Sabrina Loriga - Paul Ricoeur e Il Compito Dello Storico
Sabrina Loriga - Paul Ricoeur e Il Compito Dello Storico
Sabina Loriga
I. La memoria e la storia.
1 Cfr. Paolo Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio. Sei saggi di storia delle
idee, Bologna, Il Mulino 1991.
2 Cfr. Hayden White, “The Burden of Past”, History and Theory, 1966, V, 2.
16
Memoria sulla Storia. Mentre Ralph Samuel, uno dei principali
iniziatori degli History Workshop, ha negato che esista una diffe-
renza tra la memoria popolare e la storia 3, Philippe Ariès ha visto
nella memoria (individuale e collettiva) il mezzo per accantona-
re la cronologia ufficiale degli eventi pubblici e cogliere final-
mente quel mondo della vita quotidiana che è stato sommerso e
sconfitto dalla storia con la S maiuscola 4.
Più di recente, tuttavia, gli storici hanno dovuto far fronte a
tutta una serie di manipolazioni del passato. Come ha scritto
Yosef Hayim Yerushalmi, nel mondo in cui viviamo il problema
da affrontare non è più solo il declino della memoria collettiva e
la sempre minore consapevolezza del proprio passato; “è la vio-
lazione brutale di quanto la memoria ancora conserva, la distor-
sione deliberata delle testimonianze storiche, l’invenzione di un
passato mitico per servire i poteri delle tenebre” 5. E se si avve-
rasse la profezia di George Orwell, se il passato, cominciando da
ieri stesso, venisse virtualmente abolito?
Di fronte agli agenti dell’oblio, persino la letteratura ha cessa-
to il fuoco contro la memoria: a parte qualche eccezione (come
Czeslaw Milosz), la maggior parte degli scrittori attuali si guarda
bene dal sostenere il valore dell’oblio. Da Gunther Grass a Izrail
Metter, da Milan Kundera a Philip Roth, tutti esprimono, al con-
trario, un forte bisogno di passato. Questo bisogno riguarda il
male: oggi vogliamo ricordare essenzialmente il male. Mentre un
tempo la riflessione morale cercava l’eccellenza, suggeriva degli
esempi da seguire, oggi segnala il male, nella sua ordinarietà 6.
Forse stiamo finalmente scoprendo il senso più profondo dei
versi in cui Puskin scrive che la memoria, il bisogno di memoria,
non nasce dall’orgoglio, ma dalla vergogna.
Quello che ci appare insopportabile è l’idea che persino i cri-
17
mini più atroci possano cadere nell’oblio, che anche l’orrore
possa trasformarsi in polvere: che la neve abbia coperto le fosse
comuni in Ucraina e i campi dell’Anatolia dove gli armeni ven-
nero fatti marciare incontro alla morte, che le dune di sabbia
abbiano nascosto i corpi degli Herero uccisi in Namibia nel 1904
dal generale Lothar von Trota. Come mostra il reportage fotogra-
fico sul genocidio di Simon Norfolk, neppure i delitti più immon-
di sono immortali: “il male conta sulla certezza che l’erba coprirà
le fosse piene di calce viva, che la terra ingoierà i bossoli, che le
voci umane finiranno col diventare mute e che la memoria fallirà”
7
.
Contro questo pericolo, molti storici hanno accettato l’idea del
dovere della memoria. Il problema è stato posto direttamente da
Yerushalmi, quando si è chiesto: “di quanta storia abbiamo biso-
gno?”. Pur apprezzando il valore dell’oblio, egli ha risposto che
in questa congiuntura sociale e politica dobbiamo ricordare; e che
lo storico, con la sua rigorosa passione per i fatti, per le prove e
le testimonianze, deve montare la guardia “contro coloro che
fanno a brandelli i documenti, contro gli assassini della memoria
e i revisori delle enciclopedie, contro i cospiratori del silenzio,
contro coloro che, come nella bellissima immagine di Kundera,
possono cancellare un uomo da una fotografia in modo che ne
rimanga solo il cappello” 8. La risposta di Yerushalmi non ha con-
vinto tutti quanti. Yehuda Elkana, deportato ad Auschwitz all’età
di dieci anni, ha espresso la preoccupazione che l’olocausto per-
mei troppo profondamente la coscienza di Israele: “non credo ci
sia oggi per i governanti di questa nazione compito educativo e
politico più importante di quello di scegliere la vita, di dedicare
loro stessi alla costruzione del nostro futuro. Devono cessare di
preoccuparsi continuamente di simboli, di cerimonie e di lezioni
dell’olocausto. È giunto il momento di sradicare le nostre vite
dall’oppressione di questo ricordo” 9.
Ma, anche se la risposta di Yerushalmi non ha convinto tutti
quanti, tutti hanno accettato e condiviso il modo in cui è stata for-
mulata la domanda. Mi chiedo – e me lo chiedo a partire da
18
un’ammirazione sconfinata nei confronti di Yerushalmi – se que-
sta domanda non rischi di paralizzarci. Come possiamo scegliere
tra il bisogno di memoria e quello di oblio in sé? E ha senso pen-
sare a questi due bisogni come se fossero in contrapposizione?
