nuovi. In
questo contesto è illuminante la sequenza dei comandi che offre con
tinuità: gli imperativi presenti «non giudicate estraneo» e «rallegrate
vi» dei vv. 12- 13 succedono agli imperativi aoristi della sezione pre
cedente. Resta vero tuttavia che la situazione storica descritta nell'ul
timo tratto della lettera sembra peggiorata a tal punto da apparire
imminente la persecuzione ufficiale dell'autorità romana.
COMMENTO
137
momento terminale, nell'ultima fase della storia della salvezza in cui
gli avvenimenti strettamente finali sono anticipati (cf. l Cor 10, 1 1 ;
Eb l , 2 ; 9, 26; 1 Gv 2 , 18): il tempo presente attualizza la salvezza fu
tura ( 1 , 1 2 ; 2, 10.25 ; 3 , 2 1 ), per cui è rigorosamente esatto dire che
siamo sottomessi all a fine dei tempi. Tuttavia a differenza di Paolo in
cui frequenti espressioni indicano la salvezza già realizzata, l Pt po
ne il futuro come il tempo verso cui è proiettata la salvezza. n futuro
escatologico è il criterio di giudizio e motivo di parenesi e di speran
za. L'aspettativa del futuro conferisce al presente la radice della sua
serietà perché il domani si viene dicendo adesso, così dall ' escatologia
si ricava il motivo della parenesi.
n modo e il tempo dei verbi (imperativo aoristo ingressivo) co
mandano l'adozione immediata di un atteggiamento di serietà e di
padronanza di sé. Non un minuto da perdere ma una coscienza luci
da; sanità mentale indica letteralmente il primo imperativo (sophro
nein è composto di saos, «sano» e phrenes «mente») usato dal mon
do greco con diverse sfumature quali «essere ragionevole» nel senso
di intellettualmente sano o senza illusioni (Platone, Protagora 323 b;
Fedro 244a; Repubblica l, 33 lc; Senofonte, Memorie l , l , 16) ; oppu
re «essere avveduto» nel senso di moderazione e padronanza di sé o
di prudente riserbo: «oltre alla giustizia partecipa della temperanza
più grande - consiglia Platone nel Simposio ché, a detta di tutti, la
-
temperanza consiste nel dominio dei piaceri e dei desideri, e non v'è
piacere più dominante dell'amore: e se gli altri, più deboli, sono do
minati da Amore, e questo li domina, dominando piaceri e desideri,
Amore è incomparabilmente temperante» ( 1 96c; cf. Repubblica 4,
43 0e; Fedro 68c; Trasimaco, fr. l; Diogene Laerzio, 3 , 91 ; 4 Mac l , 3 ) .
La maggioranza degli esegeti opta per quest'ultima ipotesi.
L'altro imperativo «siate sobri», che non si oppone direttamente
all'ubriachezza ma al sonno che essa produce, è molto vicino al verbo
«vigilare>> (cf. 5, 8) tanto che ne è stato rintracciato l'ambiente vitale
nelle veglie di preghiera della chiesa primitiva (cf. Mc 14, 38), preghie
ra richiamata come scopo della moderazione e della sobrietà. Sebbene
l'ipotesi appaia plausibile purché ben circostanziata, a nostro avviso
queste frasi s'inquadrano meglio in un contesto di ripresa di motivi
tradizionali piuttosto che nel quadro di un'assemblea liturgica.
138
Dunque nell'ignoranza del giorno e dell'ora s'impone un atteg
giamento di vigilanza che si esprime nella saggezza, nella sobrietà,
nella carità che nasconde ogni colpa, nell'ospitalità reciproca senza la
mentele anche in situazioni difficili o di persone scomode o per tem
pi prolungati. Queste ultime due richieste racchiuse nei vv. 8 e 9 ven
gono espresse da altrettanti participi con valore d'imperativo. n colle
gamento del v. 8 con il precedente deriva l'esortazione all' amore dal
l' aspettativa della fine: ciò che potrà garantire la salvezza nel giudizio
finale sarà l'amore, lo stesso viene posto come condizione necessaria
per l'esaudimento della preghiera. Per essere autentica, la carità deve
superare le prove del tempo, suggerisce l'aggettivo «perseverante»
(cf. l , 22), nonostante le occasioni di rivalità sempre presenti in ogni
comunità. L'amore perseverante si oppone alla negligenza, al torpore
(d. Rm 12, 1 1 ; Eh 5, 1 1 ; 6, 12; Ap 3 , 15 ); con ciò si esprime la richie
sta che il dono di sé abbia il massimo dell'intensità e dell'estensione.
La motivazione teologica dell'invito all'amore reciproco si ispira a Pro
10, 1 2 richiamato da l Cor 13 , 7 . Nel testo del libro dei Proverbi il
passo è composto in modo tale che la prima e l'ultima parola, «odio»
e «amore», a loro volta soggetti delle rispettive frasi, si oppongano, fa
cendo cadere l'accento sulla fine. n verbo ebraico, che si traduce con
<<nascondere», quando ha come complemento il «peccato», significa
«perdonare» (cf. Sal 3 2, l ) : «l'odio suscita litigi, ogni offesa perdona
l'amore». ll"richiamo al testo sapienziale fa pensare che il nostro bra
no si riferisca al perdono dei peccati altrui più che all'ottenimento per
sé del perdono praticando l'amore nei confronti dei membri della co
munità cristiana come in Mt 5 , 23 s. Però la frase precedente alla no
stra induce a una certa trasposizione di senso per cui nulla vieta la
possibilità di entrambe le soluzioni.
L'altro invito riguarda l'ospitalità che nel mondo antico ha una
posizione considerevole, sottolineata maggiormente dalla mancanza
di una reale organizzazione alberghiera e parallelamente dai disagi
dei lunghi viaggi. Di origine nomadica, figli di «un arameo errante»
recita una prima formulazione del credo, agli ebrei l'ospitalità è rac
comandata come una virtù. Oltre che nell' AT, nelle civiltà orientali in
genere si chiede un atteggiamento ospitale. Originale è il NT nel pre
sentare l'ospite come se fosse il Cristo: «Chi accoglie voi accoglie me,
139
e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un
profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie
un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto» (Mt 1 0, 40s.;
cf. 25 , 35 .43 ) . All a sentenza del Gesù matteano fa eco la Didachè:
«Ogni apostolo che venga presso di voi sia accolto come il Signore.
Però dovrà trattenersi un giorno solo; se ve ne fosse bisogno anche
un secondo; ma se si fermasse tre giorni, egli è un falso profeta. Par
tendo, poi, l'apostolo non prenda per sé nulla se non il pane (suffi
ciente) fino al luogo dove alloggerà; se invece chiede denaro, è un
falso p rofeta» ( 1 1 , 4-6); «Chiunque poi viene nel nome del Signore,
sia accolto . . . Ma se colui che giunge è di passaggio, aiutatelo secon
do le vostre possibilità; non dovrà però rimanere presso di voi che
due o tre giorni, se ce ne fosse bisogno» ( 12 , 1s.) . Per le comunità
paoline l'ospitalità rientra tra i doveri ufficiali del vescovo: «Ma bi
sogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola vol
ta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace d'insegnare, non de
dito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato
al denaro» ( 1 Tm 3 , 2s. ; cf. Tt l , 8).
A queste considerazioni va aggiunta la motivazione inerente l'i
dentità degli stessi destinatari considerati «pellegrini». Tuttavia il
problema ora è <<chi» si tratta di ospitare: i viaggiatori, i maestri iti
neranti, gli espulsi delle persecuzioni, o i membri della comunità per
le riunioni comuni? Il testo sembra rivolgersi ai membri della comu
nità perché pratichino l'ospitalità «gli uni verso gli altri». Che ciò sia
riferito alla riunione liturgica sembra possibile ma non esclusivo. A
nostro avviso l'esortazione va intesa nella portata più ampia possibi
le, tenendo conto però soprattutto della situazione prepersecutoria
in cui l'ospitalità a un esule, a un ricercato, a un perseguitato, o a una
personalità del mondo cristiano, o anche a una riunione liturgica an
ch'essa scomoda in situazioni così particolari, poteva creare seri pro
blemi. Oltre evidentemente al disturbo momentaneo si deve pensare
a un'ospitalità prolungata, non a una semplice riunione limitata nel
tempo, per quanto frequente potesse essere. Infatti la conclusione
del versetto, quasi come postilla all'invito iniziale, aggiunge una si
tuazione verosimilmente reale: <<senza lamentela». Il dovere diventa
onere faticoso e perfino rischioso.
