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1 All’origine del terrore
Il film horror, per come lo conosciamo noi, ha tematicamente origine con il
romanzo gotico di fine Settecento, a partire dal classico Il castello di Otranto
(1764), di Walpole1.
Da questo filone, il cinema ha assorbito le ambientazioni e i personaggi tipici del
genere:
Castelli, luoghi abbandonati, cimiteri, chiese, sotterranei e, successivamente,
metropoli mostrate nelle loro sembianze minacciose, grottesche e deformate
(caratteristica del cinema espressionista e del noir); effetti sonori e visivi
inquietanti come porte che cigolano, suoni di catene, candele e luci che si
spengono; personaggi suggestivi come nobili malvagi, donne/vergini perseguitate,
eroi impavidi, mostri, demoni, assassini, scienziati folli.
Gli altri testi alla base dell’immaginario orrorifico sono:⚫Frankenstein (1818) di
Shelley⚫Il vampiro (1819) di Polidori⚫Lo strano caso del Dr Jakyll e del
signor Hyde (1886) di Stevenson ⚫Dracula (1897) di Stoker
⚫I racconti di Poe
Molti di questi capolavori della narrativa gotica furono ben presto oggetto di
trasposizione cinematografica.
Prima di avventurarsi nella cronologia del genere horror bisogna chiarire un
concetto essenziale all’innesco psicologico del meccanismo orrorifico: il
perturbante.
Questo termine è ricondotto alla teoria freudiana dell’Unheimlich: «ciò che
inserito in un testo estetico (in un testo scritto come in un'opera visiva o uditiva o
altro) istilla una inspiegabile ansia, un disagio, una dissonanza cognitiva che
monta fino a snervarci»2.
La parola tedesca “unheimlich” (perturbante) entra in conflitto con il termine
“heimlich”, che deriva da Heim (casa, patria, e suggerisce l’idea di
confortevolezza e tranquillità)3.
Unheimliche freudiano allude sempre all’irrapresentabile, a ciò che è nascosto e
riaffiorato, all’estraneo segretamente familiare4.
La sensazione di inquietudine e paura emerge perché nell’oggetto/soggetto che ci
spaventa, rinveniamo tracce di un qualcosa che ci appartiene, ma che è sepolto
nel nostro inconscio. Uno sconosciuto, quindi, che in profondità ci è familiare. Il
“ritorno” di questa familiarità, genera il disagio.
Secondo Freud, il perturbante può manifestarsi attraverso due tipologie di ritorno:
⚫Ritorno del rimosso: relativo alla riemersione dei traumi infantili.
⚫Ritorno del superato: relativo alla dimensione del pensiero magico e
alla riemersione di quelle paure infantili che nella crescita dovrebbero
essere elaborate, ma che spesso restano, invece, ben vive nel nostro
inconscio (es. Paura del buio, dei mostri, dei fantasmi). Nel caso delle
narrazioni orrorifiche, in relazione, soprattutto, all’investimento
spettatoriale, a entrare in gioco è il ritorno del superato con tutto
l’immaginario che porta con sé. Nella visione, quindi, veniamo suggestionati
da paure e inquietudini che ci appartengono fin dall’infanzia. Generalmente
il ritorno del superato si manifesta con i seguenti elementi (narrativi) 5:
⚫oggetti inanimati scambiati erroneamente per animati (bambole, oggetti
di cera, pupazzi, automi, membra isolate) = quando qualcosa che non sia
vivente si rivela troppo simile a ciò che è vivo; 2 Rigotti F., Il perturbante e la
bellezza, in Doppiozero, https://www.doppiozero.com/materiali/il-perturbante-e-la- bellezza 3
Cfr. Freud S., Il perturbante, in Imago, 1919.4 Cfr. Albano L., Ingmar Bergman - Fanny e
Alexander, Lindau, Torino 2009. 5 Rigotti F., Il perturbante e la bellezza, op. cit.
⚫oggetti animati che si comportano come se fossero inanimati
(fenomeni di trance, follia, attacchi epilettici...);
⚫cecità o perdita degli occhi (il “mago sabbiolino” di Hoffmann che
strappa gli occhi ai bambini);
⚫il doppio (gemelli, sosia e Doppelgänger etc.);
⚫coincidenze e ripetizioni (es. l'imbattersi più volte nello stesso giorno
nello stesso fenomeno);
⚫essere sepolti vivi in stato di morte apparente (cui alcuni attribuiscono
la palma del perturbante);
⚫un genio maligno che controlla ogni cosa;
⚫confusione tra realtà e immaginazione (sogni ad occhi aperti ecc.) =
quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile. Tutti elementi presenti,
secondo la storia raccontata, nelle narrazioni orrorifiche. La componente
suggestiva di questi racconti, in ambito cinematografico, è anche il risultato
di una forte componente visuale. A rendere possibili gli effetti speciali
necessari per un genere dal forte impatto suggestivo come l’horror, furono
certamente fondamentali le sperimentazioni sul visuale operate da Meliés
con le sue opere di fantascienza (es. Viaggio nella luna, 1902).
2 Il primo cinema horror
Uno dei primi esempi di cinema horror è sicuramente Lo studente di Praga (1913),
di Stellan Rye, che racconta la storia di un ragazzo che vende l’anima al diavolo
per poi essere braccato da un suo doppio.
I vertici del racconto inquietante vengono raggiunti, però, nell’ambito
dell’Espressionismo tedesco che per forma e costituzione narrativa, diventa
presto uno dei terreni più fertili di sperimentazione linguistica del genere.
Appartengono alla corrente espressionista capolavori del cinema come:
⚫Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Wiene, caratterizzato dalla
deformazione geometrica degli spazi e da forti elementi onirici.
⚫Nosferatu il vampiro (1922) del maestro Murnau, tratto dall’opera di
Stoker, uno dei classici del genere che ha contribuito, con i suoi elementi
stilistici e atmosferici, a costruire l’immagine cinematografica del vampiro e
i canoni del genere horror basato sui mostri e sul sovrannaturale.
⚫Il carretto fantasma (1920) di Sjöström, che ha profondamente
influenzato il cinema di Bergman.
⚫Pagine dal libro di Satana (1921) di Dreyer Sul versante americano,
invece, nei primi anni venti l’industria hollywoodiana, salvo l’esperienza de
Il fantasma dell’Opera (1925) di Rupert Julian, faticò a esplorare questo
genere, riuscendo a imporsi nel mercato solamente con l’arrivo del sonoro.
Fino a quel momento, quindi, la narrazione orrorifica era prettamente di
matrice europea. La figura del mostro, raffinata dal Nosferatu di Murnau,
ha un’enorme centralità nel genere horror. I mostri, infatti, condensano le
paure individuali (ritorno del rimosso) ma anche quelle sociali e collettive
(es. Il diverso).
A partire dal gotico, tornando indietro fino alla mitologia, il mostruoso si
ridefinisce e rimodella costantemente a seconda delle ansie dell’epoca,
attingendo alle forme iconiche classiche per trovare nuove strade allo spavento.
Ad esempio, gli zombie dei film di Romero (siamo negli anni ‘70) derivano dal
Frankenstein della Shelley e dalla versione cinematografica di Whale del ‘31.
Talvolta avviene proprio una riscrittura del personaggio, dettata dalle nuove
esigenze sociali: si pensi alla differenza tra il Nosferatu di Murnau e i vampiri di
Twilight (2008) di Catherine Hardwicke, contaminati dal genere romance.
3 L’evoluzione del genere
Dopo l’espressionismo tedesco, fu proprio il Frankenstein di Whale,
rappresentante dell’industria americana dell’orrore, a rinvigorire il genere con una
trattazione del personaggio, interpretato dal grande attore Boris Karloff,
estremamente più complessa ed elaborata, capace di allontanarsi dal
semplicemente iconico per trovare un nuovo livello di profondità nel genere 6.
Sempre a Karloff dobbiamo un’altra icona dell’horror USA: La mummia (1932),
diretto da Freund. La figura di Dracula, invece, dopo Nosferatu, venne riproposta
del Dracula (1931) di Browning, con la celebre interpretazione del popolare
attore ungherese Bela Lugosi.
Uno dei punti di svolta dell’horror americano fu sicuramente Freaks (1932),
sempre di Browning, che faceva prepotentemente leva sulla paura del diverso e
sulle logiche del realismo. Nel film, dei “freaks”, persone con fattezze mostruose,
che lavorano in un circo, si vendicano contro un trapezista dopo aver subito
costanti vessazioni. Il finale, ferocissimo e all’epoca censurato, è entrato ormai
nella storia del cinema.
King Kong (1933) di Schoedsack e Cooper, invece, oltre ad essere una delle
pellicole più popolari dell’epoca - memorabile la scena sull’Empire State Building -
ebbe il merito di aprire la strada a un nuovo genere di film tecnicamente horror,
ma contaminati con altri stili di racconto. In questo caso, ad esempio, il confine tra
horror, avventura e fantastico è assai sottile, pur appartenendo chiaramente a
quel filone “mostrusoso” che ha caratterizzato il cinema horror degli anni Trenta
in Europa e negli Stati Uniti.
King Kong fu soltanto il primo di una lunga serie di ibridi americani, tra i quali
ritroviamo, negli anni Cinquanta, L'invasione degli ultracorpi (1956) di Siegel,
dove il diverso prende le sembianze minacciose dell’alieno che, in questo caso,
coincide anche con il doppio dato che nel film i “mostri” venuti dallo spazio
prendono le sembianze degli umani.
Il successo di questa tipologia di Horror anni ‘50 era determinato da una forte
influenza sociale. Dietro L’invasione degli ultracorpi, ad esempio, c’era il clima
di sospetto che governava gli Stati Uniti durante la guerra fredda. In Giappone,
invece, una pellicola popolare come Gojira (Gozzilla, 1954) di Honda Ishiro,
nascondeva i timori post-atomici.
A cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, negli Stati Uniti si assistette a un revival dei
classici anni ‘30, dovuto alle nuove potenzialità del colore e a un abbassamento
della censura, che ampliava gli orizzonti orrorifici del genere. Riapparvero, così, i
Frankenstein, i Dracula, le mummie e i mostri della laguna.
Tornò di moda anche il genere gotico con la messa in produzione film legati
all’universo di Poe (es. I vivi e i morti, 1960, Corman).
Gli anni Sessanta7 furono un periodo florido per l’horror, con esempi di alta
maestria cinematografica e autoriflessività rispetto alle potenzialità del mezzo
filmico.
E’ il caso di Peeping Tom (1960) di Michael Powell che ragiona sulle logiche del
voyeurismo cinematografico e Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, che oltre a
contaminare l’horror con il thriller, come fece successivamente Argento in
Profondo Rosso, lavorò in modo trasfigurato e assolutamente moderno su codici
del genere come il doppio, la malattia mentale, l’isolamento, l’alienazione.
Contemporaneamente a Hitchcock, l’horror prese anche strade più oscure,
andando verso lo splatter con il cinema di Hershell Gordon Lewis, autore di Blood
feast (1963) e Two thousand maniacs! (1964), famosi per lo sdoganamento
della violenza orrorifica e orripilante nel testo filmico.
Gli anni Sessanta e Settanta coincisero anche con l’emersione di horror d’autore,
con livelli di lettura estremamente più ampi rispetto al semplice intrattenimento
pauroso. Era il caso de La notte dei morti viventi (1968) di Romero, privo di
qualsiasi riferimento gotico e classico, e Rosemary's baby (1968) di Roman
Polanski, nel quale il gotico viene declinato in un ambiente metropolitano che fa
da cornice alla narrazione di un’infanzia demoniaca. L’autorialità, in quegli anni, è
forte anche in Italia e si concretizza prima con Mario Bava e poi con Dario
Argento, fautori del rinascimento italiano dell’horror.
Bava si impose con opere quali La maschera del demonio (1960) e I tre volti
della paura (1963).
Argento, invece, considerato oggi uno dei padri dell’horror contemporaneo,
esplose negli anni Settanta con un ciclo di pellicole meravigliose che combinavano
il genere horror con il thriller:
⚫L'uccello dalle piume di cristallo (1970) (trilogia degli animali) ⚫Il gatto a
nove code (1971) (trilogia degli animali)⚫4 mosche di velluto grigio (1971)
(trilogia degli animali)⚫Profondo rosso (1975)
Successivamente, Argento creò un nuovo ciclo più “puro” ed esoterico, legato a
mostri, streghe, demoni, diavoli e fantasmi. Inizia, così, la trilogia delle madri
Suspiria (1977), Tenebre (1982) e La terza madre (2007). Da menzionare,
sempre in questo filone, anche Inferno (1980) e Phenomena (1985).
4 DaglianniSettantaallacontemporaneità
La maturità narrativa e visiva del genere venne raggiunta negli anni Settanta con
il cosiddetto “New Horror” rappresentato da registi come 8:
Wes Craven - L'ultima casa a sinistra (1972)David Cronenberg - Il demone
sotto la pelle (1976) Tobe Hooper - Non aprite quella porta (1974)William
Friedkin - L'esorcista (1973)Brian De Palma - Carrie - Lo sguardo di Satana
(1976) John Carpenter - Halloween (1978)
A loro va accostato il successo di Stephen King che rese la paura letteraria un
fenomeno popolare su vasta scala, mai visto prima.
Se c’è, però, un film che, insieme a L’esorcista, ha ridefinito i contorni del cinema
d’autore di genere è stato certamente Shining (1980) di Stanley Kubrick, che pur
non andando contro al gusto di King, l’autore del romanzo dal quale il film è stato
tratto, grazie al suo linguaggio innovativo, ai rimandi alla classicità e alla sua forza
suggestiva divenne un autentico cult del terrore e uno dei più belli mai realizzati.
La tradizione gotica, negli anni Ottanta, venne completamente abbandonata,
andando a scovare il terrore nelle viscere della società contemporanea e
incentrando la paura nel corpo dell’uomo in mutazione. Esempio di questa
evoluzione furono:
David Lynch - The elephant man (1980)Cronenberg - Videodrome (1983) e La
mosca (1986), Ridley Scott - Alien (1979)Carpenter - La cosa (1982)Hooper -
Poltergeist (1982)
In questo periodo si fa largo anche la pratica della citazione, del metalinguaggio e
della “serializzazione” dell’horror, facendo entrare il genere nell’Era del
postmoderno. Ne sono testimonianza i film di Wes Craven con le serie di
Nightmare e di Scream.
A partire dagli anni 2000 la tendenza dell’horror fu quella di contaminare,
guardare alle logiche della tortura splatter (la saga di Saw - L’Enigmista), alla
serializzazione forzata (la saga di Resident Evil) al sovrannaturale demoniaco
incentrato sulle presenze infestanti (da Paranormal Activity alla saga di The
Conjuring) fino al mercato orientale con Ringu (1998) di Hideo Nakata, che ebbe
il merito di portare lo sguardo degli spettatori occidentali verso le potenzialità
della narrativa paurosa giapponese e coreana.
Le tendenze più attuali, invece, si muovono verso un rafforzamento
dell’autorialità, dell’intellettualismo, del simbolico o dello sguardo sociale.
Pensiamo all’home invasion de La notte del giudizio (2013), alla critica sociale
di Get Out (2017) e Us (2019), alla sofisticatezza visiva di The Witch (2015), al
suggestivo regime simbolico di Hereditary (2018) e Midsommar (2019) o al
racconto visionario e sconvolgente del remake di Suspiria (2018) firmato da Luca
Guadagnino.
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1 Dalteatroalcinema
Il musical è un genere di intrattenimento che deriva dal teatro e affonda le sue
radici nell’operetta.
A differenza dell’opera, l’operetta è un genere musicale-teatrale considerato poco
prestigioso e diffusissimo nell’ Europa dell’Ottocento, la trama è semplice, hanno
un ruolo centrale le coreografie e la musica, si alternano infatti brani musicali a
parti dialogate. È un tipo di narrazione immediata, diretta e godibile, che prende
le distanze dalla tradizionale opera seria.
Il musical americano prende ispirazione maggiormente dall’operetta e si impone
come genere indipendente e innovativo, adottando novità stilistiche e narrative. A
differenza dell’operetta, che rispondeva a un genere più alto con uno più
facilmente accessibile e godibile, il musical ha l’obiettivo di elevare una tradizione
ritenuta popolare. Mette insieme, infatti, la generazione di discendenti europei
dell’operetta, il jazz e il music-hall americano, con l’intento di restituire una sintesi
che possa raccontare qualcosa in più del popolo statunitense.
Esplode, quindi, negli Stati Uniti come espressione del sogno americano, valvola
di sfogo per una manifestazione poetica d’evasione che restituisce un prodotto di
puro entertainment.
Si occupa di strutturare una rappresentazione fondata su diversi generi e
sottogeneri e si avvale di molteplici tecniche espressive e comunicative,
combinate in modo da portare avanti la storia attraverso l’uso della
comunicazione verbale insieme alla danza, il canto, la musica. Il teatro di prosa
viene dunque contaminato da linguaggi espressivi diversi da quello verbale.
Sotto il profilo narratologico, il musical prende ispirazione dal modello della fiaba,
il finale è spesso un happy ending, che viene raggiunto attraverso il superamento
di prove che vengono rappresentate attraverso numeri musicali, cantati e ballati.
La storia viene spesso costruita in luoghi e contesti vicini allo showbiz, l’arte, la
moda e lo spettacolo fanno da sfondo alle vicende narrate che sono così immerse
in un ambiente votato alla performance e all’intrattenimento.
Ma arriviamo al cinema, che approccia al musical appena il suono entra in scena.
Usa il genere musical per sperimentare e testare tutte le potenzialità che il suono
introduce e può introdurre nel linguaggio cinematografico. Si tratta di cose mai
fatte prima, lontane dal cinema muto, che aveva i suoi attori, i suoi registi, il suo
linguaggio.
Con l’arrivo del suono cambia tutto e, cimentarsi con un film che si basa
soprattutto sull’espressione sonora, è una presa di posizione chiara, che comunica
al mondo che una nuova era è giunta, dove non soltanto l’immagine sarà centrale
ma dove anche il suono, finalmente, può dare prova del suo potere.
L’impatto è sorprendente. Il primo film sonoro della storia del cinema è proprio un
musical, si chiama Il cantante di jazz, esce nel 1927 e ha, chiaramente, come
tema centrale la musica. La particolarità di questo film è che solo i numeri
musicali sono sonori, il resto segue ancora le regole del cinema muto con tanto di
didascalie.
Il cinema americano sceglie quindi di esercitarsi con il sonoro proprio usando il
genere musical, non sperimenta solo rispetto all’uso del suono ma anche della
macchina da presa, che scopre nuovi movimenti e angolazioni.
Anche la scelta del cast si fa complessa. Il genere musical e il genere comico sono
quelli che necessitano di attori professionali e versatili. Spesso si parte proprio dal
coinvolgere artisti noti del panorama musicale, musicisti professionisti che
diventano personaggi centrali della storia. Gli attori infatti devono essere in grado
di recitare, cantare, ballare ma anche sapere interagire con la macchina da presa.
2 Evoluzione del musical cinematografico
Negli anni Trenta del Novecento, nel periodo della Grande Depressione, in un
momento critico per tutta la società americana, assistiamo a una grande
produzione di film musical, lo scopo era quello di fornire alla popolazione momenti
di svago e consolazione, distrarli dai problemi quotidiani e donare loro qualche
minuto di puro intrattenimento.
Fino agli anni ’40 verranno prodotti più di 300 film musical soltanto negli Stati
Uniti. Sono anche gli anni in cui un grande regista e coreografo, Busby Berkeley
realizzerà importanti film che cambieranno le regole del musical.
Berkeley riesce a liberare la danza dallo spazio codificato del palcoscenico,
usando la m.d.p. in modo inedito, introducendo inquadrature spericolate,
adottando angolazioni desuete, garantendo fluidità alla narrazione anche grazie
ad un uso sapiente del montaggio e dei corpi che, nel loro insieme, restituiscono
immagini geometriche, astratte e uno stile innovativo e moderno al film. Un
esempio è 42 strada, film del 1933 con le coreografie di Berkley e la regia di Lloyd
Bacon. Berkley capisce che il pubblico vuole andare oltre lo stereotipo della
commedia musicale di Broadway, dal cinema si aspetta altro, decide quindi di
sfruttare le sue potenzialità e fornisce allo spettatore nuovi punti di vista.
Nello stesso periodo si forma la coppia Fred Astaire - Gingen Rogers, lui attore,
ballerino, cantante e coreografo, lei ballerina; insieme rinnovano il genere, che
attraverso i loro numeri di danza, caratterizzati da una sofisticata leggerezza,
scopre la possibilità di creare numeri complessi ed evocativi senza ricorrere
necessariamente a gruppi di ballerini. Le trame dei lor film non sono strutturate o
complesse, restano semplici, basiche con l’obiettivo di porre l’attenzione sulla
performance.
Un’altra rivoluzione aprirà il nuovo decennio, infatti gli anni ’40 sono gli anni del
colore. Il Mago di Oz di Victor Fleming (1939) è in parte girato a colori e segnerà
l’inizio di una nuova era.
Il mago di Oz, Victor Fleming (1939)
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è
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anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941/n. 633).
Gli anni Quaranta porteranno anche la guerra e, così come capitò con la Grande
Depressione, il musical ebbe il compito di ribadire la poetica di evasione, cosa che
si ripetè sistematicamente anche durante la guerra fredda.
La seconda parte degli anni ’50, però, vede il declino del genere musical che era
arrivato al suo apice con film come Brigadoon (1954) e Singing in the rain (1952).
Quest’ultimo, forse il più noto e rappresentativo del genere, racconta la storia di
un divo oramai al tramonto, interpretato da Astaire, e di Charisse, star all’apice
del successo. È un film che racconta del mondo dello spettacolo, che ne mette in
evidenza i contrasti, affidandosi all’esaltazione del musical che qui diventa non
soltanto intrattenimento ma anche consolazione.
Con l’arrivo degli anni Sessanta, il musical sceglie di non portare più sullo
schermo storie originali ma si affida alle trasposizioni. Spettacoli di Broadway,
così, si trasformano in opere cinematografiche.
Gli anni Settanta sono invece gli anni della musica pop e rock, della guerra in
Vietnam e delle contestazioni. Questo clima di pieno fermento trova sfogo nel
cinema, sono gli anni di Jesus Christ Superstar di Norman Jewison (1973) e Hair di
Forman (1979). Sono musical fortemente ideologici entrati a far parte della storia
del cinema che, però, non rinnovano il genere.
Il consacrarsi di nuovi generi musicali come il rock, ci porta ad avere forti
contaminazioni, The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman (1975) ne è un
esempio, un film irriverente e ironico.
Nel suo periodo di crisi, il musical abbandona le storie leggere, si dedica a
tematiche socialmente impegnate e rinuncia all’happy end che fino a quel
momento lo aveva caratterizzato. I toni si fanno drammatici e i desideri dei
protagonisti spesso non si avverano, è il caso di West Side Story (1961).
Un altro cambiamento avviene nei musical degli anni ’70, la musica, anche se
presente, cambia funzione, diventa accompagnamento e non parte integrante
della narrazione. Questo è un passaggio che muterà totalmente la concezione del
musical classico che veicolava i suoi momenti più importanti della storia
attraverso canzoni e balli; ora la musica è soltanto una colonna sonora, che
commenta l’azione ma non contribuisce alla descrizione.
Un esempio è La febbre del sabato sera (Saturday Night Fever USA, 1977) di John
Badham. Un film che ebbe un enorme successo, soprattutto tra i giovani, oggi
considerato cult.
Negli anni Ottanta non ci sono grandi produzioni, questo conferma che il genere
non sta vivendo un momento felice. A riportarlo sugli schermi saranno Alan Parker
con Saranno Famosi, e la coppia Webber-Rice con Evita (1996).
Anche in Europa il musical torna con una nuova forma e nuovi contenuti, nel 2000
Lars von Trier dirige Dancer in the Dark (2000) che vede come protagonista la
cantante islandese Bjork e colpisce il pubblico per la sua intensità.
Cominciano a farsi strada film che riescono a fare appassionare nuovamente il
pubblico, nel 2001 è la volta di Moulin Rouge! con due grandi attori Nichole
Kidman e Ewan McGregor. Il successo è immediato, confermato anche dalla
colonna sonora che diventa subito popolare.
Anche Chicago (2002) ha un enorme successo, sembra così che il musical abbia
ritrovato il suo pubblico e sappia ancora ritagliarsi uno spazio importante nel
panorama cinematografico mondiale. Un film musical uscito recentemente, che
ha riscontrato un enorme successo, è La La Land (2016), scritto e diretto da
Damien Chazelle.
3 Scelte narrative
Il musical, nella sua versione cinematografica, inizialmente dipendeva fortemente
dal teatro, era pratica comune partire dalla riscrittura dei libretti di Broadway. I
tempi cinematografici però sono molto diversi da quelli teatrali, era spesso
necessario sacrificare la trama e la score musicale. Le major a un certo punto
cominciarono a distaccarsi fortemente dal tipo di narrazione teatrale per
realizzare delle vere e proprie sceneggiature pensate per il set.
Gli sceneggiatori impararono a sfruttare tutte le potenzialità del cinema, puntano
sulla possibilità di mostrare una molteplicità di luoghi, cosa che ovviamente il
teatro non poteva fare. Questo restituiva al pubblico una più profonda
immedesimazione, impossibile da avere a teatro, luogo nel quale lo spettatore è
consapevole dei limiti dello spazio scenico.
Hollywood cambiò le regole della narrazione del musical, arricchendola di spazi
esterni e ripensandone il linguaggio. I libretti teatrali dei musical di Broadway non
fornivano molti spunti agli sceneggiatori, la riscrittura era una necessità. Il lavoro
degli sceneggiatori era quindi molto lontano dal semplice riadattamento.
Se da un lato gli sceneggiatori tendevano a cambiare molto del musical originario,
in molte produzioni era comune impiegare registi, coreografi e attori della
produzione originale. In questi casi il legame tra la produzione teatrale e
cinematografica era più forte e in qualche modo era maggiormente tutelata la
rappresentazione originaria.
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1 Definizionedidocumentario
Una prima definizione di documentario risale agli anni Trenta del Novecento,
quando John Grierson lo definisce “creative treatment of actuality” (trattamento
creativo della realtà) e, in quegli stessi anni, la parola documentario non viene più
usata solo come aggettivo ma anche come sostantivo; il documentario propone
una visione creativa e allo stesso tempo garantisce il rispetto della realtà storica
che rappresenta.
La differenza tra un prodotto di finzione e un documentario, sostiene Adriano
Aprà, sta anche nel patto implicito dello spettatore con lo schermo. Se nel film di
finzione lo spettatore sa che sta guardando qualcosa che non è reale ma
verosimile e decide di crederci, nel documentario sa di guardare qualcosa che è
reale, oltre che verosimile, e proprio per questa ragione ci crede. 1
I documentari possono essere classificati seguendo due criteri:
Contenuti: documentari storici, naturalistici, turistici, d’arte
Modalità di regia/narrazione/stile: i contenuti vengono lasciati in secondo piano e
si concentra sulle caratteristiche espressive.Il film documentario tende a
usare un numero maggiore di inquadrature rispetto alla fiction, la
narrazione viene organizzata seguendo una logica o un argomento centrale.
I personaggi, gli attori sociali possono alternarsi, presentarsi e poi
scomparire, possono comparire per il tempo di una testimonianza e poi non
essere più presenti. La stessa cosa vale per luoghi e oggetti. Si salta da un
luogo all’altro, da un personaggio all’altro, preservando però la logica del
racconto. Un ruolo fondamentale viene giocato dal suono, sia esso
commento parlato, effetti acustici o musica, il suono contribuisce a fornire
una narrazione solida e immersiva.
2 Modalitàdeldocumentario
Bill Nichols pone l’attenzione sul regista del documentario che, attraverso il suo
lavoro, plasma storie, eventi, vicende, che possono arrivare allo spettatore in
maniera diretta.
Bill Nichols individua sei modalità registiche:
Modalità poetica: viene privilegiato il punto di vista soggettivo e personale, lo
spettatore viene coinvolto emotivamente e da forti stimolazioni estetiche,
allo stesso tempo può presentare realtà di denuncia o socialmente rilevanti.
Il montaggio è spesso libero, è colmo di associazioni visive, punta sul ritmo
del racconto e ha uno stile che ricorda il cinema sperimentale, personale o
d’avanguardia.
Modalità espositiva: si concentra su commento verbale e sulle argomentazioni. È
la modalità che più viene identificata con il documentario. Una voice over
commenta e si rivolge direttamente allo spettatore.
Modalità osservativa: pone l’attenzione su soggetti o eventi che vengono
osservati, spesso quotidianamente. Non c’è voice over e il regista pur
riprendendo le scene non entra mai nella narrazione, è come se fosse
assente.
Modalità partecipativa: pone l’attenzione sull’interazione tra il regista e il soggetto
raccontato. Sono presenti interviste o immagini d’archivio, filmati. Il regista
è presente, si sente, si può vedere e i suoi interventi possono alterare gli
equilibri e provocare situazioni.
Modalità riflessiva: Pone l’attenzione sulle convenzioni della regia documentaria.
Viene fuori il processo di creazione del documentario. Il regista si rivolge
allo spettatore spiegando il processo di creazione del documentario. Emerge
il rapporto tra realtà e rappresentazione di quella realtà. Lo spettatore è
quindi consapevole del processo di rappresentazione. Modalità
performativa: Si enfatizza la dimensione soggettiva, l’intensità emotiva
delle vicende vissute. Lo spettatore comprende esattamente cosa si sente
nel vivere date situazioni.
Più modalità espressive possono convergere nello stesso documentario Nichols
tende ad assegnare anche un’epoca che caratterizza le diverse modalità- Gli
anni ’20 vedono l’emerge del documentario poetico, gli anni ’30 sono
caratterizzati dalla modalità espositiva. Gli anni 60 e 70 quella interattiva e
partecipativa, mentre con gli anni ’80 e ’90 si afferma il documentario
riflessivo e performativo.
3 La voce e la comunicazione
La voce del documentario viene costruita dal regista che, attraverso il suo punto
di vista tende a restituire un’immagine del mondo reale. La sua narrazione deriva
da un contatto diretto che lui ha con la realtà, i soggetti, gli eventi e gli attori
sociali del mondo che vuole raccontare.
La voce del documentario ci fa capire anche il punto di vista sociale del regista.
Gli strumenti che il documentarista ha al proprio servizio sono tanti:
• Tagli e montaggio
• Inquadrature e composizione nella fase di ripresa
• Suono in sincrono o aggiunta di suoni altri e/o voice over
• Procedere cronologicamente o meno, riordinare gli eventi in senso non
cronologico può contribuire alla costruzione di un determinato significato
• Scegliere attraverso quale modalità impostare il documentario. Il commento
diretto nel documentario è il modo più comprensibile per esprimere il punto
di vista del documentario. Avviene solitamente con l’uso della voce
onnisciente e del commento fuori campo. Una voce che si rivolge allo
spettatore, in maniera esplicita. Questa soluzione non vale per i
documentari poetici che possono usare la voce fuori campo solo per
accennare qualcosa ma senza spiegare o dichiarare. Il punto di vista in
questo caso è implicito, fondamentali sono quindi le scelte estetiche del
regista rispetto alla selezione e disposizione di suoni e immagini. In ogni
caso non viene detto allo spettatore di assumere lo stesso punto di vista del
documentarista ma viene lasciato libero di interpretare il film, il regista non
offre un chiaro orientamento di visione. All’interno di un documentario è
possibile riconoscere almeno tre storie che vengono intrecciate:
• Storia del regista
• Storia del film
• Questo vuol dire che per analizzare il film bisogna essere consapevoli delle
intenzioni del regista, della storia del testo e i modi in cui lo spettatore può
comprenderla. Questo è detto anche triangolo della comunicazione.
Il documentario, attraverso tre caratteristiche del linguaggio può costruire una
narrazione che riesca a soddisfare le sue necessità e fare in modo che il film sia
efficace.
Il linguaggio parlato/scritto può rientrare nelle seguenti categorie:
• narrativo/poetica: racconta storie ed evoca stati d’animo
• logica: basata su indagini razionali, scientifiche, ricerche
• retorica: genera consenso rispetto ad argomenti aperti al dibattito
40
1
1. Il digitale come nuovo linguaggio (autoriale) del cinema
La conversione delle tecnologie di ripresa cinematografiche, passate nel tempo
dalla fisicità della pellicola al “codice” del digitale, ha comportato una vera e
propria rivoluzione del linguaggio filmico.
Sono cambiati gli strumenti tecnologici di ripresa e post-produzione, è cambiato il
modo in cui gli attori si muovono sulla scena e sono mutate le esigenze
distributive.
Se da una parte abbiamo un forte cambiamento estetico - non sempre apprezzato
dai nostalgici della pellicola - dall’altra il digitale ha condotto il cinema verso
nuove frontiere espressive e l’esplorazione di mondi e narrazioni fino a quel
momento impossibili.
Non ci si riferisce solamente al cinema commerciale ad alto budget, nel quale
l’uso del digitale è forse più intuibile, ma anche alla prospettiva d’autore che è
quella spesso più sperimentale nell’ambito delle nuove tecnologie applicate al
testo filmico.
Basti pensare, ad esempio al documentario “Gli spigolatori e la spigolatrice”
(2000) della grande regista Agnès Varda: realizzato in appena ventinove giorni
con una troupe ridottissima, dedicato alla vita degli homeless e al consumismo
contemporaneo. Un’opera interamente digitale nella quale, proprio nella prima
scena, la Varda viene ripresa con in mano una macchina digitale, facendo del film
un piccolo manifesto sull’estetica di questo nuovo mezzo espressivo. Nel caso di
questi documentari, il digitale viene proposto come un prezioso strumento per
inserirsi nel contesto raccontato senza invasività: un atto impossibile da compiere
con la macchinosità e l’ampiezza del classico set cinematografico popolato da
ingombranti macchine da presa.
Gli homeless della Varda, grazie all’agilità del digitale, potevano essere seguiti,
ascoltati, “guardati in faccia” nel loro mondo, senza la violenza dell’obiettivo di
una macchina da presa tradizionale.
Allo stesso tempo, essendo esecutrice diretta, incarnando anche il ruolo di
operatrice, la Varda volta semplicemente la camera e si inquadra, inserendosi
attivamente nella narrazione con un potente discorso sulla vecchiaia e la morte.
Il digitale costruisce, per lei, un palcoscenico mutevole e versatile, nel quale i
linguaggi e i piani del racconto si intersecano dando vita a una narrazione
innovativa e impensabile attraverso gli strumenti canonici del cinema.
La dinamicità, la leggerezza e l’essenza “spartana” del digitale si rivela la strada
maestra per il discusso collettivo Dogma 95 - creato da autori come Von Trier e
Vinterberg - che propugnava un uso puro del mezzo cinematografico, senza
artificiosità e modificazioni nella rappresentazione del reale.
Secondo questi autori il cinema deve costringere «la verità a uscire dai
personaggi e dalle ambientazioni... a discapito di ogni considerazione di
buongusto o di carattere estetico»2. Un cinema necessariamente realizzato nei
posti raccontati e non in studio, con suoni e luci naturalistiche, senza
modificazioni finzionali ad opera di registi che devono necessariamente fare «un
voto di castità»3.
A questa tensione dobbiamo opere come Festen di Vinterberg e, soprattutto,
Dancer in the Dark di Von Trier, vincitore a Cannes nel 2000.
In questo film, l’autore danese ha utilizzato 100 telecamere attive
contemporaneamente (contraddicendo, paradossalmente, i dettami di Dogma 95)
nella ripresa delle scene di danza. La volontà era quella di catturare l’atto da ogni
punto di vista possibile. Von Trier stesso si ancora addosso una camera, in modo
da immortalare anche il più piccolo particolare legato all’improvvisazione degli
attori: tra tutti, la protagonista Selma, interpretata dalla cantante Bjork.
Ovviamente alla lunga, il manifesto di Dogma 95 si è rivelato un ideale
irrealizzabile nella sua radicalità, che nessuno dei registi coinvolti riuscì a portare
avanti concretamente. Però, tutti, grazie a esso, compresero le potenzialità dello
strumento digitale nella riscrittura dello spazio e dell’immagine cinematografica.
Tra le sperimentazioni autoriali più interessanti, legate al cinema digitale,
troviamo Buena Vista Social Club (1999), che condivide con Dancer in the
Dark lo stesso direttore della fotografia (Robby Muller).
In questo film il digitale è utilizzato nella sua natura non invasiva, in modo
cronachistico, quasi di inchiesta, catturando le prove dei musicisti con discrezione
e mimesi scenica.
Un altro dei vertici estetico-tecnici che manifestano le potenzialità autoriali del
cinema è sicuramente L’arca russa (2001) di Alexander Sokurov, che racconta,
con grande maestosità e ambizione, tre secoli di storia russa attraverso una
panoramica delle sale del museo Hermitage di San Pietroburgo. E lo fa in modo
assolutamente radicale da un punto di vista tecnico e registico. Infatti il film è un
unico pianosequenza della durata di 90 minuti, interamente girato grazie a una
steadicam (una macchina da presa ancorata all’operatore tramite
un’imbragatura) che percorre le sale del museo in continuità, osservando in
azione oltre 2000 attori in costume che danno vita ai momenti più significativi
della storia russa.
Al di là del suo valore artistico, questa esperienza è assai rilevante perché
testimonia ancora una volta le possibilità del digitale. Un’operazione del genere
non sarebbe stata possibile con le normali attrezzature del set, vincolate dalle
strumentazioni legate al girare in pellicola.
Il girato è stato salvato direttamente sul set in un hard disk e questo ha permesso
di realizzare il tutto in un solo giorno. Il lavoro più lungo, quindi, è stato quello
della post-produzione, avvenuta ovviamente sempre attraverso i mezzi e i codici
del del digitale.
Interessante anche l’uso del digitale ad opera di Giuseppe Bertolucci che in
L’amore probabilmente (2000) “cede” il controllo della ripresa direttamente
all’attrice protagonista della pellicola: Sonia Bergamasco. E’, infatti, il suo
personaggio a determinare il punto di vista della narrazione attraverso la ripresa o
(autoripresa) del suo mondo. La Bergamasco interpreta Sofia, l’allieva di una
scuola di recitazione che riflette sull’atto del recitare e si riprende durante prove
stesse del film, con in scena lo stesso Bertolucci. Un discorso radicale ed
evidentemente metalinguistico reso possibile dalla fluidità degli strumenti
digitali4.
Se con la ripresa in pellicola ci si muoveva, in un certo senso, all’interno di un
universo non controllabile perché ci si poteva rendere conto della reale qualità
delle riprese solo in fase di post- produzione, con il digitale questo paradigma è
destinato a mutare.
Il digitale, infatti, permette di monitorare l’andamento delle riprese nel loro
compiersi e tutti gli attori coinvolti - regista, interpreti, tecnici etc - partecipano a
una grande messa in scena non vincolata dalla pensantezza delle strumentazioni
o dai limiti del budget classico.
⚫Non ci sono vincoli di ciak
⚫l’improvvisazione attoriale è più ampia
⚫la prospettiva può cambiare
⚫la produzione è più semplice
⚫il set può essere esplorato nella sua totalità e non limitato allo spazio di
un profilmico rigido
⚫l’intervento tecnologico sul set è possibile (si pensi, ad esempio, all’uso
del green screen che garantisce l’interazione tra attore e mondi/personaggi
immaginari non presenti fisicamente sul set) Tutti questi elementi portano a
un profondo miglioramento della qualità del girato.
2. La messa in crisi dello sguardo
Il digitale muta profondamente i rapporti che intercorrono tra opera, regista,
attore e tecnici e, di conseguenza, l’oggetto filmico in sé cambia forma e
sembianze5.
Convenzionalmente, all’interno del film il punto di vista principale è quello del
regista che incarna il ruolo del narratore. Non importa se, tecnicamente, l’atto
della ripresa è compiuto fisicamente dall’operatore: è comunque il regista,
attraverso le sue soluzioni formali e scelte estetiche, a dirigere lo sguardo della
macchina da presa nella cattura dello spazio e dei soggetti/oggetti che in esso
operano.
Il regista, attraverso il monitor, ha la possibilità di vedere con una buona dose di
approssimazione la resa delle riprese in atto, ma non ha il reale controllo.
Capita che il regista utilizzi una macchina a mano per un certo tipo di riprese, in
modo da essere più partecipe di una determinata scena, ma tendenzialmente,
una volta che il regista ha deciso dove collocare la macchina da presa (su un
piedistallo, un carrello, una gru etc), secondo l’inquadratura desiderata, è
l’operatore a concretizzare l’immaginazione registica.
Nella metodologia produttiva classica, quindi, ci troviamo di fronte a una profonda
centralità dell’uomo e del suo punto di vista (dialettica che ritroviamo anche in
un’ottica filmica interna nell’esercizio del guardare 6). Questo paradigma entra in
crisi con l’avvento del digitale perché grazie alla fluidità del mezzo e alle sue
estreme possibilità di ripresa, i punti di vista che possono essere assunti sono
molteplici e non necessariamente devono coincidere con la prospettiva dell’occhio
umano che ha ideato regista) o realizzato (operatore) le riprese.
Anche la figura stessa dell’operatore è a rischio perché la macchina da presa, con
il digitale, può essere impugnata agevolmente anche dal regista, avendo un
immediato feedback sulle riprese, senza dover passare attraverso la mediazione
dell’operatore. Prospettiva ancora più estrema se si pensa che la macchina da
presa può essere impugnata direttamente dagli attori, come nel caso delle
sperimentazioni di Giuseppe Bertolucci, i quali diventano interpreti e operatori di
se stessi.
L’operatore, quindi, si trasforma. Il suo compito non è più, solo, azionare la
macchina da presa, bensì supervisionare tutti gli apparati di ripresa attivi in quel
momento sul set. Diventa, quindi, un responsabile dell’azione della ripresa, al di là
della concreta realizzazione del girato.
La distanza, quindi, nelle dinamiche tradizionali, era la cifra rappresentativa del
cinema. Un oggetto veniva mostrato alla distanza utile per la messa a fuoco
secondo le possibilità tecniche della macchina da presa. C’era, quindi, una sorta di
confine che non si poteva valicare a causa delle dimensioni o delle caratteristiche
tecniche delle classiche macchine da presa: una transenna come quelle poste di
fronte a un’opera d’arte in un museo.
Questa distanza viene messa profondamente in crisi con l’avvento del digitale il
quale può riempire gli spazi vuoti, eludere le regole, aggirare i confini grazie alla
sua duttilità tecnica ed espressiva.
Il digitale, al cinema, è nato prima nella sua veste post-produttiva (es. aggiunta
effetti speciali), solo successivamente ha toccato la sfera della produzione
(riprese) e della distribuzione (es. Piattaforme digitali o microcinema).
A partire da Guerre Stellari (1977) di George Lucas, il concetto di immersività
cinematografica data dal dispositivo è stato incredibilmente amplificato dal
digitale. La prospettiva fisica, il punto di vista, ha iniziato a coincidere con
un’unica soggettiva immersiva, senza limiti spaziali di ripresa che ne minassero la
forza seduttiva.
Il digitale permette di affidarsi a punti di vista insoliti, a movimenti di macchina
fisicamente impossibili utili a legare ancora di più lo spettatore all’azione della
scena, entrando a far parte di essa. Se il cinema, per sua natura, è una
simulazione dello sguardo umano, con il digitale di troviamo di fronte a
un’amplificazione delle potenzialità dello sguardo, mostrando tutti i limiti
rappresentativi della prospettiva umana.
3. Il digitale: dalla computer grafica all’animazione
La computer grafica è una delle derive digitali di maggior impatto sull’industria
cinematografica sia dal punto di vista tecnologico che narrativo.
Ha raggiunto livelli tali di perfezione da permettere, nel 2001, la creazione del
primo personaggio interamente digitale: il celebre Gollum de Il signore degli
anelli di Peter Jackson
.Le sperimentazioni più invasive, interne al linguaggio filmico derivano, però, dal
Guerre
Stellari di Geroge Lucas del 1977. Lo stesso Lucas, con L’attacco dei cloni (2002)
sarà, poi, uno dei primi registi a girare un film interamente in digitale ad alta
definizione.
L’utilizzo degli effetti speciali ebbe le seguenti implicazioni in ambito produttivo:
⚫Minor costo e tempo di realizzazione
⚫Non era più necessario costruire modelli in gesso, polistirolo o silicone
⚫La lavorazione, in post-produzione, avviene in laboratori appositi
(rendering farms)
⚫Riduzione dei rischi sul set
⚫Sperimentazione della performance capture
⚫Riduzione dell’uso di comparse (masse realizzate con il copia-incolla)
⚫Non è necessario lavorare con armi, veicoli o animali pericolosi (le
creature, anche aliene, vengono realizzate “su misura”)
⚫Si possono correggere gli errori di ripresa (es. Cavi dimenticati,
microfoni a vista etc)
⚫Si possono ritoccare e riadattare i filmati di archivio per inserirli in nuovi
testi
⚫Il lavoro di editing è profondamente semplificato
Il cinema contemporaneo è oggi fortemente influenzato dalla possibilità di
integrare il digitale non solo in fase di post-produzione, ma direttamente
durante le riprese ad esempio attraverso l’uso della motion capture, che sta
rivoluzionando, in particolare, il cinema di genere.
Grazie alla motion capture dietro ai movimenti e alle espressioni di creature
interamente digitali (es. Gollum) si cela la performance di un attore in carne ed
ossa, che attraverso una particolare tuta dotata di sensori appositi, può trasferire
ogni più impercettibile movimento dell’interprete alla controparte digitale.
Cambiano, così, non solo le vesti estetiche, ma anche le potenzialità narrative del
cinema e viene incrementata la potenzialità di identificazione spettatoriale con
personaggi con i quali prima era difficile relazionarsi, data la loro poca veridicità.
Il digitale ha avuto una profonda influenza anche nell’ambito dell’animazione.
Il cartone animato è un’immagine sintetica che spesso non ha un referente nel
mondo reale e non deve scendere a patti con le leggi fisiche e rappresentative del
nostro quotidiano. Essendo creature “libere” di manifestarsi senza vincoli,
mostrando fusioni tra cose, animali, persone, azioni e universi alternativi fin dalla
loro essenza originaria in carta e inchiostro, sono oggi l’espressione perfetta delle
sperimentazioni del digitale.
L’animazione computerizzata a due o a tre dimensioni permette la creazione di
personaggi digitali e oggetti in movimento attraverso l’uso di software specifici.
I personaggi vengono, poi, inseriti nel tessuto filmico.
Interessante la tecnica stop motion che combina la materia fisica - i personaggi
sono realizzati in materie plastiche e fotografati centinaia di volte per ogni singolo
micro movimento - con il digitale, usato in post-produzione per dare movimento
alle immagini ottenute e modificare grafica ed estetica dell’opera.
Nell’ambito dell’animazione, però, lo standard mondiale, in ambito commerciale, è
oggi dettato dalla Pixar: società di animazione che ha avuto origine dalla Divisione
Computer Graphics della Lucasfilm, acquistata nel 1986 da Steve Jobs.
Per la Pixar, la svolta fu Toy Story (1995), interamente realizzato in digitale e
distribuito dalla Disney che acquisterà la società di Jobs solamente nel 2005, dopo
il successo di A Bug’s Life (1998), Shrek, Monster & Co (2001), Nemo (2003)
e The Incredibles (2004).
Precursore fu Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) di Robert Zemeckis che aveva
mostrato le meraviglie della dialettica tra animazione e live action, grazie
all’interazione tra attori reali e personaggi animati.
Questo film è di forte interesse perché non è il personaggio animato ad
antropomorfizzarsi, ma è l’umano a subire le leggi del cartoon, andando oltre i
limiti del corpo e le leggi della fisica.
Troviamo altri esempi di contaminazione in The Mask (1994) di Chuck Russell,
con Jim Carrey (1994) - nel quale viene utilizzata la tecnica del morphing per
deformare il corpo dell’attore in computer grafica - e Polar Express (2004),
sempre di Zemeckis, nel quale la motion capture viene utilizzata in modo ampio e
invasivo per dar vita a molti dei personaggi digitali, compreso il protagonista Tom
Hanks, che appare in vari ruoli all’interno della storia.