Un aiuto ad affrontare questi problemi viene da Paul Ricoeur,
con La mémoire, l’historie, l’oubli (Paris, Seuil 2000), il suo ulti-
mo libro, suddiviso in tre parti, dedicate, rispettivamente, alla
fenomenologia della memoria, all’epistemologia della storia e
alla condizione storica. Mi sembra che il primo elemento impor-
tante di questa sorta di grande trittico sulla memoria e l’oblio
consista proprio nella trasformazione della domanda posta da
Yerushalmi. Basandosi sulle riflessioni di Saul Friedländer e di
Dominick La Capra, Ricoeur passa da una domanda quantitativa
– “di quanta storia abbiamo bisogno?” – a una qualitativa – “di
che tipo di storia abbiamo bisogno?”.
Formulata in questo modo, la domanda ci invita a interrogarci
sul compito dello storico. Oggi viviamo una situazione storiogra-
fica complessa e difficile, in cui questo appare assai incerto e
abbastanza mal definito. In modo un po’ semplicistico, si può
dire che negli ultimi anni abbiamo spesso oscillato tra due ver-
sioni opposte. La prima, eccessivamente ambiziosa, forse anche
un po’ onnipotente, chiede agli storici di essere, contemporanea-
mente, degli accaniti guardiani della memoria, dei periti scrupo-
losi, dei giudici imparziali. In Francia, la pretesa di adempire
questi diversi compiti ha provocato una certa confusione in alcu-
ni recenti processi contro i crimini contro l’umanità (Papon, etc.)
e anche nel cosiddetto affare dei coniugi Aubrac 10. La seconda
versione, particolarmente pigra e indulgente, tende invece a sca-
ricare ogni tipo di responsabilità politica: in nome dell’opacità
del passato, della sua natura straniera, si rinuncia a ogni progetto
e forse anche a ogni impegno nei confronti della verità del pas-
sato 11.
Per ricucire questa situazione è necessario ricostruire la fiducia
nella testimonianza e nella possibilità di credere nel racconto sto-
19
rico. È un passo tutt’altro che semplice. Da un lato, gli avveni-
menti recenti hanno offerto numerosi esempi di falsa testimo-
nianza (si pensi al cormorano della guerra del golfo o al massa-
cro di Timisoara). E, d’altro lato, lo storico deve mettere in discus-
sione uno degli elementi di fondo della sua formazione classica: il
valore del dubbio. In altre parole, come ricorda Ricoeur, mentre
Lorenzo Valla lottava contro la credulità e l’impostura, noi dob-
biamo lottare contro l’incredulità e la diffidenza 12.
Mi sembra che, con il suo sguardo amichevole nei confronti
della storia, Ricoeur ci aiuti a sciogliere qualcuno dei nodi, diffi-
cili e ambigui, che pesano sulla definizione del nostro compito.
Per comprendere questa parte della sua riflessione, è importante
riprendere brevemente due punti centrali del libro: il piccolo
miracolo della memoria e la natura perturbante della storia. Solo
in seguito sarà possibile affrontare de visu il problema del com-
pito dello storico.
20
bizione, una pretesa, quella di essere fedele al passato; a questo
riguardo, le deficienze connesse all’oblio (…) non devono esse-
re trattate semplicemente come delle forme patologiche, come
delle disfunzioni, ma come il rovescio d’ombra della regione illu-
minata della memoria” 14. Per certi aspetti, si tratta di una fiducia
un po’ indiscutibile, da prendere o lasciare. Personalmente, credo
che per capire tutta la ricchezza della riflessione di Ricoeur, con-
venga accoglierla come una commovente e coraggiosa premessa.
Certo, anche per Ricoeur la memoria contiene un enigma:
quello della presenza dell’assente attraverso l’immagine. L’enig-
ma della rappresentazione del passato nella memoria deriva dal
fatto che ci ricordiamo “senza le cose” e “con il tempo”: come
scrive Platone nel Teeteto, “colui che vede e che ha acquisito
scienza di ciò che ha visto, se chiude gli occhi si ricorda, sì, ma
non vede quella cosa” 15. Ma, per fortuna, questo enigma non
impedisce il “piccolo miracolo”, per cui “il passato diventa con-
temporaneo del presente che è stato” 16. L’esperienza chiave della
memoria è quella del riconoscimento, grazie a cui l’immagine
presente ci appare fedele al fenomeno emotivo primario. In altre
parole, quando ci rammentiamo di qualcosa possiamo apprezza-
re – persino sentire – la conformità dell’immagine della memoria
con l’esperienza originaria: possiamo riconoscere, anzi ricono-
scerci in quello che abbiamo vissuto. Il rapporto con il passato è
intimo, vivo, talvolta addirittura totale. Può essere felice.