140
Tale reciprocità, sostiene il v. 10, va commisurata sui propri ca
rismi che ognuno mette a disposizione per il bene comune come
buoni amministratori. Il quadro parenetico disegnato dal nostro Au
tore si conclude con l'invito alla diaconia, al servizio comunitario co
me risposta al carisma, al dono della grazia offerto dallo Spirito a cia
scun membro della comunità. Il carisma cui si fa allusione non sem
bra un dono eccezionale (glossolalia, poteri miracolosi, ecc.) ma ca
pacità più comuni, esperibili nel quotidiano, pur sempre doni di
fronte ai quali il cristiano non può comportarsi con la mentalità del
proprietario (cf. 1 Cor 4, 7). È solo l'economo dei beni che Dio affi
da alla sua gestione; un amministratore della multiforme grazia divi
na: sontuosa, ricca e diversa. Il fatto di averla avuta in dono e di es
serne solo il gestore, rende il cristiano libero. Se il dono divino ren
de liberi dagli uomini, dalle loro preoccupazioni e tirannie, e da se
stessi e dalla propria ingordigia, tuttavia lega i destinatari al donato
re. Ancora una volta il ragionamento sfiora il paradosso: infatti seb
bene si tratta di parenesi, volta dunque a indicare uno stile di vita
quotidiano, per due volte in questo v. l O viene usato il vocabolario
della grazia («carisma» e «grazia») la cui amministrazione si svolge
sul piano storico, materiale, ma nello stesso tempo libera dall' appro
priazione della materia.
n nostro testo riduce a due i carismi, parola e servizio, come in
At 6, 2, le molte funzioni della chiesa documentate soprattutto dal
l' epistolario paolina. Secondo alctmi ciò riflette una differenziazione
molto primitiva delle funzioni nella chiesa. Più opportunamente bi
sogna pensare a due termini riassuntivi di tutti i carismi: l'annuncio
in tutte le sue forme (dalla catechesi all'esortazione) e la diaconia in
ogni sua manifestazione (dali' assistenza caritativa alla presidenza).
Anche la costruzione delle due frasi a forma di parallelismo rendono
contigui i due carismi: come in ogni annuncio prende forma e si rea
lizza la parola divina così in ogni servizio si rivela e si attualizza il di
namismo spirituale che viene da Dio.
Costruita sulla forma del caso, l'azione espressa dal verbo nella
prima parte di ogni frase trova la modalità di compin1ento nella se
conda dove Dio è presente, in entrambe, come soggetto agente. In
altre parole è Dio che rende valida ed efficace ogni tipo di presenza
141
attiva all 'interno della comunità, sia per la p arola che per il servizio.
n primo caso riguarda la parola che non può esaurirsi in quella
che si p roclama riell' assemblea liturgica. Che si riferisca alla spiega
zione delle Scritture o a un insegnamento più metodico o alla pre
ghiera, poco importa; al di là del fatto che la catechesi non era limi
tata al momento liturgico (cf. At 2, 42 ) sembra prevalere rinteresse
dell'Autore per la funzione ecclesiale di chi parla su Dio. Infatti la
comparativa che bilancia le due parti della prima frase - la particella
hos si trova spesso nelle costruzioni ellittiche come la nostra (cf. Col
3, 23 ) denuncia la scomparsa del participio per cui il significato
-
verrebbe ad essere: «se qualcuno parla che sia per trasmettere la pa
rola di Dio». L'ammonimento sembra indirizzato particolannente ai
maestri o a coloro che intendono insegnare qualcosa intorno a Dio,
o più in generale fare della catechesi; memore forse dell'insegnamen
to di Giacomo in cui viene tolto spazio al parlare umano su Dio se
non quello relativo alla trasmissione della sua parola. Il maestro non
è chiamato a trasmettere la propria opinione personale ma a comu
nicare la parola di Dio la quale s'impone come un dato preesistente
ad ogni predicazione o spiegazione. n servizio che viene reso è quel
lo di trasmettere l'annuncio di questa parola della quale chi p arla
non è il padrone ma il servo.
n secondo servizio viene espresso dalla diaconia e si riferisce a
prestazioni più concrete. Anche chi svolge questo ministero dentro
la comunità deve sapere che opera per volere e con la forza che gli
viene da Dio attraverso la chiesa. In tal modo il ministero è liberato
da ogni brama di sicurezza o forme di volontarismo o sforzi perso
nali, così come la diaconia non è un servizio rivolto solo ai bisognosi
e finché essi esistono, ma è intesa anzitutto come responsabilità al
142
della gloria di Dio, dell'assoluta signoria e potenza del Padre per
mezzo di Gesù Cristo: questa è la meta ultima del vivere comunita
rio di cui l'Autore ha offerto un breve regolamento in questi cinque
versetti.
143
l PIETRO 4, 12-19
tore o delatore.
t 6 Ma se uno sol/re come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi
peccatore?
19 Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si
INTRODUZIONE
144
si successivi alla dossologia di 4, 1 1 costituiscano un testo successivo,
sebbene la persecuzione sembra acuirsi. TI titolo rivolto ai destinata
ri, «Carissimi», rispecchia il carattere spiccatamente introduttivo ma
nifestato in 2, 1 1 e non più usato dallo scritto: in entrambi i casi apre
una sezione parenetica. Nella nostra pericope ritornano pure i moti
vi tematici che avevano caratterizzato alcune sezioni precedenti, pri
ma fra tutte la gioia nelle prove ( 1 , 3 - 12) , e non ultimo un richiamo
abbastanza stringente con 4, 1ss . : in entrambi i testi le sofferenze di
Cristo costituiscono la giustificazione delle necessarie sofferenze dei
cristiani e introducono il discorso concluso dal tema escatologico
della fine e del giudizio, garanzia di speranza e motivo di gioia per i
destinatari; suona comune pure il richiamo alla volontà divina. Però
qualcosa cambia: mentre nella prima pericope erano i connazionali,
il vicinato a trovare strani i cristiani, ora sono questi che trovano stra
no l'accanirsi delle persecuzioni. Sebbene il rapporto venga letto dal
la prospettiva dei cristiani, la realtà non muta più di tanto: dello stra
niero si coglie la reciprocità. Lo straniero non solo è e appare strano
agli occhi altrui ma anche a lui suona strano ciò che per gli altri è
normale. Al suo ritorno Ulisse trova strana perfino la propria patria
non solo perché ormai da tempo è lontano ma perché Atena ha spar
so la nebbia per renderlo irriconoscibile. Neanche i suoi lo ricono
scono, per cui egli è uno straniero e a lui tutto gli appare straniero:
«Si svegliò intanto il divino Odisseo, che sulla terra dei suoi padri
dormiva: ma non la conobbe, da troppo tempo era lontano. Intorno
a lui nebbia diffuse Pallade Atena, la dea figlia di Zeus, per farlo ir
riconoscibile . . . perciò tutto gli appariva straniero, i lunghi sentieri, i
porti, gli approdi, le ripide rocce, gli alberi in fiore» (Omero, Odis
sea XIII, 187-196). Come dire che uno straniero non può mai mera
145
prima (vv. 12- 16) caratterizzata dal vocabolario della gioia, della sof
ferenza e della gloria, la seconda (w. 17- 19) dalla motiva z ione esca
tologica. Lo sviluppo della prima parte sembra articolato in forma
dialettica: al primo monito negativo (v. 12: «non vi sembri strano») si
oppone l'imperativo positivo del versetto successivo (<<rallegratevi»)
seguito dall a motivazione («perché ... possiate rallegrarvi ed esulta
re») . In entrambi i versetti il verbo reggente viene ripetuto alla fine
dalla stessa radice, e al loro interno si sviluppa una contraddizione:
nel primo non deve sembrare strano l'acuirsi della persecuzione, nel
secondo si chiede di rall egrarsi per le sofferenze. Il v. 14 attraverso
un macarismo, mentre riassume le contraddizioni espresse, apre la
strada a una seconda antitesi giocata sul verbo soffrire (vv. 15-16:
«nessuno abbia a soffrire ... ma se uno soffre . . ») che si conclude con
.