Con il digitale, quindi, si va contro non solo alla crisi del vecchio modello
produttivo, ma anche alla messa in discussione del corpo umano che sullo
schermo trova nuove strade al di là della carne 7.
41
1. La nascita della televisione
Nei primi decenni del XX secolo il cinema si ritagliò il ruolo di medium popolare
visuale, insieme alla radio che, invece, governava lo spettro sonoro.
Quando il cinema divenne sonoro, l’equilibrio cadde a favore della settima arte.
Così, i dirigenti delle aziende radiofoniche investirono nella progettazione di un
nuovo mezzo di comunicazione che potesse combinare immagine e suono,
veicolando contenuti in modo inedito rispetto al linguaggio cinematografico.
L’oggetto di questi investimenti fu la televisione 1 che per struttura aziendale e
quadro giuridico rispecchiava quasi alla perfezione lo schema radiofonico.
A differenza di altri nuovi media, discendendo dalla radio, aveva già un chiaro uso
sociale e un pubblico di riferimento (quello radiofonico) che con il supporto
dell’immagine poteva essere ampliato, divenendo un chiaro concorrente del
cinema.
Esattamente come il cinema e la radio veicola suono e immagine, però con
dinamiche distributive assai più semplici e immediate, e rispetto alla radio riesce
a veicolare i contenuti senza forzare l’utente all’attenzione o all’immaginazione.
Allo stesso tempo, pur con la sua semplicità comunicativa perfetta per il relax
domestico, riesce a dare lo stesso senso di completezza, fiducia e verità tipico del
mezzo radiofonico (ma non del cinema).
Con il tempo, la televisione si conferma un perfetto strumento di svago per tutta
la famiglia e un elettrodomestico indispensabile all’interno del focolare domestico.
Le sperimentazioni su questo nuovo mezzo iniziarono in UK, USA, Francia,
Germania, Unione Sovietica e Italia a partire dagli anni Trenta. Le prima
trasmissioni iniziarono in Gran Bretagna e Stati Uniti tra il 1936 e il 1939, fino allo
scoppio della Seconda Guerra mondiale.
Con la fine della guerra ripresero gli investimenti e iniziò ufficialmente l’Era della
televisione, vista come uno strumento di comunicazione, coesione, benessere
economico, riscatto dopo gli anni del conflitto.
Gli Stati Uniti, tra il 1948 e il 1952, furono il primo Paese a vivere lo sviluppo
massiccio del mezzo televisivo che divenne un autentico fenomeno di costume.
In Europa, invece, la diffusione comincia negli anni Cinquanta. In Italia le
trasmissioni cominciano il 3 gennaio 1954 sotto l’egida della RAI, in regime di
monopolio governativo al pari di quello radiofonico, ma la grande espansione
avviene nell’arco dei venti anni successivi. Nel 1961 verrà varato un secondo
canale, nel 1979 un terzo e nel ‘77 la tv a colori.
Negli Stati Uniti il mercato era strutturato come quello radiofonico e diviso in
network, finanziati tramite la pubblicità e gratuiti per il pubblico.
Questi network non dovevano attenersi ai principi educativi e pedagogici
promossi dal modello della BBC di John Reith e dei servizi radiotelevisivi europei. Il
principio qualitativo negli Stati Uniti venne assorbito più avanti dalle televisioni via
cavo a pagamento, che puntavano a fasce di pubblico ben precise e al
confezionamento di prodotti più raffinati.
L’obiettivo dei network era il consolidamento dell’ascolto e la prevedibilità
commerciale del pubblico in modo da vendere più efficacemente prodotti e spazi
pubblicitari.
Questa tensione favorì:
⚫il successo di società di ricerche di mercato come la Nielsen che
monitoravano i dati di ascolto in funzione commerciale.
⚫la struttura di una programmazione orientata all’intrattenimento
popolare (giochi, quiz, varietà, prodotti di finzione narrativa (fiction)
⚫serializzazione dei prodotti (di fiction) Caratteristiche dei primi prodotti
di fiction: ⚫Durata che va dalla mezz’ora all’ora ⚫Ambientazione e
personaggi fissi
⚫Variazioni presentate sempre all’interno di una cornice definita
⚫Erano prodotti considerati “minori” all’interno del palinsesto
⚫Utilizzo di attori minori
⚫Ridotto utilizzo di esterni
⚫Tentativo di fidelizzazione del pubblico attraverso la reiterazione di
elementi narrativi riconoscibili Oltre all’intrattenimento avevano grande
spazio:
⚫Notiziari guidati da anchorman: giornalisti dalla forte personalità,
connotati politicamente, alla guida di uno spazio fisso.
⚫Eventi spettacolari in diretta riguardanti cronaca, sport, politica.
2. La neotelevisione
Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta la televisione subì un forte
processo evolutivo linguistico ed espressivo determinato da:
• ⚫mutamenti sociali
• ⚫la riforma del ‘75 che consolidò il monopolio e sposto il controllo
della RAI dal governo al Parlamento
• ⚫innovazione tecnologica
• ⚫riordino dell’assetto radiotelevisivo che vide l’ingresso nel
mercato di Finivest (successivamente Mediaset) Umberto Eco chiamo
questa nuova fase «neotelevisione» mentre la TV precedente, quella del
monopolio, venne definita «paleotelevisione». Rispetto al passato, la
neotelevisione vira verso l’intrattenimento riequilibrando il dominio
dell’informazione e la funzione didattica e culturale del mezzo.
L’intrattenimento diventa, quindi, il collante della programmazione sia nelle
private, di matrice commerciale, che in quelle pubbliche, costrette a
inseguire il consenso popolare. Il suo baricentro contenutistico e linguistico
si sposta verso il generalismo e il nazionalpopolare con programmi rivolti a
un pubblico vasto di tutte le età (avvicinamento al modello americano).
Nell’1986 anche in Italia si iniziarono a misurare i dati di ascolto (Auditel) e
questo andrà a incidere sulle scelte commerciali e contenutistiche delle reti.
Con l’Auditel sono gli spettatori a decidere le sorti di un programma
attraverso il click del telecomando. Le emittenti devono quindi scendere a
patti con i gusti del pubblico nel processo editoriale. Si crea, quindi, un
«patto comunicativo» o «contratto spettatoriale» 2.
Il numero di spettatori cresce esponenzialmente e proporzionalmente rispetto
all’aumento dell’offerta.
La fruizione, però, era casuale e distratta, con frequenti interruzioni pubblicitarie e
si concentrava la sera e in contemporanea ai pasti o ai lavori domestici.
Le reti, quindi, cercavano di catturare l’attenzione del telespettatore creando dei
segmenti narrativi forti, contenuti tra uno stacco pubblicitario e l’altro con la
speranza di mantenere ancorato il pubblico sia al suo racconto che allo slot
pubblicitario (dal quale dipendevano gran parte degli introiti).
La narrazione, costretta in questi tempi serrati, doveva:
• ⚫Strutturarsi in blocchi separati ognuno carico di senso
• ⚫Essere comprensibile per il telespettatore
• ⚫Rappresentare l’immagine della rete
• ⚫Essere ciclica, senza un vero inizio o una fine in modo da
permettere l’ingresso dello spettatore nella storia in qualsiasi momento
senza fargli percepire la “mancanza” di contenuto
• ⚫Cesure morbide tra una trasmissione e l’altra in modo da non far
migrare lo spettatore verso altri canali o spegnere la tv. Questa modalità è
stata definita da Raymond Williams, «flusso televisivo» 3. Tale flusso
permette allo spettatore di scegliere i “frammenti” narrativi che più gli
interessano all’interno di un bacino di proposte vasto. televisione, quindi,
diventa un “magazzino” di immagini e frammenti che vanno a comporre un
flusso dal quale lo spettatore attinge. Un flusso mediatico che si interseca
con il flusso della vita quotidiana di ognuno.
3. L’evoluzione televisiva tra nuovi linguaggi e piattaforme
Il mezzo televisivo, a partire dagli anni Novanta, iniziò a subire un sempre più
veloce processo di mutazione tecnologica e linguistica prima con l’avvento delle
piattaforme satellitari a pagamento pay-tv (es. Sky), con al loro interno la
possibilità di acquistare contenuti in modalità “pay-per-view” (paghi per ciò che
vedi), e poi del digitale terrestre che cambia sostanzialmente il modello di
trasmissione della televisione tradizionali ampliando i canali e la qualità visuale.
Il vero terremoto, però, è determinato dalla fusione tra internet e televisione,
grazie allo streaming dei contenuti via web e l’avvento del VOD - Video on
Demand che va a distruggere il concetto di palinsesto verticale in funzione della
libera scelta dei contenuti da parte di un utente che fruisce un contenuto quando
e dove vuolte, grazie anche alla moltiplicazione dei supporti audiovisuali (tv,
smart-tv, smartphone e tablet.).
Fino ai primi anni Duemila lo streaming era uno strumento a disposizione del
mercato audio e musicale perché le reti web non garantivano ancora una velocità
di download tale da permettere la diffusione di contenuti audiovisuali di alta
qualità.
La svolta accade nel 2006 con la diffusione della banda larga e, successivamente,
con la versatilità e la mobilità garantite dal WI-FI.
Le città si popolano di schermi (urban screens), le persone si muovono con lo
sguardo incollato su smartphone e tablet: il nuovo secolo è dominato dal concetto
di visualità.
Gli schermi TV diventano sempre più piatti e grandi, andando a simulare
esperienze cinematografiche e rendendo la fruizione televisiva più completa e
immersiva, anche grazie all’ausilio di sistemi audio in Dolby Surround.
E’ l’Era prima di YouTube, che permette di caricare e condividere video di breve e
media lunghezza.
Lo streaming video, con il supporto di nuove reti digitali ad alta velocità, diventa
una realtà diffusa mutando i bisogni spettatoriali e l’offerta degli attori presenti
nel mercato che ragionano secondo modelli di comunicazione crossmediale e
contenuti pensati per essere fruiti attraverso media differenti che si contaminano
vicendevolmente e dialogano in un ambiente fluido regolato dal linguaggio e dalle
dinamiche comunicative dei social network.
Compaiono siti internet dai quali è possibile scaricare illegalmente contenuti
visuali (cinematografici e televisivi) provenienti da tutto il mondo. Lo spettatore
non è più vincolato ai mezzi tradizionali a disposizione per godere di nuove storie
e personaggi che, magari, in televisione appariranno solo a distanza di mesi.
Questo porterà a una sincronizzazione distributiva delle serie internazionali che,
prima, debuttavano in patria (ad esempio negli Stati Uniti) e dopo molto tempo,
una volta doppiate, venivano distribuite dai network nazionali.
Presto si arriva al concetto di Video on demand e alla nascita di nuove
piattaforme legali (es. Netflix, Amazon Prime video etc) che, dopo una
sottoscrizione economica a breve-lungo termine, mettono a disposizione
dell’utente un archivio vastissimo di contenuti televisivi, cinematografici o
videoludici divisi per genere e tipologia.
In questo periodo la serialità televisiva diventa il prodotto maggiormente fruito
dal pubblico e quello più soggetto alle nuove sperimentazioni narrative, arrivando
a raggiungere i livelli estetici del cinema.
Le piattaforme on demand mappano i gusti dell’utente per:
• ⚫“suggerire” i contenuti più congeniali
• ⚫Favorire una catalogazione dei contenuti in sottogeneri
• ⚫customizzare il prodotto tramite l’individuazione i trend narrativi
ed estetici più popolari in vista dei rinnovi seriali o delle nuove produzioni
• ⚫mappare l’utente in quanto compratore e pianificare il product
palcement interno ai prodotti e la vendita di spazi pubblicitari negli spazi
delle piattaforme⚫Individuare nicchie spettatoriali alimentate dal fandom
Viene così a cadere il concetto di “canale televisivo”. Annullato dal primato del
singolo contenuto.
Il mercato televisivo si trasforma articolandosi in tre livelli 4:
⚫una televisione digitale in chiaro, con una forte vocazione generalista e
molte emittenti locali, prevalentemente diffusa tramite il digitale terrestre
⚫una pay-per-view digitale criptata, diffusa via satellite, digitale terrestre
(purché con una linea telefonica per le ordinazioni) e a banda larga
⚫un video on demand accessibile esclusivamente via banda larga. Al di là
di questa articolazione, il mercato dell’audiovisivo è ormai dominato anche
dai cosiddetti OTT - Over the Top: multinazionali che, pur non essendo
essendo concessionarie di reti o essendo direttamente coinvolte nella filiera
produttiva televisiva, musicale o cinematografica, si occupano anche di
distribuzione di contenuti e servizi attraverso il web (es. Google, Facebook
etc). Muovendosi attraverso le reti fisiche dei gestori di telecomunicazione,
vendono contenuti che non hanno contribuito a creare.
42
1. Il primato della visualità
L’immagine televisiva, esattamente come quella cinematografica, nel suo
processo di elaborazione subisce delle forti modificazioni: illuminotecnica,
filtraggi, effetti grafici, interventi fotografici tesi all’edificazione di un visibile
accattivante e seduttivo che, nel suo costituirsi come chiaro immaginario del
programma e, per estensione, dell’emittente, diviene parte integrante del tessuto
narrativo1.
L’esperienza di uno studio televisivo dal vivo sarà, quindi, ben diversa non
potendo essere fruita tramite gli stessi artifici del mezzo televisivo che si
innescano a casa.
La brillantezza delle immagini, le proporzioni, le sembianze dei conduttori e dei
personaggi sono strumenti necessari per veicolare adeguatamente un contenuto
che di per sé non riesce a trasmettersi all’ascoltatore.
In un certo senso, quindi, la realtà non «parla da sola». Ci riesce solo se il
contenitore nel quale è espressa mette in atto tutti i codici visuali, sonori,
linguistici utili alla trasmissione del messaggio.
Se a teatro il pubblico può “decidere” liberamente a quale porzione di spazio e/o
personaggio rivolgere la sua attenzione, lo spettatore televisivo è ingabbiato
all’interno della prospettiva scelta dal regista, in quelle immagini cariche di senso
che è costretto a decodificare ed elaborare in modo da comprendere la struttura
della narrazione.
Ogni elemento deve essere contestualizzato secondo un principio di
“informazione” teso a dare allo spettatore tutti gli indizi per poter decifrare la
scena.
La televisione, in quanto mezzo di comunicazione popolare, viene fruita da un
pubblico eterogeneo in cui a prevalere non è la nicchia, ma la massa.
Anche per questo motivo, nelle sue evoluzioni storico-linguistiche, l’immagine
televisiva ha imboccato la strada della narrazione e rappresentazione degli
eventi/storie rispetto a uno sguardo più analitico e documentaristico.
La tensione che muove la comunicazione televisiva è, quindi, emotiva (patemica)
e sentimentale.
Ogni suggestione visiva e sonora deve essere al servizio del racconto di una storia
e il lavoro del regista è quello di scegliere le immagini e i frammenti migliori utili a
questa missione, così come trucco e illuminazione devono modificare la realtà per
rendere il processo più fluido e attrattivo.
Un ruolo importantissimo in questa traiettoria affabulatoria è giocato dagli effetti
speciali e dalla grafica: elementi ormai onnipresenti nel racconto per immagini
non solo cinematografico, ma anche televisivo.
Questo è dovuto in gran parte alla digitalizzazione del flusso televisivo e alla
commistione con nuove tecnologie di ripresa, schermi più evoluti ed esperienze
spettatoriali più immersive grazie alla contaminazione con il web.
Le modificazioni visuali erano una pratica già contemplata in epoca di televisione
analogica grazie, ad esempio, all’uso del green screen.
L’elaborazione dell’immagine, sia intesa come effetto speciale che come
intervento registico, deve comunque seguire i dettami di una grammatica visuale
che nasce con la prospettiva rinascimentale, cresce con la fotografia e si evolve
con il cinema. Anche per la televisione si parla, così, dello sguardo della macchina
da presa, di quadro, di inquadratura, stacchi, angolazioni, panoramiche, raccordi
etc.
2. La costruzione dell’immagine televisiva
Nell’ottica della costruzione di senso e del linguaggio televisivo, non basta
accendere la telecamera e riprendere un soggetto/oggetto, lasciando libertà allo
spettatore di soffermarsi su ciò che vuole all’interno del “campo catturato”. E’
necessario che ogni singolo elemento (profilmico e filmico) veicoli, con chiarezza e
semplicità, lo sguardo spettatoriale in funzione della storia raccontata.
Un sistema di regole che, ovviamente, può essere aggirato esattamente come
accaduto nel passaggio tra cinema classico e cinema moderno. Per farlo, però,
bisogna prima padroneggiare la grammatica televisiva di base.
Gli elementi fondamentali dell’immagine sono tre: ⚫Composizione
⚫Inquadratura⚫Angolazione
Agli albori del mezzo televisivo, lo schermo era molto piccolo, seppur ingombrante
a causa del tubo catodico, e a bassa definizione.
La difficoltà, per il regista, era quindi rendere dinamica e attraente un immagine
sostanzialmente minuscola e poco chiara, che acquistava reale senso solamente
attraverso l’uso del Primo Piano e del Particolare poiché questi ingrandivano un
volto o una determinata porzione di spazio.
La resa estetica della televisione era quindi nettamente inferiore alla grandezza
del cinema e alla nitidezza delle fotografie sui giornali.
Oggi le proporzioni sono invertite e nelle nostre case ci sono schermi ampissimi,
in alta definizione e dotati della possibilità di veicolare immagini in 3D totalmente
immersive.
L’immagine considerata compositivamente migliore è quella “nella quale gli
oggetti sono collocati non al centro della composizione, ma negli incroci di un
reticolo ideale che divide lo schermo in tre parti, in altezza e in larghezza”: una
versione abbreviata del principio della «sezione aurea», applicato alle arti visive
già dagli antichi greci2.
L’obiettivo è quello di creare prospettiva, profondità e l’illusione della
tridimensionalità collocando un oggetto in primo piano nei paesaggi oppure
attraverso l’uso di di linee oblique e curve, meno banali e monotone allo sguardo
di quelle orizzontali e verticali.
Tecniche di ripresa del soggetto:
⚫Deve avere “aria” o “luce” sopra la testa e non essere troppo vicino al
bordo superiore dello schermo, così come a quello inferiore.
⚫In caso di movimento, deve essere ripresa anche la porzione di spazio
davanti al soggetto in modo da farne intuire la direzione e contestualizzare
l’azione.
⚫In caso di più soggetti, la centralità è conquistata dai protagonisti (es.
Presentatori, ospiti di rilievo, personaggi principali etc.) mentre gli altri sono
disposti ai lati.
⚫Le immagini collettive devono essere di facile lettura per lo spettatore.
L’inquadratura (o fraiming), come al cinema, è l’elemento sintattico
fondamentale dell’immagine televisiva ed esattamente come per il grande
schermo, si divide in piani (per soggetti e oggetti) e campi (per gli
ambienti). Importante anche l’angolazione dell’inquadratura che, in
televisione, è generalmente collocata “in piano”, all’altezza degli occhi del
soggetto principale. Può anche essere posta “dal basso” o “dall’alto”,
secondo l’effetto desiderato o la volontà di accentuare o meno l’importanza
del soggetto catturato.
La telecamera può anche coincidere con il punto di vista di un personaggio (es.
quando è sul casco di un pilota di formula uno in uno speciale sportivo) e in
questo caso ci troviamo di fronte a una soggettiva: una tipologia di inquadratura
immersiva e coinvolgente.
Il soggetto può anche essere ripreso:⚫di profilo (senso di incompletezza)⚫di tre
quarti (senso di profondità)⚫Frontalmente (forte impatto emotivo)
3. Il superamento delle regole
Le regole base di ripresa della televisione generalista dovevano sempre essere
rispettate se si voleva “partecipare” alla costruzione di una narrazione televisiva
convenzionale tesa a non turbare lo spettatore.
Le motivazioni psicologiche erano le stesse che sorreggevano il cinema classico,
rispetto al cinema moderno.
Un’immagine non a fuoco o strutturata su linee e angolazioni difficili da decifrare
erano automaticamente scartate perché non adatte al broadcast.
Col tempo l’estetica dell’immagine si è arricchita, così come i supporti di ripresa e
visione (smartphone, tablet, GoPro ad alta definizione, droni etc) e l’esperienza
spettatoriale dell’utente, sempre più abituato a percezioni visive poco concilianti o
armoniche.
Ormai tutti ci siamo trasformati in produttori visuali, realizzando video più o meno
domestici e amatoriali senza rispettare la prospettiva rinascimentale e
pubblicandoli poi sui social network o Youtube.
Questo ha spinto il linguaggio televisivo ad abbracciare estetiche e soluzioni
tecniche meno convenzionali, omologate e raffinate, rimodulando il gusto e la
percezione spettatoriale.
Questo modello visuale «dal basso» (grassroots) 3 ha influenzato anche la
televisione, partendo da quei canali e format basati sul lifestyle, la
rappresentazione del reale o inchieste investigative per le quali il contenuto
permette estetiche meno patinate.
Un altro degli elementi distintivi del linguaggio televisivo è lo sguardo in
macchina4: un elemento che nel cinema classico era tassativamente vietato e nel
cinema moderno e contemporaneo è, comunque, utilizzato come fattore
scioccante di rottura rispetto al rapporto tra spettatore e oggetto filmico.
Ci riferiamo all’atto di un soggetto inquadrato che guarda fisso in macchina,
idealmente verso lo spettatore, palesando (nel cinema) l’esistenza dell’apparato
finzionale e distruggendo la “finzione” necessaria all’identificazione.
Ovviamente in televisione tale principio finzionale, nel format di intrattenimento,
informazione etc, è assenze in partenza, anche se sopravvive nella narrazione di
fiction.
Quindi lo sguardo in macchina è una pratica televisivamente assai più comune
data la dialettica diretta che intercorre tra il telespettatore e il programma
guardato.
Può essere, anzi, un potente strumento narrativo utile a catturare l’attenzione del
pubblico o a fargli seguire più chiaramente il racconto.
Es. Una ricetta spiegata da un cuoco, un’annunciatrice/annunciatore che illustrano
i programmi della serata, una televendita etc.
Il conduttore o la conduttrice, l’ospite intervistato, il soggetto rappresentato, tutti
inquadrati frontalmente, parlano direttamente con il telespettatore seduto sul
divano.
Se al cinema l’attore, non guardando in camera, incarna un personaggio e
mantiene viva l’illusione, in televisione accade il contrario e chi guarda in camera
parla per se stesso: diventa vero perché si rivolge alla realtà dello spettatore.
Chi guarda in camera parla di cose ed eventi reali, mentre chi non guarda in
camera, nelle narrazioni di fiction, parla di cose “immaginarie” che si compiono
nell’atto della finzione del film o della serie.
La legge del cinema, quindi, si applica anche alla serialità. Montalbano non guarda
in macchina, i personaggi de Il trono di spade non guardano in macchina,
portando avanti la “recita” funzionale al loro linguaggio e ai loro obiettivi estetici e
narrativi.
Lo sguardo in macchina, in mano a un soggetto abile, diventa un potente
strumento capace di garantire al personaggio televisivo (un conduttore, una
conduttrice, un o una giornalista) carisma, potere attrattivo e l’illusione di una
presenza fisica a dispetto della reale distanza. Lo spettatore sente con maggior
vigore che il messaggio veicolato è rivolto e lui e ad esso crede con una
convinzione più profonda. Lo sguardo, come anche il dito proteso di un conduttore
verso la camera e, per estensione, verso lo spettatore, chiamano in causa
direttamente chi guarda, rispondendo alla sempre più crescente esigenza
popolare di partecipazione della quale la televisione si è fatta, nel Novecento, uno
degli interpreti principali, come oggi lo sono i social network.
43
1. Cosa è un format
Il format televisivo è un programma che è stato realizzato, e che, avendo avuto
successo, viene replicato e riadattato per poter funzionare in contesti anche
diversi da quello di origine. In questo modo, chi lo produce, riduce il rischio di
investire su un programma che non avrà successo.
I programmi televisivi si dividono in due tipologie:
- Programmi che si basano sulla realtà, mettendola in scena: talk show,
infotainment, game show e reality
- Programmi finzionali: serie televisive, miniserie, soap opera. Ogni format
televisivo può essere venduto, nel pacchetto acquistabile c’è sempre un
manuale, detto bibbia, che viene progressivamente aggiornato e condiviso
con gli acquirenti. I programmi che mettono in scena la realtà, come Il
Grande Fratello, hanno una bibbia che descrive nel dettaglio la struttura, la
grafica, le musiche, la scenografia, le regole del gioco, il profilo ideale per
cast, concorrenti e conduttori, in modo che il programma segua
un’impostazione fissa, riconoscibile e fortemente brandizzata. Nel caso dei
format di programmi di finzione, invece, la bibbia può contenere un
soggetto di una serie abbozzato, una descrizione dei personaggi e dei
protagonisti delle vicende. Oltre alla bibbia, il format viene accompagnato
anche da un servizio di consulenza, in modo che gli acquirenti possano
essere messi nelle condizioni di riproporre quel format nel migliore dei
modi. La bibbia viene definita da Moran “un insieme di informazioni sulla
programmazione, sul target di riferimento, sui dati d’ascolto e sulle
caratteristiche demografiche del pubblico del programma relativamente alla
sua messa in onda nel paese d’origine”1 La bibbia viene costantemente
aggiornata e modificata, si nutre delle evoluzioni che il format subisce nelle
sue diverse edizioni e nelle differenti produzioni che spesso hanno luogo in
paesi molto diversi tra loro. Per queste ragioni, la bibbia non si limita a
contenere le regole che i diversi produttori non possono infrangere ma
contiene anche indicazioni, espone problemi che si sono già manifestati e
chiarisce come risolverli; nel suo ampliarsi diventa un testo indispensabile ai
produttori per ottimizzare i tempi e massimizzare i guadagni, avendo
maggiori garanzie.
La società che possiede il format ha il compito di decidere quando e come
aggiornare la bibbia e in che termini fornire consulenza agli acquirenti.
2. Il mercato dei format
Il format è quindi uno strumento utile a tutelare un’idea di programma e
riconoscerne il valore, facendolo diventare un prodotto acquistabile e quindi
vendibile. Nonostante questo, in televisione, i programmi sono facilmente
riproducibili e falsificabili e le tutele non sono ancora abbastanza. Il panorama
televisivo, infatti, è difficilmente regolamentabile.
Da sempre il mercato del broadcasting ha cercato ispirazione altrove, l’Europa,
l’Australia, anche il Sud America, hanno sempre cercato idee negli Stati Uniti, con
lo scopo di riadattarle per i propri contesti. All’inizio pratica comune era vendere e
prezzare a seconda dei casi, senza alcun tipo si regolamentazione precisa.
Dobbiamo aspettare gli anni Novanta per assistere alla nascita di un proprio e
vero mercato, grazie alla diffusione di fiere e festival dedicati all’industria
televisiva.
Per definire e chiarire chi sono i principali attori in questo mercato, che risulta
definito da pochi anni, bisogna capire come si struttura il mercato che segue tre
linee precise:
- Vendita di programmi
- Co-produzione
- Adattamenti di format Vendita di programmi: sappiamo che chi vende un
format, mettendolo sul mercato, viene da un’esperienza effettiva di messa
in onda di quel format, questo vuol dire che il programma derivante da quel
format ha avuto successo e si è stabilito che conviene proporlo a un
mercato internazionale. La co-produzione: in ambito televisivo dobbiamo
intenderla diversamente da come è considerata nel cinema. In televisione si
hanno co-produzioni quando una società internazionale, che ha filiali anche
su mercati specifici nazionali, concede la licenza di un format entrando in
trattativa con produttori nazionali. Nel cinema o nella serialità, invece, più
aziende diventano partner e insieme cercano fondi per finanziare un dato
prodotto che può funzionare su più mercati internazionali. Il game show è
sicuramente la tipologia di programma che è stato maggiormente
sviluppato. Sono tanti i format di game show che sono stati concepiti e
venduti. Infatti questo genere va a coprire il 50% del mercato. Al secondo
posto abbiamo i reality che, a differenza del game show, è cresciuto molto
più velocemente.
Il reality ha costi di produzione molto più alti del game show, “nel solo 2004 è
stato speso quasi un miliardo di euro nella produzione di format di reality, con
budget produttivi più che raddoppiati rispetto al 2002” 2. Il reality è, quindi,
cresciuto così velocemente perché si è dimostrato estremamente redditizio per
l’industria del format.
3. Progettare un format
Per trasformare un programma in un format è necessario trasportare su carta
quello che è stato il risultato visivo finale, l’insieme dei suoni, delle immagini,
delle emozioni e sensazioni che il programma deve ricreare in ogni sua edizione.
Questa trasposizione su carta viene definita paper format.
Il format è il risultato di alcuni step fondamentali:
- Avere un’idea: deve essere il risultato di una idea forte e incisiva sulla
quale si deve basare tutto il format. È necessario, quindi, evitare la
sovrapposizione di idee ed identificarne una sola,
- Essere semplici: il percorso e l’evoluzione del programma deve essere
facilmente leggibile, immediato e mai banale. Il format deve essere in grado
di arrivare a tutti, anche a quelli che non hanno seguito il programma dal
principio. Le frasi quindi devono essere chiare e lo sviluppo della narrazione
lineare.
- Puntare su ciò che conta: il programma deve emozionare, far ridere o
insegnare. Deve, quindi, trasmettere dei contenuti.
- Dare sviluppo: il format deve evitare l’immobilità, deve evolversi per
arrivare a una conclusione, questo vuol dire che ogni format racconta una
storia.
- Mantenere una promessa: ogni format ha una mission, crea delle
aspettative, non deve tradire il telespettatore che deve sentirsi appagato e
avere quello che si immaginava di ricevere.
- Avere un quid in più: il format deve differenziarsi dagli altri, essere
particolare e quindi farsi scegliere dal pubblico al quale vuole rivolgersi.
- Vero è meglio: i format di intrattenimento si basano sulla verità, più le
reazioni dei partecipanti sono vere più il format funziona perché attiva un
meccanismo di identificazione. Per arrivare a progettare un format vincente
è, dunque, importante evitare la genericità. I format generici funzionano
soltanto nel caso in cui possano fare leva su personaggi famosi di rilievo o
ospiti importanti, in questo modo i personaggi fanno da traino a un format
generico.
Un altro errore da evitare per la progettazione di un format è non conoscere il
contesto in cui si inserisce. Bisogna non soltanto conoscere il mezzo televisivo ma
anche la programmazione, i competitor, cosa apprezza pubblico, cosa no, e anche
cosa manca, se esiste un buco nel mercato potrebbe essere utile colmarlo, oppure
può essere più utile per seguire un trend di successo e riproporlo in un’altra
chiave.
L’importante è non rimanere immobili sulle proprie idee, mantenere uno sguardo
critico, evitando di innamorarsene in modo assoluto. Questo perché la
progettazione di un format è un lavoro corale, lontano dall’essere un prodotto
artistico ma più vicino a un prodotto artigianale. Sapere intervenire su un’idea,
accettando il confronto, la contaminazione, conoscendo il mercato e facendo
ricerche sullo stesso, è fondamentale per arrivare a produrre un format di
successo.
44
1 La forma del contenitore
La neotelevisione è caratterizzata dall’emersione dei nuovi generi televisivi.
Il primo a nascere è stato il “contenitore”: un macrogenere evolutosi proprio per
sostituire i vecchi generi televisivi che vengono scomposti e riassemblati
all’interno di un nuovo tessuto narrativo variegato.
All’interno di questa “cornice” possiamo trovare elementi di spettacolo, sport,
cultura, musica, giochi, informazione etc.
Un esempio chiaro di contenitore sono i programmi domenicali (Es. Domenica In
e Buona Domenica) che, condotti da uno o due conduttori, nell’arco di lunghe
maratone pomeridiane, alternano vari “numeri” che abbracciano molteplici forme
performative e sceniche: cantanti, attori, registi che presentano il nuovo film,
musicisti, intellettuali con i quali intrattenersi su un libro o un tema.
La struttura del contenitore è molto elaborata, con uno stile e regole precise,
frutto di un attento processo di selezione teso alla costruzione di una narrazione
fluida, coesa e chiara, votata all’intrattenimento e al costante mantenimento
dell’attenzione spettatoriale.
Le radici del macrogenere risalgono alla tradizione dello spettacolo dal vivo e, in
particolare, al varietà (café chantant, avanspettacolo, etc) e al circo, tipici
dell’intrattenimento popolare di fine Ottocento pre-riproducibilità tecnica dei
media1.
Queste forme spettacolari proponevano diverse tipologie di intrattenimento e
attrazioni. Non c’era un reale filo conduttore tra essi e pienamente sostituibili. La
narrazione era creata dall’impresario (o produttore) che scritturava gli atti a
seconda del proprio gusto o dei trend commerciali.
I criteri di scelta, per quanto arbitrari, dovevano rientrare entro un sistema di
“regole” narrative ancora attuale2:
Alternanza e diversificazione tematica e di genere tra le varie attrazioni (es.
scansione parla/canta/balla);
Creazione aspettative nel pubblico, focalizzando interesse e attenzione sugli atti
più forti, collocati in punti strategici dello show per tenere alta l’attenzione;
Le attrazioni devono essere autonome e non collegate alle altre. Gli artisti si
riuniscono insieme solo nel finale per salutare il pubblico;
Struttura duttile, capace di adattarsi alle variabili e ai cambiamenti dell’ultimo
minuto. Se un numero salta, può essere sostituito con facilità senza ledere alla
narrazione. Nessun artista è indispensabile e il suo potere contrattuale è inferiore
a quello decisionale dell’impresario: tale dinamica si ripropone in televisione.
2 Il Talk Show
Il talk show è un genre televisivo derivato direttamente dal contenitore.
Questo format è basato sostanzialmente sull’uso performativo della parola. Capita
di rado che il talk comprenda, all’interno del suo processo narrativo, altre forme
scenico-spettacolari, salvo queste non rientrino nel tema affrontato nella puntata.
Il talk si propone come un “salotto” accogliente nel quale ospitare personaggi di
varia natura, ruolo o personalità, generalmente legati a un preciso tema da
approfondire oppure invitati per in quanto “opinionisti” per le loro doti dialettiche
o per la loro essenza spettacolare.
Lo studio è strutturato, spesso, come un reale salotto con poltrone o sedie,
attorno alle quali si muove liberamente il conduttore nel suo dialogare con gli
ospiti.
In questa tipologia di format, il conduttore riveste un ruolo centrale. E’ lui l’unico
padrone di casa: l’architrave narrativo del programma e colui che costruisce la
narrazione, moderando gli interventi, innescando dibattiti o deviando la traiettoria
del discorso.
Questo genere è stato introdotto in Italia nel 1976 da Maurizio Costanzo che,
sulla RAI, conduceva Bontà loro, Acquario e Grand’Italia.
Inizialmente il format prevedeva l’intervento in studio di persone comuni,
accostante a personaggi noti del mondo dello spettacolo, della cultura, dello
sport, della politica etc.
Era uno dei primi tentativi di coinvolgimento diretto fisico del pubblico in
televisione: un coinvolgimento, però, illusorio perché deviato dalle scelte autoriali
e dalle necessità narrative del programma. Non tutti, quindi, avevano libero
accesso al format, ma si veniva scelti in base al personale “potenziale
narrativo” espresso.
La partecipazione attiva della gente comune all’interno del talk show non durò a
lungo, venendo presto soppiantata dall’“eccezionalità” dei VIP o da personaggi
narrativamente “forti” (anche quando comuni). La normalità non aveva appeal,
quantomeno in quel periodo storico e con quelle forme spettacolari.
La partecipazione del “comune” ritornò prepotentemente di moda
successivamente, grazie a nuove forme di interazione/integrazione televisiva del
popolare come l’infotainment e, soprattutto, il reality show 3.
Il talk, strutturato sull’eccezionalità, diventa sempre più personale, latore di
opinioni, tendenze sociali, di costume, politiche, intellettuali e inizia a esercitare
un forte peso nell’opinione pubblica e nelle istituzioni.
Inizialmente il conduttore, rispetto a questa tendenza, si codificava come un
soggetto super partes, al netto di qualche leggero ammiccamento o battuta
ironica: un retaggio dovuto alla radice del contenitore dove il conduttore doveva
limitarsi a raddrizzare il tiro dei diversi numeri e costruire una narrazione leggera
e piacevole per il pubblico.
Una neutralità simile si poteva riscontrare nei primi dibattiti televisivi nei quali il
conduttore “moderava”, semplicemente e con rigore cerimoniale, gli interventi di
esperti o esponenti istituzionali che si esprimevano, da dietro una scrivania,
riguardo un determinato tema. Non c’era spazio per l’intrattenimento e non si
cercava il sensazionalismo o un taglio nazionalpopolare. Era ancora in vigore il
modello educativo della prima RAI4.
Oggi il modello si è ribaltato e nei Talk Show, spesso, gli invitati non partecipano
in quanto “competenti” (o, almeno, non solo), ma per il loro ruolo di personaggi.
Gli esperti, quando coinvolti, sono chiamati a mostrare lati di sé che esulano dal
loro ruolo o dalle nozioni possedute, arrivando a dare in pasto al pubblico
brandelli di vita privata o prospettive più vaste ed eterogenei su una molteplicità
di argomenti.
La narrazione del talk necessità anche di “antagonisti” che, spesso attraverso
l’uso dell’ironia, veicolano messaggi o concetti controcorrente, politicamente
scorretti o gratuitamente provocatori in modo da enfatizzare la spettacolarità del
programma e ravvivare l’attenzione del pubblico verso il proprio “personaggio”.
Il “ruolo” televisivo viene talvolta scisso dal ruolo professionale.
Es. Roberto D’Agostino, noto per l’irriverenza dei suoi interventi; Vittorio Sgarbi,
illustre critico d’arte, ormai famoso per le sue sfuriate aggressive; Giampiero
Mughini, giornalista e scrittore, è ormai un tuttologo (sportivo e non solo), celebre
per l’estetica e la forma aulica e barocca del suo parlato.
La forma prevale sul contenuto e l’ospite da talk diventa uno dei nuovi
mestieri della televisione, regolato da un autentico mercato degli opinionisti per il
quale gli “invitati” saltano da un programma all’altro, bulimici di visibilità e pronti
a rivestire, di volta in volta, di tema in tema, un ruolo narrativo diverso:
l’antagonista, il politicamente corretto, il politicamente scorretto, il giusto, il
fragile etc.
Da questo schema “ludico” vengono automaticamente esclusi gli ospiti “noiosi” e
poco scenici, a favore dell’incisività, della trasgressione, della potenza visiva e
dialettica.
La deviazione verso la spettacolarizzazione ha portato il talk a trasformarsi in
infotainment: un nuovo genere ibrido a metà tra informazione (l’istituto
originario del talk) e intrattenimento.
Il talk si struttura completamente attorno all’atto del conversare, eppure non
segue le regole dell’approfondimento tipiche del dibattito, ma piuttosto quelle del
ricevimento borghese per il quale è sconveniente andare troppo a fondo nella vita
professionale dei un singolo ospite, ma bisogna chiedere con moderazione e poi
saltare a un altro tema, alternando, così, la prospettiva dei diversi “invitati”.
Questo modello “mondano”, permette ai politici o ai personaggi noti di mostrare
lati inediti, umani e privati del proprio personaggio, in un’ottica di seduzione dello
spettatore.
In questo circo, il conduttore è il domatore assoluto. Nel suo oscillare tra la gente
comune e i VIP, appare al contempo “normale” ed “eccezionale” riuscendo a
veicolare, tra le poltrone del suo salotto, conversazioni e messaggi, destini sociali
e politici.
3 L’infotainment
L’ultimo baluardo della “verità” o “veridicità” in televisione sono i Tg 5. In questo
tipo di format, quantomeno nella sua essenza originaria, il pubblico rinuncia alla
sfera ludica e cerca un riflesso della quotidianità e una sponda attendibile nel
mare della finzione televisiva, in modo da poter essere aggiornati su cosa accade
nella propria Città, Paese e nel mondo intero.
Le notizie devono essere annunciate secondo un principio di “gravità” o rilevanza
e che siano marcatamente distinte da eventuali commenti personali che, spesso,
possono anche non essere del tutto presenti.
Lentamente anche il TG cede al principio di personalizzazione e i giornalisti
acquistano una verve, un appeal mediatico e uno stile che arriva a influire
sull’efficacia dell’informazione erogata e la sua affidabilità.
Per quanto riguarda l’approfondimento, invece, storicamente era affrontato da
rubriche specifiche nelle quali erano presenti dei “servizi” di varia natura
tematica.
Con la neotelevisione i format di approfondimento si mescolano strutturalmente e
linguisticamente ai talk show (ormai contaminati dall’intrattenimento) andando a
costituire un nuovo, importante metagenere: l’infotainment (neologismo
costituito da informazione ed entertainment).
Si va, quindi, verso una spettacolarizzazione dell’informazione.
Con il talk show si era già giunti alla “normalizzazione” e “umanizzazione”
della figura dei politici, costretti ad adattarsi per “sopravvivere mediaticamente”
alle logiche e ai tempi della televisione. Con l’infotainment questo processo viene
accentuato e lo spettacolo prende il sopravvento. I politici sono portati a
scontrarsi ferocemente in duelli tesi, temporalmente ritmati, scenicamente e
dialetticamente attraenti per il pubblico, con un linguaggio che non è più quello
istituzionale e distante dei tecnocrati, ma usa forme e soluzioni comuni e popolari,
talvolta volgari pur di affondare il colpo e far presa sul pubblico.
Negli anni Ottanta la formula del talk inizia a vacillare e inizia a sviluppare costole
differenti. I conduttori strutturano le puntate attorno a un tema preciso (ad
esempio la riforma delle pensioni o il terrorismo in Siria). Questo tema è definito
dal termine inglese “issue”.
Alle issue devono necessariamente rispondere le “policies”, ossia le politiche
concrete messe in atto dalle istituzioni per affrontare le issues.
L’ambientazione della trasmissione non è più solamente il semplice salotto, ma le
telecamere e le troupe vanno direttamente nei luoghi toccati dalle issues. In
studio restano conduttore, politici, tecnici, opinionisti. Le affermazioni degli ospiti
possono essere subito verificate e/o contestate dai diretti interessati intervistati in
loco o dagli altri partecipanti alla discussione. Da salotto, il talk si fa assemblea e
la piazza viene coinvolta, anche attraverso la voce della gente comune che ritorna
ad avere un ruolo in questa dimensione scenica.
In epoca di infotainment la comunicazione si fa più radicale e i politici rischiano di
più, accettano il confronto e lo scontro, giocando mediaticamente più che
politicamente in modo da influenzare la massa elettorale.
Il conduttore, di conseguenza, non è più un arbitro e appare una figura schierata
(per lui parlano i servizi mandati in onda, gli inviati e la scelta degli invitati).
Spesso diventa antagonista dei suoi stessi ospiti dei quali non condivide il
pensiero. Fa parte del gioco e gli ospiti, che in apparenza possono manifestare
malcontento per questa parzialità, in realtà vedono gli scontri come opportunità
per farsi vedere, radicalizzare l’elettorato e creare consenso.
Uno dei vertici di questo stile è sicuramente Samarcanda (1987), ideato a
condotto da Michele Santoro: padre di un filone attivo tutt’oggi anche se non
con lo stesso smalto e fortuna.
Se il talk, nella sua evoluzione, si è caratterizzato narrativamente nel bacino della
politics (ciò che riguarda il mondo della politica inteso come schermaglia,
teatrino, propaganda etc) e del gossip, l’infotainment si è storicamente
concentrato sulle issues.
A partire dagli anni Novanta e fino alla caduta del IV governo Berlusconi (2011)
l’infotainment è stato il vero agente determinante dell’azione politica e mediatica
dei partiti, divenendo il collante tra gli organi politici e l’elettorato. I conduttori,
così, si sono tramutati in mediatori tra le istanze della piazza e le esigenze
performative e affabulatorie di una politica mutata geneticamente dalle
45
1 Un palcoscenico per il popolo
La televisione ci ha abituato, quasi da subito, a vedere la gente comune sul
palcoscenico televisivo, che si tratti di interviste realizzate in luoghi pubblici, per
strada, di vox populi o di persone comuni all’interno di talk show, la testimonianza
di chi non fa parte del sistema dello show biz, ma che è disposto a trasferire la
sua intimità e vita privata sullo schermo, ha occupato sempre più spazio in
televisione.
Questo fattore ha avvicinato la televisione al popolo che ha imparato a
riconoscere il mezzo televisivo come il medium più vicino ai cittadini e più
rappresentativo della gente comune. Il pubblico sfrutta il mezzo televisivo per
esporre i propri problemi, per trovare soluzioni a situazioni complicate e
stressanti, la tv diventa un orizzonte possibile per chi cerca aiuto e sostegno, ma
anche per chi necessita di un palcoscenico per nutrire il proprio ego.
Da un certo momento in poi, la televisione impara a sfruttare in maniera
massiccia questo suo aspetto che ha particolare appeal sul pubblico, lo fa dando
vita a un nuovo metagenere rappresentativo della tv anni Novanta: il reality show.
Il reality parte dal presupposto che il pubblico ha necessità di identificarsi con le
storie che la tv racconta, vuole sentirsi coinvolto da situazioni che sono reali o lo
sembrano. Assistiamo quindi alla presenza sempre più massiccia di pezzi di
quotidianità che portano sullo schermo vicende sentimentali, familiari e intime.
Il sistema televisivo sfrutta costantemente le storie, le esperienze e i desideri del
pubblico che vuole essere protagonista. Inizia così a produrre programmi che
mettono al centro casi giudiziari reali, cerca parenti scomparsi o lontani, combina
coppie. Lo fa mettendo al centro le persone semplici, in condizioni economiche
spesso non favorevoli.
Con la presenza sempre più importante di questi contenuti, nasce anche un nuovo
linguaggio televisivo, che in passato aveva già trovato spazio nelle riprese tipiche
delle candid camera (una la telecamera nascosta che si preoccupa di riprendere
le reazioni delle persone comuni di fronte ad un evento imprevisto), oppure nella
«Tv realtà» che ha generato programmi ancora in onda oggi come Chi l’ha visto?
(che dal 1989 continua a fare ascolti).
Il linguaggio della tv realtà però è cambiato con gli anni, e oggi, ciò che viene
ripreso è frutto di una realtà che in qualche modo viene provocata, costruita e
narrativamente impostata dalla televisione.
A dare forma a questo nuovo genere sono tre tipologie di tv:
tv demiurgica: organizzatrice, giudice, consigliera;
tv caritatevole: promuove iniziative di beneficenza, partite del cuore,
raccolte di fondi, l’emotainment: un programma che si occupa di questioni
intime, passionali, sentimentali e melodrammatiche usando intrattenimento,
è molto attento alle questioni di costume ed etiche strettamente legate
all’attualità (la multiculturalità, le coppie gay, la transessualità). 1
2 Voyerismo, intimità e competizione
La televisione sceglie di dare spazio a contenuti che muovono sentimenti ed
emozioni. Questo corrisponde a “una crisi del discorso esperto e alla
valorizzazione dell’esperienza profana”. Vengono messe in secondo piano le
produzioni televisive che si basavano sulle competenze professionali di
accademici, medici, uomini di cultura e si punta tutto sui sentimenti e le
testimonianze di vita diretta. La sincerità la fa da padrone, il pudore viene a
mancare e la presenza delle telecamere alimenta la conflittualità.
“Il reality si pone all’incrocio di due processi convergenti: la privatizzazione della
sfera pubblica e la pubblicizzazione della sfera privata. L’intimità e la confessione
assumono un carattere solo formalmente privato; esse tendono alla
pubblicizzazione.”2
La confessione è quindi un’esibizione, una performance che deve appagare il
voyeurismo dello spettatore che viene portato a credere che quello a cui sta
assistendo è qualcosa di intimo e segreto, come se lui stesse spiando dal buco
della serratura.