Per Ricoeur la capacità della memoria di ritrovare il tempo è
abbastanza ampia. Non è una caratteristica esclusiva della memo-
ria individuale spontanea. Rientra nelle possibilità della memoria
collettiva e, invece di essere limitata ai casi di evocazione invo-
lontaria, alla reminiscenza fortuita e inaspettata – come credeva
Proust –, riguarda anche l’anamnesi, cioè il richiamo volontario,
21
attivo e cosciente del ricordo 17. Forse, sia nel caso della memoria
intenzionale sia in quello della memoria collettiva, il riconosci-
mento è meno immediato, ma è possibile: passa attraverso il con-
fronto tra l’immagine presentata dal ricordo e le tracce che il pas-
sato ha lasciato sul presente (le affezioni, i sentimenti, etc.).
Ovviamente, esiste la possibilità dell’imprecisione: forse, cre-
dendo di riconoscere, di riconoscerci, ci siamo sbagliati …
Ricoeur ammette che nulla può provare che l’immagine-ricordo
sia conforme all’originale, coincida con l’esperienza primaria del
passato, ma insiste sull’importanza vitale dell’atto di rammemo-
razione, sulla sua qualità di soluzione provvisoria: “forse abbia-
mo messo il piede nell’impronta sbagliata (…). Forse siamo stati
vittime di un falso riconoscimento, come accade quando da lon-
tano si scambia un albero con un personaggio conosciuto. E, tut-
tavia, chi potrebbe far vacillare, con i suoi sospetti mossi da fuori,
la certezza insita nella felicità di un simile riconoscimento, quan-
do nel nostro cuore essa è indiscutibile?” 18.
Difensore della memoria o, più precisamente, della possibilità
di una memoria felice, Ricoeur è comunque attento agli abusi
della memoria. Come scrive nella prima parte del libro, accanto
alla dimensione veritiera della memoria esiste una dimensione
pragmatica, connessa all’esercizio della memoria. Le vicissitudi-
ni che scandiscono l’esercizio della memoria rischiano continua-
mente di compromettere l’ambizione della memoria di cogliere la
verità “di quei giorni”: “l’esercizio della memoria è il suo uso; e
l’uso comporta sempre la possibilità dell’abuso” 19. A questo pro-
posito, Ricoeur propone una tipologia degli abusi possibili; e, per
quanto riguarda quelli della memoria naturale, mette in luce, in
particolare, tre tipi di disturbi.
Innanzitutto, quelli connessi a un blocco della memoria. È la
memoria ferita, malata, di cui parla Freud in Rievocazione, ripe-
tizione ed elaborazione (1914) e in Lutto e melanconia (1915),
due testi dedicati alle patologie della memoria, che rendono l’in-
dividuo prigioniero del passato: la melanconia, in cui la perdita
di un oggetto amato (di una persona o di un’astrazione, come la
18 Paul Ricoeur, La mémoire, l’historie..., cit., pp. 556-557.
19 Paul Ricoeur, La mémoire, l’historie..., cit., p. 68.
20 Cfr. Sigmund Freud, Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten (1914),
trad. it., Torino, Boringhieri 1976, Opere, vol. VII; Trauer und Melancholie
(1915), trad. it., Torino, Boringhieri 1976, Opere, vol. VIII.
22
patria, la libertà, ma anche di un’immagine del passato) provoca
un avvilimento del sentimento di sé, e la coazione a ripetere, che
porta a sostituire il vero ricordo con la ripetizione 20. In entrambi
i testi Freud non si limita a proporre un quadro diagnostico, ma
si interroga anche sul modo di favorire lo sganciamento del sog-
getto dai suoi meccanismi ripetitivi, suscitando una riconciliazio-
ne con il rimosso. E, a questo proposito, dice due cose estrema-
mente importanti, rielaborate da Ricoeur per quanto riguarda la
memoria collettiva: innanzitutto, che il paziente non deve consi-
derare la sua malattia come qualcosa di disprezzabile, ma come
un avversario degno di stima, una parte di sé che ha motivo di
esistere; inoltre, che il transfert crea uno spazio intermedio tra il
malato e la vita reale, una specie di arena, che favorisce l’espres-
sione dei comportamenti coatti e la loro elaborazione terapeutica.
In secondo luogo, le manipolazioni intenzionali del passato.
Ricoeur pensa ai tentativi di ingerenza nella memoria attuati dal
negazionismo e agli svuotamenti forzati della memoria abitual-
mente praticati nei regimi totalitari, cosí ben evocati dalle disto-
pie del XX secolo – come My di Evgenij Zamjatin o, ovviamen-
te, 1984, secondo cui il passato è un’illusione, perché “non esiste
nulla tranne un presente senza fine”: “ogni documento è stato
distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni quadro è
stato ridipinto, ogni strada, ogni edificio hanno avuto mutato il
nome, ogni data è stata alterata” 21.
