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L'Argentina Vista Com'è

L'e-book 'L'Argentina vista come è' di Luigi Barzini esplora la vita degli emigranti italiani in Argentina, evidenziando le sfide e le esperienze di chi lascia la propria patria. Attraverso lettere pubblicate nel Corriere della Sera, Barzini analizza le condizioni sociali, economiche e politiche del paese sudamericano. Il documento è una testimonianza della grande emigrazione italiana e delle sue implicazioni, sia per gli emigranti che per l'Italia.

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L'e-book 'L'Argentina vista come è' di Luigi Barzini esplora la vita degli emigranti italiani in Argentina, evidenziando le sfide e le esperienze di chi lascia la propria patria. Attraverso lettere pubblicate nel Corriere della Sera, Barzini analizza le condizioni sociali, economiche e politiche del paese sudamericano. Il documento è una testimonianza della grande emigrazione italiana e delle sue implicazioni, sia per gli emigranti che per l'Italia.

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: L’Argentina vista come è


AUTORE: Barzini, Luigi
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
CODICE ISBN E-BOOK: 9788828102502

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
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COPERTINA: [elaborazione da] "Idilio criollo" di


Jean Léon Palliere (1823–1887). - Museo Nacional de
Bellas Artes, Buenos Aires (Argentina). -
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Idilio_criol
lo_-_Juan_León_Pallière.jpg. - Pubblico Dominio.

TRATTO DA: L' Argentina vista come è / Luigi Barzi-


ni. - Milano : Corriere della Sera, 1902. - V, 224
p. ; 19 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

2
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 22 maggio 2018

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 2
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
TRV010000 VIAGGI / Racconti e Documentari di Viaggio

DIGITALIZZAZIONE:
Virginia Vinci, [email protected]

REVISIONE:
Paolo Alberti, [email protected]
Ugo Santamaria

IMPAGINAZIONE:
Virginia Vinci, [email protected]
Paolo Alberti, [email protected]
Ugo Santamaria (ePub)
Marco Totolo (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, [email protected]

3
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4
LUIGI BARZINI

L’ARGENTINA
VISTA COME È

5
6
Indice generale

Liber Liber............................................................................. 4
Prefazione.............................................................................. 9
L’addio................................................................................. 12
Sfogliando una guida........................................................... 18
Qua e là per Buenos Aires................................................... 26
Gli allucinati........................................................................ 37
La crisi Argentina troppa Buenos Aires.............................. 48
L’ Argentina e il capitale inglese......................................... 57
Le nostre lettere dall’Argentina .......................................... 64
Le basi dell’oligarchia argentina......................................... 76
Sull’ Argentina il governo in azione.................................... 86
La giustizia argentina........................................................... 97
La polizia argentina........................................................... 109
L’esercito argentino........................................................... 119
Il lusso nell’Argentina ...................................................... 130
Ricchezze e miserie........................................................... 143
Andando all’estancia......................................................... 157
Vita mandriana................................................................... 167
Il lavoro italiano nell’Argentina ....................................... 178
Errori e difetti dell’emigrazione italiana........................... 190
Unioni e scissioni............................................................... 203
I figli degli italiani............................................................. 211
Nelle campagne argentine: “peoni” e “medieri”...............225
Nelle campagne argentine: i “coloni”................................ 235
La tutela della madre patria............................................... 247
Concludendo sull’Argentina ............................................. 262

7
PREFAZIONE

Dall’Italia emigrarono nello scorso anno mezzo milione


di abitanti. L’emigrazione nostra, sorta, continuata e
aumentata fino a queste spaventose proporzioni in mez-
zo a troppa indifferenza, è venuta ad un tratto ad impor-
si alla nostra preoccupazione come uno dei problemi
più gravi, più complessi e più urgenti.
È questa emigrazione un indice della nostra forza, del
bisogno d’espansione nostro, o della nostra miseria, o
della nostra ignoranza, o di tutto un po’? Ubbidisce
essa a leggi naturali e ineluttabili, o è – in parte almeno
– provocata artificialmente – profittando della creduli-
tà, della duttilità e della ignoranza delle masse infime
della nostra popolazione – a scopo di lucro da parte di
agenti d’emigrazione o a scopo di rinsanguare e rinfor-
zare della nostra forza e del nostro sangue lontane nuo-
ve regioni? Nell’emigrazione non vi sarebbe forse un
po’ della «tratta»? Le nuove condizioni nelle quali vie-
ne a trovarsi l’emigrante italiano sono migliori o peg-
giori di quelle che lascia? Quali sono i vantaggi o gli
svantaggi diretti e indiretti che da tale emigrazione ven-
gono alla Madre Patria? Quali i rimedî possibili ai
mali? Ecco i quesiti la cui soluzione s’è imposta.
Il Governo ha creato nuove leggi sulla emigrazione, e il
Commissariato di recente istituzione, presieduto e am-
ministrato con zelo e amore, comincia a portare i suoi

8
frutti. Ma indipendentemente da ciò l’opinione pubbli-
ca, dalla quale tutto emana, non è restata più a lungo
indifferente. I mali sono giunti a tal punto che le lonta-
ne miserie di tanti, di troppi nostri emigranti, hanno
avuto un grido che è risuonato fino qui, ed ha fermato
imperiosamente il nostro pensiero su quelle miserie,
vecchie miserie e che ci sembrano nuove.
Il Corriere della Sera colse l’occasione della emigrazio-
ne italiana al Canadà avvenuta l’anno passato, nella
fine di marzo, per seguire passo passo l’odissea doloro-
sa di quegl’infelici strappati alle loro case dalle bugiar-
de lusinghe d’una speculazione infame, e abbandonati
alla miseria e agli stenti. Il nostro Eugenio F. Balzan, il
quale unito a quegli emigranti compì con loro il viaggio
dall’Italia al Canadà, ossia dall’illusione alla verità, ri-
velò gl’inganni, gli sfruttamenti, gli abusi, i soprusi e le
ingiustizie delle quali migliaia di nostri concittadini
sono state le vittime; e le sue relazioni ebbero una pro-
fonda eco.
Questo nostro interessamento ci procurò l’onore d’una
lettera del senatore Pasquale Villari, con la quale l’illu-
stre Presidente della Dante Alighieri incoraggiava un
più vasto studio del fenomeno emigratorio, e risolvem-
mo di affrettare l’esecuzione d’un antico nostro proget-
to: esaminare da presso la vita dei nostri emigranti nel
loro nuovo ambiente, vedere la loro nuova situazione
morale e materiale. E cominciammo dall’Argentina, che
è il paese dove vive il maggior numero d’italiani, e dove
per cinquanta anni si è diretta la più grande corrente
9
della nostra emigrazione.
Ecco l’origine e lo scopo delle lettere argentine del no-
stro redattore Luigi Barzini, pubblicate nel Corriere dal
novembre dello scorso anno al settembre di questo.
Sono lettere oneste e coscienziose, che presentiamo ora
raccolte in volume perchè su tante verità è necessario
un po’ insistere, e disgraziatamente gli articoli di gior-
nale nascono, vivono e muoiono nel corso d’una sola
giornata.
Speriamo di non aver fatto opera completamente steri-
le, e di aver portato, nel limite delle nostre forze, un
contributo allo studio dell’emigrazione che tanto ci sta
a cuore.
Il CORRIERE DELLA SERA.

10
L’ADDIO.1

Da bordo del Venezuela, 12 ottobre.

Chi può udire senza commozione profonda il grido che


si leva da una nave carica d’emigranti, nel momento
della partenza, quel grido al quale risponde la moltitudi-
ne assiepata sulle banchine, urlo disperato di mille voci
rauche di pianto? Gridano addio! E par che gridino aiu-
to!...
L’addio! Non c’è cosa più amara e più dolorosa. Tutta
l’umana sofferenza può essere espressa in questa parola:
addio! In fondo ad ogni nostro dolore possiamo trovare
sempre un addio: a qualche cosa o a qualcheduno.
Io non dimenticherò mai la triste partenza di questo va-
pore che mi trasporta al di là dell’Atlantico; forse per-
chè anche io, partendo, mi sento un po’ compagno agli
emigranti che sono a bordo. E anche perchè nella noia e
nella disillusione dei viaggi vi sono due grandi emozio-
ni, due sole, alle quali nessuno può sottrarsi: la partenza
e il ritorno.
*
* *

Quando si ode a bordo l’avvertimento: «Chi non è pas-


seggiero, a terra!» comincia un momento di strazio. Pare
1 Dal Corriere della Sera del 19 novembre 1901.

11
che soltanto allora chi parte abbia nettamente il senti-
mento dell’irreparabile. Si direbbe che vi fosse in ogni
anima questo pensiero: potrei ancora non partire! Ciò
dava coraggio.
«Chi non è passeggiero, a terra!» – ripetono delle voci
indifferenti di marinai. Scoppiano i pianti fra la povera
folla accampata sui ponti; si annodano abbracci lunghi,
violenti, disperati; le facce lacrimanti si reclinano sulle
spalle scosse dai singhiozzi; delle parole interrotte e af-
fannose s’intrecciano: Ricorda!... Scrivi!... Torna,
torna!...
«A terra! A terra!» – ammoniscono crudelmente i mari-
nai: e comincia per la passerella la dolorosa processione
di chi rimane. Non sono molti. L’amaro conforto dei sa-
luti non è per tutti. È una folla varia che si dispone lun-
go la banchina, con le pallide facce attente alla nave,
aspettando.
Vi è qualche cosa di funebre in questa attesa. Infatti la
partenza di un emigrante per un lontano paese ha un po’
della morte. Egli muore alla sua vita consueta. Muore
per i suoi, muore per il suo paese, sparisce verso l’igno-
to. Egli forse pensa vagamente ad un ritorno, è vero; la
sua morte ha una speranza di risurrezione. Ma nel mo-
mento del distacco il turbine del dolore disperde ogni
sogno. Egli ha l’occhio perduto e il viso desolato di chi
si trova di fronte all’abisso insondabile di un’altra vita.
Questa morte è peggiore della vera, dell’ultima, in ciò:
che qui vi è la desolazione di chi parte aggiunta alla de-
solazione di chi rimane. Questi due dolori di fronte, dal-
12
la riva alla nave, si nutrono l’uno dell’altro fino alla di-
sperazione. Le anime legate d’affetto sono come specchi
che si mandino le immagini: ciò che vi passa dentro si
riflette centuplicato all’infinito.
Tutti tacciono perchè tutti sentono che parlare sarebbe
piangere. Solo qualche voce mormora ogni tanto: corag-
gio! E dei singhiozzi rispondono. Un emigrante arriva in
ritardo, correndo, seguìto da una donna. Hanno il volto
acceso dalla corsa e tutto bagnato di lacrime. Sul limite
dell’imbarcadero si abbracciano strettamente, senza una
parola, mentre i facchini pronti a ritirare la passerella
gridano: Presto! Poi l’uomo si svincola e si slancia a
bordo, come fuggendo. Lo segue lo sguardo desolato
della donna che rimane immobile, stordita. Nessuno
bada a questa scena; il dolore rende egoisti, cioè crudeli;
i dolori degli altri sono spesso di conforto ai proprî.
*
* *

Nel silenzio si odono i comandi dall’alto della plancia: i


fischi dei segnali trillano degli ordini. Da tutto intorno
viene intenso il tuono della vita, il palpito della città in-
differente. I trams elettrici fuggono rombando lungo la
via di circonvallazione e suonano allegramente le loro
campanelle. Il frastuono d’un treno in partenza si spe-
gne nel tunnel che va a sboccare nella luminosa San Pier
d’Arena. Un mondo di gente passa lontano senza fer-
marsi, senza volgersi, inconsapevole dei mille drammi

13
che lì a due passi hanno nella partenza imminente un
unico epilogo. Dalle colline scende il vento fresco e por-
ta gli ultimi profumi della terra. I giardini non sono mai
stati così verdi e belli, così crudelmente allettevoli. Il
colossale Nettuno della villa Doria, guarda dal folto de-
gli alberi con profondo disdegno il suo regno antico, il
mare; pare che dica: Qui, qui si sta bene! Genova tutta
sorride al sole....
I preparativi fervono. Le grandi braccia lente delle gru
hanno posto nella stiva aperta le ultime casse. Erano ba-
gagli d’emigranti, poveri bauli di legno grezzo, cesti,
vecchi cofani borchiati di ferro che gemevano sotto la
stretta delle funi. La passerella viene ritirata. Nulla è più
fra la terra e la nave. Si ode un comando. Gli argani di
prua si mettono a girare con frastuono: l’àncora sale,
esce lentamente dal mare bagnata e scintillante. Gli or-
meggi si allentano. Sotto alla poppa l’acqua comincia a
ribollire, si forma un vortice da cui la spuma fugge in
tumulto spandendosi lontano: l’elica è in moto.
Gli emigranti si accalcano ai parapetti, si arrampicano
agli attacchi delle sartie, lottano per un posto, pallidi, si-
lenziosi, risoluti.
Il piroscafo si sposta: lentamente lentamente scorre lun-
go la banchina. La folla muta lo segue passo passo fa-
cendo dei segni d’addio. Qualche fazzoletto sale agli oc-
chi, ma per poco; non c’è tempo di piangere, si vuol ve-
dere, vedere fino all’ultimo, vedere fino che è possibile:
i momenti sono preziosi. Gli occhi non si distolgono un
istante dalla nave; occhi rassegnati e dolenti, nei quali
14
con l’espressione della sofferenza vi è tanta dolcezza
d’implorazione. Chi soffre rassegnato ha lo sguardo del
vinto che domanda pietà, ed emana da lui tutta la poesia
della sconfitta. Una povera donna solleva sulla testa un
bambino che saluta con tutte e due le manine, ridendo.
Ad un tratto il vortice di spuma diventa tempestoso,
l’elica comincia a pulsare rapidamente facendo vibrare
la nave tutta. La terra si scosta. Allora delle voci si leva-
no, dei pianti mal contenuti scoppiano. Poi, improvvisa-
mente, dai fianchi del piroscafo si sferra il grido dispe-
rato che stringe il cuore, l’urlo che quasi non sembra più
umano: Addio!! E mille braccia si tendono verso la terra
e si agitano quasi nell’inane sforzo d’un ultimo amples-
so.
*
* *

Addio! risponde la folla già confusa sullo scalo. Sopra


di essa biancheggiano i fazzoletti agitati, e ogni fazzo-
letto è riconosciuto da bordo come se fosse un volto, è
seguìto fissamente, avidamente. Quel puntino bianco
che sfarfalleggia sulle teste ripete ancora una volta tutto
quel mondo di cose inesprimibili che le anime sanno
dirsi quando il pianto rende muta la bocca.
Ogni cosa sparisce lontano; gli uffici doganali e i docks
del ponte Federico Guglielmo non sembrano più che ca-
sette biancheggianti al sole. Si passa vicino ad una nave-
scuola, dalla quale arrivano le allegre battute d’una mar-

15
cia militare; dei ragazzi in uniforme marinaresca si af-
facciano al parapetto agitando i berretti. Il nostro piro-
scafo silenzioso si allontana scivolando sull’acqua cal-
ma e serena. Sopra un carboniere, dei marinai in catena
eseguiscono una manovra, e il loro canto lietamente si
spande nella quiete del porto. Si gira il Molo Vecchio,
dietro al quale spunta la foresta delle alberature veliere,
un intreccio folto di sartie, di scale e di pennoni che
spicca sull’azzurro immacolato del cielo; il mare scher-
za in mille modi sugli scogli intorno alla lanterna. Alle-
gri squilli di tromba vengono da due navi da guerra an-
corate al Molo Lucedio; dei canti lontani pare che si
chiamino. I gabbiani si rincorrono a fior d’acqua gridan-
do, come per giuoco. Girando il Molo Giano per uscire
dal porto, Genova intera si apre allo sguardo, vigilata
dai forti, incantevole. Vi è per tutto una gioiosa aria di
festa!
Poco a poco ogni cosa fugge all’orizzonte e si annebbia.
La faccia della Patria impallidisce lontano, ma lunga-
mente ancora corrono su di lei fervide le ultime carezze
dello sguardo nostro....

16
SFOGLIANDO UNA GUIDA2.

Da bordo del Venezuela.

Mi è capitato per le mani un opuscolo interessante. Lo


ha trovato interessante, prima anche di me, il Governo
argentino, tanto che ha creduto bene di autorizzarne la
compera di quindicimila copie per farle distribuire gra-
tuitamente in Italia. Si tratta di una Guida dell’Emigran-
te Italiano alla Repubblica Argentina.
È un opuscolo scritto con una certa sincerità, e perciò in
fondo onesto, e mi guardo bene di metterlo in un fascio
con le infami pubblicazioni di propaganda che circolano
per certe nostre campagne dove più infierisce l’epide-
mia dell’emigrazione. È appunto perchè è scritto con
sincerità che è interessante. L’Argentina, si capisce, vi è
chiamato il «paese ideale»; vi si dice che «non esiste
nessun paese nel mondo dove gl’italiani possano star
meglio che nella Repubblica Argentina», nella quale si
sono date convegno tutte le benedizioni del cielo e della
terra. Ma fra la relazione di tante cose belle e seducenti
si leggono delle frasi, destinate forse a smorzare il disin-
ganno, frasi che dovrebbero far molto meditare gli emi-
granti nostri, se l’uomo preso dal furore migratorio fos-
se un essere ragionevole.
Sono granelli di sincerità: «Gli operai debbono essere
2 Dal Corriere della Sera del 5 dicembre 1901.

17
decisi a far di tutto, ad andare da qualunque parte.... I
loro lavori, come pure quello dei campi, risulteranno pe-
santi, forse più pesanti che i lavori analoghi che si fanno
in Italia.... Gli emigranti debbono rassegnarsi a tutto (nei
primi tempi) e andare in America con l’idea che i princi-
pî saranno duri e penosi... Il collocamento degli artigiani
non è tanto facile (paragonato a quello degli agricoltori)
e più d’una volta non potranno lavorare subito nel loro
mestiere e dovranno rassegnarsi a fare qualunque cosa
per pesante che sia. Quando ciò succede, molti maledi-
cono l’ora in cui venne loro in mente d’imbarcarsi, ab-
bandonandosi a sfoghi del tutto ingiustificati... Gli emi-
granti a cui si offre un occupazione fuori di Buenos Ai-
res l’accettino subito ed abbiano la decisione di andare
dappertutto. In Buenos Aires è molte volte impossibile
la collocazione.... Gli emigranti si debbono rassegnare
alle contrarietà dei primi tempi, vivendo male, adattan-
dosi a qualunque lavoro, senza debolezze, nè abbatti-
menti. Altrimenti sarebbe meglio che non si muovessero
dal loro paese, perchè in qualunque nazione d’America
si dirigessero troverebbero di peggio.... Quelli che emi-
grano debbono essere sempre persuasi che per aprirsi
una strada, per vivere, e fare alcuni risparmî, dovranno
sopportare le fatiche più penose, sottomettersi ai lavori
più pesanti. Meglio per loro se la realtà sarà poi meno
fosca delle previsioni....»
*
* *

18
Tutto ciò è naturale. L’America come si presenta alle
fantasie e alle speranze di tanta povera gente non è mai
esistita, neppure all’epoca dei Guarany. In tutti i paesi
del mondo sono i forti che resistono e che trionfano
dopo lunghe lotte e fatiche: anche in America. Ed è que-
sto che dovrebbero capire gli allucinati che continuano
ad essere attratti laggiù dal sogno di facili ricchezze.
Dovrebbero capire che «rassegnandosi a viver male,
adattandosi a qualunque lavoro, senza debolezze, nè ab-
battimenti», potrebbero ben restare nella loro Italia che
è pur sempre «il paese del mondo dove gli italiani pos-
sano star meglio» – senza offendere la Repubblica Ar-
gentina. Dovrebbero capire che se facessero in patria
quanto la necessità fa far loro laggiù, se profondessero
nel loro paese tutte le energie con le quali fanno ricchi
quei lontani paesi, se i sacrificî e il lavoro bestiale ai
quali li spinge, una volta emigrati, la disperazione come
una sferza sanguinosa, li riserbassero per la bella terra
che li ha visti nascere, se le iniziative che essi trovano
quando lontani e perduti il bisogno li stringe, le avessero
a casa loro, troverebbero bene in Italia la loro America,
ma quella delle leggende, e più bella, e più cara.
Ma è la miseria che li spinge ad emigrare: lo dice anche
la Guida dell’Emigrante Italiano alla Repubblica Ar-
gentina. Pare quasi che la giovane America ci stenda
una mano caritatevole, a noi vecchi miserabili, prenden-
doci un po’ di braccia. Ah! la nostra miseria, noi la gri-
diamo. E la miseria d’America, della terra promessa? E
gli scioperi argentini? E i diecimila disoccupati di Bue-
19
nos Aires? E coloro che tornano da laggiù sfiniti, con la
volontà spezzata? E quelli che non possono nemmeno
tornare perchè non ne hanno la forza? E coloro che fini-
scono nell’atorrantismo, la forma più abbietta e vilipesa
della povertà? Di fronte agli arrivati che conosciamo,
quanti caduti, ignoti, lontani, dimenticati?
La Guida dell’Emigrante, parlando delle fortune fatte da
molti lavoratori italiani nell’Argentina, dice:
«Sappiamo che fra gli emigranti ve ne sono che soffrono
ogni genere di angoscie, contrarietà e privazioni prima
di trovare una via meno aspra, se pur la trovano, ciò che
non a tutti succede.» Ma tuttavia, diamine, c’è chi arriva
a farsi una bella posizione, e «si suol citare, come esem-
pio, in Buenos Aires, un fabbro che finì per possedere
una gran fonderia e un gran numero di case.» Ebbene,
un fabbro è poco, e poi il fabbro di Buenos Aires, non lo
abbiamo noi in cento e cento edizioni? Non vediamo in
tutte le nostre città operai industriosi e intelligenti, uo-
mini di volontà e di costanza che arrivano a mettersi alla
testa di industrie, e che giungono ad avere la loro «fon-
deria con gran numero di case?»
E via, rompiamo l’incanto che circonda ancora l’Ameri-
ca nella mente del nostro popolo. L’America è un paese
dove si soffre, dove si piange e dove si soccombe, come
in tutto il mondo. Laggiù la lotta è meno disciplinata ed
è perciò violenta, terribile: alla curée della ricchezza
corrono mastini forti ed agguerriti. E non sono di quei
mastini che possa fornire l’emigrazione nostra. L’emi-
grazione italiana è un’emigrazione di muscoli. Questa
20
Guida dell’Emigrante, dice: «Oltre i deboli rachitici, gli
sconciati e i vecchi, non debbono emigrare coloro che
hanno studiato, che hanno ricevuto un’educazione più o
meno scelta.» Nè muscoli infermi, nè teste sane dunque.
Sono buone braccia che si vogliono da noi, ma niente
altro che buone braccia. E noi le diamo.
Quest’opuscolo che sfoglio, sulla cui copertina, come
una vidimazione ufficiale, spicca il bollo del «Consula-
do de Milan», è una chiara e facile esposizione di consi-
gli, alla portata delle intelligenze semplici. Dalla lettura
di questi consigli all’emigrante italiano si forma a poco
a poco la netta visione di che cosa sia veramente l’emi-
grazione laggiù: come dai consigli del medico si capisce
il male.
L’emigrazione non è l’effetto naturale della legge della
domanda e dell’offerta di lavoro, come asserisce la pre-
fazione dell’opuscolo. Nei centri argentini vi è pletora di
mano d’opera, specialmente a Buenos Aires che attra-
versa una crisi non indifferente, e la Guida infatti cerca
in ogni pagina di persuadere l’emigrante ad internarsi
nei campi, risolutamente, senza paura della distanza, e
subito. Nella colonizzazione è la ricchezza del paese, il
quale ne risente i vantaggi, mentre tutto il passivo di
vite, di lavoro e di denaro grava sui pionieri dispersi
nelle estancie delle Pampas. Si vuole un’emigrazione
stabile: la Guida trova assai più vantaggiosa per gli emi-
granti «l’emigrazione con carattere definitivo» e consi-
glia loro di «mettere in ordine i loro affari come se non
dovessero tornar più» prima di partire. Li pone in guar-
21
dia contro il dolce mal della patria; «bisogna guardarsi
da questi sentimentalismi che causano malessere e in-
quietudini e inducono a commettere leggerezze di cui
più tardi ci si pente»; la leggerezza, si capisce, è il ritor-
no. «Queste vacillazioni recano un danno enorme agli
emigranti.» «Del resto hanno la loro poesia e le loro at-
trattive anche le pianure argentine con i loro orizzonti
infiniti.» «Per fortuna gli italiani sono quelli che più fa-
cilmente si radicano nella Repubblica Argentina; i più,
nondimeno, tardano a convincersi che devono conside-
rare l’Argentina come loro residenza definitiva, come
loro seconda patria.» Coloro che non hanno tali debo-
lezze «ottengono un immenso vantaggio su quelli che
solo pensano al ritorno».
È logico. La Guida vede l’emigrazione francamente e
nettamente dal punto di vista argentino, soprattutto
quando, parlando dei risparmî degli emigranti, consiglia
«coloro che hanno qualche maggiore conoscenza di
queste cose» a comperare titoli degli imprestiti interni
della Nazione, perchè «i tracolli e le sospensioni di pa-
gamento di altri tempi non si ripeteranno». Ma dal punto
di vista italiano? Non è doloroso e umiliante? Questa
sottrazione continua delle nostre forze vive, questa tra-
sfusione del sangue nostro per la rigenerazione di paesi
lontani, dovuta principalmente alla ignoranza delle no-
stre masse, non è cosa ben triste?
E non siamo troppo ottimisti sui vantaggi riflessi che la
madre patria può avere dalla emigrazione: lo stato civile
dei Consolati c’insegna che l’italianità normalmente si
22
perde alla prima generazione: e tutti gl’italiani che da
cinquant’anni sono passati nell’Argentina hanno procu-
rato alla loro madre patria solo un terzo della esporta-
zione che ha l’Inghilterra laggiù; e non vi sono che ven-
timila inglesi nell’Argentina. Inglesi, beati loro, da pa-
dre in figlio e da figlio in nipote, come se vivessero in
pieno Regno Unito.
*
* *

La Guida dell’Emigrante se la prende un po’ col Gover-


no italiano perchè intende d’occuparsi dell’emigrazione.
«Tutte le nazioni d’Europa – dice – hanno dell’emigra-
zione, in scala maggiore o minore: ma l’Italia è l’unica
nazione dove si parla continuamente di misure, di prote-
zioni, di leggi, di colonie (che poi non sono tali)». Se la
prende col Governo «perchè insomma con tanto parlare
di colonie e di protezioni non si fa che irritare suscettibi-
lità attendibili e creare diffidenze e sospetti».
Sì, tutte le nazioni hanno degli emigranti: ma sopra
1,765,784 emigranti europei sbarcati nell’Argentina dal
1857 al ’98 1,093,112 erano italiani. Abbiamo diritto di
occuparcene. E poi che cosa ha fatto il Governo italiano
con la sua nuova legge per l’emigrazione e il relativo
complicato, burocratico e fiscale regolamento? Ha reso
più facile il viaggio, ha provveduto perchè gli emigranti
abbiano a bordo tanta carne, tanto pane e tanti metri
cubi d’aria respirabile durante il tragitto.

23
Come se il complesso fenomeno dell’emigrazione con-
sistesse in quei venti giorni di navigazione!...

24
QUA E LÀ PER BUENOS AIRES3.

Buenos Aires, novembre.

La più grande caratteristica di Buenos Aires è quella


di non avere nessuna caratteristica. Buenos Aires è un
po’ di tutto. Un Santos Dumont capitato qui, supponia-
mo, con la macchina per volare, si troverebbe estrema-
mente imbarazzato a giudicare, dall’alto, in quale paese
del mondo il vento, o il motore, lo avessero condotto.
Sulla piana e sterminata distesa di case vedrebbe delle
guglie tedesche ornate di trafori in ferro, come certi tetti
della vecchia Norimberga, vicino a basse terrazze candi-
de e disordinate ricordanti Cadice! Scorgerebbe le cin-
que cupolette tradizionali di una chiesa russa e più lon-
tano due campanili spagnuoli: e cupole italiane gettanti
la loro ombra sopra le mansardes di un casamento pari-
gino: e palmizi come alla Favorita e platani come
all’«Avenue des Champs-Elisées.» Volta a volta si cre-
derebbe arrivato in tutti i paesi d’Europa, l’infelice ae-
reonauta!
Buenos Aires si può dire infatti una specie di campio-
nario di capitali europee; nemmeno la più piccola sfu-
matura di colore locale. Vien quasi voglia di chiedere,
come er re de Spagna portoghese dei sonetti di Pasca-
rella:
3 Dal Corriere della Sera del 24 dicembre 1901.

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Ma st’America c’è? ne sete certo?
Si esce da una brutta copia di «boulevard» parigino –
chè tale è l’Avenida de Mayo, la principale via della cit-
tà – e si trova nella «Plaza de la Victoria», un perfetto
square londinese, ombroso e verde con la sua fontana
che getta acqua nei giorni solenni, e il suo bravo monu-
mento equestre, una specie di «cavallo di spade», rap-
presentante il generale Belgrano. Di fronte al generale
biancheggia quel curioso obelisco celebre sotto il nome
di «Piramide de Mayo», eretto per «perpetuar el glorio-
so pronunciamiento de independencia», funzione che
esso, per quanto composto di stucco, compie coscien-
ziosamente da novant’anni. È il capolavoro d’un povero
mastro muratore italiano, un certo Podestà, divenuto ar-
chitetto per bisogno. Si sa, l’italiano
Er talentaccio suo se l’ariggira.
L’opera dell’oscuro nostro compatriotta è ingabbiata
da un’armatura costellata da lampadine elettriche che si
accendono nelle sere di festa: una volta all’anno si dà al
tutto una buona mano di vernice. Questo è il più antico e
il più sacro monumento della Repubblica Argentina, in-
torno al quale si compiono le cerimonie patriottiche e le
dimostrazioni; mèta dei corteggi e dei pellegrinaggi, tri-
buna dell’eloquenza commemorativa.
La manìa d’ingombrare i monumenti con il perma-
nente preparativo della luminaria è generale. L’illumina-
zione pare considerata qui come una cosa importante,

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indispensabile, che bisogna aver sempre pronta sotto
mano per ogni circostanza. Oh! «sangre español!» An-
che la cattedrale, per esempio, che sta nello stesso squa-
re incastonata fra un paio di Banche, ha i capitelli e le
colonne del suo brutto portico corinzio percorsi da gros-
si tubi di gas neri che sembrano fasce di lutto.
Eppure – chi lo direbbe? – questa chiesa, e i suoi tubi,
formano l’orgoglio dei bonearensi. Un ex-ministro ar-
gentino, grande uomo, celebre per aver mangiato molti
milioni sulle opere di salubrità durante l’indimenticabile
presidenza di Juarez Celman, davanti al Pantheon a
Roma, esclamò: «Muy bonito, si, però, nuestra catedral
es mas bella y grandiosa!» Egli di tali sue impressioni
geniali ha composto dapprima delle corrispondenze eu-
ropee al più diffuso giornale di qui, la Prensa, e poi an-
che un libro, dove ha trovato modo di dichiarare che
San Pietro e i Palazzi vaticani con le relative loggie e
musei non valgono la Galleria delle Macchine
dell’Esposizione di Parigi. Davanti alle Pinacoteche fio-
rentine ha avuto questa meditazione: Quanti milioni get-
tati via, mentre oggi la fotografia rende così bene la ve-
rità della vita!
Sembrano scherzi, ma no, si tratta di cose scritte, e
soprattutto lette, sul serio. L’ottimo ex-ministro rispec-
chia abbastanza fedelmente l’opinione dei suoi concitta-
dini. Qui si pensa così della nostra arte, delle nostre
grandezze, delle nostre glorie!

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*
* *

Lasciato lo square dall’obelisco patriottico per entra-


re in certe vie laterali, pare trovarsi nella City, parlo del-
la City londinese, col suo asfalto, le sue Banche, le sue
agenzie e la sua folla. Calle Reconquista somiglia a
Lombard Street. Banco di Londra e Rio della Plata,
Banco di Londra e Brasile, Banco britannico dell’Ame-
rica del Sud, poi Banco Anglo-Argentino, e lì presso il
«River Plate Trust», la «Loan y Agency Comp.», e la
«New Zealand and River Plate Lond Mortgage Comp.»,
e la Società Ipotecaria Inglese, una quantità d’istituti fi-
nanziarî inglesi fra i quali le altre Banche francesi, spa-
gnuole, tedesche, argentine e italiane, stentano a forma-
re la maggioranza numerica. Biondi commessi in sopra-
bito e cilindro, con le cartelle dei valori sotto il braccio,
vi vengono addosso, vi urtano e si allontanano gettando-
vi un frettoloso: «I beg your pardon!» – Si odono dei ra-
pidi: «Good morning!» – «Good bye!» – «Come è
l’apertura del London Exchange?» – «All right!»
Qui le mani inglesi manipolano le finanze della Re-
pubblica. Gl’inglesi sono i veri padroni dell’Argentina;
essi hanno tutte le ferrovie, il porto, le opere colossali
dell’acqua potabile, i trams, tutte le principali imprese;
un investimento di un seicentocinquanta milioni di fran-
chi, senza contare i prestiti allo Stato. La capitale finan-
ziaria dell’Argentina è Londra. Dal London Exchange
viene tutti i giorni la parola d’ordine. Nei nebbiosi din-

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torni della Mansion House può decretarsi la sorte di
questo Stato, che esiste solo in grazia dei capitali inglesi
e delle braccia italiane.
Gl’inglesi a Buenos Aires formano proprio l’«impe-
rium in impero», anzi direi meglio l’«imperium in... re-
pubblica.» Essi formano una potenza a loro. Vivono
completamente separati. Chiusi gli ufficî, alla sera, essi
corrono alla stazione del «Retiro», e i «dinner trains»,
pronti per loro, li portano a Belgrano e a Flores, ameni
quartieri pieni di giardini e di villette inglesi, che ram-
mentano vivamente i gentili e melanconici sobborghi
aristocratici di Londra. A traverso le cancellate dei par-
chi, profumati da superbe magnolie fiorite, i passanti
possono seguire le partite di lawn-tennis, di cricket, di
foot-ball che si svolgono sull’erba dei prati; e alla sera,
dalle verande aperte, intravvedono il pranzo di famiglia,
silenzioso e cerimonioso come in pieno West-End;
un’eletta raccolta di gentlemen in abito da società e di
ladies in décolletée. Oh! Quell’abito! Vi sono degli in-
glesi che vivono all’interno, in estancie lontane dal con-
sorzio umano, soli, nella pampa, e che si mettono in
frack per andare a tavola!
Quando gl’inglesi hanno voglia d’un po’ di spettaco-
lo, si fanno concedere il Teatro dell’Opera, vi mettono
in scena una produzione inglese, e loro se la recitano, se
la cantano, se la ballano e se l’applaudiscono, infi-
schiandosene del mondo intero. Giusto adesso essi dan-
no all’Opera un’operetta popolare inglese, il «San Toy»,
nella quale si possono ammirare delle rispettabili ladies
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che ballano il passo a due con pudibonda grazia, e delle
venerande misses dagli occhiali e i denti rilegati in oro,
le quali, vestite da cinesi, cantano:
«Siamo le mogli dell’Imperator!
«Ma qualche volta facciamo del... flirt!...»

Lettori, fuggiamo!
*
* *

Due quadri a ponente della City si trova una via che


per il suo aspetto ricorda il Corso di Roma: è la Calle
Florida, il centro dell’eleganza bonearense. I lettori
comprenderanno il significato di quei «due quadri a po-
nente». Essi sanno bene come Buenos Aires sia – a so-
miglianza di tutte le città moderne – costruita a quadri-
gliato; le strade, tutte eguali in modo desolante, s’inter-
secano ad angolo retto, alla stessa distanza, formando
dei quadri: una cosa più noiosa della nebbia. Il quadro è
la base delle distanze, l’unità di misura: gl’indirizzi ven-
gono indicati così: tanti quadri a destra e tanti a sinistra
e siete arrivato. Par di camminare sopra una scacchiera;
infatti per andare alla Posta io debbo fare il «salto del
cavallo»; per andare alla Banca marcio come la «torre»,
sempre dritto; e vado al club seguendo le regole
dell’«alfiere». Roba da diventar matto, anzi... scacco
matto!
Calle Florida dunque è la via dello chic; lì sono i ne-
gozî più ricchi, i bars e i caffè più in voga, lì gli eleganti
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portano a spasso le loro cravatte e le eleganti le loro ul-
time toilettes parigine. Calle Florida è tributaria in tutto
a Parigi; sì, dall’epoca della penultima Esposizione
mondiale. Da allora Parigi – unica fra le città europee –
gode della stima presso gli argentini. Il «hijo del pais» –
il figlio del paese – quando vuol visitare il nostro vec-
chio ed arretrato continente non ha altra mèta che Mont-
martre; esplora il «Moulin Rouge», lascia i suoi pesos
nei dintorni della place Blanche, e ritorna in patria com-
pletamente soddisfatto. A Parigi vivono sempre degli ar-
gentini, il cui numero varia anche a seconda della situa-
zione politica; in certe circostanze, per esempio, quando
c’è la minaccia d’una guerra col Cile, il viaggiare eser-
cita qui un’attrattiva irresistibile.
Parigi è l’unico termine di paragone con Buenos Ai-
res; giorni sono, al «Grand Prix» di trentamila pesos
all’Ippodromo, un diplomatico – che potrebbe anche es-
sere italiano – diceva ad una signora argentina moglie
del direttore d’uno dei migliori giornali bonearensi, ac-
cennando all’elegante concorso: È un bellissimo spetta-
colo che forse nemmeno da noi è dato di vedere spesso!
La dama si volse sdegnosamente rispondendo: «Sappia-
te, signore, che soltanto a Buenos Aires e a Parigi si può
ammirare una simile cosa!» Poche signore bonearensi
avrebbero dato altra risposta. Parigi è nella loro mente il
compendio di tutto il bello e di tutto il buono che pos-
segga l’Europa.
Esse non hanno altra ambizione che di rassomigliare
a delle parigine. Tutte, senza eccezione, cominciano col
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trasformare la loro bruna carnagione con l’impiego, sen-
za economia, di tutte le colorazioni che la chimica ha
escogitato a questo scopo, dal bianco per il collo al rosa-
to per le gote, dal carminio per le labbra al livido per gli
occhi; s’inondano di profumi; s’abbigliano con quanto
la moda boulevardière lancia di più vivace e di più ardi-
to. E riescono nel loro intento. Lo straniero che non è
ancora al corrente della strana manìa universale, rimane
choqué del gran numero di... parigine che vede.
Alla sera tutto questo mondo si ritrova nel parco di
Palermo sulle verdi rive del Rio della Plata; lungo le
avenide, bordate di palme rigogliose, gli equipaggi son-
tuosi sfilano lasciando fra i pedoni una scìa d’ammira-
zione e di maldicenza. Al di là del parco, delle villette e
dei giardini si seguono; nel silenzio della campagna, la
vita tumultuosa si spegne. La pampa incomincia; essa
porta l’infinita e squallida uniformità della pianura fino
alla città: Buenos Aires è come un’isola circondata da
questo oceano erboso. Nulla viene a rompere la linea
sterminata dell’orizzonte, fuori degli innumerevoli ele-
vatori a vento dei pozzi artesiani, grandi ruote a palette
sopra armature d’acciaio, che fanno pensare a scheletri
di fuochi d’artificio rimasti da un immenso e misterioso
festival.
*
* *

Dal lato opposto della città gli eleganti non vanno

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mai. Vi è la Boca del Riachuelo, uno strano rione, un
paese quasi, dalle piccole case di legno, di ferro zincato,
di casse da petrolio; qualche volta anche di mattoni.
Dalle vie sterrate, sulle quali il vento solleva il polvero-
ne a vortici, si scorgono piccoli recinti pieni d’immondi-
zie, depositi di vecchi cerchi di botte, di mobili a pezzi,
di cenci, di roba d’ogni genere raccolta certamente per
la strada e radunata non si sa perchè, forse per quella
strana manìa collezionista che accompagna talvolta la
miseria. In alcuni cortiletti al piede di alberi rachitici
bruciati dal sole, vegetano pomodori ed erbaccie fra i
quali razzolano i polli. In certi punti il terreno è paludo-
so; le vie sboccano in veri pantani. Qui le case sono co-
struite sopra palizzate, come quelle dei villaggi lacustri;
l’acqua marcisce intorno alle abitazioni, tutta coperta da
muffe verdi. In alcune strade meno frequentate pascola-
no liberamente dei buoi, che gettano al vento il loro
muggito lamentoso. Per ogni dove piccoli negozî oscuri
di almacen dove si vende di tutto; povere mostre polve-
rose coperte di mosche; osterie dalle quali esce il tanfo
caldo del vino come dalla bocca d’un ubbriaco; loschi
caffè dove non si prende il caffè...
La Boca migliora in prossimità del fiume; vi si vedo-
no dei grandi depositi di legname e di ferro, delle agen-
zie, degli ufficî. I caseggiati si serrano uno contro l’altro
in disordine, come se si affollassero verso lo scalo per
osservare curiosamente le golette, i brigantini, i trealbe-
ri, i velieri d’ogni forma che ancora preferiscono dar
fondo al Riachuelo per antica consuetudine.
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La Boca del Riachuelo è genovese. Qui l’aspro dialet-
to ligure è la lingua comune. I genovesi sono pressochè
i soli italiani che vivano riuniti in Buenos Aires, che ab-
biano formato una comunità separata, e che s’imponga-
no talvolta anche alle autorità ora per avere una «Calle
Ministro Brin», ora per reclamare il diritto ad un corpo
di pompieri speciale, italiano. Sono marinai e figli di
marinai, gente che vive sempre del mare; scaricatori, pi-
loti, battellieri, qualche armatore di velieri: alcuni passa-
ti poi al commercio e divenuti grossisti, almacenieri; e
osti e mestieranti. Solo gli arricchiti lasciano la Boca.
Tutti gli altri italiani – ve ne sono più di duecentomila
in Buenos Aires – vivono dispersi per l’immensa città.
Oh! ma non è difficile trovarli!
I venditori ambulanti che trascinano la loro triste vita
sui marciapiedi sono tutti italiani. Questo si dice uffi-
cialmente avere in mano il piccolo commercio. Sono
italiani i terrazzieri che scavano le fogne, i lastricatori
delle vie, i muratori arrampicati sui ponti, tutti coloro
che compiono i lavori più rudi, gli operai in genere. Ba-
sta correre là donde viene il batter d’un martello, dove
stridono delle macchine, dove romba un lavoro qualun-
que esso sia, dove si fatica, per trovare gl’italiani. Non
v’è pietra, si può dire, che non sia stata messa a posto da
mani italiane; dalle mani italiane è uscita la Buenos Ai-
res d’oggi con i suoi casamenti tedeschi e francesi e le
sue ville inglesi.
No, non è difficile trovarli i nostri connazionali! Fra i
palazzi sontuosi, anche nelle più belle calles e avenidas
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– con quella promiscuità che caratterizza questo caos
che è Buenos Aires – vi sono delle porticine ai cui stipiti
la miseria ha lasciato la sua sudicia traccia. Sono
gl’ingressi ai conventillos, le case immonde dove vivo-
no ammassati i poveri. Anche lì si parla italiano!
Fortunatamente vi sono palazzi e ville abitati da molti
connazionali nostri, e ciò conforta. Ma lì, lettori miei,
normalmente non si parla più italiano; la nostra lingua
vi è bandita.
Lì generalmente «se habla la lengua del pais!...»

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GLI ALLUCINATI4.

Buenos Aires, dicembre 1901.

Vengono e vengono gli allucinati, sempre, a migliaia e


migliaia, tutti i giorni. Essi seguono follemente il loro
miraggio, abbacinati; non sanno nulla, fuori che questa è
la terra dove «si fa fortuna»; ignoranti e incoscienti, sen-
za volontà e senza idee, spinti da una forza misteriosa e
mostruosa, quasi un esercito di ipnotizzati, attirati da
questa terra come i vascelli dall’isola fatata nella leg-
genda araba.
È inutile che i giornali onesti gridino al mondo la grande
crisi che affligge questo paese: essi vengono. È inutile
che le ricerche imparziali facciano conoscere che nella
sola città di Buenos Aires quarantamila operai almeno
sono senza lavoro; che tanta parte e migliore della cam-
pagna ha perduto i raccolti, tanto che lo Stato distribui-
sce le sementi; che il malgoverno ha rovinato i commer-
ci, distrutto il credito, paralizzato lo sviluppo industria-
le, colpito a morte la libertà e la giustizia: essi vengono.
È inutile che ogni giorno le liste dei ricercati dai Conso-
lati dimostrino la scomparsa di migliaia e migliaia di
emigrati, dispersi, spariti nelle solitudini delle pampas
forse, perduti in lontane estancias, finiti non si sa dove,
non si sa come: essi vengono. È inutile che i consoli, di
4 Dal Corriere della Sera del 13 gennaio 1902.