COMMENTO
146
come tali non possono pensare di essere familiari ai residenti a ri
schio della propria identità. Se trovassero strano un atteggiamento di
rifiuto e di persecuzione non sarebbero quelli che sono, degli stra
nieri: l'insistenza sul termine «straniero» ripetuto all'inizio e alla fine
del versetto mostra quanto stia a cuore all'autore l'identità di coloro
ai quali si rivolge, identità che non possono perdere, pena la solida
rietà a Cristo stesso e in definitiva l'elezione che pure compone il lo
ro essere di cristiani ( l , l ) . In prima istanza i cristiani si riconoscono
147
di gioia perché la condivisione della sua passione e morte garantisce
anche la solidarietà alla salvezza che da quel gesto è scaturita. Una
sofferenza dunque che si carica di futuro, motivazione escatologica
che apre alla speranza chi è sottoposto a pene.
Allorché si riferiva ai domestici l'Autore aveva già raccomanda
to di compiere la volontà di Dio con una condotta legata alle soffe
renze di Cristo espressa in termini di imitazione (2 , 2 1 -23 ) , mentre
all 'inizio della pericope successiva (5 , l ) Pietro si presenterà come
«testimone delle sofferenze di Cristo partecipe della gloria che deve
manifestarsi». Ora viene detto che la solidarietà con Cristo, veicolata
attraverso le sofferenze, permette di sperimentare la salvezza già nel
la vita terrena in vista della condivisione della sua gloria.
n motivo della gioia ripreso al v. 14 nella beatitudine, iscriven
-dosi nella più ampia tradizione neotestamentaria (cf. Mc 8, 34; Mt
10, 24s. ; Le 6, 22 ; Rm 8, 17; 2 Cor l , 5 ; 4, 10; Fi/ 3 , 10; 2 Tm 2, 1 1 s.;
Eh 1 1 , 26; Ap 2 , 1 0), fa l'eco a quelle matteane: «Beati voi quando
v'insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta
di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché
grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno persegui
tato i profeti prima di voi» (Mt 5, 1 1- 12). TI nostro testo sostituisce
l'affermazione con il condizionale che rende la premessa del macari
smo equivalente a un 'esortazione: «Se siete calunniati per il nome di
Cristo, beati voi». Mutuare il proprio nome da quello di Cristo, è
motivo di calunnia e persecuzione: l'appellativo che per i destinatari
costituiva una professione di fede, per i non cristiani suonava come
un insulto.
li motivo della beatitudine risiede nello Spirito della gloria che
proviene dalla stessa Divinità e resta sui cristiani che dalla società
vengono privati di rispetto. Lo Spirito offre moltiplicato quanto la
società toglie. n verbo al presente (anapauetai) sottolinea l'attuale
presenza dello Spirito in concomitanza con la sofferenza del cristia
no. Da questo punto di vista la concomitanza di gloria e sofferenza si
riflette nella eccellenza dello straniero, in quel germe di alterità che
lo fa altro, segno di una realtà cui rinvia la sua differenza: è la gloria
di Dio che riposando su di lui gli fa gustare in anticipo, grazie alla di
versità che esprime, quello che sarà alla fine. Attraverso lo Spirito i
148
cristiani partecipano fin da ora della gloria che riceveranno in ma
niera piena e definitiva alla fine dei tempi. Come la gloria di Dio si
posa sul tempio, allo stesso modo lo Spirito del Padre riposa sui cri
stiani che soffrono, perciò sono beati. Lo Spirito aveva già offerto
l'ambito di santificazione nella quale il cristiano è chiamato a vivere
( 1 , 2 ) , era stato considerato l'animatore dei profeti e degli evangeliz
zatori ( 1 , l l s.) , abita la casa costituita dagli stessi cristiani, tanto da
definirsi spirituale sia il domicilio che i sacrifici in esso immolati (2 ,
5), ora offre pegno e garanzia della gloria escatologica, oltre che so
stegno nella tribolazione (cf. Mc 13 , 1 1 ; Mt 10, 19; Le 12, 1 1 s.).
Al v. 15 viene ulteriormente definita la sofferenza dei cristiani:
possono essere insultati solo per il nome di Cristo e non per i reati co
muni, rappresentati in una lista di quattro misfatti aperta e chiusa dal
la comparazione. I primi due sono reati comuni (omicida e ladro)
mentre più difficili da identificare risultano i secondi: il malfattore
(kakopoios) e il profittatore (allotriepiskopos) . n primo, benché si pos
sa intendere come colui che compie magie, pratica condannata a Ro
ma, nel nostro caso sembra prevalere il senso generico di malfattore,
colui che compie ogni sorta di male; il secondo è legato alla famiglia
lessicale di alcune cariche pubbliche. L'etimo indica l'osservanza di
ciò che è estraneo, dunque si tratterebbe dell'accusa d'ingerenza in vi
cende e fatti altrui. Sebbene legalmente non fosse punibile, denunce
rebbe pur sempre una mancanza di discrezione inopportuna in ogni
occasione, illecita quando viola particolari segreti o si manifesta in
forme di appropriazione indebita. Un simile atteggiamento non era
impossibile che riguardasse anche esponenti delle comunità, spesso
piccole e chiuse. Come dire che richieste del genere potevano nasce
re anche dall'esperienza del male così come l'Autore l'aveva colto al
l'interno di gruppi cristiani. Oppure più semplicemente poteva trat
tarsi di reati di cui più spesso venivano ingiustamente accusati i cri
stiani, però non abbiamo testimonianze in proposito né liste simili.
Non potendo decidere donde è stato tratto il materiale né quale valo
re semantico specifico attribuirgli, crediamo poterei arrestare allo sco
po esortativo generale dell'intera lista che raccomanda ai cristiani una
vita ineccepibile per non dare adito ad accuse che non siano esclusi
vamente religiose, motivate cioè dalla fede che professano.
149
All a lista dei crimini il v. 1 6 oppone l'essere cristiano collocato
in parallelo antitetico: si può essere accusati sia in quanto criminali
che in quanto cristiani. La costruzione nel primo caso, formata da
quattro membri, è chiusa dal ripetersi del «come» dinanzi al primo e
all'ultimo («come omicida, ladro, malfattore, come profittatore»);
nel secondo, dinanzi al cristiano, oltre alla comparazione troviamo
anche l'ipotetica e l'avversativa («ma se come cristiano . . . ») . Al di là
della situazione contingente di difficile lettura, la comunità cui giun
gono queste parole non può non sentire l'eco della tradizione evan
gelica del Cristo crocifisso tra i !adroni e incarnarne la situazione: la
sequela di chi oltre a portarne il nome ripercorre le medesime tappe.
Come Cristo ha concluso la sua storia personale alla stregua dei cri
minali comuni senza aver commesso alcun crimine, i cristiani pur
non essendo malfattori sono trattati come tali.
Non sappiamo se l'Autore faccia esplicito riferimento a un'in
criminazione ufficiale per il nome «cristiani» che portano i destina
tari della lettera. n contesto lo presenta come autodefmizione di un'i
dentità il cui nome nasce ad Antiochia, in Siria (At 1 1 , 26; 26, 28). Al
tempo della stesura della lettera il nome di cristiano era già noto al
mondo non cristiano ed era usato in senso dispregiativo e come ac
cusa. Per C .Cornelio Tacito (Anna/es 15 , 44) i cristiani erano «abor
riti per le infamie» (per /ragitia invisos); secondo Svetonio ( Vita Cae
sarum 1 6) , sono «puniti di morte i cristiani, seguaci di una nuova e
malefica setta» (a/flicti suppliciis christian� genus hominum supersti
tionis novae ac male/icae) ; Plinio (Epistulae 1 0, 96) chiede lumi al
l'imperatore sul comportamento da tenere nei confronti dei cristiani:
« ... se si deve perdonare a chi si pente, oppure se a colui che è del tut
to cristiano nulla giova abiurare, se viene punito il solo nome [di cri
stiano] , anche se mancano atti delittuosi, o i delitti connessi a quel
nome. Frattanto ecco come mi sono comportato con coloro che mi
sono stati deferiti quali cristiani. Domandai loro se essi fossero cri
stiani. A quelli che rispondevano affermativamente ripetei due o tre
volte la domanda, minacciando il supplizio: quelli che perseveravano
li ho fatti uccidere».