Questo aspetto è estremamente potente e viene sfruttato pienamente a partire
dal 1999, quando il network privato olandese Veronica manda in onda la prima
puntata di Big Brother. Si tratta di un format Endemol, la società leader in Europa
per la produzione e vendita di format. Big Brother si occupa di seguire le vicende
riguardanti dieci persone, cinque donne e cinque uomini, che non si conoscono e
che vivranno massimo cento giorni in un appartamento condiviso. Non potranno
uscire o avere contatti con il mondo esterno e, ovviamente, saranni seguiti da
telecamere e microfoni h24.
Ad alimentare le dinamiche quotidiane è la competizione, solo chi riuscirà a
rimanere e non farsi eleminare prima dei 100 giorni, vincerà il montepremi.
Sappiamo che Big Brother verrà poi esportato in tutto il mondo, nel 2000 arrivò in
Italia, su Canale 5, e ancora oggi viene prodotto. È diventato un fenomeno di
costume che permette a gente comune, spesso con velleità artistiche nel mondo
della tv, di approcciare al mezzo televisivo e cominciare ad avere visibilità.
L’illusione per lo spettatore è che non ci sia una sceneggiatura, tutto ciò che vede
gli sembra essere autentico, sembreranno spontanee le reazioni dei protagonisti e
le situazioni che si verranno a creare. In realtà è tutto frutto di un lavoro di
produzione accurato che comincia con la selezione del casting.
Il Grande Fratello mette al centro i problemi sociali e personali del singolo, ma
crea anche situazioni stressanti con lo scopo di incentivare le reazioni estreme dei
partecipanti che vengono, quindi, messi ulteriormente sotto pressione.
Quando il Grande Fratello diventa popolare, l’estetica della webcam si sta
affermando. Lo spettatore è abituato a osservare riprese provenienti da camere di
sicurezza, che spesso vengono usate in televisione all’interno di tg o programmi
specifici. Le immagini divulgate mostrano la normalità della vita quotidiana che
scorre, in attesa che succeda qualcosa di shoccante, come una rapina o
un’aggressione.
Il Grande Fratello attiva lo stesso meccanismo di interesse e aderisce
perfettamente a questo tipo di estetica.
3 Dal Reality al talent
Da quando il format Big Brother è approdato in tv, si sono diffusi una quantità di
reality che, esattamente come il Grande Fratello, sono stati riadattati in tantissimi
paesi del mondo. Cambiano i contesti, la collocazione spaziale e l’ambiente in cui
sono inseriti i concorrenti, ma il principio resta lo stesso.
Nel primo decennio del nuovo secolo abbiamo visto produzioni come La Fattoria,
L’Isola dei famosi, La Talpa; diverse declinazioni del genere che hanno riscosso
più o meno successo e hanno contribuito a mostrare un mondo spesso esotico,
lontano culturalmente, alimentando anche il mito del viaggio e del naufragio, temi
che parallelamente venivano affrontati anche da grandi serie di successo come
Lost.
Il reality puro porta lo spettatore ad apprezzare questo genere di linguaggio,
considerato familiare, che arriva a contaminare anche altre tipologie di
programmi come i programmi di informazione, i game show, l’inchiesta e lo sport.
Il genere si trasforma quindi in uno stile vero e proprio, che viene definito reality
television.
Un esempio è il game show che mette in mostra un concorrente teso, agitato,
sconfitto o gioioso, puntando sulle sue emozioni, le sue reazioni e anche
coinvolgendo le sue relazioni familiari o amicali, ospitando in studio, per esempio,
le persone a lui vicine e con le quali può condividere le sue emozioni e mostrare,
anche in televisione, le dialettiche familiari al di là della performance
strettamente legata al gioco.
Anche il talent show è una evoluzione del reality. In questo caso al centro ci sono
il talento e le capacità tecnico/artistiche dei concorrenti. Un gruppo di aspiranti
artisti, sportivi, cuochi, cercano conferme e visibilità in un contesto che promette
di essere sia formativo che competitivo; infatti i tutor sono spesso anche giudici
non soltanto esigenti ma anche dispotici.
Dagli autori viene messe in evidenza non soltanto la crescita professionale dei
concorrenti ma anche le dinamiche personali che intercorrono tra loro. Infatti, i
concorrenti, spesso seguiti anche nella quotidianità, mostrano alternativamente
comportamenti di cooperazione e competizione. Il pubblico impara, così, a
conoscerli anche sotto il profilo umano, aspetto che va a influire
sull’apprezzamento della performance professionale, soprattutto nel caso in cui il
pubblico abbia un potere di scelta e venga chiamato, per esempio, a votare il
lavoro del concorrente. Gli esempi più noti sono Amici di Maria De Filippi e X
Factor.
46
1 Le origini della serialità
La televisione è “un oggetto multigenere” che include anche lo spettacolo di
finzione.
Il linguaggio della fiction ha molto in comune con il cinema, pensiamo che, mentre
negli Stati Uniti le produzioni televisive in studio avvenivano a New York, la fiction
veniva prodotta a Hollywood, esattamente come i film destinati alle sale
cinematografiche.
La televisione era abituata a sguardi in camera, saluti ai telespettatori che
venivano sistematicamente interpellati; con la fiction questi elementi di illusoria
partecipazione vengono a mancare; il cinema costruisce il suo legame con il
pubblico in maniera totalmente diversa e la fiction televisiva lo imita.
I primi prodotti di finzione, anche se ispirati al cinema, non potevano essere
comparati ad esso o concorrere con la sua spettacolarità.
Negli Stat Uniti le prime serie tv sono composte da cicli di episodi che duravano
dai 25 ai 55 minuti e potevano raggiungere anche centinaia di episodi. I
protagonisti sono senza memoria, questo vuol dire che l’episodio si conclude in
sé, le puntate possono essere fruite in ordine sparso proprio perché non esiste
una successione predefinita e le emittenti che le distribuiscono possono
liberamente trasmetterle senza preoccuparsi di seguire una cronologia.
Per la stessa ragione non sono presenti cristallizzazioni temporali, non ci sono
riferimenti a eventi di attualità o elementi che possono contestualizzare gli eventi
in un determinato momento storico. I personaggi non hanno evoluzioni, non
crescono o modificano la loro personalità: restano invariati e adottano sempre lo
stesso comportamento, coerente con il profilo del personaggio.
I primi telefilm arrivano in Europa negli anni Cinquanta, venivano usati
principalmente come tappa buchi, in spazi della programmazione poco prestigiosi,
dovremmo aspettare qualche anno affinché la fiction si affermi con incisività nei
palinsesti televisivi.
2 Le prime fiction
Le soap operas sono tra i primi prodotti seriali ad entrare nelle case degli
spettatori, si tratta di commedie sentimentali costituite da infinite puntate (un
tempo erano sponsorizzate dalle industrie dei detersivi, ragione per cui hanno
questo nome). Le vicende romantiche hanno un ruolo centrale, la struttura
narrativa è lenta, ripetitiva e ciclica.
In ogni puntata succede qualcosa che rompe l’equilibrio e crea tensione tra i
personaggi, il termine della puntata è sempre aperto ed ha lo scopo di invogliare
lo spettatore a sintonizzarsi il giorno successivo. L’azione è assente o minima,
centrale è il comportamento dei protagonisti e i loro commenti sull’accaduto.
L’inquadratura più comune è il campo/controcampo.
In Italia le soap opera sono arrivate intorno agli anni Ottanta, anche quelle di
produzione sudamericana (chiamate telenovelas) sono divenute molto popolari in
quegli anni. Le telenovelas sono produzioni a basso costo, molto colorite e
decisamente melodrammatiche.
Nello stesso periodo si affermano anche le sitcom (situation comedy) americane.
Caratterizzate da elementi umoristici e teatrali, sono riconoscibili perché
realizzate in interni, con location fisse e personaggi fissi. I dialoghi sono vivaci,
sono aggiunti in postproduzione risate e applausi che ricordano ancora una volta il
genere teatrale. A guidare la narrazione è spesso una voice over che si rivolge
allo spettatore in maniera diretta.
La miniserie deriva dai vecchi teleromanzi (trasposizioni televisive di opere
letterarie), avevano una mission didattica verso lo spettatore e costi elevati di
produzione e il numero di puntate era ridotto. La serialità breve esiste ancora
oggi, le miniserie spesso hanno un’impostazione cinematografica, durano circa
un’ora e mezza e sono solitamente biopic che si rivolgono a un pubblico adulto
interessato alla vita di grandi personaggi noti.
L’America degli anni Ottanta vede l’evolversi della serialità che acquisisce un
livello narrativo molto più complesso. I tempi della singola puntata si riducono a
25 minuti, si tratta di una puntata aperta, anche se fortemente significativa come
segmento, che si lega alla precedente e alla successiva.
Una fiction può articolarsi su più stagioni che possono vedere l’introduzione di
nuovi personaggi o l’eliminazione di altri. Queste nuove produzioni impiegano
pochissimo tempo ad arrivare sugli schermi europei, quasi simultaneamente alla
messa in onda statunitense venivano riproposte in Europa e spesso programmate
in prima serata.
Anche l’Europa cominciò a produrre serie, nella programmazione italiana si
vedevano spesso prodotti tedeschi oppure nostrani. Società di produzione
internazionali come Grundy ed Endemol danno vita a soap di grande successo
come Un posto al sole (1996) e Vivere (1998). Moltissime produzioni italiane
hanno fatto ottimi ascolti: Montalbano (Rai 1), I Cesaroni (Canale 5), Don Matteo
(Rai 1), La squadra (Rai 3), Carabinieri (Canale 5 e Rete 4).
La serialità televisiva, partita in sordina, ha conquistato sempre più spazio nei
palinsesti televisivi e oggi ha definitivamente conquistato il pubblico e anche il
mercato.
3 Nuove soluzioni narrative
Il panorama televisivo americano si sviluppa su due livelli: da un lato la
televisione gratuita rappresentata da Abc, Nbc, Cbs, Fox, e dall’ altro la
televisione a pagamento, via cavo, che, attraverso un abbonamento mensile,
arriva nelle case degli americani usando un cavo telefonico. La televisione via
cavo americana è a tutti gli effetti una pay tv, a spiccare tra esse è stata, quasi da
subito, HBO (Home Box Office) che, fondata nel 1972, proponeva trai suoi
contenuti film recenti senza interruzioni pubblicitarie e una programmazione
diversa e innovativa.
A partire dal 1975 HBO diventa satellitare e in questo modo risulta il primo cable
operator nazionale e sbaraglia il suo primo competitor, Showtime, altro canale
statunitense a proporre contenuti prettamente cinematografici. HBO arriva a
produrre film e serie e ancora oggi propone prodotti di fiction di grande livello.
Per la prima volta, grazie ad HBO, grandi registi si dedicano alla serialità e nasce
lo “stile HBO”, stiamo parlando si serie come The Sopranos, serie sviluppata su sei
stagioni, dal 1999 e il 2007, Six feet Under (2001 – 2005), fino ad arrivare
all’ultimo grande successo, Game of Thrones, che dal 2011 al 2019 ha mantenuto
alta l’attenzione del pubblico e soprattutto ha soddisfatto le sue aspettative.
HBO, nel 1990, grazie all’incontro con Vicom, suo storico avversario, fonda
Comedy Central che propone serie come Sex and the City (1998-2004) e South
Park (1997).
Il target di HBO è una fascia di pubblico medio-alta, abituato a discutere di ciò che
fruisce con amici, parenti e colleghi, un pubblico che al giorno d’oggi diventa
attivo e partecipativo anche sui social network.
Questo nuovo modo di pensare la narrazione seriale cambia completamente il
mercato, educa il consumatore a prodotti di qualità e cambia i suoi gusti. Questo
non soltanto nel mercato statunitense ma anche europeo, Italia compresa.
Le serie HBO introducono un nuovo stile narrativo che abbandona le vecchie
regole, per esempio il divieto a contestualizzazioni spazio temporali troppo
vincolanti. Basti pensare che uno dei prodotti di maggiore successo degli ultimi
dieci anni è Mad Man (2007), che propone una storia ambientata negli anni
sessanta con forti riferimenti storici, a partire dall’omicidio di Kennedy fino ad
arrivare a alle marce per i diritti civili. Lo scopo è quello di raccontare un’epoca e
parlare a una nuova generazione.
Con l’arrivo di HBO e questa svolta narrativa, le produzioni seriali seguono due
strade, da un lato i prodotti come sitcom e soap operas popolari che guardano al
pubblico vasto e generalista e dall’altro serie costose e di qualità destinate a un
pubblico di nicchia spesso pagante.
Ancora oggi è possibile leggere queste differenze che troveranno il modo di
adattarsi anche al nuovo scenario distributivo globale che vede il digitale
protagonista di una nuova rivoluzione.
47
1 Il franchise
Gli anni Novanta vedono l’affermarsi della fiction televisiva come forma narrativa
innovativa e di qualità. In questo stesso periodo, i prodotti audiovisivi filmici e
seriali entrano ufficialmente nell’era del franchise.
Per franchise intendiamo “una saga narrativa costruita attorno a un personaggio,
a una vicenda, a un intero mondo parallelo, diffusa attraverso uno sciame di
media che ne prolunga nel tempo e nello spazio il senso profondo, e che si presta
a forme di fidelizzazione e partecipazione del pubblico particolarmente elevate.
Sono franchise Superman, Star Wars, Supermario, Harry Potter, Star Trek,
Cenerentola, Il Signore degli Anelli, Sherlock Holmes” 1.
Rientrano nel franchise prodotti che fidelizzano fortemente con il pubblico, in
grado di generare prequel, sequel, spinoff, gadgettistica e dunque un universo,
che in termini economici, è estremamente rilevante.
Il franchise diventa a tutti gli effetti un brand, un nome economicamente potente
che, collocato sul mercato, nei diversi suoi ambiti, genera profitto.
Si diffonde sempre di più la tendenza a replicare i contenuti narrativi,
rimodulandoli e adattandoli a contesti differenti.
Con l’inizio del nuovo millennio e l’arrivo del digitale, il franchise trova ulteriori
terreni fertili per espandersi e diventa “un’opera collettiva” proprio perché, al di là
del classico agile passaggio da un medium all’altro, coinvolge il fruitore che
partecipa attivamente alla circolazione del contenuto e alla produzione anche di
contenuti originali, soprattutto sui social network.
2 Nuovi prodotti seriali
Il primo prodotto seriale statunitense che ha veramente cambiato i percorsi
narrativi della serialità e che è riuscito ad affermarsi all’estero e anche in Italia
con grande successo è I segreti di Twin Peaks: una serie innovativa, diretta da un
grande regista cinematografico, David Lynch: una serie fortemente autoriale che
riscrive le regole della narrazione.
I legami causa-effetto sono incerti, la frammentazione la fa da padrone e prevede
l’esclusione dell’happy ending: vengono a mancare tutti quegli elementi, tipici
della narrazione classica, che fino a quel momento le serie avevano adottato.
In Italia, I segreti di Twin Peaks, verrà trasmesso da Canale 5 e avrà un ruolo
fondamentale nell’educare il pubblico verso una fruizione diversa. Questi sono gli
anni in cui emerge una nuova spettatorialità, alimentata anche da serie che
usciranno degli anni a seguire, è il caso di X- Files (1993) e Lost (2004).
Queste tre serie americane, ormai diventate parte della storia della serialità e
decisamente cult, portano alla ribalta un nuovo macrogenere che include
elementi horror, di mistero, di cronaca e violenza. Il risultato è un prodotto che
conquista il piccolo schermo. Nell’Italia degli anni Novanta la fruizione avveniva
sulla televisione generalista e gratuita, bisognerà aspettare una decina d’anni
perché si affermi la tv a pagamento in pay-per-view.
Una volta verificato il riscontro del pubblico verso questi prodotti seriali ibridi, che
propongono allo spettatore una narrazione alternativa, il mercato della serialità si
popola di nuove serie, sempre prodotte negli Stati Uniti, che incontrano, ancora
una volta, il gusto del pubblico. È il caso delle serie di genere crime come CSI, ER
che è un ibrido tra medical drama e reality, Dr. House (detective stories e
mediacal drama), Grey’s Anatomy che è un insieme di medical drama e soap
opera.
Un enorme successo viene riscontrato anche del genere horror e comedy come
Buffy l’ammazzavampiri, un mix di genere che è stato efficace non soltanto nella
serialità e che ha determinato grandi successi cinematografici e seriali per oltre
un decennio.
3 Complessitànarrativa
Ad emergere, dallo scenario che si è affermato a partire dalla fine degli anni 2000,
è un nuovo modello narrativo, complesso e in continua evoluzione. Se la serialità
agli albori seguiva regole precise ed era facilmente incasellabile, i prodotti
contemporanei si allontanano dalle convenzioni tipiche della serialità e
sperimentano nuove modalità di racconto.
Abbiamo già parlato di X-Files, una serie sviluppata su due livelli, da un lato una
macro storia che prosegue e collega i diversi episodi e, allo stesso tempo, episodi
autoconclusivi. Per l’epoca una soluzione originale e vincente; con il tempo questa
scelta non ha retto la pressione e la serie non è riuscita a trovare un giusto
equilibrio, facendo emergere le incongruenze tra i due livelli del racconto. Il
pubblico trovava evidenti incoerenze tra la narrazione episodica, che si
concludeva quindi nel singolo episodio, e quella della macrostoria.
Se consideriamo altre serie, possiamo riscontrare che esistono diversi modi di
inserire elementi della macrostoria in una serie che è composta anche da episodi
autoconclusivi. È il caso di Lost (2004) e Orange is the new black (2013),
entrambe usano lo stratagemma del flashback per raccontare qualcosa della
macrostoria ed uscire dalla dimensione quotidiana costretta a uno spazio fisico
limitato, dimensione che va a narrare l’episodio autoconclusivo. Lo scopo della
macrotrama è quello di fidelizzare maggiormente con lo spettatore che, se guarda
la serie nella sua interezza, conosce gli antefatti, comprende l’evolversi degli
eventi e il profilo psicologico dei personaggi e, dato questo suo legame con la
storia, viene spinto ogni volta, alla fine di ogni episodio, ad aspettare o voler
visionare quello successivo.
Esistono molti esempi di serie che, attraverso diversi stratagemmi, costruiscono
una narrazione che possa svilupparsi su entrambi i livelli. Questo dimostra che
non si riduce tutto alla continuità di una trama ma esistono infinite possibilità
narrative.
Jason Mittell identifica quattro elementi che, secondo lui, determinano una
narrazione seriale:
Il mondo narrativo
I personaggi
Gli eventi
La temporalità Il mondo narrativo: è possibile dedurre che qualsiasi
serie, anche quella più episodica, è costruita seguendo un principio di
serializzazione. Questo vuol dire che ogni serie parte dalla costruzione di un
mondo, un universo che include personaggi, luoghi, elementi che
garantiscono continuità alla storia. I personaggi: i personaggi sono un
punto fisso per la costruzione di una serie, garantiscono coerenza e solidità
alla storia, oltre che aiutare la fidelizzazione. È improbabile che una serie
tradisca la natura del personaggio, il profilo creato deve rimanere coerente
e riconoscibile agli occhi dello spettatore. Gli eventi: gli eventi costruiscono
la storia ma, in una narrazione seriale, dilatata nel tempo, non è detto che
lo spettatore ricordi o riesca facilmente a connettere e a dedurre
l’evoluzione della narrazione. Uno stratagemma usato è quello di far
ribadire ai personaggi cosa è accaduto, un reminder interno alla storia che
aiuta lo spettatore a connettersi nuovamente con la narrazione in continua
evoluzione. Ci sono poi casi particolari, come South Park, che fortemente
strutturato su una narrazione episodica chiusa, fa morire continuamente il
personaggio Kenny che, magicamente, torna a vivere negli episodi
successivi, senza che venga data alcuna spiegazione. La temporalità: In
un contenuto televisivo il tempo ha un valore importante che prende in
considerazione tre tipologie di tempo: il tempo della storia, il tempo del
discorso e il tempo del racconto. Il tempo della storia è la progressione
lineare degli eventi, il tempo del discorso è la struttura che viene scelta per
raccontare la storia e il tempo del racconto è il tempo necessario per fruire
del contenuto. In letteratura è variabile, visto che ognuno ha diverse
velocità di lettura; nel cinema e nella serialità è fisso. Per questa ragione
possiamo dire che in cinema e tv il tempo del racconto può essere anche
definito tempo dello schermo.
L’evoluzione dello storytelling seriale è sotto i nostri occhi. La complessità con cui
le serie tv presentano variazioni della forma seriale, allontanandosi sempre di più
dal formato tradizionale per lasciare spazio a nuove modalità di racconto e di
fruizione.
Un esempio è l’introduzione di uno storytelling autoreferenziale. Serie che
impostano la loro struttura introducendo meccanismi narrativi che prevedono
riferimenti metanarrativi e strutture circolari. Capita spesso nelle comedy dove
più storie vengono raccontate e alla fine queste vicende finiscono per collidere e
coincidere. Lo spettatore viene coinvolto anche attivamente nel processo di
costruzione narrativa, apprezza questo gioco di intrecci e riferimenti interni e
viene sollecitata una modalità di visione che Jeffrey Sconce definisce
metariflessiva. Neil Harris ci dice che lo spettatore non è interessato tanto alla
storia, il cui finale è prevedibile per lo spettatore fidelizzato ma il piacere dello
spettatore risiede nel chiedersi come gli autori hanno costruito la narrazione per
arrivare a quel finale. Un’estetica funzionale che pone al centro la domanda
“come ha fatto?” e non “cosa succederà?”.
Negli ultimi vent’anni è emerso “un nuovo paradigma del racconto televisivo” 2
che coinvolge uno spettatore interessato anche ai meccanismi narrativi, inserito
in un mercato che è influenzato dalle “connessioni tra industria, tecnologia,
creatività e abitudini degli spettatori”, tutti aspetti che sono stati coinvolti nella
grande rivoluzione del digitale che ha comportato una maggiore partecipazione
da parte dello spettatore grazie all’introduzione di “forme di comunicazione e
intrattenimento sempre più interattive”.3
48
1 Modelli narrativi della serialità contemporanea
La fiction americana, per fattura, investimenti produttivi e attrattiva popolare, è
divenuta ben presto il baricentro della narrazione televisiva mondiale, costituendo
le fondamenta della serialità contemporanea.
Non si parla più solamente di sit com o lunga serialità di genere, ma di contenuti
complessi e sofisticati, spesso di taglio autoriale, che hanno contribuito a
ridefinire le tecniche narrative della fiction televisiva, il suo bacino di utenza,
l’eventuale valore estetico e artistico e il suo appeal mediatico.
Le serie americane diventano, così, un agente patogeno contaminante capace di
influenzare i modelli produttivi e il pubblico di tutto il mondo, Italia compresa 1.
Il prodotto ad arrivare nel nostro Paese, che per primo può essere inserito in
questo nuovo corso della serialità, è senza dubbio “Twin Peaks” (in Italia, “I
segreti di Twin Peaks”, 1990) realizzato dal regista cinematografico David Lynch.
Ambientato in un piccolo paesino di Montagna poco lontano dal confine con il
Canada, mette in scena il ritrovamento del corpo di una ragazza e le successive
indagini per scoprire il colpevole.
Il cadavere della giovane spezzerà la quiete della comunità, facendo emergere un
underground di violenza, oscurità, mistero e crimine.
A partire da questa serie, all’interno della narrazione televisiva, si assiste alla
rottura di ideologie unificanti, a una frammentazione del racconto, a rapporti di
causa-effetto meno definiti, alla sospensione dell’azione e a una maggior
rilevanza dell’aspetto psichico e interiore dei personaggi che si riflette sulle scelte
visive e registiche.
Un modello decisamente diverso rispetto alla struttura tipica dei telefilm che
nell’arco di 24 minuti racchiudevano un mondo narrativo organizzato e
autoconclusivo.
Ad esempio, in una qualsiasi puntata del tenente Colombo - antenato dei
procedural contemporanei, del quale hanno mantenuto la struttura - il caso veniva
affrontato, investigato e risolto, con tanto di punizione esemplare del colpevole e
scagionamento del sospettato iniziale.
Il fallimento dell’eroe non era contemplato. A partire da “Twin Peaks” , trasmesso
in Italia su Canale 5 (al tempo non esistevano ancora le TV private a pagamento),
invece, il modello cambia e le variabili aumentano esponenzialmente, dando vita
a nuove possibilità narrative.
Queste traiettorie rendono la serie un potente agente formatore del gusto
popolare e dello sguardo spettatoriale televisivo contemporaneo.
Da questo momento in poi, appariranno sugli schermi storie più mature e
complesse, maggiormente ibridate con i generi, capaci di essere popolari e allo
stesso tempo intellettuali.
Tre anni dopo “Twin Peaks”, la detection si sposta verso il paranormale con un
altro cult incredibile come: X-Files2.
Nella serie, due agenti speciali dell’FBI, Mulder e Scully (David Duchovny e Gillian
Anderson) sono chiamati a investigare casi inspiegabili: dagli UFO alle presenze,
dalle teorie complottiste ai mostri. Si gioca, come da tradizione di “Twin Peaks” su
più fronti e più linguaggi, andando qui dalla fantascienza al thriller con venature
horror.
La struttura è quella del procedural (ogni puntata un caso diverso da affrontare)
con una compenetrazione tra trama verticale di puntata e trama orizzontale di
serie.
Sempre sullo stesso filone, nel 2005 viene distribuita un’altra serie di culto che
naviga negli stessi orizzonti ambigui tra realtà e fantascienza. Si tratta di “Lost”,
nel quale i superstiti di un incidente aereo si ritrovano su un’isola inquietante che
nasconde pericolosi segreti.
Qui l’innesco narrativo è sicuramente “Robinson Crusoe” e “L’isola del tesoro”
declinati, però, nelle logiche della fantascienza e del mistery.
La struttura vede il predominio della trama orizzontale, esattamente come “Twin
Peaks”, affrontata da una prospettiva corale, con storie che si intrecciano e
rapporti che
Queste tre serie - “Twin Peaks”, “X-Files” e “Lost” - segnano l’arrivo di un nuovo
macrogenere che ingloba horror, realismo, mistero, cronaca, violenza, storie
multiple, sequel e prequel, flussi di eventi al posto del lieto fine si mescolano con
modalità inedite per il piccolo schermo domestico nazionale 3.
2 La costruzione di una nuova serialità: “Twin Peaks”
“Twin Peaks”4 (I segreti di Twin Peaks, 1990), ideata da David Lynch e dallo
sceneggiatore Mark Frost, e diretta dallo stesso Lynch, può essere definita, senza
timore di errore, la madre di tutte le serie contemporanee. Tutte le tipologie di
narrazione finzionale televisiva hanno attinto da questa serie o hanno sfruttato il
percorso da lei tracciato sia in termini di sperimentazione narrativa, che di
sviluppo di trama e personaggi.
Consiste in due stagioni distribuite tra il 1990 e il 1991 dalla ABC, composte da 30
episodi.
La serie venne cancellata per un calo di ascolti dovuto allo slittamento nel
palinsesto e allo svelamento anticipato di un elemento importante della trama,
imposto dalla rete, che fece crollare l’interesse del pubblico.
A dispetto di ciò, “Twin Peaks” divenne un fenomeno culturale e mediatico di
proporzioni globali.
Pur interrotta senza una conclusione - il cliffhanger dell’ultima puntata della
seconda stagione è entrato nella storia come uno dei più scioccanti mai realizzati
- nel 2017 è stata distribuita una terza stagione.
Tra la fine della seconda stagione e la terza sono trascorsi oltre 25 anni e questo
ha innescato un gioco metanarrativo, esemplare per forza suggestiva e scelta di
marketing, che fa coincidere la cronologia della serie con la temporalità reale. In
una celebre scena, infatti, Laura Palmer, la vittima attorno alla quale si sviluppa la
detection della storia, dice al protagonista, il detective Dale Cooper, “Ci rivedremo
tra 25 anni”. Questo riferimento suggestivo, casuale o meno, ha dato vita a
innumerevoli speculazioni sull’intenzionalità di una pausa così lunga prima di
portare a compimento il ciclo narrativo della serie.
Con la sua terza stagione “Twin Peaks” è stata spinta ancora di più nei terreni
dell’antinarratività, divenendo opera autoriale totale, con ammiccamenti popolari
più limitati rispetto alle prime due stagioni e livelli estetici e simbolici tali da
portare nuovamente in avanti le potenzialità e i confini della serialità
contemporanea.
Si vocifera di una quarta stagione in arrivo che, probabilmente, farà compiere
nuovi passi in avanti nell’evoluzione del linguaggio seriale.
“Twin Peaks” è un autentico cult capace di conquistare il pubblico di tutto il
mondo attraverso la costruzione di un linguaggio espressivo originale, un potente
valore iconico e codici rappresentativi nuovi che nascono, però, dalla
rielaborazione della tradizione dei generi cinematografici e televisivi più popolari e
consolidati. Si parte dal “vecchio” per creare la “novità”.
3 Le fondamenta rivoluzionarie di “Twin Peaks”
“Twin Peaks” ha rappresentato, nell’ambito della serialità mondiale, un punto di
svolta, aprendo la via a un nuovo modo di concepire le narrazioni di fiction in
televisione sia da un punto di vista estetico che di scrittura.
La serie si è proposta come un terreno di sperimentazione visuale e narrativa nel
quale:
Si concretizza l’avvicinamento tra il linguaggio cinematografico e il
linguaggio televisivo, in un’ottica di accrescimento di quest’ultimo.
Viene aperta la strada al coinvolgimento diretto di autori cinematografici
nella produzione di opere televisive (Lynch, all’epoca di “Twin Peaks”, è già
un regista affermato grazie a opere come “Eraserhead” (1977), “The
Elephant Man” (1980), “Dune” (1984), “Velluto Blu”(1986) e “Cuore
selvaggio” (1990)). Si passa, quindi, da un’autorialità invisibile, tipica del
modello finzionale televisivo, a un’autorialità presente e determinante.
Nella serie, Lynch5 racchiude tutto il suo cinema passato e futuro,
rendendola uno dei suoi più forti e incisivi capolavori. Nel testo ritroviamo
l’ambiguità morale, la contrapposizione tra upper world e underworld, il
senso dell’assurdo, la commistione di generi, il predominio della dimensione
psicologica su quella reale, la profondità introspettiva, la sperimentazione
visuale, la violenza, la follia, la vendetta, l’amore salvifico, i santi e i demoni.
La complessità del mondo lynchiano è intatta, seppure resa narrativamente
fruibile
Con l’identificazione popolare di David Lynch e Mark Frost come
“ideatori” della serie “Twin Peaks” e artefici della complessità dell’opera
(sotto i rispettivi ambiti, ovviamente), si iniziano a delinare i tratti di quella
che diventerà, nel trentennio successivo, una figura essenziale nella
produzione di una serie: lo showrunner, che nella serialità contemporanea
coordina tutti gli aspetti produttivi ed estetici della serie, superando per
importanza il ruolo del semplice regista. Nel caso di “Twin Peaks” tale figura
è incarnata allo stesso tempo da Lynch e Frost. Viene costruito
un terreno ibrido di sperimentazione sui toni, linguaggi e stili della fiction
televisiva che, nella serie, vengono combinati, scomposti, ribaltati per
creare qualcosa di nuovo e inedito.
Cinema e televisione diventano un palcoscenico condiviso di
sedimentazione e promozione di un’unica narrazione. Nel 1992 Lynch
realizza “Fuoco cammina con me”: un lungometraggio, presentato a
Cannes, che si propone come prequel della serie, andando ad abbattere il
muro di separazione produttivo-distributiva tra cinema e tv anticipando, di
trent’anni, dinamiche e dialettiche oggi comuni (es. caso Netflix o
trasposizioni cinematografiche come “Downton Abbey”).
Il legame tra cinema e televisione è enfatizzato dalla complessità sonora
dell’opera per la quale viene realizzata una celebre colonna sonora,
composta da Angelo Badalamenti, divenuta ben presto iconica, a partire dal
suo tema principale che accompagna l’intera narrazione.
Viene messa in piedi una campagna pubblicitaria poderosa, interamente
giocata sul mistero, il perturbante e l’inquietudine. Vengono rilasciate le
immagini del viso di una giovane ragazza, avvolto da un telo di plastica. Lo
slogan, che diventerà un assoluto tormentone, sarà: “Chi ha ucciso Laura
Palmer?”. Lo storytelling utilizzato fa quindi capo al mistery e alla detection.
La serie, pur avendo un chiaro protagonista, il Detective Dale Cooper,
interpretato da Kyle MacLachlan (anche main character di “Dune” e “Velluto
Blu”), trova uno dei suoi punti di forza nella forza corale, dando spessore e
“autonomia” narrativa a una costellazione di personaggi attraenti.
L’ambientazione gioca un ruolo fondamentale nella costituzione
dell’immaginario twinpeaksiano. Le riprese escono dallo studio e dalla solita
ripetitività scenografica. Le location si moltiplicano secondo le esigenze
narrative, la coralità della storia e la vastità delle traiettorie sviluppate.
L’intero impianto narrativo è orientato non solo al consolidamento
dell’immaginario, ma alla creazione di una ben definita atmosfera
inquietante che rievoca le note del thriller di polizia, l’omicidio, l’intrigo etc),
del noir (il detective, la femme fatale, i triangoli amorosi,
morte e desiderio) fino a sfiorare l’horror (visioni, presenze, creature minacciose
etc). Dal punto di vista narrativo, troviamo l’eroe puro che attraversa una
personale discesa all’inferno (lo stesso modello di “Velluto Blu”); troviamo la
principessa dormiente da “salvare” sveladone l’assassino; troviamo un
antagonista fisico e uno fantastico e ci sono aiutanti e destinatori. I ruoli narrativi
classici sono presenti, ma mutano seguendo singolari variazioni morali ed etiche
all’insegna della più tipica ambiguità lynchiana. Lo spettatore, quindi, può entrare
nella storia in modo “canonico”, ma poi si ritrova imprigionato in una narrazione
inedita e perturbante nel quale niente è come sembra, anche quando pare
seguire le logiche canoniche del racconto.
Il punto di forza della serie, dal punto di vista narrativo, risiede in una
commistione di generi sulla carta impossibile da gestire, ma che Lynch e Frost
rendono in modo perfettamente armonico e innovativo. Anche se il cuore
dell’opera è noir e thriller, nel testo si passa costantemente e, spesso,
violentemente, attraverso i linguaggi e le estetiche della soap opera, del, della
commedia sentimentale, della farsa, della fantascienza, fino al fantasy e al puro
horror.
49
1 I primi passi
La serialità non ha più confini geografici. Oggi è possibile vedere in
contemporanea con il resto del mondo le serie di maggior successo, senza dover
aspettare una successiva distribuzione nazionale. Questo ha lentamente portato a
una diffusione capillare di prodotti internazionali anche nel nostro paese: un
processo che ha determinato un’inarrestabile contaminazione dei modelli
produttivi e narrativi globali.
Il successo del racconto seriale trova origine principlamente negli Stati Uniti e
affonda le proprie radici nella stratificazione del sistema televisivo in 1:
Televisione gratuita (circoscritta a tre network come Abc, Nbc e Cbs e,
successivamente, Fox)
Televisione a pagamento (come HBO - Home Box Office (1972), diffusa
tramite cavo telefonico con un abbonamento mensile) Il mercato televisivo,
in particolare quello che diventerà l’orizzonte seriale, venne radicalmente
modificato proprio dalla HBO strutturò la sua offerta competitiva e
innovativa sulla distribuzione di film sempre nuovi, in versione integrale e
privi di interruzione pubblicitaria, associati a una programmazione
competitiva. Nel 1975, grazie a una diffusione di matrice satellitare, divenne
il primo operatore via cavo nazionale, varando un nuovo canale
cinematografico (Cinemax) a scapito della concorrente Showtime, sempre
operante nel settore. Showtime è riuscita a farsi conoscere su scala
internazionale solo a partire dalla fine degli anni Novanta con serie come
“Stargate SG-1” (1997) e, nel 2000, con opere cult di nicchia come “Queer
as folk”, fino a diventare uno dei canati (produttori/distributori) più
competitivi e narrativamente interessanti del mercatoEssendo il competitor
più aggressivo, accumulando profitti riuscì a garantirsi i diritti di
distribuzione dei prodotti migliori sul mercato. Grazie a questo
consolidamento, riuscì presto a cimentarsi produzione diretta di opere
cinematografiche, fondando nel 1982, insieme alla Columbia e alla Cbs, la
TriStar Pictures. Nel 2010 la HBO è sbarcata nel mercato digitale, creando la
sua piattaforma streaming: HBO Go, anticipando i competitor nel mercato
che, di lì a pochi anni, sarebbe diventato il segmento di riferimento per la
2 L’affermazione dello “stile HBO”
Durante gli anni Ottanta la HBO iniziò a produrre serie televisive puntando, fin dal
principio, a un segmento di mercato che andasse oltre la basica popolarità. Un
esempio di ciò, fu l’ingaggio di Robert Altman in qualità di autore per la serie
satirico-politica Tanner ’88.
Il fatto che un autore cinematografico del calibro di Altman collaborasse con il
“nemico” televisivo per la realizzazione di una serie popolare, rappresentò una
piccola rivoluzione.
Non era la prima volta che grandi autori del cinema si cimentavano con il mezzo
televisivo, ma lo facevano più attraverso la forma “nobile” dello sceneggiato
breve o del film tv - pensiamo ad esempio a Ingmar Bergman con “Scene da un
matrimonio” (1978) o con “Fanny e Alexander”, entrambi, poi, proposti anche in
versione cinematografica.
La serialità popolare, invece, era considerata diametralmente distante dalle
logiche del cinema. Con l’intervento di Altman le cose iniziarono a cambiare. Di lì
a poco, nel 1990, sulla Abc fu la volta di David Lynch con Twin Peaks.
In casa HBO, però, questo processo di nobilitazione della serialità assunse
proporzioni vastissime, generando prodotti di lunga serialità di altissima qualità,
capaci di accontentare sia il pubblico che la critica, guardando al modello della
narrativa popolare dickensiana.
Questa tendenza produttiva, linguistica e narrativa, a metà degli anni Novanta,
prese il nome di “stile HBO” e si consolidò con prodotti estremamente sofisticati
per budget, scrittura, regia e valore artistico. I più significativi, seguendo una
cronologia ideale, furono:
South Park (1997 - in corso) - Serie feroce, caustica, politicamente scorretta
ambientata in una cittadina immaginaria del Colorado e incentrata sulle
avventure di un gruppo sconclusionato di bambini. Una delle serie più corrosive,
ciniche e controverse mai prodotte per linguaggio, temi ed estetica. Una
rivoluzione nell’ambito dell’animazione seriale per adulti, fino a quel momento
rappresentata, su scala popolare, da prodotti molti più istituzionali e placidi come
I Simpson. La serie non è stata trasmessa direttamente dalla HBO, ma su Comedy
Central, canale acquistato nel 1990.
Sex in The City (1998-2004) - una commedia romantica di successo
planetario, incentrata sulle vite di quattro donne nella New York
contemporanea tra sentimento, sesso e carriera. Linguaggio esplicito,
comicità tagliente, satira di costume ed espedienti registici interessanti
(narrazione diaristica in prima persona e sguardo in macchina). Sdoganò la
sessualità femminile in televisione e divenne un interessante terreno di
dibattito sul ruolo della donna nella società.
The Sopranos (1999 - 2007) - basato sulla storia di una famiglia mafiosa
guidata dal boss Tony Soprano, interpretato dal grane James Gandolfini.
Contribuì a gettare le basi per un nuovo sguardo autoriale sulla serialità
crime, maggiormente attento al lavoro dell’attore e alla psicologia dei
personaggi.
Six Feet Under (2001 - 2005) - Un intenso, sofisticatissimo family drama
incentrato sulle vicende di una famiglia che gestisce un’impresa di pompe
funebri. Toccante, cupo, profondo ed esistenziale: un prodotto dall’anima
“indie” pur essendo industriale. Un grande successo dalla scrittura
raffinatissima
The Wire (2002 - 2008) - Un crime ruvido e duro, dall’estetica poco
patinata, ambientato in una Baltimora oppressa da un pericoloso
underground criminale. Fu una delle prime serie ad affrontare il rapporto tra
criminalità e città in modo contemporaneo, aprendo la strada a molte opere
protagoniste del decennio successivo.
True Blood (2008-2014) - Un fanta-horror sentimentale ambientato in un
mondo distopico in cui vampiri e umani cercano con difficoltà di convivere
senza sterminarsi a vicenda. Estremamente originale per estetica e
ambientazione profonda Louisiana) e linguaggio (nella versione originale, gli
accenti non sono stati modificati ma divengono elemento caratteristico),
con una costruzione allegorica basata su un forte sottotesto razziale.
Game of Thrones (2011 - 2019) - Successo planetario per la trasposizione
televisiva de Le cronache del ghiaccio e del fuoco, complessa saga fantasy
di George R. R. Martin basata sulle lotte di potere nell’immaginaria terra di
Westeros. Una serie strutturalmente articolata su un’estrema coralità nella
quale decine di personaggi assumono lo stesso rilievo ai fini della
narrazione. Ad oggi è la serie di maggior successo commerciale della HBO,
diventando, insieme a Sex and the City, un autentico fenomeno di costume.
Dato il successo, la HBO ha già messo in cantiere un prequel.
True Detective (2014 - in corso) - Sempre sul versante crime, ma nella
traiettoria della detection, questa serie è diventata subito un fenomeno di
culto grazie al suo tono crepuscolare, alla contaminazione filosofica e
all’elevatissimo livello registico, recitativo e di scrittura. La prima stagione,
ambientata in Louisiana, vede come protagonisti interpreti cinematografici
come Matthew McConaughey, Woody Harrelson e Michelle Monaghan. Nel
cast della seconda stagione, ambientata in California, troviamo Colin Farrell,
Rachel McAdams, Taylor Kitsch e Vince Vaughn. La terza stagione, invece,
ha come protagonista Mahershala Ali ed è ambientata nel profondo
Arkansas. Westworld (2016 - in corso) - Ibridazione tra fantascienza e
western in questa trasposizione dell’omonimo film del ‘73 scritto e diretto
da Michael Crichton. In un futuro imprecisato, gli uomini possono
sperimentare la vita del vecchio West in un parco a tema interamente
popolato da androidi. Effetti speciali, sottotesti etici e un’ambientazione
affascinante nella quale viene rimessa in gioco la consolidata dicotomia tra
uomo e macchina. Nel cast Evan Rachel Wood ed Anthony Hopkins.
Big little lies (2017 - in corso) - Nella ricca Monterey si incrociano le vite
di tre donne alle prese con fughe dal passato, traumi, nuovi stili di vita e
violenze domestiche. Un omicidio sconvolgerà per sempre le loro vite.
Questa serie, un drama-thriller di ottima fattura, fonda il suo successo sulle
interpretazioni delle protagoniste ed è un piccolo manifesto dell’ibridazione
- favorita dalla HBO - tra cinema e televisione. Il cast, infatti, è degno di un
kolossal hollywoodiano: Reese Witherspoon, Nicole Kidman, Shailene
Woodley, Alexander Skarsgård, Laura Dern e, a partire dalla seconda
stagione, Meryl Streep nella sua prima apparizione televisiva.
• Whatchmen (2019 - in corso) - Trasposizione televisiva
dell’omonima graphic novel di Alan Moore. Ambientata ai giorni nostri, in
una realtà statunitense distopica, la serie ci conduce in una società
profondamente fratturata da tensioni razziali, nella quale il supereroismo si
muove nella linea sottile tra giustizia e criminalità. Con questa serie,
acclamata dalla critica, la HBO si avventura ufficialmente nel mondo
commerciale dei supereroi: lo fa, però, attraverso una storia che, anche
nella sua bellissima versione cinematografica, non aveva ricevuto il giusto
successo popolare a causa della complessità della narrazione, della
dilatazione temporale e dell’edificazione di personaggi non convenzionali
dal punto di vista morale. Whatchmen si configura, quindi, come un
esperimento commerciale (visto il risalto del genere tra il pubblico) che
rispetta, però, le logiche dello stile HBO nella sua veste estremamente
sofisticata, dark, politicamente scorretta e intensa.
• His dark materials (2019 - in corso) - Anche in questo caso ci
troviamo di fronte a una trasposizione letteraria (l’omonimo capolavoro
fantasy di Philip Pullman) che viene in seguito a una, fallimentare,
trasposizione cinematografica. La storia è quella di Lyra, una ragazzina al
centro di una misteriosa profezia e di un universo alternativo nel quale le
persone convivono con una “metà” animalesca chiamata Daimon, La serie,
annunciata come uno degli eventi principali della stagione, rielabora uno dei
testi letterari più colti e sofisticati mai realizzati nella narrativa per ragazzi,
cercando di trionfare dove il cinema aveva fallito.
Questo è solo un breve elenco delle opere più distintive di un corpus colto, attento
alle esigenze dell’intrattenimento popolare senza smarrire ricercatezza nella
forma e valore del contenuto.
3 Le caratteristiche dello “stile HBO”
Rispetto alle serie “cardine” della politica estetica e narrativa di HBO possiamo
subito notare come a dominare sia la volontà di coprire un ampissimo orizzonte di
genere. Si va dalla commedia al dramma, dal crime all’animazione, dal fantasy
alla fantascienza, dal thiller al fanta- horror. I generi classici dell’intrattenimento
popolare ci sono tutti, rielaborati, però, secondo strutture narrative, linguistiche
ed estetiche di alta qualità o, comunque, fruibili anche da un pubblico
culturalmente più sofisticato ed educato alla complessità.
Il pubblico di riferimento dello stile HBO è di fascia medio-alta e l’offerta, nella sua
vastità, garantisce il soddisfacimento di qualsiasi tipo di spettatore. Il punto di
forza delle serie della HBO sta nella loro capacità di generare dibattito e pensiero:
sono prodotti dei quali si parla (senza vergognarsene, poiché culturalmente
legittimati) con gli amici e i parenti, al bar come nei social network.
Nel tempo, lo stile HBO, dagli Stati Uniti iniziò a influenzare anche gli spettatori
europei, modificando poco a poco, la percezione stessa di un prodotto seriale
inizialmente screditato. Non era raro, infatti, sentir giudicare I Soprano come uno
scimmiottamento banale e serializzato de Il Padrino o Sex and the City come un
prodotto superficiale e moralmente deprecabile, data la condotta sessuale delle
protagoniste.
Un fenomeno spesso dovuto, in Italia, alla collocazione in palinsesto, che ne
determinava anche la deformazione qualitativa. Se venivi messo in seconda
serata, tendenzialmente non potevi essere un prodotto di punta. (es. Il trono di
spade censurato e poi collocato su Rai 4)
Visioni destinate a mutare radicalmente con la sedimentazione del nuovo
linguaggio seriale e la comprensione della complessità e della portata socio-
culturale di tali prodotti.
Il successo seriale della HBO impose nuovi ritmi e nuovi standard anche alle altre
emittenti che, almeno in parte, dovettero adeguarsi proponendo show di fattura
più elevata, accanto alle narrazioni popolari più semplici e commerciali.
Se prima i telefilm non dovevano possedere una chiara collocazione temporale e
ambientale in modo da poter essere “venduti” in continuità per un arco temporale
maggiore senza perdere di credibilità, ora il paradigma cambia.
Il racconto del reale, del presente o del passato diventa un ulteriore livello di
lettura della storia. Pensiamo a Mad Men, un altro dei prodotti di punta della Hbo
(2007-2015), che raccontava uno spaccato vividissimo della New York degli anni
Sessanta attraverso le gesta di un pubblicitario rampante. Nella serie veniva
mostrato l’assassinio di Kennedy così come le marce per i diritti civili senza che
questi elementi indebolissero l’astrazione della trama, ma anzi rafforzando il
valore della serie in quanto rappresentazione della realtà e della società
americana dell’epoca, con tutti i suoi contrasti. Tali contenuti non catturavano
solo chi quegli avvenimenti o periodi storici li aveva sperimentati in prima
persona, ma anche un pubblico più giovane per il quale quegli avvenimenti e quei
personaggi diventavano immediatamente di tendenza e tornavano ad avere un
ruolo nell’immaginario collettivo.
Questo livello di lettura, la profondità del racconto, la sofisticatezza delle
sceneggiature, la fattura registica ed estetica, le trovate narrative così come il
coinvolgimento di interpreti di calibro, determinò il consolidamento dello “stile
HBO”.