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fronte alla immensa miseria che chiede tutti i giorni il
loro aiuto, sconsiglino l’emigrazione: essi vengono.
Vengono, increduli al male, quasi convinti che il volerli
dissuadere significhi solo il volerli escludere dalla loro
parte di fortuna, sostenuti e consigliati non si sa da qua-
le demonio.
Ogni nave che arriva ne scarica migliaia sulle banchine
del Porto Madero. Il loro numero è pubblicato vicino
alle note di carico: essi sono una merce d’importazione.
Dal gennaio ne sono sbarcati sessantacinquemila. Nel
solo mese di ottobre sono arrivati dodicimila emigrati,
dei quali diecimila italiani. In questi ultimi tre giorni
sono arrivati tremila e ottocento emigrati, in gran parte
nostri connazionali.
L’«Hôtel de Inmigrantes» è gremito. Il lavoro di sparpa-
gliamento di questa gente per tutta le Repubblica proce-
de alacremente. Annesso al ricovero per gli emigrati v’è
l’«Oficina de Trabajo» che riceve le domande di mano
d’opera e distribuisce il lavoro; gli emigranti con le fa-
miglie sono trasportati sul posto del lavoro a spese dello
Stato. Teoricamente l’organizzazione è bella, ma il suo
funzionamento è troppo spesso inumano. I lavori per i
quali si richiede la mano d’opera sono ben sovente tem-
poranei; quando sono finiti, gli operai vengono licenzia-
ti; i miseri rimangono senza risorse in mezzo ad un pae-
se sconosciuto, soli, inascoltati, ignorati. E non possono
tornare indietro; l’emigrante può viaggiare gratis su tut-
te le linee della Repubblica, ma solo in una direzione:
avanti, verso la periferia. L’Argentina ha bisogno di di-
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centrare la popolazione; la legge è sapiente, ma spietata.
Giunti all’interno, gli emigranti sono praticamente pri-
gionieri del paese. Alcuni tentano il ritorno a piedi fra
disagi gravi ed anche pericoli. Non sono molti giorni
che una famiglia italiana di quattro persone, fra cui una
bambina, è tornata a Buenos Aires da Tucuman (mille-
duecento chilometri) a piedi, traversando il terribile de-
serto delle Salinas. Inoltre l’«Oficina de Trabajo» non si
cura di esaminare le capacità degli individui per distri-
buirli logicamente secondo i climi o i lavori. La perso-
nalità sparisce, un emigrante vale l’altro, gli uomini di-
ventano cose, macchine che non costano nulla e che ar-
rivano in abbondanza. Si domandano cento uomini per
il raccolto dello zucchero nel Salta o nel Chaco? Ebbe-
ne, si mandano i primi cento che capitano a compire
quel lavoro al quale gl’indi stessi si rifiutano. Gli emi-
granti possono non accettare, è vero, ma questa povera
gente sente nominare il Chaco per la prima volta!
Nell’«Hôtel de Inmigrantes» sono accampati come
un’armata alla vigilia della battaglia. Il paragone viene
naturale. Di fronte a tanta forza incosciente si prova
quella pietà profonda che solleva la vista di soldati par-
tenti allegramente per la guerra. Quale sorte li aspetta?
Queste sono le ultime ore che trascorrono insieme: il ba-
stimento rappresentava ancora un pezzo di patria; que-
sto rifugio continua ancora la vita di bordo. È un im-
mondo lazzaretto della miseria, ma li tiene uniti. Fra
poco saranno dispersi a centinaia di leghe da qui e non
sapranno, nemmeno vagamente, dove si troveranno.
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Non potranno – come il Maomettano che prega volgen-
dosi alla Mecca – volgersi verso un punto dell’orizzonte
pensando: l’Italia è là. Non ho trovato che un solo emi-
grante, sopra tanti che ho interrogato, capace d’indicar-
mi l’America sopra una carta geografica che presentavo
loro!
È questa immensa ignoranza che li rende docili, sicuri e
preziosi per il paese. Dove cadono si attaccano e produ-
cono, come il seme. L’idea della prosperità che verrà li
rende rassegnati a tutto, come una volta l’idea del para-
diso; poi, nell’ora del disinganno, sono rassegnati per
abitudine. Essi formano la vera ricchezza del paese; non
esiste un «hijo del pais» che coltivi la terra: per lui c’è
l’impiego, l’affare, la speculazione, il giuoco. È il lavo-
ro dello straniero – e dicendo straniero si può quasi si-
gnificare italiano – che ha sviluppato le risorse della ter-
ra, che ha reso possibili le industrie, attivato il commer-
cio, creato in mezzo secolo l’Argentina d’oggi.
Questo Governo conosce il valore inestimabile dell’emi-
grante, la massima dell’Alberdi «gobernar es poblar» è
sempre applicata: l’emigrazione è incoraggiata con opu-
scoli, con pubblicazioni, con conferenze tenute all’este-
ro e principalmente in Italia; la diminuzione dell’emi-
grazione ha destato allarmi, provocato provvedimenti.
Eppure, questa merce umana così preziosa, è ricevuta e
trattata qui con molta meno cura dell’altra merce, quella
in balle! Per le casse di carta o di cotone vi sono dei
grandi edifici in muratura, dei docks superbi ventilati e
asciutti, muniti di ascensori, ben situati sugli scali fra
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larghe vie in cemento. Per gli emigranti vi è una grande
baracca di legno cadente e infetta, nella quale vengono
condotti come mandrie all’ovile da inurbani impiegati.
*
* *

L’«Hôtel» degli emigranti (lo chiamano Hôtel!) sorge su


quella landa indefinibile, irregolare, fangosa, che sta fra
il torbido e tempestoso Rio della Plata e la città, una
striscia di terra che si direbbe la zona neutra fra il pos-
sesso delle acque e quello degli uomini. Tutto intorno
dei pantani putridi coperti da una superba vegetazione
acquatica mettono un po’ di verde sul piano squallido e
un po’ di miasmi per l’aria.
L’«Hôtel», di legno, ha una forma strana, sembra un ga-
sometro munito di finestre. Dei tetti bassi, neri e irrego-
lari gli si aggruppano intorno. Nel mezzo all’edificio
principale, al gasometro, vi è un cortiletto circolare,
oscuro, umido, una specie di pozzo, sul quale si aprono
le porte delle camerate. Un sistema di logore scalette di
legno, che dà all’ambiente l’aspetto d’un retroscena,
permette l’accesso ai piani superiori. L’acre odore
dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante
che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dal-
le vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aper-
te; un odore d’umanità accatastata, di miseria.
L’infinito armento umano ha lasciato sulle cose,
nell’aria, per ogni dove le sue tracce. Le pietre delle so-

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glie sono consunte; gli angoli sono smussati, scavati, al-
lisciati e anneriti dalle centinaia di migliaia di mani che
vi hanno strisciato su. Più in alto, all’altezza dei volti, le
tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso pas-
saggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date,
frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati
sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel
legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero
guarda indietro!
Il cortile, l’andito, gli spiazzi fra le baracche, le quali
circondano l’edificio a gasometro, sono affollati d’emi-
granti. Vestono gli abiti migliori, messi il giorno
dell’arrivo per un curioso sentimento di dignità. Alcuni,
sdraiati rinfusamente sui sacchi dei loro cenci, sonnec-
chiano o pensano; altri passeggiano a gruppi discutendo,
si affollano alla porta dell’«Oficina de Trabajo» col cap-
pello in mano, rispettosamente: altri giuocano; delle ra-
gazze si pettinano l’una con l’altra; dei bambini maci-
lenti giuocano sul pavimento gridando; delle donne al-
lattano. V’è il disordine triste d’un bivacco zingaresco:
si grida, si ride, si canta e si piange. Ma i più restano im-
mobili e silenziosi, stupiditi, indifferenti, stanchi, con gli
occhi senza sguardo, aspettando. La nostalgia li afferra,
quella nostalgia istintiva della bestia catturata, un torpo-
re doloroso. Sulle faccie sono i segni non dubbî d’un
viaggio penoso, in alcuni occhi brilla la febbre.
Ma ecco che si sente il suono d’un organetto, di quella
fisarmonica che è l’istrumento prediletto dei nostri con-
tadini; molti fanno cerchio, qualcuno balla. Una donna
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singhiozza.
Le camerate sono silenziose. Lì cercano rifugio i solita-
rî: coloro che vogliono nascondere il dolore. Dalle fes-
sure delle pareti sconnesse entra sibilando il vento, que-
sto freddo e polveroso pampero, e l’edificio ne è scosso.
Nella penombra s’intravvedono delle figure umane im-
mobili, sedute o distese sugli immondi tavolacci. Nel
vedere entrare un estraneo, gli uomini si levano lenta-
mente in piedi con impacciato rispetto. Nella loro pa-
ziente aspettativa, l’arrivo d’un estraneo porta sempre
un po’ di speranza. Un pover’uomo tiene in braccio un
bambino evidentemente malato. Il piccino abbandona la
testa sulla spalla del padre, respira affannosamente e
chiede da bere con voce lamentosa. L’uomo è un meri-
dionale muratore; interrogato sul suo piccino, risponde:
— La notte fa freddo qui, s’è perduto il nostro bagaglio
e non abbiamo di che coprirci... Tanti bambini sono ma-
lati!
— Come s’è perduto il vostro bagaglio?
— Non lo so: veniamo da Salerno: all’imbarco un si-
gnore ha domandato a me e ad alcuni miei compagni le
ricevute del bagaglio. Arrivati qua, non abbiamo trovato
più niente.
— E non avete più le ricevute?
— No, niente!
Si tratta di uno dei soliti furti agli emigranti. Alcuni di
questi poveretti sono stati derubati a bordo; per essi i
compagni di viaggio hanno raccolto fra loro delle picco-
le somme, offrendo quel poco che potevano. E questi
42
poveri parlano della loro elemosina con una semplicità
sublime.
*
* *

La sera scende triste su questo luogo di miserie. Essa,


come una vecchiaja quotidiana, porta tutta la melanco-
nia, la stanchezza, il disinganno della giornata trascorsa.
Il magro pasto – un pezzetto di puchero galleggiante in
acqua sporca che dovrebbe essere brodo, e un pezzo di
pane – è divorato in silenzio. I quattro cinque impiegati
dell’«Oficina de Trabajo» se ne vanno; un «vigilante»
indiano, legittimo discendente degli antichi timbues, e
ora rappresentante il potere esecutivo, gira i cortili ispe-
zionando; il direttore del ricovero, cioè dell’Hôtel, un
ometto calvo, barbuto e mellifluo, succhia il mate sulla
porta del suo ufficio e sorveglia distrattamente lo sfilare
degli emigranti che entrano nelle loro camerate. Si ac-
cendono qua e là delle lampade alla cui luce rossastra la
scena prende un aspetto sinistro.
Nell’oscurità si è spenta ogni gaiezza. Nessuno più ride
o canta, non si parla nemmeno: si bisbiglia. La notte è
scesa anche negli animi. Pare che la speranza non sia vi-
sibile che alla luce del sole. Se un chiarore improvviso
diradasse queste ombre non si scorgerebbero che volti
mesti, pensosi, attoniti o piangenti. In un angolo lontano
la fisarmonica riprende sottovoce, timidamente il suo
suono asmatico e singhiozzante. Il legittimo discendente

43
degli antichi timbues la fa tacere. Nelle camerate si dor-
me o si sospira.
Nel fetido cortile a pozzo, divenuto deserto, il pompiere
di guardia si arrotola una sigaretta e se l’accende. La pe-
nombra lascia appena scorgere tutt’intorno dei cartelli
con la scritta: Es prohibido fumar.
Dalla vicina stazione del Retiro arrivano gli urli laceran-
ti delle sirene. Il rumore della città, come il muggito
d’un mare, viene ad infrangersi contro queste solitudini
tetre. È l’ora in cui Buenos Aires comincia a divertirsi.
L’orizzonte è tutto rischiarato dal crepuscolo livido della
luce elettrica.
*
* *

Alcuni emigranti hanno qui dei parenti o degli amici:


possono trovare consiglio e appoggio; il loro colloca-
mento è meno difficile e meno cattivo. Altri – meridio-
nali in gran parte – vengono in questa stagione per lavo-
rare ai raccolti, e a febbraio tornano in Italia. Molti di
essi hanno l’abitudine a tale emigrazione periodica,
come le rondini; conoscono il paese, guidano gl’inesper-
ti, si lasciano condurre a spese del Governo argentino
senza spendere un centavo, e raggranellano qualche
cosa. Gli altri, la grande massa, sono venuti qua alla cie-
ca, con le loro famiglie, senza sapere nulla. Sono gli al-
lucinati. La sorte che li aspetta in questo momento, in
cui antichi emigranti lasciano certe regioni divenute in-

44
grate al lavoro, può essere terribile. Un ministro argenti-
no diceva giorni sono: «L’emigrazione è necessaria, ma,
dato il momento, sono preferibili diecimila emigrati di
meno che diecimila disoccupati di più!»
Dissipata un po’ la diffidenza, abituale nel contadino, ho
domandato a molti emigranti: – Perchè siete venuti in
America?
I più rispondono: – Per tentare la sorte! – oppure: – Tan-
ti vi hanno fatto fortuna, proviamo anche noi! Per essi
l’America è una lotteria; giuocano, e mettono la vita per
posta. L’idea di venire qua li prende come un’ossessio-
ne, s’impadronisce di loro per contagio. Molti vengono
perchè hanno conosciuto della gente venuta prima di
loro, semplicemente. Un campagnuolo veneto che emi-
grava, faceva gli addii; un amico gli disse: – To’, voglio
partire anche io! – E tutti e due con le loro donne sono
venuti in America, come si fosse trattato di far due pas-
si. Un contadino piemontese mi ha detto: – Ho emigrato
perchè v’è qui mio fratello.
— Meno male! E dov’è tuo fratello?
— Non lo so. Ci scrisse tanti anni fa dalla Terra del Fuo-
co dove era occupato a tagliar boschi, poi non ha scritto
più.
E quest’uomo, che non sa nemmeno cosa sia la Terra del
Fuoco, che non conosce la sorte di suo fratello, lascia
tutto e viene qua con i suoi figli, attirato dall’ignoto.
Nessuno si è informato delle condizioni dell’Argentina
oggi – già per molti America, Buenos Aires e Argentina
sono sinonimi! – nessuno ha pensato a chiedere dei con-
45
sigli alle autorità. Hanno tutti una grande diffidenza dei
consigli, li ascoltano con l’aria di crederci e non creder-
ci. La paura d’essere ingannati è caratteristica in loro; ad
essa sola del resto i contadini debbono l’immeritata
fama di scaltri. In ogni cosa che si dice temono un tra-
nello. I più franchi domandano: – Ma voi che interesse
avete a dirci così e così?
— Per il vostro bene!
Essi scuotono la testa increduli – e disgraziatamente non
a torto – che il loro bene stia a cuore a qualcuno. Sono
imbevuti di false idee leggendarie sulle favolose ric-
chezze del paese, la incredibile fecondità del suolo, la
cortesia e bontà degli abitanti, sempre le stesse, che ba-
sterebbero da sole a provare l’esistenza di agenti cate-
chizzatori.
Bisognerebbe ricercarne alcuni dopo un anno di Ameri-
ca e rimandarli al paese nativo a narrare sinceramente le
loro avventure. Sarebbe il miglior rimedio contro questa
emigrazione cieca e disordinata, senza organizzazione,
senza guida, senza protezione, che è per la Madre Patria
un grande dolore, e una ancora più grande umiliazione!

46
LA CRISI ARGENTINA
TROPPA BUENOS AIRES5.

Buenos Aires, dicembre 1901.

L’Argentina è in preda ad una grave crisi; crisi di tale


estensione che parlare di essa significa parlare di tutto.
L’intera vita della Repubblica ne è affetta. Non è la ma-
lattia d’un organo; è la malattia dell’organismo. Ne sof-
frono tutti: è come se l’aria a poco a poco fosse divenuta
meno respirabile; i ricchi come i poveri sentono l’affan-
no della soffocazione.
Il debito pubblico è difficile a precisarsi; si conta a mi-
liardi, non a centinaia di milioni; cioè ammonta a una
cifra spaventosa rispetto alla popolazione del paese.
L’alto cambio sull’oro rende gravosissimo il pagamento
degli interessi dei prestiti esteri, il quale pagamento, del
resto, non è regolare che sui preventivi. Ordinariamente
si pagano questi interessi con nuovi prestiti a breve sca-
denza. Si allarga il male. Il dissesto è generale. Agli im-
piegati ora si paga lo stipendio se si può. Vi sono degli
impiegati che debbono avere fino a tre mesi di stipen-
dio. Le somme dovute dallo Stato a privati – riconosciu-
te con regolari mandati di pagamento – non vengono pa-
gate. Occorrono pressioni, inframmettenze extra-legali,

5 Dal Corriere della Sera del 14 gennaio 1902.

47
pots de vin. Questa ritrosia del Governo al pagamento
dei debiti ha persino fatto sorgere un nuovo mestiere:
quello di tramitador. Il tramitador è una persona che
vende la sua influenza; egli s’incarica di far pagare dalla
tesoreria i mandati di pagamento dei clienti, e si prende
perciò il venti o il trenta per cento sulle somme.
L’immoralità diventa abituale. Non basterebbe un libro
ad enumerare le mangerie, i furti, le irregolarità che si
verificano abitualmente nelle amministrazioni del Go-
verno argentino, ai quali si deve non poco l’aggrava-
mento della situazione generale.
Passando dallo Stato alle altre amministrazioni pubbli-
che si trovano gli stessi mali nella stessa proporzione.
La Municipalità di Buenos Aires naviga in pessime ac-
que. Il Governo ha dovuto creare una specie di Comitato
amministratore per evitarle il fallimento. Naturalmente
anche qui gli impiegati non sono pagati. Non è molto
che gli spazzini pubblici hanno fatto una dimostrazione
ostile alla Intendenza municipale – brandendo le scope –
per reclamare il pagamento degli stipendî arretrati. I
maestri non sono meglio trattati degli spazzini. Immagi-
nate da questi indici la miseria che si nasconde sotto la
splendida vernice di questa grande Metropoli.
Vi sono migliaia e migliaia di persone in assoluta mise-
ria. Al Consolato d’Italia è una processione continua di
sventurati che vanno a domandare l’elemosina dei dieci
e dei venti centavos per mangiare. Il minimo numero di
disoccupati è calcolato a quarantamila; ma sono certa-
mente di più.
48
L’industria langue, il commercio è arenato. La media to-
tale degli affari commerciali è diminuita della metà. Av-
vengono dei fallimenti per milioni; cadono dei colossi.
La somma dei fallimenti arriva a circa venti milioni di
franchi al mese. A questa statistica fa riscontro quella
dei suicidî. Uno dei più forti commercianti stranieri, in-
terrogato sulla gravità della crisi, mi ha detto: – La crisi
è tale che non potrebbe essere di più! – Un altro com-
merciante, alla stessa domanda, mi ha risposto: – Imma-
ginate che in seguito ad un male non curato sopravven-
ga la cancrena. Ebbene, la crisi del novantuno era il
male; quella di oggi è la cancrena!
Questa è la situazione descritta in poche parole. Il male
è tanto più grave in quanto che è profondo. Le cause
sono molte; recenti e lontane, passeggiere e durevoli. Le
lontane e le durevoli sono le principali, e perciò la gua-
rigione è difficile.
*
* *

Una delle cause della crisi è l’accentramento a Buenos


Aires di grande parte della vita argentina. Questa Re-
pubblica dà l’idea d’un mostro che abbia un corpo pic-
colo e debole, ed una grande, smisurata testa. La popo-
lazione della capitale è di più che 800,000 abitanti, e tut-
to il resto dello Stato non ha nemmeno quattro milioni.
La sproporzione è enorme.
In un paese che, come l’Argentina, non ha altra vera ric-

49
chezza che la produzione agricola, che non possiede o
quasi industrie, questa mostruosa capitale tanto popolata
significa non solo che un’infinità di gente è completa-
mente sottratta all’unico lavoro proficuo – quello dei
campi – ma che tutta questa gente vive interamente alle
spalle degli altri, e di una vita enormemente dispendio-
sa. Buenos Aires assorbe troppe risorse argentine. È un
lusso, una «spesa di rappresentanza» che solo potrebbe
permettersi un ricco popolo di cento milioni d’uomini.
Buenos Aires occupa più di diciottomila ettari, ossia su-
pera Parigi di settimila e Berlino di seimila e trecento et-
tari. Ha edifici grandiosi, grandi boulevards, parchi, ha
centoquaranta chilometri di pavimentazione in legno, un
porto che è unico nel suo genere, un impianto d’acqua
potabile che è fra i primi del mondo, dei servizî pubblici
straordinarî. L’esistenza di questa città è un fenomeno
puramente americano, di quelli che sfuggono in parte
alla nostra analisi.
La Buenos Aires d’oggi è sorta sull’antica città così,
come un’impresa, come una speculazione ben lanciata,
in forza di uno di quegli inesplicabili delirî collettivi che
afferrano talvolta i popoli davanti alla prospettiva della
rapida ricchezza. L’Argentina appariva il paese incanta-
to che avrebbe pagato tutto e tutti, e la sua prosperità av-
venire venne ipotecata in una febbre di affari, i quali
non avevano altra base che delle speranze assurde. Le
fonti della prosperità vennero trascurate per delle specu-
lazioni fantastiche: l’Argentina vera fu perduta di vista.
Il credito illimitato apriva le Banche a tutti. Si creavano
50
delle fortune in poche ore. Si costruiva, si costruiva
come se l’Europa intera avesse dovuto rovesciarsi qua. I
terreni aumentavano di valore fino all’incredibile.
L’affarismo escogitava delle imprese favolose. Si arrivò
a costruire qui vicino una città, La Plata, i cui terreni fu-
rono pagati fino a 150 volte il costo attuale. Ora La Pla-
ta è morta, e si visita come Pompei. I capitali e le brac-
cia stranieri affluivano attratti da rimunerazioni enormi.
L’oro correva a rivi. Il Rio della Plata meritava il suo
nome. La disonestà trionfava. S’ipotecava per centomila
lo stabile che valeva mille. Ogni sentimento d’onestà, di
giustizia, di dignità, d’amor patrio erano travolti dalla
febbre della ricchezza. I governanti arricchivano e la-
sciavano arricchire le loro clientele.
La corrida, come fu chiamata, cioè la corsa di deposi-
tanti alle Banche, cominciò nel 1890 e finì nel 1891 col
fallimento generale. Le Banche argentine fallirono. Il
Banco della Provincia di Buenos Aires fallì per due mi-
liardi. Era il terzo istituto di credito del mondo – prima
di divenirne il primo istituto di.... discredito. Centinaia
di milioni di sudati risparmî dei nostri emigranti furono
perduti.
In quel violento, turbinoso accentramento d’affari e di
lavoro si formò la Buenos Aires d’oggi, che così cara
costa alla Repubblica. Alla sua vita manca la base.
Gl’interessi della capitale sono in contrapposizione a
quelli delle provincie. Con ciò che è costato l’abbelli-
mento, il lusso e la comodità di Buenos Aires, l’Argenti-
na poteva mettersi comodamente in condizioni da vince-
51
re in tempo la concorrenza di quei paesi che hanno la
stessa sua produzione: gli Stati Uniti, il Canadà,
l’Australia, e fra poco si potrà aggiungere la Siberia.
Invece all’Argentina manca il primo elemento di succes-
so, che sarebbe una viabilità a buon mercato e facile. La
canalizzazione delle acque, la navigazione dei grandi
fiumi che vengono tutti a riunirsi, come le stecche di un
ventaglio, all’immenso Rio della Plata, hanno uno svi-
luppo insufficientissimo. Le ferrovie, tutte in mano di
Compagnie inglesi, per il costo esagerato dei noli rap-
presentano uno sfruttamento rovinoso per il produttore.
Le ferrovie hanno poi una sfera limitata d’azione lungo
il loro percorso, tanto più ristretta quanto più elevato è il
costo dei trasporti; e non esistono strade. Se si esce da
Buenos Aires non si trovano comunicazioni. Tempo fa i
soldati della guarnigione per recarsi ad un nuovo campo
di manovre, qui vicino, smarrirono la strada. Dai grandi
boulevards in asfalto illuminati a luce elettrica si passa
al niente.
*
* *

La conseguenza è che certi prodotti argentini portati qui


vengono a costare come i prodotti analoghi europei
sbarcati e sdaziati (e i dazî sono molto forti). Il vino di
Mendoza, per esempio, costa quasi come il vino italia-
no.
In alcuni luoghi si lasciano i raccolti sulla pianta per

52
l’impossibilità del trasporto. Si prende ciò che necessita
per l’uso locale. Un diplomatico che ha visitato l’interno
recentemente, mi raccontava delle enormi quantità di
grano abbandonato che marcisce nei pressi delle stazio-
ni ferroviarie per mancanza delle grandi somme neces-
sarie al pagamento del trasporto.
La difficoltà delle comunicazioni rende lento e poco
proficuo il lavoro di colonizzazione in tanti territorî, che
per la loro fertilità si presterebbero a culture fortunate,
ma che si trovano situati lontani dalle linee ferroviarie.
La zona sfruttata deve essere forzatamente limitata.
L’Argentina non può estrinsecare tutte le sue energie. È
come un albero, ricco di frutti splendidi ma posti troppo
in alto per arrivarvi con le mani. E mancano le scale.
Vi sono dei prodotti necessarî, per esempio il legname
da costruzione, i quali vengono importati dal Canadà,
dagli Stati Uniti, e persino dalla Norvegia, e che si tro-
vano in enorme abbondanza nel paese. Il trasporto ne è
impossibile. Si è costretti a comperare ciò che si ha in
casa, e che si potrebbe anche vendere.
La produzione argentina si trova perciò in condizioni
d’inferiorità sui mercati; il margine di guadagno è mini-
mo. Basta che sopravvenga un ribasso nei prezzi perchè
si verifichi un ristagno disastroso, come avviene ora nel
commercio della lana, la quale forma una delle più gran-
di produzioni del paese. Vi sono sul solo mercato di
Buenos Aires dodici milioni di chili di lane giacenti.
L’Argentina, immensa e varia, avrebbe delle risorse ine-
sauribili. Con tutte le condizioni difficili create al suo
53
commercio, la sua esportazione ha superato, nel solo
corso di quest’anno, l’importazione di circa cinquanta
milioni di pesos oro, ossia duecento cinquanta milioni di
lire. Ma la situazione creata a questo paese è tale che
tutti questi milioni di superavit attivo bastano appena ad
impedire un peggioramento economico. Essi tornano
all’estero sotto forma di dividendi e di interessi.
*
* *

È Buenos Aires il centro della rovina argentina. Essa ha


stornato dai campi la ricchezza. Per un lungo e recente
periodo l’affarismo ha fatto di questa città come
un’immensa bisca: da ogni parte si accorreva a giuoca-
re. Si giuocava sul valore dei terreni, degli edifici, sui
prestiti, sulle azioni dei Banchi, sulle azioni delle impre-
se più varie e più assurde. L’enorme movimento del de-
naro aveva creato una prosperità favolosa, ma fittizia.
Lo sperpero era enorme. Lo standard di vita generale
giunse ad un lusso senza riscontri. Il bisogno del lusso
portò alla disonestà sistematica. Una disonestà inaudita.
Le opere pubbliche di Buenos Aires sono state pagate
molto ma molto al disopra del loro valore. Centinaia
d’intermediarî vi si sono arricchiti. I ministri divenivano
arcimilionarî. Si davano concessioni di favore ad impre-
se d’ogni genere – le ferrovie, per esempio, e i lavori
delle «Acque correnti» – pur di guadagnarci sopra, ab-
bandonando così il paese, mani e piedi legati, allo sfrut-

54
tamento straniero, senza speranza di redenzione. «Après
nous le déluge» – pareva che dicessero, come altrettanti
Re Soli, i governanti argentini!
E il «déluge» non s’è fatto aspettare. È caduto sotto for-
ma di crisi universale. Lo stato dell’Argentina è grave,
ma non disperato. Solo spaventa questo: che se la pro-
sperità effimera creata dalla speculazione epilettica, è
scomparsa, non sono però scomparsi il lusso e altri ma-
lanni che ne furono la conseguenza. I quali quando si at-
taccano ad un uomo come ad un popolo mettono troppe
radici per guarire presto. Specialmente se non sono cu-
rati. E qui non lo sono, almeno quanto occorrerebbe.

55
L’ARGENTINA
E IL CAPITALE INGLESE6.

Buenos Aires, dicembre 1901.

L’Argentina è finanziariamente nelle mani dell’Inghil-


terra. Tutte le imprese più remunerative sono inglesi.
Due di esse, la ferroviaria e la bancaria, rappresentano
da sole i coefficienti principali dell’attivo nazionale:
l’una comanda alla produzione, l’altra ai trasporti, ossia
alla commerciabilità della produzione. Esserne padroni
significa avere nelle mani la vita della nazione.
L’Argentina lavora per l’Inghilterra: tutta la differenza
attiva fra l’esportazione e l’importazione, ossia il guada-
gno, va a Londra sotto varie forme. Il problema è troppo
interessante per noi, che qui rappresentiamo il lavoro,
per non esaminarlo con attenzione.
*
* *

È nel periodo più nefasto della speculazione – giunta al


parossismo sotto la presidenza di Juarez Celman – che
la egemonia inglese sugli affari si affermò. Gl’inglesi
hanno dimostrato una volta di più di essere degli uomini
pratici. Essi hanno saputo mantenersi estranei al delirio

6 Dal Corriere della Sera del 16 gennaio 1902.

56
che aveva afferrato tutti i latini arrivati qui, e profittare
delle circostanze con una antiveggenza sorprendente. E
prima di tutto seppero profittare ammirabilmente della
corruzione governativa per ottenere concessioni di favo-
re, le cui condizioni stupiscono profondamente chi non
sa a quale punto di cecità e di, diciamo, mancanza di
scrupolo erano arrivati quei governanti.
Così si formano le Compagnie ferroviarie inglesi, le
quali sono oggi padrone di 12,684 chilometri di ferro-
vie, ossia di tutto il transito della Nazione. A queste
Compagnie il Governo garantisce un minimo di utili so-
pra un capitale fissato, e non ha nessun diritto d’inter-
vento se non quando l’utile risultasse superiore a un ele-
vato per cento. La Compagnia ha mano libera su tutto,
sui noli, sulle velocità, sugli orarî, sugli stipendî agli im-
piegati, sui movimenti del personale. Gli affari vanno
benone. Vi sono delle linee che fruttano il dodici, altre il
quindici, altre anche di più: i noli si mantengono fortis-
simi, e tuttavia il Governo non può intervenire: deve as-
sistere indifferente a questo sfruttamento enorme della
produzione. Ed ecco perchè:
Le Compagnie, oltre al capitale fissato come base per i
rapporti col Governo, si sono riservate l’emissione di
«titoli non commerciabili» al 4 e al 5 per cento, emissio-
ne che per una sapiente scappatoia può essere illimitata.
Gl’interessi su questi titoli gravano al passivo della
Compagnia e servono a ridurre gli utili alle proporzioni
necessarie per togliere al Governo ogni diritto d’inter-
vento. Così in apparenza l’utile è sempre inferiore alla
57
percentuale sopra cui comincia la partecipazione dello
Stato, ma in realtà è maggiore, perchè i possessori di
questi titoli non sono che gli stessi azionisti della Com-
pagnia.
Al Governo argentino è dunque tolto ogni e qualsiasi
controllo sulle proprie ferrovie. In forza di questo stato
di cose, si è potuto vedere in certe linee i noli aumentare
nella proporzione da 45 a 92, e tuttavia scemare gli utili.
In forza di questo stato di cose, gli stipendî agli impie-
gati inglesi possono arrivare a delle cifre principesche.
La produzione argentina intanto trova nei trasporti il più
grave ostacolo ad uno sviluppo rapido. Le Compagnie
ferroviarie se ne curano poco: esse sono in una botte di
ferro.
*
* *

Ma se si esamina il funzionamento delle Banche


nell’Argentina, si rimane ancora più meravigliati. Leg-
gere di cose bancarie argentine è divertente quanto il
leggere dei romanzi inverosimili. C’è del fantastico.
Osserviamo un Banco inglese – osservarne uno è come
osservarli tutti –; il «River Plate Bank ltd». Nell’89 ave-
va sessantamila azioni con un capitale versato di seicen-
tomila sterline, ossia di dieci sterline per azione. Alla
fine di quell’anno gli utili furono del 40 per cento, di cui
il 15 venne dato come dividendo e il 25 per cento fu ca-
pitalizzato, di modo che l’azione da dieci sterline passò

58
a rappresentare un capitale di dodici sterline e mezza.
Nell’anno appresso si ebbe un dividendo del 15 per cen-
to sul nuovo capitale, ossia del 18.75 per cento sul capi-
tale versato, più un altro 25 per cento capitalizzato, e
l’azione rappresentò un capitale di quindici sterline. Nel
91 arrivò la catastrofe generale, il fallimento delle Ban-
che argentine, la moratoria concessa a tutti con legge del
Parlamento: fu un anno disastroso. E tuttavia il nostro
«River Plate Bank» ebbe un dividendo del 9.16 per cen-
to sul capitale totale, ossia del 13.75 per cento sul capi-
tale versato. I dividendi hanno continuato ad aumentare
con un crescendo che non ha certo un riscontro con
l’aumento degli affari, che invece sono in pieno rista-
gno. Nel 92 si ebbe il 18.75 per cento, nel 93 il 18.75
per cento, nel 94 il 22.50 per cento, nel 95 il 24 per cen-
to, nel 96 il 27 per cento, nel 97 il 30 per cento, nel 98 il
30 per cento, nel 99 il 30 per cento, nel 1900 il 50 per
cento. In dodici anni si ebbe dunque il 298.50 per cento
di dividendi, più il 116 per cento del fondo di riserva –
che oggi arriva al milione di sterline – ossia un 514.50
per cento di utili netti. Il 42.87 per cento all’anno!
Questi utili in affari di denaro qui non sono straordinarî,
perchè qui, come ho accennato, gli alti interessi, dicia-
mo così, dominano. Ma bisogna por mente che le Ban-
che inglesi sono le più numerose, e soprattutto le più
forti. Le altre Banche non sono che dei satelliti nel siste-
ma planetario della finanza argentina, nel quale il capi-
tale inglese rappresenta il sole. Quale enorme assorbi-
mento d’energia non rappresentano da soli i dividendi
59
che prendono la via di Londra? Il «London e Brazilian
Bank» ha dato quest’anno il 46 per cento di dividendo,
con tutto che nei cambî col Brasile questa Banca ha per-
duto la bellezza di 84 mila sterline! Il totale dei dividen-
di delle Banche inglesi si può certamente ritenere supe-
riore ai tre milioni di pesos oro, ossia ai quindici milioni
di franchi, calcolando modestamente!
La supremazia delle Banche inglesi sul mercato argenti-
no è una conseguenza logica degli errori e delle colpe
commesse nel periodo dell’affarismo di recente memo-
ria. Al sopraggiungere della crisi del 1891, caddero il
«Banco Nacional» e il «Banco della Provincia de Bue-
nos Aires» e con essi l’Argentina perdette i due unici
sostegni della sua indipendenza economica. È vero che i
sostegni funzionavano male! Le Banche inglesi furono
quasi le sole a resistere. Continuarono con calma le loro
operazioni riuscendo a vincere il panico dei depositarî.
Le Compagnie ferroviarie versarono nelle Banche ingle-
si i loro introiti – gl’inglesi, beati loro, sono sempre uni-
ti e d’accordo – e quei milioni non arrivarono inoppor-
tuni per fronteggiare la crisi. Il cambio giunse al 480%,
e le Banche inglesi cambiarono il loro oro; quando il
cambio è sceso, dopo sette anni, al 206%, le Banche in-
glesi hanno reintegrato, guadagnando così il 234 per
cento. La loro posizione è formidabile. Le ferrovie della
provincia di Buenos Aires versano settimanalmente
600,000 pesos oro, e il solo movimento di denaro delle
Compagnie ferroviarie basterebbe alla vita delle Ban-
che, senz’altro.
60
Ma il credito incrollabile che le Banche inglesi godono
attira a centinaia di milioni di pesos i depositi privati:
esse sono diventate il tramite principale dei movimenti
di denaro, sono divenute il centro d’un enorme cumulo
di affari bancarî.
*
* *

Tutto questo non basta. Gl’inglesi sono anche i detentori


della maggior parte del debito pubblico argentino, che è
di trecentottanta milioni di pesos oro, vale a dire di un
miliardo e novecento milioni di franchi.
Di modo che l’Inghilterra in interessi e dividendi assor-
be alle finanze argentine circa quarantasei o quarantaset-
te milioni di pesos oro all’anno – cioè duecentotrenta o
duecentotrentacinque milioni di franchi – così ripartiti:
Dalle imprese ferroviarie 17 milioni e mezzo, dalle Ban-
che 3 milioni, da varie imprese 2 milioni, dalle finanze
governative per interessi del debito pubblico 24 milioni.
L’esportazione supererà quest’anno l’importazione, si
calcola, di circa cinquanta milioni di pesos. È chiaro che
questo superavit attivo è insufficiente alla benchè mini-
ma capitalizzazione; gli sforzi della produzione sono
fiaccati.
Ma noi non abbiamo veduto che la supremazia finanzia-
ria inglese; vi è anche la supremazia commerciale. Le
ferrovie hanno concessioni di leghe di territorî lungo il
loro svolgimento. Nelle regioni più fertili abbondano le

61
estancias inglesi. I prodotti di queste estancias, per la
facilità dei trasporti e per i favori di cui godono, vengo-
no ad avere una posizione privilegiata sui mercati.
Oltre agli estancieros vi sono i commercianti inglesi,
importatori ed esportatori. Per quel sentimento di unione
e solidarietà che è una delle più invidiabili caratteristi-
che inglesi, ed anche in forza di quella massima inglese
che the onesty is the best policy – l’onestà è la miglior
politica – questi commercianti godono presso gl’istituti
bancarî inglesi di un credito illimitato. E, data la forza
delle Banche inglesi, questi commercianti sono d’una
potenza enorme. La concorrenza con loro è impossibile.
Il commercio va scivolando nelle loro mani. I soli scam-
bi con l’Inghilterra si aggirano sui sessanta milioni an-
nui di pesos oro, cioè sui trecento milioni di franchi
all’anno!
*
* *

Concludendo: guadagna davvero chi ha saputo ed ha


avuto i mezzi di fare.

62
LE NOSTRE LETTERE
DALL’ARGENTINA7.

CONTINUANDO....

Le prime lettere dall’Argentina, pubblicate nel Corriere,


hanno suscitato polemiche che l’amico lettore non ha
forse dimenticato. Sono stato accusato di malignità, di
menzogna e di peggio.
Al momento di continuare la pubblicazione delle «lette-
re argentine», nelle quali riassumo la imparziale osser-
vazione dei fatti, permettetemi di parlarvi un poco delle
pubblicazioni passate, per le quali tanti attacchi feroci e
ingiusti mi sono stati mossi.
Non è per difendere me; no, è per difendere la verità.
Qualunque sdegno di uomo offeso, qualsiasi legittima
indignazione di onest’uomo attaccato ingiustamente,
qualsiasi scatto d’amor proprio dolorosamente ferito
sono ben poca cosa di fronte alla rivolta impetuosa che
divampa nell’animo di chi, conoscendo il vero, lo vede
calpestato, nascosto, lo sente negare senza pudore e sen-
za vergogna. E specialmente quando questa verità si ri-
ferisce a sofferenze, lotte, dolori, miserie e lacrime di
tanti e tanti nostri fratelli!
Qui la questione personale passa in seconda linea. Non

7 Dal Corriere della Sera del 23 maggio 1902.

63
vengo a parlarvi della guerra sleale che mi è stata mos-
sa, degli ostacoli frapposti alla mia strada, delle ire e de-
gli odî suscitati contro di me, come delle minaccie e de-
gli insulti che ne sono stati le conseguenze, delle calun-
nie basse e ridicole con le quali si è aizzato contro di me
il furore della folla argentina, come per porre un supre-
mo ostacolo al compimento del mio dovere. Tutto ciò
non interessa che me, al più. Voglio invece parlarvi di
quanto ho scritto, che è la verità; e la verità interessa tut-
ti.
È necessario che non solo sia conosciuta, ma creduta.
Pensate che ora, mentre ben trentatre Società operaie
dell’Argentina lanciano agli operai italiani un manifesto
esponendo la loro miseria coi dati ufficialmente ricono-
sciuti esatti, continuano a salpare per quella Repubblica
nostre navi cariche d’emigranti, i quali vanno con la cre-
dula mente piena di errori e l’anima piena di sogni; e
proprio in questo momento un maggior numero di di-
sgraziati lascia l’Argentina in cerca di pane; pensate a
questa enormità, che mentre migliaia di persone, le quali
hanno vissuto laggiù, che parlano la lingua del paese,
che conoscono l’ambiente, si riducono ad abbracciare la
più disperata delle risoluzioni: la fuga, altre migliaia di
persone ignoranti di tutto, ossia in condizione di enorme
inferiorità, si dirigono ciecamente verso quella terra che
li affascina. L’umile posizione che questi allucinati ab-
bandonano in Patria e che ad essi sembra misera di fron-
te alla fortuna che sognano, diviene precisamente la
mèta agognata dalla triste e disfatta folla dei disillusi
64
fuggitivi. E chi può fuggire è pur sempre fortunato!
Quanti non ne hanno più la forza; oh! quando la miseria
pone il piede sul vinto non se lo lascia facilmente sfug-
gire! Dodicimila e quattrocentosessantotto emigranti
hanno lasciato l’Argentina nel solo mese di marzo, e do-
dicimiladuecento ottantatre vi hanno approdato! Pensate
a queste cifre, e ditemi se non è necessario e urgente che
la verità sia nota. Tutti questi nostri emigranti partireb-
bero forse se conoscessero niente altro che le cifre dei
rimpatri? Non cadrebbe la benda dai loro occhi? Il tace-
re è un delitto.
*
* *

Le prime «lettere argentine» sono state conosciute nella


Repubblica per mezzo dei telegrammi dall’Italia diretti
al giornale La Prensa. Quando vi avrò detto che questi
telegrammi, che poi altri giornali hanno riportato, ave-
vano dei titoli di questo genere: Insultos à los Argenti-
nos. Nuevas apreciaciones injuriosas. Un enemigo de
l’Argentina. Opiniones falseadas, ecc., vi avrò dato
un’idea del modo antipatico col quale le mie lettere
sono state portate a conoscenza del pubblico.
L’opera mia dunque è stata giudicata laggiù sulla base di
questi documenti: ebbene, con tutto ciò la stampa indi-
pendente si è schierata tutta dalla mia parte. E fra la
stampa indipendente debbo notare prima di tutto la
stampa estera.

65
La Patria degli Italiani ha dichiarato che quanto avevo
detto era una verità nota e ripetuta, e quando il testo del-
le lettere è giunto, lo ha integralmente riportato. The
Standard, organo della Colonia inglese, ha detto fra
l’altro:
«Queste corrispondenze potranno fare più bene della malsana
massa di altre pubblicazioni la cui schifosa adulazione eccita so-
spetti. Siccome il paese è commercialmente, politicamente e so-
cialmente malato, il Barzini fa bene a dirlo, dissipando così ma-
lintesi e disperdendo illusioni. Noi non crediamo che abbia calca-
to le ombre, poichè queste crescono invece di diminuire; l’incauto
emigrante che crede di trovare integrità di governo e di giustizia è
messo in guardia. Togliendo di mezzo le false idee, egli ci rende
un buon servizio. I nostri migliori amici non sono quelli che ci
adulano, e la stampa indigena dovrebbe porsi bene in mente ciò
nel pesare il valore delle opinioni del Barzini.»

Le Courrier de la Plata, giornale della collettività fran-


cese, conclude così un articolo sulla questione, dopo
avere accennato agli errori dei Governi, ai furti ufficiali,
ai deficit dei bilanci, e agli altri mali che rendono la si-
tuazione sempre peggiore e che compromettono grave-
mente tutte le speranze fondate sull’avvenire argentino:
«Le ragioni che il Barzini invoca non sono che troppo fondate, e i
giornali del paese che le discutono l’accusano solo di esagerazio-
ne.
«Non si gridi al partito preso di malevolenza! Gli articoli del
Corriere della Sera segnalando il male, rendono un vero servizio
alla Repubblica. Il giorno in cui si terrà conto di questi consigli e
in cui si cambierà strada, le profezie favorevoli espresse dal si-
gnor Martinez nelle sue conferenze, si convertiranno in una real-

66
tà.»

Il Correo Español, organo della importante Colonia spa-


gnuola, dopo aver riportato i telegrammi della Prensa,
accompagnandoli con apprezzamenti lusinghieri per il
Corriere, aggiunge, rivolgendosi alla stampa argentina:
«Potrebbero i giornali indignati, con la mano sul cuore, affermare
che sono falsi questi giudizî?
«L’affermazione li lascerebbe a molto mal partito, poichè essi ci
presentano con tinte molto più oscure la situazione del paese, e ci
presentano quadri terrorizzanti sulla situazione dei lavoratori nel-
la Repubblica, come pure ci descrivono lo stato economico della
Nazione, che attribuiscono al Governo, alla sua mancanza di tat-
to, ai suoi abusi e alla totale corruzione dei poteri pubblici.»

Tralascio tutti gli altri giornali stranieri, che ripetono le


stesse cose. Gli apprezzamenti concordi di tanti giornali
che rappresentano collettività diverse, cioè interessi di-
versi e diverse tendenze, spesso in opposizione fra di
loro, sono una prova luminosa che le verità da me affer-
mate sono proprio di quelle inconfutabili. E ciò prova
inoltre che la necessità di propalare il vero è egualmen-
te, imperiosamente sentita da tutti gli stranieri che vivo-
no nell’Argentina, i quali sono precisamente le prime
vittime dei malanni del paese.
Ma anche fra gli argentini stessi abbondano uomini im-
parziali che l’amore per la verità e per il bene spinge va-
lorosamente contro la turbolenta corrente del malinteso
orgoglio di razza ed il cieco chauvinisme della massa
criolla. Non tutta la stampa indigena si è unita al coro

67
d’insulti contro il Corriere e contro di me.
Un importante giornale argentino, El Municipio, con un
articolo intitolato: Un corrispondente italiano che ardi-
sce di dire la verità, ha per il primo levato la sua voce
serena sul tumulto degli improperî. Esso ha scritto:
«Nelle sue corrispondenze il Barzini si occupa della crisi argenti-
na, e per studiarla ed esporre le sue cause ed i suoi effetti, ha il
coraggio di dire la verità intiera, portando alla superficie il fango
sociale e amministrativo.
«Non vediamo ragioni per censurare il Barzini per aver detto la
verità, questa verità nuda che la stampa argentina dovrebbe pro-
clamare ad alta voce.
«Malgrado gli attacchi anche grossolani, dei quali è oggetto il
menzionato corrispondente, dichiariamo che il Barzini merita il
nostro più alto concetto di considerazione e stima, per la sua auto-
rità, per la sua franchezza, per la sua indipendenza.
«Molto vale chi, come lui, ha saputo sottrarsi all’atmosfera di
corruzione che asfissia la maggior parte dei rappresentanti
dell’opinione pubblica, e trasmette alla penna le sue osservazioni
ed i suoi studî con l’impulso della sua coscienza e di profondi
sentimenti d’imparzialità e di giustizia.
«Si protesta contro lo specchio che denuncia le nostre deformità,
ma non si protesta contro la nostra bruttura. Che colpa ha la mac-
china fotografica di prendere un brutto ritratto se non è migliore
l’originale? Dicendo ciò che ha detto, il Barzini non ha fatto che
trasmettere alla carta delle verità.
«Non c’è nè cortesia, nè coltura in un popolo che s’infuria contro
un uomo solo, un ospite che dovrebbe venir circondato di rispetto
perchè ha coscienza del suo dovere, e lo compie.»

Mi dispiace d’intrattenere il lettore sopra cose che sem-


brano personali; ma di fronte alle accuse di malevolen-

68
za, di esagerazione e di falsità, con le quali si è tentato
di togliere ogni valore a ciò che ho scritto, io ho più che
il diritto, il dovere di difendere con me il lavoro mio.
*
* *

In riassunto, che ho detto nelle prime «lettere argenti-


ne?» Che vi è una crisi spaventosa. Ebbene, oggi il
Commissariato generale per l’emigrazione comunica uf-
ficialmente le stesse notizie sulla crisi, sconsigliando
l’emigrazione perchè vi sono ora centoventimila disoc-
cupati nell’Argentina. Ho detto che Buenos Aires ha una
vita artificiosa che assorbe le ricchezze del paese e che
inutilizza quasi un quarto della popolazione. Ed ecco
che cosa dice nel numero del 2 marzo un giornale argen-
tino su questo argomento:
«Si sta facendo una vera mistificazione della prosperità del paese,
prendendo come base dello stato economico e sociale della Re-
pubblica la metropoli argentina.
«Tutto è una mistificazione.
«La grandiosità della capitale contrasta con l’esistenza miserabile
che trascinano le provincie, e poi la sua vita di lavoro e di attività
non è propria, perchè capitali, braccia, intelligenze e sforzi sono
genuinamente stranieri, si debbono al capitale inglese, al braccio
italiano, alla iniziativa degli uomini di tutte le nazioni che sono
venuti a popolare questa terra, a convertire in fertili pianure le de-
serte pampas, ad ammassare col sudore della loro fronte le basi
del presente e a marcarci la via dell’avvenire.
«Gli ospiti illustri che arrivano a Buenos Aires dovrebbero essere
strappati dall’aspetto seducente della metropoli, e condotti nelle

69
provincie, perchè possano formarsi un concetto esatto di ciò che è
la Repubblica Argentina, politicamente, socialmente, economica-
mente; si dovrebbe far loro percorrere la campagna e mostrar loro
la miseria che vi domina, la fame che fa bagnare di lacrime le mi-
sere abitazioni, l’abbandono che regna nelle amministrazioni.
«Bisognerebbe indicar loro la verità, e la verità non si rivela nelle
immense avenues, nei superbi palazzi, nei comodi alberghi,
nell’ambiente aristocratico dei clubs, fra lo sciampagna e i dop-
pieri.
«Passino i limiti della capitale federale gli stranieri che ci visita-
no, se vogliono studiare il vero aspetto nazionale, se vogliono
convincersi che questo è un paese senza libertà, senza morale,
senza amministrazione e senza giustizia.»

Ho scritto che il così detto Hôtel de inmigrantes, dove


albergano i nostri poveri connazionali che sbarcano lag-
giù in cerca di lavoro, è un immondo lazzaretto della
miseria, lurido come un canile. Il giornale La Nacion un
mese dopo scriveva:
«Non si può negare che a bella prima l’Hôtel de inmigrantes col
suo corteggio di casettaccie e di capannette deve dare ai nuovi ar-
rivati un’idea abbastanza sfavorevole dell’ospitalità argentina. Le
deficienze dell’immondo padiglione possono essere praticamente
comprovate anno per anno da migliaia di ospiti. Sarebbe da desi-
derarsi che il Governo d’un paese come il nostro, dove noi ci
stanchiamo a furia di predicare la necessità di fomentare l’immi-
grazione, cominciasse ad albergarla meglio.»

Non basta. La Prensa, il 27 dello scorso marzo, scrive:


«Dice un rapporto tecnico che l’Hôtel si trova in uno stato di di-
struzione tale che riesce impossibile mantenerlo in piedi senza far
tali spese da essere equivalenti al costo d’un altro edificio nuovo.

70
Le conclusioni del rapporto non lasciano luogo al dubbio: l’edifi-
cio sta nel suo ultimo periodo e minaccia di cadere.»

Infine ho parlato di volo della sistematica irregolarità


amministrativa e della profonda immoralità politica. Si è
gridato al calunniatore! Ma ecco qua che cosa scrive re-
centemente un giornale argentino, intorno a questo dolo-
roso argomento:
«Lo spettacolo che offre in questi momenti la politica militante è
tale da irritare le anime più placide e far vergognare le persone
meno suscettibili ai vituperî della morale. Mai questo paese ha
conosciuto una decadenza simile alla presente. I governanti non si
occupano che di ripartire le rendite pubbliche, gran parte delle
quali sono aggiudicate al proselite e al favorito. Domina in asso-
luto la preoccupazione assorbente del traffico dei posti pubblici.»

E ancora:
«Nulla è al suo posto. Nell’ordine politico, economico, finanzia-
rio tutto è fuori della sua orbita. La nazione precipita nel sentiero
che conduce al disastro. La corruzione domina con impudenza e
con ostentazione: la inettitudine si fa infermità cronica nelle alte
sfere governative, e la decomposizione avanza senza incontrare
ostacoli.
«La frode elettorale eretta a sistema è fonte e germe di tutti i mali.
Il personale delle amministrazioni, composto dei premiati nello
sport politico, inocula nell’ingranaggio amministrativo il virus
della decomposizione. La somma dei mali costumi forma una
quantità voluminosa di elementi funesti... ecc.»

