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Civiltà Cattolica Intervista A Papa Francesco Di Padre Antonio Spadaro

L'intervista a Papa Francesco, condotta da padre Antonio Spadaro, esplora la sua visione spirituale e personale, rivelando la sua identità come 'peccatore' e il suo motto di vita. Il Papa discute l'importanza della comunità, della missione e del discernimento nella sua vita e nel suo ministero, sottolineando come queste esperienze influenzino il suo approccio alla leadership nella Chiesa. Inoltre, riflette sulla sua elezione al Pontificato e sul significato di essere un gesuita in tale ruolo.

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Civiltà Cattolica Intervista A Papa Francesco Di Padre Antonio Spadaro

L'intervista a Papa Francesco, condotta da padre Antonio Spadaro, esplora la sua visione spirituale e personale, rivelando la sua identità come 'peccatore' e il suo motto di vita. Il Papa discute l'importanza della comunità, della missione e del discernimento nella sua vita e nel suo ministero, sottolineando come queste esperienze influenzino il suo approccio alla leadership nella Chiesa. Inoltre, riflette sulla sua elezione al Pontificato e sul significato di essere un gesuita in tale ruolo.

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Chiesa
19 settembre 2013
«CIVILTÀ CATTOLICA»

La Chiesa, l'uomo, le sue ferite:


l'intervista a papa Francesco
Per gentile concessione di "Civiltà
Cattolica" pubblichiamo il testo integrale
dell'intervista del direttore padre Antonio
Spadaro a papa Francesco.

Santa Marta, lunedì 19 agosto ore 9,50

È lunedì 19 agosto. Papa Francesco mi


ha dato appuntamento alle 10,00 in
Santa Marta. Io però eredito da mio padre la necessità di arrivare sempre in
anticipo. Le persone che mi accolgono mi fanno accomodare in una saletta.
L’attesa dura poco, e dopo un paio di minuti vengo accompagnato a prendere
l’ascensore. Nei due minuti ho avuto il tempo di ricordare quando a Lisbona, in
una riunione di direttori di alcune riviste della Compagnia di Gesù, era emersa
la proposta di pubblicare tutti insieme un’intervista al Papa. Avevo discusso con
gli altri direttori, ipotizzando alcune domande che esprimessero gli interessi di
tutti. Esco dall’ascensore e vedo il Papa già sulla porta ad attendermi. Anzi, in
realtà, ho avuto la piacevole impressione di non aver varcato porte.

Entro nella sua stanza e il Papa mi fa accomodare su una poltrona. Lui si siede
su una sedia più alta e rigida a causa dei suoi problemi alla schiena.
L’ambiente è semplice, austero. Lo spazio di lavoro della scrivania è piccolo.
Sono colpito dalla essenzialità non solamente degli arredi, ma anche delle
cose. Ci sono pochi libri, poche carte, pochi oggetti. Tra questi un’icona di San
Francesco, una statua di Nostra Signora di Luján, Patrona dell’Argentina, un
crocifisso e una statua di san Giuseppe dormiente, molto simile a quella che
avevo visto nella sua camera di rettore e superiore provinciale presso il Colegio
Máximo di San Miguel. La spiritualità di Bergoglio non è fatta di «energie
armonizzate», come le chiamerebbe lui, ma di volti umani: Cristo, san
Francesco, san Giuseppe, Maria.

Il Papa mi accoglie col sorriso che ormai ha fatto più volte il giro del mondo e
che apre i cuori. Cominciamo a parlare di tante cose, ma soprattutto del suo
viaggio in Brasile. Il Papa lo considera una vera grazia. Gli chiedo se si è
riposato. Lui mi dice di sì, che sta bene, ma soprattutto che la Giornata
Mondiale della Gioventù è stata per lui un «mistero». Mi dice che non è mai
stato abituato a parlare a tanta gente: «Io riesco a guardare le singole persone,
una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti.
Non sono abituato alle masse». Gli dico che è vero, e che si vede, e che
questo colpisce tutti. Si vede che, quando lui è in mezzo alla gente, i suoi occhi
in realtà si posano sui singoli. Poi le telecamere proiettano le immagini e tutti

1 di 21 27/09/2013 15:15
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possono vederle, ma così lui può sentirsi libero di restare in contatto diretto,
almeno oculare, con chi ha davanti a sé. Mi sembra contento di questo, cioè di
poter essere quel che è, di non dover alterare il suo modo ordinario di
comunicare con gli altri, anche quando ha davanti a sé milioni di persone,
come è accaduto sulla spiaggia di Copacabana.

Prima che io accenda il registratore parliamo anche d’altro. Commentando una


mia pubblicazione, mi ha detto che i due pensatori francesi contemporanei che
predilige sono Henri de Lubac e Michel de Certeau. Gli dico anche qualcosa di
più personale. Anche lui mi parla di sé e in particolare della sua elezione al
Pontificato. Mi dice che quando ha cominciato a rendersi conto che rischiava di
essere eletto, il mercoledì 13 marzo a pranzo, ha sentito scendere su di lui una
profonda e inspiegabile pace e consolazione interiore insieme a un buio totale,
a una oscurità profonda su tutto il resto. E questi sentimenti lo hanno
accompagnato fino all’elezione.

In realtà avrei continuato a parlare così familiarmente per tanto tempo ancora,
ma prendo i fogli con alcune domande che avevo annotato e accendo il
registratore. Innanzitutto lo ringrazio a nome di tutti i direttori delle riviste dei
gesuiti che pubblicheranno questa intervista.

Poco prima dell’udienza che ha concesso ai gesuiti della Civiltà Cattolica il 14


giugno scorso, il Papa mi aveva parlato della sua grande difficoltà a rilasciare
interviste. Mi aveva detto che preferisce pensare più che dare risposte di getto
in interviste sul momento. Sente che le risposte giuste gli vengono dopo aver
dato la prima risposta: «non ho riconosciuto me stesso quando sul volo di
ritorno da Rio de Janeiro ho risposto ai giornalisti che mi facevano le
domande», mi dice. Ma è vero: in questa intervista più volte il Papa si è sentito
libero di interrompere quel che stava dicendo rispondendo a una domanda, per
aggiungere qualcosa sulla precedente. Parlare con Papa Francesco in realtà è
una sorta di flusso vulcanico di idee che si annodano tra loro. Persino prendere
appunti mi dà la spiacevole sensazione di interrompere un dialogo sorgivo. È
chiaro che Papa Francesco è abituato più alla conversazione che alla lezione.

