Vittorio Coletti
Storia della lingua italiana
Enciclopedia dell'Italiano
2011
Indice:
1. Carattere di una storia
2. Origini
3. Annunci di polimorfia
4. Prime scritture letterarie
5. Moltiplicazione del lessico
6. La prosa antica
7. Dante e la prima selezione del volgare
8. Petrarca
9. Boccaccio
10. Conclusioni sulle Tre Corone
11. Successo e crisi del volgare
12. Toscano e italiano
13. Il volgare fuori della Toscana
14. Le lingue di koinè
15. Un’ipotesi di grammatica per un italiano regionale
16. La grammatica dell’italiano
17. La grammatica in Toscana
18. L’Accademia della Crusca
19. Scritto e parlati
20. L’italiano
21. Grammatiche e vocabolari
22. Innovazioni
23. Lingua iperletteraria
24. L’italiano itinerario
26. Resistenze alla modernizzazione
27. Verso lo standard moderno
28. Le varietà dell’italiano
29. I linguaggi settoriali
30. Perdita d’aureola
25. I promessi sposi
Fonti
Studi
2
1. Carattere di una storia
L’italiano di oggi ha ancora in gran parte la
stessa grammatica e usa ancora lo stesso lessico del
fiorentino letterario del Trecento. Nella Divina
Commedia, a cominciare dal I canto dell’Inferno, un
italiano pur sprovvisto di cultura letteraria può leggere
molti versi prima di trovare una parola che non
capisce: la loro forma è quasi sempre quella
attualmente in uso e quando non lo è, come esta del v.
5 o intrai del v. 10, l’equivalente moderno è
facilmente ricostruibile. Per trovare una parola quasi
del tutto irriconoscibile bisogna arrivare all’ei
(«ebbi») del v. 28; ma Dante, già due canti dopo (III,
58), usa anche ebbi, forma minoritaria rispetto
all’altra più antica, ma comunque ben attestata. De
Mauro (2005) ha calcolato che l’88% del lessico
fondamentale, l’86% di quello di alto uso e, insomma,
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tutti «gli elementi grammaticali sono già in gran parte
in funzione dai primi secoli, dal Due e Trecento».
Nondimeno, gli elementi di continuità, che
non hanno eguali tra le lingue europee, non debbono
far dimenticare quelli di discontinuità, le perdite, i
cambiamenti, le innovazioni che segnano la distanza
tra l’italiano di oggi e il fiorentino del XIV secolo.
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2. Origini
Quando, nel Trecento, i grandi scrittori toscani
diedero forma letteraria alta alla lingua che molto più
tardi la società italiana, dalle Alpi alla Sicilia, avrebbe
fatto propria, sono già parecchi secoli che, anche in
Italia, come nelle altre nazioni europee romanizzate, il
latino aveva fatto posto negli usi quotidiani ai
cosiddetti volgari, cioè a lingue parlate che da esso
discendono, molto diversificandosi specialmente tra il
Nord e il Centro-Sud della penisola, come ancor oggi
si vede dalla gamma dei dialetti italiani.
Le differenze non escludono molte
somiglianze, dovute alla comune lingua madre, il
latino appunto, o alla circolazione estesa di apporti di
lingue straniere alla Penisola. Ma la carta linguistica
italiana all’altezza del IX secolo è un mosaico di
lingue diverse, a volte trapiantate le une dentro le altre
5
(le comunità alloglotte, come quelle greche del
Salento e della Calabria). Queste lingue premono alle
spalle del latino, lingua degli usi scritti e di quelli
ufficiali dei vari stati che formano la convulsa
geografia politica italiana (Sabatini 1997).
Occorre tempo perché i volgari emergano alla
scrittura, per secoli e secoli saldamente in mano al
latino. Ma qua e là e poi sempre di più, per ragioni
diverse, i documenti scritti recano tracce dei diversi
volgari. L’emersione dei volgari avviene in documenti
di tipo notarile e in testi pratici, giuridici, mercantili,
religiosi, che si faranno via via più numerosi dal XII
secolo e specialmente dal XIII, con lo sviluppo dei
comuni toscani.
Da un muro della catacomba di Commodilla a
Roma, ai primi del IX secolo, giunge una scritta
(«Non dicere ille secrita a bboce») che attesta i tratti
meridionali del romanesco medievale. Dai margini di
6
un codice della Biblioteca capitolare di Verona,
contenente un orazionale mozarabico, giunge
l’altrettanto antico (c’è anche chi lo suppone ancora
più antico e non veronese ma pisano) Indovinello
veronese, la cui lingua è a confine tra latino e volgare
(Castellani Pollidori 1997). Indubitabilmente volgare
meridionale, pur con persistenti residui formulari e
grafici del latino, è quello delle testimonianze rese a
Capua nel 960 e nei dintorni, nel 963, in cause di
usucapione (Castellani 1973): «Sao ko kelle terre per
kelle fini que ki contene trenta anni le possette parti
Sancti Benedicti».
Deve comunque passare del tempo prima che
un volgare lasci segni più consistenti ed elaborati in
testi scritti, al di là dei casi in cui compare in mezzo al
latino. Uno dei luoghi più preparati ad accoglierlo è
l’ambiente religioso, da cui, per es., verso la fine
dell’XI secolo, arriva una Formula di confessione,
elaborata in Umbria. Al XII secolo inoltrato risalgono
7
i Ritmi laurenziano (area di Volterra), cassinese e su
sant’Alessio, di area mediana e ambiente di
Montecassino.
Soprattutto dalla Toscana e dall’Umbria
arrivano ampie quantità di lettere commerciali e
registri contabili. Sono terre in cui più forte è il
successo della nuova classe sociale borghese, dove c’è
una precoce domanda di alfabetizzazione.
Parallelamente, mentre dalla Toscana giungono
moltissimi documenti pratici di elaborazione laica e
privata (Schiaffini 1926; Castellani 1952), da altre
regioni i documenti in volgare sono frutto solo o quasi
della mano pubblica, laica o religiosa (per es., gli
statuti delle confraternite). Del resto, la produzione di
documenti in volgare è più frequente e intensa nelle
istituzioni comunali (Toscana, Umbria e Nord Italia),
gestite dalla borghesia, necessitate a far conoscere le
proprie disposizioni ai cittadini e a comunicare con
interlocutori omologhi.
8
Le scritture private sono meno elaborate di
quelle pubbliche, che cercano di regolarsi sul modello
del latino, nascondendo, almeno a livello di grafia, i
tratti molto locali della lingua. I mercanti, invece, non
solo registrano, da un certo punto in poi, in volgare le
loro attività e i loro bilanci nei libri dei conti, ma si
scrivono da un capo all’altro della Penisola, in una
lingua che deve, pur a fatica, evitare le trappole
dell’incomprensione.
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3. Annunci di polimorfia
La storia sociale e politica d’Italia è fin da
subito decisiva ai fini della lingua. Come la crescita di
una nuova classe sociale apre spazi alle varie lingue
materne, così ne autorizza ufficialmente l’uso la
nascita di nuove realtà istituzionali. Allo stesso modo,
vasti cambiamenti politici, come la conquista
normanna del Mezzogiorno (secc. XI-XII),
influiscono sulla natura stessa delle lingue, per es.
importandovi molti gallicismi da allora stabilmente in
uso nelle parlate italiane, come mangiare, leggero,
cugino, giardino, gioia, panettiere, barbiere.
Il primato del fiorentino e del toscano è prima
di tutto dovuto allo sviluppo economico-sociale delle
città toscane dal XII secolo in poi. Ma anche realtà
diverse, più di tipo signorile e nobiliare, hanno
contribuito all’affermazione dei volgari, conferendo
10
ad essi fin da subito una patina colta e letteraria, come
accade in Sicilia dal XIII secolo, con un volgare
scritto a corte, assai lontano dalle instabilità della
lingua di uso pratico.
La variabilità interna, specie in veste di
accentuato polimorfismo, è una caratteristica costante
dei volgari antichi, lingue allo stato nascente, non
normate, rese ancor più mutevoli da casuali o non
organiche oscillazioni dell’incerta grafia che le
registrava. Questa instabilità è certo enfatizzata dalla
prospettiva odierna da cui la si guarda, che induce a
cogliere come coeve manifestazioni linguistiche
distribuite in ravvicinata diacronia o conviventi in
varietà diatopicamente diverse, anche se contigue. Per
es., dalla fine del XIII secolo in poi la prima persona
del congiuntivo imperfetto tende a uscire in -i
(credessi), ma a lungo restano tracce della precedente
uscita etimologica in -e (che io andasse), mentre -i
non si è affermato alla terza persona, dove pure si è
11
introdotto e poi rimasto come tratto diastraticamente
connotato in basso (se uno facessi, sedessi, ecc.)
(Castellani 1952: 156-159). Naturalmente, quello che
qui (e in seguito) si dice per la morfologia verbale può
essere detto di molti altri fenomeni anche fonetici,
come l’alternanza tra forme con dittongo e forme non
dittongate (luogo, foco) o tra forme in velare e forme
con n palatale (del tipo vengo / vegno), che convivono
in Toscana dal Duecento. Insomma: concorrenza di
forme, tipico segnale di instabilità (e di crescita) di
una lingua e di latitanza della norma; pluralità di esiti,
esaltata dal fatto che oggi non si colgono le ragioni
diacroniche e diastratiche (e diatopiche) di una così
singolare convivenza di forme concorrenti.
12
4. Prime scritture letterarie
Le scritture pratiche o comunque senza
ambizione stilistica sono fondamentali per
documentare lo stato della lingua. Ma per la sua storia
è essenziale il momento dei suoi primi impieghi con
consapevolezza letteraria di una certa maturità, che
comportano, da un lato, un complesso processo di
selezione fonomorfologica, dall’altro, una crescita
lessicale e sintattica considerevole. Il celebre Cantico
di Frate Sole attribuito a san Francesco d’Assisi
presenta tratti umbri prevedibili, ma con riduzioni
toscane (oscillazione tra altissimu e altissimo), calchi
latini e francesismi (come mentovare «menzionare»).
Proprio i gallicismi (dal francese antico e dal
provenzale) sono gli elementi che entrano in massa
nella prima produzione poetica laica in un volgare
d’Italia, quella della cosiddetta Scuola poetica
13
siciliana. I poeti siciliani scrissero in un siciliano
‘illustre’, cioè in una lingua grammaticalmente
siciliana, ma con aggiustamenti e prelievi dal latino e
molti prestiti dal provenzale, lingua della prima poesia
volgare europea. I loro testi ci sono quasi tutti giunti
in redazioni toscanizzate da copisti toscani (così li
conobbe già Dante), ma i pochi brani residui delle
primitive redazioni consentono di cogliere bene la
grammatica siciliana originaria, impreziosita da forti
quantitativi di provenzalismi. Una canzone di Stefano
Protonotaro, pervenuta in redazione attendibilmente
non lontana dalla veste originale, comincia così (testo
in Di Girolamo 2008):
Pir meu cori allegrari,
ki multu longiamenti
senza alligranza e ioi d’amuri è statu,
mi riturno in cantari,
ca forsi levimenti
la dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri
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È immediatamente percepibile la fonetica
siciliana, ma lo sono anche i provenzalismi, come ioi
d’amuri o la palatale invece della velare in
longiamenti, o i suffissati in -anza (ma anche in -
enza), che da allora e per parecchi decenni, fino a
Dante, avrebbero imperversato nella poesia italiana
duecentesca (Schiaffini 1957).
15
5. Moltiplicazione del lessico
Quando risale la Penisola, verso un Centro-
Nord da cui oggi ci giungono tracce assai antiche di
poesia locale con linguaggio ibrido (Stussi 1999),
questa poesia accresce la propensione
all’assorbimento lessicale dal francese e dal
provenzale, nonché dal latino. Ci sono forme, di
discendenza provenzale, come gli astratti in -ore (in
parte anche in -ura), che si moltiplicano nella lingua
(Chiaro Davanzati: losura, portatura, fortura), a far
massa con altri suffissati, anch’essi spesso di
derivazione d’oltralpe, con effetti di vistosità fonica e
di ibridismo linguistico considerevoli (ancora
Davanzati: segnoraggio, dannaggio, visaggio, leanza,
soverchianza, umilianza; cfr. Corti 2005). A volte
addirittura sono, con preciso calco del provenzale,
usati come sostantivi femminili (Guittone: la
16
freddore, nova valore), ma soprattutto sono tanti e
ripetuti, anche se molti di loro poi sono scomparsi,
filtrati dal vaglio severo della successiva poesia
stilnovistica.
L’impegno laboratoriale sulle nuove lingue
scatenò lo sfruttamento non solo dei prestiti
accessibili da lingue vicine o dal latino, ma anche
delle possibilità derivative più correnti, con una
produzione di sostantivi astratti (molto richiesti
dall’ideologia medievale) variamente suffissati (o
transcategorizzati da verbi corrispondenti), solo in
minima parte sopravvissuti alla selezione trecentesca.