Questo stile ha portato il mercato della fiction americana a scindersi in due:
• sitcom e soap operas popolari - fenomeni narrativi tradizionali,
economici e “sicuri”, tesi all’alleggerimento e al puro intrattenimento
popolare generalista.
• serie di alto costo, valore qualitativo, rendimento economico, di
nicchia o dallo sguardo più popolare, destinate al pubblico della pay tv e
collocate negli slot più appetibili del palinsesto. Autentici prodotti di punta
che diventano vetrina dell’emittente stessa.
Questa scissione diventerà ancora più radicale con l’avvento di internet e dello
streaming che, con Netflix o Prime Video di Amazon punta alla parcellizzazione del
pubblico generalista andando a creare tante nuove nicchie spettatoriali, ognuna
delle quali avrà delle serie dedicate sempre a disposizione, prodotto a ciclo
continuo.
50
1. Le produzioni seriali
Dal 2008 al 2013, in Italia, comincia ad affermarsi una nuova serialità di
produzione nazionale, che trova spazio sulla pay tv e non sulla televisione
generalista. Lo stesso si era già verificato oltre oceano, dove la serialità aveva
dato sfogo a temi e linguaggi alternativi, con l’obiettivo anche di rivolgersi a
un’audience specifica.
I brand televisivi, da un certo momento in poi, si sono accorti che la serialità si
andava a configurare come un orizzonte fondamentale per la definizione
dell’identità della televisione stessa; questo perché i prodotti seriali sono arrivati a
caratterizzare il prestigio dei brand televisivi e delle emittenti, si sono dimostrati,
infatti, in grado di interessare audience particolarmente attive che arrivano a
trasferire le conversazioni sui prodotti seriali anche sui social network.
Sky Italia, parte del gruppo multinazionale NewsCorp, si afferma sul mercato tra il
2003 e il 2007, ed ha cominciato a produrre serie a partire dal 2008. La prima
serie, ispirata da un film di Gabriele Salvadores (e prima ancora dal romanzo di
Grazia Varesani), è stata Quo Vadis Baby.
I prodotti Sky tendono a fidelizzare con il pubblico, alimentando un processo che
spesso garantisce lunga vita a questi contenuti, in grado di generare prequel,
sequel, spinoff, gadgettistica e quindi costruendo un mondo che vive della
partecipazione del pubblico e della definizione di un fandom.
Sky, negli anni successivi, continua a produrre miniserie, nel 2013 è la volta di “I
delitti del barLume” e nel 2012 produce Faccia d’Angelo.
A fare la differenza, però, nel mercato della serialità, è la lunga serialità. Con
Romanzo criminale (2008/2010), Sky vede il riscontro del grande pubblico: si
tratta di 22 episodi da 55’ minuti, per la regia di Stefano Sollima, ispirati dal film
omonimo del 2005 di Michele Placido.
Questo è un prodotto che Sky ha esportato in tutto il mondo e, su tale modello, ha
costruito anche i prodotti seriali successivi. Gomorra, prodotta dal 2014, continua
a trattare di temi caldi come la malavita e, ancora una volta, deriva da un
prodotto cinematografico e letterario di successo.
Sky rimane coerente al percorso scelto e nel 2015 arriva 1992, una serie che
ancora una volta vuole parlare dell’Italia, della sua storia recente, vuole farlo in
maniera schietta, allontanandosi dalle narrazioni che per decenni le reti in chiaro
hanno fatto della realtà italiana. Il risultato è un racconto, romanzato, degli ultimi
venti anni di storia d’Italia. 1992 è quindi una serie di 10 episodi, che racconta
della fine della prima repubblica: personaggi di fantasia si mischiano a personaggi
realmente esistiti che hanno influenzato scelte politiche recenti, una storia di cui
l’Italia ha fresca memoria e con la quale riesce e relazionarsi in maniera più
diretta, proprio perché estremamente vicina. A seguire verrà prodotta anche 1993
e 1994.
Sky sceglie anche di produrre rifacimenti di serie statunitensi, è il caso di In
Treatment, originaria serie HBO (2009-2010) che dal 2013 viene prodotta da Sky
Italia. E’ una serie diretta da Saverio Costanzo con Sergio Castellitto per un totale
di due stagioni e 70 puntate da 25 minuti.
Le produzioni Sky in termini di serialità sono dunque moltissime, da oltre dieci
anni Sky è sul mercato della serialità. Se in Italia abbiamo avuto prodotti come
Romanzo Criminale, Gomorra, 1992, 1993, In Treatment, The Young Pope e Il
Miracolo, nel resto d’Europa abbiamo produzioni come: Britannia, Fortitude, Tin
Star, Babylon Berlin e Patrick Melrose.
Le scelte produttive di Sky chiariscono l’intento dell’azienda di volere
rivoluzionare il mercato e prendere contemporaneamente le distanze dalla tv
generalista.
2. Ricerca di un’identità produttiva
Sky produce un numero inferiore di serie rispetto alla tv generalista. Lo scopo
dell’azienda è quello di mantenere un’identità riconoscibile e coerente con il
modello editoriale, in modo da poter soddisfare gli abbonati ma anche attirare
l’attenzione dei potenziali clienti.
Sky ha sempre posto molta attenzione nella fase di scouting di progetti e
professionisti a cui affidarsi per i suoi progetti seriali. Quello della serialità è un
terreno inesplorato per Sky, che, però, ha rapporti consolidati con case di
produzione cinematografica che detengono i diritti dei lungometraggi destinati
alla programmazione a pagamento.
Sky si affida dunque a due case di produzione, Colorado Film e Cattleya, per
avviare i suoi progetti seriali ispirati al cinema.
Una priorità per l’azienda è comunicare, attraverso le proprie scelte produttive, il
brand, in modo da rinforzarlo e connotarlo. La scelta del premio oscar Salvatores,
per inaugurare il progetto seriale, è un messaggio chiaro delle intenzioni.
Il vantaggio di Sky è la sua inesperienza nel settore, il fatto di non avere
precedenti gli ha permesso di scrivere da zero la storia della serialità del
broadcaster, sentendosi libero e scegliendo autonomamente la propria identità.
La mancanza di tradizione ed esperienza è stata compensata da esperti del
settore e consulenti che hanno introdotto l’azienda alle best practice
internazionali, fondamentali per una società già affacciata al mercato globale.
Un ruolo importante per la costruzione di un’identità seriale è affidato alla
comunicazione. Già Fox Italia, con Boris, aveva dimostrato come le produzioni
originali potessero rafforzare il brand. Sky sottolinea come, sia l’aspetto
produttivo che comunicativo, siano complementari e necessari per il successo dei
contenuti presentati sul mercato.
3. Rivoluzione Sky Studios
Nel 2019 nascono gli Sky Studios a Londra, lo scopo è creare un centro
internazionale che possa curare le ambizioni internazionali di serie prodotte in
singole nazioni come Gomorra in Italia. Questo cambiamento arriva in seguito
all’acquisizione, nel 2018, da parte di Comcast di Sky, Comcast è una grandissima
società di comunicazione statunitense che, si dice, voglia arrivare a investire fino
a 1.3 miliardi di euro all’anno sul progetto Sky.
Ceo di Sky Studios è Gary Davey che ha dichiarato: «Questa nuova avventura
arriva al momento giusto, soprattutto per andare incontro alle crescenti richieste
dei nostri clienti. Non vediamo l'ora di poter lavorare con l'intera comunità
creativa, dai singoli artisti fino alle realtà indipendenti più grandi, per produrre
sempre più serie originali».
Obiettivo di Sky è quindi di investire sulla qualità, arrivando a competere
seriamente con i grandi colossi che attualmente dominano il mercato seriale
come Netflix, proponendo però prodotti curati nel dettaglio, che possano dare
spazio anche a una nuova generazioni di creativi.
Sky Studios nasce dunque per investire espressamente sulla serialità e ha,
l’obiettivo dichiarato di raddoppiare le serie prodotte. Continueranno le
collaborazioni con altri soggetti, è il caso di Hbo con il quale Sky produrra The
Third Day, sulla scia del successo di Chernobyl, miniserie rivelazione del 2019.
Hbo e Sky hanno già collaborato su progetti con The Young Pope e The New Pope
di Paolo Sorrentino.
The Third Day, non solo vedrà coinvolti Sky ed Hbo (che resta uno dei colossi della
televisione americana, garanzia di qualità in ambito seriale), ma anche Plan B
Entertainment e Punchdrunk International. Regista della serie sarà Marc Munden,
lo sceneggiatore, Dennis Kelly.
Il profilo di questa serie rappresenterà il progetto Sky Studios, lo darà mescolando
produzioni internazionali e soprattutto aprendosi al mercato statunitense, questo
implicherà, necessariamente un avvicinamento tra i due mercati, un canale
diretto tra Stati Uniti ed Europa che potranno avere un nuovo canale a
disposizione per scambiarsi progetti e creativ
51
1. Racconti di criminalità e malavita
Romanzo Criminale è il primo prodotto di lunga serialità di Sky Italia, risale al
2008 e tra ispirazione dal film omonimo di Michele Placido (2005) e dal romanzo
di Giancarlo De Cataldo (2002).
Con il libro di De Cataldo si apre un decennio che vedrà crescere
esponenzialmente l’interesse del pubblico verso il tema della malavita e della
criminalità italiana. Il 2006 è, per esempio, l’anno in cui esce Gomorra, best seller
di Roberto Saviano che, come Romanzo Criminale, ispirerà film e serie televisiva.
Il primo caso eclatante, di grande successo, che inaugurerà questo interesse
verso i temi caldi del malaffare, resta Romanzo Criminale. A sedurre il pubblico è
il racconto di una realtà vicina, di una storia condivisa che emerge da un tessuto
sociale e culturale nostrano. Sky Italia, nel suo percorso di ricerca di una identità
precisa, che potesse distanziarsi dalla televisione generalista, punta tutto su una
narrazione che possa appassionare, sconvolgere e svelare nuove sfaccettature di
una realtà nazionale vicina allo spettatore, che viene conquistato da storie che,
molto probabilmente, ha già ascoltato, raccontate però in modo diverso, da
giornali e telegiornali per esempio.
La narrazione fatta da De Cataldo, e poi ripresa dal film e dalla serie, si preoccupa
di esporre quindici anni di delitti, scontri, tensioni; tutte vicende che, prima del
romanzo, appartenevano a una memoria rimossa. La storia si svolge nel periodo
post Sessantotto, sono gli anni di piombo, un momento difficile per la nazione, che
vede lo Stato in estrema difficoltà e sente vicina la minaccia di un futuro
autoritario.
Romanzo Criminale usa le vicende della banda della Magliana per costruire un
percorso quasi mitologico, dove i protagonisti, banditi di birgata, vivono il sogno di
voler conquistare la Capitale. La narrazione è un misto tra noir, leggenda e uno
storytelling attuale e contemporaneo.
La serie Romanzo Criminale è diretta da Stefano Sollima e prodotta da Sky
Cinema, si tratta di un vero e proprio action crime drama che trae ispirazione dal
serial americano. La particolarità di questo prodotto è che, nonostante resti
profondamente legato a vicende territoriali, si dimostra esportabile all’estero,
cavalcando l’interesse del mercato internazionale verso le storie di malavita tutte
italiane. La costruzione realistica della scenografia, il linguaggio violento e
schietto, impone un modello stilistico inedito che prende le distanze dalle
sceneggiature a cui è abituato il pubblico della televisione generalista. Sky,
dunque, tutela la purezza della storia adottando linguaggi crudi e per niente
concilianti, in modo da restituire un racconto espresso dal punto di vista dei cattivi
con riferimenti al genere thriller, al prison crime, ma anche alla commedia e al
poliziottesco.
Il successo della serie risiede soprattutto nella sintesi e nell’equilibrio tra diversi
elementi che la caratterizzano, il racconto di una realtà suburbana, il mix di
finzione e cronaca, un racconto con tendenze mitologiche e narrazione storica. Lo
spettatore viene proiettato in un passato prossimo che attiva sentimenti nostalgici
e risveglia emozioni contrastanti che portano l’audience a confrontarsi anche con
temi attuali di una Italia che non ha completamente risolto le sue questioni
passate e che ritrova alcuni punti critici dell’Italia di oggi.
2. Dal film alla serie
Con Romanzo Criminale (la serie), Sky presenta al pubblico italiano una nuova
serialità. Il racconto, rispetto al libro e al romanzo, viene dilatato su 22 episodi,
divisi in 2 stagioni. Il prodotto seriale si occupa di colmare alcuni vuoti o chiarire
alcuni punti soltanto abbozzati nel nel film di Placido e, sfruttando i tempi della
narrazione seriale, ci vengono restituiti personaggi e ambientazioni che nel
prodotto cinematografico potevano essere passati inosservati. Trova spazio il
melodramma che racconta i traumi dei protagonisti, la loro storia, i loro conflitti
interiori. Vediamo così sviluppare una storia orizzontale per moltissimi membri
della banda, ogni personaggio trova lo spazio a lui necessario per raccontarsi e
mettere a fuoco il ruolo che ha all’interno della vicenda. Se nel film alcuni
personaggi sono marginalizzati, nella serie la loro posizione, la loro personalità, il
loro profilo è chiaro e ha un peso nell’evoluzione della storia. Se nel film la storia
ruota intorno a soli tre boss, nella serie abbiamo una moltitudine di personalità e
problematiche che vanno a determinare l’evoluzione della narrazione e a
rafforzare e consolidare la costruzione del racconto. “Libanese, Freddo e Dandi
rappresentano tre variazioni definite di un’idea criminale, ai loro compagni è
affidato il compito di assecondare o contrastare un determinato modello per
seguirne magari uno proprio”1.
La dilatazione del racconto e la trasposizione seriale della storia non si limita a
modificare e arricchire i profili dei personaggi ma va a mutare anche
l’ambientazione. La Roma che emerge differisce molto da quella che vedevamo
nel film. Viene dato spazio ai luoghi periferici della città che automaticamente
risultano meno riconoscibili, emerge il degrado, l’abusivismo edilizio e i
personaggi sono figli di questi ambienti, ne portano i segni. Tutti i quartieri romani
che vanno a comporre la storia (Magliana, Trastevere, Testaccio, Centocelle)
vengono amalgamati e uniformati dagli stessi elementi di decadenza e
degradazione.
A differenza del film, la narrazione della serie sembra più completa, restituisce
una costruzione storica più accurata, che, da subito, include le vicende
traumatiche di quel periodo, il terrorismo, gli anni di piombo, il sequestro Moro.
Da subito, Sollima chiarisce il contesto storico nel quale avvengono le vicende e
progressivamente le azioni della banda si inseriscono in questo scenario di
sequestri, malaffare e criminalità.
Ovviamente è un privilegio tutto seriale quello di potersi permettere di sviluppare
la narrazione usando una costruzione della realtà e dei personaggi più complessa
e completa. Le vicende storiche dell’Italia di quegli anni non sono il centro del
racconto ma vanno a determinare un contesto fortemente caratterizzato da
elementi che possiamo ricollegare, in maniera più o meno indiretta, alle vicende
che riguardano propriamente la banda.
3. Evoluzioni narrative e produttive
Romanzo Criminale è stato un successo, tanto da dare vita a fandom e
merchandising. Con questa serie è nato un vero e proprio brand capace di
coinvolgere e generare ulteriori contenuti spontanei pubblicati in rete, su
YouTube, per esempio, o parodie sui social.
Con Romanzo Criminale si è consacrato Stefano Sollima come regista, sarà lui a
dirigere il film di Suburra nel 2015 e la serie Gomorra dal 2014 al 2016. Un regista
che, all’epoca di Romanzo Criminale, era praticamente sconosciuto ma che ha
saputo emergere dedicandosi a lavori che rientrassero sotto lo stesso genere.
Sollima quindi ha un ruolo fondamentale per la realizzazione di questo genere di
serialità che resta sotto il brand Sky anche quando si tratta di Gomorra.
In Romanzo Criminale, un ruolo importante va riconosciuto anche agli
sceneggiatori: Daniele Cesarano, Barbara Petronio, Leonardo Valenti, Paolo
Marchesini provengono da una scuola italiana che prende a modello la scrittura
seriale tipicamente statunitense. Cominciano a lavorare intorno agli anni 2000 su
prodotti come Distretto di Polizia e RIS, in questo periodo viene riconosciuta la
figura dello story editor, un professionista con esperienza da sceneggiatore che
struttura i soggetti, lavora a stretto contatto con gli sceneggiatori e sulle linee
narrative.
La scrittura di Romanzo Criminale deriva da questo imprinting creativo e
produttivo che verrà ulteriormente perfezionato. Sono gli anni in cui arriva in Italia
la figura dello showrunner, un responsabile produttivo che ha una visione
d’insieme del progetto e supervisiona ogni passaggio anche dal punto di vista
creativo. Un ruolo molto importante quando si parla di lunga serialità.
Gina Gardini è nominata da Cattleya responsabile produttiva di Romano Criminale
(la serie). Ancora una volta viene premiata l’esperienza internazionale, essendo
lei stata responsabile per Miramax International Londra. Questo chiarisce l’intento
di Sky di imparare dal mercato internazionale oltre che esportare i propri prodotti.
Giana Gardini è il ponte tra diverse fasi del progetto.
La fase produttiva parte dalla scrittura, curata ovviamente dagli sceneggiatori
affiancati da De Cataldo, insieme impostano uno “scalettone” e sono consapevoli
del dover occuparsi di mostrare tutto ciò che il film non ha potuto, spesso per
restrizioni temporali. Sanno di doverlo fare potendo attingere dal romanzo ma
anche potendo scrivere ex novo. Da qui parte tutto il processo che Gardini seguirà
costantemente.
Questo processo produttivo diventa un modello per le serie successive Sky,
azienda che si affida allo stesso team della prima stagione per realizzare, fra il
2009 e il 2010, la seconda.
Il modello viene replicato, sempre da Cattleya, questa volta in collaborazione con
Fandango, nel 2013 per la produzione di Gomorra. Forti del successo di Romanzo
Criminale, Sky comincia la produzione di questa nuova serie sapendo che vuole
riconfermare il successo italiano ma anche sedurre il mercato internazionale che
già aveva risposto bene alla prima e seconda stagione di Romanzo Criminale,
venduta in cinquanta paesi e (per il secondo capitolo) co- prodotta dalla tedesca
Beta Film.
52
1. La tv di palinsesto
La televisione negli ultimi anni ha subito cambiamenti radicali, sotto il termine
televisione possiamo fare rientrare diverse tipologie: il servizio pubblico, la
televisione generalista commerciale, la pay TV e l’IPTV (Internet Protocol
Television) ovvero il servizio televisivo fruito attraverso la rete internet (protocollo
IP, appunto), ad esempio tramite un personal computer, fruendo contenuti in
streaming video, oppure attraverso il video on demand in abbonamento.
La tv contemporanea è multicanale e satura di contenuti, costruisce un’offerta
che si allontana sempre di più dalla vecchia televisione con un palinsesto rigido e
ripetitivo.
La parola palinsesto deriva dal greco, da una parola usata per le pergamene che
significa «raschiato più volte», vuole andare a sottolineare le continue modifiche
che venivano fatte al palinsesto; chi si occupava di strutturare il palinsesto
doveva continuamente ripensarlo, riscriverlo per arrivare a costruire una scaletta
settimanale che era molto rigida: lunedì il film, giovedì il quiz, la domenica la
partita.
Il palinsesto della prima televisione di stampo europeo vedeva trasmettere in
diretta i grandi eventi sportivi, l’intrattenimento con spettacoli di varietà che
andavano in scena una volta a settimana, quiz e sceneggiati che traevano
ispirazione dal cinema e dal teatro. Con il tempo le cose cambiano, la televisione
guarda al modello statunitense, la fiction si allontana dal teatro e comincia a
copiare la serialità americana. Proliferano i canali e anche il palinsesto vede
cambiare il suo ruolo.
Oggi, il palinsesto, è in diretto rapporto con l’identità e l’immagine che la rete
vuole avere, sia essa tematica, generalista o di nicchia.
Il palinsesto è la griglia dei programmi che una emittente decide di mettere in
programmazione e va a determinare l’identità dell’emittente stessa, che, in
questo modo, può essere facilmente inquadrata dallo spettatore, che è
consapevole di ciò che sta guardando e può facilmente sentirsi rappresentato.
Dalla metà degli anni Ottanta in poi la programmazione divenne sempre più un
fatto di marketing e la pubblicità assume il controllo. Anche gli spettatori
acquistano potere, sono loro a stabilire cosa guardare, decidendo così le sorti di
un programma o di un personaggio.
Un programma che non ha un buon riscontro di pubblico rischia di essere
cancellato, un presentatore che non funziona rischia il posto.
Non sono soltanto le dinamiche di potere a cambiare, anche il progresso e le
nuove tecnologie determinano nuove regole che andranno a modificare
radicalmente il modo di produrre e fruire contenuti televisivi.
“Nel concetto di palinsesto vi sono due punti molto importanti per noi. Intanto una
ars combinatoria, una magia dell’assemblaggio che rende un’identità di rete più
efficiente di un’altra. Un tempo essa era vista soprattutto come un’alternanza,
gradevole ma sostanziosa, di generi. Oggi è sempre più frequente che un canale
sia organizzato per un singolo genere o macrogenere (una partizione più ampia di
contenuti), come è ad esempio la televisione lifestyle.” 1
2. Dall’analogico al digitale
Secondo il ricercatore inglese John Ellis possiamo identificare tre epoche della
televisione:- Età della scarsità: dalle origini alla seconda metà degli anni
Settanta/inizi anni Ottanta, in
Italia coincide con il monopolio del servizio pubblico.- Età della disponibilità:
arrivano le televisioni commerciali. Siamo negli anni Ottanta e
aumentano i canali e i programmi a disposizione del pubblico.- Età
dell’abbondanza: si moltiplicano i canali e si diversificano le modalità di accesso ai
contenuti televisivi, i contenuti vengono distribuiti su diverse piattaforme o reti e
il pubblico tende ad essere segmentato.
L’ultimo punto è strettamente legato all’arrivo della televisione digitale che può
essere considerata una vera e propria rivoluzione. Il digitale permette di
moltiplicare ogni canale analogico per cinque, permette l’interazione e
l’integrazione assoluta tra media diversi: televisione, telefonia, computer.
Permette al singolo spettatore di non essere più un consumatore passivo, ma un
potenziale produttore di contenuti.
La transizione al digitale, nel suo garantire una maggiore scelta al pubblico,
cambia in maniera sostanziale il contenuto televisivo. Ciò che viene pensato per
una fruizione televisiva, in maniera spesso automatica, viene trasferito su altri
media e schermi, dal personal computer al cellulare: viene porzionato e trasferito
sui social, affinché possa arrivare a un pubblico trasversale che, avendo
dimestichezza con le nuove tecnologie, vuole essere coinvolto in maniera più
attiva, vuole partecipare al dibattito che nasce, per esempio, da un contenuto
pensato dalla e per la televisione, ma che poi continua la sua vita on line e sui
social network.
In Italia, la digitalizzazione delle frequenze terrestri comincia nel 2006 e termina
nel 2012, progressivamente le singole regioni hanno portato a compimento la
transizione con una strategia definita “a macchia di leopardo”. Terminata questa
fase è avvenuto il cosiddetto switch off: sono stati spenti i ripetitori analogici, e il
pubblico, per ricevere il segnale televisivo, ha dovuto dotarsi di un decoder o
acquistare una nuova tipologia di televisore, adatta a ricevere il segnale digitale.
Se con il digitale l’offerta della tv free è più ampia, nello stesso periodo al
pubblico viene offerta un’altra televisione, a pagamento, che differisce dalla
televisione generalista a cui il pubblico è abituato. Il patto con il consumatore è
totalmente diverso, in cambio di un abbonamento mensile, per esempio, il
pubblico avrà più contenuti e meno pubblicità. Questo significa che il giudizio del
pubblico incide fortemente sulle scelte effettuate della televisione a pagamento
che costruisce la sua offerta in maniera totalmente diversa rispetto alla tv
generalista, dalla quale cerca di allontanarsi, per garantire un’alternativa valida e
di qualità al pubblico pagante, che ciclicamente deve essere convinto di voler
rinnovare il suo abbonamento.
3. La tv a pagamento
Esistono varie tipologie di televisione a pagamento: il pay per view, il VOD, e il
NVOD (Near Video On Demand).
La prima dà la possibilità allo spettatore di scegliere cosa vedere e pagare per il
singolo prodotto selezionato. Il Video On Demand permette di fruire di un
contenuto televisivo quando lo si preferisce, può essere sia gratuito che a
pagamento. Il Near Video On Demand, si posiziona a metà strada tra le prime
due: ripetutamente vengono offerti prodotti, in modo che l’utente, avendo a
disposizione un ampio numero di canali che trasmettono a intervalli regolari e in
diversi orari della giornata lo stesso programma, può scegliere liberamente
quando fruirlo. In questo modo l’utente interessato può scegliere quando
acquistare e consumare il singolo prodotto.
In Italia dobbiamo aspettare gli anni Novanta per avere offerte di televisione a
pagamento, le prime ad affacciarsi sul mercato saranno le emittenti Telepiù e
Stream, che trasmettono via etere, in forma criptata e che nel 2003 si fonderanno
in SKY, azienda ancora oggi sul mercato, all’epoca di proprietà di Rupert Murdoch.
La tv a pagamento degli anni Novanta non riscuote successo e non conquista il
mercato.
Dobbiamo aspettare l’era digitale per vedere qualche sostanziale cambiamento.
Sky Italia, appartenente alla multinazionale NewsCorporation, si configura come il
primo operatore pay, arrivando ad avere quasi cinque milioni di abbonati
attraverso la piattaforma digitale satellitare.
La digitalizzazione dell’offerta e l’ingresso nell’abbondanza multi-canale genera
un riassestamento nelle forme di consumo e una loro frammentazione.
Nell’età multi-televisiva il contenuto raggiunge il suo pubblico attraverso
molteplici canali.
Con il digitale terrestre nascono le reti mini-generaliste, che si rivolgono a un
pubblico specifico, maggiormente settorializzato.
Rai 4, per esempio, si rivolge ad un target di giovani-adulti e la sua identità si
fonda su quattro fattori: le serie di culto (Mad Men, Battlestar Galactica, Beverly
Hills); i film organizzati in cicli; i contenuti extra della tv generalista, ripresi per
andare incontro al pubblico dei fan (striscia canale costruisce con la rete e l’user
generated content.
È evidente che l’offerta multicanale e multipiattaforma frammenta i consumi. Il
pubblico si abitua ad avere a disposizione non più i soliti e pochi canali generalisti
ma può avere accesso a centinaia di reti nazionali (free e pay) distribuite su
diverse piattaforme.
Com’è possibile, nell’era della convergenza, dove i confini dell’audience si fanno
sempre più sfumati, flessibili, indecifrabili, misurare l’indice di ascolto di un canale
tv? Il processo della convergenza conduce a una trasformazione dell’esperienza
spettatoriale nei sui assi costitutivi, il tempo e lo spazio.
Sul versante del tempo sono molte e differenti le tecnologie che hanno reso non
lineare un medium lineare come la televisione.
La flessibilizzazione del tempo televisivo non è solo conseguenza dell’introduzione
di nuove tecnologie (come personal video recorder, registratori digitali dotati di
memoria come nel caso di MySky, etc), ma deriva anche da una diversa
organizzazione dei contenuti nello scenario multi- piattaforma o di reti
interamente dedicate alla replica (come nel caso di Mediaset Extra). La rete,
inoltre rappresenta un’ulteriore modalità di flessibilizzazione dei tempi di fruizione
dei contenuti televisivi. La televisione convergente non è solamente flessibile nel
tempo, ma anche nello spazio.
“Essa permette di uscire dalle mura domestiche per farsi esperienza sempre
disponibile, indipendentemente dalla propria collocazione fisica. La tv multiplacing
o multi-luogo mira ad assolvere in parte, alle stesse esigenze di flessibilizzazione
temporale già illustrate: una tv disponibile in ogni luogo svincolata dalle rigidità
orarie e che si offre sempre “connessa” al flusso del
Questa mutazione dell’esperienza televisiva ha trasformato le modalità di
consumo, l’audience va ripensata. La quantificazione del consumo televisivo
diventa più dinamico: non più una fotografia statica di quanto viene consumato
nel momento in cui viene emesso, ma un quadro in divenire che tiene traccia
della fruizione di un determinato contenuto nei sette giorni successivi l’emissione.
53
1. La contaminazione web della TV
L’impatto che Internet ha avuto sul medium televisivo 1, soprattutto dopo lo
sviluppo del Web 2.0 e della banda larga, è stato enorme. Il mondo televisivo ha
registrato un forte cambiamento dato dall’emergere di nuove esigenze da parte
dei consumatori ed una evoluzione tecnologica senza precedenti. Il pubblico è
diventato multitasking e ci si è trovati a doversi interfacciare con piattaforme di
fruizione nuove e alternative.
Accanto allo schermo tradizionale si sono sviluppati nuovi strumenti come
computer, tablet e smartphone che hanno portato gli spettatori all’utilizzo di
diverse piattaforme per la fruizione dei medesimi contenuti con modalità e
tempistiche nuove. Questo ha modificato le caratteristiche di consumo e gli
operatori si sono dovuti adattare al nuovo scenario. A seguito dell’avvento di
Internet sono quindi maturati nuovi modelli di business, nuovi operatori sono
entrati sul mercato ed è stato necessario uno stravolgimento delle tradizionali
strategie degli operatori consolidati.
Le nuove modalità di fruizione dei contenuti hanno contribuito alla creazione di
offerte maggiormente idonee ai fabbisogni di un nuovo pubblico multipiattaforma
sempre più autonomo ed esigente. Un esempio è stato la personalizzazione dei
contenuti, la modalità On Demand che ha portato ad una vera e propria
cannibalizzazione delle altre forme distributive.
«Lo streaming video si afferma come nuova ed efficiente forma di distribuzione e
dà un contributo determinante alla formazione di un nuovo ambiente
crossmediale, in cui i contenuti migrano continuamente da un medium all’altro,
dall’ambiente mediale a quello dei social network, e viceversa; ad ogni passaggio
è possibile modificarli, copiarli, aggiungervi commenti e altri materiali [...].
Nascono siti, continuamente chiusi e riaperti, da cui è possibile scaricare
illegalmente film, mentre il fandom delle serie televisive fa circolare da un paese
all’altro stagioni che non sono ancora arrivate in tv, eventualmente sottotitolate
volontaristicamente dai cosiddetti subbers. Combinandosi con le procedure del
commercio elettronico lo streaming video diventa finalmente la forma attuale del
video on demand.»2
I player nazionali ai canali generalisti e premium hanno affiancato servizi di Video
On Demand. Mediaset, ad esempio, ha un canale di video On Demand (Infinity)
esclusivamente su banda larga. Sky, che non ha canali gratuiti, dal 2014 ha anche
un video On Demand (Sky Online poi diventato Now Tv) esclusivamente su banda
larga. La Rai, invece, dal 12 settembre 2016 ha un suo servizio di video On
Demand chiamato Rai Play.
2. Il dominio delle OTT
Nel corso degli ultimi quindici anni si sono sviluppati nuovi modelli di business
all’interno dell’ecosistema digitale. Vengono definiti Over The Top (Ott) quei
fornitori di servizi disgiunti dal trasporto dei dati che si appoggiano alle reti IP
degli operatori di telecomunicazioni (Telco), mantenendo la completa esclusività
dei contenuti inviati e dei relativi copyright 3. Il concetto di Ott non riguarda solo lo
streaming video (es. Netflix, Hulu, Prime Video4) ma si espande anche ai servizi
per la messaggistica e per le chiamate (es. Skype, WhatsApp).
«L’aspetto innovativo è che [...] nel modello dello screen content confluiscono le
funzioni tipiche di ambiti che prima erano separati: le comunicazioni
interpersonali, la comunicazione di massa, la produzione amatoriale, la
produzione televisiva/cinematografica e il trattamento dei dati. Per dare un’idea
delle dimensioni del mercato, secondo un report del Digital Tv Research, i ricavi
globali (in cento Paesi) degli Ott Tv & Video passeranno da 29,4 miliardi di dollari
del 2015 a 64,8 miliardi di dollari nel 2021»5.
Le entrate degli operatori Ott provengono dallo sfruttamento degli spazi
pubblicitari, dal trattamento dei dati e dalle sottoscrizioni degli utenti. Utenza che,
nell’era del Web 2.5, sceglie i contenuti in base allo schema anything, anywhere,
anytime, contribuendo al consolidamento di un modello economico on demand
flessibile, mobile e adatto ad ogni necessità.
Nell’ambito del Vod possiamo distinguere tre modelli distinti:
Svod - Subscription video on demand: fruizione basata sul canone (es. Netflix,
Prime Video, Nowtv di Sky etc)
3 Vannucchi G., Internet e le dinamiche dei ruoli degli OTT (“Over The Top”) e Telco nel panorama
ICT, in “Mondo Digitale”, Novembre 2015, http://mondodigitale.aicanet.net/2015-
5/articoli/02_internet_dinamiche_ruoli_OTT.pdf4 Cfr. Lupi A., Amazon Prime Video - Il risveglio di
un gigante nel regno di Netflix, tesi di laurea in Cultura e formati della televisione e della radio,
Università degli Studi Roma Tre, Roma 2018.
Tvod - Transactional video on demand: pay per view con acquisto di contenuti via
internet (es. Itunes di Apple, Google play etc)
Avod - Advertaising video on demand: fruizione di contenuti gratuiti intervallati
da pubblicità (es. Youtube)
Per quanto riguarda lo Svod ci troviamo di fronte al servizio più usato al mondo.
Lo schema vincente, in questo caso, prevede la sottoscrizione di un abbonamento
a canone fisso periodico che permette di accedere a un vasto catalogo
multimediale senza vincoli di orario e senza costi aggiuntivi.
Una variante del sistema appena illustrato, definito stand-alone (svincolato dal
palinsesto), è lo Svod catch-up, che «offre al cliente la possibilità di avvalersi, a
richiesta, di contenuti legati alla programmazione lineare entro un certo periodo
di tempo dalla loro messa in onda»6. Nel nostro Paese, alcuni esempi di Svod
ibridi sono Now Tv (Sky) e Infinity Tv/Premium Play (Mediaset), ma troviamo
anche player Svod stand-alone, come Tim Vision, Netflix e Prime Video.
Il Tvod, ovvero pay-per-view, si basa sulla vendita di singoli contenuti audiovisivi
senza necessità di sottoscrizione di un canone fisso. Il punto di forza è il catalogo:
tendenzialmente più ricco e, soprattutto, con titoli più recenti. Il gioco del Tvod si
basa sullo sfruttamento delle finestre temporali di uscita dei film (window) e dei
relativi diritti. In generale, dopo la sala, uno dei primi spazi distributivi è quello del
Tvod (di poco successivo solo all’uscita del Dvd).
L’Avod è invece un servizio gratuito basato sulla pubblicità. Il suo fatturato è in
costante crescita, a dimostrazione dell’interesse del pubblico in questo modello.
Sicuramente quello più abbordabile per l’utente.
Il più noto utilizzo del modello Avod è sicuramente quello di Youtube, (proprietà di
Google dal 2006) che ha mescolato contenuti generati dagli utenti con canali
professionali e al 2018 risulta essere il secondo sito più visitato del mondo.
Ad oggi, i modelli di business più interessanti sono sicuramente quelli che ibridano
vari schemi distributivi, come lo stesso Youtube, che negli Stati Uniti oltre ad
assolvere la funzione di aggregatore di video, propone lo Svod “Youtube Red”
offre parallelamente un servizio di pay-per- view.
La prima conseguenza dell’incremento di piattaforme Ott è l’aumento dei
contenuti, poiché, aumentando i contenuti, si intensificano anche i titoli mirati ad
un pubblico di nicchia. Questa espansione parallela contiene in sé un rischio,
ovvero che il prodotto possa non raggiungere il target sperato. In quest’ottica, i
player Svod stanno cercando di combinare un servizio popolare volto
all’ampliamento del bacino di utenza, con delle proposte altamente direzionate.
«Le piattaforme Ott con più abbonati che riusciranno a fornire il contenuto adatto
all’audience adatta, avranno la meglio sulle altre» 7.
3. Connected television: i volti della tv online
Il rapido sviluppo tecnologico ha reso accessibili i device in grado di connettersi a
Internet anche da parte di chi appartiene a un ceto più basso, d’altronde i servizi
offerti stanno divenendo sempre più essenziali e in pochi scelgono di rimanere
offline per paura di venire esclusi dalla sub società che si è creata.
Il consumo di Vod giornaliero, che, confrontato con la programmazione lineare, si
aggira intorno al 42%, ha inoltre cambiato le pratiche di visione. Oggi il 93% degli
utenti abbonati ad un servizio Svod consuma ogni giorno più di un episodio
(binge- viewing).
L’evoluzione di modelli economici basati sul massiccio utilizzo della rete ha
modificato le logiche produttive e distributive di cinema e televisione.
L’industria cinematografica va quindi ricalibrata nel contesto allargato che include
anche la televisione, visto che, con le produzioni originali di Ott come Netflix,
alcuni film vengono prodotti esclusivamente per uscire all’interno della
piattaforma.
Prima di comprendere in che modo la scatola televisiva si stia oggi ridefinendo a
favore di una connected television dalle molteplici strutture, è necessario
sottolineare il passaggio dal primato del palinsesto a quello dell’algoritmo. Il
palinsesto va riconsiderato a livello spaziale e temporale, poiché non possiamo
più parlare di una fruizione prettamente domestica a causa del distaccamento
dalla sincronia del broadcasting.
« La piattaforma deve essere contraddistinta da un marchio, un brand, fortemente
riconoscibile. Ogni rete deve avere una propria identità e immagine, che si
traduce ogni giorno nel suo cartellone, nella sua programmazione. Ciò che una
volta si definiva il «governo del palinsesto». [...] Ormai non tutte le reti hanno un
palinsesto (il video on demand non ce l’ha, ad esempio); meglio parlare di
“governo dell’offerta”»8.
Quando l’operatore pianifica l’offerta, non potendo prescindere dall’attitudine del
consumatore, si serve degli algoritmi di suggerimento per creare fedeltà e senso
di riconoscimento nelle proposte della piattaforma. Nasce così il sistema delle
recommendation che, tramite suggerimenti sui prodotti da visionare, indirizza le
scelte degli utenti e permette all’operatore l’acquisizione di dati sulle preferenze
degli stessi.
Nel corso dell’ultimo decennio, sono emerse diverse forme di televisione digitale e
convergente, e l’espressione connected television costituisce un’etichetta di
sintesi di tutte queste realtà. Attualmente la scena comprende Ott Tv, Web Tv,
Internet Tv, IPTV e aggregatori di video online.
Con l’Over The Top Tv si ha la possibilità di fruire sul grande schermo di casa di
contenuti audio-video dal Web, senza banda dedicata e qualità garantita, tramite
applicazioni volte a rendere più semplice l’accesso a servizi come Prime Video,
Netflix e tanti altri. Notiamo quindi un’irruzione del mondo del Web nella
televisione casalinga, che in questo modo integra la proposta lineare tradizionale
con quella in rete.
Se invece usiamo il termine Internet Tv, facciamo riferimento ad un tipo di
distribuzione differente.
«La Internet TV è la modalità di distribuzione digitale via internet di contenuti
televisivi non originali, operata in Italia principalmente dai broadcasters. La
Internet TV assume invece la definizione di Web TV quando i contenuti sono
originariamente prodotti per essere trasmessi sul Web [...]. La totale gratuità è
l’unica caratteristica che le distingue dalle O.T.T. Tv. I contenuti della Internet Tv e
della Web Tv possono essere fruiti in streaming, sia live che on demand
(attraverso l’accesso a una library di programmi) [...]» 9.
Alcuni esempi di Internet Tv italiana sono Rai Play, La7.it, Nove.tv e Mediaset.it,
ma va ricordato che si tratta comunque di modelli economici AVOD che
presentano inserzioni precedenti alla riproduzione del video. Nel caso del servizio
pubblico fornito dalla Rai, al modello AVOD si aggiunge il pagamento di un canone
obbligatorio per chi possiede un apparecchio televisivo in grado di ricevere,
decodificare e visualizzare il segnale satellitare e/o digitale terrestre.
La IPTV (Internet Protocol Television) è invece un sistema di trasmissione di
segnale televisivo distribuito agli utenti tramite l’IP (protocollo internet) e
decodificato con l’ausilio di un set top box. Rispetto alle altre piattaforme, questo
servizio viene solitamente proposto dagli operatori TLC con un’offerta triple pay
(voce, internet, televisivi).
Nel nostro Paese alcune Telco come Tiscali, Infostrada, Fastweb e Telecom Italia
hanno proposto nel tempo la loro offerta di servizi IPTV, ma l’unica ad aver
resistito è TIM Vision. Dal 2016 Telecom ha infatti fuso l’IPTV “Alice Home Tv” con
il vod “Cubovision” in una sola proposta fruibile sia come Svod, da vari dispositivi,
che tramite set top box.
Dal 2018 TIM Vision ha iniziato a produrre contenuti originali come Skam Italia,
Dark Polo Gang-La serie e L’estate Infinita, ma vanta nel catalogo anche titoli
pluripremiati agli Emmy, come The Handmaid’s Tale.
54
1. Gli albori di una nuova industria del racconto
Netflix è, ad oggi, il servizio Svod più utilizzato negli Stati Uniti.
La nascita e il successo della piattaforma è dovuti al suo fondatore: Reed Hastings
che nel 1997 diede vita a un innovativo servizio web di noleggio DVD, tecnologia
appena sbarcata negli USA1.
Per realizzare la sua impresa si avvalse di due collaboratori: l’esperto di marketing
Mark Randolph e il pioniere del noleggio fisico di VHS, proprietario della catena
Video Droid, Mitch Lowe.
L’incontro tra i tre portò alla nascita di Netflix’s FlixFinder, uno strumento che
permetteva di ricercare i film basandosi su criteri quali il titolo, gli attori o il
regista, tramite il quale era possibile ottenere, per ogni singolo prodotto, un
collegamento alla sinossi, alla valutazione degli utenti, alla lista del cast e della
troupe, e a una descrizione delle caratteristiche del DVD 2. Siamo agli albori dei
metadati e degli archivi digitali per come li conosciamo noi oggi.
Questa piattaforma, lanciata ufficialmente il 14 Aprile del 1998, consentiva agli
utenti di accedere ad un vasto catalogo di film, esplorabile grazie a un intuitivo
sistema di filtraggio. Successivamente, i DVD scelti venivano mandati via posta a
casa dell’utente con allegate buste rosse preaffrancate, che venivano usate per
restituirli.
Dopo un breve periodo in cui Netflix si mosse tramite il modello classico
dell’acquisto di un singolo DVD, la società passò alla politica commerciale
dell’abbonamento, che permetteva agli utenti di noleggiare un certo numero di
DVD al mese senza penali per la consegna tardiva. Leggenda vuole che sia stata
proprio la rabbia di Hastings per aver dovuto pagare 40 dollari a causa della
consegna tardiva della VHS di Apollo 13 di Ron Howard da Blockbuster, ad aver
ispirato la nascita di Netflix3.
In seguito alla partnership con la celebre catena di distribuzione organizzata Wal-
Mart e all’ingresso nel team dirigenziale di Ted Sarandos, a capo dell’ufficio
contenuti, al quale era affidato il compito di completare il catalogo grazie ad
accordi di revenue sharing (compartecipazione nelle entrate distributive) con i più
importanti studios cinematografici, Netflix sbaragliò la concorrenza grazie al
servizio Cinematch.
«Cinematch era un software che permetteva di creare un vero e proprio sistema
di raccomandazione per gli utenti e che si basava sull’idea di collaborative
filtering. Inquesto sistema viene chiesto agli utenti di esprimere delle valutazioni
su alcuni prodotti; successivamente venivano analizzate le relazioni tra gli utenti e
i legami tra i prodotti, alfine di identificare nuove possibili associazioni tra utenti e
titoli. Grazie a questo sistema,
Netflix fu in grado di allargare il proprio bacino di utenza e di soddisfare il maggior
numero possibile di clienti.»4
Mentre Netflix continuava a innovarsi e a crescere, il panorama di internet
continuava a evolvere. La volontà di Hastings era sempre stata quella di sfruttare
il web per rendere la propria società competitiva.
In quegli anni si stava sviluppando un nuovo mercato e un nuovo sistema di
distribuzione dei contenuti televisivi online: l’over the top (Ott). Questa nuova
modalità di trasmissione attrasse subito Hastings, e così, nel 2006, Netflix lanciò
sul mercato un servizio di streaming online, Watch Instantly5, grazie al quale i
clienti potevano accedere a più di 17.000 titoli, con la possibilità di ricevere
direttamente a casa quasi 100.000 DVD a 7,99 dollari al mese.
A partire dal 2010, l’azienda iniziò a puntare decisamente sul nuovo servizio, che
superò il business del noleggio fisico di DVD. A fine 2010, Netflix aveva superato i
20 milioni di abbonati e il 66% di questi utilizzava Watch Instantly.
Uno dei fattori vincenti di questo modello fu fin da subito la possibilità di
accedervi da numerosi dispositivi, tra cui la Xbox 360, la Nintendo Wii, la PS3
della Sony, lettori Blu-ray, televisori connessi, l’iPhone e l’iPad.
Nel 2011, però, il modellò Netflix inizia a dare i primi segni di cedimento. Gli utenti
non gradirono la decisione del management di rialzare del 60% il costo
dell’abbonamento al servizio streaming per ottenere la liquidità necessaria ad
accrescere la propria library.
Oltre a ciò, decise di dividere il servizio di streaming da quello di noleggio DVD,
rinominando quest’ultimo Qwikster. Queste operazioni si rivelarono
controproducenti e portarono la società ad una pesante perdita di abbonati: a
settembre dello stesso anno gli iscritti al servizio di noleggio DVD diminuirono di
più del 10% e la perdita di abbonati fu la peggiore della compagnia.
Hastings fu costretto a tornare sui propri passi chiedendo scusa pubblicamente ai
propri investitori ed ai propri clienti per aver tentato di dividere i due servizi.
Ciononostante l’aumento dei prezzi rimase invariato a lungo prima di stabilizzarsi
a 7,99 dollari.
2. La svolta: l’inizio della “produzione originale”
Per poter reggere il confronto con le grandi potenze dell’intrattenimento
americano e con i concorrenti del suo stesso settore (Hulu e Amazon in primis),
spinta dall’andamento del titolo in Borsa, e dall’incapacità nell’innovare il proprio
prodotto, a Netflix, non rimaneva altro da fare che tentare l’espansione geografica
nei mercati internazionali.
Il primo paese di sbarco fu il Canada, seguito dal Regno Unito, dal Brasile, dal
Messico, dall’Olanda e da altri mercati minori.
Nel gennaio 2012, a seguito di una raccolta di 400 milioni di dollari, Netflix arriva
nel Regno Unito, attraverso importanti accordi con le grosse compagnie
britanniche di contenuti. Ma è dal 2013 che la società dà inizio alla sua killing
strategy, che la porterà a porsi come elemento di pericolo per le tradizionali cable
tv e pay tv negli USA: la produzione di serie originali disponibili solo per i suoi
abbonati.
E’ nel febbraio 2013, infatti, che sulla piattaforma della compagnia vengono
caricate tutte le puntate della prima stagione di House of Cards.
La serie, che ha riscosso un grande successo di critica e di pubblico, è stata
preparata fin nei minimi dettagli da Hastings e dal suo team:
Cento milioni di dollari investiti per i diritti di sfruttamento del romanzo
di Michael Dobbs, sottratti ai network televisivi AMC e HBO;
L’ingaggio per il ruolo del protagonista dell’attore Kevin Spacey
(vincitore di due premi Oscar) e di David Fincher ( direttore di pellicole cult
come Seven e Fight Club) per il ruolo di produttore e regista delle prime due
puntate. L’obiettivo era aumentare l’appeal della serie. In pratica la fama di
Spacey e di Fincher è stata sfruttata da Netflix per aumentare il cosiddetto
want-to-see, il grado di attesa legato ad un certo prodotto. Guardando ai
trend di ricerca della notorietà di Netflix, che nei primi mesi del 2013 hanno
raggiunto il picco di ricerche su Google, si intuisce subito come questa
strategia abbia portato i suoi frutti.