Il giornale che parla così è la Prensa, il più diffuso gior-


nale dell’Argentina. Precisamente quella Prensa, amico
lettore, che ha dato il la dell’indignazione per le mie po-

71
vere lettere, le quali, con molta meno crudezza, accen-
navano genericamente alle stesse cose che tanto giusta-
mente la preoccupano.
Ma c’è di più. La Prensa ha inventato la Campagna
anti-argentina! «Possiamo dire – ha scritto – che quasi
tutta la stampa europea comprese le riviste illustrate, è
compromessa in questa campagna.» Si tratta di «giudizî
interessati pubblicati nei giornali più serî d’Europa, fra i
quali menzioneremo il Times di Londra e il Temps di
Parigi.» E non si salva nemmeno l’Agenzia Havas! Si
capisce che è tutta propaganda cilena in questa «campa-
gna che aprirono contro la Repubblica quasi tutti i gior-
nali europei.»
In queste ridicole accuse che insultano in blocco la mi-
gliore parte del giornalismo europeo, colpevole solo di
aver raccolto un po’ di verità – la quale ha pur sempre le
gambe più lunghe della bugia – di quella verità che la
Prensa non nasconde, vi è uno strano e mostruoso mi-
scuglio di orgoglio cieco e di palese malafede.
All’estero non si deve parlare dell’Argentina se non per
lodarla ed adularla ad ogni costo. È un vecchio costume,
al quale il paese ha l’abitudine.
Soltanto i giornalisti argentini hanno il diritto di «osser-
vare tutti i dettagli in relazione con la vita nazionale» –
ha proclamato la Prensa in un articolo insolente che era
indirettamente dedicato a me. E un altro giorno, lavando
la testa al Temps, ha ripetuto: «Noi abbiamo il diritto di
tollerare i nostri errori e di accogliere gli apprezzamenti
della stampa nazionale, perchè sono i nostri proprî inte-
72
ressi che discutiamo con l’ampio diritto di cittadinanza,
e con il merito di provati servizî ad una nobile causa;
però, quando si tratta di giornali stranieri che debbono
mantenersi estranei ai dettagli delle passioni delle altre
nazioni, la missione del giornalismo argentino è altra...»
Ah! no!
Quando anche non fosse un diritto innegabile del gior-
nalismo la serena critica di tutto quanto interessa l’uma-
nità, se anche non fosse un suo sacrosanto dovere il de-
siderio del bene in qualsiasi luogo dove vivono uomini,
e la persecuzione del male sotto tutte le latitudini e in
ogni suo rifugio, anche se occorresse questo diritto di
cittadinanza per interessarsi a ciò che voi chiamate i
dettagli delle vostre passioni, ebbene noi potremmo par-
lare, perchè noi questo diritto di cittadinanza lo abbia-
mo!
Pensate che vi è più d’un milione d’italiani nell’Argenti-
na, e che più della metà degli abitanti è di sangue italia-
no. Le nostre braccia sono invitate anche ora che, a cen-
tinaia di migliaia, altre braccia laggiù penzolano inerti
lungo i fianchi con l’abbandono della disperazione. Ab-
biamo il dovere di vedere che cosa avviene di questo
esercito di nostri lavoratori che abbandona la Patria per
dare l’immensa sua forza ad un altro paese.
Noi abbiamo come voi, giornalisti argentini, il diritto di
additare e studiare nelle loro origini e nel loro sviluppo
le gravi malattie del vostro paese, perchè quanto voi, se
non di più, noi ne desideriamo la guarigione.
Nessuno più sinceramente degli italiani può augurare al
73
paese, che alcuni chiamano la Giovane Italia, quel com-
pleto risanamento morale, politico ed economico, che
solo potrà sollevarlo dalle sue sciagure, e che gli darà fi-
nalmente la forza di occupare il posto che per le sue la-
tenti energie si merita.
Purtroppo non ho ancora esposto che una parte dei mali,
e prima di occuparmi diffusamente delle condizioni e
dell’opera degli italiani, dovrò consacrare parecchie let-
tere alla descrizione talvolta dolorosa, ma sempre neces-
saria dell’ambiente nel quale i nostri connazionali espli-
cano la loro attività.
Non è col tacere o col mentire, perpetuando equivoci,
errori e disinganni, che si può giungere al bene! È per
questo che io continuo la mia via con la serena coscien-
za di compire un dovere.

74
LE BASI
DELL’OLIGARCHIA ARGENTINA8.

Sotto grandi titoli, una mattina, non è molto, i giornali


argentini avevano delle notizie di questo genere:
«San Martin, ore nove. – Un gruppo di Casaristas ha aperto il
fuoco sugli avversarî. La polizia, agli ordini di un commissario,
rispose al fuoco. Gli assalitori si ritirarono lasciando dei feriti. A
Lamadrid v’è stato un vivo scambio di fucilate.»
«Chivilcoy. – I membri dei seggi hanno dato di piglio alle armi, vi
è stato un nutrito scambio di fucilate, aumentato con l’intervento
della polizia. I feriti sono molti. Il fuoco durò per ben dieci minu-
ti.»
«Pila. – Un gruppo d’Ugartisti ha attaccato il Municipio e la
Commisseria. La polizia respinse l’attacco. Vi sono feriti gravi. Si
spararono moltissimi colpi di remington.»
«San Fernando. – Un forte gruppo d’individui fece fuoco lungo il
canale in direzione della piazza. La polizia rispose al fuoco re-
spingendo l’attacco.»

Se si parlasse di Boeri, invece che di Casaristas e di


«Polizia del Capo», invece che di semplice polizia, tutti,
leggendo tali notizie, penserebbero che la guerra
nell’Africa Australe non è mai stata più attiva di così.
Ma siccome non si trattava che di elezioni (parziali, per
fortuna) nella provincia di Buenos Aires, nessuno si è
commosso, ed una parte della stampa ha persino colto

8 Dal Corriere della Sera del 25 maggio 1902.

75
l’occasione per gridare, con legittima soddisfazione,
che: «... in queste elezioni si è provato il progresso mo-
rale del popolo, il quale pacificamente è accorso alle
urne a compire il più sacro dei suoi doveri, senza che si
verificassero i deplorevoli fatti dei passati Comizî...»
Ringraziamo il buon Dio di averci tenuti lontani dai pas-
sati Comizî, e di averci così permesso di vedere tanto
progresso morale. Il quale appare però seriamente pre-
giudicato dai risultati che delle suddette elezioni (par-
ziali, per fortuna) dà il più autorevole giornale, la Na-
cion.
In un paese, San Nicolas, votano centoventi persone e si
trovano mille e duecento voti. A Barracas al Sur compa-
iono mille voti prima della formazione del seggio. A Lo-
mas de Zamora quattrocento elettori producono mille e
duecento voti. In tre seggi non c’è stato concorso, ma
hanno tuttavia figurato tremila e duecento voti. In altri
quattro seggi è avvenuto lo stesso miracolo. A Patago-
nes una persona ha contato ventidue elettori concorrenti
alle urne: voti mille e centocinquantatre. Infine si calco-
la a trentamila la somma dei voti fraudolenti in queste
elezioni (parziali, per fortuna). Il Pais – giornale pelle-
grinista – rimprovera alla Nacion – che è mitrista – que-
ste oziose inchieste, rammentandole che i mitristi, in
certe altre elezioni, crearono a Buenos Aires un vero
atelier con sedici scritturali per la fabbricazione di regi-
stri elettorali falsi, in base ai quali stabilirono il loro
trionfo. Queste sono cose, del resto, consuetudinarie.
Una Commissione, che per incarico d’un Comité Demò-
76
crata, ha voluto rivedere alcune liste elettorali a Buenos
Aires, ha trovato che in un seggio il falso ammontava al
47%, in un altro al 58%, in uno al 79% e nel resto del
distretto al 45%. I giornali El Tiempo e la Prensa, che
pubblicano l’inchiesta, ne offrono tutte le prove. Ma chi
bada a queste piccolezze?
Questa profonda e radicata immoralità rivela molto più
di una semplice stranezza di costumi politici: le sue cau-
se sono gravissime, e le sue conseguenze hanno
un’influenza disastrosa sull’intera vita della nazione ar-
gentina.
*
* *

Spieghiamoci. Laggiù la politica è una professione. È la


professione naturale del «figlio del paese», la quale gli
offre il modo di vivere – con uno splendore relativo ai di
lui mezzi intellettuali e alla sua viveza – fornendogli una
rendita sotto forma di stipendio per un impiego qualsia-
si, oppure facilitandogli guadagni d’ogni genere per via
d’influenze. Così si vedono degli impiegati che non
hanno la necessità d’andare all’ufficio, ed altri che non
sanno precisamente in che cosa il loro impiego consista.
Perciò la lotta politica non è altro che la lotta di gente
che vuole degli impieghi per diritto di nascita contro
gente che non se li vuol lasciar sfuggire, in nome dello
stesso diritto. È una «lotta per la vita»: e trattandosi del-
la vita si capisce che ci si... ammazzi, qualche volta. «La

77
vera lotta elettorale è oggi, come sempre, circoscritta
alle rivalità di clientele ristrette, per non dire di pochi
uomini, aggruppati in due fazioni avverse per la impos-
sibilità di mettere tutti contemporaneamente il muso
nella stessa mangiatoia» – scriveva il 31 del marzo pas-
sato la Patria degli Italiani.
È chiaro che questa politica di speculazione vive della
ricchezza pubblica come di una preda legittimamente
conquistata, invece di esserne la tutrice vigile e sapiente.
Ora, la ricchezza è prodotta dal lavoro; il lavoro è in
massima parte straniero; è quindi precisamente a danno
degli stranieri che si alimenta l’enorme pianta parassita-
ria della politica, che ha più ramificazioni d’un’intera
foresta di baobab.
Gli stranieri si vedono completamente esclusi dalla cosa
pubblica. Il paese risulta nettamente diviso in dominato-
ri e in dominati. Questo non sarebbe un gran male, se
una tale politica non avesse logicamente la più pernicio-
sa delle influenze su tutte le amministrazioni pubbliche
– nelle quali si sazia – e, quel che è peggio, sulla giusti-
zia; di modo che i dominati si trovano esposti – privi
delle armi del diritto politico – a tutte le violenze, ai so-
prusi, agl’inganni, alla ingiustizia senza limiti.
Come si vede, la politica argentina, per quanto in sè
stessa priva d’interesse per noi, assume una importanza
capitale in quanto serve a spiegare e illustrare la situa-
zione dei nostri connazionali laggiù. E permettetemi di
parlarvene a lungo. Del resto, l’argomento non è noioso:
avvengono nella politica di questo paese delle cose tanto
78
strane!...
*
* *

La lotta politica ristretta alle persone, animata da bassi


interessi, isolata nei varî centri provinciali, prende spes-
so alimento dagli odî personali, e diviene di una brutali-
tà selvaggia. Si combatte con tutte le armi, con la frode,
con la corruzione e col terrore. Da una parte l’arbitrio,
dall’altra la violenza. Avvicinandosi un Comizio, i cri-
mini politici diventano cosa di tutti i giorni, specialmen-
te nelle provincie interne. La cronaca registra giornal-
mente minaccie a mano armata, arresti e condanne arbi-
trarie eseguiti contro gli oppositori, persecuzioni poli-
ziesche, maltrattamenti, ferimenti, assassinî. A prestar
piena fede ai giornali i più diffusi vi sarebbe da inorridi-
re. Dai luoghi desolati dalle elezioni arrivano loro noti-
zie di treni assaltati dalla polizia per arrestare gli avver-
sarî del Governo che vi viaggiano, di prigionieri posti
alla tortura dei ceppi, di spedizioni di soldati armati di
remingtons inviati in tutti i dipartimenti di una provincia
con l’ordine di non lasciarsi sfuggire l’opportunità di fu-
cilare gli avversarî (Prensa, 11 e 12 febbraio).
Certo è che in questi periodi di fermento politico la vita
pubblica si svolge sotto il più tirannico dei regimi. In
certe provincie è un vero regime del terrore. I giornali di
opposizione sono talvolta assaltati, le macchine spezza-
te, i redattori minacciati di morte, come è avvenuto a

79
Chacabuco e durante le ultime elezioni di San Juan. La
mancanza di giustizia rende possibile ogni violenza. Du-
rante queste elezioni, che hanno fatto versare tanto san-
gue, la polizia ha assassinato nel suo stesso domicilio il
direttore del giornale El Censor, colpevole di reato
d’opposizione. Questi delitti hanno fatto sfuggire al più
autorevole giornale argentino una frase caratteristica:
«Dalla frode e dalla tranquilla esploitation delle posizio-
ni ufficiali non è ammissibile che si passi al regime del
terrore, alla legge del pugnale e della corda» (Nacion, 8
gennaio). Pare che la frode e la tranquilla esploitation
siano... ammissibili!
Intanto si procede alla formazione delle liste elettorali.
Mancando uno stato civile in regola, le iscrizioni si fan-
no volta per volta, alla domenica a mattina, nell’atrio
delle chiese parrocchiali, dove il registro è depositato
sopra un tavolo fra due vigilantes che sonnecchiano e i
membri d’un Comitato. Gli elettori iscrivendosi dichia-
rano a quale partito appartengono. Lo scopo di questa
usanza è chiaro: le sole iscrizioni bastano a dare la più
ampia idea della situazione, e le manovre poi si possono
fare a ragion veduta. Se il partito «legale» è un po’ de-
boluccio, si rinforza con un po’ di nomi. Se alle elezioni
non si presentano gli elettori, si fanno figurare gl’iscritti
come votanti. Nel marzo passato, nelle elezioni di San-
tiago de l’Estero, a Quebrachos concorsero alle urne il
giudice di pace, il commissario di polizia e suo figlio e
vi lasciarono.... mille e tanti voti. Il falso diventa usuale.
Non c’è controllo: i giudici si guardano bene dall’ascol-
80
tare i reclami di illegalità perchè essi stessi nascono
quasi sempre dall’illegalità.
*
* *

E si viene alle elezioni. Qui entrano in scena i caudillos,


uomini che, per il prestigio della criminalità, godono di
ascendenti sulla parte infima della popolazione criolla,
la quale forma quasi esclusivamente la massa elettorale.
Il caudillo porta in campo le sue forze al servizio di
questo o quel partito, come un capitano di ventura. Que-
ste forze vengono dalla campagna, dalla prateria, spesso
semiselvaggie, gauchos, ignoranti sempre, che conside-
rano le elezioni come un carnevale, un’epoca di godi-
mento e d’impunità (se stanno dalla parte governativa).
Arrivano nelle città ostentando il loro armamento di ri-
voltelle e di coltelli intorno alla cintura, e incomincia il
terrore dei pacifici cittadini. Tipi sinistri percorrono a
cavallo le vie, insultano i passanti, spingono la cavalca-
tura sui marciapiedi e talvolta nei negozî. Spesso si fer-
mano a mangiare e bere nelle fondas, poi non pagano,
bastonano chi protesta e se ne vanno gridando: Viva el
Gobernador! – il grido che è il sesamo apriti della cir-
costanza.
È poco tempo che Santa Fè, Rosario e tutte le città della
provincia, come più recentemente San Juan, hanno at-
traversato un periodo elettorale con il relativo accompa-
gnamento di morti e di feriti. Le scene che si sono svolte

81
in questi luoghi non sembrano dei nostri tempi. I negozî
si chiudono, la gente per bene si tappa in casa con le
provvigioni, come per un assedio in regola; e l’illusione
è perfetta quando – e non di rado – si sentono echeggia-
re attraverso le imposte serrate i colpi delle armi da fuo-
co. La Prensa ha riportato da un giornale di San Juan
questa descrizione d’ambiente: «Le famiglie non escono
per nessun motivo, nessuno si mostra per le piazze, e ad
ogni momento si aspetta di sentire il rumore d’una scari-
ca che ponga termine alla vita d’un cittadino, o il galop-
po d’uno squadrone di polizia che sciaboli senza pietà.
Non si domanda che resultato ebbe questa o quella ele-
zione, ma quanti morti si ebbero. Da ogni parte si parla
di domicilî che saranno assaltati. Le versioni sono fon-
date perchè abbiamo visto il popolo indifeso sciabolato
per le vie di pieno giorno e assassinare miseramente e
vigliaccamente...» È certo che in queste descrizioni, che
potrei riportare a sazietà, vi è di quell’esagerazione che
è propria di queste riscaldate fantasie ispano-americane;
ma non molta. I crimini esistono. Non vi è forse che
Buenos Aires dove tali miserie siano meno visibili, per-
chè si perdono nella vastità e nel cosmopolitismo.
In prossimità dei seggi elettorali si vedono talvolta dei
veri bivacchi di questi gauchos armati, accoccolati in-
torno ai barili della caña e all’arrosto che si va cuocen-
do all’aria aperta, il tradizionale asado electoral. Questi
bravi elettori si aggruppano a seconda dei partiti nei po-
sti prestabiliti di fronte al sagrato della parrocchia –
dove si tiene l’elezione – in attesa d’essere chiamati ad
82
esprimere i voti della coscienza del popolo.
L’appello viene fatto partito per partito. Si comincia dal
partito governativo, il quale in caso di dubbia riuscita
adopera tre sistemi di guerra che si potrebbero chiama-
re: il pacifico, il semi-pacifico e il bellicoso. Il primo è
semplicissimo; si fa l’appello tanto lentamente che giun-
ge l’ora stabilita per la chiusura prima che gli avversarî
– che votano dopo – abbiano avuto il tempo di votare.
Il secondo consiste nel sollevare degli incidenti ad ogni
voto avversario, domandando la prova della personalità.
L’adito è aperto all’arbitrio; si fanno votare dei partitarî
due o tre volte, si stabiliscono officine di falsificazioni,
si fa di tutto.
Quando ciò non basta per assicurare la vittoria, entrano
in campo i remingtons della polizia che circonda le urne
e che sta appostata persino sui tetti delle case vicine. È il
sistema bellicoso. Nelle recenti elezioni di San Juan, in-
torno ad un’urna sono caduti sei morti e venti feriti.
Questo non ha impedito al vice-governatore di scrivere
un rapporto dove diceva: «Le elezioni si sono svolte
tranquillamente e in completo ordine in tutti i Comizî;
solamente in Pocito...., ecc.!» Oh! una cosa da nulla!
All’inganno d’un partito risponde, naturalmente,
l’inganno dell’altro, alla frode la frode, e alla violenza la
violenza. Il resultato è la più mostruosa mistificazione
della volontà popolare.
*
* *

83
Su queste elezioni poggia l’oligarchia che strema le for-
ze dell’Argentina e ne prostra le promettenti energie.
Dalle elezioni nasce la piovra governativa, e viceversa:
come la storia dell’uovo e della gallina. È un circolo
chiuso, la cui anacronica esistenza è spiegata dalla
esclusione della vita politica di quella grande parte della
popolazione che più lavora, produce e paga, la quale
avrebbe precisamente il più grande interesse ad una po-
litica onesta: alludo agli stranieri.
Con questa straordinaria organizzazione, elettorale vie-
ne a mancare completamente il controllo del popolo nel
complesso organismo governativo. Una macchina senza
regolatore.
Appurate così le origini della disorganizzazione, vedre-
mo prossimamente fino dove ne arrivano le ineluttabili e
disastrose conseguenze.

84
SULL’ARGENTINA
IL GOVERNO IN AZIONE.9

L’ultima volta, mio buon lettore, abbiamo osservato


l’allegra parodia electoral – per dirla con la frase del
paese – argentina. Vediamo oggi che cosa ne viene fuori
– che, come vedremo, è per noi italiani il più interessan-
te.
E prima di tutto vediamo chi ha il monopolio del Gover-
no nell’Argentina. Un giurista, il prof. Martinoli, in una
sua monografia sul Diritto argentino, calcola che tolti gli
stranieri, i loro figli ancora in minore età, le donne e i
bambini, che se figurano nel censimento non sono per
ora nelle liste politiche, e tolti gl’indiani, i semibarbari, i
gauchos e tutti i detriti in dissolvimento delle razze infe-
riori, i quali non sono che «docili e incoscienti strumenti
di qualunque caudillo, rimangono pochi argentini padro-
ni del campo politico.» «Gli argentini, dunque, atti al
Governo – egli scrive – sono in franca minoranza, in di-
chiarata insufficienza, chiamati ad amministrare interes-
si in enorme proporzione alieni, senza controllo da parte
degli amministrati, senza che essi sentano in carne pro-
pria il peso principale dei tributi, con tutti i vantaggi in
cambio delle cariche pubbliche, e con tradizioni finan-
ziarie ed economiche che non li fan certo raccomandabi-

9 Dal Corriere della Sera del 29 maggio 1902.

85
li come modelli di reggenti ordinati e scrupolosi: forma-
no cioè una vera oligarchia.» Un’oligarchia i cui difetti
sono aggravati dalla «infaticabile sfruttabilità dello zio
che in questo unico caso è quello di.... Europa.» Si pensi
alla gravità di queste parole scritte da un uomo colto e
imparziale, straniero, ma strettamente legato alla vita
del paese, in posizione elevata, e coprente cariche onori-
fiche, il quale le ha scritte in una pubblicazione di carat-
tere ufficiale fatta per conto della nostra Colonia.
Il campo dove l’oligarchia – spazia – stavo per dire....
pascola – è straordinariamente vasto. Per averne un’idea
basti rammentare che nell’Argentina vi sono tanti Go-
verni indipendenti quante regioni, ossia quattordici Go-
verni, quindici col Governo centrale.
Ciò significa: quindici Camere di deputati, quindici Se-
nati, quindici Ministeri, ossia un battaglione di eccellen-
ze, quindici capi di Stato, quindici polizie, un numero
sterminato di giudici che brandiscono la bellezza di
trenta Codici di procedura; insomma quindici di tutto.
Gli stipendî sono generosi; gli onorevoli deputati e sena-
tori dei Governi regionali hanno 500 pesos al mese (os-
sia 1250 franchi circa mensili); quelli del Governo fede-
rale ne hanno mille (2500 franchi al mese circa), e vi
sono gl’incerti, che poi sono quasi sempre.... certi. E
pensare che noi troviamo qualche volta troppo un Parla-
mento solo: e non lo paghiamo! In proporzione, col si-
stema argentino, noi in Italia dovremmo avere più di
cento Parlamenti. Orrore!
Vi sono varie provincie, come quelle di Catamarca, del-
86
la Rioja, di San Luis, di Santiago de l’Estero, le cui ri-
sorse sono insufficienti a pagarsi il lusso di un gobierno;
e si capisce. Questo faragginoso organismo governativo,
ammessa anche l’onestà più scrupolosa negli uomini di
governo, non può che spossare il paese per il solo fatto
della sua esistenza. Ma la correttezza, per di più, non è
una moneta straordinariamente corrente laggiù.
*
* *

Gl’impieghi non sono divisi sempre fra i più degni.


«Sono i collaboratori nella lotta elettorale che si presen-
tano a reclamare il premio pagato col tesoro pubblico
sotto forma di stipendio per deputazioni, seggi senato-
riali, posti di governo, incarichi diplomatici, affari, con-
cessioni, posti di favoritismo, persino frodi doganali, de-
cretati a forza d’influenze ben compensate.» (Giornale
La Prensa).
L’idoneità non è più così la qualità necessaria per essere
chiamato al disbrigo d’un ufficio pubblico. Un deputato
federale argentino, che porta uno dei nomi più illustri
della Repubblica, il Belin Sarmiento, ha scritto corag-
giosamente su questo argomento: «L’idoneità è scom-
parsa di fronte alla camerateria e al nepotismo, al punto
che il talento stesso non avrebbe assicurata la carriera
senza l’intrigo e la compiacenza; si creano posti inutili
per dare una paga al parente e al partitario.» A molti
funzionarî pubblici manca perciò la capacità necessaria

87
e la preparazione; basta intrigare; la frode politica apre
tutte le porte. «La politica qui fornisce un vero cursus
honorum, attraverso il quale si può sempre vivere del bi-
lancio e senza far niente con tutto decoro, per divenire
infine una specie di Pericle buono a tutto, ambasciate,
alte funzioni giudiziarie, direzioni di banchi, rettorati
universitarî, grasse missioni finanziarie, confezioni di
codici, anche... generali.» (Professore Martinoli).
Infatti il giornale El Diario, parlando del Congresso, ha
rivelato che «una terza parte, non uno di meno dei depu-
tati, accumulano stipendî per Commissioni speciali, di-
rezioni di banchi, di università, di collegi e di altri inca-
richi pagati in modo eccezionalmente lauto; e più d’un
terzo dei senatori (per non essere da meno) hanno oltre
ai mille pesos al mese, altre somme dagli ottocento ai
mille pesos per incarichi ufficiali» – circa 5000 franchi
al mese!
Da un tale genere di funzionarî, che, come scriveva re-
centemente la Prensa, «si considerano padroni dei loro
posti per diritto di conquista e che li disimpegnano a
loro piacere sicuri dell’impunità per le loro colpe e per i
loro errori», deriva la più estesa irregolarità in tutti i
campi dell’amministrazione pubblica. L’interesse perso-
nale produce un’influenza disastrosa. «Ciò contribuisce
a rendere la politica un affare, a farne non l’occupazione
altruistica e nobile, e quasi onoraria d’una classe scelta,
ma invece una vasta Tammany Hall, un pugillato per
l’esito, una curée di sensalismi, e a dare ad ogni ambi-
zione un predominante fondamento d’interesse che tutto
88
degrada e materializza e che corrompe parimenti gover-
nanti e governati.» (Prof. Martinoli).
*
* *

La corruzione si propaga infatti. Lo standard della mo-


rale pubblica si è modificato sotto questo regime. Quan-
do l’eccezione diventa regola, la regola diventa eccezio-
ne. Avviene in morale quel che ci succede in ottica
quando entriamo in un ambiente illuminato da una lam-
pada colorata; al principio si trova tutto strano, falso,
curiosamente colorato; poi l’occhio s’abitua, il ricordo
della luce pura svanisce dalla retina, ogni cosa si norma-
lizza al nostro sguardo. Così laggiù si è abituata la co-
scienza pubblica alla strana luce della moralità ufficiale.
«Supponendo che certi fatti che vediamo giornalmente
siano successi in altri paesi, ed immaginando lo scanda-
lo che produrrebbero, abbiamo la norma del livello mo-
rale della nostra società, che non si commuove conside-
randoli quotidiani e comuni. Basterebbe collezionare
ogni scandalo che si rivela giornalmente per formare il
museo degli orrori.» (Belin Sarmiento).
Nella lingua stessa, che è come lo specchio dell’anima
di un popolo, rimangono le traccie della strana clemenza
con la quale si giudicano certe colpe. L’indelicatezza
non si chiama più così: si chiama.... vivezza – viveza.
Un uomo senza scrupoli da noi si dice un furfante; lag-
giù un uomo vivo! Ed è quasi un complimento.

89
Quale tempra adamantina d’onestà non occorrerebbe per
sottrarsi alla influenza dell’ambiente, alle seduzioni
dell’interesse? «Sarebbero uomini eroici, superiori
all’umano coloro che elevati al potere dai nostri politici
potessero lottare contro i loro amici, contro il loro pro-
prio interesse, lottare contro i sofismi che da ogni parte
fioriscono intorno al potere, lottare infine contro tutti i
proprî contemporanei, e rifarli come lo scultore riam-
massa l’argilla quando è scontento della sua prima con-
cezione.» (Belin Sarmiento).
Il male che deriva da tanta bruttura è reso più grave dal-
la curiosa condizione di complicità in cui si trovano
moltissimi funzionarî pubblici, complicità dalla quale
deriva quell’impunità cui allude la Prensa nel brano ci-
tato più sopra. Essi debbono la loro posizione alla loro
unione di partito, cioè a dire ad una colpa comune. Na-
turalmente non si può sempre punire un funzionario che
abbia troppa.... viveza, perchè sarebbe come trasformar-
lo in un avversario politico. E poi è difficile punire uno
per colpe che sono troppo comuni, peccati divenuti ve-
niali, condannare in lui sè stessi, e i proprî sistemi, i pro-
prî interessi e la propria morale. La catena gerarchica
così si spezza, la disciplina è svanita. Come il potere si
basa sul fascio enorme di irregolarità elettorali commes-
se dagli adepti al partito trionfante, ognuno di questi fat-
tori del Governo, conquistato un impiego, sente di avere
il sacrosanto diritto ad una parte del potere. Ogni fun-
zionario diventa un tiranno nella sfera della sua influen-
za. Il meno che può fare è di non compire il suo dovere
90
seguendo l’esempio di tanta parte dei parlamentari che
sono in un quasi perenne sciopero legislativo.
Si aggiunga ancora, come ultimo e non minore incenti-
vo al mal fare, la poca stabilità degli impieghi. Quando
s’insedia un nuovo partito è un nuovo esercito d’impie-
gati che occupa gli uffici, mentre l’esercito dei vecchi si
ritira – per prepararsi ad un altro assalto – si ritira in
armi, e soprattutto.... in bagaglio. Un’elezione andata
male o una rivoluzioncella andata bene bastano a sbal-
zar tutti dal posto; la vita non è assicurata, il tempo
stringe, bisogna prendere ciò che capita, diamine!
*
* *

Al di fuori di questa straordinaria organizzazione gover-


nativa, di questa formidabile associazione tirannicamen-
te dominatrice, stanno gli stranieri, i veri sfruttati, per-
chè sono quasi i soli che lavorino, che producano, che
trasformino. Sono essi, in fondo, che pagano. E «ad essi
viene a mancare ogni autorità sulle autorità anche infe-
riori: essi debbono sopportare senza possibile reazione
le facili prepotenze dei funzionarî, specialmente nelle
campagne dove l’abuso è così comune.» (Prof. Martino-
li). Vedremo in seguito, dettagliatamente, quali e quanti
sono questi abusi e queste prepotenze che gli stranieri
soffrono, e più specialmente coloro fra di essi che
l’ignoranza, la miseria e l’isolamento vengono a rendere
più deboli e più umili.

91
Ora ne abbiamo visto le origini che tutto spiegano a filo
di logica. Nel «museo degli orrori», di cui parla l’on.
Belin Sarmiento, il lettore ora forse non troverebbe nul-
la che potesse meravigliarlo troppo. Alla meglio gli ho
spiegato la formazione e la natura del vasto organismo
governativo, che forse non completamente a torto è sta-
to chiamato una Tammany Hall politica. Dalle sue ruote
si capisce come cammina.
Non c’è più nulla di strano. A San Juan, per esempio,
dove l’irrigazione soltanto rende possibile la coltura di
quel suolo tropicale, il Governo toglie l’acqua agli av-
versarî politici per far seccare i loro raccolti e far morir
di sete uomini e bestiami. Lo chiamano il gobierno de
l’agua. (Nacion, 9 gennaio). Il penultimo governatore
d’una delle principali provincie ha passato gli ultimi sei
giorni del suo regno a firmare boni di tesoreria a favore
di partitarî per un valore pari al bilancio della provincia
– quattro milioni di pesos. La storia non dice se al setti-
mo giorno il bravo uomo si prese il meritato riposo.
Dice però che venne sollevata la questione della validità
dei boni, risoluta favorevolmente e che l’ex-governatore
venne immediatamente... fatto senatore! A Tucuman un
ministro delle finanze accusa il predecessore di aver
stornato grosse somme per lavori pubblici che non si
sono mai visti, e nessuno gli bada (Prensa, 20 marzo).
Un ex-governatore è accusato d’aver sottratto centomila
pesos da una sovvenzione per una calamità pubblica
(Diario, 5 aprile). Alcuni Governi provinciali, come
quelli di Entre Rios e San Juan, non rendono conto delle
92
somme pagate dal Governo centrale per l’istruzione, e
lasciano i maestri quattordici mesi senza stipendio. Il
Consiglio nazionale d’educazione è alla sua volta accu-
sato dai giornali di grosse irregolarità amministrative a
proposito della costruzione di edifici scolastici costati
quattro volte il loro preventivo. La Prensa attribuisce la
massima parte del deficit delle imposte alle irregolarità
commesse abitualmente dagli incaricati dell’esazione.
Tutto questo non può stupirci più. Entra quasi nell’ordi-
ne naturale delle cose.
I Parlamenti votano sempre nuove spese e creano nuovi
impieghi per contentare le clientele, mentre il paese pre-
cipita alla rovina, mentre i coloni delle principali pro-
vincie mancano persino della semente, e la miseria
s’avanza ululante dai campi verso la città. I debiti pro-
vinciali aumentano con una rapidità che ha dell’emula-
zione. Con un bilancio che mette paura, il Parlamento
federale vota un aumento di trenta milioni di pesos di
nuove spese e crea una quantità di nuovi posti diploma-
tici per «provvedere alle necessità di certi gentiluomini
messi colle spalle al muro dalla mancanza di mezzi» (El
Diario). Molti uomini politici sono pubblicamente accu-
sati di gravissime immoralità, ben definite e particola-
rizzate, e le loro ricchezze favolose autorizzano il so-
spetto. Il Diario racconta che per avere una modifica-
zione sulla tariffa doganale di un certo articolo si offri-
vano settantamila pesos nei couloirs del Congresso. «Al
Congresso poco importa di protezionismo e di libero
scambismo – scriveva la Patria degli Italiani, commen-
93
tando la notizia – chi meglio paga, meglio è servito.»
Giù giù per la trafila amministrativa tutto cammina così.
Vi sono governatori che commettono ogni sorta di abu-
si. Gli stranieri del Neuquen in questo momento si agita-
no implorando che per carità non venga rieletto il gover-
natore presente vicino a scadere di carica (Prensa, 10
marzo). A Rufino gli stranieri si trovano costretti a riu-
nirsi in una «Società di resistenza» contro gli abusi delle
autorità; una specie di Compagnia d’assicurazione per i
danni che si scatenano dall’imperversare della prepoten-
za (Prensa, 3 marzo). E più giù ancora tanti magistrati
vendono la giustizia e regalano ingiustizia, dei giudici di
pace sfruttano tranquillamente i coloni, dei commissarî
sono loro complici, e per loro conto commettono anghe-
rie e persecuzioni infami: fino agli agenti, agli ultimi
soldati di polizia nelle colonie, che da selvaggi che
sono, fanno anch’essi del loro meglio, arrestando, basto-
nando e violando quando e come possono. Di queste ge-
sta parleremo.
*
* *

Bisogna concludere che l’Argentina è veramente un


paese meraviglioso se ha potuto trascinare fino ad ora
un tale mostro divoratore sulle sue spalle. In esso princi-
palmente va cercata la ragione vera della sua crisi spa-
ventosa e del suo mortale abbattimento presenti, le cui
conseguenze ricadono sui nostri lavoratori. Questi a

94
centinaia e centinaia di migliaia scontano con la miseria,
laggiù, lontani dalla Patria – verso la quale si volgono
tristamente i loro pensieri come verso una felicità per
sempre perduta – gli errori e le colpe che non sono loro!
Intanto si dice nelle sfere ufficiali che le risorse del pae-
se salveranno la situazione. Questa è una bella maniera
per dire che sarà pur sempre il lavoro, il nostro lavoro,
che pagherà tutto!

95
LA GIUSTIZIA ARGENTINA.10

Il generale Roca, durante la sua ultima tournée in Euro-


pa, andò a visitare Bismarck, che nell’eremitaggio di
Friedrichsruhe era diventato come l’oracolo politico di
tutti gli statisti in vacanza. Si dice che in quella circo-
stanza l’Oracolo, interrogato su ciò che pensava
dell’Argentina, rispondesse, fra una boccata e l’altra
della sua pipa leggendaria:
– Il vostro paese non avrà avvenire finchè non avrà
Giustizia!
Sono passati degli anni, ma c’è da scommettere che, an-
che oggi, se il signor Presidente potesse interrogare
l’anima del Gran Cancelliere, si sentirebbe rispondere
con le medesime parole.
Perchè infatti si può dire che in quel beato paese c’è tut-
to ormai, meno che la Giustizia. La libertà, il commer-
cio, la proprietà, e persino la vita non vi sono sempre ef-
ficacemente garantiti. Troppo sovente la Giustizia è par-
tigiana o corrotta. In essa trovano forza la prepotenza, la
disonestà, la criminalità. La Giustizia, soggetta spesso a
tutte le malsane influenze dei partiti, del denaro e
degl’interessi personali, assicura troppe volte l’impunità
al «figlio del paese» – che può disporre di queste forze –
e concorre così a mantenere la massa straniera in una
condizione sempre più umile di sottoposizione.
10 Dal Corriere della Sera del 1-2 giugno 1902.

96
E tutto questo perchè anche la Giustizia soffre laggiù del
gran male d’origine: la politica. Nasce e vive nella poli-
tica; è agitata dalle passioni della vita pubblica; stretta-
mente legata all’ambiente; bruttata dagli stessi difetti e
delle stesse colpe che è chiamata a correggere e a puni-
re. Gli uomini che amministrano la Giustizia sono nomi-
nati a tale onore non sempre per i loro meriti personali,
per il loro carattere, la loro onestà, la loro indipendenza,
la loro coltura, ma perchè sono del partito al potere, op-
pure amici o parenti di persone d’influenza, o intriganti,
o complici in trame politiche. Avviene così di trovare
dei giudici che non hanno nessuno dei requisiti che la
legge richiede. «A Santiago de l’Estero non un solo
membro del Potere Giuridico possiede i requisiti costi-
tuzionali» (Giornale La Prensa, 3 novembre). Immagi-
niamo quale autorità può emanare da questi magistrati.
Il peggio è che vi sono dei giudici ben altrimenti indegni
del loro posto specialmente nei gradi minori della magi-
stratura. «In certe provincie la libertà, l’onore e i beni
della povera gente sono in mano di Giudici di Pace de-
gni della galera», – scriveva la Patria degli Italiani il 7
dell’aprile passato, giustamente esasperata da alcune in-
famie giudiziarie commesse nella provincia di Cordoba;
e aggiungeva: – «Ecco perchè nelle campagne gli stra-
nieri vivono a disagio e le colonie si spopolano. La Giu-
stizia di Pace in mano a malfattori volgari irrita e disa-
mora del paese gli emigranti, che vedendosi in balìa di
furfanti rivestiti di autorità fuggono, sottraendosi al peg-
giore dei dispotismi, quello della giustizia amministrata
97
da farabutti.» Vi sono troppi giudici che hanno familia-
rità con la colpa: alcuni di essi debbono all’appartenere
alla giustizia il beneficio di non esser chiamati a render-
le conto delle loro azioni. Vi sono giudici che hanno su-
bìto delle condanne; vi sono dei recidivi: vi sono dei cri-
minali.
*
* *

Se nelle alte sfere della magistratura non mancano dei


buoni e dei colti, ciò non toglie che l’organismo giudi-
ziario non sia profondamente guasto, e – questo è un
sintomo grave – poco vi si bada. Un commissario gover-
nativo, incaricato di un’ispezione nella provincia di San-
ta Fè, dice nel suo rapporto che «i posti di Giudice di
Pace appartengono a covi di uccelli di rapina che si sono
stabiliti in ogni colonia.» (La Prensa, 20 aprile). La
Prensa dell’11 aprile riporta questi apprezzamenti del
giornale La Verdad di Entre Rios: «Sono note le azioni
vergognose compiute da certi magistrati. Tutto han com-
messo, dalla prevaricazione al furto, fino al sindacato
dei giudici con i procuratori, ecc. Tutto ciò ha spinto la
nostra giustizia in una discesa obbrobriosa, trascinando
nella sua débâcle di corruzione i grandi interessi della
società che si trova abbandonata alla voracità dei sac-
cheggiatori dei Tribunali.»
Si è arrivati al punto da contare, nelle campagne, i buoni
giudici come eccezioni. «I Giudici di Pace e i commis-

98
sarî delle colonie, salvo oneste eccezioni, spogliano, de-
rubano, taglieggiano i poveri coloni.» (Patria degli Ita-
liani, 20 novembre). La Prensa del 22 aprile consiglia il
governatore di Cordoba a nominare per giudici «uomini
onesti e degni per sollevare le popolazioni dai molti
mali che le affliggono a causa dei cattivi giudici.» Il
consiglio è ottimo anche per tutte le altre provincie della
Repubblica.
Le accuse a carico di giudici piovono giornalmente sulle
colonne dei giornali di tutti i partiti, ma le autorità go-
vernative rimangono bene spesso indifferenti. La Na-
cion ha fatto, inutilmente, una vera campagna contro un
giudice molto influente della Capitale, accusandolo ve-
latamente di vita immorale, scandalosa, di affari loschi,
di parzialità. Alcune di quelle schiave bianche, che infa-
mi trafficanti traggono con inganno dai villaggi d’Euro-
pa, e per la cui sorte i Governi ora cominciano a preoc-
cuparsi, riuscirono a fuggire dalle mani dei loro «padro-
ni» e ricorsero alla polizia, che arrestò i colpevoli. Ma il
giudice in questione diede ordine di liberarli e fece car-
cerare quelle infelici. La stampa accusò il giudice d’aver
favorito degli «amici personali»; ed egli è sempre giudi-
ce! Un altro giudice proscioglie dei detentori di bische
clandestine e poi ordina che sia tolta ogni sorveglianza
sulle case da giuoco: viene accusato di favoritismo, ma
resta sempre giudice. Un giudice è denunziato per falsi-
ficazione in atto privato e non viene nemmeno sospeso
dalle funzioni. (Patria, 30 dicembre). La Prensa riporta
da un giornale provinciale che parla della giustizia cor-
99
rotta: «Il potere esecutivo non pensa a porvi un rimedio,
anzi ora si tratterebbe di dare un avanzamento a qualcu-
no dei magistrati sotto la cui giurisdizione sono scom-
parse considerevoli somme di denaro appartenenti ai de-
positi giudiziari...»
Nelle Colonie vi sono di quei giudici che per ironia si
chiamano di pace, che fanno ordinanze di sequestro a
danno dei coloni, portando loro via i raccolti, gli animali
da lavoro, gli attrezzi, tutto, e lasciandoli spesso nella
più dolorosa miseria. (La Libertad di Cordoba, 2 aprile).
Un gruppo di coraggiosi, abitanti un pueblito nel Rio
Negro, ha domandato al ministro della giustizia di ritira-
re il Giudice di Pace e sostituirlo con una persona per
bene. Quel degno magistrato sarebbe stato già da anni
accusato di gravi colpe commesse come giudice a Gene-
ral Roca – paese del Rio Negro – poi d’irregolarità
come capo del Registro Civile. Ora il giudice recidivo è
accusato di negata giustizia, di favoritismo per partitarî
politici; ma non basta; è anche accusato di aver tentato,
usufruendo della sua autorità, di portar via una fanciulla
minorenne alla madre, infine di complicità nel ratto
d’un’altra minorenne, la quale sarebbe stata rinchiusa
per alcuni giorni nella di lui casa. Il rapitore era il figlio
del giudice. Il segretario di questo magistrato è sotto
l’accusa di tentato assassinio. (Prensa, 3 marzo).
*
* *

100
Gli escandalos judiciales, sia pure di questi ultimi mesi,
formano un’imponente raccolta di cose orribili e talvolta
amene. Nelle provincie la vendita della giustizia è una
cosa purtroppo non rara. Qualche giudice ha delle trova-
te originali in questioni di... affari; uno domandò
all’avvocato della parte favorita alcune monete per un
amico numismatico, al quale mancavano precisamente
sette aguilas nord-americane d’oro (settecento lire) alla
sua collezione. Vi sono anche dei giudici che si fanno
pagare dalle due parti: la giustizia al migliore offerente.
Fra tutti, eccovi un caso che fa pensare ad un intreccio
da pochade. Un italiano che vive a Serodino – presso
Rosario – e che chiameremo con la sua iniziale V., ha
comperato da un altro italiano una trebbiatrice, la quale
però è perseguitata da un mandato di sequestro, come un
cassiere in fuga. Un curatore si presenta a Serodino per
fare eseguire il sequestro; ma il Giudice di Pace della
colonia, pagato dal V., si rifiuta di eseguirlo, dando così
tempo al V. di correre a Rosario, di presentarsi in com-
pagnia del suo avvocato al giudice L., che aveva spicca-
to l’ordine di sequestro, e di ottenere la revoca mediante
il pagamento di cento pesos. Il curatore, informato
dell’accaduto dal segretario del giudice, corre alla sua
volta dal magistrato, paga duecento pesos e si fa spicca-
re un secondo decreto di sequestro, revocante la revoca.
Seguite bene l’intreccio. Il segretario del giudice tele-
grafa immediatamente a Serodino al V., informandolo, e
questi si precipita a pagare trecento pesos ottenendo una
seconda revoca. Qui incomincia il fantastico. Il curatore,
101
con un crescendo che il valore della macchina giustifica
(6000 pesos) aumenta la somma e ottiene un nuovo or-
dine di sequestro che... viene revocato dietro il paga-
mento di mille pesos. Forse la cosa non sarebbe finita
qui e il giudice avrebbe terminato per intascarsi la treb-
biatrice se il V. non avesse avuto l’idea felice d’associa-
re agli utili della trebbiatura un argentino influente, e, si
capisce, non s’è parlato più di sequestri.
Una tale corruzione, se è in certo modo spiegabile nei
Giudici di Pace, che hanno un periodo di carica limitato
ad un anno, rinnovabile, e che sono senza stipendio – è
vero che per legge dovrebbero essere scelti fra i più ric-
chi e i più onorati cittadini! – è assolutamente incom-
prensibile negli altri giudici i cui stipendî, che si parla di
aumentare, variano sui mille e cento, mille e duecento,
mille e cinquecento pesos al mese (2750, 3000, 3750
lire circa al mese). Le cause vanno ricercate dunque non
nelle circostanze, ma negli uomini. È la coscienza che si
è modificata. Le colpe e i delitti sono guardati con oc-
chio soverchiamente benigno.
Assassini volgarissimi sono assolti per poco che godano
d’influenze nel mondo politico. O almeno sono rilasciati
ad una libertà provvisoria che dura a vita d’uomo, e i
loro processi vengono sospesi nel purgatorio degli archi-
vî. Da un’inchiesta del Ministero della Giustizia risulta
che a Buenos Aires – dove funzionano una giustizia
senza paragoni migliore di quella delle provincie, ed
una polizia che laggiù dicono la premiera del mundo: –
sopra ogni cento delitti ne vanno impuniti ottantotto! E
102
cioè: trenta colpevoli non sono arrestati affatto; degli ar-
restati quarantotto sono rilasciati per ordine dei giudici
d’istruzione; dei ventidue che rimangono, dieci sono as-
solti dai tribunali e non rimangono puniti che... dodici
colpevoli, a pene del resto quasi sempre benigne se non
si tratta di stranieri. (Dal Diario del 23 marzo ’99 e
dall’ultima pubblicazione del senatore Agostino Alvarez
sulla politica argentina).
Figuriamoci che cosa avviene fuori della capitale!
*
* *

E la necessità d’una sana e rigida giustizia non è in nes-


sun luogo così fortemente sentita come in quei paesi
giovani, spinti avanti dal rapido accrescimento della
operosa popolazione dovuto all’emigrazione, dove tutti
gli appetiti si risvegliano nel tumultuoso periodo dello
sviluppo, dove la lotta per la fortuna prende forme vio-
lentissime, dove gl’interessi e le passioni scatenano nel-
la mobile società – come il maestrale nell’Oceano – tut-
te le tempeste dell’umana malvagità. Nel Far-West nord
americano, quando il miraggio della fortuna vi attirò tut-
to un popolo di avventurieri pronti al delitto prima che
quella società avesse affidato la sua difesa ad una giusti-
zia organizzata, nacque la legge di Lynch; la società si
difendeva da sè.
La criminalità nell’Argentina non è frenata dai rigori
della giustizia, nè da quelli della società.

103
La società è clemente verso la colpa; «noi succhiamo
nascendo un latte di clemenza» – ha scritto l’Alvarez.
Nelle campagne ammazzare si dice una desgracia; ma,
intendiamoci, non è una disgrazia per chi ci rimette la
pelle, ma per l’assassino. C’è chi ha, poveretto, molte...
disgrazie sulla coscienza. Questi uomini si chiamano
«uomini d’azione». Tutto questo si spiega. È troppo fre-
sco nella memoria il ricordo del periodo sanguinoso dei
Facundo, dei Frate, dei Chacho, del tiranno Rosas, a
petto ai quali i nostri capitani di ventura erano delle si-
gnorine sentimentali, periodo che potrebbe chiamarsi il
medioevo argentino. E le stragi degl’indiani, le sangui-
nose guerre civili sono ancora nella mente del popolo. E
poi il sangue argentino è sangue andaluso con un po-
chetto di sangue indiano, e perciò l’argentino è cortese,
cavalleresco, generoso forse anche, ma bene spesso im-
petuoso e violento. «Nell’Argentina dall’epoca
dell’indipendenza nessuna infermità ha distrutto più po-
polazione» – ha scritto l’Alvarez – «di quella che
Chamfort chiamava la fraternità di Caino; il revolver e il
pugnale sono endemici, e per un niente s’ammazza,
come vuole l’uso criollo.» La rivoltella è nelle tasche di
tutti. «È poco che in un ballo al quale erano convitati
alti personaggi» – ha scritto un giorno la Nacion – «un
diplomatico straniero espresse la sua sorpresa nel sapere
che molti invitati avevano lasciato le loro rivoltelle al
guardaroba, come se uscendo temessero un’imboscata, o
preparassero una cospirazione.»
Il male è che spesso sono dei nostri connazionali le vitti-
104
me della «fraternità di Caino» e potrei citare molti, trop-
pi casi d’italiani uccisi impunemente, talvolta senza ra-
gione, per brutalità, se non per un semplice esercizio di
tiro al blanco – come ultimamente è avvenuto in una co-
lonia di Santa Fè, dove un gaucho ha ammazzato un
giovane italiano per provare un Winchester nuovo. Una
madre italiana con i suoi cinque bambini sono stati tru-
cidati da un criollo presso Bahia Blanca, alcuni mesi fa,
e un giornale argentino, che pubblicava la fotografia or-
ribile delle vittime accatastate nel disordine tragico della
morte, scriveva: «il colpevole cadrà domani in mano
della giustizia per essere posto in libertà per l’influenza
d’un caudillo elettorale o per la sensibilità dei giudici.»
Un fatto analogo è avvenuto a Raffaela nella sera del 20
settembre passato; due italiani vennero assassinati a tra-
dimento nel loro negoziuccio di almaceneros a scopo di
furto, e i colpevoli, due gauchos, sono già liberi. Per un
altro fatto consimile il ministro d’Italia, che domandava
la ricerca e la punizione dei colpevoli, si sentì risponde-
re che la Giustizia nelle provincie è autonoma. È ancora
vivo a Buenos Aires il ricordo dell’assassinio d’un po-
vero lustrascarpe italiano compiuto dal figlio di un sena-
tore, e quello di un distinto giovane italiano ammazzato
a colpi di revolver sulla poltrona d’un teatro. Gli autori
rimasero impuniti.
Quali fulmini non dovrebbe scagliare la legge per curare
tanto male e così profondo?
Anche quando è buona, l’amministrazione della giusti-
zia è così lenta, complicata e debole che riesce spesso
105
inefficace. Per il commercio, ad esempio, rappresenta
una rovina. La Nacion ha con una serie di articoli rivela-
to tutte le porte che la giustizia difettosa spalanca alla
disonestà commerciale. Dei bancarottieri possono impu-
nemente offrire delle percentuali ridicole a saldo dei
loro debiti; hanno una frase magica per spaventare i cre-
ditori: Se non accettate mi metto nelle mani del tribuna-
le!
Coi tribunali non si sa mai come si vada a finire!
Vi è una legione enorme di curiali, procuratori, curatori,
uscieri, che nella lingua del paese sono chiamati con la
espressiva denominazione di aves negras – uccelli neri.
Questi corvi appollaiati intorno ai tribunali, si precipita-
no dove c’è qualche cosa da mangiare, e fra onorarî,
percentuali, prebende e propine finiscono ogni cosa, di-
videndosela con un accordo che somiglia ad una com-
plicità legale. Anche ammettendo l’onestà più scrupolo-
sa nei giudici, è naturale che con una giustizia così orga-
nizzata, la rettitudine commerciale non sia nè protetta,
nè incoraggiata.
Nelle successioni testamentarie di stranieri avvengono
cose infami protette dalla legge. Gli «uccelli neri» non
lasciano talvolta una bricciola dei patrimonî raggranella-
ti qui con stenti e lasciati morendo ai parenti lontani.
Essi mandano le pratiche a lungo per degli anni, se
l’eredità è grossa, per dei mesi se è piccola, fino a che a
furia di spese giudiziarie, di emolumenti, di stipendî per
curatele quasi tutto è divorato.
Non parliamo dei tranelli nelle compre-vendite, per cui
106
un contadino, supponiamo, che compra un pezzo di terra
può trovarsi di non esserne il padrone: non parliamo
delle gherminelle dei contratti e di tante altre truffe
semi-legali che la Giustizia contempla indifferente.
*
* *

Tronchiamo questa esposizione di brutture, le quali nul-


la aggiungono e nulla tolgono al triste quadro della Giu-
stizia argentina.
Di tutti i mali che affliggono quella Repubblica – alla
quale tanta fortuna invece potrebbe sorridere – la cattiva
Giustizia è il più grave per i nostri connazionali, perchè
è quello le cui conseguenze dolorose li colpiscono diret-
tamente e immediatamente.
Quei governanti argentini che amano veramente il loro
paese e che ne vogliono il bene, che desiderano l’aiuto
generoso delle nostre braccia e delle nostre simpatie, ri-
volgano le loro cure al risanamento della Giustizia. La
giustizia è la coscienza d’un paese. Se la coscienza si ri-
sveglia e si migliora, le azioni divengono buone. Ponga-
no tutto il loro amore e tutta la loro scienza in questo. E
nella buona Giustizia l’Argentina troverà precisamente
la guarigione di tutte le sue piaghe!