Chi è Jorge Mario Bergoglio?

Ho la domanda pronta, ma decido di non seguire lo schema che mi ero


prefisso, e gli chiedo un po’ a bruciapelo: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?». Il
Papa mi fissa in silenzio. Gli chiedo se è una domanda che è lecito porgli… Lui
fa cenno di accettare la domanda e mi dice: «non so quale possa essere la
definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più
giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore».

Il Papa continua a riflettere, compreso, come se non si aspettasse quella


domanda, come se fosse costretto a una riflessione ulteriore.

«Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono
anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da
dentro e che sento più vera, è proprio questa: “sono un peccatore al quale il

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Signore ha guardato”». E ripete: «io sono uno che è guardato dal Signore. Il
mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per
me».

Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il


quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo,
scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di
amore e lo scelse, gli disse: Seguimi».

E aggiunge: «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano


sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste:
misericordiando».

Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui
sul momento non comprendo il senso: «Io non conosco Roma. Conosco poche
cose. Tra queste Santa Maria Maggiore: ci andavo sempre». Rido e gli dico:
«lo abbiamo capito tutti molto bene, Santo Padre!». «Ecco, sì — prosegue il
Papa —, conosco Santa Maria Maggiore, San Pietro… ma venendo a Roma ho
sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi
dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san
Matteo di Caravaggio (/Chiesa/PublishingImages/SanMatteoCaravaggio.jpg)
». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi.

«Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come
Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che
andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi,
come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io:
“un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho
detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice».
Quindi sussurra: «Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia
Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto».

Perché si è fatto gesuita?

Comprendo che questa formula di accettazione è per Papa Francesco anche


una carta di identità. Non c’era più altro da aggiungere. Proseguo con quella
che avevo scelto come prima domanda: «Santo Padre, che cosa l’ha spinta a
scegliere di entrare nella Compagnia di Gesù? Che cosa l’ha colpita dell’Ordine
dei gesuiti?». «Io volevo qualcosa di più. Ma non sapevo che cosa. Ero entrato
in seminario. I domenicani mi piacevano e avevo amici domenicani. Ma poi ho
scelto la Compagnia, che ho conosciuto bene perché il seminario era affidato ai
gesuiti. Della Compagnia mi hanno colpito tre cose: la missionarietà, la
comunità e la disciplina. Curioso questo, perché io sono un indisciplinato nato,
nato, nato. Ma la loro disciplina, il modo di ordinare il tempo, mi ha colpito
tanto». «E poi una cosa per me davvero fondamentale è la comunità. Cercavo
sempre una comunità. Io non mi vedevo prete solo: ho bisogno di comunità. E
lo si capisce dal fatto che sono qui a Santa Marta: quando sono stato eletto,
abitavo per sorteggio nella stanza 207. Questa dove siamo adesso era una
camera per gli ospiti. Ho scelto di abitare qui, nella camera 201, perché quando

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ho preso possesso dell’appartamento pontificio, dentro di me ho sentito


distintamente un “no”. L’appartamento pontificio nel Palazzo Apostolico non è
lussuoso. È antico, fatto con buon gusto e grande, non lussuoso. Ma alla fine è
come un imbuto al rovescio. È grande e spazioso, ma l’ingresso è davvero
stretto. Si entra col contagocce, e io no, senza gente non posso vivere. Ho
bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri». Mentre il Papa parla di missione
e di comunità, mi vengono in mente tutti quei documenti della Compagnia di
Gesù in cui si parla di «comunità per la missione» e li ritrovo nelle sue parole.

Che cosa significa per un gesuita essere Papa?

Voglio proseguire su questa linea e pongo al Papa una domanda a partire dal
fatto che lui è il primo gesuita ad essere eletto Vescovo di Roma: «Come legge
il servizio alla Chiesa universale che lei è stato chiamato a svolgere alla luce
della spiritualità ignaziana? Che cosa significa per un gesuita essere eletto
Papa? Quale punto della spiritualità ignaziana la aiuta meglio a vivere il suo
ministero?». «Il discernimento», risponde Papa Francesco. «Il discernimento è
una delle cose che più ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno
strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino. Mi
ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di
Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto
riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere
ristretti dallo spazio più grande, ma essere in grado di stare nello spazio più
ristretto. Questa virtù del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla
posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole
di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le
cose piccole all’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio». «Questa
massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il
discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per
sant’Ignazio i grandi princìpi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo,
di tempo e di persone. A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione
di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca
corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di
agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e
realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che
risultano più efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima
Lettera ai Corinzi». «Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio,
pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io
credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento
vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento
invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo.
È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza
sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che
accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche
quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta,
sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che
nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento
nel Signore mi guida nel mio modo di governare». «Ecco, invece diffido delle
decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione,

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cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una
decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare
interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento
riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che
non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».