Questa è una serie di sostantivi da participi passati, di
cui alcuni come partito o partita, ornato o perdita
ancora in uso (ancorché con significati in parte
mutati), e i più scomparsi (come questi in Davanzati:
dimorata «lontananza», redita «ritorno», tardato
«ritardo», donato «dono», ecc.); alcuni sono
sopravvissuti solo in sottocodici o locuzioni speciali,
17
come dipartita (negli annunci funebri), o in giudicato
(in diritto). Stessa cosa si può dire dei sostantivi
deverbali agentivi in -tore: avanzatore, serbatore,
comandatore, fallatore, ecc. La lingua dei poeti è
ricca di materiali lessicali oggi scomparsi, ma prodotti
con procedure formative ancora adesso funzionanti,
come gli aggettivi in -oso (abondosa, vertudiosa) o i
sostantivi in -mento (dimoramento, servimento).
Questa sovrabbondanza derivativa era
caratteristica anche di certa poesia religiosa, come
quella di Jacopone da Todi, solo apparentemente più
popolare. Jacopone usa provenzalismi in -ore come
amarore, grossore, ecc., e astratti da participio
passato come adoperato «comportamento»,
abracciata «abbraccio», delettato «piacere», fallita
«colpa», ecc. Jacopone adopera anche latinismi, come
cogitato «pensiero» e decetto «delusione», e
idiomatismi umbri, come enquina «diabolica»,
esciucco «asciutto». L’insieme compone un quadro
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molto mosso, con una spiccata polimorfia (si veda la
serie fallura / fallemento / fallenza o vilezza / vilanza /
vilitate), che è una caratteristica della lingua antica,
molto e a lungo sfruttata dalla lingua poetica.
L’esuberanza derivativa e l’ospitalità a
proventi da lingue diverse sono quasi costitutive della
lingua poetica e in generale di quella letteraria antica.
Ma il contatto di un volgare con altri volgari non
riguarda solo il lessico. Per es., certa morfologia
siciliana è penetrata e rimasta nella morfosintassi
poetica italiana anche una volta arrivata in Toscana e
poi nel resto d’Italia. È quello che è successo con
l’imperfetto (dei verbi in -ere) e il condizionale (di
tutte le classi) in -ia, sicilianismi morfologici di
grande fortuna anche in Toscana, dove pure devono
subire la concorrenza delle forme indigene in -e(v)a e
in -ei e restano per secoli come marchi poetici
(Serianni 2009).
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La lingua della poesia, specie quella d’amore,
è un mosaico di lingue sorelle, farcita di prestiti e
lavorazioni colte e alla moda. Anche in testi più
prossimi alla realtà linguistica di partenza, lo
sfruttamento delle possibilità aperte in uno stato della
lingua che non ha ancora subito la selezione di una
norma è diffuso, specie in forma di recupero di
latinismi e prestiti dal francese e dal provenzale.
20
6. La prosa antica
La varietà di lingue è più ricca in poesia che in
prosa, a parte i casi di prose molto sostenute
retoricamente, come le Lettere di Guittone d’Arezzo,
o di prose per la loro storia a contatto con altre lingue,
come lo sono col francese le prose dei romanzi
arturiani, che ospitano numerosi e poi dispersi
gallicismi, come aunire «disonorare», difalta «colpa»,
diservire «meritare», vengianza «vendetta», ecc.
(Casapullo 1999). In testi di tipo tecnico-scientifico o
enciclopedico la lingua locale è più evidente, ma è
comunque impegnata al confronto col latino
scientifico. Ristoro d’Arezzo, nella sua enciclopedia
scientifica volgare, immette parole come gibosità,
siccità, equatore, latitudine, cartillagine, orizzonte,
ecc., che si allontano inevitabilmente dall’aretino di
base.
21
Tuttavia anche in prosa le lingue volgari
mostrano la primitiva abbondante polimorfia interna,
con soluzioni concorrenti per la stessa forma. Per es.,
nel Novellino, racconti toscani del Duecento, si
trovano fossero e fossoro, andò e andoe, il o el come
articolo, ecc. (cfr. Dardano 1992).
Ma per la prosa il problema, più che lessicale,
è sintattico e rivela la difficoltà di gestione della frase
nella lingua delle origini, dove dilatati rapporti di
coordinazione denunciano la problematicità della
successione logica («Uno della marca andoe a studiare
a Bologna. Vennerli meno le spese. Piangea. Un altro
il vide, e seppe perché piangea; disseli così»:
Novellino LVI), mentre quelli di subordinazione
praticano incerte soluzioni intermedie, come nei
costrutti paraipotattici (Dardano 1969): «Madonna
Agnesina di Bologna, istando un giorno in una corte
da sollazzo, ed era donna de l’altre» (Novellino VII).
Indizio di questa ambiguità sintattica è anche
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l’oscillazione nome / verbo, con forme come certe
perifrasi di essere col participio presente (esser
soffrente, como sì stata osante, così fu l’uom
perdente; cfr. Corti 2005) e i caratteristici usi del
gerundio in luogo dell’infinito preposizionale (Dante,
Vita nova: «quelle parole che tu hai detto in
notificando la tua condizione») o del gerundio
assoluto, sul modello latino dell’ablativo assoluto
(Tristano: «E dimorando la notte lo re Marco in sul
pino, e messere Tristano venne alla fontana»).
Le scritture antiche documentano bene anche
un altro punto spesso poi variato nella sintassi
dell’italiano: la reggenza dei verbi (Brambilla Ageno
1964); domandare può essere costruito con l’oggetto
diretto della persona (Novellino LXXVII: «e
domandassela che ella li contasse»), innamorarsi o
dilettarsi possono presentarsi in forma non
pronominale (ibid.: «e innamoròvi d’una Sarda»;
Guittone, Lettere: «frate, non delettate el mondo»),
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offendere avere il complemento indiretto («e più
Tholomeo à offeso a me ke non fea Pompeio», Conti
di antichi cavalieri). Tratto tipico della sintassi antica
è poi la tendenza a realizzare in forma enclitica il
verbo pronominale in inizio assoluto di frase o in
quello della reggente (anche coordinata
asindeticamente, oppure con e o ma), rifiutando
l’attacco di frase con forme atone (la cosiddetta legge
Tobler-Mussafia).
24
7. Dante e la prima selezione del
volgare
Dalla fine del Duecento e per i primi decenni
del XIV secolo la vivacità politico-economica di
Firenze e delle altre città toscane e il successo
letterario degli scrittori di quella regione fanno sì che
uno dei volgari, il toscano di Firenze, cominci a
primeggiare per poi affermarsi anche fuori dai confini
nativi, segnalandosi quale campione delle lingue
materne, vuoi per gli impieghi letterari, vuoi per quelli
pratici. Parallelamente, si effettua una prima, ampia
selezione di materiali, che riduce parecchio la
polimorfia delle origini, almeno nel settore dei
doppioni lessicali e comincia a variare, anche se non
sistematicamente, alcune tipologie di costrutti
sintattici, come la sequenza accusativo + dativo del
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doppio pronome personale o l’enclisi pronominale
obbligatoria appena accennata.
La prima grande opera di normazione del
volgare toscano è svolta da Dante, che la teorizza ai
primi del Trecento nel suo De vulgari eloquentia.
Dante parte dalla ricognizione della varietà di lingue
dell’Italia medievale per celebrare nel lavoro di
scarto, fissazione e arricchimento della lingua da parte
dei poeti lo strumento migliore per passare da un
volgare rustico a uno illustre, alla «decentiorem atque
illustrem Ytalie loquelam». Il trattato di Dante coglie
il nesso tra lingua di cultura e ruolo delle istituzioni
pubbliche, intravvedendo, con lucida preveggenza,
nella lingua della letteratura un veicolo di unità tanto
più prezioso quanto meno operanti sono, nella
Penisola, i vettori sociopolitici unificanti.
Il lavoro di selezione sulla lingua è stato
avviato da Dante stesso e dai poeti dello Stilnovo, che
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cominciarono a scartare alcuni eccessi della poesia
precedente, per es. nel dominio dei derivati dal
francese e dal provenzale. Nella Commedia ricorrono
varie forme in -anza, -enza, ma non così numerose
come nella poesia toscana precedente e sfruttate in
rima solo una decina di volte (la disponibilità alla
rima rendeva graditi questi sostantivi: fallanza :
sembianza : possanza; onranza : nominanza; credenza
: temenza : coscienza; parvenza : intenza). È
significativo che nel poema per 2 dilettanza ci siano
15 diletto, per 3 disianza 50 disio, per un fallanza 9
fallo. Anche i sostantivi da participio passato,
maschili e femminili, rimasti in Dante dopo
l’abbondante afflusso duecentesco, sono pochi e quasi
tutti ancora vivi oggi. D’altra parte, Dante sembra
preferire i deverbali a suffisso zero, anche
nell’opzione tra questi e gli astratti suffissati in -zione:
8 affezione contro 23 affetto, un solo dubitazione
contro 9 dubbio, e sono pochi gli allotropi come
salvazione / salvamento.
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Molto selezionati anche i sostantivi in -ore di
derivazione provenzale, come i residui dolzore e
riccore delle Rime e lucore della Commedia, e quelli
che restano (ma spesso sono latinismi, come fulgore,
candore, valore, splendore, e non provenzalismi) sono
ancor oggi normalissimi. Lo stesso si dica degli
agentivi in -tore, -sore, un po’ più abbondanti nel
Convivio, ma molto ridotti nel poema, e quelli rimasti
quasi tutti in uso ancora oggi. Non sempre però Dante
pota; a volte mantiene e sfrutta, come accade in vari
casi di polimorfia: basti pensare ai sostantivi dal latino
-tatem, -tutem che possono esitare, in fiorentino, il
tronco -tà, -tù (in prosa o fuori rima) o l’allotropo -
tade, -tude e, in letteratura, il latineggiante -tate, -tute
(specie in versi e in rima), come vertù / virtute /
vertude, età / etade / etate, ecc.: una molteplicità di
esiti particolarmente utile in poesia. Nella Commedia
virtù conta 63 e virtute/-tude 27, pietà 13 e pietate/-
tade 6, ecc.
28
Meno selettivo è Dante nel dominio della
morfologia verbale e della morfosintassi. Per es., nel
poema, le seconde persone singolare del presente
indicativo escono in -i, ma, specie in rima, anche in -
e, esito tipico della generazione di Dante e attestato
nella Commedia una quarantina di volte, con
oscillazioni del tipo pense / pensi, guarde / guardi;
alla prima persona plurale i verbi in -e- alternano
forme in -emo, abituali nel fiorentino del Duecento, a
forme analogiche in -iamo (semo / siamo, avemo,
volgiam, poniam) di più recente impiego. Le terze
persone singolari del passato remoto con epitesi
vocalica popolaresca (numerose nel Novellino
duecentesco) alternano con quelle ossitone (aprio /
aprì, udie / udì) e la terza persona plurale dei verbi in
-a- per un quarto accoglie il tipo -aron(o) e per il resto
-aro, più antico, mentre, nei verbi in -e-, prevalgono
gli esiti in -ero (credettero, volsero, caddero). Il
condizionale prevalente è quello toscano in -ei, che ha
la meglio su quello in -ia, pur resistentissimo. Nella
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Commedia si trovano dovrebbe e dovria, sarebbe e
saria, avrebbe e avria, con oscillazioni che la lingua
poetica italiana avrebbe sfruttato per secoli.
In Dante l’oscillazione fonomorfologica è
dovuta alla compresenza di livelli generazionali
diversi e di spinte diatopiche concorrenti dentro lo
stesso volgare fiorentino, ma anche all’uso espressivo
dei diversi livelli sociolinguistici della sua lingua:
alcuni versi famosi traggono il materiale da livelli
diastratici bassi e in altri casi sono forme vernacole
locali a situare un personaggio nella sua geografia
linguistica originaria.
Il poema resta dentro una grammatica
fiorentina ripulita dagli eccessi neologici della poesia
precedente ed espone un alto numero di parole in
precedenza non ancora emerse alla scrittura. Alcune,
peraltro, sono invenzioni d’autore, come i celebri
verbi paransintetici che poi avranno significativa
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fortuna letteraria (i famosi intuarsi, immiarsi, indiarsi,
ingigliarsi;), o gli adattamenti originali dei latinismi
(rui di Inf. XX, 33, liqua di Par. XV, 1).
31
8. Petrarca
Ancora più decisive di quelle dantesche sono
le selezioni di Francesco Petrarca nel Canzoniere. I
Rerum vulgarium fragmenta constano di 3275 parole
per un totale di 57.625 occorrenze (in varia forma),
laddove Davanzati ne contava 5016 per un insieme di
circa 35.500 e le Rime di Dante 3550 per un totale di
circa 18.200.