Anche se lo scritto non fa esplicita menzione che bastasse il no
me di cristiano per essere processati, come invece sancirà l'editto di
150
Traiano (1 10/1 1 1 d.C.), la pressione dell'ambiente ostile, della deni
grazione, ecc. non poteva non suscitare anche atteggiamenti pubbli
ci di vergogna per questo nome in esponenti delle comunità; di qui il
monito a non vergognarsi di soffrire per il proprio nome ma a glo
riarsi Dio.
n v. 17, con la preposizione adeguata (hott) e la considerazione
del tempo, introduce la motivazione escatologica dell'esortazione al
la perseveranza: il tempo del giudizio coincide con quello della sof
ferenza, meglio forse sarebbe dire che la sofferenza della comunità
costituisce l'inizio del giudizio ultimo riservato a tutti. Sebbene co
minci dalla propria casa - il richiamo a 2 , 5 che a sua volta rinvia al
popolo di Dio di 2 , 9 sembra evidente - il giudizio non risparmia
nessuno.
Iniziare il giudizio dalla propria casa, oltre che richiamarsi alla
tradizione profetica (cf. Ger 25 , 29; Ez 9, 6; Ma/ 3 , 1 -6) , offre diver
se possibilità semantiche non necessariamente in contrasto tra loro:
anzitutto sottolinea l'equità di chi giudica non più di quanto esprima
la differenza del giudizio dei contemporanei rispetto a quello di Dio
sulla comunità dei destinatari. In altri termini se il valore teologico
del giudizio divino sottrae le prove all'arbitrio della storia decretan
done la provvisorietà, l'accettazione discreta del ruolo pedagogico
delle prove che anticipano il giudizio sulla casa di Dio ne conferma
l'esito salvifico per quelli che ne fanno parte. Infine viene ristabilita
la giustizia divina che sembrava sopraffatta dal trionfo dei malvagi,
togliendo così il motivo di scandalo provocato dalle sofferenze ingiu
ste. Infatti dopo il primo grado in cui implicitamente vengono con
frontati i giudizi sui cristiani, il secondo livello coinvolge anche colo
ro che prima giudicavano: nei loro confronti è già stata emessa la
condanna, sia perché sono definiti disubbidienti al vangelo (v. 17) ed
empi e peccatori (v. 18), sia per le due interrogative retoriche che
sembrano esprimere una sentenza senza appello: «se inizia da noi,
quale sarà la fine di coloro che non ubbidiscono al vangelo di Dio?».
Se l'interrogativo palesemente retorico nega di fatto la salvezza
agli oppressori, nella logica della frase si scopre il primo motivo del
la condanna annunciata: per il fatto che vengono giudicati dopo i cri
stiani, un confronto con questi è inevitabile. Mentre questi ubbidi-
15 1
scono al vangelo, per il quale sono disposti pure a soffrire, quelli in
vece rifiutano il vangelo di Dio né ubbidiscono al suo messaggio (cf.
Mc l , 14s . ) , anzi da esso traggono il motivo per far patire, per cui
non possono aspettarsi alcuno sconto di pena.
n vocabolario dell 'ubbidienza con cui vengono definiti i perse
cutori è commisurato al contesto parenetico (cf. 3 t 1 20) ove la fede
non è solo una professione o un'adesione intellettuale, ma ad essa ri
sponde scelte concrete di vita. Infatti il verbo non indica solo il ri
fiuto di credere ma anche l'atteggiamento che ne consegue, nel con
testo specifico manifesta tosi nell'atteggiamento persecutorio nei con
fronti degli stessi cristiani.
Tuttavia in questa fine di pericope, non è la persecuzione a in
teressare chi scrive bensì il giudizio divino nei confronti dei persecu
tori. Il passaggio dall'una agli altri e in particolare alla condanna di
questi ultimi è motivato non dal male che infliggono, per cui non
può né deve suonare come motivo di vendetta per i cristiani, ma dal
la loro non adesione al vangelo; come dire che il vangelo di Dio ha la
precedenza su tutto, anche sulla persecuzione: per esso i cristiani sof
frono e per il suo rifiuto i persecutori vengono condannati.
Un ulteriore interrogativo, con lo stesso tono del precedente e
in più con l'autorità della Scrittura (Prv 1 1 , 3 1 ) , conferma la durezza
del giudizio e la condanna dell'empio attraverso la riproposta del
confronto con il giusto: «E se il giusto a stento sarà salvato, dove ap
parirà l'empio e il peccatore?» (v. 18) . n parallelo tra le due situazio
ni mette a confronto altrettante azioni non usualmente rapportabili:
mentre il giusto viene salvato, a confermare che la salvezza è dono di
Dio (passivo teologico) , per l'empio si usa il verbo «apparire» che in
sieme all' assenza della risposta (ma ugualmente sottesa dall'interro
gativo retorico) carica il suo futuro di spaventosa incertezza. La co
struzione è particolarmente riuscita. n mutamento dei verbi pone i
rispettivi soggetti in ruoli differenti: il giusto è il destinatario del ver
bo «salvare» espresso al passivo (teologico) , mentre l'empio è il sog
getto reale del verbo «apparire», come dire l'artefice della propria
perdizione. .
Tuttavia un giudizio sì duro sembra non estensibile a tutti colo
ro che non hanno fede, ma solo a quelli che oppongono un rifiuto
152
volontario al vangelo di Dio, come confermano le due alfa privative
che li definiscono non ubbidienti (apeithounton) e non pio (asebes:
empio, colui che non venera Dio) , mutuandone l'interpretazione re
strittiva.
Da tanto giudizio l'Autore trae le conseguenze («Perciò») per i
suoi destinatari che vivono nella sofferenza. Concludendo la perico
pe e riassumendone il contenuto li esorta a considerare questa loro
situazione come espressione della volontà divina perciò «rimettano le
loro anime al creatore fedele nella buona condotta». Due dunque gli
inviti; affidarsi a Dio e fare il bene sono atteggiamenti che muovono
dalla ubbidienza alla fede: consegnarsi totalmente al Padre così come
aveva fatto il Figlio sulla croce il verbo paratithesthai che esprime
-
153
l PIETRO 5, 1 -4
t Esorto dunque gli anziani che sono tra voz: quale anziano come
loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria
che sta per mant/estarsi:
2 pascete il gregge di Dio che è tra voi, non per forza ma volentie
INTRODUZIONE
154
il quale condivide una parte non piccola del proprio vocabolario: dei
ventisette termini impiegati nella nostra pericope, sette sono presen
ti in quella precedente (4, 12- 19) che ne conta quarantadue e quattro
in quella successiva che ne ha cinquantasei (5 , 5-1 1 ) . Tuttavia se il
contesto precedente caratterizzato dalla costatazione di una situazio
ne presente (su diciassette verbi quattordici sono al presente) origina
e motiva l'esortazione agli anziani, il vocabolario, spiccatamente pa
storale, ma soprattutto ricercato e raro - in appena quattro versetti si
contano sei hapax legomena (sympresbyteros, anagkastos, aischro
kerdos, archipoimen, amarantinos, prothymos) , tre dei quali sono av
verbi - suscita alcuni dubbi circa la continuità originaria dei testi.