La Compagnia di Gesù

Il discernimento è dunque un pilastro della spiritualità del Papa. In questo si


esprime in maniera peculiare la sua identità gesuitica. Gli chiedo quindi come
pensa che la Compagnia di Gesù possa servire la Chiesa oggi, quale sia la sua
peculiarità, ma anche gli eventuali rischi che corre. «La Compagnia è
un’istituzione in tensione, sempre radicalmente in tensione. Il gesuita è un
decentrato. La Compagnia è in se stessa decentrata: il suo centro è Cristo e la
sua Chiesa. Dunque: se la Compagnia tiene Cristo e la Chiesa al centro, ha
due punti fondamentali di riferimento del suo equilibrio per vivere in periferia.
Se invece guarda troppo a se stessa, mette sé al centro come struttura ben
solida, molto ben “armata”, allora corre il pericolo di sentirsi sicura e sufficiente.
La Compagnia deve avere sempre davanti a sé il Deus semper maior, la
ricerca della gloria di Dio sempre maggiore, la Chiesa Vera Sposa di Cristo
nostro Signore, Cristo Re che ci conquista e al quale offriamo tutta la nostra
persona e tutta la nostra fatica, anche se siamo vasi di argilla, inadeguati.
Questa tensione ci porta continuamente fuori da noi stessi. Lo strumento che
rende veramente forte la Compagnia decentrata è poi quello, insieme paterno e
fraterno, del “rendiconto di coscienza”, proprio perché la aiuta a uscire meglio
in missione». Qui il Papa si riferisce a un punto specifico delle Costituzioni della
Compagnia di Gesù nel quale si legge che il gesuita deve «manifestare la sua
coscienza», cioè la situazione interiore che vive, in modo che il superiore possa
essere più consapevole e accorto nell’inviare una persona alla sua missione.
«Ma è difficile parlare della Compagnia — prosegue Papa Francesco —.
Quando si esplicita troppo, si corre il rischio di equivocare. La Compagnia si
può dire solamente in forma narrativa. Solamente nella narrazione si può fare
discernimento, non nella esplicazione filosofica o teologica, nelle quali invece si
può discutere. Lo stile della Compagnia non è quello della discussione, ma
quello del discernimento, che ovviamente suppone la discussione nel
processo. L’aura mistica non definisce mai i suoi bordi, non completa il
pensiero. Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto, dal
pensiero aperto. Ci sono state epoche nella Compagnia nelle quali si è vissuto
un pensiero chiuso, rigido, più istruttivo-ascetico che mistico: questa
deformazione ha generato l’Epitome Instituti». Qui il Papa si sta riferendo a una
specie di riassunto pratico in uso nella Compagnia e riformulato nel XX secolo,
che venne visto come un sostitutivo delle Costituzioni. La formazione dei
gesuiti sulla Compagnia per un certo tempo fu plasmata da questo testo, a tal
punto che qualcuno non lesse mai le Costituzioni, che invece sono il testo
fondativo. Per il Papa, durante questo periodo nella Compagnia le regole
hanno rischiato di sopraffare lo spirito, e ha vinto la tentazione di esplicitare e
dichiarare troppo il carisma.

Prosegue: «No, il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando

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l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro. Questa è la sua
vera forza. E questo spinge la Compagnia ad essere in ricerca, creativa,
generosa. Dunque, oggi più che mai, deve essere contemplativa nell’azione;
deve vivere una vicinanza profonda a tutta la Chiesa, intesa come “popolo di
Dio” e “santa madre Chiesa gerarchica”. Questo richiede molta umiltà,
sacrificio, coraggio, specialmente quando si vivono incomprensioni o si è
oggetto di equivoci e calunnie, ma è l’atteggiamento più fecondo. Pensiamo
alle tensioni del passato sui riti cinesi, sui riti malabarici, nelle riduzioni in
Paraguay». «Io stesso sono testimone di incomprensioni e problemi che la
Compagnia ha vissuto anche di recente. Tra queste vi furono i tempi difficili di
quando si trattò della questione di estendere il “quarto voto” di obbedienza al
Papa a tutti i gesuiti. Quello che a me dava sicurezza al tempo di padre Arrupe
era il fatto che lui fosse un uomo di preghiera, un uomo che passava molto
tempo in preghiera. Lo ricordo quando pregava seduto per terra, come fanno i
giapponesi. Per questo lui aveva l’atteggiamento giusto e prese le decisioni
corrette».

Il modello: Pietro Favre, «prete riformato»

A questo punto mi chiedo se tra i gesuiti ci siano figure, dalle origini della
Compagnia ad oggi, che lo abbiano colpito in maniera particolare. E così
chiedo al Pontefice se ci sono, quali sono e perché. Il Papa comincia a citarmi
Ignazio e Francesco Saverio, ma poi si sofferma su una figura che i gesuiti
conoscono, ma che certo non è molto nota in generale: il beato Pietro Favre
(1506- 1546), savoiardo. È uno dei primi compagni di sant’Ignazio, anzi il
primo, con il quale egli condivideva la stanza quando i due erano studenti alla
Sorbona. Il terzo nella stessa stanza era Francesco Saverio. Pio IX lo dichiarò
beato il 5 settembre 1872, ed è in corso il processo di canonizzazione. Mi cita
una edizione del suo Memoriale che lui fece curare da due gesuiti specialisti,
Miguel A. Fiorito e Jaime H. Amadeo, quando era superiore provinciale. Una
edizione che al Papa piace particolarmente è quella a cura di Michel de
Certeau. Gli chiedo quindi perché è colpito proprio dal Favre, quali tratti della
sua figura lo impressionano. «Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli
avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità
immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di
grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…». Mentre
Papa Francesco fa questo elenco di caratteristiche personali del suo gesuita
preferito, comprendo quanto questa figura sia stata davvero per lui un modello
di vita. Michel de Certeau definisce Favre semplicemente il «prete riformato»,
per il quale l’esperienza interiore, l’espressione dogmatica e la riforma
strutturale sono intimamente indissociabili. Mi sembra di capire, dunque, che
Papa Francesco si ispiri proprio a questo genere di riforma. Quindi il Papa
prosegue con una riflessione sul vero volto del fundador. «Ignazio è un mistico,
non un asceta. Mi arrabbio molto quando sento dire che gli Esercizi spirituali
sono ignaziani solamente perché sono fatti in silenzio. In realtà gli Esercizi
possono essere perfettamente ignaziani anche nella vita corrente e senza il
silenzio. Quella che sottolinea l’ascetismo, il silenzio e la penitenza è una
corrente deformata che si è pure diffusa nella Compagnia, specialmente in
ambito spagnolo. Io sono vicino invece alla corrente mistica, quella di Louis

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Lallemant e di Jean-Joseph Surin. E Favre era un mistico».

