Civiltà Cattolica Intervista A Papa Francesco Di Padre Antonio Spadaro
Civiltà Cattolica Intervista A Papa Francesco Di Padre Antonio Spadaro
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Chiesa
19 settembre 2013
«CIVILTÀ CATTOLICA»
Entro nella sua stanza e il Papa mi fa accomodare su una poltrona. Lui si siede
su una sedia più alta e rigida a causa dei suoi problemi alla schiena.
L’ambiente è semplice, austero. Lo spazio di lavoro della scrivania è piccolo.
Sono colpito dalla essenzialità non solamente degli arredi, ma anche delle
cose. Ci sono pochi libri, poche carte, pochi oggetti. Tra questi un’icona di San
Francesco, una statua di Nostra Signora di Luján, Patrona dell’Argentina, un
crocifisso e una statua di san Giuseppe dormiente, molto simile a quella che
avevo visto nella sua camera di rettore e superiore provinciale presso il Colegio
Máximo di San Miguel. La spiritualità di Bergoglio non è fatta di «energie
armonizzate», come le chiamerebbe lui, ma di volti umani: Cristo, san
Francesco, san Giuseppe, Maria.
Il Papa mi accoglie col sorriso che ormai ha fatto più volte il giro del mondo e
che apre i cuori. Cominciamo a parlare di tante cose, ma soprattutto del suo
viaggio in Brasile. Il Papa lo considera una vera grazia. Gli chiedo se si è
riposato. Lui mi dice di sì, che sta bene, ma soprattutto che la Giornata
Mondiale della Gioventù è stata per lui un «mistero». Mi dice che non è mai
stato abituato a parlare a tanta gente: «Io riesco a guardare le singole persone,
una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti.
Non sono abituato alle masse». Gli dico che è vero, e che si vede, e che
questo colpisce tutti. Si vede che, quando lui è in mezzo alla gente, i suoi occhi
in realtà si posano sui singoli. Poi le telecamere proiettano le immagini e tutti
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possono vederle, ma così lui può sentirsi libero di restare in contatto diretto,
almeno oculare, con chi ha davanti a sé. Mi sembra contento di questo, cioè di
poter essere quel che è, di non dover alterare il suo modo ordinario di
comunicare con gli altri, anche quando ha davanti a sé milioni di persone,
come è accaduto sulla spiaggia di Copacabana.
In realtà avrei continuato a parlare così familiarmente per tanto tempo ancora,
ma prendo i fogli con alcune domande che avevo annotato e accendo il
registratore. Innanzitutto lo ringrazio a nome di tutti i direttori delle riviste dei
gesuiti che pubblicheranno questa intervista.
«Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono
anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da
dentro e che sento più vera, è proprio questa: “sono un peccatore al quale il
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Signore ha guardato”». E ripete: «io sono uno che è guardato dal Signore. Il
mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per
me».
Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui
sul momento non comprendo il senso: «Io non conosco Roma. Conosco poche
cose. Tra queste Santa Maria Maggiore: ci andavo sempre». Rido e gli dico:
«lo abbiamo capito tutti molto bene, Santo Padre!». «Ecco, sì — prosegue il
Papa —, conosco Santa Maria Maggiore, San Pietro… ma venendo a Roma ho
sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi
dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san
Matteo di Caravaggio (/Chiesa/PublishingImages/SanMatteoCaravaggio.jpg)
». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi.
«Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come
Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che
andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi,
come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io:
“un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho
detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice».
Quindi sussurra: «Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia
Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto».