Vitale (1996) ha registrato la definitiva
potatura degli astratti provenzaleggianti in -anza, -
enza, ridotti ai pochi testimoni di uso poi fortunato
(baldanza, rimembranza, sembianza, col solo temenza
a essere oggi fuori ruolo), in generale dei gallicismi,
di cui restano quelli ormai pienamente acclimatati
(dolzore, noioso, speglio, sovenire), dei suffissati in -
mento e in -ezza, anch’essi già ampiamente
ridimensionati dallo Stilnovo, sicché, anche quando
32
abbonda in vecchi suffissati, come gli aggettivi in -
oso, le scelte di Petrarca cadono sempre su dati poi
consolidatisi (tolti forse aventuroso, doglioso,
dilectoso). Petrarca tende anche a chiudere il dittongo
dopo consonante + r (prova, trova, preghi),
anticipando un comportamento che sarebbe diventato
norma assai dopo. Dove lascia aperte certe
oscillazioni (etate / età, vertute / vertù), queste restano
per secoli in poesia.
Petrarca va ben oltre Dante, riducendo anche
le oscillazioni fonomorfologiche, per quanto, come si
è visto, alcune restino, anche se in rapporti numerici
spesso nettamente sbilanciati a favore degli esiti poi
grammaticalizzati dalla lingua: per es., mio è usato
385 volte e meo 5, pietà 48 e pietate 22 (Manni 2003).
Le scelte di Petrarca sarebbero diventate legge; e
anche le sue non scelte.
33
9. Boccaccio
Le oscillazioni nel fiorentino del Decameron
di Giovanni Boccaccio sono state ben documentate da
Stussi (1995), che segnala la compresenza di tratti
arcaici con «i segni di un incipiente sviluppo» legato
alla dimensione sempre più regionale del volgare
fiorentino.
Pertanto si ha ancora quasi sempre pruova (e i
dittonghi dopo consonante + r), ma una volta prova,
nego ma anche niega (al contrario di Petrarca),
sofferire (più antico) e soffrir (più recente), seguìo
(più antico) ma per lo più seguì, con casi ravvicinati di
polimorfia come nel gerundio di vedere: «andando da
torno veggendo e molti mercatanti [...] vedendovi»
(Dec. II, 9, 47) o nella terza persona plurale del
congiuntivo imperfetto: «Quanto questi gentili uomini
m’onorassono e lietamente mi ricevessero» (II, 7,
34
113); o della stessa persona del passato remoto:
andaro / andarono, dissero (prevalente) / dissono,
risposero / risposono e del condizionale avrebbero /
avrebbono, potrebbero / potrebbono, anche se
tendono a prevalere i tipi poi assunti a norma.
Anche un fenomeno sintattico tipico della
lingua antica, l’enclisi del pronome nel verbo ai sensi
della suaccennata legge Tobler-Mussafia, sembra
meno sistematico, ancorché ben attestato: «E
quantunque queste ciance non ti stean bene, dicolti io
di lei» (Dec. III, 3, 19), specie quando la reggente
segue la dipendente: «Gabriotto udendo questo, se ne
rise» (Dec. IV, 6, 13). Si equivalgono i casi con
doppio pronome nell’ordine antico, accusativo +
dativo (la mi, dalmi), e casi, come nell’italiano
moderno, in ordine inverso (me lo, datemelo).
La sintassi è il luogo di maggior stacco della
lingua antica e soprattutto di quella molto elaborata
35
del Decameron dall’italiano contemporaneo. Per es.,
ci sono costrutti col dativo con verbi causativi («la
feci a [= da] un mio famigliare uccidere»: Dec. II, 9,
62) e persino col doppio dativo disambiguati dalla
lingua moderna con da («io feci fare alla [= dalla] mia
donna a colei che l’aspettava questa risposta»: Dec.
III, 6, 19). C’è nel Decameron anche un uso quasi
pleonastico dei verbi modali, specie dovere («gli entrò
nel capo non dover potere essere che essi dovessero
così lietamente vivere»: Dec. VIII, 9, 8). Notevole è
anche una più libera coordinazione tra elementi
sintatticamente e semanticamente non omogenei o con
replica della preposizione in dittologie: «con bella e
con gran gente» (Dec. II, 7, 63); o con abbinamento di
un costrutto con verbo di modo infinito e uno di modo
finito («avendo disposto di fare una notabile e
maravigliosa festa in Verona, e a quella molta gente e
di varie parti fosse venuta [...] subito [...] da ciò si
ritrasse»: Dec. I, 7, 6). Resiste l’antica paraipotassi:
«se voi non gli avete, e voi andate per essi» (Dec.
36
VIII, 2, 30). La forma pronominale del verbo è spesso
preferita in vari tipi di subordinate, specie
interrogative indirette («quello che il mio corpo si
divenisse io non so»: Dec. IV, 2, 35; «elle non sanno
[...] quello che elle si vogliono»: Dec. III, 1, 11).
La sintassi del Decameron non presenta solo
tratti antichi, desueti, come la paraipotassi o il
gerundio preposizionale, ma anche forme oggi
vivissime nel parlato (D’Achille 1990) come la
dislocazione («Quel cuore, il quale la lieta fortuna di
Girolamo non aveva potuto aprire, la misera
l’aperse»: Dec. IV, 8, 32) o l’anacoluto («Il Saladino
[...] gli venne a memoria un ricco giudeo»: Dec. I, 3,
6).
Ma più che per le libertà sintattiche dell’autore
e della sua lingua, che presenta spesso successioni più
di senso che di logica e procedure coesive non sempre
perspicue (Dardano 1992), Boccaccio dettò legge
37
all’italiano letterario per il suo frequente ricorso a un
ordo artificialis di discendenza latina, che imbottisce
il periodo di subordinate e sposta il verbo principale in
fondo. Come rilevato da Manni (2003), sono molti i
procedimenti di inversione (participio-ausiliare, verbo
modale-verbo principale: «fatto aveva guardare se
partito fosse»: Dec. I, 7, 22; «se io far lo potessi»:
Dec. I, 9, 6), le coppie di aggettivi distanziati tra loro
(«un valente uomo di corte e costumato»: I, 87), i
costrutti latineggianti (per es., le oggettive sullo
schema latino di accusativo e infinito), i gerundi
assoluti («avvenne che egli si trovò un giorno,
desinando messer Cane, davanti da lui»: Dec. I, 7,
10), i participi presenti di valore gerundiale («il quale,
sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse»:
Dec. III, 2, 32), l’ampia tmesi, cioè l’intromissione di
numerosi elementi tra i membri di un sintagma o
addirittura di una stessa forma («avendo l’abate per
fama molto tempo davante per valente uom
conosciuto»: Dec. I, 7, 25).
38
Nel lessico, le novelle di Boccaccio non hanno
le ambizioni selettive del Canzoniere, sono più
ospitali e mosse e coprono, anche per ragioni di
mimetismo linguistico, le aree di più diversa
provenienza. Il vocabolario del Decameron giunge ad
attestare vari livelli sociolinguistici e persino ambiti
dialettali diversi, abilitando alla scrittura forme
popolaresche, non solo fonomorfologiche, ma anche
lessicali, termini di cose, oggetti, aspetti della vita
quotidiana (nelle novelle di Calandrino o della
Belcolore: ribeba «strumento musicale a corde»,
codolo «ciottolo», ceteratoio, gnaffé), senza che
manchino quelle colte, della tradizione letteraria
precedente, come i sostantivi poetici gallicizzanti in -
anza o -aggio, come perdonanza o maritaggio, o i
latinismi vistosi, come pecunia, olire, capere
(Maraschio 1992).
39
10. Conclusioni sulle Tre Corone
In poco più di un secolo, durante il quale
diversi volgari italiani superarono la soglia della
comunicazione scritta e colta, letteraria e pratica, uno
di essi, il fiorentino, sperimentò, in rapida
successione, la crescita esuberante del lessico e la
caotica polimorfia, e mise in moto un meccanismo di
selezione che ricondusse a misure maneggiabili la
polluzione lessicale e attenuò (anche se meno) la
variabilità fonomorfologica della prima lingua.
Dante, Petrarca e Boccaccio, le cosiddette Tre
Corone, contennero e regolarizzarono un lessico
letterario che tendeva alla moltiplicazione e
all’importazione incontrollata e legittimarono parole
nuove, anche di estrazione popolare, restando fedeli
alla grammatica nativa. Grazie a loro, alla loro rapida
fortuna e alla potenza economica e politica di Firenze,
40
il fiorentino divenne un modello di riferimento per il
resto dell’Italia che scrisse (lo riconobbe già ai primi
del Trecento il padovano Antonio da Tempo).
Insomma, cominciò a produrre una sua norma e a
diventare norma.
41
11. Successo e crisi del volgare
Le Tre Corone sono determinanti per la storia
dell’italiano e per questo hanno richiesto tanto spazio.
È soprattutto a loro che si debbono, perlomeno in
poesia, la rapida diffusione e l’immediato prestigio
del fiorentino, osservabile già nelle scritture letterarie
non toscane del Trecento.
La desinenza -iamo della prima persona
plurale del presente indicativo, tipicamente fiorentina,
comincia ad apparire in testi non toscani, dall’Umbria
al Veneto a Napoli; lo stesso si dica dell’anafonesi
(chiusura di é e di ó, rispettivamente da i e u latine, in
parole come famiglia, lingua, fungo, punto), altro
tratto molto esclusivo del fiorentino e da allora via via
sempre più italiano (Manni 2003). Il toscano comincia
a fornire un modello linguistico, almeno in poesia,
transregionale, anche se sarebbe passato ancora del
42
tempo prima che lo potesse diventare in maniera
sistematica e ovunque. Dove non arriva il toscano è
spesso il latino, che resta ovviamente una riserva
sempre disponibile, a fornire materiali accettabili in
qualsivoglia dominio linguistico italiano che ambisca
a una comunicazione meno vernacolare.
All’inizio del Trecento, Dante aveva intuito,
con la sua ben nota lucidità, le grandi possibilità delle
lingue naturali, proclamando il volgare, proprio per la
sua naturalezza, persino più nobile del latino. Nel
corso del secolo il volgare guadagna spazi sempre
nuovi, dalla storiografia (Compagni, Villani,
l’Anonimo Romano), alla narrativa (non solo in
Toscana, ma anche a Roma e a Napoli), alla prosa
scientifica (volgarizzamenti, di trattati di religione,
medicina, geometria, ecc.; non solo in Toscana ma in
tutta l’Italia del Nord), per non dire dell’autorevolezza
che acquista anche in ambito clericale, con l’impegno
dei predicatori a comporre sermoni nei diversi volgari
43
(celebri quelli toscani di Giordano da Pisa ai
primissimi del secolo).
Una cinquantina d’anni dopo Dante,
Boccaccio afferma (Trattatello in laude di Dante)
ancora l’eccellenza e il valore sociale dell’impiego del
volgare in scritture colte e celebra col poeta della
Commedia la lingua fiorentina e la sua
regolamentazione: «per costui la chiarezza del
fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni
bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è
regolata».
Ma nubi si affacciano all’orizzonte della
nuova lingua. Il latino, che pareva avviato alla
sconfitta, rialza il capo e recupera terreno. Già
Petrarca, pur grande poeta volgare, si reputava e si
augurava di essere uno scrittore soprattutto in latino,
lingua che aveva cominciato a ripulire dalla vernice
medievale e a recuperare nella sua originaria veste
44
classica, e che usava per le sue opere più ponderose e
a suo giudizio importanti. Boccaccio stesso dedicava
la seconda parte della sua vita, dopo il Decameron,
soprattutto a opere erudite in latino. Il latino tornava
alla ribalta della cultura, da cui, per altro, non era mai
uscito.
L’effervescenza socioeconomica e politica che
aveva fatto decollare i volgari in Italia e in particolare
in Toscana si attenua nel corso del XIV secolo, si
riduce la vitalità dei comuni e di quelle corti che
avevano con tanta convinzione sostenuto e praticato il
volgare come lingua anche per usi colti. Di questo
mutamento approfitta il latino per tornare al centro
della vita intellettuale; la lingua classica, ora meglio
conosciuta e padroneggiata, è sempre pronta a
rioccupare i territori ceduti al volgare.
45
12. Toscano e italiano
Gli intellettuali riprendono a puntare sul
latino, col risultato che l’uso del volgare tra secondo
Trecento e primi Quattrocento è o affrontato con
riluttanza o lasciato a scrittori meno ambiziosi e
moderni. Se ne vedono bene le conseguenze a
Firenze, dove il fiorentino argenteo, con tratti che lo
differenziano già nettamente da quello delle Tre
Corone, circola in testi soprattutto narrativi minori ed
espone una grammatica che ancor oggi sembra più
regionale e meno nazionale di quella rappresentata dal
fiorentino dei grandi del Trecento.