L’esperienza di governo

Quale tipo di esperienza di governo può far maturare la formazione avuta da


padre Bergoglio, che è stato prima superiore e poi superiore provinciale nella
Compagnia di Gesù? Lo stile di governo della Compagnia implica la decisione
da parte del superiore, ma anche il confronto con i suoi «consultori». E così
chiedo al Papa: «Pensa che la sua esperienza di governo del passato possa
servire alla sua attuale azione di governo della Chiesa universale?». Papa
Francesco dopo una breve pausa di riflessione si fa serio, ma molto sereno.
«Nella mia esperienza di superiore in Compagnia, a dire il vero, io non mi sono
sempre comportato così, cioè facendo le necessarie consultazioni. E questa
non è stata una cosa buona. Il mio governo come gesuita all’inizio aveva molti
difetti. Quello era un tempo difficile per la Compagnia: era scomparsa una
intera generazione di gesuiti. Per questo mi son trovato Provinciale ancora
molto giovane. Avevo 36 anni: una pazzia. Bisognava affrontare situazioni
difficili, e io prendevo le mie decisioni in maniera brusca e personalista. Sì,
devo aggiungere però una cosa: quando affido una cosa a una persona, mi fido
totalmente di quella persona. Deve fare un errore davvero grande perché io la
riprenda. Ma, nonostante questo, alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo.
Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni mi ha portato ad avere
seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un
tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato
certo come la Beata Imelda, ma non sono mai stato di destra. È stato il mio
modo autoritario di prendere le decisioni a creare problemi». «Dico queste cose
come una esperienza di vita e per far capire quali sono i pericoli. Col tempo ho
imparato molte cose. Il Signore ha permesso questa pedagogia di governo
anche attraverso i miei difetti e i miei peccati. Così da arcivescovo di Buenos
Aires ogni quindici giorni facevo una riunione con i sei vescovi ausiliari, varie
volte l’anno col Consiglio presbiterale. Si ponevano domande e si apriva lo
spazio alla discussione. Questo mi ha molto aiutato a prendere le decisioni
migliori. E adesso sento alcune persone che mi dicono: “non si consulti troppo,
e decida”. Credo invece che la consultazione sia molto importante. I Concistori,
i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa
consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio
consultazioni reali, non formali. La Consulta degli otto cardinali, questo gruppo
consultivo outsider, non è una decisione solamente mia, ma è frutto della
volontà dei cardinali, così come è stata espressa nelle Congregazioni Generali
prima del Conclave. E voglio che sia una Consulta reale, non formale».

«Sentire con la Chiesa»

Rimango sul tema della Chiesa e provo a capire che cosa significhi
esattamente per Papa Francesco il «sentire con la Chiesa» di cui scrive
sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali. Il Papa risponde senza esitazione
partendo da un’immagine. «L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del
santo popolo fedele di Dio. È la definizione che uso spesso, ed è poi quella
della Lumen gentium al numero 12. L’appartenenza a un popolo ha un forte

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valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è
identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo,
come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di
relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in
questa dinamica popolare ». «Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di
Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque
per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere,
e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso
soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Ecco, questo io
intendo oggi come il “sentire con la Chiesa” di cui parla sant’Ignazio. Quando il
dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è
assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi». «È
come con Maria: se si vuol sapere chi è, si chiede ai teologi; se si vuol sapere
come la si ama, bisogna chiederlo al popolo. A sua volta, Maria amò Gesù con
cuore di popolo, come leggiamo nel Magnificat. Non bisogna dunque neanche
pensare che la comprensione del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente
al sentire con la sua parte gerarchica». E il Papa, dopo un momento di pausa,
precisa in maniera secca, per evitare fraintendimenti: «E, ovviamente, bisogna
star bene attenti a non pensare che questa infallibilitas di tutti i fedeli di cui sto
parlando alla luce del Concilio sia una forma di populismo. No: è l’esperienza
della “santa madre Chiesa gerarchica”, come la chiamava sant’Ignazio, della
Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del
popolo di Dio». «Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana.
C’è una “classe media della santità” di cui tutti possiamo far parte, quella che di
cui parla Malègue». Il Papa si sta riferendo a Joseph Malègue, uno scrittore
francese a lui caro, nato nel 1876 e morto nel 1940. In particolare alla sua
trilogia incompiuta Pierres noires. Les Classes moyennes du Salut. Alcuni critici
francesi lo definirono «il Proust cattolico». «Io vedo la santità — prosegue il
Papa — nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo
che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno
tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore
che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la
santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la
pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze
della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno.
Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio.
Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia
nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia
nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa
che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con
coraggio». «Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti,
non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone
selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido
protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre — prosegue —. La
Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti
negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che
mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né
padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio,
quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia,

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leggo una storia di vita, di fecondità». «Un altro esempio di questi giorni: ho
visto che è stata molto ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un
ragazzo che mi aveva scritto una lettera. Io gli ho telefonato perché quella
lettera era tanto bella, tanto semplice. Per me questo è stato un atto di
fecondità. Mi sono reso conto che è un giovane che sta crescendo, ha
riconosciuto un padre, e così gli dice qualcosa della sua vita. Il padre non può
dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene».

Chiese giovani e Chiese antiche

Rimango sul tema della Chiesa, ponendo al Papa una domanda anche alla
luce della recente Giornata Mondiale della Gioventù: «Questo grande evento
ha acceso ulteriormente i riflettori sui giovani, ma anche su quei “polmoni
spirituali” che sono le Chiese di più recente istituzione. Quali le speranze per la
Chiesa universale che le sembrano provenire da queste Chiese?». «Le Chiese
giovani sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire, e dunque
diversa da quella sviluppata dalle Chiese più antiche. Per me, il rapporto tra le
Chiese di più antica istituzione e quelle più recenti è simile al rapporto tra
giovani e anziani in una società: costruiscono il futuro, ma gli uni con la loro
forza e gli altri con la loro saggezza. Si corrono sempre dei rischi, ovviamente;
le Chiese più giovani rischiano di sentirsi autosufficienti, quelle più antiche
rischiano di voler imporre alle più giovani i loro modelli culturali. Ma il futuro si
costruisce insieme».

La Chiesa? Un ospedale da campo…

Papa Benedetto XVI, annunciando la sua rinuncia al Pontificato, ha ritratto il


mondo di oggi come soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di
grande rilevanza per la vita della fede che richiedono vigore sia del corpo, sia
dell’anima. Chiedo al Papa, anche alla luce di ciò che mi ha appena detto: «Di
che cosa la Chiesa ha più bisogno in questo momento storico? Sono
necessarie riforme? Quali sono i suoi desideri sulla Chiesa dei prossimi anni?
Quale Chiesa “sogna”?». Papa Francesco, cogliendo l’incipit della mia
domanda, comincia col dire: «Papa Benedetto ha fatto un atto di santità, di
grandezza, di umiltà. È un uomo di Dio», dimostrando un grande affetto e una
enorme stima per il suo predecessore. «Io vedo con chiarezza — prosegue —
che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite
e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa
come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito
grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi
potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna
cominciare dal basso».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La


cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i
ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia. Il
confessore, ad esempio, corre sempre il pericolo di essere o troppo rigorista o
troppo lasso. Nessuno dei due è misericordioso, perché nessuno dei due si fa
veramente carico della persona. Il rigorista se ne lava le mani perché lo rimette

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al comandamento. Il lasso se ne lava le mani dicendo semplicemente “questo


non è peccato” o cose simili. Le persone vanno accompagnate, le ferite vanno
curate».