107
LA POLIZIA ARGENTINA.11

Un giorno dello scorso marzo il Governatore di Santa


Fè, dottor Freyre – un omone dall’aspetto bonario e dal-
la parlantina sciolta – facendomi gli onori della sua casa
mi mostrava una curiosa raccolta di ritratti fotografici.
Erano le fotografie di tutti i suoi impiegati di polizia,
bene incorniciate simmetricamente in un grande quadro
di peluche e sormontate dai nomi dei relativi originali,
incisi in targhette dorate. Una epigrafetta in testa al qua-
dro faceva conoscere che si trattava di un omaggio della
Polizia Santafecina al Señor Gobernador in occasione
della di lui recente assunzione al potere. Il Governatore
guardava tutti quei ritratti con una grande espressione
d’uomo soddisfatto, e mi spiegava:
– Li conosco tutti, uno per uno, da quando ero capo
come Jefe politico; qualcuno ne ho fatto io – nei suoi
occhi sfavillava come una scintilla di amore paterno – e
sono tutti hombres valientes, amico!
Gettai un’occhiata sulle fisionomie; una raccolta di tipi
risoluti, una collezione di occhi fieri, di baffi e di barbe
dal taglio poco comune, e qua e là dei nasi adunchi, de-
gli zigomi salienti e delle bocche larghe tagliate come
con un colpaccio di ascia, caratteristiche non dubbie
della razza meticcia. Vi era anche un negro.
– Io conosco la storia di tutta questa gente; li ho tutti
11 Dal Corriere della Sera del 5 giugno 1902.

108
nel pugno – continuava il mio ospite. – Vedete questo, e
questo, e questo? Ebbene, essi non portano il loro vero
nome.
Io ascoltavo con un interesse crescente le curiose infor-
mazioni che il Governatore dava a me e ad altri presenti,
e non mancavo d’incoraggiarlo con quelle esclamazioni
d’assentimento che sono le goccie lubrificanti delle con-
versazioni. Ed egli continuava, ingenuamente persuaso
di dire le cose più naturali del mondo, e di fare il mi-
glior vanto dei suoi sottoposti.
Così spiegò che alcuni di quei funzionarî non portavano
il loro nome perchè in passato erano stati assassini. Mol-
ti di quegli uomini avevano un passato al quale il Go-
vernatore alludeva con reticenze piene di effetto dram-
matico. Certi si erano trasformati da delinquenti a poli-
ziotti per opera sua. Ricordo fra gli altri la storia di un
cocchiere più volte arrestato per ferimento, furto e rivol-
ta agli agenti a mano armata, e divenuto commissario.
Appuntando il dito sopra varî ritratti il Governatore ri-
peteva con compiacenza le parole: Este era un picaro!...
– Questo era un farabutto – con l’aria di dire: Che uomo
abile che era costui!
Tutto ciò per noi è strano. Noi consideriamo la Polizia
come la mano della Giustizia, una grande mano, potente
e delicata ad un tempo, che rintraccia i colpevoli, li sco-
va, li afferra, e li porta al cospetto della maestà della
Legge. Nell’Argentina, la Polizia – o meglio le polizie,
poichè ve ne sono quindici, una per provincia ed una
speciale per Buenos Aires – prima di essere la mano
109
della Giustizia è la mano della Politica. Modificandosi
lo scopo della sua esistenza, snaturandosi la sua funzio-
ne, deve necessariamente modificarsi la sua essenza. Le
polizie argentine non hanno tanto lo scopo di difendere
la società, quanto quello di difendere i partiti al potere.
Formano dei piccoli eserciti pretoriani sempre pronti
all’arbitrio ed alla violenza partigiana, a portare nella
lotta politica l’influenza decisiva della forza brutale
contro il diritto. E allora come potrebbero essere stru-
menti di giustizia e di legalità se la loro funzione si
esplica così spesso proprio nel campo dell’ingiustizia e
dell’illegalità?
*
* *

È naturale che a comporre queste polizie vengano chia-


mati uomini risoluti e spregiudicati, ossia senza molti di
quegli scrupoli che renderebbero impossibile l’adempi-
mento del triste còmpito che la politica impone loro. Ed
ora ditemi quale uso non faranno della forza di cui di-
spongono, della potenza straordinaria che loro conferi-
sce il nome della legge, questi uomini scelti per evidente
necessità negli strati inferiori della società, e anche delle
razze umane, spesso familiari alla colpa, privi della col-
tura e dell’educazione, che, anche nelle anime cattive,
insinuano il pudore del male? Supponete di questi uomi-
ni posti nelle colonie, lontani da qualsiasi controllo,
aventi l’impunità quasi assicurata dalle distanze e dalle

110
necessità politiche, se non dai difetti e le lungaggini del-
le procedure giudiziarie, e immaginate che cosa avvie-
ne. C’è poi l’aggravante d’una pessima retribuzione.
Vi sono dei commissarî che non prendono più di sessan-
ta, settanta, ottanta pesos al mese, con i quali debbono
provvedere alla paga dei soldati di polizia – due o tre –
da essi personalmente arruolati, alle spese d’inchieste –
che dovrebbero essere rimborsate, ma non lo sono mai –
e talvolta anche al mantenimento dei prigionieri fino
alla loro consegna all’autorità giudiziaria. Dei tenenti di
polizia prendono trenta pesos al mese. «Questi impieghi
portano l’autorizzazione implicita all’exploitation dei
pacifici abitanti della campagna sotto forma di multe» –
ha scritto giustamente la Prensa. – Infatti la multa arbi-
traria forma una delle fonti più comuni e anche più one-
ste dei beneficî polizieschi. Dei contadini sono talvolta
arrestati con una scusa qualunque, e poi il commissario
contratta con loro la liberazione. Ciò non toglie che la
libertà non si venda anche ai veri colpevoli, qualche vol-
ta. Gli arresti arbitrarî naturalmente non sono certo una
cosa rara, specialmente se vi si può innestare una ragio-
ne politica. Ecco un caso tipico: pochi giorni fa in una
colonia importante vennero arrestate in massa una quan-
tità di persone, fra le quali capitarono dei commercianti,
due giornalisti, un notaio, il collettore delle imposte e
persino un ex-commissario di polizia, e vennero per or-
dine speciale rinchiuse nella cella destinata agli accatto-
ni. Il giorno dopo seppero d’essere accusate di disordini,
ubbriachezza ed altre cose.... multabili (telegrammi da
111
Chos-Malal 25 marzo).
Il diciannove di marzo un italiano ha ricorso al nostro
ministro a Buenos Aires per essere stato arrestato nella
Pampa Centrale, detenuto otto mesi senza ragione, e de-
rubato dalla polizia di cinque cavalli e di tutte le sue
mercanzie.
*
* *

Qualche volta capita di peggio; per esempio, di restare


in segregazione cellulare per dieci e anche quindici gior-
ni dimenticati. E peggio ancora, di essere bastonati o fe-
riti. Cito qualche esempio recente. A Rosario tre giova-
notti italiani, dei quali uno ex carabiniere da poco in
congedo, mentre conversavano sopra un marciapiede, si
sono visti arrestare, senza saperne il perchè, e condurre
alla Commisseria, dove – dopo la solita perquisizione –
sono stati segregati in tre celle separate «condottivi a
forza di calci e di pugni.» Poi un ufficiale di polizia «li
ha sottoposti a nuovi e più duri trattamenti arrivando
fino ad usare la daga d’uno dei vigilanti, con la quale a
casaccio, in un impeto d’ira, percosse ripetutamente uno
di quei tre malcapitati producendogli lesioni d’una certa
gravità. Il poveretto cercò di reagire, ma si vide ridotto
all’impotenza da diversi agenti. L’ufficiale poi ordinò
non fosse loro somministrato nessun cibo e che alla ben-
chè minima lagnanza fosse loro risposto con la violenza.
Dopo trentasei ore di quel martirio furono posti in liber-

112
tà tutti sanguinolenti e malconci.» (Dalla cronaca della
Republica di Rosario). La Patria degli Italiani confer-
mava il fatto. Il console italiano ha potuto comprovare i
maltrattamenti e un telegramma alla Patria aggiungeva
che «il console continuerà nella energica sua attitudine
di protesta».
Non più tardi del passato aprile cinque arrestati a Rosa-
rio, dipartimento Belgrano, sono stati bastonati dai com-
missarî al punto che uno dei disgraziati è stato ridotto in
gravi condizioni, senza conoscimento e senza favella.
Un corrispondente della Prensa ha scritto da Belleville
sulla abituale crudeltà di quella polizia. «Gli arrestati
sono condotti a bastonate alla polizia; si arriva anche a
ferirli; ieri un guardafili arrestato senza causa giustifica-
ta venne condotto a bastonate alla Commisseria, niente
altro che per fare ostentazione di rigore.»
A Santiago del Estero la polizia «contando sull’impunità
delle sue colpe» – come ha scritto la Prensa – ha preso a
sciabolate un povero diavolo perchè aveva rimproverato
il commissario d’avergli avvelenato il cane; poi ha preso
a sciabolate due suoi amici che l’accompagnavano, co-
nosciuti come oneste e laboriose persone, ferendo tutti e
tre, dei quali uno mortalmente alla testa. È comunissimo
leggere nella cronaca dei giornali di «arresti in forma
vessatoria e violenta»; questo significa a pugni e basto-
nate. Ho sott’occhio un rapporto di polizia – riportato
dalla Capital di Rosario, giornale governativo – nel qua-
le le parole bastonazos y machetazos – bastonate e pu-
gni – vengono quasi a far parte del linguaggio d’ufficio.
113
Pochi giorni or sono un vecchio e onorato commerciante
italiano in Azul, è stato arrestato nella solita forma ves-
satoria violenta, e poi liberato senza la minima spiega-
zione. Notizie di questo genere arrivano da tutte le pro-
vincie. Alcuni arrestati presso a Chos-Malal da soldati
di linea, che compiono dei servizî di polizia, come so-
spetti di furto, sono stati detenuti nove mesi, durante i
quali hanno subìto delle vere torture per essere costretti
alla confessione. Si è giunti a dar loro fino a cinquecen-
to frustate. Una delle vittime è stata assoggettata al si-
mulacro dello scannamento che le ha lasciato nel collo il
segno del coltello; ed una donna creduta complice è sta-
ta spogliata in presenza dei soldati e sospesa per i piedi
con una corda. Queste le denunzie che la Prensa riporta-
va. Alla Rioja un povero pazzo preso dalla polizia è sta-
to legato con le mani e con i piedi ad una grossa sbarra
di ferro, e poi sospeso ad una pianta di gelso che si trova
nel cortile della Commisseria. (Giornali del 25 gennaio).
*
* *

La violenza della polizia diviene alcune volte estrema.


Un telegramma laconico da Sant’Antonio (Catamarca)
del 15 aprile diceva: «Domenica dalla polizia locale è
stato assassinato il giovane E. M. con un colpo di re-
mington, senza motivi noti. Si crede ad una vendetta
premeditata.» Soltanto qualche giorno prima un com-
missario aveva ammazzato a revolverate due marinai ad

114
Uruguay in Entre Rios. (Giornali del 12 e 13 aprile).
Alla fine dello scorso marzo la polizia di Bahia Blanca
ha assalito alcuni operai italiani inermi al grido di mue-
ran los gringos, ne ha ferito quattro a sciabolate, ed ha
inseguito gli altri fin nelle case e nelle botteghe insul-
tandoli, facendo arresti a casaccio, conducendo in pri-
gione persino due feriti, uno dei quali in istato grave. Le
inchieste ufficiali hanno negato questi fatti, che però
sono attestati da testimonianze inconfutabili e da una
protesta firmata da quarantatre commercianti di Bahia
Blanca appartenenti a varie nazionalità. I commercianti
di quella città sono cinquantadue.
A Corrientes, nella colonia Bella Vista, un giovane, che
dal nome sembrerebbe italiano, è stato anche lui assassi-
nato dalla polizia. Il telegramma pubblicato dalla Pren-
sa diceva così: «Il giovane tornava da un ballo con un
fratello. Un ufficiale e un sergente di polizia lo raggiun-
sero per via e il sergente gli diede la morte.»
In questi casi spesso le autorità superiori iniziano delle
inchieste, la giustizia se ne impadronisce, ma la cosa fi-
nisce così quasi sempre, con un po’ di rumore. Dopo
qualche anno i giudici dichiarano che per il tempo tra-
scorso è impossibile fare la luce, e buona notte. Alcuni
agenti di polizia di Trenque Lanquen sono stati così re-
centemente liberati dalle accuse di usurpazione d’autori-
tà, brigantaggio, stupro, furto e usurpazione d’immobili,
le vittime dei quali furono dei contadini della colonia La
Luisa, di nazionalità francese. Ho sotto gli occhi i rap-
porti pervenuti al ministro di Francia, che fanno fremere
115
d’orrore e d’indignazione. «C’est la Justice condamnée
par les juges eux-mêmes!» – scrive nei suoi commenti
Le Courrier de la Plata, organo della collettività france-
se.
E pensate che non tutte le vittime della polizia hanno il
coraggio se non la possibilità di avanzare i loro rapporti.
Pensate che vi sono tanti gridi di dolore che si perdono
inascoltati nell’immensità della Pampa!
Che difesa può rappresentare per la società questa poli-
zia che fra pochi buoni elementi contiene tanto marcio?
Un giornale di Santiago del Estero – dove i reati sono
comunissimi – El Siglo, giornale che cito a preferenza
fra tanti perchè non tacciabile certo d’avversità al Go-
verno – dimostra la parte che ha la polizia nello svilup-
po della criminalità, non fosse altro per la sua passiva
condotta di fronte al delitto, conseguenza inevitabile
della sua disorganizzazione. La polizia non si cura tal-
volta nemmeno di eseguire le constatazioni del delitto.
«La garanzia della vita e della proprietà delle popolazio-
ni rurali – dice El Siglo – va facendosi ogni giorno più
illusoria, al punto che non si prende alcuna misura per la
persecuzione e la punizione dei colpevoli, i cui crimini
hanno per teatro gli stessi sobborghi di questa capitale.»
El Municipio di Rosario ha scritto: «Basta percorrere i
centri rurali e conversare con gli abitanti autorevoli, per
darsi conto che la vita laboriosa e onorata si è fatta im-
possibile per il predominio degli elementi nocivi che
commettono le maggiori ferocie senza che nessuno li
molesti.»
116
Ma anche se una tale polizia proteggesse le popolazioni
dai criminali, che mai le proteggerebbe poi dalla... poli-
zia?
È giustizia riconoscere che fra le quindici polizie argen-
tine quella di Buenos Aires è di gran lunga migliore, e
rappresenta un’eccezione lodevole. Da qualche anno è
stata organizzata su modelli europei. La vita internazio-
nale della grande metropoli ha avuto un’influenza sui
costumi; la lotta politica ha preso in quell’ambiente va-
stissimo forme meno primitive e meno brutali, e la poli-
zia si trova ricondotta a poco a poco al suo naturale uffi-
cio di strumento della giustizia. Va rientrando nella le-
galità. Non vi è ancora rientrata del tutto, perchè anche a
Buenos Aires, a dire il vero, avvengono qualche volta
arbitrî e abusi polizieschi; ma sono un nulla in confronto
agli orrori ed errori delle polizie gauchas delle provin-
cie.
E se si potesse fare il bilancio di quanto costano alle
operose, infaticabili ed umili popolazioni rurali quegli
errori e quegli orrori, quanto denaro, quante lacrime, e
quanto sangue italiano!...

117
L’ESERCITO ARGENTINO.12

Negli ultimi giorni dello scorso anno, mentre la questio-


ne argentino-cilena prendeva un aspetto minaccioso,
tanto che la guerra si credeva da alcuni imminente, in-
viai da Buenos Aires una corrispondenza sopra l’eserci-
to argentino. La probabilità della guerra rendeva l’argo-
mento della massima attualità; ma nello stesso tempo
poteva sembrare inopportuna la pubblicazione di criti-
che sopra un esercito alla vigilia forse della sua entrata
in campagna, e credetti mio dovere di far sospendere
quella pubblicazione.
Ora l’orizzonte è schiarito; sulla Cordigliera delle Ande
brilla l’arcobaleno. Un telegramma del 1 giugno al Ti-
mes comunica che una convenzione è stata stabilita fra
le due Repubbliche rivali, per la quale si limitano gli ar-
mamenti navali fino alla eguaglianza delle due flotte ar-
gentina e cilena, facendo inoltre assicurazioni di politica
pacifica che non possono essere accolte senza una vera
soddisfazione da noi italiani. Ma gli accordi stabiliti non
accennano agli armamenti terrestri, e un telegramma
della Stefani da Parigi ha annunziato ieri che l’Argenti-
na ha ordinato armi in Germania per ottanta milioni.
Adesso è dunque doppiamente opportuno un esame
spassionato dell’esercito argentino al quale sono inerenti
gravi problemi finanziarî e politici. Oggi le spese milita-
12 Dal Corriere della Sera dell’8 giugno 1902.

118
ri aprono grandi breccie nel non florido bilancio
dell’Argentina, e noi che abbiamo il più legittimo desi-
derio della prosperità della Repubblica, non possiamo
disinteressarcene; e nello stesso tempo non possiamo di-
sinteressarci dal conoscere fino a quale punto
quell’esercito risponda alle condizioni di garanzia per la
tranquillità e la sicurezza della Repubblica, che è la
tranquillità e la sicurezza di tanti nostri connazionali.
*
* *

La probabilità d’una guerra risveglia in ogni pacifico


cittadino l’animo d’uno stratega. Sorgono legioni formi-
dabili di profeti militari, i quali muovono compatti le
prime ostilità... al buon senso. Così per la possibile
guerra fra il Cile e l’Argentina non mancavano critici
militari che facevano ogni giorno la più abbondante di-
stribuzione di vittorie e di sconfitte.
Nulla in verità è poi più difficile di un giudizio sopra
una guerra come questa, nella quale ogni belligerante
avrebbe da lottare con enormi difficoltà opposte dalle
distanze, dalla conformazione territoriale di probabili
campi di battaglia, dalla lunghezza sterminata delle li-
nee di comunicazione, dalla impossibilità di regolari
servizî logistici. L’inaspettato e la sorpresa avrebbero in
una tale guerra una parte molto importante. Avevano
torto coloro che prevedevano l’arrivo dei cileni sulla
Plaza de la Victoria di Buenos Aires, come coloro che

119
predicevano il bivacco degli Argentini per le vie di San-
tiago. Le condizioni nelle quali si svolgerebbe una tale
campagna, che sarebbe stata lunghissima e fortunosa,
potrebbero togliere valore alla affermata superiorità
dell’organizzazione militare cilena e neutralizzare i di-
fetti della difesa argentina.
Ciò non toglie però che questi difetti esistano, e che a
noi europei specialmente si rivelino con maggiore cru-
dezza per il paragone che istintivamente facciamo fra
questo esercito ed i nostri.
Il sentimento militare nelle nostre nazioni ha preceduto
tutti gli altri, persino quello della nazionalità, perchè è
nato prima che nascessero le nazioni. Noi siamo stati
popoli essenzialmente guerrieri; ci siamo tagliati le no-
stre patrie a colpi di spada; la guerra è stata la più nobile
delle nostre occupazioni – a torto o a ragione, non di-
scuto – ; per secoli abbiamo considerato la guerra come
l’unica fonte di ogni onore; la nobiltà non poteva nasce-
re che fra lo strepito delle battaglie, e per le battaglie è
vissuta fino ad oggi. Portare la spada è stato un privile-
gio ambìto, e i segni di onorificenza che anche oggi ren-
dono tanto fieri i nostri imbelli soprabiti borghesi non
hanno origine che nella guerra. L’esercizio delle armi è
stato da noi sempre riconosciuto come fra i più eletti, e
l’esercito è divenuto poi oggetto di ogni onore e di ogni
amore quando il popolo tutto è stato chiamato a combat-
tere nelle sue file le più sante battaglie; l’esercito è dive-
nuto tutta una cosa, tutta una carne col popolo.
Nell’America no; il sentimento militare è l’ultimo arri-
120
vato fra i sentimenti del popolo. Si è formata una società
di politicanti, commercianti, industriali, agricoltori, la
quale quando ebbe bisogno di un esercito se ne assoldò
uno, come si assolda un guardiano, componendolo di
tutti coloro che non avevano o non potevano far di me-
glio. L’on. Belin Sarmiento, deputato federale, nipote
del grande statista argentino Sarmiento, in una pubblica-
zione fatta nel 1892, ci dipingeva i soldati d’allora come
«provenienti dallo scolo degli elementi sociali che non
trova altra uscita, uomini indegni della vita civile, molti
avventurieri, déclassés, indiani incapaci al lavoro e per-
sino criminali». Si comprende in quale considerazione
nell’opinione pubblica doveva esser tenuto questo eser-
cito e in quale disdegno per il militarismo sia cresciuto
il popolo argentino. Dio mi guardi dal discutere se que-
sto sia un bene o un male; se la mancanza del fardello
delle tradizioni militari – dalle quali pur sgorga quello
spirito di disciplina che compagina le forze e le volontà
– renda realmente più leggero un popolo sulle vie del
progresso. Constato dei fatti e nulla più. I nuovi popoli,
anche senza il militarismo, pare che si odiino precisa-
mente come i vecchi.
L’anima collettiva argentina, pronta sempre agli entusia-
smi, alla presunta vigilia d’una guerra, inneggia all’eser-
cito; ma nel sentimento individuale le diffidenze, le pre-
venzioni e la poca simpatia persistono, e ciò forma oggi
il maggiore ostacolo alla buona organizzazione della di-
fesa nazionale. Una legge sulla coscrizione militare è
ora in vigore, ma i risultati non sono certo soddisfacenti,
121
perchè non è penetrato nello spirito di tutto il popolo – e
non lo potrebbe essere – il sentimento del dovere milita-
re, perchè sottrarsi all’obbligo di far parte dell’esercito
non è sempre considerato indegno e vergognoso, perchè
chi può eludere la legge troppo spesso la elude senza
che senta gravarsi intorno il disprezzo del popolo, che
potrebbe essere il più potente stimolo al compimento del
dovere. La legge è benigna, le autorità sono clementi, la
rilassatezza e l’indifferenza generale sanzionano tutto.
*
* *

Due altri mali antichi affliggono l’esercito, e sono la po-


litica e la speculazione – i due mali del resto che rodono
la Repubblica intera. Per la politica, l’esercito non è ri-
sultato uno strumento di difesa nazionale; il nemico
esterno è stato perduto di vista nella preoccupazione del
nemico interno.
Nella lunga serie delle rivoluzioni l’esercito ha sempre
preso parte attiva con i suoi pronunciamientos, dimenti-
cando il suo alto ufficio, e distruggendo a colpi di can-
none la sua compagine.
Per la speculazione, l’esercito, divenuto campo di sfrut-
tamento, è costato somme favolose, restando male equi-
paggiato e male organizzato. Nella citata opera del Belin
Sarmiento trovo questo dato ufficiale: il costo del solda-
to argentino era nel ’92 di 2025 pesos all’anno; le cose
non sembrano molto cambiate poichè, non contando la

122
farraggine delle spese straordinarie, il soldato argentino
costa oggi sui tremilaottocento franchi all’anno, cifra
enorme se si pensa che il soldato europeo costa in media
meno di mille lire all’anno. Come mai?
Non è facile immaginare il saccheggio della speculazio-
ne nei bilanci della guerra. Partite di cavalli e di muli
pagate effettivamente la metà meno dei prezzi che figu-
rano pagati (un fatto simile è stato denunciato il 12 apri-
le da due giornali), forniture di sellerie e di armi fatte a
prezzi disastrosi, somme rilevanti passate in tramitacio-
nes per ottenere contratti di forniture, ecc. A capo
dell’amministrazione del Ministero della guerra vi è un
«intendente di guerra», impiegato borghese. Ora, non
tutti gl’intendenti sono stati di una regolarità scrupolosa;
ve ne sono stati di quelli che hanno preso percentuali di
discutibile legalità sugli affari di forniture e di altro,
senza misteri, ritirandosi dopo due o tre anni con delle
vere fortune. (È doveroso dire che il presente intendente
di guerra gode fama di uomo onesto; ma certi suoi pre-
decessori!...).
Il giornale El Diario, qualche anno fa, con una serie di
articoli – che si è saputo scritti da persona assai adden-
tro in questioni militari – ha rivelato molti mali che
bruttano l’esercito argentino. Pare persino che vi siano
talvolta dei fornitori imposti «per ordine» ai colonnelli.
Un colonnello che si rifiutò ad una tale obbedienza sa-
rebbe stato punito inviando il suo reggimento a soffrire i
rigori di cinque mesi d’inverno nelle regioni andine,
senza equipaggiamenti e senza vestiario invernale!
123
L’esercito, come disgraziatamente tante altre istituzioni
argentine, è stato considerato una specie di greppia, alla
quale con un po’ d’influenza si poteva fare una mangia-
tina. E a furia d’influenze e di appoggi non è stato diffi-
cile a molti persino di ottenere le spalline. A questo si
deve in grande parte se l’esercito argentino, composto
d’un effettivo di 8691 uomini, ha l’onore d’essere co-
mandato da ventisette generali (senza contare tutti i ge-
nerali fuori di attività di servizio), da quattrocentoquat-
tordici colonnelli, da duecentoquarantasei maggiori –
notate la decrescenza – da centosettanta capitani, quat-
trocentocinquantasei tenenti e duecentosessantuno sotto-
tenenti. Totale 1575 ufficiali in attività, fra i quali i co-
lonnelli sono due volte e mezza più numerosi dei capita-
ni, ed i sottotenenti quasi eguali in numero ai maggiori.
Ciò significa un ufficiale per ogni cinque soldati... e
mezzo.
È facile comprendere il valore di questa massa di co-
mando. Eccettuati un quindici o venti ufficiali superiori,
molti dei quali di sangue straniero, veramente colti e
moderni, licenziati da scuole militari europee – e spe-
cialmente italiane – e un buon gruppo di giovani pro-
mettenti, il resto, nella buona maggioranza, sarà formato
da eroi capaci di farsi ammazzare senza batter ciglio – e
lo hanno qualche volta dimostrato – ma digiuni di scien-
za militare, e spesso anche... civile. È noto un vecchio
colonnello che non sa nè leggere, nè scrivere. Firma col
timbro, come Carlo Magno. L’uso della carta topografi-
ca risulta per molti antichi ufficiali un vero rompicapo
124
cinese, davanti al quale capitolano esclamando: Es mas
practico el baequiano! – È più pratica la guida!
*
* *

Naturalmente i giovani, i moderni, si trovano in lotta


con i vecchi. Formano il partito dei riformatori, capita-
nato dallo stesso ministro della guerra Ricchieri – di ori-
gine italiana – uomo di vedute ampie e di solida coltura,
dal quale l’esercito aspetta salvezza. Ma i «giovani»
sono alla loro volta divisi fra i «figli del paese» e gli
stranieri ed i figli di stranieri!... Ne vengono continue
polemiche, critiche acerbe che si trascinano sulle colon-
ne dei giornali, con evidente nocumento della disciplina.
E questa benedetta disciplina sarebbe tanto necessaria in
un esercito, che, come l’argentino, conserva ancora una
parte degli elementi torbidi, dei quali parlava l’on. Belin
Sarmiento, formata in maggioranza da indiani e meticci.
Non bastano a mantenere la disciplina le crudeli pene
corporali che si applicano con frequenza e spesso con
eccessiva durezza.
All’indisciplina concorre in parte il regime di vita del
soldato, la libera uscita che ottiene alla notte, durante la
quale non di rado si ubbriaca. I soldati escono senza le
armi, ma hanno quasi tutti il coltello infilato negli stiva-
li, pronto ad uscir fuori quando il vino o la caña anneb-
biano la mente. Tornano al quartiere insofferenti del gio-
go disciplinare, stanchi, impreparati alle dure esercita-

125
zioni della milizia.
Un’altra causa d’indisciplina è la donna. Come il Crea-
tore commosso dalla noia d’Adamo gli diede la donna,
il Governo argentino ha dato la donna al suo soldato.
Forse lo guidò l’idea d’evitare peggiori insubordinazio-
ni, a meno che non sia stato invece il legittimo e antico
desiderio di aumentare la popolazione con i... «fils du
régiment!» I reggimenti fuori della Capitale hanno cin-
quanta e quelli di Buenos Aires dieci, diciamo così... at-
tachées militari, le quali vivono nel recinto della caser-
ma, o a cinquanta metri dall’accampamento, seguendo i
soldati ovunque.
Questa istituzione dovuta certo ad un resto di uso india-
no – poichè le donne si trovano in tutte le armate primi-
tive – portata nell’esercito argentino dai numerosi india-
ni che vi hanno fatto parte, è fomite di mali disciplinari,
sui quali è degno sorvolare.
Molto gravi sono le conseguenze di tutte queste svariate
cause. Il soldato argentino è generalmente capace di co-
raggio e di audacia, ma non ha sufficienti doti militari.
Marcia pochissimo, e sarebbe appunto la marcia, in una
guerra fra la Pampa, l’arma più formidabile. L’artiglie-
ria, creazione nuova, libera dei tristi mali originali, è
buona. La cavalleria non riceve quasi istruzione di ma-
neggio, non conosce il servizio d’esplorazione, che sa-
rebbe il suo primo còmpito, e questo avviene anche per-
chè, in un paese di cavalli, la cavalleria non ha sempre i
cavalli! I reggimenti della Capitale, si può dire che siano
i soli regolarmente montati; quelli ai confini normal-
126
mente sono... a piedi. Quando c’è necessità si manda
loro una cavallata – una mandria – si montano, e via!
Il Commissariato è allo stato embrionale; i servizî logi-
stici non sono organizzati. Le condizioni dell’esercito
scemano il valore delle cifre nei quadri della difesa na-
zionale. Ai dodici battaglioni di fanteria, agli undici
squadroni di cavalleria, alle sei batterie di artiglieria che
comprendono 8691 soldati, si aggiunge la fantastica ci-
fra di 438,894 uomini della Guardia Nazionale, ma tra
mausers, remington e carabine non vi sono armi che per
la metà circa, riducendosi così alla metà anche il valore
numerico.
L’Argentina deve preoccuparsi seriamente di questo
esercito che le costa tanti e tanti denari, deve rintraccia-
re le vere cause dei suoi mali e delle sue deficienze per
sanarli.
E qui viene naturale il paragone fra l’esercito argentino
e la marina. La marina, sorta da poco, non ha tabe origi-
nali, non ha sofferto per le vicissitudini delle ingloriose
lotte politiche. Ha avuto una direzione omogenea ed una
organizzazione senza troppi rimpasti, dovute alla mente
del Rivadavia che fu molto coadiuvato dall’italiano Mu-
scari. Per quanto anche qui si riscontrino errori e colpe
di dolorosa memoria, tuttavia il progresso è rapido e si-
curo. Una marina non s’improvvisa, perchè non bastano
le navi formidabili quando mancano gli uomini da met-
tervi sopra: e la marina argentina ha bisogno ancora di
tempo per creare tutti gli uomini che le necessitano, per
non ricorrere, come ora, al personale straniero. Ma la
127
strada che essa ha rapidamente percorso è certo una
buona garanzia per l’avvenire suo.
Il paragone fra le forze di terra e quelle di mare ricorre
molto sui giornali argentini. «Perchè – domandavasi
giorni sono la Prensa – le nostre forze di terra decado-
no, mentre si migliorano invece le navali?»
Si potrebbe rispondere forse con le sue stesse parole:
«Perchè la marina ha la fortuna di stare in un campo
dove non ci sono governatori, nè elezioni. La sua in-
fluenza si salva dal contagio corruttore della oligarchia,
e può svolgere intanto le sue attitudini, e perfezionarsi!»

128
IL LUSSO NELL’ARGENTINA.13

Il popolo criollo, che si trova quasi estraneo alle assor-


benti cure del lavoro, che ha a portata delle sue mani le
facili ricchezze alimentate dalla inesauribile sorgente
del lavoro straniero, che – con un’esagerazione che le
teorie dell’atavismo giustificano – ha ereditato dai suoi
padri spagnuoli insieme alle virtù della fierezza e
dell’orgoglio anche i difetti della tendenza spendereccia,
della manìa delle apparenze, dell’amore alle grandiosità
– come ha ereditato dalle antiche madri aborigene la
passionalità e la dolce mollezza – non poteva resistere
alla piacevole malattia del lusso. «Il lusso sterile si è su-
bitamente introdotto nei nostri costumi – ha scritto un
saggio argentino – ; ma la ricchezza male acquisita va
lasciando dietro di sè molte rovine morali; poichè l’oro
è come l’acqua d’un fiume, che desola e rovina se inon-
da subitamente, mentre porta in ogni dove la fecondità e
la vita se giunge lentamente per mille condotti.»
In trenta anni o quaranta dalla tradizionale semplicità
della vita campesina si è giunti al più assurdo lusso, as-
surdo perchè il meno sapiente, un lusso che si è infiltra-
to a poco a poco in tutte le classi, che si rivela negli atti
più semplici della vita, che è divenuto quasi una neces-
sità. Nelle epoche dei grandi guadagni e delle specula-
zioni colossali, che sono così recenti e sembrano favolo-
13 Dal Corriere della Sera del 12 giugno 1902.

129
se, si sono create delle abitudini che resistono tuttavia, e
resisteranno pur troppo fino a che sarà facile sacar plata
– trovar denari – a chi ha il privilegio di vivere
nell’immensa rete dell’intrigo politico.
Il primo sintomo caratteristico della malattia del lusso,
lo straniero l’osserva appena sbarcato, prima di vedere e
sapere nulla, niente altro che allo scorgere il modo con il
quale l’argentino porta in tasca il suo denaro. Noi abbia-
mo la meschina abitudine del portafoglio che, se i borsa-
ioli lo rispettano, serve a conservare i nostri biglietti di
banca ben piegati e classificati. Qui il portafoglio per il
denaro è una gretteria che fa sorridere di disprezzo fin
l’ultimo almacenero; l’argentino porta la sua carta mo-
netata insaccata nelle tasche dei pantaloni. Qualunque
somma è portata così, come il fazzoletto. Per pagare si
tira fuori un pugno di biglietti, se ne getta uno tutto spie-
gazzato al venditore con un’inimitabile aria di disdegno,
e si ripone il resto con noncuranza nella solita tasca, pic-
chiandoci sopra un colpetto per diminuirne il volume.
Questa strana ostentazione di disprezzo per il denaro,
forma una caratteristica argentina veramente rivelatrice.
È una questione di amor proprio, di orgoglio curiosa-
mente sentito; in fondo è una contraddizione patente che
costa molto e che forma da sola una delle principali spe-
se di lusso. Non si guarda alla spesa purchè il gesto sia
bello. C’è sempre una certa ricerca dell’effetto. Ho visto
una sera in un caffè a Buenos Aires un giovanotto, un
compadrito (teppista elegante), il quale, ferito alla testa
da una bastonata consegnatagli da un suo buon amico, si
130
asciugava la ferita con biglietti da un peso – i più cor-
renti – che gettava via insanguinati, e questo perchè non
aveva un fazzoletto. Era sublime; ma certo quel bravo
ragazzo avrebbe semplicemente domandato una salviet-
ta al cameriere se nessuno fosse stato lì a guardarlo.
Al caffè, al restaurant, se si è in un gruppo di amici, è
sempre uno che paga per tutti, per legge inviolabile. Si
va al teatro in comitiva? Chi è più vicino allo sportello
dei biglietti compera le poltrone, gl’ingressi, i program-
mi per tutti; e guai allo straniero che tenta il modesto
rimborso. Il più umile impiegato della municipalità pone
le mani in tasca con l’aria di un Grande di Spagna; salvo
poi, tornando a casa solo, a fare i conti sotto un lampio-
ne di quanto costa la grandiosità.
Ho cominciato dall’accennare a queste minuzie perchè
sono sintomatiche, e fanno già comprendere il carattere
del lusso argentino. Non è il lusso d’un paese che col
migliorare delle sue condizioni economiche sente au-
mentare i bisogni e si adatta progressivamente ad un
maggiore comfort; il raffinamento della sensibilità in un
popolo ha un processo molto lento, e la prosperità ar-
gentina sorse in pochi anni d’affari tumultuosi. È il lus-
so sterile di chi spende per spendere, per «figurare», di
chi poco conosce il costo del denaro; ed è il lusso più
pericoloso perchè non ha una norma fissata dal livello
dell’intellettualità del popolo, la quale ha un limite, ma
è invece regolato dall’ambizione e dallo snob che non
hanno limiti.
La conseguenza principale – dal nostro punto di vista di
131
stranieri cointeressati – è uno sperpero inutile d’enormi
ricchezze, il quale fatalmente non può non indebolire le
resistenze morali alla corruzione. Ricercando le cause
dei mali argentini, per i quali tanti italiani soffrono, non
possiamo tralasciare il lusso, e tutto quanto il lusso si
trascina appresso, le cui conseguenze materiali e morali
sono vaste e profonde.
*
* *

Il lusso infesta tutti i campi, come una splendida ortica,


e vegeta persino sul bilancio di Buenos Aires. La Capi-
tale si comporta come una signora un po’ civetta, la qua-
le comperi un cappellino che costa un occhio a chi.... lo
paga, per la sola ragione che qualche amica ne ha com-
perato un altro. Si fanno boulevards perfettamente inuti-
li perchè Parigi ne ha; si creano parchi e giardini dispen-
sabilissimi per non essere al di sotto delle grandi capita-
li; si gettano milioni in un giardino zoologico, dove le
scimmie abitano villini arabi e i leoni dimorano in tempî
greci, solo per poter dire che il Zoo di Londra non è così
bello; facendo un grande serbatoio d’acqua potabile si è
voluto che la costruzione rappresentasse un grandiosis-
simo palazzo del rinascimento francese, tutto ricoperto
di maioliche inglesi, spendendo due milioni e mezzo per
la pura e semplice ornamentazione. Non si è mai pensa-
to che tutta la popolazione dell’Argentina non arriva a
cinque milioni e che un popolo di cinque milioni deve

132
spendere un poco meno di quelli sette o otto volte più
grandi; si è detto e scritto che Buenos Aires avendo qua-
druplicato il numero dei suoi abitanti in ventotto anni,
«raddoppia di popolazione ogni quattordici anni», e non
si è pensato all’assurdo di una tale premessa, secondo la
quale fra cinquanta anni Buenos Aires dovrebbe avere
dieci milioni di abitanti. Si è speso sempre basandosi sul
fantastico, ipotecando un lungo avvenire, senza far mai i
conti con le risorse del paese, ripetendo eternamente che
il paese è vasto e ricco e che pagherà tutto. L’importante
è che Buenos Aires mantenga il suo posto di «segunda
ciudad latina del mundo» – la prima, si sa, è Parigi – e
poco preme che le finanze si rovinino, che i debiti cre-
scano in proporzioni spaventose. Nulla importa purchè
«il gesto sia bello»! La collettività fa lo stesso lusso
dell’individuo, sterile, inutile lusso, in modo assurdo e
sproporzionato alla potenza finanziaria del paese.
L’apparenza è tutto. Quel serbatoio d’acqua potabile di-
venta quasi un simbolo: il simbolo della esteriorità ar-
gentina. Un ricchissimo sfarzoso castello scintillante di
ceramiche policrome, all’esterno; all’interno... acqua
potabile!
Non si fa del lusso in proporzione a ciò che si è, ma a
ciò che si vuol parere; lusso esagerato negli edifici, ne-
gli arredi, negli abiti, in ogni cosa. Non si ha idea, per
esempio, delle somme che si spendono laggiù per le toi-
lettes. La stagione dell’Opera viene preventivata venti o
trentamila pesos nelle famiglie della buona società. Nei
negozî principali di mode si ottengono delle rivelazioni
133
interessanti sulle spese femminili. Conti di quaranta e
cinquantamila pesos sono pagati correntemente dalle si-
gnore, cioè volevo dire dai mariti, dell’aristocrazia por-
tegna. Tutto quanto è moda costa caro perchè tutto è im-
portato. Parigi, questa fata morgana dell’Argentina ele-
gante, assorbe per le sue mode e i suoi gingilli, in pro-
porzione, due volte e mezza più di ricchezza dal Sud
che dal Nord-America. Ah! quella Parigi si è fatta una
gran clientela di repubbliche, esportando i diritti
dell’uomo e poi i.... cappellini della donna!
Non parliamo di quanto si spende in feste, feste pubbli-
che, private, religiose, di beneficenza; non parliamo del
lusso nei clubs, nei teatri, in ogni dove. Vi è in tutto
questo qualche cosa d’una immensa mise en scene; si
sente il fittizio.
Le spese eccessive portano un dissesto endemico nei bi-
lanci domestici, che vengono a rispecchiare così il bi-
lancio dello Stato in proporzioni ridotte. Lo sperpero
cieco del denaro conduce per conseguenza ad una caccia
altrettanto cieca al denaro, la quale ha per forma più
mite il giuoco. La questione del giuoco è così grave che
ora tutta la stampa argentina unanime a grandi gridi ne
invoca la estirpazione. Ma non è con dei saggi articoli di
fondo che, specialmente ora, potrà svellersi la mala
pianta del giuoco, i cui sottili viticchî, si può dire, av-
volgono ogni anima.
La folla giuoca alla «loteria nacional» – che è una spe-
cie di lotto colossale – con un accanimento incredibile.
Le corse di cavalli offrono un altro sfogo alla manìa del
134
giuoco. Vi sono a Buenos Aires sopra a trecento agenzie
dette «casas de sport», specie di totalizzatori, dove tutti
corrono a giuocare sopra i risultati delle corse che hanno
luogo una volta alla settimana all’Ippodromo; e notate
che queste «casas de sport» sono colpite da una tassa
proibitiva di duecentomila pesos all’anno. Queste agen-
zie ricevono per ogni giorno di corsa 180,000 giuocate.
100,000 ne riceve il «Jockey Club» sul campo delle cor-
se, e ciò porta ad un totale di circa mezzo milione di pe-
sos per giornata, ossia ventiquattro milioni di pesos
all’anno, eguali a sessantadue milioni di lire circa (gior-
nale El Pais, 28 marzo). Sessantadue milioni puntati
dalla sola Buenos Aires in un solo giuoco d’azzardo!
*
* *

Ma il giuoco che ha le conseguenze più disastrose per il


paese è quello di Borsa. Alla Borsa di Buenos Aires si
giuoca accanitamente. Le oscillazioni nei cambî prodot-
te dalla speculazione mettono spavento; si è visto il
cambio dell’oro passare da 240 (ossia che ci vogliono
240 pesos in carta-moneta per ogni 100 in oro), a 238,
poi a 241 e infine a 246 tutto in uno stesso giorno. Im-
maginate quali liquidazioni! Questo giuoco si basa sulla
politica. Durante la questione col Cile si sono visti dei
gelosi segreti diplomatici immediatamente propalati e
discussi sui giornali provocando rialzi dell’oro di molti
punti. Quando un giornale pubblicava un bollettino spe-

135
ciale troppo allarmante, bastava fare alla Borsa
un’inchiesta dissimulata per sapere che il direttore di
quel giornale aveva comperato in quel giorno, per mez-
zo dei suoi agenti, quaranta o cinquantamila pesos
d’oro. Ricordo che quando venne ritirato il ministro ple-
nipotenziario Portela da Santiago, io, con un certo orgo-
glio di pubblicista bene informato, osservai ad un signo-
re mio conoscente, il quale gode relazioni politiche, che
sapevo la notizia dal giorno prima; ed egli mi rispose
sorridendo:
– E io ero prevenuto quattro giorni fa!
– Impossibile!
– Ecco la prova – e mi mostrò il conto del suo agente di
cambio che attestava la compera di non so quante deci-
ne di migliaia di pesos d’oro fatta precisamente quattro
giorni prima.
La speculazione non ha limiti. Con una politica incerta e
convulsa come in generale sono sempre le politiche
americane, col desiderio smodato in troppa gente di pro-
fittare delle occasioni per il proprio interesse, e con
l’aggravante d’una crisi che ha molto assottigliato l’adi-
pe della nazione rendendola più vivamente sensibile alle
variazioni economiche di qualsiasi genere, l’influenza
della speculazione di Borsa così esercitata è veramente
disastrosa. Si sa bene, pur troppo, che in tutte le Borse si
specula, come del resto in tutti gli ippodromi si giuoca;
ma sono la natura e l’estensione del giuoco e della spe-
culazione che qui rendono il male spaventoso. Rovinati
dai cambî, molti negozianti cercano di rifarsi sui cambî,
136
giuocando e alla Borsa di Buenos Aires vi sono niente-
meno che quattromilacinquecento soci; una popolazio-
ne! Le grandi oscillazioni rendono più allettevole il
giuoco; un solo colpo buono può essere una fortuna. Il
giuoco poi per un fatale concatenamento mantiene gran-
di le oscillazioni. Sapendo le grandi somme che
l’Argentina deve pagare all’estero, in oro, per gl’interes-
si dei prestiti non fosse altro, si comprende quanto il
cambio fittizio fissato dalla speculazione sia rovinoso.
Senza contare i disastri provocati da ogni liquidazione
un po’ fuori della media prevista, senza contare la sfidu-
cia e il discredito che vanno sempre più circondando
nell’Argentina quanto è materia di finanza!
Che dire poi del giuoco vero, il giuoco classico e genui-
no che si fa intorno al tradizionale tavolo verde? Le bi-
sche sono innumerevoli. La città, i sobborghi, i paesi dei
dintorni, i luoghi di villeggiatura e di bagni sono pieni
di bische. Non ho cifre esatte sulle bische di Buenos Ai-
res, ma si può immaginare quante mai potranno essere,
sapendo che nella piccola città di Cordoba, la città detta
la Santa e anche la Dotta, si conoscono quattrocento-
ventiquattro bische. In proporzione Buenos Aires do-
vrebbe averne diverse migliaia.
Sono queste bische che impensieriscono tanto oggi i Ca-
toni della stampa, dei quali non pochi fanno come quel
padre che, accorso in una casa di giuoco per sorprender-
vi il suo figliuolo scapestrato, e trovatolo ad un tavolo di
baccarà, gli gridò con accento indignato: – Disgraziato,
che fai? perchè, perchè... prendi carta sul cinque? Guar-
137
da come si fa – e si assise severamente al suo fianco.
La stampa non risparmia accuse veramente gravi e pre-
cise alle autorità che dovrebbero sorvegliare alla esecu-
zione della legge, la quale colpisce severamente le bi-
sche come le «casas de sport» con tasse proibitive. Ma
chi ci bada? Il giornale Los Principios è arrivato persino
a denunziare un commissario di polizia come... proprie-
tario di una bisca!
Quanti milioni non passano giornalmente sui tavoli da
giuoco? Non dimentichiamo poi di aggiungere alle bi-
sche i clubs dove si giuoca tremendamente. Cito un
dato: il Club del «Progresso» incassa per le sole tasse di
giuoco, ossia per la sola vendita dei mazzi di carte – il
cui prezzo può variare a seconda l’entità del giuoco fino
a quindici pesos – incassa, dico, dagli otto ai dodicimila
pesos al mese; ossia, in un club solo i giuocatori pagano
più di centomila pesos all’anno (250,000 franchi circa)
per i mazzi di carte. Quale disordinato spostamento di
ricchezze non deve portare un tale giuoco nella società
bonearense?
A poco a poco tutto tende a diventare giuoco, dalle im-
prese alla politica; la via del lavoro è sempre più schiva-
ta come mezzo per raggiungere la prosperità e la ric-
chezza, perchè è una via troppo lunga e aspra e difficile
in confronto delle altre. Si spende rapidamente; è neces-
sario guadagnare rapidamente. Ne viene uno squilibrio
nelle manifestazioni della vita sociale. La compagine
morale della società s’indebolisce: e guai quando si ral-
lenta o cessa di funzionare quel potente regolatore delle
138
azioni umane che è la coscienza!
*
* *

Fra i mali che sono causati dal lusso e dal giuoco ve n’è
uno che a noi interessa di più perchè ha un’influenza di-
retta sulle transazioni di denaro e perciò sugli affari. In-
tendo parlare dell’usura. I saggi d’interesse sono nor-
malmente alti nell’Argentina (l’interesse legale ipoteca-
rio è del 12%) per la richiesta di capitale dovuta al rapi-
do sviluppo della produttività del paese, ma ancora più
per le diffidenze dei capitalisti, per i rischi provenienti
dalla «indelicatezza» commerciale, ecc. Sono poi resi
enormi quando a tutto questo si aggiunge la ricerca di-
sordinata del denaro provocata dal lusso e dal giuoco.
L’usura diventa una cosa normale. Un’infinità di fami-
glie va avanti impegolandosi sempre più nei debiti in at-
tesa della volada – un colpo di fortuna – o di una nuova
pioggia di ricchezze, come nel ’90. Gl’impiegati che
sono al corrente dello stipendio spesso lo scontano ai
primi del mese; quelli che da mesi non lo possono ritira-
re vendono il loro credito verso il Governo la Municipa-
lità per i due terzi o per la metà.
Nel piccolo prestito il 50% si chiama un interesse one-
sto. L’«interesse onesto» però non è comunissimo. Se-
condo le circostanze si vede applicato un tasso dell’80,
del 100, del 200%. L’interesse si calcola a mesi, e si
dice perciò modestamente il 5, l’8, il 10%. Ciò che in

139
realtà è il 60, il 96, il 120%. Pullulano gli ufficî di pre-
stito su pegni e su garanzie che fanno operazioni dal 4 ½
per cento in su (al mese, s’intende). Il male è così vasto
che non si nasconde più. Si «opera» alla luce del sole. Si
vedono degli avvisi agli angoli delle vie, sui giornali,
nell’interno dei tramways, sui siparî dei teatri, che dico-
no: «Dinero! Dinero! Chi ha bisogno di denaro vada in
via tale, numero tale, ecc., succursali in tutta la città».
Sono stabilimenti molto riconosciuti! La réclame appli-
cata all’usura è l’ultima parola del progresso. L’usuraio
diventa una persona per bene, un essere rispettabile e ri-
spettato, bene accolto. Se ne incontrano per tutto, nei
clubs, nelle Società e persino nelle redazioni dei giorna-
li. Alla domanda: Chi è quel signore? – vi rispondono
con indifferenza: uno strozzino – come vi dicessero un
avvocato, un ingegnere, un dottore.
Vedremo, parlando dei nostri connazionali, la rovina che
l’usura porta nella campagna. Le sue conseguenze sulla
prosperità generale sono evidenti.
Il lusso, il giuoco e l’usura formano tre anelli d’una
stessa pesante catena che cinge le braccia della Repub-
blica Argentina. In essi troviamo ancora una ragione
concomitante della gravissima crisi presente, e non certo
la più lieve. E per questo male non v’è che una guarigio-
ne: il lavoro. Il lavoro domina le manìe dissipatrici.
Gl’italiani, nell’Argentina, sono generalmente tacciati
d’avari. Essi conoscono troppo quanto costa il denaro
per poterlo gettare, poichè lo pagano col sudore della
fronte, che è quanto di più sacro e di più prezioso possa
140
dare un uomo!