Che poi la scelta sia stata ponderata lo lasciano supporre le mutazio
ni stilistiche dei versetti centrali rispetto a quelli periferici: la dispo
sizione antitetica fatta assumere dagli avverbi e dalle frasi corrispon
denti impongono un procedimento cadenzato e veloce che non tro
va riscontro nell'incedere sciolto della pericope, tant'è che l'ipotesi
dell'inserzione redazionale per l'esortazione centrale (vv. 2-3 ) è ab
bastanza comune tra gli esegeti. Più difficile è individuare donde
provenga il materiale utilizzato dall'Autore e quali le motivazioni che
hanno richiesto la posposizione di questa parte del codice domestico
rispetto al resto. Una certa parentela letteraria con il discorso di ad
dio di Paolo ai presbiteri di Efeso e a Timoteo (cf. At 20, 17 -35 ;
2 Tm 4, lss.) lascia ipotizzare un punto di riferimento abbastanza
preciso. Anche le tematiche si ripropongono, infatti il primo verset
to della nostra pericope evidenzia non poche corrispondenze con At
20, 17ss. : entrambi i passi insistono sulla figura di chi esorta, usano
la medesima terminologia pastorale per descrivere il compito degli
anziani ai quali affidano il ruolo di guida all'interno della comunità,
funzione attestata anche da Gc 5 , 14, ma non dalla 1 Clem e dalle let
tere pastorali delle quali però i nostri vv. 2-3 sembrano echeggiare al
cune espressioni (cf. l Tm 3 , 2-13 ; Tt l, 7-9) sebbene non ne condi
vidano la forma. È possibile dunque ritenere che l'Autore abbia
adattato il testamento sul codice domestico: in entrambi i casi è pre
visto il riferimento agli anziani; e poiché il discorso di addio nei mo
delli assunti è collocato verso la fine dello scritto, è stato costretto a
dividere il codice in due sezioni onde evitare di riferirsi per due voi-
155
te allo stesso gruppo di persone. Naturalmente, come già si accenna
va all'inizio della pericope l Pt 2, 1 1 , oltre alle motivazioni specifiche
del nostro Autore anche l'uso e il tempo hanno permesso la rottura
dello schema.
Dal punto di vista architettonico l'esortazione agli anziani è co
struita su tre frasi principali. La prima (v. l) è una raccomandazione:
si colloca nella presentazione dei personaggi ed è espressa da uno dei
verbi tipici del genere esortativo («esorto») . Dopo il destinatario e
l'invito, il mittente si autopropone con tre titoli («presbitero ... testi
mone. . . partecipe . . . » ) il primo dei quali riprende quello dei suoi in
terlocutori unendo in tal modo i personaggi entro una comune fun
zione. Anche se il peso della frase cade sul destinatario preposto è da
notare la posizione particolare del secondo sia per il sovraccarico di
titoli rispetto al primo, sia per il ruolo di soggetto che occupa, qui
posposto al verbo. In l Pt 2, 1 1 che possiamo ritenere il passo più vi
cino al nostro nell'ambito della stessa lettera, il parakalein è prece
duto dall'appellativo (agapetoi) rivolto ai destinatari e seguito da due
titoli indirizzati agli stessi, mentre il mittente è presente solo come
soggetto sottinteso del verbo; al quale generalmente i destinatari ven
gono posposti (cf. At 24, 4; 27 , 34; Rm 12, l ; 15, 30; 6, 17; l Cor l ,
lO; 4 , 16; 16, 15 ; 2 Cor 2, 8 , ecc.) . In 2 Cor 10, l il soggetto viene en
faticamente preposto mentre solo in Fil 4, 2 i destinatari, in questo
caso nomi propri, sono posti prima del verbo.
La seconda frase costituisce un'esortazione vera e propria (vv.
2-3 ) : introdotta dall'imperativo si sviluppa attraverso una triplice op
posizione al fine di determinare le modalità dell'azione comandata, a
indicare cioè l'atteggiamento dei pastori («pascete . . non per forza ma
volentieri . . . , non per vile interesse ma di buon animo, non come se
foste padroni. .. ma divenendo modelli . . . ») . La terza azione (v. 4) con
clude la pericope con la promessa del premio escatologico (cf. l'im
magine della «corona», e l'uso del futuro) per coloro che seguiranno
le raccomandazioni impartite.
156
COMMENTO
157
sce in questi un ruolo di natura apostolica. Con il secondo titolo,
quello di «testimone delle sofferenze di Cristo», si è intesa la parte
cipazione anche fisica alla passione e morte del Cristo attraverso la
riproposta delle stesse sofferenze del Signore nella vita del discepolo,
e dunque lo statuto dell'apostolato e il riferimento alla persecuzione
in cui viveva la comunità petrina, secondo la testimonianza della
prima lettera di Clemente: «Lottò . . . Pietro, dopo aver reso testimo
nianza, fino alla morte e raggiunse la sede della gloria che gli spetta»
(l Clem 5 , 2-4). TI terzo titolo apre l'apostolo alla gloria futura; la pe
rifrasi costruita con una formula particolare - il participio del verbo
mellein è in sostituzione delle forme infinitive del futuro che andava
no scomparendo - esprime l'imminenza dell'accadimento mentre
l'uso dell'infinito presente passivo (essere manifestato) accorcia ulte
riormente i tempi: della gloria divina, prossima a manifestarsi, fin da
ora Pietro ne fa parte. In altri termini la frase sottende con buone
probabilità il martirio del primo apostolo confermando la tesi della
pseudonimia. A imitazione di Pietro di cui partecipano all'apostola
to, gli anziani della chiesa sono invitati ad assumere lo stesso spirito
ministeriale.
Dal v. 2 inizia l'esortazione vera e propria, stilisticamente ispira
ta alle forme letterarie semitiche, esposta in forma ritmata e scattan
te, con frasi brevi e antitetiche che si placano alla conclusione con
l'avvento del futuro. Con l'esortazione, introdotta da una formula
peculiare (imperativo aoristo ingressivo) con cui inizia ex novo un'at
tività o si cambia atteggiamento in modo radicale, il ministero si fa
dovere: <<mettetevi a pascere». Da questo momento il verbo «pasce
re» diventa il vocabolo più importante: fino alla conclusione della
pericope ricorre altre 3 volte (v. 2 poimanate, poimion, v. 3 poimniou,
v. 4 archipoimenos); come l'introduzione metteva a fuoco il concetto
158
in Egitto la stessa immagine viene riferita al faraone definito «buon
pastore». Nell'AT la figura del pastore non viene applicata né a Dio
né ad alcun re di Giuda; l'unico a fregiarsi di questo titolo secondo
gli Autori sacri sembra essere Ciro: «lo dico a Ciro: Mio pastore; ed
egli soddisferà tutti i miei desideri dicendo a Gerusalemme: "Sarai
riedificata "; e al tempio: "Sarai riedificato dalle fondamenta "» (Is 44,
28) . Invece i profeti anticotestamentari denunciando la corruzione
dei re preannunciano l'avvento del buon pastore messianico (d.
Ger 23 , 1-4; Ez 3 4 ; Zac 1 1 , 4- 1 7 ) nella cui immagine Gesù si rico
nosce presentandosi come colui che viene a riunire le pecore perdu
te della casa d'Israele (d. Mt 9, 3 6; 1 0, 6; 15, 26; Le 1 5 , 4-7; Gv 10)
e invitando i suoi a fare altrettanto (cf. Mt 18, 12- 14; Gv 2 1 , 15 - 1 7 ) .