Come è stato osservato da Manni (2003), le
novità, sia le intrinseche che le indotte dagli
accresciuti contatti con i volgari di campagna e di
altre città toscane, differenziando il fiorentino post-
trecentesco da quello delle Tre Corone, distinguono
46
quello che poi sarebbe stato, in buona sostanza,
l’italiano da quello che sarebbero restati il fiorentino o
il toscano, in un processo di divaricazione tra lingua
viva, parlata e locale, e lingua scritta, normalizzata e
nazionale, caratteristico del seguito della storia
dell’italiano fino all’Unità.
Sulla base di Manni (1979 e 2003) si indicano
alcuni tratti che cominciano ad affacciarsi nel
fiorentino dei testi letterari tra Trecento e
Quattrocento e che si trovano in scrittori toscani
almeno fino al Cinquecento e spesso anche molto
oltre, ma che non sono mai stati pacificamente accolti
nella norma dell’italiano: uscita in -ono delle terze
persone plurali del presente indicativo dei verbi di
prima classe (lavono); uscita in -i della prima e terza
persona singolare e in -ino della terza persona plurale
del congiuntivo presente dei verbi di seconda, terza e
quarta classe (che io, egli abbi, che essi abbino); terza
persona singolare e plurale dell’imperfetto
47
congiuntivo in -i e -ino (che egli avessi, che essi
avessino); terza persona plurale del passato remoto dei
verbi di prima in -oro e -orono (lavoro, lavorono), e,
per i verbi di terza con passato remoto forte, in -eno
(disseno); seconde persone plurali di passato remoto,
imperfetto congiuntivo e condizionale analogiche
sulla seconda singolare (voi lavasti, che voi lavassi,
voi laveresti); articolo determinativo el, e, unica
regola davvero accolta dalla norma, ma molto tardi
(nell’Ottocento), la prima persona singolare
dell’imperfetto indicativo in -o invece che in -a.
I toscani, per più ragioni, sono i più tenaci nel
difendere dignità e spazi del volgare e uno di loro,
propugna a metà Quattrocento il significato
socioculturale dell’uso delle lingue materne, fissando
un nesso tra lingua e nazione destinato a diventare via
via più forte in tutta Italia. Nel Proemio ai Libri della
famiglia Alberti difende l’uso del volgare, la cui
prosperità dipenderebbe da quanto e come lo
48
adoperano i migliori scrittori e giunge a stendere la
prima grammatica del toscano, primizia
metalinguistica non solo italiana ma anche europea.
Nella sua Grammatichetta (Alberti 1996) prevede, in
linea col fiorentino del suo tempo, lui pronome
soggetto, el articolo determinativo, coniuga voi sete,
che voi havessi, che tu habbi, che essi habbino, io
amavo, proponendo soluzioni solo in parte e
comunque molto tardi accolte dalla norma nazionale.
49
13. Il volgare fuori della Toscana
Intanto, nonostante il prestigio culturale del
latino, il volgare anche fuori della Toscana trova
impiego in usi ufficiali come quello delle cancellerie e
cerca nel riferimento al toscano un modello per
superare una dimensione troppo locale.
Tuttavia, la crisi di quella specie di classe
media che aveva favorito l’affermazione culturale dei
volgari e la scomparsa di vecchie istituzioni cittadine
come i comuni fanno sì che il volgare segni il passo
ovunque. A Firenze, ovviamente, meno che altrove.
Grazie a una precoce consapevolezza del nesso tra
successo politico e splendore linguistico, l’attenzione
al volgare a Firenze non viene mai davvero meno e
presto la lingua materna si presenta come strumento di
identità e rivendicazione politica del nuovo stato
mediceo. Altrove il processo è più lento, ma si mette
50
in moto quasi ovunque con gli stessi meccanismi:
forte posizionamento grammaticale della lingua locale
sul fiorentino trecentesco di Dante, Petrarca e
Boccaccio, soccorso del latino, conservazione di non
molti tratti fonomorfologici del volgare nativo. Ne
nasce un italiano a forte base comune, ma variamente
mescidato, persino in sede poetica, dove l’azione
regolarizzatrice e omogeneizzante di Petrarca è
comunque fortissima. Via via si sviluppano quelle che
sono state dette le lingue di koinè, cioè gli italiani di
macroregioni culturali che fanno riferimento a
importanti sedi istituzionali e politiche (Milano,
Ferrara, Napoli).
Nel secondo Quattrocento il ritorno dell’alta
cultura al volgare avviene sotto la spinta delle nuove o
riaffermate istituzioni signorili locali (Visconti,
Sforza, Medici, Estensi, Aragonesi, ecc.), che cercano
legittimazione e consenso nel mondo popolare più che
in quello altoborghese o seminobiliare, affezionato al
51
latino. Il volgare diventa la lingua che unisce il
signore al popolo e i dotti debbono riprendere a
impegnarvisi. A Milano, Ludovico Maria Sforza fa
tradurre dal latino il racconto delle gesta di Francesco
Sforza da Cristoforo Landino, che scrive: «fu
prudentissimo [...] consiglio [...] che le medesime cose
fussino celebrate nella fiorentina lingua, la quale è
comune [...] a tutte le genti italiche» (Vitale 1988). Ad
ogni modo, sia pure per impulso politico più che per
trazione culturale, il volgare torna alla letteratura di
primo piano, che, non a caso, si realizza non solo nei
modi canonici della lirica (petrarchesca), ma anche in
quelli più nazional-popolari dei poemi cavallereschi e
addirittura in quelli popolareschi del teatro rusticale e
del poema contadino.
52
14. Le lingue di koinè
La sponsorizzazione politica del ritorno al
volgare spiega anche le ragioni dell’ultima (per secoli)
significativa variazione diatopica dentro l’italiano
colto e scritto. I tratti locali, spesso della lingua stessa
della corte, non possono né vogliono essere del tutto
cancellati, specie quando coincidono, più del
fiorentino, col latino (il caso delle forme
monottongate di core o foco, per es., rispetto a quelle
con dittongo) o più del fiorentino coevo con quello
poetico di un secolo prima.
Ne nasce perciò una lingua complessivamente
unitaria ma diversificata, con lo stesso toscano teso ad
autenticare letterariamente quelle forme della sua età
argentea, diverse da quelle del periodo aureo delle Tre
Corone. Succede così che persino il levigatissimo
volgare dell’iperdotto Poliziano, nelle Stanze per la
53
Giostra, non nasconda tratti del fiorentino
quattrocentesco differenti da quelli due-trecenteschi e
pertanto infine scartati dall’italiano: per es., come ha
mostrato Tavoni (1992), l’articolo è ora il ora el, la
terza persona singolare del congiuntivo imperfetto è in
-i (che egli lasciassi). Questi tratti, insieme con un
lessico più popolaresco ed espressivo, possono essere
ritrovati nel Morgante di Luigi Pulci (dove si trova -
ano o -an per -iamo alla prima persona plurale del
presente indicativo o che voi campassi per voi
campaste) o nella rusticale Nencia da Barberino di
Lorenzo il Magnifico (dove l’antica velare di origine
popolare prende estensivamente il posto della palatale
comunque prodottasi, come in migghiaio «migliaio» e
begghi «begli»).
Fuori della Toscana la mescidanza non è solo
o tanto tra fiorentino d’annata e quello attuale, quanto
tra fiorentino letterario, latino e volgare locale, in quei
prodotti misti e variegati che sono stati chiamati
54
lingue di koinè. Per es., come ha mostrato Mengaldo
(1963), il ferrarese Matteo Maria Boiardo, nelle sue
poesie, alterna fedeltà al toscano del Trecento e
fedeltà al volgare locale, a volte coincidenti. Dunque,
-iamo della prima persona plurale del presente
indicativo prevale sulle concorrenti non toscane,
mentre alla terza persona plurale la maggioranza
regolare in -ono dei verbi di seconda ammette qualche
deroga a un più vernacolare -eno. Peraltro, non c’è
quasi traccia della sonorizzazione settentrionale delle
sorde intervocaliche; i tratti più vistosamente
vernacolari sono ridotti o del tutto eliminati.
Allo stesso modo i poeti napoletani colti
occultano il dittongamento metafonetico meridionale,
molto visibile invece in autori più popolareggianti
(Corti 1956) ed esibiscono quello toscano anche oltre
i suoi limiti (per es., sono ancora numerosi i dittonghi
dopo consonante + r). Ma a Napoli la seconda
generazione di poeti, quella di Cariteo e soprattutto di
55
Sannazaro, riduce ulteriormente i segni regionali e si
attesta sul toscano trecentesco, che sta per diventare la
norma nazionale.
L’attrazione del fiorentino letterario di
Petrarca (soprattutto) è più forte nella poesia lirica e
meno nella poesia narrativa e in prosa. La lirica è
all’avanguardia nel processo di normalizzazione del
toscano letterario. La poesia narrativa, dei cantari e
dei poemi, invece, è più legata alle culture locali e
quindi si attarda di più a conservarne, sia pure in
piccola parte, i tratti. Per es., l’Orlando innamorato di
Boiardo presenta una veste linguistica assai più
regionale degli Amorum libri dello stesso autore:
presenza di forme non anafonetiche come ponto,
lengue, monottongo su dittongo toscano, -ar- atono su
-er (maraviglia, andarò), sibilante per affricata
palatale (faza), prima persona singolare del passato
remoto in -e (io disse); ma significativamente molti di
questi e altri simili fenomeni di koinè sono già ridotti
56
in un ramo della tradizione (tormentata) del testo dello
stesso poema.
57
15. Un’ipotesi di grammatica per un
italiano regionale
L’ultimo tentativo di affermarsi delle lingue di
koinè si ha nel Cinquecento con la proposta di un
italiano capace di accettare le variabili regionali: si
tratta della teoria cortigiana della questione della
lingua e della proposta cosiddetta italiana di una
grammatica.
Soprattutto nell’Italia settentrionale (Grignani
1990), dal Piemonte (Cornagliotti 1990) alla
Lombardia (Sanga 1990b), si afferma una dimensione
linguistica in cui i tratti fonomorfologici (e anche
lessicali) locali hanno un loro spazio, con esiti di
considerevole polimorfia interna a ognuna e
trasversale tra le diverse lingue di koinè. Queste
lingue, sostenute dalle buone prove letterarie della
58
lirica cortigiana e della poesia narrativa quattro-
cinquecentesca, arrivano a produrre ipotesi
grammaticali di una certa importanza e a trovare
giustificazioni teoriche di grande autorevolezza nella
questione della lingua, come quelle esposte nel
Cortegiano da Baldassarre Castiglione.
Il vicentino Gian Giorgio Trissino nella sua
grammatica (Trissino 1986) autorizza variabili padane
accanto alla norma toscana trecentesca. Per es., nella
morfologia verbale, resistono le desinenze
etimologiche della prima persona plurale del presente
indicativo (noi leggemo, noi sentimo), le uscite in -eno
(leggeno, senteno) invece delle toscane in -ono alla
terza persona plurale, le desinenze in -e della prima e
terza persona singolare dei verbi di prima classe al
congiuntivo presente (che io, che egli honore), la
prima e la terza persona plurale del congiuntivo
imperfetto in -essemo e -asseno (hornaressemo,
honorasseno, sentissemo, sentisseno) non fiorentini, la
59
terza persona plurale del passato remoto dei verbi di
seconda in -eno (lesseno), la prima persona plurale del
condizionale analogica sull’imperfetto congiuntivo
(per cui honoraressimo, seressimo, leggeressimo).
Bastano questi casi per misurare come la
lingua della più autorevole e diffusa koinè, quella
settentrionale, abbia elaborato (senza successo,
peraltro) dei modelli grammaticali in vistosa
concorrenza con le forme del toscano antico e anche
coevo e abbia avanzato proposte certamente praticate
nell’Italia del Nord, ma poi non ricevute dalla norma
linguistica.
60
16. La grammatica dell’italiano
La grammatica finì per essere stabilita da un
intellettuale dell’Italia del Nord, ma convinto, da una
idea letteraria e umanistica della lingua, che i migliori
scrittori e non i luoghi o i tempi dovessero essere i
modelli su cui regolarla. Pietro Bembo, veneziano,
nelle Prose della volgar lingua del 1525 fissò le
ragioni ideologiche, culturali e letterarie della ricerca
nelle Tre Corone dei comportamenti linguistici ideali,
puntando la norma su un fiorentino accertato dai testi,
superato nella realtà dal suo discendente vivo e
contemporaneo (quello argenteo), ma accreditato di
maggiore autorevolezza dall’opera degli scrittori più
importanti. Nacque così la grammatica dell’italiano.