«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I
ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone,
accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo
prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme
organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima
riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono
essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella
notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro
buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di
Stato. I Vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere
con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga
indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare
nuove strade». «Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve
tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove
strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la
frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha
fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno.
Ma ci vuole audacia, coraggio».

Raccolgo ciò che il Santo Padre sta dicendo e faccio riferimento al fatto che ci
sono cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o comunque in
situazioni complesse, cristiani che, in un modo o nell’altro, vivono ferite aperte.
Penso a divorziati risposati, coppie omosessuali, altre situazioni difficili. Come
fare una pastorale missionaria in questi casi? Su che cosa far leva? Il Papa fa
cenno di aver compreso che cosa intendo dire e risponde.

«Dobbiamo annunciare il Vangelo su ogni strada, predicando la buona notizia


del Regno e curando, anche con la nostra predicazione, ogni tipo di malattia e
di ferita. A Buenos Aires ricevevo lettere di persone omosessuali, che sono
“feriti sociali” perché mi dicono che sentono come la Chiesa li abbia sempre
condannati. Ma la Chiesa non vuole fare questo. Durante il volo di ritorno da
Rio de Janeiro ho detto che, se una persona omosessuale è di buona volontà
ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo io ho
detto quel che dice il Catechismo. La religione ha il diritto di esprimere la
propria opinione a servizio della gente, ma Dio nella creazione ci ha resi liberi:
l’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile. Una volta una
persona, in maniera provocatoria, mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io
allora le risposi con un’altra domanda: “Dimmi: Dio, quando guarda a una
persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge
condannandola?”. Bisogna sempre considerare la persona. Qui entriamo nel
mistero dell’uomo. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo
accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con
misericordia. Quando questo accade, lo Spirito Santo ispira il sacerdote a dire
la cosa più giusta». «Questa è anche la grandezza della Confessione: il fatto di
valutare caso per caso, e di poter discernere qual è la cosa migliore da fare per

10 di 21 27/09/2013 15:15
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una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di
tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare
meglio che possiamo. Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto
alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si
è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente
ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che
cosa fa il confessore?».

«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio


omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho
parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se
ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si
conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in
continuazione». «Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono
tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla
trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con
insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul
necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il
cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo
equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come
un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La
proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da
questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».

«Dico questo anche pensando alla predicazione e ai contenuti della nostra


predicazione. Una bella omelia, una vera omelia, deve cominciare con il primo
annuncio, con l’annuncio della salvezza. Non c’è niente di più solido, profondo
e sicuro di questo annuncio. Poi si deve fare una catechesi. Infine si può tirare
anche una conseguenza morale. Ma l’annuncio dell’amore salvifico di Dio è
previo all’obbligazione morale e religiosa. Oggi a volte sembra che prevalga
l’ordine inverso. L’omelia è la pietra di paragone per calibrare la vicinanza e la
capacità di incontro di un pastore con il suo popolo, perché chi predica deve
riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dove è vivo e ardente il
desiderio di Dio. Il messaggio evangelico non può essere ridotto dunque ad
alcuni suoi aspetti che, seppure importanti, da soli non manifestano il cuore
dell’insegnamento di Gesù».

Il primo Papa religioso dopo 182 anni…

Papa Francesco è il primo Pontefice a provenire da un Ordine religioso dopo il


camaldolese Gregorio XVI, eletto nel 1831, 182 anni fa. Chiedo dunque: «Qual
è oggi nella Chiesa il posto specifico dei religiosi e delle religiose?». «I religiosi
sono profeti. Sono coloro che hanno scelto una sequela di Gesù che imita la
sua vita con l’obbedienza al Padre, la povertà, la vita di comunità e la castità. In
questo senso i voti non possono finire per essere caricature, altrimenti, ad
esempio, la vita di comunità diventa un inferno e la castità un modo di vivere da
zitelloni. Il voto di castità deve essere un voto di fecondità. Nella Chiesa i
religiosi sono chiamati in particolare ad essere profeti che testimoniano come
Gesù è vissuto su questa terra, e che annunciano come il Regno di Dio sarà

11 di 21 27/09/2013 15:15
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nella sua perfezione. Mai un religioso deve rinunciare alla profezia. Questo non
significa contrapporsi alla parte gerarchica della Chiesa, anche se la funzione
profetica e la struttura gerarchica non coincidono. Sto parlando di una proposta
sempre positiva, che però non deve essere timorosa. Pensiamo a ciò che
hanno fatto tanti grandi santi monaci, religiosi e religiose, sin da sant’Antonio
abate. Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire… La
profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma
è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo».

Dicasteri romani, sinodalità, ecumenismo

Considerando il riferimento alla gerarchia, chiedo a questo punto al Papa:


«Che cosa pensa dei dicasteri romani?». «I dicasteri romani sono al servizio
del Papa e dei Vescovi: devono aiutare sia le Chiese particolari sia le
Conferenze episcopali. Sono meccanismi di aiuto. In alcuni casi, quando non
sono bene intesi, invece, corrono il rischio di diventare organismi di censura. È
impressionante vedere le denunce di mancanza di ortodossia che arrivano a
Roma. Credo che i casi debbano essere studiati dalle Conferenze episcopali
locali, alle quali può arrivare un valido aiuto da Roma. I casi, infatti, si trattano
meglio sul posto. I dicasteri romani sono mediatori, non intermediari o gestori».
Ricordo al Papa che il 29 giugno scorso, durante la cerimonia della
benedizione e dell’imposizione del pallio a 34 arcivescovi metropoliti, aveva
affermato «la strada della sinodalità» come la strada che porta la Chiesa unita
a «crescere in armonia con il servizio del primato». Ecco la mia domanda,
dunque: «Come conciliare in armonia primato petrino e sinodalità? Quali strade
sono praticabili, anche in prospettiva ecumenica?».