Nell'epistolario paolino invece mai l'immagine o il titolo di pastore
vengono riferiti a Cristo. In continuità con la tradizione evangelica
l'Autore della l Pt presenta Cristo come pastore supremo e ricorda
che il gregge appartiene a Dio mentre agli anziani si chiede di «sor
vegliarlo». L'uso del verbo «sorvegliare», episkopein in greco, per in
dicare la funzione dei presbiteri, evidenziando l'equivalenza tra epi
scopi e presbiteri (cf. Tt l , 5 .7), oltre a dimostrare uno stadio della
tradizione in cui la direzione della comunità veniva esercitato in mo
do collegiale, indica un'operazione che mette i pastori né fuori né al
di sopra del gregge. Le modalità della gestione della sorveglianza oc
cupa lo spazio maggiore nella pericope, per cui si può fin da ora so
stenere che primario nel testo sembra il «come» piuttosto che il «co
sa» della funzione presbitero-episcopale. Lo spirito nell'esercizio di
tale ministero viene espresso attraverso l'opposizione di tre coppie di
elementi antitetici: il valore positivo è sempre collocato nel secondo
membro della coppia. La prima oppone la coercizione alla sponta
neità: «non per forza ma volentieri secondo Dio». Come interpreta
re l'espressione <<Volentieri secondo Dio»? In tempi sospetti per l'a
buso della radice verbale che sta alla base del vocabolario della vo
lontà, il rischio di enfatizzazioni è reale, invece il richiamo alla pas
sione di Cristo (v. l) rende più plausibile l'evocazione della preghie
ra del Getsemani ove Gesù liberamente antepone la volontà del Pa
dre alla propria. Nella seconda coppia l'antitesi si gioca tra lo smo
dato desiderio di ricchezza, di guadagni personali e il gratuito e ge-
159
n eroso dono di sé: «non per vile interesse, ma di buon animo». L' av
verbio greco prothymos tradotto con la perifrasi «di buon animo»
evidenzia un carattere anche sociale e altamente meritevole della fun
zione cui è applicato, del presbitero nel caso specifico, infatti sembra
essere uno dei termini più correnti della lingua ellenistica nell'elogio
dei funzionari e dei benefattori di una città. Se dunque il ministero
dei presbiteri è un servizio disinteressato e non remunerato, ciò in
durrebbe a pensare che fosse a tempo determinato o che la comunità
disponesse di un patrimonio comune riservato al sostegno dei suoi
presbiteri. Nella terza coppia, che sostituisce gli awerbi con i parti
cipi, l'alternativa si gioca nel modo di ottenere il consenso da parte
di due tipi di autorità e in sostanza nell'idea ad essa sottesa, tra colo
ro che spadroneggiano e che quindi presumono di avere titoli per
farlo, e quelli che invece presentano se stessi come modelli: «non co
me se foste padroni delle persone, ma divenendo modelli del greg
ge». I primi definiti dal verbo del potere reso negativo dalla particel
la preposta (kata-kyrieuontes) che in italiano viene resa dalla «esse»
dispregiativa ( «spadroneggiando») , sono coloro che comandano, im
pongono cioè decisioni alla parte (di persone) loro affidata. n voca
bolo greco kleros, dal quale ironia vuole che derivi il termine «cle
ro», indica il «lotto» di terreno che a ciascuno spetta nella spartizio
ne di un lascito e in cui è chiamato a lavorare, la porzione di comu
nità di cui farsi carico, distinta da quella degli altri, distribuite tutte
dalla sorte. Lo stesso vocabolo si trova sulle labbra di Pietro che a ri
guardo di Giuda dice: «Egli era stato nel nostro numero e aveva avu
to in sorte (ton kleron) dello stesso nostro ministero»; e poi nel mo
mento di scegliere il sostituto dell'Iscariota «gettarono le sorti (kle
rous)» (At l , 17.26; cf. 26, 1 8) . Da questa prospettiva suona amara
mente ironico l'accostamento dei due tipi di persone. I secondi non
sono, divengono, si vanno facendo giorno per giorno, sostiene il par
ticipio presente del verbo «divenire», typoi, cioè esempi da vedere e
imitare.
La pericope, secondo lo stile della parenesi, si chiude con un ri
ferimento escatologico: i presbiteri che esercitano il ministero pasto
rale secondo le indicazioni ricevute assolvono a una funzione di na
tura divina, sono in continuità con il primo pastore. Dunque quando
160
apparirà non solo non devono temere, ma riceveranno la corona im
marcescibile che è la gloria. n verbo «ricevere» (komizein) , impiega
to correntemente nella retribuzione escatologica (cf. l , 9; E/ 6, 8; Col
3 , 25 ; Eh 10, 36; 1 1 , 13 .39), qui al futuro, ha per oggetto la corona,
premio della vittoria, immagine della gloria senza tramonto (cf. Eb 2 ,
9) . La corona di gloria incorruttibile, simbolo di onore e mezzo di
protezione negli antichi culti, che rinvia ad altre corone (cf. 2 Tm 4,
8; Gc l, 12; Ap 2, 10), nel nostro testo sembra rispondere al merito:
quanto questo sia legato al senso della morte come avveniva per la
letteratura militare e sportiva del mondo classico è difficile dirlo, di
certo non è esclusivo. Invece il testo sembra più interessato a mo
strare il destino dei presbiteri. La stessa gloria finale di Cristo incon
trata all'inizio della pericope ritorna alla fine: alla medesima là parte
cipa Pietro, qui gli anziani. E il cerchio si chiude non prima di aver
richiamato le tracce anticotestamentarie del vocabolo che indicava la
stessa essenza divina.
161
l PIETRO 5 , 5a
INTRODUZIONE
COMMENTO
162
considerati nel ruolo sociale e rdigioso che svolgono, come esposto
sopra (5 , 1 ss ) , cioè come capi della comunità, in tal caso però non si
.
163
più possibile la portata della frase offerta dal genere letterario dei co
dici familiari, all'Autore funzionava bene da transizione tra la racco
mandazione ai pastori e quella rivolta a tutti: in entrambi raccoman
da in forma congrua e articolata lo stile di vita adeguato.
164
l PIETRO 5 , 5b- 1 1
5b Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio re
siste ai superbi, ma dà grazia agli umili.
6 Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esal
ti al tempo opportuno,
7 gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura
di voi.
8 Siate temperanti. Vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leo
INTRODUZIONE
1 65
imperativi e un participio con la medesima funzione: «Rivestitevi . . .
Umiliatevi . . . gettando ... Siate temperanti, vigilate ... Resistetegli» -
che si conclude con una raffica di promesse di cui Dio è il soggetto
(cf. i quattro futuri al v. 10: «vi ristabilirà, vi confermerà, vi renderà
forti, vi renderà saldi») . I primi tre ordini concernono le relazioni
con i fratelli (v. 5) e con Dio (vv. 6.7) nel quale trovano le motivazio
ni attraverso due causali (vv. 5 .7) e una finale (v. 6) ; i secondi tre in
vece hanno nel diavolo l'oggetto del proprio interesse, indiretto i pri
mi due (v. 8) diretto il terzo: i due gruppi sono divisi da un 'articola
zione appositiva che illustra la posizione del diavolo nei confronti dei
destinatari e conclusi dal richiamo alla solidarietà con i fratelli che vi
vono nella sofferenza.
Alle esortazioni seguono le promesse - introdotte dalla posizio
ne del soggetto delle stesse in relazione ai cristiani - relative al futu
ro dei destinatari (v. 10) convocati direttamente e in maniera pres
sante attraverso il costante ricorso al pronome di seconda persona
plurale (vv. 6. 7 . 7 .8. 9 .l O) . Caratteristica della parenesi è pure il conti
nuo richiamo alla totalità (vv. 5.7 . 10) mentre specifico della pericope
è il vocabolario dell'umiltà (vv. 5 .5 . 6 ) e della resistenza (vv. 5 .9) .
La posta in campo dei personaggi antagon isti cui il cristiano de
ve relazionarsi, Dio e il diavolo, permette anche una lettura comples
siva della pericope: naturalmente al primo viene concesso uno spazio
maggiore (w. 5b-7. 10). Attraverso alcune azioni che lo qualificano,
Dio inizia e conclude la pericope (al v. 5 si dice che «dà grazia», al v.
10 è definito il «Dio di ogni grazia»; al v. 6 i cristiani vengono invita
ti a sottomettersi alla «potente mano di Dio», mentre al v. 1 1 allo
stesso si conferisce «la potenza») , invece al centro (vv. 7 8 ) si mo
.
166
preoccupazioni che i cristiani rovesciano in lui divengono occasioni
della cura divina, e quindi di gioia. Ciò tuttavia senza abbassare la
guardia contro il demonio a causa del quale si deve restare sobri e vi
gilare perché, secondo l'immagine offerta dal Sal 22, 14 , come una
belva feroce in cerca di preda è attento a qualsiasi possibilità gli ven
ga offerta per procurarsi la vittima da azzannare. Vopposizione del
credente è confortata dalla situazione comune in cui versa la frater
nità sparsa nel mondo (le sofferenze non sono un fatto individuale) ,
ma soprattutto dal vigore e dalla saldezza che gli vengono non dalle
proprie forze ma dal Dio di ogni grazia.
COMMENTO
1 67
Ignazio di Antiochia, Ad Ephesios 5, 3 ) : «perché Dio resiste ai su
perbi ma dà grazia agli umili>>. Forse costituiva il bagaglio culturale
della catechesi orale ancor prima che i nostri testi radottassero e lo
codificassero: la presenza negli scritti di Clemente e di Ignazio po
trebbe essere un segno di questa precedente oralità. L'impostazione
sapienziale e parenetica del testo lascia supporre che sia eredità del
la tradizione giudeo-cristiana che l'aveva mutuata dalla sapienza an
ticotestamentaria ove costituiva un motivo ricorrente (cf. Sa/ 147 , 6;
Sir 3, 1 8; 1 0 , 14; Gb 5, 1 1 ) più volte alluso nel NT (d. Mt 20, 26s.;
23 , 12) .