141
RICCHEZZE E MISERIE.14

Nel mese di aprile l’esodo di emigranti dalla Repubblica


Argentina ha superato l’arrivo di 3032 individui, secon-
do le statistiche dalla Direcion de Emigracion. La diffe-
renza fra i partiti e gli arrivati sembra che aumenti di
mese in mese in proporzione geometrica; il sintomo non
è equivoco; l’Argentina è stata finora uno dei paesi che
hanno assorbito la maggiore quantità di emigrazione eu-
ropea, e debbono essere ben vaste e profonde le pertur-
bazioni che oggi creano un tale rigurgito nella regolare
corrente immigratoria che si era formata.
Questo solo fatto basterebbe a dare la misura delle gra-
vissime condizioni della Repubblica Argentina, le cause
delle quali abbiamo sommariamente e alla meglio rin-
tracciato negli articoli precedenti, esaminando la politi-
ca, il governo, la giustizia, l’esercito e la società di quel-
la giovane nazione.
A queste cause, che sono pur troppo permanenti, si ag-
giungono anche cause occasionali e transitorie – come
ora la deficienza dei raccolti – le quali trovano l’organi-
smo della nazione già spossato, incapace di resistere, e
producono danni enormi, come quelle malattie di stagio-
ne che non danno che un leggero malessere ai forti, e
colpiscono a morte gl’indeboliti. Mi diceva un giorno il
governatore Freyre – il quale è salito da poche settimane
14 Dal Corriere della Sera del 17 giugno 1902.

142
al Governo di Santa Fè con un programma largo di pro-
messe – che «se ci fosse un buon governo nell’Argenti-
na basterebbero soli tre anni di raccolto sopra cinque per
star bene.» Anzi l’eccellente uomo – il quale natural-
mente trovava che il suo governo faceva eccezione alla
regola – dopo un istante di riflessione ha soggiunto che
«due soli anni di buon raccolto ogni cinque sarebbero
tuttavia sufficienti alla prosperità del paese.»
In fondo, salvo l’esagerazione ottimista che ogni uomo
di governo prova in presenza di un giornalista straniero,
egli diceva la verità. Le sciagure argentine vengono da-
gli uomini e non dal paese. Il paese è ricco.
È ricco; ma potrebbe paragonarsi ad una miniera d’oro
in mano a gente inetta e dissipatrice, di una Chartered
che sperperi, che amministri in modo disastroso, che
sfrutti ciecamente la ricchezza, che faccia dei debiti
enormi. Intorno alla miniera d’oro si finirebbe per sof-
frire la fame. E la fame si soffre ora nell’Argentina.
La responsabilità degli uomini che reggono i destini di
quel paese appare più grave ai nostri occhi se si parago-
na ciò che è l’Argentina oggi a ciò che potrebbe essere;
se la tristissima e squallida miseria alla quale centinaia
di migliaia di stranieri sono condannati, si pone a con-
fronto delle prosperità che quella terra avrebbe potuto
dar loro, in meritato compenso dei sudori e delle virtù
che vi hanno prodigato.
*
* *

143
La prima ricchezza dell’Argentina è la vastità. L’Italia
potrebbe esservi contenuta dieci volte; la Germania sei.
Dalle regioni tropicali del Gran Chaco e di Missiones si
svolge fino alle nevi eterne dello stretto di Magellano ed
ai fiords ghiacciati della Terra del Fuoco; quasi tutti i
prodotti della terra potrebbero esservi coltivati. Essa of-
fre tutti i climi e tutte le altitudini. Le sterminate pianure
delle Pampas, quell’oceano di terra, potrebbero offrire il
grano per mezzo mondo. Gl’immensi fiumi Uruguay e
Paranà, il Rio Colorado, e più giù nella Patagonia il Rio
Chubut, il Rio Senger, il Rio Deseado potrebbero ali-
mentare l’irrigazione di territorî sconfinati, e servire di
via ad un immenso traffico fluviale che colerebbe nei
porti marini per ripartirsi sulla terra. Nei boschi impene-
trati del nord, quasi fuori del dominio umano, si celano i
legni preziosi, il cautciù, la china, e nei boschi della
estrema Patagonia e della Terra del Fuoco crescono gli
abeti colossali e i pini che potrebbero essere la grande
riserva dei legnami da costruzione del mondo. È vero
che a dieci leghe da una ferrovia o da un imbarco il va-
lore dei prodotti è assorbito dal trasporto; ma è anche
vero che pochi paesi come l’Argentina si prestano a get-
tarvi attraverso delle strade ferrate, rapidamente e a
buon mercato. Infine sulle pianure argentine pascolano
ventidue milioni di buoi, quattro milioni e mezzo di ca-
valli, settantaquattro milioni di pecore. Pensate quale el-
dorado potrebbe essere questo infelice paese, dal quale
tanti emigrati fuggono!
Quelle cifre hanno pur sempre un grande fascino per chi
144
le considera astrattamente senza tener conto di tutte le
circostanze che abbiamo esposto. Di quelle cifre si parla
all’estero, e non si parla del resto. Il quadro descrittivo
dell’Argentina è sintetizzato così: due milioni e mezzo
di chilometri quadrati, dei quali ottocentomila coltivabi-
li, cento milioni di animali da pascolo e meno di cinque
milioni d’uomini; è una ricchezza senza riscontri nel
mondo. Tutto il resto appare transitorio; i popoli si mo-
dificano, i cattivi governi passano, gli uomini muoiono,
e la terra resta con i suoi tesori inesauribili. L’avvenire
dell’Argentina è fulgido e sicuro! Correte a prendere i
primi posti o folle di emigranti! perchè indugiate? corre-
te presto; e che importa se voi e anche i vostri figli mor-
rete soffrendo prima che si alzi il sipario! Pensate alle
future civiltà neo-latine, e correte....
È bello fantasiare sul futuro, ma noi non possiamo uscir
fuori della vita attuale per mirarne la storia attraverso la
seducente prospettiva dei secoli. Non possiamo fissare
unicamente, impassibili, i lontani successi d’una guerra
senza vedere nè voler vedere la infinita schiera dei cadu-
ti, senza sentirci chiamati dal disperato appello dei loro
gridi, senza sentirci trascinati a lenire le loro sofferenze,
sopra tutto quando si tratta di nostri fratelli, e la guerra è
per altri paesi: e specialmente poi quando riconosciamo
che le vittime cadono non per la fatalità ineluttabile, ma
per le inettitudini e le colpe di altri!
Nell’Argentina bastavano i caduti nella conquista della
terra selvaggia, nella tenace lotta contro la natura che di-
fende strenuamente i suoi possessi incontaminati. I no-
145
stri lavoratori hanno forte il cuore come forti le braccia;
essi accettano con l’animo lieto di speranza quella lotta
pericolosa la quale porge poi bene spesso il conforto e il
compenso del trionfo.
Ma tutti gli altri caduti? Tutti coloro che dopo anni ed
anni di tenace lavoro debbono abbandonare la terra da
essi vinta alla Pampa, flagellati dalla miseria che ha tol-
to loro persino gli attrezzi del lavoro, che li ha sorpresi
deboli e sfiniti, sfruttati e spremuti, alla prima avversità?
Vedremo il seguito come da Entre Rios, da Cordoba, da
Santa Fè, da ogni parte giungano le notizie della nera
miseria di quegli infelici, che sono oggi più poveri di
quando giunsero laggiù perchè non posseggono più il
fatato tesoro della speranza.
Più volte nelle campagne ho incontrato piccole carovane
d’emigranti, col volto logorato dalla sofferenza, curvi
sotto il fardello dei cenci, e percorrenti così intere regio-
ni per centinaia di chilometri in cerca di lavoro, doman-
dando ricovero nelle capanne, arrestati spesso dalla sfi-
nitezza, sferzati sempre dalla fame! Parlando particolar-
mente dell’emigrazione dovrò disgraziatamente intratte-
nere l’amico lettore su questi fatti, che sono mostruosi
in un paese dove pascolano cento milioni di animali.
Cinquecento italiani disoccupati a Bahia Blanca hanno
pubblicato un manifesto che dice: «Ci troviamo senza
pane nella più squallida miseria. Molti di noi da due
giorni non mangiano; le nostre mogli e i nostri figli han-
no fame. Noi non chiediamo che della terra da la-
vorare!...». Non è inesplicabile questo nel paese che ha
146
quasi un milione di chilometri quadrati di terra che
aspettano il lavoro?
Il numero dei disoccupati che veniva calcolato a cento-
quarantamila tre mesi or sono, ora si ritiene aumentato
di un buon terzo a causa dell’inverno australe che porta
anche in tempi normali un rallentamento in molti lavori.
A Buenos Aires oggi i disoccupati sarebbero ottantacin-
quemila, secondo notizie degne di fede. A tanto è ridotta
quella terra promessa, da tutti quei mali che conoscia-
mo. L’immensa piovra della politica oligarchica la tiene
sotto le spire dei suoi tentacoli, e le assorbe il sangue
della ricchezza. L’Argentina ha dissipato molto più di
quanto ha prodotto, fino a stremare alcune fonti della
sua stessa prosperità, a indebolire la sua attività produt-
trice. Perchè in fondo le ricchezze del suolo argentino,
che sono immense, fanno pensare ad un tesoro chiuso in
una cassa forte della quale non si è buoni a girare la
chiave. Il tesoro c’è, ma non si può contare certo su di
esso per un immediato sollievo. È inutile che l’Argenti-
na sia sconfinata e varia; il ricco deserto oggi non conta
che come un insieme di nomi e di segni geografici;
l’Argentina vera sulla quale pesa tutta la miseria del pre-
sente è relativamente piccola, e non sorpassa i confini
della parte sfruttata. Questa parte sopporta tutti i mali; e
poniamoci bene in mente che ogni espansione rappre-
senta uno sforzo che il paese non potrà mai fare finchè
non si sarà sollevato dalla prostrazione che lo accascia.
È il problema del presente che s’impone dunque; esso si
deve studiare fin dalle sue origini, e lasciamo le splendi-
147
de fantasticherie dell’avvenire all’avvenire!
*
* *

I governanti argentini vedono le cose semplicemente: la


produzione risulta insufficiente di fronte alle spese? Au-
mentiamo dunque la produzione. E come? Con nuova
immigrazione. Così si assiste al curioso spettacolo del
Governo argentino che chiede emigranti persino al
Transvaal, mentre più di duecentomila operai nella Re-
pubblica stessa domandano inutilmente lavoro.
Bisogna guarire prima! Le trasfusioni di nuovo sangue
rendono forti i deboli ma non sanano i malati! Si faccia
una diagnosi accurata della Repubblica Argentina.
I suoi debiti con lo straniero, debiti molteplici e compli-
cati, si aggirano intorno a quattrocento milioni di pesos
oro, ossia due miliardi di franchi; e con questo l’Argen-
tina non è padrona delle sue ferrovie che per una parte
insignificante. Vi sono poi i debiti interni dello Stato, e i
debiti delle singole provincie, i debiti dei Municipî, che
formano un cumulo enorme di passività. Il pagamento
degli interessi per i prestiti all’estero, più il pagamento
dei dividendi dei capitali stranieri impiegati nel paese,
rappresenta un impoverimento che il superavit attivo
formato dalla esportazione sull’importazione – circa
cinquanta milioni di pesos oro all’anno – non basta a
compensare. Poi vi sono le spese ordinarie, enormi,
sproporzionate, dato il carattere dell’amministrazione

148
argentina; e vi sono le spese straordinarie; e gli arma-
menti. L’economia nazionale è caduta in uno stato
d’acuta anemia. La produzione non ha trovato più i suoi
compensi: i suoi sforzi poderosi sono fiaccati. Il peso
delle imposte è divenuto troppo grave; e meno le impo-
ste rendevano per l’impoverimento progressivo, e più
sono state ampliate per la necessità dei bilanci.
«L’imposta interna è esorbitante – scriveva l’8 di feb-
braio la Prensa, il più grande giornale argentino – e vi
sono regioni da essa rovinate; la massa della popolazio-
ne la sente come un carico insopportabile, sempre più
pesante». Un sistema di protezionismo feroce ha colpito
il commercio, che in nessun posto ha tanto bisogno della
libertà massima quanto nei paesi in via di sviluppo. Sce-
mati gl’introiti doganali si è aggiunto una percentuale
alle tariffe: si sono create delle tasse d’esportazione. I ri-
medî sono peggiori del male; si fa dell’empirismo finan-
ziario, il quale non impedisce che le entrate non corri-
spondano più esattamente alle previsioni. L’impoveri-
mento ha un termometro quasi sicuro nel cambio
dell’oro che è salito sopra al 240. Le produzioni sono
colpite, il lavoro deprezzato. «Gli uomini i più intra-
prendenti e animosi non trovano un campo dove appli-
care le loro iniziative; parrebbe che l’Argentina vigorosa
e piena d’energia sia stata trasformata in un paese este-
nuato, esaurito, avente appena tanta vita da fornire lo
scarso pane quotidiano.» (Prensa).
La crisi si allarga, invade tutto. «Chi non sente il disa-
stro? Non v’è un solo fenomeno della multipla attività
149
nazionale che non attesti la crisi. Nelle campagne come
nelle città, nelle imprese agricole come nelle officine,
nell’ufficio dei grandi negozianti, come nello spaccio
del venditore, nella casa della famiglia benestante come
nelle abitazioni dell’operaio, si sente lo stesso malesse-
re, si parla con paura e con angustia delle penose diffi-
coltà che vi sono per provvedere alle prime necessità
della vita» – scriveva lo stesso giornale, che cito a pre-
ferenza, oltre che, per la sua importanza anche perchè è
stato quello che più mi ha gridato la croce addosso per
le mie prime lettere argentine. Si giunge al punto che
mancano i fondi per pagare i piccoli stipendî. «Per la
prima volta da venticinque anni» – scriveva El Pais,
noto giornale portavoce del finanziere senatore Pellegri-
ni – «si arriva al primo del mese senza che la tesoreria
abbia i fondi necessarî per pagare gli stipendî
dell’amministrazione.»
A Buenos Aires i pensionati delle amministrazioni resta-
no otto mesi senza ricevere un soldo. Il Governo non
paga talvolta nemmeno gli operai, che pure non hanno
altre risorse fuori del loro lavoro. Vediamo gli operai del
porto di Riachuelo – tutti italiani – rifiutarsi al lavoro
perchè da due mesi non sono pagati. Lo sciopero ha per
effetto il licenziamento immediato di molti, ma non cer-
to l’immediato pagamento. Nello scorso mese di maggio
centocinquanta italiani che lavoravano alla costruzione
di caserme a Mendoza si sono posti in sciopero, perchè
dal primo di gennaio non avevano ricevuto un centavo
di paga, e vivevano di piccoli debiti caritatevoli fatti
150
presso dei fornitori, trascinando una esistenza di miserie
indescrivibili. Dopo alcuni giorni di trattative hanno ri-
cevuto tre mesi di paga e sono stati licenziati tutti. Il di-
rettore dei lavori, un tenente, gridò ai soldati di cacciarli
sulla via, e se resistevano di prenderli a bastonate – a
garrotazos. Durante gli arrolamenti per la marina, fatti
nel tempo delle ultime difficoltà diplomatiche col Cile,
vennero contrattati qualche centinaio di macchinisti e
fuochisti per la squadra, in massima parte italiani. Ces-
sato il pericolo d’un conflitto, le navi passarono in disar-
mo e gli arrolati vennero sbarcati e congedati, ma senza
pagare loro la mercede stabilita; una lettera sulla Patria
degli Italiani del 30 marzo fa sapere che in quel giorno
ancora non erano stati soddisfatti quegli impegni.
*
* *

E se questo fa il Governo centrale, figuratevi quello che


fanno i governi provinciali. Nel febbraio passato il Go-
verno della Plata doveva più di tre milioni di lire di sti-
pendî arretrati; e s’intende di piccoli stipendî dovuti a
stranieri, oppure a impiegatucci che per la loro situazio-
ne non hanno peso nell’organismo elettorale – come, per
esempio, i maestri. I grossi stipendî corrono sempre, ca-
scasse il mondo. E per parlare di maestri soltanto ecco
qualche dato: i maestri di Salta debbono avere più di un
anno di stipendio; quelli di Chacabuco, quattro mesi;
quelli di San Juan, quattordici; quelli di Entre Rios,

151
nove. A Paranà si è festeggiato un centenario; il corpo
insegnante, invitato alle cerimonie, ha rifiutato per non
avere vestiti.
I Municipî stanno peggio dei Governi. Il Municipio di
Buenos Aires, in stato di semi-fallimento, e posto perciò
sotto una specie d’ufficio di tutela, è divenuto quasi in-
solvibile per la massa dei suoi fornitori – quasi tutti stra-
nieri – molti de’ quali, visti i loro contratti violati, hanno
inviato alla Intendenza di finanza una protesta, che è
una vera requisitoria contro l’amministrazione. Gli
spazzini municipali e tutti gli altri operai giornalieri,
quasi tutti italiani, debbono avere quattro mesi di paga!
Essi hanno inviato alla Patria degli Italiani una lettera
che commuove tanto vi traspare l’orrore della loro situa-
zione.
Da questi dati s’indovina il resto. Alle disastrose condi-
zioni delle amministrazioni pubbliche fanno riscontro
quelle delle amministrazioni private. I fallimenti si se-
guono continuamente; cadono dei colossi. Nella città di
Mendoza, che aveva fama di essere fra le più prospere
della Repubblica, in sessanta giorni hanno chiuso gli
sportelli quattro Banche. Le lettere di credito subiscono
uno sconto dal 25 al 40%. Tutti i commerci e tutte le
produzioni sono più o meno in crisi; in Entre Rios, a
Cordoba, a Santa Fè c’è la crisi agraria, a Mendoza e a
San Juan la crisi dei vini, a Tucuman la crisi degli zuc-
cheri. I suicidî aumentano; «il fatto caratterizza la crisi
tremenda che attraversa la Repubblica» – ha scritto la
Patria.
152
La tendenza purtroppo naturale a sfruttare il lavoro stra-
niero, trova facile incitamento nelle ristrettezze finan-
ziarie. In certi casi è stata negata agli operai la mercede
pattuita, dopo lunghi mesi di pesante lavoro compiuto
nelle estancias, sui campi, in qualche fabbrica di zuc-
chero; e intanto quegl’infelici vivono di fame! Conosco
varî di questi casi interessanti concernenti più di cinque-
cento operai; e dovrò tornare a parlarne diffusamente.
La Patria degli Italiani, giornale certo non sospetto
d’idee sovversive, e nemmeno d’animosità contro il Go-
verno argentino, scriveva il 12 aprile: «Noi riceviamo
quasi ogni giorno dei lagni e dei reclami da parte di no-
stri umili compatriotti, che ci denunciano le ingiustizie
di cui sono vittime, le frodi che si compiono in loro dan-
no da persone che calpestano le leggi, francheggiati
dall’impunità loro garantita da autorità dimentiche dei
loro doveri e destituite di senso morale. Noi vediamo
non solo svolgersi un sistema di sfruttamento iniquo, ma
violarsi altresì le leggi che dovrebbero garantire le mer-
cedi. Così si commettono le più nere ingiustizie, così si
ruba di bocca il pane a chi suda per guadagnarselo, così
si perpetua uno sfruttamento infame delle classi lavora-
trici. Noi non siamo disposti a renderci complici con un
silenzio compiacente, il silenzio della stampa argentina
più autorevole, di questo stato di cose, che è una igno-
minia per la Repubblica e che nessuna onesta penna
deve tollerare.»
Ora nelle campagne migliaia di peones – braccianti – la-
vorano per la sola comida – il cibo – e che comida! In
153
alcune colonie i contadini mancano di pane: a Suncha-
les, per esempio, ed a Sant’Agostino. Un corrispondente
scriveva da San Luis alla Patria nel febbraio: «Se sono
vere le notizie che arrivano, non solo i bestiami sarebbe-
ro morti per fame in questi dintorni – il che era noto –
ma anche persone. Si ebbero casi di famiglie perite di
miseria.» Se la notizia non era esatta era però, come si
vede, tale da trovar credito, e fra le genti del luogo e a
Buenos Aires, e sulle colonne dei giornali. Dalla stessa
località arriva questa notizia: «la moneta ha completa-
mente emigrato, e perciò il commercio funziona col si-
stema del cambio delle merci!» È un passo indietro ver-
so le forme primordiali della civiltà.
*
* *

Tutto questo ci mostra quali sono le maggiori vittime


del contraccolpo della crisi generale. Possiamo quasi
dire che se tutto il male è argentino, gran parte del dolo-
re che esso provoca è italiano. Le masse degli umili, dei
poveri – che sono disgraziatamente le masse dei nostri
emigranti – pagano di borsa e di persona le spese di tan-
ti errori.
E quale rimedio si escogita? Quello di fomentare nuova
immigrazione! È come se per salvare una nave in peri-
colo si tentasse d’aumentare il numero degli imbarcati!
La nave argentina è buona ed ha in sè la forza di salvar-
si; ma è necessario che dal ponte di comando si veda la

154
rotta, che si sondi il pericolo, si fugga dai paraggi torbi-
di e tempestosi. Il mare libero è là, infinito, luminoso,
splendido, che invita a correrlo verso i lontani lidi d’una
migliore civiltà, ai quali gli altri Stati volgono la prora
in una gara sublime. Su via, una forte mano al timone, e
si viri di bordo!

155
ANDANDO ALL’ESTANCIA.15

San Jacinto de Mercedes (Argentina).

Sono arrivato a Mercedes di notte, dopo tre ore di ferro-


via a traverso una campagna ignota, della quale nel buio
intuivo l’immensità uniforme, come si sente l’immensi-
tà del mare navigando nell’oscurità e nella calma.
Nel compartimento, pieno di ricca gente di campagna
che tornava all’estancia dagli affari di Buenos Aires, si
fumava e si gridava. Con una vivacità tutta argentina, la
discussione s’era fatta generale; la crisi delle lane, la
chiusura dei mercati inglesi ai bestiami argentini, la que-
stione cilena, la guerra boera, fornivano argomenti ine-
sauribili. Ogni tanto dai finestrini spalancati entravano
dei buoni soffî di vento fresco, ristoratore, impregnato
del sano odore del fieno, che dissipavano il fumo azzur-
ro delle sigarette e, come per incanto, sedavano le con-
versazioni. Pareva che dalla campagna arrivassero delle
folate di silenzio. La discussione talvolta nasce dal cal-
do come una fermentazione di parole.
Di tanto in tanto, in mezzo all’oscurità, avanti a noi,
lontano, scorgevamo gruppi di luci verdi e rosse, i quali
facevano pensare a piccole e strane costellazioni cadute
sulla terra. Il convoglio vi arrivava in mezzo sbuffando.
Erano stazioni perdute nella solitudine. Sembravano in-
15 Dal Corriere della Sera del 22 giugno 1902.

156
glesi, per la costruzione, e talvolta anche per il nome,
come Cowland, Open Door.
Durante le fermate si udiva il trillo dei grilli – quel ru-
more che nulla toglie al grande silenzio dei campi ad-
dormentati – sonoro e ritmico come un tintinnìo lontano
di sonagliere agitate da cavalli stanchi d’un viaggio sen-
za fine.
Poi, Mercedes. Una stazione più grande delle altre cir-
condata da colossali eucaliptus neri, dalle foglie inquiete
perennemente come quelle dei nostri pioppi. All’uscita,
delle vetture in fila che ricordano le nostre antiche dili-
genze, dei ragazzi creoli che si precipitano sulle valigie,
dei cocheros che offrono il loro coche anche per l’indo-
mani, per il dopodomani, per qualsiasi tempo e momen-
to, per la città e per il campo. Poi una cittadina dalle vie
ampie e sterrate e dalle case minuscole e bianche. Final-
mente l’albergo, un antico albergo, con le camere a
pianterreno in giro a un patio fresco e delizioso tutto or-
nato di piante. Quest’antica architettura criolla dà alla
casa una dolce aria d’intimità. È una delle cose migliori
che la Spagna abbia lasciato quaggiù; ed è una cosa ara-
ba!
Alla mattina alle cinque un coche mi portava a gran trot-
to verso San Jacinto, una delle più belle estancie della
Repubblica.
*
* *

157
Un viaggio delizioso. L’aria fresca del mattino mi batte-
va in faccia nell’impeto della corsa portandosi via tutte
le tristezze che la città lascia sempre addosso.
La campagna si svolgeva intorno a me, tutta piana come
un mare. Sulla cima delle alte erbe la brezza spingeva
verdi ondate, che fuggivano via rincorrendosi con alle-
gro fruscìo. Intorno intorno si levavano isole di eucalip-
tus, di pioppi americani, di acacie, che ombreggiavano i
puestos, le capanne dei pastori. Sul verde mandrie di
buoi, mandrie di cavalli, mandrie di pecore, di guanachi,
di nandù, tutta una popolazione pascolante, sparsa e im-
mobile da far credere che fosse cresciuta su dalla terra
come i cardi giganteschi che costellavano i pascoli.
Da ogni parte recinti di fil di ferro: centinaia di miglia di
filo di ferro – d’alambrado, come si dice qui – che sosti-
tuiscono la nostra bella siepe. L’alambrado e il primo
lavoro umano sui campi vergini, è la presa di possesso.
Molte proprietà non consistono ancora che in terra sel-
vaggia e alambrado tutt’intorno.
Questo recinto raddoppia il valore della terra; in alcuni
luoghi il recinto costa più della terra a cui serve da limi-
te. Il ministro d’agricoltura diceva giorni sono ad un
amico che il filo di ferro dei campi argentini basterebbe
a pagare i debiti provinciali, ciò che significa che è un
valore fantastico.
L’aria era piena d’un festoso pispiglio d’uccelli che a
nuvole si levavano al passaggio della vettura, e in tale
quantità da mandare in visibilio un cacciatore. Viudes
dal petto rosso come un rosolaccio, canarini che si con-
158
fondono con le stoppie giallastre, pernici dal volo rumo-
roso, gabbiani di terra schiamazzanti, e fenicotteri e
trampolieri d’ogni razza immobili sull’orlo dei fossati e
dei pantani, gru in fila come soldati, ferme sopra una
zampa e meditative, grosse cicogne dall’elegante volo
dritto e lento, civette che a gruppi di tre o quattro corro-
no a posarsi in cima ai pali dell’alambrado per inchinar-
si grottescamente quasi salutando chi passa, aironi dal
ciuffo, neri e bianchi da sembrare in marsina. E tutto un
mondo di uccellini che non conoscono ancora la perse-
cuzione e non temono l’uomo, che si allontanano quanto
basta per non rimaner schiacciati, che si posano a scia-
mi, come le mosche, sulle pazienti schiene dei buoi e
delle pecore per nettare il becco sul pelo lucido o per
cercare i semi rimasti fra la lana. Vi è tanta cacciagione
che la caccia è quasi sconosciuta. In alcuni luoghi le
martinette – specie di pernici – sono uccise dal gaucho a
colpi di bastone; il fucile è inutile.
La via correva dritta fra due recinti di filo di ferro, inter-
minabile, grandissima, accidentata, piena di erbe e di
sterpi, di viottoli, di fossi, di pozze. Le vie nell’Argenti-
na non sono – quando ci sono – che striscie di campa-
gna, sulle quali è permesso di passare. La vettura al gran
trotto dei suoi quattro cavalli tirava dritto su tutte le
asperità della via, a urtoni, sobbalzando, inclinandosi
dalle parti, dandomi la perfetta illusione di viaggiare so-
pra un affusto d’artiglieria lanciato alla posizione.
Il vento sollevava la giubba del cochero lasciandomi
scorgere il suo grosso coltellaccio gaucho dal manico
159
d’argento cesellato, infilato alla cintura sulle reni, e la
rivoltella sul fianco. Ma il mio uomo aveva una faccia
bonaria d’indio mansueto che contrastava singolarmente
col suo armamento. Si volgeva ogni tanto a darmi delle
indicazioni minuziose, pensando forse che più le indica-
zioni sono minute e più la mancia invece è grossa.
— Este puesto se llama La Bella!
— Perbacco!
— Si, señor, y aquel humo blanco è un treno della ferro-
via del Pacifico.
— Guarda, guarda! E San Jacinto?
— Ci siamo da un’ora sui terreni dell’estancia; San Ja-
cinto è a dodici leghe, señor!
*
* *

Dodici leghe, s’intende dodici leghe quadrate. La lega è


venticinque chilometri quadrati. Questa forma l’unità di
misura delle grandi proprietà. Dodici leghe vuol dire
300 km. q. Ma un’estancia di dodici leghe non è una
grande estancia. Il proprietario di San Jacinto, un argen-
tino dei più ricchi, possiede ancora un’estancia di ven-
totto leghe, un’altra di sessanta leghe, un’altra nel sud,
di cento, e infine una piccola e miserabile proprietà di
nove leghe. Egli è il sovrano di un regno di cinquemila-
duecentoventicinque chilometri quadrati. Non è facile il
farsi un’idea esatta di queste proprietà. Si viaggia per
giorni sempre sulle terre d’uno stesso padrone, talvolta.

160
Per girare tutta l’estancia di San Jacinto ci vogliono
quattro giorni di cavallo, e qui i cavalli non vanno che al
galoppo. Pochi proprietarî al mondo possono aver la
soddisfazione di constatare, girando l’occhio sull’oriz-
zonte senza confine: È tutto mio!
Un’estancia è un piccolo Stato con governo assoluto. Il
mayordomo è il governatore generale; il capataz – colui
che trasmette gli ordini – è il primo ministro; i gauchi e
i pastori sono i reggenti e i commissarî delle piccole
provincie. Il popolo poi, numeroso, buono, pacifico, un
popolo ideale che si lascia mungere, vendere e ammaz-
zare senza una protesta, è formato dalle mandrie innu-
merevoli. San Jacinto ha centodiecimila abitanti: trenta-
mila buoi, sessantamila pecore, ventimila cavalli, senza
contare qualche centinaio di cavalli da corsa allevati con
tutte le cure, che formano la nobiltà. Vi sono pure delle
classi elette anche fra i bovini e gli ovini, discendenti
d’illustri famiglie inglesi, che vivono fra le comodità e
gli agi; ma di fronte alla vera nobiltà dei cavalli non
possono considerarsi che come dei parvenus! formano
la grassa borghesia. E non manca neppure l’elemento
sovversivo, senza dimora fissa, insofferente dei freni go-
vernativi e che dove arriva distrugge. È rappresentato
dagli struzzi americani, i nandù, che fuggono rapida-
mente di fronte alle autorità costituite. Ma ciò non toglie
che all’epoca buona per la riscossione dei tributi non
vengano tutti regolarmente pelati delle loro belle piume.
E tornano poi nudi alla loro vita sovversiva, con l’aria
spaventata di grossi tacchini fuggiti dalle mani del cuo-
161
co.
Il guanaco, questo curioso campione della fauna ameri-
cana, grande come un puledro, mezzo pecora e mezzo
dromedario, è il filosofo della razza ruminante. Vive
sempre solo, osservando freddamente il mondo dall’alto
del suo lungo collo flessuoso che par fatto apposta per
dominare la pianura, per porre gli occhi in vedetta di
fronte all’immensa distesa della Pampa. Nulla lo scuote
dalla sua vita pensosa. Se l’uomo l’avvicina, non fugge;
lo guarda venire, freddo, immobile, indifferente; poi
quando se lo vede da presso, improvvisamente gli lancia
uno sputo rumoroso dalle narici, aperte in mira come le
bocche d’un fucile da caccia. Non è certo una difesa; è
un segno di disprezzo. Il grande filosofo guanaco pensa:
Tu, o uomo, mangerai le mie costolette, è indubitabile,
ma io ti disprezzo profondamente, ed eccone la prova. E
mentre il re della creazione se ne va tutto umiliato, il su-
perbo animale torna a piombarsi negli abissi ignoti delle
sue meditazioni di bestia riflessiva.
Così vivono la loro libera vita gli animali della prateria.
Essi sarebbero ben fieri se sapessero di formare la più
grande risorsa della Repubblica Argentina, e se sapesse-
ro di essere quasi ventitre volte più numerosi degli uo-
mini.
Centodiecimila animali in una sola estancia; questo dà
un’idea dell’importanza degli allevamenti argentini, e
anche della poca divisione della proprietà. La pastorizia
è l’unica industria veramente argentina, e forse la più lu-
crosa perchè richiede il minimum di lavoro, e perchè le
162
crisi e le tariffe non hanno una influenza diretta sul suo
sviluppo. Le bestie tranquillamente s’ingrassano e si ri-
producono sotto qualunque governo, e persino durante
le rivoluzioni. I loro nemici sono soltanto la siccità che
le affama e l’inondazione che le affoga. Nel ’900 nella
provincia di Buenos Aires sono morti affogati sopra a
mezzo milione di capi di bestiame.
La concorrenza degli allevatori nord-americani ed au-
straliani ha indotto i principali estancieri argentini a mo-
dificare i loro antichi sistemi. Gli allevamenti si fanno
ora non più sulla terra vergine, ma su quella per molti
anni solcata dall’aratro perchè l’erba vi è più molle e più
folta. Parte delle estancie perciò sono date in affitto o a
mezzadria per la lavorazione. Questa temporaneità del
lavoro campestre, sia detto di passaggio, non giova certo
all’avvenire dell’agricoltura in varie provincie, al quale
avvenire è intimamente legata la sorte di tanti nostri
emigranti. Fortunatamente l’allevamento, migliorandosi
la terra, ha bisogno di meno spazio. Oggi si comprende
poi che la qualità ha maggior valore della quantità.
S’introducono a migliaia i riproduttori inglesi e si studia
di migliorare le ossute e cotennose razze criolle con
l’incrocio dei shorthorns, dei durhams, degli herefords
per i bovini, degli hampshires, dei leycesters, dei ram-
bouillets, dei lincolns per gli ovini, e delle migliori raz-
ze di cavalli da corsa, da tiro, da sella e da lavoro.
L’esportazione di bestiame ha raggiunto una media di
mezzo milione circa d’animali all’anno. Parola d’onore,
di fronte a questa cifra ci sarebbe da stupire della crisi
163
argentina e delle profonde miserie di quella Repubblica,
se non si conoscesse che razza d’amministrazioni pub-
bliche vi sono, che governi si succedono al potere, e che
giustizia vi regna.
Uno studioso di scienze economiche che conosce pro-
fondamente le finanze della Repubblica, mi diceva un
giorno: Se si fosse dovuto studiare a bella posta uno
speciale sistema di governo e di finanza per rovinare
questo paese, non si poteva far di meglio che applicare i
sistemi che sono stati applicati!
*
* *

San Jacinto è arrivato improvvisamente, tanto più che


tali profonde meditazioni politico-finanziarie mi aveva-
no conciliato un sonno non meno profondo. Mi sono
svegliato all’ombra di enormi eucaliptus fiancheggianti
un bel viale. Da una parte, fra i tronchi, vedevo una di-
stesa di giardino, fra il cui verde appariva una villetta
rosa, una di quelle villette americane basse e irregolari,
così simpatiche e ospitali con le loro verande, le loro ba-
laustrate fiorite e i loro patios freschi come cortiletti di
convento. Come certe fonti pare che invitino a bere, così
queste case criolle pare che invitino ad entrare. Fra gli
alberi, lontano, gruppi di casette, anch’esse color rosa,
scuderie a fascie rosse e bianche, tettoie, una chiesuola
dal campanile acuminato. Due gauchi a cavallo hanno
traversato galoppando il viale, lontano, fra nembi di pol-

164
verone.
Un gentiluomo in reding-dress seguito da due grossi
mastini inglesi è comparso sul viale al rumore della vet-
tura, e mi è venuto incontro sorridendo. Era il capo
dell’estancia, il governatore generale di San Jacinto e
del suo popolo mansueto.
Io lo credevo un estanciero criollo; e immaginino i let-
tori la mia gioia quando mi sono sentito dare il benvenu-
to nel più puro idioma bolognese. Ci siamo salutati con
effusione.
– Domani – mi ha detto mentre mi conduceva nella
casa – visiteremo l’estancia, nelle ore fresche del matti-
no. Lei cavalca?
– Come un centauro... se il cavallo è molto docile.
– Bene, allora domani all’alba in sella.
E si è allontanato per dare degli ordini. Io mi sono getta-
to sopra un molle pliant; avevo ancora negli occhi la
gran luce, e tutto mi appariva avvolto del seducente velo
d’una tenebre misteriosa; il silenzio assoluto e solenne
della campagna sotto il sole cocente mi dava il senso
d’una sordità dolcissima. Il riposo era così completo,
che io l’ho assaporato lungamente, centellinando da
buongustaio!

165
VITA MANDRIANA16.

San Jacinto de Mercedes.

Il mio ospite, questo estanciero bolognese che mi fa gli


onori di casa della campagna americana – un simpatico
tipo da romanzo, uno di quegli avventurosi eroi alla Oh-
net che ritrovano in una esistenza di rude lavoro la ric-
chezza perduta per una gioventù spensierata e mondana
– , mi dice di amare molto la sua vita di solitudine sel-
vaggia. E io lo credo bene.
Egli ha conosciuto troppo la società per non preferire
l’isolamento. Ha vissuto troppo fra gli uomini per non
amare le bestie. La bestia ha sull’uomo questo vantag-
gio, che è infinitamente più buona. La cattiveria è una
prerogativa umana, e l’uomo domina più perchè cattivo
che perchè intelligente.
Basta viverla un po’ questa vita dell’estancia per sentir-
ne tutto l’incanto. Non c’è nulla: comodità poche, varie-
tà nessuna, un orizzonte infinito e monotono, un silenzio
perpetuo. È che il godimento non viene dai beni presen-
ti, ma dai mali assenti. È un po’ la gioia del perseguitato
che si sente libero in un asilo tranquillo – e ogni uomo
nel consorzio dei suoi simili è sempre un perseguitato
più o meno.
Pensavo queste cose stamani galoppando come un paz-
16 Dal Corriere della Sera del 25 giugno 1902.

166
zo per la campagna, nell’ora gloriosa dell’alba. Il primo
raggio di sole dorava le cime delle alte erbe ed i calici
spinosi dei cardi colossali, mentre in basso, raso terra,
persistevano le ultime ombre violastre, come un rimasu-
glio della notte. Intorno a me si levavano a nuvoli gli
uccelli schiamazzando. I cani del mio ospite mi seguiva-
no abbaiando festosamente. Ieri mi hanno accolto rin-
ghiando, ma, dopo avermi annusato con diffidenza e ri-
conosciuto all’odore per un buon diavolo, hanno solleci-
tato le mie carezze mugolando con l’aria di chiedermi
scusa. Ora sono miei grandi amici.
Disseminate per la pianura erano piccole mandrie di
buoi, dalla schiena fulva e lucida, pascolanti tranquilli.
Due gauchos sopraggiunti di galoppo hanno cominciato
a percorrere il campo mandando un grido strano, un
ahooo! lungo e gutturale. Li ho veduti sparire lontano,
fra le erbe, con le camiciole svolazzanti nella foga della
corsa come blouses di fantini: poi sono tornati al loro
galoppetto criollo, silenziosi e tranquilli.
Stavo chiedendomi la ragione di quella corsa, quando
ho osservato una cosa strana. I buoi ai gridi dei due uo-
mini hanno cessato dal pascolare, levando il muso come
per ascoltar meglio; poi si sono messi in cammino, len-
tamente, senza fretta, da bestie che sanno il fatto loro,
ruminando per non perdere il tempo. Ecco che in un mi-
nuto tutte le mandrie sono in moto, sfilano attraverso il
campo da ogni parte dirette ad un punto lontano, una ra-
dura senz’erba, dove s’adunano. È una specie di mee-
ting di buoi; arrivano, si fermano placidamente e aspet-
167
tano. Dopo poco tempo ve ne è una folla di migliaia.
Il mio ospite, che mi ha raggiunto, mi spiega che il luo-
go del convegno si chiama rodeo, che i buoi li si aduna
per «lavorarli», ossia per scegliere i migliori, per sele-
zionare i malati, per esaminare le loro condizioni, per
esporli ai compratori. Ma nessuno potrà mai spiegare
l’obbedienza spontanea di questi animali, che vivono
nella completa libertà, al grido d’un uomo. È uno dei
più curiosi spettacoli che io abbia mai veduto. I cavalli
dei reggimenti accorrono ai segnali di tromba perchè
sanno di ricevere la biada; un’obbedienza interessata.
Ma al rodeo queste povere bestie non ricevono nulla;
per accorrervi anzi lasciano la colazione a mezzo. L’abi-
tudine spiega poco e l’istinto meno. Cosa diamine passa
per la mente d’un bue quando il gaucho grida il suo
ahooo!?
*
* *

Questa volta i buoi sono stati adunati per scegliere fra


loro i più grassi destinati ad essere imbarcati per l’Afri-
ca Australe. I gauchos a cavallo entrano fra l’enorme
mandria, e col petto della cavalcatura, addestrata a tale
lavoro, spingono fuori il bue scelto, che appena libero
dai compagni, spaventato dagli urti, prende la fuga. Il
gaucho stringendolo col cavallo a destra o a sinistra ne
regola la direzione; quando lo ha condotto lontano in un
luogo prestabilito, lo abbandona. Il bue s’arresta, e si

168
volge tranquillamente a vedere il suo persecutore che si
allontana, mentre altri buoi sopraggiungono sbuffanti a
riunirsi ad esso, formando a poco a poco la mandria dei
grassi sfortunati.
Un grande bue fulvo si ribella. Balzato fuori dalla man-
dria, abbassa la testa pesante e fugge pazzamente, con la
coda sollevata, muggendo, lasciandosi indietro l’uomo.
– El lazo! El lazo! – gridano i gauchos precipitandosi
alla caccia. Il bue compie un giro cercando di raggiun-
gere il verde pascolo, e passa vicino a noi, terribile, con
la bocca aperta e bavosa, la lingua di traverso, gli occhi
sanguigni. Stormiscono gli sterpi sotto i suoi passi pe-
santi e precipitosi, e lascia dietro di sè tutta una treccia
di erbe abbassate e di cardi spezzati, come una valanga
nera e ruggente. I gauchos lo rincorrono, curvi
sull’arcione. Agitano in aria il lazo che sibila roteando.
Il primo laccio è lanciato; si svolge per l’aria come un
serpentello lungo e sottile, e cade sulla testa del bue. Ma
il nodo scorsoio non ha fatto presa; il bue scuote il capo
correndo e si libera. Un secondo laccio parte col grande
nodo aperto. Il bue afferrato improvvisamente per il col-
lo si arresta; salta con la schiena ad arco; tempesta la
terra con le zampe poderose, mentre dalla gola strozzata
dal laccio gli esce un ululato terribile, lungo e lamento-
so. Un altro lazo destramente lanciato gli afferra le zam-
pe. Il bue cade agitandosi, si risolleva terribile, ricade. È
legato da quelle sottili corde di cuoio come Gulliver dai
fili dei lillipuziani. Il furore cede al terrore. Tenta di li-
berarsi con un ultimo supremo sforzo, e resta in ginoc-
169
chio, immobile, sbuffante col pelo irto, con la testa bas-
sa sul gran petto ansimante, la bocca bavosa, mandando
ad intervalli un muggito disperato che sembra il pianto
mostruoso di un gigante vinto.
A questo punto il mio amico mi grida: Guardate, guar-
date gli altri! e mi accenna le mandrie. Tutti i buoi assi-
stono alla lotta, attenti come gli spettatori d’una plaza
de toros. Non ve n’è uno che non guardi. I più lontani
sollevano il muso per veder meglio, e lo appoggiano
dolcemente sulla groppa del vicino. Qualcuno si fa stra-
da a forza fra i compagni per giungere alla prima fila, e
lì si arresta, col collo teso, i grandi occhi fissi, attenti e
meditativi. Sotto la selva delle corna sono migliaia
d’occhi curiosi, che esprimono una meraviglia calma e
dignitosa. Quando il bue domato entra nella sua man-
dria, ancora tutto fremente, col muso rigato dal sangue
che cola da un corno spezzato, i compagni lo circondano
premurosamente, lo annusano, lo fiancheggiano e lo se-
guono, quasi per fargli coraggio, per recargli il conforto
delle loro simpatie e della loro solidarietà. La povera be-
stia si rifugia nel centro del gruppo, accompagnata da un
vero corteggio.
Nessuno ha mai pensato a studiare la vita di queste
grandi società bovine: il bue sembra un animale comple-
tamente noto, e non è vero. Lasciato libero forma delle
tribù, ubbidisce a dei capi, segue delle leggi che noi non
conosciamo; ha delle speciali manovre d’offesa e difesa
contro i nemici comuni; sottomette poi tutta la sua orga-
nizzazione sociale al supremo controllo dell’uomo per
170
ragioni misteriose.
Il cavallo è certo molto meno intelligente. Il cavallo li-
bero ha per maggiore caratteristica la paura. È più timi-
do di una gazzella. Non è possibile avvicinare una man-
dria di cavalli senza provocare ciò che qui, con un voca-
bolo pieno d’espressione, si chiama disparada. La di-
sparada è una fuga frenetica. Uno spettacolo superbo.
*
* *

Quando ci siamo diretti, dopo un galoppo di qualche


ora, verso la parte dell’estancia destinata all’allevamen-
to dei cavalli, ero già prevenuto. Al nostro appressarci
alla prima mandria tutti i cavalli hanno sollevato la testa
nella espressione di «all’erta» con le orecchie dritte e
immobili. Poi, quando siamo stati a cinquanta passi, e
potevamo scorgere perfettamente le forme gentili di
questi cavalli criolli, che pare conservino ancora un po’
del sangue dei loro padri arabo-spagnoli, è avvenuta la
disparada. Quei due o trecento cavalli si sono precipita-
ti ad una fuga furibonda.
Andavano tutti uniti; facevano pensare ad una carica di
cavalleria senza i cavalieri. Non abbiamo più veduto che
una moltitudine di schiene dai lombi contratti nello sfor-
zo d’un furioso galoppo, uno sventolamento di criniere
e di code. I cavalli hanno fatto dei pazzi giri per la pia-
nura, giri capricciosi senza ragione apparente, fino a che
si sono calmati e hanno ripreso a pascolare lontano lon-

171
tano.
Queste fughe di cavalli sono pericolosissime per chi si
trova sulla loro strada. Il cavallo spaventato è cieco; in-
veste qualunque ostacolo. Il gaucho sorpreso da una di-
sparada non ha che una via di salvezza: fuggire nella
stessa direzione; unirsi alla mandria. Succede allora tal-
volta che egli perde il controllo della sua cavalcatura, ri-
presa dall’istinto selvaggio, e deve seguire la fuga ca-
pricciosa fino alla fine, prigioniero di quell’uragano di
bestie. La disparada era la più terribile arma degli india-
ni contro le truppe argentine. All’appressarsi dei soldati
adunavano tutti i loro cavalli in grandi mandrie, poi, al
momento opportuno, gridando e sventolando il poncho
provocavano la fuga nella direzione dei nemici. Non vi
era salvezza; la disparada rovesciava e calpestava com-
pagnie intere.
Nella Pampa lontana e deserta avvengono talvolta delle
fughe di cavalli, causate dalle punture dei mosquitos.
Comincia una mandria a fuggire, verso la direzione del
vento, per liberarsi delle nuvole di insetti che la tormen-
ta. Ad essa altre se ne aggiungono, ed altre ancora. Si
forma un esercito di cavalli che passa come un ciclone
sollevando immense colonne di polvere; lo scalpitìo, si-
mile al brontolare lontano della bufera, si ode da lungi e
il gaucho che lo conosce bene fugge ventre a terra per
assistere al passaggio di quella fantastica emigrazione
dalla maggiore distanza possibile.