Infine, i disturbi impliciti nell’idea di dovere di memoria,
affermato e sbandierato in modo arbitrario, al punto da dimenti-
carsi di qualunque esigenza di giustizia. Ricoeur si riferisce, da
un lato, alla frenesia commemorativa, che ha portato a una proli-
ferazione incontrollata di musei, monumenti e memoriali dedica-
21 Cfr. Evgenij Zamjatin, My (1920), trad. it., Milano, Feltrinelli 1990; George
Orwell, Nineteen eighty-four, trad. it. Milano, Mondadori 1950.
22 Cfr. Charles Maier, “A Surfeit of Memory? Reflection on History, Melan-
choly and Denial”, History and Memory, 1993, 5, pp. 136-151.
23 Sul rischio di banalizzare il periodo nazista, raccontandolo attraverso i
ricordi personali della vita quotidiana, cfr. in particolare Eric Santner, “On
the Difficulty of Saying ‘We’: the Historians’Debate and Edgar Reitz’s Hei-
mat”, History and Memory, 1990, 2, che polemizza, per l’appunto, con Hei-
mat di Edgar Reitz (1984). Cfr. anche Saul Friedlander, Memory, History,
and the Extermination of the Jews of Europe , Bloomington, Indiana Univer-
sity Press 1993.
23
ti alla Shoah 22, e, d’altro lato, all’esplosione delle memorie parti-
colari, frammentate, locali, private – le cosiddette Heimatgeschi-
chte 23 –, che pretendono di sostituire la Storia.
In modi diversi, tutte e tre queste forme di abuso fanno emer-
gere la vulnerabilità di fondo della memoria: dato che la storia è
continuamente permeata dalla violenza, la memoria collettiva è
imbevuta di ferite simboliche che chiedono di essere curate. Sia
l’eccesso di memoria sia la carenza di memoria sono il frutto di
una coazione a ripetere e soffrono della stessa incapacità di senso
critico. In questa prospettiva, al “dovere di memoria” viene sim-
metricamente contrapposto il “lavoro di memoria”, un concetto
privo di qualunque connotazione imperativa, che comporta un
lavoro dispendioso ma liberatorio di elaborazione del lutto.
All’orizzonte di questo lavoro, sta, appunto, una “memoria feli-
ce”.
Le categorie patologiche proposte da Freud per la memoria
individuale sono riprese e applicate a quella collettiva. Secondo
Ricoeur, la costituzione bipolare dell’identità personale consente
di parlare di trauma, di ferita della memoria, di coazione a ripete-
re, di oggetto perduto, di comportamento luttuoso, etc. anche a
livello collettivo: per esempio, l’ossessione verso il passato che
non passa rappresenta “una modalità patologica di incrostazione
del passato nel cuore del presente” 24. Per lui, l’unico punto dolen-
te di questa estensione dalla dimensione individuale a quella col-
lettiva è l’assenza di terapeuti riconosciuti nei rapporti sociali, ma,
con un’analogia che mi sembra un po’ troppo semplice, osserva
che “forse si può dire che lo spazio pubblico della discussione
costituisce l’equivalente (…) dell’arena [cioè del transfert]” 25.
Convinto che la nostra libertà dipenda dalla nostra capacità di
integrare il passato nel presente, Ricoeur pensa che nello spazio
pubblico il lavoro della memoria può, deve, trovare un fonda-
mento: quello dell’equità. Come abbiamo visto, pur essendo
potenzialmente felice, la memoria non è sempre giusta. Anzi, il
suo esercizio tende a incoraggiare il desiderio e la pretesa di
rivendicare, per sé e solo per sé, la parte della vittima, parte che
offre la possibilità di essere in credito permanente e automatico
24 Paul Ricoeur, La mémoire, l’historie..., cit., p. 65.
25 Paul Ricoeur, La mémoire, l’historie..., cit., pp. 94-95.
26 Sul vittimismo cfr. Tzvetan Todorov, L’homme dépaysé, Paris, tr. it. Roma,
Donzelli 1996.
24
nei confronti del mondo 26. Di fronte a questi abusi della memo-
ria, alcuni autori hanno sostenuto la necessità di imprimere una
svolta etica alla riflessione storiografica. In particolare, Domi-
nick La Capra ha criticato la separazione tra sfera etica, cognitiva
ed estetica, mentre Tzvetan Todorov ha scritto che, dato che lo
storico non si limita mai a stabilire solo dei fatti, ma sceglie quel-
li che gli sembrano più importanti; questo lavoro di selezione e di
composizione del passato deve essere orientato dalla ricerca del
bene – e non da quella della verità 27. Mi sembra che Ricoeur con-
divida solo in parte l’idea di una svolta etica e, in modo forse un
po’ utopico, provi a superare l’alternativa tra la ricerca della
verità e la ricerca del bene. Secondo lui, nel caso della storia, l’i-
dea di giustizia non implica inevitabilmente la cancellazione del-
l’idea di verità, ma un lavoro di interrogazione su quello che è più
vero. Invece di rimpiazzare la verità con la giustizia o con il bene,
lo storico deve introdurre nella nozione di verità la giustizia: que-
sta ha una funzione di selezione dei fatti.