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Voglio proseguire su questa linea e pongo al Papa una domanda a partire dal
fatto che lui è il primo gesuita ad essere eletto Vescovo di Roma: «Come legge
il servizio alla Chiesa universale che lei è stato chiamato a svolgere alla luce
della spiritualità ignaziana? Che cosa significa per un gesuita essere eletto
Papa? Quale punto della spiritualità ignaziana la aiuta meglio a vivere il suo
ministero?». «Il discernimento», risponde Papa Francesco. «Il discernimento è
una delle cose che più ha lavorato interiormente sant’Ignazio. Per lui è uno
strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino. Mi
ha sempre colpito una massima con la quale viene descritta la visione di
Ignazio: Non coerceri a maximo, sed contineri a minimo divinum est. Ho molto
riflettuto su questa frase in ordine al governo, ad essere superiore: non essere
ristretti dallo spazio più grande, ma essere in grado di stare nello spazio più
ristretto. Questa virtù del grande e del piccolo è la magnanimità, che dalla
posizione in cui siamo ci fa guardare sempre l’orizzonte. È fare le cose piccole
di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri. È valorizzare le
cose piccole all’interno di grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio». «Questa
massima offre i parametri per assumere una posizione corretta per il
discernimento, per sentire le cose di Dio a partire dal suo “punto di vista”. Per
sant’Ignazio i grandi princìpi devono essere incarnati nelle circostanze di luogo,
di tempo e di persone. A suo modo Giovanni XXIII si mise in questa posizione
di governo quando ripeté la massima Omnia videre, multa dissimulare, pauca
corrigere, perché, pur vedendo omnia, la dimensione massima, riteneva di
agire su pauca, su una dimensione minima. Si possono avere grandi progetti e
realizzarli agendo su poche minime cose. O si possono usare mezzi deboli che
risultano più efficaci di quelli forti, come dice anche san Paolo nella Prima
Lettera ai Corinzi». «Questo discernimento richiede tempo. Molti, ad esempio,
pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io
credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento
vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento
invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo.
È ciò che è accaduto anche a me in questi mesi. Il discernimento si realizza
sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che
accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri. Le mie scelte, anche
quelle legate alla normalità della vita, come l’usare una macchina modesta,
sono legate a un discernimento spirituale che risponde a una esigenza che
nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi. Il discernimento
nel Signore mi guida nel mio modo di governare». «Ecco, invece diffido delle
decisioni prese in maniera improvvisa. Diffido sempre della prima decisione,
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cioè della prima cosa che mi viene in mente di fare se devo prendere una
decisione. In genere è la cosa sbagliata. Devo attendere, valutare
interiormente, prendendo il tempo necessario. La sapienza del discernimento
riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che
non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».
La Compagnia di Gesù
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l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro. Questa è la sua
vera forza. E questo spinge la Compagnia ad essere in ricerca, creativa,
generosa. Dunque, oggi più che mai, deve essere contemplativa nell’azione;
deve vivere una vicinanza profonda a tutta la Chiesa, intesa come “popolo di
Dio” e “santa madre Chiesa gerarchica”. Questo richiede molta umiltà,
sacrificio, coraggio, specialmente quando si vivono incomprensioni o si è
oggetto di equivoci e calunnie, ma è l’atteggiamento più fecondo. Pensiamo
alle tensioni del passato sui riti cinesi, sui riti malabarici, nelle riduzioni in
Paraguay». «Io stesso sono testimone di incomprensioni e problemi che la
Compagnia ha vissuto anche di recente. Tra queste vi furono i tempi difficili di
quando si trattò della questione di estendere il “quarto voto” di obbedienza al
Papa a tutti i gesuiti. Quello che a me dava sicurezza al tempo di padre Arrupe
era il fatto che lui fosse un uomo di preghiera, un uomo che passava molto
tempo in preghiera. Lo ricordo quando pregava seduto per terra, come fanno i
giapponesi. Per questo lui aveva l’atteggiamento giusto e prese le decisioni
corrette».