172
*
* *

Entriamo nei corrales, i grandi recinti dentro i quali si


chiudono i cavalli selvaggi per gettar loro il lazo. Un bel
puledro è stato afferrato col laccio alle gambe e al collo.
Sei gauchos saltati di sella tentano di tenerlo fermo, ti-
rando le corde. Il cavallo rantolante per la gola serrata
s’impenna, impunta le gambe appaiate dai lacci e trasci-
na a tratti gli uomini con un moto pauroso del collo. Il
domatore, un giovane bruno i cui lineamenti tradiscono
il sangue indiano, vestito nel tradizionale costume della
pampa, la camiciola ricamata e il chiripà rimboccato
alla cintura come la vestaglia degli arabi, si appressa
cautamente sostenendo l’ampio recado, la sella gaucha.
Il recado è tutto il patrimonio del gaucho. È formato da
un po’ di ogni cosa; vi è una coperta, un poncho, una
pelle di guanaco: durante i riposi diventa letto, diventa
sedile, diventa tetto. Il recado è la casa dell’uomo della
prateria. Ogni cura egli pone nell’abbellirlo,
nell’aggiungervi ornamenti d’argento, staffe di corno in-
tagliato, nastri colorati, fiocchi di seta; il recado è il suo
orgoglio.
Il domatore tocca con la mano carezzevole il collo
dell’animale, che dà un balzo, fremendo, quasi pieno di
orrore e di disgusto più che di paura; il disgusto di un
sovrano prigioniero che si senta toccare da mano plebea.
I lacci si tendono nello sforzo unito dei sei uomini; in
questo momento la sella scivola dolcemente sulla grop-

173
pa del cavallo. L’animale si getta a terra in un parossi-
smo di furore.
Gli uomini gli si precipitano addosso. È una lotta di po-
chi istanti, dopo la quale il cavallo scalpitando si leva in
piedi, completamente bardato, il suo muso sporco di
polvere e di sangue è ingabbiato nell’immonda testiera
dal largo morso e all’addome è accinghiato strettamente
il recado variopinto. Ma ha un’aria così minacciosa, con
la criniera eretta, gli occhi ardenti, le narici aperte e
sbuffanti, che gli uomini rinculano in giro come i ca-
peadores intorno al toro ferito che si risolleva muggen-
do. Non hanno però abbandonato le redini, e cautamen-
te, con l’aiuto di cavalli addestrati, vecchi complici che
lo sospingono, è condotto all’aperto.
Allora, lentamente, con un fare noncurante e dinoccola-
to, il giovane indiano si appressa alla bestia. Dà una cal-
ma occhiata investigatrice alle fibbie e ai nodi della bar-
datura, si stringe sui fianchi l’alta cintura ornata
d’argento e poi risolutamente balza in sella d’un colpo
afferrandosi alla criniera.
Il cavallo resta per un momento immobile, come stordi-
to da tanto ardire, con i garetti tesi, i muscoli contratti.
Quindi si solleva sulle zampe posteriori e si rovescia a
terra. Dopo un istante fra i folti nembi di polverone si
vede il cavallo di nuovo in piedi scalpitante. Spicca salti
terribili, furibondo, ma sulla sua groppa rimane l’uomo,
curvo sulla criniera, impavido, saldo. Improvvisamente
il cavallo prende la fuga e si allontana in un galoppo in-
fernale verso l’orizzonte infinito, che il miraggio abbel-
174
lisce di tremuli laghi sui quali i lontani boschetti di eu-
caliptus si specchiano nitidamente.
Pochi minuti dopo torna al piccolo galoppo, tutto intriso
di schiuma, con gli occhi smorti e la bocca insanguinata,
umile, obbediente alla volontà di quel fanciullo attacca-
to alla sua groppa: domato.
Povero sovrano della prateria! Chi sa che non sarà pro-
prio lui a ricondurmi tra qualche mese – attaccato ad
una modesta vettura di piazza – all’imbarco sulle ban-
chine del Porto Madero!
*
* *

Abbiamo continuato il nostro giro per l’estancia, sotto


un sole torrido che accecava e stordiva. Ed ho un ricor-
do vago di quella corsa per prati senza fine. Rammento
delle grandi tettoie presso un boschetto, sotto le quali in-
grassano dei buoi colossali e delle pecore che sembrano
enormi batuffoli di lana bianca, destinati a figurare in
non so quale esposizione di bestiame: e delle scuderie
divise in boxes, dai quali sporgono le teste di nobilissimi
cavalli inglesi la cui genealogia mi veniva illustrata da
un trainer, inglese puro sangue anche lui, che da venti
anni è nell’Argentina e non parla spagnuolo. «Non parlo
ancora castigliano, not yet» – mi ha detto flemmatica-
mente.
— Oh! – ho risposto – è questione di tempo!
Rammento un toril dove sultaneggiano dei tori masto-

175
dontici venuti dall’Inghilterra, i quali hanno ai loro ordi-
ni servi e scudieri; rammento numerose famiglie di
struzzi che fuggivano davanti al nostro galoppo, simili a
gruppi di piccoli cammelli con due sole gambe.
Dopo sei ore di cavallo ho cominciato ad accorgermi
che la sella indigena è deplorevolmente incomoda; che
il sole del gennaio sud-americano dà dei punti a quello
del nostro agosto; che la pianura sconfinata ha – come il
mare – le sue attrattive, ma che qualche gruppo d’alberi
– come un po’ di terraferma in navigazione – sarebbero
d’una comodità indiscutibile.
Ma la fatica, il caldo e la sella incomoda ho presto di-
menticato laggiù nel fresco patio della villetta rosa, don-
dolandomi nell’amaca. E pensando alla vita della prate-
ria ho provato una grande compassione per me stesso
che andavo a rituffarmi nella vita sociale, laggiù a Bue-
nos Aires.
Bella cosa esser gaucho! Perchè, vedete, il cavallo sel-
vaggio, il toro furioso, la tormenta della Pampa, il sole
tropicale sono tutte cose pericolose, non c’è dubbio; ma,
non è forse peggio, qualche volta, quel mostro che chia-
miamo... «il nostro simile?»

176
IL LAVORO ITALIANO
NELL’ARGENTINA.17

In una voluminosa pubblicazione, edita or sono tre anni


per cura d’un Comitato della «Camera Italiana di Com-
mercio» di Buenos Aires, pubblicazione di carattere uf-
ficiale che è una specie di bilancio dell’opera nostra
nell’Argentina, al capitolo dell’industria si legge:
«E noi (italiani) cerca questa ospite terra, alle nostre
braccia si apre, e il nostro sudore domanda per fecon-
darsi. Noi abbiamo steso per tutte le linee di ferro; noi
strappati i metalli alle vene delle roccie; noi staccati i
marmi e i graniti dalle montagne e svelti i tronchi dalle
radici; noi innalzate al cielo le moli dei palazzi e dei
tempî; noi addolciti i costumi, infiorata la vita; dischiuse
le intelligenze. Che ci manca? Il coraggio di dire di noi
ciò che è nel pensiero di tutti e sulle labbra di molti!»
Sante parole!
Ebbene, abbiamolo una buona volta questo coraggio
della verità, senza trepidare per suscettibilità offese e
per risentimenti sollevati. Che è mai «nel pensiero di
tutti e sulle labbra di molti?»
È che noi italiani siamo le api operaie di quel grande al-
veare; è che l’Argentina esiste e vive in virtù del lavoro
italiano. Senza di noi non avrebbe produzione, non

17 Dal Corriere della Sera del 29 giugno 1902.

177
avrebbe nè agricoltura, nè industria, non avrebbe teatri,
palazzi, porti, ferrovie. È il lavoro dei nostri connazio-
nali che ha veramente creato l’Argentina d’oggi, la qua-
le senza di esso non avrebbe nessuna potenza economi-
ca, come un Guatemala od una Bolivia qualunque.
*
* *

Giungendo a Buenos Aires i grandi piroscafi transatlan-


tici s’inoltrano lentamente in un canale lungo ventun
chilometri, scavato nel fondo del torbido Rio della Plata
e segnato sulle acque agitate con centinaia di boe e se-
gnali luminosi. Chi ha tracciato questo solco colossale
nel letto del fiume? Degli operai genovesi. S’incontrano
rimorchiatori che trascinano affannosamente le navi
all’entrata del porto. Le loro piccole ciurme sono italia-
ne. Ogni tanto i piroscafi passano rasente a dalle enormi
draghe. Chi sono quegli operai che le manovrano lavo-
rando sotto al sole cocente, in mezzo al frastuono degli
immani macchinarî? Sono italiani: ecco, riconoscono la
bandiera della patria a poppa della nave che passa, si
sollevano dal lavoro, guardano pensosamente, e saluta-
no. Si appressa un vaporino, una scala è gettata e com-
pare il pilota sul ponte. È italiano.
Si arriva al porto – la cui grandezza stona, in questi tem-
pi di crisi, con la pace che vi regna, ora che le settanta-
sette gru idrauliche sugli enormi scali sono in troppa
parte inoperose. Chi ha fondato, costruito, eretto, arma-

178
to, montato tutto questo? Operai italiani. Il granito delle
grandi pareli dei bacini e dei docks viene dal Tandil,
dove braccia italiane lo strappano alle colline, lo spezza-
no, lo sagomano, lo trasportano. Laggiù fra le lontane
solitudini migliaia d’italiani, riuniti in poveri villaggi,
lavorano le cave di granito che italiani hanno scoperto: e
il rombo del loro lavoro echeggia per le valli deserte –
quando una crisi politica o economica non li snida e non
li ricaccia affamati, come nel novanta e come adesso,
nella mandria immensa dei senza lavoro!
Dal ponte della nave ormeggiata l’occhio spazia sulla
città, i cui mille pinnacoli, cupole, campanili si ergono
sulla moltitudine dei tetti. Tutto ciò che si vede è stato
fatto da braccia italiane. Il lavoro materiale italiano en-
tra in proporzione del novantasei per cento su quanto si
fa laggiù.
Nel 1855 Buenos Aires non era che una ben misera cit-
tà, fangosa e sporca. Le case piccole, basse, primitive,
costruite senza calce con informi mattoni e fango, non
avevano altro di buono che il patio: cioè a dire che la
parte migliore della casa era fuori di casa. Persino l’abi-
tazione del dittatore Rosas, che per venti anni ha impe-
rato sull’Argentina, non era che una misera stamberga
che fino a due anni fa si poteva vedere ancora in piedi
ma pencolante, come quelle vecchie case inglesi
dell’epoca d’Elisabetta, in Holborn, che tanto piacevano
a Dickens.
In quell’epoca circa giunse laggiù il primo architetto.
Era italiano, milanese. Poi altri lo seguirono. A questi
179
nostri compatriotti si debbono le prime costruzioni civili
di Buenos Aires. Già le braccia italiane giungevano in
numero sufficiente per eseguire i loro progetti. Sorsero i
primi palazzi, e poi dei teatri, degli ospedali, delle scuo-
le. Braccia italiane costruirono senza posa. Da
quell’anno sono state erette più di cinquantamila case;
ossia tutta la città è rinata dalle sue maceriuzze fangose.
E, se non in ogni costruzione è entrata la mente italiana,
certo tutte sono dovute al lavoro materiale di quelle
macchine umane che noi esportiamo gratis. E là ne ab-
biamo mandato per un valore di forse sette miliardi, se è
giusto il calcolo degli americani del nord che attribui-
scono ad ogni emigrante il valore di mille dollari.
Se per un miracolo tutto ciò che è prodotto dal lavoro
italiano potesse scorgersi, assumesse un colore speciale,
rosso, supponiamo, si vedrebbe Buenos Aires tutta inte-
ra, dal fiume ai campi dell’ovest, imporporarsi come
sotto il riflesso d’un incendio sterminato. Da lì il colore
di fuoco serpeggerebbe lungo tutte le ferrovie, lungo i
fiumi, accenderebbe i battelli che li percorrono, e le città
che toccano, i canali che vanno a irrigare le arse pianure
di Cordoba e di Mendoza e di San Juan: si propaghereb-
be allargandosi per i campi di Santa Fè, di Rosario, di
Buenos Aires, di Entre Rio, e giù al sud tingerebbe Ba-
hia Blanca e il suo grande porto militare che il talento
italiano ha ideato e braccia italiane hanno costruito. Non
una città, non una colonia sfuggirebbero.
Non so se mai si farà una carta geografica che mostri il
lavoro dei popoli, come si fanno le carte idrografiche
180
per indicare l’altezza delle pioggie nei differenti paesi, e
le carte etnografiche che mostrano le varie razze umane
sparse pel mondo. Certo è che su questa carta l’Argenti-
na tutta, dal Chaco alla Terra del Fuoco e dalla Cordi-
gliera delle Ande al Plata, dovrebbe essere dipinta del
colore indicato nel margine da queste parole: Lavoro
italiano!
*
* *

L’Argentina non aveva agricoltura prima che i coloni


italiani andassero a dissodarne le sconfinate pianure. La
Spagna, all’epoca della sua dominazione, forniva le fari-
ne; poi le fornì il Cile. «In gran parte la ragione di tale
trascuratezza – dice un culto studioso della materia,
Giacomo Grippa, in una monografia comparsa nel libro
di cui ho parlato in principio – è da cercarsi nella indo-
lenza degli abitanti, che non cedette a nessun tentativo
che si facesse per scuoterla.» L’agricoltura argentina,
che forma la principale ricchezza del paese, è un prodi-
gio italiano. Si pensi che i campi di Santa Fè, di Cordo-
ba e di Entre Rios, da dove questi prodotti vengono, era-
no pampas, pianura selvaggia, senz’acqua, coperta da
vegetazione sterposa, da cardi, da cactus, e che sono i
nostri contadini che l’hanno resa fertile, con anni e anni
di lavoro assiduo tenace. Si pensi che la conquista di
tanto territorio è costata tanto sacrificio di vite italiane,
quanto nessuna guerra nostra.

181
Dall’agricoltura sono nate le industrie, con le quali il
paese si è emancipato dall’estero per alcuni prodotti di
prima necessità. E gli iniziatori dell’industria argentina
sono quasi tutti italiani. Perchè, vedete, si potranno tro-
vare dei figli del paese concessionarî di lavori, intra-
prenditori, impresarî; talvolta commercianti; rarissima-
mente industriali; operai mai.
La coltura estensiva richiedeva macchine. Qualche po-
vero fabbro italiano audace e volonteroso tentò di copia-
re le macchine straniere che capitavano nelle sue mani
per le riparazioni. Riuscì. La sua fucina si ampliò a poco
a poco, divenne officina, divenne fonderia. Dopo una
lotta lenta, assidua e tenace come il battere del suo mar-
tello, vide il suo stabilimento aumentare, ed ergersi le
ciminiere fumanti nel cielo; udì sempre più prepotente
intorno a lui lo strepito infernale e divino del lavoro.
Trovò imitatori: altri stabilimenti sorsero. Gli opificî
fondati da italiani producono i tre quinti del totale lavo-
ro del ferro in tutta la Repubblica. O meglio produceva-
no, perchè ora tanti forni sono spenti, tante macchine
immote, tante officine silenziose.
Altre industrie affini a quella del ferro sono sorte per
opera d’italiani: fabbriche di mulini, di bilancie, di og-
getti d’ogni metallo. L’industria dei metalli è quasi tutta
italiana.
E qui un’osservazione, per dissipare un pregiudizio mol-
to diffuso e dannoso. Le fabbriche e le imprese dovute
alla iniziativa e al lavoro italiani non possono chiamarsi
italiane che impropriamente, perchè il capitale che ne è
182
l’anima si è formato laggiù, vi è radicato profondamen-
te, è argentino, là si sviluppa e lascia tutti i suoi frutti.
Disgraziatamente la mente che ha ideato e diretto il la-
voro produttore, e le braccia che lo hanno eseguito, che
sono italiane, non possono considerarsi che come appa-
recchi e macchine di precisione la cui provenienza è in-
differente per la nazionalità dell’impresa. È necessario
por mente a questo per non cadere in errore nell’apprez-
zare il valore dal punto di vista nostro, di quanto vado
nominando come italiano. Quando si dice opificio, fab-
brica, banca, commercio o impresa inglese o tedesca,
per esempio, s’intende che il capitale che li anima sta di
casa a Londra o ad Amburgo, dove vanno gl’interessi e
dove s’accumula la riserva. Quando invece si dice opifi-
cio, fabbrica, banca, commercio o impresa italiana,
s’intende – salvo qualche rarissima eccezione – che noi
in Italia non ci abbiamo a veder niente affatto, ma che
solo è nato nel nostro paese l’uomo che ne ha avuto
l’idea e il coraggio, la perseveranza e la sapienza
d’attuarla.
È il capitale che dà la nazionalità all’impresa.
In tutte quelle industrie che si dicono italiane, perchè
fondate, dirette, amministrate e lavorate da italiani, il
carattere d’italianità è assolutamente transitorio; dipen-
de spesso dalla vita d’un uomo. A poco a poco, per ces-
sione o per eredità, passano tutte in mani straniere – che
spessissimo sono quelle dei figli – e di nostro non resta
che la mano d’opera, la forza motrice. È poco. La mano
d’opera è come il vomero dell’aratro che umile e basso
183
si nasconde nel lavoro assiduo e passa ovunque sconvol-
gendo e fecondando, e che poi non è nulla di fronte al
valore della terra e del grano. E poco monta che sia stato
forgiato di ferro italiano o di ferro cinese.
*
* *

Continuiamo la nostra rivista del lavoro.


La pastorizia – che, dopo l’agricoltura, è la più grande
fonte di produzione – ha fatto sorgere altre industrie, per
opera sempre d’italiani. A due fabbriche italiane il po-
polo deve una parte delle sue vestimenta di lana. Un
opificio fornisce anche di quei ponchos caratteristici,
mezzo mantelli e mezzo scialli, che una volta le donne
tessevano nei ranchos solitarî. Due fabbriche italiane
trasformano la lana in cappelli, dai più rozzi ai più ele-
ganti, e coprono quasi tutte le teste della Repubblica,
anche quelle degli eleganti che non comprano nulla se il
negoziante non giura loro che ciò che vende viene diret-
tamente da Parigi.
Le pelli si esportavano semplicemente secche o salate;
gl’italiani hanno introdotto l’arte del conciare. La con-
ceria ha fatto sorgere le fabbriche di selle e di scarpe e
sono gl’italiani che le hanno create e che vi lavorano.
Sempre troviamo gl’italiani come iniziatori d’industrie,
le quali utilizzano ciò che una volta si gettava via, che
traggono ricchezze dal niente, che aumentano enorme-
mente la produttività dal paese. Se non hanno un gran

184
posto nelle statistiche dell’esportazione, servono a limi-
tare grandemente l’imposta che l’Argentina paga
all’estero sotto forma di compere. Vi sono industrie che
in una nazione sono quello che la buona massaia è nella
casa: fanno economia di tutto, raccolgono ciò che viene
abbandonato, lo trasformano, l’utilizzano; e il loro lavo-
ro continuo e silenzioso, spesso inapprezzato, alla fine
raddoppia l’attivo. Dal grasso degli animali, una volta
abbandonato insieme alla carne – non si prendevano che
le ossa, il cuoio e le corna – ora si toglie la stearina, la
margarina, l’oleina. Furono italiani i primi ad usufruire
delle carni istituendo i saladeri dove a migliaia al gior-
no si macellano i buoi, la cui carne salata, il tasaio, vie-
ne esportato in grandissima quantità, mentre le altre par-
ti degli animali si trasformano in olio, in colla, in cuoio.
Profittando della stearina a buon mercato, degli indu-
striali italiani hanno fondato una fabbrica di fiammiferi
che produce centocinquanta milioni di scatole all’anno
emancipando completamente il paese da quella importa-
zione.
Si può giurare che non esiste un ramo d’attività che non
si debba all’iniziativa italiana. Coltivata la terra e otte-
nuto il grano, gl’italiani crearono i primi molini. Ottenu-
to il granoturco, crearono le distillerie. Ottenuto il riso
crearono le fabbriche di amido. L’uva era stata dichiara-
ta di coltivazione impossibile in questa terra piana come
un mare: la vite non verdeggia che sui colli. Essi cerca-
rono lontano, ai piedi delle Ande, le colline e vi pianta-
rono il prezioso arbusto. Vi mancava l’acqua; laggiù
185
non cade la pioggia – i temporali umidi dell’Atlantico
lasciano l’acqua lungo la immensa traversata della Pam-
pa – ed essi chiusero la strada ai fiumicelli che scendono
dai ghiacciai per le paurose gole della Cordigliera e irri-
garono con le loro acque trecentomila ettari di terra.
Una sola casa vinicola italiana di Mendoza produceva
quarantacinquemila ettolitri di vino all’anno. Dico «pro-
duceva» perchè la crisi argentina ha travolto anch’essa
nel turbine disastroso, gettandola a terra con altri colos-
si.
Anche nelle imprese d’iniziativa straniera, nelle ferrovie
inglesi, nelle officine elettriche tedesche, per tutto, entra
sempre il lavoro italiano. La mano italiana con la sa-
pienza e la pazienza del ragno tesse e ritesse la tela della
ricchezza argentina, che i turbini politici ed economici
lacerano via – e noi sappiamo come.
*
* *

Ecco che cosa è il lavoro italiano! Ma noi possiamo es-


sere orgogliosi di ben altro! Noi abbiamo portato in par-
te i germi della coltura intellettuale nell’Argentina; è un
lavoro che non si ricorda e non si vuol ricordare. Adesso
l’emigrazione intellettuale è preclusa dall’Argentina
(come l’emigrazione dei malati o degli storpî o dei vec-
chi) per mezzo d’un feroce protezionismo che impone la
così detta «rivalidazione delle lauree straniere» – della
quale parleremo in seguito – che si risolve in un vero

186
sfratto ai laureati stranieri. Ma se l’Argentina ha laureati
suoi da proteggere, molto lo deve all’Italia.
Furono italiani i primi professori che incamminarono la
scuola argentina sulla via delle moderne discipline, tra-
sformando in ateneo ciò che non era al più che un semi-
nario. Ai principî del secolo passato l’emigrazione ita-
liana non era composta che di esuli politici, ossia – in
gran parte – di uomini intelligenti. Per molti anni la pa-
rola «emigrato» da noi non significava che «perseguita-
to» per l’amor di patria. Ne arrivarono laggiù di questi
emigrati, ad ogni rivoluzione repressa e ad ogni congiu-
ra scoperta, come ne arrivarono a Londra: ossia dove la
distanza o la libertà garantivano la vita. Da dopo il ’21
gli annali dell’Università di Buenos Aires e di Cordoba
cominciano a registrare nomi di professori italiani. Tro-
viamo il fisico Carta Molina, fondatore del primo gabi-
netto di fisica sperimentale, poi perseguitato sotto
l’accusa d’essere unitario e rinchiuso per forza in un
manicomio dove è morto. Troviamo il naturalista Carlo
Ferraris, fondatore della prima cattedra di storia naturale
e del primo museo zoologico; troviamo il fisico Massot-
ti, fondatore del primo osservatorio astronomico, e il
Moneta al quale si deve l’Ufficio delle Opere Pubbliche
dello Stato, ed anche la prima carta geografica esatta del
paese. Quando si è fondata una facoltà di matematica e
ingegneria, i professori furono tutti quanti italiani. Arri-
varono verso il ’65 i professori Ströbel e Speluzzi di Mi-
lano, Rossetti, Ramorino, Luzzetti che insegnarono
scienze esatte. Ora tutti sono morti, e poco si ama ricor-
187
darli. Potrei continuare a empire pagine di nomi di ita-
liani che hanno dedicato la loro vita a mettere al corren-
te gli argentini delle nostre scienze e della nostra civiltà;
dal prof. De Angelis, che è stato il primo a raccogliere
le leggi argentine, e il primo anche a raccogliere tutti i
documenti della storia di quel popolo, fino al prof. Giu-
seppe Tarnassi, che è il primo ad occupare la cattedra di
latino all’Università di Buenos Aires, cattedra ultima-
mente istituita.
Se le statistiche della produzione e del commercio pos-
sono darci l’idea del valore del nostro lavoro materiale,
disgraziatamente nessuna statistica può darci quella del
nostro lavoro intellettuale, la cui influenza meno imme-
diata è tanto più vasta e profonda.
*
* *

Ecco rapidamente tracciato il quadro del lavoro italiano


nell’Argentina. Era necessario per comprendere quanto
la situazione morale, materiale e politica dei nostri emi-
grati laggiù sia diversa da quella alla quale essi hanno
diritto.

188
ERRORI E DIFETTI
DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA.18

Pochi popoli pagano al mondo un tributo d’emigrazione


più grave dell’italiano; e pure la nostra stessa emigrazio-
ne sembra dimostrare – contraddizione strana – che noi
manchiamo delle migliori qualità di popolo emigratore.
La massa dei nostri emigranti non ha preparazione, non
conosce nulla del paese dove approda, e trova tutto ina-
spettato; non ha coscienza della sua forza e del suo valo-
re; non è plasmata nè da una coltura, nè da una educa-
zione, e si forma facilmente sopra un altro stampo; ha
una verginità intellettuale che la rende duttile. Per una
profonda ignoranza di cui noi in Italia, purtroppo, abbia-
mo la colpa e la responsabilità, la massa degli emigranti
non conosce nemmeno il suo stesso paese, ne ignora le
glorie e le grandezze, e non può sentire perciò l’orgoglio
di essere italiana, non può provare quell’infinita soddi-
sfazione della superiorità di razza che crea le pacifiche
conquiste. Di fronte ad un nuovo popolo, in un nuovo
ambiente, la cui brillante appariscenza la sua semplice
mente non può sondare, essa si sente inferiore; ritiene
come un torto proprio l’essere diversa; ne prova umilia-
zione, e tende a far scomparire ogni diversità modifican-
dosi. E tutto questo perchè la nostra è una emigrazione

18 Dal Corriere della Sera del 6 luglio 1902.

189
di braccia, un’esportazione di muscoli, e troppo poco –
in proporzione – d’intelligenza. Gli intelligenti nelle
masse sono come i graduati nell’esercito, una piccola
minoranza che guida, non fosse altro con l’esempio, che
unisce in un’azione comune. Togliete gli ufficiali ad un
esercito d’eroi, ed avrete la fuga più vergognosa. L’eser-
cito dei nostri emigranti manca di ufficiali, e si sbanda,
e si arrende alla spicciolata, subito, cedendo bene spesso
quell’arma potente che si chiama «dignità nazionale».
Gli apprezzamenti che vado facendo si riferiscono al
complesso della nostra emigrazione, s’intende; grazie a
Dio si trovano per tutto dei fieri italiani, i quali prima
d’ogni altro riconosceranno la loro dolorosa impotenza
di fronte alla massa. Dopo d’avere constatato i trionfi
gloriosi del lavoro italiano nell’Argentina, possiamo
bene rilevare spassionatamente qualche nostro difetto,
nel quale si possono trovare le cause di alcuni mali della
nostra emigrazione.
*
* *
L’emigrazione nostra, così com’è, fa pensare all’espor-
tazione d’una materia prima destinata ad essere trasfor-
mata ed adoperata. Subisce tutte le influenze senza resi-
stere perchè è ignorante, cioè debole, e miserrima, cioè
disarmata. In queste condizioni appena giunge ad im-
mettersi nella nuova società, ne occupa l’infimo posto,
ossia il più disprezzato. Laggiù nella scala delle posizio-
ni sociali vi è un gradino di più, in basso: dopo il povero
viene l’immigrante. Esso è più povero del povero nella

190
conoscenza dell’ambiente e delle condizioni della sua
nuova vita. Esso non potrà elevarsi che col lavoro, la so-
brietà ed il risparmio. Questo significa che sarà costretto
ad una vita di sacrificî, di gretterie e di umiliazioni, la
quale, in mezzo al lusso dell’ambiente argentino e alla
grandiosità dissipatrice dei «figli del paese», formerà un
contrasto stridente che porrà l’emigrante sotto una luce
ancora più dispregevole.
Osserviamo un emigrante qualunque, un emigrante
«tipo» – piemontese o calabrese, poco importa – che ar-
riva dal suo campo in cerca della fortuna. È umile per
necessità, timido per ignoranza, si presta ad essere sfrut-
tato e malmenato in silenzio perchè non conosce i suoi
diritti – del resto comprende ben presto che il reclamare
per i torti ricevuti è inutile, se non rovinoso, e che egli è
solo e abbandonato. – Egli ammira tutto perchè nulla ha
visto mai. Ciò che è diverso per lui è migliore. Conser-
verà della Patria una nostalgia istintiva, l’amore per i
luoghi ove si è nati, quell’amore che il tempo ed i ricor-
di rendono sempre più dolce: amerà ricordarla, ma più
andrà avanti con gli anni e meno conoscerà la vera gran-
dezza e le glorie del suo Paese, perchè nella sua mente
l’idea della Madre Patria non sarà altro che l’idea del
suo passato. Vedrà lontano una casupola, un villaggio,
una valletta; la sua casa, il suo villaggio, la sua valle.
Quella è l’Italia; tutto il resto è vago, incompreso, inde-
finito. Talvolta si accorge che la sua qualità di straniero
lo esclude da mille benefizî, lo priva di garanzie e di di-
ritti; si trova come un veltro estraneo alla muta che lo
191
guarda bieca e ringhiosa intorno alla curée. Allora, rara-
mente, ma non troppo, e se i suoi mezzi e la sua posizio-
ne lo permettono, cerca di cambiar manto, di rendersi
più simile che sia possibile ai fortunati, cerca di cancel-
lare le traccie di italianità che gli sono rimaste, e comin-
cia dal modificare il proprio nome. Si chiama Chiesa si
cambia in Iglesia; se si chiama Speroni si trasforma in
Espuelas; e si vede così un Montagna divenire señor
Montaña, un Bibolini cambiarsi in Bibolian. – Disgra-
ziatamente non mancano esempî!
Questo emigrante sarà doppiamente prezioso per il pae-
se che lo acquista, ma quale sostegno potrà essere al no-
stro prestigio nazionale?
Quanto dico è amaro a dirsi, ma più amaro ancora a ta-
cersi. Del resto, la causa di questi mali è qui, è in Italia,
ed in Italia soltanto può esservi la cura.
L’animo del nostro paese è rimasto estraneo all’emigra-
zione; questa non rappresenta l’espansione d’un organi-
smo esuberante di vitalità, ma piuttosto un male specia-
lizzato d’una sua parte. Essa non ci ha preoccupato che
di tanto in tanto per un sentimento umanitario, e niente
più. Non abbiamo pensato a sorreggerla, a dirigerla, a il-
luminarla. L’emigrazione nostra è come sangue vivo
sgorgante dalla piaga incurata della nostra miseria e del-
la nostra ignoranza. La piaga è vecchia e non ci dà dolo-
re, e poco ci curiamo se questo po’ di sangue nostro
cade, si disperde, va a male. Non abbiamo veduto tutto
il buono e tutto il cattivo che dalla nostra emigrazione
poteva venire. Ben altrimenti dovevamo invigilarla e
192
proteggerla, farle sentire lo sguardo della Madre Patria
fiso sopra di lei; darle un ampio stato maggiore d’intelli-
genti.
Dalla Germania, dall’Inghilterra emigrano masse di gio-
vani che escono da scuole create apposta per aprire gli
occhi, che si sparpagliano per il mondo a battere sempre
nuove vie per dove in breve s’incanalano i commerci
delle loro patrie, delle quali così s’aumenta il prestigio e
la potenza ovunque. Nuove regioni sono sondate, stu-
diate, e ad esse dirette le masse emigratrici nella propor-
zione e nella composizione necessarie.
I rarissimi giovani colti frammisti all’emigrazione italia-
na, non partono ordinariamente – salvo onorevoli ecce-
zioni – che quando vedono fallito l’ultimo tentativo per
ottenere un umile impiego, sia pure a mille e cento. Van-
no senza idee, senza progetti, senza appoggi e senza
mezzi, travolti nel turbine della miseria, e privi perciò di
quella grande forza che è l’indipendenza. Talvolta cado-
no per non rialzarsi più, talora invece riescono a formar-
si una posizione; ma imparano laggiù, alla scuola della
vita, quanto il paese nativo non s’è curato d’insegnar
loro, ed è naturale che si modifichino, che si adattino
all’ambiente; non possono serbarsi italianamente puri, e
nello istesso tempo lottare per il pane in un ambiente
dove sentono l’ostilità mordente, sorda, continua e tena-
ce contro lo straniero.
Nessun uomo può rinunziare allo spirito di conservazio-
ne. L’emigrazione italiana ha perciò poche guide e pochi
esempî, e viene a mancare così di quella mirabile coe-
193
sione che è la caratteristica di altre emigrazioni.
Aggiungete la impunità che la cattiva giustizia assicura
così spesso al «figlio del paese» quando commette reati
a danno d’italiani – i quali sopportano tutto in espiazio-
ne di quel peccato originale che è l’essere gringo – ag-
giungete l’inazione diplomatica che lascia i nostri con-
nazionali esposti all’arbitrio, al sopruso e alla brutalità,
ed avrete un’idea della posizione forzatamente umile
dell’emigrato italiano.
È per questo che noi laggiù non abbiamo sempre troppa
fierezza, e non facciamo mostra di un’eccessiva dignità
nazionale. Un anno e mezzo fa, poco tempo dopo che al
Brasile si era data una sanguinosa caccia all’Italiano –
pagata poi con un po’ di denaro, senza nessuna soddisfa-
zione per la bandiera italiana che la folla aveva oltrag-
giato trascinandola nel fango – il Presidente del Brasile,
Campos Salles, si è recato a Buenos Aires. Moltissime
Società italiane con bandiera e musica andarono a rice-
verlo, qualcuna di quelle Società diede persino feste in
suo onore, e alla sera le facciate delle sedi sociali furono
illuminate. Un ricco signore italiano giunse persino ad
offrire la sua casa per ospitarvi il Presidente brasiliano,
offerta che, si capisce, venne senza indugio accettata. E
come questo, troppi altri «omaggi» inconsiderati rendia-
mo. In tutto ciò vi è molta ingenuità, molta incoscienza,
desiderio di far cosa gradita, entusiasmo impulsivo e in-
coerente. Siamo latini anche noi; una bandiera spiegata
e un festone di lampadine elettriche bastano spesso a
farci gridare evviva. C’è il buon cuore, il cuore italiano,
194
perchè con quello si nasce e si muore, ma non c’è il ca-
rattere italiano, perchè il carattere si forma; e, disgrazia-
tamente, in Italia non è popolarizzato il mistero della
sua formazione. Le nostre masse povere che emigrano
sono moralmente amorfe.
*
* *

I danni che a noi derivano da questa emigrazione sono


materiali e morali. I materiali: l’Italia che ha nell’Argen-
tina più d’un milione dei suoi figli – ossia un quarto del-
la popolazione della Repubblica – non contando i loro
discendenti, non occupa nell’importazione di quel paese
che il quarto posto, e il settimo nell’esportazione. I dan-
ni morali sono molto più gravi: laggiù si giudica del no-
stro paese in base all’emigrazione.
Gli Argentini stimano la Spagna perchè ne sono figli,
l’Inghilterra perchè ne sono debitori, la Francia perchè
ne sono satelliti, la Germania perchè ne sono clienti, gli
Stati Uniti perchè ne sono ammiratori e imitatori.
Dell’Italia sanno poco (la coltura storica e artistica non
è in verità il loro forte), fuorchè essa manda laggiù ba-
stimenti carichi di suoi figli, attivi, infaticabili, preziosi,
sì, ma poveri e umili, due qualità straordinariamente di-
sprezzabili, specialmente in un paese dove il denaro e
l’orgoglio sono tutto. L’Italia è generalmente raffigurata
dalla massa criolla come un paese di affamati, saturo di
popolazione – quasi una piccola Cina – che ha bisogno

195
di tendere la mano alla ricca e progredita America. Ba-
sta vedere le allegorie politiche dei giornali illustrati,
nelle quali v’entri l’Italia, per capire, niente altro che dal
gesto di magnifica protezione dell’Argentina verso l’Ita-
lia più piccina di lei, quale è il pensiero di quella gente,
sui rapporti dei due paesi.
Ricordo che un giorno il direttore del più popolare gior-
nale della sera, parlando con me di politica europea, mi
sosteneva col massimo convincimento che l’Italia deve
l’essersi salvata dalla crisi economica, di recente e dolo-
rosa memoria, precisamente all’...Argentina. L’Argenti-
na ci avrebbe salvato prima portandoci via dei disoccu-
pati e degli affamati che avrebbero fatto la rivoluzione,
poi economicamente con i... risparmî mandati a casa da-
gli emigranti e con lo sbocco dato ai nostri prodotti.
L’egregio direttore ripeteva ciò che in più occasioni ave-
va scritto e ciò che la massa dei suoi lettori pensa.
Un giovanotto della migliore società bonearense, di ri-
torno da un viaggio in Europa, o meglio a Parigi, rispon-
dendo ad un amico mio che gli vantava la vita napoleta-
na, al sentire la parola paseos – passeggi – esclamò, con
un sorriso indescrivibile:
— Caramba, me abria gustado ver los napolitanos in
coche! – Perbacco, mi sarebbe piaciuto vedere dei napo-
letani in carrozza!
Un altro aneddoto ancora più caratteristico. Il figlio
d’un ministro argentino si trovava a Napoli con un ami-
co italiano, ora stimatissimo professore di latino a Bue-
nos Aires, e passeggiando per la città, meravigliato del
196
concorso elegante, esclamò: – Ma qua sono tutti stranie-
ri! – L’amico rispose distrattamente che ci sono sempre
molti stranieri a Napoli. Alla sera, al San Carlo, il figlio
del ministro non si era ancora seduto nella sua poltrona,
che girando lo sguardo sorpreso intorno alla sala ripetè:
— Però todos, todos estranjeros!
— Ah, no! – rispose l’amico comprendendo finalmente
– sono napoletani, tutti napoletani, che Dio ti benedica!
La sua mente non concepiva dei napoletani in abito nero
e delle napoletane in décolletée e brillanti, riuniti in una
splendida sala da teatro. Per lui, come per la maggiorità
de’ suoi concittadini, «napolitano» era quasi sinonimo di
venditore ambulante, di lustrascarpe e di spazzaturaio.
È facile immaginare quanto questa, diciamo così, poca
considerazione dei nativi contribuisca a deprimere mag-
giormente il morale del nostro emigrante. L’Argentino,
per la sua natura spagnolesca – che sotto certi aspetti
può anche avere alcunchè di simpatico – è superlativa-
mente orgoglioso, e convinto della sua indiscutibile su-
periorità sopra tutti gli altri umani dell’universo – ed è
abituato a sentirselo dire. Anche nelle sue dimostrazioni
di amicizia e di simpatia vi è sempre un’aria di degna-
zione, di protezione; nella sua cordialità c’è della bene-
volenza; si pone a vos ordenes per una forma di squisita
e cavalleresca educazione, ma non riconosce nè ordenes
nè deseos se la sua vanità non è solleticata; egli può
concedere, mai cedere. Nelle transazioni fra uno stranie-
ro e un «figlio del paese» vi è sempre il carattere di tran-
sazioni fra inferiore e superiore, anche se avvolti nel
197
velo soave di una educazione inappuntabile. Per di più,
se gli argentini colti, quelli che formano la minoranza
dirigente, sentono nella prosperità in cui vivono i van-
taggi incalcolabili della nostra emigrazione, e la deside-
rano e la provocano, la massa povera criolla, quella che
vive disseminata nella campagna, ne sente invece i dan-
ni. Una volta era padrona della Pampa, che la nutriva
senza la dolorosa necessità del lavoro. Ora, dove è l’ita-
liano enlazare un bue diventa un furto; il colono difende
i frutti del suo lavoro, e il gaucho è costretto per vivere
a lavorare nell’estancias qualche mese dell’anno; ciò of-
fende la sua dignità. Egli ha rancore contro il gringo, e
di quando in quando all’occasione si vendica a colpi di
rivoltella, troppo spesso impunito.
La situazione dei lavoratori italiani, specialmente nei
campi, è in certo modo simile a quella degli ebrei in al-
cune nazioni d’Europa, i quali fanno liberamente i loro
affari, ma un’ostilità blanda e latente li circonda. Alla
prima occasione si sentono gridare in faccia la parola
«ebreo» come un’ingiuria. Laggiù si grida: gringo.
L’italiano si chiama gringo, un vocabolo dispregiativo,
che non ha la traduzione. Non se ne sa nemmeno l’origi-
ne: alcuni credono che venga da griego-greco. Parrebbe
che una volta, in uno dei primi anni del secolo passato,
sbarcasse al Plata una comitiva di cavalieri d’industria
greci, che rubarono mezzo mondo e poi presero il largo.
Da allora si sarebbero chiamati griegos gli stranieri,
quasi come per dirsi: – In guardia amico! – Da griego
gringo; e questo appellativo è restato quasi esclusiva-
198
mente sulle spalle degli Italiani. Non sono molti anni
che rappresentava un’ingiuria mortale, ma poi i gringos
sono diventati tanti che la parola ha perduto molto
dell’acerbo significato, restando una semplice espressio-
ne disprezzante, come potrebbe essere da noi il vocabo-
lo «stranieraccio». In forma amichevole gringo si cam-
bia in gringuito. Spesso invece è seguito da un immon-
do qualificativo decentemente intraducibile e pure tanto
comune laggiù, che pare non abbia altro scopo che di ri-
portare la parola gringo all’antico ingiurioso significato.
Un argentino si offende se viene chiamato gringo. Tutti
gl’Italiani indistintamente sono gringos. L’appellativo è
usato correntemente. Dei gringos il più dispregiato è il
tano. Tano è la corruzione di «napoletano». Tutti i meri-
dionali sono «tani». Questa parola non è molto usata
nelle classi decentes; se ne fa abuso nel volgo, special-
mente della campagna. Siccome i poveri emigranti me-
ridionali, calabresi, abruzzesi, napoletani, siciliani, sono
i più miseri e i più incolti, la parola tano poco a poco è
venuta a designare l’ultimo gradino dell’umiltà umana.
Dire tano è come dire «miserabile!» Di questa parola
non esiste un vezzeggiativo in tanito: tano è sempre di-
spregiativo assoluto. L’Argentino irritato vi dice in fac-
cia gringo: irato vi grida tano. Ciò significa che le paro-
le equivalenti a italiano e napoletano occupano un posto
nel vocabolario delle ingiurie. E il nostro orgoglio non
ne può essere lusingato.
Nel teatro criollo, che è una derivazione recente
dell’antico teatro spagnolo, s’incontra spesso il tano.
199
Come in tutti i teatri primitivi i caratteri dei personaggi
rimangono stereotipati attraverso le diverse commedie,
formando quasi delle maschere; fra queste maschere il
tano fornisce il diversivo allegro: è burlato da tutti, parla
a strafalcioni; è un po’ il «servo sciocco» delle antiche
scene italiane, ma più servo e più sciocco, per di più la-
dro e.... bastonato. Questo solo basterebbe a farci com-
prendere la strana depressione del nostro prestigio.
*
* *

Fra chi è nato al di qua e chi è nato al di là dell’Atlanti-


co v’è una barriera invisibile che l’Argentino sente e ap-
prezza; ed attribuisce alla propria generosità e alla pro-
pria bontà il non farla sempre valere. Esso si ammira in
buona fede; dice e scrive in fondo in fondo così: «tutta
questa gente moriva di fame nel suo paese, è venuta
qua, ed io non la scaccio; come sono buono, generoso,
ospitale!» Tutti hanno interesse di ripetergli in coro
«come siete buono, generoso, ospitale!» – e la barriera
invisibile persiste minacciosa.
Oh! facciamo una buona volta i calcoli di questa ospita-
lità generosa, vediamo da quale parte sono gli utili mag-
giori, immaginiamo che cosa sarebbe quel paese senza
di noi, ed osserviamo ciò che è; vediamo chi crea la sua
ricchezza, vediamo chi produce e chi spende, chi suda e
chi gode, chi fa e chi disfà. Smettiamo di mentire, per-
chè la nostra dignità ne ha sofferto abbastanza.

200
Il nostro lavoro è richiesto: si domandano braccia. –
«Che cosa guarirà mai la profonda crisi argentina?» –
chiedevo un giorno al senatore Canè, uno dei più colti
politici argentini. – «Non c’è che un rimedio: l’emigra-
zione» – mi rispose. Dunque da una parte si chiede
l’emigrazione, dall’altra vi è la potenza di soddisfare la
domanda. Si può ben trattare come parti contraenti, met-
tere delle condizioni, volere delle garanzie, pretendere
un po’ di giustizia per i nostri poveri connazionali, in
cambio della immensa forza che noi diamo, e che noi
dovremmo dirigere.
La vera Italia è sconosciuta o misconosciuta laggiù: la
sua voce timida vi fu raramente udita; ascoltata mai. Il
solo fatto di chiedere niente altro che il mantenimento
delle calpestate promesse costituzionali, come il «diritto
alla vita, all’onore, alla libertà, all’eguaglianza, alla pro-
prietà e alla sicurezza», ci porrebbe immediatamente in
una ben diversa situazione morale.
«Parla? dunque vive!»

201
UNIONI E SCISSIONI.19

Gl’italiani al Plata sono riuniti in circa trecento associa-


zioni diverse: il che significa che sono perfettamente di-
suniti.
La questione delle associazioni ha laggiù un’importanza
speciale perchè da essa deriva una grande debolezza,
una mancanza di coesione morale, una dispersione di
forze e di ricchezze nella nostra colonia, mentre potreb-
be e dovrebbe essere un elemento di unione e di poten-
za.
La cosa andrebbe studiata con cura. Noi abbiamo nel
sangue un po’ di spirito di scissione; è indubitabile. Il
disaccordo non è lo stato meno normale dei nostri spiri-
ti; la discussione ci piace. Anche quando siamo in due
abbiamo sempre qualche idea altrui da combattere e
qualche idea nostra da patrocinare. È un difetto latino; le
nostre anime si avvolgono nell’antica toga sempre pron-
te all’orazione. Le discussioni sprizzano fuori dall’urto
delle opinioni come le scintille dall’urto dei corpi, e noi
amiamo soverchiamente queste scintille della discussio-
ne. Da questo viene il caratteristico chiacchierìo tumul-
tuoso della nostra folla a cui si contrappone il mutismo
solenne e impressionante della folla inglese, per esem-
pio, della quale si ode il rumore, ma non la voce. Una
folla anglo-sassone o teutonica agitata da un entusiasmo
19 Dal Corriere della Sera del 30 luglio 1902.