La grammatica di Bembo (Bembo 1989),
basata sui testi letterari, non elimina le oscillazioni
che caratterizzavano la lingua dei grandi del Trecento
61
e quindi fornisce una norma in cui gli scarti sono
quelli stessi già operati dai modelli, e che mantiene
tutte le varianti della polimorfia trecentesca che le Tre
Corone non avevano eliminato. In parte, però, le
razionalizza, ora addebitandole a non troppo
apprezzati apporti non fiorentini (da ricevere dunque
con cautela), cui sarebbero state sensibili le Tre
Corone: la prima persona plurale del presente
indicativo sempre in -iamo e «se semo e avemo»
usarono Petrarca e Boccaccio, non sono però della
lingua, ma straniere ancorché «già naturate»; lo stesso
le terze persone plurali del passato remoto in -eno
(«non sono toscane») o quelle dell’imperfetto
congiuntivo in -eno e -ono rispetto a quelle in -ero
(amassero, amassono, amasseno), i futuri in -aggio
(«da altre lingue tuttavia pigliandoli»), ora
attribuendole a particolari libertà della poesia (i
condizionali in -ia accanto a quelli toscani in -ei, i
congiuntivo presente dei verbi di prima classe in -e
invece che regolarmente in -i). Restano a ogni modo
62
accettate polimorfie che a lungo sarebbero rimaste
nell’italiano letterario, per cui l’uscita della seconda
persona singolare del presente indicativo dei verbi di
prima classe è in -i ma «eziandio nella -e, sì come fe’
il Petrarca», la prima e seconda persona plurale
dell’imperfetto indicativo dei verbi in -ere escono
tanto in -evamo -evate quanto in -avamo -avate
(leggevamo, leggiavamo, leggevate, leggiavate); la
terza persona plurale del condizionale presente è tanto
amerebbono quanto ameriano.
Molte regole sono però fissate univocamente:
le persone singolari del congiuntivo presente in -a dei
verbi di seconda e terza classe, da lodare di più che
quelle in -i specie alla seconda persona (dica / dichi);
il congiuntivo imperfetto coniugato come ancora oggi
si usa; la stessa sempre molto oscillante terza persona
plurale del passato remoto, in cui è fissato il tipo -
arono -irono -ero; relegata nell’arcaismo la terza
persona singolare dello stesso tempo con epitesi
63
vocalica dopo ossitono (sentio, poteo); rifiutata alla
seconda persona plurale l’uscita in -i (amaste e non
amasti), pur molto usata a Firenze nel Quattrocento;
in generale, censura della maggior parte dei fenomeni
del fiorentino argenteo e vivo all’epoca (addirittura
ignorata l’uscita in -o della prima persona singolare
dell’imperfetto indicativo, che dovrà aspettare secoli
per essere ricevuta dalla norma).
Va detto che una «discriminata selezione» era
supportata e in fondo anche richiesta dal nuovo
potente e omogeneo strumento di diffusione della
cultura: la stampa. La stampa richiede
normalizzazione grafica, anche se la ottiene solo col
tempo, mentre più rapida è la scomparsa dell’antica
scrittura mercantesca a favore dell’italica (Maraschio
1993), che trova poco spazio nelle stampe ed esce
anche dai manoscritti.
64
La tendenza alla normalizzazione promossa
dalle prime grammatiche cinquecentesche si può
misurare nel processo di revisione cui Ludovico
Ariosto sottopose, soprattutto nella terza redazione, il
suo Orlando Furioso, correggendo (Trovato 1994;
Boco 1997-2005) monottonghi in dittonghi fiorentini
(rivera → riviera, om → uom, socero → suocero),
variando le prima persona plurale del presente
indicativo da -amo -emo -imo a un prevalente e unico
-iamo, ritoccando il vocalismo atono (suspetto →
sospetto, reuscire → riuscire, intrare → entrare,
modificando la morfologia dell’articolo (il scudo → lo
scudo, el → il, dil → del); a volte, però, più che a
Bembo attenendosi al fiorentino quattrocentesco, per
es. con la chiusura (peraltro non sistematica) dei
dittonghi dopo consonante + r (ritruova → ritrova).
La tendenza alla norma non è però univoca e Ariosto
presenta casi di regressione per ragioni di rima, come
quando introduce una terza persona singolare del
congiuntivo imperfetto in -i (prestasse → prestassi), o
65
muta le terze persone del congiuntivo presente di
verbi di seconda classe dalla forma classica e
bembiana in -a a quella argentea in -i (abbia → abbi,
abbiano → abbino). La norma è stabilita, ma le
oscillazioni letterarie restano.
66
17. La grammatica in Toscana
Il successo delle Prose, che mettevano a frutto
l’opera di selezione già condotta, tanto tempo prima,
da Dante e Petrarca, allarma gli intellettuali toscani e
fiorentini. Particolarmente dura è l’opposizione
toscana contro la tendenza a detoscanizzare l’italiano
insita nell’opzione cortigiana e italiana, di cui era
stato il fautore più attivo Trissino, alle cui proposte
arrise un certo successo anche per una proposta di
riforma ortografica, cui si deve la distinzione moderna
tra ‹u› e ‹v›.
Contro il pericolo di essere spossessati delle
tradizionali prerogative linguistiche, a vantaggio di un
apporto concorde di tutte le regioni all’italiano, i
toscani scendono in campo, anche perché le tesi
italianiste potevano far perno nientemeno che sul
ritrovato De vulgari eloquentia di Dante, letto come
67
proposta di un archetipo di volgare più interregionale
che (come invece voleva l’Alighieri) sovraregionale.
Di particolare intelligenza le argomentazioni
filofiorentine consegnate da Niccolò Machiavelli al
Discorso intorno alla nostra lingua del 1524, che
mette a fuoco la differenza che c’è tra la struttura
grammaticale di una lingua e la sua disponibilità ad
accogliere (restando però sé stessa) modi e prestiti da
altre e solleva il problema della compatibilità di una
lingua non materna e viva con scritture di tipo
realistico o comico, cogliendo acutamente difetti di
espressività nelle commedie dell’Ariosto.
Un problema, questo di disporre di uno
strumento linguistico adeguato al realismo letterario,
che restò a lungo caratteristico della letteratura
italiana, in cui solo i toscani o gli scrittori dialettali
(basti pensare a Ruzante o più tardi a Carlo Goldoni)
seppero maneggiare bene la lingua delle scene
comiche e in genere delle scritture realistiche.
68
La prima grammatica del fiorentino data alle
stampe, quella di Giambullari (Giambullari 1986), pur
non indulgendo certo verso l’uso popolare vivo,
prevede tuttavia forme demotiche come fratelmo,
sirocchiata, che Bembo riprovava, ammette accanto
ad amarono il moderno toscano amorono e così
amarebbono accanto ad amerebbero, accanto
all’uscita antica in -a quella moderna in -o della prima
persona singolare dell’imperfetto indicativo; propone
che tu abbi e non che tu abbia (preferito da Bembo),
accetta le prime persone plurali del presente indicativo
in -emo -imo, accanto alle più fiorentine in -iamo:
insomma, accoglie tutta una serie di tratti che la
norma stava scartando o correggendo e che indicano
la parziale perifericità di Firenze nella fissazione della
norma dell’italiano.
69
18. L’Accademia della Crusca
La definizione della norma occupa tutto il
Cinquecento e si conclude all’inizio del XVII secolo,
quando si trova un accordo tra l’opzione toscano-
letteraria di Bembo e le rivendicazioni della lingua
nativa e viva dei fiorentini. Il terreno è offerto dal
lessico, fascia di per sé poco docile alla norma.
I fiorentini dell’Accademia della Crusca,
avviando una ricerca sul lessico che sfocia nel loro
celebre Vocabolario del 1612, coniugano
l’umanesimo metatemporale e per grandi autori di
Bembo con la loro sensibilità per la lingua popolare.
Accettando il rinvio al Trecento, non solo per la
grandezza delle sue Tre Corone, ma anche per la
freschezza nativa del toscano di allora, rilanciano la
loro lingua in tutte le sue dimensioni (letteraria e
70
pratica), salvaguardando contemporaneamente il
primato degli scrittori e della parlata.
Ne deriva una grammatica arcaizzante ma
anche popolare, che trova la norma nella lingua più
che nello stile di alcuni autori eccelsi. Naturalmente, è
una grammatica più orientata all’antico che al
moderno, con conseguenze pratiche non piccole per
gli usi nuovi della lingua, ma comunque capace di
restituire al toscano in sé quel primato che Bembo gli
aveva concesso solo in quanto lingua dei grandi
autori.
Questa soluzione (che si dovette ad alcuni
intellettuali particolarmente lucidi, tra cui, in
particolare, Lionardo Salviati) occupa per tutto il XVI
secolo i molti partecipanti al dibattito sulla questione
della lingua. Il suo successo si deve anche al fatto che,
mentre era sempre più forte la spinta verso l’impiego
letterario di un volgare unico per tutto il Paese, questa
71
spinta non era altrettanto forte su altri piani della
comunicazione sociale, men che mai su quello parlato
e pratico.
72
19. Scritto e parlati
Un impulso in tal senso sarebbe potuto venire
da una politica linguistica diversa da parte dell’unica
istituzione capace di coprire l’intero territorio
nazionale e di occuparsi anche della lingua parlata,
cioè la Chiesa di Roma. Ma la Chiesa, nel Concilio di
Trento, aveva ribadito la sua diffidenza e indifferenza
per le lingue materne, nel rito e persino nelle Letture,
lasciando loro, come era da secoli, soltanto la
predicazione.
Solo una lingua impegnata a mettere in
contatto persone nella vita quotidiana poteva esigere
una norma più calibrata sul presente. Ma di questa
lingua non c’era ancora un’esigenza unitaria e diffusa,
anche se nel secondo Cinquecento crescono e si
73
ufficializzano usi della lingua italiana in numerose
istituzioni laiche e politiche.
Il parlato passa in gran parte attraverso le
lingue materne locali, che ora l’accoglienza
generalizzata della norma bembiana e cruscante fa
retrocedere al rango di dialetti, da allora in poi, per
secoli, vivissimi idiomi, non solo parlati ma persino
scritti, in testi teatrali, poesie, canzoni, con una vitalità
senza pari in Europa. La grande letteratura dialettale
italiana comincia da questo momento e resta fino a
oggi un tratto caratteristico della nostra cultura.
I piani bassi della società, o semplicemente
quelli con intenti di comunicazione pratica, non
rinunciano perciò stesso a scrivere in lingua. Atti
notarili, verbali di processi, lettere private rimandano
un campionario di italiano semicolto o comunque non
letterario in cui via via, a seconda dei livelli
74
socioculturali degli scriventi, si alza il tasso di non
vernacolarità.
75
20. L’italiano
Il successo della norma proposta da Bembo,
proprio soprattutto dei territori letterari, poetici in
particolare (il petrarchismo), si allarga quando i
toscani, portatori di un italiano vivo e parlato, si
mostrano capaci (si veda l’Ercolano di Benedetto
Varchi) di appropriarsene, nonostante la distanza della
loro lingua da quella letteraria.
Il grande maestro della nascente Accademia
della Crusca, Lionardo Salviati, aveva approntato non
solo i criteri per il futuro vocabolario, ma anche una
minigrammatica (Salviati 1991), in cui le eccezioni
del toscano vivo rispetto a quello letterario sono
ridotte moltissimo (anche rispetto a Giambullari):
restano oscillazioni come tra avrò e arò, ebbero e
ebbono, portassero e portassono, resta l’uscita in -i
alla seconda persona singolare del congiuntivo
76
presente dei verbi di seconda e terza classe (che tu
temi, senti), ma per il resto le coniugazioni dei verbi
sono uniformate al modello bembiano, anche quando
confligge col fiorentino vivo (per es., uscita in -o della
prima persona singolare dell’imperfetto indicativo).
La grande fortuna dell’imitazione di Petrarca e
Boccaccio nella letteratura del Cinquecento spinge il
toscano, ormai in grado di assicurarsi il titolo di
italiano, a entrare con più autorevolezza là dove i
diversi volgari si erano già timidamente spinti, per es.
nelle comunicazioni delle cancellerie, negli atti degli
Stati, nelle relazioni dei diplomatici. L’introduzione
ufficiale della lingua materna nell’amministrazione
della giustizia nei territori sabaudi dopo metà secolo
(disposizioni di Emanuele Filiberto dal 1560 in poi) e
l’orgoglio anche linguistico di grande potenza
internazionale di Venezia hanno fatto sì che il volgare
locale accentuasse anche in usi pratici il processo di
adeguamento alla norma letteraria, come
77
esemplarmente si vede nelle relazioni degli
ambasciatori veneti, e anche in quelle (meno
elaborate) dei Rettori di Venezia (Marazzini 1993;
Tomasin 2001). Più in generale, nel corso del secolo,
ormai vinto di fatto il confronto col latino (che pur
resta attivo in molti settori chiave della cultura), il
volgare ‘italiano’ occupa sempre maggiori spazi,
anche grazie alla ripresa di un’attività già antica di
traduzione, che ora va oltre l’ambito religioso e
letterario ed entra decisamente in quello filosofico.