A questo punto mi chiedo se tra i gesuiti ci siano figure, dalle origini della
Compagnia ad oggi, che lo abbiano colpito in maniera particolare. E così
chiedo al Pontefice se ci sono, quali sono e perché. Il Papa comincia a citarmi
Ignazio e Francesco Saverio, ma poi si sofferma su una figura che i gesuiti
conoscono, ma che certo non è molto nota in generale: il beato Pietro Favre
(1506- 1546), savoiardo. È uno dei primi compagni di sant’Ignazio, anzi il
primo, con il quale egli condivideva la stanza quando i due erano studenti alla
Sorbona. Il terzo nella stessa stanza era Francesco Saverio. Pio IX lo dichiarò
beato il 5 settembre 1872, ed è in corso il processo di canonizzazione. Mi cita
una edizione del suo Memoriale che lui fece curare da due gesuiti specialisti,
Miguel A. Fiorito e Jaime H. Amadeo, quando era superiore provinciale. Una
edizione che al Papa piace particolarmente è quella a cura di Michel de
Certeau. Gli chiedo quindi perché è colpito proprio dal Favre, quali tratti della
sua figura lo impressionano. «Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli
avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità
immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di
grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…». Mentre
Papa Francesco fa questo elenco di caratteristiche personali del suo gesuita
preferito, comprendo quanto questa figura sia stata davvero per lui un modello
di vita. Michel de Certeau definisce Favre semplicemente il «prete riformato»,
per il quale l’esperienza interiore, l’espressione dogmatica e la riforma
strutturale sono intimamente indissociabili. Mi sembra di capire, dunque, che
Papa Francesco si ispiri proprio a questo genere di riforma. Quindi il Papa
prosegue con una riflessione sul vero volto del fundador. «Ignazio è un mistico,
non un asceta. Mi arrabbio molto quando sento dire che gli Esercizi spirituali
sono ignaziani solamente perché sono fatti in silenzio. In realtà gli Esercizi
possono essere perfettamente ignaziani anche nella vita corrente e senza il
silenzio. Quella che sottolinea l’ascetismo, il silenzio e la penitenza è una
corrente deformata che si è pure diffusa nella Compagnia, specialmente in
ambito spagnolo. Io sono vicino invece alla corrente mistica, quella di Louis
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L’esperienza di governo
Rimango sul tema della Chiesa e provo a capire che cosa significhi
esattamente per Papa Francesco il «sentire con la Chiesa» di cui scrive
sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali. Il Papa risponde senza esitazione
partendo da un’immagine. «L’immagine della Chiesa che mi piace è quella del
santo popolo fedele di Dio. È la definizione che uso spesso, ed è poi quella
della Lumen gentium al numero 12. L’appartenenza a un popolo ha un forte
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valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è
identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo,
come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di
relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana. Dio entra in
questa dinamica popolare ». «Il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di
Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia dunque
per me è essere in questo popolo. E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere,
e manifesta questa sua infallibilitas in credendo mediante il senso
soprannaturale della fede di tutto il popolo che cammina. Ecco, questo io
intendo oggi come il “sentire con la Chiesa” di cui parla sant’Ignazio. Quando il
dialogo tra la gente e i Vescovi e il Papa va su questa strada ed è leale, allora è
assistito dallo Spirito Santo. Non è dunque un sentire riferito ai teologi». «È
come con Maria: se si vuol sapere chi è, si chiede ai teologi; se si vuol sapere
come la si ama, bisogna chiederlo al popolo. A sua volta, Maria amò Gesù con
cuore di popolo, come leggiamo nel Magnificat. Non bisogna dunque neanche
pensare che la comprensione del “sentire con la Chiesa” sia legata solamente
al sentire con la sua parte gerarchica». E il Papa, dopo un momento di pausa,
precisa in maniera secca, per evitare fraintendimenti: «E, ovviamente, bisogna
star bene attenti a non pensare che questa infallibilitas di tutti i fedeli di cui sto
parlando alla luce del Concilio sia una forma di populismo. No: è l’esperienza
della “santa madre Chiesa gerarchica”, come la chiamava sant’Ignazio, della
Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del
popolo di Dio». «Io vedo la santità nel popolo di Dio, la sua santità quotidiana.
C’è una “classe media della santità” di cui tutti possiamo far parte, quella che di
cui parla Malègue». Il Papa si sta riferendo a Joseph Malègue, uno scrittore
francese a lui caro, nato nel 1876 e morto nel 1940. In particolare alla sua
trilogia incompiuta Pierres noires. Les Classes moyennes du Salut. Alcuni critici
francesi lo definirono «il Proust cattolico». «Io vedo la santità — prosegue il
Papa — nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo
che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno
tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore
che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la
santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la
pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze
della vita, ma anche come costanza nell’andare avanti, giorno per giorno.
Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant’Ignazio.
Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia
nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia
nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa
che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con
coraggio». «Questa Chiesa con la quale dobbiamo “sentire” è la casa di tutti,
non una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone
selezionate. Non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido
protettore della nostra mediocrità. E la Chiesa è Madre — prosegue —. La
Chiesa è feconda, deve esserlo. Vedi, quando io mi accorgo di comportamenti
negativi di ministri della Chiesa o di consacrati o consacrate, la prima cosa che
mi viene in mente è: “ecco uno scapolone”, o “ecco una zitella”. Non sono né
padri, né madri. Non sono stati capaci di dare vita. Invece, per esempio,
quando leggo la vita dei missionari salesiani che sono andati in Patagonia,
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leggo una storia di vita, di fecondità». «Un altro esempio di questi giorni: ho
visto che è stata molto ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un
ragazzo che mi aveva scritto una lettera. Io gli ho telefonato perché quella
lettera era tanto bella, tanto semplice. Per me questo è stato un atto di
fecondità. Mi sono reso conto che è un giovane che sta crescendo, ha
riconosciuto un padre, e così gli dice qualcosa della sua vita. Il padre non può
dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene».
Rimango sul tema della Chiesa, ponendo al Papa una domanda anche alla
luce della recente Giornata Mondiale della Gioventù: «Questo grande evento
ha acceso ulteriormente i riflettori sui giovani, ma anche su quei “polmoni
spirituali” che sono le Chiese di più recente istituzione. Quali le speranze per la
Chiesa universale che le sembrano provenire da queste Chiese?». «Le Chiese
giovani sviluppano una sintesi di fede, cultura e vita in divenire, e dunque
diversa da quella sviluppata dalle Chiese più antiche. Per me, il rapporto tra le
Chiese di più antica istituzione e quelle più recenti è simile al rapporto tra
giovani e anziani in una società: costruiscono il futuro, ma gli uni con la loro
forza e gli altri con la loro saggezza. Si corrono sempre dei rischi, ovviamente;
le Chiese più giovani rischiano di sentirsi autosufficienti, quelle più antiche
rischiano di voler imporre alle più giovani i loro modelli culturali. Ma il futuro si
costruisce insieme».
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«Come stiamo trattando il popolo di Dio? Sogno una Chiesa Madre e Pastora. I
ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone,
accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo
prossimo. Questo è Vangelo puro. Dio è più grande del peccato. Le riforme
organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima
riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono
essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella
notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro
buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di
Stato. I Vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere
con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga
indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare
nuove strade». «Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve
tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove
strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la
frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha
fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno.
Ma ci vuole audacia, coraggio».
Raccolgo ciò che il Santo Padre sta dicendo e faccio riferimento al fatto che ci
sono cristiani che vivono in situazioni non regolari per la Chiesa o comunque in
situazioni complesse, cristiani che, in un modo o nell’altro, vivono ferite aperte.
Penso a divorziati risposati, coppie omosessuali, altre situazioni difficili. Come
fare una pastorale missionaria in questi casi? Su che cosa far leva? Il Papa fa
cenno di aver compreso che cosa intendo dire e risponde.
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una persona che cerca Dio e la sua grazia. Il confessionale non è una sala di
tortura, ma il luogo della misericordia nel quale il Signore ci stimola a fare
meglio che possiamo. Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto
alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito. Poi questa donna si
è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente
ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che
cosa fa il confessore?».
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nella sua perfezione. Mai un religioso deve rinunciare alla profezia. Questo non
significa contrapporsi alla parte gerarchica della Chiesa, anche se la funzione
profetica e la struttura gerarchica non coincidono. Sto parlando di una proposta
sempre positiva, che però non deve essere timorosa. Pensiamo a ciò che
hanno fatto tanti grandi santi monaci, religiosi e religiose, sin da sant’Antonio
abate. Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire… La
profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma
è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo».
E il ruolo della donna nella Chiesa? Il Papa ha più volte fatto riferimento a
questo tema in varie occasioni. In una intervista aveva affermato che la
presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto, perché la
tentazione del maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo
che spetta alle donne nella comunità. Ha ripreso la questione durante il viaggio
di ritorno da Rio de Janeiro affermando che non è stata fatta ancora una
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profonda teologia della donna. Allora, chiedo: «Quale deve essere il ruolo della
donna nella Chiesa? Come fare per renderlo oggi più visibile?». «È necessario
ampliare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa. Temo la
soluzione del “machismo in gonnella”, perché in realtà la donna ha una
struttura differente dall’uomo. E invece i discorsi che sento sul ruolo della
donna sono spesso ispirati proprio da una ideologia machista. Le donne stanno
ponendo domande profonde che vanno affrontate. La Chiesa non può essere
se stessa senza la donna e il suo ruolo. La donna per la Chiesa è
imprescindibile. Maria, una donna, è più importante dei Vescovi. Dico questo
perché non bisogna confondere la funzione con la dignità. Bisogna dunque
approfondire meglio la figura della donna nella Chiesa. Bisogna lavorare di più
per fare una profonda teologia della donna. Solo compiendo questo passaggio
si potrà riflettere meglio sulla funzione della donna all’interno della Chiesa. Il
genio femminile è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni
importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della
donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».