Alla serie simbolo House of Cards, la società di Hastings, ha unito il lancio di
Orange is the new black, e la nuova stagione di Arrested Development, una serie
originariamente andata in onda su Fox nel 2003, prima di essere cancellata
dall’emittente nel 2006.
L’importanza e la qualità delle serie Netflix venne sancita definitivamente dalle
quattordici nominations totali agli Emmy nel 2013 per House of Cards e Arrested
Development, che divennero così le prime serie distribuite digitalmente a
guadagnare una nomination per questo premio.
Accanto alle produzioni originali, Netflix ha sempre affiancato una strategia di
alleanze con le major per affinare la propria offerta. Già nel 2012, Netflix aveva
acquistato i diritti esclusivi per trasmettere i film Disney a partire dal 2016, nella
finestra premium cable, ovvero 7-9 mesi dalla loro uscita al cinema.
Se questa mossa fu vista come un ulteriore passo della società per accreditarsi
come piattaforma per famiglie con bambini, l’alleanza con Disney si è espansa
fino al punto che Netflix si è accordata per produrre autonomamente serie, tratte
dai
personaggi Marvel, quali Jessica Jones, e soprattutto Daredevil, uno dei maggiori
successi del 2015.
Nel 2014, la crescita di Netflix è stata segnata dall’incremento dei clienti
internazionali, portando il numero di abbonati complessivi fuori casa a 13,8
milioni.
Viste le difficoltà a crescere in Europa, mercato con 28 lingue diverse e con alti
costi di acquisizione dei diritti (diversi per ogni mercato) e di traduzione, la
compagnia ha iniziato a guardare con interesse ai mercati emergenti come
l’America Latina e l’India. La strategia delle produzioni originali ha segnato anche
l’espansione internazionale.
Arrivato in Brasile, all’inizio della sua avventura internazionale, ha avviato fin da
subito la produzione di una serie originale locale 3%. Così come prima di sbarcare
in Messico aveva avviato la produzione di Narcos, serie sul narcotraffico pensata
esplicitamente per il mercato messicano.
3. La conquista del mercato europeo
Per quanto riguarda l’Europa, le prime aree ad accogliere Netflix, sia per motivi
linguistici che strutturali, sono state quelle scandinave e anglofone, dove i servizi
SVOD presentano il maggior grado di penetrazione di tutto il continente.
Significativo il caso della Danimarca, che con i suoi 5 milioni di abitanti, ha un
mercato VOD che vale 100 milioni di euro, più del doppio dell’Italia che ha quasi
60 milioni di abitanti.
Il Regno Unito, dove Netflix ha aperto una sua versione locale già nel 2012,
confermerà il suo ruolo centrale nel comparto, con il 39% di famiglie abbonate a
un servizio di streaming online6.
I paesi raggiunti solo in seguito invece, tra cui Francia, Germani e Italia,
continueranno ad avere un grado di penetrazione minore, sia per i bassi margini
di mercato lasciati al player statunitense al momento dell’arrivo nei rispettivi
bacini, già occupati dalle emittenti lineari locali in termini di diritti dei contenuti,
sia per i propri servizi connessi stand alone.
Anche l’arrivo in Francia e in Italia è stato preceduto dall’annuncio della
produzione di due serie originali locali, rispettivamente Marseille e Suburra. In
questo contesto di internazionalizzazione, la Cina rappresenterà probabilmente la
più grande sfida di Hastings: nessuna delle piattaforme digitali occidentali
(Facebook, Google, Amazon) è riuscita a penetrare in un paese in cui esistono
cloni di ognuno di questi servizi, ma con una forte radice nazionale.
La scelta di espandersi in tutto il globo ha avuto inizialmente, come prima
conseguenza, un notevole esborso finanziario per acquisire nuovi diritti per serie e
film per il mercato internazionale, e in particolare per quello europeo.
Nel campo delle produzioni originali, Netflix, ha iniziato ad investire anche nel
cinema, partendo da Beasts of No Nation, presentato in anteprima alla Mostra di
Venezia 2015 e successivamente uscito in contemporanea in streaming e in
alcune sale, fino a opere importanti come Roma di Alfonso Cuarón (2018) e “The
Irishman” di Scorsese, entrambi distribuiti brevemente in sala e poi proposti in
esclusiva sul catalogo online.
Questo processo ha portato alla scomparsa o, quantomeno, all’estrema riduzione
delle finestre di trasmissione.
Importanti gli investimenti anche in altri generi cinematografici, come il
documentario - da sottolineare il caso di Making a murderer, successo di critica e
di pubblico -, fino all’esplorazione di altri generi televisivi al di là della fiction. E’ il
caso del talk show “Chalsea” condotto dalla comica e conduttrice Chelsea
Handler, volto di E! passato poi a Netflix, e di esperimenti di stand-up comedy
sempre più consolidati, come l’evento del ritorno sul palco di Ellen DeGeneres,
una delle comiche più famose al mondo e ad oggi la più importante conduttrice di
intrattenimento di tutti gli Stati Uniti.
Aumenta, ovviamente, anche l’investimento nella serialità grazie alla messa in
produzione di serie d’autore come The Crown (sulla vita della regina Elisabetta II),
che ha prima lanciato Claire Foy e poi si è affidata, per l’Elisabetta II più matura, a
un’interprete importante come Olivia Colman. Non dimentichiamo, poi, dei veri e
propri successi commerciali come Stranger Things e Tredici.
Il main core di Netflix è diventato, così, la creazione di un contenuto originale che
ha contribuito a un incremento degli abbonati - ad oggi circa 125 milioni in tutto il
mondo.
In sintesi, il successo di Netflix è dovuto a: modalità di accesso al servizio
la qualità dei contenutila vastità del catalogola capacità di profilare i gusti
e i desideri degli abbonati sia per dare loro consigli utili a
orientarsi tra le migliaia di titoli sia per orientare le nuove produzioni verso i gusti
del pubblico7.
55
1. Algoritmo e raccomandazione
Neflix introduce un nuovo modo di consumare prodotti televisivi e principalmente
seriali, attiva nuove strategie di coinvolgimento del pubblico, lo fa annullando il
palinsesto e puntando tutto sull’algoritmo. Le nuove piattaforme di distribuzione
di contenuti televisivi, infatti, usano l’algoritmo per attivare criteri di selezione e
ordinamento per i prodotti audiovisivi che sono messi a disposizione dell’utente
attraverso un catalogo.
Il consumatore abbonato a Netflix, sin da subito, viene invitato dalla piattaforma a
esporre i suoi gusti, deve infatti segnalare le sue preferenze prima di accedere al
catalogo. Posto di fronte a un elenco, l’utente deve scegliere tre contenuti di
proprio gradimento. Questo procedimento permette al sistema di suggerire al
consumatore contenuti simili a quelli scelti.
Gli Over The Top ormai si basano sul paradigma dei big data:
“Il valore del mercato è dato dalla possibilità di generare il dato, di percepirlo e di
acquisirlo: la nuova catena del valore digitale appare sempre più centrata sui dati
personali, sulla capacità di ciascun attore di aver accesso e raccoglierli, con
l’obiettivo ultimo di poter misurare come gli stessi dati possano favorire
l’innovazione sotto forma di nuovi prodotti e servizi, maggiore efficienza, nuove
forme di analisi e creazione di valore per produttori e utilizzatori.” 1
Guardando al mercato, Netflix ha fatto scuola, il suo motore di ricerca e di
raccomandazione è un modello, spesso imitato dai competitor. Sicuramente,
rispetto ad altre realtà televisive classiche, una piattaforma come Netflix ha molte
più informazioni sui propri utenti, dati che gli sono utili per ottimizzare gli
investimenti e rimanere competitivo in un mercato che è estremamente attivo e
in piena evoluzione.
Netflix investe fino a 150 milioni di dollari all’anno sui big data e circa 300
persone sono destinate a curare questo aspetto. I comportamenti di consumo
degli abbonati sono preziosi e proprio per questa ragione vengono monitorati.
Questi dati vengono raccolti e ovviamente elaborati attraverso algoritmi per
arrivare ad ottenere due cose: le raccomandazioni da dare al consumatore in
modo da facilitare la scelta che altrimenti sarebbe difficoltosa visto l’ampio
catalogo, questo comporta come effetto principale l’aumento del valore
dell’abbonamento percepito dall’utente; le indicazioni utili a scegliere i contenuti
delle nuove serie televisive, questo permette a Netflix di selezionare quali prodotti
interesseranno in futuro ai suoi abbonati, in questo modo si incentiva la
fidelizzazione e l’utente si lega ancora di più alla piattaforma.
Netflix riuscendo a raccogliere tutte queste informazioni dai suoi clienti, costruisce
anche le sue produzioni in modo diverso. Se i network tradizionali considerano
ancora il pilot come uno strumento necessario per comprendere se il prodotto
ideato possa incontrare i gusti del pubblico ed effettivamente creare un guadagno
per l’azienda, Netflix si basa sui big data per arrivare alla decisione di produrre
una serie nella sua interezza, avendo la certezza che il pubblico apprezzerà quel
contenuto. Questo modello di produzione seriale adottato da Netflix viene definito
straight-to- series. L’algoritmo sostituisce, dunque, il palinsesto, entrambi, infatti,
hanno la stessa funzione, sono il punto di incontro tra l’industria e il consumo.
2. Rivoluzioni in atto
Netflix ha una programmazione totalmente customizzata a differenza della
televisione generalista che prevede ancora un palinsesto. Le emittenti che
restano vincolare al palinsesto devono considerare tre fattori:
Lo spazio, con lo scardinamento della fruizione domestica,
L’uso, con il moltiplicarsi delle modalità di fruizione dei contenuti
televisivi,
Il tempo, con lo scollamento dalla sincronia del broadcasting. Le
tecnologie di personal video recording e i servizi VOD, hanno fatto
tramontare l’epoca dell’appuntamento fisso con il palinsesto televisivo, e la
continua espansione del testo audiovisivo ha moltiplicato e diversificato le
diverse esperienze di fruizione dei contenuti e dei prodotti televisivi. Cambia
il rapporto con lo spettatore e il concetto di audience va rivisto. I network
tradizionali si sono scagliati contro Netflix, NBC aveva polemizzato sulla
scelta di Netflix di non condividere i dati di ascolto che al network
tradizionale risultavano essere inferiori rispetto agli ascolti fatto dai canali
storici. La replica di Netflix è stata chiara, essendo l’azienda finanziata dagli
abbonati e non da pubblicità, diffondere gli ascolti non era una priorità, cosa
invece necessaria per quelle emittenti che devono mostrare agli
inserzionisti i dati di ascolto. L’obiettivo di Netflix è offrire contenuti che
possano interessare a un pubblico anche di nicchia, diverso dal pubblico
generalista a cui è abituata la tv tradizionale. Venendo a mancare
l’impostazione classica del palinsesto viene depotenziata anche la
scansione dei tempi sociali associata ad esso. Il prime time, ad esempio,
che prima era il momento chiave e più ambito dagli inserzionisti, perde di
valore e rilevanza proprio perché alcune fasce della popolazione hanno
cambiato abitudini. Ad oggi ha più valore la fascia preserale: quiz, tv satirici,
mentre la seconda e terza serata sono quasi del tutto scomparse, la prima
serata dura fino a mezzanotte e solitamente è occupata da reality, talk
show, fiction. Quello spazio, che era la seconda/terza serata, che una volta
eradedicato allo sperimentare nuovi tipi di contenuti viene eliminato anche
per questioni economiche, i broadcaster generalisti non possono
permettersi di rischiare di investire in prodotti sperimentali che possono
fallire.
3. La distribuzione cinematografica
Il Video On Demand e gli Ott hanno rivoluzionato non soltanto il mondo della
serialità ma hanno anche cambiato l’industria cinematografica, che ha visto
importanti cambiamenti nella produzione, nella distribuzione e nel consumo di
film.
La filiera cinematografica, viene tradizionalmente scomposta in tre fasi:
produzione, distribuzione ed esercizio. La distribuzione, con l’arrivo del digitale,
ha subito cambiamenti drastici, se prima le imprese che si occupavano di
distribuzione curavano determinati mercati che risultavano di loro competenza,
decidendo quando potevano consumare i prodotti gli spettatori, oggi il mercato si
è aperto con la possibilità di guardare film scaricati dalla rete o in streaming.
Gli attori in questo mercato sono Apple, Amazon, Google, Facebook e Netflix, tutti
propongono un’offerta ampia ad un pubblico diversificato.
In questo modo il film esce dalla sacralità della sala cinematografica e si distacca
dal supporto fisico del DVD o del Blu-ray, tutti possono avere accesso agli stessi
contenuti senza doversi spostare fisicamente. Chi vive in periferia, lontano da
negozi di videonoleggio, non soffre più dell’impossibilità di fruire determinati
contenuti, i film riescono ad essere accessibili, grazie alla rete, in qualsiasi luogo,
purché, ovviamente, si disponga di una connessione a banda larga.
I vecchi distributori ancora esistono, ovviamente, ma sono affiancati da questi
nuovi soggetti che si occupano di accorciare i tempi che separano il debutto in
sala dall’uscita nei mercati digitali. E’ possibile che ci sia anche un’uscita in
contemporanea (day-and-date).
Si configurano delle nuove regole, meno rigide che sconvolgono quella che una
volta era una distribuzione gerarchica ordinata, che prevedeva dei tempi
predefiniti tra una finestra e l’altra di distribuzione.
Partiamo dal caso del lungometraggio Beast of No Nations di Cary Fukunaga, un
prodotto Netflix che, dopo essere stato presentato alla Mostra internazionale
d’arte cinematografica di Venezia nel 2015, in USA viene distribuito in
contemporanea al cinema e sulla piattaforma.
In Italia gli intervalli distributivi vengono decisi in base ad accordi tra gli operatori
del settore, le finestre non sono regolamentate per legge e solitamente succede
che dopo la sala la prima finestra di sfruttamento è quella del TVOD, che è
prevista in simultanea o di poco successiva all’uscita del DVD, e che
generalmente la segue di tre-quattro mesi. L’Est (Electronic sell through) di solito
precede il TVOD di due settimane ed è in simultanea con il DVD.
La seconda finestra (10-12 mesi dopo la sala) è quella della pay tv e dello SVOD
legato alla pay tv (catch-up SVOD), che si distingue dallo SVOD stand-alone (cioè
un player specializzato solo in questo servizio come Netflix, che non offre canali
lineari). La terza finestra è quella della free tv e dell’AVOD che è di oltre 24 mesi
dall’uscita in sala. Lo SVOD come servizio stand-alone si posiziona fra la pay tv e
la free tv, anche se i maggiori gruppi del settore come Netflix e Amazon Prime
Instant Video, nel Regno Unito hanno comprato i diritti della prima finestra e
quindi in contemporanea con la pay tv. In Francia i vincoli sono anche più forti e la
finestra che viene imposta alla visione del film sul mercato On Demand è di ben
36 mesi dall’uscita in sala. Per i molti titoli che restano in programmazione
appena uno o due week-end (la media per un film italiano di successo è di 3-4
settimane) attendere un lasso di tempo tanto lungo prima di poter trovare altre
forme di distribuzione significa disperdere del tutto l’effetto “glamour” dell’uscita
e quindi di penalizzare molto la redditività potenziale. 2
La scelta da parte dell’Italia di velocizzare l’arrivo su altri mercati dei contenuti
cinematografici è anche dovuta al problema della pirateria, più il film impiega ad
arrivare sulle piattaforme digitali e più è probabile che il mercato della pirateria
ne approfitti.
L’avvento delle piattaforme digitali ha posto anche un’altra questione, il possibile
allontanamento del pubblico dalla sala, in realtà questo problema non si è
verificato. Da una ricerca ANICA/Univideo del 2013 emerge che il 76% di chi ha la
pay-tv rivede film già fruiti in sala e gli spettatori ritengono che la durata
accettabile di una finestra di protezione sala/tv debba essere di 8 settimane.
In risposta a queste esigenze alcuni network hanno accorciato i tempi di uscita
sulla tv free, è il caso di Mediaset che arriva a meno di 24 mesi in alcuni casi,
accorciando il periodo in cui i contenuti rimangono su Mediaset Premium.
L’obiettivo non è solo quello di accorciare i tempi ma anche di ampliare il catalogo
e offrire molti contenuti, di diverso genere, in modo sa soddisfare un pubblico
vasto e conquistare nuovi abbonati e confermare i vecchi. Con questo principio
anche titoli minori, di nicchia e non mainstream trovano spazio in questo mercato
56
1. Uno storytelling di conquista
L’annuncio ufficiale dell’apertura di Netflix in Italia, è stato dato dalla compagnia il
5 giugno 2015, tramite il proprio account Twitter, con un messaggio rivolto
direttamente agli utenti italiani: «Buongiorno! Ora è ufficiale: a ottobre Netflix
arriva in Italia. A proposito, come si dice binge-watching in italiano?
#ciaonetflix»1.
L’arrivo in Italia, avvenuto il successivo 22 ottobre, rappresenta un punto di svolta
per il settore dell’audiovisivo del nostro paese, e nel contempo una vera e propria
sfida per il colosso di Hastings, obbligato a conquistarsi un suo spazio in un paese
in cui la spinta innovativa dei servizi di fruizione On Demand deve fare i conti con
la scarsa diffusione delle reti a banda larga, il forte radicamento della televisione
generalista, e con un pubblico poco incline a cambiare le proprie abitudini di
consumo.
Inoltre, non bisogna dimenticare che quello italiano è storicamente il mercato
occidentale con la più ampia offerta di film e fiction tv in chiaro e con il costo
medio più basso di abbonamento alla pay-tv, intorno ai 25 euro.
Il volersi presentare come un operatore nuovo, ma non per questo da percepire
come estraneo in un mercato così fortemente polarizzato attorno alla tv
tradizionale, trova conferma se guardiamo la strategia di comunicazione con cui
Netflix ha annunciato il proprio sbarco in Italia.
Il pay-off utilizzato per la campagna pubblicitaria – “Tesoro, sono a casa” – gioca
infatti su un termine che, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, è diventato
sinonimo di “italianità” nel dizionario dell’advertising, ovvero quel “casa” che
richiama immediatamente alla mente lo storico “Dove c’è Barilla, c’è casa”.
Netflix sceglie dunque di presentarsi come la nuova casa dell’intrattenimento
audiovisivo, accogliente come la vecchia televisione cui il pubblico italiano è
ancora saldamente affezionato, ma assolutamente innovativa per le modalità di
accesso e fruizione, queste ultime riassunte nel claim che campeggia sulla
homepage del sito “Guarda ciò che vuoi ovunque. Disdici quando vuoi” 2.
Le principali preoccupazioni relative all’arrivo di Netflix in Italia erano legate alle
conseguenze che avrebbero dovuto fronteggiare i maggiori player del mercato
mediale del nostro paese: Mediaset, Sky, La7 e naturalmente la Rai. I primi due
presidiano il segmento delle pay tv e offrono, inoltre, servizi SVOD stand-alone,
denominati rispettivamente Infinity e NowTv.
Per quanto riguarda la Rai, l’obiettivo e far diventare l’azienda di servizio pubblico
un broadcaster moderno multipiattaforma e multiscreen. L’intesa annunciata a
metà giugno 2016 tra la controllata di Vivendi (Dailymotion) e Rai Com per
l’inserimento di alcuni tra i migliori film del catalogo Rai sulla piattaforma video
dedicata agli utenti italiani della società del gruppo francese, e l’accordo con
Netflix per co-produrre, con Cattleya, la serie Tv Suburra, vanno in questa
direzione.
Così come il lancio di Rai Play, sostituto di Rai.tv, portale multimediale attivo dal
12 settembre 2016, e disponibile come app per iOS, Android, Windows e, dal 20
dicembre 2016, per Smart Tv. Al momento, i principali operatori VOD sul mercato
italiano sono quattro: Now Tv, Infinity, Tim Vision e Chili Tv, ognuno con le proprie
caratteristiche.
Now Tv, che ha debuttato in Italia nel giugno 2016, è il marchio con cui Sky ha
rinominato la sua Internet TV in Europa, già lanciata nel Regno Unito e in
Germania, con l’obiettivo di rendere migliore l’esperienza dei consumatori e di
ampliarne contenuti e qualità. Sky intende, infatti, consolidare la sua offerta
online disponibile su computer, tablet, smart tv, console e sui tradizionali schermi
tv (grazie al dispositivo Now Tv Box), proponendo offerte senza vincoli di
contratto, e diversi pacchetti di abbonamento suddivisi per generi
(intrattenimento, serie tv, cinema).
Per i film sono disponibili gli otto canali Sky Cinema, 500 titoli e 15 premiere ogni
mese3.
Infinity è invece il servizio di streaming del gruppo Mediaset lanciato nel 2013,
che dietro il pagamento di una quota mensile, offre ai clienti la possibilità di
accedere a un’offerta di migliaia di titoli tra film, serie tv, fiction e programmi tv
tramite vari device (fra i quali pc, tablet, smart tv, smartphone, palystation, xbox
e decoder).
L’obiettivo è quello di intercettare un nuovo tipo di audience con gusti e modalità
di visione più del mondo Internet che non della tv tradizionale.
TIMVision è il servizio On Demand di Tim che offre ai clienti una library di oltre 8
mila titoli, tra film, programmi tv, cartoni, musica e documentari, grazie agli
accordi siglati con Netflix e Premium online di Mediaset, ai quali si affianca
l’offerta TIM Sky. E’ usufruibile ovunque e sui vari device.
Chili Tv, nata nel 2012 da una costola di Fastweb e fondata da alcuni manager, fra
i quali Stefano Parisi, negli anni ha ampliato la sua presenza fuori dall’Italia
arrivando in alti Paesi europei (Regno Unito, Polonia, Germania e Austria).
L’offerta non prevede alcun tipo di abbonamento, ma consente all’utente di
acquistare o noleggiare i singoli contenuti da un catalogo di circa 5 mila titoli,
tipico dei servizi TVOD .
2. La prospettiva Netflix
Quello che Netflix si trova ad affrontare in Italia è quindi un mercato allo stato
poco più che embrionale dal punto di vista dei ricavi, dove pero i grandi brand del
VOD e le emittenti lineari hanno occupato i principali segmenti dell’offerta on-
demand.
Per quanto riguarda lo specifico dell’offerta, Netflix offre agli utenti italiani, un
mese di prova gratuito, e a seguire tre pacchetti con prezzi che dipendono sia
dalla qualità video, sia dalle sessioni di streaming, cioè il numero di trasmissioni
da guardare in contemporanea dall’utente e dagli altri componenti che
condividono l’account.
E’ possibile vedere Netflix in streaming con qualsiasi dispositivo connesso ad
internet e dotato di un’applicazione Netflix (PC, console per videogiochi, lettore
DVD e Blu-ray, smart tv, set- top box telecom, smartphone e tablet).
Nei giorni immediatamente successivi all’annuncio, la società di Hastings, ha
tenuto a precisare che i video sarebbero stati disponibili per diverse velocità di
connessione, in formati adatti ad ogni necessità, grazie ad una tecnologia
innovativa che permette di adattare la velocità di trasmissione dei contenuti
all’ampiezza della banda disponibile dall’utente, permettendo una visione dei
video senza scatti.
I programmi, inoltre, sono disponibili in lingua originale, ma con la possibilità di
attivare anche audio e sottotitoli in altre lingue, tra cui l’italiano.
Nel complesso e acerbo quadro italiano, Netflix non è tanto una rivoluzione
quanto una tra le molteplici offerte disponibili, una possibilità importante e
specifica di accesso ai contenuti audiovisivi, un servizio complementare più che
sostitutivo della classica televisione lineare, alla stregua di altri servizi On
Demand.
Pochi giorni prima del lancio di Netflix in Italia, Antonio Campo dell’Orto, all’epoca
direttore generale della Rai, annunciava l’accordo Rai-Netflix-Cattleya per trarre
dal film Suburra, ispirato da un romanzo-inchiesta di De Cataldo e Bonini su temi
di forte attualità collegati alle indagini giudiziarie sugli intrecci tra politica e
malavita organizzata romana, una serie tv omonima. Una strategia che segui i
fortunati casi di Gomorra- la serie e Romanzo Criminale – la serie, entrambi basati
su un precedente film e un precedente romanzo, prodotte da Sky.
Suburra – la serie è disponibile da ottobre 2017 in tutto il mondo sulla piattaforma
Netflix, trasmessa sulle reti generaliste Rai.
L’onda del Vod ha già “investito” alcuni paesi europei, UK e Nordics. Questa
crescita raggiungerà anche il resto d’Europa. Il ruolo dei grandi player americani
sarà decisivoper far conoscere alle famiglie il mondo del video streaming.Ma la
vita di Netflix non sarà facile: negli USA partivano da una customer base costruita
sul
mercato fisico dei DVD, pari a 20 milioni di user; mentre, in Europa, e in Italia in
particolare, arrivano senza avere solide fondamenta. Netflix stessa, in base a
recenti dichiarazioni, prevede che debbano passare molti anni di “pazienza” in
Europa per raggiungere il 10% della popolazione.
E, relativamente all’Italia, approda su un mercato nel quale appena il 50% delle
persone va al cinema, un quinto degli spettatori compra da solo l’ 80% dei
biglietti; un mercato nel quale la pay tv sta molto faticando (è arrivata a 5 milioni
di clienti e non cresce), il mercato DVD è sceso dagli 800 milioni del 2008 ai 350
del 2014, la pirateria erode 500 milioni di euro di valore al mercato, ed infine i vari
player hanno ancora molta difficoltà a riconvertirsi al digitale.
3. Netflix sotto assedio
Ad ogni modo, il loro sbarco in Italia ha innescato reazioni difensive. Un po’ come i
taxi per Uber, già abbiamo visto strane dichiarazioni di protesta da parte di alcuni
broadcaster. Anche in Francia sono state poste molte condizioni a Netflix per
entrare in quel paese, ma alla fine la televisione cambierà, ovunque 4.
Sul fronte dell’emittenza privata, Mediaset è subito corsa ai ripari: oltre al taglio
del prezzo dell’abbonamento a Infinity, la società di Cologno Monzese, ha cercato
di acquisire i diritti su quanti più prodotti possibile per cercare di tagliare fuori
Netflix.
Proprio con questo obiettivo la società di Berlusconi ha stipulato contratti a lunga
scadenza con con Universal, Warner e Medusa per la trasmissione in esclusiva dei
loro prodotti.
Così facendo la società si è garantita quasi 1000 ore di serie tv inedite e 2500 ore
di film sino al 2018 (l’accordo con Universal) e 2020 (i restanti contratti).
Sky, da parte sua, ha reagito all’arrivo di Netflix, con una forte politica di
acquisizione di contenuti, assicurandosi fino al 2018 le esclusive di serie tv cult
HBO come Game of Thrones, The Leftovers, Vice, True Detective, stringendo un
accordo pluriennale con CBS Corporation per trasmettere sul canale Sky Atlantic il
portfolio di programmi offerti da Showtime in tutti i territori in cui è presente (I
Borgia, Brotherhood, Californication, Dexter), ha implementato il servizio Sky Box
Sets, che permette agli utenti di accedere a un catalogo completo di serie tv in
tutte le loro stagioni.
Allo stesso tempo, la piattaforma satellitare ha annunciato investimenti in
contenuti originali, film per la sala cinematografica e realizzando serie tv d’autore,
come The Young Pope di Paolo Sorrentino e i sequel di Gomorra e 1992.
Oltre all’acquisizione dei diritti di trasmissione dei contenuti, la battaglia dei vari
broadcaster contro Netflix, è incentrata anche sul piano delle regole. La richiesta
di un level playing field tra i servizi lineari e le offerte SVOD online di operatori
stranieri è stata fortemente chiesta dall’associazione Confinduistria
RadioTelevisioni.
Ed è con l’obiettivo di creare un ambiente più equo per i vari attori del sistema,
che la Commissione europea nel maggio 2016 ha presentato una proposta di
aggiornamento della direttiva sui servizi audiovisivi (Audiovisual Media Services
Directive) nell’ambito della Digital Single Market Strategy. Un discorso che chiama
in causa anche i giganti del video On Demand come Netflix.
Il punto forte che emerge dalla direttiva è che, per puntare a una creatività più
marcatamente europea, le emittenti tv europee dovranno continuare a dedicare
circa la metà della programmazione a lavori europei, e che introduce l’obbligo,
per i fornitori di servizi On Demand, di assicurare nella loro offerta la presenza di
contenuti europei per almeno il 20% del totale. Inoltre, gli Stati Membri possono,
volendo, chiedere ai servizi On Demand sotto la loro giurisdizione, di contribuire
finanziariamente a sostenere la produzione europea.
In sintesi, quindi, l’espansione del leader dello streaming ad abbonamento
avviene in uno scenario competitivo, caratterizzato da un numero ristretto di
player ben consolidati nel mercato audiovisivo tradizionale, che hanno trovato
nell’arrivo di Netflix forse più un’opportunità per lanciare sul mercato progetti
sopiti che un rischio. Gli Ott, hanno obbligato a un riposizionamento gli attori
tradizionali, i quali, vedendosi minare le posizioni acquisite in anni di dominio del
mercato, si sono trovati costretti a rimodellare i propri modelli di business –
soprattutto dal punto di vista dell’offerta pay – in un’ottica multimediale e
flessibile.
57
1. La strategia del genere
Le ragioni del successo di Netflix1 sono molteplici e complesse. Uno degli
elementi vincenti della compagnia, come abbiamo visto nel capitolo precedente, è
stata la capacità di individuare delle modalità di distribuzione innovative, con
particolare riferimento alla sfera della serialità televisiva. L’esame incrociato delle
serie originali di Los Gatos e della sua offerta permette, infatti, di definire
ulteriormente le strategie di valorizzazione dei propri prodotti e il motivo del suo
successo globale.
Tutte le serie prodotte da Netflix possono essere definite come prodotti di quality
television, solitamente presenti, fino al lancio di House of Cards, solo sulle reti
cable come HBO. Nel caso dell’emittente via cavo statunitense, uno dei fattori
positivi di affermazione è stato proprio l’aver saputo individuare gli autori
televisivi migliori, quelli in grado di imprimere uno stile unico ai loro prodotti. La
libertà concessa ai suoi autori è diventata l’etichetta qualitativa e autoriale di HBO
soprattutto a livello di scrittura. David Chase, creator della serie I Soprano ha
affermato che “in HBO posso raccontare storie in maniera non convenzionale”.
I nomi che si alternano nei prodotti dell’emittente via cavo, come registi, attori
produttori, sceneggiatori, sono a livelli altissimi: Alan Ball, David Milch, Steve
Buscemi, Antony Hopkins, Gabriel Byrne, Ricky Gervais, John Milius, Michael
Apted, Mike
Nichols. Per Chase l’elemento che differenzia HBO dalle altri emittenti, non è solo
il trattare
argomenti scabrosi o censurati altrove, ma proprio un nuovo modi di fare
storytelling. In HBO,
l’originalità si fonda con la tradizione: lo spettatore medio abituato a seguire
anche la programmazione di network maggiormente “generalisti”, ha familiarità
con le regole narrative della tv tradizionale, con l’estetica della maggioranza della
produzione tv e con l’utilizzo e le regole dei generi classici.
Così, se le produzioni HBO possono osare di più nel raccontare e nel mettere in
scena, esse hanno fondato solide basi su una tradizione televisiva comunemente
accettata e riconosciuta2. Anche se non sempre si tratta di capolavori, dietro ogni
ora di produzione vi è in ogni caso un’estrema cura e ricercatezza dell’aspetto
estetico testuale, nella forma e nella sostanza. In sintesi, si può rilevare come
HBO faccia tesoro delle strutture della televisione, le assimili e le rielabori creando
un prodotto nuovo pur se fortemente radicato nella tradizione del mezzo.
Come nota Al Auster3, anche nella ridefinizione dei generi televisivi, HBO si
distacca dal trend comune della tv contemporanea, sia andando a discostarsi da
quelli usualmente praticati dai networks (il caso di Oz), sia ripescando generi
classici ormai quasi dimenticati (il caso di Deadwood e Westworld). Come
evidenziato da Barbara Maio, HBO ha creato un sub-genere. Un prodotto HBO è,
già di per sé, garanzia di qualità4. Grazie alla stabilità acquisita negli anni, Netflix
ha potuto guardare al mercato dell’over-the-top tv, in modo diverso da Hulu e
Amazon Prime, decidendo di investire nella produzione originale con un altissimo
grado di qualità.
Questa scelta ha portato la compagnia a scontrarsi proprio con HBO. Per dirla con
le parole di Ted Sarandos, Chief content officer di Netflix, “l’obiettivo è diventare
come la HBO più velocemente di quanto la HBO stessa possa diventare come
noi”. Le serie Netflix, infatti, prevedono budget di realizzazione molto alti, danno
valore alle singole personalità che partecipano alla realizzazione della serie,
riproducono struttura e modalità narrative originali e innovative 5.
Perfetti esempi di una TV di qualità, in grado di sviluppare al meglio i linguaggi e i
modelli produttivi contemporanei, capace di sviluppare narrazioni complesse e
articolate, di rappresentare in modo complesso e ricco le grandi questioni della
modernità, di coinvolgere a più livelli un pubblico vasto, popolare e mainstream e
insieme l’elite più colta e raffinata degli opinion leader 6.
2. I generi di Netflix: crime, fantascienza e teen drama
Se la quality television è il macro-genere in cui si muove Netflix, la forza della
compagnia, rispetto alle normali Tv via cavo, risiede nell’ampiezza di un’offerta in
continua crescita che offre ai propri sottoscrittori. Chiunque abbia sottoscritto,
anche solo per un breve periodo, un abbonamento a Netflix ha potuto notare
l’enormità e l’eterogeneità della sua proposta. L’elenco è diviso per categorie e
generi diversi, e Netflix consiglia i titoli che possono piacere in base a quelli già
visti o alle liste personali; il motore di raccomandazione, inoltre, consiglia nuovi
contenuti da guardare.
Se si parla di generi e sistema di raccomandazione è impossibile non citare il
lavoro del VP Product Todd Yellin chiamato “Netflix Quantum Theory”. Il
documento elaborato dal team di ingegneri di Yellin precisa le modalità di tagging
e classificazione delle scene finali dei film, l’accettabilità sociale dei protagonisti,
e decine di altre aspetti di un prodotto. Tutto viene classificato: trama, personaggi
principali, ambientazioni.
In questo modo gli ingegneri di Netflix creano micro-tag che generano una nuova
sintassi dei prodotti audiovisivi. L’algoritmo, insieme ai test fatti su utenti prescelti
per svolgere attività di pre-classificazione, porta alla nascita di nuovi generi, che
costituiscono massa critica per la classificazione di tutti i prodotti inseriti nel
catalogo.
Gli esiti di questa classificazione conducono alla definizione di altgenres
(evoluzione del termine usata da Yellin) a prima impressione bizzari, ma in realtà
nuova modalità per organizzare e decostruire Hollywood e l’industria
dell’entertainment.
Ognuno dei quasi 8 mila generi è infatti un preciso sottoinsieme formato dai
seguenti componenti, tramite cui viene classificato ogni prodotto in catalogo:
regione di provenienza + aggettivo + genere + basato su + ambientato in + da +
a proposito di + per l’eta da X a Y. Sulla base di questa combinazione si possono
meglio comprendere generi quali: commedie sentimentali ambientate in Europa
dagli anni Settanta in poi; complicati film horror cult degli anni Ottanta; il cupo
dramma familiare con suspense ambientato in Florida.
Una volta descritto il sistema di catalogazione dell’algoritmo di Netflix, si può
provare a suddividere le produzioni originali di Los Gatos secondo i generi
narrativi più praticati dalla fiction e notare come il catalogo spazia tra i generi più
diversi per soddisfare il più ampio spettro di pubblico possibile.
Sotto l’etichetta crime, un genere senz’altro trai i più diffusi e che per questo
motivo si presenta in una miriade di formule differenti, troviamo serie
popolarissime come Narcos e Tredici. La prima racconta le vicende di Pablo
Escobar, interpretato da Wagner Moura, il narcotrafficante che nella Colombia
degli anni Settanta, da semplice contrabbandiere passò alla creazione di uno dei
cartelli della droga più pericolosi e ricchi del mondo: il Cartello di Madellin.
Ogni puntata della serie è sottolineata dal commento in voice over dell’attore
Boyd Holbrook nei panni di Steven Murphy, l’agente della DEA che si occupò delle
indagini sul cartello di Medellin. Con lui alla ricerca del trafficante c’è il collega
Javier Pena, interpretato da Pedro Pascal. Con il suo accento western, Murphy
racconta l’ascesa e la caduta di Escobar, in un’alternanza tra fiction e filmati
originali.
Pur essendo una serie statunitense gran parte della serie TV è recitata in
spagnolo, una mossa che ha permesso al gigante SVOD di avvicinarsi ad un
pubblico nuovo.
Tredici, è una serie crime diversa da Narcos, con meno elementi action e più
vicina al giallo. Adattamento del bestseller di Jay Asher, racconta di un timido
liceale che riceve una scatola di nastri registrati di Hannah Baker, la ragazza per
cui aveva una cotta e che si è tolta la vita. Ogni nastro è per una persona diversa
e Hannah spiega a dodici persone il ruolo che hanno giocato nella sua morte
dando tredici motivi per cui si è tolta la vita.
Tredici episodi per mettere in scena altrettanti motivi di un gesto tragico e
definitivo come il suicidio. La serie tratta il fenomeno del bullismo, che provoca
ferite più o meno profonde, a volte irreparabili, a tanti adolescenti di tutto il
mondo. Questo teen drama, con i suoi undici milioni di tweet, ha conquistato il
primo posto nella classifica delle serie più twittate di tutti i tempi.
Nel genere fantascientifico possiamo trovare tre Netflix originals di successo:
Sense8, Stranger Things, e Black Mirror (a partire dalla terza stagione).Creata nel
2015 da Lana e Lilly Wachowski, Sense8 racconta le vicende di 8 personaggi,
sparsi per il globo e legati mentalmente ed emotivamente. Ognuno dal suo angolo
di mondo, questi fantastici otto sono improvvisamente colpiti da forte emicrania
ed iniziano ad avere allucinazioni visive ed auditive, sensazioni che saltano fuori
dal nulla e che non possono fermare ne controllare.
Scopriranno di essere dei “sensate”, in grado di sviluppare una reciproca
connessione che potremmo definire telepatica (ma non è solo a livello mentale).
Ognuno di loro è bloccato in una condizione di infelicità e insoddisfazione, e la sua
liberazione passa necessariamente attraverso gli altri. Di volta in volta un piccolo
passo in avanti, con l’aiuto ora di un compagno ora di un altro, rafforzando a ogni
svolta il legame, allargando l’esperienza condivisa, fondendo sempre più
quest’anima divisa in otto parti. Dramma fantascientifico, quella di Sense8 è una
fantascienza dei sentimenti, non catastrofica.
Stranger Things, creata da Matt e Ross Duffer, è una serie sci-fi ibridata con il
fantasy, il thriller e l’horror. Ambientata ad Hawkins (città fittizia), Indiana, nel
1983, è incentrata sulle vicende di un gruppo di giovani nerd e delle loro famiglie,
stravolti dalla scomparsa del dodicenne Will, membro del gruppo. Mentre la
polizia e i bambini portano avanti le ricerche, nel paese compare una ragazzina
misteriosa di nome Undici, dotata di poteri paranormali.
Omaggio al cinema horror e alla fantascienza degli anni Ottanta, la popolarità
della serie ha generato infinite tonnellate di magliette, tazze, poster, gadget e
costumi per Halloween. Netflix ha diffuso un’app ufficiale, e sull’Apple Store è
possibile scaricare per Iphone ed IPad il gioco.
Black Mirror , serie britannica creata da Charlie Brooker , fa parte del filone della
fantascienza distopica. Ogni episodio è autonomo. Apparentemente non c’è una
trama orizzontale e si gioca con l’avvenirismo tecnologico e l’etica socio-
collettiva.
La serie ha riscosso un enorme successo di pubblico e critica vincendo nel 2012
l’Emmy Award come miglior miniserie televisiva.
3. I generi di Netflix: commedia, dramma e animazione
Unbreakble Kimmy Schmidt e Una mamma per amica appartengono, invece, al
genere comedy. La prima è una produzione originale Netflix, inserita nel catalogo
nel 2015, la seconda, composta da otto stagioni e creata da Amy Sherman-
Palladino, è andata in onda dal 2000 al 2007, per le prime sette stagioni, sulla
rete WB e dal 2006, su The CW dopo la fusione di WB con UPN.
Netflix ha prodotto un’ottava stagione di quattro episodi nel 2016, Una mamma
per amica – Di nuovo insieme, definita da molti miniserie revival. Ambientata
nell’immaginaria cittadina di Stars Hollow, Una mamma per amica, racconta le
vicende di Lorelai e Rory Gilmore madre e figlia unite da un legame molto
profondo. Lorelai è una madre di trentadue anni, rimasta incinta a sedici, l’età che
ora ha la figlia. Per via di quell’incidente di percorso non ha potuto continuare gli
studi e non ha realizzato il sogno dei suoi genitori, sposarsi. Ora dirige un hotel e
ha al fianco una figlia intelligente e responsabile.
Unbreakble Kimmy Schmidt, creata da Tina Fey e Robert Carlock, segue le
vicende
della ventinovenne Kimmy Schmidt, mentre cerca di cominciare una nuova vita a
New York dopo essere stata salvata, insieme ad altre tre donne, da un bunker
sotterraneo in cui sono state rinchiuse dal Reverendo Wayne Gary Wayne .
La serie prende in giro le regole del vivere comune. Si gioca sull’ossessione
dell’apparenza, della tecnologia, sulla superficialità di chi ha di più e sulla
sventura di chi ha di meno. La serie è stata acclamata dalla critica, e nel 2015 è
stata candidata a diversi premi Emmy, tra cui Miglior serie commedia.
Tra il dramma e la commedia si pone, invece, Orange is the new black. Definite
più comunemente dramedy, i film o le serie televisive di questo genere,
presentano una trama di argomento drammatico in cui sono mescolati elementi
propri del genere comico.
OITNB, ideata da Jenji Kohan, inizia alla vigilia dell’ingresso di Piper Chapman in
prigione, per un fatto avvenuto dieci anni prima, quando aveva trasportato una
valigia piena di soldi di provenienza illecita per conto di Alex Vause, una
trafficante di droga della quale un tempo era stata amante. Una volta entrata nel
carcere femminile gestito dal Dipartimento Federale di Correzione, Piper entrerà
in contatto con le altre detenute con cui proseguirà la storia della serie.
La trama, di per sé serissima e drammatica, viene costantemente stemperata da
un racconto corale che alterna con facilità momenti di profondità e tormento
interiore a scene di comicità leggera e dai tratti sentimentali. A colpire lo
spettatore durante le prime puntate è il continuo cambio di registro, che
disorienta il pubblico proprio perché sembra offrire l’esatto opposto di quello che
ci si aspetterebbe.
Nel dramma storico-biografico, il cui contenuto è desunto da fatti storici o da
biografie di uomini e donne famosi, è possibile incasellare The Crown. La serie,
ideata da Peter Morgan per Netflix, è incentrata sulla vita di Elisabetta II e sulla
famiglia reale britannica. Una serie in cui il tema centrale è la preservazione a
tutti i costi, dei simboli, delle istituzioni, dei ruoli, concetti astratti che ad ogni
svolta si impongono su desideri e ambizioni personali.
La storia segue i primi anni di regno di Elisabetta II, i contrasti ora con il governo
ora con la famiglia, alle soglie di un mondo che cambia velocemente. La serie, tra
le più costose di sempre in casa Netflix, è stata rinnovata per una seconda
stagione. Anche qui non sono mancati premi e i giudizi positivi della critica, che
ha elogiato sceneggiatura, regia e cast.
All’interno del suo nutrito catalogo, la piattaforma online dà ampio spazio anche
all’animazione, spaziando dalle serie comedy a quelle tratte dai manga
giapponesi fino a quelle vietate ai minori di 14 anni.
Tra le Netflix Originals spicca, per successo di critica e buon riscontro del
pubblico, Bojack Horseman. Ideata da Ralph Bob-Waksberg e disegnata dalla
fumettista Lisa Hanawalt, la serie è incentrata su Bojack Horseman, ex star del
famoso show anni novanta Horsin’ Around, personaggio cinico vanesio e
depresso, perennemente alla ricerca della felicità e di uno scopo nella vita. La
serie mostra le varie fasi di una depressione impossibile da vincere e sempre più
distruttiva, ma allo stesso tempo se ne fa beffe.
La serie ci fa solidarizzare con il protagonista, ma ce lo fa odiare al tempo stesso,
mettendoci in mostra senza pietà alcuna quanto spesso la colpa di quanto accade
sia dello stesso Bojack, incapace di prendersi ciò che vuole per questa pigrizia,
rassegnazione, invidia che lo caratterizza continuamente. Affiancata al registro
tragico, c’è la parte satirico-comica, che tramite riferimenti pop e le molte
apparizioni di celebrità e personaggi famosi del mondo dello spettacolo,
sbeffeggia l’industria cinematografica e il mondo di Hollywood.
Il mondo in cui Bojack e i suoi comprimari si muovono è caratterizzato dalla
convivenza di umani ed esseri antropomorfi (il protagonista stesso è un cavallo),
che aggiunge un tocco di comicità nonsense alla produzione. Nel 2016 la serie ha
vinto due edizioni dei Critics’ Choice Television come miglior serie animata,
battendo serie storiche come I Simpson e South Park.
Ultime di questa rassegna, ma non per importanza, sono le serie crime Netflix
prodotte in accordo con la Marvel. Il 7 novembre 2013 le due compagnie leader
nel settore della serialità audiovisiva, decidono di fare un annuncio che ha, sin da
subito, un enorme impatto sul pubblico e sulla critica. Con un accordo reso
immediatamente pubblico, le due compagnie decidono, infatti, di produrre un
blocco di quattro serie TV, rilasciate con una cadenza orientativamente
semestrale, riguardanti quattro super eroi di casa Marvel con tratti tipicamente
metropolitani.
Ed è così che il 10 aprile del 2015 Netflix rilascia sulla propria piattaforma
streaming la prima stagione di Marvel’s Daredevil. I tredici episodi della serie,
aprono ufficialmente la porta a quella destinata ad essere la controparte
televisiva dei Vendicatori (o Avengers), ovvero i Difensori (o Defenders).
58
1. L’evoluzione del fandom
Il fenomeno del fandom, con l’arrivo dell’era digitale, di internet e dei social
network, è cresciuto esponenzialmente. Se negli anni Novanta era una subcultura
di nicchia, oggi ha acquisito un ruolo centrale nei processi di consumo culturale
dell’età contemporanea.
Secondo Henry Jenkins, la convergenza mediale colloca il fandom al centro di una
serie di spinte top/down – che traggono origine dall’industria culturale
convergente - e bottom/up – che derivano dalle stesse culture di consumo 1.
I media aspirano a curare prodotti che possano diventare cult, in modo da
alimentare il fandom, creare nuove comunità che possano identificarsi in un
oggetto che diventa di culto.
L’arrivo del web ha facilitato la creazione di fandom, aggregando più facilmente,
assecondando la condivisione di contenuti, questo ha anche incentivato, a sua
volta, la produzione di nuovi prodotti televisivi, seriali o filmici.
Jenkins si occupa di studiare e identificare le attività che riguardano il fandom e
chi ne fa parte.
I fan sono organizzati come comunità che si concentrano sullo stesso testo che
diventa oggetto di studio e analisi. I componenti di queste comunità
periodicamente e sistematicamente si confrontano su quest’oggetto, si
scambiano opinioni, lo mappano e decostruiscono, determinando una discussione
continua e collettiva in perenne evoluzione. I livelli di coinvolgimento sono
molteplici, i fan possono essere diversamente coinvolti nel discorso. Quelli
maggiormente interessati svilupperanno discorsi più complessi ed educheranno i
fan meno attenti o meno coinvolti.