Poiché l a citazione è costruita sul parallelismo antitetico tra i
superbi e gli umili e tra le rispettive azioni divine delle quali sono i
destinatari, anche la sua comprensione non può che darsi per con
trasto. L'identità dei personaggi sembra individuare i due gruppi già
più volte confrontatisi, i cristiani, definiti per il loro carattere di
umiltà che verrà spiegato nel versetto successivo, e i loro persecutori
dei quali viene colto l'atteggiamento altero e sprezzante di chi si è
emancipato da tutti. Confermando lo schema oppositivo anche nella
interpretazione delle azioni, la resistenza di Dio nei confronti dei su
perbi è il contrario della grazia che rivolge agli umili (d. Le l ,
28.30.48).
Se questo è il prezzo della superbia, la raccomandazione che se
gue è conseguente, tant'è che della frase precedente riprende la for
ma imperativa, la citazione e il vocabolario dell'umiltà attraverso la
particella consecutiva: «Umiliatevi dunque sotto la potente mano di
Dio . ».
..
La mano di Dio, potente sia nel punire (cf. Sa/ 32, 4) che nel
proteggere (cf. Sa/ 9, 3 3 ) , da questo momento si occupa solo dei cri
stiani, destinatari del testo. La formulazione richiama ancora una
volta lo schema binario e paradossale: l'umiliazione umana garanti
sce la glorificazione divina (cf. Fi/ 2 , 8s.). Questo gioco di contrasti
conosciuto bene dalla tradizione parenetica (cf. Gc l , 9s.; 4, 10) serve
per invitare il cristiano non tanto a fare da solo quello che invece gli
verrebbe comminato da Dio, una specie di medicina da assumere per
star meglio, ma a prendere atto di quel che è, creatura, e conseguen
temente ad affidarsi alla volontà di chi ha in mano reali possibilità, e
168
cioè il proprio creatore (cf. Le 12, 22ss.). Se riconoscere il proprio
ruolo storicamente significa umiliarsi, è preferibile l'umiliazione mo
mentanea piuttosto che quella molto più dura e soprattutto eterna.
Infatti su questo riconoscimento storico il cristiano si gioca l'eternità
espressa come scopo dell'umiliazione: «Umiliatevi. . . perché vi esalti
nel tempo opportuno». L'esaltazione divina indica la salvezza desti
nata a realizzarsi nel momento che Dio riterrà opportuno, nel tempo
ultimo suggerisce il richiamo del termine kairos alla sua prima appa
rizione nel testo petrino allorché indicava la parusia del Signore ( 1 ,
5 ) : per ora viviamo il tempo della prova e dell'umiliazione.
Se l'uomo si umilia davanti a Dio, la sua potente mano non so
lo lo esalterà nel momento che egli stesso deciderà, ma dimostrerà
tutta la sua protezione e il suo aiuto fin da ora, nel presente caratte
rizzato dalla sofferenza, permettendo che venga scaricato su di lui
ogni gravame: «gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché
(hoti) egli ha cura di voi» (v. 7).
Tratto dal Sal 55, 23 l'invito concerne la possibilità di deporre
in Dio tutte le proprie preoccupazioni, soprattutto quelle relative al
la situazione storica che i cristiani si trovano a vivere. Un atteggia
mento del genere non muove dalla mancanza di responsabilità quan
to dalla fiducia in colui che sa prendersi a cuore la loro causa (cf. 2
Cor 12, 9s.) . È la saggezza dell'umile che, non potendo contare su se
stesso, confida in chi la forza la possiede in proprio. Un tale affida
mento gli permette di riconoscere il disegno divino anche nelle tri
169
chesi evangelica (cf. Mc 1 3 , 33 .35; 14, 34.37 ; Mt 24, 42; 25, 13 ; 26,
38.4 1 ; Le 12 , 37; 2 1 , 34-3 6) e adottato dalle comunità cristiane delle
origini (cf. Rm 13, 1 1s . ; l Cor 16, 13 ; l Ts 5, 6; Co/ 4, 2; Ap 3 , 2; 16,
15 ) serve a caricare d'importanza fino a rendere decisivo il confron
to con Satana per la sopravvivenza dei destinatari. A muovere le fila
della situazione di sofferenza in cui vivono è lo stesso diavolo, che
per definizione (diabolos) li vorrebbe sedurre a un atteggiamento
conforme a quello comune dei pagani (cf. l Cr 2 1 , l ; Le 4, 5-7), ma
allo stesso tempo è anche un avversario (d. Le 22, 3 ; Gv 13, 2), un
calunniatore (cf. Pro 18, 17; Est 8, 1 1 ; Zac 3 , l ) ; perciò i cristiani de
vono resistere sapendo che giocano in questa lotta una battaglia im
portante per la loro identità (cf. Le 23 , 3 ls.; E/6, 10- 12), ma non l'ul
tima nel senso che è imminente la parusia. Se ciò è motivo di spe
ranza, ad occupare il campo però è la figura spaventosa di Satana
che viene paragonata a un leone la cui ferocia intimidisce le prede
come la società sta facendo con la piccola e indifesa comunità cri
stiana (cf. Sa/ 22, 13s.). D'altra parte il verbo «divorare» applicato al
leone-satana è quanto mai suggestivo e forse non gli è estranea la sfu
matura apocalittica che dipinge la società come una bestia feroce la
quale divora le proprie vittime, ripulendo lo spazio che occupa da
ogni residuo di diversità. In questo contesto suona naturale l'invito
alla resistenza: «Resistetegli saldi nella fede ... ».
TI comando espresso con lo stesso verbo usato prima per Dio,
sebbene mutuato dal contesto persecutorio, lascia pur sempre inten
dere una vicinanza e una comunione di opere oltre che d'intenti dei
cristiani con Dio da non trovare rispondenze nel NT; anzi l'espres
sione, se letta in termini assoluti, suonerebbe come contestazione nei
confronti del comando gesuano «non opponetevi al maligno» (Mt 5 ,
39).
Un ulteriore motivo a favore della resistenza al maligno viene
dalla universalità della sofferenza che i cristiani patiscono: « ... sapen
do che i vostri fratelli sparsi nel mondo subiscono le stesse sofferen
ze vostre». Di quali fratelli stia parlando e di quali sofferenze siano
vittime, se di persecuzioni ufficiali o d'altro, il testo non dice. È pos
sibile che il termine generico «fratellanza nel mondo» indichi tutti i
cristiani che, in quanto tali, per loro stesso statuto (cf. l , 1 : «eletti di-
170
spersi») , vivono un rapporto conflittuale con la situazione storica in
cui si trovano, senza che il «mondo» debba necessariamente espri
mere un'accezione negativa. In tal modo si verrebbe a ridurre l'enfa
si sulle persecuzioni, o quanto meno a relativizzarle, in considerazio
ne anche della situazione generale, dovuta più allo statuto parados
sale dei cristiani che a convincimenti particolari dell'Autore circa
l'imminenza del termine ultimo della storia salvifica. Che la riflessio
ne escatologica e l'ambiente ostile giochino un ruolo di non poco
conto sul monito sembra chiaro, ma la convinzione della fine prossi
ma non viene espressa nel testo.
La risposta di Dio in persona alla resistenza dei cristiani è una
promessa, scolpita con originalità sui modelli augurali destinati a
concludere alcuni scritti della cristianità antica (cf. Rm 15, 13 ; l Ts 5,
23 s ; Eh 13 , 20s.), e affidata a quattro futuri («ristabilirà, confermerà,
.
17 1
1 PIETRO 5, 12-14
INTRODUZIONE
172
sapore liturgico manifesta l'occasione della lettura pubblica del testo.
Dal punto di vista meramente retorico, merita un plauso la con
cisione della conclusione, tipica più di un discorso che di una lette
ra, espressa nella formula di cortesia, seguita dalle motivazioni e dal
contenuto dello scritto e dalla exortatio (<<Vi ho scritto, come ritengo,
brevemente, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di
Dio nella quale dovete restare»).