A cavallo tra Cinquecento e Seicento,
l’italiano si confronta direttamente (e non solo
attraverso le traduzioni) col linguaggio scientifico. In
questo settore spicca l’operato di Galileo Galilei, che
va, in direzione della lingua materna, persino oltre
analoghe opzioni verso le loro lingue madri di
scienziati come Keplero, Cartesio, Bacone. Toscanista
convinto, Galilei fondò l’italiano della fisica e
dell’astronomia con scelte per terminologie facili,
78
trasparenti, «evitando di introdurre terminologia
inusitata o troppo colta» (Marazzini 1993). La grande
rivincita della cultura toscana, parzialmente
emarginata dalla letteratura a norma bembiana,
avviene proprio nel campo scientifico, in cui gli
scienziati toscani, spesso anche appassionati linguisti
o lessicografi (basti pensare a Magalotti e a Redi),
mettono a frutto la loro familiarità con la lingua viva
dotando l’italiano di un lessico specialistico efficiente.
79
21. Grammatiche e vocabolari
La prima e la seconda edizione del
Vocabolario della Crusca erano state accompagnate
da polemiche che, in sostanza, contestavano la
preminenza degli antichi sui moderni in fatto di
lingua, mettevano in discussione la mancata
accoglienza di autori nuovi come Torquato Tasso,
ponevano il problema della compatibilità della nuova
cultura con una lingua vecchia (Tassoni segnalava
l’assenza di eroe, esagerare, floscio, lindo, tabacco;
Tesi 2005). Era facile polemizzare con scelte che
giungevano a lemmatizzare la forma antica e a trattare
come pura variante quella moderna di una stessa
parola (per cui da accarezzare si rimandava a
careggiare, da imbestialire a imbestiare). Il rifiuto del
nuovo, la ricerca costante negli antichi
dell’autenticazione delle parole e delle forme
80
scatenavano polemiche in cui fu coinvolto anche il
testo capitale del barocco, l’Adone del Marino
(Baldelli 1988). La stessa sintassi cominciava ad
essere ripensata in direzione di un periodare più
sciolto (Tesi 2005: 28).
Il compromesso tra antico e nuovo, che a
livello lessicografico fu raggiunto nella terza edizione
del Vocabolario della Crusca (1691), a livello
grammaticale fu realizzato nella grammatica di un
cruscante, il fiorentino Benedetto Buonmattei
(Buonmattei 2007), «in Italia il codice più rispettato»
(Trabalza 1908). Tolti pochi casi (mantenimento in
tonica del dittongo dopo consonante + r, seconda
persona singolare del congiuntivo presente in -i anche
per i verbi di seconda e terza classe), vi si trovano le
regole che per secoli hanno poi caratterizzato
l’italiano. Se si pensa che, a parte il caso accennato
del congiuntivo presente e della prima persona
singolare dell’imperfetto in -a (ma l’uscita in -o non è
81
proibita), allora di norma in letteratura, tutte le
coniugazioni verbali proposte dal Buonmattei sono
esattamente le stesse di oggi, si coglierà la misura del
successo di questa grammatica (ultima redazione edita
nel 1643), punto di riferimento stabile della norma
italiana.
La grammatica di Buonmattei è un
compromesso avanzato anche in campo ortografico,
una zona della lingua già molto innovata dalla Crusca
e in genere dai toscani. Si assimilano, come nella
pronuncia, certi nessi graficamente latineggianti (facto
→ fatto); si rarefà la h etimologica (hora,
dishonorare), -ti- è scritto sempre più -zi- (si vanno
riducendo i tipi delitie, detrattioni), si abbandona et
per e, ed; la punteggiatura viene sottoposta a
progressivi ritocchi in direzione di quella moderna
(Marazzini 1993).
82
22. Innovazioni
Intanto l’italiano conosce, dopo quella delle
origini duecentesche, la prima vera ondata di
forestierismi. Entrano dallo spagnolo brio, etichetta,
cioccolato, risacca, complimento, sfarzo, vigliacco,
flotta; attraverso le lingue iberiche giungono le novità
dalle Americhe: caimano, ananas, cacao, patata,
amaca, ecc.; dal francese arrivano parrucca,
equipaggio, reggimento, gendarme, lacchè, petardo.
Nonostante gli scarsi risultati in letteratura, la cultura
barocca spinge la lingua a fare i primi veri conti con il
moderno. Gabriello Chiabrera recupera i rapporti col
greco promuovendo composti, specie aggettivali
(oricrinito, vitichiomato), il cui stampo ebbe successo
anche fuori dalla letteratura, in ambito scientifico e
saggistico, dove i grecismi presero, specie dal
Settecento, sempre più piede.
83
Il latino regredisce anche da ambiti in cui era
ancora, fino al XVII secolo, solido. L’uso dell’italiano
si allarga ulteriormente negli atti amministrativi degli
stati, nella legislazione e perfino nel diritto. Ma,
soprattutto, comincia a diventare lingua insegnata a
scuola, accanto al latino, come chiede a inizio
Settecento Ludovico Antonio Muratori (Matarrese
1993). Un suo discepolo, Girolamo Tagliazucchi, fu il
primo professore universitario di «eloquenza italiana»
a Torino e, sempre in Piemonte, particolarmente
avanzato in questa materia, dal 1772 si costituiscono
classi per l’insegnamento dell’italiano (Marazzini
1984).
Tra il Cinquecento e il Settecento gli scambi
linguistici e di cultura in Europa si vanno
intensificando. Mentre il francese entra sempre più
ampiamente in italiano, l’italiano si afferma come
lingua europea del canto, in particolare a Vienna,
84
dove, per cinquant’anni, nel XVIII secolo, detta legge
al melodramma un artista come Pietro Metastasio.
Ma la forte spinta all’innovazione (per la
prima volta anche da fuori della letteratura) accentua
reazioni linguisticamente nazionaliste e populiste,
come quelle del classicismo e poi del cosiddetto
purismo, a lungo stella polare di parte non piccola, in
fatto di lingua, della cultura italiana. Che questi
atteggiamenti si siano rivelati particolarmente accesi
in aree linguisticamente di confine o periferiche
(Triveneto, Piemonte prima del Napoletano) è una
dimostrazione della motivazione nazionalista che fu
fino al fascismo una componente importante
dell’ideologia linguistica dominante.
Un’altra fonte di cambiamento linguistico
nasce dalle scienze, che, ormai ampiamente riversate
nelle lingue materne nazionali, si accrescono di nuovo
lessico, specie di origine e modello greco
85
(microscopio, barometro, telescopio), non di rado
mediato dalle altre grandi lingue europee e destinato
al successo che la lingua di oggi ancora attesta. Le
facoltà di produzione di parole nuove, spesso su calco
di forme francesi, moltiplica il lessico dotandolo di
materiale adatto alla comunicazione tecnico-
scientifica (entrano alcol, carbonio, enfisema, fosforo,
isteria, ecc.: Matarrese 1993). Si organizza il lessico
dell’economia (commercio, produzione, cambiale,
azionista) e persino gli studi giuridici, i più legati al
latino, passano all’italiano. Entrano in italiano
anagrafe, autografo, burocrazia, censimento,
diplomazia, funzionario, ecc., vettori di una neolingua
della pubblica amministrazione destinata a grande
successo.
Le novità non si manifestano solo nel lessico,
ma, per la prima volta in modo consapevole e
sistematico, anche nella sintassi, il cui problema entra
nella questione della lingua, prima presa solo da
86
fonomorfologia e lessico. Ora sono sul banco degli
imputati l’architettura non progressiva, fortemente
ipotattica del periodo, i nessi subordinativi arcaici
(conciossiacosaché), il costrutto inverso, con verbo in
fondo, e si propugna il costrutto diretto alla francese,
un periodare progressivo, breve, paratattico. Anche se
la lingua scientifica resta ancora in difficoltà su questo
punto, la prosa degli intellettuali più avanzati adotta
un modello di sintassi destinato a imporsi nella
comunicazione scritta media. Il più fortunato
grammatico del Settecento, Francesco Soave, nella
sua Grammatica ragionata (Soave 2001), invita
all’«ordine più naturale» soggetto-verbo-
complemento; si affermano costrutti di provenienza
francese (avere la cortesia di + verbo all’infinito; frasi
scisse: è a lui che; siccome diventa congiunzione
causale, senza correlativo nella principale; Dardi
1992).
87
La rivoluzione linguistica del secolo è quella
della sintassi, che si avvia verso il periodare moderno.
I lunghi periodi boccacciani col verbo in fondo
cadono in disuso, ma restano vive
altre collocazioni di derivazione trecentesca
[...] l’anteposizione al sostantivo di alcuni tipi di
aggettivo, la tmesi (cioè la frapposizione di materiali
tra elementi di un unico sintagma, come tra ausiliare e
verbo) e l’inversione del sostantivo seguito dal
complemento di specificazione, dell’ausiliare seguito
dal participio, del verbo servile seguito dall’infinito
(Patota 1987: 54)
fino a quando anche questi non furono in gran
parte ridotti o eliminati dalla nuova letteratura
romantica, di cui l’Ortis di Ugo Foscolo è un celebre
preannuncio.
88
23. Lingua iperletteraria
Ma tanto la prosa di ricerca e saggistica si
modernizza, altrettanto la lingua della poesia, dopo
un’iniziale convergenza nel processo di
semplificazione, riprende e anzi accresce il suo esibito
classicismo, con recuperi stilistici dell’arcaico e gusto
di una lingua a volte anticata ad arte. L’illuminismo
modernizza la prosa, con forti polemiche, ma finisce
per rassegnarsi a una lingua poetica ad arcaismo
programmato.
C’è chi afferma che il ‘genio’ dell’italiano stia
proprio nel suo passato e nel suo procedere
sintatticamente a rovescio. Spesso a sostenerlo sono
intellettuali di grande prestigio e sorprendente
modernità culturale, come Giuseppe Parini o Vittorio
Alfieri, che rifiutano però polemicamente il
modernismo linguistico. Il piglio arcaizzante di Alfieri
89
è tanto un gesto teatrale in linea con la speciale
drammaturgia dell’astigiano, quanto un impegno
patriottico contro la minaccia francese. L’accentuato
neoclassicismo di Parini costruisce una vistosa
intelaiatura arcaizzante affinché risulti più paradossale
e meglio ironizzata la misera modernità di cui parla il
Giorno.
La lingua della poesia presenta un modello di
italiano letterariamente molto marcato, con inversione
della sequenza determinato + determinante (di Filippo
il figlio), posposizione del soggetto pronominale nelle
interrogative (per quanto di lunga e ampia
consuetudine), la proclisi del pronome nel cosiddetto
imperativo tragico (t’arresta, m’ascolta). Il
neoclassicismo poetico di fine secolo (quello di
Vincenzo Monti, su tutti) riabilita addirittura la
superata uscita in -e nelle persone singolari di
presente indicativo e congiuntivo dei verbi di prima
classe, il passato remoto con epitesi vocalica (poteo),
90
l’ordine accusativo-dativo dei clitici (la ti rende)
(Serianni 1998).
Questo artificioso ritorno indietro in letteratura
è contestuale e polemico con le forti spinte in avanti
di lessico e sintassi altrove, e anche espressione di una
esigenza di identità nazionalista nella lingua
minacciata dal francese.
91
24. L’italiano itinerario
Le dinamiche dell’italiano sono ancora,
all’inizio dell’Ottocento, fortemente condizionate
dalla lingua letteraria, che domina dal Cinquecento il
processo di fissazione della norma e perfino delle sue
eccezioni.
Nondimeno, come si è già detto, c’è anche un
livello di lingua in apparenza meno disponibile o,
meglio, meno attrezzato ad accogliere la normazione
letteraria: quello pratico e quotidiano di una società
che parlando usa i dialetti, ma ricorre all’italiano nelle
comunicazioni interpersonali a distanza, scritte o tra
estranei. Questa lingua esisteva. Già Muratori,
all’inizio del Settecento, riferiva del «comun parlare
italiano [...] in ogni provincia, città e luogo d’Italia» e
padre Andrea Serrao, da Napoli, attesta che nella sua
regione «non vi è nessuno, per quanto rozzo e
92
ignorante, che non è in grado di comprendere
l’italiano» (D’Agostino 1989: 187).