In questa prospettiva, gli elementi per stabilire la verità più
giusta sono tre. Innanzitutto, il sentimento dell’altro: la virtù di
giustizia rivolge la memoria verso l’altro, afferma il dovere di
rendere omaggio, attraverso il ricordo, all’altro da sé 28. Inoltre,
l’idea di debito, perché la giustizia ci suggerisce che siamo debi-
tori verso coloro che ci hanno preceduto di una parte di quel che
siamo: e che, quindi, bisogna fare l’inventario dell’eredità e
pagare i debiti. Infine, l’idea che la priorità morale spetta alle vit-
time.
25
va il suo tempo. Per lei l’enigma della rappresentazione del pas-
sato è particolarmente grave e penoso, perché non lavora su trac-
ce intime, bensì su tracce esterne (documenti, testimonianze,
monumenti, oggetti, etc.), che impediscono la possibilità di un
confronto, anche inconsapevole, tra l’immagine emersa nel corso
della ricerca e l’originale, l’esperienza primaria che ha avuto
luogo nel passato. La storia può accedere al passato soltanto in
modo indiretto. Per questo, come emerge dalle pagine dedicate al
concetto di représentance, le sue figure appaiono come degli
schermi tra il passato assente e la sua immagine presente.
A questo proposito, Ricoeur sottolinea due elementi discor-
danti rispetto alla memoria. Innanzitutto, l’impossibilità del “pic-
colo miracolo del riconoscimento” comporta una critica infinita;
le immagini del passato disegnate dallo storico sono sempre, ine-
vitabilmente frammentarie e incompiute. Il lavoro della storia è
interminabile e sempre aperto, il dubbio è insormontabile. Inol-
tre, mentre nella memoria il filo tra l’individuo e il collettivo è
continuo (la memoria non appartiene solo alla sfera individuale,
ma ha una dimensione collettiva), la storia è essenzialmente
un’attività solitaria 29.
Di fronte a una memoria felice, sta dunque una storia infelice.
Il passato resta un paese straniero, scriveva Leslie Poles Hartley;
Ricoeur rilancia e parla di natura perturbante della storia –
l’Unheimlichkeit scoperto da Freud in un saggio del 1919 30. A
partire dai lavori di Maurice Halbawchs, Yerushalmi e Pierre
26
Nora, mette in luce il disagio che nutre le relazioni tra memoria
e storia: “tra il senso nella storia, la memoria del passato e la
scrittura della storia non vi è nessuna equivalenza” 31.
27
ripreso dall’opera di Michel de Certeau – è descritta come una
specie di sinusoide, formata da tre momenti diversi. All’inizio,
durante il lavoro d’archivio, in cui il problema cruciale riguarda
l’affidabilità e la qualità delle testimonianze, lo storico è comple-
tamente immerso nella memoria. In un secondo momento, quel-
lo della “spiegazione-comprensione”, dedicato alla costruzione
del modello interpretativo, egli afferma con forza la sua autono-
mia epistemologica rispetto alla memoria. Infine, quando rappre-
senta il passato, lo racconta, lo mette in scena – definito come il
momento dell’azione –, le aporie della memoria tornano a essere
estremamente importanti e urgenti.
Ovviamente, per Ricoeur questi tre momenti non rappresenta-
no tre tappe successive nettamente distinte, ma tre attività con-
temporanee o, comunque, contigue, continuamente intrecciate e
mescolate. Tutte e tre sono fondate sull’interpretazione: le prime
due non sono neutre, costituiscono, da subito, degli atti interpre-
tativi; e nella terza, quella della rappresentazione, lo storico non
si limita a comunicare gli avvenimenti del passato: “abbiamo
rinunciato a considerare l’espressione come un vestito neutro e
trasparente che viene poggiato su un significato compiuto e auto-
sufficiente” 35.
Dopo avere riconosciuto la propria dipendenza dalla memoria,
la storia deve dare una rappresentazione del passato diversa da
quella proposta dalla memoria. Comincia l’attività critica: grazie
alla sua capacità di composizione, coordinamento, “sintesi dell’e-
terogeneo”, essa valuta la memoria – o, più precisamente, le
memorie, al plurale – in base a un’esigenza di equità. In questa
prospettiva, la sua infelicità rappresenta una fortuna: è proprio la
sua impossibilità di attuare il “piccolo miracolo del riconosci-
mento” che le permette di tenere a debita distanza l’esperienza
viva e dunque di essere giusta. Essa non ha solo il privilegio di
estendere la memoria collettiva al di là dei suoi ricordi effettivi,
può anche “correggere, criticare, magari smentire la memoria di
una determinata comunità, soprattutto quando questa si ripiega e
si chiude nelle sue sofferenze, al punto da diventare cieca e sorda
nei confronti delle sofferenze delle altre comunità. La memoria
incontra il senso della giustizia sulla strada della critica storica” 36.