COMMENTO
173
be spiegarsi con l'intenzione di chiedere al nostro scritto, attribuito a
Pietro, di far incontrare le due tradizioni storiche più autorevoli, al
lorché, scomparsa la generazione dei padri, sorgono seri problemi
nei rapporti con l'ambiente circostante.
Infatti a fianco di Silvano, legato alla tradizione paolina, trovia
mo un esponente della cerchia petrina, Marco (At 12 , 12). La defini
zione di «figlio mio» indica forse il discepolo legato alla persona di
Pietro. Legame sancito, secondo Papia, vescovo di Gerapoli, dalla
redazione scritta, accurata e fedele da parte di Marco degli insegna
menti che l'apostolo «impartiva . . . secondo le necessità del momento,
senza fare una raccolta ordinata dei detti del Signore>> (Eusebio di
Cesarea, Historia Ecclesiastica II, 15, 1 -2). La fedeltà di Marco si
esprime nel «non tralasciare niente di tutto ciò che aveva udito e non
dire niente di falso» (Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica III,
39, 15) . La tradizione paolina reputa Marco cugino di Barnaba (cf.
Col 4, 1 0) e collaboratore di Paolo (cf. 2 Tm 4 , I l ; Fm 23s . ) , fino al
la crisi della collaborazione con Barnaba, poi Paolo e Sila vanno per
la loro strada mentre Barnaba e Marco riprendono la missione a Ci
pro (cf. A t 15 , 3 6-40) . È possibile cogliere in questa conclusione la
volontà di ricomporre lo strappo? Ma se di ricomposizione deve trat
tarsi perché aspettare la fine dello scritto? o qui si realizza piuttosto
la conciliazione tra la tradizione palestinese petrina e quella paolina
extrapalestinese?
Anche l'identificazione di Babilonia con Roma e la localizzazio
ne dell'invio della lette�a dalla capitale dell'impero risponde alla tra
dizione petrina. Con il nome di Babilonia si conosce la più famosa
città dell'Eufrate che nel I secolo d.C. ospitava una colonia ebraica
costretta a lasciare la città al tempo dell'imperatore Claudio tra il 41
e il 46 per contrasti sorti tra la popolazione babilonese e gli ebrei (cf.
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche XVIII, 9, 2-9) . Un'altra località
che porta lo stesso nome è una fortezza militare fondata dai babilo
nesi presso il Cairo (cf. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche II, 1 5 ,
l ; Strabone, Geographia 1 7 , l , 30) . Con nessuna di queste due loca
lità storiche sembra collegata l'attività missionaria di Pietro. Invece
l'interpretazione simbolica di Babilonia come crittogramma di Roma
è attestata da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica II, 15 , 2 ) e
174
fondata sui testi apocalittici del I secolo (d. Ap 14, 8; 17, 5 . 1 8; 18, 2;
Apocalisse di Baruc 1 1 , l ; 67 , 7 ; 4 Esdra 3, l; 28; Sib 5 , 143 ; 158) .
Nella tradizione biblica profetica e apocalittica, Babilonia rappre
senta la città idolatrica e corrotta, come anche il luogo dell'esilio e
della dispersione degli ebrei (cf. Is 13 ; 43 , 14; Ger 5 1 -52 ; Ap 14, 8;
16- 18) . Dallo scritto tuttavia l'Autore non lascia trasparire la pole
mica antiromana caratteristica della letteratura apocalittica ave Bahi
lonia viene identificata con Roma, simbolo dell'idolatria e rappre
sentante della potenza ostile a Dio. Il titolo di coeletta che richiama
uno degli attributi rivolti, nell'indirizzo, ai destinatari lascia suppor
re una soluzione generica in cui Babilonia costituisce l'immagine di
ogni ambiente che si oppone alla comunità cristiana e la coeletta è
qualsiasi comunità che si trova nella situazione in cui languono i
destinatari.
Anticipati da una formula di cortesia, atta a minimizzare - solo
formalmente - l'importanza della lettera («brevemente»; d. Eb 1 3 ,
22; Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos 8 , 2 ; Policarpo di
Smirne, Epistula ad Philippesios 7 , 3 ) , in chiusura vengono rammen
tati le motivazioni e il contenuto dello scritto. Le prime, espresse con
due verbi caratteristici della parenesi, ne riassumono il messaggio:
«esortare», esposto in forma assoluta, sembra rivolto all'aspetto più
prettamente parenetico; «attestare» o confermare invece fa riferi
mento più alla parte dottrinale espressa con l'annuncio e con la pro
pria testimonianza della passione, morte e resurrezione di Cristo. Il
contenuto esposto dall'annuncio di Pietro è definito un dono gratui
to di Dio che si manifesta in Cristo e che conduce alla salvezza.
Lo scritto si conclude con l'invito ai destinatari di scambiarsi il
bacio d'amore, una forma di saluto tipico delle comunità cristiane le
quali adottano un gesto riservato anticamente ai rapporti familiari:
mentre Paolo parlando di bacio santo (cf. Rm 16, 16; l Cor 16, 20;
2 Cor 13, 12; l Ts 5, 26) sottolinea l'aspetto liturgico, nella l Pt pren
de il sopravvento la relazione personale e affettiva.
L'augurio finale, come quello iniziale, è rivolto a tutti e riguarda
la pace a riassumere le buone relazioni con Dio e con i fratelli.
175
INDICE
INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . .. . . . . . . p ag. 7
l PIETRO l , 1-2 . . o • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • o o • • » 11
Introduzione . o • • o • • • o o • • • • • • • o .. . . . . o • • • • • • » 11
Commento . . ·O • • • • • • o • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • » 12
l PIETRO l , 3 - 12 . . . . . o • • • • • • • • • • • • o • • • • • • • • » 22
Introduzione o o • • • • • • • • • • • • • • • o o • • • • • • • • • • • » 23
Commento . . o • • • • • • • • • • • • • • • o • • • • • • • • o • • • » 25
l PIETRO l , 13 -2 1 . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . » 37
Introduzione . . . . o • o • • • • • • • • • • • • • • • • • • • o • • • » 37
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . » 39
l PIETRO l , 22-25 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 48
Introduzione . . . . . o • • • • • • • • • • • • • • • • • • • o • • • • » 48
Commento . . . . . . . . . . . o o . o • • • • • • • • • • • • • • • • » 49
l PIETRO 2 , 1 -3 . . . . . . . . . . . . . . o • • • • • • o • • • o • o )) 53
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . o • • • o o o • • • o • » 53
Commento o • .• • • • • o • • o • • • • • o • • • • • • • • • • • • • • » 54
l PIETRO 2 , 4-10 o o • • o • • • • o o • • • o o • o • • • o o • • • • » 59
Introduzione . . o o o o • • • • o • • • • • • • • • o • • • • • • • • o » 59
Commento . . o . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . o • • • • o » 61
177
l PIETRO 2 , 1 1 - 17 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p ag . 70
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 70
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73
l PIETRO 2, 18-25 . . � . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . » 80
Introduzione . . . . . . ... . ... .. .
. . . . . . . . . . . . . . » 80
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 82
l PIETRO 3 , 1 -6 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 91
Introduzione . . . .. .. . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . » 91
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 92
l. PIETRO 3 , 7 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . · » 99
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 99
Commento . . . . . . ·. . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . » 100
l PIETRO 3 , 8- 12 . . . . . . . . . � . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 03
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 1 03
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 05
1 PIErno 3 , 13-17 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 1 12
Introduzione . . .. .. . .. . .. ..
. .. . . . . . . . . . . . . . )) 1 12
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 13
l PIETRO 3 , 18-22 . . . . .
. ... .. .. .
. . . . . . . . . . . . )) 1 18
Introduzione . . . . . . . . . . . .
. . . . .. . . . . . . . . . . . . )) 1 18
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 120
l PIETRO 4, 1 -6 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 128
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 128
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 130
l PIETRO 4 , 7 - 1 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 136
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 136
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 137
178
l PIETRO 4 , 12 - 1 9 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 144
Introduzione . . . . . .
. . ...
. . . . . . .
. . . . . . . . . . . . » 144
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 146
l PIETRO 5, 1 -4 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 154
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . » 154
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 157
5a .
l PIETRO 5 , . . .
. . . . . ....... . .
. . . . . . . . . . . » 162
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 162
Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 62
l PIETRO 5 , 5h- 1 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1 65
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . .
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Commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 167
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