Il fandom è legato alla rielaborazione del testo di interesse comune fino ad
attivare un processo produttivo di materiali e contenuti originali ispirati dal testo
principale. È il caso del fan fiction, fan dub, fan art, merchandising autoprodotto).
La serialità televisiva, essendo basata sulla ripetizione e sulla proposta frequente
di contenuti che appartengono allo stesso testo, attiva un fenomeno di
fidelizzazione altissimo che aumenta la possibilità di aggregare persone
appassionate dello stesso contenuto.
La nuova serialità, legata a un tipo di fruizione diversa, intensifica ancora di più il
fenomeno del fandom. Le narrazioni seriali infatti risultano, con l’arrivo delle
nuove piattaforme digitali, maggiormente stratificate, complesse, si organizzano
in maniera orizzontale arricchendo le vicende con più personaggi e molteplici
storyline.
2. Internet, fandom e strategie social
Internet diventa un territorio favorevole alla creazione, alla crescita e allo sviluppo
del fandom. Nascono i forum, creati appositamente per creare dibattito e
confronto tra fan. Ci sono fan che dedicano tantissimo tempo della loro giornata
per moderare, tradurre o sottotitolare contenuti audiovisuali; appassionati che si
impegnano a far circolare, in maniera illegale alimentando la pirateria, contenuti
su torrent; fan che producono contenuto originali come meme, fotogrammi
modificati, immagini promozionali, video, recensioni di episodi o intere stagioni.
Tutte queste azioni, che prima dell’arrivo della rete, erano complesse e
soprattutto difficilmente condivisibili, diventano quotidiane, vanno a saturare la
rete e soprattutto sono facilmente accessibili alla comunità di fan che cercano
quel genere di contenuto che, a loro volta, possono commentare, a cui possono
rispondere o contribuire.
Quella appena descritta è un’attività che parte dal basso, allo stesso tempo, lo
stesso genere di risultato può partire anche dagli stessi produttori di serie che
sono interessati a stimolare i fenomeni di fandom che diventano uno strumento
efficace di promozione dei contenuti sui quali le aziende investono.
Netflix Italia ha tre canali social (Facebook. Twitter e Instagram) che hanno molto
seguito, che si tratti di post originali o condivisioni, la presenza su queste
piattaforme è fondamentale per aumentare il livello di fidelizzazione, incentivando
le possibilità di interazione.
A legare e rendere coerente la strategia social di Netflix è la chiave ironica,
attraverso la quale l’azienda costruisce la sua comunicazione verso l’esterno.
Questo approccio è vincente sui social e porta Netflix a differenziarsi dai
competitor e stimolare l’engagement.
Le serie di punta, come Narcos e Stranger Things, tendono ad essere presentate e
veicolate attraverso post autoironici, creando anche contaminazioni tra più serie,
riuscendo con un singolo contenuto a raggiungere fan appassionati di generi
diversi.
Anche se Netflix è un’azienda presente su un mercato internazionale, le pubblicità
di Netflix Italia sono pensate per un target specifico, soltanto italiano, vedremo
spesso riferimenti a personaggi famosi solo in Italia o a situazioni legate
all’attualità local.
Giovanni Muciaccia verrà per esempio usato per pubblicizzare Una serie di
sfortunati eventi, Antonio Capranica, inviato della Rai a Londra, per The Crown,
Salvatore Aranzulla, blogger informatico, per Black Mirror.
Anche nei contenuti che cavalcano la visibilità di eventi o manifestazioni molto
seguiti dal pubblico l’approccio ironico e brillante di Netflix si rivela in tutta la sua
efficacia. In occasione della Milano Fashion Week, è stato pubblicato sui diversi
canali un video creato ad hoc che ironizza sugli outfit che Pablo Escobar, il
protagonista di Narcos, espone con orgoglio nelle due stagioni della serie. O,
ancora, quando in occasione del Festival di Sanremo 2017, rilascia un video
promo di Stranger Things, in cui si vede il maestro Beppe Vessicchio immerso nel
mondo “sottosopra” della serie. Il video ironizza sul mistero della scomparsa del
maestro dall’ultima edizione del Festival, cavalcando la sollevazione social
causata dalla notizia. 2
Pensando al contesto romano, non possiamo non citare il caso Spellacchio,
l’albero di Natale che nel 2017 era stato posizionato dal comune di Roma a Piazza
Venezia, diventato noto per aver avuto vita breve ed essere seccato prima
dell’evento che avrebbe dovuto celebrare. Netflix ha avuto la brillante idea di
sponsorizzare l’albero per gli anni successivi (2018/2019) e associare, così, al
famoso albero, il suo brand.
L’originalità che possiamo riscontrare nelle strategie di comunicazione di Netflix
risiede, anche, nella capacità dell’azienda di esercitare una convergenza culturale
in modo intermediale, spostando la narrazione dello stesso contenuto da un
canale all’altro, ma anche intramediale, quindi all’interno dello stesso medium.
Un esempio è l’after-show Beyond Stranger Things (Oltre Stranger Things), uscito
su Netflix contemporaneamente alla seconda stagione della serie. Lo spettacolo è
condotto dall’attore Jim Rash, è un salotto all’interno del quale i protagonisti della
serie si raccontano. Sono sette puntate da venti minuti e ci sono ospiti fissi come i
Duffer Brothers (creatori della serie, nonché registi di qualche episodio), e il
produttore/regista Shawn Navy. Il resto dei membri è sempre variabile, in base a
quello che si vuole affrontare nella puntata.
Netflix ha dunque molto a cuore le richieste dei fan, ciò che è capitato con Sense8
ne è una dimostrazione. La serie, cancellata soprendentemente dopo la seconda
stagione, ha visto attivare la produzione per un episodio finale di due ore in
seguito alle tante proteste avvenute dai fan dopo la comunicazione di
cancellazione della serie. In pochi giorni il fandom generato da Sense8 ha saturato
i social di hashtag come #RenewSense8 e #BringBackSense8, in questo modo
non hanno soltanto ottenuto un episodio conclusivo che poteva così chiarire le
sorti narrative della vicenda sospesa all’improvviso, ma ha anche fatto da cassa di
risonanza e creato un vero e proprio tormentone. In questo modo uno dei titoli
meno chiacchierati, più di nicchia, seguito da una fetta troppo piccola di abbonati,
diventa un tormentone che ora vale la pena produrre. Il passaparola ha fatto il suo
corso e chi prima non conosceva Sense8 ha finito per incuriosirsi. Netflix, che agli
occhi dei fan prima era apparsa insensibile e capitalista, attraverso la decisone di
produrre un lungo episodio conclusivo, ripulisce la sua immagine e veicola il
messaggio “noi vi ascoltiamo, lavoriamo per voi” e si avvicina ancora di più ai
suoi spettatori.
3. Effetto nostalgia
La società contemporanea ha riscoperto il fascino del passato, tende ad essere
particolarmente nostalgica verso quei prodotti che una volta erano cult e di cui il
pubblico aveva fatto largo consumo. Anche Netflix ha dedicato un’attenzione
particolare al così detto vintage marketing che provoca un effetto nostalgia.
Esempi chiari di quanto questa strategia di mercato funzioni sono la riproposta da
parte della Fiat della “nuova” 500 o la Vespa, Nintendo ha immesso sul mercato
un formato mini della Nintendo classic, il cinema propone remake di film cult
come It e Blade Runner.
Netflix ha deciso di cavalcare questo bisogno dello spettatore/consumatore di
riconnettersi con il passato e in un certo senso riviverlo e ha portato questo
effetto nostalgia anche sul piccolo schermo.
Stranger Things, serie creata dai fratelli Duffer, ha, evidentemente, questo scopo:
la costruzione di una storia che possa arrivare allo spettatore in maniera
immediata, semplice, riconoscibile, basata quasi esclusivamente su citazioni. Il
citazionismo stilistico, narrativo e visivo, infatti, è l’ossatura dell’intera serie. I
poster appesi ai muri (Il poster de La cosa di John Carpenter è ben visibile in un
angolo della stanza), la colonna sonora (pezzi dei Clash), il lettering del titolo,
riportano a un universo tipico degli anni Ottanta.
Chi ha vissuto quegli anni ritrova infiniti riferimenti a film cult come I Goonies o I
Ragazzi della 56 strada.
Anche i temi sono quelli, il mondo dei bambini/adolescenti che comunica con il
tumultuoso e affascinante mondo occulto con l’innocente capacità di immaginare,
dall’altra c’è il mondo sterile e arido degli adulti, oramai smarriti nell’ottuso
conformismo.
La serie non vuole raccontare quel periodo, non si preoccupa di trasferire allo
spettatore uno specchietto di quegli anni ma vuole solo ricreare l’estetica di quel
decennio, l’immaginario frutto di film, libri, e tv dell’epoca.
Anche la scelta di rilasciare la serie in piena estate, a metà luglio, ha subito
posizionato Stranger Things in un preciso genere perduto, tipico della
programmazione televisiva anni ottanta: le rassegne televisive di “serie b” in
seconda serata che resero accessibile al grande pubblico giovanile di allora autori
come Wes Craven, Sam Raimi, John Carpenter ma anche Dario Argento. In sintesi,
quella di Stranger Things, è la ricostruzione di ciò che avrebbe voluto fossero
quegli anni per chi ci è cresciuto, non ciò che sono realmente stati. Per questo sa
attrarre anche chi, anagraficamente, è venuto dopo. La riconoscibilità dei
riferimenti e il tono volutamente “finto” rende irresistibile l’appeal dell’insieme. 3
59
1. Tra empatia e identificazione
Quasi tutti gli sceneggiatori televisivi affermati identificano nei personaggi il fulcro
del loro processo creativo e l’unita di misura del successo: se riesci a creare dei
personaggi convincenti, è probabile che un’ambientazione e delle sotto trame
coinvolgenti verranno fuori da sé1.
Il co-creatore di Lost, Damon Lindelof, afferma: «Gira tutto intorno ai personaggi
[...] Ogni cosa deve essere in funzione dei personaggi. E’ questo l’ingrediente
segreto dello spettacolo»2.
Dai loro dialoghi e dalle loro azioni, dalla loro personalità e dal loro fascino
dipende gran parte del successo del programma.
Le serie tv, a differenza di molto cinema di intrattenimento, si prendono tutto il
tempo per presentare, caratterizzare e far evolvere i protagonisti, compresi i
comprimari.
Sia per andare oltre gli stereotipi iniziali (il misantropo, la femme fatale, il serial
killer, il nerd), sia per l’avvicendamento di scrittori diversi man mano che la serie
avanza, assistiamo alla costruzione dal vivo di figure sfaccettate e complesse, in
continua evoluzione.
Questa possibilità di scavare in profondità nella psicologia dei personaggi
permette di addentrarci nelle loro sfumature caratteriali, di conoscerli al meglio e
di stabilire con loro relazioni empatiche.
L’empatia con i personaggi è un processo che può avere differenti livelli, che
possono aumentare o meno a seconda della situazioni.
Il primo livello è l’empatia cognitiva che consiste nel comprendere i
protagonisti ed il loro ambiente.
Il secondo livello è l’empatia emozionale che si riferisce all’implicazione
affettiva coi personaggi, cioè il sentirsi preoccupati per i loro problemi,
provare allegria davanti ad un colpo di fortuna del protagonista o angoscia
davanti ad un eventuale situazione negativa in cui è implicato. L’empatia
emotiva va al di là della condotta e del codice morale del personaggio.
A un livello superiore troviamo l’empatia valoriale, che può tradursi in un
“mi piace questo personaggio e pertanto è buono”, buono non dal punto di
vista di un giudizio morale, ma in quanto evoca o provoca un sentimento
positivo (simpatia, affinità).
L’empatia progettuale, cioè la capacità di fantasticare e di sognare le
trame e la storia del protagonista, in modo che lo spettatore sia capace di
anticipare le situazioni alle quali si espone il personaggio o prevedere quali
saranno le conseguenze delle sue azioni. Questi livelli di empatia possono
portare ad un’identificazione totale con i personaggi. L’identificazione può
essere data in due modi diversi:
La prima, come percezione di similarità, che consiste nel valutare in
quale misura lo spettatore considera di assomigliare ad un personaggio.
La seconda identificazione è di tipo aspirazionale. In questo caso,
l’attrazione verso i personaggi non è motivata da una percezione di
similarità, quanto piuttosto da un’ammirazione, da un’attrazione dovuta alla
scelta di un modello di vita cui si aspira 3
2. Il caso “Orange is the new black”
Una delle serie di maggiore successo di Netflix è Orange is the New Black,
paradigma perfetto dello show corale che, grazie ad una serie di protagonisti
tratteggiati con dovizia di particolari, è riuscito fin dalla prima stagione, ad
appassionare schiere di fan che patteggiano per loro.
Lo show, tratto dal libro di memorie di Piper Kerman, racconta la storia di una
giovane donna della borghesia newyorchese, costretta a scontare quindici mesi
nella prigione federale femminile di Litchfield per aver trasportato, dieci anni
prima, una valigia contenente soldi guadagnati dalla vendita illegale di droga per
conto della sua amante dell’epoca, la spacciatrice del cartello internazionale Alex
Vause.
Nella serie, la Piper che sta per finire in prigione è una persona diversa da quella
di dieci anni prima: è una brava ragazza, con una vita a posto, una famiglia ricca
alle spalle e un fidanzato che la ama. Il fatto che Piper non rientri in uno
stereotipo criminale, che non sia una delinquente incallita rude e volgare e che ci
venga presentata come una persona comune, colta e gentile, favorisce
l’identificazione con lo spettatore e al contempo lo destabilizza, togliendogli la
rete di sicurezza dei luoghi comuni.
Che OITNB sia una serie sostanzialmente di personaggi è evidente fin dalla sigla,
una lunga galleria di volti femminili: vediamo ora gli occhi, ora la bocca, riprese
fisse di sguardi che fissano la camera. Il periodo che ognuna delle detenute deve
trascorrere in carcere è limitato alla durata della condanna, il che impone un
passo e una fine ad ogni storia, generando attese nello spettatore circa l’arco
narrativo dei personaggi.
Vengono introdotti continuamente nuovi personaggi e anche quelli secondari,
inizialmente nell’ombra, solo abbozzati, conquistano gradualmente il primo piano,
ognuno con un preciso, ben delineato carattere e una puntata dedicata nella
quale, tramite un flashback, vengono rivelati i trascorsi di vita che hanno portato
all’incarcerazione.
Questo fa di Orange Is The New Black, una serie corale e un campionario delle più
disparate situazioni umane.
La coralità è espressa anche attraverso soluzioni registiche e di montaggi.
I personaggi possono essere divisi a seconda del gruppo etnico: le bianche, le
nere, le latine, le asiatiche.
Abbiamo, così, i bianchi borghesi incarcerati per crimini economici, ma anche i
bianchi redneck legati alla droga o all'omicidio e i bianchi dell'est dalle tonalità
mafiose.
Le afroamericane vengono raccontate secondo le logiche della gang, mentre le
latine seguono le traiettore del clan famigliare.
Le orientali sono “lupi solitari”, metodici e votati al commercio.
Tale suddivisione cerca di veicolare quegli elementi di ripetitività e
categorizzazione estetica e caratteriale perfettamente riconoscibili dallo
spettatore.
Sono, ovviamente, stereotipi spesso discutibili, utilizzati, però, per favorire
l'ingresso dello spettatore medio nella storia.
Una sorta di macro-tipologie caratteriali che, nell'arco della narrazione, gli autori
si sono divertiti a stravolgere o mutare.
Con lo sviluppo del lato “umano”, dell'interiorità e del background personale, le
categorizzazioni di partenza vengono a mancare, sostituite da modelli empatici
che fanno entrare in relazione lo spettatore direttamente con il personaggio e non
tanto con ciò che esso socialmente rappresenta.
In linea generale, il punto di forza che ha fatto della serie Netflix un prodotto
acclamato da critica e pubblico, è il vastissimo corollario di personaggi che
ruotano attorno alla protagonista Piper Chapman, tanto da renderla con il passare
delle stagioni un personaggio al pari degli altri.
In Orange Is the New Black sono i personaggi secondari, con i loro caratteri ele
loro storie, a rendere il racconto tra i più memorabili e appassionanti degli ultimi
anni.
3. Dalla coralità di “Sense8” alla fluidità di “Black Mirror”
Oltre a Orange is the new black, esistono altri modelli peculiari di coralità
nell’archivio Netflix. Due tra i più interessanti, sono sicuramente il caso di Sense8
e di Black Mirror.
Con Sense8 ci rifacciamo a un modello di coralità più tradizionale, simile a quello
di OTNB, anche se le relazioni tra i personaggi, quantomeno nella prima parte
della serie, avvengono tramite collegamenti “a distanza”. I personaggi, infatti,
posti su un piano di parità di ruolo all’interno dell’intreccio, pur trovandosi a
distanza l’uno dall’altro, entrano in connessione attraverso una forma di
condivisione empatica.
Non essendoci una prossimità fisica, sta quindi al gioco registico e al processo di
elaborazione spettatoriale collegare i punti e, attraverso le differenti prospettive
narrative, costruire l’intreccio del racconto.
Ogni personaggio, in principio, ha un suo spazio d’azione per farsi conoscere e
creare un processo di identificazione con lo spettatore. In un secondo momento,
inizia a pesare il fattore collettivo, nel quale la forza attrattiva di ogni singolo
carattere viene sommata a quello degli altri.
Discorso diverso per Black Mirror, che incarna un modello di coralità decisamente
singolare e basato sulla piena autonomia dei personaggi.
La serie, infatti, ha una natura antologica, con storie e attori che cambiano a ogni
episodio. Non presenta personaggi ricorrenti, quantomeno per come siamo
abituati a concepirli in una serie tv.
Allo stesso tempo, nell’arco delle puntate, alcuni indizi ci portano a pensare che
alcune (se non tutte) le storie possano essere ambientate in epoche o momenti
diversi di uno sesso universo (es. San Junipero). La coralità, quindi, non
appartiene direttamente al regime della narrazione orizzontale e neanche a quello
della narrazione verticale: i singoli episodi, infatti, hanno generalmente una
struttura classica con uno o più protagonisti e antagonisti.
L’elemento corale anomalo, invece, emerge osservando la serie nel suo
complesso e considerandola come un prodotto unico, pur nell’estrema diversità
delle sue singole parti.
I personaggi, quindi, nella loro potenza narrativa, entrano in relazione gli uni con
gli altri più per una suggestione “atmosferica” e per una possibile appartenenza a
uno stesso mondo, che per una relazione diretta.
Una soluzione che appare coerente rispetto a una serie nella quale l’elemento di
forza non è il personaggio in sé, quanto l’ambientazione, l’interpretazione e il
valore simbolico.
Al di là delle psicologie, per forza di cose spesso abbozzate, valgono in quanto
figure rappresentative di situazioni umane e ruoli sociali: un primo ministro, un
mitomane bisognoso di attenzioni, i cittadini di un’intera nazione, i concorrenti di
un reality show, un amante temerario, un marito sospettoso, una moglie bugiarda,
un drogato di social network, una vedova inconsolabile, una ragazza senza
memoria, la fidanzata complice di un rapitore, un comico che fa satira politica, un
uomo dalle spiccate qualità dialettiche, un consulente di seduzione, un
torturatore, un criminale, un omicida, una troupe televisiva, degli agenti di polizia,
una donna ossessionata dall’essere popolare, un beta tester di videogiochi per
caso, un pedofilo, un soldato.
Non mancano personaggi memorabili, certo, ma sono al servizio della metafora,
esempi, campioni, cavie che la serie sfrutta per mettere in scena l’impatto e
l’invasività dei social network, dei media in generale e di nuove invenzioni sui loro
comportamenti e sulle lore scelte [...]. Dal momento che sono protagonisti di
storie distopiche e di fantascienza speculativa, siamo invitati a considerarli nostre
proiezioni, possibili pronipoti, i nostri specchi oscuri 4.
60
1. La nascita di Amazon Prime Video
Amazon è un’azienda che offre molteplici servizi e, ad oggi, investe circa 3
miliardi di dollari all’anno nella produzione e distribuzione di film e serie tv.
La distribuzione dell’azienda porta avanti due modelli di business differenti:
Amazon Video che include il Tvod che lo Svod (Subscription Video on Demand), e
il mercato delle copie fisiche di film usciti da poco o cofanetti di serie tv, messi in
vendita sul sito Amazon. Ci troviamo, quindi, di fronte a un sistema ibrido che
permette ai suoi utenti di noleggiare, acquistare, o fruire in streaming di contenuti
audiovideo.
Jeff Bezos (fondatore Amazon), nel 2006, trascorsi otto anni dopo l’acquisto di
IMDb, decide di puntare su Amazon Unbox: un video download service che in due
anni avrà una intera parte dedicata al Vod. Dobbiamo aspettare il 2008, infatti,
per vedere la nascita di “Amazon Video On Demand”, una piattaforma a
pagamento adibita al download di film con la possibilità di fruire anche on
demand.
Nel 2008 Amazon continua ad investire in questo settore e, attraverso la divisione
“media” della società supervisionata da Roy Price, si dedica anche alla produzione
cinematografica, co- producendo con la 20th Century Fox il film The Stolen Child.
Due anni dopo, nel 2010, decide di contare solo sulle proprie risorse e fonda
Amazon Studios. Il marchio Amazon Vod viene ribrandizzato Instant Video, e al
Tvod si aggiunge lo Svod, con 5000 tra film e serie tv per i clienti Prime. Sempre
nel 2011 Amazon acquista l’azienda inglese LoveFilm, impegnata fino a quel
momento in un servizio simile a quello che in partenza aveva caratterizzato
Netflix, lo streaming locale e il commercio di DVD.
LoveFilm, nel 2011, è leader del settore nel mercato europeo e conta circa 2
milioni di utenti, 70 mila titoli e 4 milioni tra DVD, Blu-ray e videogiochi. Questa
strategia consente a Roy Price di iniziare l’espansione del servizio streaming di
Amazon anche in Europa.
Nel 2012, con una mossa che segna l’inizio della competizione con Netflix negli
Stati Uniti, gli Studios di Bezos firmano un accordo con Epix (pay-Tv di proprietà
della Metro Goldwyn Mayer).
Alla fine del 2013 parte la produzione di serie originali. I primi tre episodi di Alpha
House e Betas, entrambe serie comedy prodotte da Amazon, a inizio di quell’anno
vengono resi disponibili gratuitamente; per visionare gli episodi successivi è
necessario essere clienti Prime.
Alpha House esce a pochi mesi di distanza dalla serie caposaldo di Netflix House
of Cards, che conquista una storica nomination agli Emmy e ci fa capire come la
compagnia di Reed Hastings avesse una marcia in più in quel periodo rispetto ai
competitor, quindi anche ad Amazon Istant Video.
Il 2014 è l’anno di Transparent. Una serie prodotta e distribuita da Amazon, che a
gennaio del 2015 viene premiata con il Golden Globe per la miglior serie
televisiva-musical o comedy. È un momento iconico per la televisione: per la
prima volta una serie prodotta per essere distribuita su un servizio di streaming
video vince un Golden Globe.
Sempre nel 2015 Amazon lancia negli Stati Uniti lo “Streaming Partners Program”.
Grazie ad un programma di partnership con dei canali e dei servizi streaming
viene implementata, in Amazon Instant Video, una piattaforma (chiamata Amazon
Channels) che permette la riproduzione di varie emittenti. Nessuno dei canali è
compreso nell’abbonamento Prime, si tratta solo di una piattaforma-ospite di altri
servizi. A maggio del 2017 gli Amazon Channels raggiungono anche il Regno Unito
e la Germania.
A dicembre del 2016 Amazon Instant Video viene rinominata Prime Video in
un’operazione che porta la piattaforma ad espandersi in 200 paesi e territori di
tutto il mondo (ad esclusione della Cina continentale, Cuba, Iran, Corea del Nord e
Siria).
2. Amazon e competitor
Il sistema di raccomandazione di Amazon Prime Video viene ben definito da una
battuta di Jeff Bezos: “facciamo film per vendere scarpe”. Il cliente che fruisce di
determinati contenuti su Prime Video vedrà costruirsi un mondo customizzato
anche per quanto riguarda le ricerche e gli acquisti che andrà a fare sullo store on
line Amazon. Se, infatti, proviamo a collegarci sul sito di vendita principale dopo
una sessione di binge watching, o più semplicemente dopo aver visto un film,
troviamo davanti ai nostri occhi un mondo costruito apposta per noi, dove i
suggerimenti prendono spunto dagli acquisti passati, dalla navigazione e da ciò
che abbiamo visionato su Prime Video.
Un altro settore in espansione, sul quale l’azienda sta fortemente investendo, è il
progetto Amazon Channels. Negli Stati Uniti esistono partnership con canali
importanti come HBO e Cinemax. Questo modello è stato esportato anche nel
Regno Unito in Germania e in Austria. In questi casi gli accordi interessano
compagnie del calibro di Showtime, Starz, AMC e Eurosport.
Amazon Channel prevede anche un progetto di intrattenimento sportivo. Ad aprile
del 2017 Bezos ha iniziato ad acquisire diritti non esclusivi dell’NFL (National
Football League); ad agosto dello stesso anno si è accaparrata i diritti per gli ATP
World Tour, battendo l’offerta delle emittenti inglesi (in particolare Sky Sport) e
recentemente nel giugno 2018 ha acquistato i diritti per trasmettere 20 partite di
Premier League.
Queste scelte potrebbero rivelarsi fondamentali per trasformare Prime Video da
operatore di video in streaming a emittente multicanale, multipiattaforma, che
propone contenuti diversificati in tutto il mondo.
Prime Video ha anche delle caratteristiche strutturali particolari che la
differenziano da altre piattaforme e la rendono profondamente performante. La
peculiarità essenziale sta in una funzione chiamata X-Ray. Quest’ultima,
disponibile sui dispositivi Amazon Fire, su quelli mobile e sul player del desktop,
permette di scansionare a fondo la scena in riproduzione. Mettendo in pausa è
infatti possibile ottenere informazioni su attori, musica, e curiosità (le cosiddette
“Trivia”) relative al frame stoppato. Il tutto si basa sul database di IMDb (proprietà
Amazon), famoso
a livello internazionale per offrire una quantità innumerevole di informazioni in
merito a cast di pellicole e serie televisive. In un’ottica più generale, la
funzionalità X-Ray permette di visualizzare il cast completo di una pellicola o uno
show televisivo, consente di passare ai singoli profili degli attori coinvolti e ci
rivela la colonna sonora senza dover utilizzare un’altra piattaforma adibita come
Wikipedia, il motore di ricerca per le immagini di Google o le app, come Shazam,
per il riconoscimento di un brano musicale.
Il vantaggio di possedere una banca dati come IMDb risuona anche nella
possibilità di inserire il rating degli utenti come presentazione di un articolo
audiovisivo, infatti su Prime Video al fianco di ogni contenuto, oltre a tutte le
informazioni sul titolo in questione, notiamo la presenza del rating IMDb.
Secondo un’analisi di Hub Entertainment Research88, negli Stati Uniti Netflix,
Prime Video e Hulu vengono usati in modi completamenti diversi e, per ora, vige
una sorta di equilibrio che non danneggia nessuno dei tre. Il player di Bezos viene
utilizzato dal 39% degli utenti per la riproduzione di film; il 27% lo utilizza per le
serie originali e il 24% opta per la selezione di serie prodotte da terzi.
Sulle serie originali il campione è Netflix (37%) mentre Hulu spopola come
aggregatore di contenuti non autoprodotti (54%).
Questi dati riflettono molto la composizione del catalogo, che ha in prevalenza
film e tende a evidenziare contenuti originali rispetto quelli non prodotti dagli
Amazon Studios. Va detto che è evidente una propensione alla sponsorizzazione
degli Amazon Originals, poiché questi ultimi vengono collocati sempre in alto,
quindi in una posizione di vantaggio rispetto alle altre proposte.
Nel 2017 Amazon Studios diventa il primo media streaming service a essere
nominato per il premio Oscar al miglior film con Manchester By The Sea. Il film,
nominato in sei categorie degli Academy Awards, vince “Best Actor” (Casey
Affleck) e “Best Original Screenplay”.
Possiamo partire da questo traguardo per comprendere la politica degli Studios
riguardo a film e serie tv originali, aggiungendo che l’anno precedente gli Amazon
Studios avevano scelto di distribuire un film, co-prodotto tra Iran e Francia, che si
è aggiudicato il premio Oscar come miglior film straniero nel 2016 (The
Salesman). A differenza dei competitor come Netflix, Amazon ha quindi investito
molto anche nella distribuzione e nella produzione di film adatti alla proiezione in
sala. Si consolida sempre di più una strategia d’impatto, volta al proporsi come
piattaforma di livello qualitativo più alto rispetto alle concorrenti.
3. Qualità Amazon
La qualità dell’offerta Amazon si costruisce attraverso alcune scelte strategiche.
Per gli addetti alle produzioni della compagnia di Bezos, i sodalizi più importanti
sono quelli con gli sceneggiatori (showrunner nel caso delle serie tv) e con i
registi.
Per la scelta dei filmmakers, Amazon Studios si affida spesso a icone del cinema
indipendente o di rottura. Woody Allen, ad esempio, ha lavorato per gli Studios
dirigendo film come Cafe Society (2016) e La Ruota delle meraviglie (2017) ma è
anche showrunner, regista e attore della serie originale Amazon Crisis in Six
Scenes (2016).
La centralità dell’autore di una sceneggiatura è un elemento che ritroviamo nella
“relazione” tra il comparto produttivo e le serie tv tratte dalle storie di Philip K.
Dick. Lo scrittore di fantascienza è il protagonista di una partnership postuma,
quasi celebrativa, con Prime Video. È il caso di Philip K. Dick's Electric Dreams,
una serie fantascientifica del 2017, attualmente in produzione, che dà vita alle
fantasie distopiche dello scrittore tramite episodi autoconclusivi. In questo caso il
nome dell’autore è posizionato addirittura nel titolo della serie stessa.
Continua un percorso, cominciato con Woody Allen, di trasformazione
dell’ideatore in icona. The Man in the High Castle (2015) non ha il nome
dell’autore in bella vista, nonostante abbiamo di fronte una serie tratta da un libro
di Philip K. Dick (La svastica sul sole), ma, mentre con Philip K Dick’s Electric
Dreams si celebra la persona, qui la forza del pilot proviene tutta da un soggetto
sorprendente.
Transparent è un’altra serie che ha fortemente caratterizzato la produzione
Amazon, incarna ancora meglio il paradigma, tanto caro agli Amazon Studios e
non solo, del passaggio dal dettaglio all’universale. Un padre di famiglia sulla
settantina, divorziato, con tre figli ormai adulti, riesce a trovare il coraggio per
esprimere la sua sessualità e inizia a vestirsi da donna.
I titoli di testa, che somigliano ad un filmino amatoriale degli anni Ottanta, ci
fanno entrare in una dimensione familiare intima. Diventiamo dei voyeur
imbarazzati, perplessi e sorpresi da dinamiche lontane dalle nostre, ma allo stesso
tempo così vicine ai problemi di tutti i giorni.
Le produzioni seriali contemporanea fanno della nicchia il nuovo mainstream, in
un momento in cui il bombardamento di immagini e video ci arriva da fonti
diverse e molto numerose, per vendere si cerca di lasciare il segno, di colpire con
un’idea nuova e con dei personaggi in grado farci provare empatia per le loro
storie1.
La comunità creata da Bezos gravita tutta intorno al concetto di Prime e di
esclusività della sottoscrizione. L’utente deve sentirsi speciale, e non simile a tanti
altri.
Come ulteriore dimostrazione di queste affermazioni, c’è anche la politica
comunicativa di Amazon. L’azienda utilizza Twitter, il social network dei politici e
delle comunicazioni ufficiali, per aggiornare i suoi follower; mentre su tutti gli altri
social è molto meno attiva rispetto ai competitor.
61
1. Sul sentiero della Quality TV
“Qualità” è la parola d’ordine per le produzioni degli Amazon Studios. Ma che
significa qualità? Un budget elevato? Un cast eccezionale? O un regista in grado di
lasciare la sua impronta? Per gli addetti alle produzioni della compagnia di Bezos,
i sodalizi più importanti sono quelli con i creatori/sceneggiatori (showrunner nel
caso delle serie tv) e con i registi1.
Per la scelta dei filmmakers, Amazon Studios si affida spesso a icone del cinema
indipendente o di rottura. Prendiamo il caso di Woody Allen, che ha lavorato per
gli Studios dirigendo film come Cafe Society (2016) e La Ruota delle meraviglie
(2017), ma è anche showrunner, regista e attore della serie originale Amazon
Crisis in Six Scenes (2016).
Un sodalizio, poi, incrinato dalle rinnovate accuse di molestie al regista. La
distribuzione del film A Rainy day in New York (2019), infatti, era di competenza di
Amazon, la quale si è ipocritamente defilata per non “danneggiare” la sua
immagine, ormai associata al grande regista americano.
In un'ottica di rapporto con l'industria cinematografica, seppure facendo ampio
uso di registi di caratura internazionale, Amazon ha attuato un modello
produttivo/distributivo “morbido” rispetto a quello utilizzato dalla concorrente
Netflix.
«Amazon Studios ha [...] presentato al festival di Cannes cinque titoli: Cafe
Society di
Woody Allen, The Neon Demon di Nicolas Winding Refn, Paterson di Jim Jarmusch,
oltre al
documentario su Iggy Pop Gimme danger e The Handmaiden di Park Chan-Wook.
Ma se Netflix ha
cercato di scardinare la tradizionale finestra theatrical con uscite day-and-date,
Amazon ha
seguito un percorso diverso che non ha suscitato le stesse ansie, decidendo di
affidarsi a distributori indipendenti per l’uscita theatrical per poi rendere il titolo
disponibile in streaming
tre mesi più tardi»2.
La tendenza al coinvolgimento di registi affermati è stata poi seguita anche dalla
rivale Netflix con opere come “Roma” (2018) di Alfonso Cuarón e “The Irishman”
(2019) di Martin Scorsese. Queste opere, però, hanno creato forte contrasto
all’interno dell’industria perché la distribuzione in streaming, propria di Netflix,
era sostanzialmente preponderante rispetto a quella cinematografica, utilizzata
solamente nella versione dell’uscita tecnica in modo da rendere candidabili i film
ai maggiori premi internazionali.
Mantenere un rapporto quasi “sacro” e tradizionalista con la distribuzione
(ritardando la disponibilità sulla piattaforma online) e scegliere di creare una forte
relazione con Woody Allen è segno della volontà lungimirante e diplomatica di
Amazon di conservare l’aura di esclusività del prodotto filmico e di dare centralità
a un aspetto fondamentale della produzione cinematografica: l’idea che c’è dietro
a un film, il suo script, cioè la sua sceneggiatura. Non dimentichiamoci che Woody
Allen ha vinto tre premi Oscar alla miglior sceneggiatura originale (1978, 1987.
2012).
È forse un caso che sia stato la prima scelta di Roy Price, ex presidente di Amazon
Studios, nell’era delle proposte di qualità? Stiamo parlando di una nuova era in
cui, rispetto alle prime comedy come Alpha House, si cerca di andare nella
direzione di un prodotto che rispetti determinati standard di scrittura.
2. Il ruolo dell’autore
La centralità dell’autore di una sceneggiatura è un elemento che ritroviamo nella
“relazione” tra il comparto produttivo e le serie tv tratte dalle storie di Philip K.
Dick. Lo scrittore di fantascienza è il protagonista di una partnership postuma,
quasi celebrativa, con Prime Video.
Prendiamo Philip K. Dick's Electric Dreams, una serie fantascientifica del 2017,
attualmente in produzione, che dà vita alle fantasie distopiche dello scrittore
tramite episodi autoconclusivi. Il modello commerciale è, evidentemente, “Black
Mirror”. In questo caso il nome dell’autore è posizionato addirittura nel titolo della
serie stessa. Continua un percorso, cominciato con Woody Allen, di
trasformazione o il consolidamento dell’ideatore in icona.
The Man in the High Castle (2015) non ha il nome dell’autore in bella vista,
nonostante abbiamo di fronte una serie tratta da un libro di Philip K. Dick (La
svastica sul sole), ma, mentre con Philip K Dick’s Electric Dreams si celebra la
persona, qui la forza del pilot proviene tutta da un soggetto sorprendente.
Esempi calzanti di estremizzazione di peculiarità, a favore di un pilot dirompente,
sono Mozart in the Jungle (2014) e Transparent (2014). Focalizziamo l’attenzione
sui due soggetti. La prima serie in questione narra le vicende di un direttore
d’orchestra e dei suoi musicisti; in particolare mette a fuoco le difficoltà che alcuni
elementi devono affrontare nel crudele mondo dell’arte. È un tema specifico al
limite del selettivo. Un'estremizzazione della nicchia, vista l'elitarietà del
soggetto.
Quanti degli utenti di Amazon Prime hanno affrontato una casistica del genere
nella loro vita prima d’ora? Sicuramente non un numero sufficiente da
determinare il successo di una serie a livello globale. Eppure quest’ultima è stata
veicolata in tutto il mondo e, oltre alla valutazione di
«Amazon offre un approccio completamente inedito alla televisione. I loro prodotti
sono molto semplici e contengono tematiche davvero forti. Non solo concedono al
creativo piena autonomia, compresa la versione finale del montaggio, ma in più
investono talmente tanto nei loro progetti da voler essere coinvolti in tutte le fasi
della realizzazione, scrittura, casting, post- produzione e così via. È la loro
filosofia: “Sappiamo che voi cercate di creare una visione, ecco alcune nostre idee
a sostegno di quella visione”.»3.
Il personaggio di Bernal ci guida, con la sua follia giovanile e strafottenza, in un
mondo dove si parte dal particolare per comprendere un concetto più ampio. Per
scandagliare la natura umana e le complicate relazioni con le istituzioni.
Dietro la patinatura e i toni da commedia intellettuale, si cela, quindi, un cuore di
estrema sofisticatezza narrativa.
Transparent incarna ancora meglio il paradigma, tanto caro agli Amazon Studios e
non solo, del passaggio dal dettaglio all’universale. Il soggetto è, se possibile,
ancora più d’impatto e specifico rispetto alla serie esaminata in precedenza: un
padre di famiglia sulla settantina, divorziato, con tre figli ormai adulti, riesce a
trovare il coraggio per esprimere la sua identità di genere e inizia a vestirsi da
donna.
I titoli di testa, che somigliano ad un filmino amatoriale degli anni Ottanta, ci
fanno entrare in una dimensione familiare intima. Diventiamo dei voyeur
imbarazzati, perplessi e sorpresi da dinamiche lontane dalle nostre, ma allo stesso
tempo così vicine ai problemi di tutti i giorni.
Per la realizzazione della serie, la produttrice della Andrea Sperling racconta a Neil
Landau4 di aver fatto dei ritiri di scrittura all’interno della writer’s room. Questo
dimostra ancora una volta l’importanza della supervisione, da parte della
produzione, nei momenti dedicati alla scrittura.
3. Il primato della “nicchia” tra genere e storytelling
La filosofia narrativa, produttiva e distributiva non è esclusiva del colosso dell’e-
commerce. Viviamo in un momento in cui “la nicchia è diventata il nuovo
mainstream”5, in cui il bombardamento di immagini e video ci arriva da fonti
diverse e molto numerose. Per vendere si cerca di lasciare il segno, di colpire con
un’idea nuova e con dei personaggi in grado farci provare empatia per le loro
storie6.
Non possiamo perciò associare solo a Prime Video la capacità di entrare nello
specifico per tentare un coinvolgimento emotivo immediato, ma possiamo
evidenziare una grande differenza rispetto al modello dei competitor, in
particolare a quello di Reed Hastings e di Netflix.
Se prendiamo le serie Daredevil, Jessica Jones, Luke Cage e The Punisher, figlie di
un accordo tra Netflix e Marvel, notiamo come in questa piattaforma si cerchi
costantemente di creare una narrazione collettiva sia tra serie che poi si
intrecciano tra loro (ed è il caso di quelle appena citate) sia tra prodotti che tra
loro non hanno nulla a che fare.
Per la seconda categoria possiamo citare Stranger Things e Dark. La prima ha
avuto un enorme successo in tutto il mondo grazie a un’estetica che fonde i lavori
di Spielberg con la fantascienza horror; mentre la seconda ha raggiunto tante
persone cavalcando l’onda della popolarità di Stranger Things.
Infatti, nel periodo di pausa delle riprese tra una stagione e l’altra, Netflix ha
deciso di sponsorizzare il lavoro di Netflix Germania in questione (ovvero Dark),
simile per genere, trama e ambientazione alla serie di successo.
Va detto che l’abilità di Reed Hastings sta anche nell’inquadrare la sua
piattaforma più come una comunità che come una casa di produzione. Basti
pensare al tipo di comunicazione estremamente diretta e giovanile su Facebook e
agli eventi dedicati alle serie cult; come la finta apertura a Roma di Los Pollos
Hermanos, (un fast food molto noto agli amanti delle serie Better Call Saul e
Breaking Bad) durante la quale venivano regalate pietanze e gadget.
Per Prime Video il discorso è diverso, perché vengono proposti contenuti con
dinamiche talmente tanto specifiche da essere completamente slegate l’una
dall’altra. La comunità creata da Bezos gravita tutta intorno al concetto di Prime e
di esclusività della sottoscrizione. In un’ottica di storytelling commerciale, l’utente
deve sentirsi speciale, e non simile a tanti altri.
Come ulteriore dimostrazione di queste affermazioni, c’è anche la politica
comunicativa di Amazon. L’azienda utilizza Twitter, il social network dei politici e
delle comunicazioni ufficiali, per aggiornare i suoi follower; mentre su tutti gli altri
social è molto meno attiva rispetto ai competitor.
Questo non vuol dire che Bezos e i suoi dipendenti non cerchino di alimentare una
cultura della partecipazione. Anzi, il proporsi come un’entità distante ma che si
distingue per qualità (sodalizi con noti sceneggiatori e registi) e per originalità (es.
Transparent e Mozart in the Jungle), serve per alimentare ancora di più i concetti
di trasparenza e interattività.
62
1. La strategia del Pilot
Amazon lancia nel 2013 “Amazon Studios’s Pilot Season” 1.Attraverso il servizio, i
clienti di Amazon Prime possono votare – esprimendo le loro
preferenze tramite brevi sondaggi e valutazioni con stelle – alcuni pilot proposti
dalla piattaforma. Si tratta di un'alternativa al convenzionale ciclo di sviluppo
audiovisivo di Hollywood che sollecita il feedback degli spettatori e serve agli
Amazon Studios per determinare i progetti che poi diverranno produzioni
originali2. Amazon ci assicura pubblicamente che i votanti "call the shots",
ovvero hanno reali possibilità decisionali3.«Nel corso dell’anno noi esaminiamo
molte proposte e sceneggiature e la cosa più
importante che facciamo, prima del voto on line, è stabilire quali sono le priorità e
quali progetti garantiscono lo sviluppo di un’ulteriore sceneggiatura. Poi come
ultima cosa decidiamo quali di questi progetti attueremo. La maggior parte
dell’anno, quando non produciamo pilot, ci concentriamo sugli incontri fra
sceneggiatori e produttori (pitches), quindi sulle sceneggiature. Poi arriva il
momento in cui decidiamo di esaminare i pilot e sceglierli, tenendo soprattutto in
considerazione: 1) l’efficacia della sceneggiatura/sceneggiature, 2) qual è il team
di lavoro, 3) di cosa tratta lo spettacolo, per poi partire con la produzione» 4.
I pilot season di Amazon vengono resi disponibili al voto solo una volta all’anno ed
estremizzano il coinvolgimento dell’utente nelle scelte del produttore; l’episodio
pilota in questi casi non è altro che una presentazione delle potenzialità del
concept. Queste “recensioni 2.0” legate all’audiovisivo avvalorano ancora di più la
tesi, esposta nel precedente paragrafo, riguardante la centralità del soggetto nei
progetti degli Amazon Studios.
La risposta positiva della critica alla seconda stagione dei pilot season ha
permesso agli Studios di enfatizzare il marchio di "Quality Tv" 5. Forti di questo
riscontro, gli Studios hanno cominciato a giocare principalmente sulla presenza di
figure autoriali e sulla libertà artistica concessa, ma questa nuova strategia
promozionale ha in qualche modo ridimensionato, spostando l’attenzione su altri
fattori, l'importanza del feedback degli spettatori che era così importante in
precedenza
«Inizialmente, Amazon ha utilizzato discorsi sull'importanza del feedback degli
spettatori per superare il suo status marginale all'interno dell'industria televisiva.
La campagna incentrata sullo spettatore è servita a suscitare entusiasmo per il
brand precedentemente ignorato di Amazon, per inquadrare la stagione pilota
come un'interruzione innovativa della pipeline di sviluppo di Hollywood e per
legittimare le piattaforme di streaming come attori importanti nella produzione di
serie. Il fatto che questi discorsi celebrativi mancassero di riferimenti e che
fossero rapidamente ridotti a i marcatori familiari di Quality TV, indica che
Amazon ha usato il fascino della cultura partecipativa solo per guadagnare
terreno sui suoi concorrenti, non per collaborare con gli spettatori» 6.
2. Una questione economica
Amazon ha da sempre giocato le sue carte, che siano acquisizioni o proposte
innovative, partendo dai princìpi di leadership. Grazie al rispetto di alcune regole
base, come l’ossessione per il cliente, si è riuscita ad imporre proponendo un
servizio abbordabile per l’utente.
Dall’introduzione delle recensioni nel 2001, al più recente pilot season degli
Studios, Bezos ha sempre cercato di accontentare le richieste dei consumatori,
inserendo strumenti apparentemente democratici.
Il problema è che ormai Amazon è riuscita ad entrare in un meccanismo in cui la
differenza tra quello che è giusto per il cliente e quello che è attuato solo per sé
stessa è molto sottile. Jeff Bezos è come un illusionista in grado di far credere
all’utente di avere il controllo (pensiamo a come gli sconti su Amazon diano
l’impressione di aver trovato un affare), quando in realtà il “vantaggio” è sempre
stato e sempre sarà dalla parte della società.
Spesso lo schema di Amazon si basa su un win-win approach in grado di farci
credere di essere l’unica parte vincente. Pensiamo che il vantaggio sia
chiaramente il nostro (come negli abbonamenti promozionali a 3 dollari durante
l’espansione in altri paesi nel 2016) ma non riusciamo ad immaginare la
proporzione dell’evento che si sta scatenando davanti ai nostri occhi, o ai nostri
schermi.
3. Il contesto italiano
Nel piano di espansione mondiale di Jeff Bezos non poteva mancare l’Italia: il 18
novembre del 2010 apre ufficialmente amazon.it.
Dal 2010 Amazon ha investito nel nostro paese circa 800 milioni di euro.
Per gli italiani, dal 4 aprile 2018, l’abbonamento a Prime costa 36 Euro l’anno, e
inclusi troviamo Amazon Drive (fino a 5 gigabyte di storage file e video e gigabyte
illimitati per le foto), Amazon Music (40 ore di musica al mese e 2 milioni di brani,
espandibili a 50 milioni per 9,99 euro al mese), Prime Reading (centinaia di e-
books consultabili gratuitamente), Amazon Dash (permette di acquistare i prodotti
con un click) e Prime Video, sbarcato durante la grande espansione di fine 2016.
Per quanto riguarda il servizio di streaming video, nel dicembre 2017 si contavano
circa 300 tra film e serie tv, mentre ad aprile 2018 il numero ha raggiunto i 1600
titoli.
Ogni mese Amazon arricchisce l’inventario inserendo sempre più amazon originals
e siglando partnership con realtà audiovisive già affermate in Italia.
Nel nostro paese in questo periodo sembra che chiunque voglia competere nel
campo dell’intrattenimento debba siglare delle alleanze. È il caso di Sky e dei suoi
accordi con Netflix e Mediaset per uno scambio di canali e contenuti, ma anche di
Tim Vision (con Vision Distribution per ottenere film in tempi accorciati, con
Mediaset per i suoi canali tematici free e con la Rai per film e una fiction ispirata
ai romanzi di Elena Ferrante, L’amica Geniale) e Vodafone.Tv (con Chili, Sky e
Mediaset). Ogni operatore si sta muovendo per non rimanere indietro nella
spietata guerra a chi ha il catalogo più appetibile.