28
Tuttavia, per poter esercitare pienamente la sua capacità criti-
ca, la storia deve rinunciare a pensarsi come sapere assoluto. A
questo proposito, Ricoeur denuncia due forme di hubris specula-
tiva proprie del discorso storico. Innanzitutto, l’idea di histoire
même, cioè l’idea di storia come collettivo singolare che preten-
de di controllare e subordinare l’illimitata molteplicità delle
memorie individuali: ne sono un esempio la storia universale e la
storia mondiale, che presuppongono un unico soggetto (un’uma-
nità-una) e un’unica storia (una storia-una). Inoltre, il concetto di
modernità, che tende a svalutare le epoche precedenti e a pensa-
re il presente storico come un assoluto, una sorta di osservatorio
o di tribunale del passato 37.
Si tratta di un punto particolarmente importante e complesso,
perché, al di là degli esempi concreti, viene presa di mira, in
generale, l’utopia della riflessione totale, cioè la speranza che
spesso agita gli storici di poter scoprire un punto di vista supe-
riore, sul piano scientifico e morale, che permetta di cogliere la
storia nella sua totalità. Questa riflessione critica attraversa tutto
il libro, ma viene ribadita in modo più fermo a proposito della
difficoltà di rappresentare Auschwitz. Secondo Ricoeur, di fron-
te agli avvenimenti estremi, non si può restare neutrali e somma-
re in un’unica storia i diversi racconti dei testimoni. In questo
caso, oltre a dare la caccia ai falsi, lo storico ha il compito di
discriminare le diverse testimonianze in base alla loro origine: un
conto sono le testimonianze dei sopravvissuti, un’altro quelle dei
carnefici, un’altro ancora quelle di chi ha assistito alle atrocità di
massa. Deve quindi accettare di non scrivere una storia unica, che
cancellerebbe la differenza insormontabile che esiste tra questi
tre punti di vista.
Dopo avere denunciato la tentazione della conoscenza storica
a presentarsi come sapere assoluto, Ricoeur incoraggia gli storici
a rinunciare a ogni tipo di pretesa totalizzante e a riconoscere i
limiti della loro attività.
Il primo limite riguarda il giudizio sul passato. Lo storico non
deve pensare come il giudice del tribunale. Esiste una differenza
strutturale tra il processo giudiziario e la critica storiografica: in
37 Oltre a insistere a più riprese sul sentimento di debito nei confronti dei
nostri predecessori, Ricoeur (La mémoire, l’historie..., cit., pp. 72, 398) sotto-
linea l’importanza della tradizione.
29
tutti e due si cerca di ricostruire la verità del passato, tutti e due
sono fondati sulla testimonianza e sulla prova, ma il voto di
imparzialità comune ai due modelli di giudizio – quello del tri-
bunale e quello storico – risponde a degli obblighi opposti. Fon-
dandosi sulle ricerche di Mark Osiel sui grandi processi crimina-
li tenuti dopo la fine della seconda guerra mondiale 38, Ricoeur
mette in luce due differenze particolarmente importanti.
Innanzitutto, mentre il giudizio del tribunale si fonda sul prin-
cipio di colpa individuale, quello storico pone l’accento soprat-
tutto sul contesto – l’insieme dei legami sociali, il complesso
delle circostanze. Inoltre, diversamente dal giudice, che mira a
stabilire una versione definitiva, stabile, dei fatti incriminati, lo
storico sa che il suo lavoro si presterà a un numero illimitato di
revisioni, che la scrittura storica è una perpetua riscrittura: “il
giudice deve giudicare – è la sua funzione. Deve arrivare a una
conclusione. Deve risolvere il caso. Deve rimettere a una giusta
distanza il colpevole e la vittima, in base a una topologia inelut-
tabilmente binaria. Tutto ciò non fa parte dei compiti dello stori-
co, il quale non può farlo e non vuole farlo; se ci prova, corre il
rischio di arrogarsi da solo l’ufficio di tribunale della storia, e lo
fa a prezzo della precarietà di un giudizio di cui riconosce la par-
zialità, ossia la militanza” 39. Viceversa, egli ha il compito di met-
tere in scena tutta la gamma delle interpretazioni possibili e non
deve lasciarsi intimidire dal postulato secondo cui comprendere
equivale a giustificare, perché “il giudizio morale contenuto nel
giudizio storico appartiene a un piano di significato diverso da
quello della descrizione e della spiegazione” 40.
La riflessione di Ricoeur sulla natura antinomica dei due tipi di
giudizio rimanda, almeno in parte, a quella espressa da Hannah
Arendt, la quale, in occasione del processo Eichmann, aveva
aspramente criticato l’idea che i processi possano avere, oltre alla
funzione di giudicare una persona, anche quella di scrivere la sto-
38 Cfr. Mark Oisiel, Mass Atrocity, Collective Memory and the Law, New
Brunswick, Transaction Publ. 1997, che prende in esame l’impatto sulla
memoria collettiva di alcuni importanti processi (Norimberga, Tokyo, Argen-
tina, etc.).