202
è unita persino nell’evviva!, col suo hip, hip, urrah!, e
canta in coro. E il canto collettivo – anche quando è sto-
nato – è il segno migliore dell’accordo.
Questo nostro spirito di scissione noi lo troviamo esage-
rato negli italiani all’estero, e specialmente in America.
La massa della nostra emigrazione, come già abbiamo
avuto occasione di rilevare, proveniente da paesi diver-
sissimi, misera e incolta nella generalità dei casi, è nel
complesso deficiente di quelle qualità che formano il ca-
rattere nazionale. Per di più la necessità del lavoro la di-
vide: la lotta accanita per l’esistenza o per la fortuna fa
di un uomo quasi l’avversario d’ogni altro uomo. Le
preoccupazioni della vita attuale distolgono la mente
dalle cose della patria, le cui conseguenze, del resto, non
sono più immediate; la distanza e il tempo annebbiano e
discolorano quanto si è lasciato indietro; sulla nuova ter-
ra altre tradizioni ed altre usanze fioriscono e fanno di-
menticare le antiche; ogni cosa, insomma, concorre ad
allentare i vincoli dell’unione. Infine l’allargarsi d’una
nuova civiltà offre a tutte le ambizioni in concorrenza
l’esca di nuovi onori, reali e fittizî.
L’onore che è più a portata di mano laggiù è dato dalla
carica di presidente, di consigliere, di segretario, di
qualche cosa insomma di una società italiana. Vi sono
società italiane utili e benemerite della collettività, ma
ve ne sono molte il cui scopo è proprio quello di fornire
delle cariche sociali ai soci, un titolo onorifico da sosti-
tuire al cavalierato che il democratico regime americano
non ammette. Le cariche sociali vi si cambiano a turno
203
una volta all’anno. Così chiunque può diventare il señor
Presidente; il che in Republica è straordinariamente lu-
singhiero. Un distintivo all’occhiello, il diritto di pren-
dere la parola in un Comizio o di mettere il proprio
nome in fondo ad un manifesto, esercitano un’attrazione
straordinaria.
Quando una società comincia a diventare troppo nume-
rosa, subito la minoranza, priva di cariche sociali, si
stacca in massa e fonda una nuova società. Molte asso-
ciazioni italiane si riproducono per scissione, come i ba-
cilli.
Da questa straordinaria quantità di associazioni l’unione
non è certo cementata; è una fermentazione di rivalità,
di antipatie, di ambizioni e anche d’interessi, un lavorìo
demolitore, un indebolimento doloroso, una corrosione
lenta e continua della compagine morale della nostra co-
lonia.
Quando una gioia o un lutto della Nazione fanno battere
all’unisono tutti i cuori italiani, quando giunge dalla Pa-
tria un grido d’entusiasmo o di dolore, allora si compie
per un momento il miracolo dell’unione, allora tutte le
bandiere, gli stendardi e i simboli degli innumerevoli
gruppi italiani si vedono riuniti per le vie agitati dallo
stesso fremito, in mezzo ad un popolo, un altro popolo
italiano, che è mosso da uno stesso amore. Si ha in quel
momento la visione rapida, di fronte all’imponenza del-
la massa enorme, della irresistibile possanza della nostra
unione. Ma è un momento! Il giorno dopo, la discordia
ricomincia il suo triste lavoro di tarlo, che sgretola, pol-
204
verizza e disperde l’anima italiana.
*
* *

Non parliamo delle associazioni e dei circoli che hanno


per scopo il divertimento; essi si comprendono; il loro
moltiplicarsi o il loro diminuire non ha alcuna influenza
sopra l’unione della collettività. Anzi la loro presenza è
un bene perchè i nostri connazionali vi trovano un sol-
lievo e un riposo, che senza tali clubs dovrebbero cerca-
re in ambiente straniero. Esaminiamo invece quelle as-
sociazioni il cui scopo non è il divertimento, ma l’inte-
resse. Nella sola Buenos Aires vi sono sopra a cinquanta
Società di mutuo soccorso e di previdenza.
La prima di queste società la Unione e Benevolenza
venne fondata nel ’58. In quell’epoca la forma di mutuo
soccorso s’imponeva, era l’unica garanzia per i lavora-
tori dispersi in un paese nuovo, e anche l’unica forma di
difesa che fino allora la previdenza collettiva avesse tro-
vato.
La scissione si è manifestata subito nella prima società,
dalla quale si distaccò, tre anni dopo dalla fondazione,
la Nazionale Italiana. E altre e altre si formarono; dalla
XX Settembre si stacca la Nuova XX Settembre. Sorgono
la Colonia Italiana, l’Unione Operai Italiani, l’Italia
Unita, la Giovane Italia, e nello stesso anno l’Italia
(senza aggettivi); più tardi la Nuova Italia, l’Italia Ri-
sorta, l’Italia al Plata, e – ironia dei nomi – l’Unione

205
Italiana. Due società di mutuo soccorso prendono il
nome di Vittorio Emanuele II, due di Cavour, due di
Umberto I. L’associazione di mutuo soccorso Galileo
Galilei, non è la stessa – come potrebbe credersi – della
Eppur si muove. Una serie di associazioni si forma in
nome della fratellanza: Unione e Fratellanza, Progresso
e Fratellanza, Fratellanza Artigiana... Si formano asso-
ciazioni femminili di mutuo soccorso: l’Unione e Bene-
volenza femminile, la Margherita di Savoia, la Figlie
d’Italia, la Società femminile...
È facile immaginare quanto tale suddivisione di capitali,
di amministrazioni e di forze direttive sia a tutto nocu-
mento del mutuo soccorso. Ma dall’84 comincia a far
capolino una ben più grave e dolorosa divisione, che
viene a scindere non soltanto gl’interessi della collettivi-
tà, ma i suoi sentimenti di patriottismo e di amore; in-
tendo parlare del regionalismo. Sorge prima una Unione
Meridionale che accentua la triste rivalità fra il nord e il
sud. Segue la Stella di Napoli, poi una Partenope, dalla
quale naturalmente si distacca una Nuova Partenope;
poi l’Unione Calabrese, il Circolo Sannitico, la Veneta
di M. S., l’Abruzzo, la Magna Grecia, l’Unione Sarda, la
Ligure di M. S., il Centro Pugliese, i Figli di Sicilia e
via via.
Tutti questi innumerevoli aggruppamenti, aventi un uni-
co scopo, non erano proprio necessarî; le antiche piaghe
delle nostre fraterne discordie, cicatrizzate in Patria, si
riaprono laggiù. Lo spirito italiano, non troppo forte
all’inizio, ne è sempre più indebolito. E la Patria disgra-
206
ziatamente non esercita quell’azione tutelare, al di sopra
di tutte le lotte di campanile, azione che dovrebbe essere
come una dolce amorosa protezione materna sui figli
lontani. I figli crescono in discordia quando la madre
non li cura!
*
* *

Il mutuo soccorso si è cristallizzato nell’antica forma


perchè non ha mai avuto la forza, data la suddivisione
ad oltranza dei capitali, di trasformarsi nella moderna
assicurazione. Le molteplici società di mutuo soccorso
nella sola Capitale hanno quasi ognuna una sede pro-
pria, per la quale si è immobilizzata grande parte del ca-
pitale sociale. I soci pagano una tassa mensile che varia
intorno ad un peso e mezzo (L. 4 circa) per avere la visi-
ta medica gratuita nei periodi di malattia, e una piccola
pensione di un peso circa al giorno fino alla guarigione,
pensione che decresce secondo norme stabilite e che in
certi casi diviene minima. Riunite tutte queste associa-
zioni bonearensi, compresa la Società di Beneficenza in
una, si avrebbe un sodalizio con venticinque milioni di
capitale, con settantamila soci che, pagando premî mini-
mi, verserebbero sette milioni circa di franchi all’anno.
Quante miserie sollevate, quante lacrime asciugate,
quante rovine scongiurate! E sopra tutto quale forza pro-
digiosa non verrebbe ai nostri connazionali da questa
unione d’interessi, e quale indipendenza?

207
Alcune delle società che ho nominato, e specialmente le
più antiche, debbono essere considerate al di fuori del
meschino battagliare delle ambizioni e delle rivalità. La
loro colpa è quella di non aver compreso quanti danni
venivano per riflesso alla Patria ed alla colonia per la
loro disunione, e di non essersi modificate col volgere
degli anni. Ma in compenso queste associazioni hanno
prodigato tanto bene nella collettività, da esse sono par-
tite nobili iniziative, e la loro azione, per quanto divisa,
ha avuto sempre per movente l’amore all’Italia, riuscen-
do a mantenere più a lungo che fosse possibile i vincoli
fra la Madre Patria e i suoi figli lontani.
La Società di Beneficenza da cui dipende l’Ospedale ita-
liano, ha potuto curare sopra a quarantamila infermi, in
venticinque anni; la sede dell’Ospedale, da pochi mesi
inaugurata, costa tre milioni circa, e non ha nulla da in-
vidiare alle migliori cliniche.
Undici di queste associazioni italiane di Buenos Aires, e
dieci nelle provincie, hanno diritto sopra le altre alla no-
stra più viva simpatia e alla nostra riconoscenza, perchè
mantengono a loro spese delle scuole italiane. Esse han-
no compreso che solo la scuola poteva essere il mezzo
per tenere vivo nella colonia il sacro fuoco dell’amor di
Patria. Hanno lottato contro ogni difficoltà con perseve-
ranza e patriottismo per cercar di dare ai figli d’italiani
un po’ d’anima italiana. Sono riusciti? Questo esamine-
remo spassionatamente più avanti. Alla questione delle
scuole italiane è legato il grave problema dei «figli
d’italiani», che vivamente c’interessa, perchè rappresen-
208
ta il problema dell’avvenire.
Per ora osserviamo che le scuole italiane di tutta la Re-
pubblica Argentina sono frequentate solo da tremila e
cinquecento bambini, debole cifra se si pensa al numero
grande di italiani che vivono laggiù.
Così la scuola italiana non può avere una profonda e va-
sta influenza sulle generazioni che crescono; essa resta
come un simbolo, più che come istituzione viva e vivifi-
cante; un simbolo per il quale lottano tanti patriotti ge-
nerosi. Ma pure, anche se quelle scuole non dovessero
avere altro risultato che questa santa lotta per l’italiani-
tà, non potrebbero dirsi inutili. Dove si lotta, sia pure
perdendo, è segno che si vive. Tutto è meglio dell’indif-
ferenza.
Ma nelle scuole, come disgraziatamente in quasi tutto
quanto parte dalla iniziativa italiana, troviamo il segno
d’una profonda divisione come un peccato originale.
Ogni scuola fa da sè, come ogni società fa da sè.
Si è parlato qualche volta di unione, ma vi sono grandi
interessi – non nostri questi – cui giova mantenere debo-
le l’elemento italiano, e molte piccole ambizioni – no-
stre queste purtroppo – che si nutrono delle scissioni.
Chi sa, forse, che se dalla Patria – la quale con più affet-
to dovrebbe vigilare e proteggere i suoi figli – partisse la
voce della concordia e dell’amore, non verrebbe ascolta-
ta!
Se la Madre parlasse, chi sa!

209
I FIGLI DEGLI ITALIANI.20

È stato molte volte scritto e detto che non v’è popolo


che emigrando si assimili maggiormente alle nuove gen-
ti e ai nuovi paesi dell’Italiano.
È un elogio od un rimprovero? Tutti e due; a seconda
del punto di vista. Si comprende che questa qualità ap-
paia una grande virtù agli occhi degli ospiti, una virtù
che centuplica i vantaggi della emigrazione, togliendole
tutti i pericoli; ma si comprende anche che agli occhi
degli altri questo potere di assimiliazione sia una grande
debolezza. Assimilarsi vuol dire finire d’essere italiani.
L’italianità infatti – specialmente nell’America latina,
dove certe affinità di razza rendono la trasformazione
più rapida e completa – non resiste sempre fino alla se-
conda generazione. I figli degli italiani, nella generalità
dei casi, non sono più italiani. Mancandoci essi, ci man-
ca l’avvenire.
Senza stolti ed ambiziosi sogni di espansione politica, e
di dominî, noi abbiamo certamente diritto di pensare che
alla nostra espansione di razza, a questo dilagare per il
mondo di centinaia di migliaia di italiani all’anno, corri-
sponda almeno una espansione della nostra forza mora-
le; che l’italianità non venga soffocata; che resti un culto
per la grande Patria, un riconoscimento delle sue glorie
antiche, fra le genti che il lavoro e la scienza italiana ar-
20 Dal Corriere della Sera dell’11 agosto 1902.

210
ricchiscono d’opere e d’idee.
Le legislazioni americane, da quella degli Stati Uniti a
quelle di tutte le altre repubbliche, che ne sono più o
meno una derivazione, si oppongono a che il figlio di
cittadini stranieri nato sul suolo americano sfugga alla
cittadinanza americana. Ed è giusto. Senza di ciò oggi
l’America non sarebbe certo degli americani. La vecchia
legge europea ha lottato lungamente, ma ha dovuto ce-
dere alla necessità. Data la natura e la estensione della
emigrazione nostra in America, il pretendere che i figli
d’italiani nati laggiù conservassero la nazionalità dei pa-
dri compiendo i doveri di cittadinanza dal di là
dell’Oceano, era assurdo. Ma non parliamo qui certo
della italianità materiale; si tratta dell’anima italiana. È
lei che scompare nei figli. Potranno certi retori gridare –
e lo gridano – che non è vero, ma il fatto resta innegabi-
le, inconfutabile.
Noi vediamo nell’Argentina i figli d’inglesi, ottimi citta-
dini argentini, ma inglesi nel sentimento, inglesi nel ca-
rattere, nella lingua; pronti a dare la vita per la nuova
patria, ma con la mente e col cuore pieni della loro vec-
chia Britannia, palpitanti per le sue sciagure ed esultanti
per le sue vittorie. Nel Chobut, da ventotto anni, viveva
una floridissima e popolosa colonia di Gallesi, in parte
figli dei primi pionieri e nati argentini, ma parlanti la
loro aspra lingua, gelosi custodi delle loro tradizioni,
fieri della loro storia. L’anno passato questi Gallesi pro-
testarono indignati contro certi atti della Giustizia Ar-
gentina; una inchiesta ordinata dal Governo inglese ri-
211
conobbe le loro ragioni, ed essi, dopo ventotto anni di
residenza nell’Argentina, abbandonarono in maggioran-
za il paese per piantare le loro tende nel Canadà, ritor-
nando più Gallesi di prima. Nel Brasile vi sono dei Mu-
nicipî tedeschi nei quali tutti gli atti si scrivono in tede-
sco. I figli d’italiani – nella generalità dei casi, s’intende
– non sono italiani, nè nella lingua, nè nel sentimento. È
colpa loro? È colpa dei loro padri? No; il male è qui, in
casa nostra.
*
* *

La prima caratteristica d’un popolo è la sua lingua. La


lingua è il più grande vincolo fra gli abitanti d’una stes-
sa nazione; è, per modo di dire, il segno primo di rico-
noscimento, come un gergo fra gli affiliati d’una stessa
immensa associazione. Sul marciapiede d’una città stra-
niera, quando fra il vocìo esotico della folla è dato di
udire una parola del nostro idioma, noi ci volgiamo rapi-
di, col cuore pieno d’una subita gioia come se la voce di
un amico ci avesse salutato, e ristiamo presso allo sco-
nosciuto che parla la nostra lingua, trattenendo la voglia
di stendergli la mano, di gridargli: «Sono italiano anche
io! venite qui, non mi lasciate!» – e lo guardiamo con
tristezza mentre si allontana, sentendoci ripiombare nel-
la soffocante melanconia della solitudine. Parlare la pro-
pria lingua all’estero significa respirare un po’ d’aria
della Patria; due parole, un saluto, bastano a sollevare il

212
nostro spirito, come se quelle parole venissero da «là»; è
tutto quanto di più caro abbiamo nella vita che ci parla
in quel momento; poche parole del nostro idioma basta-
no a far compiere all’anima un rapido viaggio in luoghi
amati e lontani, e farla tornare più lieta e serena.
«Parla la lingua della gran Patria tua» – ha scritto Rug-
gero Bonghi. «Non senti come attraverso questa si spri-
giona e si manifesta ogni idea della tua mente, ogni
moto del tuo cuore? Nessuna lingua è più bella della
tua. Nella tua lingua si rispecchia la storia della patria.
Di secolo in secolo le generazioni, che hanno preceduto
la tua, vi hanno deposto il loro animo e ve lo hanno tra-
smesso. Quando tu la parli nella purezza sua, tu vivrai
non solo con patrioti che vivono, ma ancora con quelli
altresì che hanno vissuto prima di te, e niente di fore-
stiero ti penetrerà nell’anima».
Nella lingua è il segreto dell’unione, il baluardo della
nazionalità. Ebbene, quanti italiani in Italia parlano ita-
liano?
I colti tutti; ma noi sappiamo che disgraziatamente essi
non formano la maggioranza nella massa emigratrice.
Gli altri parlano ligure, parlano siciliano, romagnolo,
lombardo, napoletano, piemontese, ma non italiano. La
nostra lingua non va più al nord di Pistoja e più al sud di
Roma. Un povero lavoratore abruzzese si troverà di
fronte ad un suo compagno d’emigrazione ligure, come
di fronte ad uno straniero. Mancherà lo slancio
dell’affratellamento. Essi non potranno parlarsi, perciò
non potranno conoscersi. E per amarsi bisogna cono-
213
scersi. Ecco forse la prima e più grave ragione della di-
spersione, della scissione e della discordia.
Ci troviamo di fronte a questa dura verità; che se tutti i
francesi parlano – più o meno – il francese, tutti
gl’inglesi l’inglese, i tedeschi il tedesco e i russi il russo,
la maggioranza del popolo italiano non parla italiano.
Come possiamo pretendere che avvenga all’estero, quel-
lo che non avviene in Italia? L’emigrato che non cono-
sce che il suo dialetto, dovrebbe studiare l’italiano come
una lingua nuova; è assurdo. Quando deve imparare una
nuova lingua impara la più utile: quella del paese.
Ora, possono i figli di questi nostri emigranti conoscere
l’italiano, se non è noto nemmeno ai loro genitori? Cer-
tamente no. E mancando la lingua italiana manca loro la
base dell’italianità, il vincolo più forte con la Patria
d’origine.
Per di più, all’infuori dell’idioma, i padri, che non cono-
scono spesso essi medesimi le grandezze e le glorie del
loro Paese, i quali, talvolta, nella loro miseria hanno
sentito come un senso d’inferiorità di fronte ai «nativi»
e che hanno udito spesso il rimprovero umiliante della
loro origine condensato in una parola di scherno, questi
padri che nel loro affetto per i figli cercano di sottrarli
alla condizione che ha messo tanto amaro sul loro pane
sudato, e vogliono perciò renderli eguali agli altri più
che sia possibile, questi padri, dico, potranno soffiare
nell’anima dei loro piccoli un vigoroso spirito d’italiani-
tà? No; e chi di loro fa eccezione – ed eccezioni vi sono
– compie un atto di eroismo.
214
Un’altra causa s’aggiunge: la donna. L’emigrazione ita-
liana, come tutte le emigrazioni di lavoratori, è nella
massima parte formata di uomini. I poveri non possono
permettersi il lusso di portare lontano le loro donne. E
con esse lasciano a casa la ricchezza inestimabile delle
tradizioni, delle antiche credenze, degli affetti domesti-
ci. La donna vive nella casa e per la casa, sia pure essa
un tugurio; la sua anima non disperde energie all’infuori
della casa; si attacca al posto dove ha speso tutto il teso-
ro del suo amore, della sua attività, dove ha lavorato,
sofferto, gioito, s’imbeve dello spirito di quei luoghi, ed
anche trasportata lontano, al di là dei mari, vivrà sempre
nella casa antica, e vorrà che tutto quanto la circonda
gliela ricordi e gliela rievochi. Le rimembranze d’un
uomo spaziano per monti e per valli: quelle d’una donna
sovente non escono da quattro mura. Ogni donna che
emigra porta con sè chiuso nel cuore un piccolo lembo
della Patria. Ne parlerà ai suoi figli, sempre; imparerà
loro le preghiere che ella vi ha imparato; conterà loro le
leggende che essa vi ha appreso; farà sì che l’amino,
poichè essa l’ama.
Ma le donne italiane che emigrano sono poche. Una
gran parte dei nostri emigranti dispersi per la Repubbli-
ca Argentina si maritano con delle donne del paese, con
delle criollas, spesso con delle brune chinitas figlie del-
la Pampa, misere e fiere come i cardi delle loro pianure.
Nulla d’italiano nella casa, e i figli crescono ignari della
patria del padre, se non sdegnosi.
Quante volte non è dato di udire i figli d’italiani chiama-
215
re il padre loro: El viejo gringo! – Il vecchio gringo!...
*
* *

Il Governo Argentino, il cui più legittimo desiderio è


quello di argentinizzare gli stranieri, ha avuto paura di
una possibile diffusione della lingua italiana, e l’ha
combattuta. Nelle scuole superiori pubbliche argentine
si impara per obbligo il francese e l’inglese o il tedesco;
l’italiano no. Ciò in un paese dove vive circa un milione
d’italiani, e anzi appunto per questo. Da anni un Comi-
tato italiano a Buenos Aires, composto di buoni patriot-
ti, domanda lo studio obbligatorio dell’italiano nelle
scuole; ora è riuscito ad avere l’aderenza di tutte le prin-
cipali Società italiane. L’agitazione si è fatta sentire, cer-
to, ma udire? La nostra lingua non è trattata finora nem-
meno a parità di condizione con le altre. Il nostro spirito
nazionale non può esserne che depresso. Alle menti in-
fantili appaiono la Francia, la Germania, l’Inghilterra, la
Spagna, attraverso le loro letterature, come le sole na-
zioni degne d’essere conosciute. L’Italia viene alla coda.
Tutto questo influisce moltissimo nell’animo dei figli
d’italiani, i quali poi molte volte vedono nell’ignoranza
del padre come una prova della inferiorità italiana, e
nella povertà dei nuovi emigranti l’indice della miseria
nostra. E si confermano argentini con fierezza, e con tut-
to lo zelo esagerato del neofita, il quale si mostra sem-
pre il fedele più fedele, perchè ha il passato da far di-

216
menticare e perdonare. Nel nostro caso si tratta di far di-
menticare e perdonare la origine italiana, che bene spes-
so è taciuta, dissimulata e talvolta negata.
Con lo studio della lingua italiana sarebbero rivelate
loro bellezze e grandezze che non sanno, ricchezze che
non immaginano, glorie che nessun paese potè mai van-
tare.
Il problema dei figli d’italiani è antico quanto l’emigra-
zione, e si presentò già triste e sconfortante fin da circa
quarant’anni or sono alla mente dei patriottici fondatori
delle prime scuole italiane nell’Argentina.
La scuola sola poteva dare il rimedio a tanto male. Nella
scuola l’anima del fanciullo si scalda dei primi entusia-
smi come un ferro alla forgia. Gli uomini e i paesi che
impara ad amarvi esso li amerà per tutta la vita, perchè
le prime impressioni rimangono profonde nella tenera
cera del suo sentimento d’adolescente. Nella scuola si
forma la sua coscienza, perchè ivi comincia a distingue-
re il bello dal brutto e il buono dal cattivo. Occorreva
una scuola italiana che fosse anche scuola d’italianità, e
a questo scopo, verso il 1866 sorsero a Buenos Aires le
scuole delle Società Unione e Benevolenza e Nazionale
Italiana.
Dieci anni dopo vennero istituite le scuole femminili
della Unione Operai Italiani; nel ’77, quelle della Colo-
nia Italiana, e l’anno dopo quelle dell’Italia Unita.
Nell’84 sorgono le scuole della Società Venti Settembre
e l’asilo dell’associazione femminile Margherita di Sa-
voia; nell’86 le scuole dell’Italia, nell’87 quelle della
217
Patria e Lavoro, nel ’90 le scuole della Umberto I, nel
’94 quelle della Nuova Venti Settembre, e nel ’97 le
scuole della Cavour.
Tutte queste scuole sono sorte per fermo volere di bene-
merite persone degne di tutta la nostra riconoscenza, le
quali hanno dedicato loro ogni energia, in mezzo alle
opposizioni più accanite; opposizioni di soci egoisti che
non volevano si stornassero per le scuole i fondi prede-
stinati al mutuo soccorso; opposizioni di uomini e gior-
nali argentini che scorgevano nelle scuole italiane un
peligro nacional; opposizioni passive e schernose di
scettici e disamorati.
Oggi vi sono quindici scuole italiane a Buenos Aires. È
confortante. Ma osservandole si vede subito che queste
scuole sono troppo per numero e troppo poco per forza,
e che i loro risultati non sempre sono quelli che potreb-
bero sperarsi. Non basta fare una scuola; bisogna guar-
dare anche un po’ a che cosa deve servire; occorre sem-
pre proporzionare l’intensità e la natura d’uno sforzo
allo scopo. Lo spirito d’italianità laggiù languiva, incer-
to, senza spinte, freddo ed inerte come una nave disar-
mata in balìa del mare; la scuola sarebbe stata la sua
vela, spiegata per raccogliere nelle sue pieghe bianche e
frementi tutti i soffi vivificanti dell’entusiasmo patriotti-
co, per riunirli, farne una forza che spingesse e diriges-
se. Occorreva questa grande vela all’abbandonata navi-
cella dell’«italianità», e vi hanno spiegato invece dei
fazzoletti. Forse non si poteva far di più.

218
*
* *

Secondo le cifre più recenti, gli alunni che frequentano


tutte le quindici scuole italiane di Buenos Aires, com-
presi gli asili infantili, sono 2855.
A Buenos Aires si calcolano sopra a 250,000 sudditi ita-
liani. La proporzione del numero dei fanciulli in età da
frequentare la scuola (dai sei ai quattordici anni) sul nu-
mero degli adulti in una popolazione normale, oscilla
sul 20%. Data però la composizione della nostra emi-
grazione potremmo calcolare il 15% di fanciulli; ma re-
stringiamo ancora e stabiliamo soltanto una proporzione
del 10%. Ebbene, troviamo che a Buenos Aires vi sono
almeno 25,000 figli d’italiani, dei quali soltanto 2855
frequentano le scuole italiane. Cioè: sopra venticinque-
mila figli d’italiani, ventiduemila circa sfuggono alla
scuola italiana. Fuori di Buenos Aires è molto peggio.
Quale influenza può avere questa scuola sul sentimento
della massa?
Quel piccolo decimo poi che la frequenta non vi fa che
un temporaneo soggiorno: le nostre scuole non hanno
che le elementari, e per di più gli alunni le abbandonano
al secondo o terzo anno, normalmente, per continuare
gli studî nelle scuole argentine. Ma da una statistica
pubblicata nel ’98 rilevo che mentre la «classe prepara-
toria» della Unione e Benevolenza era frequentata da
centoventidue bambini, alla quinta non ve erano che
otto. Duecentotre alunni si trovavano alla prima classe

219
della Nazionale Italiana, e soltanto cinque alla quinta.
Perchè i bambini non rimangono nelle nostre scuole?
Perchè esse sono talvolta didatticamente manchevoli;
ma soprattutto perchè le autorità scolastiche argentine
non vedono di buon occhio gli allievi provenienti dalle
nostre scuole, e giacchè per continuare gli studî è pur
necessario passare nelle scuole del paese, è conveniente,
dal lato dell’interesse e del tempo, di passarvi presto. I
bambini lasciano la scuola italiana proprio quando le
loro menti cominciano ad aprirsi, quando le loro piccole
anime principiano a comprendere. L’influenza italiana
non può lasciarvi vestigie profonde; e nel nuovo am-
biente, fra i nuovi condiscepoli, tutto è presto cancella-
to.
Le nostre scuole sono talvolta didatticamente manche-
voli. È mancata l’unione delle iniziative, tutto è diviso.
Quindici Società hanno voluto fondare quindici scuole,
non volendo sottrarre nemmeno questa santa istituzione
alle lotte, alle rivalità, alle ambizioni, che sono le triste
caratteristiche di quelle nostre dissociate associazioni. I
capitali che uniti avrebbero servito a mantenere delle
grandi scuole capaci della loro nobile missione, divisi,
sono invece in proporzione meschini; spesso insuffi-
cienti. L’arredamento scolastico è per molte scuole anti-
quato e deficiente. Il personale insegnante, male retri-
buito, non può essere sempre, ragionevolmente, il più
scelto e il più adatto; deve talvolta dedicarsi anche ad al-
tre occupazioni per campare la vita, non facendo più de-
dizioni alla scuola di tutte le sue forze e di tutto il suo
220
amore.
Ma il difetto peggiore forse di quelle scuole è nel pro-
gramma, fissato da una speciale Commissione di sorve-
glianza. Il programma è presso a poco quello delle scuo-
le corrispondenti in Italia. Questo è assurdo. In Italia i
ragazzi vanno a scuola per istruirsi; il resto lo insegna
loro il paese. Essi vedono i monumenti, assistono alle
cerimonie, odono i discorsi, seguono i reggimenti per la
via, sentono rammentare date gloriose, entrano nelle
chiese, nei musei, nelle pinacoteche; poco a poco, si for-
ma in loro l’amore sconfinato al paese, l’ammirazione
per i suoi grandi, la coscienza delle sue glorie; diventa-
no italiani, così vivendo, per tutto quanto penetra nella
loro anima; tutto ciò che vedono e che odono si ammas-
sa inavvertito nel loro spirito, diviene pensiero, diviene
sentimento come il cibo diviene sangue. Ma questo
all’estero non accade. È la scuola che deve supplire –
poichè disgraziatamente non supplisce sempre la fami-
glia – creando, direi quasi, un processo rapido d’italia-
nizzazione con i mezzi più adatti. L’istruzione pura e
semplice passa in seconda linea.
L’Argentina che vuol dare al suo popolo eteroclito
l’unione con un acceso spirito di nazionalità, ha ben
compreso questo. I suoi uomini illustri vengono rapida-
mente eroicizzati. Ed è giusto: poichè manca il sublime
sfondo del tempo che ingigantisce le figure che vi si
proiettano, è necessario mirarle attraverso la smagliante
lente della retorica. Questo, dopo tutto, è sano patriotti-
smo. In tutte le scuole, anche nelle straniere, siano pure
221
private, il Governo argentino impone una parte del pro-
gramma riguardante la storia e la lingua del paese; ed ha
ragione. Ma i nostri programmi non contrappongono
nulla di efficace a questa argentinizzazione.
Non si tratta già di sottrarre i figli d’italiani alla loro
nuova patria; il volerlo sarebbe errore grave. Si tratta di
non perderli assolutamente per la vecchia. Bisogna per-
suaderli che non c’è un solo grande paese al mondo,
l’Argentina, ma che ve ne sono almeno due. Bisogna
che essi sentano il legittimo orgoglio e la fierezza di di-
scendere dalla nostra stirpe gloriosa.
È tutto un altro sistema d’educazione che ci vuole.
L’insegnamento buono per l’Italia è falso, falsissimo per
l’estero; esso trova nell’ambiente una opposizione che
bisogna vincere, invece di trovarvi un aiuto, una più
grande scuola di perfezionamento. Occorre ben altri-
menti colpire le fantasie dei bambini, parlare alle loro
piccole anime ed accenderle di entusiasmo e di fierezza.
Bisognerebbe mostrar loro sempre le superbe vedute
delle nostre città, dei nostri monumenti, le pitture stori-
che, in modo teatrale. I bimbi, come i vecchi, non credo-
no che quello che vedono.
*
* *

Sarebbe possibile alla Collettività Italiana l’istituzione


di queste grandi scuole, il cui programma ideale abbia-
mo rapidamente tracciato?

222
Sì, con un po’ più di unione, con un po’ più di concordia
e d’amore. Ma il Governo italiano non dovrebbe rima-
nere estraneo all’iniziativa ed alla organizzazione di
queste scuole italiane. Soltanto a questa condizione ta-
cerebbero le antiche rivalità. Intorno alla sua opera tutti
si unirebbero fraternamente. Occorre che una voce po-
tente e paterna chiami i dispersi, concilî i dissidenti, pla-
chi le ire, e questa non può essere che una voce che vie-
ne dalla Patria. Troppo tempo il Governo ha trascurato
ed abbandonato quelle nostre colonie lasciando crescere
le discordie, permettendo soprusi, sordo ai reclami, im-
passibile di fronte alle ingiustizie. Curando le scuole,
che sono il vivaio degli uomini, avrà giovato a tutto un
avvenire e si sarà fatto perdonare il passato.
La Collettività Italiana di Buenos Aires, che ha saputo
adunare tanti milioni di capitale per la Società di benefi-
cenza dell’Ospedale, farebbe altrettanto, e più, per le
scuole, quando rimanesse persuasa che educare italiana-
mente i figli è altrettanto necessario del curare i malati.
L’azione del Governo dovrebbe essere più che altro mo-
rale: coordinare le forze e usarne con illuminata sapien-
za. Santa opera di pacificazione e di previdenza che non
dovrebbe destare laggiù sospetti e gelosie.
L’Argentina potrà facilmente persuadersi che l’Italia
non vuol certamente toglierle i suoi nuovi cittadini, ma
vuole soltanto esserne amata perchè ne è madre.

223
NELLE CAMPAGNE ARGENTINE:
“PEONI” E “MEDIERI”.21

La nostra emigrazione è nella massima parte composta


di agricoltori, e l’agricoltura forma la più grande risorsa
presente e futura della Repubblica Argentina. Lasciamo
dunque un poco, lettore mio, le città con i loro governi,
le loro amministrazioni, i loro tribunali, le loro colletti-
vità straniere – e relative associazioni – lasciamo la vita
«civile» fra le passeggiate, le avenidas, i clubs, le bi-
sche, i teatri, gl’ippodromi che conosciamo già abba-
stanza e andiamo in cerca di tutti quei nostri connazio-
nali che non si vedono nei grandi centri perchè lavorano
dispersi per i campi, che non danno nell’occhio perchè
sono umili, attaccati alla terra e del colore della terra.
Essi sono la maggioranza. Sono essi che empiono le
navi partenti dai nostri porti. La parola «emigranti» evo-
ca alla nostra mente la loro folla misera e forte. Sono
essi che i nuovi paesi invitano, perchè essi sono la ric-
chezza, l’unica vera ricchezza. Eppure sono gli ultimi ad
essere visti da chi arriva laggiù, perchè al primo mo-
mento si scorge solo una folla di affaristi, di politicanti,
di banchieri, di commercianti, d’industriali, di borsisti.
Sono la maggioranza, ma le loro voci lontane non si
odono; essi vengono gettati sui campi come si getta il

21 Dal Corriere della Sera del 15 agosto 1902.

224
seme. Il loro còmpito principale è quello di dare il frut-
to, darlo per tutti, e, se ne avanza, anche per loro.
*
* *

L’emigrante che sbarca col solo patrimonio delle sue


braccia è un peon. Il peon – italianizzato in peone – è
l’essere più umile che esista. È qualche cosa meno di un
uomo: è una macchina da lavoro della forza d’un uomo.
Il peone fa di tutto: è facchino, manuale, spazzino. Vive
alla giornata, oggi trasporta le pietre nei cantieri, doma-
ni trasporta i covoni sui campi. Gira sempre in traccia di
lavoro; passa da colonia a colonia, da provincia a pro-
vincia, ben felice quando un’occupazione lunga lo fissa
in qualche parte. Viaggia quasi sempre a piedi come
l’Ebreo Errante, ma senza le scarpe leggendarie, perchè
le sue si logorano.
Durante i lavori della campagna trova facilmente a ven-
dere le sue braccia, se però qualche flagello non ha di-
strutto i raccolti. Quando sulle grandi aie le trebbiatrici
rumorose ed ansimanti divorano i covoni, ed il frumento
scorre via dal loro fianco come un liquido d’oro, una
folla d’uomini s’affatica intorno alle macchine, porge
loro i bocconi, raccoglie il grano nei sacchi che poi tra-
sporta sui carri enormi. Sono centinaia di peoni. Da
dove vengono? Nessuno si cura di saperlo; nessuno do-
manda il loro nome. Giungono a branchi, attirati dal fru-
mento come le formiche. Sono accettati fino a che ve

225
n’è bisogno; vengono contati e distribuiti al lavoro sotto
la sorveglianza di capataz. Ricevono un nutrimento che
varia – a seconda dei luoghi – ma che è invariabilmente
cattivo; bevono acqua calda e quasi sempre melmosa,
raramente mescolata con un po’ di caña – acquavite ri-
cavata dalla distillazione della canna di zucchero. Il loro
lavoro è aspro, terribile, sotto al sole torrido. Hanno un
salario che può andare dal mezzo peso al giorno fino ai
due pesos. Quando il raccolto è cattivo, il salario dimi-
nuisce. Quest’anno un numero grandissimo di peoni la-
vora nelle estancias per il solo cibo, ossia per il permes-
so di vivere.
I peoni più fortunati sono quelli che trovano un lavoro
fisso; essi ricevono quindici, venti pesos al mese, ed
hanno il vitto.
Purtroppo non è rarissimo il caso di peoni ai quali viene
rifiutata la mercede pattuita. Finito il lavoro vengono
qualche volta scacciati. Si sa bene che le loro proteste
non sono ascoltate.
Vivono come le bestie, dormono in molti dentro un tu-
gurio, che nella città è una camera di conventillo e in
campagna una capanna od anche una semplice tettoia.
Se ammalano cadono nelle mani di una curandera (po-
ter chiamare il medico nelle campagne argentine è un
lusso), la quale lega loro dei nastri rossi al polso per
guarirli dalla febbre palustre, cava loro qualche libbra di
sangue se accusano un grande male alla testa, fanno loro
ingoiare le cose più strane e repugnanti per guarirli da
un po’ di tutto. E muoiono così, sul loro giaciglio.
226
Il peone che ha una famiglia, non sempre ne è unito. È il
primo consiglio che gli emigranti poveri ricevono dalle
«Guide» distribuite in Italia, e dagli impiegati
dell’Hôtel de Inmigrantes: separatevi dalla vostra fami-
glia; le donne trovano facilmente ad occuparsi in Bue-
nos Aires! Ed essi e le loro donne si separano: partono
alla ricerca del lavoro per vie diverse che talvolta non
s’incontrano più.
Il sogno del peone è divenire mediero, ossia affittuario
di un pezzo di terra. Talvolta riesce a mettere da parte
un po’ di denaro, qualche centinaio di pesos, realizza il
suo sogno. Le economie del peone sono il risultato di
una vita miserabile, sordida, piena di sacrificî inauditi,
di avvilimenti e di rinuncie spesso vergognosi. Se nella
patria s’imponessero questi lavoratori una parte dei sa-
crificî che compiono sotto la sferza del bisogno laggiù, e
se dedicassero alla loro terra soltanto un po’ di quelle fa-
tiche crudeli, alle quali li costringe la necessità in Ame-
rica, allora l’Italia sarebbe senza dubbio il più ricco pae-
se del mondo.
*
* *

Il mediero prende in affitto una o due concessioni (la


concessione è un quadrato di 860 metri di lato). Si fab-
brica con le sue mani una capanna di legno e di fango
seccato a mattoni, ricoperta di una lastra di zinco o di
paglia. L’abitazione di terra è tradizionale; vi sono città
come Mendoza, per esempio, che sono quasi interamen-

227
te costruite così. Non è raro, viaggiando per la campa-
gna, di vedere dentro un ristretto recinto dei cavalli che
corrono per tutti i versi spaventati da gridi e da colpi di
frusta. Lo strano torneo dura delle ore, e non è facile ca-
pire a prima vista che quelle brave bestie con i loro no-
bili caracollamenti hanno il modesto ufficio d’impastare
il fango per costruirne delle case.
La vita del mediero è meno incerta di quella del peone,
ma non meno dura. Egli vive isolato in mezzo alla ster-
minata pianura. Spesso il centro di popolazione più vici-
no dista delle leghe. Una visita del medico costa venti
pesos alla lega (50 lire). In caso di malattia ogni cura ef-
ficace è impossibile. Nell’estate, quando il grande calo-
re corrompe l’acqua dei pozzi, il tifo ed il vaiolo mieto-
no intere famiglie. In quella triste stagione è comune il
vedere attaccato alla porta delle casupole un cencio
nero, che si agita al vento tropicale soffiante dal Brasile
e dal Paraguay caldo come il soffio d’una fornace. Quel
cencio nero che sembra un uccellaccio di malaugurio
agonizzante, significa che la morte è passata da lì: è il
segno del lutto. La durezza delle condizioni fatte dal
proprietario costringe il mediero a coltivare molta più
terra di quanto sarebbe in grado di fare. Questo rende i
lavori campestri eccessivamente faticosi. Il padrone
sfrutta il mediero, e questi sfrutta la terra. La coltivazio-
ne si riduce allo strappare al suolo quanto più prodotto è
possibile col minimo di lavoro, in proporzione alla su-
perficie. Una famiglia normale coltiva circa cento ettari
di terra. Le operazioni campestri debbono ridursi a due
228
sole, per mancanza di tempo e di forza: la semina e la
raccolta. La terra non sente la cura continua, operosa,
della mano dell’uomo; non viene rinvigorita dalle conci-
mazioni, nè liberata dalle male erbe. Si spossa rapida-
mente; dopo otto dieci anni, la sua forza produttrice de-
clina rapidamente. L’uomo è costretto ad abbandonarla;
essa ritorna pascolo; il deserto la invade di nuovo. Il
proprietario è molto ricco, e poco gl’importa di sostitui-
re l’agricoltura con la pastorizia nelle terre sfruttate; ma
il mediero, salvo casi non troppo comuni, è sempre po-
vero. Esso abbandona i campi ingrati in cerca di nuovo
lavoro, ma con molto coraggio e molte illusioni di
meno. È incalcolabile il numero di medieri che in
quest’anno di misero raccolto sono tornati ad essere
peoni. Ricordo d’averne incontrati tanti e tanti nelle co-
lonie di Santa Fè e di Rosario, tragiche figure di affama-
ti. Sono venute le annate di buon raccolto, ma essi non
hanno potuto profittare della prosperità. La ricchezza
strappata alla terra con tanta fatica, è passata per le loro
mani senza lasciarvi nulla, mentre intorno a loro si sono
andati arrotondando dei patrimonî. È necessario fermar-
ci ad illustrare brevemente lo sfruttamento del quale è
vittima la grande massa di questi poveri lavoratori dei
campi.
*
* *

La condizione più comune fatta dai proprietarî ai medie-


ri è quella detta della terzeria. Il mediero deve mettere

229
del proprio gli attrezzi da lavoro – che in una coltivazio-
ne estensiva consistono in macchine agricole che rap-
presentano un discreto capitale – deve mettere gli ani-
mali da lavoro, e infine le sementi; e deve consegnare al
padrone una quantità del prodotto totale variante dal 25
al 30%. Questa parte del prodotto deve essere posta in
sacchi nuovi, e portata a spese del mediero fino sui va-
goni della più vicina stazione ferroviaria.
Il mediero si pone generalmente al lavoro senza capitali
o con capitali insufficienti. Le macchine e il resto deve
acquistarli a credito; deve anche acquistare le prime se-
menti. Tutto questo o gli viene anticipato dal proprieta-
rio, oppure fornito da un almacenero. In tutti e due i casi
i prezzi sono gravati inumanamente. L’ombra di questo
debito si proietta su tutte le prime annate di lavoro, du-
rante le quali è necessario eseguire opere preparatorie,
come la scavazione dei pozzi, la costruzione delle stalle
e dell’abitazione, e il frutto della terra è minimo. Il me-
diero ha bisogno di farsi anticipare il vitto fino ai primi
raccolti. Nulla di più facile: egli ha offerte da tutte le
parti: vi saranno i prodotti che pagheranno tutto. I com-
mercianti delle campagne, tenitori di strani magazzini
dove si trova di tutto, dalla trebbiatrice alla pasta da mi-
nestra e dal grano ai cappelli, si affrettano a divenire
creditori, e porre così una specie d’ipoteca sul lavoro del
mediero. L’agricoltore è quasi sempre ignaro dei prezzi;
la sua diffidenza è dissipata presto dall’apparente fidu-
cia di cui è fatto segno. Egli non si accorge che non è a
lui che si presta, ma alla terra. Se il raccolto si presenta
230
bene, egli vede aumentarsi il debito; quando passa per il
pueblo (piccolo centro) viene assediato d’offerte dal suo
fornitore; gli si imbottisce il carro di stoffe per le sue
donne, di conserve alimentari, di un po’ di tutto. Egli è
sedotto da questa effimera abbondanza. Si abitua a non
misurare più le sue forze, fino al momento che il debito
non lo ha ridotto allo stato di strumento facitore di ric-
chezza; egli come una pompa assorbe dalla terra i suoi
tesori per dissetare avide bocche.
Nei tempi del raccolto, che richiede grande rapidità per
non compromettere il prodotto, egli non può bastare da
solo con la sua famiglia a compire i lavori campestri
sulle grandi estensioni che è costretto a coltivare; ha bi-
sogno di peoni, le cui mercedi sono a suo carico. Le
spese aumentano. Le distanze poi rendono qualche volta
disastroso il trasporto. Tutte queste difficoltà sono supe-
rate quando la terra vergine compensa ad usura i suoi
sudori. Ma allorchè sopraggiunge la cattiva annata,
quando dal Gran Chaco, che sembra la misteriosa patria
dei flagelli, vengono i nuvoli di cavallette e si rovescia-
no sui suoi campi, quando la tormenta li inonda di sab-
bia arida, quando la siccità li brucia, oppure quando la
terra stanca e spossata dallo sfruttamento continuo rifiu-
ta i suoi doni, allora la miseria terribile sopraggiunge.
Tutti gli uccelli di rapina piombano sulla casa del me-
diero. Egli è vittima di tutti gli agguati legali e non lega-
li, di tutte le infamie. Se il paese traversa economica-
mente un periodo critico, come ora, i creditori sono ine-
sorabili. L’agricoltore paga mille per uno. I suoi attrezzi,
231
i suoi bestiami, il suo grano sono sequestrati, la sua casa
saccheggiata. Queste operazioni si compiono alla prima
alba, come i delitti, perchè nessuna opposizione sia pos-
sibile. La legge non lo consente, ma lo consentono dei
giudici, e basta.
Il mediero ritorna più miserabile di quel che non fosse
prima, poichè spesse volte alla sua miseria materiale si
aggiunge una ben più grave miseria morale. Il suo lavo-
ro non è stato continuo; egli non si è occupato delle col-
tivazioni di frutta, di erbaggi, di ortaggi, i cui prodotti
non poteva smerciare facilmente data la distanza dei
mercati, e che richiedevano lunghe cure prima della pro-
duzione, lenta ed aleatoria. Nessun affetto alla terra lo
portava ad arricchirla di vigne e di frutteti, che richiedo-
no un capitale non piccolo, e che avrebbe potuto abban-
donare forse da un momento all’altro prima di ricavarne
i frutti. Egli non voleva che il guadagno immediato, il
più gran guadagno. Grano, mais, lino, ecco le tre uniche
coltivazioni, le più semplici. Tra il faticoso lavoro
dell’aratura e quello tremendo del raccolto passavano
lunghi mesi di ozio assoluto, d’inazione bruta. Il pazien-
te lavoro di tutti i giorni non ha più tenuto occupato il
suo spirito; dalla fatica bestiale passava alla disoccupa-
zione ancora più bestiale. L’aspettativa fatalistica del
raccolto lo ha reso apatico; è divenuto mezzo gaucho
nell’anima, stemprato e stanco; senza il sollievo ed il
conforto di una vita civile ha perduto la grande forza
della volontà, si arrende alla sciagura, cede, è vinto.
Questa è la sorte disgraziatamente comune a tanti nostri
232
emigranti, ma non a tutti, per fortuna. Vi sono alcuni
proprietarî (molto pochi in verità) che fanno ai loro me-
dieri patti più umani, che forniscono loro una parte degli
attrezzi, un carro, i cavalli, oppure che stabiliscono il
rimborso onestamente. Vi sono agricoltori che riescono
a mantenersi con le loro forze, che vivono sempre nel
sacrificio della più stretta economia, che dopo varî anni
di lavoro giungono a capitalizzare due, tre, quattromila
pesos, sottraendoli all’ingordigia delittuosa dei soliti uc-
celli di rapina. Essi, al primo rallentarsi della produzio-
ne, cercano altri campi per loro conto, e divengono co-
loni.
Il colono rappresenta l’ultima trasformazione dell’emi-
grante. Diventando colono, lo straniero cessa virtual-
mente d’essere straniero, perchè si attacca definitiva-
mente alla terra. Il colono è la vera forza.
Fare d’ogni emigrato agricoltore un colono, questo è il
problema che la Repubblica Argentina s’impone; ma la
sua soluzione finora non fu cercata che fra i miraggi del-
la teoria.
I coloni e la colonizzazione c’interessano vivamente
perchè sopra essi si basa l’avvenire della nostra emigra-
zione, non solo, ma bensì l’avvenire stesso dell’Argenti-
na, e non sarà discaro al lettore che ad essi dedichiamo
la lettera seguente.