Il Concilio Vaticano II
«Che cosa ha realizzato il Concilio Vaticano II? Che cosa è stato?», gli chiedo
alla luce delle sue affermazioni precedenti, immaginando una risposta lunga e
articolata. Ho invece come l’impressione che il Papa semplicemente consideri il
Concilio come un fatto talmente indiscutibile che non vale la pena parlarne
troppo a lungo, come per doverne ribadire l’importanza.
«Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura
contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che
semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare
la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come
rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono
linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara:
la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del
Concilio è assolutamente irreversibile. Poi ci sono questioni particolari come la
liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di Papa Benedetto sia stata
prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare
sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del
Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione».
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Certezza ed errori
«Se l’incontro con Dio in tutte le cose non è un “eureka empirico” — dico al
Papa — e se dunque si tratta di un cammino che legge la storia, si possono
anche commettere errori…».
«Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di
incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con
certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va
bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le
domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un
falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di
Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare
spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza
si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione
spirituale». «Il rischio nel cercare e trovare Dio in tutte le cose è dunque la
volontà di esplicitare troppo, di dire con certezza umana e arroganza: “Dio è
qui”. Troveremmo solamente un dio a nostra misura. L’atteggiamento corretto è
quello agostiniano: cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo sempre. E
spesso si cerca a tentoni, come si legge nella Bibbia. È questa l’esperienza dei
grandi Padri della fede, che sono il nostro modello. Bisogna rileggere il capitolo
11 della Lettera agli Ebrei. Abramo è partito senza sapere dove andava, per
fede. Tutti i nostri antenati della fede morirono vedendo i beni promessi, ma da
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lontano… La nostra vita non ci è data come un libretto d’opera in cui c’è tutto
scritto, ma è andare, camminare, fare, cercare, vedere… Si deve entrare
nell’avventura della ricerca dell’incontro e del lasciarsi cercare e lasciarsi
incontrare da Dio».
«Perché Dio sta prima, Dio sta prima sempre, Dio primerea. Dio è un po’ come
il fiore del mandorlo della tua Sicilia, Antonio, che fiorisce sempre per primo. Lo
leggiamo nei Profeti. Dunque, Dio lo si incontra camminando, nel cammino. E a
questo punto qualcuno potrebbe dire che questo è relativismo. È relativismo?
Sì, se è inteso male, come una specie di panteismo indistinto. No, se è inteso
in senso biblico, per cui Dio è sempre una sorpresa, e dunque non sai mai
dove e come lo trovi, non sei tu a fissare i tempi e i luoghi dell’incontro con Lui.
Bisogna dunque discernere l’incontro. Per questo il discernimento è
fondamentale».
Queste parole del Papa mi ricordano alcune sue riflessioni del passato, nelle
quali l’allora cardinal Bergoglio ha scritto che Dio vive già nella città, vitalmente
mescolato in mezzo a tutti e unito a ciascuno. È un altro modo, a mio avviso,
per dire ciò che sant’Ignazio scrisse negli Esercizi Spirituali, cioè che Dio
«lavora e opera» nel nostro mondo. Gli chiedo dunque: «dobbiamo essere
ottimisti? Quali sono i segni di speranza nel mondo d’oggi? Come si fa ad
essere ottimisti in un mondo in crisi?». «A me non piace usare la parola
“ottimismo”, perché dice un atteggiamento psicologico. Mi piace invece usare la
parola “speranza” secondo ciò che si legge nel capitolo 11 della Lettera agli
Ebrei che citavo prima. I Padri hanno continuato a camminare, attraversando
grandi difficoltà. E la speranza non delude, come leggiamo nella Lettera ai
Romani. Pensa invece al primo indovinello della Turandot di Puccini», mi
chiede il Papa. Sul momento ho ricordato un po’ a memoria i versi di
quell’enigma della principessa che ha come risposta la speranza: Nella cupa
notte vola un fantasma iridescente. / Sale e spiega l’ale / sulla nera infinita
umanità. / Tutto il mondo l’invoca / e tutto il mondo l’implora. / Ma il fantasma
sparisce con l’aurora / per rinascere nel cuore. / Ed ogni notte nasce / ed ogni
giorno muore! Versi che rivelano il desiderio di una speranza che qui però è
fantasma iridescente e che sparisce con l’aurora.