39 Paul Ricoeur, La mémoire, l’historie..., cit., p. 421.
40 Paul Ricoeur, La mémoire, l’historie..., cit., pp 334-335.
41 Cfr. Hannah Arendt, Eichman in Jerusalem. A Raport on the Banality of
Evil, New York 1963, trad. it. Milano, Feltrinelli 1993. Sul processo Eich-
30
ria (come volevano David Ben Gourion e il procuratore generale
Gideon Hausner) e aveva sostenuto che la giustizia non deve
porsi finalità diverse dalla sua: “qui si devono giudicare le azio-
ni dell’imputato, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo
tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo” 41.
Riaffermando nuovamente la differenza sostanziale che esiste tra
il giudizio del tribunale e quello della critica storica, le loro diver-
se finalità, Ricoeur può tornare alla questione dello spazio pub-
blico e ricordare la parte fondamentale del cittadino, pensato
come “un terzo tra il giudice e lo storico” 42. In questa prospetti-
va, l’opinione pubblica – solo lei – può trasformare un giudizio
di condanna retrospettivo in giuramento: la meditazione sul male
assume allora un altro senso, viene illuminata dalla categoria
della promessa.
Lungi dall’assomigliare a un giudice, lo storico di Ricoeur
oscilla tra due figure, quella del medico della memoria e quella
del sacerdote. È un medico della memoria, perché deve contri-
buire all’elaborazione terapeutica (Durcharbeitung) delle situa-
zioni che nel passato hanno provocato dei traumi e dei compor-
tamenti compulsivi. Soprattutto di fronte agli avvenimenti limite,
lo storico non può limitarsi a descrivere l’esistenza di differenti
punti di vista, ma deve capire gli investimenti emotivi in gioco.
Cosí, per quanto riguarda il problema dell’unicità o comparabi-
lità della Shoah, secondo Ricoeur non ci si può attenere a una
valutazione strettamente epistemologica, valida in assoluto. Al
contrario, come ha osservato Dominick La Capra, bisogna utiliz-
zare un criterio terapeutico, vedere volta per volta se la compara-
zione porta a un livellamento delle differenze, che contribuisce
alla negazione, oppure se la proclamazione dell’unicità dell’e-
vento incoraggia atteggiamenti di sacralizzazione e monumenta-
lizzazione che fissano il trauma, assimilabili alla coazione a ripe-
tere 43. D’altra parte, lo storico ricorda un po’ Caronte, il nocchie-
ro degli inferi, perché ha la funzione sacerdotale di trasfigurare la
mann, dove, per la prima volta, è stato chiamato uno storico (Salo Baron) alla
sbarra dei testimoni, cfr. anche Annette Wieviorka, L’ère du témoin, Paris,
Plon 1998, trad. it. Milano, Cortina 1999, pp. 99-100.
42 Paul Ricoeur, La mémoire, l’historie..., cit., p. 387.
43 Su questo punto Ricoeur riprende le osservazioni di Dominick La Capra,
“Representing the Holocaust: reflections on the historian’s debate”, in Saul
Friedlander (ed.), Probing the limits of Representation. Nazism and the “Final
Solution”, Cambridge Mass., Harvard Univ. Press 1992.
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morte in sepoltura: tutta l’operazione storiografica rappresenta
“l’equivalente scritturale del rito sociale del funerale, delle ese-
quie”. Prolungando il lavoro della memoria e quello del lutto,
essa favorisce la separazione definitiva del presente dal passato e
permette a tutti noi di pensare al futuro.
Ma, per liberarsi della sua hubris, la storia deve riconoscere e
accettare almeno un altro limite. In questo caso si tratta di un
limite interno, connesso alla componente interpretativa dell’ope-
razione storiografica, al fatto che il lavoro di ricostruzione del
passato si fonda su una serie di atti interpretatitivi difficili e com-
plessi (cercare di chiarire i significati oscuri, ammettere un certo
grado di incertezza e di controversia, elaborare argomenti plausi-
bili, sapere che esiste un fondo impenetrabile, opaco, etc.). Per
Ricoeur, che definisce la contrapposizione tra l’oggettivo e il
soggettivo come una “contrapposizione scolastica”, l’obiettivo
dello storico non deve essere quello di una storia oggettiva, ma di
una storia nutrita da una “buona soggettività”. E’ un altro punto
importante. In questo modo, la soggettività non è caratterizzata
come uno stato al quale bisogna arrendersi o come una grazia
divina, ma come un percorso di ricerca. Il che implica anche che
la tensione verso la verità non è smentita dal carattere tempora-
neo e incompiuto della conoscenza storica.