«Si deve camminare insieme: la gente, i Vescovi e il Papa. La sinodalità va


vissuta a vari livelli. Forse è il tempo di mutare la metodologia del Sinodo,
perché quella attuale mi sembra statica. Questo potrà anche avere valore
ecumenico, specialmente con i nostri fratelli Ortodossi. Da loro si può imparare
di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità.
Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come si governava la Chiesa nei
primi secoli, prima della rottura tra Oriente e Occidente, darà frutti a suo tempo.
Nelle relazioni ecumeniche questo è importante: non solo conoscersi meglio,
ma anche riconoscere ciò che lo Spirito ha seminato negli altri come un dono
anche per noi. Voglio proseguire la riflessione su come esercitare il primato
petrino, già iniziata nel 2007 dalla Commissione Mista, e che ha portato alla
firma del Documento di Ravenna. Bisogna continuare su questa strada». Cerco
di capire come il Papa veda il futuro dell’unità della Chiesa. Mi risponde:
«dobbiamo camminare uniti nelle differenze: non c’è altra strada per unirci.
Questa è la strada di Gesù».

E il ruolo della donna nella Chiesa? Il Papa ha più volte fatto riferimento a
questo tema in varie occasioni. In una intervista aveva affermato che la
presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto, perché la
tentazione del maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo
che spetta alle donne nella comunità. Ha ripreso la questione durante il viaggio
di ritorno da Rio de Janeiro affermando che non è stata fatta ancora una

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profonda teologia della donna. Allora, chiedo: «Quale deve essere il ruolo della
donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?». «È necessario
ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la
soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una
struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della
donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno
ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere
se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è
imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo
perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque
approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più
per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio
si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il
genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni
importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della
donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».

Il Concilio Vaticano II

«Che cosa ha realizzato il Concilio Vaticano II? Che cosa è stato?», gli chiedo
alla luce delle sue affermazioni precedenti, immaginando una risposta lunga e
articolata. Ho invece come l’impressione che il Papa semplicemente consideri il
Concilio come un fatto talmente indiscutibile che non vale la pena parlarne
troppo a lungo, come per doverne ribadire l’importanza.

«Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura
contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che
semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare
la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come
rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono
linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara:
la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del
Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la
liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata
prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare
sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del
Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione».

Cercare e trovare Dio in tutte le cose

Il discorso di Papa Francesco è molto sbilanciato sulle sfide dell’oggi. Anni fa


aveva scritto che per vedere la realtà è necessario uno sguardo di fede,
altrimenti si vede una realtà a pezzi, frammentata. È questo anche uno dei temi
dell’enciclica Lumen fidei. Ho in mente anche alcuni passaggi dei discorsi di
Papa Francesco durante la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro.
Glieli cito: «Dio è reale se si manifesta nell’oggi»; «Dio sta da tutte le parti».
Sono frasi che riecheggiano l’espressione ignaziana «cercare e trovare Dio in
tutte le cose». Chiedo dunque al Papa: «Santità, come si fa a cercare e trovare
Dio in tutte le cose?».

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«Quel che ho detto a Rio ha un valore temporale. C’è infatti la tentazione di


cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è
nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio
“concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a
trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a
volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura
conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi».

«Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i


processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso.
Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei
processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si
manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa
privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza,
attesa». «Incontrare Dio in tutte le cose non è un eureka empirico. In fondo,
quando desideriamo incontrare Dio, vorremmo constatarlo subito con metodo
empirico. Così non si incontra Dio. Lo si incontra nella brezza leggera avverita
da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio chiama i “sensi
spirituali”. Ignazio chiede di aprire la sensibilità spirituale per incontrare Dio al
di là di un approccio puramente empirico. È necessario un atteggiamento
contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e
dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo
buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale,
dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio».

Certezza ed errori

«Se l’incontro con Dio in tutte le cose non è un “eureka empirico” — dico al
Papa — e se dunque si tratta di un cammino che legge la storia, si possono
anche commettere errori…».

«Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di
incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con
certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va
bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le
domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un
falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di
Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare
spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza
si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione
spirituale». «Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la
volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è
qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è
quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E
spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. È questa l’esperienza dei
grandi Padri della fede, che sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo
11 della Lettera agli Ebrei. Abramo è partito senza sapere dove andava, per
fede. Tutti i nostri antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da

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lontano… La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto
scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si deve entrare
nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi
incontrare da Dio».

«Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come
il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo
leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a
questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo?
Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso
in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai
dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui.
Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è
fondamentale».

«Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora


non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad
avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni
disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca
ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e
involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho
una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di
ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai
vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo
si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un
terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono
può crescere. Bisogna fidarsi di Dio».

Dobbiamo essere ottimisti?

Queste parole del Papa mi ricordano alcune sue riflessioni del passato, nelle
quali l’allora cardinal Bergoglio ha scritto che Dio vive già nella città, vitalmente
mescolato in mezzo a tutti e unito a ciascuno. È un altro modo, a mio avviso,
per dire ciò che sant’Ignazio scrisse negli Esercizi Spirituali, cioè che Dio
«lavora e opera» nel nostro mondo. Gli chiedo dunque: «dobbiamo essere
ottimisti? Quali sono i segni di speranza nel mondo d’oggi? Come si fa ad
essere ottimisti in un mondo in crisi?». «A me non piace usare la parola
“ottimismo”, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la
parola “speranza” secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli
Ebrei che citavo prima. I Padri hanno continuato a camminare, attraversando
grandi difficoltà. E la speranza non delude, come leggiamo nella Lettera ai
Romani. Pensa invece al primo indovinello della Turandot di Puccini», mi
chiede il Papa. Sul momento ho ricordato un po’ a memoria i versi di
quell’enigma della principessa che ha come risposta la speranza: Nella cupa
notte vola un fantasma iridescente. / Sale e spiega l’ale / sulla nera infinita
umanità. / Tutto il mondo l’invoca / e tutto il mondo l’implora. / Ma il fantasma
sparisce con l’aurora / per rinascere nel cuore. / Ed ogni notte nasce / ed ogni
giorno muore! Versi che rivelano il desiderio di una speranza che qui però è
fantasma iridescente e che sparisce con l’aurora.

15 di 21 27/09/2013 15:15
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«Ecco — prosegue Papa Francesco —, la speranza cristiana non è un


fantasma e non inganna. È una virtù teologale e dunque, in definitiva, un regalo
di Dio che non si può ridurre all’ottimismo, che è solamente umano. Dio non
defrauda la speranza, non può rinnegare se stesso. Dio è tutto promessa».