Oggi una discreta documentazione ci
restituisce questo italiano circolante, che Foscolo
chiamava «itinerario» (Testa 2008). Sono lettere,
diari, registri di persone colte o semicolte. In queste
scritture, a parte gli sbandamenti sintattici e gli
sbilanciamenti regionali dei meno colti, la tendenza ad
accogliere la norma letteraria, integrata da apporti più
o meno diretti delle parlate toscane, è evidente
(Antonelli 2003), segno della progressiva
affermazione, a ogni livello d’uso, della norma accolta
in letteratura.
Anche i primi giornali realizzano presto un
modello di italiano a norma, ancorché semplificato
nella sintassi e potato dei vertici più letterari della
grammatica (per es., cade il residuo dittongo dopo
consonante + r, mantenuto quasi solo da cultori della
93
lingua antica; si scioglie a favore di -ng- l’antica
oscillazione toscana con -gn- in piangere / piagnere;
avanza l’imperfetto in -o alla prima persona singolare;
in molte delle allotropie vive per tutto l’Ottocento i
rapporti si sbilanciano quasi sempre a favore della
variante poi destinata a prevalere: dimanda /
domanda, conchiudere / concludere, tremuoto /
terremoto (Masini 1994).
94
25. I promessi sposi
La distanza tra lingua e società comincia a
ridursi in un’età che proclama l’identità di lingua e
nazione e impugna anche la lingua sulle barricate per
il nuovo stato. Il romanticismo promuove generi
letterari più sensibili alla realtà e al sociale. La lingua
è sollecitata ad avvicinarsi anch’essa alla realtà, da
quella dialettale (il dialetto è lo strumento di grandi
poeti come Porta e Belli) a quella in italiano, che si
vuole meno ostile se non più aperto al parlato, in
particolare a quello toscano.
Già inserita nel dibattito linguistico del
Settecento, la nazione entra nel giudizio e nelle
aspettative linguistiche con una domanda di identità e
di praticità, non più compatibili con una grammatica
solo letteraria, in cui troppo distante era lo scritto dal
parlato. Questa distanza è autorevolmente accorciata
95
nell’ultimo grande lavoro normativo da parte degli
intellettuali: la proposta di italiano fatta da Alessandro
Manzoni al termine (1840) del lungo percorso di
elaborazione e correzione dei suoi Promessi sposi.
Manzoni perfeziona la riforma sintattica avviata nel
Settecento. Patota (1987) ha mostrato che nei
Promessi sposi tende a sparire l’inversione di ausiliare
e participio passato, così frequente nella sintassi
letteraria da Boccaccio al Settecento. La sintassi del
romanzo manzoniano non è, da questo specifico punto
di vista (e anche da quello della rarefazione della
tmesi), diversa da quella di moderni quotidiani.
Manzoni conclude anche l’opera, da tempo
iniziata, di espunzione di troppo arcaiche o deboli
varianti, potando gran parte della residua polimorfia,
che era di molto disturbo per la norma, specie se
rivolta a una società di utenti non soltanto letterari
(Ghinassi 2007). Basti pensare al segmento dei
pronomi personali di terza persona, in cui elimina o
96
sostituisce gli anticheggianti desso, dessi, eglino,
elleno, ma anche ella pronome soggetto, sostituito da
lei, e ammette lui (del toscano parlato ma non della
norma) come soggetto concorrente con egli. Le
oscillazioni che restano (dittonghi in uo conservati o
monottongati, esito ci → z dei tipi beneficio / artifizio)
erano del fiorentino (in cui ovviamente convivevano
usi diversi a seconda dei livelli sociali e generazionali
dei parlanti) e in parte resistono ancora oggi (Serianni
1989; Vitale 19922). Ma soprattutto contano le
polimorfie eliminate: non c’è praticamente più la
prima persona singolare dell’imperfetto indicativo in -
a (ne restano nel romanzo solo quattro), tutta
uniformata all’uscita fiorentina parlata in -o, chiedo e
vedo fanno scartare chieggo e veggo / veggio, nessuno
prevale su niuno, lacrima su lagrima.
Ovviamente non tutte le scelte di Manzoni
passarono a norma (per es., il futuro e condizionale
non sincopati di andare: anderò, anderebbe, o giovine
97
da lui preferito a giovane), ma per la maggior parte lo
diventarono e fecero massa con le abilitazioni di
costrutti sintattici del parlato tipici dell’oralità
(Sabatini 1987), come, per es., la tematizzazione, quel
processo di marcatura del tema, per cui, intervenendo
sulla redazione precedente, Manzoni passa da «avrete
pane» a «pane ne avrete», da «io mi figuro di sì» a «a
me mi par di sì»; oppure gli anacoluti: «[le monache]
dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più
gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute
arrivare».
Manzoni rifletté esplicitamente e a lungo su
come dotare l’Italia appena unita di una lingua
socialmente e geograficamente omogenea e accentuò
in direzione del toscano vivo e attuale la riforma
grammaticale moderata della norma avviata nel
romanzo. La teoria e le proposte operative furono
discusse, avversate autorevolmente, accolte in parte ai
massimi livelli del Ministero della pubblica istruzione.
98
Ma, più delle teorie, la pratica testimoniata dal
romanzo fu decisiva per la storia dell’italiano, finendo
per avviare il più forte riposizionamento della
grammatica della nostra lingua dai tempi di Bembo.
Ma neppure essa fu accolta subito, né ovunque.
99
26. Resistenze alla modernizzazione
Ne resta parzialmente immune per buona parte
del secolo la lingua della poesia, del teatro tragico e
dei melodrammi, che espone arcaismi lessicali e
morfologici (ei, desso, teco, meco, seco tra pronomi
personali; forme verbali come fia, fur), ipercultismi
come l’imperativo tragico con proclisi del pronome,
pur facendo via via posto a neologismi o a parole
della modernità.
Il caso di Giacomo Leopardi, col suo italiano
specie all’inizio molto letterario (in certe selezioni del
lessico, ma anche in varietà morfologiche come
l’imperfetto in -ea, -ia, le terze persone plurali del
passato remoto in -aro, le forme enclitiche del verbo
di modo finito ecc.), a volte (nelle prose) anche
toscanista (che tu abbi, sarebbono), dimostra, con una
programmatica poetica dell’antico, la vicenda
100
completamente diversa della lingua poetica (in poesia
Leopardi usa l’imperfetto indicativo in -a, e quasi
tutte le forme in -o le adopera nelle lettere),
nonostante via via vi si affaccino parole nuove, temi e
lessico della modernità e della più umile quotidianità.
I condizionali in -ia e forme come fia, fiano, furo
arrivano in versi sino a fine secolo, anche se in
minoranza netta rispetto alle concorrenti forme
moderne.
La propensione alla vecchia grammatica,
persino alle sue più vetuste oscillazioni morfologiche,
non cessa, anche se temperata e bilanciata da
modernismi realistici, con Giosuè Carducci e, anzi,
torna a fine secolo in Gabriele D’Annunzio e
Giovanni Pascoli sotto forma di citazione dotta e
arcaismo evocativo. Come ha mostrato Serianni
(2009), con l’Ottocento finisce la vecchia lingua
poetica, ma essa, per tutto il secolo e sia pure per
101
ragioni diverse, lascia abbondanti tracce nei versi
della poesia e del teatro serio.
Alla norma modernizzata fanno sulle prime
resistenza anche importanti luoghi di proclamazione
della grammatica, a partire dalla scuola, il cui ruolo
nella diffusione dell’italiano cresce esponenzialmente
dopo l’Unità. La scuola pubblica è un vettore potente
dell’italianizzazione di una popolazione che, al
momento dell’Unità, conosceva poco la lingua
ufficiale del nuovo Stato. Se, comunque venga fatto, il
calcolo degli italofoni all’altezza dell’Unità d’Italia dà
cifre piuttosto basse (un decimo della popolazione e
concentrato in poche regioni), è certo che la scuola
provvede ad alzare rapidamente il numero degli
alfabetizzati e quindi degli utenti attivi e passivi della
lingua nazionale. Basti pensare che dal 1871 al 1911
la percentuale di analfabeti passa dal 75% al 40%
della popolazione: sempre molti, ma in drastica
102
diminuzione. Di qui l’importanza degli strumenti
linguistici scolastici, in primis le grammatiche.
Ma la scuola continua per decenni a proporre
una variante di italiano scritta e orientata verso
l’antico, aspettando non poco a far propria quella più
aggiornata, praticata dal pur venerato autore dei
Promessi sposi. Le grammatiche della neonata scuola
nazionale non sono pronte ad adeguarsi alla prassi e
alla teoria del Manzoni e la maggior parte di esse, per
es., continua a proporre a norma l’uscita in -a alla
prima persona dell’imperfetto indicativo, pochissime
accettano lui / lei / loro soggetto, al massimo accolti
nello «stile familiare» (Catricalà 1995), e moltissime
continuano a registrare eglino / elleno come varianti
normali di essi / esse.
All’accettazione della norma unitaria
modernizzata e toscanizzata da Manzoni fa da parziale
e oggettivo contrasto anche la notevole interferenza
103
dei dialetti, la cui vivacità resta forte nel parlato e
comincia a trasferirsi nell’italiano orale.
Avvicinandosi lo scritto al parlato (romanzi, giornali,
lettere) e estendendosi (lentamente) l’uso parlato della
lingua, i dialetti, mentre cominciano a retrocedere
nella pratica, si insinuano fortemente nella lingua e
determinano quella misura regionale dell’italiano
nettissima ancora oggi. Le scritture private, specie se
di semicolti o di colti di aree periferiche, lasciano
affiorare il dialetto sottostante, in contrasto con la
perdurante inclinazione alla vecchia norma letteraria e
con la nuova regola unitaria toscaneggiante (e perciò
antidialettale) di Manzoni.
Del resto, il retroterra dialettale diventa ben
presto un obiettivo da cogliere attraverso l’italiano per
gli scrittori impegnati nel romanzo, il genere a più
forte motivazione realistica. La realtà popolare è
dialettale e anche il romanzo in lingua deve darne
idea. Basti pensare ai romanzi ‘lombardoveneti’ di
104
Ippolito Nievo o di Antonio Fogazzaro o a quelli
siciliani di Giovanni Verga. Peraltro, le novità e le
deviazioni dalla norma in questi testi non riguardano
tanto il tasso di dialettalismo esplicito, a volte
attenuato da un’edizione all’altra, come nel Demetrio
Pianelli di Emilio De Marchi (Serianni 1990), quanto
l’emergenza sempre più forte di strutture dell’oralità
che portano la scrittura letteraria verso quello stile
medio (Testa 1997) che la caratterizza ancora oggi nel
romanzo.
105
27. Verso lo standard moderno
La rivoluzione manzoniana diventa operante
(almeno nella sua sostanza) tra la fine dell’Ottocento e
i primi del Novecento, in parte nelle nuove
grammatiche scolastiche (dove finalmente eglino e
elleno sono dati come arcaismi e sono accolti, sia pure
con riserve, lui / lei soggetto, è definitivamente fissata
la distribuzione di il / lo articoli in rapporto all’iniziale
della parola che segue), e soprattutto nell’italiano dei
più potenti veicoli di diffusione della lingua.
A imprimere un’accelerazione alla diffusione
nella società della lingua nazionale e a favorire un
cambiamento nella sua grammatica sono ora i vettori
sociali e amministrativi dello stato unitario:
l’urbanizzazione e l’emigrazione interna, che
facilitano l’uso dell’italiano come lingua di
comunicazione; la scuola e l’esercito, che svolgono un
106
ruolo di alfabetizzazione primaria essenziale; i
giornali che diffondono e autorizzano un modello di
lingua più agile e moderno. È questa la svolta più
importante nella storia dell’italiano, dopo la
normazione primocinquecentesca. Diventata lingua di
un grande Stato e in procinto di essere quella di una
intera società complessa, l’italiano abbandona le
residue sovrabbondanze giustificate solo dalla sua
gestione letteraria e riduce doppioni, polimorfie, ecc.
Il parlato non può permettersi due forme della stessa
parola o le accetta con riluttanza e, semmai, le
rifunzionalizza. L’oscillazione fonomorfologica
tradizionale è dunque molto ridotta in sedi
linguisticamente popolari e autorevoli come sono i
giornali, e diminuisce a mano a mano che si procede
nel tempo; restano sempre meno congiunzioni
anticheggianti (del tipo imperocché, acciocché,
abbenché), sono sempre meno numerosi morfemi
pronominali arcaici (ei, eglino, elleno), comincia a
ridursi l’enclisi pronominale (propagossi); le varianti
107
che sono accettate dai giornali sono quelle stesse che
dureranno a lungo e, in taluni casi, non sono risolte
neppure oggi, come giuoco / gioco, devo / debbo
(Bonomi 1994).