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La Chiesa, l'uomo, le sue ferite: l'intervista a papa Francesco | Chiesa ... http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/intervista-papa-civilta-cattolica.aspx
L’arte e la creatività
Rimango colpito dalla citazione della Turandot per parlare del mistero della
speranza. Vorrei capire meglio quali sono i riferimenti artistici e letterari di Papa
Francesco. Gli ricordo che nel 2006 aveva detto che i grandi artisti sanno
presentare con bellezza le realtà tragiche e dolorose della vita. Chiedo dunque
quali siano gli artisti e gli scrittori che preferisce; se c’è qualcosa che li
accomuna… «Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo
Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il
compleanno di sua nonna (http://gutenberg.spiegel.de/buch/262/51) che è
di grande bellezza, e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. È
quella che si chiude con il verso Che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha
promesso. Mi ha colpito anche perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì
Hölderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è
l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno. Ho letto il libro I
Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi
ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria
l’inizio di questo libro: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno,
tra due catene non interrotte di monti…”. Anche Gerard Manley Hopkins mi è
piaciuto tanto».
«In pittura ammiro Caravaggio: le sue tele mi parlano. Ma anche Chagall con la
sua Crocifissione bianca (/Chiesa/PublishingImages/Chagall-
Crocifissionebianca.jpg) …».
«Dovremmo anche parlare del cinema. La strada di Fellini è il film che forse ho
amato di più. Mi identifico con quel film, nel quale c’è un implicito riferimento a
san Francesco. Credo poi di aver visto tutti i film con Anna Magnani e Aldo
Fabrizi quando avevo tra i 10 e 12 anni. Un altro film che ho molto amato è
Roma città aperta. Devo la mia cultura cinematografica soprattutto ai miei
genitori che ci portavano spesso al cinema».
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«Comunque in generale io amo gli artisti tragici, specialmente i più classici. C’è
una bella definizione che Cervantes pone sulla bocca del baccelliere Carrasco
per fare l’elogio della storia di Don Chisciotte: “i fanciulli l’hanno tra le mani, i
giovani la leggono, gli adulti la intendono, i vecchi ne fanno l’elogio”. Questa
per me può essere una buona definizione per i classici».
«È stata una cosa un po’ rischiosa — risponde —. Dovevo fare in modo che i
miei alunni studiassero El Cid. Ma ai ragazzi non piaceva. Chiedevano di
leggere García Lorca. Allora ho deciso che avrebbero studiato El Cid a casa, e
durante le lezioni io avrei trattato gli autori che piacevano di più ai ragazzi.
Ovviamente i giovani volevano leggere le opere letterarie più “piccanti”,
contemporanee come La casada infiel, o classiche come La Celestina di
Fernando de Rojas. Ma leggendo queste cose che li attiravano sul momento,
prendevano gusto più in generale alla letteratura, alla poesia, e passavano ad
altri autori. E per me è stata una grande esperienza. Ho completato il
programma, ma in maniera destrutturata, cioè non ordinata secondo ciò che
era previsto, ma secondo un ordine che veniva naturale nella lettura degli
autori. E questa modalità mi corrispondeva molto: non amavo fare una
programmazione rigida, ma semmai sapere dove arrivare più o meno. Allora ho
cominciato anche a farli scrivere. Alla fine ho deciso di far leggere a Borges
due racconti scritti dai miei ragazzi. Conoscevo la sua segretaria, che era stata
la mia professoressa di pianoforte. A Borges piacquero moltissimo. E allora lui
propose di scrivere l’introduzione a una raccolta». «Allora, Padre Santo, per la
vita di una persona la creatività è importante?», gli chiedo. Lui ride e mi
risponde: «Per un gesuita è estremamente importante! Un gesuita deve essere
creativo».