L’arte e la creatività

Rimango colpito dalla citazione della Turandot per parlare del mistero della
speranza. Vorrei capire meglio quali sono i riferimenti artistici e letterari di Papa
Francesco. Gli ricordo che nel 2006 aveva detto che i grandi artisti sanno
presentare con bellezza le realtà tragiche e dolorose della vita. Chiedo dunque
quali siano gli artisti e gli scrittori che preferisce; se c’è qualcosa che li
accomuna… «Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo
Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il
compleanno di sua nonna (http://gutenberg.spiegel.de/buch/262/51) che è
di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È
quella che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha
promesso. Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì
Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è
l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro I
Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi
ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria
l’inizio di questo libro: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno,
tra due catene non interrotte di monti…”. Anche Gerard Manley Hopkins mi è
piaciuto tanto».

«In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la
sua Crocifissione bianca (/Chiesa/PublishingImages/Chagall-
Crocifissionebianca.jpg) …».

«In musica amo Mozart, ovviamente. Quell’Et Incarnatus est (http://youtu.be


/YJJT108WZ7o) della sua Missa in Do è insuperabile: ti porta a Dio! Amo Mozart
eseguito da Clara Haskil (http://youtu.be/Dcv21fo6kOU) . Mozart mi riempie:
non posso pensarlo, devo sentirlo. Beethoven mi piace ascoltarlo, ma
prometeicamente. E l’interprete più prometeico per me è Furtwängler. E poi le
Passioni di Bach. Il brano di Bach che amo tanto è l’Erbarme Dich
(http://youtu.be/aPAiH9XhTHc) , il pianto di Pietro della Passione secondo
Matteo. Sublime. Poi, a un livello diverso, non intimo allo stesso modo, amo
Wagner. Mi piace ascoltarlo, ma non sempre. La Tetralogia dell’Anello eseguita
da Furtwängler alla Scala nel ’50 è la cosa per me migliore. Ma anche il
Parsifal (http://youtu.be/MVVf9SYSaWw) eseguito nel ’62 da Knappertsbusch».

«Dovremmo anche parlare del cinema. La strada di Fellini è il film che forse ho
amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a
san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo
Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è
Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei
genitori che ci portavano spesso al cinema».

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«Comunque in generale io amo gli artisti tragici, specialmente i più classici. C’è
una bella definizione che Cervantes pone sulla bocca del baccelliere Carrasco
per fare l’elogio della storia di Don Chisciotte: “i fanciulli l’hanno tra le mani, i
giovani la leggono, gli adulti la intendono, i vecchi ne fanno l’elogio”. Questa
per me può essere una buona definizione per i classici».

Mi rendo conto di essere assorbito da questi suoi riferimenti, e di avere il


desiderio di entrare nella sua vita entrando per la porta delle sue scelte
artistiche. Sarebbe un percorso, immagino lungo, da fare. E includerebbe
anche il cinema, dal neorealismo italiano a Il pranzo di Babette. Mi vengono in
mente altri autori e altre opere che lui ha citato in altre occasioni, anche minori
o meno noti o locali: dal Martín Fierro di José Hernández alla poesia di Nino
Costa, a Il grande esodo di Luigi Orsenigo. Ma penso anche a Joseph Malègue
e José María Pemán. E ovviamente a Dante e Borges, ma anche a Leopoldo
Marechal, l’autore di Adán Buenosayres, El Banquete de Severo Arcángelo e
Megafón o la guerra. Penso in particolare proprio a Borges, perché di lui
Bergoglio, ventottenne professore di Letteratura a Santa Fé presso il Colegio
de la Inmaculada Concepción, ebbe una conoscenza diretta. Bergoglio
insegnava agli ultimi due anni del Liceo e avviò i suoi ragazzi alla scrittura
creativa. Ho avuto una esperienza simile alla sua, quando avevo la sua età,
presso l’Istituto Massimo di Roma, fondando BombaCarta, e gliela racconto.
Alla fine chiedo al Papa di raccontare la sua esperienza.

«È stata una cosa un po’ rischiosa — risponde —. Dovevo fare in modo che i
miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di
leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa, e
durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi.
Ovviamente i giovani volevano leggere le opere letterarie più “piccanti”,
contemporanee come La casada infiel, o classiche come La Celestina di
Fernando de Rojas. Ma leggendo queste cose che li attiravano sul momento,
prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad
altri autori. E per me è stata una grande esperienza. Ho completato il
programma, ma in maniera destrutturata, cioè non ordinata secondo ciò che
era previsto, ma secondo un ordine che veniva naturale nella lettura degli
autori. E questa modalità mi corrispondeva molto: non amavo fare una
programmazione rigida, ma semmai sapere dove arrivare più o meno. Allora ho
cominciato anche a farli scrivere. Alla fine ho deciso di far leggere a Borges
due racconti scritti dai miei ragazzi. Conoscevo la sua segretaria, che era stata
la mia professoressa di pianoforte. A Borges piacquero moltissimo. E allora lui
propose di scrivere l’introduzione a una raccolta». «Allora, Padre Santo, per la
vita di una persona la creatività è importante?», gli chiedo. Lui ride e mi
risponde: «Per un gesuita è estremamente importante! Un gesuita deve essere
creativo».

Frontiere e laboratori

Creatività, dunque: per un gesuita è importante. Papa Francesco, ricevendo i


Padri e i collaboratori della Civiltà Cattolica, aveva scandito una triade di altre

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caratteristiche importanti per il lavoro culturale dei gesuiti. Ritorno alla memoria
a quel giorno, il 14 giugno scorso. Ricordo che allora, nel colloquio previo
all’incontro con tutto il nostro gruppo, mi aveva preannunciato la triade: dialogo,
discernimento, frontiera. E aveva insistito particolarmente sull’ultimo punto,
citandomi Paolo VI, che in un famoso discorso aveva detto dei gesuiti:
«Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia
delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze
brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi
sono i gesuiti».

Chiedo a Papa Francesco qualche chiarimento: «Ci ha chiesto di stare attenti a


non cadere nella “tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare
verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e
addomesticarle”. A che cosa si riferiva? Che cosa intendeva dirci esattamente?
Questa intervista è stata concordata tra un gruppo di riviste dirette dalla
Compagnia di Gesù: quale invito desidera esprimere loro? Quali devono
essere le loro priorità?».