L’italiano dei giornali è uno dei luoghi di
maggior riduzione delle distanze tra scritto e parlato,
accorciate poi e assai di più in molti altri usi odierni
(corrispondenza elettronica, sms). Quello giornalistico
è anche uno stile, con sue formule, stereotipi,
preferenze stilistiche, tendenze e gusti.
Le maggiori novità del linguaggio
giornalistico e in generale dell’italiano moderno si
colgono nella sintassi snellita, tendente a periodi di
una sola frase (in Umberto Eco ci sono molti più
periodi costituiti da una sola frase che in Benedetto
Croce) o comunque a una riduzione delle proposizioni
per periodo e a una minore profondità di
subordinazione, per cui si passa da una maggioranza
108
di due subordinate per una principale in Croce a un
rapporto uno a uno in Eco (Tesi 2005) e allo stile
nominale; nel lessico, in cui i giornali diventano il
principale produttore di neologismi, sia fabbricati in
casa con le procedure consuete (abbondanza di
derivati suffissali con suffissi molto produttivi del tipo
-ismo, -izzare, -ale, composizioni verbo + nome,
composti polirematici tipo auto pompa o decreto
legge, composti neoclassici come telecomando,
biotecnologie, riduzioni, sigle e acronimi), sia tramite
esotismi importati in quantità.
I giornali (e, poi, i nuovi mezzi di
comunicazione di massa) hanno un ruolo decisivo nel
più vistoso processo di crescita lessicale registrato
dall’italiano in tutta la sua storia. Sono infatti i
giornali a mettere in circolazione molte delle novità
linguistiche che le lingue settoriali (scienza, tecnica,
moda, politica, economia, trasporti, ecc.) producono a
109
tutto spiano, con effetti sempre più importanti sulla
stessa fisionomia grammaticale della lingua.
Fra Ottocento e Novecento il lessico
dell’italiano raddoppia; in particolare, nell’ultimo
quarto del XX secolo, cresce non meno di quanto
abbia fatto in tutto l’aurorale e attivissimo Trecento.
Come dire: circa la metà delle parole registrate da un
moderno dizionario è nata nell’Ottocento o nel
Novecento. Più precisamente, stante il vasto corpus
del GRADIT, la metà del lessico è costituita quasi da
parole del solo Novecento, per cui, se il lessico di
base e grammaticalmente funzionale (preposizioni,
articoli, ecc.) è al 90% già definito dal XIV secolo,
tutto il lessico oggi registrato è per oltre la metà di
acquisizione recente.
Ora, una quota significativa, non tanto (o non
solo) quantitativamente, quanto per frequenza e
prestigio d’uso, di queste nuove immissioni è
110
costituita da parole straniere, buona parte delle quali
(specie quando di origine inglese) ospitata in italiano
senza adattamenti grafici e con semplici
acclimatazioni spontanee di pronuncia. I forestierismi
non adattati sono una grande novità del lessico
italiano dall’Ottocento e soprattutto dal Novecento in
poi.
La nuova familiarità con i forestierismi non
adattati intacca, sia pur minimamente, la fonetica e la
morfologia della lingua, facilitando l’accoglienza di
parole a finale consonantica e anche biconsonantica
(sport), di nessi consonantici non nativi dell’italiano e
di provenienza soprattutto greca (eczema,
pneumatico), di forme nominali invariabili: le parole
invariabili sono in crescita nell’italiano
contemporaneo e molto importanti (basti pensare a
euro).
111
La forza delle parole straniere, pur troppo
enfatizzata, è notevole e non è valsa a contenerne
l’invadenza la politica linguistica purista e
nazionalista del fascismo, che aveva cercato di frenare
gli esotismi e di debellare i dialetti, mancando l’uno e
l’altro obiettivo. Più in generale, dopo essere stata per
secoli una lingua a direzione autoritaria (sia pur
affidata alla largheggiante letteratura), l’italiano ha
preso a rifiutare politiche linguistiche di qualsiasi tipo,
specie se affidate o pretese da istituzioni pubbliche. O
meglio: è stata riconosciuta l’autorità capace di
autorizzare le novità (televisione, giornali, politica),
ma respinta quella abilitata a rifiutarle o
regolamentarle. In fondo, neppure la scuola è in grado
di fare da riferimento per la norma nazionale.
112
28. Le varietà dell’italiano
La progressiva contrazione dell’uso dei dialetti
(particolarmente forte dal secondo dopoguerra,
ancorché disomogeneamente distribuita nelle diverse
regioni e non del tutto irreversibile) non ne ha però
attenuato la forza di incidenza dentro l’italiano
parlato, che ha ovunque, grazie al retroterra dialettale,
più o meno forti caratteristiche regionali.
La crescita di una alfabetizzazione perlomeno
primaria ha portato all’italiano scritto anche i
semicolti con esiti substandard (errori di ortografia,
coniugazioni analogiche dissimo, potiamo, periodo
ipotetico col doppio condizionale o col doppio
congiuntivo imperfetto, ci per a lui, a lei, ecc.), tipici
di un italiano popolare assai evidente all’inizio del
XX secolo ma oggi in via di attenuazione per la
riduzione dei casi di alfabetismo minimale e
113
l’affermarsi di un registro medio, descritto da Sabatini
(1985), coincidente con lo standard attuale.
Lo standard rispetta la grammatica
tradizionale, da cui ha espunto arcaismi morfologici e
potato quasi tutte le ultime oscillazioni. A livello
fonetico si notano: scomparsa o riduzione dei
fenomeni di eufonia, dalla i prostetica alla deufonica;
ritrazione dell’accento in trisillabi o polisillabi piani
(èdile invece del corretto edìle, guàina invece di
guaìna); perdita del valore fonematico
dell’opposizione tra s sorda e s sonora (che resta come
puro indizio dell’anagrafe geolinguistica dei parlanti);
eliminazione dei residui doppioni, per cui artifizio
cede ad artificio, pronunzia a pronuncia; sostituzione
di serie omologhe a paradigmi disomogenei con
dittongo mobile, dando la preferenza alle soluzioni
dittongate: nuoto nuotiamo, lievito lievitiamo, tuona
tuonò. Nella morfologia è in atto una semplificazione
del sistema dei pronomi personali di terza, con
114
ampliamento dei valori di gli, valido per il
complemento indiretto singolare maschile e femminile
e per il plurale ambigenere; rarefazione di forme
alternative come esso, essa; impiego di lui / lei / loro
in tutte le necessità sintattiche, ecc. Si impongono
forme rafforzate della negazione («non c’è mica
Piero?») e verbi polirematici come i sintagmatici
(metter su, buttar giù, portare via) o complessi come i
procomplementari, cioè quelli con pronomi
complemento incorporati (farcela, fregarsene).
Avanzano forme e costrutti prima ignorati o respinti
dalla norma, come il che indeclinato, che occupa tutti
i diversi casi del relativo, e quello polivalente, con più
funzioni congiuntive, il ci attualizzante, le frasi
segmentate, i periodi ipotetici col doppio imperfetto
indicativo. Non sono novità dell’ultima ora, ma
procedure disponibili da sempre (D’Achille 1990),
adesso però più visibili e meglio accettate dalla
norma.
115
Questa inedita (riguardo alla storia linguistica
nazionale) tolleranza si deve al ruolo di scritture
(autorevoli e prestigiose come romanzi e giornali) e di
parlati autorevoli (radio e televisione) che hanno
definitivamente sdoganato certi costrutti, rendendoli
familiari e accettabili, almeno fino a un dato livello
diastratico (continuano ad essere avvertiti come errori
casi di ridondanza pronominale ravvicinata del genere
a me mi, il mancato controllo dell’opposizione di gli /
le, ci per il dativo personale, il che indeclinato
disambiguato da un pronome: *la persona che te ne
ho parlato), fino a quando cioè non si arriva troppo al
di sotto della norma corrente.
Ma la norma è complessivamente solida e
condivisa. Persino il congiuntivo, nonostante molti
allarmi, è ancora assai vitale nelle dipendenti e
traballa solo in alcune frasi che dipendono da verbi di
opinione. Nella sintassi del periodo si notano: una
drastica riduzione della complicazione ipotattica, la
116
crescita delle frasi semplici, l’ampia autorizzazione
all’ellissi del verbo. Basti pensare all’evoluzione del
parco congiunzioni (Dardano 1994a), che si riduce
(prevalgono che, perché, se, quando) o muta funzioni
(valore causale di siccome, consecutivo di allora),
prediligendo forme perifrastiche (dato che, visto che).
117
29. I linguaggi settoriali
Ma il fenomeno più vistoso dell’italiano
contemporaneo è rappresentato dall’ampliamento del
lessico e dalla sua specializzazione, con crescita
vertiginosa del vocabolario di molte branche del
sapere (economia, medicina, informatica) e della vita
sociale (politica, amministrazione).
Una stessa grammatica si articola non solo (a
livello fonoprosodico) in diverse varietà regionali, ma
anche in settori diversi, a forte specializzazione
lessicale, a volte anche dotati di proprietà testuali
particolari (si pensi alla differenza tra un testo di legge
e un articolo di cronaca).
La storia dell’italiano appare sempre più
quella di una lingua normata unitariamente e
diversificata per vari aspetti lessical-sintattici a
118
seconda dei settori di competenza e degli stili
individuali o di gruppo. D’altra parte, questi settori
sono spesso intercomunicanti e tratti dei linguaggi
scientifici possono diventare comuni o passare
dall’uno all’altro (paralisi del traffico, collasso
gravitazionale). La lingua è ormai ampiamente
composita e il suo vocabolario è la somma (e in parte
anche l’integrazione) di molti vocabolari settoriali
(Beccaria 1973) e di lessici speciali (Dardano 1994b).
119
30. Perdita d’aureola
La lingua letteraria ha perso la sua antica
aureola e il vecchio ruolo guida; è una delle lingue,
senza più alcun particolare tratto specifico, con poco
prestigio e ridotta funzione innovatrice o regolatrice,
passata ai mass media. La lingua degli scrittori può
ancora essere più ricca e varia di quella comune
(specie quella di alcuni poeti come Montale o Luzi),
più precisa e meno stereotipata, ma è piuttosto alle
spalle o a lato che davanti al processo di innovazione
e normazione dell’italiano. La si vede spesso
inseguire quella della realtà, dai dialetti alle varietà
regionali ai linguaggi settoriali, magari in ironiche
mescolanze come in Gadda.
La lingua della poesia, da parte sua, non si
differenzia più da quella della prosa e solo in alcuni
grandi autori continua a esplorare particolari segmenti
120
lessicali (Montale, Luzi, Zanzotto) e non frequentate
proprietà sintattiche (le interrogative in Luzi, le
incidentali e parentetiche in Caproni); in certi casi
giunge addirittura a intaccare la punteggiatura
(Sanguineti). Semmai, è la lingua della pubblicità a
sfruttare sistematicamente le risorse formali della
lingua, coniando parole nuove (digestimola), usando
rime, assonanze, parallelismi. Se sono ancora
registrabili dei tratti costanti sul breve e medio
periodo (per es., la cancellazioni degli articoli e i
plurali assoluti, l’uso abnorme della reggenza con a
nella poesia ermetica, i composti bimembri, specie di
tipo cromatico, come rossegialle, nel primo
Novecento, i dialettismi nella narrativa del secondo
dopoguerra), questi non ricadono mai (o quasi mai o
solo indirettamente; i doppi colori diventano comuni
per via delle divise delle squadre di calcio: la squadra
nerazzurra, i rosanero) sulla lingua comune e restano
alternative stilistiche all’interno della speciale storia
della poesia o del romanzo (Mengaldo 1990).
121
Nel corso del XX secolo, lo spazio linguistico
italiano si è decisamente ristretto per i dialetti, anche
se non chiuso, né nella società, dove (perlomeno in
certe regioni) i dialetti resistono, né in letteratura,
massime in poesia, dove, addirittura, idiomi molto
locali trovano nuova vitalità (Marin, Guerra). Ma,
anche in questo caso, si osserva la marginalizzazione
dell’iniziativa linguistica della letteratura, che lascia
sopravvivere o magari recupera certi dialetti per
programmatica disattualizzazione della realtà
dominante.
Perduto il ruolo di norma, la lingua letteraria si
è data a inseguire ed esplorare il nuovo dominio dello
standard, il parlato, le varietà regionali, i lessici
speciali. Se gli scrittori parlano di lingua (come hanno
fatto Pasolini e Calvino), non è di quella dei loro
romanzi che si preoccupano, quanto di quella della
società.
122
Come ovunque nel mondo, la guida o
l’iniziativa linguistica sono passate ad altri soggetti:
televisioni, Internet, giornali. L’italiano trasmesso è
forse la varietà di italiano più prestigiosa oggi e più
ritenuta autorizzata a dettare (o a modificare) la
norma. Peraltro, finora, non ha né prodotto né
autorizzato cambiamenti particolarmente dirompenti.
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