Frontiere e laboratori
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caratteristiche importanti per il lavoro culturale dei gesuiti. Ritorno alla memoria
a quel giorno, il 14 giugno scorso. Ricordo che allora, nel colloquio previo
all’incontro con tutto il nostro gruppo, mi aveva preannunciato la triade: dialogo,
discernimento, frontiera. E aveva insistito particolarmente sull’ultimo punto,
citandomi Paolo VI, che in un famoso discorso aveva detto dei gesuiti:
«Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia
delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze
brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi
sono i gesuiti».
«Le tre parole chiave che ho rivolto alla Civiltà Cattolica possono essere estese
a tutte le riviste della Compagnia, magari con accentuazioni diverse sulla base
della loro natura e dei loro obiettivi. Quando insisto sulla frontiera, in maniera
particolare mi riferisco alla necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito
nel contesto nel quale opera e sul quale riflette. C’è sempre in agguato il
pericolo di vivere in un laboratorio. La nostra non è una fede-laboratorio, ma
una fede-cammino, una fede storica. Dio si è rivelato come storia, non come un
compendio di verità astratte. Io temo i laboratori perché nel laboratorio si
prendono i problemi e li si portano a casa propria per addomesticarli, per
verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma
vivere in frontiera ed essere audaci».
Chiedo al Papa se può fare qualche esempio sulla base della sua esperienza
personale. «Quando si parla di problemi sociali, una cosa è riunirsi per studiare
il problema della droga in una villa miseria, e un’altra cosa è andare lì, viverci e
capire il problema dall’interno e studiarlo. C’è una lettera geniale del padre
Arrupe ai Centros de Investigación y Acción Social (CIAS) sulla povertà, nella
quale dice chiaramente che non si può parlare di povertà se non la si
sperimenta con una inserzione diretta nei luoghi nei quali la si vive. Questa
parola “inserzione” è pericolosa perché alcuni religiosi l’hanno presa come una
moda, e sono accaduti dei disastri per mancanza di discernimento. Ma è
davvero importante».
«E le frontiere sono tante. Pensiamo alle suore che vivono negli ospedali: loro
vivono nelle frontiere. Io sono vivo grazie a una di loro. Quando ho avuto il
problema al polmone in ospedale, il medico mi diede penicillina e strectomicina
in certe dosi. La suora che stava in corsia le triplicò perché aveva fiuto, sapeva
cosa fare, perché stava con i malati tutto il giorno. Il medico, che era davvero
bravo, viveva nel suo laboratorio, la suora viveva nella frontiera e dialogava
con la frontiera tutti i giorni. Addomesticare le frontiere significa limitarsi a
parlare da una posizione distante, chiudersi nei laboratori. Sono cose utili, ma
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Chiedo allora al Papa se questo valga e come anche per una frontiera culturale
importante che è quella della sfida antropologica. L’antropologia a cui la Chiesa
ha tradizionalmente fatto riferimento e il linguaggio con la quale l’ha espressa
restano un riferimento solido, frutto di saggezza ed esperienza secolare.
Tuttavia l’uomo a cui la Chiesa si rivolge non sembra più comprenderli o
considerarli sufficienti. Comincio a ragionare sul fatto che l’uomo si sta
interpretando in maniera diversa dal passato, con categorie diverse. E questo
anche a causa dei grandi cambiamenti nella società e di un più ampio studio di
se stesso…
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«Quando una espressione del pensiero non è valida? Quando il pensiero perde
di vista l’umano o quando addirittura ha paura dell’umano o si lascia ingannare
su se stesso. È il pensiero ingannato che può essere raffigurato come Ulisse
davanti al canto delle sirene, o come Tannhäuser, circondato in un’orgia da
satiri e baccanti, o come Parsifal, nel secondo atto dell’opera wagneriana, alla
reggia di Klingsor. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire
sempre meglio come l’uomo si comprende oggi per sviluppare e approfondire il
proprio insegnamento».
Pregare
Pongo al Papa un’ultima domanda sul suo modo di pregare preferito. «Prego
l’Ufficio ogni mattina. Mi piace pregare con i Salmi. Poi, a seguire, celebro la
Messa. Prego il Rosario. Ciò che davvero preferisco è l’Adorazione serale,
anche quando mi distraggo e penso ad altro o addirittura mi addormento
pregando. La sera quindi, tra le sette e le otto, sto davanti al Santissimo per
un’ora in adorazione. Ma anche prego mentalmente quando aspetto dal
dentista o in altri momenti della giornata».
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