«Le tre parole chiave che ho rivolto alla Civiltà Cattolica possono essere estese
a tutte le riviste della Compagnia, magari con accentuazioni diverse sulla base
della loro natura e dei loro obiettivi. Quando insisto sulla frontiera, in maniera
particolare mi riferisco alla necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito
nel contesto nel quale opera e sul quale riflette. C’è sempre in agguato il
pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma
una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un
compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si
prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per
verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma
vivere in frontiera ed essere audaci».

Chiedo al Papa se può fare qualche esempio sulla base della sua esperienza
personale. «Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare
il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e
capire il problema dall’interno e studiarlo. C’è una lettera geniale del padre
Arrupe ai Centros de Investigación y Acción Social (CIAS) sulla povertà, nella
quale dice chiaramente che non si può parlare di povertà se non la si
sperimenta con una inserzione diretta nei luoghi nei quali la si vive. Questa
parola “inserzione” è pericolosa perché alcuni religiosi l’hanno presa come una
moda, e sono accaduti dei disastri per mancanza di discernimento. Ma è
davvero importante».

«E le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro
vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il
problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e strectomicina
in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva
cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero
bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava
con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a
parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma

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la riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza».

Come l’uomo comprende se stesso

Chiedo allora al Papa se questo valga e come anche per una frontiera culturale
importante che è quella della sfida antropologica. L’antropologia a cui la Chiesa
ha tradizionalmente fatto riferimento e il linguaggio con la quale l’ha espressa
restano un riferimento solido, frutto di saggezza ed esperienza secolare.
Tuttavia l’uomo a cui la Chiesa si rivolge non sembra più comprenderli o
considerarli sufficienti. Comincio a ragionare sul fatto che l’uomo si sta
interpretando in maniera diversa dal passato, con categorie diverse. E questo
anche a causa dei grandi cambiamenti nella società e di un più ampio studio di
se stesso…

Il Papa a questo punto si alza e va a prendere sulla sua scrivania il Breviario. È


un Breviario in latino, ormai logoro per l’uso. E lo apre all’Ufficio delle Letture
della Feria sexta, cioè venerdì, della XXVII settimana. Mi legge un passaggio
tratto dal Commonitórium Primum di san Vincenzo di Lerins: ita étiam
christiánae religiónis dogma sequátur has decet proféctuum leges, ut annis
scílicet consolidétur, dilatétur témpore, sublimétur aetáte («Anche il dogma
della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi
con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età»).

E così il Papa prosegue: «San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo


biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei,
che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione
dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si
approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di
morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella
comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il
proprio giudizio. Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in
questa crescita nella comprensione. Ci sono norme e precetti ecclesiali
secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o
significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da
difendere senza sfumature è errata».

«Del resto, in ogni epoca l’uomo cerca di comprendere ed esprimere meglio se


stesso. E dunque l’uomo col tempo cambia il modo di percepire se stesso: una
cosa è l’uomo che si esprime scolpendo la Nike di Samotracia, un’altra quella
del Caravaggio, un’altra quella di Chagall e ancora un’altra quella di Dalí.
Anche le forme di espressione della verità possono essere multiformi, e questo
anzi è necessario per la trasmissione del messaggio evangelico nel suo
significato immutabile».

«L’uomo è alla ricerca di se stesso, e ovviamente in questa ricerca può anche


commettere errori. La Chiesa ha vissuto tempi di genialità, come ad esempio
quello del tomismo. Ma vive anche tempi di decadenza del pensiero. Ad
esempio: non dobbiamo confondere la genialità del tomismo con il tomismo
decadente. Io, purtroppo, ho studiato la filosofia con manuali di tomismo

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decadente. Nel pensare l’uomo, dunque, la Chiesa dovrebbe tendere alla


genialità, non alla decadenza».

«Quando una espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde
di vista l’umano o quando addirittura ha paura dell’umano o si lascia ingannare
su se stesso. È il pensiero ingannato che può essere raffigurato come Ulisse
davanti al canto delle sirene, o come Tannhäuser, circondato in un’orgia da
satiri e baccanti, o come Parsifal, nel secondo atto dell’opera wagneriana, alla
reggia di Klingsor. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire
sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il
proprio insegnamento».

Pregare

Pongo al Papa un’ultima domanda sul suo modo di pregare preferito. «Prego
l’Ufficio ogni mattina. Mi piace pregare con i Salmi. Poi, a seguire, celebro la
Messa. Prego il Rosario. Ciò che davvero preferisco è l’Adorazione serale,
anche quando mi distraggo e penso ad altro o addirittura mi addormento
pregando. La sera quindi, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per
un’ora in adorazione. Ma anche prego mentalmente quando aspetto dal
dentista o in altri momenti della giornata».

«E la preghiera è per me sempre una preghiera “memoriosa”, piena di


memoria, di ricordi, anche memoria della mia storia o di quello che il Signore
ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare. Per me è la memoria
di cui sant’Ignazio parla nella Prima Settimana degli Esercizi nell’incontro
misericordioso con Cristo Crocifisso. E mi chiedo: “Che cosa ho fatto per
Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?”. È la
memoria di cui Ignazio parla anche nella Contemplatio ad amorem, quando
chiede di richiamare alla memoria i benefici ricevuti. Ma soprattutto io so anche
che il Signore ha memoria di me. Io posso dimenticarmi di Lui, ma io so che Lui
mai, mai si dimentica di me. La memoria fonda radicalmente il cuore di un
gesuita: è la memoria della grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio,
la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell’alleanza tra Dio e il suo
popolo. È questa memoria che mi fa figlio e che mi fa essere anche padre».

***

Mi rendo conto che proseguirei ancora a lungo questo dialogo, ma so che,


come il Papa disse una volta, non bisogna «maltrattare i limiti».
Complessivamente abbiamo dialogato per oltre sei ore, nel corso di tre
appuntamenti il 19, il 23 e il 29 agosto. Qui ho preferito articolare il discorso
senza segnalare gli stacchi per non perdere la continuità. La nostra è stata in
realtà una conversazione più che un’intervista: le domande hanno fatto da
sfondo, senza restringerla in parametri predefiniti e rigidi. Anche
linguisticamente abbiamo attraversato fluidamente l’italiano e lo spagnolo,
senza percepire di volta in volta i passaggi. Non c’è stato nulla di meccanico, e
le risposte sono nate nel dialogo e all’interno di un ragionamento che qui ho
cercato di rendere, in maniera sintetica, così come ho potuto.

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Antonio Spadaro S.I. - Civiltà Cattolica


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