Amazon non è da meno, infatti per ora vanta partnership con Mediaset e con la
Rai. L’accordo con Mediaset ha consentito a Prime Video di posizionare alcuni film
italiani nell’elenco, mentre quello con il servizio pubblico del nostro Paese è
sicuramente più consistente.
La sottoscrizione prevede che Amazon versi 11 milioni 7 alla Rai per portare sulla
sua piattaforma serie di successo come Il giovane Montalbano, Rocco Schiavone, I
Medici, Sotto Copertura, I bastardi di Pizzofalcone, La mafia uccide solo d’estate-la
serie, L’allieva, Io non mi arrendo e Il Cacciatore.
La proposta degli Amazon Studios arriva in un momento in cui la Rai ha
cominciato a produrre alcuni lavori che, rispetto alle produzioni più “generaliste”
e “nazionaliste”, sembrano essere adatti per distribuzioni internazionali.
Per esempio la serie I Medici: Masters of Florence (titolo originale) non solo ha un
sottotitolo in inglese, ma si avvale della presenza di attori di calibro mondiale
come Dustin Hoffman e Richard Madden (noto per Game of Thrones).
Per quanto riguarda Il Cacciatore, serie ideata da Marcello Izzo, Silvia Ebreul e
Alfonso Sabella, tratta dalla storia di quest’ultimo, – magistrato e membro del pool
antimafia di Palermo.
Fin dall’inizio, il progetto era pensato per un palcoscenico internazionale visto il
benchmark rivolto a serie come Narcos e Peaky Blinders.
Secondo Davide Marengo, regista della serie, «c’è stata una richiesta, all’opposto
di quanto uno si possa aspettare, di osare. Osare nella scrittura, osare nella
messa in scena; non c’è stata alcuna limitazione né da parte della produzione né
da parte della Rai, che ha visto, apprezzato e devo dire incoraggiato, questo
cambiamento»8.
Dopo la messa in onda, cominciata l’11 marzo 2018, è successo qualcosa di
curioso, interessante e decisamente inaspettato, utile ad analizzare i primi passi
degli Amazon Studios sul mercato televisivo italiano.
Subito dopo l’annuncio di Prime Video, che dichiarava di aver reso disponibile lo
show televisivo, – tra l’altro unico candidato italiano, nonché premiato per la
performance di Francesco Montanari, al festival Canneseries (2018) – quest’ultimo
è scomparso da Rai Play, o meglio sono stati tolti gli episodi (mentre il titolo e
alcuni contenuti extra sono rimasti).
La stessa operazione è stata fatta per Rocco Schiavone, I Medici e Io non mi
arrendo, ma non per altri lavori come Il giovane Montalbano i cui episodi sono
ancora visionabili sul sito della Rai.
Un chiaro segno di come Amazon abbia stipulato con la Rai un accordo differente,
un patto di esclusività per alcune serie che rispettano, secondo gli Studios,
determinati standard.
Questa appropriazione non fa sicuramente bene alla Rai che vede sottrarsi le sue
produzioni di calibro internazionale più premiate e apprezzate. Fa benissimo
invece ad Amazon, che può attuare anche in Italia uno schema ben consolidato:
quello di proporsi come una piattaforma popolare, vasta, ma soprattutto di
“qualità”.
63
1. Il linguaggio del suono
La radio è un medium che basa il suo potere comunicativo solo sul suono, non ha
bisogno di carta, nastro magnetico o alcun altro tipo di supporto per poter arrivare
a trasmettere un messaggio. La sua comunicazione è sonora e immateriale ed è
in grado di arrivare al fruitore in tempo reale.
La radio ha saputo resistere nei decenni e ancora oggi, nonostante il progresso e i
media che si evolvono, resiste, si trasforma e comunica.
Lo fa soprattutto grazie alle grandi potenzialità del suono. Se lo sguardo necessità
di essere indirizzato verso qualcosa per arrivare a decifrare un determinato
oggetto/contenuto, l’orecchio è in grado di percepire suoni anche se la fonte
sonora non rientra bel suo campo visuale.
“La visione richiede una distanza, uno spazio intermedio tra noi e l’oggetto: se
collochiamo un dito davanti ai nostri occhi e lo avviciniamo lentamente
a noi, a un certo punto non sarà più a fuoco. La fonte del suono invece può essere
indifferentemente lontana o vicina: possiamo ascoltare una musica o una voce
dagli altoparlanti della stazione o dalle cuffie che indossiamo. Se i media stanno
nel mezzo (letteralmente) tra emittente e ricevente, i media sonori li possiamo
indossare, tenere attaccati al nostro corpo. Del resto, se qualcosa non ci piace
possiamo distogliere lo sguardo o chiudere gli occhi; ma è più difficile distogliersi
dai suoni, perché la natura non ci ha dato la possibilità di chiudere le orecchie.” 1
La caratteristica del suono di poter arrivare anche in luoghi non originariamente
pensati alla sua destinazione è detta acusma, un suono acusmatico è, quindi, quel
suono che viene percepito senza che sia visibile la fonte da cui proviene.
La radio ha saputo sfruttare moltissimo questa caratteristica, le radio nei luoghi
pubblici ne sono una evidente testimonianza.
Il suono è presto diventato trasportabile, indossabile, le dimensioni degli
apparecchi in grado di riprodurre il suono hanno ridotto sempre di più le loro
dimensioni, pensiamo ai walkmen, i lettori mp3 portatili e ora lo smartphone, che
tra le tante funzioni, assume anche quella di riproduttore musicale e radio.
La radio si è fatta mobile, mini, flessibile, ha costruito un rapporto sempre più
intimo con il fruitore, è diventata quindi un medium personale, caratteristica che
la avvicina ai media personali tanto utilizzati oggi, proprio per questa ragione
possiamo considerarla la prima dei nuovi media.
Il motivo per cui la radio è viva ancora oggi, nonostante il predominio dei media
visuali, va ricercato proprio nel potere del suono e della voce. Chi ascolta la radio,
lo fa per una scelta precisa di fruire quel contenuto che viene trasmesso soltanto
attraverso suoni e parole. Se l’immagine è considerata come qualcosa che
conferma la veridicità di un oggetto o situazione, il suono non ha questa
responsabilità, è astratto e leggero, non è vincolato dall’obbligo di dover farsi
rappresentante della realtà, il suono è un accompagnatore della realtà, può
descriverla e commentarla ma non ci si aspetta che la sostituisca.
2. Il potere evocativo del suono
Il suono è legato alla sfera emotiva, ha un potere evocativo e porta l’ascoltatore
ad immaginare. Questo processo creativo, che coinvolge lo spettatore, è unico ed
esclusivo, questo significa che diverse persone che ascolteranno quello stesso
contenuto sonoro, immagineranno cose differenti, ognuno ricostruirà un’immagine
mentale diversa, che sarà determinata dal mondo emotivo e personale del singolo
individuo.
La voce senza accompagnamento di immagini è uno strumento fortemente
evocativo. La radio attiva infatti la sfera delle emozioni e dei sentimenti e ha la
“capacità di rappresentare un’interfaccia comunicativa tra la dimensione privata e
personale da un lato, e la sfera pubblica dall’altro” 2.
Gli ascoltatori radiofonici, infatti, hanno un rapporto completamente diverso con
la radio rispetto a quello che gli spettatori hanno con la televisione. Gli ascoltatori
sono legati al mezzo, più affezionati, la radio riesce ha creare una intensa
fidelizzazione con i suoi utenti.
Se da un lato abbiamo spettatori attaccati al telecomando pronti a cambiare
canale, l’ascoltatore più facilmente resta legato a una stazione radiofonica a lui
affine, ascolterà spesso quella e sarà quello il sottofondo della sua giornata.
“La comunicazione radiofonica mantiene perciò una forte impronta di
comunicazione personale (one to one) e non massificata, e può dare spazio anche
a formati assai specializzati, che perseguono nicchie di pubblico particolari.” 3
La televisione generalista ha sempre tenuto a distanza la radio, la radio
raramente è entrata in televisione. Abbiamo dovuto aspettare l’arrivo del digitale
e la molteplicità di canali per ritrovare alcune emittenti radiofoniche in tv.
La radio è fortemente legata al tempo, “è sempre adesso”, non può essere
fermato il flusso radiofonico, per poterlo fruire va ascoltato nel momento in cui
quel contenuto viene trasmesso, non ci sono possibilità di stoppare il tempo,
tornare indietro e riascoltare, anche se il podcast, oggi, ci dà anche questa
possibilità. Il contenuto radiofonico viene concepito per un ascolto in diretta, i suoi
contenuti sono legati, spesso, alla stretta attualità e per favorire la comprensione,
gli speaker devono ciclicamente ribadire le informazioni necessarie per far
comprendere all’utente dove si è sintonizzato e di cosa si sta parlano.
3. Funzioni
Alla radio va riconosciuta una importanza sociale, risponde infatti a “molteplici
esigenze sociali” che ci portano a introdurre le tre funzioni della radio: connettive,
partecipative, identitarie.
Funzione connettiva: L’ascolto è una esperienza sociale che, se da un lato rafforza
il legame con il singolo individuo che fruisce della radio in luoghi privati come
l’automobile o la casa, attiva un rapporto di inclusione dell’ascoltatore in un
sistema sociale ampio e complesso.
Le funzioni connettive portano l’ascoltatore ad essere connesso, attraverso la
radio, ad altre persone, anche se l’ascolto radiofonico è solitamente privato.
Funzione identitaria: le emittenti radiofoniche svolgono anche una funzione
identitaria, in una società che è piena di specificità e differenze, gli ascoltatori
necessitano di trovare riscontro della loro identità anche in un’emittente o un
contenuto radiofonico. L’ascoltatore può quindi riconoscersi nei contenuti
radiofonici, sentirsi parte di una tribù, di una nicchia.
“La radio dà la sensazione di partecipare a qualcosa (un evento, un movimento,
una corrente ideale) anche quando stiamo per conto nostro, difesi dalla nostra
privacy, e quindi di
far parte – senza grande sforzo – di una comunità di adesione e di riconoscimento,
che può essere temporanea, parziale, ma può anche durare tutta la vita.” 4
A rafforzare l’incisività della funzione identitaria sono per esempio temi come la
musica, la politica, la cultura, ma anche i dialetti o la religione.
Funzione partecipativa: la radio aiuta, attraverso le informazioni che trasmette, a
partecipare alla vista sociale e rimanere aggiornati su temi di stretta attualità
(meteo, cronaca, avvisi, traffico, etc).
64
1. Il modello europeo
Tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, nel continente europeo la radiofonia era
organizzata secondo un modello monopolistico, mentre negli Stati Uniti vigeva il
principio di concorrenzialità. A causa della scarsità di frequenze disponibili e
all’avvento tardivo dell’emittenza privata (anni Settanta), solo in un secondo
momento anche in Europa si sviluppò un broadcasting pubblico/privato, regolato
secondo l’equilibrio tra le logiche del servizio pubblico e le esigenze del mercato 1.
Il modello di riferimento del broadcasting europeo è quello della BBC diretta da
John Reith, basato su tre principi:
Educare
Informare
Intrattenere Tali principi si riferiscono a loro volta a tre macro-categorie o
“generi”2. Inizialmente l’offerta radiofonica era basata su radiocronache,
notiziari e bollettini, musica, drammi e programmi comici, quiz, rubriche
divulgative e dibattiti. Grazie alla diffusione del mezzo telefonico, poi,
vennero integrati programmi basati sul concetto di interattività e
partecipazione diretta del pubblico alla creazione del contenuto. È
necessario individuare come è organizzata la sequenza temporale nella
quale si articolano le emissioni. In Italia, soprattutto in ambito televisivo,
tale organizzazione prende il nome di palinsesto. I programmi radiofonici
(ma il discorso potrebbe essere esteso anche ai programmi televisivi,
soprattutto di matrice generalista) non devono essere considerate entità
isolate, ma appartenenti a un fondamentale schema generale frutto delle
strategie degli autori e produttori radiofonici. Queste “scelte” vengono
operate in funzione di ciò che il pubblico vorrebbe o dovrebbe ascoltare:
“ideologia” tipica del controllo monopolistico del mezzo 3.
Il palinsesto è un oggetto fluido che subisce continue riscritture e aggiornamenti,
nel quale i suoi componenti vengono messi in successione lineare secondo un
principio di temporalità.
Tecnicamente è un elenco della successione dei programmi all’interno di un’ora,
un giorno e una settimana. Uno schema modulare che può subire variazioni
secondo il principio di notiziabilità o eccezionalità di un evento (es. Un attentato o
una tragedia naturale possono modificare la scansione prevista).
Secondo Raymond Williams4, la forma culturale della radio e della tv è il flusso e
proprio per questo motivo la totalità dei programmi, posti secondo una predefinita
e logica successione, ha più valore delle singole parti che la compongono.
Grazie a questo flusso di informazioni, l’ascoltatore può farsi un’idea ben precisa
dell’offerta e dell’identità di un’emittente, fidelizzandosi ad essa o migrando verso
altre proposte.
2. Tra programma e genere
I punti fermi del palinsesto, utili alla creazione dell’identità della radio, sono:
Programmi uguali ogni giorno dalla durata media costante
Programmi con cadenza settimanale
Programmi con trasmissione saltuaria o ciclica (es. Natale o Estate)
Appartenenza dei programmi a tipologie o generi I programmi possono
essere definiti come sottounità del palinsesto o frammenti del flusso
radiofonico. Per essere tali devono avere:
Un inizio e una fine ben definiti
Una logica testuale interna inglobante determinati contenuti e le tecniche
per veicolare al meglio questi ultimi
Stile e tipologia sonora Allo stesso tempo, appartenendo a un unico
flusso, la dimensione sonora tra un programma e l’altro non deve creare
momenti di rottura, ma dissolvenze che permettano di far percepire i
contenuti allo spettatore, pur nella loro diversità tematica, come
appartenenti ad un unico organismo. In origine, la struttura radiofonica delle
radio pubbliche europee era rigida. Venivano trasmessi programmi che
rielaboravano sostanzialmente contenuti ideati per altri media. Ad esempio:
• la canzone una riproposizione del disco fonografico;
• il giornale radio come versione radiofonica della stampa
informativa;
• il radiodramma una forma riprodotta di spettacolo teatrale;
• la serialità (lo sceneggiato, la soap opera) importata dal romanzo
d’appendice, da giornali e riviste leggere; lo spettacolo
musicale, il concerto, l’avanspettacolo o la rivista, riproposti in forma pura,
dove la musica è l’unica protagonista, oppure è ibridata nei varietà
radiofonici che alternano numeri diversi.
• I programmi possono essere riconducibili ad uno o più “generi
esterni” sommati tra loro oppure appartenere a un regime produttivo
autoctono della radio come, ad esempio:
• la radiocronaca
• il talk show
• il quiz
• Programmi di telefonate e dediche (dovuti alla diffusione del
telefono e utili per la partecipazione spettatoriale). Tale forma divenne un
meccanismo essenziale anche in altre tipologie di programma. I programmi
radiofonici, attingendo da varie tipologie di linguaggi e tematiche, sono per
loro natura ibridi ed è quindi difficile ricondurli strettamente al concetto di
“genere”.
Il genere è utile nella dialettica tra produttore e fruitore e «definisce le
convenzioni e regola un orizzonte di attese» 5 in merito a un preciso testo.
Secondo Altman6 il genere non può essere definito come una categoria fissa,
bensì una funzione attivata da chi fruisce il prodotto per comprendere al meglio la
narrazione.
«Il carattere fluido del medium favorisce una definizione “leggera” dei generi, un
uso operativo, pragmatico [...]. I contenuti radiofonici di oggi sono comprensibili
non più come generi distinti ma come formati contenenti mix di generi tradizionali
in misure diverse. È più utile quindi, per orientarsi nell’offerta radiofonica attuale,
una categorizzazione che agisca per tag, per una somma di parole chiave» 7.
3. Il modello americano
L’elemento deflagrante della radiofonia americana è stato il Rock. Un genere
musicale rivoluzionario, nato negli anni Cinquanta e subito trasmesso dalle
emittenti statunitensi, che ne hanno garantito la diffusione e il profondo impatto
culturale. Il rock senza la radio non avrebbe potuto conquistare il mondo e la
radio, senza il rock, sarebbe stata surclassata dalla televisione.
Negli anni Trenta e Quaranta, il modello produttivo radiofonico americano era
basato sui generi dell’intrattenimento:
quiz soap opera varietà
Tale modello, però, non era abbastanza forte per sopravvivere all’avvento del
mezzo televisivo nei gusti del pubblico. Fu proprio il Rock, quindi, a diventare
l’elemento di “differenza” tra la radio e gli altri media.
Il successo di questo genere, sia da un punto di vista artistico che commerciale,
venne subito compreso dagli editori delle emittenti radiofoniche.
Il rock era fruito in particolare fuori casa, grazie ai juke-box presenti in molti locali,
così, vedendo l’efficacia di questo modello, un imprenditore del Nebraska decise
di programmare nella sua stazione i primi quaranta successi in classifica del
periodo (40 come il numero di canzoni che i Juke-box all’epoca potevano
contenere).
Questo “spazio” prese il nome di Top 40 Show e divenne il modello di riferimento
di tutta la programmazione.
Fu così che, nel 1949, nacque il primo, importante formato radiofonico. Il Top 40
Show prima si articolò in un programma di due ore poi, successivamente, divenne
lo scheletro sul quale vennero edificati interi palinsesti e l’identità stessa di molte
emittenti che decisero di rivolgersi, musicalmente, a un determinato tipo di
pubblico.
Il formato esprime i connotati dell’offerta di una radio ed è destinato a un
determinato tipo di pubblico. Nel caso del Top 40, i destinatari erano i teenager
americani degli anni Cinquanta.
Se in ambito radiofonico il concetto di “formato”, rappresenta la programmazione
dell’emittente nella sua interezza, in ambito televisivo il “format” è considerabile
come l’idea: la sintesi produttiva di un programma programma 8.
Tale sintesi può essere comprata e venduta, importata ed esportata. Questa sua
natura commerciale garantisce alle emittenti televisive di rischiare meno poiché si
propone al pubblico modelli già rodati o collaudati altrove.
Secondo Henrich Greve, il formato radiofonico è «una combinazione di contenuto
del programma, di stile del parlato, di tempistiche di programmazione, di
materiale promozionale e di strumenti per verificare il feedback dell’ascoltatore e
controllare la qualità»9.
Il formato radiofonico non è soggetto alle stesse logiche di mercato di quello
televisivo (non può essere comprato e venduto, o tutelato in un’ottica di proprietà
intellettuale data la sua genericità), ma si riproduce e aggiorna costantemente,
contaminando le varie radio secondo i meccanismi imitativi ed evolutivi dei
mercati ad alta concorrenza.
Il
formato radiofonico determina:Il destinatario ideale della radioLa tipologia di
programmazione offertaGli stili musicali trasmessiL’ordine e la quantità in cui
trasmettere gli stili musicali L’impronta sonora dell’emittente
4. Le strutture fondamentali della radiofonia
Altri concetti fondamentali, di matrice statunitense, utili a comprender la struttura
dell’offerta radiofonica e le sue modalità di espressione sono:
• Rotation
• Clock
• Playlist La rotation, ossia rotazione musicale, nasce dalla costante
domanda di musica nata dalla fruzione del juke-box e consiste in una
programmazione musicale costante, con precisi schemi di rotazione e tempi
di ripetizione delle singole canzoni determinati dal loro successo. La rotation
muta radicalmente la concezione di palinsesto, programmazione lineare a
blocchi variabile nel corso della giornata e della settimana, portando in
radio il concetto di ripetizione ciclica e ravvicinata dei programmi e degli
elementi che li compongono. Grazie alla rotation, la radio fidelizza il
pubblico attraverso il meccanismo della riproposizione ossessiva dei
contenuti e delle forme. Questo processo va a enfatizzare la concezione di
flusso radiofonico, fruibile senza sforzi o particolare attenzione e non
vincolato a una narrazione rigida che deve essere seguita dal principio alla
fine. Una ripetizione che ritorna su base oraria e connette
l’ascoltatore/compratore con la musica/mercato. Il clock è lo schema orario
che caratterizza ciascun formato e ciascuna emittente. Esattamente come il
quadrante di un orologio, il clock radiofonico scandisce i tempi dedicati a
ogni porzione di programma: il brano musicale, lo spot, il notiziario, la
rubrica, il jingle10. Gli americani lo definiscono anche wheel (ruota) e
quando al suo interno vi è una variazione rispetto alla programmazione
regolare viene definito “hot clock”.
Sempre dalla Top 40 deriva il concetto fondamentale della playlist: la “lista” dei
brani da mandare in onda in un determinato lasso temporale.
La playlist ha un numero definito di canzoni trasmesse durante un preciso
periodo, ad esempio una o più settimane, in modo da sfruttare il loro appeal
commerciale e, allo stesso tempo, imprimerle nella mente degli ascoltatori.
La posizione dei brani all’interno della playlist è variabile secondo lo status della
canzone (ad esempio una Hit ricorrerà più volte di una “goldie”).
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1. La scaletta
La comunicazione radiofonica si basa un parlato unidirezionale, nel quale il
ricevente non può interagire con l’emittente.
I contenuti radiofonici, in principio, erano frutto si stesura di testi che venivano
curati da specifiche figure professionali. Oggi, le cose sono cambiate, la scrittura
radiofonica, come veniva intesa in origine, riguarda soprattutto la fiction, il
documentario radiofonico e la produzione informativa.
Lo speaker di un programma, invece, non scrive ciò che andrà a pronunciare
durante lo show. La sua performance, però, non è totale improvvisazione,
solitamente il conduttore radiofonico segue una scaletta che viene preparata
prima del programma e ne chiarisce le linee guida.
La scaletta è, quindi, un testo scritto che chiarisce alcuni punti utili alla struttura
del programma radiofonico che andrà realizzato:
- I tempi: la scaletta stabilisce quanto tempo durerà l’intervento dello speaker,
quanti minuti dovrà coprire, quante saranno le interruzioni e dove saranno
collocare. Le interruzioni possono essere: brani musicali, notiziari, pubblicità, etc.
Grazie alla scaletta è possibile comprendere come il programma verrà suddiviso e
quali saranno gli elementi che lo andranno a comporre.
- I contenuti: la tematica dello show è strettamente legata al formato della radio
che lo ospita o allo specifico programma. Il conduttore supervisiona il lavoro della
redazione (se è prevista) o curerà in prima persona la distribuzione dei contenuti.
Dovrà quindi conoscere i temi che affronterà durante il programma, gli ospiti che
dovrà intervistare, come coinvolgere il pubblico e dovrà sempre avere un piano B
per riempire i buchi che, in caso di contrattempi, si potrebbero verificare.
- La forma: una volta stabilito il contenuto, esso potrà essere comunicato in diversi
modi, facendo uso di interviste, giochi, leggendo i messaggi degli ascoltatori
chiamati in causa.È quindi evidente che, al giorno d’oggi, la radio non prevede
una scrittura rigida e
vincolante per lo speaker. Basterà al conduttore radiofonico attenersi alla
scaletta, conoscerla bene, contribuire anche alla sua costruzione, per riuscire a
costruire un programma radiofonico (spesso in diretta) che possa essere efficace.
2. Dallo scritto al parlato
Lo speaker ha un ruolo centrale, la sua esperienza, il suo stato d’animo, la sua
professionalità vanno a incidere moltissimo sulla qualità del programma.
Partendo dalla scaletta, lo speaker va a trasformare una struttura più o meno
rigida e preimpostata, in un contenuto che deve, invece, essere il più possibile
spontaneo.
Chi fa questo mestiere deve costruire una narrazione che risulti genuina e anche
improvvisata e curare particolarmente alcuni punti:
Costruire un dialogo intimo, come se stesse parlando a un amico e non a migliaia
di persone, questo aiuta a gestire l’ansia anche del più esperto conduttore e a
stabilire un contatto più forte con gli ascoltatori.
Deve usare parole semplici, evitare un lessico complesso o ricercato.
Non deve usare frasi fatte, banali e scontate; tolgono, infatti, personalità,
risultano fredde e spesso inutili, risultano riempitive e prive di incisività.
Per la radio, che non ha supporto visivo, il silenzio, e quindi l’assenza di
contenuto, è deleterio. Lo speaker non può permettersi di fare soste, deve
costantemente, con la sua voce, mantenere la comunicazione attiva:
Deve fornire informazioni utili alla contestualizzazione, può farlo attraverso i
formatics: i formatics sono le informazioni sull’orario, sull’emittente, i contatti e
altre informazioni sull’emittente o sul programma.
Deve usare termini, formule che possano aiutarlo a creare un flusso continuo,
coerente tra i diversi contenuti del programma, il modo di annunciare o
disannunciare una canzone, frasi che possano rappresentare lo speaker e
renderlo riconoscibile, senza essere ripetitive.
Deve essere pronto all’imprevisto e usare formule personali per riempire i vuoti
nel caso in cui ci dovessero essere imprevisti o problemi tecnici.
Deve creare continuità anche con ciò che viene prima e dopo il suo programma;
facendo riferimento al programma che lo ha preceduto o a quello che lo
succederà, in modo da guidare l’ascoltatore nel cambio di contenuto.
Deve costruire una narrazione che includa anche ciò che non è prettamente
radiofonico ma che va ad integrare la comunicazione che avviene in radio.
Promuove quindi le piattaforme social e invita all’interazione, lancia hashtag e
risponde a commenti e domande che gli ascoltatori pongono sui social.
Oriella Esposito – La scrittura in radio
Scopo dello speaker è entrare in sintonia con il pubblico:
Lo speaker deve cercare una connessione intima con il singolo ascoltatore che si
sente vicino, in una posizione privilegiata e in connessione profonda con il
conduttore.
Deve intuire le necessità degli ascoltatori, deve conoscerli e quindi dedurre i loro
bisogni, anticiparli e fornirgli le informazioni che loro si aspettano, deve farlo
senza perdere tempo e puntando su una comunicazione efficace, sintetica e
incisiva Deve essere sicuro e naturale, lo speaker è un padrone di casa, rilassato,
vicino ma non troppo coinvolto.
“Gran parte del parlato radiofonico è, quindi, costruito con un’idea in mente:
impiegare strategie formali per superare i limiti del mezzo e in questo modo
minimizzare il rischio di ambiguità, di distrazione e di scongiurare il fallimento
completo della comunicazione.”1
3. Ascolto precario
La narrazione in radio va costruita in modo che lo spettatore sia costantemente
coinvolto e invogliato a rimanere sintonizzato. La posizione dello speaker è infatti
precaria, la soglia di attenzione del pubblico radiofonico è molto bassa,
frammentata.
Gadda riscontrò che l’ascoltatore poteva rimanere connesso e attento per 15
minuti.
Nel panorama mediatico odierno questi tempi sono cambiati e si sono ridotti
drasticamente. Esistono due tipologie di ascoltatori, quelli fidelizzati e quelli
occasionali, i primi hanno più interesse nel seguire la narrazione di un
determinato programma/emittente che abitualmente seguono, i secondi ascoltano
in maniera frammentata la radio.
La radio è un medium personale che l’ascoltatore può ascoltare ovunque, mentre
svolge diverse attività, questo la rende maneggevole e leggera ma comporta
anche degli svantaggi. Chi fruisce il mezzo radiofonico lo fa nelle situazioni più
disparate, situazioni che spesso distraggono l’ascoltatore che viene quindi distolto
dal contenuto radiofonico.
Proprio per queste ragioni “la comunicazione radiofonica deve essere in grado di
colpire l’ascoltatore in tempi brevi e in modi coinvolgenti, e anche attraverso
dettagli irrilevanti, pur contando su livelli di attenzione assai instabili e
fluttuanti.”2
Esistono due tipologie di parlato: il parlato di riempimento o accompagnamento e
il parlato di contenuti o significato.
Il parlato di riempimento o accompagnamento non attribuisce un particolare
valore al messaggio che, quindi, risulta fragile. Si tratta di un parlato che fa da
sottofondo, che ha il principale ruolo di riempire gli intervalli tra un brano e l’altro.
La voce dello speaker viene sfruttata come strumento utile a creare continuità tra
musica e parole e vengono “valorizzate le potenzialità ritmiche e sonore del
parlato”. Le radio musicali, per ovvie ragioni, sono quelle che fruttano
maggiormente questa tipologia.
Uno speaker che costruisce questa tipologia di parlato deve essere abile nella
presentazione dei brani che la radio trasmette, deve saper annunciare e
disannunciare le canzoni, sapendo sfruttare anche intro e outro dei brani e,
quindi, parlando sulla parte strumentale iniziale o finale della canzone. Che sfrutti
o meno l’intro o l’outro dei brani, lo speaker deve cercare di fondere musica e
parole, guidando l’ascoltatore da un brano all’altro.
La musica è, quindi, “il codice primario di questo parlato” che viene costruito
sfruttando moltissimo anche le basi musicali sulle quali lo speaker performa.
La seconda tipologia di parlato si basa sul veicolare un messaggio e viene definita
di contenuto.
Priestman identifica due modalità di parlato che si riferiscono a diverse tipologie
di contenuto:
• parlato factual, o concreto, lo ritroviamo nelle radio All News, News/Talk, Sports,
nelle radio politiche e nelle radio che si occupano di attualità: il contenuto si fonda
sulla realtà, su fatti effettivamente accaduti. Il parlato risulterà descrittivo
(radiocronaca), oppure deciso, semplice e diretto come quello del giornale radio.
• parlato non-factual, o finzionale: non ha uno scopo informativo ma è costruito
per intrattenere (sketch e show comici) L’espressione ha un ruolo centrale, il
linguaggio è ricco e organizzato.
66
1. Il potere del parlato radiofonico
Parlato e musica sono gli strumenti privilegiati della comunicazione radiofonica.
Tutte le emittenti, al di là della loro forma identitaria e costituzione, o della
tipologia e quantità della musica messa in rotazione, contengono varie tipologie di
parlato1.
Alcune emittenti fanno della parola il loro strumento principale, strutturando il
palinsesto attorno a trasmissione interamente o parzialmente parlate. Un modello
tipico della radio di programmazione e meno usuale per lo standard della radio di
flusso che, nel tempo, si è caratterizzata per una preponderanza dell’elemento
musicale, anche se la parola resta comunque fondamentale.
La parola si configura come l’elemento più caratterizzante dell’identità di
un’emittente. Solitamente il parlato è in diretta o viene elaborato per dare
all’ascoltatore l’illusione della diretta. Ogni frase, conversazione o monologo è
generalmente creato in quell’esatto istante, all’interno dello studio radiofonico, ed
è una testimonianza “viva” di un fatto o avvenimento che accade in tempo reale.
Rispetto agli inserti o programmi registrati, il parlato è flessibile ed è l’elemento
imprevedibile della radiofonia.
Questa status di imprevedibilità, però, non coincide con l’improvvisazione
selvaggia.
Un efficace parlato radiofonico è sempre estremamente controllato e anche la sua
improvvisazione è frutto di esperienza e abilità nel governare il mezzo e l e
tecniche di comunicazione che lo caratterizzano.
A partire dai primi anni Duemila2, dopo un marcato predominio dell’ascolto
prettamente musicale, il regime della parola è tornato ad essere influente sia in
Europa che negli Stati Uniti.
2. La voce dello speaker
Il fine ultimo del parlato in radio è la comprensibilità. Se questo fattore non viene
tutelato e coltivato adeguatamente, l’efficacia della comunicazione radiofonica
viene drasticamente annullata.
La comprensibilità implica che il discorso venga formulato in assoluta semplicità.
Al di là della struttura “testuale” del discorso - che può essere improvvisato, ma
spesso ha delle ovvie basi scritte, rintracciabili in fonti, canovacci o autentici testi
elaborati - è l’elemento “vocale” ad essere centrale nella costruzione del senso in
radio.
Con il termine “voce” intendiamo tutti i suoni prodotti dall’azione combinata
dell’apparato respiratorio fonatorio e delle cavità nasali e della bocca 3.
I parametri attraverso i quali è possibile classificare una voce sono:
timbro
intensità di emissione A livello timbrico, la voce può essere: acuta, grave,
gutturale, nasale.A livello di emissione, in un’ottica di volume, può essere
debole, forte, sottile o stentorea. Queste caratteristiche sono determinate
da:
dimensioni della laringe e delle corde vocali, mutabili nel tempo e
variabili a seconda del sesso e dell’età.
Dalle cavità utilizzate per far risuonare la voce (naso, bocca, testa, gola,
petto).
la respirazione l’articolazione
la pronuncia la dizione l’espressione
• la respirazione, se utilizzata nel modo opportuno, dona allo speaker l’energia
per leggere il testo o esprimere i contenuti preparati. Attraverso la respirazione
diaframmatica, innescata attraverso il controllo diaframma, un muscolo collocato
tra polmoni e basso ventre, permette allo speaker di controllare l’emotività
sempre presente durante la messa in onda.
• con il termine pronuncia si intende l’emissione di sillabe e parole secondo i
dettami di un determinato paese o regione. Oggi, in una radiofonia multiforme e
multisonora in cui la cadenza regionale non è più un tabù ma anzi può
trasformarsi in un elemento distintivo, la pronuncia non è da considerarsi come un
elemento imprescindibile. L’importante è che la chiarezza espositiva, la
correttezza terminologica e la comprensibilità siano tutelate
• l’articolazione delle parole nell’atto dello speakeraggio determina la
comprensibilità del parlato e tiene salda l’attenzione dell’ascoltatore. Scandire le
parole richiede l’esercizio di tutti gli organi preposti all’emissione vocale – la
lingua, i denti, il palato, le labbra e tutti i muscoli facciali – attraverso la
sillabazione ripetuta di parole difficili o di scioglilingua.
• La dizione richiama il sistema di regole di intonazione, di pausa e di
punteggiatura sonora che determinano la forma corretta della lingua.
• L’espressione si concretizza nell’uso estetico della parola, cercando di
suggestionare e dar forma a stati d’animo seducenti per lo spettatore.
Un ulteriore elemento utile all’efficacia della comunicazione radiofonica è la
motivazione rispetto a ciò che si vuole dire, declinandolo attraverso la
modulazione della voce, l’inflessione e la punteggiatura vocale. Anche nell’atto
della lettura di un testo, lo speaker deve far propria l’intenzione dell’autore e
interpretare il contenuto al meglio.
Ecco perché la performance davanti al microfono presente non poche incognite.
Un bravo speaker deve tenere in considerazione tutti questi aspetti in modo da
creare un prodotto radiofonico completo e funzionale alla narrazione.
3. Il rapporto con il microfono
L’estetica e la personalità dello speaker è determinata dal suo uso dello
strumento vocale. Una modalità che può variare a seconda del pubblico di
riferimento, della fascia oraria e della tipologia di programma affrontato.
Ad esempio, esistono voci che, per natura timbrica o stile
interpretativo/performativo, sono più adatte di altre al pubblico giovane o adulto,
maschile o femminile.
Uno speaker che affronta un turno notturno sarà più efficace se la sua timbrica
sarà calda e intima. Un’estetica certamente non adatta alla dinamicità del
pomeriggio.
La voce potrà essere, poi, utilizzata nelle sue tante modulazioni in modo da
adattarsi alle singole fasi o momenti del programma.
Famoso l’esempio del conduttore inglese Tony Blackburn, che nel rivolgersi agli
ascoltatori, passava da una voce «standard» a una voce da dj «carica e vivace, un
po’ eccessiva», alla voce autoritaria «usata per rivendicare la propria
competenza» e per «riaffermare formalità», alla voce empatica «che imita il tono
della voce dell’ascoltatore al telefono, per creare intimità e condivisione», fino alle
imitazioni vere e proprie, come le voci effeminate, quelle da macho, e così via5.
Il microfono cattura pronuncia, articolazione, dizione, espressione e li traduce in
impulsi elettrici, registrando e amplificando i punti di forza e le debolezze dello
speaker.
E’ necessario, quindi, che lo speaker sappia governare alla perfezione l’emissione
sonora, collocandosi alla giusta distanza dal microfono e impostando il corpo in
modo corretto.
In un’ottica vocale, i suoni più “problematici” da pronunciare in italiano sono quelli
delle consonanti:
Occlusive (P, B, T e D)
Fricative (F, S e Z), sorde e sonore, che tendono a fischiare e sibilare I
microfoni moderni sono dotati di dispositivi utili ad attenuare, se non
annullare, alcune di queste problematiche sonore. Lo speaker deve, però,
cercare di posizionare la bocca ad un palmo di distanza dal microfono in
modo da non distorcere il suono o enfatizzare eventuali problemi di
pronuncia. Un bravo speaker deve essere abile nell’utilizzare tutte le
sfumature vocali regolando fiati e tempi; scandendo le parole e
pronunciandole in modo corretto. Al di là dello strumento vocale, il parlato
radiofonico deve sottostare a regole ben precise.
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1. La lezione di Gadda
Lo speaker è il narratore radiofonico. Quantomeno se si intende la radio
unicamente nella sua forma performativa e nell’atto del parlare.
Ovviamente esistono altre figure che garantiscono il pieno compimento della
“narrazione in radio”, come ad esempio il regista, che permette la messa in onda
e determina la veste tecnica del “suono radiofonico”, e soprattutto l’autore, che
scrive i testi della puntata, fondamentale per la costruzione del senso e per
l’efficacia dello speakeraggio (una voce senza contenuto è totalmente inutile) 1.
A dispetto di tutto ciò, lo speaker resta la figura che si fa sintesi di tutti questi
contributi tecnici e creativi, portando a compimento, attraverso la parola, la
missione comunicativa della radio.
Ed è proprio lo strumento della parola a dover essere utilizzato con competenza,
abilità e cognizione di causa.
Un corretto parlato radiofonico implica:
Semplicità
Culto della brevità e dell’immediatezza
Utilizzare termini di uso comune o, comunque comprensibili
Organizzare il discorso secondo una sequenza logica
Circoscrivere gli argomenti trattati in modo da non essere dispersivi Carlo
Emilio Gadda, oltre ad essere uno degli scrittori più importanti della
letteratura italiana, ha avuto un passato da praticante giornalista in Rai,
durante il quale ha stilato un elenco di “buone pratiche” radiofoniche,
indirizzato ai colleghi “radio-collaboratori” del Terzo Programma (il nome
con cui era conosciuta l’odierna Radio Tre). 1 E’ necessario mettere a
proprio agio l’ascoltatore. La comprensibilità del messaggio passa anche dal
modo in cui lo speaker si rivolge a chi ascolta e dalle suggestioni che crea.
Se ci si propone in qualità di “maestro”, l’ascoltatore potrebbe indispettirsi,
percependosi come inferiore e annullando ogni possibile intesa con lo
speaker.
Per evitare ciò, sarebbe opportuno non far ricorso a citazioni troppo colte, salvo il
contesto non lo richieda e a termini stranieri non comuni, Sostanzialmente
bisogna «astenersi dal presupporre nel radioabbonato conoscenze che “egli”, il
“qualunque”, non può avere e non ha»3.
• Non bisogna dilungarsi in inutili preamboli, date le tempistiche immediate e
ridotte della radiofonia.
• Bisogna far ricorso a frasi brevi e periodi semplici, facilitando la ricezione del
messaggio. La lunghezza delle frasi incide soprattutto sui testi scritti e sulla loro
facilità di lettura da parte dello speaker. È sempre meglio utilizzare coordinate al
posto delle subordinate in modo da favorire la linearità della narrazione.
• È necessario organizzare le idee secondo un ordine logico. La chiarezza
concettuale è un fattore fondamentale nell’esposizione, quindi bisogna
selezionare i materiali, ordinarli e scegliere un taglio/stile preciso per comunicarli.
• È sempre utile rimarcare i momenti di transizione in modo da attirare
l’attenzione dell’ascoltatore impedendogli, il più possibile, di distrarsi. Lo si può
fare attraverso le congiunzioni tra concetti, i cambi di ritmo, tono, voce o
attraverso sigle e stacchi musicali.
• Bisogna operare scelte lessicali accessibili a tutte le tipologie di ascoltatore. Allo
stesso tempo, il linguaggio radiofonico deve essere ricco in modo da evitare
l’appiattimento tipico degli altri media, la ripetitività e la conseguente noia.
L’attenzione, in ambito radiofonico, è estremamente bassa. Al di là di questo
aspetto, sarebbe utile evitare termini desueti, modi di dire complessi, forme
verbali inutilizzabili, termini dialettali, arcaici o troppo tecnici.
• La ricchezza linguistica non deve portare all’incomprensibilità. Evitare, quindi,
rime (volontarie o involontarie), allitterazioni, cacofonie, suoni difficili da
pronunciare. L’attenzione dell’ascoltatore non deve spostarsi sul suono, ma sul
contenuto della parola.
• Nella costruzione dei testi radiofonici bisogna evitare formule convenzionali
della scrittura, funzionali nell’atto della lettura, ma nocive nel parlato. Evitare,
quindi, pronomi indefiniti, determinativi, numerali (questo, quello, l’uno e l’altro, il
primo e il secondo), poco tollerati dall’ascoltatore e insidiosi per la fluidità del
discorso.
• Bandite anche le parentesi, gli incisi, le sospensioni del discorso che vanno ad
annullare il principio di linearità.
2. La personalità dello speaker
Lo speakeraggio si manifesta attraverso ruoli e stili di conduzione differenti che
mutano secondo le esigenze e l’identità della propria emittente. Si va da una
conduzione di natura anonima e neutra, a una nella quale la singola personalità
emerge con prepotenza, divenendo fulcro dell’attenzione dell’ascoltatore.
Il concetto di “personalità” nell’ambito dello speakeraggio è di vitale importanza
nell’ottica del processo comunicativo radiofonico perché può determinare il
successo di un programma o di un’intera emittente.
Le traiettorie attraverso le quali si può interpretare la questione della
“personalità” sono due:
La valutazione della performance on air, pensando il valore della
personalità e della capacità “commerciale” dello speaker basata sulla
creazione di un rapporto di fiducia con l’ascoltatore 4,
La valutazione della reputazione del conduttore relativa alla sua abilità
nello speakeraggio e nell’interazione (on air, ma anche online sulle
piattaforme web) con l’ascoltatore, sfruttando le dinamiche di una
radiofonia ormai multipiattaforma. La radiofonia di flusso - quindi non
vincolata da una scansione del palinsesto costellata di “programmi”
autonomi l’uno dall’altro - è caratterizzata da uno stile asciutto e contenuto.
In un primo momento questa marca identificativa era dovuta all’esigenza
editoriale di voler brandizzare la radio, creando un’immagine complessiva e
coesa dell’emittente che non fosse supportata o trainata da singole
personalità. Dopo l’Era dei DJ e dei personaggi, si avvertiva la necessità di
un intrattenimento più sobrio e asciutto, che fungesse da sottofondo di
alleggerimento. Poco a poco questo è diventato imodello base della
radiofonia contemporanea, popolata da voci piacevoli e non troppo invasive,
talvolta positivamente anonime.
La personalizzazione è maggiormente riscontrabile nelle radio di
programmazione, nelle quali la figura del conduttore - atto a veicolare contenuti
e/o offerta musicale - resta estremamente rilevante in quanto spesso incarnata da
esperti, addetti ai lavori, personaggi ai quali l’ascoltatore “si rivolge” sempre alla
stessa ora per fruire un determinato prodotto. Uno spazio personale “gridato” o
“sussurrato” a seconda del proprio stile, ma sempre estremamente caratteristico
e riconoscibile.
Questo approccio è spesso visto criticamente dagli editori perché avendo nella
propria scuderia un presentatore o un format dalla forte capacità gravitazionale,
rischia di squilibrare il palinsesto mettendo in secondo piano gli altri prodotti o
l’immagine complessiva dell’emittente.
Per arginare questo fenomeno è essenziale che tutti i professionisti abbiano la
consapevolezza di lavorare in team per il successo complessivo della stazione
radiofonica.
Senza dubbio, la figura che maggiormente incarna questa capacità gravitazionale
in radio è il comico che, attraverso la sua esperienza scenica e l’abilità nell’uso
della voce e nell’alternanza dei torni, emerge con prepotenza nel tessuto
radiofonico catalizzando l’attenzione. Spesso a questa figura è associata una
“spalla” più morbida che ha il ruolo di contraltare e regola il ritmo degli sketch e
delle battute.
In ambito di radio musicale c’è poi una tipologia di conduttore che non deve
sottostare a regole troppo rigide, riuscendo a imporre un certo grado di
personalità e, rievocando il ruolo del Disc-jockey, effettua una selezione sui brani
da trasmettere, orientando il gusto musicale e gli eventuali acquisti degli
ascoltatori, creando con essi un rapporto fiduciario.
Una posizione “autorevole” difficile da raggiungere se non dopo molti anni di
lavoro, un ampio bagaglio di cultura musicale, conoscenza e una spiccata
personalità vocale.
Un’altra figura importante, soprattutto nell’ambito delle radio parlate e/o di
programmazione, è l’host che modera il talk show con l’intervento del pubblico:
«La talk radio è [...] un mezzo provocatorio e anche pericoloso, capace di
rappresentare una forma di democrazia estrema che dà voce e peso a ogni idea,
senza alcuna censura o repressione. [...] Nell’offrire un forum per lo scambio delle
idee e dei punti di vista, la talk radio consente la crescita delle capacità di
comprensione dei temi complessi che la società affronta. [...] La gente riesce a
destreggiarsi tra le idee conflittuali e trova il modo per dare un senso anche alle
questioni più complicate»5.
Questa formula è difficile se non ci si affida a personalità vocali forti che
governino il processo di mediazione. L’host, però, pur non avendo spesso un
grande carisma o una personalità spiccata, riesce a coordinare la discussione
rimodulando con abilità i commenti del pubblico e portando a «l’esclusione di certi
punti di vista e di certi discorsi in favore di altri, dominanti, tanto da “produrre”
una visione del mondo parziale e indiscussa».
Capita, così, che questa tipologia di conduttore «di una trasmissione di telefonate
“riformula” l’intervento di un ascoltatore, mettendo in dubbio la sua etica e il suo
buon senso, e riducendo sostanzialmente il “significato” delle informazioni da lui
“prodotte”. È un’operazione che aiuta gli ascoltatori a focalizzare il punto della
discussione, ma che nel tempo può contribuire a sedimentare certi punti di vista
come “senso condiviso”»6. In realtà, se l’host è bravo, questo senso condiviso non
è altro che la sua personale opinione veicolata attraverso la rimodulazione degli
interventi del pubblico o degli ospiti.
Esiste, poi, un’altra categoria di conduttori radiofonici esplicitamente non “nativi”
del mezzo, ma che per scelte editoriali o opportunità sono capitati davanti a un
microfono. Spesso provengono dal mondo dello spettacolo, dalla tv, dal web
oppure dalla stampa, dal cinema, dal teatro, dal mondo della cultura, dalla
politica, dallo sport etc. Non necessariamente abbandonano il proprio “mondo” di
provenienza, ma lo integrano con l’esperienza radiofonica. La loro notorietà
pubblica viene sfruttata dalla radio (un medium storicamente non fondato
sull’immagine) per attrarre nuovi ascoltatori (es. Radio 2).
Questa operazione, spesso discussa dai puristi della radiofonia, ha avuto esiti
opposti. Alcune personalità sono emerse anche in ambito radiofonico, mentre
altre hanno proposte performance poco convincenti, se non dannose rispetto agli
obiettivi dell’emittente. La comunicazione radiofonica ha delle regole e delle
dinamiche che non si possono padroneggiare con facilità in poco tempo. In radio
non ci si improvvisa.
3. Il rapporto con l’ascoltatore
Un aspetto fondamentale nel paradigma radiofonico contemporaneo è il rapporto
tra speaker e ascoltatore, oggi mediato soprattutto attraverso i social network:
«Usando i social network, i dj e i conduttori comunicano con gli ascoltatori e [...]
spesso rivelano informazioni personali che colmano il vuoto tra il personaggio in
onda e la persona dietro al microfono. [...] Parallelamente ai contenuti prodotti
per i media sonori, essi realizzano testi, video, foto e altro materiale distribuito
digitalmente ma diverso da quello audio»7.