Mi sembra, insomma, che tutto il percorso di La mémoire, l’hi-
storie, l’oubli, cosí ricco di interrogativi impegnativi, ci aiuti ad
uscire dal torpore politico che ha fiaccato le scienze sociali negli
ultimi decenni. Riformulando in termini qualitativi l’interrogati-
vo di Yerushalmi, Ricoeur lega di nuovo il lavoro storico allo
spazio pubblico, suggerisce la possibilità di superare l’alternativa
tra verità e bene e, last but not least, mostra la necessità, per la
storia, di un lavoro del lutto che la liberi dalle sue tentazioni onni-
potenti e, forse, tendenzialmente psicotiche 44. Tuttavia, almeno
un punto di questo percorso resta oscuro. Come abbiamo visto,
Ricoeur sottolinea più volte come la natura della storia sia
unheimlich, “perturbante” o, com’è invalso nella traduzione fran-
cese, di una “inquietante estraneità”. Ora, nel suo saggio sul-
l’Unheimlichkeit, Freud mette in luce che l’estraneo che inquieta
non è davvero estraneo; al contrario, è qualcosa di molto fami-
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liare, di cosí intimo che avrebbe dovuto restare segreto: è il sosia
o, più semplicemente, l’immagine di se stessi riflessa allo spec-
chio, com’è capitato di provare a Ernst Mach. Se riprendo questo
aspetto del testo non è per una preoccupazione filologica nei con-
fronti di Freud, ma perché credo che, nella descrizione dell’ope-
razione storiografica proposta da Ricoeur, l’elemento inquietante
dell’Unheimlichkeit sfugga, si disperda. A lettura finita, si ha
l’impressione che, più che inquietare e inquietarsi, lo storico
operi come una sorta di prudente vigile, addetto a regolare il traf-
fico delle varie memorie in base al principio dell’equità.
Forse, questa perdita del potenziale inquietante della storia è
dovuto a un eccesso di estraneità – o, più esattamente, a una per-
dita della natura intima di questa estraneità. In effetti, in questo
libro Ricoeur trascura la possibilità, per la storia, di ascoltare le
voci intime del passato. A tratti, anzi, sembra francamente ostile
nei confronti di questa possibilità. Soprattutto nella seconda
parte, quando insiste nell’affermare lo spartiacque epistemologi-
co che separa la storia dalla fenomenologia della memoria, si
augura che la storia rinunci a cercare una resurrezione del vissu-
to (come pretendeva Michelet) e coltivi una disciplina di distan-
ziamento nei confronti dell’esperienza viva. È una scelta che lo
porta addirittura a dimenticare le sue considerazioni sulla “buona
soggettività” e a difendere la postura oggettiva della storia.
In questo senso, mi sembra che il libro sconti una profonda
ambiguità nei confronti dell’immaginazione storica: non è chiaro
se lo storico debba esprimere la sua immaginazione solo nel
momento di costruire l’impianto interpretativo, di fare il lavoro
di “modellizzazione” – come viene suggerito nella parte dedica-
ta all’epistemologia della storia –, oppure possa sviluppare la sua
immaginazione anche al di là di questi limiti, cercando di coglie-
re il passato come un presente, sentito come tale da chi ci ha vis-
suto e ci è cresciuto, come invece si può pensare sulla base della
lettura di Heidegger proposta nella parte dedicata alla condizione
storica.
Mi domando anche se il rigurgito positivistico, che sta alla
base della prima opzione, non sia incoraggiato, oltre che da com-
prensibili preoccupazioni politiche di fronte ai discorsi disimpe-
gnati di una parte della storiografia post-moderna, anche dal fatto
che Ricoeur pensa la storia essenzialmente attraverso la storio-
grafia contemporanea (Michel de Certeau, la microstoria, Louis
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Marin, etc.). Come mai questo silenzio sulla storiografia del pas-
sato, quest’oblio di Tucidide, di Humboldt o di Tocqueville (solo
per citare qualche nome, intanto non c’è che l’imbarazzo della
scelta)? Anche in questo caso non si tratta di fare le pulci a
Ricoeur, ma mi chiedo se non sia proprio quest’oblio che lo porta
a strapazzare il problema dell’immaginazione storica. In ogni
caso, è una scelta davvero strana per un autore che ha fondato
tutta la sua opera su un dialogo serrato con i classici e che riven-
dica questo dialogo come un dialogo tra vivi. A meno che
Ricoeur non creda che il presente storiografico sia preferibile e
migliore – magari più scientifico – di quello passato: ma, in tal
caso, non sarebbe prigioniero, proprio lui, di quella seconda
forma di hubris che ci porta troppo spesso a svalutare le epoche
precedenti?
In ogni caso, credo che valga la pena di riprendere gli sforzi,
drammaticamente rimasti in sospeso, della storiografia ottocente-
sca e di interrogarci più profondamente sul peso dell’immagina-
zione storica. Solo se cerchiamo di avvicinarci ai morti di un
tempo “come se fossero vivi”, possiamo sperare di assicurare alla
storia la sua tonalità inquietante. Certo, la possibilità di ascoltare
e comprendere intimamente le voci del passato è parziale, fram-
mentata, insufficiente. Ma abbiamo solo questa possibilità. Per
essere davvero perturbante, la storia deve cercare di scoprire quel
passato che la memoria porta in sé senza saperlo, quello che,
come scrive Proust, si nasconde “all’infuori del suo campo”.
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