233
NELLE CAMPAGNE ARGENTINE:
I “COLONI”.22

Nell’Argentina vi sono circa ottocentomila chilometri


quadrati di terra coltivabile, dei quali appena quaranta-
cinquemila sono lavorati. Questa è una grande seduzio-
ne per le masse che emigrano. La conquista sembra
semplice; quella terra non aspetta che il lavoro per pro-
fondere i suoi tesori immensi, ecco le braccia, noi ne ab-
biamo.
Ma l’emigrante, il quale giunge laggiù attratto dal mi-
raggio d’una prosperità che appare certa, il quale sogna
di divenire proprietario – per il diritto che dà il lavoro –
di una terra che ora è abbandonata, selvaggia e infrutti-
fera, si accorge ben presto che la realtà è ben diversa dai
bei sogni che hanno confortato il suo distacco dalla Pa-
tria.
Ecco ciò che egli trova:
Della grande superficie di terra disponibile soltanto una
parte ben piccola è accessibile, ossia solo quelle terre i
cui prodotti possono essere trasportati, o potranno essere
trasportati in un futuro non eccessivamente remoto. A
dieci leghe da una ferrovia o da un fiume navigabile il
prezzo del trasporto assorbe il valore del prodotto; da lì
incomincia la sterminata zona della terra inutile, sulla

22 Dal Corriere della Sera del 24 agosto 1902.

234
quale non è possibile che la vita selvaggia, senza contat-
ti con l’umanità, vita che è inaccettabile se ad essa non
si dà la speranza di un limite. Vi sono terre non attraver-
sate presentemente da strade ferrate, ma che lo saranno
probabilmente. Qui la vita selvaggia è affrontabile, per-
chè vi è la probabilità di uscirne presto. In fondo tutti
questi calcoli di tempo non debbono sorpassare i limiti
della vita umana; si ha un bel predire un fulgido, favolo-
so avvenire nelle età future: questo non ci commuove
come la speranza della più modesta agiatezza balenataci
nella mente quale compenso al nostro lavoro.
La terra aperta al fecondo lavoro dell’uomo si riduce
dunque ad un tredicesimo circa di tutta la terra coltiva-
bile, ad un quarantaduesimo della superficie totale della
Repubblica. Orbene, questa terra in massima parte non è
più libera, ed ha un costo che la speculazione ha reso
esagerato.
Entriamo un poco nel meccanismo della compra-vendita
dei terreni. Essi appartengono in grande parte a latifon-
disti argentini, che sono arrivati al possesso quasi sem-
pre o per diritto di «denuncia» – per il quale si poteva
una volta divenire proprietarî delle terre denunciate allo
Stato come libere – o più spesso per favoritismi, per
compensi di maneggi politici, per regalìa governativa, o
magari per nessun diritto. All’epoca della sanguinosa
conquista, quando le misere tribù indiane furono spazza-
te vie dalla Pampa, enormi lotti di terre vennero cedute
ai capi dell’armata e agli amici del governo. Queste ter-
re non avevano che un valore minimo, erano pascoli
235
brulli e selvaggi. L’emigrazione nostra, introducendo
l’agricoltura, diede loro un ben maggior valore, e la ter-
ra divenne in breve oggetto della più sfrenata specula-
zione, i cui lucrosi compensi pagava e paga il lavoro ita-
liano.
Il coltivatore non ha altro sogno che quello di divenire
proprietario. Sfruttare questa aspirazione legittima, ecco
la base della speculazione, che è sempre proceduta e
procede così: Il latifondista divide la sua proprietà in
porzioni che affida, al momento opportuno, alle vendite
al remate – specie di asta pubblica. Se la corrente immi-
gratoria è forte, e se i terreni sono facilmente accessibili,
egli trova subito degli speculatori delle Società di specu-
latori che comperano. Spesso quelle terre, magnificate
da réclames veramente americane, passano da remate in
remate aumentando straordinariamente il loro costo,
senza che nessun lavoro abbia aumentato menomamente
il loro valore. È il lavoro futuro che si va ipotecando. Fi-
nalmente, quando l’opportunità si presenta, la terra, di-
visa in piccoli lotti, passa ai coltivatori a condizioni di-
sastrose.
Il prezzo è centuplicato, alle volte. Per esempio, leggo
in una relazione pubblicata nel ’91, che la colonia Pilar,
comperata da un agente tedesco di nome Lehman per
seicento pesos boliviani, ripartita in concessioni e riven-
duta, passata poi in mano dei coloni col patto di paga-
menti rateali, dopo sette anni si trovò essere stata com-
perata per nove decimi da coloni italiani pel prezzo
complessivo di cinquantamila pesos.
236
I coloni vengono allettati alla compera con ogni mezzo.
Se i compratori non accorrono si cambia nome alla co-
lonia in vendita; una colonia che sotto il nome spagnuo-
lo non trovava acquirenti venne chiamata Nuova Torino,
e si popolò di emigrati piemontesi, contenti di trovare
almeno nel nome un dolce ricordo della Patria abbando-
nata. Due colonie vicine, situate in terreni paludosi, tro-
varono presto compratori italiani quando vennero bat-
tezzate coi nomi di Umberto e Margherita. Nei cartelli
réclame di queste colonie erano disegnate due belle
piazze, intorno alle quali dovevano sorgere le abitazioni.
I poveri contadini recatisi sul posto trovarono che al po-
sto delle piazze v’erano delle canadas – piccole paludi.
Domandarono la rescissione dei contratti, ma il vendito-
re rimediò creando per le due colonie un centro solo al
quale dette il nome di Nuova Roma, e tutti contenti.
I cartelli réclame poi sono capolavori del genere: la
«pianta» delle colonie vi appare tutta verde, con belle
strade bianche, divisa in quadri sui quali l’ingenua fan-
tasia dei contadini miete messi abbondanti. Come resi-
stere alla tentazione di comperare un pezzo di quella
bella terra, quando si ha in tasca qualche migliaio di pe-
sos, siano pure risparmiati Dio sa a costo di quanti sacri-
ficî? Non occorre pagar subito: si paga a rate annuali. Si
paga in cinque, sette, dieci anni.
Il colono viene a pagare così un prezzo enorme. Non
sempre riesce a soddisfare ai suoi impegni, ed allora si
vede ritolta la terra che egli ha fecondato, per la quale
ha speso per anni ed anni ogni sua energia ed ogni suo
237
pensiero, quella terra nella quale aveva riposto tutte le
sue speranze. Deve abbandonarla, abbandonare la casa
che bene spesso ha eretto con le sue mani, rese sapienti
dalla necessità, abbandonare le messi, tutto. E si trova
ricaduto nella miseria assoluta: tutto è da ricominciare.
*
* *

Il colono non riceve il titolo di proprietà della terra com-


perata che quando ha compìto l’ultimo versamento; è
questo che rende la sua posizione sempre incerta. Fin-
chè i raccolti sono buoni egli può cavarsela, consacran-
do tutto il suo lavoro al pagamento delle rate. È una vita
di sacrificio e di privazioni, ma è nei limiti del possibile;
e in fondo ad essa egli vede la liberazione, il possesso
incontrastato, il principio della prosperità tanto sognata.
Ma i raccolti non sono sempre buoni; vi sono le caval-
lette, la tormenta, la siccità che arrivano con una perio-
dicità spaventosa ed annientano di colpo le messi di
un’annata; e tutto può essere perduto, perchè se anche
egli non viene scacciato dalla terra, l’accumularsi dei
pagamenti e le necessità di contrarre debiti lo rendono
indefinitivamente schiavo del venditore. A meno che
non venga l’annata d’oro, ben rara purtroppo. «Per il co-
lono» – scriveva nel febbraio la Patria degli Italiani –
«il lavoro è un giuoco nel quale contro nove probabilità
di veder completamente frustrate le fatiche d’un anno,
una sola gli permette qualche benefizio; ed anche questa

238
abbandonata al capriccio della fortuna.... Una volta tan-
to, quando meno ci si pensa, ecco che un flagello rovina
il raccolto degli Stati Uniti e della Russia, il frumento, il
lino diventano rari sui mercati di consumo, l’Europa è
costretta a provvedersene a qualunque prezzo, e paga i
cereali a peso d’oro; allora esce finalmente dalla ruota
della lotteria il numero atteso dagli agricoltori, il ricavo
del raccolto paga tutte le spese e tutte le usure.»
Come si vede, la situazione dei coloni, date le condizio-
ni di vendita, che sono generali, è ben difficile. A tutto
questo si aggiungono bene spesso gli inganni e le frodi
nel contratto – che la Giustizia lascia impuniti – nei lac-
ci dei quali cadono facilmente i nostri poveri contadini,
che non meritano in verità, specialmente all’estero, la
loro tradizionale fama di scaltri.
Avviene spesso che il contratto di vendita risulta nullo
perchè il venditore non aveva alcun diritto di proprietà
sulla terra venduta. Le cause per contestazione di pro-
prietà sono comunissime nell’Argentina, anche a causa
della mancanza d’un catasto completo e regolare, che
rende spesso impossibile di constatare l’autenticità d’un
titolo di proprietà.
La vendita al remate di terreni per parte di gente che
non vi aveva alcun diritto prese all’epoca delle specula-
zioni uno sviluppo fantastico. Bastava un po’ di réclame
sui giornali, si stampavano piante immaginarie di terre-
ni, divisi in lotti, e si rematava. I compratori pagavano
una caparra per avere un titolo che naturalmente non va-
leva nulla. Con questo sistema vennero rematadi non
239
pochi pantani della provincia di Buenos Aires – special-
mente vicino alla Plata – passandoli per splendidi ap-
pezzamenti di terra. Si è rematado anche il letto del Pa-
ranà. Una Società per azioni, la «Colonizadora Popu-
lar», il cui gerente è fuggito a New York, una grande
Società che possedeva persino dei piccoli vapori sul Rio
della Plata e sul Paranà, vendette, senza mai sognarsi
d’averne il diritto, una straordinaria quantità di terreni al
nord, si può dire quasi tutto il Chaco Australe, frodando
un tre milioni di pesos che, manco a dirlo, erano in gran
parte italiani.
Ma anche ora che è passata la febbre dell’oro, pare che
le vendite all’usanza della «Colonizadora Popular» non
siano passate di moda, se si crede ad un articolo della
Patria del 16 aprile, col quale s’invocano provvedimenti
contro certi rematadores che mettono all’asta dei terre-
ni, intascano la loro quota e lasciano ai compratori la
soddisfazione di constatare, dopo qualche tempo, che
l’asta non era regolare.
Si passano i limiti del verosimile. Una forma di frode
abbastanza ripetuta è questa: un uomo influente, amico
del Governo, compera un terreno nazionale da pagarsi
in tempo determinato, ordinariamente dieci anni. Subito
remata. La terra subisce il solito processo di rincarimen-
to e in ultimo viene venduta ai coloni, i quali la coltiva-
no, la fecondano del loro sudore e pagano le annualità
pattuite. Ma l’amico del Governo, che ha intascato un
bel capitale, dimentica di pagare la terra allo Stato. Pas-
sa il tempo stabilito e il contratto suo è nullo. Lo Stato
240
torna padrone e sequestra la terra. I contratti dei coloni
sono nulli; la terra è mal venduta; i loro bolletti provvi-
sorî valgono un bel niente. Essi sono spodestati. La loro
terra appartiene ad un altro concessionario, il quale li
scaccia.
Qualche volta è successo – e non certo raramente – che
il venditore accende un’ipoteca sui fondi venduti ai co-
loni, sapientemente profittando del fatto che i coloni
hanno titolo di proprietà soltanto alla fine dei pagamen-
ti. Ritira le quote annuali dai coloni e se ne va in pace. I
poveri contadini si veggono ritolta la proprietà loro o
debbono assoggettarsi a pagare l’ipoteca, ossia a rico-
minciare da capo.
Un argentino ricchissimo, che aveva mal comperato cer-
ti terreni in San Vicente, nella provincia di Santa Fè,
pensò di rifarsi vendendoli a dei coloni italiani.
Nell’affare figurò un agente, il quale cedette i lotti ai co-
loni a rate annuali e passò gl’incassi all’argentino ric-
chissimo – il fatto è ben noto in tutta la provincia. I veri
proprietarî, dopo alcuni anni, fecero un processo ai colo-
ni e ottennero di sloggiarli tutti quanti. Alcuni di quegli
infelici preferirono pagare di nuovo, ma dovettero paga-
re il doppio, poichè il terreno, dopo sette anni del loro
lavoro, aveva raddoppiato di prezzo. Essi così pagarono
tre volte la terra. Cito questo caso, perchè l’argentino in
questione ha occupato un’altissima posizione nel gover-
no della provincia di Santa Fè ed è fra i più reputati uo-
mini politici: lo chiamano l’honrado tirano – il tiranno
onesto. Questo dimostra che fare di queste cose non è in
241
fondo un gran male laggiù. È un po’ di viveza.
*
* *

È impossibile enumerare tutte le infamie di questo gene-


re delle quali sono vittime i nostri coloni. Il male è che
il cattivo esempio viene dall’alto. Cito fra molti un fatto
– che posso documentare – avvenuto recentemente a Ye-
ruà. Il Governo argentino ha venduto dei terreni a coloni
italiani, pagamento rateale a dieci anni. Quando manca-
no gli ultimi pagamenti, gl’incaricati della riscossione si
rifiutano di ricevere il denaro per poter così mantenere
non definitivo e illegale il possesso. E sapete perchè?
Per poter cedere una parte di quelle terre già pagate, sa-
crosantamente pagate, ad una Compagnia ferroviaria.
Tra errori e frodi, non è esagerato l’asserire che più del
sessanta per cento dei contratti di vendita di terre è di
validità non accertata. La colonia Cello, la colonia Jose-
fina, la colonia Santarita, sono state pagate interamente
due volte; anzi molto di più, perchè nel nuovo pagamen-
to si è tenuto largamente conto dell’aumento del valore.
Non è facile immaginare quale sia questo aumento, tal-
volta. Il colono prende possesso d’una terra vergine, e la
terra ha bisogno di lunghe, pazienti e faticose cure pri-
ma di schiudersi alla fecondità. Il colono deve circon-
darla di recinti, deve costruirvi la casa, scavare i pozzi,
tracciare le strade, allevare gli animali da lavoro, disso-
dare la terra, a più riprese sconvolgerla tutta. Soltanto

242
dopo varî anni egli raccoglie i frutti del suo assiduo la-
voro. Nei primi anni le sementi si perdono; i cardi e gli
sterpi sotterrati dall’aratro tornano a sollevare i loro steli
tenaci fra le zolle, soffocando il frumento: bisogna
schiacciarli di nuovo sotto i colpi degli attrezzi campe-
stri, come serpentacci, fino a che si ritirano dai campi
coltivati, vinti e dispersi. Ebbene, è proprio in questo
momento, quando il colono sta per ritrarre i primi frutti
del suo lavoro, che egli – nei casi troppo soventi di mala
vendita – si vede scacciato. Egli deve abbandonare la
terra «con tutto quanto vi è piantato, edificato e inchio-
dato» – come è detto nei contratti di vendita. E deve ab-
bandonare anche il raccolto, perchè questa specie di
sfratto laggiù compare, come una mala pianta, quando le
messi maturano.
*
* *

Ecco perchè anche il colono come il mediero – del quale


il lettore conosce la triste esistenza – si trovano costretti
a sfruttare ad oltranza la terra, ripetendo senza posa le
colture che offrono prodotti di più facile smercio e di
maggiore profitto, come il grano, il lino e il mais, senza
mai concederle una rotazione che significherebbe perdi-
ta di tempo e di denaro, senza mai rinnovarle i sali sot-
tratti dalla vegetazione, senza mai darle riposo.
La terra s’impoverisce rapidamente. La vita media
d’una colonia non supera i venticinque anni. La crisi

243
agricola, in molte delle più antiche colonie argentine, di-
viene endemica. Entre Rios e Santa Fè declinano. Si
leggono nei giornali argentini delle descrizioni desolanti
di miserie profonde. Se il colono fosse lasciato libero
del suo campo, senza l’oppressione d’uno sfruttamento
così grave, non basterebbero certo le cavallette del Cha-
co a rodere in due anni la prosperità della campagna ar-
gentina. È che i disastri agrarî trovano tanto la terra
quanto i suoi lavoratori immiseriti, incapaci a resistere.
La Patria del 15 gennaio esponeva crudamente questa
situazione. «Chi fa le spese è il lavoro» – scriveva. – «In
definitiva, o i coloni debbono morir di fame per fare le
spese ai proprietarî di terre e ai capitalisti, ovvero deb-
bono rendersi insolvibili verso chi somministra loro le
sussistenze; tutto il meccanismo dell’economia rurale
non ha che uno scopo solo: impinguare la scarsella ai la-
tifondisti ed alle imprese di colonizzazione.»
C’è di che far molto meditare gli organizzatori infatica-
bili dei nostri scioperi agrarî!
*
* *

Ora il Governo argentino, per compensare la diminuzio-


ne costante della produzione agricola, intende di dare un
nuovo grande impulso alla colonizzazione nel Sud. Ma
nessuna prosperità durevole sarà possibile, se la terra
non verrà distribuita direttamente ai coltivatori, evitando
ogni intermediario. Ma, ahimè! l’affarismo e la specula-

244
zione già cominciano a stendere i loro tentacoli sitibondi
lungo i tracciati delle nuove ferrovie del Sud...
Nell’Argentina vi sono sopra a duecentomila disoccupa-
ti, in parte coltivatori, che hanno disertato i campi resi
infecondi. Con questa massa di lavoratori pratici del
paese è possibile al Governo argentino di tentare un va-
stissimo esperimento di colonizzazione, prima di stimo-
lare ciecamente nuova emigrazione italiana, che potreb-
be ritrovare laggiù antichi dolori e disinganni.
È la minore garanzia che possiamo pretendere contro lo
sfruttamento della nostra emigrazione lavoratrice.

245
LA TUTELA DELLA MADRE PATRIA23.

Un console italiano, rappresentante la nostra diplomazia


in una delle principalissime città della Repubblica Ar-
gentina, – città dove vivono non meno di quarantamila
nostri connazionali – ha inviato una bella mattina la let-
tera seguente alla Patria degli Italiani. È il grido d’un
buon burocratico che trova il suo tavolo troppo ingom-
bro di lavoro, e che invoca la meritata tranquillità:
«Nell’interesse e per norma dei nostri connazionali i
quali avessero reclami da sporgere per fatti dell’autorità
da cui si ritenessero lesi, sarò grato se vorrete pubblicare
il seguente avviso:
«Giusta i principî stabiliti dal Governo del Re, i regî
sudditi, i quali si ritengono lesi nei loro diritti da qual-
che autorità locale, dovranno prima di tutto – e fondan-
dosi nelle garanzie loro accordate dalle costituzioni ar-
gentine – rivolgersi successivamente, se necessario, a
tutte le autorità superiori a quella dalla quale furono
danneggiati, fornendo ad esse le prove convincenti dei
fatti asseriti».
Una parentesi: le parole in corsivo sono sottolineate nel
testo originale. E continuiamo:
«Solo nel caso, non presumibile, che la suprema autorità
locale siasi negata di far giustizia, od abbia indiscutibil-
mente violata quest’ultima, i regî sudditi potranno far ri-
23 Dal Corriere della Sera del 31 agosto 1902.

246
corso all’intervento dell’autorità consolare, provando:
«1.º Che il reclamante ha diritto all’invocata protezione
consolare, per avere egli il possesso attuale della nazio-
nalità italiana, e per la regolarità della propria situazione
di fronte alle leggi della Patria.
«2.º Che il reclamo è basato sulla realtà dei fatti, i quali
perciò debbono essere provati, e che esso abbia fonda-
mento giuridico; giacchè non tutti i danni sono suscetti-
bili di risarcimento.
«3.º Che vi sia stato – ciò che non deve supporsi – un
diniego od una patente violazione di giustizia da parte
delle supreme autorità locali.
«È pero lasciato al prudente criterio di equità del Regio
Console il giudicare, caso per caso, della opportunità o
meno di interporre fin da principio, in favore dei recla-
manti, il proprio intervento ufficioso, allo scopo di con-
seguire eque transazioni ed amichevoli componimenti.
«Gradisca, ecc.».
Questo significa semplicemente, nell’Argentina, che i
Consolati sono inutili. Supponete un caso pratico, pren-
diamo un esempio nella piccola cronaca di tutti i giorni:
un soldato di polizia per distrarsi consegna un colpo di
daga ad un gringo. Il poveraccio non può correre dal
Console, da colui che dovrebbe rappresentare la tutela,
la protezione della sua patria. No, deve «prima di tutto,
fondandosi nelle garanzie accordate dalle costituzioni
argentine, rivolgersi successivamente a tutte le autorità
superiori, ecc.». Dunque egli si fonda sulle garanzie e
corre – se può – dall’ufficiale di polizia; se non giova va
247
dal commissario; non basta? e allora protesta presso il
«jefe politico»; se l’alto funzionario non gli bada si reca
dal ministro della provincia; se il ministro gli nega giu-
stizia si presenta al governatore; il governatore lo manda
al diavolo? allora va dal ministro della giustizia del Go-
verno federale; se questi rifiuta di accogliere il reclamo,
il poveraccio bussa alla porta del Presidente e gli rac-
conta il fatto. È da notarsi intanto che il regio suddito –
per usare il termine burocratico – si sarebbe dovuto tra-
scinare appresso, sempre, i testimonî e i periti, o almeno
le perizie, perchè bisogna «fornire a tutte le autorità le
prove convincenti dei fatti asseriti». Il Presidente non
gli dà retta neanche lui, «ciò non deve supporsi» – dice
il nostro console – ma supponiamolo, che la verosimi-
glianza ci guadagna, e allora il regio suddito – o i suoi
discendenti perchè nel frattempo saranno passati tanti
anni! – trovandosi in perfetta regola con le emanazioni
consolari, ricorre al Console. La cosa è semplicissima;
egli non ha che a «provare di avere il possesso attuale
della nazionalità italiana e di dimostrare la regolarità
della propria situazione di fronte alle leggi italiane»; poi
passa a dimostrare che «il reclamo è basato sulla realtà
di fatti, i quali debbono perciò essere provati» e fa una
breve dissertazione giuridica sul giuridico fondamento.
In ultimo non ha che da provare il diniego o la violazio-
ne di giustizia – e che sia «patente» – da parte delle su-
preme autorità locali, e il Console finalmente inizia i
passi necessarî per ottenere la riparazione.
Ebbene, tutto questo è una burla feroce in un paese dove
248
la giustizia è quello che è, dove l’abuso e il sopruso
sono moneta corrente, e dove il delitto, specialmente se
è a danno di stranieri, rimane così spesso impunito.
Quale difesa porge l’Italia a quei suoi figli lontani? qua-
le protezione? Il comunicato del Console in questione ce
lo dice. Non è colpa nostra se i legami fra la Madre Pa-
tria e gli emigrati si spezzano così facilmente?
*
* *

Quel comunicato ha un significato molto grave, perchè


non rappresenta una stranezza d’un Console originale
poco scrupoloso dei suoi doveri, ma è la espressione di
tutto il nostro sistema diplomatico: esso espone i «prin-
cipî stabiliti dal Governo del Re», esso rappresenta lo
spirito della legge, è la legge. Non è quel Console che
non vuol proteggere le vittime italiane dagli abusi abitu-
dinarî delle autorità argentine: no, è la nostra legge che
non li difende, che non li ha mai difesi. Il Console del
quale ho parlato non ha fatto che trascrivere quello che
dicono i regolamenti diplomatici; egli è in regola. Si è
visto forse assediato di proteste di nostri confratelli an-
gariati, fra tanti gridi di aiuto non ha saputo più quali
ascoltare, ed egli ha scritto quella lettera. Essa in altre
parole viene a dire: Ma voi credete che io possa fare del
bene? credete che io possa darvi protezione, aiuto, dife-
sa? ah, no, voi non sapete quali sono le attribuzioni del
Console: esse sono queste e queste.

249
È vero che «è lasciato al prudente criterio di equità del
Regio Console il giudicare, caso per caso, della opportu-
nità, o meno, di interporre il proprio intervento ufficioso
in favore dei reclamanti», ma quel prudente criterio è
così prudente che molto di raro mette la testa fuori del
Consolato, e ciò fa solo quando è impossibile farne a
meno.
Da qualunque parte si vada si odono proteste contro
l’inerzia dei Consoli. Sono avvenute cose incredibili,
non parlando che di questi ultimi tempi; italiani vessati,
truffati, angariati, feriti, assassinati senza che in nome
della loro Patria si levasse nessuna fiera voce di prote-
sta. Le autorità consolari domandano spiegazioni alle
autorità argentine; queste ne danno – buone o cattive
poco monta – le autorità consolari se ne dichiarano più o
meno soddisfatte e ringraziano. Le vittime figurano
sempre dalla parte del torto, si capisce. Un’infinità di
fatti che hanno sollevato l’indignazione pubblica, sono
passati, così, come le cose più naturali.
Il tredici del luglio scorso un italiano, un certo Domeni-
co Barolo, venne arrestato senza ragione nella sua casa,
a Rosario. Condottolo in istrada gli agenti estrassero le
daghe e gli diedero tanti colpi di taglio e di piatto da
stenderlo al suolo. Allora chiamarono una vettura e ve
lo gettarono di traverso come un sacco, ponendogli i
piedi sul petto. Rinvenuto, alla Commisseria, volevano
fargli pagare una multa di dodici pesos, ma poi per
l’intermissione d’un signore che lo conosceva venne ri-
lasciato. Tutto questo è dettagliatamente narrato da un
250
giornale argentino, la Repubblica, la quale, fatta consta-
tare l’esattezza del racconto, inviò un redattore al Con-
solato italiano, accompagnato dalla stessa vittima, per
fare una protesta. Lo stesso giornale riportava, dopo al-
cuni giorni, la notizia che le spiegazioni della polizia ar-
gentina erano state trovate soddisfacenti dal Consolato
italiano. Le ferite, quell’infelice, se le sarebbe fatte da
sè, cadendo. Basti il dire – osserva la Repubblica – che
egli ha, fra le altre, varie ferite alla sommità del cranio,
e per farsele sarebbe dovuto cadere replicatamente con
la testa in giù e le gambe in aria, dritto come un uovo.
Di questi fatti ve ne sono a bizzeffe. Un altro, caratteri-
stico. A Bahia Blanca, nel marzo passato, la polizia ha
assalito con le armi degli operai italiani che avevano
scioperato per ragioni sacrosante che abbiamo esposte
in altro articolo. Vi sono stati quattro feriti, di cui uno
gravemente. Nessuna guardia ferita. L’autorità consola-
re, dopo domandate delle spiegazioni alla polizia e fatta
una specie d’indagine, ha concluso che gli operai aveva-
no torto, che la polizia era la vittima, o poco meno, e
che non si era potuto sapere il nome nemmeno di uno
dei pretesi feriti. I nomi, se all’autorità preme ancora sa-
perli, eccoli: Federico Dellepiane, Ivano Franchetti, Pa-
squale Severini e Pietro Giorgenti. I due primi sono stati
anche imprigionati. Il ferito grave era il Dellepiane. La
cosa non è un segreto – fuori che per la diplomazia, pare
– poichè fu resa pubblica da una protesta, al Jefe politi-
co, dei commercianti di Bahia Blanca, protesta portante
quarantatrè firme – fra le quali molte di argentini.
251
*
* *

Quando pensiamo che la polizia nord-americana ha


messo sotto sopra il mondo per una miss Stone seque-
strata, con tutti i riguardi, dai briganti bulgari – la quale
dopo tutto era andata a pescare la sua disgrazia con la
più evangelica buona volontà – ; quando pensiamo che
per un missionario ammazzato, od anche minacciato, in
Cina, si domandano solenni riparazioni e si muovono
minacciosamente le flotte; quando pensiamo a tutto que-
sto sentiamo la vergogna per l’abbandono in cui lascia-
mo i nostri compatrioti all’estero, restando indifferenti
davanti ad ogni infamia, inerti e tranquilli. E poi ci stu-
piamo se gl’Italiani non godono di troppo prestigio al di
là dell’Atlantico.
In un paese, come l’Argentina, dove gli uomini pongono
bene spesso sulla bilancia della Giustizia il peso delle
loro influenze e delle loro relazioni, lo straniero, che
non ha nessuno di questi pesi da mettervi, trova la bilan-
cia terribilmente difettosa. Per ridurla normale i rappre-
sentanti del suo paese dovrebbero gravarvi quanto basta
con la loro autorità. I nostri rappresentanti parlano seria-
mente di garanzie costituzionali argentine sulle quali ci
si dovrebbe fondare, e partono in ogni questione dal
principio che «non deve supporsi un diniego o una vio-
lazione di giustizia». Già, come se quella bilancia laggiù
andasse bene!
Un diplomatico italiano mi disse un giorno che gli emi-

252
granti, per il solo fatto di essere andati laggiù, accettava-
no tutte le condizioni nelle quali si svolge la vita di quel
paese, accettavano la sua giustizia, la sua amministra-
zione, ecc. Il ragionamento è comodo, ma è falso. Essi,
poveretti, non sanno nulla di nulla; essi accettano, come
la pecora, per il solo fatto che segue il gregge, accetta la
forbice che la tosa o il coltello che la scanna. Ed è così
che molti, troppi dei nostri rappresentanti diplomatici
sentono la loro missione. È pur vero che chi di loro vuol
fare non può.
Non può perchè v’è la consuetudine, v’è il precedente.
Un console od un ministro italiano che prendendo a
cuore una questione parlasse alto, risoluto, fieramente,
non metterebbe troppo pensiero alle autorità locali, le
quali potrebbero sempre dire: nella tale occasione analo-
ga a questa si fece così e così, e foste contenti; in questa
faremo lo stesso, e dovrete essere contenti. Non può
perchè i casi per levare voci di protesta, per invocare a
grandi gridi la giustizia sono tali e tanti, che un console
coscienzioso, nell’America del Sud, non saprebbe dove
cominciare, dove mettersi le mani, se non nei capelli per
la disperazione. Non può perchè sa che alle spalle non
ha – povero emigrato anche lui – che una ben debole
protezione. Il Governo non vuole seccature, non vuole
complicazioni; il diplomatico più abile è quello che dà
meno noie, che solleva meno incidenti. Non bisogna es-
sere troppo esigenti, Dio mio, bisogna contentarsi delle
spiegazioni che i governi interessati hanno la bontà di
fornire. Il diplomatico che ha troppi scrupoli è presto
253
tolto di mezzo; le buone relazioni internazionali sono
salve. C’è la consuetudine anche in questo: tanto che se
il nostro Governo per una volta si associa alle proteste
di qualche suo agente, non mette una gran soggezione,
nemmeno ad un Venezuela. È una cosa così nuova! Il
Governo in fondo dice ai suoi consoli e ministri quello
che costoro dicono ai «regî sudditi»: Sbrigatevela da
voi!
*
* *

Ed essi se la sbrigano. Cercano di tenersi amiche le au-


torità locali, procurano di non urtare in niente, d’andare
avanti sgusciando destramente fra questione e questio-
ne, persuasi qualche volta che quella è la buona via per
cementare gli accordi fra Governo e Governo, per fo-
mentare le fratellanze. Le autorità locali ne sono en-
chantées. Così essi assicurano la tranquillità dei rapporti
diplomatici e non compromettono la loro carriera.
E non hanno torto. La carriera li preoccupa giustamente.
Essi sono degli impiegati; anzi sono troppo impiegati. E
la diplomazia non dovrebbe procedere alla stregua della
burocrazia. La promozione e il trasloco degli agenti di-
plomatici dovrebbero essere soggetti a ben diverse leggi
da quelle che regolano la promozione e il trasloco di al-
tri impiegati dello Stato. Non può un diplomatico essere,
supponiamo, vice-console ad Anversa, console a San
Paulo del Brasile, console generale a Costantinopoli, se-

254
gretario a Tokio, come un impiegato alle imposte dirette
è commesso a Sassari e ricevitore ad Otranto. L’azione
del diplomatico spazia nell’ambiente in cui egli vive, e
deve essere diversa a seconda dei diversi ambienti. Un
console non può limitarsi nell’Argentina o nel Brasile a
dare ai suoi connazionali la sua protezione nella stessa
misura e nella stessa forma con le quali le dà, che so, a
Londra o a Berlino. I governi, le autorità, la Giustizia, le
amministrazioni offrono ben diverse garanzie nei diversi
paesi, ed è assurdo che l’azione dei consoli sia limitata
dagli stessi «principî stabiliti dal governo del Re» in
qualunque parte del mondo si trovino. Il console deve
poterne uscire da quelle trincee protocollate, e per uscir-
ne deve conoscere intimamente l’ambiente. Ma questo
non avverrà mai finchè egli sarà portato dalla sua «car-
riera» a considerare il posto che occupa come una posi-
zione transitoria.
«Fra tre, fra due, fra un anno io me ne andrò» – egli
pensa – e prosegue soavemente la sua via, chiudendo
occhi e orecchie alle proteste che si levano intorno a lui
e alle domande angosciose d’aiuto e di difesa. Se egli
poi, per lunga residenza o per alto sentimento del dove-
re, approfondisce l’ambiente, sa trovare tutte le fila del
nuovo meccanismo sociale nel quale si trova, conosce
gli uomini che lo circondano, sa parlar loro, sa chiedere,
concedere o volere, ecco che viene sbalestrato agli anti-
podi. Noi avevamo, per esempio, un funzionario pratico
dell’Africa che conosceva l’Eritrea e i suoi abitanti per-
fettamente, che parlava l’arabo e l’amarico e lo abbiamo
255
mandato console in.... Cina, come se i cinesi e gli abissi-
ni fossero la stessa cosa. Così, su per giù, avvengono i
nostri «movimenti diplomatici.»
Gl’Inglesi invece... (È seccante dover ricorrere sempre
all’esempio inglese, ma gl’Inglesi, pur troppo, anche
qui, hanno un’indiscutibile superiorità). Gl’Inglesi, dice-
vo, per molti paesi creano dei diplomatici direi quasi
specialisti. A Pechino vi sono presso la Legazione ingle-
se numerosi studenti di cinese i quali, giunti a maturità
di studio, diventano consoli inglesi disseminati nel Cele-
ste Impero. Il presente ministro inglese a Pechino è uno
degli orientalisti più stimati e le sue opere sull’antica
letteratura cinese sono preziose. In molti paesi,
nell’Argentina fra gli altri, alcuni consoli d’Inghilterra
sono dei commercianti. Essi offrono moltissimi vantag-
gi: conoscenza perfetta del paese, delle sue forze econo-
miche, della sua potenzialità produttrice, della sua po-
tenza di consumo; poi innegabile abilità diplomatica,
perchè la ruse d’un commerciante non ha rivali; inamo-
vibilità, che è garanzia di serietà, di circospezione e di
pratica dell’ambiente. Infine vantaggio non minore è
che gli interessi della loro nazione combinano con i loro
stessi interessi; una diminuzione di prestigio è una dimi-
nuzione d’affari; la prosperità del commercio inglese è
anche la loro fortuna. Essi sono mescolati alla vita so-
ciale, la forza che deriva dalla loro autorità non rimane
rinchiusa nel loro ufficio, ma irradia su tutta la vasta
cerchia dei connazionali che hanno con essi affari, rap-
porti e contatti. Non è certo desiderabile che, per imitare
256
gli Inglesi, i nostri consoli nei centri minori divenissero
commercianti e viceversa; ma che i consoli fuori
d’Europa restassero a compire la loro carriera diploma-
tica nel paese che essi conoscono di più, questo sì che
sarebbe veramente da pretendersi.
*
* *

Col nostro sistema è chiaro che il Governo non potrà


sempre avere – attraverso i suoi rappresentanti – un’idea
troppo chiara dell’essenza e dell’indole di certi Governi
lontani e per conseguenza della maniera di trattare effi-
cacemente con essi.
Basta, per accorgersene, paragonare l’azione del Gover-
no nostro presso quello argentino in certi casi, e quella
del Governo inglese in casi analoghi (e perdonatemi se
torno in ballo con gl’Inglesi). Una volta – sono molti
anni, ma chi ha avuto contatti col mondo diplomatico a
Buenos Aires lo rammenta bene – venne da un caudillo
della provincia della capitale ammazzato per questioni
d’interesse un suddito inglese. Alle domande di giusti-
zia, il Governo argentino rispose con promesse che re-
starono allo stato di promesse. Alle proteste del ministro
inglese non rispose più nulla, aspettando dal tempo il
benefico oblìo. Allora il Governo inglese fece affiggere
in tutte le stazioni ferroviarie e in tutti i porti del Regno
Unito un avviso che diceva presso a poco così: «Il Go-
verno di S. M. la Regina rende noto che nella Repubbli-

257
ca argentina la vita non è garantita». Era il momento
della grande emigrazione e il principio delle grandi im-
prese: il Governo argentino, informato dal suo ministro
a Londra, si allarmò e domandò lo stracciamento degli
avvisi. Fu risposto che questo sarebbe avvenuto soltanto
dopo la punizione dell’assassino del suddito inglese.
L’assassino fu preso e condannato subito.
Gl’Inglesi sono il popolo più odiato nell’Argentina – ba-
sti il dire che laggiù la parola inglese significa creditore
– ma anche il più rispettato, perchè si sa che chi fa un
torto ad un inglese è punito. Soltanto ultimamente, nel
mese d’aprile, è avvenuto un fatto che sembra faccia ec-
cezione. Il figlio d’un commissario di polizia, con la
complicità d’un agente, ha assassinato in modo vile e
orribile un giovane inglese, un tale Barnett. Vi è stato un
periodo d’indecisione perchè l’assassino gode altissime
influenze, ma il contegno della diplomazia inglese è sta-
to così risoluto, che finalmente s’è iniziato il procedi-
mento penale contro il colpevole. È vero che a questo ha
contribuito anche il contegno energico e minaccioso di
tutta la stampa inglese. Il Times, dopo d’avere esposto le
condizioni della giustizia argentina, è giunto, in un re-
centissimo articolo, ad invocare nientemeno che
un’azione unita delle Potenze per garantire la vita, i beni
e la libertà dei rispettivi sudditi nell’Argentina.
E noi? Ah! quanto lunga, dolorosa, raccapricciante sa-
rebbe la storia dei delitti impuniti nei quali la vittima è
stata italiana. Intiere famiglie italiane sono state assassi-
nate proprio mentre noi palpitavamo tutti per la sorte di
258
miss Stone, ignari dei tragici avvenimenti che facevano
scorrere lontano, in luoghi quasi ignorati, il sangue no-
stro.
Un altro esempio che dimostra come, in virtù della sua
diplomazia, il Governo inglese – per dirla con l’espres-
siva frase popolare – conosca i suoi polli. Una colonia
di gallesi stabilitasi da 28 anni nel Chobut, ha protestato
presso il Governo patrio contro molte ingiustizie delle
quali era vittima. In simili casi noi scambiamo dei tele-
grammi col Governo argentino, – se non ci limitiamo ai
colloquî col suo rappresentante in Roma – riceviamo le
abituali e recise smentite accompagnate da commoventi
assicurazioni d’amicizia e di simpatia e ci dichiariamo
contentoni. Il Governo inglese conosce il valore di certe
assicurazioni ufficiali. È più pratico: esso ha inviato una
Commissione d’inchiesta a vedere e riferire. La Com-
missione è giunta alla chetichella, evitando ogni contat-
to con le autorità per non intralciare l’azione del suo
Governo, e si è messa al lavoro. Ha constatato delle
cose da far fremere d’indignazione ogni buona anima
anglo-sassone, ed ha riferito. Il Governo inglese ha of-
ferto a quei coloni delle terre al Canadà. In un momento,
per pubblica sottoscrizione, a Londra, si sono raccolte
ottantamila lire per le spese di viaggio, ed ultimamente i
gallesi del Chobut sono tornati a rifugiarsi ancora
all’ombra protettrice dell’Union Jack. Tutto questo è
passato senza che venisse scambiata col Governo argen-
tino la minima nota, che avrebbe procurato o bugie o
inutile tensione di rapporti.
259
Così pure l’Inghilterra ha agito per la chiusura dei suoi
porti al bestiame argentino, in seguito alla tentata intro-
duzione in Inghilterra di buoi argentini affetti d’afta epi-
zootica. Ogni tanto il Governo della Repubblica dichiara
che l’afta non c’è più; il Governo inglese, per conto suo,
rinnova un’inchiesta presso gli estancieros inglesi, in
conseguenza della quale i porti seguitano a essere chiu-
si.
*
* *

È inutile continuare il paragone tra l’opera della nostra


diplomazia in America e l’opera delle altre. Per ragioni
che non dipendono certamente nè dalla volontà, nè dalla
qualità dei nostri rappresentanti, ma da tutto un sistema
sbagliato, la nostra diplomazia, almeno laggiù, non ri-
sponde a tutti i suoi scopi.
Essa ha una missione che è politica, economica ed uma-
nitaria; ebbene, noi laggiù siamo poco temuti e poco ri-
spettati, poco tutelati e poco difesi.
Questa è l’amara verità.

260
CONCLUDENDO SULL’ARGENTINA.24

Scrivendo le mie prime lettere dell’Argentina, non avrei


creduto di dover intrattenere in seguito il lettore così a
lungo sulle cose di quella Repubblica. Intendevo di trac-
ciare rapidamente, come meglio potevo, la fisionomia di
quel paese dove tanti italiani vivono, riportare semplice-
mente le impressioni di quello strano stato di cose osser-
vato con occhio italiano. Ma le prime pubblicazioni as-
sunsero un carattere per me assolutamente inaspettato:
quello di rivelazioni.
Le brevi e presto spente polemiche sollevate in quel mo-
mento, dimostrarono che quanto scrivevo riusciva per
molti nuovo. Ho creduto mio dovere d’offrire i più ampi
particolari, di non attenermi più alla semplice esposizio-
ne delle mie osservazioni personali, ma dimostrare, con
la maggiore larghezza di prove, fatti e documenti, la ve-
rità.
Scrivendo da laggiù, tutto mi potevo immaginare, fuori
che di dire cose nuove per noi. Non riportavo certo delle
storie segrete: chi vive e chi ha vissuto nell’Argentina le
conosce bene pur troppo. Si tratta di una situazione nota
a milioni di persone, della quale centinaia di giornali lo-
cali scrivono ampiamente e uomini politici discutono; si
tratta di fatti tangibili, controllati da tutto un popolo, i
quali possono essere giudicati in un modo o in un altro,
24 Dal Corriere della Sera del 5 settembre 1902.

261
a seconda la coscienza o l’abitudine, ma che sono fatti;
si tratta di tutta la vita speciale d’un paese, per un buon
terzo di sangue italiano, e nella quale nulla v’è di miste-
rioso e di celato. E noi, noi italiani che più di ogni altro
popolo avevamo il diritto ed il dovere di sapere tutto,
noi, nella maggioranza, ne sapevamo poco o nulla.
*
* *

Questo fatto ci condanna. Noi possiamo gridare contro


le ingiustizie e contro gli inganni che così spesso atten-
dono i nostri poveri emigranti, ma non potremo con
questo toglierci di dosso la parte di responsabilità che
noi abbiamo di quei mali. La nostra colpa si chiama in-
differenza.
Da trent’anni la nostra emigrazione si dirige nelle regio-
ni del Sud-America, attiratavi in tutti i modi, e noi non
abbiamo quasi sentito il bisogno di sapere esattamente
che cosa avvenisse di questo torrente di popolo che ab-
bandonava la patria. Qualche voce onesta si è levata di
tanto in tanto a denunziare delle infamie di cui sono vit-
time i nostri emigranti, ma s’è spenta senza lasciare una
eco lunga e profonda nella coscienza pubblica. Si è tro-
vato che l’emigrazione era una necessità, un bisogno,
come una valvola di sicurezza che ci salvava dai perico-
li della sovrapopolazione, e questa constatazione ha ser-
vito troppo di scusa alla nostra indifferenza. E quando,
dopo tanti anni, abbiamo pensato ai nostri emigranti,

262
non abbiamo visto che le miserie della loro partenza; e
non spingendo lo sguardo più lontano del mare abbiamo
rese migliori le condizioni del loro viaggio, senza por
mente che il viaggio è niente, è il brevissimo esordio
delle loro sofferenze, è la soglia della loro nuova vita,
una soglia che può essere indifferentemente rude o levi-
gata.
Di quei paesi e della vita che vi si svolge noi abbiamo
avute relazioni interessate – sulle quali è degno sorvola-
re – le quali non ci hanno mostrato che i lati belli e se-
ducenti. Abbiamo visto le ricchezze e abbiamo visto i
progressi, e ce ne siamo accontentati, senza domandare
quanto queste bellezze costavano del nostro sangue.
Non abbiamo domandato le tavole della mortalità, non
abbiamo visto i caduti dell’immenso esercito nostro, che
ha traversato a squadre l’Atlantico per combattere silen-
zioso, sotto altra bandiera, la più disperata battaglia.
Nulla abbiamo saputo, nella nostra maggioranza, dei
tranelli, dei soprusi, delle violenze e delle ingiustizie
che tanto spesso attendono i nostri lavoratori – come po-
tevamo porgere aiuto, tutela e difesa? Le cose americane
ci sono sembrate tanto lontane, che non ci hanno inte-
ressato che vagamente, come curiosità. Così abbiamo
lasciato che quei mali crescessero, ingigantissero, dive-
nissero endemici, pressochè incurabili.
*
* *

263
Non possiamo pensare seriamente a rimediare al passa-
to: siamo costretti ad assistere allo spettacolo di tanti
dolori e tanta miseria impotenti a portarvi sollievo. Mol-
ta parte di tante sciagure è dovuta a cause sulle quali noi
non possiamo nulla. Il Governo argentino ha il diritto
pieno di essere cattivo o pessimo, di fare debiti e
d’imporre gravami al popolo, di reggersi come meglio
crede, di ruinare o no le finanze del paese.
Ma il passato può servirci di scuola per l’avvenire. La
crisi argentina, per quanto grave, volgerà ad una solu-
zione; quel Governo – che già ha destinato non lievi
fondi per la propaganda all’estero in favore dell’emigra-
zione – aprirà alla colonizzazione nuovi territorî non an-
cora sfruttati: la corrente emigratoria si riformerà, e fino
ad una nuova crisi le cose cammineranno bene (bene nel
senso generale dell’economia pubblica, intendiamoci).
Ebbene, profittiamo di questa sosta per preparare la no-
stra emigrazione. Facciamo in modo che le illusioni
scompaiano dalla fantasia delle nostre masse prima che
queste si muovano di casa, prima che la stessa dolorosa
e irreparabile realtà laggiù venga con le lacrime più
amare a lavar via i loro sogni. Che emigrino, ma emigri-
no armate e pronte. Che sappiano tutto dall’A alla Zeta,
che conoscano il buono e il cattivo, che possano agire
con la loro mente e con il loro criterio illuminati dalla
piena conoscenza delle cose, che conoscano i sentieri
della riuscita e anche i precipizî che li costeggiano, le
trappole che vi sono tese, le imboscate preparate. Allora
solo avremo un’emigrazione forte, cosciente, utile a sè e
264
alla patria.
In questa santa propaganda sta il nostro primo dovere:
ma non basta. Regoliamo la nostra emigrazione. Prima
che essa si muova pretendiamo di sapere dove andrà e
che lavoro le è riserbato; domandiamo delle garanzie.
Se per la colonizzazione d’un nuovo territorio occorro-
no cinquantamila lavoratori, ci siano note le condizioni
del lavoro e le forme di contratto. L’emigrante partendo
deve potersi dire, supponiamo: Vado nella tal regione,
avrò tanta terra, a questi patti, che mi convengono. Gli
emigranti meridionali potranno scegliere le regioni più
calde, quelli dell’alta Italia le temperate. Tutto questo
non può avvenire laggiù dove gli emigranti appena sbar-
cati si agglomerano nell’attesa che si disponga di loro,
ignari di tutto, nell’impossibilità materiale, una volta
disseminati per la Repubblica, di reagire, di protestare,
di far ascoltare la propria voce.
E quando è giunto sul posto l’emigrante non deve essere
abbandonato dalla vigile tutela della Patria, l’osservanza
dei patti deve venir controllata con i mezzi più rapidi,
più serî e più discreti.
*
* *

Guardiamo l’emigrazione sotto il suo vero aspetto. Non


si tratta già di zavorra che noi gettiamo per andar più
leggeri, come una comoda teoria vuol far credere. Non
si tratta di poveraglia della quale dobbiamo essere felici

265
di disfarci, ringraziando quei paesi che le offrono la tra-
dizionale «ospitalità generosa», come si ha il coraggio
anche oggi di ripetere da certuni. No, no, la cosa è, gra-
zie a Dio, molto più degna: si tratta in fondo di domanda
di mano d’opera da parte dei nuovi paesi, e da parte no-
stra. È un commercio di forze, nobili forze dalle quali
tutto scaturisce; forze motrici della civiltà. Noi non sia-
mo affatto costretti a gettarle via; la sovrabbondanza di
mano d’opera in Italia non è assoluta, ma relativa alla
penuria che altri ne hanno. Tanto è vero che la corrente
emigratrice subisce variazioni d’importanza non tanto
per mutamenti di condizioni nostre quanto per muta-
menti di quelle dei nuovi paesi, e le statistiche dell’emi-
grazione nell’Argentina lo dicono; se l’Argentina non
migliorerà la sua situazione, vedrà che la nostra «zavor-
ra» può anche restare a casa. V’è domanda e offerta;
possiamo dunque trattare.
Il Governo nostro ha compreso vagamente questo quan-
do, sulla fine dello scorso anno, ha proposto al Governo
Argentino di fare un esperimento di emigrazione scelta
per la colonizzazione, sotto date condizioni, comincian-
do con alcune centinaia di lavoratori. Era un principio
d’interessamento. Ma il Governo argentino, che incon-
dizionatamente ha ricevuto l’anno passato trentun mila
emigranti italiani, ha evitato ogni trattativa declinando
l’offerta. Bisognava impedire l’emigrazione incondizio-
nata, e si sarebbe venuti a trattative. Noi non conoscia-
mo che due estreme misure in fatto d’emigrazione,
egualmente cattive: o proibirla assolutamente per un
266
dato paese, o permetterla senza limiti, senza freni e sen-
za misura. Per l’emigrazione in certi Stati dovremmo
porre delle condizioni. Se esse non vengono accettate
vorrà dire: o che non v’è richiesta di lavoro – e allora è
sempre bene che gli emigranti non partano – ; o che non
v’è alcuna intenzione di garantire gli emigranti degli
abusi, le frodi, le violenze e le ingiustizie – e allora è
egualmente bene che gli emigranti non partano, per ri-
sparmiarsi inevitabili dolori e disinganni, o che si diri-
gano altrove, dove i loro diritti siano meglio riconosciuti
e più rispettati.
*
* *

È bene che l’opinione pubblica in Italia cominci ad inte-


ressarsi seriamente a quanto avviene al di là dell’Atlan-
tico. Al Governo argentino è mancato assolutamente fi-
nora il controllo dell’opinione straniera, e questo con-
trollo potrà migliorare molte cose più di tutte le diplo-
mazie riunite.
Il popolo argentino tiene immensamente all’apparenza.
«Il nostro ideale non consiste nell’acquistare valore» –
ha scritto un uomo politico argentino, Agostino Alvarez
– «ma nell’acquistare importanza». È una caratteristica
tutta spagnuola questa, di coprire fieramente con un bel
mantello tutte le proprie macchie e le proprie miserie.
Sempre negli scritti e nei discorsi traspare il pensiero:
Che si direbbe all’estero se si sapesse che....? L’«estero»

267
è per loro come l’opinione pubblica per un privato.
Quanta gente non fa del male non perchè non ne avreb-
be voglia, ma perchè ha paura che si sappia? Così gli ar-
gentini agirebbero forse meglio se sapessero di essere
osservati. E a noi importerà poco che il bene venga con-
sigliato dall’orgoglio e dall’amor proprio piuttosto che
dalla convinzione, purchè il bene venga.
È così vero questo, che ora, in seguito a pubblicazioni
sulle cose argentine fatte dalla parte più seria ed autore-
vole dalla stampa inglese, pubblicazioni nelle quali la
Giustizia, le amministrazioni, il Governo, le finanze
dell’Argentina venivano crudamente descritti, sono co-
minciate laggiù serie discussioni sopra nuove e impor-
tanti riforme.
Le riforme forse non verranno, ma se ne parla, e questo
per l’Argentina è già un bel risultato dovuto tutto al con-
trollo dell’opinione pubblica straniera, che per gli argen-
tini è una cosa tanto nuova quanto fastidiosa.
Noi più degli inglesi abbiamo interesse, non solo, ma
dovere di tenerci informati delle faccende argentine.
Essi vigilano i loro capitali; noi abbiamo da vigilare i
nostri fratelli. La differenza è infinita. Le disgrazie in-
glesi nell’Argentina sono scritte in belle cifre al «dare»
del libro mastro: non esiste cifra che possa segnare il va-
lore di tutti i dolori, le angoscie, le disperazioni, le lagri-
me e il sangue, che formano la somma delle disgrazie
nostre.

268
*
* *

Se potessi esser certo di aver col mio povero lavoro con-


tribuito a fare una parte minima di bene, io mi sentirei
felice. Ma i mali sono tanto vasti, profondi ed antichi,
che io, ponendo oggi la parola «fine» a questa mia rapi-
da esposizione delle cose argentine, non posso sottrarmi
a quel senso di amarezza e di sconforto che accascia chi
sente d’aver compito un lavoro inutile, e s’accorge della
sproporzione immensa fra le proprie forze e lo scopo
che si era prefisso.

FINE.

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