Questo permette di creare un legame ancora più profondo con il pubblico
incrementando i processi di fidelizzazione.
In merito alla personalità, Geller di dice: «avere personalità è un elemento
essenziale per proporre questa personalità in radio. Ciò significa avere una vita
ricca e piena e attingere alle proprie esperienze, perché il modo con cui un
conduttore si relaziona alla vita corrisponde al modo in cui il pubblico gli/le si
relazionerà. I migliori conduttori sono grandi osservatori delle esperienze della
vita. Filtrano quello che vedono attorno a loro attraverso un personale percorso
creativo, e lo riportano al mondo, parlando di quello che vedono, notano, sentono
e pensano. Condividono il proprio “sé” reale, esprimono ciò che li irrita, cosa li
eccita, quello che li rattrista. Reagiscono in maniera autentica alle notizie, alla
cronaca, alla musica che va in onda. Sanno raccontare le storie» 8.
Il perseguimento della “realtà” o, meglio, di un’immagine realistica attraverso la
performance vocale è uno dei pilastri della radiofonia perché incrementa il senso
di fiducia necessario per una profonda e corretta fruizione del mezzo radiofonico.
I conduttori, con il loro stile personale, diretto e informale, attraverso contenuti
spesso legati al loro vissuto personale, stringono un patto fiduciario con
l’ascoltatore, dando la sensazione di essere un qualcuno di familiare e naturale.
Questo principio di realtà, però, diventa un elemento critico con la necessità di
comunicare sui social network perché da un lato questi enfatizzano il legame con
il pubblico, amplificando questo senso di “veridicità” del personaggio/speaker,
dall’altro l’ascoltatore ricerca, anche nel palcoscenico web, quella “realtà”
percepita attraverso la voce, mettendo alla prova la fiducia riversata nella radio e
nello speaker.
Un processo che non sempre si conclude felicemente, dato che far combaciare
l’immaginario radiofonico con l’immagine social può essere assai difficoltoso.
Le emittenti stanno investendo molto in questa fusione tra radiofonico e social,
puntando proprio sulla curiosità del pubblico rispetto allo svelamento del mistero
nascosto dietro la voce dello speaker e le sue storie: «In questo modo le
personalità della radio e il modo giocoso e ambiguo con cui performano la propria
autenticità, il proprio essere o recitare la parte di “se stessi”, diventano leve e
motori nell’ambiente multimediale e multipiattaforma del broadcasting
contemporaneo, poiché contribuiscono a organizzare i flussi degli ascoltatori per
creare un surplus economico»9.
Questo processo nasconde il lato oscuro del cercare, da parte degli editori e dei
direttori dei programmi, di formattare a tavolino voci e personalità che possano
funzionare in entrambi i mondi - sonoro e visuale/digitale - andando a ledere la
spontaneità tipica del mezzo radiofonico classico e la costituzione di “personalità
autentiche” votate alla narrazione vocale.
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1. L’ascolto della musica in radio tra affetto e intelletto
Il mercato musicale e le modalità del suo consumo, determinano le scelte della
programmazione radiofonica musicale, andando a incidere sullo stile narrativo
dell’emittente1.
La selezione musicale, soprattutto nelle emittenti di natura commerciale, si
orienta secondo due principi:
PopolaritàFamiliarità con certi tipi di sonorità
La musica è un prodotto culturale di massa «plasmato in maniera profonda, e
anche predominante, dalla percezione di popolarità, che il pubblico interpreta
come segnale di qualità»2.
La popolarità radiofonica viene definita attraverso la costante riproposizione dei
brani scelti per essere “promossi” attraverso il flusso. Il pubblico può così fruirli e
valutarli, gradirli o rifiutarli, sviluppando un senso di familiarità dovuto alla
ripetitività.
In questo processo, diventa fondamentale il punto di vista dell’ascoltatore e il suo
stato d’animo. Per l’ascoltatore è essenziale rintracciare, nella proposta
radiofonica, un brano o un flusso che possa riflettere il suo stato d’animo,
alimentandolo o facendolo mutare.
La programmazione radiofonica e le playlist sono organizzate anche per
rispondere alle reazioni psico-fisiche degli ascoltatori di fronte a un determinato
tipo di musica.
L’ascolto di una canzone non si risolve al singolo momento acustico, ma evoca un
complesso sistema di emozioni e ricordi legato alle esperienze vissute
dall’ascoltatore.
Le reazioni scaturiscono soprattutto in relazione alla tonalità dei suoni e alla
nostro struttura armonica:
i toni alti e le armonie in maggiore danno all’ascoltatore un senso di
leggerezza e felicità, stimolando uno stato d’animo positivo;
i toni più scuri, più cupi e le armonie in minore trasmettono
all’ascoltatore un senso di malinconia e di maggior pesantezza;
le dissonanze rappresentano un elemento di sorpresa che può giocare
ruoli diversi a seconda dei casi.
un ritmo concitato, incalzante e martellante comporta reazioni di
tensione emotiva, eccitazione e agitazione
un ritmo lento o andante contribuisce a dare tranquillità e rilassatezza
all’ascoltatore3. Più il brano è musicalmente articolato, più queste
suggestioni diventano complesse e si contaminano a vicenda, rendendo
l’esperienza più intensa e suggestiva. Di solito sono, però, gli ultimi accordi
a determinare lo stato d’animo finale dell’ascoltatore 4.
2. Le esperienze dell’ascoltatore
Un altro fattore di analisi è legato alle esperienze musicali individuali che si
riflettono, poi, nella tipologia di ascolto e nella selezione dei brani da ascoltare.
Ognuno di noi ha un preciso, personale bagaglio di ascolti, suoni, ritmi, armonie,
dissonanze che viene rievocato con l’ascolto di un brano, innescando anche
determinate aspettative.
Lo stato d’animo è influenzato dal soddisfacimento o dal tradimento di queste
aspettative.
Un fattore positivo, invece, è lo “spiazzamento” dell’ascoltatore con sonorità
nuove o soluzioni inattese5.
Ulteriore elemento è la complessità musicale del brano.
Una melodia semplice, non banale ma elementare determina «la vicinanza e la
partecipazione dell’ascoltatore»6, divertendo e intrattenendo.
Le melodie complesse attirano maggiormente l’attenzione e necessitano di un
maggior numero di ascolti.
Alcuni passaggi melodici, effetti sonori, timbri etc, permettono di distinguere una
canone dall’altra, imprimendo il motivo nella memoria. Queste soluzioni si
chiamano “Hooks” (ganci) perché catturano l’ascoltatore e lo vincolano al brano.
Quando ritroviamo uno stesso hooks in più brani (es. Un assolo di chitarra) questo
rende più facile il relazionarsi con essi e la maturazione di reazioni emotive simili.
La ripetitività dei brani in radio, però, può anche portare a una saturazione
dell’ascolto e alla maturazione di sentimenti opposti a quelli provati durante i
primi ascolti.
Gli stati d’animo dell’ascoltatore preesistono all’atto dell’ascolto e determinano le
preferenze musicali e le sue inclinazioni verso la musica trasmessa.
MacFarland identifica tre categorie di ascoltatori-tipo 7:
Fedeli: che partecipano all’esperienza musicale radiofonica in modo
attivo, interagendo con la diretta, mandando messaggi e facendo richieste
di canzoni.
Cercatori: saltano tra le varie emittenti in cerca della canzone adatta a
quel preciso momento.
Passivi: fruiscono il flusso radiofonico in modo passivo, alla stregua di un
tappeto e non cambiano stazione.Susan Douglas, invece, distingue due
tipologie di fruizione radiofonica:
L’ascolto a «rubinetto», automatico, non filtrata e indiscriminata
L’ascolto «concentrato», attivo e attento al contenuto 8.
3. I formati musicali
I formati musicali sono molteplici e definirli non è un’operazione semplice dato
che, in ambito musicale, si va contro a un’infinita serie di ibridazioni, varianti e
nicchie, ognuna con una ben precisa autonomia artistica, dimensione sonora e un
pubblico di riferimento.
Ogni formato ha una sua tipologia di clock e strategie per soddisfare l’ascoltatore
di riferimento, dando allo stesso tempo un’identità ben precisa all’emittente.
Contemporary Hit Radio
E’ la diretta evoluzione del Top 40 e, rispetto ad altri modelli, ha una playlist
ridotta generalmente a soli 30 brani. Comprende le canzoni del momento, nel
novità e i successi in vetta alle classifiche. Questo genere bandisce l’uso di oldies
(brani più datati)
Si rivolge principalmente a un pubblico giovane
I tempi di trasmissione sono molto rigidi e non c’è tanto spazio per il parlato degli
speaker che, in finestre temporali così ristrette, scelgono stili di conduzione
aggressivi ed esaltati.
Il ritmo musicale è rapido e incalzante, mentre il silenzio è percepito come un
elemento da evitare ad ogni costo, anche se ultimamente ci troviamo di fronte a
playlist contemporary hit decisamente più pacate e dai confini meno rigidi.
A livello tematico lo spettro è ampio ed evolve a seconda dei gusti della massa. Le
news passano in secondo piano.In Italia l’emittente che più si avvicina al modello
Contemporary hit radio è RDS.
Adult Contemporary
Destinato a un pubblico più adulto rispetto a quello del CHR (25-49 anni).
Ha un pubblico maggiormente femminile (25-35 anni) in cerca di sonorità più
piacevoli, un rock più pacato e un ritmo non troppo sostenuto nella conduzione.
I generi più esplorati sono pop e soft-rock generalmente recenti (non oltre i cinque
anni d’età). Talvolta può essere trasmessa anche una Oldie.
E’ un formato orientato alla musica, ma con la possibilità di integrazione di
notizie. Il parlato resta comunque secondario rispetto alla musica e deve essere
caldo e leggero, favorendo un senso di familiarità e comunità verso l’emittente.
Country/Solo musica italiana
Questo formato rimanda a un genere ben definito e molto popolare, raccogliendo
ampi riscontri nella fascia 25-54, di entrambi i sessi. La presenza del parlato
dipende molto dalla fascia demografica della singola emittente (aumenta con
l’incrementare dell’età) e lo sguardo è rivolto alla tradizione musicale.
Anche in questo caso, lo speakeraggio deve favorire la creazione di un ambiente
familiare e il consolidamento del senso di appartenenza alla comunità.
Nel nostro paese questo formato è rappresentato storicamente da Radio Italia,
che l’ha lanciato nel 1982.
Soft Adult
Storicamente dedicato quasi esclusivamente a un pubblico adulto (dai 50 anni in
su), oggi questo format si è rideclinato anche per un pubblico un po’ più giovane
in modo da incidere di più sul mercato.
Si caratterizza per l’uso di musica strumentale, vocalità morbide e orchestrazioni
incentrate sugli archi. Al suo interno si possono trovare, però, anche brani pop
melodici.
Il parlato è in secondo piano, in funzione della musica, con l’eccezione delle news
del mattino e nel drive time. Il flusso è, così, equilibrato e coerente e l’ascoltatore
è fedele al prodotto e meno incline alle novità.
Rock/Alternative
Questi formati nascono in reazione alla convenzionalità e ripetitività dei brani
trasmessi dal Top 40. L’AOR prende anche il nome di Progressive o Underground.
E’ una «una combinazione inedita di rock non in classifica, blues, folk e jazz» 9.
Generalmente improntato alle sonorità rock, con il tempo ha perso la sua
dimensione rivoluzionaria.
Il target di riferimento è quello maschile tra i 18 e i 34 anni; in genere
musicalmente colto e selettivo rispetto alla musica da ascoltare. La radio, per
questo segmento, è un’esperienza totalizzante e quotidiana.
Ci si può trovare di fronte a varianti temporalmente definite come Classic Rock e
Modern Rock, ma anche a derivazioni dedicate a un pubblico più giovane (18/25)
e aperto alle novità. In italia Virgin Radio si rifà allo Style Rock.
Solitamente le emittenti di questo genere propongono musica senza interruzioni
basata su una library molto ampia (300-700 brani).
La musica si può alternare a contenuti di approfondimento dedicati al genere,
affidati a speaker con una personalità vocale variabile.
Viene dato particolare rilievo allo stile generale dell’emittente e alla sua
immagine, anche attraverso mediapartnership con eventi di nicchia per gli amanti
del genere.
Vintage
Classic, Oldies e Nostalgia sono formati basati sulla riproposizione di musica del
passato e variano nel nome a seconda del segmento temporale affrontato.
Nostalgia: musica anni Quaranta e Cinquanta e poco parlto
Oldies: musica anni Cinquanta e Sessanta con un ampio ricorso alla personalità
dello speaker.
Classic: può scindersi in Classic Rock e Classic Hit. La prima si concentra su
canzoni che un tempo erano di pertinenza delle emittenti Album Oriented Rock.
La seconda si frappone tra le oldies e le contemporary hit, trasmettendo le hit
commerciali degli anni Settanta, Ottanta e Novanta. In Italia un esempio di questo
genere è Radio Capital.
Dal punto di vista vocale, più che una conduzione efficace è richiesta l’abilità di
creare atmosfera, dando anche spazio a informazione e approfondimento per
cercare di trattenere gli ascoltatori.
Classical
E’ un formato non estremamente diffuso data la nicchia di ascoltatori alla quale fa
riferimento. La sua è una natura raffinata senza essere elitaria o snob e si basa su
un pubblico adulto (dai 25 anni in su) estremamente fidelizzato, attivo e con uno
status economico e culturale elevato.
Questo formato vede lo scontro tra radio pubbliche e radio private (queste ultime
costrette a inframezzare l’ascolto con la pubblicità). La durata dei brani trasmessi
è ovviamente più lunga rispetto alla media degli altri formati.
Non mancano l’informazione e l’approfondimento, senza però chiacchiera leggera
tesa all’intrattenimento e la struttura garantisce un suono lineare e tradizionale,
che non punta al cambiamento.
In Italia non ci sono molti esempi. Radio 3 guarda a questo formato solo
parzialmente.
Urban Contemporary
Deriva dal formato Disco che, a sua volta, ha origine dal Black.
E’ destinato principalmente a un pubblico metropolitano, multiculturale giovane
(18/34 anni).
Il suono è intenso, ballabile, con ritmo serrato e musica anche mixata. La
conduzione è energica e coinvolgente.
La playlist è ampia sia per numero di brani che per generi affrontati (R’n’b, rap,
hip hop, beat, funk, latin pop, dance, elettronica, reggae, dubstep e tutte le
contaminazioni possibili della musica black).
Nell’offerta italiana, Radio Deejay si avvicina molto a una radio Urban.
69
1. Web radio
La radio, approdata in rete da circa vent’anni, on line viene diffusa attraverso lo
streaming e allarga i suoi orizzonti: internet semplifica alcuni passaggi, diminuisce
i costi di diffusione, la radio acquisisce nuove forme, altri contenuti e sperimenta
linguaggi inediti.
Il pubblico delle web radio è potenzialmente globale, non esistono i limiti delle
onde via etere, i costi di produzione e distribuzione sono molto più bassi e la rete
diventa un luogo magico dove gli appassionati di radiofonia, anche non
professionisti, possono avvicinarsi al mezzo e, affidandosi a semplici software,
spesso open source, possono editare audio e trasmettere in streaming. Si
diffondono piattaforme, con opzioni sia gratuite che a pagamento, pensate per la
produzione di radio online, social network per la condivisione di musica o di
podcast (è il caso di Mixcloud e Soundcloud).
Una web radio, per poter trasmettere a un certo numero di utenti, necessita di
una determinata larghezza di banda. Questo è il costo maggiore da mettere in
preventivo per chi decide di strutturare una radio on line, l’altro punto
fondamentale è l’apertura di un server dedicato. Esistono, però, delle alternative
per chi non ha budget: i servizi di hosting che permettono lo streaming, si
occupano della questione dei diritti musicali e facilitano una serie di questioni che,
per un appassionato di radio non tecnicamente preparato, sono difficili da gestire.
Newradio ne è un esempio, è diventata famosa anche per aver lanciato sul
mercato MBStudio, un software di automazione radiofonica.
Una questione sulla quale puntare l’attenzione è sicuramente quella delle
royalties musicali. Inizialmente, le webradio, essendo un territorio inesplorato, non
si preoccupavano dei diritti d’autore. Nel 1998 negli Stati Uniti vediamo la prima
legge che riguarda il riconoscimento dei diritti anche per le riproduzioni digitali,
vengono attribuite tariffe che i webcaster devono pagare, una regolamentazione
necessaria che ha, però, costretto molte radio alla chiusura, proprio perché
impossibilitate al pagamento.
La situazione in Italia viene chiarita qualche anno dopo.
Chi non può permettersi di pagare i diritti d’autore può scegliere di trasmettere
musiche free e quindi di libero utilizzo (musica di pubblico dominio o rilasciata con
licenze libere come le Creative Commons).
2. L’ascolto
Il mondo delle radio on line è ricco e vasto, ne esistono di infiniti tipi, al di là delle
radio che tradizionalmente trasmettono in AM o FM e che nell’era del digitale
approdano in rete, troviamo le “internet only”, che trasmettono solo in streamin e
che restano in rete. È un modello più snello che include tantissime tipologie di
radio, da quelle istituzionali a quelle commerciali, quelle che si occupano di un
solo genere musicale o che rappresentano una specifica comunità più o meno
locale.
Le web radio sono anche una palestra utile per chi vuole imparare a fare radio,
per chi vuole coltivare questa passione ed esprimersi attraverso il mezzo
radiofonico. È possibile costruire un flusso radiofonico che vada in diretta H24,
alternare musica e parlato, programmi in diretta o programmi editati, creare un
palinsesto radiofonico vero e proprio. Ogni web radio ha la sua identità, e riesce,
in modo diverso, a offrire dei contenuti. Ci sono radio che prevedono un classico
palinsesto con programmi e musica, oppure radio on demand, che danno
all’ascoltatore la possibilità di scegliere i contenuti che vuole fruire, nell’ordine
che preferisce, quando preferisce.
Anche se la rete ha ampliato le possibilità, ha anche portato alla nascita di molte
realtà radiofoniche, il risultato è un territorio difficilmente controllabile e
mappabile, esistono una moltitudine di web radio che, però, è difficile rintracciare
e quindi ascoltare.
La rete, però, fornisce una soluzione al problema degli ascolti, esistono
piattaforme di diffusione, servizi di streaming musicale come (Pandora, Spotify,
Apple Music,) che offrono non soltanto musica ma anche podcast e streaming di
radio. Un’altra realtà nuova e dalle grandi potenzialità viene rappresentata dalle
applicazioni che aggregano le radio esistenti e ne permettono l’ascolto su mobile,
senza necessariamente accedere al sito specifico della web radio: è il caso di
TuneIn.
Attraverso queste piattaforme, è possibile accedere più facilmente a contenuti
prodotti dalle web radio che altrimenti sarebbero difficilmente rintracciabili per un
pubblico potenzialmente
interessato. Con l’utilizzo diffuso degli smartphone questo processo è diventato
ancora più semplice.
Tematicamente parlando, in un universo mediale ormai saturo, chi sceglie di
creare contenuto deve tendere ad una specificità e forte tematizzazione, deve
mirare a un target specifico, alle così dette nicchie.
Chi sceglie di ascoltare la radio on line fa una scelta attiva, a differenza di chi
fruisce randomicamente, spesso in auto, la radio FM.
Per le radio web è, quindi, importante aggregare e rafforzare il senso di comunità,
fidelizzare gli ascoltatori rendendoli partecipi.
3. Il podcasting
L’ascolto della radio ha indubbiamente vissuto una rivoluzione con l’arrivo del
digitale, la possibilità di ascoltare on demand i contenuti radiofonici rappresenta
una novità e proprio per questo il podcasting è un fenomeno che ha rappresentato
una svolta: i contenuti sono facilmente accessibile e sempre a portata di mano;
l’ascoltatore non è più vincolato al palinsesto e all’orario di messa in onda del
programma che preferisce, può tranquillamente ascoltarlo quando vuole, gli
basterà connettersi al sito dell’emittente che metterà a sua disposizione le
registrazioni del programma già andato in diretta. L’ascoltatore potrà scaricarlo,
fruirlo sui suoi dispositivi mobili, riascoltarlo, senza avere limitazioni spaziali o
temporali.
Il podcasting si è trasformato e si è dimostrato un prodotto non esclusivamente
radiofonico. I podcast, oggi, vengono prodotti anche da soggetti che non sono
emittenti radiofoniche. Guardian, Laterza e tantissimi altri soggetti investono sulla
produzione di podcast che si dimostrano essere “una forma assai raffinata di
fidelizzazione dell’utente, che stimola consumo differito e ripetuto di frammenti di
particolare pregio della produzione o della programmazione (spesso la parte più
costosa della filiera dell’audio, come news e complessi formati parlati).” 1
Questo genere di podcast ha investito il mercato; ha conquistato prima il mercato
statunitense e adesso si sta dimostrando un orizzonte proficuo anche in Europa e
in Italia.
Il fenomeno podcast nasce dalla necessità dei radioamatori di sperimentare nuovi
linguaggi, nuove produzioni sonore e nuove soluzioni distributive. Esattamente
come era successo nel periodo delle radio pirata e delle radio libere, il podcast si
dimostra una possibilità nuova che apre le porte della sperimentazione della
narrazione sonora.
«Molti show radiofonici americani che esistevano da anni e si erano costruiti il loro
pubblico di fedeli iniziarono a produrre trasmissioni indipendenti, finanziandosele
tramite campagne di crowdfunding o direttamente con la pubblicità, creando i
primi aggregatori (network) di podcast americani, come Radiotopia, Panoply o
PodcastOne»2
Il podcasting pone l’attenzione nuovamente sul suono, sulla narrazione
esclusivamente parlata che nasconde, però, un’attenzione particolare nella
costruzione del prodotto finito, che, essesndo il risultato di un montaggio e non di
uno show in diretta, vedrà una costruzione del racconto più meticolosa,
complessa e contaminata.
Se guardiano allo scenario internazionale, i podcast più ascoltati appartengono a
tre macrogeneri: storytelling; fiction; giornalismo di approfondimento o
investigativo.
Il podcast sancisce l’inizio di una nuova era della narrazione sonora, la linearità
del mezzo radiofonico viene messa in discussione per lasciare spazio a prodotti
pensati per una visione on demand, scaricabili, trasportabile e condivisibili.
70
1. La rivoluzione digitale
La rivoluzione digitale ha invaso il mondo dei media.
Negroponte (direttore MIT) pone l’attenzione su come l’economia da “atom-
based” si sia concentrata, con l’arrivo del digitale, sulla comunicazione, sulla
creazione, manipolazione e immagazzinamento di bit elettronici. Questo processo
ci guida verso l’avvicinamento di tre industrie fino a questo momento divergenti:
informatica, telecomunicazione e media/entertainment.
Un testo che non è più fatto di atomi, ma di bit, può spostarsi da un mezzo a un
altro e non vede più l’aderenza, teorizzata da McLuhan, fra medium e messaggio.
Con l’arrivo del digitale il medium cessa di essere il messaggio e diventa
un’incarnazione del messaggio stesso. Il digitale vede anche il rifiuto dei supporti
fisici, lo spazio fisico non viene più occupato da fogli stampati e il processo di
archiviazione diventa più semplice e snello, i prodotti digitali non sono solamente
facilmente archiviabili ma anche infinitamente replicabili e diventeranno, con il
tempo, anche agevolmente trasferibili.
Nel mondo dei media, la digitalizzazione associa al processo di pushing, per cui i
contenuti provenienti da un media vengo indirizzati verso il pubblico, il processo
di pulling, secondo cui il fruitore utilizza i propri dispositivi digitali, il proprio
personal computer, per ottenere dei contenuti che lui desidera.
Il digitale apre nuove possibilità di fruizione, introduce l’interattività e ha cambiato
anche il modo di socializzare degli individui. Facilita connessioni e comunicazioni
di persone fisicamente distanti che possono condividere informazioni e contenuti
nonostante non abitino lo stesso spazio fisico.
Nascono realtà on line che vanno ad alimentare lo scambio di informazioni e la
condivisione, attivando una economia del dono che viene ben rappresentata dal
fenomeno Wikipedia.
Si costruisce una comunità in rete che attiva un dialogo basato su patti
comunicativi che vanno ad annullare la piramide che vede il potere decisionale
posto all’apice. Nell’universo digitale ciò che viene dal basso, dal pubblico e dai
fruitori stessi, va a determinare fenomeni che influiscono sul mercato. Si
moltiplicano i canali spontanei e indipendenti che si concentrano, da un lato, su
contenuti e mercati globali e dall’altro si dedicano ai mercati di nicchia che prima
dell’arrivo del digitale non riuscivano a emergere e risultavano difficilmente
accessibili e, per ovvie ragioni, trascurati dai mezzi di comunicazione di massa e
generalisti.
Internet, quindi, ci guida verso una economia dell’abbondanza, ci offre tantissimi
contenuti che l’utente può fruire secondo i propri tempi, esigenze e gusti.
Tutto comincia a configurarsi negli anni ’90, internet arriva nelle case e avviene il
passaggio da un Web statico a web dinamico, ovvero il web 2.0; che permette al
fruitore di ottenere contenuti, all’epoca principalmente testuali, di interagire con
le pagine in rete e quindi di scambiare informazioni con altri utenti. Comincia l’era
dei forum, dello sharing che ci condurrà alla rete come la conosciamo oggi.
La società muta e nasce un nuovo imperativo, il “being online”, essere
costantemente connesso. I nativi digitali, coloro che sono nati dopo la metà degli
anni ’80, crescono in questo mondo fatto di schermi con i quali interagire
quotidianamente, che cambiano radicalmente il modo di fruire dei contenuti,
trasformando abitudini professionali, personali e sociali.
2. Transmedialità
Nell’ambito della narrazione e della creazione di contenuti, la rivoluzione digitale
ha avuto un ruolo fondamentale. Vediamo comparire nuovi termini come
transmedialità, crossmedialità e multi-platform, parole che si riferiscono alla
pratica, ormai comune, di veicolare lo stesso contenuto attraverso testi differenti,
piattaforme mediali differenti e tecnologie differenti.
Ci si imbatte spesso nel concetto di transmedia storytelling, il concetto di
transmedialità si riferisce a pratiche produttive, distributive e comunicative che
sono applicabili a contenuti che possono essere di diverso genere e natura.
Il transmedia storytelling sta a indicare una pratica narrativa che vede sia il
coinvolgimento di più media e canali, i quali si occupano di distribuire un dato
contenuto, che l’inclusione di una componente di forte intertestualità.
Il contenuto transmediale attraversa più media e la narrazione completa avviene
se l’utente accede a tutti i passaggi della narrazione, trasferendosi da un media
all’altro e quindi avendo una visione di insieme di come quell’unico contenuto,
attraverso declinazioni diverse del testo, all’interno di piattaforme differenti, è
stato raccontato.
Quando parliamo di transmedialità, possiamo identificare e differenziare le
tipologie di canali che contribuiscono alla costruzione di una narrazione di questo
genere:
1) I canali/ testi che devono essere esperiti per far progredire la trama della
macrostoria;
2) I canali/ testi che fanno riferimento gli uni agli altri e che contribuiscono a
espandere l’esperienza gli uni degli altri, ma che non portano avanti la
trama della macrostoria;
3) I canali che non portano avanti la trama e non sono necessariamente parte
dello storyworld, ma che fanno riferimento a essi, agendo più da “attrattori”
verso la property che da veri e propri apparati narrativi. 1
In questo nuovo processo narrativo, il testo e il paratesto (la parte accessoria e
complementare di un testo a stampa (per es. la copertina, l'introduzione, l'indice, i
risvolt, etc.) vengono messi sullo stesso piano. Jenkins lo afferma chiaramente: la
distinzione fra testo e paratesto tende verso l’annullamento.
La transmedialita si divide a sua volta in due tipologie:
- Intracompositional: “si riferisce a un insieme di storie mono-medium
distinte ma legate fra di loro che contribuiscono alla composizione di un
unico storyworld”. Un esempio è il franchise transmediale tipico di prodotti
hollywoodiani come Matrix.
- Intercompositional: “descrive invece un’unica storia raccontata attraverso
una collezione di media collegati. Un buon esempio di questa tipologia.” Nel
caso della transmedialità intracompositional, ogni medium si fa portatore di
una storia autoconclusica, la transmedialità intercompositional chiede al
fruitore di accedere a tutti i testi collocati sui diversi media, soltanto in
questo modo può comprendere la storia nella sua totalità.
3. Estensioni narrative
Esistono progetti che nascono dal principio transmediali e altri che lo diventano.
In quest’ultimo caso si parla di transmedialità retroattiva. Proactive transmedia,
invece, sono quei progetti che nascono transmediali e, dal principio, costruiscono
una narrazione che integri testualità differenti. Questo comporta una progettualità
maggiore e una coerenza narrativa e distributiva che aiuta a veicolare il
messaggio in maniera efficace.
In questo universo, che tende all’estensione testuale, Askwith distingue tra
estensioni narrative ed estensioni diegetiche:
1) Estensioni narrative: lo spettatore ha a sua disposizione dei contenuti narrativi
che vanno a integrare la narrazione. Possono esistere più livelli che vanno a
fornire al pubblico contenuti particolari come trame nascoste, maggiori
informazioni sui personaggi, sugli eventi, un’aggiunta di contenuto che
porta a fidelizzare ulteriormente lo spettatore e ad alimentare il fandom.
2) Estensioni diegetiche: sono “artefatti diegetici” che fanno parte del mondo
narrativo di partenza. Danno l’illusione allo spettatore di poter interagire
con il mondo narrativo e i personaggi della storia. “Askwith identifica come
uno dei primi e più significativi esempi di estensione diegetica la
pubblicazione di tre romanzi legati alla serie di culto Twin Peaks, ciascuno
dei quali si presentava come un artefatto proveniente dall’interno della
narrazione al centro della serie, con diversi livelli di connessione con la
trama centrale”.2
La digitalizzazione ha, quindi, comportato la necessità di organizzare
diversamente la narrazione, che deve ricercare un equilibrio tra mezzo, forma e
sostanza del contenuto, in modo da ottenere una combinazione ottimale di questi
elementi.
Quando parliamo di transmedia storytelling dobbiamo concentrarci, anche, sulla
natura polisemica del medium, ovvero la capacità del medium di avere più
significati.
Il polisemismo e l’ibridismo che interessano il concetto di medium si trasmettono
anche alla nozione di “transmedialità”, generando la situazione di
indeterminatezza, terminologica e concettuale, il concetto di transmedialità legato
allo storytelling può infatti indicare tanto un processo distributivo del contenuto
narrativo attraverso una molteplicità di tecnologie di divulgazione e di assetti
culturali già noti, quanto una forma discorsiva e/o testuale, costituita al suo
interno da testualità singole, dotate di una propria autonomia narrativa ma
integrate a creare un macro-testo che sia superiore alla somma delle testualità
che lo compongono.3
L’universo mediale è mutato radicalmente, i processi di convergenza e
digitalizzazione hanno trasformato la distribuzione, la produzione e la narrazione.
Le forme discorsive si sono mescolate, ibridate. Le narrazioni transmediali si
mostrano come un territorio sperimentale che vede emergere discorsi eterogenei
come il franchise cinematografico e i videogame.
72
1. Una rivoluzione videoludica
Oggi, con l’avvento delle nuove tecnologie digitali dominate dal primato della
mobilità e della visualità, si stanno manifestando non solo nuove espressioni di
fruizione del quotidiano, ma anche manifestazioni inedite di esplorazione dello
spazio.
Un’esplorazione che determina nuove costruzioni di senso, nuove modalità di
percezione della realtà e, di conseguenze, regimi narrativi innovativi attraverso i
quali è possibile raccontare e sperimentare questi mondi alternativi.
In questo, nell’ambito prettamente tecnologico, la videoludica si è dimostrata un
bacino inesauribile e sorprendente di storie e ambienti mediali nei quali
ambientarle nel quale l’utente incarna, di volta in volta, il ruolo di eroe intento a
conquistare l’oggetto perduto.
Una delle espressioni più interessanti e rivoluzionarie di questa nuova concezione
del sensibile videoludico è stata senz’altro l’esperienza di Pokémon Go. Un
videogioco per smartphone di tipo free-to-play targato Nintendo, basato su una
popolare serie videoludica ricodificata, qui, in realtà aumentata geolocalizzata con
GPS.
L’impatto del software è stato immenso; forse persino più ampio e deflagrante del
previsto.
Sia in un’ottica commerciale, che in ambito di avanzamento tecnologico e
sperimentazione effettiva della realtà aumentata nel gaming: field-test che si
rivelerà prezioso in uno spettro di settori e competenze nettamente più ampio (in
primis, quello militare).
Pur non essendo il primo gioco di tale genere, dato che esiste il precedente di
Ingress, (https://www.ingress.com) - non fondato però su una cultura fandomica
estesa e popolare quanto quella dell’universo Pokémon, risultando quindi un
prodotto di nicchia – è indubbio quanto Pokémon Go abbia rappresentato
l’autentica chiave di volta per una concreta commercializzazione popolare e
un’applicazione fattiva della realtà aumentata.
Una rivoluzione che ha portato a un cambio di paradigma nella concezione del
reale e degli attori che lo popolano, contaminano e mutano, contribuendo non
solo a rendere evidente e cruciale il concetto di Mediascape, ma ridefinendo lo
stesso secondo prospettive sempre nuove e stimolanti.
La realtà aumentata di Pokémon Go, nel mondo del gaming, ha sancito il
passaggio da un regime di virtualità assoluta e sottomotricità – elementi tipici del
gaming classico e, in un certo senso, della condizione spettatoriale tutta – a una
dimensione ibrida nella quale il virtuale è solamente una parte dell’esperienza
estetica e sensoriale vissuta dal giocatore (o, alla luce di queste evoluzioni,
sarebbe forse più corretto definirlo “gioc-attore”).
2. Tra gameplay, narrazione e riscrittura dello spazio narrativo
L’utente è chiamato a partecipare attivamente alla quest non solo attraverso la
mediazione di un joystick – in questo caso lo schermo touch di uno smartphone o
di un tablet – ma con il suo corpo fisico, esplorando attivamente il mondo fuori dal
domestico, non con le stimolazioni simulate tipiche di alcune forme, anche molto
avanzate, di realtà virtuale o di un ben più fragile cinema 4D, ma con occhi,
orecchie, muscoli, carne: rileggendo lo spazio urbano ed extraurbano, spesso
conosciuto, abitato, esplorato mille e più volte, secondo angolature originali.
In effetti, oltre che di rilettura, dovremmo parlare di riscrittura di uno spazio.
Attraverso la versione mediata dello schermo, in quell’apparire virtuale dei
pokémon catturati dalla fotocamera, nella segnalazione di punti di interesse,
informazioni, palestre, sfidanti, avversari, pericoli che si manifestano
esclusivamente e/o parallelamente, a seconda della scelta del giocatore, nel
virtuale o nel mediascape ibrido, si mostra percorso da nuovi segni normalmente
invisibili, digitali ma non per questo meno sensibili, concreti, reali in un quotidiano
concettualmente fluido.
Ecco, quindi, che il termine stesso di reale inizia a mutare i suoi confini.Vi sono
due punti interessanti dai quali osservare il gioco.Da una parte la costituzione
formativa e rituale di Pokémon Go; dall’altra la centralità
dell’elemento ansiogeno, pauroso e frustrante insito nei game e in particolare in
un prodotto del genere nel quale questi tratti non possono che esserne
enfatizzati.
La scoperta, da parte del giocatore, di un nuovo mondo è di per sé un elemento
formativo/ritualizzante estremamente potente, sia che si tratti di un reame
virtuale, come avviene nel gaming classico (comunque non privo, pur trattandosi
di pura finzionalità, di una vis didattica ed educativo-esperienziale), o che ci si
muova all’interno di un ambiente reale o ibrido.
Pokémon Go, però, riattualizza dei meccanismi di prova del sé, confronto e
costruzione sociale, tribale, culturale, fortemente legati all’esperienza simbolica,
cognitiva, fisica (questo è un dato innovativo e di grande rilevanza), attiva e
diretta sul mondo.
Modifica le sembianze del viaggio dell’eroe costretto a spostarsi e a superare
prove sempre più difficili – dei veri e propri livelli di gioco, con annessi Boss da
sconfiggere – per definire la sua personalità, la capacità di interazione con
l’esterno e il diverso, il suo valore, le sue skills e, in definitiva, il suo ruolo nella
tribù e nella società tutta.
Applicare tale modello a un game in realtà aumentata pare spropositato, ma sia
nei presupposti che nella semplice osservazione delle conseguenze che Pokémon
Go ha attuato nel nostro quotidiano, tale affermazione non sempre poi così
surreale.
Stiamo assistendo alla nascita di nuove formazioni sociali: branchi di ragazze,
ragazzi e adulti (il fenomeno è generazionalmente trasversale) che si spostano
per le città in sciami, perseguendo sia un proprio personale itinerario di crescita
(in cerca di Pokémon, potere, status personale all’interno di una comunità ormai
vastissima) che un bene collettivo legato alle esigenze della propria macro-
fazione e al prestigio dello specifico piccolo gruppo di appartenenza (ci si può
accorpare in Palestre, allenandosi, rafforzandosi vicendevolmente e difendendo
un interesse comune).
3. La dimensione psicologica di Pokémon Go
Pokémon Go è un viaggio iniziatico che ha delle forti implicazioni psicologiche:
il sistema azioni/reazioni emotive è legato da un lato all’esperienza di
gioco in sé – quindi la fatica nel raggiungere i terreni di caccia e le palestre,
la tensione nello sfidare un altro player confrontando la rispettiva capacità
di fuoco, l’ansia nel voler catturare un singolo Pokémon bramato, la
frustrazione nel non riuscirci, il piacere adrenalinico conseguente alla
cattura e la conseguente brama di altri Pokémon tipica di oggetti
assuefacenti.
i meccanismi di dipendenza e seduzione caratteristici di un efficace
merchandising. Ansia, frustrazione, paura del fallimento, brama di potere,
rivalità o volontà di accrescimento del proprio status sono i fattori sui quali il
gioco è realmente incentrato dato che da essi dipendono gli introiti
economici del produttore. Più essi vengono innescati e nutriti
dall’esperienza di gioco, più il compimento dell’itinerario eroico (e
attraverso esso l’edificazione di un’identità soggettiva e, perché no, sociale)
dipenderà dalla forza e dall’abilità espressa. Esse non derivano unicamente
dalle intrinseche qualità di gioco o personali (ricordiamo che il fattore fisico
in Pokémon Go ha enorme rilevanza), ma dalla possibilità di acquistare
oggetti (le pokéball utili alla cattura), doti, “oggetti magici”, power booster o
supporti tecnologici esterni (in questo caso, verrà presto rilasciato un
braccialetto che facilità il rintracciamento dei Pokémon). Vediamo qui
riproposte, ancora una volta, le modalità tipiche del racconto narrativo con
l’intervento di eroi, destinatori, antagonisti, oggetti magici, obiettivi da
raggiungere. Questo immaginario, e il suo sistema emozionale, spinge
l’utente, anche quello inizialmente più riottoso a investimenti economici
extra, a spendere denaro per poter accrescere le sue capacità, salire di
livello e, fondamentalmente, continuare ad agire rilevantemente sulla
struttura verticistica e verticale del gioco e non più solo sull’accessibile
narrazione orizzontale, riducendo illusoriamente e momentaneamente le
sensazioni spiacevoli, la frustrazione e lo stress legato alla performance fino
a quel momento offerta.
Nella vasta gamma di stati psicologici che si possono sperimentare il più incisivo
nell’ambito di Pokémon Go, sia la paura del fallimento.
Rispetto alle altre app e ai giochi digitali che popolano da tempo i nostri tablet e
smatphone, dominati senz’altro dall’elemento ansiogeno e frustrante scaturito
dalla difficoltà nel superare un livello (tipico, ad esempio, di Candy Crash e Angry
Birds), attaccare o resistere a un attacco nemico (Clash of Clans) o recuperare
oggetti per coltivare un determinato bene (FarmVille), Pokémon Go ragiona su
schemi di confronto sociale che enfatizzano esponenzialmente il timore del fallire.
Ansia e frustrazione appartengono di default a tutti i game basati su achievement
e quest nei quali c’è, ovviamente, anche una certa dose di paura di fallire, data la
presenza strutturale di chart, gilde e cariche sociali “istituzionali” che incidono
evidentemente sulla competitività espressa.
Ma se nelle app commerciali più diffuse, l’orizzonte esclusivamente digitale e la
mediazione nel gioco di un capitale simulacro come l’avatar riduce, in una certa
misura, l’investimento emotivo dell’utente – non essendo, quelle, esperienze di
totale immersività – tutto questo cambia con la conquista, da parte di Pokémon
Go, del mondo esterno.
4. La pericolosa immersione nell’avventura digitale
Il confronto e la compenetrazione tra digitale e reale, tra mostri virtuali e
avversari in carne ed ossa che ci si palesano non più solamente come un
nickname e un avatar su uno schermo, ma anche in prossimità, nella loro fisicità,
rende la paura di fallire una prospettiva più concreta, insidiosa, difficile da eludere
semplicemente spegnendo lo schermo, azzerando la partita e cominciando tutto
da capo.
Palestre, meeting, battute di caccia collettive e l’imminente espansione che
prevedere lo scambio di pokémon e la sfida diretta live tra giocatori: in Pokémon
Go l’avversario è sul dispositivo, ma anche nella nostra città, nel quartiere, sotto
casa, di fronte a noi e godere del suo sguardo in caso di vittoria è tanto esaltante
ed edificante, quanto è spaventosa la prospettiva di non poter fuggire al suo
giudizio o a quello della comunità (di gamer) in caso di sconfitta.
In questo caso, l’ansia e la frustrazione sono sempre presenti come sintomo delle
dinamiche di gioco (si raggiunge o meno un obiettivo), ma il cardine emozionale
del prodotto – basato come abbiamo detto sul topos del viaggio dell’eroe – è la
paura di fallire e le sue conseguenze sociali non solo nell’universo di nicchia
digitale, ma anche nel più temibile e brutale reale.
Un aspetto da non sottovalutare dato l’impatto mediatico del fenomeno, la sua
notorietà, trasversalità generazionale, riconoscibilità e valenza economica.
L’essere eroi o falliti lì, potrebbe avere tangibili ripercussioni off-game – in ambito
digitale pensiamo a quanto successo con il fenomeno Youtuber che ha mutato
radicalmente il panorama iconico e divistico esistente.
Per il giocatore, questo ha una portata emozionale incalcolabile e inedita nel
gaming commerciale contemporaneo oltre che dei risvolti chiaramente
inquietanti. Tutto diventa un po’ più vero e un po’ più reale e per evitare l’onta si
sarà disposti a tutto (economicamente e non solo).
E’ probabile che in futuro anche la giurisprudenza dovrà prendere in
considerazione nuove forme di devianza sociale e criminalità legate a modalità di
gioco – con conseguenti stati patologici – che incidono così fortemente sul nostro
quotidiano.
Nella recentissima cronaca, non mancano già i primi casi di sfruttamento del
geotagging di Google (che ha supportato la Nintendo nello sviluppo del gioco) per
adescare giocatori, prevedere i movimenti delle folle e sfruttarli per delinquere.
Proprio l’arma tecnologicamente vincente di Pokémon Go – la partnership con
Google e il mettere a disposizione dell’utente un mondo interamente mappato – si
sta rivelando una lama a doppio taglio che mostra confini infiniti di espansione e
inquietanti prospettive di (mal)sfruttamento.
Plausibilmente, nel prossimo futuro, questa tipologia di giochi dovranno andare
contro a inevitabili restrizioni di sicurezza e modifiche all’utilizzo del geotagging
che, ad oggi, nel far apparire ovunque Pokémon o altri antagonisti e spronando
indirettamente gli utenti perfino a valicare proprietà private, edifici pubblici,
autostrade, caserme, musei, scuole senza il minimo timore delle conseguenze.
Questa è un’ulteriore dimostrazione delle implicazioni di Pokémon Go sulla vita
dello spazio urbano contemporaneo.
5. Un nuovo spazio narrativo
La spazialità ludica si divide in tre direttrici principali: 1) Coltivazione2) Virtual
Reality3) Augmented Reality
I giochi appartenenti alla categoria “coltivazione” sono riconducibili alla prima
fase delle app digitali per smatphone e tablet. L’esempio più eclatante è
sicuramente quello di Farmville.
Tali applicazioni, strutturalmente abbastanza basiche, si affidano a meccanismi
tipici dei giochi strategici o di edificazione. L’obiettivo è quello di costruire un
mondo, dominarlo, sfruttarlo e difenderlo.
Interessante come essi siano frutto di un’involuzione tecnologica, essendo nati
per supporti ancora non estremamente sofisticati e incapaci di portare nella
galassia mobile i game ben più complessi, graficamente avveniristici e pesanti
che spopolano tutt’ora nelle console domestiche.
Ci siamo riabituati, quindi, a una percezione del mondo digitale in 2D o comunque
nettamente rudimentale, che solo fino a pochi anni fa chiunque, giocatore o no,
avrebbe rifiutato e additato come preistoria digitale.
Tali applicazioni, però, hanno dimostrato una perfetta adattabilità ai regimi di vita
contemporanei e un livello di sottile assuefazione dell’utente estremamente
redditizia poiché basata sull’acquisto a cifre irrisorie di piccoli bonus
potenziamento per poter procedere con il gioco.
Non vi è più la spesa di acquisto iniziale del gioco stesso – spesso ingente e
appannaggio delle nicchie di giocatori – ma costanti micro acquisti comuni a una
varietà immensa di utenti: un meccanismo decisamente molto remunerativo per i
produttori.
Lo spazio, qui, è digitale e il livello di immersività è molto basso. Sono giochi
mobili, fruibili ovunque, relegati, però, alla sola dimensione digitale. E anche la
socialità espressa – community, gilde, chat etc –, mediata attraverso avatar, si
esaurisce con l’accensione e lo spegnimento del gioco.
L’estremo opposto è ovviamente rappresentato dalla realtà virtuale. Con Oculus ci
si sta avvicinando a modelli di gioco realmente commerciabili e domestici dato
che fino ad ora la realtà virtuale era riservata a luna park o a esperienze
straordinarie, spesso di fattura non eccelsa.
Generalmente l’obiettivo dei giochi programmati per la realtà virtuale è il seeking,
la ricerca e l’esplorazione di un mondo “alieno”.
Qui il regime spaziale è, ovviamente, totalmente virtuale e l’immersività è molto
alta anche se, al di là del limite tecnologico (non tutti potranno permettersi
nell’immediato i supporti adatti e il livello grafico è ancora in fase di
sofisticazione), sorge la questione sensoriale visto che si tratta di prodotti che
stimolano il visivo e l’acustico, senza però poter ancora coinvolgere un senso
fondamentale come il tatto.
L’identificazione psicologica, però, è intensa rispetto ai regimi scopici ai quali
siamo abituati; è un’esperienza esteticamente sorprendente e la traiettoria futura
sicuramente dominante, soprattutto quando si ragionerà non solo attraverso
supporti ottici, ma anche tramite stimolazioni neurali e corticali dirette e più
invasive. Manca, per ora, l’elemento della socialità, sacrificato in funzione
dell’esperienza estetica, ma è evidentemente il prossimo obiettivo raggiungibile.
La terza via, che in verità si colloca esattamente a metà strada tra le precedenti
due ed è quella della realtà aumentata.
I prodotti in realtà aumentata come Pokémon Go sono una perfetta combinazione
di coltivazione (si cacciano, allenano, scambiano e difendono i mostri) e seeking
(vi è un’autentica esplorazione del mondo sia in ambito digitale sullo schermo
dello smatphone e del tablet, sia nel mondo reale, percorribile nella sua interezza
senza i soliti confini e limiti di gioco).
Anche per quanto riguarda mobilità e socialità ci troviamo di fronte a tale sintesi
dato che lo spazio attraversato è sia virtuale che reale con l’aggiunta del
confronto diretto e dal vivo con gli altri giocatori, al consueto modello di socialità
digitale.